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Italian Pages 541 Year 2009
books Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo Anselm Grùn, Leadership con valori Joseph Ratzinger, Chi ci aiuta a vivere? Dietrich Grònemeyer, Rimanere umani. Hight-tech e cuore - Per una medicina dal volto umano Bartolomeo Sorge, Introduzione alla dottrina socialedella chiesa Klaus Berger, Gesù Joseph Ratzinger, Toccati dall*invisibile Tom Wright, Giuda e il Vangelo di Gesù Bruce W. Longenecker, Le lettere perdute di Pergamo Christian Duquoc, Gesù, uomo libero Herbert Gutschera - Joachim Maier ־־Jòrg Thierfelder, Storia delle Chiese in prospettiva ecumenica August Franzen, Breve storia della Chiesa Dietrich Bonhoeffer, Voglio vivere questi giorni con voi William M. Schniedewind, Come la Bibbia divenne un libro Nicholas Perrin, Tommaso, Valtro Vangelo Manfred Liitz, Dio. Una piccola storia del più Grande Thomas Sòding, Gesù e la Chiesa Gisbert Greshake, Vita - più forte della morte Jiirgen Moltmann, Vasto spazio. Storia di una vita
AUGUST FRANZEN BREVE STORIA DELLA CHIESA Nuova edizione
riveduta a cura di Bruno Steimer e ampliata da Roland Fròhlich Edizione italiana
a cura di Gianni Francescani
Queriniana
Titolo originale: August Franzen, Kleine Kirchengescbichte © 2006 riveduta e ampliata (24a edizione dell'opera) by Verlag Herder, Freiburg im Breisgau © 2007 riveduta e ampliata 2009 ( 1l a edizione italiana) by Editrice Queriniana, Brescia via E. Ferri, 75 25123 ־Brescia (Italia/UE) tei. 030 2306925 ־fax 030 2306932 internet www.queriniana.it e-mail\ [email protected] Tutti i diritti sono riservati. È pertanto vietata la riproduzione, !,archiviazione o la trasmissione, in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo, comprese la fotocopia e la digitalizzazione, senza !,autorizzazione scritta dell'Editrice Queriniana. ISBN 9
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Traduzione dal tedesco di A rnaldo P ini , P iero B arbaini e G ianni F rancescani
Stampato dalla Tipolitografìa Queriniana ־Brescia
Premessa
Nel corso di 23 edizioni, la Breve storia della chiesa di August Franzen (1912-1972), ordinario di storia medioevale e moderna della chiesa a Friburgo, si è confermata come l'opera standard di storia della chiesa. In questa ventiquattresima edizione il libro viene ora presentato, per la prima volta dalla sua prima edizione del 1965, in una nuova veste. Nel quadro di questo lavoro è emersa !,opportunità di rivedere sotto vari aspetti l’esposizione più volte ampliata dagli interventi di penne differenti: • Al testo della prima edizione è stata aggiunta una nuova parte, scritta da Roland Fròhlich; il capitolo Storia della chiesa contemporanea (§§ 6 1 6 3 )־sostituisce i diversi ampliamenti delle ultime edizioni e fornisce una concisa esposizione della storia della chiesa dal concilio Vaticano II fino ai nostri giorni. • La bibliografia, in considerazione delle odierne facili possibilità di ricerca (cataloghi Online, Index Theologicus ecc.), è stata snellita rispetto alle ultime edizioni e si limita ora a opere fondamentali di storia della chiesa. • Tn appendice la nuova edizione dispone, accanto a utili liste e prospetti sinottici, per la prima volta di tre indici analitici (di persone, di argomenti e luoghi, e dei documenti ecclesiali) che permettono un rapido accesso alla mole di materiali del libro. • Tutto il testo è stato rivisto e adeguato alle nuove regole ortografiche e compositive.
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Premessa
Dopo 40 anni dalla prima edizione della Breve storia della chiesa - dalla maggior parte degli interessati conosciuta come ‘il Franzen - viene così messo in mano alle lettrici e ai lettori un compendio di storia della chiesa ancor oggi di grande utilità. Bruno Steiner Roland Frohlich
Dalla Prefazione alla prima edizione del 1965
Una Breve storia della chiesa non può contenere tutto. Essa deve porsi necessariamente dei limiti e operare una selezione dalTinsieme della materia. Ma una scelta è sempre soggettiva e si potrà quindi chiedere perché un argomento sia stato trattato e un altro, invece, omesso. L’Autore assicura che non è mai proceduto in modo arbitrario e che, nella sua esposizione, ha voluto dar risalto soprattutto alle grandi linee direttrici storico-teologiche, cercando sempre di elaborare le questioni attuali della storia della chiesa alla luce della più recente ricerca scientifica. Non esistono, infatti, tabù nella storia della chiesa. I cosiddetti ‘temi scottanti’ non sono stati perciò mai evitati, ma trattati piuttosto con cura tutta particolare. Ovviamente - nella maggior parte dei casi - essi sono tanto complessi che non possono essere pienamente compresi senza uno studio più approfondito del contesto storico contemporaneo in cui ebbero vita. Soltanto Finterà verità storica conduce, infatti, alla piena conoscenza e all’esatta valutazione. Friburgo, ottobre 1965 August Franzen
parte prima
L’antichità cristiana
Da Gesù di Nazaret alla svolta costantiniana (fino al 311)
§ 1. H Gesù storico e la fondazione della chiesa H cristianesimo è una religione storica rivelata e deriva direttamente dalla persona storica di Gesù Cristo, uomo-Dio, e dalla sua opera salvifica. Premessa e fondamento di ogni storia della chiesa è quindi la dimostrazione dell'esistenza storica di Gesù e della storicita della fondazione della sua chiesa.
I. L'esistenza storica di Gesù La contestazione dell'esistenza storica di Gesù è stata tentata spesso, fin dal xvm e XIX secolo, in nome della scienza illuministica liberale e della critica storica: per esempio, da Hermann Samuel Reimarus (t 1768), Ferdinand Christian Baur (t 1860), David Friedrich Strauss (t 1874), Bruno Bauer (t 1882) e, successivamente, nei primi anni del XX secolo, soprattutto da John Mackinnon Robertson (t 1933), William Benjamin Smith (t 1934), Arthur Drews (t 1935) e altri. Tutti questi Autori hanno cercato di configurare il cristianesimo come un'invenzione degli apostoli e hanno considerato la figura storica di Gesù una personificazione irreale, fittizia e mitica, di nostalgie e di idee religiose, una pia frode creata dalla cerchia dei discepoli o una sublimazione e variazione delle figure divine di eroi dell’Asia anteriore e delle religioni misteriche ellenistiche. La storia comparata delle religioni, allora in pieno sviluppo, scoprì improvvisamente nella vita di Gesù analogie e parai-
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lelismi con il dio solare Mitra (Smith, 1911), con Teroe dell’epopea babilonese Gilgamesh (Peter Jensen, 1906), con la figura mitica del dio salvatore che muore e risorge (Richard Reitzenstein e altri). Si ritenne che l’immagine della vita e dell’insegnamento di Gesù, delineata dai vangeli, dovesse essere interpretata come un’eco personificata delle aspirazioni sociali delle masse oppresse (Albert Kalthoff, 1902). Tutte queste teorie oggi sono state abbandonate e si sono mostrate totalmente prive di validità scientifica. Avremmo quindi anche potuto fare a meno di ricordarle, se esse non continuassero ancora a sopravvivere nella propaganda del comuniSmo marxista. Furono, infatti, Karl Marx e Friedrich Engels che - sposando le idee radicali del loro contemporaneo Bruno Bauer - trasmisero queste opinioni antiquate al comuniSmo attuale, che continua a diffonderle senza spirito critico. Di ben altro peso si rivelarono invece le ricerche e gli attacchi mossi, in nome della critica del testo, dalla teologia liberale del XIX e dell’inizio del XX secolo alla verità e all’attendibilità storica dei vangeli. Nel frattempo, l’esegesi biblica moderna, operando sul testo sacro con maggiore scrupolosità e acribia e servendosi di un metodo criticamente più esatto, ha ricollocato l’intero problema su nuove e più solide basi. R. Bultmann (t 1976), con i suoi saggi sulla ‘demitizzazione’ del Nuovo Testamento, ha guidato alla conoscenza del complesso pensiero della primitiva comunità cristiana e della sua tradizione, che confluirono nella sacra Scrittura. Abbiamo così imparato a distinguere la forma espressiva ‘mitica’, condizionata dal tempo, propria a molti testi scritturistici, dal loro contenuto essenziale e a liberare da quel rivestimento (= entmythologisieren, demitizzare) il loro nucleo storico fondamentale, con le istanze centrali del messaggio neotestamentario sull’opera divina di saivezza in Gesù Cristo. Altre ricerche, fondate sul metodo della storia delle forme (formgeschichtliche Methodé) e condotte criticamente sulla forma letteraria del testo dei vangeli, cercarono di estrapolare dal contesto, con maggiore chiarezza, quelle parti e sezioni che costituivano le fonti primarie della vita del Gesù storico. E mentre, da un lato, grazie a queste analisi, furono sconfessate alcune ingenue opinioni, recepite tradizionalmente, che considera
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vano i vangeli solo come biografie di Gesù, ineccepibili dal punto di vista contenutistico e cronologico, venne anche, d’altro canto, offerta agli studiosi la possibilità di enucleare dai testi neotesta־ mentari un fondo comune di fatti storicamente provati e resistenti a ogni possibile critica. E noto che nessuno dei quattro vangeli ha voluto essere, ed è di fatto, una biografìa storica di Gesù e che essi rispecchiano invece unicamente Pimmagine di Cristo, così come si era formata, sulla base della predicazione apostolica, nei cuori dei suoi fedeli e amati discepoli. Non per questo, tuttavia, possiamo esimerci dal constatare che non pochi particolari dei vangeli concernenti Gesù sono storicamente accertabili e che, sotto il ‘Cristo della fede’, quale ci viene raffigurato nel Nuovo Testamento, è pur sempre possibile ravvisare con sicurezza il Cristo ‘storico’. L’esistenza storica di Gèsù, pertanto, è incontestabile. Possiamo, infatti, datare sicuramente l’inizio e la fine della sua vita terrena, alla luce del contesto storico contemporaneo: la sua nascita, sotto Erode il Grande, risale all’incirca al 4-5 che precede la nostra attuale cronologia, e la sua morte sulla croce, sotto Ponzio Pilato, al 14 o 15 Nisan di uno degli anni che vanno dal 30 al 33 dopo Cristo. Se è dunque vero che alla base dei quattro vangeli canonici stanno precise e ben note intenzioni teologiche e kerigmatiche, va detto altresì che gli agiografi non hanno per questo tralasciato di riallacciarsi a fatti e circostanze del loro tempo e di inquadrare storicamente, pur senza preoccuparsi di procedere in modo rigorosamente cronologico, lo svolgersi dei fatti della storia della salvezza. Gli evangelisti ci informano come testimoni oculari e disegnano un’immagine viva e straordinariamente imponente della personalità, della dottrina e della morte del Maestro, che è possibile cogliere soltanto dalla lettura diretta dei loro scritti. L’esistenza storica di Gesù è testimoniata del resto anche da fonti non cristiane. A dire il vero, mancano documenti di provenienza non cristiana rigorosamente contemporanei a'Gesù, ma le affermazioni di Tacito verso il 117 (Annales XV, 44), di Plinio il Giovane intorno al 112/113 (Lettera a ll imperatore Traiano) e di Svetonio verso il 120 circa (Vita Claudii, cap. 25) sono del tutto attendibili e, dal punto di vista storico, pienamente probanti, sicché
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possiamo utilizzarle tranquillamente come sicure testimonianze storiche. Possediamo inoltre alcune affermazioni dello storico ebreo Flavio Giuseppe, databili intorno al 9 3 9 4 ־, dalle quali si può chiaramente dedurre che egli sapeva della personalità storica di Gesù CAntiquitates XVIII, 5, 2 e XX, 9, 1), mentre dubbia appare !,autenticità di un altro passo dello stesso autore (.Antiquita־ tesX V IH, 3,3).
2. La storicità della fondazione della chiesa La questione della storicità della fondazione della chiesa da parte di Gesù Cristo fu spesso discussa, fin dagli inizi dell’età moderna. Essa può riassumersi tutta nella domanda: Cristo predicò solo un cristianesimo universale o diede invece alla sua religione una solida struttura organizzativa nella forma di una chiesa istituzionale, e a essa sola affidò la proclamazione del suo vangelo e la prosecuzione della sua opera di salvezza? Il concetto spiritualistico di chiesa (ecclesia spiritualis), proprio dell’ultimo Medioevo, condusse, all’epoca della Riforma protestante, al rifiuto e alla lotta violenta contro la chiesa papale, alla quale i Riformatori rimproveravano la falsificazione della volontà originaria di Cristo. In un tempo a noi più vicino, il protestante Rudolf Sohm (t 1917), docente di diritto canonico, muovendo dal suo concetto luterano di chiesa, sostenne (Diritto Canonico, voi. 1, 1892) la tesi che Cristo non aveva voluto affatto istituire una chiesa e che si era limitato solo a predicare un cristianesimo puramente spirituale. Di conseguenza, secondo questo studioso, il cristianesimo primitivo sarebbe stato assolutamente privo di qualsiasi ordinamento esteriore o di ogni struttura organizzativa e, poiché era guidato e unificato solo dallo spirito di carità, non avrebbe conosciuto nessuna forma istituzionale ecclesiastica. Il fraintendimento della volontà di Gesù e la falsificazione della sua opera avrebbero avuto inizio nel periodo immediatamente successivo a quello apostolico. La chiesa cattolica primitiva sarebbe nata, sempre secondo Sohm, da questa falsa interpretazione del pensiero di Cristo e, con il passare del tempo, la libera fede dei primissimi tempi cristiani si sarebbe cristallizzata nella rigidità del dogma, in modo tale che la
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vita carismatica dei primi cristiani, inizialmente pervasa interamente dallo Spirito, si sarebbe raggelata in norme giuridiche e sanzioni disciplinari mortificanti. H problema della fondazione della chiesa è ancor oggi in primissimo piano nei dibattiti e nei dialoghi ecumenici. Le idee di Sohm hanno influenzato il pensiero di Emil Brunner (t 1966; Lequivoco della chiesa, 1951), di Hans von Campenhausen (t 1989; Ministero ecclesiastico e potere spirituale nei primi tre secoli, 1953,19632) e di molti altri. Pensiamo quindi sia bene soffermarci un poco su questo argomento e meditare cosa ci dice la sacra Scrittura sulla fondazione della chiesa e sul modo in cui la chiesa primitiva comprese e attuò la volontà di Cristo. I vangeli ci informano, con ricchezza di dati, che !,essenza della predicazione di salvezza di Gesù consiste nella bella notizia del regno di Dio, che si attua in due fasi: 1) in uno stadio iniziale, che è già cominciato su questa terra con la predicazione di Gesù (Le 11,24; M t 11,12) e 2) nello stadio del compimento definitivo, alla fine dei tempi. Nasce quindi la domanda: pensava Gesù che il primo stadio, che riguarda noi tutti in modo diretto, dovesse realizzarsi in una forma solo invisibile oppure anche in forme visibili? In altri termini, voleva Gesù che già in questo mondo apparisse visibilmente un regno di Dio, articolato e organizzato attraverso precisi ministeri? La risposta appare alquanto difficile perché, da quanto ci è stato tramandato, non troviamo nessun passo neotestamentario in cui Cristo abbia espresso direttamente, con una precisa formulazione, la sua volontà di fondare la chiesa. Tuttavia, le testimonianze bibliche e le immagini di cui Gesù si servì per caratterizzare la sua concezione di chiesa ci fanno chiaramente comprendere che egli aveva un’idea di chiesa estremamente concreta e che questa sua idea era perfettamente condivisa anche dagli apostoli. Quando Gesù paragona la sua chiesa a una casa o al suo gregge (Mt 16,18; 21,42; 1 Cor 3,11;^4/4,11; si veda, inoltre: Mt 26,31 ; Gv 10,16; 1 Cor 9,7), egli ci dice al tempo stesso, con molta chiarezza, che questa costruzione ha bisogno di un solido fondamento sulla roccia e che, per la guida del gregge, è necessaria la presenza di un pastore autorizzato. Cristo stesso scelse dalla cerchia dei suoi di
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scepoli i ‘dodici’, uomini particolarmente responsabili, e nominò Pietro supremo pastore e capo del suo gregge (Me 3,14s.; M t 16, 17ss.; Le 22,31ss.; Gv 21,15ss.). Come si vede, fu proprio Gesù a istituire i primi ‘ministeri’. Ora, un ministero è molto di più che un ufficio, un servizio momentaneo e transitorio, ed è proprio Tordinazione ufficiale a conferirgli un carattere durevole e a significare un impegno nella funzione di servizio, che va al di là della singola persona del ministro e si esprime in un incarico ben preciso e durevole, che continua a sussistere anche oltre la morte di colui che ne è incaricato, conferendogli il potere di parlare e di agire nel nome e con l’autorità di colui che lo ha ordinato. Nel ministero è, quindi, implicita anche la successione. Gli apostoli, infatti, hanno sempre considerato una grazia «conferita da Dio Tessere ministro di Gesù Cristo ed esercitare la sacra funzione di predicatore dell’evangelo di Dio» (Rm 15,16) e hanno anche eletto a questo ministero altri collaboratori e successori. E la chiesa primitiva non ha mai pensato o agito diversamente. La chiesa fu edificata a partire da questo ministero e, poiché è Cristo stesso che detiene il ministero e opera in esso, si può ben affermare che la chiesa è sorta da questo e con questo carattere ministeriale.
3. La chiesa come mistero difede Se è quindi giusto affermare che solo nella fede e ai fedeli è possibile la comprensione della chiesa fondata da Cristo perché essa è una grandezza d’ordine soprannaturale e trascendente e quindi spirituale e invisibile, va tuttavia anche sottolineato che la chiesa è inserita in questo nostro tempo ed è stata fondata per le persone di questo mondo visibile. Gesù ha, infatti, edificato la sua chiesa come una comunità storica e visibile. Tutta l’opera del Signore tendeva proprio a questo: Cristo non si è, infatti, limitato a insegnare, ma ha vissuto in mezzo alla comunità dei suoi discepoli. La sua dottrina religiosa non mirò a fondare una scuola, bensì a istituire una vera comunità di vita, che abbracciasse l’intera esistenza, di cui egli stesso vuole essere il cuore e il centro (Gv 14,20ss.), e che da lui doveva ricevere il suo principio vitale.
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Per caratterizzare questa comunione di vita dei fedeli con Cristo, Paolo si serve dell’immagine del corpo (1 Cor 12,12ss.), del quale Cristo è il capo e i fedeli le membra (Ef 2,15ss.; 4,12ss.; Col 3,15). Nella chiesa Cristo continua a vivere con la sua incarnazione, redenzione e con il sacrificio della croce e poiché la chiesa partecipa del suo essere umano-divino e della sua opera di salvezza, essa vive anche la sua vita. Paolo, nelle sue lettere, ricorda molto spesso che la vita, la passione, la morte e la risurrezione di Cristo non sono per noi soltanto un fatto storico obiettivo, perché abbiamo il dovere, se non vogliamo che Cristo sia morto invano, di vivere la sua vita, di soffrire con lui la sua morte e di divenire partecipi della sua risurrezione. La domanda fondamentale che dobbiamo porci è dunque la seguente: «Che cosa pensate di Cristo? Di chi è figlio?» (M t 22,42). E la risposta non potrà essere che una risposta di fede: Gesù Cristo è il Figlio di Dio! Lincamazione è, infatti, il concetto centrale del cristianesimo. A questo punto, tuttavia, termina la competenza della pura ricerca storica e incomincia la teologia, la quale richiede e presuppone una decisione di fede. Dio si è incarnato in Gesù Cristo per unire nuovamente a sé !,umanità e per poter esserle sempre vicino. Nella chiesa, in cui il Cristo continua la sua vita, Dio s’incarna nell’umanità, al di là di ogni tempo e di ogni popolo, per condurre tutti gli uomini alla salvezza. Il più profondo mistero della chiesa sta proprio nella sua identità con Cristo. Nella chiesa continua l’opera che Gesù Cristo, uomo-Dio, ha iniziato durante la sua vita terrena, un’opera che pròseguirà fino al compimento nel suo ritorno alla fine dei tempi. La chiesa è lo spazio in cui l’incamazione del Logos in questo mondo si rinnova continuamente. Giustamente quindi Johann Adam Mòhler (t 1838) ha potuto parlare dell’«incessante incarnazione di Cristo nella chiesa». In questo senso Ja chiesa stessa è un profondo mistero di fede e di salvezza (cfr. Lettera agli Efesini) e partecipa di quella singolare tensione che esiste fra la santità divina e la debolezza umana. La chiesa riceve la sua divinità, santità e indistruttibilità dal suo divino fondatore; la meschinità, l’inclinazione al peccato e l’instabilità le provengono invece dagli uomini. Questa polarità, implicita nella sua stessa natura, conferisce all’esistenza della
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chiesa e al suo operare nella storia qualcosa di singolarmente inquietante. Non soltanto intorno a essa, ma persino nel suo stesso grembo e nell’anima di ciascuno dei suoi fedeli, si svolge infatti una lotta drammatica fra il divino e Pumano, tra ciò che è santo e ciò che non lo è, fra salvezza e perdizione. Essa è chiesa di santi e chiesa di peccatori e nella sua storia, come nella vita dei singoli fe־ deli, questa lotta dà origine a continui alti e bassi, a un perenne ondeggiare fra uno stato di elevata spiritualità e una situazione di decadenza, a seconda di come la chiesa esprima dinanzi a Dio, nelPincamazione storica del Logos, insieme a Maria il suo: «Ecce ancil־ la Domini - Ecco, io sono la serva del Signore» (Le 1,38). Redimere e santificare l’umanità: questo fu l’impegno preciso che Cristo volle attuato dalla sua chiesa. La condizione della chiesa nella storia va quindi commisurata, di volta in volta, al modo e alla sollecitudine con cui essa ha adempiuto nella sua esistenza terrena a questo mandato divino. Spesso i mezzi e i metodi di attuazione sono mutati e hanno dovuto adattarsi alle esigenze concrete dell’elemento umano, ma il mandato e il fine restano pur sempre gli stessi. L’appello, ripetutamente riecheggiato nel corso di due millenni di storia, a una riforma e a un ritorno alla purezza della chiesa primitiva non può dunque significare né la pura ripetizione, né il rinnovamento anacronistico delle forme di vita che furono proprie della chiesa apostolica, ma soltanto un ripensamento più attento del mandato divino originario: la prosecuzione dell’opera redentri־ ce del Cristo nella sua parola e nel suo sacramento, la compenetrazione del mondo per restituirlo a Cristo.
§ 2. La chiesa primitiva e l’età apostolica Nessun’altra epoca ha avuto un’importanza altrettanto determinante per il successivo sviluppo storico quanto quella che vide il formarsi e il costituirsi della chiesa nei primi anni dell’‘età apostoli ca.
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1. La comunità dei discepoli dopo l}ascensione di Gesù Dopo !,ascensione di Gesù al cielo la comunità dei discepoli si trovò d’improvviso di fronte a una situazione totalmente nuova. È vero che il Signore, accomiatandosi dagli apostoli, impartì loro un chiarissimo mandato missionario (Mt 28,18; Me 16,15), che invitava a proseguire la sua predicazione della salvezza e a proclamare la buona notizia del suo Regno escatologico, ma non sembra che egli abbia anche lasciato direttive precise sul modo di attuare concretamente la loro vita in comune o sulle forme che avrebbe dovuto assumere !,organizzazione della comunità. I pareri degli studiosi, a questo proposito, sono comunque molto discordanti. Certi teologi sono piuttosto inclini a ritenere che esista un contrasto fra ciò che Cristo aveva effettivamente voluto e quanto invece si realizzò nel successivo sviluppo storico, ma a questo riguardo sarà bene richiamare !,attenzione sul fatto che gli apostoli e i primi discepoli, i quali furono testimoni oculari e auricolari della sua predicazione, seppero certamente interpretare la volontà di Gesù meglio di quanto lo poterono fare alcuni dotti professori, nati quasi dopo duemila anni. È ovvio, del resto, che la sola Scrittura (il principio del sola scriptura) non è di per sé sufficiente a spiegare quanto accadde e che anche la tradizione apostolica cristiana primitiva deve essere tenuta presente come fattore determinante. Cristo, infatti, non ha pròclamato la sua volontà in norme e ordini astratti, ma Pha trasmessa ai suoi apostoli come un mandato vivente e i discepoli che, dopo !,improvvisa ascensione del loro Maestro, si trovarono di fronte alPimmenso problema di dover proseguire Popera di Gesù, operarono certamente come autentici interpreti della sua volontà quando conferirono alla vita della comunità un saldo ordinamento e alla chiesa una chiara struttura gerarchica. Gerarchia (in greco hierà arché = origine sacra, potere sacro) significa che questo ordinamento è appunto di origine sacra, perché fu dato da Cristo stesso alla sua chiesa. Che gli apostoli possano essersi sbagliati è cosa impossibile. Secondo la convinzione di fede della chiesa i ‘dodici’ erano i depositari della rivelazione divina, che avevano ricevuto direttamente dal
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Cristo. Quando perciò essi trasmisero, nella loro viva predicazione della fede, il patrimonio della rivelazione ricevuta dal Signore, erano ispirati dallo Spirito Santo e questa trasmissione non avvenne solo attraverso prediche orali o parole scritte (la sacra Scrittura), ma anche mediante molteplici disposizioni pratiche, sia nelTambito cultuale che in quello disciplinare e istituzionale. E poiché Cristo non aveva lasciato nessuno scritto, tutto quello che i dodici apostoli ci hanno di lui tramandato, oralmente o per iscritto, personalmente o grazie ai loro diretti allievi, è di importanza essenziale per il cristianesimo e contiene la rivelazione del disegno divino di salvezza per !,umanità. Da allora in poi, nulla di nuovo fu aggiunto né potrà mai essere più aggiunto. L’intera rivelazione del mistero divino di salvezza si è, infatti, compiuta con la tradizione apostolica e il criterio per stabilire l’autenticità di una dottrina di fede è e rimane il fatto che la sua presenza possa essere già dimostrata nella traditio apostolica. Quest’ultima si è depositata nella dottrina, nel culto, nella vita della chiesa primitiva e nelle scritture canoniche del Nuovo Testamento, le quali risalgono appunto a questo tempo apostolico. A dire il vero, non è sempre facile stabilire ciò che appartiene direttamente al puro patrimonio della rivelazione divina, in questo insieme di concetti paleocristiani-apostolici, e ciò che invece vi fu aggiunto dalla successiva riflessione teologica delle prime comunità cristiane. È, infatti, possibile discemere chiaramente che i contenuti della rivelazione, già fin dalla prima generazione cristiana, non furono conservati in modo sterile, ma furono invece meditati e tramandati con una comprensione autonoma. Si ebbe così, assai presto, un’elaborazione teologica delle verità rivelate, soprattutto per quanto si riferiva direttamente alla persona umano-divina di Gesù e alla sua opera salvifica, elaborazione cui si usa dare generalmente il nome di ‘teologia della comunità’ della chiesa primitiva. Oggi non possiamo fare a meno di constatare con stupore che questo primo tempo cristiano fu un’epoca fra le più teologicamente crearive della storia della chiesa. La riflessione teologica cui dette origine si è depositata nella sacra Scrittura e nella tradizione, e gli esegeti e gli storici cercano oggi, operando congiuntamente, di precisarne le componenti essenziali per poterla distinguere dal genuino pa
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trimonio della rivelazione divina. Tuttavia, l’ultima decisione su ciò che fu ed è il contenuto essenziale della fede spetta al magistero ecclesiastico. Il tempo apostolico fu cronologicamente il più vicino al tempo della rivelazione e si comprende quindi perché il cristianesimo, da sempre, vive nella convinzione che il suo essere o il suo non-essere dipendano dalla conservazione della traditio apostolica. Questo rapporto di dipendenza, tuttavia, non può certo consistere nell’attenersi in modo rigido alle forme di pensiero e di vita protocristiane o perfino nella loro impossibile ripetizione, ma deve invece tener conto del principio della tradizione viva, orale o scritta, e della legge dello sviluppo organico. Un puro tradizionalismo sarebbe infecondo e non corrisponderebbe affatto all’innato principio spirituale e organico che caratterizza la vita della chiesa. Se è vero che l’appello alla riforma si è manifestato in tutti i tempi della storia della chiesa e continuerà a manifestarsi anche nel futuro, resta tuttavia il fatto che questa riforma, per attuarsi in modo giusto, non può consistere in un ritorno ingenuo alle forme di vita cristiana primitiva, come hanno invece sempre creduto gli spiritualisti, i settari e gli eretici, negando così la legge dell’evoluzione storica e dello sviluppo organico di tutte le cose vive, bensì solo nell’attuazione progressiva del mandato originario che la chiesa ha ricevuto da Cristo alla sua nascita. Riforma significa quindi meditare e attuare ciò che Cristo ha proposto alla sua chiesa come un programma da seguire scrupolosamente. La chiesa primitiva ha osservato il divino mandato in un modo e con una purezza tanto singolari da assumere per questo un certo carattere normativo ed esemplare, che non esclude tuttavia la realtà di un ulteriore e altrettanto importante sviluppo storico. In questo senso più profondo, la chiesa cattolica, nonostante la sua diffusione universale e il grandioso sviluppo intemo, può oggi vantarsi, dopo quasi duemila anni, di essere ancora assolutamente una e identica alla chiesa degli apostoli. La delimitazione cronologica di questo periodo della rivelazione apostolica presenta tuttavia alcune difficoltà. Normalmente si usa calcolarlo dall’ascensione di Gesù «fino alla morte dell’ultimo dei (dodici) apostoli», ma non è lecito attenersi troppo rigidamente a questo termine da un punto di vista strettamente formale c giu
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ridico. In senso lato possiamo affermare che esso fu il tempo della prima e della seconda (!) generazione cristiana, computabile fino alla morte degli ultimi, diretti testimoni del Signore risorto, che tramandarono la sua verità rivelata. Così, per esempio, la Lettera agli Ebreiy scritto ispirato e canonico del Nuovo Testamento, sarebbe stata redatta, secondo il parere di molti esegeti, da uno sconosciuto dotto cristiano di ambiente alessandrino, appartenente alla seconda generazione. Le nostre fonti per la conoscenza della vita ecclesiale di questi tempi sono, innanzitutto, gli scritti del Nuovo Testamento, in particolare gli A tti degli Apostoli e le lettere di Paolo. Disponiamo tuttavia anche di altre testimonianze quali, per esempio, le opere dei Padri apostolici, che in parte risalgono anche a questo primo periodo di storia cristiana (Didachét Prima lettera di Clemente) e possediamo anche informazioni di seconda mano, che ci offrono preziose notizie sulle condizioni della chiesa primitiva.
2. Quale immagine della chiesa rivela questa prima età apostolica ? Gli A tti degli Apostoli e le lettere di Paolo ci permettono di comprendere chiaramente che. fin dall’inizio, il ‘ministero’ spirituale è stato considerato nella chiesa primitiva come un elemento essenziale, costitutivo dell’ordinamento stesso della comunità. Non è mai esistita una pura costituzione carismatica che si basasse su una libera azione spirituale e che fosse priva di ministeri, di un ordinamento giuridico e di un concreto patrimonio di fede. Tale tesi è, infatti, assolutamente incompatibile con il concetto che Paolo ha della chiesa. Ciò vale tanto per le comunità locali, quanto per l’intera chiesa. E, come i primi apostoli ricevettero la loro ordinazione per proclamare il messaggio del Nuovo Testamento ufficiaimente, ossia direttamente da Gesù Cristo (Me 3,13ss.; M t 10,lss.; Le 6,12ss.), così anch’essi imposero a loro volta le mani per Tordinazione ufficiale dei loro collaboratori e successori. In nessun luogo, infatti, le comunità cristiane appaiono costituite in modo uniforme, ma si presentano invece sempre come comunità articolate e
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costruite secondo il principio dell’unità capo-corpo. I ministri sono chiamati e ordinati a rappresentare il Signore invisibile e a pròseguire nel suo nome l’opera della redenzione, con la parola e il sacramento. Essi soli esercitano le funzioni direttive ministeriali, sia in veste di apostoli, sia come profeti ed evangelisti al servizio della chiesa universale, o in qualità di vescovi, presbiteri, diaconi, dottori e pastori a servizio delle singole comunità (1 Cor 12,28; FU 1,1; 1 Tm 3,2ss.). Ovunque regna sempre il principio della successione ministeriale, derivante direttamente da Cristo e dagli apostoli {suecessio apostolica), secondo i gradi di una precisa gerarchia. Il ministero non è, infatti, in antitesi al carisma, che era conferito da Dio per l’esercizio di particolari servizi e spesso incontriamo ministri che erano al tempo stesso dei carismatici (2 Cor 8,23; 77; F/72,25; Rm 16,1; Gal 1,19; 1 Cor 15,7) o, viceversa, dei carismatici cui era stata affidata la guida di una comunità. Paolo stesso, del resto, era al tempo stesso un pneumatico e un carismatico, perché, da buon ministro pratico e razionale, sapeva bene che le comunità che aveva da poco fondate avevano bisogno di una guida pastorale attenta, realistica ed energica. Nella prassi normale della chiesa i carismi furono quindi sempre subordinati al ministero. La guida delle comunità, con l’andare del tempo, si concentrò sempre più nelle mani dei vescovi e dei diaconi, e i vescovi, del resto, provenivano dal collegio dei presbiteri, nel quale svolgevano funzioni diretrive come capi e ispettori (eptskopos). In diverse comunità locali incontriamo, nei primi tempi, parecchi vescovi-presbiteri; in seguito, tuttavia, e non più tardi del n secolo l’episcopato monarchico si diffuse ovunque. In questa tendenza al vertice monarchico, che si manifestò assai per tempo nelle singole comunità, si è visto giustamente affiorare il principio del primato, che si esprimerà più tardi nella chiesa universale (Heinrich Schlier, 1 1978). All’altissima coscienza di fede della chiesa primitiva e ai suoi particolari compiti corrispose adeguatamente il gruppo dei puri carismatici, dei quali si parla tanto spesso. Essi attendevano alla edificazione della comunità ed erano a disposizione di questuitima per particolari servizi, ma non avevano funzioni di governo. Abbiamo anche notizia di seri dissidi sorti, di tanto in tanto, fra i carismatici e i ministri (1 Cor 1; Ap 14,ls.), che tuttavia, alla fine,
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furono sempre superati con spirito di carità. I carismi passarono in seguito in seconda linea, pur senza scomparire mai del tutto nella chiesa.
§ 3. La marcia vittoriosa della giovane chiesa da Gerusalemme a Roma Gli A tti degli Apostoli ci descrivono la marcia irresistibile del vangelo «da Gerusalemme fino alle estremità della terra» (At 1,8). Lo scritto di Luca ci offre preziose testimonianze tanto sulTardente ed entusiasta attività missionaria, quanto sulla vita interiore, permeata di intensa attività caritativa, della chiesa primitiva. Possiamo distinguere tre periodi: 1) il periodo giudeo-cristiano, con Gerusalemme come suo centro (At 1,1-9,31); 2) il periodo che segna il passaggio dal giudeo-cristianesimo al cristianesimo dei gentili convertiti, che ha come suo punto centrale Antiochia (At 9,32-15,35); 3) il periodo dell’attività missionaria di Paolo fra le genti (At 13-28).
2. La comunità primitiva di Gerusalemme La chiesa-madre di Gerusalemme godette, fin dall’inizio del cristianesimo, di una considerazione tutta particolare. Qui avevano operato i primi apostoli che, insieme a Pietro e sorto la sua guida, erano stati a capo delle comunità, come viventi testimoni del Signore. Molti, che erano stati testimoni oculari dell’attività terrena, della morte e della risurrezione di Gesù, abitavano ancora nella città santa e continuavano a diffondere la buona notizia della redenzione. A Gerusalemme, per la prima volta, cominciarono a formarsi un patrimonio linguistico e concettuale di matrice cristiana, e una nuova struttura liturgica. Anche se la giovane comunità aveva coscienza di essere soprattutto l’adempimento del giudaismo, partecipava ancora alla liturgia ebraica, viveva in armonia con le antiche e tradizionali forme di devozione e si conformava ai principi basi
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lari dell’organizzazione religiosa ebraica (articolazione della comunità, governo degli anziani, presbiteri e ministri con mandato permanente). Al tempo stesso, però, essa si costituì con gli apostoli in una comunità indipendente, caratterizzata da una sua propria liturgia che si esprimeva nel grato ricordo (eucharistìa) e nel rinnovarsi cultuale del sacrificio di Cristo, mentre «... spezzavano il pane nelle loro case, prendendo il cibo con gioia e semplicità di cuore» {At 2,46), celebrando così la santa cena. Da questa comunità di Gerusalemme ebbero un’impronta decisiva la vita comunitaria, !ordinamento e la struttura liturgica della chiesa. Verso il 50 d.C., il cosiddetto concilio apostolico prese anche la sua prima ardua decisione, che doveva poi rivelarsi di estrema importanza per il futuro della giovane chiesa, quando stabilì che i pagani convertitisi al cristian esim o n o n erano affatto ten u ti all’osservan za d ella le g g e
mosaica {At 15,6ss.l9). L’organizzazione interna della comunità, in un primo momento, fu certamente diretta da tutto il collegio dei dodici apostoli, anche se appare chiaramente che la suprema funzione di guida spettava a Pietro. È vero che Paolo indica, insieme a Pietro, anche Giacomo e Giovanni come ‘colonne’ della comunità {Gal 2,9), ma fu solo dopo la partenza di Pietro da Gerusalemme (verso l’anno 4 3 4 4 ;־cfr. A t 12,17) che Giacomo subentrò alla guida della comunità e la tradizione, infatti, lo ricorderà come primo ‘vescovo’ di Gerusalemme. Al concilio apostolico incontriamo anche, per la prima volta, i ‘presbiteri’, ma già precedentemente si era fatta menzione dei sette diaconi {At 6,lss.), con Stefano in testa. L’ordine gerarchico dei ministri appare dunque completo: l’apostolo-vescovo, i presbiteri e i diaconi costituivano le guide autorevoli della comunità di Gerusalemme. Nonostante la partecipazione al culto giudaico e la severa osservanza della legge, che li faceva apparire quasi una setta ebraica, i cristiani finirono ben presto per allontanarsi dagli usi giudaici, soprattutto perché i caratteri tipicamente cristiani della nuova fede determinarono un contrasto insanabile fra i seguaci di Gesù e la sinagoga. Il battesimo cristiano, la preghiera rivolta a Gesù come Kyrios (Signore), la celebrazione dell’eucaristia, l’esclusiva comunione d’amore cristiana, che si spingeva fino al dono dei beni per
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sonali a favore della comunità dei fratelli nella fede (At 2,44ss.), suscitarono dapprima la diffidenza e il rifiuto e, infine, anche Paperta ostilità dei giudei. Si giunse così al vero e proprio conflitto, originato soprattutto dalla professione di fede nel Cristo, e la lotta divampo con due violente persecuzioni: la prima ondata portò alla lapidazione di Stefano (32-33), alla cacciata dei giudeo-cristiani ellenisti da Gerusalemme e all’ulteriore persecuzione da parte di Saulo che poi, davanti alle porte di Damasco, doveva convertirsi alla nuova fede e divenire, con il nuovo nome di Paolo, uno «strumento eletto» per la proclamazione del messaggio cristiano {At 9,15s.). La seconda ondata di persecuzione, scatenata dal re Erode Agrippa I (37-44), vide nell’anno 42 o 43 il martirio dell’apostolo Giacomo il Maggiore e l’imprigionamento di Pietro, che potè evadere dalla prigione solo grazie a un miracolo {At 12,lss.). Mentre la persecuzione si rivolse essenzialmente contro gli ellenisti, vale a dire contro gli ebrei della diaspora convertiti al cristianesimo, e favorì la diffusione del cristianesimo nel mondo, i giudeo-cristiani restarono ancora a Gerusalemme, ove cercarono di mantenersi nelle buone grazie degli ebrei mostrandosi particolarmente fedeli al culto giudaico e al servizio del tempio. La tregua fu tuttavia di breve durata e ben presto la lotta si riaccese. Nel 62 o nel 63, l’apostolo Giacomo il Minore fu lapidato. Secondo Flavio Giuseppe {Antiquitates XX, 9, 1, 4-6) il sommo sacerdote Anano, approfittando della momentanea assenza del procuratore, durante la Pasqua dell’anno 62 fece denunciare e condannare il «fratello del Signore», la cui attività missionaria era coronata da larghi suecessi, e con lui altri cristiani, accusandoli di aver trasgredito la legge. Secondo un’antica tradizione (Egesippo, in Eusebio, Stor. Eccl. E, 23,12,10-18), Giacomo fu prima gettato dal tetto del tempio e poi ucciso da un gualchieraio con una clava. All’inizio della guerra giudaica (66-70), i cristiani, memori dell’ammonimento e della profezia di Gesù sulla distruzione di Genisalemme (Af/24,15ss.), lasciarono per tempo la città santa e furono bollati dai giudei come traditori e apostati. L’odio crescente portò, verso il 100, alla persecuzione ufficiale dei cristiani da parte della sinagoga. La nuova e ultima insurrezione ebraica contro i romani, sotto Bar Kochba (132135)־, inflisse ai cristiani residenti in Palesti
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na un’altra sanguinosa persecuzione da parte degli ebrei. La linea di separazione fra ebrei e cristiani fu così definitivamente tracciata ed ebbe inizio la funesta inimicizia tra le due pani, che doveva poi rivelarsi tanto esiziale. Nel 70, con la distruzione di Gerusalemme, ebbe termine anche la particolare posizione predominante di cui aveva goduto fino ad allora la comunità gerosolimitana.
2. ha comunità di Antiochia Antiochia, prima comunità di pagani convertiti al cristianesimo e centro di irradiazione missionaria, acquisì fin dai primi tempi una posizione assai importante. La cosiddetta «controversia antioch en a» (A t 15; Gal 2,llss.) favorì la ch iarificazione dei rapporti dei giudeo-cristiani verso i cristiani provenienti dal paganesimo. Purtroppo non conosciamo abbastanza la struttura interna della comunità e non possiamo quindi dire fino a che punto essa sia stata determinante per il successivo sviluppo delle numerose comunità che Paolo, muovendo appunto da Antiochia, aveva fondato nei suoi tre grandi viaggi, missionari. Evidentemente, la comunità d’Antiochia era composta in maggior parte da membri di origine non ebraica, tanto che essa non appare più come una setta giudaica, ma fu indicata per la prima volta come una comunità religiosa indipendente, composta da seguaci di Cristo, ossia da ‘cristiani’ (At 11,26). Come è noto, fu soprattutto Paolo che diffuse il cristianesimo nel mondo, trapiantandolo dalla terra-madre ebraico-palestinese e da Antiochia, centro di cultura greco-romana dell’ellenismo. Dopo la sua conversione, l’apostolo si ritirò per tre anni nel deserto arabico per prepararsi alla sua missione e poi, su invito di Barnaba, si recò ad Antiochia. Con lui, «sotto la spinta dello Spirito Santo» (At 13,4), intraprese il suo primo viaggio missionario, che lo condusse a Cipro e nell’Asia Minore (Perge, Antiochia di Pisidia, Iconio, Listra e Derbe: cfr. A t 13s.). Nel suo secondo viaggio missionario (attorno al 49/50-52) Paolo si spinse oltre l’Asia Minore verso l’Europa, ove fondò le comunità di Filippi, Tessalonica, Atene, Corinto (At 15,26-18,22). U terzo viaggio missionario (attorno al
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5 3 5 8 )־lo portò invece, attraverso la Galazia e la Frigia, a Efeso e da questa città verso la Grecia e poi di nuovo indietro, a Troade, a Mi־ leto, a Cesarea e a Gerusalemme ove si concluse, perché Paolo fu preso per la prima volta prigioniero (nel 58) (A t 18,23-21,27). Fu in questo tempo che egli scrisse le sue stupende lettere ai Corinzi, ai Romani, ai Galati e altre ancora. Ma, già fin da allora, Paolo guardava a Roma e all’Occidente (Spagna).
3. Gli inizi della comunità romana La comunità romana era già abbastanza fiorente quando Paolo, nell’inverno del 57 o del 58, le inviò da Corinto la sua lettera (cfr. Rm 1,8). Alcuni anni prima (nel 50), secondo quanto riferisce il biografo degli imperatori, Svetonio (Vita Claudii 15,4), erano sorti fra gli ebrei romani dei tumulti a causa di Cristo («Judaeos impulso־ re Chresto assidue tumultuantes Roma expulit») e Paolo, durante il suo secondo viaggio missionario a Corinto, conobbe due di questi cristiani espulsi dall’Urbe: la coppia dei coniugi Aquila e Priscilla (At 18,2). Indubbiamente fu da costoro che egli apprese notizie più precise sui cristiani romani e già allora, con tutta probabilità, decise di intraprendere egli stesso un viaggio alla volta di Roma. Sappiamo altresì che dei romani avevano preso parte alla prima fe־ sta di Pentecoste, a Gerusalemme (At 2,10), e non è dunque impossibile che già fin dai primissimi tempi esistesse una comunità cristiana a Roma. Ma, chi ne fu il fondatore? L’antichissima tradizione della comunità romana ha sempre fat־ to risalire la sua fondazione direttamente a Pietro. È possibile che Pietro, nel 42 0 nel 43, subito dopo la sua fuga da Gerusalemme, che aveva dovuto abbandonare per recarsi ‘altrove’ (At 12,17), sia giunto immediatamente o poco dopo a Roma? Questa ipotesi ha a suo favore una larga base di probabilità, anche se sappiamo che nell’anno 50 egli era di nuovo presente a Gerusalemme per il concilio apostolico. Il fatto che non fosse a Roma quando Paolo scrisse la sua Lettera ai Romani (5758 ־d.C.) o quando questi fu fatto pri־ gioniero nella stessa città, non può essere impugnato come un ar־ gomento per provare che Pietro non è mai stato a Roma, perché si sa bene che tutti gli apostoli, spinti dal loro zelo missionario, viag
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giavano molto e nulla vieta perciò di pensare che anche Pietro abbia continuato i suoi viaggi, dopo aver fondato la comunità romana. La notizia dei suoi venticinque anni di soggiorno a Roma, che ci è stata tramandata nel IV secolo (Eusebio e Catalogus Liberianus), non merita gran fede e, del resto, non è necessario interpretarla quasi affermasse che Pietro abbia dimorato ininterrottamente a Roma per venticinque anni. È comunque assolutamente fuor di dubbio che Pietro è stato a Roma: stanno a testimoniarlo la Prima lettera di Pietro, che fu scritta a Roma nell'anno 63 o 64 (1 Pt 5,13), e il suo martirio, avvenuto durante la persecuzione neroniana contro i cristiani, probabilmente nel luglio del 6 4 .1 recenti scavi sotto la basilica di S. Pietro a Roma tolgono del resto ogni dubbio sul fatto che il corpo di Pietro sia stato sepolto a Roma; anche se la sua tomba non è stata ancora esattamente identificata e sarà difficile individuarla con precisione fra le tante altre tombe sovrapposte, abbiamo tuttavia chiarissime testimonianze che Pietro fu sepolto proprio in questo luogo. Il martirio a Roma dell’apostolo, che la tradizione ci ha tramandato fin dai tempi più antichi, va quindi considerato come un fatto storico pienamente accertato. La tradizione indica in Pietro il fondatore della chiesa romana attraverso un’ininterrotta serie di testimonianze, che vanno dalla Prima lettera di Clemente (96 circa), alla Lettera ai Romani di Ignazio di Antiochia, vescovo e martire, a Ireneo di Lione, che redasse per primo una lista completa della successione dei vescovi romani 1, 1; 3, 2), a Dionigi di Corinto (cfr. Euse(Adversus Haereses bio, St. Eccl. II, 25,8), al presbitero romano Gaio (cfr. Eusebio, St. Eccl. II, 25, 7), fino a Tertulliano (De praescriptione haereticorum, 32; Adv. Marcionem IV, 5) e molti altri. Insieme a quello di Paolo, con il quale fu martirizzato durante la persecuzione neroniana, il nome di Pietro è sempre in testa a tutte le liste dei vescovi romani, come apostolo fondatore. I vescovi romani debbono la loro posizione particolare e la loro importanza nella chiesa universale pròprio a questa diretta origine da Pietro, ed essi ne erano d’altronde perfettamente coscienti e tutte le altre chiese riconobbero sempre la loro supremazia. Su tale origine era fondata la sicurezza e l’assoluta purezza della tradizione apostolica nella chiesa romana, la quale, attraverso !,ininterrotta catena dei successori del principe
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degli apostoli, si mantenne sempre inalterata nell’episcopato romano e garantì la fedeltà della dottrina cristiana. A Pietro seguirono Lino, Anacleto, Clemente, Evaristo, Alessandro, Sisto, Telesforo, Igino, Pio, Aniceto, Sotero, Eleutero ecc. Questo è, infatti, Tordine presente nella lista della successione ro־ mana alla cattedra di Pietro, che già Egesippo aveva trovato a Roma, nel 160, quando vi si recò proprio per documentarsi sulla gènuina dottrina di Cristo e degli apostoli contro le teorie eretiche dello gnosticismo. Anche Ireneo ebbe modo di verificare quest’or־ dine, allorché, nel 180, si recò a Roma per ritrovarvi le pure fonti della verità cristiana. Va detto, tuttavia, che entrambi manifestarono in questa ricerca della lista dei vescovi romani più interesse dogmatico che un bisogno di informazione storico-cronologica: ciò che li aveva portati a Roma era, infatti, la ricerca di una verità di fede pura e integrale. Si comprende bene che, in tempi come quelli, in cui scarseggiavano le fonti scritte, la genuina tradizione orale avesse la massima importanza. Quando perciò ci si poteva basare su testimonianze attendibili e dimostrare al tempo stesso un’ininterrotta catena di successione, che permetteva di risalire indietro nel tempo fino al Maestro stesso, la genuinità di una dottrina era per ciò stesso garantita. Questo tipo di ‘indagine’ s’incontra del resto anche nel mondo non cristiano: nell’ebraismo (cfr. le genealogie dell’Antico Testamento: Gen 5; ll,10ss.; 1 Cr 1,9), nelle scuole filosofiche greche e nelle scuole teologiche islamiche. In queste liste non era poi tanto importante il poter stabilire precisi termini cronologici, poiché era la stessa successione dei nomi che possedèva un carattere dinamico e offriva, di per sé, garanzia di fede e sicurezza dottrinale. Non deve quindi destare alcuna meraviglia il fatto che, nella più antica lista di vescovi romani, non fosse inclusa nessuna data. L’interesse storico si risvegliò molto più tardi ed è significativo che sia stato proprio uno storico a tentare per primo di stabilire una eronologia. Eusebio di Cesarea (t 339), il «padre della storia ecclesiastica», nei dieci libri della sua Historia ecclesiastica (= Storia della chiesa) cercò, all’inizio del IV secolo, di fissare le date d’inizio del pontificato di ciascuno dei ventotto papi vissuti fino al suo tempo, ponendole in sincronia con quelle degli imperatori romani in cari-
ca. Lo stesso Eusebio fu anche il primo scrittore in cui troviamo [,informazione che Pietro fu vescovo per venticinque anni: egli arrivo a questa conclusione calcolando che dalla fuga di Pietro da Gerusalemme (nel 42) fino alla sua morte a Roma, che egli ritenne avvenuta nell’anno 67, erano appunto trascorsi venticinque anni. Il Catalogus Liberianus adottò in seguito lo stesso metodo di Euse־ bio, continuando la lista dei pontefici dal 336 al 354 e cercando di perfezionare ?opera del predecessore da un punto di vista estreinamente schematico: aggiungendo, cioè, di volta in volta, il giorno e il mese dell’inizio del ministero di ogni papa. E inutile dire che le sue informazioni non posseggono alcun valore storico, anche se è possibile, alla luce dei risultati offerti da ricerche più recenti e più criticamente approfondite, ricavarne alcuni punti di appoggio per poter stabilire i tempi di governo dei singoli pontefici. La lista più antica potrebbe perciò essere compilata così come segue: Pietro (t 64?), Lino (64-79?), Anacleto (7 990/92)?־, Clemente I (90/92־ 101?), Evaristo (101107)?־, Alessandro I (107116)?־, Sisto I (116־ 125?), Telesforo (12 51 38 )?־, Igino (138 1 4 2 )?־, Pio I (142־ 154/155?), Aniceto (154/155166)?־, Sotero (166174)?־, Eleutero (174189)?־, Vittore I (189198/199)?־, Zefirino (199217)?־. La ero־ nologia, dopo papa Zefirino e per gli anni che seguono, comincia a farsi più sicura.
§ 4. La diffusione del cristianesimo fino al m secolo Alla straordinaria e rapida diffusione del cristianesimo, che già per sé è un mistero della grazia, avevano concorso molti fattori. Gli A tti degli Apostoli testimoniano quale grande importanza abbia avuto, fin dall’inizio, il giudaismo della diaspora per il suo ruolo determinante di principale mediatore nella proclamazione del messaggio cristiano. Paolo, come è noto, nella sua predicazione si rivolse soprattutto alle comunità giudaiche, che erano numerosissime nell’intero impero romano. La sua voce trovò un’eco partico־ larmente vasta soprattutto presso i «pagani timorati di Dio», vale a dire presso quei gruppi che erano strettamente collegati al giudai-
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sino, pur senza farne parte direttamente; fu proprio attraverso questo ponte che il vangelo potè giungere ai veri e propri gentili. Anche gli altri apostoli, naturalmente, si affiancarono a Paolo in un attivo lavoro missionario, ma purtroppo non sappiamo nulla di sicuro sulla loro attività; tutto quanto di essa ci riferiscono leggende più tarde è infatti privo di valore. E comunque evidente che, senza la loro intensa opera missionaria, diventa inspiègabile il fatto che già nel n secolo il cristianesimo si fosse largamente diffuso in tutti i paesi dell’area mediterranea e che fosse persino penetrato in lontanissime regioni dell’impero romano. Accanto ai veri e propri apostoli dovettero quindi esistere, fin dai primissimi tempi, dei missionari, vale a dire degli apostoli in senso più ampio. Anche questi ultimi, tuttavia, non possono essere considerati gli unici rappresentanti della missione cristiana. Furono, infatti, i cristiani tutti insieme che operarono nel mondo e proclamarono il vangelo di Gesù Cristo. Il messaggio di salvezza viaggiò con i commercianti, con i soldati e con i predicatori, lungo tutte le strade dell’impero romano. Le prime comunità sorsero nei grandi centri di comunicazione, nelle città, e grazie alla protezione della pax romana stabilita in tutto l’intero impero il cristianesimo potè radicarsi già alla fine del II secolo in tutto il mondo civilizzato, nell’‘ecumene’. Il massimo centro di diffusione fu l’Oriente. Per la Bitinia, nell’Asia Minore, possediamo la testimonianza, certo non sospetta, del governatore pagano Plinio il Giovane, un senatore e console romano (nell’anno 100), che, nominato governatore imperiale (110-112) nella Bitinia e nel Ponto, aveva incontrato, già nel 112, un così gran numero di cristiani che si vide costretto a chiedere all’imperatore Traiano come dovesse comportarsi nei loro confronti. Egli scrisse testualmente: Ricorsi a te per consiglio, poiché la faccenda mi sembrò degna di un consulto, soprattutto a causa del gran numero di accusati. Molte persone di ogni età, di ogni ceto, dell’uno e dell’altro sesso, sono o saranno chiamate a giudizio. E non solo per le città, ma anche per i villaggi e le campagne si è diffuso il contagio di questa superstizione [ossia del cristianesimo], che sembra tuttavia possa essere arrestata o corretta. Tuttavia, già fin da ora, si può osservare che ricominciano a essere frequentati i templi, prima quasi del tutto deserti, e che si celebrano dei
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solenni sacrifìci, già da lungo tempo abbandonati e che ovunque si riprende a vendere le vittime, i cui compratori erano finora rarissimi. Dal che è facile dedurre quanta gente si possa emendare, se sia dato loro m odo di pentirsi (Plinio, Epistola 96).
Se persino i paesi lungo il Mar Nero presentavano già questo volto, non desterà meraviglia che nelle province occidentali dell'Asia Minore e in Siria non esistesse, alla fine del I secolo, nessuna importante città nella quale non si fosse già insediata una comunità di cristiani. In grandissima parte queste comunità risalivano alla fondazione apostolica (Paolo). Nel n secolo esistevano già città la cui popolazione era prevalentemente cristiana e anche le campagne, in seguito, abbracciarono la nuova fede. È quindi comprensibile che, nella seconda metà di questo stesso secolo, si sia potuto sviluppare in Frigia il montanismo con i caratteri di un vero e pròprio movimento popolare, e che si sia diffuso in tutto il paese. Del resto, ancor prima della fine delle persecuzioni, alla fine del in secolo, sembra che già vi fossero città che erano divenute interamente cristiane, tanto che neppure la terribile persecuzione di Diocleziano potè farle recedere dalla loro fede. Dall'Asia Minore e dalla Siria il cristianesimo si propagò nel paese dei due fiumi. Edessa divenne il centro più importante di irradiazione missionaria e quando re Abgar di Edessa, con la sua famiglia, si convertì al cristianesimo nel 200, l'ulteriore cristianizzazione del paese fu immensamente facilitata. A Dura Europos, lungo il corso superiore dell’Eufrate, si è ritrovata quella che, con tutta probabilità, fu la più antica cappella cristiana: un ambiente destinato al culto, ornato da preziosi affreschi di contenuto biblico, che gli archeologi fanno risalire al 232 d.C. Mancano invece le fonti sulle origini del cristianesimo in Egitto, ma tutto fa ritenere che la missione cristiana sia penetrata in questa regione abbastanza presto. Alessandria fu certamente il suo maggior centro di diffusione e ben presto divenne anche il più importante centro spirituale, grazie soprattutto alla sua celebre scuola teologica. Sappiamo che il vescovo Demetrio di Alessandria (188־ 231) potè portare a termine l'organizzazione della chiesa egiziana e che ben presto sorsero cento sedi vescovili: da questi dati appare
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facile desumere che, a quel tempo, la cristianizzazione del paese doveva essere in pieno sviluppo. In Occidente Roma era il maggior centro ecclesiastico. Papa Fabiano, verso la metà del in secolo, avviò una nuova organizzazione della comunità della città, che ci permette di calcolare il numero dei suoi membri a parecchie decine di migliaia. È noto che la grandezza della comunità cristiana di Roma apparve all’imperatore Deciò (249251 )־tanto minacciosa che, si dice, egli avrebbe accolto con maggior tranquillità e rassegnazione la notizia dell’elezione di un suo rivale al potere imperiale, piuttosto che quella di un nuovo vescovo di Roma (Cipriano, Epistola 55, 9). Nonostante tutte le sofferenze patite ai tempi delle persecuzioni, la comunità romana continuò a svilupparsi in modo imponente. Eusebio ci informa che, nell’anno 251, si riunirono a Roma in un sinodo circa 60 vescovi italiani per condannare l’antivescovo Novaziano (Eusebio, St. Eccl. VI, 42,2). In Gallia, Marsiglia aveva probabilmente fin dal I secolo una comunità cristiana. Nel n secolo, le comunità di Lione e di Vienne, nella valle del Rodano, acquistarono grande importanza. Nell’anno 177, quarantanove cristiani subirono il martirio a Lione. Nel m secolo il numero delle comunità crebbe in tutta la Gallia. Secondo Ireneo di Lione (t nel 202), già ai suoi tempi esistevano nella Germania romana delle comunità cristiane (Ireneo, Adversus Haereses 1 ,10,2). Le più recenti scoperte archeologiche hanno, infatti, rivelato l’esistenza di luoghi di culto cristiani a Treviri, Colonia, Bonn e Augusta, nella Germania meridionale, tutti risalenti al ili secolo. In realtà, il cristianesimo si affermò veramente nelle città romane della Germania solo nel IV secolo. Il vescovo di Colonia Materno prese verosimilmente parte al sinodo romano del 313 e un anno dopo si recò ad Arles, ove partecipò alla redazione degli atti sinodali. Sempre ad Arles, nel 314, furono anche presenti tre vescovi della Britannia. Al di fuori dei confini dell’impero romano, nel 226 esistevano circa venti vescovati nella regione del Tigri. L’Armenia fu cristianizzata nella maggior parte sotto il regno di Tiridate II, nel 280, e verso la fine del m secolo essa poteva ormai dirsi una terra cristiana. Anche se la notizia non trova conferma sicura, è tuttavia possi
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bile che !,apostolo Tommaso abbia per primo predicato il vangelo in India. Più probabile appare invece che la fede cristiana sia stata portata in questo paese soltanto più tardi, dalla Persia, sicché il nome di ‘cristiani di Tommaso' non trarrebbe origine dall'apostolo Tommaso, ma da Mar-Tommaso, e risalirebbe perciò soltanto all'vm secolo. Questo rapido panorama, certamente imponente, non deve tuttavia indurci a sopravvalutare il numero dei cristiani di quel tempo. Mancano, purtroppo, dati statistici a questo riguardo; esistono solo dei tentativi di valutazione, del tutto approssimativi, e pertanto as־ sai discutibili. Ludwig von Hertling, che si accinse a questo computo, sia per l'Occidente che per l'Oriente (cfr. ZKTh 58 [1934] e 62 [1938]), giunse ai risultati che riassumiamo qui di seguito. In Occidente, intorno all’anno 100, esistevano solo poche migliaia di cristiani; un secolo più tardi essi erano invece molte decine di migliaia; nell'anno 300 erano saliti a circa 2 milioni e, intorno al 400, raggiunsero probabilmente la cifra globale di 4 6 ־milioni. In Oriente, sui primi tre secoli non è possibile avanzare neppure vaghe supposizioni; intorno all'anno 300 i cristiani potevano ammontare a circa 5 6 ־milioni; verso l'anno 400, erano forse 1012 ־mi־ lioni. L'Oriente fu dunque molto più cristianizzato dell'Occidente. Se si valutano questi dati sulla base dell'intera popolazione dell'impero romano, che nell'anno 200 comprendeva circa 70 milioni, ma che era discesa nell'anno 300 a solo 50 milioni, è facile dedurre che i cristiani costituivano solo una piccola minoranza. Soprattutto le campagne rimasero a lungo pagane (da pagus, pagani = coloro che abitano nei villaggi, in campagna).
§ 5. Il primo sviluppo spirituale del cristianesimo Al rapido diffondersi del giovane cristianesimo corrisposero anche uno sviluppo interno e un'organica crescita spirituale. All'epoca della fondazione della chiesa nelT‘età apostolica', e che comprese la prima e la seconda generazione cristiana, seguì la cosiddetta ‘età post-apostolica' la quale, conclusosi ormai il tempo della rive
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lazione, ebbe il compito di trasmettere alla terza generazione cristiana e a quelle che sarebbero venute dopo il patrimonio di fede ricevuto dagli apostoli. Questa età fondò perciò, in senso stretto, la tradizione e costituì il ponte ideale fra gli apostoli e la chiesa suecessiva: fu, cioè, il primo anello nella catena della tradizione. Non per questo, ovviamente, lo sviluppo subì un arresto. B giovane cristianesimo doveva ancora conquistarsi il suo posto nel mondo, doveva affermarsi alTintemo e all’esterno, e difendere la sua verità. Apparve perciò necessaria una nuova elaborazione teologica, una riflessione più profonda, che rimeditasse i dati della rivelazione alla luce delle esigenze spirituali e religiose delle nuove comunità cristiane. A quest’opera si accinsero i cosiddetti Padri apostolici, i primi apologisti cristiani e i Padri della chiesa.
1.1 Padri apostolici Con il nome di ‘Padri apostolici’ noi designiamo un gruppo di scrittori fioriti nell’immediato tempo post-apostolico, i quali incarnano nella loro stessa persona il rapporto vivente con gli apostoli. Ancor meglio, potremmo dire che essi sono «quegli scrittori del primitivo cristianesimo che, alla luce delle attuali ricerche storiche, appaiono come discepoli degni di fede e uditori degli apostoli, oppure coloro che, senza aver direttamente conosciuto gli apostoli e senza poter essere annoverati fra gli autori del Nuovo Testamento, sono tuttavia ritenuti depositari in alto grado (per la dottrina contenuta nelle loro opere) della tradizione apostolica» (Joseph A. Fischer, I Padri Apostolici, 1956, IX). Stando a questa definizione, debbono essere sicuramente compresi in questo gruppo: Clemente di Roma, Ignazio di Antiochia e Policarpo di Smirne. Non altrettanto sicura appare invece Tappartenenza ai Padri apostolici di Quadrato, anche se alcuni lo indùdono fra essi; lo stesso può dirsi per Papia di Gerapoli, che altri, a loro volta, includono fra i discepoli degli apostoli. Incerta appare anche l’esatta collocazione dei presbiteri dell’Asia Minore, dei quali ci informano incidentalmente Ireneo di Lione ed Eusebio, senza offrirci tuttavia maggiori precisazioni. Ireneo afferma che cs-
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si avrebbero ricevuto le loro dottrine dagli apostoli (Ireneo, Adversus Haereses IV, 27,1 e IV, 32,1), ma appare più probabile che essi si siano limitati solo a tramandare i detti dei discepoli degli aposto־ li e, pertanto, rappresentano il secondo anello nella catena della tradizione. Oltre a questo primo nucleo di effettivi Padri apostolici, esistono anche altri scritti protocristiani, che, secondo la definizione qui sopra riportata, non fanno propriamente parte di questo gruppo, ma che per la loro antichità e per Faffinità di contenuti con altre opere del tempo apostolico debbono essere qui ricordati. Essi sono: la Lettera a Diogneto, la Lettera di Barnaba, la Didacbé e il Pastore di Erma. Tutte queste opere sono di un valore inestimabile per la conoscenza della vita e del pensiero dei primi tempi cristiani e ci rivelano in che modo si sia compiuto il passaggio dalle comunità di fondazione apostolica alle nuove forme istituzionali protocristiane, e come il carattere istituzionale, che era originariamente permeato di un vigoroso spirito carismatico, si sia successivamente distinto da questo. Gli stessi scritti ci ragguagliano anche sul processo di formazione del canone del Nuovo Testamento e il fatto stesso che alcuni di essi fossero considerati nei primi tempi cristiani come opere appartenenti al Nuovo Testamento, che fossero letti durante la liturgia e ritenuti norma (canone) della fede rivelata, per esempio la Prima lettera di Clemente, il Pastore di Erma o la Lettera di Barnaba in Siria e in Egitto, ci dimostra che essi si collocano ancora al centro di questo sviluppo teologico. Solo quando fu elaborato più chiaramente il concetto di ispirazione, che già affiora negli scritti dei Padri apostolici, si potè distinguere la letteratura post-apostolica dagli scritti ispirati del Nuovo Testamento. Già da ciò appare evidente che proprio in quel tempo si andavano formando e sviluppando molti altri concetti teologici. La prima opera più esattamente databile della letteratura cristiana al di fuori del Nuovo Testamento è la Prima lettera di Clemente. Essa fu compilata a Roma, verso il 96, ed è uno scritto di supplica e di esortazione, rivolto alla comunità di Corinto, affinche voglia comporre i conflitti scoppiati nella città e ristabilire la
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pace e la concordia. L’autore, secondo l’unanime testimonianza della più antica tradizione, fu Clemente, vescovo della comunità romana e terzo successore di Pietro a Roma. La lettera rappresenta la più antica testimonianza letteraria sul martirio degli apostoli Pietro e Paolo, avvenuto, come è detto testualmente, «da noi», cioè a Roma, e ci offre preziose notizie storiche sulle due prime persecuzioni contro i cristiani, avvenute sempre a Roma, sotto gli imperatori Nerone e Domiziano. Parlando della controversia tra i Corinzi, Clemente si esprime in modo tale che non è possibile non rilevare una certa autocoscienza, fondata su una superiore autorità, che non può essere spiegata affatto con l’accenno al carattere romano in generale, ma che si ricollega chiaramente a Pietro e alla sua posizione predominante. Anche se in tutto lo scritto è sempre presente un tono esortativo fraterno, tuttavia «non si può parlare, a rigore, soltanto di una correctio fraterna» (Fischer, 12), ma di qualcosa di più. «Anche se, in nessuna parte della lettera, è affermata espressamente la posizione primaziale di Roma, non si trova tuttavia un solo passo che possa contraddirla. Al contrario», pròsegue sempre Fischer, richiamandosi testualmente a Berthold Altaner (Patrologia, I9606, 81) e ad Adolf von Hamack (Introduzione alla storia della chiesa antica, 1929, 99), «vi si trovano già affermati lo spirito, la forza e la rivendicazione di Roma a una posizione particolare di fronte a tutte le altre comunità... Ciò sembra anche confermato dalla considerazione tutta particolare di cui godette la Lettera di Clemente, già nel II secolo». Lo scritto, per quanto ancora molto lontano dallo stile delle decretali, stile che sarà proprio del papato medievale, mostra già un tono decisamente autoritativo. Al pari di Clemente di Roma, il quale, secondo l’attendibile testimonianza di Ireneo, fu un fedele discepolo di Pietro e di Paolo, anche Ignazio di Antiochia fu, con tutta probabilità, discepolo dei due apostoli. Quale vescovo di Antiochia in Siria, vale a dire della comunità cristiana che fu diretta per un certo periodo dallo stesso Pietro, Ignazio divenne il suo successore, come ci informano Origene ed Eusebio. Durante la sua giovinezza senza dubbio egli conobbe personalmente Pietro e Paolo; una tradizione molto più
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tarda (Girolamo, nel IV secolo) lo vuole discepolo diretto del!,apostolo Giovanni e nulla vieta di pensare che Taffermazione sia vera, visto che Giovanni visse notoriamente fino a tardissima età a Efeso. Di Ignazio possediamo sette lettere autentiche, che furono scritte solo pochi anni dopo la Lettera di Clemente. Durante il regno dell'imperatore Traiano (98117)־, probabilmente nel 110, Ignazio fu fatto prigioniero, perché cristiano, e condotto a Roma, ove subì il martirio, dilaniato dalle belve. Nel corso di questo suo ultimo viaggio, mentre era guardato a vista e tormentato dai soldati, redasse a Smime e a Troade lettere di ringraziamento per le comunità di Efeso, di Magnesia e di Traili che, strada facendo, gli avevano dato tanta consolazione; altre lettere scrisse alle chiese di Filadelfia, di Smime, a Policarpo, vescovo di quest’ultima città, e alla comunità cristiana di Roma «la quale ha la precedenza anche nella carità». Tutti i suoi scritti sono ricchi di pensieri stupendi e sono anche estremamente preziosi dal punto di vista storico perché vi appaiono, fra l’altro, alcune indicazioni che attestano chiaramente che, all’epoca di Ignazio, l’episcopato monarchico si era già imposto in Siria e in Asia Minore. Un solo vescovo sta a capo delle comunità, e Ignazio ammonisce: «Seguite tutti il vescovo, come Gesù Cristo (segue) il Padre, e il presbiterio come gli apostoli; quanto ai diaconi, rispettateli come la legge di Dio. Nessuno faccia alcunché, senza il vescovo, di ciò che riguarda la chiesa. Può essere considerata legittima soltanto la celebrazione eucaristica che è presieduta dal vescovo o da colui che il vescovo ha incaricato. Dove appare il vescovo, là deve essere la comunità, al modo stesso che dove è Cristo Gesù là è anche la chiesa cattolica» (Lettera agliSmirnesi 8,1). Ignazio sviluppa già una teologia dell’episcopato, nel quale egli vede incarnata l’unità della chiesa: Cristo, vescovo e chiesa sono una cosa sola. Nella sua Lettera ai Romani Ignazio assegna già, senza esitare, alla chiesa di Roma una posizione del tutto particolare e non si limita soltanto a esaltarne l’attività caritativa, ma loda altresì, in evidente connessione con la Lettera di Clemente, che indubbiamente deve aver conosciuto, la sua fermezza nella fede e nella dottrina, sicché «si rivela già chiaramente la particolare autorità e l’effettiva
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preminenza della chiesa romana» (Altaner, Patrologia, 86). Al suo confratello vescovo Policarpo, che l’aveva assistito a Smime, raccomanda da Troade il suo dovere pastorale e lo invita a mantenersi saldo, durante la persecuzione dei cristiani, come un’incudine sotto i colpi del martello. Di Policarpo, vescovo di Smime, che nella sua gioventù aveva ascoltato personalmente ?insegnamento dell’apostolo Giovanni e che era stato da lui nominato vescovo, possediamo una Lettera ai Filippesi. In realtà questa lettera comprende due scritti, di cui il primo fu redatto al tempo del viaggio di Ignazio a Roma, nel 110, e il secondo alcuni anni più tardi, verso gli anni 111112( ־Fischer). Policarpo morì martire in tarda età, a 86 anni, a Smime, nel 155156 o nel 167168־. Della sua morte commovente (egli fu arso vivo nell’arena) ci informa uno scritto (Martyrium Polycarpi), sostanzialmente sincero e attendibile, compilato da un diretto testimone oculare e inviato, per incarico della comunità di Smirne, alla chiesa di Filomelio in Frigia. Ci restano invece soltanto poche righe di uriApologia perduta di Quadrato, che l’autore aveva inviato, attorno al 125, all’imperatore Adriano (117138 )־per difendere il cristianesimo. Se essa coin־ cida con la Lettera a Diogneto, come a volte si è affermato, resta alquanto discutibile. Anche del vescovo Papia di Gerapoli ci riman־ gono solo alcuni frammenti delle sue Spiegazioni delle parole del Si־ gnore, che egli scrisse nel 130. Al secondo gruppo di quegli scritti attribuiti in modo improprio ai Padri apostolici appartengono: la cosiddetta Lettera di Barnaba, che risale alla prima metà del II secolo; la Lettera a Diogneto, una stupenda «testimonianza spirituale di verità e di autocoscienza cri־ stiana», indirizzata da un autore sconosciuto, verso la metà del II secolo, a un pagano di alto rango, di nome Diogneto; la Didaché o Dottrina dei dodici apostoli, che comprende il più antico regolamento ecclesiastico a noi noto e una descrizione della vita liturgica dei primi tempi cristiani, e che fu redatta nella prima metà del n secolo (ma la prima parte dello scritto, Didaché 1-6, è più antica e forse risale al I secolo); il Pastore di Erma, fratello del vescovo di Roma Pio I (142154/155)?־, fu composto verso la metà del n seco
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lo ed è una vigorosa apocalisse di tipo penitenziale, scritta a Roma. L’opera è importante soprattutto per la storia della penitenza sacramentale.
2. 1 primi apologisti cristiani Alla difesa letteraria del cristianesimo si dedicarono i primi apologisti cristiani del n secolo. La chiesa era ormai divenuta una grandezza storica e non poteva più essere ignorata dal mondo. Uomini colti e appartenenti ai ceti socialmente superiori entrarono a far parte sempre più numerosi delle comunità cristiane e cercarono un dialogo e un confronto diretto con i dotti pagani, sia per giustificare agli occhi di quelli le ragioni della loro conversione, sia per respingere i pregiudizi e le calunnie che circolavano contro i cristiani. Gli apologisti, per cercare di farsi comprendere dall’ambiente che li circondava, ricorsero largamente al linguaggio e alle idee del loro tempo. Per proclamare il messaggio cristiano essi dovettero servirsi delle categorie della tarda filosofìa stoica e platonica, e di un’immagine del mondo che era quella espressa dalle religioni e dai culti misterici greco-orientali. Questo, del resto, era il mondo culturale in cui si erano formati, prima di convertirsi al cristianesimo (si pensi, per esempio, a Giustino, che solo dopo lunghe ricerche potè trovare il cammino che lo portò alla verità cristiana) e ogni giorno essi respiravano quelle idee e quei pensieri. Quale meraviglia, dunque, che interpretassero il vangelo nella lingua propria di quel mondo, che era al tempo stesso la loro lingua materna? Appare quindi ingiusto il rimprovero, che tanto spesso viene loro rivolto, di aver ‘ellenizzata’ e falsificata la parola di Dio. Lo scopo che gli apologisti si proponevano era di orientare il loro mondo a Cristo; l’intenzione, che era alla base dei loro scritti, era di rendere testimonianza a Cristo e di compiere un’opera missionaria. Per questo cercarono coraggiosamente di aprire un dialogo con il pròprio ambiente e va ascritto a loro merito perenne il non essersi lasciati rinchiudere in un ghetto. In realtà, il mondo ellenistico offriva sufficienti e preziosi punti di contatto per dar vita a questo dialogo. Il concetto di Lògos del
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prologo del Vangelo di Giovanni, che deriva probabilmente dalla dottrina sapienziale del tardo giudaismo, poteva trovare riscontro nei concetti della filosofìa di Zenone e della Stoà e la forza divina operante come Lògos creativo, alla quale l’universo tutto deve la sua origine e la sua animazione, era già stata del resto applicata a Cristo dai Padri apostolici (cfr. Ignazio di Antiochia, Lettera ai Magnesii 8,2). Il celebre filosofo e martire Giustino, che fu a lungo attivo a Roma come maestro di sapienza cristiana e che fu martirizzato nel 165 o nel 167 per la sua testimonianza cristiana, continuò nelle sue due apologie (Apologia prima 32, 8; 46, 2 e passim) a svolgere il concetto che tutti gli uomini possiedono nella loro ragione i germi dell’eterno Lògos (lógoi spermatikói) e che tutti sono per natura, vale a dire per volontà del loro Creatore, destinati alla verità divina. Nella rivelazione del Cristo -Lògos questa divina verità ha trovato la sua più alta attuazione. Non solo, quindi, gli uomini pii dell’Antica Alleanza, ma anche i grandi pensatori della Grecia, che cercavano la verità, erano già vicini al Cristo e in qualche modo partecipi del Lògos divino: erano, per così dire, cristiani già prima di Cristo. U cristianesimo, per Giustino, è la vera filosofia e la vera sapienza, è la realizzazione deli ardente desiderio che l’umanità ha di conoscere gli ultimi e più profondi problemi: è la vera gnòsis. Anche gli altri apologisti, al pari di Giustino, hanno usato questi argomenti, solo che alcuni li hanno elaborati in confronto diretto con il giudaismo, altri invece in rapporto al politeismo del paganesimo e alle promesse di redenzione espresse dai culti misterici; comune a tutti fu il desiderio di provare come il cristianesimo fosse l’unica vera realizzazione e la destinazione eterna degli uomini. A questo stesso gruppo di apologisti protocristiani appartengono, oltre a Giustino: i filosofi Aristide e Atenagora di Atene; il siro Taziano, che era stato discepolo di Giustino a Roma e aveva composto un Discorso ai greci e una specie di concordanza evangelica (Diatessaron), ma che, dopo il suo ritorno in Oriente, nel 172, aveva fondato una setta eretica gnostico-encratista; i vescovi Teofilo di Antiochia, Apollinare di Gerapoli, Melitone di Sardi e Aristone di Pella (140 circa); il retore Milziade; gli scrittori Quadrato ed Erma, che debbono essere ricordati qui anche come apologisti.
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3 .1 Padri della chiesa Il nome onorifico di *Padri della chiesa’ è dato invece ad alcuni grandi teologi che non si limitarono alla sola apologetica, ma si proposero invece come scopo precipuo l’approfondimento teoio־ gico del patrimonio di fede, sulla base della rivelazione. La maggior parte di essi furono vescovi, e di qui appunto il nome di *padre’, riservato originariamente ai vescovi delle comunità; ma alcuni furono semplici sacerdoti, come per esempio Girolamo, o laici, come Tertulliano. La dottrina più tarda, per stabilire l’appartenenza al gruppo dei Padri della chiesa, indica come caratteristiche fondamentali: 1. ortodossia nella dottrina; 2. santità di vita; 3. approvazione da parte della chiesa; 4. appartenenza all’antichità cristiana. I Padri della chiesa furono distinti grazie a quest’ultima caratteristica dai *dottori’ (uomini e donne) della chiesa, che vissero e insegnarono invece nel Medioevo e nei tempi moderni. I temi della patristica furono ispirati, in gran parte, dall’esterno e corrisposero a una legittima esigenza del tempo. Il contatto strettissimo con la filosofia ellenistica e la dottrina sapienziale, per esempio, aveva facilitato il pericolo di non considerare più il cristianesimo come una pura rivelazione divina, basata sulla sacra Scrittura e la tradizione apostolica, ma di interpretarlo erroneamente con speculazioni gnostiche a base sincretista. Fin dai primi tempi, del resto, una gnosi, che nel suo nucleo era assolutamente pagana, aveva tentato di infiltrarsi nel cristianesimo, abusando dell’esegesi allegorica della sacra Scrittura per convalidare i suoi intricati ragionamenti sulla creazione e sulla redenzione del mondo, e mescolando il genuino patrimonio della rivelazione con teorie pagane a forte impronta dualistica. Di fronte al pericolo dello gnosticismo fu necessario determinare esattamente i limiti della fede cristiana e le fonti della rivelazione, fissare definitivamente il numero di quegli scritti che costituivano la norma della fede e della morale (= canone), stabilendo un preciso «canone della sacra Scrittura», chiarire ancor meglio il carattere d’ispirazione divina proprio a queste stesse Scritture e riservarne esclusivamente al vescovo l’autentica interpretazione. All’esegesi biblica arbitraria dei singoli eretici si contrappose così come norma e come unica legittima in
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terpretazione la comprensione della Scrittura nello spirito della tradizione apostolica. L’unico criterio che potesse garantire la consensazione pura del patrimonio rivelato, tramandato dagli apostoli, stava nella continuità della tradizione episcopale, mantenutasi ininterrotta attraverso la successione apostolica. I Padri della chiesa sottolinearono perciò con estrema fermezza che la vera gnosi cristiana può essere soltanto quella che comprende la fede nel senso della traditio apostolica. L’ortodossia si può trovare solamente in unione ai vescovi, i legittimi successori degli apostoli. Chi si separa dal vescovo, cade sicuramente in errore. La teologia scientifica cristiana nacque appunto dal contrasto con la gnosi e le altre dottrine eretiche. I suoi temi riguardavano essenzialmente la persona e l’opera del Cristo (cristologia), l’opera salvifica del Cristo (soteriologia) e i suoi rapporti con il Padre e lo Spirito Santo (dottrina della Trinità). Questi furono, infatti, gli argomenti principali che impegnarono la meditazione teologica nei secoli che seguirono. Il primo importante teologo del II secolo fu il vescovo Ireneo di Lione (t verso il 202). Nella sua opera principale Adversus HaereseSy alla quale attese dal 180 al 184, Ireneo precisò, fra l’altro, Firnportanza della vera tradizione apostolica per il mantenimento della purezza della vera fede, garantita attraverso la successione ininterrotta dei vescovi romani alla cattedra di Pietro, e si valse di questo argomento per controbattere le teorie eretiche degli gnostici (.Adversus Haereses IH, 3). Ireneo d ha anche tramandato la più antica lista dei vescovi romani. Nell’Africa settentrionale incontriamo, in quegli stessi anni, il giurista e teologo Tertulliano (t dopo il 220, a Cartagine). Anche lui contrappose agli eretici gnostici il vero principio della tradizione come norma di fede. Nel suo capolavoro De praescriptione haereticorum , redatto nel 200 circa, egli rigetta le loro teorie servendosi di due valide obiezioni, di due ‘eccezioni’ giuridiche (= praescriptioneSy nella lingua dei giuristi): 1. Cristo ha affidato la prodamazione della sua dottrina soltanto agli apostoli e a nessun altro; non esiste quindi alcun’altra speciale rivelazione segreta che sia stata fatta ad alcuni uomini e cade così la pretesa degli gnostici, che affermavano di averla ricevuta. 2. Gli apostoli, da parte loro, hanno
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affidato le loro dottrine esclusivamente alle chiese episcopali, da loro fondate; i cristiani sono tenuti quindi a concordare nella fede con queste chiese apostoliche: una dottrina che non fa parte della tradizione apostolica è eretica e quindi, conclude Tertulliano, gli gnostici sono eretici. Nei suoi numerosi scritti egli ha coniato alcuni concetti teologici che restano in uso ancor oggi. Purtroppo, in tardissima età (verso il 207) egli stesso divenne eretico, entrando a far parte della setta rigorista del montanismo. A Roma, all'inizio del m secolo, il presbitero Ippolito (t 235) scrisse molte opere teologiche, tra le quali una Refutatio omnium haeresium in cui, dopo il 222, si scagliò contro le eresie trinitarie del modalista Sabellio e contro i cosiddetti patripassiani. Egli è anche Tautore della più importante delle costituzioni ecclesiastiche antiche: la Tradizione apostolica (circa 220). Gelosie e ambizioni insane trascinarono anche Ippolito in conflitto con la chiesa, quando nel 217, Callisto I (217222)־, e non lui, fu eletto papa. Ippolito si lasciò eleggere antipapa dai suoi seguaci, provocando il primo sci־ sma a Roma. Più tardi, tuttavia, si riconciliò con la chiesa e morì martire nel 235, in esilio, insieme a papa Ponziano. A Cartagine visse e insegnò anche il vescovo Cipriano, che fu battezzato solo nel 246, divenne vescovo due o tre anni dopo, nel 248 o nel 249, e morì decapitato nel 258. Vigoroso rappresentante dell'unità della chiesa, scrisse testualmente nel suo De ecclesiae unitate (circa 251): «Dio non può essere padre di colui che non ha per madre la chiesa». Autentica è anche quella frase del quarto capitolo dello stesso scritto, che fu tanto spesso ingiustamente criti־ cata: «Il primato è stato conferito a Pietro. Come può dunque qualcuno credere di essere ancora nella chiesa, se si separa dalla sede di Pietro, su cui è fondata la chiesa?» (De ecclesiae unitate 4,7). Appare evidente che, da queste sue parole, non si può tuttavia de־ durre nessun riconoscimento del primato romano di giurisdizione. Cipriano stesso, del resto, si inimicò con papa Stefano I, nel 255, quando, a proposito della validità del battesimo amministrato per mano di eretici, sostenne - muovendo da un concetto errato di sacramento - il punto di vista che la validità del battesimo dipendeva dallo stato di grazia del sacerdote che lo celebrava, per cui chi non possedeva lo Spirito Santo non poteva più amministrarlo. Secondo
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questa concezione non sarebbe più Cristo {ex opere operato) colui che amministra il battesimo, bensì Puomo, in virtù del proprio carisma.
§ 6. Gli inizi della scuola cristiana di Alessandria Nelle grandi comunità delle città più importanti di quel tempo, Roma, Antiochia, Alessandria e altre, il quotidiano afflusso di nuovi convertiti al cristianesimo rese necessaria !,istituzione di uno speciale catecumenato per gli aspiranti al battesimo. La durata e !,intensità dell’istruzione preparatoria al sacramento posero precise esigenze non solo ai catecumeni, ma ancor più a coloro che insegnavano catechesi. Si dovettero quindi fondare particolari sedi destinate alla formazione spirituale di questi insegnanti, le cosiddette scuole di catechesi, nelle quali venivano impartite una dottrina teologica e un’istruzione cristiana superiore. Una scuola di questo tipo sorse sicuramente ad Alessandria, nel n secolo. La scuola, cui tra poco accenneremo, non era tuttavia di questo tipo. Essa nacque, infatti, dalla libera attività didattica di alcuni docenti cristiani, i quali esponevano la loro concezione cristiana del mondo privatamente, così come allora usavano fare i filosofi stoici, cinici o i membri delle altre scuole filosofiche ellenistiche. Quando dal tribunale pagano fu chiesto a Giustino di rendere conto della sua attività, egli rispose, secondo quanto riferisce testualmente il verbale del processo: «Abito al secondo piano della casa di un certo Martino, sopra il bagno Timotino, e là dimoro da quando sono venuto a Roma per la seconda volta. Non conosco nessun altro luogo di adunanza. Ho istruito nella dottrina della verità tutti quelli che sono venuti a trovarmi Sì, io sono cristiano». Così fece anche il siciliano Panteno quando, nel 180, ad Alessandria, centro spirituale dell’ellenismo, aprì di propria iniziativa ima scuola di sapienza cristiana e spiegò la dottrina del vangelo in una serie di conferenze filosofiche. La sua parola si rivolgeva a tutti coloro che desideravano imparare, non solo ai cristiani, ma anche a quei pagani che cercavano la verità. Grazie alle sue profonde ed
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entusiasmanti esposizioni, Panteno guadagnò molti pagani alla féde cristiana e guidò molti cristiani fino alle vette della speculazione teologica. Non diversamente agì Clemente d’Atene (n. 140/150, t prima del 216). Convertitosi al cristianesimo, abbracciò con tale entusiasmo la nuova fede che anch’egli si stabilì (verso il 200) ad Alessandria, ove, accanto a Panteno, iniziò il suo insegnamento filosofico che presto fu coronato da grandissimi successi. H suo allievo più importante fu il giovane Origene (circa 185 ־־circa 254). Quando Clemente, durante la persecuzione di Settimio Severo, fu costretto a lasciare la città, Origene prese il suo posto e continuò la sua attività didattica. Anch’egli cominciò le sue lezioni cristiane come libero docente privato e soltanto verso il 215 il vescovo Demetrio di Alessandria gli affidò ufficialmente l’insegnamento nella scuola catechetica della città, ove furono istruiti catecumeni e religiosi della grande comunità cristiana. Tuttavia Origene abbandonò abbastanza presto questo suo lavoro, affidandolo all’amico Eracla, per dedicarsi di nuovo e con ancor maggior successo alla sua precedente attività, e questa volta su incarico preciso del vescovo e come docente nominato ufficialmente dalla chiesa. Ma, quando, nel 230, si fece ordinare sacerdote da vescovi suoi amici, i rapporti fraterni che aveva avuto con Demetrio si guastarono e fu costretto ad abbandonare Alessandria e a recarsi a Cesarea, in Palestina, dove proseguì la sua attività d’insegnamento. Durante la persecuzione dell’imperatore Decio fu chiuso in carcere e torturato e, per quanto in seguito fosse stato liberato, morì poco dopo per le conseguenze dei maltrattamenti subiti. La caratteristica di questo tipo di scuola alessandrina, che le da־ va un’impronta tutta particolare, stava nel fatto che essa non era né un istituto sorto a fini ecclesiastici, né una scuola di catecheti, né un centro superiore di studi ecclesiastico-religiosi, bensì una creazione nata, come ha dimostrato la più recente ricerca storica, dal libero spirito di iniziativa. Se la si pone in questa sua originaria pròspettiva vitale, «si apre dinanzi ai nostri occhi una visione addirittura imponente: nella metropoli del mondo scientifico ellenistico un docente, egli stesso convertitosi per la stessa via al cristianesimo, pieno di irrefrenabile slancio missionario promuove, in veste di filosofo, una ‘scuola’, che è in assoluta armonia con lo spirito del
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suo tempo, per tutti quei giovani e vecchi che cercano la verità e sono sinceri amanti della sapienza e appartengono al suo ambiente pagano» (Adolf Knauber). Clemente deve essere considerato «il primo grande dotto cristiano». Egli non era, infatti, soltanto versato nella sacra Scrittura, ma aveva anche assimilato perfettamente Finterà scienza profana del suo tempo e aveva una conoscenza pròfonda della filosofia greca e della letteratura classica. In più, era perfettamente cosciente dei problemi e delle esigenze spirituali di giovani che, insoddisfatti degli insegnamenti avuti nei grandi centri culturali di Atene, Roma e Antiochia, come anch’egli lo era stato, venivano a lui per cercare e trovare la vera e altissima sapienza della rivelazione cristiana. Quei giovani avevano forse già conosciuto il cristianesimo, ma adulterato e stravolto dalle varie forme dello gnosticismo contemporaneo, e Clemente dovette pazientemente piegarsi su di loro per aiutarli a rettificare le loro idee e guidarli lentamente dall’errore alla vera e genuina gnosi cristiana. Egli visse e insegnò da filosofo e si servì delle forme e della lingua dei maestri di saggezza del suo tempo. Origene lo seguirà sullo stesso cammino. Questi uomini, con un’azione veramente rivoluzionaria, appresero non soltanto i modi esteriori e le forme espressive della filosofia pagana contemporanea, ma anche la sua tematica e quando, per esempio, trattarono di cosmologia, argomento tanto caro alla gnosi, non lo fecero certo con l’intenzione di rompere immediatamente la spirale assurda di quelle concezioni eretiche, o per dimostrare senz’altro la loro intrinseca falsità, ma per dimostrare invece che le domande fondamentali religiose sull’origine del mondo, su Dio creatore, sulla presenza del male in questa vita e sulla redenzione recata da Gesù Cristo, Dio-Lògos, avevano trovato proprio nella rivelazione cristiana la loro risposta più alta e perfetta. Essi vollero essere «messaggeri del cristianesimo in veste di filosofi» e soprattutto Clemente non fu «né più né meno che il missionario del mondo spirituale ellenistico, che, per la prima volta... dispiegando tutto il suo animo di convertito cristiano, certo della vittoria, condusse un attacco in grande stile... contro i circoli accademici del suo tempo» (Adolf Knauber). I suoi interessi, tuttavia, non furono essenzialmente e puramente teologici, bensì pastorali: egli volle, in
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fatti, soprattutto guadagnare i suoi ascoltatori a Cristo e guidarli alla salvezza. Potremmo ora chiederci se Clemente non si sia spinto troppo oltre in questo suo conformarsi all’ambiente ellenistico e se, insieme alla lingua e ai concetti, non siano penetrati nel giovane cristianesimo, attraverso il suo insegnamento, anche i contenuti della filosofia greca e delle religioni misteriche e se, infine, il tardo sincretismo non abbia in qualche modo contaminato !’originario e genuino messaggio evangelico. Sono quesiti, questi, che vanno esaminati molto seriamente, perché è chiaro che non è mai lecito alterare, per amore di irenismo, la purezza del deposito della fede rivelata. A un’analisi attenta appare tuttavia evidente che, in realtà, non si può affatto parlare di adulterazione e, ancor meno, di un’eccessiva penetrazione di pensieri e tradizioni pagane nell’ambito del cristianesimo. Quei Padri erano, infatti, fin troppo coscienti della differenza sostanziale che li divideva dall’ambiente pagano o gnostico, per lasciarsi facilmente influenzare da quest’ultimo. Quando perciò affrontavano seriamente il dialogo e non esitavano a misurarsi direttamente con il mondo spirituale dei loro ascoltatori erano sempre ben coscienti del loro compito missionario, del preciso mandato di salvezza di cui erano stati investiti da colui che continuava a vivere nella chiesa, per poter sempre rinnovarsi nella sua umanità, in ogni tempo. Come Cristo, nella sua incarnazione, aveva accettato di farsi in tutto e per tutto uomo, fuorché nel peccato, divenendo ebreo fra gli ebrei, così ora egli accoglie in sé, nel corso della storia della chiesa, l’umanità di tutte le genti e di tutte le culture, per potersi sempre incarnare in esse. Come Paolo, il quale affermava: «Mi son fatto tutto a tutti» (1 Cor 9,22), così Clemente dichiarava: Con i greci ci si deve fare greco, per poter conquistare tutti. Si deve offri re, a coloro che ci chiedono una saggezza che sia loro consueta, ciò che a essi è familiare, affinché possano pervenire, servendosi del loro stesso patrimonio di idee, in m odo giusto e il più facilmente possibile alla verità (Clemente, Strom ati1 ,15,3ss.; V, 1 8 ,6ss.).
Il pensiero greco, in seguito, si saldò profondamente al patrimonio della rivelazione cristiana e, nelle grandi figure di santi e di teo
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logi della patristica greca questo legame trovò la sua luminosa autenticazione e il suo perfezionamento. Senza questo legame non sarebbe stato possibile il grandioso lavoro teologico svolto dai primi concili. Il grande Origene, insieme a Clemente, ne pose i saldi fondamenti.
§ 7. Crisi interne: divisioni ed eresie L’alta spiritualità e Pintima ricchezza di pensiero proprie alla verità rivelata, da un lato, e dall’altro la storicità inerente strettamente alla chiesa per il principio incamazionista e l’umanità del suo sviluppo e della sua espansione interna ed esterna spiegano la comparsa frequente di opinioni erronee e di falsificazioni eretiche contro cui la chiesa dovette prendere severe misure repressive. Proprio perché era pienamente cosciente di dover portare e conservare in un fragile vaso di creta il prezioso patrimonio della pura verità rivelata, la chiesa fu costretta, per questa sua grave responsabilità, a usare una particolare sollecitudine nel difendersi dalle false dottrine. Soprattutto in tempi in cui si tendeva a facili commistioni sincretiste e in cui si professava un pericoloso relativismo in materia di fede, essa reagì sempre in modo decisamente energico contro il sorgere di opinioni particolari e di eresie. Ciò accadde fin dai primissimi tempi cristiani e, fin da allora, la chiesa prese una chiara posizione, visto che le minacce si profilavano gravissime, e talora addirittura terribili, anche dall’esterno. Eusebio, il padre della storia della chiesa, già aveva constatato che, nel n secolo, il cristianesimo era stato minacciato in modo assai più grave all’interno, dalle eresie e dai contrasti dottrinali, di quanto lo fosse stato esternamente dalle persecuzioni. La letteratura anti-eretica, singolarmente ricca, della chiesa primitiva, degli apologisti e dei Padri della chiesa, sta a dimostrare con quale grande attenzione e sollecitudine sia stata seguita questa evoluzione.
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1. Eresie giudeo-cristiane I primi forti contrasti ebbero origine a Gerusalemme e in Palestina, soprattutto dopo la morte di Giacomo il Minore (62/63), in quei circoli giudeo-cristiani che non erano riusciti a separarsi con sufficiente energia dal culto ebraico, e questi dissidi portarono, alla fine, allo sviluppo delle eresie degli ebioniti, dei nazarei e degli elkasaiti, le quali, pur prestando ancor fede alla messianità di Gesù, ne negarono la divinità. Cerinto (fine del I secolo) fu il primo a unire insieme a un rigido giudaismo alcune speculazioni di provenienza gnostica. Egli fu contemporaneo dell’apostolo Giovanni e Ireneo ci informa che quest’ultimo scrisse il suo vangelo proprio contro Cerinto.
2. Sistemi gnostici I diversi sistemi gnostici sono il prodotto del sincretismo e risaigono a tempi precristiani. La scoperta di una grande biblioteca gnostica, nel 1946, a Nag Hammadi, in Egitto, ci permette oggi di comprendere in modo alquanto più chiaro le loro idee e la natura della loro dottrina. Le filosofie della religione greca e le promesse di redenzione dei culti misterici oriental-ellenistici confluirono nello gnosticismo, mescolandosi singolarmente con dottrine concernenti questo e l’altro mondo, la cui conoscenza era riservata unicamente agli iniziati. Gli gnostici promettevano ai loro fedeli insegnamenti misteriosi sui massimi problemi dell’umanità, sull’origine e la destinazione della vita umana, sulla nascita del cosmo, sul significato del male e della sofferenza in questo mondo. La Vera conoscenza’ {gnósis), che essi offrivano, non derivava da una conoscenza razionale né da un concreto insegnamento, ma era acquisita misticamente grazie a una determinata prassi religiosa. Gli gnostici affermavano, infatti, di essere in possesso di rivelazioni segrete, che racchiudevano un sapere occulto, accessibile soltanto agli iniziati. Fu proprio questo carattere di rivelazione che spinse gli gnostici a interessarsi abbastanza presto del cristianesimo. Di loro si fa già parola nei libri del Nuovo Testamento; soprattutto Paolo prese de
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cisamente posizione contro di essi (2 Tm 1,4; 4,7; 6,4; 6,20; Col 2,8ss.; Ap 2,6.15). Non si potè comunque impedire che, con Pandar del tempo, gli gnostici si appropriassero della dottrina rivelata cristiana e la rielaborassero a modo loro. A un’interpretazione fantastica e allegorica della sacra Scrittura essi unirono speculazioni platoniche e pitagoriche, dottrine soteriologiche mutuate dai misteri pagani e dalle cosmogonie mitologiche e temi astrologici dell’antico Oriente. La dottrina cristiana della redenzione attraverso l’incarnazione del Figlio di Dio si amalgamò con la dottrina della emanazione e degli eoni e si mescolò a rappresentazioni dualistiche, secondo le quali esisterebbero due ultimi principi, perpetuamente in lotta fra loro: il bene e il male. Le concezioni fondamentali, comuni ai diversi sistemi gnostici, possono essere così riassunte: dall’altissimo Dio nascosto, che abita in una luce inaccessibile, derivarono, per emanazione, i mondi. Numerosi spiriti (eoni, fino a 365) hanno avuto origine dallo stesso Dio; degradando, essi si sono allontanati sempre più dalla loro fonte divina. Quanto maggiore è la loro distanza da questa fonte, tanto minore è il loro essere, e la luce che possiedono. Nell’ultimo, infimo grado si confondono con la materia, la quale appartiene al regno delle tenebre e del male. In questo infimo strato oscuro fu formata la nostra terra, che è l’opera del più basso di tutti gli eoni, del demiurgo. Questo demiurgo, o ‘artefice del mondo’, è identificato con Y h w h , il Dio dell’Antico Testamento. La ‘redenzione’ consiste ora nella liberazione di queste particelle di luce divina, imprigionate nella materia più oscura, c nel loro ritorno alla pienezza della luce (plérdma) del sommo Dio. A questo punto lo gnosticismo comincia a confondersi con la dottrina cristiana. Cristo, per gli gnostici, è assimilato a un essere spirituale (eone); la sua missione sarebbe stata quella di rivelare agli uomini il sommo Dio, fino ad allora sconosciuto, e di insegnar loro i modi attraverso cui avrebbero potuto liberarsi dalla materia, superare le tenebre e far ritorno al regno della luce divina. In Gesù di Nazaret questo essere spirituale avrebbe assunto un corpo puramente apparente e avrebbe agito e sofferto solo in apparenza (docetismo), poiché in realtà uno spirito non poteva né soffrire, né morire sulla croce. Molti gnostici insegnavano anche che il Cristo-Lògos era di
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sceso realmente nell'uomo Gesù solo durante il battesimo nel Giordano, trasformandolo in Messia. Ma, prima della passione, avrebbe di nuovo abbandonato il corpo di Gesù, e sulla croce sarebbe morto solo Gesù di Nazaret, vale a dire un puro e semplice uomo. Alla morte sulla croce non andava comunque attribuito nessun significato salvifico; nella vita di Gesù solo la sua attività d'insegnamento era veramente importante e soltanto coloro che avevano seguito e compreso la dottrina segreta del Cristo-Lògos sarebbero stati veramente ‘salvati' e ‘redenti'. Questa dottrina segre־ ta insegnava il modo di vincere la materia e soltanto i veri ‘gnostici’, gli ‘pneumatici’; erano in grado di comprenderla. La grande massa degli uomini, gli ebrei e i pagani, dovevano essere considerati perduti, perché erano ‘materiali’ (ilici) e destinati a finire annientati con la materia nel regno delle tenebre. Ai cristiani medi, vale a dire agli ‘psichici’, a coloro cioè che erano incapaci di raggiungere la conoscenza più alta, era concessa una specie di redenzione minore e una beatitudine limitata. Cristo avrebbe lasciato in eredità una duplice rivelazione: un'inferiore, quella proclamata dalle sacre Scritture della grande chiesa, e una superiore e nascosta, che egli aveva unicamente affidato in segreto ad alcune persone prescelte, e di cui sarebbero in possesso gli gnostici. I rappresentanti principali della cosiddetta ‘gnosi cristiana' furono Satornilo ad Antiochia (inizio del n secolo), Basilide ad Alessandria (circa 120-145) e Valentino a Roma (circa 136 - circa 160). Nella sua essenza questa gnosi, come è facile comprendere, è assolutamente anti-cristiana, poiché nega ciò che costituisce la base stessa del cristianesimo (la fede nella reale divinità di Cristo) e rappresenta il tentativo di trascinare il cristianesimo nel pericoloso vortice del sincretismo. La sua forza d'attrazione fu dovuta innanzitutto al fascino che hanno sempre esercitato su tante persone i fatti misteriosi e pseudomistici, alle speculazioni cosmiche, alle rivelazioni intimamente connesse a forme cultuali, concernenti una nuova concezione del mondo e della redenzione, e, infine, alla forma di vita ascetica apparentemente rigorosa, ma che derivava in realtà da una negazione dualistica del mondo e da un odio alla materia radicalmente anticristiani. Giovandosi di un'ampia propaganda, che si espresse attraverso romanzi religiosi, devoti inni liturgici
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e ‘sacre Scritture' apocrife e vantandosi presuntuosamente di deri־ vare le sue dottrine direttamente da rivelazioni speciali e da tradi־ zioni segrete sulle (fino ad allora) occulte parole di Cristo, la gnosi causò gravi danni nelle giovani comunità cristiane, che in gran par־ te consistevano di neo-battezzati e di convertiti dal paganesimo. Nella forma manichea lo gnosticismo penetrò fin nel cuore del Medioevo, continuando a vivere nelle sette dei pauliciani, dei bogomili e dei catari, e a diffondersi anche nell'età moderna (spiritismo, teosofia, antroposofia ecc.). Si può anzi dire che questa eresia non si è mai estinta del tutto e proprio questo fatto fa supporre che, in qual־ che modo, essa risponda a una profonda esigenza umana.
3. Il manicheismo H manicheismo risale al persiano Mani (215273)־, il quale, come ultimo inviato di Dio dopo Buddha, Zarathustra e Gesù, si propose di portare a perfetto compimento la rivelazione divina. La sua dottrina ha pochissimo in comune con il cristianesimo. Ma־ ni sostenne un rigoroso dualismo e considerò il processo cosmico come una lotta perenne tra luce e tenebre, tra i principi di bene e male, tra spirito e materia; l'uomo può vincere il male e aumentare la luce solo astenendosi dall'uso della materia, intrinsecamente cattiva, dalla carne, dal vino e dal piacere sessuale, il manicheismo penetrò nell'impero romano solo negli ultimi decenni del ni secolo, ma già nel IV secolo vi si era diffuso rapidamente e, poiché rac־ chiudeva in sé molti elementi cristiani, divenne assai pericoloso per il cristianesimo. Anche Agostino, prima del suo battesimo, è stato manicheo.
4. Il marcionismo Il marcionismo rappresentò per qualche tempo, nel n secolo, il concorrente più pericoloso della grande chiesa cristiana. Marcio־ ne, figlio del vescovo di Sinope, città sul Mar Nero, nacque nell'anno 85 d.C. e, verso il 139, si recò a Roma per diffondere le sue idee nella comunità romana. Respinto e scomunicato, fondò una sua
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propria chiesa che seppe guidare e organizzare tanto bene che i suoi seguaci si diffusero largamente. La dottrina di Marcione rifiuta radicalmente ?Antico Testamento e insegna un rigido dualismo. Y h w h , il Dio dell’Antico Testamento, per Marcione è il Dio iracondo del male; nel Cristo del Nuovo Testamento si è rivelato invece il sommo Dio buono; i seguaci di Y h w h , gli ebrei, perseguitarono il Dio del Nuovo Testamento, vale a dire Cristo, ma poiché questi aveva assunto un corpo soltanto apparente, poterono ucciderlo solo apparentemente. Il severo rigorismo etico, basato su una dualistica ostilità verso il corpo, che caratterizza il marcionismo, gli procurò seguaci fanatici.
5. Gli encratiti Con il nome di encratiti, ossia ‘astinenti’ (da enkrdteia, autodominio), già Ireneo (Adversus Haereses 1,28) e Clemente di Alessandria [Stromati I, 15, 71 e altrove) indicarono i rappresentanti di una rigida corrente ascetica, decisamente ostile al corpo che, verso il 170, guadagnò molto favore e si diffuse tanto largamente da rappresentare un serio pericolo. Taziano, l’apologista di cui abbiamo già parlato, fece parte di questa setta. Gli encratiti, dal punto di vista del dogma, erano ortodossi, ma, per evidente influenza di Marcione, si spinsero con il loro rigore ascetico tanto oltre che pretesero da ogni cristiano la totale astinenza non solo dai piaceri della carne e del vino, ma anche dall’uso del matrimonio. La loro teoria fu dunque giustamente respinta come eretica. Alcune tendenze encratiste, seppure in forma attenuata, perdurarono a lungo ed ebbero anche parte nella preistoria e nei primi tempi del monacheSimo.
6. Il montanismo Il montanismo conteneva queste tendenze encratiste, unitamente all’entusiasmo dei primi tempi cristiani. Montano, un ex sacerdote di Cibele, rimproverava alla chiesa di essersi troppo mondanizzata e cominciò a predicare dal 157 (o dal 172) una severa riforma morale e ascetica che condannava la fuga dinanzi al martirio ed
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esigeva che il cristiano si presentasse volontariamente al martirio, anzi vi anelasse addirittura. Montano ridiede anche nuova vita alla tensione escatologica vissuta dalla chiesa primitiva e annunciò come ormai prossimo l'inizio del regno millenario di Cristo (chiliasmo). Egli affermava di aver ricevuto rivelazioni particolari, si dichiarava profeta dello Spirito Santo e annunciava che ormai la rivelazione divina era giunta con lui alla perfezione definitiva. Nella sua predicazione Montano era aiutato da due donne estatiche, Priscilla e Massimilla, che sostenevano di aver ricevuto visioni e rivelazioni profetiche. A Perpuza, in Frigia, essi riunirono i loro seguaci per attendere la venuta di Cristo e il giudizio universale. H loro rigido ascetismo procurò alla setta molti seguaci e, più tardi, le loro dottrine si diffusero in Africa settentrionale, dove, nel 207, riuscirono a conquistare anche un uomo spirituale e stimato come Tertulliano, che da allora in poi cominciò a combattere con veemenza la grande chiesa per la sua presunta rilassatezza morale e la sua prassi penitenziale.
7. Il significato delle eresie e delle divisioni Se consideriamo la molteplicità e la frequenza delle eresie non apparirà inutile domandarsi quale fosse il significato di tutte queste divisioni. «E necessario che vi siano delle divisioni {hairéseis) in mezzo a voi», scrive Paolo ai Corinzi (1 Cor 11,19), «affinché si possa conoscere quali di voi sono di provata virtù». Joseph Lortz parla di una felix culpa e sottolinea energicamente «che Terrore e la colpa possono racchiudere benissimo un profondo significato nel piano di salvezza di Dio». La chiesa impara, afferma da parte sua Karl Rahner, «a conoscere in modo chiaro la sua verità ascoltando !,opposizione che le viene fatta... e rigettandola». Nulla sarebbe più falso che porre semplicemente sullo stesso piano il male e Teresia, e non volere ammettere che quest'ultima si basa «talora anche su una ricerca personale e particolarmente fervente della genuina verità di salvezza» (Lortz). Girolamo scrive: «Nessuno, che sia privo di spirito ardente e non possegga quei doni naturali che sono stati creati dall'artista supremo, può dar vita a un'eresia», e Agostino ammonisce: «Non crediate, fratelli, che le eresie possano nasce
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re da un quasiasi piccolo spirito. Soltanto uomini grandi hanno prodotto eresie» (In Psalmum 124). Ma, nello stesso momento, Agostino non esita a definire le eresie sommamente nocive. Egli le compara a grandi scogli che, pròprio perché grandi, sono ancor più pericolosi e mette decisamente in guardia di fronte a esse. Anche il testo di Paolo citato sopra non si spiega certo dicendo che PApostolo intende attribuire all’eresia un significato positivo, nel senso cioè che essa possa essere considerata di qualche utilità per far meglio progredire la conoscenza della verità. Paolo vede piuttosto nell’eresia una tremenda minaceia per la salvezza, e non solo per i singoli, ma ancor più per la chiesa, che l’eresia cerca di distogliere dai suoi ultimi fini. Può esistere, infatti, solo un’unica verità divina rivelata e la chiesa non può mai recedere da essa a causa del suo mandato universale di salvezza e della sua destinazione escatologica. Seminando in continuazione la zizzania in mezzo al buon grano, il ‘nemico malvagio’ tenta di coprire e soffocare il vero grano e solo alla fine dei giorni, con la grande separazione, apparirà anche il trionfo della verità. Ma, fino ad allora, la chiesa dovrà sempre difendersi dalla zizzania, per poter proteggere i suoi figli. In piena armonia con queste idee, anche Agostino chiama le eresie e i suoi autori gli «escrementi della chiesa» («quos partim digessit Ecclesia tamquam stercora», Sermo V, 1). La chiesa dovette difendere la sua fede non soltanto dai pericoli di falsificazioni sincretistiche che le venivano dall’esterno, ma anche contro le meschine riduzioni avanzate da parte di fanatici rigoristi-encratisti quali furono, per esempio, Montano e, più tardi, lo stesso Tertulliano. E lo fece, fin dal n secolo, osservando esattamente i princìpi della tradizione apostolica, fissando il canone della sacra Scrittura e attuando le deliberazioni comuni dei vescovi. Un sinodo convocato contro il movimento montanista riunì, infatti, per la prima volta i vescovi della Frigia. Questi sinodi locali si svilupparono più tardi in assemblee più ampie e, a metà del m secolo, furono convocati anche dei sinodi provinciali, nei quali i vescovi di un’intera provincia si riunirono intorno al loro metropolita: a Cartagine i vescovi dell’Africa, ad Alessandria quelli dell’Egitto, ad Antiochia e a Cesarea quelli dell’Asia e, infine, a Roma quelli dell’Italia. Dopo la svolta costantiniana, quando i vescovi dell’inte
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ro impero romano, dell’‘ecumene’, poterono finalmente riunirsi per la prima volta per discutere insieme sui problemi della chiesa, sotto la guida di Costantino, ebbe luogo il primo ‘concilio ecuinenico’ di Nicea (325), che decise sulle dottrine eretiche di Ario e sugli scismi di Melezio (Egitto) e di Donato (Africa del nord).
§ 8. Le persecuzioni dei cristiani nell’impero romano 1.1 motivi delle persecuzioni L’impero romano era uno stato basato sul diritto. Quando pròcedette violentemente contro il cristianesimo, dobbiamo pensare che avesse precisi motivi per farlo. Purtroppo, possediamo solo pochissime dichiarazioni ufficiali che ci diano spiegazioni sul fondamento giuridico delle persecuzioni contro i cristiani. Gli organi statali agirono forse contro i cristiani sulla base di qualche legge speciale? O fecero, invece, soltanto uso di un diritto di vigilanza proprio della polizia statale, perché consideravano il cristianesimo una ‘religione illecita’ (religio illicita)? È questa una vecchia questione controversa, che non ha ancora trovato soluzione. Quando Tertulliano ci parla incidentalmente di un institutum neronianum (Ad nationes 1 , 7, 14), non si deve affatto pensare a un qualche fondamento giuridico, vale a dire a una legge che Nerone avrebbe emanato contro i cristiani, ma semplicemente al fatto che fu questo imperatore a iniziare le persecuzioni. Lo stesso Tertulliano, infatti, rimprovera allo stato romano di procedere senza una precisa base giuridica e in un modo completamente incoerente contro i cristiani. Questo rimprovero di incoerenza si rivolgeva innanzitutto contro la disposizione che Traiano aveva preso con il suo rescritto a Plinio: in esso si diceva che i cristiani «dovevano essere puniti in quanto cristiani \propter nomen ipsum]» quand’essi fossero stati denunciati, ma si precisava inoltre che lo stato non doveva dar loro la caccia. Ma allora, si chiedeva Tertulliano, se i cristiani sono dei delinquenti perché non si dà loro la caccia? E se invece non sono
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dei malfattori e non c’è bisogno di indagare su di loro, per quale ragione li si condanna e li si punisce? Anche l’imperatore Adriano persistette in questo atteggiamento incoerente (rescritto a Minucio Fondano, verso il 125). Soltanto Decio (249251 )־emanò delle leggi che dettero una base giuridica a procedimenti contro i cristiani. Le fonti cristiane sulle persecuzioni ci permettono invece di farci un’idea più profonda sull’intera questione. Possediamo tre tipi di relazioni: a) Autentici A tti di martiri, in parte basati sui verbali ufficiali del processo, in parte su racconti diretti di testimoni oculari, come sul martirio di Policarpo, di Tolomeo e di Lucio, dei martiri di Scilli, di Apollonio e di Perpetua e Felicita. Il loro valore è inestimabile. Per quanto gli Atti dei martiri siano stati in gran parte rielaborati nella forma, in vista della loro lettura edificante, il loro contenuto ci è stato trasmesso intatto e conforme a verità; essi riferiscono di solito, con dolorosa esattezza, gli interrogatori e la condanna. b) Passiones o Martyria: si tratta di racconti che sono stati compilati interamente da contemporanei degni di fede e che in parte risalgono anche a rapporti di testimoni oculari, ma sono in genere redazioni di seconda mano. c) Leggende e racconti di tempi successivi, quasi del tutto privi di valore dal punto di vista storico, e che spesso non permettono neppure di cogliere la realtà degli avvenimenti narrati, quand’anche essa esista. Le altre testimonianze letterarie di origine cristiana sono abbastanza numerose. Tutti gli scrittori cristiani ricordano le persecuzioni o ci informano su di esse, e la maggior parte per diretta esperienza. Tanto più sorprendente ci appare quindi il silenzio dei pagani. Dobbiamo essere grati a Tacito (Annales 1 5 ,14ss.) e a Sveto־ nio (Vita Neronis 16, 2) per le prime notizie letterarie pagane, per quanto abbastanza scarse. Importanti sono anche gli scritti polemici contro il cristianesimo. Il pagano Celso, per esempio, compilò nel 178 uno scritto polemico anticristiano, al quale replicò Orige־ ne; esso ci fa conoscere meglio di ogni altra fonte le ragioni e i motivi delle obiezioni degli avversari. Il rifiuto di partecipare al culto statale pagano, che era necessa־ riamente legato al suo esclusivo monoteismo, fece apparire i cri־
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stiani come ‘atei’ (nel senso di ‘privi di dèi’) e nemici dello stato. L’assolutezza della religione di Cristo, che fu venerato come unico Signore e Dio (Kyrios) יproibiva ai cristiani il riconoscimento del culto imperiale, che da Domiziano in poi assunse forme sempre più bizzarre. Al Kyrios Kàisar essi contrapponevano intenzionalmente il Kyrios Christus, e quanto più il culto imperiale si consolidò in forme religiose, divenendo pietra di paragone della fedeltà allo stato, tanto più i cristiani furono considerati avversari delTimpero romano. Lo stato romano era fondato su basi religiose e, se è vero che in genere si mostrava tollerante anche verso i culti stranieri, esigeva tuttavia che questi tributassero all’imperatore la venerazione che gli si addiceva e riconoscessero gli dèi dello stato. Di fronte all’ebraismo mantenne, nonostante il monoteismo che caratterizzava la fede di Israele, un atteggiamento tollerante, perché i suoi seguaci erano in numero piuttosto limitato e appartenevano a un determinato popolo. Il cristianesimo invece, per sua stessa natura, aveva un orientamento sopranazionale e universale e, anche se fino alla metà del m secolo rappresentò soltanto una microscopica minoranza nell’impero romano, con la sua pretesa universale minava, in modo assai diverso dagli altri culti, i fondamenti dell’impero universale. Il conflitto era quindi inevitabile e nel n e m secolo fu provocato proprio da quegli imperatori che, da abili sovrani, si adoperarono per il rinnovamento dello stato e per il consolidamento dell’impero su basi religiose. I cristiani, da parte loro, riconoscevano lo stato come forza d’ordine, osservavano con precisione meticolosa le sue leggi, pregavano per l’imperatore, ma non /’imperatore in quanto divinità. In tempi normali sarebbe stato dunque piuttosto difficile trovare un pretesto per agire contro di essi. Le persecuzioni, infatti, furono avvenimenti sporadici e si differenziarono, per intensità e durata, nelle singole province. Nel II secolo esse apparvero soprattutto come esplosioni di odio troppo a lungo trattenuto, più che azioni statali sistematiche e disposte preventivamente. Solo l’imperatore Decio procedette contro i cristiani seguendo un piano ben preciso. Fu invece la plebe che, fin dall’inizio, prese parte attivamente e in larga misura alle persecuzioni. Come si spiega quest’odio, pre
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sente ovunque nel popolo fino alla metà del m secolo, verso i cristiani? In primo luogo e soprattutto esso nasceva dall’avversione istintiva che gli uomini primitivi e incolti hanno sempre nutrito verso coloro che giudicano diversi dal loro ambiente e che mostrano di vivere, al contrario della massa, un’esistenza moralmente e religiosamente superiore. La vita ritirata dei cristiani suscitò il sospetto e acuì la smania di diffamazione. Si cominciò così a parlare di atti cultuali delittuosi, che i cristiani avrebbero compiuto durante i loro convegni segreti, di banchetti tiestei, in cui i partecipanti (come già Tieste nella leggenda greca, al quale furono presentati come cibo le carni dei propri figli massacrati) avrebbero gustato carne umana (così veniva snaturata la comunione), si mormorò di atti di lussuria incestuosa (diceria che può aver avuto origine dalla consuetudine, in uso fra i cristiani, di chiamarsi l’un altro ‘fratello’ o ‘sorella’). Si attribuirono al rifiuto dei cristiani di sacrificare agli dèi l’accadere di catastrofi naturali, le avversità pubbliche, le calamità e le sconfitte militari. I cristiani furono accusati globalmente di odio verso il genere umano (odium humani generis) e proprio questo rimprovero sembra che fosse già tanto largamente diffuso al tempo dì Nerone, che questi potè agevolmente deviare sui cristiani, «feccia del genere umano», i sospetti che erano caduti su di lui per l’incendio doloso di Roma.
2. Lo svolgimento delle persecuzioni Si possono distinguere chiaramente tre fasi: Primo periodo (fino all’anno 100 circa): nel I secolo il cristianesimo, sopportato o ignorato dallo stato, fu considerato come una setta ebraica e godette della stessa tolleranza riservata alla religione ebraica (come religio licita). La prima grande persecuzione sotto Nerone (54-68) fu l’azione violenta e terribile di un brutale tiranno, attuata per poter scaricare sui cristiani la colpa dell’incendio di Roma del luglio 64. L’imperatore fece giustiziare un grande numero di cristiani romani fra atroci tormenti, mentre egli partecipava nei suoi giardini a tuia festa popolare. Tra le vittime furono anche gli apostoli Pietro e Paolo. Questa persecuzione si limitò alla città e
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fu priva di qualsiasi fondamento giuridico, ma avvenne fatalmente che, grazie al procedimento di Nerone, i cristiani fossero bollati definitivamente con Paccusa di odiurn humani generis e che questa imputazione costituisse per quasi 200 anni la base effettiva, per quanto priva di qualsiasi fondamento giuridico, che dette via libera alle future persecuzioni contro di essi. Anche le diverse azioni intraprese da Domiziano (8196)־, per le quali caddero vittime a Roma, nell'anno 95, il console Flavio Clemente, cugino delTimperatore, e sua moglie Flavia Domitilla (quello fu giustiziato, questa invece esiliata, insieme ai figli), furono fatti di sangue di un tiran־ no. Secondo la più antica tradizione, anche l'apostolo Giovanni fu esiliato sotto Domiziano a Patmos, ove poi scrisse VApocalisse (Ireneo, Adversus Haereses 2 ,2 2 ,5 ;3 ,1 ,1 ). Secondo periodo (100-250): il cristianesimo era ormai considerato una religione autonoma, ma fu perseguitato come religio illicita nemica dello stato e della società umana. All'origine della persecuzione sta uno scambio privato di lettere fra Plinio il Giovane e Traiano (98-117). ma che Plinio divulgò e che servirono poi da documenti semiufficiali, dando vita a un diritto consuetudinario. Plinio, nuovo proconsole di stato in Bitinia, nel 112 aveva scritto all'imperatore pregandolo di inviargli istruzioni perché meglio potesse regolarsi con i cristiani; così scrive testualmente: Io non ho mai preso parte a processi contro i cristiani e ignoro quindi in che modo e per quali motivi essi debbano essere esaminati e puniti. E sono anche molto incerto se debba ammettersi qualche differenza fra le diverse età e se i fanciulli debbano essere trattati come gli adulti; se si debba perdonare a chi si pente o se, a chi fu realmente cristiano, nulla giovi il non esserlo più; se si debba punire il solo nome, anche se non v ’è delitto, o se siano invece soggetti a punizione delitti insepara־ bili da quel nome. Per il momento - così prosegue - con coloro che mi sono stati denunciati come cristiani, io ho agito così: chiesi loro se fossero cristiani; se confessavano di esserlo, io facevo loro la stessa domanda una seconda e una terza volta, minacciandoli di morte. Se persistevano li condannavo. Poiché non dubitavo, qualunque cosa fosse ciò che essi confessavano di essere, che si doveva sicuramente punire quella caparbietà e ostinazione invincibile. Vi furono altri, irretiti nella stessa follia, i qua
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li, perché erano cittadini romani, ho stabilito di inviare a Roma. Quindi, come di solito accade, diffondendosi questa colpa, sorsero vari casi speciali. Mi fu consegnato un libello anonimo, dove erano scritti i nomi di molti, i quali poi negarono di essere o di essere stati cristiani; ho creduto bene liberarli poiché, seguendo il mio esempio, invocarono gli dèi, offrirono vino e incenso alla tua immagine, che avevo fatto venire a questo scopo con i simulacri dei numi, e di più maledissero Cristo, cose tutte alle quali i veri cristiani non si lasciano piegare in alcun modo. Altri, denunciati da un delatore, dissero di essere cristiani, ma poi lo negarono: dissero cioè di esserlo stati, ma di non esserlo più, chi da tre, chi da quattro, qualcuno persino da ventanni. Anche tutti costoro adorarono la tua immagine, i simulacri degli dèi e bestemmiareno Cristo. Affermarono poi che questa, alla fine, era la loro colpa o il loro errore: che essi erano soliti riunirsi insieme in un giorno stabilito, innanzi giorno, e cantare fra loro alternativamente inni a Cristo, come a un Dio, di obbligarsi con giuramento non già a commettere qualche delitto, ma ad astenersi dal commettere alcun furto, assassinio, adulterio, a mantenere la parola data e, se richiesti, a restituire il deposito. Dopo di che era loro costume andarsene, per raccogliersi poi tutti insieme, in seguito, per fare un pasto, ma assai semplice e innocente. Da tutte queste cose essi si erano tuttavia astenuti dopo il mio editto che, secondo i tuoi ordini, aveva proibito le associazioni. Ritenni perciò tanto più necessario di conoscere, anche giovandomi della tortura, che cosa vi fosse di vero, da due schiave che dicevano di essere ministre. Non trovai nuli’altro che una prava e sfrenata superstizione. Ho sospeso perciò il processo e mi rivolgo a te per consiglio... (nel testo della lettera segue il passo già citato a p. 32s.). L’im peratore rispose così:
Tu hai agito come dovevi, o mio Secondo. Non si può infatti stabilire una norma universale e direi quasi invariabile per il trattamento di ogni caso; non si deve quindi ricercare (i cristiani), ma, se saranno accusati e convinti, è doveroso punirli. Chi intanto nega di essere cristiano e lo dimostri col fatto, adorando cioè i nostri dèi, anche se il suo passato desti sospetti, deve ricevere perdono a causa del suo pentimento. Quanto poi ai libelli anonimi, in qualsiasi specie di accuse debbono essere rigettati, poiché accettarli sarebbe di cattivo esempio e indegno dei nostri tempi. S tando a q uesta d isp o sizio n e im periale, il fatto stesso d i essere cristiani era p assib ile d i p en a e n o n occorreva ch e gli im putati fo s
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sero accusati di un altro delitto. Solo le denunce anonime dovevano essere rifiutate, !,,esecuzione del rescritto, che non era una legge dello stato, fu affidata al proconsole. Si ebbero così, in seguito, numerose persecuzioni territoriali, anche se limitate, promosse per lo più da fanatiche masse popolari. L’imperatore Adriano (117138), in un rescritto inviato a C. Minucio Fundano, proconsole della provincia d’Asia, nel 125, proibì di accondiscendere a tali richieste della plebe e alle denunce anonime contro i cristiani, cosicché questi ultimi ebbero, grazie a questo provvedimento imperiale, un periodo di relativa tranquillità. Tuttavia, anche sotto Antonino Pio (138-161), Marco Aurelio (161-180) e Commodo (180-192), furono giustiziati numerosi cristiani, isolatamente e in gruppi. Sotto Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, l’ostilità contro i cristiani aumentò considerevolmente. Celebri martiri del u secolo furono: Ignazio di Antiochia (t nel 107 o 110), Giustino, il filosofo, insieme a sei suoi compagni (t nel 165 o 167), Policarpo vescovo di Smirne (la data precisa oscilla dal 155 al 177, ma probabilmente il suo martirio avvenne nel 167), i martiri di Lione (177), i martiri di Scilli, in Numidia (verso il 180). L’imperatore Settimio Severo (193-211), che all’inizio si era mostrato alquanto tollerante verso i cristiani, decretò improwisamente, nel 202, misure repressive per coloro che si fossero convertiti al cristianesimo e avviò una furiosa persecuzione, che infierì soprattutto in Africa settentrionale, in Egitto e in Oriente (martiri: Perpetua e Felicita, nell’anno 202, a Cartagine; Leonida, il padre di Origene, sempre nel 202, ad Alessandria). Sotto Caracalla (211-217), Eliogabalo (218-222) e Alessandro Severo (222-235) i cristiani poterono, in genere, godere di un periodo di pace; la madre dell’ultimo imperatore, Giulia Mammea, si mostrò persino ben disposta verso il cristianesimo ed ebbe scambi di lettere con Origene e Ippolito di Roma. Massimino Trace (235238) emise invece un editto ostile ai cristiani, prendendo di mira soprattutto il clero. Ma Gordiano (238-244) e, in modo particolare,. Filippo Arabo (244249 )־si mostrarono di nuovo favorevoli ai cristiani; quest’ultimo aveva intimamente sposato la fede di Cristo, anche se non potè manifestare apertamente i suoi sentimenti, poiché il tempo del cristianesimo non era ancora maturo. Fu infatti
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proprio sotto il suo regno che si ebbe un ritorno di fanatismo e di ostilità contro i cristiani. Le sconfitte militari e le minacce dei nemici che premevano ai confini, !,inflazione e la carestia all’interno dell’impero e, soprattutto, il ridestarsi dell’ardente sentimento nazionale in occasione della celebrazione del millenario di Roma del 248, avvenimento che favorì anche la reviviscenza dell’antica reli־ gione, furono tutti fattori che contribuirono a una nuova esplosione di odio popolare contro i cristiani. Terzo periodo (250311)־: l’imperatore Decio (249251 )־aspirava a un profondo rinnovamento all’interno dello stato romano e, poiché vide minacciati i fondamenti religiosi dell’impero dai cristiani, che rifiutavano il culto di stato, emanò, per la prima volta, leggi statali generali che miravano a ricondurre ogni cittadino dell’impero alla religione romana ufficiale. Già nel dicembre del 249 vi fu una prima ondata di arresti. H 20 gennaio del 250 a Roma morì martire papa Fabiano. Verso la metà dello stesso anno un editto or־ dinò che tutti gli abitanti dell’impero dovevano sacrificare agli dèi per allontanare un’epidemia. Furono istituite commissioni speciali per controllare che tutti offrissero il sacrificio richiesto e a quelli che avevano adempiuto il loro dovere doveva essere rilasciato un attestato comprovante il sacrificio avvenuto. Grazie a questo pròcedimento i cristiani sarebbero stati scoperti, per il loro rifiuto di sacrificare agli dèi e, dopo essere stati accusati di aver suscitato la collera degli dèi e arrecato sfortuna allo stato romano, sarebbero stati messi a morte. Il numero dei cristiani che si mostrarono deboli durante la persecuzione di Decio fu grande. La causa di questa defezione va ricercata nella lunga pausa di tolleranza che aveva preceduto la persecuzione stessa: non si era ormai più abituati a fronteggiare i pericoli. Vi furono molti cristiani che realmente sacrificarono (sacrifi־ cati), altri che offrirono incenso ai simulacri degli dèi e all’immagine dell’imperatore. La colpa della ‘caduta’ di molti cristiani va anche imputata alla facilità con cui si poteva evitare di sacrificare sen־ za dare nell’occhio, ma i sinceri cristiani considerarono egualmen־ te come apostati e rinnegatori di Cristo sia chi, corrompendo la commissione di vigilanza, era riuscito a procurarsi falsi attestati
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pur senza aver realmente sacrificato (libellatici), sia chi era riuscito a far inserire per vie traverse il suo nome nelle liste ufficiali di coloro che avevano compiuto il sacrificio {acta facientes). Sulla questione di riammettere o meno in seno alla chiesa questi apostati (lapsiy letteralmente ‘caduti’) si accese un grave conflitto in seno alle comunità (la cosiddetta controversia circa il battesimo degli eretici). A Roma, il presbitero Novaziano si mostrò particolarmente rigido nel rifiutare il perdono agli apostati e venne in conflitto con papa Cornelio (251253)־, che usò invece clemenza verso di essi. Novaziano, che era un teologo dotto e assai stimato, acuì il contrasto di opinioni fino a provocare uno scisma nella chiesa romana, poiché si fece consacrare anti-vescovo e fondò una sua pròpria chiesa. Richiamandosi a un severo ideale di santità, Novaziano sostenne idee rigoristiche sulla prassi penitenziale e accusò la chiesa ‘cattolica’ di papa Cornelio di rilassatezza e di tradimento della fede. I suoi seguaci presero abbastanza presto il nome di ‘puri’ (in greco katharói)\ nel 251 un sinodo, che riunì a Roma 60 vescovi, li escluse dalla comunità ecclesiastica. Nonostante ciò, essi sopravvissero fino al IV secolo e il loro rigorismo li spinse più tardi a escludere dalla loro comunità, che era considerata la ‘chiesa dei santi’, tutti coloro che fossero in peccato mortale. Anche a Cartagine e ad Alessandria si vissero tensioni analoghe. I vescovi Cipriano e Dionisio si adoperarono intensamente per giungere a una ragionevole e pacifica soluzione del problema (Cipriano scrisse in quell’occasione, nel 251, il suo De lapsis); non riuscirono tuttavia a impedire che, sotto la guida di un certo Novato, si formasse anche in Africa una chiesa separata rigorista, che ben presto si mise in contatto con quella romana di Novaziano. Il rigorismo fanatico, come è noto, è sempre stato la caratteristica principale di tutte le eresie e di tutte le sètte. Nel difendersi da queste tendenze rigoristiche e restrittive, che si presentavano manifestando l’esigenza di una devozione e di una santità particolari, la chiesa ha sempre conservato la sua cattolicità, adempiendo integralmente al mandato di Cristo: portare agli uomini tutti (kat’hólon), e non solo a una piecola setta (hàiresis) di prescelti e di santi, la salvezza divina. Dopo la precoce morte di Decio, che nel 251 cadde combattendo contro i goti, i suoi successori Gallo (251253 )־e Valeriano (253־
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260) ripresero la persecuzione, ma almeno in un primo momento con minor forza del predecessore. Papa Cornelio fu esiliato a Cen־ tumcellae (Civitavecchia), dove morì poco dopo; anche al suo suecessore Lucio (253254 )־toccò la stessa sorte. Nel 257, tuttavia, si ebbe un nuovo rigurgito d'odio contro i cristiani e una ripresa delle persecuzioni, soprattutto sotto la spinta della penosa situazione esterna e interna in cui versava Pimpero (guerre ai confini, epidemie, carestie). Valeriano procedette secondo un piano ben preciso. Un primo editto, dell’anno 257, colpì il clero: tutti i vescovi, i presbiteri e i diaconi dovevano sacrificare agli dèi. Chi di loro avesse ancora partecipato ai servizi religiosi cristiani o alle adunanze segrete nei cimiteri o nelle catacombe sarebbe stato punito con la morte. Nell’Africa settentrionale e in Egitto gli insigni vescovi Ci־ priano di Cartagine e Dionisio di Alessandria furono chiusi in carcere e molti cristiani furono condannati ai lavori forzati nelle miniere. Un secondo editto, del 258, ordinò l’esecuzione capitale immediata di tutti quei chierici che si fossero rifiutati di sacrificare agli dèi. I cristiani che facevano parte del senato e della classe dei cavalieri furono degradati e quando rifiutarono di sacrificare si videro confiscare i loro beni e furono condannati a morte. I cristiani impiegati alla corte e coloro che servivano al palazzo imperiale, i cosiddetti caesariani, vennero torturati e inviati ai lavori forzati, oppure giustiziati. Tutte le chiese cristiane e i cimiteri dovevano essere confiscati o distrutti. Il sangue corse a fiumi. A Cartagine fu martirizzato Cipriano. Ci sono pervenuti gli autentici atti statali del suo processo. La sentenza dice testualmente: Sei vissuto a lungo facendo professione di empietà e riunendo intorno a te moltissimi uomini (Puna setta pericolosa, ti sei dichiarato nemico degli dei di Roma e delle cerimonie religiose, né i pii e sacratissimi prìncipi Valeriano e Gallo Augusti e Valeriano, nobilissimo Cesare, poterono indurti ad aderire alla pratica della loro religione. E poiché tu sei autore e istigatore di tali colpe nequissime, sarai di esempio a coloro che hai unito a te nel tuo delitto; con il tuo sangue sarà sancito il vigore delle leggi. Pronunciate queste parole (il proconsole Galerio Massimo) lesse sulla tavoletta la condanna di morte: “Ordino che Tascio Cipriano sia decapitato” {Acta proconsularia Cypriani IV, 1-2).
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A Roma, in quello stesso periodo, furono martirizzati papa Sisto II con i suoi diaconi - fra i quali Lorenzo - e i suoi sacerdoti. Ovunque uomini e donne, sacerdoti e laici furono giustiziati in gran numero. La drastica epurazione avvenuta sotto Decio fece sì che il numero degli apostati e dei pavidi diminuisse ampiamente. La chiesa cristiana offrì un esempio di armoniosa forza interiore, come mai aveva fatto prima di allora. E forse fu proprio questo uno dei motivi che, dopo la disfatta di Valeriano nella guerra persiana e la sua morte in prigionia, persuase il figlio e successore Gallieno (260-268) a ritirare gli editti di persecuzione. Seguì per i cristiani una pausa di quarantanni, senza persecuzioni. Ma fu un periodo di una calma che preludeva all’ultima e più terribile tempesta. L’imperatore Diocleziano (284305)־, l’abile e solerte restaurato-, re dell’impero romano, aveva sopportato a lungo il cristianesimo anche nella cerchia più intima dei familiari: sua moglie Prisca e sua figlia Valeria erano, infatti, da tutti considerate cristiane, ma nel 303 improvvisamente avviò la più sanguinosa delle persecuzioni. Essa fu la lotta decisiva fra il cristianesimo e l’impero romano e terminò con la vittoria del cristianesimo, con Costantino il Grande. La persecuzione ebbe inizio con un editto imperiale del 23 febbraio 303, che ordinava la distruzione di tutte le chiese, esigeva che tutti i libri sacri fossero consegnati e arsi e proibiva le riunioni liturgiche. Tutti i funzionari cristiani furono licenziati e coloro che servivano alla corte imperiale, i cesariani, e professavano la stessa fede furono degradati, senza tenere il minimo conto del loro rango e, poco dopo, accusati di incendio doloso nel palazzo imperiale, furono atrocemente torturati e uccisi. I sacerdoti e i diaconi di Nicomedia, città ove risiedeva l’imperatore, furono giustiziati insieme al loro vescovo Antimo. Due ulteriori editti estesero la persecuzione a tutti i chierici dell’impero e ordinarono la loro immediata cattura, la tortura e la morte. Un quarto editto, della primavera del 304, conteneva un preciso ordine, che obbligava tutti indistintamente a sacrificare agli dèi nell’intero impero: il terrore della persecuzione si estese così a tutta la popolazione cristiana. Si cercava, era ovvio, di sterminare totalmente il cristianesimo. L’autore di quest’ultimo editto fu probabilmente lo stesso cesare Galerio.
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L’attuazione dei quattro editti assunse forme diverse nell’impe־ ro. In Occidente, sotto l’augusto Massimiano e il cesare Costanzo Cloro, non ebbe carattere di particolare gravità e, già nel 305, la persecuzione poteva dirsi in gran parte terminata, dopo che gli augusti Diocleziano e Massimiano furono deposti dal governo. Ma in Oriente, invece, essa toccò, negli anni che vanno dal 305 al 311, il suo punto culminante sotto Galerio, divenuto allora augusto, e sotto Massimino Daja, nuovo cesare. Non solo il numero dei martiri fu altissimo, ma anche le atrocità commesse furono particolarmente brutali e inumane. Ma, infine, Galerio fu costretto a ricono־ scere l’inutilità della sua lotta e, minato da una grave malattia, sospese la persecuzione. Nell’aprile del 311, dalla sua residenza di Sardica, l’imperatore pubblicò il celebre editto di tolleranza, che concedeva finalmente al cristianesimo l’autorizzazione a esistere e che concludeva con la famosa frase: «... permettiamo che vi siano di nuovo cristiani [ut denuo sint christiani]». Massimino Daja, tuttavia, continuò per qualche tempo, in Oriente, a perseguitare i cristiani, ma la sua attività fu sospesa dagli avvenimenti politici del periodo successivo che, con la vittoria di Costantino, segnarono anche la vittoria del cristianesimo nell’impero romano.
Da Costantino il Grande a Gregorio Magno (312-604)
§ 9. La svolta costantiniana L’atteggiamento favorevole assunto da Costantino verso il cristianesimo provocò un profondo mutamento nel corso degli eventi. Esso fu un fatto storico d’importanza mondiale che dette inizio, non solo per lo stato romano, ma anche per la chiesa, a un’epoca completamente nuova.
1. Passaggio di Costantino al cristianesimo Costantino, figlio di Costanzo Cloro e di Elena, nacque nell’anno 285 a Naissus (l’attuale Nis, in Serbia) e trascorse la sua giovinezza alla corte di Diocleziano, a Nicomedia. Quando questuitimo, il 1° maggio 305, annunciò dinanzi all’esercito riunito la sua abdicazione, Costantino si trovava sulla tribuna accanto a lui, e non solo egli stesso, ma anche i soldati che lo amavano, si aspettavano che il vecchio imperatore avrebbe nominato lui cesare e suo padre primo augusto. Diocleziano, invece, ignorò totalmente Costarnino e non elesse alla carica imperiale neppure Costanzo, bensì il più giovane Galerio. Costanzo venne eletto solo secondo augusto e Massimino Daja e Severo, due parenti, particolarmente nelle grazie di Galerio, furono nominati Cesari. Scontento per queste decisioni imperiali, Costantino fuggì da Nicomedia e si trasferì in Gallia, presso suo padre. Ma quando, l’anno dopo, Costanzo Cloro morì, le truppe in Britannia, il 25 luglio 306, proclamarono impe-
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ratore Costantino. Questi, negli anni che seguirono, riuscì a imporsi in Occidente, con abili manovre politiche, giocando d’astuzia e facendo leva sulla forza militare. Nella primavera del 312, dopo la morte di Galerio, Costantino, con un’impresa audacissima, varcò le Alpi per cacciare Massenzio dall’Italia e conquistare Roma. A Ponte Milvio, presso Roma, si scontrò con il nemico, militarmente assai più forte. Durante il corso della diffìcile battaglia, il cui esito appariva incerto, Costantino si rivolse per avere aiuto al Dio dei cristiani; una visione notturna, nella quale egli scorse una croce nel cielo con l’iscrizione: «Con questo vincerai», lo rassicurò. Successivamente, quando il 28 ottobre 312 riportò la sua brillante vittoria sulle truppe di Massenzio, questo successo gli apparve come una prova della potenza di Cristo e della superiorità della religione cristiana. Molte volte questa specie di ‘conversione’ di Costantino è stata considerata una manovra puramente politica, alla quale non avrebbe corrisposto nessun intimo cambiamento di volontà e, a prova di ciò, si usa citare il fatto che durante il suo intero periodo di governo (306-337) il figlio di Costanzo Cloro non dichiarò mai guerra aperta al paganesimo, ma mostrò invece verso di esso la più ampia tolleranza. Si fa anche notare che Costantino ricevette il battesimo cristiano soltanto sul letto di morte. La ricerca storica contemporanea giudica la ‘conversione’ dell’imperatore in modo molto più positivo e, pur non attribuendo importanza decisiva agli avvenimenti del 312, considera tuttavia questi ultimi come una svolta effettiva e interiore nella vita di Costantino. Si tende poi a porre in rilievo come l’imperatore, seguace al pari di suo padre del culto solare monoteistico, fosse già da molto tempo preparato al cristianesimo e che, nella sua vittoria, egli abbia veduto in primo luogo la conferma della giustezza del suo rivolgersi al monoteismo, la cui forma più alta gli parve espressa appunto dalla fede cristiana. Conseguentemente, a partire dal 312, Costantino si professò personalmente cristiano e favorì il cristianesimo in ogni modo, pur mantenendo ancora intatti sia il culto di stato pagano che gli altri culti. Così, nel 313 Costantino, insieme a Licinio, stese a Milano il programma di tolleranza e lo inviò, in forma di rescritto (e non di editto!), ai proconsoli statali delle province orientali. In
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questo rescritto fu riconosciuta al cristianesimo, in tutto l'impero, completa equiparazione di diritti con le altre religioni. Inoltre Costantino, immediatamente dopo la sua vittoria su Massenzio, si era deciso a dare alle sue truppe una bandiera con la croce (labarum) e a far porre sugli scudi dei suoi soldati il monogramma di Cristo come segno di vittoria, !.,imperatore si mostrò molto interessato agli affari interni della chiesa e quando, nel 311, la setta rigoristica del donatismo - così chiamata dal suo fondatore Donato (t intorno al 355) - provocò uno scisma in Africa settentrionale, intervenne personalmente. Un sinodo, riunitosi a Roma (313), fu incaricato di indagare sul caso e, Tanno seguente, Pimperatore convocò un concilio ad Arles (314), in cui, per la prima volta, tutte le pròvince occidentali furono rappresentate dai rispettivi vescovi. E, visto che i donatisti non volevano piegarsi alle decisioni conciliari, Costantino, per ristabilire nuovamente Punità in terra d’Africa, non esitò a mettere in moto persino la forza delle armi. Dal 312 in poi Costantino favorì apertamente il cristianesimo. Egli concesse agli ecclesiastici Pimmunità, vale a dire la medesima esenzione dagli oneri pubblici personali, di cui godevano anche gli addetti al culto pagano (312/313), ordinò !,abolizione della crocifissione (315), autorizzò la chiesa ad accettare lasciti (321) e, nello stesso anno, stabilì per legge che la domenica fosse considerata giorno festivo. Nel 319 (o nel 321) furono proibite Paruspicina (cioè Pesame delle viscere delle vittime per interpretare la volontà divina e il futuro, pratica largamente in uso presso i pagani) e alcuni altri culti immorali, e furono anche soppresse le lotte dei gladiatori, come punizione per i criminali. Uedificazione di stupende chiese sottolineò il riconoscimento pubblico tributato dall'imperatore al cristianesimo: nel 313 egli fece dono al papa del palazzo Laterano e iniziò la costruzione della basilica lateranense; nel 320 fondò, sulla tomba di Pietro sul colle Vaticano, nel centro di una necropoli pagana della Via Cornelia, la chiesa di S. Pietro; presto seguirono le costruzioni della basilica sul S. Sepolcro a Gerusalemme; poi, a Bedemme, della chiesa della Natività (edificata per volontà della madre Elena), della duplice chiesa del palazzo imperiale a Treviri, e di altre basiliche. Nel 330 fondò Costantinopoli, che elesse come sua nuova residenza cristiana, poiché Roma, a causa del suo accentuato
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carattere pagano, non gli era più gradita. Tutto questo accadde anche se Costantino continuò a essere sempre il pontifex maximus del culto di stato pagano. Poco dopo il 312 !,imperatore chiamò a far parte del suo am־ biente anche alcuni vescovi cristiani (il vescovo Ossio di Cordova, Eusebio di Cesarea, il noto storico della chiesa, e altri). L’imperatore concesse ai vescovi del suo impero pieni poteri di giurisdizione e si adoperò attivamente a perseguire con leggi !,inserimento della chiesa nello stato. Dopo la vittoria su Licinio, imperatore d’Oriente (nel 324, a Crisopoli), Costantino ordinò senza ambagi alla parte orientale del regno - quella recentemente acquisita - l’adozione del cristianesimo. Egli aveva condotto quest’ultima lotta per la sovranità universale quasi si trattasse di una guerra di religione contro Licinio, reo di perseguitare ancora il cristianesimo. Il cristianesimo universale, secondo l’idea imperiale, doveva diventare, infatti, la base per l’impero universale. A Costantino premeva soprattutto la reintegrazione dell’unità della chiesa, che invece proprio allora appariva minacciata da gravissimi scismi (i donatisti nell’Africa settentrionale, i meleziani e gli ariani in Egitto) e per attuare questo suo disegno l’imperatore convocò, nel 325, i vescovi di tutto l’impero (= ecumene) per un concilio generale a Nicea, il primo concilio ‘ecumenico’, cui fu affidato il compito di dirimere ogni dissenso. Nella sua qualità di «vescovo di coloro che sono fuori [eptskopos tòn ektós]» l’imperatore si sentiva pienamente corresponsabile della vita della chiesa. Egli rivendicò persino un ruolo di guida intellettuale e spirituale nella chiesa cristiana, che gli spettava per la sua carica dì pontifex maximus del culto pagano, si intromise direttamente nelle decisioni per l’assegnazione delle sedi episcopali e influenzò anche i lavori dei sinodi. Anche nella vita privata l’imperatore non nascose mai i suoi sentimenti cristiani, fece educare i suoi figli cristianamente e condusse egli stesso una vita familiare cristiana. Costantino morì a Pentecoste dell’anno 337. Il vescovo ariano Eusebio di Nicomedia, poco prima della morte, lo aveva battezzato. In Oriente egli è venerato come un santo ed è chiamato «eguale agli apostoli» e «tredicesimo apostolo».
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2. La fondazione della chiesa imperiale È diffìcile oggi comprendere esattamente che cosa abbia significato per la chiesa questo mutamento, avvenuto al vertice stesso del potere secolare. Fino all’epoca di Costantino essa era stata sempre osteggiata, perseguitata e oppressa; ora, d’improvviso, veniva favorita, privilegiata e viziata dallo stesso stato. Si vedeva posta di fronte a una situazione completamente nuova. L’imperatore, scavalcando il paganesimo, aveva immesso il cristianesimo nell’ambito statale e aveva avviato in modo tanto deciso la cristianizzazione della vita pubblica da apparire quasi l’iniziatore di un nuovo mondo cristiano. L’impero romano, sotto la guida di Costantino, imperatore cristiano, acquisì una funzione del tutto nuova. Già ai primi apologisti era accaduto, seppur incidentalmente, di esprimere l’idea che la chiesa cristiana, per volontà divina, aveva potuto proclamare il suo messaggio di salvezza proprio nel momento storico in cui il mondo aveva raggiunto, grazie all’imperium romanum, la sua unità politica, economica e culturale. L’impero romano aveva dunque provvidenzialmente avuto il compito di preparare al cristianesimo le vie su cui si sarebbe poi attuata la sua missione di salvezza. Di fatto, Roma aveva piegato a sé e riconciliato nella pax romana i molti stati vicendevolmente ostili ed era riuscita a raccogliere le innumerevoli divinità e i culti nazionali nell’universale culto di stato romano, anticipando in tal modo il monoteismo universale. Questo scopo sembrava ora raggiunto nell’impero di Costantino, in cui erano ormai pienamente maturate tutte quelle condizioni necessarie che potevano condurre a una cristianizzazione del mondo. L’antico sogno, tanto accarezzato, di «ricondurre il mondo a Cristo» sembrava quasi che potesse tradursi in atto. Lo storico della chiesa Eusebio di Cesarea non manifestava perciò soltanto la sua isolata opinione personale, ma esprimeva invece il pensiero della maggioranza degli altri vescovi e dei cristiani a lui contemporanei, quando, nella sua Vita Constantini (cap. 46), raffigurava l’imperatore come il sovrano cristiano ideale e vedeva fiorire con lui una nuova epoca di salvezza per la chiesa. A lui dobbiamo la grandiosa e suggestiva descrizione di un singolare awenimento storico: il 25 luglio 325 Costantino offrì, in occasione della
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chiusura del concilio di Nicea, un solenne banchetto ai vescovi riuniti. Proprio allora !,imperatore celebrava il suo ventesimo anniversario di regno e, scrive Eusebio: «Non un solo vescovo mancò alla mensa dell’imperatore»; e continua poi con visibile entusiasmo: «Non è possibile descrivere ciò che allora accadde. Le guardie del corpo e i soldati, disposti a cerchio, vigilavano - le spade sguainate - il vestibolo del palazzo imperiale e, in mezzo a loro, gli uomini di Dio (cioè i vescovi) avanzarono senza alcun timore fino alle parti più interne del palazzo imperiale. Alcuni dei vescovi si assisero a mensa sullo stesso stibadio dell’imperatore, altri sedettero invece sugli stibadi posti ai due lati. Si sarebbe quasi potuto pensare di assistere a una visione del regno di Cristo e che tutto fosse solo un sogno e non viva realtà» (Vita Consfantini HI, 15). La chiesa, ora che era illuminata dal sole imperiale, poteva adempiere al suo compito con maggiore facilità. La cristianità, fino a poco tempo prima minacciata nella sua stessa esistenza dalla più terribile e ultima persecuzione dello stato e che rappresentava numericamente ancora un’esigua minoranza, si trovò d’improvviso, grazie alla nuova alleanza con l’impero, in condizione di poter pròclamare pubblicamente la sua fede, di celebrare apertamente il suo culto e drfar valere i suoi princìpi di vita. Le masse affluirono nella chiesa e la loro presenza e l’assistenza spirituale di cui necessitavano richiesero forme di organizzazione e metodi pastorali del tutto nuovi. L’organizzazione esterna e interna del catecumenato, le nuove esigenze della predicazione e dell’istruzione cristiana, lo sviluppo liturgico del culto e i contrasti con il paganesimo, ancora in vigore, fornirono preziose indicazioni alla teologia cristiana. Non si può affermare, infatti, che le persone che desideravano ora abbracciare il cristianesimo avessero perduto ogni reale interesse religioso e avessero trovato la via della chiesa sospinti soltanto da opportunismo politico. Al contrario, a causa delle persecuzioni il problema religioso era divenuto, per il paganesimo e il cristianesimo, una scelta tra l’essere e il non-essere. H problema religioso nel periodo costantiniano fu veramente la questione più inquietante dell’epoca e tale restò ancora per lungo tempo. La decisione radicale dell’imperatore a favore del cristianesimo generò discussioni appassionate ed essa fu tanto violentemente criticata nei centri più
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importanti del paganesimo, a Roma e ad Atene, quanto fu approvata favorevolmente dalla chiesa cristiana. E chi mai potrà biasimare i vescovi di quel tempo religiosamente agitato per essersi serviti volentieri dell’aiuto dello stato? Il fatto che delle disposizioni ecclesiali, che proprio allora furono elaborate con maggiore energia, trovassero anche approvazione da parte dello stato e, se necessario, fossero appoggiate nella loro esecuzione anche dal ‘braccio secolare’, non poteva che essere accolto con animo grato dai vescovi della chiesa. Ben presto i decreti conciliari furono promulgati come leggi dell’impero e per ciò stesso inseriti nella vita politica. I figli di Costantino continuarono a seguire l’indirizzo paterno. Costanzo II (337361)־, già fin dal 341, aveva combattuto le superstizioni e i sacrifici pagani e, nel 346, insieme al fratello Costante (337350)־, ordinò con maggior vigore la chiusura dei templi pagani. Tuttavia, durante il regno di Giuliano l ’Aposta־ ta’ (361363)־, si ebbe un duro contraccolpo in senso anti-cristiano: l’imperatore abiurò la fede cristiana e cercò di far rivivere il paganesimo. Ma già il suo successore, Gioviano (363364)־, restituì alla chiesa una posizione privilegiata nel regno. L’imperatore Graziano (375383)־, nella parte occidentale dell’impero, e Teodosio (379־ 394), in quella orientale, elevarono infine il cristianesimo a religio־ ne privilegiata dell’impero romano (391). Nell’anno 380 un editto imperiale fece obbligo a tutti i sudditi di accettare quella religione «che il santo apostolo Pietro aveva tramandato ai romani e che il papa Damaso (a Roma) e il vescovo Alessandro (ad Alessandria) seguivano». La conversione al paganesimo fu proibita e punita per legge, nel 381, e anche il senato romano, che era stato fino ad allora un baluardo dell’antico culto di stato, fu costretto, l’anno seguente, ad abiurare la fede negli dèi. Nel 392 un decreto imperiale dichiarò delitto di lesa maestà la partecipazione al rito pagano di sacrifìcio nei templi e dal 394 vennero proibiti i giochi olimpici (tenuti per l’ultima volta nel 393). Da allora in poi il paganesimo scomparve rapidamente dalla vita pubblica. Il cristianesimo era ormai diventato una religione di stato e la chiesa una chiesa dell’impero. Si era voltata pagina.
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3. La problematica della svolta Fu giusto per la chiesa l’avere stretto quest’alleanza con lo sta to? È una domanda che solleva un’antichissima e difficile problematica, che non si è quietata neppure ai nostri giorni. Già i contemporanei avevano dato risposte diverse. Alcuni considerarono la cristianizzazione dello stato come un fatto positivo e manifestarono gratitudine e gioia per quanto era accaduto (Eusebio di Cesarea), altri invece espressero timori per il pericolo di ‘secolarizzazione’ della chiesa. Nella letteratura riformista del Medioevo l'ecclesia primitiva pre-costantiniana apparve come il modello ideale per ecceUenza. Semplicità apostolica, ideale di povertà e distacco dal mondo ne erano state le note caratteristiche e a queste la chiesa doveva ritornare. Questa esigenza fu sentita particolarmente dai movimenti religiosi dell’xi e XII secolo. Gioacchino da Fiore (t 1202) e i francescani spirituali del XIII e XIV secolo videro nella vita della chiesa, da Costantino in poi, solo un progressivo decadimento. Lutero, da parte sua, ritenne in seguito che l’unico responsabile di questa decadenza fosse il papato. Da allora in poi, la cosiddetta ‘teoria della decadenza’ dominò la storiografia protestante e questa interpretazione continuò a sussistere a lungo, anche se il giudizio variò su alcuni punti particolari. L’Illuminismo, infine, vide la fonte di tutti i mali nella sete di potere del clero, che, fin dalla cessazione delle persecuzioni, cominciò a deliziarsi della benevolenza imperiale, decadendo sempre più per la sua smodata brama di dominio fino a sacrificare la purezza della dottrina evangelica ai propri interessi egoistici. La chiesa dell’impero post-costantiniano si sarebbe lasciata plasmare di buon grado dall’apparato della potenza statale, smarrendo la sua vera vocazione originaria e perpetrando così una grave ingiustizia verso Yevangelium Christi. Nel XIX e XX secolo l’esegesi storica divergeva solo nello stabilire quando avesse avuto veramente inizio questa involuzione storica: il decadimento era cominciato già alla fine dell’epoca apostolica, con P‘ellenizzazione’ del cristianesimo operato dagli apologisti dei primi tempi cristiani, oppure soltanto all’epoca costantiniana? Si era comunque d’accordo nel ritenere che il successivo corso storico della chiesa cattolica fosse stato solo un’involuzione, un’interpre
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tazione erronea della volontà di Cristo e una deviazione dall’unico ideale proto-cristiano veramente valido. I rimproveri più pesanti furono sempre rivolti contro Costantino. Il fatto che egli avesse liberato il cristianesimo dalla persecuzione e lo avesse inserito nello stato era considerato un dono piuttosto sospetto. Non è certo possibile negare che, sotto molti aspetti, la persona e il comportamento dell’imperatore destano ancora oggi molti interrogativi. Per quanto amasse definirsi ‘co-episcopo’ e si mostrasse accondiscendente, come nel caso del banchetto solenne offerto a Nicea, egli non cessò mai di essere l’imperatore. Costantino cominciò, infatti, molto presto a esercitare la sua autorità sui vescovi, come fossero suoi impiegati, e a esigere assoluta obbedienza agli ordinamenti statali, anche quando questi invadevano indebitamente il campo del governo interno della chiesa. Atanasio, il grande vescovo di Alessandria e il tenace oppositore dell’arianesimo, incorse nel 335 nella scomunica imperiale, quando, nonostante l’ordine di Costantino, egli si rifiutò di accogliere Ario, il divulgatore delle dottrine eretiche, e i suoi seguaci, nella comunità ecclesiastica. L’imperatore Costanzo, in seguito, intervenne ancora più duramente nella vita interna della chiesa. Nel cristianesimo di Costantino appaiono problematiche soprattutto la mancanza di profondità teologica e la motivazione della sua fede religiosa. Con tutta probabilità egli non riuscì mai a cogliere veramente il significato del mistero cristiano di salvezza. All’inizio dei disordini ariani, nel 324, egli scrisse ai due maggiori esponenti del conflitto teologico, ad Ario e al vescovo Alessandro d’Alessandria, queste parole per riconciliarli: «Ho meditato sull’origine e sull’oggetto della vostra controversia e sono venuto alla conclusione che si tratti solo di una bagatella. In nessun caso appare giustificabile per il vostro problema un contrasto di questo genere». Costantino, come si vede, non comprese affatto che l’attacco di Ario alla divinità di Cristo era un attentato all’esistenza stessa del cristianesimo e che esso metteva in questione tutta la dottrina della redenzione. Neppure per un attimo egli si rese conto che «nella situazione spirituale di quel tempo non esisteva problema più inquietante per i cristiani e più significativo per i dotti del paganesi
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mo», quale fu appunto la questione ariana, che riguardava l’essenza eterna del Logos divino divenuto uomo e disceso in questo mondo per liberare gli uomini e riconciliarli con Dio. Con l’introduzione del suo demiurgo (semidio) Ario aveva negato l’essenza stessa del cristianesimo e, così facendo, non aveva abolito soltanto il monoteismo, ma aveva anche adulterato la religione cristiana, ponendola sullo stesso piano dei culti pagani e misterici. «In un momento storico d’importanza mondiale, quando ormai la filosofia antica aveva detto la sua ultima parola con il neo-platonismo» e ogni desiderio umano era teso alla redenzione recata da Cristo, Lògos di Dio, che si era incarnato, pur conservando la sua divinità, l’ariane־ simo significava ricadere di nuovo nel paganesimo. Costantino non aveva neppure immaginato l’importanza di tutto questo. E, tuttavia, fu proprio l’imperatore che al concilio di Nicea del 325 ebbe una parte decisiva e si sentì qualificato a decidere su una questione di fede di sì grande importanza. Fu Costantino, infatti, che per la prima volta dette vigore di legge alla decisione del concilio di scomunicare Ario e i suoi seguaci, che furono colpiti dall’interdetto statale ed esiliati. È vero che, pochi anni dopo, egli richiese, forte della stessa autorità, che Ario fosse riammesso nella chiesa e, questa volta, esiliò Atanasio a Treviri, poiché questi non si era voluto piegare al volere imperiale. Dovevano trascorrere solo pochi decenni e la continua intromissione dello stato in questioni di ordine religioso, che era iniziata con Costarnino, portò a un vero e proprio auto da fé statale. Nel gennaio del 385, a Treviri, l’usurpatore imperiale Massimo (383-388) fece giustiziare il nobile laico spagnolo Priscilliano, fondatore di un movimento ascetico in Spagna e in Gallia, insieme a sei suoi compagni. All’origine di tale decisione stavano intrighi politici. I principali rappresentanti della chiesa, i vescovi Martino di Tours, Ambrogio di Milano e il papa Sbricio a Roma condannarono vigorosamente questa azione orrenda. Martino, soprattutto, fece il possibile per impedirla. Ma, purtroppo, si intromisero nella questione anche alcuni vescovi, e primo fra tutti Itacio di Ossonova, assetato di persecuzione. Ebbe inizio così uno dei capitoli più tristi della storia della chiesa, proprio per la funesta e ambigua collusione di politica e religione.
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In questa iniziale simbiosi fra stato e chiesa, problematica appariva soprattutto la posizione di quest’ultima. L’improvviso e inatteso avvenimento della conversione di Costantino favorì il primo incontro positivo fra la chiesa e l’impero romano, e suscitò in molti cristiani l’idea che la chiesa dovesse mettersi docilmente a disposizione dello stato e che fosse tenuta a collaborare completamente alle attività di quest’ultimo. L’ebbrezza generale di trionfalismo che si era impadronita di vasti ambienti della chiesa fece sì che il distacco dal mondo si trasformasse fin troppo rapidamente in un ottimismo culturale, fin troppo aperto al ‘secolo’. Sembrò quasi che fosse giunto il momento giusto, voluto da Dio, di permeare, secondo il mandato missionario di Cristo, tutta la vita pubblica con lo spirito cristiano. Costantino stesso sembrava invitare a ciò, quando conferì ai vescovi e ai sacerdoti diritti e pieni poteri e colmò la chiesa di onori. Agli uomini di chiesa mancava poi del tutto l’esperienza di fronte al potere statale. In tempo di persecuzione essi avevano saputo opporre resistenza allo stato ostile, e con suecesso, ma erano del tutto impreparati ad affrontare il tempo favorevole, e dovevano ancora sperimentare che in certi casi questuitimo può essere ancora più dannoso del primo. I pericoli erano indubbiamente gravi. Le masse, che ora affluìvano nella chiesa favorita dallo stato, posero quest’ultima di fronte a compiti del tutto nuovi. Si passò rapidamente da una chiesa di élite, nella quale avevano finora trovato accesso solo fedeli profondamente convinti e disposti persino ad affrontare il martirio, a una chiesa delle moltitudini, nella quale penetrarono anche uomini politici ambiziosi, e spiriti privi di un vero interesse religioso e in gran parte dediti ancora al paganesimo. Il pericolo che si profilava non veniva solo da possibili slittamenti nella superficialità religiosa, nella superstizione e nel paganesimo; ben più grave appariva la minaccia di secolarizzazione e di asservimento della religione a fini esclusivamente politici. La chiesa cadde veramente in preda a tali pericoli? Una risposta può essere data solo con grande prudenza, stabilendo precise distinzioni. Innanzitutto è necessario tener conto della situazione immensamente complessa del tempo. Le facili frasi a effetto giovano assai poco. Solo un osservatore superficiale e
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un critico prevenuto e privo del tutto di senso storico può accusare la chiesa d’infedeltà rispetto alla sua originaria vocazione e affer־ mare che essa ha esercitato un «potere senza mandato»; né, a rigore, è lecito affermare che Cristo non le abbia mai affidato alcuna funzione politica temporale nella società, e che il Nuovo Testamento escluda «ogni forma di aiuto da parte della sovranità politica per la diffusione del messaggio cristiano» (Rudolf Hemegger). Se si crede veramente all’incarnazione e se si riconosce la chiesa come continuatrice della vita di Gesù, per l’adempimento della sua opera di redenzione verso gli uomini di ogni epoca, popolo e cuitura, non si può affermare che l’ideale della vita ecclesiale stia stabilmente in forme fissate fin dall’inizio, una volta per tutte, ma si deve lasciare invece libero spazio a un reale svolgimento storico. Alla chiesa è propria una storicità autentica; essa non vive al di fuori del tempo, in un modo, per così dire, astratto, ma si immerge nel tempo e, in esso, si temporalizza. Ciò non avviene tuttavia in un modo tale per cui la chiesa debba, di fatto, confondersi o identificarsi con un’epoca qualsiasi. La chiesa, infatti, non può essere circoscritta da nessuna epoca: né dall’epoca del cristianesimo primitivo, né da quella delle persecuzioni, né dall’era costantiniana e neppure dal periodo della cultura greco-ellenistica. La chiesa, di per sé, è neutrale dinanzi alle diverse culture, il che non significa affatto che essa sia indifferente di fronte alle medesime: al contrario, essa si pone accanto a ogni cultura, con animo aperto e in vicinanza di cuore. H suo compito è, infatti, quello di portare Cristo a ogni epoca e a ogni cultura e d’imprimervi la sua forma divina. La chiesa deve quindi mantenersi sempre in giusto equilibrio fra il distacco dal mondo e l’amore per il mondo, ed essa si realizza completamente solo nell’adempiere il mandato che Cristo le ha conferito fin dal principio. È su questo mandato che va commisurato il contenuto evangelico cristiano di un’epoca. In questo spazio ideale, equidistante tanto dalla fuga dal mondo quanto dall’asservimento al mondo, vi è posto, in seno alla chiesa, per santi e per peccatori, per vittorie e per sconfitte. E come sarebbe anti-scientifico e anti-teologico negare o ignorare i lati negativi propri di un determinato periodo, sarebbe altrettanto anti-storico e anti-scientifico contestare, in questo stesso periodo, l’esistenza di aspetti po
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sitivi. Solo un accecamento stolto e volontario può quindi portarci ad «affermare la condanna globale, peraltro impossibile dal punto di vista scientifico, della storia della chiesa post-costantiniana e, in modo particolare, dell’epoca ‘papale’ medioevale» (Joseph Lortz). Lo slancio missionario, la passione con cui furono affrontati e risolti problemi religiosi e teologici, e soprattutto lo sviluppo assunto dal monacheSimo e il grande numero dei santi di questo periodo, conferiscono al tempo post-costantiniano, nonostante le sue molteplici debolezze e pericoli, i caratteri di una grande epoca della storia della chiesa, piena di dinamismo e di vero spirito cristiano.
§ 10. Le lotte dogmatiche e i concili generali in Oriente Proprio nel momento in cui Costantino decise di stabilire la chiesa cattolica cristiana a fondamento del suo impero universale, fu costretto a constatare che questa chiesa non era affatto così unita e compatta come egli aveva invece creduto. Essa era infatti coinvolta in diffìcili lotte interne e, proprio in quel periodo, terribilmente lacerata. H donatismo in Africa settentrionale, lo scisma di Melezio in Egitto e, infine, le eresie dell’arianesimo avevano diviso la cristianità. Esistevano poi altre questioni ancora irrisolte e pròblemi teologici che attendevano ed esigevano risposta. Non appena Costantino divenne sovrano assoluto (324), concepì il disegno di un concilio per ristabilire l’unità ed eliminare tutte le difficoltà. Tre grandi tematiche formarono allora oggetto di discussione teologica e il loro studio si protrarrà ancora per tre secoli: la dottrina della Trinità, la cristologia e la dottrina della giustificazione. Quest’ultima avrebbe impegnato soprattutto l’Occidente.
1. La dottrina della Trinità Nella dottrina della Trinità si trattava di meditare più da vicino l’intima relazione che esisteva fra il Padre e il Figlio, e di illuminar
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la alla luce della rivelazione. La sacra Scrittura parla, infatti, soltanto del mistero trinitario, senza offrire ulteriori spiegazioni. Il pròblema dogmatico stava nel fatto che se, da un lato, ci si atteneva al più rigoroso monoteismo e all’unità (monarchia) di Dio, dall’altro lato si adorava anche Cristo come Dio accanto al Padre: questa difScolta tuttavia, nei primi tempi della chiesa, non fu mai chiaramente avvertita. Solo con gli apologisti e i primi Padri cristiani la questione cristologica divenne oggetto di riflessione. La dottrina del Lògos non risolse il problema, ma lo rese ancora più acuto e ora, di fronte alle false speculazioni degli gnostici, che con le loro teorie degli eoni e dei demiurghi abbassavano il Lògos a creatura, si rendeva necessario accordare la divinità di Cristo con l’unità di Dio. Si formarono così i due orientamenti ‘monarchiani’: l’adozionismo e il modalismo, che si svilupparono alla fine del חsecolo. Gli adozionisti consideravano Cristo come un puro e semplice uomo, il quale a un certo momento (quando fu battezzato nel Giordano), fu riempito da una forza o potenza divina, divinizzato da questa e, in tal modo, ‘adottato’ da Dio. Soltanto il Padre, dunque, è Dio per essenza e origine. Cristo è soltanto un Dio ‘adottato’. I modalisti, invece, vedevano in Cristo solo un modo di manifestarsi {modus) del solo e unico Dio, il quale si rivela e opera una volta come Padre, un’altra come Figlio, e infine un’altra volta ancora come Spirito Santo. Si può affermare, dunque, che in realtà è il Padre che ha sofferto per noi {pater passus est, per questo i seguaci di tale eresia furono bollati da Tertulliano con il nomignolo di ‘patripassiani’). Entrambe le forme del monarchianismo furono rigettate dalla chiesa. Le decisioni furono prese anzitutto a Roma. Papa Vittore (189-198/199) scomunicò l’adoziano Teodoto, che nel 190 aveva tentato di diffondere la sua teoria a Roma e, in un primo momento, sospese il giudizio contro il modalista Prassea, attivo nello stesso periodo a Roma (190 circa). Solo quando, nel 215, Sabellio sostenne apertamente a Roma il modalismo, papa Callisto I (217-222) si decise a rigettare la sua teoria e a condannare l’eretico. Alcuni decenni più tardi il teologo romano Novaziano, nella sua opera De Trinitate (scritta prima del 250), respinse definitivamente l’eresia
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modalista, ma, dopo il 251, lo stesso Novaziano fondò tuttavia una setta rigoristica e, stando a un'antica tradizione, fu martirizzato sotto Valeriane (253-260). Frattanto, si andava diffondendo la cristologia del Lògos. Essa fu particolarmente approfondita da Origene, nella scuola alessandrina. Anch’essa aveva tuttavia le sue grosse difficoltà nel coordinare le relazioni interne trinitarie e, pur conformandosi alla sacra Scrittura e affermando la natura divina di Cristo Lògos, subordinava tuttavia il Verbo al Padre (subordinazione) e lo Spirito Santo al Figlio. Di conseguenza, al Figlio e allo Spirito Santo spettava la stessa natura divina, ma di volta in volta in modo derivato e inferiore. Da questa teoria risultò un monoteismo pluralistico, che in realtà non lo era. In questo senso anche Origene, il più grande erudito delTantichità cristiana e uno dei fondatori della scuola alessandrina, spiegò in modo chiaramente subordinazionistico la relazione delle tre persone in Dio. Egli affermò, infatti, che il Figlio è consustanziale (uguale, homoùsios) al Padre ed eterno, ma aggiunse che soltanto il Padre è ‘auto-Dio’ (autotheós) e semplicemente buono (haplós agathós), mentre il Lògos è unicamente *secondo Dio' (déuteros theós) e immagine della sua bontà (eikòn agathótètos). Origene pensò poi che lo Spirito Santo fosse inferiore al Figlio. Poiché Peterno Lògos ha assunto un vero e proprio corpo, egli è realmente *uomo-Dio' (thedntbropoSy il termine fu coniato da Origene) e quindi anche Maria può essere designata realmente *genitrice di Dio’ (tbeotókosy anche quest'espressione proviene da Origene o, almeno, dalla scuola alessandrina). Origene offrì così precisi punti di riferimento a due orientamenti teologici del tutto diversi, che ebbero sviluppo successivamente. Il primo accentuò la consustanzialità del Figlio con il Padre e la unità della natura divina e della natura umana in Cristo, aspetto, questo, che fu particolarmente approfondito in seguito ad Alessandria. L'altro orientamento sottolineò invece più fortemente la distinzione, ponendo l'accento sul fatto che il Lògos era soltanto *secondo Dio’ e distinse l'operare divino dall'agire umano in Cristo, opinione, questa, che ebbe sviluppo teologico nella scuola di Antiochia.
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Questa scuola di teologi antiocheni sorse, negli anni sessanta del III secolo, grazie al presbitero Luciano (t 312 da martire). Egli interpretò la sacra Scrittura in modo sobrio e razionale, basandosi soltanto sulla grammatica e sulla storia, e respinse Tesegesi allegorica e mistica degli alessandrini. Nella cristologia Lu־ ciano mantenne un’opinione rigorosamente subordinazionista. Dalla scuola di coloro che egli riuniva intorno a sé (i ‘sillucianisti’) uscirono Ario e la maggior parte dei capi dell’arianesimo. Tutti i seguaci di Luciano si opposero energicamente alla teologia alessandrina. Nel 318 Ario (circa 2 60336)־, che dal 313 era sacerdote in cura d’anime nella chiesa di Baukalis ad Alessandria, venne in conflitto col suo vescovo Alessandro di Alessandria per aver sostenuto nelle sue prediche, ma anche attraverso lettere, inni sacri e nel suo scritto Thàleia (= banchetto) una cristologia di tipo rigidamente subor־ dinazionista. Asceta rigoroso e affascinante predicatore, ricco di una buona dose di presunzione e mosso da una punta di fanati־ smo, Ario godette presso il popolo di grande stima e la sua dottrina, chiara e razionalistica, polemicamente e coscientemente diretta contro la scuola degli alessandrini, fece grande scalpore. Egli rim־ proverava ai teologi d’Alessandria un modalismo sabellianista e, da parte sua, estraniò completamente il Logos da Dio. Il Lògos, per Ario, non era, infatti, vero Dio, anzi, nella sua natura era del tutto diverso da lui, né eterno né onnipotente, bensì creato nel tempo, imperfetto e passibile. Tuttavia il Lògos era pur sempre la prima fra tutte le creature, di gran lunga superiore agli uomini e perciò lo si poteva definire un semi־Dio (demiurgo). Ma la divinità non gli spettava di per sé. Negando la divinità di Cristo Ario si pose ovviamente fuori dal cristianesimo. Un sinodo, riunito ad Alessandria, condannò la sua teoria come eresia (318/319 o 323) e lo escluse dalla comunità ecclesiastica. Ario si rifugiò allora dai suoi amici antiocheni e trovò aiuto soprattutto presso il vescovo Eusebio di Nicomedia; anche lo storico della chiesa Eusebio di Cesarea apparteneva allo stesso am־ biente. Quando questi ultimi ottennero il suo ritorno ad Alessandria, nella città nacquero immediatamente violente discussioni, si ebbero tumulti nelle strade e si tennero convegni notturni. Alla fi
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ne intervenne Costantino e invitò tutti i vescovi a Nicea, per un sinodo generale (ecumenico). A Nicea, dal 20 maggio al 25 luglio del 325, ebbe luogo il primo sinodo di tutto Timpero. Costantino aveva messo gratuitamente a disposizione dei vescovi dell’impero il suo servizio postale. I dati sul numero dei partecipanti sono incerti: una lista registra 220 nomi, ma forse furono invece 318, con riferimento preciso ai 318 servi di Abramo (Gen 14,14); Eusebio parla di circa 250 vescovi. Per 10 più essi provenivano dalla parte orientale dell’impero; dall’Occidente si recarono a Nicea soltanto cinque vescovi. Papa Silvestro, a causa della tarda età, non fu presente e si fece rappresentare da due presbiteri. Molti vescovi portavano ancora sui loro corpi le cicatrici dell’ultima persecuzione. «Come un messaggero di Dio, luminoso nello splendore della porpora e dell’oro» (Eusebio), l’imperatore in persona avanzò tra loro con gravità, trattenendosi amorevolmente con tutti e in particolare con i vescovi martiri. Egli tenne anche un discorso in latino. Ario difese la sua teoria: diciassette vescovi si schierarono dalla sua parte e tra loro era il vescovo Eusebio di Nicomedia. A Nicea era presente anche il giovane diacono Atanasio, che accompagnava 11 suo vescovo. Dopo lunghi e agitati dibattiti vinse la corrente che rappresentava l’ortodossia. Nella cosiddetta professione di fede nicena fu definita la retta dottrina: Cristo è «generato dalla sostanza del Padre come l’unigenito, Dio da Dio, luce da luce, vero Dio da vero Dio, generato, non creato, consustanziale {homousios) al Padre». L’imperatore stesso comunicò a tutta la cristianità, in una circolare, che Ano e i suoi seguaci erano stati scomunicati e banditi dalla chiesa cristiana, come i peggiori nemici della vera fede, e ordinò che i loro scritti fossero bruciati. Durante il concilio furono trattati anche altri problemi e le decisioni furono stese in venti brevi regole (kanónes, da kanón = norma, direttiva, regola per la vita). Si discusse anche sul celibato dei vescovi, dei sacerdoti e dei diaconi (il celibato era una pratica già diffusa in molti paesi). H sinodo lasciò cadere la proposta di emanare una legge sul celibato, seguendo in ciò il consiglio del vescovo-martire Pafnuzio, il quale non mancò di sconsigliarla decisamente per non infliggere al clero un giogo fin troppo pesante; con
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cesse la continuazione dei matrimoni validi, condannando solo il concubinato. I risultati di questo «grande e santo sinodo» avrebbero potuto essere dichiarati soddisfacenti se tutto fosse finito lì. Ma Costantino cambiò immediatamente opinione, e nel 328 richiamò il vescovo esiliato Eusebio a Nicomedia. Anche Ario potè ritornare e, dopo che egli ebbe aderito prò forma al simbolo niceno, fu restituito, su preciso ordine imperiale, al suo ministero. Ma Atanasio, che nel 328 era divenuto vescovo di Alessandria, si rifiutò di accogliere Ario fra il suo clero, incorrendo così nell’ira dell’imperatore che lo colpì duramente nel 335. L’intrepido difensore della formula di féde nicena fu così inviato per la prima volta in esilio a Treviri. Cominciò allora per la chiesa un nuovo periodo di sofferenze che, meglio che da altri esempi, possono essere rispecchiate dalla vita del vescovo Atanasio. Per ben quattro volte egli dovette, infatti, riprendere l’amara via dell’esilio, bandito dai figli e dai seguaci di Costantino, tutti imperatori di sentimenti ariani. Nel 340 egli fuggì da Costanzo e venne a Roma, presso papa Giulio I; nel 356 si sottrasse di nuovo all’imperatore, rifugiandosi presso i monaci e gli eremiti del deserto. Aveva appena fatto ritorno, dopo la morte di Costanzo (361), nella sua sede vescovile quando, nel 362, ne fu nuovamente allontanato. La morte improvvisa di Giuliano (363) gli permise di riprendere animo, ma solo per due anni egli potè restare nella sua comunità poiché, nel 365, l’imperatore Valente, anch’egli di sentimenti ariani, lo esiliò perla quinta volta. In Alessandria si profilò allora una sommossa popolare e Atanasio potè rientrare nella sua città dopo quattro mesi. Fino alla sua morte (373), egli rimase nella sua sede vescovile, fermissimo e tenace propugnatore della vera fede nicena. La controversia teologica sulla formula nicena homousios continuò ad agitare gli animi durante questi ultimi decenni. La corrente mitigata dei ‘semi-ariani’ si separò dai seguaci rigorosi dell’arianesimo. Si cercò d’interpretare in modo diverso il ‘consustanziale’, preferendogli la formula ‘simile’ (hómoios), e si usò l’espressione il Figlio è «simile in tutto» al Padre, si tentò insomma di evitare in ogni modo la formula homousios. I sinodi imperiali, convocati dall’imperatore a Rimini e a Seleucia nel 359, non
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riuscirono a trovare nessuna via di conciliazione. Nel frattempo Tarianesimo, interiormente diviso, si avviava in modo inesorabile verso la sua decadenza. Quando con Graziano, nel 375, salì finalmente di nuovo al trono un imperatore cristiano fedele a Nicea si ebbe tranquillità. La dottrina eretica ariana perse definitivamente vigore quando Teodosio, che era stato nominato da Graziano imperatore d’Oriente, convocò nel 381 il secondo concilio generale di Costantinopoli. I teologi, da parte loro, avevano intanto elaborato più chiaramente i concetti di ‘persona' e di ‘natura' in Dio. Questo lavoro teologico fu opera, oltreché di Atanasio, soprattutto dei tre ‘grandi Cappadoci': Basilio (circa 330-379), Gregorio di Nazianzo (329/330 - circa 390) e Gregorio di Nissa (circa 334-394). Essi contemplarono la distinzione delle tre persone divine solo e unicamente nelle relazioni intradivine. Secondo quanto essi insegnano, nella Trinità esiste una sola natura, in tre persone: un solo Dio in tre persone. I tre Cappadoci misero in chiara luce anche la divinità dello Spirito Santo, contestata invece dagli ariani: la sua relazione è che egli procede dalle due altre persone divine. Al testo del simbolo di Nicea (325) fu aggiunto «e nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, il quale procede dal Padre e con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti...». Questo simbolo niceno-costantinopolitano fu inserito più tardi nella liturgia. Anticamente fu usato innanzitutto come simbolo battesimale dell’Oriente; solo nel IV secolo fu introdotto nella santa messa, prima a Bisanzio, con il patriarca Timoteo (t 517), poi in Spagna, con il terzo sinodo di Toledo (589), e infine a Roma, ma non prima del 1014, su precisa richiesta dell'imperatore Enrico II. Intanto erano sorte divergenze d'opinioni; l'Oriente concepiva la processione dello Spirito Santo nei termini seguenti: egli procede «dal Padre attraverso il Figlio». Per l'Occidente, invece, lo Spirito Santo procede «dal Padre e dal Figlio». Quando in Occidente si aggiunse il Filioque si ritenne che ciò non costituisse un ampliamento del simbolo, bensì esclusivamente un'interpretazione. L’Oriente considerò invece questa introduzione come un'adulterazione della professione di fede e incolpò l'Occi
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dente d'eresia. II Filioque diverrà così, per la scarsa chiarezza del primo concilio di Costantinopoli (381), la causa prima dello scisma d'Oriente del 1054. Dopo che, nel 381, Telaborazione della dottrina trinitaria fu, fin o a u n certo grado, conclusa, ci si potè dedicare interamente ai problemi cristologici.
2. La cristologia. I primi otto concili ecumenici Nella cristologia si doveva innanzitutto chiarire l'intima relazione che esisteva nella persona di Cristo tra la natura divina e la natura umana. La sacra Scrittura, anche su questo punto, pur affermando a un tempo !,umanità e la divinità di Cristo, non offriva precisazioni ulteriori. Le due celebri scuole teologiche di Antiochia e di Alessandria divergevano nettamente nella interpretazione della cristologia. Gli alessandrini mettevano l'accento soprattutto sulla natura divina e gli antiocheni, invece, su quella umana. La coniazione della locuzione relativa a Gesù Cristo *uomo-Dio' risaliva a Origene. L'esegesi allegorica e una speculazione teologica fortemente influenzata da concetti platonici avevano spinto il padre alessandrino a formulare un'intima e profonda mistica del Logos, nella quale si affermava che l'incontro fra l'umanità e la divinità si era verificato in Cristo nella sua più alta perfezione e si invitavano i cristiani ad attuare questa stessa perfezione in loro stessi. In seguito i monaci ameranno riallacciarsi a queste idee origeniane, ma già Atanasio, Basilio, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa - non va dimenticato che questi tre ultimi Padri erano appunto dei monaci - avevano sviluppato ulteriormente il pensiero di Origene e, del resto, è noto che anch'essi appartenevano alla scuola alessandrina. Gregorio di Nissa aveva già chiaramente richiamato l'attenzione sul fatto che l'unità andava ricercata esclusivamente nella persona divina e non in una (assolutamente impossibile) fusione della natura umana e della natura divina. Egli insegnò altresì che in Cristo l'unica persona divina del Lògos possedeva due nature, quella divina e quella umana, intimamente congiunte, e che entrambe le nature sussistevano, ognuna di per sé e non confuse, l’una accanto all'altra; tuttavia, esse non erano divise l'una dall'al
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tra, bensì ordinate l’una all’altra, sicché i loro attributi erano reciprocamente scambievoli (comunicazione degli idiomi). Si può quindi affermare, e con ragione, che il Figlio di Dio è stato generato; questa affermazione tuttavia non vale per la sua natura divina, che è eterna, ma solo per quella umana. Il patriarca Cirillo d’Alessandria, che dal 412 fu vescovo di questa città, tentò di mettere in luce il più chiaramente possibile la relazione che univa in un modo strettissimo, intimo e reale, le due nature in Cristo, e parlò di un’unione fisica e dell '«unica natura del Lògos incarnato». Ma, dopo l’unione delle due nature in Cristo si poteva de facto parlare unicamente di una sola natura, vale a dire di una natura teandrica. Tuttavia, egli respinse una mescolanza diretta nel senso insegnato dall’eretico Apollinare di Laodicea (t dopo il 385) e si servì, per meglio chiarire il suo pensiero, di una similitudine: come nel carbone ardente il fuoco e il carbone formano una cosa sola, così pure la natura umana e la natura divina in Cristo. Più tardi Eutiche si riallaccerà a questa teoria per ricavarne la sua dottrina eretica monofisita. Durante quest’ultimo periodo anche la teologia antiochena si era perfezionata. Diodoro di Tarso (t prima del 394), conformandosi al sobrio metodo critico-esegetico della scuola antiochena, nella quale insegnò per lungo tempo, aveva energicamente sottolineato la compietà umanità di Cristo e separato la natura umana di Gesù dalla natura divina del Verbo, in modo che tra le due restava ormai soltanto un’unione puramente esteriore: il Lògos divino avrebbe preso dimora nell’uomo Gesù come in un tempio. Il patriarca Nestorio di Costantinopoli (dal 428), anch’egli antiocheno, ne concluse che Maria non poteva essere chiamata veramente ‘Madre di Dio’ (Theotókos), e che essa era stata esclusivamente ‘Madre di Cristo’ (Christotókos), poiché la Vergine aveva generato soltanto un uomo: Gesù. Nestorio polemizzò aspramente, a questo proposito, contro gli alessandrini. La controversia teologica si andò concentrando sempre più sul titolo di theotókos, ma dietro questo attributo si profilava chiaramente il problema cristologico. Al contrasto d’opinione delle due scuole seguì subito dopo la rivalità dei due patriarchi di Alessandria e di Costantinopoli. Cirillo attaccò violentemente Nestorio
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per iscritto, rivolgendosi ai vescovi egiziani e ai monaci durante la Pasqua del 429; si assicurò Pappoggio di papa Celestino I (422־ 432) e compilò 12 anatematismi che inviò, a nome del papa, a Nestorio, ingiungendogli fermamente di ritrattare le sue opinioni. Ma quest’ultimo rispose con 12 anti-anatematismi e conquistò alla sua parte !,imperatore bizantino Teodosio II (408450)־, inducendolo, insieme all’imperatore romano d’Occidente Valentiniano II (425־ 455), a convocare un concilio. Il terzo concilio ecumenico di Efeso, del 431, ebbe uno svolgimento piuttosto agitato. Alla sessione d’apertura del 22 giugno, Nestorio e i suoi seguaci non si presentarono. Cirillo fece leggere allora uno scritto didattico che egli aveva composto sull’unione ipostatica, delle due nature in Cristo. Questo suo scritto fu approvato dai 198 vescovi presenti, e fu sottoscritta la sentenza contro Nestorio. Il titolo theotókos fu così accolto definitivamente. La fol־ la, che attendeva fuori, approvò esultante. Pochi giorni dopo giunsero tuttavia quarantatré vescovi antiocheni, guidati dal loro patriarca Giovanni. Essi presero subito partito per Nestorio e costituirono un anti-concilio. Ne nacque una sottile rete d’intrighi, una disputa caratterizzata da reciproci astiosi attacchi e l’imperatore fu costretto a intervenire. I due capi, Nestorio e Cirillo, furono arrestati. Cirillo potè finalmente ritornare ad Alessandria e Nestorio fu inviato in esilio (nell’Egitto superiore), dove morì nel 451. Fino a che punto egli sia stato veramente eretico o sia caduto invece vittima di interpretazioni errate del suo pensiero o di equivoci è un problema che fino a oggi non è stato ancora chiarito. I suoi seguaci fuggirono in Persia, ove fondarono la chiesa nestoriana che ebbe presto una vita fiorente. Un monacheSimo vivo e operante, un’eccellente teologia (scuola di Seleucia e di Nisibi) e un’imponente attività missionaria testimoniarono il vigore di questa comunità. I suoi missionari si inoltrarono fino al Malabar, in India (cristiani di Tommaso) e nel Turkestan; sotto l’imperatore cattolico Timoteo I, nestoriano, il cristianesimo penetrò, nel periodo dal 780 all’823, nel Turkestan cinese, nel Tibet, e fin nel cuore della Cina. All’inizio del XIV secolo la sola chiesa nestoriana contava in Asia centrale dieci sedi metropolitane e disponeva di un numeroso
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clero indigeno. Questa missione fu purtroppo annientata durante la sanguinosa persecuzione di Tamerlano (1380). Nel XVI secolo, la maggior parte dei nestoriani si unì a Roma (caldei e cristiani del Malabar). Nella sua autobiografia, che intitolò Libro di Eraclide (cfr. Tedizione del 1910), Nestorio spiega i motivi che lo indussero alla sua polemica teologica contro Cirillo. Egli vide nella teoria delT«unica natura del Lògos incarnato» il pericolo di evaporare in modo docerista e manicheo la natura umana di Cristo, e analogamente egli aveva intravisto nella fusione apollinaristica di entrambe le nature una gravissima minaccia per la vera fede evangelica. Ripetutamente egli aveva perciò posto in luce l’integrità di ciascuna delle due nature in Cristo e, se si era opposto al titolo mariano theotókos, ciò non era avvenuto per negare la divinità di Cristo, come aveva fatto Ario, bensì per accentuare il fatto che Cristo era stato generato da Maria come vero uomo, con un corpo e un’anima. Maria non generò, infatti, la divinità, bensì Tuomo, congiunto con la divinità. Ma, per salvare l’integrità dell’umanità di Gesù, egli aveva finito col separare fin troppo quest’ultima dalla divinità, giungendo così a un dualismo delle nature e a un disconoscimento dell’unione indissolubile di entrambe le nature nella persona di Cristo (= ipostasi, e per questo chiamata unione ipostatica). Che i suoi timori non fossero del tutto infondati si dimostrò assai presto quando Eutiche, abate di un monastero presso Costantinopoli e acerrimo nemico del nestorianesimo, riprese a sviluppare la teoria di Cirillo sull’unica natura in Cristo (mia pbysis = monofi־ sismo) e fuse insieme le due nature in modo talmente profondo che la natura umana sembrò interamente assorbita dalla natura divina, «al modo stesso di una goccia di miele che, caduta in mare, in esso si dissolve». L’integrità della natura umana in Cristo veniva in tal modo annullata, e di fatto essa non esisteva più, poiché l’essereuomo di Cristo era di una sostanza diversa dalla nostra. Con ciò venne anche a mancare la premessa centrale del mysterium Christi, e fu vanificata l’attività di Gesù come mediatore e redentore, di cui invece parla incessantemente la sacra Scrittura. L’intera dottrina della salvezza fu posta così in pericolo. Il patriarca Flaviano di Costantinopoli citò Eutiche dinanzi a un
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sinodo e lo condannò come eretico, poiché non aveva voluto ritrattare le sue opinioni. Eutiche trovò, però, ?appoggio del patriarca Dioscuro di Alessandria, il quale, seguace di Cirillo, sosteneva le stesse opinioni erronee. Su invito di Dioscuro, ?imperatore Teodosio II convocò nuovamente un concilio che si svolse a Efeso (449) sotto la guida di Dioscuro e riabilitò Eutiche: tale sinodo non fu tuttavia mai riconosciuto dal resto della chiesa. Papa Leone I (440461) lo definì un ‘sinodo di brigant? (latrocinium). Nella sua celebre Epistola dogmatica ad Flavianum questi si schierò con il patriarca di Costantinopoli e chiarì in modo autorevole la vera dottrina dell’unione delle due nature nell’unica persona del Cristo (unione ipostatica). Questa lettera papale fu definita la prima decisione infallibile ex cathedra di un papa. Nello stesso tempo Leone I pregò ?imperatore di convocare un nuovo concilio. Il successore di Teodosio, ?imperatore Marciano (450457)־, accondiscese di buon grado alla richiesta papale e convocò il quarto concilio generale di Calcedonia (451). I vescovi che parteciparono a questo grandissimo sinodo ecumenico dell’antichità furono circa 350. Presiedevano i rappresentanti di papa Leone Magno e, fin dalla prima sessione, Dioscuro fu posto sotto accusa (8 ottobre 451) e, nella terza sessione, fu destituito. In conformità alla lettera dogmatica di Leone (Epistola dogmatica ad Flavianum) il sinodo respinse la teoria monofisita dell’unità della natura in Cristo e definì, nella sua sesta sessione, come dogma che in Cristo ci sono due nature, senza confusione e senza divisione, bensì congiunte in una sola persona o ipostasi. Leone I, basandosi sulla tradizione teologica occidentale, esistente fin dai tempi di Tertulliano, aveva così chiarito l’unità della persona (unione ipostatica) in Cristo. Le due nature, la divina e l’umana, sussistono ‘senza confusione’, ?una accanto all’altra (contro Cirillo ed Eutiche); ma esse non sono divise ?una dall’altra, bensì congiunte insieme indissolubilmente (contro Nestorio) nella persona del Logos divino. Da questa unione dipende l’intera opera salvifica di Cristo. Le asserzioni sulla persona di Cristo (cristologia) costituiscono, infatti, al tempo stesso, il fondamento per la teoria della redenzione (soteriologia) e appaiono perciò d’importanza capitale per la fede cristiana.
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Le definizioni del concilio di Calcedonia, che offrirono un chiarimento di natura concettuale e linguistica, gettarono le basi solide per il successivo sviluppo del pensiero teologico occidentale. In Oriente, invece, si ebbe un’evoluzione diversa. Già nel corso del concilio, e precisamente fin dalla quinta sessione, si era creata una pesante tensione fra i teologi orientali e quelli occidentali, tensione che provocò una seria crisi e che crebbe ancor più per il netto contrasto sorto fra la chiesa di Roma e i patriarcati orientali. I contrasti furono acuiti soprattutto dall’antica rivalità esistente fra i patriarchi bizantini e il papa. Il pensiero orientale, già per sua natura fortemente incline all’unità, dopo Calcedonia accentuò ancor più le sue tendenze monofisite, che non si limitarono più al puro ambito cristologico-teologico, ma si estesero anche alla sfera politica (cfr. la tipica teologia imperiale bizantina) e persino alla vita cristiana privata dei credenti. Il divino era stato posto in una posizione di priorità tale da assorbire in certo qual modo la sfera d’azione umana. Religione e pòlitica si fusero insieme, chiesa e stato si amalgamarono e anche la vita privata civile fu dominata completamente da questa atmosfera teologico-religiosa. Mentre l’Occidente faceva suo quel fondamentale dualismo che aveva trovato espressione nella formula cristologica di Calcedonia - e per il quale il divino e l’umano, la religióne e la politica, ‘non confuse’ ma anche ‘indivise’, perché strettamente congiunte nella ipostasi del Verbo, conservavano in Cristo come nella vita del cristiano la loro individualità e la loro indipendenza l’Oriente tendeva invece sempre più decisamente al cosiddetto ‘monofisismo politico’. Nonostante la condanna del concilio di Calcedonia, il monofisi־ smo si affermò in Palestina, in Egitto e in Siria. Nel 475 l’usurpatore del trono imperiale Basilisco, di sentimenti monofisiti, accordò ufficialmente tolleranza ai monofisiti con il suo Enkyklion (= editto). L’imperatore Zenone, l’anno dopo, pubblicò una formula dottrinale conciliativa, che più tardi fu chiamata Henotikón (482). Il patriarca Acacio di Costantinopoli aderì a questa formula e papa Felice III (483-492) lo scomunicò. Si giunse così alla totale rottura con l’Oriente, e al cosiddetto scisma acaciano tra Oriente e Occidente, che durò per 35 anni (484-519). Nel 490 le tre sedi patriar
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cali di Alessandria, Gerusalemme e Antiochia furono occupate da monofisiti. Sotto !,imperatore Giustiniano I (527-565), i monofisiti poterono diffondersi ulteriormente, inviarono missionari in Nubia, in Etiopia e in Armenia, e istituirono, sotto i loro vescovi Giàcorno Baradai e Teodoro d'Arabia, una propria gerarchia (giacobiti; copti). Per venire incontro ai monofisiti e per consolidare l’unità dell’impero minacciata, l’imperatore Giustiniano, fin dal 543/544, aveva condannato i tre capi della scuola antiochena, dalla quale proveniva Nestorio: Teodoro di Mopsuestia (t 428), Teodoreto di Ciro (t intorno al 458) e Iba di Edessa (t 457). La cosiddetta «controversia dei tre capitoli», che verteva sulla revisione o sul rifiuto della proposta imperiale, andava ormai per le lunghe. Anche papa Vigilio fu conquistato al partito imperiale e pronunciò l’anatema contro i Tre Capitoli, a patto naturalmente che fossero salvaguardate le definizioni di Calcedonia; ma ben presto, dinanzi alla terribile protesta che la sua capitolazione aveva sollevato in Occidente, dovette ritirare precipitosamente la sua adesione. Nel 551 Pimperatore emise un nuovo editto di condanna dei Tre Capitoli, ma questa volta papa Vigilio si rifiutò di approvarlo, suscitando le ire di Giustiniano, che lo fece duramente maltrattare dai suoi soldati in una chiesa. Papa Vigilio reagì rifiutando di partecipare al concilio che l’imperatore aveva convocato. Questo quinto concilio ecumenico di Costantinopoli (553) servì a Giustiniano per fare approvare la sua progettata condanna dei ‘Tre Capitoli’. Il papa tuttavia non fu presente, né inviò nessuno a rappresentarlo e condannò la condotta dell’imperatore come un’illegittima intromissione nella sfera del supremo magistero della chiesa. Giustiniano, per tutta risposta, lo fece scomunicare dal concilio e, dopo averlo minacciato di esilio e di deportazione, riusci a strappare al vecchio e debole papa Vigilio, nel febbraio del 554, un’altra approvazione delle decisioni conciliari. Non si trattò di decisioni a carattere dogmatico. Le conseguenze in campo di politica ecclesiastica furono spaventose: l’unità della chiesa subì gravi danni, i contrasti si approfondirono ancor più, sia in Oriente che in Occidente, la stima verso il papato decadde enormemente - e «tutto questo per colpa di
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un imperatore teologicamente superficiale e megalomane e di un papa incostante e non all’altezza del suo ministero» (Karl Baus). Il concilio, alla fine, fu approvato anche in Occidente e fu considerato un concilio ecumenico. Non per questo, tuttavia, le controversie teologiche si quietare־ no. Per riconciliare i monofisiti con la chiesa imperiale, il patriarca Sergio di Costantinopoli (610638 )־tentò nuovamente di giungere a un chiarimento del rapporto che univa le due nature in Cristo. Egli cercò di sostituire alla teoria dell’unità delle due nature, professata dai monofisiti, l’unità di volontà e affermò che la natura divina e quella umana erano così intimamente congiunte e armonizzate che, in realtà, in Cristo era stata attiva solo un’unica energia divino-umana e un’unica volontà (= monotelitismo). Ma, in tal modo, egli trasferì il principio dell’unità non più nella persona, bensì nelle nature del Verbo, dando così al suo sistema una chiara impronta monofisi־ ta. Tutto ciò non fu compreso immediatamente. Sergio riuscì, infatti, a esporre le sue tesi in una lettera a papa Onorio I (625638)־, il quale, non essendo molto versato in teologia greca, gli rispose privatamente, accordandogli in modo generico la sua approvazione. Evidentemente Onorio aveva ritenuto che Sergio alludesse nel suo scritto a un’armonia morale delle due volontà, divina e umana, in Cristo, più che a una vera e propria unità di natura. Anche un papa, del resto, quando esprime opinioni private, può sbagliarsi e va pre־ cisato inoltre che la lettera di Onorio non ha affatto il valore di una sentenza dottrinale definitiva, pronunciata ex cathedra. Va quindi minimizzato il fatto che la sua lettera di risposta al patriarca Sergio sia stata invocata, nei secoli successivi, come prova contro l’infalli־ bilità papale - per esempio, all’epoca della Riforma protestante e durante il primo concilio Vaticano - ma lo si fece erroneamente. Nel 638 il monotelitismo fu introdotto ovunque con una legge dell’impero e, poiché papa Martino I (649655)־, in un sinodo latera־ nense nell’ottobre del 649, si oppose al documento imperiale e lo ri־ gettò come eresia, fu malmenato ed esiliato in Crimea, dove morì. Solo con l’imperatore Costantino IV (668685 )־la lotta ebbe fine. Costantino IV convocò il sesto concilio ecumenico (il terzo Costantinopolitano), che si svolse dal 7 novembre 680 al 16 settembre
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681, nella sala a cupola (trullus) del palaz20 imperiale, e che fu detto perciò ‘trullano’. Il concilio fu presieduto dall’imperatore e condannò il monotelitismo insieme ai suoi fondatori e fautori, fra i quali anche papa Onorio, «poiché era stato in tutto soggetto alla volontà di Sergio e aveva approvato queste opinioni irreligiose». Papa Leone II (682/683) approvò le decisioni del concilio e ratificò anche la condanna di Onorio. Poco dopo, tuttavia, egli prese sotto la sua protezione il predecessore e non lo incolpò mai direttamente di eresia, rimproverandogli esclusivamente il fatto che «egli non aveva soffocato fin dall’inizio il fuoco della dottrina eretica, come sarebbe stato consono alla sua autorità apostolica, ma l’aveva invece favorito per la sua negligenza». Così facendo Leone II ha inquadrato i fatti in modo assai più corretto. H concilio aveva confermato la dottrina di Calcedonia: analogamente alle due nature le quali sono congiunte, non mescolate e non separate, nell’unica persona divino-umana di Cristo, esistono anche due volontà e due energie, una divina e una umana, le quali, non mescolate e non separate, operano insieme per la salvezza del genere umano. Altri due concili ebbero luogo in Oriente, nel corso del primo millennio, e furono generalmente riconosciuti come veramente ‘ecumenici’: nel 787 il settimo concilio ecumenico (il secondo concilio di Nicea), che si occupò del culto delle immagini, dichiarò legittima questa venerazione, distinguendola con chiarezza dall’adorazione, che riservò esclusivamente a Dio; e nel 869/870 l’ottavo concilio ecumenico (il quarto concilio di Costantinopoli), che terminò con lo scisma di Fozio e vide la riabilitazione del patriarca Ignazio di Costantinopoli. L’importanza capitale avuta dall’Oriente nel primo millennio nello sviluppo della teologia speculativa appare chiaramente dal fatto stesso che tutti gli otto concili ebbero luogo proprio in questa parte dell’impero.
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§ 11. La teologia dell’Occidente• Agostino e la lotta per la dottrina della giustificazione e della grazia Mentre ?Oriente era agitato dai grandi temi trinitari e cristologici, ?Occidente si occupava soprattutto di problemi connessi alla soteriologia. Il pensiero occidentale era, infatti, scarsamente interessato alle speculazioni metafìsiche, tanto care invece ai Padri greci, e si preoccupava piuttosto di problemi concreti riguardanti la salvezza, direttamente legati alla vita cristiana: del libero arbitrio dell’uomo e del peccato, dello stato di grazia originale e del peccato di Adamo, della necessità della grazia e del suo operare nel pròcesso di giustificazione di ciascun individuo. La tendenza a considerazioni di tipo ascetico-morale cominciò ben presto a farsi sentire in Africa settentrionale. Il montanismo aveva trovato qui la sua massima diffusione e, grazie a Tertulliano, ?eresia si era ancor più inasprita. Il padre africano, nei suoi scritti, si occupò prevalentemente di temi etico-religiosi e il suo rigorismo ebbe una parte decisiva, verso la metà del m secolo, nella strenua lotta che era sorta per la riammissione dei lapsi alla chiesa di Cartagine. Anche Cipriano aveva sostenuto ?opinione più severa. Al?inizio del IV secolo, il donatismo si fece banditore, sempre in Africa settentrionale, di analoghe tendenze rigoristico-entusiastiche, e nonostante ?intervento di Costantino e la condanna subita dal concilio di Nicea, il movimento eretico non perse vigore e mantenne divisa ancora per oltre un secolo la chiesa nord-africana. In Spagna, alla fine del IV secolo, Priscilliano dette vita a un movimento ascetico, che guadagnò vasti consensi e suscitò grande scandalo e, per la chiesa spagnola, costituì motivo di gravi preoccupazioni per un lungo spazio di tempo, anche dopo la terribile esecuzione capitale del suo fondatore nel 385. Infine, nel 400, apparve il monaco britannico Pelagio, uomo austero e colto, che presento la sua dottrina morale, affidata fin troppo alla forza della volontà umana. Egli visse fin verso il 410/411 a Roma, poi si recò in Africa settentrionale e, di qui, si trasferì nell’Oriente anteriore. Le sue teorie testimoniano un elevato livello etico. Pelagio le aveva
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elaborate contro il manicheismo, che negava il bene morale, e apparivano, improntate com’erano a un puro pragmatismo, prive di vera profondità dogmatica. La grazia non vi aveva quasi parte. Secondo la teoria pelagiana, l’uomo non ha bisogno della grazia per agire bene, essa gli è utile semplicemente per operare più facilmente in modo giusto. Tutto, in definitiva, dipendeva dalla buona volontà. Come vedremo, il suo più strenuo e principale oppositore sarà Agostino. Per quasi cento anni, da Cipriano in poi, POccidente non vide nascere un teologo di grande importanza, finché nella seconda metà del IV secolo, si levarono, con Ambrogio di Milano, Girolamo e soprattutto con Agostino, tre astri di grandissimo splendore che possono esser posti degnamente a fianco dei teologi greci del tempo. E, più tardi, vennero anche le grandi figure dei papi Leone I e Gregorio Magno.
1. Ambrogio di Milano Ambrogio (339397)־, nato a Treviri, era figlio del prefetto del pretorio delle Gallie; dopo la morte del padre, divenne governatore delle province di Liguria e Emilia. Benché non fosse ancora stato battezzato, fu eletto improvvisamente, nel 364, a furor di popolo, vescovo di Milano. Da allora in poi, Ambrogio si pose compietamente al servizio della chiesa e divenne il primo dei quattro grandi dottori della chiesa occidentale. Nelle sue prediche, nei suoi scritti e discorsi, combattè Parianesimo e cooperò alla vittoria della professione di fede nicena. Occidentale e romano per nascita e tradizione, il suo pensiero fu sempre improntato a un attivo realismo. La sua esegesi e la sua intera teologia prediligono, infatti, temi etici e sociali. I problemi della penitenza, del peccato e della grazia furono al centro delle sue preoccupazioni. Ambrogio promosse anche il movimento ascetico e divenne perciò un precursore del monachesimo occidentale. Amico e consigliere degli imperatori Graziano (375-383), Valentiniano II (375-392) e Teodosio I (379-395), esercitò un influsso decisivo sulla politica ecclesiastica, acquistando un posto di primissimo piano nella chiesa occidentale. Anche sotto questo profilo egli fu un tipico occidentale, che si oppose al
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monofisismo politico nei suoi due aspetti: all'autorità politica proibì, infatti, di intervenire nel campo ecclesiastico-religioso, e rico־ nobbe al potere statale la sua indipendenza e la sua funzione di guida nell’ambito della vita civile. Così facendo, si allontanò dal sistema bizantino, nel quale l’imperatore, in quanto rappresentante di Dio sulla terra, rivendicava in entrambi i campi la sovranità assoluta (teocrazia). Il pensiero occidentale è invece dualistico, anche in campo politico. Papa Gelasio I (492-496) formulò, più tardi, con grande chiarezza il rapporto che doveva esistere tra chiesa e stato, nella sua lettera all’imperatore Anastasio, con la sua teoria dei due poteri, che stabilì chiaramente la differenza tra imperium e sacerdotium e si oppose fermamente all’identificazione che di essi faceva invece l’impero d’Oriente. Ambrogio, da parte sua, aveva già messo in pratica questo principio. In diversi contrasti sorti con la corte imperiale egli osò, infatti, respingere decisamente l’istituzione di una chiesa di stato e costrinse persino Teodosio alla pubblica penitenza quando questi, per un orribile massacro, compiuto a Tessalonica nel 390, si macchiò di un grave reato di sangue. Nondimeno Ambrogio restò sempre sacerdote e pastore, libero da mire politiche; la sua suprema regola fu sempre la cura d’anime: «Anche l’imperatore è nella chiesa e non al di sopra di essa», quando si tratti di problemi di fede e di salvezza. L’attività pastorale, il servizio divino e la carità riempirono la sua vita in modo tanto esemplare che egli, con la sua forza interiore, seppe trascinare alla fede tutti coloro che ebbero modo di avvicinarlo. Agostino fu convertito da lui. La sua memoria vive nella chiesa anche per la sua squisita opera di innografo.
2. Agostino di Ippona Agostino nacque il 13 novembre 354 a Tagaste, in Numidia, da padre pagano, Patrizio, e da Monica, donna pia e cristiana. Fu allevato cristianamente, ma non fu battezzato. In seguito egli vedrà nell’essere stato privo della grazia di Dio la causa principale dei suoi peccati giovanili. Negli anni in cui era studente si allontanò completamente dalla fede cristiana e nelle sue Confessioni (scritte intorno al 400), descrisse con cupa amarezza questo suo periodo
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di errori. Nel 372 gli nacque un figlio illegittimo, cui diede nome Adeodato (t 389). Soltanto nel 385 egli si separò dalla madre del suo bambino. In quello stesso periodo, pressappoco per nove anni, dal 374 al 383 circa, egli professò il manicheismo e fece parte di questa setta, che impressionò il suo pensiero per l’interpretazione dualistica del bene e del male, per la critica che muoveva al cristianesimo e per il rifiuto di ogni autorità in materia di fede. Durante questo tempo, egli ruppe i rapporti anche con sua madre e, terminati gli studi di retorica a Cartagine, si stabilì per breve tempo a Tagaste, ove insegnò grammatica. Fino al 383 fu di nuovo docente di retorica a Cartagine e, dopo un breve soggiorno di un anno a Roma, si trasferì, nell’autunno del 384, a Milano, dove tenne la cattedra di retorica. In questa città Agostino ebbe modo di conoscere Ambrogio, ascoltò le sue prediche e ritrovò, grazie a lui, la strada della chiesa e nella Pasqua del 387, insieme a suo fi־ glio Adeodato, ricevette il battesimo dalle mani di Ambrogio. Nel 388 ritornò in Africa e, a Tagaste, insieme ad alcuni amici, condusse un’austera vita di monaco. Durante una visita a Ippona, all’inizio del 391, fu persuaso dal vescovo Valerio a lasciarsi ordinare sacerdote. Come maestro dei catecumeni e predicatore, egli acquisì*meriti talmente grandi che Valerio, nel 395, lo designò suo coadiutore e lo ordinò co-episcopo. Nel 396 Agostino gli successe nella sede episcopale di Ippona, che occupò ininterrottamente per quasi 35 anni. Morì il 28 agosto 430, mentre i vandali assediavano la sua città. La personalità di Agostino e l’importanza storica della sua dottrina sono egualmente rilevanti. Egli è «l’uomo dell’antichità cristiana che meglio conosciamo». Nelle sue Confessioni Agostino scioglie un inno alla grazia di Dio che, per molte vie, lo ha condotto alla giusta meta. Proprio perché aveva sperimentato di persona, nella sua carne, la debolezza e la meschinità umane, Agostino potèva e doveva opporsi con tutte le sue forze alla superba volontà del pelagianesimo. Il conflitto con Pelagio, che iniziò nel 412, fu condotto da Agostino con una passione talmente viva che dietro le parole del santo è facile intravedere l’esperienza di vita vissuta. Nel 418 egli riuscì a ottenere la condanna del pelagianesimo; dopo la scomparsa di Pelagio (morto intorno al 422), Agostino continuò a
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combattere l’eresia con una forza polemica talora anche eccessiva, come quando, con rigide formulazioni, trattò della onnipotenza della grazia e della predestinazione assoluta. Con queste sue dottrine egli si guadagnò la fama di ‘dottore della grazia’, ma offrì anche, seppur indirettamente, agli eretici che vennero in seguito, alcuni punti di riferimento, cui essi credettero di poter ricollegarsi per la formulazione delle loro dottrine erronee. Ad Agostino s’ispireranno, infatti, Lutero, Calvino e i giansenisti, ma, ovviamente, senza riflettere sul fatto che le formulazioni agostiniane furono elaborate come antitesi a una precisa dottrina eretica, che attribuiva all’uomo la capacità di raggiungere la beatitudine con le sole sue forze, e approdarono quindi a delle conclusioni che Agostino si era ben guardato dal trarre. Come Ambrogio, anche Agostino fu innanzitutto un pastore. Egli esercitò il suo episcopato nella predicazione, nella carità e nel servizio divino, con fervore instancabile. Preoccupato soprattutto della salvezza dell’anima dei cristiani a lui affidati, combattè le eresie del suo tempo: il pelagianesimo, il manicheismo e il donatismo. E pur non evitando mai le controversie teologiche del suo ambiente, egli mantenne sempre un tenore di vita monacale e divenne uno dei Padri del monacheSimo d’Occidente (la regola degli agostiniani risale a lui). Grandissimo intelletto speculativo, unì l’acutezza del pensiero alla forza creativa. La sua dottrina abbracciò la filosofia e la cultura antica nella loro interezza, e questa e quella egli tramandò nella sua vasta opera alle future generazioni. Agostino fu uno dei più grandi creatori della cultura medioevale d’Occidente, e la sua influenza teologica è viva ancor oggi. Egli dominò la teoio־ già del Medioevo, finché fiorì, con Tommaso d’Aquino, una figura di uguale grandezza. Agostino fu il più grande fra gli antichi dottori della chiesa d’Occidente. La sua importanza fu veramente eccezionale per l’ulteriore sviluppo teologico anche da un altro punto di vista. Il pastore Agostino, la cui intera esistenza fu incentrata sull’amore di Dio e delle anime, e la cui attività fu una continua opera di carità, determinò e influì direttamente sul successivo comportamento della chiesa di fronte agli eretici. Nella sua giovinezza Agostino aveva sperimentato quanto fosse difficile cercare e trovare la verità e per questo,
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quando divenne vescovo, si propose di usare la massima clemenza verso gli erranti. Ma in seguito egli sentì in tutta la sua gravità il male terribile della divisione. La chiesa nordafricana era lacerata dal donatismo. Lanti-chiesa donatista, dotata di una propria gerarchia e di un’organizzazione ben articolata, si considerava la chiesa dei 4puri’, dei devoti e dei santi e seminava diffidenza, mostrava inimicizia e disprezzo verso i seguaci della chiesa cattolica, soprattutto verso i vescovi, promuovendo una polemica meschina e piena d’odio contro ogni parrocchia. Anche Agostino, a Ippona, aveva accanto a sé un anti-vescovo donatista e così, giorno dopo giorno, potè rendersi conto che lo scisma costituiva il più grave di tutti i mali e che nulla sembrava abbastanza efficace per eliminarlo. Agostino tentò di estirpare il donatismo con la carità, cercò con lettere e personalmente di dialogare con i suoi confratelli donatisti, si impegnò in dispute letterarie, ma gli avversari respinsero sempre ogni tentativo di dialogo. Da molto tempo i due fronti si erano ormai irrigiditi nelle loro posizioni. Alcuni fanatici donatisti affetti da radicalismo religioso e chiamati 4circoncellioni’, che amavano proclamarsi santi, combattenti per la fede e soldati di Cristo, percorrevano il paese mendicando o in gruppi armati. Essi non indietreggiavano dinanzi alla violenza e al terrore, esigevano sempre nuove leggi sociali per la vita civile (l’abolizione della schiavitù, provvedimenti per i poveri ecc.) e, nell’ambito ecclesiastico, invocavano riforme rigoristiche che si accordassero con le loro teorie. Questi fanatici combattevano ovunque per la diffusione dei princìpi del donatismo e si distinguevano per le continue distruzioni di chiese cattoliche e per i maltrattamenti di religiosi e fedeli. L’autorità statale per quasi un secolo fu impotente contro questi esaltati e solo la dominazione dei vandali affrettò la fine di questo movimento eretico (430). Anche Agostino fu costretto a riconoscere che, contro questo fanatismo, stimolato dagli stessi vescovi donatisti, il linguaggio della ragione e dell’amore veniva vanificato, prima ancora di essere ascoltato. Durante un dibattito religioso, che egli organizzò e diresse a Cartagine nel 411, i 286 vescovi cattolici presenti si trovarono di fronte a una compatta schiera, costituita da 279 donatisti. Anche la più squisita cortesia trovò solo orecchi sordi. Per amore
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del sommo bene dell'unità e della pace della chiesa cristiana, Agostino e gli altri vescovi cattolici non esitarono a presentare le loro dimissioni dal ministero che ricoprivano, sperando con questo atto di riportare i donatisti alla fede comune, ma la loro generosità incontro solo un netto rifiuto, pieno di scherno, e nuove minacce di violenza. I cattolici sapevano fin troppo bene che cosa significasse il fatto che dei fanatici religiosi, per i quali la morte in combattimento contro i seguaci della chiesa di Roma era equiparata al martirio, venissero incitati nuovamente al terrore. In una situazione siffatta Agostino ritenne suo diritto Papplicazione «dell'amaro compelle intrare» (Joseph Lortz). In fin dei conti, poteva anche apparire problematico se fosse meglio servire la verità subordinando l'amore al diritto e all'uso della forza o, invece, sottomettere la forza all'amore. Agostino fu dunque il primo che, per amara esperienza, giustificò, sulla base della Bibbia, l’applicazione della forza nelle questioni di fede. Nella parabola del grande convito, poiché gli invitati si rifiutavano di venire al banchetto, Cristo aveva messo in bocca al padrone queste parole rivolte al servo: «Va' per le strade e lungo le siepi e forzali a entrare \compelle intrare], affinché la mia casa sia piena» (Le 14,23). Agostino, interpretando in un modo assolutamente errato il passo, lesse in queste parole l'invito a fare uso, se necessario, anche della forza per indurre gli eretici recalcitranti e i pagani a entrare nella chiesa. Egli non poteva immaginare a quali tremende conseguenze avrebbe portato la sua errata interpretazione. Ben presto essa fu formulata come un assioma legale: «Gli eretici debbono essere costretti alla loro salvezza, anche contro la loro volontà» (Decretum Gratiani c. 38, C. 23, q. 4) e, sostenuta dalla sua autorità, costituì la base dell’inquisizione medioevale. Anche Lutero si richiamò, nel suo infelice comportamento del 1525 contro i contadini e, alcuni anni più tardi, contro gli anabattisti (1529), a questa affermazione e Calvino, a Ginevra, fondò sulla medesima i suoi sanguinosi giudizi in materia di fede. Nel Nuovo Testamento sarebbe tuttavia impossibile trovare un solo passo che possa giustificare misure coercitive nell'ambito religioso. La sacra Scrittura afferma, infatti, chiaramente che la fede è solo una libera risposta dell’uomo all'appello di Dio. Resta quindi un mistero inspiegabile che proprio Agostino,
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il quale solo dopo anni di errori visse !,esperienza della conversione come appello della grazia divina, abbia potuto rendersi responsabile dell’erroneo sviluppo successivo della teoria sopra riportata. Egli, ovviamente, non approvò mai la pena di morte per gli eretici, la quale è piuttosto il risultato dell’indebita infiltrazione dell’auto־ rità statale - del brachium saeculare, come si diceva nel Medioevo nella sfera religiosa, perché si pensava che l’eresia non offendesse soltanto la religione, ma anche il bene comune, che si riteneva fondato sull’unità di fede.
3. Girolamo di Stridone Girolamo nacque nel 347 a Stridone (Dalmazia) e ben presto venne a Roma (circa 354), ove ricevette un’ottima istruzione. Durante un viaggio nelle Gallie ebbe modo di visitare, a Treviri, una colonia di monaci e decise di consacrarsi alla vita monastica. Ad Aquileia visse per un certo tempo con un gruppo di amici, dedicandosi all’ascetismo, e partì in seguito in pellegrinaggio per Gerusalemme. Strada facendo, si ammalò e, fermatosi ad Antiochia, si dedicò a studi esegetici, imparando il greco e l’ebraico. Dal 375 al 378 condusse, nel deserto di Calcide, una vita austera di eremita. Nel 379 fu ordinato sacerdote, ad Antiochia, e si recò poi a Costantinopoli (380/381), per ascoltarvi Gregorio di Nazianzo; strinse amicizia anche con Gregorio di Nissa. In seguito papa Damaso lo chiamò a Roma, ove visse, dal 382 al 385, alla corte pontificia, attendendo per conto del papa a una revisione del testo latino della Bibbia. Frutto di questi studi fu la versione che in seguito venne detta Vulgata. Girolamo era stato l’uomo di fiducia del papa e sembra che quest’ultimo lo avesse designato come suo successore, ma alla morte di papa Damaso (11 dicembre 384) il suo nome fu dimenticato durante l’elezione del nuovo pontefice. Le idee ascetiche professate da Girolamo e le critiche implacabili contro gli abusi del clero romano - a Roma egli fu al centro di un gruppo di asceti - gli alienarono le simpatie di molti e così, nel 385, abbandonò Roma e si recò, oltre Antiochia, in diversi monasteri di Palestina e d’Egitto. Nel 386 si stabilì durevolmente a Bedemme, ove morì il 30 settembre 419 o 420.
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Quando Girolamo fu costretto a lasciare Roma lo accompagnò la devota e ricca Paola, che gli fornì anche i mezzi necessari per la costruzione di tre monasteri di religiose e per un monastero di religiosi, che egli diresse personalmente, a Betlemme. In 34 anni di ininterrotta attività Girolamo produsse in Palestina una vastissima opera letteraria di grandissima importanza e significato. Egli fu «senza alcun dubbio il più dotto tra tutti i Padri della chiesa latina e il più grande erudito del suo tempo» (Berthold Altaner). Nonostante alcuni errori e debolezze, che debbono imputarsi soprattutto alla sua natura ardente e facilmente irritabile e alla sua suscettibilità nervosa, Girolamo fu sempre un nobile e sincero soldato di Cristo, con Tanimo acceso dall’ideale della vita monastica.
4. Gregorio I, Magno Papa Gregorio I (590-604), dalTvin secolo in poi, fu considerato il quarto fra i grandi dottori della chiesa occidentale. Nato intorno al 540, al confine stesso tra antichità e Medioevo, egli discendeva dall’aristocrazia senatoria e, già nel 572 o 573, era divenuto prefetto della città di Roma. Dopo la morte del padre Gordiano rinunciò a una brillante carriera (circa 575) e trasformò il palazzo avito in un monastero, che consacrò a sant’Andrea. Più tardi fondò altri sei monasteri in Sicilia, nelle terre che aveva ereditato, e visse egli stesso come un austero asceta, in monastica solitudine. Nel 579 fu tuttavia strappato alla sua pace. Papa Pelagio II lo inviò, infatti, come suo rappresentante (apocrisiario) a Costantinopoli, dove dovette fermarsi fino al 585. In mezzo ai disordini e agli intrighi della corte imperiale bizantina Gregorio visse come un monaco, dedito interamente alla preghiera e agli studi teologici. Al suo ritorno si rinchiuse di nuovo nel suo monastero, pur continuando sempre a servire il papa come consulente, tanto che alla morte di quest’ultimo, nel 590, nonostante la sua sincera ed energica resistenza, fu chiamato a succedergli. La storia darà a lui, come papa, l’appellativo di ‘Magno’ e i suoi quattordici anni di governo della chiesa furono infatti un periodo di grandissima importanza storica. Le 854 lettere che restano di papa Gregorio ci permettono di gettare lo sguardo sulla multifor
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me attività di Gregorio, all’interno e all'esterno della chiesa, e ci rivelano al tempo stesso la sua nobile personalità. Egli cercò anzitutto, attraverso l’abile amministrazione dei beni immobiliari della chiesa romana (patrimonium Vetri) e l’incremento del reddito, di aiutare concretamente la popolazione, ridotta alla più grande miseria dalle invasioni germaniche e dalle devastazioni causate dalla migrazione dei popoli. Fame, carestie ed epidemie avevano, infatti, oppresso tutta l’Italia. Mosso da puri sentimenti di responsabilità pastorale, sacerdotale e sociale, papa Gregorio fece il possibile per alleviare la sorte di quella gente disperata: fece distribuire il grano, protesse i contadini dei latifondi d’Italia e della Sicilia dallo sfruttamento e, visto che Bisanzio era venuta meno a questo suo compito, prese anche sotto la sua diretta protezione politica e militare la città e il paese. Quando i longobardi, nel 592 e 593, assediarono Roma, egli riuscì a persuaderli a ritirarsi mediante pacifiche trattative. Il suo orientamento all’Occidente fece epoca e indicò la strada del futuro. Papa Gregorio pose decisamente termine alla dipendenza unilaterale della chiesa romana da Bisanzio, instaurando una propria, personale politica. Egli comprese anche, con estrema chiarezza, l’importanza che avrebbero assunto nel futuro i popoli germanici e a questo scopo intavolò buoni rapporti con la casa reale di Francia. Il suo sguardo lungimirante si spinse anche oltre, fino in Inghilterra, ove avviò la cristianizzazione degli anglosassoni. È noto, infatti, che Gregorio nel 596 inviò in missione in Britannia Agostino, il priore del suo monastero romano di S. Andrea, insieme a una quarantina di altri monaci. E poiché nel regno ariano dei visigoti, con l’avvento al trono di re Recaredo (586) era in atto una profonda trasformazione, Gregorio fece ogni sforzo per cogliere i frutti del distacco dall’arianesimo e per legare più strettamente la chiesa goto-occidentale alla chiesa romana. Con uguale successo intraprese la conversione dei longobardi alla fede cattolica, grazie anche all’aiuto offertogli dalla regina cattolica Teodolinda. Con la composizione dello scisma che esisteva fra la chiesa milanese e quella romana, e che durava dal tempo della controversia dei Tre Capitoli, Gregorio riuscì anche a porre le solide basi per un nuovo sviluppo ecclesiale nell’Italia settentrionale. Tutta questa attività
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fece acquisire a lui personalmente e al papato una posizione di primissimo piano e di guida, che fino allora era stata pressoché impossibile in Occidente. Ma, ancora più grande fu Popera svolta da Gregorio Magno alPinterno della chiesa. Egli riformò il clero e a questo scopo, fin dai primi tempi del suo governo, redasse il Liber regulae pastoralis, il grande testo programmatico per la vita sacerdotale e Pattività pastorale. Per tutto il Medioevo questo scritto costituì il fondamento basilare per la formazione dei sacerdoti. L’altra sua opera, Moralia in Job (595), un vasto commento al libro di Giobbe, di orientamento teologico-morale e pratico, divenne il manuale fondamentale della teologia morale-ascetica per tutto il Medioevo. Nei quattro libri dei Dialogi, papa Gregorio descrisse, fra altre vite dei santi, quella del grande monaco d’Occidente Benedetto da Norcia, che il papa fece conoscere come primo e vero «padre del monacheSimo occidentale». Nel campo della liturgia Gregorio riformò la celebrazione della messa e stabilì il canone nella forma che ancor oggi si conserva {Sacramentarium Gregorianum). Probabilmente egli contribuì anche alla riforma del canto liturgico. Appare invece ancor oggi discutibile se e fino a qual punto egli possa essere considerato il creatore del cosiddetto corale gregoriano. In epoca molto più tarda gli fu attribuita la composizione di nuovi inni e persino di un trattato di musica, ma è tesi del tutto insostenibile e che ebbe forse origine dal fatto che Gregorio fu il fondatore della schola canforum romana. Gregorio Magno può ben dirsi, insieme ad Agostino, il padre spirituale e il dottore del Medioevo e, anche se la sua opera non raggiunse mai ?altezza di quella del vescovo di Ippona, nondimeno la sua attività, di uomo vissuto in un periodo segnato da profonde trasformazioni storiche e di precursore di tempi nuovi, fu straordinariamente imponente.
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§ 12. Ascetismo e monacheSimo nella chiesa antica 1. Storia del problema La Riforma protestante del XVI secolo non solo inferse un colpo durissimo alla struttura del monacheSimo, ma attentò anche in modo assai doloroso alla sua stessa dignità. Martin Lutero, che al pari di altri Riformatori era stato monaco, dopo la sua rottura con il passato dichiarò guerra aperta al monacheSimo. Da allora e per lungo tempo nessuno osò più occuparsi seriamente della storia del monacheSimo e quando finalmente la scienza storica del XIX secolo, allora in piena fioritura, si dedicò nuovamente a questo tema, la valutazione negativa che di esso avevano dato i Riformatori aveva quasi assunto valore di legge. Il monacheSimo era, infatti, concepìto come una negazione del mondo e una fuga dalla vita (Hermann Weingarten, 1876) e si credette persino di aver scoperto le sue origini nei *reclusi’ del tempio pagano di Serapide a Mentì. La storia comparata delle religioni, a sua volta, fece conoscere delle manifestazioni di vita monastica analoghe a quelle cristiane e presenti in altre religioni, e si ritenne di poter affermare che anche il monachesimo era un apporto venuto dal mondo pagano e, per ciò stesso, un corpo estraneo al cristianesimo. Alcuni pensarono di averne scoperto il prototipo diretto nel monacheSimo buddhista, ma si parlò anche di archetipi giudaici: gli esseni, la comunità di Qumran o i *terapeuti’ di Filone di Alessandria. Persino il motivo che aveva dato origine al movimento sembrò chiaro come la luce del sole: la nuova forma di vita cristiana, così si disse, era sorta come un moto di protesta, all’interno della chiesa, da parte di cristiani di sentimenti schiettamente spirituali e religiosi, contro la chiesa secolarizzata in seguito alla svolta costantiniana. Numerosi uomini e donne non avrebbero accettato il livellamento e l’impoverimento del cristianesimo evangelico, avrebbero protestato e voltato coscientemente le spalle alla chiesa gerarchica ufficiale e ai suoi ministri, perché questi e quella si erano piegati alla tentazione della chiesa di stato. Essi avrebbero perciò rinunciato al servizio divino, alla liturgia, e persino al sacrificio eucaristico, per scegliere la strada del deserto, «per essere con Dio soltanto».
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Tutte queste teorie, che sembrano quasi accettabili, purtroppo non sono altro che frutto di pura fantasia e rispecchiano unicamente lo spirito di coloro che le hanno inventate. Esse non trovano, infatti, alcun fondamento nella realtà storica e le fonti parlano un linguaggio assai diverso. Dall’inizio del XX secolo si sono avviate nuove ricerche per giungere a una comprensione più profonda del monacheSimo e, grazie a queste analisi storiche, sono apparse in più chiara luce non soltanto le origini del movimento, ma anche la sua intima essenza cristiana. Si è potuto così osservare che vi furono molte piccole fonti dalle quali nacque e fluì, fin dai primissimi tempi, il fiume del monachesimo. H fatto che ideali ascetici di analoga e di eguale natura siano stati constatati anche al di fuori del cristianesimo non ha alcuna importanza. L’aspirazione alla solitudine, alla pace, a una forma di vita spirituale più profonda, al perfezionamento morale ecc., corrisponde, infatti, a un’esigenza propria a tutti gli uomini, dalla quale i migliori si sono sempre lasciati avvincere. In questa visione umana più ampia anche !,aspirazione cristiana alla perfezione ha ritrovato la sua esatta collocazione. Le analogie del monacheSimo con movimenti spirituali sorti parallelamente nel mondo non-cristiano non ci turbano dunque più e ci appare invece più importante cercare di comprendere quale sia stato lo sviluppo cristiano di questa forma di umanesimo religioso sotto l’influsso della rivelazione e della grazia.
2. L'essenza del monacheSimo cristiano Il monacheSimo cristiano può essere valutato esattamente solo se si comprende la vera natura del cristianesimo e della chiesa. Esso è, infatti, un modo di autorealizzarsi della chiesa e le sue origini risalgono direttamente al vangelo. MonacheSimo significa, infatti, completa dedizione a Dio nella sequela di Cristo e volontà di attuare questa dedizione assoluta mediante la fedele osservanza dei ‘tre consigli evangelici’ (povertà, obbedienza e castità): «Chi vuole seguirmi rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Poiché chi vuol salvare la sua vita la perderà; chi, invece, perde la sua vita per causa mia, la troverà. Che giova, infatti, all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perderà la sua anima?» (Mt 16,24-26).
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Dedicarsi solo a Dio e vivere del suo santo carisma (= grazia): ecco il vero scopo di questa sequela di Cristo. Per conseguire questa meta e per non essere trattenuti su questa via da cosa alcuna, i veri discepoli di Cristo si privarono dei loro beni (povertà), dei piaceri del corpo e delle gioie familiari (celibato, rinuncia al matrimonio, per amore del regno dei cieli) e, infine, del loro stesso io (obbedienza). Alcuni totalmente e altri in grado minore: il vangelo non stabilisce, a questo proposito, una misura assoluta. Soltanto a colui «che può comprendere» (Mt 19,12) è proposta la dedizione totale, ma come consiglio, non come dovere. La salvezza è aperta a tutti. Dove finirebbe, infatti, l’universalità se la salvezza potesse essere raggiunta soltanto da pochi? La chiesa è abbastanza grande perché vi sia posto per tutti: per gli asceti che tendono alla perfezione, e per i deboli e i piccoli che devono pur raggiungere anch’essi la salvezza, poiché Cristo è morto anche per loro. Se essa, quindi, da un lato, proclama e sollecita il desiderio della perfezione, d’altro lato non contraddice affatto il suo compito, che è appunto quello di piegarsi sempre e con tutto il suo amore sulle moltitudini umane. Ogni scelta unilaterale significherebbe un rinnegamento della sua doverosa missione di salvezza e sarebbe eresia nel senso più forte della parola. Nulla, infatti, nuoce di più alla chiesa di ciò che la rende meschina e parziale. La chiesa dei primi secoli dovette sempre guardarsi dal pericolo di rinchiudersi in un puro cerchio di eletti. La tentazione di operare una scelta fu grande: è, infatti, pur sempre qualcosa che affascina vedere avanzare sulla via della perfezione persone piene di entusiasmo e di assoluta dedizione e, indubbiamente, queste erano spesso personalità ‘carismatiche’, profondamente religiose e trasci־ nanti, anime traboccanti di santo idealismo. Nella chiesa primitiva incontriamo sempre tali figure di asceti. Dediti interamente al servizio delle comunità, essi erano considerati modelli di vita cristiana e, al tempo delle persecuzioni, si guardava a loro come a stelle luminose. Già Paolo, nella Lettera ai Corinzi (1 Cor i) si rivolge a un gruppo di queste persone. Per l’apostolo Yenkràteia, la continenza per amore del regno dei cieli, è un particolare dono della grazia che acquista grande importanza di fronte alla fine del mondo ormai prossima. Ma Paolo aggiunge anche, in modo estremamente
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chiaro: «Ciascuno rimanga nello stato in cui si trovava quando fu chiamato» (1 Cor 7,20). L’eresia ebbe inizio quando il ‘consiglio evangelico’ fu trasformato in un imperativo, in un comando obbligatorio per tutti. Nel generale entusiasmo del II secolo, riaffioravano sempre nuovi ‘encratiti’, che affermavano categoricamente che tutti i cristiani dovevano astenersi dal matrimonio; vivere cristianamente significava per loro vivere encraticamente; chi non voleva vivere in tal modo o non era in condizioni per poterlo fare non apparteneva alla chiesa. Essi vagheggiavano l’idea di una ‘chiesa dei santi’, dei ‘puri’ (katha־ róiy catari) e ‘perfetti’, dalla quale dovevano essere esclusi tutti i deboli e i peccatori; Marcione, Taziano, Montano, Tertulliano e Donato - in breve, tutti gli eretici - esaltavano siffatte pretese e scrivevano sui loro vessilli: perfezione, santità e religiosità profonda. Sbandierando queste stesse parole tutte le eresie, nate nel corso ulteriore della storia, si mossero e si muovono in lotta contro la chiesa cattolica rimproverandole sempre, allora come oggi, la sua rilassatezza di costumi, la sua apostasia e la falsificazione del vangelo. E quindi estremamente opportuno precisare bene che la chiesa ha sempre concesso spazio legittimo a ogni giusto desiderio di perfezione, senza tuttavia incorrere per questo in una generalizzazione unilaterale ed eretica. Ascetismo e monacheSimo rappresentano perciò una componente essenziale nella vita della chiesa; essi non sono cioè soltanto una forma qualsiasi di realizzazione cristiana, ma testimoniano, attraverso la vocazione che li caratterizza, la santità, il carisma e l’attesa ardente del ritorno di Cristo in seno alla cristianità. La chiesa ha bisogno di essi, di essi vive e da essi riceve continuamente la forza necessaria per non venir mai meno nella sua missione per il mondo enei mondo. Nonostante la sua apertura sul mondo e il suo attento ascolto delle voci di tutte le creature, la chiesa non può, infatti, mai confondersi con il mondo. «Indivisa e non confusa», secondo la formula di Calcedonia, proseguendo l’incarnazione di Cristo, essa deve vivere la sua vita nel mondo e adempiere il suo mandato. La missione del monacheSimo è appunto queUa di testimoniare a tutti i cristiani la necessità del distacco dal mondo e, al tempo stesso, i valori essenziali della vera vita cristiana. In questa forma di
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vocazione non si deve vedere tuttavia né un'ostilità verso il mondo, né una fuga da esso, bensì semplicemente una linea essenziale di realizzazione cristiana alTintemo della chiesa. Il monacheSimo è chiamato a incarnare questo mandato in ogni tempo, poiché la chiesa corre sempre il pericolo di smarrirsi nel mondo. In certe epoche questa tentazione è stata più forte che in altre, ma proba־ bilmente in nessun'altra epoca lo fu in misura tanto grande come nel IV secolo. La ‘svolta costantiniana* aveva liberato immense energie, le quali in gran parte contribuirono a dar vita a un vigoroso slancio mis־ sionario, che cercò di conquistare il mondo a Cristo e di permearlo di spirito cristiano. I fautori della vita attiva ritennero di poter conseguire questo scopo servendosi di mezzi politici superficiali, ma la vera fede cristiana non tollera nessuna gracilità morale, né alcuna forma di politicizzazione. Nacque così, scaturendo dall'interno stesso della vita ecclesiale, il monacheSimo come risposta divina alle difficoltà dell'epoca. Con un impeto singolarissimo ed elementare esso fece la sua comparsa in epoca costantiniana e, nel IV e V secolo, crebbe fino a divenire un vero e proprio movimento, in cui confluirono tutti gli strati del popolo cristiano. Quest'epoca testimonia soprattutto una vigorosa tendenza ascetica, le cui radici risalivano ai tempi delle ultime persecuzioni. I migliori fra i cristiani sentirono il dovere della loro santificazione, in armonia con le parole del vangelo, e negli asceti e nei monaci cristiani tornò a rivivere, in qualche modo, il carisma del primitivo cristianesimo, vale a dire quell'entusiasmo e quella fede, orientata escatologicamente, che caratterizzarono i primi tempi della chiesa. Sembrò quasi che lo spirito dei martiri rivivesse in quello dei monaci e degli asceti, uomini interamente dediti a Dio e fermamente decisi a conformare la loro vita a quella di Cristo, che cercarono la solitudine e il deserto per meglio testimoniare il Cristo e per donarsi completamente a Dio. Chi legge le vite dei Padri del deserto Antonio e Pacomio, i due ‘fondatori' del monacheSimo, o medita attentamente la letteratura monastica e gli apoftegmi (detti dei Padri) dell'epoca posteriore, non può fare a meno di meravigliarsi nel veder affiorare in queste austere figure di asceti tanti tratti di squisita gentilezza, tanto solle
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cita indulgenza e ricchezza di carità verso il prossimo. Quegli uomini erano, infatti, ricchi di profonda vita interiore e, al tempo stesso, di larga comunicativa. Ora, siffatti uomini non consentono nessuna interpretazione negativa. I monaci vissero pienamente nella chiesa e nel mondo svolgendovi una missione altamente positiva. Dalla dinamica religiosa, peculiare a questo monacheSimo, dovevano trarre vigore e fecondità quelle forze che erano necessarie per attuare pienamente i compiti religiosi dell’epoca. Questo spiega perché tutti i grandi santi e i Padri della chiesa di quel tempo o furono monaci o vissero in grande familiarità con il monacheSimo.
3 . 1 grandi Padri del monacheSimo Verso la metà del III secolo - le prime notizie che possediamo parlano di asceti egiziani ־־si produsse quell’importante mutamento che vide uomini carismatici, già legati alla vita comunitaria, trasformarsi in solitari anacoreti. Essi cercavano il silenzio e la solitudine, in lontane regioni o nel deserto. Antonio fu il primo eremita di cui si ha sicura notizia storica. La sua vita fu scritta da Atanasio (Vita Sancti Antonii, 357) che lo conobbe personalmente. Nato nel 251 a Coma (oggi Qemah), nel Medio Egitto, dopo la morte prematura dei genitori Antonio vendette e regalò ai poveri, seguendo il consiglio di Gesù (cfr. Mt 19,21), i suoi molti beni, portò la sorellina in un monastero femminile e si ritirò (verso il 271), all’età di vent’anni, in solitudine. Visse dapprima nelle vicinanze del suo luogo natale, ma poi si inoltrò nel cuore del deserto e infine, poiché anche qui temeva di essere distratto dalle visite, scelse una montagna brulla e di difficile accesso, al di là del Nilo. Atanasio ci ha riferito della sua lotta per la santità e dei suoi combattimenti con i demoni (Matthias Griinewald dipingerà in seguito, fra il 1512 e il 1514, nella pala d’altare di Isenheim, il travaglio dell'eremita). Il suo biografo ci ha anche parlato della grande forza d’attrazione che Antonio esercitò su uomini d’ogni tipo: giovani che desideravano seguire le sue orme, uomini bisognosi d’aiuto, indigenti e malati, vescovi e sacerdoti che cercavano un padre spirituale e persino l’imperatore Costantino e i suoi figli, ricorsero a lui. Antonio non ebbe timore di partecipare alla
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vita del mondo e lo fece sempre, ma non come politico, bensì da vero carismatico, da annunciatore di una volontà più alta, come spetta a un profeta di Dio. E quando, nel 356, all’età di 105 anni egli morì, intorno a lui era fiorita una numerosa comunità di monaci. Antonio fu il vero fondatore delTeremitismo. Pacomio (287347 )־si spinse ancora più innanzi sulla stessa strada. Anch’egli iniziò come eremita (attorno al 308), ma in seguito, verso il 320, fondò il primo ‘monastero’, riunendo insieme le celle costruite Puna accanto all’altra e i suoi abitanti in vita comune (= koinòs btos, coenobium, cenobitismo). Il primo monastero sorse a Tabennisi, sul Nilo, ed era semplicemente una casa con molte celle, recinta da un muro. Pacomio edificò poi altri nove monasteri maschili, e due femminili; alla fine, aveva raccolto 9.000 monaci nella sua comunità conventuale cui dette una regola per la preghiera e il lavoro quotidiano, provvedendo altresì, con un’abile organizzazione, al sostentamento collettivo. Il nome monaco (monachus = chi vive solo, solitario), a rigore, non si addiceva più a questo tipo di vita, ma Pacomio non si soffermò su questa sottile distinzione filologica, ben sapendo che ogni religioso era tenuto a condurre nella sua cella una vita isolata, nel silenzio e nella tacita contemplazione. Pacomio fu il padre del cenobitismo. Dall’Egitto si diffusero ben presto, nell’intero Oriente, entrambi i tipi di monacheSimo. Basilio il Grande (t 379) dette al monachesimo cenobitico una regola, che presto divenne la regola predominante nell’intero monacheSimo orientale. In Oriente, tuttavia, la vita eremitica continuò ancora c assunse persino alcune forme estreme, per non dire singolari: come nel caso degli stiliti (= coloro che stanno su colonne) o degli inclusi o reclusi, che si facevano murare per lungo tempo in una cella ecc. L’Occidente conobbe il monacheSimo per la prima volta grazie ad Atanasio; quand’egli fu esiliato a Treviri (335), lo accompagnarono due monaci. In seguito, la diffusione in tutto l’Occidente della sua Vita S. Antonii aiutò moltissimo a far meglio conoscere il movimento monastico. I vescovi Ambrogio di Milano, Girolamo, Agostino e Martino di Tours, furono fervidi promotori del monachesimo. Agostino scrisse la prima regola monastica occidentale (388/389 e 391/393) per la sua comunità di chierici di Tagaste e di
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Ippona. Dopo una temporanea eclissi, dovuta all’ampio diffondersi della regola di san Benedetto, la regola agostiniana guadagnò di nuovo gran favore nell’alto Medioevo e continua a vivere ancor oggi tra gli agostiniani. Più tardi, il monaco Giovanni Cassiano, che aveva visitato l’Egitto e, nel 415, aveva fondato il monastero di S. Vittore, presso Marsiglia, redasse due preziosi libri di meditazione che possono essere considerati vere e proprie regole. Ma chi veramente fissò stabilmente i caratteri del monacheSimo occidentale fu Benedetto da Norcia. Benedetto (circa 480547 )־abbandonò molto presto i suoi studi romani per amore della solitudine. Ad Affile (Enfide), presso Roma, fece parte dapprima di una comunità d’asceti, poi per tre anni si dedicò alla vita eremitica in una caverna della valle dell’Aniene, vicino a Subiaco, e guidò, come superiore, una comunità di eremiti. Amareggiato da tristi esperienze, pensò di riunire i monaci in monasteri, per poter attendere con maggior rigore alla loro formazione. Nel 529 si trasferì perciò a Montecassino, ove redasse la sua Regola (la cosiddetta Regula Benedirti), ricca tanto di sapienza e di moderazione quanto di gravità e profondità, che guadagnò ben presto larghissima fama.
§ 13. Roma e i patriarcati (l’Oriente• La questione del primato 1. La comunità romana La comunità romana ebbe, fin dall’inizio, un posto predominante in seno alla chiesa universale. In Occidente essa fu sempre riconosciuta come la guida suprema, perché era la più antica, la più grande c l’unica comunità apostolica occidentale. In genere, il grado di una comunità era misurato dall’importanza del suo fondatore (apostolico) e poiché da tempo immemorabile la tradizione aveva proclamato l’apostolo Pietro fondatore della comunità romana, questo primato appariva altrettanto indiscusso quanto lo era la particolare posizione di Pietro in seno al collegio degli apo
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stoli. Accadde così che Roma godesse già fin dall'inizio di una funzione di guida in quasi tutti i campi della vita della chiesa. La comunità romana, nonostante persecuzioni e travagli d'ogni genere, crebbe nel n secolo in numero e in importanza. Alla metà del III secolo il numero dei suoi membri può valutarsi ad almeno 30.000; essa contava 151 chierici e 1.500 vedove e poveri. La sua posizione nella capitale dell'impero le permetteva di usufruire di vastissimi appoggi e, ben presto, essa annoverò tra i suoi membri uomini e donne autorevoli e di elevata posizione sociale e, talora, potè far valere la sua influenza persino al palazzo imperiale, per proteggere i cristiani perseguitati e oppressi. La sua attività caritàriva e l’assistenza offerta ai poveri furono sempre lodate. Le altre comunità si facevano quindi dovere, e di fatto erano obbligate, ad avere e mantenere strettissimi rapporti con la comunità romana: Roma rappresentava infatti un punto di cristallizzazione dell'unità della vita cristiana. In modo particolare, il vescovo di questa città acquisi una posizione singolarissima, fondata sul fatto che egli, secondo quanto risultava dalle liste episcopali, poteva far risalire la sua successione apostolica direttamente a Pietro. Ciò significava che il patrimonio della rivelazione, tramandato da Cristo e dagli apostoli, era conservato nel modo più sicuro e più puro dal vescovo di Roma, poiché la continuità diretta con gli apostoli e con la chiesa primitiva costituiva la migliore garanzia per la purezza della fede. Il vescovo romano usufruì quindi ben presto di una particolare autorità d'insegnamento. Già fin dal n e dal III secolo, gli eretici solevano recarsi a Roma per giustificarsi; così fecero Marcione nel 139, Montano e i maggiori esponenti dello gnosticismo. Anche i difensori dell'ortodossia cristiana cercarono e trovarono aiuto a Roma: si pensi ad Atanasio, nel 339/340. Questa preminenza della sede romana non impedì tuttavia che il centro di gravità dell'elaborazione teologica si mantenesse sempre in Oriente, dove si tennero anche i grandi concili. Non sempre, infatti, il pensiero dei teologi coincide necessariamente con il magistero della chiesa e sarà esso che dovrà decidere se un'opinione teologica sia contenuta o meno nella tradizione apostolica e appartenga al patrimonio della rivelazione.
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Anche in questioni di diritto e di disciplina ecclesiastica, il vescovo di Roma godette fin dai primi tempi di una singolare autorità. Un primo, chiaro accenno della sua supremazia, si può già avvertire nella Prima lettera di Clemente (96 circa), ove si parla della composizione di un conflitto sorto nella comunità di Corinto. Uintervento di papa Vittore (189-199) nel famoso conflitto circa la data della Pasqua e le controversie di papa Stefano I (254-257) con Cipriano di Cartagine, sulla questione del battesimo amministrato dagli eretici, segnarono un ulteriore sviluppo di questa autorità del vescovo romano. Nessuno, tuttavia, potrà onestamente affermare che già in questi avvenimenti si manifesti la rivendicazione di un vero primato giurisdizionale. Ma poiché questo primato, come tutte le cose storiche, ha avuto un lento e graduale sviluppo prima di giungere al suo pieno dispiegamento, è storicamente doveroso coglierne qui i primi indizi.
2. La questione del primato La questione del primato del vescovo di Roma è più complessa di quanto si potrebbe spesso arguire dalle sommarie affermazioni degli storici della chiesa. Per comprendere nei suoi esatti termini il problema, si deve anzitutto distinguere chiaramente la posizione del successore di Pietro: primo, come vescovo di Roma e metropolita della provincia ecclesiastica romana; secondo, come patriarca della chiesa latina d’Occidente; e terzo, come detentore del ministero di Pietro, che egli possiede in quanto suo diretto successore ed erede a Roma. Si dovrà quindi precisare, a seconda dei casi, se la sua autorità si è fatta valere come vescovo, come patriarca o come successore di Pietro. La difficoltà maggiore sta forse nel distinguere il primato dal patriarcato. Lo sviluppo della costituzione ecclesiastica avvenne, a grandi linee, nel modo seguente: le singole chiese episcopali rappresentarono il nucleo essenziale, in quanto dirette fondazioni apostoliche; ben presto molte di esse si associarono in una unità organizzata. Spesso la metropoli politica coincise con la metropoli ecclesiastica per le città vescovili della provincia e il capoluogo della provincia fu, nella maggior parte dei casi, il punto di partenza dell’attività
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missionaria. Le città provinciali furono in tal modo saldamente unite con un rapporto, diciamo così, filiale alla chiesa madre metropolitana. I metropoliti esercitavano certi diritti di tutela sulla loro provincia, per esempio per reiezione dei vescovi e in materia disciplinare. Erano loro che confermavano e consacravano gli eletti, che convocavano e dirigevano i sinodi provinciali e costituivano Tistanza d’appello per i tribunali episcopali. Roma esercitava questi diritti per l’Italia, Cartagine per l’Africa settentrionale, Alessandria per l’Egitto, Antiochia per la Siria ecc. 11 nuovo assetto dell’impero, voluto da Diocleziano, ebbe indubbiamente un forte contraccolpo sull’organizzazione ecclesiastica. Diocleziano, come è noto, divise l’impero in 100 province e queste, a loro volta, in 12 diocesi. Al governo monarchico sostituì una tetrarchia, assunse, come secondo augusto, Massimiliano, per condividere il supremo potere, e nominò due Cesari, Galerio e Costanzo Cloro, come coreggenti. Nonostante la divisione dell’impero in quattro parti, l’unità fu tutelata, perché Diocleziano continuò a detenere la massima autorità. Se è vero, infatti, che ognuno dei reggenti esercitava un potere autonomo nell’ambito affidatogli, l’imperatore era tuttavia sempre riconosciuto come capo supremo nell’intero impero, emanava le leggi imperiali in nome proprio e batteva moneta. Fu proprio in questo tempo che sorsero nella chiesa le circoscrizioni supermetropolitane. Il concilio di Nicea (325) aveva già sanzionato l’«antica consuetudine» per cui Alessandria, Antiochia e altre ‘eparchie’ usufruivano del privilegio di esercitare nelle loro circoscrizioni gli stessi diritti supremi che spettavano a Roma. Gerusalemme possedeva invece una supremazia d’ordine onorifico. La dignità del patriarcato fu quindi confermata dal diritto conciliare e il modo stesso con cui il concilio si espresse rivela tuttavia chiaramente che i diritti patriarcali di Roma erano i più antichi e che furono estesi agli altri patriarcati. Quando, nel 330, Costantino trasferì la sua sede imperiale dall’antica alla nuova Roma, vale a dire a Bisanzio, che da allora in poi si chiamò Costantinopoli, si creò una situazione del tutto nuova. Il centro della vita politica si spostò, infatti, in Oriente e, nella misura stessa in cui Costantinopoli andò progressivamente aumentando la sua autorità e il suo potere, diminuì l’importanza politica dell’anti
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ca Roma. Di pari passo, crebbe anche !,influenza del vescovo di Costantinopoli. La sua autorità si dimostrò soprattutto in occasione della controversia sorta con i patriarcati d'Oriente. Nel secondo concilio ecumenico di Costantinopoli (381) venne formalmente accordato alla sede di Costantinopoli un posto davanti ad Antiochia e ad Alessandria, immediatamente dopo quello riservato alPantica Roma. Come si vede, la preminenza di Roma sui patriarcati era stata di nuovo riconosciuta e, del resto, Costantinopoli non avanzò ancora alcuna pretesa di circoscrizione patriarcale di tipo giurisdizionale. Ma nel frattempo stava maturando qualcosa di nuovo. Nelle lotte dogmatiche del IV secolo era andata sempre più crescendo la tensione che già esisteva fra Oriente e Occidente. Nel corso dei conflitti ariani, in cui Roma restò sempre irremovibilmente fedele alle definizioni di Nicea, Atanasio, nel 339, quando la sua sede vescovile fu occupata da un ariano, aveva cercato protezione a Roma presso papa Giulio. Da Roma egli continuò a lottare per difendere i suoi diritti e, nel 341, papa Giulio inviò uno scritto ai vescovi orientali, in cui dichiarava formalmente di rendersi garante per Atanasio. La volontà del papa trovò tuttavia un'accanita resistenza. Il sinodo di Sardica (342/343), che doveva ristabilire Atanasio nei suoi diritti, provocò la prima aperta scissione fra Oriente e Occidente. Gli orientali rifiutarono la loro approvazione ad Atanasio e abbandonarono protestando il concilio, mentre i vescovi occidentali riconfermarono solennemente al vescovo di Roma il supremo potere di decisione (per !,Occidente), restituirono ad Atanasio la sua sede episcopale e scomunicarono i capi (ariani) dell'Oriente. Gli orientali, da parte loro, respinsero le rivendicazioni dell'Occidente e scomunicarono a loro volta gli occidentali partecipanti al sinodo. La chiesa orientale e quella occidentale vennero così a conflitto l'una contro l'altra. Nel 381 il dissidio fu superato, ma la tensione, che si era ormai chiaramente manifestata, perdurò a lungo come una cattiva eredità e le divergenze, che nel corso dei secoli si andarono facendo sempre più grandi, portarono infine alla rottura definitiva: allo scisma del 1054. Il trasferimento di Costantino a Bisanzio indebolì fortemente la sfera d'influenza politica occidentale, anche se l'insediamento del-
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!,imperatore nella nuova Roma favorì e assicurò al vescovo romano uno sviluppo autonomo nell’ambito ecclesiastico. E poiché Roma era ormai considerata soltanto una sede patriarcale in Occidente, si comprende facilmente come lo sviluppo del patriarcato abbia proceduto di pari passo con il risalto dato al primato. I papi Damaso I (366384)־, Silicio (384399 )־e Innocenzo I (402417 )־lo riaffermarono con grande energia, mettendo soprattutto in luce, di fron־ te alle rivendicazioni politiche di Costantinopoli, in un modo sem־ pre più deciso la fondazione religiosa del primato nella persona di Pietro. Il passo di Mt 16,18 («Tu sei Pietro e su questa pietra io edificherò la mia chiesa...») acquisì un’importanza sempre maggiore. Papa Leone I Magno (440461 )־non mostrò mai il minimo dubbio che il primato appartenesse al vescovo di Roma e che esso si esten־ desse anche sulla chiesa d’Oriente ed ebbe modo, più di una volta, di far valere questo suo diritto. Nel quarto concilio ecumenico di Calcedonia (451) i legati pontifìci erano insediati ai posti di presidenza. I legati del pontefice presenti a Calcedonia, tuttavia, non poterono impedire che nel can. 28 fossero attribuiti al patriarca di Costantinopoli diritti uguali a quelli posseduti dal vescovo di Ro־ ma. Ora, fintanto che erano in questione i soli diritti patriarcali, non vi era nulla da obiettare, ma quando si trattava di diritti primaziali, che a Roma erano connessi in modo strettissimo con la sede episcopale, la cosa poteva diventare assai pericolosa. E fu proprio per questo che papa Leone Magno protestò energicamente contro il can. 28.
3. La Roma antica e la nuova Roma Nel periodo successivo, la posizione primaziale fu occasione di lunghi dibattiti, tanto a Roma quanto a Costantinopoli. Costantinopoli fondava le sue pretese unicamente sulla sua posizione politica, ma, così facendo, fu attratta sempre più nell’orbita del potere imperiale bizantino e, nella misura in cui in Oriente politica e reli־ gione entrarono in collusione fra loro, la posizione del patriarcato andò progressivamente perdendo la sua indipendenza. In Occidente, invece, la situazione era profondamente diversa. La decadenza dell’impero romano d’Occidente favorì l’autonomia
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della chiesa. Nel 410 Roma subì ?invasione e il saccheggio di Alarico, re dei visigoti, e ?imperatore Onorio (395423 )־non potè opporre la minima resistenza. Nel 451 comparvero gli unni e la nuova calata dei barbari portò con sé morte e distruzioni, ma il debole imperatore Valentiniano IH (425-455) fu del tutto impotente ad arrestare i nuovi invasori. Roma sembrò completamente abbandonata al suo terribile destino. Ma papa Leone Magno mosse coraggiosamente incontro ad Attila, re degli unni, e ottenne che Roma fosse risparmiata (452). La considerazione di cui il papato già godeva agli occhi del popolo romano crebbe in quell’occasione grandemente. Nel 455 i vandali si affacciarono minacciosi alle porte di Roma e, ancora una volta, tutti gli sguardi si appuntarono su Leone Magno, il quale, se non potè impedire il saccheggio della città, ottenne tuttavia da Genserico che Roma fosse risparmiata dal?incendio e dalla strage. Grazie a questo intrepido pontefice la posizione del papato fu consolidata in modo tale che esso potè superare senza difficoltà la difficile crisi che seguì la fine dell’impero romano d’Occidente (476). Papa Gelasio I (492-496) costruì su questa base la sua teoria dei due poteri: ?autorità spirituale è indipendente da quella temporale; ognuna è qualificata per l’ambito che direttamente le compete; il potere spirituale ha tuttavia un’importanza maggiore, poiché anche i re debbono rendere conto a Dio delle loro azioni. D ’altro canto, anche coloro che reggono le sorti della chiesa debbono obbedire, nel campo dell’ordine pubblico, alle leggi imperiali. Così si espresse autorevolmente papa Gelasio, scrivendo all’imperatore d’Oriente Atanasio, formulando quel dualismo dal quale dipenderà tutto il futuro sviluppo dell’Occidente.
parte seconda
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§ 14. Divisione e struttura fondamentale del Medioevo occidentale 1. Periodizzazione e denominazione La storia scorre con un flusso vitale organico che non conosce interruzioni e tutti i tentativi di periodizzazione appaiono quindi discutibili. Con essi si può cogliere infatti solo un aspetto parziale e mai lo svolgersi dei fatti nella loro interezza. Già la denominazione di ‘Medioevo’, per caratterizzare il periodo che va dal 500 al 1500 circa, appare infelice e priva di reale contenuto. L’espressione fu coniata dalla filologia e si basa su un disconoscimento dei veri valori di quell’epoca. Gli umanisti del XV secolo, che cercarono di far rivivere nei loro scritti lo splendore formale della lingua latina dei tempi classici, considerarono tutto ciò che fu detto o scritto dopo l’antichità come una degenerazione del latino e vissero nell’intima convinzione di aver fatto rinascere un’epoca nuova, caratterizzata da una nobile e alta forma espressiva. L’intero periodo storico intermedio, compreso fra classicità e rinascita, fu da loro definito semplicemente come ‘barbaro Medioevo’. I Riformatori del XVI secolo espressero poco dopo idee analoghe a quelle degli umanisti. A loro avviso, solo la chiesa primitiva aveva incarnato l’unica forma valida di cristianesimo e su di essa doveva quindi rimodellarsi tutta la riforma della chiesa. La degenerazione era cominciata già in epoca costantiniana, ma la decadenza
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si era ancor più accentuata nei secoli seguenti; ora, tuttavia, con la Riforma avrebbe avuto inizio una nuova stagione della religione cristiana. Le chiese riformate volevano riallacciarsi direttamente all’antichità cristiana e il tempo di mezzo, l’epoca cioè della chiesa papale anticristiana, doveva essere superato e dimenticato. In piena armonia con queste idee il professor Cristoforo Cellario, cittadino di Halle (16341707)־, pose per primo a base della sua opera storica la divisione in Antichità, Medioevo e età Moderna. L’Illumini־ smo, in seguito, conferì a questo quadro colori ancora più foschi. Si dovrà attendere il Romanticismo del XIX secolo per riscoprire le grandi creazioni dell’epoca medievale, soprattutto nell’arte e nella letteratura. E, dopo che la nascente scienza storica, unita־ mente all’entusiasmo per il passato nazionale e alle imponenti pub־ blicazioni delle fonti storiche (pensiamo soprattutto ai Monumenta Germaniae fosforica), aprì la strada, si potè finalmente intraprendere un intenso studio di questo periodo e, grazie a queste ricerche, ne apparvero in modo sempre più evidente gli aspetti lumino־ si e quelli oscuri. Oggi possiamo perciò guardare al Medioevo, considerato nella sua totalità, con ammirazione e solo l’ignoranza e il pregiudizio possono permettere che si continui a parlare ancora di ‘oscuro Medioevo’. Non per questo appare tuttavia più facile delimitare cronologi־ camente questo periodo storico. Se, infatti, si considerano la caduta dell’impero romano d’Occidente (476) e la migrazione dei po־ poli come il confine ideale fra l’antichità e il Medioevo, si potrà sempre obiettare che entrambi gli avvenimenti hanno contribuito in minima parte all’instaurazione della nuova età. Non si può, infatti, affermare, a rigore, che i regni germanici del tempo delle mi־ grazioni avessero già assunto i caratteri di vere potenze storiche, poiché appartenevano ancora interamente all’antichità e tutti, infatti, tramontarono con questa. Anche l’invasione degli arabi nell’area del Mediterraneo non può essere considerata un elemento decisivo per una nuova configurazione del volto dell’Europa, come invece qualcuno ha creduto (Henri Pirenne, 18621935)־. L’ondata araba dette certo il colpo di grazia all’antica cultura mediterranea, ma non fondò per questo la nuova cultura del Medioevo. L’unico e vero legame tra l’antichità e il Medioevo fu invece costi
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tuito dalla chiesa cattolica e solo quando venne conclusa un’alleanza tra la cristianità cattolica e il germanesimo fu creata una delle basi essenziali per la formazione di quella comunità di popoli e di cultura occidentale che caratterizzò il Medioevo. Di primaria importanza storica si rivelò, infatti, non tanto l’arianizzazione delle stirpi germaniche, quanto piuttosto il battesimo cattolico di Ciòdoveo (496). I franchi, una volta che si furono convertiti al cristianesimo cattolico, poterono radicarsi culturalmente e fondersi reli־ giosamente con la popolazione romana indigena, il che invece era stato sempre impedito proprio dalTarianesimo delle precedenti stirpi germaniche. Difficile è anche stabilire chiaramente quando ebbe fine il Medioevo. Né il Rinascimento, né la caduta di Costantinopoli nel 1453 possono essere considerate cesure tanto profonde da permettere di affermare che, grazie a esse, abbia avuto origine una nuova epoca. Più probabilmente, si potrà invece considerare la frattura della fede, avvenuta nel XVI secolo, come una delimitazione essenziale, poiché essa lacerò definitivamente Punità della chiesa. E tuttavia, neppure tale frattura riuscì a spezzare la base comune su cui poggiava l’Occidente cristiano. I popoli dell’Europa non furono, infatti, coinvolti nelle divisioni delle chiese e restarono ancora uniti fra loro, legati strettamente dai vincoli della cultura, della scienza, dell’arte, della tecnica e dei costumi. Persino nella vita interna della chiesa si conservarono forme e istituzioni medievali, oltre il periodo della Riforma (ordinamento feudale, prebende, forme devozionali ecc.), che, in parte, furono spazzate via soltanto dalla rivoluzione francese, dall’Illuminismo e dalla successiva secolarizzazione.
2. Antichità, cristianesimo e germanesimo L’evoluzione storica del Medioevo si basa sulla triade: antichità, cristianesimo e germanesimo. E un fatto di portata storica capitale che, proprio in quest’epoca, il teatro della storia della chiesa si sia spostato dall’area mediterranea verso il nord. Di importanza decisiva per il successivo sviluppo storico fu infatti l’ingresso dei giovani popoli germanici nella chiesa. A questo proposito, è bene guar
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darsi dall’errore di rappresentarsi i germani come popoli ‘selvaggi’ o ‘semi-selvaggi’, anche se è vero che ai romani essi apparvero spesso come genti 4barbare’ che, con le loro spedizioni militari e con le loro guerre di conquista, avevano distrutto la cultura e la civiltà del loro impero. E innegabile invece che, in tempo di pace, i germani rispettarono e ammirarono sempre le realizzazioni della cultura e della civiltà dell’impero romano e che, generalmente, si posero di fronte a questa cultura con animo aperto e docile. Resta comunque il fatto che i germani appartenevano a una cuitura diversa e più primitiva e sarà possibile comprendere esattamente la portata e il significato del cambiamento profondo che esiste fra l’antichità cristiana e il Medioevo soltanto se si terrà ben presente l’immenso contrasto che esisteva fra la raffinatissima cuitura delle città dell’area greco-romana e l’ambiente rozzo e contadino, tipico di queste stirpi germaniche. Una discordanza così pròfonda non poteva non ripercuotersi sulla vita della chiesa e sull’intero sviluppo culturale del Medioevo. Quanto più intimamente germanesimo e cristianesimo si compenetrarono fra loro, tanto più forte fu la reciproca influenza. Nella prima epoca (500-700) l’incontro tra le due civiltà fu del tutto superficiale e avvenne grazie all’attività missionaria. E anche dopo che Clodoveo, nel 496, ebbe ricevuto il battesimo insieme al suo popolo, continuarono a persistere usanze, costumi e opinioni pagani che condizionarono ancora per due secoli la vita dei franchi. Gregorio di Tours (538-594), lo storiografo dei franchi di questa epoca, ci informa al riguardo ampiamente. Molto tempo dovette passare, prima che i battesimi collettivi apportassero un vero miglioramento interiore e la misera catechesi che li preparava e li seguiva favorì nei battezzati l’impressione che Tessersi convertiti al cristianesimo non implicasse affatto abbandonare il vecchio tipo di vita. Solo con la seconda epoca (700-1050) si giunse a una compene־ trazione più profonda, dopo che i monaci anglosassoni ebbero preparato il terreno con una seconda ondata missionaria. Bonifaciò e Carlo Magno crearono le premesse per la formazione dell’Occidente cristiano, adoperandosi attivamente per la stipulazione di un’alleanza tra la chiesa cattolica romana e il regno dei fran
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chi. In un primo momento, la vigorosa e concreta componente naturale germanica continuò ancora a dominare gli animi. Opinioni pagane precristiane influirono sulle credenze nell’esistenza degli spiriti, sull’uso degli esorcismi, delle pratiche magiche, delle ordaHe, dei dueHi, sulle prove con l’acqua, sulle vendette di sangue ecc. Solo gradualmente si potè giungere a sopprimere tutte queste vecchie abitudini, grazie soprattutto a un’interpretazione più spirituale delle medesime, ma esse continuarono a persistere ancora a lungo, nel subconscio. Furono inoltre mantenute in vita alcune strutture originarie della vita germanica, che agirono come fattori di «una germanizzazione delle forme istituzionali cristiane» (Wilhelm Neuss, 1880־ 1965), nei modi che seguono: • I germani erano un popolo contadino. La chiesa, che nell’antica struttura cittadina era divenuta grande, acquisì per influenza germanica anche una struttura agraria (benefici ecclesiastici, suddivisione delle parrocchie nelle campagne). • La concezione germanica del diritto del proprietario sul possesso terriero ebbe ripercussioni sugH affari interni della chiesa particolare, poiché, essendo questa costruita su un determinato terreno, apparteneva al proprietario terriero con tutti i conseguenti diritti materiali (tributi, redditi da donazioni) e spirituaH (amministrazione dei sacramenti, cura d ’anime ecc.) e il vescovo, invece, non aveva alcuna autorità su di essa. Questo sistema delle chiese proprie si diffuse rapidamente nell’intero Occidente, anche nei paesi di cultura romana, ed ebbe ripercussioni sulla riforma dell’intero ordinamento ecclesiastico e influenzò profondamente la pastorale e l’esercizio dell’autorità spirituale. • La rigorosa divisione in classi sociaH, vigente nel mondo germanico, ossia in principi, nobiU, Uberi, semi-Hberi e servi della gleba (schiavi), fu ripresa dal Medioevo cristiano e trovò accogHenza anche nella chiesa, ove la rigida divisione fra alto e basso clero favorì il sorgere di un’aristocrazia ecclesiastica. • L’inclinazione dei germani alla lotta e alla guerra contribuì a dar vita, nella cristianità medievale, alla figura del cavaUere cristiano, simbolo vivente del combattente consacratosi a Cristo e alla guerra santa, e favorì lo sviluppo degU ordini cavallereschi e delle crociate. • La regaHtà germanica, che già in epoca precristiana era avvolta da uno splendore sacrale e mistico, continuò a sussistere con i re cristiani e si accentuò ancor più, grazie alla consacrazione ecclesiastica.
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L’unzione di Pipino (751/754), l’incoronazione di Carlo Magno (800) e di Ottone il Grande a re e a imperatore (962), crearono la base sacrale del concetto di sovranità e, nell’impero degli Ottoni, si vide addirittura sorgere la figura di un re-sacerdote, di altissima dignità. Questa concezione della dignità regale portò precocemente in tutti i paesi germanici all’istituzione della chiesa territoriale, al cui vertice stava il re. Anche gli imperatori, in seguito, considerarono sempre il loro ufficio di natura religioso-ecclesiastica e agirono di conseguenza: non si limitarono perciò solo a cedere e a donare il patrimonio ecclesiastico, ma elessero e destituirono vescovi, disponendo liberamente del cosiddetto ‘patrimonio ecclesiastico’. • L’uso indebito, da parte dei sovrani, del diritto di insediare vescovi e abati, in cui persino imperatori santi e devoti come gli Ottoni o Enrico II e Enrico DI non trovarono nulla di scandaloso, doveva sollevare tuttavia una fortissima reazione ecclesiastica. La lotta contro !,‘investitura laicale’ e la simonia divenne presto il grido di guerra dei riformatori dell’XI secolo e la liberazione della chiesa dall’abbraccio soffocante dello stato fu il grande tema della ‘lotta per le investiture’.
Si entra così nella terza epoca (10501300)־, che vide appunto la decisa reazione della chiesa. La chiesa si pone ora, con sempre maggior forza, in primo piano. Tutta l’epoca è caratterizzata dalla lotta fra impero e papato. Enrico IV contro Gregorio VII, Federico I Barbarossa contro Alessandro DI e Federico D contro Innocenzo III, segnarono le punte massime di questo conflitto. Con Innocenzo III, il papato divenne un istituto che dominò il mondo intero e tutta la comunità cristiana dei popoli si riunì sotto il governo della chiesa. La cavalleria europea partì, con le crociate, per conquistare la terra santa. La vita degli ordini religiosi vide una stagione di piena fioritura e anche la vita spirituale ebbe un grandissimo sviluppo. Nacquero le grandi università europee; scolastica, canonistica, mistica e pietà ebbero un periodo di eccezionale vigore e intensità. Purtroppo, anche le eresie crebbero: soprattutto nel XD secolo. Tutto considerato, l’alto Medioevo fu dunque una grande epoca inquieta, che trovò la sua espressione più alta nelle stupende opere d’arte del Romanico e del Gotico. Intorno al 1300 il massimo punto di sviluppo è ormai raggiunto. Bonifacio V ili riassume ancora una volta tutte le pretese di domi
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nio della chiesa nella bolla Unam Sanctam, ma ormai il papa non è più in grado di esercitare la sua supremazia sul re francese Filippo IV il Bello e la sua politica è destinata a fallire. Inizia così Tultima epoca (13001500 )־del Medioevo, che vede la disgregazione della comunità dei popoli d’Occidente. Molte forze sono già all’opera per favorire questo processo: • i nascenti stati nazionali, con la Francia in testa, che si sottraggono all’uniforme comando dell’imperatore e del papa; • la cultura unitaria del primo e dell’alto Medioevo, che ora comincia pian piano a differenziarsi, facendo posto a un individualismo erescente, che si manifesta tanto nell’arte e nella politica, quanto nella teologia e nelle forme devozionali (devotio moderna); • il progressivo emergere del laicato, che si sottrae sempre più al governo del clero; i signori territoriali usano ormai in proprio dei diritti vescovili e fondano la loro autorità su chiese territoriali; • la tensione fra il primato papale e il collegio episcopale, fra accentramento curiale e chiesa universale, che si esprime nel cosiddetto *conciliarismo’, che nelle sue forme estreme tende a sostituire la struttura gerarchica della chiesa con una struttura democratica (Marsilio da Padova, Guglielmo di Ockham); • la filosofia e la teologia occamista (nominalismo, via moderna), che scuotono profondamente con il loro scetticismo la chiusa visione del mondo medievale, propria del realismo tomistico (via antiqua)\ • l’intero atteggiamento spirituale del Rinascimento e dell’Umanesimo, specialmente in Italia, che minano alla base la coscienza unitaria del Medioevo.
La Riforma, infine, rappresenta la fase estrema di questa evoluzione storica. Con lo scisma del XVI secolo !,Occidente perde quel legame spirituale che aveva tenuto uniti i suoi popoli e Tunità è ormai definitivamente spezzata.
3. Le caratteristiche essenziali del Medioevo I tratti distintivi essenziali che caratterizzarono il Medioevo possono essere così riassunti. La comunità occidentale dei popoli, basata su una concezione
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religiosa del mondo unitaria e condivisa da tutti senza eccezione, affondava le sue radici sul riconoscimento generale del legame religioso e metafìsico che univa tutti gli uomini a Dio. Esisteva un’unica verità, che obbligava tutti gli uomini, una suprema e incontesta־ bile norma etica e una sola e definitiva autorità morale sulla terra, la chiesa, alla quale tutti si piegavano. Il fatto che esistessero peccatori ed eretici non scalfiva affatto questa concezione unitaria che dominava Finterà società. La loro esistenza, del resto, poteva essere persino dimostrata ‘necessaria’, sulla base stessa della sacra Scrittura (1 Cor 11,19). Si stava solo bene attenti e si vigilava con la massima cura affinché questi peccatori non tentassero di rompere l’unità dell’Occidente; l’inquisizione e la persecuzione degli eretici avrebbero comunque protetto l’unità cristiana, che tutti consideravano intangibile e insostituibile contro ogni tentativo di divisione. La vita interiore di questa comunità di popoli dipendeva dalla simbiosi esistente fra chiesa e stato. H rapporto fra le due forze, che veniva contemplato in modo dualistico, potrebbe essere rappresentato simbolicamente nella forma di una ellisse, i cui fuochi erano costituiti dal papato e dall’impero. A differenza del centralismo orientale bizantino (tutto il comando incentrato nell’imperatore), l’Occidente, fin dall’inizio, si fondò stabilmente sul dualismo di poteri, e ciò fu di capitale importanza per il successivo sviluppo dell’intero pensiero occidentale. Non appena, infatti, questo rapporto di forze venne turbato, nacquero immediatamente gravi tensioni e conflitti fra papato e impero. La caduta dell’impero svevo ebbe come diretta conseguenza la decadenza del papato. L’impero universale e il papato universale erano due potenze che si condizionavano reciprocamente, entrambe avevano costruito insieme l’unità occidentale e, quando una delle due forze venne a mancare, la decadenza fu inevitabile. La divisione in ‘stati’ della vita pubblica era considerata rispondente pienamente all’ordine voluto da Dio sulla terra e le classi inferiori vi si adattarono facilmente, poiché il principio della dignità interiore e dell’eguaglianza di tutti gli uomini di fronte a Dio neutralizzò ogni spirito di rivendicazione sociale. Il feudalesimo e la struttura feudale della società si fondavano sii questo ordine e tro
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varono corrispondenza nell'ordinamento beneficiale della chiesa medievale. Fino all'epoca della grande secolarizzazione questa struttura sociale caratterizzò il volto esteriore della chiesa e permi־ se alla nobiltà di occupare stabilmente le sedi episcopali e di usu־ fruire delle più ricche prebende ecclesiastiche, che furono quasi del tutto monopolizzate dai ceti socialmente più elevati. La chiesa, per la sua maggiore capacità formativa, detenne incontestabilmente fino al xm secolo il monopolio culturale. Ogni attività spirituale era in mano ai chierici ed erano sempre dei ‘reli־ giosi' a dirigere le cancellerie nelle corti dei re e dei prìncipi. Anche le università, nel 1200, nacquero come fondazioni ecclesiastiche con privilegi papali e i professori erano chierici dotati di prebende. Il laicato potè farsi largo e raggiungere un'organizzazione culturale indipendente solo lentamente e bisogna attendere la fine del Medioevo per trovare laici colti che si affermino autonoma־ mente come giuristi, medici o umanisti.
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§ 15. La chiesa e la nascita della civiltà occidentale In un primo tempo non fu affatto semplice né facile, per la chiesa, stabilire buone relazioni con i germani. Fin dall’epoca costantiniana essa si era abituata, come chiesa imperiale, a vivere nelTambito dello stato romano e questa corresponsabilità, che la unì intimamente ai destini politici dell’impero, creò anche per la chiesa il pericolo di identificarsi più o meno con questo potere temporale e potè far ritenere ad altri, in questo caso ai germani, che di fatto si fosse identificata con lo stato romano. Questo sospetto generò un reciproco rifiuto. Le stirpi germaniche, da parte loro, fecero la loro comparsa come nemici e distruttori dell’impero e Roma dovette sopportare il peso di gravissime sofferenze. La tragedia ebbe inizio nell’anno 375, quando gli unni, irrompendo dall’Asia, fecero pressione in Europa orientale sui popoli dei confini (orientali) dell’impero e li constrinsero a migrare verso il sud e l’Occidente. I visigoti per primi varcarono i confini romani; l’imperatore romano d’Oriente Valente li accettò come alleati (foederati) e li accolse stabilmente sul territorio dell’impero (376), ma ben presto nacquero conflitti e si venne alla guerra. Nella battaglia di Adrianopoli (378) Valente subì una totale disfatta e fu ucciso dal re visigoto Fritigerio. Per qualche tempo il successore di Valente, l’imperatore Teodosio il Grande (379-395), riuscì a riprendere in mano la situazione, ma dopo la sua morte i visigoti, guidati dal loro re Alarico, ripresero nuova-
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mente le loro spedizioni di conquista e i loro saccheggi. Essi inva־ sero anzitutto la Grecia (396), poi, deviati da Bisanzio, mossero verso PItalia (dal 401) e ben presto furono alle porte di Roma. La conquista della città ‘eterna’ da parte di Alarico (410) scosse pròfondamente tutto Timpero romano. Agostino, sotto la spinta di questo evento, incominciò a scrivere la sua grandiosa opera De civitate Dei (413426)־, nella quale cercò di dare un’interpretazione cristiana della terribile catastrofe. Da allora in poi, la decadenza dell’impero romano proseguì inarrestabilmente. Dal 425 i vandali cominciarono a invadere la Spagna. Nel 429 passarono in Africa settentrionale e conquistare־ no i ‘granai’ d’Italia. Durante l’assedio di Ippona morì, nella città circondata, il grande vescovo Agostino (430). Intanto gli unni si erano messi di nuovo in moto e, incendiando e saccheggiando, avanzarono lungo il Danubio fin nella Gallia. Nel 451 furono sconfitti nella battaglia dei Campi Catalaunici dai romani (Ezio) e dai visigoti. Nel 452 calarono sull’Italia. In tutta la penisola si diffuse un terrore di morte: questa volta non c’era neppure un esercito che potesse difenderla. Fu allora che papa Leone Magno mosse incontro ai barbari e, nei pressi di Mantova, incontrò il terribile Attila e riuscì a persuaderlo ad abbandonare l’Italia. Non c’è da meravigliarsi se la popolazione attribuì la salvezza dal pericolo unno al־ l’immediato intervento di Dio manifestatosi attraverso il suo sommo sacerdote Leone. Nel 453 Attila morì. Ma non erano ancora trascorsi due anni che i vandali, provenienti dall’Africa, si accam־ parono nei pressi di Roma (455). Tutti gli occhi si volsero ancora al successore di Pietro e Leone trattò con il re dei vandali Genserico; questa volta, tuttavia, potè ottenere solo che la vita dei cittadini romani fosse risparmiata e che la città non fosse completamente ridotta in cenere, ma non potè evitare rapine e saccheggi. Nel 472, il capo dell’esercito germanico Ricimero, patrizio dell’impero rama־ no d’Occidente, assediò con le sue truppe di mercenari germanici la città e la prese d’assalto. La stessa terribile sorte toccò di nuovo alla città nel 546 e nel 549; Roma fu invasa dagli ostrogoti di Totila, né migliore fu la sua situazione quando, tre anni dopo (552), fu riconquistata dal condottiero bizantino Narsete. Frattanto, nel 476, truppe germaniche avevano destituito !’ulti
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mo imperatore dell'impero d’Occidente, Romolo Augustolo, ed eletto re d'Italia Odoacre, della stirpe degli sciri. Ormai, tutta la parte occidentale dell’impero era sotto il dominio germanico. Dal 493 al 526 Teodorico il Grande fondò il regno ostrogoto in Italia, dopo che ebbe assassinato Odoacre. L'imperatore romano d'Oriente Giustiniano I (527565)־, dopo una terribile guerra di sterminio contro i goti (535553)־, riuscì a impadronirsi di nuovo dell'Italia. Ma nel 568 i longobardi, un popolo ancora pagano che proveniva dalla Scandinavia, invasero l'Italia e vi stabilirono il loro dominio (568774)־. La situazione di Roma e della chiesa, oppresse e minacciate dai longobardi, circondate dagli ostili regni germanici ariani (regno visigoto nella Francia meridionale, con Tolosa capitale, 4 18507־, e in Spagna; regno dei vandali in Africa, 42 9534 ;־re־ gno dei burgundi sul Rodano), tagliate fuori da ogni aiuto di Bisanzio, era veramente compassionevole. A chi mai ci si poteva rivolgere? Gli occhi si diressero pieni di speranza verso Oriente, dove si scorgeva l'unica possibile continuazione dell'impero romano. In Occidente le difficoltà politiche, a causa del contrasto religio־ so־ecclesiastico che esisteva fra i romani e i germani, si erano frattanto ancor più acuite. In Oriente la costellazione ecclesiastico־po־ litica aveva fatto sì che, durante il regno dell'imperarore di senti־ menti ariani Costanzo, il semigoto Wulfila (circa 311382)־, mentre si trovava a Costantinopoli, venisse a contatto col cristianesimo nella sua forma ariana. Il patriarca Eusebio di Nicomedia, che nel 325 a Nicea era stato il più acerrimo difensore delle dottrine di Ario e che fu esiliato insieme a quest'ultimo da Costantino, era di־ venuto nel frattempo vescovo di Costantinopoli. Egli ordinò Wulfila «vescovo ariano dei cristiani della terra dei goti» (verso il 341) e i goti, grazie alla predicazione del neo-vescovo, si convertirono all'arianesimo proprio quando Costantinopoli era già ritornata, da lungo tempo, al cristianesimo cattolico ortodosso. Attraverso i goti, con l'andar del tempo, l'arianesimo si diffuse presso tutti i pòpoli germanici. Chiese territoriali ariane sorsero, infatti, presso i visigoti, gli ostrogoti, i vandali, i gepidi, i rugi, gli eruli, i burgundi, i longobardi, i bavari, gli svevi e i turingi. L'arianesimo fu addirittura considerato la religione germanica nazionale e, dagli stessi germani, fu energicamente difeso contro la confessione cattolico-orto
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dossa. Il contrasto religioso provocò in tutti i regni dei germani un atteggiamento ostile verso le popolazioni indigene radicate nella fede cattolica. Il re degli ostrogoti in persona, Teodorico il Grande (489526)־, concepì addirittura il disegno di riunire insieme, in un unico fronte unitario contro i greci e i romani cattolici, tutte le stirpi germaniche ariane e di fondare un grande impero ariano romano su territorio romano. Ma il piano di Teodorico fallì, perché il giovane re dei franchi Clodoveo, animato da grandi aspirazioni, non si lasciò persuadere e la notte di Natale del 496, a Reims, ricevette il battesimo dal vescovo cattolico Remigio. Abbracciando coscientemente la confessione cattolica, Clodoveo frustrò definitivamente le intenzioni di Teodorico. La sua fu «un’azione di statista di altissimo rango» e «uno degli avvenimenti più gravidi di conseguenze per la storia del mondo». Grazie a essa divenne possibile la fusione del germanesimo con la cultura cristiana classica e si crearono le premesse per la nascita dell’Occidente cristiano. Solo la chiesa cattolica poteva, infatti, conciliare i germani con il cristianesimo e la tradizione culturale dell’antichità. L’arianesimo non era in grado di farlo, perché non disponeva né di un reale potère religioso, né era ancorato al mondo culturale dell’antichità; gli ariani avevano perso ogni contatto con il mondo antico e costituivano un corpo estraneo nell’area mediterranea cattolica ortodossa. I popoli germanici potevano, infatti, ringraziare Ario, se i regni che avevano fondato erano rimasti isolati. Roma, invece, esercitava ancora il suo fascino, come rappresentante dell’antica tradizione impenale e culturale e la chiesa romana incarnava in sé questa eredità. Come abbiamo visto, il pontefice, in Italia, già da molto tempo svolgeva una funzione che esorbitava dagli stretti limiti del ministero ecclesiastico. Nella situazione di completa decadenza dell’impero romano occidentale, Leone Magno e i suoi successori avevano assunto una funzione di guida e il popolo, durante le guerre e le carestie, aveva imparato a rivolgersi per aiuto ai pontefici, unici protettori e amici in tali diffìcili frangenti. I successori di Pietro, ben coscienti del loro nuovo compito, non avevano esitato a intavolare trattative politiche, a proprio rischio personale (Leone Magno durante le invasioni degli unni e dei vandali) e, quando fu
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necessario, avevano donato liberamente, traendole dalle loro prò־ prietà rurali, grano e generi alimentari alle popolazioni affamate. Così facendo, essi si sostituirono a un antico dovere imperiale e, nella coscienza delle popolazioni di quel tempo, cattolicesimo e sentimenti nazionali romani divennero una cosa sola. La chiesa ro־ mana, come ebbe a scrivere una volta Adolf von Harnack (1851־ 1930), si identificò addirittura con «Pimpero occidentale romano trasferito in campo religioso e il vescovo rivestì le funzioni delTimperatore romano d’Occidente». Alla chiesa romana la storia affidò dunque compiti immensi e della massima importanza storica: la missione tra i franchi, la civilizzazione dei popoli germanici, su una base assai più ampia di quella che sarebbe spettata all’impero, e la ricostruzione di un nuovo mondo sulle rovine del mondo antico. Le attuali ricerche storiche hanno dimostrato che, per quanto sia possibile stabilire una certa continuità naturale di tipo culturale, economico e politi־ co tra le due età, resta tuttavia il fatto che l’antica componente cui־ turale da sola non sarebbe stata certo sufficiente a fondare una nuova epoca. Va detto poi che non solo l’autorità politica dell’impero romano era quasi del tutto scomparsa, ma anche il patrimonio della cultura antica si era ormai assottigliato al punto che «se l’antichità classica non si fosse trasformata e rinsanguata grazie al cristianesimo e al germanesimo, essa non avrebbe avuto sicura־ mente alcun futuro» (Franz Steinbach). La nascita dell’Occidente cristiano fu dunque dovuta alla chiesa cattolica romana, cui va il merito di aver tramandato la religione cristiana e l’antica cultura a quei popoli del nord, ai quali ormai apparteneva il futuro.
§ 16. H primo incontro del germanesimo con la chiesa Se è relativamente facile narrare gli avvenimenti esterni di questo incontro, realizzatosi grazie all’attività missionaria, non appare invece altrettanto semplice comprendere esattamente lo sviluppo interno della vita cristiana e la portata storica di questo processo.
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I primi centri missionari furono le antiche città episcopali romane, che erano in gran parte sopravvissute alla conquista germanica e costituivano dei punti di cristallizzazione della vita ecclesiale anche sotto i nuovi regnanti. Fiorirono in quel tempo energiche personalità di vescovi, che riuscirono a guadagnarsi la stima degli stessi conquistatori e seppero offrire alla popolazione indigena protezione e sicurezza. Quasi tutte le sedi espiscopali della Gallia (ne esistevano circa 125), per esempio, riuscirono a superare gli assalti dei germani nel IV e nel V secolo. Eminenti vescovi furono Martino di Tours (t 397), Liborio di Le Mans (1397 )־, Severino di Colonia (t intorno al 400) e, più tardi, Avito di Vienne (t 518), Remigio di Reims (t intorno al 533) e Cesario di Arles (t 542). È a loro che dobbiamo essere grati se la popolazione romana potè vivere ancora a lungo nelle città, mentre le campagne tutt'intorno erano ormai da molto tempo popolate dai germani. Verso il 400 le antiche città romane furono oasi di cultura latina e cristiana, in mezzo a terre occupate da coloni pagani germanici. I germani, è noto, non ama־ vano dimorare nelle città. La LexRibuaria (633/634) considera ancora nel VII secolo i franchi dei cives romani e consente loro di vivere secondo le antiche usanze del diritto romano; nel regno franco il diritto romano rimase in vigore come diritto privato della popolazione romana. Anche la chiesa, al pari della popolazione urbana romana, viveva secondo la legge romana (ecclesia vivit lege romana). E, fino al VI secolo, in quasi tutte le sedi vescovili della Gallia e della Germania, erano ancora insediati vescovi di provenienza romana. Nel sinodo di Parigi del 614 s'incontrano per la prima volta nomi di vescovi germanici in gran numero, ma fu soltanto alla fine del VII secolo che !,episcopato raggruppò prevalentemente vescovi di origine germanica. Il processo di fusione fra romani e germani si era ormai compiuto. Avito di Vienne operò con tutto il suo zelo per la conversione dei burgundi; Remigio di Reims si dedicò alla conversione dei franchi (battesimo di Clodoveo, nel 496) e fondò nuove sedi episcopali (Arras, Laon, Thérouanne, Toumai, Cambrai). La cattolicizzazione del popolo franco creò la base necessaria per la fusione con la popolazione indigena ed ebbe importanza decisiva anche
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per la successiva conquista alla fede cattolica degli altri germani. Con la sconfitta degli alemanni (496) e la loro incorporazione nel regno franco (506), la conquista del regno di Turingia (531), da parte dei figli di Clodoveo (t 511), e !,annessione del regno dei burgundi (523534 )־e della Provenza, che fu sottratta agli ostrogoti (537), si aprirono, infatti, altre strade per la diffusione del cristianesimo cattolico. La professione di fede cattolica dette al regno franco, che ben presto divenne il più compatto e il più potente fra tutti i regni ger־ manici, stabilità all'interno e autorità all'esterno. A differenza degli stati germanici ariani, Clodoveo aveva, infatti, dalla sua parte anche la popolazione cattolica indigena e soprattutto l'eminente episcopato cattolico, e godeva persino delle simpatie dell'imperatore romano d’Oriente. Quando poi !,imperatore Anastasio (491518)־ gli conferì, contrapponendolo al re ariano degli ostrogoti Teodori־ co il Grande, anche il titolo di console romano ad honorem, il re dei franchi apparve agli occhi di tutta la popolazione romano-gallica come il legittimo proconsole dell'impero romano. Clodoveo stesso, del resto, si sentiva obbligato a esercitare la somma Auctoritas Romana in Gallia e in Germania, per proteggere la popolazione indigena romano-cattolica che viveva nell'orbita politica del regno franco. I franchi manifestarono la loro gioia per la loro nuova condizione e per la missione cristiana, di cui si sentirono investiti, con nativa fierezza, esaltarono la fede cattolica come la fonte stessa della loro forza e si sentirono particolarmente protetti da Cristo, quasi che egli avesse concesso loro vittoria e potenza, a partire dal momento in cui si erano convertiti a lui. La Lex Salica, che risale appunto agli ultimi anni di Clodoveo (510 circa) e che conteneva l'antico diritto del popolo franco-salio, incominciava con le parole seguenti: Viva Cristo, che ama i franchi! Voglia egli custodire il loro regno e colmare coloro che lo reggono con il lume della sua grazia, custodire l’esercito, concedere l’aiuto della fede, dare pace, gioia e fortuna; egli che è il re dei re, Gesù Cristo.
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Appare già qui il pensiero che in seguito Carlo Magno difenderà con tanta convinzione: i franchi sono il nuovo popolo delPimpero, chiamato, dopo il tramonto dell'antica Roma, a rappresentare e diffondere il Regnum Christi nella comunità dei popoli occidentali. Purtroppo, questa bella immagine idealistica corrispondeva solo in parte alla dura realtà. D vescovo Gregorio di Tours (538-594), nei dieci libri della sua Historia francorum (terminata nel 591), ci dà un quadro veramente pietoso delle condizioni etico-religiose del regno dei franchi del suo tempo. E come avrebbe potuto essere diversamente? Il popolo si era convertito al cristianesimo non grazie a una convincente opera missionaria cristiana, bensì seguendo semplicemente !,esempio del suo re e attratto dalla magnificenza esterna del culto cristiano. H battesimo fu conferito senza una vera formazione religiosa cristiana e non fu preceduto da alcuna forma di catecumenato. La conversione in massa di interi popoli fu quindi un avvenimento del tutto superficiale, poiché al sacramento non seguì alcuna forma di catechesi battesimale. Il messaggio cristiano, con le sue nobili esigenze morali e la sua concezione spirituale di Dio, potè farsi strada nelle coscienze solo molto lentamente e attraverso grandi difficoltà. La stessa casa reale merovingia e la nobiltà davano del resto un cattivo esempio. Assassinii e discordie fraterne in seno alla famiglia, guerra e avidità smodata di potere nei circoli dei nobili, infimo livello culturale e degenerazione morale fra il popolo caratterizzarono, infatti, il VI e il v n secolo della storia franca. Per la chiesa franca fu poi esiziale che il re e la nobiltà si intromettessero senza riguardo alcuno negli affari interni della chiesa, ostacolando in tal modo la sua attività. Il re divenne di fatto padrone della chiesa, occupò gli episcopati, convocò i sinodi, decise della vita e della morte dei suoi sudditi. E così, proprio mentre in Oriente venivano affrontati dai teologi e dai concili i più sottili problemi teologici, nel regno dei franchi il pensiero teologico languì completamente, e anche la vita della chiesa fu guastata da prògressive infiltrazioni di rozze forme di paganesimo. Questo stato di cose ebbe conseguenze tragiche; la chiesa franca degenerò sempre più in chiesa territoriale, isolandosi al punto di perdere completamente ogni legame con la chiesa universale: i suoi rapporti con Ro
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ma, il centro della chiesa occidentale, cessarono, infatti, totalmente, anche se non si giunse mai a una vera e propria separazione diretta.
§ 17. La chiesa iro-scozzese e la sua m issione nel continente 1. La cristianizzazione dell’Irlanda L’Irlanda, chiamata fino al X secolo anche Scotia maior (per distinguerla dalla Scotia minor, che è poi la Scozia moderna), non fu mai conquistata dai romani. Il primo cristianesimo sembra sia penetrato nell’isola prima del 400, dalla Britannia, ma furono forse i monaci di Martino di Tours che diffusero i primi semi cristiani. Nell’anno 431 papa Celestino I inviò nell’isola il diacono Palladio, in qualità di «primo vescovo degli irlandesi che credevano in Cristo», come ci informa Prospero d’Aquitania. Il cristianesimo irlandese ci appare concretamente tangibile nella personalità, provata da sicura testimonianza storica, del britanno Patrizio (circa 385־ 461), che può essere designato come il vero e proprio missionario dell’Irlanda. Patrizio, nel 401, fu portato da pirati irlandesi schiavo in Irlanda e imparò a conoscere il paese e la sua lingua, finché nel 407 potè raggiungere di nuovo la sua patria. In seguito egli entrò probabilmente come monaco nel celebre monastero di Lérins (nella Gallia meridionale); divenne chierico ad Auxerre e assunse l’incarico missionario per l’Irlanda nel 432, dove operò come vescovo missionario, sostituendo Palladio deceduto da poco tempo. Quando, nel 461, Patrizio morì, l’isola non solo si era convertita totalmente al cristianesimo, ma possedeva già una efficiente organizzazione ecclesiastica. Dal 444 Armagh, nell’Irlanda settentrionale, divenne la sede metropolitana e il punto più importante della vita ecclesiale del paese. Per l’isola, priva di città, il carattere monastico divenne il tipo stesso dell’intera vita ecclesiale. Già esternamente l’organizzazione era collegata ai numerosi monasteri che fiorirono rapida
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mente in tutta Pisola. Le grandi comunità conventuali rappresentavano, in ciascuno dei numerosi clan (stirpi) locali, !,effettivo centro ecclesiastico-religioso. I grandi fondatori di monasteri (Finniano, Colombano il Vecchio di Hy, Congallo di Bangor, Brendano, Kevin, Colombano il Giovane) godettero della massima stima e gli abati, e non i vescovi, furono le vere guide responsabili della chiesa irlandese ed ebbero anche potestà di giurisdizione ecclesiastica. Per le semplici funzioni di consacrazione episcopale essi si servivano di un suffraganeo e proprio a questo scopo facevano generaimente consacrare vescovo uno dei loro monaci subalterni. Nel VI secolo il monacheSimo fu straordinariamente popolare. Lentusiasmo cristiano, condiviso da tutto il popolo, favorì la fioritura di una primavera monastica senza eguali. I monasteri crebbero e si diffusero come scuole di vita spirituale e di devozione. Numerosi furono i santi e i teologi che fiorirono in questi monasteri e ben presto l’Irlanda fu indicata come 1'insula doctorum e Vinsula sanctorum. Quest'epoca d'oro della chiesa irlandese continuò fino al 740 circa. L'influenza del monacheSimo si fece sentire in modo deciso anche sulla struttura della vita ecclesiastica, il monastero di ogni stirpe provvedeva alla cura spirituale del clan; i suoi monaci esercitavano l'attività pastorale, tenevano scuole e celebravano il servizio divino per il popolo. Dovevano perciò essere sacerdoti. Il monacosacerdote si identificò, in Irlanda, con il sacerdote in cura d'anime. Le usanze dei monaci e le forme proprie del monastero caratterizzarono l'immagine del sacerdote c questi caratteri furono poi trasmessi anche nel continente, grazie alla missione iro-scozzese. Il celibato e le ore canoniche, che costituivano le basi stesse della vita comunitaria dei religiosi e che erano tipiche anzitutto di questi monaci-sacerdoti irlandesi, furono in seguito accettate e imitate da tutto il clero dell'Occidente. Soprattutto le pratiche ascetiche della vita monastica si estesero, in questa stessa epoca, anche alla vita sacerdotale e laica, in primo luogo in Irlanda e in seguito anche nel continente. La severa discipiina penitenziale e la mortificazione della carne, in uso fra i monaci, furono parimenti imitate. I monaci sacerdoti, attraverso la loro attività pastorale e spirituale, tramandarono la penitenza privata,
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segreta e volontaria, e la confessione privata, che del resto era da lungo tempo praticata nei monasteri e anche altrove, al mondo laico. Sembra, infatti, che siano stati proprio dei laici entusiasti a dare Tavvio a ques^uso, dopo averlo a lungo invocato, poiché la prassi penitenziale dell'antico cristianesimo, che conosceva per i laici soltanto la penitenza pubblica imposta dalla chiesa per i peccati più gravi, non appagava più le loro intime esigenze spirituali. La guida interiore, che il monaco riceveva nel monastero e che si estendeva anche ai peccati intimi e segreti, nasceva da un'esigenza ascetica più pura e più tesa verso la perfezione cristiana e i monaci, i quali venivano spesso consultati per questioni spirituali, la raccomandarono ai laici. In realtà, anche nella pratica penitenziale del primitivo cristianesimo si era praticata la confessione per i peccati più gravi. Il vescovo infliggeva la penitenza al fedele che aveva dichiarato i suoi gravi peccati - ma questa possibilità era concessa una sola volta nella vita - e lo riammetteva nella comunità ecclesiale solo quando fosse scaduto il tempo della penitenza. Con questa riconciliazione veniva concesso anche il perdono dei peccati. La nuova forma della confessione privata, con la confessione dei peccati intimi, anche dei più segreti, comportava invece al tempo stesso anche l'assoluzione. Essa era compiuta dinanzi al sacerdote, a modo di ‘confessione auricolare'; poteva essere ripetuta in ogni tempo, e fu richiesta e praticata, come strumento di guida spirituale, anche dal mondo laico. Nel VI e nel VE secolo questa pia pratica si diffuse nell'intero Occidente ed esercitò una grandissima influenza sulla vita di pietà dell'intera chiesa occidentale. In seguito divenne un'abitudine regolare il confessarsi prima di ricevere la santa comunione. Per poter dare ai confessori una regola di condotta nell’impartire la penitenza, vennero redatti in Irlanda dei libri penitenziali, che consistevano in un catalogo dei peccati principali con allegate le penitenze da imporre. Tali regolamenti penitenziali fecero parte, dal VII secolo in poi, in tutto l'Occidente di quei libri che ogni sacerdote doveva possedere e conoscere per amministrare giustamente la disciplina penitenziale. Le conseguenze benefiche dell’introduzione della confessione privata nel mondo laico determinarono in Irlanda un incremento
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della vita morale e religiosa, che ebbe uno sviluppo stupendo. Un semplice confronto fra la chiesa irlandese e il continente e, in particolare, con il regno merovingio dei franchi, pone chiaramente in luce l’enorme divario di vita spirituale.
2. La missione irlandese sul continente Il monacheSimo irlandese, nonostante il suo forte carattere anacoretico, non professava in alcun modo la fuga dal mondo, ma era invece ricco di un entusiastico spirito attivo, che si tradusse in un ardente zelo missionario. La tendenza alla solitudine e all’isolamento spinse tuttavia i monaci a vivere in luoghi remoti e in povertà. Senza patria per amore di Cristo e tuttavia ovunque presenti, essi percorsero instancabili la Gallia, l’Italia e la Germania, fino alla Pannonia: il santo pellegrinaggio, il peregrinari prò Christo, fu il loro vero ideale ascetico. Le loro figure barbute, con il lungo bordone del pellegrino in mano, il cranio rasato e cerchiato sul davanti solo da una stretta corona di capelli, che ricadevano all’indietro ondeggiando sulla nuca, offrivano alle genti che li vedevano apparire un singolare spettacolo. Sulle spalle i monaci portavano una borraccia piena d’acqua, legata a una cinghia e un sacco di pelle nel quale tenevano i loro libri; appeso al collo avevano un reliquiario e una capsula ove erano custodite le ostie consacrate. L’ardente desiderio di santificazione non abbandonò mai questi monaci pellegrini e anche strada facendo non cessavano mai di pregare e di studiare e profittavano di ogni occasione per continuare, con zelo incessante, la loro opera missionaria, tutta tesa a guadagnare anime a Cristo. Questi zelanti missionari itineranti irlandesi operarono in tutti i paesi d’Europa e la loro missione fu ricca di successo grazie soprattutto al loro esempio e alla loro parola. Di solito essi si fermavano per poco tempo in un luogo e riprendevano il loro pellegrinaggio; la loro missione, conseguentemente, non potè operare molto in profondità e non ebbe quindi l’importanza, né ottenne i risultati della successiva missione anglosassone, ma non fu mai inutile e i monasteri, da loro fondati, divennero centri di vita cristiana in paesi ancora semipagani o non ancora pienamente cristianizzati.
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Colombano il Giovane (530-615) fa il più importante, il più attivo e tenace fra questi missionari itineranti iro-scozzesi. Nell'anno 590 egli si pose in cammino con dodici compagni, come Cristo con i dodici apostoli, per un santo pellegrinaggio nel continente {peregrinatio religiosa prò Christó). Egli svolse la sua attività missionaria in Bretagna, in Gallia e in Borgogna e operò con successo per il rinnovamento della vita religioso-ecclesiale, particolarmente fra la nobiltà e il clero; si stabilì infine sui Vosgi, ove fondò i monasteri di Anegrey, Luxeuil e Fontainc, per i quali dettò anche una severa regola. La sua austera personalità ascetica non impressionò soltanto la popolazione indigena, ma conquistò anche schiere di giovani, che egli persuase ad abbracciare l'ideale monastico. Solo da Fontaine si irradiarono ben presto altri cinquanta monasteri, che seguirono tutti la regola di Colombano. Colombano, nel 610, non esitò a criticare senza alcun timore e con grande energia la condotta immorale della corte del re merovingio Teoderico II e della sua terribile nonna Brunilde, e fu per questo costretto ad abbandonare precipitosamente Luxeuil. Dalla Borgogna si recò in Alemannia, terra ancora in gran parte pagana e, dopo aver svolto per qualche tempo attività missionaria presso il lago di Costanza, si stabilì a Bregenz e, nel 613, si trasferì nelTItalia settentrionale, ove fondò l'abbazia di Bobbio. Qui morì nel 615. L'influenza di Colombano sulla vita ecclesiastica del regno dei franchi fu grandissima, soprattutto nel campo della prassi penitenziale e confessionale. I suoi numerosi discepoli, che erano tutti irlandesi e provenivano anche dalla popolazione locale, diffusero il suo spirito. I loro nomi ci sono, in gran parte, ignoti: per lo più essi vissero come eremiti sconosciuti, in qualche plaga deserta, ma le loro celle e i loro monasteri divennero centri luminosi di vita spirituale per le popolazioni circostanti. Agirono come lievito. I monaci irlandesi furono attivissimi soprattutto nella Germania settentrionale e occidentale, in Franconia, in Turingia, ma anche in Alemannia, in Svevia e in Baviera. Di alcuni soltanto conosciamo i nomi; ricorderemo qui: Ciliano di Wurzburg (martirizzato nel 689, insieme ai suoi compagni Colonato e Totnano); Pirmino (t 753), che fondò nel 724 il monastero di Reichenau; Corbiniano di Frisinga (t 725, in verità, egli era un gallo-romano); Fridolino di Sàckin-
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gen ( t intorno al 600); Trudperto di Untermunstertal presso Friburgo in Brisgovia ( t 607 o 643); Ruperto di Worms, l’apostolo della Baviera ( t intorno al 718 a Salisburgo); Emmerano di Regensburg ( t 715); Findano di Rheinau ( t 878); Furseo ( t tra il 647 e il 653) e i suoi fratelli Foillano (t intorno al 655) e Ultano (t 686) e, ancora, Eligio (t verso il 660), Amando, Lamberto, Uberto e altri ancora, di provenienza incerta.
$ 18. Il cristianesimo in Britannia e la m issione anglosassone sul continente Già in epoca romana esisteva in Britannia un'organizzazione ecclesiastica. I vescovi di York, di Londra e di Lincoln furono, infat־ ti, presenti al concilio di Arles (314). Ma nel 407, quando le legioni romane furono richiamate dalla Britannia, questa terra fu invasa dai pitti pagani, provenienti dal nord, che insieme agli angli, ai sassoni e agli iuti, sbarcarono nel paese, lo invasero e costrinsero la popolazione cristiana a rifugiarsi nella parte orientale dell'isola (Galles) o sul continente (Bretagna) e fondarono, nel 450, sette regni (gli angli: Mercia, Ostanglia e Nortumbria; i sassoni: Essex, Sussex e Wessex; gli iuti: Kent). Il cristianesimo rapidamente scomparve del tutto. Alla fine del VI secolo incominciò, muovendo quasi parallelamente da Roma e dalla chiesa iro-scozzese, la diffusione del vangelo fra gli anglosassoni. Nel 596 papa Gregorio Magno (590-604) inviò il priore del monastero romano di S. Andrea, Agostino, insieme a quaranta monaci, in Inghilterra. Il re Etelberto di Kent lo accolse cortesemente e nel Natale del 597 Agostino lo battezzò, insieme ad altri 10.000 sudditi, e si stabilì a Canterbury. Papa Gregorio inviò allora altri monaci nell'isola e seguì sempre con interesse vivissimo lo svolgersi dell’attività missionaria in Britannia; egli fu il primo papa che intavolò un nuovo tipo di rapporti coi germani e che cercò coscientemente di adattare i metodi missionari alle categorie mentali di quei popoli. La lettera che egli inviò nel 601 ad Agostino e Mellito in Inghilterra testimonia del suo senso realistico e della sua
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geniale capacità di adattamento. Egli consigliò ai missionari di rispettare, per quanto fosse possibile, le usanze religiose precristiane del paese e di riempirle di spirito e di contenuto cristiani. Si doveva, infatti, lasciare a quei popoli le loro semplici gioie: «Se, infatti, si concedono agli uomini le gioie esterne, essi troveranno ancor più facilmente quelle intime. Non si può togliere tutto a dei cuori che non si sono ancora aperti. Chi, infatti, vuol scalare un alto monte, non lo fa a salti, bensì passo dopo passo e lentamente». Il successo della missione fu davvero sorprendente. Il regno di Kent per primo abbracciò la fede cristiana; seguirono i regni di Wessex (624) e la Nortumbria (627), che alla morte di re Edvino (t 633) fu definitivamente cristianizzata, dopo un’ultima reazione pagana. I re Osvaldo e Osvino accolsero benevolmente la missione; Osvaldo permise che i monaci, muovendo dal principale monaste־ ro di Hy, si diffondessero nell’isola. I conflitti temporanei che sorsero fra i missionari irlandesi e quelli romani furono rapidamente composti nel sinodo di Whitby, tenutosi nel 664. Si giunse così, abbastanza presto, alla cristianizzazione dell’intero popolo anglosassone. Negli anni 680-690 anche il regno di Sussex abbracciò la fede cristiana. Il vescovo Teodoro di Tarso (circa 668690)־, arcivescovo di Canterbury, avviò un’incomparabile stagione spirituale della chiesa anglosassone e della cultura cristiana in Inghilterra. Egli seppe conciliare nella sua persona una profonda dottrina, che aveva acquisita ad Atene, con un’eccellente capacità organizzativa e con una fedeltà assoluta a Roma. L’unione fra la pietà irlandese e lo spirito romano diede presto i suoi preziosi frutti. Il severo ascetismo e la disciplina penitenziale irlandesi crearono nei monasteri, che fiorirono numerosissimi, il fondamento necessario a uno sviluppo armonico della vita spirituale. Le scuole monasteriali anglosassoni, che comprendevano anche i monasteri femminili, svilupparono una cultura teologica di altissimo livello, sia dal punto di vista spirituale che religioso, che continuò fino all’XI secolo. Trentatré re e regine anglosassoni terminarono la loro vita nel monastero; ventitré re e sessanta regine sono venerati come santi. Il monaco anglosassone e dottore della chiesa Beda il Venerabile (672-735), nella sua celebre Historia ec־ clesiastica gentis Anglorum, ci ha narrato stupendamente come sia
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avvenuto !,inserimento di un popolo germanico nel mondo e nelle categorie del pensiero cristiano e ci ha mostrato, al tempo stesso, quali magnifici frutti abbia prodotto. I monaci anglosassoni ereditarono da quelli irlandesi anche l’ardente desiderio della peregrinatio prò Christo e quelTirresistibile entusiasmo missionario che di lì a poco avrebbe dispiegato la sua massima attività nella cristianizzazione dei sassoni e dei frisoni, pòpoli di identica stirpe. Ma, in questa nuova missione nel continente, apparve anche in tutta chiarezza la differenza che esisteva fra la mentalità anglosassone e quella irlandese. Al contrario dei missionari iro-scozzesi, che avevano sempre svolto le loro missioni in modo asistematico e senza un metodo preciso, sia quando si erano rivolti a tutto il popolo sia quando avevano cercato di guadagnare, una per una, le anime a Cristo, gli anglosassoni impressero invece alla loro missione un carattere e un metodo totalmente diversi. Essi vollero anzitutto che il papa coordinasse la loro attività, si posero sotto la protezione del re dei franchi e si presentarono successivamente, con missive papali e con garanzie di protezioni regali, dinanzi ai grandi e ai principi del popolo (i duchi della stirpe), cercando in primo luogo di conquistare le anime dei capi. Essi sapevano bene, infatti, che il popolo avrebbe seguito l’esempio dei nobili, perché era sempre l’autorità e l’organizzazione ecclesiastica a determinare il comportamento di quelle genti. I monaci proseguiròno così la tradizione romana. La ‘missione dall’alto’ poteva avere un senso solo quando il successo fosse assicurato da un’assistenza successiva e da una ben articolata organizzazione e l’unione con il papato universale permise alla missione di diffondersi e di consolidarsi e la preservò dal pericolo di rinchiudersi nel puro ambito di una chiesa territoriale. II primo e più importante missionario anglosassone fu Vilfrido, vescovo di York. Nel suo viaggio a Roma, ove si recò per venerare Pietro, il «principe degli apostoli e il portinaio del cielo», e insieme a lui anche il suo successore, il papa, egli cercò di ottenere (nel 678 o 679) l’autorizzazione a predicare una missione fra i frisoni. Nel 689 lo seguirono due suoi discepoli: Egberto e Vigberto. Un anno dopo, nel 690, si recò in Frisia anche Villibrordo, con dodici compagni, dopo aver ottenuto anch’egli l’autorizzazione della chiesa di
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Roma. Il maggiordomo franco Pipino (688714 )־gli affidò la Scheida inferiore come terra di missione. Durante un secondo viaggio a Roma (695), il monaco ottenne dal papa !,autorizzazione per una nuova missione e la consacrazione episcopale: Villibrordo scelse allora Utrecht come sua sede vescovile e fondò, nel 697, il monastero di Echternach, che divenne il centro e il sostegno spirituale della missione. Qui Villibrordo morì nel 735. Sotto la sua guida esperta anche Vinfrido Bonifacio iniziò la sua attività missionaria.
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§ 19. Vinfrido Bonifacio e la fondazione dell’Occidente cristiano Vinfrido Bonifacio fu il più grande missionario del continente anglosassone e una delle maggiori figure storiche dell'Occidente, il vero pioniere della comunità cristiana dei popoli d'Europa. La sua importanza, più che per la sua missione in Germania - il soprannome ‘apostolo della Germania’ gli fu dato soltanto nel XVI secolo sta nella sua opera di riforma e nella sua attività organizzatrice, ma soprattutto va lodata la fermezza con cui egli seppe ricondurre l’inerte chiesa territoriale franca a una concezione ecclesiale più ampia e più universale. Egli gettò le basi dell'alleanza fra il regno dei franchi e il papato, liberando la chiesa franca dal suo isolamento e riallacciandola a Roma, punto centrale dell'intera vita ecclesiale, e rese possibile quell’evoluzione storica che, proseguita da Car10 Magno, trovò il suo apice nell’incoronazione a imperatore di quest’ultimo nell’800 e nel ristabilimento dell’impero con Ottone 11 Grande nel 962. Senza Bonifacio sarebbe inconcepibile il concetto di impero universale del Medioevo. Vinfrido (dal 719 Bonifacio) nacque intorno al 673 nel regno di Wessex. Fu educato come oblato nel monastero di Exeter e vi ricevette un’accurata istruzione, che abbracciò l’intero patrimonio culturale della sua epoca. A Nursling divenne monaco e sacerdote, in seguito svolse attività di docente e, nel 716, iniziò la sua attività missionaria, in Frisia, sotto la guida di Villibrordo. Per diffi-
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colta sorte nei rapporti politici e soprattutto per la guerra scoppiata fra il principe dei frisi Radbodo (t 719) e il maggiordomo franco Carlo Martello (714 741), egli fu costretto a far ritorno in Inghilterra. Nel 718, tuttavia, sbarcò di nuovo nel continente, ma, prima di riprendere la sua attività missionaria, si recò a Roma, per poter ricevere da papa Gregorio II (715731 )־il mandato missionario (qui ricevette il nome di Bonifacio). Dal 719 al 722 riprese la sua attività missionaria, prima come collaboratore di Villibrordo in Frisia e in seguito in modo del tutto autonomo nelTAssia e in Turingia. Vinfrido fondò il monastero di Amòneburg, che diven־ ne il centro dell’irradiazione missionaria. Il paese non era più totalmente pagano; i missionari itineranti iro-scozzesi e franchi era־ no, infatti, presenti qua e là nel paese, ma con le loro instabili apparizioni furono più di ostacolo che di giovamento alla missione. Bonifacio comprese immediatamente che era necessaria una maggiore autorità per potersi imporre ai suoi confratelli e ai potenti del luogo e prese quindi per la seconda volta la via di Roma, ove giunse nel 722. Qui ottenne da papa Gregorio II la consacrazione episcopale e le lettere commendatizie per Carlo Martello. In quella occasione egli prestò il cosiddetto giuramento suburbicario di obbedienza vescovile, che i titolari delle sette sedi episcopali della provincia romana (Albano, Ostia, Porto-Santa Rufina, Palestrina, Sabina-Poggio Mirteto, Frascati [Tusculum] e Velletri) erano soliti fare al papa e mediante il quale si obbligavano a mantenere un’unione particolarmente stretta con Roma e con i suoi ordinamenti ecclesiastici. Nel 723 (fino al 732) Bonifacio riprese la sua missione in Assia e, questa volta, con l’appoggio della commendatizia papale e con una lettera di protezione di Carlo Martello. A Geismar abbatté la quereia di Donar. Dal 725 in poi si dedicò maggiormente all’organizzazione, al consolidamento e all’approfondimento del cristianesimo in quelle terre, rafforzando le proprie posizioni. Si tenne, per questo, in continuo contatto epistolare con la madrepatria, dalla quale gli furono inviati costantemente aiuti e rinforzi, e con il papa. Per potergli concedere ancora maggior autorità e favorirlo nella sua opera, papa Gregorio III (731-741) lo nominò, nel 732, arcivescovo senza sede fissa e lo autorizzò a consacrare vescovi per le nuove
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diocesi. In quel periodo Bonifacio fondò numerosi monasteri (Fritzlar, i monasteri femminili di Tauberbischofsheim, alla cui guida pose la badessa Lioba, e i monasteri di Kitzingen e di Ochsenfurt, che affidò alla badessa Tecla). Non gli fu invece ancora possibile fondare nuovi vescovati. Presumibilmente, ciò gli fu impedito dall’episcopato franco e dalla nobiltà, i quali si sentivano minacciati nei loro diritti da Bonifacio, uno straniero. Visto che la dignità e l’autorità vescovile non gli erano ancora sufficienti, Bonifacio si recò per la terza volta a Roma nel 737/738 e si fece nominare dal papa nunzio apostolico per la Baviera, FAlemannia, l’Assia e la Turingia, con l’incarico speciale di dare a quei paesi un’organizzazione ecclesiastica più rigida. A Roma ottenne anche nuovi collaboratori per questa sua opera: Lullo, Villibaldo e Vunibaldo, pròvenienti tutti dal monastero di Montecassino. Dal 738 al 747 si dedicò esclusivamente all’organizzazione e alla riforma della chiesa nel regno dei franchi. Anzitutto egli diede alla Baviera un nuovo ordinamento ecclesiastico, precisando stabilmente i confini dei vescovati di Passau, Salisburgo, Frisinga e Ratisbona, e, più tardi (745?), anche di Eichstàtt. Poi, in Turingia, fondò i vescovati di Wurzburg, di Bùraburg e di Erfurt (dopo il 741). I nuovi sovrani dei franchi, Carlomanno in Austrasia e Pipino in Neustria, gli spianarono la strada per la riforma della chiesa nel loro regno. Bonifacio potè così tenere, il 21 aprile 743, un Concilium Germanicum che, fra l’altro, portò a termine il riordinamento della chiesa austrasiana. Non conosciamo dove questo concilio ebbe luogo, ma sappiamo che Carlomanno proclamò le decisioni che vi furono prese come leggi del regno. Negli anni 743/744 ebbero luogo altri sinodi a Estinnes (Hennegau) per l’Austrasia, e a Soissons per la Neustria. Nel 745 si potè anche tenere un sinodo generale franco. L’opera di riforma fu condotta da Bonifacio, che dal 741 era stato nominato legato per l’intero regno dei franchi, in strettissimo accordo con i regnanti del paese. Questi, infatti, accettarono non soltanto le idee riformatrici del missionario, ma anche la sua diretta unione con Roma. Nel 747, durante un sinodo, i vescovi presenti sotto la guida di Bonifacio indirizzarono un solenne voto di fedeltà al papa. L’alleanza era di fatto conclusa. Pipino, che da quando
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Carlomanno era entrato in convento a Montecassino (747), deteneva il potere assoluto, giunse presto a intavolare trattative dirette con il papa. Egli potè giovarsi, per discutere la riforma ecclesiastica, di propri consiglieri franchi, quali l’abate Fulrad di St. Dénis e il vescovo Chrodegang di Metz. L’opera di Bonifacio aveva dato i suoi frutti. Tuttavia, gli ultimi anni della vita operosa di Bonifacio furono pieni di amare delusioni. È vero che Pipino portava decisamente innanzi la riforma, ma egli cedeva sempre più terreno all’opposizione franca contro Bonifacio, il missionario anglosassone straniero, e spesso lo scavalcava in alcune decisioni. Bonifacio, allora, si ritirò e poiché i nobili franchi gli impedirono, nel 745, di occupare il vescovato di Colonia, che si era reso proprio allora vacante, nel 748 egli scelse come sede metropolitana Magonza e qui, nell’abbazia che gli era più cara, Fulda, che aveva fondato nel 744 e aveva affidata all’abate Sturmi, continuò la sua missione spirituale e pastorale. Sembra però che egli non sia stato presente personalmente ai grandi avvenimenti politici che seguirono. Probabilmente egli non partecipò direttamente né alle trattative fra Pipino e papa Zaccaria (741-752), per la detronizzazione della dinastia merovingia nel regno dei franchi, né all’unzione regia di Pipino nel 751/752. Quando papa Stefano II (752-757), nel 754, si presentò come postulante nel regno dei franchi e in quell’occasione ripetè l’unzione e l’incoronazione di Pipino in tutta solennità, Bonifacio stava proprio per intraprendere il suo ultimo viaggio missionario in Frisia. E in quella regione, il 5 giugno 754, fu ucciso, insieme a 52 compagni, a Dokkum, da frisoni pagani. Il suo martirio commosse ancora una volta l’intero regno dei franchi e la sua salma fu portata a Fulda, in processione solenne. In quello stesso anno si coneluse l’importantissima alleanza fra il papato e il regno dei franchi, i cui fondamenti erano stati posti proprio da Bonifacio.
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§ 20. L’alleanza del papato con il regno dei franchi Per poter ben comprendere il significato e !,importanza di questa alleanza, dobbiamo considerare brevemente la concreta situazione esistente in ambedue i campi.
1. Il papato fra Oriente e Occidente. L'espansione islamica Dalla fine dell'impero romano d'Occidente (476), Bisanzio-Costantinopoli era divenuta, come ‘nuova Roma’ (kaine R óm e), Tunico centro di potere legittimo nell'impero romano. L'imperatore Giustiniano I (527-565), dopo la vittoria sui vandali e sugli ostrogoti, cercò di restituire all'impero romano la sua antica dignità e il suo splendore. Ma il secolo successivo portò con sé nuovi pericoli: slavi e avari minacciarono l'impero dai Balcani e rinacque anche l'antica inimicizia con i persiani. Questi ultimi portarono Bisanzio quasi sull'orlo della rovina, soprattutto quando i sassanidi, nel 605, si spinsero fino al Bosforo e, dal 615, cominciarono a conquistare le province mediterranee fino all'Egitto e, nel 619, occuparono l'Egitto stesso. L'imperatore Eraclio I (610-641) tuttavia riuscì a sconfiggere, con una ‘guerra santa', i persiani a Ninive, nel 627. In quell'occasione egli strappò loro la santa croce di Cristo, che essi avevano rubato a Gerusalemme (festa della esaltazione della croce). Ma erano trascorsi solo pochi anni e si presentarono nuovi e ancor più pesanti pericoli ai quali non fu più possibile sottrarsi. L'Islam e gli arabi penetrarono decisamente nell'area mediterranea, spezzando l'unità della cultura ellenistico-romana e la loro invasione ebbe ripercussioni imprevedibili nel campo politico e cuiturale. Il Mediterraneo, che da millenni costituiva l'elemento unificatore dei popoli bagnati dalle sue acque, divenne invece, durante le conquiste arabe dell'Asia anteriore e dell'Africa settentrionale, una barriera che divise il mondo islamico dal mondo cristiano occidentale. A Bisanzio toccò il difficile compito di essere il baluardo della fede cristiana e di proteggere l'Europa in Oriente dalle infil
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trazioni islamiche. La città si venne così a trovare sempre più in mezzo a due fronti. Maometto (571632 )־creò, su una base iniziale modesta, un movimento religioso fra gli arabi, che divenne ben presto un’immensa forza. Nato alla Mecca, già a sei anni era orfano di entrambi i genitori e fu quindi allevato da uno zio. A 25 anni sposò la vedova di un ricco commerciante e, nei suoi viaggi d’affari in Siria e in Arabia, imparò a conoscere le diverse confessioni religiose e soprattutto l’ebraismo e il cristianesimo. Quando, verso i 40 anni, apparve in veste di riformatore sociale e religioso tra la sua gente, che professava ancora in gran parte un politeismo di tipo primitivo, Maometto aveva ormai pienamente maturato un ideale religioso che comprendeva e mescolava in eguale misura teorie antiche, idee dell’Antico Testamento, dell’ebraismo, del cristianesimo e dello gnosticismo. Il carattere essenziale della sua dottrina religiosa fu un rigido monoteismo. Quale profeta di Allah, Maometto predicò l’abbandono alla volontà di Dio (‘Islam’) e promise ai ‘musulmani’ (= devoti), come ricompensa, il paradiso nell’aldilà. I semplici, chiari insegnamenti, che ‘il profeta’ dichiarava di avere ricevuto da visioni celesti e che comprendevano, oltre al monoteismo, l’idea della predestinazione di tutte le azioni e i destini umani per opera di Dio (kismet) e della ricompensa o della pena per le opere buone e cattive nel giorno del giudizio, furono sommamente gradite ai musulmani, soprattutto per le descrizioni sensuali della vita oltre la morte, e impressionarono fortemente la fantasia degli orientali con il loro rituale (abluzioni, preghiera quotidiana cinque volte al giorno, digiuno nel mese del Ramadan e pellegrinaggio alla Mecca). In un primo momento Maometto, a causa di tensioni sociali e religiose, dovette fuggire dalla Mecca (622, inizio del nuovo calendario, Egira) e si recò, con i suoi seguaci, a Yathrib, la futura Medina (= città del profeta). Da qui, egli assoggettò e convertì le tribù arabe. Nel 630 fece ritorno alla Mecca, che si consegnò a lui senza opporre resistenza. Purificata dagli idoli la Kaaba, l’antico santuario arabo della Mecca, Maometto fondò la sua nuova dottrina come religione nazionale araba, e ben presto dominò tutta l’Arabia.
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La precoce morte di Maometto (632) minacciò di far crollare la sua opera, ma il suo primo successore (kalif) Abu Bakr (632634)־ riuscì a riunire tutte le tribù discordi e a guidare il loro desiderio di lotta e di bottino verso i paesi confinanti. Lo scontro con i grandi imperi di Persia e di Bisanzio aprì Tepoca della potente espansione araba. D califfo Omar (634-644) fu il vero fondatore dell’impero mondiale arabo. Nel 635 egli conquistò Damasco e sconfisse i persi sassanidi; nel 637 anche Gerusalemme cadde nelle sue mani; dal 640 al 644 occupò la Persia, mentre il suo condottiero Amru nello stesso tempo (639641 )־invadeva e sottometteva PEgitto. Ben presto anche PAfrica settentrionale e la costa mediterranea della Siria, fino a Gibilterra, fecero parte del regno arabo. Sotto Omar e il suo successore Othman, genero di Maometto, furono redatte definitivamente le 114 sure (capitoli) del Corano, che contenevano le ‘rivelazionP proclamate da Maometto. Da Othman derivò la dinastia dei califfi Omayyadi, che dal 661 al 750 stabilirono la loro residenza a Damasco. L’impero bizantino non potè opporsi all’espansione araba e dovette rassegnarsi a perdere vasti possedimenti. Solo Costantinopoli fu difesa con strenue lotte che durarono lunghi anni (674-678). Nel 717/718 i musulmani, che avevano attaccato la città dal mare e dalla terra, subirono, infatti, una spaventosa sconfitta dinanzi a Costantinopoli. È comprensibile che Bisanzio non fosse più in grado di proteggere Roma e PItalia dai longobardi. Questi, già nel 568, avevano fondato un loro regno nell’Italia settentrionale (Lombardia), con capitale Pavia, ed esteso rapidamente i loro domini verso il sud; a Spoleto e Benevento sorsero proprio allora due ducati longobardi, nelle immediate vicinanze di Roma. Poiché gli arabi avevano conquistato anche l’Italia meridionale, la zona della penisola che apparteneva ancora a Bisanzio si ridusse ai territori intorno a Roma (Ducatus romanus) e a Ravenna (esarcato di Ravenna), ove aveva sede il pròconsole bizantino. Quando, nel 592/593, i longobardi assediarono anche Roma, la città non potè logicamente sperare nessun aiuto da Bisanzio. Papa Gregorio Magno (590-604) mosse allora incontro ai longobardi, come già aveva fatto Leone Magno con gli unni e con i
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vandali, e ottenne che essi togliessero Passedio e si ritirassero dalla città. In seguito, grazie anche all’aiuto della regina cattolica Teodo־ linda, egli potè convertire i longobardi alla fede cattolica. Gregorio fu anche il primo papa che rivolse i suoi interessi ai germani. Per quanto i longobardi avessero abbracciato abbastanza presto la fede cattolica, le tensioni politiche continuarono a sussistere ancora a lungo. Quando il re Liutprando (712744 )־riprese la vecchia politica di conquista e cercò di assoggettare a sé l’intera Italia, l’im־ pero d’Oriente era scosso all’interno e all’esterno da terribili crisi. Inutilmente i papi invocarono il suo aiuto: Bisanzio non potè inviare nessun esercito a difendere l’Italia. Impegnato com’era nella lotta con i longobardi e abbandonato dall’imperatore, papa Gregorio III (731741)־, nel 739/740, chiese allora aiuto al maggiordomo franco Carlo Martello. Questi, tuttavia, proprio nello stesso periodo, aveva concluso un’alleanza con i longobardi, del cui aiuto aveva bisogno per poter cacciare gli arabi dalla Francia meridionale. Inoltre, l’unione da poco intavolata da Vinfrido Bonifacio fra Roma e il regno dei franchi non era divenuta ancora operante. Carlo fu quindi costretto a rifiutare l’aiuto che il papa gli chiedeva. In questa difficile situazione papa Zaccaria (741752 )־si vide costretto a concludere con Liutprando una pace ventennale. Dopo un breve periodo di tranquillità, sotto il re Rachis (744749)־, che entrò come monaco nel monastero di Montecassino, Astolfo (749756 )־riprese gli antichi piani di conquista. Questa nuova minaccia alla città di Roma obbligò ancora una volta papa Stefano II (752757 )־a chiedere aiuto al re dei franchi. Questa volta, tuttavia, il papato potè contare su una migliore comprensione, perché la situazione nel frattempo era interamente mutata. E, infatti, Pipino, l’energico fi־ glio e successore di Carlo Martello, esaudì pienamente le richieste papali.
2. Il regno deifranchi e i suoi nuovi compiti Già da lungo tempo, nel regno dei franchi, i maggiordomi go־ vernavano al posto degli inetti re merovingi. Nel 743, tuttavia, fu eletto ancora una volta re un merovingio - l’ultimo: Childerico IH - la cui figura era stata già messa in ombra dall’eccezionale perso־
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nalità di Carlo Martello (714741)־, che con le stupende vittorie contro gli arabi, ottenute nel 732, a Tours e a Poitiers, aveva di fatto allargato la sua autorità di maggiordomo, divenendo praticamente il dominatore assoluto dell’intero regno dei franchi. Carlo Martello era dunque il vero re dell’Occidente, anche se la corona era portata da altri, e nel cuore dei franchi egli era esaltato come il ‘martello’, che aveva salvato l’Europa dall’Islam. Carlo aveva di fatto arrestato definitivamente la marcia trionfale dei fanatici seguaci di Maometto, che nel 711 erano calati su Gibilterra e in Spagna, avevano distrutto in breve tempo il regno dei visigoti e osato mettere piede anche nella stessa Francia meridionale. Anche i figli di Carlo Martello, Carlomanno (741747 )־e Pipino (741768)־, avevano governato autocraticamente. Quando Carlo־ manno rinunciò al potere per farsi monaco nel monastero di Montecassino (747), sembrò ormai giunto il momento per Pipino, che, di fatto, era divenuto l’esclusivo signore dei franchi, di prendere in mano il regno e di destituire l’inetta dinastia merovingia. Per dare al regno germanico un saldo ancoraggio religioso era tuttavia necessano il benestare di un’altissima personalità, che giustificasse l’usurpazione e sostituisse al diritto di sangue, che mancava al maggiordomo, l’unzione spirituale. In tali circostanze solo il papa poteva concedere questa approvazione e, grazie all’opera di Bonifacio, il papato godeva allora di grandissima stima e rispetto presso i franchi. Pipino si rivolse dunque a Zaccaria (741752)־, chiedendogli risolutamente se potesse osare fare questo passo. Forte del־ l’approvazione papale e protetto dalla massima autorità spirituale, Pipino si presentò alla dieta reale di Soissons (751/752) e si fece eleggere re dei franchi. Il papa incaricò un metropolita franco, che non fu, tuttavia, come finora si era generalmente creduto, Bonifaciò, di consacrare re Pipino. Al nuovo orientamento del regno dei franchi verso Roma, che era iniziato con Bonifacio ed era proseguito con Pipino, comincia־ va ora a corrispondere l’atteggiamento di favore del papato verso il regno dei franchi. Furono i bizantini e i longobardi che indussero il papa a compiere questo passo, che aprì veramente «un nuovo corso nella storia europea» (Theodor Schieffer). Il papato, che fino ad allora, nonostante le numerose tensioni, si era sempre appog־
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giato a Bisanzio, si staccò definitivamente dall’impero di Oriente e si rivolse completamente all’Occidente, rappresentato dal regno dei franchi. Quando, nell’estate del 753, il re dei longobardi Astolfo minacciò di nuovo Roma, papa Stefano, che ormai non poteva attendersi più nessun aiuto da Bisanzio, si rivolse al re dei franchi e gli chiese di invitarlo, tramite una legazione franca, nel suo regno per poter intavolare trattative personali. Pipino aderì subito alla preghiera del papa; egli vide, infatti, nel viaggio papale nella sua terra non so10 l’occasione per ringraziare il pontefice per la sua recente consa־ crazione, ma anche la possibilità di dar prova e conferma concreta al papa dei suoi sentimenti di re cristiano, ben sapendo che al suo regno era connesso un preciso incarico etico-religioso: offrire, cioè, la potenza politico-militare al servizio e alla protezione della chiesa. Stefano, da parte sua, nella sua lettera di ringraziamento a Pipino ricordava che Roma non era soltanto la più nobile chiesa d’Occidente, ma anche la sede del principe degli apostoli, che anche i franchi avevano eletto loro patrono, ed era ben cosciente, scrivendo quelle righe, di compiacere vivamente l’intera nobiltà e 11popolo amico. Il viaggio, che il papa intraprese nel novembre del 753, «simboleggiò lo sciogliersi del papato dall’impero (bizantinoromano) e il passaggio storico dal periodo bizantino a quello franco» (Schieffer). Il 7 gennaio 754, a Quierzy, fu stipulato il patto di amicizia tra il papato e il regno dei franchi. Pipino promise al papa il suo aiuto contro Astolfo e, al tempo stesso, la ‘restituzione’ delle regioni conquistate finora dai longobardi e, in particolare, di Ravenna. A proposito di questa restituzione non si parlò ormai più di impero bizantino, per quanto in realtà quei territori appartenessero ancora a quest’ultimo, bensì di S. Pietro; i franchi, infatti, così dichiararono in quell’occasione, non intendevano scendere in campo per l’imperatore bizantino, ma solo per san Pietro e il suo successore. Nell’aprile del 754 la dieta imperiale franca, riunitasi a Quierzy, decise di proteggere il papa contro i longobardi. In una celebre ‘promessa di donazione’, che purtroppo non possediamo più nel suo testo originale, Pipino si impegnò a restituire a Stefano II tutti i
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territori dell’Italia centrale, che egli avrebbe ripreso ai longobardi: la Tuscia, Ravenna, il Veneto, lTstria e i ducati di Spoleto e Bene־ vento. Facendo questa donazione di territori a san Pietro, il re franco gettava le basi del futuro stato pontificio. Astolfo, nel frattempo, aveva respinto ogni trattativa, rifiutando di accettare una pacifica soluzione del conflitto. Nell’estate del 754 egli fu così sconfitto dai franchi e costretto alla restituzione dei territori occupati. Quando, due anni dopo, si sollevò nuovamente e mosse verso Roma fu di nuovo battuto duramente da una seconda spedizione franca e definitivamente debellato. Quando tuttavia si trattò di mettere in atto le promesse dell’atto di donazione franco, nacquero alcune difficoltà. Non tutti i territori pròmessi furono, infatti, consegnati al papa. Si temette forse la loro rivendicazione da parte di Bisanzio? I reali motivi che impedirono la ‘restituzione’ al papa delle terre occupate dai longobardi non ci sono noti. In ogni modo, il nuovo stato pontificio necessitava ancora di una legittima fondazione. Innanzitutto appariva necessario appropriarsi dei vecchi diritti dei bizantini, derivati dalla successione dell’antico impero romano dall’imperatore Costantino il Grande. I bizantini rivendicavano come territori imperiali non solo Roma e Ravenna, ma quasi tutta l’Italia e l’Occidente. L’alleanza stipulata dal papa con i franchi, agli occhi dei bizantini, era un vero e pròprio tradimento ed essi non riconobbero mai gli accordi territoriali stipulati fra i franchi e il papa. Con ogni probabilità risale proprio a quest’epoca, e più precisamente agli anni compresi fra il 750 e il 760, la cosiddetta donazione costantiniana. Essa è una falsificazione medievale: secondo questo documento Costantino il Grande avrebbe concesso a papa Silvestro (314-335) e alla sede romana la signoria su tutta la metà dell’impero d’Occidente, quando, nel 330, egli trasferì la sua residenza da Roma a Bisanzio. Alla base di questo documento sta l’antica leggenda di Silvestro, risalente al V secolo: un racconto fantastico e di pura invenzione, il quale ci narra che l’imperatore Costantino, colpito da lebbra e poi miracolosamente guarito da papa Silvestro, avrebbe, per gratitudine, concesso alla sede romana la signoria su Roma e su tutti i paesi occidentali. Se alla base di questa leggenda
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di Silvestro probabilmente stava già la tendenza a proteggere il papato dalla tutela dell’impero bizantino e ad assicurargli un’autonomia ecclesiastica e politica in Occidente, dopo il crollo dell’impero romano d’Occidente (476) e i contrasti sorti con l’impero romano d’Oriente dal VI all’vm secolo, è già chiaramente riconoscibile anche il desiderio di assegnare al papato in Italia la guida politica nella successione dell’impero romano, che de facto già gli spettava da molto tempo e che gli era stata accordata dalle popolazioni indigene. La falsificazione doveva quindi dare un fondamento storico e giuridico a queste pretese, soprattutto in un momento in cui appariva opportuno confutare i diritti dell’impero bizantino su Ravenna, Roma e l’Italia. Si è quindi sospettato che il documento attribuito a Costantino fosse stato in realtà redatto, a questo scopo, dalla cancelleria pontificia, già fin dai tempi di papa Stefano II (752757 )־o di Paolo I (757767)־, ma il momento e il luogo precisi della falsificazione sono ancora discussi. L’influenza della cosiddetta ‘donazione di Costarnino’ nel Medioevo fu immensa. Dal giorno in cui, vale a dire dalla metà dell’xi secolo, fu ritenuta, in buona fede, autentica, essa servì non soltanto come base per fondare legittimamente lo stato pontificio, ma anche per rafforzare l’affermazione del primato e le pretese temporali di dominio dei pontefici, da Gregorio VII fino a Innocenzo III e a Bonifacio V ili. Solo Nicolò Cusano, Lorenzo Valla e gli umanisti del XV secolo dubitarono della sua autenticità e ne dimostrarono la falsità. Quando papa Stefano I, il 28 luglio del 754, ripetè a St. Dénis la consacrazione di Pipino e dei suoi figli Carlo e Carlomanno a re dei franchi, conferendo a Pipino il titolo di patricius romanorum, che in realtà avrebbe potuto assegnare soltanto l’imperatore bizantino, egli dimostrò chiaramente, appoggiandosi sull’atto di donazione costantiniana, di ritenersi detentore dei diritti imperiali. Per i franchi, naturalmente, questo titolo onorifico significava l’accetta־ zione di un nuovo mandato: essere cioè la potenza che si impegnava formalmente a proteggere la chiesa occidentale. In quello stesso anno morì Bonifacio.
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§ 21. Carlo Magno e la fondazione dell’impero d’Occidente Carlo Magno (768814)־, il più potente fra i sovrani del Medioevo, portò a compimento Popera iniziata da Bonifacio e continuata da Pipino, Punione del regno dei franchi con Roma, realizzando su questa base Pimpero cristiano d’Occidente.
2. Vita e opera di Carlo Già a dodici anni Carlo aveva partecipato, nel 754. all’incontro di suo padre Pipino con il papa Stefano II, a Ponthion, ne aveva sottoscritto gli accordi e ricevuto l’unzione ecclesiastica. Nel 768, per un certo periodo, aveva dovuto dividere il potere con il fratello Carlomanno, ma dopo la sua precoce morte (771) divenne Punico ed effettivo sovrano e potè estendere il suo regno con spedizioni belliche, condotte in tutta l’Europa, e consolidarlo all’interno e al־ l’esterno. Per espresso desiderio di sua madre Bertrada e mosso anche da una ferma volontà politica di riappacificazione, Carlo sposò Desideria, figlia del re dei longobardi Desiderio. Non per questo cessa־ rono tuttavia gli antichi conflitti tra franchi e longobardi, e quando Carlo, per motivi rimasti ignoti, ripudiò la moglie Desideria e la rimandò a suo padre, la guerra si riaccese. Desiderio cercò di concludere un’alleanza contro Carlo e di guadagnare alla sua causa papa Adriano I (772795)־, ma quando quest’ultimo rifiutò il suo aiuto, marciò con le truppe su Roma. Adriano chiese allora aiuto a Carlo, che discese rapidamente in Italia con un potente esercito e sconfisse il re dei longobardi (773/774). Nella Pasqua del 774, mentre durava ancora l’assedio di Pavia, Carlo venne a Roma e il papa e il re dei franchi si giurarono sulla tomba di san Pietro eterna fedeltà. Carlo assunse in quell’occasione, in veste di patricius romanorum, la difesa militare di Roma. Da allora in poi la defensio ecclesiae ramarne spettò come missione nobilissima al regno dei franchi e non passerà molto tempo che il re dei franchi estenderà anche, come imperatore dell'imperium occidentale, la sua protezione a tutta !,Europa.
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Carlo, nella Pasqua del 774, rinnovò la donazione di suo padre Pipino al papa, ma dopo la vittoria riportata su Desiderio, essendo egli stesso divenuto re dei longobardi e avendo quindi da curare i propri interessi in Italia, non rispettò più la promessa. Le trattative con il papa si trascinarono fino al 781: solo in quelTanno Carlo ‘restimi' al papa il ducato di Roma, l'esarcato di Ravenna, la Pentapoli e la Sabina, la Tuscia meridionale e altri piccoli territori, affidandoglieli in dominio autonomo. Nasceva così ufficialmente lo Stato Pontificio, che doveva sussistere fino al 1870 e che, attraverso alterne vicende, conferì alla chiesa cattolica indipendenza, ma che fu spesso per lei anche un gravame intollerabile. L'Istria e il Veneto non furono tuttavia comprese nello stato pontificio e neppure i ducati longobardi di Benevento e di Spoleto. Carlo preferì, infatti, tenere per sé questi territori, dopo che, nel 787, li ebbe conquistati: essi avrebbero assicurato la signoria del re dei franchi sull'Italia. I primi decenni che seguirono questi avvenimenti furono occupati nel rafforzamento e nella difesa dei confini del regno dei franchi, ma dopo che la posizione ecclesiastico-religiosa di Carlo si fu pienamente consolidata, grazie soprattutto alla sua alleanza con il papato e la chiesa romana, il figlio di Pipino potè riprendere con maggior vigore le sue conquiste, che compì anche in nome della fede cattolica e della chiesa, visto che ormai si considerava, e, di fatto, era divenuto, protettore ufficiale delle medesime. Le sue imprese belliche si rivolsero esclusivamente contro quei pagani e infedeli che assediavano i confini del regno. Tutte le sue campagne ebbero, al tempo stesso, un carattere ecclesiastico-religioso e politico-militare, sia che Carlo combattesse l'Islam in Spagna o i sassoni pagani o gli avari, gli slavi, i boemi, nel nord e in Oriente. Politica e religione furono per il re dei franchi una cosa sola. All'assoggettamento di un popolo era sempre direttamente legata la sua cristianizzazione e la cristianizzazione di questi popoli significava per essi anche e soprattutto sottomettersi alla supremazia del regno dei franchi. Non c'è dubbio che Carlo abbia sempre agito spinto da un vero senso di responsabilità cristiana e che la diffusione della fede e della civiltà cristiana gli sia stata altrettanto a cuore dell'allargamento del suo potere politico. Quale fra le due tendenze del suo animo
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prevalesse veramente non è facile stabilire. Se si tiene tuttavia presente la concezione generale religioso-politica imperante a quelPepoca, si comprende che il nostro modo attuale di porre il pròblema appare alquanto anacronistico. Nel 778 Carlo lottò contro gli arabi in Spagna e, per difendere i territori riconquistati nella Spagna settentrionale, fondò, nel 795, la marca spagnola. Nel 789 mosse guerra agli slavi; nel 791, nel 795 e nel 797 agli avari; nelT805/806 ai boemi; nelT808-811 ai danesi: le guerre più lunghe e accanite furono tuttavia quelle condotte contro i sassoni (dal 772 all’804). La vittoria sui sassoni era di importanza vitale per la creazione di uno stato unitario franco. E poiché proprio in questo caso gli interessi politici erano direttamente connessi a quelli della cristianizzazione di quei popoli, la missione cristiana in quelle terre ottenne scarsissimi successi. Dal 772 aveva avuto inizio una lotta accanita, cominciata con spedizioni punitive contro i sassoni, che avevano spesso superato i confini del regno franco devastando e uccidendo. Fu una lotta terribile, che si trascinò fino alT804 e che ogni anno vedeva muovere nuove spedizioni franche contro la Sassonia. Nel 777 Carlo tenne, nel cuore stesso del paese dei sassoni, a Paderbom, una dieta reale, nella quale ordinò a tutti i sassoni di convertirsi al cristianesimo e divise il paese in zone di missione. Numerosi nobili sassoni si fecero allora battezzare e il cristianesimo fece rapidi progressi. Ma alcuni anni dopo si ebbe un durissimo contraccolpo. Mentre Carlo era costretto in Spagna da impegni militari, Vitichindo guidò una terribile rivolta (782-785): i sassoni aggredirono una parte dell’esercito franco sul monte Siintel e !,annientarono. Carlo accorse precipitosamente e si vendicò in modo feroce: dopo aver debellato i ribelli, ne fece giustiziare 4500 a Verden, sulTAller. Questa strage accese nuovo odio; Vitichindo, che era scampato in Danimarca, eccitò alla rivolta, ma poi, vedendo che ogni sua azione contro Carlo era destinata al fallimento, accettò nel 785 egli stesso il battesimo ad Attigny. Non per questo cessarono le rivolte in Sassonia, che divampavano ancora ferocemente e fu solo grazie al violento trapianto di migliaia di sassoni in terra franca e di altrettanti coloni franchi in Sassonia che si potè giungere, nel IX secolo, alla totale pacificazione
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del paese. Furono allora fondati nuovi vescovati (Miinster, Osnabriick, Paderborn, Minden, Brema, Verden [Aller], Hildesheim e Halberstadt) e sorsero numerosi monasteri, che furono subordinati ai vescovati renani di Colonia e di Magonza, i quali divennero perciò arcivescovati. Colonia ebbe come arcivescovati suffraganei, oltre a quelli già esistenti, come Luttich (ex Tongern) e Utrecht, i vescovati sassoni di Miinster, Minden, Brema e di Osnabrùck; Magonza ebbe invece Speyer, Worms, Strasburgo, Augusta, Costanza, Coira, Eichstàtt e Wiirzburg e, inoltre, le diocesi sassoni di Paderborn, Verden, Halberstadt e di Hildesheim. Per !,organizzazione di tutti questi vescovati fu stabilita una stretta unione della Sassonia con il regno dei franchi, unione che si dimostrò in seguito assai utile. Il cristianesimo, dopo la cessazione delle ostilità con i franchi, mise radici in Sassonia con incredibile rapidità. I monasteri fiorirono numerosissimi (nell’822 Corvey, Werden nell’800, Essen ecc.). Intorno alla metà del IX secolo un poeta anonimo compose in questa terra lo stupendo Heliand-Lied [Il Canto di Heliand]y un’opera epica di più di 6000 versi, che descriveva la storia della salvezza come se fosse avvenuta nella Sassonia e cantava Cristo come fosse stato un principe sassone, al quale il suo popolo aveva giurato fedeltà. Nel X secolo questo stesso popolo sassone vedrà splendere, nella stirpe imperiale degli Ottoni, lumi meravigliosi di profondo sentimento cristiano, uomini che incarneranno quell’idea dell’impero cristiano germanico, che ha segnato il Medioevo. Senza l’inserimento dei sassoni nel regno dei franchi, lo si può affermare tranquillamente, non si sarebbe mai giunti alla formazione dell’impero universale occidentale cristiano.
2. !!idea di regno in Carlo Carlo concepì la sua missione regale con spirito del tutto cristiano. Dinanzi ai suoi occhi stava sempre l’ideale della ‘città di Dio’ agostiniana ed egli amava che, a tavola, gli fossero lette le pagine del grande santo di Ippona che lo descrivevano. Carlo si dedicò assiduamente e con grande amore all’elevazione religiosa e culturale dei suoi popoli. Il suo disegno era quello di riunirli tutti insieme per fame un unico e potente popolo cristiano e, per questo, era an
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zitutto necessario educarli e formarli. Finché visse, egli riuscì sempre a tenere saldamente in mano tutte le fila della vita politica e spirituale del suo immenso impero, che abbracciava quasi tutta TEuropa. Il centro di gravità dell’impero si spostò dalla Senna al Reno. Nel 786 Carlo iniziò la costruzione del palazzo imperiale di Aquisgrana che dal suo novantesimo anno in poi divenne la sua dimora preferita, nella quale amava abitualmente risiedere. La sua corte accoglieva numerosissime persone, che venivano a cercare giustizia, a chiedere aiuto e a ricevere una formazione spirituale. Carlo aveva il dono di attirare a sé soprattutto uomini di elevata spiritualità. L’accademia di corte di Aquisgrana divenne ben presto il centro spirituale più importante di tutto il regno dei franchi. Insieme a un gran numero di funzionari della corte e dell’impero, che dimoravano abitualmente ad Aquisgrana, vivevano anche molti religio־ si. Dal 789 furono tenuti qui frequenti sinodi ecclesiali. La cappella palatina del palazzo di Aquisgrana, che nel 795, su modello delle chiese bizantine (San Vitale a Ravenna, Haghia Saphia a Costantinopoli), ebbe anche una cupola ‘imperiale* e fu consacrata probabilmente il 17 luglio dell’800, doveva divenire in seguito il simbolo della concezione dell’impero cristiano occidentale. Assiso sul venerabile seggio imperiale di Carlo, Ottone il Grande riceveva nel duomo di Aquisgrana, nel 936, i segni della sua dignità regale; in quello stesso luogo, fino al 1531, ebbero luogo altre trenta incoronazioni di sovrani tedeschi. H tesoro del duomo di Aquisgrana, i grandi reliquiari dell’epoca carolingia e del tempo degli Ottoni, i gioielli della corona sono ancora fra gli oggetti d’arte più preziosi dell’Occidente (croce di Lotario, evangeliari, palla d’oro, ambone ecc.). Accanto alle regali scuole di corte fiorirono anche, in celebri monasteri e in numerose scuole di cattedrale protette da Carlo, le arti e le scienze, che erano ancora insegnate seguendo l’antica tradizione culturale. Non a caso, Carlo volle che la cultura del suo tempo si alimentasse direttamente all’antica tradizione cristiana: il giovane popolo dei franchi doveva crescere spiritualmente e modellarsi sull’antichità per poter poi dar vita a proprie forme creatrici nel pensiero e nell’arte.
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E proprio all'amore con cui Carlo e i suoi dotti raccolsero da ogni parte ed emendarono gli scritti del mondo classico antico dobbiamo la conservazione della maggior parte dei testi classici che possediamo. Nel ricopiare diligentemente quegli scritti essi usarono una forma di scrittura più nuova e più bella, la cosiddetta ‘minuscola carolina', che consisteva in un sistema di quattro righe di lettere maiuscole e minuscole, che permetteva una grande chiarezza di lettura e che è rimasta la forma fondamentale della scritta־ ra medievale. Ancor oggi noi ci serviamo di essa nella nostra cosiddetta scrittura ‘latina'. Nelle celebri scuole di Aquisgrana, di Treviri, di Tours e in altre ancora si sviluppò un'arte del libro, unica nel suo genere, ricca di stupende miniature che imitavano soprattutto gli esempi antichi, e di preziose rilegature, di custodie con intagli in avorio, giustamente famosa soprattutto per i suoi codici biblici (ricorderemo: l'evangeliario viennese, l'evangeliario di Godescalco, il manoscritto di Ada, a Treviri ecc.). Naturalmente, una cura tutta particolare fu dedicata alla sacra Scrittura e ai libri liturgici, Il dotto anglosassone Alcuino (circa 730804 )־e il visigoto Teodolfo di Orléans (circa 750/760821)־, che Carlo aveva chiamato accanto a sé, si impegnarono anche in una revisione del testo biblico. Per rinnovare la liturgia nel regno dei franchi Carlo fece venire da Roma un esemplare del Sacramenta־ rium Gregorianum e fra la chiesa romana e quella franca si ebbero, in epoca carolingia, fecondi scambi liturgici. Carlo tendeva soprat־ tutto a un intimo collegamento spirituale e religioso con Roma e proseguiva e attuava, seguendo un chiaro obiettivo, Popera che Bonifacio aveva già iniziato. Egli ottenne da papa Adriano la rac־ colta giuridica di Dionigi il Piccolo, nell'edizione ampliata e vigente a Roma, per poterla dare anche alla chiesa franca, come base giuridica. Per la riforma dei monasteri, di cui il regno aveva estremo bisogno, si procurò da Montecassino una copia della regola benedettina. Durante una spedizione nell'Italia meridionale, Carlo aveva potuto visitare, nel 787, il celebre monastero benedettino e là (probabilmente) ebbe modo di vedere l’esemplare originale del־ la Regola di san Benedetto. Il suo spiccato sentimento dell'ordine aveva saputo cogliere immediatamente il valore del testo originale, con la sua lingua grave e positiva, e riconoscere e valutare la giu
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stezza del tipo di vita espresso dalla regola stessa. La riforma, decisa nei sinodi di Aquisgrana dell’802, 816, 817 e 822, della cui applicazione era stato incaricato Pabate Benedetto di Aniane (circa 750821)־, ebbe come suo centro il monastero di S. Cornelio presso Aquisgrana, di recente fondazione. La Regola di san Benedetto divenne così obbligatoria per tutti i monasteri franchi. Carlo proseguì con grande energia la riforma della chiesa, iniziata da Bonifacio, e non esitò a occuparsi direttamente non solo degli interessi esterni della chiesa, ma anche delle sue questioni interne. Egli emanò leggi imperiali per il rinnovamento della vita ecclesiastica, organizzò sinodi e, utilizzando i suoi messi (missi domi־ nici), vigilò incessantemente non soltanto sulla vita dello stato, ma anche su quella della chiesa. Non va dunque dimenticato che, se è vero che Carlo portò a termine la riforma iniziata da Bonifacio, egli diede sempre a quest’opera di rinnovamento religioso un’impronta personalissima, in armonia con la sua concezione del potere regio, e non sarebbe certo possibile ravvisare nella riforma carolina le concezioni primitive di Bonifacio.
3. Il governo della chiesa secondo Carlo La sua concezione del potere era infatti rigidamente teocratica. Il pensiero di Carlo fu sempre influenzato da idee e figure dell’Antico Testamento: è noto che, nel cerchio dei suoi confidenti, egli amava farsi chiamare Re David. Il re dei franchi svolse sempre le sue mansioni imperiali come un sovrano inviato da Dio e chiamato a essere guida e protettore del nuovo popolo di Dio, della cristianità. Già nel sinodo di Francoforte del 794 si fece nominare rex et sacerdos e, nel 796, descrisse, in una lettera inviata a papa Leone DI, la sua missione di re nel modo seguente: Il nostro compito è proteggere con le armi la santa chiesa dall’esterno contro l’assalto dei pagani e contro gli infedeli, e di consolidarla all’intemo attraverso il generale riconoscimento della fede cattolica. Il vostro compito è sostenere il nostro servizio di guerra, come fece Mosè, con le mani levate a Dio, affinché, grazie alla vostra intercessione, il popolo cristiano riporti sempre e ovunque la vittoria sui suoi nemici.
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Nella concezione del potere di Carlo Magno praticamente non esisteva più alcuna distinzione fra il temporale e lo spirituale, sopratlulto da quando il re aveva sposato le idee imperiali bizantine. Come, infatti, il basilèus di Costantinopoli si riteneva il custode dell’ortodossia e, conseguentemente, avocava a sé il diritto di riunire i concili e di ingerirsi direttamente nella disciplina e nella dottrina della chiesa, così Carlo si riteneva il supremo signore della chiesa franca e disponeva liberamente del patrimonio della chiesa e di quello personale che gli apparteneva come re. Riempì così vescovati e monasteri di uomini scelti personalmente e, eleggendo vescovi e abati, fece di costoro dei ‘potenti’ religiosi, e se ne servì per il disbrigo dei suoi affari di stato. Questi religiosi non furono più quindi dei veri pastori e sacerdoti, ma piuttosto degli uomini di stato in veste di religiosi e si abituarono ben presto a ricevere le diretrive imperiali e a fare sempre più assegnamento, nell’attuazione dei loro doveri spirituali, sull’appoggio dello stato in qualità di ‘braccio secolare’ (brachium saeculare). Vescovi e abati ritornarono così a essere a capo delle milizie imperiali e proprio ciò che Bonifaciò aveva cercato di abolire con tanto zelo cristiano era divenuta ormai una consuetudine generale. Un altro pericolo per la vita spirituale fu l’eccessiva importanza attribuita ai compiti culturali della chiesa, che rischiarono di farle dimenticare la sua primaria ed essenziale destinazione religiosa. Finché Carlo fu vivo e tenne saldamente le redini del potere le cose non andarono troppo male, ma più tardi, sotto i suoi deboli suecessori, ricominciò inevitabilmente il processo di secolarizzazione.
4. La concezione imperiale di Carlo. Il problema dei due imperatori Da Bisanzio Carlo derivò anche l’ispirazione per lo sviluppo delle proprie idee imperiali. Come ‘sovrano dell’Europa’, fino all’800 circa, egli aveva ristabilito l’unità politica dell’Occidente. Il suo impero poteva star degnamente di fronte al grande regno arabo e all’impero bizantino. Rappresentava, infatti, la terza grande potenza del mondo mediterraneo occidentale. H re dei franchi pò-
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té intavolare rapporti con Harun al-Rashid, il califfo di Bagdad, e misurare la sua potenza con Pimpero bizantino. La posizione di Carlo verso Costantinopoli fu caratterizzata da due fondamentali direttrici: una politico-militare e Paltra ideale. Con le sue conquiste italiane, a Ravenna e soprattutto in Istria e in Italia meridionale, egli era arrivato alla lotta aperta con Bisanzio. Tuttavia, per !,intrinseca debolezza dell’impero d’Oriente, il re dei franchi non ebbe da temere contraccolpi. Ciò che invece acuì ancor più il conflitto da un punto di vista squisitamente spirituale fu la pretesa, religiosamente fondata, di dominio universale, rivendicata dall’impero bizantino. L’impero d’Oriente derivava il suo assoluto ed esclusivo diritto di governo sulla grande famiglia cristiana dei popoli da Costantino il Grande e dall’impero romano cristiano, ricevuto in eredità da quest’ultimo. Ciò conferiva al titolo di imperatore uno splendore religioso eccezionale. Poiché l’impero romano era divenuto una cosa sola con la cristianità, per l’impero d’Oriente la cristianizzazione di un popolo significò al tempo stesso la sua sottomissione o implicò, almeno, l’ideale riconoscimento della supremazia bizantina. Carlo, tuttavia, non poteva e non voleva riconoscere queste pretese. La sua ambizione politica e la grandezza del regno dei franchi, che poteva misurarsi sulla terra contro qualsiasi altra potenza, non permetteva una tale sottomissione. Per Carlo, in quegli anni, il problema bizantino e la questione imperiale furono dunque il problema dominante. A guardar bene, si trattava di qualcosa di più che un puro gioco di parole. La lotta per l’impero romano e per il titolo imperiale è stata definita la forma medievale del problema del potere sul mondo (Werner Ohnsorge). In tutto il Medioevo il possesso della dignità imperiale fu della massima importanza politica e la politica imperiale dei re tedeschi fondava su di essa la sua autorità e potenza. Anche per Carlo l’aspirazione alla dignità imperiale costituiva uno squisito affare politico. Egli, del resto, non intendeva affatto togliere all’impero d’Oriente il titolo imperiale, ma desiderava solo essere riconosciuto imperatore di eguale rango. A questo scopo servì soprattutto la politica matrimoniale, che fu iniziata dalla stessa imperatrice madre Irene, la quale governava a Costantinopoli per il figlio minorenne Costantino VI (780797)־.
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Quando essa, nel 781, chiese Rotrud, la figlia di Carlo, per suo figlio, il re dei franchi aderì prontamente. Carlo credette di poter vedere in questa richiesta il riconoscimento implicito della equiparazione dei diritti del regno dei franchi con Timpero bizantino, mentre Irene, da parte sua, sperava, grazie a questo matrimonio di stato, di poter riottenere i territori bizantini delTIstria e delTItalia meridionale e di mettersi al sicuro da possibili e ulteriori conquiste franche. Il progetto di matrimonio andò in fumo quando Carlo si vide deluso nella sua aspettativa e fu costretto a constatare che l’impero bizantino lo considerava, e questa volta su un piano ben diverso da quello politico, inferiore nei diritti imperiali. L’occasione per uno scontro diretto fu offerta da un problema dogmatico, che da lungo tempo inquietava POriente: la disputa sulle immagini. Data l’importanza che questa contesa ebbe, sia sul piano politico che su quello ecclesiastico, sarà bene soffermarci un poco a parlarne. Per evitare che il popolo di Israele ricadesse nell’idolatria e soprattutto per meglio mettere in luce la natura spirituale di Dio, l’Antico Testamento aveva raccomandato nel decalogo: «Non ti farai immagini scolpite» (Es 20,4; Lv 26,1; Dt 4,16). Ma dopo che Dio stesso si era fatto uomo e aveva preso forma visibile in Gesù Cristo, il divieto di farsi delle immagini non poteva più avere, nel Nuovo Testamento, lo stesso significato. Nonostante ciò, la chiesa primitiva cercò di reprimere a lungo questo uso e preferì servirsi di segni e simboli per raffigurare Gesù Cristo. La più antica raffigurazione del crocifisso risale, infatti, solo al IV secolo (S. Sabina, a Roma). E se, per amore di molti cristiani che non sapevano leggere, non si potè fare a meno del tutto delle immagini per alcune scene bibliche o per la vita di qualche santo, non si raggiunse mai tuttavia un accordo unanime sul vero senso e sulla precisa importanza da attribuire alle immagini di Cristo. Le dispute cristologiche ebbero in questo una parte notevole: d si domandava, infatti, se fosse veramente possibile e lecito raffigurare la natura umana di Cristo. I rigidi doceti, come i monofisiti, rifiutarono di raffigurare Cristo, poiché essi non credevano nella piena e reale natura umana di Cristo. E anche altri, di sentimenti più moderati, non ritennero op
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portuno raffigurare la natura umana del Verbo, poiché essa, a loro avviso, non aveva alcuna importanza nel piano divino di salvezza. Se poi si voleva proprio rappresentare l’uomo-Dio, si doveva farlo tenendo conto della sua duplice natura, ma poiché non era possibile fermare in immagine il divino ogni raffigurazione umana di esso sarebbe stata solo un’occasione prossima per una pericolosa eresia - il nestorianesimo - a meno che non si negasse, come facevano gli ariani, la divinità di Cristo. Ogni raffigurazione simbolica di Cristo, così argomentavano, cadeva dunque in sospetto di eresia ed era per ciò stesso pericolosa. Per giunta, il popolo è di sua natura incline ad adorare superstiziosamente tutte le immagini, anche quelle dei santi, e in modo particolare quelle di Maria: era dunque meglio abolire del tutto le immagini e il loro culto. Dopo !,invasione degli arabi in Siria e in Egitto anche molti vescovi, sotto !,impressione della propaganda iconoclasta dei musulmani, cominciarono a combattere il culto delle immagini, che era molto diffuso e amato dal popolo cristiano. Il concilio Trullanum II di Costantinopoli (692) si espresse tuttavia ancora a favore della raffigurazione simbolica di Cristo. Ma, intanto, il movimento iconoclasta si era esteso ulteriormente e quando infine !,imperatore Leone III (717-741), nel 730, vietò in tutto l’impero la venerazione delle immagini, il conflitto si riaccese. Il popolo era diviso, ma la maggioranza seguì l’opinione dei monaci, che volevano la conservazione del culto. In queste contese ebbe una parte importante anche l’opposizione politica, soprattutto nell’Italia meridionale, perché papa Gregorio III (731-741), nel corso di un sinodo romano del 731, si dichiarò decisamente contrario alla disposizione imperiale (scomunica dei distruttori delle immagini [iconoclasti]). I rapporti fra la chiesa orientale e la chiesa occidentale si inaspriròno sensibilmente. Sotto l’imperatore Costantino V (741-775) la lotta iconoclasta raggiunse il suo punto massimo. Un sinodo di Hiereia ordinò, nel 754, la distruzione di tutte le immagini che avessero un soggetto religioso. Seguirono tumulti cruenti, persecuzioni, esecuzioni capitali, soprattutto di monaci, che in diverse regioni furono quasi sterminati, eventi che scossero profondamente l’impero romano d’Oriente, finché l’imperatrice Irene si ravvide e, nel 787, riunì a
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Nicea il settimo concilio ecumenico (Niceno II) che permise di nuovo il culto delle immagini. La presenza di due legati del pontefice e il suo riconoscimento da parte del papa Adriano I diedero a questo Concilio, nel quale erano rappresentate la chiesa d'Oriente e quella d'Occidente, un vero carattere di ecumenicità. La contesa fu chiarita, grazie soprattutto alla distinzione stabilita fra adorazione e venerazione. Ladorazione (latréia) spetta, infatti, unicamente a Dio, la venerazione {proskynesis) può invece venir tributata anche a delle creature, poiché, così spiega il Concilio stesso, appoggiandosi su Giovanni Damasceno (t nel 754 circa) e su Basilio (t 379), «l'onore reso a un'immagine è diretto in realtà al prototipo» stesso, cioè alla persona rappresentata. Il valore dell'immagine saera, dell'icona, non sta dunque in essa, ma rimanda al santo raffigurato e quindi a Cristo: «Chiunque veneri un'immagine, venera in essa la realtà che vi è rappresentata». Tutto era stato quindi ristabilito nell’ordine giusto, solo che a Bisanzio si era dimenticato di sentire il parere di Carlo Magno. Questi vide nel modo di procedere autorevole e autonomo dell'imperatrice, che aveva convocato un concilio veramente ecumenico e risolto un problema religioso senza neppure interpellarlo, una gravissima violazione all'equiparazione dei diritti del regno dei franchi con l'impero d’Oriente e perciò reagì immediatamente con grande energia e rifiutò decisamente di concedere la mano di sua figlia al figlio dell'imperatrice. Non contento di ciò, ordinò inoltre che si redigesse un ampio scritto statale, i cosiddetti Libri carolini (790), nel quale ci si dichiarava contro il Niceno II e contro il culto delle immagini. I suoi compilatori, tra i quali Teodolfo di Orléans, incorsero certamente in un infelice errore di interpretazione. Non conoscendo il greco e poiché nella traduzione latina degli atti sinodali appariva un’unica parola che traduceva proskynesis e latréia, cioè la parola adoratio, essi non afferrarono la differenza fra Venerazione' e ‘adorazione’ e polemizzarono, a torto, contro la presunta ‘adorazione’ delle immagini in Oriente. L'intero scritto era chiaramente ispirato da sentimenti fortemente ostili a Bisanzio e deve essere considerato come una «protesta del regno dei franchi contro le pretese di dominio dell'impero d’Oriente in campo dogmatico, ecclesiastico e politico» (Gert Haendler).
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Né significato diverso deve essere attribuito alla reazione di Carlo che, nel 794, convocò a Francoforte un sinodo che, nelle sue intenzioni, doveva essere un concilio veramente ecumenico. Esso non fu mai riconosciuto come tale dalla chiesa, ma tuttavia fu qualcosa di più di uno dei soliti sinodi del regno franco. Fra gli argomenti che formarono oggetto di discussione vi furono Teresia dell’adozionismo, in cui erano incorsi due vescovi spagnoli, Elipando di Toledo (t 802 circa) e Felice di Urgel (t 816 circa); trattò, inoltre, il problema del culto delle immagini, che fu di nuovo rifiutato, e alcune misure riformatrici per il clero, il monacheSimo e il popolo. Come appare chiaro, Carlo si poneva nettamente su un piano di rivalità, nel disbrigo degli affari ecclesiastici, con Pim־ pero bizantino.
5. Lincoronazione a imperatore e le sue conseguenze L’aspirazione di Carlo alla pienezza dell’autorità imperiale non implicava Pannullamento della dignità imperiale bizantina, bensì il riconoscimento di eguali diritti. Come nel IV e nel V secolo era esistito un duplice impero, uno in Oriente e uno in Occidente, così l’impero d’Occidente, che aveva cessato di esistere nel 476, era stato in qualche modo ricostituito grazie ai franchi, che erano il nuovo popolo del nuovo impero occidentale. Fin dal 795 Carlo si ritenne, di fatto, un imperatore e dopo che ebbe dato al regno dei franchi, grazie ai suoi numerosi successi militari, unità e potenza, egli si adoperò costantemente a elevare e formare spiritualmente la sua gente e a creare una cultura unitaria, che favorisse la nascita di un nuovo popolo franco. I suoi disegni furono tuttavia intralciati due volte: una volta da Bisanzio e un’altra volta da Roma. A Costantinopoli erano scoppiati, fra l’imperatrice Irene e suo figlio Costantino, che frattanto era cresciuto, aspri contrasti. Quando Costantino intavolò nuove trattative con Carlo, Irene, temendo di essere scavalcata nel suo potere, s’impadronì del figlio, lo fece imprigionare e nel 797 giunse persino a farlo accecare, per impedirgli qualsiasi attività. Riconquistato così il potere assoluto, l’imperatrice riprese la sua politica di potenza nell’impero
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d’Oriente. Carlo inviò allora un'ambasceria a Irene, cercando di placare le mire ambiziose dell’imperatrice. Una donna insediata sul trono imperiale costituiva, infatti, una novità inaudita, che non si era mai data, ed era problematica dal punto di vista giuridico e storicamente inquietante. Nell’impero d’Occidente non si esitò a trarre da questo fatto immediate conse־ guenze e si dichiarò decaduta la dignità imperiale bizantina. Papa Leone III (795816 )־tolse il nome dell’imperatore bizantino dalle preghiere liturgiche e vi sostituì il nome di Carlo: in questo atto era chiaramente leggibile l’intenzione di trasferire la dignità imperiale da Bisanzio all’impero occidentale e di affidarla nelle mani di Carlo. Sembra, anzi, che in quell’occasione sia stata citata espressamente la translatio imperii. Roma, del resto, doveva già essere di questo avviso se, nel 796, papa Leone III aveva invitato Carlo a venire nell’Urbe per ricevervi l’omaggio dei romani. Nel 799 Leone IH, che aveva dovuto allontanarsi da Roma per una rivolta scoppiata contro di lui, si recò a Paderborn da Carlo, il quale gli promise il suo aiuto e l’anno seguente si recò personalmente a Roma per esaminare la questione. Due giorni prima del Natale dell’800, dopo essersi ampiamente discolpato davanti a un sinodo, con solenne giuramento, dalle gravi accuse mosse contro di lui, Leone HI fu pienamente reintegrato nei suoi diritti di pontefice. Il giorno stesso di Natale Leone avrebbe accondisceso al desiderio di Carlo di ungere re, in S. Pietro, il suo figlio. Con grande sorpresa del re, durante la messa di Natale dell’800, il papa pose la corona sulla testa di Carlo stesso e lo proclamò imperatore in mezzo alle acclamazioni entusiaste del popolo romano. Se dobbiamo credere a Eginardo, biografo di Carlo Magno, il re dei franchi non si mostrò molto entusiasta dell’incoronazione papale; a Carlo importava infatti solo il riconoscimento di un impero franco occidentale, che si potesse allineare con pari diritti a fianco dell’impero d’Oriente. Secondo la teoria sostenuta dal papa e dai romani, l’atto dell’incoronazione significava invece che la dignità imperiale, in conseguenza della translatio, era ritornata nuovamente all’impero romano d’Occidente e perciò poteva essere concessa da essi a Carlo. Ciò non piacque al re dei franchi, che ebbe infatti bisogno di un anno e mezzo per accettare il titolo imperiale (solo
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dall'estate dell’801 cominciò infatti a portarlo ufficialmente). Forse la causa di questa reticenza di Carlo stava anche nel fatto che, proprio in quel tempo, egli aveva riallacciato i rapporti con Pimperatrice Irene per il matrimonio di sua figlia. Certo è che l'impero bizantino, dopo la morte di Irene (802), accettò solo nell'812 di riconoscere formalmente la dignità imperiale di Carlo, anche se, di fatto, la considerò sempre secondaria rispetto a quella detenuta dall'imperatore d'Oriente. Resta comunque il fatto che la dignità imperiale fu ripristinata nuovamente in Occidente e che questa idea imperiale riuscì a superare l'immensa rovina politica e culturale del regno carolingio sotto i successori di Carlo e continuò a informare e a guidare, nei secoli successivi, la storia occidentale. Carlo Magno morì nell'814 ad Aquisgrana e fu sepolto in un antico sarcofago nella sua cappella palatina. H soprannome *Magno' glielo diedero i posteri e con ragione. *Santo' fu invece proclamato solo nel 1165 dall'antipapa Pasquale III, per iniziativa di Federico Barbarossa.
§ 22. La decadenza dell’impero carolingio e il saeculum obscurum della chiesa romana 1. Limpero A Ludovico il Pio (814-840), figlio e successore di Carlo, non mancò certo l'energia spirituale per poter continuare l'opera patema, ma gli fecero difetto la previdenza politica e la fermezza necessane per conservare l'unità del regno. La scoperta di nuove fonti e le attuali ricerche storiche permettono di comprendere chiaramente l'attività svolta da Ludovico. Egli ebbe una grandiosa idea dell'imperium christianum e dei compiti imperiali, una concezione che era al tempo stesso profondamente cristiana e fondata su un'ampia base culturale. Ludovico attuò pienamente il piano di riforma che Carlo aveva intrapreso, garantendo in tal modo una prosperità e una fecondità singolarissime a tutta la vita spirituale del suo tempo. Recentemente, i pri
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mi anni di governo di Ludovico il Pio sono stati visti da alcuni storici come il «culmine assoluto del regno carolingio» (Theodor Schieffer). Soprattutto la vita della chiesa, grazie a Ludovico, ebbe un vigoroso sviluppo: un’ampia legislazione di riforma si occupò dei canonici, del clero secolare e dei monaci. Nell’816 !,imperatore pròmulgò VInstitutio Canonicorum, la quale, riprendendo la regola di Crodegango di Metz, ordinò la vita dei religiosi nelle chiese conventuali sulla base della vita communis. Nell’817 seguì il Capituiare Monasticum, che obbligò tutti i monasteri a seguire la regola di san Benedetto ed elesse Benedetto di Aniane (t 821) commissario per i monasteri dell’intero regno e stabilì il monastero di San Cornelio come monastero centrale. Nell’819 fu pubblicato il Capituiare Ecclesiasticum, che influenzò profondamente la vita ecclesiastica, grazie alle sue precise disposizioni sulla proprietà privata, stabilendo norme protettive per i religiosi delle chiese a essa legate. Fu stabilito che nessun cittadino, che non fosse libero, poteva essere ordinato sacerdote e, se un proprietario terriero voleva far ordinare uno dei suoi servi alla vita religiosa per la sua chiesa privata (eccle־ sia propria), prima doveva liberarlo, dotarlo di un sufficiente so־ stentamento, vale a dire di un capitale esentasse, di un possedimento rurale (mansus)> e scioglierlo dalla sua condizione di dipendenza. Inoltre, i sacerdoti delle chiese private potevano essere nominati o destituiti solo con l’approvazione del vescovo. La stessa chiesa privata, con i suoi religiosi, doveva poi essere sottoposta alla visita e al controllo del vescovo diocesano; questa nuova disposizione sottolineò anche l’importanza capitale del vescovo, che era invece venuta meno per l’arbitrio dei signori terrieri e proprietari delle chiese private. La bontà di questa legislazione si mostrò in tutti i campi della vita spirituale ed ecclesiastica. La formazione spirituale ebbe un netto miglioramento; le scuole delle cattedrali e dei monasteri prosperarono e apparvero anche le prime testimonianze di una teologia indipendente in ambiente germanico. A Fulda viveva ed era attivo Rabano Mauro (circa 780856)־, abate e maestro che, nell’847, di־ venne arcivescovo di Magonza. Nel monastero di Reichenau Valfredo Strabone (808849 )־scrisse la sua celebre Glossa ordinaria al־
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la sacra Scrittura, universalmente stimata in tutto il Medioevo. A San Gallo, Notchero il Balbo (circa 830912 )־compilò le sue sequenze. Fiorirono le prime epopee religiose in lingua volgare, come YHeliand, la cosiddetta ‘preghiera di Wessobrun’ e !,armonia evangelica di Otfrido di Weissenburg (870). La controversia teoio־ gica sulla dottrina eucaristica, che fu sostenuta nel monastero di Corbie dall’abate Pascasio Radberto (circa 790859 )־e dal suo monaco Ratramno (circa 825 - 1 dopo l’868), testimonia dell’inquieta vita spirituale dell’epoca, proprio come la discussione sulla predestimazione, suscitata dal monaco Godescalco. Questi, figlio di un conte sassone, già in tenerissima età era divenuto oblato nell’abbazia di Fulda. La rigida concezione del diritto di quel tempo non gli permise di liberarsi, come desiderava, dallo stato monacale. Il suo tragico destino è direttamente connesso alla sua fin troppo rigorosa dottrina della predestinazione, concepita in senso agostiniano. Rabano Mauro, che era stato precedentemente suo abate e che nel frattempo era divenuto arcivescovo di Magonza, lo fece condannare come eretico da un sinodo di Magonza (848). Consegnato al pòtente arcivescovo di Reims, Incmaro, fu da questi nuovamente smascherato come eretico (sinodo di Quierzy, 849) e tenuto prigioniero nel monastero fino alla morte. Sotto Ludovico il Pio vi fu anche una forte ripresa dell’attività missionaria grazie ad Ansgario che riaccompagnò in Danimarca, nell’826, il re Harald e si dedicò interamente alla cristianizzazione della Danimarca e della Svezia. Egli fondò, nell’831, ad Amburgo un arcivescovato, come centro missionario, e, dopo che i normanni, nell’845, lo ebbero distrutto, la sede fu trasferita a Brema e poi definitivamente riunita ad Amburgo, nell’864. Ansgario, che frattanto era stato eletto vescovo di Brema, si spense nell’865. Nell’Europa sud-orientale, dall’864, operarono tra gli slavi i fratelli Metodio (circa 825885 )־e Cirillo (originariamente Costantino, circa 827-869); essi tradussero la sacra Scrittura nella lingua slava e crearono una liturgia slava. Purtroppo i loro successi furono stroncati dall’invasione degli ungari (906). Un sano e armonico sviluppo della vita spirituale e religiosa presuppone sempre condizioni esterne di vita quiete e ordinate. La dissoluzione dell’ordine politico nel IX secolo compromise
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perciò la vita spirituale ed ecclesiastico-religiosa, allora in piena fioritura. Ludovico ebbe da sua moglie Ermengarda (t 818) tre figli; a ognuno di essi, fin dall’817, aveva destinato una parte del suo regno: Lotario, il maggiore, ebbe con la dignità imperiale e la sovranità la parte centrale del regno, dalTItalia fino alTAdantico (‘Lotaringia’, da Lotario II, a cui ancora rimanda l’odierna Lorena); Pipino ricevette la parte occidentale del regno dei franchi, con l’Aquitania come centro; Ludovico, chiamato in seguito 'il Germanico’, ereditò la parte orientale con la Baviera. Quando, nell’823, a Ludovico il Pio nacque, dalla sua seconda moglie Giuditta, un quarto figlio, Carlo detto il Calvo, l’imperatore, acconsentendo al desiderio della moglie, mutò nell’829 la spartizione del regno e assegnò al più giovane, come parte della sua eredità, l’Alemannia. I figli di primo letto si ribellarono a queste nuove decisioni, dando così inizio a quelle terribili lotte fratricide che portarono alla rovina dell’impero carolingio. Con il trattato di Verdun (843), l’impero fu definitivamente diviso in tre parti e l’unità della comunità di popoli occidentale fu nuovamente spezzata. Solo Carlo il Grosso (876-887) potè riunire sotto il suo scettro, ma per brevissimo tempo (885-887), l’intero regno. Il disfacimento interno dell’impero carolingio e la terribile carestia, provocata dalle spedizioni devastatrici dei normanni, che raggiunsero il loro punto massimo nell’880/881, costrinsero Carlo ad abdicare. Con Arnolfo di Carinzia (887-889) l’impero carolingio cessò di esistere; la dignità imperiale finì in mano di nobili italiani, finché, nel 962, Ottone il Grande la riconquistò all’impero. Il crollo dell’autorità centrale lasciò in balia dei nemici l’impero che con Carlo Magno era stato così potente. Nel sud arrivarono per primi i saraceni, saccheggiando e depredando in Italia e lungo le coste del Mediterraneo, e papa Leone IV (847855 )־dovette innalzare le mura in Vaticano, per proteggersi da essi. In Oriente gli ungari assediarono i territori dell’impero con incessanti invasioni. A nord e in Occidente i normanni, che erano penetrati molto all’interno, causarono immensi danni: nell’845 incendiarono Amburgo, nell’846 assediarono Parigi; dall’881 all’883, risalendo il
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corso del Reno, devastarono sistematicamente la Renania; Colonia, Neuss, Bonn, Aquisgrana, Luttich, Cambrai, Arras, Amiens, Coblenza, Treviri e Reims furono invase e distrutte. Per salvare Parigi, Carlo il Grosso, nelT883, offrì oro e argento e permise loro di depredare la Borgogna. Egli fu tuttavia del tutto impotente a difendere il regno dai normanni; solo Arnolfo di Carinzia riuscì a vincerli definitivamente a Lòwen (891), costringendoli ad abbandonare le loro scorrerie nei territori delTimpero e a dirigersi in Inghilterra. La rovina politica ebbe come tragiche conseguenze la totale decadenza della cultura occidentale e della chiesa.
2. La chiesa La chiesa romana visse con Leone IV (847855 )־e soprattutto con Niccolò I (858867 )־un breve tempo di fulgore, cui seguì ben presto il terribile avvilimento, la spaventosa decadenza del saeculum obscurum. Niccolò I apparve ai contemporanei come un secondo Elia, che difese con coraggio e fermezza i diritti della chiesa e della religio־ ne. Egli non ebbe alcun timore nelTopporsi all’imperatore Lotario II (855869 )־quando costui volle, nell’862, ripudiare la legittima sposa Teutberga per sposare la sua concubina Valdrada. Papa Niccolò non esitò a deporre e scomunicare gli arcivescovi Guntero di Colonia e Tetgardo di Treviri, che si erano mostrati accondiscen־ denti verso l’imperatore. Parimenti piegò alla sua volontà il potente arcivescovo Incmaro di Reims (845882)־, che aveva deposto di propria volontà il suo vescovo suffraganeo Rotadio di Soissons (863), e l’arcivescovo Giovanni di Ravenna che, nell’861, aveva allargato illecitamente la sua giurisdizione. H suo infelice intervento nelle controversie bizantine tra i patriarchi Ignazio e Fozio dipese dall’ignoranza della reale situazione locale e dal falso rapporto che dell’intera faccenda aveva redatto l’abate Teognosto, accanito av־ versario di Fozio, che ingannò il papa. Sulla base di queste informazioni, Niccolò scomunicò nell’863 Fozio e ripristinò Ignazio nei suoi diritti di patriarca. Fozio, da parte sua, scomunicò in seguito il papa (scisma foziano), durante un sinodo orientale tenutosi a Costantinopoli (867). L’avvenimento fa parte di quei tragici equivoci
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che favorirono sempre più !,inasprirsi dei rapporti tra la chiesa orientale e quella occidentale e prepararono il grande scisma del 1054. Il sinodo anti-foziano di Costantinopoli, degli anni 869/870, che solo in Occidente è considerato ?ottavo concilio ecumenico, confermò la scomunica di Fozio, il quale frattanto era caduto vittima di un rivolgimento di potere. Fozio, tuttavia, poco dopo fu riabilitato e fu riconosciuto legittimo patriarca anche da papa Giovanni V ili (872-882). Con tutta probabilità quando morì, nell’892, egli era in pace con Roma. Niccolò I fu il primo grande rappresentante del papato medievale e a lui si fanno risalire le concezioni ecclesiastico-politiche di Gregorio VE e di Innocenzo III. Lo scopo che egli intrepidamente si prefisse fu la difesa dell’indipendenza e della libertà della chiesa di fronte all’indebita ingerenza dello stato negli affari spirituali. Per natura, egli era del tutto alieno dall’occuparsi di questioni temporali, ma per la sua qualità di sommo capo spirituale della chiesa e di custode dell’ordine religioso e morale egli si sentì tuttavia autorizzato a vigilare anche sulla vita morale dei sovrani. Che poi a questo ufficio di vigilanza fosse connessa anche una certa funzione direttiva, è facilmente comprensibile. Un pretesto gli fu offerto dalle Decretali Pseudo-Isidoriane, una vasta silloge di lettere e decreti papali, per lo più falsi o falsificati, che doveva garantire soprattutto l’autonomia dei vescovi suffraganei contro le pretese del metropolita Incmaro di Reims e che fu redatta, verosimilmente fra ?847 e ?852, nell’arcidiocesi di Reims. I compilatori facevano appello al potere del papa, al quale soltanto spettava di decidere sui vescovi e, al tempo stesso, prendevano posizione contro gli abusi dell’autorità temporale e contrapponevano a quest’ultima il potere assoluto papale, che essi affermavano e sostenevano basandosi sulla cosiddetta donazione di Costantino, un’altra falsificazione storica, citata qui per la prima volta. Anche se non si volle intenzionalmente e in primo luogo far leva sul potere pontificio, l’avervi accarnato in queste ‘decretali’ si rivelò in seguito di grandissimo vantaggio per il papato, che vide la sua posizione consolidarsi e affermarsi sempre più. I papi furono del resto del tutto estranei a questa falsificazione e ne fecero uso solo in buona fede, credendo alla sua autenticità, già fin dai tempi di Niccolò I.
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Il papato, con Niccolò I, penetrò dunque come massima potenza «per un breve periodo nella breccia lasciata aperta a partire dalT843 dall’anemico potere imperiale» (Schieffer), ma dopo la morte di Niccolò anch’esso fu travolto dal naufragio generale. Perduto !,appoggio dell’impero universale, il papato decadde inevitabilmente diventando schiavo degli interessi dei partiti delle decadenti famiglie nobiliari romane, perse il suo significato universale e divenne un trastullo delle autorità locali. Cesare Baronio (t 1607) coniò !,espressione saeculum obscurum per caratterizzare questo periodo che va dall’880 al 1046, vale a dire dalla fine dell’impero carolingio all’inizio della riforma gregoriana. A dire il vero, non tutti i quarantotto papi di quest’epoca furono cattivi. Alcuni furono, individualmente, degli uomini degnissimi, come Benedetto IV (900903 )־e un certo numero di pontefici dell’epoca ottomana, dopo il 962. Ma, in complesso, l’immagine offerta dalla sede episcopale romana di questo periodo non fu affatto adeguata all’importanza universale del papato. Esso era decaduto ormai a vescovato territoriale, come molti altri vescovati di quell’epoca, e divenne perciò oggetto di lotte scatenate dagli interessi politici della nobiltà. La colpa di questo avvilimento va soprattutto imputata alle tristi condizioni storiche e al fatto che il papato era privo di qualsiasi protezione, da quando non esisteva più nessun imperatore. La leggenda della ‘papessa Giovanna’ nacque ancora prima di questo periodo. Essa cominciò ad affiorare solo all’inizio del XIII secolo e si diffuse, grazie soprattutto alla cronaca di Martino di Troppau (t 1278). Secondo costui una ragazza di Magonza, vestita da giovinetto, avrebbe studiato ad Atene e, durante una sua visita a Roma, dopo la morte di papa Leone IV (855), sarebbe stata eletta papa. L’inganno sarebbe stato scoperto solo quando essa, dopo un governo di oltre due anni, durante una processione in Laterano, strada facendo partorì un bambino e morì sul posto. L’insostenibilità di un tale racconto pettegolo e ridicolo è già scientificamente dimostrata dal fatto che a Leone IV seguì, immediatamente nell’anno 855, Benedetto III e che, nella sequenza cronologica dei papi a noi conosciuta, non c’è affatto spazio per rendere plausibile tale storia.
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Rispondente a verità è invece il terribile giudizio che fu emesso all'inizio di quest'epoca sul cadavere di papa Formoso (891896)־. Poiché questi, nell'893, aveva chiamato in aiuto Arnolfo, re di Germania, contro il partito spoletano che era al potere, il suo successore papa Stefano VI (896897)־, una creatura degli spoletani, ordinò un macabro processo sul morto: dopo nove mesi la salma di Formoso fu riesumata, rivestita dei paramenti papali, condannata e mutilata, e infine gettata nel Tevere. Il popolo romano, indignato per questo scempio del cadavere, arrestò Stefano, lo gettò in carcere e lo fece strozzare. Con Sergio m (904911 )־venne al potere a Roma il partito dei tuscolani, guidato da Teofilatto, il quale per alcuni decenni insieme a sua moglie Teodora, avida di potere, e alle figlie Marozia e Teodora junior fu praticamente il padrone di Roma e del papato. Ogni giorno si scatenavano squallide lotte di partito e si assistette a terribili depravazioni morali e a brutali corse al potere. Papi furono no־ minati e destituiti, cacciati, imprigionati e assassinati. Marozia, che dopo la morte del padre si era impadronita del potere, sposò il margravio Alberico di Spoleto e, alla morte di questi, Guido di Spoleto e di Tuscia e infine, in terze nozze, nel 929, Ugo di Provenza, che sperava di ottenere dalle sue mani la corona imperiale. Marozia fu la capostipite della famiglia dei conti di Tuscolo, dalla quale uscirono non meno di sei pontefici. Dal 932 al 954 governò a Roma e sul papato il figlio di Marozia, Alberico, che avvilì a tal punto la sede di Pietro che essa divenne solo un'istituzione statale romana. Quest'epoca raggiunse tuttavia il suo livello più basso quando il figlio diciassettenne di Alberico, Ottaviano, salì sul trono papale. Egli assunse il nome di Giovanni XII (955964( )־e fu uno dei primi che, divenuto papa, cambiò il suo nome; prima di lui già Mercurio [nome di una divinità pagana!] aveva preso il nome di Giovanni II [5335351 ;־da Gregorio V [996999 ]־tutti i papi hanno mutato il loro nome). Giovanni XII diventò, involontariamente, il promotore di un miglioramento della vita ecclesiale quando, avendo necessità di aiuto, chiamò a Roma il re tedesco Ottone I. Ottone venne a Roma nel 962 con un esercì־ to e nel 963 lo depose.
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§ 23. O ttone il Grande e il rinnovamento dell’impero occidentale II regno orientale dei franchi cominciò a risollevarsi dalla sua spaventosa decadenza solo con Ottone il Grande (936973)־. Que־ sti riuscì, infatti, a consolidare la potenza regale, creando così la base necessaria per un profondo rinnovamento interiore, che abbraccio in modo del tutto particolare la vita della chiesa. Gli inter־ venti di Ottone I, in Italia e a Roma, gli permisero di dare alTimpero occidentale nuove forme e nuovi contenuti e di creare le premesse necessarie affinché la sua importanza universale fosse di nuovo riconosciuta. Inoltre egli riuscì, almeno per un certo periodo, a sottrarre il papato alle contese dei partiti romani e a richiamare !,attenzione dei pontefici sul loro compito universale e cristiano.
1. La politica imperiale ed ecclesiastica di Ottone Ottone dovette anzitutto ristabilire Tordine e la sicurezza all’interno del suo regno. L’opera era già stata iniziata da suo padre Enrico I il Sassone (919936)־, ma restavano ancora gravi problemi da risolvere. All’interno era necessario spezzare l’egoismo delle diverse stirpi e porre l’amministrazione dell’impero su basi più solide. Di fronte ai pericoli che venivano dall’esterno si doveva innanzitutto impedire l’invasione degli slavi e degli ungari. Dopo dure lotte Ottone riuscì a piegare i duchi ribelli della Lotaringia, della Franconia, della Svevia e della Baviera, li destituì e al loro posto insediò alcuni membri della sua famiglia: diede la Baviera a suo fratello Enrico, al figlio primogenito Ludolfo il ducato di Svevia, a suo genero Corrado il Rosso la Lotaringia; affidò la Sassonia al fedele Ermanno Billung e tenne per sé la Franconia. Tutta la famiglia gli si sollevò contro, e Ottone fu costretto ad ammettere che la sua fiducia non era ben riposta neppure nei propri congiunti. Nel 953 Ludolfo fu il primo a sollevarsi contro di lui, avido di potere personale. Corrado il Rosso lo seguì e presto anche Enrico si unì ai rivoltosi. Tutti insieme non esitarono a far causa comune con gli ungari, che erano riapparsi minacciosi nei territori dell’im
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pero. Ottone cercò faticosamente di dominare la situazione, ma fu solo dopo la vittoria sugli ungari (955) che potè riprendere pienamente in mano le redini del potere. Ammaestrato dalle tristi esperienze, Ottone tentò di dare un assetto al regno su una base completamente nuova, cercando cioè nell'episcopato un appoggio sicuro al suo potere centrale. Fin dai tempi di Carlo Magno !,episcopato si era, infatti, sempre dimostrato un energico propugnatore dell'unità dell'impero e Ottone I capì che era necessario un forte potere centrale, che proteggesse i beni ecclesiastici dalla insaziabile avidità dei nobili. Il re aveva poi il vantaggio di non dover temere nessuna tendenza dinastica da parte dei vescovi e dei sacerdoti che, vivendo nel celibato, escludevano qualsiasi possibilità di successione diretta e il costituirsi di vasti feudi privati dinastici. Gli interessi imperiali ed ecclesiastici coincisero così perfettamente e, a favore di Ottone, giocò anche il fatto che la maggior parte dei possedimenti ecclesiastici provenivano da donazioni imperiali e il re potè quindi considerare abbazie e vescovati come chiese proprie e territori imperiali, e disporne a suo piacere. Ottone allargò quindi con piena coscienza le proprietà terriere ecclesiastiche e aumentò il potere dei vescovi concedendo loro privilegi principeschi, diritti regali, diritti di contea di ogni genere, potere giudiziario, diritto di dogana, diritto di moneta e di mercato, immunità e altre regalie. Egli pose così i fondamenti di quella aristocrazia ecclesiastica e feudale medievale, che caratterizzò in modo decisivo il volto dell'impero fino alla grande secolarizzazione del 1803. Tuttavia, con questi provvedimenti Ottone non statalizzò la chiesa come aveva fatto, per esempio, Carlo Martello quando decise, senza il minimo riguardo per i beni ecclesiastici, di sottomettere la chiesa agli interessi dello stato. Ottone, al contrario, assoggettò lo stato all'autorità della chiesa. Nella sua concezione politica, nella quale praticamente lo stato cristiano e la chiesa si identificavano, gli interessi statali ed ecclesiastici coincidevano a tal punto da fondersi insieme. E a Ottone andò bene. Poiché la nuova chiesa dell'impero, nella sua epoca aurea (xm secolo), comprendeva ben 93 arcivescovati, vescovati, conventi e abbazie con territori propri, es
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sa si rivelò in seguito il più fidato sostegno dell'impero tedesco. Persino nella lotta per le investiture e nelle contese fra sacerdotium e imperium al tempo di Federico I Barbarossa, la chiesa si schierò decisamente al fianco del re e i sovrani tedeschi si giovarono sempre del suo aiuto nel governo dell'impero e contro tutti quei principi e i grandi feudatari laici, che amavano correre dietro ai loro personali interessi. Anche la chiesa tuttavia, grazie a questa alleanza, acquisì nuove e incredibili possibilità. Essa potè far valere la sua influenza in tutti i campi della vita pubblica e creare quella unità culturale, religiosa e politica che distinse con tratti inconfondibili il secolo successivo. La Germania ebbe allora la fortuna di possedere un gran numero di eminenti figure di vescovi che seppero armonizzare in modo ecceliente i loro compiti politici con i loro doveri pastorali religiosoecclesiastici: l'arcivescovo Bruno di Colonia (925-965), fratello dell'imperatore e suo più fedele collaboratore durante la rivolta di famiglia, investito da Ottone del ducato di Lotaringia; il vescovo Ulderico di Augusta (923973)־, l’intrepido difensore di Augusta contro l'assalto degli ungali del 955; i vescovi Corrado e Gebardo di Costanza (circa 900-975 e 949-995), il vescovo Volfango di Ratisbona (circa 924-994), il vescovo Adalberto di Praga (956-997), l’arcivescovo Villigisco di Magonza (circa 940-1011), i vescovi Bernardo e Gottardo di Hildesheim (circa 960-1022 e 9601038)־, Burcardo di Worms (circa 965-1025), Eriberto di Colonia (circa 9701021) e molti altri. Anche nei monasteri l'arte e la cultura cristiana videro una nuova e splendida fioritura (il cosiddetto ‘Rinascimento ottomano’): furono edificate splendide chiese, l'arte del libro conobbe momenti altissimi, culminanti nell'arte simbolica di Reichenau, impressionante ed espressiva. Con il 1000 iniziò anche il nuovo stile Romanico, che diede vita alla stupenda chiesa di S. Michele a Hildesheim e a molte altre basiliche. Tuttavia la politica ecclesiastica di Ottone portava in sé i germi di future involuzioni e non mancarono neppure allora alcune voci che richiamarono l'attenzione sulla pericolosità di quell'esperimento. L’arcivescovo Federico di Magonza, per esempio, uno dei rappresentanti del pensiero di riforma della chiesa, si dichiarò
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energicamente contrario a queste innovazioni, vedendo in esse il pericolo di una secolarizzazione della chiesa. In effetti, l’accresciuto interesse del re verso !,episcopato fece sì che egli esercitasse la sua influenza sulla scelta dei vescovi e rivendicasse a sé il diritto di concessione delle sedi vescovili e delle abbazie. L’elezione canonica divenne così una pura e semplice formalità. Il re designava il candidato e, a prova del conferimento del vescovato, gli consegnava il pastorale e, da Enrico III in poi, anche Tanello e, in cambio, ne riceveva il giuramento feudale. Nel x secolo questo modo di procedere non scandalizzava ormai più nessuno e fu solo per il ridestarsi della coscienza ecclesiale, grazie al movimento di riforma cluniacense, che questi indebiti interventi imperiali vennero considerati come una limitazione della libertà della chiesa. La condanna delle ‘investiture laicali’ costituirà, in seguito, un punto fondamentale della lotta per la libertas ecclesiae e farà esplodere i primi aspri contrasti fra papato e impero. La potenza di Ottone, grazie alla sua vittoria sugli ungari conseguita a Lechfeld, presso Augusta (955), era intanto immensamente cresciuta. Non solo egli aveva liberato per sempre la Germania dal pericolo ungaro, ma si era anche spianato la strada per il conseguimento della dignità imperiale. È certo, infatti, che, dal 955 in poi, !,aspirazione principale di Ottone fu il ristabilimento dell’impero occidentale fondato da Carlo Magno.
2. Il rinnovamento dell*impero nel 962 Già fin dal tempo della sua incoronazione ad Aquisgrana, nel 936, Ottone si era coscientemente riallacciato alla tradizione carolingia. E che l’idea dell’impero fosse sempre presente nel suo animo, lo dimostrò anche nel 951, quando chiamato in aiuto da Adelaide, la figlia di Rodolfo II di Borgogna e vedova di Lotario, che aveva accampato diritti sul regno italico, scese in Italia, liberò quest’ultima dalla prigionia del suo avversario Berengario e la sposò. Mentre era a Pavia, Ottone nel 951 si propose di recarsi a Roma, per ricevere nella città eterna la dignità imperiale, ma la situazione presente in Roma non gli permise di realizzare il suo disegno.
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Verso la fine del 960 fu del resto lo stesso papa Giovanni XII a invocare il suo aiuto e a chiamarlo a Roma. Ottone, nell’agosto del 961, mosse verso Pltalia con un forte e ben equipaggiato esercito. Il 31 gennaio 962 si accampò su Monte Mario, dinanzi a Roma. Il 2 febbraio fu solennemente ricevuto da Giovanni e consacrato e incoronato imperatore in S. Pietro, insieme alla moglie Adelaide. Ot־ tone aveva finalmente raggiunto il suo scopo. Ma Giovanni, appena !,imperatore ebbe lasciato Roma, cominciò a tramare intrighi contro di lui e alle sue spalle intavolò rapporti con Bisanzio e persino con i saraceni. Nel novembre del 963 Ottone si vide quindi costretto a ritornare precipitosamente a Roma, dove fece destituire da un sinodo riunito in S. Pietro il latitante Giovanni. Poi fece eleggere un nuovo papa, Leone V ili (963-965), costringendo i romani a giurargli che in futuro non avrebbero eletto nessun papa senza il suo consenso. La concezione teocratica della sovranità e dell’impero, che Ottone aveva ereditato da Carlo Magno, aprì una nuova epoca della storia tedesca. Ottone, il vincitore degli ungari, degli slavi e dei danesi, il signore di Roma e dell’Italia, il protettore della cristianità occidentale, pensava di nuovo in categorie universali. Egli considerò sempre la consacrazione imperiale e l’incoronazione non come un mezzo per ottenere un dato scopo, ma una santa unzione che lo faceva partecipe, in un modo quasi sacramentale, del sacerdozio della chiesa. Ogni volta che doveva porsi in testa la corona, egli digiunava prima un giorno intero. La chiesa fu la fonte principale del suo concetto religioso-politico di impero, in cui cristianità e Occidente statalmente unificato coincisero perfettamente. Ottone si appoggiò sempre saldamente al duplice vertice del papato e dell’impero, e si sentì sempre personalmente responsabile del papato. Finché l’impero, con lui e i suoi successori, mantenne una superiorità assoluta, il papato non divenne mai una potenza indipendente, ma quando quest’ultimo seppe ritrovare il vero senso della sua missione universale, si giunse inevitabilmente a forti tensioni fra regnum e sacerdotium. Fu appunto ciò che accadde nell’epoca seguente.
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§ 24. Sacrutn Im perium . L’impero degli Ottoni e la dinastia salica fino al 1046 Ottone II (973983)־, durante la cavalcata trionfale attraverso il suo regno, fu accolto ovunque con gioia. All'inizio del suo regno dovette combattere contro i danesi e i boemi e piegare alla sua volontà il duca di Baviera Enrico il Superbo, che si era alleato con loro. Quando ebbe concluso vittoriosamente le guerre contro i po־ lacchi (979) e contro il re Lotario di Francia (978), egli potè finalmente, nel 980, muovere trionfalmente verso l’Italia. A Roma intanto, dopo la morte di Ottone I, erano ricominciate le funeste lotte di partito. La famiglia dei Crescenzio dominava ora nella città e il papa Bonifacio VII (974) era la loro cattiva creatura. Dopo che quest'ultimo venne deposto, fu eletto, con la protezione imperiale, Benedetto VII (974983)־, un pontefice dignitoso e desideroso di riforma, fedele a Ottone. L'imperatore, che aveva sposato nel 972 la principessa bizantina Teofano, giunse a Roma nella Pasqua del 981, in compagnia della moglie e del figlio, il futuro Ottone III, chiaramente intenzionato a riprendere in mano le fila della politica imperiale paterna. Dal 982 si nominò Romanorum Imperator Augustus e cercò di unire stretta־ mente gli interessi della Germania con quelli dell'Italia. Per cacciare i saraceni dall'Italia meridionale organizzò una grande spedizione militare che, dopo alcuni successi iniziali, subì una terribile sconfitta a Crotone (982). L’imperatore stesso riuscì a salvarsi solo a stento e dopo una fuga avventurosa. Questo suo insuccesso militare creò le premesse per le future ribellioni dei nemici dell'impero. Danesi e slavi si sollevarono, e nell’Italia del nord si formarono gruppi di opposizione. Ottone morì di malaria a Roma (983) a soli ventotto anni, proprio mentre stava preparando una nuova spedizione militare. Lasciò a succedergli il figlio di appena tre anni, che poco prima, a Verona, aveva fatto eleggere re dai nobili tedeschi e italiani. Ottone III (9831002 )־deve la sua sovranità al clero, alla cui testa era l'arcivescovo di Magonza Villigiso, che tenne le redini del potere per il giovane Ottone e respinse tutti i tentativi di Enrico il
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Superbo di conquistare la corona imperiale. Per la prima volta si vide all’opera il sistema della chiesa imperiale che Ottone aveva fondato. Appena il giovane re ebbe raggiunto la maggiore età, nel 996, si recò in Italia. Egli sognava la renovatio imperii romani e aveva grandi piani di dominio sul mondo. A Roma trovò la sede di Pietro vacante e, aderendo alle preghiere dei romani che lo pregarono di eleggere un nuovo papa, scelse un parente della casa imperiale, il giovane Bruno di Carinzia, che fu così il primo papa tedesco, con il nome di Gregorio V (996-999). I romani acclamarono esultanti Ottone quando, nel giorno dell’Ascensione del 996, ricevette in S. Pietro la consacrazione e la corona. Papa e imperatore insieme celebrarono un sinodo e si dedicarono, pieni di entusiasmo, a iniziative di riforma della chiesa, in armonia con lo spirito cluniacense. Ma appena Ottone riprese la via di casa, Crescenzio Nomentano usurpò di nuovo il potere a Roma, cacciò Gregorio e nominò un antipapa. Nel febbraio dell’anno 998 Ottone rientrò in Roma, tenne un tremendo giudizio - Crescenzio fu decapitato - e si trattenne quindi in Italia. Quando Gregorio morì, nel febbraio del 999, Ottone nominò papa il dotto francese Gerberto, arcivescovo di Ravenna, che prese il nome di Silvestro II (999-1003). Nel frattempo l’imperatore scelse come sua dimora l’Aventino, progettò di fare di Roma il centro del suo impero universale, si circondò del cerimoniale di corte dell’imperatore bizantino e ispirò chiaramente la sua concezione del potere alla teocrazia bizantina. Ottone aspirava a governare, insieme al pontefice, tutto il mondo cristiano occidentale, in veste di servus apostolorum. H contatto con le profonde correnti religiose del tempo, rappresentate dai movimenti eremitici di S. Nilo di Rossano (Italia meridionale) e di S. Romualdo di Ravenna a Camaldoli (monaci camaldolesi) e dalle idee riformatrici cluniacensi che erano già largamente diffuse, conferì al suo governo uno splendore e una gravità sacrale. Purtroppo Ottone dimenticò di consolidare il suo potere e un nuovo sollevamento dei romani l’obbligò ad abbandonare la città. A Paterno, insieme a papa Silvestro, egli volle attendere l’arrivo degli aiuti tedeschi, ma, colpito da malaria, si ammalò gravemente e all’inizio del 1002, a soli ventidue anni, morì. Fu sepolto nel duomo di Aquisgrana.
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Enrico II (10021024 )־si trovò di fronte al difficilissimo compito di ricostruire e consolidare Pimpero diviso. Nipote di Ottone il Grande e figlio di Enrico il Superbo, duca di Baviera, egli fu Pultimo rappresentante della dinastia imperiale sassone. Grazie alla sua oggettiva e ferma energia, in breve tempo riuscì a sormontare tutti i pericoli e a ristabilire l’autorità e l’ordine nell’impero. Nei suoi primi anni di regno egli fu quasi continuamente occupato a combattere, finché nel 1014 potè farsi consacrare imperatore, insieme alla moglie Cunegonda, e farsi incoronare a Roma da papa Bene־ detto V m (10121024)־. La simbiosi tra la chiesa e lo stato aveva creato in Germania una fusione intima fra religione e politica, e tutta la vita si era impre־ gnata di religiosità. Da questa alta temperie spirituale era nata un’unitaria cultura politico-religiosa, di imponente grandiosità ed equilibrio. La coppia imperiale governava il sacro impero; lo stesso imperatore, grazie alla sua consacrazione, divenne una persona sa־ era e poiché anche Pimpero di tutti i paesi cristiani era divenuto saero in un modo nuovo attraverso un atto ecclesiastico liturgico di grandissima solennità, modellato sul rito della consacrazione epi־ scopale (unzione con crisma), i re formarono con l’imperatore una specie di gerarchia politica, che rassomigliava all’ordine sacro dei vescovi, con a capo il papa. La protezione della chiesa all’interno e all’esterno, la missione e la diffusione della fede non furono, nell’ambito di questo sistema, compiti estranei al potere imperiale, ma vennero considerati doveri propri dello stato. Non deve quindi destar meraviglia che Enrico II, nella sua politica interna, abbia perfezionato un sistema di chiese imperiali in un modo ancor più conseguente di quanto lo avesse־ ro fatto i suoi predecessori. Egli ritenne, del resto, di far uso dei suoi diritti di re consacrato, quando conferiva direttamente i vesco־ vati tedeschi e li occupava con uomini di sua fiducia. Questi religio־ si erano i forti sostegni del suo potere e i suoi aiutanti più fidati nel governo dell’impero. Enrico II si comportò sempre in modo auto־ ritario, disponendo liberamente dei beni ecclesiastici e sottraendo alle chiese ricche parte dei loro possessi, per dividerli con le diocesi più povere. Nel 1004 ristabilì il vescovato di Merseburg e, nel 1007, fondò quello di Bamberga. Nelle intenzioni di Enrico II que
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st’ultima diocesi doveva costituire un vescovato di missione e, al tempo stesso, il centro del potere imperiale. Il matrimonio con Cunegonda non dette figli all’imperatore, non perché, come la leggenda più tardi raccontò, egli avesse voluto celebrare un matrimonio ‘giuseppino’, ma perché a causa di una malattia la natura gli aveva negato la possibilità di avere figli. Così, alla morte di Enrico II, nel 1024 (il suo corpo fu sepolto a Bamberga), il regno passò a una nuova famiglia, quella dell’imperatore franarne o ‘salico' (1024-1125). Corrado II (1024-1039) era anch’egli pronipote di Ottone il Grande, ma proveniva da un ramo secondario, femminile. Eletto su richiesta dell’arcivescovo Aribo di Magonza, fu incoronato con gran pompa a Roma, durante la Pasqua del 1027, insieme alla moglie Gisela. La sua personalità ha gli stessi tratti ecclesiastici e sacrali del suo predecessore, di cui del resto continuò la linea religiosa e politica, in modo altrettanto conseguente e senza eccessivi rigori. Il monastero di Limburgo sull’Hardt e il duomo di Spira furono fondati da lui; le accuse di simonia e di ‘laicismo anticlericale’, che gli furono rivolte per i suoi interventi nel conferìmento dei vescovati e delle abbazie e per la sua politica ecclesiastica in genere, non reggono a una sana critica storica. Egli si adoperò anche attivamente per condurre a termine la riforma dei monasteri. Enrico III (1039-1056) ereditò dal padre un impero forte e compatto che, grazie alla sua energica personalità, raggiunse durante il suo regno l’apice della sua potenza. Come vicarius Christi e unto del Signore, l’imperatore influenzò e diede un carattere unitario alla cultura religiosa e politica del primo Medioevo. Come i suoi predecessori, si servì anch’egli dei vescovi nella politica del suo regno e conferì loro l’investitura con l’anello e il pastorale, promosse con grande energia il rinnovamento monastico, istituì con una legge l’idea della tregua di Dio - la tregua Dei ־־applicandola in via generale nel suo stato e sostenne vigorosamente la riforma della chiesa. Come padrino al battesimo di suo figlio Enrico IV, nel 1051, volle l’abate Ugo di Cluny. La sua personalità profondamente religiosa sentì intensamente la necessità della riforma della chiesa e fu pròprio grazie ai suoi decisivi interventi nella intricata situazione ro-
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mana che quest'opera riformatrice di eccezionale importanza storica fu portata a compimento. A Roma, infatti, pur tra brevissime pause, era continuato il gioco vergognoso delle nobili famiglie dei Crescenzio e dei Tuscolano. Questi ultimi erano riusciti a far eleggere al pontificato un uomo assai discutibile: il giovane Benedetto IX (1032-1045). La figura storica di questo papa fu in seguito fortemente deformata dalle calunnie del partito avversario, ma gli studi storici più recenti permettono di formulare su di lui un giudizio meno severo. Il partito dei Crescenzio, nel 1045, gli contrappose un antipapa: Silvestro IH. Benedetto, cacciatolo da Roma, cedette poi la sua dignità pontificia, in cambio di una forte somma di denaro, all’arciprete Giovanni Graziano, il quale con questa sua azione intese perseguire uno scopo degno: liberare la chiesa da Benedetto. Egli prese il nome di Gregorio VI (1045/1046). Ciononostante, però, Benedetto ritornò a Roma e in quel periodo si videro così tre papi lottare per la somma dignità. Enrico, chiamato dai promotori della riforma, venne a Roma per la prima volta nel 1046-1047. Dopo aver riordinato nell’Italia settentrionale alcuni urgenti affari imperiali, egli tenne, nel dicembre del 1046, i sinodi a Sutri e a Roma, nei quali destituì immedia־ tamente tutti e tre i papi e propose ai romani il nuovo pontefice: il vescovo Suidgero di Bamberga, che fu subito eletto con il nome di Clemente II (1046-1047). L’imperatore esercitò, anche per i papi eletti in seguito, lo stesso diritto di designazione, proponendone la 4scelta’ ai romani: questi pontefici furono i vescovi tedeschi Poppone di Bressanone (Damaso II, 1048), Brunone di Toul (Leone IX, 1049-1054) e Gebeardo di Eichstàtt (Vittore II, 1055-1057). Nulla dimostra la potenza dell’imperatore meglio di questa sua ingerenza nelle elezioni dei pontefici: Enrico m era divenuto di fatto il padrone della chiesa.
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Il sinodo di Sutri segna, al tempo stesso, il vertice e la svolta del potere imperiale nella chiesa. Il dualismo occidentale, nella seconda epoca della storia medievale, si era fin troppo unilateralmente accentuato a favore dell'impero e il campo di tensione dell'ellisse bipolare era stato turbato. Se questa linea di potere imperiale fosse continuata, la libertas ecclesiae avrebbe corso un gravissimo pericolo, la chiesa avrebbe perduto la sua indipendenza essenziale e tutta la vita religiosa sarebbe stata soggetta alla tutela e al potere statale. Non solo doveva essere quindi riproposto su nuove basi il rapporto esistente fra imperatore e papa, ma andava anche ripensato interamente il comportamento della chiesa nei confronti del mondo. Questo è il senso della lotta ormai prossima, che vedrà levarsi l’una contro l’altra le due grandi potenze. Da questo conflitto derivo un movimento di riforma della chiesa, che ebbe origine principalmente da una profonda e schietta rimeditazione dei valori monastici e religiosi. Questo moto di riforma si estese rapidamente a tutti i campi della vita morale e religiosa e non perseguì solo alcune innovazioni isolate, ma ebbe sempre di mira il totale rinnovamento della vita religiosa, politica e culturale e la sua efficacia si fece perciò sentire non solo all'interno della chiesa, ma anche sulla società del tempo. Esso obbligò a precisare meglio il rapporto che doveva esistere tra lo stato e la chiesa e a delimitare chiaramente le rispettive sfere di competenza. Se durante la lotta per le investiture questo sforzo ebbe prevalentemente un carattere ecclesiastico-
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politico, grazie soprattutto agli obiettivi che la corrente di riforma gregoriana cercava di raggiungere alTintemo della chiesa, mai tuttavia, in tutto Parco del suo sviluppo, questa riforma si limitò al conflitto fra stato e chiesa, e abbracciò invece Finterà vita spirituale, dando vita ovunque a nuove e più differenziate forme di esistenza religiosa.
§ 25. Cluny e il movimento m onastico di riforma Il più importante moto monastico di riforma, nel Medioevo, ebbe inizio a Cluny. Nel 908/910 il duca Guglielmo di Aquitania fondò, in Borgogna, il monastero di Cluny. Ben sapendo che una delle ragioni principali della decadenza della chiesa nel IX secolo stava nella mancanza di protezione e di libertà dei monasteri, che dipendevano dai nobili o dai grandi prelati, il duca assicurò alla sua fondazione libertà nel disbrigo degli affari esterni e interni. La libera elezione dell’abate e l’esenzione dalla giurisdizione del vescovo diocesano furono garantite dal documento di fondazione e mediante speciali privilegi protettivi del pontefice. Rigorosa osservanza della regola di san Benedetto, severa disciplina ascetica, assoluta obbedienza all’abate che presiedeva la comunità, cura attentissima nella celebrazione della liturgia caratterizzarono lo spirito del monastero di Cluny, che ben presto divenne il massimo centro religioso nella chiesa, soprattutto sotto i suoi grandi abati Bernone (909־ 927), Oddone (927-942), Aimardo (942-954), Maiolo (954-994), Odilone (994-1048), Ugo (1049-1109) e Pietro Venerabile (11221156). Il monacheSimo ebbe il compito di testimoniare il distacco cristiano dal mondo e di contrastare il pericolo della secolarizzazione durante la laicizzazione della vita spirituale, soprattutto nella tarda epoca carolingia, ma anche di fare da contrappeso, nel periodo degli Ottoni, all’inclinazione fin troppo facile ai dolci piaceri del mondo e della cultura. Grazie alla sua dinamica religiosa, il monachesimo ha sempre avuto la forza di esercitare la riforma deUa chiesa dall’interno e di assicurare a quest’ultima la vita interiore e
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la libertà necessarie per !,adempimento del suo mandato essenzialmente religioso. Il monacheSimo occidentale, a differenza di quello orientale che appare più chiuso nel suo misticismo, si è sempre maggiormente interessato dei problemi dell’intera cristianità ed è perciò spiegabile che anche il movimento cluniacense non sia stato soltanto ima pura manifestazione di vita monastica all’interno della chiesa, ma abbia coinvolto in modo decisivo nel suo processo riformista tutta la storia occidentale. Cluny deve il suo splendido fiorire e la sua grande influenza dal X al xn secolo alla sua intima compattezza e al suo dinamismo interno. La vita monastica, non turbata dagli affari del mondo, potè svilupparsi in modo profondo e autentico all’interno delle mura claustrali. I silenziosi monaci, raccolti in se stessi e tutti dediti al servizio divino, furono i grandi oranti della comunità occidentale. L’affratellamento, mediante la preghiera, con gli altri monasteri e l’intensa partecipazione interiore ai problemi di tutta la cristianità, che costituisce il carattere fondamentale della liturgia, preservavano il monastero della riforma da ogni forma di egocentrismo. La sua forza non si radicava nel disprezzo pessimista della vita, bensì nella tacita accettazione di un dovere spirituale e religioso, che era quello di pregare per la cristianità intera. I cluniacensi, nonostante la severità del loro spirito di riforma, hanno sempre mantenuto una certa apertura al mondo; essi si occuparono di scienza, si interessarono degli sviluppi politici del loro tempo e mantennero contatti con gli imperatori e i re. L’abate Maiolo fu molto stimato da Ottone I; Odilone strinse rapporti di amicizia con Enrico II; Ugo accettò di essere padrino al battesimo di Enrico IV e, in seguito, svolse opera d’intercessore fra questi e il papa. L’opera di riforma cominciò a diffondersi largamente già con il secondo abate di Cluny, Oddone. Un gran numero di monasteri o si affiliò a quello di Cluny o fu fondato allora e si modellò sui suoi statuti. Nacque così una grande rete di monasteri, che rimase sempre strettamente collegata al monastero originario e ricevette da questo le sue direttive e la sua feconda ispirazione spirituale. Il cluniacesimo raggiunse il suo punto più alto nell’XI secolo; nel XII secolo circa 3000 comunità facevano parte della sua congregazione monastica. Lo spirito di Cluny si diffuse in Francia, in Borgogna,
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in Italia, in Spagna, in Inghilterra e, sporadicamente, anche in Germania e ovunque influenzò profondamente la vita spirituale. Chiny divenne il cuore religioso dell’Occidente. Accanto a quello cluniacense agirono ben presto altri movimenti di riforma, mossi sempre dallo stesso desiderio di una maggiore spiritualizzazione e di un approfondimento della vita cristiana. Il monastero di Gorze in Lotaringia, fondato nel 933 da Giovanni di Vendière, irradiò la sua luce soprattutto in Germania, ove raccolse intorno a sé oltre 150 monasteri. Anche Brogne, Hirsau, Siegburg e Einsiedeln divennero punti importanti di movimemti di riforma. I monasteri tedeschi conservarono ancora, molto più di quelli cluniacensi, i rapporti che li legavano alla linea feudale-aristocratica, allora dominante. I più importanti fra gli antichi monasteri imperiali ebbero sempre di fronte alla riforma monastica cluniacense, articolata centralmente e antifeudale, un atteggiamento di riserva, se non addirittura di rifiuto. Essi si sentivano legati da precisi impegni con la chiesa imperiale ottomana e, nelle lotte fra imperatore e papa, si schierarono quasi sempre dalla parte del primo. A questo riguardo si pone il problema del rapporto fra la riforma cluniacense e la cosiddetta riforma gregoriana. Difficilmente si può parlare di un’influenza diretta. Non fu certo Cluny a dare l’avvio alla lotta per le investiture e anche riguardo ai punti maggiormente discussi nella riforma (investitura, matrimonio dei preti ecc.) non furono mai prese posizioni estremiste e non si mirò ad alcun risultato politico. H movimento cluniacense non si preoccupò affatto di favorire le pretese papali al potere supremo: queste teorie erano lontane dai suoi interessi almeno quanto l’idea di crociata o la diffusione della missione cristiana. Era un movimento di riforma monastica ed ecclesiale. Tuttavia esso favorì l’approfondimento della vita cristiana e richiamò l’attenzione sull’importanza della religione nella vita pubblica, sulla posizione della chiesa e del suo capo supremo, il papa, nel mondo, e ancora sugli imperanti abusi ecclesiastici e sui grandi doveri della chiesa. Cluny preparò quindi, seppur indirettamente, il terreno per gli sviluppi futuri della vita ecclesiale e la sua azione fu d’importanza storica eccezionale.
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§ 26. Riforma gregoriana e lotta per le investiture 1. Libertas ecclesiae La riforma gregoriana si distingue da quella cluniacense per il suo indirizzo prevalentemente ecclesiastico-politico. Entrambe mossero dal concetto della libertas ecclesiae, ma poiché Cluny considerava quest’ultima soprattutto come libertà da oppressioni esteriori e da quei danni che potevano arrecare alla sua vita interiore i vescovi e i principi, questo concetto si allargò e acquisì anche un contenuto politico. Libertas, infatti, nella concezione medievale germanica, era sinonimo di tutto ciò che il singolo poteva positivamente fare o omettere. Si parlava di libertates per indicare la somma dei diritti e dei doveri che il singolo poteva rivendicare a sé sulla base dell’ordinamento giuridico vigente o grazie a privilegi particolari: se questi venivano infirmati da qualcuno, si doveva lottare per il loro ristabilimento. La libertas ecclesiae divenne dunque lo scopo principale della riforma gregoriana, che si preoccupò soprattutto di liberare la chiesa dall’indebita ingerenza dei grandi potentati secolari. Il movimento riformista, che prese il nome e l’impronta da Gregorio VII, combattè il modo con cui venivano conferiti da re, principi e nobili i vescovati e le abbazie (investitura laicale) e gli abusi vergognosi che si creavano nella concessione di queste dignità ecclesiastiche (simonia). Esso esigeva il ristabilimento della libertà nell’uso del diritto ecclesiastico di elezione e ciò allo scopo precipuo di assicurare al clero l’indipendenza necessaria per il libero adempimento dei suoi doveri ecclesiali-religiosi. Al tempo stesso, la riforma gregoriana pretendeva che fossero restituiti alla chiesa i suoi diritti positivi, perché potesse esercitarli liberamente, ma, poiché non esisteva ancora nessuna norma giuridica che fosse valida generalmente, spettò proprio al moto riformista cercare di fondarla e di adoperarsi per la sua accettazione. Si giunse così, inevitabilmente, al conflitto con le autorità politiche. Nel frattempo, grazie alla riforma cluniacense, si era nuovamente ridestata la coscienza della dignità e dell’indipendenza della chiesa e della vita spirituale, e ci si era resi conto che, proprio per la
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preponderanza del fattore politico, l’ordine della società, conquistato negli ultimi secoli, era stato fortemente alterato. I gregoriani sostenevano la priorità della chiesa: come Panima domina il corpo, così la chiesa doveva stare al di sopra dello stato. Insieme con la riforma monastica si sviluppò in tal modo anche una riforma politico-ecclesiastica. Gli stessi imperatori germanici ne portarono a Roma il nuovo spirito. Con i papi tedeschi, eletti da Enrico III, l’idea di riforma si estese anche al papato. Il primo pontefice che lavorò attivamente in questo senso fu Leone EX (1049-1054), che seppe restituire al papato la sua autorità universale e propugnò energicamente i suoi diritti primaziali. Quando poi Niccolò II, nel 1059, con un decreto sull’elezione del papa riuscì a liberare la chiesa gerarchica dall’influenza dei laici e affidò l’elezione ai vescovi cardinali, si comprese chiaramente che questa nuova disposizione, anche se in primo luogo tendeva a stroncare le manovre dei partiti dei nobili romani, colpiva anche il re e l’imperatore tedesco, il cui intervento del 1046 era stato accolto a Sutri con sincero entusiasmo da parte degli stessi Odilone di Cluny e Pier Damiani, vale a dire dai più fervidi propugnatori della riforma. Questa innovazionc, però, dal punto di vista di un’idea di chiesa purgata, apparve intollerabile. Niccolò II (1058-1061) concesse tuttavia al re tedesco Enrico IV, con una formulazione in verità piuttosto oscura, un certo diritto onorifico sull’elezione papale, ma questo privilegio non fu ben precisato e, proprio a causa di ciò, si giunse in seguito a una lotta aperta fra papato e impero. Il decreto per l’elezione papale fu riveduto e ampliato più volte. Intorno al 1100 si stabilì che tutti i cardinali erano direttamente interessati all’elezione del pontefice e il terzo concilio lateranense del 1179 stabilì che era necessaria una maggioranza di 2/3 del sacro collegio per convalidare l’elezione stessa. Papa Gregorio X, nel 1274, introdusse il sistema del conclave, in cui tutti i cardinali votanti dovevano riunirsi, in assoluta segregazione dal mondo, fino alla conclusione dell’elezione. Questo principio trovò la sua codificazione nel Codex Juris Canonici del 1917 e del 1983.
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2. La lotta per le investiture Con il re tedesco Enrico IV (10561106 )־e papa Gregorio VII (10731085 )־entrarono sulla scena della storia gli uomini che, in quanto esponenti di due visioni contrapposte, rispettivamente il punto di vista dell’impero e del papato, portarono a conclusione la lotta per le investiture. Il giovane re condivideva completamente gli ideali della ‘teoio־ già imperiale7della dinastia ottoniano-salica; egli concepiva cioè la sovranità in un modo sacrale, se non addirittura clericale. L’impe־ ro, per Enrico IV, aveva un suo preciso posto all’interno della chie־ sa gerarchica: ne costituiva il vertice. Egli stesso si considerava rex et sacerdos. Gregorio VII, quando era ancora il giovane diacono Ildebrando, aveva accompagnato, nel 1046, in esilio a Colonia il pontefice destituito Gregorio VI e alla morte di quest’ultimo era entrato nel monastero di Cluny. Leone IX, nel 1050, lo richiamò a Roma; da allora in poi Ildebrando si occupò della riforma ecclesiastica e, do־ po la morte del cardinale Umberto di Silva Candida (t 1061), divenne il capo indiscusso del partito riformista della curia. La lotta contro il matrimonio degli ecclesiastici e la simonia, e soprattutto contro l’investitura laicale, costituirono i punti fondamentali del suo programma. Il re, per Gregorio, non era altri che un laico, un laico come tutti gli altri nella chiesa, suddito della chiesa in quanto cristiano e impegnato perciò all’obbedienza. Se ci poniamo ideal־ mente nello spirito di quel tempo, un’affermazione come questa si־ gnificava tuttavia desacralizzare la dignità regia. Non appena Gregorio divenne papa, formulò nel Dictatus Papae (1075), ossia le ventisette tesi registrate sotto questo titolo, la sua tesi fondamenta־ le: il papa è il capo supremo della cristianità; egli non solo può intervenire nei diritti dei vescovi, ma per il suo potere supremo è posto anche al di sopra di re e imperatori, che può persino destituire, se necessario, per motivi etico-religiosi. Per quanto questi princìpi intendessero avere soprattutto un significato ecclesiale-religioso, la loro incidenza politica appare evidentissima. La lotta per le investiture che si scatenò ben presto offrì il motivo e l’occasione per porre termine a quei contrasti sul primato del
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potere tra papato e impero. Il giovane re Enrico IV aveva fatto valere il suo diritto regale nel decidere reiezione vescovile nella diocesi di Milano (1072), senza tenere il minimo conto della proibizione del pontefice. Nel sinodo romano della Quaresima del 1075 Gregorio ribadì energicamente il divieto dell’investitura laicale e minacciò il re di scomunica, ritirandogli al tempo stesso qualsiasi diritto nel conferimento dei vescovati. Questa proibizione significava sconvolgere tutto il sistema della chiesa imperiale ottoniana, su cui era fondato !,ordinamento stesso dell’impero. Ma Enrico non si preoccupò affatto del decreto papale e durante il sinodo (dieta) di Worms, nel gennaio 1076, si videro scene drammatiche. Enrico seppe accendere l’odio dei vescovi dell’impero contro le rivoluzionarie rivendicazioni del papa e Gregorio VII venne dichiarato destituito. Gregorio reagì immediatamente, colpendo Enrico IV con la scomunica e sciogliendo i sudditi del re dal giuramento di fedeltà. Con questa scomunica, che pose il re fuori della comunione ecclesiale, la desacralizzazione dell’impero divenne un fatto manifesto. Il mondo trattenne il respiro. I seguaci di Enrico, tuttavia, in breve volger di tempo si disgregarono e nell’ottobre del 1076 i principi, che si erano riuniti a Tribur, presso Magonza, posero un ultimatum al re: entro un anno questi avrebbe dovuto chiedere al papa di liberarlo dalla scomunica; in caso contrario egli sarebbe stato privato del trono e al suo posto sarebbe stato eletto un nuovo re. Nell’inverno del 1076-1077, Enrico iniziò così il suo cammino penitenziale verso Canossa. Accompagnato dalla moglie e dal figlioletto, e con un seguito limitatissimo egli passò le Alpi, fra gravi pericoli. Nel frattempo anche il papa era partito da Roma per recarsi in Germania. Gregorio VII aveva da poco preso alloggio nel castello fortificato della marchesa Matilde di Toscana, quando Enrico arrivò a Canossa, sul pendio settentrionale dell’Appennino. Vestito del saio del penitente, il re attese per tre giorni dinanzi alle porte del castello prima di poter ottenere il permesso di entrare (26-28 gennaio 1077). Grazie alle intercessioni del suo padrino, l’abate Ugo di Cluny, e della marchesa Matilde di Canossa egli potè finalmente ricevere l’assoluzione di Gregorio, a condizione però che lui e i principi tedeschi ribelli si piegassero alla volontà del papa.
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Per il momento Enrico aveva vinto: egli era, infatti, ritornato di nuovo padrone della situazione, ma, tutto considerato, Canossa fu un durissimo colpo per l’impero tedesco, che non riuscì più a risol־ levarsi. La guida dell’Occidente passò così dall’imperatore al papa: Gregorio era uscito più forte che mai dalla lotta. Nell’impero, intanto, i principi tedeschi, nonostante Enrico fosse stato liberato dalla scomunica, avevano eletto anti־re, nel marzo del 1077, Rodolfo di Svevia (t 1080) e l’imperatore dovette lottare per riconquistare la corona. La guerra civile dilaniò la Germania e i rapporti di Enrico con il pontefice si inasprirono nuovamente. Nel marzo del 1080 Enrico fu così scomunicato e destituito per la seconda volta. Questi fece eleggere allora un antipapa, Viberto di Ravenna, che assunse il nome di Clemente III (10841100)־, e mosse alla volta di Roma. Gregorio VII riparò presso i normanni, nell’Italia meridionale, dove, esausto, si spen־ se a Salerno il 25 maggio 1085. Apparentemente, questa volta, sembrò che il papa avesse subito una sconfitta, ma in realtà fu il vero vincitore. La lotta si riaccese anche dopo la morte di Gregorio. Il proble־ ma fondamentale dei rapporti fra la chiesa e lo stato non era, infatti, di facile soluzione; !’ordinamento generale che avrebbero dovuto assumere l’impero e la società era, infatti, un tema di importanza capitale. Fu proprio in quel tempo che nacque una vasta letteratura su chi veramente dovesse essere posto al vertice dell’unità politica e religiosa, che fino ad allora, nell’impero sacrale, era stata sempre incarnata dallo stato e dalla chiesa. Una separazione fra chiesa e stato era di fatto impossibile, come apparve chiaro allorché Pasquale II (10991118)־, nel concordato di Sutri (febbraio 1111) con Enrico V (11061125)־, si decise ad abolire completamente la feudalizzazione della chiesa e ad annullare per ciò stesso l’intima unione di questa con l’impero. La chiesa imperiale tedesca avrebbe restituito al re le sue proprietà e i diritti che aveva ricevuto dal־ l’impero e il re, da parte sua, avrebbe rinunciato a ogni forma di investitura che, grazie a questo concordato, diventava del tutto inuti־ le. L’unanime, impetuosa obiezione dei principi e dei vescovi tede־ schi contro questo tentativo di dirimere la questione, un tentativo considerato astratto e inattuabile, dimostrò chiaramente l’impossi
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bilità di ristabilire i rapporti sulla base esistente ai tempi del primo cristianesimo. La ruota della storia non gira mai alTindietro. La proposta fu quindi respinta. Rimaneva ormai solo, come unica possibilità, un compromesso. Nel corso delle lunghe discussioni si era imparato a distinguere il ministero spirituale dai compiti amministrativi, dalle mansioni puramente temporali, senza tuttavia mai scinderli completamente l’uno dall’altro. Nel concordato di Worms del 1122 si cercò di risolvere il problema delle investiture promuovendo l’idea di una duplice investitura: al re sarebbe spettata l’investitura temporale con la trasmissione di beni e diritti secolari (regalie, di natura temporale), simboleggiata dalla consegna dello scettro. Il sovrano, da parte sua, avrebbe rinunciato all’investitura spirituale, che lasciava alla chiesa, e avrebbe riconosciuto altresì il diritto di elezione canonico, che restò, di fatto, di pura competenza del clero e della nobiltà della chiesa episcopale e, a partire dal XIII secolo, esclusivamente del Capitolo del duomo. Al re, inoltre, era data la possibilità di conferire l’investitura temporale solo dopo che si era avuta l’elezione canonica e l’investitura spirituale (con Tanello e il pastorale), e ciò si doveva fare, in Germania, prima della consacrazione episcopale, mentre in Italia e in Borgogna solo dopo la consacrazione. Appare evidente che non si riuscì affatto a risolvere compiutamente il problema capitale dei rapporti fra stato e chiesa. U carattere feudale che legava la chiesa imperiale allo stato si mantenne per tutta l’epoca medievale e oltre, fino alla rivoluzione francese e al periodo della grande secolarizzazione (1803). Naturalmente restarono sempre vivi molti punti di attrito che, a ogni momento, potevano riaccendere contrasti e lotte.
3. Conseguenze ed effetti Nei suoi inizi la riforma cluniacense aveva aspirato soltanto alla libertà e all’indipendenza della chiesa dallo stato. La riforma gregoriana giunse all’equiparazione dei due poteri e Gregorio VII, al tempo stesso monaco e sovrano, sviluppò ulteriormente questo concetto. Dalla superiorità dello spirituale sul temporale egli de
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dusse la supremazia della chiesa sullo stato e nel Dictatus Papae stabilì il programma ecclesiastico-politico dei futuri pontefici. Appoggiandosi alla donazione di Costantino, allora ritenuta autentica, egli rivendicò al papato il dominio sul mondo e, da allora, questa concezione del potere dominerà il conflitto fra stato e chiesa. Questa concezione, in Gregorio VE, non muoveva affatto da basso egoismo, ma era radicata in una visione del mondo profondamente religiosa e anche Innocenzo III (1198-1216) subordinò a precisi fini religiosi la sua teoria del potere supremo papale. Va da sé che, in queste idee, si annidava il pericolo dell’abuso di potere, pericolo dal quale la chiesa non seppe sempre guardarsi. Quando l’imperatore Federico I Barbarossa (1152-1190) volle ripristinare l’idea della supremazia del potere imperiale, scoppiò una nuova lotta fra imperium e sacerdotium. I diritti del papato furono difesi dal tenace pontefice Alessandro III (11591181 )־e la lotta si trascinò accanitamente per ben vent’anni: dalla dieta di Besangon, del 1157, fino alla pace di Venezia del 1177. Quattro antipapi imperiali, guerre e spargimento di sangue caratterizzarono questo infelice conflitto, che causò molti lutti alla cristianità. Si arrivo, finalmente, alla pace e l’imperatore fu liberato dalla scomuni־ ca che Alessandro gli aveva inflitto fin dal 1160. Ai nostri giorni queste lotte per il potere ci sembrano alquanto incomprensibili, ma se vogliamo capirle dobbiamo riportarci alle idee di quell’epoca. Soltanto Cristo era il Signore della cristianità. Da Le 22,38 si deduceva che esistevano due poteri, simboleggiati da due spade (teoria delle due spade), che Cristo aveva destinato a governare il mondo: una spada, temporale, era impugnata dall’imperatore; l’altra, spirituale, era tenuta dal papa. I canonisti e i teologi dell’epoca gregoriana interpretarono invece in modo diverso questa teoria: a loro avviso era soltanto il papa a possedere entrambe le spade, che appartenevano al potere della chiesa. La spada spirituale, vale a dire il potere spirituale, stava nelle mani del papa e la spada temporale veniva prestata all’imperatore, affinché questi la usasse in nome della chiesa. L’uso della spada spirituale, da parte della chiesa, si esprimeva attraverso la scomunica. Da questa interpretazione ecclesiastica di parte al tentativo di trasformare l’ordine del mondo occidentale cristiano in un immen
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so dominio feudale papale su tutti gli stati d’Europa, non restava che un breve passo. La prima conseguenza di questa teoria fu il riaccendersi dei contrasti con !,impero. Se Federico Barbarossa, grazie soprattutto alla sua profonda convinzione del potere imperiale, potè opporsi al predominio pontificio, il potente papa Innocenzo IH (1198-1216) riuscì tuttavia a creare una specie di signoria mondiale del papato che dominò l’intera Europa, grazie a un siste־ ma di stati feudali soggetti alla chiesa. L’impero svevo fu annientato da questa lotta, ma non molto dopo il crollo degli svevi tramontò anche il primato politico del papato e, se consideriamo attentamente il successivo svolgersi degli eventi storici, possiamo affermare che quel potere non giovò affatto né alla chiesa né alla sua missione spirituale. Un diretto effetto della riforma gregoriana sulla vita interna della chiesa fu il deciso riaffermarsi della posizione primaziale del papa. Da Leone IX in poi i pontefici presero sempre più saldamente in mano le redini del governo della chiesa. Grazie ai sinodi di riforma tenuti a Roma e fuori Roma, essi seppero imporre decisamente la loro autorità e volontà. L’organizzazione dell’istituzione dei legati aiutò moltissimo la diffusione della riforma e, al tempo stesso, fece sentire ovunque l’autorità del papa. Gli appelli alla Santa Sede si moltiplicarono, soprattutto a proposito delle discusse elezioni episcopali e diedero al papa la possibilità di intervenire direttamente nelle varie diocesi. Quando gli elettori non raggiungevano l’accordo, il papa personalmente poteva avocare a sé il diritto di occupazione, sulla base della ‘devoluzione’ (trasferimento). Verso i vescovi scorretti la curia procedeva con punizioni e destituzione. I metropoliti, dall’xi secolo in poi, dovettero ritirare personalmente il loro pallio a Roma e, dal xn secolo, prestare un particolare giuramento di obbedienza e presentarsi periodicamente a Roma (ogni quattro anni), per una visitatio liminum Apostolorum [visita alle tombe degli apostoli]. La desacralizzazione della sfera politica, inoltre, fece sì che la linea che divideva i sacerdoti dai laici fosse tracciata più nettamente. Il clero, sottratto alla diretta influenza dei sovrani e dei principi, fu racchiuso in una specie di corporazione sovranazionale direttamente soggetta alla chiesa universale. Nel XHI secolo il papato ebbe un fortissimo sostegno alla sua potenza
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dagli ordini mendicanti, ma anche il clero crebbe al di fuori dei confini nazionali e la chiesa universale potè così dare all’Occidente cristiano una nuova coscienza comunitaria.
§ 27. Il grande scisma d’Oriente È noto che fin dai primi secoli il pensiero greco-orientale e il pensiero latino-occidentale hanno avuto uno sviluppo diverso. I contrasti erano di ordine liturgico, disciplinare, politico-ecclesiastico e dogmatico. La costituzione dell’impero occidentale sotto Carlo Magno e Ottone il Grande, la lotta per il culto delle immagini, le rivendicazioni territoriali dei bizantini in Italia (Ravenna, Italia meridionale) e i nuovi possessi franchi in Italia aumentarono ancor più la tensione. Infine, anche la nuova coscienza acquisita dalla chiesa occidentale, grazie all’influenza della riforma, inasprì la situazione. Quando il papa tedesco Leone IX (1049-1054) intervenne con la sua azione politica nelle questioni dell’Italia meridionale, che proprio allora i normanni avevano cominciato a sottrarre ai bizantini, si manifestarono nuovi punti di attrito e nuove divergenze. L’imperatore bizantino Costantino IX e il suo proconsole nell’Italia meridionale Argiro erano piuttosto propensi ad allearsi con il papa e a lottare insieme contro i normanni. Ma il patriarca Michele Cerulario di Costantinopoli (1043-1058) temette che il papa potesse usurpare il suo campo di giurisdizione e impedì il riavvicinamento fra la chiesa di Roma e quella di Bisanzio, inasprendo vieppiù i contrasti. La chiusura delle chiese latine e dei monasteri latini a Costantinopoli, la rigida condanna dell’uso latino del pane azzimo nella celebrazione della messa, la questione del celibato ecclesiastico, l’introduzione del Lilioque nel Credo e altre cose ancora accesero i primi terribili scontri. Per favorire le trattative di alleanza e anche per respingere gli attacchi del patriarca, papa Leone inviò come messi a Costantinopoli il cardinale Umberto di Silva Candida, il suo cancelliere Federico di Lotaringia e l’arcivescovo Pietro d’Amalfi. I primi due erano fervidi propugnatori della riforma.
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Fin dall’inizio, le trattative con Costantinopoli si rivelarono difficili. I legati del papa assunsero di fronte al patriarca un atteggiamento alquanto estremista; poggiando saldamente sulla donazione di Costantino - che del resto nella stessa Costantinopoli era ritenuta un documento autentico - e sul primato assoluto del pontefice, derivantegli dalla diretta successione da Pietro, essi pretesero il rico־ noscimento del primato romano di giurisdizione e !,osservanza delle usanze occidentali, che affermarono essere le uniche valide e conformi alla tradizione. Il patriarca, che era un uomo ambizioso, arro־ gante e calcolatore, fece naufragare ogni trattativa e, alla fine, si rifiutò persino di ricevere i messi papali. Allora Umberto scagliò contro di lui il suo veemente scritto polemico e, con manifesto gesto di protesta, il 16 luglio 1054, dinanzi al clero e al popolo riuniti, depose la bolla di scomunica sull’altare maggiore della chiesa di S. Sofia. La bolla di scomunica redatta da Umberto dimostra chiaramente come la chiesa occidentale si fosse sviluppata secondo ima sua nuova e propria direzione, e rivela quanto poco i riformatori conoscessero la mentalità della chiesa greca. A noi questo avvenimento appare ancor più sconcertante in quanto siamo costretti a notare che, in gran parte almeno, esso fu provocato da tragici malintesi, da difetti umani e da questioni di carattere disciplinare - il contrasto sul Filioque non fu, infatti, di importanza capitale. Ancora oggi non sappiamo con sicurezza se il cardinale Umberto fosse stato autorizzato a compiere passi tanto decisivi. Certo è che papa Leone, il 19 aprile 1054, era già morto e il suo successore Vittore II (1055־ 1057) fu eletto soltanto il 13 aprile 1055 e che quindi il seggio papale in quei giorni era vacante. Ragione per cui Cerulario, in effet־ ti, non scomunicò né il papa né la chiesa romana, ma soltanto i legati. Tuttavia, la frattura non fu mai sanata.
§ 28. Il nuovo spirito dell’Occidente Il possente movimento religioso, che prese le mosse da Cluny e dal monacheSimo, si diffuse in breve volgere di tempo tanto larga־ mente da abbracciare tutta la vita dell’Occidente cristiano. Non è
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tuttavia mai facile cogliere perfettamente il carattere cristiano di un’epoca. Molte e diverse furono, infatti, le sue manifestazioni: forme di pietà e di amore per il prossimo, spirito di sacrificio dei fedeli nei campi della carità e della vita ecclesiale, opere d’arte e di letteratura, intensa partecipazione ai doveri comunitari. Un’epoca va comunque misurata, più che sulle sue realizzazioni esterne e visibili, sul grado di interiorità e di profondità con cui viene vissuta la sequela di Cristo e accolto il messaggio evangelico.
1. Nuove form e d i monacheSimo Se si vuol dunque veramente comprendere quale sia stata l’in־ tensità della vita religioso-ecclesiale di un dato periodo storico, si dovrà studiare quale fu il livello di vita degli ordini religiosi e in che modo e con quale profondità essi abbiano vissuto l’ideale di perfezione. Se l’alto Medioevo ha generato tanta ricchezza di nuove forme monastiche e ascetiche, nel clero e nel mondo laico, non è stato, infatti, esclusivamente per la tendenza religiosa dell’epoca, bensì per l’esigenza, fortemente sentita, di forme più individuali e personali di vita spirituale. Uomini e donne, in gran numero e provenienti da ogni ceto sociale, divennero monaci. Non tutti trovarono nella forma unitaria benedettina, che caratterizzò la struttura della vita monastica del primo Medioevo, la loro pienezza interiore. Molti vissero anche come eremiti nei deserti, isolati o in colonie. Altri invece vagarono, facendo penitenza o predicando. Il loro ideale era quello della vita apostolica: povertà e libera rinuncia al mondo. a) In Italia visse e operò san Romualdo (951-1027), un ardente spirito religioso, un carismatico pari a quelli esistenti nel primo cristianesimo. Il suo biografo scrisse di lui che amò abbracciare il mondo intero con il suo spirito di penitenza e che «per tutta la vita aveva girato intorno a un solo eremo». Nel 972, nel fiore di una gioventù tempestosa, era entrato nel monastero di S. Apollinare in Classe a Ravenna, sua città patema, per espiare un grave reato di sangue che suo padre aveva compiuto. Lo spirito del monastero e la regola benedettina, tuttavia, non gli sembrarono sufficienti e si
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recò alla severa scuola dell'eremita Marino, in una regione di folti boschi, presso Venezia. Da qui si trasferì nel monastero cluniacense di riforma di Cuxà, nei Pirenei, ma in seguito ritornò in patria ove abbracciò finalmente la sua vera vocazione seguendo il tipo di vita degli antichi Padri del deserto. Dopo tanto errare Romualdo trovò, infatti, nelle mortifere paludi presso Ravenna e nei dirupi dell'Appennino la solitudine per dedicarsi alla preghiera. Quando ritornava per brevi periodi nel mondo a predicare la penitenza, con l'animo colmo di amore per Dio e le anime, la sua devozione e l'altezza delle sue parole erano tali da colpire profondamente gli animi di chi l’udiva. L'imperatore Ottone IH, Adalberto di Praga e Brunone di Querfurt furono attratti e commossi dal suo esempio. Numerosi giovani abbracciarono il suo stesso ideale; per essi Ro־ mualdo fondò Fonte Avellana, Camaldoli e altri monasteri, che rappresentarono una singolare combinazione di vita eremitica e cenobitica. Solo i novizi vivevano in comunità, seguendo la regola di san Benedetto; i monaci invece si stabilirono in eremi posti intorno al monastero. Dai monasteri di san Romualdo uscirono in seguito i più ardenti propugnatori della riforma della chiesa: Pier Damiani (10071072)־, che dal 1057 fu cardinale e capo della corrente riformista romana, era, infatti, un *camaldolese'. Nell'Italia meridionale, proprio in quella stessa epoca, operava e non con minor zelo san Nilo (9101005)־, che fondò la celebre abbazia di Grottaferrata, presso Roma; in Toscana visse san Giovanni Gualberto (circa 9901073)־, che creò un centro di rinnovamento spirituale a Vallombrosa, presso Firenze. Anche al di là delle Alpi incontriamo severe figure di riformatori. Roberto di Abrissel (circa 10601117)־, Vitale di Savigny (circa 10601122 )־e molti altri predicatori ambulanti, percorsero la Germania e la Francia, dando esempio di *vita apostolica' e predican־ do la penitenza e il rinnovamento religioso. b) Brunone di Colonia (circa 10301101 )־fu il fondatore dell'or־ dine dei Certosini (1084). Dopo una brillante carriera nel vescovato di Reims, ove ebbe allievo anche il futuro pontefice Urbano II (10881099)־, egli si ritirò completamente dalla vita pubblica e nella selvaggia valle montana di La Chartreuse, nei pressi di Grenoble,
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insieme ad altri sei compagni fondò la prima Cartusia (Certosa). Nel 1190 fondò altri monasteri anche in Italia meridionale, dove si trovava, contro la sua volontà, al seguito di papa Urbano II: tra questi Peremo della Torre in Calabria, dove nel 1101 morì. I silenziosi monaci ‘certosini’, il cui numero non fu mai elevato, vivevano in preghiera e in raccoglimento interiore, con spirito di vera reli־ giosità e forza interiore. Essi superarono il Medioevo e la Riforma protestante, senza mai deflettere dai loro principi. Di essi si dice: «Cartusia numquam reformata, quia numquam deformata». c) Il desiderio ardente e sempre nuovo di riforma, del resto, non fa forse parte del carattere della chiesa pellegrina e delle sue istitu־ zioni? I cluniacensi se ne resero perfettamente conto. Proprio nel secolo in cui un ampio e vivificante spirito riformista rinnovava la vita della chiesa occidentale, i monaci di Cluny si adoperarono attiva־ mente per la riforma del monacheSimo benedettino. L’ordine cistercense è un ramo riformato del benedettismo. L’abate Roberto di Molesme (circa 10281111)־, sotto la cui gui־ da anche Brunone di Colonia fece i suoi primi passi verso la perfe־ zione, fondò nel 1098, insieme a venti compagni, nella zona deser־ tica di Cìteaux un severo monastero riformato benedettino. I suoi successori, gli abati Alberico (10991109 )־e Stefano Harding (11091133)־, composero lo statuto dell’ordine (charta caritatis), nel quale si poneva in rilievo soprattutto la necessità della povertà apostolica, della solitudine per dedicarsi alla preghiera e di un concreto lavoro manuale. I cistercensi rifiutarono il tradizionale ordinamento feudale nel loro ambito conventuale per i pericoli che essi vedevano intimamente connessi a questo tipo di proprietà. L’uomo che aiutò questo nuovo ideale di vita monastica a fiorire e a diffondersi fu un giovane nobile burgundo: Bernardo di Chiaravalle (Clairvaux, circa 10911153)־. Bernardo fu una di quelle grandi personalità alla cui energia spi־ rituale era impossibile resistere. Quando, nell’aprile del 1112, bussò alla porta di Cìteaux egli vi portava ben trenta altri compagni. Bernardo diede al monastero il primo fortissimo impulso e seppe imprimere al nuovo ideale una forza di espansione imprevista. Già
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nel 1115, insieme a dodici monaci, abbandonò Chiaravalle per fondare un altro monastero. Prima di morire, egli aveva dato vita ad altri sessantotto monasteri e, nell’anno della sua morte (1153), il suo ordine poteva già contare 350 abbazie; nel 1200 le abbazie furono 530 e, nel 1500, raggiunsero il numero di 700 monasteri ma־ schili e 900 femminili. Le comunità femminili furono annesse e collegate alla vita dell’ordine alla fine del XII secolo, anche se già da molto tempo esistevano singoli monasteri femminili (Tart, 1132) che vivevano secondo lo statuto dell’ordine cistercense. La particolare importanza data al lavoro manuale e alla coltivazione agricola fecero sì che l’ordine acquistasse anche un’importanza altamente civilizzatrice, soprattutto per l’apertura e la cristianizzazione del levante. Ma la vera missione di Bernardo si svolse nella sfera spirituale. La santificazione e spiritualizzazione del monacheSimo benedettino e il rinnovamento religioso dell’intera chiesa furono gli scopi che si prefisse. Chiamato dovunque per aiuto e consiglio, fu in contatto continuo con papi, imperatori e principi. Scrisse la regola per l’ordine dei templari; la sua parola fu decisiva durante lo scisma pontificio del 1130; la realizzazione della crociata del 1147 fu merito soprattutto della sua infiammata predicazione, anche se dopo il suo esito infelice non gli furono risparmiati aspri rimproveri. Bernardo fu chiamato l’oracolo e il genio religioso del suo secolo e in realtà fu un grande riformatore e un grande teologo, ma soprattutto è sempre stato un monaco e un mistico.
2. La riforma del clero secolare Il clero secolare non rimase esente dall’opera riformatrice. La recente ricerca storica ha messo in evidenza l’importanza e la vastità del moto riformatore dell’xi e xn secolo anche nell’ambito della vita canonica e ha chiarito come esso si sia proposto soprattutto un vero rinnovamento cristiano dello spirito religioso per tutti i sacerdoti secolari. Quest’opera di riforma fu diretta anzitutto ai membri dei capitoli delle cattedrali e delle collegiate. In un’epoca in cui esistevano solo poche parrocchie esterne autonome e in cui la maggior parte
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dei chierici era concentrata ancora sulla chiesa episcopale o nelle chiese centrali delle parrocchie originarie, per poter celebrare il servizio del coro, apparve della massima importanza trovare un ordinamento che regolasse la vita di questi canonici di collegiate. Già sant’Agostino, quando era vescovo di Ippona, aveva dato ai chierici che vivevano insieme a lui una solida regola (kanón). Più tardi, a questo tipo di vita si dette il nome di ordo canonicus (= stato di canonico), corrispondente all 'ordo monasticus (= stato di monaco). Ci si ispirava, per questo genere di vita spirituale, all'ideale protocristiano della vita communis alla sequela degli apostoli. Ai canonici non era proibito il possesso privato, mentre lo era ai monaci; essi non erano tenuti a fare alcun voto monastico, ma la vita comunitària esigeva comunque un certo ordine di vita e Tobbedienza nei confronti di chi aveva il compito di guida. Solo così poteva essere garantita la celebrazione solenne del servizio divino nelle chiese delle cattedrali e delle collegiate. Poiché le comunità di chierici acquistarono col tempo sempre maggior libertà e, con questa, anche un’eccessiva rilassatezza morale, erano necessari sempre nuovi sforzi di riforma. Bonifacio e Carlo Magno attesero a quest’opera. Nel 768 il vescovo Crodegango di Metz scrisse una nuova regola canonica. Un capitolare dell’805 ingiunse a tutto il clero del regno dei franchi di vivere o monastice, cioè nello stato monastico, oppure canonice, vale a dire in comunità. Ludovico il Pio promulgò, nell’816, da Aquisgrana una propria regola {Institutio canonica). Purtroppo la riforma non perdurò a lungo e ben presto fu travolta nelTimmenso naufragio dell’impero carolingio. Nel IX e X secolo i patrimoni comuni appartenenti alle cattedrali e alle collegiate furono divisi in prebende individuali e la vita communis fu abbandonata. La riforma gregoriana cercò nuovamente di attuare le antiche aspirazioni. Un sinodo romano del 1059, presieduto da Ildebrando, il futuro papa Gregorio VII, ordinò a tutti i religiosi dei capitoli delle cattedrali e delle collegiate di rinunciare al possesso dei beni privati e di osservare rigorosamente la regola. I canonici che accettarono le decisioni del sinodo lateranense furono chiamati ‘canonici regolari’ o ‘canonici regolati’. Gli altri, invece, furono detti ‘canonici secolari’. I riformatori cercarono di persuadere tutti i ca
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nonici ad adottare la regola di sant’Agostino. Recenti studi storici ci hanno fatto conoscere quanto sia stato fecondo il moto di riforma: nel Medioevo i canonici regolari riuniti nelle collegiate furono circa 4 5 0 0 .1 maggiori centri di vita comune o canonica furono il Laterano, i canonici agostiniani del Gran S. Bernardo, la congregazione di S. Vittore a Parigi, la comunità dei canonici del S. Sepolero a Gerusalemme, i cavalieri crociati e molti altri. Tutti perseguivano lo scopo di conformare il più possibile il clero all’ideale apostolico: la riforma gregoriana si fece, infatti, soprattutto promotrice della santificazione del clero secolare. L’importanza particolare che essa dava al sacerdozio sacramentale e alla posizione che questo aveva nella chiesa presupponeva del resto un rinnovamento interiore del clero secolare. Povertà apostolica e celibato, obbedienza all’autorità spirituale, coscienza dell’ordinamento gerarchico della chiesa, formazione teologica e condotta di vita irreprensibile dovevano essere le note caratteristiche del sacerdote in cura d’anime. Papa Urbano II (10881099)־, che era un monaco cluniacense, considerava la riforma del clero ancora più importante e più urgente della riforma degli ordini religiosi. L’arcivescovo Corrado I di Salisburgo ingiunse, nel 1140, a tutto il suo clero che non apparteneva all’orbo monasticus di vivere secondo una 4regola’. Anche Gerhoh di Reichersberg (1093-1169), lo zelante riformatore, volle rendere obbligatoria la regola dei canonici di sant’Agostino per tutti i chierici secolari. Per un certo periodo sembrò addirittura che il movimento dovesse abbracciare l’intero clero. La più ampia e la più importante di queste comunità di canonici fu l’ordine premostratense, fondato dal canonico Norberto di Xanten (10821134)־, della Bassa Renania. Di nobili natali, fin da giovane egli godette di grandi favori alla corte dell’imperatore Enrico V, ma nel 1113 rifiutò il vescovato di Cambrai, che gli era stato offerto, e due anni dopo, nel 1115, decise improvvisamente di mutare vita. Alla ricerca della sua vera vocazione entrò dapprima nel monastero benedettino di Siegburg e soggiornò presso un eremita, che, richiamando la sua attenzione sull’urgenza di una riforma del clero, lo aiutò a comprendere che la sua missione era ap-
punto quella di riformare la vita sacerdotale. Norberto percorse per alcuni anni le terre di Francia, predicando la penitenza, consapevole che la vittoria sulle eresie che si diffondevano in mezzo ai fedeli cristiani sarebbe stata possibile solo avvicinandosi al popolo nella povertà di Cristo. Nel 1120 fondò, a Laon, il convento di Prémontré, che non doveva essere propriamente una vera comunità monastica quanto piuttosto una comunità di canonici che vivevano secondo la regola di sant’Agostino. Come missione straordinaria egli affidò ai suoi confratelli la santificazione del clero, la cura d’anime e la predicazione fra il popolo. Una preparazione teologica fondamentale doveva creare la base necessaria per questa missione. Nel 1156 il nuovo ordine dei ‘premostratensi’ contava oltre cento comunità. Norberto, ormai dedito interamente alla vita attiva, fu eletto nel 1125 arcivescovo di Magdeburgo. Egli inseri subito i suoi canonici nel suo arcivescovato e, al tempo stesso, diede loro un nuovo campo di attività missionaria, a Oriente dell’Elba, nel paese dei Vendi. Insieme con i cistercensi, i premostratensi contribuirono in seguito, in larga misura, alla missione e alla civilizzazione di questi paesi. Anche i laici, trascinati dal nuovo spirito di riforma, parteciparono al rinnovamento della vita della chiesa. Il possente impulso religioso trovò, infatti, la sua espressione, da un lato, nel movimento delle crociate e, dall’altro, nel movimento pauperistico. A essi, appunto, rivolgeremo ora la nostra attenzione.
§ 29. Il movimento delle crociate Il fondamento religioso del movimento delle crociate è indiscutibile. Le crociate nacquero infatti dalla nuova coscienza comunitaria cristiana dell’Occidente, risvegliata dalla riforma gregoriana. Ma, oltre a questo motivo squisitamente religioso, nelle crociate era anche presente una forte dose di impeto cavalleresco che talora si sfogò in forme cruente di esaltazione bellica, indegne dello spirito cristiano, tanto da fare di esse gli avvenimenti più crudeli del
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Medioevo. Entrambe le componenti vanno valutate oggettivamente, anche se non sempre esse raggiunsero un giusto equilibrio interiore.
1. Le crociate Gli ideali che mossero la cavalleria occidentale alla riconquista della Terra Santa e alla lotta contro lTslam furono essenzialmente e profondamente cristiani e missionari. La conquista di Gerusalemme da parte dei turchi selgiuchidi (1071), che la sottrassero ai fatimidi, e le continue lagnanze mosse dai pellegrini sui molteplici ostacoli frapposti dai nuovi dominatori ai loro viaggi in Terra Santa scossero profondamente la coscienza di tutti i cristiani. Oltre a ciò, i nemici premevano minacciosamente su Costantinopoli, tanto che !,imperatore Alessio I (10811118 )־rivolse insistenti preghiere di aiuto alla chiesa occidentale di Roma. Papa Urbano II (10881099 )־non rimase insensibile e indirizzò, nel 1095, nei sino־ di di Piacenza e di Clermont un appassionato appello alla cristia־ nità latina, che risvegliò enormi energie. La grande idea religiosa, superando ogni confine nazionale, unì insieme tutti i popoli delPOccidente cristiano, che si allearono per venire in aiuto dei cri־ stiani orientali e per strappare allTslam il paese dove Cristo aveva vissuto e aveva diffuso il suo messaggio di salvezza. Con un grido ardente «Deus lo vult - Dio lo vuole», il papa trascinò con sé i cri־ stiani e si mise egli stesso a capo del movimento. Ciò accadde tut־ tavia proprio nel periodo in cui !,imperatore Enrico IV e il re francese Filippo I, ambedue scomunicati, erano al di fuori della comu־ nità cristiana. Toccò perciò al pontefice guidare questo vasto mo־ vimento dell’intero Occidente, appena 50 anni dopo che il sinodo di Sutri (1046), grazie all’imperatore Enrico III, aveva salvato il papato dalla decadenza e l’aveva nuovamente riportato alla sua grandezza universale. L’appello del papa suscitò un’eco imprevista e diede vita a un movimento religioso di massa che, malgrado mol־ ti contraccolpi, sopravvisse per secoli e perse la sua carica di entu־ siasmo solo con il disfacimento dell’unità occidentale, alla fine dell’alto Medioevo.
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a) Prima crociata (10961099)־. La vera e propria crociata fu pre־ ceduta da un movimento di orde di contadini, privi di qualsiasi organizzazione e guida. Attraversando la Renania essi si abbandonarono, nella loro esaltazione, a sanguinosi pogrom di ebrei. Anche durante la marcia attraverso i Balcani le masse sfrenate dei contadini si resero colpevoli di parecchi eccessi verso le popolazioni indigene. La maggior parte morì strada facendo. I superstiti, guidati da Pietro d’Amiens, il promotore della crociata, raggiunsero l’Asia Minore, ma al primo assalto dei turchi selgiuchidi, furono compietamente sbaragliati e annientati. Il corpo principale dell’esercito, formato da cavalieri provenienti quasi esclusivamente da paesi latini, arrivò per vie diverse a Costantinopoli. Alla sua guida erano i principi Raimondo di Tolosa, Goffredo di Buglione, Roberto II di Normandia e il normanno Boemondo di Taranto. Dopo inumani disagi e molte lotte accanite e sanguinose finalmente, nel luglio del 1099, Gerusalemme fu conquistata. I crociati si abbandonarono tuttavia a un terribile eccidio, che oscurò gravemente le loro eroiche imprese. Le fonti contemporanee ci fanno comprendere perché siano potute accadere tali carneficine, nelle quali non furono risparmiati donne e bambini, né vecchi inermi: le smisurate fatiche affrontate nella marcia attraverso i deserti sassosi bruciati dal sole e le continue imboscate avevano inferto ai cavalieri perdite gravissime e un pesante tributo di sangue; !,amarezza a lungo contenuta e la sovraeccitazione si sfogarono nell’assalto alla città santa, provocando una strage sanguinosa degli ‘infedeli’, del tutto indegna di uomini cristiani. Dal punto di vista evangelico, una tale carneficina è senza alcun dubbio inescusabile. Gli eccessi, nati da insufficienza umana, continuarono purtroppo a ripetersi anche in seguito, durante il corso delle altre erociate. Conseguenza immediata della prima crociata fu la fondazione di stati crociati, per esempio del regno cristiano di Gerusalemme (1099-1291), istituito sul modello francese come uno stato feudale, con più piccoli principati crociati, quali il principato di Antiochia (1098-1268) e le contee di Edessa (1098-1144) e di Tripoli (11021289). Goffredo di Buglione fu eletto primo «protettore del S. Sepolcro». Nel 1099, ad Ascalona, egli sconfisse il sultano egiziano.
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A Goffredo successe il fratello Baldovino I (1100-1118) che prese il titolo di re cristiano di Gerusalemme. Con Fulco di Anjou (1131־ 1143 ) il regno raggiunse la sua maggiore estensione. b) Seconda crociata (11471148)־. Bernardo di Chiaravalle si era impegnato particolarmente per la sua realizzazione e aveva guada־ gnato a sé i re di Francia e Germania (Corrado HI). Questa crociata finì, tuttavia, con una tremenda catastrofe della spedizione franco־ tedesca, che fu annientata in successive battaglie dai turchi. Nel 1187 Gerusalemme cadde nuovamente in mano musulmana. c) Terza crociata (11891192)־. Per riconquistare la città santa si allestì una nuova potente spedizione di crociati, ben organizzata, che si mise in marcia verso l’Oriente, guidata dall’imperatore Fe־ derico I Barbarossa. A Iconio essa riportò una prima e brillante vittoria sui turchi, ma quando il vecchio imperatore, nel 1190, annegò nel fiume Salef, la spedizione, ormai priva di guida, non potè più conseguire altri successi. Il re inglese Riccardo Cuor di Leone e il re francese Filippo II non poterono riconquistare Gerusalemme, ma stipularono tuttavia nel 1192 un armistizio con il sultano Saladino, grazie al quale ai pellegrini cristiani disarmati era concesso l’ingresso a Gerusalemme. d) La quarta crociata (12021204)־, proclamata da papa Innocenzo IH già nel 1098 e preparata in Francia da relativa predicazione, doveva dirigersi in primo luogo, per motivi strategici, contro l’Egitto. Contrariamente alla volontà del papa la spedizione fu de־ viata verso Costantinopoli dagli egoistici interessi commerciali dei mercanti veneziani e intervenne indebitamente nei contrasti di po־ litica interna di Bisanzio. Quando, dopo la prima conquista della città (1203), la questione relativa al trono fu liquidata da una rivol־ ta antilatina, la direzione della crociata decise l’eliminazione del־ l’impero bizantino. Si arrivò così a una seconda conquista (aprile 1204), in cui la città fu dai crociati saccheggiata e devastata senza pietà. Fu allora fondato un «impero latino di Costantinopoli» (propriamente Romania), che sussistette fino al 1261. A causa di questo brutale e irresponsabile comportamento dei crociati la scis
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sione tra la chiesa occidentale e quella orientale non potè che diventare ancora più profonda e insanabile e l’unione, ovviamente, non avvenne. e) L’inutilità e l’assurdità di quest’ultima impresa crearono in Occidente forti dubbi sulla opportunità di proseguire spedizioni crociate armate. Cominciò a farsi strada l’idea che Dio preferisce servirsi di vergini indifese e di fanciulli, piuttosto che di guerrieri sanguinari. Ebbe origine così quella crociata dei fanciulli del 1212, nella quale migliaia di fanciulli e fanciulle, convenuti dalla Francia e dalla Germania, si avviarono verso la Terra Santa. Come era immaginabile, la fanatica iniziativa finì in una terribile tragedia. Già in Italia la spedizione cominciò a disperdersi. Molti fanciulli non procedettero oltre, le fanciulle furono raggirate e abusate da alcuni criminali. I superstiti, che si raccolsero a Marsiglia e a Brindisi per la traversata, furono venduti come schiavi ad Alessandria da armatori senza scrupoli. - Francesco d’Assisi, in seguito, comprese pienamente il sano nucleo di questa idea, vale a dire l’opportunità di sostituire la missione pacifica alle sanguinose repressioni e alle conquiste, e si recò di persona a far visita al sultano, a Damietta, per recargli il messaggio del vangelo. E anche se la sua predicazione non ottenne successo e se gli eserciti nemici continuarono sanguinosamente a sbranarsi fra loro (durante la conquista di Damietta, nel 1219, i cristiani si abbandonarono a una terribile carneficina; in seguito essi caddero a loro volta prigionieri, ma furono trattati generosamente e risparmiati dal sultano!), tuttavia fu da questo viaggio di Francesco che ebbe inizio la pacifica missione francescana in Terra Santa. f) Quinta crociata (1228-1229). Fu un’impresa privata dell’imperatore Federico II, il quale peraltro era scomunicato. Attraverso trattative con il sultano egiziano egli ottenne che Gerusalemme fosse restituita ai cristiani. Ma, nel 1244, la città santa andò definitivamente perduta. g) Sesta crociata (1248-1254). Il re di Francia Luigi IX, il santo, cercò in primo luogo di vincere l’Egitto e di conquistare poi la Ter
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ra Santa. Nell aprile del 1250, presso il Cairo, la spedizione francese fu sconfitta e i superstiti, con il re, furono fatti prigionieri. Nel 1269/70 Luigi intraprese nuovamente una crociata contro Tunisi, ma anche questa fallì miseramente. La grande epoca era passata. Nel 1291 Accon e gli ultimi baluardi degli stati crociati andarono definitivamente perduti.
2. Gli ordini cavallereschi La profonda dinamica religiosa, dalla quale scaturì il movimento crociato, generò anche uno dei fenomeni più caratteristici del Medioevo: il monaco-cavaliere. I tre grandi ordini cavallereschi debbono la loro origine all’immediata esperienza della crociata in Terra Santa. Oltre ai tre consueti voti monastici - povertà, castità, obbedienza - i cavalieri si assunsero anche nei loro statuti l’impegno di servire i pellegrini esausti e malati, e la protezione dei luoghi santi contro gli infedeli. Lordine dei giovanniti fu fondato nel 1099, come confraternita, all’ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme e, nel 1120, fu trasformato in ordine (abito: mantello nero con una croce bianca). Nel 1291 la sede dell’ordine fu trasferita a Cipro, in seguito a Rodi (1309), e infine (1530) a Malta, e da quest’ultima sede ricevette il nome di «ordine di Malta». L’ordine dei templari fu fondato nel 1118 da otto cavalieri francesi presso il tempio di Salomone (per questo i suoi membri furono detti ‘templari’) (abito: mantello bianco con una croce rossa). Nel 1291 anch’esso fu trasferito a Cipro; nel 13111312 ־fu travolto dalle macchinazioni del re francese Filippo IV il Bello e fu sciolto nel concilio di Vienne. L’ordine teutonico, fondato da alcuni cittadini di Brema e di Lubecca nel 1189-1190 come confraternita ospedaliera, fu trasformato nel 1198 in ordine cavalleresco. Sotto la guida del maestro supremo Ermanno di Salza (1210-1239) esso stabilì il suo campo d’azione, e ben presto anche la sua sede, in Prussia (Marienburg, dal 1309). La diffusione del cristianesimo nei paesi baltici e la fondazione dello stato dell’ordine furono da allora in poi i suoi compiti (abito: mantello bianco, croce nera). Nel 1525 il maestro supre
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mo Alberto di Brandeburgo si impadronì del paese e lo trasformò in un ducato protestante secolare.
3. Bilancio L’importanza del movimento crociato, nella sua generalità, è contestata. Anche se il suo successo militare, di fronte all’immenso sacrificio di sangue e di energie, fu piuttosto lieve, non va tuttavia dimenticato la sua portata ideale. Le crociate fortificarono in modo straordinario la coscienza comunitaria occidentale, allargarono l’orizzonte europeo e, grazie soprattutto all’incontro con la cultura bizantina e orientale e soprattutto ai contatti con il mondo islamico, diedero un forte impulso alla scienza. Ne derivò un intenso scambio di ogni specie di beni culturali ed economici; la stupenda ascesa della filosofia e della teologia occidentali nella scolastica non sarebbe pensabile senza questo incontro con l’Oriente. Le crociate hanno inoltre influenzato in un modo profondo e durevole la pietà e la spiritualità occidentale. I crociati che, per amore di Cristo, si imbarcarono per la Terra Santa e ne tornarono, superando infiniti pericoli e disagi, che presero a modello ideale, nella loro peregrinatio religiosa, la povera vita del Redentore che porta la croce, accreditarono l’idea della sequela di Cristo in pòvertà e in penitenza, persino nella loro stessa patria. Una nuova forma di devozione tutta personale subentrò all’esperienza religio־ sa comunitaria del primo Medioevo. La sacra Scrittura fu letta con occhi nuovi. Sorsero i primi movimenti pauperistici.
§ 30. H movimento pauperistico, eresie e inquisizione
1. Il biblicismo e la sequela di Gesù Le riforme monastiche del X-XI secolo avevano già manifestato l’esigenza di ritornare alla povertà apostolica della chiesa primitiva. La vita apostolica era strettamente connessa all’ideale di una vi
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ta povera di predicatore itinerante, conforme all’esempio offerto da Cristo e dai suoi apostoli. Questo desiderio, per !,influenza esercitata dal movimento crociato, favorì lo sviluppo di un vasto movimento popolare che ben presto si estese a tutto !,Occidente. L’immagine del Salvatore povero si impresse nell’animo non solo di coloro che erano ritornati dalla Terra Santa, ma anche in chi era restato nel proprio paese e incitò gli uni e gli altri alla sequela di Cristo. Si volle conoscere meglio il vangelo. Monaci e chierici si dedicarono alla lettura della sacra Scrittura; ma anche semplici laici, che desideravano ardentemente imparare a conoscere dalla Bibbia la vita di Cristo e degli apostoli, si riunivano in piccoli gruppi per ricevere insegnamenti e spiegazioni del testo sacro. Il popolo cristiano era addirittura affamato della parola di Dio e spesso non esitava ad affrontare lunghi viaggi per poter ascoltare grandi predicatori come Bernardo di Chiaravalle o Norberto. In verità, il contrasto esistente fra la vita povera di Gesù e la chiesa istituzionale del tempo, saltava agli occhi. La chiesa feudale del Medioevo era ricca non solo in Germania, dove i vescovi erano principi, ma anche in Francia, in Inghilterra e in Italia. Ovunque i vescovati e le abbazie erano in mano di nobili e di potenti. Il clero determinava la vita spirituale ed era legato intimamente ai signori feudali. Ma, proprio in quel tempo, andava sorgendo nelle città fiorenti una classe borghese, consapevole della propria importanza e che non si abbandonava più senza riserve al governo spirituale. Nella chiesa cominciò a destarsi la coscienza del laicato, il quale volle formarsi un’opinione personale sui problemi religiosi e perciò ricorse alla Bibbia. Ora, finché la sua ricerca si muoveva entro l’ambito ecclesiale ed era al servizio di una riforma interiore, potèva avere benefici effetti, ma sussisteva anche il pericolo che questa tensione spirituale, sposandosi con teorie eretiche e contrarie alla chiesa, recasse gravi danni all’anima dei fedeli. Sarebbe stata la chiesa capace di far proprio questo movimento e di assumerne la guida? Questo era il problema. In caso contrario, le nuove tendenze religiose si sarebbero rivolte contro di essa.
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2. MovimentipauperisticL Valdesi e Catari a) Il fanatico riformatore dei Paesi Bassi, Tancheimo, violentemente contrario a ogni forma di possesso ecclesiastico, non si limitò, infatti, soltanto a riprovare decisamente la vita mondana dei religiosi, ma allargò la sua lotta spiritualistica fino a negare la gerarchia, la chiesa sacramentale e a rifiutare !,eucaristia. Nel 1115 fu ucciso dal popolo, ma la sua dottrina eretica gli sopravvisse. Nel 1124 Norberto predicava ancora contro di essa nei dintorni di Anversa. Anche Arnaldo da Brescia, il radicale predicatore italiano, esigeva una chiesa priva di beni e povera, e mosse violente critiche al papato. Persuaso in seguito a partecipare ai maneggi politici del movimento democratico romano, fu travolto dall’ingranaggio polifico e !,imperatore Federico Barbarossa lo fece giustiziare nel 1155. I suoi seguaci, gli ‘amaldisti’, si unirono in seguito in gran numero ai valdesi e ai catari. b) I valdesi ebbero origine dal ricco mercante Pietro Valdès di Lione. Intorno al 1170/1175 egli scoprì, leggendo M t 10,1-15, l’ideale di povertà e fece dono del suo patrimonio, per potere meglio iniziare un rigoroso apostolato di povertà e predicare la penitenza. I suoi seguaci si chiamarono pauperes Christi o ‘poveri di Lione’. La sua predicazione, che certamente muoveva da intenzioni pure, non fu tuttavia esente da esagerazioni e da dure critiche alla vita di quel tempo e nascondeva in sé gravi pericoli per la fede. Il vescovo di Lione la proibì, poiché i seguaci di Valdès erano laici e non erano qualificati perciò a parlare di problemi di fede. Valdès si appellò al papa. Presentatosi personalmente al terzo concilio Laterano del 1179, Valdès fu autorizzato da papa Alessandro III, che condivideva i suoi ideali di povertà, a predicare la penitenza, purché si guardasse da ogni forma di proclamazione dottrinale: condizione questa che appariva piuttosto elastica e indeterminata. Il vescovo rimproverò in seguito a Valdès di non averla rispettata e gli proibì per la seconda volta di continuare la sua predicazione. Di nuovo Valdès si rivolse a Roma, ma questa volta Lucio IH reagì duramente. Nel 1184 egli vietò a Valdès ogni forma di predicazione e riprovò tutto il suo movimento, che nel frattempo aveva assunto
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forme radicali. Valdès rifiutò di obbedire e, facendo appello alla sua vocazione interiore e alla missione ricevuta da Cristo, replicò che solo colui che tutto ha donato e che vive in totale povertà ha il diritto di proclamare il messaggio di Cristo, fi papa rispose con la scomimica e la persecuzione. Il movimento valdese, messo al bando, accrebbe sempre più la sua ostilità contro la chiesa e accolse dottrine eretiche. Valdès morì attorno al 1206.1 superstiti del suo movimento si schierarono, in seguito, a fianco dei protestanti italiani. c) Attorno al 1170, apparvero per la prima volta in Belgio e nei Paesi Bassi le cosiddette beghine, donne devote che si dedicavano alla preghiera e alla lettura della sacra Scrittura. Esse accudivano a lavori manuali, all’assistenza degli infermi e all’educazione delle fanciulle e vivevano, pur senza aver pronunciato veri e propri voti monastici, in comunità, nelle cosiddette ‘corti di beghine’, dedite totalmente a un’attiva cura del prossimo, per amore di Cristo. In Lombardia e, soprattutto a Milano, una confraternita di tessitori si riunì in una comunità religiosa analoga; i suoi membri presero il nome di umiliati. Essi formarono, sul modello delle prime comunità cristiane (At 2,44), delle associazioni a base economico-religiosa, e rifiutarono ogni forma di proprietà privata. Anche gli umiliati a poco a poco assunsero tendenze sempre più radicali, ma Innocenzo IH riuscì nel 1201 a incorporare nella chiesa il movimento e a riportarlo sotto una guida spirituale. Una parte degli umiliati si unì a comunità monastiche che vivevano secondo la regola di san!’Agostino; altri invece continuarono a vivere nel mondo, pur partecipando alle pratiche religiose di questi monasteri e restando uniti con i medesimi in comunione di preghiere: essi furono i precursori del ‘terzo ordine’. La diocesi di Milano, nel 1216, contava 150 conventi di umiliati. L’ordine sussistette fino al 1571. d) Mentre tutti questi gruppi religiosi avevano in comune la stessa matrice cristiana, non si può dire lo stesso del movimento dei catari, che trasse invece origine da una forma di manicheismo dualistico, eresia di natura essenzialmente non cristiana. I pauliciani armeni, che nel IX secolo si erano trasferiti da Bisanzio nei Balcani, avevano portato con sé antiche teorie gnostiche, che furono rie
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laborate in Macedonia, nella prima metà del X secolo, da un prete di campagna: Bogomil. I catari insegnavano che il mondo era stato creato dal diavolo, cioè dal Dio cattivo dell’Antico Testamento, e che esso era totalmente dominato da lui. Anche le anime pure degli uomini erano state incarcerate nella materia cattiva. Ma il Dio buono del Nuovo Testamento aveva inviato uno dei suoi angeli, Gesù Cristo, per insegnare agli uomini tutti il modo di liberarsi dal peso della materia e ai ‘puri’ (katharói - catari) quella via che li avrebbe condotti alla loro vera patria, il cielo. L’ascetismo e il completo rifiuto del mondo erano perciò necessari. Ogni contatto con la mate־ ria cattiva rendeva, infatti, impuri e Tintera creazione, in se stessa, era peccaminosa. I ‘perfetti’ dovevano scrupolosamente evitare, oltre al matrimonio, ogni rapporto sessuale, il gustare carne, ogni specie di lavoro manuale, beni e ricchezze terrestri. Queste dottrine, portate dai mercanti e dai crociati mentre facevano ritorno in patria, penetrarono nel XII secolo in Occidente e si diffusero rapidamente in Germania (Colonia, 1143), in Inghilterra, in Francia e in Italia. Esse si intrecciarono con alcune dottrine cristiane. I catari si organizzarono sul modello della chiesa cattolica ed ebbero una gerarchia e vescovati. Nel 1167, a Tolosa fu tenuto un grande concilio dei catari. Alla ricca chiesa cattolica, colma di beni temporali peccaminosi, essi contrapposero la loro chiesa povera, che condannava ogni forma di possesso. I catari si riallacciavano alle idee di molti riformatori radicali, che sognavano una chiesa evangelica e povera, e fu quindi facile per loro far credere al popolo semplice che il loro disprezzo del mondo, radicalmente non cristiano e dualistico, esprimesse un puro ideale di ascetismo cristiano. Essi amavano definirsi cristiani ideali, i soli che conducessero veramente una vita ascetica esemplare e consi־ deravano invece la chiesa cattolica la sinagoga di Satana, bollava־ no i sacerdoti come peccatori ipocriti e ritenevano i sacramenti opera diabolica. Con la stessa assolutezza i catari combattevano d’altronde anche lo stato; chiamavano l’imperatore il proconsole di Satana e i principi i suoi aiutanti. La loro grande diffusione nella Francia meridionaie, particolarmente nella regione di Albi (di qui il nome di ‘albi־ gesi’), li portò ben presto ad allearsi con i nobili, i quali si stavano
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appunto preparando alla lotta contro il regno francese. La tensione esplose nelle sanguinose guerre, a metà religiose e a metà politiche, contro gli albigesi (1209-1229).
3. UInquisizione Anche la repressione degli eretici e !,inquisizione (da latino inquisitio, inchiesta), che ebbero proprio allora sviluppo, vanno viste alla luce di questo duplice aspetto dell'attacco alla chiesa e allo stato. Poiché i catari attentavano tanto alle radici politico-sociali quanto a quelle religiose della società cristiana, stato e chiesa si unirono per combatterli. Già nel 1197 il re Pietro II di Aragona dichiaro ufficialmente che i catari dovevano essere considerati nemici dello stato e ordinò che fossero condannati al rogo. H re Luigi VII di Francia e il re Enrico II d'Inghilterra fecero pressione, nel 1179, al terzo concilio lateranense affinché questo assumesse dure misure repressive contro gli eretici, che dovevano essere puniti con la confisca dei beni e la privazione della libertà e, se necessario, anche domati con la forza armata. Lucio DI strinse nel 1184 un patto con Federico I Barbarossa, per il quale la chiesa colpì gli eretici dell'impero con immediata scomunica e l'imperatore li bandì dal suo regno; i catari dovevano essere inoltre rintracciati da parte dei vescovi ed essere sottoposti al giudizio delle autorità civili per essere puniti. È inutile domandarci se, in tali circostanze, fossero di maggior peso le considerazioni politiche o quelle religiose. In un mondo come quello medievale, che formava una perfetta unità politico-religiosa, i due poteri - spirituale e temporale - non potevano che operare in completo accordo, non appena si profilasse il pericolo di un attentato al loro comune fondamento cristiano. E poiché il tentativo di convertire gli albigesi era fallito e il legato pontificio era stato assassinato nel 1208, Innocenzo DI indisse nel 1209 una crociata contro gli eretici. La terribile guerra, indegna di cristiani, si protrasse per ventanni e richiese da ambedue le parti un ingente tributo di sangue. Intere città furono spopolate e vaste regioni devastate. La cultura provenzale fu interamente annientata. Alla fine del conflitto sembrò che l'eresia fosse stata debellata, ma all'inquisizione occorsero ancora molti decenni per poter spegnere
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i residui focolai di opposizione. La monarchia francese fu la sola a trarre ampi profitti dalla guerra; la Francia fu, infatti, la vera vincitrice perché, in realtà, i veri motivi che stavano alla base della erodata, più che religiosi, erano di natura politico-dinastica. Sotto Innocenzo III fu organizzata l’inquisizione, vale a dire !,istituzione ecclesiastica incaricata di ricercare (inquirere) e punire gli eretici. L’autorità, in certi casi, doveva procedere d’ufficio contro un peccatore o un delinquente e non aspettare che questi venisse accusato (processo di accusa); era tenuta infatti, ex officio, a rintracciarlo e a trascinarlo in giudizio. L’applicazione di questa pròcedura agli eretici portò, nel 1231, alla nomina di inquisitori pontifici (Costituzione Excommunicamus), i quali dovevano ricercare i sospetti di eresia e procedere contro di essi. Già nel 1224 era stata promulgata, da parte di Gregorio IX e delTimperatore Federico II, una legge inquisitoriale per la Lombardia, secondo la quale l’autorità civile doveva far prigioniero chi gli fosse stato presentato come eretico dal vescovo per poi giustiziarlo, nel caso che il prigioniero si ostinasse a persistere nel suo errore. La consegna dell’eretico al braccio secolare ebbe perciò inevitabilmente come conseguenza la punizione del colpevole. Il fatto che la chiesa, consegnando l’eretico nelle mani dell’autorità civile, pregasse quest’ultima di risparmiare la vita dell’imputato ci appare oggi per quello che era veramente: un «orrendo formalismo e una pura finzione». Se, infatti, il tribunale secolare avesse rifiutato di procedere all’esecuzione del condannato, sarebbe esso stesso caduto in sospetto di eresia. Innocenzo IV, nel 1252, autorizzò gli inquisitori a usare anche la tortura, se essi lo avessero ritenuto necessario per strappare una confessione di eresia (Costituzione^^exstirpanda). Ebbe così inizio uno dei più tristi capitoli della storia della chiesa. Non furono posti limiti alle pratiche inumane dei brutali giustizieri. Molto sangue innocente fu versato e quest’eccesso di atrocità e di sofferenze ricadde sull’umanità. Quando poi questa tremenda istituzione fu posta anche al servizio della folle credenza nella stregoneria, si toccò veramente il livello più basso. Ciechi fanatici, che credevano di agire in nome di Gesù, del Signore misericordioso del discorso della montagna e della buona notizia della redenzione, causarono a una povera umanità un’infinita somma di sofferen
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ze. Che fatti orribili come questi siano stati possibili possiamo constatarlo con profonda vergogna, ma ci è del tutto impossibile tentare di comprenderlo. Se tuttavia ci domandiamo come ciò sia potuto accadere, prima di rispondere dovremo prendere in esame molti elementi. All’uomo medievale l’eretico religioso appariva del tutto simile a un rivoluzionario politico che con la sua opera tentasse di sovvertire e di rovesciare i princìpi basilari sui quali e la chiesa e lo stato fondavano la loro esistenza nella società occidentale. È vero che vi sono stati anche teologi, e primo fra tutti Tommaso d’Aquino (1225-1274), che condannarono decisamente l’uso della violenza e la costrizione religiosa. Ma se riflettiamo sull’altissima considerazione che si nutriva nel Medioevo per la verità in genere e per la verità religiosa in particolare, che si identificava perfettamente con quella espressa dal cristianesimo, dovremo domandarci, in modo assai diverso da quello che potremmo fare oggi, quali fossero le misure più giuste da prendere contro coloro che quell’unica verità rifiutavano o contrastavano. In altre parole: se esiste soltanto un’unica verità oggettiva, si serve meglio la verità con la durezza o con la carità indulgente? Il fedele medievale era convinto che la durezza fosse necessaria. Anche i riformatori che vennero dopo, Martin Lutero, Filippo Melantone e, più di tutti, Giovanni Calvino, condivisero questa teoria e agirono conseguentemente. I processi contro gli eretici e le persecuzioni contro le streghe continuarono, infatti, nell’età moderna, a Wittenberg e a Ginevra, proprio come a Colonia e a Parigi, e cessarono solo nel XVIII secolo grazie all’Illuminismo. Che esistesse, tuttavia, un’altra strada per superare i pericoli religiosi e per proclamare il vangelo, lo dimostrarono già chiaramente Francesco d’Assisi e Domenico nella loro epoca.
§ 3 1 .1 grandi ordini mendicanti I grandi santi sono sempre una risposta di Dio alle particolari necessità e alle difficoltà di un’epoca. Francesco d’Assisi e Domenico, per vocazione interiore e grazia, mostrarono alla chiesa e alla
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società del loro tempo la strada giusta per poter uscire dal dilemma in cui si trovavano: la chiesa divenuta ricca e potente e la società cristiana floridissima correvano, infatti, il gravissimo pericolo di soccombere sotto il peso dei loro beni e di perdere il contatto con le classi popolari povere. La forza e la potenza non avrebbero saivato l’unità cristiana; la crisi poteva essere superata solo attraverso Pintima adesione allo spirito del vangelo. Francesco e Domenico non solo incarnarono Pideale di povertà e lo vissero fino alle estreme conseguenze nella perfetta sequela di Cristo, ma, senza scagliarsi con cieca rabbia contro la ricchezza degli altri o rigettare la proprietà come intrinsecamente ‘cattiva’, insegnarono anche la rinuncia ai beni di questo mondo. Con Paolo essi avrebbero potuto dire: «Come fossimo afflitti, mentre siamo sempre contenti; come poveri, noi che arricchiamo molti; come non possedendo nulla, noi che possediamo tutto» (2 Cor 6,10).
1. Francesco d*Assisi e lordine francescano Francesco nacque nel 1181/82 ad Assisi. Dopo aver trascorso una gioventù spensierata, ricca di ambiziosi progetti, nella primavera del 1205 fu afferrato dall’ideale di povertà, proprio mentre era in cammino per una spedizione militare in Apulia, dove sperava di guadagnarsi la collata di cavaliere. Da allora abbracciò ima vita di totale rinuncia, dedicandosi interamente alla penitenza e all’amore del prossimo. Quando, nel 1206, suo padre lo ripudiò e lo scacciò di casa, Francesco percorse gioiosamente l’Umbria cantando e mendicando. Nella chiesetta della Porziuncola ad Assisi, nella primavera del 1208/09, udendo leggere M t 10,55ss., comprese quale fosse la sua vocazione: predicare a tutti gli uomini e all’intera creazione il gioioso messaggio dell’amore misericordioso del Redentore, persuadere i suoi fratelli a convertirsi e a far ritorno a Dio. Alcuni discepoli si unirono a lui e insieme a essi Francesco si recò nel 1209/10 a Roma per ottenere da Innocenzo m l’approvazione alla sua regola e il permesso di predicare. Il papa accondiscese (leggenda della sua visione). Sembra che Francesco abbia ricevuto allora il diaconato. Egli iniziò subito la sua attività. La sua idea si diffuse con incredibile rapidità. Francesco, predicando la penitenza e
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l’amore di Dio, percorse l’Italia, la Francia meridionale e la Spagna (1214/15). Egli voleva convertire i catari e i mori, ma non con la violenza delle armi e la forza, bensì con Tarnore, umilmente e gioiosamente, come si addiceva a un fratello minore, e fratres minores volle, infatti, che fossero chiamati, con lui, i suoi compagni. Una malattia gli impedì di recarsi in Marocco e, nel 1215, fece ritorno ad Assisi. Ben presto il suo ordine cominciò a espandersi. Ovunque apparisse, la persona di Francesco generava una profonda commozione, che afferrava ogni classe sociale. I giovani accorrevano a lui in gran numero. Egli godeva della fiducia del popolo semplice, del papa e dei vescovi. Una singolare forza d’attrazione usciva da Francesco e, quando nel 1219 accompagnò i crociati in Egitto, po־ té persino osare di presentarsi al sultano, mentre infuriava la battaglia davanti a Damietta, per parlargli dell’amore del Redentore. Francesco indicò così un’alternativa missionaria alla crociata: la vittoria doveva essere conquistata con l’amore e non con le armi. Nel 1221 Francesco diede al suo ordine una regola, nata interamente dal suo spirito e dal vangelo, e poiché non sembrò sufficiente a rispondere ai grandi problemi organizzativi di una fraternità ormai diffusa in mezza Europa, essa fu rielaborata, in collaborazione con il cardinale Ugolino, futuro papa Gregorio IX, e approvata nel 1223 da Onorio III. Francesco si ritirò allora dalla direzione dell’ordine, per potersi dedicare completamente al suo ideale. Dal 1224 egli soffrì atrocemente per malattie allo stomaco e agli occhi. Nel settembre 1224, sul monte della Verna, mentre elevava lo sguardo alla croce, in mistica comunione con il Cristo, ricevette sul suo corpo le stimmate del Signore. Così egli divenne il cristiano in tutto conforme al Cristo, unito al crocifisso anche nella passione. In mezzo alle sue sofferenze egli compose quello stupendo Cantico di frate Sole, traboccante di amore e di gratitudine per Dio, che l’intera creazione glorifica. Disteso sulla terra, povero e nudo, con il Te Deum sulle labbra, che i suoi fratelli furono obbligati a cantare, egli morì il 3 ottobre 1226. Francesco trasmise il suo grande amore per il popolo ai suoi confratelli, che furono i missionari popolari del Medioevo. L’ordine claustrale femminile di santa Chiara, che era stato fondato sotto
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la diretta guida spirituale del santo nel 1212 ed era stato da lui stesso stabilito a San Damiano, nei dintorni di Assisi, restò sempre strettamente congiunto al primo ordine. Nel 1221 alla grande famiglia francescana si aggiunse anche il cosiddetto terz’ordine (terziari), in cui anche coloro che rimanevano nel mondo potevano partecipare agli ideali e alle virtù del francescanesimo. Francesco donò alla chiesa Pamore per la povertà e la rese credibile agli occhi di coloro che si scandalizzavano per la sua ricchezza. I suoi discepoli, vivendo autenticamente la povertà, pur senza estraniarsi dal mondo e senza disprezzarlo, tramandarono questo ideale fino ai giorni nostri.
2. Domenico e lordine domenicano Domenico, nato in Castiglia intorno al 1170, pur essendo per natura del tutto diverso da Francesco, condivise tuttavia gli ideali del santo d’Assisi. Durante un viaggio che egli, già canonico regolare, intraprese alla volta di Roma, nel 1204, ebbe modo di vedere le conseguenze nefaste operate dal movimento cataro nella Francia meridionale e decise di dedicarsi, in povertà apostolica, alla predicazione per la conversione degli eretici. La rigorosa regola di povertà che egli scrisse gli venne certamente suggerita dall’esempio francescano, ma Domenico vi aggiunse qualcosa di nuovo e di personale: la necessità di porre alla base della predicazione una buona formazione teologica, cui egli dava un’importanza tutta particolare. Quando, nel 1215, Domenico chiese a Roma l’approvazione del nuovo ‘ordine sacerdotale’, Innocenzo III gli ingiunse di accettare la regola di sant’Agostino. Onorio DI, nel 1216, confermò il nuovo ordine. Già nel 1217 a Prouille, ai piedi dei Pirenei, era stato fondato un convento delle prime suore domenicane; da quella congregazione provennero molte pie donne che in seguito furono di grande aiuto nella missione condotta da Domenico contro gli albigesi. Più tardi fu istituito anche un terz’ordine, che raccolse in confratemita i laici, analogamente a quello dei francescani. Domenico morì il 6 agosto 1221. L’ideale assoluto di povertà fu abbracciato anche da due altri ordini: dagli eremitani di sant’Agostino, che ebbero conferma ponti
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fida nel 1256, e dai carmelitani, che nel 1228 dalla Terra Santa si trasferirono in Europa e, nd 1247, si costituirono anch’essi come ordine mendicante. A questi ultimi, nel 1452, si associò anche un ramo femminile: le carmelitane. I quattro ordini mendicanti furono di grandissima importanza per la vita ecclesiastica. Dal loro seno scaturirono non solo i padri spirituali, tanto amati dal popolo, ma anche i teologi più eminenti dell’alto Medioevo.
§ 32. La scienza teologica e le università Se il primo Medioevo si era limitato a tramandare e a rielaborare, nello spirito della patristica protocristianà, la teologia scritturistica, Pintensificarsi della vita ecclesiale nell’xi secolo portò, nei due secoli seguenti, a una più netta differenziazione dd pensiero teologico. Quanto più l’Occidente andò acquistando unità sotto la guida del papa, tanto più vivi divennero gli scambi spirituali fra i diversi popoli. La circolazione e lo scambio delle idee favorì un’interpretazione più ricca e più varia del patrimonio teologico recepìto tradizionalmente. L’allargarsi dell’orizzonte mondiale, conseguenza immediata delle crociate, offrì nuovi motivi di meditazione. I centri più importanti di attività scientifica non furono più i monasteri, ma le università, che cominciarono proprio allora a fiorire e a svilupparsi.
1. La Scolastica e i suoi rappresentanti Il benedettino Ruperto di Deutz (circa 10751135 )־era ancora totalmente immerso nella tradizione. Ma già Berengario di Tours (circa 1000-1088) seguì una strada tutta personale. Nella dottrina dell’eucaristia egli giunse a negare la presenza reale dd corpo di Cristo: pane e vino erano per lui solo dei simboli; nella consacrazione essi non venivano trasformati, ma ricevevano esdusivamente una energià sovrannaturale. Quando tuttavia la sua teoria, nel 1079, fu condannata da Roma, Berengario si sottomise. H quarto concilio latera-
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nense, nel 1215, decretò che la consacrazione nella santa messa comportava una reale trasformazione delle sostanze del pane e del vino e coniò per ciò !,espressione di 4transustanziazione״. Quale ‘padre della scolastica' viene comunemente designato Anseimo di Canterbury (10331109)־. Utilizzando i concetti tradi־ zionali, egli cercò di rielaborare e di fondare su basi razionali Pintero patrimonio di fede. La fede, così dichiarava, può essere soste־ nuta dall'intelletto, anzi essa vuole esserlo: fides quaerens intellec־ tum. L'esistenza di Dio non è quindi dimostrabile solo partendo dalla rivelazione contenuta nella sacra Scrittura, ma può anche essere riconosciuta dall’intelletto sulla base della creazione; egli in־ trodusse la cosiddetta ‘dimostrazione ontologica dell’esistenza di Dio’. Si intravedono già i problemi che inquieteranno i secoli futuri: ‘fede e ragione’, ‘rivelazione e conoscenza naturale’. Anche nella cristologia e nella dottrina della redenzione Anseimo seguì una strada personale (la cosiddetta ‘teoria della soddisfazione’). Il teolago più importante della prima scolastica fu l’acutissimo, ma non sempre equilibrato, Pietro Abelardo (10791142 )־che, con il suo metodo dialettico-critico del sic et non, cercò di penetrare all’interno dei più profondi problemi teologici, dimenticando talora i limiti che separano la fede dalla scienza. Bernardo di Chiaravalle fu il suo principale oppositore. Molte tesi abelardiane furono condannate dal sinodo di Sens (1141). Nel 1140 il monaco camaldolese Graziano (t 1158), magister a Bologna, cercò di raccogliere, dopo averle selezionate, le norme di diritto canonico della chiesa (canones). La sua Concordantia discor־ dantium canonum, chiamata poi più semplicemente Decretum Gra־ tianiycostituì il nucleo fondamentale del Corpus Juris Canonici, che fino al 1918 rimase il testo fondamentale del diritto canonico. Durante l’epoca medievale a esso si aggiunsero diverse altre raccolte: il Liber extra decretum di Gregorio EX (1234), il Liber sextus decretalium di Bonifacio V ili (1298), le Constitutiones Clementinae (1317) e le cosiddette Extravagantes, vale a dire i libri decretali dei papi di epoche più tarde. Graziano fu giustamente definito il «pa־ dre della canonistica». Il testo teologico più ricco e importante del tempo fu tuttavia l’opera di un magister parigino che, poi, diverme vescovo: Pietro
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Lombardo (circa 10951160)־. Le sue ‘sentenze’ (Sententiarum Libri quattuor) furono il manuale più usato in tutto il Medioevo. Lo sviluppo teologico raggiunse tuttavia il suo punto più alto solo con la cosiddetta ‘alta Scolastica’ del xm secolo. L’Occidente, pur attraverso le mediazioni dei filosofi arabi ed ebrei (Avicenna, 9801037 ־in Oriente; Averroè, 11261198 ־in Spagna; Maimonide, 11351204)־, aveva potuto conoscere meglio e più profondamente il filosofo greco Aristotele (384322 ־a.C.). La visione aristotelica del mondo e i problemi spirituali a essa connessi, purificati del loro contenuto pagano e ‘battezzati’ cristianamente, furono presi a modello per l’elaborazione teologica del mondo religioso cristiano. Il linguaggio filosofico di Aristotele sembrò piegarsi egregiamente a questa utilizzazione cristiana e il risultato fu un metodo filosoficoteologico ‘moderno’, che fu immediatamente accolto con grande favore dai giovani ordini mendicanti. I rappresentanti più eminenti dell’‘alta Scolastica’ furono, fra i domenicani, Alberto Magno (circa 12001280 )־, Tommaso dJAquino (12251274 )־e Meister Ec־ khard (circa 12601328)־, e tra i francescani Alessandro di Hales (circa 11851245)־, Bonaventura (12281274 )־e Duns Scoto (1266־ 1308). Alberto, uno svevo che nel 1223 era entrato nell’ordine domenicano, fu uno studioso di scienza universale (doctor universalis, detto ‘Magno’) che insegnò a Colonia e a Parigi. A Parigi (12431247)־ Tommaso d’Aquino fu suo allievo e lo seguì anche a Colonia (12481252)־, dove Alberto fu inviato nel 1248 per fondare una nuova scuola teologica dell’ordine {Studium generale). Alberto fu il primo ad applicare sistematicamente il metodo aristotelico, ossia il metodo filosofico-teologico, alla teologia cristiana. In ciò fu tuttavia superato di gran lunga dal suo grande allievo Tommaso d’Aqui־ no, che nacque nel 1226/27 a Roccasecca, nel napoletano. Nel 1244 questi, malgrado la dura opposizione della sua famiglia, entrò nell’ordine domenicano e, dal 1245 al 1252, ascoltò le lezioni di Al־ berto, che ebbero fondamentale importanza nella sua formazione teologica. Anche Tommaso insegnò a Parigi (12521259־, dal 1256 come professore d’università), a Roma (12591269)־, di nuovo a Parigi (12691272)־, e a Napoli (12721274)־. Oltre alla sua classica Summa theologiae - l’insuperata esposizione generale della religio־
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ne cristiana sulla base filosofico-teologica delTaristotelismo cristiano - Tommaso scrisse numerose altre opere, fra le quali la Surnma contra gentiles (1264), le Quaestiones quodlibetalesì le Quaestiones disputatae, i commenti alla sacra Scrittura, ad Aristotele ecc. Egli fu indubbiamente il teologo più geniale del Medioevo; ma fu anche un grande mistico e un grande santo (doctor angelicus). Il francescano Bonaventura nacque nel 1217/18 a Viterbo e, nel 1243, entrò nell’ordine di san Francesco. Egli studiò e insegnò, insieme con Tommaso d’Aquino, a Parigi (1253; 1257-1274). La sua teologia ha un’impronta fortemente mistica (doctor seraphicus) e si ispira ad Agostino e a Platone, come appare soprattutto dal suo breve compendio di dogmatica (.Breviloquium, 1257) e dal suo notissimo scritto mistico Itinerarium mentis in Deum (1259). Mentre Tommaso faceva leva soprattutto sull’intelletto, Bonaventura tendeva piuttosto a valorizzare la volontà; e mentre per il domenicano lo scopo da raggiungere era la conoscenza di Dio, per il francescano invece al centro del suo interesse teologico era l’amore per Dio. Bonaventura impresse questo stesso spirito alla teologia del suo ordine. Come ministro generale (12571274)־, egli ebbe sempre, anche quando svolse la sua attività d’insegnamento a Parigi, un acuto senso dei problemi pastorali pratici. Per superare la tensione nata nell’ordine tra i conventuali e gli spirituali egli compilò la Vita maior Sancti Franósa. Il suo confratello Duns Scoto continuò la sua linea teologica: nato nel 1265 in Scozia, nella sua breve ma fecondissima attività d’insegnamento a Parigi (1305-1307) e a Colonia (1307-1308), dove morì, egli diede un forte impulso alla teologia con il suo metodo perspicace e critico e con la sua speculazione cristocentrica e mariana (Immacolata Concezione di Maria come pre-redenzione operata da Cristo). Anch’egli accentua il primato della volontà, della libertà e dell’amore. Duns Scoto è stato definito «l’ultima grande figura dell’alta Scolastica» (Grabmann).
2. La nascita delle università Centri di studi teologici e di scienza furono a quell’epoca le università, che proprio allora cominciarono a sorgere. Intorno al
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1200 i magistri di diverse scuole si riunirono a Parigi in una pròpria corporazione - la cosiddetta universitas magistrorum - che ebbe ben presto approvazione ecclesiastica e statale come corporazione autonoma. Gregorio IX, nel 1231, la rese indipendente anche dal vescovo e le conferì numerosi privilegi. A Bologna, in quella stessa epoca, si sviluppò un 'universitas analoga, ma qui furono gli studenti i veri principali fondatori dell'istituto (universi־ tas scholarium). Nel periodo successivo molti istituti furono fondati in altri luoghi e furono chiamati semplicemente ‘Università'. In Italia, in breve volger di tempo, divennero celebri centri scientifici Padova (1222), Napoli (1224); in Francia Montpellier, accanto, tra le altre, a Bologna e Parigi; in Inghilterra Oxford e Cambridge; in Spagna Valencia e Salamanca (1220). In Germania le università furono fondate verso la metà del XIV secolo: Praga (1348), Vienna (1365), Heidelberg (1386), Colonia (1388). La massima autorità e la più alta frequenza di studenti l'ebbe Parigi: la «madre delle scienze». Intorno al 1258 Robert de Sorbon fondò in questa città una casa universitaria per gli studenti poveri di teologia. Anche se, in seguito, si aggiunsero numerose altre fondazioni, il nome ‘Sorbonne' superò tuttavia ben presto in importanza tutte le altre università parigine. La filosofia e la teologia ebbero soprattutto la loro culla a Parigi. A Bologna dominava invece la scienza del diritto. Tutti gli studenti, che in gran parte erano ancora piuttosto giovani, solo dopo aver compiuti gli studi alla facoltà filosofica (facultas artium), potevano scegliere una fra le tre massime facoltà: teologia, giurisprudenza o medicina, per dedicarsi allo studio di una specifica disciplina. A differenza delle scuole locali {studium particulare), le università si distinsero per il fatto che accoglievano scholares e magistri provenienti da ogni parte e perché i loro titoli erano validi ovunque nell'Occidente cristiano {studium universale). In esse risplendeva qualcosa dell'universalità propria allo spirito unitario occidentale. Accanto al sacerdotium e all'imperium, lo studium era considerato la terza «autorità del mondo» autonoma. Il canonico di Colonia Alessandro di Roes attribuì, nella sua ingegnosa parabola poetica del pavone, nel 1284, agli italiani il sacerdotiumy ai tedeschi Yimperium e ai francesi lo studium, come missione particolare al
servizio della comunità dei popoli occidentali. La promozione al dottorato in una di queste università significava essere equiparati alla nobiltà. La scienza nobilitava!
§ 33. Il papato da Innocenzo III a Bonifacio V ili Levoluzione, che già era iniziata con Gregorio VII, portò il papato con Innocenzo III al culmine della sua potenza temporale. Con Innocenzo «il papato raggiunse un'altezza vertiginosa e inso־ stenibile» (Ferdinand Gregorovius, 18211891)־. Il capo supremo e riconosciuto della cristianità occidentale non fu più !,imperatore, bensì il papa. Un improvviso cambiamento di scena si ebbe nel 1197, quando !,imperatore Enrico VI, proprio mentre era occupato a creare un potente impero, venne improvvisamente a morte, all'età di soli 32 anni, lasciando erede un figlio di appena due anni, Federico II. Alcuni mesi più tardi a Roma, all’anziano Celestino III (11911198)־ successe l’energico trentasettenne Innocenzo III (11981216)־, il più potente papa del Medioevo. In Germania scoppiarono lotte per la successione al trono, che portarono al crollo dell'impero. Nella chiesa invece, proprio allora, il papato potè consolidare completamente la sua posizione primaziale su tutta la chiesa occidentale e, al tempo stesso, esercitare su tutti gli stati europei un'autorità centrale, piena e assoluta.
1. Innocenzo III Quella che era stata la massima aspirazione della riforma gregoriana e che lo stesso Gregorio VU aveva chiesto nel suo Dictatus Papae (1075), si realizzò sotto Innocenzo 111. Egli possedeva, come supremo legislatore, giudice e amministratore, la plenitudo potestàtis ed esercitò questa eccezionale pienezza di potere su tutta la chiesa, con sicurezza sovrana. Ora, poiché questa chiesa coincideva con la cristianità occidentale, anche i destini politici dei popoli non potevano essere esclusi dal governo di Innocenzo III. Il con-
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cetto agostiniano della città di Dio, rafforzato dalla donazione di Costantino, che allora era generalmente ritenuta autentica, fece apparire la chiesa come il vero imperium romanum e accreditò la teoria che al papato spettasse il potere assoluto sul mondo. Questa idea era, del resto, radicata profondamente nel pensiero religioso politico del tempo e nasceva dal senso di responsabilità cristiana, cui il papato uscito dalla riforma si sentiva chiamato nei confronti dell’Occidente. La christianitas, il populus christianus delTOccidente, costituiva, infatti, la comunità soprannaturale, e per ciò stesso sopranazionale, dell’intero popolo della chiesa. Il papa, in quanto caput christianitatis, divenne quindi il capo e la guida del mondo occidentale, composto da molti popoli, ma tutti uniti nella stessa fede. La figura di Innocenzo IH, quale ci appare oggi alla luce delle 111־ time ricerche storiche, è quella di un uomo profondamente religio־ so, ricco di grande pietà interiore, dedito a una severa ascesi che, nonostante il suo chiaro destino di dominatore e di imperatore, resto sempre e soprattutto un sacerdote e un pastore. Come vicarius Christi egli svolse il suo ministero operando responsabilmente di־ nanzi a Dio. Da lui in poi questo titolo di vicarius Christi fu assunto da tutti i papi per caratterizzare il loro altissimo ministero. Lotario di Segni nacque nel 1160 da un’antica famiglia comitale. Compiuti i suoi studi di teologia e di diritto canonico a Parigi e a Bologna, fu accolto dallo zio Clemente III (11871191 )־nel collegio cardinalizio. Di figura piccola e leggiadra, ma cagionevole di salutc, Innocenzo III seppe unire mirabilmente la sua vasta dottrina con i doni di una eccezionale forza spirituale, di un acume, di una prudenza e di una moderazione straordinari. Soprattutto però egli possedeva una concezione altamente spirituale del ministero del papato universale. Ben lontano dall’essere un fanatico ecclesiastico 0 un puro papa politico, egli mostrò un grande animo aperto a tutti 1 problemi della sua epoca, carica di tensioni e di contrasti in ogni campo: culturale, politico, sociale e religioso. Con intima e profon־ da coerenza, forte della sua autorità, egli compose tutte le opposte tensioni nell’armonia di un principio d’ordine unitario, che, date le circostanze storiche del momento, poteva solo identificarsi con il papato.
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Se Innocenzo IH intervenne nelle questioni temporali, lo fece sempre per un preciso senso di responsabilità che nasceva dalla convinzione che le cose di questo mondo dovevano sottomettersi all’ordine voluto da Dio e che i re e i principi erano tenuti egualmente a piegarsi alla giustizia di Dio. Il mondo gli appariva come una gerarchia, vale a dire come un ‘ordine sacro’. La sottile distinzione fra le cose puramente politiche e quelle puramente religiose, fra chiesa e stato, non si era ancora tanto perfezionata da permettere di evitare interferenze e abusi reciproci. H papa, ratione peccati, si sentiva perciò sempre autorizzato e persino obbligato a intervenire laddove quest’ordine era stato turbato da colpe morali o da ingiustizia oggettiva. Quale caput christianitatis egli era, al tempo stesso, anche arbiter mundi, giudice del mondo per tutte le questioni controverse. Così, Innocenzo III, dopo la duplice elezione imperiale del 1198, intervenne nella lotta apertasi per la successione al trono tedesco. Egli non rivendicava a sé la decisione sull’elezione imperiale, bensì richiedeva esclusivamente di esprimere un giudizio sulle qualità morali dei candidati al trono. Rifiutò così, in un primo tempo, di approvare l’elezione di Filippo di Svevia, perché riteneva il figlio minore del Barbarossa un uomo dispotico e perché considerava il disegno svevo di annettere all’impero l’Italia meridionale e la Sicilia riprovevole, pericoloso e ingiusto. Quando tuttavia Filippo, dopo la vittoria conseguita sul candidato avversario Ottone IV, si dimostrò equilibrato e diede garanzie precise sulla sua politica verso la Sicilia, Innocenzo fu subito pronto a far pace con lui. Dopo che Filippo fu assassinato (1208), Ottone IV ottenne il riconoscimento della carica imperiale e, poiché anch’egli sembrò disposto a fare alcune concessioni, Innocenzo III non esitò a coronarlo imperatore (1209). Ma Ottone non mantenne la sua parola e, nel 1210, riprese la politica sveva in Sicilia. Profondamente deluso per questa ‘ingiustizia’, il papa gli negò i diritti sulla corona tedesca e favorì invece le pretese al trono di Federico II, che frattanto aveva raggiunto la maggiore età, tanto più che quest’ultimo aveva rassicurato il papa, sotto giuramento, che non avrebbe mai tentato di unire la Sicilia all’impero. Che cosa induceva Innocenzo III ad attribuire tanta importanza alla politica dell’imperatore tedesco in Italia meridionale? Il prò-
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blema non era di ordine puramente territoriale, ma riguardava la chiesa intera e perciò aveva importanza universale. L’unione della Sicilia al regno tedesco avrebbe trasformato il papa in un vescovo subordinato dell'impero e Innocenzo avrebbe così perduto quel potere di fronte all’impero universale che gli veniva proprio dall’essere indipendente. D tipico dualismo occidentale avrebbe avuto fine. Innocenzo riteneva invece che il papato avrebbe potuto adempiere la sua missione universale solo se l’indipendenza e la sovranità dello stato della chiesa gli avessero lasciato la necessaria liberta d’azione. Il papa aveva d’altronde un concetto personalissimo della struttura da dare agli stati europei. Alla supremazia della sfera religiosa su quella temporale doveva corrispondere un ordinamento dei popoli più alto, posto direttamente sotto la guida del pontefice. L’idea della sovranità assoluta pontifìcia sui popoli cristiani d’Ocadente si conformava del resto perfettamente alla concezione feudale del Medioevo. Non si trattava, tuttavia, di costituire una ierocrazia. La christianitas, al cui vertice era il papa, non doveva essere uno stato; essa non era «affatto una vera e propria societas, bensì la relazione, condizionata dall’epoca, del papato con il mondo cristiano del tempo» (Friedrich Kempf). Ciò non escludeva affatto la sovranità dei re secolari all’interno di questa unità ordinata, poiché la pretesa di governo da parte del papa aveva solo un carattere indiretto. Il papa esigeva, infatti, esclusivamente che fossero riconosciute le principali norme della fede cristiana e l’autorità morale del papato. Il dualismo fu pertanto salvato. Innocenzo HI si adoperò sistematicamente per edificare su saide basi la supremazia papale. L’occasione gli fu offerta anzitutto dalla questione sorta per i diritti sulle terre di Sicilia. L’imperatrice Costanza, già nel 1198, aveva riconosciuto la supremazia feudale del papa. Anche i re d’Inghilterra, d’Aragona, di Portogallo, di Danimarca, di Polonia, di Boemia, di Ungheria, di Dalmazia e di altre terre ancora più piccole ricevettero in seguito i loro paesi in feudo dal papa. La tutela del diritto e della pace, antichi compiti imperiali, passarono quindi al papato e sorse così un insieme di personalità al seguito del papa che si basava interamente su questa salda autorità morale.
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All’interno della chiesa Innocenzo, conseguentemente, fece valere il principio del primato, intromettendosi energicamente nella elezione dei vescovi non canonici e affidando le cosiddette causae maiores alla curia di Roma. Opportune riforme delle autorità amministrative, del monacheSimo e del clero curarono il mantenimento dell’ordine. Per il potere connesso al magistero pontificio, vale a dire ex officio, il papa decideva sulle misure da prendere contro i prelati e i vescovi indegni, chiamandoli a giudizio al suo tribunale d’inquisizione. Verso gli eretici, Innocenzo III si mostrò, almeno in un primo tempo, abbastanza tollerante e indulgente. Solo quando i suoi pacifici tentativi di convertirli naufragarono e dopo che il suo legato Pietro di Castelnau dell’ordine cistercense fu assassinato dai catari nel gennaio 1208, nella Francia meridionale, egli indisse la crociata del 1209. Il terribile, vergognoso e cruento svolgimento di quest’ultima non può essere imputato direttamente al papa, bensì al fanatismo del legato pontificio Arnaldo Amalrici e del conte Simone di Montfort. Fu un grande merito di Innocenzo III l’aver intuito, con sguardo lungimirante, le esigenze e l’importanza dei movimenti pauperistici sorti all’intemo della chiesa. Con particolare amore egli si interessò degli umiliati lombardi (1201) e fondò l’associazione dei 4poveri cattolici’ (1208). Ma, soprattutto, accolse benignamente Francesco d’Assisi, quando questi nel 1209/10 si recò a Roma per chiedere la conferma papale alla sua piccola comunità. Gli ordini mendicanti diventarono presto i più forti baluardi della chiesa. Nonostante tutto il dispiegarsi della sua potenza, Innocenzo ebbe, infatti, nell’intimo del suo animo qualcosa in comune con essi: il distacco interiore dalla ricchezza e dal fasto, da cui si tenne sempre lontano. La vetta del suo pontificato fu la convocazione del quarto concilio lateranense, apertosi nel novembre del 1215 con circa 500 vescovi e 800 abati. Esso non rappresentò soltanto un imponente consesso di tutto l’Occidente cristiano, ma segnò anche un momento di importanza straordinaria della vita ecclesiale del Medioevo. Le decisioni riformiste da esso emanate contribuirono in larga misura al rinnovamento interiore e al consolidamento della chiesa, ed ebbero effetti che si fecero sentire più tardi e a lungo, nei concili
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provinciali e nei sinodi diocesani. La definizione della dottrina della transustanziazione e le disposizioni sulla confessione e la comunione pasquale ebbero durata permanente.
2. Lultima lotta tra papato e impero svevo Purtroppo, questo culmine coincise anche con l'inizio di un nuovo corso storico. Innocenzo morì subito dopo la conclusione del concilio (16 luglio 1216) e i suoi successori non poterono mantenere la posizione che il papato aveva acquisito con lui, soprattutto perché essa era gravata da un'ipoteca politica troppo pesante. Il dominio del mondo non potrà mai essere il compito della chiesa, anche se essa dovrà sempre preoccuparsi che la vita dei popoli sia guidata dai principi religiosi e morali del cristianesimo. La religio־ ne ha sempre da soffrire quando si mescola con la politica e il ministero supremo della chiesa, quando non sia esercitato unicamente per fini religiosi e persegua mete temporali, perde sempre la stima e !,autorità di cui godeva. Con i successori di Innocenzo HI, le grandi idee sulla chiesa universale passarono in seconda linea, tanto che, alla fine, i problemi politico-territoriali e il mantenimento e !,ampliamento dello stato pontificio finirono spesso con il prevalere, nel tardo Medioevo, nell'epoca rinascimentale e al tempo della Riforma, su quelli della chiesa universale. Nell'ultima grande lotta decisiva che ebbe luogo poco dopo fra regnum e sacerdotium, fra l'imperatore Federico II e i papi, il pròblema di fondo fu appunto quello di decidere a quale delle due potenze universali spettasse la supremazia. Quando il giovane imperatore riprese la tradizionale politica sveva in Sicilia e, invece di iniziare la crociata cui si era impegnato, si ostinò a perseguire i suoi piani per annettersi l'Italia meridionale, il che costituiva per lo stato pontificio una grave minaccia, Gregorio IX lo colpì nel 1228 con la scomimica. Federico, pur essendo scomunicato, partì per la crociata (1228/29), che ebbe un successo notevole, perché l'imperatore riusci a intavolare con il sultano Al-Kamil trattati grazie ai quali la Terra Santa fu restituita ai cristiani. Nel 1230 Federico venne perciò prosciolto dalla scomunica, ma ben presto riaffiorarono le antiche divergenze fra l'imperatore e il papa. Federico riprese l'antica poli-
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dea imperiale sveva in Sicilia e si profilò nuovamente il pericolo di un accerchiamento dello stato pontificio. L’imperatore, scomunicato una seconda volta (1239), avanzò da Napoli verso Roma (1241): il suo scopo era di conquistare la città per farne la residenza del suo impero universale. Se fosse riuscito nel suo intento il papato universale sarebbe stato liquidato per sempre e ridotto a un semplice vescovato dell’impero; per il papato fu quindi questione di vita o di morte impedire l’attuazione di questo disegno imperiale. Innocenzo IV (1243-1234) comprese subito il pericolo. Negli anni che seguirono le due parti si scontrarono con estremo accanimento. Federico venne scomunicato una terza volta dal primo concilio di Lione (1245). Un diluvio di scritti polemici favorì la guerra. Apparve sempre più chiaro che erano in gioco questioni fondamentali, concernenti l’ordinamento stesso del mondo occidentale, e Innocenzo, per ovviare una volta per tutte al pericolo di essere accerchiato dagli svevi, cedette l’Italia meridionale, la Sicilia e Napoli in feudo a Carlo d’Angiò. Frattanto l’impero, dopo la morte di Federico II (1250), era caduto di nuovo in una tremenda crisi. In Germania, la duplice elezione imperiale aveva posto in serio pericolo la pace e, in Italia, Corrado IV (1250-1254) fu costretto a combattere per conservare la sua eredità sveva. Quando egli morì - giovanissimo, a ventisei anni - il suo fratellastro Manfredi si adoperò per assumere la reggenza italiana in nome di suo nipote Corradino, !,‘ultimo svevo’, che allora aveva solo due anni. Dopo la morte di Manfredi (1266), il giovanissimo Corradino tentò audacemente, nell’autunno 1267, di riconquistare il suo regno d’Italia meridionale, ma, a Tagliacozzo, fu battuto da Carlo d’Angiò e decapitato, insieme ad altri dodici suoi fedeli, a Napoli, il 29 ottobre 1268. La dinastia sveva ebbe con lui triste fine e la potenza imperiale fu crudelmente distrutta. Ma anche il papato subì un durissimo colpo. La sua era stata, infatti, una vittoria di Pirro e, da allora, la sua posizione universale cominciò a vacillare. Lo stato pontificio aveva ormai perduto ogni sostegno e non potè più opporsi allo sviluppo dei grandi stati nazionali, che ormai avanzavano le loro pretese di indipendenza e così il disfacimento della comunità occidentale, ormai in atto, si intensificò sempre più. La Francia divenne la potenza dominante
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d’Europa e, in breve volgere di tempo, il papato fu costretto a cedere la sua posizione di supremazia al regno nazionale francese e venne attratto sempre più vergognosamente nell’orbita degli inte־ ressi della Francia.
3. Bonifacio V ili D tentativo di Bonifacio V ili (12941303 )־di rivendicare al papato la suprema guida del mondo apparve, in un contesto politico interamente mutato, un curioso anacronismo. Il papa possedeva indubbiamente una forte natura dominatrice e un’altissima coscienza del suo potere, ma era uomo privo di vera profondità reli־ giosa e incapace di cogliere la realtà della vita e il suo desiderio di fondare uno stato occidentale sotto la sua diretta guida apparve quindi una pura utopia. Egli non considerò il danno gravissimo che aveva subito il papato durante tutto il corso delle sue lotte pòlitiche con l’impero e non seppe valutare quanto fosse diminuita la sua autorità morale. Quando perciò Bonifacio volle far valere di fronte a Filippo IV il Bello, re di Francia (12851314)־, che seguiva un proprio disegno di dominio mondiale, la supremazia spirituale e politica del papato e affermò, nella bolla Unam Sanctam (1302), che l’obbedienza al papa era assolutamente necessaria alla salvezza, richiamandosi in questo alla «teoria delle due spade» - secondo la quale Cristo in Le 22,38 avrebbe affidato entrambi i poteri, quello spirituale e quello temporale, solo alla chiesa - si giunse a una lotta aperta che ebbe gravissime conseguenze. Filippo rispose alla scomunica del papa facendo appello a un concilio contro Bonifa־ ciò W I e con un manipolo di soldati, nel settembre 1303, fece prigioniero il pontefice e lo rinchiuse nel castello papale di Anagni. E vero che, dopo solo due giorni, i cittadini di Anagni liberarono il papa, ma l’atto di forza del re francese manifestò di per sé la totale impotenza e l’assoluta irrilevanza politica del papato. Il papa, che si era rivelato del tutto incapace di opporsi alla volontà di Filippo, non sopravvisse a lungo al crollo dei suoi sogni di dominio sul mondo e poche settimane dopo si spense, a Roma. Con Bonifacio V ili ebbe anche definitivamente termine la supremazia universale di cui il papato aveva goduto nel Medioevo.
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§ 34. U ‘esilio di Avignone’ e il grande scisma d’Occidente Dall'attentato di Anagni a Bonifacio VTII Pinfluenza francese sul papato divenne visibilmente sempre più forte. Sotto la pressione della corona di Francia fu accolto nel sacro collegio un gran numero di cardinali francesi e, quale logica conseguenza, anche i papi di questo tempo furono francesi. Già Clemente V (13051314 )־ritenne che non fosse strettamente necessario per un pontefice risiedere a Roma, si fece incoronare a Lione, restò in Francia e dopo qualche esitazione, nel 1309 prese dimora ad Avignone, dove risiedettero anche i suoi successori.
1. Il papato ad Avignone L'aver rinunciato alla città di Roma e il trasferimento della sede pontificia ad Avignone erano chiari sintomi che ormai l’equilibrio del potere si era spostato. Alla ‘città eterna’ non era, infatti, soltanto intimamente connessa, per una tradizione secolare ormai durevolmente acquisita nella coscienza dei popoli, l'idea della successione di Pietro alla sede episcopale romana e quella del primato, ma anche l'immagine dell'universalismo occidentale, fondato sull’impero romano. Avignone, invece, gravitava completamente nell’orbita del regno francese e non bastò certo a tranquillizzare gli
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animi inquieti il fatto che essa, nel 1348, fosse stata acquistata, con i territori a essa adiacenti, dal papa Clemente VI e divenuta per ciò stesso un territorio autonomo del papato. Avignone era pur sempre interamente circondata dal regno di Francia e isolata ermeticamente da tutto il resto del mondo. Le lotte accanite che i pontefici del xn e del xm secolo avevano intrapreso contro la politica sveva in Sicilia per difendere la libertà dello stato della chiesa dall'accerchiamento e dalla supremazia politica dell'imperatore, lotte che erano state coronate dal successo, apparvero ora completamente inutili, per il nuovo atteggiamento assunto dai pontefici francesi nei confronti del regno di Francia. Non solo essi avevano rinunciato alla loro libertà di decisione, ma, quel che è peggio, infirmarono pericolosamente dinanzi agli occhi del mondo la loro autorità suprema, imparziale, di chiesa universale. I pontefici di Avignone furono spesso dei poveri strumenti privi di volontà nelle mani dei sovrani francesi, ricchi di smisurate ambizioni e affamati di potere, e divennero lo zimbello della politica intemazionale. La concezione unitaria della chiesa universale si ruppe e, al termine dell'esilio avignonese' (1309-1378), vi fu il grande scisma occidentale con il quale cominciò, per il papato e per la chiesa, un'epoca di crisi terribili. Già Clemente V dovette assecondare il desiderio di vendetta del re e fu costretto ad aprire il processo contro il defunto papa BoniAncor più riprovevole fu l'azione intrapresa, per desifacio derio di Filippo il Bello, contro i templari. L'ordine, dopo la fine delle crociate, si era stabilito in Francia e le ricche proprietà e i privilegi di cui godeva, che erano stati tanto utilmente posti al servizio delle crociate e di cui ora non ci si poteva più servire, erano come una spina nel fianco del re di Francia. Dal 1307 questi mise in opera tutti i mezzi a sua disposizione e ogni sorta di intrighi e di calunnie per diffamare i templari; li accusò di eresia e di lussuria, e il 13 ottobre 1307 fece arrestare in Francia circa 2.000 templari impossessandosi dei loro beni. Riuscì poi, con atroci torture, a strappar loro confessioni forzate e dichiarazioni di colpe inesistenti, di cui si servì per mettere sotto accusa i cavalieri dell'ordine. Il debole Clemente V non fece niente per salvare i templari. Dopo un'iniziale esitazione, egli si mostrò, infatti, del tutto arrendevole ai voleri del
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re, convalidò le accuse di eresia e il 22 marzo 1312, al concilio di Vienne, contro la volontà della maggioranza, chiese la soppressione dell’ordine. Quindi, senza batter ciglio, lasciò che Filippo e i suoi principi si appropriassero dei beni dell’ordine, benché questi fossero stati formalmente destinati ai giovanniti. E, così anche in seguito, quando Filippo infierì contro i cavalieri templari e mandò al rogo nel 1314 a Parigi, come eretico, il gran maestro dell’ordine, Giacomo di Molay, nonostante le sue proteste di innocenza, e fece bruciare altri numerosi cavalieri, il papa non fece nulla per impedirglielo. L’influenza francese ebbe, durante il pontificato di Giovanni (13161334)־, ripercussioni fatali sulla politica pontificia ver־ so l’impero tedesco. Con un pretesto evidentissimo, nel 1323 il pa־ pa depose dal trono l’imperatore Ludovico il Bavaro (13141347 )־e assunse un atteggiamento ostile verso di lui. All’origine di questo conflitto, l’ultima lotta di importanza storica scoppiata fra sacerdo־ tium e imperium, non stavano più grandi ideali, bensì solo e unicamente meschini interessi politici. Il papato si rese patentemente complice degli interessi francesi e proprio questo suo servilismo fu per la Germania motivo di amarissime considerazioni. La lotta, tuttavia, fu accanita ed ebbe sviluppi che si rivelarono fatali per lo stesso papato. Per la prima volta nella storia il contrattacco imperiale non si rivolse più contro un singolo papa, bensì contro il papato in quanto tale, contro l’istituzione stessa del papa־ to. Nel 1324 Ludovico fece appello a un concilio ecumenico contro Giovanni XXII e tutti gli avversari del papa convennero alla sua corte. Due dottori parigini, fuggiti dalla Francia, Marsilio da Padova (circa 12701342 )־e Giovanni di Jandun (circa 12851328)־, consegnarono nel 1326 a Regensburg all’imperatore uno scritto rivoluzionario, intitolato Defensor pacis, nel quale essi mettevano in dubbio l’ordinamento gerarchico della chiesa e chiedevano una struttura democratica. Essi negarono inoltre l’origine divina del primato e attribuirono al popolo il potere sovrano nella chiesa. La chiesa, così dichiaravano, è la comunità di tutti i credenti in Cristo; una priorità del clero sui laici non esiste. Né il papa, né i vescovi, né i religiosi hanno ricevuto da Cristo una particolare funzione indipendente; essi adempiono le loro funzioni esclusivamente come
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incaricati della congregatio fidelium\ ed è appunto questa che è rappresentata dal concilio ecumenico. Il più alto organo è quindi il concilio, che rappresenta finterò popolo della chiesa. Questa concezione della chiesa, radicale e rivoluzionaria, faceva del papa un puro organo esecutivo del concilio; lo subordinava a quest’ultimo, costringendolo a obbedire alle sue decisioni e conferiva al concilio stesso il diritto, in ogni tempo, di chiedergli conto dei suoi atti ed eventualmente di destituirlo dal suo ufficio. Questa teoria, che subordina essenzialmente il papa al concilio, è comunemente designata con il nome di ‘conciliarismo’ e le sue nocive conseguenze si faranno sentire anche in epoca più tarda. Anche il sistema finanziario che la curia sviluppò ad Avignone diede adito a critica. Questo sviluppo finanziario era in parte connesso all’esigenza, per la curia, di procacciarsi introiti che risanassero il passivo sempre più alto dello stato pontificio e, in parte, anche alla nuova situazione economica sorta in quest’epoca di transizione, in cui si passò da un regime di produzione naturale a un’economia monetaria che, generalmente, si effettuò nei fiorenti empori commerciali. Tmetodi e le misure, alquanto aberranti, usati dal papato avignonese, le forme e le vie perseguite per riscuotere nuove imposte e tributi con i quali poter far fronte alle continue esigenze finanziarie, furono i massimi fattori di disordine e di scandalo. V’erano tasse che venivano riscosse con dispense, privilegi e altre grazie pontifìcie, che odoravano assai spesso di simonia. A queste si aggiungevano le tasse per la concessione di prebende pontificie (provvigioni), di diritti di riserva e di commende; le tasse che gli arcivescovi dovevano pagare per la concessione del pallio; le annate (cioè a pagamento dei frutti del primo anno dei benefici concessi) e gli spogli, vale a dire i beni dei prelati deceduti, ora rivendicati dalla curia. E, ancora, i sussidi per le crociate, che continuarono a essere richiesti anche se da molto tempo ormai non si facevano più crociate; analogamente si continuò nella riscossione dei censi feudali e delle tasse dai paesi divenuti vassalli sotto Innocenzo III e di molti altri tributi. E poiché questi beni venivano sfacciatamente estorti sotto la costante minaccia di censure e di scomuniche, l’ostilità verso la curia aumentò sempre più. L’animosità, che
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si fece sentire soprattutto in Germania, dove !,indignazione crebbe ancor più per !,atteggiamento antitedesco del papato di fronte a Ludovico il Bavaro, si acuì nel corso dei decenni successivi, trovò nel XV secolo la sua eco più alta nei Gravamina nationis germanicae e produsse infine i suoi effetti, nel XVI secolo, nella grande aposta־ sia dell’epoca della Riforma. L’esilio avignonese, valutato nel suo complesso, arrecò quindi immensi danni al papato. Esso scosse la fiducia di cui esso aveva goduto all’epoca di Innocenzo III e provocò la difficile crisi storica che ebbe come sue dirette conseguenze il grande scisma d’Occi־ dente (13781417 )־e l’epoca del conciliarismo.
2. Lo scisma d'Occidente Lo scisma scoppiò dopo la morte di Gregorio XI (13701378)־. Questi, turbato dalle gravi minacce profetiche di Caterina da Siena (13471380 )־e di Brigida di Svezia (13031373־, a Roma) e spinto anche dalle condizioni caotiche in cui versava lo stato pontificio, aveva fatto ritorno a Roma, nel 1377. Profondamente deluso egli aveva tuttavia già deciso, nel 1378, di abbandonare la città, quando fu improvvisamente sorpreso dalla morte. Il conclave per l’elezione del futuro papa, dopo più di 70 anni, si sarebbe tenuto nuovamente nella città eterna. Ma poiché undici dei sedici cardinali erano francesi, i romani avevano tutti i motivi per temere che sarebbe stato eletto un nuovo papa francese. Per impedirlo, essi esercitarono una forte pressione sugli elettori in Vaticano. Il giorno prima dell’elezione orde armate penetrarono nel palazzo del conclave e in־ giunsero, sotto pena di gravi minacce, che fosse eletto un papa romano. La scena si ripetè il giorno stesso dell’elezione. I cardinali compresero che sarebbero potuti uscire sani e salvi dal conclave solo dopo aver acconsentito al desiderio dei romani e così, l’8 aprile 1378, pur senza aver scelto proprio un romano, elessero un papa italiano: l’arcivescovo di Bari, che prese il nome di Urbano VI. Su־ bito dopo abbandonarono, quasi in fuga, la città per porsi al sicuro. Ben presto, comunque, e precisamente il 18 aprile, per la festa dell’incoronazione di Urbano, i cardinali fecero ritorno a Roma e prestarono giuramento di fedeltà al nuovo pontefice. Ma tre mesi
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più tardi, gli undici cardinali francesi e l’unico cardinale spagnolo - Pedro de Luna, il futuro papa di Avignone Benedetto XIII (13941417 )־- abbandonarono nuovamente la corte di Urbano VI e, dichiarata nulla l’elezione di quest’ultimo, perché estorta con la forza, elessero a Fondi, il 20 settembre 1378, un altro papa francese: Clemente VII (13781394)־, che si insediò di nuovo ad Avigno־ ne. Anche i tre cardinali italiani - il quarto era nel frattempo dece־ duto - abbandonarono Urbano e passarono dalla parte di Clemente. La chiesa si trovò quindi ad avere due papi. Questa duplice elezione fu indubbiamente la conseguenza di macchinazioni egoistiche e nazionalistiche francesi, ma non va tuttavia dimenticato che essa fu resa possibile anche per l’indignazione suscitata dalla tumultuosa elezione di Urbano VI. Non è affatto possibile parlare di un’elezione veramente libera. Anche la successiva approvazione, durante la cerimonia dell’incoronazione, fu estorta e ottenuta con gli stessi mezzi violenti e, questa volta, per opera dello stesso Urbano VI. Se dunque tutti gli elettori di Urba־ no VI dichiararono invalida l’elezione pontificia, perché avvenuta solo «per effetto di grave paura e di costrizione», non è possibile negare che anche la successiva approvazione sia stata estorta a forza. Stando così le cose, non appare possibile dimostrare, con sicurezza, la validità dell’elezione di Urbano VI e perciò non è possibi־ le neppure sostenere tranquillamente l’invalidità dell’elezione di Clemente VII. Va altresì aggiunto che Urbano VI, dopo Pintronizzazione, si dimostrò talmente dispotico, crudele e fanatico, che non solo i cardinali, ma anche gli stessi funzionari della sua corte e i suoi diretti seguaci ritennero che l’improvvisa ascesa alla cattedra di Pietro avesse sconvolto la sua ragione, fino a renderlo folle. Il di־ ritto canonico, però, dichiarava invalida l’elezione al papato di uno squilibrato. Il turbamento provocato dalla duplice elezione fu tanto grande e generale che già i contemporanei manifestarono di fronte a questo evento singolare il loro profondo smarrimento. Urbano VI non apparve, infatti, malato di mente in modo tanto inequivocabile che la sua alienazione si manifestasse palesemente e lo stesso fatto della coercizione esercitata sull’animo dei cardinali in occasione della sua elezione sfuggiva, nei suoi precisi termini, al giudizio di chi
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non vi aveva direttamente partecipato. Era del resto ben nota la sete di potere dei cardinali e ciò rafforzava il sospetto che essi avessero voluto, in un secondo tempo, sbarazzarsi di un papa che ai loro occhi si era rivelato inopportuno. Grandi figure di santi si schierarono a favore dell’uno o dell’altro pontefice. Caterina da Siena decise di farsi garante dell’assoluta legittimità dell’elezione di Urbano VI e, in modo altrettanto energico, l’incorruttibile grande predicatore Vincenzo Ferreri si schierò a favore della validità di quella di Clemente VII. Entrambi i papi erano del resto assolutamente e profondamente convinti della loro personale legittimità e dell’illegalità dell’elezione del rivale, tanto che fu per essi un grave dovere di coscienza difendere con ogni mezzo il loro papato e combattere l’avversario. Quando, infatti, in tempi successivi, fu chiesto loro di rinunciare volontariamente alla dignità papale per permettere di ristabilire l’unità della chiesa, essi risposero con il non possumus, quasi che per la loro coscienza questa rinuncia significasse un vero e proprio tradimento della legittimità e della validità della successione apostolica della cui ininterrotta tradizione essi si sentivano responsabili dinanzi a Dio. Questa convinzione spiega la durata e l’ostinazione dello scisma, che continuò per ben quarantanni e che apparve quasi insanabile. Tanto Urbano VI quanto Clemente VII istituirono le loro rispettive curie ed ebbero, alla loro morte, dei successori. La serie dei pontefici romani comprende: Urbano VI (1378-1389), Bonifaciò IX (1389-1404), Innocenzo VII (1404-1406) e Gregorio XH (1406-1415); la serie di Avignone è invece costituita da Clemente VII (1378-1394) e da Benedetto XIII (1394-1417). Le conseguenze dello scisma furono terribili. L’intera cristianità si divise in due campi ostili, in due obbedienze l’una contro l’altra armata e, poiché ogni pontefice scomunicò i seguaci del suo avversario e nessuno fu escluso da questa condanna, tutta la cristianità si trovò di fatto scomunicata. Lo scisma si allargò a tutti i paesi, divise diocesi e parrocchie, originò discordie e lotte; e, giacché entrambi i pontefici nominarono i loro candidati, a ogni sede e a ogni beneficio ecclesiastico aspirarono ben due ministri, con gravissime conseguenze per la chiesa, che in quel tempo dovette sopportare una delle crisi di governo più difficili della sua intera esistenza storica.
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Finalmente, !,università di Parigi, nel 1394, indicò tre vie per superare lo scisma. La via cessionis (volontaria abdicazione), la via compromissi (sottomissione dei papi a un tribunale arbitrale) e la via concila (decisione affidata a un concilio ecumenico).
§ 35. H concilio di Costanza e il conciliarismo 1. Preistoria Dopo aver inutilmente tentato, per ben trentanni, di ristabilire l’unità attraverso la volontaria rinuncia al soglio pontificio o mediante un compromesso tra i due papi, si fece sempre più strada l’idea che solo un concilio ecumenico avrebbe potuto risolvere le complesse questioni legate allo scisma e la dottrina del diritto canonico, già da molto tempo, aveva indicato questa via come la più adatta in tal caso. Da un lato, si andava sempre più affermando la regola, espressa fin dal primo periodo del Medioevo, che il papa non poteva essere giudicato da nessuno (prima sedes a nemine iudi־ catur) e che era responsabile solo dinanzi a Dio. Di questa tesi ci si era valsi soprattutto contro le destituzioni dei pontefici operate dagli imperatori (a Sutri nel 1046), ma anche contro !,arbitrio delle famiglie nobili romane durante il saeculum ohscurum\ e nel periodo che vide Tascesa massima del papato, all’epoca delTaffermazione dell’assoluto primato pontificio da parte di Gregorio VII (Dietatus Papae, 1075), di Innocenzo III, fino all’epoca di Bonifacio V ili, essa rese la posizione del papa sempre più intangibile. D ’altro lato, si era pur coscienti che anche un papa, in quanto persona privata, poteva cadere in eresia, o ammalarsi di mente e, a questo scopo, si aggiunse alla norma giuridica la clausola d’eresia: se un papa cade in eresia, così si argomentò, deve esistere un collegio che constati questo stato di fatto e ne tragga le necessarie conseguenze. Un eretico non può in nessun modo essere, infatti, un vero papa; se dunque un papa si dimostra eretico, per ciò stesso non è più papa e deve essere quindi rimosso dal trono papale. L’accertamento e la constatazione di eresia spetta al concilio ecumenico e ai cardinali, e
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anche all’imperatore, in quanto sovrano protettore della chiesa romana, compete in tal caso il dovere di convocare e di dirigere questo stesso concilio. Persino severi canonisti di sentimenti dichiaratamente papali, quali i ‘papalisti’ alla corte di Bonifacio V ili, Egidio Romano (t 1316), che cooperò in modo decisivo alla redazione della bolla Unam Sanctam, o Agostino Trionfo (t 1328) e Alvaro Pelagio (t 1349), aderirono a questa tesi, che fu dichiarata generalmente opportuna e giusta. A dire il vero, la convocazione di un concilio ecumenico senza il papa non era immaginabile. A differenza degli otto concili ecumenici del primo millennio, che furono tutti convocati in Oriente dagli imperatori bizantini, nel Medioevo si era, infatti, istituito un nuovo tipo occidentale di concilio. Gregorio VII, nella 16a norma del suo Dietatus Papae, aveva riservato esclusivamente al papa il diritto di convocare i concili ecumenici. Il primo concilio lateranense del 1123 fu quindi convocato da Callisto II; e fu un concilio ‘ecumenico’, riunitosi per convalidare per l’intera chiesa il concordato di Worms. Il secondo concilio lateranense, del 1139, servì a Innocenzo II per porre fine allo scisma di Anacleto. Il terzo concilio lateranense fu convocato nel 1179 da Alessandro III. Il quarto concilio lateranense fu presieduto da Innocenzo III, nel 1215, e fu di grandissima importanza per la riforma dell’intera chiesa. Il concilio ecumenico seguente fu tenuto da Innocenzo IV nel 1245 a Lione; in esso fu destituito l’imperatore Federico II. Nel secondo concilio di Lione, del 1274, si discusse sotto la guida di Gregorio X sulla preparazione di una crociata e sull’unione con la chiesa d’Oriente; vi fu emanato inoltre il celebre regolamento del conclave, in cui si stabilì che dieci giorni dopo la morte del papa, sul luogo stesso in cui questi era deceduto, i cardinali dovevano riunirsi in rigoroso isolamento (conclave) per l’elezione del nuovo pontefice. Per sollecitare i cardinali a un’elezione rapida fu deciso di diminuire progressivamente il loro nutrimento. Un altro concilio ecumenico ebbe luogo nel 1311, a Vienne, per pressione del regno francese e manifestò già quelle debolezze che caratterizzeranno il papato di Avignone (processo dei templari). Il papa continuò sempre a essere l’organizzatore dei concili; un concilio senza papa era, infatti, del tutto impensabile.
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È quindi comprensibile che per molto tempo si evitò di procedere per via conciliare contro i due papi e quando, infine, tredici cardinali di entrambe le obbedienze si accordarono per convocare contro la volontà dei loro rispettivi capi un concilio ecumenico per il 25 marzo 1409 a Pisa, il rischio apparve grande. Ciò non impedì tuttavia che quasi cento vescovi si riunissero e che oltre cento altri vescovi inviassero dei loro rappresentanti con pieni poteri; inoltre furono presenti a Pisa plenipotenziari provenienti da più di duecento abbazie, capitoli del duomo e università. Il consesso trovò il coraggio di fare il processo ad ambedue i papi, che furono dichiarati nemici dell'unità della chiesa, vale a dire eretici, e deposti. Il concilio elesse poi un nuovo papa, che si chiamò Alessandro V, ma Fanno seguente questi morì e fu chiamato a succedergli il famigerato cardinale Baldassare Cossa, che prese il nome di Giovanni XXIII. E poiché, stando all’interpretazione giuridica dell’epoca, il concilio di Pisa e le sue decisioni avevano piena validità, il suo operato non può essere contestato. Alessandro e il suo successore furono dunque considerati pontefici legittimi al pari degli altri due papi. Ma poiché né il papa romano Gregorio XII, né il suo antagonista avignonese Benedetto XHI si lasciarono deporre, si ebbero disgraziatamente ben tre papi, ognuno dei quali poteva in pari modo essere considerato legittimo o illegittimo. In verità, essendo stati destituiti Gregorio e Benedetto secondo le regole canonistiche, il papa conciliare Alessandro aveva migliore probabilità di far convalidare la sua elezione e, poiché le ubbidienze dei due primi pontefici andavano man mano diminuendo, egli ebbe maggior seguito tra i cristiani.
2. Costanza, il concilio deWunità Il papa pisano Giovanni XXIII fu riconosciuto anche dal re tedesco Sigismondo (1410-1437), quando questi si propose di aiutare con un nuovo concilio la cristianità lacerata in tre parti diverse. Fu appunto Sigismondo che ottenne da Giovanni l’approvazione per la convocazione di un concilio ecumenico a Costanza, sul lago omonimo, che avrebbe dovuto riunirsi nel novembre 1414. L’imperatore fu e rimase sempre l’anima del concilio.
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Giovanni XXIII apparve a Costanza con numerosi prelati italia־ ni e aprì il concilio, il 5 novembre 1414; egli sperava di essere confermato dal concilio come Punico papa legittimo. Tuttavia, le cose andarono diversamente. Per !,influenza esercitata dai cardinali più importanti, Pietro d’Ailly (1351-1420), Guillaume Fillastre (circa 13471428 )־e Francesco Zabarella (13601417 )־e grazie agli sforzi del cancelliere parigino Giovanni Gerson (13631429)־, il concilio si persuase che Punita poteva essere ristabilita soltanto se tutti e tre i papi fossero stati obbligati a rinunciare alla propria elezione. Per poter vincere la maggioranza italiana i francesi, i tedeschi e gli inglesi riuscirono a far sì che il voto dovesse essere espresso non per capita singulorumyma per nationes, vale a dire per gruppi nazionali; ognuna delle quattro nazioni doveva avere nella votazione gene־ rale soltanto un voto; come quinta vi si aggiunse quella del sacro collegio. Così facendo si lasciava via libera al tentativo di spezzare la supremazia di Giovanni X X m e degli italiani. Quando Giovanni vide sfumare le sue speranze e fu costretto a constatare che lo si sarebbe processato per i suoi precedenti passi falsi, nella notte dal 20 al 21 marzo 1415 fuggì segretamente da Costanza, e da Sciaffusa tempestò il concilio con rimproveri e minacce. Egli sperava con la sua precipitosa partenza di provocare lo scioglimento del concilio e quasi riuscì nel suo intento. Già tutto, infatti, annunciava Pinsurrezione ormai prossima, ma il re Sigismondo con grande energia seppe mantenere unito il concilio e dichiaro che esso avrebbe continuato i suoi lavori, anche senza la presenza del papa. Il 23 marzo Gerson tenne a Costanza il suo celebre discorso, nel quale sostenne minutamente le ragioni per cui il papa non aveva nessun diritto di sciogliere il concilio e doveva sottomettersi alle decisioni conciliari. Il 26 marzo fu tenuta la prima sessione senza il papa. Il cardinale Zabarella propose che la sessio־ ne deliberasse di essere stata convocata legittimamente, il che implicava che essa non poteva essere sciolta finché non avesse adempiuto ai suoi compiti, eliminato lo scisma, chiarito le questioni di fede che erano state sollevate da Jan Hus e applicata la riforma della chiesa «nel capo e nei membri». Ma, poiché Giovanni XXIII usò ogni mezzo possibile per turbare i lavori del concilio e per impedirne la continuazione, questuiti-
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mo il 6 aprile 1415 promulgò il celebre decreto Haec sancta, in cui si affermava solennemente che il sinodo era un concilio ecumenico legittimamente riunito in nome dello Spirito Santo, che rappresentava Finterà chiesa militante e aveva il suo potere direttamente da Dio; pertanto ogni cristiano, compreso il papa, era tenuto a obbedirgli «in tutto ciò che concerne la fede, il superamento dello scisma e la riforma generale della chiesa, nel capo e nei membri». Si è molto discusso se questo decreto, che stabiliva una fondamentale subordinazione del papa al concilio e si ispirava alle dottrine di Marsilio da Padova, fosse o no eretico. Si può, in effetti, attribuirgli un significato radicale, ma esso può essere anche interpretato come una pura applicazione di misure, dettate da particolari necessità, in piena armonia con la canonistica tradizionale (clausola d’eresia). Il concilio appare comunque ambivalente e questa sua ambivalenza è stata la causa per cui già durante le sue sessioni nacquero discussioni sulla sua esatta interpretazione. Troppe volte i tre papi avevano messo a dura prova la pazienza dei loro contemporanei, soprattutto Giovanni XXIII, con le sue continue manovre di disturbo. È comprensibile quindi che molti partecipanti si aprissero a idee radicali. Il loro numero tuttavia, stando alle testimonianze, fu piuttosto esiguo; la stragrande maggioranza diede, infatti, al decreto un’interpretazione nettamente conservatrice e considerò inoltre le misure che furono prese non come decisioni di fede, ma piuttosto come forme necessarie di sicurezza, assunte dalla chiesa di fronte all’ipotesi di un rinnovarsi di analoghi casi di scismi. La maggior parte dei Padri conciliari non pensò quindi a una definizione della superiorità fondamentale del concilio sul papato, nel senso delle teorie di Marsilio. Né d’altronde si deve valutare il decreto come radicalmente ‘conciliaristico’, bensì come moderatamente ‘conciliare’ e per nulla una definizione di féde dogmatica. Le settimane che seguirono la fuga del papa furono caratterizzate da terribile inquietudine e da discussioni appassionate. Come si doveva procedere contro Giovanni? Questi era fuggito, al di là del Reno, in Borgogna per poter proseguire i suoi attacchi contro il concilio. Sigismondo, senza esitare, lo fece prigioniero e iniziò subito il processo contro di lui. Il 29 maggio 1415 Giovanni XXIII
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venne deposto. L'altro papa, il romano Gregorio XII, il 4 luglio 1415 annunciò la sua volontaria abdicazione. Il pontefice novantenne, che irremovibilmente affermava di essere l’unico papa legittimo, si era tuttavia precedentemente riservato il diritto di convocare, in un tempo successivo, ancora una volta il concilio in suo nome. Ciò gli fu concesso, anche se (o proprio perché) nessuno attribuiva importanza rilevante a questo atto. Molto più difficile fu arrivare invece a un accordo con !,ostinato Benedetto XIII. Sigismondo trattò personalmente con lui a Perpignano, ma senza alcun successo; comunque gli sforzi dell'imperatore non furono del tutto inutili, perché il seguito del papa, composto in gran parte di spagnoli, lo abbandonò per partecipare al concilio. Gli spagnoli costituirono la quinta nazione: la ‘nazione spagnola'. Si aprì quindi un processo contro Benedetto, che terminò con la sua deposizione, il26 luglio 1417.
3. Il processo contro ]an Hus a Gostanza Proprio nelle prime settimane che seguirono la fuga di Giovanni
XXni venne discussa a Costanza, nei mesi di aprile, maggio e giugno 1415, la questione di Hus, che ebbe uno svolgimento assai infelice e doveva addossare sul concilio stesso una pesante ipoteca. Un'esatta valutazione dell'opera svolta dal concilio sarà tuttavia possibile solo valutando quanto da esso fu deciso nel contesto gènerale e più ampio di quell'epoca carica di tensioni e dopo aver considerato la parte avuta nelle decisioni dai contrasti passionali, emersi da tutte le parti in causa. Jan Hus nacque verso il 1370 a Husinec (Boemia meridionale), studiò a Praga e qui fu ordinato sacerdote nel 1400. In quel tempo egli aveva cominciato a conoscere le idee dell'inglese John Wyclif (circa 1320-1384), che fin dal 1374 aveva mosso violenti attacchi contro i metodi finanziari del papato avignonese, contro la ricchezza dei prelati e contro la gerarchia. A questa decadenza Wyclif aveva opposto la sua concezione spiritualistica della ‘chiesa dei predestinati', che avrebbe dovuto rinunciare a ogni possesso e vivere in povertà apostolica. Nella vera chiesa di Cristo, così affermava Wyclif, hanno posto soltanto coloro che vivono in stato di grazia; nes-
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suno che fosse in peccato mortale poteva quindi assumere una pòsizione di guida nella società cristiana, sia nella chiesa che nello stato. Un papa, un vescovo o un religioso che vivesse in peccato mortale non aveva quindi più alcun potere; analogamente anche i governanti, nello stato cristiano, perdevano il loro potere di governo quando essi fossero in stato di grave peccato. Egli negava la chiesa come comunità sacramentale di salvezza in Cristo. Hus, che dal 1402 predicava nella cappella di Betlemme a Praga, sostenne il pensiero di Wyclif e trovò larghi consensi presso i suoi uditori cechi. Nella sua critica ai prelati che comandavano in Boemia, per lo più appartenenti alla nazione tedesca, affiorarono anche sinceri sentimenti nazionali. La tendenza antitedesca sollevò tutta la Boemia e si unì così strettamente alle tendenze religiose ecdesiali, improntate dalle idee di Wyclif, che il wyclifismo apparve propriamente come un problema nazionale ceco. Quando Parcivescovo di Praga, un tedesco, su mandato di papa Alessandro V, prese severe misure repressive contro la diffusione dell’eresia di Wyclif nella sua diocesi, questo fatto fu considerato in una luce puramente politica. Hus rifiutò appassionatamente di piegarsi alTordine del vescovo e cercò di difendere l’ortodossia di Wyclif e, poiché gli fu proibito di predicare, si appellò al papa Giovanni XXIII. Anche l’arcivescovo, da parte sua, si rivolse al papa. Hus fu chiamato in giudizio a Roma, ma non si presentò e fu scomunicato; il re boemo Venceslao lo prese allora sotto la sua protezione. H vergognoso traffico d’indulgenze di Giovanni XXIII, che aveva necessità di denaro per combattere il re Ladislao di Napoli e che, nel maggio 1412, fece predicare a questo scopo ‘l’indulgenza di una crociata’ in Boemia, acuì ancor più la tensione. Tutta la Boemia insorse. Per sedare la ribellione, il re Sigismondo fece pressione affinché il problema boemo fosse discusso al concilio di Costanza e offrì a Hus un salvacondotto. Questi accettò e si presentò il 3 novembre 1414 a Costanza; il papa lo aveva liberato della scomunica e Hus poteva muoversi liberamente. Il 28 novembre ebbe luogo il primo interrogatorio. Hus, su richiesta dei cardinali, fu arrestato, nonostante il preciso impegno che ?imperatore aveva assunto, e il 6 dicembre fu rinchiuso nella prigione del convento dei domenicani. Nonostante le violente proteste di Sigismondo, Hus fu trattenuto
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in prigione. Le discussioni avvenute con lui nei primi mesi del 1415 passarono tuttavia in seconda linea di fronte alla questione dell’unione che tutto eclissava, ma in seguito gli eventi presero improwisamente una svolta del tutto imprevista. Nel vortice degli avvenimenti che seguirono la fuga di Giovanni XXIII da Costanza e sulla nuova base che il decreto Haecsancta aveva creato, il concilio affrontò direttamente e con energia la questione hussita e in questa occasione fu offerta al concilio stesso la possibilità di dare prova della propria competenza in materia di fede. Una valutazione esatta del processo che seguì appare ardua ancor oggi. La direzione della intera questione passò completamente nelle mani dei cardinali d’Ailly, Fillastre, Zabarella e di Gerson, cancelliere dell’università di Parigi: personalità tutte fra le più eminenti del concilio, le cui qualità morali e spirituali erano fuor d’ogni dubbio. Nessuno di essi apparteneva alla nazione tedesca, ragion per cui non vi era la possibilità di influenze effettive di ca־ rattere nazionalistico, né tanto meno faceva parte della cerchia dei ‘papalisti’, ma condivideva piuttosto le teorie conciliariste; tutti erano infine accaniti avversari di Giovanni XXIII e degli altri papi scismatici. Nondimeno è stato rimproverato loro di non aver preso oggettivamente in esame l’intera questione hussita e la loro proce־ dura fu biasimata. Hus si difese energicamente dall’accusa di eresia. Gli furono rinfacciate trenta affermazioni eretiche, scoperte nei suoi scritti. Hus non negò di esserne l’autore, ma contestò il loro senso eretico e tentò di dimostrare che esse erano in accordo con l’ortodossia e conseguentemente rifiutò l’abiura. Gli fu ingiunto allora di abiurare almeno il senso falso in esse implicito, ma egli replicò che non poteva rinunciare a ciò che non aveva mai insegnato, né mai aveva pensato di professare. Si aprirono discussioni interminabili, del tutto infeconde, che misero a dura prova la pazienza dei giudici. Se si riflette tuttavia sull’agitazione passionale di quei giorni e sullo stato d’animo generale, estremamente sovraeccitato, si potrà concedere qualche attenuante alla procedura dei giudici, almeno nella stessa misura con cui si è cercato di comprendere la vera posizione dell’imputato. Si cercò, del resto, in molti modi di venire incontro a Hus e di facilitargli la sua ‘ritrattazione’, ma questi respinse sempre ostinatamente ogni offerta.
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Dopo che i cardinali d’Ailly e Zabarella, per espresso desiderio del re Sigismondo, si recarono a trovarlo il 5 luglio in prigione e dopo aver tentato inutilmente di indurlo a sconfessare le sue tesi, si giunse il 6 luglio 1415 alla sentenza finale, espressa dal concilio riu־ nito nel duomo di Costanza: la sentenza condannò a morte Hus, sotto l’accusa di aver «dogmatizzato, difeso e predicato» nei suoi scritti la teoria eretica di Wyclif. In quello stesso giorno Hus fu portato sul luogo del supplizio e fu bruciato come eretico. Mentre era ancora sul rogo, il re Sigismondo gli offrì un’ultima volta la grazia in cambio dell’abiura, ma Hus rifiutò e morì, perdonando i suoi nemici, invocando Gesù Cristo e recitando il Credo. Nel triste destino di Hus rientrarono e si amalgamarono colpe e tragedie, difetti suoi personali e di altri. Il concilio passò comunque tranquillamente sopra la questione !!ussita e continuò i suoi lavori, e la maggior parte dei suoi membri considerò l’accaduto solo una questione marginale e attribuì al fatto uno scarso valore. Ma la storia vendicò Hus in un modo terribile: le spaventose guerre hussite (14201431 )־riempirono di angoscia e di terrore la Boemia e la Germania.
4. La questione della riforma al concilio. Lelezione del papa Il concilio, prima di procedere all’elezione del nuovo pontefice, dovette occuparsi del problema della riforma della chiesa. Sulla necessità di riforme nel capo e nei membri tutti erano d’accordo. Il problema che nasceva era piuttosto questo: si doveva provvedere alla riforma prima o dopo l’elezione del nuovo capo supremo della chiesa? Nel decreto Haec sancta il concilio aveva decisamente riservato a sé l’attuazione delle riforme. Ma questo decreto era valido solo per casi di necessità straordinari o doveva invece subordinare, in linea di principio, il papa al concilio? I rigidi ‘conciliaristi’ considerarono la questione della riforma come un caso tipico; essi intendevano cioè legare per sempre il papa alle decisioni del concilio, obbligandolo ad accettare le riforme emanate da quest’ultimo. In futuro, i concili ecumenici dovevano essere tenuti a intervalli re
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golari: essi avrebbero potuto emanare decreti di riforma obbliganti anche il pontefice, che si sarebbe dovuto perciò piegare all’autorità del concilio. Queste tesi erano sostenute soprattutto dai tedeschi e dagli inglesi, che avevano ormai fatto proprie le teorie più avanzate del conciliarismo. Le altre nazioni invece si mostrarono di avviso contrario e, non appena emerse dal dibattito la tesi conciliarista, reagirono violentemente. Il 9 ottobre 1417, tuttavia, raggiunto finalmente un compromesso, furono promulgati cinque decreti di riforma, che erano già stati fatti oggetto di discussione, e fra questi il decreto Frequens, che prevedeva la convocazione di un concilio ecumenico ogni dieci anni. Si insistette poi con particolare energia affinché la riforma, per quanto si riferiva al normale governo della chiesa, fosse riservata al papa e che, di conseguenza, quest’ultimo doveva essere eletto prima che il concilio cominciasse a discutere di riforme. Dopo che gli inglesi ebbero accettato questa proposta fondamentale e anche i tedeschi, seppure a malincuore, si decisero ad accoglierla, si potè procedere all’elezione. Si doveva trovare, grazie a un modus particolare, un uomo che fosse gradito a tutti i membri del concilio e potesse ottenere un riconoscimento generale. Per questo, oltre ai ventisei cardinali, l’8 novembre 1417 entrarono a far parte del conclave anche sei delegati, per ciascuna delle cinque nazioni; i membri del conclave, chiamati a eleggere il nuovo papa furono quindi, in totale, cinquantasei. La loggia dei mercanti di Costanza fu riservata esclusivamente a questo ampio consesso. La procedura dell’elezione fu particolarmente complessa. Che l’accordo fosse raggiunto nel conclave solo tre giorni dopo, in una disposizione d’animo di altissima religiosità, mentre all’esterno si svolgeva la processione, apparve già ai contemporanei come un miracolo dello Spirito Santo. L’11 novembre 1417 fu eletto papa il cardinale Oddone Colonna, che scelse il nome del santo del giorno e si chiamò perciò Martino V. La sua elezione fu salutata con gioia indescrivibile, non solo dal concilio, ma da tutto l’Occidente. Lo scisma, protrattosi per ben quarantanni, era ormai terminato e si era finalmente ricostituita l’unità del corpo di Cristo. La chiesa aveva di nuovo il suo capo supremo: un papa riconosciuto da tutti e legittimamente eletto. Dopo l’elezione di Martino V la direzione del concilio passò
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nelle sue mani. Il nuovo pontefice assunse immediatamente la guida di tutti i lavori, ivi compresa la riforma della chiesa, superando così, di fatto, la diffìcile crisi del papato, che avrebbe potuto facilmente trasformarsi in una crisi istituzionale. Il 22 aprile 1418 egli chiuse il concilio. Alla domanda tanto spesso rinnovata, se e fino a qual punto Martino V abbia veramente confermato i decreti Haec sancta e Frequens in senso conciliarista (se lo avesse fatto essi avrebbero assunto il valore di decreti di fede), si deve rispondere in modo assolutamente negativo. Un’iniziale, apparente insicurezza può essere facilmente spiegata dal fatto che il contenuto e il senso di questi due decreti apparivano ambivalenti. In effetti, essi pòtevano essere interpretati in senso moderato e ortodosso, ma anche in senso radicale, conciliaristico ed eretico. Fra i membri del concilio una minima parte soltanto condivideva le tesi conciliariste, ma la grande maggioranza interpretò i decreti secondo una linea nettamente moderata e chiaramente conservatrice. L’interpretazione di Martino fu poi decisamente quest’ultima. La minoranza, ovviamente, non si diede ancora per vinta e, dopo il concilio, le idee conciliariste continuarono a esercitare un potente influsso e dopo poco tempo esse tentarono ancora di farsi pericolosamente valere.
5. Il concilio di Basilea Eugenio IV (1431-1447) aveva convocato il diciassettesimo concilio ecumenico per il 23 luglio 1431 a Basilea. Ben presto si manifestarono forti tensioni fra il papa e i partecipanti al concilio, i quali, secondo la teoria conciliarista, cominciarono a rivendicare a sé il supremo potere di decisione, di giurisdizione e di amministrazione della chiesa. Essi limitarono inoltre fortemente il potere papale e avocarono a sé i diritti delFesecutivo. Quando Eugenio, nel 1437, trasferì il concilio da Basilea a Ferrara per porre fine ai contrasti, un nutrito gruppo di radicali conciliaristi rimase con un pretesto a Basilea (fino al 1449), affermò la supremazia del concilio sul papa in questioni dogmatiche, destituì Eugenio ed elesse un nuovo papa, che prese il nome di Felice V. Si riaprì così ancora una volta lo scisma: l’ultimo nel corso della storia della chiesa. Ma intanto la posizione di Eugenio IV si era consolidata al punto che il concilio
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di Basilea (dal 1437 scismatico) e il suo antipapa non poterono durare a lungo. Nel 1449 Felice V rinunciò ai suoi disegni e si ritirò. B conciliarismo radicale aveva ormai perduto il suo prestigio nella chiesa. I suoi effetti, però, continuarono a farsi sentire per lungo tempo e il timore di una sua riapparizione preoccupò i papi successivi, tanto che, in seguito, !,appello al concilio produsse sempre sul papato un effetto a dir poco irritante. Quando scoppiò la Riforma protestante, nel XVI secolo, questo timore impedì la convocazione tempestiva di un concilio ecumenico, che avrebbe forse potuto eliminare gli abusi presenti nella vita della chiesa e avviare quella riforma cattolica, tanto insistentemente desiderata dalla parte migliore del clero. Se il concilio di Trento non si fosse riunito solo nel 1545, ma già nel 1525, la storia della Riforma si sarebbe probabilmente svolta in un modo molto diverso, fl grande scisma occidentale e il conciliarismo prepararono così in misura notevole la grave divisione religiosa del XVI secolo.
6. L'unione con i greci B concilio era stato trasferito da Basilea (1431-1437) a Ferrara (1438) e, infine, a Firenze (1439-1442). B suo compito principale doveva essere l’unione con la chiesa orientale. L’imperatore greco Giovanni V ili Paleologo (1425-1448) si presentò di persona a Ferrara nel marzo 1438, insieme con una delegazione di settecento membri, tra cui il patriarca di Costantinopoli e il metropolita Bessarione di Nicea. Anche il papa prese parte al concilio. Dietro il desiderio dei greci di trovare unione con la chiesa occidentale c’era soprattutto la pressante esigenza di ricevere aiuto contro il nemico turco che stava diventando sempre più pericoloso. Solamente una possente crociata poteva salvaguardare Bisanzio dalla fine. Dopo lunghe e faticose trattative si raggiunse, in effetti, una unione tra le due chiese. I greci e il papa sottoscrissero il decreto di unione Laetentur coeli (6 luglio 1439). Perfino sul primato della chiesa di Roma e sul Filioque si trovò l’accordo. Dopo il ritorno delTimperatore in Oriente, però, fu manifesto che le sue concessioni alla chiesa occidentale non incontravano simpatia e quando anche lo sperato
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aiuto militare non arrivò, non ci fu più motivo per mantenere Punione. L’Occidente non era affatto unito e la crociata non ebbe luogo perché gli stati nazionali pensavano soltanto ai propri vantaggi. Invano l’imperatore Costantino XI (14481453 )־continuò a chiedere aiuto a Roma. L’accerchiamento dei turchi si andò chiudendo sempre più stretto attorno a Costantinopoli. Il 29 maggio 1453, dopo una valorosa azione di difesa, la città cadde nelle mani dei turchi. Costantino morì. È vero che il bagno di sangue che i conquistatori causarono e la riduzione in schiavitù di molte migliaia di cittadini scossero l’Occidente, ma ormai era troppo tardi. L’unione venne formalmente revocata nel 1472. L’eredità di Costantinopoli passò nel 1459 a Mosca, che fu presto chiamata la ‘terza Roma’.
§ 36. H papato del Rinascimento Nel XV secolo la chiesa fu chiamata a risolvere due gravi problemi: attuare la riforma all’interno e aiutare la chiesa greca nella sua lotta decisiva contro l’Islam. Purtroppo essa fallì sia nell’un caso che nell’altro. I papi del Rinascimento, che succedettero al serio e nobile Eugenio IV (14311447)־, tentarono più volte di riunificare l’Europa per una difesa comune contro i turchi, che dai Balcani minacciavano l’intero Occidente, ma i loro sforzi si rivelarono inutili e, a dire il vero, anche poco credibili, perché questo stesso papato stava ormai perdendo sempre più di vista il compito universale cui era chiamato e, seguendo gli interessi particolari del suo stato pontifi־ ciò, faceva mostra di una meschina politica territoriale, analoga a quella di un qualsiasi altro staterello. Papi come Innocenzo V ili e Alessandro VI considerarono il patrimonium Petri soltanto come un possesso privato ed essi cercavano, nella misura del possibile, di lasciarlo in eredità alla propria famiglia. Nepotismo e politica familiare ebbero a lungo, in questo periodo storico, una parte inquietante che continuò fin oltre l’epoca della Riforma. Sotto questa cattiva stella operarono ancora Paolo III (15341549 )־e il fanatico pa־
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pa riformista Paolo IV (1555-1559), che con la loro politica ecclesiastica contro !,imperatore favorirono non poco il diffondersi della riforma luterana. Ma fu soprattutto il gretto indirizzo particolaristico dato alla politica dello stato pontificio che impedì al papato del Rinascimento di dedicarsi tempestivamente e con !,energia necessaria alla sua vera missione universale: la riforma della chiesa. La preoccupazione per le sorti dello stato pontifìcio, il desiderio di arricchire Roma di opere d’arte e di farne il centro della vita umanistica e artistica appare oggi, da questo punto di vista, più che l’espressione della generale «forza creatrice culturale della chiesa», come l’ostentazione di una gloria mondana e la manifestazione di meschini interessi politici e, quindi, un vero tradimento della concezione della chiesa universale. A Roma, è vero, si possono ancor oggi ammirare le grandi opere culturali volute dal papato rinascimentale, ma esse appaiono ben poca cosa di fronte alla missione divina della chiesa e non bastano certo a scusare il fallimento del papato in campo spirituale. E non alludiamo tanto al fallimento personale di alcuni (non di tutti i) papi di questo periodo, quanto piuttosto al loro atteggiamento spirituale, che purtroppo non fu mai all’altezza del loro supremo ministero, e alla loro carenza spirituale di fronte ai gravi compiti religiosi della chiesa del tempo. La responsabilità per questo stato di cose ricade in egual misura anche sopra il sacro collegio, che era chiamato a eleggere i papi, ma, in ultima analisi, va ascritta soprattutto ai pontefici, perché erano essi che nominavano i cardinali. Con Niccolò V (14471455 )־il Rinascimento fa ufficialmente il suo ingresso a Roma. La condotta del pontefice fu del tutto irre־ prensibile; Niccolò era, infatti, un nobile e dotto umanista, il fondatore della Biblioteca Vaticana, e si adoperò con grande energia per costituire un fronte comune di difesa contro il pericolo turco. Anche Callisto IH (14551458 )־impegnò tutte le sue forze per una crociata contro i turchi, ma l’amore senza limiti del papa quasi ottuagenario per la propria famiglia, gli spagnoli Borgia, lo spinse ad assumere due suoi nipoti nel sacro collegio; uno di essi, il depravato Rodrigo Borgia, più tardi salirà al trono pontificio con il nome di Alessandro VI. Il successore di Callisto, Pio II (14581464)־,
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Enea Silvio de’ Piccolomini, era uno dei più celebri umanisti del tempo; fino alTeta di 40 anni aveva condotto, come segretario alla corte dell’imperatore Federico III, una vita dissoluta, simile a quella di altri umanisti del suo tempo. Ma in seguito, dopo una profonda crisi di coscienza, aveva abbracciato la vita sacerdotale, era stato nominato vescovo di Trento e, infine, chiamato a occupare la cattedra di Pietro. Quando intraprese un’opera energica di riforma gli fu rinfacciato il suo passato, ma Pio II, nella sua ‘Bolla di ritrattazione’ (1463) riconobbe onestamente i suoi precedenti errori e pregò: «Aeneam rejicite, Pium recipite». La crisi turca non permise tuttavia l’attuazione dei suoi piani di riforma. Con la bolla Exsecrabilis (1460) proibì, sotto minaccia di scomunica, qualsiasi appello a un concilio generale. Pio II, come del resto anche Paolo Il (1464-1471), furono esenti da qualunque forma di nepotismo. Sisto IV (1471-1484), invece, che era stato precedentemente generale dei francescani, colmò il suo ordine di privilegi (bolla Mare magnum, 1476), e introdusse il nepotismo come sistema nel governo della chiesa, dove esso purtroppo mise salde radici fino al xvn e al xvm secolo. «Come una piaga cancerosa che si riapre di continuo» (Georg Schwaiger), il nepotismo fu sempre presente nella storia del papato medievale e moderno. Nonostante che Innocenzo XII l’avesse formalmente proibito con la bolla del 1692, esso continuò a sopravvivere sotto altre forme, persino nel nostro più recente passato (Pio XII). H suo periodo di massima intensità fu raggiunto, tuttavia, con i papi rinascimentali, i quali concessero i territori dello stato pontifìcio in feudo ai loro nipoti e figli, e disposero liberamente, quasi fossero autonomi principati, delle terre e dei beni dello stato pontifìcio (Alessandro VI, Paolo III). La triste piaga del nepotismo fu riaperta da Sisto IV che non si limitò a chiamare due suoi nipoti a far parte del sacro collegio, cioè Giuliano della Rovere, mondano e amante del lusso, che più tardi salì al trono pontificio con il nome di Giulio II, e il francescano Pietro Riario (t 1474), scostumato e crapulone, ma in seguito chiamò anche un altro nipote, Girolamo Riario, a reggere il principato di Imola. Spinto da quest’ultimo, uomo ambizioso e privo di scrupoli, sempre avido di maggior potenza, papa Sisto IV fu trascinato in pericolosi intrighi politici, moralmente riprovevoli (la congiura dei
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Pazzi contro i Medici di Firenze nel 1478, le guerre con Firenze, Napoli e Venezia). Il suo nome è legato alla storia dell’arte perché, grazie a lui, fu data mano alla costruzione della Cappella Sistina, in Vaticano. Innocenzo V ili (14841492 )־fu eletto da un sacro colle־ gio ormai totalmente mondanizzato e divenuto preda della simo־ nia. Durante il suo pontificato neU’amministrazione deha curia imperò la corruzione e la riforma della chiesa non fu neppure sfiora־ ta; Innocenzo V ili si interessò unicamente dei suoi due figli illegittimi, nati prima che egli abbracciasse la vita sacerdotale. Egli osò persino celebrare nello stesso Vaticano il matrimonio di suo figlio Franceschetto con una figlia di Lorenzo de’ Medici, con grande concorso pubblico, e chiamò a far parte del collegio cardinalizio il figlio di Lorenzo il Magnifico, Giovanni de’ Medici, che allora aveva appena tredici anni e che più tardi salirà al trono pontificio con il nome di Leone X (15131521)־. Sarà lui a liquidare le tesi di Lutero del 1517 come «dispute fratesche». Con Alessandro VI (14921503 )־il papato del Rinascimento toccò il suo punto estremo di decadenza. Eletto grazie a sfacciate ma־ novre simoniache da un sacro collegio ormai totalmente corrotto, egli abusò con una tale sfrontatezza del suo ministero che già i contemporanei furono autorizzati a pensare che egli non fosse affatto un cristiano. Anche se alami studiosi recenti hanno giudicato favorevolmente la sua attività di governo, non è possibile dimenticare la totale assenza di responsabilità morale di cui Alessandro VI fece mostra, subordinando tutto ai suoi personali disegni politici e al suo sconfinato nepotismo, né può essere taciuta la sua vita im־ morale. Egli si servì del suo altissimo ufficio per assegnare princi־ pati ai suoi figli illegittimi, quattro dei quali gli erano nati dalla re־ lazione adulterina con una nobile romana: Pedro Luis Borgia (14581488)־, il primogenito, già nel 1485 era stato nominato duca di Gandìa e, quand’egli morì, Juan Borgia, nato nel 1474, gli sue־ cesse nel ducato. Juan fu assassinato a Roma (da Cesare?) nel 1497 (suo nipote fu san Francesco Borgia, 15101572־, il terzo generale dei gesuiti). Il terzo figlio fu il famigerato Cesare Borgia (1475־ 1507), che già a sette anni era stato eletto protonotario, a sedici ve־ scovo di Pamplona, a diciassette anni arcivescovo di Valencia, a di־ ciotto cardinale (1493), pur non essendo stato mai ordinato sacer
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dote o vescovo (egli aveva, infatti, ricevuto unicamente l’ordinazione a suddiacono, dalla quale si era fatto tuttavia dispensare nel 1498, quando rinunciò alla dignità cardinalizia). Privo di ogni ritegno morale e spinto da smisurata ambizione, Cesare Borgia mirò a conquistarsi con ogni mezzo, con la forza, l’astuzia e la malvagità, secondo i metodi propri dei condottieri del tempo, un regno nell’Italia centrale e il papa, che dal 1498 era caduto completamente sotto la sua influenza, gli offrì tutto il suo appoggio. Lucrezia Borgià (14801519)־, considerata «a torto, l’incarnazione stessa della degenerazione morale del Rinascimento» (Hugo Rahner), fu invece solo una povera vittima della politica matrimoniale di suo padre. Dopo due infelici matrimoni ella sposò, nel 1501, Alfonso d’Este di Ferrara. Jofré Borgia (14811533)־, il figlio più giovane di Alessandro VI, divenne principe di Squillace, grazie al matrimonio con la figlia illegittima del re Alfonso II di Napoli. Ad Alessandro VI seguì, dopo il breve intermezzo di Pio III (1503), durato appena ventitré giorni, Giulio II (15031513)־, il ni־ potè di Sisto IV. Simonia, ambizione politica e spirito di potenza dominarono anche questo pontificato e, se è vero che Giulio II fu personalmente esente da nepotismo e da mende morali, tuttavia, per tutto il corso del suo governo, si preoccupò solo di ingrandire Roma e lo stato pontificio, di abbellirli e di guadagnare a se stesso gran fama. Egli fece scolpire da Michelangelo il suo monumento funebre facendosi rappresentare nella possente figura di Mosè, e fu quasi sempre occupato in imprese belliche. Lutero lo chiamò, nel 1520, «Giulio, l’assetato di sangue». Bramante ideò per lui la nuova costruzione di San Pietro (1506), Michelangelo dipinse la volta della Cappella Sistina, Raffaello gli affreschi nelle stanze vaticane. La sua epoca segnò il culmine dell’arte rinascimentale. Ma, ormai, la Riforma protestante era alle porte. Lo scontro fra Alessandro VI e Girolamo Savonarola è sommamente indicativo per dimostrare l’esistenza di due condizioni di vita religiosa assolutamente diverse e, al tempo stesso, rivela che la ‘santa chiesa’ poteva aspirare a essere veramente tale anche quando la Santa Sede era occupata da un papa tutt’altro che santo. Il totale fallimento dei papi di quel tempo destò nei membri della chie
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sa l’esigenza di una sua riforma, che essi iniziarono coraggiosamente. Il compito particolare del monacheSimo deve, infatti, essere sempre quello di guidare la chiesa alla penitenza, alla meditazione e al distacco dal mondo. In epoche di secolarizzazione estrema il monaco è sempre il segno visibile di contraddizione; è a lui che spetta la missione di richiamare e di ammonire, opportune et importune, anche se egli deve sacrificare a questo scopo la sua stessa esistenza. Girolamo Savonarola (14521498 )־dedicò la sua vita di domenicano al servizio della penitenza e della riforma. Il suo possente appello alla penitenza provocò, fin dal 1490, un profondo mutamento nella vita religiosa fiorentina. Divenuto priore di San Marco, fondò una congregazione di riforma nel suo stesso ordine e si dedi־ cò instancabilmente al miglioramento interiore di se stesso e dei cittadini di Firenze. La sua critica investì la corte dei Medici e non si fermò neppure dinanzi allo stesso papa Alessandro VI. Dopo la caduta dei Medici (1494), Savonarola dominò la città con la sua influenza e, in poco tempo, ne mutò il volto morale. Ritenendosi ispirato da voci interiori, profetizzò che il re france־ se Carlo V ili d’Angiò, che stava proprio allora calando con le sue truppe in Italia, era stato prescelto da Dio per condurre gli uomini a penitenza. L’aver congiunto la sfera religiosa a quella politica nella sua predicazione fu tuttavia fatale al domenicano. Con le sue infiammate parole egli aveva, infatti, disturbato i disegni politici di Alessandro VI, che cercò di disfarsi dell’incomodo frate. Savonarola, cui era stato proibito di predicare, fu invitato a presentarsi a Roma (1495) e fu colpito da scomunica (1497). Il domenicano, dopo qualche esitazione, ritenne di non poter obbedire ad Alessan־ dro, che era un papa simoniaco e quindi, in ultima analisi, un falso pontefice. Ma proprio quando si era deciso a invocare l’aiuto dell’imperatore e dei re per far invalidare da un concilio ecumenico l’elezione illegale di Alessandro, questi gli impedì ogni azione, mi־ nacciando di colpire Firenze con l’interdetto se non avesse fatto tacere immediatamente il domenicano. Gli avversari di Savonarola ebbero il sopravvento, assalirono il convento di San Marco e consegnarono il priore, insieme a due suoi confratelli, nelle mani della giustizia. Carcere, tortura, incessanti interrogatori, accuse inventa
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te e falsificazione di documenti processuali portarono alla condanna a morte di Savonarola come «eretico, scismatico e spregiatore della Santa Sede». Le sue ultime annotazioni, nella cella del carcere, scritte con le mani incatenate e il corpo tormentato dalle torture, testimoniano della sua santità. Con angoscia egli continuò a domandarsi fino all’ultimo se avesse agito rettamente. Nella chiesa esiste anche un sacro diritto di resistenza e Savonarola se ne servì contro un papa che, secondo la sua concezione, non era un vero papa. Il domenicano non attaccò mai la chiesa e il papato. Al contrario, egli sacrificò la propria vita per amore di entrambi. La chiesa che egli contemplava era quella sofferente per le colpe della meschina persona di Alessandro e per salvarla egli morì, con due suoi confratelli, il 23 maggio 1498 su quel rogo che i suoi nemici e Alessandro VI gli avevano preparato. Savonarola non fu quindi un eretico, ma un santo e, dal 1955, l’ordine domenicano sollecita, infatti, la sua beatificazione (processo aperto nel 1998).
parte terza
La chiesa nell’età moderna
Il problema della periodizzazione del processo storico che segna il passaggio dal Medioevo all’età moderna presenta grandissime difficoltà. Molti sono, infatti, gli eventi che rivelano la presenza degli inizi dell’età nuova, ma nessuno di questi indici è tuttavia tanto caratteristico e decisivo da poter abbracciare in modo proprio e sufficiente il nuovo periodo nella sua interezza. Si possono dare quindi definizioni molto diverse di questo periodo di transizione, a seconda degli elementi presi in esame. Se, per esempio, si sceglie come punto di partenza l’apparire della religiosità individuale ‘mo• derna’, ci si dovrà riportare al XIV secolo. Se si prende invece a misura la struttura della società, allora potremo parlare di una vera svolta storica solo al tempo della rivoluzione francese, poiché solo questa ha effettivamente abolito l’ordine feudale della chiesa medievale. Se ci atteniamo alla vecchia divisione, potremo dire che la Riforma rappresentò veramente una decisa e profonda cesura nella storia della chiesa, tale che appare lecito far cominciare con essa la nuova epoca della chiesa. La Riforma non è stata, infatti, solo «la più grande catastrofe che abbia colpito la chiesa in tutta la sua storia» (Joseph Lortz). ma ha caratterizzato in un modo tanto decisivo tutto lo sviluppo dell’età moderna che nessun altro awenimento storico appare di altrettanta importanza e significato. La Riforma non solo ruppe l’unità religiosa e scosse profondamente la base comune della fede, ma scisse anche la salda e unitaria compagine del pensiero religioso nelle varie ‘confessioni’ e, da allora in poi, non vi fu più un unico e omogeneo pensiero cristiano, bensì orien-
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tamenti diversi: cattolico, luterano, riformato e tutte le altre espressioni legate alle varie sètte. Sembra tuttavia che la nostra epoca abbia ricominciato a riscoprire le radici comuni della fede e che oggi ci rendiamo conto che non è più possibile mantenere aperta questa frattura e che si deve riprendere a pensare ‘ecumenicamente’, o per dir meglio ‘cattolicamente’ (non in senso confessionale), se vogliamo dirci veramente cristiani.
Riforma protestante e riforma cattolica ( 1500 ־1650)
§ 37. Premesse della Riforma protestante L'origine della Riforma protestante è un problema talmente complesso che non è possibile risolverlo semplicemente con la formula: la Riforma protestante doveva necessariamente venire, perché nella chiesa medievale c'erano troppi abusi. E vero che una riforma doveva avvenire, ma non la Riforma protestante! Sarebbe potuta, anzi dovuta sorgere una forte corrente di riforma all'interno della chiesa, una corrente apportatrice di rinnovamento interiore, invece di svilupparsi un movimento contro la chiesa. Se gli avvenimenti ebbero uno svolgimento diverso, ciò non accadde tuttavia per una sorta di destino ineluttabile, ma per la convergenza di molti eventi particolari che noi, considerandoli globalmente, chiameremo le ‘premesse' della Riforma. Le ricerche più recenti su questo periodo storico hanno superato i vieti schemi interpretativi a tinte forti e hanno rettificato l'immagine, tanto spesso distorta da una certa storiografia un tempo imperante, di una chiesa tardomedievale totalmente in preda alla corruzione. Queste ricerche non hanno certo mancato di mettere in evidenza i tratti negativi di quell'epoca, ma ne hanno posto anche in miglior luce i nessi storici fondamentali. Se perciò resta sempre valido il principio che la chiesa aveva un'estrema necessità di riforma, si dovette tuttavia anche constatare che essa non era decaduta e corrotta al punto da non essere più capace di esprimere dal suo seno una riforma, tanto da essere destinata irrimediabilmente al tramonto.
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1. Abusi nella chiesa tardomedievale Gli abusi erano presenti ovunque. C’erano gli eccessi nella vita religiosa, che si esprimevano in un culto dei santi e delle reliquie spesso malsano, in un’incontrollabile smania di pellegrinaggi e in molteplici forme devozionali periferiche. Credulità, ricerca smodata del miracoloso, superstizione, paura dell’inferno e del diavo־ lo, e una malsana credenza nell’esistenza delle streghe opprimevano gravemente la pietà. Esistevano anche abusi nell’amministrazione ecclesiastica, che si era spesso irrigidita in vuote formalità, tanto che si potè quasi pensare che la chiesa fosse un istituto fondato solo per riscuotere materialisticamente tasse e imposte. Abusi della scomunica a fini temporali, traffici simoniaci di prebende e nepotismo non erano abituali soltanto a Roma, ma anche nelle amministrazioni vescovili e arcidiaconali delle diocesi. Ma gravi soprattutto apparivano gli abusi e i difetti morali dei religiosi e dei laici. Ci sono state tramandate numerose lamentele sulla vita immorale di sacerdoti, di monaci e monache, e il peggio era che la corruzione aveva infettato ordini, comunità e conventi interi. Era soprattutto questo che destava gravi motivi d’allarme. Fallimenti umani individuali ce n’erano sempre stati e sempre ce ne saranno, ma allora sembrò addirittura che il male si fosse istituzionalizzato: il papato era pieno di difetti e non si riusciva a vedere come sarebbe potuto uscire dal suo circolo vizioso, perché cattivi cardinali eleggevano papi cattivi e questi, a loro volta, nominavano ancora nuovi cattivi cardinali. Inoltre, il papato era talmente irretito nelle sue preoccupazioni temporali per lo stato pontificio che, se anche un papa avesse voluto agire diversamente, non avrebbe potuto farlo, dominato com’era dalla situazione concreta in cui era immerso. Adriano VI (1522-1523), per esempio, vide fallire i suoi seri tentativi di riforma a causa di tale contesto. Anche l’episcopato era talmente avviluppato nei suoi affari feudali che gli era quasi impossibile liberarsene. Una nobiltà estremamente egoista dominava i capitoli delle cattedrali; i canonici eleggevano vescovo un membro della loro stessa cerchia e quest’ultimo era naturalmente sempre un nobile e dipendeva direttamente dalla nobiltà. La sola idea di poter spezzare il monopolio esercitato dalla
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nobiltà all'interno della chiesa appariva del tutto impensabile, tanto esso aveva ormai acquisito i caratteri di un principio intangibile. Purtroppo quel monopolio implicava anche precisi legami politici. Ginevra divenne protestante perché il suo vescovo apparteneva alla casa dei duchi di Savoia e l'opposizione politica nei suoi confronti trascinò con sé anche la lotta religiosa. Ovunque, del resto, nelle città, nei vescovati, nei paesi, constatiamo la presenza di questo stretto rapporto che legava fra loro politica e religione. L’alto clero era soggetto ad analoghe condizioni nei Capitoli delle cattedrali e delle collegiate: anch’esso si era dovuto, infatti, piegare alla politica di casta delle famiglie nobili. I Capitoli erano ormai divenuti dei veri e propri istituti di collocamento per i nobili e la vita all'interno di essi era dominata dallo spirito di casta e appariva quasi priva di un sincero indirizzo spirituale. Anche il basso clero, forzatamente dipendente dai nobili, conduceva una triste esistenza di povertà e miseria. Vicari malpagati, sacerdoti che vivevano dell’obolo della messa o dell'altare erano tutti dei poveri 'proletari', che spesso vivevano alla giornata. Ora, se sommiamo insieme tutti questi dati, il fallimento in cui incorsero tanti individui ci apparirà più la conseguenza diretta delle condi־ zioni generali dell'epoca che il frutto delle loro colpe personali.
2. Il carattere religioso fondamentale del tardo Medioevo Questo periodo era tuttavia ricco anche di valori positivi e sarebbe un errore misconoscerne i caratteri profondamente religiosi, che si espressero in innumerevoli fondazioni create dalla chiesa, nell'architettura religiosa, nelle opere d'arte e in un gran numero di confraternite e di istituti caritativi, quali ospedali, ospizi di mendicità e nosocomi. Opere tutte che fiorirono in diretto rapporto con la vita ecclesiale e che sono anche un chiaro indice del fatto che non esisteva un'ostilità generale verso la chiesa di quel tempo. Del resto, in tutto il corso del XV secolo, non si registrò mai un'apostasia di vaste moltitudini di fedeli e persino la tempesta hussita si placò quando, nelle Compattate di Praga (1433), vennero accolte alcune richieste dei boemi e, con la successiva pace di Kuttenberg (1485), furono eliminate le ultime e più gravi divergenze.
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Al contrario, alla fine del Medioevo, si registra nella chiesa un incremento di devozione che si manifestò in modo sensibile nella commossa partecipazione alle feste ecclesiastiche popolari (feste del patrono, sagre ecc.). Anche le celebrazioni liturgiche e le prediche furono molto frequentate, soprattutto quando fiorirono grandi predicatori quali Geiler von Kaysersberg (1445-1510) o Paolo Wann (1423-1489). La stessa chiesa non fu affatto inoperosa. La sua «cura nelTeducazione religiosa del popolo fu assai notevole» (Lortz) e quando più tardi Martin Lutero negherà alla vita ecclesiale e alla pietà popolare cattolica ogni valore religioso e le condannerà come ricerca di «giustificazione per le sole opere», la sua accusa globale si rivela assolutamente ingiusta. Non si deve, infatti, dimenticare che egli stesso apparteneva, per nascita ed educazione, a quella stessa classe popolare fedele alla chiesa, né è d'altronde possibile comprendere la sua tormentata ricerca di un Dio clemente e misericordioso se non si considera che egli stesso era figlio di quelFepoca. Il pròblema della salvezza eterna ha profondamente inquietato gli uomini di allora e la coscienza del peccato e il desiderio di purificazione di fronte a Dio erano talmente diffusi e schietti, che forse non vi fu mai un'epoca altrettanto ricca di religiosità. Clemente Maria Hofbauer (t 1820) aveva quindi ragione quando diceva: «La Riforma venne perché i tedeschi avevano bisogno di essere pii». Se, infine, occorresse un'altra testimonianza a favore del carattere fondamentalmente religioso dell'epoca, basterà prendere in esame la creazione artistica. «L'arte non mente»: essa è infatti l’espressione più vera dello spirito del tempo. L’architettura gotica, le vetrate delle chiese, la scultura, le pitture su tavola profondamente religiose di un Matthias Griinewald (circa 1470-1528), di un Hans Holbein il Vecchio (circa 1465-1524) o del Maestro della ‘Scuola di Colonia' (1450-1550) parlano da sole. La religiosità, tuttavia, era assai spesso contaminata da altri interessi, ma, in un'epoca in cui la religione e la vita rappresentavano ancora un'unità indissolubile, non appariva strano che nel pensiero religioso confluissero anche particolari istanze sociali, politiche ed economiche. La Riforma protestante non è mai stata, infatti, una pura questione ecclesiastico-religiosa, né Martin Lutero diven
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ne certo un riformatore per la teologia contenuta nelle sue tesi sulle indulgenze, ma perché seppe cogliere pienamente, nei suoi tre grandi scritti del 1520, tutta la ricchezza delle tendenze di riforma del suo tempo. E fu proprio per questo che tutti coloro che erano scontenti dell'ordine ecclesiastico, politico o sociale si sentirono tanto interpellati dalle sue parole. Ben presto tutti, quando vollero far valere le loro aspirazioni, si servirono delle sue formulazioni religiose: i ‘fanatici’ di Carlostadio, Mùntzer, Storch nel 1522, Sickingen e i cavalieri dell’impero nel 1523, i contadini nel 1524-1525 e, infine, i principi e le autorità che nelTabbracciare le idee della Riforma erano mossi da precisi e concreti interessi terreni, di natura economica, politica e dinastica. Era divenuta addirittura una moda dare un colore religioso a tutti gli avvenimenti. In tutte le città libere dell'impero apparve del resto evidente che la Riforma protestante era strettamente legata al desiderio di profonde modificazioni sociali e politiche.
3. Lesigenza di una riforma Che l'appello a una riforma della chiesa si fosse diffuso in modo tanto generale dipese naturalmente, da una parte, dal lungo pròcrastinamento delle riforme richieste, ma, d'altra parte, fu anche un indice del fatto che la chiesa continuava a essere pur sempre la potenza spirituale predominante, che permeava della sua esistenza l'intera struttura sociale. Proprio perché la chiesa era ovunque presente, ogni deficienza ecclesiastica appariva, infatti, all'opinione pubblica ancor più grave e colpevole. I Gravamina nationis germanicae, cui si fece sempre più spesso riferimento dal Libello di Magonza (1451) in poi e che furono riassunti nella dieta di Worms (1521) in cento punti, mossero violente critiche alle pratiche curiali di tassazione e agli abusi crescenti della giurisdizione ecclesiastica, che fin dall'alto Medioevo erano divenuti una triste pratica della chiesa. Un profondo disagio si era diffuso nella chiesa istituzionaie e molti furono quelli che si allontanarono da questa chiesa ‘visibile' per rivolgersi a una chiesa puramente spirituale e ‘invisibile'. L’idea della ecclesia spiritualis, della ‘chiesa dello Spirito Santo’, che avrebbe sostituito la chiesa pontificia, fu sviluppata dall'abate
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Gioacchino da Fiore (circa 11301202 )־e trovò larghi consensi, grazie soprattutto all’attività dei francescani spirituali del xm e del XIV secolo. Essa si riallacciava all’attesa apocalittica dell’ultimo Medioevo e favorì il fiorire di nuove suggestive forme di pietà, che cercarono spesso il loro appagamento religioso al di fuori della chiesa. Questa 'nuova devozione’, tuttavia, non ebbe bisogno di porsi in una posizione apertamente ostile alla chiesa e potè continuare a svilupparsi accanto a essa. La devotio moderna, per esempio, fondata a Deventer intorno all380 dall’olandese Gerhard Groote (1340-1384), si mantenne sempre fedele alla chiesa. Essa mirava a una forma di pietà squisitamente personale e intima, che attingeva forza non tanto dalla partecipazione alla vita liturgica e sacramentale, quanto piuttosto dalla tacita contemplazione della passione di Cristo e dallo spirito del discorso della montagna. Nella celebre Imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis (13801471)־, che faceva parte del gruppo dei 'Fratelli della vita comune’, e quindi dei seguaci di Groote, chiesa e sacramenti non hanno quasi importanza. La lettura privata della sacra Scrittura costituisce il nucleo essenziale della devozione; i sacramenti e particolarmente il santo sacrifido della messa non sono più vissuti come reale riattualizzazione del sacrificio della croce, ma appaiono nel testo dell ,Imitazione una pura occasione per un esercizio privato di meditazione. La de־ votio moderna, che mirava essenzialmente a una riforma all’interno della chiesa, sottovalutando la chiesa e l’ordine sacramentale di sai־ vezza, ha tuttavia «preparato il terreno allo spiritualismo di Lutero» (Erwin Iserloh).
4. Il nominalismo A minare dall’interno il concetto di chiesa contribuì però soprattutto il nominalismo del teologo francescano inglese Gugliel־ mo d’Ockham (12901349)־, che, con la sua via moderna, rifiutò e combattè decisamente la via antiqua indicata da Tommaso d’Aqui־ no. L’intima e ordinata connessione che Tommaso aveva visto splendere ovunque nella creazione e che gli aveva permesso, grazie al rapporto analogico fra Dio e le creature {analogia entis)f di risali
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re dalla natura a Dio (dimostrazione naturale dell’esistenza di Dio), era stata dichiarata da Ockham impossibile. Per lui tra la natura e il soprannaturale non esiste alcun ponte; Dio e uomo sono separati l’uno dall’altro da un abisso insuperabile per la ragione umana. Solo se Dio si rivela all’uomo, questi può conoscerlo. Allo scetticismo di fronte alla ragione umana e alla natura faceva riscon־ tro la grande fiducia che Ockham aveva nella rivelazione. Solo la sacra Scrittura rivelata era per lui il fondamento e la fonte della nostra fede: già si annuncia qui il principio del sola Scriptum di Lutero. La ragione, osserva sempre Ockham, è impotente e la fede sola può condurci a salvezza: affiora qui già il principio del sola fide di Lutero. Concludendo, per Ockham la natura umana non è di per sé capace di raggiungere alcunché di certo e tutto quindi è grazia, pura grazia. La dottrina tomista, secondo la quale la grazia presuppone la natura e si fonda su di essa, fu completamente rigettata dallo scetticismo dimostrato da Ockham di fronte alla natura. Lutero, in seguito, riprenderà e svilupperà la dottrina del sola gratia e l’eresia del riformatore sta proprio nell’aver assolutizzato i tre sola. Ora, proprio perché il nominalismo riponeva la sua fiducia esclusivamente nella fede e nella rivelazione, l’importanza dei sacramenti e della chiesa sacramentale nel processo di salvezza andò sempre più diminuendo e si ritenne che l’uomo, per salvarsi, pòtesse anche fare a meno di essi. Lutero si riallaccerà chiaramente alla dottrina ockhamista e appare evidente la parte importante che questa ebbe nello sviluppo della Riforma protestante.
5. Umanesimo e biblicismo Fra i movimenti di pensiero che preludono alla Riforma protestante vanno ricordati in modo particolare l’umanesimo e il biblicismo. La recente ricerca storica ha dimostrato in modo inequivoca־ bile che già prima della Riforma esisteva un ‘movimento biblico’. Lutero, quindi, non «tirò fuori la sacra Scrittura di sottobanco», ma crebbe egli stesso in questa atmosfera di biblicismo: la devotio moderna, l’ockhamismo e l’umanesimo cristiano sono stati tutti alla base dell’interesse per la sacra Scrittura e si può affermare con sicurezza che il ‘movimento biblico’ sarebbe continuato a fiorire e
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a svilupparsi all’interno della chiesa cattolica se i Riformatori con la loro parzialità (sola) non !,avessero troppo esaltato e avocato unicamente a sé. Erasmo da Rotterdam, il principe degli umanisti, si guadagnò grandi meriti per il suo riferirsi alla sacra Scrittura e la sua importanza nella Riforma è tale che sarà necessario soffermarsi un poco sulla sua persona.
§ 38• Erasmo da Rotterdam e Pumanesimo Erasmo, nato a Rotterdam attorno al 1466 da un religioso e dalla figlia di un medico, ricevette un’eccellente educazione nella celebre scuola umanistica di Deventer (1474-1484) e, frequentando i ‘Fratelli della vita c o m u n e ’, ebbe modo di co n o scere la devotio moderna. Nel 1486 entrò nell’ordine dei canonici regolari di sant’Agostino, a Emmaus, e nel 1492 fu ordinato sacerdote. Fu segre־ tario del vescovo di Cambrai (1493-1495) e studente a Parigi (14951499)־, ove proseguì con assidua diligenza gli studi umanistici. Egli riuscì ben presto a rendersi maestro del latino classico, che padroneggiò ancor meglio della sua stessa lingua materna. L’edizione di una serie di libri di esercizi latini e di grammatiche consolidarono stabilmente la sua fama di umanista e contribuirono a fare del latino la lingua degli eruditi. In Inghilterra (14991500 )־Erasmo, vivendo nella cerchia di Tommaso Moro, di John Fisher e di John Colet, di cui fu particolarmente amico, imparò a conoscere una forma di umanesimo profondamente cristiano, tanto che fu indotto a rivolgersi nuovamente allo studio della sacra Scrittura. Imparò così il greco e l’ebraico e, nel 1516, pubblicò la sua prima edizione critica del Nuovo Testamento greco che lo rese universalmente famoso e lo pose al centro del movimento biblico e dell'umanesimo cristiano. Erasmo aveva premesso alla sua edizione un’ampia introduzione, nella quale esponeva le sue idee per una riforma della chiesa e della teologia, riforma che auspicava basata interamente sulla sacra Scrittura. Già nel suo Enchiridion militis christiani (1503) e nel suo Laus stultitiae [Elogio della follia] (1509) aveva acutamente criticato,
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con ironia pungente, gli abusi esistenti nella chiesa e nella vita e ora, nella sua introduzione al Nuovo Testamento, sviluppò la sua philosophia Christi: una concezione della vita cristiana ispirata direttamente al discorso della montagna. Nelle anime doveva tornare a regnare lo spirito semplice e schietto del vangelo e tutta la zavorra della tradizione ecclesiastica doveva essere spazzata via. «Tollanturabusus; non substantia»: gli abusi dovevano essere eliminati, ma si doveva lasciare intatta la sostanza della fede cristiana, così suonano testualmente le sue parole. Erasmo aveva pienamente compreso i problemi più scottanti della sua epoca e, al tempo stesso, aveva saputo unire saldamente il desiderio di riforma al vangelo. Tutti gli occhi erano rivolti su di lui. Sarebbe forse stato lui !,iniziatore della riforma tanto desiderata? Gli umanisti lo acclamavano, entusiasti; il mondo intero era pronto ad ascoltarlo. I princìpi da lui proclamati per una vera riforma di tutta la vita cristiana, che muovesse dalla fonte, vale a dire dalla sacra Scrittura e da una pura e genuina teologia biblica, corrispondevano alle esigenze generali e per questo le sue concrete pròposte riformatrici trovarono consensi entusiasti. In quello stesso momento Martin Lutero fece la sua comparsa. Erasmo, che ebbe notizia di lui solo dopo la disputa di Lipsia, vide in Lutero un umanista ispirato dalle sue stesse idee, un alleato, e lo incoraggiò. Ben presto il destino di Lutero fu posto nelle sue mani. Nel novembre del 1520 Erasmo si incontrò a Colonia con Federico il Saggio, il principe territoriale di Lutero, che gli chiese di manifestargli la sua opinione su Lutero, ed Erasmo in quell'occasione persuase il principe elettore nella sua decisione di farsi garante per Lutero. Tuttavia, ben presto Erasmo si distaccò dall’impetuoso e appassionato monaco di Wittenberg. Il dotto olandese, dall’animo sensibile e pieno di ottimismo umanistico, che vedeva nella natura il bene e riconosceva nella libertas spiritus la premessa necessaria a ogni forma di cultura umana e a ogni vera devozione, intuì lo scetdeismo nominalistico di Lutero di fronte alla natura e alla ragione. Nel suo scritto Diatriba de libero arbitrio (1524) egli mosse, infatti, una dura critica a un punto assai importante della dottrina luteràna. Lutero gli rispose immediatamente con uno scritto polemico violentissimo, De servo arbitrio (1525). In seguito il Riformatore
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dichiarerà che Erasmo era stato Tunico fra i suoi oppositori ad aver colto chiaramente il nucleo essenziale della sua dottrina. Erasmo prese ancora una volta posizione con i suoi scritti contro Lutero (1526/27) e, da allora, mantenne sempre verso di lui un atteggiamento negativo e severo, e la maggior parte degli umanisti condivise la sua opinione. Dal 1521 Erasmo visse a Basilea, ove curò !,edizione di molti scritti di Padri della chiesa, ma quando, nel 1529, la Riforma protestante fu introdotta violentemente nella città, egli abbandonò la Svizzera e si recò a Friburgo in Brisgovia. Da qui potè esercitare una certa influenza sulle trattative della dieta d'Augusta (1530). Instancabile, egli si adoperò per la pace e sconsigliò decisamente di far uso di qualsiasi procedimento violento contro i neofiti luterani. Era molto meglio, pensava, sopportare il movimento di Lutero che far scoppiare una guerra di religione. Ci avrebbe pensato il tempo a risanare le ferite; per il momento la cosa più importante era isolare il monaco (Lutero) e gli altri fanatici, e i cuori e le coscienze avrebbero ritrovato da soli la strada dell'unità. Il suo motto era: «Alla vera devozione attraverso la libertà dello spirito». La vera religione cristiana e la devozione sincera non potevano essere certo messe in pericolo dalla scienza, ma solo dall'ignoranza e dalla mancanza di cultura, le quali asserviscono gli uomini e li rendono intolleranti, fanatici e litigiosi. Erasmo aborriva il modo di procedere tumultuoso, fanatico e irrispettoso dei Riformatori, ma al tempo stesso ammoniva instancabilmente di guardarsi da una fedeltà ottusa e caparbia alle vecchie tradizioni cattoliche. Egli cercò sempre di trovare la sua strada fra questi due estremi. Si spense nel 1536 a Basilea, dove aveva fatto ritorno poco tempo prima della sua morte. Le sue ultime e più importanti opere furono consacrate al tema della riconciliazione (De sancienda ecclesiae concordia, 1533). Con questi ultimi scritti Erasmo gettò le basi della cosiddetta ‘teologia di mediazione', che ebbe per lungo tempo numerosi seguaci in campo cattolico (Witzel, Pflug, Cassander) e che fu anche particolarmente coltivata nel protestantesimo da uomini quali Melantone e Butzer. In molte regioni, soprattutto nella Bassa Renania, l'erasmianesimo continuò a esercitare per lungo tempo la sua influenza e favorì un pacifico confronto fra cattolici e
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luterani finché, negli anni sessanta del XVI secolo, questo confronto ebbe fine, per il cristallizzarsi delle confessioni in rigidi blocchi opposti.
Il tentativo di mediazione erasmiano-umanistico è, ancor oggi, valutato e criticato in modi diversi. Alcuni storici vedono in esso la ‘terza forza’ nella lotta delle diverse confessioni e si dolgono che esso non abbia incontrato maggior seguito (Friedrich Heer). Altri, invece, gli rimproverano di aver recato con la sua mancanza di chiarezza gravi danni alla chiesa cattolica e in particolar modo al suo dogma (Joseph Lortz). Altri, infine, credono «che proprio il vecchio Erasmo fosse sulla strada giusta» (Karl August Meissinger) e, in tempi più recenti, si è energicamente affermato che il vecchio Erasmo, l’umanista cristiano, non fu né uno scettico antidogmatico, né un libero pensatore, bensì un profondo credente, un cattolico e un teologo ancorato alla rivelazione e fedele alla chiesa (Karl Heinz Oelrich).
§ 39. Martin Lutero e la sua evoluzione a riformatore «Raramente è apparso sulla scena del mondo un individuo che abbia avuto, in un processo storico di violente e radicali trasformazioni, in una rivoluzione di grande stile, un’importanza pari a quella che ebbe Martin Lutero per la Riforma» (Joseph Lortz). Anche se il riformatore non espresse quasi mai un’idea che non fosse già stata pensata e detta prima di lui, tuttavia egli impresse ovunque e in modo così netto il suo marchio personale, che tutto apparve nuovo e come nuovo venne percepito dai contemporanei. La Riforma protestante fu opera peculiare di Lutero, anche se resta vero il fatto che egli avviò l’intero movimento riformistico in modo del tutto involontario. Lutero accese solo la scintilla su quel barile colmo di polvere, in cui erano concentrate tutte le inquietudini religiose, spirituali, politiche e sociali del tempo. In seguito, però, con il peso della sua personalità, egli seppe dare a questo incendio una forza e una violenza incontenibili.
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1. Limmagine cattolica di Lutero L’immagine di Lutero offerta dalla storiografia cattolica ha subìto una profondissima trasformazione dopo le monografie di Heinrich Denifle (1844-1905) e di Hartmann Grisar (18451932)־. La spiacevole polemica ha ceduto il passo alla seria ricerca storica, tesa a comprendere la figura del riformatore nel quadro generale della sua epoca e a interpretare correttamente la sua volontà. Oggi si dubita molto meno della purezza delle sue intenzioni riformatoci e della legittimità delle sue esigenze per una riforma radicale delle critiche condizioni della chiesa del tardo Medioevo. Se, infatti, si studia più da vicino il periodo e Puomo, non si può fare a meno di constatare che Lutero, in verità, fu solo un rappresentante di una potente e imperiosa volontà di riforma all’interno della chiesa e appare addirittura tragico il fatto che egli, con la sua energica personalità, non sia rimasto all’interno della comunità ecclesiale, ma sia invece divenuto riformatore contro di essa. Quando, nel 1517, Lutero si mosse contro il traffico delle induigenze del domenicano Johann Tetzel (circa 1464-1519), egli si considerava ancora un difensore della pura dottrina della chiesa contro un abuso che veniva perpetrato sulle cose sacre in un modo veramente vergognoso. Ma il suo conflitto con i domenicani era, in fondo, già adombrato dai conflitti delle scuole teologiche del tempo. Alla luce della sua concezione nominalista-ockhamista molti pròblemi apparivano configurati diversamente da quelli proposti dalle teorie tomistiche della Larda scolastica e sostenuti da Tetzel. Molti problemi della teologia preriformistica non erano stati ancora chiarificati dal magistero ecclesiastico e solo il concilio di Trento risolverà molte incertezze dottrinali. All’epoca di Lutero quei problemi potevano essere ancora discussi liberamente nelle diverse scuole teologiche e quando Tetzel presentò la sua opinione come dottrina della chiesa e si atteggiò a giudice, Lutero si sentì provocato e rispose. La risposta del monaco agostiniano fu del resto, in armonia con il suo temperamento, altrettanto parziale e rigida. Da un dissidio di scuole si giunse così a un conflitto radicale, nel quale indubbiamente, oggi lo possiamo ben dire, la posizione tomista appare di gran lunga la migliore, solo che essa fosse stata rettamente insegnata.
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Molti attacchi luterani alla dottrina della chiesa sarebbero certo stati superflui, se la teologia cattolica dell’epoca che precede la Riforma fosse stata più chiara. Ciò appare evidente se si studia il pensiero teologico di quel tempo sulla questione delle indulgenze, sulla teoria della giustificazione, sull’interpretazione del sacrificio della messa e dei sacramenti, sulla dottrina della chiesa e, in particolare, sul primato papale, tanto per ricordare solo alcuni punti essenziali. La responsabilità maggiore di questo travisamento va ascritta tuttavia alla teologia nominalistica e Lutero a essa aveva appunto informato la sua dottrina, di essa era vissuto e si professava apertamente seguace. Non si può affermare, invece, che il riformatore conoscesse sufficientemente la vera Scolastica tomistica e, poiché era portato a vedere tutto nominalisticamente, molte cose che gli apparvero di dottrina cattolica non erano invece affatto cattoliche, bensì proprio nominalistiche. Gli accadde così spesso di combattere un cattolicesimo che, in realtà, non era mai esistito (Lortz). Lutero ha inoltre contribuito notevolmente, con le sue frequenti esposizioni deformanti della dottrina cattolica, ad aumentare ancor più le oscurità. Questa critica oggettiva è pienamente legittima e solo su questa base è possibile comprendere in tutta la sua reale tragicità la Riforma protestante, che è collegata in modo strettissimo alla posizione teologica e al carattere personale di Lutero.
2. La formazione di Lutero Nato a Eisleben il 10 novembre 1483 da una famiglia di piccoli proprietari terrieri e cresciuto a Mansfeld, dove il padre Hans Luder (= Lothar) aveva iniziato una nuova attività come minatore, Martin respirò profondamente l’atmosfera di quella pietà popolare dell’ultimo Medioevo, cui abbiamo già accennato, e che era caratterizzata da una eccessiva credulità nelle streghe e nel diavolo e da altre forme di grossolana superstizione. Queste forme di devozione popolare non avevano tuttavia mai rotto i legami con la chiesa: si viveva nella chiesa e con la chiesa, così come la chiesa viveva nel e con il popolo. Anche lo sviluppo spirituale di Martin Lutero si compì dunque all’interno stesso della vita ecclesiale: scuole eie-
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mentari a Mansfeld (14891495)־, scuola di latino a Magdeburgo (14961497)־, presso i Fratelli della vita comune, da cui ricevette lo spirito della devotio moderna\ poi a Eisenach (14981501 )־dove trovò, fra gli altri, nel vicario Braun un sacerdote vero amico. Nel 1501 Lutero si iscrisse alTuniversità di Erfurt in cui compì gli studi filosofici e nel 1505 divenne magister artium. Erfurt ebbe grandissima importanza nell’orientamento teologico di Lutero. Qui, infatti, veniva insegnata la via moderna ockhamistico-nominalistica in filosofia e in teologia, e Tanimo aperto e sensibile del giovane Martin si trovò subito impegnato nelTinquietante dialogo religioso fra Dio e l’uomo. Lutero sentì profondamente la grandezza e l’assolutezza della volontà divina, di fronte alla quale l’uomo piccolo e meschino sprofonda nel nulla, e imparò a comprendere tutto alla luce della volontà e del giudizio di Dio. Peccato e grazia, bene e male non dipendono dall’uomo, ma da Dio. Se Dio contempla l’uomo benignamente, l’uomo è buono, ma se l’occhio di Dio si posa su di lui con collera, allora l’uomo è cattivo. Se Dio vuole, può guardare al peccatore con clemenza e quest’ultimo sarà allora giustificato, e dunque ‘giusto’; non per questo l’uomo cessa tuttavia d’essere un peccatore, ma Dio lo considera giustificato (simul iustus - simul peccator). Dio, nel donare la sua grazia, è assolutamente libero e decide a suo arbitrio; l’uomo non può fare assolutamente nulla per ottenerla; egli può solo sperare e confidare che Dio voglia essere clemente con lui e deve perciò rivolgersi a Dio con abbandono assoluto perché né i sacramenti, né la chiesa come istituzione di salvezza lo possono aiutare. Tutto dipende dal suo proprio e personale atteggiamento soggettivo. Secondo la volontà del padre, Martin doveva diventare un dotto giurista, ma nell’estate del 1505, mentre stava ritornando a Erfurt, fu sorpreso da un terribile temporale e un fulmine per poco non lo uccise. Il giovane fece allora voto di entrare in convento (2 luglio 1505) e con slancio precipitoso, ma certo già preparato interiormente a questo passo, il 17 luglio si presentò al severo convento degli eremiti agostiniani di Erfurt e qui, compiuto il noviziato e ordinato sacerdote il 3 aprile 1507, iniziò i suoi veri e propri studi teologici superiori. Questi si basarono soprattutto sulla rigorosa teologia nominalistica di Gabriel Biel. In seguito Lutero parlò
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spessissimo delle terribili lotte interiori che lo angustiarono durante il periodo trascorso in convento. L’intensa meditazione della dottrina della grazia e della predestinazione nelle opere di Agostino, il santo patrono del suo ordine, la propria personale esperienza del peccato e la dottrina ockhamistico-nominalistica su Dio, assolutamente volontaristica, cooperarono tutte insieme a portarlo all’orlo di una gravissima crisi teoiogico-religiosa. Meditando l’eterna predestinazione fu assalito dall’angoscia. Egli sentiva il suo fallimento, si credeva abbandonato e condannato da Dio e cadde in preda a una profonda depressione spirituale, dalla quale non riuscirono a sollevarlo né le confessioni, frequentemente ripetute, né tutti gli altri aiuti sacramentali della chiesa. Lutero, del resto, per la sua stessa formazione spirituale nominalistica, non comprese mai giustamente la realtà della grazia sacramentale e la sua anima trovò sollievo soltanto nelle consolanti parole del suo superiore dell’ordine, Johann von Staupitz (circa 1465-1524), il quale lo consigliava a non tormentarsi continuamente domandandosi se fosse o no predestinato, ma a meditare invece semplicemente sulle piaghe di Cristo, che era morto per noi e per noi aveva offerto la sua sofferenza espiatrice al Padre. Frattanto Martin Lutero aveva continuato i suoi studi teologici a Wittenberg (1508/09) e qui, dopo una breve interruzione per un viaggio a Roma (1510/11), fu promosso dottore in teologia. Nel 1512 fu chiamato alla cattedra di scienze bibliche, che fino ad allora era stata occupata da Staupitz a Wittenberg, e tenne lezioni sui Salmi (1513-1515), sulla Lettera ai Romani (1515/16), sulla Lettera ai Galati (1516/17), sulla Lettera agli Ebrei (1517/18) e di nuovo sui Salmi (1518/19). Queste prime lezioni, parte delle quali ci sono state conservate nei manoscritti originali e parte in trascrizioni di studenti, ci offrono alcune spiegazioni sul futuro sviluppo interiore del riformatore. In questo contesto dottrinale ha grandissima importanza il cosiddetto Turmerlebnis (esperienza della torre), avvenuta nella stanza della torre del convento di Wittenberg, in cui durante una tranquilla meditazione su Rm 1,17 gli si aprì il significato della ‘giustizia’ di Dio. Lutero era incessantemente travagliato da una domanda, che nasceva da una profonda inquietudine religiosa: come troverò un Dio misericordioso? H suo problema era
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molto più teologico che psicologico: avendo perduto la fiducia in Dio, egli lottava per ritrovare una nuova fede e scoprì che la 'giustizia di Dio’, di cui Paolo parla in Km 1,17, non era quella severa giustizia di giudice implacabile con la quale Dio condanna con inesorabile durezza i poveri peccatori, ma invece la giustizia di grazia, per la quale egli, per amore della sofferenza redentrice del suo diletto Figlio, mosso da pura misericordia, guarda con clemenza al fedele peccatore e perciò lo ‘giustifica’, lo rende ‘giusto’. A quando risale questa esperienza della torre e che cosa contiene di nuovo, da un punto di vista teologico? In un primo tempo i teologi protestanti furono propensi a litenere che questa esperienza di Lutero risalisse ai primi anni della sua vita conventuale (1511/12, oppure 1512/13), spinti soprattutto dalla preoccupazione di far cominciare prima possibile il moto riformista. I teologi cattolici si sono invece domandati quali fossero le tipiche connotazioni della Riforma protestante presenti nella scoperta di un Dio misericordioso e pietoso. Lutero, così si disse, riuscì a vincere in sé solo !’immagine nominalistica di un Dio arbitrario, della quale aveva fino ad allora molto sofferto, ma la nuova idea che egli acquisì di Dio fu proprio quella cattolica e appunto a essa egli era ritornato. Tutta !,‘esperienza della torre’, di conseguenza, andava interpretata cattolicamente. A ciò sembra corrispondere la precedente valutazione cronologica dei protestanti perché, a quel tempo, il pensiero e i sentimenti di Lutero erano ancora sicuramente cattolici. Solo lo storico cattolico H. Grisar ha affermato che !,‘esperienza della torre’ sarebbe avvenuta in un’epoca più tarda e precisamente negli anni 1518/19. Egli fondò questa sua tesi sulle dichiarazioni che lo stesso Lutero aveva fatto nella cosiddetta ‘grande autotesti־ monianza’ del 1545, in cui si afferma che il grande evento gli accadde prima che avesse tenuto, per la seconda volta, le sue lezioni sui Salmi. Ora, noi sappiamo che questa seconda lettura dei Salmi fu tenuta da Lutero negli anni 1518/19. È possibile anche dimostrare che, proprio in quel periodo, Lutero subì veramente una profonda trasformazione interiore. Già dal precedente commento alla Lettera agli Ebrei (estate 1517) appare evidente che Lutero si era ormai allontanato dalla concezione tradizionale cattolica di sa
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cramento e di chiesa, e si era creato una nuova teoria sulla giustificazione, come derivante soltanto dalla fede. Secondo la dottrina scolastico-tomista i sacramenti sono dei segni istituiti da Cristo che, ex opere operato (per l’efficacia oggettiva del sacramento stesso), contengono e comunicano la grazia quando siano ricevuti con fede e non si frappongano ostacoli alla grazia; perché, se è necessario avere la fede per riceverli, è tuttavia il segno sacramentale che comunica la grazia. Lutero, invece, priva il segno di qualsiasi valore e ritiene che la comunicazione della grazia avvenga ‘solo’ attraverso la fede {sola fide). La fede assume quindi un nuovo volto. Tommaso d’Aquino l’aveva strettamente congiunta con l’intelletto; per lui ‘fede’ significava anzitutto considerare e accettare come vere le verità della rivelazione. Che questo accogliere e credere le verità della rivelazione fosse anche una questione di cuore e di sentimenti era stato tuttavia fin troppo minimizzato nella tarda Scolastica. Lutero, nell’esperienza della torre, riscoprì personalmente questa fede e ne trasse le sue conseguenze: «Corde enim creditur ad iustitiam» («Con il cuore, infatti, si crede per ottenere la giustizia», Rm 10,10). La fede diventa perciò una questione di fiducia o, per dir meglio, ritorna nuovamente a esserlo! Lutero scopre quindi un principio cristiano, che era stato solo dimenticato ed era passato in seconda linea nella riflessione teologica, se ne impadronisce totalmente e, assolutizzandolo, giunge a dar valore nel processo di salvezza solo a questa nuova fede fiduciale (fides = fiducia). Da Rm 1,17 egli deduce che Dio dona a colui che gli si avvicina con piena fiducia nella morte redentrice di Gesù Cristo la sua giustificazione di grazia e gli ‘imputa’ i meriti di suo Figlio. La singolarità dell’esperienza della torre non consiste dunque soltanto in una nuova idea di Dio, ma anche nel nuovo atteggiamento assunto da Lutero di fronte a Dio: la fiducia totale, che si fonda sulla salvezza promessa dalla parola stessa di Dio, vale a dire dalla sacra Scrittura, è la sola a decidere; sola fide e sola Scriptum appaiono infatti nel pensiero luterano del tutto omogenei. La chiesa, come istituto di salvezza, e i sacramenti, in quanto mezzi che comunicano la grazia, sono invece considerati quasi irrilevanti e passano in seconda linea. Solo la fede, basata sulla speciale pròmessa di salvezza contenuta nella parola di Dio, decide dell’eterna
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salvezza e solo dalla sacra Scrittura Puomo riceve la grazia e la fede: sola Scriptura è il principio formale del protestantesimo, sola fide e sola gratia ne cosiituiscono invece il principio materiale. H principio della riforma luterana va cercato in questa nuova forma di conoscenza ed è la conseguenza diretta di un’esperienza soggettiva. Lutero non divenne un riformatore perché si era scandalizzato per gli abusi ecclesiastici, ma perché aveva raggiunto una nuova posizione religiosa e teologica che si collocava al di fuori della chiesa sacramentale ed era incompatibile con la vita religiosa dell’antica chiesa. Diversamente da quanto avevano fatto Erasmo e altri riformatori, Lutero poneva in discussione la chiesa stessa. Non si trattava perciò più di riforma, nel senso di una purificazione interiore all’interno della chiesa, ma della Riforma ‘protestante’.
3. La questione delle indulgenze Lutero aveva avuto modo di conoscere in confessionale, come padre spirituale, le nefaste conseguenze della superficiale predicazione delle indulgenze da parte di Johann Tetzel. Le 95 tesi da discutere, che egli in seguito formulò sul valore e l’efficacia delle indulgenze e che inviò il 31 ottobre 1517 ai vescovi competenti, all’arcivescovo di Magonza, Alberto di Brandeburgo, e al vescovo di Brandeburgo, Girolamo Schulz, non trattavano dell’indulgenza in quanto tale; esse volevano solo far valere, contro un abuso e un’errata e grossolana rappresentazione («Appena il soldo in cassa ribai־ ta, l’anima via dal purgatorio salta»), la sua propria teoria, recentemente acquisita nell’estate del 1517, sulla fede come unico fattore decisivo per la salvezza. Lutero era pienamente cosciente di aver toccato un problema teologico suscettibile di discussione e nella lettera di accompagnamento ai suddetti vescovi chiedeva chiarimenti e, al tempo stesso, invitava i predicatori di indulgenze a una maggiore discrezione. Egli cercava il dialogo e non la lotta aperta. Secondo le recenti scoperte di Erwin Iserloh (19151996 )־non si può nemmeno affermare che Lutero abbia affisso protestando le sue tesi sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg, come voleva invece una vecchia leggenda messa in circolazione per la prima volta da Filippo Melantone nel 1546 e da allora ripetuta da altri
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mille volte. Lutero inviò le sue tesi solo ai vescovi, i cui nomi abbiamo già ricordato, e ad alcuni suoi dotti amici: a Giovanni Lang a Erfurt e a Cristoforo Scheurl a Norimberga. Quest’ultimo, alTinsaputa di Lutero e senza esserne affatto autorizzato, le fece stampare e subito esse si diffusero in tutta la Germania. Tali furono gli effetti imprevisti di questa divulgazione che Lutero stesso, in un primo momento, se ne preoccupò sinceramente. La divulgazione e l’approvazione generale di quelle tesi dimostrarono tuttavia quanto fossero diffuse l’ira e lo sdegno per Tignobile mercato delle indulgenze, esercitato dalla curia in accordo con l’arcivescovo di Magonza e i banchieri Fugger, e affidato ai domenicani. La maggior parte dei tedeschi lesse nelle tesi di Lutero solo l’aperta protesta, ma non considerò affatto il profondo problema teologico che esse contenevano. L’arcivescovo Alberto denunciò l’autore a Roma, senza neppure degnarlo di una risposta; egli era stato, infatti, danneggiato nei suoi affari poiché la predicazione sulle indulgenze dovette essere interrotta e così egli non potè ottenere quella somma che si era ripromesso e che gli era stata anticipata dai banchieri Fugger - la predicazione sulle indulgenze avrebbe dovuto rendere globalmente la somma di 52.286 ducati. Nel giugno 1518 si aprì a Roma il processo contro Lutero, sospettato di eresia; in esso furono prese in esame le frasi erronee delle sue tesi. Lutero fu chiamato a Roma per rendere conto del suo operato, ma il suo sovrano, il principe elettore di Sassonia, Federico il Saggio, ottenne che egli non fosse interrogato a Roma ma ad Augusta, in occasione della dieta dell’impero, nell’ottobre 1518, dal cardinaie legato Tommaso Caietano de Vio. Lutero rifiutò di ritrattare, fuggì di nascosto da Augusta e si appellò per mezzo di legati al papa e poco dopo (28 novembre 1518) a un concilio ecumenico. La situazione cominciava ormai a precipitare. Fra i pochi che avevano compreso giustamente Timportanza delle tesi luterane c’era il teologo di Ingolstadt Giovanni Eck (1486-1543), che si rese subito conto che esse andavano molto al di là della critica alla prassi allora in uso nella concessione delle induigenze. Lo stesso Lutero, del resto, non aveva ancora ben capito che le sue tesi mettevano in dubbio la natura delle indulgenze, Tautorità papale nel conferirle e, infine, la stessa struttura sacramenta
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le della chiesa. Durante la disputa di Lipsia (27 giugno - 16 luglio 1519) Eck attaccò duramente Lutero. Ma allora non si discusse più delle indulgenze, bensì dell’autorità papale, della possibilità o meno di errare da parte dei concili e dell’intero ordine sacramentale della chiesa intesa come comunità di salvezza. Lutero negò che il primato fosse fondato sulla sacra Scrittura (Mt 16,18), e avanzò la tesi che anche i concili ecumenici potevano sbagliare, come per esempio aveva errato il concilio di Costanza a proposito della questione hussita. Con tali affermazioni Lutero si spinse pericolosamente avanti sulla strada che lo porterà a separarsi dalla chiesa. Eck, dopo la disputa, andò a riferire a Roma. H processo contro Lutero, che era stato sospeso per riguardo a Federico il Saggio e alla situazione politica in cui si trovava la Germania prima della eiezione dell’imperatore Carlo V, fu nuovamente riaperto a Roma all’inizio del 1520 e si chiuse con il riconoscimento d’eresia. Nella bolla Exsurge Domine (15 giugno 1520) Lutero fu minacciato di scomunica se, entro 60 giorni, non avesse ritrattato le 41 proposizioni che erano state trovate eretiche nei suoi scritti. Eck stesso portò la bolla papale in Germania.
4. La rottura con la chiesa I punti di controversia erano intanto mutati; ormai non si disputava più sulle indulgenze, ma era la chiesa stessa a essere duramente attaccata. La colpa di questi nuovi conflitti teologici può essere veramente imputata a Eck? Sembrerebbe quasi che egli sia stato il solo ad avere reso evidente a Lutero che la sua contestazione verteva direttamente sul problema della chiesa. In verità egli fu il primo a riconoscere, nelle sue linee essenziali, il problema aperto da Lutero e a richiamare, con l’acutezza teologica che lo caratterizzava, l’attenzione su di esso, ma noi ci rendiamo ben conto che la pròblematica toccata da Lutero era, per così dire, una componente essenziale del suo sviluppo interiore e che egli stesso, trascinato dalla sua nuova concezione della fede, sarebbe sicuramente giunto al punto in cui la sua strada si sarebbe allontanata da quella della chiesa. Eck perciò aiutò Lutero soltanto ad acquistare una coscienza più chiara della sua posizione.
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Non a caso, infatti, Lutero, dopo la disputa di Lipsia, approfondì per la prima volta in modo più rigoroso il suo concetto di chiesa e si rese conto che la sua esperienza religiosa, fondata su un abbandono diretto e fiducioso, ma totalmente soggettivo, a Cristo, non lasciava posto a nessuna mediazione. D ’improvviso i sacramenti e Finterà vita ecclesiale-religiosa gli apparvero addirittura di ostacolo nella via che conduceva a Dio. Egli parlerà poi di «giustificazione attraverso le opere», per definire quell’atteggiamento spirituale per il quale l’uomo non vuol più aprire il suo animo alla grazia, ma aspira invece a conseguire personalmente la sua salvezza. Credere in questa ‘giustificazione’, per Lutero, non significava più confidare in Dio, ma era invece solo opera diabolica. Date queste premesse è chiaro come l’intera chiesa visibile istituzionale, nella quale, del resto, Lutero aveva già da tempo perso fiducia, apparisse ai suoi occhi come un’opera diabolica e il papa addirittura l’Anticristo, il malvagio nemico di Cristo, che guida gli uomini all’errore e usurpa il posto di Cristo, provocando l’ira di Dio. Con l’andar del tempo queste idee si rafforzarono nell’animo del riformatore fino a creargli una sorta di complesso, che egli non potè più dominare: il papa, per Lutero, fu sempre l’incarnazione stessa dell’Anticristo. Si comprende perciò la sua appassionata e irosa reazione alla bolla con la sua minaccia di scomunica che trovò espressione nei suoi tre grandi scritti riformistici del 1520, in cui attaccò senza alcun riguardo il papato e l’intera chiesa con tutti i suoi vizi e le sue imperfezioni, invitando non più alla riforma e al risanamento interiore, ma alla lotta aperta contro di essa: •A n den christlichen Adel deutscher Nation von des christlichen Standes Besserung [Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca sulla riforma della società cristiana.] (agosto 1520); • De captivitate babyIonica Ecclesiae praeludium (ottobre 1520); • Von der Freiheit eines Christenmenschen [Della libertà del cristiano\ (novembre 1520). Invece di trattati teologici Lutero lanciava ormai chiari appelli al popolo nel mondo, per mobilitarlo contro Roma e la chiesa. Scegliendo abilmente e trattando con icasticità trascinante tutti i punti
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dolenti della vita ecclesiale, che già da lungo tempo apparivano bisognosi di riforma, e facendosi portavoce della generale insoddisfazione, egli si mise alla testa di quella opposizione nazionale umanistica contro Roma, tanto diffusa nella Germania del suo tempo e divenne, in quei mesi, Teroe del popolo germanico. Per la maggior parte dei contemporanei, tuttavia, non apparve affatto chiaro che il programma di riforma proclamato da Lutero era nato sulla base di una nuova teologia, ma i desideri sinceri di un rinnovamento ecclesiale, condivisi da molti, confluirono con le teorie teologiche di Lutero e, prima o poi, finirono con il determinare un nuovo corso storico radicalmente ostile alla chiesa. Il teologo Lutero non fu dunque solo un riformatore; egli restò sempre un teologo e, proprio perché era teologo, divenne anche riformatore. Le riforme erano, infatti, necessarie, ma esse potevano e dovevano awenire all’interno della chiesa. La nuova dottrina teologica di Lutero, invece, non era più conciliabile con la dottrina della chiesa e pròprio per questo la sua riforma divenne la Riforma protestante. Da allora in poi il concetto di riforma divenne ambivalente. Oggi noi abbiamo cura nel distinguere tra ‘riforma’ (all’interno della chiesa) e ‘Riforma’ (protestante, al di fuori e contro la chiesa), ma per i contemporanei di Lutero questa distinzione spesso non fu affatto evidente. L’ambivalenza del concetto di riforma divenne così fatale per molti e, in modo particolare, per gli umanisti che tanto l’avevano desiderata e solo quando essi conobbero la vera natura della riforma di Lutero se ne allontanarono, seguendo l’esempio di Erasmo. Lutero ruppe chiaramente i suoi rapporti con la chiesa quando, il 10 dicembre 1520, bruciò pubblicamente, sulla piazza antistante la porta della città di Wittenberg (Elstertor), la bolla papale che gli comminava la scomunica, insieme ai libri di diritto canonico. H 3 gennaio 1521 Leone X, da Roma, scomunicò formalmente Lutero con la bolla Decet Romanum Pontificem. La separazione era ormai avvenuta.
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§ 40. La Riforma in Germania 1. La dieta di Worms, 1321 Venendo dalla Spagna, !,imperatore Carlo V (1519-1556) arrivò con un grande seguito ad Aquisgrana, dove il 23 ottobre 1520 ebbe luogo la sua incoronazione. Il giovane asburgo, nipote delTimperatore Massimiliano I (1493-1519), era stato eletto il 28 giugno 1519 ah'unanimità, dopo una agitata lotta elettorale contro Francesco I di Francia. Fino all'ultimo, papa Leone X (1513-1521) si era opposto alla sua elezione e, dato lo stato d'animo anticuriale imperante allora in Germania, il comportamento papale, a dire il vero, non aveva certo recato danno a Carlo. Appariva logico, quindi, che molti si aspettassero dall'imperatore una politica anticuria־ le. Carlo V fu accolto nella città con entusiasmo; Lutero gli dedicò il suo più acuto scritto polemico, redatto interamente allo scopo di aizzare sentimenti di indignazione e di odio contro Roma (An den christlichen A del... [Alla nobiltà cristiana...]). Egli gli dava il benvenuto e scriveva con veemenza: «Dove sei, ottimo imperatore Carlo? Dove siete, principi cristiani? Voi che vi siete promessi solennemente a Cristo nel battesimo, potete sopportare questa voce diabolica dell'Anticristo?». Ma Carlo, l'erede di un impero sul quale «non tramontava il sole», concepiva la sua missione imperiale nello spirito della grande tradizione medievale: come un sacro ufficio, che lo impegnava a proteggere la chiesa e la cristianità occidentale. All'imperatore stava altrettanto a cuore l’antica fede cattolica e l'unità della chiesa, quanto a Lutero premevano le sue nuove teorie. Ma, al contrario di quest'ultimo, che si lasciava sempre guidare dalla sua esperienza soggettiva, Carlo, che era pienamente radicato nella comunità ecdesiale, era abituato a subordinare i suoi interessi personali a questa comunità e a distinguere perciò la persona dal ministero, e non si lasciò mai trasportare dai suoi sentimenti personali di antipatia verso la persona di un papa al punto da venir meno al suo sacro ufficio. Anche in ciò egli si distingueva essenzialmente da Lutero. Ambedue, nel loro modo di agire, rispecchiavano il loro carattere. A Worms si trovarono l'uno di fronte all'altro.
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Fin dall’inizio Carlo non lasciò il minimo dubbio che nella questione di Lutero avrebbe rappresentato il punto di vista tradizionale dell’antica chiesa. A Lovanio e a Colonia (12 novembre 1520) egli aveva partecipato al rogo degli scritti luterani e si era proposto, appena Lutero fosse stato ufficialmente scomunicato dalla chiesa, di far cadere su di lui anche il bando dell’impero; solo a malincuore, aderendo alle richieste del principe elettore Federico il Saggio di Sassonia, accettò che Lutero fosse interrogato alla dieta di Worms. H 6 marzo 1521 egli firmò la lettera di citazione per Lutero, che assicurava un salvacondotto al riformatore. Ebbe luogo allora un avvenimento che appare singolare se considerato nel quadro dei rapporti della vita medievale: il 16 aprile 1521 si vide lo scomunicato Lutero, solennemente scortato dall’araldo imperiale Kaspar Sturm, fare il suo ingresso a Worms quasi sospinto dalla folla. Tutto il \iaggio, nonostante la scomunica che pesava su di lui, era stato per Lutero un corteo trionfale e ora tutti, ricchi e poveri, facevano ressa intorno al suo alloggio per poter vedere il celebre uomo. Lutero era ormai divenuto l’oggetto di maggior interesse della dieta imperiale. Il 17 aprile venne citato per il dibattito. Apertamente egli riconobbe, dinanzi all’imperatore e alla dieta riunita, i testi citati come suoi e alla domanda se egli li volesse difendere, richiese tempo per riflettere. Il giorno dopo Lutero tenne il suo energico e ben meditato discorso, nel quale rifiutò ogni ritrattazione. Così concluse: Finché non sarò stato convinto con testimonianze della Scrittura o con argomentazioni razionali perentorie, io mi sento legato indissolubilmente dai passi della Scrittura che ho riportato (nelle mie opere) e la mia coscienza rimane prigioniera della parola di Dio; io non credo né al papa, né ai concili perché è noto che essi spessissimo hanno sbagliato e si sono contraddetti. Ritrattare non posso e non voglio, poiché l’andare contro coscienza non è né cosa sicura né buona. Iddio mi aiuti! Amen.
Il discorso fece una profonda impressione ai membri riuniti nella dieta. Ma anche l’imperatore, il giorno seguente, tenne un discorso che aveva preparato egli stesso e che apparve altrettanto grandioso: esso rappresentò la prima confessione indipendente
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che !,imperatore pronunciò pubblicamente. Anche Carlo, il giovane sovrano dell'impero, seppe trar profitto dall'occasione che gli veniva offerta da quel momento di eccezionale importanza storica. Due uomini e due mondi erano di fronte: Voi sapete che io provengo da imperatori cristianissimi della nobile nazione germanica, da re cattolici della Spagna, da arciduchi d’Austria, da duchi della Borgogna; tutti costoro, fino alla loro morte, sono sempre stati dei figli fedeli della chiesa romana, difensori della fede cattolica, dei santi costumi, dei decreti e delle tradizioni cultuali. Tutto questo essi, dopo la loro morte, mi hanno lasciato in eredità; e io ho finora sempre vissuto seguendo il loro esempio. Anche ora, perciò, sono fermamente deciso ad attenermi a tutto quello che è stato stabilito dal concilio di Costanza. E certo, infatti, che è un singolo fratello in errore, quando si oppone all’opinione dell’intera cristianità, perché altrimenti, la cristianità avrebbe potuto sbagliare per mille anni o più. Per questo io sono anche fermamente deciso a impegnare il mio regno e la mia autorità, gli amici, il mio corpo e il mio sangue, la vita e l’anima. Poiché sarebbe un’onta per noi e per voi, membri della nobile nazione germanica, se nella nostra epoca, per nostra trascuratezza, entrasse nei cuori degli uomini anche solo una parvenza di eresia e ne venisse un qualche danno alla religione cristiana. Ieri abbiamo ascoltato il discorso di Lutero e io vi dico ora che rimpiango di avere esitato così a lungo a procedere contro di lui. Non lo ascolterò mai più. Egli ha certo il suo salvacondotto! Ma, d ’ora in poi, io lo considererò come notorio eretico e spero, che voi, come buoni cristiani, farete parimenti il vostro dovere.
Con ciò fu nettamente definita la posizione dell’impero di fronte a Lutero. Questi il 26 aprile partì da Worms, con un salvacondotto valido per ventun giorni. Strada facendo, alcuni cavalieri del suo principe elettore finsero di attaccarlo e lo portarono a Wartburg, per sottrarlo a ogni persecuzione. Qui egli trascorse i mesi seguenti lavorando alla sua traduzione del Nuovo Testamento, la quale, anche se non fu affatto la prima traduzione tedesca, rappresento tuttavia una «opera geniale per potenza creativa» (Lortz). Il suo alto valore linguistico e la celebrità del traduttore le procuraro־ no ben presto una larghissima diffusione. In quello stesso periodo Lutero stese anche diversi libelli d'occasione, fra cui quello sui Voti monastici', iniziando quella lunga serie di opere polemiche, in
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cui egli spesso diffamò con grottesche deformazioni le dottrine e le tradizioni cattoliche, e non esitò a trascinare nel fango ciò che per lui era ancora sacro: lo stato monacale, il sacrifìcio della messa, il sacerdozio, il celibato, il papato e altre cose ancora. H tono e la forma di questi scritti hanno, per la loro ‘grossolanità’, contribuito molto all’avvelenamento dell’atmosfera generale. La stampa, recente invenzione, provvide alla loro diffusione in massa. L’imperatore aveva intanto firmato, l’8 maggio del 1521, Teditto di Worms’, che decretava il bando dall’impero per Lutero e i suoi seguaci. H 25 maggio egli chiuse la dieta, quando ormai molti stati erano già partiti. L’attuazione dell’editto fu da allora e per molto tempo il problema di cui si occuparono le diete e l’alta politica. Carlo stesso, che tanto energicamente aveva stabilito il suo programma contro Lutero e i suoi seguaci, si vide costretto dalle guerre che dovette condurre a stare lontano dalla Germania per ben nove anni, e in questo tempo la dottrina di Lutero potè consolidarsi e diffondersi senza trovare ostacoli sul suo cammino.
2. Lo sviluppo della Riforma in Germania dal 1521 al 1530 Il quadro storico rivela anche in seguito, nel campo cattolico, il doloroso spettacolo di un cristianesimo superficiale, attento solo a sfuggire ogni responsabilità, teso interamente al proprio interesse, nel quale l’impetuosa predicazione di riforma di Lutero penetrò decisamente, trovando un’eco imprevista. Tutta la Germania sembrò passare dalla parte di Lutero. Già nella primavera del 1521 alcuni sacerdoti osarono sposarsi; il primo fu il prevosto Bartolomeo Bernardi, a Kemberg, vicino a Wittenberg. Lutero lo lodò espressamente per questo, sebbene trasgredisse palesemente il diritto imperiale. I membri di ordini religiosi che abbandonarono i loro conventi aumentarono sempre di più: a novembre, nella sola Wittenberg tredici eremiti agostiniani. Nel gennaio del 1522 il capitolo dell’ordine degli agostiniani, tenutosi a Weimar, permise a tutti i suoi membri di abbandonare Tordine e, ben presto, la provincia tedesca si sciolse completamente. Co
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minciò allora una vera fuga dai monasteri. Monaci e monache, che vivevano senza vocazione lo stato religioso, si considerarono liberi; interi conventi chiusero le porte. Naturalmente vi furono anche esempi di fedeltà agli ordini, come accadde per le clarisse di Norimberga, che guidate dalla loro badessa Caritas Pirckheimer resistettero a ogni pressione e anche alla persecuzione del consiglio della città. Nel dicembre del 1521 scoppiarono a Wittenberg dei tumulti contro i sacerdoti celebranti della chiesa parrocchiale. Carlostadio (Andreas von Bodenstein) e Gabriel Zwilling cominciarono a intradurre radicali riforme nella nuova organizzazione della chiesa. Lo scatenarsi di una furia iconoclasta nelle parrocchie, la comparsa dei cosiddetti profeti di Zwickau, che rivendicavano a sé una particolare ispirazione dello Spirito Santo, combattevano il battesimo dei bambini e creavano ovunque disordini, indussero Lutero, su richiesta di Filippo Melantone, ad abbandonare, nel marzo del 1522, il suo esilio di Wartburg per ristabilire l’ordine a Wittenberg. l ‘fanatici’, cui ben presto si unì il rivoluzionario Thomas Miintzer (1490-1525), che nel 1521, per le sue prediche ribelli, era stato cacciato da Zwickau, dettero ancora molto filo da torcere a Lutero. Essi sostenevano che Dio non si manifestava unicamente attraverso la ‘sola Scrittura’, ma anche attraverso la ‘luce interiore’ e la ‘parola spirituale’. Insieme al monaco apostata Heinrich Pfeiffer, Mùnzer predicava a Miihlhausen (Turingia), dove si era rifugiato nel 1524, la nuova teocrazia e pretendeva che si estirpasse Fautorità ‘empia’ del tempo. Lutero fece in modo che i magistrati della città allontanassero Miintzer da Miihlhausen e questi si vendicò diffondendo scritti maligni contro Lutero; più tardi Miintzer acquisterà una triste celebrità nella guerra dei contadini, finché nel 1525 sarà preso prigioniero e giustiziato. Frattanto i cavalieri dell’impero, guidati da Franz von Sickingen (1481-1523), si erano mossi a battaglia, avevano assalito l’arcivescovo di Treviri, teoricamente «per aprire la porta alla parola di Dio», ma in realtà per arricchirsi facendosi forti della nuova dottrina sui beni della chiesa. Dopo che ebbero saccheggiato villaggi e città, furono battuti dalle truppe dell’arcivescovo e dai suoi alleati, i loro castelli furono distrutti e Sickingen fu ucciso.
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Ma i disordini sociali continuarono e si allargarono. I contadini, confusi e stimolati dagli scritti riformatori di Lutero, attaccarono battaglia nel 1524. Ebbe allora origine, muovendo dalla Foresta Nera meridionale, il «più grande movimento di massa politico-sociale della storia tedesca» (Walther Peter Fuchs), che si diffuse in Svevia, Franconia, Alsazia e Turingia, fino al Tirolo e a Salisburgo. In un primo tempo il moto popolare sembrò quasi assumere un corso pacifico. Lordinamento federale di Memmingen del 1525 voleva essere, infatti, «un’alleanza cristiana secondo lo spirito del vangelo». Servendosi in parte delle stesse parole di Lutero, i capi dei contadini riassunsero le loro rivendicazioni nei «dodici articoli della classe contadina» (6 marzo 1525) e li sottoposero a Lutero. Questi rispose, nell’aprile del 1525, con il suo ‘invito alla pace’, nel quale fece appello alla coscienza dei principi e dei signori affinché venissero incontro alle richieste dei contadini, e a questi ultimi in־ giunse calma e pazienza. Ma quando gli giunse notizia degli incendi e degli assassini perpetrati da alcuni gruppi di contadini, Lutero compilò uno dei suoi scritti più virulenti, Wider die ràuherischen und mòrderischen Rotten der Bauern [Contro le bande brigantesche e assassine dei contadini], nel quale, senza riserve, si metteva dalla parte dei principi e delle autorità sollecitando da costoro un drasti־ co intervento. La catastrofe della guerra dei contadini, conclusasi con lo ster־ minio di questi ultimi, segnò anche una svolta nella storia della Ri־ forma. Come moto popolare essa fu gravemente compromessa e la sua prosecuzione fu affidata sempre più all’autorità dei principi. I contadini, delusi da Lutero, o ritornarono alla fede dell’antica chiesa, o divennero settari e abbracciarono l’anabattismo. Lutero perse così gran parte della sua popolarità. Le sorti del movimento luterano caddero nelle mani dei principi territoriali ed ebbe origine così la nuova fase della ‘riforma dei principi’ e dello sviluppo della chiesa territoriale. Alla Ubera organizzazione deUe comunità e alla decisione rehgiosa personale fu sostituito l’ordine dell’autorità, che ‘impose' la Riforma e il potere ecclesiastico venne affidato ai principi territoriaU (Sommo Episcopato). Con queste nuove disposizioni scomparve quella ecclesia spiritualis per la quale Lutero aveva tanto lottato; al suo posto sor
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se il massiccio e chiuso istituto della chiesa territoriale e, se anche in realtà lo sviluppo ben differenziato per singoli territori e città e la vera e propria diffusione della Riforma cominciarono proprio allora, il periodo eroico del primo fiorire spontaneo era ormai passato. Il problema della chiesa divenne un fatto politico e, come tale, fu demandato alle diete. Già alla dieta di Norimberga del 1522/23, papa Adriano VI riconobbe con franchezza le colpe della curia e promise di iniziare con la massima energia la riforma della chiesa, ma il suo appello, dopo ?introduzione dell’editto di Worms, fallì per la decisa opposizione politica degli stati della dieta. La prima dieta di Spira, nel 1526, affidò il regolamento della questione della chiesa ai principi territoriali. Già nel 1525 il gran maestro dell’ordine teutonico, Alberto di Brandeburgo, aveva secolarizzato lo stato dell’ordine e aveva trasformato la Prussia in un ducato secolare, in cui si insediò egli stesso. L’elettorato di Sassonia incominciò nel 1526 a introdurre sistematicamente la Riforma nell’intero territorio mediante visite ecclesiastiche e l’istituzione di un nuovo rituale. Lutero, che nel 1524 aveva deposto l’abito del suo ordine e nel 1525, durante la guerra dei contadini, aveva sposato l’ex cistercense Katharina von Bora (14991552)־, fornì, insieme a Melantone, le prime direttive li־ turgiche. L’Assia seguì ben presto l’esempio della Sassonia (sinodo diHomberg, 1526). Quando, nella seconda dieta di Spira del 1529, fu finalmente deliberata l’applicazione dell’editto di Worms, i nuovi stati del־ l’impero protestarono per la prima volta apertamente contro questa decisione, e da allora si chiamarono i ‘protestanti’ (elettorato di Sassonia, Brandeburgo, Ltineburg, Assia, Anhalt e quattordici città imperiali, tra cui Strasburgo, Norimberga, Ulm, Costanza). Il 22 aprile 1529 essi stipularono una lega segreta a scopo difensivo. Il langravio Filippo d’Assia pensava già a una grande coalizione politica contro l’imperatore e intavolò trattative con gli svizzeri. Le divergenze teologiche esistenti fra Lutero e Zwingli dovevano essere superate in un colloquio di religione, che avrebbe avuto luogo a Marburgo nel 1529. Circa la questione dell’eucaristia i due rifor־ matori tuttavia non si trovarono d’accordo: Lutero sostenne la presenza reale di Cristo (hoc est corpus meum), mentre Zwingli preferì
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intendere Yest esclusivamente nel senso di ‘significa’. L’alleanza perciò non ebbe luogo.
3 . La dieta di Augusta del 1530 Intanto, per la prima volta dopo nove anni di assenza, Carlo V fece ritorno in Germania con la precisa intenzione di risolvere la questione della chiesa. I contrasti religiosi dovevano essere discussi in pacifici dibattiti e ci si sarebbe consultati per decidere di comune accordo sulle riforme. Per i seguaci della nuova fede Filippo Melantone (14971560)־, collega e amico di Lutero, redasse un’opera, conosciuta con il nome di Confessio Angustana, che si ri־ velò di eccezionale importanza storica per il protestantesimo. Essa fu letta il 25 giugno 1530 alla dieta. Melantone, Pumanista tra i riformatori, piuttosto incline a ricercare un accomodamento e confortato dall’umanista Erasmo da Rotterdam, espose le nuove dot־ trine in modo tale da dare l’impressione che praticameme non esistessero quasi differenze tra la nuova fede e l’antica dottrina della chiesa. Si viveva del resto ancora nell’ambito di principi fondamentali comuni e nessuno, in sostanza, metteva in dubbio l’unità della chiesa e della fede. Melantone potè quindi concludere il suo scritto con le seguenti parole: «Questa è in breve la dottrina catto־ lica; come si vede non c’è niente in essa che si allontani dalla Scrittura o dalla chiesa cattolica, cioè dalla chiesa romana, per quanto essa ci sia nota dagli autori». Il contrasto teologico non riguardava la fede, ma solo alcune richieste di riforma, quali la reintroduzione della comunione per i laici sotto entrambe le specie, l’abolizione delle messe private e segrete, l’obbligo della confessione, il precet־ to del digiuno, i voti monastici e la giurisdizione episcopale. Me־ lantone scrisse il 26 giugno al legato pontificio Lorenzo Campeggi, che si trovava ad Augusta: «Fino a oggi veneriamo il papato. Noi non abbiamo nessuna dottrina di fede diversa da quella della chie־ sa romana. Saremo fedeli a Cristo e alla chiesa romana fino all’ulti־ mo respiro, anche se la chiesa dovesse condannarci, sebbene, in fondo, esistano solo alarne differenze senza importanza nei riti, che impediscono l’unità». Un simile atteggiamento conciliante sembrò costituire una buo
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na base per la riunificazione. L’imperatore stesso, del resto, non poteva dirsi un papista intransigente e nel fondo della sua anima era, al pari di Erasmo, un umanista con un animo aperto alla speranza. Egli istituì due diverse commissioni, composte da teologi di antica fede e da seguaci di Lutero: i loro portavoce furono rispettivamente Eck e Melantone. Da parte cattolica venne elaborata da Eck, da Jo־ hannes Fabri e da Giovanni Coeleo la Confutatio Confessionis Augustarne, che fu letta il 3 agosto e scelta come base per le trattative. Durante le discussioni entrambe le parti fecero delle concessioni sulle tesi in contrasto. Lo spirito di Erasmo sembrava vivere in tutti i partecipanti al dialogo: unificazione a tutti i costi, massima apertura degli animi alla conciliazione, riduzione al minimo delle proprie richieste - questo era lo spirito dei colloqui, che sembrava totalmente condiviso anche dall’imperatore. Alla fine restarono in contestazione solo cinque punti: il calice ai laici, il celibato ecclesiastico, i voti monastici, la restituzione dei beni della chiesa, di cui si erano frattanto impadroniti i principi protestanti, e il carattere sacrificale della santa messa (così come era espresso nel Canon Missae). I primi quattro punti riguardavano la disciplina ecclesiastica, soltanto l’ultimo la fede. In che misura la disponibilità a far concessioni fosse maggiore da parte cattolica, meglio che da altre considerazioni lo si può comprendere da questo: che l’imperatore, il 14 settembre 1530, inviò una delegazione a Campeggi con la preghiera che egli volesse acconsentire affinché anche gli ultimi punti controversi, sopra ricordati, fossero risolti a favore dei protestanti. Il legato pontificio rifiutò; però a Roma, dove egli inviò un rapporto su quanto accadeva, ci si preoccupò molto per dirimere i contrasti. Papa Clemente chiese consiglio al cardinale Caietano, uno dei più grandi teologi del suo tempo, e costui rispose in modo fondamentalmente positivo riguardo al calice ai laici e al matrimonio degli ecclesiastici, visto che erano temi che toccavano esclusivamente la disciplina ecclesiastica e non la fede; tuttavia la decisione su tutto ciò sarebbe stata rimandata al prossimo concilio. Ambedue le questioni, da allora in poi, ebbero una grande importanza nella discussione pubblica. E poiché Melantone aveva dichiarato che se si fosse accondisceso su questi due punti non vi sarebbe stato più alcun ostacolo per la riunificazione, la politica imperiale si assunse
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Pimpegno di ottenere da Roma entrambe le concessioni. Tuttavia solo nel 1563 il concilio di Trento trovò il tempo e il modo per occuparsi di questi problemi e dovevano passare ancora trentanni prima che fosse concesso il calice ai laici. Nel 1530, ad Augusta, non si giunse a nessun accordo. Lo spirito che dominò la dieta fu quello di Melantone e di Erasmo, e non 10 spirito di Lutero. Questi, in quanto scomunicato, non potè partecipare alla dieta; dalla fortezza di Coburgo egli tuttavia seguì sempre attentamente lo svolgersi delle trattative e influenzò direttamente i suoi seguaci, grazie a una continua corrispondenza epistolare. Per Parrendevolezza di Melantone Lutero ebbe solo durissime critiche. Egli aveva rifiutato, per principio, ogni forma di dialogo. «Io non ho assolutamente alcun piacere nel discutere sulPunita dottrinale», così scrisse il 26 agosto all’elettore di Sassonia, ad Augusta, «poiché essa è impossibile, se il papa non toglierà di mezzo il suo papato. A noi bastava aver reso conto della nostra fede e aver pregato per la pace; che cosa speriamo, dunque, di convertirlo alla verità?». Il langravio Filippo, già all’inizio di agosto, aveva abbandonato Augusta protestando. Melantone divenne preda dell’incertezza e le trattative non approdarono a nulla. Anche la Ratio fidei, presentata da Zwingli, e lo scritto confessionale delle quattro città di Strasburgo, Costanza, Memmingen e Lindau (che perciò fu detto Confessio Tetrapolitana), non offrirono nessuna base concreta per l’unificazione. A chiusura dei suoi lavori la dieta, il 23 settembre 1530, dichiarò ultimati i colloqui di religione e chiese ai protestanti di aderire fino al 15 aprile 1531, sui punti di divergenza ancora in discussione, alla dottrina cattolica. L’ultima parola l’avrebbe detta il concilio che, si disse ancora, sarebbe stato convocato il prossimo anno. Gli stati evangelici protestarono contro le decisioni della dieta. Ci si può ora domandare se una riunificazione sulla base della Confessio Augustana sarebbe stata possibile. Melantone era, coscientemente o incoscientemente, passato sopra ad alcuni contrasti dottrinali, quali la questione del libero arbitrio, la transustanziazione nella santa messa, la giustificazione («per la sola fede»), la fondazione divina del primato (in Mt 16,18), la venerazione dei santi, 11 purgatorio, !’indulgenza e altri ancora. Inoltre, l’intero svolgi
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mento delle trattative aveva dimostrato che la Confessio Augustana non corrispondeva né all’opinione di Lutero né a quella degli stati evangelici, anche se da questi venne sottoscritta. Essa, in sostanza, era un’opera personale di Melantone. Ci si domanda quindi per quali vie essa sia divenuta, nonostante quanto abbiamo osservato, uno scritto confessionale ufficiale e un documento durevole della dottrina evangelica, all’osservanza del quale, nella forma rielabora־ ta nel 1540 da Melantone stesso (la Confessio Augustana variata), si impegnano ancor oggi i pastori evangelici. La risposta non è affatto semplice. Resta il fatto che la Confessio Augustana aiutò, seppure in un modo alquanto irresponsabile, a nutrire l’illusione che essa potesse costituire la base necessaria per una riunificazione della chiesa e che le divergenze non fossero, in ultima analisi, tanto gravi. Inoltre, su questo documento fece leva soprattutto il partito di mediazione cattolico, che facendo suo lo spirito di Erasmo, tentò con ogni mezzo e senza posa fino al 1560 circa di ripristinare l’unità religiosa e, a questo scopo, ritenne di poter trovare nella Confessio Augustana una giusta base per le trattative. La confusione che generò si risolse a danno soprattutto della chiesa cattolica, come apparve chiaro dal corso successivo degli eventi.
4. Dai colloqui di religione alla pace religiosa di Augusta del 1555 All’imperatore mancarono, ancora una volta, il tempo e Fautorità necessari per mettere in atto le deliberazioni della dieta. Carlo V considerò, infatti, un dovere urgente del suo impero universale di fermare l’avanzata dei turchi nei Balcani, che nel settembre del 1529 avevano già raggiunto Vienna. Per ottenere l’aiuto dei principi protestanti, che si erano uniti nel 1531 nella lega di Smalcalda, l’imperatore stabili con questi ultimi una tregua delle ostilità per quanto riguardava le questioni religiose, «fino al concilio» (pace religiosa di Norimberga, 1532). Ma poiché il concilio fu sempre procrastinato, si decise ancora, nella tregua di Francoforte (1539), di porre fine alla divisione in Germania con dei colloqui di religio־ ne fra teologi e laici. L’imperatore desiderava ardentemente di pò-
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ter giungere a un’intesa e nominò egli stesso i membri che dovevano partecipare ai dibattiti: Giovanni Gropper, Giulio Pflug e Giovanni Eck per la parte cattolica e Filippo Melantone, Martin Bucer e Giovanni Pistorio il Vecchio per quella protestante, tutti uomini di ottima preparazione; anche Eck, il rigido avversario di Lutero, era ora diventato più arrendevole. Dopo i colloqui preparatori, tenutisi ad Hagenau (12 giugno 1540) e a Worms (28 ottobre 1540), si entrò nel vivo delle discussioni durante la dieta di Ratisbona, che si apri il 5 aprile 1541. Vi partecipò attivamente, come legato pontificio e capo della corrente di riforma cattolica, il cardinale Gasparo Contarmi, che sarebbe stato disposto a concedere ai protestanti il matrimonio degli ecclesiastici e il calice ai laici. Ma sulla dottrina dei sacramenti e sulla chiesa le divergenze rimasero insanabili. Anche in questo caso Lutero e, per la prima volta, Calvino, che dimorava allora a Strasburgo, fecero naufragare le trattative. Il ‘libro di Ratisbona’, che riassumeva i risultati dei colloqui, cadde infine in disgrazia sia in campo cattolico che protestante. Carlo V era stato ammaestrato da un’amara esperienza. Dal 1543 si rese conto che solo le armi potevano portare alla riunificazione e decise perciò di passare alla lotta aperta contro i protestanti. Dopo aver sconfitto il duca Guglielmo di Kleve, che aveva vantato diritti su dei beni (pace di Venlo, 1543) e la quinta vittoria su Francesco I di Francia (pace di Crépy, 1544), Carlo V ebbe mano libera. Un avvenimento interno, accaduto in Germania, offrì il pretesto per dichiarare guerra alla lega di Smalcalda. La Sassonia e FAssia, nel 1542, avevano cacciato il duca Enrico di Braunschweig, un aperto seguace dell’imperatore e della chiesa cattolica, e avevano introdotto a forza nel suo territorio la Riforma protestante. Quando Enrico, dopo un inutile tentativo di riconquistare il suo ducato, nel 1545 cadde nelle loro mani, l’imperatore intervenne, in veste di custode dell’ordine, per quanto non fosse ancora militarmente preparato a fronteggiare gli smalcaldesi che iniziarono subito le ostilità (la cosiddetta guerra di Smalcalda). Con un’abilissima e magistrale mossa diplomatica e militare l’imperatore riuscì tuttavia a combatterli e ad annientarli nella battaglia di Muhlberg, sull’Elba, il 24 aprile 1547. H langravio Filippo d’Assia e il principe elettore Giovanni Federico, i capi dei protestanti, caddero prigio
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nieri nelle mani di Carlo. L'imperatore, finalmente, era padrone della situazione. Ai suoi successi militari si aggiunse il fatto che proprio in quello stesso tempo morirono i suoi oppositori principali: il 18 febbraio 1546 Martin Lutero a Eisleben; il 28 gennaio 1547 Enrico V ili di Inghilterra e il 31 marzo 1547 Francesco I di Francia. Solo con il papa Carlo V aveva, proprio ora, le più aspre divergenze. Paolo III (15341549)־, già durante la guerra di Smalcalda, aveva abbandonato !,imperatore proprio quando questi aveva bisogno di aiuto e ora, proprio quando !,imperatore voleva rimettere a un concilio le decisioni sulla questione religiosa, il papa aveva trasferito, contro la volontà di Carlo V, il concilio dalla città imperiale di Trento alla papale Bologna. Questo nuovo fatto mandò a monte tutti i piani di Carlo; questi, infatti, sapeva benissimo che non sarebbe mai riuscito a convincere i protestanti a recarsi a Bologna. Carlo decise perciò di regolare egli stesso la questione religiosa tedesca. Nella ‘dieta corazzata' di Augusta, del 1547, egli scelse la soluzione che più gli era gradita. Il cosiddetto ‘Interim di Augusta', del 30 maggio 1548, elaborato dalla mediazione di teologi di entrambe le confessioni, doveva valere ‘momentaneamente' (= interim), fino a una successiva e definitiva decisione che sarebbe venu־ ta dal concilio. Esso concedeva ai protestanti il calice ai laici e il matrimonio dei preti, ma aderiva nella sostanza alla dottrina cattolica, anche se nelle sue formulazioni appariva abbastanza moderato. Per i cattolici fu prescritta un'altra distinta formula di riforma (formula reformationis), che non comprendeva le due concessioni ottenute dai protestanti. L'attuazione di entrambe le disposizioni incontrò, nonostante l'attesa generale, grosse difficoltà. Tanto i protestanti che i cattolici si mostrarono insoddisfatti. L'opposizione contro !'imperatore aumentò e questi fu costretto a barcamenarsi fra le due confessioni; si aggiunsero inoltre motivi politici che favorirono la ‘rivoluzione dei principi', alla cui testa si pose il giovane Maurizio di Sassonia (15211553)־, un uomo devoto all'imperatore e di cui questi credeva di potersi fidare. Maurizio partecipò invece a un'ignobile alleanza (Chambord, 1552) con il re di Franeia Enrico II, al quale, come compenso per l'aiuto prestato, sareb
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bero state cedute le città dell'impero di Metz, Toul, Verdun e Cambrai e, dopo aver ricevuto assicurazioni personali e denaro, attaccò improvvisamente a Innsbruck !,imperatore. Carlo V fu costretto a fuggire precipitosamente alla volta di Villach, in Carinzia. Il cóncilio, riunito a Trento per la seconda sessione, fu costretto a sciogliersi. Il tradimento di Maurizio di Sassonia e il fallimento di tutti i suoi piani diedero all'imperatore il colpo di grazia. Carlo non fu più capace di raccogliere le sue forze per intraprendere nuove azioni belliche in Germania e affidò la sistemazione della questione religiosa tedesca a suo fratello Ferdinando (1503-1564). Questi concluse con i principi protestanti il trattato di Passau (1552), nel quale le due confessioni si promisero reciproca tolleranza, e proseguì anche le trattative della dieta di Augusta, già convocata da Carlo, che si conclusero infine con la pace religiosa di Augusta del 25 settembre 1555: essa decretò che, in futuro, i cattolici e i luterani in Germania sarebbero vissuti in pace e con eguali diritti (dagli accordi furono esclusi gli zwingliani, i calvinisti e gli anabattisti ecc., ai quali l'impero concesse l'equiparazione dei diritti solo con la pace di Westfalia del 1648). Ai principi territoriali (alle Autorità) fu concessa la libera scelta della religione per il loro territorio (secondo la formula [xvn secolo]: cuius regio, eius religio); ai sudditi non fu invece concesso nessun diritto di decisione sulla religione; al più fu loro permesso di emigrare. Tra gli stati cattolici e Ferdinando fu poi stabilito, nel cosiddetto Keservatum ecclesiasticum (che non fu accettato però dai protestanti), che se in un territorio tenuto da religiosi (vescovato o abbazia) il vescovo o l'abate reggente volevano convertirsi al protestantesimo, essi lo avrebbero potuto fare individualmente, ma prima erano tenuti ad abbandonare il loro ministero ecclesiastico e il governo del territorio a loro soggetti e lasciare al Capitolo la libera elezione di successori cattolici. Viceversa, Ferdinando assicurò a quei principi che già da tempo avessero abbracciato la fede protestante il mantenimento dei loro possessi territoriali (Declaratio Ferdinandea), ma i cattolici protestarono contro questa decisione. Nelle città imperiali a confessione mista doveva regnare la parità di diritto. La pace religiosa di Augusta confermò definitivamente la divi
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sione della Germania. Dai contrasti sull’interpretazione degli articoli della pace nacquero divergenze profonde che si trascinarono per lunghi anni. L’epoca delle guerre di religione era incominciata. La terribile guerra dei trent’anni (16181648)־, che trasformò la Germania in un campo di battaglia per eserciti stranieri e che, quando terminò, aveva ridotto la Germania a un deserto, ha il suo diretto antefatto proprio nella pace di Augusta. Dopo il 1555 il luteranesimo si diffuse rapidamente. Intorno al 15601570 ־due terzi della Germania avevano ormai abbracciato la nuova confessione. Il protestantesimo penetrò anche in Polonia, Ungheria, Boemia e Austria, pur senza guadagnare molti seguaci. Solo i paesi scandinavi si convertirono interamente alle dottrine luterane.
5. Sintesi Ritorniamo per un momento indietro nel tempo: a Worms, nel 1521, il monaco di Wittenberg fu il vero vincitore. L’imperatore, invece, aveva fallito; l’unità della chiesa e dell’Occidente cristiano non esisteva più. Fino all’ultimo Martin Lutero si dedicò alla sua opera con totale dedizione. Egli continuò sempre a essere la guida religiosa e il pròfeta del suo movimento. La sua personale irascibilità, sempre mag־ giore con il passar degli anni, la durezza, la grossolanità senza pari e la villania con cui spesso aggrediva amici e nemici gettano ombre oscure sul suo carattere. Con durezza capace di ferire egli avocò a sé quell’infallibile autorità dottrinale che aveva negato invece al pontefice romano. Con ima profetica consapevolezza del suo vaio־ re Lutero identificò se stesso e la sua opera con la volontà di Dio e di Gesù Cristo. Tutto ciò che gli era contrario era per lui opera diabolica. L’odio passionale che egli profuse intorno a sé negli scritti dei suoi ultimi anni, Contro Hans Worst (1541), Contro il papato istituito a Roma dal diavolo (1545), Ritratto del papato (1545), Sugli ebrei e le loro menzogne (1543) e nelle altre opere anti-ebraiche dello stesso periodo, non può essere scusato neppure con la ‘roz־ zezza’ dell’epoca. Che si può dire a sua scusa, quando, per esem־ pio, critica con sconce parole la santa messa, il monacheSimo e tut
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te quelle cose che pur erano state (e in parte erano ancora) sacre per lui? Non è possibile, in questi casi, avvertire neppur Tombra della squisita e pura religiosità che aveva animato la sua giovinezza. E, tuttavia, Lutero era rimasto pur sempre lo stesso: la sua morte edificante, avvenuta il 18 febbraio 1546, testimonia ancora della sua profonda dedizione a Dio. Limperatore Carlo V si era reso perfettamente conto di aver failito su tutta la linea. A lui, custode dell'ordinamento voluto da Dio nella chiesa e nel mondo, era stata affidata la cristianità occidentale ed egli aveva cercato di ripristinare l'unità della fede e la pace tra i popoli cristiani: la pax chrìstianitatis. Ma la sua potenza non era stata sufficiente. Lutero, il riformatore, il ‘cristianissimo' re di Francia Francesco I e, ciò che appare più tragico, gli stessi pontefici gli negarono il loro aiuto. E Carlo restò solo. Christianitas afflicta (Heinrich Lutz, 1963); povera e triste cristianità! Gli ultimi anni della vita deh'imperatore furono tutti profondamente segnati da questa tragedia. Carlo V, alla fine del suo regno, entrò in conflitto con il fanatico pontefice Paolo IV (15551559)־, per essersi opposto al suo indegno nepotismo e alla sua meschina politica italiana antiasburgica. Quando Paolo dichiarò guerra (155657 )־a Carlo e a suo figlio Filippo II, e sembrò quasi che volesse indire una crociata per la salvezza della cristianità, la misura era giunta al colmo. Il du־ ca d'Alba, tuttavia, seppe stroncare rapidamente le smanie belliche papali in Italia (1557). Ma la forza interiore di Carlo, alla fine, venne meno sotto il peso di tutti questi insuccessi e delusioni. Mortaimente stanco, egli riordinò le pratiche più urgenti del suo impero e, dopo aver ceduto il 25 ottobre 1555 a suo figlio Filippo II i dirit־ ti sovrani sui Paesi Bassi e il 16 gennaio 1556 anche quelli sul regno di Spagna, e dopo aver abbandonato per iscritto, il 12 settembre 1556, nelle mani del fratello Ferdinando l'impero germanico, si ritirò in Spagna, a vita privata, come un politico fallito. Rifugiatosi nel convento di San Yuste, nella Spagna occidentale, si preparò alla morte e il 21 settembre 1558 lasciò questo mondo con l'animo pacificato in Dio. Carlo non perse mai fiducia nella chiesa, per quanto avesse avuto modo di accorgersi, come pochi altri, delle debolezze fin troppo umane di coloro che la guidavano e, nonostante i fallimenti di alcuni suoi membri e particolarmente dei pa
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pi, !,imperatore continuò sempre a considerare sacro il ministero che essi esercitavano e a vedere in loro i portatori di un ministero divino e i rappresentanti di Cristo. Tutta la sua vita fu consumata al servizio dell'unità religiosa. «Carlo V appartiene a quei grandi della storia, che alla fine della loro vita ebbero !,amarissima coscienza di aver lottato invano e di aver fallito il loro più grande scopo, e che tuttavia, come dice Jacob Burckhardt, sono ‘insostituibili' nella storia universale. U concilio di Trento, fatto di importanza storica mondiale, è, infatti, impensa־ bile senza di lui» (Hubert Jedin).
§41. Huldrych Zwingli. L’anabattismo Non è possibile porre Zwingli e gli anabattisti sullo stesso piano, anche se essi hanno molte cose in comune: l'origine esterna da Zurigo e un certo tratto spiritualistico nelle loro teorie, che Lutero aveva particolarmente ben messo in evidenza quando definì ‘fanatiri' i membri appartenenti ai due movimenti. Zwingli, Calvino e gli anabattisti hanno in comune con Lutero i princìpi fondamentali della Riforma protestante: il principio della Scrittura (sola scriptum), la dottrina sulla fede e sulla giustificazio־ ne (sola fide, sola gratia), una nuova idea di chiesa e la lotta contro la fede cattolica. Naturalmente, ognuno dei riformatori possedeva proprie e personali caratteristiche. Zwingli non va quindi considerato, come invece spesso è stato fatto, un epigono di Lutero; egli, infatti, non solo ha seguito una sua precisa strada individuale, ma ha altresì sviluppato una sua forma personale di pensiero religioso. Basterebbe del resto il suo stesso processo di formazione spirituale, fortemente influenzato dalla via antiqua scolastica e dalTumanesimo, a differenziarlo da Lutero.
1. La vita e l’opera di Zwingli Huldrych (Ulrico) Zwingli nacque nel 1484 a Wildhaus, nella regione di Toggenburg, e crebbe presso un suo zio religioso nella
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casa parrocchiale di Weesen. Dopo aver frequentato le scuole di Basilea e di Berna, studiò a Vienna (14981502)־, dove veniva insegnata la via antiqua e terminò infine i suoi studi a Basilea (1502־ 1506), città di umanisti, con i quali restò sempre in amicizia e condivise !,ammirazione sconfinata per Erasmo. Nel 1506 fu ordinato sacerdote a Costanza e iniziò il suo ministero di parroco a Glarus (15061516)־, proseguendo poi come pievano a Einsiedeln (1516־ 1518). Per due volte, come cappellano militare, accompagnò i mercenari svizzeri che combattevano al soldo del pontefice in alta Italia e percepì per questo una pensione dal papa. Stando alle sue stesse dichiarazioni, Zwingli condusse a Einsiedeln una vita disso־ luta. Dopo esser stato salvato da un grave pericolo di vita (peste) e chiamato, nel 1519, al nuovo ministero di pievano, ufficio che per le sue precise funzioni pastorali era distinto da quello dei canonici, nel Grossmiinster di Zurigo, Zwingli aprì maggiormente il suo animo ai problemi religioso-ecclesiastici. Il ‘biblicismo’ era allora ‘di moda\ Il consiglio della città di Zurigo, che voleva essere in linea con i tempi, gli impose, quando fu chiamato al suo nuovo ministero, di predicare attenendosi strettamente alla sacra Scrittura e Zwingli, da buon umanista, aderì di buon grado a questa richiesta. Fino al 1552 tutta la sua esegesi biblica si ispirò sempre direttamente alle teorie di Erasmo, e Zwingli non esitò ad appropriarsi anche delle idee riformistiche dell’urnanista olandese. Il suo interesse cominciò a rivolgersi a Lutero e alle sue dottrine solo dopo la disputa di Lipsia (1519) e i più recenti studi storici dimostrano che egli subì assai poco !,influenza teologica del riformatore tedesco. Zwingli era e restò sempre un umanista. Le sue riforme, con le quali egli cominciò a distinguersi dal 1522, non ebbero origine da profonde inquietudini personali e da sincere ricerche religiose, come accadde per Lutero, ma da considerazioni pratiche. H riformatore svizzero combattè il precetto ecclesiastico del digiuno e il celibato ecclesiastico; da lungo tempo egli conviveva con una ricca vedova che nel 1524 sposò pubblicamente. Quando !,ordinariato vescovile di Costanza procedette contro di lui, Zwingli riuscì abilmente a conquistare dalla sua parte il consiglio di Zurigo, i cui rapporti con il vescovo erano piuttosto tesi. Il consiglio organizzò due dispute pubbliche (nel gennaio e nell’otto־
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bre 1523), nelle quali Zwingli avrebbe discusso con i ‘monaci', vale a dire con i cattolici, sul principio della Scrittura, sul culto delle immagini e sulla messa. Gli unici argomenti validi per il dialogo dovevano essere quelli che si sarebbero potuti dimostrare sulla base della sacra Scrittura. Il consiglio, decidendo di permettere la predicazione «secondo la Scrittura», aveva inteso riferirsi esclusivamente, nel senso tradizionale, alla predica basata sulla parola di Dio e perciò Zwingli interpretò in modo diverso dalla Riforma protestante il principio della Scrittura: l’intera vita doveva essere ricondotta a ciò che era contenuto nella sacra Scrittura. Nelle sue Tesi e nella sua Breve introduzione cristiana (1523) egli sviluppò il suo radicale programma di riforma: abolizione di tutte le cerimonie e benedizioni, rimozione delle immagini dagli altari delle chiese, proibizione della messa, soppressione dei conventi, trasformazione dell'istituto del prebendato ecclesiastico, che fu messo interamente a disposizione dell'autorità civile, istituzione di un tribùnaie municipale per i matrimoni, che avocò a sé la giurisdizione matrimoniale vescovile e più tardi l'intera giurisdizione spirituale. Quando, nel dicembre 1523, Zwingli si propose di introdurre la cena luterana al posto della messa, il consiglio esitò e impose un freno, ma fin dalla seconda disputa nacquero tumulti in tutta la città e dall’esterno si levò una forte corrente di opposizione. Il 26 gennaio 1524 gli altri dodici cantoni federali si accordarono per proibire ogni attentato alla religione cattolica. Questa decisione fu presa soprattutto contro Zurigo, il cui fanatismo riformista aveva sollevato seri dubbi. Si comprende perciò come il consiglio, almeno in un primo momento, non osasse fare ulteriori passi. Zwingli fu costretto a piegarsi ai voleri del consiglio, ma un gruppo radicale dei suoi seguaci non tollerò questa sua condiscendenza e lo biasimò per aver recato grave offesa al vangelo. Questa corrente radicale pretendeva che il riformatore continuasse senza compromessi sulla strada intrapresa e sosteneva che all'autorità civile non spettava, su problemi di fede, alcun potere di decisione. A una rottura aperta fra Zwingli e i suoi seguaci si arrivò ben presto, quando si dovette affrontare la questione del battesimo dei bambini. I radicali, fra cui alcuni amici più cari del riformatore: Conrad Grebel, Felix Manz e Georg Blaurock, sviluppando in
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modo conseguente il concetto riformista della giustificazione ‘per sola fede’, finirono con il persuadersi che il battesimo dei bambini fosse un errore e del tutto inutile, dal momento che i piccoli non possedevano ancora alcuna fede. Il loro ideale era la totale restaurazione della ‘comunità di santi’ del primo cristianesimo, nella quale si poteva essere ammessi soltanto attraverso la spontanea accettazione della fede. Essi cessarono perciò di battezzare i loro figli subito dopo la nascita, per attendere di impartire loro il sa־ cramento solo quando questi avessero raggiunto la piena consapevolezza razionale, negarono la grazia a tutti coloro che avevano ricevuto il battesimo da bambini e proclamarono la necessità di un secondo battesimo (‘battesimo di fede’). Nel dicembre 1524 Blaurock si fece ‘ribattezzare’ da Grebel e subito dopo cominciò a propagare e ad amministrare questo ‘secondo battesimo’. In breve volger di tempo si giunse alla costituzione di un vero e proprio gruppo di seguaci della nuova teoria e sorse così tutto un movimento contrario al battesimo dei neonati. Il fonte battesimale della chiesa di Zollikon fu infranto e Zwingli fu combattuto, perché persistette nel sostenere la necessità del battesimo dei bambini. Zwingli, tuttavia, riuscì a persuadere il consiglio a intervenire e il 18 gennaio 1525 l’autorità civile ordinò !’immediato battesimo di tutti i bambini che non fossero stati ancora battezzati e impedì il convegno degli ‘anabattisti’. Fortificati dalla persecuzione, questi caddero in preda a un fanatismo ribelle e si dichiararono gli illuminati dello Spirito, i soli capaci di interpretare in modo giusto la sacra Scrittura, la ‘vera’ chiesa di Gesù Cristo. Manz giunse persino a motivare la sua obiezione contro l’autorità sulla base della Bibbia. Ebbero allora inizio le persecuzioni e il numero dei prigionieri aumentò sempre più. Intanto, la propaganda anabattista, favorita dalla diaspora, penetrò oltre la Svizzera nella Germania meridionale fino al Tirolo, nell’Austria superiore e in Moravia. Manz, che era ritornato a Zurigo, dove propagandava le sue idee, fu condannato a morte come primo anabattista dall’autorità civile e nel 1527 annegato nella Limmat. Zwingli non fu estraneo alla sua condanna. Zwingli era intanto riuscito a guadagnare un’influenza sempre più forte sul consiglio. Da uomo pratico qual era c da consumato
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organizzatore e politico, egli riuscì a trascinare tutti i membri del consiglio dalla sua parte. Nell’aprile 1525 si giunse così alla proibi־ zione ufficiale della messa; la rottura con il dogma si era ormai compiuta. L’anno precedente, nell’aprile del 1524, i cinque cantoni originari di Schwyz, Uri, Unterwalden, Zug e Lucerna si erano riuniti a Berckenried per la difesa dell’antica fede. Essi non rifiutavano di collaborare con Zurigo nelle questioni concernenti la riforma disciplinare, ma volevano che la fede non fosse in alcun modo toccata. Nel gennaio 1525 questi cantoni riaffermarono la loro posizione nel concordato di fede federale. La dieta svizzera organizzò poi, nel 1526, un colloquio di religione a Baden nell’Aargau (disputa di Baden), ove si discusse dell’eucaristia, del peccato originale, del purgatorio, del culto delle immagini, dei santi e dei precetti della chiesa. Giovanni Eck, Giovanni Fabri e numerosi teologi cattolici furono presenti al dialogo; fra i protestanti si segnalarono Giovanni Ecolampadio (1482-1531) e altri; solo Zwingli rifiutò di partecipare. Con una stragrande maggioranza la dieta Svizzera si schierò dalla parte cattolica, ma Zurigo, che da tempo era completamente soggetta all’influenza radicale di Zwingli, respinse le decisioni finali. Zwingli sviluppò immediatamente un’offensiva ecclesiasticopolitica oltre i confini del cantone di Zurigo. Nel gennaio 1528 egli riuscì a conquistare a sé Berna. Lo scopo che il riformatore perseguiva era la riforma dell’intera confederazione e strinse a questo scopo un’alleanza, la cosiddetta «lega cristiana di castellanza» (1christiches tìurgrecht), con Berna, Costanza, S. Gallo, Basilea e Strasburgo. Anche i cinque primitivi cantoni cattolici, con Friburgo (Svizzera) e il Vallese, si unirono per difendersi dal pericolo protestante e nel giugno del 1529 si profilò il pericolo di una prima guerra di Kappel, che fu tuttavia momentaneamente scongiurata da immediate trattative di pace. Ma nell’ottobre del 1531 il conflitto si riaccese e scoppiò la prima guerra di religione cattolico-protestante. Zwingli scese personalmente in campo, armato di spada e di scure di guerra, ma la vittoria arrise ai cantoni rurali cattolici e Zwingli morì in battaglia, 1’11 ottobre 1531. Il movimento di riforma di Zwingli si diffuse inizialmente soprattutto nella Germania meridionale. Alla dieta di Augusta del
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1530 le città di Strasburgo, Costanza, Memmingen e Lindau erano rappresentate da una confessione zwingliana (Confessio Tetrapolitana). In seguito esse si unirono al calvinismo (Consensus TigurinuSy 1549). Un’unione fra Lutero e Zwingli, che era assai desiderata per motivi politici dal langravio Filippo d’Assia e che lo stesso Zwingli caldeggiava per identici motivi, fallì durante il colloquio di religione di Marburgo dell’ottobre 1529, soprattutto per le divergenze sorte sulla questione della cena. Per Zwingli la cena era un semplice banchetto commemorativo, nel quale la comunità doveva esclusivamente ricordare che il Signore era morto per essa. Lutero, con grande veemenza, pur negando la transustanziazione (cattolica), affermava decisamente la presenza reale di Cristo nella cena con la divina ubiquità (onnipresenza di Dio), impossibile invece per il corpo. L’impossibilità di conciliazione fra Lutero e Zwingli si rivelò in modo chiarissimo nella diversità dell’interpretazione della Scrittura. Lutero comprendeva 1’«hoc est corpus meum» realisticamente («La parola è troppo forte») e non volle concedere nessun’altra forma di esegesi sofistica all’« /; Zwingli invece interpretava Yest solo nel senso di ‘significa’. Poiché entrambi mantennero rigidamente la loro interpretazione della Scrittura, le strade si divisero.
2. Il movimento anabattista La storia successiva degli anabattisti si è svolta in modo del tutto autonomo da quella di Zwingli. Il comune principio della Scrittura e dello spiritualismo, soprattutto per quanto concerne la questione della cena e la concezione sacramentale, continuò a far parte del loro patrimonio di fede. «E una caratteristica peculiare alle più inquietanti esperienze della Riforma protestante che dalla cerchia dei conquistati all’evangelo si siano separati sempre nuovi gruppi, con una diversa comprensione della Scrittura, i quali non esitarono a mettere in pericolo la loro dignità religiosa e divenire nemici tra i fronti opposti in terra di nessuno» (Walther Peter Fuchs). Tanto Lutero quanto Zwingli, Calvino e tutti gli altri riformatori reagirono sempre con accanimento contro quei settari che interpretarono la Scrittura di
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versamente da loro e osarono far appello, per giustificarsi, alla voce interiore’ e allo ‘Spirito’. Quasi nello stesso momento in cui, a Zurigo, sorse il movimento anabattista, nell’altro paese di origine della Riforma, in Sassonia, fiorì, presso i profeti di Zwickau e Thomas Miintzer, il «nuovo regno di Dio». L’ostilità verso il potere civile e il rifiuto radicale dell’ordinamento statale ed ecclesiastico fecero apparire gli anabattisti come nemici dello stato e rivoluzionari. La rapida diffusione del movimento, particolarmente nelle campagne, dove i contadini delusi in seguito alla guerra dei contadini prestarono docilmente orecchio alle nuove teorie, creò intorno agli anabattisti una pesante atmosfera di sospetto. Già nelle diete di Spira (1529) e di Augusta (1530) furono emanate delle leggi che minacciavano di morte gli anabattisti e tanto Lutero che Melantone si espressero a favore di queste leggi. L’idea, sorta per la prima volta nella mente di Thomas Mùntzer, del prossimo inizio di un regno millenario, nel quale tutti gli empi sarebbero stati annientati e solo i ‘battezzati’ avrebbero regnato, trovò negli ambienti dei poveri contadini, socialmente oppressi, e presso i piccoli artigiani di quell’epoca inquietissima un orecchio attento. Nella parte occidentale della Germania queste teorie vennero diffuse dal predicatore laico e apostolo anabattista Melchior Hoffmann (circa 1500-1543), che percorse predicando la Germania settentrionale e l’Olanda e fu attivo soprattutto ad Amsterdam e a Strasburgo. Egli profetizzò che la città di Strasburgo sarebbe divenuta, dopo sanguinosi avvenimenti, che egli calcolò per l’anno 1533, la sede della nuova Gerusalemme celeste e raccolse molti seguaci soprattutto ad Amsterdam e nei Paesi Bassi. Ma, nel 1533, fu catturato a Strasburgo e, dopo dieci anni, morì in prigionia. Il regno degli anabattisti tuttavia non si installò prepotentemente a Strasburgo, bensì a Miinster, in Westfalia. Qui, fin dal 1531, operava seguendo la linea riformista il cappellano Bernhard Rothmann (circa 1495 - dopo 1535). Biblicismo e umanesimo, in un primo tempo, erano una cosa sola e Rothmann era ancora indeciso: si diresse dapprima a Wittenberg e poi a Strasburgo, dove l’umanista e riformatore Wolfgang Capito (circa 1481-1541) gli fece conoscere le teorie zwingliane. Dallo zwinglianismo Rothmann
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passò all’anabattismo e, poiché i disordini religiosi a Mùnster aumentavano sempre più, riuscì a guadagnare una certa influenza. Mentre i cattolici e i protestanti erano in lotta, improvvisamente entrò in scena e, dal maggio del 1533, cominciò a predicare la necessità del battesimo per gli adulti. Nei Paesi Bassi, Jan Matthys, nel novembre 1533, era divenuto capo del movimento anabattista ad Amsterdam. Instancabilmente, egli predicava l’inizio del nuovo regno di Dio, la lotta per l’annientamento degli empi e inviava ovunque i suoi apostoli, che predicavano e battezzavano in perfetta armonia con i suoi pensieri. Due di costoro giunsero a Mùnster proprio all’inizio del 1534 e Bernhard Rothmann si fece battezzare da essi. Improvvisamente si sparse la voce che Mùnster era stata prescelta come sede del nuovo regno di Dio e gli anabattisti affluirono nella città da ogni parte. Sempre nel gennaio del 1534, nel giro di una sola settimana, 1.400 uomini si fecero battezzare. Anche Jan Bockelson e Jan Matthys si precipitarono a Mùnster per edificare la ‘nuova Sion’. Fin dal febbraio 1534 gli anabattisti si erano impadroniti del pòtere a Mùnster. Uno dei loro capi, Bernhard Knipperdolling, fu eletto borgomastro e Jan Matthys, il profeta, divenne il padrone della città. Tutti gli ‘empi’ che non si lasciarono ribattezzare furono cacciati. Il vescovo cinse la città di assedio. Quando, all’inizio di aprile del 1534, Matthys fu ucciso durante una sortita, divenne suo successore Jan Bockelson (detto Jan di Leida). Con lui ebbe inizio il regno del terrore. In mezzo alle difficoltà dell’assedio Jan di Leida si fece proclamare ‘nuovo re di Israele’, e nominò Rothmann, Knipperdolling suoi dignitari, scelse fra i suoi seguaci una guardia del corpo. Nel regno di recente fondazione si visse fra carestia e splendide feste, si praticò la comunanza dei beni e la poligamia, e si decisero molte esecuzioni capitali di ‘empi’. Il 25 giugno 1535 gli assediami riuscirono infine a occupare la città e il «regno di Cristo a Mùnster» finì sanguinosamente dopo terribili lotte per le strade della città. Rothmann cadde, Jan di Leida, Knipperdolling e Krechting, dopo una detenzione di sette mesi, furono pubblicamente torturati a morte sulla piazza del duomo nel gennaio del 1536, e i loro cadaveri esposti sulla torre della chiesa St. Lamberti.
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Dopo gli eccessi compiuti dagli anabattisti a Mùnster, se da una parte si misero ovunque in moto severissime misure repressive contro il movimento, dall’altra si assistette a una profonda trasforinazione all’interno dell’anabattismo stesso. I radicali furono allontanati e Menno Simons (1496-1561), un ex prete della Frisia orientale, divenne nel 1536 il loro capo. Rinunciando totalmente ai mezzi violenti, egli aspirava a un regno di Dio inteso in un modo assolutamente spirituale che si sarebbe realizzato in una completa assenza di ogni potere secolare. I suoi seguaci, i mennoniti, vissero come i «tranquilli del paese»; per dottrina e costumi si ricollegavano a Zwingli ed erano abbastanza vicini al riformatore, pur senza sentirsi obbligati a riconoscerne gli scritti confessionali. Ebbero per un certo tempo un largo seguito soprattutto fra il popolino.
§ 42. Giovanni Calvino e il calvinismo Il terzo e il più giovane dei riformatori, ma il più importante per la sua opera, fu Giovanni Calvino che fece di Ginevra il centro di un movimento di ampiezza mondiale.
1. Vita di Calvino Giovanni Calvino nacque il 10 luglio 1509 a Noyon in Picardia e anch’egli proveniva da uno strato sociale vicino alla chiesa. Suo padre era, infatti, procuratore generale, vale a dire gestore e amministratore delegato del Capitolo della cattedrale di Noyon. A causa di dissensi si cacciò in una causa giudiziaria con il Capitolo della cattedrale e con il vescovo, nel 1528 venne ingiustificatamente scomunicato e morì nel 1531 senza essere assolto dalla scomunica. Nello stesso periodo anche suo fratello maggiore, che era cappellano, ebbe dei contrasti con la chiesa; era stato chiaramente turbato dalle novità accadute, si rifiutò di celebrare messa e morì senza ricevere i sacramenti. Di sicuro queste esperienze non sono rimaste senza effetti su Giovanni. H senso giuridico del padre, forte, sobrio e critico, è passato in eredità al figlio. La madre, originaria delle
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Fiandre, donna devota e di sentimenti profondi, che morì in giovane età, ha contribuito a formare Paltro lato della sua personalità, la profonda religiosità e il senso della chiesa. A dodici anni Calvino ottenne una prebenda ecclesiastica a Noyon, che gli permise di studiare e gli aprì la strada verso lo stato ecclesiastico. Nel 1523 si trasferì a Parigi e là visse dal 1524 nello stesso Collège Montaigu dove, prima di lui, aveva studiato Erasmo da Rotterdam e pochi anni dopo risiederà anche Ignazio di Loyola. In questo collegio veniva insegnato il nominalismo. Ottenuta la licenza nelle arti liberali, nel 1528 lasciò Parigi per dedicarsi, secondo il desiderio del padre, allo studio del diritto a Orléans e a Bourges. Egli ha acquisito le sue profonde conoscenze teologiche attraverso lo studio personale. Ritornato a Parigi, riprese nel 1532 gli studi umanistici, che trovarono espressione nel suo commento al De clementia di Seneca. A questo tempo egli si muoveva ancora interamente nell’ambito del riformismo umanistico proprio del movimento biblico francese, il cui rappresentante maggiore era Jakob Faber Stapulensis (1450/55-1536). Improvvisamente, però, questo non gli bastò più. In una subita conversio, una repentina conversione come la chiamò egli stesso nel 1557, nel suo scritto autobiografico retrospettivo, aderì alla Riforma protestante. Questo dovette probabilmente avvenire nell’inverno tra il 1533 e il 1534. All’inizio di quest’anno Calvino rinunciò alle sue prebende di Noyon e colpito anch’egli dal procedimento deliberato contro i protestanti dal parlamento di Parigi, in seguito al cosiddetto ‘affare dei manifesti’, in cui si protestava apertamente contro la messa, dovette fuggire dalla Francia. Nell’inverno tra il 1534 e il 1535 giunse, via Strasburgo, a Basilea ove conobbe i riformatori Simon Grynaeus, Oswald Myconius, Heinrich Bullinger, Martin Bucer e Wolfgang Capito, e qui scrisse la sua celebre Institutio religionis christianae, che fu stampata la prima volta anonima, nel 1536, e poi nel 1537 a Basilea, con il nome dell’autore. Quest’opera, che era stata concepita come un’apologià del protestantesimo per i protestanti francesi perseguitati, era dedicata al re di Francia e a lui diretta per guadagnarlo alla causa della riforma. Già in questo scritto, che fino al 1560 l’autore rielaborò più voite e ampliò continuamente, sono evidenti gli elementi fondamenta־
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li del suo pensiero teologico. Egli si schiera dalla parte della chiesa povera e piccola dei perseguitati, che sola sarebbe la vera chiesa di Cristo, in contrapposizione alla ricca chiesa romano-gerarchica con la sua arrogante pretesa di essere la forma visibile della chiesa sulla terra. Caratteristiche della vera chiesa sono la semplice predicazione della parola di Dio e la retta amministrazione dei sacramenti. Essa deve servire soltanto alla gloria Dei e preoccuparsi di «come Tonore di Dio sulla terra possa rimanere intatto, di come la verità di Dio possa conservare la sua dignità, di come il regno di Cristo possa restare tra noi ben compatto e saldo». A tal fine non serve la forma visibile della chiesa esistente. A Basilea Calvino si era occupato soprattutto degli scritti di Lutero e !,esposizione, nella prima sua edizione, ancora piccola ma pertinente, delle esigenze e delle idee di riforma lo ha reso improvvisamente famoso. Quando Calvino, dopo un breve soggiorno in Italia e nella sua patria, volle fare ritorno a Strasburgo e giunse a Ginevra, venne qui riconosciuto come l’autore della Institutio da Guillaume Farei (1489-1565), che proprio allora incontrava nella città problemi a introdurre la riforma e fece forte pressione per trattenerlo presso di sé come collaboratore. Era il mese di luglio/agosto 1536 e Ginevra, che per il contrasto politico con il suo signore territoriale e con il vescovo della città, si era alleata alla zwingliana Berna, non si era ancora decisa ad aderire alla Riforma. Calvino, però, con la sua spiegazione della Lettera ai Romani e con le sue prediche, riuscì subito a esercitare un forte influsso. Alla fine del 1536 egli ottenne un impiego come predicatore e parroco della città. Progettò un ordinamento della comunità che il 16 gennaio 1537 fu presentato al consiglio cittadino; esso prevedeva norme severe di disciplina ecclesiastica, specialmente per quanto riguardava la celebrazione mensile della Cena. Coloro che ne fossero ritenuti indegni venivano puniti con !,esclusione dalla Cena (excommunicatio). Subito dopo egli pubblicò un catechismo con una nuova ‘professione di fede\ Il consiglio cittadino approvò !,ordinamento comunitario, ma si accontentò della celebrazione della Cena quattro volte all'anno. Su pressione di Calvino dispose poi che tutti gli abitanti, nell'aprile del 1537, prestassero giuramento sulla nuova confessione di fede; chi rifiutò di giurare venne privato dei diritti di cittadinanza e ban
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dito dalla città. Ordinò espressamente a degli incaricati ecclesiastici di vigilare perché i princìpi cristiani venissero osservati da tutti nella vita pubblica e privata. Chi trasgrediva doveva essere punito dal consiglio. Il 12 novembre 1537 l’ordine venne rinnovato e Cai־ vino esercitò pressione perché venisse eseguito con rigore. Nel frattempo, tuttavia, la resistenza crebbe tra la popolazione e alle nuove elezioni del febbraio 1538 il consiglio cittadino non venne confermato. Il nuovo consiglio, il 23 aprile 1538, sollevò Calvino dal suo incarico e lo espulse insieme a Farei dalla città. Calvino si rifugiò a Strasburgo, dove nel settembre 1538 assunse l’ufficio di predicatore nella comunità dei profughi francesi. Nello stesso tempo egli si mantenne in stretti rapporti con Bucer e Capito, e collaborando con loro consolidò la sua figura di riformatore. Nel 1539 sposò Idelette von Buren, la vedova di un anabattista di Straburgo. In qualità di rappresentante della città prese parte ai colloqui di religione a Francoforte (1539), Hagenau (1540), Worms (1540/41) e Ratisbona (1541) e qui imparò a conoscere la Riforma protestante tedesca. Tuttavia egli non si incontrò mai di persona con Lutero. Quando i suoi seguaci ebbero riconquistato il potere a Ginevra, il 13 settembre 1541 Calvino vi fece ritorno. Lo aveva preceduto una controversia con il cardinale Jacopo Sadoleto, che aveva spronato i ginevrini a rimanere nella comunità della chiesa cattolica. La Risposta a Sadoleto, da parte di Calvino, nella quale egli faceva duramente i conti con la vecchia chiesa ed esponeva le sue idee su chiesa, giustificazione e sacramenti, convinse i ginevrini a richiamarlo. A Ginevra Calvino iniziò subito a costruire una nuova organizzazione ecclesiastica che culminava nell’idea di un’assoluta signoria di Dio sulla città. Già il 20 settembre 1541 il consiglio cittadino aveva dato valore di legge al suo ordinamento ecclesiastico: le Ordonnances ecclésiastiques. Esso prevedeva quattro uffici ecclesiastici: i pastori (pasteurs9 predicatori), i dottori (docteursy maestri), i presbiteri (anciens, anziani) e i diaconi (diacres). Ai pastori e ai dottori era affidata la vera e propria cura spirituale nella predicazione e nell ,insegnamento. I parroci della città e dei dintorni formavano la Vénerable compagnie, che si riuniva ogni settimana per consultarsi e prendere decisioni su interpretazione della Scrittura e problemi pastorali. Insieme con i parroci, i presbiteri, che al tempo
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stesso erano funzionari del consiglio, formavano il concistoro, che aveva il compito di sorvegliare l’intera vita morale della comunità. Essi avevano libero accesso in tutte le abitazioni e colpivano ogni forma di trasgressione all’ordinamento ecclesiastico e civile. E se le punizioni ecclesiastiche non giovavano, consegnavano i ribelli al consiglio cittadino perché fossero puniti dall’autorità civile. 11 consiglio, già nel 1541, aveva incaricato Calvino anche dell’elaborazione di una legislazione civile: !’ordinamento ecclesiastico e quello civile furono così strettamente uniti. Ai diaconi competeva l’amministrazione delle fondazioni ecclesiastiche e la cura dei poveri. Nei primi cinque anni, 56 condanne a morte e 78 scomuniche documentano la rigida severità con cui venne stroncata qualsiasi forma di opposizione tra la popolazione. Nel 1553 fu arso vivo Michele Serveto (nato nel 1511), a causa della sua negazione del dogma della Trinità. Gli umanisti Sebastian Castellio, Jéróme Bosec e molti altri poterono scampare allo stesso destino solo con la fuga. Così entro il 1555 fu creato lo ‘stato di Dio’, una ‘teocrazia’ rigidamente organizzata, e Ginevra divenne il centro di una nuova chiesa ‘riformata’. L’Accademia teologica, fondata nel 1559, superò ben presto quella di Wittenberg e divenne il centro per la formazione teologica di innumerevoli predicatori e insegnanti, che diffusero il sistema ecclesiastico di Calvino e la sua dottrina teologica in tutta l’Europa. Attraverso una corrispondenza vastissima Calvino guidava direttamente il trionfo della sua riforma. Proprio per questa sua coscienza missionaria profetica egli poteva incitare i principi a staccarsi dalla chiesa di Roma, ritenuta falsa, e ad aderire alla vera chiesa. Poiché soltanto la verità ha diritto a esistere, l’errore deve essere estirpato. Nello stesso momento in cui rimproverava ai principi cattolici di essere intolleranti verso i riformati, egli chiedeva ai sovrani protestanti di estirpare il cattolicesimo dalle loro terre, considerando la loro tolleranza verso i cattolici come un peccato. Diversamente da Lutero, che esigeva sempre obbedienza verso l’autorità, Calvino concesse ai suoi seguaci il diritto di ribellarsi a un’autorità ‘empia’ e considerò questo atteggiamento come un preciso dovere religioso. A questo proposito venne permesso anche il ‘tirannicidio’, considerato un diritto degli stati della società per sostituire un governo ‘empio’, di un’altra confessione, con uno
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della ‘vera fede\ Questi fatti vanno considerati con estrema attenzione, se si vuol comprendere la durezza delle guerre ugonotte e di religione, e il timore dei principi cattolici di fronte al calvinismo. Il sistema dei due pesi e delle due misure e il fanatismo di molti riformati hanno notevolmente inasprito le tensioni tra confessioni. Giovanni Calvino morì a Ginevra il 27 maggio 1564.
2. Dottrina di Calvino Calvino ha in comune con tutti i riformatori del XVI secolo i tre sola, ma, in un modo ancora più radicale di Lutero, egli pone la parola di Dio e la fede a fondamento stesso della sua teologia biblica. Lo Spirito Santo produce nell'animo la fede mediante la parola, concepita sacramentalmente. Questa fede è un libero dono di Dio, un segno della sua elezione. Chi dunque crede alla parola di Dio è per ciò stesso eletto e la sua vita dovrà essere conforme alla sua fede: in una buona esistenza cristiana la fede deve essere testimoniata e questa testimonianza nella vita terrena è, al tempo stesso, il fondamento della certezza della predestinazione alla vita eterna. Chi non vive conseguentemente la sua fede, non crede in modo giusto e non può essere quindi certo della sua predestinazione. La coscienza di essere predestinati è quindi, per i seguaci di Calvino, il più forte incentivo alla vita cristiana di ogni giorno. Ma questa coscienza possiede anche un aspetto negativo. Chi si preclude alla fede nella Parola, non ha la grazia della predestinazione e Calvino non esita ad aggiungere che è anche respinto da Dio, perché Dio vuole la riprovazione di determinate persone, così come egli liberamente predestina altre alla salvezza. Questa dottrina della ‘duplice predestinazione1, vale a dire della predestinazione di alcuni alreiezione e di altri invece alla condanna, è il tratto caratteristico del suo rigido pensiero teologico. Questa dottrina fu elaborata dal riformatore grazie a una selezione di alcuni passi biblici, che egli assolutizzò in modo unilaterale. Alla base di questa scelta sta «un tetro, ma ardente rigorismo» (Lortz). Questa dottrina della predestinazione, vissuta in stretta unione con il concetto di chiesa e la coscienza della elezione individuale, non ebbe affatto per i seguaci di Calvino un effetto paralizzante, ma agì invece da profondo sti
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molo all’azione. Per i calvinisti esiste, infatti, un secondo segno per il quale essi possono ritenersi destinati alla vita eterna: vale a dire, il fatto di appartenere alla chiesa riformata. La chiesa è per Calvino al tempo stesso visibile e invisibile. Nessuno può possedere la giusta fede interiore e far parte quindi della chiesa spirituale e invisibile, se non professa esteriormente e se non si inserisce interamente nella comunità visibile della chiesa. Al di fuori della chiesa riformata non può dunque esistere nessuna vera fede e, per ciò stesso, nessuna salvezza. La vera chiesa può essere solo quella in cui viene rettamente predicata la parola di Dio e i sacramenti sono amministrati in modo giusto. E poiché Calvino contesta alla chiesa cattolica di compiere luna e l’altra cosa, essa è conseguentemente la falsa chiesa, l’opera stessa del diavolo, e deve essere perciò annientata. Egli non si limitò, infatti, a disprezzarla, ma la combattè con un’ostilità profonda e riuscì a infondere i suoi stessi sentimenti di odio nei suoi seguaci. Assai prima che il cattolicesimo e il luteranesimo incorressero nello stesso errore, Calvino fu il primo a diffondere l’animosità confessionale e ben presto il calvinismo divenne ovunque, grazie soprattutto alla sua implacabile aggressività, l’avversario principale della chiesa cattolica, ma non esitò neppure a porsi sul piede di guerra anche contro il luteranesimo. Nella dottrina eucaristica Calvino sostenne una presenza spirituale, pneumatica, di Cristo nell’atto della comunione, ma negò la presenza reale difesa da Lutero, considerandola idolatria, così come rigettò la dottrina cattolica. Quanto alla dottrina di Zwingli sulla presenza significativa, puramente simbolica, essa gli apparve del tutto inadeguata.
3. Diffusione del calvinismo Il primo campo di battaglia del calvinismo fu la Francia. Francesco I (1515-1547) e Enrico II (1547-1559) appoggiarono politicamente i protestanti tedeschi, ma all’interno del loro paese perseguitarono i tentativi di riforma sanguinosamente. Nonostante le persecuzioni, si formarono in Francia alcune comunità riformate, che resistettero con eroica abnegazione e si diffusero a prezzo di grandi sacrifici e grazie a uno spirito eroico di assoluta dedizione. Calvino
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spronò instancabilmente i suoi seguaci con lettere, ambascerie e scritti a un eroismo straordinario. Nel 1539 i calvinisti poterono tenere il loro primo sinodo nazionale a Parigi, in cui si diedero uno statuto religioso sulla base della Confessio Gallicana concepita da Calvino. Essi furono designati immediatamente col nomignolo di ‘ugonotti’ (huguenauds, da aignos, ted. Eidgenossen = confederati, congiurati). La conversione di alcune famiglie dell’alta nobiltà coinvolse gli ugonotti, verso il 1560, nei conflitti della nobiltà locale e finì col trasformarli in un partito politico. I loro capi furono Pammiraglio Gaspard Coligny (15191572 )־e i principi Louis e Antoine de Condé, della casa Borboni-Vendòme. Alla testa del partito cattolico di opposizione stava invece la famiglia dei nobili duchi lorenesi di Guisa. Nel 1562 scoppiò la guerra di religione, che fu anche una guerra civile. Le guerre ugonotte (15621598 )־furono condotte con una ferocia e una brutalità inaudite. Ma proprio quando, sotto Carlo IX (15601574)־, al posto del quale, ancora in minore età, esercitava il potere di reggenza la madre Caterina de’ Medici, ci si stava avviando verso una riconciliazione, che sembrava ormai prossima grazie al matrimonio del capo dei protestanti, Enrico di Navarra, con una sorella di Carlo IX, Caterina e i Guisa approfittarono dell’occasione e nella notte di san Bartolomeo (23/24 agosto 1572) ordirono un tremendo complotto contro gli ugonotti presenti. Alle «nozze di sangue parigine», nelle quali cadde vittima tra gli altri anche Coligny, fecero seguito spaventosi massacri di ugonotti nelle province. Il numero delle vittime non è stato mai accertato, ma fu indubbiamente assai alto. In questo atroce delitto i motivi politici prevalsero su quelli ecclesiastici. Non si può sostenere, dal punto di vista storico, che papa Pio V (t 1° maggio 1572) si sia reso complice della strage e, se è vero che Gregorio XIII (15721585)־. da poco divenuto papa, fece intonare un Te Deum di ringraziamento, ciò accadde perché egli era stato informato solo genericamente di una vittoria riportata sugli ugonotti. Dopo la carneficina la lotta riprese. Con la morte di Enrico HI (15741589 )־si era estinta la casa reale dei Valois ed erano andati al potere i Borboni, e così fu proprio Enrico di Navarra, il condottiero degli ugonotti, che divenne l’erede al trono. Già in questo fatto si può vedere la stretta connessione degli ugonotti con la politica
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interna del paese. Enrico IV (15891610 )־dovette conquistarsi il diritto al trono con la conversione al cattolicesimo («Parigi vale ben una messa») e la Francia rimase cattolica. Con Teditto di Nantes (13 aprile 1598) fu però concessa agli ugonotti, seppur entro certi limiti, libertà di religione e fu permesso di conservare, per loro sicurezza, cento luoghi di culto. L’influenza degli ugonotti continuò tuttavia a esercitarsi in modo assai deciso fino al regno assolutistico di Luigi XIV (16431715)־, il quale con Peditto di Fontainebleau (10 ottobre 1685) revocò Peditto di Nantes e pretese dagli ugonotti il ritorno al cattolicesimo. Più di 200.000 ugonotti emigrarono al־ lora dalla Francia per amore della loro fede. Solo in epoca illumini־ sta, verso la metà del xvm secolo, i protestanti poterono ottenere in Francia la libertà religiosa. Nei Paesi Bassi i contrasti politici con la Spagna scatenarono la guerra di indipendenza (15661609)־, che ebbe come conseguenza il distacco dalla chiesa cattolica, rappresentata dalla Spagna. Il calvinismo, favorito dal conflitto bellico, potè penetrare nel paese e nel 1571 fu tenuto a Emden il primo sinodo nazionale dei Paesi Bassi, grazie al quale la nuova dottrina protestante divenne religio־ ne di stato nei Paesi Bassi del nord, mentre le province spagnole del sud rimasero cattoliche. Oltre che nei Paesi Bassi e nel Palatinato elettorale, il calvinismo penetrò, verso la metà del XVI secolo, anche nel Basso Reno. Anche in Inghilterra il calvinismo, muovendo dalla Scozia, fece grandi conquiste. E poiché la nuova confessione di fede aveva messo radici nelle due più importanti potenze marittime del tempo, in Olanda e in Inghilterra, essa si diffuse anche nei paesi d’oltremare, divenendo così di importanza mondiale.
§ 43. Enrico VHI e lo scisma della chiesa d’Inghilterra Alla base della riforma inglese non vi fu nessun desiderio reli־ gioso e teologico, bensì un fatto di politica ecclesiastica. L’occasio
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ne esteriore fu la pretesa di un re dispotico, di fronte al quale il papa dovette proteggere !,indissolubilità del matrimonio. Lo sfondo c costituito dal nazionalismo ecclesiale inglese fortemente sviluppato, che facilitò la rottura con Roma. Così, sotto Enrico V ili, si arrivò allo scisma; da questo si sviluppò poi la chiesa di stato inglese, che risentì di un forte influsso della Riforma, e tuttavia conservò sempre nella sua struttura gerarchica, nella liturgia e nelle forme di pietà dei tratti propri della tradizione cattolica. Enrico V ili (15091547 )־aveva sposato Caterina d’Aragona, che in precedenza, nel 1501/02, quando aveva quindici anni, era stata sposata per soli quattro mesi con il quattordicenne Arturo, fratello di Enrico e successore al trono inglese, il quale però era già seriamente ammalato e morì presto. Ora, nel 1503, sulla base di considerazioni politiche era stata promessa al dodicenne Enrico, dopo che il papa aveva concesso la dispensa dall'impedimento al matrimonio in quanto cognata. Dopo l’ascesa al trono di Enrico, nel 1509 furono celebrate le nozze. Nei diciotto anni di felice matrimonio Caterina aveva dato al marito sette figli, di cui tre maschi, i quali però morirono tutti nei primi anni dell’infanzia, a eccezione di Maria, la futura regina Maria la Cattolica (15531558)־. Nel 1527 Enrico decise di chiedere il divorzio, per potere sposare la dama di corte Anna Bolena. Di sicuro era l’ardente passione il motivo più forte, in quanto Anna Bolena intendeva essere sua solo a condizio־ ne che egli la sposasse; un ulteriore motivo, però, era il desiderio di un erede maschio, che da Caterina egli non si attendeva più. Nel frattempo mostrava di nutrire fortissimi dubbi di coscienza circa la validità del suo matrimonio, poiché secondo Lv 18,16 e 20,21 il matrimonio tra cognati è proibito da Dio e neppure il papa avreb־ be potuto dispensare da questo. Inoltre, la diplomazia inglese lo aveva indotto, un giorno prima di essere dichiarato maggiorenne, a mettere agli atti una protesta segreta contro il fidanzamento, per tenersi aperta in ogni caso un’opzione; e questa protesta veniva ora resa pubblica ai fini di un processo ecclesiastico di annullamento del matrimonio. Caterina, una zia dell’imperatore Carlo V, oppose resistenza; lei poteva credibilmente assicurare che il suo matrimonio con Arturo non era mai stato consumato. Il papa avocò a se il processo. Al re non servì a nulla Tessersi procurato atte
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stati a suo favore di università e teologi. Nel 1531 Clemente VII proibì al parlamento e a tutti gli altri organi di governo, sotto pena di scomunica, di sciogliere il matrimonio del re o di dichiararlo nullo. Enrico si decise perciò a procedere senza il pontefice. Il suo lord cancelliere, Tommaso Moro, che non volle più seguirlo su questa strada, fu sostituito con individui più compiacenti. Thomas Cranmer (14891556)־, già cappellano di casa Bolena, divenne ora arci־ vescovo di Canterbury; fu lui a unire segretamente in matrimonio, nel gennaio 1533, Enrico con Anna Bolena e successivamente, il 23 maggio 1533, dichiarò nullo il matrimonio con Caterina. L’11 luglio 1533 il papa minacciò il re di scomunica se entro settembre non avesse lasciato Anna e ripreso con sé Caterina. Il 23 maggio 1534 la sentenza del processo canonico confermò la validità del matrimonio di Enrico con Caterina. Nel luglio 1535 Enrico, Anna e Cranmer furono scomunicati dal papa. Nel frattempo era iniziata in Inghilterra una propaganda contro il papa e il parlamento aveva preparato, grazie a cinque leggi, la rottura con Roma. Con Inatto di supremazia', del 3 novembre 1534, il re venne dichiarato capo supremo, sulla terra, della chiesa inglese e così si consumò in modo definitivo la rottura con il papato. Nel settembre 1534 Anna Bolena diede alla luce una figlia, Elisabetta, la futura regina Elisabetta I (15581603 ;)־con questo la questione della successione si inasprì. La figlia di Caterina, Maria, fu dichiarata illegittima e tutti i funzionari e i religiosi furono costretti a prestare il giuramento di successione nei confronti dei figli di Anna, come anche a riconoscere l'atto di supremazia. Per chi si rifiutava c'era la pena di morte, per alto tradimento. Le prime vitti־ me furono tre certosini, che nel maggio 1535 furono impiccati; seguirono John Fisher, vescovo di Rochester, e Tommaso Moro, che venne giustiziato il 6 luglio 1535. Lo stile di governo di Enrico an־ dò sviluppando sempre più intensamente tratti brutali e dispotici. Circa duecento esecuzioni capitali segnarono la via che separò vio־ lentemente l'Inghilterra dalla chiesa universale. Se la maggior parte del clero e del popolo si piegò, ciò significa che unità della chiesa e primato del papa nella coscienza di fede della chiesa nazionale inglese non avevano radici profonde. La via alla chiesa di stato era
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libera. Seguirono abolizione dei monasteri e secolarizzazione delFinterò patrimonio della chiesa. Nelle questioni teologiche e liturgiche, però, Enrico rimase sempre un cattolico conservatore. Già nel 1521 egli aveva difeso contro Lutero i sette sacramenti e per questo ebbe dal papa il titolo onorifico di Defensor fidei. Nei cosiddetti ‘sei articoli della fede’ (i cosiddetti ‘articoli anglicani’) egli stabilì, nel 1539, che la negazione della transustanziazione nella messa, della comunione sotto una sola specie, della messa dei defunti, della confessione aurico־ lare, del celibato ecclesiastico e della validità dei voti ecclesiastici venisse punita con la morte. Quando papa Paolo IH, nel 1535, lo scomunicò, non lo potè motivare con l’accusa di eresia, bensì soltanto per via dello scisma. Nella sua condotta di vita certamente Enrico disprezzo spudoratamente i comandamenti di Dio, specialmente riguardo al matrimonio: ebbe sei mogli, da due divorziò, due le fece giustiziare, una morì di parto e l’ultima gli sopravisse, nonostante che l’ordine della sua esecuzione capitale fosse già stato emanato. La conversione dell’Inghilterra al protestantesimo ebbe inizio soltanto sotto suo figlio minorenne, Edoardo VI (15471553)־, quando nel consiglio di reggenza dominava Cranmer. Il «libro della preghiera comune» (Book of Common Prayer), introdotto nel 1549, e i quarantadue articoli anglicani compilati da Cranmer (1553) erano univocamente protestanti. Sotto Maria I, detta la Cattolica (15531558 )־fu di nuovo ristabilito il cattolicesimo e 273 ese־ cuzioni capitali le procurarono il nome di ‘la sanguinaria’ (Bloody Mary). Non meno cruento è stato, soprattutto a partire dal 1570, sotto Elisabetta I (15581603)־, il ritorno al protestantesimo con il ripristino dell’atto di supremazia e dell’atto di uniformità (1559). Tuttavia, per quanto riguarda teologia e liturgia Elisabetta cercò di mantenersi al centro, tra cattolicesimo e puritanesimo. Nel ripristinare la gerarchia anglicana venne data grande importanza alla continuazione della successione apostolica. H nuovo arcivescovo di Canterbury, Matthew Parker (15041575)־, fu ordinato da quattro vescovi, dei quali almeno due erano del tempo di Enrico V ili, e quindi erano stati ordinati secondo il rito cattolico. L’ordinale an
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glicano usato da Parker per ordinare gli altri vescovi appena citati, e che rimase in vigore anche in seguito, risponde all’idea di continuare e di conservare la struttura gerarchica della chiesa secondo la prassi della chiesa antica.
§ 44. Tentativi di riforma nella chiesa prima del concilio di Trento Ecclesia semper reformanda! La chiesa ha sempre bisogno di riforma e non deve mai essere soddisfatta di sé. Sarebbe, infatti, veramente terribile se essa non si accorgesse più della distanza che la separa dal suo divino modello, Gesù Cristo. Per quanto avvilenti possano essere stati gli abusi nella vita ecclesiastica verso la fine del Medioevo, è tuttavia confortante apprendere quanto la chiesa stessa ne abbia intimamente sofferto. Lintero XV e XVI secolo è pieno di amari lamenti, diretti non solo contro la chiesa, ma provenienti anche dal suo stesso seno. L’appello alla riforma riecheggiò con forza sempre maggiore e crebbe fino a dar vita a un possente movimento, all’interno e all’esterno della chiesa. In ultima analisi, anche la stessa Riforma protestante è solo l’espressione di questo desiderio di riforma della chiesa. L’azione riformistica all’intemo della chiesa impiegò più tempo ad attuarsi, ma non fu per questo meno potente. Nei dettagli il processo di riforma all’interno della chiesa appare almeno tanto multiforme e complesso quanto lo fu lo sviluppo della Riforma protestante. I suoi prodromi appaiono già all’inizio del XV secolo, ma il suo sviluppo può dirsi veramente compiuto solo alla fine del xvn secolo. La riforma della chiesa costituì già uno dei problemi più acuti e importanti durante i concili di Costanza e di Basilea (1414-1418 e 1431-1449). Si manifestarono, in quegli anni, forti tendenze che cercarono di sottrarre tutto il complesso della riforma al papato per affidarlo al concilio, ma Martino V ed Eugenio IV riuscirono ad allontanare il pericolo di posizioni conciliaristiche radicali. In seguito, nel XV secolo, furono avviati dei tentativi da parte del papato per attuare la reformatio in capite et in membris, ma il papato
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del Rinascimento era allora religiosamente troppo debole e quindi incapace di realizzarla. I motivi sono stati già esposti. Progetti di riforma vennero anche avanzati sotto i papi seguenti: sotto Martino V (14171431)־, dal cardinale Niccolò Capranica; sot־ to Pio II (14581464)־, dai cardinali Domenico de Domenichi e Niccolò di Cusa. Il Cusano presentò un ampio programma per una ri־ forma generale dell’intera chiesa e Pio II aveva già progettato la bolla d’attuazione, ma improvvisamente morì. Anche sotto Sisto IV (14711484 )־e sotto il famigerato Alessandro VI (14921503 )־furono intrapresi dei tentativi di riforma. Giulio II (15031513 )־costituì nel 1512 una commissione cardinalizia di otto membri, che doveva elaborare le proposte di riforma per il quinto concilio lateranense (15121517)־. Sotto Leone X (15131521 )־i due monaci camaldolesi Paolo Giustiniani e Vincenzo Quirini presentarono il programma di riforma più radicale e più completo che fosse mai stato ideato fin allora. Tutti questi progetti furono soltanto esteriorità e inganno? Pur concedendo ogni ampia riserva mentale verso i papi del Rina־ scimento, non appare tuttavia lecito avallare tale ipotesi. Se quei progetti naufragarono miseramente o non si tradussero in realtà fu per un complesso di motivi e soprattutto perché ai papi e alla curia mancò l’interiore forza religiosa necessaria per attuarli. Mentre il papato falliva, però, tutti coloro che desideravano ar־ dentemente la riforma si adoperarono attivamente per metterla in atto. Soprattutto la Germania, a quell’epoca, era ricca di fervidi e abili vescovi riformisti (Matthias Rammung di Spira, + 1478; Dietrich von Bùlow a Lebus, + 1523). Anche gli ordini religiosi lavora־ rono assiduamente per un incremento della vita religiosa e in ogni grande famiglia religiosa si costituirono rami di riforma e movimenti per ricondurre all’osservanza delle regole primitive (congregazione riformata dei benedettini a Bursfeld [1446], movimento di riforma dei canonici regolari agostiniani di Windesheim; né i francescani e i domenicani furono da meno). Lutero apparteneva del resto a un rigido gruppo di riforma degli eremiti agostiniani e, nel 1511, fu inviato a Roma proprio per incarico dell’ordine. Il numero dei grandi predicatori fu sempre considerevole ed essi operarono spesso meravigliose conversioni in mezzo al popolo, come dimostra l’esempio di Savonarola a Firenze.
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L’imperatore Carlo V aveva fatto suo l’appello al concilio fin dai primi tempi del suo regno. Per potere valutare nei suoi esatti termini il forte contrasto che sorse fra !,imperatore e i pontefici si deve tener ben presente la situazione ecclesiastica e politica di quel tempo. Lutero, fin dal 28 novembre 1518, aveva fatto appello a un concilio ecumenico. Durante la dieta di Worms, nel 1521, affiorò di nuovo l’idea di portare la causa di Lutero dinanzi a un concilio. In seguito, quando Adriano VI fece leggere alla dieta di Norimberga del 1523 l’impressionante confessione di colpa della curia e promise immediate riforme, i principi tedeschi risposero invocando un «libero concilio cristiano in terra tedesca». Nell’anno seguente questa richiesta fu ripetuta e poiché non era possibile attuare un concilio ecumenico senza il papa, i principi convocarono senz’aitro un concilio nazionale tedesco per P ii novembre 1524, a Spira. L’imperatore proibì questo concilio nazionale osservando testualmente: «Come può osare una singola nazione di cambiare l’ordinamento ecclesiastico?». Non per questo Carlo cessò tuttavia di far pressioni presso il papa e, con maggiore energia, chiese di nuovo la convocazione di un concilio ecumenico. Papa Clemente VII (15231534)־, invece, temeva un concilio ecumenico, preoccupato per le tesi conciliariste di Costanza e di Basilea. Gli stati dell’impero avevano del resto fatto comprendere fin troppo chiaramente che cosa intendessero con un «libero concilio cristiano in terra tedesca»: che esso doveva essere libero dal papa, cui sarebbe stata tolta ogni influenza. I Padri conciliari dovevano quindi essere precedentemente dispensati dal loro giuramento verso il pontefice. Come si vede, le preoccupazioni del papa non erano affatto ingiustificate e Clemente aveva anche un altro motivo per opporsi, connesso strettamente alla politica dello stato della chiesa. Il primo dovere per lui, come per i suoi predecessori, era infatti quello della conservazione e dell’incremento dello stato della chiesa. Da Giulio II (15031513)־, che nella sua qualità di statista, condottiero e mecenate delle arti era stato il pontefice più importante del Rinascimento, papa Clemente aveva ricevuto in eredità uno stato perfettamente articolato, seppur internamente debole e insicuro. Il dotto Leone X (15131521)־, anch’egli gran protettore
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delle arti, aveva fatto assai poco per rafforzarlo e Adriano VI (15221523)־, che era stato precettore di Carlo V e che fu l’ultimo tedesco salito al soglio pontificio, non ebbe molto tempo e gran disposizione per la politica; a lui stava unicamente a cuore la riforma della chiesa e, del resto, morì prematuramente. Spettò quindi a Clemente riprendere i disegni di potenza di Giulio II. Personal־ mente egli fu un uomo irreprensibile, ma da buon rampollo di casa Medici (come già Leone X), mostrò sentimenti puramente monda־ ni e politici. Il suo scopo principale fu portare a compimento Topera dei predecessori e, poiché il raggiungimento di questo fine gli sembrò minacciato soprattutto dalla monarchia universale asburgica, che comprendeva anche il regno di Sicilia e di Napoli e il regno d’Italia nel nord, cercò !,amicizia della Francia. Carlo V aveva da poco terminato vittoriosamente la sua prima guerra contro Francesco I (battaglia di Pavia, 1525; pace di Madrid, 1526) e si apprestava a ritornare in Germania per regolare la questione della chiesa tedesca: il suo intervento appariva infatti estremamente urgente e necessario (dieta di Spira, 1526). Ma Francesco I, improvvisamente, dichiarò di nuovo guerra alTimperatore e anche il papa si alleò alla Francia (lega di Cognac, 1526). Carlo, profondamente indignato da tanto tradimento e slealtà, mi־ nacciò il papa: se non si fosse ritirato dalla lega lo avrebbe chiamato a rendere ragione del suo operato dinanzi a un concilio ecumenico e, per far meglio sentire al pontefice tutta la sua potenza, ordi־ nò alle sue truppe di marciare su Roma. Carlo non calcolò bene le possibili conseguenze del suo gesto. I rozzi e indisciplinati soldati spagnoli e tedeschi quando presero d’assalto Roma, il 6 maggio 1527, erano privi di governo, per la morte dei loro comandanti su־ premi: Jòrg von Frundsberg (si ammalò a Ferrara e morì nel suo castello a Mindelheim) e Carlo di Borbone-Montpensier (detto il connestabile di Borbone). Seguirono terribili settimane di ruberie, saccheggi e omicidi nella città eterna. Clemente potè rifugiarsi in Castel S. Angelo, ma il 5 giugno fu costretto a capitolare e dovette subire per sei mesi una dura prigionia. I contemporanei considerarono questo sacco di Roma una tremenda catastrofe naturale abbattutasi sulla città di Pietro. Esso apparve un terribile richiamo di Dio alla penitenza e alla purificazio־
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ne per la curia troppo mondanizzata, pose termine agli eccessi del Rinascimento romano e, al tempo stesso, avviò la riforma, anche se il mutamento non avvenne troppo rapidamente. Papa Paolo III (1534-1549) continuò pur sempre a essere un uomo del Rinascimento, anche se fu il primo pontefice a iniziare seriamente la riforma della chiesa. Nel giugno 1529, con la pace di Barcellona, il papa e !,imperatore si riconciliarono. A Bologna, dove essi si trattennero per qualche mese (dal novembre 1529 al febbraio 1530; incoronazione del!,imperatore il 24 febbraio 1530), discussero a lungo sulla questione religiosa tedesca, che stava particolarmente a cuore a Carlo. Si stabilì, in quell'occasione, di convocare un concilio ecumenico, se, nel corso della dieta di Augusta (1530), non si fosse giunti a una pacifica riunificazione della chiesa. Ma, quando !,imperatore, dopo che la dieta si rivelò inefficace, chiese al papa di mantenere la sua promessa, Clemente revocò il suo impegno. Il suo timore era troppo grande. Anche in seguito non fu più possibile persuaderlo a tenere un concilio ecumenico con i protestanti tedeschi. Solo con Paolo HI (1534-1549), un membro della casa Farnese, si aprirono nuove speranze per il concilio e la riforma. Ma Paolo non comprese subito la necessità e l'urgenza della riforma e non era affatto adatto al suo alto ufficio spirituale. Egli aveva, infatti, tre figli illegittimi e una figlia, che favorì con esagerato nepotismo. Quando fu eletto cardinale, divenne tuttavia più serio e il sacco di Roma gli fece comprendere quanto fossero necessari la riforma e un profondo mutamento di vita all'interno della chiesa. Egli cominciò perciò la sua opera là dove più era necessaria: dalla riforma del sacro collegio e chiamò a far parte del supremo senato della chiesa un nutrito gruppo di propugnatori della riforma, tra cui Gasparo Contarmi, John Fisher, Giacomo Simonetta, Giampietro Carafa (futuro papa Paolo IV), Jacopo Sadoleto, Reginaldo Pole, Marcello Cervini (futuro papa Marcello II), Giovanni Morone e altri, e con essi istituì una commissione di riforma (1536) che, già nel 1537, presentò il suo promemoria: il Consilium... de emendanda ecclesia, che in seguito servì come modello per il Tridentino. Paolo dette poi incremento ai nuovi ordini religiosi dei teatini, barnabiti, somaschi e cappuccini; nel 1540 approvò anche l'ordine dei gesui
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ti, ma soprattutto si adoperò in modo sincero e onesto per la convocazione di un concilio ecumenico. H papa si accordò con Carlo V per riunire il concilio a Mantova, il 23 maggio 1537. Francesco I, però, che aspirava a un’egemonia francese sulTEuropa e temeva che la posizione dell’imperatore si sarebbe rafforzata grazie al concilio ecumenico, fece di tutto per ostacolare questo proposito e non esitò ad aizzare i turchi contro l’imperatore e a stringere un’alleanza con i protestanti tedeschi. Anche da questa terza guerra contro Francesco I (15361538 )־Carlo uscì vittorioso e, dopo gli inutili tentativi di pacifica riunione con i colloqui di religione di Hagenau, Worms e Ratisbona (1540/41), la convocazione del concilio apparve ancora più urgente e necessaria. Il papa, su pressione di Carlo, si decise finalmente a riunirlo a Trento per il 29 giugno 1542. Francesco I dichiarò, per la quarta volta, guerra a Carlo (1542-1544) e soltanto alla fine di questa il vittorioso imperatore potè costringere Francesco I, con la pace di Crépy (19 settembre 1544), a lasciare via libera al concilio ecumenico, che fu nuovamente convocato da Paolo IH per il 15 marzo 1545, a Trento. Ma fu solo nel dicembre dello stesso anno che esso potè iniziare i lavori.
§ 45. H concilio di Trento Già la stessa preistoria del concilio dimostra quanto sia stata estremamente difficile e complessa la sua successiva attuazione, e anche l’opera del concilio stesso non fu del resto meno ricca di tensioni e di ostacoli. Quando, il 13 dicembre 1545, solo 31 Padri conciliari aventi diritto di voto ne celebrarono l’apertura, sotto la guida dei legati nominati dal papa, Giovanni del Monte, Marcello Cervini e Reginald Pole, nessuno potè prevedere che aveva allora inizio il più grande avvenimento di tutta la cattolicità moderna.
1.1partecipanti al concilio Le discussioni iniziarono subito con un violento dibattito tra l’imperatore e il papa, su una questione di principio. Entrambi i
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capi della cristianità non erano, infatti, d’accordo su ciò che il concilio dovesse considerare come suo primo e principale compito. All’imperatore stava a cuore la riforma e la riunificazione con i protestanti, e i suoi motivi ci sono noti. Al papa, invece, premeva soprattutto che fossero messe in chiaro le questioni dogmatiche, che si riacquistasse in tutta la sua intima essenza il patrimonio della fede, poiché solo allora sarebbe stato evidente quante rovine avesse operato l’attacco protestante nel campo della teologia cattolica. In definitiva, la ribellione di Lutero non era nata, infatti, tanto da problemi di riforma, quanto invece da vere e proprie questioni dogmatiche. Alla base della Riforma stavano una nuova dottrina della grazia, un nuovo principio di interpretazione della saera Scrittura, una nuova concezione della giustificazione, dei sacramenti e della stessa chiesa: elementi che, tutti insieme, caratterizzavano la vita delle comunità uscite dalla Riforma. Una risposta chiara ed esatta a tutti questi problemi poteva venire solo dalla dogmatica e, d’altro canto, non si doveva neppur dimenticare di introdurre le necessarie riforme disciplinari. Per questo, il 22 gennaio 1546, si convenne di trattare parallelamente il dogma e la riforma. Il concilio fu quindi anzitutto, nella sua concezione globale, una presa di coscienza interna alla chiesa, una pura questione cattolica. Per questo esso potè rinunciare alla partecipazione dei protestanti ai suoi lavori: non volle essere, infatti, né un colloquio di religione sul tipo di quelli avvenuti nelle diete tedesche, né un incontro fra teologi per dirimere le controversie teologiche esistenti, bensì una manifestazione del magistero della chiesa. In nessun passo dei decreti conciliari viene mai citato il nome di uno dei riformatori e nelle discussioni ci si basò, di volta in volta, su un articolo eretico, estratto dalle opere dei riformatori o di teologi di diversa opinione, e lo si esaminò attentamente per confutarlo e riproporre, attraverso una profonda e radicale rielaborazione, la vera dottrina cattolica. Quando fu chiesto al papa se non si dovessero allegare almeno alcune indicazioni delle fonti, che rimandassero a singoli scritti dei riformatori, egli raccomandò con fermezza e decisione di non farlo e osservò che il concilio avrebbe pienamente risposto ai suoi compiti mettendo in evidenza in modo chiarissimo e inequivocabile la
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dottrina cattolica, poiché esso doveva dire che cosa era eretico e non chi doveva essere considerato come tale. Il concilio potè compiere così un lavoro oggettivo. Di fronte agli scontri polemici tipici di quell’epoca la schietta argomentazione razionale dei teologi di Trento agì in modo rassicurante e benefico. Tra i Padri presenti v’erano personalità di altissima fama e rango, quali Girolamo Seripando, Domenico de Soto, i gesuiti Diego Lainez e Alonso Salmerón, e il tedesco Johannes Gropper di Colonia. Alcuni storici hanno criticato il fatto che i tedeschi fossero rappresentati al concilio in numero esiguo e sostenuto che i romani non fossero affatto a conoscenza delle reali esigenze della Riforma. In verità, nelle prime sessioni del concilio non fu mai presente nessun vescovo o teologo tedesco e solo durante il secondo periodo, nell’autunno del 1551, apparvero gli arcivescovi di Magonza, Treviri e Colonia, i vescovi di Strasburgo, Costanza, Coira, Chiemsee, Vienna e Naumburg, e i vescovi suffraganei di Magonza, Spira, Wiirzburg e Mùnster. Essi portarono con sé i loro teologi: Gropper e Eberhard Billick da Colonia, Ambrogio Pelargo da Treviri e altri ancora. Particolarmente Gropper, ma anche il vescovo Friedrich Nausea di Vienna e il vescovo Julius Pflug di Naumburg, teologo di sentimenti erasmiani, quindi incline alla mediazione, godettero a Trento della massima stima. Tuttavia, il massimo peso delle decisioni lo ebbero effettivamente i romani: gli italiani rappresentavano, infatti, la maggioranza assoluta dei Padri conciliari anche se gli spagnoli erano altrettanto ben rappresentati, grazie soprattutto ai loro eccellenti teologi. La chiesa, del resto, è per sua essenza universale e anche i paesi non tedeschi erano stati toccati dalla Riforma5seppur in modo meno sensibile, e proprio per questo essi erano in grado di rappresentare la verità oggettiva meglio di quanto avrebbero potuto fare i teologi tedeschi, sempre troppo soggettivi.
2. Lo svolgimento del concilio Primo periodo (1545-1548): Nella IV sessione (8 aprile 1546) il concilio contrappose al principio protestante del sola Scriptum la dottrina delle due fonti della fede: Scrittura e Tradizione. Anche la
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tradizione va, infatti, considerata, secondo un'antichissima conce־ zione cattolica, come fonte della fede: pari pietatis affectu. L’esclusiva limitazione alla sola sacra Scrittura è eretica. Nella V c nella VI sessione si discusse sul peccato originale e sulla giustificazione. In opposizione alla dottrina protestante del sola gratia e dell’imputazione venne rigettato il concetto dell'assoluta corruzione della natura umana decaduta e fu messa in evidenza l’importanza della grazia santificante, inerente all'anima, nel processo di salvezza. Si dichiarò pertanto che l'uomo che opera in stato di grazia, di fede e di amore può compiere opere buone meritorie. Nella VII sessione venne definita la dottrina dei sacramenti in generale, e del battesimo e della cresima in particolare: dottrina che era al centro stesso della problematica protestante. Nella primavera del 1547 i lavori del concilio, cui ora presenziavano ben sessantaquattro vescovi e sette superiori di ordini, furono improvvisamente interrotti. Il repentino insorgere di un'epidemia a Trento e la minaccia delle truppe della lega di Smalcalda indussero il concilio a trasferire la sua sede a Bologna (11 marzo 1547). L'imperatore, il quale era ormai sul punto di spezzare la resistenza della lega e che si riprometteva, dopo la vittoria sui protestanti, di persuaderli a recarsi a Trento, levò inutilmente la sua voce di pròtesta. Carlo sapeva bene che i protestanti non avrebbero mai accettato di recarsi a Bologna, ma se il trasferimento del concilio intraiciò i piani dell'imperatore, esso fu invece gradito al papa. I rapporti fra Carlo e il papa si erano intanto nuovamente inaspriti. L’imperatore aveva protestato contro l’infelice politica familiare di Paolo, quando quest'ultimo cedette a suo figlio, il depravato Pierluigi Farnese, una parte dello stato pontificio (Parma e Piacenza come ducato autonomo) e Paolo III gli serbò per questo eterno rancore. Persuaso dal figlio Pierluigi, egli rifiutò le truppe ausiliarie pontifieie e i denari necessari a Carlo, che stava ormai per cogliere la vittoria contro la lega di Smalcalda, e strinse invece un'alleanza con Enrico II di Francia, che aveva ripreso la politica antimperiale del padre. Quando Pierluigi venne assassinato nel settembre del 1547, l'ira del papa contro Carlo V non conobbe più limiti e il contrasto venne apertamente alla luce. Il 14 settembre 1549 Paolo sospese il concilio, che già un anno prima aveva interrotto i suoi lavori e Car
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lo minacciò un nuovo sacco di Roma. La morte del papa impedì lo scoppio della guerra. Secondo periodo (15511552)־: Il legato conciliare Del Monte, che fu chiamato a succedere a Paolo III con il nome di Giulio III (15501555)־, aprì nuovamente il concilio a Trento il 1° maggio 1551. All’inizio la partecipazione dei Padri fu piuttosto scarsa; nelTautunno arrivarono anche i tedeschi. Si discusse sull’eucaristia: la presenza reale e la transustanziazione vennero definite chiaramente nel corso della XIII sessione. Furono quindi discussi i sacramenti della penitenza e dell’estrema unzione (XIV sessione), e fu posto particolarmente in evidenza il carattere sacramentale dell’assoluzione, della confessione auricolare e della penitenza. Nel gennaio 1552 comparvero finalmente i protestanti che l’imperatore vittorioso era riuscito a indurre a partecipare al conòlio. Carlo, il quale era ancora dell’idea che esistesse una base unitaria per reciproche trattative e, conseguentemente, vedeva la necessità di un dialogo tra le parti religiose in contrasto, si riprometteva grandi successi dalla presenza dei protestanti al concilio. Gli inviati di Sassonia, Brandeburgo, Wiirttenberg e della città di Strasburgo avevano ricevuto d’altronde le loro direttive, che esposero nella congregazione generale del 21 gennaio: il concilio non poteva pubblicare nessun altro decreto sulla fede finché non fossero giunti i teologi protestanti e tutti i decreti religiosi emanati fino a quel momento dovevano essere revocati e discussi di nuovo, sulla base esclusiva del principio della Scrittura. Il concilio doveva infine liberarsi totalmente dall’autorità papale, tutti i vescovi do־ vevano sciogliersi dal giuramento di fedeltà al papa e affermare la fondamentale superiorità del concilio sul pontefice. Il concilio di Trento, così aveva precedentemente dichiarato uno dei loro teoio־ gi (Johannes Brenz), non poteva dirsi fino a quel momento ecumenico, poiché non vi erano rappresentate tutte le nazioni; né li־ bero, poiché non era libero dal papa; né cristiano, poiché nelle sue precedenti sessioni aveva condannato la vera dottrina cristiana. Una delle richieste fondamentali dei protestanti fu che il concilio non doveva in alcun modo sottostare alla presidenza del papa e, proprio per questo, fu espressamente vietato agli inviati di
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Wùrttemberg di presentarsi e di entrare in contatto con i legati pontifìci a Trento. Stando così le cose, apparve fin troppo chiaro che non esisteva nessuna possibilità d’intesa e il papa proibì ulteriori discussioni in merito alle richieste dei protestanti. La rivolta dei principi, scoppiata poco tempo dopo in Germania, costrinse il concilio a sospen־ dere i lavori (28 aprile 1552). Il terzo periodo (15621563 )־fu il più fecondo, anche per Pinfluenza esercitata dagli avvenimenti esterni: in Francia la situazione andava, infatti, facendosi pericolosa per i grandi progressi compiuti dagli ugonotti e per la minaccia di un concilio nazionale francese. I vescovi tedeschi, tuttavia, non parteciparono ai lavori di quest’ultima fase conciliare: essi non osarono abbandonare le loro diocesi, mentre infuriavano i contrasti tra le diverse confes־ sioni. I punti di discussione più importanti furono ancora !,eucaristia e il sacrificio della messa (XX e XXI sessione), l’ordine sacro (XXIII sessione) e la sacramentalità del matrimonio (XXIV sessione). Nelle discussioni sul matrimonio ci si preoccupò dei possibili modi di opporsi ai contratti segreti di matrimonio (matrimoni clandestini); nel decreto Tametsi venne dichiarato che, in awenire, tutti i matrimoni che non fossero stati celebrati dinanzi al parroco del luogo e a due testimoni dovevano essere considerati inva־ lidi. Nella XXV sessione, tenutasi il 3 4 ־dicembre 1563, furono emanati i decreti circa il purgatorio, l’indulgenza, il culto dei santi e delle reliquie, e l’uso delle immagini sacre. Alla fine il concilio terminò i suoi lavori: 199 vescovi, sette abati e sette generali di ordini sottoscrissero i numerosi decreti e le disposizioni per la riforma, prima che fossero trasmessi al papa. Pio IV, il 26 gennaio 1564, confermò senza opporre eccezione tutti i decreti e le disposizioni di riforma. L’attuazione dei vari decreti da allora in poi fu affidata ai pontefici, ai vescovi e all’intera chiesa. Essa vi attese nei decenni che seguirono. «Il concilio di Trento fu la risposta del supremo magistero eccle־ siastico alla Riforma» (Jedin) e non fu una risposta nata dalla teoio־ già controversistica, bensì una chiara delimitazione della dottrina
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religiosa cattolica, espressa dal magistero, una riflessione scaturita dal seno stesso della chiesa: una vera riforma.
§ 46. La riforma cattolica L’attuazione dei decreti conciliari, che subito dopo la chiusura del concilio si impose ovunque, nei paesi e nelle diocesi, ebbe inizio come una straordinaria e tenace lotta contro ogni forma antiquata di abuso e diede ravvio a un processo di sviluppo estremamente complesso. Il nuovo incremento della vita cattolica apparve come uno dei più stupendi fenomeni della storia della chiesa. La rassegnazione che sembrava aver colpito il popolo cattolico, come un esercito ormai vinto e in piena ritirata, cedette lentamente il passo a un rinnovato spirito combattivo e a una coscienza che andò man mano acquistando sempre più il senso della sua vera missione. Le ferite dolorose inferte nel periodo della grande apostasia nel corpo della cristianità pian piano rimarginarono e chi era rimasto fedele all’antica fede si rallegrò per il nuovo corso della vita religiosa. La chiesa entrò nell’epoca della «riforma cattolica» (Hubert Jedin) come un tempo di autocoscienza, da parte della chiesa, dell’ideale di vita cattolico grazie a un ampio rinnovamento interiore.
1. Il pontificato di Pio V Nel papato, con Pio V (1566-1572) incontriamo, per la prima volta dopo secoli, la serietà della volontà del rinnovamento della chiesa rispecchiata in modo persuasivo e degno di fede nella reformatio in capite. Pio V deve la sua elezione al cardinale di Milano Carlo Borromeo. Da buon domenicano, egli mantenne anche sul trono di Pietro un tenore di vita ascetico e seppe congiungere mirabilmente la mistica comunione con Dio nella preghiera al fervente zelo per la riforma. Pio V considerò sempre il rinnovamento interiore dell’intera chiesa, secondo le norme del concilio di Trento, come il suo compito più importante. In modo conseguente, egli iniziò perciò la sua opera con la riforma del sacro collegio, che in
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tegrato da uomini di provata fede e di grandi virtù morali, potè avviare in piena responsabilità l’opera di riforma ecclesiale. Fu perfezionata la congregazione, già istituita dal predecessore Pio IV, che aveva il compito di interpretare autenticamente e di controllare !,esecuzione dei decreti del Tridentino; in seguito Pio V istituì nuove congregazioni, composte da cardinali, per la diffusione e la consensazione della fede {1Propaganda fide, 1568); un’altra congregazione ebbe poi il compito di consigliare i vescovi e i prelati della chiesa, ma anche di controllare che fosse attuato quanto, all’epoca della grande apostasia, era risultato urgentemente necessario. Egli ordinò che, in tutta la chiesa, fosse ripreso immediatamente l’uso delle visite pastorali e della celebrazione dei sinodi, che dovevano introdurre nelle diocesi i decreti della riforma tridentina. In armonia con le decisioni emerse dal concilio, Pio V pubblicò un Catechismus Romanus (1566) e, due anni dopo, una nuova edizione del Breviarium Romanum (1568) e un nuovo Missale Romanum (1570). Per il funzionamento interno della vita ecclesiastica si rivelò di primaria importanza il rinnovamento della corte pontifìcia, attuato con rigorosa severità, e la lotta contro gli abusi simoniaci e di altro genere esistenti presso l’autorità curiale. Giustamente, dunque, Pio V fu considerato il grande pontefice della riforma tridentina. Nella sua attività politica, invece, Pio V non seppe mostrarsi all’altezza della difficile situazione mondiale: il suo contegno verso la regina Elisabetta I d’Inghilterra, che egli scomunicò e depose nel 1570, anche se questo atto si rivelò totalmente privo di senso poiché Elisabetta già da molto tempo era fuori dalla chiesa, può essere giudicato maldestro e provocò soltanto nuove e terribili persecuzioni contro i cattolici inglesi. Altrettanto infelice fu il suo comportamento verso la Spagna e la Francia. Pio V ottenne tuttavia che in Germania l’imperatore e gli stati cattolici accettassero ufficialmente, durante la dieta di Augusta del 1556, i decreti del concilio di Trento e che fossero veramente attuate numerose visite pastorali nelle diocesi (come accadde a Colonia nel 1569) e fossero celebrati dei concili provinciali. Il suo più grande trionfo fu tuttavia la vittoria navale, conseguita a Lepanto contro i turchi (7 ottobre 1571) dalle truppe pontifìcie, spagnole e veneziane, che il pontefice era
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riuscito a riunire insieme nella lega santa, sotto la guida di don Juan de Austria. I suoi successori, Gregorio XIII (1572-1585), Sisto V (15851590 )־e i papi che vennero dopo, continuarono la sua opera.
2. Vescovi riformatori Il rinnovato episcopato fu illustrato ben presto da stupende figure di pastori, quali Matteo Giberti da Verona (14951543)־, Gabriele Paleotti, vescovo di Bologna (1522-1597) e, soprattutto, Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano (1538-1584). Carlo, che era nipote di papa Pio IV (15591565 )־e già a ventun anni era stato eletto cardinale, contribuì a rafforzare lo zio, con il quale fu sempre in corrispondenza, nella volontà di riforma. Anche se non si può affermare a rigore, come invece qualcuno ha sostenuto, che egli abbia dato !,impulso decisivo all'ultimo periodo del concilio tridentino, resta il fatto che il Borromeo incarnò in modo vigoroso nella sua persona e nella sua diocesi gli ideali della riforma di Tren־ to, tanto che egli può giustamente essere considerato il modello del nuovo vescovo pastore tridentino. La sua opera ebbe un’influenza grandissima anche al di fuori della città di Milano e le sue disposi־ zioni di riforma, che furono raccolte negli Acta ecclesiae mediolanensis (1582) e più volte ristampate, agirono in modo efficace e decisivo sull’intera opera episcopale di riforma in Italia, Svizzera e Germania. Accanto al Borromeo, va poi ricordato il luminoso esempio di san Francesco di Sales (15671622)־, vescovo di Ginevra (16021622)־, ma residente di fatto ad Annecy, poiché Ginevra era divenuta la roccaforte del calvinismo.
3. La riforma degli ordini religiosi La riforma diede i suoi più bei frutti negli ordini religiosi, che erano stati fortemente scossi, all’interno e all’esterno, dal movimento protestante. Gli antichi ordini vissero profondamente i nuovi ideali di rinnovamento religioso e le aspirazioni di riforma che già si erano fatte sentire fin dal XV secolo: dobbiamo qui ricor
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dare innanzitutto i benedettini, i francescani, i domenicani e gli agostiniani. Gli ordini riformati e le nuovissime fondazioni, che furono allora istituite generalmente nella forma più articolata di compagnie religiose o di congregazioni con voti semplici, unirono al rinnovamento della vita interiore e religiosa un concreto e fecondo impegno che operò al servizio dell’opera di riforma della chiesa, sia in mezzo al popolo, nel campo della cura d’anime, sia in quello dell’istruzione del clero, dell’insegnamento o dell’assistenza ai poveri e agli infermi. L’Italia, la Francia e la Spagna furono i centri principali di questa nuova fioritura religiosa e delle nuove attività pastorali. Il gioioso Filippo Neri (1515-1595), tanto ricco di humour, il fondatore dell’ordine degli oratoriani (1552), fu l’apostolo più entusiasmante di Roma, che seppe guidare miracolosamente, con i suoi nuovi metodi pastorali, la città rinascimentale a un vero rinnovamento religioso e morale. Filippo Neri fu amico di Ignazio di Loyola, attivo insieme a lui nella stessa città. Sotto il governo del tetro e fanatico Paolo IV (1555-1559), che sembrò voler soffocare ogni forma di gioia serena, Filippo ebbe a soffrire per un certo tempo, ma poi potè riprendere la sua opera con l’appoggio e la protezione del papa. A migliaia si contan le anime risanate da lui nello spirito, nel corpo e nell’anima. E merita di essere notato che non fu certo a caso se la rinascita del cattolicesimo si tradusse artisticamente nelle forme, tanto felicemente espressive e vitali, del Barocco. In Spagna visse Teresa d’Avila (1515-1582), la quale non solo rinnovò, con la sua profonda mistica e la sua inesauribile carità, l’ordine delle carmelitane, ma ebbe anche un’influenza decisiva sullo spirito e la spiritualità della Spagna e della Francia del xvn secolo. Accanto a lei va ricordato il carmelitano Giovanni della Croce (1542-1591). Angela Merici (1474-1540) fondò nel 1535, a Brescia, l’ordine delle orsoline, che fu approvato nel 1544 e nel 1582 trasformato in una congregazione femminile per l’assistenza agli infermi e l’educazione delle fanciulle. Da una pia associazione laica, fondata da Giovanni di Dio (14951550)־, ebbe origine nel 1572 l’ordine dei Fatebenefratelli, dedito soprattutto alla cura degli ammalati. Carlo Borromeo fondò invece, nel 1578, una congre
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gazione di sacerdoti secolari: gli oblati. Camillo de Lellis (1550־ 1614) fondò, nel 1584, i camilliani, per !,assistenza agli ammalati gravi e ai moribondi. Jeanne-Frangoise Frémyot de Chantal (1572־ 1641) diede vita, nel 1610, all'ordine della ‘Visitazione di Maria’, grazie anche alla guida spirituale di Francesco di Sales (t 1622) e proprio per questo, più tardi, le monache si chiamarono salesiane: la loro missione fu l’assistenza agli infermi e l’educazione delle fan־ ciulle. In Francia, nel 1611, Pierre de Bérulle (15751629 ;־dal 1627 cardinaie) fondò l’oratorio francese, che si dedicò particolarmente all’educazione del clero. L’influsso di Bérulle sulla spiritualità della Francia del xvn secolo fu grandissimo. A Bérulle risale la fonda־ zione dell'Ecole Frangaise, la quale realizzò un tipo di formazione sacerdotale tutto particolare, che ha le sue radici in una teologia spirituale improntata al mistero deU’incamazione di Cristo. Grazie a essa Bérulle riuscì ad attuare quel profondo rinnovamento della vita interiore del clero francese, che fu uno dei caratteri più peculiari dell’intera riforma cattolica in Francia. UÉcole Frangaise diede, infatti, al clero francese un’altissima formazione spirituale e un’eccellente cultura teologica. Ben presto la formazione dei teoio־ gi in Francia fu affidata agli oratoriani Charles de Condren (1588־ 1641), superiore generale degli oratoriani, e a Jean־Jacques Olier (16081657)־, parroco di Saint Sulpice a Parigi e fondatore della congregazione dei sacerdoti secolari (i sulpiziani), che continuarono a coltivare lo spirito di Bérulle. Il seminario di Saint Sulpice a Parigi fu, fino all’inizio del XX secolo, uno dei più importanti istituti di formazione teologica in Francia, esempio, e modello per tutti gli altri seminari francesi, e più tardi fu trapiantato anche in Inghilterra e in America. Dobbiamo qui ricordare anche Jean Eudes (16011680)־, oratoriano fino al 1643, che fondò poi una propria congregazione di sacerdoti secolari e istituì un seminario. Anche Eudes fu uno dei grandi rinnovatori della vita religiosa nella Franeia del XVII secolo. L’opera per il risanamento della vita sacerdotale in Francia si rivelò fecondissima. Nel xvn e xvm secolo, grazie al rinnovato spirito ecclesiastico-religioso, i sacerdoti divennero la vera guida spirituale del popolo cristiano. I nuovi religiosi furono anche dei pa
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stori zelanti, che si interessarono di tutte le necessità spirituali e materiali del popolo. Come Eudes e gli ‘eudisti’, essi si dedicarono pieni di entusiasmo, oltre che alla formazione sacerdotale, alle missioni popolari. Vincenzo de’ Paoli (15811660)־, il grande santo cristiano dell'amore del prossimo, insieme a Louise de Marillac (15911660 )־fondò, nel 1633, ?associazione delle Figlie della Carità, chiamate in seguito ‘vincenzine5, che fu approvata dal papa nel 1668. Questa associazione svolse un'opera altamente benefica, assistendo i poveri e gli ammalati. Vincenzo fondò anche una congregazione di chierici regolari per le missioni fra il popolo: i lazzaristi (così detti dalla loro casa madre, il collegio Saint Lazare, a Parigi) o vincenzini; essi dovevano occuparsi dell'assistenza spirituale del popolo. Alla metà del XVII secolo sorse il severo ordine dei trappisti, che fu fondato, dopo il 1644, dall’abate cistercense Armand Jean le Bouthillier de Rancé (1626-1700). A Nancy nacque, nel 1652, l'istituzione delle suore borromee, fondate da Emanuel e Joseph Chauvenel (1620-1651) come ‘comunità secolare' per l'assistenza degli ammalati abbandonati, e infine, nel 1681, sorse la congregazione, fondata da Jean Baptiste de La Salle (1659-1719), dei Frateili delle scuole cristiane. Una tale dovizia di grandi santi, di fondazioni e di educandati testimonia lo spirito cristiano dell'epoca. La vita cattolica, che molti nel XVI secolo credevano già estinta, rifiorì grazie a questi nuovi istituti religiosi e dette frutti meravigliosi. Non abbiamo tuttavia ancora ricordato l'ordine più importante di tutti, nel XVI secolo, e il suo grande fondatore, Ignazio di Loyola: la compagnia di Gesù. Sarà dunque bene soffermarci in un paragrafo a parte.
4. Ignazio di Loyola e lordine dei gesuiti Ignazio di Loyola (1491-1556) fu spesso giudicato in modo del tutto errato: alcuni videro in lui solo il grande stratega, l'organizzatore della Controriforma cattolica, l'eccezionale conoscitore di uomini e il profondo psicologo. Egli fu invece anzitutto un profondo mistico, un’anima orante e un grande santo. Nato nel 1491 nel ca
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stello Loyola in terra basca, egli ricevette una tipica educazione di corte (15061517 )־e prestò servizio, come ufficiale, prima nelTarmata del viceré spagnolo di Navarra e poi al servizio delTimperatore Carlo V. Durante !,assedio dei francesi a Pamplona, nel 1521, fu gravemente ferito a una gamba. Durante la sua lunga degenza subì una totale trasformazione interiore. Un successivo pellegrinaggio al santuario della Madre di Dio di Montserrat completò la sua conversione. Nella quiete di Manresa (marzo 1522 - febbraio 1523), Ignazio visse la sua mistica trasformazione; a questo tempo risalgono la prima stesura dei suoi celebri Exercitia spiritualia e la risoluzione di cercare, in avvenire, soltanto la maggior gloria di Dio. «Omnia ad maiorem Dei gloriam» fu da allora in poi il suo motto. Durante un pellegrinaggio in Terra Santa (giugno 1523 - gennaio 1524), maturò in lui !,intenzione di diventare anche sacerdote. Nonostante tutte le difficoltà, egli superò la scuola di latino, a BarcelIona (1524-1526), gli studi filosofici ad Alcalà e a Salamanca (1526/27), le numerose persecuzioni delPinquisizione spagnola, che lo sospettò di eresia, e gli studi teologici a Parigi (1528-1535). In quest’ultima città visse nel collegio Montaigu, dove anche Erasmo e Calvino avevano ricevuto la loro formazione. A Parigi egli radunò intorno a sé un circolo d'amici: Pietro Faber, Francesco Saverio, Diego Lainez, Alonso Salmerón, Simon Rodriguez e Nicola Bobadilla. Insieme a loro, il 15 agosto 1534, Ignazio fece a Montmartre voto di povertà e di castità, e a questi ne aggiunse anche un altro: quello di intraprendere una missione spirituale in Terra Santa oppure, se questa entro un anno non fosse stata possibile, di mettersi a disposizione del papa, senza condizioni, per un servizio alla chiesa. Egli concluse i suoi studi parigini ottenendo il diploma di magister in filosofia e in teologia. E poiché il progettato viaggio verso la Palestina si dimostrò impossibile, Ignazio, che aveva frattanto ricevuto !,ordinazione sacerdotale il 24 giugno 1537, si recò a Roma con i suoi compagni (1538). In quello stesso periodo maturò la sua intenzione di fondare un ordine, di cui Paolo IH approvò gli statuti il 27 settembre 1540. Eletto dai suoi confratelli primo generale della compagnia, Ignazio, da allora in poi, si stabilì a Roma, ove si dedicò interamente alla sua missione. Il suo ordine crebbe rapidamente.
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Oggi è comunemente noto e riconosciuto che egli, con la sua fondazione, non aveva affatto mirato a combattere il protestantesimo; Ignazio voleva infatti servire soltanto Cristo nella chiesa e lavorare al rinnovamento interiore e all’approfondimento della sua vita cristiana. Il suo pensiero e la sua volontà furono tuttavia nettamente ostili al protestantesimo, poiché l’intera concezione che Ignazio aveva della vita religiosa si opponeva totalmente alle idee di Lutero e dei riformatori. Soltanto oggi (la pubblicazione delle fonti può dirsi quasi ultimata) è possibile dare un giudizio su di lui e sulla sua opera. Ignazio di Loyola fu uno dei più grandi mistici della chiesa, ma la sua mistica era priva di ogni forma di entusiasmo soggettivo. La si è chiamata, infatti, la ‘mistica del servizio’ e tale, in effetti, essa fu: una positiva, autentica dedizione, un totale e schietto abbandono a Cristo, il Signore. Per Ignazio, Cristo continua a vivere nella chiesa, nella chiesa romana, e il mistero dell’incamazione è per lui il centro stesso della vita religiosa. Tutto l’urnano, con il suo carico di povertà e debolezza, appartiene al Dio incarnato, a Gesù Cristo: egli lo ha assunto per poterlo redimere. Il ecclesia spiritualis è irreale e, per ciò stesso, non cristiana. Ignazio affermò sempre i valori della vita, e combattè soltanto il peccato; la chiesa istituzionale si identificava per lui con il Cristo, il Vivente, e proprio per questo non esitò neppure un momento a mettersi a disposizione di questa chiesa, in un modo sereno, realistico, coraggioso e senza riserve. Il suo sguardo era aperto sul ‘mondo’, che appartiene al Cristo. È nel mondo, infatti, che si realizza il mistero di salvezza e si è detto giustamente che Ignazio visse in una «mistica della gioia del mondo» (Karl Rahner). Anche Ignazio, naturalmente, era stato colpito dagli scandali esistenti nella chiesa istituzionale. Già quand’era studente aveva avuto a che fare con l’inquisizione e aveva dovuto sopportare il carcere. Egli si era scontrato duramente con il fanatico cardinale Carafa e, quando questi divenne papa (Paolo IV, 1555-1559), cominciò per lui un tempo assai difficile. Tuttavia, Ignazio non dubitò mai della chiesa, poiché egli sapeva ben distinguere il divino dall’umano e, quando nella vita ecclesiale quest’ultimo veniva troppo alla luce, egli sapeva riconoscerlo ed era pronto a sopportarlo. In questo si differenziò nettamente dai riformatori, anzi, per dir me
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glio, fu proprio il loro opposto. H suo pensiero e la sua volontà non potevano che reagire contro la Riforma protestante. Al soggettivi־ smo e allo spiritualismo dei riformatori, al loro appellarsi alla coscienza individuale, Ignazio contrappose decisamente l’unione alla chiesa, intesa come massima autorità. La sua obbedienza alla chie־ sa, che fu al centro stesso della sua stessa vita e di quella del suo ordine, non significa altro, in effetti, che obbedienza al Cristo. La sua devozione incondizionata verso la Santa Sede e il ministero del vicario di Cristo è egualmente servizio di Cristo. I princìpi che guidarono il comportamento di Ignazio verso la chiesa furono fìssati da lui stesso nel piccolo libro degli Esercizi e, attraverso questo, furono partecipati a milioni di uomini. Le istruzioni o «regole per una retta coscienza ecclesiale» che vi sono raccolte caratterizzarono lo spirito dell’epoca post-tridentina. Tutto ciò che i riformatori avevano rigettato, perché suonava scandaloso al loro spiritualismo, Ignazio insegnò a comprenderlo muovendo da un punto di vista più incamazionista e a considerarlo sul piano di un rapporto più stretto e più intimo: la confessione, raccostarsi ai sacramenti, la celebrazione della messa, i voti religiosi, il culto dei santi, i pellegrinaggi, la remissione dei peccati, le cerimonie liturgiche, i digiuni e l’astinenza, le immagini e gli ornamenti della chiesa ecc. Non si deve quindi parlare sempre di sola fede (sola fide), notava Ignazio, ma attenersi anche alle opere buone, poiché altrimenti il popolo diventerà tiepido e pigro, e non si deve neppure affermare, sempre e senza posa, che la sola grazia {sola grafia) opera tutto, poiche altrimenti «ne nascerà il veleno che annullerà la libertà». Né si dovrà richiamare sempre l’attenzione sulla predestinazione, perché, se è vero che esiste un’elezione per grazia di Dio, senza la quale nessuno può salvarsi, è anche necessario mettere bene in evidenza la necessità di collaborare con la grazia. Del resto, in merito a questa e a tutte le altre questioni che riguardano la salvezza, vale soprattutto ciò che insegna la chiesa gerarchica. Nessuno ha quindi il diritto di interpretare la sacra Scrittura secondo la sua personale e soggettiva opinione {sola scriptum), poiché spetta soltanto al supremo magistero ecclesiastico di interpretarla in modo autentico. Ignazio mise incessantemente in luce l’antica dottrina cattolica della cooperazione fra Dio e l’uomo, fra grazia e natura. «Prega co
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me se tutto dipendesse soltanto da Dio; ma agisci come se tutto dipendesse da te, se vuoi esser salvato». Ignazio non mirò affatto a una restaurazione della situazione religiosa esistente prima della Riforma, bensì a una rivitalizzazione e a un rinnovamento interiore che scaturisse da un sano spirito religioso ed ecclesiale. Egli non si impegnò affatto in una lotta contro gli errori e i vizi, in nessun passo dei suoi scritti egli fa riferimento ai riformatori o combatte gli eretici; il suo scopo fu unicamente quello di ricondurre, con i soli mezzi della carità e della dottrina, gli uomini sulla retta via e salvare le loro anime. In un tempo sorprendentemente breve i suoi seguaci diffusero questo nuovo spirito e permisero a tanti cattolici di ritrovare la gioia della loro fede. Nulla più del nuovo movimento artistico delTepoca, e cioè del Barocco, rispecchia fedelmente questa gioia spirituale nuova. Il Barocco è stato definito lo stile gesuitico; in realtà esso non è soltanto una corrente artistica, ma anche !,espressione di un nuovo sentimento della vita religiosa e ecclesiale. Nei colori e nella forma, il Barocco esprime tutta la nuova vita religiosa, traboccante con inesauribile pienezza creativa. Ben presto il Barocco ornò gli edifici religiosi cattolici e specialmente le chiese dei gesuiti, partecipando visibilmente la sua gioiosa commozione interiore al popolo che in esse si riuniva per il culto. Nel giro di pochi anni si videro di nuovo muovere per le strade delle città, in tutto il loro sontuoso dispiegarsi barocco, le gioiose processioni; furono riprese le celebrazioni delle antiche feste e tutte le usanze cattoliche rifiorirono a nuova vita. In questa reviviscenza delle antiche tradizioni i gesuiti ebbero gran parte. Alla morte di Ignazio (1556) Pordine contava già circa 1.000 membri; appena ventanni dopo essi erano quasi 4.000; intorno al 1600 erano 8.520 e alla fine del xvn secolo addirittura 20.000. Il rigido centralismo dell’ordine fece dei suoi membri uno strumento estremamente efficace, pronto a servire il rinnovamento della chiesa e il grande numero dei santi che in esso fiorirono testimonia della sua intima forza religiosa. Dobbiamo ricordare qui Pietro Canisio (1521-1597), il primo gesuita tedesco (dal 1543) e il «secondo apostolo della Germania»; Francesco Saverio (15061552), il grande missionario dell’India e del Giappone; Francesco
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Borgia, il terzo generale dell’ordine (15101572 ;)־Luigi Gonzaga (1568-1591) e Roberto Bellarmino (1542-1621).
§ 47. Confessionalizzazione, Inquisizione e credenza nelle streghe 1. Confessionalizzazione In ogni epoca vi sono stati eretici nella chiesa, ma il loro numero, di solito, fu sempre piuttosto limitato. Essi furono sempre considerati membri traviati della stessa chiesa e, per questo, si potè procedere contro di loro con pene ecclesiastiche e si riuscì sempre, in un modo o in un altro, ad averne ragione. Con la Riforma la situazione mutò invece completamente. La novità stava nel fatto che si costituirono allora, al di fuori della chiesa cattolica romana, nuove formazioni religioso-ecclesiastiche, i cui membri non potevano più essere considerati solo uomini disobbedienti e fuorviati, ma pur sempre appartenenti all’unica grande chiesa, ma dovevano essere invece giudicati dei seguaci indipendenti di un’altra confessione. Ad Augusta, nel 1555, i luterani erano stati riconosciuti ufficialmente come una comunità di fede e una chiesa organizzata. Anche se i calvinisti, gli anabattisti e i membri di altre confessioni ne furono esclusi, non si poteva tuttavia più continuare a ignorarli. Il grande problema fu perciò questo: come ci si doveva comportare di fronte ai seguaci di un’altra confessione? «La costituzione di tipi di chiesa confessionalmente differenti fa parte degli avvenimenti più importanti della storia europea del XVI e XVH secolo» (Ernst Walter Zeeden). Accanto ai fattori teologici ed ecclesiastici agirono anche, in misura rilevante, interessi politici, giuridici e persino economici. Già prima della Riforma erano, infatti, sorte e si erano sviluppate le chiese territoriali che ben presto, nell’ambito luterano, divennero completamente autonome. Interessi ecclesiastici, religiosi, dinastici e politici confluirono insieme e, in un periodo che può essere datato al più tardi all’anno 1555, la Riforma protestante non fu più la libera scelta di un suddi
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to; solo il principe potè infatti decidere sulla fede del territorio a lui soggetto. Gli abitanti del Palatinato elettorale furono così costretti a cambiar fede per sei volte: il principe elettore Ludovico V (15081544)־ aveva assunto, nella questione religiosa, una posizione mediatrice, di chiara ispirazione erasmiana. Federico II (15441556 )־introdusse la Riforma protestante; Otto־Enrico (15561559 )־cacciò dal paese tutti i parroci cattolici, per sostituirli con quelli protestanti. Federico III (15591576 )־introdusse invece il calvinismo, ne cacciò tutti i pastori protestanti e, dal 1563, nel paese entrò in vigore il ‘catechismo di Heidelberg calvinista. Ludovico VI (15761583 )־restituì il Palatinato alla confessione luterana e scacciò energicamente i pastori calvinisti. Federico IV (15531610 )־ripristinò con la violenza nel Palatinato elettorale il calvinismo. Dopo un tira e molla pieno di vicissitudini durante la guerra dei trentanni, sotto gli elettori del Palatinato-Neuburg Filippo Guglielmo (16851690 )־e Giovanni Guglielmo (16901716)־, nel paese ritornò di nuovo in vigore la fede cattolica, senza tuttavia che le altre confessioni fossero soppresse. Che in tali circostanze anche la cosiddetta *Controriforma* dovesse battere una strada ecclesiastico-politica appare evidente. Da quando la pace religiosa di Augusta (1555) aveva concesso ai principi tedeschi il diritto di imporre la religione da loro preferita, l’avvenire della chiesa cattolica nei paesi tedeschi dipese totalmente dal modo in cui essa sarebbe riuscita a riempire dello spirito del rinnovamento cattolico le poche case principesche tedesche rimaste fedeli a Roma (Asburgo, Wittelsbach e, dal 1613, anche il Palatinato-Neuburg) e a porle al servizio della conservazione, vale a dire della diffusione della chiesa in Germania. I gesuiti e i cappuccini, come precettori, confessori e consiglieri di principi, cooperaio־ no a preziose innovazioni, non solo presso le corti principesche tedesche, ma anche a Parigi, a Madrid e presso i principati italiani. Le combinazioni ecclesiastico-politiche ebbero un ruolo sempre più determinante, non solo nelle unioni matrimoniali delle case principesche, ma determinarono anche la concessione di vescovati e di abbazie e fecero sì che, alla fine, non si badasse più al cumulo dei vescovati in un’unica mano, nonostante la ferma disapprovazione del concilio tridentino. Se, infatti, si voleva proteggere i ve
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scovati dei principi cattolici dalla continua intromissione dei vicini protestanti, era necessario rafforzare la loro posizione politica e militare, e questo poteva avvenire solo mediante la solida coalizione e Tunione a una delle case principesche più potenti. Così, per esempio, quando Colonia minacciò di andar perduta per la deposi־ zione del suo arcivescovo Johann Gebhard Truchsess von Waldburg, che nel 1582/83 aveva abbracciato la fede protestante, Ro־ ma non esitò ad assegnare lo stesso vescovato, subito dopo che esso fu strappato con l’aiuto bavarese a Johann Gebhard, al principe di Baviera Ernesto, il quale riunì perciò nelle sue mani, oltre a quello di Colonia, ben altri quattro vescovati della Germania occidentale (Liegi, Miinster, Paderbom e Hildesheim). E, per quasi duecento anni, i principi bavaresi governarono e protessero Tintero territorio della Germania nord-occidentale in qualità di arcivescovi di Colonia e in unione personale con gli altri vescovati. Le necessità dell’epoca furono tali che qualche volta si dovette persino passar sopra le gravi debolezze morali di questi principi, poiché era in questione l’esistenza o l’annientamento della chiesa in Germania. Questo fu lo spirito della Controriforma.
2. Il ruolo dell'Inquisizione La congregazione pontificia che vegliava sul mantenimento della purità della fede e dei costumi, detta anche Sanctum Officium, rientrò in funzione, dopo la sua riorganizzazione voluta da Paolo III (bolla Licet ab initio, 1542) e durante il pontificato del fanatico Paolo IV (1555-1559) intensificò ancor più la sua sinistra attività. Persino alcuni cardinali furono colpiti: Jacopo Sadoleto, Reginald Pole e Giovanni Morone, sospettati di eresia, vennero accusati e perseguitati; Morone languì per due anni (1557-1559) nelle prigioni dell’inquisizione. Lo stesso Ignazio, dinanzi a Paolo IV, tremava. L’inquisizione infierì soprattutto dove regnavano gli spagnoli. Nel giugno 1561, in Calabria, i valdesi subirono persecuzioni sanguinose. L’inquisizione spagnola va tuttavia distinta da quella pontifieia; essa fu un’istituzione statale, chiamata in vita nel 1481, grazie alla quale la Spagna cristiana volle proteggersi nelle sue lotte contro i mori musulmani. Molti ebrei e mori si erano convertiti solo
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apparentemente al cristianesimo (i cosiddetti marrani e i mori־ scos), dopo che erano stati costretti al battesimo; considerati politicamente infidi e ritenuti spesso spie clandestine, si procedette contro di loro come contro rei d’alto tradimento. Le esecuzioni capitali ebbero un triste apparato scenico, una specie di solenne cerimoniale, a chiaro scopo intimidatorio e furono denominate auto da fé (= actus fidei generalis). In un’epoca in cui la vita religiosa e quella politica formavano ancora un’unità inscindibile, è difficile poter valutare esattamente in quale misura abbiano agito, in queste terribili esecuzioni, interessi religiosi o politici, economici o puramente umani ed è parimenti impossibile dire quanti uomini siano caduti vittime dell’inquisizione. In Germania furono soprattutto gli ‘anabattisti’ a pagare con la vita le loro idee religiose e, anche in questo caso, appaiono evidenti i retroscena politici. Gli anabattisti, soprattutto dopo gli eccessi di Miinster (15341535)־, erano temuti perché considerati perturbatori della pace e ritenuti quasi dei rivoluzionari socialisti. Nella città cattolica imperiale di Colonia, che per molti secoli ebbe triste fama per la sua particolare ostilità verso gli eretici, tra il 1529 e il 1618 furono arrestati circa 170 anabattisti, ma quasi tutti furono espulsi dalla città o subirono breve prigionia; soltanto nove di essi furono condannati alla pena capitale: quattro nel 1534/35 e gli altri cinque fra il 1558 e il 1565; nell’un caso e nell’altro appare tuttavia evidente che la condanna fu determinata soprattutto da motivi politici e bellici. Nei paesi protestanti la persecuzione degli anabattisti è stata invece più dura e il numero delle esecuzioni capitali molto più elevato.
3 . La caccia alle streghe La credulità nella stregoneria e i processi contro le streghe gra־ vano sull’inquisizione ben più pesantemente delle persecuzioni contro gli eretici. Per queste nevrosi di massa e il sinistro rapporto che le univa alla religione e ai processi inquisitoriali ci mancano oggi tutte le possibilità di confronto. Cattolici e protestanti non si differenziarono affatto nel perseguitare e nel condannare al rogo le streghe, al contrario, essi si stimolarono reciprocamente, poiché gli uni non volevano lasciarsi superare dagli altri nel perseguitare quei
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demoni immaginari. Fin dalla comparsa del Martello delle streghe (1487), che fu composto dalTinquisitore domenicano Heinrich Institoris (Kramer; circa 14301505)־, la credulità nell’esistenza delle streghe si propagò in modo estremamente rapido. Anche Lutero e Calvino e gli altri riformatori credevano alle streghe e le combatterono con il fuoco e la morte. Tra il 1590 e il 1630, questa superstizione raggiunse la sua punta più alta e solo nel xvm secolo essa diminuì, per cessare infine del tutto (le ultime condanne al rogo delle streghe: Kempten 1775, Glarus 1782, Posen 1793). Nessuna età e ceto sociale sfuggì al processo. Si formarono veri e propri centri di superstizione, principalmente nelle regioni montagnose. La credulità si diffuse, con vertici di intensità variabili, in molti paesi, tra cui la Savoia, la Svizzera, il Tirolo, la Lorena e la Scozia. I maggiori focolai delle persecuzioni contro le streghe furono la corte francese (1400), Arras (1461), !,Inghilterra (dopo il 1576), Mainfranken (16231630)־, la Scozia, la Scandinavia e l’America del nord (1645־ 1693). I primi oppositori alla credenza nelle streghe furono il medico della Bassa Renania Johannes Weyer (1515/161588)־, un erasmia־ no che viveva alla corte del duca Wilhelm von Julich-Kleve; i gesuiti Adam Tanner (15721632 )־e soprattutto Friedrich von Spee (15911635)־, il quale nel 1630/31, a Paderbom, scrisse la sua celebre opera Cautio criminalis (Prudenza nei processi criminali). Poco mancò che Spee pagasse il suo coraggioso intervento a favore del!,innocenza delle ‘streghe’ e contro l’assurdo, delittuoso modo di istituire i processi con la condanna al rogo.
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§ 48. La nuova epoca missionaria della chiesa La chiesa ha ricevuto dal suo Signore !,esplicito mandato missionario (Gv 17,18; 20,21; M t 28,18; Lc24,47;At 1,8) e il carattere cristiano di un’epoca deve essere valutato soprattutto dal modo e dall’intensità con cui essa ha avuto coscienza e ha realizzato questo suo dovere essenziale. È nella missione, infatti, che la chiesa, come istituzione divina di salvezza e incarnazione incessante del Cristo, trova la sua perfetta realizzazione. Essa è ‘cattolica’ all’interno perché proclama integralmente, nella sua originaria purezza e contro ogni limitazione settaria ed eretica, il messaggio di salvezza, ma lo è anche all’esterno grazie alla trasmissione di questo stesso messaggio a tutti i popoli e a tutte le razze della terra.
1. Missione e diffusione del cristianesimo fino alla soglia dell’età moderna La chiesa ha corso spesso il pericolo di identificarsi e di adattarsi all’ambiente culturale con cui si era quasi familiarizzata. Già gli A tti degli Apostoli testimoniano dell’intensa emozione che aveva colto tutta la chiesa primitiva quando si discusse del passaggio del cristianesimo dal contesto giudaico al paganesimo. Per lungo tempo, prima che il giovane cristianesimo si liberasse interamente dal giudaismo e si radicasse nel mondo ellenistico e romano, i giudeo-
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cristiani ritennero di dover porre i pagani convertiti al cristianesimo sotto la loro tutela e di limitarli nelle forme di pensiero e di vita. Le stesse tensioni e difficoltà si ripresentarono più tardi, quando !,antichità cristiana era ormai alla fine, durante il periodo di transizione dal mondo culturale greco-romano a quello germanico-medievale, e dovranno trascorrere molti secoli prima che il cristianesimo trovi nella nuova cultura la sua piena e compiuta incarnazione. Il primo e Paltò Medioevo, in modo particolare, furono epoche di intensa attività missionaria, e fu indubbiamente grazie a quest’ultima se tutta l’Europa divenne cristiana. Tuttavia, mentre per tutta l’antichità il Mediterraneo aveva stretto in una grande unità culturale i popoli confinanti dell’Africa, dell’Asia e dell’Europa, nel VII secolo una nuova grande potenza, l’Islam, emerse sull’orizzonte della storia e si pose come un argine fra l’Europa, da una parte, e l’Asia e l’Africa dall’altra. Nei paesi islamici dell’Asia minore e dell’Africa settentrionale sopravvissero solo pochi focolai di vita cristiana; la stessa Bisanzio riuscì a stento a mantenere la sua posizione. Il raggio di azione del cristianesimo fu così limitato alla sola Europa e, quando anche questa si divise, per il funesto scisma greco del 1054, dando vita a un cristianesimo occidentale distinto da quello orientale, la chiesa cattolica romana fu, in sostanza, limitata al solo ‘Occidente’. Il tentativo, intrapreso dalle crociate, di rompere con la potenza militare la barriera islamica, ebbe alla fine esito infelice. Altrettanto inutile si rivelò l’impresa, già di per sé infausta, di ricondurre violentemente Bisanzio e la cristianità orientale entro i quadri della comunità occidentale (1204); l’impero latino d’Oriente (1204-1261) segnò, infatti, una deprecabile e infelice involuzione storica. La conquista di Costantinopoli (1453) da parte dei turchi serrò infine, ancora più strettamente, l’anello intorno all’Occidente cristiano. L’ultimo passo sulla via dell’impoverimento e del restringimento della chiesa occidentale fu compiuto dalla Riforma protestante del XVI secolo. Dopo aver perduto la maggior parte dei paesi nordici, la chiesa cattolica vide restringersi la sua sfera d’influenza alla sola Europa sudorientale. L’Italia e la Spagna costituirono per lungo tempo i suoi ultimi baluardi nell’Europa cristiana. L’universalità della chiesa apparve tristemente mutilata.
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2. L’epoca delle grandi scoperte Si può quindi considerare una disposizione provvidenziale di Dio il fatto che, proprio in quel tempo, vale a dire all’epoca delle grandi scoperte geografiche, siano stati affidati alla chiesa nuovi compiti missionari in terre d’oltremare. All’incirca verso la metà del XV secolo gli spagnoli e i portoghesi presero, con le loro navi, la via del sud e dell’ovest. I portoghesi, navigando lungo la costa occidentale dell’Africa, raggiunsero nel 1486 il Capo di Buona Speranza. Nel 1498 Vasco da Gama (14601524 )־proseguì la sua circumnavigazione dell’Africa puntando le vele verso l’India. Nel 1500 il portoghese Pedro Àlvares Cabrai scoprì il Brasile. Fiorirò־ no ovunque colonie portoghesi: lungo le coste delle Indie(־orienta־ li), in Africa e in Brasile (15051515)־. Ferdinando Magellano, bat־ tendo bandiera portoghese, guidò la prima spedizione intorno al mondo tra il 1519 e il 1522. Nel 1516 alcuni commercianti portoghesi penetrarono persino in Cina, ove si stabilirono - non come conquistatori ma in veste di pacifici mercanti - anzitutto a Canton e, in seguito, grazie a un permesso formalmente concesso dal governo cinese, fondarono nel 1567 la colonia di Macao. Altri navigatori portoghesi, nel 15421543־, si spinsero fino in Giappone. In quello stesso periodo anche le spedizioni degli spagnoli furo־ no coronate da grandi successi. Il genovese Cristoforo Colombo, al servizio del re di Spagna, scoprì nel 1492 le isole dell’arcipelago del centro America che egli, credendo di aver raggiunto con la sua circumnavigazione della terra le Indie, chiamò Indie occidentali. Fernando Cortez conquistò entro il 1521 il Messico; nel 1520 seguì la scoperta e la conquista del Cile; nel 1525 dell’Argentina e, nel 1532, del Perù. Nel regno dell’imperatore Carlo V il sole non tramontava mai. La questione religiosa ebbe, in tutte queste scoperte, una parte di grande importanza. All’origine di queste imprese, oltre al dinamismo e all’entusiasmo per l’avventura e a precisi interessi economici, politici e militari, stava anche, come motivo di stimolo certo non indifferente, lo zelo missionario. Persino i più selvaggi fra i ‘conquistatori’ sentirono vivamente l’imperativo interiore di diffondere la religione cristiana fra i popoli vinti. I loro metodi, in ve
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rità, furono spesso pericolosi, umilianti e crudeli. Sembrò, infatti, che per i conquistatori costituisse un motivo di onore l’avere sterminato il paganesimo nei paesi di recente conquista e ?aver imposto violentemente la fede cristiana. I missionari li accompagnarono e li seguirono sempre. Questa stretta collaborazione fra missionario e conquistatore fu comunque del tutto deplorevole, e non portò certo benefici alla missione, tanto che si deve imputare a questa collusione se, nei paesi transoceanici, non si potè mai giungere a un’organica fusione del cristianesimo con i popoli e le culture indigene. La missione potè penetrare solo laddove si era precedentemente radicata la dominazione coloniale spagnola e portoghese, e dove le religioni primitive indigene non poterono più opporre una forte resistenza, come accadde nell’America centrale e meridionale. Nei paesi di antica cultura, in India, in Cina e in Giappone, il cristianesimo riuscì appena a prendere piede. La concezione politico-religiosa dei portoghesi e degli spagnoli era ancora quella, rigidamente unitaria, del Medioevo. La loro pòlitica coloniale e le conversioni, imposte con la forza, fecero sì che agli occhi degli indigeni il cristianesimo apparisse come la religione dello sfruttatore e dell’oppressore: un rimprovero, questo, che gravò pesantemente sull’attività missionaria cristiana, fino ai nostri giorni. E quanto l’accusa fosse allora giustificata è dimostrato anche dalla lunga lotta, sostenuta per decenni, dal nobile missionario domenicano Bartolomé de Las Casas (1484-1566) per un trattamento più umano degli indigeni e per l’introduzione di un metodo missionario pacifico. Egli non fu tuttavia l’unico missionario che abbia sentito e rifiutato la profonda ingiustizia dell’uso della violenza. La vita e l’opera di un Pietro Claver (1580-1654), il padre dei neri e degli schiavi, fu un’unica grande accusa contro i metodi violenti.
3. La missione in India e in Cina. La controversia sui riti Anche il grande missionario gesuita Francesco Saverio (15061552) operò, a servizio del Portogallo, in India e in Giappone. Come legato pontifìcio, su incarico del re portoghese Giovanni IH,
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egli sbarcò nel 1542 a Goa, svolse con grande successo la sua attività missionaria nella penisola di Malacca (15451547 )־e nel 1549 visitò il Giappone, recentemente scoperto. Durante il viaggio che lo doveva portare in Cina, Francesco Saverio morì, nel 1552, nelTisola di Sancian. Da allora in poi, i gesuiti cominciarono a diffondere le loro missioni in modo sistematico e soprattutto cercarono di porre fine alla grettezza dei metodi missionari portoghesi. H gesuita Roberto de’ Nobili (1577-1656) introdusse un nuovo metodo, il cosiddetto *sistema di adattamento', tentando seriamente, per la prima volta, di conformarsi totalmente al modo di vita e di pensare della popolazione indiana. Dal 1605 egli visse come un bramino a Madura (India meridionale), condusse un’esistenza piena di rinunce come quella di un penitente indù e si isolò da tutti gli europei, persino dai suoi confratelli. Egli volle essere indù con gli indù. D e’ Nobili aveva compreso quanto l’avversione verso i portoghesi e la connessione spirituale che esisteva fra teologia cristiana e spirito occidentale fosse di ostacolo alla missione cristiana. Imparato il sanscrito, la lingua religiosa degli indiani, cominciò a predicare, riferendosi nel suo discorso ai libri sacri degli indù, e introdusse il vangelo di Cristo nel mondo concettuale dell’India come un quinto Veda. Non diversamente si erano comportati, in altri tempi, durante il conflitto con l’ellenismo, Paolo e gli apologisti cristiani. Il successo non mancò. Già nel 1609, Roberto de’ Nobili potè istituire per i bramirli da lui battezzati una propria chiesa cristiana. Egli permise ai neoconvertiti di mantenere tutte le loro abitudini indù, quando non fossero apertamente pagane. Perfino nella liturgia e nella vita comunitaria adottò le usanze indù, concesse di portare il cordone dei bramini e il kudumi, l’uso del legno di sandalo, le molteplici abluzioni e mostrò sempre la massima tolleranza di fronte a tutti i riti religiosi indigeni. Ben presto altri missionari gesuiti co!!linciarono a svolgere la loro opera anche presso le caste inferiori. Intorno al 1650 Madura contava già 40.000 cristiani. Papa Gregorio XV permise, nel 1623, i nuovi metodi missionari e ammise, seppur con riserve, i riti dei bramini. Ma in seguito, e precisamente alla fine del XVII secolo, scoppiò la controversia sulla liceità di questo metodo di adattamento che condusse, dopo lunghi e spiacevoli conflitti, alla condanna, nel 1742, dei ‘riti malabarici’ da parte di
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Benedetto XIV. Il destino della missione indiana fu così segnato irrevocabilmente. Da allora in poi il cristianesimo non potè più trapiantarsi in India. Un destino simile toccò alla missione dei gesuiti in Cina, dove Matteo Ricci (1552-1610) introdusse il metodo di adattamento ottenendo uno straordinario successo. Egli visse dal 1600 alla corte imperiale di Pechino in qualità di astronomo e matematico, e predico apertamente, come amico e consigliere dell’imperatore, il cristianesimo. Alla sua morte, nella classe dominante cinese i convertiti al cristianesimo assommavano a oltre 2.000. Un suo confratello, Adam Schall von Bell (1592-1666), fu elevato persino alla dignità di mandarino e nel 1645 divenne «direttore dell’ufficio imperiale per l’astronomia». Nel 1650 egli eresse una chiesa pubblica a Pechino e ottenne nell’intero impero libertà di culto per il cristianesimo (1657). Alla sua morte la Cina contava quasi 270.000 cristiani. L’editto imperiale di tolleranza del 1692 premiò i meriti acquisiti dai gesuiti in Cina e nella casa imperiale; una chiesa cinese indipendente era già in via di sviluppo e si profilavano ormai le migliori speranze di successo missionario. Ma proprio allora avvenne invece la catastrofe e, ben presto, la missione cristiana in Cina fallì, e non per le persecuzioni esterne, ma a causa dei conflitti sorti in seno alla chiesa sulla bontà del metodo di adattamento. Che cosa accadde in realtà? Già Matteo Ricci, nella sua predicazione cristiana, aveva usato coscientemente le immagini di cui i cinesi si servivano solitamente per rappresentarsi Dio. Egli si rese conto che era necessario evitare di presentare la fede cristiana a un popolo di una cultura religiosa tanto alta come qualcosa di assolutamente nuovo e che non si doveva parlare ai cinesi come se, fino ad allora, essi avessero vissuto senza conoscere e onorare Dio. Matteo Ricci preferì quindi rivolgersi a loro dichiarando che ben sapeva quanto essi fossero stati sempre devoti e mostrando loro che la fede cristiana costituiva semplicemente il punto più alto e perfetto della conoscenza di Dio. Quel ‘Signore del Cielo’, che essi avevano venerato fino ad allora, era appunto il Cristo; la rivelazione cristiana avrebbe insegnato a meglio comprenderlo. Per questo, sempre escludendo ogni ombra di idolatria pagana, egli tollerò come manifestazioni di tradizione
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civile la venerazione di Confucio e il culto degli antenati. Tutti i valori naturali della cultura cinese dovevano, infatti, mantenere i loro diritti nel cristianesimo. Si può veramente accusare il Ricci di essersi spinto troppo oltre in questo suo metodo missionario? Questa, certo, fu !,opinione dei missionari domenicani e francescani, operanti in Cina dal 1630, i quali, insieme ai gesuiti residenti a Roma, accusarono Ricci. Innocenzo X proibì, nel 1645, questo adattamento, ma alcuni anni dopo, nel 1656, Alessandro VII mitigò in parte il precedente divieto. Grette rivalità di ordini inasprirono tuttavia i contrasti teologici e per influenza del giansenismo, che tanto aveva calunniato la morale gesuita, Roma divenne ancora più scrupolosa. Un anno dopo Teditto di tolleranza, emanato dall'imperatore Kangh Hsi nel 1692, !,adattamento fu di nuovo e con grande severità disapprovato da Roma. Inutilmente i missionari gesuiti mostrarono le approvazioni e le raccomandazioni dell'imperatore, che si adoperò personalmente moltissimo a loro favore: il divieto rimase e fu rinnovato nel 1704 da Clemente XI. L'invio del legato apostolico CharlesThomas Maillard de Tournon (1668-1710) in Cina, nel 1707, e il suo infelice comportamento alla corte imperiale determinarono la rottura definitiva dei rapporti fra la chiesa e l'imperatore Kangh Hsi. Tournon morì nel 1710, prigioniero dei cinesi, e l'imperatore proibì la predicazione della fede cristiana in forme diverse da quelle dell'adattamento praticato dai gesuiti. Al nuovo legato pontificiò Carlo Mezzabarba (1685-1741) egli rivolse violenti rimproveri: «Tu hai distrutto la tua religione, hai destinato alla miseria gli europei che vivono qui e hai oltraggiato il buon nome di coloro che sono morti da lungo tempo». Nel 1723 Innocenzo XHI mitigò ancora il divieto, ma Benedetto XTV, nel 1742, proibì nuovamente ogni forma di adattamento. Questa imprevidente vittoria dell'europeismo dette il colpo di grazia alla missione in Asia orientale. Subito dopo iniziarono le lunghe e terribili persecuzioni dei cristiani cinesi. Solo nel XX secolo, lentamente, la missione cristiana in Cina poté riprendere vita. Pio XI (1939) e Pio XII (1940) revocarono il divieto dei riti cinesi per la cristianità cinese, ma ormai era troppo tardi! Nella nuova Cina divenuta comunista, le antiche tradizioni e i riti non hanno oggi più alcun valore.
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§ 49. Dal Barocco all’Illuminismo Al periodo di rilassamento religioso, che aveva portato alla frattura della fede, seguì dopo il concilio tridentino, con la riforma cattolica, una nuova epoca di più forte concentrazione sulla chiesa. Per il papato la Riforma significò al tempo stesso una crisi e una svolta storica. La sede di Pietro uscì dal concilio di Trento rafforzata e rinnovata da questa dura prova. I Padri conciliari, affidando esclusivamente alle mani del papa la continuazione dell’opera di riforma, non solo riconobbero la sua posizione di guida suprema, ma gli diedero anche la possibilità di influire più intensamente sulla vita di tutta la chiesa. In seguito, la curia intervenne nella vita interna dei paesi e delle diocesi per riformare, controllare e ispezionare in misura assai più ampia di quanto fosse mai accaduto precedentemente. Il potere di giurisdizione del papa crebbe così alTintemo e all’esterno della chiesa. La riorganizzazione delle quindici congregazioni cardinalizie, volute da Sisto V (1585-1590), a ognuna delle quali furono affidati precisi incarichi amministrativi, e l’istituzione di nunziature stabili nei punti nevralgici della vita ecclesiastica, con funzionari, i nunzi, dotati di pieni ed estesi poteri, contribuirono notevolmente al consolidamento del centralismo ecclesiastico. Questa concentrazione di forze si rivelò assolutamente necessaria, salutare e feconda finché continuò il processo di riorganizzazione e di rinnovamento ecclesiastico, ma era destinata a incontrare resistenza sempre crescente non appena fosse stata attuata la restaurazione della vita ecclesiale. Da allora in poi i vescovi e i principi della chiesa considerarono, infatti, l’assistenza del papa non più come un aiuto, bensì come una tutela e una coercizione.
1. Correnti ecclesiali alternative al centralismo della curia Fin dal xvn secolo le forze di opposizione, che esistevano all’intemo stesso della chiesa, cominciarono a manifestare la loro inquietudine; gli impulsi decisivi vennero, non a caso, dalla Francia. Questo paese vide fiorire proprio allora una prodigiosa stagione spirituale e il nuovo clima religioso influenzò profondamente tutte
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le classi del popolo; la vita ecclesìale-religiosa ebbe un grande sviluppo e, con il rinnovarsi della vita spirituale, si ridestarono anche il nazionalismo e !,assolutismo. La Francia sembrò aver trovato allora la sua gloriosa personificazione nel ‘Re Sole’, Luigi XIV (1643-1715) e, dato il fortissimo orientamento assolutistico di Luigi XTV, è facile intuire che la Francia non poteva guardare di buon occhio al centralismo di Roma. a) Il gallicanesimo fece appello ai diritti dèi*ecclesia gallicana che limitavano sensibilmente il primato pontificio. Il re francese, così scrisse Pierre Pithou (1539-1596) nella sua importante opera Les libertés de l’église gallicane (1594), ha !,autorità di convocare concili nazionali indipendenti, di abolire la giurisdizione dei nunzi pontifici in Francia, di appellarsi a un concilio ecumenico anche contro la volontà del papa e di far dipendere la validità dei decreti pontifici dalla sua approvazione {placet). I ministri francesi allora in carica, i cardinali Armand-Jean Richelieu (1585-1642) e Giulio Mazzarino (16021661)־, incarnarono queste idee e ben presto la Francia fu trascinata sull’orlo di uno scisma. La crisi fu ancor più inasprita da forti simpatie gianseniste e da violenti sentimenti antiromani. Sotto il governo assolutista di Luigi XIV le tendenze avverse a Roma e quelle favorevoli alla chiesa nazionale toccarono il loro punto più alto. Già nel 1663 il parlamento di Parigi aveva costretto la facoltà teologica a riconoscere le teorie gallicane, vale a dire a dichiarare che il concilio stava al di sopra del papa (conciliarismo) e che le decisioni del pontefice in questioni di dottrina {ex cathedra) non avevano affatto il marchio dell’infallibilità. Nel 1682, in nome del clero francese, furono proclamati solennemente i ‘quattro articoli gallicani’; tuttavia Luigi XIV, dopo le proteste del papa, li revocò nel 1693 anche se, in pratica, essi continuarono a sussistere e rimasero in vigore in Francia fino al XIX secolo e furono dichiarati decaduti solo con il concilio Vaticano I, in cui fu pròclamato il dogma dell’infallibilità del papa. L’assolutismo statale si intromise senza il minimo riguardo in questioni ecclesiastiche. La limitazione dei diritti del papa in Francia non potè, infatti, che essergli gradita e il gallicanesimo servì quindi egregiamente al suo scopo.
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b) Il giansenismo fa un pericoloso errore dottrinale, che, sotto l’apparenza di una forma di devozione più profonda e di un severo rigorismo, introdusse nella teologia e nella pietà cattolica una dottrina che, accentuando in modo indebito e unilaterale alcune teorie agostiniane e ispirandosi in parte anche a temi calvinisti, propose una nuova concezione del peccato originale e della grazia. Nel giansenismo riaffiorò anche, seppur mascherata con panni cattalici, la teoria della predestinazione calvinista. Fondatore del movimento fu il vescovo belga Cornelio Giansenio (Jansenius) (1585־ 1638). Alcune frasi, tolte dal suo libro Augustinus (1640), furono condannate da Innocenzo X (1644-1655), su iniziativa dei gesuiti romani (bolla Cum occasione, 1653). Il conflitto teologico ebbe origine a proposito della validità dell’interpretazione ortodossa delle frasi in questione e per la loro condanna da parte del pontefice. Il centro spirituale del giansenismo fu il convento cistercense di Port-Royal, presso Versailles, dove le devote monache, sotto la guida della loro eminente badessa Angélique Amauld (1591-1661), conducevano un’austera vita ascetica la quale seppe esercitare una straordinaria forza d’attrazione. Intorno a questo convento si raccolse un gruppo di dotti, teologi e laici, fra cui si distinsero Antoine Amauld (1612-1694) e Blaise Pascal (1623-1662). Essi rimproveravano ai gesuiti un presunto lassismo in materia di teologia morale e ponevano condizioni talmente rigide riguardo alla pratica e alla frequenza ai sacramenti, che un gran numero di fedeli erano, in effetti, impossibilitati a ricevere la santa comunione. Le lunghe controversie con Roma spinsero i giansenisti a un’opposizione sempre più accanita contro il papato, li portarono a condividere le tesi del gallicanesimo e dell’episcopalismo e li coinvolsero anche in conflitti politici. La lotta raggiunse il suo culmine intorno al 1700, grazie a Pasquier Quesnel (1634-1719). Luigi XIV, tuttavia, bandì quest’ultimo dalla Francia (1710) e fece anche demolire Port-Royal. Con la bolla Unigenitus (1713) Clemente XI (17001721 )־condannò 101 proposizioni giansenistiche tratte dal libro di Quesnel Réflexions morales (1693); nel 1720 la bolla fu registrata in Francia come legge dello stato, e di conseguenza il giansenismo perse decisamente influenza. I giansenisti emigrarono allora in Olanda, dove fondarono una chiesa scismatica, con una propria gerarchia.
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c) Episcopalismo. Anche molti vescovi erano interessati a limitare i diritti e i poteri del papa nelle diocesi. I sostenitori delTepiscopalismo contrapponevano al centralismo romano l’autosufficienza del loro ministero vescovile. Anche la Germania, già nel XVH secolo, attraversò una difficile crisi, che minacciò di far precipitare la chiesa tedesca in uno scisma. Nel xvm secolo le idee episcopalistiche, in cui confluivano principi del conciliarismo e del gallicanesimo, furono riassunte dal vescovo suffraganeo di Treviri Johann Nikolaus von Hontheim (1701-1790), nel suo libro De statu ecclesiae et legitima potestate Romani Pontificis (1763), stampato sotto lo pseudonimo di Justinus Febronius. Stando a quanto il suo autore asseriva, al papato spettava solo un potere di guida e di sorveglianza, peraltro assai limitato. In luogo della monarchia pontificia doveva subentrare nella chiesa una pluralità di chiese nazionali autonome, che si dovevano raccogliere nel concilio ecumenico, massimo organo della chiesa. Queste idee, chiamate *febronianesimo', ebbero rapida diffusione. Gli arcivescovi tedeschi di Colonia, Magonza, Treviri e Salisburgo si unirono nella *Puntazione di Ems’, del 1786, per un'azione comune contro la nunziatura di Monaco, recentemente istituita (1785). Lo scopo fondamentale che questi prelati si prefiggevano era la decisa repressione dei poteri del papa, di cui il nunzio era considerato il diretto rappresentante. Già a partire dalla metà del XVII secolo, l'autorità del papato nella vita pubblica dei popoli era andata progressivamente diminuendo. Negli stati a regime assolutista, al papa non era rimasto praticamente più alcuno spazio per poter esercitare i suoi diritti di giurisdizione ecclesiastica universale. Ridotto ormai all'impotenza, il pontefice fu costretto ad assistere, senza poter minimamente intervenire, al progressivo annientamento del potente e tanto benemerito ordine dei gesuiti negli stati cattolici del Portogallo, della Francia, della Spagna e nel regno di Napoli e Sicilia. Quando le corti borboniche chiesero, sempre con maggior prepotenza, la soppressione dell’ordine, minacciando uno scisma e persino un attacco diretto allo stato pontificio, al papa Clemente XTV (17691774) non restò altra soluzione che la resa. Il 21 luglio 1773 il pontefice fu così costretto a sopprimere l’ordine dei gesuiti.
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d) La chiesa di stato celebrò il suo più grande trionfo nell’Austria cattolica: qui !,imperatore Giuseppe II (17801790)־, il figlio ‘illuminato* di Maria Teresa, si servì del suo sistema di assoluta supremazia dello stato sulla chiesa territoriale (il cosiddetto giuseppinismo) per attuare riforme dispotiche, per avvalersi dei diritti di giurisdizione ecclesiastici e per sopprimere, con un graduale pròcesso estensivo, i monasteri e le altre fondazioni ecclesiastiche. Neppure un viaggio di Pio VI (1775-1799) a Vienna (1782) riuscì a smuovere !,imperatore. In quel periodo la reputazione del papato era scesa di nuovo a un livello piuttosto basso.
2. LIlluminismo Frattanto, un nuovo movimento spirituale aveva conquistato i paesi d’Europa: !,Illuminismo. DallTnghilterra esso si diffuse prima in Francia e in seguito anche in Germania, ove furono particoburnente attivi i filosofi Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), Christian Thomasius (16551728 )־e Christian Wolff (1679-1754). In nome della ragione !,Illuminismo combattè per la libertà dello spirito e ruppe radicalmente con le antiche tradizioni. Immanuel Kant (1724-1804) indicò, nel 1784, la liberazione e la dichiarazione di maggiore età dell’individuo autonomo, in grado «di servirsi della propria ragione senza la guida di un altro», quale scopo del nuovo movimento. In realtà l’umanità moderna deve a esso moltissimo. La storia dell’età moderna non può essere pensata senza l’Illuminismo, quale grado di sviluppo di uno spirito umano progressivo. Esso fu l’ultimo grande movimento dello spirito, che comprende tutto il pensiero dell’Occidente fino alle due Americhe e, superando i vincoli ancora medievali che imprigionavano le persone in antiquate forme di pensiero e di vita, ha per la prima volta reso possibile lo sviluppo moderno. Conquiste di questo tempo non furono solo la fine dei processi contro streghe e eretici, l’eliminazione della tortura nel sistema giudiziario e della discriminazione religiosa di chi aderiva ad altre fedi nella vita pubblica, ma anche la formulazione dei diritti universali dell’uomo, che furono per la prima volta giuridicamente affermati e recepiti nella dichiarazione americana di indipendenza, del 1776, e nella famosa dichiarazione
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dell’assemblea nazionale francese, del 27 agosto 1789. Il libero sviluppo della scienza e dell’intera cultura moderna ha le sue basi, in gran parte, in questa dichiarazione. Per il cristianesimo vincolato alla rivelazione e per la chiesa cattolica in modo particolare il razionalismo degli illuministi provocò certamente una delle più grandi e pericolose crisi della sua storia. Il sistema di una ‘religione naturale’, che sarebbe innata in ogni uomo e renderebbe superflua, anzi dannosa, ogni rivelazione spedale, sistema sviluppato dal francese Jean Bodin (1529-1596) e dall’inglese Herbert di Cherbury (1581-1648), fu poi elaborato da John Locke (16321704 )־e da altri nella filosofia del ‘deismo’ e contrapposto così al cristianesimo. La conoscenza dell’esistenza di un ‘essere supremo’, la speranza in una vita eterna e la fede nella ricompensa dovevano, esse sole, costituire il nucleo essenziale della vera religione. Anche il cristianesimo doveva essere ricondotto a questo nucleo, proclamava Matthew Tindal (1657-1733) in Chri־ stianity as Old as thè Creation [Cristianesimo antico come la creazione] (1730), e Lord Anthony Shaftesbury (1671-1713) individuava l’essenza della religione soltanto nell’armonico sviluppo dell’urnanità nobile. Da qui alla dottrina di Jean-Jacques Rousseau (17121778), secondo la quale l’autentica e vera religione consiste nell’amore per tutto ciò che è buono e bello, il passo fu breve. Un cristianesimo senza Cristo, senza rivelazione e senza redenzione; la religione come fattore di formazione puramente umano, o anche formazione come surrogato della religione. Il deismo razionale penetrò in ampi gruppi di intellettuali, fu portato avanti non soltanto dalla massoneria, che nel 1717 a Londra si era costituita in una società, ma divenne pure visione della vita di poeti, artisti e dotti anche fino al XIX e XX secolo. Mentre nei paesi anglosassoni non suscitò conflitti, in Francia diede vita ad atteggiamenti particolarmente ostili alla chiesa. Denis Diderot (1713-1784), Jean Le Rond d’Alembert (17171783 )־e altri sommersero quasi tutto ciò che per i credenti cristiani era sacro con il loro disprezzo e la loro derisione; Voltaire (16941778 )־dichiarò guerra alla chiesa: Écrasez l’infàme (annientate l’infame, ossia la chiesa). Benché le tendenze radicali dell’Illuminismo non potessero rivendicare nessun posto nella chiesa, c’erano però motivi per non
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chiudere la porta alle richieste giustificate di purificazione della vi־ ta ecclesiale da forme di pietà antiquate e da tradizioni che avevano perso significato. Se la chiesa voleva continuare a essere credibile di fronte al suo ambiente, doveva apertamente affrontare la critica agli abusi nelle sue usanze e alle sue forme di vita arretrate. A partire da questa consapevolezza non pochi uomini di chiesa e laici, profondamente credenti, intrapresero il tentativo di affrontare la riforma della chiesa, a lungo attesa, nello spirito delTUluminismo. Le riforme dell’imperatrice Maria Teresa e del figlio Giuseppe II erano sorrette da buona volontà. Ciò che essi hanno prodotto nell’ambito della riforma dell’istruzione, dell’organizzazione e amministrazione ecclesiastica, del rinnovamento della predicazione, della liturgia e delle usanze, merita che venga riconosciuto. Nella seconda metà del XVin secolo quasi tutte le sedi vescovili tedesche erano occupate da prelati *illuminati’. La maggior parte di essi avevano ugualmente ricevuto una formazione di credenti, prima di essere incaricati del loro ufficio. Anche abbazie e monasteri respirarono, in modo molteplici, questo spirito. L’abate principe Martin Gerbert (1720-1793) di St. Blasien e il vicario generale di Costanza Ignaz von Wessenberg (17741869 )־acquisirono grandi meriti nel rinnovamento della vita ecclesiale.
Dalla rivoluzione francese alla prima guerra mondiale (1789-1918)
$ 50. La rivoluzione francese e la secolarizzazione 1. La rivoluzione francese In un primo momento la rivoluzione francese non ebbe affatto un indirizzo ostile alla chiesa. Quando, il 5 maggio 1789, si riunirò־ no a Versailles gli stati generali, fra il terzo stato e i religiosi, che ap־ partenevano al primo stato, esisteva una larga base comune d’intesa: 149 parroci e 4 vescovi, il 23 giugno 1789, si schierarono, infatti, dalla parte del terzo stato, quando quest’ultimo si costituì, da solo, in assemblea nazionale. Nell’assalto alla Bastiglia, il 14 luglio 1789, non furono affatto in gioco interessi religiosi, anche se è vero che, immediatamente dopo, furono distrutti castelli, chiese e conventi. Durante la notte del 4 5 ־agosto 1789 il clero, riunito nell’assemblea nazionale, fece a gara con la nobiltà nel desistere dai suoi antichi diritti feudali e nel rinunciare ai suoi privilegi a favore dei cittadini e dei contadini. D ’un sol colpo il sistema medievale della chiesa francese fu così abolito e, mentre spuntava l’alba del 5 agosto, all’assemblea nazionale si levò alto il canto del Te Deum. Da allora non esistette più alcuna differenza fra le classi sociali: tutti i cittadini furono eguali di fronte alla legge. Il 27 agosto 1789 i diritti dei cittadini e degli uomini vennero proclamati solennemente dalla legge dello stato: ‘libertà, uguaglianza e fraternità’. Nell’articolo 10 fu garantita a tutti i francesi la libertà di coscienza e di culto. Tuttavia il nuovo corso radicale della rivoluzione si manifestò
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chiaramente a proposito del problema dei beni ecclesiastici. Per coprire le necessità finanziarie dello stato, !,assemblea nazionale ritornò sulla proposta del vescovo Charles Maurice de Talleyrand (17541838)־: espropriare tutti i beni ecclesiastici per pagare il debito pubblico. Nel dibattito che seguì gli animi si divisero. I reli־ giosi, in segno di protesta, abbandonarono !,assemblea, fra le grida di scherno dei radicali dell’ala sinistra. Il clima cominciò a mutare a vista d’occhio. Il 13 febbraio 1790 tutti gli ordini e le congregazioni religiose, eccettuati quelli addetti alle opere di carità, furono soppressi. H 14 aprile 1790 fu promulgata la legge sull’espropriazione e la secolarizzazione dell’intero patrimonio ecclesiastico. Il 12 luglio 1790 fu emanata la cosiddetta ‘costituzione civile del eiero’, con la quale la chiesa francese fu di nuovo costituita su pura base nazionale, separata da Roma e incorporata allo stato francese. La fede e la morale non furono tuttavia ancora toccate. Nel no־ vembre 1790 fu fatto obbligo a ogni religioso di prestare giuramento alla nuova costituzione e, poiché circa due terzi del clero rifiutarono di giurare, cominciarono sanguinose persecuzioni nel corso delle quali circa 40.000 sacerdoti furono imprigionati, deportati o giustiziati. Con lo spaventoso ‘massacro di settembre’ (1792) ebbe inizio il periodo del governo del terrore, che durò fino all’ottobre 1795. Georges-Jacques Danton e Jean Paul Marat governarono il paese. Il 21 gennaio 1793 venne giustiziato re Luigi XVI; nell’ottobre dello stesso anno eguale sorte toccò alla regina Maria Antonietta. Quando, il 13 luglio 1793, lo stesso Marat fu assassinato da una ragazza, Maximilien Robespierre assunse la dittatura del terrore. Nel novembre 1793 il cristianesimo fu soppresso in Francia e, al suo posto, venne introdotto il ‘culto della ragione’ e le persecuzioni contro i monarchici e i religiosi ripresero con rinnovato vigore. Nella primavera del 1794 Robespierre spezzò la potenza dei sanguinari ‘giacobini’ (cosiddetti dal luogo ove usavano adunarsi: il convento di san Giacomo, a Parigi) e fece decretare dalla convenzione il riconoscimento di un ‘Essere supremo’ e dell’immortalità dell’anima. Ma il 28 luglio 1794 anch’egli fu ghigliottinato. Poco dopo il governo venne assunto da un direttorio formato da cinque membri (1795-1799). Per qualche tempo fu ripresa, seppur mode-
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ratamente, una politica di tolleranza nei riguardi del clero, ma ben presto si arrivò a una divisione fra chiesa e stato, sancita per legge (21 febbraio 1795). Contemporaneamente ricominciarono le persecuzioni e le deportazioni dei sacerdoti e la lotta contro il cristianesimo cessò solo quando il vittorioso giovane generale Napoleone Bonaparte rovesciò, con il colpo di stato del 9 novembre 1799, il governo del direttorio.
2. Napoleone Bonaparte Napoleone era del tutto indifferente in materia di religione. Egli considerava la religione solo come un fattore politico. Per ristabilire l’ordine in Francia, il 15 luglio 1801, strinse con il papa Pio VII (18001823 )־un concordato. Nella parte introduttiva si constatava che la religione cattolica, apostolica, romana era la religione della grande maggioranza dei cittadini francesi e, pertanto, essa veniva ristabilita. La chiesa accettò !,incameramento dei beni ecclesiastici compiuto dalla rivoluzione e, in cambio, lo stato francese assunse il mantenimento adeguato del clero. Si prevedeva anche una nuova ripartizione delle diocesi e la nomina di nuovi vescovi, ma Napoleone allegò segretamente al concordato 77 ‘articoli organici’, che annullavano in parte le disposizioni del concordato stesso. Nel 1804 Bonaparte si fece eleggere imperatore dei francesi; il papa compì lunzione, ma fu Napoleone stesso a porsi in testa la corona. Dietro un ultimatum di Napoleone, il 6 agosto 1806 Francesco II depose la corona del Sacro Romano Impero di nazione tedesca; l’antico impero tramontava così, dopo più di 800 anni di storia. Nel 1808 l’imperatore fece occupare Roma e lo stato pontificio; il papa, che aveva risposto con la scomunica, fu arrestato e portato poi, nel 1812, a Fontainebleau, presso Parigi, dove Napoleone tentò invano di costringerlo a rinunciare allo stato pontificio. Solo quando la potenza napoleonica fu spezzata, dopo la disastrosa campagna di Russia (1812), nella grande battaglia avvenuta a Lipsia (ottobre 1813), e dopo l’occupazione di Parigi da parte delle truppe alleate (31 marzo 1814), fu possibile intraprendere il riassetto dell’Europa nel congresso di Vienna (1814-1815).
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3. La secolarizzazione Ovunque le truppe francesi erano penetrate vittoriose furono anche introdotte le conquiste della rivoluzione. La secolarizzazione ebbe conseguenze di grandissima importanza per la chiesa in Germania: la decisione finale della deputazione imperiale (Reichsdeputationshauptschluss), redatta a Ratisbona (25 febbraio 1803), ordinò, infatti, !,espropriazione e la secolarizzazione di 19 fra arcivescovati e vescovati, di 44 abbazie e di oltre 200 monasteri. La chiesa tedesca perse così la base materiale e ?appoggio che aveva nell’impero. Nel processo generale di secolarizzazione della chiesa germanica scomparvero anche diciotto università cattoliche e in queste condizioni la chiesa, estremamente depauperata, potè far ben poco per la formazione dei suoi membri. Soprattutto laddove i territori cattolici furono incorporati ai principati protestanti, la decadenza fu grandissima e i cattolici divennero una sparuta minoranza. I nuovi contrasti, nati con lo stato e la maggioranza della popolazione protestante, causarono lotte violente con la chiesa di stato e fecero sorgere nella vita pubblica il tipico confessionalismo tedesco. D ’altro canto, la chiesa fu liberata da vincoli e da abitudini inveterate, furono eliminati il monopolio della nobiltà nell’occupazione di vescovati e i diritti alle più alte prebende; fu distrutto l’intero ordinamento feudale medievale con tutte le sue molteplici istituzioni e i redditi che ne derivavano e la distinzione fra l’alto e il basso clero fu abolita con un sol tratto di penna. La chiesa, privata del potere temporale e impoverita, potè ora avvicinarsi al popolo in modo più schietto e più puro. Vescovi, sacerdoti e fedeli si sentirono uniti da un legame più stretto e, nel XIX secolo, la chiesa potè mettere radici in mezzo al popolo. La «grazia della povertà» creò l’occasione per la riorganizzazione e la purificazione della chiesa.
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§ 51. La restaurazione della chiesa in Germania nel XIX secolo La riorganizzazione va compresa tenendo presente il suo duplice processo di sviluppo: il riordinamento materiale della chiesa tedesca, in rapporto al diritto canonico e al diritto pubblico; Passetto interno dato alla vita ecclesiastico-religiosa.
1. Il riordinamento della chiesa tedesca Al congresso di Vienna la curia rinunciò tacitamente alla restituzione del patrimonio ecclesiastico secolarizzato, pur condannando in linea di principio la secolarizzazione in se stessa come un’indebita spogliazione del patrimonio della chiesa. Trattando con i singoli stati, mediante concordati e bolle di circoscrizione, essa cercò di garantirsi la riorganizzazione dei vescovati. Un concordato è una convenzione di diritto internazionale fra uno stato e la chiesa, che ha come presupposto il riconoscimento delle due parti, come persone aventi diritti sovrani. Se consideriamo il punto di vista confessionale e la concezione di chiesa nazionale, che erano alla base della vita di alcuni stati, si comprende bene come a questi ultimi riuscisse difficile un tale riconoscimento e che preferissero evitare i concordati. La curia, in questi casi, si limitò ad accettare una disciplina di diritto amministrativo, stabilita dalle cosiddette bolle di circoscrizione. Furono stipulati concordati con la Spagna, con Napoli, con la Sardegna, la Francia, la Russia e la Baviera. LAustria e gli altri stati tedeschi si contentarono delle bolle di circoscrizione. Così la bolla De salute animarum (1821) per la Prussia; la bolla Provida sollersque (1821) per il Wurttemberg, Baden e i tre territori delTAssia e la bolla Impensa (1824) per Hannover, regolarono la nuova organizzazione dei vescovati.
2. Vita della chiesa L’assetto interno della vita ecclesiale e la formazione di un vasto movimento cattolico, che non si diffuse soltanto in Germania, ma
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guadagnò anche tutti gli altri paesi europei, ha molte radici storiche. In Germania, ebbe grandissima importanza per il risveglio della religiosità in generale e per una nuova e migliore valutazione del cattolicesimo in particolare la corrente spirituale del Romanticismo. Con il suo entusiasmo per l’arte e la letteratura medievali esso ridestò !,interesse per la chiesa e numerosi romantici si convertirono al cattolicesimo. Sorsero ben presto dei 'gruppi di risveglio’ cattolici che furono i primi semi di una nuova vita religiosa: nella Germania meridionale una cerchia di amici si raccolse intorno a Johann Michael Sailer (1751-1832); a Miinster la cosiddetta ‘famiglia sacra’ si riunì intorno alla principessa Amalia von Gallitzin (1748-1806); a Vienna si formò il gruppo guidato da Clemens Maria Hofbauer (1751-1820). In modo analogo operarono il vescovo suffraganeo Georg Zirkel di Wùrzburg (1762-1817) e altri ancora. Più tenace di tutti fu però l’opera svolta da Sailer, insigne cultore di teologia pastorale e più tardi vescovo di Ratisbona. In quell’epoca vissero molti fecondi teologi, quali Johann Adam Mòhler (1796-1838), a Tubinga e a Monaco, e va qui ricordata l’opera importantissima svolta dalla ‘scuola di Tubinga’. A loro modo contribuirono alla rinascita religiosa anche alcuni teologi, in parte ancora influenzati dallTlluminismo, quali Georg Hermes (17751831) e i suoi discepoli (gli ‘hermesiani’, di Bonn), anche se il loro metodo (illuminare la fede con le categorie razionali di Kant e di Fichte per renderla accessibile ai loro contemporanei) fu in seguito (1835) condannato come semirazionalismo. La coscienza delle grandi masse popolari si ridestò per la prima volta grazie al cosiddetto ‘evento di Colonia’. L’arcivescovo di CoIonia Clemens August von Droste-Vischering (1773-1845) fu arrestato nel 1837 dal governo prussiano, perché a proposito del pròblema dei matrimoni misti egli aveva sostenuto il punto di vista della chiesa (dovere di educare i figli secondo i principi cattolici, nei casi di matrimonio tra persone di confessione diversa). Papa Gregorio XVI elevò subito una solenne protesta contro quest’uso indebito della forza e Joseph Górres (1776-1848) stilò con sdegno rovente nel suo scritto Athanasius (1837/38) un atto di accusa che si diffuse in tutto il mondo. L’eco fu vastissima. La coscienza della comunità cattolica si ridestò e ovunque si riconobbe che era neces
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saria questa unione più stretta fra clero e fedeli. Sorsero così re־ pentinamente numerose nuove organizzazioni, tutte a puro carattere ecclesiale-religioso, quali il Borromàusverein (Associazione di San Carlo Borromeo) (1844), il Gesellenverein (Associazione cattolica degli apprendisti) (1846), il Bonifatiusverein (Associazione di San Bonifacio) (1849) e, ancora, 1’Elisabethverein (Conferenze di Santa Elisabetta) (1840), il Franz-Xaverius-Missionsverein (Associazione missionaria di Francesco Saverio) (1842), il Piusverein (Associazione San Pio): grazie a essi ebbero origine (1848) i Katho־ likentage (giornate dei cattolici), ossia dei convegni annuali. Ma anche gli ordini religiosi cattolici ebbero un nuovo slancio. Nel 1847 i gesuiti rientrarono a Colonia; Pio VII aveva, infatti, ricosti־ tuito il loro ordine nel 1814. Ai gesuiti tennero dietro i redentoristi, i pallotini e numerose congregazioni femminili con le loro case. Antichi conventi benedettini rinacquero a nuova vita e si riempirò־ no di religiosi. Il 1848, l’anno delle rivoluzioni, portò con sé, con le nuove costituzioni, anche molte e maggiori libertà di movimento e di autonomia nella vita della chiesa cattolica. Furono istituite missioni popolari; si sviluppò un’ampia rete di pellegrinaggi, sorsero nuove forme di pietà e ovunque la vita ecclesiale rifiorì. Lentamente sorse anche una stampa cattolica. Nel 1852, per la prima volta, dei deputati cattolici si riunirono nella dieta di Prussia in una ‘frazione cattolica’, che dal 1858 prese il nome di ‘Partito del centro’. Si assistette così a un nuovo, generale sviluppo della vita ecclesiale e fu di grande significato che la chiesa, avvicinandosi ormai l’epoca dell’industrializzazione e dell’ascesa delle masse popolari, si aprisse ai problemi sociali. Con i suoi nuovi metodi pastorali essa si piegò amorevolmente sulle necessità degli uomini di quel tempo e cercò di assisterli caritativamente e di educarli cristianamente. Va qui ricordato, come esempio di nuovo pastore popolare, la grande figura di Adolf Kolping (18131865)־, il ‘padre degli apprendisti’. Accanto a lui vanno anche menzionati i numerosi parroci e ‘cappellani del popolo’, che si distinsero particolarmente per la loro azione caritativa nelle regioni industriali del Reno e della Ruhr. In un’epoca in cui non esisteva ancora nessuna legislazione sociale e dove la soluzione di problemi sociali era ancora affidata esclusivamente alla carità cristiana, l’efficacia delle nuove attività caritative
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delle congregazioni di suore e degli addetti all’assistenza degli am־ malati si rivelò particolarmente importante. Ovunque, in Germania, sorsero circoli di carità e associazioni di beneficenza. Anche i grandi scrittori popolari del tempo incitavano all’amore del prossimo. Il Borromàusverein concepì appunto la sua attività come ‘opera di misericordia spirituale’.
§ 52. La fine dello stato pontifìcio All’inizio del XIX secolo ci si domandava se il papato e la chiesa cattolica avrebbero avuto ancora un futuro. Pio VI (17751799)־ morì prigioniero del governo della rivoluzione francese, nel 1799 a Valence, sul Rodano, in solitudine e abbandono totali. Già Pio VII (18001823 )־potè tuttavia esercitare il suo supremo ministero in un clima del tutto mutato e Napoleone dovette scomodarsi e pregarlo. Solo il papa, infatti, per lo stato di necessità in cui versava la chiesa del tempo, aveva il potere di deporre quei trentasei vescovi legittimi che furono esiliati nel 1801 dalla Francia in seguito al riordina־ mento ecclesiastico e che Napoleone non poteva più tollerare: fat־ to questo che dimostra il grandissimo potere che, nonostante tutto, il papato ancora possedeva. I successivi e brutali soprusi che Napoleone si permise con il papa non fecero del resto che consolidare questa alta reputazione di cui godeva il papato. Al congresso di Vienna, nel giugno del 1815, potè quindi essere ottenuta senza grandi difficoltà la restituzione alla chiesa dello stato pontificio, conquistato da Napoleone. Lo stato pontificio era tuttavia un pesante fardello per il papato e, alla lunga, divenne quasi intollerabile. L’Italia era ormai prossima all’unità nazionale. I fermenti rivoluzionari, che si diffondevano fra le società segrete dei carbonari e dei framassoni, non potevano affatto accettare l’esistenza di uno stato spirituale, governato con i più rigidi principi dell’assolutismo monarchico. Tanto più che i papi che seguirono, Leone XII (18231829)־, Pio V ili (18291830 )־e Gregorio XVI (18311846)־, condivisero irneramente la politica reazionaria del cancelliere austriaco, il princi
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pe Clemens Mettemich (17731859)־, e non solo non incoraggiarono affatto i moti nazionali del Risorgimento, ma li osteggiarono decisamente. Dal 1849 lo stato pontificio si guadagnò perciò una tale carica di odio, che potè continuare a sussistere solo grazie alTaiuto francese. Pio IX (1846-1878) fu accolto inizialmente con favore, poiché era ritenuto uno spirito liberale e nazionalista. Quando, il 14 marzo 1848, egli diede allo stato pontificio una costituzione, grazie alla quale il popolo potè in certa misura partecipare al governo, il suo gesto fu accompagnato da entusiasmo e da giubilo. Ma, allorché il primo ministro pontificio, il conte Pellegrino Rossi (1787-1848), fu assassinato nel novembre 1848 da radicali rivoluzionari, in occasione dell'apertura della camera dei deputati, e il papa fu costretto a fuggire a Gaeta per la rivoluzione scoppiata a Roma, Pio IX mutò completamente la sua politica e, riconquistati Roma e lo stato pontificio con Taiuto delle truppe francesi, ristabilì l'antico regime assolutistico. I suoi nemici, naturalmente, si irritarono ancor più e il moto nazionale di unificazione, alla cui testa si era posto il re Vittorio Emanuele II (1820-1878) divenne una valanga inarrestabile. U primo ministro Camillo Cavour (1810-1861) guidò il movimento. Nel 1859 lo stato pontificio perse la Romagna e, dopo la sconfitta subita nei pressi di Castelfidardo (18 settembre 1860), le truppe pontifìcie furono costrette ad abbandonare anche l'Umbria e le Marche. Nel marzo del 1861 Vittorio Emanuele si fece proclamare, a Torino, re d'Italia. Roma, tuttavia, era sempre saldamente protetta da un presidio francese. Inutilmente Garibaldi, alla testa del suo corpo di volontari, irruppe nello stato pontificio: per due volte, nel 1862 e nel 1867, le truppe francesi riuscirono a respingerlo. Ma quando, durante la guerra franco-tedesca (1870-1871), le truppe francesi furono ritirate dai loro quartieri di Civitavecchia e chiamate a servire il loro paese, i piemontesi non si lasciarono sfuggire l'occasione favorevole, piombarono su Roma e, dopo un breve cannoneggiamento, conquistarono la città il 20 settembre 1870. Ebbe così termine, dopo un'esistenza millenaria, lo stato pontificio. Pio IX si ritirò in Vaticano. Nel giugno 1871 Vittorio Emanuele stabilì la sua residenza a Roma, insediandosi al Quirinale. Le prò-
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teste e le scomuniche del papa furono tranquillamente ignorate. H nuovo governo concesse tuttavia al papa, con la cosiddetta ‘legge delle guarentigie’ del 13 maggio 1871, una rendita annua, quale indennizzo e assicurò a Pio IX la libertà e il pieno esercizio di tutte le sue funzioni spirituali, riconoscendogli al tempo stesso l’inviolabilità e i diritti sovrani. Il papa respinse decisamente queste offerte e, anche in seguito, non cessò mai di protestare, considerandosi sempre ‘prigioniero del Vaticano’. Con il decreto Non expedit, egli proibì inoltre ai cattolici italiani di partecipare alle elezioni politiche (1874); tale atteggiamento, tuttavia, riuscì solo a tener lontani dalla vita politica i buoni cattolici e lasciò libero campo alle forze radicali. La conseguenza più grave del comportamento di Pio IX fu però il progressivo inasprirsi dei sentimenti del governo italiano nei confronti della chiesa c solo Pio XI pose termine alla spiacevole situazione della ‘questione romana’, quando concluse con Benito Mussolini, l’i l febbraio 1929, i patti lateranensi. Il papa rinunciò all’antico stato pontificio, ottenne la piena sovranità nel piccolo stato del Vaticano e l’extraterritorialità e l’immunità entro la cerchia delle basiliche principali (Laterano, Santa Maria Maggiore e San Paolo), i palazzi dell’amministrazione della curia e Villa Castel Gandolfo. Venne inoltre concluso un concordato con il governo italiano, grazie al quale la chiesa italiana riallacciò pacifiche relazioni con lo stato.
§ 53. H concilio Vaticano I Il pontificato di Pio IX (18461878 )־fu tanto ricco di eventi storici quanto caratterizzato da profondi turbamenti. Nella misura stessa in cui diminuì la potenza politica del papato all’esterno, crebbe la sua statura morale all’interno della chiesa. La definizione dell’infallibilità e la dichiarazione del primato papale coincisero cronologicamente con la conquista di Roma e il tramonto dello stato pontifìcio. Il concilio Vaticano I segnò un momento culminante, ma al tempo stesso fu per molti una pietra di scandalo. Fin dall’inizio esso si annunciò carico di tensione.
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1. Preistoria US dicembre 1854 Pio IX aveva elevato a dogma l’antica fede secondo la quale Maria era stata concepita senza il peccato originale: «È una dottrina rivelata di Dio, che Maria nel primo istante della sua concezione, per una grazia e un favore singolari di D io ... in considerazione dei meriti di Gesù Cristo... è stata preservata da ogni macchia di peccato originale». Il pontefice concluse così un lungo dissidio tra scuole teologiche, che aveva tenuto occupato per secoli soprattutto il pensiero dei domenicani e dei francescani, pronunciandosi a favore di questi ultimi. Non era dunque il fatto in sé ad apparire nuovo, ma il modo della proclamazione. In questo caso, infatti, non si trattò di una decisione espressa dal concilio, bensì di una definizione pronunciata ex cathedra, dal papa stesso, che rimise in discussione il problema se e fino a qual punto il papa da solo, vale a dire senza il concilio, potesse decidere e proclamare verità infallibili di fede. Come si vede, era già aperto un gran tema di discussione per il concilio Vaticano I. Va detto, tuttavia, che il papa, prima di dichiarare il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria, aveva per iscritto chiesto consiglio a tutti i vescovi del mondo. 536 vescovi si erano dichiarati favorevoli, 4 invece contrari e 36 iuxta modum (vale a dire che essi affermavano la realtà della Concezione Immacolata della Vergine, ma ritenevano inopportuno il momento attuale per la definizione dogmatica). Alla proclamazione solenne presenziarono 54 cardinali e 140 vescovi, ma fu tuttavia il papa da solo a decidere. Nella chiesa non si levò nessuna voce di opposizione. Dieci anni più tardi, P8 dicembre 1864, Pio IX con la sua eneielica Quanta cura trasmise a tutti i vescovi un Syllahus errorum: un compendio di ottanta fra i principali errori del suo tempo, che dovevano essere condannati dal punto di vista cattolico. Questi errori riguardavano le dottrine del panteismo, del naturalismo e del razionalismo, ma anche quelle del socialismo e del comuniSmo e, inoltre, opinioni erronee sui rapporti fra chiesa e stato, sulla natura del matrimonio cristiano, sulla necessità o non-necessità dello stato della chiesa. In modo particolarmente violento furono rigettati il liberalismo e !,eccessiva fede nel progresso.
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Questa volta, tuttavia, la reazione non mancò. I cattolici, e in misura ancor maggiore i protestanti, accusarono il papa e la chiesa cattolica di oscurantismo e di ostilità verso la cultura. Tuttavia, il Sillabo non pretendeva di possedere alcun valore dogmatico; esso voleva solo servire da orientamento. Ma che cosa sarebbe accaduto se il papa, con una decisione ex cathedra, avesse proclamato alcune di quelle frasi o addirittura Tintero Sillabo come dogmi? D'improwiso, questo timore cominciò a diffondersi e si collegò all’annuncio papale della convocazione del concilio. Due giorni prima del Sillabo, il 6 dicembre 1864, per la prima volta Pio IX aveva lasciato trapelare l'idea di volere convocare un concilio ecumenico. Sotto il sigillo della segretezza, egli invitò dapprima i ventun cardinali di curia abitanti a Roma a manifestargli la loro opinione a questo riguardo e visto che la maggioranza si era pronunciata a favore e che solo due cardinali avevano espresso parere contrario (altri sei, tuttavia, mossero alcune obiezioni, pur non essendo fondamentalmente contrari alla convocazione stessa), il papa istituì una congregazione cardinalizia preparatoria (1865), si confidò con altri vescovi e, in occasione del diciottesimo centenario del martirio dei santi Pietro e Paolo (1867), dinanzi a più di cinquecento vescovi annunciò il suo disegno di indire il concilio. Il 29 giugno 1868 apparve la bolla di convocazione; il concilio sarebbe stato aperto l'8 dicembre 1869, a Roma. La questione della definizione dell'infallibilità papale era già nell'aria. Il cardinale tedesco Karl August von Reisach (18001869)־ vi aveva già fatto cenno nel dicembre del 1864 e otto delle commissioni vescovili istituite nell'anno 1865 l’avevano già formalmente richiesta. Si discusse a lungo; che il papa, come successore di Pietro, secondo Le 22,32, esercitasse un particolare magistero dottrinaie poteva essere difficilmente posto in dubbio dai cattolici. La questione era piuttosto stabilire fin dove questa sua autorità potesse estendersi, se essa potesse essere esercitata indipendentemente dal concilio e dal collegio dei vescovi e quali particolari condizioni dovevano essere poste per il suo esercizio. Il periodico dei gesuiti, la Civiltà Cattolica, ospitò nel numero del 6 febbraio 1869 un articolo redatto in Francia, in cui veniva richiesta la definizione dell’infallibilità pontificia in un modo che ap
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parve errato sia nella forma che nel contenuto. Nel paese del gallicanesimo, dopo la grande rivoluzione, si era infatti sviluppato un particolare sentimento di fedeltà e devozione al papato, che fu caratterizzato con il nome di ultramontanismo (dal latino ultra montes, ossia al di là delle Alpi). Il laico Joseph de Maistre (1754-1821) esaltava il papato (Du Pape, 1819) come Tunico istituto rimasto a tutela della civiltà e dell’ordine nell’epoca rivoluzionaria. Soltanto nel papato, dotato di un’autorità infallibile, egli vedeva la possibilità di assicurare l’ordine cristiano occidentale. La monarchia gli appariva come l’unica forma di governo voluta da Dio. Ciò che l’autorità del sovrano rappresentava nell’ambito dello stato, questo era l’infallibilità del papa in quello spirituale. L’infallibilità era l’indispensabile condizione previa di ogni governo religioso-spirituale. Anche il sacerdote Hugues Felicitò Robert de Lamennais (17821854), nel suo Essai sulla religione, uscito in più volumi (1817-23), richiedeva l’infallibilità del papa come normativa per il giudizio individuale in questioni di fede. Egli concludeva: «Senza il papa non c’è chiesa, senza chiesa non c’è cristianesimo, senza cristianesimo non c’è società». Lamennais ha più tardi rivisto il suo punto di vista. Da fanatico monarchico e partigiano dell’autorità egli divenne, dal 1828, accanito sostenitore della libertà di pensiero. Sul suo giornale, LAvenir (dal 1830), egli sosteneva ora che anche la chiesa si doveva aprire alle idee di libertà e di democrazia. Chiedeva la separazione della chiesa dagli stati (monarchico-dispotici), la riconciliazione con la civiltà moderna, la libertà di stampa, di istruzione e di coscienza. In questo trovò un’entusiasta schiera di seguaci (CharlesRené de Montalembert, Henri-Dominique Lacordaire, Frédéric Ozanam e altri). Ma nella reazionaria Roma della restaurazione, dove sotto i papi Gregorio XVI e Pio IX ogni moto liberale era proibito, egli trovò soltanto rifiuto (Enciclica Mirari vos, 1832) e punizione (1834). Perciò voltò le spalle alla chiesa. La grande occasione perduta della chiesa, di trovare un vivo contatto col mondo moderno, è stata chiamata il fallimento del 4cattolicesimo liberale’. Dagli ‘ultramontani’, indicati come i cattolici ‘rossi’, si sono sviluppati circoli cattolico-liberali fino all’epoca del concilio Vati cano.
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Mentre in Germania Johann Adam Mòhler {Einheit in der Kirche \L’unità della chiesa], 1825) collegava organicamente la posizione del papa al Corpus Christi mysticum, in Francia il giornalista ultramontano Louis Veuillot (1813-1883) continuò a sostenerne !,isolamento sulle pagine déìTUnivers (dal 1840). In forme pericolose e alquanto eccessive, che sconfinavano in un vero e proprio culto del papato, Veuillot estese il primato e 1,infallibilità a ogni campo in cui il papa operasse o parlasse, a titolo personale o in forza del suo ministero, e sostenne la teoria di una positiva ispirazione dello Spirito Santo, che avrebbe accompagnato e guidato tutte le azioni del pontefice. Insieme a molti suoi seguaci, Veuillot sperava che queste sue opinioni fossero accettate e dogmatizzate. Fu pròprio allora che apparve !,articolo della Civiltà Cattolica. In Germania, un gruppo di teologi e di studiosi seguiva con preoccupazione lo sviluppo dell’ultramontanismo francese. Alla loro testa stava Ignaz von Dòllinger (1799-1890), lo storico della chiesa di fama intemazionale, che insegnava a Monaco. Fino al 1860 circa egli era stato sempre uno dei più risoluti propugnatori del cattolicesimo tedesco nella vita pubblica, ma poi aveva levato sempre più alta la sua voce ammonitrice nell’ambito di studio che gli era pròprio. Le critiche che egli mosse alle condizioni di arretratezza dello stato pontifìcio e la condanna globale del Sillabo gli dettero fama di cattolico ‘liberale’ e, per questo, non fu chiamato da Roma a partecipare ai lavori teologici che precedettero il concilio. Dòllinger si oppose con passionale acredine alle tendenze francesi ultramontane favorevoli alla infallibilità e con parole di inaudita durezza combatté, in una serie di articoli sull'Augsburger Allgemeinen Zeitung, con lo pseudonimo di Janus, l’infallibilità papale. Egli volle dimostrare storicamente che tale infallibilità non era mai esistita e che, al contrario, si poteva invece provare che i papi avevano spessissimo errato ed erano caduti persino in eresie, come testimoniava in modo particolare il caso di papa Onorio I (625-638). Dòllinger negò al papa ogni sorta di infallibilità in materia di dottrina e contestò anche la sua posizione primaziale e la sua autorità nella chiesa. Nel luglio del 1869 gli articoli di Dòllinger furono raccolti in un libro dal titolo: Der Papst und das Konzil [Il papa e il concilio], di Janus. Il tono polemico che animava quelle pagine agì sulle co
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scienze come un eccitante. Da parte protestante e liberale !,attacco mosso da Dòllinger contro il papato - così, infatti, fu ovunque interpretata la tesi del suo libro - riaccese, nella tesa situazione confessionale di quel tempo, rodio contro tutto ciò che era cattolico. In campo cattolico lopera fu recepita in modi diversi: alcuni, soprattutto coloro che erano stati colpiti dalle esagerate dichiarazioni eretiche di Veuillot, accolsero il libro favorevolmente; altri inve־ ce giudicarono il libro di Dòllinger un vero e proprio tradimento. Il teologo di Colonia Matthias Joseph Scheeben (18351888 )־definì l’opera un libello ingiurioso contro il papato. Gravido di conseguenze fu !,effetto sul pubblico. Il concilio sembrò divenire a un tratto un avvenimento politico. Nell’aprile 1869 il primo ministro bavarese, il principe Chlodwig Hohenloh-Schillingsfurst, inviò a tutti i governi europei un dispaccio circolare, nel quale ammoniva sulle conseguenze politiche di una dichiarazione di infallibilità papale e sollecitava a un’azione comune degli stati contro il concilio. La sua azione fallì perché i prussiani (Otto von Bismarck) e gli austriaci non vollero prendervi parte. L’atmosfera era tanto tesa che quando i vescovi tedeschi, alla fine dell’agosto 1869, si recarono a Fulda per partecipare alla conferenza episcopale, mentre stavano attraversando l’Assia protestante, furono ingiuriati e malmenati dal popolo. In seguito, dovettero fornire nei loro scritti pastorali spiegazioni rassicuranti e poiché, nella maggioranza, ritenevano anch’essi inopportuna la definizione dell’infallibilità, pregarono caldamente il papa di desistere dal trattare questo tema durante il concilio, data soprattutto la tensione generale del momento.
2. Svolgimento del concilio Poiché anche in Inghilterra, in Francia e in altri paesi la tensione per l’approvazione o per il rifiuto dell’infallibilità papale divideva le coscienze, il papa tolse la questione dell’infallibilità dall’ordine del giorno. Ma appena il concilio, nel dicembre del 1869, diede inizio ai suoi lavori, essa venne rimessa in discussione dai fervidi pròpugnatori dell’infallibilità. L’arcivescovo Victor Auguste D e־ champs di Mecheln presentò la proposta il 25 dicembre; quattrocento vescovi !’approvarono con una raccolta di sottoscrizioni e
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pregarono il papa di prendere in esame, in un secondo tempo, anche la questione dell’infallibilità. La reazione straordinariamente violenta dell’opposizione, che riuscì a raccogliere ben 136 sottoscrizioni contrarie, non potè tuttavia far sì che Pio IX cambiasse idea, tanto più che anche la «congregazione per Tesarne delle pròposte» si era dichiarata favorevole alla definizione stessa. Il 9 maggio 1870 cominciarono le discussioni conciliari sull’infallibilità. Si tennero 37 sessioni della congregazione generale. Furono pronunciati 140 lunghi discorsi prò e contro. La discussione, che fu fortemente influenzata dall’esterno, assunse toni sempre più violenti. Dòllinger continuò a soffiare sul fuoco, questa volta con 10 pseudonimo di Quirinus, con i suoi scritti sempre più violenti e sempre più irrazionali. All’interno del concilio, contro la definizione dell’infallibilità, lottarono soprattutto il vescovo Cari Josef von Hefele (18091893)־, di Rottenburg, il dotto autore della Storia dei concili, e il vescovo Joseph Georg Strossmayer (18151905)־, di Djakovar in Bosnia. Ma anche alcuni cardinali e numerosi vescovi si schierarono dalla parte dell’opposizione e, tra questi, la maggior parte dei pastori tedeschi. La grande maggioranza approvò invece la tesi dell’infallibilità papale in sé, limitandosi a esprimere Topinione che, nel momento attuale, la sua definizione dogmatica appariva inopportuna. Il dibattito si svolse con grande franchezza e libertà. Tutti gli argomenti favorevoli e contrari furono ampiamente discussi e nulla venne tenuto segreto o taciuto di quanto fu ritenuto necessario per un miglior chiarimento del tema. L’appassionata veemenza dell’opposizione, che era brillantemente rappresentata al concilio, ebbe come conseguenza l’accurato esame delle obiezioni e dei pareri espressi contro la tesi dell’infallibilità ed è proprio questa opposizione che si deve ringraziare per aver definitivamente spazzato via tutta la stolida e inutile zavorra veuillotiana. 11 nucleo dottrinale, che resistette alla critica, fu per ciò stesso più ineccepibile e più sicuro. In una prima votazione, del 13 luglio 1870,451 Padri conciliari votarono a favore della definizione dell’infallibilità, 88 contro e 62 con un sì condizionato. Il 18 luglio 1870 seguì la votazione conclusiva. Apparve evidente che la gran maggioranza di coloro che avevano votato contro lo aveva fatto per il motivo dell’inopportunità.
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Essi non ebbero, infatti, da allora in poi nessuna difficoltà nel votare a favore. Altri rimasero ancora incerti, ma non vollero frapporre ostacoli alla definizione e perciò 55 vescovi, ottenuto il permesso del papa, lasciarono Roma prima della votazione finale. La costituzione Pastor Aeternus, che conteneva la dottrina del primato e delPinfallibilità del papa, fu approvata con 533 voti a favore e 2 voti contrari, durante la solenne quarta sessione del concilio, proprio in quello stesso giorno. Essa afferma che: • Il papa, come successore di Pietro, vicario di Cristo e capo supremo della chiesa, esercita su tutta la chiesa e sui singoli vescovati «un primato di potere ordinario... e questo potere di giurisdizione del pontefice romano, veramente episcopale, è immediato» (primato, episcopato universale). Questo potere si estende «non solo a ciò che riguarda la fede e i costumi, ma anche alla disciplina e al governo della chiesa». Questo potere del sovrano pontefice non ostacola tuttavia affatto il potere di giurisdizione ordinario episcopale locale, stabilito regolarmente secondo la volontà di Dio, potere che ciascun vescovo possiede per la sua diocesi. Questo potere di giurisdizione è subordinato e inserito nell’insieme della chiesa universale e quindi ogni vescovo e fedele è tenuto «al dovere di subordinazione gerarchica e di vera obbedienza (al papa) non solo nelle questioni che concernono la fede e i costumi, ma anche in quelle che riguardano la disciplina e il governo della chiesa diffusa in tutto il mondo». • Quando il papa, ex cathedra, cioè come pastore e dottore di tutti i cristiani, definisce, in virtù della sua suprema autorità apostolica, che una dottrina sulla fede o sui costumi deve essere sostenuta da tutta la chiesa, queste definizioni del pontefice romano sono infalli־ bili e irreformabili per se stesse (ex sese) e non in virtù del consenso della chiesa. Subito dopo questa definizione il concilio dovette essere interrotto. Lo scoppio della guerra franco-tedesca (19 luglio 1870) costrinse molti Padri conciliari a fare precipitosamente ritorno nei loro paesi. Inoltre, !,occupazione di Roma avvenuta poco dopo da parte dei piemontesi, il 20 settembre 1870, rese impossibile la pròsecuzione dei lavori; il 20 ottobre il papa aggiornò il concilio sine die. Non si poterono quindi più discutere altri punti importanti dello schema ‘sulla chiesa’, e rimasero in sospeso la definizione della chiesa stessa e una più esatta precisazione della posizione del-
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!,episcopato nell’intera chiesa. Si giunse invece a una definizione del primato, anche se la sua relazione con l’episcopato fu solo accennata e non esattamente chiarita. L’aspetto primazialc dominò comunque su quello collegiale. Non tutti gli animi furono soddisfatti e ciò fu indubbiamente la conseguenza della improvvisa e forzata interruzione del concilio. Nel corso del Vaticano I furono trattate anche altre questioni, che erano state elaborate dalle sue commissioni. Ricorderemo innanzitutto l’importante costituzione dogmatica Dei Filius ‘sulla féde cattolica’, che fu promulgata il 24 aprile e ratificata dal papa. Gli schemi che avrebbero dovuto essere esaminati erano complessivamente 51, ma ne furono definiti solo due. Tuttavia, l’importanza della questione del primato e dell’infallibilità oscurò quasi tutte le altre. Ma, di esse, come vedremo, si riparlerà ben presto.
§ 54. D opo il concilio: veterocattolicesim o e K u ltu rka m p f in Germania 1. L opposizione in Germania Nella chiesa vige un buon diritto: ognuno può esprimere liberamente la sua opinione in materia di fede fintanto che, su quell’argomento, non sia stata presa una decisione definitiva. Solo chi nega un dogma cade infatti in formale eresia. Ora la domanda inquietante che molti si posero dopo il Vaticano I fu questa: come avrebbe reagito al nuovo dogma dell’infallibilità quella parte del concifio che si era mostrata contraria alla sua definizione? Fu dunque un sicuro segno di un autentico atteggiamento di fede il fatto che l’intero episcopato abbia dato, senza eccezione, immediatamente o in un momento successivo, la sua piena adesione alla nuova formulazione dogmatica. Quei vescovi che erano partiti prima della votazione si piegarono alla suprema decisione di fede della chiesa, anche se la maggior parte di loro erano stati senz’altro contrari alla definizione, per motivi di inopportunità, come per esempio !’arci
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vescovo Paul Melchers di Colonia, !,arcivescovo Gregor von Scherr di Monaco-Frisinga e altri ancora. Ma vi furono anche coloro, come per esempio Hefele di Rottenburg e Heinrich Forster di Breslavia, che avevano espresso un'opinione decisamente contraria e per nessuno dei due fu facile assoggettarsi. Dopo un duro conflitto spirituale il vescovo Hefele, nell'aprile 1871, pubblicò i decreti nella sua diocesi. In una pubblica risposta ai seguaci di Dòllinger, che lo avevano ingiuriato per la sua sottomissione a Roma, egli scrisse: «Mi ci sono voluti parecchi mesi di lotta intima prima di essere in grado di riconciliarmi con il decreto conciliare e di assoggettarmi alla suprema autorità della chiesa. Quello che avevo previsto è avvenuto: questo passo mi ha procurato molte persecuzioni, ma mi ha anche restituito la pace interiore». Il principio cattolico aveva vinto sull'opinione privata. H gruppo di opposizione esistente in Germania fu ancora più deluso. Fino all'ultimo, anche dopo la definizione dogmatica, esso aveva creduto di poter combattere a fianco dei vescovi tedeschi contro la decisione del concilio. Molti si erano persino illusi di poter addirittura rovesciare, in un secondo momento, con il peso della loro autorità scientifica, la decisione di fede e fecero pressione per giungere a uno scisma. Non va tuttavia dimenticato che anch'essi, almeno in parte, subirono difficili lotte interiori; alcuni ritrovarono la via dell'unità, altri invece si irrigidirono nell'opposizione. Una profonda tragicità pesò su tutti questi avvenimenti.
2. Il veterocattolicesimo Il 14 agosto 1870 i professori cattolici della facoltà teologica di Bonn, che erano contrari alla definizione dell'infallibilità, organizzarono una manifestazione di protesta nella reggia d'inverno, durante la quale si fece a gara nel coprire di violenti insulti Tadunanza’ vaticana, alla quale si negò persino il carattere di un libero concilio. Il 27 agosto 1870 un'altra riunione ebbe luogo a Norimberga, in una cornice ancora più vasta. Si raccolsero firme e seguaci. A Colonia e a Monaco si formarono, a questo scopo, dei cosiddetti ‘comitati centrali'. Dòllinger aveva già suggerito il nome per il movimento: «vecchia chiesa cattolica», perché, così osò affermare, il
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concilio Vaticano aveva alterato profondamente ?originaria essenza del cristianesimo e ora si voleva combattere per ricostituire la «vecchia chiesa cattolica». Esortati dai loro vescovi a sottomettersi al dogma, numerosi professori delle facoltà teologiche di Bonn, Breslavia, Monaco e Braunsberg rifiutarono l’ubbidenza e furono scomunicati. Nel settembre 1871 essi tennero, a Monaco, il primo «Congresso dei vecchi cattolici», nonostante Dòllinger li sconsigliasse a porre altare contro altare e a fondare una chiesa separata. Ben presto si giunse all’istituzione della «vecchia chiesa cattolica», alla quale tuttavia Dòllinger ufficialmente non aderì mai, pur restando a essa legato. Nel giugno 1873 il professore di teologia di Breslavia Joseph Hubert von Reinkens (18211896 )־fu ordinato vescovo della nuova comunità. Per assicurarsi una vera successione apostolica egli si fe־ ce consacrare dal vescovo giansenista Hermann Heykamp, a Deventer. La divisione si era ormai compiuta. Le speranze dei ‘vecchi cattolici’, di poter attirare dalla loro parte un gran numero di fedeli cattolici, non si realizzarono. Il loro numero rimase modesto e, dopo breve successo iniziale, nel corso del tempo andò sempre più riducendosi. La lotta, condotta da entrambi le parti con risentimento, irrigidì i fronti. I governi, chiamati spesso in aiuto dai vecchi cattolici, vi si immischiarono, annundando il Kulturkampf. H primo ministro prussiano, Otto von Bismarck (18151898)־, pensò di servirsi dei vecchi cattolici come uti־ li collaboratori nella lotta che aveva intrapreso in Germania contro la chiesa cattolica. Egli credeva di poter realizzare con il loro aiuto il sogno di una chiesa nazionale tedesca libera da Roma e, per questo, offrì loro l’aiuto dello stato. Questo, a sua volta, amareggiò i cattolici e fomentò l’antipatia reciproca.
3. Il Kulturkampf Il cosiddetto Kulturkampf aveva, in Germania, molte radici: la tensione esistente nella vita politica fra i piccoli-tedeschi (protestanti e prussiani), alla cui testa era lo stesso Bismarck, e i granditedeschi (cattolici nella loro grande maggioranza); l’ostilità del liberalismo verso la chiesa, soprattutto dal tempo del Sillabo e del
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Vaticano I; e infine, ma non meno importante, anche !,opposizione ecclesiastica dei vecchi-cattolici in Germania, i quali incitavano alla lotta contro la chiesa cattolica per trarne personali vantaggi. Il nuovo impero, che Bismarck aveva iniziato a costruire dal 1871, dopo la vittoria sui francesi, doveva diventare unitario. Il cancelliere dell'impero germanico era stato educato all'ideale della chiesa di stato e i suoi disegni politici si sarebbero potuti realizzare solo se la chiesa cattolica si fosse piegata, come già aveva fatto la chiesa territoriale protestante, al volere dello stato. Per questo l'esistenza di una politica cattolica, rappresentata dal partito del Centro, rico־ stituitosi nel 1870 ed entrato a far parte della dieta imperiale con considerevoli forze, era per Bismarck una vera spina nel fianco. Esplose così ben presto nel nuovo impero, ispirata dalla Prussia, una lotta ancor più accanita contro la chiesa cattolica, lotta che ebbe il nome di Kulturkampf Nel 1871 fu soppressa la sezione cattolica nel ministero del culto prussiano; venne poi, a limitare considerevolmente la libertà di predicazione, il cosiddetto ‘paragrafo del pulpito' (10 dicembre 1871); seguirono poi la legge sul controllo delle scuole (11 marzo 1872), la legge sui gesuiti (4 luglio 1872), che bandì da tutta la Germania i gesuiti e gli ‘ordini affini' (redentoristi) e, infine, le leggi di maggio (1873), le quali contenevano direttive statali per la formazione e la destinazione dei religiosi, coartavano l'esercizio del puro potere disciplinare della chiesa e favorivano le defezioni dalla chiesa. Nel marzo 1874, prima in Prussia e in seguito (6 febbraio 1875) anche in tutto l'impero, fu introdotto il matrimonio civile obbligatorio. Nel maggio 1874 seguirono le nuove 4leggi di maggio', fra cui la ‘legge dei vecchi cattolici', che fu meglio precisata il 4 luglio 1875: ai vecchi cattelici fu concesso il diritto di condividere l'uso delle chiese cattoliche, nonostante il loro numero esiguo. Nel maggio 1875 vennero soppressi in Prussia tutti i conventi e gli ordini religiosi, e i sacerdoti e i monaci furono banditi dal paese. Grazie a una esplicita autorizzazione ministeriale poterono rimanere nel paese solo gli ordini ospedalieri, vale a dire quelli addetti alla cura degli infermi. La ‘legge della cesta del pane' (22 aprile 1875) sospese tutti gli obblighi finanziari che lo stato prussiano aveva assunto con la chiesa. Gli ulteriori pagamenti sarebbero stati concessi solo a chi avesse
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dichiarato per iscritto di riconoscere e di ottemperare alla legge del Kulturkampf e, poiché ciò fu fatto solo dai vecchi cattolici, i «sacerdoti dello stato», i denari finirono solo nelle loro tasche. L’esecuzione di tutte queste leggi fu affidata a provvedimenti di polizia statale e le pene per i trasgressori furono di diversa entità: multe, reclusione, esilio. La resistenza del popolo, del clero e dell’episcopato cattolico contro queste misure coercitive fu compatta e unanime. La lotta, oltre che in Prussia, infuriò anche nel Baden, nel granducato di Assia-Darmstadt e in Sassonia. Nel conflitto fu coinvolta persino la cattolica Baviera, che, per influenza di Dòllinger, respinse le decisioni del Vaticano I e favorì assiduamente i vecchi cattolici. I danni per la chiesa prussiana furono ingentissimi, ma il governo non riusci a ottenere nulla. Il popolo cattolico, al contrario, cementò ancor più la sua unione e la sua fede. Nel 1873-1874, il partito del Centro conquistò alle elezioni ben 91 seggi al Reichstag: i suoi gèniali capi furono, fra gli altri, Ludwig Windthorst (18121891)־, i fratelli Peter e August Reichensperger, Hermann von Malinckrodt e altri. Bismarck si sentì sollevato, quando, dopo il fallimento, gli si offrirono possibilità di voltar pagina. Nel 1880 egli cominciò, infatti, a smantellare gradualmente la legislazione del Kulturkampf e papa Leone XIII (1878-1903) cooperò con lui in quest’opera.
§ 5 5 .1 papi dopo il concilio Vaticano I La maggiore considerazione di cui godette il papato all’interno e al di fuori della chiesa, dopo il tramonto dello stato pontificio, contrasta singolarmente con la sua importanza esteriore. La definizione dei due dogmi del primato e della infallibilità pontificia non ebbe affatto conseguenze nocive sulla fede e sulla morale cattolica, ma esercitò invece un effetto benefico sui rapporti fra la chiesa e i popoli. Solo la Germania assunse un atteggiamento decisamente ostile; in Francia non fu sollevata alcuna obiezione e, sotto la presidenza di Patrice Mac-Mahon (1873-1879), la chiesa francese potè godere di un periodo di pace. In Inghilterra, Irlanda, Belgio e in
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America i vescovi, quando fecero ritorno in patria, furono ricevuti con tutti gli onori. H pontificato di Leone XHI (1878-1903) segnò per il papato un periodo di crescente prestigio; aumentò infatti il numero delle rappresentanze diplomatiche presso la Santa Sede (anche paesi non cattolici strinsero rapporti diplomatici con il papato). Di questa accresciuta dignità furono espressione anche gli unanimi omaggi che furono resi da ogni parte a Leone XHI, in occasione dei suoi giubilei personali (1883,1887,1893,1903: per i cinquantanni del cardinalato e per il venticinquesimo del suo papato). Nel 1890 Pimperatore tedesco Guglielmo II si recò personalmente a fargli visita in Vaticano. Il risultato della loro conversazione sui difficili problemi sociali e politici degli stati industriali fu la celebre enciclica sociale del papa, la Rerum novarum (1891), che per la prima volta offrì una soluzione cattolica alla questione sociale e non si limitò più, come era stato fatto fino ad allora, a pure misure caritative. Lo sforzo di Leone mirava a rompere il corso reazionario del suo predecessore e a offrire una risposta cristiana alle acute questioni sociali, politiche e culturali del suo tempo. Innanzitutto il papa fu impegnato dal problema dei rapporti fra chiesa e stato. In molte delle sue encicliche egli sviluppò la sua teoria, per lo più modellata sul pensiero di Tommaso d’Aquino, dello stato cristiano (1881,1885,1888,1890); sorprendente in esse fu il rilievo dato alPindipendenza e alla dignità dello stato, che Leone XHI mise in chiarissima luce. Nell’enciclica Aeterni Patris, nel 1879, il papa pose in evidenza l’importanza della teologia e della filosofia tomista che divenne il fondamento della teologia della chiesa. Leone XIII si dimostrò anche un progressista in materia di scienze bibliche (Providentissimus Deus, 1893), e acquistò anche grandi meriti per aver aperto, nel 1881, l’archivio vaticano al fine di favorire la ricerca storica a vantaggio degli studiosi di ogni confessione. Già nel 1879 egli aveva nominato lo storico di Wurzburg, Josef Hergenròther (1824-1890), prefetto dell’archivio e lo aveva innalzato al tempo stesso alla dignità cardinalizia; accanto a questi pose, come sotto-archivista, lo studioso Heinrich Denifle OP (1844-1905); prefetto della biblioteca vaticana divenne il dottissimo Franz Ehrle SJ (1845-1934, dal 1922 cardinale). L’archivio e la biblioteca del Vati
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cano furono, da allora in poi, centri di studi storici d’importanza internazionale. Dal 1886 Ludwig von Pastor attese qui alla stesura della sua celebre e monumentale Storia dei papi dalla fine del Medioevo (22 volumi, ultima edizione nel 1961). Leone XIII, uomo di grande liberalità d’animo, pose fine alla rigida politica tenuta da Pio IX verso gli stati europei e conseguì personali e brillanti successi in campo diplomatico. Egli riuscì infatti a far cessare, in Germania, il Kulturkampf e nulla può far meglio comprendere il nuovo corso storico del fatto che lo stesso Bismarck, nel 1885, si rivolse al papa, pregandolo di fare da arbitro e decidere in merito alla contesa nata fra Germania e Spagna per il possesso delle isole Caroline. Anche in Belgio (1885) e in Svizzera (1888) Leone XHI portò un valido aiuto per dirimere i contrasti fra stato e chiesa. Merita altresì di essere sottolineato il fatto che Leone, in tutta la sua vasta opera d’insegnamento, non fece neppure una volta uso della decisione ex cathedra, vale a dire dell’infallibilità pontificia definita dal Vaticano I. Egli vanificò così tutte le accuse e le infauste previsioni avanzate nel fuoco della lotta durante gli anni 18691870; definizioni dogmatiche hanno luogo solo per questioni di fede e di morale fondamentali ed eccezionali. Le teorie, presenti nelle encicliche papali, non rivendicano infatti alcun diritto di validità infallibile. Una decisione di fede, con il carisma della infallibilità, fu presa solo da Pio XII, nel 1950 (Assunzione di Maria in cielo, in anima e corpo). I rapporti ecclesiastico-politici si inasprirono soltanto in Franeia, ove i repubblicani, che fin dal 1879 erano saliti al potere, iniziarono una nuova lotta contro la chiesa, che toccò la sua punta massima negli anni 1900 e 1906. Questa lotta mirava alla scristianizzazione dell’insegnamento e dell’educazione, e alla totale secolarizzazione della vita pubblica. Separazione fra chiesa e stato fu la parola d’ordine. La legge sulle associazioni, del 1901, espulse dalla Francia gli ordini religiosi, a eccezione di pochissime congregazioni ospedaliere. Nel 1904, dopo la morte di Leone XIII, si arrivò alla rottura delle trattative diplomatiche tra la Francia e il Vaticano. Leone aveva fatto pressione affinché i cattolici francesi, di sentimenti ancora fortemente monarchici e antirepubblicani, collabo-
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Tasserò (ralliement) con la repubblica, ma non era riuscito nel suo intento. I suoi tentativi poterono solo differire, ma non evitare, la lotta aperta. Negli ultimi anni del suo pontificato anche Leone XIII (1810־ 1903), ormai novantenne, manifestò alcune tendenze reazionarie, le quali tuttavia più che direttamente a lui risalivano all’ambiente reazionario che lo circondava. Così, nel 1903, egli fondò una commissione biblica costituita da diversi cardinali e da un certo numero di consultori, destinata a controllare severamente gli esegeti cattelici. Era del resto pienamente comprensibile che la sua personalità autoritaria sollecitasse anche il centralismo romano nella chiesa. I suoi interventi, sempre più frequenti, nelle controversie ecclesiastico-politiche dei singoli paesi, nelle quali Leone, scavalcando i vescovi, trattò direttamente con i governi attraverso i suoi nunzi attestano, unitamente alle numerose istruzioni impartite ai vescovi diocesani, questo centralismo. Anche la grande sollecitudine mostrata nel favorire i pellegrinaggi a Roma dei fedeli di tutti i paesi (i nuovi mezzi di comunicazione ne avevano creato le premesse) ebbe lo scopo precipuo di fare di Roma il centro della cristianità nella coscienza di tutti i cattolici. Il suo successore, Pio X (1903-1914), era di uno stampo totalmente diverso da Leone; la sua non fu una natura politica, ma squisitamente religiosa, ricca di vita interiore e di grande pietà. Il titolo della sua prima enciclica, Instaurare omnia in Christo (1903) era allo stesso tempo il suo motto. Pio X, che concentrò la sua attività soprattutto sui problemi religiosi interni della chiesa, fu un autentico pastore, uno dei più grandi riformatori della storia e l’opera da lui svolta fu estremamente benefica. La sua intensa attività di riforma si riallacciò al concilio Vaticano I. Le numerose disposizioni di riforma, che non erano più state attuate a causa della forzata interruzione del concilio nel 1870, furono riprese e realizzate. I suoi decreti sulla comunione (il primo, Sacra Tridentina Synodus, del 1905), con i quali egli sollecitava la comunione frequente e la prima comunione dei fanciulli, le sue riforme liturgiche concernenti il breviario, il messale e il canto corale, i suoi scritti pastorali per il rinnovamento ascetico e scientifico del clero operarono un bene
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immenso nella vita della chiesa. Importanti furono anche la riforma della curia, con la quale egli riordinò e modernizzò tutto il complesso apparato degli uffici romani, e i lavori preparatori per la rielaborazione dell’intero diritto canonico. Anche in questo, come in altri campi, si giovò in gran parte del materiale che era stato approntato per i lavori preliminari del Vaticano I. Considerata globalmente, Popera compiuta da Pio X per Pedificazione interiore della chiesa appare di importanza inestimabile. L’instancabile e fermissima sollecitudine di cui Pio X dette pròva nel difendere la purezza della fede e i diritti della chiesa non fu tuttavia priva di un aspetto negativo, che si manifestò soprattutto in una certa rigidezza e ostinazione, ed ebbe conseguenze piuttosto infelici sul piano ecclesiastico-politico. Tutto il prestigio che Leone aveva saputo conquistare andò perduto in breve tempo sotto il governo di Pio X. Gli effetti si fecero sentire in molti paesi, ove la situazione della chiesa peggiorò in modo considerevole. In Francia il conflitto sorto per la nomina dei vescovi portò, nel 1904, alla rottura dei rapporti diplomatici e il governo francese, ostile alla chiesa, nel dicembre 1904, mentre stava prendendo le necessarie misure per la separazione della chiesa dallo stato, ordinò nell’intero paese la fondazione di associazioni cultuali, alle quali sarebbe stata affidata l’amministrazione del patrimonio ecclesiastico e la nomina e la retribuzione dei ‘servitori del culto’. Pio X proibì ai cattolici di partecipare a queste fondazioni e così, ben presto, le associazioni cultuali furono dirette da non cattolici e da nemici della chiesa. La legge sulla separazione totale fra chiesa c stato entrò in vigore il 1° gennaio 1906. Si dovette rinunziare al patrimonio ecclesiastico (la sua amministrazione passò allo stato) e il danno materiale che la chiesa subì fu tanto considerevole che il suo impoverimento la costrinse ad allontanarsi dalla vita pubblica. La chiesa perse il contatto con le masse repubblicane del popolo francese e la scristianizzazione della Francia assunse in breve volger di tempo proporzioni inquietanti. Anche con la Russia, la Germania e gli Stati Uniti sorsero nuovi contrasti. Nel 1910 furono interrotti i rapporti diplomatici con la Spagna e con il Portogallo e, nel 1911, si arrivò addirittura alla lotta aperta. Al pari dei suoi predecessori, anche Pio X ispirò la sua
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azione politica a rigidi ideali monarchici, rifiutò le idee democratiche e perse ogni possibile contatto con le forze repubblicane del tempo. La condanna del cosiddetto modernismo, con il decreto Lamentabili e !,enciclica Pascendi dominici gregis (entrambi del 1907), causò una grave crisi all’interno della chiesa. Alcuni teologi prògressisti e scienziati di sentimenti cattolici avevano cercato di adeguare la dottrina cattolica alla cultura moderna, ma, in questo loro tentativo, avevano preso vie errate, sconfinando nell’eterodossia. In America Isaac Thomas Hecker (18191888)־, da poco convertitosi al cattolicesimo, propugnava energicamente una più intensa partecipazione dei cattolici alla vita culturale (il cosiddetto ameri־ canismo, condannato nel 1899). In Francia Pesegeta Alfred Loisy (18571940 )־aveva sposato i metodi della ‘moderna’ critica biblica della teologia liberale protestante; Maurice Blondel (18611949)־, Lucien Laberthonnière (18601932 )־e Edouard Le Roy (1870־ 1954) applicarono i concetti espressi dalla filosofia evoluzionistica moderna alla dottrina e alla morale cristiana, e finirono con il rela־ tivizzare il dogma. Le loro teorie furono condivise in Italia da Giovanni Minozzi (18841959 )־e in Inghilterra soprattutto dal converrito George Tyrrell (18611909)־. Si rese perciò necessario l’inter־ vento del magistero ecclesiastico, che condannò gli errori. Purtroppo, esso non seppe sempre ben distinguere fra le esigenze legittime di chi desiderava unicamente una maggiore apertura della chiesa di fronte alla vita culturale moderna dagli eccessi di coloro che, nel loro adattamento, si erano spinti invece troppo oltre o erano divenuti addirittura eretici. Un rigido gruppo reazionario, vici־ no a Pio X, fiutava errori ovunque. Ben presto gli integralisti eccle־ siastici scatenarono una vera e propria caccia ai modernisti, veri o presunti. Nel 1910, per meglio vigilare sulla dottrina cattolica, fu ordinato il giuramento antimodernista, che erano tenuti a prestare tutti i sacerdoti destinati alla cura d’anime e all’insegnamento. Più tardi fu deciso di estendere lo stesso giuramento ai chierici, prima di ricevere gli ordini maggiori, ai professori di teologia, quando assumevano il loro ufficio di insegnamento, ai parroci, ai prelati e ai superiori, prima della loro investitura canonica. Esso fu abolito soltanto nel 1967. Nei primi tempi le accuse anonime e i procedi
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menti troppo precipitosi colpirono spesso, con sospetti del tutto infondati, uomini di sinceri sentimenti ecclesiali, quali Hermann Schell, Albert Ehrhard e molti altri. Questo modo di procedere, francamente meschino, creò ima penosa atmosfera di oppressione in campo cattolico. H successore di Pio X, ossia Benedetto XV (19141922)־, inter־ venne opportunamente, nella sua prima enciclica (Ad beatissimi Apostolorum, 1914), contro gli integralisti e le loro continue e in־ debite accuse di eresia. D suo pontificato, però, fu oscurato dalla prima guerra mondiale. Il papa tentò instancabilmente, con animo aperto e intrepido, di contenere Todio dei popoli, ma quando, il primo agosto 1917, consegnò alle potenze belligeranti una nota di pace, elaborata con gran cura, il suo tentativo di mediazione fu ri־ fiutato dalle parti in causa. Dopo la guerra, Benedetto XV tentò di mitigare gli aspri disagi e di sanare le ferite provocate dal conflitto con un’opera incessante di aiuto e di soccorso, soprattutto a favore della Germania, ridotta alla miseria. Egli ammonì con energia gli uomini di stato dal guardarsi bene dal dividere l’Europa in vincito־ ri e vinti, e non approvò il trattato di Versailles; purtroppo la sua voce non trovò ascolto. Il numero delle rappresentanze diplomatiche in Vaticano salì, dopo la guerra, a 25: fra queste vi furono anche la protestante Olanda, l’Inghilterra e persino il Giappone. Al־ l’interno della chiesa ebbe grande importanza la pubblicazione del nuovo codice di diritto canonico, il Codex Juris Canonici (1917), che entrò in vigore nel 1918.
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Circa dieci milioni di morti e venti milioni di feriti furono, nel 1918, il doloroso bilancio del massacro dei popoli. Lo sgomento che seguì e !,esperienza stessa della guerra favorirono tuttavia, dopo il conflitto, il sorgere di una situazione spirituale del tutto nuova. Antichi legami erano stati spazzati via per sempre e stava na* scendo ormai Falba di una nuova epoca storica. Anche per la chie־ sa questo tempo segnò un periodo di grandiosi mutamenti; ci si rese conto degli errori del passato e sì cercarono nuove strade, si riscoprirono i princìpi comuni del cristianesimo e ci si avviò a una nuova e più profonda esperienza ecclesiale. Ebbe inizio un «tempo della chiesa».
§ 56. Ritorno dall’esilio e nuovo inizio 1. Situazione-ghetto in Germania In Germania si era venuta sempre più affermando l’idea che il cattolicesimo fosse chiamato a partecipare, con maggiore responsabilità, alla civiltà mondiale e a riacquistare il suo antico prestigio. Già all’inizio di questo secolo, uomini quali Georg von Hertling (18431919)־, Hermann Schell (18501906)־, Albert Ehrhard (1862־ 1940) e Cari Muth (18671944)־, l’editore della rivista Hochland (dal 1903), avevano instancabilmente richiamato l’attenzione sulla
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reale ‘inferiorità’ dei cattolici nella vita culturale, scientifica e politica, e avevano fatto appello al popolo cristiano affinché affrontasse coraggiosamente i suoi nuovi compiti. Al pari di molti altri, anch’essi dovettero sopportare la psicosi antimodernista di Pio X, ma ora, quietatesi le acque, richiedevano rimedi energici. Il filosofo Peter Wust (18841940 )־coniò, per definire il dibattito che si era ormai avviato, la massima: «Ritorno dall’esilio». Guardando indietro al passato ci si rese conto che il cattolicesi־ mo, malgrado tutti i suoi risultati, nel XIX secolo si era assai indebolito interiormente. La chiesa di stato, il confessionalismo, il nazionalismo e !,arroganza liberale gli avevano mosso una continua piccola guerra, che talora degenerò fino al punto di minacciare la sua stessa esistenza, come avvenne durante il Kulturkampf tedesco o nel Risorgimento italiano, per i contrasti sorti con il papato e lo stato pontificio, e anche durante la lotta che la Francia mosse contro la chiesa, alla svolta del secolo. Il cattolicesimo fu costretto a un atteggiamento permanente di difesa e i cattolici si ritirarono dalla vita pubblica. Questo loro rinchiudersi nel ghetto significò tuttavia esclusione e rinuncia a partecipare all’attività scientifica, culturale e politica del tempo, e significò anche la perdita di ogni contatto con le più importanti conquiste della nuova epoca. Le aspirazioni repubblicano-democratiche del XEX secolo erano state completamente ignorate dalla chiesa cattolica. I papi furono, infatti, sempre fondamentalmente contrari a tutte le forme democratiche e, fin dai tempi della rivoluzione francese, erano stati colti da una specie di «shock e da un complesso di paura di fronte alla democrazia» (Hans Maier). Al tempo della restaurazione, «l’alleanza tra trono e altare» divenne ancora più stretta. De Lamennais e de Maistre avevano dichiarato che la monarchia era l’unica forma di governo voluta da Dio e questo malinteso conservatorismo fece della loro opinione un dogma fondamentale del cattolicesimo ultramontano. I papi, da parte loro, fecero di tutto per convalidare questa tesi, e quando i cattolici francesi rifiutarono la repubblica, alla fine del XEXsecolo, si arrivò alla lotta aperta contro la chiesa. In Germania, persino dopo la prima guerra mondiale, la chiesa impedì a molti cattolici di formarsi una giusta coscienza democratica di fronte alla repubblica di Weimar.
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Anche la ‘questione sociale’ non fu compresa subito dalla chie־ sa nella sua vera natura. Nella prima metà del XIX secolo i cattolici che si occupavano di problemi sociali credettero, con un ingenuo conservatorismo, di dover combattere la forma capitalistica della società che proprio allora andava sviluppandosi e di poter ovviare alla miseria della classe operaia occupata nelle industrie solo con la carità. Essi chiedevano il ripristino dell’antica proibizione ecclesiastica di percepire tassi di interesse troppo alti, l’estirpazione del capitalismo e il ritorno agli ordinamenti sociali del Medioevo. Ancora nel 1848 il parroco Wilhelm von Ketteler, che più tardi verrà chiamato «il vescovo sociale», proclamava enfaticamente, al primo congresso dei cattolici tenutosi a Magonza, che ci si sarebbe accorti «che solo la chiesa cattolica era destinata a risolvere in modo definitivo la questione sociale, poiché lo stato, per quante disposizioni avesse potuto prendere, non avrebbe mai avuto la forza di farlo». Dovevano passare ancora quattro decenni prima che si arrivasse a una legislazione sociale di stato (in Germania dal 1882/83), ma anche la chiesa ebbe bisogno di molto e forse anche di troppo tempo, prima di giungere a una chiara visione sociale e politica, e a riconoscere che la questione sociale comportava un problema di struttura, che non poteva essere risolto soltanto con l’amore del prossimo. Nel frattempo Karl Marx (18181883 )־e Friedrich Engels (18201893 )־conquistarono le masse operaie, che abbandonarono la chiesa in misura sempre crescente. L’enciclica sociale di Leone XIII venne troppo tardi (1891) e il movimento operaio cattolico, che si organizzò a Monaco (1892), a Berlino (1895) e a Mònchengladbach (1904), potè raccogliere solo un esiguo gruppo di lavoratori cattolici. E così, mentre la chiesa si arroccava nel suo milieu borghese, il proletariato seguì l’ateismo marxista.
2. Una nuova coscienza di chiesa Parallelamente al ridestarsi di una coscienza responsabile nella chiesa e nello stato si sviluppò anche, all’interno della chiesa, un processo storico che caratterizzò in modo decisivo la spiritualità cattolica del dopoguerra e la legò intimamente alla vita ecclesiale.
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Romano Guardini (18851968 )־affermò profeticamente nel 1922: «Un avvenimento religioso di incalcolabile portata ha avuto inizio: la chiesa si è risvegliata nelle anime». L’esperienza comunitaria del cameratismo, vissuta durante la guerra, e gli ideali nati in seno al movimento giovanile favorirono la riscoperta della chiesa come comunita. Movimento liturgico e avvicinamento ‘ecumenico’ fra le diverse confessioni procedettero di pari passo. Un profondo mutamento della tradizionale immagine della chiesa aveva creato le basi per questo nuovo ridestarsi della coscienza religiosa. Questa nuova immagine di chiesa si liberò, infatti, della concezione di Roberto Bellarmino, di conio puramente controriformista e caratterizzata da un forte accento giuridico, che era stata valida fino ad allora e aveva compreso la chiesa come una comunità di confessione e di salvezza, posta direttamente sotto la guida del papa. Si riscoprì invece la chiesa come popolo di Dio, nella quale il Cristo continua a vivere. L’atteggiamento antiindividualistico si ispirava alla concezione, di chiara impronta comunitaria, del corpus Christi mysticum, i cui membri sono le singole persone. La coscienza della preghiera comunitaria portò inoltre alla riscoperta della liturgia, nella quale il popolo di Dio concelebra in piena corresponsabilità il culto divino. Il nuovo movimento liturgico ebbe inizio nel 1909, a Mecheln. Nel corso della giornata dei cattolici, tenutasi in Belgio, fu affermata per la prima volta l’esigenza che la messa doveva essere resa accessibile al popolo. «Il faudrait démocratiser la liturgie»: questo fu il desiderio espresso chiaramente da Lambert Beauduin OSB (1873-1960), !,iniziatore di un movimento liturgico che ben presto si doveva estendere alla Germania, all’Austria e ad altri paesi, e i cui centri di irradiamento furono le abbazie benedettine di MariaLaach e di Klostemeuburg (Pius Parsch). Il movimento giovanile cattolico tedesco se ne fece ardente propugnatore e Romano Guardini, il capo spirituale dell'associazione giovanile Quickborn, rimedito con grande amore e profondità e propagandò in innumerevoli scritti e conferenze lo spirito della liturgia. La maggior parte del giovane clero abbracciò con entusiasmo le sue idee. Quando, durante la persecuzione della chiesa da parte del nazismo, l’attività esterna era impedita, si fece nuova esperienza della forza della li
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turgia della chiesa, un’energia creatrice di comunità; nel travaglio della seconda guerra mondiale e nella miseria del dopoguerra celebrare insieme la liturgia fu per molte persone fonte di forza e di sostegno. Dopo un’iniziale esitazione, anche la gerarchia accolse favorevolmente il movimento. Dall’enciclica di Pio XII Mystici Corporis (1943) all’enciclicaMediatorDei (1947), fino alla costituzione sulla liturgia del concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, del 4 dicembre 1963, corre un’unica grande linea. Il movimento liturgico è, infatti, qualcosa di più di un puro rinnovamento della liturgia: il suo scopo principale è piuttosto quello di attuare un rinnovamento dei fedeli, muovendo dallo spirito stesso della liturgia, di far sentire il «passaggio dello Spirito Santo attraverso la sua chiesa» (Pio XQ). Esso è veramente la più ricca fonte di energia della chiesa del nostro tempo. Anche il movimento Dna Sancta e l’ecumenismo cattolico affondano le loro radici in questa nuova concezione della chiesa, cui abbiamo già accennato. Superata ormai la posizione controriformista e avviato l’incontro dei cristiani di confessioni diverse, incontro che la guerra aveva provocato, si risvegliò anche l’esigenza di conoscersi e di comprendersi meglio gli uni con gli altri. Nel mondo non cattolico questo incontro aveva già assunto precise forme organizzative. Già nel 1910, durante una conferenza missionaria protestante del ‘movimento ecumenico’, tenutasi a Edimburgo, fu proposto di accordarsi su una certa base di attività comune in tutti quei paesi missionari dove si era fatta più dolorosamente sentire la contrapposizione dei molti gruppi cristiani di confessioni diverse. Si decise anche di organizzare un incontro mondiale di tutti i cristiani, in cui si sarebbero discussi i problemi della fede comune e della costituzione ecclesiastica. I diversi problemi furono ripresi e sviluppati, in seguito, da due movimenti. Il primo si costituì con il tema Faith and Order e si occupò dei problemi dottrinali e della struttura ecclesiastica; l’altro, denominato Life and Work, cercò invece in primo luogo di organizzare l’incontro concreto dei cristiani fra loro e di farli operare in comune. Le prime conferenze mondiali furono tenute, nel 1927, a Losanna e, nel 1937, a Edimburgo. A Utrecht, nel 1938, e ad Amsterdam nel
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1948, entrambi i movimenti si accordarono per un «Consiglio mondiale delle chiese» che ebbe la sua sede a Ginevra. A Lund, nel 1952, il movimento si definì come «una comunità di chiese che accettano Cristo come Dio e Redentore». Durante la conferenza mondiale tenutasi a New Delhi, nel 1961, esso aggiunse anche la confessione trinitaria: «il Consiglio ecumenico è un'associazione fraterna di chiese, le quali confessano il Signore Gesù Cristo come Dio e Redentore, conformemente alla sacra Scrittura, e cercano di accordare la loro vocazione comune in onore dell’unico Dio, del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Roma, in un primo tempo, assunse di fronte al movimento ecumenico protestante una posizione decisamente negativa. L’idea di una specie di ‘super-chiesa’ interconfessionale, che si costituisse come ‘chiesa mondiale’, era troppo in contrasto con la dottrina religiosa cattolica di «un’unica chiesa vera, cattolica e apostolica», che aveva nel successore di Pietro il suo unico capo. La chiesa cattolica non poteva entrare a far parte del movimento come una semplice chiesa fra altre chiese; e logicamente rifiutò, proprio perché si considerava l’unico tronco piantato da Dio, la cosiddetta Branch־ Theory, secondo la quale ognuna delle singole chiese era considerata un ramo dell’unico albero cristiano. Tutti i tentativi di riunificazione cristiana potevano perciò tradursi solo nell’invito e nell’ingiunzione rivolti agli ‘erranti’ di voler riunirsi di nuovo, incondizonatamente, alla chiesa romano-cattolica. L’enciclica Humani generis (1950) ritenne più utile dovere ammonire severamente i fedeli a guardarsi da un ‘irenismo’ errato (pace e riunificazione a ogni costo) che consigliare una maggiore apertura. Nel frattempo, però, nella chiesa cattolica era andato crescendo, di anno in anno, un interesse sempre più intenso e più profondo verso i fratelli cristiani separati e la riunificazione. Una nuova comprensione dei motivi della riforma di Lutero e delle cause più profonde che erano state alla base dello scisma fra la chiesa occidentale e quella orientale creò le basi per un incontro più aperto e fecondo. Ebbe così inizio il dialogo con la chiesa orientale, con la quale la chiesa cattolica aveva in comune il patrimonio sacramentale e, in grandissima parte, anche quello dogmatico (escluso, naturalmente,
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il primato e Pinfallibilità pontificia), L’istituzione di particolari centri, fondati per curare i rapporti con le chiese orientali, servì a favorire !,instaurarsi di una nuova atmosfera di reciproca stima e l’approfondimento della conoscenza tra le due confessioni (Istituto orientale, nel 1917, e il Russicum, nel 1929, a Roma; Monastero dell'unione Amay-Chevetogne nel 1925, in Belgio; Istina, nel 1927). I papi dell’età moderna hanno ripetutamente teso la mano all’Oriente per la pace; ma soltanto oggi, dopo che Giovanni X X m e soprattutto Paolo VI hanno intenzionalmente rinunciato all’accentuazione della coscienza di legittimità di Roma e ammesso al tempo stesso i loro torti precedenti, il dialogo è entrato in una fase feconda. L’incontro fra Paolo VI e il patriarca Atenagora di Costantinopoli, a Gerusalemme (4-6 gennaio 1964), fu molto più di un puro gesto esteriore. L’avvicinamento con i protestanti ebbe inizio in un primo tempo con colloqui che si ripromettevano di superare i malintesi e le barriere divisorie, e che furono promossi dall’iniziativa di alcune persone e da gruppi ristretti. In Germania, sotto la spinta della comune minaccia alle chiese da parte del nazionalsocialismo, i rapporti divennero sempre più intensi. Max Josef Metzger (18871944) conferì a questi colloqui una struttura più solida, nel 1938, nella Una-Sancta-Bruderschaft. La Christkònigsgesellschaft, da lui fondata a Meitingen, doveva diventare il centro del movimento. Metzger, che fu uno dei più decisi propugnatori del movimento di pace, fu giustiziato nel 1944; egli morì martire, sotto la dittatura di Hider, che aveva sempre combattuto senza compromessi. Un’istruzione pontificia del 20 dicembre 1949 affidò ai vescovi la responsabilità del movimento cattolico Una Sancta e, per ciò stesso, favori positivamente la presa di contatti nell’ambito della chiesa, seppur ancora in modo non ufficiale. Nel 1952 fu decisa l’istituzione della «conferenza cattolica per le questioni ecumeniche» (anch’essa, in un primo tempo, senza crismi di ufficialità) dalla quale, nel 1960, derivò direttamente il «segretariato per la pròmozione dell’unità dei cristiani», voluto da Giovanni XXIII, con sede a Roma, alla cui direzione fu posto il cardinale Agostino Bea (1881-1968). La convocazione del concilio Vaticano E diede infine al movimento ecumenico un impulso insperato.
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3. Sviluppo al di fuori della Germania Il periodo che seguì la prima guerra mondiale segnò un gran progresso nello sviluppo della vita ecclesiale. In Francia i religiosi poterono ritornare nei loro conventi e le ‘leggi laiche' non furono più applicate. Lo stato affidò l'amministrazione del patrimonio ec־ clesiastico alle ‘associazioni diocesane' vescovili, di recente istituzione. Si poterono così edificare molte nuove chiese e un'ampia re־ tc di scuole cattoliche si allargò ben presto in tutto il paese. Fu tuttavia più tardi che il movimento liturgico e quello biblico ebbero pieno sviluppo; solo dopo la fondazione del Centre de Pastorale liturgique, avvenuta a Parigi nel 1943, essi poterono infatti iniziare un'attività di notevole importanza. Per un certo tempo sembrò che l'esagerato nazionalismo Adi?Action frangaise costituisse un peri־ colo, ma nel 1926 i timori caddero, grazie alla condanna di Pio XI del movimento stesso. Dal 1927 l'Azione cattolica ebbe un deciso incremento e dimostrò una maggiore forza di penetrazione; la riconquista della Francia e degli ambienti scristianizzati caratterizza־ no l'opera svolta dalle numerose nuove congregazioni cattoliche e dalle associazioni giovanili (Mission de France e preti operai). I risultati ottenuti furono veramente notevoli. Dopo la seconda guerra mondiale la Francia non ebbe solo un grande partito politico cattolico e dei sindacati cristiani, che raccolsero presto il 40% del־ la classe operaia, ma ancor oggi essa, con i suoi 3.500 missionari, è alla testa delle missioni cattoliche e svolge una funzione determi־ nante con la sua intensa attività pastorale nel movimento liturgico e biblico. Grazie ai suoi teologi, la Francia ha acquisito infine una posizione di primissimo piano nella teologia cattolica. In Italia l'Azione cattolica, fondata nel 1922, acquistò anche du־ rante la dittatura fascista e nell'immediato dopoguerra un'importanza straordinaria. Composta la ‘questione romana', grazie ai pat־ ti lateranensi e al concordato del 1929, si crearono nuove condizioni favorevoli che ben presto agirono vantaggiosamente su tutta la vita ecclesiale. In Inghilterra il numero dei cattolici crebbe costantemente. L'aumento delle vocazioni sacerdotali era ed è ancora singoiar־ mente confortante. Una rete di scuole cattoliche, di notevole im
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portanza e ottimamente organizzata, e un’autorevole stampa cattolica danno oggi lustro al cattolicesimo inglese. Negli Stati Uniti la libertà di religione, garantita dalla dichiarazione di indipendenza (1776), ha favorito, nel XEX secolo, un forte aumento dei cattolici, che è continuato ininterrottamente nel corso del XX secolo. L’attivismo dei cattolici americani si è dimostrato soprattutto nell’istituzione e nello sviluppo di un’ampia rete di saiole cattoliche elementari e superiori. La libertà di associazione, esistente nel paese, ha giovato enormemente agli ordini religiosi. Già nel XIX secolo il cattolicesimo aveva celebrato la sua nuova e feconda stagione missionaria. Dopo il crollo del dominio coloniale portoghese e spagnolo, che con la sua missione guidata dallo stato ebbe, nel xvm secolo, un effetto paralizzante, la congregazione romana (Congregalo de propaganda fide), fondata nel 1622, assunse definitivamente la direzione delle missioni nel mondo. Vennero fondati numerosi nuovi ordini e nuovi paesi si aprirono all’attività missionaria. L’Africa, l’India, la Cina e le isole dei Mari del Sud furono i paesi di missione prediletti. Dopo la prima guerra mondiale si attribuì particolare importanza all’istituzione e al consolidamento delle chiese indigene e nel 1926 furono ordinati i primi vescovi indigeni.
§ 5 7 .1 pontificati di Pio X I e di Pio XH Sia Pio XI che Pio XH ebbero molto in comune, anche se si differenziarono sostanzialmente l’uno dall’altro per origine, formazione culturale e carattere. La continuità del pontificato era del resto garantita dal fatto stesso che Pio XH già fin dal 1930, cioè da quando era stato nominato segretario di stato, aveva sempre seguito la linea politica del suo predecessore. Pio XI (19221939)־, prima di divenire papa, era stato un tranquillo studioso e un noto alpinista: questa singolare combinazione può spiegarci qualcosa del suo carattere. Positivo, oggettivo, inteiligente e profondo da un lato, ricco di temperamento, pratico, forte e tenace dall’altro, Pio XI seppe armonizzare e legare mirabil
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mente, con una fermissima fiducia in Dio e un ottimismo audace, le varie disposizioni naturali del suo animo. Egli apparve così come Tuomo che avrebbe potuto restituire, a un mondo caduto nel disordine, la pace e lo slancio di cui aveva bisogno. Achille Ratti nacque nel 1857 a Desio, presso Milano; fu ordinato sacerdote nel 1879 e, dopo una breve attività d'insegnamento, trascorse lunghi anni nelle biblioteche, prima come bibliotecario presso !,Ambrosiana a Milano, e in seguito, dal 1914, come prefetto della biblioteca Vaticana a Roma. A questo tempo risalgono anche le sue escursioni alpine; la sua ascensione alla cima Dufour del Monte Rosa (1889) ebbe un'eco letteraria nei suoi Scritti alpinistici e lo rese celebre. Dopo una breve e, in verità, non molto felice attività diplomatica come nunzio in Polonia (1918-1920) divenne, nel 1921, arcivescovo di Milano e cardinale e, l'anno dopo, fu eletto papa. Pio XI annunciò il suo programma di governo con l'enciclica Ubi arcano, del 1922: Pax Christi in regno Christi! E, infatti, egli predicò instancabilmente il regno di Cristo. Nel 1925 introdusse la festa di Cristo Re (l'ultima domenica dell'anno liturgico); nel 1925 e nel 1933 ispirò l'Anno santo al concetto: «Cristo deve regnare» (1 Cor 15,25). Si è voluto vedere in tutto ciò un certo anacronismo: in un tempo in cui tutte le monarchie andavano scomparendo, sembrò, infatti, inattuale mettere in evidenza il concetto di regalità. Ma nel regno di Dio vigono misure ben diverse da quelle di questo mondo. Pio XI, fin dai primi anni del suo pontificato, elaborò, alla luce della rivelazione, le risposte cristiane agli scottanti problemi del suo tempo: nella sua enciclica Divini illius Magistri (1929) trattò l'educazione cristiana, nella Casti connubii (1930) il matrimonio cristiano, nella Quadragesimo anno (1931) il giusto ordine sociale cristiano e nella A d catholici sacerdotii (1935) il sacerdozio della chiesa. Alla sua particolare sollecitudine si deve la nascita dell’Azione cattolica, cui Pio XI conferì, nel 1925, una solida struttura. Il concetto della «collaborazione e partecipazione dei laici all'apostolato gerarchico della chiesa», che egli formulò dinanzi alla gioventù tedesca cattolica riunita nell'ottobre 1933, a Roma, fu uno dei pensieri dominanti del suo pontificato. Egli diede così l'avvio a una rimeditazione sulla posizione e la missione dei laici nella
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chiesa, e se noi oggi possiamo disporre di una «teologia del laicato» (Yves Congar) e se il concilio Vaticano II si è aperto ai laici, dobbiamo questo sviluppo proprio all'iniziativa di papa Ratti. Grazie a lui si pose fine a un processo plurisecolare, che era iniziato nel Medioevo e aveva portato a una clericalizzazione progressiva della chiesa, e la corresponsabilità ormai pienamente cosciente dei laici nella chiesa fu collocata nuovamente in quella giusta luce in cui l’aveva già vista il cristianesimo primitivo. Anche l’attività missionaria deve alla lungimiranza e all’energia di Pio XI la sua decisa ripresa e la novità dell’orientamento, teso a realizzare l’autonomia delle chiese indigene. La sua politica ecclesiastica fu parimenti improntata a una limpida visione razionale delle realtà della vita. Con concordati e trattati, cercò di stabilire solide basi per la vita della chiesa. Il suo più grande merito fu la composizione dell’annosa discordia tra il Vaticano e il governo italiano; l’i l febbraio 1929 egli concluse i patti lateranensi, che liberarono il papa della volontaria prigionia e reintegrarono la sua piena sovranità sul piccolo stato del Vaticano. Durante il governo di Pio XI ebbe anche inizio una nuova era di concordati: nel 1922 il concordato con la Lettonia, nel 1924 con la Baviera, nei 1925 con la Polonia, nel 1927 con la Romania e la Lituania, nel 1929-1931 con l’Italia, nel 1929 con la Prussia, nel 1932 con il Baden, nel 1933/34 con l’Austria e infine, sempre nel 1933, con il Reich tedeSCO.
U tanto discusso concordato con il Reich, del 20 luglio 1933, si configura ben diversamente, se lo esaminiamo alla luce di questa visione ecclesiastica complessiva, da come potrebbe apparire invece a chi lo consideri come un evento isolato, come spesso accade. La sua stipulazione va vista nel quadro generale di una politica vaticana di trattati, che si era fino ad allora dimostrata valida e feconda. I concordati, a suo tempo stabiliti con la Baviera, la Prussia e il Baden, furono praticamente vanificati quando Hider assunse il potere e inserì quei territori nel suo Reich unitario e la curia fu posta così di fronte al dilemma: o annullare i concordati vigenti, oppure accettare l’offerta di Hider di un concordato con il Reich. Si ritenne che l’ultima fosse la soluzione migliore. Pio XII, più tardi (1947), definì il concordato con il Reich «il tentativo di salvare i
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concordati parziali, con delle amplificazioni territoriali e di contenuto, per un futuro quanto mai incerto». Nessuno, allora, poteva sapere quanto fosse subdola, falsa e bugiarda la politica tedesca. Il Vaticano, tuttavia, non cadde ciecamente nella trappola di Hitler e, proprio assumendo di fronte a quell'essere feroce e violento un atteggiamento critico, sperò, legandolo a un impegno formale, di pòterlo almeno costringere alla moderazione. Un analogo accordo, stipulato poco prima, con Mussolini, non aveva forse avuto successo? I patti lateranensi e il concordato con l’Italia, in effetti, avevano composto, in qualche modo, le difficoltà esistenti fra stato e chiesa e avevano dato vita a relazioni di reciproca tolleranza. Del resto, si ritenne che l'onore e il diritto intemazionale vigessero ancora e che i patti dovessero essere mantenuti (pacta sunt servando). Più tardi l’esperienza della menzogna di Hider fu per lo stesso Pio XI una delle esperienze più amare, come attestano le innumerevoli note da lui redatte sul governo del Reich e la sua veemente enciclica M it brennender Sorge (14 marzo 1937), pubblicata in lingua tedesca. Il pontificato di Pio XI fu segnato da pene e da continue preoccupazioni per la vita della chiesa nel mondo. I martiri versarono il loro sangue soprattutto in Russia, in Messico, in Spagna (guerra civile, 1936) e in Germania. Ma il nemico principale del cristianesimo fu per Pio XI il comuniSmo ateo (enciclica Divini Redemptoris, del 19 marzo 1937). Non era ancora possibile comprendere, nel 1933, che il nazionalsocialismo non era affatto inferiore al comunismo in malvagità e ci sarebbero volute le terribili esperienze degli anni seguenti e le inimmaginabili atrocità e bestialità del nazismo per accorgersene. Pio XI morì poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, il 10 febbraio 1939. Pio XII (1939-1958) fu chiamato a succedergli dall'unanime voto dei cardinali riuniti in conclave, durante il secondo scrutinio. Nessuno, se non lui stesso, parve, infatti, in grado di guidare la piecola barca di Pietro attraverso quella terribile e dolorosa epoca e la sua elezione suscitò un'approvazione generale. Eugenio Pacelli era nato a Roma nel 1876. Egli proveniva da un'antica famiglia di giuristi, da generazioni attiva al servizio della curia romana. Suo fratello, magistrato pontificio, ebbe parte deci
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siva nell'elaborazione dei patti lateranensi (19261929 )־e il futuro papa, fin dalla sua ordinazione sacerdotale (1899), aveva del resto lavorato in curia, con funzioni giuridico-diplomatiche. Nominato nunzio a Monaco, in Baviera (19171920)־, e in seguito, presso il governo del Reich, a Berlino (1920-1930), non solo acquisì esperienza e successi (concordati con la Baviera e la Prussia), ma anche una predilezione particolare per la Germania. Da cardinale segre־ tario di stato a Roma, durante il pontificato di Pio XI, determinò, dal 1930, il corso politico della curia, anche nei confronti del Reich del nazionalsocialismo in Germania. «Giustizia genera pace» fu il motto cui ispirò tutto il suo governo. Pio XII univa in sé i doni di una natura signorile, nobile e ricca tanto di intelligenza quanto di profonda religiosità e di pietà, alla positività del politico realista, abituato a contare solo sulle effettive possibilità e a non intraprendere mai sconsideratamente nulla pii־ ma di aver valutato e ponderato minuziosamente tutte le possibili conseguenze. Forse in questo egli si differenziava molto dal suo predecessore e ancor più dal suo successore, i quali agirono più spontaneamente e perciò, spesso, rischiarono anche di più. La sua fu invece una politica sagace e chiara e la sua arma prediletta il tenace negoziato. Non può, tuttavia, essergli imputato a colpa se la sua politica fallì di fronte a una diplomazia come quella tedesca, basata fondamentalmente sulla violenza, la menzogna e la falsità. E come avrebbe potuto agire diversamente un papa, privo di ogni reale potere, per opporsi alla violenza dei grandi stati e delle pòtenze mondiali? Egli poteva fare appello solo al diritto e alla giusti־ zia (e così fece Pio XII) e far valere la sua autorità morale. Instan־ cabilmente papa Pacelli, nelle sue numerose allocuzioni ed encicli־ che, esortò alla ragione e al diritto, impartì direttive e predicò i princìpi cristiani. Doveva, tuttavia, Pio XII tacere di fronte ai crimini dei nazisti, e soprattutto dinanzi allo sterminio degli ebrei? Questa è l’amara domanda che oggi gli si rivolge. Ma ha egli veramente taciuto? Poteva dire di più? Pio XII tentò fino all’ultimo di impedire lo scoppio della guerra e cercò di tenerne fuori almeno l’Italia. La sua azione diplomatica presso Hider fallì, all’inizio del maggio del 1939. Mussolini reagì altrettanto negativamente; da quando anche il duce si era impe
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gnato nella follia della persecuzione voluta da Hitler, i rapporti dell’Italia fascista con il Vaticano erano molto peggiorati. In tempo di guerra il papa non poteva che attenersi a ima scrupolosa neutralità. A ciò lo impegnavano espressamente non solo i patti lateranensi del 1929, ma anche la sua situazione priva di aiuto, in mezzo a un paese belligerante, e la sua posizione di capo supremo di una comunità di fede sovranazionale, i cui membri si trovavano in entrambe le parti. Prendere decisioni politiche non è del resto compito di un papa, né era affatto necessario parlare, nel campo inter־ no, degli aspetti morali o immorali della condotta bellica hideriana, visto che tutti i responsabili e, prima di tutti, i vescovi e i cattolici tedeschi avevano idee chiare in proposito e li condannavano incondizionatamente. Nel campo esterno una comunicazione pontificia su questo punto sarebbe stata d’altronde sfruttata esclusivamente a scopo politico; questo solo, infatti, era essenzialmente lo scopo cui miravano tutti coloro che cercavano di far uscire il papa dal suo silenzio. Pio XII si mantenne perciò politicamente neutrale, anche se va detto che fece appello ancora più energicamente alla coscienza di entrambe le parti, per riportare l’umanità nella pace e nell’amore cristiano. Se egli, all’inizio, può avere attribuito alla guerra di Hider un minimo di significato e di giustificazione, ciò fu solo pensando alla difesa dell’Europa cristiana contro il bolscevismo ateo, ma ovviamente ciò valeva solo per la Russia, e non per la Polonia e gli altri popoli, verso la cui sorte Pio XII dimostrò sempre una profondissima compassione. E, del resto, il papa non fu il solo a rifiutare e a temere il bolscevismo. Milioni di persone in Germania, e al di fuori della Germania, la pensavano come lui e gli avvenimenti accaduti nel dopoguerra nei paesi oltre la cortina di ferro hanno dato loro ragione. Ma si poteva forse esorcizzare Belzebù con il diavolo? Questo era veramente il problema! Pio XII, dopo la guerra, continuò instancabilmente a esortare alla pace, aiutò i popoli duramente provati dal conflitto con una vasta organizzazione caritativa e prese posizione contro la tesi della colpa collettiva del popolo tedesco e contro la campagna di odio ispirata da questa accusa. Al tempo stesso dedicò tutta la sua sollecita carità ai prigionieri di guerra e ai profughi. Il suo animo fu do
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lorosamente colpito dalla caduta di interi popoli cattolici, come la Polonia, TUngheria e altri ancora, nella sfera d’azione del comunismo e alle persecuzioni di cristiani, scoppiate ben presto in quei paesi e all’imprigionamento dei vescovi e dei religiosi egli rispose con la scomunica dei responsabili. Il suo atteggiamento di fronte al bolscevismo, che tante grandi perdite aveva causato al cristianesimo e alla chiesa, fu sempre intransigente. Raramente un papa ha potuto esercitare con i suoi discorsi e scritti principali un’influenza tanto profonda e universale quanto Pio XII. Le sue parole furono ovunque ascoltate e stimate, non so10 all’interno della chiesa, ma anche nel mondo e persino dai popo11 non cristiani. Morì il 9 ottobre 1958. L’opera svolta da Pio XH all’interno della chiesa fu veramente eccezionale. Egli aprì il sacro collegio, fino ad allora dominato sempre da cardinali italiani, a tutti i popoli e a tutte le razze del mondo. Le numerose nuove nomine cardinalizie rispecchiarono l’universaHtà della chiesa. Nella sua enciclica Mystici Corporis (1943) Pio XII propose una nuova intelligenza della chiesa, centrata sul corpus Christi mysticum, che pose fine alla vecchia concezione ecclesiale giuridico-gerarchica; in essa fu dato spazio anche al laicato cattolico. L’enciclica biblica Divino afflante Spiritu (1943) e l’enciclica liturgica MediatorDei (1947) presero in attento esame le esigenze della chiesa del nostro tempo; seguirono poi le encicliche Menti nostrae (1950), sulla santità del sacerdozio; la Provida mater (1950), sulla verginità, in cui furono riconosciuti dal diritto canonico gli istituti secolari, vale a dire quelle associazioni ecclesiastiche di nuovo tipo, i cui membri svolgono il loro apostolato cristiano nel mondo, pur continuando le loro attività professionali e mantenendo il loro stato di vita secolare. Si può ben affermare che non vi fu nessun argomento, religioso o ecclesiastico, di importanza essenziale, di cui Pio XII non abbia trattato con profonda chiarezza cristiana. La sua straordinaria capacità di lavoro si estese a ogni campo e, in modo tutto particolare, all’opera di riordinamento del1’amministrazione curiale. Il vertice teologico del suo pontificato fu la solenne proclamazione, avvenuta il primo novembre 1950, del dogma dell'Assumptio Mariae, dell’assunzione in cielo, in corpo e anima, dell’immacolata madre di Dio.
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Tuttavia, Pio XII rimase pur sempre un uomo della vecchia gènerazione. Il compito di aprire le ultime porte a una nuova comprensione della chiesa e a un nuovo incontro mondiale dei cristiani era invece riservato al suo geniale successore, Giovanni XXIIL Nei confronti del pensiero ecumenico e dei nuovi studi teologici Pio XII dimostrò sempre una comprensione modesta (enciclica Humani generis, 1950). Nonostante tutta !,affabilità con la gente e !,apertura alle persone dimostrata durante le udienze e le solennità liturgiche, egli restò tuttavia sempre un autocrate, che accentrò nella sua persona il governo della chiesa. E se è vero che dedicò la sua allocuzione del Natale 1944 proprio all'idea di democrazia, Pio XII ebbe tuttavia personalmente una chiara propensione per il principio monarchico.
§ 58. La chiesa nel Terzo Reich Raramente politica e concezione del mondo sono state tanto indissolubilmente unite e intrecciate fra loro come nel Terzo Reich, il periodo più infame e più oscuro della storia tedesca. Raramente, nella storia, un uomo pose, senza il minimo scrupolo, la menzogna al servizio della sua politica e della sua diplomazia, come fece Hider (18891945)־. Per ben comprendere la situazione in cui si trovò la chiesa nel Terzo Reich è necessario, fin dalPinizio, richiamare !,attenzione del lettore su queste premesse.
1. La politica di Hitler Adolf Hider nacque il 20 aprile 1889 a Braunau sullTnn (Austria superiore). Negli anni fra il 1906 e il 1912 egli condusse a Vienna un'esistenza oscura di fallito, ubriacandosi di parole antisemitiche e anticlericali. Durante la prima guerra mondiale combatté, come volontario, in un reggimento bavarese. Terminata la guerra, trovandosi nuovamente senza lavoro e disoccupato, «decise di diventare un politico». La fondazione del ‘Partito dei lavoratori tedeschi' che, dal 1920, si chiamò ‘nazionalsocialista' (NSDAP), di
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cui Hitler assunse nel 1921 la guida, la partecipazione al fallito putsch del generale Erich Ludendorff (1923), nove mesi di arresto a Landsberg e la nuova fondazione del NSDAP nel 1925, segnano le tappe della sua formazione politica. Durante la crisi economica, che si abbatté su tutta la Germania, il partito crebbe lentamente e, nel 1929, divenne infine un partito di massa, grazie alle sfacciate promesse che Hider fece a tutti gli insoddisfatti, senza eccezione. Nel 1930 esso contava già sei milioni e mezzo di voti e 107 seggi parlamentari e nel 1932, con i suoi 13.750.000 aderenti e 230 seggi, era ormai divenuto il partito più forte in Germania. Terrore, san־ gue e violenza accompagnarono gli sviluppi di questo movimento radicale. Il malcontento di oltre sei milioni di disoccupati e i disagi sofferti da molti altri milioni di tedeschi spiegano questo tragico successo. Il presidente del Reich Paul von Hindenburg, all'inizio, esitò a conferire a Hider quella carica di cancelliere, cui questi pòteva aspirare come leader del partito più forte, ma Franz von Papen e altri riuscirono a persuaderlo e, il 30 gennaio 1933, egli nominò Hider cancelliere del Reich. Fu l’infausto giorno della ‘conquista del potere'. Già prima del 1933 alcuni circoli ecclesiastici si erano opposti con estrema chiarezza al nazionalsocialismo. Padre Friedrich Muckerman SJ (18831946)־, nel 1931, richiamò l'attenzione sull'«equi־ voco troppo largamente diffuso» di considerare il partito di Hider esclusivamente un movimento politico e non un movimento pseudo־religioso, con una sua precisa Weltanschauung,, e definì la «pròfezia del Terzo Reich» e l’annunciata liberazione del mondo, attraverso la razza e il sangue del germanesimo, «l’eresia del XX secolo». Il tenebroso retroterra ideologico che era alla radice del nazismo apparve chiaro, più ancora che dal libro Mein Kampf di Hider, dall'opera di Alfred Rosenberg: Mythus des 20. Jahrhunderts [Mito del xx secolo]. Il volume vide la luce nel 1930 a Monaco, ma cominciò a diffondersi solo nel 1934.1 vescovi levarono le loro voci per ammonire i fedeli e proibire l’adesione dei cattolici al NSDAP (la pròvincia ecclesiastica di Colonia, nel 1931; Magonza ecc.). La lotta fra le due opposte visioni del mondo apparve inevitabile. Hider, tuttavia, dopo la conquista del potere cominciò a seguire una linea politica completamente diversa da quella precedente.
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Nella sua prima dichiarazione di governo, il primo febbraio 1933, proclamò solennemente che il suo 4governo nazionale’ avrebbe considerato come suo «supremo e principale compito ristabilire il popolo tedesco in quell’unità di volontà e di spirito che esso desiderava». Questa unità avrebbe tutelato e difeso i fondamenti su cui poggiava la potenza della nazione, avrebbe posto il cristianesimo alla base di tutta la morale e la famiglia, cellula originaria del corpo popolare e sociale, sarebbe stata collocata sotto la protezione di questa stessa unità. Hider dichiarò guerra solo all’anarchia e al comunismo, e poco dopo fece cessare ogni forma di agitazione anticristiana serpeggiante all’interno delle sue fila, dando così l’impressione che egli e il suo partito, dopo che avevano assunto la responsabilità dello stato tedesco, si ispirassero a una concezione pòlitica improntata realisticamente e avessero ormai abbandonato la zavorra di una Weltanschauung, che fu definita un puro fenomeno di transizione, propria soltanto del «tempo della lotta». Nel 1925, nel programma del partito, all’art. 24 si poteva leggere: «Noi esigiamo la libertà di tutte le confessioni religiose entro lo stato... Il partito, in quanto tale, difende il punto di vista di un cristianesimo positivo, senza legarsi tuttavia direttamente a una particolare confessione religiosa». Fu tralasciato intenzionalmente ogni accenno alla razza germanica e alla lotta contro lo spirito ebraico-materialistico. Nella motivazione della legge sui pieni poteri del 23 marzo 1933 si diceva ancora più chiaramente: «H governo nazionale vede nelle due confessioni cristiane i fattori più importanti per la consensazione del nostro caranere nazionale. Esso rispetterà perciò i trattati conclusi fra le chiese e gli stati germanici. I loro diritti saranno mantenuti intatti... Il governo del Reich, che vede nel cristianesimo i fondamenti irremovibili della morale e dell’etica del popolo, attribuisce egualmente il massimo valore alle relazioni amichevoli con la Santa Sede e cerca di perfezionarle...». Parole come queste non potevano non creare turbamento. Ci si era forse ingannati nel giudicare Hider? Stando alle sue parole e obbligandolo con i trattati, non sarebbe stato forse possibile domarlo concretamente e frenarlo nella sua azione? Hitler trovò perciò a Roma orecchie attente, quando, consigliato da von Papen, si fece innanzi con l’offerta di un concordato con il Reich. Ora non è
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tanto la stipulazione del trattato in sé che deve suscitare disappunto perché la conclusione di concordati era interamente in linea con la politica della Santa Sede, quanto piuttosto Paver dimenticato, per i vantaggi che venivano concessi alla chiesa in campo religiosoculturale, ogni doverosa considerazione politica su un governo dittatoriale come quello di Hider. Questo concordato fu la dolorosa conseguenza del fatto che gli ambienti cattolici non erano mai stati capaci di porsi in un rapporto positivo di fronte alla democrazia, e così, per una concezione erronea dell’immagine del ‘capo’, di chiara matrice ideologica monarchica, essi aprirono le braccia al fantomanco stato unitario apartitico del nazionalsocialismo. L’adesione del partito del Centro alla legge sui pieni poteri (24 marzo 1933) e Pautoscioglimento (costretto) del Centro stesso, avvenuti nel quadro della generale soppressione dei partiti nel giugno-luglio 1933, rivelarono la perplessità e !,insicurezza che regnava fra i gruppi politici cattolici. La chiesa, rinunciando alla partecipazione al dibattito politico, ripose tutte le sue speranze nella stipulazione del concordato con il Reich (22 luglio 1933). Per il momento il concordato sembrò sufficiente garanzia per la conservazione della libertà di movimento nella sfera religioso-culturale, suprema e necessaria aspirazione della chiesa. A molti cattolici, che erano stati delusi dalla politica del Centro, questa soluzione dei tanto difficili problemi esistenti fra chiesa e stato parve addirittura migliore della continua e logorante guerriglia parlamentare, di cui si era fatta triste esperienza durante la repubblica di Weimar. Nessun governo, del resto, si era mai mostrato tanto generoso e disposto a concessioni alla chiesa cattolica come aveva fatto Hitler, anche se non gli si era chiesto nulla di men che giusto. È dunque comprensibile la gratitudine che i vescovi tributarono a Hitler per il concordato. Indubbiamente, nessuno allora sapeva che le trattative sul concordato col Reich erano state per Hitler solo una pura manovra tattica; esse gli servirono per guadagnare tempo e per mettere zizzania tra il partito del Centro e !,episcopato. Egli aveva bisogno di tempo per poter consolidare la sua posizione politica e il governo da lui diretto e per guadagnare alla sua causa anche gli elettori cattolici. Con perseveranza egli prese a martellarli con discorsi sulla
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detestabilità del ‘cattolicesimo politico'; egli avrebbe dato alla chiesa quello di cui essa abbisognava, ma in compenso la chiesa doveva rinunciare a ogni forma di rappresentanza politica. Quale fosse veramente il pensiero di Hitler, lo si è potuto sapere soltanto grazie alle recenti pubblicazioni delle fonti e soprattutto delle note prese durante i suoi discorsi conviviali e dai diari dei suoi seguaci. Da essi appare, senz'ombra di dubbio, che Hider, fin dalla giovinezza, era gonfio di odio per il cattolicesimo e animato unicamente dallo spirito di distruzione. Hermann Rauschning (Gespràche mit Hitler, 1940) riporta alcune affermazioni autendche pronunciate dal giovane Hider, che manifestano chiaramente che il suo odio contro gli ebrei era solo eguagliato dall’avversione profonda per il cristianesimo, che egli aveva intenzione di distruggere, nella ‘soluzione finale', insieme all'ebraismo. Nel suo Reich sarebbe stato autorizzato a esistere solo «il dominatore di razza ariana», che Hider stesso naturalmente avrebbe educato ai suoi alti compiti. La politica del dittatore va vista solo sullo sfondo di questa sua visione del mondo. Nel cristianesimo Hider vedeva la continuazione dell'ebraismo, un’invenzione dell'ebreo Paolo, e la morale cristiana era in netta antitesi con la sua concezione dell'uomo. H dittatore si riprometteva perciò di rigettare senza compromessi il cristianesimo e di annientarlo. Egli si considerava chiamato a distruggere tanto la chiesa cattolica, quanto l’ebraismo e il bolscevismo. Ci è stato anche tramandato, da fonti sicure, quali fossero i suoi veri pensieri sul concordato. Non erano ancora passate due settimane dalTassemblea del parlamento del 23 marzo del 1933, nel corso della quale Hitler aveva dichiarato che il primo dovere del suo governo era la protezione del cristianesimo e della chiesa, e il dittatore, riunito con un gruppo ristretto dei suoi collaboratori nella cancelleria del Reich, fece la seguente dichiarazione: «Il fascismo può fare, se vuole, in nome di Dio la sua pace con la chiesa. La farei anch'io, e perché no? Ciò non m’impedirà tuttavia di sradicare ogni forma di cristianesimo dalla Germania. O si è cristiani o si è tedeschi. Non si può essere l'uno e l'altro!».
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2. llKirchenkampf È su questo sfondo che va collocata la lotta di Hitler contro la chiesa, la quale iniziò immediatamente dopo la stipulazione del concordato con il Reich e si svolse in tre fasi successive. Prima fase (19331934)־, misure repressive mimetizzate: Hitler non vi partecipò direttamente e affidò ai suoi seguaci la prosecuzione della lotta per Pawento della concezione del mondo tedesco, dichiarando di non sapere nulla di essa (Rosenberg, dal gennaio 1934, fu ufficialmente chiamato a dirigere la scuola del NSDAP). In occasione della ‘rivolta di Rohm’ (30 giugno 1934) fece assassinare anche alcuni esponenti cattolici, come Erich Klausener e Edgar Julius Jung, due eminenti laici. Il boicottaggio sistematico degli affari ebraici cominciò fin dall’aprile del 1933. Seconda fase (1934-1939): La lotta aperta contro la chiesa, solo all’inizio mascherata come «deconfessionalizzazione della vita pubblica», limitò tutti i campi dell’attività ecclesiastica. Furono proibite le associazioni ecclesiastiche e le organizzazioni giovanili; fu ostacolato o addirittura vietato localmente l’insegnamento reli־ gioso nelle scuole (1937); vennero sequestrate le sovvenzioni per gli asili infantili cattolici e soppresse altre organizzazioni sociali e caritative; la stampa cattolica fu soffocata, la predicazione vietata e numerosi sacerdoti e laici furono imprigionati. Nel 1936 cominciarono i processi contro le associazioni cattoliche; furono inscenati processi di sacerdoti per delitti contro il buon costume, con un’enorme montatura propagandistica («così sono tutti i preti»), allo scopo di minare la fiducia che il popolo conservava ancora verso il clero e la chiesa. Nel 19381939 ־furono soppresse le ultime scuole confessionali e molti conventi, insieme agli istituti superiori e alle facoltà di teologia (Monaco); queste ultime dovevano essere sostituite da «facoltà per la dottrina della razza». Le ‘leggi di Norimberga’ (settembre 1935) imposero agli ebrei leggi eccezionali, vale a dire li privarono d’ogni diritto; fino all’autunno 1938 circa 170.000 ebrei (un terzo del numero complessivo) emigrarono dalla Germania. Nella ‘notte dei cristalli’ (9 novembre 1938) furono compiuti i primi grandi pogrom organizzati.
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Terza fase (19401945)־: Malgrado la guerra, le vessazioni contro la chiesa continuarono. Nella Polonia conquistata (Warthegau) furono completamente estirpati il cristianesimo e la chiesa (dal 1940). Una sollevazione di monaci nel Reich (1940/41) fu fatta tacere da Hitler stesso, poiché creava troppa inquietudine nella regione di Mùnster (vescovo Clemens August conte von Galen). Per «misure determinate dalla guerra» fu posto un limite alle vocazioni e al numero degli studenti di teologia, e furono decisi reliminazione dei malati di mente (eutanasia) e i brutali provvedimenti contro la chiesa in Alsazia (1943). Il segretario di Hider, Martin Bormann, il più fanatico nemico della chiesa, assunse nel 1941 il comando nella lotta di sterminio, che avrebbe condotto, alla fine della guerra, all'eliminazione della chiesa e del cristianesimo in tutti i territori dominati dal nazismo e avrebbe coronato ‘la vittoria finale'. La ‘soluzione finale' degli ebrei era già iniziata nel 1941. U corpo speciale delle SS ebbe il preciso incarico di sterminare gli ebrei nelle regioni occupate. Sorsero ghetti per gli ebrei (a Varsavia dall'ottobre 1940) e campi di sterminio (dall'autunno del 1941). Dall'Olanda, dal Belgio, dalla Francia, dalla Norvegia, dall'Ungheria e da altri paesi dell'Europa sudorientale milioni di ebrei furono deportati nei lager e, dall'ottobre 1941, anche dalla Germania. Soltanto ad Auschwitz, dalla fine del 1941, ne furono uccisi milioni nelle camere a gas. Altri campi della morte furono Chelmno, Tre־ blinka, Belsec, Sobibor e Maidanek. Il numero degli ebrei assassinati ammonta complessivamente a quasi sei milioni. A questi lager vanno aggiunti, inoltre, gli altri campi di concentramento come Dachau, Sachsenhausen, Bergen-Belsen, Oranienburg, Buchenwald, Theresienstadt, Mauthausen e altri, con i loro massacri, le esecuzioni capitali, le torture, le denutrizioni, le epidemie e le furi־ lazioni. Un dolore tanto spaventoso e moltiplicato per milioni di singole esistenze, al quale va aggiunta anche l'atrocità della guerra diffusa in tutto il mondo, sorpassa ogni umana immaginazione.
3. La resistenza delle chiese La resistenza delle chiese a una criminalità di questo tipo può apparire insufficiente, se consideriamo la vastità e la mostruosità
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dei delitti. Tale almeno è l’accusa mossa oggi contro di esse. In reai־ tà, le diverse chiese furono le uniche forze che continuarono, con perseveranza, la lotta appassionata contro il nazismo e proprio per questo Hitler, come risulta dal rapporto segreto della Gestapo, considerava i cristiani i nemici più pericolosi del Reich. I cattolici furono alleati con i protestanti in questa lotta perché il regime di Hitler colpiva tanto la chiesa cattolica quanto la chiesa evangelica *confessante’ e tutti i cristiani, nel momento del bisogno, si strinsero insieme contro il nemico comune. Il numero delle note di protesta dei vescovi e degli scritti pastorali contro il governo tedesco è ingente. La voce dei vescovi cominciò a levarsi già nell’autunno 1933 e con gli anni divenne sempre più grave e intensa. Non vi fu mai un’azione di ostilità contro la chiesa, cui non si sia risposto con proteste violente. La nomina di Rosenberg a capo della Weltanschauung del partito nazista (gennaio 1934) fu accolta dai vescovi con una generale ondata di biasimo e con chiare proteste. Il cardinale Karl Joseph Schulte (18711941), di Colonia, si recò personalmente da Hider, all’inizio del mese di febbraio, definì lo scritto di Rosenberg un libello anticristiano e chiese che fosse ritirato dalla circolazione. Hider, apparentemente, finse di non condividere le tesi di Rosenberg, ma naturaimente non prese nessun provvedimento contro di lui. Schulte, dopo il suo ritorno, dichiarò, visibilmente scosso: «Hitler è una sfinge, un uomo sinistro. Dovremo certamente assistere ancora a cose terribili!». Era appena trascorso un anno dalla conclusione del concordato e i vescovi, in uno scritto pastorale, già rimproveravano il governo tedesco di aver violato i patti. Da allora in poi essi si riferirono sempre al concordato, per fondare i loro reclami. Il concordato si rivelò un utile sostegno nella lotta della chiesa contro Hider. Esso dava, infatti, al papa il diritto di intervenire in questioni interne della chiesa tedesca. In effetti, i vescovi si accordarono ben presto nel promuovere abili azioni comuni e le più importanti e gravi proteste furono concertate in unione con il Vaticano, attraverso lo scambio di note diplomatiche che denunciavano la violazione del concordato. Il linguaggio di queste note vaticane è duro, come risulta dalle recenti pubblicazioni. In una nota del 14 maggio 1934 veniva già avanzato un reclamo ufficiale sulle gravi
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violazioni del concordato. Il 26 luglio 1935 VOsservatore Romano parlò di un aperto Kulturkampf in Germania. Il conflitto raggiunse il suo punto massimo con la durissima enciclica M it brennender Sorge (14 marzo 1937). Le linee generali furono tracciate, in una stesura iniziale, dal cardinale Michael Faulhaber (18691952)־, durante una sua visita a Roma, per urgente richiesta del papa. Tuttavia, questo primo abbozzo apparve al cardinale Pacelli, allora segretario di stato, troppo mite e, perciò, egli stesso ne rielaborò i passi più importanti introducendovi proteste concrete, formulate in modo estremamente acuto, e così, a nome della curia, essa si diffuse in tutto il mondo. Lenciclica conteneva un'unica grande accusa contro il regime di Hitler. Poco prima dell'enciclica la Santa Sede aveva già pensato di denunciare il concordato per le continue violazioni compiute dal governo tedesco. I vescovi tedeschi espressero parere contrario. I nazisti, da parte loro, reagirono all'enciclica in un modo estremamente violento; anch'essi ritennero di dover annullare il concordato. Ma Hider si dichiarò contrario e così esso continuò a sussistere. In un discorso conviviale Hider, il 4 luglio 1942, ebbe a dichiarare, seppur con rincrescimento, che il concordato costituiva «un nodo centrale» della sua politica ecclesiastica nel Reich; del resto, era solo «in considerazione della guerra» che egli continuava ad attenervisi, ma «una volta terminato il conflitto, l'avrebbe fatta finita anche con il concordato». Per il Vaticano, invece, era necessario conservare il concordato perché grazie a esso la Santa Sede aveva il diritto e la possibilità di intervenire direttamente nel Kirchenkampf tedesco e di aiutare la chiesa cattolica tedesca, la quale non ‘tacque' mai, come può essere dimostrato dall'esempio delle coraggiose prediche del vescovo von Galen di Mùnster e dall'azione di molti altri vescovi. Le prediche di von Galen del 13 e del 20 luglio e del 3 agosto 1941 non solo si diffusero in ogni parte della Germania, ma in tutto il mondo. I nazisti non osarono assumere iniziative contro di lui per tutta la durata della guerra, temendo la reazione popolare.
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§ 59. H pontificato di Giovanni XXIII Il breve pontificato di Giovanni XXIII (1958-1963) segnò una svolta decisiva. Il papa, con noncuranza carismatica, ruppe vecchie tradizioni, offrì alla chiesa una nuova immagine del papato e aprì porte e finestre ai fratelli separati d’Occidente e d’Oriente. Angelo Giuseppe Roncalli era nato da una povera famiglia di contadini, allietata da numerosi figli, il 25 novembre 1881, a Sotto il Monte (Bergamo). Ordinato sacerdote a Roma, nel 1904, Tanno successivo divenne segretario del vescovo e professore nel seminario di Bergamo. Durante la prima guerra mondiale fu soldato e cappellano d’ospedale. Servì poi (1921-1925) POpera Pontificia per la Propagazione della fede, a Roma, e come delegato apostolico in Oriente (1925-1934 in Bulgaria, 1934-1944 in Turchia e in Grecia) acquisì una vasta esperienza diplomatica e imparò a conoscere e ad amare i fratelli della chiesa orientale. Nel 1944 fu nominato nunzio a Parigi, ove si adoperò particolarmente per i prigionieri di guerra tedeschi, fondò il seminario dei prigionieri di guerra a Chartres e promosse la missione operaia francese. Divenuto cardinaie e patriarca di Venezia (1953-1958), si dedicò soprattutto a una intensa attività pastorale. Era dunque prevedibile che, anche da papa, egli avrebbe preferito essere il vescovo e ‘il parroco del mondo’ piuttosto che il capo supremo della chiesa. In tutto e per tutto egli fu l’esatto opposto del rigoroso e aristocratico autocrate
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Giovanni XXIII volle essere completamente vescovo di Roma e, come tale, pastore della chiesa universale. Spezzando le rigide consuetudini del protocollo vaticano, scese in mezzo al popolo romano, visitò orfanatrofi e ospedali, trascorse ore di colloquio con i detenuti del carcere di Regina Coeli e celebrò la liturgia nelle parrocchie suburbane. Ma soprattutto, nel gennaio del 1960, Giovanni XXin tenne un sinodo diocesano romano, per adeguare la cura d’anime della città alle mutate esigenze della vita moderna. Il disegno che si propose fu il seguente: il ministero di Pietro, l’episcopato universale, doveva svilupparsi dal ministero episcopale di Roma; per questo papa Giovanni aveva indetto anzitutto questo sinodo diocesano romano, cui avrebbe fatto seguito un concilio ccu-
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menico e infine, come frutto di entrambi, sarebbe venuto ? ‘aggiornamento’ dell'intera chiesa, che avrebbe risposto alle urgenti necessità del nostro tempo e avrebbe trovato il suo punto focale nella rielaborazione del diritto canonico. 11 primo passo era già stato félicemente compiuto; il secondo si attuò con la convocazione del ventunesimo concilio ecumenico, il Vaticano li, riunitosi sotto la guida del pontefice P ii ottobre 1962 in S. Pietro; il terzo, invece, non fu possibile, per la brevità del pontificato giovanneo, sebbene il papa, nell’aprile 1963, avesse già istituito una commissione per la revisione del Codex Juris Canonici. Giovanni XXIII adottò ovunque le misure necessarie per Paggiornamento, in armonia con le esigenze del tempo, misure che non si limitarono a nuovi metodi di azione, ma si estesero anche alle strutture ecclesiastiche. Il ministero di Pietro, il primato, trovò nuovamente il suo saldo ancoraggio nel collegio episcopale. Il mutamento era veramente straordinario. Sotto Pio XII la concentrazione del governo della chiesa aveva trovato nella curia romana il suo vertice massimo di perfezione. Giovanni ritornò invece al principio della collegialità e avviò il processo di decentralizzazione. I vescovi furono chiamati a impegnarsi con i problemi dell’intera chiesa e il collegio cardinalizio fu assai ingrandito, grazie alla immissione di molti nuovi vescovi. Il papa dispose inoltre che le congregazioni romane, in futuro, convocassero alle sessioni plenarie che si tenevano a Roma tutti gli arcivescovi e vescovi cardinali che si trovassero a Roma. In tal modo, l’opera di queste altissime congregazioni sarebbe stata congiunta più strettamente all’episcopato universale e preservata da ogni forma di introversione assolutistica. Lo scopo che il papa perseguiva fu l’aggiornamento dei metodi pastorali nelle diocesi e negli ordini religiosi. Con attenzione tutta particolare venne finalmente preso in esame, con la massima longanimità e urgenza, il problema dell’adattamento nelle missioni e furono istituite gerarchie indigene e aboliti definitivamente quei metodi missionari che si ispiravano unicamente ai princìpi delT'europeismo’. La chiesa doveva andare incontro alle culture dei popoli, senza sradicarle o cercare di assorbirle, e doveva muovere anche incontro ai fratelli separati della chiesa orientale e delle chiese riformate, e non ritirarsi nella sua torre d’avorio, limitandosi ad at
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tendere che gli altri si muovessero. Giovanni era ben cosciente che il problema dell'unità della cristianità divisa non poteva essere risolto con il puro invito ai fratelli separati a far ritorno, pentiti, alla casa del Padre. Egli parlò perciò di una ricerca comune dell'unità e affidò al concilio ecumenico il compito di spianare la strada alla riconciliazione delle chiese cristiane. Ogni comunità, inclusa la chiesa cattolica, doveva cercare di comprendere quali fossero gli ostacoli che la dividevano dai fratelli e quali le barriere che essa poneva alle altre. Papa Giovanni non ebbe vergogna nel confessare ad alta voce il mea culpa e di battersi per primo il petto. Dichiarazioni di tale portata non erano state più udite dalla bocca di un pontefice, dal tempo in cui Adriano VI aveva confessato pubblicamente, alla dieta di Norimberga, nel 1523, le colpe della chiesa ed ebbero una forte ripercussione anche nella cristianità non cattolica. L’eco, all'interno del movimento ecumenico, fu vasta. Il papa aprì le porte anche a quest’ultimo. Dall'alto del suo pontificato Giovanni XXIII dichiarò, con estrema chiarezza ed energia, che la chiesa aveva il dovere di spianare ai cristiani separati la strada all'unità, affinché essa stessa potesse ritornare alla purezza della sua origine ed esortò i cattolici a una maggiore considerazione e a una migliore conoscenza dei fratelli separati. A questo scopo, per meglio promuovere l'unità dei cristiani, egli istituì un segretariato, che affidò al cardinaie Agostino Bea. Tutte le sue parole erano meditate e pronunciate con tale schiettezza e semplicità che colpirono i cuori di tutti. Papa Giovanni poté persino permettersi di parlare ai governi del blocco orientale, oltre la cortina di ferro. Anche in questo campo egli cercò metodi di avvicinamento più elastici, differenziandosi dal rigido atteggiamento assunto dai suoi predecessori verso i comunisti, pur mantenendo ovviamente il loro stesso atteggiamento nei confronti del marxismo ateo in quanto tale. La visita in Vaticano di Agiubey, genero del segretario del partito comunista russo Nikita Kruscev, nella primavera del 1963, e l'invio del cardinale Franz Kònig (1905-2004) a Budapest, il ripristino dei rapporti con i patriarchi e i vescovi delle chiese autocefale ortodosse dell'Oriente, il telegramma di condoglianze di Kruscev per la morte del papa, furono tutti chiari segnali di un mutamento dei rapporti e di stima, che la
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sua iniziativa aveva determinato. Giovanni XXIII morì il lunedì di Pentecoste, 3 giugno 1963.
§ 60. H concilio Vaticano II L’annuncio della convocazione del concilio ecumenico, dato il 25 gennaio 1959 da Giovanni XXIII, nacque da una sua iniziativa personale e, come egli stesso più volte ha assicurato, da una subitanea ispirazione di Dio. I cauti contemporanei scossero la testa, quando seppero che il papa, nonostante il presentimento della sua prossima mone, intendeva realizzare il suo piano conciliare in due o tre anni. A ciò si aggiunse anche un equivoco. Mentre nell’uso linguistico ecclesiastico tradizionale e cattolico ‘ecumenico’ significa ‘universale’, vale a dire che comprende tutta la chiesa, da più parti si comprese invece che l’annuncio della prossima convocazione di un ‘concilio ecumenico’ si riferisse al ‘movimento ecumenico’ dei tempi moderni, quasi che il papa volesse riunire un grande concilio per il ristabilimento dell’unità ecclesiale di tutti i cristiani: opinione, questa, che generò grande entusiasmo e incredulo stupore. Era quindi necessaria una precisazione da parte della somma autorità. Il concilio non doveva essere pensato come un’assemblea di tutte le comunità cristiane tendente a una riunificazione, così lasciò trapelare il Vaticano, bensì come una pura questione cattolica interna. Il papa, tuttavia, comprese immediatamente il desiderio generale di unità nella fede e, per contenere eccessive speranze, assicurò che l’annunciato concilio non poteva né intendeva mirare direttamente al conseguimento della riunificazone, poiché il tempo per questa non era ancora maturo, ma proprio a questo fine esso si proponeva di esserne la preparazione, anzitutto nell’ambito cattolico, liberando la vita della chiesa da antichi pregiudizi, rimuovendo gli ostacoli che esistevano e impedivano la riunificazione e immettendo in essa un nuovo spirito. Giovanni XXIII impresse così al concilio una chiara tendenza alla riflessione all’interno e all’apertura all’esterno, anzitutto verso i fratelli in Gesù Cristo non cattolici, e gettò le basi per una straordinaria spinta
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in avanti del pensiero ecumenico alTinterno e fuori della chiesa cattolica. L’opera audace di Giovanni XXIII trovò espressione in una parola guida: ‘aggiornamento’, che non significava solo adeguamento della vita esteriore alla nostra epoca, ma presupponeva un totale ripensamento dell’esistenza cristiana. Si doveva, cioè, distogliere lo sguardo dalle categorie del passato e tenere conto invece delle esigenze del presente e del nostro ambiente completamente mutato. L’‘aggiomamento’, se compreso in modo giusto, doveva condurre a una rivoluzione della vita ecclesiale, analoga a quella che si era vista nella storia forse soltanto all’epoca della ‘svolta costantiniana’ o della Riforma. Superamento dell’epoca costantiniana con la sua stretta connessione di religione e politica, di potere e chiesa; rifiuto del ristretto spirito controriformista, del confessionalismo nella chiesa e passaggio da un’epoca in cui la teologia e le forme di vita si erano modellate sul concilio tridentino a una nuova vita della chiesa in questo mondo, più adeguata alla mentalità e alle conoscenze moderne: tutto questo era contenuto nel concetto di ‘aggiornamento’. Era veramente un programma immenso! Ma sarebbe stato in grado il concilio, in un periodo preparatorio tanto breve, di assolvere questo compito? Gli scettici guardavano, non senza preoccupazione, al lavoro compiuto dalle dieci commissioni preparatorie. Si sapeva che in esse predominava, malgrado la partecipazione di teologi stranieri, l’influenza di una rigida teologia romana: quella rappresentata dalle università pontifìcie e dai magistrati curiali. In realtà, i sessantanove progetti elaborati da queste commissioni e che furono presentati all’inizio del concilio assomigliavano molto più a un compendio delle concezioni teologico-ecclesiastiche retrograde, che a veri schemi orientativi per il presente e il futuro. Ci si domandava, perciò, se la prossima conclusione del concilio avrebbe avuto come risultato la cristallizzazione di condizioni antiquate o se, invece, avrebbe aperto la strada a un nuovo sviluppo. Era dunque prevedibile che si sarebbe giunti a drammatici conflitti tra conservatori e progressisti. Ma nulla lasciava supporre quali fossero i rapporti di maggioranza né quale importanza avrebbero avuto, alla fine, le opinioni della curia e dello stesso papa.
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La ferma fiducia degli ottimisti si basava soprattutto sulla persona del papa. Come nessun altro dei suoi predecessori, papa Giovanni XXIII aveva fatto capire, fin dall’inizio, che egli voleva romperla con il tradizionale principio, vigente dal Vaticano I, delTautorità assoluta di un concetto di primato inteso in senso rigidamente giuridico. Egli intendeva mostrare anche in concilio che Paffermazione del principio di collegialità nella chiesa era per lui una cosa seria. Senza voler affatto rinunciare alla posizione primaziale del vescovo romano in tutta la chiesa, fondata secondo la dottrina ecclesiastica sulla volontà di Dio, egli non soltanto sottolineò sempre la corresponsabilità dei vescovi nel governo di tutta la chiesa, ma si considerò vescovo di Roma, in mezzo a loro. «Noi vescovi», così egli amava dire, quando egli si rivolgeva loro. Tuttavia, ci si chiedeva preoccupati se egli sarebbe riuscito a farsi valere, in concilio, di fronte a un compatto e concorde apparato di autorità curiali. E, soprattutto, come pensava di porre la sua posizione primaziale in concilio in giusto rapporto con la corresponsabilità collegiale delPintero episcopato nella suprema guida della chiesa? Erano domande, queste, che si ponevano non solo i cattolici, ma anche i non-cattolici. Per molti cristiani non cattolici il concilio sarebbe stato un banco di prova dal quale si sarebbe potuta riconoscere !,autenticità dell’intenzione di riunifìcazione cattolica e la volontà di apertura di fronte alle concezioni delle chiese ortodosse e riformate. La decisione fu presa fin dall’inizio del concilio. Dopo l’imponentc sessione d’apertura dell’11 ottobre 1962, che venne diffusa dalla radio e dalla televisione nel mondo intero, nella quale si riuni־ rono insieme con il papa, nell’aula conciliare della basilica di S. Pietro appositamente allestita, 2.540 Padri conciliari aventi diritto di voto, iniziò la prima sessione dei lavori e, nella ‘congregazione generale’ del 13 ottobre, si discusse l’elezione delle nuove commissioni conciliari. La curia propose di confermare nelle loro funzioni i membri che già fino ad allora avevano operato nelle commissioni preparatorie. Ma ciò avrebbe significato che, insieme ai vecchi membri, sarebbe stato introdotto nelle nuove commissioni conciliari anche il vecchio spirito. Con stupore generale il concilio rifiutò questa richiesta ed elesse i nuovi membri delle commissioni, che
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furono composte da teologi di tutto il mondo. Con questo atto fu chiaro non solo che i Padri conciliari volevano riservarsi la libera decisione, ma si manifestò altresì la direzione verso la quale ci si sarebbe mossi. D papa non si oppose, ma ordinò, per tranquillizzare la curia spaventata, che a ciascuna delle nove commissioni fosse aggiunto un altro membro eletto fra i funzionari di curia italiani. I lavori potevano dunque cominciare. Già di per sé il convegno, di vastità mondiale, che vide riuniti un numero tanto grande di vescovi, fu un vero evento ecclesiale e il mutuo scambio spirituale favorì, in breve tempo, in misura sempre crescente, un progresso e un mutamento che, stando al giudizio concorde di numerosi partecipanti e osservatori del concilio, aveva del meraviglioso. Molti vescovi di diocesi remote vennero allora per la prima volta a contatto con la nuova teologia e non «trovarono indegno imparare dal concilio a penetrare più profondamente i problemi teologici e pastorali» (Hubert Jedin). Anzi, essi ebbero anche il coraggio di decidere autonomamente nelle votazioni e di farsi garanti delle loro opinioni recentemente acquisite: «H concilio Vaticano II divenne così la porta per un nuovo capitolo della storia della chiesa». I lavori conciliari si svolsero in quattro sessioni, che vennero divise cronologicamente. La prima sessione durò dall’11 ottobre all’8 dicembre 1962. Fin dall’inizio si accesero i contrasti intorno allo schema ‘sulla liturgia’. I desideri dei progressisti, ai quali appartenevano soprattutto i vescovi di quei paesi nei quali il ‘movimento liturgico’ si era da molto tempo radicato, come la Germania e i paesi di lingua tedesca, la Francia e l’Italia del nord, miravano a introdurre la lingua nazionale al posto del latino nella liturgia della parola di Dio nella messa, a una più attiva partecipazione del popolo al rito, alla concessione della comunione ai laici sotto le due specie, almeno in certe occasioni particolari (per esempio, le nozze ecc.) e ad altre cose ancora. I vescovi dei paesi missionari e dell’America latina si schierarono, imprevedibilmente, al loro fianco. Essi, infatti, riconobbero l’importanza per la loro opera missionaria di una liturgia più vicina al popolo. L’orientamento più forte superò così ogni ostacolo che si
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frapponeva alla riforma liturgica. Lo schema fu rinviato alla commissione per essere rielaborato e si aprì così la strada agli sviluppi decisivi di una riforma della liturgia. Più importante e di maggiore peso fu la discussione successiva sullo schema ‘Le fonti della rivelazione’. Qui non solo si scontrarono le opinioni teologiche, ma si discusse sui principi stessi. I concetti di ‘scrittura’ e di ‘tradizione’ non erano stati ancora approfonditi in modo nuovo nella discussione con la teologia ecumenica e avevano grande importanza nel dialogo con i protestanti. Mentre il gruppo conservatore curiale credeva suo dovere porre riparo all’infiltrazione della moderna critica biblica protestante, i progressisti lottarono invece per l’apertura e il riconoscimento degli indiscutibili risultati dell’esegesi critica. Tra loro vi erano i cardinali Joseph Frings (18871978)־, Julius Dòpfner (19131976)־, Franz Kònig e Jan Alfrink (19001987)־, che avevano elaborato un progetto proprio. Visto che nessuno dei due progetti ottenne, in adunanza plenaria, la maggioranza richiesta dei due terzi, il papa tolse il tema dall’ordine del giorno e lo rinviò alla commissione. Anche gli schemi successivi sui moderni mass media (radio, televisione, stampa, film) e sulle chiese orientali non vennero approvati e il primo periodo conciliare terminò senza risultati tangibili. Proprio mentre fervevano i lavori preparatori della prossima sessione, il 3 giugno 1963 morì il papa del concilio, Giovanni XXIII, compianto profondamente dal mondo intero. Gli succe־ dette, il 21 giugno 1963, l’arcivescovo di Milano e cardinale Giovanni Battista Montini, con il nome di Paolo VI. Egli annunciò immediatamente la sua intenzione di continuare il concilio. Così il concilio si riunì, quasi conformemente al programma, il 29 settembre 1963 perla sua seconda sessione, i cui lavori proseguirono fino al 4 dicembre. Paolo VI si preoccupò, im modo particolare, di chiarire il concetto di chiesa. Venne così anteposto agli altri lo schema ‘sulla chiesa'. Negli accesi dibattiti la nuova concezione che la chiesa aveva acquisita si urtò con le concezioni tradizionali giuridiche post-tridentine. Furono sollevati problemi di struttura, tra i quali fu dibattuto in modo particolare il rapporto fra primato e collegialità e la partecipazione del collegio episcopale con il papa alla guida suprema della chiesa. Ma gli animi si accesero anche per
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questioni concernenti la comprensione della chiesa e per il coordinamento dello schema su Maria con lo schema sulla chiesa. Alla fi־ ne di ottobre si giunse persino a una seria crisi. I temi trattati suecessivamente (sull'ufficio pastorale dei vescovi e sul governo delle diocesi, e sull'ecumenismo), in cui erano contenuti i discussi capitoli sugli ebrei e sulla libertà religiosa non servirono a rischiarare l'atmosfera. Ci si abbandonò a un duro duello di parole. Conservatori e progressisti combatterono perché si giungesse a una decisione. La linea progressista riportò una grande vittoria quando lo schema liturgico rielaborato venne infine approvato come costituzione Sacrosanctum Concilium da una maggioranza schiacciante (2.158 voti, contrari 19) e venne confermato e pubblicato dal papa nella seduta di chiusura del 4 dicembre. Anche il decreto sui mezzi di comunicazione sociale, Inter mirifica, venne approvato; anche se a esso doveva aggiungersi, a integrazione, una particolare istruzione. Quando il papa, durante la chiusura della sessione, annunciò la sua intenzione di recarsi a Gerusalemme e, sulla tomba del Signore, di incontrarsi con il patriarca ecumenico Atenagora le sue parole apparvero come un'autenticazione e una conferma dei principi trattati nel dibattito sull’ecumenismo. Il viaggio, che ebbe poi effettivamente luogo dal 4 al 6 gennaio 1964, apparve quasi come una componente essenziale del concilio stesso. La terza sessione si aprì il 14 settembre 1964 e durò fino al 21 novembre. Della prima sessione mancava ancora lo schema sulla rivelazione; della seconda sessione dovevano essere condotte in porto le discussioni sulla chiesa, sull'ufficio dei vescovi e sull’ecumenismo, e vi si aggiunse inoltre il nuovo argomento dell'apostolato dei laici e della chiesa nel mondo. Il papa stesso si dichiarò, nel suo discorso d'apertura, a favore del principio della collegialità nella chiesa, che il primato cioè fosse efficacemente integrato attraverso l'episcopato. Ma restavano ancora molti problemi singoli da chiarire, anche su altri temi. Il problema del conferimento del diaconato agli uomini sposati e il problema dell’obbligo del celibato segnarono il punto culminante delle discussioni e ci si domandò anche se la dichiarazione sulla libertà religiosa non avrebbe relativizzato la verità e favorito !’indifferentismo. Vennero discusse anche le norme sul ministero e la vita sacerdotale, sulla for
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mazione sacerdotale, sul rinnovamento della vita religiosa, sull’educazione cristiana, sull’apostolato dei laici e sulle missioni. Vennero esaminate proposte per la riforma del diritto matrimoniale, innanzitutto circa lo scottante e combattuto diritto al matrimonio misto e fu anche discusso lo schema «La chiesa nel mondo contemporaneo». Nel novembre, durante la discussione sul capitolo 3 dello schema sulla chiesa, che ha come argomento la posizione del collegio episcopale, la situazione si inasprì ancora una volta e si giunse quasi a ima crisi. Ma quando, il 20 novembre, fu approvato lo schema «sulle chiese orientali» (Orientalium Ecclesiarum), il giorno successivo, anche la costituzione sulla chiesa {Lumen gentium), il decreto sull’ecumenismo (Unitatis redintegratió) e la costituzione sulla rivelazione (Dei Verbum) superarono l’ostacolo della votazione finale. La quarta e ultima sessione, dal 14 settembre all’8 dicembre 1965, doveva ancora svolgere un’immensa quantità di lavoro. Si dovevano votare i progetti, già trattati precedentemente. Fin dall’inizio il papa annunciò che avrebbe nominato un consiglio episcopale che si sarebbe riunito la prima volta nel 1967 e che avrebbe partecipato, nello spirito del principio di collegialità, in quanto rappresentanza dell’intero episcopato alla direzione generale della chiesa. La discussione ‘sulla libertà religiosa’ andò per le lunghe; venne messo bene in chiaro che questo decreto non aboliva affatto i concetti di assoluta verità e di errore, ma che invece mirava unicamente ad assicurare la libertà del singolo dalla costrizione religiosa in campo civile. Con la dichiarazione solenne del diritto alla libertà di coscienza nel campo religioso si precisò, in modo vigoroso, che nessuna potenza statale poteva impedire, attraverso una pressione esterna, la proclamazione e l’accettazione del vangelo. Però, al tempo stesso, anche la chiesa stessa si liberò definitivamente della concezione imperante fin dai tempi della ‘svolta costantiniana’. Con l’accettazione di questo decreto la chiesa dichiarava solennemente di rifiutare, per principio, ogni tipo di costrizione esteriore nel campo della coscienza. Nel corso dell’ottobre 1965 il concilio promulgò, seguendo un rapido ordine di successione, un gran numero di testi. H 28 dello stesso mese furono approvati, in adunanza plenaria, i decreti sul
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l’ufficio pastorale dei vescovi (Christus Dominus), sul rinnovameli־ to della vita religiosa (.Perfectae caritatis)9sull’educazione cristiana (Gravissimum educationis) e sul rapporto della chiesa con le reli־ gioni non cristiane (Nostra aetate), come pure la dichiarazione sul־ la vita e il ministero dei sacerdoti (Optatam totius), e tutti questi testi vennero approvati dal papa. Il 18 novembre seguì il decreto sull’apostolato dei laici (Apostolicam actuositatem). Il problema del celibato, per esplicito desiderio del papa, venne escluso dal dibat־ tito poiché si pensò che in quel momento l’argomento non fosse abbastanza maturo per essere discusso. Lo schema sulla chiesa nel mondo contemporaneo (Gaudium et spes) portò ancora difficoltà al concilio. Dopo lunghe e complicate trattative esso fu approvato solennemente soltanto nell’ultima sessione pubblica del 7 dicem־ bre 1965, insieme ai decreti sul ministero e la vita sacerdotale (Pre־ sbyterorum ordinis), sulle missioni {Ad gentes) e alla dichiarazione sulla libertà religiosa (Dignitatis humanae). In quel giorno il concilio assistette a un atto storico, che suscitò nel mondo cristiano grande impressione. Papa Paolo VI annunciò, con profonda serietà e con pura volontà, di volere riparare a un an־ fico torto, abolendo la scomunica con la quale Roma e Bisanzio, nel 1054, si erano reciprocamente scomunicate e avevano originato il grande scisma. Questa ingiustizia doveva essere cancellata per sempre dalla memoria della chiesa. Con un’impressionante festa conclusiva nella piazza di S. Pietro il concilio concluse i suoi lavori l’8 dicembre 1965. Sedici decreti, ma non un solo dogma! Questo è il risultato del Vaticano II, che non volle essere un concilio dottrinale, ma un concilio di riforma, con un orientamento spiccatamente pastorale. I dogmi possono essere registrati ed essere studiati nei trattati dogmatici. I decreti pastorali del concilio debbono invece essere seguiti e applicati nella vita. Il concilio si è limitato solo a formulare e a presentare in essi i compiti che oggi stanno di fronte a noi, ma non li ha risolti.
Storia della chiesa contemporanea (dal 1965 a oggi) R oland Fròhlich
§ 6 1 .1 pontificati di Paolo VI e di Giovanni Paolo I 1. Prime riforme Paolo VI è il papa che ha raccolto Peredità conciliare del suo predecessore e ha portato a termine il concilio; tutto il suo pontificato si svolse, in seguito, nel segno di questo evento epocale della storia della chiesa. Giovanni Battista Montini era nato il 26 settembre 1897 a Concesio, presso Brescia. Nel 1920 fu ordinato prete, si preparò poi a Roma (all’Accademia dei Nobili) per prestare il suo servizio nella curia pontificia e nel 1924 entrò alla Segreteria di stato. Qui egli si fece strada lavorando fino a diventare, in seguito, sottosegretario di stato (1937) e, a partire dal 1944, si occupò principalmente degli affari interni alla chiesa sotto Pio XII, il quale tenne nelle sue mani fino alla morte la direzione della Segreteria di stato. Nel 1954 fu nominato arcivescovo di Milano, nel 1958 fu creato cardinale. Gli anni in cui fu arcivescovo a Milano lo hanno portato a stretto contatto e gli hanno permesso di confrontarsi con i problemi della pastorale, e proprio a tutti i livelli sociali. Egli era aperto a tutte le problematiche moderne, amava il dialogo con i lontani’ ed era ferinamente deciso a portare avanti la linea del suo predecessore. Dopo la sessione conclusiva del concilio Paolo VI si mise subito all’opera per tradurre in pratica le riforme decise dal concilio, compreso un nuovo ordinamento della curia. U ‘Sant’Uffizio’, che
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vigilava sulle deviazioni dalla dottrina della chiesa, venne ridenominato ‘Congregazione per la dottrina della fede' (dicembre 1965). Tre nuovi ‘Segretariati’, istituiti negli ultimi due anni, dovevano occuparsi dell’unità dei cristiani, dei non-cristiani e dei noncredenti. Una commissione doveva rielaborare il diritto canonico, fermo al 1917, per adeguarlo ai dettati conciliari (la nuova edizione del Codex Juris Canonici vedrà la luce nel 1983); un’altra commissione, insediata nel 1972, doveva revisionare il diritto delle chiese orientali unite a Roma. Anche l’istituzione, auspicata dal concilio, di un ‘sinodo (romano) dei vescovi’ non si fece attendere. Si riunì la prima volta il 29 settembre 1967. Il suo compito è di consigliare il papa in tutte le questioni rilevanti che riguardano la chiesa e di rafforzarne il legame con l’episcopato mondiale. Esso si riunisce su decisione del papa - e a questo proposito si è stabilito un turno da due a tre anni. I circa 250 membri vengono, in sostanza, inviati dai delegati delle conferenze episcopali nazionali, il papa ne può convocare degli altri. Le sedute durano normalmente dalle tre alle quattro settimane. Di sua iniziativa, nel 1970, Paolo VI ha introdotto delle modifiche nel diritto relativo all’elezione papale: da allora hanno diritto attivo di voto soltanto i cardinali che non hanno ancora compiuto gli ottantanni. Tra i primi testi che il concilio aveva approvato c’era la costituzione sulla sacra liturgia, Sacrosanctum Concilium. Paolo VI aprì la porta a un’ampia utilizzazione della lingua del popolo nella liturgia e nella celebrazione dei sacramenti. Sorprendentemente la gioia per questa possibilità non fu unanime, in quanto la lingua latina era considerata il segno visibile dell’unità universale della chiesa cattolica. Molti ecclesiastici ignorarono le nuove regole, in diversi paesi nacque un 'movimento-una-voce' che rivendicò il diritto di conservare il latino. Avversario eminente di queste innovazioni fu il vescovo francese Marcel Lefebvre.
2. Segnali di crisi L’ultimo accenno è un’indicazione di quanto si diversificarono a poco a poco valutazione e accettazione del concilio. L’aggiorna
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mento che Giovanni XXHI aveva inteso - ossia rammodemamento della chiesa nella predicazione e nella prassi, pur nella fedeltà al patrimonio tradizionale della fede ־־aveva, da una parte, prodotto tra i vescovi e i teologi un alto consenso e settori sempre più numerosi vennero ora interpellati su quanto le asserzioni tradizionali corrispondevano all'orizzonte di comprensione dell'uomo moderno. D'altra parte, nascevano paure, la paura di perdere o di appiattire i fondamenti della fede, la paura di abbandonare forme familiari c con esse anche un’identità religiosa. Già prima della fine del concilio Paolo VI si vide costretto a mettere in guardia, a proposito dell'eucaristia, dal «lasciar cadere nella dimenticanza una dottrina definita dalla chiesa o di spiegarla in un modo che il vero significato delle parole o i concetti portanti ne uscissero indeboliti» (Eneielica Mysterium fidei, 1965). Si trattava qui soprattutto della ‘transustanziazione5, della vera presenza di Cristo in carne e sangue sotto le specie del pane e del vino, della messa come sacrificio. Ai eredenti si ricorda, inoltre (richiamandosi a Pio X), che «[è] desiderio di Gesù Cristo e della chiesa che tutti i credenti accedano quotidianamente alla santa cena...». A poco a poco crebbe nella chiesa la sensazione di una crisi. In realtà molte ricerche dimostrano che già negli anni Cinquanta si andava delineando una svolta, nei confronti della quale il concilio intendeva essere una risposta. Yves Congar (1904-1995), guardando a questo periodo, parla di un mutamento socio-culturale di portata mondiale: perdita di fiducia nella metafisica, sviluppo tumultuoso delle scienze naturali, crescente secolarizzazione, rivolte giovanili, richieste sempre più pressanti delle donne per una equiparazione. Altri, però, pensavano che fosse il concilio stesso, con la sua nuova apertura al mondo, la causa principale dell'insicurezza tra i cattolici, dell’abbandono della pratica religiosa e della mancanza di vocazioni al sacerdozio. Che la situazione generale fosse mutata divenne particolarmente evidente quando il papa affrontò l’opinione pubblica mondiale con la sua enciclica Rumarne vitae. Durante il concilio, nel marzo 1963, Giovanni XXHI aveva costituito una commissione che doveva «raccogliere pareri sulle nuove questioni riguardanti la vita coniugale, e in particolare una retta regolazione della natalità» (n. 5).
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Essa era formata da teologi, esperti in scienze umane e anche da coppie di sposi. Il concilio, che aveva dato inizio alla discussione su questa tematica il 19 novembre 1964, il giorno successivo per volere del papa affidò la chiarificazione delle questioni ancora aperte (soprattutto il controllo delle nascite) alla commissione: il papa stesso avrebbe dovuto poi prendere una decisione conclusi־ va. I sessanta membri della commissione, sotto la direzione coope־ rativa del cardinale Julius Dòpfner, auspicarono quasi tutti una dichiarazione che, a certe condizioni, considerasse responsabile anche l’uso di contraccettivi artificiali. Soltanto quattro teologi sottoscrissero un voto di minoranza che rifiutava qualsiasi mezzo contraccettivo diretto (artificiale) e per la regolazione delle nascite ammetteva come moralmente lecito esclusivamente la scelta dei giorni non fertili nel ciclo della donna. Paolo VI sorprendentemente aderi al voto della minoranza. Nella Humanae vitae (25 luglio 1968) dichiarò: che è assolutamente da escludere, come via lecita per la regolazione delle nascite, Tinterruzione diretta del processo generativo già iniziato, e soprattutto l’aborto diretto, anche se procurato per ragioni terapeutiche. E parimenti da condannare, come il magistero della chiesa ha più volte dichiarato, la sterilizzazione diretta, sia perpetua che temporanea, tanto dell’uomo che della donna. È altresì esclusa ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione (n. 14).
L’eco fu enorme e toccò ogni coppia che voleva conformare il proprio matrimonio alla dottrina cattolica. I confessori avevano presenti i pesanti conflitti che la vita concreta comportava (per esempio, quando il coniuge rifiutava il proprio consenso), e nelle situazioni che rischiavano di sovraccaricare il singolo se la cavarono facendo ricorso all’importanza della decisione di coscienza. I vescovi non contraddissero il papa, ma cercarono tuttavia delle aperture teologico-morali (per esempio, la scelta del male minore). Per i teologi il contenuto dell’enciclica era solo un lato della questione, l’altro lato - ugualmente importante - era la forma in cui il magistero pontificio esercitava qui la sua funzione.
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Di fronte a questo vento contrario, che naturalmente spirava ancor più forte a partire dall’opinione pubblica a cui il papa aveva rivolto espressamente i suoi princìpi, Paolo VI divenne più cauto, anzi taluni parlano di una «ordinata retromarcia» negli anni 19681972. Nella chiesa si allargò il fossato tra coloro che consideravano il concilio una parola conclusiva e altri che lo consideravano come inizio di una chiesa ringiovanita. Corsero violenti rimproveri, di ‘apostasia’ rispetto ai tratti essenziali della chiesa definiti nel concilio di Trento, oppure - viceversa - di ‘tradimento’ nei confronti del rinnovamento voluto dal concilio. Esponente del primo gruppo fu il vescovo Marcel Lefebvre. Senza la sua successiva separazione dalla chiesa egli sarebbe stato certamente considerato un modello di cattolico: due suoi fratelli erano preti, tre sorelle erano suore. Nato nel 1905 a Tourcoing (nella Francia del Nord), studiò teologia nel centro dell’ortodossia cattolica, alla Università Gregoriana di Roma, conseguendo il dottorato nel 1929; nello stesso anno fu ordinato vescovo a Lille, poi per quindici anni missionario in Gabon (Africa centrale), nel 1948 delegato apostolico per tutti i territori francesi d’Africa, nel 1955 arcivescovo di Dakar (Senegai). Nel 1960 Giovanni XXIII lo chiamò a far parte della commissione centrale per la preparazione del concilio. In quanto vescovo, ma anche quale superiore generale degli spiritani (una congregazione nata dal 1703 per occuparsi della formazione dei preti e di compiti missionari), prese parte al concilio. Già subito dopo il suo inizio egli mise in guardia da aperture ecumeniche, da eccessiva collegialità (il papa considerato primariamente come membro del collegio dei vescovi) come pure da dichiarazioni sulla libertà religiosa. A poco a poco crebbe la sua convinzione che la chiesa stesse per cadere vittima del liberalismo. Credeva anche che ci fosse, così si espresse in una lettera a Paolo VI, un segreto accordo tra alti dignitari ecclesiastici e la massoneria. Come movimento alternativo a questa decadenza della chiesa, nel 1962, cioè ancora durante il concilio, il vescovo Lefebvre fondò, insieme a trecento vescovi soprattutto della Spagna e dell’America Latina, il Coetus internationalis Patrum (Associazione internazionale di vescovi) a difesa della vera dottrina romano-cattolica. Nel 1969 seguì
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a Friburgo (Svizzera) la fondazione della Confraternitas Pius X e nel 1970, a Ecòne (nel Vailese), di un autonomo seminario per preti rigorosamente vincolato alle decisioni del concilio di Trento, indùso il latino come lingua prescritta per la celebrazione della messa. Quando Paolo VI nel 1976 gli proibì di esercitare i suoi poteri spirituali (sospensione a divinis), egli continuò, incurante del divieto, a ordinare sacerdoti e diaconi, e nel 1988, quando ordinò, violando il divieto di Roma, quattro vescovi al fine di assicurare la continuità della sua opera, si separò così esplicitamente dalla chiesa. Morì nel 1991, senza avere intrapreso alcuna riconciliazione. (I primi colloqui del direttore della fraternità, Bernard Fellay, con il neoeletto papa Benedetto XVI - la fraternità contava nel 2005 ben 450 preti e circa 170 seminaristi - evidenziarono, da entrambi le parti, la volontà di un graduale avvicinamento). Il secondo gruppo, che considerava il concilio come punto di partenza di un generale e ampio rinnovamento, era formato soprattutto da teologi. Essi muovevano il rimprovero che né al concilio né negli anni successivi i temi scottanti erano stati veramente affrontati e alludevano alla regolazione delle nascite, all’ammissione dei divorziati risposati alla comunione, alle comunità prive di pastori, al matrimonio dei preti, alla posizione della donna e anche allo stile in cui Roma trattava i ‘devianti’. Anziché permettere una discussione aperta, si era di nuovo rafforzato il comportamento curiale autoritario, come pure si erano di nuovo consolidate le posizioni tradizionali nella morale e nell’esegesi.
3. Segni di apertura Questo disagio lacerante, carico di contraddizioni, presente al concilio e nella sua attuazione, creò molte preoccupazioni a Paolo VI. Le difficoltà delle decisioni, l’oscillare tra i due schieramenti, la sua serietà esistenziale fecero pensare all 'Amleto shakespeariano un’associazione che comparve sulla stampa italiana, si diffuse subito e divenne una nota fissa per descrivere il suo carattere. Ci furono però assolutamente segni incoraggianti di apertura. Il desiderio di una riforma liturgica, presente in ampie cerehie, non era forse sorretto dall’esigenza dei credenti di poter dare migliore espressio
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ne agli atti di natura religiosa? I laici - e tra essi in forma crescente le donne - non premevano forse per collaborare con iniziative pròprie e assumendo responsabilità al compito della chiesa? E non era neppure un caso che ora si moltiplicassero di nuovo i sinodi: iniziarono i Paesi Bassi con un ‘concilio pastorale' (196670). A Wùrzburg, nel 1971, si riunì il ‘Sinodo generale delle diocesi della Repubblica federale di Germania'. Esso si pose il compito di promuovere nel proprio ambito «le decisioni del Vaticano II e di contribuire alla conformazione della vita cristiana secondo la fede della chiesa». I laici erano questa volta abbondantemente rappresentati (140 su 312 membri sinodali). Le decisioni che, dopo essere state approvate dalla conferenza episcopale tedesca, vennero inoltrate a Roma, ottennero tutte il riconoscimento del papa ־־־fu necessario escludere solamente la questione dell'ordinazione a preti di viri probati sposati, su obiezione della conferenza episcopale. Nella DDR, ai cui vescovi non fu concesso di venire a Wùrzburg, ebbe luogo nello stesso periodo un sinodo pastorale. Seguirono altri Lander e altre diocesi (per esempio, Rottenburg-Stuttgart). Un segnale promettente fu anche il fatto che i credenti cominciarono di nuovo a interessarsi a esposizioni generali della dottrina della fede, anziché dare il loro consenso soltanto a singoli dogmi. I vescovi corrisposero a questo interesse con l’edizione di catechismi per cristiani adulti - in Olanda nel 1966 (Aanvulling bij De Nieuwe Katechismus, noto come ‘Catechismo olandese'), in Germania nel 1985 (Katholischer Erwachsenenkatechismus - Catechismo cattolico per gli adulti), in Francia nel 1991 (Catéchisme pour adultes = Catechismo per adulti). Roma si affrettò a predisporre un ‘Catechismo universale', che poi, dopo un lavoro di sette anni, apparve dapprima in Francia come Catechismo della Chiesa Cattolica nel 1992. Come Giovanni Paolo II dichiarava nell'introduzione, esso doveva servire come punto di riferimento ai catechismi regionali, ma non sostituirli. Infatti, già nel Catechismo olandese, che intraprese il suo cammino con VImprimatur del cardinale Jan Alfrinks nel 1966, diverse formulazioni avevano suscitato perplessità presso il Sant'Uffizio. Nel 1967, quando già erano apparse le traduzioni inglese e tedesca e una francese era imminente, Paolo VI incaricò una commissione di cardinali di sottoporre a verifica il catechismo.
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Alle loro critiche non sfuggì quasi nessun tema, le indicazioni di miglioramenti occuparono parecchie pagine rispetto al catechismo originale e dovettero essere aggiunte, nell’edizione successiva, come ampliamento integrativo. Di solito si trattava di chiarificazioni migliorative delle tradizionali affermazioni dottrinali.
4. Impegno per la pace Sebbene la parola ‘aggiornamento’ non appartenesse al vocabolario programmatico di Paolo VI, egli però aprì con atteggiamento accogliente al tempo mutato, esplicitamente o implicitamente, le porte della chiesa. Sotto molti punti di vista egli è stato un papa ‘moderno’. Non soltanto per il fatto che, contro la resistenza dei tradizionalisti, confermò la riforma liturgica del concilio con un nuovo ordinamento della messa (Novus ordo missaey 4 aprile 1969). Oltre alla sollecitudine per i credenti veri e propri, la sua comunita più vasta era il ‘mondo’. Dopo e come conseguenza della seconda guerra mondiale e dell’invenzione della bomba atomica, gli stati erano diventati consapevoli di formare una comunità di destino e di potere garantire la loro sicurezza e la pace mondiale solo come ‘Nazioni Unite’. Era perciò sicuramente opportuno che Paolo VI si esprimesse su questo tema, ma fu un piccolo evento sensazionale che egli, su invito delle Nazioni Unite, il 4 ottobre 1965 annunciasse il suo ‘messaggio’ davanti all’assemblea generale a New York (in occasione del ventesimo anniversario della costituzione dell’ONU). Raramente egli sollevò tanto il velo che nascondeva il suo intimo: «E allora il Nostro messaggio raggiunge il suo vertice; il vertice negativo. Voi attendete da Noi questa parola, che non può svestirsi di gravità e di solennità: non gli uni contro gli altri, non più, non più! A questo scopo principalmente è sorta l’Organizzazione delle Nazioni Unite; contro la guerra e per la pace! Ascoltate le chiare parole d’un grande scomparso, di John Kennedy, che quattro anni or sono proclamava: “L’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità”. Non occorrono molte parole per proclamare questo sommo fine di questa istituzione. Basta ricordare che il sangue di milioni di uomini e innumerevoli e inaudite sof
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ferenze, inutili stragi e formidabili rovine sanciscono il patto che vi unisce, con un giuramento che deve cambiare la storia futura del mondo: non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei popoli e dell ,intera umanità!». Con queste parole egli non si riferiva soltanto a un'aspirazione comune mondiale, ma continuava nella direzione scelta da Giovanni XXIII. Come la bontà di Giovanni sembrò non escludere nessuno stato e nessuna persona e diede al mondo, per così dire, un padre, così lo stesso mondo attendeva ora, in determinate situazioni, una parola del papa. Paolo VI rispose a tale attesa. In realtà tutti i papi, annunciando le verità di fede, le avevano intese valide per tutti gli uomini, ma ora cresceva un rapporto completamente diverso del papa nei confronti del ‘mondo', uno stare con gli altri dentro le situazioni, un sentirsi coinvolto che toglieva importanza a ciò che separava. Non deve perciò sorprendere che Paolo VI abbia usato toni differenti anche nei confronti degli stati comunisti. Non si fermò a lodare, davanti alle Nazioni Unite, il modello della ‘coesistenza’ di stati di ideologie diverse, ma intraprese anche di persona passi concreti per creare un clima di dialogo. Se Giovanni XXIII aveva rotto il ghiaccio, ora Paolo VI lo seguiva con un dialogo con il ministro degli esteri sovietico Andrej Gromyko (27 aprile 1966), al quale fecero seguito altri incontri fino a ricevere il presidente russo Nikolai Podgorny nel 1967. Suscitò grande stupore, tuttavia, il fatto che il Vaticano nel 1975 inviasse - su invito - a Helsinki una delegazione alla ‘Conferenza per la sicurezza e la collaborazione in Europa’. Lì essa si adoperò, sotto la guida del cardinale segretario di stato Agostino Casaroli, per una generale libertà di coscienza e di religione, tema che poi divenne anche (naturalmente non solo su sollecitazione del Vaticano) parte integrante degli atti conclusivi. Diversi vescovi, soprattutto della Polonia, non furono affatto contenti di una tale rivalutazione di iniziative comuniste. A questa comunità mondiale che si andava ricostituendo corrispose anche la decisione di Paolo VI di intemazionalizzare la curia: tra il 1961 e il 1970 gli italiani persero a poco a poco la maggioranza nella direzione degli uffici di curia, tanto che nel 1978 erano solo 39 su 99 non italiani.
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Se Giovanni XXIII, sorprendendo gradevolmente la stampa mondiale, era uscito dal Vaticano per far visita a ospedali e carceri romani, Paolo VI fu il primo papa, dai tempi di Pio VII (1800־ 1823), a intraprendere un viaggio al di fuori delTItalia. Quando si parla dei viaggi del ‘pellegrino Wojtyla' spesso si dimentica che già Paolo VI, con i suoi nove viaggi in tutto, è stato il primo ‘papa mondiale'. Questi lo portarono in Terra Santa, in Turchia (a incon־ trare il patriarca Atenagora a Istanbul), in India (al Congresso eucaristico di Bombay), a New York (all'ONU), in Portogallo (a Fatima), in Colombia (al Congresso eucaristico di Bogotà e all’incontro dei vescovi dell'America Latina a Medellm), in Svizzera (visita al Consiglio ecumenico delle chiese), in Uganda, nelle Filippine, in Australia, in Indonesia, a Hong Kong, nello Sri Lanka. In primo piano, in questi viaggi, stava il riferimento religioso: contatto con i rappresentanti delle chiese cristiane, luoghi santi, paesi cattolici. Questo vale naturalmente anche per i suoi successori - tuttavia Giovanni Paolo II porrà nuovi accenti: tutti gli stati meritano, per così dire, la sua visita, e non soltanto perché ci vivono dei cattolici, ma perché egli offre a tutti i governi la sua amicizia. Anche il movimento ecumenico faceva pensare al cambiamento di un'epoca. Ancora cento anni prima del Vaticano II il Sant’Uffizio, sotto Pio IX, aveva proibito a tutti i cattolici di collaborare in «associazioni finalizzate alla promozione dell'unità dei cristiani» (1864). Pio XI ripetè questi dinieghi, in base alla preoccupazione che la chiesa potesse così indirettamente ammettere che a essa non sia stata affidata tutta !,eredità di Cristo. Dopo, però, il clima era cambiato. Non è qui possibile seguire nei dettagli a quali fonti si nutrisse in generale il desiderio di unità, ma dopo la disumanità del bolscevismo e del nazismo era diventato evidente che i primi nemici della chiesa non erano più ‘eretici e scismatici', bensì il crescente ateismo. Persecuzioni subite insieme e anche il reciproco aiuto in situazioni di bisogno avevano permesso di conoscere quanto anche altri cristiani, di confessione diversa, vivessero dalla forza del vangelo. «Perciò questo sacro concilio esorta tutti i fedeli cattolici affinché, riconoscendo i segni dei tempi, partecipino con zelo all'opera ecumenica» (Unitatis redin tegratio, 4). Anche qui Paolo VI portò avanti le iniziative del suo predecessore, il quale aveva invita
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to degli osservatori di altre chiese cristiane al concilio. Già prima della fine del concilio Paolo VI incontrò il patriarca ortodosso Atenagora a Gerusalemme (4-6 gennaio 1964). Dopo altri incontri a Roma e a Istanbul, si accordarono per ritirare le reciproche scomuniche che le due chiese avevano pronunciato nel 1054. Lo fecero contemporaneamente il 7 dicembre 1965, il giorno prima della conclusione del concilio, il papa nella basilica di S. Pietro e il patriarca nella sua chiesa di S. Giorgio a Istanbul. Già un buon anno prima (26 settembre 1964) Paolo VI aveva fatto restituire ai cristiani greco-ortodossi il capo dell’apostolo Andrea, che i crociati nel 1208 avevano portato in Occidente da Costantinopoli come bottino - un gesto che aveva chiaramente migliorato il clima tra le due chiese. Ciò che impressionò pure molto gli osservatori delle altre chiese fu l’invito a una liturgia comune poco prima della fine del concilio. Paolo VI fu certamente anche il primo papa che ebbe presente la situazione dei paesi in via di sviluppo come problema autonomo. In realtà già a partire da Leone XIII nel 1891 (Enciclica Rerum novarum) la chiesa si era interessata agli aspetti sociali nel sisterna ordinamentale dello stato, con la seguente motivazione: Benché dunque la santa chiesa abbia innanzitutto il compito di santificare le anime e di renderle partecipi dei beni di ordine soprannaturale, essa è tuttavia sollecita delle esigenze del vivere quotidiano degli uomini, non solo quanto al sostentamento e alle condizioni di vita, ma anche quanto alla prosperità e alla civiltà nei suoi molteplici aspetti e secondo le varie epoche (Mater et magistra, 3),
tuttavia le encicliche sociali prima di Paolo VI, anche se i paesi in via di sviluppo vi erano citati, avevano soprattutto presente la situazione degh stati europei. Il mutato modo di vedere si mostra ora con tutta evidenza nelle parole con cui Paolo VI introduce la sua enciclica Populorumprogressio (26 marzo 1967): Infine, recentemente... abbiamo ritenuto che facesse parte del Nostro dovere il creare presso gli organismi centrali della chiesa una commissione pontificia che avesse il compito di “suscitare in tutto il popolo di D io la piena conoscenza del ruolo che i tempi attuali reclamano da lui,
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in m odo da promuovere il progresso dei popoli più poveri, da favorire la giustizia sociale tra le nazioni, da offrire a quelle che sono meno sviluppate un aiuto tale che le metta in grado di provvedere esse stesse e per se stesse al loro progresso״. ‘Giustizia e pace* è il suo nome e il suo programma. N oi pensiamo che su tale programma possano e debbano convenire, assieme ai Nostri figli cattolici e ai fratelli cristiani, gli uomini di buona volontà. È dunque a tutti che N oi oggi rivolgiamo questo appello solenne a un’azione concertata per lo sviluppo integrale dell’uomo e lo sviluppo solidale dell’umanità (n. 5).
Paolo VI oltrepassa così la soglia verso un nuovo spazio: la chiesa, unita a tutti gli uomini di buona volontà nel compito di creare relazioni degne delTuomo per tutti, non come Magistra (maestra) che sa già tutto e alla quale occorre solo prestare orecchio, ma che nella sua nuova comprensione dell’uomo e del suo mondo offre una nuova fraternità. Paolo VI morì il 6 agosto 1978 all’età di 80 anni. L’opinione pubblica mondiale gli fu riconoscente per il suo impegno per la pace.
5. Giovanni Paolo I H successore di Paolo VI guidò la chiesa soltanto per trentatré giorni. La mattina del 29 settembre 1978 il suo segretario privato lo trovò morto nel letto. La lampada da notte ancora accesa, egli teneva tra le mani l’Imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis. I medici diagnosticarono un infarto cardiaco. Forse fu un presentimento il fatto che due giorni prima, nell’udienza pubblica che ha luogo ogni mercoledì in Vaticano, parlasse della sua salute? Disse che non era molto buona e che, in fin dei conti, negli anni precedenti era stato più volte in ospedale. Albino Luciani era nato il 17 ottobre 1912 a Forno di Canale (oggi Canale d’Agordo), un piccolo paese della diocesi di Belluno, nell’Italia del nord. Fu battezzato subito, in casa, dalla levatrice poiché «era direttamente in pericolo di vita». Il padre di Albino Luciani era un operaio, socialista e anticlericale, la madre una zelante cattolica. L’opinione pubblica non s’accorse della rapida carriera di Luciani. A ventitré anni ordinato prete, due anni dopo vicerettore nel
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seminario di Belluno e docente di teologia dogmatica, poi dottorato in teologia alla Università Gregoriana di Roma (1947), nello stesso anno segretario del sinodo diocesano comune di Belluno e Feltre, nel 1954 vicario generale (vicario del vescovo) della diocesi di Belluno, nel 1958 vescovo di Vittorio Veneto, nel 1969 patriarca di Venezia, nel 1973 cardinale. Nel 1978, già il secondo giorno del conclave, alla quarta votazione, i cardinali elessero papa Albino Luciani. Egli decise di prendere il nome di Giovanni Paolo 1.1 commentatori credettero di scorgervi la sua intenzione di seguire la strada dei suoi due predecessori, altri vi videro un collegamento con la basilica di Giovanni e Paolo, tomba dei dogi di Venezia. Sorprese il fatto che per il suo insediamento nel ministero di papa egli rinunciasse alla sedia gestatoria e alla tiara (cosa che già papa Paolo VI aveva fatto) e nelle sue dichiarazioni abbandonasse il solenne ‘Noi' a favore del normale ‘Io’. Già presto si sottolineò come il sorriso fosse il suo segno distintivo, al quale corrispondevano anche uno stile non complicato, vicino alla gente, e il termine chiave Humilitas (modestia, umiltà) sotto il quale egli pose il suo ministero di papa. «Mi ero augurato un pastore, e questo abbiamo avuto; un pastore che ha vissuto il concilio Vaticano II e che si è impegnato per la realizzazione delle sue riforme... Nel suo stile egli è mite, ma fermo, il suo pensiero si esprime con chiarezza, la sua parola è decisa, il suo atteggiamento è accogliente», così lo caratterizza il cardinale Francois Marty, arcivescovo di Parigi, esprimendo in tal modo ciò che aveva spinto anche altri cardinali nel conclave a dargli il loro voto. Da tutta la sua precedente attività di prete emergevano come costanti la vicinanza al popolo e lo sforzo di una pastorale capace di comunicare. Il suo catechismo, Catechesi in briciole, che egli aveva pubblicato dopo il Congresso eucaristico di Belluno nel 1949, ebbe sei edizioni. Molto conosciute furono anche le sue (fìnte) lettere a Dante, a Charles Dickens, a Charles Péguy e ad altri, o a figure letterarie come Pinocchio e Figaro, attraverso le quali, con linguaggio semplice e in modo aneddotico, illustra aspetti pastorali. La sua sollecitudine per i credenti in situazioni difficili si estese anche agli italiani emigrati - andò a trovarli (da patriarca di Venezia) in Germania, Francia, Portogallo, Burundi, Brasile e in Svizzera.
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A dire il vero, del suo periodo episcopale sono note anche prese di posizione che - se le avesse espresse da papa - avrebbero incontrato anche protesta e resistenza. Così, nel 1972 lottò contro l’introduzione del divorzio in Italia, sciolse organizzazioni giovanili cattoliche che erano a favore, criticò sull 'Osservatore Romano (23 gennaio 1972) i teologi che - a suo parere - abusavano della loro liberta, dimenticando di praticare una ‘scienza sacra’, disapprovò la teologia della liberazione.
§ 62. H pontificato di Giovanni Paolo II La storia della chiesa si scontra con i suoi limiti là dove sfocia nel presente e i ricordi personali sostituiscono il filtro del significato oggettivo che decenni trascorsi hanno frapposto alla marea di particolari. Inoltre, occorre resistere alla tentazione di circoscrivere la storia recente della chiesa a misure e decisioni della suprema autorità della chiesa. Certo, queste si possono elencare e documentare, ma limitano il concetto di chiesa - analogamente a quando l’agire degli stati viene fatto coincidere con le decisioni dei singoli governi. Perciò occorre qui di seguito distinguere tra ciò che è frutto piuttosto dell’iniziativa del papa, caratterizzando così la chiesa, e sviluppi che si alimentano ad altre fonti. Naturalmente si danno qui anche passaggi fluidi, quando per esempio dei nuovi sviluppi diventano una ‘questione di principio’, come per esempio l’impegno ecumenico della chiesa.
1. La direzione da parte del papa Quando dalla loggia della basilica di S. Pietro il cardinale Karol Wojtyla venne annunciato come nuovo papa, molti non compresero il nome polacco. Alcuni pensarono che si trattasse di un africano. Però, dopo qualche secondo di incertezza, esplose l’entusiasmo. Dopo quattro secoli i cardinali avevano eletto di nuovo un non italiano, uno che veniva dalla Polonia, un paese che malgrado l’oppressione comunista era rimasto tenacemente attaccato alla fede cattolica e fedele a Roma.
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Karol Wojtyla era nato il 18 maggio 1920 a Wadowice, una piecola località nelle vicinanze di Cracovia. La sua decisione per il sacerdozio maturò a poco a poco durante gli anni dell’occupazione tedesca. Dapprima, a diciott’anni, appassionato di letteratura pòlacca, egli aveva iniziato a studiare filologia, poi, dopo l’invasione militare dei tedeschi, !,università venne chiusa e Karol dovette in un primo momento lavorare in una cava di pietre e più tardi in una azienda chimica. Nel 1942 si iscrisse al seminario per diventare prete, un seminario in clandestinità, i cui corsi potevano essere tenuti soltanto di notte. Nel 1946 venne ordinato prete, poi conseguì il dottorato in teologia a Roma presso !,università dei domenicani, YAngelicum (1948), cui fece seguito - dopo il ritorno in Polonia un dottorato in filosofia su Max Scheler; nel 1953 divenne professore di teologia morale e di sociologia dapprima a Cracovia, poi a Lublino. Nel 1958 fu ordinato vescovo a Cracovia, a soli trentotto anni: il più giovane dei circa quaranta vescovi della Polonia. In tal modo si apriva per lui Paccesso diretto al concilio. Lì egli si impegnò particolarmente per la dichiarazione sulla libertà religiosa (Dignitatis humanae) e prese parte anche alla redazione finale della costituzione pastorale Gaudium et spes. Già durante il concilio, nel 1964, ebbe luogo la sua nomina ad arcivescovo di Cracovia e subito dopo (nel 1967) la sua elevazione a cardinale. Quali motivi il 16 ottobre 1978, il secondo giorno del conclave, abbiano portato alla sua elezione, non si può naturalmente sapere del tutto. Evidentemente non si voleva un papa di transizione - a cinquantanni il neoeletto possedeva presupposti sufficienti per un lungo pontificato. Egli era anche per molti aspetti moderno, conosceva il mondo, sapeva parlare diverse lingue e era dotato di un’avvincente capacità di relazione. Ma soprattutto convinceva la sua religiosità profonda. Ciò che si poteva constatare in molti studenti di teologia dei paesi comunisti che studiavano in Occidente, si addiceva anche a Wojtyla: una fede, sicura di se stessa, che non sembrava «intaccata dal pensiero debole». Nel mondo occidentale si poteva osservare un certo parallelismo: governi conservatori (USA, Gran Bretagna, Repubblica federale tedesca) apparivano in avanzata. Non era forse per il fatto che ora, dopo i rivolgimenti del dopoguerra, si cercava di nuovo un terreno fidato sotto i piedi, si voleva far ri
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vivere le norme del passato? Giovanni Paolo II fece sia Pimpressione di accettare il concilio sia anche di conservare la tradizione. Egli, al contrario di Paolo VI, non era neppure un tormentato Amleto, bensì uno che nella sua prima allocuzione (22 ottobre 1978) rivolse ai suoi uditori questo appello: «Fratelli e sorelle, non abbiate paura di lasciare entrare Cristo da voi e di accogliere la sua potenza... Non abbiate paura! Aprite le porte a Cristo... Non abbiate paura... Cristo sa di che cosa Puomo è capace! Lui solo lo sa!». Tre anni più tardi il pontificato di Giovanni Paolo II rischiò di trovare una fine violenta. Il 13 maggio 1981 lo raggiunsero in Piazza S. Pietro i colpi di pistola di un giovane turco. Alì Agca, membro del movimento estremista di destra dei ‘Lupi grigi’, già qualche mese prima aveva comunicato a un giornale di Istanbul che egli avrebbe ucciso il papa, l’inviato dell’imperialismo occidentale, nel caso fosse venuto in Turchia. Resta fino a oggi oscuro se egli abbia avuto dietro di sé altri e chi. - H papa, gravemente ferito, sopravvisse all’attentato e fece in seguito visita ad Alì Agca, il 27 dicembre 1983, nella sua cella del carcere. L’attentatore, più tardi consegnato alla Turchia, ha potuto lasciare il carcere per breve tempo nel gennaio 2006, prima che i funzionari lo incarcerassero di nuovo. Come guidò Giovanni Paolo II la chiesa, quali caratteristiche emergono? La sua simpatia per i media e il suo lungo pontificato svelano un ampio campo delle sue attività - che sicuramente fu anche dei suoi predecessori, ma nel loro caso più sottratto agli occhi dell’opinione pubblica. Al riguardo è evidentissimo come egli si rappresenti la ‘sua’ chiesa: all’interno saldamente unita, orientata da chiare norme, ripiena di slancio missionario, religiosa non solo a livello di intelletto, ma anche di cuore e sentimento, sotto la ferma guida del papa.
2. Riforme Tra le misure assunte nel primo decennio del suo pontificato si registra un’ampia riforma della curia. Paolo VI già nel 1967 aveva introdotto alcuni cambiamenti nel sistema di gestione della curia (Costituzione apostolica Regimini Ecclesiae universalis, 15 agosto 1967); ora Giovanni Paolo II (Costituzione apostolica Pastor ho־
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nusf 28 giugno 1988) dava un nuovo ordinamento alle competenze e funzioni soprattutto delle nove congregazioni, a cui in parte venivano assegnati dei nuovi nomi. La ‘Segreteria di stato’ diventava istanza a sé, che esercita una specie di supervisione su tutti gli uffici ed è competente per le relazioni intemazionali. Alla presenza del papa e del cardinale segretario di stato i capi delle congregazioni devono fare rapporto al papa ogni tre mesi. Una seconda fondamentale misura ordinamentale fu Tentrata in vigore del nuovo Codex Juris Canonici, il codice di diritto ecclesiastico. La rielaborazione dell’edizione del 1917 era già stata commissionata da Giovanni XXIII, ora Giovanni Paolo II poteva presentare la nuova edizione (25 gennaio 1983; entrata in vigore il 27 novembre dello stesso anno). Rispetto al precedente, il nuovo codice conteneva solo 1.752 canoni (determinazioni giuridiche) invece di 2.414. Dal punto di vista del contenuto vi si potevano riconoscere i decreti del concilio, tanto che il papa designò il codice addirittura come il «Codice del concilio». In effetti, il codice poneva il suo secondo libro (sui diritti e doveri dei fedeli) sotto il concetto privilegiato dal concilio (Costituzione Lumen gentium) di chiesa come ‘popolo di Dio’ (mentre in precedenza - dai tempi di Pio XII - essa era stata considerata soprattutto come ‘corpo di Cristo’); nelle relazioni con le chiese particolari doveva vigere il principio di sussidiarietà; la dignità della persona e i suoi diritti andavano difesi. A dire il vero, alcuni giuristi hanno criticato anche il fatto che i diritti papali erano stati rinforzati, mentre ai laici venivano riconosciuti soltanto compiti limitati nel tempo e di collaborazione. - Per le chiese orientali già nel 1927 si era pensato a un codice proprio, Paolo VI nel 1972 aveva istituito una specifica commissione, Giovanni Paolo II poteva ora, il 18 ottobre 1990, promulgare il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, il ‘diritto canonico orientale’ (ossia i diritti delle chiese cattoliche che dal 395 appartenevano all’impero romano d’Oriente, incluse Armenia e Persia).
3. Ognuno secondo il proprio stato Per la compattezza interna della chiesa era necessario che ognuno, secondo il proprio stato, conoscesse e adempisse i propri com
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piti. Deliberatamente, perciò, seguono le dichiarazioni romane sui compiti dei laici, dei preti, dei vescovi, delle conferenze episcopali e dei sinodi. Il concilio aveva avvertito il pressante desiderio dei laici di collaborare in modo responsabile nella chiesa e perciò aveva varato un apposito 4Decreto sull'apostolato dei laici' (Apostolicam actuositatem). Esso mette in risalto che il laico partecipa fondamentalmente alla missione della chiesa (quindi non viene soltanto incaricato caso per caso), che egli ha a disposizione «innumerevoli occasioni per esercitare l'apostolato della evangelizzazione e della santificazione», e soprattutto che il suo compito peculiare è l’animazione dell'ordine temporale, cioè «i beni della vita e della famiglia, la cuitura, l'economia, le arti e le professioni, le istituzioni della comunità politica, le relazioni internazionali e altre ancora». L'ordine temporale «deve essere instaurato in modo che, nel rispetto integrale delle leggi sue proprie, sia reso ulteriormente conforme ai principi della vita cristiana e adattato alle svariate condizioni di luogo, di tempo e di popoli...». Alla chiesa dei pastori però spetta «enunciare con chiarezza i princìpi circa il fine della creazione e l’uso del mondo, dare gli aiuti morali e spirituali affinché l’ordine temporale venga instaurato in Cristo». Paolo VI aveva istituito già nel 1967 uno specifico Segretariato per le questioni riguardanti la posizione dei laici nella chiesa, Giovanni Paolo II lo elevò nel 1988 a ‘Pontifìcio Consiglio per i laici’. Esso doveva sostenere i laici e le loro associazioni e coordinare le loro attività nei diversi paesi. Alla direzione sta un cardinale, i membri del Consiglio - cardinali, vescovi, laici provenienti da diversi paesi - vengono chiamati dalla curia. L'istituzione del Consiglio per i laici seguì immediatamente al sinodo romano dei vescovi, che nell'anno precedente aveva fatto proprio il tema «La vocazione e la missione del laico». Il papa confermò i suoi risultati, espressi in 54 Propositiones (‘Proposte’), nello scritto Christifideles laici del 30 gennaio 1989. Nei documenti citati non ci si risparmia nel dar risalto alla dignità del laico. I campi d'azione dei laici vengono descritti in conformità alle affermazioni del concilio, l'animazione della vita politica viene espressamente esigita:
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Il vangelo offre impulso e illuminazione per la retta partecipazione alTevento politico... In molti però [si osserva] una certa ignoranza e talvolta una non volontà in rapporto a questa attività. Spesso vengono percepite come caratteristica della politica la corruzione e !,arbitrio nel trattare questioni di giustizia, tanto che la gente con retta coscienza preferisce stame lontana {Propositiones, 2 1s. ).
L’impegno politico, come pure «la partecipazione attiva a partiti politici» appartiene al poco che resta riservato esclusivamente ai laici. Giovanni Paolo II respinge esplicitamente un impegno politico dei preti. Così, nel 1984, tre preti-ministri del governo del Nicaragua - il ministro degli esteri Miguel d’Escoto Brockman, il ministro della cultura Ernesto Cardenal e suo fratello, il ministro del!,educazione Fernando Cardenal - vennero posti dalla Congregazione per la dottrina della fede davanti alla scelta di rinunciare o al loro impegno politico oppure al loro ministero presbiterale. Essi scelsero la seconda alternativa. - Laici, preti e religiosi devono collaborare. «Ascoltandosi gli uni gli altri e dialogando, essi cercheranno grazie al discernimento spirituale di far sì che si trovi un accordo fra tutti» (Propositioy 10). Lo spirito di concordia fraterna è sicuramente il desiderio comune e supremo di tutti coloro che operano insieme. Nella realtà un pieno accordo raramente potrà essere raggiunto. Perciò i documenti raccomandano continuamente che le attività dei laici si attuino in armonia con le superiori istanze ecclesiali. Anche se per motivi teologici il principio di democrazia non è qui applicabile, rimane però aperta la questione se ai laici non possa essere lasciata in alcuni campi (per esempio, nell’ambito finanziario) la decisione, senza che questa venga annullata da un veto ‘dall’alto’. Resta d’altra parte valido che la responsabilità suprema è connessa con un diritto di regolamentazione su tutti i piani. Così, per esempio, un laico può in effetti collaborare in posti importanti nella parrocchia, «a condizione che non si tratti... di dirigere, di coordinare, di moderare o di gestire la parrocchia; questo, conformemente al testo canonico, spetta soltanto a un prete» (Istruzione su alcune questioni circa la collaborazione dei laici al ministero dei sacerdoti, 15 agosto 1997, art. 4).
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Evidentemente dietro le singole direttive sta l’idea che si fa il bene della chiesa (e così la volontà di Cristo) nel modo migliore se ogni stato esercita i compiti a esso affidati con assiduo impegno e nel quadro delle norme giuridiche. Non si riflette sul fatto che in tal modo si possono bloccare o ritardare degli sviluppi salutari. Alcimi si chiedono se le deduzioni da un’affermazione teologica siano vincolanti, per esempio il divieto per i laici di predicare, dedot־ to dal principio che l’omelia è parte della liturgia stessa: Pertanto, l’omelia durante la celebrazione dell’eucaristia deve essere riservata al ministro sacro, sacerdote o diacono. Sono esclusi i fedeli non ordinati, anche se svolgono il compito detto di ‘assistenti pastorali’ o di catechisti, presso qualsiasi tipo di comunità o aggregazione. N on si tratta, infatti, di eventuale maggiore capacità espositiva o preparazione teologica, ma di funzione riservata a colui che è consacrato con il sacramento dell’ordine sacro, per cui neppure il vescovo diocesano è autorizzato a dispensare dalla norma del canone (70), dal momento che non si tratta di legge meramente disciplinare, bensì di legge che riguarda le funzioni di insegnamento e di santificazione strettamente collegate tra di loro (art. 3).
Si tratterebbe perciò - così nella conclusione del simposio su «La collaborazione dei laici al ministero pastorale dei sacerdoti» di far comprendere «che queste precisazioni e chiarificazioni» non scaturiscono dallo sforzo di «difendere privilegi clericali, bensì dalla necessità di essere obbedienti alla volontà di Cristo e di rispettare la forma fondamentale da lui indelebilmente impressa alla sua chiesa». La nuova maggiore età del laico si coglie particolarmente a pròposito delle donne. Il giorno della conclusione del concilio (8 dicembre 1965) viene rivolto un messaggio dell’assemblea alle donne: «Ma viene l’ora, l’ora è venuta, in cui la vocazione della donna si svolge con pienezza, l’ora nella quale la donna acquista nella società un’influenza, un irradiamento, un potere finora mai raggiunto. E per questo, in un momento in cui l’umanità conosce una così profonda trasformazione, che le donne illuminate dallo spirito evangelico possono tanto operare per aiutare l’umanità a non decadere». A questa nuova attenzione dei vescovi per il contributo
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delle donne corrisponde anche !,iniziativa di Paolo VI, nel 1970, di conferire il titolo onorifico di ‘Dottore della chiesa’ per la prima volta a due donne, Caterina da Siena (circa 13471380 )־e Teresa d’Avila (15151582( )־dal 1997 anche a Teresa di Lisieux [1873־ 1897]). L’anno dopo il sinodo sulla «Vocazione e missione dei lai־ ci» Giovanni Paolo II scrisse una lettera apostolica sulla dignità della donna (Mulieris dignitatem, 1988). Al tempo stesso è per lui, grande devoto di Maria, un bisogno di presentare Maria come modello della donna. La lettera non tratta di compiti e diritti della donna nella chiesa. Essa piuttosto, iniziando dal racconto della creazione fino alle af־ fermazioni neotestamentarie, vuole mettere in evidenza la specifica partecipazione della donna all’opera redentrice di Gesù Cristo. Per questo si tracciano linee di collegamento tra Maria, Cristo e la chiesa. L’essenza profonda della natura femminile è la maternità essa trova la sua più alta espressione in Maria in quanto madre del Figlio di Dio - che si realizza sia nel matrimonio sia anche, in senso più ampio, nella verginità scelta per fede. In questo legame con Maria la donna partecipa anche al rapporto sponsale tra Cristo e la sua chiesa. Quest’ultima riflessione, così scrive il papa, conferma ciò che la Congregazione per la dottrina della fede, su incarico di Paolo VI, ha detto nel 1976 sulla ammissione di donne al ministero presbiterale (Dichiarazione Inter insigniores). - Non si deve dimenticare il netto rifiuto del papa alla concezione, di quando in quando sostenuta, secondo cui il peccato originale (Gen 3) sarebbe da attribuire alla donna nella persona di Èva. Nonostante l’os־ sensazione di Paolo in 1 Tm 2,13s., è del tutto chiaro che i testi bi־ blici intendono il peccato dell’uomo, ossia dei progenitori Adamo e Èva. - A conclusione della lettera «la chiesa desidera ringraziare la Santissima Trinità per il ‘mistero della donna’ e - ciò vale per ogni donna - per ciò che costituisce l’eterna misura della sua dignità femminile, per le ‘grandi opere di Dio’ che nella storia delle generazioni umane si sono compiute in lei e per mezzo di lei...» (Mulieris dignitatem, 31). Da quelli del laico vanno chiaramente distinti i compiti e i poteri del prete, al quale fu dedicato 1’(ottavo) sinodo romano dei vescovi,
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nel 1990, a cui seguì nell'aprile 1991 la lettera del Giovedì santo, di 250 pagine, Pastores daho vobis, nella quale il papa si riallaccia al sinodo e ne riassume i differenti contributi riconducendoli a una sintesi. A prescindere da direttive e raccomandazioni relative alla scelta e formazione dei candidati al ministero presbiterale, si tratta qui anche di come comprendere la professione del prete. Giovanni Paolo II indica come norma e scopo della vita del prete l'immergersi in Cristo: «Il sacerdote è un'immagine viva e trasparente di Cristo sacerdote» (n. 12). I preti sono chiamati «a prolungare la presenza di Cristo, unico e sommo pastore, attualizzando il suo stile di vita e facendosi quasi sua trasparenza in mezzo al gregge loro affidato» (n. 15). È vero che tutti i cristiani sono chiamati alla santità, ma il prete con maggiore urgenza: «Ciascuno di voi deve essere santo anche per aiutare i fratelli a seguire la loro vocazione alla santità» (n. 33). - In questo contesto il papa riprende anche la posizione del sinodo sul celibato: «Il sinodo non vuole lasciare nessun dubbio nella mente di tutti sulla ferma volontà della chiesa di mantenere la legge che esige il celibato liberamente scelto e perpetuo per i candidati all’ordinazione sacerdotale nel rito latino» (n. 29). L'eccellenza del ministero presbiterale qui indicata può certo entusiasmare, ma nella realtà potrebbe esigere assai più di quanto possa lo sforzo del singolo. Dei commentatori hanno già fatto notare che qui viene estesa in gran parte al prete secolare la vocazione speciale del religioso. D'altra parte non si fa menzione delle competenze dei teologi laici sia nella formazione teologica come pure nella direzione spirituale (per esempio di appartenenti a ordini femminili). Anche al livello più alto, nel collegio dei vescovi, Giovanni Paolo II cercò di promuovere un'autocomprensione unitaria. Importante fu in questo contesto pure il chiarimento della questione relativa a quale funzione spetti alle conferenze episcopali. Nel 1986 il papa affidò l'incarico di preparare un corrispettivo documento che poi, nel 1988, sottopose all'approvazione delle conferenze episcopali nazionali. Tre pericoli, così sostiene il progetto romano, andrebbero combattuti: 1) che le conferenze episcopali sviluppino strutture decisionali burocratizzate, rendendo così i singoli vescovi organi esecutivi della conferenza; 2) che le conferenze si comportino come una sorta di «direzione superiore delle diocesi»; 3) che le
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conferenze episcopali rivendichino un'ingiustificata autonomia nei confronti della Santa Sede. Dopo le diverse prese di posizione, in cui emerse soprattutto la preoccupazione di un deprezzamento della conferenza episcopale, la Congregazione per la dottrina della fede, con esplicito consenso del papa, fissò i criteri (lettera Communionis notio, del 28 maggio 1992, della Congregazione per la dottrina della fede a tutti i vescovi della chiesa cattolica su alcuni aspetti della chiesa intesa come comunione). Nella lettera si tiene a dire che la chiesa universale non può essere concepita come la somma delle chiese particolari né come una federazione di chiese particolari... Nascendo nella e dalla chiesa universale, in essa e da essa hanno la loro ecclesialità... ma affinché ogni chiesa particolare sia pienamente chie־ sa, cioè presenza particolare della chiesa universale con tutti i suoi eiementi essenziali, quindi costituita a immagine della chiesa universale, in essa dev'essere presente, come elemento proprio, la suprema autorità della chiesa: il Collegio episcopale «insieme con il suo capo il romano pontefice, e mai senza di esso». Dobbiamo vedere il ministero del Successore di Pietro, non solo come un servizio ‘globale' che raggiunge ogni chiesa particolare dall’‘esterno’, ma come già appartener te all'essenza di ogni chiesa particolare dal ‘di dentro’. Infatti, il ministero del Primato comporta essenzialmente una potestà veramente episcopale, non solo suprema, piena e universale, ma anche immedia־ ta, su tutti, sia pastori che altri fedeli (nn. 7 1 4 )־.
In altre parole, si dice qui che nessuna chiesa, di qualsiasi paese, si può richiamare ad antiche prerogative per mettersi contro Roma, ma che appartiene all'intima essenza della chiesa che il vesco־ vo di Roma in ogni tempo e in ogni questione possa intervenire in un paese o in una diocesi (come si può desumere anche dalla prassi abituale). Sebbene le conferenze episcopali nazionali non siano in questo documento espressamente citate, è evidente che esse, come già si era espresso, in campo neutro, il Cardinal Joseph Ratzinger, dal 1981 prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, agli occhi della curia non appartenevano alla struttura episcopale della chiesa. Questo fu poi, nel 1998, espressamente chiarito in uno scritto del papa (Apostolos suos, 23 luglio 1998). E vero che si rico־
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nosce che le conferenze episcopali sono un aiuto a guidare la coscienza dei fedeli nei rivolgimenti sociali, ma solo !,assemblea pienaria dei vescovi può porre atti di magistero autentico (art. 2 e 22). In tal modo è ovvio che venne sensibilmente indebolita !,autorità delle conferenze episcopali nazionali, poiché basterebbe la contrarietà di un singolo vescovo per togliere al magistero della conferenza episcopale il suo carattere (parzialmente) collegiale. Alla fede e alla volontà del papa, di essere «principio e fondamento» dell’unità ecclesiale, corrispose anche la prassi delle nomine dei vescovi. E vero che esse rispettavano il diritto vigente, ma passando sopra - nella percezione dei fedeli sempre di più - le pròposte dei capitoli del duomo. Questo fu particolarmente evidente in Olanda. Tra il 1960 e il 1970 i cattolici olandesi manifestarono una volontà di rinnovamento che scosse parecchie tradizioni e riempì Roma di preoccupazioni. Un teologo olandese caratterizza questa contrastante situazione così: «La lingua del popolo nella liturgia ed esperimenti liturgici che erano andati molto oltre rispetto a quanto Roma concedeva; la comunione nella mano; una pastorale orientata in senso meno clericale; la nuova teologia sul ministero di Pietro; il tendere a strutture sinodali in cui le decisioni erano prese insieme da preti e laici; la liquidazione informale della confessione; il crescente numero di matrimoni misti; i tentativi di riconoscere i preti sposati e le donne come soggetti del ministero nella chiesa, come pure il numero sempre maggiore di referenti pastorali, uomini e donne, che, sposati o meno, prendevano il posto dei preti celibatari» (Walter Goddijn, Il dilemma del cattolicesimo olandese). Dopo alcuni infruttuosi colloqui tenutisi a Roma, Paolo VI fece ricorso alle possibilità indirette che gli restavano e nominò una serie di vescovi che non erano stati proposti dagli olandesi e in parte incontrarono la protesta, ma che opposero un netto rifiuto alle innovazioni desiderate. Giovanni Paolo Et si servì dello stesso mezzo. Spesso, passando sopra le liste proposte, egli preferì candidati sulla cui fedeltà a Roma non sussistevano dubbi, la cui fede era convinta e intatta, e che non erano certamente disponibili a piegarsi a «innovazioni moderrustiche». Cera in questo un certo paradosso, ossia che quanto più chiaramente i neonominati vescovi corrispondevano alla linea di
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Roma - quindi in certo qual modo servivano all’unità - essi divennero tanto più occasione di tensioni all’interno delle conferenze episcopali nazionali. Solo nell’ultimo quarto del suo ministero il papa diventò di nuovo più prudente, probabilmente a motivo della sollevazione dei media e delle penose imprudenze di alcuni suoi candidati. Una dimensione episcopale ebbero anche i viaggi pastorali o i pellegrinaggi del santo padre. Il papa riscosse l’attenzione dei media e dei fedeli radunati, spesso a centinaia di migliaia. Il vescovo diocesano venne in questi casi quasi dimenticato. Si ebbe così Pim־ pressione che il papa stesso fosse, lui solo, pastore del popolo di Dio, padre, fratello, l’unico a essere importante e determinante. La vicinanza al proprio vescovo perse d’importanza. Questo corrispondeva naturalmente anche alla concezione dominante del primato. Sebbene il papa attribuisse al collegio dei vescovi, al quale egli stesso apparteneva, espressamente la massima funzione ecclesiale di guida, questo valeva però soltanto nella misura in cui i vescovi condividevano le concezioni del vescovo di Roma. Essi dovevano assistere e aiutare come un uomo il fratello maggiore, egli però non aveva lo stesso dovere di orientarsi secondo le convinzioni (maggioritarie) dei suoi ‘colleghi’.
4. Il dovere dei teologi Lo sforzo di Giovanni Paolo II per una chiesa unita, solida, lealmente raccolta attorno al suo capo si può constatare anche da alcuni altri interventi. Per favorire !’unitarietà nella dottrina nel 1992 venne messo in cantiere da parte di Roma - come si è già ricordato - un «Catechismo della chiesa cattolica»: «Un servizio che il suecessore di Pietro vuole rendere alla santa chiesa cattolica come pure a tutte le chiese particolari... cioè per sostenere e rinforzare la fede di tutti i discepoli di Gesù (cfr. Le 22,32), come anche i legami di unità nella stessa fede apostolica». A esso fece seguito, l’anno dopo, un’enciclica che voleva tracciare linee guida unitarie in questioni di morale, la Veritatis splendor, del 5 ottobre 1993. Essa sottolinea l’esistenza di una legge morale permanentemente valida e riconoscibile. Al tempo stesso giudica severamente l’opinione dei
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contemporanei di considerare la propria coscienza come una speeie di salvacondotto in questioni morali. Soltanto la coscienza vincolata alla verità, per la quale deve darsi premura la persona dal cuore retto, perfeziona Puomo (n. 63). Per la formazione della coscienza, però, la chiesa e il suo magistero rappresentano un grande aiuto (n. 64). Falso, invece, è il tentativo di alcuni studiosi di etica «di misurare il loro sapere, se non le loro prescrizioni, sulla base di un riscontro statistico circa i comportamenti umani concreti e le opinioni morali della maggioranza» (n. 46). Era naturalmente impensabile raggiungere una omogeneità intema alla chiesa con dei teologi riluttanti. Il 27 gennaio 1989, in Germania, 170 professori di teologia avevano criticato, nella cosiddetta «dichiarazione di Colonia», la prassi romana delle nomine dei vescovi, dell'assegnazione delle cattedre di teologia, come pure un'eccessiva accentuazione dell’autorità magisteriale del papa. Prontamente, la Congregazione per la dottrina della fede reagì entro l'anno con una «Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teoio־ go» (24 maggio 1990). In essa si dice che teologia e magistero sono due funzioni vitali per la chiesa, «che devono compenetrarsi e arricchirsi reciprocamente per il servizio del popolo di Dio» (n. 40). «Il pontefice romano adempie la sua missione universale con l’aiuto degli organismi della curia romana e in particolare della Congregazione per la dottrina della fede per ciò che riguarda la dottrina sulla fede e sulla morale. Ne consegue che i documenti di questa Congregazione approvati espressamente dal papa partecipano al magistero ordinario del successore di Pietro» (n. 18). Ora, alcuni teologi ritengono che soltanto dottrine presentate con la pretesa dell'infallibilità vincolino il teologo, mentre nel restante ambito regni la libertà di ricerca e di opinione. Contro questo si afferma: «La volontà di ossequio leale a questo insegnamento del magistero in materia per sé non irreformabile deve essere la regola» (n. 24). «Se, malgrado un leale sforzo, le difficoltà persistono, è dovere del teologo far conoscere alle autorità magisteriali i problemi suscitati dall'insegnamento in se stesso, nelle giustificazioni che ne sono proposte o ancora nella maniera con cui è presentato... In questi casi il teologo eviterà di ricorrere ai mass-media invece di rivolgersi all'autorità responsabile, perché non è esercitando in tal modo una
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pressione sull’opinione pubblica che si può contribuire alla chiarificazione dei problemi dottrinali e servire la verità» (n. 30). Può anche accadere che al termine di un esame delTinsegnamento del magistero serio e condotto con volontà di ascolto senza reticenze, la difficoltà rimanga, perché gli argomenti in senso opposto sembrano al teologo prevalere. Davanti a un affermazione, alla quale non sente di poter dare la sua adesione intellettuale, il suo dovere è di restare disponibile per un esame più approfondito della questione. Per uno spirito leale e animato dall’amore per la chiesa, una tale situazione può certamente rappresentare una prova diffìcile. Può essere un invito a soffrire nel silenzio e nella preghiera, con la certezza che se la verità è veramente in causa, essa finirà necessariamente per imporsi (n. 31).
L’Istruzione era stata preceduta, nel febbraio 1989, dall’introduzione di un «giuramento di fedeltà» al momento di assumere degli uffici ecclesiastici, nel quale viene assicurata obbedienza agli «autentici maestri della chiesa» ed emessa una professione di fede. Giovanni Paolo II riprese l’intero complesso tra filosofia e fede (ivi incluso il magistero) quasi dieci anni dopo nell’ampia enciclica Fides et ratio (14 settembre 1998), la quale sviluppava in modo più preciso le posizioni già toccate. La chiesa non dovrebbe essere solo unita e forte, ma allo stesso tempo dovrebbe attingere la propria forza alle fonti centrali della sua fede. Lontano da questioni pratiche, la prima enciclica di Giovanni Paolo II si occupa perciò del mistero della redenzione per opera di Gesù Cristo (Redemptor hominis, marzo 1979). Anche la seconda enciclica, Dives in misericordia (30 novembre 1980), egli la scrive perché «mi spinge a scoprire nello stesso Cristo ancora una volta il volto del Padre, che è 'misericordioso e Dio di ogni consolazione’». L’opera di Cristo fu ed è di rivelare il mistero del Padre e del suo amore. Da qui risulta che l’uomo «nella piena dignità della sua natura, non può aver luogo senza il riferimento non soltanto concettuale, ma integralmente esistenziale - a Dio» (n. 1). Seguirono altri scritti dottrinali, che intendono condurre a queste fonti della fede: su Maria, sullo Spirito Santo, sul sacramento della penitenza, sull’eucaristia. Quest’ultimo doveva diventare il tema dell’undicesimo sinodo ordinario dei vescovi (2-23 ottobre 2005 a Roma), che papa Wojtyla non potè più presiedere. Come
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motto egli aveva scelto: !,eucaristia come «fonte e culmine della vita e della missione della chiesa». Strettamente a ciò collegato è il significato dei santi. Essi sono stati agli occhi del papa il fine della tensione religiosa. «Ogni eredente è chiamato alla santità e alla missione». In concreto ciò signi־ fica lo sforzo quotidiano di esercitare le qualità che i santi manifestano: «Povertà, mitezza, accettazione di sofferenza e persecuzioni, ricerca della giustizia e della pace, amore, dunque le beatitudini realizzate nella vita apostolica (cfr. Mt 5,1-12)» (Enciclica Redemptoris missioy90s.). Egli perciò non esitò a porre davanti agli occhi dei fedeli esempi corrispondenti. Le sue canonizzazioni non servivano però soltanto alla pietà personale. Esse erano «doni d’ospitalità» in occasione dei suoi viaggi, rendevano onore a gruppi e comunità nella chiesa, attestavano diritti e comportamenti della chiesa immutati. Oltre 470 canonizzazioni e 1.300 beatificazioni ebbero luogo durante il suo pontificato, più di quante ne abbiano operate tutti i papi suoi predecessori messi insieme. In modo particolare gli stava a cuore - e lo si è già notato - una chiesa ‘missionaria’. Già Paolo VI nella sua enciclica Evangeli nuntiandi (8 dicembre 1975) aveva spiegato che l’evangelizzazione è il compito vero e proprio della chiesa, anzi che la chiesa è nella sua essenza più profonda missionaria. Giovanni Paolo II riprese il tema. Nella sua encilica Redemptoris missio (12 luglio 1990) egli parla sia di una «nuova primavera» del cristianesimo, ma lamenta anche che «la missione vera e propria ad gentes» (ai non cristiani) sembra venir meno. L’urgenza della predicazione missionaria si basa anche sul fatto «che essa costituisce il servizio prioritario che la chiesa può rendere a ogni persona e a tutta !,umanità di oggi». Fin dall’inizio del suo pontificato egli ha scelto di «viaggiare fino agli estremi confini della terra per manifestare la sollecitùdine missionaria» (n. ls.). Lo Spirito Santo opera «nel cuore di ogni uomo mediante i ‘semi del Verbo’, nelle iniziative anche religiose, negli sforzi dell’attività umana tesi alla verità, al bene, a D io... Quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica e non può non avere riferimento a Cristo, Verbo fatto carne per l’azione dello Spirito, “per operare lui, l’Uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione
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universale( »״n. 28s.). - Anche le manifestazioni di massa durante i viaggi del papa e il risalto dato ad anniversari - la predicazione della fede nell’America centrale e meridionale, la missione agli slavi di Ciriilo e Metodio, la missione ai Germani di Bonifacio e, soprattutto, la svolta del millennio come inizio di un nuovo risveglio - ebbero sicuramente come scopo anche di far prendere nuovamente coscienza del dinamismo del cristianesimo nel corso della storia e di far rivivere la visione di una società mondiale permeata dal cristianesimo. Alcuni anni più tardi i vescovi tedeschi diagnosticano (dichiarazione A ogni popolo la sua salvezza, 1994) - e ciò può riguardare non soltanto la Germania - uno scetticismo ampiamente diffuso soprattutto nei confronti della missione cristiana. Accanto agli errori e alle ombre della storia della missione sarebbe una certa mentalità, una situazione spirituale generale, a costituire Postacolo principale per ogni iniziativa missionaria: Pindividualismo religio־ so e tendenze relativistiche che per principio non sopporterebbero o guarderebbero con sospetto una pretesa religiosa nei confronti della verità e della salvezza.
5. Un papa per il mondo Mentre a ciascuno dei papi del dopoguerra si è associato un concetto che esprime una nota caratterizzante la loro personalità Pio XII, il grande maestro; Giovanni XXIII, il ‘padre di tutti’; Paolo VI, Amleto sul trono pontificio; Giovanni Paolo I, il papa che sorride - per Giovanni Paolo II questo non è ancora avvenuto. Come la gente, in tutto il mondo, lo abbia soprattutto colto non è possibile renderlo in modo adeguato con nessun breve concetto. Un fenomeno sono stati i suoi viaggi, un’attività quasi ininterrotta che lo condusse, con oltre cento viaggi pastorali, in innumerevoli stati (a eccezione di Russia e Cina), dai sistemi di governo molto differenti. Ciò che sorprende è il fatto che le visite furono sentite ogni volta come una grande evento. Dei dittatori lo lasciarono muoversi liberamente, senza frapporgli ostacoli. Il papa non ha risparmiato di condannare con parole chiare sia sfruttamento sia ingiustizia sociale, ma non ha mai combattuto contro la singola persona. Sembrò di capire che per lui si trattava della sua missione,
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della lotta contro povertà e privazione di dignità, e che egli rispettava chiunque condivideva questi scopi. Non cercò Pamicizia del singolo capo di stato né la rifiutò, ma li incontrò nel rispetto del loro ruolo e della buona volontà. La stima che egli si guadagnò si trasformò a poco a poco in simpatia e si espresse alla sua morte in una grandiosa dimostrazione di partecipazione. In parecchie questioni contemporanee le idee e le esigenze di Giovanni Paolo II non erano né moderne né popolari. Probabilmente esse hanno scarsamente influenzato il comportamento concreto dei suoi uditori, ma gli si *perdonò' le sue convinzioni perché egli appariva credibile. Ne sono un esempio le sue prese di posizione (sia dirette sia attraverso la Congregazione per la dottrina della fede) negli ambiti della famiglia e della sessualità, che riguardano quasi ogni singolo individuo. Già il secondo anno dopo la sua elezione, il papa, insieme con il (sesto) sinodo dei vescovi, si rivolse alla famiglia cristiana, «la prima comunità chiamata ad annunciare il vangelo alla persona urnana in crescita e a portarla, attraverso una progressiva educazione e catechesi, alla piena maturità umana e cristiana». Giovanni Paolo II organizza i contributi del sinodo nella esortazione apostolica che apparirà Tanno successivo, la Familiaris consortio (22 novembre 1981). Nel quadro di una visione complessiva dell'amore tra i coniugi e per i figli, il «dono più prezioso del matrimonio» (n. 14), colpiscono poi di nuovo le note posizioni della chiesa, immutate nella loro durezza: il rifiuto di una regolazione artificiale delle nascile (n. 35), della convivenza tra non sposati (n. 80s.), del matrimonio soltanto civile per i cattolici (n. 82), del divorzio dopo il matrimonio validamente contratto con rito religioso cattolico (n. 84). I cattolici che si sono risposati (mentre il primo coniuge è ancora vivo) non possono essere ammessi alla comunione. Nel caso si pentano della separazione e si accostino alla penitenza, essi devono, qualora non possano porre fine alla convivenza con il partner attuale (per esempio a motivo dell'educazione dei figli), rinunciare ad avere tra loro rapporti sessuali (n. 84). Nel 1994 la Congregazione per la dottrina della fede si espresse di nuovo «sulla recezione della comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati»:
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Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quelTunione di amore tra Cristo e la chiesa, significata e attuata dall'eucaristia. C’è inoltre un altro peculiare motivo pastorale; se si ammettessero queste persone all'eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della chiesa sull'indissolubilità del matrimonio (n.4).
Già prima, nel luglio 1993, c’era stata una dichiarazione pastorale comune dei vescovi della provincia ecclesiastica del Reno superiore, ossia di Friburgo, Magonza e Rottenburg (Oskar Saier, Karl Lehmann, Walter Kasper), i quali in effetti confermavano in linea di principio l’atteggiamento romano, ma - a determinate condizioni - lasciavano alla decisione di coscienza dei singoli divorziati risposati la possibilità di accostarsi alla comunione. La Congregazione per la dottrina della fede respinse questa via di uscita, ma dovette ammettere «che soluzioni pastorali analoghe furono pròposte da alcuni Padri della chiesa ed entrarono in qualche misura anche nella prassi» (n. 4). Anche se si guarda alla chiesa ortodossa, ci si rende conto che questa non esclude una possibilità ecclesiale di risposarsi - in forma modificata - neppure dopo il divorzio del primo matrimonio, senza che sia stata in questo condannata dalla chiesa latina. - La discussione su questo tema non si è fermata, tanto più che agli occhi di molti il punto di vista della Congregazione per la dottrina della fede non rende giustizia alla situazione reale e la prassi attuata dai parroci e dai fedeli che vivono questo problema non tiene conto delle direttive romane (senza che Roma sembri qui dare importanza a controlli). Un ulteriore capitolo, in cui il papa non si peritò di entrare in collisione con buona parte dell’opinione pubblica, è la dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede, rilasciata dietro la sua esplicita approvazione, sull’omosessualità (Lettera della Congregazione per la dottrina della fede sulla cura pastorale nei confronti delle persone omosessuali, 1987). Un «numero sempre più vasto di persone, anche all’interno della chiesa, esercitano una fortissima pressione per portarla ad accettare la condizione omosessuale, come se non fosse disordinata, e a legittimare gli atti omosessuali» (n. 8).
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Perciò si riafferma: «È solo nella relazione coniugale che l’uso della facoltà sessuale può essere moralmente retto. Pertanto una persona che si comporta in modo omosessuale agisce immoralmente» (n. 7). I vescovi ־־a essi soli è diretta la lettera - devono sforzarsi per una rinvigorita sollecitudine pastorale verso gli omosessuali e «incoraggiarli a condurre una vita casta» (n. 13). Discri־ minazioni, passate e presenti, degli omosessuali vanno del resto deplorate e respinte. - Quando, nel febbraio 1994, il Parlamento europeo approvò una risoluzione per la Commissione europea, sollecitando di rendere possibili alle coppie omosessuali di contrarre matrimonio o almeno di equipararle giuridicamente ai matrimoni, il papa (attraverso remittente vaticana) invitò gli stati europei a lasciar cadere simili progetti e a proteggere la società da un pericolo fondamentale. - Il tema ebbe una forza dirompente anche per il fatto che negli ultimi anni del ministero del papa si venne a conoscenza di numerosi casi di abuso di giovani da parte di preti (soprattutto negli USA). Sebbene ?omosessualità non possa essere associata alla pedofilia, lo sforzo evidente del Vaticano fu di pròteggere i futuri preti da errati sviluppi sessuali - uno dei primi provvedimenti di papa Benedetto XVI è stato il divieto di ordinare preti dei seminaristi che non abbiano saputo rinunciare, almeno nei tre anni precedenti, a esperienze di natura omosessuale (Istruzione della Congregazione per ?educazione cattolica circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al seminario e agli ordìni sacri, 4 novembre 2005). Anche nel 1987 la Congregazione per la dottrina della fede si espresse su «il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione» (10 marzo 1987). Sia la fecondazione in vitro sia gli esperimenti con embrioni o il loro congelamento per successivi impianti vengono rifiutati. Il motivo è la convinzione che «Dal momento in cui ?ovulo è fecondato, si inaugura una nuova vita che non è quella del padre o della madre, ma di un nuovo essere urnano che si sviluppa per proprio conto». «Dal momento del concepìmento, la vita di ogni essere umano va rispettata in modo assoluto, perché ?uomo è sulla terra ?unica creatura che Dio ha voluto per se stesso’...» (n. 20). Anche la fecondazione artificiale eterologa
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contraddice all’intenzione del creatore, il quale ha voluto che la gènerazione di una nuova persona sia «frutto e segno del reciproco personale donarsi dei coniugi» (n. 21). - La fecondazione artificiale omologa è accettabile soltanto come supporto all’atto coniugale, poiché «una fecondazione ottenuta fuori del corpo degli sposi rimane per ciò stesso privata dei significati e dei valori che si esprimono nel linguaggio del corpo e nell’unione delle persone umane» (n. 22). Incontrarono meno opposizione aperta le prese di posizione del papa sull’aborto. In più occasioni si poteva avvertire che la morte di bambini non voluti lo toccava nel profondo. Nella sua enciclica Evangelium vitae (30 marzo 1995) egli riveste la sua convinzione del vestito dell’infallibilità: Con l’autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i vescovi... dichiaro che l’aborto diretto, cioè voluto come fine o come mezzo, costituisce sempre un disordine morale grave, in quanto uccisione deliberata di un essere umano innocente. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla parola di D io scritta, è trasmessa dalla Tradizione della chiesa e insegnata dal magistero ordinario e universale (n. 62).
Le questioni relative all’aborto crearono, nel 1998, delle tensioni con i vescovi tedeschi. Secondo la legge dello stato le donne che avevano intenzione di abortire dovevano prima accedere a un consultorio che rilasciava un attestato di avvenuta consulenza. Per aiutare le donne anche le diocesi tedesche crearono consultori del gènere, naturalmente allo scopo di indicare una via migliore rispetto all’aborto. D ’altra parte, qualora la donna avesse deciso diversamente, grazie all’attestato di consulenza era poi aperta la strada a un’interruzione della gravidanza. Il papa vide in questo una specie di collaborazione e proibì, dopo parecchi colloqui, di continuare questa prassi. Alcuni ambienti cattolici (laici) decisero, in seguito a ciò, di continuare di propria iniziativa i consultori, incluso il rilascio dell’attestato di consulenza (azione ‘Donum vitae'). In questo contesto Giovanni Paolo II parlò anche dell’eutanasia, ossia di «un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore».
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Essa è uno dei «sintomi più allarmanti della ‘cultura della morte’, che avanza soprattutto nelle società del benessere, caratterizzate da una mentalità efficientistica». Essa non è più in grado di ricono־ scere nella sofferenza un valore e si erge a padrona sulla vita e sulla morte. (La stessa cosa vale per il suicidio). D ’altra parte, però, «si può in coscienza rinunciare a trattamenti che procurerebbero sol־ tanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tutta־ via interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi» (n. 64s.). Papa Giovanni Paolo II non ebbe timore di apparire ‘non moderno’ e di contrapporsi frontalmente alle concezioni dominanti, mentre assiduo è stato anche il suo impegno nei confronti di esigenze comuni che riguardano le differenti religioni. - Indimenticabili i suoi appelli sociali, i suoi sforzi per la pace, il suo impegno ecumenico. Giovanni Paolo II fu anche il primo papa che continuamente, in diversi luoghi e in diverse occasioni, chiese perdono. Particolarmente la svolta del millennio fu per lui un’occasione per una rinnovata ripresa della chiesa: «La prospettiva dell’ormai prossimo Giubileo dell’anno 2000 possa far nascere in tutti un atteggiamento di umiltà, capace di operare la necessaria purificazione della memoria storica attraverso la conversione del cuore e la preghiera, così da favorire la domanda e l’offerta reciproca di perdono...» (Lettera apostolica per i 350 anni dell’Unione di Uzhorod, 22 aprile 1996). Egli chiede perdono e chiama per nome le situazioni storiche in cui i cristiani, nel passato millennio, si sono resi corresponsabili di colpe: la separazione tra cristiani ortodossi e cristiani latini; le ero־ ciate; lo sfruttamento degli Indios in America centrale e meridionaie; l’inquisizione; il disprezzo dei riformatori; la condanna di Galileo Galilei; l’umiliazione delle donne, le violenze contro gli ebrei. Egli parla degli effetti della superbia e dell’odio, della volon־ tà di soggiogare altri, dell’ostilità nei confronti dei seguaci di altre religioni e contro gruppi sociali che non potevano difendersi, co־ me immigranti, sinti e rom. - A taluni queste confessioni di colpa apparvero troppo incomplete o troppo poco concrete, tuttavia la chiesa guadagnò in credibilità e aprì nuove possibilità di dialogo con scienziati e appartenenti ad altre religioni.
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Dal gennaio 2001 il mondo seppe che il papa soffriva del morbo di Parkinson. Camminare, stare seduto, parlare divennero per lui attività sempre più faticose. Il 1 febbraio 2005 un raffreddore con difficoltà di respiro lo costrinse al ricovero in ospedale. Dopo breve miglioramento, la ricaduta era prevedibile. Egli morì il 2 aprile. Le esequie furono la documentazione di un rispetto da parte del mondo intero, di un’attenzione che egli si era conquistato e di una venerazione e simpatia ampiamente diffuse, anche tra i giovani.
§ 63. Sviluppi recenti nella chiesa La nave che un papa guida viene essa stessa sostenuta da una corrente sulla quale egli non è padrone. Si c già parlato della nuova coscienza che si è andata formando nell’uomo ‘moderno’ a partire dalle esperienze fatte nel XX secolo e si è manifestata anche in nuove aspettative dei laici e delle donne nei confronti della chiesa. Tutto si trova, per la verità, in continuo mutamento, e in esso nessuno è unico attore. Così, in quasi tutti gli ambiti è possibile documentare uno sviluppo legato a Roma e, per altri aspetti, uno indipendente da Roma. Qui merita sottolineare tre straordinarie correnti: il movimento ecumenico, la coscienza sociale e l’esperienza di un mondo comune.
1. Il movimento ecumenico Degli inizi del movimento ecumenico si è già parlato e anche dello scetticismo della chiesa cattolica nell’impegnarsi in questo campo - temeva di dover con questo rinunciare alla concezione di chiesa che essa aveva sempre espresso. Tuttavia, in seguito, i sistemi profondamente antireligiosi del nazionalsocialismo e del comunismo spinsero formalmente a una resistenza comune e a un reciproco sostegno. Il concilio vide in questo avvicinamento un segno dello Spirito Santo. In uno specifico decreto, quello sull’ecumenismo (Unitatis redintegratio), esso esorta tutti i fedeli cattolici affinché «riconoscendo i segni dei tempi, partecipino con entusiasmo
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all'opera ecumenica» (n. 4). Aperta la finestra, grazie al concilio spirò un vento carico di promesse per tutti gli ambiti della chiesa. Incontri, dialoghi, discussioni con ortodossi, protestanti, anglicani; collaborazione sul piano parrocchiale, liturgie ecumeniche, setlimane di preghiera, dichiarazioni comuni; nuova attenzione per i concittadini ebrei, per la tragedia dell'olocausto, per gli interessi di Israele. Ciò che Paolo VI aveva iniziato nel 1965, incontrando il patriarca Atenagora e cancellando (da entrambe le parti) le scomuniche, venne continuato da Giovanni Paolo II con dei gesti di grande effetto. Nel 1983, a 500 anni dalla nascita di Martin Lutero, egli fu il primo papa a porre piede in una chiesa evangelica - la chiesa di Cristo a Roma - e nel suo discorso indicò il riformatore come «cristiano profondamente credente». Ugualmente incoraggiante fu, nel 1984, la sua visita di più giorni al Consiglio ecumenico delle chiese a Ginevra, con la promessa di inviare ufficialmente dei delegati cattolici alla quinta conferenza mondiale del Consiglio ecumenico delle chiese, per fede e costituzione della chiesa (Faith and Order), a Santiago de Compostela nel 1995. Destò impressione il suo invito, rivolto a tutte le confessioni, a pregare insieme ad Assisi per la pace nel mondo (1986). Dell'incarico di Cristo a conservare l'unità si occupò, nel 1995, l'enciclica Ut unum sint. Il papa affidò la sua speranza di una erescente unità non solo al lavoro dei teologi: Oltre alle divergenze dottrinali da risolvere, i cristiani non possono sminuire il peso delle ataviche incomprensioni che essi hanno ereditato dal passato, dei fraintendimenti e dei pregiudizi degli uni nei confronti degli altri. Non di rado, poi, l’inerzia, l’indifferenza e un’insufficiente conoscenza reciproca aggravano tale situazione. Per questo motivo, l’im pegno ecum enico deve fondarsi sulla conversione dei cuori e sulla preghiera, le quali indurranno anche alla necessaria purificazione della memoria storica (n. 2). Quale vescovo di Roma so bene, e lo ho riaffermato nella presente Lettera enciclica, che la comunione piena e visibile di tutte le comunità, nelle quali in virtù della fedeltà di Dio abita il suo Spirito, è il desiderio ardente di Cristo. Sono convinto di avere a questo riguardo una responsabilità particolare, soprattutto nel constatare l’aspirazione
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ecumenica della maggior parte delle comunità cristiane e ascoltando la domanda che mi è rivolta di trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun m odo all’essenziale della sua missione, si apra a una situazione nuova... Compito immane, che non possiamo rifiutare e che non posso portare a termine da solo (n. 95s.).
Fu subito evidente che il papa polacco, da una parte, grazie alla sua amabilità, con richieste di perdono per condotte errate della chiesa nel passato, attraverso contatti personali diretti (visite e inviti a venire a Roma), migliorava sensibilmente il clima nei confronti delle chiese separate. Dall’altra parte, là dove si trattava di mutare posizioni, anche se queste non erano dogmaticamente fissate, non accadeva nulla o poco. Non si decentralizzò né si rinunciò a bruschi trattamenti - per esempio all’indizione di una ‘indulgenza giubilare’ per l’anno 2000, dopo avere raggiunto un accordo proprio con i protestanti su una comprensione comune della giustificazione - e neppure a canonizzazioni di persone che certamente avevano testimoniato la loro fede, ma agli occhi dei loro governi o dei loro avversari religiosi avevano ampiamente trasceso la misura corretta. Una difficoltà di tipo particolare consisteva pure nel fatto che, in effetti, delle commissioni di teologi elaborarono delle carte di consenso (per esempio nel 1982 il ‘documento di Lima’ su battesimo, eucaristia e ministero, documento che fece scalpore e che era frutto della collaborazione di teologi anglicani, ortodossi, protestanti e romano-cattolici), ma queste carte non vennero poi confermate dalle direzioni ecclesiastiche, cosa in cui specialmente Roma fu assai reticente, o soltanto dopo alcuni anni (così, il ‘documento di Lima’ solo dopo cinque anni, in forma ‘semiufficiale’, sotto il titolo «Una presa di posizione cattolica...». In essa il documento viene certo apprezzato come un «risultato di primo piano del processo ecumenico», ma poi si precisa che i dodici teologi cattolici che vi hanno partecipato avrebbero espresso qui soltanto la loro opinione personale). L’unico documento ratificato ufficialmente da entrambe le parti è rimasta la «Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione», dell’ottobre 1999, alla quale avevano lavorato per ventotto anni teologi protestanti e cattolici. In una Precisazione
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ufficiale comune viene dato conto delle riserve avanzate da parte cattolica, si tratterebbe, sì, di un accordo, ma non ancora completo: Sulla base degli accordi raggiunti nella dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione la lega mondiale luterana e la chiesa cattolica dichiarano comunemente: «La comprensione della dottrina della giustificazione esposta in questa Dichiarazione mostra !,esistenza di un consenso tra luterani e cattolici su verità fondamentali di tale dot־ trina della giustificazione» (n. 40). Alla luce di detto consenso la lega m ondiale luterana e la chiesa cattolica dichiarano comunemente: «Uinsegnamento delle chiese luterane presentato in questa Dichiarazione non cade sotto le condanne del concilio di Trento. Le condanne delle confessioni luterane non colpiscono !,insegnamento della chiesa cattolica romana così come esso è presentato in questa dichiarazione» (n.41).
Più avanti, poi, si dichiara: «Sulla base del consenso raggiunto è auspicabile... [sulla dottrina della giustificazione] un ulteriore dialogo... per giungere a una piena comunione ecclesiale, a una unità nella diversità, nella quale le differenze che permangono vengano ‘riconciliate’ e non abbiano più forza di dividere». Se si considera il lungo tempo, che evidentemente è necessario per il lavoro dei teologi, e l’enorme prudenza nel non esporre le proprie convinzioni di fede neppure a un’ombra di incomprensione, si dovrà certo dare ragione a Giovanni Paolo li che parlò di un «compito mostruoso» che egli da solo non poteva portare a termine. Un sensibile raffreddamento nelle relazioni con i partner ecumenici portò la dichiarazione Dominus ] esus della Congregazione per la dottrina della fede, del 6 agosto 2000. Essa intendeva «richiamare ai vescovi, ai teologi e a tutti i fedeli cattolici alcuni contenuti dottrinali imprescindibili», perché vedeva «l’annuncio missionario della chiesa» messo in pericolo da «teorie di tipo relativistico» (n. 3s.). Qui si pone di nuovo in risalto la singolarità della chiesa cattolica, la sola che possa rivendicare il nome di chiesa: Le chiese che, pur non essendo in perfetta comunione con la chiesa cattolica, restano unite a essa per mezzo di strettissimi vincoli, quali la successione apostolica e la valida eucaristia, sono vere chiese partico
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lari... Invece le comunità ecclesiali che non hanno conservato l’episcopato valido e la genuina e integra sostanza del mistero eucaristico, non sono chiese in senso proprio; tuttavia i battezzati in queste comunità sono dal battesimo incorporati a Cristo e, perciò, sono in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la chiesa (n. 17).
Il non riconoscimento del titolo di ‘chiesa’ urtò i partner cristiani nel dialogo, ma non causò pregiudizio alla decisione, da entrambi le parti, di continuare sulla strada deirecumenismo. Nessuno pensò di annullare di nuovo i progressi ormai compiuti: per esempio, il matrimonio ecumenico, raccordo sull’educazione religiosa dei figli in un ‘matrimonio misto’ (il partner non cattolico non ha bisogno di rilasciare alcuna assicurazione di educare i figli cattolicamente; il cattolico promette soltanto, per quando dipende da lui, di far battezzare i figli secondo il rito cattolico), le liturgie ecumeniche, i gruppi di lavoro comune... ciò a cui i fedeli ora spingevano era l’ospitalità eucaristica - da parte evangelica un mezzo per pròmuovere unità, da parte cattolica una conseguenza dell’unità compiuta (e perciò non ancora garantibile). Quanti anni passeranno dalle dichiarazioni teologiche, è cosa non prevedibile. Un primato papale, come viene oggi definito e praticato nella chiesa cattolica è difficilmente accettabile per le altre ‘comunità ecclesiali’. Sono venute a galla anche altre difficoltà: ordinazioni di donne a prete e a vescovo, ora non soltanto nella chiesa evangelica, ma anche nella chiesa anglicana. Le relazioni con gli ortodossi sono attualmente gravate dal fatto che il Vaticano istituisca diocesi cattoliche in Russia. Tuttavia, nonostante tali barriere, crescono la consapevolezza e la prassi di testimoniare la fede davanti a un mondo indifferente o ateo, come dimostra per esempio il primo congresso comune del 2003 ad Augusta. Un interlocutore tutto particolare nel dialogo ecumenico è il popolo ebraico. Il peso dei progrom antiebraici del Medioevo - specialmente durante le crociate - e poi della troppo scarsa resistenza durante l’olocausto nazista, rese difficile a entrambi le parti staccarsi dal modo tradizionale di vedere l’altro. Alla fine si trovò il coraggio di chiedere perdono e di vincere la paura che l’altro potesse addossare a uno più di quanto egli fosse disposto a concedere. Le
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ammissioni di colpa dei vescovi francesi (1988) e tedeschi (1995), di aver protestato con troppo poca chiarezza e vigore durante il regirne di Hider contro la persecuzione degli ebrei, erano state perciò di particolare importanza. C’erano stati già prima gesti di avvicinamento: l’incontro di Giovanni Paolo II con i rappresentanti ebrei nel 1980 a Magonza (durante la sua visita in Germania), la sua visita alla sinagoga di Roma (1986), la decisione del Vaticano di instaurare relazioni diplomatiche con lo stato d’Israele (1994). Il 16 marzo 1998 seguì poi una dichiarazione sulla Shoah. Il papa deplorò che la resistenza spirituale e la concreta azione di altri cristiani non era stata come ci si sarebbe potuti aspettare da un discepolo di Cristo. Condannò Pantisemitismo energicamente e chiese con forza ai cattolici di «rinnovare la coscienza delle radici ebraiche della loro fede». Nella maniera più efficace, tuttavia, ha purificato il doloroso passato la visita di Giovanni Paolo II in Israele nel marzo 2000. Nello Yad Vashem, il luogo memoriale dell’olocausto, egli ripetè «che la chiesa è profondamente rattristata a motivo dell’odio, della persecuzione e di tutti le azioni antisemitiche che in qualunque luogo siano mai state compiute da cristiani... In questo luogo della memoria io prego con insistenza che il no.stro dolore per la tragedia che il popolo ebreo ha patito nel XX secolo possa condurre a un nuovo rapporto tra cristiani ed ebrei». Fino a oggi il dialogo religioso ha luogo soltanto tra una piccola élite, ma senza ampi effetti. In quanto entità religioso-statale Israele si attende dai suoi amici che assumano e sostengano la prospettiva di Israele anche nel conflitto con i palestinesi. Fornire questo in modo assoluto è per la curia impossibile, perché essa vuole portare i fratelli tra loro ostili ad avvicinarsi nuovamente l’un l’altro, anziché approfondire il fossato con prese di posizione di parte. Dialoghi teologici con musulmani sono sporadicamente in corso già da circa venticinque anni, ma sono esposti alle tensioni della convivenza, soprattutto in Germania e Francia. I nativi temono uno straniamento della loro tradizione cristiana, i musulmani rivendicano la libertà di religione in vigore. Portando il velo, evitando lo sport praticato nelle scuole, tenendo lontane le donne dalla vita pubblica, i musulmani si presentano come un gruppo a parte, difficile da integrare. La chiesa cattolica si è al riguardo impegnata
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molto presto per una convivenza segnata da maggior comprensione. Già nel 1982 la Conferenza episcopale tedesca diffuse un sussidio in ordine al lavoro: ‘Musulmani in Germania'. L'informazione sull'Islam fa parte anche dei contenuti dell'istruzione religiosa. È progettata pure (in via sperimentale) l'introduzione di un insegnamento della religione islamica nelle scuole pubbliche. D'altra parte, sia in Francia sia in Germania, è proibito alle insegnanti di portare il velo in scuola. Anche la costruzione di moschee incontra, per quanto concerne collocazione e grandezza, parecchie difficoltà. Un ecumenismo di tipo particolare scaturisce dall'iniziativa di Hans Kiing (nato nel 1928), teologo cattolico largamente conosciuto, direttore di un istituto ecumenico autonomo presso l'università di Tubinga. Partendo dal riconoscere che «non è possibile pace nel mondo senza pace tra le religioni» e «nessuno può oggi sopravvivere senza un éthos mondiale», egli lavora già dal 1990 insieme a rappresentanti delle grandi religioni mondiali per porre un fondamento di convinzioni etiche comuni. Un congresso tenuto a Chicago nel 1993, che si è costituito come Council foraParlia־ ment ofthe World Religions, si è impegnato a perseguire i seguenti obiettivi: non violenza e rispetto della vita; solidarietà e giusto ordine economico; tolleranza e una vita nella veracità; equiparazione e reciprocità tra uomo e donna. - H segretario generale dell'ONU Kofi Annan aveva già prima (nel 2001) invitato Kùng a elaborare con altri esperti un «Manifesto per il dialogo tra le civiltà», nel quale sono confluite ampiamente le idee del «Progetto di un éthos mondiale».
2. Apertura alla giustizia sociale Nel 1848 Karl Marx e Friedrich Engels pubblicarono il Manifesto del partito comunista. Esso informava gli operai sulle cause dello sfruttamento e sulla strada per porvi fine. 43 anni dopo Leone X n i scriveva la prima enciclica sociale (Rerum novarum, 15 maggio 1891). Lo fece perché prevedeva sviluppi funesti: «L'ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall'ordine politico passare nell’ordine
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simile dell’economia sociale» (n. 1). Al contrasto, secondo Marx insanabile, tra capitale e lavoro papa Leone contrappose il principio dell’armonia: «Come nel corpo umano le varie membra si ac״ cordano insieme e formano quell’armonico temperamento che si chiama simmetria, così la natura volle che nel civile consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi, e ne risultasse l’equilibrio» (n. 15). Di fronte alla miseria dei ‘proletari’ già molto prima dell’enciclica laici e sacerdoti avevano cercato delle vie di uscita (in Germania, per esempio, il ‘padre degli apprendisti’ Adolf Kolping e il vescovo Wilhelm Emmanuel von Ketteler). Ora questo problema era diventato preoccupazione comune della chiesa. Ricordando la «stupenda enciclica Rerum novarum», Pio XI riprese nel 1931, nella Quadragesimo anno, lo stesso tema. Il linguaggio con cui le violenze del capitale sono criticate dal papa si era fatto più duro (ma anche gli operai vengono messi di fronte ai loro errori): Quanto veniva prodotto e i frutti che se ne ricavavano, ogni cosa il capitale prendeva per sé, lasciando appena all’operaio tanto che bastasse a ristorare le forze e a riprodurre. Giacché andavano dicendo che per una legge economica affatto ineluttabile, tutta la somma del capitale apparteneva ai ricchi, e per la stessa legge gli operai dovevano rimanere in perpetuo nella condizione di proletari, costretti cioè a un tenore di vita precario e meschino (n. 54).
Fu poi Giovanni Paolo II a porsi energicamente dalla parte del lavoro. Il fatto che egli già nel terzo anno del suo pontificato affrontasse questo tema è un segno dell’importanza che egli vi annetteva (enciclica Lahorem exercens, 14 settembre 1981): Questa verità (cioè che l’uomo è soggetto del lavoro), che appartiene al patrimonio stabile della dottrina della chiesa, deve esser sempre sottolineata in relazione al problema del sistema di lavoro, e anche di tutto il sistema socio-economico. Bisogna sottolineare e mettere in risalto il primato dell’uomo nel processo di produzione, il primato dell'uomo di fronte alle cose. Tutto ciò che è contenuto nel concetto di ‘capitale’ - in senso ristretto - è solamente un insieme di cose. L’uomo come soggetto del lavoro, e indipendentemente dal lavoro che compie, Tuomo, egli solo, è una persona (n. 12).
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Le modalità secondo cui i supremi pastori hanno affrontato il tema - anche Giovanni XXIII e Paolo VI hanno pubblicato delle encicliche sociali —hanno cambiato la chiesa sia all’interno sia nel suo rapporto con il ‘mondo’. Qui essa, fin dall’inizio, dovette confrontarsi con tendenze pericolose delle insorgenti teorie sociali. La dottrina sociale crebbe, in genere, sul terreno di un interesse per l’aldiqua. L’abbandono del pensiero metafisico, che era stato fino ad allora la base delle affermazioni sull’uomo, si riflette simboli־ camente nella nota espressione di Marx, secondo la quale finora i filosofi avevano interpretato la realtà, mentre l’importante era cambiarla. Anche oltre si spinge il suo contemporaneo Ludwig Feuerbach (18041872)־, il quale dichiara che fine della storia è di sostituire Dio con l’uomo: Uamore per Tuomo non può essere un derivato; esso deve diventare !’originario. Solo allora l’amore diviene una forza vera, sacra, affidabile. Se l’essenza dell’uomo è la suprema natura dell uomo, anche nella pratica la suprema e prima legge deve essere l’amore dell’uomo per l’uomo. Homo homini Deus est [L’uomo è dio per l’uomo] - questo è il supremo principio pratico - questo è il punto di svolta della storia del mondo (L’essenza del cristianesimo, 1849).
Naturalmente i credenti non erano disposti a condividere questi punti di svolta, e tuttavia si ricordavano del comandamento dell’amore del prossimo. Non nella discussione teorica, ma nella coscienza generale si delineò l’equiparazione fede = amore del prossimo. Allo stesso tempo crebbe (nel periodo antecedente le guerre mondiali) la fiducia che l’eliminazione di povertà e sfruttamento potesse condurre a una ‘salvezza generale’ dell’uomo - la via per arrivarvi non doveva rifuggire neppure dall’uso della violenza (rivoluzione). L’amore per i poveri, in verità, la chiesa l’aveva sempre predicato, ma essa aveva allo stesso modo difeso il diritto alla proprietà. I ricchi avevano il dovere di non chiudere gli occhi di fronte al povero Lazzaro, ma di aiutarlo mediante elemosine. Le analisi marxiste resero a poco a poco attenti alle ‘strutture’ della povertà, che non dipendevano dalla durezza di cuore di individui, ma dai sistemi economici. L’appello ai cuori si dilatò fino a diventare appello allo
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stato, a cambiare con leggi appropriate le strutture. Nel far questo, però, la chiesa divenne scomoda, e i conflitti aumentarono. Lo si vide in modo particolarmente chiaro con le dittature mili tari dell'America centrale e meridionale. Ne fu una palese e violenta illustrazione Tassassimo dell’arcivescovo di San Salvador, Oscar Romero, che si era pronunciato per una riforma agraria a favore dei piccoli contadini privi di mezzi. Proprio durante la celebrazione della messa egli venne colpito da una raffica di proiettili (1980), e gli autori non furono mai individuati. Sette anni più tardi nella stessa città vennero assassinati sei gesuiti, pur essi dichiaratisi dalla parte dei contadini. Assassini o tentativi di assassinio analoghi in altri stati: Brasile, Guatemala, Messico, Colombia. Un problema per la chiesa nacque anche da un’altra forma di pastorale. La nuova consapevolezza del significato delle strutture, insieme con l’attenzione per i poveri, spinse preti e anche vescovi a scendere nel campo politico. In America latina si sviluppò così la ‘teologia della liberazione’: l’idea che l’amore del prossimo non richiede soltanto di dar da mangiare agli affamati, ma anche di lottare contro strutture ingiuste, contro le cause della fame. Dei sacerdoti divennero così organizzatori anche della resistenza politica contro lo sfruttamento. Roma vide in questo uno scostarsi dal prioritario compito della chiesa, la cura pastorale, e proibì ai religiosi di compiere attività politica. Alla teologia della liberazione - i suoi capi furono il francescano Leonardo Boff e il teologo Gustavo Gutiérrez - venne rimproverato anche di utilizzare un concetto riduttivo di ‘povertà’, che nel vangelo non è primariamente economico, bensì visto in relazione a Dio. Strettamente connesso a ciò era il concetto di ‘popolo’ quale centro vero e proprio dei dinamismi storici. Le ‘comunità di base’ non organizzavano solamente la loro vita religiosa, ma anche istituzioni sociali (cura dei bambini e dei malati, assistenza sanitaria) e forme di economia (istituzione di cooperative, pianificazione della produzione e degli investimenti). La tradizionale funzione universale di guida del ‘parroco’ si trasformò nel ‘collaboratore fraterno’, le cui funzioni religiose non erano in effetti messe in questione, egli però veniva compreso più come ‘organo’ che come ‘capo’ della comunità. In realtà in questo modo veniva a crearsi, non in modo
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teorico ma nello stile dei rapporti e di vita, un certo contrasto rispetto alla tradizione gerarchica della chiesa. Roma guardava perciò con diffidenza tali sviluppi, ma non si tirò indietro dall'impegno sociale. Alla prima enciclica sul lavoro umano Giovanni Paolo II fece seguire una seconda: Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987). Questa volta i paesi del cosiddetto terzo mondo sono al centro. L'accento particolare dell'enciclica sta nel riflettere sul concetto di ‘sviluppo'. Esso non può essere compreso soltanto economicamente, ma deve riferirsi all'uomo come un tutto e non solo a uno stato, ma a tutti i popoli. Al tempo stesso il papa rinvia a un ‘supersviluppo' di fronte a cui oggi ci si trova, il quale è egualmente inammissibile, perché, come il primo [il sottosviluppo], è contrario al bene e alla felicità autentica. Tale supersviluppo, infatti, consistente nell’eccessiva disponibilità di ogni tipo di beni materiali in favore di alcune fasce sociali, rende facilmente gli uomini schiavi del ‘possesso’ e del godimento immediato, senza altro orizzonte che la moltiplicazione o la continua sostituzione delle cose, che già si posseggono, con altre ancora più perfette (n. 28).
È dovere di ogni singolo impegnarsi per lo sviluppo dei popoli ed è dovere di tutti gli stati collaborare a realizzarlo (n. 32). Per la chiesa «l’amore preferenziale per i poveri» è una proprietà essenziale. «Essa si riferisce alla vita di ciascun cristiano, in quanto imitatore della vita di Cristo, ma si applica egualmente alle nostre responsabilità sociali e, perciò, al nostro vivere, alle decisioni da prendere coerentemente circa la proprietà e l’uso dei beni» (n. 42). Una sintesi delle caratteristiche più importanti della dottrina sociale cristiana Giovanni Paolo II la rese pubblica nella sua enciclica Centesimus annus, per il centenario (1991) della Rerum novarum. Allo stesso tempo egli parla qui di un nuovo tipo di proprietà: Ma un’altra forma di proprietà esiste, in particolare, nel nostro tempo e riveste un’importanza non inferiore a quella della terra: è la proprietà della conoscenza, della tecnica e del sapere. Su questo tipo di pròprietà si fonda la ricchezza delle nazioni industrializzate molto più che su quella delle risorse naturali... Così diventa sempre più evidente e determinante il ruolo del lavoro umano disciplinato e creativo e - qua-
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le parte essenziale di tale lavoro - delle capacità di iniziativa e di imprenditorialità (n. 32).
Non soltanto il papa, ma anche parecchie conferenze episcopali pubblicarono discorsi sociali: Brasile, Argentina, Cile nel 1977, Nicaragua e Panama nel 1978, USA nel 1986, quella austriaca nel 1990, quella inglese nel 1996, quella tedesca nel 1997. Queste ultime erano un’elaborazione comune con la chiesa evangelica - una 4prima ecumenica’, che confermò ancora una volta: «Nella prioritaria opzione per i poveri quale leitmotiv dell’agire sociale si concretizza l’unità di amore di Dio e amore del prossimo. Nella pròspettiva di un’etica cristiana perciò ogni agire e ogni scelta nel campo sociale, politico ed economico devono essere commisurati alla questione di quanto riguardino i poveri, siano utili per loro e li rendano capaci di un loro proprio agire responsabile» (n. 107) -. Per dare fondamento e orientamento alle molteplici iniziative cattoliche, il Pontificio consiglio per la giustizia e la pace pubblicò, nel 2004, il Compendio della dottrina sociale della chiesa. In una forma di rara unanimità (malgrado alcuni contrasti) Pimpegno sociale unì e continua a unire clero e laici e le confessioni religiose tra di loro. Le ricorrenti assemblee annuali delle Opere assistenziali cattoliche Misereor (dal 1959), Adveniat (dal 1961) e dell’evangelica Vane per il mondo (dal 1959), accanto a numerose iniziative minori, fanno sì che i bisogni dei terzo mondo non vengano dimenticati. Un impegno sociale specifico balzò, nel 1997, ancora una volta all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale: a Calcutta moriva la ottantasettenne Madre Teresa. La semplice suora Agnes Bojaxhiu, nata a Skopje (Macedonia) nel 1910, ebbe funerali di stato; circa 350 rappresentanti politici e religiosi esteri, oltre ai rappresentami indiani di indù, buddhisti, musulmani, sikh, parsi... resero onore a una donna che era stata per tutti i più poveri, a prescindere da confessioni e ideologie, una madre. La sua comunità, le Missionaries ofCharity, contava alla sua morte già 4.050 consorelle e oltre 400 fratelli. Già nel 1979 Madre Teresa aveva ricevuto il premio Nobel per la pace e a soli sei anni dalla morte venne dichiarata beata (19 ottobre 2003).
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3. Lesperienza di un mondo comune L e d u e guerre, lo ab biam o già d etto , resero evid en te ch e la p a ce n o n si p u ò più assicurare ricorrendo alla ‘ragione’ d el sin g o lo stato, m a soltan to m ed ian te u n o sforzo co m u n e. P er lo g ica interna sorsero organizzazioni co m p lessive, co m e la Società d elle N a zio n i e p o i le N a zio n i U n ite (O N U ), m a an ch e alleanze m ilitari abbraccianti grandi zo n e della terra. P iù tardi rispetto a q uan to im m agi־ n avano gli scienziati, ossia ch e una guerra atom ica avrebb e p o tu to significare la fine della civiltà in tu tto il m o n d o , il nazion alism o era servito da m od ello di a u to co m p ren sio n e p o litica (seb b en e ancora o g gi parecch i governi so tto lin ein o ch e p er lo ro so n o d ecisivi esclusivam en te gli interessi d el p rop rio stato). A m b ito per am bito, n eg li u ltim i d ecen n i d iven ta co m p ito com une: la cura d e ll’am biente, la lim itazion e della crescita d ella p o p o la zio n e, la p rev en zion e di epid em ie, la sicurezza d el rifornim ento d i energia per il futuro, l ’ap־ p ro w ig io n a m e n to di acqua p otab ile, la elim in azion e d ella fam e e della povertà. A l tem p o stesso si fa tan gib ile u n ’esperienza quasi fisica d ella vicinanza di altri stati e p erson e. In ogn i m o m e n to ogn u n o p u ò com u nicare co n altri tram ite telefo n i cellulari, o g n u n o p u ò aver parte al flusso di in form azion i grazie ai m od ern i m ezzi d i in ־ form azion e (in tern e t ecc.), ogn i città è raggiungibile p er via aerea n e ll’arco di u n o o d u e giorni. L e sfid e ch e n e risultano n o n le hann o ‘create’ n é la chiesa ufficiale n é i laici, m a essi p o sso n o reagirvi in m olti m od i, p o sso n o ch iu dersi o aprirsi, p o sso n o reagire co n paura o co n fiducia, m ettersi alla ricerca d i so lu zio n i o irrigidirsi in u n sen tim en to catastrofale. È stato un b en e osservare co m e G io v a n n i X X III abbia oltrepassato le m ura del V aticano e P a o lo V I i co n fin i d ell’Italia. Il ‘papa viaggiatore’ G iova n n i P a o lo II su p erò tutti i su oi p red ecessori. I su o i m otivi erano difficili da spiegare. La sua visita era rivolta ai cattolici d ei sin goli stati? V olle dim ostrare la sua ven erazion e p er i ‘lu o g h i sa n ti’? In te se p o rre d eg li a cc en ti p o litici? O p era re p er l ’unità d ei cristiani? Fare esperienza d i m asse entusiaste? R icon durre d eviam i sulla retta via? P er ciascuna d elle su d d ette in ten zio ni si p otreb b ero fare d ei viaggi, m a n essu n m otivo, p reso in sé, li sp iega n el co m p lesso . È certo, p erò , ch e il su o ‘stile ’ alla lu nga
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p iacq ue, ch e egli era e d iv en n e u n papa ch e riscosse il co n sen so d ell'o p in io n e p u b b lica m ond iale. C he tip o d i p ap a c d i ch iesa d esid era il m o n d o m o d ern o ? P er q u an to am pia p o ssa essere la b an d a della risposta, !,esem p io d i G io v a n n i P a o lo II p u ò p erò su ggerire alcu n e d ed u zio n i. S o rp ren ־ d en te fu in lu i, p er esem p io , la naturalezza co n cu i entrava in co n tatto co n le p erso n e e i rap p resen tan ti p iù diversi. La sua c o n sa ־ p ev olezza d i assolvere u n c o m p ito al quale D io lo aveva ch iam ato, v an ificò o g n i se n so di in feriorità o di superiorità, n é lo disturbava il fatto ch e altri riten essero o p p o r tu n o o m en o il su o m o d o di fare. C o sì egli n o n d isd e g n ò d i avere co llo q u i co n in terlo cu to ri di o p p o sta p arte p olitica. R icev ette p iù v o lte Y assir A rafat (1 9 8 2 , 1996, 1998, 2 0 0 0 ) e S im o n P erez (1 9 8 5 ), Y itzh ak R abin (1 9 9 4 ), B enjam in N etan ya h u (1997); A riel Sharon (1 9 9 9 ) e M oh am m ad K hatam i, p resid e n te d ell'Iran (1999); i p resid en ti d eg li U S A e F i־ d el C astro (1996; visita a C ub a, 1998); il sin dacalista p o la cc o W alesa (1981; 1991) e il ca p o di stato della P o lo n ia , il co m u n ista Ja־ ruzelski (1 9 8 7 ). N e l d icem b re 1981 scrisse ai p resid en ti d i U S A , U R SS, G ran Bretagna, F rancia p er m ettere in guardia dai p erico li d i u na guerra atom ica; a G e o r g e B u sh sen io r e a Saddam H u ssein, p er im p e d ire la prim a guerra d el G o lfo (1 9 9 1 ), al p rim o m inistro di Israele N etanjah u e ad A rafat, p er so llecita re il p ro ce sso d i p a ce (1 9 9 7 ), m an d ò in viati sp ecia li al g o v ern o d ell'Iraq (2 0 0 3 ) e al p resid e n te G e o rg e W. B u sh (2003) p er evitare lo sc o p p io di una se co n d a guerra d el G o lfo . R isp etto agli o b iettiv i d ei su o i interven ti i risultati (dapprim a) m an caron o, m a n essu n o gli rim p ro־ vero d i p ersegu ire in teressi d ella chiesa o d'altro gen ere. E g li soffri m o lto p er q uesta - ai su o i o c c h i p rovvisoria - im p o ten za della ‘b u on a cau sa’, cred ette p erò alle forze d el rin n ovam en to e apparten n e a q u ei ‘vecch i' (co m e il p riore di Taizé, R oger S ch utz), n o n m o lto n u m erosi, ch e n ella g io v e n tù n o n la m en ta ro n o prim aria־ m en te la cad u ta d ei lo r o p ro p ri ideali, m a trasm isero la lo r o fidu eia e il lo ro en tu siasm o. U n a secon d a caratteristica n el p o n tifica to di G iovan n i P a o lo II è il su o rap p orto con la politica. In lu i diventa particolarm ente evid en te ch e alla chiesa n o n è p o ssib ile esercitare alcun in flusso p olitico. P erciò si im p o n e n o n astinenza politica, m a d ed izio n e n el n o
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m e d ei valori um ani com u n i. La n u ova situ azion e ch e caratterizza il p resen te, indicata an ch e co m e 'glob alism o', ha già cam b iato la chiesa ed è am piam ente all'opera. L'accresciuta accessibilità di sap ere e in form azion e, i dilatati spazi d i libertà in terp ellano il 'cristiano p er con vin zion e', ossia m en tre prim a - a ec cezio n e d ei tem p i di p ersecu zion e - am b ien te e co n testo statale co n d iv id ev a n o la stessa religiosità, essa è ora divenuta m o lto p iù fortem en te una decisio n e personale. Q u esto porta n ecessariam en te alla p o ssib ilità di sentirsi isolati e a una ridu zion e n um erica, m a al tem p o stesso a una com u n io n e p iù in tensa tra i credenti.
4. Il pontificato di Benedetto XVI Il 19 aprile 2 0 0 5 , terzo giorno d el con clave, v en n e p roclam ato n u o v o p ap a J o se p h R atzinger, c h e sc e lse il n o m e di B e n e d e tto X V I. G li elettori si erano d ecisi p er co lu i ch e era stato p er lu ngh i anni p refetto della C on gregazion e p er la dottrina della fed e, il card in a ie certam en te p iù c o n o sc iu to . E ssi co n ferm a ro n o c o sì a llo stesso tem p o il su o p red ecesso re G io v a n n i P ao lo II, p o ic h é tra i d u e n o n si era m ai co n o sciu ta u n'om bra di divergenza. J o sep h R atzinger è n ato il 16 aprile 1927 a M arktl am Inn (Baviera superiore). D alla p icco la località ci so n o soltan to 6 0 km p er arrivare a Passau, la se d e d el vesco v o . Il p adre era gen d arm e, la m adre aiutava in diversi alberghi co m e cu oca. U na sorella e d u e fratelli con d ivisero l ’infanzia di Josep h . G li u ltim i tre anni d i guerra lo costrinsero a far parte della d ifesa antiaerea e d el servizio lavorativo nazionale o b b ligatorio. R esistette alla p ression e d ei su periori p erch é si arruolasse n el co rp o d elle SS dichiarando ch e egli voleva in seguito farsi p rete. N e l 1946 in iziò a studiare teo lo g ia a Frisinga e a M on a co , e n el giu g n o 1951 v en n e ordinato prete. La sua co n oscen za della teo lo g ia e la sua acuta in telligen za lo segnalaron o p er una carriera d i p rofessore, prim a a Frisinga, p o i a B on n , M iinster, T u bingen e R egensburg. Il p a sso ch e lo p ortò a R om a fu co m p iu to n el 1962, allorch é il cardinale Frings, arcivescovo di C oIonia, scelse il p rofessore di d ogm atica c o m e su o co n su len te personaie al co n cilio V aticano II. N e l m arzo 1977 P a o lo V I lo n o m in ò arcivescovo di M o n a co , n el g iu gn o d ello stesso anno d iv en n e car-
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d inaie - e in tale qualità p artecip ò, l ’anno seg u en te, alla elezio n e d i G io van n i P a o lo I e di G io v a n n i P a o lo IL N e l 1981 in com in cia il p erio d o di p refetto della C ongregazione per la d ottrina della fede. C on tem p oran eam en te è presidente della P ontificia com m issio n e b ib lica e della C o m m issio n e teologica internazionale. L e su e p ro fo n d e co n o scen ze teo lo g ich e v en g o n o ricon o sciu te da tutti (sette d ottorati honoris causa). Se e in ch e m isura egli darà alla chiesa u n ’im pronta diversa da quella di G io v a n n i P aolo II n on è oggi, a p o ch i m esi dalla sua elezio n e, ancora p rev e־ dibile. P iù volte egli ha n el frattem po dichiarato la sua in ten zion e di portare avanti l ’ecu m en ism o. È stato ritenuto m o lto p ositivo ch e egli, su b ito d o p o la sua elezio n e, abbia assicurato la sua partecipazio n e alle giornate m ond iali della gioventù a C olon ia (agosto 2 0 0 5 ) e che in tale o ccasio n e abbia dialogato an ch e co n i rappresentanti delle associazioni m usulm ane. R eazioni contrastanti in con trò invece la «Istru zion e della C o n gregazion e per l ’ed u ca zio n e cattolica», p ub blicata con la sua ap provazion e il 4 n ovem b re 2005: essa esclud e d all’ord in azion e candidati al p resbiterato ch e, p er lo m en o negli ultim i tre anni, n o n ab bian o sap uto dom inare le lo ro inclinazioni om osessuali. La stam pa si rallegrò ch e B e n ed etto X V I si sia in con trato, n el settem b re 2 0 0 5 , p er un co llo q u io sp o n ta n eo con il su o ex collega di dogm atica H a n s K ung, al quale era stata ritirata da G io vanni P a o lo II l ’autorizzazione ecclesiastica all’insegn am en to. D e g n o di n ota è il d iscorso ten u to da B en ed etto X V I il p rim o d icem b re 2 0 0 5 davanti alla C o m m issio n e teo lo g ica internazionale, della quale egli era stato p resid en te dal 1982. E gli richiam a qui il desid erio di G iova n n i P a o lo II di chiarire ulteriorm ente la leg g e m orale naturale. Il tem a è straordinariam ente im portante. Serve a com p ren d ere i diritti dati co n la persona, ch e p reced o n o tu tte le altre leg g i e ch e valgon o p er tutti gli uom ini. P er q u an to il co n ce tto di ‘natura u m an a’ sia d iv en u to sfocato, tuttavia rimane il fatto che i diritti umani non sono comprensibili senza presupporre che Tuomo, nel suo stesso essere, sia portatore di valori e di norme da riscoprire e riaffermare, e non da inventare o imporre in m odo soggettivo e arbitrario. In questo punto il dialogo col mondo laico è di grande importanza: deve apparire con evidenza, che la negazione di un fondamento ontologico dei valori essenziali della vita
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umana finisce inevitabilmente nel positivismo e fa dipendere il diritto dalle correnti di pensiero dominanti in una società, pervertendo così il diritto in uno strumento del potere invece di subordinare il potere al diritto. U gu alm en te n el d icem b re - il su o p rim o N atale - il p apa sotto scrisse la sua prim a enciclica. C o m ’era stato p er il su o p red ec esso ־ re, an ch ’essa m irava al centro della fede: D eu s Caritas est [D io è am ore]. E ssa d elin ea u n ’im m agine d i D io n el quale l ’am ore per D io e l ’am ore p er il p ro ssim o si richiam ano a vicenda. M entre è co m p ito d ello stato sforzarsi costan tem en te p er un ord in e giu sto, al quale la chiesa collabora attraverso i su o i laici, le o p ere caritative ap p arten gon o alla natura originaria d ella chiesa. A l d i là di tutti gli aiuti e p restazion i sta la d e d iz io n e ai p o v eri, ch e p ro v ie n e dalTarnore di cui il cu o re è cap ace. «V ivere l ’am ore e in q u esto m o d o far entrare la lu ce di D io n el m o n d o , e c c o ciò a cui vorrei invitare co n la p resen te en ciclica » (n. 39).
Appendice
Lista dei papi
Nella lista dei papi, che segue, si rinuncia a un’enumerazione ininterrotta dei papi, poiché il numero dei papi ,legittimi’ senza alcun dubbio non può essere stabilito con esattezza. Infatti non sempre è chiaro se un singolo papa possa essere annoverato tra i papi legittimi, gli antipapi, o in nessuna delle due categorie (situazione incerta delle fonti, non chiarezza sulle circostanze dell’elezione e della consacrazione, influssi esterni nell’insediamento o nell’allontanamento dall’ufficio). I nomi contrassegnati con * sono da considerare - con le delimitazioni citate - nomi di vescovi non riconosciuti come legittimi vescovi di Roma. Pietro, 1 64/67 [?] Lino, 64/67-79 [?] Anacleto 1,79-90/92[?] Clemente 1,90/92-99/101 [?] Evaristo, 99/101-107 [?] Alessandro 1 ,107-116 [?] Sisto [Xisto] 1 ,116-125 [?] Telesforo, 125-136 [?] Igino, 136/138-140/142 [?] P ioI, 140/142-154/155[?] Aniceto, 154/155-166 [?] Sotero, 166-174 [?] Eleutero, 174-189 [?] V ittorei, 189-198[?] Zefìrino, 198-217 [?] Callisto I,217?-222 Ippolito*, 217?-235 Urbano 1,222-230 Ponziano, 230-235 Antera, 235-236
Fabiano, 2 3 6 2 5 0 ־ Cornelio, 251-253 Novaziano*, 251-258 [?] Lucio 1,253-254 Stefano 1,254-257 Sisto [Xisto] II, 257-258 Dionisio, 259-268 [?] Felice 1,268-274 [?] Eutichiano, 274-282 [?] Gaio, 282-295 [?] Marcellino, 296P-304 Marcello 1,307-309[?] Eusebio, 309-310 [?] Milziade [M elchiade], 310-314 Silvestro 1,314-335 Marco, 336 Giulio 1,337-352 Liberio, 352-366 Felice n*. 355-358 Damaso 1,366-384
490
Ursino*, 366367־ Siricio, 3 8 4 3 9 9 ־ Anastasio 1,39 9 4 0 2 ־ Innocenzo 1 ,402 4 1 7 ־ Zosimo, 4 1 7 4 1 8 ־ Bonifacio 1 ,41 8 4 2 2 ־ Eulalio*, 4 1 8 4 1 9 ־ Celestino 1 ,422-432 Sisto (Xisto) in , 4 3 2 4 4 0 ־ Leone I, Magno, 4 4 0 4 6 1 ־ Dario, 4 6 1 4 6 8 ־ Simplicio, 468483־ Felice n [ m ] , 4 8 3 4 9 2 ־ Gelasio 1 ,4 9 2 4 9 6 ־ Anastasio H, 4 9 6 4 9 8 ־ Simmaco, 49 8 5 1 4 ־ Lorenzo*, 4 9 8 5 0 6 ־ Ormisda, 514523־ Giovanni 1,5 2 3 5 2 6 ־ F e lic e m [IV], 5 2 6 5 3 0 ־ Dioscuro, 530 Bonifacio H, 5 3 0532 ־ Giovanni II, 5 3 3 5 3 5 ־ Agapito 1 ,5 3 5 5 3 6 ־ Silverio, 5 3 6 5 3 7 ־ Vigilio, 5 3 7 5 5 5 ־ Pelagio 1 ,556561־ Giovanni IH, 5 6 1 5 7 4 ־ Benedetto 1 ,5 7 5 5 7 9 ־ Pelagio n , 5 7 9 5 9 0 ־ Gregorio I, Magno, 5 9 0 6 0 4 ־ Sabiniano, 6 0 4 6 0 6 ־ Bonifacio IH, 607 Bonifacio IV, 60861 5 ־ Deusdedit [Adeodato I], 6 1 5 6 1 8 ־ Bonifacio V, 619 6 2 5 ־ Onorio 1 ,62 5 6 3 8 ־ Severino, 640 Giovanni IV, 64064 2 ־ Teodoro 1 ,64 2 6 4 9 ־ Martino 1 ,6 4 9 6 5 5 ] 653]־ Eugenio 1 ,654657־ Vitaliano, 6 57672־
Appendice
Adeodato II, 6 7 2 6 7 6 ־ D ono, 676-678 Agatone, 6 78681־ Leone II, 6 82683־ Benedetto II, 6 8 4 6 8 5 ־ Giovanni V, 6 8 5 6 8 6 ־ Conone, 6 8 6 6 8 7 ־ Teodoro*, 687 Pasquale*, 687 Sergio 1 ,6 8 7 7 01 ־ Giovanni VI, 7 0 1 7 0 5 ־ Giovanni VII, 70 5 70 7־ Sisinnio, 708 Costantino 1,70 8 7 1 5 ־ Gregorio n , 71 5 7 3 1 ־ Gregorio HI, 731 7 4 1 ־ Zaccaria, 7 4 1 7 5 2 ־ Stefano (li)*, 752 Stefano II, 7 5 2 7 5 7 ־ Paolo 1 ,7 5 7 7 6 7 ־ Costantino II*, 76 7 7 6 8 ־ Filippo*, 768 Stefano HI, 7 6 8 7 7 2 ־ Adriano 1 ,7 7 2 7 9 5 ־ Leone HI, 7 9 5 8 1 6 ־ Stefano IV, 8 16817־ Pasquale 1 ,8 1 7 8 2 4 ־ Eugenio II, 8 2 48 27 ־ Valentino, 827 Gregorio IV, 8 27 8 4 4 ־ Giovanni (Vffl)*, 844 Sergio H, 8 4 4 8 4 7 ־ Leone IV, 8 4 7 85 5־ Benedetto ni, 855858־ Anastasio III*, 855 Niccolò 1,858867־ Adriano Ó, 8678 72 ־ Giovanni VHI, 87 28 8 2 ־ Marino I [Martino II], 8 8 2 8 8 4 ־ Adriano IH, 884 8 8 5 ־ Stefano V, 8 85891־ Formoso, 8 9 1 8 % ־ Bonifacio VI, 896
Usta dei papi
Stefano VI, 896-897 Romano, 897 Teodoro II, 897 Giovanni IX, 898-900 Benedetto IV, 900-903 Leone V, 903 Cristoforo, 903-904 Sergio IH, 904-911 Anastasio HI, 911-913 Landò, 913-914 Giovanni X, 914-928 Leone VI, 928 Stefano V n , 929-931 Giovanni XI, 931-936 Leone Vn, 936-939 Stefano VHI, 939-942 Marino H [Martino IH], 942-946 Agapito n , 946-955 Giovanni XII, 955-964 Leone V m , 963-965 Benedetto V, 964 Giovanni X ffi, 965-972 Benedetto VI, 9739 7 4 ־ Bonifacio VU, 974-985 Benedetto Vn, 974-983 Giovanni XTV, 983-984 Giovanni XV, 985-996 Gregorio V, 996-999 Giovanni XVI*, 997-998 Silvestro H, 999-1003 Giovanni XVn, 1003 Giovanni XVDI, 1003-1009 Sergio IV, 1009-1012 Benedetto VHI, 1012-1024 Gregorio VI*, 1012 Giovanni XEX, 1024-1032 Benedetto IX, 1032-1045 Silvestro in, 1045 Gregorio VI, 1045-1046 G em ente n , 1046-1047 Benedetto IX*, 1047-1048 Damaso II, 1048 Leone IX, 1049-1054
491
Vittore II, 1055-1057 Stefano IX, 1057-1058 Benedetto X, 1058-1059 Niccolò II, 10581061־ Alessandro![, 1061-1073 Onorio II*, 1061-1072 Gregorio VII, 1073-1085 Clemente HI*, 1084-1100 Vittore IH, 10861087־ Urbano U, 1088-1099 Pasquale n , 1099-1118 Teodorico*, 1100-1101 Alberto*, 1101 Silvestro IV*, 1105-1111 Gelasio H, 1118-1119 Gregorio Vin*, 1118-1121 Callisto U, 1119-1124 Celestino (H)*, 1124 Onorio H, 1124-1130 Innocenzo n, 1130-1143 Anacleto II*, 1130-1138 Vittore IV*, 1138 Celestino II, 1143-1144 Lucio n , 1144-1145 Eugenio IH, 1145-1153 Anastasio IV, 1153-1154 Adriano IV, 1154-1159 Alessandro HI, 1159-1181 Vittore IV*, 1159-1164 Pasquale UI*, 1164-1168 Callisto IH*, 1168-1178 Innocenzo in*, 1179-1180 Lucio ffl, 1181-1185 Urbano HI, 1185-1187 Gregorio Vin, 1187 Clemente HI, 1187-1191 Celestino III, 1191-1198 Innocenzo HI, 1198-1216 Onorio HI, 1216-1227 Gregorio IX, 1227-1241 Celestino IV, 1241 Innocenzo IV, 1243-1254 Alessandro IV, 1254-1261
492
Urbano IV, 1261-1264 Clemente IV, 1265-1268 Gregorio X , 1271-1276 Innocenzo V, 1276 Adriano V, 1276 Giovanni XXI, 1276-1277 N iccolò DI, 1277-1280 Martino IV, 1281-1285 Onorio IV, 1285-1287 N iccolò IV, 1288-1292 Celestino V, 1294 Bonifacio VHI, 1294-1303 Benedetto XI, 1303-1304 Clemente V, 1305-1314 Giovanni XXII, 1316-1334 N iccolò V*, 1328-1330 Benedetto XII, 1334-1342 Clemente VI, 1342-1352 Innocenzo VI, 1352-1362 Urbano V, 1362-1370 Gregorio XI, 1370-1378
Grande scisma (l’Occidente: Urbano VI (Roma), 1378-1389 Bonifacio IX (Roma), 1389-1404 Innocenzo VH (Roma), 1404-1406 Gregorio XII (Roma), 1406-1415 Clemente VII (Avignone), 13781394 Benedetto XIII (Avignone), 13941417 Clemente V ili* , 1423-1429 Benedetto XIV* (Bernard Gamier), 1425-1430 Benedetto XV* (Jean Carrier), 1430-1433 Alessandro V (Pisa), 1409-1410 Giovanni X X m (Pisa), 1410-1415 Martino V, 1417-1431 Eugenio IV, 1431-1447 Felice V*. 1439-1449
Appendice
N iccolò V, 1447-1455 Callisto HI, 1455-1458 P io li, 1458-1464 Paolo II, 1464-1471 Sisto IV, 1471-1484 Innocenzo VHI, 1484-1492 Alessandro VI, 1492-1503 Pio III, 1503 Giulio II, 1503-1513 Leone X, 1513 1521 Adriano VI, 1522-1523 Clemente VH, 1523-1534 Paolo m , 1534-1549 Giulio IH, 1550-1555 Marcello II, 1555 Paolo IV, 1555-1559 Pio IV, 1559-1565 Pio V, 1566-1572 Gregorio XIII, 1572-1585 Sisto V, 1585-1590 Urbano VII, 1590 Gregorio XIV, 1590-1591 Innocenzo IX, 1591 Clemente V m , 1592-1605 Leone XI, 1605 Paolo V, 1605-1621 Gregorio XV, 1621-1623 Urbano V ili, 1623-1644 Innocenzo X, 1644-1655 Alessandro VH, 1655-1667 Clemente IX, 1667-1669 Clemente X, 1670-1676 Innocenzo XI, 1676-1689 Alessandro VOI, 1689-1691 Innocenzo XII, 1691-1700 Clemente XI, 1700-1721 Innocenzo XIII, 1721-1724 Benedetto XIII, 1724-1730 G em ente XH, 1730-1740 Benedetto XIV, 1740-1758 Clemente XHI, 1758-1769 Clemente XTV, 1769-1774 Pio VT, 1775-1799
Lista dei papi
Pio VH, 1800-1823 Leone XH, 1823-1829 Pio VIE, 1829-1830 Gregorio XVI, 1831-1846 Pio EX, 1846-1878 Leone Xm, 1878-1903 P ioX , 1903-1914 Benedetto XV, 1914-1922
493
Pio XI, 1922-1939 Pio XII, 1939-1958 Giovanni XXIII, 1958-1963 Paolo VI, 1963-1978 Giovanni Paolo 1 ,1978 Giovanni Paolo II, 1978-2005 Benedetto XVI, 2005-
121 concili generali (ecumenici)*
I. Gli otto concili ecumenici dell’antichità: sinodi imperiali, convocati dall’imperatore
1. 325 (I concilio di) Nicea: consustanzialità del Figlio con il Padre (Professione di fede)
2. 381 (I concilio di) Costantinopoli: affermazione della divinità dello Spirito Santo; preminenza di Costantinopoli rispetto agli altri patriarcati della chiesa orientale, ma dopo Roma
3.431 Efeso: Unità della natura umana e della natura divina in Gesù; Maria è *genitrice di Dio' (gr. theotókos) e ‘madre di D io ’ 4.
451 Calcedonia: due nature in Cristo, unite in una sola persona (bypóstasis): «senza confusione e senza divisione» (unione ipostatica)
5.553 (II concilio di) Costantinopoli: tentativo di conciliazione con i monofisiti, formula della «unica natura del Lògos incarnato» 6.
680/681 (III concilio di) Costantinopoli: dottrina delle due volontà naturali (divina e umana) e delle due operazioni in Cristo; condanna di papa Onorio I (a motivo della negligenza nella repressione dell’eresia del monoteletismo)
7.
787 (Il concilio di) Nicea: permesso del culto delle immagini; l’adora־ zione spetta solo a Dio
8. 869/870 (IV concilio di) Costantinopoli: fine della divisione tra le chiese di Roma e Costantinopoli
* Secondo la suddivisione di Hubert Jedin.
121 concili generali (ecumenici)
495
II. I concili generali dell’alto Medioevo convocati dal papa, senza la partecipazione della chiesa d’Oriente 9.
1123 concilio Laterano I (Roma): ratifica del concordato di Worms; proibizione della simonia; mantenimento della pace di Dio; indulgenza per la crociata; canonizzazione del vescovo Corrado di Costanza
10.1139 concilio Laterano II: proibizione della simonia e di riscuotere interessi; invalidità dei matrimoni dei chierici; superamento dello scisma causato da papa Anacleto; diritto del capitolo del duomo alTelezione del vescovo
11. 1179 concilio Laterano III: stipulazione della pace tra Barbarossa e Alessandro IH; richiesta della maggioranza dei due terzi nell’elezione del papa; divieto di accumulo di prebende; condanna dei catari
12. 1215 concilio Laterano IV: affermazione della transustanziazione di pane e vino; comunione pasquale annuale; legislazione ebraica; pròpaganda della crociata; condanna dei catari
13. 1245 (I concilio di) Lione: deposizione di Federico II (a causa della rottura del giuramento, di eresia e di ostacolo alla pace) 14.
1274 (II concilio di) Lione: ordinamento del conclave per l’elezione del papa; tassa per la crociata (non riscossa a causa della caduta di Ac־ con nel 1291); (breve) unione con i greci (Filioque)
15.
1311/1312 Vienne: processo e sospensione dell’ordine dei templari; controversia sulla povertà tra i francescani; intromissione del potere secolare nelle questioni ecclesiastiche; problema delle esenzioni
1 8 . 15121517 ־concilio Laterano V: decreti sul sistema fiscale della curia, sull’insegnamento della religione e la predicazione; abusi gravi - accu־ mulo delle prebende, obbligo di residenza - non vengono contrastati
m . I concili di riforma del tardo Medioevo e il conciliarismo 16.1409
Pisa: deposizione di due papi, elezione di un terzo
14141418 ־Costanza: concilio come rappresentanza di tutta la chiesa, superiore al papa; singoli decreti di riforma; condanna al rogo di Jan Hus; deposizione di tre papi, elezione di Martino V 1 7 . 14311442 ־Basilea-Ferrara-Firenze: 1431 Basilea: il concilio si pone al di sopra del papa; 1437 trasferimento a Ferrara 1439 trasferimento a Firenze: unione tra la chiesa latina e quella greca (si spezza già nel 1453)
496
Appendice
IV. Il concilio di Trento - un concilio papale 19.
15451563 ־Trento: discussione di questioni relative al dogma (per esempio, giustificazione, Scrittura e Tradizione, sacramenti) e della riforma della chiesa; non è più rappresentata tutta la chiesa (occidentale)
V. I concili Vaticani
20.1869/1870 concilio Vaticano I: rivelazione e conoscibilità di Dio; primato di giurisdizione e infallibilità del magistero del papa
21.19621965־: concilio Vaticano II: sedici documenti sulla comprensione teologica e la vita interna della chiesa, come pure sul rapporto e la testimonianza all’esterno
Tavola cronologica
Storia profana
Storia della chiesa 48 circa 64
64
Incendio di Roma
70
Distruzione di Gerusalemme
Concilio degli apostoli Persecuzione dei cristiani sotto Nerone
Persecuzione dei cristiani sotto Domiziano 111 circa Scambio epistolare Plinio-Traiano Persecuzione dei cristiani 177 a Lione
95 circa 98 ־117
Traiano
249-251
Decio
253-260 284-305
Valeriano Diocleziano
306-337
Costantino il Grande
250-258
Persecuzioni dei cristiani sotto Decio e Valeriano
Prima del 300
Nascita delPeremitismo in Egitto
Dal 303
Persecuzione dei cristiani sotto Diocleziano
Battaglia al Ponte Milvio 311-313 Programma di tolleranza 318-381 Controversia ariana 320 circa Fondazione del primo ‘monastero’ da parte di Pacomio Primo concilio di Nicea 325
312
330
La nuova Roma: Costantinopoli
Appendice
498
337-361
Costanzo II
361-363 379-395
Giuliano Teodosio il Grande
341 354-430
Wulfìla ordinato vescovo missionario tra i goti Agostino
381
Primo concilio di Costantinopoli
391
Cristianesimo religione di stato
I vandali in Africa
431 440-461 449
451
Battaglia ai Campi Catalaunici
451
Concilio di Efeso Papa Leone Magno (Latrocinium) Sinodo di Efeso Concilio di Calcedonia
474-526 476
Teodorico il Grande Fine dell’impero romano d’Occidente
395
Divisione dell’impero romano
410
I visigoti conquistano Roma I visigoti in Gallia
415-507 429-534
493-553 527-565
Ostrogoti in Italia
Circa 480-547 484-519 492-496
Giustiniano I
496 529 544-553 553 590-604 596
622
Egira: fuga di Maometto dalla Mecca a Medina
Benedetto da Norcia Scisma acaciano Papa Gelasio I Battesimo di Clodoveo Fondazione di Montecassino Controversia dei tre capitoli Secondo concilio di Costantinopoli Papa Gregorio Magno Papa Gregorio invia l’abate romano Agostino in Inghilterra
499
Tavola cronologica
632 637
627
Battesimo di Edvino di Nortumbria
664
Sinodo di Whitby
673-754 680/681
Bonifacio Terzo concilio di Costantinopoli (Trullano I) Trullano II
Morte di Maometto Conquista di Gerusalemme
691 711
Arabi in Spagna 719
726-843 732 741-768 768-814 772-804
Vittoria di Carlo Martello sugli arabi Pipino il Giovane Carlo Magno Guerre contro i sassoni
794 799
Secondo concilio di Nicea Sinodo di Francoforte Leone III a Paderborn
843
Sinodo di Costantinopoli
787
800 814-840 843-876
Bonifacio vescovo missionario in Assia e Turingia Iconoclastia
Incoronazione di Carlo a Roma Ludovico I, il Pio Ludovico II, il Germanico
Quarto concilio di Costantinopoli 880-1046 Saeculum obscurum 908-910 Fondazione di Cluny
869/870
936-973
Ottone I, il Grande (962 imperatore)
Enrico II (1014 imperatore) Dal 1030 Normanni in Italia meridionale 1002-24
1033-1109 Anseimo di Canterbury
Appendice
500
1039-56
Enrico HI (1046 imperatore)
1046
Sinodo di Sutri
1054
Scisma orientale
1059
Decreto sull’elezione del papa Papa Gregorio VII Sinodo di Roma: divieto dell’investitura ai laici; Dictatus Papae
1056-1106 Enrico IV (1084 imperatore)
1073-85 1075
1077
Canossa
10961291 ־Crociate
mi
1088-99 Papa Urbano II 10911153 ־Bernardo di Chiaravalle Sinodo di Clermont 1095 1096-99 Prima crociata Fondazione di Citeaux 1098 10981179 ־Ildegarda di Bingen
Trattato di Sutri Enrico V ( 1111 imperatore) Concordato di Worms: fine della lotta per le investiture 1123 Concilio Laterano I 1139 Concilio Laterano II 1140 circa Decretum Gratiani 1147/48 Seconda crociata 11529 0 ־Federico I Barbarossa (1155 imperatore) 11701221 ־Domenico 1177/78 Inizio dell’attività 1154-89 Enrico II d’Inghilterra di Pietro Valdès 1179 Concilio Laterano III 11821216 ־Francesco d ’Assisi 1 1 8 9 9 2 ־Terza crociata Dal 1200 Nascita delle università 11981216 ־Papa Innocenzo III 120 2 0 4 ־Quarta crociata 1 2 0 9 2 9 ־Guerre contro gli albigesi 120461 ־Impero latino di Costantinopoli 1212 Crociata dei fanciulli 1215 Federico II (1220 imperatore)
1106-25 1122
501
Tavola cronologica
1215
Magna Charta in Inghilterra
1215
Concilio Laterano IV
1216
Riconosciuto Tordine dei domenicani
122
Chiara Sciffi fonda il convento femminile di S. Damiano in Assisi L’ordine francescano ottiene la regola definitiva
1223
1226 ־70
Luigi IX (il santo) di Francia
1225-74
Tommaso d ’Aquino
1228-29
Quinta crociata Perdita definitiva di Gerusalemme Primo concilio di Lione Sesta crociata Secondo concilio di Lione Caduta di Accon
1244
1273-91
Rodolfo d’Asburgo re tedesco
1285-1314 Filippo IV di Francia Attentato di Anagni 1303
1314-47
Ludovico il Bavaro (1328 imperatore)
1346-78
Carlo IV (1355 imperatore) Grande epidemia di peste in Europa Bolla d ’oro
1348-50 1356
1245 1248-54 1274
1291 1294-1303 Papa Bonifacio V ili 1302 Bolla Unam Sanctam 1309-77 Esilio avignonese 1311/12 Concilio di Vienne (Soppressione dell’ordine dei templari)
1340-84
Gerhard Groote
Circa 1347-80
Caterina da Siena
Circa 1375-1550 Devotio moderna 1410-37
Sigismondo (1433 imperatore)
1378-1417 Scisma occidentale Concilio di Pisa 1409 1414-18
Concilio di Costanza
Appendice
502
1415 1417 ־31 14 1 936 ־ 1431
Guerre hussite Giovanna d*Arco condannata al rogo
1423/24 1431/48
Concilio di Pavia-Siena
1439
Unione con i greci Congregazione di Bursfeld
1446 1448
Concilio di BasileaFerrara-Firenze-Roma
Concordato di Vienna 1451
1453
Jan Hus bruciato come eretico Papa Martino V
Libello di Magonza (Gravamina)
Presa di Costantinopoli 14661536 ־Erasmo da Rotterdam 14831546 ־Martin Lutero 14841531 ־Huldrych (Ulrico) Zwingli
1492 Scoperta dell’America 1492 Caduta di Granada 1493-1519 Massimiliano I (1508 imperatore)
1509-47 1515-47
14841566 ־Bartolomé de Las Casas 1491-1556 Ignazio di Loyola
14971460 ־Filippo Melantone Savonarola bruciato 1498 a Firenze 1503-13 Papa Giulio II Enrico V ili d ’Inghilterra 1509-64 Giovanni Calvino 1512-17 Concilio Laterano V Francesco I di Francia 1517
1519-56
1521
Carlo V ( 1530 incoronazione imperiale) Dieta di Worms: decisione imperiale contro Lutero (editto di Worms)
1519
1520 1521
Le 95 tesi di Lutero contro le indulgenze Disputa di Lipsia
Exsurge Domine DecetRomanum Pontificem
503
Tavola cronologica
1521-97 1522 1524/25 1526 1527 1529 1529 1530
1531-47 1534
Guerra dei contadini Prima dieta di Spira Sacco di Roma 1529 Seconda dieta di Spira (Protesta) I turchi davanti a Vienna 1530 Dieta di Augusta
Lega di Smalcalda Atto di supremazia in Inghilterra
1534 1534/35 1536 1540
1546/47 1548
Pietro Canisio Lutero traduce il Nuovo Testamento
Guerra di Smalcalda Interim di Augusta
1545-63
Colloqui di religione a Marburgo Dieta di Augusta: Confessio Augustana; Confutatio La chiesa inglese si separa da Roma Regno anabattista a Miinster Articolo di Smalcalda Papa Paolo m conferma l’ordine dei gesuiti Concilio di Trento
Book o f Common Prayer 1549 15521610 ־Matteo Ricci Michele Serveto 1553 a Ginevra è bruciato come eretico Pace religiosa di Augusta Pace religiosa di Augusta 1555 1555 1556-64 Ferdinando I imperatore 1556-98 Filippo II di Spagna 15581603 ־Elisabetta I d ’Inghilterra 1562-98 Guerre di religione in Francia Catechismus Romanus 1566 1564 ־76 Massimiliano II imperatore Breviarium Romanum 1568 Missale Romanum 1570
1552
Trattato di Passau
1571
Vittoria di Lepanto sui turchi N otte di San Bartolomeo
1572
Appendice
504
1577/80 1581
Formula/Libro di concordia dei luterani
Separazione dei Paesi Bassi dalla Spagna 1582 Calendario gregoriano 15851638 ־Comelius Jansenius
15891610 ־Enrico IV di Francia Editto di tolleranza 1598 di Nantes 1608 1609 1618-48 1619-37
Unione Protestante Lega Cattolica
Guerra dei trentanni Ferdinando II imperatore Fondazione di Propaganda fide 1623-62 Blaise Pascal Dal 1631 Controversia sui riti 16341719 ־Pasquier Quesnel 1622
1629
Editto di restituzione
Pace di Westfalia 1648 Guerra civile inglese 164245 1643-1715 Luigi XIV di Francia Restaurazione in Inghilterra 1660 16631806 ־Dieta permanente a Ratisbona 1682 Turchi davanti a Vienna 1683 Editto di Fontainebleau: 1685 revoca dell’editto di Nantes Rivoluzione gloriosa 1688 1709 1713 1740 ־80
Distruzione del convento di Port-Royal Bolla Unigenitus
Maria Teresa imperatrice 1742 1773
1780-90
Articoli gallicani
Giuseppe II imperatore 1785 (giuseppinismo)
Divieto dei ‘riti cinesi’ da parte del Vaticano Soppressione della Compagnia di Gesù Controversia sulla nunziatura di Monaco
505
Tavola cronologica
1786
Puntazione di Ems
1801
Concordato con Napoleone
1789 ־95 Rivoluzione francese 1799-1815 Napoleone I imperatore dei francesi
1803 1806
Decisione della deputazione imperiale Fine del Sacro romano impero di nazione tedesca 1811-77
1814/15
Congresso di Vienna
1814
1815 ־70
Risorgimento
1817 1829
1830
1848 1848/49
1852 ־70
1870 1870/71 1871
Rivoluzione di luglio a Parigi
1831-46
Wilhelm Emmanuel von Ketteler (185077־ vescovo di Magonza) Ripristino dell’ordine dei gesuiti Concordato con la Baviera Emancipazione dei cattolici in Inghilterra Papa Gregorio XVI
Evento di Colonia Papa Pio IX Primo Katholikentag Rivoluzione di marzo tedesco in Germania A dolf Kolping fonda Assemblea nazionale 1849 la prima associazione di Francoforte degli apprendisti Dogma dell’Immacolata Napoleone III 1854 Concezione imperatore di Francia Enciclica Quanta cura 1864 con il Syllabus 18671966 ־Conferenza episcopale di Fulda 1869/70 Concilio Vaticano I Dogma dell’infallibilità Presa di Roma e fine 1870 pontificia dello Stato pontificio Kulturkampf Guerra franco-tedesca 1871-87 Chiesa veterocattolica Re Guglielmo di Prussia 1871 diventa imperatore tedesco (fino al 1888) 1837 1846-78 1848
Appendice
506
1871
Bismarck cancelliere (fino al 1890) 1878 Leggi socialiste 18781903 ־Papa Leone XIII (fino al 1890) 1888-1918 Imperatore Guglielmo II 1891
Enciclica sociale
Rerum novarum 18991914 ־Controversia sui sindacati 1902 ־10 Crisi modernista 1903 ־14 Papa Pio X 1910 1912
Giuramento antimodemista Enciclica
Singulari quadam 1914-18 1917 1919 1920
Prima guerra mondiale 1914 ־22 Rivoluzione russa 1917 Costituzione di Weimar Società delle nazioni 1922 ־39 1924 1929 1929 1931
Papa Benedetto XV
Codex Juris Canonici Papa Pio XI Concordato con la Baviera Concordato con la Prussia Patti lateranensi Enciclica sociale
Quadragesimo anno 1932 1933-45 1934
Dittatura nazista sotto Adolf Hitler Putsch di Rohm
1933
1937
Concordato col Baden Concordato con il Reich
Enciclica
Mit brennender Sorge 1938 Notte dei cristalli 1939-45 Seconda guerra mondiale 1 9 3958־ Dal 1939 Uccisione degli ammalati (‘eutanasia’) 1941-45 Olocausto degli ebrei 1941
Papa Pio XII
H vescovo Clemens von Galen condanna nelle sue prediche l’eutanasia nazista
507
Tavola cronologica
1943 1945
1945
Battaglia di Stalingrado Prime bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki 1945
Nazioni Unite (O N U)
1945 1948
1949 1949 ־90
Repubblica federale di Germania Repubblica democratica tedesca 1950 1955
1958 ־63 1960 1961
Dichiarazione di colpa di Stoccarda Consiglio ecumenico delle chiese, fondato ad Amsterdam
Dogma dell’Assunzione di Maria Fondazione del Consiglio episcopale per PAmerica Latina (CELAM) Papa Giovanni XXIII Il Vaticano fonda il Segretariato per l’unità
Muro di Berlino 1962 ־65 1963 ־78 1965
1966 1967
Dietrich Bonhoeffer e Alfred Delp vengono giustiziati
Concilio Vaticano II Papa Paolo VI Roma e Costantinopoli tolgono di comune accordo le scomuniche del 1054 Conferenza episcopale tedesca
Comunità Europea 1968 1968
1971 ־75
Dal 1975 Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa
Enciclica Humanae vitae Conferenza episcopale latino-americana aM edellm Sinodo comune delle diocesi della Repubblica federale tedesca a Wurzburg
Appendice
508
1989 1990
19782005 ־Giovanni Paolo II Enciclica sociale 1981 Laborem exercens Attentato al papa 1981 1982 Documento di Lima Nuovo 1983 Codex Juris Canonici Scisma 1988 di Marcel Lefebvre 0 Riunificazione della Germania 1992
1993
Enciclica ecumenica Ut unum sint Dichiarazione comune 1999 tra Vaticano e Lega luterana mondiale sulla giustificazione 2000 Anno santo Primo Kirchentag >2003 comune in Germania Dal 2005 Papa Benedetto XVI Giornate mondiali 2005 della gioventù a Colonia Enciclica 2005 Deus Caritas est 1995
2003
Catechismo universale
Unione Europea (UE)
Bibliografia
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Indice analitico dei nomi di persona*
Abgar di Edessa 35 Acacio di Costantinopoli 94 Adalberto di Praga 187,210 Adelaide, imperatrice 188s. Adriano 1 163 Adriano V I2 7 6 ,3 0 3 ,335s., 427 Adriano, imperatore 4 0 ,5 9 ,6 4 Agostino d'Inghilterra 147 Agostino di Ippona 5 4 ,56s., 98־ 1 0 5 ,107s., 115,13 5,166,235, 289 Agostino Triumphus 253 Alarico 1 2 2 ,134s. Alberico di Citeaux 211 Alberto di Brandeburgo, arcivescovo 263s., 303 Alberto di Brandeburgo, gran maestro 220s., 303 Alberto Magno 234 Alcuino 168 Alessando III 130,205,223,253 Alessandro di Alessandria 76,78 , 85 Alessandro di Hales 234 Alessandro di Roes 236 Alessandro V 2 5 4 ,258
* In corsivo i nomi dei papi.
Alessandro VI 2 6 4 2 7 0 ,3 3 4 ־ Alessandro VII 365 Alvaro Pelagio 253 Ambrogio di Milano 7 9 ,9 9 1 0 2 ־, 115 Ambrogio Pelargo 340 Anastasio, imperatore 140 Anseimo di Canterbury 233 Ansgario 179 Antonio !,eremita 113115־ Apollinare di Laodicea 90 Aquila e Priscilla 28 Ario 78s., 8 5 8 7 ,9 2 ,136־s. Aristotele 234s. Arnaldo da Brescia 223 Amauld, Angélique 368 Amauld, Antoine 368 Astolfo 158161־ Atanasio di Alessandria 78s., 86־ 8 9 ,114s., 117,120 Atenagora, patriarca 407,433, 445s.,471 Attila 122,135 Averroè 234 Avicenna 234 Avito di Vienne 139
512
Baldovino I di Gerusalemme 218 Baronio, Cesare 183 Basilide53 Basilio di Cesarea 88s., 115,174 Bea, Agostino 407,427 Beauduin, Lambert 404 Beda Venerabile 148 Bellarmino, Roberto 354,404 Benedetto da Norcia 108,116 Benedetto di Aniane 169,178 Benedetto I V 183 Benedetto I X 194 Benedetto VII 190 Benedetto V ili 192 Benedetto X III250s., 254,257 Benedetto X I V 364s. Benedetto X V 400 Benedetto X V I 4 4 1 ,4 5 8 ,4 6 7 ,4 8 4 486 Berengario di Tours 232 Bernardo diChiaravalle211s.,218, 222,233 Bernardo di Hildesheim 187 Bérulle, Pierre de 348 Bessarione di Nicea 263 Biel, Gabriel 288 Bismarck, O tto von 3 8 7 ,3 9 2 3 9 4 ־, 396 Blondel, Maurice 399 Bodin, Jean 371 Boff, Leonardo 479 Bojaxhiu, Agnes 481 Bonaventura 234s. Bonifacio 1 2 8 ,1 5 0 1 5 4 ,158־s., 162, 168170,213־ Bonifacio VII 190 Bonifacio V ili 1 3 0 ,1 6 2 ,2 3 3 ,2 4 4 ־ 2 4 6 ,252s. Bora, Katharina von 303 Borgia (famiglia) 2 6 5 2 6 8 ,3 5 3 ־s. Borromeo, Carlo 3 4 4 ,346s. Bruno di Colonia (arcivescovo) 187
Appendice
Brunone di Colonia (certosino) 210s. Brunone di Querfurt 210 Bucer, Martin 308,3 2 2 ,3 2 4 Bullinger, Heinrich 322 Burcardo di Worms 187 Caietano de Vio, Tommaso 293, 305 Callisto 145,83 Callisto I I 253 Callisto III 265 Calvino, Giovanni 102,104,228, 3 0 8 ,3 1 3 ,3 2 1 ־326,358
Carlo Martello 1 5 2 ,158s. Carlo V, imperatore 2 9 4 ,2 9 7 ,3 0 4 , 3 0 7 -3 1 0 ,3 12s., 3 3 0 ,335s. Carlo Vin d’Angiò 269 Carlomanno 153s., 1 5 9 ,162s. Carlostadio (Andreas von Bodenstein) 279,301 Caterina d’Aragona 330s. Caterina da Siena 2 4 9 ,2 5 1 ,4 5 6 Celestino 1 91,142 Celestino III 237 Celso 59 Cerinto51 Cesario di Arles 139 Chantal, Jeanne 348 Chauvenel, Joseph 349 Cherbury di Herbert 371 Chiara d ’Assisi 230 Cipriano di Cartagine 4 5 ,66s., 98s., 118
Indice analitico dei nomi di persona
Cirillo d’Alessandria 9 0 9 3 ־ Clemente d ’Alessandria 4 7 4 9 ,5 5 ־ Clemente di Roma 36s., 38 Clemente I >־Clemente di Roma Clemente I I 194 Clemente III 237 Clemente V 246 Clemente VI 246 Clemente VII (1378-94) 250s. Clemente VII (1323-34) 305,331, 335s. C lem enteXI 365,368 Clemente X IV 3 69 Clodoveo 127s., 1 3 7 ,139s. Coligny, Gaspard 328 Colombano il Giovane 143,146 Colombano il Vecchio 143 Condren, Charles de 348 Congar, Yves 411,438 Contarmi, Gasparo 308,337 Cornelio 66s. Corradino 243 Corrado II, imperatore 193 Corrado HI 218 Corrado IV 243 Costante, imperatore 76 Costantino il Grande, imperatore 6 9 8 0 ,8 2 ,86־s., 97s., 1 1 4 ,119s., 1 3 6 ,161s., 171 Costantino IV, imperatore 96 Costantino IX, imperatore 207 Costantino V, imperatore 173 Costantino VI, imperatore 171, 175 Costantino XI, imperatore 264 Costanzo Cloro, imperatore 6 9 7 1 ־, 119 Costanzo II, imperatore 7 6 ,7 8 ,8 7 , 136 Cranmer, Thomas (Tommaso) 331s. Crescenzi (famiglia) 190,194 Crodegango di Metz 154,178,213
513
Cunegonda, imperatrice 192s. D ’Alembert, Jean le Rond 371 D am asol 1 6 y 105,121 Damaso I I 194 Dechamps, Victor Auguste 387 Decio, imperatore 3 4 ,4 7 ,59s., 6 5 6 8 ־ Demetrio di Alessandria 3 3,47 Denifle, Heinrich 286,395 Desiderio, re 163s. Diderot, Denis 371 Diocleziano, imperatore 6 8 7 0 ־, 119 Diodoro di Tarso 90 Dionigi il Piccolo 168 Dionisio di Corinto 66s. Dioscuro di Alessandria 93 Dollinger, Ignaz von 3 8 6 3 8 8 ־, 391s.,394 Domenico 228s., 231 Domiziano, imperatore 3 8 ,6 0 6 2 ־ Donato di Cartagine 5 8 ,7 2 ,1 1 2 Dòpfner, Julius 432 Droste-Vischering, Clemens Augu stvon 378 Duns Scoto 234s. Eck, Giovanni 293s., 3 0 5 ,308,317 Eckhard, Meister E. 234 Ecolampadio, Giovanni 317 Egesippo 30 Egidio Romano 253 Eginardo 176 Ehrhard, Albert 400s. Ehrle, Franz 395 Elena 7 0 ,7 2 Elipando di Toledo 175 Elisabetta I d’Inghilterra 33 ls., 345 Enrico di Braunschweig 308 Enrico I, re 185 Enrico II d ’Inghilterra 226 Enrico II di Francia 309s., 327 Enrico II, imperatore 88,130, 192s., 197
514
Enrico III di Francia 328 Enrico IH, imperatore 130,188, 193s.,200,216 Enrico il Superbo 19 0 1 9 2 ־ Enrico IV di Francia 329 Enrico IV, imperatore 130,193, 197,200 ־203,2 1 6 ,3 2 9 Enrico V, imperatore 203,214 Enrico V ili d ’Inghilterra 3 0 9 ,3 2 9 ־ 333 Eraclio 1 155 Erasmo da Rotterdam 2 8 2 2 8 5 ־, 2 9 2 ,2 9 6 ,3 0 4 3 0 7 ,3 1 4 ־ Eriberto di Colonia 187 Erma 3 7 ,4 0 Ermia 42 Erode Agrippa 26 Erode il Grande 13 Eudes,Jean348s. Eugenio I V 262,264,333 Eusebio di Cesarea 30s., 34 ,5 0 , 73s., 85s. Eusebio di Nicomedia 7 3 ,8 5 8 7 ־, 136 Eutiche 9 0 ,92s. Faber Stapulensis, Jakob 322 Faber, Pietro 350 Fabiano 34,65 Farei, Guillaume 323s. Faulhaber, Michael 324 Federico di Magonza 187s. Federico I Barbarossa, imperatore 1 3 0 ,1 7 7 ,187,205s.,218 Federico H, imperatore 130,227, 237,239,242s.,2 5 3 Federico il Saggio 2 8 3 ,293s., 298 Felice di Urgel 175 Feuerbach, Ludwig 478 Filippo Arabo 64 Filippo d ’Assia 303,3 1 2 ,3 1 8 Filippo di Svevia 239 Filippo I di Francia 216
Appendice
Filippo II di Francia 218 Filippo II di Spagna 312 Filippo IV di Francia 131,220, 2 44,246 Fillastre, Guillaume 255 Fisher, Giovanni 2 8 2 ,3 3 1 ,3 3 7 Flaviano, patriarca 92 Flavio Giuseppe 14,26 Formoso 184 Forster, Heinrich 391 Fozio 9 7 ,181s. Francesco d ’Assisi 2 1 9 ,2 2 8 2 3 1 ־, 241 Francesco di Sales 3 46,348 Francesco I di Francia 2 9 7 ,308s., 3 1 2 ,3 2 7 ,3 3 6 ,3 3 8 Francesco Saverio 3 5 0 ,3 5 3 ,362s. Fugger (famiglia) 293 Fulrad di St. Dénis 154 Galen, Clemens August von 422, 424 Galerio, imperatore 69s., 119 Gallitzin, Amalia von 378 Geiler von Kaysersberg 278 Gelasio 1 100,122 Gerbert, Martin 372 Gerhoh von Reichersberg 214 Gerson, Johannes 255 Gesù Cristo 1 1 1 7 ,4 8 ,53־s., 89s., 1 7 2,225,333,351 Giacomo Baradai 95 Giacomo di Molay 247 Giacomo il Maggiore 25s. Giacomo il Minore 2 6,51 Giansenio (Jansenius), Cornelio 368 Giberti, Matteo 346 Gioacchino da Fiore 7 7 ,2 8 0 Giovanna, la ‘papessa’ 183 Giovanni Cassiano 116 Giovanni d ’Antiochia 91 Giovanni Damasceno 174
Indice analitico dei nomi di persona
Giovanni della Croce 347 Giovanni di D io 347 Giovanni di Jandun 247 Giovanni di Vendière 198 Giovanni Gualberto 210 Giovanni II 184 Giovanni Paolo 14 4 7 4 4 9 ,4 6 4 ־ Giovanni Paolo II442,445,449471,473,475,477,480,482-485 Giovanni Vili 182 Giovanni V ili Paleologo, imperatore 263 Giovanni XII 184,189 Giovanni XXII247 Giovanni XXIII (1410-15) 254-259 Giovanni XXIII (1958-63) 407, 4 1 6 ,425-430,43 2 ,4 3 6 ,4 3 8 , 4 4 0 ,444s.,452,4 6 4 Giovanni, apostolo 2 5 ,39s., 51 ,6 2 Gioviano, imperatore 76 Girolamo 3 9 ,4 3 ,5 6 ,9 9 ,105s., 155 Giulia Mammea 64 Giuliano, imperatore 7 6,87 Giulio I SI, 120 Giulio II 266,268 Giulio III 342 Giuseppe II, imperatore 370,372 Giustiniano I, imperatore 95,136, 155 Giustino martire 41s., 64 Goffredo di Buglione 2 17s. Gonzaga, Luigi 354 Gòrres, Joseph 378 Gottardo di Hildesheim 187 Graziano, canonista 233 Graziano, imperatore 7 6 ,8 8 ,9 9 Gregorio di Nazianzo 88s., 105 Gregorio di Nissa 88s., 105 Gregorio di Tours 128,141 Gregorio I Magno 99,106-108,147, 157 Gregorio II 152 Gregorio III 152,158,173
515
Gregorio IX 227,230,233,236,242 Gregorio V 184,191 Gregorio VI 194,201 Gregorio VII 130,162,182,1992 0 5 ,2 1 3 ,2 3 7 ,2 52 s.
Gregorio X 200,253 Gregorio XI249 Gregorio X 77251,254,257 Gregorio XUI3 28 ,346 Gregorio XV 363 Gregorio XVI 378,3 8 0 ,3 8 5 Groote, Gerhard 280 Gropper, Giovanni 308,340 Guardini, Romano 404 Guglielmo d’Aquitania 196 Guglielmo di Kleve 308 Guglielmo di Ockham >־Ockham, Guglielmo Guglielmo II, imperatore 395 Guntero di Colonia 181 Hecker, Isaac Thomas 399 Hefele, Cari Josef von 388,391 Hergenròther, Josef 395 Hermes, Georg 378 Hertling, Georg von 401 Hider, A d olf407,411-424 Hofbauer, Clemens Maria 278,378 Hoffmann, Melchior 319 I Iontheim, Nikolaus von 369 Iba di Emessa 95 Ignazio di Antiochia 2 9 ,3 6 ,38s., 4 2 ,6 4 Ignazio di Costantinopoli 97,181 Ignazio di Loyola 322,347,349353,356 Incmaro di Reims 1 7 9 ,181s. Innocenzo 7121 Innocenzo II 253 Innocenzo III 1 3 0 ,182,205s.,218, 2 2 4 ,226s., 229-231,237-242, 248s., 252
516
Innocenzo IV 227,243,253 Innocenzo V ili 264,267 Innocenzo X 365,368 Innocenzo XII266 Innocenzo XIII365, Institoris, Heinrich 358 Ippolito di Roma 4 5 ,6 4 Irene, imperatrice 171 ־173,175 ־ 177 Ireneo di Lione 2 9 ,3 4 ,36s., 4 4 ,5 1 , 5 5,62 Itacio di Ossonova 79
Appendice
Leone XIII 3 9 4 3 9 8 ,4 0 3 ,4 4 6 ,4 7 6 ־ Liutprando 158 Locke, John 371 Loisy, Alfred 399 Luciano di Antiochia 85 Lucio 1 67 Lucio III 223,226 Ludovico il Bavaro, imperatore 247249־ Ludovico il Pio, imperatore 177־ 180,213
Jan di Leida 320 Jan Hus 2 5 7 2 6 0 ,2 7 7 ,2 9 4 ־ Jung, Edgar Julius 421 Kant, Immanuel 370,378 Klausener, Erich 421 Kolping, A dolf349,477 Kiing, Hans 476,485 La Salle, Jean Baptiste 349 Laberthonnière, Lucien 399 Lainez, D iego 340,350 Lamennais, Hugues Felicité Robert385,402 Las Casas, Bartolomé de 362 Le Bouthillier, Armand 349 Le Roy, Edouard 399 Lefebvre, Marcel 43 7 ,4 4 0 Leibniz, Gottfried Wilhelm 370 Lellis, Camillo de 348 Leone I Magno 9 3 ,9 9 ,121s., 135, 137,157
Leone II91 Leone III 169,176 Leone III, imperatore 173 Leone IV 180s., 183 Leone IX 194,200s., 206-208 Leone Vili 189 Leone X 261,296s., 3 3 4 3 3 6 ־ Leone XII 380
Madre Teresa >־Bojaxhiu, Agnes Maillard de Tournon, CharlesThomas 365 Maistre, Joseph de 385 Mani 54 Maometto 156s. Marcello II 337 M arcione54s., 112,117 Maria 1 8 ,173,456 - Genitrice di D io 8 4 ,9 0 ־92 ־־Assunzione in cielo in anima e corpo 396,415 - Immacolata concezione 235, 383 Maria I d ’Inghilterra 3 3 0 3 3 2 ־ Maria Teresa, imperatrice 370,372 Marillac, Louise de 349 Marsilio da Padova 131,24 7,2 56 Martino di Tours 7 9 ,1 1 5 ,1 3 9 ,1 4 2 Martino di Troppau 183 Marx, Karl 1 2 ,4 0 3 ,476s. Martino 1 96 Martino V 261s.,233s. Materno di Colonia 34
Indice analitico dei nomi di persona
Matilde di Toscana 202 Maurizio di Sassonia 309s. Mazzarino, Giulio 367 Medici, Caterina de’ 328 Melantone, Filippo 2 2 8 ,2 8 4 ,2 9 2 , 303 ־308,319 Melezio di Licopoli 58,82 Menno Simons 321 Merici, Angela 347 Metodio e Cirillo 179,464 Metzger, Max Josef 407 Michelangelo (Buonarotti) 268 Michele Cerulario 07s. Minozzi, Giovanni 399 Minucio Fundano 59,64 Mòhler, Johann Adam 1 7 ,3 7 8 ,3 8 6 Montano 55s., 112,117 Moro, Tommaso 282,331 Morone, Giovanni 337,356 Muckermann, Friedrich 417 Mùntzer, Thomas 27 9 ,3 0 1 ,3 1 9 Mussolini, Benito 3 8 2 ,412s. Muth, Cari 401 Napoleone Bonaparte 375,380 Nausea, Friedrich 340 Neri, Filippo 347 Nerone, imperatore 3 8 ,5 8 ,61s. Nestorio di Costantinopoli 9 0 9 5 ־ Niccolò Cusano 162,334 Niccolò 1 181s. Niccolò I I 200 Niccolò V 265 Nilo di Rossano 191,210 Nobili, Roberto de' 363 Norberto di Xanten 2 1 4 ,222s. Novaziano 3 4 ,6 6 ,83s. Ockham, Guglielmo 131,281 Odoacre 136 Olier, Jacques 348 Onorio 1 96s.,386 Onorio III 230
517
Origene 3 8 ,47s., 5 9 ,6 4 ,8 4 ,8 9 Ossio di Cordova 73 Otfrido di Weissenburg 179 Ottone I il Grande, imperatore 1 3 0 ,151,167,180, 184 ־189 Ottone II, imperatore 190 Ottone III, imperatore 190,210 Ottone IV 239 Pacomio 113115־ Pafnuzio 86 Paleotti, Gabriele 346 Panteno 46s. Paolo 1 162 Paolo I I 266 Paolo III 2 6 4 ,2 6 6 ,3 0 9 ,3 3 2 ,337s., 3 4 1 s.,3 5 0 ,356, Paolo I V 2 6 5 ,3 1 2 ,3 3 7 ,3 4 7 ,3 5 1 , 356 Paolo V I4 0 7 ,4 3 2 ,4 3 5 4 4 8 ־ Paolo, apostolo 1 7 ,2 2 -2 9 ,3 1 3 3 ־, 3 8 ,4 9 ,5 1 ,56s., 6 1 ,1 1 1 ,2 2 9 , 2 9 0 ,3 6 3 ,4 2 0 Papia di Gerapoli 3 6,40 Parsch, Pio 404 Pascal, Blaise 368 Pascasio Radberto 179 Pasquale I I 203 Pastor, Ludwig von 396 Patrizio 142 Pelagio 98s., 101 Pelagio I I 106 Perpetua e Felicita 59 ,6 4 Pflug, Giulio 2 8 4 ,3 0 8 ,3 4 0 Pier Damiani 200,210 Pietro Abelardo 233 Pietro d’Ailly 2 5 5 ,259s. Pietro d’Amalfi 207 Pietro d ’Amiens 217 Pietro Lombardo 233s. Pietro Valdès 233 Pietro Venerabile 169
518
Appendice
II di Normandia 217 Pietro, apostolo 1 6 , 2 4 3 1 ־2 6 ,2 8Roberto ־, Robespierre, Maximilien 374 3 8 ,44s., 6 1 ,7 6 ,1 1 6 1 1 8 ,1 2 1 ־, Romualdo di Ravenna 191,209s. 135,137,149,384 Rosenberg, Alfred 41 7 ,4 21 ,42 3 Pio 140 Rossi, Pellegrino 381 P /b /7265s.,334 Rothmann, Bernhard 3 19s. Pio III 2 68 Rousseau, Jean-Jacques 371. Pio IV 343-346 Pio IX 3 8 1 3 8 5 ,3 9 6 ,4 4 5 ־ Sabellio 45,83 P io V 328,344s. Sadoleto, Jacopo 3 2 4 ,3 3 7 ,3 5 6 Pio V I 370,380 Sailer, Johann Michael 378 Pio V II375,379s.,445 Sales, Francesco di 346,348 Pio v n /3 8 0 Satomilo 53 P io X 3 9 7 4 0 0 ,4 0 2 ,4 3 8 ־ Savonarola, Girolamo 2 6 8 2 7 0 ־, Pio X I 3 6 5,382,408-4 1 3 ,4 4 5 ,4 7 7 334 Pio X I I 2 6 6 ,3 6 5 ,3 9 6 ,4 0 5 ,4 0 9 , Schall von Bell, Adam 364 4 1 1 4 1 6 ,425־s., 43 6 ,4 5 2 ,4 6 4 Scheeben, Matthias Joseph 387 Pipino III il Giovane 130,150, Schell, Hermann 400s. 153s., 159s., 162164־ Schulte, Karl Joseph 423 Pirckheimer, Caritas 301 Schutz, Roger 483 Pithou, Pierre 367 Sergio di Costantinopoli 96s. Plinio il Giovane 1 3 ,32s., 58 ,6 2 Pole, Reginald 337s., 356 Sergio III 184 Serveto, Michele 325 Policarpo di Smime 3 6 ,39s., 59, Severino di Colonia 139 64 Shaftesbury, Anthony Prassea 83 Sickingen, Franz von 301 Priscilliano 79,98 Sigismondo, re 2 5 4 2 5 8 ,2 6 0 ־ Silvestro 1 8 6 ,161s. Quadrato 36 ,4 0 ,4 2 Silvestro I I 191 Quesnel, Pasquier 368 Siricio 121 Sisto I I 68 Rabano Mauro 178s. Sisto I V 2 6 6 2 6 8 ,3 3 4 ־ Raimondo IV di Tolosa 217 Sisto V 346 Ratramno di Corbie 179 Spee, Friedrich von 358 Ratzinger, Joseph >־ Spirito Santo 2 0 ,4 4 ,4 5 ,83s., 88, Benedetto XV I 2 5 6 ,3 0 1 ,3 8 6 ,4 6 2 Reinkens, Joseph Hubert von 392 Staupitz, Johannes 289 Reisach, Karl August von 384 Stefano 25s. Remigio di Reims 137,139 Stefano Harding 211 Ricci, Matteo 364s. Richelieu, Armand-Jean 367 Stefano 14 5 ,11 8 Robert de Sorbon 236 Stefano I I 1 5 4 ,158163־ Roberto di Abrissel 210 Stefano VI 184 Strossmayer, Joseph Georg 388 Roberto di Molesme 211
Indice analitico dei nomi di persona
519
Valentiniano II, imperatore 91,99 Tacito 13,59 Talleyrand, Charles Maurice de Valentiniano IH, imperatore 122 Valentino 53 374 Tanner, Adam 358 Valeriano, imperatore 6 6 6 8 ,8 4 ־ Taziano il Siro 4 2 ,5 5 ,1 1 2 Valfredo Strabone 178 Veuillot, Louis 386s. Teodolfo di Orléans 168,174 Teodora 184 Viberto di Ravenna 203 Teodoreto di Ciro 95 Vigilio 95 Teodorico il Grande 136s., 140 Vilfrido di York 149 Teodoro d’Arabia 95 Villibrordo 149-152 Teodoro di Mopsuestia 95 Villigisco di Magonza 187,190 Teodoro di Tarso 148 Vincenzo de Pauli 349 Teodosio I, imperatore 7 6 ,8 8 ,99s., Vincenzo Ferreri 251 134 Vinfrido >־Bonifacio Teodosio n , imperatore 91,93 Vitale di Savigny 210 Teodoto il Vecchio 83 Vidchindo 165 Teofano 190 V ittorei 83,116 Teofilatto 184 Vittore I I I 9 4,208 Teresa d ’Avila 347,456 Vittorio Emanuele I I 381 Teresa di Lisieux 456 Volfango di Ratisbona 187 Tertulliano 2 9 , 4 3 5 8 , 8 3 ־4 5 ,5 6 ־Voltaire , 371 9 3 ,9 8 ,1 1 2 Tetgardo di Treviri 181 Waldburg, Johann Gebhard TruTetzel, Johann 286,292 chsess von 356 Thomasius, Christian 370 Wessenberg, Ignaz von 372 Tindal, Matthew 371 Weyer, Johannes 358 Tommaso d ’Aquino 102,228, Windthorst, Ludwig 394 Wolff, Christian 370 234s.,2 8 0,2 91,395 Tommaso da Kempis 280.447 Wulfìla 136 Tommaso, apostolo 35 Wust, Peter 402 Traiano, imperatore 1 3,32,39, W yclifjoh n 257s. 5862 Tyrrell, George 399 Zabarella, Francesco 2 5 5 ,259s. Zaccaria 1 5 4 ,158s. Ugo di Cluny 1 9 3 ,196s., 202 Zirkel, Georg 378 Umberto di Silva Candida 201,207 Zwingli, Huldrych (Ulrico) 303, 30 6 ,3 1 3 ־318,321,327 Urbano II 21Qs., 214,216 Urbano V I249s.
Indice analitico degli argomenti e dei luoghi
Aborto 468s. Accon 220 Action frangaise 408 Adattamento 4 9 ,1 4 8 ,3 6 2 3 6 5 ,4 2 6 ־ Adozionismo 83 Affare dei manifesti 322 Affratellamento nella preghiera 197 Aggiornamento 4 2 6 ,4 2 9 ,437s., 443 A lbigesi225s.,231 Allegoria 4 3 ,5 2 ,8 5 ,8 9 Amburgo 179 Americanismo 399 Anglosassoni 1 0 7 ,147s. Antico Testamento 5 2 ,5 5 ,1 7 2 ,2 2 5 Antipapa 4 5 ,1 7 7 ,1 9 1 ,1 9 4 ,2 0 3 , 263 Antisemitismo 475 Apologisti 3 6 ,41s., 5 0 ,5 5 ,7 4 ,7 7 , 83,363 Apophthegmata Patrum 113s. Apostolato dei laici 433s. Apostolo 1 1 ,1 5 ,1 9 2 5 ,2 8 ־s.,31s. Appello al concilio 2 4 4 ,2 4 7 ,2 6 3 , 26 6 ,2 9 3 ,3 3 5 ,3 6 7 Aquisgrana 1 6 716 9 ,2 9 7 ־ - Sinodi 169 Arabi 1 2 6 ,1 5 5 1 5 8 ,1 6 5 ,1 7 0 ,1 7 3 ־
Archivio vaticano 395 Arianesimo 78s.,86s., 1 2 7 ,136s., 139s. Armenia 3 4 ,9 5 ,4 5 2 Articoli anglicani 332 Associazione di S. Bonifacio 379 Associazione di S. Carlo 379 Assolutismo statale 367 Ateismo 4 0 3 ,4 1 2 ,4 2 7 ,474s. Atti degli Apostoli 2 2 2 4 ,3 1 ,3 5 9 ־ Atti dei martiri 59 Augusta 3 4 ,1 6 6 ,187s. -d ie ta (1518) 293 -d ie ta (1530) 2 8 4 ,3 0 4 3 0 7 ־, 3 1 7 3 1 9 ,3 3 7 ־ -d ie ta (1547) 309 -d ie ta (1556) 345 Austria 2 9 9 ,3 1 1 ,3 1 6 ,3 4 6 ,3 7 0 , 377,404,481 A uto da fé ò Y ! Azione cattolica 408,410 Bamberga 192194־ Barocco 347,353 Battesimo 4 5 ,8 8 ,1 2 9 ,1 4 1 ,3 4 2 , 472,474 - Battesimo dei bambini 301, 315s. Battesimo coatto 357
Indice analitico degli argomenti e dei luoghi
Battisti/Anabattisti 303 ,3 1 0 ,3 1 3 , 318-321,354,357 Baviera 146s., 153,1 8 0 ,1 8 5 ,1 9 0 , 356,377,411 Beghine 224 Benedettini 209,21 ls., 334,347 Betlemme 7 2 , 105s. Biblicismo 2 2 1 ,2 8 1 ,3 1 4 ,3 1 9 Biblioteca vaticana 2 6 5 ,395s., 410 Bobbio 146 Bogomili 54 Bolle di circoscrizione 377 Bolscevismo 414s. Borgogna 136,139,146,181 Braccio secolare 76,1 0 5 ,1 7 0 , 227 Branch-Theory 406 Brema 166,179 Breviario 345,397 Britannia70,1 4 2 ,1 4 7 1 5 0 ־ Brogne 198 Caldei 92 Calice ai laici 30 5 3 0 9 ,4 3 1 ־ Calvinismo 3 1 0 ,3 1 8 ,3 2 6 ,3 2 7 3 2 9 ־, 355,368 Camaldolesi 101 Camaldoli 191,210 Canone, formazione del 3 7 ,4 3 ,5 7 Canonici agostiniani 2 1 0 ,2 1 4 ,2 8 2 , 334 Canonici regolari 213 Canonici secolari 214 Canonici, riforma 17 8 ,2 1 2 2 1 5 ־ Canonistica 130,233 Canossa 202 Canterbury 147 Capitolo del duomo 2 0 4 ,2 7 6 ,4 5 9 Capituiare Ecclesiasticum 178 Capituiare Monasticum 178 Cappella Sistina 267s.
Cappuccini 337,355
521
Cardinale, collegio dei cardinali, sacro c. 2 0 0 ,2 3 8 ,2 5 5 ,2 6 5 ,3 3 7 , 344,366,415 Carisma23, 111, 113 Carmelitani 232,247 Catalogus Liberianus 29,31 Catari 2 2 4 2 2 6 ,2 3 0 ,2 4 1 ־ Catechismo 2 9 3 ,3 8 8 ,442s., 448, 460 Catechismus Romanus 345 Catecumenato 4 6 ,7 5 ,1 4 1 Cavalleria 1 3 0 ,2 1 6 2 1 8 ־ Celibato86, 111, 143,186,207, 2 1 4 ,3 0 5 ,3 1 4 ,3 3 2 ,4 3 3 ,4 3 5 , 457 Cenobitismo 115,210 Centralismo nella chiesa 132,353, 3 6 6s.,369,397 Certosini 2 lOs.
Charta caritatis 211 Chiesa anglicana 332s., 4 7 ls., 474 Chiesa di popolo 376 Chiesa di stato 1 0 0 ,3 7 0 ,375s., 393 Chiesa e Stato 8 0 ,9 4 .1 3 2 ,1 8 6 , 1 9 2 ,1 9 5 ,1 9 6 ,2 0 3 ,2 2 6 ,2 2 8 , 2 3 9 ,3 7 5 ,3 9 4 ־398 Chiesa feudale 1 3 2 ,1 86,204,222, 276
1 8,20 ־2 4 ,5 0 ,5 6 ,1 1 1 ,1 1 7 ,1 2 5 , 1 72,221,359 Chiesa territoriale 130,141,149, 1 5 1 ,3 0 2 ,330s., 354,370,393 Chiese nazionali 367,369,393 Chiese private 129,178,186 Chiliasmo 56 Christianitas 2 3 7 2 4 0 ,3 1 2 ־ Christkònigsgesellschaft 407 Cina 9 1 ,3 6 1 3 6 5 ,4 6 4 ־ Circoncellioni 103 Cistercensi 211 s., 215
522
Clausola d’eresia 252,256 Cluny 193,196,196198־
Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium 452 Codex Juris Canonici200,400,426, 437.452 Collegialità dei vescovi 426,432־ 434,440 Colloqui di religione 307 -Francoforte (1539) 324 -H agenau (1540) 324,338 -M arburgo (1529) 303,318 -Ratisbona (1541) 324,338 -W orm s (1540) 324,338 Colonia 34,139,154,225,340, 356s.,485 Compattate di Praga 277 Compelle intrare 104 Comunicazione degli idiomi 90 ComuniSmo 112,383,412,415, 418,427,444,470 Concetto di chiesa 14,22,280, 295.326.432.449.452 Concili nazionali 329,335,343, 367 Concili, generali 428 -Basilea262 -Calcedonia 9395,121־ - Efeso 91s. - Ferrara-Firenze 262s. - Costantinopoli 1 88,121 - Costantinopoli II 95 - Costantinopoli IH 96s. - Costantinopoli IV 97 -L ateran oI253 -Laterano II 253 - Laterano IH 200,223,226,253 - Laterano IV 232,241,253 - Laterano V 334 -L ion e 1243,253 -L ion e II 253 - Nicea 15 8 ,7 3 7 5 ,7 9 ,8 6 ,8 8 ־, 119,136
Appendice
- N i c e a n 9 7 ?174 -P is a 254 - Trento 286,306,338-344 - Vaticano 1 3 8 7 9 0 3־ - Vaticano II 4 2 8 4 3 5 ־ -V ien n e 247,253 Conciliarismo 131,248s., 2 5 2 2 6 3 ־, 367,369 Concilio apostolico 2 5 ,2 8 Concilium Germanicum 153 Conclave 200,253 Concordato 375s., 3 8 2 ,4 0 8 ,4 1 ls. Concordato con il Reich 4 1 1 ,4 1 8 ־ 420 Concordato di Worms 204,253 Confessio Augustana 3 0 4 3 0 7 ־ Confessio Gallicana 328 Confessio Tetrapolitana 306,318 Confessionalismo 3 7 6 ,4 0 2 ,4 2 9 Confessionalizzazione 3 5 4 3 5 6 ־ Confessione 1 4 4 ,2 4 2,298,304, 3 3 2 ,3 4 2 ,3 5 2 ,4 5 9 Conflitto delle indulgenze 2 9 2 2 9 4 ־ Confraternitas Pius X 411 Congregazione per la dottrina della fede 4 3 7 ,4 4 2 ,4 5 6 Congregazione di Windesheim 334 Congresso di Vienna 3 7 5 ,3 7 7 ,3 8 0 Congresso ecclesiale comune 474 Conquista del Cile 361 Consensus Tigurinus 318 Consigli evangelici 110,220 Consulenza sui conflitti relativi alla gravidanza 468 Controriforma 3 4 9 ,355s. Controversia dei tre capitoli 95, 107 Controversia sui riti 3 6 2 3 6 5 ־ Controversia sul battesimo agli eretici 4 5 ,6 6 ,9 8 ,1 1 8 Controversia sulla festa di Pasqua 110
Indice analitico degli argomenti e dei luoghi
523
Diritti umani 370,373,485 Copti 95 Disputa di Baden 317 Corano 157 Disputa di Lipsia 2 8 3 ,294s., 314 Corpus luris Canonici 233 Docetismo 52 Costantinopoli 8 8 ,119s., 157,216, Dogma 14,3 9 0 ,3 9 6 ,4 3 5 2 6 3 ,3 6 0 ,4 4 6 Domenica 72 Costituzione civile del clero 374 Costruzione/edificazione Domenicani 23 ls., 2 3 4 ,269s., 286, della chiesa 7 2 ,1 8 7 ,267s. 293,3 6 5 ,3 8 3 Donatismo 7 2 ,8 2 ,9 8 ,102s. Credenza nelle streghe 228,276, Donazione di Costantino 161s., 354s.,357s. 2 0 5 ,2 0 8 ,2 3 8 Cristiani di Tommaso 35,91 e chiesa 5 6 ,4 3 8 ,4 4 2 ,4 5 5 , Cristologia 4 4 , 8 2 9 7 , 2 3 3 ־8 6 ,8 9Donne ־ Crociate 1 2 9 ,2 1 5 2 2 0 ,2 3 0 ,2 4 6 ־, 4 5 9 ,4 6 8 ־4 7 0 ,4 7 4 ,4 7 6 Donum vitae 468 360,469 - crociata dei fanciulli 219 Dottore della chiesa 4 3 ,9 9 ,1 4 8 , Cuius regio, eius religio 310 459 Dottrina dell'emanazione 52 Culti misterici 1 1 ,41s., 4 9 ,5 1 ,7 9 Dottrina dell’eucaristia 232 Culto solare 71 Dottrina della giustificazione 82, D am ietta219,230 9 8 ,2 7 8 ,2 8 7 ,2 9 1 ,2 9 5 ,3 0 6 , 3 1 3 ,3 2 4 ,4 7 2 Danesi 1 6 5 ,189s., 240 Dottrina della grazia 9 3 1 0 1 ,2 8 1 ־, Decisione (finale) 2 8 7 2 9 2 ,3 2 6 ,3 3 9 ,3 4 1 ,3 5 2 ־, della deputazione imperiale 368 376 Dottrina delle due nature 8 9 9 3 ־, Declaratio Ferdinandea 310 96s. Decretali Pseudo-Isidoriane 182 Dottrina erronea >־Eresia Deism o 371 Demitizzazione 12 Dottrina sapienziale 42s., 46 Dualismo 54s., 92,94 Demiurgo 5 2 ,7 9 ,8 3 ,8 5 Ducatus Romanus 157 Democrazia e chiesa 3 8 5 ,4 1 9 ,4 5 4 Dura Europos 33 Deposizione di un papa 190,254, 257 Devoluzione 206 Ebioniti51 Ebrei, ebraismo 2 5 2 8 ,30־s., 49, Devotio moderna 131,280,282, 288 54s., 6 0 ,2 1 7 ,356s., 4 1 3 ,421s., 4 3 3 ,4 7 0 ,4 7 5 Dibattito sull’inferiorità 401s. Echtemach 150 Dichiarazione di Colonia 46 École Franqaise 348 Dictatus Papae 2 0 1 ,2 0 5 ,2 3 7 ,252s. Didaché2 2 ,3 7 ,4 0 Economia monetaria 248 Ecumenismo 4 0 5 ,4 3 2 4 3 4 ,4 7 0 ־ Dimostrazione Edessa33,217 dell’esistenza di D io 233,281 Editti di tolleranza 6 9 ,7 1 ,364s. Diplomazia, pontificia 395s., 400, Editto di Worms 298,303 411
524
Editto/Rescritto di Milano 71 Efeso 3 0 ,3 9 ־־Sinodo (449) 93 Egitto 3 3 ,6 4 ,114s., 155,157 Einsiedeln 198 Elezione del papa 194,199,249, 260s., 437 Elkasaiti 51 Ellenismo 4 2 ,4 4 ,4 9 ,8 2 Ellenizzazione 4 2 ,4 9 ,7 7 Encicliche sociali 3 9 5 ,4 0 3 ,4 4 6 , 476s. E n cratiti55,112 E on e52,83 Episcopalismo 369 Episcopato, monarchico 2 3 ,3 9 Erasmianesimo 284s. Eremiti agostiniani 23 ls., 288,300, 334,347 Eremitismo 115,191,210 E resia45s.,5 0 ,5 5 111 ,5 9 ,6 6 ,1 0 5 ־, 131,227,390 Erfurt 153,288 Esilio avignonese 2 4 5 2 5 2 ,2 5 7 ־ Eucaristia 2 5 ,1 0 8 ,2 2 3 ,3 1 7 ,3 4 2 , 4 3 1 ,4 3 8 ,4 4 3 ,4 6 2 ,465s., 472 Europeismo, eurocentrismo 365, 426 Eutanasia 422,468 Evento di Colonia 378 Ex cathedra 9 3 ,9 6 ,3 6 7 ,3 8 9 Faith and Order 405 471 י Falsificazioni 161s., 182,208 Famiglia 418,465 Fanatici 279,301,313 Febronianesimo 369 Festa di Cristo Re 410 Feudalesimo/Sistema feudale 127, 1 8 6 ,2 0 6 ,2 1 1 ,240s., 273 Filioque 8 8 ,207s., 263 Fondazione della chiesa 14s. Fondazioni 178 ,1 8 6 ,212s., 276s.
Appendice
Francescani 2 2 9 2 3 1 ,2 3 4 ,2 6 6 ־, 365,383
408 Fratelli della vita comune 280,282, 288 F rig ia28,33,40,56s. Frisoni 1 4 9 1 5 1 ,15 5־ Fulda 1 5 4 ,178s. G a llia 3 4 ,7 9 ,146 Gallicanesimo 367 Gerarchia 1 9 ,2 2 3 ,2 3 9 ,3 6 8 ,4 0 5 Germani 3 4 ,1 0 7 ,126s., 1 3 4 1 4 2 ־, 147s., 158s. Germanizzazione del cristianesimo 129 Gerusalemme 2 4 2 7 ,5 1 ,7 2 ,9 5 ־, 1 1 9 ,1 5 5 ,1 5 7 ,2 1 6 2 2 0 ,4 0 7 ־, 433,446 Gesuiti 337s., 3 4 9 3 5 4 ,3 5 5 ,369־s., 3 7 9 ,3 9 3 ,4 7 9 Giacobini 374 Giacobiti 95 Giansenismo 3 65,3 6 8 ,3 9 2 Giappone 3 5 3 ,361s., 400 Ginevra 2 7 7 ,3 2 1 -326,346,406, 471 Giovanniti 220,247 Giudeo-cristiani 2 4 ,26s., 51 Giuramento antimodernista 3 99 Giuseppinismo 370 Giustificazione per le sole opere 278,295 Globalismo 484 Glossa ordinaria 178 Gnosi 43s., 4 8 ,53s., 117 Gorze 198 G otico 130,278
Indice analitico degli argomenti e dei luoghi
Gravamina nationis Germanicae 249,279 Gruppi di risveglio, cattolici 378 Guerra dei contadini 301s., 319 Guerra di Kappel 317 Guerra santa 129,155 Guerra di Smalcalda 308s. Guerre di religione 28 4 ,3 1 1 ,3 1 7 , 326 Guerre hussite 260 Heliand-Lied 166,179 Henotikón 94 Hirsau 198 Homousios 8 4 ,86s. Iconoclastia/Lotta per le immagini 172 ־175 Illuminismo 7 7 , 126s., 228,329, 366 ־372 Imitazione di Cristo 280,447 Imperatore, impero 12 ls., 130, 1 3 2 ,1 5 1 ,1 5 5 ,1 6 0 1 6 3 ,170־s., 1 7 5 1 7 7 ,180־s., 188s., 178s., 239,242s.,307 Imperium et Sacerdotium >־ Regnum et Sacerdotium Impero latino di Costantinopoli 218,360 Impero romano 3 2 ,5 8 ,7 4 ,8 0 , 136s., 155,162,171 Impero romano d’Occidente 12ls., 1 2 6 ,134s., 1 3 7 ,1 5 5 ,1 6 2 ,176s. Impero/Regno, idea 166s., 176,1 8 9 ,1 9 2 ,2 0 1 , 205,375s. Incarnazione 1 7 s.,4 9 ,8 1 ,1 1 2 ,3 4 8 Inclusi (Reclusi) 115 India 3 5 ,3 5 3 ,3 6 1 3 6 5 ,4 4 5 ־ Individualismo 131,464 Industrializzazione 379 Infallibilità 9 3 ,9 6 ,3 1 2 ,3 6 7 ,3 8 2 ־ 3 9 0 ,394s., 407,4 6 1 ,4 6 8
525
Inghilterra 1 0 7 ,147s., 152,236, 3 2 9 3 3 3 ,408־s. Inquisizione 104,132,226-228, 356 ־358,469 Interim di Augusta 309 Interpretazione della Scrittura 4 3 ,8 8 ,9 9 ,3 1 4 , 318,324s. Investitura 1 9 3 ,1 9 8 ,2 0 1 2 0 4 ־ Irlanda 142145־ Islam 1 5 5 ,1 5 9 ,164,216s.,221, 2 6 4 ,3 5 9 s.,47 6 Istituti secolari 415 Italia 5 7 ,7 1 ,1 0 7 ,1 1 9 ,1 3 1 ,135s., 157s., 1 6 1,1 6 3 ,1 9 0 ,2 0 7 ,3 6 0 , 380 ־3 8 2 ,4 0 8 ,4 1 1 ,4 1 3 ,4 4 9 Katholikentage (Giornate dei cattolici, convegno dei c.) 37 9 ,4 0 4 ,4 7 4 Kirchenkampf(Lotta contro la chiesa) 3 9 6 ,4 0 2 ,4 2 1 4 2 4 ־ Kulturkampf392s., 396,402 Labarum 72 Laico/i 1 3 0 ,1 3 3 ,144s.,206,215, 2 2 2 ,2 4 7 ,410s., 4 1 5 ,4 2 1 ,4 5 2 ־ 456 Lapsi 66 ,9 8 Lassismo 368 Laterano 72 - Sinodo (649) 97 Lega di Smalcalda 307 Leggenda di san Silvestro 161 Legislazione sociale 379,404 Lérins 142 Lettera a Diogneto 3 7 ,4 0 Lettera di Barnaba 37,40 Lettura della Scrittura 222,224, 280 LexRibuaria 139 Lex Salica 140 Libellatici 66
526
Libello di Magonza 279 Libero arbitrio 9 8 ,2 3 5 ,2 8 3 ,3 0 6 Libertà di coscienza 3 5 2 ,3 7 3 ,3 8 5 ,
434.444.461
Libertas ecclesiae 188,195,199 Libri Carolini 174 Libro di Ratisbona 308
Life and Work 405 Lione 3 4 ,6 4 ,2 2 3 ,2 4 3 Lista/elenco dei papi 30s., 183 Liturgia 3 7 ,1 6 8 ,179,404s.,415, 4 2 5 ,4 3 1 ,4 3 7 ,4 4 6 ,4 5 9 Lògos 17s., 41s., 4 8 ,7 9 ,8 2 ־8 5 ,8 9 ־ 91,93 Longobardi 1 0 7 ,1 3 6 ,1 5 7 1 6 2 ,1 6 4 ־ Luteranesimo 2 8 4 ,3 10s., 327,355, 473 Magistero, ecclesiastico 2 1 ,117, 3 3 9 .3 4 3 .3 5 2 .3 8 4 .4 5 9 .4 6 1 Magonza 166,171,403,475 -S in o d o (848) 179 M alabar91,363 Maltesi 220 Mandato missionario 1 9 ,4 9 ,8 0 Manicheismo 5 4 ,9 9 ,2 2 4 Mansioni temporali 204 Marcionismo 54,112 Matrimonio 111,343,3 8 3 ,4 1 0 , 439,456,4668. Matrimonio dei preti 198,201, 308s.,441 Medioevo, concetto 125133־ M ennoniti321 Messa >־Eucaristia Metropoliti 5 7 ,9 1 ,118s.,208 Migrazione dei popoli 107,126 Milano 9 9 ,1 0 1 ,2 2 4 ,3 4 6 ,4 1 0 ,4 3 2 , 436 Ministero di Pietro 118,425s., 459 Missale Romanum 345 Missionari itineranti 145s., 152 Missionari popolari 2 3 0 ,3 4 9 ,3 7 9
Appendice
Missione dei gesuiti 3 6 2 3 6 5 ־ Missione operaia 425 Modalismo 8 3 8 5 ־ Modernismo 399 MonacheSimo 5 5 ,9 9 ,1 0 2 ,1 0 9 ־ 1 1 6 ,143s., 1 9 6 ,2 0 8 2 1 4 ,2 6 9 ־ Monarchianismo 83 Monastero di San Cornelio 169, 178 Monofisismo 9 4 9 6 ,1 0 0 ,1 7 2 ־ Monogramma di Cristo 72 Monoteismo 59s., 7 1 ,7 4 ,7 9 ,83s., 156 Monotelitismo 96s. Montanismo 3 3 ,4 5 ,5 5 ,9 8 Montecassino 153s., 159,168 Movimenti ascetici 7 9 ,98s., 113s. Movimento biblico 281s., 322 Movimento degli osservanti 334 Movimento ecumenico 405s. 427, 4 2 8 ,4 4 5 ,4 7 0 ־476 Movimento giovanile 404 Movimento liturgico 404s., 408, 431 Movimento pauperistico 2 1 5 ,2 2 0 ־ 226,241 Movimento Una-Sancta 407 Movimento Una-voce 437 Miinster 1 6 6 ,3 19s., 357,422 Nag Hammadi51 Nantes, editto 329 Nazionalismo 330,3 6 7 ,4 02 , 482 Nazionalsocialismo, nazismo 4 0 7 ,4 1 2 ,4 1 7 ,4 1 9 Negazione del mondo 5 3 ,1 09 Nepotism o 2 6 4 2 6 8 ,3 1 2 ,3 3 7 ־ N estorianesim o92,173 Nobiltà 1 2 9 ,1 3 3 ,2 3 7 ,2 7 7 ,3 7 6 Nominalismo 131,280s., 322 Nordafrica 3 3 ,4 4 ,5 6 ,6 6 ,7 2 ,9 8 , 1 0 3 ,1 1 9 ,1 3 5 ,1 5 5 ־157,360
Indice analitico degli argomenti e dei luoghi
Norimberga -d ie ta (1522/23) 303,335 - sollevazione 307 Normanni 1 7 9 1 8 1 ,2 0 3 ,2 0 7 ־ N otte di San Bartolomeo 328 Nunziature 366,369 Nuovo Testamento 12s., 2 0 2 2 ,3 7 ־, 5 5 ,1 0 4 ,172,225,282s.,299 Omosessualità 466s., 485 Operai/Lavoratori 3 9 5 ,4 0 3 ,4 7 7 Oratoriani 347s. Ordinamento ecclesiastico, della chiesa antica 41 ,4 5 Ordinamento ecclesiastico, della Riforma 324s., 377 Ordinamento feudale 127,132, 240,376 Ordini cavallereschi 129,220s. Ordini mendicanti 2 0 7 ,2 2 8 2 3 2 ־, 241 Ordini teutonici 220,303 Ostilità verso il corpo 55 Ostrogoti 135s., 140,155 Pace religiosa di Augusta 309s., 355 Padre della chiesa 43s., 114 Padri apostolici 36s. Pallio 206,248 Papato del Rinascimento 2 6 4 2 6 7 ־, 333335־ Papato e Impero 1 3 0 ,1 3 2 ,188s., 1 9 5 ,1 9 7 ,2 0 0 ,2 0 2 ,2 0 5 ,240s. Parigi 180s., 2 1 4 ,2 3 4 2 3 7 ,2 4 7 ־, 3 2 2 ,3 4 8 3 5 0 ,3 6 7 ,375־s., 408 -S in o d o (614) 139 - Sinodo (1559, riformato) 328 Partito del centro3 7 9 ,393s., 419
Passiones 59 Patriarcati 9 4 ,1 1 6 1 2 1 ־ Patricius Romanorum 162s. Patrimonio della chiesa 130,170, 185s., 3 7 3 3 7 6 ,3 9 8 ,4 0 8 ־
527
Patrimonio della chiesa imperiale 130 Patrimonium Petri 107,264 Patripassiani 45,83 Patti lateranensi 382 ,4 0 8 ,4 1 ls., Pauliciani54,224 Pax Romana 32 ,7 4 Penitenza, Ordinamenti penitenziali 4 1 ,143s., 146,342, 462 Peregrinatio religiosa 146,149,221 Periodizzazione 123,273 Persecuzioni dei cristiani 26s., 29, 58 ־6 9 ,7 5 ,4 1 5 Persia 3 5 ,9 1 ,1 5 7 ,4 5 2 Portogallo 2 4 0 ,361s., 369,398, 445 Port-Royal 368 Predestinazione 102,179,289, 3 2 6 ,3 5 2 ,3 6 8 Predicatori itineranti 210,215, 222,231 Preghiera di Wessobrunn 179 Premostratensi 215 Preti operai 408 Prima comunione 397 Prima sedes a nemine iudicatur 252 Primato 2 3 ,4 5 ,1 1 8 1 2 1 ,1 3 1 ,1 6 2 ־, 2 0 1 ,2 0 6 ,2 0 8 ,2 3 5 ,2 4 1 ,2 4 5 , 2 4 7 ,2 5 2 ,2 6 3 ,2 8 7 ,2 9 4 ,3 0 6 , 3 3 1 ,3 6 7 ,3 8 2 ,3 8 6 ,3 9 0 ,3 9 4 , 4 0 7 ,4 2 6 ,4 5 8 Principio della Scrittura 3 1 3 3 1 5 ־, 3 1 8 ,3 4 0 ,3 4 2 Professione di fede 8 6 ,8 8 ,3 2 3 , 462 Propagandafide 345,409 Protestantesimo 284 ,2 92 ,3 0 4 , 3 1 0 s.,3 2 2 ,332,351 Protestanti, concetto 304 Prussia 2 2 0 ,3 7 7 ,3 8 7 ,393s., 41 ls. Puntazione di Ems 369 Purgatorio 306,317,343
528
Questione dell’eucaristia (della Ce־ na), nella Riforma 303,315, 318,323,327 Questione romana 382,408 Questione sociale 395,403 Quierzy 160 -S in o d o (849) 179
Appendice
Riforma protestante 127,273s., 2 7 9 ,2 8 4 ,2 9 2 .2 9 5 3 3 3 ,337־s., 354s.
Ragione 4 2 ,5 9 ,2 3 3 ,2 8 1 ,2 8 3 ,3 7 0 , 374,482
RalliementWl Ratisbona/Regensburg 153,187, 324 -d ie ta (1541)308,376 Ravenna 1 5 7 ,160s., 164,167,171, 181,191 Re, regno 129s., 159s., 192,201־ 204 Regnum et Sacerdotium 187,189, 2 0 5 ,2 3 6 ,2 4 2 ,2 4 7 Regola agostiniana 116,231 Regola di san Benedetto 1 1 6 ,168s., 1 7 8 ,1 9 6 ,209s. Reichenau 146,178,187 Religione di stato 6 5 ,7 6 ,3 1 9 Religione naturale 371 Renovatio imperii 191
Reservatum ecclesiasticum 310 Restaurazione 3 7 7 3 8 0 ,4 0 2 ־ Rex et sacerdos 169,201 Riconciliazione 66,144 Riforma >־Riforma della chiesa Riforma 1 8 8 ,1 9 1 ,1 9 7 2 0 0 ,2 0 4 ־, 210 Riforma dei monasteri 168,193,198 Riforma dei principi 302 Riforma della chiesa 153,169,187, 1 9 1 ,2 1 0 ,2 5 5 ,2 6 0 ,2 6 2 ,3 3 3 , 372 Riforma della curia 3 9 8 ,436s., 451 Riforma di Bursfeld 334 Riforma gregoriana 19 9 ,204s., 214s.
2 9 1 ,3 7 1 ,4 1 0 Rivoluzione francese 2 7 3 ,3 7 3 ־ 375 Roma 4 6 ,4 8 ,7 1 ,7 2 ,121s., 134s., 1 5 7 ,1 6 3 ,1 9 1 ,2 4 5 ,2 4 9 ,264s., 3 3 7 ,3 7 5 ,3 8 0 s.,3 9 7
-Patriarcato 5 8 ,9 4 ,1 1 8 1 2 2 ־ -S in o d o (313)73 -S in o d o (731) 173 -S in o d o (1059) 213 - Sinodo (1075) 202 Romanticismo 126,378 S. Pietro (Roma) 2 9 ,1 7 6 ,1 8 9 ,1 9 1 , 26 8 ,4 2 6 Sacco di Roma 336s., 342 Sacra Scrittura 1 5 ,2 0 ,4 3 ,5 2 ,1 3 2 , 1 6 8 ,178s., 280s., 2 9 1 ,340s. Sacramentarium Gregorianum 108, 168 Sacramento 1 8 ,4 5 ,2 2 5 ,280s., 288, 2 9 1 ,2 9 5 ,3 3 2 ,3 4 0 3 4 4 ־ Saeculum obscurum 1 8 1 1 8 4 ,2 5 2 ־ Santi 1 8 ,6 6 ,1 1 2 ,172s.,228s.,276, 306,3 1 6 ,4 6 3 Saraceni 1 8 0 ,189s. Sardica 69 -S in o d o (343)120 Sassanidi 155,157 Sassonia 165s., 303,319 Schiavi 129,219,362
Indice analitico degli argomenti e dei luoghi
Scienza 1 2 6 ,1 48,167 ,1 9 7 ,2 2 1 , 2 3 2 ,2 3 5 ־237,37 1 ,4 0 1 Scisma acaciano 94 Scisma foziano 181s. Scisma occidentale 2 4 6 ,2 4 9 2 5 2 ־, 255,263 Scisma orientale 8 9 ,207s., 406 Scolastica 2 2 1 ,2 3 2 2 3 5 ,2 8 6 ,2 9 1 ־ Scomunica 202,20 5 ,2 7 6 Scritti confessionali 3 0 4 ,306s., 321 Scuola alessandrina 4 6 5 0 , 84־s., 89 Scuola antiochena 8 5 ,8 9 9 2 ,9 5 ־, Scuola catechetica 47 Secolarizzazione 7 7 ,8 0 ,1 2 7 ,1 7 0 , 1 8 6 ,1 9 6 ,2 0 4 ,2 6 9 ,3 7 6 ,4 3 8 Seleucia91 -S in o d o (359)87 Sentenze 234 Separazione di chiesa e stato 203, 3 8 5 ,3 9 6 ,3 9 8 Sequela 110s., U 3 ,2 0 9 ,2 1 3 ,2 2 1 s. Sicilia 106s., 239s., 242s., 246,336, 369 Siegburg 198,214 Simonia 1 3 0 ,1 9 3 ,1 9 9 ,2 4 8 ,267s.
Simul iustus - simul peccatori^ Sincretismo 4 3 ,4 9 5 1 ,5 3 ,5 7 ־ Sinodi provinciali 57 ,1 1 9 Sinodo comune 442 Sinodo dei vescovi 4 3 7 ,4 5 3 ,456s., 462,465 Sinodo di H om berg 303 Sistema dei benefìci 133,251,315, 376 Sistema finanziario della curia 248, 257 Slavi 1 5 5 ,164s., 1 7 9 ,1 8 5 ,189s. Soissons - Assemblea imperiale 159 - Sinodo (744) 153 Solafide 291s., 313 Sola grafia 281 ,2 9 2 ,3 1 3 ,3 4 1
529
Sola scriptum 19,281,291s., 313, 352 Sommo episcopato 302 Soteriologia 4 4 ,9 3 ,9 8 Spagna 2 8 ,7 9 ,8 8 ,9 8 ,135s., 159, 164s., 1 9 8 ,2 3 0 ,2 3 4 ,2 3 6 ,2 9 7 , 2 9 9 ,3 1 2 ,3 2 9 ,3 4 5 ,3 4 7 ,3 5 6 , 3 6 0 s.,3 7 7 ,3 9 6 ,4 1 2 Spira 193,335 - dieta ( 1526) 303,336 - dieta ( 1529) 303,319 Spiritualismo 15 ,2 2 3 ,2 5 6 ,3 0 3 , 3 13,318,352s. Stampa 300 Stampa 3 7 9 ,3 8 5 ,4 0 9 ,4 2 1 Stati, ordinamenti 1 3 0 1 3 2 ,2 0 9 ־, 3 0 4 ,3 0 6 ,3 2 5 ,3 3 5 ,3 4 6 ,3 7 3 , 401 Stato crociato 217,220 Stato del Vaticano 382 Stato della chiesa, stato pontificio 1 6 1 1 6 4 ,2 4 0 ־, 242s., 248s., 2 6 4 2 6 8 ,2 6 6 ,3 3 5 ־, 3 6 9 ,3 7 5 ,3 8 0 3 8 2 ־ Stiliti 115 Strasburgo 3 0 3 ,3 1 7 3 1 9 ,323־s., 343 Subordinazionismo 84s. Successione apostolica 2 3 ,4 4 ,1 1 , 332,392 Sutri -S in o d o (1046) 194,195,200, 216 -Trattato (1111)203 Svizzera 2 8 4 ,3 16s., 3 4 6 ,3 5 8 ,3 9 6 , 4 4 1 ,4 4 5 ,4 4 8 Svolta costantiniana 7 0 8 2 ־ Templari 2 1 2 ,2 2 0 ,2 4 6 Teocrazia 1 0 0,191,301,325 Teologia della liberazione 449,479 Teologia di mediazione 284,309, 340
Appendice
530
Teoria dei due poteri 100,122 Teoria della decadenza 77 Teoria delle due spade 205,244 Terra Santa 130 ,216,219s., 232, 350,445 Terziari 231 Toledo, Sinodo 88 Tolosa 136,225 Tomba di Pietro 72 Tortura 227,370 Tradizionalismo 21,442 Tradizione 2 0 ,3 6 ,4 4 ,3 4 1 ,4 3 2 - Tradizione apostolica 19s., 2 9 ,4 3 s .,5 7 ,117 Translatio imperii 176 Transustanziazione 233,2 4 2 ,3 0 6 , 318,332 ,3 42 Trappisti 349 Trattato di Passau 310 Tregua Dei 193 Tregua di Francoforte 307 Tribur, dieta dei principi (1076)202 Trinità, dottrina trinitaria 44s., 82־ 84,325 Turchi 2 1 6 ,264s., 30 7,338,345, 360 Turingia 1 4 0 ,1 5 1 1 5 4 ,3 0 1 ־ Ufficio/Ministero 15s., 23 Ugonotti 328s. 343 Ultramontanismo 385s., 402 Umanesimo 281283־ Umiliati 224,241 Ungheria 179s., 1 8 5 1 8 8 ,240־s., 311,4 15,42 2 Unione con la chiesa orientale 2 1 1 ,2 5 3 ,2 5 9 ,2 3 6
Unione ipostatica 9 1 9 3 ־ Università 1 3 0 ,1 3 3 ,2 3 2 ,234s., 2 5 2 ,2 5 9 ,4 2 9 Unni 1 2 2 ,134s. Valdesi 22 3 ,3 5 6 Vandali 1 0 1 ,1 0 3 ,1 2 2 ,1 3 4 1 3 8 ־, 155 Vaticano 7 2 ,1 8 0 ,2 6 7 ,3 8 1 ,3 9 5 Verdun 310 -T rattato (843) 180 Vescovati suburbicari 152 Vescovi imperiali 185,193,239, 319 Veterocattolicesimo 3 9 1 3 9 4 ־ Via antiqua 1 3 1 ,2 8 0 ,3 13s. Via moderna 131,280 Vicarius Còristi 193,238 Viri probati 442 Visigoti, G oti dell’Ovest 107,122, 134 ־136,159
Visitatio liminum Apostolorum 206 Visite 345 Vita apostolica 209s., 221 Vulgata 105 Whitby, Sinodo (664) 148 Worms -d ie ta (1076)202 -d ie ta (1521) 2 7 9 ,2 9 7 3 0 0 ־, 311 Y h w h 5 2,55
Zwingliani 310,319
Indice dei documenti ecclesiali
-dWbeatissimi Apostolorum (1914) 400 catholici sacerdotii (1933) 410 /W exstirpanda (1232) 221 A d gentes (1963) 435 AeterniPatris (1879) 395 Apostolicam actuositatem (1963) 435,453 Apostolos suos (1998) 458 Casti connubii (1930) 410 Centesimus annus (1991) 480 Christifideles laici (1989) 453 Christus Dominus (1963) 435 Communionis notio (1992) 458 C««z occasione (1633) 368 De salute animarum (1821) 377 Dece/ Romanum Pontificem (1321) 296 D ei Filius (1870) 390 D ei Verbum (1963) 434 D e«j Caritas est (2003) 486 Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione (1999) 472s. Dignitatis humanae (1963) 435, 450 Dives in misericordia (1980) 462
D ivini illius Magistri (1929) 410 D ivini Redemptoris (1937) 412 Divino afflante Spirìtu (1943) 413 Dominus Jesus (2000) 473 Evangelii nuntiandi (1973) 463 Evangelium vitae (1993) 468 Excommunicamus (1231) 227 Exsecrabilis (1460) 266 Exsurge Domine (1320) 294 Familiaris consortio (1981) 465 Fides et ratio (1998) 462 Frequens (1417) 261s. Gaudium et spes (1963) 435,450 Gravissimum educationis (1963) 435 Haecsancta (1413) 2 5 6 ,259s., 262 Humanae vitae (1968) 438s. Humani generis (1930) 4 06,416 Impensa (1824) 377 Instaurare omnia in Christo (1903) 397 Inter insigniores (1976) 456 /«ter mirifica (1963) 433
532
Laborem exercens (1981) 477 Laetentur coeli (1439) 263 Lamentabili (1907) 399 Licetab initio (1542) 356 Lumen gentium (1964) 434,452 Mare magnum (1476) 266 Mater etMagistra (1961) 446 M ediatorD ei (1947) 405,415 M enti nostrae (1950) 415 Mirari vos (1832) 385 M it brennender Sorge (1937) 412,
424 Mulieris dignitatem (1988) 456 Mysterium fid ei (1965) 438 MysticiCorporis (1943) 405,415
Appendice
Quadragesimo anno (1931) 410,
477 Quanta cura (1864) 383 Redem ptor hominis (1979) 462 Redemptoris missio (1990) 463 Regimini Ecclesiae universalis (1967) 451 Rerum novarum (1891) 395,446,
476s.,480 Sacra Tridentina Synodus (1903)
397 Sacrosanctum Concilium (1963)
405,433,437 Sollicitudo rei sodalis (1987) 480
Syllahus errorum (1864) 383s., 386, No« expedit (1874) 382 Nostra aetate (1965) 435
392 Tametsi (1563) 343
Optatam totius (1965) 435 Orientalium Ecclesiarum (1964)
434
Ufa’ arcano (1922) 410 Sanctam (1302) 131,244,
253 Pascendi dominici gregis (1907) 399 Pastor aeternus (1870) 389 Prfjfor bonus (1988) 45 ls. Pastores dabo vobis (1991) 457 Perfectae caritatis (1965) 435 Populorum progressio (1967) 466 Presbyterorum ordinis (1965) 435 Provida mater (1950) 415 Provida solersque (1821) 377 Providentissimus Deus (1893) 395
Unigenitus (1713) 368 Unitatis redintegratio (1964) 434,
445,470 U t unum sint (1995) 471 Veritatis splendor (1993) 460
Indice generale
Premessa Dalla prefazione alla prima edizione del 1963
5 7
parte prima L ’a n t i c h i t à c r i s t i a n a
Da Gesù di Nazaret alla svolta costantiniana (fino al 3 1 1 ) .................................... §1.11 Gesù storico e la fondazione della chiesa 1. U esistenza storica di Gesù 2. La storicità della fondazione della chiesa 3. La chiesa come mistero di fede
11 11 11 14 16
§2. La chiesa primitiva e Vetà apostolica 1. La comunità dei discepoli dopo l’ascensione di Gesù 2. Quale immagine della chiesa rivela questa prima età apostolica?
18
22
§ 3. La marcia vittoriosa della giovane chiesa da Gerusalemme a Roma 1. La comunità primitiva di Gerusalemme 2. La comunità di Antiochia 3. Gli inizi della comunità romana
24 24 27 28
§ 4. La diffusione del cristianesimo fino al III secolo
31
19
Indice generale
534
§ 5. Il primo sviluppo spirituale del cristianesimo 1 .1 Padri apostolici 2 . 1 prim i ap o lo g isti cristiani
3 .1 Padri della chiesa
35 36 41 43
§ 6. Gli inizi della scuola cristiana di Alessandria
46
§ 7. Crisi interne: divisioni ed eresie 1. Eresie giudeo-cristiane 2. Sistemi gnostici 3. !!manicheismo 4. H marcionismo 5. Gli encratiti 6. Il montanismo 7. Il significato delle eresie e delle divisioni
50 51 51 54 54 55 55 56
§ 8. Le persecuzioni dei cristiani nell'impero romano 1 .1 motivi delle persecuzioni 2. Lo svolgimento delle persecuzioni
58 58 61
Da Costantino il Grande a Gregorio Magno (312-604)
70
§9. La svolta costantiniana 1. Passaggio di Costantino al cristianesimo 2. La fondazione della chiesa imperiale 3. La problematica della svolta
70 70 74 77
§10. Le lotte dogmatiche e i concili generali in Oriente 1. La dottrina della Trinità 2. La cristologia. I primi otto concili ecumenici
82 82 89
§11. La teologia dell’Occidente. Agostino e la lotta per la dottrina della giustificazione e della grazia 1. Ambrogio di Milano 2. Agostino di Ippona 3. Girolamo di Stridone 4. Gregorio I, Magno § 12. Ascetismo e monacheSimo nella chiesa antica
1. Storia del problema
98 99
100 105 106 109 109
Indice generale
535
2. L’essenza del monacheSimo cristiano 3 .1 grandi Padri del monacheSimo § 13. Roma e ipatriarcati d*Oriente. La questione del primato 1. La comunità romana 2. La questione del primato 3. La Roma antica e la nuova Roma
110 114 116 116 118 121
parte seconda L a c h ie s a n e l M e d io e v o
§14. Divisione e struttura fondamentale d e l M e d io ev o occidentale
1. Periodizzazione e denominazione 2. Antichità, cristianesimo e germanesimo 3. Le caratteristiche essenziali del Medioevo Il cristianesimo nell’alto Medioevo (500-700).....................
125 125 127 131 134
§ 15. La chiesa e la nascita della civiltà occidentale
134
§16.11 primo incontro del germanesimo con la chiesa
138
§ 17. La chiesa iro-scozzese e la sua missione nel continente 1. La cristianizzazione dell’Irlanda 2. La missione irlandese sul continente
142 142 145
§18.11 cristianesimo in Britannia e la missione anglosassone sul continente
147
Da Bonifacio ai salii (700-1050)............................................ §19. Vinfrido Bonifacio e la fondazione d e ll Occidente cristiano § 20. Lalleanza del papato con il regno deifranchi 1. Il papato fra Oriente e Occidente. L’espansione islamica 2. Il regno dei franchi e i suoi nuovi compiti
151 151 155 155 158
536
Indice generale
§21. Carlo Magno e la fondazione dell'impero d’Occidente 1. Vita e opera di Carlo 2. L’idea di regno in Carlo 3. Il governo della chiesa secondo Carlo 4. La concezione imperiale di Carlo. Il problema dei due imperatori 5. L’incoronazione a imperatore e le sue conseguenze § 22. La decadenza dell’impero carolingio e il saeculum obscurum della chiesa romana 1. L’impero 2. La chiesa
163 163 166 169 170 175 177 177 181
§ 23. O tto n e i l G ra n d e
e il rinnovamento dell’impero occidentale 1. La politica imperiale ed ecclesiastica di Ottone 2. Il rinnovamento dell’impero nel 962 § 24. Sacrum Imperium. L’impero degli Ottoni e la dinastia salica fino al 1046 Lo sviluppo della chiesa nell’alto Medioevo (1050-1300)
185 185 188 190 195
§ 25. Cluny e il movimento monastico di riforma
196
§ 26. Riforma gregoriana e lotta per le investiture 1. Libertas ecclesiae 2. La lotta per le investiture 3. Conseguenze ed effetti
199 199
201 204
§27.11 grande scisma d ’Oriente
207
§ 28. Il nuovo spirito dell'Occidente 1. Nuove forme di monacheSimo 2. La riforma del clero secolare
208 209
§ 29. Il movimento delle crociate 1. Le crociate 2. Gli ordini cavallereschi 3. Bilancio
215 216
212
220 221
Indice generale
§30.11 movimento pauperistico, eresie e inquisizione
537
221
1. Il b ib licism o e la seq u ela di G esù
221
2. Movimenti pauperistici. Valdesi e Catari 3. L’Inquisizione
223 226
§31.1 grandi ordini mendicanti 1. Francesco d’Assisi e Tordine francescano 2. Domenico e l’ordine domenicano
228 229 231
§ 32. La scienza teologica e le università 1. La Scolastica e i suoi rappresentanti 2. La nascita delle università
232 232 235
§ 33. Il papato da Innocenzo III a Bonifacio V ili
237
1. In n o cen zo III
2 37
2. Lultima lotta tra papato e impero svevo 3. Bonifacio V ili
242 244
La chiesa al tempo del dissolvimento d e l lW à occidentale (1300( 1500־..................................245 § 34. L'esilio di Avignone' e il grande scisma d’Occidente 1. Il papato ad Avignone 2. Lo scisma d’Occidente § 33. Il concilio di Costanza e il conciliarismo !.Preistoria 2. Costanza, il concilio dell’unità 3. Il processo contro Jan Hus a Costanza 4. La questione della riforma al concilio. L’elezione del papa 5. Il concilio di Basilea 6. L’unione con i greci §36.11 papato del Rinascimento
245 245 249 252 252 254 257 260 262 263 264
538
Indice generale
parte terza L a c h i e s a n e l l ’e t à m o d e r n a
Riforma protestante e riforma cattolica ( 1500-1650) .........
275
§37. Premesse della Riforma protestante 1. Abusi nella chiesa tardomedievale 2. Il carattere religioso fondamentale del tardo Medioevo 3. L'esigenza di una riforma 4. Il nominalismo 5. Umanesimo e biblicismo
215 276
§ 38. Erasmo da Rotterdam e Vumanesimo
282
§ 39. Martin Lutero e la sua evoluzione a riformatore 1. L'immagine cattolica di Lutero 2. La formazione di Lutero 3. La questione delle indulgenze 4. La rottura con la chiesa
285 286 287 292 294
§ 40. La Riforma in Germania 1. La dieta di Worms, 1521 2. Lo sviluppo della Riforma in Germania dal 1521 al 1530 3. La dieta di Augusta del 1530 4. Dai colloqui di religione alla pace religiosa di Augusta del 1555 5. Sintesi
297 297
307 311
§41. Huldrych Zwingli. L'anabattismo 1. La vita e l'opera di Zwingli 2. Il movimento anabattista
313 313 318
§ 42. Giovanni Calvino e il calvinismo 1. Vita di Calvino 2. Dottrina di Calvino 3. Diffusione del calvinismo
321 321 326 327
§ 43. Enrico V ili e lo scisma della chiesa d'Inghilterra
329
§ 44. Tentativi di riforma nella chiesa prima del concilio di Trento
333
277 279 280 281
300 304
Indice generale
539
§ 45. Il concilio di Trento 1 .1 partecipanti al concilio 2. Lo svolgimento del concilio
338 338 340
§ 46. La riforma cattolica 1. Il pontificato di Pio V 2. Vescovi riformatori 3. La riforma degli ordini religiosi 4. Ignazio di Loyola e l’ordine dei gesuiti
344 344 346 346 349
§47. Confessionalizzazione, Inquisizione e credenza nelle streghe 1. Confessionalizzazione 2. Il ruolo dell’Inquisizione 3. La caccia alle streghe
354 354 356 357
La chiesa nell’età barocca (1650 (1789־................................359 § 48. La nuova epoca missionaria della chiesa 1. Missione e diffusione del cristianesimo fino alla soglia dell’età moderna 2. L’epoca delle grandi scoperte 3. La missione in India e in Cina. La controversia sui riti
359
§ 49. Dal Barocco allTUuminismo 1. Correnti ecclesiali alternative al centralismo della curia 2. L’Illuminismo
3 66
359 361 3 62
3 66 370
Dalla rivoluzione francese alla prima guerra mondiale (1789 (1918־............................. 373 § 50. La rivoluzione francese e la secolarizzazione 1. La rivoluzione francese 2. Napoleone Bonaparte 3. La secolarizzazione
373 373 375 376
§51. La restaurazione della chiesa in Germania nel X IX secolo 1. H riordinamento della chiesa tedesca 2. Vita della chiesa
377 377 377
Indice generale
540
§52. La fine dello stato pontificio
3 80
§ 53. Il concilio Vaticano I !.Preistoria 2. Svolgimento del concilio
382 383 3 87
§ 54. Dopo il concilio: veterocattolicesimo e Kulturkampf in Germania 1. L’opposizione in Germania 2. Il veterocattolicesimo 3. Il Kulturkampf
3 90 390 391 392
§ 5 5 .1papi dopo il concilio Vaticano I Dalla fine della prima guerra mondiale al concilio Vaticano II ( 1918-1965) ...................................... § 56. Ritorno dall'esilio e nuovo inizio 1. Situazione-ghetto in Germania 2. Una nuova coscienza di chiesa 3. Sviluppo al di fuori della Germania §57.1 pontificati di Pio XI e di Pio XII
394
401 401 401 403 408 409
§ 58. La chiesa nel Terzo Reich 1. La politica di Hider 2. Il Kirchenkampf 3. La resistenza delle chiese
416 416 421 422
§ 59. Il pontificato di Giovanni XXIII
425
§ 60. Il concilio Vaticano II
428
Storia della chiesa contemporanea (dal 1965 a oggi) (R o l a n d F r ò h lic h ) ...........................................................................
436
§61. 1 pontificati di Paolo VI e di Giovanni Paolo I 1. Prime riforme 2. Segnali di crisi 3. Segni di apertura 4. Impegno per la pace 5. Giovanni Paolo I
436 346 437 441 443 447
§ 62. Il pontificato di Giovanni Paolo II 1. La direzione da parte del papa
449 449
541
Indice generale
2. Riforme 3. Ognuno secondo il proprio stato 4. Il dovere dei teologi 5. Un papa per il mondo § 63. Sviluppi recenti nella chiesa 1. Il movimento ecumenico 2. Apertura alla giustizia sociale 3. L’esperienza di un mondo comune 4. Il pontificato di Benedetto XVI
451 452 460 464 470 470 476 482 484
A p p e n d ic e
Lista dei papi 121 concili generali (ecumenici) Tavola cronologica Bibliografia Indice analitico dei nomi di persona Indice analitico degli argomenti e dei luoghi Indice dei documenti ecclesiali
489 494 497 509 511 520 531