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Italian Pages 131 [152] Year 2015
Mimesis Edizioni (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Il caffè dei filosofi n. 78 Isbn: 9788857545189 © 2015 – Mim Edizioni SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935
Prolegomeni alla ricorrente odissea bondiana ALBERTO ABRUZZESE E GIAN PIERO JACOBELLI
Quando abbiamo messo in cantiere questa riflessione collettiva sul vecchio/nuovo James Bond – con una convinta determinazione che ci ha consentito di superare i non pochi ostacoli di una impresa comunque poco compatibile con gli impegni correnti, accademici e professionali, di studiosi e operatori della informazione – ci eravamo probabilmente basati su alcune idee sbagliate in merito al nostro oggetto di attenzione e di riflessione, nonché alle metodologie per affrontarlo. Per dirla tutta, probabilmente lo avevamo preso sottogamba, ritenendo che si sarebbe trattato di un mero aggiornamento di cose già dette e risapute, di qualche elemento in più da aggiungere alla già lunga collezione di amarcord. Abbiamo dovuto ricrederci perché, a parte la profusione di nuove informazioni, testuali e contestuali, a sorprenderci è stata soprattutto la moltiplicazione dei livelli di analisi, come se intorno a James Bond si fossero aggregati nel tempo molti degli interrogativi antropologici in cui nella seconda metà del secolo scorso si è riproposto quello che un filosofo “alla moda” quale Slavoj Žižek ha definito il problema del “soggetto scabroso”, cioè presente e assente al tempo stesso, da cui, tuttavia, in ogni caso non si sarebbe potuto prescindere. La prima idea sbagliata, o quasi, era quella relativa alle ragioni in apparenza occasionali per cui avevamo deciso di scendere in campo: il duplice, quasi concomitante anniversario che ha riguardato, da un lato, il primo dei film dedicati a James Bond (1963-2013) e, dall’altro lato, il primo dei romanzi pubblicati da Ian Fleming (1952-2012). Un
cinquantenario e un sessantenario che hanno fornito l’occasione per celebrazioni mondiali, per la ripubblicazione dei romanzi (in Italia, Adelphi sta proponendo accurate ed eleganti edizioni con copertine che richiamano quelle originali) e dei film (che si possono ora trovare raccolti in un cofanetto Blu-Ray “da collezione”) e, infine, per una grande mostra londinese in cui soggetti e oggetti sono stati esposti all’insegna di una sintomatica nostalgia: sintomatica perché non coinvolgeva soltanto quelli che allora avevano vent’anni, ma anche quelli che vent’anni li hanno oggi (beati loro!) a conferma del fatto che spesso il “ritorno” è un “ritorno al futuro”, come recitava il noto film di Robert Zemeckis (e il richiamo ai nostoi omerici, come vedremo, non è puramente casuale). Sbagliata non era l’idea che gli anniversari spesso e volentieri possano risultare utili a rilanciare qualcosa di importante (autori, opere, eventi), di cui magari ci si stava dimenticando. Sbagliata era l’idea che ci si stesse dimenticando di James Bond. In effetti, a scorrere la sua filmografia, si nota che, a partire dal primo film, Agente 007-Licenza di uccidere, le produzioni si sono succedute praticamente ogni due o tre anni, fatta eccezione per un intervallo di più anni, tra il 1987, quando si registrò il fallimento di 007-Vendetta privata, interpretato da Timothy Dalton, e il 1995, quando Pierce Brosnan, in GoldenEye, risollevò il vessillo bondiano, che da allora ha continuato a sventolare ogni due o tre anni. Il clamore che hanno suscitato le riprese romane di Spectre, l’ultimo film interpretato da Daniel Craig, viene a confermare come l’apparente assuefazione nei confronti di 007 non fosse in realtà che l’effetto paradossale di una sorta di identificazione di massa, per cui tutti oggi potremmo, nel bene e nel male, dichiarare: «Je suis James Bond». Nel senso che Bond non è più “scritto” su una pagina o su uno schermo, ma è “inscritto” in ciascuno di noi, come un vero e proprio “soggetto di riferimento”. Anche la seconda idea sbagliata aveva a che vedere con un quasi anniversario, questa volta più vicino alle nostre sensibilità e alle nostre inclinazioni di ricerca. Cinquant’anni fa, nel 1965, un anno dopo la scomparsa di Fleming e due anni
dopo il successo travolgente di Sean Connery nei panni di 007, Bompiani pubblicò Il caso Bond. Le origini, la natura, gli effetti del fenomeno 007, in cui studiosi allora giovani, ma già importanti, e giornalisti di vaglia (Fausto Antonini, Andrea Barbato, Romano Calisi, Furio Colombo, Laura Lilli, Lietta Tornabuoni, G.B. Zorzoli), coordinati da Oreste del Buono e Umberto Eco, si “inchinavano” con una sorprendente acribia metodologica sul fenomeno forse più eclatante di quella che allora si chiamava la “cultura di massa”. Non era mai successo, almeno in Italia, che tanta attenzione venisse riservata a “parole e immagini” che circolavano a profusione al di fuori dei tradizionali recinti accademici, anche se alcuni degli autori citati in realtà si sforzavano di riportare quelle parole e quelle immagini all’interno di quei recinti, segnati dalle arti liberali del Trivio e, assai meno, del Quadrivio, e comunque talvolta sembravano scusarsi di essere stati sorpresi con le “mani in pasta”. Sarebbe stato facile pensare che dopo non fosse successo nulla di particolare e che, quindi, la saga bondiana non richiedesse ulteriori supplementi d’indagine se non quelli relativi alla sua forse imprevedibile longevità, alla moltiplicazione dei suoi personaggi e interpreti, alle sue proliferazioni folkloristiche. Ma anche questa, quanto meno a posteriori, si è rivelata come un’idea sbagliata, o quasi. Perché quella pionieristica presa di coscienza che qualcosa stava radicalmente cambiando negli “ordini del discorso”, dopo oltre duecentocinquanta pagine di analisi e riflessioni si concludeva con una resipiscente e “preoccupante” (cioè aperto ad altre e diverse “occupazioni” interpretative) confessione di Laura Lilli: «Vorrei tanto conoscere le vere ragioni del successo di James Bond». Anche noi, dunque, esploratori di seconda mano, non avremmo dovuto semplicemente commemorare e commentare valutazioni tanto autorevoli, quanto conclusive, limitandoci ad attualizzarle, nel merito se non nel metodo, rispetto a quel presunto “mondo nuovo” in cui stava naufragando il marcusiano “uomo a una dimensione”. Avremmo piuttosto dovuto fare i conti con un “perturbante” (James Bond, appunto, che ci rassomiglia più dei cosiddetti super-eroi che non ci possono assomigliare per definizione, ma che, rivelandoci come vorremmo essere, ci consentono di
distrarci da come siamo) che da allora ha continuato ad aggirarsi in un mondo ormai vecchio, ma sempre più incomprensibile, almeno per chi si ostina a volerlo comprendere. In effetti, l’intento che ci ha concordemente ispirati e motivati, non è stato quello di “risolvere” (di “sciogliere” e, quindi, di “rimuovere”) il “caso Bond”, ma quello di comprendere come, sia dall’anniversario creativo sia da quello critico, avremmo dovuto trarre etimologicamente il senso di una non occasionale, ma persistente ricorrenza che, anno dopo anno, torna a confermare quanto la “licenza di uccidere” davvero ci appartenga: il desiderio di uccidere non solo la vita, ma anche la morte, di perderci incessantemente per poterci incessantemente ritrovare, di fare comunque qualcosa di memorabile per dimenticare, o fingere di dimenticare, che la quotidianità ci logora giorno per giorno, fino alla parola fine. Eccoci, conseguentemente, alla terza idea sbagliata, o quasi: che, in un modo o nell’altro, James Bond si sarebbe rivelato come il simbolo, o quanto meno un simbolo rilevante della modernità, una sorta di feticcio il cui successo avrebbe potuto venire interpretato nell’orizzonte del vintage, di qualcosa ormai dietro le spalle, in cui si deposita il valore un poco perverso delle neiges d’antan. Tutt’altro, almeno a leggere le pagine che seguono. Non di una “modernità moderna” si tratta, di quella modernità che va dal reale troppo reale della rivoluzione industriale al virtuale troppo virtuale della rivoluzione digitale. Si tratta piuttosto di una “modernità contemporanea”, di quella modernità da cui neppure la postmodernità sembra riuscire a liberarci. Di quella modernità che ci impone di continuare a fuggire da noi stessi, non perché ci facciamo paura, il che comporterebbe comunque un riconoscimento, ma perché non riusciamo più a riconoscerci, non sappiamo chi siamo, né dove siamo, né tanto meno dove andiamo. La metafora del viaggio per descrivere questa condizione non tanto itinerante, dal momento che per lo più non potrebbe dire dove sta andando, quanto peregrinante, da un approdo all’altro, da un santuario all’altro, trova conferma in una davvero inaspettata ricorrenza “omerica”. In un modo o
nell’altro, per accenni impliciti o per riferimenti espliciti, tutti i saggi raccolti in questo libro finiscono per giocarsi la partita nella memoria, o nella suggestione, del più tradizionale degli eroi eponimi: quell’Odisseo che ha dato il nome alla odissea con la “o” minuscola, quella “serie di peripezie che non portano a nulla”, come precisano i dizionari più accreditati, per ribadirne il carattere epico e non romanzesco. In altre parole, l’ombra di Odisseo/Ulisse attraversa come una cometa nel cielo, che non si sa mai se seguire con gli occhi o con il corpo, le numerose pagine in cui, con i nostri compagni di strada (questa volta è proprio il caso di dirlo), ci siamo interrogati sul senso di un così insistito ritorno del non rimosso, dell’ovvio, del banale, del convenzionale e via dicendo: l’atroce, ma beata condanna di un tempo che non vuole uscire da se stesso perché non sa se oltre se stesso vi sia ancora qualcosa. Come Odisseo/Ulisse, anche James Bond fa quello che fa perché non sa quello che sta facendo e perciò quello che fa, non serve a tornare da una vecchia Odissea a una nuova Iliade, per riprendere la metafora omerica nel senso di una più determinante e motivante consistenza programmatica. Serve, se mai, a strumentalizzare contro se stessi, oltre che contro gli altri, il fatidico (quando dicendo due volte si pretende di fare) Cavallo di Troia: la mitica Inghilterra della Casa reale, il mitico Occidente delle democrazie oligarchiche, il mitico mondo in cui chi vince è buono e chi perde è cattivo. Da questo punto di vista, l’articolazione del libro in tre parti non ha lo scopo di tenere separati apporti eterogenei, ma al contrario di segnalare il fil rouge di questa inesauribile peregrinazione nei vari livelli in cui l’argomentazione si può suddividere in ragione degli interessi e delle competenze. Aprendo il libro con un suo saggio “militante” sull’immaginario, che nasceva negli stessi anni in cui cominciava a emergere anche in Italia il dibattito su James Bond, Alberto Abruzzese chiarisce il senso del titolo di questa prima parte: “Opposizioni e Disposizioni”. Le “opposizioni” sono quelle di un mondo che conosceva, o credeva di conoscere i propri nemici, con riferimento alla lotta di classe o alla incipiente lotta di generazione, e però, per un’ambigua coincidenza tra amici e nemici, finiva per combattere contro se
stesso. Coinvolto nelle conseguenti e contraddittorie “disposizioni”, di servizio o di pensiero, anche Bond, scendendo in campo contro la violenza, in fondo non fa che rivolgere le sue armi, tecnologiche e ideologiche insieme (le armi fisiche della distruzione e quelle mentali della seduzione), contro se stesso, nella misura in cui incorpora e persegue lo stesso principio di violenza, economica o politica, a cui avrebbe dovuto e voluto opporsi. Sulla stessa falsariga intrinsecamente “autolesionistica”, ma con riferimento a un diverso contesto storico e culturale, anche Nello Barile rileva come, quando James Bond si “oppone” a quei potentati finanziari di cui raramente si conoscono i protagonisti, si “disponga” a subire le insidiose contraddizioni di quella borghesia capitalistica che pretende di combattere i frutti malsani della stessa etica protestante, dell’accumulazione a tutti i costi, da cui trae le proprie motivazioni. Tipica, a questo proposito, la sconcertante metamorfosi bondiana del cosiddetto paradigma della spia: se una volta, mano all’orecchio, ci si metteva in guardia contro il nemico in ascolto, ora, nell’era elettronica delle intercettazioni telefoniche e ambientali, spiando, la spia non può evitare di spiare anche se stessa o comunque di mettersi nella precaria condizione di farsi spiare. Passando alla seconda parte, quella che abbiamo titolato “Congruenze e Incongruenze”, il tema odisseico, che nei primi contributi resta implicito nella proiezione labirintica in cui si finisce per avere paura della propria ombra, diventando implicitamente nemici di se stessi, trapela invece in maniera più manifesta e pertinente. James Bond, scrive Massimo Negrotti, non è moderno, nel senso di chi dovrebbe rendersi interprete, film dopo film, della innovazione tecnologica che sta cambiando il mondo. James Bond è antico, non soltanto perché continua pervicacemente a giovarsi di un “armamentario”, retorico e strumentale, di vecchio stampo, ma anche perché continua a frequentare i luoghi dell’origine, istituzionale, comportamentale, sentimentale. È vero che riesce a cavarsela perché sa come usare l’antico, nelle sue diverse opportunità intellettuali e operative, ma la sua identità è tutt’altro che tecnologica: come per Odisseo/Ulisse, il suo
obiettivo è il piacere inteso non come un fare operoso, ma come la fine di ogni fare, una sorta di oblio lotofagico, a cui per altro il dovere, obtorto collo, lo sottrae incessantemente. Anche secondo Gian Franco Lepore Dubois, James Bond non vive, ma sopravvive grazie alla sua capacità, se non di provocare, quanto meno di interpretare il cambiamento. Questo è il motivo per cui è alla moda: perché solo chi non fa la moda, può essere alla moda; ed è proprio questo essere alla moda, questo rendersi sempre interprete del gusto, o della volontà, di un altro – fosse M o Q, chi gli fornisce i fini e chi gli fornisce i mezzi – che gli consente di trovarsi (o di perdersi) ovunque. Perché, come Topolino (novello Odisseo/Ulisse, sempre pronto ad armarsi e partire), non riesce mai a tenersi fuori: dal mondo e dai guai (donne o motori) che ne conseguono. Infine, alla fine di questa parte dedicata alle incarnazioni proprie e improprie di James Bond, Giovanni Scipioni, che ha una lunga esperienza di viaggi, fatti e scritti, rileva come l’essere ovunque equivalga all’essere in nessun luogo. James Bond, un Odisseo/Ulisse con la pistola, è lo specchio di un mondo che, per conoscersi, deve disconoscersi; deve tradurre (dedurre, indurre) la propria crescente complessità in una drastica operazione di semplificazione conoscitiva. Un mondo che si moltiplica incessantemente, sopra e sotto, a destra e a sinistra, davanti e dietro, ma che James Bond, nella sua ossessiva inclinazione all’azione, continua ad attraversare senza coglierne le variegate differenze, se non quelle radicali dell’amico e del nemico. Così trasformando un rutilante Arlecchino a colori in un monotono Arlecchino in bianco e nero. Nella terza parte, il cui titolo “Affermazioni e Negazioni” riporta il discorso degli oggetti al discorso dei soggetti, anzi del soggetto di riferimento, il viaggio di Odisseo/Ulisse viene anzitutto riconosciuto e ripercorso da Andrea Miconi nei termini sequenziali, ma bustrofedici (che vanno e vengono) della pagina scritta, per rilevare la importanza della “digressione” nello stile di Fleming, la struttura satellitare secondo cui le singole vicende in giro per il mondo si aggregano in sistemi (isotopie, isocronie, isomanie) solidali e
ripetitivi. Non quindi il racconto occasionale di avventure criminali, di guerre rimbombanti all’orizzonte, di spionaggi doppi o tripli, ma un’epica contemporanea in cui emerge indistricabile l’intreccio tra personaggio e brand. Non a caso, l’unico modo di prescindere dalla ripetizione è quello di tirarsene fuori per i capelli, con il gesto spavaldo e improbabile del favoloso Barone di Münchhausen (un altro Odisseo/Ulisse in maschera), di cui si giovano tanto le marche promozionali quanto le narrazioni autoreferenziali. Su questi argomenti identitari connessi alla mobilità semiotica dei segni “soggettivi” si soffermano soprattutto i saggi di Paolo Fabbri e di Gian Piero Jacobelli, entrambi sotto l’egida esplicita di quell’Odisseo/Ulisse su cui si sono articolate sia la riflessione filosofica, sia la passione narrativa del Novecento, secolo quanto mai diviso tra una differenza ripetitiva e una ripetizione differente. Nel caso di Paolo Fabbri, si tratta di un Ulisse sempre pronto a partire, perché ogni partenza presuppone che ci sia un luogo da cui partire e un luogo in cui tornare, mentre contano meno, non più delle odierne mete turistiche, i luoghi del transito, del conflitto, della sofferenza, del piacere e persino quello, scontato, del successo, da cui riprendere la strada o, meglio, la rotta di casa. Sono proprio le ricorrenze della partenza e del ritorno, le liturgie dell’inizio e della fine di ogni missione bondiana, che, nella variabilità delle circostanze e delle vicende, consentono il riconoscimento “attuale” di un personaggio ormai fuori tempo: un Odisseo/Ulisse inevitabilmente nostalgico, che però non demorde, anche per ragioni di cassetta. Un modo di cambiare restando sempre se stesso: un Signor Nessuno, secondo Gian Piero Jacobelli, le conclusioni del quale radicalizzano il riferimento omerico sulla scorta delle considerazioni di Theodor W. Adorno in merito alla supponente e costrittiva razionalità borghese, che ha reinventato quello straordinario dispositivo (una procedura implicativa) del “doppio nome” che già Odisseo/Ulisse aveva inventato per sfuggire alle grinfie di Polifemo: un nome che possa dire tutto (“Io sono”) e il contrario di tutto (“Io non sono”); un gioco di parole che manifesta l’amore della cultura greca, e occidentale, per la retorica. Un modo per “farsi un
nome”, dandosi un nome e un cognome, che in maniera altrettanto retorica – la retorica dell’assenza, invece della retorica della presenza – avrebbe dovuto garantire riconoscibilità e reputazione anche a chi ne fosse personalmente privo. Ecco, dunque, il senso del titolo icastico e formulare (la prima e forse la più celebre formula bondiana, quella della presentazione in pubblico, anzi al pubblico, dei lettori prima e degli spettatori poi) che abbiamo scelto per questo libro: Bond, James Bond, dove il nome, James, viene pronunciato dopo il cognome, Bond (salvo ricomporsi subito dopo), come una volta si richiedeva di fare ai militari, non tanto nel rispetto autoritario dell’ordine alfabetico, quanto perché il cognome racconta una storia, mentre il nome soltanto una cronaca, e nella storia si può vincere anche quando si perde nella cronaca: l’esempio eroico di Leonida alle Termopili insegna. Per concludere la nostra odissea bondiana chiarendo meglio la portata metodologica della riflessione su questa icona della modernità e l’utilità conoscitiva di tornare a parlarne (anche se, per la verità, non si è mai smesso di farlo) a tanti anni di distanza dalle sue prime incursioni nel discorso fenomenologico e sociologico, ci sembra utile tornare (anche noi siamo “partiti” per esplorare il mondo di James Bond e “torniamo” al “caso Bond”) sul saggio di Umberto Eco, a cui abbiamo accennato all’inizio: un saggio che, dopo la prima pubblicazione italiana, è stato ripubblicato un anno dopo, nel 1966, in un citatissimo fascicolo speciale di “Communication”, la rivista semestrale nata nel 1961, a Parigi, per iniziativa di Georges Friedmann, Roland Barthes ed Edgar Morin. Quel fascicolo era dedicato a L’analisi del racconto – così venne titolato nella traduzione italiana del 1969, rimosso l’aggettivo structurale del titolo originale, forse perché non si considerava la cultura italiana abbastanza matura da recepire favorevolmente modalità non “idealistiche” di affrontare la tradizione letteraria – e, guarda caso, si presentava come una sorta di festival di James Bond, allora sulla cresta dell’onda dopo il successo del suo primo film. Oltre a Umberto Eco, anche Roland Barthes, infatti, nella sua introduzione faceva sistematico riferimento ai romanzi di Ian
Fleming, e in particolare a Goldfinger, per parlare di funzioni narrative, tra “enunciati costitutivi” ed “enunciati destitutivi” (in questo caso l’espressione è nostra), tra “il filo della storia” e i suoi “dettagli”. Che sia spesso il dettaglio (come vestono i personaggi in scena, gli oggetti che ne caratterizzano i ruoli, gli elementi ambientali di contorno e via dicendo) a portare avanti la narrazione, non solo conferma che «l’arte non conosce il rumore», ma soprattutto ribadisce lo statuto isotopico di James Bond, nel senso di quell’uomo “per tutte le stagioni”, di quella personificazione impersonale di un mondo sempre uguale nella sua diversità, in cui consiste probabilmente la ragione fondamentale di una impareggiabile durata e di una strepitosa capacità di “ri-mediarsi”, di saltare da un medium all’altro, dal libro al film, dal film alla rete, dalla rete ai videogiochi, dai videogiochi ai circoli dei seguaci. Lo stesso Roland Barthes, continuando a dragare il fondo della epopea bondiana, ne sottolineava la frequente e caratteristica confluenza tra i «due sistemi di segni» del «codice del narratore»: quello personale e quello a-personale. In altre parole, James Bond è sempre, al tempo stesso, “qualcuno”, determinato e situazionalmente marcato, e “nessuno”, astratta istanza della coincidenza tra “essere” e “dover essere”, cioè “non essere”, quanto meno ancora. Dopo Roland Barthes e dopo Umberto Eco, la critica letteraria ha continuato ad affilare le armi della “comparazione” e della “sintesi” sulla cotenna bondiana, alternando all’approccio strutturalista (quello, appunto, di “Communication”), i diversi “codici” dell’approccio che il sociologo australiano Tony Bennett (Popular Culture, 1982) ha definito “gramsciano”, perché basato essenzialmente sulle innervazioni ideologiche del personaggio e delle sue avventure: il “codice sessita”, che gioca sulla debolezza identitaria delle sue donne; il “codice imperialista”, che gioca sulla nostalgia per il vecchio impero britannico e sul complesso di superiorità nei confronti degli americani; il “codice fallico” (cioè freudiano), che gioca sulla portata simbolica delle armi e sulle relazioni edipiche con M, il quale a volte consente, di uccidere, e a volte proibisce, di amare, in particolare la mitica Moneypenny, madre e sorella sempre
circonfusa da un alone incestuoso. Il James Bond postmoderno diventa tanto esuberante quanto fatuo (la forza di un interprete come Roger Moore era appunto quella di esagerare senza prendersi troppo sul serio), proiettando esuberanza e fatuità anche sui suoi deuteragonisti, avversari, coadiutori, dell’uno o dell’altro sesso. Lo stesso Tony Bennet, in collaborazione con Janet Woollacott, pochi anni dopo (1987) ha cercato di superare la presunta divergenza di fruizione tra versioni letterarie e cinematografiche, proponendo, dopo quello strutturalista, quello marxista (“gramsciano”) e quello freudiano, un approccio “postmoderno”, basato sulla “intertestualità” che integra l’opera letteraria e quella cinematografica, riconoscendone la “reciprocità” mediatica, dalla incisività dei messaggi alla spettacolarità dei mezzi, dalla “partecipazione” del lettore al “coinvolgimento” dello spettatore. Anche noi preferiamo conclusivamente sottolineare, tra le tante opzioni interpretative della saga bondiana nelle sue molteplici implementazioni mediatiche, i fattori congiuntivi rispetto a quelli disgiuntivi. Non soltanto per una sorta di “primato dell’audience” che non consente di distinguere nettamente tra un pubblico e l’altro, ma anche perché, come abbiamo già notato, la caratteristica narrativa di James Bond risiede proprio in quel “bricolage della ridondanza”, anche mediatica, da cui paradossalmente trae la sua forza identitaria: un vero e proprio coup de theatre, che volta a volta, ma ogni volta, si manifesta come un inaspettato deus ex machina. Sia che la “macchina” s’immerga nella angosciosa profondità del mare, sia che decolli nella gloriosa immensità del cielo. Verso il basso o verso l’alto, ma soprattutto verso il basso e verso l’alto. Ancora una volta, infatti, le due opzioni vanno considerate congiuntamente. Perché – come rilevava Valerio Magrelli nel 2012, al momento della uscita nelle sale cinematografiche mondiali di Skyfall, la terza e più eclatante delle interpretazioni bondiane di Daniel Craig, che ritorna sullo schermo nei panni di 007, nel già ricordato e molto romano Spectre – anche Bond invecchia e la sua gloria tende sempre più a misurarsi e talvolta a mescolarsi con l’angoscia. Con Craig, in effetti, paradossalmente si respira un’aria
doppiamente vecchia; perché invecchia il personaggio, che si presenta pateticamente pieno di acciacchi, nonostante la sua tenace muscolarità, e perché a ogni passo avanti nei nuovi scenari mondiali corrispondono due e magari tre passi indietro nelle sue motivazioni e nei suoi comportamenti. Non a caso, in quelle sue “poetiche” annotazioni che riteniamo opportuno riproporre a conclusione di questa nostra introduzione, Valerio Magrelli ricordava l’opera del poeta inglese ottocentesco Alfred Tennyson, che torna anche in altri interventi e che si richiama a Odisseo/Ulisse, polymechanos secondo il sonante epiteto omerico, per dire che cento ne fa e una ne pensa. Come il nostro James Bond, appunto, che a ogni fine torna sempre allo stesso inizio.
Bond e la poesia VALERIO MAGRELLI
Nel filone di 007, un genere oramai paragonabile al western o al peplum, Skyfall rappresenta un’eccezione. Dopo 50 anni e 23 film, James Bond rivela infatti le sue origini, e porta lo spettatore nella casa avita, una tenuta nel cuore delle Highlands che dà appunto il titolo alla pellicola. Immediato il riferimento al “Rosebud” di Orson Welles, nome infantile e magico che tormenta l’eroe di Quarto potere. Riferimento doppio, visto che a Welles è riservato anche un altro omaggio (la scena della sparatoria fra gli specchi, classica citazione da La Signora di Shangai). Insomma, quest’ultimo 007 segna un deciso cambiamento rispetto al passato, anche grazie a un regista quale Sam Mendes, autore di American beauty e Revolutionary road, per non dire di American life o Era mio padre. Ma dicevamo di Skyfall. Ebbene, nel fitto gioco di allusioni, la cupa magione nella brughiera scozzese corrisponde a Glencoe, luogo ricordato per un massacro fra clan rivali. Il tragico evento del 1692 fu celebrato in una lirica di Thomas S. Eliot, e con ciò arriviamo al cuore della faccenda. Che c’entra un attore d’azione come Daniel Craig, con i versi della migliore letteratura in lingua inglese? Che c’entrano James Bond e la poesia? La risposta all’inverosimile connubio viene dal capo dell’agente segreto, impersonato da una magnifica Judi Dench. Infatti, come è stato notato, è lei a recitare i versi di un testo amato dal defunto marito, mentre uno 007 già in disarmo resiste, stringe i denti, corre in soccorso della patria, sospinto dalla sua inflessibile tenacia.
Così il protagonista si trasforma in quell’Ulysses che Alfred Tennyson compose nel 1833. Certo, l’età che avanza è il filo rosso di tutto il film, come peraltro era accaduto sin da Mai dire mai (1983). Ma Mendes accentua ancora questa immagine, grazie alla potenza espressiva dei versi. Per questo, la sequenza che unisce 007 alla strofa dello scrittore vittoriano, rimane impressa come uno dei più felici e inattesi casi di fusione tra cinema e letteratura: «Noi non siamo ora quella forza che in giorni antichi Mosse terra e cieli, ciò che siamo, siamo; Un’eguale indole di eroici cuori, Fiaccati dal tempo e dal fato, ma forti nella volontà Di combattere, cercare, trovare, e di non cedere».
Opposizioni e Disposizioni
La “licenza” di Bond ALBERTO ABRUZZESE
Sono passati vari decenni e dunque ormai poco mi appartiene non solo il lessico da me usato in questa nota – tratta da “Cinema e politica”, n. 1 (gennaio-aprile 1968), La Nuova Italia – quasi giovanile (lo dico senza rimpianto ed anzi con un sentimento di liberazione), ma anche, e forse ancora di più, la mentalità che lo ha ispirato. L’idea di una militanza. Erano anni in cui per me si trattava di combinare l’immaginario hollywoodiano con Marx, Benjamin e l’operaismo. Cosa in verità assai poco ardua – almeno per un aspetto, il peso specifico del mio operaismo – se si considera che quel tentativo anti-marxista e tuttavia marxiano oggi ancora sopravvive nel post-operaismo odierno, rilanciato dagli stessi operaisti di allora e consacrato negli Stati Uniti da un autore della stessa partita come Toni Negri e dal peso che un filosofo come Roberto Esposito ha ottenuto in ambito americano. Arduo semmai era passare “dalla parte” di Hollywood dimostrando di avere poco o nulla da spartire con la critica cinematografica e con la politica d’autore di quegli anni (e in gran parte di oggi). Sapere scavare nell’intelligenza del capitale era la lezione più importante appresa da Mario Tronti. A rileggermi adesso non so dire se potere uscirne soddisfatto o meno. Certo, come ho detto, il mio pensiero è altrove. Ricorrere all’immaginario della vita quotidiana di quella che era allora una società dello spettacolo – ancora non pienamente ridefinita dalla televisione – significava rilanciare
il senso e la posta dei conflitti sociali deviando dagli stereotipi della politica militante di “sinistra”. Oggi, le condizioni di un sistema mediatico sempre più trainato e rivoluzionato dai linguaggi digitali rendono alla lettura l’impressione nostalgica che producono gli errori di prospettiva e le rovine che ne sono derivate. Bond sopravvive, mentre invece la mia identità di allora s’è infranta.
1. Marx nella Critica dell’economia politica pone il tradizionale interrogativo intorno alla sostanza eterna dell’arte: «Ma il problema non è che l’arte e l’epos greco siano legati a certe forme sociali, ma piuttosto ch’essi ci diano ancora un godimento estetico e per quale aspetto valgano come norma e impareggiabile modello». La citazione è stata sfruttata infinite volte; l’interrogativo che presenta, interessa a noi soltanto per il significato comunemente assegnatogli da parte delle esegesi marxiste, di ricerca “umanistica” del quid dell’opera estetica. Tale significato, a nostro avviso proprio in base alla teoria di Marx sull’ideologia, non può essere ricercato internamente all’opera d’arte come sua qualità categoriale o sua sostanza tipica, ma nel senso del continuo legame storico tra il pubblico e il prodotto estetico. Ciò non significa sconfinare nella sociologia pura, ma determinare la completa portata storica e ideologica di un Valore. La crisi della grande cultura del Novecento, proprio percorrendo il canale individualista dell’esperienza estetica, trova il fondo del suo non-senso oltre la logica interna all’“oggetto” artistico e al “soggetto” del genio, giungendo, cioè, a conclusione della propria esperienza formale, a penetrare anche la ragione “esistenziale” che lega il pubblico all’opera. È indicativa la conclusione di quella crisi: il pubblico assiste al rigenerarsi dei miti della cultura e delle forme estetiche attraverso il rilancio della “collettività”, di cui tale pubblico non è soltanto un simbolo, ma elemento
essenziale. La “positività” della storia viene confermata dall’adesione delle masse. Con la letteratura e il pensiero filosofico tra Ottocento e Novecento si era messo in discussione il valore di un Culto: da un lato l’espressione estetica, dall’altro il suo pubblico. Attraverso la negazione di uno dei due termini del culto si poteva giungere alla negazione dell’esperienza umana in tutta una sua prospettiva. Ma fu soltanto un gigantesco assestamento del sistema: solo pochi ebbero coscienza di quanto stava accadendo. Con gli slogan della democrazia nascono anche i primi film. Il cinema è uno spettacolo di massa. Il termine massa contiene praticamente ogni esperienza storica delle forme cinematografiche: la “massa”, il “popolo” sono la base teorica di tutto il mito democratico, costituiscono l’elemento fondamentale alla sua “politica”. Nietzsche avrebbe odiato il cinema come arte tipica dell’ideologia dell’“armento”. Il pubblico-gregge, che il cinema, nel giro di pochi anni a partire dal suo nascere, si conquista, è la prova – per ogni politica culturale che si rispetti – della capacità di persuasione ideologica del mezzo filmico. In una lettera di Trockij ad André Breton, si legge che «per conservare un carattere rivoluzionario l’arte deve essere indipendente da ogni forma di governo, non deve mettersi né ai suoi ordini, né al suo servizio. Deve operare nel suo campo peculiare ed essere esercitata da persone oneste. Queste condizioni sono sufficienti perché divenga anch’essa un’arma che serva all’emancipazione del proletariato». Entro questa prospettiva si intende generalmente il nesso tra politica e arte (politica e cinema): ma alla tendenza “culturale” del marxismo di Trockij o Gramsci si oppone la classe operaia nel ruolo oggettivo che svolge all’interno della società capitalista. La crescita della sua forza non dipende dallo spazio ideologico che la politica democratica e progressista tenta di fornirle all’interno del sistema, ma dipende, al contrario, dalla crescita stessa del capitale. Nella fabbrica si compie la contraddizione ultima della produzione capitalista: la classe operaia non trova le sue armi nella cultura – questa può oggi
essere soltanto uno strumento di mediazione tra capitale e operai – ma le trova esclusivamente in se stessa e nel ruolo che svolge all’interno del sistema stesso della produzione. La politica culturale non contesta il sistema del capitale (pur dichiarando ciò ad ogni fase del suo sviluppo), lo commenta soltanto, lo rende dialettico, tende a democraticizzarne le forme più “autoritarie”, in ultima analisi, a renderlo più funzionale. Il nesso tra rivoluzione e politica culturale (tra negazione delle strutture economiche del capitale e progressismo) trova dunque un suo equivalente simbolico nel nesso tra politica e cinema, in tutti quei film cioè dove appare esplicitamente l’intenzione di fornire, unitamente all’immagine estetica, un discorso politico. Qui intendiamo parlare, dunque, del cinema di “contestazione al sistema”, del film a soggetto rivoluzionario: consapevolmente e programmaticamente “politico”. Esulano così dalla presente ricerca tutte quelle esperienze estetiche che esasperano la loro protesta al sistema, attraverso il nichilismo ideologico, come il New American Cinema e buona parte del Free Cinema inglese. Queste nuove “scuole” cinematografiche hanno il pregio di esaurire un livello di valori nello spazio estetico, ma non posseggono e mai potrebbero possedere alcun elemento oggettivamente politico di contestazione, rappresentando, proprio per questo, la più allucinante disperazione per la loro impotenza “umana” a incidere sulla realtà. Tuttavia troviamo maggiore coerenza in tali esperienze di neoavanguardia, che in chi pretende di poter conciliare sul nastro cinematografico arte e lotta di classe. Se ne analizziamo ora l’incoerenza è perché intendiamo esaurire un discorso e chiudere in ogni suo termine fondamentale una “tematica” ideologica. Ogni manifestazione artistica che abbia per committente l’ideologia rivoluzionaria contiene qualche cosa di “ironico”, una volta che si ponga all’esterno del loro carattere di esperienze completamente vissute. Quanto più le forme estetiche saldano ideologia ed esperienza umana in un contesto
organico e dimostrano di condurre a un’unica conclusione possibile l’azione politica, sia che questa risulti sconfitta o vincitrice, tanto più l’antinomia tra rivoluzione e arte si mostra irriducibile.
2. A conclusione della Storia Sociale dell’arte Hauser scrive: «Il film è la sola arte in cui la Russia sovietica abbia dato cose notevoli. L’affinità fra il giovane Stato comunista e la nuova forma espressiva è evidente. Sono entrambi fenomeni rivoluzionari, che percorrono strade nuove, che non hanno alcun passato storico, né tradizioni che li vincolino o inceppino con gli schemi della cultura e dell’abitudine. Il film è una forma ancora elastica, malleabile, non ancora logora, che all’espressione della nuova idea non oppone alcuna intima resistenza». La sottolineatura è nostra: tale a uno storico progressista come Hauser può apparire il nesso politica-cinema. A noi oggi è possibile un maggior grado di astrazione del binomio cinema-massa e quindi cinemapolitica: la possibilità di analisi dell’oggetto filmico nel suo svolgersi storico, estetico e ideologico ci consente di darne una definizione esattamente opposta a quella hauseriana. La «forma ancora elastica, malleabile, non ancora logora» del cinema, privata del suo carattere ideologico di definizione utile alla convinzione di poter strumentalizzare la cultura a fini rivoluzionari, scopre la propria unica realtà nel costituirsi come sostanza fondamentale della sua natura di merce. Il “soggetto” artistico, come quello politico, o, altrimenti parlando, ogni articolazione del “contenuto” in una qualche forma “linguistica”, costituiscono l’elemento qualificante la merce. L’“aura” del cinema, nella sua fase iniziale, consiste tutta nell’essere una fonte di guadagno. Solo gradatamente essa assume il carattere di ogni altra disciplina estetica. Politica e cinema, dunque, si compenetrano a ogni livello strutturale e in ogni prospettiva ideologica, sino
all’annullamento d’uno dei due termini. Ma la penetrazione di questi può avvenire solamente attraverso un’analisi totalmente esterna alla logica del pubblico. Il rifiuto di “farsi pubblico” – di subire o avvalorare cioè il linguaggio ideologico delle masse – è l’unica linea di superamento oggettivamente politico del mercato capitalistico delle immagini estetiche. Farsi pubblico significa accettare una politica culturale: non soltanto partecipare direttamente – è la stessa cosa che farlo indirettamente – al ciclo di produzione, ma uscire da una prospettiva rigorosamente classista. La rivoluzione operaia non può passare per il punto di vista comune di un pubblico. La massa degli spettatori cinematografici non serve alla rivoluzione; nella sua promiscuità tende a rappresentare invece la forza del movimento operaio nelle sue attuali organizzazioni politiche. Il PCI, per esempio, non si rivolge alla classe operaia, ma allo spettatore cinematografico. In questo senso Marco Bellocchio è divenuto un ottimo funzionario di partito con il suo La Cina è vicina. In questo film il PCI è il grande assente. La prospettiva socialdemocratica viene attaccata attraverso la stessa socialdemocrazia. La sostanza caricaturale, quindi morale, della sceneggiatura dimostra largamente quanto detto e il film non merita altre parole.
3. Non è un caso che il film politico, “avanzato” formalmente e contenutisticamente, dei paesi socialisti, a stretto contatto con l’Europa occidentale, abbia “scoperto” l’angoscia esistenziale. Questa produzione cinematografica presenta un curioso fascino: ideologia e rivoluzione si contrappongono non in termini di “strategia” politica, ma come sentimenti di una lotta avvenuta. La riproduzione del materiale “poetico” dell’uomo della società borghese non è un problema di semplice imitazione stilistica. Dopo la Rivoluzione ci si è trovati a dover recuperare i valori, non contestati prima sul terreno politico, e
a inserire l’uomo socialista in un contesto ideologico, che continuasse a garantire la sua “falsa coscienza”. Anche durante la rivoluzione il cinema era stato un documento “tendenzioso” dell’azione politica. La lotta di classe non avrebbe dovuto aver bisogno di un interprete estetico. Ėjzenštejn nega la rivoluzione proprio nel momento in cui ne dà una rappresentazione estetica: con i suoi film egli costruisce per immagini l’ideologia della rivoluzione e ogni sequenza rivoluzionaria si traduce in emozione estetica laddove la lotta si sublima nel piacere della Bellezza. L’esaltazione che ne consegue riporta fatalmente al passato mondo delle forme della cultura borghese e la prospettiva del futuro vale come ideologia o come elemento – tra tanti – di una composizione ritmica. Il regista sente attraverso l’arte tutta la responsabilità del suo nuovo ruolo: la società socialista gli sembra chiedere il suo cinema, che è come dire che la vecchia società ha bisogno di consolazione. I suoi film di conseguenza divengono il punto focale del vecchio e del nuovo: tutto ciò che appartiene alla cultura e al costume borghesi vi è riassunto e tutto ciò che deve appartenere al comunismo vi è propagandato. La propaganda cinematografica, che Ėjzenštejn non solo realizza, ma fornisce di una teoria estetica, scopre la propria funzionalità oggettiva: l’immagine trionfante della corazzata Potĕmkin può giungere dove la rivoluzione non è giunta ed Ėjzenštejn può sfruttare il pubblico proprio in ciò che di questo – dopo il ‘17 – è rimasto immutato. Il culto dell’arte e l’amore dello spettacolo vengono scelti come terreno politico: la rivoluzione diviene bella per tutti. È significativo che il nesso rivoluzione-bellezza può essere ed è interamente capovolgibile indicando nella direzione del cinema russo di Ėjzenštejn e Pudovkin ancora un largo spazio per nuovi “capolavori”: così anche la guerriglia si presta all’industria cinematografica.
4. L’unico film politico propriamente detto – che raggiunga cioè il suo scopo – è quello tendenzialmente tecnologicoideologico-fantascientifico. Non a caso viene prodotto da paesi a capitalismo avanzato. È l’unico – tra l’altro – che rappresenta una vittoria oggettiva sul reale. L’eroe cinematografico attuale non lotta contro una realtà presente, ma contro una prospettiva futura. James Bond sconfigge una macchinazione che si presenta sempre come un danno per la realtà presente, per il sistema dato. Tale sistema costituisce la forza dell’eroe. La sua “licenza” si traduce nella conferma di tutto ciò che lo precede. Il futuro contiene una minaccia “negativa” costante. L’eroe non combatte più per un futuro migliore, ma affinché il presente si mantenga nel futuro. Le diaboliche macchinazioni anti-sociali e anti-democratiche, “assurdamente” anti-umanitarie finiscono per essere l’unico futuro “alternativo”. L’eroe combatte perché non avvenga il “logico” trapasso del potere tecnologico nella mano di chi ne sa e ne vuole sfruttare le possibilità sino in fondo, ma innanzi tempo. Accade così che il presente, la sua realtà e il suo sistema, sono l’unica garanzia di salvezza. La vittoria “oggettiva” di James Bond consiste nel confermare filmicamente la logica “democratica” del sistema capitalistico. Magnifico rappresentante dell’ideologia, ne sfrutta ogni possibilità. La sua politica, infatti, ha nell’ideologia uno strumento essenziale. James Bond può consentire se stesso al suo partito, quanto allo spettacolo cinematografico. Se in lui lo spettatore “qualificato” trova fascino minore che in un qualsiasi personaggio del “film d’arte”, ciò dipende da accuse esterne, per quanto storiche, alla sostanza. James Bond nonostante tutto rappresenta un nuovo linguaggio. Ha trovato una via diversa dalla tradizionale
esperienza estetica. Del concetto mitico di Bellezza può fare a meno. Il personaggio politico tradizionale dell’opposizione democratica anti-borghese non ne può fare a meno. Adorno e Horkheimer possono essere contenti di James Bond. Se non lo sono, probabilmente è perché Sean Connery non ha stile. Quando Bond distrugge una fonte di violenza per il benessere del mondo, ripete il rito propiziatorio della società borghese di fronte al nazismo. Vedere nella violenza, aspetto concreto e sociale di una “degenerazione” dei valori umani, la minaccia più grande per l’individuo e la collettività costituisce un alibi per Bond e un errore politico per Adorno. Il futuro di Bond ha notevoli affinità con il futuro marcusiano. La lotta di classe diviene una dialettica di generazioni.
5. Hauser notava alcuni anni fa che «la crisi del cinematografo si collega con una crisi del pubblico. I milioni e milioni di spettatori che ogni giorno, ogni ora riempiono le mille e mille sale del globo, da Hollywood a Shanghai, da Stoccolma a Città del Capo, l’unica lega che comprenda gli uomini di tutto il mondo, hanno una composizione sociale assai confusa. Nulla unisce questi uomini, se non il fatto di riversarsi nei cinematografi, fluendo come corrente amorfa: rimangono massa eterogenea, inarticolata, informe, indefinita, con la sola caratteristica, negativa, di rappresentare un insieme in cui si confondono tutte le categorie sociali, senza che affiori alcun ceto organico e chiaramente distinto per classe o per cultura. Questa massa non è un “pubblico” in senso proprio, poiché tale può essere designato soltanto un gruppo più o meno costante di frequentatori, capace di assicurare in una certa misura la continuità di una produzione artistica». Qui Hauser amatore d’arte supera il progressista-ideologo: trascurare la superiorità “politica” della massa rispetto a un
“pubblico” omogeneo significa commettere un decisivo errore di prospettiva. La settorializzazione dei generi culturali e delle singole arti è un processo di specializzazione che va di pari passo con il progresso della tecnica, ma il cinema non può trascurare tutta una serie di varianti sociologiche, tali da specializzarne, appunto, il linguaggio in una direzione ben lontana da quella presa in considerazione dal conservatorismo estetico di Hauser. Il parlare di un linguaggio futuro dello spettacolo cinematografico in uno svolgersi progressivo verso la completezza e ricchezza formale di altri linguaggi, contiene un’ambiguità di fondo. Il linguaggio dell’arte di massa, la “lingua” della politica-culturale hanno ancora per noi un esito sconosciuto. D’altro canto non può interessarci di gettare i fondamenti di una nuova estetica. Ciò che conta, e che serve, è seguire e penetrare questo lento formarsi di una nuova bellezza. Essa potrà dunque avere un carattere diverso, ma la sostanza del suo significato ideologico sarà sempre la stessa. In quella Bellezza in formazione l’istanza etica tradizionale risulta praticamente assente. Il campo dell’Etica viene demandato alla cultura d’opposizione. Bertolt Brecht contrappone Schiller a Nietzsche. La sintesi di questi – morale il primo, amorale il secondo – è un nuovo concetto di morale: «Lo stesso scopo delle nostre ricerche non era semplicemente di suscitare delle reazioni morali contro determinate condizioni di vita (benché tali reazioni nasceranno facilmente, anche se non in tutti gli ascoltatori; nascevano di rado, per esempio, in quegli ascoltatori che traevano vantaggio dalle condizioni di cui si trattava!); lo scopo delle nostre ricerche era piuttosto quello di scoprire i mezzi attraverso cui fosse possibile eliminare quelle condizioni difficilmente sopportabili. Parlavamo cioè non in nome della morale, ma in nome degli offesi; e queste sono due cose davvero molto diverse, perché spesso accade che, con abbondanza di prediche morali, si dica agli offesi che devono essere ben contenti della loro situazione. Per i moralisti di questo genere, gli uomini sono fatti per la morale, non la morale per gli uomini». E con
questo la morale come istituzione sociale trova il suo diritto in campo progressista. Progresso e morale. Morale e futuro: «Il teatro epico è il più vasto e progredito tentativo di giungere a un grande teatro moderno, e deve vincere tutte le enormi difficoltà che si oppongono a qualsiasi energia vitale. Così nel campo della politica come in quello della filosofia, della scienza e dell’arte». Attraverso il cinema l’etica è data in pasto alle grandi masse per la loro consolazione. Il cinema quanto al pubblico ha un avvenire e questo gli è tracciato dalla politica democratica dei partiti del movimento operaio. I ceti medi amano l’arte del cinema.
6. La politica cinematografica è soltanto merce. Con il prezzo di sessanta lire l’individuo civile può comperare, insieme ad un certo numero di parole, le immagini fotografiche di un quotidiano sulla guerra del Vietnam. La società ha stabilito il prezzo di questa merce, l’individuo può pensare ciò che vuole, ma per invertire il processo dovrebbe arrestare l’intera macchina della produzione. Molto spesso speculazione estetica e speculazione politica coincidono. Qualitativamente sono i casi “migliori”. Ma la merce politica deve ancora conquistare il suo mercato. Contemporaneamente al solidificarsi delle istituzioni politiche a livello sociale essa trova i propri acquirenti. Attraverso la progressiva formazione di organi sociali atti a neutralizzare, a ogni livello, lo scontro politico, si formano i “modelli” della richiesta. Questo è ancora un processo in atto, ma tuttavia la sua stessa dinamicità costituisce, al momento, uno stimolo all’acquisto. Nulla di più ridicolo, tuttavia, che pretendere il rifiuto “meccanico” del mercato. L’unica conseguenza logica di tale atteggiamento è il suicidio. L’aria che respiriamo, solo
ideologicamente – simbolicamente o “idealmente” – può essere privata del suo carattere di merce. Il “cinema libero” è la velleitaria illusione in chiave grottesca ed eroicomica di ogni prospettiva metastorica e utopica. Ogni negazione “meccanica” e non politica del sistema capitalista si riduce a esserne una conferma. La tradizione populista e democratica del movimento operaio tende a rendere ideologica anche la classe operaia: tende a chiudere definitivamente l’azione rivoluzionaria nel ciclo produttivo del sistema. Il buio di una sala cinematografica diviene il luogo simbolico del riformismo dei partiti del movimento operaio: attraverso le immagini estetiche la politica si fa fruibile. La fruibilità del prodotto garantisce l’allargamento della base sociale in un movimento di massa: quanto più l’immagine è fruibile, tanto più è politicamente ideologica. Quanto più è “bella”, tanto più è mistificata. Quanto più penetra nei vari livelli delle forze sociali, tanto più si integra e viene integrata nel sistema. Il fatto che i partiti del movimento operaio si sforzino di equiparare la classe operaia – ridotta a mera moneta di contrattazione – al pubblico dei ceti medi; il fatto che intendano trasformare il “proletariato” in “pubblico”, rivela pienamente tutta la crisi attuale del comunismo. Ma le cose non cambiano mutando “spettacolo” o “selezionando” il pubblico. Uno schermo cinematografico resta tale anche quando le carte si scoprono e il gioco del riformismo è dichiarato. La via da percorrere non parte dal pubblico di uno “spettacolo” ben riuscito, dalla “convinzione” di una élite, che dall’“immagine” rivoluzionaria vuol correre alla “guerriglia”. C’è qualcosa che unisce fatalmente l’aria chiusa e ristretta di un cinema a ogni velleitaria esperienza rivoluzionaria. Non si tratta di cercarsi in un nuovo mondo estetico, ma di percorrere alla rovescia quello antico: il “pubblico” non può farsi “partito” e non può essere la classe; esso è soltanto una mistificazione vivente.
7. Per il cinema d’avanguardia la riuscita estetica finiva per coincidere con la sconfitta politica. Oggi, sostanzialmente, si verifica lo stesso rapporto. La guerra è finita è un film riuscito proprio per la sua inutilità politica. In questo film si rappresenta il concludersi per negazione dell’esperienza di un militante rivoluzionario. Con dolore e umanità – “estetiche” – la cinepresa inquadra il dramma di un “politico” che, constatando il suo fallimento, diventa sempre più “uomo”. La struggente penetrazione nella sfera individuale del sentimento deluso, il continuo scandaglio della poliedricità erotica di una vita, nel suo bisogno di un contatto persistente, costituiscono il contrappunto alla consapevolezza dello “spreco” della propria esistenza in una prospettiva politica, che si riduce a essere uno sterile sacrificio. In questo senso la persistente sottolineatura della “ricchezza” dell’uomo non si inserisce in un contesto “ottimistico”, ma costituisce una prima negazione – la più estetica forse – della falsa politica. Il problema politico di Diego può essere generalizzato. Perché la Spagna è la falsa coscienza dell’Europa. La ragione comunemente data merita d’essere interamente capovolta: la colpa non è nel dramma della Spagna, nel suo tempo politicamente fermo, ma nell’Europa, che non sa ancora superare nella teoria e nella prassi il senso e le prospettive di quel “tempo”. Dalle barricate della rivoluzione si combatte ancora contro gli aeroplani di Franco. La possibilità simbolica di quei momenti storici costituisce la più brutale realtà presente da un capo all’altro delle zone rivoluzionarie d’oggi. E la parola d’ordine «Molti Vietnam» rivela la sua inadempienza rivoluzionaria quanto i piani dei compagni di Diego. Che si debba ricominciare tutto dal principio è l’indicazione maggiore di La guerra è finita. Ma tuttavia la negatività di ciò che è stato compiuto finisce per specchiarsi ancora nella positività disperata dei sentimenti che chiudono il film nel
punto in cui un’indicazione direttamente politica lo avrebbe semplicemente annullato. Qui l’amore si giustifica nella sua funzione giustificante, consentendo alla trama di svolgersi nel suo percorso estetico e contemporaneamente scoprendo tutta la delusione per l’inutilità dello “spazio” conquistato. Il rapporto erotico tra Diego e la moglie contiene un’estrema nostalgia: il difetto di un senso compiuto delle cose, nel lucido distacco da una dimensione semplicemente esistenziale dell’uomo. Il nesso politica e cinema, dunque, non ha senso. Quello tra cinema e politica, nel migliore dei casi, è nostalgia estetica.
La spia nel corpo di qualcun altro L’agente segreto da icona-chiave della società dei consumi a espressione culturale della “sorveglianza liquida” NELLO BARILE
La nuova occupazione dell’uomo nell’era elettronica è diventata la sorveglianza. Lo stile di spionaggio della CIA è ormai un’attività umana totalizzante. Comunque vogliate chiamarla – misurazione dell’audience, indagini di mercato e così via – tutti gli uomini sono arruolati come cacciatori in questa forma di spionaggio. (MARSHALL MCLUHAN, 1971)
Il passaggio dagli anni Cinquanta ai Sessanta è un momento decisivo nella formazione di un nuovo immaginario dominato dai media, in cui il valore dell’informazione prima e della conoscenza poi, risulta essere sempre più strategico. Come spesso accade con i frammenti dell’opera di Marshall McLuhan, non è mai del tutto chiaro se quello stile oracolare voglia solo celebrare il presente – ovvero l’icona della spia come paradigma della società della comunicazione – oppure se il suo ragionamento sulla galassia elettrica gli abbia permesso di avanzare ipotesi su trasformazioni a venire della società e delle pratiche di consumo tecnologico. Come gran parte delle
sue idee, anche questa spuntava da un’intuizione straordinaria, quasi prodotta da quell’intenso lavorio sui punti di rottura tra epoche diverse, che poi costituiscono l’ossatura stessa del suo pensiero. Come la galassia Gutenberg si espandeva dalla distruzione dell’epoca precedente, dominata dalla comunicazione orale, così l’eccesso di meccanizzazione indotta dalla stampa a caratteri mobili – capace di formattare non solo i contenuti alfabetici e grafici, ma anche la società industriale e la struttura cognitiva dei suoi abitanti – avrebbe prodotto la sua nemesi nella nascita e nello sviluppo della cosiddetta “galassia elettrica”. E dopo? Per molti lo studioso canadese avrebbe prefigurato il funzionamento della società dell’informazione, delle reti e delle tecnologie digitali. Per altri invece tale possibilità gli era interdetta, essendo il mediologo troppo radicato nella cultura del suo tempo. Probabilmente tale intuizione non era solo il frutto dell’influenza letteraria e cinematografica delle spy stories all’epoca della Guerra fredda. In un periodo fatto di grandi contrapposizioni, di muri invalicabili, la spia, ambigua, fluttuante e doppiogiochista, era il vettore di circolazione globale di informazioni, ma anche di stili di vita innovativi come il viaggiare da una parte all’altra del pianeta, che sarebbe poi diventato un’aspirazione diffusa tra la popolazione mondiale. In un certo senso la spia anticipava un modello di comunicazione fluida, di soggettività non incardinata nelle matrici ideologiche del tempo (anche se in esse trovava posto e per queste operava in modo tanto audace quanto spietato), d’avanguardia per lo stile di vita globalista, che poneva le basi del mondo totalmente accessibile, tipico dell’odierno sistema dei consumi. La spia era il punto di frizione tra placche geopolitiche che si fronteggiavano in modo totalizzante, ma anche il punto di fusione tra diverse concezioni del mondo, tra identità multiple che all’epoca difficilmente trovavano asilo nella struttura ordinante delle società moderne. Dunque, a suo modo, una sorta di avanguardia delle più recenti riflessioni sul postmoderno.
Tuttavia, dal punto di vista della costruzione identitaria, il successo di James Bond come protagonista dell’immaginario spionistico degli anni Cinquanta-Sessanta ha molto più da spartire con il moderno che con il suo superamento. Con l’uscita del primo romanzo di Fleming, Casino Royale (1953), seguito a distanza di qualche anno anche dalla sua prima riduzione cinematografica, la nuova immagine della spia è molto più definita, riconoscibile e dispone di una forte identità visiva rispetto al passato. È altamente connotata socialmente e culturalmente: incarna infatti la quintessenza dell’astuzia, del talento e dello stile britannico, esibito da un supereroe di origine scozzese, ma che ha sposato in pieno l’allora nascente modernità londinese. In tal senso Bond è quasi un’icona confezionata ad hoc per promuovere un certo tratto culturale a livello internazionale. Egli è l’esaltazione dell’eroe borghese che difende l’Occidente dai suoi nemici, è paladino delle virtù liberali nonché di uno stile di vita mondano e godereccio. La capacità disvelante di ciò che è nascosto, remoto, occultato, non riguarda soltanto la cospirazione globale di qualche società segreta, ma anche i processi che caratterizzano una civiltà avviata verso un consumismo sempre più massivo. Una simile società votata ai valori promossi dallo stesso agente segreto come avanguardia del gusto e dello stile tende a occultare come suo crimine più intollerabile il mondo della produzione.
James Bond, eroe della produzione In quale film hollywoodiano è rappresentato il processo produttivo in tutta la sua intensità? Solo in un posto: nei film di James Bond. L’agente penetra nella fortezza del suo avversario e allora vedi, sia che si tratti di produzione di droghe, sia di armi, che quello è l’unico posto oggi in cui puoi assistere al processo produttivo. Ovviamente la funzione dell’agente segreto consiste nel far saltare in aria, distruggere,
reprimere ancora una volta il luogo della produzione (Žižek 2001). Per Žižek, nonostante incarni i sommi valori della società borghese, Bond si contrappone alla sfera produttiva a tal punto da renderla dapprima visibile agli occhi del pubblico di massa, attraverso un processo di svelamento, per poi farla saltare in aria in virtù dell’equazione “lavoro = crimine”. Si tratta dunque di un super-borghese – espressione di un controllo totalizzante della tecnica e dell’informazione sul pianeta, sui popoli, ma anche sulla natura – che però disprezza il sommo valore protestante della produzione, preferendo a esso quello distruttivo e dissipativo del consumo. Anche da questo punto di vista egli assomiglia antropologicamente alla super-élite che è giunta oggi a dominare il pianeta, scatenando una nuova lotta di classe dei ricchi contro le classi meno abbienti (Gallino 2012). Che si tratti di cielo, aria, fuoco, questo eroe è capace di dominare gli elementi, senza mai rinunciare al suo smoking (che addirittura in Goldfinger indossa anche sotto la muta da sub) oppure al suo proverbiale cocktail Vesper Martini. Ma non si tratta solo di un emblema di libertà o, viceversa, di volontà di potenza e nichilismo, ma di una trama più complessa che modella «un universo del consumo teso a riformulare – in maniera veloce e profonda – i propri orizzonti d’attesa, gli oggetti di un rinnovato desiderio erotico che coincide con la volontà di potenza dell’uomo-massa nel crepuscolo incipiente del modello di società che lo ha generato quale figura centrale dei processi storici di industrializzazione» (Brancato 2012). L’alta definizione identitaria di Bond è sapientemente marcata dalla contrapposizione con nemici che invece risultano più opachi, meno definiti nelle origini e nella nazionalità, tendenzialmente ibridi nella natura e nello stile di vita. In un vecchio saggio degli anni Sessanta, ripubblicato in varie edizioni in Italia e all’estero, Umberto Eco ha evidenziato come gli antagonisti di 007 siano assimilabili per una serie di caratteristiche comuni: «Il Cattivo nasce in un’area etnica che va dalla Mitteleuropa ai paesi slavi, al bacino mediterraneo. Di regola ha sangue misto e le sue
origini sono complesse e oscure; è asessuato oppure omosessuale o in ogni caso non sessualmente normale» (Eco 1965, p. 90). La sostanziale indeterminazione identitaria dell’antagonista, unita ad altri attributi negativi tra cui una «cupidigia elevata al rango di paranoia», marca i tratti della figura dell’eroe che invece esprime valori e abiti prettamente occidentali. Tuttavia, «alcune opposizioni assiologiche non funzionano solo nel rapporto Bond-cattivo, ma anche all’interno del comportamento di Bond stesso: così Bond di regola è leale, ma non disdegna di battere il nemico impiegando un gioco sleale, barando col baro, e ricattandolo (cfr. Moonraker e Goldfinger)» (Ibidem). Questa ambiguità tipica dell’uomo spietato fu probabilmente colta dai commentatori al di là della Cortina di ferro, dove i film di Bond furono vietati fino al 1974 a causa del mix dirompente di sesso, violenza e consumismo. Tanto che Yuri Zhukov nel 1965 descrisse Bond ai lettori della “Pravda” come «un assassino fuori controllo e partigiano della violenza che protegge gli interessi della classe dei padroni: questo è l’eroe preferito della società borghese» (Albion 2005, p. 209). Nonostante nella struttura narrativa sia spesso presente la contrapposizione tipica della guerra fredda tra i valori e lo stile di vita occidentale contro quelli dei non o degli antioccidentali (Ibidem), questa visione semplificata è servita forse a circondare tale figura con un’atmosfera di fascino e di legittimazione estetica di un mondo – quello al di là della Cortina di ferro – che altrimenti sarebbe rimasto alieno dall’azione incessante della società dello spettacolo. Per questo motivo ancora oggi nei paesi dell’ex patto di Varsavia è fortissima la considerazione per le atmosfere evocate dalla serie di 007, come anche da altri film sull’icona romantica della spia, da Gorky Park a Firefox. Perché questi hanno saputo sublimare il fascino di una resistenza radicale al capitalismo, che era già pronta per essere rivenduta all’industria culturale occidentale, alla pubblicità e alla moda. In un certo senso il brand Bond, costruito per esaltare la primazia dell’identità europea e britannica sul resto del mondo, non ha fatto altro che preparare la formazione di una
nostalgia dell’Est comunista. Si pensi al fenomeno della Ostalgie, la nostalgia dei berlinesi dell’Est per la loro ex patria, che tra la seconda metà degli anni Novanta e i primi del nuovo millennio si è trasformata in una tendenza globale, con tanto di nuove marche d’abbigliamento e di gadget tecnologici, tutti ispirati alle estetiche della DDR.
Per un nuovo stile di vita La fissità del sistema d’identità visiva, contrapposta alla molteplicità dei contenuti e delle interpretazioni di quel ruolo, ha fatto di James Bond un brand a tutti gli effetti. Una struttura semiotica fissa che è stata capace di ospitare una certa varietà di contenuti, di corpi e di stili di presentazione, classificabili anche rispetto al periodo storico e alle mode del tempo. Così se il Bond di Sean Connery è rappresentativo di un certo modernismo anni Sessanta, sfociato poi nell’etichetta della Swinging London, che unisce in una omologia coerente moda, musica e design dell’epoca (Colaiacomo, Caratozzolo 1996), quello incarnato da Roger Moore rispecchia lo stile più edulcorato e filo-americano degli anni Settanta. Allo stesso modo Timothy Dalton esprime la leggerezza dell’edonismo tipico degli anni Ottanta, mentre l’ultimo Bond di Craig è totalmente ossimorico: rude violenza rivestita da un involucro di rinomata eleganza. Si diceva dunque che il brand di James Bond è in grado di esprimere una fissità assiologica – ovvero uno specifico set di valori che ha più o meno a che fare con l’ideale della mascolinità britannica – ma anche di modificare la sua forma più esteriore al variare dei periodi storici e delle mode. Il rapporto tra l’identità britannica e questa nuova figura di eroe è stato oggetto di recente approfondimento da parte dei Cultural Studies, cosicché Bond è incorporazione dei valori di meritocrazia e di professionalizzazione che hanno plasmato la società inglese dopo la seconda guerra mondiale (Chapman 2005, p. 130). Egli sarebbe addirittura espressione di una
visione conservatrice che avversa il cambiamento sociale e si esprime negativamente nei confronti delle classi più basse o addirittura nei confronti delle distinzioni di gender, tanto da suggerire che «le lesbiche sono una diretta conseguenza della concessione di diritti di voto alle donne e dell’uguaglianza sessuale» (Ivi, p. 132). Bond non è solo brand, ma testimonial dell’indispensabilità di un nuovo stile di vita. Che si tratti delle locations più esotiche – spesso coincidenti con i punti di snodo dei flussi di capitale globale, ovvero i cosiddetti paradisi fiscali – oppure di una conoscenza approfondita di alcolici di alta gamma, dai cocktail più sofisticati agli champagne più esclusivi, Bond inaugura l’epoca d’affermazione di un lusso democratico (Barile 2011) insistendo su consumi al tempo inaccessibili per gran parte della popolazione. Se gli abiti provenienti da Savile Row, la via londinese dei sarti più esclusivi, o la Aston Martin servono a marcare la sua identità tipicamente british, i gadget tecnologici fornitigli da Q, sono invece un’apertura alla sperimentazione e al futuribile. Proprio questi gadget si mostrano allo sguardo di un contemporaneo come prototipi rudimentali e naif di tecnologie oggi disponibili sul mercato globale. Forse proprio per questo motivo, in Skyfall di Sam Mendes (2012), l’alta tecnologia che Q gli mette a disposizione è un banalissimo telefono cellulare. Il fatto che la formazione dell’icona di Bond coincida con l’inizio degli anni Sessanta è in un certo senso profetico. Quel periodo è infatti il momento d’affermazione di un modernismo che cavalca il boom economico e il rilancio di parecchi paesi europei, ovvero il processo di cetomedizzazione. Esso coincide con il passaggio da una concezione del lusso tradizionale e aristocratica, basata sui modelli ostentativi della sociologia simmeliana e vebleniana, a una nuova concezione di lusso democratico che fa nascere le prime catene di alberghi e un nuovo ideale di mobilità che anticipa la trasformazione del turista contemporaneo. Come ha efficacemente rilevato Gundle (2009), nel passaggio dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta viene elaborato il concetto contemporaneo di glamour che non investe unicamente il mondo della moda, anzi, esso si consolida
dapprima in altri settori della società dello spettacolo e in questo periodo si traduce in consumo soprattutto grazie alla trasformazione dell’esperienza turistica. Oltre alla concorrenza tra TWA e Lufthansa, vinta dalla prima sul piano di un immaginario più sexy e lussureggiante, Gundle evidenzia come gli anni Sessanta siano dominati dal successo di alcune figure esemplari, che intuiscono le rotte verso cui la nuova società si sta indirizzando.
Dai media elettrici ai media elettronici Le traiettorie d’espansione della catena Hilton paiono quasi tracciare un itinerario ipotetico per lo sviluppo delle spy stories dell’epoca. «Conrad Hilton aprì alberghi di lusso a Porto Rico nel 1947, Madrid nel 1953, Istanbul nel 1955, e poi a Roma, Berlino Ovest, Montreal e in molte altre città. […] In ogni apertura il grande magnate del settore inviava le principali celebrities del momento per assicurarsi la pubblicità dell’evento e per creare un Glamorous Buzz intorno al nuovo Hotel» (Gundle 2009, p. 240). L’impresa pionieristica di Bond, il quale tuttora viene percepito come emblema di una classe super-privilegiata dedita a un lusso oltranzista e inarrivabile, è in realtà la leva attraverso cui, a partire dagli anni Sessanta, si è diffuso un ideale di lusso accessibile e adatto alla concomitante espansione dei ceti medi. Nello stesso periodo una vasta gamma di nuovi consumi è stata messa a disposizione delle classi emergenti. Il medesimo movimento che Gundle individua nel turismo internazionale può essere riferito anche alla mobilità, ai consumi tecnologici e alla moda. In quanto icona moderna, la figura di Bond era incastonata nel firmamento spettacolare dell’epoca, quando ancora «la bellezza celebrata sullo schermo cinematografico influenzava la moda e il gusto del pubblico, ma il mondo vissuto restava ai margini estremi della mondanità di quello spettacolo» (Abruzzese 1998, p. 44).
Con la diffusione di un immaginario centrato sul mezzo televisivo e successivamente con l’avvento della rete, anche la spia ha perso questa sua potente influenza sul quotidiano, sull’onda di un generale e assai rapido processo di desimbolizzazione (Canevacci 1995). La spia è dunque uno spartiacque simbolico tra due epoche. La prima, vissuta pienamente da McLuhan, era dominata dalla TV e dagli altri media elettrici. La seconda, su cui l’autore ha solo provato a pronunciarsi, è dominata dal computer e dalla rete. All’interno dell’immane trasformazione anche lo status della spia non poteva restare indenne. Già nella sua configurazione moderna, nonostante la sua “liminarità” tra placche e sistemi culturali contrapposti, essa fungeva da braccio armato di un’intelligence accentrata, burocratica e panottica. Mentre da alcuni anni l’immagine attuale della spia ha subito un processo di commercializzazione, inflazione e diluizione nella realtà quotidiana. Nell’Italia degli anni Ottanta si era diffusa una cultura dello spionaggio fai da te che investiva lo spazio delle relazioni di coppia, dell’intimità relazionale di persone qualunque grazie alla moltiplicazione delle agenzie d’investigazione privata (certo Tom Ponzi ottenne la sua prima autorizzazione dallo Stato nel 1948, ma solo negli anni Ottanta divenne un fenomeno di costume). Gli anni Novanta sono forse l’epoca dello spionaggio industriale. Caduto il muro, non resta che abbattere le barriere che isolano e separano le grandi imprese dai loro competitor come dal resto della società civile. Anche in questo caso la spia è avanguardia di un processo di apertura dei mondi di vita chiusi dei consumatori alle logiche di funzionamento delle multinazionali. Queste sviluppano strumenti efficaci per rendere sempre più porosa la membrana che separa le proprie organizzazioni dal mercato, al fine di estendere la superficie elastica del proprio brand sullo spazio di vita dei consumatori, per assorbire le loro esperienze effettive che saranno trasformate in concept, prodotti, campagne ecc. Dalla parodia psichedelica di Austin Powers di Mike Myers (1997) alla più recente serie televisiva The Americans (2013), l’immaginario contemporaneo ha esautorato la spia dal suo
ruolo eroico e l’ha resa partecipe di una volgarizzazione che, aderendo anch’essa alla formula marvelliana “supereroi con superproblemi”, ha ridotto il gap tra questa e l’uomo comune. Non tanto per gli episodi del polonio usato per uccidere un ex membro del KGB in un ristorante londinese qualche anno fa. Questo esempio di una straordinaria sproporzione tra mezzi e fini racconta di una nuova guerra fredda in cui, rispetto alla contrapposizione frontale tra blocchi geopolitici, prevalgono interessi economici e speculazioni finanziarie, ovvero la totale vendetta del capitale. Forse più in linea con lo Zeitgeist recente è la questione delle spie russe arrestate in America, come l’avvenente Anne Chapman, ovvero la “spia con il corpo da modella”, che potremmo rileggere come una sorta di velinismo “deviato” e reinterpretato dalla cultura americana. Sulla stessa scia anche il Presidente Putin, il quale, da ex membro del KGB, non stonerebbe in un film di James Bond, con i protagonisti di Hollywood ha intrattenuto le grandi star dello Showbiz americano, quando ancora non era impegnato a evocare i fantasmi di una nuova guerra mondiale a causa della Crimea e delle aree filorusse dell’Ucraina.
La spia spersonalizzata Il paradosso della nostra epoca è che, da un lato, si riaffacciano i fantasmi di una nuova guerra fredda deideologizzata, e dunque una nuova ribalta per i servizi segreti di tutto il mondo, mentre, dall’altro lato, la globalizzazione del capitale e la concomitante penetrazione di Internet negli ambiti più reconditi della vita quotidiana delle persone, hanno totalmente diluito l’immagine della spia. Già nel pieno dello sviluppo del primo Web tale idea era suggerita dai protagonisti della new economy, capaci di creare un impero e di imporre uno standard monopolistico di utilizzo delle tecnologie facendo leva su un’immagine morbida e confidenziale, molto distante da quella dei vecchi yuppies degli anni Ottanta.
Per questo ancora Žižek ha voluto instaurare un paragone tra i malvagi della saga di 007 e i nuovi padroni del mondo della net economy. Pertanto se «nei primi film di James Bond il genio cattivo era una figura eccentrica, vestita in modo stravagante o altrimenti con l’uniforme grigia del commissario maoista, nel caso di Bill Gates non c’è più bisogno di questa ridicola messa in scena – il genio del male si trasforma nell’individuo della porta accanto» (Žižek 1999). Ma la presunta malvagità di Bill Gates ha a che vedere con la sua capacità di dominare il mercato dei personal computer grazie all’affermazione di un sistema operativo diffuso universalmente. Ben più allarmanti sono le accuse rivolte ai nuovi protagonisti del cosiddetto Web 2.0, animati dalla cosiddetta Californian Ideology (Barbrook, Cameron 1995) che ha saputo fondere in soluzioni imprevedibili la controcultura Hippie con l’arrivismo Yuppie. Il passaggio dal vecchio Web al Web 2.0 ha definitivamente smantellato qualsiasi barriera di separazione tra lo spazio pubblico e quello privato, sfruttando le reti di relazione, di emozioni e di esperienze nel tipo di mentalità che altrove ho definito come “neo-totalitaria” (Barile 2010). Ancor più che nella visione mcluhaniana, in quella onirica di William Burroughs (1981) possiamo rintracciare elementi utili alla comprensione del processo di diluizione e di deindividuazione della categoria di spia nella società contemporanea. Commentando una frase già utilizzata da Jack Keruack, lo scrittore americano dice: «Io non sono, io sono solo una spia nel corpo di qualcun altro» (Burroughs 1981, p. 50). Il discorso di Burroughs era ovviamente indirizzato verso una critica del concetto di identità, che intendeva ribaltare la funzione del logos, assimilando la parola a un virus che sfrutta la biologia umana per riprodursi. A tale concezione è associata la critica al rapporto tra comunicazione e controllo. Il controllo non può essere che parziale, altrimenti esso stesso scompare. Il controllo totale non è tanto la conseguenza di un regime totalitario, quanto della pura funzionalità del dispositivo. Se ho il controllo totale di una persona, la stessa relazione di potere che la assoggetta a un certo punto scompare. Ma oggi più che
di controllo centralizzato è possibile parlare di controllo distribuito, ovvero di un dispositivo di auto-sorveglianza. Presenzialismo, esibizionismo e una nuova forma di autismo, sono talvolta l’effetto indesiderato di questa dilatazione del sé consentita dalle nuove tecnologie a base social e dalle strategie della comunicazione globale. La sua natura è fondamentalmente logica, il suo potere è perlopiù cognitivo, i suoi effetti tutto sommato impercettibili; ma la sua influenza è enorme. Esso può risultare ben più diffuso, invasivo e capillare dei metodi di cooptazione o di investigazione adottati dai regimi. Forse per questo, solo recentemente si è raccontata un’altra storia sulla tragica esperienza della caduta del muro e sull’apertura pubblica degli archivi della Stasi a Berlino Est. Al posto di inscenare il solito psicodramma di ex amici o parenti che scoprono di essere stati spiati dai loro cari o da amici indotti a fare da delatori, il film Le vite degli altri di Von Donnensmark (2007) lavora sulla profonda umanità che può esplodere inaspettatamente in un valido membro dell’apparato, quando gli si assegna il compito di spiare e registrare il quotidiano di una coppia di presunti traditori della patria. La spia non ha più nulla di eroico, ma torna a essere un grigio funzionario d’apparato; il suo oggetto di investigazione è il quotidiano di determinati cittadini. Ma il dramma sentimentale del celebre romanziere e dell’attrice di teatro modifica l’approccio della spia che si trasforma lentamente da analitico a empatico, dallo sguardo di un osservatore impassibile a quello di uno spettatore fedele.
Assange e/o Snowden Questa sorta di Grande fratello miniaturizzato, modifica la sfera emotiva di colui che guarda, ma anche la sua etica, la sua deontologia professionale e la concezione politica, inducendolo a sovvertire il sistema di potere e gli ordini del suo superiore. Si tratta forse della prefigurazione di quei tanti piccoli fratelli di cui parla Andrew Keen (2013), che
sostituiscono un potere centralizzato e panoptico con una sorveglianza incrociata, diluita e spontanea. La diluizione ci mostra come la funzione della spia non coincida più con la figura dell’agente segreto super-eroico, ma con quella del nerd, del geek, dell’ingegnere informatico che ha passato la vita a craccare codici e che non ha la benché minima idea di come si giochi sui tavoli della geopolitica globale. In questa cornice si colloca il caso Wikileaks: l’organizzazione internazionale che attraverso un sito Internet riesce a drenare enormi quantità di informazioni provenienti da fonti governative e/o diplomatiche sparse per il pianeta. Reso famoso dalla recente divulgazione di documenti prodotti durante la guerra in Iraq, il sito ha raggiunto visibilità mondiale grazie alla pubblicazione di un’enorme quantità di dispacci diplomatici che riferivano pareri scottanti sui leader del pianeta. Ancora una volta l’opinione pubblica si è spaccata tra coloro che difendono il valore della trasparenza tout court e quelli che invece dipingono il suo fondatore, Julian Assange, come un mentecatto, pervertito, cyber-terrorista e via dicendo. Il caso avrebbe molto più a che vedere con le nuove frontiere della geopolitica che non con la società del gossip, ma una volta che i contorni che separavano la star, il politico e l’uomo comune saltano in aria, anche un evento rivoluzionario come Wikileaks può ricadere in questa brodaglia informativa. In tal modo i documenti pubblicati da quel sito – forse meno wiki e molto più leaks – hanno mostrato come alla base della diplomazia mondiale ci sia, ancora una volta, l’umano troppo umano. In particolare i comunicati interni del corpo diplomatico americano suonano spesso ridondanti, pleonastici, se non addirittura come il classico bagaglio di stereotipi che non dovrebbe in alcun modo inficiare le prassi di una diplomazia matura. Gran parte di quel materiale è stato archiviato come puro gossip e in buona parte lo è. Per questo motivo Berlusconi ha risposto alle indiscrezioni sulla sua persona con una solenne risata. Perché chi ha alimentato sino alle radici quel tipo di humus culturale, ha più strumenti per rilanciare l’offensiva tramite il gossip – altrimenti noto come “macchina del fango” – al fine di immunizzarne la pericolosità di qualsiasi antagonista.
Ancora più rappresentativo del processo di mutazione del ruolo e dell’immagine della spia è il caso Snowden. Con Assange, infatti, la retorica della cyber-utopia, a sua volta ribaltabile in una cyber-distopia, rende ambiguo, ma centrale il ruolo e l’identità di questo nuovo status. Ci si può chiedere se Assange sia a capo di un gruppo di hacker, ovvero di informatici che violano i sistemi di sicurezza di istituzioni internazionali, ambasciate e quant’altro per uno scopo etico, oppure se sia invece un cracker (Lovink 2012), ma resta la centralità della sua figura ad animare le posizioni dell’opinione pubblica globale. Nel caso di Snowden, invece, la vicenda è più fumosa, sia dal punto di vista dell’identità del suo protagonista, ancor più liminare e doppiogiochista, sia dal punto di vista geopolitico e delle relazioni diplomatiche. Il protagonista di tale incredibile vicenda è praticamente un esperto informatico che decide di tradire la NSA, organizzazione dentro cui ha prestato fedele servizio, per rivelare al mondo il complesso sistema spionistico attraverso cui gli USA hanno sorvegliato i potenti e i cittadini dell’intero pianeta. Se non fosse una vicenda maledettamente seria, addirittura dai risvolti drammatici per il destino delle nazioni, il tutto tornerebbe a rievocare l’atmosfera della vecchia guerra fredda, ma con gli equilibri alterati. Tuttavia l’immagine di Snowden non ha molto a che vedere con quella dell’agente segreto, semmai con quella di un giovane geek, che il cinema americano ha esportato nel mondo a partire dagli anni Ottanta, ovvero da Giochi di guerra di John Badham (1983). Ma questa volta al posto del giovane autodidatta informatico che salva il pianeta sconfiggendo il mega-computer dell’esercito, troviamo un tecnico, un uomo d’apparato che per motivi imperscrutabili decide di tradire il suo paese per consegnare l’allarmante verità al mondo intero. In tal senso è ancor più significativa la fine di Snowden che, inizialmente diretto verso l’Ecuador, è scomparso durante il suo scalo a Mosca, quasi ingurgitato da una dinamica di potere comunque imperscrutabile.
La società confessionale Tornando alla lampante intuizione di McLuhan, pare ancor più impressionante il modo in cui egli ha eletto la spia a figura chiave dell’era elettronica, ma anche e soprattutto come ha saputo tracciare le linee di trasformazione di tale figura verso un mondo in cui saremmo tutti potenzialmente spie. Per questo i più recenti critici della rete, quale il già citato Andrew Keen, hanno sottolineato come il Web 2.0 abbia avverato il sogno più recondito della CIA: conoscere tutto di tutti, anzi attendere che gli “altri” si auto-denuncino, risparmiando in tal modo risorse e mezzi. Tutto ciò rappresenta il trionfo di ciò che Bauman ha definito come “società confessionale”, vale a dire una società dell’auto-sorveglianza indotta dai dispositivi di confessione (dai talk show al Oprah Winfrey Show, agli odierni social network). L’ultimo libro intervista di Zygmunt Bauman e David Lyon lavora esattamente sull’intersezione tra nuove forme di consumo e di comunicazione. Gli autori esaminano fenomeni come il tracciamento degli utenti-consumatori in un mondo che integra dinamicamente virtualità e fisicità, ma anche le pratiche diffuse di sorveglianza che dal paradigma vetusto del Panopticon seguono nuove direzioni. In un contesto totalmente mutato l’icona della spia cede il passo a nuove entità più astratte e disumanizzate, che esercitano la sorveglianza e il controllo attraverso dispositivi di automazione. Ne sono un esempio i droni, sia quelli di taglia superiore usati per bombardare o uccidere, sia quelli dalle «dimensioni paragonabili a quelle delle libellule o di un colibrì», che, progettati per «essere invisibili anche quando li abbiamo davanti agli occhi», faranno entrare la guerra nell’era «post-eroica» (Bauman, Lyon 2014, pp. 4-5). Dall’altro lato, invece, abbiamo altre tecnologie che sfruttano l’automazione di processi immateriali per scandagliare le aree più recondite della rete alla ricerca di informazioni sensibili su utenti di vario tipo. La sfera del privato, dei nostri gusti e delle inclinazioni più segrete, talvolta addirittura inconsapevoli, sono ormai costantemente monitorate da programmi “spia”
(Spider, BOT, ROBOT ecc.) che registrano ogni nostro impercettibile movimento on-line (Rainie, Wellman 2014). Questi algoritmi stanno altresì automatizzando numerosi processi delle società più avanzate, dalla socialità in senso stretto ai processi di differenziazione, sino all’elaborazione sociale del gusto (Barile, Sugiura 2014). Al di là dei processi di automatizzazione, ma non del tutto distanti da essi, le forme di auto-sorveglianza, di sorveglianza reciproca o peer to peer (Harkin 2006) sono il nuovo tratto distintivo delle società confessionali. Alla stregua di altri fenomeni socio-tecnici, l’annosa questione dei Big Data ha al contempo surrogato e surclassato alcune funzioni tipiche della spia. Il tema dei Big Data è diventato un mantra da almeno 5 anni, ma oggi sembra essere la parola chiave per risolvere i problemi di aziende e istituzioni pubbliche. Nonostante il nome richiami una dimensione fredda, positivista, di puro calcolo statistico, i Big Data hanno a che vedere con la parte più delicata, sensibile, profonda della nostra identità ed è per questo che animano grandi contrapposizioni. I Big Data attivano al contempo retoriche utopiche e distopiche. Da un lato sono visti come un potente strumento di risoluzione dei mali della società, mettendo a disposizione il potenziale di nuovi insights in campi molto diversi come la ricerca sul cancro, il terrorismo e il cambiamento climatico. Dall’altro lato, i Big Data sono visti come una nuova e inquietante espressione del Grande fratello di turno, autorizzando l’invasione della privacy, lo smantellamento delle libertà civili e l’aumento del controllo da parte dello Stato e delle aziende (Boyd, Crawford 2012, pp. 663-664). Questa massa di informazioni, che è in grado di ridurre la complessità dell’agire umano a un mero calcolo descrittivo o inferenziale, rappresenta una sorta di enorme bacino in cui si raccolgono le confessioni esplicite e implicite, volontarie o inintenzionali di tutti gli utenti della rete. Non è forse un caso che la storia remota di questo odierno filone di ricerca (e di applicazione delle tecnologie digitali) abbia un passato socialista (Morozov 2014), rinforzato dall’interesse della
cultura sovietica nei confronti del potenziale di trasformazione della cibernetica. In un certo senso noi tutti siamo principalmente un insieme di dati, mentre le nostre scelte di consumo, d’interazione con gli altri, di produzione autonoma di contenuti dicono di noi molto di più di ciò che pensiamo. Per questo motivo il tema del self-branding, incrociato con quello dei Big Data, apre uno scenario estremamente complesso delle nuove possibilità di sfruttamento cognitivo degli utenti. Pertanto, se l’immagine dell’agente segreto nel suo periodo eroico era metafora delle forme di potere, comunicazione e consumo di quell’epoca, oggi le nuove forme di protagonismo diffuso, di trasparenza delle informazioni e di tracciamento ubiquo degli utenti del web riproducono la medesima convergenza al di là di un vetusto regime spettacolare, bensì all’interno di un quotidiano sempre più modificato dalla pervasività dei media digitali.
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Congruenze e Incongruenze
Le interfacce tecnologiche del vecchio Bond MASSIMO NEGROTTI
Tecnologia e fantascienza Nonostante si tratti di una distinzione largamente accademica, la separazione concettuale fra scienza e tecnologia ha svolto, e svolge tuttora, un ruolo prezioso nell’ambito della cultura occidentale. In ambedue le attività l’immaginazione è sicuramente un’eccellente risorsa per la creatività, ma un conto è immaginare, come è accaduto in passato, la presenza delle Indie al di là dell’oceano o ipotizzare che la vita biologica sussista anche a un livello di osservazione microscopico e un altro è proporre la possibilità di costruire un’isola artificiale o progettare in laboratorio sistemi nanotecnologici. La distinzione sopra richiamata, in altri termini, è utile per delimitare due forme di relazione fra l’uomo e la realtà empirica: la conoscenza dello stato delle cose e l’ambizione a modificarle. A questo riguardo, senza mobilitare antiche e recenti dispute filosofiche in tema di sein e di sollen, si può sottolineare che la stessa perorazione, oggi molto diffusa, per il rispetto e la conservazione dell’ambiente naturale, si fonda implicitamente sull’idea che la natura è oggettivamente data e che il nostro comportamento tecnologico, teso a modificarla, non deve andare al di là di alcuni limiti, essi stessi da scoprire attraverso la ricerca di base.
Il carattere accademico della separazione sta nel fatto che, a ben vedere, fra scienza e tecnologia esistono intrecci frequenti di varia indole; che spesso gli scienziati progettano con le proprie mani strumenti tecnologici per studiare meglio i fenomeni naturali; che l’impiego di tecnologia per fare ricerca scientifica genera ulteriori problemi scientifici e così via. Tuttavia, le finalità ultime rimangono significativamente diverse fra loro, anche se si indirizzano a vicenda, e suggeriscono di mantenere vivo un ordinato e sistematico discrimine. Questa premessa ha il solo scopo di sottolineare come l’espressione “fantascienza” in linea di principio sia equivoca. In effetti, ciò che sta al cuore della fantascienza non è la scoperta scientifica, ma l’invenzione tecnica, non la descrizione ipotetica della realtà naturale, ma la sua modificazione. Indubbiamente tutti i dispositivi immaginati da Bacone fra il XVI e il XVII secolo (Bacone 2001), ottici, meccanici, chimici o acustici, sottintendono possibili e precise conoscenze scientifiche che egli supponeva a portata di mano, ma, in quanto tali, ne privilegiava l’applicazione, così come accadrà per le visioni degli autori successivi. Distinguere scienza e tecnologia è strategico anche per dare il giusto peso al possibile e all’impossibile. La richiesta, da parte del mondo tecnologico, di conoscenze scientifiche sempre più accurate e penetranti e, da parte del mondo scientifico, di strumenti e dispositivi sempre più raffinati, sta infatti ponendo il mondo intellettuale tecno-scientifico in un vortice assai complesso. Più che mai, il lavoro scientifico si trova al centro di una rete di interessi settoriali con orientamenti applicativi di ogni genere. Un fenomeno che già nella seconda metà del secolo scorso non era sfuggito agli osservatori (Ginzberg 1964). La natura esplorativa della scienza è ben descritta da Walter Rüegg quando afferma che «la scienza assomiglia se mai a un veicolo senza un percorso da seguire, come una barca in mare aperto, un aereo o un veicolo spaziale che ha bisogno di punti di riferimento per determinare la propria posizione» (Rüegg 1986, p. 394). I punti di riferimento sono sempre più
frequentemente proposti dalla tecnologia come appare chiaro, per esempio, dagli sviluppi dell’elettronica, della scienza dei materiali o delle biotecnologie. La fantasia tecnologica, ossia la costruzione di scenari applicativi, sia che essa si realizzi nei laboratori, sia che prenda corpo unicamente nella letteratura, non può però sottrarsi alla necessità di conoscere i limiti entro cui la natura consente la progettazione di dispositivi e macchine e al di là di cui, invece, essa si ribella e non permette di procedere. In questo quadro, si può sostenere che uno degli scopi più innovativi della ricerca scientifica non può che consistere nell’assumere proprio le applicazioni come oggetto di studio, una sorta di scienza delle applicazioni tecnologiche, a un livello superiore di astrazione, un po’ come aveva proposto de Solla Price negli anni Sessanta in merito ad una possibile “scienza della scienza” (de Solla Price 1967). Del resto, già ora, nel rapporto fra scienza e tecnologia, uno dei ruoli essenziali dello scienziato è non raramente quello di far comprendere «come le macchine funzionano o, più spesso, non funzionano» (Meyer 2003, p. 53). In questa prospettiva, i limiti che la natura offre non possono che essere al centro dell’attenzione, vere e proprie basi teoriche e sperimentali con cui si devono misurare le anticipazioni che i tecnologi e gli stessi autori di fantascienza concepiscono da sempre.
Ripetizioni e innovazioni In ogni epoca passata, invenzioni teorizzate o realizzate e prodotti della fantasia si incrociano costantemente. Da Erone di Alessandria o Archimede a Leonardo, in Occidente quanto in Oriente, la storia della tecnologia, che precede la nascita della scienza, offre un panorama assai ampio di ideazioni nelle quali il possibile si intreccia continuamente con l’impossibile, come dispositivi senza attriti, misteriosi raggi mortali o improbabili macchine per il volo.
L’avvento della scienza galileiana contribuirà decisivamente alla progettazione tecnologica fornendo le basi conoscitive circa la disponibilità o meno della natura nei confronti degli obiettivi dell’inventore. È però da notare come, sia prima, sia dopo la nascita della scienza teorico-sperimentale, vi sia un gruppo di ideazioni ricorrenti che rivelano ancestrali e costanti ambizioni umane. Il movimento e la manipolazione delle cose, la luce e il suono sono al centro di quasi tutte le visioni fantascientifiche, come è per le invenzioni immaginate agli inizi del XVII secolo da Francesco Bacone e raccontate nel suo La nuova Atlantide e poi presenti in molte altre opere letterarie. Molte di queste invenzioni sono adottate anche in film di successo, come quelli sulle avventure di James Bond narrate da Ian Fleming. Specialmente in ambito militare o comunque aggressivo, si possono portare gli esempi più semplici riproposti dalla stessa cinematografia in chiave moderna, come i carri “falcati” usati per la battaglia nell’antico Oriente, l’impiego di olio, bollente o meno, o di fumo contro i nemici per annientarli o per disorientarli, gli specchi ustori teorizzati da Archimede e adottati dai siracusani durante l’assedio alla propria città due secoli prima di Cristo. È però su altri piani che la ricorrenza si fa più interessante e riguarda le anticipazioni di quelle che oggi chiamiamo “tecnologie avanzate”. L’uomo ha sempre rincorso il sogno dell’onnipotenza o, comunque, dell’estensione delle proprie capacità naturali nell’agire sul mondo esterno: muoversi, sollevare, afferrare, lanciare e in genere manipolare le cose sono le ambizioni esibite in permanenza da parte della specie umana e, di conseguenza, da parte della letteratura fantascientifica, da un lato, e della trattazione tecnologica, dall’altro. C’è però un’area di attività sulla quale la tecnologia e la stessa fantascienza hanno tardato a produrre immagini fantastiche o ideazioni tecniche a causa della sua estrema complessità e forse anche per una forma di rispetto quasi sacro. Si tratta delle attività superiori del nostro cervello e del loro ruolo nel prelevare informazioni sul mondo, nel programmare e guidare il comportamento fisico, nel comunicare e così via. L’ampliamento di queste facoltà è stato talvolta oggetto di
qualche tentativo, ma sarà solo nel XVII secolo che all’abaco inventato dai cinesi 2mila anni prima dell’avvento di Cristo seguirà il dispositivo logaritmico di Giovanni Nepero e, poi, la calcolatrice di Wilhelm Schickart migliorata e resa famosa da Blaise Pascal. Al di là di ogni dubbio, è nei settori sopra citati che lo sviluppo delle conoscenze scientifiche consentirà avanzamenti di ogni genere, in un intreccio continuo con la stessa fantascienza. Basti pensare che Jules Verne, sul finire del secolo XIX, accanto all’ideazione di un veicolo mosso da un motore a combustione interna e di mezzi per arrivare sulla Luna, anticiperà l’invenzione del fax e delle macchine da calcolo contemporanee e che, sul piano tecnologico, Charles Babbage nello stesso secolo inaugurerà l’era del calcolo automatico con progetti realistici e in parte effettivamente realizzati. Diamo per scontato, infine, l’ormai interminabile elenco delle invenzioni in ambito elettronico e delle telecomunicazioni, che costituiranno poi il nucleo tecnologico più ricco del XX secolo. È solo da sottolineare che, in quest’area tecnologica, fantasia e progettazione trovano un campo di possibili evoluzioni letteralmente sconfinato, molto più ampio e aperto, insomma, di quello che aveva come oggetti le pure e semplici abilità muscolari o alcune capacità sensorie dell’essere umano.
La interazione uomo-mondo Parallelamente all’ideazione, la progettazione e, ma non sempre, la realizzazione di macchine o dispositivi in grado di sostenere, amplificare o migliorare la dotazione naturale dell’uomo, la storia della tecnologia mostra l’attitudine costante verso la riproduzione di oggetti o fenomeni naturali, dando luogo a veri e propri “naturoidi” (Negrotti 1998, 2000, 2012). Il citato de Solla Price ricorda come si tratti di un’attitudine davvero antichissima che si evince da reperti archeologici ed etnologici in cui la grafica, sulle pareti delle
grotte, già manifestava il desiderio di riprodurre, comunicare e tramandare vari aspetti della vita comunitaria. La tecnologia vera e propria si occuperà poi dei tentativi di riproduzione con finalità diverse: dall’intrattenimento alla decorazione, dalla prostetica a vari tipi di controlli detti “automatici”, che richiamano il tema dell’automa e della sua capacità di riprodurre le abilità di valutazione e di regolazione dell’essere umano. La massima ambizione, quella di riprodurre l’essere umano nella sua completezza, appare nella mitologia greca di Efesto e in quella ebraica del Golem. Persino Leonardo sembra abbia progettato un automa di cui però si hanno scarse notizie. La cosa riguarda anche l’antica Cina dove, secondo quanto riporta Joseph Needham, si racconta che l’inventore Yen Shih abbia portato in omaggio all’imperatore un essere umano artificiale, costruito con i materiali poveri allora disponibili, ma il cui realismo avrebbe ingannato chiunque (Needham 1975, p. 53). Sebbene l’uomo di Shih non includesse la riproduzione del cervello e, di conseguenza, non avesse alcuna possibilità né di autoregolazione né, tanto meno, di azioni razionali, si tratta comunque di una ideazione sicuramente premonitrice di ciò che in Occidente accadrà a partire dall’epoca d’oro del meccanicismo, della sua concezione dell’essere umano come macchina e, come tale, almeno idealmente riproducibile in ogni sua proprietà e facoltà. Uomini come Julien Offray de La Mettrie, Pierre e Henri-Louis Droz e Jacques de Vaucanson sono solo alcuni dei teorici o tecnici cui dobbiamo i più spettacolari automi del secolo XVIII (Losano 1990). Su questo tema è fra l’altro utile sottolineare l’importanza che la progettazione e la realizzazione di automi hanno avuto per l’avanzamento delle discipline tecnologiche (Bedini 1964). Ma la meccanica non consentiva risultati che andassero al di là di pur spettacolari finzioni e occorrerà aspettare il secolo XX per veder rinascere questa attitudine riproduttiva con rinnovate speranze di successo. L’elettrotecnica, la radiotecnica, l’elettronica, la scienza dei materiali e l’informatica metteranno infatti a disposizione dei tecnologi, in una prospettiva neo-meccanicistica, tutto quanto
era ritenuto necessario per riprodurre l’anello mancante alle riproduzioni dell’uomo di puro ordine meccanico, cioè il “regolatore centrale”, il cervello. L’automa, ossia un sistema che, letteralmente, agisce e si governa per volontà propria, prende la forma del robot, in particolare del robot antropomorfico. Ciò che qui maggiormente ci interessa è la questione già annunciata dei limiti della tecnologia, con cui le anticipazioni che concernono il livello più pretenzioso dei naturoidi, cioè l’uomo, devono fare i conti. Il termine che sta al centro di qualsiasi progettazione tecnologica ma, a ben vedere, anche di qualsiasi nostro comportamento, è sicuramente l’interazione. I dispositivi e le macchine sono sistemi. Un sistema, a sua volta, è un insieme di parti o sotto-sistemi fra loro interagenti secondo un piano orientato verso qualche obiettivo. Le macchine, dalle più semplici e antiche fino a quelle più sofisticate e attuali, sono dunque il risultato di una ideazione e poi di una progettazione nelle quali l’obiettivo gioca un ruolo centrale e polarizzante. La progettazione consiste esattamente nella predisposizione di parti, o sotto-sistemi, fra loro interagenti, secondo un modello che, nel suo insieme, consenta il perseguimento dell’obiettivo funzionale e sia accettabilmente economico e sicuro (Medri 2008). Fra le parti di un sistema – e fra questo e il contesto esterno – ovviamente sussiste sempre un’interazione di qualche ordine e, quindi, l’interfacciamento è indispensabile proprio per renderle fra loro funzionalmente compatibili. D’altra parte, è da sottolineare che, se una interfaccia non è inclusa nel progetto, l’interazione avverrà comunque attraverso la “natura” delle parti in gioco, portando però a esiti imprevisti.
Funzionamento vs funzionalità
L’atteggiamento tipico dell’ingegnere, in questa impresa, consiste, comprensibilmente, nel dirsi soddisfatto quando l’obiettivo è conseguito. In fondo, questo è un atteggiamento piuttosto tipico di tutti gli esseri umani allorché si pongono qualche obiettivo. Le interazioni interne ed esterne al sistema, alla macchina, hanno rilievo, per il progettista, solo in quanto agevolino o meno il perseguimento dell’obiettivo in rapporto ad altre misure, per esempio il consumo di energia, le dimensioni fisiche, gli attriti, la sensibilità a vari ordini di perturbazioni. È sul miglioramento di questi aspetti, e molto spesso si tratta di problemi di interfacciamento, che vengono realizzate le versioni successive delle macchine. Si può però osservare che, tradizionalmente, sfuggono all’interesse del progettista le interazioni fra i componenti interni ai sotto-sistemi che egli mette in relazione nel proprio progetto, poiché, di norma, essi sono forniti da terzi. Altrettanto, a parte un recente e timido riferimento generico al “rispetto per l’ambiente”, i progettisti non prendono in considerazione, né, se lo facessero, potrebbero andare al di là di un limitato raggio fenomenico, le interazioni fra la macchina nel suo insieme con il mondo esterno che dovrà ospitarla, salvo per quelle che dovessero coinvolgere direttamente l’obiettivo finale. In breve: obiettivo del tecnologo è la costruzione di una macchina e, di norma, non è suo compito prevedere cosa accadrà quando due macchine eterogenee dovranno coesistere. L’ingegneria non è, almeno per ora, una ecologia delle macchine. Tuttavia, anche i sotto-sistemi di una macchina sono dispositivi o macchine a loro volta e anche al loro interno sono presenti interazioni non totalmente note e comunicate dalle “specifiche” dei vari costruttori: per esempio, il comportamento dei metalli, le deformazioni delle plastiche o varie reazioni chimiche non possono essere individuati se non attraverso la loro interazione estensiva sul campo con altri sistemi. Spesso, interazioni rilevanti vengono scoperte per caso, come è stato, negli anni Settanta, per l’interferenza sugli strumenti di bordo causata da una semplice calcolatrice tascabile deposta ancora accesa dai piloti dell’aviazione militare sul cruscotto del proprio aereo e scoperta da due
dottorandi della Marina nel corso della propria tesi. Nell’ambito di quelle speciali macchine che sono i farmaci, la farmacologia è poi maestra riguardo all’immenso ginepraio delle interazioni. In breve, ogni dispositivo viene realizzato attraverso una polarizzazione pressoché esclusiva sul suo funzionamento, assumendo per dato o almeno plausibile il suo interfacciamento agevole col resto della realtà, sia naturale, sia tecnologica. Volgendo ora l’attenzione al mondo dei naturoidi e dei robot in particolare, dobbiamo accettare l’idea che al limite sopra individuato e che, ripetiamo, è presente in ogni nostra azione, si aggiunge la non sufficiente conoscenza che noi abbiamo del nostro stesso organismo e, soprattutto, del cervello. Indubbiamente la scienza di base ci ha fornito innumerevoli conoscenze sui nostri organi, ma ciò che ancora manca abbondantemente, è un modello delle interazioni complessive che caratterizzano la nostra vita, nella quale «l’organismo vivente si mantiene in uno stato di continuo scambio di componenti», per cui «macchine del genere non esistono nella tecnologia contemporanea» (Bertalanffy 1971, p. 224). Quanto al cervello, cioè un organo la cui dinamica è ancora lungi dall’essere decifrata, non si può che riconoscere che la sua rete di interazioni, sia interne, sia con il resto dell’organismo, è di una complessità davvero intimorente. In questo quadro, la robotica profetizzata per il futuro da un lato e la fantascienza dall’altro hanno largo spazio per l’immaginazione mentre la robotica effettivamente realizzata ricorre a modelli il più delle volte pragmatici e fortemente ingegneristici piuttosto che orientati dalle conoscenze sul cervello umano, riproponendo in questo modo l’antica precedenza della tecnologia rispetto alla scienza. In definitiva, il funzionamento di un rene artificiale, oggi, è molto più simile a quello di un rene naturale di quanto non sia il funzionamento di un software di controllo del più sofisticato robot esistente rispetto al nostro cervello. A ogni modo, la ricostruzione delle interazioni complessive interne al nostro organismo costituisce attualmente il limite
centrale della riproduzione tecnologica dell’uomo. Non a caso la stessa bioingegneria, che sta progredendo notevolmente, presenta tuttavia un panorama entro il quale, come è per ogni altro settore tecnologico, dipartimenti e istituti di ricerca progettano organi diversi in luoghi e momenti diversi, assumendo che il resto dell’organismo funzioni a dovere e sia pronto ad accettare l’implantazione di organi artificiali. Quasi del tutto assente è la ricerca sulle interazioni, e dunque sulle interfacce, fra più organi artificiali fra loro, sia all’interno del corpo di un paziente, sia all’interno di un cyborg. La questione è assai delicata e, in termini generali, è stato opportunamente sottolineato che puntare sull’implantazione di più organi artificiali in un organismo è cosa «diversa dal concetto di macchina a singola funzione. I progettisti devono tenere a mente che ogni organo lavora congiuntamente a ogni altro: danni al fegato si riverberano sul cervello e i reni; i polmoni e il cuore funzionano in stretta collaborazione, ecc.» (Fitzgibbons 1994, p. 34). La recentissima presentazione dell’ultimo bionic man da parte di Science Museum di Londra e Smithsonian Institute di Washington, che vanta il collegamento fra organi artificiali ottenuti da vari centri di ricerca bioingegneristica e organi propriamente robotici, non va più in là della semplice descrizione di alcuni processi biologici da un lato e tecnologici dall’altro – una versione attuale della famosa anitra di Vaucanson del XVIII secolo – e non pretende certo di porre le basi per una sintesi che rispetti le necessarie interazioni multilivello, francamente improponibile sulla scorta delle conoscenze scientifiche e tecnologiche attuali.
Eterogeneità e informazione Le interfacce possono essere definite, in senso lato, come gli strumenti di confine di cui i sistemi hanno bisogno per navigare nel regno dell’eterogeneità.
Ciò che, in natura, accade nell’interazione fra gli organi dello stesso organismo, fra più organismi appartenenti alla stessa specie oppure a specie diverse e fra organismi e ambiente fisico, costituisce area di ricerca di numerose discipline che vanno dalla fisiologia alla zoologia, ma è soprattutto dalla biochimica che presumibilmente arriveranno conoscenze sempre più accurate. Per ora, restando sul piano di una discussione metodologica, si può solo considerare che tutte le interazioni naturali sopra richiamate sembrano “funzionare” a dovere. In altri termini, la natura provvede da sempre, tramite l’evoluzione, a creare o, meglio, a selezionare le interfacce che si rivelano, di generazione in generazione, più efficienti a parità di efficacia o più efficaci a parità di efficienza. Il nostro organismo, per esempio, è interfacciato con l’ambiente, fra l’altro, da vari tessuti, fra cui la pelle, ma anche i materiali biologici che proteggono il timpano, l’occhio, la bocca e il naso, in grado di scambiare materia con l’esterno filtrandone con elevata efficienza gli stimoli. Altrettanto, all’interno dell’organismo, i vari sotto-sistemi sono perfettamente compatibili l’uno rispetto all’altro e si scambiano materia e quindi energia in continuazione principalmente grazie alla funzione di interfaccia polivalente delle membrane cellulari. Essi sanno anche proteggersi, grazie a confini piuttosto precisi e rigorosamente sorvegliati, dall’intrusione di materia non prevista dal proprio ruolo, come è, per esempio, per il sangue o le secrezioni interne. A proposito della complessa abilità nel comunicare delle cellule, e quindi del loro complesso, ma efficiente interfacciamento, sono state strategiche, nel secolo scorso, le ricerche dei premi Nobel Earl Sutherland e Martin Rodbell. Il cervello, a sua volta, riceve stimoli biochimici da tutti i sottosistemi e ne coordina il comportamento inviando esso stesso segnali di varia natura. È però altamente presumibile che i vari, numerosi sottosistemi organici non parlino affatto la stessa lingua in fatto di segnali. Per portare una sola testimonianza sull’estrema eterogeneità delle comunicazioni fra un sistema organico e il suo ambiente e fra sotto-sistemi dello stesso sistema, basta citare un importante biologo e zoologo che, nel 1964, in merito al funzionamento sensoriale del polipo, scriveva: «Un altro affascinante problema è la
relazione fra l’apprendimento visivo e quello tattile. Poiché i due sistemi si sovrappongono nel lobo verticale, probabilmente c’è qualche forma di coordinamento fra di loro. Comunque, è stato dimostrato che gli oggetti individuati dalla vista non vengono riconosciuti dal tatto» (Young 1964). È assai inverosimile che il coordinamento fra vista e tatto nel polipo sia realizzato da qualche dispositivo informazionale del genere che siamo abituati a immaginare, e persino modellizzare, grazie all’impiego del computer. In robotica in effetti, ma anche in altre vaste aree tecnologiche, l’interfacciamento fra i sotto-sistemi e fra il sistema nel suo complesso e l’ambiente è affidato unicamente a segnali elettrici, magari trasdotti da sensori che utilizzano un’ampia gamma di dispositivi fisici e chimici, ma, alla fine, si tratta pur sempre e solo di segnali di natura elettrica. Se nel secolo XIX segnali elettrici, motori e altre apparecchiature meccaniche ed elettromeccaniche erano le uniche risorse disponibili, oggi l’insieme di queste risorse viene coordinato dal computer il quale, tramite il software, “traduce” i segnali elettrici in informazione da decifrare ed elaborare. Il successo della tecnologia informatica è fuori discussione, ovviamente, ma esso ha contaminato il nostro linguaggio al punto che persino il DNA viene concepito in puri e semplici termini informazionali e digitali. Come è stato giustamente osservato, «suggerendo che la formazione dell’essere umano parte dalla lettura di un codice digitale, noi non facciamo altro che adottare un linguaggio che proviene dalla più recente e avanzata tecnologia, la computer science» (Ball 2011, p. 307). In realtà le cose sono molto più complicate e implicano processi e materiali molto più eterogenei che non la mera informazione. L’impiego metaforico di questo termine, anche se spesso assai utile, non dovrebbe farci dimenticare che il mondo, incluso il nostro cervello, è tenuto insieme, o interfacciato, da giustapposizioni di forze ed energie di elevatissima diversità per comprendere le quali occorre ogni volta accedere a livelli di osservazione diversi (Negrotti 2010), dettati, è il caso di dirlo, dalla realtà delle cose. La coniugazione, potremmo dire la sublimazione, delle diversità sulla base di un processo altamente astratto come l’elaborazione dell’informazione che noi attribuiamo a una
certa fenomenologia fisica, può rivelarsi un puro espediente descrittivo senza alcuna prospettiva. Così è, o forse si dovrebbe ormai dire è stato, per il caso dell’Artificial Life, il cui successo ha fatto di Chris Langton una specie di scopritore del segreto della vita anche se, in realtà, si è trattato unicamente di progetti capaci di descrivere informazionalmente alcuni processi biologici, ma senza che ne sia scaturito alcun reale contributo alla scienza biologica. Lo stesso si può naturalmente affermare circa l’Intelligenza artificiale nel suo insieme, affascinante anche solo per le sue applicazioni, ma sicuramente ben lontana dal contribuire a comprendere la poliedrica natura dell’intelligenza umana.
I limiti della macchina Dunque i robot e mille altre tecnologie che la stessa fantascienza non si stanca di ampliare con l’immaginazione più sfrenata, per ora non possono che contare sullo scambio e l’elaborazione di informazione, sia quella trattata dal computer supervisore che controlla il comportamento della macchina, sia quella che viene scambiata con l’ambiente esterno, esseri umani compresi. Il livello di osservazione che possiamo definire informazionale è naturalmente compatibile con ogni essere umano e ciò spiega perché risulti possibile l’interfacciamento di ognuno di noi non solo con il computer, ma anche con una quantità vastissima di macchine, analogiche o digitali, le cui prestazioni e interazioni con l’uomo sono governate da elaboratori di segnali. Tuttavia, i livelli di osservazione che l’uomo può assumere nel guardare al mondo naturale e a se stesso, sono molto più numerosi e convergono su profili mentali che possiamo definire di volta in volta estetico o etico, emotivo o speculativo, nonché su tutta la folta serie di livelli suggeriti dalle scienze naturali. Anche se molte attività della mente possono essere descritte, sia pure fra molte difficoltà, attraverso il linguaggio e poi tradotte in informazione
elaborabile dal computer, il loro originario prodursi nella mente è quasi sempre inesprimibile attraverso strutture formali e dallo stesso linguaggio (Polanyi 1966). Gli atti di coscienza o di godimento estetico, per portare due esempi, sfuggono del tutto a una decifrazione trasferibile a una macchina. Le interazioni uomo-macchina basate sull’informazione costituiscono quindi, di fatto, un subset dell’intero e più vasto patrimonio di attitudini dell’uomo. L’utilità funzionale di questa riduzione è fuori dubbio, ma non raramente impone forti restrizioni che si rivelano proprio nei processi di interfacciamento. Un’interfaccia, in questo senso, è un “luogo di compensazione” fra due realtà eterogenee che, come tali, non potrebbero integrarsi e rimarrebbero estranee l’una all’altra oppure, in altri casi, innescherebbero qualche tipo di conflitto. Di fatto, l’equilibrio dell’interazione fra l’uomo e la macchina dipende da numerose variabili, ma il bilancio finale, fino a ora, pare essere a vantaggio della seconda, nel senso che, per ottimizzare l’utilità delle interazioni, è l’uomo a doversi “piegare” al livello informazionale per la semplice ragione che è l’unico al quale la macchina può accedere. Sul piano delle attitudini umane extra-informazionali sopra citate, infatti, non è possibile alcuna interazione significativa. Chiedere ad un robot se gli sia piaciuto un concerto, è possibile solo come atto linguistico, ma senza alcuna speranza che la macchina possa dare una risposta congrua sul piano emozionale, a meno che, come negli automi del XVIII secolo, essa non sia stata predisposta dal programmatore unicamente per generare stupore. Tutto ciò, assieme a molti altri aspetti critici di ordine psicologico e sociologico nell’interfacciamento fra esseri umani e robot (Kim et al. 2009, Beer et al. 2011) non può certo essere superato dall’impiego di latex per simulare la pelle o riservando particolari cure alle parvenze umane da attribuire alla macchina. La contrarietà di Samuel Butler – e di molti altri autori anche recenti fra cui Hans Moravec e Ray Kurzweil – nei confronti di qualsiasi possibile dominio delle macchine sarebbe condivisibile se e solo se la riduzione informazionale
investisse e monopolizzasse interamente le nostre azioni e funzioni. Ma le profezie fantascientifiche spesso presuppongono evoluzioni per ora impensabili. L’elaborazione dell’informazione consente solo, alla macchina, valutazioni, controlli e comportamenti coerenti e limitati a ciò che l’informazione può trattare e, all’uomo, impieghi della macchina pre-orientati, sotto il profilo cibernetico, da valori di controllo da lui stesso definiti per le situazioni in cui l’informazione è utile, ma che costituiscono solo una porzione delle sue situazioni e attitudini esistenziali.
James Bond e Mister Q La progettazione, da sempre, implica una vera e propria esternalizzazione del pensiero, nel senso che il progetto di una macchina, nato nella mente del progettista, ha come esito finale un prodotto esterno alla sua corporeità e che tuttavia incorpora le sue idee e intuizioni. Il tema delle interfacce, sotto questo profilo, riguarda l’interazione che si instaurerà con il dispositivo quando sarà collocato nell’ambiente – naturale o a sua volta tecnologico – o dovrà essere usato da soggetti che non l’hanno progettato. Il panorama delle macchine o dei gadget di cui James Bond dispone nei suoi film – indipendentemente dalla loro fisionomia più o meno avveniristica per l’epoca – è pienamente coerente con il modello della tecnologia tradizionale e dei suoi rapporti con l’essere umano che la impiega. Quasi tutti i dispositivi che Bond usa, possiedono infatti le caratteristiche tipiche degli oggetti tecnologici del passato, fortemente “dedicati”, ossia finalizzati a perseguire un obiettivo e solo quello: rincorrere, fuggire, difendersi o aggredire, vedere o sentire da lontano, con o senza onde radio di mezzo, e così via. Nonostante la miniaturizzazione, Bond ha un bel da fare, ovviamente celato nei film, nell’organizzare, custodire,
trasportare e magari manutenere le decine di congegni che Mister Q gli fornisce. Anche questo è un fenomeno che caratterizza l’intera storia della tecnologia e indica con chiarezza come l’esternalizzazione del progetto e il suo incorporamento nella macchina abbia come corrispettivo, da parte dell’utente, una esternalizzazione che da un lato si polarizza sulla finalità applicativa, ma, dall’altro lato, pone problemi di gestione proprio in quanto corredo extra-organico. Il paniere di black box di cui Bond dispone non è apprezzabilmente diverso, sotto il profilo concettuale, da quello di cui disponeva l’uomo mille anni fa: un insieme di attrezzature da impiegare e poi, a causa della loro natura extra-corporea, “depositare” in qualche luogo. L’interfacciamento con una tecnologia di questo ordine, come si è visto nei capitoli precedenti, non pone particolari problemi, ma presenta comunque la necessità di apprenderne le regole operative e, soprattutto, di amministrare l’intero parco dei dispositivi, inclusa la rete di interazioni fra di loro, per mezzo di qualche mappa mentale. A ogni modo, quale che sia la rappresentazione che l’utente forma nella propria mente circa una macchina tradizionale, la sua adozione richiede solo, sul piano conoscitivo, la consapevolezza dell’obiettivo da perseguire e, di conseguenza, del dispositivo più adeguato per lo scopo, nonché la migliore abilità possibile nell’usarlo. Il grilletto della Walther PPK che Bond ha in dotazione e il pulsante che aziona il suo laser svolgono la stessa funzione di ogni altro componente con cui chiunque, da almeno due secoli, “ordina” a una certa macchina o a un certo apparato di eseguire il compito specifico cui essi sono destinati e, al termine, ingiunge loro di porsi in stand-by o di spegnersi. In definitiva, il modello “una macchina, una funzione” è ampiamente rispecchiato anche da Bond sebbene Ian Fleming abbia sicuramente anticipato tecnologie che, quando scriveva, erano nell’aria, ma non ancora presenti nel mercato o uscite dai laboratori. Possiamo quindi affermare che James Bond non è il precursore dell’uomo bionico poiché le interfacce che lo collegano ai pur raffinati congegni che egli usa, sono le stesse che hanno dominato la scena tecnologica sin dall’antichità:
dispositivi extra-corporei di input per ottenere l’output desiderato nel modo migliore possibile. L’apprendimento e la migliore assimilazione delle regole operative, semmai, costituiscono il valore aggiunto che l’utente genera nell’uso di una macchina tradizionale così come, del resto, nell’impiego delle sue stesse facoltà fisiche naturali. Le macchine tradizionali, infatti, possono essere “pilotate” bene o male a seconda del matching che si costituisce fra l’utente e la macchina stessa. L’abilità nell’uso, d’altra parte, non ha nulla a che fare con la progettazione, ma dipende, invece, da attitudini individuali difficilmente esprimibili e riproducibili. In questo senso è particolarmente arguto l’aforisma di Johan Sebastian Bach quando, in merito all’uso dell’organo, sostiene: «Suonare l’organo? È semplicissimo: basta premere i tasti giusti nel momento giusto e la macchina fa il resto». Bond esibisce notevole abilità nell’impiego dei dispositivi – esattamente come un campione automobilistico mostra di essere, come si dice, “tutt’uno con la macchina” – ma, una volta perseguito l’obiettivo, se ne disfa, tornando un essere umano in accezione strettamente naturale e sociale, ossia mostrando interesse per aspetti dell’esistenza che nulla hanno a che fare con la tecnologia sofisticata che egli adotta nel suo lavoro.
Il vecchio Ian Fleming I dispositivi e le macchine immaginati da Fleming, dunque, si pongono esattamente all’apice della tecnologia tradizionale in cui meccanica, elettrotecnica e radiotecnica sono le principali protagoniste. È, in definitiva, il regno di una tecnologia squisitamente analogica, basata sul calcolo delle dimensioni fisiche classiche, come forze, masse ed energie, oppure chimiche, nonché sul prorompente dispiegarsi delle applicazioni dell’elettromagnetismo. Il mondo digitale, e quello robotico, sono del tutto assenti nel mondo di James Bond anche se, negli anni Sessanta – Fleming muore nel 1964
– erano già note le proprietà della digitalizzazione ricavabili dalla teoria di Claude Shannon, che risale al 1948. Se si esclude un misterioso orologio da polso sul quale 007 riceve messaggi, tutto il resto è un insieme di apparecchiature che esaltano e amplificano la tecnologia analogica dell’epoca. Lo sviluppo applicativo della tecnologia elettronica digitale apre un mondo del tutto nuovo e culturalmente tuttora piuttosto ambiguo nonostante prese di posizione enfatiche di vari intellettuali in chiave sia ottimistica, sia pessimistica. In generale si tratta di posizioni fondate su una visione assai superficiale delle reali potenzialità delle nuove tecnologie. Un esempio tipico è il pensiero di Donna Haraway quando, alle prime apparizioni del tema del cyborg, già affermava che, sia in ambito tecnologico, sia in ambito biologico, qualsiasi componente «può essere interfacciato con qualsiasi altro con l’unica condizione che si disponga del corretto standard e del giusto codice per elaborare i segnali in un linguaggio comune» (Haraway 1985, p. 82). La novità essenziale consiste nel fatto che ciò che viene esternalizzato nei progetti, sia hardware, sia software, non è più solo una pura funzione capace di estendere le capacità fisiche umane, nel senso di Marshall McLuhan, bensì una pluralità di funzioni in grado di elaborare informazione. Agli inizi, i progetti non fanno che prolungare in via digitale le funzioni prima assolte dalla tecnologia tradizionale – basti pensare a orologi, contatori, calcolatrici, segnalatori, ecc. – ma ben presto si intuisce che i circuiti integrati digitali, opportunamente collegati fra loro, sono in condizione di elaborare masse crescenti di dati, i più diversi, attraverso la programmazione, dando luogo, quindi, a una macchina general purpose. L’avvento delle CPU (Central Processing Unit) consente in seguito l’applicazione delle tecnologie digitali a un insieme vastissimo, e sempre in espansione, di funzioni prima riservate al cervello umano. D’ora in poi, l’esternalizzazione, da parte del progettista, ha per oggetto il reasoning e non più solo l’azione fisica decisa e regolata dall’uomo. Il progettista, in tal modo, è chiamato a interpretare nuove classi di potenziali problemi e bisogni molto diversi rispetto a quelli risolvibili
dalla tecnologia tradizionale. Emerge così un mercato altamente competitivo in fatto di applicazioni software attraverso cui il carattere general purpose del computer viene però ridotto e convogliato verso funzioni specifiche, vere e proprie macchine dedicate secondo l’inesorabile legge della divisione del lavoro e delle applicazioni settoriali. Da parte dell’utente, dapprima meravigliato e impaurito, l’esternalizzazione viene assumendo gradualmente il profilo di una cessione volontaria di fiducia alla tecnologia elettronica digitale per innumerevoli attività di controllo che investono non solo il calcolo, ma il volo aereo, la produzione industriale, la medicina, le arti e, naturalmente, la progettazione stessa. La fisionomia dell’interfacciamento muta radicalmente e si concentra sulla messa a disposizione dell’utente di metafore grafiche, acustiche o tattili che gli permettano di controllare le operazioni della macchina. Anche il concetto di “abilità nell’uso” viene totalmente stravolto poiché il mondo del software non offre che risibili aree di discrezionalità e quello dell’hardware è per definizione pre-cablato. L’abilità si situa nelle mani del programmatore e l’utente non può che accettarne le soluzioni. Inoltre, uno dei principali settori di ricerca nell’ambito del software (basti pensare ai sistemi esperti o ai Decision Support Systems) consiste proprio nella messa a disposizione dell’utente di programmi in grado di adattarsi alle sue richieste potenziali, rendendo idealmente inutile, pertanto, la sua abilità. Ma, in realtà, la non corporeità dei dispositivi e delle funzioni permane più massicciamente di prima e converge sull’immagine generalizzata del computer come entità, per così dire, allogena e certamente esternalizzata. Paradossalmente, l’interfaccia multimediale dei computer diviene essa stessa la vera entità esterna con cui interagiamo e di cui nondimeno percepiamo nettamente l’alterità rispetto al nostro organismo. La cosa non cambierà nemmeno con la possibilità, ora allo studio, di proiettare a richiesta l’interfaccia in via olografica o sulle lenti degli occhiali, facendo così impallidire quelli multi-funzione, numerosi e originali, presenti nei film di Bond.
007, ma non oltre Il computer, in sintesi, condensa su di sé, simultaneamente, sia il ruolo di elaboratore di informazione, sia di interfaccia col mondo, ma proprio per questo non coincide, nemmeno percettivamente, con noi stessi o con il mondo. Ne possiamo dipendere sotto vari profili, come è già accaduto con la stampa, il telefono, la radio-televisione o l’automobile, ma non ci identifichiamo con esso. Ciò nonostante, Nicholas Negroponte, sulla scorta dei paralleli aumento di potenza e diminuzione di ingombro dei computer, ha previsto, vent’anni fa, la loro attitudine a essere, se non incorporati, almeno distribuiti capillarmente anche nelle cose più ordinarie di cui facciamo uso, come gli abiti (Negroponte 2004). I film di fantascienza, come 2001 Odissea nello spazio, si porrebbero così a una distanza abissale dallo sviluppo effettivamente esibito dalla tecnologia successiva poiché presuppongono ancora un carattere del computer totalmente estraneo all’usabilità da parte di singoli individui, persistendo nell’immagine di un dispositivo di dimensioni monumentali, una super-macchina utilizzabile solo da esperti, con il ruolo di interfacce capaci di ottenerne i servizi. In questo quadro i film di James Bond rappresentano talvolta una sia pur parziale eccezione perché Fleming immagina dispositivi, come l’Identigraph o i simulatori, che implicano l’attività di un computer al loro interno. Di fatto, in mezzo secolo, le dimensioni dei computer, a parità di potenza, sono passate da quelle che esigevano una stanza intera a quelle dei desktop, dei trasportabili, dei portatili, giù fino ai tascabili insinuando così la loro possibile integrazione con il corpo umano. L’uomo bionico, per ora, è tuttavia solo una immagine letteraria poiché un’interazione significativa con l’organismo umano richiederebbe interfacce basate su conoscenze scientifiche non disponibili, di ardua standardizzazione e di improponibile attuazione.
Indubbiamente la presenza di micro-processori nell’automazione delle cose di tutti i giorni si è ampliata notevolmente accentuando ancor di più la scomparsa delle interfacce a diretto controllo umano, fisiche o simboliche, prima indispensabili. In questo Negroponte non aveva fatto altro che estendere a settori più vasti la constatazione, che egli stesso segnala, dell’onnipresenza di microprocessori in vari prodotti industriali. La tendenza generale della tecnologia dell’informazione, coniugata con la cibernetica wieneriana, consiste infatti, per usare l’espressione di Herbert Simon, nel progressivo e spesso invisibile “assorbimento dell’incertezza” da parte dei dispositivi in contesti nei quali i processi cognitivi di valutazione e controllo possono essere generalizzati, modellizzati e trasferiti. Peraltro, problemi di varia indole – regole operative, energia, incompatibilità, ingombro – gravano ancora su gran parte delle dotazioni elettroniche che usiamo intenzionalmente e che non possono venire automatizzate né incorporate. Il carattere extracorporeo delle tecnologie digitali, insomma, non è destinato a un facile superamento. Al contrario, la sempre più varia applicazione di questa tecnologia prevede sempre nuove macchine esterne in cui la presenza di vistose interfacce, che esaltano la distanza fra l’uomo e la macchina, riprende vigore, come è nel caso delle attrezzature per la virtual reality, per la telechirurgia e altre attività mediche, per la simulazione e la progettazione, per la meteorologia, per i videogame e infinite altre. È da notare, fra l’altro, che la stessa nascente tecnologia BCI (Brain-Computer Interaction), che cerca di predisporre l’interfacciamento diretto fra il cervello e un computer, ha il solo scopo di consentire l’attivazione di semplici input alternativi, utilissimi per i disabili o per i giochi, ma senza coinvolgere in alcun modo le attività mentali (Dornhege 2007). Segnali a bassa energia, in breve, che si contrappongono alle alte energie adottate dal braccio meccanico di Tee Hee nel film di Bond Vivi e lascia morire, ma pur sempre segnali organizzati secondo un modello di
interazione fra entità eterogenee, che necessita di un interfacciamento esplicito. In definitiva, da un lato il mondo dei bit sembrerebbe suggerire l’immagine di una estrema fluidità agevolmente assimilabile e dunque appropriabile dagli esseri umani senza problemi di interfacciamento. Questa, in fondo, è stata l’utopia di chi ha pensato ingenuamente che lo stesso nostro cervello non fosse altro che un elaboratore di informazione, al punto di immaginare il possibile uploading di un computer con le informazioni presenti in un cervello biologico. Dall’altro lato, anche includendo una serie di funzioni ordinarie ottenibili da dispositivi effettivamente tascabili che prendono le mosse dalla forzata specializzazione dei computer general purpose – per la comunicazione, l’organizzazione, la fotografia, la registrazione e riproduzione del suono, il riconoscimento della posizione e altro – si tratta di un mondo che ripropone sotto nuove forme il discrimine fra la naturalità dell’uomo rispetto alla tecnologia e, di conseguenza, la necessità di conoscenze e strumenti specifici per poter interagire con successo con le macchine che lo popolano.
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Bond: ce n’è per tutti GIAN FRANCO LEPORE DUBOIS
L’appuntamento era fissato per le otto e mezzo a Piazza Verbano «e mi raccomando la puntualità, perché lo spettacolo comincia alle otto e tre quarti e il cinema sarà sicuramente pieno. Non facciamo come l’ultima volta, che ce lo siamo visto in terza fila, in cinerama, e io c’ho ancora il torcicollo». Gli amici del biliardo quella sera furono puntuali. C’era Sirio, “anima lunga”, un metro e novanta per sessanta chili, Bernardo, il “secco”, magro come un chiodo, Enzo, un biondino quasi albino con i labbroni e i capelli ricci, perciò detto “negativa”, Giorgio, il “paganini”, scarso a biliardo e perciò condannato a pagare, e Carletto, il “professore”, che invece a biliardo vinceva sempre. Fu proprio intorno a un tavolo di biliardo del King Park, a due passi da Piazza Verbano, che avevamo deciso di investire i pochi soldi di cui disponevamo per vedere un film di cui tanto si parlava: 007. Licenza di uccidere, un film – dicevano – di spionaggio. Entrammo e avemmo subito l’impressione di essere davanti a qualcosa di diverso da tutto quello che avevamo visto al cinema fino ad allora. Non era il solito film di avventura, non era un western, che allora ancora andava per la maggiore, né un film di guerra e, se vogliamo, neanche di spionaggio. Certo ci piacque e, a quell’età, a questo nostro piacerci non fu sicuramente estranea la nascita dalle acque di quella Venere rappresentata da Ursula Andress. Già una donna in bikini era in quegli anni un’immagine ardita, ma poi con una cintura ai fianchi, armata di coltello e con quell’aria così provocante…
Insomma, il film, come la Andress, era fuori dagli schemi e fuori dagli schemi erano tutti i suoi personaggi, le situazioni, i contesti, gli oggetti e, soprattutto, il registro: realtà, fantasia o parodia dell’una e dell’altra cosa? Nulla di quel film poteva essere reale, ma tutto appariva come reale e James Bond dominava questa finta realtà con la sicurezza disincantata del super-eroe, sdrammatizzando, però, le situazioni più paradossali con misurate dosi di ironia. Solo successivamente, quando quel film si rivelò come il capostipite di una generazione che dura ancora oggi, capimmo che avevamo assistito alla nascita di un mito. Ma come nasce un mito? Come ha fatto James Bond a mantenere intatta nel tempo la sua cifra attirando e coinvolgendo nelle sue missioni le due o tre generazioni che si sono succedute nei cinquant’anni della sua esistenza? In effetti nella storia cinematografica non sembra esistano altri personaggi dalla vita così duratura. Sono innumerevoli, con alterne fortune, i “sequel” di film di successo, ma, giunti alla terza o quarta tornata, i personaggi si inaridiscono, le storie si ripetono stancamente e le serie si interrompono. Lo stesso avviene in campo letterario, in cui poi il personaggio resta legato indissolubilmente al suo autore ed è quindi necessariamente votato all’esaurimento. Il personaggio James Bond ha invece dimostrato di possedere una vita autonoma, che trascende non solo il suo autore, ma anche i registi, i produttori e perfino gli attori che lo hanno impersonato.
Un uomo in carne e ossa La matrice di 007 è quella del super-eroe impegnato nella lotta del bene contro il male, che combatte per l’umanità contro nemici potenti e pericolosi. Ma due elementi lo distinguono profondamente dai tradizionali super-eroi. Il primo elemento è evidente: James Bond è un uomo in carne e
ossa, in nulla dissimile da qualunque altro essere umano. Non ha bisogno di doppia identità: è se stesso, nella vita di ogni giorno, come in missione. Chiunque assista al cinema alle sue imprese può, quindi, facilmente immedesimarsi con lui, senza dover ricorrere a particolari salti di fantasia, come avviene invece quando ci si confronti con personaggi come Superman o Batman. Questo implica la nascita nello spettatore di fenomeni emulativi, negli atteggiamenti e nella gestualità. Già il giorno successivo all’incursione al cinema Verbano, il professore, dopo aver vinto l’ennesima partita, impugnava la stecca come una pistola con le braccia incrociate e una gamba lievemente flessa davanti all’altra, guardando gli altri fissi negli occhi con aria di superiorità. Basterà un altro film (Dalla Russia con Amore) perché al King Park si cominciassero a pretendere succhi di frutta e Coca Cola con ghiaccio, mescolati e non agitati. L’umanità di James Bond è dunque il primo elemento costitutivo del personaggio, che venne inizialmente identificato con l’attore che lo impersonava (Sean Connery), cosicché il fenomeno imitativo non sembrava troppo diverso da quello che in passato aveva riguardato innumerevoli altri attori che, con i loro atteggiamenti, avevano fatto moda, da Rodolfo Valentino a Humphrey Bogart. Ma, negli anni, gli attori cambiarono, mentre 007 continuava la sua vita in maniera autonoma, divenendo un personaggio sempre più familiare al pubblico di ogni età e conservando immutato il suo fascino. Il modello non era più l’inimitabile Sean Connery, destinato ad altri successi, ma direttamente James Bond: l’irreale dei film aveva preso corpo nella realtà delle fantasie del pubblico. Il meccanismo di trasposizione dall’attore al personaggio in sé si spiega con il secondo e più importante elemento che differenzia 007 dai classici super-eroi e, più in generale, da qualunque altro protagonista di avventure, siano esse cinematografiche o letterarie. I personaggi che normalmente conosciamo, sono legati a dimensioni spazio-temporali precisamente definite, all’interno delle quali sono in certo modo cristallizzati. Superman agisce a Metropolis, come Batman a Gotham City, due metropoli collocate in un futuro
prossimo comune e assimilabili a New York, di giorno, la prima, e di notte, la seconda. Le loro storie vanno avanti da anni, ma loro sono immutabili, nel loro contesto con avversari che, anche quando cambiano, sono sempre uguali, tagliati con la stessa accetta che divide il bene dal male. Il tenente Colombo, legato a Peter Falk che lo interpretava, è radicato in California, a Los Angeles, negli anni Sessanta (la sua Peugeot decappottabile è del 1959), così come Maigret non si muoverà mai da Parigi, collocato eternamente negli anni a metà del secolo scorso. E questo vale anche, per restare nel poliziesco, per Sherlock Holmes a Londra. Molti personaggi, protagonisti di serie cinematografiche o televisive, come Zorro o Perry Mason, per quanto popolari, non arrivano neanche a definire una vita propria, esistendo soltanto in funzione dei singoli episodi in cui si muovono all’interno di un contesto precisamente determinato.
Snob, ma al passo con i tempi James Bond, ed è questo il segreto della sua longevità e della sua vitalità, vive la contemporaneità del suo pubblico e insegue giorno dopo giorno i cambiamenti del mondo e della società: sulla sua testa i pappagalli dell’isola di Huxley gli ripetono: «Qui e ora, ragazzi, qui e ora!». 007 non guarda mai al passato e non pianifica il futuro, ma è in sintonia con il suo presente; l’agente di Licenza di uccidere ha poco a che fare con quello di Skyfall e di Quantum of Solace e lo Sean Connery del 1962 è ben diverso dal Daniel Craig di cinquant’anni dopo. L’accetta del bene e del male negli anni si è stemperata passando dalla guerra fredda alla nuova età dell’incertezza, per parafrasare John Kenneth Galbraith, attraverso la società dell’opulenza, l’edonismo reaganiano, il crollo dei muri e delle ideologie, la messa in discussione delle leadership. Ma lui c’è ancora e fa lo stesso mestiere, forse con meno certezze, così come meno certezze ha il suo pubblico affezionato, con in mano quell’accetta stemperata con cui
cerca di orientarsi in un mondo di valori confusi, guardando, magari, dentro di sé, seguendo la propria coscienza, esattamente come fa nella vita di ogni giorno lo spettatore che lo guarda al cinema. Non è un caso che l’unico personaggio la cui popolarità e la cui durata siano assimilabili a quelle di Bond, sia Topolino. Anche Mickey Mouse, benché nato nel 1928, fa ancora oggi il suo mestiere, anche lui, forse, con l’accetta un po’ spuntata, dopo aver attraversato addirittura una guerra mondiale e il maccartismo, ma anche lui sempre vivendo il momento e l’umore del suo pubblico, trasformandosi ed evolvendosi secondo lo spirito del tempo, ma sempre restando se stesso. Ecco, il cambiamento, dunque, la capacità di essere sempre attuale, è il segreto fondamentale, ma James Bond, come Topolino, non sarebbe oggi lui se non fosse stato capace di conservare immutato il suo carattere, il suo modo di essere, la sua maniera di porsi davanti agli altri e davanti alle situazioni sempre più intricate che si è trovato ad affrontare. Il carattere, il modo di essere James Bond è stato studiato con meticolosa attenzione dai registi e dagli sceneggiatori che si sono susseguiti: film dietro film, senza strappi, il mondo di 007 si è andato definendo in maniera sempre più precisa, con tratti inconfondibili. 007, fin dall’inizio, appare come un uomo raffinato, un po’ snob, dal tratto sostanzialmente classico, ma al passo con i tempi. Soggettisti e sceneggiatori hanno fatto a gara per trovare il perfetto equilibrio tra i tanti elementi che costituiscono il modo di essere di Bond. Tutto in lui è un po’ fuori dagli schemi: le donne che gli si affiancano, hanno sempre una bellezza particolare, certamente non comune. Ho ricordato l’uscita dalle acque di Ursula Andress, che tanto entusiasmò il circolo del biliardo; ma non le sono da meno Gemma Arterton e Bérénice Marlohe, le più recenti Bond Girl, come la Andress poco conosciute prima di comparire nella serie, ma scelte per la loro peculiare personalità. Ma l’eccentricità di Bond non si limita alle donne. Fuma – o meglio fumava, prima che una singolare pruderie volta a non dare ai giovani il cattivo esempio bandisse dai film il fumo,
anziché sgozzamenti e stupri seriali – non sigarette comuni, ma le Lark, un meno noto marchio della LM; beve champagne, ma, preferibilmente il più esclusivo e meno noto Bollinger (purché millesimato), piuttosto che il più famoso Dom Perignon; anche il suo Martini è eccentrico (Fleming lo chiamò Vesper) con tre parti di gin, una di vodka e una di vermouth francese, il Lillet. Queste scelte, anche se spesso dettate, come tante altre cose nei film della serie, da concreti interessi economici legati a contratti di sponsorizzazione o di comarketing (si dice che la Philip Morris pagò 350mila dollari per legare le Lark a 007) hanno contribuito a precisare sempre meglio il carattere di Bond e il suo stile di vita. È questo stile di vita che affascina e diviene modello, oggetto di ammirazione, di identificazione ed emulazione. Avviene così che alla gente finisce per piacere più il personaggio che le storie di cui è protagonista. Al cinema si va a vedere James Bond più che il più o meno prevedibile intreccio di cui sarà protagonista e ciascuno riuscirà a identificarsi almeno un po’ con lui e il giorno dopo si presenterà a qualcuno dicendo: «Piacere, il mio nome è…» o si troverà a sognare di girare il mondo come fa lui. Perché Bond – e anche questo fa parte del suo carattere – è decisamente inglese, ma di natura cosmopolita, sempre a proprio agio in ogni angolo del pianeta e persino, come in Moonraker, nello spazio. E sempre a proprio agio su qualunque tipo di automobile.
Donne e motori Una Lotus Esprit S1 serie 1975 è stata battuta all’asta per ben 866mila dollari (circa 650mila euro) nel settembre 2013. L’acquirente non era uno qualunque; era Elon Musk, il poliedrico imprenditore americano cofondatore del sistema PayPal e proprietario della Tesla, la Casa automobilistica più all’avanguardia nel campo delle automobili elettriche. Neanche quella Lotus era un’automobile qualunque: si trattava
della macchina con cui James Bond, per l’occasione interpretato da Roger Moore nel film La spia che mi amava del 1977, sorprendentemente si tuffò nelle acque del mare, in Sardegna, trasformandosi in sommergibile. Musk, da sempre appassionato di James Bond, deluso dall’aver saputo che in effetti nel film erano solo effetti speciali, vuole ora rendere reale la finzione cinematografica, dotando la Lotus di motore elettrico, così da permetterle davvero di affrontare gli abissi e, stando ai risultati che ha fino a oggi ottenuto, si può essere certi che ci riuscirà. Il gesto di Musk ci mostra l’importanza che le automobili rivestono nella costruzione del mito di James Bond. Le automobili, come le Bond Girl, sono elementi fondamentali del carattere di 007, del suo stile di vita, che viene assunto dallo spettatore come modello immaginario. Generalmente l’automobile fa parte dell’identità di un personaggio: come potremmo immaginare Batman senza la sua Batmobile o Diabolik senza la sua Jaguar E nera? Dustin Hoffman non avrebbe raggiunto il successo del Laureato senza il suo Duetto così come la memoria di Steve McQueen resta legata alla Porsche 908 spyder guidata nella 12 ore di Sebring. Anche James Bond ha una sua automobile, la vediamo in Dalla Russia con amore: è una Bentley assolutamente in linea con il personaggio, in definitiva un inguaribile snob. Non la classica Bentley che tutti conosciamo, ma un modello decappottabile, ovviamente verde inglese, del 1935. La vediamo però una volta sola perché il personaggio di 007 si evolve e di volta in volta userà mezzi di locomozione adatti al momento e capaci sempre di suscitare qualche emozione. Il primo assaggio lo abbiamo in Licenza di uccidere, in cui vediamo 007 affrontare il primo inseguimento della sua lunga carriera a bordo di una Sunbeam Alpine, una spider inglese nella quale il suo metro e 89 centimetri viene contenuto a stento. Siamo nel 1962, il momento d’oro delle spider inglesi, quando si sognavano le MG (usciva di produzione proprio quell’anno la storica MG A Sport, con le sue caratteristiche gobbe sulle ruote posteriori, sostituita dalla più filante B), le Austin Healey, le Jaguar. L’Alpine, con quelle imbarazzanti
pinne posteriori, si poneva buona ultima tra le aspirazioni dei giovani di allora. Ma fu quello il primo segnale dell’eccentricità, dello snobismo di James Bond: la preferenza accordata a un’automobile meno nota, meno ambita, che però si sarebbe legata al suo nome divenendo oggetto di culto. Certo, alla scelta non saranno state estranee le attese di qualche sponsor, ma il risultato fu buono. Il risultato fu addirittura clamoroso due anni dopo, quando, in Goldfinger, apparve per la prima volta l’Aston Martin. La Casa inglese, fondata nel 1913, era conosciuta soprattutto per gli alterni successi sportivi, ma era per lo più poco nota al grosso pubblico. Proprio nel 1963 David Brown, che alcuni anni prima l’aveva acquistata, lanciò il nuovo, ambizioso modello, siglato, dalle sue iniziali, DB5. Cosa di meglio per James Bond? La sponsorizzazione in questo caso fu un grosso affare, su cui la Aston Martin vive ancora di rendita. La DB5 era la tipica coupé inglese di lusso di quegli anni: motore anteriore a sei cilindri in linea da 3.995 cc e 282 CV, trazione posteriore, peso di oltre una tonnellata e mezzo e lunghezza di quasi cinque metri. Chi, come me, ha avuto il piacere di guidarla, ne ha subito riconosciuto l’indubbia qualità di eleganza e finiture e l’altrettanto indubbia riottosità a tenere la strada, specie sul bagnato, per l’accentuato effetto sovrasterzante, tipico della trazione posteriore, e la precaria distribuzione dei pesi. Ma nel film tutto ciò non si vede. Si vede invece la sua splendida linea, frutto del più raffinato design italiano dell’epoca, quello dell’italiana Touring, e l’incredibile dotazione dei più singolari marchingegni montati su di essa da Q, l’ingegnere capo del laboratorio attrezzature dell’MI6, costante presenza nei film della serie. La fiammante DB5 è dotata di mitragliatrici anteriori e posteriori, cortina fumogena, spargi-olio, spargi-chiodi a tre punte, scudo posteriore antiproiettile, sedile passeggero eiettabile, carrozzeria blindata e targhe intercambiabili rotanti. L’automobile, inoltre, aveva degli optional non svelati nel film, come un telefono nello sportello, un radar nello specchietto e un cassetto posto sotto il sedile del passeggero, che conteneva una Walther PPK, pistola usata da 007.
Aston Martin, ma non solo Il successo fu strepitoso e da allora l’Aston Martin è divenuta l’automobile di James Bond per antonomasia, assicurando al marchio una duratura penetrazione sul mercato. Il sodalizio tra Aston Martin e 007 è proseguito nel tempo, mano a mano che uscirono nuovi modelli (nel 1969 apparve in Al servizio segreto di sua Maestà la DBS) e si rafforzò dopo il 1986, quando la Casa inglese fu acquistata dalla Ford, evidentemente più generosa con la produzione di quanto non fosse stata negli ultimi anni la precedente proprietà. Così ritroviamo James Bond al volante di una Aston Martin – stavolta la V8 Vantage, dotata di sci estraibili, propulsore a razzo, scanner radio, cristalli antiproiettile, razzi nascosti dietro ai fari fendinebbia, proiezione informazioni all’interno del parabrezza, raggio laser nei coprimozzi, pneumatici a chiodatura estraibile, dispositivo autodistruzione a timer – in Zona pericolo del 1987. Riappare la DB5 in Golden Eye del 1995 e in Il domani non muore mai del 1997, ed esordiscono la V12 Vanquish in La morte può attendere del 2002 e la DBS V12 in Casino Royale del 2006 e in Quantum of Solace del 2008. Infine l’originale DB5 di Missione Goldfinger, munita della stessa targa, rivive in Skyfall del 2012, con a bordo James Bond, per la prima volta in fuga insieme con M. La scuderia di James Bond non si riduce però alla gamma Aston Martin. In quasi tutti i film della serie vengono affidate all’agente inglese automobili in sintonia con i tempi, in grado di eccitare la fantasia dello spettatore perché contribuiscono a mettere in luce aspetti del carattere del personaggio. Così nel 1967 in Si vive solo due volte, ambientato in Giappone, appare la Toyota 2000 GT, la prima supercar prodotta nel Paese, tanto esclusiva (ne vennero realizzati solo 300 esemplari) da soddisfare pienamente i gusti di Bond. La vettura, però, una coupé dalla linea somigliante alla gloriosa
Jaguar E, aveva un abitacolo molto ristretto, progettato evidentemente per le più ridotte fisionomie dei giapponesi, cosicché Sean Connery, alla sua quinta e penultima apparizione nelle vesti dell’agente segreto, non c’entrava. La Toyota dovette quindi provvedere a trasformare l’automobile da coupé a spider, tagliandole il tettuccio e in sole due settimane ne consegnò due esemplari alla produzione. Lo scenario si spostò quindi a La Vegas nel 1971, quando in Una cascata di diamanti, ultima interpretazione di Sean Connery, appare un altro mito dell’automobile, questa volta americana: la Ford Mustang. Era un’automobile molto evocativa, che già aveva avuto il suo battesimo cinematografico in Bullit, guidata da un pilota d’eccezione: Steve McQueen. Connery non fu da meno, esibendosi in mille acrobazie, inseguito dalla polizia sulle strade di Las Vegas. Per capire meglio l’impatto che in quegli anni potevano avere le automobili che si vedevano in quei film, occorre ricordare il parco macchine dell’epoca. Nasceva nel 1967 la Fiat 125, aspirazione della famiglia media italiana che ancora girava con la 850, se non con la storica 500. Nel 1971 usciva la rivoluzionaria Fiat 127, prima Fiat a trazione anteriore, che per anni dominò il mercato delle utilitarie. Vedere una Mustang a Roma era un evento cui si assisteva con curiosità e stupore. La situazione non era molto diversa all’estero in un’epoca in cui i consumi, con una parola tornata recentemente di moda, si potevano definire sicuramente sobri.
I luoghi dell’immaginario James Bond con le sue macchine e anche con il suo muoversi per il mondo in località per allora irraggiungibili dai più, faceva sognare e viaggiare con la fantasia. Le Bermuda di Licenza di uccidere costituivano un paradiso sconosciuto per chi viveva in una società che ancora ignorava il turismo di massa e si nutriva di film, di cartoline e dei racconti dei pochi
fortunati che avevano l’opportunità di viaggiare. Erano perciò i film a fare moda. Il deserto vicino a Las Vegas in cui è situato il pericoloso laboratorio che James Bond distruggerà in Una cascata di diamanti, è la Valle della Morte, dove, un anno prima, Michelangelo Antonioni aveva ambientato Zabriskie Point, destinato poi a divenire un’indispensabile tappa per gli innumerevoli giovani degli anni Settanta posseduti dal mito della West Coast. Scelta dell’ambiente e scelta delle automobili vanno, insomma, sempre di pari passo nei film di James Bond per cogliere le tendenze dei tempi. Così nel 1974 (L’uomo dalla pistola d’oro) l’azione si sposta in Thailandia, altra meta leggendaria degli anni Settanta, e nel 1977 (La spia che mi amava) in Sardegna, un’isola che nell’immaginario del pubblico di oltreoceano rappresentava probabilmente qualcosa di simile a quello che erano per noi i Caraibi. Ed è in questi due film che l’automobile comincia ad assumere un nuovo ruolo. Nel primo appare una AMC Hornet, forse la più bruttina tra le automobili di Bond, un’ordinaria macchina americana a tre volumi, che si rende però protagonista del più spettacolare volo che si sia mai visto sugli schermi: un salto carpiato con avvitamento da una sponda all’altra di un ponte crollato. La scena è stata ripresa dal vivo, non esistendo, allora, i sofisticati sistemi di effetti speciali cui siamo oggi abituati, e lo stuntman fu costretto a ripeterla per due volte, perché il regista non era soddisfatto della prima ripresa. In Sardegna, invece, 007 ci stupisce ancora di più conducendo la famosa Lotus Esprit gialla sotto le acque del mare, riemergendo su una delle più celebrate spiagge della Costa Smeralda, sotto gli sguardi stupefatti dei bagnanti. C’è da questo momento una mutazione che sarà confermata negli anni successivi: scompare progressivamente la vettura/oggetto, mentre l’attenzione viene spostata sempre più sul rapporto uomo/macchina, sulla fruibilità del mezzo. La società si evolve e il consumismo comincia a premere; nel 1977, nel pieno degli anni di piombo, persino in Italia arriva la televisione a colori che apre il mondo in una nuova prospettiva; a emozionare non può più essere una semplice macchina, per quanto esclusiva, come per esempio la Lotus. In
primo piano giunge il rapporto tra l’uomo e la macchina, sempre più simbiotico. Nella sempre più convulsa vita quotidiana, nella progressiva disintegrazione dei tradizionali rapporti sociali, l’individualità si esalta nel rapporto con l’automobile che diviene in certo modo parte di sé, un’estensione del proprio corpo, meno vulnerabile e più potente e capace di dominare la realtà. Così, a bordo della sua Lotus, James Bond ci riporta al mondo mitologico e, moderno tritone, domina gli abissi agile come una creatura acquatica, regalandoci una passeggiata nel silenzio della profondità del mare. Qualcosa di simile aveva già fatto nel 1965, in Thunderball, quando, emulo di Icaro, si era librato nell’aria trasportato da uno zainetto a razzi, ma l’evidente natura di protesi dello zainetto ne limitava l’effetto evocativo, riducendo l’episodio a semplice curiosità. Dopo il 1977 James Bond ha continuato comunque a guidare automobili di grande impatto, impegnato in inseguimenti spesso al di là del possibile, anche per far fronte alla concorrenza di una cinematografia che dell’inseguimento aveva fatto ormai la sua cifra. Vediamo così una passerella di automobili, come sempre spinte da accordi di comarketing, che vanno dalle BMW 750iL, dotata di missili che escono dal tetto (Il domani non muore mai, 1997), Z3 e Z8 (Golden Eye, 1995, e Il mondo non basta, 1999) alla Jaguar XKR accessoriata di mitragliatrici, missili, rostri e bombe a razzo (La morte può attendere, 2002), alle Land Rover e Range Rover (Quantum of Solace, 2008, e Skyfall, 2012). E non sono mancate le italiane, come l’Alfetta GTV6 (Octopussy-Operazione piovra, 1983) l’ultima vera Alfa Romeo con la storica, gloriosa meccanica degli anni d’oro, sopravvissuta allora alla gestione dell’IRI, o la Maserati Biturbo (Vendetta privata, 1989), velleitario tentativo di rilancio della Casa tentato dal bizzarro corridore/imprenditore argentino, trapiantato in Italia, Alejandro De Tomaso. E non poteva mancare, mito nel mito, una Ferrari F355, nella sua classica livrea rossa (GoldenEye, 1995), impegnata in una
corsa sulle stesse strade intorno a Montecarlo di Caccia al Ladro.
Sempre di corsa, ma con altri mezzi A partire dalla fine degli anni Settanta, comunque, il processo di ammirazione/emulazione tra gli spettatori e il personaggio Bond non venne più affidato prevalentemente all’automobile, che restò in ogni modo un importante elemento identificativo. Sempre eccentrico, Bond comincerà a fare ricorso a mezzi spesso modernissimi o quasi futuribili, spesso inusuali. È il caso di un auto-risciò progettato dal solito Q in Octopussy, film in cui adopera anche un jet tascabile ad ali ripiegabili, o dell’autobus a due piani di Vivi e lascia morire, in cui si esibisce anche in un volo col deltaplano. Ancora, vediamo Bond a perfetto agio su un modulo lunare, su un hovercraft, su sci normali e a razzo, su motoscafi tradizionali e monoposto a razzo, su uno stealth boat invisibile ai radar o su una gondola a motore impegnata in un folle inseguimento per i canali di Venezia, che solo la disarmante ironia di Roger Moore riesce a mantenere in equilibrio sul ciglio del ridicolo. L’ironia, unita a un pizzico di humour, concorre fortemente al carattere di Bond, in miscele diverse in relazione ai diversi attori che lo hanno interpretato e ai tempi che si vivono. Non è un caso certamente che il meno incline all’alleggerimento delle situazioni, con un sorriso, un’espressione o un battuta, sia Daniel Craig – protagonista degli ultimi tre film e già pronto per il quarto, previsto in uscita nel 2015 – interprete del disorientamento della nostra contemporaneità. In tema di automobili, però, l’ironia e l’anticonformismo di Bond si sono espressi ripetutamente. Nei suoi film non ci sono, infatti, soltanto super-car, a partire dal primo dove – come si è visto – alle più rinomate spider dell’epoca venne preferita la Cenerentola Sunbeam.
Così, forte del suo radicato snobismo, in Solo per i tuoi occhi del 1981, in seguito all’esplosione della sua Lotus Esprit turbo, Bond si impegna in una memorabile fuga, inseguito da due Peugeot 504 S, tra strada e fuori strada, cavalcando letteralmente una pressoché indistruttibile Citroën 2CV gialla. La 2CV, per la sua fisionomia ormai demodé e la sua concezione tanto originale, quanto spartana, in effetti era divenuta nel 1981 una macchina di culto, venerata dal popolo radical chic dell’epoca. Nata nel 1948 la Deux chevaux, che continuò a essere prodotta per oltre 40 anni, realizzò il sogno inseguito fin dal 1935 dal fondatore della Casa, André Citroën, di produrre una macchina alla portata di tutti. Fu però, nel dopoguerra, sotto la nuova gestione della Michelin, che il nuovo amministratore, Pierre-Jules Boulanger, portò a compimento il progetto che rispondeva esattamente ai vincoli che aveva indicato ai tecnici: costruire una vettura «che possa trasportare due contadini in zoccoli e 50 kg di patate, o un barilotto di vino, a una velocità massima di 60 km/h e con un consumo di 3 litri per 100 km. Le sospensioni dovranno permettere l’attraversamento di un campo arato con un paniere di uova senza romperle, e la vettura dovrà essere adatta alla guida di una conduttrice principiante e offrire un confort indiscutibile». L’attraversamento del campo di patate con le uova a bordo ebbe in effetti esito positivo e dal 1948 la 2CV cominciò la sua avventura contribuendo, con i suoi quasi quattro milioni di esemplari, allo sviluppo della motorizzazione di massa in Francia e in Europa. La sua robustezza, testimoniata anche durante la fuga di Bond, che volle superare la prova “campo di patate” conducendola, addirittura, giù per una gradinata, restò proverbiale. Ma un’altra automobile che ha fatto la storia della motorizzazione europea, appare, per quanto fugacemente, nella saga di 007: è la Mini Minor (in Vivi e lascia morire, del 1973), sia pure in un’improbabile versione “Moke” da spiaggia, stile caprese, con tendalino a strisce bianco azzurre, che un’altra volta dà modo a 007 di mostrare la sua capacità di cavalcare il ridicolo con l’autoironia.
La Mini, uscita nel 1959 e prodotta poi per quasi 40 anni, ha segnato la rivoluzione nel mercato dell’automobile, introducendo una serie di innovazioni cui progressivamente tutte le Case automobilistiche si sono dovute adeguare. Progettata per la Morris dall’ingegnere di origine greca Alec Issigonis con l’obiettivo di realizzare una vettura da città, economica in prezzo e consumi, ma spaziosa e in grado di portare comodamente quattro passeggeri, la Mini Minor colpì subito per la sua assoluta originalità, grazie alla inconfondibile linea tondeggiante. Ma le novità vere erano nella meccanica. Il motore a quattro cilindri in linea da 850 cc era collocato trasversalmente, con il radiatore laterale, il cambio fu posto sotto al motore con la trazione anteriore. In pratica tutta la meccanica era contenuta nel cofano, di dimensioni ridottissime. Per aumentare ulteriormente lo spazio disponibile per l’abitacolo, furono adottate ruotine da dieci pollici che consentirono la riduzione al minimo dei parafanghi. L’interno, scomparso il classico ponte che nelle vetture a trazione posteriore contiene l’albero di trasmissione, sembrava un salottino con quattro comode poltrone. Guidarla, poi, era veramente un’esperienza nuova: agile, scattante, leggera alla guida, aveva una tenuta di strada che divenne presto leggendaria e che le permise rapidamente di affermarsi, con le sue versioni sportive, nei grandi rally dell’epoca. Di fatto, dopo l’uscita della Mini, quasi tutte le case automobilistiche dovettero convertirsi alla trazione anteriore, che resta ancora oggi la scelta più diffusa.
Ultimo, ma non ultimo L’appuntamento era fissato per le otto e mezza a Piazza Cavour «e cerchiamo di essere puntuali perché ci sarà un sacco di gente e rischiamo di restare fuori». Come sempre i miei figli non furono puntuali, ma, previdentemente, con mia moglie, avevamo già preso i biglietti e quando loro arrivarono i posti erano assegnati. Avevamo deciso insieme di andare a
vedere Quantum of Solace. Anzi, a dire il vero lo avevano scelto loro, immaginando che noi avremmo nostalgicamente condiviso la scelta. Insieme, nel buio della sala, ci trovammo subito immersi tutti e quattro in un’atmosfera familiare. Nessuno, come a me capitò ai tempi del biliardo, ebbe l’impressione di trovarsi davanti a qualcosa di assolutamente originale, ma tutti, come avvenne allora, ci sorprendemmo a registrare momenti di identificazione, di sottile invidia verso quell’agente segreto capace di districarsi in qualunque occasione, di trovarsi a proprio agio in ogni situazione, di pronunciare prontamente la frase giusta per rispondere a chiunque. Era la prova che 007 era passato indenne attraverso gli anni senza intaccare la sua capacità di coinvolgere e che la sua avventura era in grado di soddisfare le aspettative di diverse generazioni. Una scena di quel film, forse, rivela simbolicamente la singolare alchimia che spiega il successo nel tempo di questa epopea: sullo sfondo del deserto sudamericano si fronteggiano una Range Rover ultimo modello e un DC3, il glorioso bimotore a pistoni protagonista della guerra mondiale (nella sua versione “Dakota C47”) e colonna dell’aviazione civile nel trentennio successivo. L’anacronismo delle due presenze è certamente una formula vincente per destare stupore e in questo senso efficace per soddisfare i gusti dei miei figli. Quella stessa scena, però, in chi aveva qualche anno in più, suscitava una sottile nostalgia, mentre il cinefilo vi coglieva il suggerimento di una citazione e improvvisamente gli tornava alla memoria l’impermeabile bianco di Humphrey Bogart con la sigaretta pendente dal labbro e il viso trepidante di Ingrid Bergman nell’addio sotto la pioggia all’aeroporto di Casablanca, mentre il DC3 scaldava i motori. James Bond: ce n’è per tutti.
Sconfinato Bond GIOVANNI SCIPIONI
Un agente segreto non conosce confini. Se poi l’agente segreto si chiama James Bond e ha il volto cinematografico dell’eroe bello, forte e senza paura, i confini, quelli trascritti con la penna nera sulle carte geografiche e indicati con un filo sottile nei mappamondi dei tablet, sono un “optional”, un semplice accessorio. Non esistono confini per 007, ma solo paesi, i loro paesaggi desolati o pieni di umanità, le loro colline ondulate con le case abbarbicate su dolci pendii, le montagne impraticabili raggiunte dalla neve o dalle nuvole. Esistono i paesi con le loro diversità e differenze. Esistono i luoghi dove correre, sparare, arrestare, uccidere e amoreggiare. Tanti luoghi sparsi nel mondo, tanti piccoli punti della geografia conosciuta, uno legato all’altro, che disegnano un solo luogo, un solo paese dove l’emozione, lo stupore, lo sbalordimento e la sorpresa sono all’ordine del giorno. Non ci sono confini per James Bond. Non ci sono nello spazio del pianeta perché un agente segreto che si muove con disinvoltura tra gabbie russe, cinesi o di qualche pazzoide, riesce sempre a “svincolarsi” e correre verso la libertà, saltando da una città all’altra. I confini non ci sono neanche nel tempo. Dal 1962, anno del primo film Licenza di uccidere, al 2012, quando esce Skyfall, l’eterno 007 ha attraversato una infinità di luoghi e paesi, senza curarsi delle frontiere o dei male intenzionati. Vivendo il suo tempo. Cinquanta anni di viaggi, avventure e amori come un eroe. Un eroe d’altri tempi, quasi un Ulisse con la pistola, ma anche un eroe di oggi, frutto dell’esperienza dei videogiochi. Bond è un viaggiatore con la 24 ore, non possiede una valigia né tantomeno uno zaino. Durante il viaggio non disdegna di
utilizzare telefono o computer. Le nuove tecnologie non gli impediscono di viaggiare ma, al contrario, gli permettono di spostarsi da un luogo all’altro, senza mai perdere il filo sottile che lo tiene legato ai suoi superiori e al suo apprezzato mondo occidentale. Perché Bond, come Ulisse, dopo ogni avventura, ritorna sempre a casa anche se non c’è Penelope ad aspettarlo. O forse proprio per questo. La geografia del più famoso agente segreto del cinema è lo specchio del tempo. Nell’Anno Uno (Licenza di uccidere) va in Giamaica e trova una formidabile Ursula Andress che esce dall’acqua con un bikini mozzafiato e due conchiglie; nell’ultima avventura (Skyfall) va in una delle più belle spiagge della Turchia, a Oludeniz, incrociando il turismo. Da un mare all’altro. Cinquanta anni di storie di spionaggio che si riflettono sempre in un mare cristallino. Gli spettatori sognano, ma i sogni sono figli del tempo. Una volta era la Giamaica la meta alla moda, il miraggio da raggiungere, oggi è sufficiente andare in Turchia per una vacanza ecologica. È l’ideologia della premiata ditta James Bond. Due luoghi utilizzati a distanza di mezzo secolo che esprimono cultura, vitalità, convenzione. La natura si traduce in società e cultura. Spiagge e mare che raccontano, come un universo di segni, i paesi visitati, le loro abitudini, la loro storia e quella dei paesi sviluppati cui i film sono in parte indirizzati. Quando l’agente Bond raggiunge la Giamaica, la Terra vive la crisi dei missili di Cuba, i giovani trovano nelle musiche dei Beatles l’appartenenza a un mondo diverso e migliore, in Italia esce un fumetto che fa diventare eroe un ladro e spietato assassino, Diabolik. Chi va al cinema in quell’anno a vedere le giravolte di 007 non confonde Cuba con la Giamaica, ma, nell’immaginario collettivo, nella terra dove c’è sole, mare, palme e spiagge bianche si nasconde il nemico, il cattivo che Bond sconfiggerà per il bene di tutti. Segni complessi per un film che esce in un anno di grande tensione internazionale tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Segni cinematografici che sembrano mettere sullo stesso piano la Giamaica e Cuba, facilitando la “confusione” dello spettatore. In quell’anno si festeggia l’indipendenza della Giamaica dalla Federazione delle Indie Occidentali. La scelta
di proiettare le avventure dell’agente segreto in questo paese non appare casuale. Il 1962 è stato un anno difficile. Il successivo sarà drammatico, con l’assassinio del presidente USA Kennedy, quando Bond, al servizio segreto di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra, in Dalla Russia con amore lancia un (forse) involontario messaggio di pace. Va a Istanbul, da sempre città crocevia tra Oriente e Occidente, e fa l’amore con una bellissima spia russa. In una delle scene più importanti i due, che devono scambiarsi la pianta dell’edificio del consolato russo, si incontrano nella Basilica di Santa Sofia. Un luogo non casuale, pieno di significati. La basilica è uno dei monumenti principali di Istanbul. Fu una sede patriarcale greco-ortodossa, una cattedrale cattolica, una moschea e ora è un museo. Santa Sofia è da intendersi come la Divina Sapienza, il luogo che ha conosciuto verità e fedi diverse, e che, proprio per questo, può rappresentare la terra senza confine dove russi e occidentali potrebbero gettare le armi e fare l’amore. Mettete i fiori nei vostri cannoni, sembra il messaggio del sito cinematografico. il luogo simbolo scelto per raccontare la guerra fredda, ma anche per ricordare agli uomini di buona volontà la tolleranza o il disarmo reciproco più volte auspicato in quegli anni dal filosofo Bertrand Russell, inglese come il nostro eroe in celluloide.
Andare a zig zag C’è una irresistibile voglia di disarmo in questo agente dalla pistola facile. Sembra che Bond abbia letto Occam, dove il concetto è «un segno, il significante abbreviato e astratto il cui significato sono le cose singole». Immagine, pensiero e realtà sembrano andare a braccetto in questo secondo film e il luogo (i luoghi) scelto è il racconto nascosto, la lettura attraverso la quale è possibile conoscere la “filosofia gratta e vinci” dell’agente segreto.
La non belligeranza, la pace, l’armistizio. E poi ancora: proviamo a creare un mondo neutrale che si guarda in cagnesco, ma che non fa guerre. Sono passati solo 17 anni dallo spaventoso conflitto mondiale che ha distrutto l’Europa. Nessuno vuole più guerre, tantomeno James Bond. Per rafforzare la sua volontà, già filmata in Dalla Russia con amore, l’anno seguente gira Missione Goldfinger in Svizzera, il paese dei banchieri, del denaro. Ma soprattutto il paese neutrale per antonomasia, che non si è mai schierato in un conflitto a fuoco. L’agente che ha sempre il volto affascinante di Sean Connery, attraversa il Passo della Furka. Stradine di montagna con infinite curve a scendere e a salire, dove le corse di automobili e gli inseguimenti hanno il dono degli effetti speciali senza l’uso degli stessi. La scena più importante, quella che resta nell’immaginario collettivo degli spettatori, vede spuntare tra le montagne l’auto del cattivo, del nemico Goldfinger, una Rolls Royce Phantom III che proprio come un fantasma appare sulle strade della tranquilla Svizzera. La scelta del luogo e la scena madre sono una catena di segni variamente combinati. La strada è tortuosa, a zig zag. Il mondo, i governi dell’epoca non hanno una direzione precisa, si muovono ondeggiando, una svolta a destra, un’altra a sinistra, nel tentativo di superare la montagna. Corrono, vanno veloci. Credono di correre. La strada inganna e, malgrado l’alta velocità, sembrano fermi al punto di partenza o forse non sono mai partiti. Appare una corsa inutile. L’anno prima il mondo aveva pianto l’assassinio di Kennedy, il più giovane presidente americano eletto e il più giovane a essere ucciso. Un colpo di pistola che ha messo fine al Nuovo Mondo, alla Nuova Frontiera, alle speranze degli abitanti del pianeta. C’è sconcerto, disillusione. In Vietnam i bombardamenti americani si fanno intensi. La folle guerra in Oriente mostra i suoi lati oscuri mentre in Brasile un colpo di stato militare toglie libertà politica e culturale e il papa Paolo VI riceve Martin Luther King. Avvenimenti di segno diverso che raccontano la confusione di quel periodo. Un aereo americano all’aeroporto di Fiumicino fallisce il decollo, prende fuoco e muoiono in cinquanta. A pochi giorni di distanza viene lanciata la terza sonda diretta verso Marte e la missione Mariner 4 al suo secondo tentativo finirà con un
successo. Inettitudine e capacità a braccetto. Come se i nostri nemici fossimo noi stessi. È la complessità del mondo abitato dagli uomini che l’agente 007 non considera. Per lui tutto è più semplice. Il buono e il bello da una parte, cioè egli stesso, e il cattivo e il brutto dall’altra, anche se ricoperto d’oro. I due poi devono attraversare a zig zag le montagne della neutrale Svizzera. È questa la fotografia dell’agente segreto: produce una icona nella coscienza. E l’icona è l’immagine mentale che quella fotografia suscita. Dalla neutrale Svizzera alle spiagge bianche delle Bahamas. Dai soldi delle banche a quelli dei paradisi fiscali. L’anno successivo con Thunderball, Operazione tuono Bond torna al mare cristallino dopo l’esperienza dei Caraibi nel primo film della serie. Ci si immerge. A nord di Staniel Cay sopra Exuma e, per intriganti scene d’amore subacquee, a Clifton Pier, Nassau. Luoghi bellissimi dove mandare in vacanza gli americani. La filosofia dell’agente segreto sta lentamente cambiando. Non più luoghi-segno che soffiano sul nostro inconscio, ma luoghi evidentemente turistici, immagini messe in vendita per il popolo dei vacanzieri. Con questo film si oltrepassa il confine sconosciuto, quello che si nasconde dietro l’evidenza, e si mostra la fotografia dell’esistente. Bond diviene un tour operator. Non a caso negli anni successivi il turismo in questi luoghi subisce un fortissimo incremento. Da questo film in poi i luoghi scelti per le avventure di 007 sono attentamente studiati anche dall’industria del turismo che “scopre” il cinema come forte veicolo pubblicitario. Bond è un agente segreto con la pistola facile, ma conserva sempre, nel corso degli anni e in tutte le sue avventure, l’anima del viaggiatore. Ha il gusto del movimento ed esce dai confini con una naturalezza tipica di chi gira il mondo con lo zaino sulle spalle, anche se allo zaino preferisce la 24 ore con doppi e tripli fondi. Ha anche la passione per il cambiamento dei luoghi che, però, sembrano non cambiarlo. Bahamas, Svizzera o Giamaica, sopra il livello del mare o sotto, sempre attento ai pericoli, ai possibili nemici armati o alle insidie procurate da affascinanti donne con il coltello nelle mutandine. Bond è sempre attento all’azione, mai ai luoghi che attraversa.
Non dice mai: «Bello questo posto, ci farei volentieri una vacanza», ma proprio per questo è lo spettatore, nel seguire le sue avventure, a immagazzinare, coscientemente o meno, quelle immagini mozzafiato e a prenotare una vacanza prossima futura.
Per il presente, non per il futuro L’ultimo film interpretato da Sean Connery è del 1971 ed è Una cascata di diamanti. In questo film i luoghi scelti sembrano rispondere a una doppia esigenza turistica. C’è il viaggiatore che ama attraversare terre lontane, difficili, come una sfida alla natura. Un viaggiatore che esalta le esperienze mai fatte, ma in grado di elettrizzarlo, di conoscere gli angoli più nascosti e più difficili del pianeta per testare il proprio desiderio e la propria capacità di resistenza. Ma c’è anche il turista che vuole vedere porti e città senza abbandonare le proprie sicurezze e con il conforto delle comodità in cui vive quotidianamente. Vivere in città per andare al ristorante, al cinema, al teatro, alle feste di ballo, e magari fare un tuffo in piscina, una partita a carte o a bocce. Vivere in città, ma cercando ogni tanto una meta da visitare. In questa ottica è nata la crociera, la vacanza sulla grande nave che affronta, tra un menù e una festa, l’escursione sui luoghi della storia. Due modi di fare vacanza diametralmente opposti. In genere chi decide per l’avventura non è lo stesso che poi sale su una meganave per una crociera. E chi preferisce il conforto del villaggio sul mare non ne vuole sapere di rischiare in un’avventura con l’epilogo sconosciuto. Due modi di fare vacanza e due turisti nettamente distinti tra loro, che l’ultimo 007 targato Sean Connery tenta di coinvolgere. In Una cascata di diamanti il teatro ideale del viaggiatore con lo zaino sulle spalle è il deserto, quello del Nevada dove, in alcuni laboratori di ingegneria aerospaziale, un ricco industriale prova a costruire con i diamanti un misterioso laser, posto in orbita e diretto da una piattaforma oceanica. Il
messaggio è diretto: solo in un posto come questo, deserto, senza comodità, si può costruire un dispositivo in grado di emettere un fascio di luce così potente da tenere con il fiato sospeso i governi di tutto il mondo. Il deserto non ha nulla in apparenza, ma contiene la scoperta, la sorpresa. Solo chi decide di attraversarlo può lanciare il potente laser del viaggiatore nomade e pioniere. Ma Bond non dimentica che i viaggiatori che amano il deserto, sono pochi, mentre non sono pochi i turisti tentati dalle crociere. Così, come d’incanto, l’agente segreto e la sua occasionale partner del film partono per una crociera dove i loro nemici si fingono camerieri e sommelier. Verranno subito smascherati perché, spiega il film nel racconto indiretto, in una nave da crociera il personale di bordo è altamente professionale. Non ci si può improvvisare: James Bond è un ottimo agente al servizio di Sua maestà, ma è anche un buongustaio e un esperto di vini. È un professionista dell’avventura segreta, ma è anche capace di mangiare bene e di bere meglio. È la logica democratica e meritocratica del sistema capitalistico trasportata nell’azienda, che coccola i cittadini di un villaggio che galleggia. Bond non combatte per un futuro migliore, ma perché il presente non degeneri. Un viaggio nel deserto o una crociera su una nave di lusso è sempre un bel modo di vivere la quotidianità. Nel 1977 il volto cinematografico di Bond cambia. Dal tenebroso Connery si passa al bello Roger Moore. Il film La spia che mi amava inaugura il sistema Arlecchino. I luoghi scelti per girare le sequenze sono tantissimi. Dalle Alpi austriache all’Egitto, all’Inghilterra. Ma soprattutto lo 007 targato Moore muove i suoi primi passi di agente in Italia e in particolare in Sardegna. Siamo nel 1977 e la Sardegna, con il suo mare cristallino e i soldi degli arabi, viene equiparata ai Caraibi e alle Bahamas, teatri esclusivi dell’agente Connery. In Italia, nei mesi d’uscita del film, il clima è esplosivo. Scandali e attentati terroristici sono all’ordine del giorno e l’anno dopo i governanti del nostro paese assisteranno impotenti al rapimento e alla successiva uccisione di Aldo Moro. Sono tempi difficili, meglio isolarsi nel mare della Sardegna, sembra dire il nuovo film di Bond. La Sardegna del resto si mostra in
tutto il suo splendore. C’è Palau, in Gallura, che costituisce il porto d’accesso per l’arcipelago della Maddalena. C’è poi San Pantaleo, frazione del comune di Olbia, arroccata sui monti nel massiccio di Cugnana, dove si gode una magnifica vista sul complesso della Costa Smeralda e dove si susseguono le immagini di un rocambolesco inseguimento automobilistico. C’è un’automobile che cade in acqua dal ponte dell’esclusivo hotel Pitrizza e che viene tirata su dalla spiaggia di Capriccioli. C’è poi a Santa Teresa di Gallura la casa di un pastore sardo che nel doppiaggio italiano ha un accento abruzzese, dove va a schiantarsi un’altra automobile mentre un motociclista cade a Capo Caccia. La maggior parte del film è girata nella bellissima baia di Cala di Volpe e la Sardegna ottiene così il visto dell’agente segreto. L’isola o almeno questo angolo più ricco viene “offerta” ai turisti con un buon conto in banca. Senza alcuna remora. Il motociclista cade per evitare un camion. Lo spettatore fa in tempo a leggere cosa è scritto su quel camion: Sarda dream. La Sardegna è un sogno. I segni sono evidenti, una forza sociale, una spinta a vedere l’Italia migliore, quella del paesaggio contrapposta a quella, cupa e lugubre, degli agguati assassini, degli attentati e della corruzione. Andate in Italia, dice Moore, ma scegliete la Sardegna dove il mare è più bello di quello dei Caraibi e i turisti ricchi possono tranquillamente prendere il sole.
Il sistema Arlecchino Dieci anni dopo James Bond diventa Timothy Dalton e in 007-Zona pericolo prosegue il sistema Arlecchino. Tanti luoghi, tanti paesi scelti per girare spericolate avventure. Cambia l’attore, cambiano i teatri naturali, ma l’agente che non conosce confini, continua a raggiungere i posti di frontiera o quelli pericolosi. Lo si vede a Gibilterra, una delle colonne d’Ercole, dipendenza d’oltremare del Regno Unito. È il luogo dell’esercito britannico, della Royal Navy e della Royal Air
Force. Da Gibilterra a Bratislava e in Afghanistan dove lotterà a fianco dei mujaheddin contro gli invasori sovietici. Il nemico è ancora una volta il KGB e l’impero dell’Unione Sovietica che, nella realtà, presenta i primi scricchiolii. Due anni dopo il film cade il Muro di Berlino e l’impero sovietico comincia a perdere pezzi. Si sgretola lentamente il nemico numero uno dell’agente 007. Il crollo definitivo dell’Unione Sovietica avviene nel dicembre del 1991, ma James Bond, che ora ha il volto di Pierce Brosnan, lo racconta nel 1999 con Il mondo non basta. Con la fine della guerra fredda l’agente entra nei segreti delle nuove nazioni nate nella regione del Caspio. Paesi vicini al fallimento economico ma con una immensa riserva petrolifera e di gas naturale. Luoghi per “curiosi” che vogliono fare affari. Luoghi perfetti per Bond. Luoghi al centro della “più grande vendita nella storia del mondo”. Traffici leciti e illeciti come conviene a un dipendente della Regina d’Inghilterra, che va a festeggiare il Capodanno del 2000 a Istanbul. Va nella città crocevia tra Oriente e Occidente nel segno di una auspicata neutralità. Nei film successivi Bond continua ad attraversare tanti luoghi mantenendo il sistema Arlecchino, ma la scelta, soprattutto negli ultimi tre, interpretati da Daniel Craig (Casino Royale, Quantum of Solace, Skyfall), sembra dettata esclusivamente dalla necessità di trovare luoghi esclusivi, fuori catalogo turistico per ambientare sparatorie e inseguimenti che, a differenza dei siti messi a disposizione di Sean Connery, ugualmente belli e appetibili, non hanno doppie letture o segni nascosti. Non raccontano altro che la particolarità dei luoghi proposti. Il volto duro e ironico di Craig torna ancora una volta a Istanbul, ma la città non è più crocevia di due culture e di due modi di intendere la vita e la morte, ma solo l’occasione fisica per inseguimenti mozzafiato su tetti e stradine senza uscita. Anche qui 007 si trova a fronteggiare pericolosi nemici ed è “prigioniero” in spazi bui e angusti. Ma anche in questo film l’agente più famoso del mondo non conosce confini. Si libera dei suoi carcerieri e continua a viaggiare come ha sempre fatto in questi cinquanta anni. In Skyfall se ne va a Shangai e in uno
stupendo casinò sulle palafitte a Macao. Oltrepassa i confini e va in Oriente che appare ai suoi occhi e a quelli dello spettatore sempre più vicino. È la nuova frontiera, il luogo dove far sentire il suono delle pallottole.
Affermazioni e Negazioni
Le strutture anti-narrative nei film di Bond ANDREA MICONI
1. Prima di tutto, ma questo già lo sappiamo, i film di James Bond non sono film di spionaggio. Quest’ultimo genere richiede infatti il mascheramento e l’imprevedibile, l’identità segreta e il non rivelato: tutto l’opposto di quello che accade a un personaggio che, fin dalla sua frase più celebre, si presenta disinvoltamente con nome e cognome, bussa alla porta dei propri nemici e ogni volta viene invitato a cena, come se niente fosse, dall’avversario megalomane che la sorte gli ha messo di fronte. Uno dei grandi rischi per il protagonista di una spy story, ha scritto uno studioso del calibro di John Cawelti, è esattamente la minaccia dell’esposizione pubblica, la messa in pericolo dell’identità (Cawelti, Rosenberg 1987, p. 217): ed è proprio questo a mancare nella serie di 007, dove non si avverte mai la vertigine di un climax legato al disvelamento dei ruoli. All’opposto, l’avversario viene individuato praticamente da subito, e di norma perfino avvicinato allo scoperto, con un primo incontro formalmente amichevole, che fa da preludio alla battaglia finale. In un normale schema narrativo, il protagonista farebbe una grande fatica a seguire le tracce dell’antagonista, ricostruirne le trame, immaginarne i progetti: ma James Bond no, lui l’avversario lo scopre già dalle prime scene, sa perfettamente dove abita, e non ha riserve ad andare a visitarlo, che sia in un castello o in una villa, in un palazzo di ghiaccio o su un’isola tropicale.
Non a caso, d’altronde, il lancio promozionale dei film di James Bond non ha mai fatto riferimento al genere dello spionaggio in sé, ma semmai agli altri film della stessa serie, nella costruzione di un macrotesto di insieme che molto deve, peraltro, allo sfruttamento commerciale del marchio 007. Facciamo un passo indietro, dal senso specifico della spystory allo sfondo generale del racconto di avventura; perché anche in questo caso, la serie di 007 sembra fare davvero storia a sé, rispetto alle definizioni correnti dei generi cinematografici. Prendiamo, per esempio, la lunga scena del poker in Casino Royale (2006). La premessa è che un potente trafficante d’armi, noto come Le Chiffre, ha organizzato una partita a poker in un lussuoso albergo del Montenegro; i servizi segreti di mezzo mondo lo localizzano e mandano sul posto i loro uomini migliori (e Bond, mandato sotto copertura, rivela intenzionalmente il suo vero nome alla reception dell’albergo). Cosa fanno, a questo punto? Anziché arrestarlo, si siedono al tavolo del poker con lui – per motivi mai del tutto chiariti, peraltro – e investono sulla partita, come se niente fosse, i fondi dei servizi di intelligence. Infine, ma solo dopo la partita, lo arrestano, esattamente per gli stessi motivi per cui avrebbero potuto farlo prima: perché è un mercante di armi, e non certo perché ha appena giocato a poker. Ora, che senso ha una tale, lunghissima digressione? Perché gli uomini della CIA e dell’MI6 dovrebbero perdere tempo a giocare a carte con un ricercato, quando hanno la possibilità di arrestarlo e chiudere lì la partita?
2. Un racconto narrativo, secondo la celebre distinzione di Seymour Chatman, è organizzato in base alla relazione gerarchica tra due componenti, definibili come nuclei e satelliti. I primi sono «momenti narrativi che danno luogo a punti cruciali nella direzione degli eventi», tanto da non poter «essere rimossi senza distruggere» il senso complessivo della
storia. I satelliti sono invece eventi secondari, che possono essere omessi senza «disturbare la logica della trama», perché «non comportano una scelta, ma solo quello che consegue alle scelte fatte nei nuclei». In conclusione, i satelliti hanno bisogno dei nuclei, ma non viceversa, perché tutti i fatti fondamentali – la decisione di Huck Finn di partire sul fiume, nell’esempio che Chatman trae da Mark Twain – accadono nello scheletro della storia, a cui gli eventi secondari fanno poi da corollario e da abbellimento estetico (Chatman 2003, pp. 52-53). E sia, nuclei e satelliti. E, tuttavia, già uno sguardo d’insieme ci dice che nel ciclo di 007 le cose funzionano davvero all’opposto e che il senso della storia è semmai tutto nei satelliti – le digressioni in cui non accade nulla di decisivo – e ben poco nei nuclei, risolti nel giro di pochi secondi, e spesso con soluzioni narrative un po’ pretestuose. A ben vedere, i film di 007 sono spesso costruiti proprio intorno a questo ribaltamento tra nuclei e satelliti, per cui i primi sono il pretesto per innescare la lunga messa in scena dei secondi, finché la narrazione si distende e cede il passo alla descrizione. È quello che Umberto Eco aveva già osservato nei romanzi di Ian Fleming, ragionando sulla propensione dell’autore a indugiare su estenuanti descrizioni dei dettagli – dalle automobili alle partite di golf – che sembrano non aggiungere nulla al destino della vicenda. Prendiamo il nemico forse più riuscito dell’intera serie, Auric Goldfinger: la sconfitta dell’antagonista – appunto un nucleo decisivo della vicenda – dipende da un incidente apparentemente insulso, un colpo di pistola accidentale che buca il finestrino di un aereo, da cui, ovviamente, verrà risucchiato soltanto Goldfinger stesso (Goldfinger, 1964). E, naturalmente, l’epilogo della vicenda non ha nulla a che vedere con l’Aston Martin che viene assegnata a Bond dall’MI6: eppure i gadget tecnologici di 007, che compaiono proprio nel terzo film della serie, iniziano a occupare una parte sproporzionata del tempo del racconto. Non a caso, la gran parte della produzione letteraria “sussidiaria”, dedicata all’universo immaginario di James Bond, sarà concentrata proprio sui dettagli e sui vizi
dell’agente segreto meno segreto che c’è: cibo e liquori, vestiti, automobili, e chi più ne ha più ne metta (Cawelti, Rosenberg 1987, p. 152). Diciamo la verità: c’è qualcuno che ricorda le trame narrative dei film di Bond, più di quanto abbia presente la sua passione per il gioco e la vodka? E dunque: i satelliti della storia si dilatano, fino a inghiottire quasi tutto lo spazio testuale, così che lo sfondo della narrazione occupa improvvisamente il centro della scena. Ancora la partita a poker in Montenegro, per esempio; o le immersioni subacquee alle Bahamas, le discese in sci sulle Alpi, il tavolo della roulette e la pesca d’altura, le vie dello shopping, alberghi di lusso e cibi pregiati, e naturalmente una lunga litania di vodka e Martini: tutti frammenti che non aggiungono nulla al destino della storia, ma che costituiscono l’immaginario stesso di James Bond. E questo, vale la pena ripeterlo, ha poco a che vedere con la narrazione in senso stretto: tali segmenti non aggiungono letteralmente nulla allo svolgersi delle vicende, ma semmai le punteggiano, le rallentano, e spesso le costringono a una torsione ironica o comica. In un plot convenzionale, per esempio, il passaggio da una città all’altra costituisce un salto fondamentale, perché cambia le carte in tavola, dispiega nuove geometrie romanzesche e sottopone il racconto al dominio di un cronotopo alternativo, di una diversa organizzazione dello spazio e del tempo, secondo la celebre definizione di Bachtin (Bachtin 1997, p. 231). Nel caso di James Bond, no: se si sposta in un nuovo territorio, è soltanto per consumare eventi che potevano accadere tranquillamente altrove, ma che tanto vale ambientare in un contesto spettacolare, come un ghiacciaio islandese (Die Another Day, 2002), il Golden Gate (A View to a Kill, 1985), Cortina sotto la neve (For Your Eyes Only, 1981), o l’immancabile Canal Grande. E si badi bene, non c’è nessuna necessità narrativa perché i grandi rivali si affrontino a Venezia, a Cortina d’Ampezzo, o su un ghiacciaio: sono lì, se mi si passa l’analogia, come le squadre finaliste della Coppa dei Campioni, che volano verso la stessa destinazione per incontrarsi in campo neutro.
Lo spostamento nello spazio è un fattore decisivo nell’economia del racconto, usiamo ripetere almeno a partire da Bachtin; in 007, il trasferimento da una città all’altra può essere invece il pretesto per far salire il protagonista sull’Orient Express, mandarlo nella carrozza ristorante a discutere di vini, e così via all’infinito, senza che nessuno si interroghi sul perché sia lì, sul treno, anziché accomodato su un più rapido volo di linea (From Russia with Love, 1963). Se ragioniamo in termini narratologici generali, la prevalenza dei satelliti sui nuclei ha conosciuto almeno due spiegazioni recenti. La più convincente, ma più generale, è quella avanzata da Franco Moretti in merito al grande romanzo europeo dell’Ottocento, in cui, per la prima volta, i mille dettagli delle descrizioni più banali iniziano a invadere la scena e a intralciare il tono propriamente romanzesco della vicenda. Secondo Moretti, la funzione dei satelliti – o “riempitivi”, come li definisce – è quella di mettere in forma l’organizzazione della vita borghese, ispirata alla ripetizione del prevedibile e alla serietà grave del quotidiano (Moretti 2001, pp. 688-725). Ma, naturalmente, l’abuso di satelliti narrativi nel ciclo di James Bond può avere molte funzioni, ma non certo quella di raccontare la prosa del quotidiano, perché tutt’altro che ordinari sono i dettagli che li riempiono, dal caviale iraniano al solito, improbabile, Dom Perignon del ‘56. La seconda spiegazione è invece quella proposta da Umberto Eco, e dedicata specificamente al ciclo letterario di James Bond. Secondo Eco, già nei romanzi di Fleming gran parte dello spazio testuale è dedicato ai segmenti narrativi più inutili e pretestuosi, mentre il racconto acquista improvvisamente velocità proprio in corrispondenza degli eventi decisivi.
3. L’analisi di Eco, in merito al caso di 007, insiste su due aspetti. In primo luogo, la sovrabbondanza dei satelliti serve a suggerire al lettore la natura esteticamente qualificata
dell’opera che ha per le mani, proprio perché la narrativa considerata alta è di norma ricca di descrizioni, laddove quella popolare tende ad asciugare la trama da troppi orpelli, e finisce per infilzare uno dopo l’altro una lunga sequenza di eventi decisivi, un po’ come accade ai b-movie nel cinema. In secondo luogo, un tale gioco di rallentamenti – un lungo indugiare su premesse non decisive, e una brusca accelerazione in corrispondenza di ogni nucleo narrativo – ha per Eco una funzione erotica, agendo come dispositivo di controllo e insieme di rilascio del piacere (Eco 1978). E va bene, se il ciclo di Bond ha avuto un tale successo mondiale, nel mercato del romanzo come in quello cinematografico, deve certamente innescare una qualche forma di piacere del testo; ma di quale piacere stiamo parlando? Dello spionaggio, al ciclo di 007 manca la ragione narrativa ultima; dell’avventura, la dipendenza gerarchica dei satelliti dai nuclei del racconto. E sarebbe difficile, allo stesso modo, avvicinare la serie di James Bond ad altri generi prossimi, come la fantapolitica, o il thriller a sfondo politico. Intendiamoci, le storie di 007 si dispiegano all’interno di una cornice geo-politica ben precisa, visto che il protagonista è pur sempre un agente dei servizi segreti britannici, così che non mancano riferimenti costanti alla storia del Novecento e alla relazione tra le grandi potenze. Il classico lavoro di Bennett e Woollacott, in questo senso, ricostruisce in modo puntuale l’evoluzione politica delle vicende di Bond, e il suo prestarsi di volta in volta al consolidamento delle egemonie più disparate, dal clima della guerra fredda al neo-imperialismo britannico – tra la crisi di Suez e la guerra delle Falkland – fino all’incorporazione dello sguardo dominante maschile nella rappresentazione delle protagoniste femminili (Bennett, Woollacott 1987, p. 282). Ora, una lettura ideologica dei prodotti dell’industria culturale è sempre utile, ma quanto alla politica – per così dire – con la maiuscola, mi sembra che il suo peso, nella serie di James Bond, sia tutto sommato relativo. In primo luogo, il ciclo cinematografico di 007 abbraccia i temi della fantapolitica solo in una seconda fase, e comunque dopo
Diamonds Are Forever (1971) che, a giudizio della critica, segna il distacco dei film di Bond dal solco lasciato dal ciclo letterario di Fleming (Black 2005, pp. 95-100). In secondo luogo, anche quando compare, la guerra fredda mi sembra essere appena uno sfondo di cartone su cui proiettare le vicende, tanto che gli avversari di 007 non sono i reali nemici diplomatici della Gran Bretagna, quanto ovviamente la Spectre, o, più recentemente, qualche isolato criminale, che peraltro può provenire da un fronte politico caldo, come la Corea del Nord (GoldenEye, 1995), così come dall’interno del mondo occidentale, a giudicare dalle ambizioni del tycoon Elliott Carver (Tomorrow Never Dies, 1997). Non a caso la guerra fredda, tra le pieghe delle imprese di James Bond, sarà molto spesso ridotta al rango narrativo dell’inserto umoristico: con l’Unione Sovietica che viene rappresentata dal solito generale un po’ tardo – che non se la prende troppo se una fondamentale missione va in fumo – e la stessa Margaret Thatcher che, cercando di contattare Bond, finisce per parlare al telefono con un pappagallo, come nell’ultima scena di Solo per i tuoi occhi (For Your Eyes Only, 1981), quando l’arruolamento di Roger Moore aveva già aperto la deriva grottesca della serie.
4. Né spionaggio, né avventura, né trama politica; e allora – visto il ruolo egemone del protagonista, e la sua aura di eroe – non si tratterà di un bizzarro caso di epica contemporanea? Siamo forse di fronte all’ennesima, sommersa riscrittura dell’epopea, in cui affiorano, al di sotto della superficie diegetica, gli archetipi e i valori narrativi più tenaci della nostra cultura? Insomma, James Bond è davvero un eroe, nel senso più pieno? Naturalmente, la risposta dipende in larga misura dalla definizione che si ha in mente. Nel senso più basico – e,
diciamo così, latamente proppiano del termine – l’agente 007 è naturalmente l’eroe eponimo della saga, e non sarebbe difficile leggere in controluce, nella serie di Bond, le funzioni fondamentali del racconto: il solito furto di testate nucleari come danneggiamento iniziale, Q a fare la parte del donatore con i suoi poco plausibili gadget, e ancora la partenza, il confronto decisivo con l’antagonista, e così via (Propp 1978, pp. 32-70). Tutto giusto, sembrerebbe; ma, come a volte accade alle analisi narratologiche, solo se restiamo a un livello di generalità molto ampio, e probabilmente troppo ampio per dire qualcosa di significativo sullo specifico del prodotto 007. Una seconda definizione di eroe si può derivare poi da Michail Bachtin, e dal suo saggio incompiuto sul romanzo di formazione. La maggior parte dei testi narrativi della tradizione occidentale, osserva Bachtin, è modellata sulla struttura del romanzo di prove, il cui protagonista viene sfidato nel tempo da una sequenza crescente di ostacoli. Una tale forma narrativa richiede però, per definizione, la presenza di un protagonista già definito e a tutto tondo, di un «eroe bell’e pronto e immutabile», il cui carattere non viene messo in discussione, né è soggetto a variazioni significative nel corso della storia (Bachtin 2000, p. 197), come accade, in effetti, alla personalità dell’agente 007. In questo senso, è stato perfino osservato, James Bond è una sorta di eroe dai toni fantasy, un soggetto a suo modo romantico come un cavaliere moderno, che non ha bisogno di altro che di essere equipaggiato, di volta in volta, con lo strumento adatto a vincere la sfida del momento, un po’ come capitava a Odisseo lungo il diametro del Mediterraneo (Bethke 2006, pp. 165 e 195). Ora, la ricerca di temi epico-mitici nel ciclo di 007 è di certo un esercizio divertente (e, in effetti, tutt’altro che inedito); ma anche in questo caso, a me pare che la spiegazione funzioni a un livello fin troppo generale, rifacendosi a schemi di organizzazione che sono presumibilmente alla base dell’intera arte occidentale del raccontare le storie. Un eroe, dunque: ma che tipo di eroe abbiamo davanti? Rude nei modi, dipendente dall’alcool – e occasionalmente dai farmaci (Skyfall, 2012) – oltre che dedito alla seduzione, e
piuttosto risoluto nell’uso della violenza. E fin qui, nessun problema: si tratta di attributi tipici del villain, e dal villain all’eroe, almeno all’interno di un certo cinema, il passo è davvero breve. E tuttavia, ci sono altri aspetti del personaggio che andrebbero presi in considerazione. In primo luogo, Bond lavora per una potenza imperiale – peraltro non delle più simpatiche, agli occhi dell’opinione pubblica internazionale – di cui sostiene le ambizioni di egemonia sul mondo, e tanto più apertamente nei film dell’ultimo trentennio, che in qualche modo – tra la rappresentazione caricaturale degli emissari sovietici e un certo rinforzo dell’orgoglio british del personaggio – devono avere risentito del clima culturale innescato dall’ascesa di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. In più, Bond è certamente un uomo d’azione, eppure, appena ne ha l’occasione, scappa e si sottrae al combattimento; uccide senza riserve uomini disarmati, picchia le donne, e se gli capita l’occasione, a dispetto del politically correct, arriva a sbeffeggiare un nano, come in The Man with the Golden Gun (1974). Un eroe che diffida di tutto, tranne che di se stesso e della propria efficacia, è stato osservato di Bond in un’analisi critica del maschilismo cinematografico (Mellen 1977, p. 230), e così è. Altro che Al servizio di sua maestà: 007 è un eroe che in testa ha una sola cosa, sopravvivere e pensare a se stesso, come nel titolo forse più bello dell’intera serie: Live and Let Die, Vivi e lascia morire (1973).
5. Perché dunque il ciclo di James Bond abbia tanto successo è, in termini narratologici, una questione difficile da spiegare, tra il maschilismo grossolano del protagonista, la volontà imperialista del servizio segreto britannico, e – diciamo la verità – la scarsa qualità di un racconto cinematografico che spesso, come è stato osservato a proposito di Moonraker (1979), non si può definire in altro modo che “risibile”. Da un lato, siamo di fronte senza dubbio a un prodotto tipico della
cultura pop, in questo senso efficace come pochi altri: ridondante fino all’esasperazione, aveva già osservato Eco a proposito della scrittura di Fleming, come deve accadere a un testo di successo, nell’epoca matura delle comunicazioni di massa (Eco 1978, p. 168); e, ancora, votato all’ibrido irrisolto tra mille diversi generi, dallo spionaggio al melodramma, dalla citazione comica al tono epico dell’avventura; capace di bilanciare la novità radicale del mondo tecnologico rappresentato con la tenuta delle strutture narrative di lungo corso, già messe alla prova, del romanzo popolare dell’Ottocento (Couégnas 2000, pp. 413-439). Un prodotto isomorfo al clima culturale dei media, in cui la storia dei personaggi e quella dei brand di consumo si intrecciano come mai prima era accaduto, fondendosi nel profilo di una celebrità unica e inestricabile (Nitins 2011, p. 12): più che film, diciamo la verità, una lunga serie di spot, infilzati dalla sceneggiatura e ricomposti in un racconto perfino un po’ pretestuoso. Sarà forse un caso che proprio il ciclo di Bond, prima e più di tanti altri, sarebbe diventato il regno del product placement?
Riferimenti bibliografici Altman, Rick, 2004, Film/Genere, Vita e Pensiero, Milano (1999). Bachtin, Michail, 1997, “Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo”, in Estetica e romanzo, Einaudi, Torino (193738). Bachtin, Michail, 2000, L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, Einaudi, Torino (1977). Bennett, Tony, Woollacott, Janet, 1987, Bond and Beyond: Political Career of a Popular Hero, McMillan, London.
Bethke, Bruce, 2006, “James Bond: Now More than Ever”, in Yeffeth, Glenn, Wilson, Leah, a cura di, James Bond in the 21st Century: Why We Still Need 007, BenBella Books, Dallas. Black, Jeremy, 2005, The Politics of James Bond: From Fleming’s Novels to the Big Screen, University of Nebraska Press, Lincoln. Cawelti, John G., Rosenberg, Bruce A., 1987, The Spy Story, University of Chicago Press, Chicago. Chatman, Seymour, 2003, Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film, Il Saggiatore, Milano (1978). Couégnas, Daniel, 2000, “Dalla ‘Bibliothèque bleue’ a James Bond: mutamento e continuità nell’industria narrativa”, in Il romanzo. Volume 2: Le forme, Einaudi, Torino. Eco, Umberto, 1978, Il Superuomo di massa, Bompiani, Milano. Mellen, Joan, 1977, Big Bad Wolves: Masculinity in the American Film, Pantheon, New York. Moretti, Franco, 2001, “Il secolo serio”, in Il Romanzo. Volume I: La cultura del romanzo, Einaudi, Torino. Nitins, Tanya, 2011, Selling James Bond: Product Placement in the James Bond Films, Cambridge Scholars, Newcastle upon Tyne. Patton, Brian, 2005, “Shoot Back in Anger: Bond and the ‘Angry Young Man’”, in Comentale, Edward P., Watt, Stephen, Willman, Skip, a cura di, Ian Fleming and James Bond: The Cultural Politics of 007, Indiana University Press, Bloomington. Propp, Vladimir J., 1978, Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino (1928). Rosenberg Bruce A., 1987, The Spy Story, Chicago, University of Chicago Press.
Ulisse è Bond PAOLO FABBRI
«I am become a name» ALFRED TENNYSON, Ulysses
1. Il dizionario della storia è ricco in semiofori, attrattori di senso. Uno di questi abita da mezzo secolo una nicchia dell’immaginario collettivo; si presenta con volti diversi e il ritornello dello stesso nome: «Bond, James Bond». Fin dalla prima apparizione, letteraria, televisiva e cinematografica, sollevò nuvole d’inchiostro e continua oggi a moltiplicare i doppi click. Tra ricorsività filmiche e fasti delle ricorrenze – il 5 ottobre 2012 è stato il Global James Bond Day – il caso mediatico di allora si è trasformato in un durevole Effetto Bond (nel senso scientifico del termine, prima che si attribuissero i Nobel). Nell’archeologia del presente, Bond ha ormai il suo logo riconosciuto e consacrato: la forma e la firma. È diventato un tipo psico-sociale e dimostra l’inattualità della tesi di Nietzche che il nostro tempo non avrebbe mitismo. Anche senza spendere la parola “mito”, come farebbe un barthesiano vintage, è sotto gli occhi di tutti che la fabulazione di 007 scorre inesausta sulle pagine e sugli schermi tra una nuvola di varianti, variazioni e varietà. Un feuilleton sincretico, tra il poliziesco e il romanzo “imperiale” inglese, una saga picaresca, la più durevole delle serie narrative in corso.
L’Effetto Bond suscita da sempre un’ermeneutica compulsiva e overdose interpretative. Che “c’era una svolta” dell’immaginario e fosse il caso di farne un caso, si accorse fin all’inizio degli anni Sessanta la sagacia di Umberto Eco, in un saggio memorabile che inaugurava le ricerche semiotiche di combinatoria narrativa (Eco 1976). Umberto, il memorioso, rilevava la struttura dei romanzi e dei racconti di Fleming; al di là del suo “romanticismo truculento, ma con stile”, ne isolava i valori in opposizione (Occidente vs. Comunismo etc.) e le loro 10 combinazioni; individuava poi i 3 personaggi (Bond, il Malvagio, la Donna) che realizzano in nove mosse successive le trasformazioni ideologiche e immaginarie. Liberata dalle impalcature sociologiche che impedivano l’accesso al testo, la saga Bond si riduceva a una tabella di situazioni ricorsive – viaggi, pasti, giochi, erotismo, torture – soggiacente alle variazioni di attori – “ruoli vicari ambigui” – e valori – l’ambiguità sessuale del Malvagio e i suoi mostruosi piani planetari – e, infine, alle loro mosse fondamentali e laterali. Nei decenni e nonostante il successo letterario internazionale, Fleming è diventato un eteronimo, meglio, uno pseudonimo del Bond cinematografico. Permangono l’ordito narrativo e la distribuzione dei ruoli, mentre cambiano nel tempo gli investimenti di contenuto, gli stili discorsivi e i generi: dall’avventura al noir. Come il coltello proverbiale a cui si è cambiato il manico e la lama, sembra che il racconto di 007 persista e resista alla sostituzione dei molti attori che hanno impersonato il suo eroe e ai mutamenti fisiognomici e caratteriali. Come una calamita, il plot delle avventure della spia inglese, a partire dal pre-testo fleminghiano, ha attratto una costellazione di motivi – kitsch e ready made – di ogni genere. In particolare attraverso autocitazioni e autoparodie che hanno fidelizzato il riconoscimento d’una audience globalizzata. Come l’indimenticabile Casino Royale (1967) con David Niven come James Bond e Woody Allen sia come Jimmy Bond, nipote di 007, sia come Dr. Noah, capo della SMERSH.
2. È anche il caso dell’ultimo episodio, Skyfall, forse il migliore della saga, che fa ben vedere come la commutazione delle sequenze testuali e paratestuali – sigle, refrain – mantiene la coerenza e la coesione e non equivale affatto a una perdita informativa. Nuove proprietà emergono alla condizione di non riconoscere un dio unico nascosto nei dettagli, ma un piccolo pantheon politeista di allusioni e autocitazioni. In rete, tra clichés e ironie, la caccia è già aperta tra gli addicts della spia che amano. Lo sa meglio di ogni altro il regista inglese Sam Mendez e il nuovo sceneggiatore John Logan che ha collaborato per Skyfall con l’équipe precedente – Neal Purvis, Robert Wade – e prepara da solo i prossimi episodi. Mendez, dal 2000 Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico per meriti artistici, ha colto l’opportunità delle Olimpiadi londinesi, la cui ripresa planetaria era dedicata alla storia inglese, con una citazione tongue in cheek alla Regina d’Inghilterra come bond girl, paracadutista con borsetta. In un diverso registro, l’appassionata difesa da parte di 007 dell’altero – materno e spietato – personaggio di M, preposta alla difesa della patria istituzione, l’MI6, è del tutto omologabile. Judi Dench, dopo sette film consecutivi, è per l’ultima volta comandante di Bond, il quale sconfiggerà il Malvagio, ma non saprà impedire la caduta della sua Maestà. Nessuna paura però: morta la regina, viva il re! È in pista Ralph Fiennes, alias Mallory, agente governativo e nuovo M. Sam Mendez, Oscar al suo primo film, possiede più del semplice mestiere: in altri tempi avrebbe firmato fecit et invenit, cioè Esecuzione e Invenzione. Già coinvolto nel film precedente, Quantum of solace, ne mantiene i ruoli, cambiandone il significato: è il caso di Q, l’armaiolo del Servizio Segreto, titolare di una panoplia di stravaganti e spesso comici gadget da combattimento, sostituito in Skyfall da un giovane nerd che crede più al computer che agli uomini e ha in dotazione soltanto pistole personalizzate e auricolari.
Rottamando i reperti del passato, sostituendo i personaggi e modificandone i rapporti e le relazioni con gli oggetti tecnici – come l’insistita distruzione dell’Aston Martin DB5 – il regista cerca la nuova informazione necessaria per ovviare all’esaurimento della combinatoria. Al di là della ridondanza purista e della parodia, si aprono nuovi vani in quello che Lévi-Strauss chiamerebbe mythe a tiroirs: un mito a cassettoni, come le Veneri di Salvador Dalì.
3. Tra queste differenze che si somigliano, una ci punge per il suo “senso ottuso”, nell’accezione cognitiva e patetica che Barthes dava a questo termine. Bond incontra il nuovo Q, assai più giovane di lui, alla National Gallery di Londra, davanti al quadro prediletto dal pubblico inglese, The Fighting Temeraire tugged to her last berth to be broken, di J. M. W. Turner (1839). I connoisseurs ricordano, in Moonraker, il gioco di freccette con cui Bond bersagliava il quadro della nave Victory alla battaglia di Trafalgar, appeso nell’ufficio di M. Il senso politico ed esistenziale di Skyfall è esplicito: in un estremo tramonto, la Temeraria trionfatrice di Trafalgar, dai bellissimi legni, è condotta alla rottamazione da un fumoso rimorchiatore. Segno ineludibile della crisi dell’impero inglese sui mari, nonché della mutazione tecnica – quella termodinamica e ora informatica – e della crisi fisica e morale di Bond. Scompare infatti il gentiluomo inglese, viaggiatore esperto e seduttore raffinato, più abile nello humor delle repliche che nel grossolano impiego delle armi. Gli succede un killer tenace e violento, ma meno individualista, più leale alla propria istituzione. Alla sprezzatura un po’ dandy dei primi 007 succede, in Skyfall, una perdita di capacità operative, una spossatezza e noia di vivere, una depressione e difficoltà di ruolo. Dopo l’apparente uccisione con cui si apre il film, Bond dichiara in più occasioni la sua conoscenza della paura e della morte.
Skyfall è un film noir, nel genere e nei contenuti, che concede poco alla parodia e manifesta una costante retrosia del suo eroe. Non a caso dopo i primi rovesci, Bond procede a passo di gambero: recupera la vecchia Aston Martin e va alla riscossa back to the past, come risponde a Sua Maestà M. che gli chiede: «Dove andiamo?». Con amara nostalgia, l’agente segreto internazionale ritrova, in un prequel, la dimora scozzese di famiglia e le tombe dei genitori e un adiuvante che sembra un Sean Connery invecchiato, la tattica dell’assedio, la battaglia frontale e il sopravvento all’arma bianca. Un cupo ritorno alla Temeraria Gran Bretagna, prima della rottamazione? A questo punto possiamo riformulare le domande semisecolari di Eco – è utile o futile l’interesse per Bond? è di destra o di sinistra? – e ritentare una risposta. Per il semiologo, il “manicheismo operativo” di Fleming, il suo antisovietismo, non era l’aspetto ideologicamente reazionario; questo risiedeva nei clichés letterari e nei luoghi comuni che “massaggiavano” la mentalità dei lettori. Skyfall introduce oggi una diversa dimensione al racconto del Servizio Segreto e delle spie; fin dal The 39 Steps di John Buchan (1915), un tema privilegiato, più dello stesso poliziesco, della cultura anglosassone. Come Len Deighton (The Ipcress File, 1962) e John Le Carré (A perfect spy, 1986), l’ultimo Bond è un esperimento mentale sulla metamorfosi della guerra; l’agente d’enunciazione del mutato ruolo tattico ed esistenziale dell’intelligence. Dai primi successi di Bond, alcuni muri sono crollati e altri sono stati edificati. È cambiata soprattutto la cultura bellica nel mondo balcanizzato della globalizzazione. Guerre (paradossalmente) umanitarie a zero (propri) morti, combattute con tecniche hard gestite da micidiali tecnologie soft. Guerre ibride e tridimensionali – estraterritoriali ed extra-atmosferiche – e soprattutto asimmetriche (Fabbri, Montanari 2012). La RAM, cioè la Rivoluzione negli Affari Militari ha preso atto della fine del confronto duale – la grand strategy della lunga guerra fredda –, della sparizione del nemico parallelo e del moltiplicarsi di avversari in condizioni di disparità,
impegnati imprevedibilmente in scontri a bassa intensità. Vincere non è più trovare il centro di gravità del nemico, ma scongiurare la sconfitta o convincere di aver vinto: ribaltare narrativamente, con i media o la storiografia, i risultati sul campo. Una condizione post-eroica i cui stili strategici accrescono il valore dell’HUMINT, i servizi di Human Intelligence. Cambiano i connotati della spia, che combatte il cyber-terrorismo con le armi dei segni e del segreto, della sorpresa e dell’inganno. Skyfall realizza con il linguaggio raffinato del noir questa guerra di ombre nell’ombra (Black 2005). Nel duello antiterroristico, fatto di durezza e sagacia, non è più d’attualità la lotta ottocentesca contro l’individuo (il Dr. NO di Goldfinger) o l’associazione (SPECTRE) che ricattano gli Stati per il controllo del mondo. L’avversario, di cui la spia deve spezzare i vincoli sociali provocandone il collasso morale e mentale, è interno e persino intimo (Bloom 1990). È il nodo centrale dell’intrigo di Skyfall, dove l’avversario è Raoul Silva (Javier Bardem), ex-membro dell’M16, un omologo di Bond, a eccezione della omosessualità (ma l’outing di John Logan, lo sceneggiatore del film, promette sorprese all’insistita eterossesualità di 007, ai sospiri postcoitali delle bond girls). Duplicando la duplicità, il terrorista Silva si serve delle divise dei difensori dell’ordine pubblico e compie, a Londra, uno spettacolare attentato alla metropolitana. Ma il suo ultimo scopo è l’ambivalente relazione con Her Majesty, M. (Dewerpe 1994, Boltansky 2012). È l’ultima acquisizione esistenziale dell’attore strategico: ogni intelligenza può diventare intelligenza con il nemico. Nel gioco mortale dei servizi, sistema immunitario degli Stati, prolifera l’anomalia delle risposte autoimmuni, dirette contro il proprio organismo. La globalizzazione impone l’immunodepressione, l’abbassamento delle difese davanti all’alterità da accogliere, ma al tempo stesso provoca infezioni ideologiche. L’ultimo film della saga Bond realizza una soluzione immaginaria a questo problema reale. Ritornare al passato, ritrovare un teatro delle operazioni e le sue armi, ricostruire lo scontro simmetrico grazie al vantaggio della difesa. La
sconfitta del nemico si pagherà però con il suo successo, la morte di M, che 007 non riesce ad impedire.
4. Morta la regina, ma viva il re! Bond è fermamente back to the present. «Lascia che il cielo cada, quando si sbriciola / Noi staremo proprio qui a testa alta / O lo affronteremo assieme», canta Adele nella colonna sonora del film. E soprattutto, nel momento più politico della storia, nel corso dell’inchiesta ministeriale sulla inefficienza dell’M16, M pronuncia alcuni versi vittoriani, talmente fuori contesto da focalizzare il loro intento simbolico. Versi tratti dall’Ulysses di A. Tennyson, rivolti ai marinai dell’eroe dantesco e che riaffermano, nella crisi e nella decadenza, la britannica ostinazione nel cercare un mondo diverso: «Anche se molto è stato già preso, molto ci aspetta; e anche se ora / Noi non siamo quella forza che nei vecchi giorni / Mosse terra e cielo, quel che noi siamo, siamo; / Un’eguale tempra di eroici cuori, / Logorati dal tempo e dal fato, ma forti nella volontà / Di battersi, di cercare, di trovare, e di non cedere». E ancora: «Venite, amici miei, / Non è troppo tardi per cercare un mondo più nuovo». Prestiamo orecchio e, volendo, diamo man forte. Intanto sventola l’Union Jack e Ulisse/Bond, riprende la navigazione: sono in corso due nuove avventure.
Riferimenti bibliografici Black, Jeremy, 2005, The Politics of James Bond: From Fleming’s Novels to the Big Screen, University of Nebraska Press, Lincoln NE.
Bloom, Clive, 1990, Spy Thrillers. From Buchan to Le Carré, Macmillan, London. Boltanski, Luc, 2012, Enigmes et complots, Gallimard, Paris. Dewerpe, Alain, 1994, Espion. Une anthropologie historique du secret d’Etat contemporain, Gallimard, Paris. Eco, Umberto, 1976, Il superuomo di massa, Bompiani, Milano. Fabbri, Paolo, Montanari, Federico, 2012, “Semio-guerra. Approfondimenti per una semiotica della strategia”, in Bozzo, Luciano, a cura di, Studi di strategia, Egea-Bocconi, Milano.
Il Signor Nessuno GIAN PIERO JACOBELLI
Se è vero che il buon giorno si vede dal mattino, anche per capire cosa James farà da Bond, anzi, prendendo spunto dal suo ormai proverbiale modo di presentarsi, cosa Bond farà da James Bond, conviene andare a chiederselo proprio sul nascere della multiforme saga bondiana. Cominciamo dunque dall’inizio, come non potrebbe fare altrimenti un discorso che, per cogliere le caratteristiche identitarie del suo protagonista, si propone di raccoglierne in una unica parabola narrativa l’inizio e la fine. Anche se si tratta di una fine non ancora finita, dal momento che i suoi molteplici autori, autorizzati o apocrifi, sembrano intenzionati a prolungarla, ripetendola quanto possibile. E anche se tra l’inizio e la fine si possono individuare altri inizi e altre fini, sia perché lo stesso Bond muore (o sembra morire) e rinasce più di una volta, sia perché, riprendendo una suggestione terminologica di Gérard Genette, si può morire e rinascere tanto nel racconto, il mondo degli eventi raccontati, quanto nella narrazione, il modo in cui gli eventi vengono raccontati (Genette 1976, pp. 208 e sgg.). Nel primo dei dodici romanzi attribuibili a Ian Fleming oltre a tre raccolte di “brevi” e “brevissimi” – ma dopo Fleming si sono già succeduti alla macchina da scrivere (“macchina” sia in senso strumentale, sia in quello di uno specifico dispositivo narrativo) almeno una decina di altri scrittori, più o meno noti e più o meno associabili, come sceneggiatori, alla successiva e perdurante vicenda cinematografica, che hanno per ora quasi triplicato il numero dei titoli autografi, oltre a quelli apocrifi – questo inizio prende il nome di Casino Royale (1953) e, nonostante la convenzionalità di entrambi i riferimenti valoriali del gioco (il casinò) e del potere (per di più reale),
possiede tutte le caratteristiche e il pathos di una creazione ex nihilo. Una creazione che, proprio in quanto non viene condizionata da nulla (fatto salvo, naturalmente, ciò che condiziona il suo creatore, nella persona del molto condizionato Fleming), deve necessariamente creare tutto insieme: se non in sette giorni, quanto meno in circa duecento pagine, quante ne conta la nuova riedizione adelphiana. Bond, infatti, nasce tutto insieme, come Ercole, già pronto a strozzare in culla i due serpenti che, avvolti l’uno con l’altro come nel caduceo ermetico, ne insidiano reciprocamente la per altro infrangibile sopravvivenza: quello dell’amore, che genera la vita, e quello dell’odio, che genera la morte. Come la saga di Ercole, che paradossalmente si eternizza con la morte, anche la saga di Bond assume i tratti di una sorta di testo sacro (non in quanto sacro ex origine, ma in quanto accede al sacro) che può venire analizzato con le stesse modalità esegetiche di altri testi sacri. In particolare, tenendo conto dei vari sensi che la tradizione esegetica, e in particolare Dante nel Convivio, attribuiscono ai testi sacri: il “senso letterale”, che nel caso di Bond si risolve nel cosiddetto “paradigma della spia”, come lo ha definito Carlo Ginzburg (Ginzburg 1986); il “senso allegorico” («una veritade ascosa sotto bella menzogna»), che nel caso di Bond fa riferimento alla insoddisfazione esistenziale dello stesso Fleming, il quale nelle vicende di 007, a cominciare dai nomi dei suoi protagonisti, ha celato molti dei suoi gusti e dei suoi disgusti; il “senso morale”, che assume i tratti grotteschi e spesso paranoici del Bene e del Male in un mondo che, per altro, tende progressivamente a confonderli; il “senso anagogico”, quello di un passaggio iniziatico sempre apparentemente intrapreso e sempre interrotto, per la invitabile ricorsività di una storia seriale, che comunque finisce per comunque ricominciare.
Un non comune personaggio comune
A causa del fatale connubio di amore e morte, se le mitologiche fatiche trasformarono l’umano, troppo umano Ercole in una divinità olimpica, anche quelle di Bond ne hanno fatto, se non proprio un dio, quanto meno un semidio, cioè qualcuno che, essendo cambiato una volta per tutte, non può più cambiare. Dopo il suicidio di Vesper, la infida eroina del suo primo romanzo, Bond imparò a non amare, perché il suo lavoro non l’avrebbe consentito, e a non odiare, perché anche l’odio costituisce un sentimento compromettente, che può turbare la freddezza necessaria per agire al meglio: per agire non come un uomo, ma come una macchina, tanto più “macchina” quanto più “da scrivere”. Nulla di nuovo sotto il sole scuro della letteratura di genere: dalla seconda metà dell’Ottocento, da Edgar Allan Poe e Mark Twain, le motivazioni della violenza sono andate intimamente associandosi con le motivazioni del sesso nella commistione tutta americana tra giallo, noir e spy story, in cui la donna gioca una parte inevitabilmente ambivalente. Anche in Casino Royale, se l’ordito è quello della difesa a tutti i costi e senza esclusioni di colpi dei valori e degli interessi nazionali, la trama è quella della donna fatale e dell’uomo coinvolto nella pendolare fatalità di amore e morte, che un grande critico letterario purtroppo quasi dimenticato, Leslie Fiedler, ritrovava nel romanzo americano (il romanzo della frontiera, nella cui “linea d’ombra” tutto si mescola e si contamina) come un gioco di inerenze esistenziali, per cui si muore per amare e si ama per morire. Non a caso, proprio a questo proposito, Fiedler citava per la prima e unica volta «i recenti trionfi di James Bond» (Fiedler 1966, p. 499), inscrivendoli all’insegna del wasp, l’anglosassone bianco, provinciale, ma convinto che tutto il mondo è paese: il suo. Perciò Bond è stato giustamente considerato, da altri critici più o meno letterari, «una forma di transizione tra il mistero da salotto e l’avventura nel vasto mondo» (Mandel 1990, p. 123). Quando, circa cinquant’anni fa, a ridosso della scomparsa del suo autore, si accinse ad analizzare la macchina narrativa bondiana, Umberto Eco notava come tutta l’opera di Fleming si potesse ridurre a una sola opera: a quel Casino Royale, appunto, che, nei propositi di Fleming, subito ovviamente
traditi per ragioni prettamente commerciali, avrebbe dovuto costituire, se non il primo, probabilmente il suo ultimo impegno letterario: «In Casino Royale vi sono già tutti gli elementi per costruire una macchina funzionante in base a unità assai semplici rette da rigorose regole di combinazione. Questa macchina, che funzionerà senza deviazioni di sorta nei romanzi seguenti, è alla base del successo della “saga 007”» (Eco 1965, p. 78). In quanto “macchina combinatoria”, l’opera di Fleming trova la sua originalità proprio nel fatto di non essere originale: «Fleming, candidandosi come riassunto vivente delle contraddizioni di una cultura di consumo ai suoi vari livelli, organizza trame elementari e violente, giocate su opposizioni fiabesche, con una tecnica da romanzo “di massa”» e «dosa la propria attenzione narrativa con un montaggio instabile, alternando il gran guignol al nouveau roman, con una tale spregiudicatezza di polimaterico da annoverarsi, bene o male, se non tra gli inventori, almeno tra i più abili utilizzatori di un armamentario sperimentale” (Id., p. 115). Persino nella scelta del nome da dare al suo protagonista, Fleming non inventa nulla, ma sfrutta una duplice assonanza, privata e pubblica: «Se il nome di Bond è stato scelto, come afferma Fleming, quasi a caso, per dare al personaggio un’apparenza assolutamente comune, sarà allora per caso, ma a buon diritto, che questo modello di stile e di successo evochi sia la raffinata Bond Street che i buoni del tesoro” (Id., p. 106). Non a caso, considerando questa sua origine molto “istituzionale”, Bond preferisce definirsi un “funzionario pubblico”, piuttosto che proporsi come un “eroe” e tanto meno come un “superuomo”. In effetti – per tornare alle prime reazioni critiche suscitate dall’interesse manifestato da Umberto Eco – se a Dino Buzzati Bond appariva un poco enfaticamente come «un nuovo Achille, un nuovo Sigfrido, un nuovo Nembo Kid», Guido Piovene rilevava che nelle avventure bondiane «il terrore si trasforma in riso, la serie delle morti ingegnose e atroci diventa gioco, il nostro incubo divertimento» (Lilli 1965, p. 250). Non sorprende, quindi, che, come osservava l’antropologo Romano Calisi, «dall’epopea di James Bond, e da siffatte
epopee, non scaturiscono modelli di comportamento fondamentali», poiché «il clima mitico, l’atmosfera di puro giuoco sono immediatamente evidenti» (Calisi 1965, p. 137), e che la stessa “patinatura” di Bond, come la definiva Oreste del Buono, suona spesso falsa quanto uno spot pubblicitario: «Ha fatto anche questo Fleming: per conferire un aspetto affascinante al suo investigatore funzionario-dilettante-privato, ha strappato da qualche smagliante o delicata tavola a colori uno di quegli incredibili, ritoccati, superficiali personaggi intenti a provare una camicia raffinata, a bere un liquore squisito, a godersi un paesaggio meraviglioso» (Del Buono 1965, p. 71). Alla stregua di ogni personaggio della pubblicità, più che confrontarsi con la realtà e con le sue dinamiche differenziali, talvolta in accordo e talvolta in contrasto, Bond sembra “incorporare” nei suoi atteggiamenti e nei suoi comportamenti quella stessa realtà, come quando negli annunci pubblicitari tutta la vita e le sue opzioni qualificanti dovrebbero dipendere dall’acquisto di questo o di quel detersivo, di un aperitivo rosso o giallo, di una maglietta con l’immagine di questo o di quell’animale totemico. Per cui lo stesso corpo bondiano (il corpo letterario, ma anche il corpo fisico) si trasforma in una sorta di composito Arcimboldo, che rappresenta qualcosa proprio perché non si risolve in ciò che rappresenta a guardarlo davvero bene. Non deve sorprendere, quindi, che Fleming, buongustaio a tempo perso, non perda occasione per inserire nell’andamento narrativo frequenti inventari gastroenologici, secondo uno stile caratterizzato da continui stop and go, da lunghe pause descrittive alternate a improvvise accelerazioni agogiche, il cui scopo non è solo quello di “allungare il brodo”, ma soprattutto quello di renderlo più speziato, di conferirgli un “sapore di lontananza” che acquista un valore programmatico, quasi un annuncio di ciò che verrà e che porterà Bond in giro per il mondo perché possa alla fine tornare immancabilmente a casa, pronto a ripartire. Se si vuole trovare un “metodo” in questa “follia” che confonde la pagina scritta con una tavola imbandita, se si vuole coniugare logicamente la testa con la pancia, si può pensare, infatti, a una sorta di psicologica “implicazione
causativa”, nel cui ambito la testa e la pancia diventano l’una l’innesco, il motore propulsivo dell’altra. Se il cane di Pavlov reagiva con l’acquolina in bocca ogni qualvolta percepiva il suono di un campanello che preannunciava il cibo, Bond reagisce al contrario, predisponendosi ad ascoltare il campanello (il richiamo all’azione) quando si trova a mangiare e a bere. Tanti campanelli, a dire il vero, perché il nostro agente segreto (che poi tanto segreto non è, in quanto si presenta sempre con nome e cognome e tutti, amici e nemici, sanno cosa devono aspettarsi da lui) si siede spesso a tavola a mangiare e soprattutto a bere: champagne millesimati, vini pregiati per lo più francesi, superalcolici di marca, oltre al suo celeberrimo Vesper Martini, “agitato e non mescolato” (Marelli, Ricci 2013, pp. 70 e 80-81), oggi purtroppo irriproducibile per la intervenuta indisponibilità di alcuni degli ingredienti (soprattutto il Kina Lillet che dovrebbe aggiungersi al Gordon’s Gin e alla vodka). Ma il Vesper Martini resta indispensabile in questa nostra ricognizione identitaria del più diffuso e duraturo tra i miti del nostro tempo, caratterizzato da un “montaggio” che è “instabile” proprio perché possa sempre ricadere su se stesso e sempre ricominciare da capo (Eco 1965, p. 115).
Fare la differenza ripetendosi Il segreto di Fleming consiste proprio nell’inserire un personaggio tutto d’un pezzo in un contesto narrativo che, invece, è composto di molti pezzi, variamente ricombinati in un’alternanza di sistoli e diastoli, di momenti di spegnimento e momenti di accensione, e che traduce le apparenti diversioni della carne (gastronomiche e/o sessuali, mutando solo gli orifizi del corpo) in agnizioni della risorgente tensione conflittuale. Per esempio, in Mai dire mai un Bond a dieta nella clinica Sharblands mette a frutto la sua valigetta piena di foie gras e caviale Beluga per adescare una delle giovani e graziose infermiere, alla quale estorcere preziose informazioni.
Anche in Una cascata di diamanti, recentemente ripubblicato da Adelphi, giocando sull’ignoranza enologica del finto cameriere, Bond riesce a smascherarlo: «Ma il Mouton Roths è un Bordeaux!». Nel film Dalla Russia con Amore Bond si insospettisce quando l’agente della Spectre, nel vagone ristorante, ordina del Chianti con una sogliola alla Meunière, osservando con la consueta ironia, al momento della resa dei conti: «Vino rosso con pesce: mi doveva per forza dire qualcosa!». E via dicendo, tra vini da meditazione e pesci senza più acqua in bocca! Probabilmente a conferire la sua sorprendente durata all’eroe di Fleming è proprio la sistematica ricombinazione fattoriale, che associa ingenuità e malizia, intransigenza e compromissione, forza e debolezza (Di Nocera 2006, p. 12). Perciò, per capire chi sia davvero Bond, sarebbe importante capire chi non sia, togliergli la maschera delle sue imperturbabili certezze, per riconoscere in lui l’uomo qualunque che sa e non sa, che dice e non dice, che vuole e non vuole. “Qualunque” (con tutte le implicazioni contestative che un “uomo qualunque” comporta in una epoca di “super”, “post”, “meta” umani) nel senso che sotto molti aspetti ci rassomiglia, che rappresenta un riflesso del nostro quotidiano, faticoso, esasperante e spesso deludente sopravvivere a noi stessi. Anche Bond, infatti, nello svolgere il suo farraginoso e improbabile mestiere di spia, appare sempre impegnato in un dispendioso ed estenuante riscatto di se stesso, che lo costringe ogni volta a risalire la china del proprio paradossale “dover essere” per “non essere” davvero: un poco come Sisifo che – scriveva Albert Camus – dovremmo pensare comunque felice. Queste caratteristiche contraddittorie di Bond compongono la fisionomia di un personaggio non tanto contraddittorio (si è visto come le contraddizioni rappresentino un mero espediente narrativo, assumendo i tratti alternanti di un prima e di un dopo) quanto ossimorico. Un personaggio che può essere insieme tutto e il contrario di tutto: freddo e distaccato dal mondo, ma anche intemperante e insaziabile almeno quanto avrebbe voluto esserlo il suo autore, che in Bond sembra «appagare tutti i suoi desideri»: «avere una pistola e una
licenza di uccidere, e soprattutto usarle; mangiare e bere quanto di meglio sia reperibile; umiliare un nemico al tavolo da gioco, e così via» (Codignola 2012, p. 219), dove con “così via” si allude evidentemente alle donne che, nell’immaginario collettivo, si associano “diabolicamente” al gioco. Come spesso avviene con i personaggi “epici” (quei personaggi che significano tanto per noi, ma tanto poco per loro stessi, in quanto sono come non potrebbero essere altrimenti) di cui per lo più si conoscono solo il nome e gli attributi – “James Bond” e “007”, la “licenza di uccidere”, quasi fosse un epiteto omerico – ci vorranno anni, e molte pagine scritte con maliziosa premeditazione, prima che Fleming decida, almeno apparentemente, di conferire a Bond una storia personale. “Apparentemente”, perché lo farà, con significativa ironia, nel formato di un prematuro necrologio, in Si vive solo due volte, l’ultimo romanzo dal titolo allusivo e quasi profetico, pubblicato nel 1963, un anno prima della morte dello stesso Fleming, a cui seguiranno postumi, a conforto dei produttori cinematografici, un altro romanzo, L’uomo dalla pistola d’oro e la raccolta di racconti Octopussy. Dopo tante “tragiche” esperienze di vita, l’esperienza della morte si risolve in quella comica finale che serviva a rappresentare la fine alludendo a un nuovo inizio (un altro romanzo o più tardi un altro film e via dicendo). In questo senso lo snobismo di Bond, secondo cui si può anche morire, purché si possa rivivere, motiva uno schema di vita ripetitivo, che si risolve in un paradossale “passaggio al limite”, nel cui ambito non emerge il prevedibile cambiamento di stato, ma un imprevedibile (almeno per chi abbia letto un solo romanzo di Fleming) ritorno allo stato originario. Per esempio, nonostante le sue innumerevoli e travolgenti avventure sentimentali, Bond non si sposa mai: anzi, si sposa una sola volta, in Al servizio segreto di Sua Maestà, con Tracy Di Vincenzo, che però viene uccisa nel viaggio di nozze. La interminabile variazione sul tema dell’incontro che può “fare la differenza” (l’incontro con l’amico, l’incontro con l’amante, l’incontro con il nemico), finisce così per portare fuori tema (il tema hegeliano del passaggio dall’“in sé” al “per
sé”, dall’altro “conosciuto” all’altro “riconosciuto”), ripristinando nella sua “infantile” sede alfabetica – da M (l’ammiraglio Miles Messervy) a Q (il maggiore Geofrey Boothroyd) – la oscena celebrazione di quel “doppio zero”, di quella “licenza di uccidere” per cui si può continuare a uccidere solo perché si è già ucciso. Questa ricorsività, come dimostra la stessa moltiplicazione dei riferimenti tra un romanzo e l’altro, trasforma l’intera opera di Fleming nella narrazione di una ricerca identitaria che non può concludersi perché, nel contesto della “modernità” in cui si muove Bond, l’identità consiste proprio nel non poterne avere alcuna. In effetti, quella di Bond, che cerca di cambiare il mondo per non cambiare se stesso, si configura come una sorta d’iniziazione abortita. Conferendo ai riti di passaggio tutta la loro portata individuale e collettiva, una iniziazione abortita non può che risolversi o nella violenza conservatrice (tipicamente bondiana) o nella violenza rivoluzionaria, che Fleming cerca di esorcizzare attribuendola ai “mostruosi” e quindi definitivamente emarginati nemici di Bond. Con il risultato di trasformare il mondo stesso in una sorta di “margine”, in cui «tutta la politica e tutti i valori della comunità adulta precipitano e vengono riassorbiti in questo limite ambiguo ed oscuro» (Susanetti 2014, p. 228). Ecco, ancora una volta, riemergere imprevedibilmente il paradosso epico, quello per cui ogni affermazione perentoria e intransigente di un modo di essere tradisce la incombente e incresciosa crisi di quello stesso modo di essere.
Tante maschere per un solo volto In effetti, anticipando quelle che saranno le nostre conclusioni, Bond non è semplicemente un personaggio, cioè una persona inventata, ma in particolare un personaggio epico, un personaggio che, a differenza dei “romanzi di formazione”
(Moretti 1999), nella sua parabola narrativa non cambia e che, proprio perché non cambia, può diventare un punto di riferimento per un pubblico che, invece, cambia così velocemente e “drammaticamente” da gradire e promuovere personaggi di riferimento che non cambino. Se tutto deve cambiare perché nulla cambi, anche per Bond, nonostante gli incalzanti processi di globalizzazione e di mediatizzazione, proprio perché tutto è cambiato, nulla cambia. Uscito dalle pagine di Fleming e diventato preda di sceneggiatori e registi più o meno accreditati, dopo qualche momento di perplessità – si dice che lo stesso Fleming, il quale già non amava troppo il “suo” Bond (Del Buono 1965, p. 68), abbia sdegnosamente abbandonato l’anteprima di Licenza di uccidere (1962), il suo primo romanzo passato sullo schermo – Bond trova nuove ragioni per sopravvivere “alla grande” (sopravvive, perché non vive davvero, ma “alla grande”, perché da allora le migliaia di lettori diventano i milioni di spettatori) in forza di un ulteriore escamotage semiotico che gli consente di non scendere a patti con la vita. Nelle produzioni letterarie, il trionfante protagonista di Fleming aveva potuto giovarsi dei volani narrativi consentiti dal filo rosso del prequel/midquel/sequel/threequel/interquel/sidequel, che gli conferiva una referenziale resilienza nei confronti dei molteplici scarti contestuali, geopolitici e socioeconomici. Nelle produzioni cinematografiche, invece, hanno giocato un ruolo fondamentale i regimi sussultori (tra l’appagamento e la saturazione del pubblico) che caratterizzano la remediation, l’incessante passaggio tra un medium e l’altro (Bolter, Grusin 2005). Nel mediatico rimescolamento delle carte, infatti, hanno progressivamente assunto un valore identitario pochi elementi ripetitivi e mediaticamente non condizionati: in particolare quel proverbiale modo di presentarsi: «Il mio nome è Bond, James Bond», in cui la ridondanza serve a passare più o meno inavvertitamente da una aleatorietà connotativa a una persistenza denotativa, sia quando cambiano i contesti, sia quando, anche più incisivamente, cambiano gli interpreti.
Nel primo caso, basta considerare come lo stesso Casino Royale nelle sue diverse rivisitazioni cinematografiche abbia “subito” prima una traduzione umoristica da pare di David Niven e Peter Sellers e poi, molto più recentemente, con Daniel Craig, una improbabile dislocazione montenegrina che si è resa necessaria, forse, per sostituire alle vecchie opposizioni ideologiche (amore/odio, lealtà/slealtà, occidente/oriente) le più complesse opposizioni del mondo “liquido”, artificiosamente perseguite nel contrasto tra la occasionale perifericità del luogo e la programmatica centralità del conflitto, di ogni conflitto, anche di quelli più periferici. Nel secondo caso, basta pensare a quante volte e quanto radicalmente sul grande schermo Bond abbia cambiato volto e personalità: dalla eleganza sorniona di Sean Connery allo humor fanciullesco di Roger Moore, dalla allusività accattivante di Pierce Brosnan alla determinazione malinconica di Daniel Craig, per citare solo i più famosi. Ma Bond resta Bond, perché, come scrive proprio Roger Moore, evidentemente il più “intellettuale” dei suoi interpreti, tutti i Bond cinematografici sono lo stesso Bond, anche se in pose differenti (Moore 2012, p. 22). Non a caso, il problema che si pose ai produttori cinematografici della saga bondiana, gli ormai celebri Harry Saltzman e Albert Broccoli, fu più un problema di abbondanza che un problema di scarsità, anche se non tutti hanno avuto successo e quelli che lo hanno avuto, hanno finito per rinunciare, sopraffatti dal personaggio che stava fagocitando l’interprete. Non è facile, infatti, elencare tutti gli oltre cinquanta volti di Bond, quelli che si sono imposti sullo schermo, ma anche quelli che sono rimasti dietro le quinte, pure presentando almeno alcune delle principali caratteristiche di quell’uomo qualunque, ma speciale. Dopo la “prolusione” di Barry Nelson, che venne impiegato in una produzione televisiva di Casino Royale (1953) quasi a ridosso del romanzo (1952), Saltzman e Broccoli pensarono a Cary Grant, inglese e già famoso, a Trevor Wallace Howard, anch’egli inglese, ma troppo serioso, al modello inglese Peter Anthony, che però non sapeva recitare, a David Niven (che, come si è detto, divenne poi interprete del primo, parodistico
Casino Royale), a Rex Harrison, a James Mason, tutti inglesi, ma tutti forse già troppo importanti, per giungere finalmente a Thomas Sean Connery, pressoché sconosciuto attore televisivo, che finì in gloria. Quando Connery, dopo il quinto film (ne girerà successivamente un sesto con gli stessi produttori) decise che poteva bastare, la ricerca ricominciò a tutto campo. Tra un centinaio di attori, vennero selezionati lo statunitense Robert Campbell, l’olandese Hans de Vries, John Richardson, Anthony Rogers, Jeremy Brett, per poi scegliere il modello australiano George Lazenby, che per la verità non fece una bella figura e venne subito “tagliato” per tornare a Connery, dopo avere contattato l’attore statunitense John Gavin, che preferì darsi alla politica, sulla scorta di Ronald Reagan e di una politica che si dava allo spettacolo. Nel secondo “dopo Connery” ricominciò il balletto delle candidature, ma emerse subito Roger Moore che era già stato preso in considerazione, essendo un amico personale di Broccoli e Saltzman, e che avrebbe conferito a Bond uno stile più disinvolto, quando non caricaturale. Dopo sette film (come Connery, che però restò per tutti il volto bondiano di riferimento) e mentre lo stesso Connery girava un altro film, Mai dire mai, con un produttore concorrente, Moore venne colpito dalla “sindrome di 007”, decidendo di passare il testimone a Timoty Dalton che, dopo un paio di film di scarso successo, venne a sua volta sostituito dall’attore irlandese Pierce Brosnan, preferito ad altri attori di maggiore calibro, come Mel Gibson, Liam Neeson e il londinese Hugh Grant. Brosnan resse per quattro film associando la passione tutta cinematografica per gli sport estremi con una caratteristica nonchalance che ne ha fatto il più elegante e consapevole (anche nell’impiego occasionale della sprezzatura) dei Bond anglosassoni. Si parlò poi, in maniera del tutto interlocutoria, dei già abbastanza noti Hugh Jackman, Jude Law, Clive Owen e Gerard Butler, sino al quasi sconosciuto Daniel Craig e alla sua recentissima trilogia, con cui si consolida una sorprendente preferenza per gli attori del Vecchio Continente (Paracchini 2012, pp. 24 e sgg.).
Ma la saga dei volti non sembra ancora conclusa: si parla di una Bond femminile e persino di un intero gruppo di agenti raccolti sotto l’egida dello 007. Ma soprattutto, e più concretamente, si parla di un Bond nero, nonostante nel secondo romanzo, Vivi e lascia morire (1953), al nero Mister Big fosse stato attribuito da Fleming il ruolo di nemico giurato di Bond. Già Eco, per altro, ipotizzava un Bond nero che trova riscontro nella suggestiva candidatura di Denzel Washington o in quella dell’attore inglese Idris Elba, per quanto già nel 2012 Barbara Broccoli, la produttrice di 007, avesse dichiarato la sua intenzione di tenersi Craig «per altri due film». In effetti, il colore nero della pelle potrebbe venire percepito non come una marca connotativa, ma come una marca denotativa (alla stregua delle “quote rosa” in politica). Come un implicito, ancorché pregiudiziale fattore di eccellenza, sulla falsariga delle motivazioni che Eco attribuiva allo stesso Fleming nello scegliere per Bond un nemico nero: «Il gangsterismo negro rappresenterebbe una comprova della perfezione raggiunta in ogni campo dai popoli di colore». Anche il nero, pertanto, potrebbe diventare bello per un pubblico assuefatto al bianco, in ragione di quella “ideologia manichea” che, sempre secondo Eco, caratterizza nel bene e nel male Fleming e la sua opera, consentendogli anche imprevedibili inversioni di rotta.
Agitato, non mescolato Come un sedicente “prodotto di lusso” – un prodotto di cui ci si può facilmente appropriare, ma di cui non si può fare a meno, un prodotto che subisce tutte le volgari mediazioni quotidiane, ma che al tempo stesso assurge alle gloriose rimediazioni simboliche – Bond resta sempre lo stesso perché non è mai veramente se stesso e quindi può ogni volta esserlo “a maggior ragione”: la ragione, sostanzialmente ambigua, ma perciò intrigante e coinvolgente, di un esser-ci (nel qui e
nell’ora) senza però restare soggetto ai vincoli mortificanti del tempo e dello spazio. «Tutti hanno bisogno di un hobby», mormora in Skyfall un Bond/Craig legato a una sedia e atrocemente torturato. «E qual è il suo?» gli domanda l’aguzzino. «La resurrezione», risponde seccamente 007. Battuta programmatica, seconda soltanto alla ormai proverbiale inclinazione per i beveraggi «agitati, non mescolati». Tutte battute che definiscono Bond come una identità in movimento che si “ripete”, “passando” metaforicamente dalla morte alla vita e dalla vita alla morte, mentre si “agita” tra i tanti altri con cui il destino lo costringe a confrontarsi, senza però volersi, ma anche potersi “mescolare” con nessuno, perché Bond stesso è un Signor Nessuno. Lo aveva intuito, cinquant’anni fa, anche Romano Calisi, contribuendo con del Buono ed Eco a Il caso Bond: «Il personaggio di James Bond non esiste “storicamente”. Staremmo per dire che non esiste neppure come personaggio “narrativo”: laddove è evidentemente ridotto a pura funzione di tramite tra diversi (ed eccitanti) momenti di un giuoco ampio e suggestivo. Non esiste Bond, non esiste realmente il suo antagonista, non esistono i personaggi di contorno. Solo esiste un susseguirsi a ritmo incalzante di situazioni-tipo, che si ripetono periodicamente, come sempre nell’immaginario popolare» (Calisi 1965, pp. 134-135). Come Odisseo/Ulisse, lo stesso Bond decennio dopo decennio, da Connery a Craig, a domanda risponde: “Nessuno”, nel senso in cui Theodor W. Adorno e Max Horkheimer definirono l’ambiguità del nome nella civiltà borghese, quella civiltà che «soddisfa alla norma giuridica in modo che essa perda il suo potere […] nell’atto stesso in cui glielo riconosce» (Horkheimer, Adorno 1966, p. 68). Nelle sue peripezie, scrivono i due animatori della Scuola di Francoforte, Odisseo/Ulisse aveva appreso che la stessa parola può significare cose diverse: «Poiché il nome Udeis può coprire altrettanto bene l’eroe e nessuno, egli può spezzare l’incantesimo del nome» (Id., p. 69). Aggiungendo una considerazione che ci sembra calzante anche per il nostro “qualcuno/nessuno”, inteso come l’interprete di una identità incapace di restare presso di sé, ma al tempo stesso incapace di
andare altrove, se non nella illusoria fantasmagoria delle agenzie di viaggio: «Odisseo scopre, nelle parole, ciò che nella società borghese sviluppata si dirà formalismo: la loro validità permanente è pagata con il loro distacco dal contenuto che di volta in volta le riempie, onde possano riferirsi – in questo distacco – a nessuno o allo stesso Odisseo» (Ibidem). A nessuno, o allo stesso Bond. Da questo punto di vista, è davvero il caso di dirlo, il ciclope Polifemo con l’unico enorme occhio, come notano gli stessi autori, evoca lo sguardo “barbarico” del pubblico, il quale nel buio della sala cinematografica e nella progressiva megalomania degli schermi televisivi smarrisce «identificazione, profondità e oggettività» (Id., p. 73). Dal “qualcuno” di Fleming al “nessuno” di Adorno (atteso che il capitolo su Odisseo/Ulisse va sostanzialmente a lui attribuito) Bond ha inanellato un intero repertorio di metamorfosi, in cui il suo “segno” (continuamente oscillante tra la ricerca di sé e l’affermazione di sé) ha potuto sovradeterminarsi sia in senso mediatico, dai romanzi ai film, sia in senso semiotico, dalla dimensione attoriale a quella attanziale, in cui l’attante emerge dalle sue implementazioni attoriali come un’anamorfosi in prospettiva. Per concludere (se di conclusione si può parlare dal momento che The Show Must Go On) il proprio percorso metalinguistico nella clamorosa autoreferenzialità delle recenti celebrazioni anniversarie: da una splendida mostra londinese in occasione del suo cinquantenario cinematografico, nel 2012, a un merchandising tanto copioso, quanto sorprendentemente diversificato: gadget, vini, abiti e accessori. Il personaggio cinematografico, nelle sue diverse interpretazioni attoriali, si è andato progressivamente trasformando in un feticcio, come avviene per ogni segno che, rimediandosi, assume un valore fuori contesto, diventando credibile proprio per la sua sempre più radicale incredibilità, nel senso correlato di una decrescente referenzialità e di una crescente autoreferenzialità. Novello Odisseo/Ulisse, Bond piace e attrae proprio perché, in ogni sua discesa in campo, compie una implicita
rivoluzione, che tuttavia sembra coinvolgere soltanto lui stesso. Anche nelle versioni cinematografiche della saga bondiana si evidenzia la passione tutta contemporanea per la mediazione, purché eccessiva: come i giovani si scambiano messaggi digitali restando a portata di voce, così tra le luci e le ombre dello schermo gli spettatori credono di percepire davvero il canto delle sirene nella tormentosa, ma controllata passione cinematografica di Odisseo/Ulisse. Per interposto personaggio, appunto, godendo del fatto di poterlo al tempo stesso riconoscere (riconoscersi simile a lui) e disconoscere (riconoscersi diverso da lui). In questo senso, la saga bondiana configura una sorta di débrayage iniziatico, non più basato su un passaggio “orizzontale”, da come si era a come si sarà, ma basato su un passaggio “verticale”, da come si era in particolare a come si sarà in generale: una sorta di Tour du Monde, per adottare una metafora ciclistica, la cui classifica, e quindi la ricognizione identitaria del protagonista, non può che risultare dall’insieme delle sue classifiche di tappa. Un modo per cogliere il divenire, quanto meno nelle sue articolazioni narrative, letterarie e cinematografiche, non come passaggio da un modo di essere a un altro modo di essere, ma come passaggio da un “esistere” a un “essere” e viceversa. La fabula identitaria bondiana consiste appunto in questo interminabile e ineludibile “viceversa”, che etimologicamente allude a una doppia negazione, a una “volta” che “svolta”, come meglio non si potrebbe definire quella che del Buono ed Eco definivano, per subito ovviamente smentirla, «la verità sul caso Bond».
Riferimenti bibliografici Bolter, Jay David, Grusin, Richard, 2005, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Guerini
e Associati, Milano. Calisi, Romano, “Mito e destorificazione nell’epopea di James Bond”, in del Buono, Oreste, Eco, Umberto, Il caso Bond, Bompiani, Milano. Codignola, Matteo, 2012, 15.1.52, in Fleming, Ian, Casino Royale, Adelphi, Milano (1953). Del Buono, Oreste, 1965, “Da Vidocq a Bond”, in del Buono, Oreste, Eco, Umberto, Il caso Bond, Bompiani, Milano. Di Nocera, Alessandro, 2006, Supereroi e superpoteri. Miti fantastici e immaginario americano dalla guerra fredda al nuovo disordine mondiale, Castelvecchi, Roma. Eco, Umberto, 1965, “Le strutture narrative in Fleming”, in del Buono, Oreste, Eco, Umberto, Il caso Bond, Bompiani, Milano. Fiedler, Leslie A., 1966, Love and Death in the American Novel, Stein and Day, New York. Genette, Gérard, 1976, Figure III. Discorso del racconto, Einaudi, Torino (1972). Ginzburg, Carlo, 1986, “Spie. Radici di un paradigma indiziario”, in Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Einaudi, Torino. Horkheimer, Max, Adorno, Theodor W., 1966, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino (1947). Lilli, Laura, 1965, “James Bond e la critica”, in del Buono, Oreste, Eco, Umberto, Il caso Bond, Bompiani, Milano. Mandel, Ernest, 1990, Delitti per diletto. Storia sociale del romanzo poliziesco, Interno Giallo, Milano (1989). Marelli, Monica, Ricci, Emiliano, 2013, La fisica di 007. I segreti della scienza al servizio di Sua Maestà, Scienza Express, Trieste. Moore, Roger, Owen, Gareth, 2012, Bond on Bond. The Ultimate Book on 50 Years of Bond Movies, Lyons Press, Guilford, Connecticut.
Moretti, Franco, 1999, Il romanzo di formazione, Einaudi, Torino. Paracchini, Marco, 2012, James Bond 1962-2012. Cinquant’anni di un fenomeno cinematografico, Phasar Edizioni, Firenze. Susanetti, Davide, 2014, Atene post-occidentale. Spettri antichi per la democrazia contemporanea, Carocci, Roma.
Gli autori
Alberto Abruzzese Ha insegnato Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi presso l’Università IULM di Milano, dove è stato Preside della Facoltà di Turismo, Culture e Territorio e pro-Rettore per le Relazioni Internazionali e l’Innovazione Tecnologica. È stato per lungo tempo professore di Sociologia della Comunicazione presso la Sapienza Università di Roma e presso l’Università Federico II di Napoli. Tra i suoi campi di ricerca: comunicazione di massa, cinema, televisione e nuovi media, con un interesse particolare verso i cambiamenti sociali collegati all’uso diffuso dei media. Tra le sue pubblicazioni: Forme estetiche e società di massa (Marsilio 1973), La Grande Scimmia Mostri, vampiri, automi, mutanti. L’immaginario collettivo dalla letteratura al cinema e all’informazione (Sossella 2008), Lo splendore della TV. Origini e destino del linguaggio audiovisivo (Costa & Nolan 1995), Lessico della Comunicazione (Meltemi 2003), L’occhio di Joker (Carocci 2006), Il crepuscolo dei barbari (Bevivino 2011), La bellezza per te e per me. Saggi contro l’estetica (Liguori 2012).
Nello Barile Insegna Sociologia dei processi culturali presso l’Università IULM di Milano e Intercultural communication presso la
Franklin University di Lugano. È stato Direttore editoriale della rivista scientifica “C:Cube. Cultura. Comunicazione. Consumo”. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi in Italia e all’estero sui digital media, sul sistema dei brand e sulla moda. Tra le sue pubblicazioni italiane: Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della moda (Meltemi 2005), La mentalità neototalitaria (Apogeo 2008), Brand New World (Lupetti 2009), Sistema moda. Oggetti, strategie e simboli: dall’iperlussso alla società low cost (EGEA 2011), IperParmenide. Scienza, cultura e comunicazione al di là del postmoderno (Mimesis 2013), Brand Renzi. Anatomia del politico come marca (EGEA 2014).
Paolo Fabbri Insegna Semiotica presso la scuola di giornalismo e il master of arts della LUISS di Roma. È direttore del Centro Internazionale di Scienze Semiotiche (CiSS) dell’Università di Urbino e Presidente del Laboratorio Internazionale di Semiotica a Venezia (LISAV), Università Ca’ Foscari, Venezia. È stato Presidente del corso di laurea DAMS dell’Università di Bologna. Ha insegnato nelle università di Firenze, Urbino, Bologna, Palermo, Roma Due, Venezia, IULM Milano. Ha insegnato anche a Parigi (EHESS, Paris 5, Paris 4, Collège International de Philosophie), negli Stati Uniti (University of California, San Diego; University of California, Los Angeles), Canada (University of Toronto) e in Australia, Spagna, Brasile, Argentina, Messico, Lituania, Colombia, Perù. Ha diretto dal 1992 al 1996 l’Istituto Italiano di Cultura a Parigi. Tra le sue pubblicazioni: La Svolta Semiotica (Laterza 1998), Elogio di Babele (Meltemi 2000), Segni del tempo (Meltemi 2004).
Gian Piero Jacobelli Giornalista professionista, è Direttore responsabile di “MIT Technology Review Italia”. Ha curato importanti riviste dedicate ai rapporti tra scienza, tecnologia e cultura, come “Futuribili” e “Civiltà delle Macchine”, realizzando numerose pubblicazioni sulla storia dell’impresa e grandi mostre in Italia e all’estero. Ha insegnato Filosofia ed Etica della Comunicazione, Sociologia dei processi culturali, Semiotica della Moda e della Marca, Comunicazione del Turismo, Studi sul Pubblico presso Sapienza Università di Roma, LUISS, Università di Roma Tor Vergata, Università di Roma Tre, IULM. Oltre a saggi sulla comunicazione e la storia delle idee, ha pubblicato: Scomunicare. Il quarto escluso della comunicazione alienante (Meltemi 2003), Le mosse del cavallo. Tra segni del passaggio e passaggi del segno (Rubbettino 2008), La corna. Antroposemiotica della “mano cornuta” (Bevivino 2010), Babele o della traduzione (FrancoAngeli 2010), Il posto improprio. Turismo e comunicazione (FrancoAngeli 2011), Adorno & Benjamin. Un quasi giallo filosofico (Sossella 2015).
Gian Franco Lepore Dubois Giornalista professionista, ha iniziato come giornalista nella redazione economica dell’ANSA per poi diventare vicedirettore dell’agenzia economico-finanziaria Radiocor. È stato quindi responsabile della comunicazione dell’EFIM, direttore della divisione fibre della SIV (Società italiana Vetro), presidente della Società Veneziana Conterie. Ha diretto
a lungo la comunicazione delle Ferrovie dello Stato ed è stato in anni recenti responsabile della Comunicazione integrata di ACI Automobile Club d’Italia. Appassionato di automobili, ha seguito giornalisticamente l’evoluzione dell’industria del settore e le trasformazioni del prodotto in relazione ai cambiamenti economici e culturali della società, scrivendo articoli e saggi sul mito dell’automobile, interessandosi in particolare delle performance automobilistiche nella cinematografia europea e americana.
Valerio Magrelli Insegna Lingua e letteratura francese all’Università di Cassino. È autore di molte traduzioni di autori francesi come Mallarmé, Valéry, Jarry, Char, Ponge. Ha esordito con una raccolta di poesie intitolata Ora serrata retinae (Feltrinelli 1980). Sono seguite altre raccolte poetiche e opere narrative: Nature e venature (Mondadori 1987), Esercizi di tiptologia (Mondadori 1992), Didascalie per la lettura di un giornale (Einaudi 1999), Nel condominio di carne (Einaudi 2003), Disturbi del sistema binario (Einaudi 2006), La vicevita. Treni e viaggi in treno (Laterza 2009), Addio al calcio. Novanta racconti da un minuto (Einaudi 2010), Geologia di un padre (Einaudi, 2013), Il sangue amaro (Einaudi, 2014). Ha ricevuto molti premi letterari, fra cui il Premio Viareggio per la poesia, il Premio Brancati, il Premio Librex Montale. Nel novembre 2003 l’Accademia Nazionale dei Lincei gli ha conferito il Premio Antonio Feltrinelli.
Andrea Miconi
Insegna Introduzione ai Media e Sociologia dei Processi Culturali presso l’Università IULM. Ha insegnato Teoria delle Comunicazioni di Massa presso l’Università di Padova e The Network Society presso l’Università della Svizzera Italiana di Lugano. È stato visiting lecturer presso la Scuola di Arte e Comunicazione dell’Università USP di Sao Paulo. Dirige, con Alberto Abruzzese e Domenico Fiormonte, la collana “Scenari della Comunicazione” per l’editore Armando ed è membro della redazione della rivista “Problemi dell’Informazione”. Tra le sue pubblicazioni: Una scienza normale. Proposte di metodo per la ricerca sui media (Meltemi 2005), Reti. Origine e struttura della network society (Laterza 2011), Teorie e pratiche del web (Il Mulino 2013).
Massimo Negrotti Ha insegnato Metodologia delle scienze umane all’Università di Parma e, come professore ordinario, a Genova e a Urbino. Si è occupato di cibernetica e intelligenza artificiale in rapporto all’evoluzione culturale. Dagli anni Novanta ha introdotto la “teoria dei naturoidi”, che propone una visione generale dei tentativi di riprodurre oggetti e processi naturali attraverso la tecnologia. Fra le sue pubblicazioni: Cibernetica dei sistemi sociali: stabilità e mutamento, FrancoAngeli, 1984, Artificiale: la riproduzione della natura e le sue leggi (Laterza 2000), “Towards a Theory of the Artificial”, in Cybernetics and Human Knowing (Odense-Kopenhagen 1993), Naturoids: from a dream to a paradox, in “Futures” (Londra 2010), The Reality of the Artificial. Nature, Technology and Naturoids (Springer 2012), The Turing Test and the Technology of the Artificial, in “Epistemologia” (2013), “Artificiality”, in Ethics,
Science, Technology, and Engineering: A Global Resource, J. Britt Holbrook e Carl Mitcham, eds. (Macmillan Reference 2014).
Giovanni Scipioni Laureato in filosofia, ha scritto e scrive di storia del costume e della cultura, oltre a occuparsi attivamente di cinema. Giornalista professionista, è stato caposervizio delle pagine di economia di “La Repubblica”. Nel 2001 è diventato direttore di “I Viaggi di Repubblica”, redigendo settimanalmente brevi editoriali sul viaggio come cultura e come mercato. Attualmente collabora sugli stessi argomenti con il settimanale “L’Espresso”. Tra le sue pubblicazioni, Il Signor Pensiero (Marietti, 1989). Ha anche realizzato alcuni cortometraggi, tra cui Tran Tram (1994) e Lallarallà (1998).
Il caffè dei filosofi Collana diretta da Claudio Bonvecchio, Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio
1. Claudio Bonvecchio (a cura di), La filosofia del Signore degli Anelli 2. Claudio Bonvecchio, I viaggi dei filosofi. Percorsi iniziatici del sapere tra spazio e tempo 3. Sandro Nannini, La nottola di Minerva. Storie e dialoghi fantastici sulla filosofia della mente 4. Eleonora De Conciliis, Pensami, stupido! 5. Maurizio Elettrico, L’Infante Demiurgo. Manifesto estetico dell’artificiale biologico 6. Roberto Manzocco, Twin Peaks, David Lynch e la filosofia 7. Giulio M. Facchetti, Erika Notti (a cura di), Atlantide. Luogo geografico, luogo dello spirito 8. Roberto Manzocco, Pensare Lost. L’enigma della vita e i segreti dell’isola 9. Marcello Ghilardi, Filosofia nei manga. Estetica e immaginario nel Giappone contemporaneo 10. Claudio Bonvecchio, L’eclissi della sovranità 11. Claudio Bonvecchio, La magia e il sacro 12. Frances A. Yates, L’illuminismo dei Rosa Croce 13. Carmelo Muscato, L’enigma della scelta. Un approccio cognitivo e filosofico-politico 14. Fabio Chiusi, Nessun segreto. Guida minima a WikiLeaks, l’organizzazione che ha cambiato per sempre il rapporto tra internet, informazione e potere 15. Emma Palese, Da Icaro a Iron Man. Il Corpo nell’era del Post-Umano 16. Carlo Magnani, Filosofia del tennis. Profilo ideologico del tennis moderno
17. Marco Teti, Generazione Goldrake. L’animazione giapponese e le culture giovanili degli anni Ottanta 18. Achim Seiffarth, Meditazioni sullo shopping 19. Laura Anna Macor, Filosofando con harry potter. Corpo a corpo con la morte 20. Roberto Manzocco, Dylan Dog. Esistenza, orrore, filosofia 21. Claudio Bonvecchio (a cura di), La filosofia di Indiana Jones 22. Vittorio Mathieu, Sciagure parallele. Risorgimento italiano e rivoluzione francese 23. Marcello Barison (a cura di), Borges. Labirinti immaginari 24. Salvatore Patriarca, Il mistero di Maria. La filosofia, la De Filippi e la televisione 25. Alessandro Alfieri-Paolo Talanca, Vasco, il male. Il trionfo della logica dell’identico 26. Otto Weininger, Sesso e carattere, Introduzione di Franco Rella 27. Iris Gavazzi, Il vampiresco. Percorsi nel brutto 28. Claudio Bonvecchio (a cura di), Il mito dell’Università 29. Arnaldo Colasanti, Febbrili transiti. Frammenti di etica 30. Jorge Luis Borges, Cartografia di un destino. Interviste, a cura di Tommaso Menegazzi 31. Antoine Buéno, Il libro nero dei puffi. La società dei puffi tra stalinismo e nazismo 32. Nicoletta Cusano, Essenza e fondamento dell’amore 33. Paolo Bellini, L’immaginario politico del salvatore 34. Alessandro Grilli, Storie di Venere e Adone. Bellezza, genere, desiderio 35. Santiago Ramón y Cajal, Psicologia del Don Quijote e il quijotismo 36. Pierpaolo Antonello, Dimenticare Pasolini. Intellettuali e impegno nell’Italia contemporanea 37. Enrico Cantino, Da Goldrake a Supercar Gattiger. Dal semplice al complesso: tipologie di robottoni dell’animazione giapponese 38. Enrico Cantino, Da Kenshiro a Sasuke. Gli anime guerrieri e il codice d’onore degli antichi samurai
39. Davide Pessach, Semiotica del calcio in TV. I segni dello sport nello spettacolo postmoderno 40. Claudio Bonvecchio, Gian Luigi Cecchini, Marco Grusovin, Simone Paliaga, Adriano Segatori, Mitteleuropa ed Euroregione, Un destino, una vocazione, un carattere 41. Pietro Piro, Francisco Franco. Appunti per una fenomenologia della potenza xe del potere 42. Carmine Castoro, Filosofia dell’osceno televisivo. Pratiche dell’odio contro la tv del Nulla 43. Roberto Masiero (a cura di), Pensare l’Europa 44. Angelo Villa, Pink Freud. Psicoanalisi della canzone d’autore da Bob Dylan a Van De Sfroos 45. Donato Ferdori, Stefano Marino (a cura di), Filosofia e popular music 46. Lucrezia Ercoli, Filosofia della crudeltà. Etica ed estetica di un enigma 47. Salvatore Ferlita, Non per viltade. Papi sull’orlo di una crisi 48. Paolo Ercolani, Qualcuno era italiano. Dal disastro politico all’utopia della rete 49. Flavio Ermini, Essere il nemico. Discorso sulla via estetica alla liberazione 50. Federico Nicolaci, Tempio vuoto. Crisi e disintegrazione dell’Europa 51. Antonio Guerrieri, Apple come esperienza religiosa 52. Erik Peterson, Il mistero degli ebrei e dei gentili nella Chiesa 53. Richard Greene e Peter Vernezze, I Soprano e la filosofia. Uccido dunque sono, traduzione e cura di Andrea Signorelli 54. Richard Greene e K. Silem Mohammad (a cura di), Quentin Tarantino e la filosofia. Come fare filosofia con un paio di pinze e una saldatrice 55. Natale Sansone (a cura di), La filosofia del marchese De Sade 56. Sergio Benvenuto, Antonio Lucci, Lacan, oggi. Sette conversazioni per capire Lacan 57. Enrico Cantino, Da Lamù a Kiss me Licia. Le dinamiche di coppia secondo l’animazione giapponese
58. Enrico Cantino, Da Mimì Ayuhara a Oliver Hutton. Gli anime sportivi e lo spirito di gruppo 59. Stefano Petruccioli, Gli X-Men e la filosofia 60. Ernesto L. Francalanci, Estetica del potere. Figure dell’ordine e del disordine 61. Furio Colombo, Athos De Luca, con Vittorio Pavoncello, Il paradosso del Giorno della Memoria. Dialoghi 62. Andrea Calzolari (a cura di), Mondobugia. Undici variazioni sul mentire 63. Maxime Coulombe, Piccola filosofia dello zombie. O come riflettere attraverso l’orrore 64. Richard Greene e K. Silem Mohammad (a cura di), La filosofia di zombie e vampiri. Una nuova vita per i non morti 65. Jean-Luc Nancy, Tommaso Tuppini, 2014 66. Pino Bertelli, Guy Debord. Anche il cinema è da distruggere! Sul cinema sovversivo di un filosofo dell’eresia e commentari sulla macchina/cinema 67. Matteo Galli, Il sogno e il tempo. Due saggi su Wenders 68. Leonardo Vittorio Arena, Sul nudo. Introduzione al nonsense 69. Enrico Cantino, Dall’incantevole Creamy a Pollon. Maghette e incantesimi nell’animazione giapponese 70. Enrico Cantino, Da Heidi a Lady Oscar. Le eroine degli anime al femminile, 71. Stefano Petruccioli, X-MEN. Per un’etica indagata in stile mutante 72. Pino Bertelli, Guy Debord un filosofo sovversivo. Per una critica radicale della civiltà dello spettacolo e la rivolta della gioia dell’Internazionale Situazionista 73. Carmine Castoro, Clinica della TV. I dieci virus del TeleCapitalismo. Filosofia della Grande Mutazione 74. Monia Andreani, Peppa Pig e la filosofia. Tra antropologia e animalità 75. Mario De Caro, Biografie convergenti. Venti ircocervi filosofici, con illustrazioni di Guido Scarabottolo 76. Enrico Petris, Rosso, nero e Pasolini 77. Umberto Vincenti, Etica per una Repubblica
Indice
Prolegomeni alla ricorrente odissea bondiana Bond e la poesia Opposizioni e Disposizioni La “licenza” di Bond La spia nel corpo di qualcun altro Congruenze e Incongruenze Le interfacce tecnologiche del vecchio Bond Bond: ce n’è per tutti Sconfinato Bond Affermazioni e Negazioni Le strutture anti-narrative nei film di Bond Ulisse è Bond Il Signor Nessuno Gli autori Il caffè dei filosofi