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Italian Pages 88 [17] Year 2017
.............. nunn,:n no dal futuro uro di Carlo Va/eri
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© 2018 go\\ra:te, Firenze, prima edizione
Redazione: team di sentieri seh.-aggi copertina: Fnncesco Mucini S\iluppo ePub: Elisa Baglioni
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Indice Copertina Frontespizio Colophon Presentazione Introduzione - L'ossessione per l'apocalisse di Carlo Valeri Parte prima - Il mondo delle idee 1982 (ricordare Biade Runner) di Carlo Valeri
ndeserto ipotetico di Pietro Masciullo Wasteland: suggestioni e architetture spaziali tra Biade Runner eMad Max di Nicoletta Scatolini
nfiglio di Biade Runner. Sulla responsabilità di essere sequel di Carlo Valeri Nostalgia del futuro. Il 2049 visto dal passato di Leonardo Lardieri Per una contaminazione animata di Andrea Fontana Cinema inevitabile di Sergio Sozzo Parte seconda - Il mondo degli autori
nmondo che Philip ha creato di Luca Marchetti Harrison Ford eroe riluttante di Emanuele Di Porto Ryan Gosling Tracce di un corpo magnetico di Nicoletta Scatolini "The Final cut, la versione definitiva del mio film più bello•. Ridley Scott racconta Biade Runner di Carlo Valeri
"Questo sequel è un viaggio nell'intimo•. Denis Villeneuve racconta Biade Runner 2049 di Gianmarco Bonelli Parte terza - Il mondo dei prodotti Biade Runner Biade Runner Blaclc Out 2022 2036: Nexus Dawn
2048: Nowhere to Run Biade Runner 2049
Coda. Biade Runner 2049: un flop annunciato? di Simone Emiliani Lista dei nomi, dei luoghi e dei film citati
Introduzione l'ossessione per l'apocalisse di Carlo Valeri
Per quelli come me, nati nel 197 7 , l'apocalisse è molto più che un riferimento biblico. Cresciuti a suon di film, fumetti e videogame declinati sul tema, abbiamo presto familiarizzato con l'idea che il mondo sarebbe prima o poi diventato un luogo inabitabile, caotico e/ o devastato ( dalle guerre, dalle tecnologie, o da un inevitabile processo di autodistruzione dell'uomo). Film come Biade Runner, Mad Max,
1997 Fuga da New York, Terminator, Brazil, Akira - realizzati nel breve arco di sette anni l'uno dall'altro - hanno allenato la nostra immaginazione abituandoci allo stesso tempo a una sorta di pessimismo fatalista su quanto sarebbe accaduto. Scoprirci ancora in questo mondo, oggi, nel 2017 , è un'ovvietà non da poco. Nessuno di noi pensava veramente che dopo il 2000 il mondo sarebbe scomparso, certo, eppure si respirava un'ansia adrenalinica su ciò che sarebbe stato dopo ...il 2 000. Lo raccontava in modo straordinario Kathryn Bigelow in quel sottovalutato e per me ancora oggi determinante film che era Strange Days, tutto giocato sul conto alla rovescia, sulla velocità impalpabile di una società violenta e tecnologica a cui opporre resistenza attraverso i sentimenti e la fiducia nell'altro. Oggi che fine hanno fatto i nostri sentimenti? Siamo riusciti a conservarli o sono semplici manufatti di un mondo sempre più virtuale? E se l'apocalisse fosse avvenuta davvero senza essercene accorti? La corsa verso il futuro del Novecento si è improvvisamente arrestata e oggi viviamo in un eterno presente dominato dal suffisso post. Nella vita come nel cinema. In tal senso un film come Biade Runner 2049 si
è subito configurato come opera cruciale per interpretare il nostro oggi. Se il primo film di Ridley Scott raccontava quello che saremmo potuti diventare, il sequel di Denis Villeneuve riflette già quello che siamo diventati. Ecco perché abbiamo sentito il bisogno di scriverci tanto e subito. Ho la sensazione che tra il primo Biade Runner e questo secondo capitolo si consumi un sottile e invisibile filo rosso che mette insieme tante diverse e necessarie idee di mondo, di visione e di scrittura. Per quanto diversi tra loro sono d ue film che appaiono già complementari, necessari l'uno all'altro. E decisivi per continuare a nutrire il nostro modo di guardare e di pensare il mondo (del/ nel cinema). Mai come in questo caso il saggio che state per leggere è frutto di un'elaborazione collettiva interna alla redazione di Sentieri Selvaggi. In questo caso ho avuto solo il privilegio di fare per una volta da direttore d'orchestra a questi amici/ critici con cui condivido quotidianamente passioni e ossessioni. Li ringrazio tutti, magnifici solisti e sognatori ... venuti dal futuro.
1982 (ricordare Blade Runner) di cario Valeri
Non è un'eresia dire che Biade Runner abbia avuto un'importanza nel cinema pari a quella di Star Wars. Se infatti il film di George Lucas ha cambiato per sempre la st oria degli effetti speciali e le dinamiche produttive e commerciali intorno al blockbuster, quello di Ridley Scott ha reinventato un'estetica e un modo di filmare e pensare la fantascienza con cui intere generazioni di cineasti, scrittori e fumettisti avrebbero fatto i conti. È stato un successo graduale quello di Biade Runner. Un fenomeno di
culto che dopo l'uscita in sala e l'anteprima a Venezia nella lontana edizione del 1982, l'ultima diretta da Carlo Lizzani, cominciò anno dopo anno a imporsi tra critica, pubblico e cinefili di tutto il mondo. Rispetto alla spettacolarità rocambolesca di Spielberg e Lucas, Ridley Scott - che pure è ancora oggi uno dei migliori cineasti del cinema d'azione - scelse di firmare un'opera cupa dal ritmo dilatato, tardoromantico, introspettivo e allo stesso tempo di una modernità sconcertante. Biade Runner proiettò gli incubi apocalittici e visionari di un genio come Philip K. Dick - il film è tratto da uno dei suoi romanzi migliori intitolato Ma gli androidi sognano pecore elettriche? - dandogli un look, un'anima, un design, con la visione della Los Angeles del 2019 ancora oggi insuperata. Ben presto soprattutto per la generazione nata tra gli anni 70 e i primi 80 - si arrivò al punto che diventò impossibile iniziare ad amare e condividere il cinema senza aver visto Biade Runner, che con un pizzico di ambiguità e forse anche di inconsapevolezza cominciò presto a diventare quasi un film-test con cui iniziare a muovere i primi passi nel cinema adulto. Forse Scotte i dirigenti della Warner non se ne accorsero, ma certamente grazie a questo film si potette verificare una volta per sempre quanto potesse essere costoso e "bello da vedere" il cinema d'autore (anche se sono pronto a scommettere che il regista di Alien e de Il gladiatore questa definizione la rispedirebbe al mittente con disgusto). Per questo parlare di Biade Runner significa avere l'onere (e l'onore) di raccontare semplicemente non soltanto il cinema negli ultimi trent'anni, ma anche un certo marketing dell'immagine, del pensiero, dello sguardo critico e del gusto popolare. Un vero e proprio immaginario, capace di dare una poetica e un brand a ogni successiva rappresentazione futuristica dell'apocalisse. Per chi è cresciuto vedendo e rivedendo la prima versione cinematografica dell'82, le successive edizioni fino all'ultima - The Final Cut - presentata a Venezia nel 2007 sono state oggetti di dibattito e interpretazioni. Nel 1982 contro le intenzioni di Scott venne infatti inserita una voice over del protagonista che dava un sapore chandleriano e ancora più noir al film, un fascino da cinema anni 40, in bianco e nero, che immergeva il film in un'atmosfera malinconica e allo stesso tempo metacinematografica - con l'inserto musicale della struggente One more kiss dear di Don Percival. Nel "vecchio" film c'era poi un finale ottimista, in cui si consegnava un futuro ai due protagonisti e i titoli di coda erano scanditi dai luminosi panorami che Kubrick aveva scartato da Shining. Nei director's cut successivi Ridley Scott ha eliminato questo finale e la voce narrante di Harrison Ford. Non è cambiato molto, ma quella di oggi è un'edizione forse meno intellegibile, ancor più bella da vedere e astratta. Anche più onirica. L'indagine investigativa di Deckard è opaca e le scene sopravvivono con un'energia poetica immediata. I personaggi possono morire da un momento all'altro, spegnersi, rivendicare una seconda vita nelle allucinazioni, nelle vecchie foto di famiglia, nella bellissima musica di Vangelis. È forse arrivato il momento di dire che Biade Runner è un capolavoro
che sta persino stretto al cinema, tanta è la priorità che in ogni suo fotogramma viene concessa all'immagine e alla sua scrittura. È stato una nuova calligrafia con cui creare mondi, città, disegnare la notte, le luci al neon, far convergere il melò con il poliziesco e la fantascienza. E poi ammettiamolo (e di questo i realizzatori di 2049 se ne sarebbero ricordati, eccome!): quella tra Rick Deckard e il replicante Rachel non è una delle più straordinarie storie d'amore mai raccontate?
Il deserto ipotetico di Pietro Masciullo
Sei in un deserto, stai camminando sulla sabbia e all'improvviso... Questo è già il test? Sì. Sei in un deserto, stai camminando sulla sabbia e all'improwiso ... Quale deserto? Non ha importanza quale deserto, è del tutto ipotetico ... Test "Voight-Kampff', Biade Runner (R. Scott, 1982)
Se si dovesse azzardare una secca definizione di cosa ha rappresentato
Biade Runner per la storia del cinema e per la cultura di massa degli ultimi decenni, beh, forse sarebbero proprio queste le parole giuste per iniziare a ragionare. Il film di Ridley Scott è stato (ed è tuttora) uno sconfinato deserto ipotetico di segni, narrazioni, emozioni, generi, teorie e umori che ha marchiato ogni riflessione sul cinema dall'alba del postmoderno anni 80 sino alla smaterializzazione esperienziale dei nuovi ambienti mediali (il "replicante" Netflix in testa). Insomma dal 1982 a oggi le varie versioni di Biade Runner almeno cinque, caso più unico che raro - hanno segnato molti salti di paradigma nella nostra percezione dell'immagine: dal film come traccia-di-reale da associare indiscutibilmente al suo doppio immaginario (Rick Deckard è un uomo, Roy Batty un replicante) nella versione del 1982; al dubbio ontologico che inizia a innervare il cinema (anche Deckard è per caso replicante?) nella director's cut degli anni 90; sino al necessario dislocamento di queste questioni su un terreno meramente estetico (che cosa resta di umano in quest'immagine ormai digitalizzata ed evidentemente replicante?) nella Final Cut del 2007. E oggi? Come replicare questi ragionamenti a rivoluzione informatica
già avven uta? Insomma come dare un degno sequela un testo di siffatta importanza estetica, teorica, autoriale e soprattutto pop(olare)? Innanzitutto non sfidando mai il fascino abbagliante delle visionarie "su perfici" scottiane. Denis Villeneuve non lo vuole fare, non ci tenta mai, è troppo scaltro per cadere in questa ovvia trappola del test Voight-Kampff. La prima sequenza di 2049, infatti, è un manifesto di intenti: dal dettaglio dell'occhio chiuso-aperto si passa a un'architettura scarna e "sintetizzata", deprivata di quel fascino notturno neo(n) noir che esplodeva nel 2019 . Una concezione dell'immagine sin troppo algida e preordinata, proprio perché il dubbio statutario su Deckard non si pone più per il personaggio di Ryan Gosling (un ruolo veramente perfetto per l'attore di La La Land): l'Agente K è inequivocabilmente un replicante dalla prima inquadratura, un "lavoro in pelle" ben addestrato, che va a caccia di su perstiti Nexus 8 (la vecchia generazione da "terminare", i più emotivi e imprevedibili ...) come il granitico corpo seriale di Dave Bautista. Lo sceneggiatore Hampton Fancher e il regista di Arrivai trovano quindi l'unico modo per non cozzare rovinosamente contro il moloch scottiano, concependo un glaciale spazio geolocalizzabile (che ha molto a che fare con le visioni dronistiche e anestetiche della nostra cultura visuale) lasciando che le emozioni covino sottopelle e si ri(n)traccino n uovamente. Nel corso del tempo. Una paziente riestetizzazione dell'immagine che doppia la scru polosa indagine di K tra le macerie del post blackout - ponendo però quell'evento così importante fuori campo, in uno straordinario cortometraggio a margine che corona la ricerca scottiana sullo scarto significante come chiave del (suo) cinema. Los ANGELES. Qual è la condizione umana nel 2049? La naturalizzazione dell'esperienza tecnica è ormai un dato di fatto acclarato - i dispositivi sempre più piccoli azzerano gli schermi e creano una coalescenza indistinguibile tra realtà virtuali e simulate, arrivando a concepire Avatar/ ologrammi condivisi di cui innamorarsi perdutamente confondendo carne e pixel-, ripercorrendo le tappe narrative del primo film ma ribaltandole di segno. Se Roy Batty/ Rutger Hauer era il corpo replicante che decuplicava le emozioni umane comprimendole nel tempo sino a bruciarsi di passione come lacrime nella pioggia ... qui l'agente K vive una perenne anestesia emotiva che solo la lenta indagine sulla memoria (collettiva) unita alla fugace speranza di un (privato) dubbio umano, possono pian piano sfidare e riscaldare. Ecco che le immagini e i suoni del primo film balenano in bassa definizione creando scarti e sussulti, in una dialettica intermediale che non diventa mai sterile serigrafia. Sì, è un lento e lucido disgelo emotivo questo Biade Runner 2049. Con i riferimenti a Metropolis, Sacrificio, Un sogno lungo un giorno, Il.fiume rosso o Sentieri selvaggi che si intrecciano agli umori contemporanei di Black Mirror, Her, Mad Max: Fury Road o Logan, creando un mastodontico e onnivoro ipertesto che tenta di far sopravvivere il "replicante-cinema" tra passato e presente. E qui sta il punto di contatto tra il medium che muta e lo sguardo che persiste: la consapevolezza ultima e commovente che a prescindere da qualsiasi corpo o da qualsiasi innesto, "qualcuno ha vissuto questi ricordi"... chi? Forse proprio noi spettatori. LAs VEGAS. In un magnifico slittamento iconografico - inutile ribadire
l'imprescindibile apporto di Roger Deakins all'estetica del cinema contemporaneo - la cupissima Los Angeles sorvegliata e punita dalla multinazionale di Niander Wallace, ha bisogno addirittura della vecchia città delle luci (o di ciò che ne rimane ... ) per ritrovare emozioni "reali". La città simulacro per eccellenza del Novecento, posta in pieno deserto post-apocalittico alla Mad Max, diventata qui una reliquia immaginaria che preserva i segni del passato come in una teca. Sì perché prima ancora del suo leggendario personaggio Rick Deckard, in quel casinò diroccato ci appare idealmente proprio "Harrison Ford" - apertamente tirato in ballo insieme a Elvis, Marylin, Sinatra, come icona del Novecento, in una scena potentissima - che interagisce con Gosling/ K riconsegnandogli il sacrosanto beneficio del dubbio. Il corpo/ icona di Ford riporta ancora una volta a galla la memoria sentimentale, mettendola paradossalmente in abisso - letteralmente "incasina gli archivi" - , quindi è colui che riporta i dubbi identitari e filosofici di P. K. Dick in primo piano, colui che ricoagula le lacrime e i colori del cinema, proprio perché noi in primis lo percepiamo come un "padre". Reale o immaginario, umano o replicante che sia. Deckard/ Ford sabota la sintesi perfetta e distopica di Los Angeles 2049 con i glitch emotivi della Las Vegas 2049, in un'immagine che ridiventa disturbata, perturbante, viva, proprio come questo film che sfonda la sua su perficie algida e ci accompagna fuori dalla sala con le palpitanti incertezze di un giovane "figlio". Insomma: Denis Villeneuve ci regala un unicorno ben innestato nei nostri ricordi, un film che continuiamo ad aver voglia di rivedere, perché ha ancora il coraggio di cercare n uovi orizzonti in quello sconfinato deserto ipotetico chiamato Biade Runner.
Wasteland: suggestioni e architetture spaziali tra Biade Runner eMad Max di Nicoletta Scatolini
Where must we go ... we who wander this Wasteland in search ofour better selves? (Dove dobbiamo andare... noi, che vaghiamo per questa Terra desolata in cerca della nostra parte migliore?) The First History Man (daMadMax: Fury Road)
Sovrabbondanza, sovrapposizione, confusione: una densità materica che esplora ed estremizza all'ennesima potenza i segmenti spaziali dell'epoca del consumismo, le perversioni della meccanica e della tecnologia orgiasticamente instillate entro una M etropolis del XXI secolo. Con le sue illuminazioni al neon, le suggestioni asiatiche, le macchine volanti e la pioggia acida, il Biade Runner di Ridley Scott innervava il percorso cinematografico statunitense di nuovi incubi distopici. Combinando la science-fiction di matrice dickiana con le irrequietezze coeve che a breve sarebbero sfociate nel manifesto cyberpunk, le ispirazioni fumettistiche (la rivista francese ùMetal Hurlant e le illustrazioni di Moebius per The Long Tomorrow di O'Bannon, 1975) e una matrice noir che armonizza l'andamento stilistico-tematico della narrazione. Definito non a caso come un film fantascientifico post-noir, Biade Runner infatti riprendeva gli umori poliziotteschi e chandleriani che dall'exploit letterario avevano determinato la straordinaria emersione di film di genere come Il grande sonno, La.fiamma del peccato, Il mistero del falco o Sui marciapiedi nel panorama hollywoodiano degli anni Quaranta, complicandone le implicazioni ambientali. I marciapiedi sporchi, le strade pullulanti di luci artificiali, lo smog, i grattacieli: la Los Angeles del 2019 immaginata da Scotte dal suo pool di designer e tecnici - primo tra tutti Syd Mead con i suoi fondamentali bozzetti preliminari - nel loro lavoro minuziosissimo di costruzione, ricalcava quei crocevia immortalati ai loro margini ambigui, quelle atmosfere 'notturne' che le strade attraversate da Humphrey Bogart o Robert Mitchum imprimevano nelle pellicole di quarant'anni prima. Se il melting-pot che si stratificava sull'ambientazione losangelina di Scott enfatizzava il senso di confusione, contraddittorietà e indeterminatezza, lo sviluppo verticale di questa città del futuro creata dal film ampliava ed estremizzava la vertigine dell'uomo nei confronti del tessuto urbano. Gli interni sovraccarichi, quasi barocchi, che diventano spazi opprimenti e al tempo stesso collassi feticistici di memoria materiale; l'ambientazione metropolitana con le sue architetture imponenti, il cielo saturo e asfissiato dalle costruzioni e dall'inquinamento. Lo scenario urbano delineato da Biade Runner sfrutta gli stilemi del noir per intensificarne il senso di isolamento, alienazione e impotenza rispetto a un contesto che sfugge al controllo, alla definizione, al sacro assioma bene/ male. Il personaggio di Deckard, così come quello del replicante Roy Batty, vagava in un agglomerato cittadino che con la sua macchina smisurata ed efficiente sopprimeva la prospettiva individuale, schiacciando il singolo e disintegrando la massa in ammasso poltiglioso. Una solitudine simile investe l'agente K, il replicante protagonista di Biade Runner 2049. Qui lo scarto compiuto dalla messa in scena del sequel di Villeneuve tende ad approfondire l'indole tecnologica e virtuale dell'alienazione metropolitana: il mondo che K abita trent'anni dopo ha intensificato l'ossessione per lo sguardo, tra gli impulsi a neon di insegne e pubblicità interattive di ogni formato, telecamere di sorveglianza/ registrazione, donneologramma. Non solo. È una Terra inaridita, insterilita dalla carestia, una wasteland intossicata e resa brulla dall'inquinamento atmosferico, le radiazioni, gli immani ammassi di immondizia che riempiono intere città, l'accumulo di oggetti, di ferraglie, di ruggine. Gli spazi esterni che il protagonista si trova ad attraversare si moltiplicano, allargano i confini, aumentano quella vertigine dell'io rispetto all'ambiente che vede il suo passaggio. La Los Angeles del 2049 è una metropoli sempre più stratificata,
caotica, buia e sporca - così sporca da lasciare traccia su viso e capelli di K ogni volta che esce di casa. La città che nel primo Biade Runner creava un senso di alienazione con il suo tripudio di insegne luminescenti, le video-installazioni, con la dispersione umana tra cunicoli di incomunicabilità, e al tempo stesso la sua claustrofobica densità di oscurità, di fasci di luce artificiale, di smog, spazzatura e di verticalizzazione architettonica, è ora un ancor più imponente insieme di linee, luci e ombre. Risultato finale della mutazione sintetica del mondo abitato dall'uomo. Villeneuve enfatizza questa dialettica tramite un uso ancor più grandioso delle scale strutturali, rimpicciolendo il corpo che attraversa la scena, figurina stilizzata, ombra che solca le strade. Siamo giunti alla definitiva eliminazione dell'animo desiderante dell'essere (che sia umano o replicante), espressa nel totale annichilimento dell'individuo rispetto all'imponenza tecno-architettonica della metropoli, nel suo assorbimento progressivo entro la densa coltre atmosferica, nella sua disturbante opacizzazione scenica. Villeneuve estetizza questa sinergia uomo-ambiente, intrappolando la figura di Ryan Gosling entro spazi smisurati e movimenti lentissimi, trasfigurando liricamente il suo discorso con una cura cromatica che approfondisce pittoricamente il lavoro già intrapreso nel 1982. Estremizzando anche l'utilizzo contrastivo di luce/ ombra - elemento significante nel noir, con il quale lo stesso Scott e il suo direttore della fotografia Cronenweth avevano giocato stagliando figure da sorgenti di illuminazione artificiose o amplificando la sensazione di mistero, caos e incontrollabilità con frequenti richiami extradiegetici - , ampliando visivamente l'utilizzo della luce in funzione minacciosa, velenosa, che ne faceva Aldrich in Un bacio e una pistola (1955). Le terre extrametropolitane, aventi ormai l'unica funzione di ricettacolotestimonianza del passaggio materiale dell'uomo, sono luminose distese desertiche che avvolgono e inghiottiscono entro dense nuvole atmosferiche o polverose, confine ultimo verso la sparizione di un'intera specie. L'ambientazione desertica in chiave post-apocalittica, segno e simbolo di distruzione ambientale e civile, aveva già tracciato le sue linee fondamentali nella trilogia milleriana di Mad Max, il cui primo capitolo è datato 1979: qui è un mondo che autodistruzione e guerre nucleari hanno reso progressivamente desertico, riportando la specie umana allo stadio tribale in una lotta all'ultimo sangue per benzina e acqua. Con il quarto episodio Mad Max: Fury Road (2015), girato a distanza di trent'anni, George Miller compone un ibrido tra sequel e riedizione rielaborando lo scenario distopico terroso e facendone unico elemento strutturale dello spazio scenico. Sabbia, sabbia ovunque, promontori rocciosi e colori saturi virati all'arancione e al rosso - con i fortissimi richiami stilistici all'universo delle graphic nove!, che avevano anticipato l'uscita del film: sono questi gli elementi strutturali setacciati da Miller nella sua resa in immagine in movimento di una Wasteland arida e polverosa. Anche qui, come nel Biade Runner di Villeneuve, la preoccupazione ecologica si incunea entro luoghi fisici che riecheggiano continuamente il problema della fertilità e l'emergenza dell'estinzione. Ma il deserto di Fury Road conserva ancora la sua umanizzazione, solcato e scosso com'è dalle furie roboanti dei passaggi di uomini e donne, riempito dall'azione dell'essere umano che, forse, ancora può forgiarlo: è un selvaggio Ovest, una frontiera che si riduce e si ripiega su se stessa ma serba ancora la speranza della conquista. È un senso di progressivo logoramento ciò che imperversa invece in 2049: di un ambiente, metropolitano o extra-urbano, svuotato e ricoperto di un nulla atmosferico che con la sua nebbia, la polvere, lo smog, avvolge e ricopre ogni cosa, immergendo e inabissando contenuto e contenitore. Il deserto messo in scena da Mad Max: Fury Road è uno spazio residuale, organico meccanico, stratificato, riciclato, rimontato, come i poderosi motori che sfrecciano sulle strade sabbiose. È un ambiente ostile, rabbioso, che ci racconta la necessità della mutazione, la forza della resilienza, che ritrae l'uomo nella sua lotta per la sopravvivenza. Biade Runner 2049 ci racconta un altro tipo di mutazione, di disumanizzazione, in un mondo sintetico che non serba quasi più traccia della natura, ultimo stadio di un'esistenza che si fa via via più evanescente. Non c'è più spazio per le creazioni degli uomini né per la conservazione della loro memoria, e l'universo del visivo è ingannevole e sempre soggetto ad essere innestato o a disgregarsi in un blackout. Impalpabile e indefinito come una tempesta di sabbia o una pioggia di luci a neon.
Fotogramma tratto da Blade Runner 2049.
Fotogramma tratto da Mad Max: Fury Road.
Philip K Dick (sulla destra) in visita al set di Biade Runner. Qui ritratto insieme al regista Ridley Scott (a sinistra).
Il figlio di Biade Runner. sulla responsabilita' di essere sequel di cario Valeri
Dietro gli studi intrapresi sulla serialità emergono solitamente due grandi linee percorribili. La prima è industriale, con il "prodotto" che diventa ingranaggio di un sistema che riproduce gli oggetti (film, musica, libri) uguali l'uno all'altro, in serie appunto. La seconda è invece quella narrativa e asseconda soprattutto una soddisfazione immaginaria e creativa, con il proseguimento della storia che viene svelato film dopo film, o puntata dopo puntata. Poi c'è la questione antropologica suggerita già trent'anni fa da Umberto Eco a proposito della serialità dei mass media: "( ... ) La serie consola l'utente perché premia le sue capacità previsionali: l'utente è felice perché si scopre capace di indovinare ciò che accadrà e perché gusta il ritorno dell'atteso". Una conseguenza paradossale e persino sottilmente mistica è che a un livello inconscio l'utente e il sequel sono quasi la stessa cosa. Vivono entrambi un rapporto simbiotico con il modello, un legame "privato" che in taluni casi sfiora la sudditanza. Proviamo a forzare la mano. Se un sequel avesse le fattezze di un essere umano (ed eccoci subito a
Biade Runner 2049) sarebbe un figlio. Un figlio non è mai la copia carbone di un padre, così come un sequel non è mai, completamente, un remake. Può assomigliargli molto, riprenderne la postura (lo stile) o il carattere (la morale), magari entrambi per poi battere strade diverse. Insomma c'è sempre un grande (e spesso invisibile) racconto di formazione dietro la realizzazione di un sequel e quello di Biade
Runner 2049, a prescindere dal valore del film, deve esser stato qualcosa di irripetibile. Il film di Villeneuve si è infatti dovuto confrontare con un padre a dir poco ingombrante: più grande di 35 anni, very cool, tenebroso e anche un po' intellettualistico, celebrato nei cineclub come nelle vetrine dei bluray. Gran butta bestia essere il figlio di un padre del genere, un padre che piace a tutti. A tratti ci sembra di vederlo il film di Ridley Scott, fissare con un mezzo sorriso e le braccia incrociate il regista, gli sceneggiatori o gli "architetti" di 2049 mentre provano a far fare al loro neonato i primi passi, stesura
dopo stesura, una location dietro l'altra, un casting dietro l'altro. Ad aggiungere livelli di difficoltà al piccolo 2049 ci si è poi messo il fatto che il genitore è un "oggetto" davvero strano da prendere: dal 1982 a oggi si è divertito a cambiare i finali, le durate, le voci fuori campo e i ritocchi digitali. A un certo punto 2049 deve aver fatto confusione persino su quale fosse il suo vero padre. E tutto questo, alla fine, è finito nel film! Per certi versi la certificazione drammaturgica di questo impasse edipico è un inaspettato attestato di umiltà per un film costato 150 milioni di dollari. In 2049 gli autori non fanno altro che raccontare la storia di un figlio che deve imparare a conoscere se stesso prima di meritarsi il nome che porta. Ryan Gosling interpreta un cacciatore di androidi che ci viene subito svelato essere un replicante. Trent'anni dopo il primo film, K - questo è il nome del replicante - deve indagare su un vero e proprio miracolo: il primo bambino nato da un androide. Durante le ricerche finisce con l'immaginare di essere lui quel bambino. Del resto gli indizi convergono così come i ricordi e il film si concede persino un azzardato parallelismo con Quarto potere di Orson Welles, con un cavallo di legno che diventa presto espediente alla Rosebud per rintracciare un'infanzia perduta. E così, scena dopo scena, K guarda dentro se stesso, si scopre più umano dell'umano e incarna così a pieno titolo la filosofia post-umanista del primo Biade Runner. Cosa posso fare per essere un umano? Sembra sempre chiedersi K. Da un punto di vista metacinematografico però la domanda giusta è: cosa posso fare per essere un replicante che crede di essere umano in un sequel di Biade Runner? E più astrattamente: come posso meritarmi il brand di Biade Runner? Come spesso avviene in questo tipo di film, la struttura narrativa non può fare a meno di una dimensione intertestuale con cui appagare lo spettatore fan e metterlo di fronte a tutti gli enigmi culturali e psiconanalitici del caso. In questo secondo capitolo Denis Villeneuve, Michael Green e Hampton Fancher (già sceneggiatore del primo episodio) non fanno altro che raccontare metaforicamente, ma neanche troppo, il peso della terribile responsabilità di rimettere mano all'immaginario del prototipo di Ridley Scott. E ogni immagine del loro film, nella sua innegabile perfezione, è satura di questa responsabilità. Qui chiaramente la qualità della produzione è tale da andare ben oltre le sabbie mobili del ricalco o dell'affettuoso omaggio e così il sequel per quanto visceralmente legato al proprio padre riesce a trovare una strada a suo modo personale e a sopravvivere. Probabilmente riesce a farlo proprio perché capace di metabolizzare e superare il legame ossessivo con l'originale. Se Biade Runner 2049 è un film geniale, lo è soprattutto perché terrorizzato dal (non) piacere al suo modello. Così quando a 2/ 3 del film - quanto tempo ci vuole per affrontare i nostri padri?! - K incontra Deckard, cioè inevitabilmente Harrison Ford, siamo finalmente pronti a ricomporre i pezzi e ad abbandonare il timore reverenziale. Non prima magari di una scazzottata a Las Vegas, in mezzo a ologrammi di Elvis, Sinatra e Marilyn Monroe. È una scena lunga e apparentemente accessoria, che sembra estratta più da un film di Sergio Corbucci che da un blockbuster hollywoodiano. Ma in verità e quella concettualmente più sincera di Biade Runner
2049. Qui il padre e il figlio, il vecchio e il nuovo film, si scontrano in un ultimo match prima di bere qualcosa insieme e iniziare a comunicare. È il giro di boa decisivo di questa sublime quanto faticosa operazione. A quel punto il legame è saldo e alla battuta finale di Harrison Ford - "Chi sono io per te?" - non c'è neppure bisogno che il personaggio di Gosling dia una risposta.
Nostalgia del futuro. il 2049 visto dal passato di leonardo lardieri
Gli anni 70 rappresentano il centro della discussione filosofica attorno ai problemi della biologia del dopo-DNA, con le conseguenze della scoperta di James Watson e Francis Crick, del '52; è di questo periodo, quindi, tutta la maturazione delle questioni che esplodono a livello filosofico conseguentemente al premio Nobel assegnato a François Jacob e a Jacques Monod per gli studi sul RNA, e con l'idea di "spazio autopoietico", di Maturana e Varela, quindi con la costruzione di tutta la cosiddetta "Teoria dei sistemi". Volendo costruire una storia non della fantascienza come genere autonomo, letterario o cinematografico, ma proprio della science + fiction, cioè del modo e dei tempi in cui convergano e procedano poi parallelamente queste due dimensioni della narrazione e della conoscenza, e siccome la scienza di per sé diventa fantascientifica realizzando proprio le profezie della fantascienza, è inevitabile che nella fiction succeda qualcosa di egualmente importante, non più nei termini della profetizzazione della scienza futura, ma forse nel ricalco di quella attuale. Ecco, il 2049 è questo, un ricalco nel deserto futurista. La fantascienza che fa profezie è destinata all'obsolescenza, e forse all'insuccesso più clamoroso: se andiamo ad analizzare i disegni "fin de siècle" di Jean-Marc Coté, che Isaac Asimov ha riproposto in "Nostalgia del futuro. Il Duemila visto dall'Ottocento", troviamo addirittura risibili le previsioni futurologiche dell'illustratore francese, derivanti evidentemente dai suoi limitati paradigmi ottocenteschi. Quella della fiction in genere, ma non propriamente quella in 2049, è solo paradossalmente una posizione antiscientifica: per così dire, utilizzando una metafora biologica, crea gli anticorpi al virus della scienza. 2049 è post-fantascienza, in cui si apre qua e là la prospettiva del trascendente, veduta come una liberazione dal giogo che la vita impone. Uscito dalla morsa che lo stringe, l'uomo non sa se ha trovato uno spazio meno crudele, sente solo che tutto gli si sbriciola fra le mani e che ogni cosa diventa inafferrabile. Senza avvedersene, entra in una dimensione metafisica, in quello che gli appare come un mondo "altro", un "mondo senza futuro". Entra in una dimensione assoluta che è in definitiva la dimensione del divino. Scorre ancora un sentire alternativo al di là dell'umano, che giunge sino al 2049, e va oltre. Così chi sopravvive è già "fu", perfetta rivendicazione dello status cinematografico. Compito di 2049, variante tecnologica di macro-genere, il fantastico, dovrebbe essere quindi affermare narrativamente la vita, la carne, la mente liberata (anche tecnologicamente) dagli spazi di morte. Non è cinema cerebrale, di controllo delle menti, esercitato attraverso la carburazione delle pulsioni di morte, ma è un moderno sequel, dalle illusioni replicanti. È in questo quadro che si può parlare della ambivalente necessità di un reincantamento del mondo. Perché nel 2049 si affaccia la necessità di ritrovarsi su di un terreno
simbolicamente saldo, quello di un'identificazione simbolica che restituisca, attraverso l'immagine, l'immediatezza dell'immaginario passato. In questo quadro ci si muove indubbiamente da un terreno che è originariamente estetico ma per andare verso un uso strategico, politico-morale dell'immaginario collettivo. Il replicante non rappresenta l'automa, ma l'essere umano stesso in crisi di identità nella società postindustriale e globale; nel 2049 si deposita il grido di dolore in una sospensione priva di pathos. L'identità tra gli androidi e gli uomini diventa un semplice dato di fatto, quasi un a priori, a cui non si contrappongono tensioni utopiche, progettuali o ribellistiche. Gli esseri "derivati", in fin dei conti, non possono concentrarsi né sulla propria origine né sulla loro storia e si dimostrano risucchiati solo dalla propria sopravvivenza e integrazione. L'artificialità non entra in conflitto con l'autenticità, ma anzi ambisce a prendere il suo posto e addirittura a superare i suoi valori consunti e degradati. La natura dei replicanti è anche quella delle immagini del film: superfici sottilmente decorate che dissimulano un'assenza di forze e di strati profondi. Sempre nel 2049 sembra delinearsi un'idea di cinema privo di inconscio, totalmente consegnato a una coscienza dell'esteriorità come forma principe dell'esperienza, come percezione confusa di stordimento, di dolore e di estasi. Nostalgia del futuro, nostalgia dell'essere ...
Per una contaminazione animata di andrea Fontana
Biade Runner 2049 inevitabilmente si confronta con la mitografia del precedente capitolo firmato da Ridley Scott. Denis Villeneuve parte da un background narrativo ingombrante ma è stato attento a generare con attenzione e dovizia un universo narrativo complesso e stratificato differente. Tanto che per spiegare cosa è successo nei trent'anni che separano i due film ha chiesto a Luke Scott, figlio di Ridley, di dirigere due cortometraggi intitolati Biade Runner 2036:
Nexus Dawn e 2 048: Nowhere to Run, mentre ha chiesto a Shinichiro Watanabe, già autore delle serie animate Cow boy Bebop e Samurai Champloo, forse tra gli autori anime più influenzati dall'estetica del cinema statunitense, di realizzare Biade Runner 2022: Black Out. Qui Watanabe racconta di come si è generato il blackout che è causa della situazione politica e sociale presente nel film di Villeneuve. Visibile gratuitamente su YouTube, Biade Runner 2022: Black Out è quasi una fotografia sociale, partendo dall'alienazione e ghettizzazione che si genera attorno a esseri senzienti mai accettati dall'uomo. Non è la prima volta che un film si avvale del supporto di narrazioni esterne e in particolare animate per completare il proprio universo narrativo. In queste occasioni, non sempre riuscite, gli anime, con il loro immaginario esplosivo, riescono davvero a dare una spinta alla complessità della storia principale, come se l'animazione nipponica contenesse degli elementi innovativi e sorprendenti capaci di integrare al meglio ciò che il film sta già portando avanti. Non solo: a volte riescono là dove il live action non arriva. Prendiamo per esempio la trilogia diMatrix. In quel caso i fratelli (ora sorelle) Wachowski decisero di dar vita ad Animatrix (2003): grazie a una produzione mastodontica diedero la possibilità a registi e animatori nipponici di dar sfoggio delle proprie qualità di autori. Il risultato nel complesso fu sorprendente. Fatta eccezione per L'ultimo volo dell'Osiris, diretto da Andrew R. Jones in computer grafica, gli altri episodi hanno lasciato gli autori di riferimento liberi di far esplodere la propria poetica in alcuni casi con risultati eccellenti e soprattutto innovativi.
Immatricolato, diretto da Peter Chung, offre una visione inquietante, articolata e plastica di forme e colori; con Programma, Yoshiaki Kawajiri ripropone il suo mondo action Oe cui suggestioni sono fortemente influenzate dal cinema statunitense) ma in una ambientazione visiva- mente affascinante, il Giappone medie- vale; in Record del mondo, che è scritto da Kawajiri ma diretto da Takeshi Koike, sembra di rivivere la tensione che anni prima Kawajiri aveva trasmesso con L'uomo che correva, corto all'interno dell'omnibus Manie-Manie - I racconti del labirinto (1987); in Aldilà Koji Morimoto, un virtuoso dell'animazione, ci regala un mondo poetico, sospeso e inquietante al tempo stesso. Allora Watanabe, che veniva dal successo mondiale di Cowboy Bebop e che si apprestava a dirigere la nuova serie televisiva Samurai Champloo, diresse addirittura due episodi, Storia di un ragazzo e Detective Story. Watanabe lavora sulle sospensioni: capace di dare grandi accelerate tramite sequenze action in cui l'animazione è particolarmente fluida per poi bloccarle, di colpo, lavorando sulle pause drammatiche e al tempo stesso poetiche. Succede la stessa cosa in Biade Runner 2022: Black Out. Non è ai livelli dei migliori lavori di Watanabe ma sfrutta la potenza dell'immaginario fantascientifico e distopico per stupire innanzitutto visivamente. Narrativamente è una storia semplice e anche un po' banale, probabilmente un piccolo tassello che inserito nell'unicum bladerunneriano ci fornisce qualche informazione in più per capire il vuoto che distanzia il primo dal secondo film. Ma a contare non è tanto la qualità quanto il senso di una tale operazione, il fatto che finalmente l'animazione giapponese, considerata al pari del cinema dal vivo, possa proporsi al pubblico con pari dignità intellettuale, nello stesso con- testo di marketing e di narrazione. Non è un caso che lo stesso Tarantino lo avesse capito anni fa, quando all'interno di Kill Bill voi. 1 per raccontare la vita di 0 -Ren sfruttò le mirabolanti animazioni della Production IG, o che qualche tempo fa lo Studio Ghibli abbia contribuito alle animazioni presenti nel videogioco Ni No Kuni. Nel caso di Watanabe e Biade Runner 2022 a interessarci non è il risultato finale, bensì il fatto che linguaggi diversi ( e considerati finora su piani qualitativi e con pubblici diversi) lavorino su territori comuni. Viviamo in un tempo in cui la contaminazione di media differenti è lo strumento ideale per apportare miglioramenti alle singole parti, da questa contaminazione gli anime possono e devono trarne il giusto vantaggio.
Cinema inevitabile di Sergio Sozzo
1. Touch Screen
Una mente artificiale indipendente sarà considerata molto probabilmente menomata, ma è una penalità che dobbiamo pagare per avere una IA con ampia mobilità. Quando questa IA emergente arriverà, la sua stessa onnipresenza la renderà invisibile: utilizzeremo la sua crescente intelligenza, che sarà però senza volto, nascost a, per sbrigare anche le più monotone faccende domestiche. Saremo in grado di raggiungere tale intelligenza, distribuita in mille modi diversi, attraverso qualunque schermo sulla Terra, e per questo motivo sarà difficile individuarne la provenienza. Ma, allo stesso tempo, dato che questa mente artificiale sarà una combinazione di intelligenze umane (composta da tutto ciò che gli esseri umani hanno imparato in passato e dagli utenti connessi in un dato momento), sarà anche difficile capire "cosa" sia esattamente. Sarà la nostra memoria oppure coinciderà con il nostro accordo consensuale? Saremo noi a consultarla o sarà lei a consultare noi? - Kevin Kelly, L'inevitabile Secondo il guru delle culture digitali Kevin Kelly, "la tecnologia ci sta portando verso la protopia [ ... ], una condizione del divenire piuttost o che una vera destinazione". E in effetti a leggere l'estratto qua sopra, viene in mente davvero l'idea alla base di Arrivai, e il meccanismo logaritmico su cui quel film era fondato: l'intuizione cioè che "la nostra più grande invenzione negli ultimi duecento anni non è stata un oggetto o uno strumento particolare, bensì l'invenzione del processo scientifico stesso". Sul touch screen che permette la comunicazione tra razze umane/ aliene ogni definizione perde i propri contorni fissi per farsi linguaggio in perenne fluire, lingua mobile. "Ci stiamo allontanando da un mondo di nomi fissi verso un mondo di verbi fluidi: nei prossimi trent'anni continueremo a prendere oggetti solidi (un'automobile, una scarpa) e a trasformarli in verbi astratti". Ecco il punto cruciale che lega le profezie di Kelly al cinema di Denis Villeneuve: Biade Runner 2049, figlio diretto della visione di Arrivai quanto e forse più del titolo capostipite di cui è sequel dichiarato, è probabilmente l'esempio meglio centrato al giorno d'oggi di cinemaprocesso, di enunciato che diventa verbo astratto: e non a caso è ancora una volta il gest o di appoggiare il palmo di una mano al di sopra di una lastra di vetro/ display/ dispositivo della visione a racchiudere il senso intero del percorso del film. L'aggiornamento è continuo, e procede in automatico, in remoto, come l'app di Brian
Eno, Reflection, in grado di combinare suoni, loop e strutture musicali in maniera sempre nuova per restituire all'utente (non più ascoltatore, spettatore, lettore ma puntualmente, universalmente utente) un'esperienza ambient sempre diversa a seconda dell'orario della giornata e dello stress del dispositivo su cui gira. Villeneuve sembra aver capito quest e ist anze del nostro tempo contemporaneo tecnologico molto più lucidamente di tanti cineasti programmaticamente hi-tech, e in quest o Biade Runner 2049 è senza ombra di dubbio il suo manifesto più cristallino e puro. Al contempo, la visione del regista canadese non può fare a meno di mettere diremmo consapevolmente, quasi concettualmente - in scena i propri stessi confini, i propri limiti dichiarati, indicati in maniera evidente: un aspetto che accomuna Villeneuve ad alcuni altri nomi-chiave di quest a generazione, autori di quello che potremmo battezzare come
cinema inevitabile, mutuando il titolo dal pamphlet di Kelly per cui "nella nostra epoca nuova, i processi surclassano i prodotti", un flusso a cui è appunto controproducente opporsi. Nei film dei registi del cinema inevitabile, autori di culto come Nicolas Winding Refn, Pablo Larrain, Xavier Dolan, buoni ultimi i fratelli Joshua e Ben Safdie, molto spesso quello che accade sullo schermo possiede molta meno pregnanza del processo che quelle stesse immagini innescano al di fuori di loro, nel meccanismo di fruizione, trasmissione ed espansione che viene coinvolto: ma l'effettivo livello cinematografico di ciò che vediamo si ferma al contempo a un'elaborazione abissalmente precedente, solitamente all'utilizzo di suggestioni basiche, i cui orizzonti di composizione e impiego visivo sono istantaneamente segnalati, come si diceva sottolineati, evidenziati con tutta la volontà. Le immagini prodotte non sono quasi mai interessanti in sé anzi spesso addirittura "antipatiche", il processo porta avanti invece tutta la complessità del discorso "rigenerato". C'è un motivo per cui questo accade. Una domanda alla base dell'inevitabile. 2.
Who's the dreamer?
We are like the dreamer who dreams and then lives inside the dream, rivela Monica Bellucci a Gordon Cole durante un sogno che il capo dell'FBI racconta di aver avuto, nell'episodio 14 della terza stagione di Twin Peaks, già punto di non ritorno di questa concezione-flusso del processo narrativo (si tratta di una citazione dalle upan4ad indiane, antichissimi testi religiosi e filosofici tramandati per secoli per via orale, in sanscrito). Ma chi è il sognatore? Qui il punto non è più se gli androidi sognano o meno pecore elettriche, anche perché questa generazione fa con ogni evidenza sogni decisamente piatti, immagini anche banali, particolarmente "comuni" (come il gioco con il repertorio in Larrain o il glamourama disco di NWR). Di nuovo non conta più se davanti a noi ci sia un (cinema) umano o un replicante, quanto chi è l'autore del
sogno? Biade Runner 2049 lo chiarisce da subito, con il dialogo tra K e Sapper, il vecchio modello da "terminare", posto in apertura del film: ho visto cose che vuoi nuovi modelli sostituisce il celebre monologo del prototipo scottiano, perché stavolta l'orizzonte umano non è assolutamente contemplato, la questione è tutta tra i replicanti di nuova generazione, e quelli sbagliati. Ma allora, chi mette in testa le memorie a questi inventori di st orie? A chi appartiene quel ricordo, quell'immagine, il deja-vu è davvero solo un glitch del sistema? Saremo noi a consultare la nostra memoria o
sarà lei a consultare noi? Se per David Lynch la risposta risiede in quest a sorta di inconscio universale che può connetterci tutti in uno spaziotempo interiore dietro la facciata delle cose, Denis Villeneuve sembra intenzionato a dimostrare, film dopo film, come una mente artificiale indipendente sarà considerata molto probabilmente
menomata, proprio se non collegata all'intelligenza condivisa là fuori. In questo la concezione di Biade Runner 2049 tesse una parabola il cui punto d'arrivo non è troppo lontano dal visual album di Beyoncé, Lemonade, un holy motors di autore sconosciuto (provate a cercare a chi è affidata la regia nei credits ...) - e dalla stilizzazione iconica non troppo dissimile dall'impianto di Villeneuve - che sembra est ernare in mille forme diverse i sentimenti (lntuition, Denial, Apathy, Emptiness, Accountability, Reformation, Forgiveness, Resurrection, Hope, Redemption), i ricordi, il retaggio culturale e le tensioni interiori di un unico sguardo (femminile), che diviene insieme soggetto e oggetto del flusso immesso in rete. Torniamo a quella teca di vetro sulla quale Rick Deckard tenta un contatto con la forza creatrice che ne è imprigionata all'interno: uno può tranquillamente supporre che sia stata la dottoressa Ana Stelline a creare l'intero comparto visivo di Biade Runner 2049 (lo lascerebbe intendere ad esempio il vertiginoso stacco di montaggio tra la mano di K che raccoglie la neve che inizia a cadere, e quella della donna che sta, per l'appunto, evocando la nevicata). In sost anza che la ragazza che costruisce l'immaginario sintetico dei replicanti chiusa dentro una serra invalicabile sia in verità l'unica effettiva regista, autrice possibile di quest o film, al posto di Villeneuve. Quell'architetto di memorie sottovetro è la metafora più forte, in tutta la produzione dell'asso canadese, proprio di quest o cinema inevitabile, in grado di procurarsi in un attimo tutti gli strumenti per imbastire la pro pria visione senza neanche bisogno di spostarsi, di muoversi, ma condannato al destino del sepolto vivo come appunto il Neruda di Larrain, a spargere nel mondo le proprie inquietudini mentre se ne tiene al riparo, dietro una barriera invisibile. È questo il motivo per cui Roger Deakins si gioca tutto Biade Runner
2049 come svelamento continuo del set alla fine dello studio di posa,
dell'impalcatura ai lati dello schermo, con una sistematicità davvero quasi da NWRefn: siamo sempre sotto la volta vetrata della dottoressa Stelline, non facciamo in realtà neanche un passo che ci allontani da una visione fecondata in laboratorio, come gli ologrammi senza veli che dal film di Scott a questo hanno giust o guadagnato la libertà di movimento di poter fare qualche passo oltre il cartellone pubblicitario, avanzare un po' ma per poi dover rientrare nel quadro, alla fine. A svelare come dietro queste immagini mentali ci sia una forza creatrice femminile è infatti anche la totale immersione dell'opera in un environment uterino, che innalza ovunque monumenti giganteschi ad un'arcaicità matriarcale mentre diffonde tra i personaggi un tangibile turgore alla ricerca di un contatto che sembra quasi rievocare un'algebra divina. 3. Il cielo cade
James Band: "Everybody needs a hobby." Silva: "What's yours?" James Band: "Resurrection." A dimostrazione ulteriore, il gioco di Roger Deakins sembra continuamente quello di voler intrappolare questa natura sfuggente delle suggestioni del demiurgo ammaliante, tentare di sequenza in sequenza di ridurre lo spazio dell'inquadratura, chiuderla con il suo abituale gioco con i fasci di luce e le zone d'ombra, creare griglie e gabbie di visibilità nel buio: è proprio così che raggiunge il risultato di svelare gli interni di un fantomatico set espanso dentro il quale il film sembra muoversi, senza alcuna possibilità reale di esterno - si veda, ad esempio, la sequenza rivelatrice dello scontro finale in mezzo alla tempesta di questo oceano che sembra chiaramente una piscina gigante (ali is lost. .. ), racchiusa tra quattro pareti e un pavimento che infatti ad un certo punto i personaggi raggiungono per salvarsi, come fossero gli ultimi metri quadrati dello studio in prossimità del muro. Qui la presenza di Deakins alla fotografia non può che riportare alla mente le traiettorie simili affrontate dal d.o.p. per il suo lavoro su
Skyfall di Sam Mendes: anche in quel caso, l'astrazione assoluta del canone bondiano e degli appuntamenti immancabili della struttura action andava di pari passo con una riformulazione ciclica degli spazi stessi della messinscena, con Deakins libero di frammentare continuamente l'inquadratura (si pensi alla sezione a Shanghai, oppure all'incredibile confronto sul lago ghiacciato, due sequenze che potrebbero tranquillamente finire nel film di Villeneuve...) attraverso spiragli di luce e intere sezioni di oscurità. È vero, il direttore della fotografia ha portato avanti la sua ricerca in tutte le opere in cui ha collaborato con Denis Villeneuve, ma il parallelismo tra Biade Runner 2049 e Skyfall accende il discorso di nuove suggestioni, legate
innanzitutto ad alcuni aspetti che i due film spartiscono nel mettere in campo paternità, maternità, eroi stanchi perseguitati dalle tracce incastrate del pro prio stesso Mito, soprattutto il meccanismo a ritroso del ritorno al punto di partenza, alle immagini dell'innocenza, alla casa dell'infanzia lontana. Tutti set vuoti, di macerie e rovine, come l'isola disabitata di Raoul Silva. Ecco, in quest 'ottica di aggiornamento disponibile, è proprio Sam Mendes a raccontare come le stanze del ritorno accolgano ora soltanto il magazzino disordinato dei riferimenti (in quest o, il successivo
Spectre è ancora più esplicito, con quella sorta di percorso a tema sul passato di 007, di nuovo una memoria visualizzata, che Bond deve affrontare nelle cantine dell'Ml6 per risorgere ancora nel finale), come la sala da ballo infestata da ologrammi del secolo precedente in cui è rifugiato Deckart. L'agente di Daniel Craig si libera in un attimo da qualsiasi tentazione all'omaggio pop-ammiccante alla saga, di fatto superando il meccanismo del legacyquel a cui Hollywood sembra così legata negli ultimi anni, come Biade Runner 2049 risponde al vintage de Il risveglio della forza di J.J. Abrams attraverso la propria natura davvero "protopica", per tornare a Kelly (un'intuizione che non a caso riporta a Lucas e Ridley Scott, i primi per cui ogni ritorno sul prodotto ha senso solo nell'ottica di un "leggero miglioramento", un "piccolo progresso", di un aggiornamento continuo). Ma per innescare il riaddestramento di cui queste immagini hanno bisogno, e che è un altro dei temi fondamentali di Skyfall, c'è bisogno di acquisire quella consapevolezza terribile per cui "la vita media di un'applicazione( ...) è di trenta giorni, e che quindi non ci sarà tempo per acquisire la padronanza di alcunché prima che venga sostituit o". Le sostituzioni non sono mai indolore (dice Kelly che creano "vuoti nel nostro cuore"), ma rappresentano l'indicazione più forte che Biade
Runner 2049 ci lascia (d'altronde si tratta del tema fondante dell'epica dickiana), e la ragione che ne fa il manifesto programmatico del cinema inevitabile: la memoria degli spettatori del contemporaneo assomiglia alle città, alle lande e alle stanze attraversate da questo film, quest a presa di coscienza può addolorare i nostri cuori cinefili ma, per quanto non producano mai immagini abbacinanti (o non le abbiano ancora prodotte), i registi del 2049 sono come Xavier Dolan che a Cannes, davanti al manifesto di Ingrid Bergman (un altro dei possibili ologrammi inceppati del rifugio di Deckard), candidamente affermò di "conoscerla solo superficialmente". Un domani, probabilmente, guarderemo a quell'ist ante come la genesi inevitabile della nuova autorialità, quella per cui la storia del cinema è un'applicazione che raccoglie dati in background, da lanciare toccando lo schermo con un dito. Salveremo così i film in backup, in caso di blackout, anche se saremo destinati a non conoscerli davvero mai (non c'è tempo.') : e se non fosse poi così male?
Il mondo che Philip ha creato di luca Marchetti
Biade Runner 2049 è l'omaggio più sincero e potente all'opera di Philip K. Dick che sia stato prodotto negli ultimi anni. Forse spinti dalla necessità di legittimarsi come degni eredi del film di Ridley Scott e del romanzo originale, smentendo le critiche di essere un mero e materiale prodotto commerciale, gli autori hanno saputo muoversi dentro il corpus dickiano cogliendone lo spirito e le ossessioni. I collegamenti a Dick non sono conservati dentro i naturali riferimenti al film dell'82 o nei divertiti accenni a Ma gli androidi sognano
pecore elettriche? bensì nei territori spiritualistici e messianici cari allo scrittore di Chicago. Biade Runner 2049 replica nella sua trama il delirio apocalittico e le derive evangeliche di romanzi come Valis e
Ubik. Il film, inoltre, usa spregiudicatamente uno dei momenti chiave della biografia di Dick: la morte, a pochi giorni dalla nascita, di sua sorella gemella Jane. Anche qui, dunque, abbiamo lo "spettro" di una sorella morta e un fratello sopravvissuto nonostante tutto (o il contrario, come sospettava anche Philip per sé?), il mistero che genera un cortocircuito tra film, vita vissuta e trauma psicanalitico che avrebbe entusiasmato e sconvolto lo stesso scrittore. Probabilmente "l'omaggio" nasce dal freddo del calcolo stilistico piuttosto che dal caldo di una sincera venerazione per Dick. È innegabile però che, una volta riconosciuto il legame, il ritorno al
padre trasmetta tutta la sua forza, dimostrando ancora oggi quanto sia incandescente la parabola e il senso di Philip Dick. A leggere la sua biografia di Philip K. Dick, magistralmente raccolta in Io sono vivo, voi siete i morti di Emmanuel Carrére, ci si ritrova di
fronte alla storia di un disadattato, di un ragazzo timido intrappolato nel corpo ingombrante di un adulto esausto. Dick, incapace di vivere con serenità le relazioni con le persone che lo circondavano, sempre pronto a innamorarsi della prima donna che lo salutasse, che gli concedesse un minimo di affetto, è, di fatto, l'archetipo del "poeta nerd", del genio bisognoso di rifugiarsi nelle comode fantasie dei suoi universi, invece, di vivere una vita fatta di delusioni, rifiuti, divorzi e umiliazioni. C'è molto di adolescenziale nel percorso emotivo di un uomo disposto a infilarsi in un nuovo matrimonio, in una relazione soffocante, pur di vedersi sempre gratificato (dai complimenti degli altri, dal sesso, dall'affetto condizionato). È in questo universo affettivo posticcio, di relazioni sempre calibrate su un'infinita insofferenza, che nasce la dimensione in cui Dick ha creato la sua epica, quella paranoia dove l'autore è nato, ha vissuto e ha creato. Gli autori romantici pensano che scrivere sia il modo più comodo per scappare. Per Dick, la letteratura fantascientifica diventa l'unica soluzione per sopravvivere. In tutti i corsi di scrittura s'insegna che per rendere un racconto davvero efficace bisogna scrivere di qualcosa che si conosce alla perfezione. Philip non s'ispira alla realtà, alla sua infanzia o alle proprie idiosincrasie per racconti di finzione. Dick, nella sua fantascienza, descrive tutto quello che lo circonda, rivive continuamente la sua infanzia, esorcizza i propri dolori e i propri rancori. Per lui ogni parola scritta non è altro che la Verità, pura e semplice. Non è un caso che le sue trame non siano quasi mai ambientate in mondi e universi lontani. I racconti e i libri di Dick sono ambientati in società verosimili e ucroniche, dove un regime ti opprime, il vicino ti spia, nessuno è al sicuro. L'eroe dickiano, come il suo creatore, e l'unico che sa, è il solo che vede la Realtà, ma la sua conoscenza è destinata alla frustrazione, alla pazzia all'oblio. In questa dimensione paranoide, Philip trasforma la sua opera, Vangelo di un culto che lo vede Messia e Profeta, in una mappa segreta da consegnare ai pochi eletti disposti a seguirlo su una strada impervia e solitaria. Non importa che questa via verso la Verità sia costellata da dogmi assurdi come la convinzione che Nixon sia l'Anticristo, che il mondo viva in regime nazista occulto e che lui stesso sia in realtà la reincarnazione di un cristiano del I secolo dopo Cristo. Questi incubi/ sogni contraddittori, ma sempre coerenti nella mente schizoide del proprio artefice, sono l'abisso ideologico-narrativo che attira chiunque pronto a guardarci dentro, tra la paranoia e la profonda tristezza. È proprio in questa consapevole disperazione, dunque, risiede il fascino di un genio cui, persino il destino ha negato la tanto agognata fine da rockstar (e non che non ci abbia provato a concludere con un suicidio scenografico) per regalargli il più sconsolante degli epiloghi. Per un infarto, solo tra i suoi gatti, ad un passo dall'affermazione, dal successo di Biade Runner. Paranoico, sessualmente imbarazzato e disperato, Dick, più di molti altri suoi colleghi (più di Norman Mailer modello invidiato, imitato e detestato), non solo è diventato il padre di un intero genere ma con il suo immaginario ha condizionato irrimediabilmente l'industria d'intrattenimento anglosassone degli ultimi decenni. Tra adattamenti dichiarati e "vaghe" ispirazioni (senza Il cacciatore di androidi, Ubik e Tempo fuor di sesto non avremmo The Truman Show, Inception, Terminatore Matrix) le invenzioni di Dick sono diventate la fondamenta della cultura post-moderna su cui si è costruita la narrazione mainstream della Cinematografia e della Televisione contemporanea. Nell'elevarlo al rango di profeta narrativo, gli studios hanno lasciato da parte le ossessioni religiose, le situazioni ridondanti di cui era innamorato, le sue commoventi fragilità, l'autobiografia ostentata. Come molti hanno capito adattare fedelmente un'opera di Dick non è solo un'operazione impossibile ma, soprattutto, è inutile. La forza del seme di Philip, infatti, non è nei suoi plot, spesso chiusi
frettolosamente e lasciati alla deriva (perché frequentemente già impegnato in nuovo progetto). La sua potenza, invece, risiede nelle morali che, in tutta la loro follia, manifestano una lucidità e una precisione abbacinanti. Autore dotato d'incredibili intuizioni, Dick con i suoi racconti e i suoi romanzi, è il terreno ideale per essere saccheggiato da sceneggiatori pronti a costruire, sulle sue geniali fondamenta, il proprio personale (più o meno fragile) film, in una macchina di sfruttamento sempre in moto (ultimi capitoli del processo sono le serie The Man from High Cast/e e Philip K. Dick's
Electric Dreams). Le opere di Spielberg, John Woo, Ridley Scott e Verhoeven, però, pur nel loro bisogno di spettacolarizzazione, conservano il nucleo concreto dell'opera dickiana. Un messaggio che, in una società costruita sul sospetto verso l'altro, sul senso d'insicurezza, sul bisogno frustrato di libertà, diventa allo stesso tempo il punto di partenza e l'ideale destinazione, il visionario sogno del Domani e lo sconsolante racconto dell'Oggi.
Harrison Ford eroe riluttante di Emanuele Di Porto
Probabilmente, la scena più intima di tutta la carriera di Harrison Ford può essere rintracciata in Witness di Peter Weir . Il suo personaggio viene invitato dalla comunità di amish che lo protegge alla costruzione di un capannone di legno nella loro proprietà. Infatti, il dato più eccentrico della biografia dell'attore è il suo passato come abile carpentiere nelle ville delle star di Los Angeles. Non è stata l'unica volta in cui i suoi interessi privati hanno trovato una corrispondenza sullo schermo. Un video su YouTube riporta le sue comunicazioni con la torre di controllo di un aeroporto californiano dopo aver invaso una pista di decollo con il suo velivolo privato. Harrison Ford è anche un pilota e questo hobby ha più che una coincidenza con il suo ruolo in Six Days Seven Nights di Ivan Reitman. Ovviamente, il Millennium Falcon è la migliore nave spaziale della galassia perché sono lui e Chewbacca a guidarla. Il finale diAir Force One di Wolfgang Petersen lo metteva un'altra volta dietro la plancia dei comandi, anche se le circostanze lo costringevano a delegare le manovre d'atterraggio. L'elemento ricorrente con cui i suoi personaggi si ritrovano a volare non esclude nemmeno la vettura planante di Biade Runner di Ridley Scott. Tuttavia, la manualità dell'artigiano sembra essere un dato più interessante per capire il suo approccio alla recitazione. In quel periodo, la sua esperienza hollywoodiana sembrava finita prima ancora di iniziare e si è ripresa anche per merito della rete di conoscenze che aveva tessuto durante le ristrutturazioni. L'aneddoto su un passato stentato potrebbe far credere che Harrison Ford conservi un bel ricordo dell'eroe del film di Peter Weir. In una recente intervista, qualcuno gli ha chiesto se non avesse preferito il finale romantico che tutto il pubblico avrebbe voluto. Il poliziotto
disincantato rinuncia alla sua vita piena di pericoli a Philadelphia, gira la macchina sul viale sterrato e decide di abbandonare tutto per ricambiare l'amore di Kelly McGillis e per fare da padre al piccolo Lukas Haas. L'attore ha risposto semplicemente che il film finiva così e basta, e che non c'era motivo di continuare a specularci sopra. Il detective tornava alla sua vita senza punti di riferimento e senza idealismi e non c'era più niente da fare. Per quello che gli riguardava, non aveva più pensato a quello che sarebbe potuto succedere alla coppia dopo i titoli di coda. Harrison Ford è nato nel 1942 e dal punto di vista anagrafico appartiene a quella generazione dei figli del metodo che vanta nomi come Robert De Niro, Jack Nicholson, Al Pacino e Dustin Hoffman. Tra il più giovane e il più vecchio di loro ci sono solo sei anni di differenza e la distanza non cambia se si allarga il campo fino a Robert Redford e Warren Beatty. La sua appartenenza per nascita alla New Hollywood viene confermata dal suo tentativo per ottenere la parte fondativa di Benjamin Braddock in The Graduate di Mike Nichols. Eppure, il fallimento rivela subito la sua invidiabile capacità di capire quale copione può fare presa sul pubblico e di conseguenza può servire alla sua affermazione. Comunque, il suo profilo è sempre stato considerato diverso rispetto a quello degli altri mostri sacri e questa esclusione trova delle ragioni abbastanza convincenti. Harrison Ford è l'attore che vanta la somma di incassi complessivi più alta di tutta la
storia del cinema e per molti anni è stato quello con il cachet più alto. Tuttavia, non ha ma vinto un Oscar e ha ricevuto una sola nomination in un periodo di attività di cinquanta anni. La giuria dei Golden Globes ha rimediato al torto di non averlo tra i suoi premiati con un tributo alla carriera nel 2003. In più, non è mai stato considerato neppure per un Razzie Award, un altro onore che non è sfuggito a molti intoccabili della sua età. Harrison Ford scopre la recitazione negli anni dell'università e si trasferisce a Los Angeles per cercare fortuna come attore dopo essere stato cacciato dal suo college nel Wisconsin. Il suo percorso non è quello dell'enfant prodige e i vari studios gli propongono una carriera da comprimario che non gli permette di mantenere la moglie e i figli. Nel 1973, George Lucas lo inserisce nel cast di American Graffiti ma anche in questo caso la parte che gli viene data è secondaria. Il film ha un grande successo ma nessuno nota il suo contributo e l'esperienza non fa alzare le sue quotazioni. La cosa che sembra mancare di più quando si scorrono i suoi esordi è un eclatante indizio di talento. I primi film di Harrison Ford non sono mai rivelatori e non hanno quel magnetismo profetico che hanno le prime apparizioni dei suoi coetanei. Francis Ford Coppola lo scrittura per una piccolissima parte in Apocalypse Now e si capisce che quello dell'assistente è il suo destino all'interno di quel cinema. Il suo volto sembra condannato al purgatorio del caratterista, uno tra le centinaia che si alternano nel sottobosco hollywoodiano. Ovviamente, è interessante capire perché non è andata così e perché Harrison Ford è stato un nome così popolare per più di due decenni. Il 1977 e il trionfo senza precedenti di Star Wars rappresentano il crocevia della sua fortuna. L'attore interpreta il cinico contrabbandiere spaziale Han Solo e il suo volto finisce in ogni tipo di
medium possibile fino a diventare un'icona. Eppure, il modo in cui arriva alla parte è un dettaglio significativo della sua natura inconsapevole di attore. L'amicizia con George Lucas lo fa assumere come lettore durante i provini dei pretendenti e lo scarso entusiasmo con cui assolve al suo compito lo sintonizza sulla stessa tonalità del suo personaggio. Inoltre, il fatto che la consacrazione sia arrivata con questo tipo di film con- ferma l'idea che la sua personalità non appartiene al club delle star della New Hollywood. Il suo nome rompe l'anonimato con uno dei primi blockbuster ed è come se l'evoluzione del cinema avesse trovato ilformat adatto per le sue caratteristiche. L'epoca della profondità della performance, della permeabilità totale tra la parte e l'interprete e del percorso lacerante di immedesimazione si stava esaurendo. Questo era anche l'approccio con cui Harrison Ford non è mai riuscito a confrontarsi. Quindi, era il motivo per cui la sua ascesa era stata ritardata fino a questo drastico cambiamento produttivo. Da quel momento in poi, le sue qualità sono diventate le più adatte per le nuove richieste del pubblico. La sua generazione aveva sfidato il confine tra il cinema e la vita e si era proposta di far coincidere le due dimensioni. L'aderenza ad un ruolo diventava una questione ossessiva che spesso risaltava oltre le qualità del film. Harrison Ford è stato il primo attore a riportare il divismo in quei limiti professionali che aveva prima del ventennio autoriale americano che va da Gangster Story di Arthur Penn a Raging Bull di Martin Scorsese. Dal suo punto di vista, recitare è sempre stato un ingaggio che inizia e finisce secondo una cadenza contrattuale ben definita. Nel 1981, dichiarò di non avere interesse ad essere la star di un film ma che sceglieva delle storie che funzionavano per conto loro. Una delle leggende più diffuse riguardo a Harrison Ford è la sua riluttanza davanti alle interviste e alle convention. Un dato ancora più insolito se si considera che Han Solo è il primo di tanti eroi che hanno dato vita ad unfandom mondiale. L'attore diventa ancora più famoso quando ottiene la parte di Indiana Jones in Raiders of the Lost Ark di Steven Spielberg. La nuova fortunata serie di eventi arriva subito dopo aver piazzato un altro incasso da record con The Empire Strikes
Back. La prima scelta della produzione è Tom Selleck ma il conflitto con le riprese del serial Magnum PI impedisce al candidato preferito di essere scritturato in tempo per le riprese. Di nuovo, Harrison Ford arriva per caso e come rincalzo ad un altro personaggio leggendario. Le imprese dell'archeologo esploratore vengono presentate al Festival di Venezia e la critica inferocita parla di bambinismo di massa. Il suo nomediventa il bersaglio di unacrociata contro i trionfi dipubblico di Steven Spielberg e di George Lucas.l due cineasti vengonogeneralmente accusati diaver trascinato il cinemain una
regressione disimpegnata e puerile. Il marchio resta addosso ad Harrison Ford anche quando cerca di allontanarlo con Mosquito Coast di Peter Weir e con Frantic di Roman Polanski. Un articolo sul New York Times esaltava il regista polacco per aver finalmente capito che l'attore aveva delle complessità e uno spessore che andavano oltre le sue doti di personaggio da cartoon. Qualsiasi analisi sulle sue doti non può prescindere dalla sua idea che il cinema sia soltanto un lavoro. Così, coordinare una rivoluzione stellare o cercare la moglie scomparsa nei pericolosi e seducenti bassifondi parigini è esattamente la stessa cosa. Il processo esaltante di complicità tra il cinema e la vita assume una declinazione più sfumata che valorizza il carisma dell'attore. Harrison Ford trasforma i suoi personaggi in sé stesso al punto che il suo distacco verso il lato passionale del suo mestiere diventa il loro tratto distintivo. Il prezzo da pagare è quello di non affezionarsi mai troppo e di non fare parte dell'immortalità dei suoi franchise . Fosse stato per lui, Han Solo sarebbe morto alla fine di The Return of the Jedi e J. J. Abrams gli ha regalato la liberazione con trent'anni di ritardo. Il rapporto tra l'attore e l'eroe sembra essere apparentemente invertito e lascia sempre un dubbio sulla polarità dominante. Harrison Ford è diventato famoso per la casualità di essersi imbattuto in Indiana Jones e in Han Solo? Oppure, la credibilità di questi eroi sarebbe stata ridotta con un'altra qualità della performance? Sicuramente, l'ordinarietà della sua recitazione ha fatto incontrare il bisogno di realismo del nuovo cinema con la necessità del blockbuster di un'interpretazione subalterna. La missione originaria dell'attore sopravvive quando ormai sembrava soccombere davanti ad una gara di istrionismo. Il suo compito torna ad essere solamente quello dell'identificazione e non quello dell'esibizione del talento. Harrison Ford è l'avventuriero che tutti avremmo voluto essere, il cittadino innocente e braccato in una situazione hitchcockiana, il leader politico che tutti vorremmo avere e l'affascinante bisbetico che ogni donna vorrebbe domare. In ognuna di queste versioni, resta sempre e comunque un modello di riferimento alla portata del pubblico. Harrison Ford è perfettamente consapevole che questa è la chiave del suo successo ed evita con cura di farsi trasportare su un altro terreno. La prova è l'attenzione con cui sceglie l'umore dei film a cui deve partecipare. La sua insoddisfazione verso la lavorazione complessiva di Biade Runner e i suoi scontri con Ridley Scott vertevano soprattutto sull'ambiguità di Rick Deckard. Il regista attribuiva il fascino dello script al dubbio sulla sua natura umana o androide e voleva spingere il film in quella direzione. L'attore insisteva sull'esigenza dello spettatore di mante- nere senza incertezze un punto di contatto con un suo simile. La produzione gli ha dato ragione e l'inserimento della sua voce over ha dato un tocco di noir a tutto il racconto. Un'altra prova di come la sua presenza abbia dato una faccia ideale alla contaminazione dei generi e l'idea del classico
rivisitato con cui Hollywood stava cercando di rinascere. Il ritorno di Harrison Ford sui suoi personaggi più famosi è iniziato nel 2008 con Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull di Steven Spielberg. La lunga gestazione di The Force Awakens ha portato George Lucas a cedere tutta la saga nelle mani della Disney. Forse, è stato l'allontanamento del creatore a concedere il diritto all'oblio all'attore e a dare la morte al suo eroe più amato. Una sua divertente intervista riguardo a Biade Runner 2049 di Denis Villeneuve ha svelato i motivi che lo hanno convinto a tornare nei panni mai troppo graditi del cacciatore di replicanti. Il suo riavvicinamento con Ridley Scott non si è consumato sulla sorte del detective dopo la fuga con Rachel ma su quanti soldi erano disposti ad offrire pur di averlo nel film. L'aura che sta intorno ai suoi personaggi prescinde dalla gratificazione che Harrison Ford prova per il valore riconosciuto del suo lavoro. Le sue reunion lo mettono sempre nella situazione di confrontarsi con i suoi figli e per esteso con la sua reticenza a lasciare un'eredità. Infatti, l'eroe parte sempre da uno status di esilio e da un sostanziale rifiuto delle sue responsabilità educative. L'attore è diventato suo malgrado il testimone di un certo cinema e inevitabilmente deve lasciare una traccia su quello del futuro. Oppure, gli viene chiesto di mettere in atto un sacrificio rituale che renda il passaggio di consegne meno doloroso. Così, uno dei ruoli più identificativi della sua carriera diventa il remake di Sabrina di Sidney Pollack. L'attore riprende il personaggio che era stato di Humphrey Bogart e la sua disinvoltura è il legame più saldo con il cinema degli studios. Harrison Ford è stato il più grande attore
intercambiabile della sua epoca e questa è più una speranza che una constatazione. È probabile che il suo successore non sarà affidabile nello stesso modo ma quello che conta è l'assorbimento della lezione. La ritrovata attitudine alla riproducibilità del ruolo universalmente amato permette al cinema di non morire mai. Harrison Foro in uno dei film della serie di Indiana Jones
Ryan Gosling Tracce di un corpo magnetico di Nicoletta Scatolini
Mio zio era un imitatore di E/vis Presley. A quel tempo viveva nel nostro seminterrato. Non assomigliava per niente a Elvis. Era pelato, aveva i baffi e un'enorme voglia [sul viso]. Ma quando si esibiva, era Elvis. Era come un cavallo da corsa che sbatte contro le sbarre prima della gara. Sono cresciuto vicino a lui. L'ho osservato creare e diventare quel personaggio perciò, inconsapevolmente, mi ha mostrato come fare.
Sembra giusto partire da qui: dal ricorrente racconto sullo zio PerryElvis, per provare a osservare più da vicino la carriera del trentasettenne attore canadese Ryan Gosling, divenuto nell'arco dell'ultimo quindicennio uno dei volti più noti del cinema statunitense, un divo decisamente mainstream dal percorso attoriale magmatico.
Trasfigurazione, traslazione, traduzione. Gusto performativo per la mediazione di una distanza, la creazione di un'impalcatura che vive attraverso un paradosso, nella contiguità tra strutturazione e destrutturazione. Come avviene con il personaggio di K, nella geniale espansione narrativa di Biade Runner 2049 pensata da Hampton Fancher, autore della sceneggiatura seminale del cult del 1982 di Ridley Scott. Qui Gosling interpreta il cacciatore di replicanti, replicante a sua volta, KD9- 3.7: un vorticoso lavoro di sottrazione che determina (o completa?) la metamorfosi del volto in maschera, del corpo in meccanismo, della voce in sintetizzatore. Per poi compiere un'altra metamorfosi ancora, a ritroso, nella stratificazione densa ed implosiva che traccia nella ricerca di una p ropria umanità la domanda esistenziale fondante della poetica futuristica che da Scott passa a Villeneuve. E in realtà sembra in primis una metamorfosi improbabile quella che porta il corpo attoriale di Ryan Gosling dentro
il mainstream fantascientifico, a pochi mesi di distanza dal successo del film musicale di Damien Chazelle La La Land (che gli è valso la vittoria del suo primo Golden Globe). Eppure, a ben guardare, la carriera di Gosling è la cronaca di un attraversamento trasversale di generi, una compulsione performativa che trae la sua forza propulsiva proprio dalla capacità di aggirare, di accorciare la distanza tra se stesso e il personaggio da catturare. Come quando, dopo i trascorsi da enfant prodige al Mickey Mouse Club e l'esperienza della serialità televisiva con lo Young Herrules di Sam Raimi, si scrolla di dosso l'aria "da surfista" biondo e belloccio aggiudicandosi il ruolo dell'ebreo neonazista Daniel Balint nel film d'esordio alla regia dello sceneggiatore Henry Bean, The Believer, lungometraggio acclamato al Sundance Film Festival del 2001: è il turn over decisivo per l'attore canadese, che all'epoca ha solo ventun anni. La chiave espressi- va del personaggio di Daniel mostra una lettura interpretativa che si muove su un delicato e indefinito tracciato di compresenza e sovrapposizione di elementi, un viaggio oscuro tra impeti ed eccessi dialogici e fisici che viene smussato, destrutturato e riproposto nelle successive esperienze filmiche - The Slaughter Rule, Il delitto Fitzgerald, Stay - Nel labirinto della mente - , e in qualche modo intro- iettato e metabolizzato lungo tutto l'arco del suo percorso
cinematografico: aiutato da una fisicità che si presta al gioco dell'ambiguità, Ryan Gosling sperimenta sul filo del proprio corpo attoriale storie di anti-eroi dilaniati, spezzati, ambivalenti. Se il 2004 è la tappa decisiva nell'economia strutturale divistica (con il successo del blockbuster romantico Le pagine della nostra vita di Nick Cassavetes, vero e proprio fenomeno mainstream), sono il 2006 e il 2007 a rappresentare gli anni della svolta fondamentale, con due film
in cui le interpretazioni di Gosling tracciano una so- stanziale linea di maturità stilistica e consapevolezza autoriale. Con H alfN elson, film very low budget di Ryan Fleck e Anna Boden ambientato in una scuola superiore pubblica di Brooklyn, Gosling compie un lavoro dallo scarto asciuttissimo nella sua interpretazione del giovane professore Dan, inestricabilmente avviluppato nel conflitto tra il senso fortemente etico del proprio mestiere e un'esistenza autodistruttiva di tossicodipendenza. Sembra questa l'attestazione di un'operazione che trova una frequenza modulare che si impernia sottopelle, dietro la superficie della maschera, combinando cambi di registro lievi e dritti. E anche nell'esperienza del tutto diversa di Lars e una ragazza tutta sua di Craig Gillespie, nel racconto di Lars e della sua fidanzata-bambola che da dramma sulla solitudine si apre alla tragicommedia corale, Gosling delinea un carattere (ad oggi una delle sue migliori interpretazioni) che traccia schemi e confini, mescolandoli in un continuo andirivieni. Di nuovo, la presenza performativa segue un proprio percorso che vive di compenetrazione di opposti, di virate improvvise, della sovrapposizione di eccessi, del passaggio zigzagante tra gravità e leggerezza. La tipologia ibrida di (anti)eroe che Ryan Gosling sembra incarnare, eroe romantico e conflittuale con una fragilità tutta contemporanea rielaborata entro un minimalismo da vecchia scuola hollywoodiana, attraversa generi e film, diventando quasi un corpo/contenitore nel quale confluiscono istanze artistico-autoriali e tracce transmediatiche.
In un itinerario composito ed eterogeneo: il corpo eccedente di Dean in Blue Valentine ( 2010), interpretazione magnificamente densa e tridimensionale, carne viva su cui si in- scrive la storia dell'amore ormai esausto tra una moglie e un marito; il corpo alieno dello stuntman che si muove tra i corridoi e le corse automobilistiche di Drive (2011) e poi quello definitivamente anestetizzato di J ulian nel
dramma edipico Solo Dio perdona (20 13), entrambi di Nicolas Winding Refn - percorsi a parte, questi, in un tracciato sperimentale nel quale Gosling spinge il proprio sguardo autoriale verso una poetica di alienazione, svuotamento e de-sincronizzazione che si amplifica e sembra trovare compimento nell'agente K di Biade Runner 2049; il corpo comico di Holland March, con la sua sapienza
millimetrica dei tempi comici degna di un consumato attore di slapstick, nella bromedy vintage-thriller The Nice Guys di Shane Black (2016); infine, il corpo contaminato del musicista Sebastian in La La Land, sorta di deriva del dialogo continuamente aperto tra
filmico ed extra-filmico, innervato del discorso metatestuale del personaggio Ryan Gosling - compendio che ingloba le attività di musicista, cantante e ballerino dagli anni giovanili da Mouskeeter sino all'approdo al duo musicale Dead Man's Bones. Pur nella miscellanea composizione di caratteri, storie, percorsi, sperimentazioni, i personaggi risucchiati entro l'orbita di Ryan Gosling sembrano abitare lo stesso lembo liquido e limbico tra implosivo ed esplosivo, in una loquacità tensiva che si sostanzia nella stratifica- zione trattenuta, compressa sottopelle, raddensata e contratta a cui partecipa tutto il corpo attoriale. In un lavoro che scava continuamente sotto la superficie degli interstizi emotivi, muovendosi sotto il pelo dell'acqua e poi schizzando in strappi di irrefrenabile estemporaneità, scalpitando come un cavallo da corsa che spinge sulle sbarre di partenza subito prima della gara. Ryan Gosling in una scena del film Lars e una ragazza rutta sua
"The Final Cut, la versione definitiva del mio film piu' bello". Ridley Scott racconta Biade Runner di cario Valeri
Il primo settembre 2007 viene presentato alla Mostra internazionale d'arte cinematografica Biade Runner: The Final Cut, terza e ultima versione ufficiale del film diretto da Ridley Scott nel 1982. Il regista inglese torna a Venezia venticinque anni dopo la prima presentazione internazionale. Nonostante sia stato rimontato e restaurato, The Final Cut non si distanzia molto dal Director's Cut che uscì in sala nel 1992 e che è stato per anni l'unica versione disponibile in dvd. I cambiamenti di questo Final Cut rispetto al primo Biade Runner risiedono, com'è noto, soprattutto nell'aggiunta di nuovi piani d'ambientamento con qualche ritocco visivo, nell'assenza della voce narrante del protagonista e del finale paesaggistico e nell'inserimento della scena dell'unicorno - l'ambiguo ricordo del protagonista che insinua il sospetto della sua natura androide. Quella che segue è la cronaca dell'incontro stampa con Ridley Scott. Può spiegarci a grandi linee la necessità che c'è dietro a questa
nuova versione di Biade Runner? È una lunga storia che inizia 25 anni fa durante le riprese del film.
Biade Runner è stato il mio primo film hollywoodiano, dal momento che Alien era stato realizzato in Inghilterra. Lavorare a Hollywood a quei tempi era il sogno di tutti i cineasti, ma allo stesso tempo rappresentava per me un esame davvero importante e per certi versi rischioso. Non avevo il controllo e la sicurezza di cui dispongo oggi. Il film era una superproduzione che ebbe un processo realizzativo molto complesso e prima dell'uscita in sala venne presentato a una serie di anteprime riservate alla stampa e a un pubblico selezionato consuetudine che del resto è sempre stata utilizzata nel cinema americano - ricevendo molti pareri sfavorevoli. Tutto ciò avvenne ovviamente prima che la pellicola diventasse un classico e perciò fui costretto a rivedere alcuni aspetti del film, eliminando delle scene e inserendo la voice over del protagonista. Col tempo ho però sempre considerato quella del 1982 una versione ibrida e incompleta. Quella di oggi è invece la versione definitiva. E sono contento di poterla finalmente presentare al pubblico di tutto il mondo. Oltre a Biade Runner ci sono stati altri suoi film danneggiati, che magari le piacerebbe rimodellare con la stessa cura che in questi 25 anni ha riservato a questo suo capolavoro? Sì che ci sono stati. In questo lavoro succede continuamente di veder danneggiati i propri film . Fa parte del mercato e facendo anche il produttore mi rendo conto di quanto sia difficile questo mestiere. Non me la sento quindi di arrabbiarmi con chi produce i film. L'unico consiglio che mi sento di dare a un produttore è quello di collaborare con il regista il più possibile, fare in modo che il lavoro di equipe funzioni nel miglior modo. Perché nella sua.filmografia ci sono solo due film di fantascienza? E cosa ne pensa di questa recente proliferazione di film bellici sulla guerra in Iraq? Aliene Biade Runner li ho amati entrambi per la solidità della sceneggiatura e per la loro forte componente realistica. Anche in un contesto fantastico l'importante è che lo spettatore creda a quello che vede. Mi piacerebbe fare un terzo film di questo tipo, ma ancora aspetto la sceneggiatura giusta. Per quanto riguarda il recente cinema di guerra, mi fa piacere che se ne parli. L'importante in assoluto è fare buoni film. Il mio BlacJc Hawk Down per certi versi anticipava questo nuovo filone. Pur essendo ambientato a Mogadiscio, era un film che anticipava le dinamiche claustrofobiche della guerra in Iraq. Che opinione si è fatto dei cambiamenti che il cinema ha subito negli ultimi anni? Anche tenendo conto della realtà multimediale e televisiva? Non ho affatto idea di dove il cinema stia andando. Non sono però molto pessimista per quanto riguarda i progressi tecnici. Il mondo della televisione e dei video musicali è a suo modo molto cinematografico. So bene quanto il pubblico e l'estetica di MTV siano stati influenzati da Biade Runner. Il problema, almeno in America, risiede semmai nell'eccessivo potere commerciale del sistema scapito dell'arte.
"Questo sequele' un viaggio nell'intimo". Denis Villeneuve racconta Biade Runner 2049 di Gianmarco Bonelli
la trama Credo di poter dire che è il miglior film che io abbia mai fatto. In questo mondo, chi si ricorda il primo Biade Runner ritroverà molti cambiamenti. Questo film mostra come le cose non siano andate bene, il clima si è evoluto disastrosamente e chi sopravvive si ritrova in condizioni terribili. C'è da dire che internet non è il massimo per noi registi e sceneggiatori poiché sappiamo bene che non c'è nulla di più noioso del vedere un poliziotto seduto sulla scrivania a cercare i dati. Dunque per rendere la trama avvincente abbiamo pensato a un blackout, che cancellasse tutti i dati e costringesse la gente a tornare allo stato brado e a non dipendere più da internet. ryan gosling e gli attori Ridley Scott ha subito pensato a Gosling come protagonista e mi ha proposto di scrivere la sceneggiatura basandomi su di lui. Il personaggio era perfetto per Ryan, che non aveva mai preso parte a un film di questa portata prima d'ora. Ha accettato subito. Si è ispirato moltissimo al primo Biade Runner per la sua performance, lavorando però su un piano più complesso dove la solitudine e il thriller esistenziale tracciano una serie di tematiche su questo personaggio. Amo gli attori che non fanno gli attori. Amo coloro che incarnano e al tempo stesso sono il personaggio stesso. Davanti a una cinepresa, uno come Eastwood ad esempio, porta presenza senza neanche muoversi. È il tipo di attore con il carisma necessario per poter realizzare quest'obiettivo che io cerco. Come Harrison Ford che sa esprimere sfumature emotive in modo unico. La risposta che do in genere è che ho scelto tale attore X perché ha un grandissimo talento. Gosling è in ogni inquadratura e il film è tutto sulle sue spalle e per questo l'ho scelto. Per il suo carisma. Ed ho scelto anche tutte le comparse, una ad una, perché non tutti i volti sono adatti al mondo di
Biade Runner. look visivo
Il primo film è stato, dal punto di vista estetico, un pezzo di storia del cinema. Abbiamo voluto creare qualche analogia con esso ed ho deciso che avremmo cercato di riprodurre lo stesso tipo di quartiere di Los Angeles, in una versione peggiore. La principale differenza è la neve, perché il clima è cambiato. Cerco sempre di pensare quale sia il punto di partenza nell'ambito della mia ricerca visiva. In questo film ci sono momenti più bianchi e argentei, visivamente parlando, rispetto al primo film. L'inverno è stato al centro di questa nostra scelta cromatica. È raro lavorare in una situazione di controllo assoluto sul film e questo mi ha permesso di lavorare sui colori in un modo tutto mio. Utilizzando il giallo inoltre, abbiamo dato il tono giusto e generale al film. Aggiungo che i due Biade Runner hanno in comune diversi elementi della colonna sonora, poiché ho insistito per far sì che si utilizzassero gli stessi strumenti utilizzati per le sonorità del primo film, per creare un filo conduttore. Effetti speciali Ovviamente quando si fa un lavoro di sci-fila CGI è importante. Ma una delle mie prime decisioni è stata quella di costruire tutti i set da zero. Gli attori non a caso mi hanno chiesto se avrebbero dovuto lavorare solo davanti a un green screen e io li ho rassicurati dicendo che invece avremo riprodotto tutto. Ho lavorato con un budget tale da poter costruire ogni cosa, proprio come si faceva tempo fa. Sono grato alla produzione perché siam potuti tornare alle origini del cinema usando cose vere e questo è stato un bene anche per gli attori. Permette loro di concentrarsi di più e sentirsi in simbiosi con l'ambiente. Mi piace lavorare con attori che contribuiscono con nuovi spunti e idee, se siamo totalmente liberi e divincolati dal green screen possiamo creare cose "vere". Ovviamente per diverse scene siamo comunque dovuti ricorrere alla cci, grazie al talento di bravissimi artisti. Eredita' Non ho certamente accettato a cuor leggero l'incarico. L'ho fatto sapendo innanzitutto di avere una situazione di controllo totale sull'opera. Il mio Biade Runner 2049 è un film completamente diverso rispetto al primo capitolo e so benissimo che facendo un sequel di un capolavoro ci sono pochissime possibilità di fare successo e venire accolto bene. Ho accettato di farlo lo stesso per amore verso il cinema, per passione. Fare una scelta del genere per un regista è un'esperienza straordinaria. Il cinema è arte e non c'è arte senza rischio. Con arroganza credo di poter dire che è il miglior film che io abbia mai fatto. Fantascienza Posso dire che Arrivai per me è sì fantascienza ma al tempo stesso entrambi questi miei due ultimi lavori hanno in comune un viaggio nell'intimo. Da quando sono piccolo mi hanno sempre attirato i temi fantascientifici, anche letterari. Alcune mie influenze sono nate anche dalle graphic nove! dei miei tempi, che hanno riempito la mia infanzia con dei sogni. Io ho studiato scienza, microbiologia, poiché era la nuova frontiera che si affacciava verso l'ignoto. E questo film mi ha permesso di esplorare l'esistenzialismo e i confini dell'umanità. Ci sono tanti libri sulla fantascienza ma pochi film di fantascienza belli. E sono grato a Christopher Nolan per i film che ha fatto e che tutt'ora sta facendo.
Coda. Biade Runner 2049: un flop annunciato? di Simone Emiliani
Innanzitutto le cifre. Sembra che Biade Runner 2049 avrà una perdita di circa 80 milioni di dollari. Con un budget stimato di almeno 150 milioni a cui vanno aggiunti un altro centinaio per il lancio del film, a fine novembre ne ha incassati poco più di 90 negli Stati Uniti e 250 nel mondo. In verità, per rientrare delle spese, ne avrebbe dovuto fare almeno il doppio perché circa la metà dei soldi vanno agli esercenti. Denis Villeneuve non si spiega le ragioni di questo insuccesso. "Per me resta un mist ero". E aggiunge: •o era troppo lungo o il pubblico non è riuscito a entrare nella dimensione del film. Eppure ho avuto le recensioni migliori della mia carriera". Forse il flop era annunciato. Tra i motivi può esserci di aver fuso i tempi sospesi della fantascienza del cinema di Denis Villeneuve (già ben evidenti in Arrivai, 2016), con il look tipico del blockbuster, in un'operazione cinematograficamente rischiosa ma anche elettrizzante, in un certo modo maggiormente legata all'universo di Philip K. Dick rispetto al film originale. 2049 con il suo sguardo rarefatto sembra guardare più verso Tarkovskij (Solaris, 19 7 2), con le forme di una fantascienza in cui già la pellicola del 1982 poteva essere un sequel. Ma che poi, sullo sfondo quasi impermeabile delle luci, gli spazi, le prospettive della Los Angeles del 2049, si trasforma allo stesso modo in riciclaggio, recupero dell'immaginario di quella del 2019 di Ridley Scott. Emergono architetture e un'inclinazione alla
distruzione del set che rimandano a Michael Bay, anche se gestita con le attese, le allucinazioni, le rivelazioni del cinema del regista canadese. Per chi non ha particolarmente amato precedentemente il cinema di Denis Villeneuve, Biade Runner 2049 è stata una folgorazione. Perché, nell'attesa del sequel che ormai durava da anni, ha creato più mondi possibili, vicini/lontani al film del 1982, con Ryan Gosling corpo impermeabile nei panni dell'agente K e il ritorno del cacciatore di taglie Rick Deckard/Harrison Ford (nell'ultima ora del film assolutamente travolgente, con un finale che è un'improvvisa impennata mélo), che non solo è residuo del precedente capitolo, ma agisce con i tempi del film di Ridley Scott. Mentre quelli di Ryan Gosling stanno a metà tra il cinema di Villeneuve e la progettualità di un fantasy/blockbuster proiettato al futuro. In questo modo il nuovo
Biade Runner agisce su un doppio movimento, una mancata sincronia, sull'impossibile legame tra il vecchio e il nuovo. Quindi in un cinema che, oggi, nel 2017 non trova il suo spazio e deve inventarselo. Soprattutto rispetto a Star Wars o ai cinecomics della Marvel . E non si st a parlando solo a livello di pubblico e di incassi. Ma proprio in uno sguardo che può apparire, come si è visto, filosofico ma co n dentro anche action pura più nella costruzione della tensione, nelle improvvise apparizioni e nelle azioni sorprendentemente fulminee. Esse appaiono però come lampi persistenti che si accumulano, che danno l'illusione di vedere qualcosa che già si co nosce mentre si vede un'altra immagine. Ecco, le stratificazioni molteplici di quello che, personalmente, appare come il miglior lavoro di Denis Villeneuve, per il box-office ha invece ovviamente rappresentato un limite. Del resto però c'è da dire che anche il film di Ridley Scott, su un budget stimato di 28 milioni di dollari, non partì benissimo al botteghino e solo nel corso degli anni è diventato l'esempio cult della fantascienza cyberpunk. Qui però se devo affidarmi ai ricordi personali, emerge la mia visione all'inizio degli anni 80 di Biade
Runner in una sala gremita, che non riesco a non contrapporre a quella semivuota del Barberini di Roma al secondo giorno di programmazione. Tra le ragioni più ricorrenti usate dagli analisti per analizzare il flop di uno dei titoli più attesi dell'anno, due sono tra le più ricorrenti. Il primo è la durata, considerata eccessiva, di 164 minuti, laddove il film di Scott invece andava sotto le d ue ore. Poi, la più ovvia ma anche la più banale, che il pubblico rispetto a 35 anni fa è cambiato. E che un certo tipo di immaginario futuristico, che all'epoca poteva apparire innovativo soprattutto per lo sguardo sulla metropoli, oggi non lo è più. Ma un'illuminante articolo di Scott Mendelson su www.forbes.com ha messo in evidenza 10 punti per cui Biade Runner 2049 è stato co ndannato dal pubblico. Tra questi uno riguarda gli adulti che per motivi generazionali potevano essere interessati al film e che vanno al cinema in media una o due volte al mese. A quanto pare molti di essi hanno preferito vedere il nuovo adattamento di It, uscito in sala una settimana prima. Inoltre la Alcon Entertainment, nelle anteprime per la stampa, ha inserito un elenco di elementi dettagliati di cui i media non potevano parlare. Questa strategia di controllo dello spoiler ha determinato che anche le critiche più entusiaste non riuscivano a spiegare bene al pubblico di cosa la storia del film. E alcune di queste hanno rischiato di essere controproducenti quando si sono soffermate, oltre che sulla lunghezza, anche sul fatto che non era in linea con l'action convenzionale. E poi, nella promozione, il film sembrava indirizzato a un pubblico maschile pur avendo personaggi femminili molto interessanti, non era per un pubblico di bambini (e in quest o modo si sono tagliati fuori anche i genitori che volevano andare al cinema con la famiglia). E ancora: i due protagonisti sono delle star ma di solito non hanno un grande appeal al botteghino; l'ultimo grande successo di Harrison Ford degli anni 2000 risale a Le
verità nascoste di Robert Zemeckis mentre Ryan Gosling, a parte La La Land ( 2016) di Damien Chazelle, ha ottenuto il migliore risultato al box-office con Crazy, Stupid, Love (2011) di Glen Ficarra, John Requa. Un'altra chiave di lettura proposta dall'articolo riguarda l'alto budget e mette in evidenza che un sequel molto costoso come quest o significa molto poco per il pubblico generico e anche la forte campagna socia! non sempre da i risultati sperati. In quest o caso fa l'esempio diZoolander 2 (2016) di Ben Stiller, snobbato dagli spettori per Deadpool (2016) di Tim Miller. Infine, ed è forse l'aspetto più decisivo di quest a st oria, Biade Runner non è Star Wars. Sia per gli incassi dei capostipiti, sia perché la saga creata da Lucas, soprattutto ultimamente, è riuscita a raggiungere oggi più fasce generazionali (anche quella dei bambini) con operazioni di marketing che invece a
Biade Runner 2049 non sono riuscite. Il mercato cinese e giapponese potrebbe rendere le perdite meno pesanti. Diventerà anche il film di Villeneuve una meravigliosa catastrofe come I cancelli del cielo (1980) di Michael Cimino e Un sogno lungo un giorno (1982) di Francis Ford Coppola? E se anche la generazione del terzo millennio avesse avuto, senza ancora accorgersene, il suo "capolavoro maledetto"?