Autopsia di una mente suicida 8887319650, 9788887319651

Il volume è l'analisi psicologica di una mente suicida. In questo studio scientifico, Edwin S. Shneidman, un fondat

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Italian Pages 164 [160] Year 2016

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Autopsia di una mente suicida
 8887319650, 9788887319651

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Giovanni Fioriti Editore

“È un libro che, da solo, è in grado di illuminare tutte le problematiche suicidane, cliniche e della vita vissuta” Dalla Presentazione dell 'edizione italiana di Roberto Tatarelli

“Ci è chiaro che nessuno parla о pensa al suicidio nel modo in cui lo fa Edwin Shneidman. I suoi scritti sfidano il lettore a pensare continuamente a quello che riteneva di sapere. Shneidman ama le idee e le parole e vuole trovare dei modi particolarissimi per dire cose importanti” David A, Jobes, Ph.D., Professore di Psicologia Catholic University ofAmerica, da: Cognition and suicide: Theory, Research, and Therapy

“Conoscere il lavoro di Ed Shneidman è come rispettare i suoi doni derivati dalla cono­ scenza della mente suicida. Qui riunisce intorno ‘al tavolo’ un gruppo leggendario di uomini di talento e ricchi di esperienza per una vera autopsia psicologica... all’età di ottantacinque anni, ha così tante cose nuove da insegnarci, sia che si rivolga ai professionisti che a coloro che han­ no perso un caro per il suicidio. La sua lettera alla madre è una prosa al suo maggior livello e in se stessa un capolavoro terapeutico! È stato un privilegio poter leggere questo libro” Richard L Ridenour, M.D., Rear Admiral, MC, USN (Ret.): President, Marian College, Fond du Lac, Wisconsin

“Questo è un libro affascinante... illuminato dalla grande esperienza del Dr. Edwin Shneidman”

Sherman Μ. Mellinkoff M.D., Emeritus Professor ofMedicine and Emeritus Dean, University of California, Los Angeles “Nel 1949, Shneidman, durante il suo lavoro, si ritrovò circondato da centinaia di note di suicidio. La sua mente scientifica lo portò a considerare uno studio che confrontava note vere e note simulate; per la prima volta il suicidio fu studiato con un metodo scientifico” Maurizio Pompili, M.D., Psichiatra Università di Roma “La Sapienza ” e Harvard Medical School, USA Clinical Neuropsychiatry 2, 2, 2005.

€ 18,00 [email protected] www.fioriti.it

Autopsia di una Mente Suicida è un'intensa e unica analisi psicolo­ gica di una mente suicida. In questo struggente studio scientifico, Edwin S. Shneidman, un fondatore della suicidologia, riunisce otto esperti di fama mondiale per analizzare gli esenti legati al suicidio, inclusa una nota di suicidio di undici pagine che gli fu data da una madre addolorata in cerca di indizi sulla tragica morte di suo figlio. L’autopsia psicologica si incentra sulle interviste condotte da Shneidman con la madre e il padre di Arthur, con suo fratello e con sua sorella, con il suo miglior amico, la sua ex-moglie, la sua fidanzata, il suo psicoterapeuta e con lo psichiatra che lo seguì per qualche tempo. Per comprendere Г intenso dolore psicologico di quest’uomo e per esa­ minare che cosa poteva essere fatto per salvare la sua vita tormentata, Shneidman si rivolge ai massimi esperti di suicidio per analizzare la nota e le interviste: Morton Silverman, Robert E. Litman, Jerome Mot­ to, Norman L. Farberow, John T. Maltsberger, Ronald Maris, David Rudd e Avery D. Weisman. Ognuno di questi otto esperti offre una pro­ spettiva sul tragico destino di Arthur e l’insieme delle loro conclusioni costituisce una straordinaria autopsia psicologica. I professionisti della salute menta­ le, gli studenti e le persone le cui vite sono state toccate da questo tema spie­ tato troveranno sollievo e verranno risollevate dai contenuti di questo vo­ lume. Un tour de force epistemologi­ co, un libro che si rivolge a chiunque si occupi dell’autodistruttività umana. Questa raccolta di riflessioni da parte di questi professionisti è rara e di valore inestimabile; se le parole possono guarire, e nella terapia le

parole sono le radici della guarigio­ ne, nello scambio di idee ed emozio­ ni che si condividono ci sarà una gua­ rigione che la madre di Arthur e la sua famiglia possono ottenere dal frutto di questi commenti ricchi di emotività e di esperienza. Dalla prefazione di Judy Collins

Edwin S. Shneidman, Ph.D., profes­ sore emerito di tanatologia all’università della California, Los Angeles. È stato arruolato nella II Guerra Mondiale passando da solda­ to a capitano. Intorno al 1950 è stato cofondatore e condirettore del Los Angeles Suicide Prevention Center con Norman Farberow e Robert Litman. Negli anni Sessanta è stato di­ rettore del Center for Study of Suici­ de Prevention al National Institute of Mental Health a Bethesda, Ma­ ryland. È stato visiting professor alia Harvard University e alla Ben Gu­ rion University del Negev a Beersheva. È stato research associate presso il Karolinska Hospital a Stoc­ colma e membro del Center for Advanced Study in the Behavioral Sciences alia Stanford University. Nel 1968 ha fondato l’American Association of Suicidology. È Г editor fondatore della rivista qua­ drimestrale Suicide and LifeThreatening Behavior. È autore di Deaths ofMan, Voices ofDeaths, De­ finition of Suicide, The Suicidal Mind.

Disegno di Stephen Moor, elaborazione al computer di Massimiliano Maggi.

SCIENZE Medicina, Psichiatria, Psicopatologia, Psicologia e Psicologia clinica, Psicoanalisi, Libri dell’AILAS, Cognitivismo clinico, Psiconeurofarmacologia clinica, Psichiatria e Psicologia dell’età evolutiva, Scienza Libri dell’AILAS : diretta da Roberto Tatarelli

Titolo originale dell’opera

Autopsy of a suicidal mind Italian translation rights arranged with Regina Ryan Publishing Enterprises, Inc., 251 Central Park West, New York, NY 10024, USA Copyright © 2004 by Edwin S. Shneidman Copyright © 2006 Giovanni Fioriti Editore s.r.l. I ristampa 2023

Traduzione italiana di Maurizio Pompili Il presente volume è stato stampato su carta certificata.

SGS

Nota per i lettori: gli standard della pratica e dei protocolli clinici cambiano nel tem­ po, e nessuna tecnica о raccomandazione è garantita essere sicura о efficace in tutte le circostanze. Si deve intendere questo libro come una risorsa di informazione generale per i professionisti che operano nel campo della psicoterapia e della salute menta­ le; non si intende essere un’alternativa a un training professionale appropriato, alla peer-review, e/о alla supervisione clinica. Né l’editore né l’autore sono in grado di garantire la completa accuratezza, efficacia, о appropriatezza di nessuna particolare raccomandazione in ogni particolare aspetto.

Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta о trasmessa in qualsiasi forma e modo, elettronico о meccanico, fotocopie incluse, regi­ strata о immagazzinata senza il permesso scritto dell’editore. Chi fotocopia un libro senza autorizzazione commette un reato. I diritti di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale о parziale con qualsiasi mezzo (compresi i mi­ crofilm e le copie fotostatiche) sono riservati. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’articolo 68, commi 4 e 5, della legge 22 Aprile 1941, n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico о com­ merciale о comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da Giovanni Fioriti Editore s.r.l.; per informazioni [email protected] Allo stesso indirizzo vanno inoltrate le richieste di acquisto in blocco di più copie.

Giovanni Fioriti Editore s.r.l. Via Archimede 179-00197 Roma Tel. 068072063, 0645493302 [email protected] www.fioritieditore.com www.clinicalneuropsychiatry.org www.medicinaesocieta.it

Edwin S. Shneidman

AUTOPSIA DI UNA MENTE SUICIDA

Traduzione di Maurizio Pompili

Giovanni Fioriti Editore Roma

Alla famiglia di Arthur, che ha dato in prestito il suo cuore per questo progetto.

Hie locus est ubi mors gaudet succurrere vitae, [questo è il posto in cui la morte gioisce nell’aiutare la vita] Motto posto sulla porta dell’istituto di Anatomia di Vienna, dove vengono eseguite le autopsie.

Indice

Presentazione dell’edizione italiana di Roberto Tatarelli Consulenti

Prefazione di Judy Collins

Ringraziamenti

VII X

XI XVI

Introduzione

1

L’inizio

3

Un cenno sulle note di suicidio

6

Consulenza di Morton Silverman

8

Intervista con la madre

18

L’idea di un’autopsia psicologica

24

Intervista con il padre

27

Consulenza di Robert E. Litman

35

Consulenza di Jerome Motto

39

Consulenza di Norman L. Farberow

47

Intervista con il fratello

55

Intervista con la sorella

61

VI

Edwin S. Shneidman

Consulenza di John T. Maltsberger

69

Intervista con l’amico

74

Consulenza di Ronald W. Maris

81

Intervista con la ex-moglie

86

Intervista con la fidanzata

93

Intervista con lo psicoterapeuta

101

Consulenza di Μ. David Rudd

110

Intervista con lo psichiatra

114

Consulenza di Avery D. Weisman

121

Lettera alla madre

127

Appendice. La nota di suicidio di Arthur

132

Bibliografia

138

Presentazione dell’edizione italiana

La psichiatria trascina con sé un enorme carico di pregiudizio, di di­ scriminazione, di stigmatizzazione. In Italia, la patria di Basaglia e per anni all’avanguardia nei processi di deistituzionalizzazione psichiatrica, un paese, si può dire, con basse inclinazioni razzistiche, paradossalmente lo stigma (componente importante e cruciale delle determinanti del capi­ tolo razzismo) nella psichiatria è forse superiore che in altri paesi e cultu­ re occidentali. Faccio a questo proposito un solo esempio, che riguarda proprio le istituzioni che dovrebbero essere, anche culturalmente, più avanzate, vale a dire le aziende ospedaliere sedi di Facoltà Mediche Uni­ versitarie (le Schools of Medicine dei paesi anglosassoni). In pratica quasi nessun dipartimento porta sul suo titolo la dizione Psichiatria: più spesso accade che essa sia una sezione del dipartimento di Neuroscienze. Senza dubbio neuroscienze suona meglio, è più elegante, non c’è dubbio, anche perché senza cervello non ci può essere la mente e i relativi disagi e di­ sturbi e malattie. E anche evidente, però, la connotazione fortemente riduzionistica, che farebbe passare come poco rilevanti о addirittura irrile­ vanti, se mi è permessa la rozza metafora, i software della vita e delle sue vicissitudini storiche relazionali e sociali (che però possono anche incide­ re sugli hardware, come le conoscenze sulla neuroplasticità sembrano chiaramente indicare). Tutto ciò malgrado l’enfasi sul modello biopsicosociale cui tutti ora fanno riferimento nella teoria come nella prassi! In altri paesi occidentali, come negli Stati Uniti, о in Gran Bretagna, Francia, Germania, al contrario la grandissima maggioranza dei diparti­ menti delle Università e delle Scuole di Medicina mettono in primo pia­ no о almeno in posizione paritaria la psichiatria. Basti solo citare l’esempio di Harvard, della Columbia, di Oxford e Cambridge e della Salpêtrière a Parigi. E così anche perché sono incomparabili i dati della prevalenza e dei costi dei disturbi mentali rispetto a quelli dei disturbi nervosi. Una delle tante conseguenze dello stigma psichiatrico consiste pur­ troppo nel fatto che un gran numero di pazienti non può giovarsi di cure

Vili Edwin S. Shneidman

appropriate perché preferisce rivolgersi a professionisti non esperti in psichiatria (neurologi e altro, psicologi e altro) Libri come questo - purché vengano letti! - sono per me essenziali per ridurre il pregiudizio e lo stigma. Il libro è centrato su di un unico caso clinico, un caso a mio avviso di valore paradigmatico di suicidalità cronica, un caso in cui, psicodinamicamente, le valenze (e l’assetto) narcisistiche sono caratteristicamente sovrarappresentate. E un libro che, da solo, è in grado di illuminare tutte le problematiche suicidane, cliniche e della vita vissuta. Gli interventi dei consulenti, tutti grandi esperti di comportamenti autosoppressivi, sono fondamentali nel­ la loro diversità di approccio e di visione psicopatologica, nella compren­ sione della complessità suicidaría. Gli interventi dei familiari e degli ami­ ci arricchiscono tale comprensione nei piani ineludibili della psicologia e della clinica. E un libro che, ripeto, da solo, ma ancora meglio se discusso con un docente esperto, può essere in grado di formare efficacemente lo studen­ te di medicina come quello di psicologia sul tema del suicidio e della sua prevenzione. E un libro che dovrebbe soprattutto entrare nei programmi formativi delle scuole di specializzazione di psichiatria e psicologia clinica e nelle lauree e master dedicati agli operatori nel campo psichiatrico. Un libro insomma importantissimo per tutti coloro che si occupano e voglio­ no occuparsi di salute mentale. Edwin Shneidman è il fondatore della suicidologia, il primo ad aver trattato il tema del suicidio con modalità scientifiche. Allo stesso tempo però egli prende le distanze dalla miriade di contributi della letteratura sul suicidio che riportano dati, statistiche e teorie astratte senza conside­ rare il dramma della mente suicida. In questo libro ritroviamo un brillan­ te esempio di metodologia di autopsia psicologica, tecnica nata per far chiarezza sui casi di morte equivoca e poi applicata ad approfondire le vicissitudini delle vittime suicide prima dell’atto letale. Shneidman ci ricorda la necessità da parte dei professionisti della salu­ te mentale di affrontare il tema del suicidio e ci insegna con passione che non solo è possibile parlarne senza alcun timore, ma che è anche possibi­ le comprendere il dolore mentale che sottende l’autoannientamento. Questo libro risulta altamente efficace nel poter ridurre i pregiudizi sul suicidio, anche quelli che ricadono pesantemente sui familiari. E per que­ sto che Shneidman mette in primo piano, nel drammatico scenario suici­ darlo, quasi sempre complesso e variegato, la vita dei sopravvissuti, l’ingiustizia della stigmatizzazione del loro dolore. In effetti la scrittura di questo volume ha come scopo principale la risposta al bisogno di com­ prensione e di sollievo della madre per la morte del figlio. Questo libro, per finire, è un magnifico esempio della possibilità di coniugare le istan­ ze osservative ed epistemologiche della scienza clinica con quelle parteci-

Autopsia di una mente suicida

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pative e relazionali dell’umanizzazione della medicina, ora assolutamente in crisi e perciò indifferibile. La fatica della sua traduzione da parte del giovane collaboratore Mau­ rizio Pompili, già comunque autorevole nel campo della suicidologia, è perciò ampiamente meritoria.

Prof. Roberto Tatarelli

Consulenti Norman L. Farberow, Ph. D., Former Codirector, Los Angeles Suicide Prevention Center, Professor of Psychiatry (Psychology) Emeritus, University of Southern Ca­ lifornia

Robert E. Litman, M.D., Former Chief Psychiatrist, Los Angeles, Suicide Preven­ tion Center, Clinical Professor of Psychiatry, University of California at Los Ange­ les

John T. Maltsberger, M.D., Associate Clinical Professor of Psychiatry, Harvard University Ronald W. Maris, Ph. D., Former Director, Suicide Center, Distinguished Profes­ sor Emeritus (Psychiatry, Sociology), University of South Carolina

Jerome Motto, M.D., Professor of Psychiatry Emeritus, University of California at San Francisco

Μ. David Rudd, Ph. D., Professor of Psychology, Baylor University, President, American Association of Suicidology Morton Silverman, M.D., Director, National Suicide Prevention, Technical Rese­ arch Center, Editor, Suicide and Life-Threatening Behavior Avery D. Weisman, M.D., Professor of Psychiatry Emeritus, Harvard University, Former Director, Project Omega, Massachusetts General Hospital

Prefazione

Ho appreso dei lavori del dottor Shneidman mentre mi stavo risolle­ vando dalla morte di mio figlio a causa del suicidio nel 1992, e leggevo ogni cosa mi capitasse tra le mani inerente il tema del suicidio. Gli scritti sensibili del dottor Shneidman mi hanno aiutato lungo il cammino della guarigione, dell’accettazione e per certi versi della comprensione. Dopo il decimo anniversario della morte di mio figlio, e dopo aver letto molti libri scritti dal dottor Shneidman, stavo scrivendo il mio li­ bro sull’esperienza con il suicidio e volevo parlare al dottor Shneidman in persona. Raggiunsi il saggio medico attraverso amici all’università nella quale da molto tempo è professore emerito. Parlando al telefono, iniziai a comprendere un po’ un uomo che sebbene non abbia mai per­ sonalmente perso un familiare о un amico a causa del suicidio, è stato interessato, inspirato e incuriosito dal tema del suicidio per più di ses­ santa anni. Il lavoro di Shneidman, durato tutta la sua vita nel campo del suicidio, le sue cause, le sue ripercussioni per i sopravvissuti, iniziò quando era un giovane psicologo clinico. Nel 1949 gli fu chiesto di occuparsi di due note di suicidio e comunicare con le vedove degli uomini che le avevano scritte (in realtà, come emergerà nell’apposito capitolo, a Shneidman fu chiesto di scrivere due lettere a vedove di uomini suicidi, uno dei quali aveva la­ sciato una nota di suicidio, n.d.t.). L’esperienza con le note di suicidio fu così imponente per Shneidman che insieme ai suoi colleghi, il dottor Norman Farberow e il dottor Robert Litman, fece il suo primo studio sul­ le note di suicidio seguendo un protocollo scientifico. Shneidman, con i suoi colleghi Litman e Farberow, fondò il Centro per la Prevenzione del Suicidio di Los Angeles. Andò avanti sviluppando un programma per la prevenzione del suicidio per il National Institute of Mental Health, e poi si occupò di insegnare, scrivere, studiare e pubblicare numerosi libri sul suicidio e di cohtribuire a molti altri, e di scrivere sette pagine sul suici­ dio nell’edizione del 1973 Encyclopedia Britannica. Qualche mese dopo la nostra prima chiacchierata al telefono, gli feci

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Arthur in un programma riabilitativo, Arthur e io non ci parlammo pc’ anni dopo di ciò. Lui era così sconvolto e io intervenni e feci un gran c¿os; io ero tutto ciò che lui aveva e non si spiegava come io potevo far¿ una cosa del genere; e tutto questo mise molto attrito nella nostra rela­ zione, una sorta di guerra fredda. Ma io volevo fare qualcosa. Avrei spe­ rato che lo avrebbe salvato. Forse se non lo avessi fatto, sarebbe successo prima, ma non importa, può avergli prolungato la vita. Con Arthur tut: > sembrava che doveva prolungare l’inevitabile. Sembra che tutta la sua vita fosse una questione profonda e radicata, intendo che tutto era così radi­ cato che se i farmaci non funzionavano per lui, che cos’altro poteva fun­ zionare? Ma io fui completamente scioccato. Non riesci a comprendere il gesto. Come si può comprendere quell’atto? Non comprendo il gesto.

Consulenza di Ronald W. Maris

Il professor Maris è lo specialista in sociologia in questo gruppo di esperti. Per anni è stato direttore del Centro per il Suicidio all’università della South Carolina, e attualmente è professore ordinario emerito (in psichiatria e sociologia) presso la stes­ sa università. E nato nel 1936. Ha frequentato l’università dell’Illinois (dove era un membro della National Science Foundation) e si è specializzato a Philadelphia, ad Harvard e alla Johns Hopkins. Per 15 anni è stato redattore capo della rivista Suicide and Life-Threatening Behavior. E autore e redattore di diversi libri, compresi Social Forces in Urban Suicide (1969) e Pathways to Suicide (1981). E uno degli studiosi d’eccellenza della suicidologia contemporanea.

La morte e il suicidio possono essere rimandati ma non prevenuti. “Sappiamo che arrivano”, come Clint Eastwood ci ricorda in Unforgiven. Come molte delle persone che commettono il suicidio, anche per Arthur il gesto fu compiuto prematuramente a causa di una varietà di interazioni tra sviluppo, biologia e cattiva sorte. Primo, è di rilievo il fatto che Arthur si “ribellò”. Era insolitamente combattivo (dice il suo psicoterapeuta: “Uno dei bambini più arrabbiati che conosca”). E troppo semplicistico considerare Arthur alle prese con un’incipiente autodistruzione radicata nella sua rabbia narcisistica nei confronti del fallimento della madre nel volergli abbastanza bene (Spitz, Bowlby). Arthur disse a sua moglie, “i miei genitori non mi hanno mai permesso di amarli”. Il terapeuta di Arthur sottolinea come sua madre fosse un bersaglio speciale per la sua rabbia. Più tardi, questa mancanza di fiducia di base nei confronti della madre (Jung) sembra trasferirsi su una serie di relazioni con figure femminili negative, la moglie e la fidan­ zata. Certamente, sostenere che Arthur fu cresciuto da una madre preoccu­ pata e bisognosa è come sostenere che Sylvia Plath “odiasse gli uomini”. Infatti, Arthur si opponeva al mondo. Combatteva con il fratello maggio­ re, con suo padre, con il suo miglior amico, i suoi insegnanti e compagni

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di scuola, qualsiasi persona interagisse con lui; all’età di cinque anni die­ de un colpo al suo terapeuta sul pube. Infatti Arthur si ribellava alla vita alla sua condizione di vita misera. La vita stessa era completamente piena di dolore (come “tanti spilli in ogni punto del mio corpo” о come “sten­ dersi su un letto di aghi”). Da qualsiasi parte venisse questa rabbia (di certo, poteva essere anche di origine biologica) alla fine l’aggressività e la rabbia fecero la loro parte nella condanna di Arthur. Come Menninger ci ricorda, la rabbia tende a rivolgersi contro se stessi. Le persone come Arthur alla fine provano a uccidere il mondo о almeno il loro mondo. Dal punto di vista dello sviluppo, Arthur e la maggior parte dei suicidi che ho avuto modo di conoscere hanno quella che io chiamo “carriera suicidaría” (Maris 1981). Ho scritto: “Le decisioni suicidarle si sviluppano nel tempo e in opposizione a certi scenari psicologici e genetici о biologi­ ci, non si spiegano mai completamente con fattori situazionali acuti. Ar­ thur stava soffrendo da molto tempo (almeno 25 anni) e aveva una molti­ tudine di forze suicidarle nella sua vita. Sua moglie fa riferimento al fatto che la sua vulnerabilità al suicidio fu una cosa “innata”. Le carriere suicidarle implicano la ripetizione della presenza di fattori di rischio e il fallimento dei fattori di protezione. In un certo senso quello che accadde quella domenica in cui Arthur si uccise non fu particolarmen­ te importante (come pranzare con suo padre, separarsi dalla sua fidanza­ ta, non essere in terapia ecc.). Il suo psichiatra dice che sapeva che Arthur avrebbe commesso il suicidio un giorno о l’altro. Il precario assetto adattativo di Arthur era fatto di episodi depressivi e dolore ricorrente, fallimenti interpersonali e delusioni, nonché di ideazione e tentativi di suicidi perio­ dici. Il suo rischio di suicidio gradualmente aumentò finché il dolore e la soglia per il suicidio fu (se non oggi, un altro giorno) superata. Secondo, Arthur probabilmente aveva una depressione resistente e re­ frattaria su base biologica (da notare che tutte le forze suicidarle di Ar­ thur interagivano). Dire che Arthur si sentisse “condannato dall’utero” è un’esagerazione, ma accadde qualcosa di non molto diverso. La sua anedonia era sorprendente, presente ogni giorno e non particolarmente re­ sponsiva agli antidepressivi. Arthur era colui che aveva troppo poco “suc­ co di felicità” (Kramer 1993). Lo psichiatra di Arthur ha affermato: “Ero sicuro che un giorno avreb­ be commesso il suicidio... la sua depressione aveva un andamento biolo­ gico”. Di sicuro, Arthur poteva essere ricoverato coattamente e sottoposto ad elettroshock (il suo psichiatra la considerava un’opzione), ma a quale fine? Avrebbe solo posticipato la sua morte per suicidio e prolungato la sua tremenda sofferenza? Forse. Ma, onestamente, alcune depressioni maggiori resistenti, migliorano о persino scompaiono nel corso del tem­ po. Forse Arthur aveva solo bisogno di qualcuno che “acquistasse del tempo” per lui.

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Da notare che il fatto che .Arthur fosse un medico, intelligente e bril­ lante si rivelò inutile per l’ottenimento di una terapia adatta. Chi aiuta coloro che aiutano? Mi ricordo di Ernest Hemingway che alla Mayo Clinic evitava la terapia adeguata per la sua depressione maggiore mo­ strandosi affabile con i medici, indossando indumenti chirurgici verdi, e mangiando con i medici nella loro sala da pranzo; in breve si rifiutava di essere un paziente. Spesso le persone violente e autodistruttive come Arthur hanno una “disfunzione serotoninergica” (soprattutto riduzione di 5-HT e 5-HIAA). Brown, Linnoia e Goodwin (1992, p. 591) si riferiscono ai tratti serotoninergici trovati in studi su animali, inclusa l’impulsività, la disinibizione, le difficoltà del sonno, la propensione al dolore, disturbi della condotta e comportamento sucidario (a me ricorda Arthur). Terzo, un altro pezzo del puzzle (“enigma”) della carriera suicidaría di Arthur erano le sue aspettative irrealistiche, irraggiungibili e perfezioni­ ste su se stesso e sugli altri. Niente era buono abbastanza per Arthur (cer­ tamente, questo è spesso un tratto del disturbo depressivo). Questo per­ fezionismo portava a un’esistenza torturante e impossibile. Frequentemente, queste alte aspettative provengono dalla madre e/o dal padre. Trovo di rilievo che la madre non fu nemmeno menzionata nella nota di suicidio di Arthur, e neppure suo padre gioca un ruolo di rilievo. La madre di Arthur era rigida, severa, un po’ fredda e preoccupa­ ta di se stessa (narcisistica). Arthur la vedeva appena dopo il divorzio dei genitori. Il padre commenta che Arthur “si ribellava alle regole della ma­ dre”. Per Arthur, diventare un dottore in medicina e poi un avvocato, rice­ vere un posto presso la corte suprema di giustizia, sposare una donna che era un medico, e poi avere una fidanzata premurosa non era abbastan­ za... come ad esempio un pagamento di cinque milioni di dollari su un milione di dollari di debiti. Il successo e il piacere che Arthur provava erano controbilanciati e persino ridotti dal suo dolore ripetuto. Rifletten­ do che “il suicidio è una soluzione permanente a un problema tempora­ neo” (nella sua nota), Arthur insiste “la vita non è un problema tempora­ neo”. Per questi candidati al suicidio come Arthur, niente è “abbastanza buono”. Domande impossibili sono fatte a se stessi, alla propria famiglia, alla professione e alla vita. I genitori e i fratelli non sono abbastanza buo­ ni, le carriere non sono abbastanza positive; sono in instancabile ricerca di una vita che non esiste nel mondo. Inoltre, il suicidio di Arthur è enigmatico nel senso che diverse caratte­ ristiche di esso sono insolite e atipiche. Per iniziare, la maggior parte de­ gli adulti bianchi maschi che commettono il suicidio non scrivono assolu­ tamente alcuna nota. Solo il 15-25% di tutti i suicidi (incluse le donne) lasciano una nota. Certamente non lasciano lunghe (mi sono stancato a

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leggere quella di Arthur), ripetitive note (“dozzine di volte prima” lui ci informa) e fanno ripetuti tentativi di suicidio non fatali. Nel mio studio di migliaia di suicidi a Chicago, quasi il 90% di tutti maschi bianchi anziani fanno un solo, fatale, tentativo di suicidio. Inoltre, i maschi che portano a compimento il suicidio tendono a esse­ re ubriachi (perché non c’è riferimento all’abuso di alcol di Arthur?) e si sparano alla testa. Nessuna arma nel caso di Arthur (Maris et al. 2000, p. 80). Arthur aveva solo due terzi di questi fattori. In più, oltre a mancare l’abuso di alcol e non aver usato una pistola, non ci furono suicidi nella famiglia di Arthur, aveva successo nel lavoro e non era fisicamente mala­ to. Questo suggerisce che il suicidio di Arthur fu diverso e unico nelle modalità, le quali inficiano gli interventi preventivi. Era probabilmente ambivalente (non inaiutabile); scriveva note alle persone dicendo quanto male si sentisse (perché lo si fa se non si vuole alcuna risposta?). Inoltre usava i metodi per i tentativi non letali. Infine, farei un errore, come sociologo che si occupa del caso di Ar­ thur, a non indicare le forze di interazione sociale nel suo destino. Nono­ stante il “decorso biologico” delfanedonia di Arthur, la biologia di solito non è un destino. Difetti biologici sono spesso compensati dall’amore e dalle relazioni. Ma Arthur aveva una doppia condanna sociologica. Primo, aveva i suoi cari che lo deludevano. Secondo, rifiutava gli atti di gentilezza umana. In sintesi: Mamma era fredda, severa e rigida. Papà era distante e poco presente. Mamma e papà divorziarono. Mio fratello era brillante e competitivo. Mia moglie era sola. La mia fidanzata proveniva da una famiglia di depressi. Lo psichiatra non si impose e non fece quello di cui avevo bisogno (ad es. ricovero, elettroshock). Arthur aveva un atteggiamento interattivo fatale: la sua inabilità ad ac­ cettare l’amore (“non merito di essere felice”, “non merito di avere una donna attraente e buona”). Rifiutò ripetutamente gli atti di sostegno di cortesia interpersonale. Per finire, si poteva salvare Arthur? Suo fratello e la sua ex-moglie di­ cono di sì. Una delle sue sorelle, la fidanzata, lo psicoterapeuta, e lo psi­ chiatra dicono no. Il suo amico non è sicuro. Dunque, chi ha ragione? Si possono sempre salvare le persone per un po’ (ma nessuno per sempre). Le considerazioni pertinenti riguardano: 1) i costi e 2) la qualità della vi­ ta. Nelle utopie (come nel Brave New World di Huxley) nessun cittadino è propriamente suicida. Eppure, nel Brave New World, nessuno è libero di soffrire, di essere diverso, о essere indipendente. Quindi chi vorrebbe vi­

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verci (se avesse una possibilità di scelta)? Kay Jamison (1996) parla della sua riluttanza a prendere il litio (per il disturbo bipolare) e sacrificare il suo eccitamento maniacale. C’è inoltre il trattamento obbligatorio, il ricovero, le terapie sedative, la contenzione, gli ambienti a prova di suicidio, la sorveglianza per il sui­ cidio 24 ore al giorno per sette giorni e così via. Ma cosa succede quando la terapia finisce о non funziona? Circa il 30% dei disturbi depressivi non mostrano una risposta terapeutica agli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (gli SSRI: certamente non per Arthur). L’elettroshock poteva salvare Arthur? Non si possono rinchiudere i non criminali per sempre. Non si possono facilmente о in pratica riparare о tarare i loro cervelli. Vogliamo costringere la gente con disturbo depressivo maligno non rispondente a soffrire per il piacere degli altri? Forse Arthur poteva comprare del tempo, e in questo ambito veder diminuire il suo terribile dolore psichico. Forse no. Ricordate, lo stan­ dard nella vita è “buono abbastanza”. Adesso abbiamo chiuso il cerchio rispetto ai miei commenti iniziali: non solo Arthur, ma nessuno di noi, uscirà mai vivo da qui. Nel frattempo, abbiamo bisogno di sistemarci con ciò che abbiamo о con quello che possiamo ottenere con uno sforzo ra­ gionevole e con le modeste qualità dateci dalla genetica. Se non ci riu­ sciamo con un po’ di aiuto, allora c’è sempre la soluzione di Arthur.

Intervista con la ex-moglie

ESS: per favore mi parli di lei. Ex-moglie (Em): sono un medico, un nefrólogo e visito i pazienti. Sono inoltre una ricercatrice. Faccio ricerca, e ho un po’ di familiarità con le autopsie. Lei fa ricerca empirica, io invece parto dall’idea di essere aperta a osservare ciò che viene fuori. Non si può iniziare uno sforzo con uno scopo in mente, cercando certe risposte, in quanto queste non sempre si ottengono. Io comprendo questa attitudine, ma intellettualmente sono interessata a qualsiasi cosa si è in grado di imparare. Non penso che ci sia in realtà qualche cosa in particolare di cui io ho bisogno о qualcosa che possa imparare in relazione ad Arthur. Attualmente sono al quarto anno di psicoanalisi da quando è terminata la relazione con Arthur. Quindi penso che sto ottenendo ciò di cui ho bisogno con questa terapia. Imparo cose di me stessa, rispondo a qualsiasi domanda su me stessa che necessi­ ta di una risposta, ma sono interessata intellettualmente ai suoi pensieri. So che lei parlerà con varie persone, sono solo interessata a quali pensieri usciranno. ESS: lei è molto importante in questo processo. Mi parli ancora di lei, e mi parli di Arthur. Em: è molto complesso descrivermi. Penso molto chi sono, negli ultimi quattro anni nell’ambito della psicoanalisi ho scoperto molto. Penso che sia una delle imprese più affascinanti che io abbia mai fatto e che valga la pena fare. Fondamentalmente, a circa 22 anni ho incontrato Arthur. In realtà, probabilmente incontrai Arthur quando avevo 14 anni, a un campo scuo­ la estivo, ma non accadde nulla. Ho passato gran parte della mia infanzia e della mia prima adolescenza sentendomi molto sola e con poca auto­ stima. Molte persone non si rendevano conto di questo a causa del­ l’esteriorità, io ho ottenuto sempre buoni voti, ho sempre avuto successo nelle cose che ho intrapreso. Ero una ragazza pon-pon alle scuole supe­ riori, facevo parte del consiglio degli studenti, sono stata presa subito al college e alla facoltà di medicina che avevo scelto e così via, ma sotto

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c’era molta solitudine e problemi. Conobbi .Arthur, e lui fu una cosa me­ ravigliosa per la mia vita quando ci incontrammo. Lui mi diede quei sen­ timenti che mi rendevano veramente felice ed io resi la sua vita piacevole. C’era un sentimento meraviglioso che nel crescere non avevo mai provato con la mia famiglia. Riempì veramente il vuoto che avevo. Dunque questo dice qualcosa di noi due. Andrò avanti о indietro rispetto a questo punto. I miei genitori emigrarono negli Stati Uniti. Entrambi nacquero in Au­ stria dopo la Seconda Guerra Mondiale. I genitori di mio padre ebbero entrambi la loro famiglia, l’intera famiglia, con tutti i bambini, deportata nei campi di concentramento e solo mio padre e sua madre sopravvisse­ ro. Si rincontrarono dopo che furono liberati. Mia nonna in realtà fu messa in una camera a gas quando gli aerei americani bombardarono per la liberazione e lei non morì. Penso che ci fossero troppe persone per la concentrazione di gas che misero, quindi sopravvisse. Lei poi incontrò mio nonno. Dopo la guerra si sposarono. Ebbero mio padre ed una figlia più piccola, che è mia zia, e non raccontarono mai più da dove venivano о che qualcuno fosse morto о che avessero lasciato qualcuno in patria. Mio padre perse sua madre, quella che era stata messa nella camera a gas nel campo di concentramento quando lui aveva forse 14 anni. Morì di cancro, probabilmente a causa di quell’esperienza. Suo padre visse fino a quando avevo circa 12 anni, a quell’età tornammo a New York con mio padre, dove avevano la loro casa, e ricordo che lui trovò delle fotografie. Solo recentemente, negli ultimi vent’anni, lui si rese conto di non essere il solo figlio della famiglia, dunque c’è questo grande segreto di cui non si è mai parlato. Adesso so che i miei nonni sono stati nei campi di concen­ tramento perché avevano un tatuaggio con un numero sul braccio. Non accennarono mai a questo. C’è dunque la perdita di questo segreto. ESS: era implicito che lei non poteva menzionare о chiedere nulla di tutto ciò? Em: non ricordo, ma so di quale nazione sono originari, e so veramen­ te poco di ciò. Sono cresciuta osservando mio padre che guardava film sull’olocausto e ricordo che ero molto piccola, forse a 3 о 4 anni, e vidi dei servizi in cui i soldati nazisti sparavano ai bambini, e questo mi spa­ ventò molto; adesso ho un età che mi permette di iniziare a capire quan­ to dissestate siano le origini della mia famiglia. Posso dirle altre storie dalla parte di mia madre. Mia madre proviene da una famiglia con molte disgrazie. Mia madre fu cresciuta da sua nonna in quanto i suoi genitori erano immigrati da poco e lavoravano molte ore nelle fabbriche. Un gior­ no lei tornò a casa e trovò sua nonna morta. I suoi genitori le mentirono e le dissero: “Lei non è morta, è malata, starà in ospedale”. Ma di certo lei non vide più sua nonna. Dunque, di nuovo, vi è il nascondere la tra­ gedia. ESS: fu una morte naturale. Em: sì. Ma per una ragazzina non essere in grado di esprimere la per­

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dita di colei che l'accudiva, non essere in grado di esprimere la terribile perdita, deve essere stato veramente difficile. ESS: pensa che Arthur avesse segreti sulla sua famiglia che non condi­ vise mai con lei? Em: non penso che si trattasse di segreti, ma ciò che penso è che en­ trambi avevamo un vuoto dentro che non comprendevamo. Di certo non lo comprendevo in quel periodo. Io lo sto solo conoscendo dopo quattro anni di analisi. Ma retrospettivamente, penso che la mia relazione con Arthur fu caratterizzata da una terribile perdita, о meglio, non perdita ma qualcosa di terribile о sbagliato dentro, penso che entrambi cercava­ mo qualcosa che lo colmasse. ESS: riesce a tradurlo a parole? Può far riferimento a quale era il vuoto per Arthur? Em: per lui, onestamente e non so perché, posso dirlo; ripensandoci posso immaginarmelo e posso vedere uno stile di vita. Da quando lo co­ nobbi, non lo conoscevo quando era piccolo, ma lui mi disse che aveva avuto un periodo difficile a scuola. Poi andò in un campo estivo, e fu uno dei primi anni che lo incontrai, e lui era veramente felice. Era stranamen­ te popolare, aveva molti amici, e lui pensava che questo era ciò che gli era mancato. Non avevamo confidenza in quel periodo. Poi, in pratica, mi disse di una serie di cose che gli erano successe e che gli avevano fatto credere che il suo dolore sarebbe migliorato. Per primo c’era la sua situa­ zione scolastica, in quanto la sua infelicità era connessa al fatto che non gli piaceva la scuola dove andava. Ma andò al campo estivo, ed era molto felice, e questo gli diede la motivazione о l’energia per cambiare scuola, Quindi cambiò scuola, ma non era più felice di prima. Poi, posso avere messo le parti nell’ordine sbagliato, forse prima di questo, ci fu il periodo del divorzio dei genitori. Penso che era più piccolo quando ciò avvenne, forse aveva 10 anni, e il divorzio fu un disastro che gli causò tutto il suo dolore. Se fossero tornati insieme, tutto sarebbe migliorato. Ma questo non avvenne mai. Poi, fu infelice. Questo fu quando incontrò me. Una delle prime con­ versazioni fu su quanto era infelice perché aveva scelto giurisprudenza invece di medicina. Se avesse scelto medicina avrebbe potuto essere feli­ ce. Alla fine si iscrisse a medicina. Ma questo causò un grande litigio tra noi in quanto eravamo fidanzati. Io ero già nella facoltà di medicina, e ci dovevamo sposare dopo poco tempo, e all’improvviso tornò a casa e disse che c’era qualcosa che doveva fare: “Faccio domanda per la scuola di medicina”. Ed iniziò a fare domanda in tutta la nazione e all’estero, ed io pensai: “Non puoi aspettare un paio d’anni, io avrò finito medicina e po­ trò venire da qualsiasi parte tu andrai”. Ma sembrava come se fosse pos­ seduto, lo doveva fare immediatamente. E la spiegazione che mi diede fu che se non poteva essere felice dentro, non sarebbe stato un matrimonio felice e lo doveva fare assolutamente. Dunque lo fece. Fece domanda per

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la facoltà di medicina, ed era sicuro che avrebbe risolto i suoi problemi. Poi fu insicuro, mi pregò di parlare con il rettore, perché io ero uno stu­ dente in quel periodo, per permettergli di entrare a medicina. ESS: e lei lo fece? Em: sì e il rettore mi ascoltò, ma non prese alcuna decisione per meri­ to mio. Dissi ad Arthur che avevo parlato con il rettore. Pensai che lo avrebbe fatto sentire meglio. Poi, per i suoi meriti riuscì ad entrare. Era un buono studente ma non credette mai che ce l’avesse fatta per i suoi meri­ ti. Allora lui credette sempre che fu accettato a causa mia e che lui non meritava il posto. Questo mi fece stare malissimo. ESS: dunque lei sbagliava sia nel farlo che nel non farlo? Em: sì. Ebbe successo alla scuola di medicina. Prese voti fantastici. Era una persona intelligente e determinata qualunque cosa facesse, ma non credeva mai che fosse merito suo. Non credeva mai che se lo meritasse, che non era un perdente e che non ero stata io a farlo entrare. ESS: questa è la parola giusta, “non era un perdente”. Em: di nuovo, c’era questa attitudine nel cercare le cose che lo avreb­ bero fatto sentire meglio; pensò che se si fosse sposato, questo lo avrebbe fatto sentire meglio a causa del divorzio dei genitori che lo aveva sconvol­ to. La sua famiglia non era unita. Sposandosi, avrebbe avuto una famiglia unita, e si sarebbe sentito meglio. Ma di nuovo, dopo essersi sposato, non si sentì meglio. Questo era qualcosa di veramente pesante per me perché non avevo avuto nessuna buona relazione. Dopo che ci fummo sposati, sembrò che io avessi reso il suo mondo interamente nero. ESS: ci furono delle svolte? Le sembrò di osservare un cambiamento delle sue attitudini? Em: avvenne fondamentalmente dal giorno che ci sposammo e non si tornò più indietro. Dopo non fu più felice. Persino in luna di miele litiga­ vamo aspramente. Mi diceva cose come “mi fai sentire un mostro, mi co­ stringi a ferirti”. Non era mai un mostro, ma ciò che faceva era ritirarsi e isolarsi. Fu veramente dura per me. ESS: l’ha mai molestata fisicamente? L’ha mai picchiata? Em: mai, non una volta. Ma poteva ritirarsi, per cinque о sei giorni fi­ no a che mi riparlava di nuovo. Si ritirava proprio in se stesso. ESS: riesce a identificare che cosa possa portare a qualcosa del genere? Em: piangevo. Avevo bisogno di qualcosa da parte sua che non mi sta­ va dando, ed io glielo facevo presente. Mi ricordo che, avevamo opinioni molto diverse su quanto la casa dovesse essere pulita. Andavo da lui e di­ cevo: “Non mi trovo a mio agio con tutte le cose in disordine. Voglio che tu mi aiuti” e mi lamentavo. Una volta che si sentiva criticato о non abba­ stanza idoneo, si metteva sulla difensiva e avevamo aspri litigi. ESS: adesso voglio passare ad un argomento intimo e tabù, la sua vita sessuale. Em: questa è una domanda interessante. Quello che posso dirle, e che

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in realtà non risponde esattamente alla sua domanda, è che prima de matrimonio lui aveva certamente un interesse sessuale. Non avemmo rap­ porti completi prima di sposarci. Una volta sposati, stranamente sembr» perdere il suo interesse sessuale, divenne molto distante, ed era per me molto deludente psicologicamente. Una volta che ci sposammo, non avemmo una vita sessuale attiva. ESS: era una persona che voleva alcune cose, ma l’ottenimento di esse era puntualmente deludente per lui. Em: sono d’accordo. Ua mia ipotesi è che lui stesse sempre cercandt qualcosa per curare il suo dolore interno con il dolore esterno, aveva la smania, doveva farlo, e questo avrebbe risolto il dolore. Ma si trattava sempre di cose esterne. Sposarsi, avere una famiglia unita, essere un me­ dico, essere bravo a scarabeo come suo fratello, c’è una lista di cose che tentò di ottenere, che riuscì ad ottenere, ma quando le ottenne il dolore non era scomparso. ESS: riesce a pensare a qualcosa che nella sua vita sia stata soddisfacen­ te per lui? Em: no. ESS: posso osare chiedere della sua attuale fidanzata? Em: mi piace moltissimo. ESS: mi parli di questa relazione. Em: tutto è avvenuto dopo di me, dunque non ne so molto. So che an­ dammo a pranzo con degli amici, ci divertimmo, ritornammo dicendo che eravamo stati bene, e dopo qualche ora mi disse che doveva inter­ rompere il matrimonio. Il periodo di Arthur di disperazione incessante veniva immediatamente dopo momenti felici. Piangeva, e con le lacrime che gli scendevano sul viso mi diceva che non riusciva a sopportare come si sentiva e che voleva andare lontano dove nessuno lo conosceva, e rico­ minciare. Cosa che io non compresi mai, in quanto la sua famiglia sem­ brava sempre più amorevole della mia, perché voler andare via quando le persone che gli volevano bene stavano accanto a lui. Per tutta la mia vita ho cercato qualcuno da poter amare in quanto i miei genitori non mi hanno mai permesso di amarli. Fu duro. Eui aveva periodi piacevolissimi, si divertiva tantissimo e poi piombava nella disperazione. Dopo che divorziammo, ci fu un breve periodo durante il quale lui vo­ leva che tornassimo alla situazione prima del matrimonio, ed io mi sot­ trassi; nuovamente, mi minacciò come al solito. C’era questa grande rota­ zione di 180 gradi, e dopo il divorzio tornò indietro ed era nuovamente carismatico, aveva così tanta energia, e comprò dei regali. Il giorno che ci sposammo, lui non portò gli anelli nuziali. Il giorno del matrimonio non avemmo le fedi nuziali. Sua sorella uscì e procurò qualcosa che potessimo usare. Uo pregai per più di un anno per le fedi nuziali, e solo per non sentirmi più, me ne comprò una. Sembrava che non ci fosse interesse ses­ suale durante tutto il periodo del matrimonio, e questo durò finché non

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divorziammo. Io non conoscevo condizioni migliori, in quanto sono stata cresciuta allo stesso modo dalla mia famiglia. Fu una situazione triste e tragica. Divorziammo e all’improvviso fùi di nuovo corteggiata, mi com­ prò dei regali e aveva di nuovo le sue energie, ma io non tornai da lui. Una volta che fui fuori dalla situazione, andai in analisi, chiesi aiuto e mi sentii meglio, mi resi conto che mi sentivo meglio sola che in quella rela­ zione e non tornai indietro, soprattutto perché vidi avvicinarsi lo stesso finale. Vidi che lui era come prima del matrimonio, vidi dove si sarebbe arrivati e non tornai indietro. Dunque da allora non avemmo molti con­ tatti poiché mi resi conto che lui voleva riprendere la relazione e la mia risposta fu no. Avevo bisogno di essere ferma su questo punto. Parlammo ininterrottamente, e questo fu probabilmente cinque anni fa. So che subi­ to dopo incontrò la sua fidanzata. E fece la stessa cosa con lei. Non la sposò mai, ma probabilmente lo ascolterà direttamente da lei; le cose an­ davano veramente bene tra loro. Avevano una relazione migliore. Io ero troppo sensibile, lui era solito ritirarsi in se stesso per 5 о 6 giorni e ciò mi annientava completamente. Non riuscivo a gestirlo bene. Mi ricordava troppo la mia situazione famigliare quando ero in crescita, e comunque la sua fidanzata probabilmente non aveva la stessa vulnerabilità, ed è persi­ no molto più stabile. Comunque, le cose andavano veramente bene tra loro, e poi lui la mollava. Penso che ci siano state sette о otto rotture e riunioni. Ad un certo punti si stavano preparando per convolare a nozze, e lui la chiamò e ruppe con lei. Ed è lo stesso stile di comportamento. Il giorno che ci sposammo, fu il giorno in cui raggiunse il suo successo, il suo scopo, dopodiché scese di nuovo nella sua disperazione in quanto il dolore era ancora immutato. Non conosco la fidanzata molto bene, ma fho incontrata una mezza dozzina di volte dalla morte di Arthur. È una ragazza amorevole, mi piace veramente. ESS: lei è sufficientemente separata da lui per essere felice nella sua vi­ ta? Em: sì, sicuramente sì. ESS: cosa spera di poter fare tra dieci anni? Em: Spero di vivere bene ogni giorno. Il mio obiettivo principale è li­ berarmi dalla miseria nella quale sono cresciuta. Non intendo solo quella mia, intendo mio padre, mia madre e Arthur; sto iniziando a realizzare, che si tratta di persone così disturbate e con molta miseria dentro. E non penso che io sia nata con una certa predisposizione; ho imparato dai miei genitori il modo con il quale vedevano il mondo e non conoscevo nient’al:ro. Poi, quando sono andata a vivere con Arthur non mi sono resa conto di quanto fosse precaria la situazione e di quanto lui stava male. Adesso il mio obiettivo principale è apprezzare la bellezza e la beatitudine del mondo ogni singolo giorno e di vivere e sfruttare la mia vita al meglio possibile quanto più possibile, libera dalle cose che mi fanno paura e che feriscono. Sto imparando a comprendere veramente e a riconoscere la

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tragedia della mia infanzia e la tragedia del mio matrimonio con Arthur devo dire che fa molto bene essere a contatto con tale esperienza. E que­ sto riguarda sia i miei genitori che Arthur. Entrambi i miei genitori e Ar­ thur ammetterebbero di avere dolore. Arthur era sempre alla ricerca d. qualcosa che lo risollevasse. Ed è lo stesso con i miei genitori. Ai miei ge­ nitori accaddero cose terribili e c’è così tanta tagedia dalla quale fuggonc nelle loro vite. La negano. Mia madre potrebbe guardarmi e dire che eb­ be un’infanzia felice. E io so che non fu così in quanto so come mi tratta e come mi trattava quando ero bambina. E conosco anche mio padre, so che c’è qualcosa di profondamente triste. ESS: se dovesse scegliere una diagnosi psichiatrica per Arthur, quale sarebbe più appropriata? Em: non conosco la risposta a questo, ma posso dirle come sintetizze­ rei il suo caso. Non ho abbastanza dimestichezza con le diagnosi del DSM, ma posso affermare che lui era molto severo con se stesso e con gli altri, molto giudicante. Credeva nel carattere, cosa che anch’io condivido, ma... ESS: intende, l’abilità di opporsi alle avversità e superarle? Em: si, e lui era fissato per l’onestà. Era a un limite che era ben al di là del normale. ESS: al punto che lui non riusciva ad avvicinarsi ai suoi standard? Em: nessuno poteva awicinarcisi. Ecco, penso che lui si odiasse così tanto per avermi chiesto di parlare con il rettore in quanto si sentiva co­ me se avesse imbrogliato. Ma questo non aveva nulla a che fare con la sua ammissione, chiunque con un po’ di logica lo comprenderebbe. Dentro si sentiva come un codardo о un imbroglione. Questa è la mia conclusione. Non parlo con molte persone della mia analisi о da dove vengo о delle mie esperienze durante la crescita. Penso di essere fortunata. Ringrazio il mio analista. Penso che sia la cosa migliore che abbia mai fatto. Ma ogni tanto ci penso e mi rendo conto che ho già vissuto abbastanza. ESS: cosa si poteva fare per Arthur? Si poteva salvare la sua vita? Em: se qualcuno lo poteva aiutare con il suo dolore, sì, penso di sì. ESS: per esempio, pensa che il suo analista avrebbe potuto salvarlo? Em: mi piace pensare che lo avrebbe potuto aiutare. Sì, voglio pensare di sì. Penso che se qualcuno si fosse concentrato su ciò di cui si trattava e su ciò che lo disturbava così tanto qualcosa si poteva fare. Dove ti fa male, parliamone. Arthur avrebbe fatto resistenza, perché come ho detto fuggi­ va sempre da esso. Guardava sempre fuori. Il suo fuggire dal dolore e non comprenderlo deve essere stato peggio del doverlo vedere direttamente. Ma forse lo si poteva aiutare in questo processo.

Intervista con la fidanzata

ESS: per favore mi dica chi è lei. Fidanzata (Fid): chi sono? Sono la ex-fidanzata di Arthur ESS: mi dica qualcosa di lei. Fid: ho trent’anni. Sono amministratore di una ditta di ingegneria, e ho una meravigliosa famiglia che vive qui vicino. Sono andata al college in questo stato, e dopo la laurea in psicologia ho lavorato con persone adulte portatrici di handicap о malate di mente per un paio d’anni. Fu una grande responsabilità, avevo solo ventun’anni, e non so spiegare co­ me ci sia riuscita. Quello che mi ha sconvolto è l’essere diventata insensi­ bile alla condizione di queste persone. Pensavo alle valutazioni dei casi: quando nuovi utenti venivano nella clinica mi prendevo cura di loro, e ricordo che fu duro le prime volte che lo feci; ma dopo sei mesi divenne una routine e queste persone aprivano il loro cuore e la loro anima, con­ fidandomi quando iniziarono a sentire le voci e quando iniziarono a sen­ tirsi depressi e io mi limitavo a scrivere senza ascoltarli veramente. ESS: si sente in colpa per questo? Fid: certamente. Mio fratello è un medico e lui me lo dice, io mi ricor­ do anche di Arthur, entrambi mi dicevano queste cose, che si deve diven­ tare immuni altrimenti è la fine. Mia madre ha avuto dei problemi. ESS: le piace? Fid: sì mi piace molto. Le voglio molto bene. Penso che sia un dono prezioso. Lavora a scuola; legge ai ragazzi e alle persone anziane in una struttura per convalescenti; intendo dire, lei è il tipo di persona, che quando ti senti giù di corda о sei scontento di qualcosa, basta che la guardi e dici “Wow”. ESS: mi dica qualcosa della sua infanzia. Fid: ho avuto la più bella infanzia che si possa desiderare. Mia madre era casalinga, io ebbi un’infanzia splendida. Mio padre è fantastico, mol­ to affabile e amorevole. Ho avuto una famiglia tradizionale e unita. Quando tornavo a casa, mio padre aveva scelto di avere uno stile di vita che non lo faceva lavorare molto; intendo dire che lavorava sodo, è un

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ingegnere, ma decise che avrebbe finito di lavorare alle cinque, dunque tornava a casa e stava con la famiglia. A causa di questo la sua azienda non crebbe molto, lui era il solo lavoratore e scelse di coltivare la fami­ glia; mangiavamo insieme ogni sera. Mio padre ci portava fuori per il weekend, lui è veramente una persona amorevole, generosa e affettuosa. ESS: e come si posiziona Arthur in tutto questo? Fid: appartiene alla stessa categoria di quella di mia madre e mio fra­ tello, ai quali fu diagnosticata la depressione. Era depresso. Questa è l’etichetta che gli darei. ESS: pensa che fosse un disturbo bipolare? Fid: lei pensa che ne soffrisse? Ricordo che ne parlammo. Pensai che fosse una opzione, ho visto la parte gravemente espansiva, maniacale e quella grave di abbassamento dell’umore, ho visto la parte depressiva in altre persone, secondo me, solo perché ho lavorato nel campo in prima persona con molti individui che erano bipolari. Ma in Arthur non vidi la parte maniacale, forse la mania si manifestò in forme diverse ed io non la riconobbi. Non la vidi nel suo caso allo stesso modo di altre persone che avevo avuto in cura. Come psicoioga, l’ho anche studiato, conosco alcuni di quei sintomi, ma Arthur non li aveva. ESS: da quando conosceva Arthur? Quando lo incontrò? Fid: lo incontrai 4 anni fa, proprio durante questo mese. ESS: il suo matrimonio era terminato in quel periodo? Fid: sì. ESS: ha incontrato la sua ex-moglie.? Fid: sì, ma lei era fuori dalla sua vita allora. ESS: vi amavate reciprocamente? Fid: sì, molto. ESS: che cosa c’era in lui che lo rendeva attraente? Fid: era una brava persona con un cuore veramente grande. Era accu­ dente ed era veramente generoso. Era divertente e astuto, e noi eravamo molto simili, stare con lui mi faceva sentire bene e a mio agio. Potevamo parlare di tutto. ESS: lei ne era attratta? Fid: mi piaceva, sì, e poi ero innamorata di lui; mi piaceva molto. ESS: fu lei a rompere con lui? Fid: diverse volte. ESS: che cosa riguardavano quelle rotture? Fid: passammo insieme un anno. Durante quell’anno pensai che tutto era perfetto, ed era veramente perfetto fino a quando andai in Spagna. La sua famiglia mi invitò ad andare con loro. Dunque andai in Spagna. Lui era partito, penso due settimane prima di noi, e noi andammo per incontrarlo; e mi ricordo che nell’incontrarlo lui non mi sembrò molto contento. Io ero al settimo cielo, e mi gettai su di lui per abbracciarlo, e provai qualcosa di strano. Mi ricordo proprio che era in Spagna. Quando

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tornammo a casa, lui mi disse che non era più felice. ESS: non più felice con lei, con la vita, con che cosa? Fid: E strano perché in quel periodo pensai che fosse connesso alla re­ lazione, ma successivamente mi disse che non si trattava di me, era la vi­ ta, lui non si sentiva più bene. E noi interrompemmo la relazione proba­ bilmente tre о quattro volte; ed era sempre lui che tornava da me, ed io lo accoglievo nuovamente. ESS: che cosa pensava? Fid: quando sarebbe tornato. Esattamente quello che ho appena detto, cioè che non ero io. Lui si rendeva conto che non ero io che lo rendevo infelice; lui era solo una persona scontenta della vita, e pensava che la nostra rottura e la possibilità di incontrare altre donne poteva renderlo felice; e quando faceva queste cose si rendeva conto che non era ciò che desiderava; e che io in realtà lo rendevo felice quando stavamo insieme. Penso che lui si rendesse conto che avevamo passato veramente dei bei momenti, che avevamo una buona relazione, e il fatto che lui fosse giù non avesse niente a che fare con la nostra relazione. ESS: pensa che questo era il suo modo di manifestare la sua patologia? Fid: penso che fosse una combinazione di entrambe le cose. Penso che Arthur fosse una persona brillante, e questo era il problema della sua ma­ lattia. Una persona che non comprende la mente e gli stati psichici non si rendeva conto che è malato. Era il tipo di persona che comprendeva ciò che era la felicità ma che non era in grado di trovarla dentro di lui, ciò lo rendeva ancora più depresso. ESS: a che cosa si riferisce? Fid: non sapevo nemmeno se lui non potesse trovare la felicità e se non poteva liberarsi dalla tristezza. So che ebbe periodi felici. Mi disse che quando all’inizio ci incontrammo, durante i primi mesi insieme era veramente felice, davvero felice; questo è quello che mi disse. Io ed Ar­ thur eravamo soliti parlare di questo argomento praticamente sempre, ovvero della sua depressione e di come si sentiva; questa era una delle cose meravigliose della nostra relazione; lui sapeva che io lo comprende­ vo perché ero stata anche io depressa. Perciò lui era in grado di aprirsi con me perché sapeva che io lo comprendevo, ed io sapevo come pren­ dermi cura di lui. Non so se ha alcun senso, ma penso che questo era il motivo che rendeva la nostra relazione così profonda. ESS: come si prendeva cura di lui? Fid: parte di questo consisteva nel lasciargli intendere che io com­ prendevo come si sentiva, io lo lasciavo stare quando voleva stare nella sua tristezza e gli lasciavo intendere che stavo lì per prendersi cura di lui. Lui sapeva di star male. E quando ti senti in questo modo e ne prendi co­ scienza e sai che c’è qualcun altro che ti ama, che comprende esattamente quello che stai passando; è un sentimento meraviglioso. Non lo faceva sentire totalmente bene, ma lo faceva sentire profondamente amato. Lui

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non riusciva a provare felicità, ma forse poteva sentire qualcosa, non 1 so, sto solo facendo un'ipotesi. Lui sapeva che io lo comprendevo, di cer­ to era così e anche attualmente io ancora lo comprendo. Non comprende altre cose, ma questo è qualcosa in cui riuscivo. ESS: lei era la sua amica, la sua amante e la sua infermiera psichiatrica Fid: non analizzavo, non l’ho mai fatto, ma mi prendevo cura di lui. e questo fa parte della mia natura. Quando ami veramente qualcuno, riesci a fare queste cose. ESS: e poi che cosa successe? Fid: la prima volta che ci lasciammo per me fu devastante, non lo di­ menticherò mai. Avevo avuto ragazzi prima di lui, ma questa era la prima volta che ero veramente innamorata; piansi per due settimane. Fu la cosa più strana. Suona male, ma piansi, e provai più dolore in quel momenti) che quando morì. So che fa una bruttissima impressione dirlo in questo modo, ma anche adesso sento la stessa cosa. ESS: come la morte di una parte di lei. Fid: fu terribile. Ma ben presto migliorò e poi, ovviamente, lui mi chiamò e ci rimettemmo insieme. ESS: questo accadde più di una volta? Fid: sì. La prima volta che mi chiamò, andai a casa sua e lui mi disse che dovevamo parlare e che voleva tornare insieme a me, e mi disse che le ultime due settimane erano state le peggiori della sua vita e dunque ci rimettemmo insieme. Ci fidanzammo probabilmente per altri due о tre mesi. Le cose andarono splendidamente il primo mese, poi lui iniziò a fare la stessa cosa, e io pensai di interrompere di nuovo, ed onestamente fu duro, fu veramente duro per me, ma molto diverso a confronto con quelle due settimane. Non so perché, ma fu un pochino più semplice. Forse perché sapevo qualcosa in più. E poi ci rimettemmo insieme un al­ tro paio di volte, e poi ad un certo punto io non riuscivo più a sopportar­ lo, e dissi “ne ho abbastanza”, e poi successivamente quando dissi “non posso più accettarlo” fu quando lui continuò a chiamarmi. ESS: in che stato si trovava quando morì? Eravate separati? Fid: sì, eravamo certamente separati, ma eravamo in contatto. Arthur mi chiamò venerdì notte, e il mio ragazzo di allora stava in casa mia quando Arthur mi chiamò, penso che fosse luna о le due del mattino. Mi chiamò, e mi aveva detto molte volte che aveva intenzione di uccidersi. Intendo, questo non era la prima volta che sentivo cose simili. E quella notte lui mi chiamò ancora e disse “sai, non ne posso più, mi uccido”. E poi lo disse in modo articolato, ed io ero preoccupata. Parlammo per cir­ ca un’ora e ripensandoci ci furono altre volte in cui si era comportato allo stesso modo. Ricordo un’altra volta che aveva fatto la stessa cosa, ed io chiamai la sorella e le dissi che minacciava di uccidersi. Quella notte in cui si uccise, e so che fa un brutto effetto, io lo presi seriamente, davvero, ma lo presi seriamente come le altre venti volte. Perciò parlammo, e

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quando attaccammo lui mi aveva promesso che non si sarebbe ucciso. La mattina seguente, presi l’aereo e lo chiamai dall’aeroporto per dire “co­ me stai?” solo per accertarmi ed essere sicura che stava bene. Di sicuro era di buon umore; doveva uscire con il suo amico e tutto andava bene, e mi sembrò come era di solito. Così mi sentii meglio, tutto qui. Pensai, va bene, qualsiasi cosa mi abbia detto la scorsa notte era solo un brutto mo­ mento. Così mi sentii meglio, feci visita alla mia amica, tornai, avevo in­ tenzione di chiamarlo lunedì ma non ebbi proprio la possibilità, e nel tornare a casa sua sorella mi chiamò lunedì notte e mi informò. ESS: quali furono le sue prime reazioni? Fid: non lo dimenticherò mai. Le mie ginocchia si piegarono, e io caddi a terra, gridando. Dissi solo “no, no, no”, per molte volte e, per es­ sere onesta, quando lei mi chiamò, lo sapevo prima che lei me lo dicesse, l’ho sempre saputo. Uno dei motivi per cui verso la fine non volevo tor­ nare con lui e non volevo sposarlo fu che in fondo in fondo sapevo che un giorno si sarebbe ucciso. Lo sapevo. ESS: sapeva che avrebbe corso un serio pericolo? Fid: lo sapevo che l’avrei corso. Ma la mia paura era che mi sarei spo­ sata, avrei avuto dei figli, poi lui si sarebbe ucciso, ed io sarei rimasta sola. Ho fatto un sogno su Arthur recentemente, e penso a lui quotidianamen­ te. Ma non penso che questo cesserà, spero che non accada. Non smette­ rò mai di pensare ad Arthur, mai. Era una brava persona. ESS: una domanda deve essere fatta: che cosa si poteva о si doveva fare per salvarlo? Fid: ci penso sempre. Avrei dovuto dirlo a sua madre, dovevo essere più forte e informare che aveva intenzione di uccidersi, lo voleva fare sul serio. ESS: che cosa avrebbe dunque dovuto fare la madre di Arthur? Fid: quando stavo guidando per venire qui, ci ho pensato; che cosa avrei potuto fare? ESS: che cosa poteva fare chiunque? Fid: nulla, nulla. Mi lasci dirle il perché. Non dovrei dire “nulla”. Ar­ thur era una persona in gamba. Io gli dicevo sempre: “Hai bisogno di andare all’ospedale” e lui mi rispondeva sempre: “Sono troppo furbo per questo. Se mi fai ricoverare, io so perfettamente come agire, esattamente quello che dovrei dire e loro mi dimetterebbero subito, e nel frattempo tu avrai rovinato la mia vita in quanto perderei ogni cosa della mia vita. Avrei perso la reputazione nei confronti dei miei amici e della mia fami­ glia, e probabilmente mi ucciderei”. E mi guardava dritto negli occhi e mi diceva queste parole. Doveva aver desiderato di essere aiutato. E poi la cosa triste è che io sapevo che lui voleva essere aiutato. ESS: soffriva, soffriva molto. Qual era la natura di quel dolore? Fid: mi diceva che lui voleva che io sapessi come ci si sente a provare quel dolore. E poi diceva che si sentiva come fosse disteso su un letto di

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aghi, che il dolore era così intenso, che si era diffuso in ogni parte del sue corpo e questo è esattamente quello che diceva, che era come stendersi su un letto di aghi. ESS: questo non risponde esattamente alla domanda che ho in mente Non sono sicuro di come formularla, ma lo farò in questo modo: quale era la natura del suo dolore mentale? Stare su un letto di aghi è una tor­ tura fisica. Qual era la natura del suo dolore mentale? Fid: è difficile per me rispondere alla domanda perché mi porta a dire che era molto depresso, о che non poteva sentire alcun piacere, e questo non rende giustizia. E come una schiaffo morale. ESS: c’è un parola per questo: anedonia. Fid: sì, lui ne parlava. ESS: ma questo dice semplicemente che si è depressi e tristi. Sto cer­ cando cosa c’è dietro. Per che cosa era depresso? Forse perché era brutto. Perché era stupido. Perché non aveva successo? Fid: sì, sono sorpresa che nessun altro le abbia detto queste cose, ma lui diceva sempre che andava veramente male a scuola. ESS: sto cercando dei paradigmi. Sono in cerca di indizi minuscoli per questa grande figura. Fid: le dirò qualcosa che lui mi disse una volta e che ha a che fare con questo. Una volta mi disse che quando usciva le prime volte con una donna, la cosa che gli dava la più grande gioia era quando lui faceva l’amore per la prima volta con quella donna, diceva che questo lo rende­ va veramente felice. Poi, successivamente, questo piacere non era poi così grande. ESS: dunque, il conquistare? Fid: forse. Non so. Ma mi diceva sempre che quella cosa lo rendeva ve­ ramente felice, e io pensavo sempre che era un po’ strano, ma me lo ave­ va detto anche prima. Non so se questo le può essere di aiuto. ESS: è diffìcile vivere una vita dove la felicità arriva solo nelle prime volte. Questo perché ci sono una moltitudine di attività che sono ripetiti­ ve e che si protraggono nel tempo, e c’è una prima volta, e poi resti delu­ so la seconda e la terza volta. Fid: questo ha un senso nella nostra relazione. Forse dopo quasi un anno, non ci sono state più prime volte, e lui non era più felice. ESS: mi dica alcune cose dello psicoterapeuta di Arthur, io non l’ho ancora incontrato. Fid: non l’ho mai incontrato neppure io. Se Arthur si fermava il ve­ nerdì notte, il sabato si alzava e andava al suo appuntamento. Io non l’ho mai incontrato. Penso che mi abbia chiamato una volta per sapere dove fosse Arthur poiché era in ritardo, ma io non ho parlato con lui. Sapevo di lui soltanto per aver sentito altre persone che ne parlavano perché era stato il loro psicoterapeuta per un lungo periodo di tempo, mi sembra che fossero come due vecchi amici che parlavano piuttosto che un medico

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che lo aiutava. Sembrava più che fossero troppo abituati alla loro relazio­ ne, si sedevano e parlavano per un'ora. ESS: che cosa diceva .Arthur di lui? Gli piaceva? Fid: sì, gli piaceva, ma non pensava che lo stesse aiutando molto. ESS: ha mai detto: “Il mio psicoterapeuta è colui che mi può salvare la vita”? Oppure ha mai detto: “Il mio psicoterapeuta non può salvarmi la vita”? Fid: no, non ha mai detto nessuna delle due cose. Credo che questo medico sia quello che Arthur frequentò dopo aver tentato il suicidio la prima volta da adolescente. Non me lo ricordo, non è una cosa presente nella mia mente. Non ricordo se Arthur abbia detto “Lui può salvare la mia vita”. ESS: lei non è entusiasta dello psicoterapeuta di Arthur? Fid: no, per niente. ESS: ha visto la nota di suicidio di Arthur? Quali sono state le sue rea­ zioni alla nota? Fid: all’inizio, solo un sentimento di disperazione. Penso che io fossi la più preoccupata di tutti per la sua morte. ESS: si sente responsabile о colpevole in qualche modo? Fid: no, lui non faceva sentire nessun in questo modo. ESS: pensa che lei era l’amore della sua vita? Fid: penso che ero uno degli amori della sua vita. Anche sua moglie era un amore della sua vita. Vivemmo tutte e due la stessa esperienza. Penso che si amassero molto, ma io sapevo che un giorno tutto questo sa­ rebbe accaduto; io vorrei ancora poterlo sposare. Intendo, lui era l’amore della mia vita, e sapevo che anche lui mi amava tanto. Lui era sicuramen­ te l’amore della mia vita, tutto qui. Ma non voglio che lei pensi che l’amore per mio marito è diverso. Penso che Arthur fosse nato con la sua malattia. Penso senza dubbio questo. Questo sentimento di non essere in grado di provare nulla, questa depressione con la quale lui riteneva di essere nato. E io lo penso fermamente, come si ha una patologia organi­ ca come il cancro, si può avere una patologia psichica che ti può uccidere e questo è ciò che lo uccise. Fu come un cancro per tutti gli anni della sua vita e alla fine ebbe la meglio sul suo corpo. Lui ci nacque. L’ho sempre pensato. E diverso quando si diventa depressi per altri motivi, ma non si trattava di quel tipo di depressione. Alcune persone non comprendono la malattia mentale. Molti veramente non ci riescono, e io invece penso di riuscirci. Ecco perché penso che lui ci fosse nato. Aveva genitori meravi­ gliosi. Sua madre è una persona meravigliosa. Di sicuro lui non la sop­ portava; questo accadde anche a me tuttavia io l’adoro, e lei ha così tanto amore dentro di sé. Anche suo padre è una brava persona. I suoi genitori divorziarono, ma molte persone hanno genitori divorziati. ESS: lei non pensa che l’amarezza per quel divorzio abbia colpito Ar­ thur in modo particolare?

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Fid: penso fermamente che fu dura per lui. Ma guardiamo suo fratello e le sue sorelle. Se lui fosse stato figlio unico, si poteva immaginare una cosa del genere. Sua madre mi ha detto che lui aveva problemi anche quando era un ragazzino, molto prima del divorzio. Io so, che è così du­ ro, e non posso più dirlo a sua madre e a suo padre, ed è persino duro esprimerlo a lei, ma io sento che lo comprendo. Sento di comprendere il perché l’ha fatto, e magari Dio mi avesse permesso di aiutarlo; ci ho pro­ vato, ci ho provato veramente. Ma penso di sapere il perché lui l’ha fatto; penso di comprendere il suo dolore. La notte era il suo nemico, perché quando era a casa da solo e il sole tramontava lui si sedeva sul divano e sprofondava. Ma noi uscivamo sia nel weekend che durante la settimana. Intendo dire, ci divertivamo. Non avrei trascorso tutto quel tempo con lui se fosse stato sempre depresso. Era una persona che amava divertirsi, che aveva un buon temperamento ed era molto cordiale e in gamba. Una vol­ ta andammo a giocare a golf in miniatura dopo che ci eravamo lasciati diverse volte e io stavo con lui solo perché sapevo che aveva bisogno di uscire di casa. Andammo dunque al golf in miniatura e seguimmo tutto il percorso e vincemmo molti biglietti premio e lui si divertì così tanto a re­ galarli ai bambini. Io volevo comprare qualcosa di frivolo e lui disse “no, diamoli ai bambini”. E andò in giro da tutti i bambini a chiedere “vuoi dei biglietti, vuoi dei biglietti?”. Lui amava fare questo, ecco che tipo di uomo era. Era un uomo veramente buono. Noi ci compensavamo. Quan­ do scriverà di lui, voglio che sappia che lui era pieno di cose meraviglio­ se.

Intervista con lo psicoterapeuta

ESS: per favore mi dica come ha conosciuto Arthur. Psicoterapeuta (Psi): fondamentalmente, ho conosciuto Arthur in tre diverse fasi della sua vita. All’inizio lo incontrai quando era un bambino, quando i genitori lo portarono da me in quanto aveva grandi difficoltà. Era un bambino arrabbiato, scontento e difficile quando lo vidi. Poteva aver avuto circa otto anni. Era uno dei bambini più arrabbiati che io ab­ bia visto in oltre 30 anni di pratica. In alcune occasioni, all’inizio, era quasi impossibile gestirlo fisicamente. Dovevo trattenerlo e contenerlo. Una volta mi diede un pugno sul pube così forte che mi mise al tappeto. Provò a tirar giù la mia libreria. Una volta scappò e dovetti riprenderlo a diversi isolati di distanza. Per certi versi era uno dei bambini più diffìcili che abbia mai incontrato. La mia ipotesi in quel periodo era che gran parte del suo comportamento era una reazione al divorzio relativamente consensuale dei suoi genitori. Tra i suoi genitori non c’era più amore. La terapia andò bene. Migliorò notevolmente, alla fine terminammo la tera­ pia perché le cose stavano andando bene, lui aveva raggiunto un buon equilibrio e le cose stavano andando bene anche a scuola. ESS: mi parli della terapia. Com’era? Psi: la mia formazione può essere divenuta più eclettica negli anni, ma è di stampo psicodinamico. Ho ricevuto la formazione presso un centro di studi di psicoanalisi del bambino con approccio analitico ai fatti e alle cose. Spesso usavamo il metodo del gioco. Si lascia il bambino scegliere ciò che vuole fare e di cui vuole parlare e poi doye vuole portarti e come si esprime rispetto alle sue problematiche. Spesso con interpretazione di­ retta e attraverso il veicolo del gioco il terapeuta risponde alle problema­ tiche del bambino, lo aiuta a superafTeTLa mia opinione è che ciò che rende questo approccio efficace è una combinazione dell’effetto catartico del rielaborare una problematica nella seduta insieme alla consapevolez­ za che viene accresciuta e al materiale inconscio che è riportato alla co­ scienza. Io avevo ogni tipo di oggetti nel mio ufficio: giochi, pistole a freccette, pupazzi. Come ho detto, terminammo la terapia perché, fortu­

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natamente, lui non mi contrastava più fisicamente e le cose andavano molto meglio sul versante familiare e in quello scolastico. Non ricordo esattamente come si era evoluta la situazione nel versante domestico. ESS: ma lui era un bambino arrabbiato? Psi: molto. ESS: che cosa diceva? Con chi era arrabbiato? Psi: di nuòvo, la mia opinione era che il bersaglio della sua rabbia era­ no i genitori, i fratelli per certi versi. Ne ho descritto una parte quando ho parlato delle\re fasi di terapia con lui. Una parte di ciò che io fui in grado di elaborarexqn lui quando era più grande e in grado di comuni­ care con più precisione^ettò luce sulle fasi iniziali di trattamento. Ma ri­ cordo quale era la mia posizione, le dinamiche che erano in gioco erano connesse a ciò che le ho descritto. Poi terminammo la terapia perché le cose andavano meglio a casa e a scuola. Non ebbi notizie da parte della sua famiglia per vari anni. Poi ricevetti una telefonata nel mezzo della notte quando lui aveva circa 15 anni, aveva fatto un tentativo di suicidio con farmaci, stava all’ospedale e gli stavano facendo la lavanda gastrica. In quel periodo iniziai a incontrarlo di nuovo. La terapia ovviamente non si avvaleva più del gioco come metodo di lavoro. Parlammo di ciò che sentiva e pensava, e fu durante il corso della seconda fase della terapia che lui fu in grado di parlare delle sue insicurezze. Non sono compietamente sicuro di quali di queste vennero fuori durante la seconda fase del­ la terapia о quali emersero quando mi chiamò successivamente da adulto; ma lui era molto insicuro in quel periodo, non aveva molta fiducia in se stesso, era preoccupato delle sue relazioni e che gli altri bambini non avessero un’alta stima di lui. ESS: sta dicendo che quei sentimenti erano implicati nel suo tentativo di suicidio di allora? Psi: non c’era una cosa in particolare che avesse fatto precipitare la si­ tuazione. La mia opinione è che si trattasse più di un senso sconfinato di infelicità per la vita e per se stesso. Fu a questo punto che lui fu in grado di parlare più accuratamente delle cose, del fatto che il padre teneva molto di più a suo fratello maggiore, ritenuto da lui più brillante. Il fra­ tello andava in una scuola privata e faceva parte della squadra di basket, e penso che per Arthur il fratello maggiore, in quel periodo, rappresen­ tasse ciò che lui voleva essere e che non sarebbe mai diventato. Percepiva che il padre teneva molto di più al fratello maggiore che a lui. Penso che questo si esprimesse anche nel simbolismo del denaro che veniva speso per lui, e il sentimento che il padre non si prendesse cura di lui finanzia­ riamente. Questo fu un argomento importante nella terza fase della tera­ pia, ma penso che vedemmo il suo inizio nella seconda fase; il padre spendeva più denaro per la sua seconda moglie. Arthur sentiva che que­ sto rappresentava simbolicamente un non prendersi cura di lui. Parlava sempre del suo disagio per sua madre. Dopo che commise il

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suicidio, lei si lamentò di non aver mai avuto con Arthur l’intimità che desiderava. E che lui non fu mai in grado di esprimere il suo disagio con lei. Lui si sentiva a disagio e questo l’ho già detto; ed era stupefatto da ciò poiché sebbene lui e io ne parlassimo, veniva fuori una situazione in cui lei non aveva mai fatto alcuna cosa negativa nei suoi confronti, come in­ vece percepiva per il padre che era sfuggente e non si prendeva abba­ stanza cura di lui. La madre provò intensamente a relazionarsi con Ar­ thur, e tutto ciò sembrò far peggiorare le cose, in quanto per Arthur il tutto non si confaceva a lui. Io ho sempre percepito la madre come una persona che veramente teneva ad Arthur ed era fondamentalmente buo­ na e adeguata; ma c’era un qualcosa in lei che era un po’ diffìcile esplici­ tare, che aveva a che fare con l’idea che lei sembrava molto bisognosa, poteva prosciugarti in considerazione di quanto era bisognosa. Non so in che altro modo esprimerlo. ESS: pensa che lui temesse questo di lei? Psi: si potrebbe fare una teorizzazione sul fatto che si trattasse di pau­ ra, ma lui non si riferì mai alla paura. Quello che riusciva a descrivere era che lei lo faceva sentire a disagio. Sapeva che poteva essere dipendente da lei. Lei era colei alla quale lui si rivolgeva; ecco perché dico che creava molta confusione in lui. Confondeva anche me. ESS: è una cosa molto subdola. Psi: sì, era qualcosa del genere, e come ho detto, nella sua terapia da adolescente e da adulto ne parlammo esplicitamente. Lui non fu mai ve­ ramente in grado di definire quale fosse questa qualità, ma c’era da quando era giovanissimo, e non se ne andò mm via. C’era proprio quella sensazione che in qualche modo, nella prima faldella vita, nel legame tra i due qualcosa fosse andato storto; ed io non fui mai veramente in grado di comprendere cosa fosse, ma era qualcosa di preéqce che non scomparve mai. ESS: Come se ci fosse un carattere idiosincrásico e patologico connesso a questo. Psi: come ho detto, ci si confonde, e ho sempre desiderato di poterlo comprendere meglio. Non ho mai provato un senso di chiarezza per que­ sto fatto. E qualcosa di cui parlammo a lungo durante la seconda e terza fase della terapia. ESS: discusse questo caso con qualcuno in quel periodo? Psi: non ricordo a chi ne parlai, ma non andai in supervisione. ESS: quale fu la sua opinione circa la prognosi di questo caso quando avvenne il tentativo di suicidio nell’adolescenza? Psi: inizialmente, ovviamente, io ero incerto; ma, con il passare del tempo facemmo dei passi in avanti. Si sentiva meglio con se stesso, si sen­ tiva meglio con la sua vita, stava sviluppando buone relazioni con i suoi coetanei e iniziò ad essere orgoglioso del suo intelletto. Facemmo molti passi in avanti per ciò che concerne la sua autostima, e lui iniziò a crede­

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re in se stesso, anche se forse dentro di lui non si sentiva brillante come suo fratello, a considerarsi qualcuno che dal punto di vista intellettivo aveva molto da offrire. Fu un’evoluzione molto positiva. ESS: ogni quanto lo vedeva? Psi: almeno una volta a settimana, mentre nella prima fase lo vedevo due volte a settimana. ESS: pensa che provasse apprezzamento per lei? Psi: sono sicuro che gli piacevo. ESS: sembrerebbe di sì. Psi: sono sicuro che gli piacevo, e penso che posso dire che lui conti­ nuò a venire da me, e questo mi rende sicuro che gli piacevo veramente in quanto si trovava a suo agio con me, e quando ebbe di nuovo bisogno scelse me; poteva andare da chiunque altro. Avevamo veramente un buon rapporto. ESS: a lei piaceva? Psi: sì. Era un pochino più difficile apprezzarlo quando mi picchiava sul pube, ma in fondo era una persona gradevole, e io avevo delle sedute piacevoli con lui. Mi ricordo, nella seconda fase della sua terapia, che la natura delle nostre sedute era tale che era meglio per lui incontrarci alla fine della giornata; così aveva meno problemi a rispettare i suoi impegni dopo la scuola. Dunque, devo dire che avevamo una relazione molto ri­ lassata e io avevo fiducia in lui. Le cose andavano bene, e non ebbi notizie di lui per vari anni. Poi, la terza fase del nostro lavoro fu quando mi chiamò da adulto, quando frequeifitava la facoltà di medicina. In quel periodo, quando mi chiamò era abbastanza depresso alfinizio. Le problematiche erano sempre le stesse, simili per certi versi, nonostante il fatto che lui era chiaramente un ragaz­ zo brillante. Era stato accettato alla scuola di medicina e voleva diventare medito come suo padre. Parte di ciò gli causò un ritorno al suo stato di insicurezza. Ripensandoci, per certi versi, fu per il suo domandarsi se fos­ se entrato alla facoltà di medicina per i suoi meriti oppure per merito di sua/moglie, e per il fatto che gli eventi lo avessero unito a sua moglie. Era molto duro con se stesso, era molto preoccupato di non essere all’altezza di essere un medico о un avvocato. Aveva paura che non avrebbe saputo fare buone scelte per le persone. Il fatto che aveva così tanto successo in diversi campi non lo toccava così in profondità come ci si poteva aspetta­ re. Una parte sostanziale del nostro lavoro insieme in quel periodo si concentrò proprio su ciò che ho appena detto e su come fossero irrazio­ nali e irrealistiche alcune sue prospettive. Se non fosse stato il migliore, lui non valeva alcunché, il migliore о nulla. Questo era un aspetto sul quale lavorammo insieme, nuovamente, una parte di questa problematica migliorò sensibilmente, e lui iniziò a sentirsi più adeguato sotto quest’as­ petto. Era il tipo di pressione che lui si imponeva. Dunque, questa era una parte della storia, e si congiungeva con la de­

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pressione, ma poteva ovviamente collegarsi anche con altre cose. Aveva grandi difficoltà a concentrarsi sullo studio e rimandava continuamente: quindi, spesso la sua percezione era che non faceva bene come desidera­ va, in quanto non aveva impiegato il tempo e l’energia necessari per ot­ tenere un certo risultato. Eppure, come gli avevo fatto notare, questa era una testimonianza di quanto fosse brillante e di quanto potenziale avesse per raggiungere un buon risultató senza uno sforzo intenso, e penso che alla fine iniziò a comprenderlo. I Lottò a lungo con la sensazione: di non avere il tipo di sentimenti che avrebbe voluto per sua moglie. C’eì^a molto senso di colpa inerente que­ sto aspetto sul quale dovemmo lavorale. Stranamente sentiva la sensazio­ ne che aveva sposato sua moglie per motivi sbagliati; che, nella sua insi­ curezza, aveva realizzato qualcosa troppo presto solo per il bisogno di stare con qualcuno, e che dunque lei non era il tipo giusto per lui. Ma, e mi ripeto, lui la percepiva come una persona amorevole, alla quale non voleva causare dolore e con la quale chiaramente non era felice. Penso che il fulcro della sua scontentezza fosse qualcosa in più rispetto al fatto che non la trovava fisicamente attraente come desiderava; questa sensa­ zione era simile per le ragazze che nella vita lo ferirono. Forse questo può dare un’idea, in quanto lo si può estendere sia a sua moglie che alla sua fidanzata. Penso che, nel contesto delle insicurezze con le quali lotta­ va, lui era il tipo di persona che fantasticava sull’avere un certo tipo di donna che lo attraeva ma lui non pensava mai di essere all’altezza per avere quel tipo di donna, così accettò donne che in realtà non desiderava; ma poi era sempre deluso perché sapeva di aver preso questa decisione. Ma si trattava sempre di brave persone, lui non si pose mai il problema se fossero persone rispettabili, ma il problema era a livello chimico. Fisicamente, le donne che finiva per prendersi non erano così imponenti come lui desiderava, e dunque non provava il tipo di eccitamento che desidera­ va. Non si trattava mai di situazioni nelle quali ci si poteva aspettare un certo coinvolgimento emotivo; la parte che invece era più tangibile era la sua insicurezza che era a un livello tale che lui non si esponeva mai per ottenere il tipo di donna che pensava lo avrebbe reso felice. ESS: dunque non era abbastanza degno di meritare il tipo di persona che desiderava e pensava che non lo sarebbe mai stato? Psi: penso che quando interruppe la terapia la terza volta, percepii che sentiva una cosa del genere “sai una cosa, ce l’ho fatta in due facoltà, mol­ ti uomini come medici e avvocati guadagnano molti soldi”. Quello che io pensai fu che lui si stava affacciando al mondo percependo che in quel momento avrebbe avuto possibilità migliori rispetto al passato. Non in­ terruppe la terapia in quel periodo con un sentimento pessimista. ESS: per favore mi dica qualcosa sull’interruzione della terapia. Psi: questo avvenne senza un motivo preciso. Lui la imputò molto ad una combinazione tra i suoi impegni divenuti più intensi e al fatto che si

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sentiva meglio, non c’era più l’urgenza rispetto a prima. Io avevo esplora­ to insieme a lui se c’erano delle reticenze sul fatto di continuare, ma lui non lo ammise mai. ESS: era a rischio di suicidio quando interruppe la terapia? Psi: quando interruppe la terapia non penso che fosse alle prese con intenzioni suicide. Aveva avuto ideazione suicidaría in quel lasso di tem­ po durante il quale si svolse la terapia. Una delle cose che non ho ancora menzionato è che all’inizio mostrò molte resistenze nel dover prendere i farmaci; lo vedeva come un fallimento, come un altro segno di inadegua­ tezza, e dunque dovemmo lavorare molto affinché si convincesse a pren­ dere i farmaci. Alla fine li accettò. Mi ricordo che il primo psichiatra dal quale lo mandai non lo convinse, voleva provarne un altro. Quello che ho in mente è che lui pensava di essere aiutato moltissimo ma che doveva esser certo di prendere i farmaci puntualmente, altrimenti avrebbe avuto cefalea. Pensava che la terapia farmacologica avrebbe fatto la differenza. Una delle cose di cui parlammo spesso fu che la vita non gli appariva gioiosa e che lui si sentiva molto depresso, ovviamente; inoltre per certi versi era simile al fatto di non darsi la possibilità di conquistare una ra­ gazza superlativa come aveva sempre sperato. Non si concedeva la possi­ bilità di fare quelle cose che gli avrebbero portato piacere e dunque una delle cose di cui iniziammo a parlare fu di ciò che si prefigurava e di ciò che si poteva fare per aiutarlo ad iniziare ad avere accesso alle cose che gli avrebbero dato un po’ di gioia. E dunque, una delle cose che alla fine lui si concesse e che lo divertiva fu unirsi ad un club di Scarabeo, andava a giocare a Scarabeo diverse volte alla settimana e sembrava che ne fosse soddisfatto e che si divertisse. Era molto brillante e molto bravo in questo gioco. Io lo considerai come uno degli aspetti inerenti il suo migliora­ mento; come se si fosse reso conto di non essere il miglior giocatore di Scarabeo della città. Intendo dire, che ovviamente c’erano i primi della classe come giocatori di Scarabeo della città, ma lui non ne era disturba­ to, non doveva essere necessariamente il migliore. Era quindi in grado di godersi il gioco e poteva proseguire per la sua strada. Durante questo periodo di tempo, divorziò da sua moglie ed elaborò questo evento. Erano già separati, ma quello che io ricordo di sicuro è che lavorammo sul suo senso di colpa inerente questo evento. E poi ci fu l’altra donna che iniziò a far parte della sua vita. Nuovamente, si trattava di una ragazza carina e a lui piaceva, ma non provò mai per lei quella passione che desiderava per una donna. Molto di questo aveva a che fare, e mi ripeto, con il suo sentimento di essersi sistemato. Ma non sistemato nel senso che fossero persone sgradevoli, ma sistemato nel senso che non c’era quell’alchimia che lui aveva fantasticato. Lui aveva eluso questo pun­ to quando interrompemmo la terapia, ma in quel momento aveva fatto così tanti passi in avanti che io ebbi la sensazione che alla fine si sarebbe concesso una possibilità. Uno dei motivi che mi incoraggiò in quel perio­

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do a pensare che la vita gli avrebbe sorriso fu che lui era soddisfatto di aver completato i suoi studi sia come medico che come avvocato; si senti­ va che questo gli dava un certo grado di solidità. Sentiva di poter essere un buon professionista quando di fatto iniziò a lavorare. Mi ricordo che parlammo di questo e del prendere le giuste decisioni: lui pensava di poter aiutare le persone. Dunque sembrava aver veramente raggiunto un’autostima migliore. Come ho detto, mentre non c’erano certezze per me in quel periodo, ebbi comunque la sensazione che alla fine si sarebbe con­ cesso la possibilità di raggiungere quella relazione che stava cercando. ESS: questo quanti mesi о anni prima della sua morte? Psi: interrompemmo la terapia circa due anni e mezzo prima che si uc­ cidesse. ESS: ci furono dei contatti tra voi durante questo lasso di tempo? Psi: lo chiamai ad un certo punto per sapere come stava. Mi ricordo che mi disse di stare bene, che le cose andavano bene e mi spedì una nota carina ad un certo punto, dicendo come gli erano piaciuti i nostri incon­ tri e quanto lo avevo aiutato. ESS: fu sorpreso quando si uccise? Psi: penso che quando qualcuno ha tentato il suicidio c’è la possibilità che possa accadere di nuovo, ma fui veramente sorpreso. Non so se l’ho già detto, ma durante la terza fase della terapia, fu chiaro a quel punto quanto la fisiologia incideva sulla depressione. ESS: mi dica di più su questo. Psi: mi sentii abbastanza sicuro a un certo punto che non si trattava so­ lo di una risposta psicologica e per questo volevo essere certo che pren­ desse i farmaci. ESS: che peso dà alla biologia di questa situazione? Psi: ripensandoci retrospettivamente fui molto sospettoso che si trat­ tasse di fisiologia e di biologia durante tutto il tempo. Ciò che mi rese più dubbioso su questo aspetto durante le prime fasi del mio lavoro con lui fu il verificare quanto successo avevamo ottenuto senza usare farmaci. Ero convinto a quell’epoca che se fosse stata una condizione principalmente о in gran parte basata sulla biologia non ci saremmo potuti aspettare quel miglioramento eccezionale che invece ottenemmo. ESS: che cosa intende? Un tipo di depressione endogena? Psi: guardando indietro, sarei probabilmente di un altro parere, va bene? ESS: e che senso dà a questo? Psi: ritengo che ci fosse nato e che le difficoltà ambientali esacerbarono la sua vulnerabilità. ESS: lo ritiene un predestinato? L’esito infausto era inevitabile? Psi: no, non è quello che intendevo, no; e il motivo è, adesso lo posso dire chiaramente, che rispondeva bene ai farmaci. Intendo che non si trattava di una panacea, non tutto scomparve, ma fu un miglioramento

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apprezzabile, almeno durante il periodo in cui lo vidi. Faceva scelte più salutari e si sentiva meglio sulle decisioni prese. Soprattutto dopo che era diventato medico, sentiva che aveva occasioni e potenzialità che non pen­ so riuscisse a vedere prima, penso che sentisse di aver raggiunto qualco­ sa, e che volesse aiutare le persone. Sentiva di poter raggiungere questo obiettivo. Per esempio, non era il tipo di persona che diventa medico о avvocato per guadagnare molti soldi. Quando parlai con lui per l’ultima volta, sentiva di stare bene in quanto percepiva, di fatto, di poter essere in grado di fare ciò che voleva. Questo avvenne un paio di anni prima della sua morte. ESS: dobbiamo far riferimento alla possibilità che Arthur potesse esse­ re salvato. Che cosa si poteva fare per salvarlo? Psi: ovviamente, questa è la domanda alla quale ho provato a dare una risposta fin dalla sua morte. E, molto onestamente, quando mi ha chia­ mato una delle cose di cui ero curioso era se lei mi poteva dare delle ri­ sposte. Nel ripensare a quello che io e lui avevamo fatto insieme, non po­ tevo pensare a niente (e questo suona come un’affermazione retorica) che avrei potuto fare di diverso. Come ho detto, lui sembrava essere migliora­ to, la vita sembrava andare molto meglio. ESS: Poteva essere di aiuto se fosse stato in psicoterapia in quel perio­ stio? \Psi: Penso di sì, ma per qualche motivo non venne. Ha visto la lunga lettera che scrisse, la lunga nota di suicidio? ESS: sì, ho una copia. Psì\ha esplicitato quello che alla fine era prevalso, cioè il sentimento che i niòmemi belli non duravano mai abbastanza; e la cosa principale è che lui tornavi sempre nel buio, che non aveva più speranze di potersi rimettere. ESS: sì, questo lo perseguitava. Psi: tuttavia non era tanto preoccupato su chi egli fosse realmente quan­ do lo vidi l’ultima volta. Questo era una parte di ciò che lo rendeva partico­ larmente triste nel vedere che alla fine il fato avesse avuto la meglio; le tre fasi della sua vita in cui lavorammo insieme ci avevano permesso di miglio­ rare molto le cose. ESS: si è mai chiesto perché non si fosse rivolto a lei? Psi: sì, me lo sono chiesto. Una delle cose che mi sono chiesto è stata se la biologia fosse divenuta così imponente arrivati a quel punto, che lui non poteva nemmeno rendersene conto. Per lui, chiamarmi per la quarta volta avrebbe richiesto ancora abbastanza fede e speranza che le cose sa­ rebbero migliorate e che mi avrebbe fatto entrare dalla porta, detto in modo figurato; ed io posso solo presupporre che arrivati nel periodo in cui avvenne il suicidio, qualunque cosa io gli avessi dato in passato, lui non era più in grado di ricordare о connettersi о sentire che sarebbe sta­ to abbastanza.

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ESS: pensa che lo avrebbe aiutate’ se lei lo avesse chiamato e gli avesse detto che doveva venire a fare una visita da lei? Psi: sì, ad un certo punto Г ho fatto. Gli feci una telefonata, ma venne fuori che le cose andavano sufficientemente bene e che dunque una visita non era in realtà necessaria. Intendo dire che lo contattai. ESS: non si può fare più di questo. La parola dolore è ripetuta in tutta la nota di suicidio. Nel primo paragrafo, viene usata diverse volte, nella prima frase: “Non sopporto questo dolore, questo dolore mi sommerge, il dolore è terribile”. Psi: il dolore della mancanza di speranza che lui percepiva; il dolore di non vedere la luce alla fine del tunnel; il dolore che non c’era vita in quello stato che gli portava un po’ di gioia. Quando mi dette la possibilità di lavorare con lui, raggiungemmo sempre una posizione migliore; ecco perché fui così profondamente dispiaciuto che non si sia rivolto a me nuovamente. Non si trattava del fatto che interrompemmo la terapia per­ ché io non lo potevo aiutare. Ovviamente, ci sono dei casi in cui la gente interrompe in quanto le cose non migliorano. Noi ci fermammo sempre quando le cose andavano sostanzialmente meglio, ecco cosa mi colpisce, il fatto che non si sia rivolto a me. ESS: in un certo senso, lei fa intendere il ruolo fondamentale della bio­ logia. Psi: sì, a questo punto è quello che direi. La biologia, esacerbata poi dalle difficoltà della vita. Sebbene, senza la biologia, non penso che quel­ le difficoltà nella vita fossero così potenti da condurre al suicidio. Sì. Ecco come vedrei le cose arrivati a questo punto, sì, ci troviamo a che fare con il fatto che lui era predisposto geneticamente. ESS: gli fece mai una diagnosi secondo il Manuale Diagnostico e Stati­ stico (DSM)? Psi: ovviamente, diagnosticai depressione maggiore. Non lo vidi mai psicotico. ESS: che ruolo ebbe il divorzio dei suoi genitori nella sua vita? Pensa che sarebbe stato in qualche modo diverso senza quel divorzio? Psi: ecco quella che si chiama una domanda da un milione di dollari. Accusare qualcosa che gli accadde della quale nessuno di noi è al corren­ te, qualche altro trauma о molestia, la ragione che mi riporta alla fisiolo­ gia del caso è che conosciamo un fratello e le sorelle che hanno i loro problemi, ma nessuno di loro fu messo al tappeto dalle dinamiche fami­ liari come Arthur. Ecco perché quello che ho detto prima mi sembra la spiegazione più adeguata arrivati a questo punto: e cioè la biologia, la vulnerabilità fisiologica, e poi le difficoltà della famiglia che si aggiunse­ ro.

Consulenza di Μ. David Rudd

David Rudd ha circa quarantanni, è professore di psicologia e direttore della scuola di specializzazione in psicologia clinica alla Baylor University. Ha preso il suo dottorato alt Università del Texas, e ha fatto una specializzazione dopo il dot­ torato in terapia cognitiva sotto la guida del dottor Aaron T. Beck a Philadelphia. Ha scritto più di 70 pubblicazioni sulla terapia cognitiva e sulla terapia del com­ portamento suicidano. E l’attuale presidente dell’American Association of Suicido­ logy.

Il suicidio è una perdita del potenziale umano, una perdita di amore e intimità, una perdita di creatività e speranza; in breve, una perdita della preziosità della vita. E una perdita che si espande ben oltre i legami dell’individuo. Questo emerge dalle interviste condotte così elegante­ mente dal Dr. Shneidman. Piuttosto che porre fine alla sofferenza emoti­ va, il suicidio si trasforma in qualcosa di diverso, un nuovo tipo di soffe­ renza о psychache, una eredità del dolore e della perdita. Dopo aver letto le interviste, si hanno pochi dubbi sulla persistenza della sofferenza. Lo vediamo nelle domande persistenti dei parenti e dei loro sforzi nello spiegare la perdita; è persino evidente nella nota di suicidio, con il conti­ nuo scusarsi e con le rassicurazioni. Il suicidio è parte del tessuto sociale delle nostre vite. Non siamo isola­ ti, separati e distinti l’uno dagli altri. Piuttosto, siamo profondamente interconessi, ad un livello e con una complessità tale che diviene dolorosa­ mente evidente quando avviene un suicidio. Il suicidio risuona nel siste­ ma familiare nel suo insieme e nella comunità, immediatamente e nelle generazioni successive. La perdita lascia un’eredità dolorosa che si perpe­ tua nella domanda: perché? È una perdita che si percepisce nella mente di coloro che sopravvivono, in un certo senso una nuova versione di psychache. Psychache è il dolore, l’angoscia, il malessere, il tormento, il do­ lore psicologico nella psiche (Shneidman 1993). Quello che vediamo nel testo e nel linguaggio delle interviste è la psychache in una nuova forma,

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quella manifestata da colui che subisce la perdita di un caro a causa del suicidio. E evidente in ogni intervista, nelle domande formulate e nelle spiegazioni date. Mi avvicinerò a questo caso per certi versi da una prospettiva partico­ lare, quella che si basa sulla terapia cognitiva ma che fa leva e che è for­ temente influenzata dalla teoria psicologica moderna, specificamente le nozioni di Murray sui bisogni psicologici (1938) e il costrutto e la teoria di Shneidman (1993) sul dolore psicologico. Queste teorie sono abba­ stanza complementari, con una loro integrazione derivante dalla ricchez­ za, profondità e complessità della personalità umana. La teoria cognitiva avanza l’idea dei modi. Un modo si riferisce all’organizzazione subspecifi­ ca nell’ambito dell’organizzazione della personalità che incorpora i si­ stemi cognitivi (processamento delle informazioni), affettivi, comporta­ mentali e motivazionali. I componenti di un modo sono interattivi e in­ terdipendenti. La concettualizzazione originale del modo è stata estesa al fine di com­ prendere il modo suicidio-specifico (Rudd et al. 2000). Nell’ambito del concetto di modo, un insieme di cose possono far scattare un ciclo suicida­ no. La caratteristica saliente del modo suicidarlo, almeno dal punto di vista cognitivo, è il sistema suicidarlo delle credenze, un costrutto che in­ corpora le convinzioni suicidarle dell’individuo, quelle convinzioni che solitamente si ritiene dominate dal sentimento di mancanza di speranza (hopelessness). In breve, il sistema delle credenze suicidarle è un modo di verbalizzare Yà psychache dell’individuo. Come fa il paziente a esprimere a parole il dolore psicologico e la sua sofferenza? Il sistema delle credenze suicidarle è come si comprende la psychache dell’individuo; fornisce dun­ que un target tangibile per il terapeuta. È il modo del paziente di identi­ ficare quali bisogni sono stati frustrati. Per ogni tema (discusso qui) del sistema delle credenze suicidarle, i bisogni psicologici identificabili sono stati frustrati. L’hopelessness è un concetto troppo ampio per essere d’aiuto nel caso di un individuo; deve essere adattato all’individuo per essere d’aiuto nel lavoro clinico. E forse più semplice comprendere il suicidio da una prospettiva tem­ porale lineare, muovendoci dall’evento precipitante (esterno о interno) che attiva il sistema delle convinzioni, alle concomitanti risposte fisiologi­ che ed emotive, e il comportamento che facilita (o impedisce) la suicidalità del paziente. Nel caso di Arthur, la prima riga della sua nota incapsula la sua psychache e il fulcro del suo sistema di credenze suicidarle: “Non faccio nient’altro che soffrire ogni giorno”. Ogni momento è sofferenza. Per quanto tempo possono andare avanti senza piacere? In modo molto più dettagliato rispetto al costrutto hopelessness, io propongo quattro temi centrali del sistema delle credenze suicidarle. Tutti tranne uno sono reperibili in Arthur: 1) non essere amato (“non merito di vivere”); 2) inaiutabilità (“non posso risolvere i miei problemi”);

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3) scarsa tolleranza agli stressor, о psychache (“non posso più sopportare questo dolore”); 4) percezione di essere di intralcio agli altri (“tutti sta­ rebbero meglio se fossi morto”). In questo caso, l’unico tema non identi­ ficato da Arthur nella sua nota di suicidio e nelle interviste è il non essere amato. Da adulto sembrava riconoscere le sue capacità e qualità, sebbene questo non fosse accaduto nei primi anni della sua vita. Da bambino e da adolescente, tutti i quattro temi erano attivi nel suo sistema suicidarlo. Quello che emerge dalle interviste con genitori, fratello, psicologo e psi­ chiatra è la natura di vecchia data della sua sofferenza e disforia. Da un punto di vista cognitivo, questo è un problema centrale. Con il tempo, si convinse che la sua sofferenza era intollerabile (psychache e poca tolleran­ za agli stressor) e che non poteva essere cambiata о trattata efficacemente (helplessness). In modo simile, aveva iniziato a interpretare la cronicità del­ la sua malattia e dei suoi problemi come un peso per gli altri (l’essere di intralcio agli altri). La sua morte non avrebbe solo alleviato la sua soffe­ renza ma anche la sofferenza degli altri. In una delle interviste di mag­ giore impatto, il suo psichiatra indica che aveva compreso il suo sistema di credenze (“mi ricordo chiaramente la sua prima visita e la mia impres­ sione fu che un giorno si sarebbe suicidato”). Persino quando si è control­ lati nelle sedute, ci sono spesso sottili, nascosti e impliciti collegamenti con il senso di hopelessness e inaiutabilità. Il senso di inaiutabilità è inoltre evidente nelle interviste con la madre e con il fratello. È importante per il clinico identificare il sistema del credo suicidarlo e colpirlo direttamente, monitorandolo durante la terapia. I fallimenti nell’identificare, risolvere e monitorare il sistema delle credenze aumentano il rischio di rinforzar­ lo. Il processo di sviluppo precoce descritto nelle interviste fornisce un terreno fertile per il sistema di credenze di Arthur nei quattro temi (il non essere amato, l’inaiutabilità, la scarsa tolleranza agli stressor о psychcache, e il percepire di essere un peso). Di certo il suo temperamento era ipersensibile. Come interpretarono questo i suoi genitori? E chiaro che loro identificarono i suoi problemi dall’inizio e cercarono l’aiuto di terapeuti. In breve, c’era un problema; lui era in qualche modo carente e non si poteva misurare con suo fratello. Come interpretarono questo i suoi genitori? Che risposte si diedero? Dalle informazioni che abbiamo, sembrerebbe che lui fosse arrivato alle loro stesse conclusioni, cioè che era in un modo о nell’altro carente. Fin dall’inizio della sua vita si vide probabilmente come colui che non poteva essere amato, un qualcosa che non cambiò mai nonostante l’aumentare dei suoi successi (come prova del contrario). Il fondamento del suo senso di inaiutabilità è chiaro nella sua storia, nei termini della ricorrente e persistente natura della sua di­ sforia e del suo isolamento emotivo e della relativa anedonia. Sembrava che si fosse affidato ad una spiegazione biologica, riconoscendo poco controllo о influenza da parte sua nel corso della depressione. Come si /

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evince dalla sua nota di suicidio, dal momento che il problema persisteva, la sua tolleranza andava scemando, e il suo senso di essere un peso cre­ sceva. Nel leggere la sua nota di suicidio e le interviste mi sono domanda­ to a che livello lui comprendeva il suo sistema di credo suicidano e la na­ tura ciclica del suo comportamento suicidarlo. Riconosceva che c’erano fattori scatenanti identificabili, sia interni (ad esempio pensieri, immagi­ ni, sentimenti) che esterni per i suoi declini ciclici, molti dei quali lui po­ teva influenzare e considerare in terapia? La terapia cognitiva ha a che fare con il processamento delle informa­ zioni, quello che facciamo delle nostre esperienze. Il sistema di credo sui­ cidarlo è l’espressione della sua psychache. Non è come e dove lui lamenta dolore, ma come lui lo interpreta. Si può fare qualcosa in questo ambito (inaiutabilità). Può essere tollerato (poca sopportazione allo stress//zvychachey? Come gli altri sono percepiti (sentiti di impaccio)? Forse uno de­ gli aspetti di maggiore spicco delle interviste è il livello nel quale gli altri si impossessano del suo sistema di credo suicidarlo, uno svantaggio di ri­ lievo nella terapia se il sistema di credo non è identificato, affrontato, e monitorato. In ciascuna intervista, i parenti discutono la precoce insor­ genza dei problemi di Arthur e percepiscono deficienze (carenza di affet­ to), la loro natura cronica nonostante le premure (mancanza di aiuto), l’imponente natura del suo dolore (poca tolleranza allo stress), e il cre­ scente peso in termini di tempo ed energia (percepito come di peso). Penso che il suicidio poteva essere evitato? Sì. Dato il fatto che gli fu dato un trattamento appropriato e professionale, che cosa avrei fatto di diverso? Avrei colpito il suo sistema di credo suicidarlo più direttamente, e lo avrei abbinato con un lavoro, diretto ad aumentare la sua tolleranza al dolore. Spesso, una migliore comprensione del circolo suicidano au­ menta la sensazione di controllo ed è d’aiuto per i bisogni psicologici a esso connessi (ad es. raggiungimento, ordine, comprensione) alleviando abbastanza la psychache e permettendo di vivere. Il suicidio è connesso con la perdita. La terapia cognitiva per la suicidalità ha a che fare con la perdita di prospettiva e comprensione. Il si­ stema del credo suicidarlo fornisce uno spaccato per la comprensione del dolore mentale e dei bisogni psicologici ad esso connessi; fornisce un modo di strutturare la comprensione e ottenere nuove prospettive. Nel leggere le interviste e la nota di suicidio, sono rimasto colpito dal poten­ ziale per un miglioramento. Ma volendo ponderare ciò, come per ogni suicidio, con il senno di poi si tratta di metà e metà. Avrei avuto l’op­ portunità di aver provato a salvare la sua vita.

Intervista con lo psichiatra

ESS: il soggetto di oggi è la tragica morte di Arthur. Se non vado erra­ to lei lo ha avuto in cura per del tempo. Medico (Med.): lo spunto fu dato da due suicidi tra studenti di medici­ na, che indusse il preside a parlarmi per analizzare se ci stava sfuggendo qualcosa. Gli studenti di medicina con problemi erano trattati da specializzandi in psichiatria ma noi percepimmo che loro non avessero quella finezza che era necessaria, perciò prendemmo la decisione di stabilire che tutti gli studenti di medicina e neo-laureati sarebbero stati trattati dagli strutturati. Arthur fu dunque il primo paziente che io vidi nel­ l’ambito di questo programma, nel rispetto del fatto che solo i membri della facoltà potevano trattare i giovani laureati. Lui fu indirizzato a me. Venne a cercarmi, ed io ricordo perfettamente la sua prima visita, in quanto la mia impressione fu chiaramente che un giorno avrebbe com­ messo il suicidio. ESS: lo sentì come una sensazione di pancia? Med.: ne ero certo. ESS: per favore mi dica che indizi notò. Med.: venne e mi disse che la notte prima (era molto preciso), seduto su una sedia, aveva avvolto del cellophane intorno alla sua faccia molte volte per soffocarsi, ma il bruciore dei suoi polmoni era divenuto così tanto forte che si era tolto tutto in quanto il dolore era terribile. Questo è ciò che lui aveva pianificato nuovamente per la notte successiva, utiliz­ zando ancora il cellophane, ma avrebbe fissato le sue braccia alla sedie con del nastro adesivo in modo tale che quando il dolore fosse diventato forte non avrebbe potuto liberarsi. ESS: terrorizzante. Med.: molto terrorizzante. Presentò la sua storia, c’erano degli stressor psicologici, la rottura del matrimonio, la scuola di medicina e quella di legge; ma lui era brillante e colto, e mi disse chiaramente che se si fosse trovato ancora nella morsa della depressione, si sarebbe ucciso perché era così insopportabile. In quella prima visita gli dissi “penso che ci sia

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speranza”. Era stato trattato da medici, penso che la sua ex-moglie gli avesse dato dei farmaci, e io dissi che prima di tutto erano inappropriati e poi che lo avrei trattato dal punto di vista medico meglio di quanto aves­ se fatto lei, che avrei trovato i farmaci per lui, e gli avrei dunque dato speranza dal punto di vista dei farmaci. Lui era fortemente legato ad una terapia e a un terapeuta che conosceva da vari anni. ESS: il suo psicologo? Med.: sì. Io aumentai l’Efexor e poi, ho guardato la sua cartella pro­ prio oggi, lo chiamai un paio di volte e non ebbi risposta. La domanda che avevo in mente era: “Devo ricoverarlo?”. Per lui era chiaro che io ero favorevole al ricovero, ma se fosse stato di nuovo depresso, se questo non avesse funzionato, si sarebbe ucciso sia prima che dopo il ricovero. Dun­ que non lo ricoverammo. Pensai che fosse importante sviluppare una re­ lazione terapeutica con lui in quel periodo. ESS: come stava in quel periodo? Med.: mi disse e cito testualmente: “Ho ogni tipo di sintomo psichia­ trico eccetto quelli psicotici”. E, in verità, il mio sforzo con lui in quel pe­ riodo era di convincerlo e dargli speranza riguardo al fatto che c’erano molte opzioni riguardo la terapia farmacologica, oltre alla nostra terapia, e lui acconsentì. Aveva preoccupazioni marcate sulla confidenzialità, ed io lo rassicurai che la facoltà non avrebbe saputo nulla. Di solito non chiamo i pazienti dopo le visite. Lo chiamai, a quanto pare, 18 giorni e poi 19 giorni dopo, per controllare come andavano le cose, in quanto non lo avevo sentito, e ovviamente ero preoccupato. Lo conoscevo al 100%. Se lei mi avesse intervistato in quel periodo, le avrei detto con esattezza la si­ tuazione. ESS: aveva una finestra temporale? Med.: da 2 a 5 anni; non sapevo il numero, ma lui era chiaro. “Ho la depressione. Non posso viverla nuovamente”. In quel periodo stavo usando questo sistema, è molto interessante adesso, soprattutto con lui: per avere nuove prescrizioni, lui mi contattava e rispondeva a circa 15 domande sullo stato del suo umore e 15 domande sul suo funzionamen­ to. Le domande includevano: “Quanti giorni nei giorni scorsi sei stato depresso? Quanti giorni hai pensato al suicidio?”. Ricavavo un punteggio che indicava come stava dal punto di vista depressivo, e come stava dal punto di vista del funzionamento nelle attività quotidiane. Lui spediva un fax, ed io approvavo la prescrizione, sulla base di come stava. Il punteg­ gio fa riferimento a una scala da 0 a 100, il suo punteggio relativo all’adattamento era sempre tra 70 e 80, a un certo punto anche 100, e il suo punteggio relativo alla depressione era molto basso, che è positivo; a un certo punto persino 1, che è molto buono. ESS: questo garantiva una prescrizione? Med.: significa che lui riotteneva i farmaci ogni uno о due mesi; ed io calcolo anche per cinque mesi. Tre mesi dopo che io lo avevo visto per la

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prima volta, venne, non aveva ideazione suicidaría, non aveva sintomi neurovegetativi rilevabili, ci fu un ritorno sporadico dei sintomi a causa di un lutto; penso che un nonno fosse morto. Continuò la terapia e riferì alcuni effetti collaterali, sudorazione ed eiaculazione precoce. Aveva dun­ que una depressione maggiore, con una buona risposta ai farmaci. Par­ lammo nuovamente sul da farsi se la depressione si fosse ripresentata, perché questo lo preoccupava molto. Parlammo dei farmaci. Sottolineai in quel periodo il bisogno di più accurati follow-up, in quanto erano pas­ sati tre mesi. Poi lui era andato via per cinque mesi e si ripresentava in quel periodo, se si guarda questo schema, per la prima volta il suo pun­ teggio relativo all’adattamento passò da 70-80 о anche 100 a 40, e il suo punteggio depressivo si era alzato a 18; dunque si nota che stava peggio­ rando. Quando vidi che stava peggiorando segnai la casella “No prescri­ zione”; il paziente doveva incontrarmi. Lui dunque venne. ESS: nessuna prescrizione automatica. Med.: nessuna prescrizione automatica. Doveva prendere un appun­ tamento. Io ho una nota dell’ultima volta che lo vidi; lo vidi solo tre volte. Chiesi al paziente di venire perché il punteggio era diminuito, poi lui ri­ ferì che era stanco della vita, che aveva difficoltà a trarre piacere, ma non aveva avuto ancora il ritorno delle idee suicidarle о tentativi di suicidio; piuttosto, c’era una sorta di vuoto che si era svilupppato nella sua vita e lui era comunque riuscito a lavorare in quel periodo. Continuammo l’Efexor e aggiungemmo Wellbutrin (bupropione) per contrastare alcuni effetti collaterali sessuali che lui accusava. E questo fu l’ultimo contatto che ebbi con lui di persona, sebbene successivamente riottenne un adat­ tamento ideale, in cui i suoi punteggi tornarono intorno a 100 e la de­ pressione ritornò tra 5 e 8. ESS: ripensandoci, lei non aveva motivi di preoccupazione. Med.: nessun motivo di preoccuparmi. Le avrei detto comunque che questo ragazzo si sarebbe ucciso. Penso che fosse stato fortunato nel ri­ spondere bene a lievi modifiche alla terapia farmacologica. Poi ricevetti un messaggio telefonico sulla segreteria da parte di un altro medico che disse qualcosa del tipo: “Per favore chiamami. Ho cattive notizie su un giovane medico”. Ho avuto in cura centinaia di persone del campo medi­ co, ma sapevo che si trattava della sua morte. Ne ero certo. Lui era stato bene durante la mia terapia e ci fu un certo sollievo perverso che il suo suicidio non avvenne durante la mia terapia. Penso che sarebbe stato estremamente difficile, molto più difficile per me di quanto fu. Dopo que­ sto messaggio, chiamai sua madre e andai a casa per far visita alla fami­ glia: madre, padre, sorella, fratello e il suo migliore amico. Suo fratello assomiglia molto a lui e ha la stessa voce. Penso che questo incontro fu terapeutico per la famiglia ma non mi aiutò affatto a elaborare l’evento. La domanda della madre quando le dissi esattamente quello che ho detto fin adesso, fu: “Perché nessuno mi ha mai detto che stava soffrendo così

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tanto?”. La cosa triste è che lui era un adulto e noi non chiamiamo le madri e non diciamo le cose dei loro figli adulti. ESS: aveva circa 30 anni. Med.: trentatré. Aveva 28 anni quando lo vidi io. Noi non diciamo suo figlio di 28 anni sta bene adesso, ma lui ha un disturbo dell’umore vera­ mente grave e, se peggiora nuovamente, potrebbe uccidersi. Spero che rincontro abbia diminuito alcuni dei loro sentimenti di colpa sul non aver fatto abbastanza. Poi mi dissero di alcuni tentativi di suicidio signifi­ cativi di cui io non ero a conoscenza, quando era un adolescente о persi­ no un bambino, quando era molto scoraggiato. La cosa che mi colpisce fu che io sapevo e lui sapeva. Io di fatto pensavo che noi avevamo una rela­ zione solida nonostante il breve periodo, perché non nascondevamo nul­ la. Era chiaro e lo discutevamo. ESS: mi permetta di farle qualche altra domanda. Qual era la sua qua­ lità di cui lei parla? Che cosa emanava? Quali erano quei segnali sottili? Qual era la sua patologia? Mi aiuti. Med.: era un simpaticone, per cui ci si divertiva a stare in stanza con lui. Era una persona piacevole. Era istruito. ESS: questo non fa presagire il suicidio. Med.: no. Ma penso che sia importante. Era molto colto ed era in gra­ do di descrivere chiaramente ciò che aveva nell’emisfero di destra, e nell’emisfero di destra non pensava di dover soffrire di depressione nuo­ vamente. ESS: ma non si tratta di logica anche nell’altro emisfero, voglio dire, sapeva che ne era venuto fuori? Med.: no, ma se glielo avessi detto, è chiaro che avrebbe detto: “Cer­ tamente voglio uscirne di nuovo, ma non voglio ritrovarmici e se mi ci dovessi trovare di nuovo, preferirei morire”. E aveva le idee chiare su questo. ESS: si trattava di un disturbo su base biologica secondo lei? È un pro­ cesso psicodinamico? Si devono considerare le dinamiche familiari. Si trattava di un individuo che non sopportava il piacere? Sembrava avere uno strano, idiosincrásico e unico complesso о predisposizione che non gli permetteva di meritare la felicità о il successo. Era fobico sull’essere euristico, piacevole, una eufobia. L’aveva fin dall’adolescenza. Uno dei suoi giorni peggiori fu quando ritornò da un campo scuola. Che cosa ac­ cadde in quel posto? Era stato bene. Scoprì che c’erano momenti felici che si trasformavano in momenti brutti e che i primi non erano per lui. Non fu questo che lo sconvolse? Un tipo di cosa perversa. Qualcuna di queste cose ha un senso? Med.: ha un senso, ma da ciò che io compresi di lui, non lo descrive esattamente. Lui era pietrificato dal suo disturbo, dal suo ripresentarsi e questo faceva riferimento a un modello о schema della sua vita che inva­ deva il suo pensiero continuamente. Dunque poteva esserci la situazione

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in cui non voleva il piacere in quanto non sarebbe durato oppure sapeva che il dolore sarebbe poi giunto. Ma la mia impressione era qualcosa in più dell’evitare il piacere; non tollerava il dolore della depressione, e sa­ peva che stava giungendo. ESS: e che natura aveva questa depressione nella sua mente? Era gene­ tica, si trattava di un decorso biologico. Med.: era un decorso biologico. Altre questioni psicosociali delle quali non aveva difficoltà a parlare non erano il motivo per il quale passava del tempo nel mio studio con me, dunque il nostro tempo era ben focalizza­ to. Non le stava evitando, ma erano in qualche modo compartimentalizzate e ben gestite dallo psicoterapeuta; ma lui parlava di relazioni, di donne, e delle sue difficoltà in questi ambiti. Noi parlavamo maggior­ mente di sintomi neurovegetativi, ideazione suicidaría, e di farmaci. E dunque difficile per me dare una spiegazione psicodinamica, in quanto non facevamo lavoro psicodinamico. ESS: che diagnosi gli farebbe? Med.: disturbo depressivo senza psicosi. La prima volta si presentò molto depresso, e poi stette bene per due anni. ESS: poteva essere un qualcosa di ciclico? Med.: lui lo descriveva come ciclico, sarebbe tornato. ESS: una domanda azzardata. Che cosa avrebbe potuto salvarlo? Med.: che cosa poteva salvarlo? Penso, che alcuni casi siano maligni, e che non c’è nulla che possa salvarli. Penso che il mio ruolo sia di fornire tutte le opzioni, speranze, e alternative. Ma non penso che potevo fare qualcosa per salvarlo. Intendo dire, come potevo avere la cognizione, do­ po una sola visita, che questo ragazzo si sarebbe ucciso? ESS: pensa che il medico di base lo poteva salvare, che poteva essere più attivo? Pensa che lei poteva chiamarlo ogni due settimane? Pensa che poteva essere d’aiuto, oppure lei doveva essere molto fortunato e piom­ bare nel momento in cui la depressione era ricorrente? Med.: non penso che sarebbe stato d’aiuto. Non sarebbe stato d’aiuto durante la mia terapia, in quanto lui stava veramente bene durante quel periodo. E nuovamente, direi che fu fortunato a stare meglio. Non fu merito mio, ma con piccoli aggiustamenti alla terapia farmacologica e un po’ di speranza, penso che fu fortuna. Se avesse fatto la specializzazione nel mio ospedale, si sarebbe ucciso, e io sarei stato il suo medico. Avrei fatto un controllo telefonico, intendo che in ogni caso, avrei potuto chia­ marlo ogni due settimane. Lui poteva venire e vedermi per la terapia e per i farmaci. Lui si sarebbe ucciso quando ci sarebbe stata una ricaduta. ESS: il ricovero poteva essere d’aiuto? Med.: penso di no, non c’era l’indicazione per il ricovero. Lo avrebbe ferito. Lo avrebbe ferito, durante il periodo della mia terapia. Non so che cosa sarebbe potuto succedere. Si sentiva umiliato anche per una chiac­ chierata con lo psichiatra, visto che lui era uno studente, che la situa­

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zione persisteva. Se fosse stato ricoverato sarebbe stato terribile. Gli par­ lai persisono dell’elettroshock. ESS: che cosa disse? Med.: era ragionevole. Mi parlava come se fossi un collega. Compren­ deva il disturbo. ESS: disse: “Se è necessario mi ci sottoporrò”? Med.: certamente. Non disse “no, in nessun caso”, ascoltò quello che gli dissi. Dissi “hey, sei pronto a ucciderti e non hai provato un’altra metà delle opzioni”, abbiamo tanti tipi di farmaci, questo о quest’altro farma­ co; se non funziona potremmo passare all’elettroshock. Passammo in ras­ segna tutti i dettagli di questa terapia. ESS: e lui non disse “assolutamente no”? Med.: era ricettivo. Magari gli avrei offerto l’elettroshock durante la nostra terapia. Di nuovo, non ne ebbe bisogno durante la breve finestra temporale in cui lo frequentai, ma se fosse tornato indietro e i farmaci non avessero fatto effetto, l’elettroshock sarebbe stato parte dell’equa­ zione. ESS: fu sotto-trattato durante la terapia da qualcuno durante gli ultimi mesi della sua vita? Med.: Non ho idea. Non ho idea di quello che gli accadde dopo la lau­ rea in medicina e quando passò a giurisprudenza. Noi, in psichiatria, non parliamo di malignità. Accettiamo invece il fatto che non tutti quelli che hanno il cancro al colon sopravvivono. Questo ragazzo aveva qualcosa di brutto e morì a causa di questo, e noi facemmo il meglio che potemmo; e le sto dicendo che questo fu il caso più chiaro della malignità mai visto in psichiatria. Lui si convinse che si trattava proprio di questo. “Ho questa cosa e se torna di nuovo mi uccido. Veramente ci ho provato la scorsa notte, ci ho provato la scorsa notte, ci riproverò stanotte”. E la terapia doveva dire: “Aspetta un po’, dammi una possibilità e permettimi di dar­ ti delle speranze”. Ma lui aveva ragione. Tu dici no, io dico sì. C’è così tanto che uno può fare. ESS: lei ha detto che era brillante, che aveva imbrogliato se stesso. Med.: non ci fu scontro. Potevo combattere quanto volevo. Lui era chiaro. Anche se era illogico. Questo era stereotipato, era irremovibile. Era fissato lì. Questo fu probabilmente quello che mi disse “questo ragaz­ zo lo farà”. Potevo fare qualsiasi cosa. Non avrebbe cambiato il suo pen­ siero che “se torno in quella situazione, non lo posso tollerare e mi ucci­ do”. Non si uccise quella notte. Dunque, io lo sapevo. Penso che abbia vinto. Ma la cosa che sapevo era che lui avrebbe vinto. ESS: ha mai pensato di indirizzarlo a qualcuno? Med.: mi piace mandare pazienti da qualcuno che può aiutarli. Ab­ biamo i saggi a disposizione. Mi sarebbe piaciuto mandarlo da qualsiasi esperto. Ma non ne aveva bisogno, stava bene, non aveva sintomi, veniva alle visite, andava da un terapeuta, stava bene. La domanda rimane: cosa

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sarebbe cambiato? Sarebbe stato assurdo mandarlo da qualcuno. Lui avrebbe detto: “Non ho sintomi. Ho solo un piccolo problema con l’eiacu­ lazione. Il mio umore è buono così pure il mio appetito. Mi sento bene”. Non si trattava di una crisi, ma sapevo che sarebbe arrivata. Lui sapeva che sarebbe arrivata. Ma ero certo che se fosse peggiorato lo avrei aiuta­ to, avrei fatto quello che potevo, lo avrei mandato a sentire un altro pare­ re. Avremmo potuto ricorrere al ricovero о all’elettroshock. Saremmo po­ tuti passare a trattamenti più aggressivi ed evitare il peggio. Ma non ne ho idea. ESS: e gli avrebbe potuto salvare la vita diciamo per cinque anni. Med.: sì, proprio così. Si sarebbe forse trasferito da qualche parte e poi ucciso. E sento proprio che noi ci davamo da fare. Penso che il mio ruolo, e penso questo provenga dal mio cuore, è quello di combattere quanto più duramente contro il desiderio del paziente di morire, questo è ciò che ci si aspetta da me.

Consulenza di Avery D. Weisman

Avery Weisman è stata una persona miracolosa gran parte della sua vita, mi piace vedere questo bellissimo saggio, scritto all’età di 90 anni, come un miracolo. Il dottor Weisman è una creatura rara: un serio studioso di filosofia. Il suo primo libro fu The existential core of psychoanalysis (1965). Ha scritto diversi libri, compresi due sull’autopsia psicologica: The psychological autopsy (1967) e The realization of death: a guide for the psychological autopsy (1974). Ha tra­ scorso gran parte della sua camera a Boston, come professore di psichiatria alla Harvard Medical School; senior psichiatra al Massachussetts General Hospital; e principal investigator del Progetto Omega (una ricerca su come i pazienti con il cancro gestiscono la loro malattia e i suoi risvolti) presso il Massachussetts Gene­ ral Hospital. Attualmente è in pensione e vive a Scottsdale, Arizona. Nella mia mente, lui è il decano della suicidologia americana.

Che spreco di potenziale umano! Questa è un’autopsia psicologica insolita, in quanto i parenti sono così disponibili, loquaci, accurati. I genitori, i fratelli, il migliore amico, la ex­ moglie e la fidanzata aggiungono maggiori informazioni di quanto co­ munemente sia previsto dai protocolli sull’autopsia psicologica. Secondo questi informatori attendibili, Arthur parlava del suicidio fin dall’infanzia, sebbene fosse in psicoterapia per attacchi violenti e cose si­ mili fin da piccolissimo. Successivamente, era isolato, ma poi ad un certo punto divenne molto popolare, con molti amici. Si sposò e divorziò da una donna ed ebbe una relazione intermittente con una fidanzata che è divenuta fonte di informazioni. Infatti, nel complesso, ognuno aveva una visione positiva di Arthur, con minima attenzione su quanto fosse pieno di problemi. Durante la sua breve vita, Arthur riusciva ancora a dare am­ pie promesse per una vita produttiva. La sua famiglia era preoccupata e di supporto, e questo continuò finché Arthur lo permise. Sebbene Arthur fosse convinto del suo fato avverso e fece numerosi tentativi di suicidio, è peculiare il record di suicidi mancati per un soffio.

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Come farmacista e medico, conosceva la tossicità e l’accesso a vari farma­ ci. Ciononostante, Arthur riuscì a posporre la morte fino, ovviamente, al tentativo finale, e persino allora la dose iniziale non fu sufficiente a cau­ sare la morte. Molti anni fa ero specializzando in patologia al Boston City Hospital. Una volta chiesi al dottor Kenneth Mallory quale fosse la causa di morte più frequente nelle autopsie recenti. Mi si rivolse gentilmente e saggia­ mente: “Noi non cerchiamo le cause di morte. Noi troviamo solo ciò per cui la persona è morta, non per quale causa”. Lo tenni sicuramente in mente quando successivamente provai a con­ durre le autopsie psicologiche. Dal momento che l’autopsia psicologica estende il range di un’autopsia regolare, dovrebbe dirci anche come era quella persona e come viveva. Questo si riferisce a valori, scopi e gestione dei problemi. Per liberare il campo dallo sterile citare le malattie, o i fatti che circondano il suicidio, devo dunque fare una distinzione tra informa­ zioni impersonali, mostrate dai reperti clinici, di laboratorio e patologici; informazioni interpersonali, che sono solitamente chiamate psicosociali, e dimensione intrapersonale, ottenuta dai sopravvissuti, che può rivelare la vita intima della persona deceduta. I fattori ultimi che precipitano il suicidio sono quasi sempre inaccessibi­ li come i pensieri intrapersonali e i sentimenti che spingono una persona riluttante sulla lama del rasoio. Molti personaggi illustri, la lista è troppo lunga per nominarli individualmente, hanno commesso il suicidio dopo aver superato difficoltà estreme ed essersi rincuorati, togliendosi dunque la vita in un periodo di relativa quiescienza. Se abbiano scambiato i vecchi problemi con i nuovi rimane un mistero, ma sono descritti come calmi e non apparentemente depressi. Alcune persone si sentono persino molto bene prima di tentare il suicidio, un evento paradosso che è di solito spie­ gato in maniera circolare come la decisione di farlo senza alcun dubbio successivo. Perché qualcuno si uccide in un momento specifico non vale la pena chiederselo. E ingannevole, enigmatico e futile. Nella mia pratica clinica con pazienti di tutti i tipi, la domanda “perché” non aveva mai una risposta e non veniva presa come una vera domanda, ma come un appiglio a un’ul­ teriore fonte di giustificazione del tipo “Perché me?” e “Perché, oh perché”. Persino per il più maligno dei suicidi, il momento temporale, secondo me, è qualcosa che riguarda le congetture e le supposizioni. Quello che rimane è mettere insieme i fattori impersonali, interpersonali e intraper­ sonali, che molto probabilmente sono frammentari, ma ricoperti dai no­ stri pregiudizi e da quello che a noi piace chiamare principi. Persino i saggi, come noi consulenti dovremmo essere, devono essere cauti nel giudizio. Mi piace credere che nel mettere insieme le esperienze, possia­ mo distinguere le informazioni oggettive da quelle soggettive, almeno la maggior parte delle volte.

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I fattori psicologici sono, dopo tutto, non proprio fatti ma piuttosto teo­ rie di basso livello. Le interviste con i parenti ed amici dopo la morte de­ vono essere condotte con circospezione, permettendo alle tendenze idiosincrasiche di idealizzare il defunto, sul quale niente di negativo dovreb­ be essere detto. Non tutti i resoconti meritano la stessa importanza. Al­ cune persone si rinchiuderanno piuttosto che rivelare informazioni spia­ cevoli e discriminanti. Tramite la selezione, essi sono quelli che hanno più da perdere, perciò, deve essere permesso loro di mitigare quello che dicono. Ciononostante, non ripaga l’essere ultrascettico, altrimenti non rimane nulla. Possiamo provare a discriminare e a non prendere i reso­ conti dei sopravvissuti come interamente veri tutte le volte. Nel leggere e rileggere queste interviste fatte dal dottor Shneidman, le ho trovate one­ ste ma limitate a come i suoi cari volevano che Arthur venisse visto nel rievocare la sua memoria. Ho notato molto poco dolore, frustrazione, pietà о rabbia per la perdita e la sofferenza che Arthur ha causato loro. Lo psicologo e lo psichiatra sono stati molto chiari sulla definizione del rischio di Arthur, ma tendevano a trattarlo come un giovane collega, e non come un paziente disperato. Per un certo tempo, frequentai le cosiddette conferenze sulla morte al Massachussetts General Hospital. Lo staff medico si incontrava settima­ nalmente per passare in rassegna le morti avvenute dall’ultima conferen­ za. Lo specializzando più anziano revisionava la storia, il decorso medico, i test, la diagnosi, e l’esito ultimo prima di chiamare in causa altri medici e specialisti che erano stati coinvolti nel caso. Non ricordo che gli infer­ mieri e gli assistenti sociali venivano mai chiamati in causa, nonostante il loro lungo contatto con il paziente. Ogni caso di morte era una questione su che cosa aveva causato la morte a questo paziente. Gli elementi della patologia finale e fatale erano sempre descritti sia con diapositive che con dati di laboratorio. Nulla a parte le informazioni impersonali era riporta­ to. Come spettatore, volevo interrompere e fare due domande: “Vi aspet­ tavate che questo paziente sarebbe morto durante il ricovero?” e poi “che cosa vi faceva pensare questo?”. Non ne ebbi mai il coraggio; la conferen­ za andava veloce. Immagino che qualche medico avrebbe detto “sì” e altri “no”, e avrebbero aggiunto alcune parole per riferirsi alla mia seconda domanda. Non ci si poteva aspettare che qualcuno dicesse che non ci si era impegnati abbastanza nella cura di questo individuo malato о che si sarebbe potuto fare qualcosa di più efficace. Penso che la conferenza sa­ rebbe stata piena di costernazione se il medico avesse affermato che il pa­ ziente aveva una patologia maligna e ci si aspettava che morisse in ogni caso, non importa quello che era stato fatto.

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Valutazione del suicidio Valutare un suicidio, sia prima che dopo, comporta due grandi consi­ derazioni: fattori di rischio e fattori di protezione. Ci sono fattori misti in entrambe le parti, ma non tutti quelli che vivono soli in città о che da po­ co sono vedovi li troveremo morti. Se lui fosse stato ricoverato in ospeda­ le per una patologia organica, questi correlati statistici da soli molto pro­ babilmente non avrebbero fatto scattare delle precauzioni da parte dei clinici. Ciononostante, i numeri lo ponevano nel grande gruppo dei po­ tenziali suicidi, persino se si fosse messo a leggere il giornale da solo nell’atrio di un hotel. Comunque, una storia di tentativi di suicidio, in­ sieme con la constatazione della depressione, poteva dare chiara indica­ zione sul rischio soprattutto se lui riferiva che sarebbe stato meglio mor­ to. Un piano ben strutturato lo pone ancor di più nel rischio di suicidio imminente, mentre ci sono prove che fanno riferimento ad azioni di sal­ vataggio urgenti. Vacillare о non avere un buon istinto di sopravvivenza, che di norma non è facile da estinguere, è un fattore di rischio. Il conti­ nuum dei fattori di rischio passa da correlati impersonali a scoperte in­ terpersonali private e alla sofferenza. La tempistica è solo un’appros­ simazione. Non sono a conoscenza di test di laboratorio che identificano precisamente il rischio acuto di suicidio. Lo stesso vale per scale di valutazione psicologiche. In ogni caso, il buon giudizio clinico è sempre necessario. Notiamo che etichette eufemistiche come “sbilanciamento chimico” sono proposte con maggiore frequenza rispetto a termini più antichi come “di­ sturbo bipolare” о “depressione senza psicosi”. Mi chiedo ancora che cosa inneschi lo sbilanciamento per le persone che sembrano andare avanti e svilupparsi per anni senza nemmeno un piccolo cenno di tentativo di sui­ cidio. Ogni suicidio deve essere preceduto da una depressione? Oppure, dato il relativo successo degli antidepressivi, i clinici presumono che c’è un grado di depressione dietro ogni tentativo? Lascio il posto a coloro che hanno aggiornate capacità per la cura della depressione e dei poten­ ziali suicidi. Ma li imploro di mantenere un rispetto per quelli di noi che sono nati prima e che avevano poco da offrire oltre ad una forte inten­ zione di mantenere la vita. Qualsiasi possano essere i fattori di rischio con i quali i potenziali sui­ cidi sono alle prese, oppure, qualsiasi possa essere la loro patologia o i fattori di salvataggio о protettivi, ci troviamo di fronte a elementi di una situazione suicidaría preparata da una vittima, che sceglie il tempo, il po­ sto e coloro che legati dagli affetti possano essere abbastanza in allarme da soccorrerlo. Weisman e Worden (1972) descrissero il Risk Rescue Rat­ ing, che assegna un numero alla letalità per i tentativi di suicidio investi­ gando le intenzioni suicidarie. Comunque, con una buona descrizione del piano suicidarlo, i clinici possono anche valutare i fattori che permettono

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il soccorso così pure i fattori di rischio. I fattori di soccorso о protettivi includono il trattamento e la gestione della letalità e la disponibilità di risorse di supporto che possono offrire protezione fino a quando l'ondata intensa della letalità suicidaría svani­ sce. Questi fattori sono stati revisionati così spesso che mi permetto di evitare una ripetizione. La terapia significa cose del genere: 1) psicotera­ pia di un certo tipo, formale о improvvisata, rigida о permissiva; 2) anti­ depressivi; 3) terapia elettroconvulsivante per i casi refrattari (a volte chiamati maligni), insieme con farmaci antipsicotici per quelli senza altre opzioni. A meno che non ci sia un cromosoma ancora da scoprire per il suicidio in un cluster genetico per la depressione, i farmaci sembrano migliorare la depressione ma non direttamente prevenire il suicidio, a parte il po­ sporre l’intervallo per il tentativo di suicidio successivo. Io parlo dalla mia postazione di pensionato per chiedere se gli antidepressivi distin­ guono tra la depressione suicidaría e non suicidaría. Le risorse di supporto sono considerate un buon suppplemento per qualsiasi trattamento. Il supporto è quasi un cliché, dal momento che quasi nessuno penserebbe di sostenere il contrario. Se il supporto fallisce, allora tendiamo a chiamare persino gli sforzi più intensi “interferenze” oppure “interventi inappropriati”. Il nostro compito clinico è di definire e descrivere il supporto che con più probabilità avrà successo e formulare i piani per le persone vulnerabili come Arthur. Poteva qualcuno predi­ sporre un supporto adeguato per lui? Certamente, il ricovero, senza cu­ rarsi delle sue obiezioni, seguito dalla consulenza di un collega che avesse avuto familiarità con l’elettroshock, costituiscono entrambi prospettive terapeutiche e supporto rilevante.

A proposito di Arthur I fattori di rischio di Arthur e i fattori di protezione non necessitano di essere ripetuti. I suoi fattori di rischio sono soprattutto preoccupazioni costanti sul suicidio e sul suo destino, i numerosi tentativi, la psychache in­ trattabile, la certezza che la vita è una frustrazione e che la morte rappre­ senta la sola promessa. I fattori di soccorso includono gli altri legati dall’affetto, la competenza di Arthur e l’indubbio successo, due bravi psi­ chiatri, uno dei quali fu disponibile per anni e l’altro per il periodo cru­ ciale prima della morte. Come menzionato ma non spiegato nella nota, quali erano le periodiche “esplosioni” che lui liquidava come troppo temporanee per prestargli attenzione? Si lamentava di essere molto isola­ to, eppure viene riferito che avesse molti amici (di quanti amici un indi­ viduo ha bisogno?) e relazioni intime con almeno due donne, sebbene fosse stato impaurito dall’impegno quando la relazione diventava troppo

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intensa. Questo non è propriamente insolito. Le persone di fatto lo ap­ prezzavano; lui era un simpaticone, che è qualcosa di gratuito ma non proprio utile per la prevenzione. Con lui ci si divertiva, così almeno si di­ ce, nonostante la tristezza che portava dentro. Un possibile fattore di soccorso era la titubanza di Arthur ad assumere una dose letale di quello che poi ingerì; a quanto pare fallì molte volte nel voler morire. Si tratta di una condizione di fuga della quale non ap­ profittò nel suo tentativo finale. Lui certamente conosceva la tossicità del­ la sostanza, data la sua esperienza professionale. Un altro fattore di soc­ corso da considerare erano le varie qualità di Arthur che, verosimilmen­ te, lui poteva utilizzare per rinforzare il suo coraggio di confrontarsi e trovare il significato della sua esistenza. Che altro potevano fare i terapeuti? Ron Maris ha detto da qualche parte che la maggior parte dei terapeuti credono segretamente di essere in grado di salvare qualsiasi paziente suicidarlo. Ma quando viene loro chiesto come intendono farlo, questi esitano e tagliano corto non avendo un rimedio tangibile. Ad un certo punto frustrante di una psicoterapia non è insolito pensare che si vorrebbe cedere il paziente a qualcun’altro. Anche qui, c’è silenzio sul pensare ad un nuovo terapeuta; cambiando sesso, età, il tipo di training e così via, tutto sembra inadeguato, anche se supponiamo che tutti i nostri pazienti potrebbero stare meglio incon­ trando qualcun’altro. Avere un paziente che commette il suicidio mina persino il più abile dei terapeuti. Sebbene io sia sicuro che lo psichiatra di Arthur fosse competente e coscienzioso, ad Arthur fu proposto il rico­ vero e l’elettroshock solo come opzioni da rifiutare. Quanto queste op­ zioni furono invece raccomandate? Sebbene avesse tentato il suicidio con il nastro adesivo e l’asfissia solo la notte precedente, ulteriori vie furono discusse con lui razionalmente come se fosse un collega. Sebbene fosse un bontempone, avrei insistito sul ricovero e avrei chiesto l’aiuto di un colle­ ga esperto di elettroshock una volta messo Arthur al sicuro. La nota di suicidio di Arthur, sebbene lunga, sembra molto fragile in certi punti. L’augurare ai suoi cari la felicità nel futuro, secondo me, era crudele. L’idea di una celebrazione in un certo punto futuro è partico­ larmente ironica. Concludo con alcune parole sul coraggio di superare la vulnerabilità in terapia. Abbastanza lontano dagli antidepressivi, che aiuterebbero per certi versi, l’imparare sul come superare efficacemente e far buon viso a cattiva sorte può essere raggiunto, persino in presenza di scetticismo. E una cosa da sperare, ma la speranza ha bisogno di aiuto e dovrebbe esse­ re oggetto di lavoro. La disperazione ha bisogno di aiuto, con ogni mezzo possibile, quando ci si confronta con l'enigma del suicidio.

Lettera alla madre

Signora Hannah Zukin Cara Signora Zukin, siamo alla fine di questo viaggio, nel quale io ho provato a fornire in­ formazioni sostanziali sulla morte di suo figlio con la speranza che lei possa trovare nuovi spunti d’aiuto e dei motivi di sollievo. Se si produce materiale grezzo in abbondanza, abbiamo più probabilità di trovarci den­ tro delle pepite. Deve sapere che ho avuto grande rispetto e affetto per lei fin dall’inizio, spero di non risultare invadente se le dico di tenere molto a questa lettera. Per cortesia mi permetta di andare direttamente al succo dei miei pen­ sieri. Il linguaggio non mi permette di esprimere la profondità del mio do­ lore per la sua perdita. Come lei sa, sono un padre e un nonno. Come risultato, la mia vita è stata segnata dalla fortuna, ma è giusto dire che abbiamo avuto le nostre vicissitudini, alcune delle quali abbastanza serie e minacciose. Non so che cosa avrei fatto о come sarei sopravvissuto se uno dei miei cari avesse commesso il suicidio. In un certo senso è facile per me piangere per la sua angoscia. Dall’inizio, questo progetto è stato un lavoro misto a dolore. In tutta onestà, non capisco che cosa avrei potuto fare oltre a quello che faccio ordinariamente (o persino straordinariamente). Non vedo che cosa avrei potuto fare che suo figlio avrebbe potuto elaborare. Il suo do­ lore e il suo narcisismo erano più potenti della mia genuina esperienza, persino nelle sue maggiori elevazioni. Guardandola negli occhi non pos­ so onestamente dire che lo avrei salvato, ma le posso giurare che avrei fatto di tutto per tenerlo in vita. E forse sarei stato più draconiano rispet­ to a coloro che lo ebbero in cura. Ma questo è con il senno di poi, la per­ cezione sul momento non è così chiara come retrospettivamente, e inol­ tre non rende giustizia a coloro che invece vissero quei momenti. Alla fi­ ne, Arthur si rimise in riga e si concentrò sul suo proposito di morte con

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notevole forza. I suoi tratti caratteriali erano gli arnesi per la sua fine. Il suicidio vince una mano ma non è in grado di alzarsi dal tavolo, gettando la stanza intera in un dolore inaspettato e pervasivo. Dopo 50 anni di pratica nella suicidologia devo confessare a me stesso che ci sono alcune persone che hanno una combinazione di dolore psico­ logico intenso e bassa soglia per assorbirlo, e che sembrano predestinati fin dai primi anni di vita. Non sono sicuro che persino Frieda FrommReichman о Marguerite Sechahaye, terapiste leggendarie di pazienti dif­ ficili, lavorando insieme avrebbero potuto salvare Arthur. Ma io voglio mantenere la convinzione che lui non sarebbe morto sotto la mia cura. Penso che potrei salvare qualsiasi persona dal suicidio con la quale scelgo di lavorare e che sceglie di lavorare con me, inclusa l’opzione che i forti sentimenti transferenziali positivi nei miei confronti mi portino a essere una figura che salva la vita. Devo assumere questa posizione se voglio portare qualcuno in salvo. Chiamo questo mio approccio terapia che tratta il dolore (anodyne the­ rapy). Certamente, riconosco che lo scopo chiave di ogni psicoterapia è quello di portare a una riduzione della sofferenza, ridurre cioè il dolore del paziente. Ma quello che penso che sia cruciale qui è il concentrarsi coscientemente da parte del terapeuta sul dolore psicologico (psychache), sulla riduzione e ammorbidimento di quel dolore, combinata con la ne­ cessaria ridefinizione e riconcettualizzazione di quel dolore come qualco­ sa di sopportabile, dopo tutto. La anodyne therapy propone un nuovo schema nella mente del terapeuta che si concentra sui bisogni psicologici frustrati del paziente come la radice maligna о fonte della psychache del paziente. Se l’individuo ha bisogno di porre fine a dei dolori per conti­ nuare a vivere, allore ne consegue che quei dolori devono essere trattati, ridotti e ridefmiti in modo tale che la voglia di autodistruggersi possa es­ sere messa da parte. Non posso scusarmi deH’impronta melvilliana di questo paragrafo, in quanto credo che molte delle radici del suicidio e molti degli indizi per la sua prevenzione devono essere trovati nel frago­ re intellettuale del cannone di Melville. Che cosa è il suicidio se non umido e triste novembre nella mente? Parlando di Melville, Arthur soffriva di quello che io chiamerei il com­ plesso di “Redburn”. Redbum il terzo romanzo di Melville, scritto nel 1849 quando l’autore aveva circa ventanni, racconta di un giovane uomo, che fin dall’infanzia matura sentimenti amari nel suo intimo, e quindi pensa, tramite le lezioni di vita di essere pessimista e cupo. Tende ad autosacrificarsi, vede il bicchiere mezzo vuoto piuttosto che mezzo pieno. Questi orientamenti di vita negativi si presentano precocemente e sono persistenti. Melville conosce la durezza della vita nei mesi invernali. Ecco “Redburn”:

“Freddo, freddo duro come dicembre, e duro e freddo come le sue tempeste, mi sembrava allora il mondo; non c’è nessun misantropo come

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un ragazzo deluso; e così ero io. con la mia anima vigorosa che si dissipa­ va con le avversità. Non si parla dell’amarezza della mezza età e del do­ po; un ragazzo può sentire tutto questo e molto più, quando sopra la sua giovane anima l’entusiasmo è stato spento; e la frutta, che viene distrutta dopo essere arrivata a maturazione, è gelata nel primo fiorire. E mai più queste magagne possono essere trasformate in qualcosa di buono; lo col­ piscono troppo profondamente, e lasciano una cicatrice che nemmeno l’aria del Paradiso può cancellare”.

Così era Arthur, dalla sua infanzia, un “redburn” segreto, che soffriva dovunque andava. I terapeuti dal cielo, direttamente dal paradiso, non sarebbero stati in grado di salvarlo. Come psicoterapeuta ho una grande responsabilità nell’essere empatico, nel far risuonare l’intimo dolore psicologico di Arthur e nel riaffer­ mare il suo diritto a porre fine alla sua sofferenza. Ma allo stesso tempo, in questo stesso ruolo, sono consapevole del suo forte narcisismo, la sua visione che la sua sofferenza è in qualche modo unica, che è un caso spe­ ciale tra gli uomini, un tipo di grandiosità maligna che asserisce che nes­ suno ha mai avuto una cosa tanto disastrosa come la sua. Questo innal­ zamento quasi delirante del suo dolore sembra essere presente in molte persone suicide. Dopo l’evento suicidano, nel disgustoso gioco della bottiglia fatto da coloro che hanno perso un loro caro per vedere a chi toccherà il collo per indicare chi sta soffrendo di più о si senta più in colpa о colpevole о ne­ gligente о freddo in relazione alla vittima del suicidio, noi tendiamo a dimenticare che colui che è morto è anch’esso un giocatore. Ogni perso­ na che commette il suicidio deve, in un modo о nell’altro, avere un po’ di responsabilità per la sua morte. Il suicidio è una morte auto-inflitta. Noi abbiamo il diritto di essere critici nei confronti di Arthur per il suo ego­ centrismo e per il suo atto miope. De mortuis nihil nisi bonum (“Del defunto si parla sempre bene”). In un’autopsia psicologica, i guanti non vengono indossati e noi dobbiamo parlare candidamente del defunto. Se i nostri resoconti fossero limitati a “sempre bene”, allora faremmo solo una cele­ brazione e non un’autopsia. Avrei potuto aiutare Arthur mentre era in vita, mi sarei rotto la schiena nel provare, e l’idea che sia morto non mi piace. Anni fa ho scritto che la persona suicida mette il suo scheletro psi­ cologico nell’armadio del sopravvissuto. Non è un’immagine carina. For­ se ecco perché i primi freudiani (intorno al 1910) vedevano il suicidio primariamente come ostilità verso i genitori: a loro appariva che nel dar voce al suo bisogno disperato di porre fine a dolore psicologico insoppor­ tabile, la persona suicida, almeno a livello di coincidenza, spezzava il cuo­ re di sua madre. Si osserva che Arthur, a quanto pare, non poteva sottrar­ si al fatto di infliggere danni collaterali alla sua famiglia. Parte di questa sofferenza in questo caso ha a che fare con il nostro interrogarci su come

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lui potesse essere così sprovveduto. La risposta, io credo, è riposta nella costrizione, la concentrazione, la visione tunnel, il restringimento patolo­ gico e il focalizzarsi sul Sé che è una parte conosciuta dello stato suicidario. Boris Pasternak, il famoso autore, scrivendo di vari poeti russi, la mette in questo modo:

“Un uomo che decide di commettere il suicidio mette un punto al suo essere, volta le spalle dalla sua parte, dichiara a se stesso bancarotta e le sue memorie diventano irreali. Queste non lo possono più salvare о aiu­ tare, esso si è posto al di là dal poter essere raggiunto da loro. La conti­ nuità della sua vita interiore viene interrotta e la sua personalità è agli estremi. E forse ciò che alla fine lo fa uccidere non è la fermezza nella ri­ soluzione ma l’insopportabile qualità di questa sofferenza che è vuota perché la vita si è fermata e non la si può più percepire” (Pasternak 1959).

Vedendolo in questo modo, io avrei potuto, nella psicoterapia, focaliz­ zarmi sul suo bisogno psicologico frustrato inerente l’inviolabilità. Il bi­ sogno per l’inviolabilità si riferisce al bisogno di proteggere il Sé, di man­ tenere il proprio spazio psicologico, di rimanere separato, indipendente, sguinzagliato, lasciato solo ed essere amato ma non necessariamente in dovere di ridare amore, un segno cautelativo sulla porta della propria psiche del tipo “bussare prima di entrare”. In modo non amichevole, lui teneva le persone a distanza, eppure lui ne aveva disperatamente biso­ gno. L’essere inviolabile è indubbiamente connesso al bisogno psicologi­ co di autonomia, di raggiungimento e di scambio. Ho chiesto alla moglie di Arthur, lei stessa un medico, di valutare l’investimento di Arthur tra 20 bisogni psicologici possibili, usando 100 punti. Lei ha posizionato tutti i 100 punti solo su uno dei suoi bisogni: inviolabilità. Si potrebbe predire che Arthur poteva andare da una specialità medica a un’altra, persino da una professione all’altra (proviamo legge); da un caro all’altro, da un set di critiche a un altro; sempre guidato dal bisogno di trovare un Sé sicuro che lui non poté mai ottenere. Lui e io avremmo potuto leggere H.L. Mencken insieme. Avrei saputo che stavamo facendo progressi quando Arthur mi avrebbe chiamato con uno dei termini favoriti di Mencken, uno “sciocco”. E quando Mencken avrebbe fallito nel mantenere adeguatamen­ te 41 nostro interesse, saremmo potuti passare a Melville. Melville è profon­ do e abbastanza duro per mantenere qualsiasi persona in vita per anni, ec­ cetto il suo primogenito. Non avrei provato a cambiare il carattere di Ar­ thur ma provato a estendere la durata della sua vita. Avremmo imparato insieme che lui non era più complicato né coartato e introverso del Capi­ tano Ahab, che c’è più di un modo di stare a galla nel vasto mare della vita. Simultaneamente, saremmo arrivati a comprendere che la quantità del dolore di Arthur non era unica, che gli altri hanno fatto soffrire, hanno

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sofferto in modo estremo e hanno continuato a vivere. Insieme, lui e io avremmo ridefmito e affinato la nostra comprensione che, nella pratica, “insopportabile” e "intollerabile’* possono diventare veramente appena sopportabile e stranamente tollerabile e che questi termini possono esse­ re incorporati in un triste schema per la sopravvivenza di tutta la vita. Nella migliore delle ipotesi, sarebbe arrivato a fare quello che l’impe­ ratore Hirohito ordinò alla sua gente sopraffatta alla fine della Seconda Guerra Mondiale: di soffrire quello che non si può soffrire, di tener duro per ciò che non può essere retto e di vivere. Allo stesso tempo, la nostra terapia si sarebbe concentrata sulle fonti di psychache, vale a dire la frustrazione dei suoi bisogni psicologici di inviolabilità, raggiungimento, ordine-affetto. Certamente, avrei cercato la con­ sulenza e il supporto da parte dei miei amici esperti, alcuni dei quali lei ha già incontrato in questo volume. Salvare una vita umana è una missio­ ne complicata. Dunque osserviamo che non c’è una semplice comprensione di ciascun suicidio, e che ci ritroviamo alla fine di Rashomon, scervellandoci, volendo proiettare il film nuovamente e di continuo sebbene con un finale diffe­ rente, e tristemente, pensandoci e interrogandoci per il resto delle nostre vite su chi e che cosa impersonò questo о quel ruolo nella tragica fine e se Arthur era predestinato fin dall’inizio. I geni e il caso portarono Arthur a questa fine, a scivolare giù mettendo un piede in fallo dopo aver per mol­ to tempo pattinato vicino al precipizio dei profondi canyon della vita. Con i migliori auspici personali per la sua salute, la sua felicità e per il suo spirito indomabile.

Cordialmente,

Edwin S. Shneidman, Ph.D. Professore Emerito di Tanatologia, UCLA

Appendice. La nota di suicidio di Arthur

Tutto quello che faccio è soffrire ogni giono. Ogni momento è dolore о inerzia. Quanto si può andare avanti senza piacere? Immagino che que­ ste volontà saranno veramente le mie ultime parole. Ho scritto queste co­ se letteralmente dozzine di volte. Vorrei riferirmi individualmente a ogni persona che conosco, ma come persona che si cura di tutto penso che sia difficile spendere abbastanza tempo per farlo. Grazie a tutti quelli che hanno provato ad aiutarmi nel corso degli an­ ni. Voi sapete di chi parlo. Non sentitevi falliti. Penso che questo era ine­ vitabile. La sofferenza aveva bisogno di sollievo. La depressione ha lentamente divorato tutta la mia vita mentre ho continuato stranamente a fare la vita di tutti i giorni, a farcela nello stu­ dio e nel lavoro, ed è solo per un pelo che sono riuscito a portare avanti i miei compiti, a non cedere e a non essere licenziato. Ho messo a repentaglio la mia carriera più volte di quanto si possa immaginare. Ho messo da parte gli amici e le amicizie con il passare de­ gli anni e questo mi è costato veramente tanto senza che alcunché mi des­ se piacere nella vita. Ho trovato poche persone che occasionalmente mi hanno dato piacere о con le quali mi sentivo a mio agio rispetto al mio sconforto nei confronti del resto del mondo. Ho evitato di menzionare i nomi perché non posso sopportare di ri­ volgermi a tutti. I miei pensieri in ogni caso continuamente vanno a due individui [amico] e [fidanzata]. [Amico], ti voglio bene e mi dispiace di lasciarti in questo modo. Mi di­ spiace di lasciarti. Tu sei forte. Sopravviverai senza di me. Grazie di tutto. [Fidanzata], grazie per il conforto e i piaceri che abbiamo avuto quan­ do eravamo insieme. Grazie per la tua pazienza e per esserti presa cura di me. Mi dispiace, mi dispiace veramente tanto averti ferito. Sii felice. Ti auguro una vita di felicità. Sto per andare a dormire, per calmarmi e per stare in pace. Non do­ vrò lottare con un altro giorno.

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[Sorella], mi dispiace veramente di lasciarti con l’onere del mutuo che hai fatto per me. Magari potessi cambiare le cose. Per favore comprendi che avevo tutte le intenzioni di occuparmi del mutuo. Per favore prendi la mia auto о qualsiasi altra cosa e usala se puoi. Grazie inoltre per il tuo supporto nel corso degli anni. Sei e sei stata una grande sorellina. Conti­ nua così. Comprendi solo che io soffrivo troppo per continuare a sopportarlo. Ti voglio bene.

[PIÙ TARDI]

E finita. Finalmente è finita. Lo farò adesso. Non mi rimane più nulla. La mia mente è impegnata con i miei pensieri. Non posso concentrarmi о fare un lavoro. Il lavoro è fin troppo esigente per una persona nelle mie condizioni. Potrei continuare a essere trasportato. Comunque, non è questo che mi porta a farla finita. Sono gli ultimi anni durante i quali so­ no riuscito a rovinare la mia vita lentamente. Non posso più sopportare oltre di mettermi nella posizione di concedermi solo le piccole soddisfa­ zioni che mi risollevavano da questo tipo di disperazione. Ho pensato al suicidio e ho immaginato di commetterlo migliaia di volte nella mia vita. Nessuno dovrebbe sentire di aver fallito. Penso che non potevo essere salvato.

[ll,30pm] Mi sento molto stanco. Mi addormenterò presto. Spero di averne pre­ so abbastanza per farla finita. Non voglio essere rianimato e sopravvivere a tutto questo. La vita sarebbe solo molto più terribile. Per favore non rianimatemi se sono ancora vivo quando mi trovate. Per favore. NESSUNA AUTOPSIA. Lasciate in pace il mio corpo. L’ho fatto principalmente assumendo ossicodone cloridrato messo nel­ le capsule. L’ho messo insieme un po’ di tempo fa e dunque non ricordo quanti milligrammi ma presumo che dovrebbe funzionare7. [8 a.m.] Sono vigile, ma mi sento uno straccio. Voglio che tutto finisca. Voglio solo prendere le medicine così perderò la coscienza prima di morire ma è ‘ I farmaci di Arthur: prima della morte di Arthur, lui vide un medico che avendo diagnosticato la depressione maggiore ricorrente e grave, gli prescrisse venlafaxina 100 mg. Successivamente, sua moglie (un medico) gli prescrisse fluoxetina 10-40 mg, ma non funzionò. Allora lei gli prescrisse bupropione 300 mg, che si dimostrò ugualmente inefficace. Un anno più tardi, quando fu ricoverato, gli venne di nuovo prescritto venlafaxina 75-150 mg e in aggiunta il carbonato di litio 450 mg e citalopram 40 mg.

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diffìcile farlo in queste condizioni. Vomitato. Accidenti. Ho appena vomitato una caterva di litio. C’erano molti altri membri della famiglia e amici che amo profonda­ mente e ai quali tengo ma come ho detto non mi riferirò a loro indivi­ dualmente. Siete stati nel mio cuore e nei miei pensieri di frequente nel corso degli anni e nel presente anche se ho mantenuto pessimi contatti. Per favore DONATE I MIEI ORGANI se possibile. Non importa se dovessi ricevere la chiamata dell’università. Ho co­ munque deciso. Posso sbizzarrirmi quanto voglio senza temere alcuna conseguenza. Non ho bisogno di sbalordire nessuno. Sembra solo che ne ho il diritto e che posso cavarmela... Sono passati più di tredici anni dal mio primo tentativo di suicidio. Sebbene sia stato io che alla fine lo mandai a monte, posso senza dubbio affermare che non si trattava di un grido di aiuto. Avevo solo lo scopo di evitare ulteriore dolore che inevitabilmente sapevo di dover sopportare. In quel periodo ero alle prese con una tortura immensa giorno dopo giorno durante la scuola superiore. Nessuno era cattivo con me ma io vi­ vevo isolato. Non mi abituai alla scuola, e dunque mi sedevo da solo nei corridoi о in biblioteca durante gli intervalli. Ho pensato al suicidio frequentamente, ma la causa principale fu mol­ to inaspettata e improbabile. Accadde in un week-end di normalità. An­ dai a un campo scuola nel week-end e mi ritrovai a socializzare con un gruppo di ragazzi molto popolari e persino a incontrare lo sguardo di una ragazza. Nel tornare a casa, non potevo sopportare il contrasto che mi si proponeva quando sarei tornato a scuola il giorno seguente. In quel periodo avevo già udito la frase “il suicidio è una soluzione permanente a un problema momentaneo”. Credetti a questo e credetti che di sicuro un giorno non troppo lontano nel futuro avrei avuto una vita sociale che avrei apprezzato, una moglie, la famiglia e la carriera. Non voglio entrare nei giorni, settimane e mesi tortuosi, о persino anni che devono passare prima di ciò. In un certo senso ce l’ho fatta a superare quel periodo. Ho persino fi­ nito per raggiungere la maggior parte che quello che mi attendevo. Dalla fine della scuola superiore ho avuto un vasto gruppo di amici, una lista di ragazze e, per gli altri, un futuro brillante davanti a me. Ebbene, questo non è durato. I miei periodi di successo nella vita sono rimasti lì, e comunque i miei periodi di disperazione sono rimasti triste­ mente anch’essi lì ma con molta più forza e preponderanza. Alla fine sono passato alla soluzione permanente per il mio, a quanto pare, problema momentaneo. Ma oggi e per troppi giorni nel passato, vedo che i miei problemi non erano “momentanei” come immaginavo. Invece, sono piuttosto permanenti. Sono con me. Non mi posso nascon­ dere da loro, о scuoterli con qualsivoglia successo. Ho attraversato letteralmente un numero illimitato di anni di terapia e

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due anni di terapia con antidepressivi. Perché mai dovrei credere che un giorno sarò “felice”? Adesso più che mai mi è chiaro che trascorrerò la vita passando da periodi brevi di piacere a lunghi periodi di intenso do­ lore. Adesso quando guardo al futuro non mi vedo neanche una volta raggiungere la felicità nella mia vita. Quando penso a me stesso e di ave­ re 50, 60, 70 persino 80 anni immagino che sperimenterei lunghi periodi di depressione, come quelli che sto sperimentando in questo momento. Noncurante di quello che gli altri asseriscono, non sarebbe una vita che varrebbe la pena vivere. Non mi auguro di continuare a essere in vita a lungo. Penso di essere una persona buona e di poter offrire molto agli altri. Penso che potrei essere un medico fantastico e sensibile e di poter avere una carriera di successo. Questo è possibile solo se posso essere contento nella mia vita al di fuori del lavoro (ma non lo vedo possibile). Voglio così tanto tornare insieme alla [mia fidanzata]. Avevamo qual­ cosa di così speciale. Ci comprendevamo e ci volevamo così bene. Mi manca così tanto adesso. Pensare a lei e alla sua perdita mi fa venire un peso sul torace mentre sto scrivendo. Perché mai ruppi con lei? Ebbene, nuovamente non ero felice della mia vita. La mia patologia era troppo forte per tutto ciò. Non ero felice e sentivo che non poteva esserci una donna che mi rendesse completamente felice. Dunque adesso sono qui, arrabbiato e solo. Non posso lasciare il mio appartamento. Non riesco a vedermi come colui che trova una donna più meravigliosa di lei. Comunque, sento che ritornare da lei non potrebbe essere attualmente un’opzione. Temo inoltre, e credo, che se tornassimo insieme trascorreremmo un’altra luna di miele e poi successivamente fi­ nirei di nuovo infelice per diversi mesi. Non la voglio torturare. Ci tengo a lei e voglio che il resto della sua vi­ ta sia felice. Adesso sono così a pezzi. Sto affondando. Sono nell’oceano che affogo. Lei è tutto quello che mi può salvare. Le possibilità che la possa portare nel fondo con me sono veramente troppe. Se me ne vado questa sera, le risparmierò del dolore inutile e l’ine­ vitabile ciclo di tortura. Sarei alla fine infelice anche se la portassi a fondo con me. Bambina mia. Non riesco a scriverti. Voglio solo esprimermi abbrac­ ciandoti, grattando la tua schiena e accarezzando le tue gambe. Voglio sorriderti, e vedere il tuo bel sorriso. Tu sei forte. So che sopravviverai, e riuscirai a cavartela. Comunque mi preoccupo per te immensamente. Per certi versi vorrei mentirti in modo tale che sia più semplice per te andare avanti, non posso in ogni caso. Il pensiero della nostra confidenza e one­ stà è un piacere effimero di cui io ho veramente bisogno nel lasciare que­ sto mondo. Vai avanti e offri le tue meravigliose qualità a qualcun altro. Questo non tradirà la mia memoria né me. Voglio che tu sia felice. Se c’è qualcosa in cielo dopo che siamo morti, allora io ti sorriderò come un

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amico intimo quando ti vedrò felice nella tua vita. Sposati e fatti una fa­ miglia. Io sarò felice nel guardare i tuoi figli come farebbe uno zio. Ciao bambina. Al [mio amico]: tu sei stato da sempre il mio migliore amico. Sei stato il mio confidente, colui che mi ha sorretto e che mi ha dato felicità per molto tempo. Non riesco a esprimere quanto la nostra amicizia ha signi­ ficato per me. Grazie per tutti i bei momenti che abbiamo avuto, e per tutto il supporto che mi hai dato. Sei una persona eccezionale e avrai suc­ cesso nella vita. So che la mia partenza sarà un duro colpo, ma per favore vai avanti e trascorri una vita meravigliosa. Puoi tenermi nel tuo cuore e so che tu sei stato sempre disponibile e accogliente. Al mio compleanno brinda, ricordati di me e sii felice per me. Per favore sii felice perché io non provo più il dolore che ho avuto per così tanto tempo. Questi commenti vanno a tutti coloro che dichiareranno di avermi amato e di aver tenuto a me. Per favore non considerate la mia partenza una perdita tragica di una vita che altrimenti sarebbe stata meravigliosa. Per favore, vi prego di celebrare con me il fatto che sarò libero dal dolo­ re. [Fratello]: guarda avanti. Ovviamente hai fatto un lavoro eccezionale quest’anno. So che soffriamo di patologie simili, ma credo che sarai in grado di trovare la donna giusta con la quale condividere la tua vita. Magari fos­ simo invecchiati insieme intorno al tavolo dello Scarabeo. Scriverei agli altri come mia madre, mio padre, i miei nonni, zia e cu­ gino, ma devo andare avanti con il mio piano prima che sia troppo tardi nella notte. Troppe volte sono stato vicino a questo punto e mi sono ad­ dormentato, ogni volta per poi svegliarmi e affrontare un altro giorno di dolore. Vorrei dunque evitare un ulteriore giorno di dolore. La mia malattia è una tragedia, che sfortunatamente io non posso ri­ solvere. Coloro che hanno provato ad aiutarmi, compreso il mio terapeu­ ta, non dovrebbero sentire di aver fallito. Lui e molti altri hanno reso la mia vita più sopportabile in molti modi. Ho imparato molto su me stesso negli ultimi 2-3 anni e dunque essere nella posizione di conoscermi, di piacermi e essere forse vicino al mio più alto livello di funzionamento possibile. La vita non è tutto ciò che gli altri pensano che sia. Ho sempre detto “l’ignoranza è la felicità perfetta. Magari fossi ignorante”. Magari fossi in un mondo semplice nel quale i miei soli bisogni fossero cibo, alloggio e vestiti e non bisogni spirituali profondi. Morirò questa notte, oppure chiamerò il mio amore e probabilmente morirò un’altra volta, ma la trascinerei in ulteriori incubi. [Sorella]: mi dispisce per il dolore che ti ho causato così tante volte nella tua vita e adesso. Sei una persona fantastica con un grandissimo po­ tenziale. Sarai la migliore assistente sociale e porterai cose meravigliose a

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chiunque prenderai in cura. Come ho detto in precedenza questo è ciò di cui ho bisogno. Voglio che tu sia felice nel sapere che sono libero dal do­ lore. Mi dispiace veramente tanto dei debiti che ti lascio. Il mio mutuo studentesco. Mi scuso. Prendi per favore tutte le mie proprietà, la mia au­ to e i miei soldi nel mio conto corrente. (Papà ti prego di aiutarla con questo debito. Per favore non permettere che la mia morte sia un peso finanziario per lei e che possa turbare gli anni futuri).

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Per saperne di più E quando avrò paura... Io ci sarò per te

di Anna Rita Verardo Tutti abbiamo conoscenza diretta о indiretta degli effetti a lungo termine del sopravvivere a un suicidio . Un testo che affronta questa tematica in tutte le sue declinazioni e complicazioni, tracciando un percorso per la sua elaborazione. Da una parte un libro per i bambini e dall’altra la risposta che l’adulto dovrebbe saper dare per condurre il bambino alla sicurezza. Il disturbo bipolare. Una guida per la sopravvivenza. Ciò che voi e la vostra famiglia avete bisogno di conoscere

di David J. Miklowitz Tutte le migliori e più dettagliate spiegazioni sul “in che consiste e cosa sarebbe bene fare e saper fare” sono in questo libro. L’autore non si limita a informare in modo distaccato e neutrale intorno a una problematica, ma nel modo partecipe, emozionato e appassionante che può avere soltanto chi vive assieme ai propri pazienti un’esperienza di sofferenza, ne cerca i rimedi, ne individua uno dopo l’altro i rischi a ogni livello. Il lutto. Psicoterapia cognitivo-evoluzionista e EMDR

di Antonio Onofri, Cecilia La Rosa Questo libro affronta il tema dei lutti reali, non simbolici. Quindi, del lutto inteso come esperienza soggettiva della perdita per la morte di una persona alla quale si è profondamente legati. Si tratta di un manuale di consultazione e, soprattutto, uno strumento di riflessione e di intervento clinico sul tema del lutto, inclusi scale di valutazione, criteri diagnostici, protocolli di intervento. Il trattamento dei bambini e dei loro genitori basato sulla relazione. Una guida integrativa alla neurobiologia, allattaccamento, alla regolazione e alla disciplina

di Elizabeth Sylvester, Kat Scherer Il libro insegna come integrare la neurobiologia, la teoria dell’attaccamento, la regolazione emotiva e la disciplina basata sulla relazione in interventi potenti e utili per sostenere e guidare le famiglie.

Stampato per conto di Giovanni Fioriti Editore srl da Tipografia Giammarioli s.n.c. via E. Fermi 8-10, 00044 Frascati (RM)