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Italian Pages 192 [214] Year 1996
Titolo originale Biografia de un cimarr6n
© x966 e x997 Miguel Barnet
© x968 e·1998 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Traduzione di Marina Piazza e Gabriella Lapasini www .einaudi.it ISBN 88-06-14705-6
Miguel Barnet Autobiografia di uno schiavo (Cimarr6n)
Nuova edizione a cura di Gaetano Longo
Einaudi
Introduzione
Verso la metà del 1963 apparve sulla stampa cubana una serie di articoli su alcuni vecchi, uomini e donne, che avevano oltrepassato i cent'anni; articoli che riportavano anche varie interviste su temi generici, aneddotici. La mia attenzione si soffermò su due personaggi: una donna di cent'anni e un uomo di centoquattro. La donna, che era stata schiava, era anche santera e spiritista. L'uomo, benché non si riferisse direttamente a temi religiosi, era particolarmente incline alla superstizione e attribuiva una speciale importanza alle credenze popolari. La sua vita era interessante ed egli raccontava della schiavitu e della guerra d'indipendenza. Ma ciò che piu mi colpi fu una sua affermazione: era stato schiavo fuggiasco, cimarr6n, sui monti della provincia di Las Villas. Dimenticai la vecchia e pochi giorni dopo mi recai alla Casa del Veterano, dove viveva Esteban Montejo. Trovai un uomo serio, sano, dai capelli completamente bianchi. In quel primo incontro parlammo molto. Siccome il mio particolare interesse era volto agli aspetti generali delle ·religioni di origine africana ancora presenti a Cuba, cercai - all'inizio - di orientare il discorso s_u questi temi. Non mi fu difficile avviare un dialogo vivo, servendomi - naturalmente - dei metodi abituali della ricerca etnologica. All'inizio mi parlò dei suoi problemi personali: pensione, donne, salute. Cercai di risolvergliene qualcuno. Gli facevo piccoli regali: sigari, distintivi, fotografie. Raccontava, in modo
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disordinato e senza ordine cronologico, episodi importanti della sua vita. Il tema religioso non affiorava fa. cilmente. Solo piu tardi sono riuscito a raccogliere dati sui riti, sugli dèi, sulle profezie, ecc. Dopo aver parlato con lui per cinque o sei volte - le nostre conversazioni duravano anche cinque ore-, ho ampliato la tematica con domande sulla schiavitu, sulla vita nelle baracche, sulla sua vita sui monti, da cimarr6n. Dopo avermi raccontato per intero la sua vita, decisi di approfondirne gli aspetti piu singolari, la cui ricchezza mi aveva fatto pensare alla possibilità di trarne un libro in cui gli avvenimenti si susseguissero in ordine cronologico, nello stesso ordine - cioè - in cui erano accaduti. Ho deciso di scrivere il libro in prima persona perché non perdesse in spontaneità e per potervi inserire vocaboli e frasi idiomatiche proprie del linguaggio di Esteban. Ho, quindi, tracciato uno schema per suddividere il lavoro in varie fasi e, sullo schema, ho poi cominciato a sviluppare le domande. Siccome i temi scaturivano dalle domande stesse, non mi fu difficile tenere il ritmo del dialogo. All'inizio Esteban dimostrò una certa diffidenza, ma poi - identificandosi con me - prese interesse al lavoro e, con la sua collaborazione diretta, riuscii a raggiungere un ritmo di conversazione normale, senza le banali interruzioni di prima. Una parola, un'idea, spesso risvegliavano in Esteban ricordi che a volte lo allontanavano dal tema. Tuttavia, queste digressioni furono molto utili perché portarono alla conversazione elementi che forse non avrei in altro modo scoperto. Posso dire che, anche se ho elaborato le mie domande fondamentali sulla base di testi e questionari etnologici, è stata la pratica a far nascere quelle piu direttamente legate alla vita dell'informatore. Mi interessavano problemi specifici, come l' ambiente sociale delle baracche e la vita da celibe di cimar-
r6n. A Cuba scarseggiano documenti dai quali sia possi-
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bile ricostruire questi aspetti della vita durante la schiavitu. Perciò, piu che alla descrizione dettagliata dell'architettura delle baracche, la mia attenzione era rivolta alla vita sociale che si svolgeva in queste case-prigione. Inoltre, ho voluto descrivere i metodi usati dall'informatore per sopravvivere nella piu assoluta solitudine dei monti, le tecniche per fare il fuoco, cacciare, ecc.; cosi come il suo rapporto animistico con gli elementi della natura, piante e animali e - specialmente - con gli uccelli. Dopo poche settimane di continui incontri, Esteban cominciò a dimostrare una gentilezza poco consueta nella gente della sua età. Parlava con facilità e, spesso, sceglieva da solo il tema che riteneva piu importante. In molti casi ci trovavamo d'accordo. Una volta mi fece notare, sorpreso, che avevo dimenticato di interrogarlo sui cinesi di Sagua la Grande. Guardava con insistenza il mio libretto d'appunti e mi obbligava, quasi, a scrivere tutto quello che mi diceva. In una conversazione con il capitano Antonio Nufiez Jiménez, sorse un problema che non avevamo mai affrontato: quello della vita nelle grotte. Esteban raccontò al suo interlocutore, esperto speleologo, come e con che mezzi era riuscito a sopravvivervi. Molte delle nostre sedute furono registrate su nastri magnetici. Ciò mi ha permesso di familiarizzare di piu con le sue forme di linguaggio, frasi, sintassi, arcaismi e modismi. La necessità di verificare fatti, date e altri particolari, mi portò a parlare con vecchi piu o meno della sua stessa età. Tuttavia, nessuno di loro era abbastanza vecchio da aver vissuto i fatti raccontati da Esteban. Sono ricorso a testi di consultazione, agli atti dei municipi di Cienfuegos e di Remedios e ho ristudiato attentamente quell'epoca per non cadere in imprecisioni storiche nel porre le domande. Anche se, com'è evidente, il mio lavoro non è storico. C'è storia perché vi è coinvolta la vita di un uomo. Si potrà notare che, nell'arco del racconto, ho dovuto parafrasare ciò che Esteban diceva. Se avessi ri-
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portato fedelmente le sue parole, il libro sarebbe risultato troppo difficile e pieno di ripetizioni. Tuttavia, mi sono preoccupato in modo particolare di conservare la sintassi, quando era necessario. · So che far parlare un informatore è, in un certo qual modo, fare della letteratura. Ma non ho voluto creare un documento letterario, un romanzo. Ho inquadrato il mio racconto in un'epoca precisa; ma non ho preteso di ricostruire fedelmente quell' epoca, in tutti i minimi particolari di tempo e di spazio. Ho preferito chiedere e documentarmi sulle tecniche di coltivazione, sulle cerimonie, le feste, i cibi e le bevande, anche se il nostro informatore non ha potuto chiarire esattamente quali fossero gli anni in questione. Alcuni temi, secondo me piu importanti - come gli avvenimenti della guerra d'indipendenza, la battaglia di Cienfuegos contro i nordamericani e altri-, li ho precisati con note illustrative. La vita sui monti rimane, nel ricordo, come un periodo remoto e confuso. Senza dubbio, molte storie raccontate da Esteban non sono rigorosamente fedeli ai fatti. Di ogni situazione egli ci offre una versione personale. Cosi come lui l'ha vista. Ci dà un'immagine della vita nelle baracche, della vita sui monti, della guerra, che è la sua immagine. Perciò, ad esempio, racconta la battaglia di Mal Tiempo parlando di ciò che di essa ha vissuto. La sua visione è sempre soggettiva: anche quando parla di figure illustri come Maximo G6mez, che analizza da un punto di vista molto personale. E questa analisi ci interessa perché, piu che la vita di Maximo G6mez - di cui tutti sappiamo qualcosa - riflette il modo con cui il nostro informatore si avvicina alla realtà, il suo modo di trattare gli uomini, il suo atteggiamento di gruppo, particolare della sua razza. Alcuni elementi caratterizzanti la sua personalità di base si riflettono in diverse situazioni del racconto. I piu sintomatici sono: Un preciso senso di individualismo che lo porta a vivere isolato o, meglio, staccato dai suoi simili e che,
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tuttavia, non è mai stato un ostacolo al suo inserimento in fatti collettivi, come la guerra d'indipendenza. Questo sentimento ha contribuito a rafforzare una personalità decisa e ribelle e ha fatto di Esteban un uomo diffidente, estremamente riservato, anche se non sprezzante né asociale. Al contrario, è allegro e spiritoso. Certo, gli anni trascorsi in solitudine sui monti, fuggendo da tutti gli esseri che lo circondavano, hanno potenziato questo sentimento. Un criterio parziale, e favorevole ai negri, nel giudicare alcuni fatti, come la guerra. Questa parzialità è perfettamente giustificata in lui e in tutti i vecchi negri che, come lui, hanno vissuto l'abominevole storia del giogo schiavistico. Esteban ha una stima quasi incondizionata per i negri che hanno lottato per la libertà di Cuba. Esalta vari personaggi e ne riporta altri all'esatta dimensione. I casi ~ Antonio Maceo e Quintin Banderas sono esemplari. E intransigente nei confronti dei negri mercenari che giudica uomini senza spina dorsale. Un grado di onestà e spirito rivoluzionario ammirevoli. L'onestà del suo comportamento si manifesta in diversi momenti del racconto, soprattutto nella guerra d'indipendenza. Lo spirito rivoluzionario appare non solo dal racconto, ma anche dal suo atteggiamento. Estehan Montejo, a centoquattro anni, costituisce un buon esempio di condotta e moralità rivoluzionaria. La sua tradizione di rivoluzionario, dapprima cimarr6n, poi soldato dell'esercito di liberazione, piu tardi membro del Partito socialista popolare, è reso piu vivo ai nostri giorni dal suo identificarsi con la rivoluzione cubana. Questo libro non fa che narrare vicissitudini comuni a molti uomini della sua nazionalità; vicissitudini che l'etnologia raccoglie per studi dell'ambiente sociale a scopo storico e folcloristico. La nostra maggiore soddisfa;done è raccontarle per bocca di un autentico protagonista del processo storico cubano. ' MIGUEL BARNET
Autobiografia di uno schiavo (Cimarron)
Primi ricordi
Ci sono cose della vita che non mi spiego. Per me, tutto ciò che riguarda la Natura è molto oscuro, e gli dèi ancora di piu. Tocca a loro dare origine a tutti ifenomeni che uno vede, che io ho visto e che di sicuro sono esistiti. Gli dèi sono capricciosi e imprevedibili. Per questo, qui sono successe tante cose strane. Ricordo che prima, in schiavitu, passavo la vita a guardare in alto, perché il cielo mi è sempre piaciuto molto per i colori che ha. Una volta il cielo si incendiò come una fiamma e c'era una siccità terribile. Un'altra volta c'è stata un'eclissi di sole. È cominciata alle quattro di po~ meriggio, in tutta l'isola. Sembrava che la luna combattesse con il sole. lo mi sono reso conto che tutto andava alla rovescia. Andava oscurandosi e oscurandosi e poi si rischiarava e rischiarava. Le galline si appollaiarono sui pali. La gente non p·arlava, dalla paura. Ci fu chi mori di un attacco di cuore e chi restò muto. Ho visto la stessa cosa altre volte, ma in altri posti. Per nessuna ragione al mondo domandavo perché succedeva. So che dipende dalla Natura. La Natura è tutto. Anche quello che non si vede. E noi uomini non possiamo fare queste cose perché siamo soggetti a un Dio: a Gesucristo, che è quello di cui piu si parla. Gesucristo non è nato in Africa, è venuto dalla stessa Natura perché la Vergine Maria era signorina. Gli dèi piu forti sono quelli dell'Africa. lo dico che di sicuro volavano. E facevano quello che gli saltava in testa con le magie. Non so come abbiano permesso
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la schiavitu. La verità è che io mi metto a pensare e non arrivo da nessuna parte. Tutto cominciò con i fazzoletti rossi, secondo me. Cominciò il giorno che passarono per la muraglia. La muraglia era vecchia, in Africa, in tutta la costa. Era una muraglia fatta di foglie di palma reale e di bestie stregate che pungevano come il diavolo. Spaventarono per molti anni i bianchi che volevano metter piede in Africa. Ma il rosso li confuse tutti. E i re, e tutti, si consegnarono senza problemi. Quando i re vedevano che i bianchi - io credo che i portoghesi furono i primi - agitavano i fazzoletti rossi per salutare, dicevano ai negri: «Va', va' a prendere il fazzoletto rosso, va'». E i negri, eccitati dal rosso, correvano come pecore alle barche e H li prendevano. Ai negri è sempre piaciuto molto il rosso. Per colpa di quel colore, li misero in catene e li mandarono a Cuba. E poi non poterono piu tornare alla loro terra. Questa è la ragione della schiavitu a Cuba. Quando gli inglesi scoprirono questa storia, non lasciarono piu deportare negri e allora fini la schiavitu e cominciò un'altra vita: libera. Fu verso l'ottanta e rotti. Io, di questo, non dimentico niente. Ce l'ho tutto davanti agli occhi. Mi ricordo perfino ch,e i miei padrini mi dissero la data in cui sono nato. E stato il 26 dicembre del 1860, il giorno di san Esteban, che c'è anche nel calendario. Per questo mi chiamo Esteban. Il mio primo cognome è Montejo, da mia madre che era una schiava di origine francese. Il secondo è Mera. Però non lo sa quasi nessuno. Insomma, non so perché lo dico se è falso. Il vero era Mesa, ma è successo che all'archivio me l'hanno cambiato e io l'ho lasciato cosi perché volevo avere due cognomi, come gli altri; e perché non mi dicessero «figlio di puttana», me lo sono preso e ciao! Il cognome Mesa era di un certo Pancho Mesa che abitava a Rodrigo. A quanto ho potuto capire, questo signore mi allevò dopo la nascita. Era il padrone di mia madre. Io non ho mai visto quest'uomo, ma so che è vero perché me l'hanno raccontato i
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miei padrini. E non ho dimenticato niente di quello che loro mi raccontavano. Il mio padrino si chiamava Gin Congo' e la mia madrina Susana. Li ho conosciuti verso il novanta, quando la guerra non era ancora incominciata. Me lo fece sapere un vecchio negro che era nella loro stessa piantagione e che mi conosceva. Lui mi portò anche a trovarli. Mi abituai ad andarli a trovare alla Chinchila, il sobborgo dove vivevano, vicino a Sagua la Grande. Siccome non conoscevo i miei genitori, la prima cosa che feci fu di domandare di loro. Allora seppi i loro nomi e altri particolari. Mi dissero persino la piantagione in cui ero nato. Mio padre si chiamava Nazario ed era un lucumi di Oy6. Mia madre, Emilia Montejo. Mi dissero anche che erano morti a Sagua. La verità è che io avrei voluto conoscerli, ma per salvarmi la pelle non ho potuto vederli. Se mi fossi arrischiato a scendere dai monti mi avrebbero subito preso. Ero cimarr6n e per questo non ho potuto conoscere i miei genitori. E non li ho mai nemmeno visti. Ma non è una cosa triste perché è la verità. Come tutti i bambini schiavi, i criollitos, come venivano chiamati, sono nato in un'infermeria, dove portavano le negre gravide perché partorissero. Per quanto ne so, ma non ne sono molto sicuro, a me è successo nella piantagione di Santa Teresa. Quel che mi ricordo, è che i miei padrini mi parlavano molto di questa piantagione e dei padroni, certi signori di cognome La Ronda. Questo cognome lo portarono anche i miei padrini per molto tempo, finché durò la schiavitu a Cuba. I negri si vendevano come maialetti e io sono stato venduto subito, cosi non mi ricordo niente di quel posto. So solo che la piantagione era, per me, la mia terra natale che partiva da sopra Las Villas, Zulueta, Remedios, Caibarién, e arrivava fino al mare. Poi rivedo l'immagine di un'altra piantagione: Fior de Sagua. E 1 Nella colonia, gli schiavi usavano aggiungere, al loro nome di battesimo, il nome della nazione d'origine, come fosse un cognome.
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non so se questo è stato il posto dove ho iniziato a lavorare. Sono però sicuro che di là sono fuggito una volta; mi sono ribellato, cazzo!, e sono fuggito. Chi aveva voglia di lavorare! Però, alla fine mi hanno catturato e mi hanno messo di quei ceppi che, se ci penso, li sento ancora. Me li strinsero forte e mi misero a lavorare con quelli e tutto. Uno dice questo, adesso, e la gente non ci crede. Ma io l'ho provato e devo dirlo. Il padrone di questa piantagione aveva un cognome strano, di quelli lunghi e composti. Era una peste: cafone, rabbioso e superbo. Passeggiava in volanta con i suoi amici e la sua signora per i campi di canna. Salutava con il fazzoletto, ma non si avvicinava neppure per scherzo. I padroni non andavano mai nei campi. Lui era un caso strano; mi ricordo che aveva un negro - tutto tirato, lui! -, un cocchiere coi fiocchi, con il suo anello all'orecchio e tutto. Tutti questi cocchieri erano leccapiedi e spie del padrone. Erano, per cosi dire, i signorini di colore. A Flor de Sagua cominciai a lavorare sui carri che trasportavano lo scarto della canna. Io mi sedevo a cassetta e frustavo il mulo. Se il carro era molto pieno, trascinava il mulo indietro e allora io scendevo e lo tiravo per le redini. I muli erano duri e uno doveva piegarsi a tirare come una bestia. La schiena finiva per diventare gobba. Molta di questa gente che va in giro mezzo gobba, lo è per colpa dei muli. I carri erano pieni fino ali' orlo. Si scaricava sempre nell'aia e bisognava distendere gli scarti e farli seccare. Lo si faceva con un gancio. Poi li si portava sani e secchi ai forni. Era per fare fuoco. Penso che questo sia stato il mio primo lavoro. Almeno a quanto mi dice la memoria. Tutti i macchinari dello zuccherificio erano.primitivi. Non era come oggi, che c'è la luce e macchine veloci. Li si chiamava cachimbos, che voleva dire piccolo zuccherificio. In questi cachimbos si faceva lo zucchero grezzo. In alcuni non si faceva zucchero, ma sciroppo e pan di zucchero. Erano quasi tutti di un padrone solo; si chiamavano trapiches. Nei cachimbos c'erano
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tre caldaie. Le caldaie erano grandi, di rame e di bocca larga. In una si cucinava il succo della canna, nell' altra si mescolava la spuma del succo bollente, nella terza il succo di canna purgato prendeva il giusto colore. Noi chiamavamo spuma ciò che restava del succo. Era come uno strato duro che faceva molto bene ai maiali. Quando il succo purgato aveva raggiunto il giusto punto di cottura, si prendeva uno scolatoio e, con un grosso cucchiaio infilato su un bastone, si versava il succo nello scolatoio e, dallo scolatoio, sul graticcio posto a poca distanza dalle caldaie. Lf quagliava il grezzo, che era lo zucchero che non depurava; restava la parte migliore dello sciroppo. Allora non esisteva la centrifuga, come la chiamano oggi. Quando lo zrn:chero era freddo sul graticcio, bisognava entrare scalzi con pala e piccone e una tavola di legno. Mettevano sempre un negro davanti e uno dietro. La tavola di legno serviva a portare le botti sulla pedana: un lungo deposito con due assi, dove si mettevano le botti perché lo zucchero depurasse. La melassa che usciva dalle botti veniva portata nell'aia e la si dava ai montoni e ai maiali. Ingrassavano moltissimo. Per fare lo zucchero semolato c'erano grandi imbuti dove si gettava il grezzo perché depurasse completamente. Questo zucchero assomigliava a quello di oggi, lo zucchero bianco. Gli imbuti venivano chiamati stampi da zucchero. Io conoscevo la lavorazione dello zucchero meglio di tanta altra gente che ha conosciuto soltanto la canna nei campi. E, a dire il vero, preferisco lavorarlo, lo zucchero, perché è piu comodo. A Fior de Sagua ho lavorato sui graticci del cachimbo. Però solo dopo aver provato il lavoro con gli scard. Là bisognava lavorare con pala e piccone. Secondo me, era addirittura meglio tagliare la canna. Dovevo avere circa dieci anni, perciò non mi avevano mandato nei campi. Ma dieci anni, allora, erano come dire trenta adesso, perché .i bambini lavoravano come buoi.
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Se un negretto era carino e simpatico, lo mandavano dentro. In casa dei padroni. Là cominciavano ad addomesticarlo e ... che ne so! Il fatto è che il negretto doveva passare il tempo a scacciare le mosche, perché i padroni mangiavano molto. Il negretto lo mettevano in fondo alla tavola mentre loro mangiavano. Gli davano un grande ventaglio di palma. E dicevano: «Attento che non cadano mosche nei piatti!» Se qualche mosca cadeva in un piatto, lo sgridavano tanto e qualche volta lo frustavano. Io non l'ho mai fatto perché non mi piaceva fare comunella con i padroni. Ero cimarr6n di natura.
La vita nelle baracche
Tutti gli schiavi vivevano in baracche'. Ora non esistono piu, cosi nessuno le può vedere. Ma io le ho viste e non mi sono mai piaciute. I padroni, invece, dicevano che le baracche erano gioielli. Agli schiavi non piaceva vivere in queste condizioni perché stare chiusi li soffocava. Le baracche erano grandi, ma in altre piantagioni erano piu piccole, secondo il numero degli schiavi. A Fior de Sagua vivevano circa duecento schiavi, di tutti i colori. Le baracche erano in fila: due file messe una di fronte all'altra, con un portone in mezzo e un grosso catenaccio che sprangava l'uscita ai negri durante la notte. C'erano baracche in legno e in muratura, con tetti di tegole. Tutte con il pavimento di terra e sporche come la merda. Li non c'era ventilazione moderna. Un buco sulla parete della stanza o una finestrella con le sbarre bastavano. Per forza pullulavano le pulci e le niguas che riempivano tutti di infezioni e malefici. Perché queste niguas erano streghe. L'unico modo per liberarsene era il sego bollente, e a volte nemmeno quello. I padroni volevano che le baracche fossero pulite all'esterno. Allora le imbiancavano a calce. 1 Don Honorato Berrrand Chateausalins sembra essere stato il primo nel 1831 - a raccomandarne la costruzione. Nel Vademecum dei grandi proprietari terrieri cubani consiglia che le abitazioni degli schiavi « siano fabbricate a forma di baracca con una sola porta, le cui chiavi dovevano essere consegnate, la notte, all'amrninisrratore o al sovrintendente. Ogni stanza avrà come unico ingresso una porticina e, di fianco, un finestrino chiuso da inferriate perché il negro, di notte, non possa comunicare con gli alrri».
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Lo facevano i negri stessi. Il padrone diceva: «Prendete la calce e fate la parete». La calce si preparava dentro le latte, nel recinto delle baracche, nel cortile centrale. I cavalli e i montoni non entravano nelle baracche, ma c'era sempre un cane scemo che girava cercando da mangiare. Giravano per le stanze delle baracche, piccole e calde. Uno dice stanze, ma erano forni. Avevano porte con chiavistelli perché nessuno andasse a rubare. Soprattutto per difendersi dai ragazzini che nascevano già canaglie, con l'istinto del furto. Si sfogavano a rubare come bestie. In mezzo alle baracche, le donne lavavano la roba dei mariti, dei figli e la loro. Lavavano in mastelli. I mastelli della schiavitu non erano come quelli di adesso. Erano piu rozzi. Bisognava portarli al fiume per farli gonfiare, perché erano casse per il baccalà, di quelle grandi. Fuori dalle baracche non c'erano alberi; e nemmeno dentro. Erano distese di terra vuote e solitarie. Il negro non poteva abituarcisi. Al negro piace l'albero, la foresta. Forse potevano piacere al cinese ... ! L'Africa era piena di alberi, di alberi di cotone, di cedri, di fichi d'India. In Cina, là c'era solo erba di quella che si strappa, papaveri, fiori di campo. Le stanze erano piccole e allora gli schiavi facevano i loro bisogni in una specie di cesso, come lo chiamano. Era in un angolo delle baracche. Lf andavano tutti. Per pulirsi il culo dopo la scarica, bisognava raccogliere erbe come la saggina o il cartoccio del mais. La campana della piantagione era all'uscita2 • La suo2 MANUEL MORENO FRAGINALS, El ingenio. El compte;o economico socia! cubano del azucar, tomo I (1760-1860), Comisi6n nacional cubana de la UNE-
sco, La Habana 1964, p. 163: « ... La campana, che scandiva il ritmo dell'interminabile fatica, divenne quasi un grande simbolo religioso e profano della piantagione. Come non si concepisce una chiesa senza campanile, cosf non ci fu piantagione di zucchero o di caffè senza campana. Chi suonava la campana della piantagione non aveva bisogno di imparare i modi di suonaxe, complessi e vaxi, necessari alla vita in città. Era, generalmente, un vecchio negro inutile alla produzione, psicologicamente e fisicamente incapace di fuggire. Viveva, accanto alla campana, la sua morte quotidiana. Sui campi
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nava il caposquadra. Alle quattro e mezzo del mattino suonavano l'Ave Maria. Mi pare nove tocchi. Bisognava alzarsi subito. Alle sei, suonava un'altra campana: quella dell'adunata che bisognava fare in un campo fuori dalle baracche. I maschi da una parte e le femmine dall'altra. Poi, nei campi fino alle undici, quando mangiavamo carne secca, tuberi e pane. Poi, al tramonto, c'era la Preghiera. Alle otto e mezza suonava l'ultima campana per andare a dormire. Era il Silenzio'. Il caposquadra dormiva nelle baracche e sorvegliava. Nell'aia c'era un altro guardiano notturno, bianco, spagnolo: e anche lui sorvegliava. Tutto si basava sulla frusta e sul controllo. Dopo qualche tempo, quando la esquifaci6n - cioè i vestiti degli schiavi - si rompeva, gliene davano un'altra fatta di tela; una tela grossa, adatta ai campi, un tessuto di iuta: pantaloni con grandi tasche verticali, in tela di cotone, e un berretto di lana per il freddo. Le scarpe erano, in genere, di cuoio, basse, con due corde per legarle. I vecchi usavano zoccoli che avev~no la suola piatta e una corda intorno al dito grosso. E sempre stata una moda africana, anche se adesso li usano le bianche e li chiamano ciabatte o sandali. Alle donne davano una blusa, una gonna e una sottoveste. Quando avevano un po' d'orto si compravano sottovesti bianche che erano piu belle e inamidate. Si mettevano alle orecchie anelli d'oro vicino a Trinidad si leva ancora, leggendaria, la torre della piantagione Manacas. In alto c'è la nicchla vuota in cui, un tempo, pendeva la campana. La torre - vedetta, fortezza e campanile - è simbolo del lavoro degli schiavi nei campi di canna. Stava li a segnare ogni giorno le r6, r8, 20 ore di lavoro quotidiano. E serviva anche come mezzo di comunicazione nell'ampia vallata, perché c'era un tocco per chiamare il bovaro, un altro per l'amministratore, un altro ancora per il sovrintendente e a volte, a brevi rintocchl, si annunciava anche che uno schlavo era partito per il cimitero della piantagione». ' RICHARD R. MADDEN, La isla de Cuba, Consejo nacional de cultura, La Habana 1964, p. r42. Madden racconta di «zuccherifici in cui, all'epoca del taglio della canna o della molitura, la giornata di lavoro dura venti ore consecutive: ciò, spesso, per piu di sei mesi all'anno e raramente, o mai, per meno di cinque. Infatti, l'opinione prevalente, a questo riguardo, e generalmente messa in pratica dai padroni, è che per uno schlavo siano sufficienti quattro ore di sonno».
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e orecchini. Li compravano dai mori o dai turchi che arrivavano ogni tanto nelle baracche. Portavano le loro mercanzie legate alla spalla con una fascia di cuoio molto grosso. Nelle baracche arrivava anche chi vendeva i biglietti della lotteria. Imbrogliavano i negri vendendo i biglietti piu cari e quando un biglietto vinceva non si facevano piu vedere. I contadini andavano a scambiare carne secca con latte. Lo vendevano a quattro centesimi la bottiglia. I negri lo comperavano perché il padrone non passava latte. Il latte cura le infezioni e disinfetta. Per questo bisognava prenderlo. Ma avere un po' d'orto ha salvato molti schiavi. Gli ha permesso di mangiare davvero. Quasi tutti gli schiavi avevano i loro orti. Erano piccoli pezzi di terra su cui seminare. Erano molto vicini alle baracche, appena dietro. Coltivavano di tutto: patate americane, zucche, quimbombò, mais, fagioli simili a fave, mandioca e arachidi. Allevavano anche porcellini. Vendevano qualcòsa ai contadini che venivano dai loro villaggi. La verità è che i negri erano onesti. Siccome erano ancora ignoranti, essere onesti, per loro, era spontaneo. Vendevano la loro roba a buon mercato. I maiali interi valevano da un'oncia a un'oncia e mezza, in once d'oro come si usava una volta. Non vendevano volentieri tuberi. Io ho imparato a mangiarli dai vecchi: sono molto nutrienti. In schiavitu, il maiale era la cosa piu importante. Li alimentavano con i tuberi. I porci di una volta davano piu grasso di quelli di adesso. Era perché facevano una vita piu libera. Bisognava lasciarli rotolare nei porcili. Il loro lardo si vendeva a cinque centesimi al chilo. Tutte le settimane i contadini venivano a comprare. Pagavano ogni volta mezza moneta d'argento. Piu tardi, la mezza moneta calò a un quarto, cioè alla metà della metà. Non si conosceva ancora il centesimo perché Alfonso XIII non era ancora stato incoronato. Dopo l'incoronazione arrivò il centesimo. Il re Alfonso volle cambiare perfino la moneta. Arrivò a Cuba la calderilla che valeva, credo, due
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centesimi, con altre novità in tema di soldi: tutte dovute al re. Anche se può sembrare strano, i negri nelle baracche si divertivano. Avevano i loro passatempi e i loro giochi. Si giocava anche nelle bettole, ma erano giochi diversi. Uno dei giochi piu in voga nelle baracche era quello delle piastrelle: si metteva in terra un cartoccio di mais, aperto. In cima gli si collocava una moneta. Poi si tirava una linea a poca distanza e, dalla linea, si tirava una pietra sul cartoccio. Se la pietra colpiva il cartoccio e la moneta cadeva sulla pietra, il giocatore la prendeva ed era sua. Se cadeva vicino al cartoccio, no. Ma si faceva confusione. Allora si misurava con la paglia per vedere se la moneta era piu vicina alla pietra o al cartoccio. Questo gioco veniva fatto in cortile, come quello dei birilli. Ma ai birilli si giocava poco. Credo di averlo visto giocare due o tre volte, non di piu. C'erano falegnami negri che modellavano il legno a forma di bottiglia e facevano palle di legno. Era un gioco libero cui partecipavano tutti. Tranne i cinesi, che stavano per conto loro. Le palle si tiravano sulla terra battuta per far cadere quattro o cinque birilli messi in fondo. E lo stesso gioco che si fa oggi nelle città, ma con una differenza: che provocava risse perché si giocava a soldi. Questo non piaceva ai padroni. Perciò proibivano certi giochi e bisognava farli quando il capo non stava attento. Era lui quello che andava a raccontare tutto: i fatti e i pettegolezzi. Il gioco del mayombe aveva a che fare con la religione. Gli stessi sorveglianti vi partecipavano per ottenerne grazie. Credevano negli stregoni, per questo oggi nessuno si può meravigliare se i bianchi credono in queste cose. Nel mayombe si suonavano i tamburi. Si metteva una nganga, cioè una grande pentola, in mezzo al cortile. Nella pentola c'erano le potenze e i santi. I santi dovevano essere presenti. Si cominciava a suonare i tamburi e a cantare. Si mettevano offerte nel-
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le pentole. I negri pregavano per la loro salute, per quella dei loro fratelli e per la buona armonia. Si facevano enkangues con terra di cimitero. Con questa terra si facevano monticelli in quattro angoli, per rappresentare i punti cardinali. Nella pentola si metteva la fumaria, cioè un'erba, insieme a scarti di mais, per proteggere gli uomini. Quando il padrone castigava qualche schiavo, gli altri raccoglievano un po' di terra e la mettevano nella pentola. Con questa terra ottenevano ciò che volevano. Il padrone si ammalava o gli succedeva qualche guaio in famiglia. Perché, mentre quella terra era nella pentola, anche il padrone vi era imprigionato e neanche il diavolo avrebbe potuto tirarlo fuori. Era la vendetta del congo contro il padrone. Vicino alle piantagioni c'erano le bettole. C'erano piu bettole che niguas sul monte. Erano come degli spacci dove si poteva comprare di tutto. Nelle bettole commerciavano gli stessi schiavi. Vendevano la carne secca che accumulavano nelle baracche. Gli schiavi potevano andare nelle bettole in certe ore del giorno e qualche volta anche di sera. Ma ciò non accadeva in tutte le piantagioni. C'era sempre il padrone che non permetteva allo schiavo di andare. I negri andavano nelle bettole in cerca di acquavite. Ne bevevano molta per tenersi su. Un bicchiere d'acquavite, di quella buona, costava un medio. Anche i padroni bevevano molta acquavite e ogni volta nascevano zuffe indescrivibili. Certi tavernieri erano vecchi spagnoli, soldati a riposo che guadagnavano poco: circa cinque o sei pesos di pensione. Le bettole erano fatte di legno e palma reale. Non c'era niente in muratura, come le cantine di oggi. Ci si doveva sedere su pile di sacchi di iuta o stare in piedi. Nelle bettole vendevano riso, carne secca, burro e fagioli di tutte le specie. Ho visto casi di padroni che imbrogliavano gli schiavi con prezzi falsi. E ho visto risse in cui il negro pigliava un sacco di botte e non poteva piu tornare alle bettole. Davano dei libretti dove si segnavano tutte le spese: quando uno schiavo spen-
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deva un medio mettevano un segno, quando ne spendeva due, mettevano due segni. Questo era il sistema per comprare le altre cose: le gallette rotonde e dolci, quelle salate, i confetti grandi come ceci e fatti di farina di diversi colori, il pan de agua e il burro. Il pan de agua costava un medio al bastone. Era molto diverso da quello di oggi. lo preferivo quello. Mi ricordo anche che vendevano dolci che chiamavano «capricci», di farina di granoturco, sesamo e arachidi. Questo sesamo era una cosa dei cinesi perché c'erano venditori ambulanti che passavano per le piantagioni a venderlo. Erano vecchi cinesi che non avevano piu forza nelle braccia per la canna e si mettevano a commerciare. Le bettole erano puzzolenti. Mandavano un odore forte per i salami, i prosciutti, le mortadelle appese al soffitto a stagionare. Ma, con tutto questo, si facevano giochi e chiasso. Si passava il tempo in queste sciocchezze. I negri si vantavano di essere buoni giocatod. Mi ricordo un gioco che si chiamava «la galletta». Si mettevano su un banco di legno, o su un'asse qualsiasi, quattro o cinque gallette dure e salate e con l'uccello si colpiva forte sulle gallette per vedere chi riusciva a romperle. Chi le rompeva vinceva. Si scommettevano soldi e bevute. Lo giocavano sia i negri che i bianchi. Un altro gioco volgare era quello della bottiglia. Prendevano una bottiglia grande, con un buco, e ci infilavano l'uccello. Chi toccava il fondo vinceva. Il fondo era coperto da uno strato di cenere perché cosf, quando lo si tirava fuori, si vedesse bene se aveva toccato il fondo o no. Si facevano anche altri giochi, come quello delle carte. Si giocava soprattutto con carte spagnole, che è il modo normale di giocare. C'erano molti tipi di giochi. Chi preferiva giocare alla cara, chi al mico, dove si poteva vincere molto. Ma io preferivo il monte, nato nelle case ma diffuso anche in campagna. Il monte si giocava durante la schiavitu, nelle bettole e nelle case dei padroni. Ma io l'ho giocato dopo l'abolizione. Il monte è complicatissimo. Si mettono due carte sulla tavo-
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la e bisogna indovinare quale delle due è la prima delle tre che si mettono via. Si giocava sempre a soldi e per questo era bello. Il banco era quello che faceva le carte e i giocatori puntavano i soldi. Si guadagnava molto. Io guadagnavo soldi tutti i giorni. La verità è che il monte era il mio vizio: il monte e le donne. Non per niente, ma bisognava trovarlo un giocatore piu bravo di me. Ogni carta aveva il suo nome, come adesso; ma quelle di oggi non sono cosi disegnate. Prima c'erano i fanti, il re, gli assi, il cavallo, poi venivano i numeri dal due fino al sette. Sulle carte c'erano figure di uomini con la corona o a cavallo. Si capiva subito che erano spagnole, perché a Cuba non sono mai esistiti questi tipi con quei colli di trine e quei capelli. Quelli che c'erano qui prima erano indios. Nelle piantagioni, i giorni in cui si faceva piu cagnara erano le domeniche. Non so come gli schiavi ci arrivassero in forze. Le feste piu grandi della schiavitu si facevano di domenica. C'erano piantagioni in cui si cominciava a suonare il tamburo a mezzanotte o all'una. A Flor de Sagua, anche piu presto. Con il sole cominciava la gazzarra, i giochi, e i bambini cominciavano ad agitarsi. La baracca esplodeva presto, sembrava la fine del mondo. Con tutto ciò, e il lavoro, la gente si svegliava allegra. Il sovrintendente e il caposquadra entravano nelle baracche e andavano con le negre. I piu isolati erano i cinesi. Questi cornuti non avevano orecchio per il tamburo. Si appattavano. Il fatto è che pensavano molto. Secondo me pensavano piu dei negri. Nessuno badava loro. E la gente continuava a ballare. Il ballo che ricordo di piu è la yuka. Nella yuka suonavano tre tamburi: la caja, la mula e il cachimbo, che era il piu piccolo. Dietro, si percuotevano con due bacchette due tronchi di cedro svuotati. Li costruivano gli schiavi stessi e credo li chiamassero catd. La yuka si ballava in coppia agitandosi molto. A volte giravano come uccelli e sembrava addirittura che stessero per volare, tanto si muovevano rapidi. Saltellavano con le mani sui fianchi. Tutti cantavano per incitare i ballerini.
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C'era un altro ballo piu complicato. lo non so se era un ballo o un gioco perché si bastonavano di santa ragione. Questo ballo lo chiamavano mani. I ballerini formavano un cerchio di quaranta o cinquanta uomini e cominciavano a dare colpi. Chi riceveva un colpo usciva a ballare. Portavano i vestiti da lavoro e si mettevano in fronte e in vita fazzoletti colorati e con disegni. Questi fazzoletti si usavano per raccogliere la roba degli schiavi e portarla a lavare. Li chiamavano fazzoletti di Vaya;d. Perché i colpi del mani fossero piu duri, si mettevano ai polsi una diavoleria qualsiasi. Le donne non ballavano ma accompagnavano le danze battendo le mani. Gridavano per la paura, perché a volte un negro cadeva e non si rialzava piu. Il mani era un gioco crudele. I ballerini non scommettevano. In. certe piantagioni erano gli stessi padroni a puntare, ma a Flor de Sagua non me lo ricordo. Quel che i padroni facevano sempre era proibire ai negri di bastonarsi tanto perché, a volte, non potevano nemmeno lavorare da come erano malridotti. I bambini non potevano giocare ma non perdevano una mossa. lo, per esempio, non me lo dimenticherò piu. Ogni volta che suonava il tamburo i negri andavano a bagnarsi al ruscello. Vicino a tutte le piantagioni c'era un ruscelletto. A volte una donna seguiva l'uomo e si incontravano in acqua. Allora si congiungevano e scopavano. Oppure, andavano alla cisterna, che era una fossa fatta per conservare l'acqua. Anche li si giocava a nascondino e i negri rincorrevano le negre per farsele. Le donne che non volevano fare questo gioco restavano nelle baracche e si lavavano nel mastello. Questi mastelli erano grandi e ce n'erano uno o due in tutto. Barba e capelli agli uomini li facevano gli schiavi stessi. Prendevano un coltello grande e, come si tosa un cavallo, tagliavano i riccioli ai negri. C'era sempre uno cui piaceva rasare e di solito era il piu esperto. Tagliava come tagliano oggi. E non faceva male perché i capelli sono una cosa strana: anche se li si vede crescere non hanno vita. Le donne si pettinavano a boccoli
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o con le righe. Avevano la testa come un melone. A loro piaceva questa storia di pettinarsi un giorno in un modo e un giorno in un altro. Un giorno con le righe e un altro giorno a riccioli, un altro giorno ancora con i capelli lisci. Per lavarsi i denti usavano foglie di saponaria che li rendeva bianchissimi. Tutta questa agitazione era per la domenica. Per quel giorno tutte avevano il vestito da festa. I negri compravano certe scarpe di vitello chiuse che non si sono piu viste. Si compravano in certe botteghe vicine, dove ci si recava con un permesso del padrone. Portavano al collo fazzoletti di Vayajd rossi e verdi. I negri se li mettevano in testa o alla vita come nel ballo del mani. Si mettevano anche orecchini e in tutte le dita anelli d'oro. D'oro vero. Alcuni non portavano anelli, ma braccialetti d'argento fino che arrivavano al gomito. E scarpe di vernice. I discendenti dei francesi ballavano in coppia, staccati. Giravano lentamente. Al piu bravo legavano fazzoletti di seta alle gambe. Di tutti i colori. Questo era il premio. Cantavano in dialetto e suonavano con le mani due tamburi grandi. Il ballo si chiamava «il francese». Io conoscevo uno strumento che si chiamava marimbula ed era piccolo. Lo facevano con stecche d' ombrello e aveva un suono profondo come un tamburo. Il suono usciva da un incavo. Con questa marimbula accompagnavano i tamburi dei congos e forse anche quelli dei francesi. Le marimbulas si suonavano molto di rado. A molta gente, soprattutto ai contadini, non piacevano perché dicevano che erano voci dell'altro mondo. Secondo me, a quell'epoca la loro musica era soltanto quella della chitarra. Poi, verso il novanta, suonavano danzones su grandi organi, con fisarmoniche e guiros. Mai bianchi hanno sempre avuto una musica molto diversa da quella dei negri. La musica dei bianchi non ha tamburo, è piu noiosa. Piu o meno, è come con la religione. Gli dèi dell' Africa sono diversi benché somiglino agli altri, a quelli dei
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preti. Sono piu forti e hanno meno ornamenti. Ancora adesso uno prende e va in una chiesa cattolica e non vede né mele, né pietre, né piume di gallo; cose che, invece, si vedono subito in una casa africana. L' africano è piu rozzo. Ho conosciuto due religioni africane nelle baracche: la lucumi e la conga. La conga era la piu importante. A Fior de Sagua, era molto conosciuta perché gli stregoni si impossessavano della gente. Con la faccenda delle profezie si guadagnavano la fiducia di tutti gli schiavi. Io mi avvicinai ai vecchi negri dopo l'abolizione. Ma a Fior de Sagua io mi ricordo del chichereku. II chichereku era di nazionalità conga. Non parlava spagnolo. Era un ometto capoccione che non faceva che correre tra le baracche, saltava e aggrediva la gente da dietro. L'ho visto molte volte. L'ho sentito squittire come un topo. Questo è sicuro; e anche alla Porfuerza4, fino a pochi anni fa, ce n'era uno che correva come lui. La gente scappava perché diceva che era il diavolo in persona e che era posseduto dal mayombe e dai morti. Con il chichereku non si può scherzare perché è pericoloso. A me, a dire il vero, non piace troppo parlarne perché non l'ho piu rivisto, e se per caso ... non si sa mai! Nella religione dei congos si usavano i morti e gli animali. I morti li chiamavano nkise e le bisce emboba. Preparavano cazuelas e tutto: questo era il segreto della stregoneria. Si chiamavano ngangas. Tutti i congos avevano le loro ngangas per il mayombe. Le ngangas erano legate al sole. Perché il sole è sempre stato la forza e l'intelligenza degli uomini. Come la luna lo è per le donne. Ma il sole è piu importante perché è lui che dà vita alla luna. I congos facevano fatture con il sole quasi tutti i giorni. Quando avevano qualche guaio con qualcuno, lo seguivano per un sentiero qualsiasi e raccoglievano la polvere che calpestava. La conservavano ' La Centra! Porfuerza, nella provincia di Las Villas.
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e la mettevano nella nganga o in un angolino. Via via che il sole calava, la vita della persona si spegneva. E al tramonto la persona era morta. Lo dico perché è un fatto che ho visto molte volte durante il periodo della schiavitu. Se uno ci pensa bene, i congos erano assassini. Ma se ammazzavano qualcuno era perché anche a loro avevano fatto qualche torto. A me nessuno ha mai cercato di farmi fatture perché sono sempre stato isolato e non mi è mai piaciuto sapere troppo della vita degli altri. La stregoneria è praticata piu dai congos che dai lucumi. I lucumi sono piu legati ai santi e a Dio. A loro piaceva alzarsi presto, con la forza del mattino, e guardare il cielo e recitare orazioni e spargere acqua al suolo. Quando uno meno se lo immaginava, il lucumi era raccolto in preghiera. Ho visto vecchi negri inchinati al suolo per piu di tre ore a parlare nella loro lingua e a predire. La differenza tra il congo e il lucumi è che il congo risolve e il lucumi predice. Sanno tutto dai diloggunes, che sono conchiglie africane con il mistero dentro. Sono bianche e grosse. Gli occhi di Eleggud sono fatti con queste conchiglie. I vecchi lucumi si chiudevano nelle stanze delle baracche con qualcuno e lo liberavano perfino dal male che faceva. Se e' era un negro preso dalla lussuria per una donna, il lucumi Io calmava. Credo che lo facessero con il cocco, obi, che era sacro. E uguale al cocco di adesso che continua a essere sacro e non si può toccare. Se uno sporcava il cocco, gli capitava una grande disgrazia. Sapevo che le cose andavano bene perché il cocco lo diceva. Comandava che dicessero Alafia perché la gente sapesse che non succedeva niente di tragico. Attraverso il cocco parlavano tutti i santi. Allora il loro padrone era Obatald. Obatald era un vecchio, almeno cosi dicevano, sempre vestito di bianco. Dicevano che Obatald aveva creato l'uomo e non so quante altre cose. L'uomo viene dalla Natura come lo stesso
Obatald.
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Ai vecchi lucumi piaceva avere le loro figure di legno, i loro dèi. Le tenevano nelle baracche. Avevano tutte la testa grande. Erano chiamate oché. Eleggud lo facevano di cemento, ma Chang6 e Yemayd erano di legno e li facevano gli stessi falegnami. Sulle pareti delle stanze c'erano simboli di santi, fatti con carbone vegetale e gesso. Erano lunghe righe e circoli. Benché ognuno rappresentasse un santo, dicevano che erano segreti. Questi negri tenevano tutto segreto. Oggi sono molto cambiati; ma prima la cosa piu difficile era conquistarsi la fiducia di uno di loro. L'altra religione era quella cattolica. La portarono i preti, che però non entravano nelle baracche degli schiavi per nulla al mondo. I preti erano molto puliti. Avevano un aspetto serio che non andava d'accordo con le baracche. Erano tanto seri che c'erano negri che li seguivano ciecamente. Parteggiavano per loro addirittura in malo modo. Imparavano il catechismo e lo leggevano agli altri. Con tutte le parole e le preghiere. Questi negri erano schiavi domestici e si riunivano con gli altri schiavi, quelli dei campi, nelle aie. Venivano come messaggeri dei preti. La verità è che io non ho mai imparato questa dottrina perché non ne capivo niente. Credo che non la capissero nemmeno i domestici, anche se - cosi fini e ben trattati - si facevano cristiani. I domestici non erano disprezzati dai padroni. Non ho mai visto che li castigassero duramente. Quando li mandavano nei campi a sarchiare la canna o a guardare i porci, facevano finta di essere malati e non lavoravano. Per questo gli schiavi dei campi non li volevano vedere neanche dipinti. Qualche volta andavano nelle baracche a trovare qualche familiare. E si portavano via frutta e tuberi per la casa del padrone. Non so se gli schiavi glieli regalassero o se loro se li prendessero da sé. Molte risse nelle baracche furono provocate da loro. Gli uomini arrivavano e volevano scherzare con le donne. Di qui nascevano i piu grossi motivi di tensione. Avevo circa dodici anni e mi rendevo conto di tutta questa storia.
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Ma c'erano anche altri motivi di tensione. Per esempio, tra il conga giudeo e quello cristiano non c'era accordo. Uno era il buono e l'altro il cattivo, come succede ancora oggi a Cuba. Neppure il lucumf e il conga andavano d'accordo. Li .dividevano i santi e la stregoneria. Gli unici che non avevano problemi erano i vecchi africani. Erano speciali e bisognava trattarli con rispetto perché sapevano tutto della religione. Molte liti potevano essere evitate perché i padroni si scambiavano gli schiavi. Cercavano di dividerli perché i fuggitivi non si coalizzassero. Per questo i gruppi delle varie piantagioni non si riunivano mai. Ai lucumf non piaceva il lavoro della canna e molti fuggivano. Erano i piu ribelli e spavaldi. I congos no. Erano molto piu vigliacchi, resistenti nel lavoro, e perciò lavoravano duro senza lamentarsi. C'è una specie di ratto abbastanza diffuso chiamato conga: è molto paurosa. Nelle piantagioni c'erano negri di diverse nazionalità. Ognuna aveva le proprie caratteristiche. I congos erano molto scuri, benché ci fossero anche molti meticci. Di solito erano piccoli. I mandingas avevano la pelle brunastra. Erano alti e molto forti. Giuro su mia madre che erano di cattiva razza e criminali. Andavano sempre per i fatti loro. I gangas erano buoni. Piccoletti e lentigginosi. Molti di loro furono cimarrones sui monti. I carabalfs erano come i congos musungos, belve. Ammazzavano maiali soltanto la domenica e i giorni di Pasqua. Erano molto trafficoni. Al punto che ammazzavano i porci per venderseli e non li mangiavano. Per questo hanno fatto per loro una canzone che diceva: « Carabali con la sua mania ammazza il porco di domenica». Tutti questi negri bozales li ho conosciuti meglio dopo la schiavitu.
In tutte le piantagioni, vicino alle baracche, c'era un'infermeria. Era una casa grande, di legno, dove por-
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tavano le donne gravide. Li uno nasceva e ci restava fino ai sei o sette anni, quando andava a vivere nelle baracche come tutti gli altri e a lavorare. Mi ricordo che c'erano negre balie e cuoche che curavano i piccoli e davano loro da mangiare. Quando uno si feriva nei campi o si ammalava, queste negre facevano da dottore: sistemavano tutto con erbe e decotti. Non esistevano altre cure. Qualche volta i piccoli non vedevano piu i loro genitori perché il padrone era il p~drone e li poteva mandare in un'altra piantagione. Allora sf che le balie dovevano pensare a tutto. Chi si sarebbe occupato di un figlio che non era suo! Nella stessa infermeria si lavavano e si tosavano i bambini. I bambini di razza costavano circa cinquecento pesos. Erano di razza perché erano figli di negri grandi e grossi. Erano negri privilegiati: i padroni li cercavano per accoppiarli con negre grandi e sane. Dopo averli messi insieme in una stanza appartata dellà baracca, li obbligavano a congiungersi e la negra doveva partorire ogni anno. Io dico che era come tenere animali. E poi, se la negra non partoriva secondo il loro capriccio, la allontanavanq e la mettevano di nuovo a lavorare nei campi. Le negre che non erano feconde erano perdute perché dovevano tornare a spaccarsi la schiena. Allora potevano fare l'amore liberamente. C'erano casi in cui una donna correva dietro a un uomo e ne aveva venti che correvano dietro a lei. Gli stregoni cercavano di risolvere questi problemi con fatture potentissime. Se un uomo andava a chiedere una donna a un qualsiasi stregone, lo stregone gli ordinava - se la donna fumava - di prendere un mozzicone del suo sigaro. Con questo mozzicone e una mosca cantaride, di quelle verdi e nocive, si faceva - macinandoli - una polvere che si dava da bere con l'acqua alla donna. Cosi'. le conquistavano. Un'altra fattura si faceva prendendo il cuore dello scricciolo e tritandolo. Lo si dava alla donna nel sigaro. Per prenderle in giro, non c'era di meglio che com-
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prare gramignola in farmacia. Con la gramignola tutte le donne morivano di vergogna perché gli uomini la mettevano in un posto dove fossero costrette a sedersi e non appena la sfioravano con il culo cominciavano a mollare scoregge! Bisognava vedere quelle donne che, con la faccia tutta truccata, scoreggiavano ! I negri vecchi passavano il tempo con tutte queste storie. Quando avevano passato i sessant'anni non lavoravano piu nei campi. A dire il vero, essi non sapevano mai la loro età, però se un negro si stancava e si isolava, i caposquadra dicevano che era pronto per fare il guardiano. Allora lo mettevano alla porta delle baracche o dei porcili con tanti porcellini. Oppure aiutavano le donne in cucina. Alcuni avevano il loro orto e passavano il tempo a seminare. Cosi andavano sempre in giro e non avevano tempo per le stregonerie. Non li castigavano né davano loro troppa importanza. Però dovevano essere tranquilli e obbedienti. Questo sf. Ho visto molti castighi orribili, in schiavitu. Perciò non mi piaceva questa vita. Nel capannone delle caldaie c'era il ceppo, che era il piu crudele. C'erano ceppi a terra e dritti. Erano fatti di grandi tavole con buchi in cui lo schiavo era costretto a mettere i piedi, le mani e la testa. A ogni mancanza, sia pur minima, li tenevano imprigionati cosi anche per due o tre mesi. Frustavano anche le donne incinte, ma distese bocconi, con un buco in terra perché ci mettessero la pancia'. Davano loro talmente tante frustate! Allora si preoccupavano di non rovinare il bambino, perché loro ne volevano a bizzeffe! Il piu comune dei castighi era lo staffile. Lo dava lo stesso caposquadra con una frusta di vacca che segnava la pelle. Lo scudiscio era fatto an-
'James Steele, nel suo Cuban Sketches, descrive casi di negre gravide· condannate a essere frustate sul ventre. Bertrand Chateausalins, parlando delle donne schiave, dice che molte perdevano le loro creature perché, nel nono mese di gestazione, erano obbligate a tagliare piu di 40 quintali di canna al giorno.
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che di giunchi d'albero. Bruciava come il diavolo e strappava la pelle a strisce. Ho visto molti negri spavaldi con le spalle rosse. Dopo, gli passavano sulle piaghe compresse di foglie di tabacco con orina e sale. La vita era dura e il corpo si rovinava. A chi non scappava giovane sui monti, a fare il cimarr6n, non restava che essere schiavo. Era preferibile restare solo, disperso, che nel porcile con tutto lo schifo e il marciume. Comunque, la vita era solitaria, perché le donne scarseggiavano6. E, per averne una, bisognava aver compiuto i venticinque anni o prendersela nei campi. Anche i vecchi non volevano che i ragazzi si facessero la donna. Dicevano che solo a venticinque anni potevano fare esperienze. Molti non ne soffrivano perché erano ormai abituati a questa vita. Altri facevano l'amore tra loro e non volevano saperne di donne. Questa era la loro vita: la sodomia. Lavavano la roba e, se avevano «marito», cucinavano anche per lui. Erano buoni lavoratori e si occupavano di seminare gli orti. Davano i frutti ai loro «mariti» perché li vendessero ai contadini. Fu dopo la schiavitu che si cominciò a usare la parola effeminato perché questo fatto continuò. Secondo me, non venne dall'Africa: ai vecchi non piaceva per nulla. I sodomiti, li trattavano con distacco. A me, per essere sincero, non me ne è mai importato niente. Io penso che ognuno può fare della sua vita ciò che gli pare. ' MANUEL MÒRENO FRAGINALs, El ingenio. El complejo economico socia! cubano del azucar cit., p. 156: « ... La vita sessuale, nelle piantagioni, era limitata per molte ragioni e, in primo luogo, per il profondo squilibrio esi-
stente tra i due sessi. I padroni importavano esclusivamente uomini ed erano pochissime le aziende che tenevano negre. Nella logica economica del grande proprietario degli inizi del XIX secolo, comprare negre non aveva senso perché si riteneva che esse rendessero poco. Introdurne in gran quantità nella piantagione era economicamente dannoso, dato che il prodotto non rispondeva all'investimento. Portarle a piccoli gruppi significava suscitare tra i maschi continui conflitti. Alcuni proprietari cercarono una scusa di carattere religioso per giustificare questo squilibrio e sostennero che non importavano negre per evitare il peccato di contatto sessuale tra persone non sposate. A questo argomento rispose nel modo piu esatto padre Caballero: "Sarebbe un peccato piu grave se fossero tutti masturbatori e sodomiti!"»
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Chiunque si stancava di vivere. Chi si abituava, era fiaccato nello spirito. La vita sui monti era piu salubre. Nelle baracche si prendevano molte malattie. Si può dire, senza esagerare, che quello era il posto dove gli uomini si ammalavano di piu. Capitava anche che un negro avesse tre malattie alla volta. Quando non era la colica era la tosse canina. La colica provocava un dolore ali' ombelico che durava appena qualche ora ma che lasciava mezzi morti. La tosse canina e il morbillo erano contagiosi. Ma i mali peggiori, quelli che stroncavano chiunque, erano il vaiolo e la febbre gialla. Il vaiolo riduceva gli uomini come palloni e la febbre gialla prendeva di sorpresa perché veniva d'improvviso e tra un vomito e l'altro si restava secchi. C'era un tipo di malattia che prendevano i bianchi. Era una malattia nelle vene e nelle parti maschili. Passava andando con le negre. Chi la prendeva andava con una negra e gli passava. Cosi si curavano. A quei tempi non c'erano molte medicine. I medici non si vedevano da nessuna parte. C'erano infermiere mezze streghe che curavano con rimedi casalinghi. A volte riuscivano a curare malattie che i medici non capivano. Perché il problema non consiste nel palpare uno o punzecchiargli la lingua: ciò che conta è avere dimestichezza con le erbe, che sono la madre della medicina. L'africano di laggiu, dall'altra parte del mare, non si ammala mai perché conosce le erbe a menadito. Se qualche schiavo prendeva una malattia contagiosa, lo portavano via dalla stanza e lo trasportavano in infermeria dove cercavano di curarlo. Se lo schiavo cominciava a boccheggiare, lo mettevano in una grande cassa e lo portavano al cimitero. Quasi sempre veniva il caposquadra e spiegava che bisognava sotterrarlo. Diceva: «Andiamo a sotterrare questo negro che ormai è finito». E gli schiavi ci andavano subito-Perché, questa è la verità, quando qualcuno moriva tuttichinavano il capo. Il cimitero era nella piantagione stessa, a pqchi pas-
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si dalle baracche. Per seppellire gli schiavi si faceva una fossa, la si copriva e le si metteva sopra una croce legata con fil di ferro. Serviva ad allontanare i nemici e il diavolo. Oggi la chiamano crocefisso. Chi si mette una croce al collo, è perché gli hanno fatto qualche fattura. Una volta sotterrarono un negro e quello alzò la testa. Il fatto è che era vivo. Questa storia me l'hanno raccontata a Santo Domingo,,dopo la schiavitu. Tutto il quartiere di Jicotea lo sa. E successo in un piccolo zuccherificio che si chiamava Diamante ed era del padre di Marinello7 , quello che parla molto di MartL Qui sotterrarono un conga che si alzò gridando. La gente si spaventò e scappò. Qualche giorno dopo, il conga apparve nella baracca; dicono che sia entrato piano piano per non spaventare nessuno. Ma quando la gente lo vide, si spaventò di nuovo. Allora il guardiano gli chiese che cosa gli fosse successo ed egli rispose: «Mi hanno messo nella fossa per il colera e quando sono guarito ne sono uscito». Da allora, quando qualcuno prendeva questa malattia o un'altra, lo lasciavano giorni e giorni nella cassa, finché diventava come il ghiaccio. Queste storie non sono inventate; ciò che io invece credo sia proprio una balla, perché non l'ho mai visto, è che i negri si suicidassero. Prima, quando gli indios erano a Cuba, allora si che esisteva il suicidio. Essi non volevano essere cristiani e si impiccavano agli alberi. Ma i negri non lo facevano, perché se ne andavano volando, volando per il cielo, verso la loro terra. I congos musungos erano quelli che volavano di piu: le stregonerie li facevano sparire. Facevano come le streghe delle Canarie, ma senza rumore. C'è chi dice che i negri si buttavano nei fiumi, ma è falso. La verità è che si legavano in vita un amuleto pieno di poteri magici. Qui stava la forza. Conosco questa faccenda benissimo e so che è vera. 7 Juan Marinella. Scrittore cubano distintosi per la saggistica e famoso perhuQi libri su Mard.
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I cinesi non volavano, né volevano tornare alla loro terra. Loro si che si ammazzavano. Lo facevano in silenzio. Qualche tempo dopo, apparivano impiccati a un albero o buttati per terra. Facevano tutto in silenzio. Ammazzavano i loro guardiani a bastonate o a pugnalate. I cinesi non credevano in niente. Erano ribelli di natura. Molte volte il padrone sceglieva un caposquadra della loro razza perché si guadagnasse la loro fiducia. Quello non lo ammazzavano. Quando fini la schiavitu conobbi altri cinesi a Sagua la Grande, ma erano diversi e molto raffinati.
La vita da cimarr6n
Non ho mai dimenticato la prima volta che ho tentato di scappare. Quella volta m'è andata male. E sono stato per molti anni schiavo, per paura che tornassero a mettermi i ceppi. Però in me c'era uno spirito da cimarr6n che non s'è mai fiaccato. Non dicevo niente perché nessuno mi potesse tradire; perché stavo sempre pensando a questa cosa che mi frullava in testa e non mi lasciava mai tranquillo: era come un'idea che non se ne andava mai e che a volte mi mortificava. Ai vecchi negri non piaceva l'idea di fuggire. Alle donne ancora meno. Ribelli, ce n'erano pochi. La gente aveva molta paura dei monti. Dicevano che se uno scappava, lo prendevano comunque. Ma io ci pensavo pia degli altri. Mi immaginavo sempre che i monti mi sarebbero piaciuti. Sapevo che lavorare i campi era come l'inferno. Non si poteva fare nulla per sé. Tutto dipendeva dalle parole del padrone. Un giorno mi sono messo a osservare il caposquadra. Già una volta gliel'aveva fatta. Quel cane mi aveva messo gli occhi addosso e non mi mollava mai. Credo che fosse spagnolo. Mi ricordo che era alto e non si levava mai il cappello. Tutti i negri lo temevano perché con una scudisciata toglieva la pelle. Proprio quel giorno io ero incazzato e non so cosa mi sia successo, ma avevo una rabbia che solo a guardarlo, scoppiavo. Gli fischiai di lontano: egli guardò e si girò di spalle; allora presi una pietra e gliela tirai in testa. So di averlo colpito perché si è messo a urlare di corrermi
LA SClllAVITU
dietro. Ma non mi ha piu visto nemmeno dipinto, perché quel giorno sono scappato sui monti. Ho camminato molti giorni senza direzione. Ero come perso. Non ero mai uscito dalla piantagione. Ho camminato avanti, indietro, da tutte le parti. So di essere arrivato a un podere vicino alla Siguanea, dove non mi restò altro da fare che fermarmi. Avevo i piedi coperti di piaghe e le mani ferite. Mi sono accampato sotto un albero. In poche ore mi sono fatto una capanna di foglie di erba di Guinea. Li mi sono fermato solo quattro o cinque giorni. Appena ho sentito la prima voce umana avvicinarsi, sono scappato come un pazzo. Sarebbe stato idiota che uno, dopo essere scappato, si fosse fatto prendere. Per un po' di tempo decisi di nascondermi in una grotta'. Ho vissuto li per un anno e mezzo. Mi ci sono fermato pensando che cosf avrei dovuto camminare meno e perché i porci delle proprietà, degli orti e dei casali vicini andavano a una specie di stagno, posto all'uscita della grotta. Andavano a bagnarsi e a sguazzare nel panta1 ANTONIO NUNEZ ]IMÉNEZ, La gesta libertadora, in «Revista Inra», anno n, n. 8, pp. 22-25: «Gli oppressi, sempre in svantaggio iniziale, nelle lotte hanno piegato la natura a loro favore. Le aspre serre, i folti boschi e le grotte oscure sono sempre stati alleati di chi lottava contro l'oppressione. Molte volte gli schiavi, fuggiti nei monti, hanno vissuto nascosti tra le rocce o protetti dalla spessa vegetazione del bosco. I cimarrones fuggiaschi, che obbedivano a impulsi individuali di libertà, si trasformarono presto in gruppi organizzati per resistere ai padroni: cosi nacquero i palenques, formati da gruppi di negri che a volte vivevano su scoscesi monti, altri in grotte nascoste».
«Negli Atti della Reale Società Patriottica del!' Avana, pubblicati nel 839, nell'articolo che si riferisce alle grotte di Cubitas, nel Camagiiey, leggiamo: "Tra le molte stranezze degne di ammirazione di cui la natura fu prodiga con Cubitas, va segnalata la grotta grande o dei negri cimarrones. La grotta grande si trova a mezza lega dal nord deJ quartiere di La Estrada, alla destra della strada che porta a La Guanaja. E sotto la collina di Toabaquei, e sotto il livello del terreno. Vi si entra da una bocca simile a quella dei forni da pane e si discende all'interno attraverso una grossa radice dell'albero di ;aguey ... Un tempo questa grotta serviva da rifugio per i negri cimarrones, ma poi questi la abbandonarono. Per fargliela abbandonare si presero molti rami secchi e peperoncino rosso e li si bruciarono all' entrata, in modo che facessero molto fumo. Bastò perché quelli, vedendo che stavano per morire soffocati, uscissero e si arrendessero"». I
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no. Li notavo molto facilmente perché si muovevano a branchi. Tutte le settimane prendevo un porco. La grotta era molto grande e scura come la bocca di un lupo. Si chiamava Guajaban e stava vicino al villaggio di Remedios. Era pericolosa perché non aveva uscita. Bisognava entrare e uscire dalla stessa parte. Ho avuto per tanto tempo la curiosità di scoprire l'uscita. Però ho preferito restare vicino all'entrata, con le bisce. Le bisce sono bestie molto pericolose. Si trovano nelle grotte e sui monti. Ipnotizzano le persone con il fiato, fiato di biscia che non si sente, e le addormentano per succhiargli il sangue. Per questo accendevo moccoli di continuo, per spaventarle. Chi si addormentava in una grotta, era conciato per le feste. Non volevo vedere una biscia neanche da lontano. I congos, e questo è sicuro, mi dicevano che le bisce vivevano piu di mille anni e quando arrivavano ai mille, si trasformavano in serpenti e andavano a vivere in mare, come i pesci. All'interno, la grotta era come una casa. Naturalmente un po' piu scura. Ah! e c'era merda, sf, puzza di merda di pipistrello. La pestavo, cosf diventava un materasso dei piu morbidi. I pipistrelli vivevano liberamente nelle grotte. Ne erano e ne sono i padroni. In tutto il mondo è cosf. Siccome nessuno li ammazza, vivono un sacco di anni. Non tanto come le bisce, naturalmente. Il loro sterco serve poi da concime. Si trasforma in polvere e si getta per terra per nutrire gli animali e per le colture. Una volta per poco non mi ha bruciato, quella roba. Ho acceso il fuoco e si è propagato per tutta la grotta: per colpa di quella porcheria. Dopo la schiavitu ho raccontato questa storia a un conga. Gli ho raccontato che avevo vissuto con i pipistrelli e lui, molto bugiardo - a volte sono piu rompicoglioni di quanto si creda - mi ha detto: «Tu, ragazzo, non sai niente. Nella mia terra quello che tu chiami pipistrello è grande come un colombo». Io sapevo che questa era.una balla. Con queste storie hanno imbrogliato mezzo mondo. Però l'ho ascoltata e mi sono divertito dentro di me.
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La grotta era silenziosa. L'unico rumore continuo era quello dei pipistrelli, che facevano: «Ciui, dui, ciui». Non sapevano cantare, ma si parlavano l'un l'altro e si capivano. Vedevo che uno di loro diceva: « Ciui, ciui, ciui», e la banda andava dove lui si dirigeva. Erano molto uniti. I pipistrelli non hanno ali. Non sono altro che una tela con una testina nera, nerissima e se uno guarda bene vede che sembrano topi. Nella grotta io ero, come si dice, in villeggiatura. Ciò che mi piaceva erano i monti, e allo scadere dell'anno e mezzo, la feci finita con quell'oscurità. Mi diedi al vagabondaggio. Sono andato sui monti della Siguanea un'altra volta e vi ho passato molto tempo. Badavo a me stesso. Non volevo tornare a essere schiavo. Era una cosa che mi ripugnava. Sono sempre stato di quest'idea. La schiavitu era una sciagura e lo penso anche ora. Stavo attento a tutti i rumori. E alle luci. Se lasciavo tracce, mi seguivano e mi prendevano. Sono sceso e salito tante volte per le colline che braccia e gambe mi sono diventate dure come pali. Poco a poco ho cominciato a conoscere il monte. E mi piaceva. A volte dimenticavo di essere cimarr6n e mi mettevo a fischiare. Fischiavo per scacciare la paura dei primi tempi. Dicono che quando si fischia si scacciano gli spiriti maligni. Però sui monti, e da cimarr6n, bisognava stare attenti. Io non ho piu fischiato, perché potevano venire i contadini o i ranchadores. Siccome il cimarr6n era uno schiavo fuggiasco, i padroni gli sguinzagliavano dietro quattro ranchadores: contadini brutali, con cani da caccia, perché lo stanassero a morsi dai monti. Io non ho mai incontrato nessuno, né ho mai visto uno di questi cani da caccia. Erano cani ammaestrati per acchiappare i negri. Il cane che vedeva un negro gli correva dietro. Se per caso sentivo latrare nelle vicinanze, mi spogliavo perché, cosf nudo, il cane non potesse fiutare niente. Adesso posso vedere un cane senza provare nulla, ma se l'avessi visto allora, sarei scappato come il vento. I cani non mi sono mai piaciuti. Secondo me, hanno istinti malvagi.
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Quando un ranchador prendeva un negro, il padrone o il sovrintendente gli dava un'oncia d'oro e anche pia. Un'oncia a quei tempi era come diciassette pesos. Non si può immaginare quanti contadini si mettevano in quell'affare. La verità è che io vivevo bene da cimarr6n; molto nascosto, però comodo. Non mi lasciavo vedere nemmeno dagli altri fuggiaschi: « Cimarr6n con cimarr6n vende cimarr6n ». Rinunciavo a molte cose. Per molto tempo non ho scambiato una parola con nessuno. A me piaceva questa tranquillità. C'erano altri fuggiaschi che andavano sempre a due o a tre. Ma era un pericolo, perché quando pioveva, le tracce dei piedi restavano nel fango: cosf presero molti gruppetti di stupidi. C'erano dei negri liberi. Li vedevo salire sui monti in cerca di erbe e scoiattoli, ma non li chiamavo mai, né mi avvicinavo a loro. Al contrario, quando vedevo uno di questi negri, mi nascondevo di piu. Alcuni lavoravano nei poderi e quando se ne andavano ne approfittavo per prendermi i tuberi e i porci. Quasi sempre tenevano porci nei poderi. Però rubavo meglio nei casali, perché c'era piu abbondanza. Era piu facile. I casali erano piu grandi dei poderi, molto piu grandi. Erano come fattorie. I negri non avevano questi lussi. I contadini sf, vivevano comodi: in case fatte di palme o di palme reali. Da lontano li vedevo suonare e a volte riuscivo anche a sentirli. Suonavano piccole fisarmoniche, chitarre, bandurrias, timpani, guayos, maracas, guiros de sujey o amargos. Si faceva musica soprattutto con questi strumenti. Solo dopo aver lasciato il monte, ho imparato questi nomi, perché da cimarr6n non sapevo niente. A loro piaceva ballare, ma non ballavano la musica dei negri. Preferivano lo zapateo e la caringa. Nello zapateo si riunivano tutti i contadini di sera, verso le cinque. Gli uomini si mettevano fazzoletti al collo e le donne in testa. Se un contadino eccelleva nel ballo, la donna gli metteva un cappello sopra il suo. Era un pre-
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mio. Io guardavo, con cautela, e me lo imprimevo bene in mente. Ho visto anche gli organetti. Li dentro c'erano tutti gli strumenti. Facevano molto rumore, ma era bello. A volte un contadino suonava un guiro per accompagnare l'organetto. Gli organetti suonavano una musica di quegli anni: il danz6n. La domenica i contadini si vestivano di bianco. Le donne si mettevano fiori in testa e si scioglievano i capelli. Allora andavano in città e li, nelle bettole, facevano festa. Agli uomini piaceva la tela grossa e quella di lino crudo. Si facevano camicie lunghe, simili alle guayaberas, con tasche verticali. I contadini di quegli anni vivevano meglio di quanto pensi ora la gente. Ogni giorno ricevevano la mancia dai padroni. Tra loro si che simpatizzavano e facevano i loro traffici! Io ritengo che il cimarr6n vivesse meglio dei contadini .. Aveva piu libertà. Per trovare da mangiare c'era da faticare molto, ma non mancava niente: «la tartaruga prudente si porta dietro la casa». Piu di tutto mi piacevano i tuberi e la carne di porco. Credo che sia stato questo a farmi durare tanto: la carne di porco. La mangiavo ogni giorno e non mi ha mai fatto male. Per prendere porcellini, mi avvicinavo ai casali di notte, facendo in modo che nessuno mi sentisse. Prendevo per il collo il primo che mi capitava e con una corda ben tirata, me lo issavo in spalla e mi mettevo a correre serrandogli il grugno. Quando trovavo un posto dove accamparmi me lo mettevo a fianco e cominciavo a guardarlo. Se era ben allevato e pesava sulle venti libbre avevo cibo assicurato per quindici giorni. Da cimarr6n ero diventato quasi selvaggio. Cacciavo animali, anche gli scoiattoli. Lo scoiattolo è molto veloce e per prenderlo bisognava aver le ali ai piedi. Mi piaceva molto lo scoiattolo affumicato. Adesso non so che cosa pensi la gente di questo animale, che nessuno mangia. Prima, io prendevo uno scoiattolo, lo affumicavo senza sale e mi durava mesi. Lo scoiattolo è il cibo piu sano che ci sia, benché la cosa migliore per le os-
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sa siano i tuberi. Chi mangia i tuberi tutti i giorni, soprattutto malanga, non ha problemi alle ossa. In montagna ci sono molti tuberi selvatici. La malanga ha una foglia grande, che di notte si mette a brillare. Si riconosce subito. Tutte le foglie del monte hanno una loro utilità. La foglia di tabacco e la «erba mora» servono per le punture. Quando vedevo che la puntura di qualche insetto mi si infiammava, prendevo una foglia di tabacco e la masticavo bene. Poi la mettevo sulla puntura e l'infiammazione spariva. Molte volte quando avevo freddo mi entrava un dolore nelle ossa. Era un dolore secco che non mi lasciava. Per calmarlo preparavo un decotto di foglie di rosmarino e il dolore mi passava subito. Il freddo mi provocava anche una tosse fortissima. Catarro con tosse, era ciò che avevo dentro. Allora prendevo una foglia grande e me la mettevo sul petto. Non ho mai saputo il nome di questa foglia, ma emetteva un liquido biancastro caldo, che mi calmava la tosse. Quando prendevo molto freddo, mi lacrimavano gli occhi e mi veniva un bruciore fottuto. Lo stesso succedeva con il sole; allora mettevo delle foglie di itamorreal alla rugiada della notte e il giorno dopo mi ci pulivo gli occhi. L' itamorreal è la cosa migliore che ci sia per questo. Oggi lo vendono nelle farmacie, l'itamorreal. Ma lo mettono in boccette e sembra un'altra cosa. Via via che uno invecchia, questa faccenda degli occhi passa. Sono già molti anni che non soffro di questi bruciori. La foglia di macagua mi serviva per fumare. Con questa facevo sigari ben arrotolati e stretti. Il sigaro era uno dei miei passatempi. Dopo essere sceso dai monti, non ho piu fumato sigari, ma da cimarr6n fumavo a tutte le ore. E bevevo caffè. Il caffè lo facevo con guanina schiacciata. Dovevo schiacciare la foglia con la pancia di una bottiglia. Quando la foglia era ben spappolata, la filtravo e diventava caffè. Potevo sempre usare un po' di miele d'api per dargli sapore. Con il miele d'api il caffè
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rafforzava l'organismo. Sui monti, uno è sempre forte. La debolezza viene a stare nei villaggi, perché la gente con il burro diventa matta. A me non è mai piaciuto perché indebolisce. Chi mangia molto burro diventa grasso e mezzo scemo. Il burro fa male alla circolazione e paralizza la gente. Uno dei migliori rimedi per la salute è il miele d'api. Sui monti lo si trova facilmente. Lo si trova dappertutto. Io lo trovavo abbondante negli alberi dei monti, nelle canne vuote e nei gudsimas. Il miele mi serviva per la canchanchara, che era un'acqua saporitissima. Si faceva con acqua di ruscello e miele. Era piu buona fresca. Quest'acqua era piu salutare di qualsiasi medicina di oggi: era un'acqua naturale. Quando non c'era un ruscello vicino, andavo nell'interno e mi mettevo a cercare una sorgente. Sui monti ci sono moltissime sorgenti. Scorrevano dall'alto in basso e portavano l'acqua piu fresca e piu chiara che io abbia mai visto in vita mia. La verità è che a me non è mai mancato nulla. L'unica cosa che non potevo avere era il sesso. Siccome non c'erano donne, dovevo restare a bocca asciutta. Né si poteva fare con le cavalle, perché nitrivano che sembravano diavoli. E quando i contadini sentivano questo baccano, venivano subito e io non ci stavo a farmi mettere i ceppi per una cavalla. Non mi è mai mancata la luce. I primi giorni avevo fiammiferi, poi li ho consumati e ho dovuto mettere mano all'esca. L'esca era una cenere nera che conservavo in un barattolo di latta, che vendevano gli spagnoli nelle bettole. Fare fuoco era facile. Non c'era che da strisciare sul barattolo con una pietra finché usciva la scintilla. L'ho imparato da quelli delle Canarie quando ero schiavo. Quelli delle Canarie non mi sono mai piaciuti; erano molto prepotenti e molto meschini. Gli spagnoli erano migliori e fraternizzavano di piu con i negri. Siccome mi è sempre piaciuto non ricevere ordini da nessuno, mi isolavo da loro. Da tutti. Anche dalle
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bestie. Perché le bisce non si avvicinassero, accendevo un grosso ramo e lo lasciavo cosI tutta la notte. Le bisce non si avvicinavano perché credevano che il fuoco fosse il diavolo o un loro nemico. Perciò dico che mi trovavo bene da cimarr6n. U mi governavo da solo e mi difendevo da solo. Usavo coltelli e machetes piu piccoli, o Collin, come quelli della guardia rurale. Queste armi mi servivano per farmi strada sui monti e per dare la caccia agli animali. Le tenevo pronte nel caso mi sorprendesse qualche ranchador. Ma questo era difficile, perché passavo il tempo camminando. Camminavo tanto sotto il sole che la testa mi scottava e quasi quasi mi diventava rossa. Allora mi venivano dei calori terribili che mi passavano se mi stendevo o se mi mettevo erbe fresche sulla fronte e, quasi sempre, foglie di piantaggine. Il fatto è che non avevo cappello e per questo la testa mi scottava tanto. Mi immaginavo che il calore mi entrasse dentro e mi spappolasse il cervello. Quando mi passavano i calori; e a volte mi duravano giorni interi, mi buttavo nelprimo ruscello che vedevo, senza fare rumore, e ne uscivo come nuovo. L'acqua del ruscello non mi faceva male. Credo che la cosa migliore per la salute sia l'acqua del ruscello, bella fresca. Il freddo di quest'acqua fa bene perché irrigidisce. Irrobustisce le ossa. L'acqua piovana mi dava un po' di catarrq che mi passava con decotto di foglie di cua;ani e miele d'api. Per non bagnarmi mi coprivo con le palme. Piegavo le palme sopra un cavalletto fatto con quattro forcelle e facevo una capanna. Queste capanne si usarono molto dopo la schiavitu e in guerra. Somigliavano alle capanne dove si mettono gli utensili per il lavoro della campagna. Piu che altro camminavo e dormivo. A mezzogiorno o alle cinque di sera sentivo il fotuto che le donne suonavano per chiamare i mariti. Suonava: «fuuuu, fu, fu, fu, fu». La notte dormivo tranquillamente: perciò ero cosI grasso. Non pensavo a niente, mangiavo, dor-
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mivo e vigilavo. Di notte mi piaceva andare sulle colline. Le colline erano piu tranquille e piu sicure. Difficilmente vi arrivavano ranchadores e animali selvatici. Sono arrivato quasi fino a Trinidad. Dall'alto di queste colline vedevo il paese. E il mare. Piu mi avvicinavo alla costa, piu grande si faceva. Avevo sempre pensato che il mare fosse un grande fiume. Talvolta lo guardavo fisso e lui diventava di un bianco straordinario e mi si perdeva negli occhi. Il mare è un altro grande mistero della Natura. Ed è molto importante perché può prendere gli uomini, inghiottirseli e non restituirli piu. Questi sono i cosiddetti naufragi. Mi ricordo benissimo degli uccelli del monte. Questo non mi si è cancellato. Me li ricordo tutti. Ce n'erano di belli e di brutti come la fame. In principio mi facevano molta paura, ma mi sono abituato a sentirli. Ormai pensavo che mi conoscessero. Il cotunto era il piu rompiscatole. Era un uccello nero, nerissimo, che diceva: «tu, tu, tu, tu, tu, tu, ti sei mangiato·il formaggio che era qui», e lo ripeteva finché io ribattevo: «fuori!», e se ne andava. Lo sentivo con molta chiarezza. Ce n'era un altro che ribatteva a sua volta: «cu, cu, cu, cu, cu, cu», e sembrava un fantasma. II siju faceva piu chiasso. Veniva sempre di notte. Era il piu brutto del monte! Aveva le zampe bianche e gli occhi gialli. Gridava qualcosa come: «cus, cus, cuuuus». La civetta cantava triste, però era una strega. Cercava topi morti. Faceva: «ciuà, ciuà, ciuà, kuf, kuf», e se ne andava volando come una luce. Quando una civetta capitava sui mièi passi, e soprattutto quando andava e veniva, cambiavo strada, perché cosf mi stava avvisando che avevo vicino un nemico o la morte stessa. La civetta è saggia e strana. Mi ricordo che gli stregoni la rispettavano molto e lavoravano con lei, con la sunsundamba, come la chiamano in Africa. Probabilmente la civetta se ne è andata da Cuba. Non l'ho piu vista. Questi aniniali cambiano terra.
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Il passero è venuto dalla Spagna e ha fatto qui una grandissima nidiata. . E il pettirosso, che è verdognolo e ha nel petto una fascia rossa, che è uguale a quella del re di Spagna. I caposquadra dicevano che era il messaggero del re. lo so solo che il pettirosso non si poteva neanche guardare e che il negro che ammazzava uno di questi uccelli, ammazzava il re. Ho visto molti negri assaggiare la frusta per aver ammazzato pettirossi e passeri. A me piaceva questo uccello perché cantava come se saltasse e diceva: «cò, cò, cò, cò, cò, cò». La ciguapa si che era una figlia di puttana. Fischiava come un uomo. Si gelava il sangue a sentirla. Non voglio pensare a quanta noia mi hanno dato questi uccelli. Sui monti mi sono abituato a vivere con gli alberi. Hanno anch'essi i loro rumori perché le foglie nell'aria fischiano. C'è un albero grande con delle foglie bianche. Di notte sembra un uccello. Quest'albero secondo me parlava. Faceva: «uch, uch, ui, ui, ui, uch, uch». Anche gli alberi gettano le loro ombre. Le ombre non fanno male, anche se di notte uno non deve passarci sopra. lo credo che le ombre degli alberi siano come lo spirito degli uomini. Lo spirito è il riflesso dell'anima. E si vede. Ciò che gli uomini non possono vedere è l'anima. Non possiamo dire che essa abbia questo o quel colore. L'anima è una delle cose piu grandi del mondo. Ci sono i sogni per mettersi in contatto con lei. I vecchi congos dicevano che l'anima era una specie di stregoneria che uno si portava dentro. Dicevano anche che c'erano spiriti buoni e spiriti cattivi, ossia anime buone e anime cattive. E che tutti le avevano. Secondo me, c'è chi ha l'anima soltanto nel senso della stregoneria. Altri l'hanno nel senso naturale. lo preferisco questa, quella naturale, perché l'altra ha fatto un patto con il diavolo. Può succedere che l'anima abbandoni il corpo. Ciò avviene quando una persona muore o quando
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è addormentata. È allora che l'anima esce e comincia a correre nello spazio. Lo fa per riposare, perché tanta tensione, in ogni momento, è difficile da sopportare. Ci sono persone a cui non piace essere chiamate mentre dormono perché si spaventano e possono morire di colpo. Ciò succede perché l'anima nel sonno va via e lascia vuoti. lo a volte rabbrividisco di notte. Mi capitava anche sui monti. Allora mi copro bene, perché questo è il segno che Dio manda a qualcuno perché si riguardi'. Chi soffre di brividi deve pregare molto. Il cuore è molto diverso. Non abbandona mai il suo posto. Se uno si mette la mano dalla parte sinistra, si rende conto che sta battendo. Ma il giorno che si ferma, uno è spacciato. Perciò non bisogna fidarsi di lui. Ora, la cosa piu importante in questa faccenda è l'angelo. L'angelo custode. E quello che ci fa andare avanti o ci fa tornare indietro. Secondo me, l'angelo è al di sopra dell'anima e del cuore, ci è sempre accanto, ci osserva e ci guida. Non se ne va per nessuna ragione al mondo. Ho pensato molto a queste cose, ma le trovo ancora un po' oscure. Tutti questi pensieri vengono quando uno sta solo. L'uomo pensa sempre. E anche quando sogna è come se stesse pensando. Parlare di queste cose non è bene. C'è pericolo di rovinarsi. Non ci si può fidare molto della gente. Ci sono tanti che fanno mille domande per sapere bene la tua vita e poi pugnalarti alle spalle! In piu, questa storia degli spiriti non finisce mai, come i numeri. Nessuno sa come finiscono. La verità è che io non mi fido neppure dello Spirito Santo. Per questo, da cimarr6n non volevo avere a che fare con nessuno. Non facevo che ascoltare gli uccelli e gli alberi, e mangiare, ma non ho mai conosciuto nessuno. Mi ricordo che avevo barba e capelli cosf lunghi che il cibo mi si impiastrava dentro. Ero una cosa da mettere spavento. Quando scesi al villaggio, un vecchio chiamato Ta Migué mi tosò con una grande forbice. Mi di!!de una tal tosata che sembravo un cavallo di razza.
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Senza tutta quella lana, mi sentivo molto strano. Avevo un freddo tremendo. Dopo quel giorno cominciarono a ricrescermi i capelli. I negri hanno questa caratteristica. Non ho mai visto un negro calvo. Neppure uno. La calvizie la portarono a Cuba gli spagnoli. Per tutta la vita mi sono piaciuti i monti. Ma quando fini la schiavitu, smisi di fare il cimarr6n. Mi accorsi che la schiavitu era finita dalle grida della gente. Gridavano: «Siamo liberi!» Però, io non facevo una piega. Per me era una balla. Io non so ... è successo che mi sono avvicinato a uno zuccherificio senza raccattare né paioli, né barattoli, né altro e cominciai a tirare fuori la testa a poco a poco prima di farmi vedere. Fu quando era governatore Martfnez Campos2 perché gli schiavi dicevano che era stato lui a liberarli. Con tutto ciò passarono anni e a Cuba c'erano ancora schiavi. È durato molto di piu di quanto la gente creda. Quando venni giu dal monte mi misi a camminare e incontrai una vecchia con due bambini in braccio. La chiamai da lontano e quando si avvicinò le chiesi: «Mi dica; è vero che non siamo piu schiavi?» Mi rispose: «No, figlio, ora siamo liberi». Continuai ad andare per mio conto e cominciai a cercare lavoro. Molti negri volevano essermi amici. Mi chiedevano che cosa facevo da cimarr6n. Rispondevo: «Niente». Mi è sempre piaciuta l'indipendenza. Il divertimento e il casino non servono. Sono rimasto anni e anni senza parlare con nessuno. ' Arsenio Mardnez Campos. Capitano generale dell'isola di Cuba. Fu capo dell'esercito spagnolo nel r868 durante la guerra dei dieci anni. Rimase fino al 1878, anno in cui si dichiarò la fine della guerra con il Patto del Zanj6n.
L'abolizione della schiavitu
La vita negli zuccherifici
Dopo tutto questo tempo sui monti, io ero mezzo abbrutito. Non volevo lavorare in nessun posto e avevo paura che mi rinchiudessero. Sapevo benissimo che la schiavitu non era del tutto finita. Molta gente mi chiedeva che cosa facevo e voleva sapere di dove ero. Talvolta dicevo: « Sono Esteban e sono stato cimarr6n ». Altre volte dicevo che avevo lavorato nella tal piantagione e che non trovavo i miei genitori. Avrò avuto circa vent'anni. Non avevo ancora incontrato i miei genitori. Questo avvenne piu tardi. Siccome non conoscevo nessuno, vagai per mesi di villaggio in villaggio. Non feci la fame perché la gente mi dava da mangiare. Se uno diceva di non avere lavoro, c'era sempre qualcuno che gli dava qualcosa. Ma cosi non potevo andare avanti. Mi resi conto che dovevo pur lavorare, almeno per mangiare e dormire in una baracca. Quando mi decisi a tagliare canna, avevo già vagabondato parecchio. ,Tutta la zona nord di Las Vill~s, io la conosco bene. E la parte piu bella di Cuba. E Ii che ho cominciato a lavorare. La prima piantagione dove lavorai si chiamava Purio. Sono arrivato un giorno con gli stracci che avevo addosso e un cappello che avevo raccattato. Entrai e chiesi al caposquadra se aveva lavoro per me. Mi disse di si. Mi ricordo che era spagnolo, con i baffi e si chiamava Pepe. Li vi furono sovrintendenti fino a poco tempo fa. Con la differenza che non picchiavano come durante la schiavitu. Anche se erano della stes-
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sa razza: uomini crudeli e presuntuosi. In queste piantagioni, anche dopo l'abolizione continuarono a esserci le baracche. Erano le stesse di prima. Molte erano nuove perché erano in muratura. Altre, con la pioggia e le intemperie erano crollate. A Purio la baracca era solida e pareva appena costruita. Mi dissero di andare a vivere là. Quando arrivai mi ci accomodai subito. La situazione non era poi cosi brutta. Avevano tolto i catenacci alle baracche e gli stessi lavoratori avevano fatto aperture nei muri per la ventilazione. Non c'era piu la preoccupazione che qualcuno scappasse o altro. I negri erano tutti liberi. Questa era quella che loro chiamavano libertà, perché a me risulta che gli orrori continuavano. C'erano proprietari o, meglio, padroni che credevano che i negri fossero fatti per essere rinchiusi e frustati. Perciò li trattavano come prima. Secondo me, molti negri non si rendevano conto delle cose perché continuavano a dire: «Padrone, benedicimi». Non uscivano mai dalla piantagione. Io ero diverso perché non mi piaceva avere a che fare con i bianchi. Credevano di essere i padroni dell'umanità. A Purio vivevo quasi sempre solo. Potevo avere una donna solo una volta ogni tanto. Però le donne sono sempre state molto interessate e in quegli anni non c'era cristiano che potesse mantenere una negra. Ma io continuo a dire che la cosa piu grande che ci sia sono le donne. A me non è mai mancata una negra che mi dicesse: «Voglio vivere con te». I primi mesi, nella piantagione, mi sentivo strano. La cosa è durata quasi tre mesi. Mi stancavo per niente. Mi si spellavano le mani e i piedi mi si gonfiavano. Credo che fosse la canna a ridurmi cosf: la canna e il sole. Siccome ero in quello stato, di notte restavo ariposare nella baracca. Finché mi abituai. A volte mi capitava di uscire la notte. La verità è che nei villaggi c'erano balli e altri passatempi, ma il solo gioco che mi piaceva era divertirmi con le ragazze. Il lavoro stremava. Si stava ore e ore nei campi e
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sembrava che il tempo non passasse mai. Alla fine si era a pezzi. E i capi sempre a incitare. Il lavoratore che si fermava a lungo, lo cacciavano via. Cominciavo a lavorare alle sei del mattino. L'ora non mi dava fastidio perché sui monti non si riesce a dormire fino a tardi per via dei galli. Alle undici, c'era una pausa per il pranzo. Il pranzo si faceva allo spaccio dell'aia. Quasi sempre in piedi per via dell'affollamento. All'una si tornava nei campi. Era l'ora piu brutta e piu calda. Alle sei di sera finiva il lavoro. Allora prendevo, me ne andavo al ruscello, mi lavavo un po' e tornavo a mangiare qualcosa. Dovevo farlo in fretta perché la cucina non lavorava di notte. · Il cibo costava-circa sei pesos al mese. Davano una razione abbondante, ma sempre la stessa cosa: riso con fagioli neri, bianchi o fagioli piccoli e carne di cavallo secca e salata. Qualche volta uccidevano un bue vecchio. La carne bovina era buona, ma io preferivo e preferisco quella di maiale. Nutre di piu e rinforza. La cosa migliore erano i tuberi: la patata dolce, la malanga, e il iiame. Anche la farina; ma chi deve mangiare per forza farina tutti i giorni finisce che non ne può piu. Li la farina non mancava. Certi lavoratori avevano l'abitudine di andare alla direzione della piantagione per farsi dare una carta che li autorizzasse a prendere i cibi crudi e portarli nelle baracche. Cucinavano sui loro fuochi. Chi aveva una donna fissa mangiava con lei. Capitava anche a me che quando avevo una donna non andavo a cacciarmi nel caldo soffocante dello spaccio. I negri che lavoravano a Purio erano stati quasi tutti schiavi. Erano abituati alla vita delle baracche e per questo non uscivano nemmeno per mangiare. Quando arrivava l'ora del pranzo, si mettevano nelle loro stanze con le loro donne e mangiavano. Lo stesso succedeva per la cena. Di notte non uscivano. Avevano paura della gente e dicevano che si sarebbero persi. Avevano quest'idea fissa. Io non potevo pensarla cosf, perché sa-
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pevo che non mi sarei mai perso. Infatti, ogni volta che mi sono perso sui monti, ho sempre ritrovato la strada! La domenica, chi voleva poteva fare gli straordinari1. Questo significava che invece di riposarsi, andava nei campi, sarchiava, puliva o tagliava la canna. Oppure restava nello zuccherificio a pulire i canaletti o a raschiare le caldaie. Questo solo di mattina. Siccome di domenica non c'era niente di particolare da fare, i lavoratori ci andavano sempre e guadagnavano piu soldi. I soldi sono una cosa molto brutta. Chi si abitua a guadagnare molto si perde. Io guadagnavo come gli altri. Il salario era di circa ventiquattro pesos contando il mangiare. Alcuni zuccherifici pagavano venticinque pesos. C'erano sempre molte bettole per buttare via i soldi. A Purio ce n'erano due o tre. Io ci andavo a bere un sorso ogni tanto o se avevo bisogno di comperare qualcosa. A dire il vero, le bettole non erano luoghi molto consigliabili. Quasi tutti i giorni scoppiavano risse per invidia o gelosia di donne. Di notte si facevano feste. A queste feste poteva andare chi voleva. Si facevano nelle aie. C'era spazio per ballare e gli stessi negri cantavano le rumbe. La festa era di ballo e di sbornie. Io devo dire che non mi ci sono mai lasciato andare completamente. Stavo a guardare quando ne avevo voglia, altrimenti me ne restavo a riposare. Il tempo volava. Alle nove in punto bisognava mettere via i cassoni della rumba perché suonava il Silenzio, la campa'MANUEL MORENO FRAGINALS, El ingenio. El compte;o economico socia! cubano del azucar cit., p. 166: « ... Il sonno fu uno dei problemi piu gravi
della piantagione. Specialmente dove si sosteneva la tesi che i negri potessero resistere venti ore al giorno. Mettevano a lavorare di notte nei capannoni delle caldaie uomini che avevano tagliato e trasportato canna sotto il sole per dieci ore. A questi lavori extra diedero l'inoffensivo nome difaena (straordinario). In certe piantagioni si obbligavano gli schiavi a fare la faena e la controfaena. Un negro che, oltre al suo lavoro normale, faceva anche la faena e la contro/aena lavorava circa ventidue ore. In premio, lo si lasciava dormire sei ore il giorno dopo e poi tornava alla solita giornata di venti, ventidue ore».
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na piu grande, per andare a dormire. Se fosse stato per i negri, avrebbero continuato a ballare fino ali' alba. Io so bene che cosa questo significa per loro. Ancora oggi, a un ballo l'ultimo che se ne va è sempre un negro. Per quello che mi riguarda, non è che il ballo e la rumba non mi piacciano, ma io poi so come va a finire. Alla mattina la gente si alzava a pezzi. Ma continuavano come se niente fosse.
In quell'epoca, negli zuccherifici si poteva lavorare stabili o saltuari. Chi lavorava stabile era obbligato a rispettare l'orario. Si faceva il contratto per un mese. Cosi vivevano nelle baracche e non dovevano uscire dalla piantagione. A me piaceva essere stabile perché altrimenti la vita era molto agitata. Quelli che lavoravano in proprio non avevano che da presentarsi a un campo di canna e mettersi d'accordo. Potevano prendere un lotto di due o quattro besanas e ripartirselo secondo la quantità d'erba. I terreni, in quegli anni, si aggiudicavano a trenta o quaranta pesos. Il lavoro di pulitura si faceva in quindici-sedici giorni. Questi lavoratori erano molto indipendenti. Potevano riposare quando volevano, andare a prendere acqua e addirittura sdraiare le donne sull'erba e prendersele. Dopo che era passato quel tempo e il terreno era pulito, veniva il capo a riprenderlo in consegna. Se trovava qualche difetto, dovevano ripassare il campo. Ritornava il capo e, se era contento, se ne andavano con i loro soldi in giro per i paesi finché ricresceva l'erba. Se finivano presto i soldi, cercavano di andare in un'altra piantagione. Erano sempre in movimento come vagabondi. Vivevano nelle stesse baracche, ma in stanze piu piccole. Non portavano quasi mai le donne nelle stanze. Le vedevano di notte perché loro sf avevano il permesso di uscire dopo il lavoro. Per noi, stabili, la cosa era diversa. Noi non potevamo uscire di notte perché alle nove bisognava essere pronti per la campana del Silenzio. Le domeniche erano i giorni nei quali uscivo di sera e me ne restavo
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fuori abbastanza. C'erano notti che tornavo dopo le nove. Non mi succedeva niente. Mi aprivano e mi dicevano: «Forza, che arrivi tardi, idiota!» Le baracche erano un po' umide, ma nonostante questo erano piu sicure dei monti: non c'erano bisce. Tutti i lavoratori dormivano in amache. Erano molto comode e ci si poteva rannicchiare bene quando faceva freddo. Molte di queste baracche erano fatte di sacchi. L'unica cosa che dava noia nelle baracche erano le pulci. Non facevano male, ma bisognava stare tutta la notte a cacciarle con la saggina. La saggina fa fuori le pulci e le niguas. Non c'era altro da fare che spargerne un po' per terra. Secondo me, tutte queste bestie ci sono a Cuba per la vendetta degli indios. La terra cubana è stata maledetta da loro. Stanno facendo pagare i loro morti; Hatuey e tutta la sua banda. A Furio, come in tutti gli altri zuccherifici, c'erano afric~ni di tutte le nazionalità. Però prevalevano i congos. E per questo che tutta la parte settentrionale di Las Villas la chiamano la «conguerfa». Allora c'erano anche i filippini, i cinesi, quelli delle Canarie e sempre piu criollos. Tutti lavoravano nella canna: sarchiavano, zappavano, aravano. Aravano con un bue, e un narigonero, per rimuovere la terra come facevano in schiavitu. Ma i rapporti non cambiavano. I filippini avevano sempre il loro istinto criminale. Quelli delle Canarie non parlavano, per loro esisteva solo il lavoro. Erano teste di legno. Siccome io non legavo con loro, mi presero in odio. Da loro bisogna guardarsi perché sanno molto di stregoneria. Dànno addosso a chi gli capita. Credo che guadagnassero piu dei negri, anche se dicevano che tutti guadagnavano uguale. L'amministratore dello zuccherificio si occupava delle paghe e teneva i conti. Era anche lui spagnolo e vecchio. Gli amministratori erano vecchi perché per i conti bisognava avere molta esperienza. Pagava tutti i lavoratori della piantagione. Dopo che il padrone aveva rivisto i conteggi, l'amministratore ci avvisava che andassimo a riscuote-
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re. Si andava per ordine. Uno a uno, entravamo nell'ufficio o nello spaccio, a seconda. C'era chi preferiva prendere tutti i soldi in contanti. Altri, come me, preferivano che l'amministratore desse un buono viveri al gestore per fare gli acquisti in conto. Lo stesso gestore ci dava i soldi. Una metà in viveri e bevande, il resto in contanti. Cosi era meglio perché evitavamo diandare in ufficio a farci squadrare da capo a piedi. Io ho sempre preferito l'indipendenza. E poi, i bottegai erano gente simpatica: spagnoli dell'esercito in pensione. In quegli anni pagavano in moneta messicana o spagnola. Le monete messicane erano d'argento, grandi e brillanti; le chiamavano carandolesas. C'erano spiccioli da venti centesimi, da quaranta e da un peso. Mi ricordo di una moneta che era spagnola e la chiamavano Amedeo I. Chi si trovava in mano una di queste monete, non la spendeva; la conservava come ricordo, perché Amedeo I era stato re di Spagna. Erano d'argento puro, come le isabelinas, che valevano cinquanta centesimi. Le altre erano quasi tutte d'oro. C'erano scudi da due pesos, doblones, che valevano quattro pesos, centenes del valore di cinque e trenta, le once e le mezze once. A Cuba, queste sono state le monete di uso piu corrente fino all'incoronazione di Alfonso XIII. Io le imparavo a memoria perché non mi imbrogliassero. Era piu facile di adesso perché tutte avevano la faccia di un re, di una regina o uno scudo. Fu con il re Alfonso XIII che cominciarono ad arrivare pesetas e pesos d'argento. La calderilla era di rame e ce n'erano da un centesimo e da due. Arrivarono molte monete nuove, come il real fuerte. Il real fuerte valeva quindici centesimi. Se ~i conta bene, con venti real fuertes si fanno tre pesos. E un fatto sicuro, in qualsiasi modo uno conti. Vi è ancora gente che ha la mania di mettere via queste monete. Sembra che credano che l'umanità non cammini. Anche se a uno piacciono le vecchie usanze, non può passare tutta la vita a ripeterlo come un pappagallo.
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Io mi trovavo meglio prima di adesso. Avevo la gioventu. Adesso posso avere di tanto in tanto una donna, ma non è la stessa cosa. Una donna è una gran cosa. Il fatto è che quello che mi è piaciuto di piu nella vita, sono state le donne. In altri tempi, anche quando stavo a Purio, facevo cosi e di domenica andavo in giro per il villaggio. Sempre di pomeriggio, per non perdere lo straordinario della mattina. E talvolta trovavo una donna, anche senza arrivare ai villaggi. Ero molto sfacciato; attaccavo discorso con tutte le belle negre e loro si lasciavano corteggiare. Questo si, dicevo sempre la verità. Che io ero un lavoratore e mi piaceva la serietà. Uno non poteva fare il bullo con le donne come adesso. Macché! Le donne allora, valevano come gli uomini. Lavoravano molto e non amavano affatto i perdigiorno e gli sfaccendati. Se io entravo in confidenza con una donna potevo anche chiederle soldi. Allora, cercava di sapere esattamente se ne avevo bisogno o no. Se ne avevo bisogno, mi dava tutto quello che chiedevo. Se no, mi mandava a quel paese. Queste erano le donne di una volta. Quando un uomo era a corto di donne andava, di domenica, alle feste. Le feste si facevano nel villaggio piu vicino alla piantagione. Si ballava nelle strade e nei circoli. Le strade si riempivano di gente che ballava e scherzava. Io ci andavo soltanto per trovare ragazze, perché il ballo non mi è mai piaciuto. Giocavano alle carte e facevano gare a cavallo. Mettevano due pali e tra l'uno e l'altro tendevano una fune. A questa, legavano un grosso anello di ferro attraverso il quale il cavaliere doveva far passare un'asta o pua, come la chiamavano. Se ce la faceva, vinceva il premio. Quasi sempre il premio consisteva nell'andare in giro per il villaggio a cavallo e darsi arie. Per questo, anche dai villaggi vicini venivano molti cavalieri. A me piaceva andare sul terreno di gara per vedere i cavalli. Non mi piaceva invece che la gente piantasse casini su casini e risse. In queste gare i cattivi istinti venivano a galla per niente. I negri non
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ci facevano caso. Guardavano e basta, però ... quando mai un negro aveva un buon cavallo? La maggiore attrazione era il combattimento dei galli. Si faceva di domenica in tutti i villaggi. A Calabazar de Sagua, che era il villaggio piu vicino a Purio, c'era un grande recinto per galli da combattimento. Questi recinti erano tutti di legno. Li dipingevano in bianco e rosso. Facevano il tetto con grossi pezzi di cartone per tappare le fessure. I combattimenti erano all'ultimo sangue. Ma non c'era uomo a quel tempo che non andasse a vederli. Anche se pare impossibile, a quel tempo il sangue era un'attrazione e un divertimento. Serviva a spillare soldi ai colonos che allora cominciavano ad arricchirsi. Scommettevano anche i lavoratori. Il gall~ era un vizio: e lo è anche ora. Quando uno si impelagava con questi galli, doveva continuare a giocare. I vigliacchi non potevano entrare in questi pollai. Né i taccagni. Durante i combattimenti, tutti diventavano matti. Le grida erano peggio del sangue. Non si resisteva dal caldo. Ciononostante, gli uomini andavano a sfidare la sorte. Il negro e il bianco potevano entrare e giocare. Il problema era avere i soldi da puntare. E quale negro li aveva? ... ! Oltre ai galli e alla sbornia non c'era piu niente. Era meglio andarsene con una ragazza sui monti e fare l'amore. Quando arrivava il giorno di san Giovanni, che è il 24 giugno, facevano festa in molti villaggi. Per quel
giorno si preparava il meglio. A Calabazar lo celebravano e io andavo a vedere. Non c'era uomo o donna che non portasse il suo vestito migliore per andare al villaggio. I tessuti di quegli anni erano diversi da quelli di oggi. Gli uomini, in genere, vestivano camicia di tela grezza o di rigatino. Queste camicie di rigatino erano elegantissime e si abbottonavano con bottoni d'oro. Si usava anche la tela cruda di lino, l' almud, che era una tela nera come il giaietto e l'alpaca, molto brillante. Dicevano che era la piu cara. Io non l'ho mai usata. La tela di sacco grossa e grigia era di uso abbastan-
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za comune. Ci si facevano i pantaloni migliori. Io l'ho usata molto perché era robusta. Agli uomini di una volta piaceva vestire bene. Anch'io, se non avevo un vestito buono, non andavo al villaggio. E pensare che noi, cimarrones, avevamo fama di essere selvaggi. Almeno questa era l'opinione della gente. Se ci si mette a paragonare i vestiti di una volta con quelli di adesso, non ci si spiega come allora, quand'era caldo, la gente non soffocasse. Le donne poi raggiungevano il colmo. Sembravano armadi ambulanti. Secondo me, si mettevano tutto quello che trovavano. Usavano camicie, gonne, sottovesti, corsetti e, sopra, un vestito largo con fettucce e nastri colorati. Quasi tutto il vestiario era di tela di lino. Si mettevano anche la crinolina. La crinolina era una specie di imbottitura, larga come una natica. Se la legavano in vita e se la lasciavano cadere dietro, per far tremolare le natiche. Avere la crinolina era come avere carne posticcia. Certe si imbottivano il petto. Non so che traffico facessero, però sembrava vero. Io sapevo che era tutto finto, ma vedere una donna cosi dritta, eretta, era una cosa grande. Quelle che avevano pochi capelli si mettevano in testa def parrucchini. Le pettinature erano piu belle di adesso. E naturali. Si pettinavano da sole, e portavano i capelli lunghi perché era una moda venuta dalla Spagna. Dalla Spagna, perché dall'Africa niente. Non mi piacevano le donne che portavano i capelli corti; sembravano ragazzi. Questa moda dei capelli corti cominciò con i primi parrucchieri a Cuba. Prima, neanche per sogno. Nelle feste, le donne erano in primo piano. Si mostravano piu religiose di tutti gli altri. Da qui veniva la mania di vestirsi tanto. Tutto quello che portavano era buono. E lo facevano sapere. Orecchini d'oro e braccialetti, scarpe di tutti i tipi, di vitello e stivaletti con tacchi con un puntale di ferro. Le scarpe erano abbottonate. C'era un tipo di stivaletto che si chiamava polacchino. Si abbottonava da un solo lato. Gli uomini si mettevano scarpe con elastici alla caviglia. Ma solo quelli che ave-
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vano soldi. Io, per esempio, avevo solo un paio di scarpe di pelle, basse, e gli stivali. Le feste di san Giovanni erano le piu famose in questa zona. Due o tre giorni prima del 24, i bambini del villaggio cominciavano a fare i preparativi. Ornavano le case e la chiesa con foglie di palma. I piu grandi si occupavano dei balli nei circoli. Già allora c'erano circoli di negri, con taverna e una sala da ballo. Facevano pagare il biglietto d'ingresso e lo devolvevano ai fondi della società. Io talvolta andavo in questi posti, mi levavo il mio cappello di paglia ed entravo. Ma poi me ne andavo perché c'era troppa folla. Gli uomini di campagna non si abituavano a ballare in posti chiusi. Inoltre, le ragazze uscivano e quello era il momento di acchiapparle. Quando vedevo uscire una donna, mi avvicinavo e la invitavo a bere e a mangiare qualcosa. C'erano sempre banconi dove vendevano empanadas, salsicce, tamales, sidro e birra. Questi banconi ora li chiamano chioschi. La birra che vendevano era di marca T, spagnola. Costava venticinque centesimi ed era dieci volte piu forte di quella di oggi. A un buon bevitore piaceva molto perché era amara. lo me ne bevevo molte e mi sentivo contento. Anche il sidro era buonissimo e si beveva molto. Soprattutto nei battesimi. Dicono che il sidro sia acqua d'oro, consacrata. Il vino Rioja era molto popolare. Io lo conoscevo fin dalla schiavitu. Costava venticinque reales al bottiglione, cioè due pesos e cinquanta centesimi. Il bicchiere costava un medio o un real: dipendeva dalla grandezza. Questo vino faceva girare la testa a tutte le donne. Bisognava vederne una ubriaca, con una gran voglia di andare nei campi ... Benché fosse una festa religiosa - c'erano altari persino nei loggiati delle case - non mi mettevo mai apregare. Né ho visto molti uomini che pregavano. Andavano a bere e a donne. Le strade si riempivano di venditori di frittelle di mais, di empanadas dolci, di torroni, di cocco, e di succhi di frutta naturali.
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In quelle feste si usava ballare la caringa. La caringa era un ballo di bianchi; si ballava in coppia con fazzoletti in mano. Si facevano gruppi nei giardini e nelle strade. Sembrava che fossero sul palcoscenico. Saltavano moltissimo. Suonavano fisarmoniche, guiros e timpani. E cantavano: Torna y torna y torna caringa pa' la vieja palo y jeringa. Torna y torna y torna caringa pa' lo viejo palo y cachirnba:2.
Inoltre ballavano lo zapateo, che è un ballo primitivo di Cuba, e la tumbandera. Lo zapateo era allegro e variopinto. Non era un ballo indecente come quelli africani. I ballerini non si toccavano tra loro neppure di striscio. Lo si ballava nelle case, in famiglia e nei campi. Non occorreva che fosse un giorno speciale. Lo zapateo si ballava tanto il 24 giugno, quanto il giorno di san Giacomo. Per ballare lo zapateo, le donne si vestivano con tela di lino finissima e si mettevano i mazzolini di fiori in testa; fiori fini, non di campo. Si ornavano i vestiti con strisce ricamate e portavano fazzoletti rossi e bianchi. Anche gli uomini avevano fazzoletti e cappelli di paglia. Le donne si mettevano di fronte agli uomini e cominciavano a battere il tacco, con le mani sulla gonna. E gli uomini le guardavano e ridevano. E giravano intorno a loro, con le mani dietro la schiena. Talvolta la donna raccoglieva da terra il cappello dell'uomo e se lo metteva. Lo facevano per dimostrare loro simpatia. Molti uomini, vedendo questo gesto, tiravano i cappelli ed esse li andavano a raccogliere per metterseli. Alle ballerine davano regali. Questi regali erano denaro e fiori. Una volta c'erano fiori dappertutto. Oggi non se ne vedono piu come in quei giorni di festa. Io mi ricordo che tutte le case erano adorne di fiori. Le' Canzone popolare di evidente significato osceno. Ne diamo la traduzione: « Balla e balla e balla caringa I per la vecchia bastoncino e clistere. I Balla e balla e balla caringa I per il vecchio bastoncino e pipa».
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gavano i mazzetti con un filo sottile e li lasciavano pendere dai balconi delle case. Le stesse famiglie lanciavano fiori in strada a tutti i passanti. C'era una rosa, una rosa grandissima, che chiamano la rosa di Borb6n. Con il giglio era tra i fiori piu venduti. Il giglio è bianco e ha un profumo penetrante. Nella colonia spagnola si vendevano i fiori piu belli, garofani e rose. Li davano per ballare la iota. La iota era riservata agli spagnoli. Avevano portato questo ballo a Cuba e non avevano permesso a nessuno di ballarlo. Per vederlo, mi ficcavo nei portici della colonia e guardavo dentro. Il fatto è che la iota era bella per le maschere che si mettevano. E per il suono delle nacchere. Alzavano le braccia e ridevano come scemi. Cosf passavano tutta la notte. Qualche volta gli stessi spagnoli, vedendo che la gente faceva ressa alle finestre per guardare, uscivano e offrivano vino, uva e formaggio. Con la storia di fermarmi a guardare nei portoni, ho bevuto molto vino spagnolo. La tumbandera era un altro ballo popolare. Anche questo è sparito. I bianchi non la ballavano perché dicevano che era robaccia da negri. A dire la verità, a me non piaceva. La iota era piu elegante. La tumbandera somigliava alla rumba. Era molto movimentata. La ballavano un uomo e una donna. Si suonavano due piccoli tamburi simili alle tu,nbandoras. Però molto piu piccoli. E con maracas. Si poteva ballare nelle strade e nei circoli. Le feste di oggi non hanno lo splendore di quelle di una volta. Sono piu moderne o che so io ... Il fatto è che ci si divertiva molto in quegli anni. Mi divertivo anch'io che andavo solo a guardare. La gente si mascherava con vestiti di colori chiassosi. Si mettevano maschere di cartone e di tela, maschere da diavolo, da scimmia o altro. Se per qualche ragione, un uomo voleva vendicarsi di qualcuno, si travestiva da donna e quando vedeva passare il suo nemico gli dava una frustata e poi scappava. Cosf non poteva essere scoperto. Per le feste di san Giovanni si organizzavano molti giochi. Quello che ricordo meglio era il gioco delle ani-
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tre. Questo gioco era un po' criminale perché bisognava uccidere un'anitra. Quando l'anitra era morta, la prendevano per le zampe e la spalmavano di grasso. L'anitra era tutta lucida. Poi l'appendevano a una corda che legavano tra due pali piantati alle due estremità della strada. Andava piu gente a vedere questo gioco che al ballo. Dopo che avevano legato l'anitra alla corda, uscivano i cavalieri. Uscivano da una distanza di dieci metri. E cominciavano a correre. Dovevano correre forte se no non valeva e, quando arrivavano all'anitra, dovevano strapparle la testa con tutte le loro forze. A chi ci riusciva regalavano una striscia rossa e lo nominavano presidente del ballo. Come presidente riceveva altri regali speciali. Le donne gli facevano la corte. Se aveva una fidanzata, mettevano anche a lei una striscia e la nominavano presidentessa. Di notte andavano insieme a presiedere il ballo. Aprivano le danze. Gli lanciavano fiori. Alla mattina, verso le dieci, davano fuoco al Jua. Il Jua era un fantoccio di legno simile a un uomo. L'appendevano con una corda in mezzo alla strada. Questo fantoccio era il Diavolo in persona. I ragazzi gli davano fuoco e, siccome era pieno di carta, si incendiava subito. Si vedevano queste carte colorate che bruciavano nell'aria, e la testa e le braccia ... L'ho visto per molti anni perché questa usanza è continuata. Il giorno di san Giovanni tutti andavano a fare il bagno nel ruscello. Chi non lo faceva si riempiva di vermi. Se c'era qualcuno che non poteva andare al ruscello, come una vecchia o un bambino piccolissimo, lo si metteva in un mastello. Un mastello non era la stessa cosa di un ruscello, ma c'era acqua e questo era l'importante. Siccome ci si doveva buttare l'acqua addosso, ci si andava piu nudi che si poteva. lo avevo una negra che era come i gatti, con l'acqua. Cosi il giorno di san Giovanni si buttava nel ruscello tutta vestita. Siccome anche i santeros davano le loro feste nello stesso giorno, io mi tenevo libero per la notte e ci an-
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davo. Passavo per molte case, salutavo la gente e i santi e andavo a riposare. C'era l'usanza che i figliocci portassero centenes ai padrini. E qualsiasi altra cosa chiedessero. Per un negro, la cosa piu importante era il padrino o la madrina, perché erano loro che li avevano iniziati al culto. Le feste nelle casas de santo erano bellissime. Ci andavano solo i negri. Agli spagnoli non piaceva. Ma con il passare degli anni la cosa è cambiata. Oggi si vedono anche babalaos bianchi con le guance rosse. Però prima era diverso perché la santeria è una religione africana. Neppure le guardie civili spagnole, si immischiavano. Passavano e tutt'al piu chiedevano: «Che cosa succede?» E i negri rispondevano: «Siamo qua a celebrare il san Giovanni». Dicevano san Giovanni, ma era Oggun. Oggun è il dio della guerra. In quel periodo era il piu popolare, nella zona. Sta sempre in campagna e lo vestono di verde o di violetto. Oggun Arere, Oggun Oké, Oggun Aguanillé. Alle feste del santo bisognava andare con molta serietà. Se uno non ci credeva tanto, doveva fingere. Ai negri non piacevano gli intrusi. Non gli sono mai piaciuti. Per questo io stavo piu tranquillo che potevo, ascoltavo il tamburo; e, questo si, guardavo i negri e poi mangiavo. Non ho mai smesso di mangiare a una festa del santo. Quello che era sempre abbondante, era la roba da mangiare. Ce n'era di tutti i tipi. Quello che mi piaceva di piu era la farina ·amala. Questo cibo lo davano a Chang6. Si faceva con la farina di mais e acqua. Quando il mais bolliva, lo pelavano e gli toglievano la buccia. Lo gettavano nel mortaio e pesta che ti pesta finché si disfava. Dopo, si prendeva questo amala e lo si avvolgeva in foglie di banano, a forma di palla. Si poteva mangiare con lo zucchero o senza. Facevano calalu, che si mangiava quasi come ilyony6. Il yony6 era simile al quimbomb6. Si preparava con bietole e spezie di ogni tipo. Ben condito era squisito. Il miglior modo di mangiare il yony6 era prenderlo con le mani. Mangiavano il guengueré, che si faceva con una foglietta di guengueré, carne bovina e ~iso. C'erano due
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tipi di guengueré: il bianco e il violaceo. Ma il piu saporito era il bianco, per il gusto che dava a mangiarlo. Mangiavano anche masango, che era mais lessato. Credo che anche i congos Io mangiassero. Il cheketé era la bibita preferita dei santeros. Lo servivano sempre alle feste. Era una specie di cioccolata fredda. Lo facevano con arance e aceto. I bambini ne bevevano molto. Assomigliava all' atol che si faceva con fecola che si grattugiava e diventava come un amido. Si prendeva a cucchiaiate, ma i piu ingordi se ne riempivano le ciotole. Di questi cibi, il migliore era l' ochinchin, che si faceva con crescione, bietola, mandorle e gamberetti lessati. L' ochinchfn era il cibo di Ochun. Ogni dio aveva il suo cibo. Obatald aveva l'ecru di fagioli. E altri che non ricordo. Molti di questi cibi facevano male. La zucca, per esempio, non si poteva mangiare perché a certi dèi non piaceva. Ancora oggi non si mangiano le zucche. Io stesso, quand'ero sui monti, non mi mettevo mai a cercarle perché chi si inoltrava in un campo di zucche si graffiava tutto. Non potevo piu appoggiare le gambe per un sacco di tempo. · E non mangiavo neppure sesamo, perché mi venivano macchie e pustole. Se gli dèi si mettevano in testa che uno non doveva mangiare, non c'era niente da fare. lo non ci scherzavo sopra! Neppure oggi ne mangio, neanche se me lo ordina il medico. Bisogna rispettare le religioni. Anche se non ci si crede molto. In quegli anni, tutti erano credenti. Gli spagnoli erano tutti credenti. Ne è la prova che nei giorni di san Giacomo e di sant' Anna a Purio non si lavorava. Nella piantagione la gente si riuniva. Fermavano le caldaie e i campi restavano vuoti. Pareva un santuario. I preti arrivavano di mattina e cominciavano a pregare. Pregavano a lungo. lo ho imparato poco. Quasi non ci facevo caso. Il fatto è che i preti non li ho mai potuti soffrire. Certi erano dei delinquenti. Approfittavano delle belle bianche e se le scopavano. Erano pec-
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catori e bigotti. Se avevano un figlio lo facevano passare per figlioccio o nipote. Se lo nascondevano sotto la sottana. Non dicevano mai: «Questo è mio figlio». Si occupavano dei negri. Se qualche donna partoriva, doveva chiamare il prete entro tre giorni dalla nascita della creatura. Se non lo faceva, c'era da litigare forte con il padrone dello zuccherificio. Per questo tutti i bambini erano cristiani. Passava un prete e bisognava dirgli: «La benedizione, padre». Loro, invece, qualche volta non ti davano nemmeno retta. Molti spagnoli, delle Canarie, sono cosi; quelli della Spagna, no. I preti e gli avvocati erano sacri, a quell'epoca. Li si rispettava molto per via del titolo. Persino un diplomato era importante. I negri non lo erano, e tantomeno erano preti. Non ho mai visto un prete negro. Era una cosa che andava benissimo per i bianchi e per i discendenti degli spagnoli. Persino per fare il guardiano notturno bisognava essere spagnolo. Anche se i guardiani notturni non fanno altro che sorvegliare. Guadagnavano sei pesos al mese. A Purio ce n'era uno grasso che era spagnolo. Suonava la campana per il lavoro e per il Silenzio. Non faceva altro. Era la vita piu comoda. Mi sarebbe piaciuto fare il guardiano notturno. Era la mia aspirazione, però a Purio sono stato sempre nei campi. Per questo avevo le braccia come tronchi. Il sole dei campi fa bene, a parte tutto. Se ho vissuto cosi a lungo, una ragione c'è. Anche la vita nelle piantagioni stancava. Vedere tutti i giorni la stessa gente e gli stessi campi, annoiava. La cosa piu difficile era adattarsi a stare per molto tempo nello stesso posto. Me ne sono andato da Purio, perché la vita stava diventando difficile. Mi misi a camminare verso la pianura e arrivai alla centra! San Agustin Ariosa, vicino al villaggio di Zulueta. In principio non volevo restare perché preferivo camminare. Volevo andare a Remedios, ma poi proprio nello zuccherificio ho trovato una ragazza e sono rimasto. Quella donna mi piaceva. Era bella; una di quelle mulatte che
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credono solo in se stesse. Si chiamava Ana. Per lei restai a vivere là. Ma con il tempo mi sono stancato. Questa Ana mi spaventava con le sue stregonerie. Tutte le notti era la stessa storia: spiriti e streghe. Allora le ho detto: «Non voglio piu stare con te, strega». Lei se n'è andata per la sua strada e non l'ho piu vista. Poi ne ho incontrata un'altra che era negra; nera scura, come la terra. Questa non era una strega, ma era un po' puttana. Dopo essere stato con lei due o tre anni, l'ho lasciata. Voleva essere un po' troppo libera. Non era la sola a essere un po' puttana. Appena si arrivava alla piantagione, le donne ti saltavano addosso. Non mancava mai qualcuna che volesse vivere con te. Nella piantagione Ariosa sono rimasto a lungo. Quando arrivai, i lavoratori mi chiesero: «Senti, da dove vieni?» Io gli risposi: «Sono liberto di Purio». Allora mi portarono dal sovrintendente, che mi diede lavoro. Mi mise a tagliare canna. Non mi riusci difficile: ero già esperto. Sarchiavo anche i campi. La piantagione era di media grandezza. Il padrone si chiamava Ariosa, spagnolo puro. La piantagione Ariosa è stata una delle prime a trasformarsi in centra!, perché vi passava una ferrovia che portava la canna alla casa delle caldaie. Lf era come in tutte le altre piantagioni. C'erano spie e leccapiedi dei sorveglianti e dei padroni. Questi facevano sempre domande ai nuovi lavoratori per sapere come la pensavano. Ciò avveniva per l'odio che è sempre esistito tra gli uni e gli altri per ignoranza. Non per altro. E i negri affrancati, in genere, erano molto ignoranti. Si adattavano a tutto.~ Succedeva addirittura che se un individuo dava noia, i suoi stessi fratelli erano disposti a ucciderlo per pochi cen-
tenes. I preti avevano influenza su tutto. Quando dicevano che un negro era cattivo, bisognava starci attenti, perché c'era già chi era pronto a farlo fuori alla prima occasione. All'Ariosa la religione era importante. C'era una chiesa vicina, ma io non ci sono mai andato perché sa-
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pevo bene che coloro che si davano da fare per spiare, a Cuba, erano i preti. E questo lo dico perché i preti pensavano solo a certe cose ... Con le donne erano diavoli. Trasformavano la sacrestia in un bordello. Chiunque abbia vissuto all'Ariosa sa queste storie. Le sapevano anche le pietre. Io ne so tante. Altre le ho viste personalmente. I preti mettevano le donne nei sotterranei, in buchi dove c'erano carnefici pronti ad assassinarle. C'erano altri sotterranei pieni cl' acqua e le poverette vi annegavano. Questo me lo hanno raccontato molte volte. Ho visto preti con donne molto civette, che dopo dicevano: «Padre, la benedizione». E andavano a letto con loro. All'Ariosa si parlava anche di altre cose, come della vita che si faceva nelle chiese e nei conventi. I preti erano come gli altri uomini, ma avevano tutto l'oro. E non lo spendevano. Non ho mai visto un prete in una bettola a divertirsi. Si rinchiudevano nelle chiese, e Ii sf che spendevano. Tutti gli anni facevano collette per la chiesa, per i vestiti e per i fiori dei santi. Mi pare di ricordare ché non badassero molto a quel che si faceva nei trapiches. Non arrivavano mai fino alle macchine. Avevano paura di soffocare o di restare sordi. Erano delicatissimi. In quegli anni i macchinari erano a vapore. Anch'io sono entrato una volta dov'erano i torchi e appena mi sono avvicinato alla mola, ho cominciato a tossire. Sono dovuto uscire subito perché il mio corpo non era abituato a questo calore. In campagna è diverso, con l'erba e l'umidità che si appiccica alla pelle. Il lavoro migliore che ho fatto all'Ariosa è stato al torchio. Soprattutto perché mi ha permesso di andarmene dai campi. Il fatto è che mi è piaciuto. Io dovevo scaricare la canna dal nastro trasportatore. Questo si faceva dentro, dove c'era ancora un po' di fresco. Il nastro trasportatore aveva la lunghezza di una palma. Portavano il carro pieno di canna e lo rovesciavano sul nastro. Cosf si scaricava. In quattro o sei prendevamo la canna dai carri e la mettevamo sui nastri. Quando la
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canna era rovesciata, il nastro si faceva andare con cinghie e arrivava alla mola. Scaricava la canna nella mola e poi tornava a riprenderne ancora. Non si poteva perdere tempo in questo lavoro perché i sorveglianti vigilavano. Era un lavoro tranquillo. Anche al miscelatore si lavorava comodamente. Si stava anche meglio. Li, il lavoro consisteva nel riempire i carretti. Erano carretti che andavano vuoti alle caldaie e li si riempivano di zucchero fresco. Quando erano pieni si mandavano al miscelatore. Quando le caldaie erano vuote, le pulivano con forti getti d'acqua. Il miscelatore era un apparecchio grande, con ganci e un canale dove si depositava lo zucchero. Questo zucchero lo scioglievano nel miscelatore e, cosi sciolto, lo raffinavano nella ce!}trifuga che era una macchina nuova ali' Ariosa. A volte passavano due giorni senza che uno dovesse muovere un dito, perché le caldaie si vuotavano ogni ventiquattro ore. Il fischio avvisava con un rumore che rendeva sordo chiunque. Quando fischiava, bisognava prepararsi a raccogliere la tempia. Noi dicevamo che era la tempia ogni volta che la caldaia scaricava. Io facevo questi lavori ali' Ariosa. Non mi sono mai addormentato: chi si addormentava veniva castigato. E se il sorvegliante si arrabbiava, lo sbatteva in mezzo alla strada. Quando giungeva la notte, me ne andavo alle baracche e mi addormentavo. Non so che cosa stanca di piu, se i monti o i torchi ... In quel periodo sognavo abbastanza, ma non sognavo mai per immagini. Il sogno viene dalla fantasia. Se uno si mette a pensare molto, sotto un albero di banane e lo guarda, l'indomani o dopo, lo sogna. Io sognavo il lavoro e le donne. Sognare il lavoro non è bello. Prima di tutto spaventa, e poi, il giorno dopo, uno crede di stare ancora sognando ed è questo il momento in cui ci si taglia un dito o si scivola. Ciò che è bello sognare sono le donne. Io ero cosf preso da una negra che non mi usciva mai dai sogni. Con questa ragazza passavo il tempo in cose strane, ma lei non
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mi badava. La ricordo sempre. E mi ricordo di Marna. Marna era una vecchia negra, mezza spia. Entrava nelle stanze degli uomini e diceva: «Buonasera a tutti». Guardava bene e poi andava a raccontare quello che aveva visto al sorvegliante. Cagna e traditrice. Tutti avevano paura della sua linguaccia. Aveva diversi figli mulatti. Del padre non parlava mai. Secondo me, era il sorvegliante. La mettevano sempre a fare lavori leggeri. Serviva il cibo e lavava la roba: camicie, pantaloni e mamelucos dei bambini. I mamelucos erano pantaloncini di tela grezza con bretelle che passavano sulle spalle. I bambini in quel periodo portavano solo questa roba. Erano allevati come selvaggi. L'unica cosa che si insegnava loro era sarchiare e seminare. Istruzione, niente. Frustate si, gliene davano, e molte. Poi, se continuavano a sbagliare, li facevano inginocchiare e gli mettevano chicchi di mais o di sale sotto le ginocchia. Una buona dose di botte, era il castigo piu frequente. Arrivavano i genitori e con una sferza o con uno staffile di corda gliele davano a sangue. La sferza era una frusta sottile che si prendeva da un albero e non si rompeva mai, anche se al bambino veniva via la pelle a strisce. Io credo di aver avuto dei figli, forse molti, forse no. Ma credo che non li avrei mai castigati cosi. Nelle botteghe vendevano sferze colorate di cuoio di bue ritorto. Le madri se le legavano alla cintura e se il bambino combinava qualche guaio, gliene davano di santa ragione. Erano castighi selvaggi, eredità della schiavitu. I bambini di adesso sono piu noiosi. Prima erano molto piu tranquilli e, a dire il vero, non ·si meritavano quei castighi. Sono cambiati per via delle botte. Un bambino di allora passava il tempo a correre e a giocare con le biglie spagnole. Erano palline di vetro di tutti i colori. Si vendevano anche nelle botteghe. Giocavano in sei o dieci, divisi in due gruppi. Facevano due strisce per terra e tiravano a turno le biglie. Quello che la tirava piu vicina alle righe, vinceva. Poi tirava di nuovo, e se colpiva qualche biglia del gruppo avversario, se la prendeva.
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Si giocava anche alle piastrelle e le donne passavano il tempo facendo bambole di stracci o giocando al1' anello con i maschi. I maschi lasciavano cadere l' anello nelle mani della donna che piu gli piaceva. Cosl'. passavano le ore. Soprattutto alla sera, dalle sei alle otto o alle nove, quando andavano a dormire. All'Ariosa suonavano ancora il Silenzio, come una volta: alle nove in punto. Dappertutto c'erano bambini che scappavano. Passavano nelle case a chiedere da mangiare, per non lavorare. E si nascondevano. Spesso lo facevano per evitare il lavoro o i castighi degli stessi genitori. In quegli anni ai bambini non si impartiva la dottrina cristiana. C'erano però genitori che avevano ereditato questa mania e li portavano in chiesa. La chiesa era molto importante per gli spagnoli. Gliela inculcavano ai negri tutto il giorno. Però né i Fabas, né io, ci siamo mai andati. I Fabas erano tutti e due stregoni. Uno si chiamava Lucas e l'altro Ricardo, o Regino ... Io feci amicizia con Lucas. Erano stati schiavi nella piantagione Santa Susana, che restava tra Lajas e Santo Domingo. La piantagione era di proprietà del conte Moré. Lucas mi parlava molto di questo conte. Diceva che era uno degli spagnoli piu crudeli che egli avesse mai conosciuto. Diceva che non credeva in niente. Dava ordini e bisognava obbedire. Gli stessi governatori lo rispettavano. Una volta il governatore Salamanca3 lo fece arrestare perché pagava i negri con buoni segnati con la T della Santissima Trinità. Il conte prendeva denaro d'oro e d'argento e pagava in carta .. Era un ladro matricolato. Ma il re di Spagna venne a conoscenza di questo e ordinò al governatore di investigare bene. Allora Salamanca andò travestito alla piantagione. Arrivò e si mise a mangiare alla bettola. Nessuno sapeva che quell'uomo fosse il governatore. Segnò tutto su un li' Manuel Salamanca y Negrete. Capitano generale dell'isola di Cuba dal marzo del 1889 al febbraio del 1890.
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bretto. E quando fu ben certo di tutti gli orrori che il conte commetteva, lo chiamò e gli disse: « Vieni alla casa del governo». Al che, Moré rispose: «C'è la stessa distanza dalla sua casa alla mia. Venga lei». Ma Salamanca non ci andò. Gli mandò la guardia civile e lo trascinarono ammanettato all'Avana. Lo mise in galera: dopo pochi mesi il conte vi mori. Allora conti e visconti cercarono il modo di vendicarsi del governatore. Si misero d'accordo con il suo medico perché lo avvelenasse. E Salamanca fu avvelenato verso il novanta, per un gonfiore che aveva alla gamba. Invece di curarlo, il medico lo avvelenò e il governatore morf in pochi giorni. Me l'ha raccontato Lucas, che l'ha visto; accadde nello stesso anno in cui egli arrivò all'Ariosa con Regino. Lucas era un grande stregone e molto portato al man{. Era un buon ballerino. Mi diceva sempre: «Come mai non impari a ballare il mani?», e io dicevo: «No, perché se uno mi dà una botta, io gli do una coltellata». Questo Lucas sapeva tante cose. Era un tipo simpatico. Ballava il man{ per farsi le donne. Alle donne piaceva che l'uomo fosse un buon ballerino. Quando un uomo era un buon ballerino di man{ dicevano: «Cazzo, a me quest'uomo piace! » E lo portavano a scopare nei campi di canna, perché nella paglia di canna calduccia, quando fa freddo, si sta molto bene. Questo traffico di andare a farsela nei campi era molto noto. Si approfittava del viaggio del carro dalla piantagione al terreno di taglio. A quel tempo si sbatteva qualsiasi donna in mezzo alle canne. Non si facevano tante storie come adesso. Quando una donna andava con uno, sapeva già che doveva scopare per terra. Lucas era un uomo buono, però gli piacevano troppo le donne. Qualche volta io e lui riunivamo un gruppo per giocare al monte di notte nella baracca. Mettevamo un sacco per terra e ci-sedevamo a giocare. Passavamo la notte a giocare. Ma io, quando avevo vinto quattro o sei pesos, me ne andavo. E se perdevo mol-
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to, prendevo il largo. Non ero come quelli che per sfidare la fortuna, restavano tutta la notte a giocare e a perdere. Inoltre, i giochi finivano sempre male. In ogni caso,c'era da discutere. Gli uomini erano molto egoisti. E sempre stato cosL E se uno perdeva e non era d'accordo, faceva un gran casino. Siccome sono sempre stato individualista, me ne andavo. All'Ariosa c'erano due negri che mi conoscevano da ragazzo. Un giorno hanno detto a Lucas: «Quello li viveva come un cane tra i monti». E io li ho incontrati e gli ho detto: «Sentite, quelli che vivevano cosf siete voi, che vi facevate frustare». Il fatto è che tutti questi che non erano fuggiti, credevano che i cimarrones fossero animali. Nel mondo c'è sempre stata gente ignorante. Per sapere qualcosa, bisogna viverlo. Io non so com'è l'interno di uno zuccherificio, se non lo vedo. La stessa cosa succedeva a loro. Lucas la pensava come me, perché mi conosceva bene. Era il mio solo vero amico. All'Ariosa non davano lavoro a chiunque. Se vedevano un damerino con un bel cappellino di paglia, non gli davano retta perché dicevano che era un magnaccia. Per trovare lavoro era meglio presentarsi agli zuccherifici un po' trasandati, con un cappello di palma o di jipijapa. I sorveglianti dicevano che agli elegantoni non piaceva curvare la schiena. E all'Ariosa bisognava lavorare duro. La vigilanza era costante. Bastava un niente per essere schedati. Mi ricordo di un criminale che si chiamava Camilo Polavieja. Polavieja era governatore negli anni novanta. Nessuno gli voleva bene. Diceva che i lavoratori erano buoi. Pensava come se si fosse ancora al tempo della schiavitu. Una volta fece punire certi lavoratori che non avevano la carta di riconoscimento. Era un cartoncino, come un lasciapassare, dove erano scritti i dati del lavoratore. Bisognava portarselo sempre dietro. E chi non l'aveva, veniva frustato con il nerbo di bue, che era fatto con il membro secco del bue. Questa punizione si chiamava com-
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ponte. Si infliggeva in caserma, perché chi veniva colto senza carta era trascinato li. La carta costava venticinque centesimi e bisognava andare a prenderla in municipio. Si rinnovava ogni anno. Oltre al componte, Polavieja commise altri orrori. Bastonò selvaggiamente migliaia di negri. Era superbo come un leone. Era cosi anche con le sue truppe. Lo dicevano gli stessi suoi soldati. Una volta gli saltò in mente di mandare negri all'isola di Fernando Po. Era un castigo terribile perché l'isola era deserta. Era piena di coccodrilli e squali. Li lasciavano liberi i negri e quelli non se ne potevano andare. A Fernando Pb mandavano rapinatori, magnaccia, ladri di bestiame e ribelli. Imbarcavano anche gli uomini tatuati. Ritenevano che il tatuaggio fosse segno di ribellione contro il governo spagnolo. Anche i ndnigos venivano mandati su quest'isola o su altre che si chiamavano Ceuta e Chafarinas. Polavieja ci mandava i ndnigos perché diceva che érano anarchici. I lavoratori che non erano implicati nel naniguismo o nella rivoluzione, restavano a Cuba. Neppure le donne ci andavano. Queste isole erano soltanto per uomini. Polavieja obbligava le donne a portare con sé la loro tessera. La tessera era come la carta di riconoscimento. Il Municipio ne dava una a tutte le donne ..Era una carta di identità. In quegli anni, le donne erano assistite abbastanza bene dal punto di vista medico. Anche all'Ariosa andava un medico ogni lunedf e le visitava. Un medico spagnolo, imbroglione, poco conosciuto. Dei medici spagnoli nessuna si fidava. La gente continuava a farsi curare con la stregoneria. Stregoni e medici cinesi erano i piu famosi. Li c'era un medico di Canton che si chiamava Chin. Chin andava in campagna a curare la gente che aveva soldi. lo sono stato una volta al villaggio di Jicotea e l'ho visto. Non l'ho piu dimenticato. Li lo avevano chiamato i Madrazos, che erano una famiglia danarosa. Chin era grassoccio e piccoletto. Portava un camice mezzo giallo da medico e un cap-
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pello di paglia. I poveri lo vedevano solo da lontano, perché si faceva pagare caro. Sono sicuro che curava con erbe, di quelle che si mettono nei vasetti e si vendono in farmacia. A Cuba c'erano molti cinesi. Quelli che erano arrivati come contratados. Con il tempo invecchiavano e lasciavano la campagna. Io, che uscivo spesso dallo zuccherificio, ne vedevo molti. Soprattutto a Sagua la Grande, che era il loro punto di raccolta. Di domenica molti lavoratori andavano a Sagua. Si riunivano li da tutti gli zuccherifici. Per questo ho visto il teatro dei cinesi. Era un grande teatro di legno, costruito benissimo. I cinesi avevano molto gusto per le cose e dipingevano con colori vivaci. In questo teatro facevano acrobazie e salivano uno sopra l'altro. La gente applaudiva molto e loro salutavano con eleganza. La cosa piu raffinata che ci fosse a Cuba erano i cinesi. Facevano tutto con inchini e in silenzio. Erano molto organizzati. A Sagua la Grande avevano i loro circoli. In questi circoli si riunivano, conversavano nelle loro lingue e leggevano i giornali della Cina ad alta voce. Forse lo facevano per dare fastidio, e siccome nessuno li capiva, continuavano le loro letture come niente fosse. I cinesi erano buoni commercianti. Avevano i loro negozi dove vendevano una quantità di prodotti rari. Vendevano bambole di carta per i bambini, profumi e stoffe. Tutta la strada Tac6n, a Sagua la Grande, era dei cinesi. U avevano anche sartorie, pasticcerie e fumerie d'oppio. Ai cinesi piaceva molto l'oppio. Credo che non sapessero che faceva male. Se lo fumavano in lunghe pipe di legno che nascondevano nelle loro botteghe perché bianchi e negri non le vedessero. Anche se a quei tempi non si perseguitava nessuno perché fumava l'oppio. Un'altra cosa che li attraeva molto era il gioco. I piu grandi inventori di giochi erano e sono i cinesi. Giocavano nelle strade e nei loggiati. Mi ricordo un gioco
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che si chiamava bot6n e un altro che si gioca ancora oggi e si chiama sciarada. Negri e bianchi andavano a.Sagua la Grande per giocare con loro. Io giocavo solo al monte. I cinesi affittavano una casa dove si riunivano nei giorni di festa. Lf giocavano fino a stancarsi. In questa casa mettevano un portinaio perché stesse attento ai giocatori e per evitare le risse. Il portinaio non lasciava entrare gli spacconi. Io ogni volta che potevo andavo a Sagua. Ci andavo in treno o a piedi. Andavo quasi sempre a piedi perché il treno era carissimo. Sapevo che i cinesi davano feste nei giorni solenni della loro religione. Il paese si riempiva di gente che voleva vederli far festa. Facevano ogni tipo di pantomime e figurazioni. Io non sono mai potuto andare a queste feste, ma ho sentito dire che si appendevano per il codino e ballavano muovendo tutto il corpo nell'aria. Facevano un altro trucco, stesi a terra, con una macina sopra la pancia. Un altro di loro prendeva una mazza e dava una mazzata: e la pancia restava sana. Allora il cinese si fermava, saltava e rideva e il pubblico cominciava a gridare:« Un'altra volta! » Altri bruciavano carte come i burattinai di Remedios e le gettavano per terra. Quando la carta era diventata cenere, si chinavano e dalla cenere tiravano fuori nastri colorati. Questo è sicuro perché me l'hanno raccontato tante volte. Io so che i cinesi ipnotizza'{ano il pubblico. Hanno sempre avuto questo potere. E il fondamento della religione cinese. Poi si sono messi a vendere tuberi e frutta e hanno cominciato a perdersi. I cinesi hanno perso l' allegria del tempo dell~ Spagna. Adesso uno vede un cinese e gli chiede: «E giusta questa strada?» Lui dice: «Non so». Anche se sono stato per molti anni all'Ariosa, le immagini mi si sono un po' annebbi.ate. Non c'è nulla di meglio per la memoria che il tempo. Il tempo conserva i ricordi. Se uno vuole ricordarsi della voce del tempo recente, non può. Però, piu uno guarda indietro, piu
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vede chiaro. Ali' Ariosa c'erano molti lavoratori. Credo che fosse uno degli zuccherifici piu grandi di quei tempi. Tutti ne parlavano bene. Il padrone era un innovatore e faceva molti cambiamenti ai trapiches. Certi zuccherifici davano da mangiare molto male, perché i cucinieri non se ne occupavano. Ali' Ariosa era diverso. Li si poteva mangiare. Se i cucinieri trascuravano il mangiare, veniva il padrone che gli diceva di stare piu attenti. C'erano zuccherifici dove si stava come durante la schiavitu, perché i padroni credevano ancora di essere padroni dei negri. Ciò succedeva soprattutto in zuccherifici lontani dai villaggi. Quando arrivava la stagione morta, veniva la calma. La situazione cambiava completamente nello zuccherificio e nelle aie. Però nessuno restava senza fare nulla. La stagione morta era lunga e chi non lavorava non mangiava. Bisognava sempre fare qualcosa. Io in quei mesi mi davo molto da fare a cercare donne. Camminavo per i paesi. Però, di notte, tornavo alle baracche. In treno potevo andare a Sagua la Grande, a Zulueta e a Rodrigo. Andavo, ma non mi piaceva conoscere molta gente in questi paesi. Insomma, a dire il vero, la mia vita era la piantagione. Ciò che facevo durante la stagione morta era soprattutto sarchiare canna, perché era il lavoro che meglio conoscevo. Qualche volta diserbavo, che era come sarchiare, però ai confini dei poderi perché, in caso di fuoco, la canna non bruciasse. Si seminava anche la canna nuova, bisognava darle una mano di zappa perché prendesse in terra sana. Si rincalzava la canna con un solo bue e un piccolo giogo. Si faceva andare il bue dentro il solco della canna. L'aratro lo portava un garzone. E il narigonero, un bambino di otto o nove anni, conduceva il bue perché non cambiasse strada. In stagione morta c'erano meno doveri e meno lavoro. Naturalmente, ci si annoiav·a. Anch'io andavo ai villaggi, quando avevo centenes. Se no, che accidenti andavo a fare in giro! Restavo nelle baracche ed era meglio.
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Le donne continuavano la stessa vita. Per loro non esisteva stagione morta. Continuavano a lavare la roba degli uomini, rammendavano e cucinavano. Le donne di quell'epoca erano piu lavoratrici di quelle di oggi. Le donne non si accorgevano affatto della stagione morta. La loro vita era l'allevamento delle galline e dei maialetti. Gli orti continuavano a esistere, ma in poche zone. Secondo me, con la libertà, i negri trascurarono gli orti. Chi aveva conservato il suo, passava la stagione morta a curarlo. lo non ho mai voluto orti perché non ho mai voluto mettere su famiglia. Un'altra cosa molto diffusa erano i galli: l'allevamento dei galli da combattimento. I padroni degli zuccherifici avevano sempre avuto questa mania. Non era una mania, era quasi un vizio. Amavano piu i galli delle persone. Nella stagione morta, c'erano lavoratori, sia negri sia bianchi, addetti a curare i galli del padrone. Anche i coloni avevano i loro galletti, però non erano forti come i galli cari, di razza. Gli allevatori guadagnavano molti soldi con le puntate. Si giocavano una zampa di gallo per otto o dieci once. Se il gallo si feriva nel combattimento, chi se ne occupava doveva poi curarlo. Per questo doveva conoscere molto bene i galli, perché erano delicatissimi. A volte, nel corso del combattimento, un gallo veniva ferito gravemente e lo raccoglievano mezzo morto. Allora bisognava soffiargli nel becco perché gli si sciogliessero i grumi di sangue e si riprendesse. Lo buttavano di nuovo nella pista: finché il gallo combatteva, non perdeva il combattimento. Per perdere, il gallo doveva fuggire o cadere morto. Questo era il solo finale. Andavo spesso ai combattimenti nei recinti vicini ali' Ariosa. Mi piaceva vederli, anche se ho sempre pensato che fosse una cosa criminale. Mi ricordo sempre che andavo con una pipa di creta che avevo comprato nella bottega dello zuccherificio. Credo che mi sia costata circa un medio. La riempivo con del tabacco e la fumavo per passare il tempo. Chi si annoiava era perché cercava la confusione delle feste e della parranda.
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Un tempo, gli schiavi che morivano venivano sepolti nel cimitero della piantagione. Però, dopo qualche giorno, si cominciavano a sentire voci, come lamenti, e si vedevano volteggiare sopra le fosse luci bianche. Questo mucchio di morti che c'era prima nelle piantagioni, creava molte stregonerie. Perciò, quando è finita la schiavitu, li hanno portati al villaggio, al cimitero grande. Li portavano gli stessi compagni. Se li caricavano in quattro. Prendevano due pali duri di canna resistente o di guayacdn. Ogni palo era sostenuto da due uomini per portare bene il peso del morto. Sopra i due pali mettevano la cassa, fatta da un falegname dello zuccherificio. Una cassa di legno, a buon mercato, leggera, di pino. I candelieri venivano fatti con ceppi di banano svuotato in cui si mettevano le candele. Si mettevano quattro candele, proprio come adesso. I morti si vegliavano là dov'erano vissuti. Se erano vissuti nelle capanne, li vegliavano lf, se no nelle baracche. Prima non c'era l'abitudine di portarli nella camera ardente. In molti casi è successo che i morti rivivessero. Il fatto è che li sotterravano prima del tempo. Da qui è nata l'idea di aspettare ventiquattro ore prima di seppellirli. Questo sistema è moderno. Però non ha dato grandi risultati perché ho sentito dire almeno venti volte di morti che, dopo essere stati coperti di terra, si sono alzati deboli e malati e hanno continuato a gridare. Anche qui c'è stata un'epidemia di colera in cui sono successi casi simili. Tutti quelli che vedevano un po' malandati, se li portavano sulla carretta e li sotterravano. Dopo, quelli uscivano camminando come se niente fosse. La gente si spaventava. Quando un lavoratore moriva, la piantagione si riempiva di gente. Tutti gli tributavano onori e riverenza. C'era cameratismo e rispetto. Un morto, una volta, era una cosa molto importante. Tutta la sua famiglia veni.va a cavallo dalle altre piantagioni o da paesi lontani. Non si fermava il lavoro, ma la gente si avviliva. Anch'io, se venivo a sapere di una morte, non .riuscivo a
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starmene tranquillo. Il morto lo vestivano come un figurino. E lo sotterravano cosi. Gli mettevano tutti i suoi vestiti, anche le scarpe di pelle. Quel giorno facevano da mangiare in abbondanza. Di sera davano tuberi, riso e carne di porco. Vino bianco e birra marca T. Di notte, davano formaggio bianco fresco e formaggio giallo, spagnolo. Inoltre, a ogni momento distribuivano caffè. Caffè come piaceva a me. L'unico gustoso. In tazze di zucca fatte apposta per questo. Se il morto aveva familiari, erano loro che si occupavano di questi preparativi. Se no, gli stessi suoi amici e le loro donne si riunivano e provvedevano. Quando la famiglia del morto era distinta, servivano caffè in scodelle. Dopo che tutti avevano mangiato e chiacchierato, portavano il morto alla fossa, senza tante altre storie. Lo portayano al cimitero principale. Io dico che la cosa migliore è non morire, perché dopo pochi giorni nessunQ si ricorda del morto, neppure i suoi migliori amici. E meglio non fare tante storie per i morti, come si fa ora, perché la verità è che sono tutte ipocrisie. Allora come oggi. A me, fatemi festa da vivo. La cosa piu curiosa, a quell'epoca, era innamorarsi. Quando un ragazzo voleva una ragazza, usava mille trucchi. Prima non si potevano fare le cose cosi apertamente. C'era mistero. E trucchi; trucchi di ogni tipo. Io stesso, per fare innamorare una donna per bene, mi vestivo di bianco e le passavo accanto senza guardarla. Lo facevo per qualche giorno, finché mi decidevo a chiederle qualcosa. Alle donne piaceva vedere gli uomini vestiti di bianco. Un negro come me, in bianco, era attraente. Il cappello era l'esca perché con quello si facevano mille gesti. Lo si metteva, lo si levava, si salutavano le donne, si domandava: «Bene, come va?» I ragazzi, se avevano genitori, soprattutto se li aveva la ragazza, si corteggiavano con granellini di mais o pietruzze. Lei stava alla ringhiera della capanna e lui passava e le diceva: «Pss ... pss ... », o fischiava. Quan-
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do lei guardava, lui sorrideva e le tirava le pietruzze poco a poco. Lei rispondeva raccogliendo le pietruzze e conservandole. Se non le conservava, era segno che lo disprezzava. Una donna, se era zotica e superba, buttava subito via le pietre. Gli innamorati si vedevano poi a una veglia o in un casale, in qualche festa o nelle parrandas. Se lei aveva accettato le profferte, quel giorno gli diceva: «Senti, guarda; ho ancora i granellini di mais che tu mi hai tirato». Allora lui là prendeva per mano o la baciava. Lei domandava: « Verrai a casa mia?» E lui le diceva di si e andava. L'indomani era già a casa a parlare con i genitori. Lei fingeva - tutte le donne lo fanno - di non conoscerlo. E allora diceva: «Ci penserò». Prima del matrimonio, preparavano la casa. In tutto quel trambusto aiutava la madre di lei. Possedevano già una dozzina di sgabelli, un letto grande, un enorme baule e gli utensili da cucina. I poveri non conoscevano ancora la credenza. I ricchi si, ma senza vetri. Credenze grandi come cavalli, di legno di cedro. L'usanza: voleva che i genitori di lei e i testii:,noni del matrimonio, dessero allo sposo una mezza dozzina di galline, una giovane scrofa grassa, una vitella, una vacca da latte e il vestito del matrimonio con lo strascico perché alla donna non si vedessero le caviglie. La donna che mostrava la caviglia non era né religiosa né onesta. Era l'uomo che manteneva la famiglia, il padrone di casa. La donna riceveva gli ordini e, all'inizio, non lavorava; l'unica cosa che faceva era lavare la biancheria per qualche famiglia. Dopo che erano sistemati e vivevano nella loro casa, cominciavano a ricevere visite, a fare commenti sulla festa di nozze, sui dolci, sulla birra. Tutti i giorni, di mattina, veniva la madre di lei o il vecchio a trovarli. Era d'obbligo. Poteva venire anche il prete. Anche se i preti si preoccupavano soprattutto di visitare le case dei ricchi. I santuari si, che ci guadagnavano. Quando una persona voleva sposarsi, doveva pagare sei o sette pesos. Pagavano poveri e ricchi. Nella cappella si sposavano i
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poveri, i lavoratori della piantagione. Questa cappella stava dietro. Nella chiesa, al centro, all'altare maggiore, si sposavano i ricchi. Li c'erano banchi e cuscini, mentre i poveri si sedevano sulle panche di legno della cappella, o sacrestia, come anche veniva chiamata. La gente, di solito, non entrava nella cappella, ma restava fuori e aspettava che uscissero gli sposi. Ali 'uomo che sposava una vedova suonavano ilfotuto e gli facevano una chiassata in faccia con latte vuote per prenderlo in giro. Lo facevano perché il vedovo - come dicevano - finiva con il somigliare a un muratore: tappava un buco fatto da un altro. Piu lui faceva la faccia feroce, piu loro si accanivano a suonare. Se invece diceva: «Bene, ragazzi, a bere», allora la piantavano e accettavano l'invito. Cosf si comportavano gli uomini navigati. Ma un ragazzotto che non sapeva niente della vita e s'innamorava di una vedova, s'infuriava come una bestia. Cosi si faceva odiare dai compagni. Avere buon carattere .è sempre importante. Quando uno vive solo, non ce n'è bisogno. Ma se uno è sempre in mezzo alla gente, la cosa migliore è essere gentili; non essere antipatici. Queste vedove erano molto sfacciate. Ce n'era una ali' Ariosa che si sposò con un uomo di H. Quando cominciarono a suonargli il Jotuto, lei fece la vergognosa e nascose la faccia. Ma lo faceva per finta. Un giorno andò con un altro dietro ai cespugli e la pescarono. Quando tornò, tutti le voltarono le spalle. Le unioni occasionali davano risultati migliori. Le donne erano libere e non dovevano vedersela con i parenti. Lavoravano in campagna. Aiutavano a sarchiare e a seminare. E andavano con uno quando ne avevano voglia. I donnaioli preferivano sempre questo tipo di matrimonio. Oggi una, domani un'altra. Credo che cosf sia meglio. Io sono sempre stato libero. Non mi sono sposato finché non sono diventato vecchio: ho fatto vita da scapolo in molti posti. Ho conosciuto donne di tutti i colori. Superbe e buone. A Santa Clara, do-
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po la guerra, avevo una negra vecchia che si era fatta delle idee su di me ... Arrivò a chiedermi di sposarla. Io le ho detto un no secco. Ci mettemmo insieme, questo sf, e lei mi diceva: «Voglio che tu erediti la mia casa». Era padrona di una casa di molte stanze nel quartiere del Condado, in calle San Crist6bal. Poco prima di morire, mi chiamò e mi disse che io avrei ereditato tutto. Mi fece una carta per lasciarmi il Cabildo. In quegli anni la casa era un Cabildo lucumi, perché sua madre era stata una famosa santera a Santa Clara. Quando mori, andai a registrare la proprietà. Allora mi trovai in un tremendo pasticcio. Venne fuori che il padrino di lei cercava di impadronirsi della casa,. Me lo fece, questo tiro, perché la donna che lui aveva allora viveva nella casa. Era lei che si curava del Cabildo. Però quando scoprii l'imbroglio, corsi e sistemai tutto. Mi rivolsi a certi amici che avevo nel Governo provinciale. Alla fine la casa restò a me. Era piu grande di quello che immaginavo. Non ci voleva stare nessuno. Figuriamoci da solo! Era una casa piena di spiriti e di morti; era maledetta. L'ho venduta a un certo Enrique Obreg6n, che era un vecchio vagabondo. Poi, con i soldi, me la spassai. Me li spesi tutti con le puttane. Ciò avvenne dopo la guerra, quando io ero già maturo. Se faccio il conto di tutte le donne che mi sono fatto all'Ariosa, di figli ne avrei d'avanzo. Ma io non ne ho conosciuto nessuno. Perlomeno le donne che hanno vissuto con me nelle baracche non hanno mai partorito. Le altre, le donne dei monti, venivano e mi dicevano: «Questo figlio è tuo». Ma chi poteva esserne sicuro? Inoltre, i figli erano un problema grosso, in quei tempi. Non si poteva dare loro un'istruzione, perché non c'erano le scuole che ci sono oggi. Quando un bambino nasceva, bisognava registrarlo entro tre giorni. Anzitutto, bisognava denunciare il colore della pelle. I bambini nascevano molto facilmente. Le donne di una volta non tribolavano come quelle di
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oggi. Qualsiasi vecchia della campagna sapeva fare la levatrice meglio di quelle che hanno studiato. Non ho mai visto che le morissero bambini. Li prendevano con le mani ·piene d'alcol e gli tagliavano l'ombelico che dopo si cicatrizzava. Queste vecchie levatrici indovinavano il giorno e l'ora in cui una donna doveva partorire. Ed erano anche mezze guaritrici. L'indigestione la curavano in un batter d'occhio. La curavano con merda secca. La raccoglievano secca e la facevano bollire. La colavano con un panno sottile e, dopo che si era presa due o tre volte, l'indigestione spariva. Curavano tutte le malattie. Se al bambino veniva il mughetto, che era una malattia maligna alle gengive, prendevano un'erba di monte, la tritavano e poi gliela davano già colata in decotto. Questo ammazzava la malattia subito. Adesso i medici hanno cambiato nome a-queste malattie. Le chiamano infezione o eruzione. E risulta che a curarle ci vuole piu tempo di prima. Con tutto che non esistevano né le iniezioni né le radiografie. La medicina era l'erba. Tutta la Natura è piena di rimedi. Qualsiasi pianta è curativa. Peccato che molte non siano ancora state scoperte. Io vorrei proprio sapere perché i medici non vanno in campagna a fare esperimenti con le piante. Secondo me, sono cosi interessati che non vogliono dire che questa o quella foglia è curativa. Allora imbrogliano con medicine in vasetto, che in fin dei conti costano moltissimo e non curano nessuno. Una volta io non potevo comprare queste medicine e perciò non andavo dal medico. Un uomo che guadagnava ventiquattro pesos al mese non poteva spendere neanche un centesimo in un vasetto di medicine. Ali' Ariosa guadagnavo ventiquattro pesos, anche se credo di averne guadagnati a volte venticinque, come a Purio. Le paghe erano elastiche. Dipendeva da come un uomo si comportava sul lavoro. Io ero un buon lavoratore e arrivarono a pagarmi venticinque. Però c'erano dei disgraziati che continuavano a guadagnarne ventiquattro e persino diciotto pesos al mese. I salari comprendevano anche il mangiare e il dormire.
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Questo non mi convinceva. Ho sempre avuto chiaro in testa che era una vita da bestie. Noi vivevamo come porci e perciò nessuno voleva mettere su famiglia o avere figli. Era molto duro pensare che sarebbero toccate anche a loro le stesse disgrazie. All'Ariosa c'era molto movimento. Di continuo arrivavano tecnici che cominciavano a girare per i campi e poi andavano alle caldaie. Osservavano il funzionamento dello zuccherificio per eliminare i difetti. Quando si attendeva qualche visita, il sovrintendente ordinava che la gente si mettesse i vestiti puliti e faceva diventare il posto delle caldaie brillante come un sole. Spariva perfino la puzza. I tecnici erano stranieri. Già a quell'epoca venivano qui inglesi e americani: Le macchine erano a vapore già da anni. Prima erano piccole, poi ne arrivarono altre piu grandi. Le macchine piccole furono scartate perché erano molto lente. In queste macchine non c'erano trituratrici, perciò non estraevano tutto il succo dalla canna. Nei vecchi trapiches, la metà del succo si perdeva nei residui. Erano molto deboli. La cosa piu importante era la centrifuga. Questa macchina era conosciuta qui da circa quarant'anni. Sono arrivato all'Ariosa e latrovai già li. Ma, a quel tempo, c'erano zuccherifici che non l'avevano ancora, come quelli del Carmelo, della Juanita e di San Rafael. La centrifuga è un orcio rotondo, dove scende il miele perché lo zucchero si secchi. Se uno zuccherificio non aveva la centrifuga, poteva fare solo il grezzo, che è uno zucchero scuro, diluito. L'alimento che si ricavava da questo zucchero era molto buono. Nutriva come una bistecca. La macchina grande dell'Ariosa aveva tre magli. Erano la trinciatrice, la macinatrice e la rimacinatrice. Ognuna aveva la sua funzione. La trinciatrice tagliava solo la canna; la macinatrice estraeva lo zucchero in succo e la rimacinatrice lasciava i residui secchi e pronti da portare ai forni per far fuoco. Gli uomini che lavoravano a queste macchine godevano
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- rispetto agli altri - delle condizioni migliori. Si ritenevano superiori. Guardavano con disgusto gli uomini dei campi. Chiamavano cafoni i tagliatori di canna. Passavano il tempo a criticarli. Se avevano calli alle mani, gli dicevano: «Attento, che mi fai male». E non gli davano la mano per niente al mondo. Si crearono una mentalità sbagliata. Seminarono l'odio e le discriminazioni. Dormivano separati dagli altri. Macchinisti, addetti alle caldaie, maestri zuccherieri, pesatori: avevano tutti le loro case nell'aia. E belle comode. Alcune erano in muratura, anche se ali' Ariosa le case erano in maggioranza di legno con il tetto decorato. Il comportamento di questi uomini era scorretto. Poi si resero conto che le cose erano cambiate e cercarono di essere diversi. A me, però, pare che il piu disgraziato sia sempre stato chi lavorava sotto il sole. Era il piu sàcrificato e il piu fottuto. Doveva sorbirsi la baracca tutte le notti. La verità è che il progresso suscita ammirazione. Quando io vedevo tutte queste macchine che si muovevano insieme, ero pieno di meraviglia. E sembrava proprio che andassero da sole. Io prima non avevo mai visto tanto progresso. Le macchine erano inglesi o americane. Di spagnole non ne ho mai viste. Loro non sapevano come farle. I piu favoriti da questa novità erano i coloni. Erano i piu contenti di tutti perché, piu producevano le caldaie, piu canna gli comprava lo zuccherificio. I coloni di quel tempo erano ancora agli inizi. Non si può dire che avessero grandi seminatori di canna. Ogni piccolo proprietario aveva il suo poderetto di dieci o quindici besanas, seminato a canna. Qualche volta approfittavano e seminavano canna fino ai confini dell'aia, a una ventina di passi. I coloni erano ancora dei poveracci. Non avevano terra sufficiente per arricchirsi. Questo avvenne dopo. Ma è certo che erano figli di puttana, imbroglioni e taccagni piu degli stessi grandi proprietari; risparmiavano sulle paghe. Brontolavano tutti i giorni contro i lavoratori. Erano ancora piu tirchi dei
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padroni dello zuccherificio. Se c'era una terra che, a lavorarla valeva quaranta pesos, loro ne pagavano venti, cioè la metà. E talvolta bisognava adattarsi perché su questo erano uniti. Anche se non si potevano vedere gli uni con gli altri. I lavoratori non avevano quasi mai rapporti con i coloni. Andavano nei campi, però nessuno parlava con loro. Anche per riscuotere la paga bisognava ricorrere al guardiano. Era meglio cosi. I coloni, a quell'epoca, non avevano amministratori perché erano quasi tutti di bassa condizione. Cominciarono ad avere potere, poi, con il rialzo del prezzo dello zucchero. Alcuni arrivarono a imporsi. Con la mania della canna, per poco, a Cuba non lasciarono neanche un pezzetto di foresta. Distrussero gli alberi alla radice. Sradicarono mogani, cedri, jiquis; insomma, venne giu tutta la foresta. Questo avvenne dopo l'indipendenza. Adesso uno va per il nord di Las Villas e, quasi quasi, dice: «In questi posti non c'è piu bosco», ma quando io ero fuggito quella foresta metteva paura. Si coltivò la canna, però si distrusse la bellezza del paese. I colpevoli furono i coloni. Furono tutti farabutti, quasi senza eccezione. Si salva solo Baldomero Bracera. Egli creò una colonia, che si chiamavaJuncalito, nella palude della valle di Yaguajai. In breve prosciugò tutto il terreno. Ciò gli diede molto prestigio e lo rese importante. Baldomero aveva piu credito del padrone della piantagione Narcisa - un certo Febles cui la sua colonia apparteneva. Febles, quello si che era un tiranno. Prendeva a pugni i lavoratori e poi continuava a fare come se non fosse successo niente. Non pagava mai. Un giorno un lavoratore gli disse: «Pagami». Febles lo fece mettere nei forni. L'uomo bruciò. Restarono solo le viscere, e fu cosi che si seppe del crimine. Febles, però, non lo toccarono. Per questo, quando c'era un uomo come Baldomero, la gente lo amava e lo rispettava. Se doveva mandare via qualcuno, glielo diceva in faccia. Una delle cose piu importanti che fece Baldomero fu di portare a N arcisa una macchina per trasportare la canna. Era una macchina che già ave-
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vano in altri zuccherifici, ma a N arcisa non era ancora arrivata perché Febles non aveva abbastanza credito. Allora Baldomero gli prestò dei soldi e mandò a prendere la macchina. Dopo pochi giorni, anche la Narcisa aveva la sua macchina per trasportare la canna. Io l'ho vista e me ne ricordo perché aveva il numero uno dipinto in grande. Baldomero era un colono serio. Un buon commerciante. Faceva i suoi affari con il cervello. Dava denaro per le opere pubbliche e per il commercio. Non pagava male. Il villaggio di Yaguajai pianse la morte di quest'uomo. Io non ho mai lavorato con lui perché ero all'Ariosa, ma l'ho visto e ho sentito molte storie sulla sua vita e il suo modo di vivere. Baldomero era l'eccezione. Nessuno s'immagina come fosse calda la situazione in quegli anni. La gente passava il tempo a parlare di rivolte. La guerra si stava avvicinando. Secondo me, però, la gente non era sicura di quando sarebbe incominciata. Molti dicevano che la Spagna ne aveva ancora per poco. Altri tenevano la bocca chiusa o nascondevano la testa nella sabbia. Anche io non dicevo niente, benché mi piacesse la rivoluzione e ammirassi gli uomini valorosi e senza paura. I piu popolari erano gli anarchici. Arrivavano dalla Spagna però volevano che Cuba fosse libera. Erano qualcosa come i ndnigos, perché erano molto uniti e avevano dappertutto i loro uomini. Erano spavaldi. La gente passava il tempo a parlare di loro. Gli anarchici, dopo la guerra, si imposero a Cuba. Io non li ho mai seguiti. Ciò di cui noi non sapevamo assolutamente niente, era di quella storia dell' annessionismo4 , di cui si parla ora. Ciò che noi vo• Uno dei movimenti politici che iniziò a Cuba verso la metà del secolo scorso. Era sostenuto dalla fazione piu reazionaria della borghesia creola e auspicava l'annessione dell'isola agli Stati Uniti. Era un movimento importante, ma fu stroncato dall'indipendentismo che diede vita alla guerra d'indipendenza per liberare Cuba dal dominio spagnolo. Un altro movimento politico di quel periodo fu l'autonomismo, sostenuto dai grandi industriali e dai commercianti. Esso preconizzava l'autonomia economica dalla Spagna, ma non l'autonomia politica. Uno dei suoi promotori fu l'intellettuale }osé A. Saco.
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levamo, come cubani, era la libertà di Cuba. Che se ne andassero gli spagnoli e ci lasciassero tranquilli. Si diceva Libertà o Morte, oppure Cuba Libera. Molta gente si sollevò e, con questa storia dell'indipendenza, si crearono problemi. Andavano sulle colline e restavano H a fare casino, per giorni; poi scendevano oppure li prendevano. Quelli della guardia civile erano dei maledetti fottuti. Tutti avevano paura di loro. I prigionieri, li sgozzavano. Anche noi negri abbiamo protestato. Era una protesta vecchia, dianni. Mi sembra che noi negri protestianìo poco. Sono ancora convinto di questo. Ricordo la rivolta dei fratelli Rosales. Di Francisco e Antonio Rosales. Uno di loro era giornalista e aveva la sua tipografia a Sagua la Grande, perché loro erano di là. Poi corse voce che i Rosales avevano coraggio e attaccavano il governo spagnolo. Cosi si attirarono la simpatia del popolo. Mi interessai a loro. Un giorno, mentre ero di passaggio a Sagua, ho visto Francisco. E, vedendolo, mi sono re-· so conto che non credeva in niente e a nes·suno. Era elegante e imponente, e non guardava in faccia nessuno. Francisco era ladro di bestiame e bandito. Credo che facesse il barbiere. In seguito, li ho visti tutt'e due a Rodrigo. Ci andavano spesso. Andavano a intorbidare le acque, è chiaro. Questi mulatti diventarono importanti. Si facevano passare per bianchi, ma figurarsi! Antonio lo fucilarono a Sagua. Il governo spagnolo lo prese e lo fucilò. Poi non si senti piu parlare di loro. Che non mi vengano a dire che quelli erano rivoluzionari. Combattevano duro, ma non sapevano perché. Bene, nemmeno noi sapevamo perché, ma almeno non facevamo i banditi. La gente dell'Ariosa era onesta e seria. Chi voleva si faceva complice dei banditi e dei ladri di bestiame. Ciò dipendeva dall'inclinazione di ciascuno e dalla convenienza. Ma nessuno obbliga nessuno a rubare. Il marcio va in cerca del marcio. Io sono stato in guerra con molti delinquenti, ma ne sono uscito con le mani pulite. Benché, a dire il vero, i banditi non erano assassini. Se dovevano uccide-
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re qualcuno, lo uccidevano. Ma chiamarli assassini, questo no. Qui ci sono stati molti banditi prima della guerra. Alcuni diventarono famosi. Passavano la vita in campagna, sulle tracce dei ricchi e dei coloni. Manuel Garda fu il piu famoso di loro. Tutti lo conoscevano. E c'era gente che diceva che era un rivoluzionario. So di molti altri ban,diti: Morej6n, Machin, Roberto Bermudez e Cayito Alvarez. Cayito era una bestia. Canaglia come nessun altro. A chiunque, a Las Villas, si può domandare di Cayito. Ha fatto anche la guerra. Su di lui si sono dette molte menzogne; invenzioni della gente. Morej6n era un miserabile. Poteva rubare una fortuna, ma non aveva - come Manuel - l'abitudine di dare da mangiare ai poveri. Non ho mai saputo che abbia dato soldi alla rivoluzione. Morej6n si nascondeva sempre. Era un po' vigliacco e prudente, gli piaceva rubare. Per tutta la vita fu un bandito. Morej6n rubava i soldi quasi naturalmente. Non faceva chiasso. Credo che non abbia mai sequestrato nessuno, ma fermava la gente per strada e diceva: « Datemi tutto quello che avete addosso». Si prendeva i centenes e se ne andava. Non ho mai sentito dire che abbia minacciato qualcuno. Era prudente, ma criminale. Las Villas era la culla dei banditi. Vi pullulavano. E, chi piu chi meno, facevano i loro sequestri. Altri avevano il dono di prendere il denaro dove capitava. Nella zona nord di Las Villas c'erano molte famiglie ricche. Agiiero le derubò quasi tutte. Fu lui che rubò di piu. Si portava via persino le galline e i maialetti. Il suo vizio era di rubare tutto. Dicevano che, quando rubava, scappava gridando. Gli correvano dietro, la guardia rurale lo accerchiava, ma lui aveva sempre l'abilità di svignarsela. Agiiero entrava negli zuccherifici come se fosse stato a casa sua. Riusciva sempre a travestirsi, perché i banditi si facevano passare per venditori di biglietti della lotteria, lavoratori o guardie rurali. Una
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volta Agiiero venne ali' Ariosa. Dicono che fece una rapina favolosa. lo non l'ho visto. Arrivò 1f pian piano, camminando come camminavano le guardie rurali e vestito da guardia. Chiese del padrone dello zuccherificio. Alla bettola gli dissero: « Va' avanti, la casa è vicina». Quando arrivò alla casa del padrone, che era basco, tornò a chiedere e lo fecero passare. E fu allora che Agiiero lo ingannò e gli chiese una grande somma di denaro. La questione andò cosi: il basco gli diede tutto e non pensò mai che Agiiero fosse un ladro. Quel giorno era_molto ben travestito e parlava come uno spagnolo. La prima cosa che Agiiero chiese al basco, fu di ordinare che la guardia di scorta si ritirasse, perché non ce n'era bisogno. E il basco, da stupido, disse alla guardia: «Vattene». . Le malelingue dicono che lo stesso Maximo G6mez, il generale, prese soldi da Agiiero per la rivoluzione. lo non ne dubito. Il solo che non ha mai accettato soldi dai banditi è stato Mard, il patriota di Tampa, l'uomo piu puro di Cuba. La popolazione contadina era sana e aveva molta paura dei banditi. Fu per questo che un compare di Agiiero lo consegnò alla guardia rurale. Pare che lo abbiano obbligato. Quest'uomo ne aveva fatte troppe. L'ambizione lo spingeva a rovinare gli zuccherifici. Uno dei sequestri piu clamorosi di Remedios, fu quello dei F alc6n. Era una delle famiglie piu misteriose di Las Villas. Tra loro c'era sempre un casino d'inferno. In questa famiglia c'erano gelosie, odi, ipocrisie; tutto ciò che cresce nel cervello quando la gente non ha cuore. E ce n'era uno che non ne aveva per niente: si chiamava Miguel, Miguel Falc6n. Era nativo di Remedios. Questo don Miguel si sposò con una brava donna. Lei non sapeva che razza di farabutto fosse. La donna era rimasta vedova del fratello di Modesto Ruiz, che allora era il sindaco del paese. Quando restò vedova, aveva figlie già grandicelle. Con tutto questo, don Miguel si attaccò a lei perché - a dire il vero - questa ragazza
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era graziosa e sembrava ancora giovane. Tutti la chiamavano Antofiica, benché il suo vero nome fosse Antonia Romero. La sua fa~glia era onorata. In tutta Remedios la si rispettava. E successo che, durante il governo di Polavieja, don Miguel organizzò il sequestro di Modesto Ruiz5 • Modesto non era cattivo, ma nessuno sapeva perché avesse tanti soldi. A quel tempo, un certo Méndez, che io credo fosse spagnolo, era tenentecolonnello dei volontari di Vueltas. Méndez godeva della fiducia di Polavieja. E don Miguel lo sapeva meglio di tutti. Perciò approfittò di lui per organizzare il sequestro di Modesto. Ciò che Polavieja non sapeva, era che Méndez aveva una squadra di banditi. E 'ancor meno sapeva che lo stesso Méndez era il piu bandito e degenerato di tutti. Un giorno don Miguel andò a trovarlo e gli disse: «Dobbiamo fregare diecimila pesos a Modesto». E Méndez disse: «Freghiamoli». Allora si riunirono con altri due o tre e approfittarono delle visite che Modesto faceva alla sua fattoria La Panchita. Durante uno di questi viaggi lo acciuffarono, lo portaronç nel bosco e lo costrinsero a dire dov'era il denaro. E chiaro che in questa storia don Miguel non si era fatto vedere perché Modesto non lo potesse riconoscere. Credo che sia stato sequestrato per circa due settimane dalla banda sanguinaria di questo Méndez .. Infine lui rivelò il nascondiglio del denaro e loro lo rubarono. Lasciarono Modesto chiuso in una casa, con i piedi legati. Ordinarono poi a un mulatto della banda di ucciderlo e di sotterrarlo bene, con testa e tutto. Il mulatto andò da Modesto e parlarono. Modesto non faceva altro che dirgli: «Semi liberi, io ti pago». Piagnucolando, il mulatto gli disse: « Io la libero se lei mi promette di portarmi via da qui». Modesto disse di si e il mulatto lo liberò. Il giorno dopo, don Miguel Falc6n venne asco' JOSÉ A. MARTINEZ FORTUN Y FOYO, Cronologia remediana, Remedios 1937. In questo opuscolo si segnala il sequestro di don Modesto Ruiz e lo si data nell'anno r 889.
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prire tutto ma fece finta di niente. Organizzò un banchetto in onore di Modesto a casa sua. Modesto ci andò ed ebbe tutti gli onori. Ma il diavolo fa le pentole e non i coperchi. E Modesto disse dentro di sé che la cosa non sarebbe finita li. Cominciò a controllare, e quando ebbe tutte le prove, si rivolse allo stesso Polavieja. Già Méndez, l' assassino, aveva mandato ad ammazzare il mulatto che, col cazzo che era uscito da Cuba! Polavieja, a cui i banditi facevano schifo, mandò a cercare Méndez e lo portò davanti al consiglio di guerra. Méndez fu fucilato nella città dell'Avana. Don Miguel, lo presero qualche giorno dopo e lo deportarono a Ceuta, un'isola circondata da diavoli. Ci mori poco tempo dopo. La verità venne alla luce e tutti rimasero di stucco. Nessuno immaginava la macchinazione di quei banditi. Antonia, poveretta, restò di sasso. Soprattutto quando venne a sapere che suo marito aveva cercato di ammazzare Modesto, suo cognato, perché le figliastre ricevessero l'eredità dello zio, e i banditi si spartissero i diecimila pesos. Non so se abbiano preso gli altri della banda. Secondo me è difficile perché la guardia di quei tempi non era in gamba come quella di adesso. Erano sanguinari, ma bestioni. Antonia Romero fu una vera donna. Si irrigidi. Non si perse d'animo. Neppure le figlie. Quando iniziò la guerra, Antonia cominciò a .éollaborare. Cuci e cucinò. Distribuf medicine e sali sui monti. Ebbe persino un grado nell'esercito rivoluzionario. Fu tenentecolonnello dell'indipendenza. C'è chi dipinge i banditi come dei benefattori. Dicono che erano d'animo nobile perché rubavano per i poveri. A me sembra che il furto, da qualsiasi parte uno lo guardi, resti furto. E i banditi rubavano a tutti, senza distinzione. Rubavano a un ricco e a un mezzo ricco. Per loro, l'importante era avere denaro addosso. E questo non gli mancava mai. A volte dovevano rifugiarsi in casa dei contadini e mangiare il loro piatto di patate per non restare digiuni. Da qui viene il detto
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che i banditi siano stati dei benefattori. Certo, se i contadini offrivano loro mari e monti, dovevano pur pagare con qualcosa. E loro, quando rubavano una buona somma, andavano e se la dividevano. Perciò i contadini si facevano tanti amici tra i banditi. Non arrivavano a farsi banditi, però erano amici loro. I contadini sono sempre stati generosi. Arrivava un bandito a cavallo e la donna diceva: « Dài, prendiamo una tazzina di caffè». A questo punto il bandito ci stava e approfittava della confidenza per fare amicizia con la famiglia. I banditi a volte si prendevano le contadinelle e se le portavano via: erano i sequestri piu usuali. Non ho mai conosciuto nessuno piu donnaiolo di questi tipacci. Rischiavano tutto per vedere una donna. La guardia civile approfittava del fatto che andavano a trovare le donne per tendergli sul posto un'imboscata. Cosi beccarono molti banditi, perché in campagna non c'era nessuno che li prendesse. Erano svelti come linci e ottimi cavalieri. Inoltre non c'era chi conoscesse la foresta meglio di loro. Molti dicevano di essere rivoluzionari e di volere la libertà di Cuba. Molti si proclamavano autonomisti. Lo facevano per sfrontatezza. Nessun assassino poteva essere patriota. Al contrario, erano incendiari. Arrivavano da un grande proprietario e gli chiedevano: «Allora, dov'è il denaro?» Se l'agrario diceva che lui non dava niente, lo minacciavano di incendiargli i campi. E non erano storie. A volte si vedeva il fuoco alzarsi ed era colpa loro. Era loro abitudine uscire di notte. Tutte le vigliaccate succedevano a quell'ora. Durante il giorno riposavano. Questa vita era pericolosa perché il governo spagnolo li odiava. L'isola si stava riempendo di banditi. Ce n'erano in tutte le province. Il piu popolare era Manuel Garda, che ora chiamano il Re delle campagne cubane. Ne parlano addirittura alla radio. Io non l'ho mai visto, però so che è passato un po' dappertutto. E la gente tesse leggende. Manuel non perdeva un'occasione. Dovunque vedesse centenes faceva rhan bassa. Questa sua abilità gli
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creò molti amici e molti nemici. E credo che fossero piu i nemici. Dicevano che non era un assassino. Non lo so. Ma certo aveva il suo angelo. Tutto gli andava bene. Fu amico dei contadini, amico vero. Quando vedevano la guardia spagnola avvicinarsi al posto dov'era nascosto Manuel, si toglievano i pantaloni e li appendevano a una corda con la cintura rivolta all'ingiu. Era il segnale perché Manuel se ne andasse. Perciò è vissuto tanto a lungo di furto. Fu il piu audace dei banditi. Poteva fermare un treno e farlo deragliare. Taglieggiava tutti, e chi piu ne ha piu ne metta. L'impudenza di Manuel arrivò al punto che non tagliava nemmeno piu le linee telegrafiche perché diceva di essere sicuro che nessuno l'avrebbe beccato. Salamanca e Polavieja lo combatterono piu di tutti. Venne un altro generale - chiamato Lachambre - per catturare Manuel. Manuel lo sfotteva e lo minacciava con lettere in cui diceva che l'avrebbe catturato lui. Lachambre era un dritto, ma nessuno riusd a spuntarla con Manuel. Con tutto che gli spagnoli avevano armi migliori e un maggior numero di uomini. La banda di Manuel Garda usava carabine a diciotto colpi. Erano buone. Perlomeno migliori dei vecchi schioppi degli altri banditi. Era una banda ben attrezzata. Avevano cuochi, aiutanti, e tutto quel che gli serviva. Non mancavano mai sigari, né cioccolato caldo, né tuberi, né carne di maiale. Manuel Garda mise in subbuglio Cuba e soprattutto L'Avana. A lui piaceva questa vita. E non si vergognava di dirlo. Prima fu ladro di bestiame, e rubava buoi per venderli. Poi cominciò a rubare soldi e a fare sequestri. Credo che Manuel sia nato a Quivican. Là si era sposato con Rosario che fu sempre la sua donna. Lei fu fatta prigioniera nell'isola dei Pini e la gente ne parlava molto. Vicente Garda, fratello di Manuel, fu bandito come lui. Credo che appartenesse alla sua stessa banda. Ma non divenne cosf famoso. Io ho sentito par-
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lare molto di Osma, che era l'aiutante di campo di Manuel. Un negro violento che poi passò alla guerrilla de la muerte. Con questa banda di mercenari operò in molte zone. A Las Villas ce n'erano molti, di loro. Osma uccideva a bruciapelo, con un grande fucile di ottone e di legno. La gente parlava di Osma come se fosse uno stregone. A me non risulta. Ma adesso credo che ci fosse sotto qualcosa di vero, perché quella banda, per poter f_are tutto quello che faceva, aveva bisogno di fare magie. Manuel Garda non arrivò a fare la guerra d'indipendenza. O; meglio, non ci combatté. Diede molti soldi, questo si. Qualcosa come cinquantamila pesos, a dir poco. Maximo G6mez lo accolse come fosse caduto dal cielo. La sua morte è rimasta molto oscura. Quando un uomo è cosi, quand'è grande come lui, è difficile sapere chi lo ha ammazzato. Manuel aveva molti nemici, perché in ogni famiglia con cui aveva a che fare, se li cercava. Sequestrò un certo Hoyo e poi i parenti lo inseguirono. Ma niente. Manuel conosceva i monti palmo a palmo. I vecchi che hanno conosciuto personalmente Manuel mi hanno detto che le donne sono state la sua rovina. Ma io so che lo uccisero perché dava denaro alla Rivoluzione. Un traditore che si faceva passare per rivoluzionario lo aspettò un giorno e gli disse di accendere un sigaro come segno di riconoscimento. Manuel, fiducioso, andò all'appuntamento per fare quanto era stato stabilito. Portava migliaia di pesos. Quando gli fu vicino, il traditore chiamò la guardia civile perché gli sparassero. Lo ridussero a un colabrodo. Questa è stata la morte di Manuel Garda. Altri la raccontano in un altro modo. I vueltabajeros dicono che Manuel mori perché andò a trovare una ragazza alla Mocha. Dicono che andava tutte le notti a trovarla. Un giorno, quella vacca, andò dal prete e gli disse: «Ah, padre! Vado a letto con Manuel Garda». E il prete la denunciò alle autorità. Qualche giorno dopo, Manuel entrò in casa di questa donna, apri il can-
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celio e lo lasciò aperto. Poco dopo usci e il cancello era chiuso. Gli parve strano e si sorprese. Mentre stava per aprirlo di nuovo, gli gridarono: «Manuel Garda!» Lui si voltò e le guardie civili lo fulminarono. Ho sentito anche un'altra storia: che il sagrestano della parrocchia di Canasi lo ammazzò in una taverna e che poi la banda di Manuel sgozzò il sagrestano sui monti. Tutto ciò è molto oscuro e non c'è nessuno che dica la verità. Qui, come per la morte di Maceo, gatta ci cova. La gente fa fatica a dire le cose chiare. Perciò dico che gli stregoni saranno anche stregoni, ma non nascondono la verità. Dicono a uno chi è il suo nemico e come lo può togliere di mezzo. Ali' Ariosa, gli unici che parlavano chiaro erano loro. E, se uno li pagava, ancora di piu. Molta gente aveva paura. Si diceva che mangiavano i bambini, che gli strappavano il cuore e un mucchio di altre stupidaggini. Quando uno sente tutte queste cose non si deve spaventare. Deve sincerarsene. Chi parla cosi, lo fa per qualche motivo. Io non sono un fanatico della stregoneria, ma non dico nemmeno sciocchezze per il gusto di dirle. Ho piu paura di altre cose che della stregoneria. Non avevo paura neanche dei banditi. Anche perché ero povero, al verde, ma proprio al verde, e nessuno veniva a sequestrarmi. Bisognava vedere quanto camminavo. Camminavo fino a stancarmi. I monti stancano quando uno ci sta tutti i giorni. Stanca ancora di piu se si lavora dall'alba al tramonto. Perché il sole ti resta addosso e ti stordisce. Di giorno, quando ero nei campi di canna, il sole entrava attraverso la camicia e mi arrivava alle ossa. Il caldo era terribile. Sudavo tutto. Tuttavia, quando uno cammina, il sole sembra meno spietato. Si rinfresca un po', o sembra che si rinfreschi. Ma ritornando alla storia della paura, la paura delle streghe; questa era una stupidaggine, e la paura dei banditi anche. Una cosa seria, e tutti erano d'accordo, era·
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la guardia spagnola e i capitani del distretto. Quando stavo all'Ariosa, ricordo un ufficialetto, di quelli che avevano il fuoco addosso. Non mi ricordo il suo nome perché, a dirla tutta, anche senza saperne il nome, rompeva abbastanza. Bastava dire «viene il capitano del distretto». Era come dire «viene il diavolo». Tutti se la squagliavano. Se c'era qualche storia, o se appena fiutavano qualcosa, ci rimetteva sempre qualcuno. Quando i negri cominciarono a ribellarsi contro la Spagna, i capitani ci presero gusto. Non doveva esistere un negro rivoluzionario. Lo mettevano subito a morte. Se era bianco invece ... Ma è meglio che non miricordi di quell'epoca. Non c'è niente di peggio della frusta di uno spagnolo brutale. E dover restare a bocca chiusa! Chi si comportava come non doveva, lo mandavano a pulire le scuderie della guardia civile. La guardia andava sempre a cavallo, anche se c'era una parte che prestava servizio in fanteria. Quelli che andavano a cavallo erano i piu robusti. Nella guardia civile non c'erano tipi bassi, piccoletti, macché! Cosi come non c'erano uomini buoni. Erano tutti farabutti. E sono rimasti cosi a lungo perché sembra che, a quell'epoca, non c'erano uomini capaci di ribellarsi come ora. Una volta un rivoluzionario era una cosa rara. La gente era troppo docile; piu docile di quanto si creda. Nessuno era capace di ribellarsi di fronte a un capitano. Preferivano piuttosto morire. Ci fu un negro che fece storia a Cuba. Si chiamava Taj6. Viveva nel Sapo. Questo Taj6, un bel giorno, disarmò di un colpo due coppie di guardie civili. Fu sempre un fuorilegge. Fuggiasco e rapinatore, finché cominciò la guerra. Taj6 era un bastardo. La donna che gli piaceva, se la portava via. E guai a lamentarsi. Se per caso il padre della donna andava a cercarla, Taj6 tirava fuori il machete per mettergli paura e il pover'uomo se ne andava. Era un figlio di puttana. Riusd sempre a spuntarla. Se la faceva anche con le sue stesse figlie. Tutti lo sapevano, ma nessuno ha mai fatto niente. Le
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povere figlie passavano la vita rinchiuse in casa e non uscivano neppure per prendere il sole. Da tanto che vivevano rinchiuse, sembravano fantasmi. Nella zona, la gente non sapeva com'erano, se belle o brutte, niente. Lui le teneva soltanto per il proprio piacere. Non ho mai visto queste ragazze, ma so che è vero perché tutti lo raccontavano. All'Ariosa, le notizie arrivavano come il vento. C'era chi diceva che Tajé, dopo essersi fottuto le donne dei villaggi intorno, le uccideva e le seppelliva in un formicaio. Questo è esagerato, anche se di questo bastardo sono pronto a credere tutto. I suoi passatempi erano criminali: un tipo d'uomo che non pensava a divertirsi né al gioco. Non pensava a niente che non fosse per far male. Durante la guerra mi toccò obbedire ai suoi ordini. Per colpa di Maximo Gémez che lo nominò capo di uno squadrone. Tornando alle donne: questo era di sicuro il tema principale. Anche se in modo diverso. Uno andava a parlare con gli amici o, meglio, con i conoscenti, e loro gli raccontavano tutto quello che facevano con le donne. Io non sono mai stato d'accordo a raccontare i fatti miei. Ogni uomo deve imparare a essere riservato. Invece, questi pettegoli, ti dicevano tranquillamente: «Senti, Tizio, domani vado a letto con la tale». Se parlavano con me, io facevo finta di non sentire per mantenere le distanze. Non mi sono mai piaciuti questi pettegolezzi. Per questo, resto con il mio gioco, che è un passatempo piu sano. All'Ariosa si giocava a domino e c'erano buoni giocatori. Il domino era abbastanza difficile. Bisognava avere la testa lucida. Giocavamo alla convidada e al tin tin tin, che era proibito. Se la guardia pescava uno che giocava, lo riempiva di frustate. Siccome io mi annoiavo in questo labirinto del domino, andavo sull'aia o ascoltavo i vecchi e i giovani quando si mettevano a raccontare le visioni. Tutti gli uomini hanno le loro visioni e molti non ne parlano. Secondo me le visioni dicono la verità e bisogna tenerne conto. Non temerle, ma tenerne conto. Io
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ne ho avute molte, diverse. Alcune mi hanno fatto pensare. Altre me le hanno raccontate; come quella di un mio amico che vedeva una fiammella uscirgli dal braccio destro. Era pericolosa perché se gli fosse uscita dal sinistro sarebbe stata morte sicura. C'è chi pensa di continuo alle visioni. E si mette là, mezzo inebetito, ad aspettare che vengano. Allora non vengono. Per questo molta gente non ci crede. I veggenti vedono quasi tutti i giorni. Anche quelli che non lo sono possono vedere, ma piu di rado. lo stesso non posso dire di essere veggente, anche se ho visto cose strane. Per esempio, una luce che mi camminava a fianco e quando raggiungeva luoghi in cui c'era denaro sepolto si fermava per prenderlo. Poi spariva. Erano i morti che uscivano con il compito di raccogliere denaro. Altre si presentavano come una luce; lo facevano per via delle offerte. Mi si attaccavano al fianco, anche loro, e non me lo dicevano, ma io sapevo che quello che volevano era che io facessi un' offerta in chiesa. Non ho mai obbedito a quest'ordine. E le luci mi si presentavano ogni momento. Ora non le vedo piu, perché vivo ritirato e queste luci appaiono in campagna. Un'altra visione erano i folletti. Madonna santa! , ogni volta che i folletti apparivano era uno spasso! lo non ne ho mai visti, ma i negri avevano per loro un' attrazione particolare. I folletti apparivano nei ruscelli a tutte le ore. Quando sentivano arrivare qualcuno, si nascondevano e sgattaiolavano sulla sponda. Uscivano a prendere il sole. Erano negretti scuri con le mani da uomo e i piedi ... I piedi non ho mai saputo come fossero, ma la testa sf, l'avevano schiacciata come quella delle rane. Proprio uguale. Le sirene erano un'altra visione. Apparivano nel mare. Soprattutto il giorno di san Giovanni. Uscivano a pettinarsi e a cercare uomini. Erano molto civette. Molte volte, si è dato il caso di sirene che si sono portate via gli uomini, nel profondo del mare. Preferivano i pescatori. Li portavano giu e, dopo averli tenuti per un certo tenipo, li lasciavano
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andare. Non so che magia facessero perché l'uomo non annegasse. Questa è una delle cose piu strane della vita. Di quelle che restano oscure. Le streghe erano un'altra di queste stranezze. Al1' Ariosa ho visto come ne prendevano una. La presero con sesamo e mostarda e lei restò inchiodata. Se c'è un granello di sesamo in terra, non si possono muovere. Le streghe, per uscire, si toglievano la pelle. L'appendevano dietro la porta e uscivano cosf, in carne viva. Qui non ce ne sono piu perché la guardia civile le ha sterminate. Non ce n'è rimasta traccia. Erano tutte delle Canarie. Cubane, non ne ho mai viste. Volavano qui tutte le notti, dalle Canarie ali' Avana, in pochi secondi. Anche oggi, che la gente non è piu tanto paurosa, lasciano una luce accesa nelle case dove ci sono bambini piccoli, perché le streghe ne stiano lontane. Se no, sarebbe la fine, perché sono molto avide di bambini. Un'altra visione sicura è quella dei cavalieri senza testa. Cavalieri in pena. Mettevano una paura spaventosa. Un giorno mi sono imbattuto in uno di loro e mi ha detto: «Vai lf a raccogliere centenes ». Mi vennero i brividi e quando andai per prenderli trovai soltanto carbone. Era un morto burlone che non aveva croce sulla tomba. Figlio di puttana maledetta, non si è piu fatto vedere! Questi morti erano tremendi. E io credo che, nonostante siano morti, rompano le palle piu dei vivi! Tutte le stregonerie si facevano nelle piantagioni. I filippini si interessavano molto alle stregonerie. Si avvicinavano ai negri, andavano persino a letto con le negre e tutto il resto. Sono sempre stati criminali. Se qualcuno moriva, lo seppellivano con un negro che poi usciva vestito di rosso a mettere paura. Queste visioni capitavano perlopiu ai vecchi. I giovani, a dire il vero, le vedevano poco. Del resto, anche oggi un giovane non ha la facoltà di vedere. I giovani non sentivano nemmeno le voci. Le voci dei campi. Uno camminava per una strada di notte e
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sentiva un grido o un ronfare. Io, che ci ero abituato, non mi spaventavo molto. Io ero fatto per sentirli. Sempre a S;mta Clara, dicevano che nel letamaio dei porci degli Alvarez, di notte, si sentiva ronfare. A me, vengono a raccontarla! lo non ho mai visto queste figure. Mi è sempre sembrato, anche se altri dicono il contrario, che questi siano spiriti in pena: chiedono una messa o una preghiera. Quando hanno compiuto la loro missione, spariscono. Chi li guarda male, ci rimette. Tutte queste sono cose dello spirito e bisogna affrontarle senza vigliaccheria. I vivi sono piu pericolosi. Non ho mai sentito dire che lo spirito di qualcuno abbia riempito di botte un altro. Ma quanti vivi ci sono che si scotennano tutti i giorni! Questo è il problema. Bisogna prenderlo cosi. Né piu né meno. Se il morto si avvicina a uno, non si deve fuggire, ma chiedere: « Che cosa vuoi fratello?» Allora lui risponderà o ti porterà in qualche posto. Mai voltargli le spalle. Dopotutto, non si può dire che siano nemici. La gente di una volta aveva un certo timore dei morti. Anche i cinesi si spaventavano e spalancavano gli occhi. Se la facevano sotto ogni volta che un compaesano moriva. L'uomo aveva appena tirato le cuoia che i cinesi scappavano correndo e lo lasciavano solo. Solo, soletto. Il morto non diceva niente. Che cosa poteva dire? Dopo qualche ora, si riunivano e incaricavano un cubano di prepararlo e di seppellirlo. Allora andavano nelle loro stanze e, secondo me, cucinavano perché poi usciva un odore buonissimo, che non era d'oppio. Questa paura non riesco a spiegarmela, non so in che cosa consista. In queste cose, i congos si comportavano diversamente. Non avevano paura dei morti. Restavano seri e silenziosi, ma senza paura. Quando un conga moriva, non si poteva piangere. Bisognava pregare molto e cantare sottovoce, senza tamburi. Poi portavano il morto al cimitero, che era vicino alla piantagione, e lo lasciavano sepolto cosi com'era. Là non c'erano casse in cui
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metterlo. O, perlomeno, non si usavano. Io credo che sia meglio andarsene cosi anziché rinchiusi senza poter fare nulla in tutta quella oscurità. Sopra la fossa in cui lo seppellivano rimaneva un mucchietto di terra: sul mucchietto mettevano una croce di legno di cedro perché il morto avesse protezione. I congos dicevano che un morto non si poteva lasciare a occhi aperti. Glieli chiudevano con lo sperma, cosi rimanevano incollati. Se gli occhi si aprivano era un brutto segno. Lo mettevano sempre supino. Non so perché, ma mi sembra che questa fosse l'usanza. Lo vestivano con scarpe e tutto. Se il morto era palero, doveva lasciare la sua prenda. Quasi sempre, quando un conga si ammalava, lasciava detto chi avrebbe potuto ereditare. Allora la prenda restava nelle mani di questa persona. Se questa persona non era in grado di tenersi la prenda, bisognava gettarla nel ruscello perché la corrente se la portasse via. Perché chi non era in grado di capire l'importanza di una prenda ereditata, si rovinava la vita. Queste prendas si rivoltavano come dannate. Ammazzavano chiunque. Per preparare una prenda che funzioni bene, bisogna raccogliere pietre, bastoni e ossa. Questa è la prima cosa. I congos, quando cadeva un fulmine, si imprimevano bene in mente il posto; passati sette anni andavano, scavavano un po' e tiravano fuori una pietra levigata per la cazuek Anche la pietra dell'avvoltoio andava bene per la potenza che aveva. Bisognava stare attenti al momento in cui l'avvoltoio deponeva le uova. Ne deponeva sempre due. Uno lo si raccoglieva con cura e lo si faceva bollire un po'. Poi lo si riportava al nido. Lo si lasciava li finché dall'altro uovo usciva il piccolo. Poi si aspettava che l'avvoltoio andasse al mare. Perché l'avvoltoio pensava che anche l'uovo bollito avrebbe dato il suo frutto. Dal mare portava una «virtu». Questa virtu era una pietruzza rugosa che metteva nel nido vicino all'uovo. La pietruzza aveva un potere magico molto forte. Dopo poche ore, dall'uovo bollito usciva il piccolo. Questo è sicuro. Con questa pietruz-
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za si preparava la prenda; e non c'era da scherzarci su. Una prenda simile, non la poteva ereditare chiunque. Per questo motivo molti negri congos morivano tristi. C'è gente che dice çhe quando un negro moriva se ne andava in Africa. E una bella bugia. Come fa un morto ad andare in Africa? Quelli che ci andavano erano i vivi, che scappavano appena potevano. Una razza speciale, audace, che gli spagnoli non vollero piu portare a Cuba, perché non era un affare. Ma i morti, macché! I cinesi, si, morivano qui e - cosi almeno raccontavano - resuscitavano a Canton. Ciò che succedeva ai negri - oggi come ieri - è che lo spirito lasciava il corpo e si metteva a vagare per il mare e per l'aria. Proprio come quando la lumaca lascia il suo guscio. Questo guscio si reincarna in un'altra lumaca, in un'altra e poi in un'altra. Per questo ce ne sono tante. I morti non si mostrano con il loro corpo di morti. Escono come spiriti. All'Ariosa ne appariva uno che si chiamava, mi sembra, Faustino Congo. Beveva acquavite come una bestia. Appariva perché aveva soldi sepolti in giare. Una volta si seppelliva il denaro cosi; non c'erano banche. Un giorno due spagnoli che stavano zappando, trovarono la giara e si arricchirono. Da allora Faustino non apparve piu. Perché appariva per fare la guardia alla giara. Sembra che questi spagnoli fossero suoi amici. E lui volle fargli questo regalo. Restarono in giro molte monete, e la gente si mise a raccoglierle. Gli spagnoli fuggirono. Se no, avrebbero dovuto dare il cinquanta per cento al governo. Siccome Faustino non apparve piu, la gente si dimenticò di lui. Ma io mi ricordo bene com'era. Però non voglio pensarci troppo, perché mi affatica. Pensare stanca. Anche oggi c'è gente che non crede nell'apparizione dei morti, insomma a niente di questo. Il fatto è che non hanno visto niente. I giovani che non credono, è perché non hanno visto. Ma si stancano lo stesso: pensano ad altre cose del tempo moderno, ai popoli del mondo, alle guerre e a tutto il resto.
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Cosi sprecano il tempo e non si divertono. Altri affogano nei vizi e negli imbrogli. Tra i vizi e questo modo di mettersi a pensare, passa la loro vita. E anche se uno glielo dice, non ci badano. E non credono. E neppure ascoltano. Io una volta ho raccontato a un giovane la storia del diavoletto, e mi ha detto che era una bugia. Ma sebbene sembri falso, è vero. Un uomo può creare un diavoletto. Sissignore, un diavoletto. Un vecchio conga della piantagione Timbirito, mi insegnò a farlo. Passava le ore a parlare con me. Non faceva che dirmi che dovevo imparare a fare stregonerie, perché ero serio e riservato. Bisognava sentirlo, quando raccontava. Aveva visto tutto, le cose della terra e quelle del cielo. In realtà era un poco stizzoso, ma io lo capivo. Non gli ho mai detto: «Tu non sai quello che dici». Né ho mai riso di lui. Questo vecchio era come un padre, per me. Insomma, tornando alla storia del diavoletto, mi insegnò a farlo. Un giorno che passavo di là, mi fece sedere da solo in un posto, mi guardò e cominciò a dirmi: «Ragazzo, va' dove ti dico io e ti regalerò una cosa». Io pensavo che fossero soldi o qualche amuleto. Invece niente. Continuò con la sua parlata mezzo ingarbugliata: «Tu, ragazzo, essere stupido». E mi fece vedere una boccetta che tirò fuori dalla tasca: « Guarda, tu vedi questo? Con questo, io farò te una cosa». Allora, mi resi conto che era un affare di stregoneria. Imparai a fare il diavoletto, ad allevarlo e tutto. Per questo, bisogna avere molto coraggio. Bisogna avere un cuore duro come un baccalà. Non è difficile. Bisogna prendere un uovo di gallina fecondato; deve essere fecondato, se no non serve. Si mette al sole due o tre giorni. Quand'è caldo, lo si mette sotto l'ascella per tre venerdi di seguito. Al terzo venerdi, invece di un pulcino nasce un diavoletto. Un diavoletto del colore del camaleonte. Allora si prende il diavoletto, lo si mette in una boccetta trasparente, per poterci vedere dentro, e ci si versa vino secco. Poi lo si conserva nella tasca dei pantaloni, stando bene attenti che non scappi, perché que-
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sti diavoletti sono molto combattivi. Muovono molto
il codino. Cosi si ottiene quello che si vuole. È chiaro che non si può chiedere tutto di colpo. Bisogna farlo poco a poco. C'è un periodo dell'anno in cui bisogna disfarsi del diavoletto, perché ci si è stati insieme abbastanza. Allora lo si porta al ruscello di notte e lo si butta li perché la corrente lo porti via. Questo si, lo stregone che lo porta non può piu passare per il ruscello. Se venti volte passa di là, venti volte gli cade tutto il male addosso. È bene fare tutti questi traffici di martedi, almeno cosi ho sentito dire. Quando uno stregone voleva fare incantesimi, soprattutto malefici, sceglieva il martedi. I martedi sono i giorni del diavolo, per questo di martedi succedono tanti guai. Sembra che il diavolo, dovendo scegliere un giorno, si sia deciso per questo. In verità, ogni volta che sento questa parola, martedi, solo cosi, martedi, mi irrigidisco dentro, sento il demonio in persona. Se dovevano preparare una cazuela stregata dal mayombe ;udio, la facevano di martedi. Cosi aveva piu potere. La si preparava con carne di bue e ossa di cristiano. Stinchi, soprattutto. Gli stinchi vanno bene per i malefici. Poi si portava in un formicaio e si seppelliva Ii. Sempre di martedi. Si lasciava nel formicaio per due o tre settimane. E un giorno, ancora di martedi, la si andava a dissotterrare. Allora si faceva il giuramento che consisteva nel dire alla prenda: «Io farò del male e farò il mio dovere verso di te». Questo giuramento lo si faceva a mezzanotte, che è l'ora del diavolo. E il giuramento del congo era un contratto col diavolo. Con Endoqui. Il giuramento non era un gioco né una favola. Bisognava avere fede, se no uno poteva anche morire di colpo. Molta gente che muore cosi, senza malattia, è per castigo del diavolo. Dopo aver fatto il giuramento e dissotterrato la prenda, la si portava a casa, si metteva in un angolo, e si circondava di cose per alimentarla. Le si dava pepe di Guinea, aglio e peperoncino rosso pie-
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cante, la testa di un morto e uno stinco avvolto in un panno nero. Questo involto, si metteva sulla cazuela e ... guai a chi lo guardava! La cazuela cosi com'era quando arrivava a casa non serviva, ma quando le si mettevano intorno tutte queste cose, spaventava il dt:;_monio. Non c'era maleficio che non si potesse fare. E anche vero che la cazuela aveva la sua pietra di fulmine e la sua pietra d'avvoltoio, che erano il Male stesso. Ho visto fare, con la cazuela, i malefici pia terribili. Ammazzavano gente, deragliavano treni, incendiavano case ... Quando uno sente parlare del Maligno, deve restare tranquillo e rispettarlo. Il rispetto apre tutte le porte. Proprio perché io ero cosi, riuscivo a capire tutte queste cose. Quel congo di Timbirito mi ha raccontato molti dei suoi incontri con il diavolo. Lui lo vedeva ogni volta che voleva. Io penso che il diavolo sia un profittatore. Per far male e divertirsi, obbedisce quando lo chiamano. Ma se lo chiamano per fare il bene, vaffanculo! Chi vuole trafficare con lui deve prendere un martello e un chiodo grande. Me l'ha raccontato questo vecchio. Un martello, un chiodo e basta. Si cerca un albero giovane all'aperto, e sul tronco si dànno tre martellate forti, perché lui le senta. Quando quel maledetto sente la chiamata, viene. Viene tranquillo e facendo finta di niente. A volte si veste elegante come gli uomini. Non arriva mai da diavolo. Non gli conviene far paura, perché già al naturale è strano e terribile. Arriva rosso come la brace, con la bocca piena di fuoco, e una lancia fatta a uncino in mano. Quando arriva gli si può parlare normalmente. Però bisogna essere molto chiari nel parlare, perché per lui gli anni sono giorni. E se uno gli promette di fare una fattura in tre anni, lui capisce tre giorni. Chi non sa questo trucco è fottuto. Io lo sapevo fin dai tempi della schiavitu. Il diavolo calcola in modo diverso dall'uomo. Ha un altro metodo. Nessuno è piu di lui propenso a fare il male. Non so come sia ora, ma prima aiutava in tutto; Si dava da fare e faceva andare bene le cose.
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Chiunque poteva ricorrere a lui. Molti dell' aristocrazia lo chiamarono. Conti e marchesi. Quelli stessi che si dicevano cristiani e massoni. Non mi hanno mai persuaso con questa storia della massoneria. Dove c'è mistero, c'è lo stregone. E nessuno era piu misterioso dei massoni. Sono sicuro che nella loro religione c'è il diavolo. Anche se questa storia del diavolo dei congos l'hanno imparata dagli stessi vecchi. I vecchi insegnavano ai conti e ai marchesi a fare incantesimi. E dicevano: «Mentre fai il mayombe, tu sei padrone della terra». I conti facevano tutto quello che i vecchi ordinavano. Prendevano terra dai quattro punti cardinali, l'avvolgevano in cartocci di mais e facevano quattro mucchietti a cui legavano quattro zampe di gallina e li portavano alla cazuela, perché il maleficio si compisse. Se c'era qualcosa che non andava, colpivano la cazuela con la saggina, e via! Quelle cazuelas acquistavano una forza terribile. Si rivoltavano e respingevano chiunque. I congos usavano molti tipi di amuleti. Un qualsiasi bastoncino o un osso potevano essere buoni amuleti. Ne ho usati anch'io quando ero all'Ariosa. Anche in guerra. Ne avevo uno che mi ha aiutato molto. Grazie a lui, non mi hanno mai ammazzato. Mi hanno ferito una sola volta, però a una coscia, e mi hanno curato con la canfora. Il migliore degli amuleti si fa con le pietruzze. Basta riempirne un sacchettino di cuoio e poi legarselo al collo. Ciò che non si può fare è abbandonarlo. Ogni tanto bisogna dargli da mangiare come alle persone. Il tipo di cibo lo stabilisce il padrone della prenda, che è quello che dà gli amuleti. Quasi sempre si nutrono di aglio e peperoncino rosso piccante. Gli si dà anche da bere acquavite e li si strofina con pepe di Guinea. Quando uno di questi stregoni negri consegnava un amuleto, guardava bene uno in faccia, gli prendeva le mani, gliele stringeva ben forte tra le sue e le teneva per un attimo unite. Anzitutto, uno doveva garantire allo stregone che con. l'amuleto non avrebbe fatto niente
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di male. E niente storie di sesso mentre lo portava addosso. L'amuleto è una cosa delicata. Andare con una donna gli faceva perdere le virtu. Avrebbe avuto sfortuna per molto tempo. Inoltre, le donne fanno deperire. Dopo eh~ uno ha fatto le sue cose con loro, se vuole rimettersi l'amuleto deve sfregarsi le mani con la cenere per placare e spaventare il Maligno. Se no, lo stesso amuleto si ribella. Le donne fanno perdere le virtu a tutto, dagli amuleti alle cazuelas. Perciò per loro ci sono formule speciali. Possono essere streghe, ma non lavorano con le cazuelas degli uomini. Ce ne sono di piu potenti e coraggiose degli uomini. Io credo che vadano anche meglio per pulire e rinfrescare. Nessuno sa farlo meglio di loro. Non mi ricordo chi sia stata quella che mi ha insegnato il sistema delle l~tte di petrolio, ma so che è accaduto molti anni fa. E il sistema migliore per rinfrescare. Basta prendere una latta di petrolio e riempirla di erbe e d'acqua. Sono erbe che si trovano nei giardini dei ricchi. Si fa un miscuglio di basilico, tè del Messico, di un'erba che si chiama piii6n de botija, e si mette nella latta con un po' di zucchero e di sale. Si porta la latta in un angolo della casa e dopo due giorni si innaffia dappertutto. L'acqua imputridisce, ma rinfresca. Dopo uq po' si sente un fresco delizioso che entra dalle porte. E la cosa piu salutare che ci sia. Se si vuole, ci si può fare anche il bagno, senza metterci il sale e lo zucchero. Il bagno si deve fare a mezzogiorno, con il sole a picco. Sette bagni sono sufficienti per una buona pulizia. Un tempo, i bagni si facevano tutti i giorni. I congos li facevano per mantenersi sani. Questo si chiamava ganguleria, benché la gente dica che è cosa di spiriti. Lo spirito è inferiore allo stregone. Io non badavo molto a quello che mi dicevano. Facevo solo certe cose per scaramanzia. Gli uomini fatti come me non sono molto propensi alla stregoneria perché non hanno
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pazienza. Mi interessavano, piu che altro, gli scherzi e le prese in giro. E cosi, non si può fare stregoneria: Mi piaceva vedere e ascoltare per verificare. Quello che mi dava noia era sentirmi dire che questa o quella cosa non si poteva toccare o conoscere. Allora mi intestardivo e volevo venirne a capo. Una volta ho fatto un brutto scherzo che, quando me ne ricordo, mi dà i brividi. I brividi! Il fatto è che vado in casa di un santero e comincio a curiosare nelle stanze, nelle credenze, tra le soperas, dappertutto. Il santero mi vede e non mi dice niente. Vado nell'ultima stanza, dove c'erano i tamburi, i panni bianchi, le soperas e i santi. Mi siedo li e comincio a rimpinzarmi di banane, biscotti dolci di melassa e noci di cocco. Quando esco, ancora con la l:Jocca piena, incappo nel santero che mi guarda e mi chiede: «Che c'è?» Non gli dico nulla e quello prosegue. Però mi sembra che bastò questo a farmi tremare le gambe, e tremavo tremavo come se fossi ammalato. Bene, dovetti andarmene. Il fatto è che questa tremarella non aveva motivo, perché il santero non mi aveva pescato. Se l'avesse fatto, allora si. Il cibo che si offre ai santi non si deve neppure toccare. Però, quando la fame torce le budella, non si è piu padroni di sé. Tra i congos, una cosa cosi non si poteva fare nemmeno per scherzo. Guai se un conga avesse visto qualcuno ficcare il naso dove non si deve! Potevano anche fargli del male. I congos hanno piu potenza dei lucumi. Hanno la test~ piu dura. Nei loro sortilegi si servono di certe cose. E tutto a base di bastoni, ossa, sangue, alberi ... I congos dànno molta importanza all'albero. Tutto nasce e finisce nell'albero. È come un dio. Gli si dà da mangiare,' parla, chiede, lo si cura. Essi ottengono tutto dalla Natura e dall'albero che ne è l'anima. La stregoneria deve servirsi degli alberi e delle erbe. In tutte le piantagioni, durante la schiavitu, c'erano sterpaglie e anche alberi buoni. Per questo il luogo era favorevole ai congos. All'Ariosa c'erano grandi terreni se-
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minati e anche luoghi selvatici. In quei monti nacque e si sviluppò la stregoneria. Vengono fuori spiriti, luci e tutte le cose che mi sono visto passare davanti e che poi, con il tempo, sono andate sbiadendo nel ricordo. Cose che noi stessi non sappiamo come sono, né che forma hanno. I misteri, cioè. La cosa piu emozionante che io abbia mai visto in vita mia, è stata la trasformazione dei vecchi congos in animali, in belve. Questo, cazzo, era pazzesco! Erano malefici tali che a uno gli si rizzavano i capelli e gli veniva la pelle d'oca. A volte dicevano che il tale palero era uscito dall'aia trasformato in cane o in gatto. Oppure, qualche negra usciva con i capelli ritti gridando: «Ahimè, aiuto, ho visto un cane grande come mio marito! » Questo cane poteva essere il marito in persona, in forma di cane, vo~lio dire. Io credo di non aver mai visto queste cose, però anche i racconti facevano abbastanza spavento. E, in quegli anni, la gente passava la vita a raccontarne di tutti i colori. A pensare che un cane rabbioso potesse essere un vecchio conga violento, a chiunque veniva la pelle d'oca. Poi, cose di questo genere non se ne sono piu viste a Cuba. Perlomeno, nessuno è venuto a raccontarmi cose simili. A volte penso che succedeva perché qui c'erano molti africani. Oggi, africani, a Cuba, non ce ne sono piu. E la gente del giorno d'oggi è molto indifferente nei confronti della religione. Credono che la vita non sia altro che mangiare, bere, dormire e i soldi. Per questo siamo ridotti cosi. Guerre di qua, guerre di là. Una fede ci vuole. Credere in qualcosa. Altrimenti siamo fottuti. Chi non ci crede oggi, nei miracoli, ci crederà domani. Prove ce ne sono tutti i giorni. Alcune piu forti di altre, ma tutte ben motivate. Ci sono momenti in cui uno, anche se si sente ben sicuro, perde le staffe. Si demoralizza. In quei momenti non ci sono né miracoli né santi che tengano. Però poi passa. L'uomo vive e pensa serenamente. In quei momenti uno si sente dentro come un gran
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caldo, un gonfiore, e balbetta; allora non pensa; e, se lo fa, pensa male. Da H viene il pericolo. In quei momenti, per alleviare questa sensazione, bisogna avere sempre dell'acqua fresca, da qualche parte. Due o tre settimane bastano per rinfrescare l'atmosfera. L'acqua fresca fa molto bene. Secondo me, decongestiona il cervello. Dura a lungo senza andare a male. Se l'acqua ~i consuma troppo, bisogna riempire di nuovo il vaso. E segno che funziona bene. Nelle baracche, ciascuno aveva il suo vasetto d'acqua e le sue erbe appese al muro. Nessuno era scemo. Non ho mai visto la casa dei padroni all'interno, ma sono sicuro che anche loro ne avevano. Erano abbastanza credenti. , Il cattolicesimo va sempre a finire nello spiritismo. E una cosa che bisogna dare per scontata. Un cattolico puro non esiste. I ricchi di un tempo erano cattolici, però di tanto in tanto ricorrevano alla stregoneria. I sovrintendenti, neanche a parlarne. Tenevano sempre d'occhio i negri stregoni, dalla paura che avevano. Sapevano bene che, se gli stregoni avessero voluto, avrebbero potuto spaccargli la testa. Anche oggi c'è molta gente che dice: « Sono cattolico apostolico». Ma va'! Vadano a raccontarla a un altro. Qui, chi piu chi meno, ognuno ha il proprio quadernetto con le formule magiche, le proprie credenze. Nessuno è cosi puro. Tutte le religioni si sono mescolate, qui, in questa terra. L'africano ha portato la sua, la piu potente, e anche lo spagnolo ha portato la sua, ma non è cosi potente. Bisogna rispettarle tutte. Questa è la mia politica. Le religioni africane hanno molti divertimenti. Si balla, si canta, ci si diverte, si lotta. Ci sono il mani, il palo, la quimbumbia. Quando tramontava il sole, si formavano i gruppi. Quimbumbia e stregone erano la stessa cosa. Quasi sempre si usavano i tamburi. Gli stessi tamburi con cui si facevano gli incantesimi. La quimbumbia era roba da congos. C'è stato un tempo in cui due gruppi di negri stregoni facevano una gara. Met-
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tevano, ben piantato, un albero di banane nel centro del cerchio. Allora ogni stregone faceva sortilegi all'albero perché partorisse. Gli passavano davanti e si inginocchiavano, gli gettavano tre o quattro sorsate di acquavite e chi riusciva a far si che la pianta partorisse, aveva vinto. Il vincitore mangiava i frutti e, se voleva, li divideva tra i suoi. All'occasione, per far festa, suonavano i tamburi e ballavano. Quello che vinceva lo chiamavano «il gallo» e lo incitavano a ballare. Ogni volta che questi gruppi andavano a giocare la quimbumbia, prendevano una manciata di stecchi di rovi robusti e li legavano. Facevano mazzi di cinque stecchi per fortificarsi. Secondo me, questa quimbumbia non era poi cosi malvagia. Ce n'era un'altra che era piu violenta. Si faceva spiumando bene un gallo vivo e ammazzàndolo. Tutte le piume e le frattaglie si mettevano in una cazuela grande per cucinarle. Dopo aver cucinato il gallo, lo si mangiava. E le ossa che restavano si gettavano nella cazuela: ossa di gallo che sono le piu potenti. Questo gallo fregava tutti perché, dopo che lo si era mangiato, quando meno la gente se l'aspettava, usciva dalla cazuela. Usciva in mezzo al frastuono e al rumore dei cueros. Sembrava intero. E lo era. Questa quimbumbia si giocava il martedi, perché era una stregoneria maligna. Con questo gallo si facevano un'infinità di fatture di stregoni. La quimbumbia si giocava quasi sempre di notte. In quell'epoca, è chiaro, non c'era elettricità e le piantagioni erano illuminate con lampade a petrolio. Si faceva la quimbumbia alla loro luce. Anche se per gli incantesimi va bene l'oscurità. Gli spiriti, con la luce, non vengono giu. Sono come gli albini, che vedono solo di notte. La prima elettricità arrivò a Santa Clara. Proprio in città. La fece arrivare Marta Abreu, la benefattrice. All'Ariosa non fu messa fino ... mah, non mi ricordo, però fu dopo che l'avevano messa al Caracas. Il Caracas è stato il primo posto dov'è arrivata la luce elettri-
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ca, nella zona di Lajas. Il Caracas è lo zuccherificio piu grande di Cuba. I padroni erano milionari, perciò comprarono la luce. Di cognome si chiamavano Terry. Non so bene da dove guardavo, da un albero o da un tetto: ciò che vedevo erano le luci del Caracas, che erano una meraviglia. Nelle baracche, si faceva chiaro con le lampade apetrolio. Si compravano nella bottega. Immagino che gli altri padroni provavano un po' d'invidia vedendo tutta questa illuminazione e questo lusso al Caracas. Il fatto è che i Terry erano aristocratici, molto raffinati. Andavano in Francia tutti gli anni. Il maggiore era don Tomas Terry. L'ho visto molto da lontano. Non era un uomo della sua epoca, per le idee che aveva. Emilio, suo figlio, era della stessa pasta. Però don Tomas era meglio. Tutti nella piantagione lo amavano. Lui si faceva amico dei congos per il loro bene. Li aiutava abbastanza. Giunse persino a dare soldi perché i congos fondassero i loro cabildos. Li trattava bene. La gente diceva che si divertiva a vedere ballare i negri. C'era un cabildo congo fondato da don Tomas a Cruces e un altro a Lajas. 1o li ho visti tutt'e due e ci sono stato. Andavo a cercare donne. C'erano certe negre! Chi si metteva a fare volgarità, veniva cacciato via come un ladro. Queste negre si facevano rispettare. Mi ricordo che al cabildo di Cruces c'era una fotografia di don Tomas Terry. Magari tutti i padroni di schiavi fossero stati come lui e i suoi figli! Non so piu niente di loro. Devono essere in Francia che passeggiano e vivono da milionari. All'Ariosa era diverso. Non era affatto miserabile, ma non aveva il lusso e il modo di presentarsi del Caracas. Il capannone delle caldaie era illuminato da grandi fanali a gas. E anche l'aia, al tempo della za/ra; nella stagione morta invece era nero come la bocca di un lupo. All'ingresso delle baracche lasciavano sempre una lucetta accesa. Ed era tutto. Per questo gli uomini si annoiavano e non facevano che pensare alle donne. La mia ossessione era ed è questa. Continuo a pensare che
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le donne sono la cosa piu bella della vita. Quando adocchiavo una donna, bisognava vedermi. Ero come il diavolo. Tranquillo, ma pronto. Le donne di Remedios avevano fama di belle ragazze. Per vederle, la miglior cosa era andare alle feste che vi si davano tutti gli anni. Mi sembra di essere stato a una decina di queste feste. Le ho viste tutte. Erano feste religiose e di divertimento. Tutt'e due le cose. Piu religiose, però. Tutte le feste hanno i loro divertimenti, se no non sono feste. La serietà, a Remedios, era per la religione. Quello è sempre stato un villaggio molto religioso e molto serio. Tutte le case avevano altari con santi, femmine e maschi. Ce n'erano di belli e di brutti. Gli abitanti di Remedios avevano fama di celebrare feste nella Settimana Santa. Trascorrevano quasi tutta la settimana in lutto, molto seri e silenziosi. Non permettevano a nessuno di entrare nel villaggio a cavallo e tantomeno di mettersi gli speroni. Erano giorni di raccoglimento. I treni non potevano fischiare. C'era un silenzio da cimitero. Il giovedf santo non si poteva scopare la casa perché i bianchi dicevano che era come scopare la testa a Dio. Non ci si poteva lavare perché l'acqua diventava sangue. Ce n'è da raccontare! Non si uccidevano uccelli né porci. C'era il loro lutto, dei bianchi, e dicevano che chi mangiava era un peccatore e meritava un castigo. Però, in quei giorni, ho visto molti contadini rimpinzarsi di porchetta. C'erano molte strane usanze a Remedios, soprattutto nei giorni della Settimana Santa. Le conosco abbastanza bene perché il villaggio mi piaceva e ci andavo spesso. L'Ariosa era vicina. Ricordo un'usanza che obbligava i cugini che volevano sposarsi a pagare una dispensa a Dio. I matrimoni tra cugini erano malvisti e perciò dovevano pagare per non cadere in peccato. E chiaro che questo sistema conveniv~ ai preti. Era un altro dei loro trucchi per fare soldi. E vero che sposarsi tra cugini è brutto, ma quando un uomo si mette in testa una donna non c'è Dio che lo tenga.
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Una cosa che si faceva in segreto, in quei giorni, era giocare al domino o alle carte. Il sabato santo, quando si rompeva il raccoglimento, la gente giocava nei loggiati. Gli altri giorni doveva nascondersi. Il gioco dei birilli era proibito tanto severamente che non lo giocavano neppure di nascosto. A Remedios c'erano tre giochi di birilli grandi, fuori uso. Con le carte si faceva la riffa. Si compravano due carte. Quello che le comprava le firmava con il suo nome o con qualche segno sul rovescio. Quello stesso che faceva l'estrazione, teneva il banco. Poi si prendeva un coltello e si alzava la carta. Se usciva il numero sette si prendeva la riff a. Questo del numero sette nessuno lo sa, è un mistero, come il numero tre e l'otto, che rappresenta la morte. In silenzio e in segreto si giocava meglio. La cosa aveva piu fascino. Nella Settimana Santa, i bianchi ricchi non giocavano a niente di tutto questo. Dicevano che era lutto stretto per la morte di Cristo. Secondo me, imbrogliavano la gente. lo so che Cristo è figlio di Dio. Che venne dalla Natura. Però questa storia della morte è ancora oscura. La verità è che l'ho visto molte volte, ma non l'ho mai conosciuto. Durante la Settimana Santa si lavorava in tutti gli zuccherifici: tranne il lunedf, il martedf, il sabato santo e dopo le dieci della mattina, quando Cristo erarisuscitato. I padroni aspettavano che Cristo uscisse dal sepolcro per ricominciare a sfruttare la gente. C'era chi dopo la Resurrezione si metteva a fare stregonerie. A Remedios, la festa cominciava a quell'ora. Il sabato santo era il giorno piu divertente dell'anno. Si bruciava il Giuda come nelle feste di san Giovanni. Il Giuda era un fantoccio grande e grosso che si impiccava a una fune e poi si bastonava. Poi lo si bruciava bene fino a farlo scomparire, perché era il simbolo della perdita e del tradimento a Gesu. Il Giuda era sempre il nemico dei cristiani, quello che aveva assassinato Cristo, come dicevano i bianchi. Assassinò Cristo in una guerra di giudei. Tutto questo me l'hanno raccontato una volta, ma con gli anni me lo sono un po' dimenticato. Quello che
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so è che è esistito e che è stato l'assassino di Cristo. Questo sf che è sicuro. Non ho mai visto un villaggio piu attaccato alle tradizioni di Remedios. Facevano tutto· secondo le loro manie. E guai a non rispettarle! Durante le feste il dovere di tutti gli abitanti di Remedios era di andare a divertirsi. E, nella Settimana Santa, chi non credeva alla religione lo prendevano per,un traditore. O dicevano che aveva Satana dietro. E naturale che queste cose le facevano tra loro, perché ai contadini non dicevano niente. Andavano in chiesa e alle feste perché erano abbastanza religiosi. I genitori obbligavano i figli a recitare preghiere e a cantare nelle messe e per le strade. Si stava a vedere questi uomini grandi e grossi che cantavano e veniva da ridere per quanto male lo facevano. Giravano per le strade vestiti di nero, con ceri e libretti in mano. Le donne ricche portavano in testa ornamenti grandi, come un pettine che si apriva e aveva spilloni. Stavano bene. Una volta i figli non avevano autonomia. Soltanto a venticinque anni potevano decidere qualcosa da soli. I padri li tenevano sotto la loro autorità. Perciò tutti andavano in chiesa e pregavano. Era la stessa cosa in campagna e nel villaggio. C'era un tipo, li, che non era molto amico della chiesa. Si chiamavaJuan Celorio. Quando c'erano feste, e anche le domeniche, riuniva i bambini per parlare con loro. Era asturiano e padrone di una bottega di vino. Quando arrivavano i bambini, egli, per invogliarli, dava loro dolci, caffè e latte, pane e burro e tutto quello che chiedevano. Parlava molto con loro. Diceva che invece di andare in chiesa bisognava divertirsi. I genitori si infuriavano con lui e non lo potevano vedere nemmeno dipinto. Celorio aveva un buon carattere. I bambini, ogni volta che potevano uscire, andavano a trovarlo per mangiare. Allora Celorio gli dava vasi di latta, ferri, vomeri e corna di bue. Erano corni che venivano tagliati in punta e riempiti di cera. Venivano adornati di piume di pavone e suonati sempre per la
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punta. Il frastuono era enorme. Cosi, con quel rumore assordante e quelle latte, Celorio organizzava processioni per il villaggio. Molti vi si univano. Chi piu chi meno, ci si divertiva. Questo fu l'inizio delle famose
parrandas. A Remedios, il giorno di Pasqua, ho visto altre cose strane. Quel villaggio sembrava un inferno. Era pieno di gente. C'era da urtarsi con ricchi e con poveri. Tutti erano nelle strade. I crocicchi sembravano alveari. La cittadina era tutta in allegria, piena di luci, di fanali, di stelle filanti ... Venivano i saltimbanchi e si mettevano a ballare e a fare esercizi. Lo ricordo perfettamente: c'erano gitani, spagnoli e cubani. I cubani erano i peggiori, non avevano la grazia e l'eleganza dei gitani. Davano spettacolo nei giardini e nei saloni'. Nei parchi era molto difficile vedere quello che facevano perché la gente si stringeva a cerchio intorno a loro e li nascondeva completamente. Cantavano e gridavano. I ragazzini impazzivano di gioia con questi giocolieri che camminavano e si muovevano sul filo. C'erano anche saltimbanchi che si travestivano da burattini, con abiti a quadretti colorati, a righe, con larghi cappelli. Saltavano, regalavano caramelle, mangiavano tutto quello che la gente dava loro e si stendevano a terra per farsi poggiare sullo stomaco una pietra grande, che uno del pubblico spaccava in due con un maglio. Allora il saltimbanco si alzava e salutava. Tutti pensavano che le costole gli fossero rimaste attaccate a terra, ma non era cosf. Sapevano molti trucchi. E li facevano da tanti anni che gli andava sempre bene. Ne facevano di tutti i colori. Cosi si guadagnavano la vita. Erano simpatici e molto gentili con tutti. Un saltimbanco mangiava carta infuocata e, dopo un po', se la toglieva di bocca trasformata in nastri colorati. La fiamma si trasformava in nastri. La gente gridava di spavento perché era una cosa inspiegabile. I migliori erano i gitani. Erano comici e seri. Quando smettevano i loro esercizi erano seri e non davano confidenza. Portavano vestiti tutti pieni di ornamen-
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ti. Gli uomini erano un po' sporchi. Si mettevano panciotti e fazzoletti annodati in testa che gli scendevano sulla fronte. Fazzoletti rossi, soprattutto. Le donne vestivano tuniche lunghe e multicolori. Sulle braccia si adornavano di braccialetti e si riempivano le dita di anelli. Avevano capelli neri come il carbone, lisci e lunghi fino alla vita, e molto lucidi. I gitani venivano dal loro paese. A dire la verità, non mi ricordo quale paese fosse, però era un paese lontano. Parlavano spagnolo, questo si. Non avevano casa. Vivevano in tende. Con quattro pali e una grossa tela, si facevano un tetto. Insomma, dormivano per terra, come capitava. A Remedios, si accampavano in casolari vuoti o sotto il portico di qualche casa disabitata. Restavano pochi giorni. Solo il tempo per andare alle feste. La loro vita era questa: strada e sbronze. Quando gli piaceva qualche posto decidevano di fermarsi e si accampavano con tutta la comitiva, bambini e animali compresi. Talvolta doveva venire la polizia del governo a cacciarli via. Allora non protestavano. Caricavano i loro pali e le loro casse, e via verso nuovi orizzonti. Non avevano preoccupazioni neanche per il mangiare. Tra l'altro, cucinavano per terra. A me sono sempre stati simpatici. Predicevano il futuro, come gli stregoni. Lo predicevano con le carte. Le donne andavano in giro a leggere la sorte e quasi obbligavano la gente ad ascoltarle. E convincevano, sapevano tante cose perché avevano girato tanto il mondo. I gitani avevano scimmie, cagnolini, uccelli. Alle scimmie insegnavano a ballare e a tendere la mano per chiedere spiccioli. Erano scimmie magre, per mancanza di cibo. Anche i cagnolini ballavano e si rizzavano sulle due zampe. Io credo che a Cuba ci siano ancora questi gitani. Girovaghi come sono, potrebbero essersi sperduti qui in giro. Nei piccoli villaggi. Un altro divertimento della Settimana Santa erano le lotterie. A Pasqua, naturalmente. Mettevano in palio acqua di colonia, fazzoletti, unguenti alla rosa e mac-
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chine da cucire. Fazzoletti scadenti e colonie puzzolenti. Io non mi sono mai messo l'acqua di colonia perché mi faceva venire freddo. C'è gente che non capisce lo spirito della lotteria. Le macchine da cucire non le vinceva nessuno. Erano l'esca per i tonti. La gente andava e puntava i numeri, ma non ho mai visto nessuno portarsi via una macchina. E sf che passavano ore dietro quei banchi ad aspettare la macchina. Mi veniva una rabbia a vedere come spendevano fino all'ultimo centesimo e senza poter vincere. Se fosse stato per me, l'avrei fatta finita con queste lotterie. Soprattutto per quei poveretti che poi restavano senza il becco di un quattrino. Questo avveniva durante la Settimana Santa ed era organizzato dagli stessi religiosi. Anche oggi le lotterie sono un imbroglio bell'e buono. E tra i preti ancora di pili. Dieci anni fa, sono stato con una carovana di veterani di guerra a un santuario vicino ad Arroyo Apolo, dove ci sono molti cespugli di mamoncillos. Ci avevano invitati i preti. Uno di loro, quello che diceva messa, cercò di accalappiare i veterani con parole di Cristo e altre stupidate. Arrivò a dire, durante la messa, che i comunisti dovevano essere sterminati e che erano figli del demonio. M'incazzai, perché in quegli anni ero iscritto al Partito socialista popolare per i suoi metodi e per le sue idee. Soprattutto per le idee che volevano il benessere degli operai. In quella chiesa non ci ho piu messo piede. E tantomeno ho rivisto il prete. Ma ho saputo da un vecchio chiacchierone, che si faceva passare per mio amico, che il prete aveva dato una festa sul sagrato della chiesa e aveva organizzato una grande lotteria. Aveva incominciato a estrarre cose e tutti i veterani si erano portati via fazzolettini, calzini e altre fesserie. Io mi resi conto che era lo stesso trucco di prima. Cioè, che le lotterie continuavano a essere imbrogli. Per questo io non ci credo. Durante queste feste si facevano ensaladillas. Oggi le ensaladillas non esistono piu, però prima c'erano in
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tutte le sagre. Erano divertenti perché vi si vedevano le cose piu strane del mondo. Le ensaladillas si facevano con dei pali e con un fondale di tela decorato. Molte volte non era nemmeno decorato. Arrivavano i comici e si mettevano a fare gli stupidi. Facevano le scimmie per il pubblico. Cantavano décimas, improvvisavano storielle, barzellette, scherzi, profezie ... Tutto quello che gli veniva in mente. Era un altro modo per raccogliere denaro. Quando si facevano in una sala, la gente doveva pagare. Ci entravano negri e bianchi, indifferentemente. Ai cubani è sempre piaciuto fare ensaladillas nei teatri. All'Avana sono stato a teatro una volta e mi sembra di aver visto una ensaladilla. Era una commedia tra un negro e un bianco. Niente da fare: per me, questo è far la parte della scimmia. Da qualsiasi punto di vista lo si consideri. .. Remedios era il villaggio delle tradizioni dei tempi antichi.Usi facevano cose vecchie di anni. Era interessante vedere come nei giorni del Corpus Domini i negri uscivano dai cabildos vestiti da diavoletti con abiti dipinti a vivaci colori, cappucci che gli coprivano la faccia e sonagli alla cintura. Questi diavoletti erano come spaventapasseri per i bambini. Uscivano dai cabildos congos. Non erano iiaiiigos perché a Remedios non c'era iiaiiiguismo. Erano diavoletti dei
congos. I negri, a Remedios, avevano due circoli: quello ricreativo all'angolo della calle Brigadier Gonzalez, e quello religioso. Si riunivano in entrambi. Nella Settimana Santa, al circolo ricreativo suonava un'orchestra composta interamente da negri. Suonavano danzones e danzas. Una volta la danza piaceva molto. I negri la ballavano nelle strade o nelle sale. Non sempre l'orchestra suonava per i negri. A volte andava alla «Tertulia», che era il circolo dei bianchi, e li divertiva un po'. I musicanti ricevevano una buona paga. Io non ho mai ballato con l'orchestra. Il mio passatempo era-
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no le donne. Appena arrivavo al villaggio, fiutavo il vento e gettavo l'amo. Prendevo sempre una buona preda. La gente di Remedios, come quella degli altri villaggi della zona, mangiava presto. Era già a tavola verso le sei e mezza, sette del mattino. La colazione dei poveri era ancora prima e, se erano del circondario, ancora piu presto. I poveri facevano colazione con caffè e patate dolci. Una patata buonissima che si arrostiva nella cenere alla maniera africana. Il pranzo era verso le undici, undici e mezzo. Sulle tavole piu ricche non mancavano mai il pane, il burro e il vino. Non si usava bere acqua. Solo vino, vino e ancora vino. La cena era alle otto e mezzo o alle nove. Era il pasto piu sostanzioso della giornata. La gente del villaggio andava a letto a mezzanotte; ma in campagna, alle otto o alle nove tutti erano già sfiniti. I signorini si potevano alzare alle dieci della mattina; ma, allora, un contadino, che per mangiare doveva spezzarsi la schiena sulla terra, si alzava alle cinque del mattino al piu tardi. Si beveva molto caffè. Nelle famiglie non mancavano mai caffettiere grandi e scure, di ferro, dove si faceva il caffè. Lo si tostava in casa. Chi non aveva il macinino, aveva il mortaio. Il caffè di mortaio è quello che mi piace di piu, perché non perde l'aroma. Sarà anche un'idea mia, ma un'idea è un'idea. Prima che si estendessero le piantagioni di caffè, lo si vendeva nelle farmacie. Poi c'erano i privati che lo vendevano per la strada. Si trasformò in un grande affare. Ho conosciuto gente che faceva solo questo e basta. Vendevano caffè non tostato. Li piaceva molto anche l'agualoja. La vendevano gli acquaioli per le strade. Era fatta di acqua, zucchero, miele e cannella. Era deliziosa. Ne facevo certe spanciate! Quella delle vecchie lucumi era ottima. Non facevano economia di niente. La vendevano anche le ragazze congas. Quando un africano cucinava qualcosa, lo faceva be-
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ne. Portava la ricetta dalla sua terra, dall'Africa. Tra le cose che mi piacevano, la migliore erano i fritti, che non si fanno piu per pigrizia. Per pigrizia e sciatteria. La gente, oggi, non ha piu il gusto di queste cose. Fanno cibi senza sale e burro, cibi che non valgono una cicca.· Però, una volta, bisognava vedere la cura che ci mettevano, soprattutto le vecchie negre, per fare dolciumi. I frati si vendevano per la strada, su tavole di legno o su vassoi che si portavano in canestri sopra la testa. Uno chiamava una lucumi e le diceva: «Ma' Petrona, Ma' Dominga, venga qui». Loro venivano, tutte vestite di tela di cotone o di tela grezza, pulitissime, e rispondevano: «Fuori i soldi, ragazzino». Gli si dava un medio o due e poi si cominciava a mangiare frittelle di mandioca, di fagioli, di malanga, ciambelle ... e altre mille cose. Tutti questi cibi li chiamavano granjerias. Nei giorni di festa c'era nelle strade una folla di venditori. Però, se uno voleva mangiare dolciumi, trovava sempre una vecchia a un angolo con il suo fornello pronto. Il punch lo vendevano sia per strada che nelle bettole. Ma soprattutto per strada, nei giorni di festa. Non ho mai piu potuto dimenticare quel punch. Non c'era né arancia, né rhum, né niente di tutto questo. Era a base di tuorli d'uovo, zucchero e acquavite. Si faceva mettendo tutti gli ingredienti in un vaso di terracotta o in un barattolo grande: poi li si sbatteva con un pestello di legno fatto a pigna. Si mescolava bene e si beveva. Non ci si potevano mettere chiare perché andava a male. Un bicchiere costava un medio. Pochissimo! Il punch si usava molto nei battesimi. Tra gli africani non mancava mai. Lo bevevano per essere allegri, anche se - a dire il vero - una volta, nei battesimi, l'allegria non mancava. Si trasformava in una festa. Gli africani avevano l'abitudine di battezzare i loro figli quaranta giorni dopo la nascita. Per quel giorno, cominciavano a raccogliere monete da un medio. I bambini avevano i loro padrini e i padrini dovevano por-
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tare medios al battesimo. Cambiavano centenes, doblones e altre monete in medios. Quando ne erano pieni, con un nastro verde e rosso legavano i medios, che avevano un forellino al centro. Toccava alle ragazze infilarli. Il giorno del battesimo, i padrini arrivavano allegrissimi con i taschini pieni di medios. Taschini dritti, come quelli della esquifaci6n. Dopo il battesimo e la mangiata, andavano nel patio e chiamavano i bambini che arrivavano correndo come diavoli. Quando erano tutti riuniti, i padrini gettavano in aria i medios e i monelli diventavano matti per cercare di prenderli. Era un'altra simpatica abitudine di quell'epoca. A Remedios si faceva sempre. Da qui viene la frase: «Padrino, fuori il medio». lo sono stato padrino due volte, però non mi ricordo dei miei figliocci. Tutto cambia nella vita: uµo si ricorda di qualcuno ma si dimentica di un altro. E cosi. Non ci si può fare niente. L'ingratitudine esiste, eccome! La cosa piu bella è vedere gli uomini che stanno bene insieme. Questo si vede in campagna piu che in città. In città, in tutti i villaggi, c'è gente molto cattiva; ricchi che si credono i padroni del mondo e non aiutano nessuno. In campagna è diverso. Lf tutti devono vivere uniti, come in famiglia. Bisogna che ci sia allegria. Ricordo che in tutta la zona di Las Villas la gente si aiutava molto. I vicini erano come fratelli. Se qualcuno aveva bisogno di aiuto per traslocare, o seminare, o seppellire qualche parente, lo otteneva subito. Le capanne di palma, per esempio, si potevano costruire in due giorni. Ciò era possibile grazie all'aiuto della gente che si univa in squadre. Facevano il tetto a chiunque, in poche ore. Oppure lo aiutavano ad arare. Ogni vicino portava la sua coppia di buoi. Facevano lo scasso, prima dritto e poi traverso. Facevano cosi perché la terra fruttasse. Questa operazione la chiamavano aratura in croce. Lo stesso avveniva al momento della semina. La facevano insieme perché un poveraccio non
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si stancasse e non fosse costretto ad abbandonare il lavoro. Sapevano che, all'inizio, un uomo non ce la faceva da solo. I piccoli proprietari davano le loro sementi al vicino. Dopo la semina, bisognava girare la terra. Allora tutti l'aiutavano a.rincalzare le piante perché trovassero terre dolci e fruttassero. La terra non frutta se non viene ben smossa. Si faceva tutto ciò in segno di amicizia. C'era uno scherzo, una burla un po' pesante ma che alla gente piaceva. Un contadino faceva la guardia ai maiali di un altro. In questi casi, i maiali di ciascuno venivano marchiati sulle orecchie con le iniziali dei rispettivi proprietari. Se il contadino riusciva a catturare un maiale che non era il suo, lo ammazzava e dava una festa alla quale invitava tutti gli amici. Si riunivano e mettevano il maiale arrosto, con la bocca piena di fiori silvestri, sopra la tavola,· su un vassoio di cedro. La testa, con l'orecchia marchiata, veniva posta bene in vista e solo allora il vero padrone del porco si rendeva conto della figuraccia che stava facendo: perché tutti stavano mangiando una cosa di sua proprietà. Questa era una beffa, ma non ci si doveva arrabbiare. Anzi, il piu contento di tutti doveva essere proprio il padrone del1' animale. Questa io la considero una prova d'amicizia. Oggi la gente non si comporta cosf. C'è invidia e gelosia dovunque. Per questo mi piace la vita solitaria. Non voglio avere a che fare con nessuno perché non si mettano nella tnia vita. Ma non stavo con gli altri neanche prima. Sono stato sempre solo. Di tanto in tanto una donna mi si metteva dietro e io la lasciavo fare. Ma appiccicarsi alla gente per tutta la vita non fa per me. Vecchio come sono, non ho nemici; e quelli che ho non mi parlano per non cercare rogne. A Remedios ho conosciuto molta gente. Verso il novanta ero sempre li. Andavo dall'Ariosa al villaggio in un'avemaria. Conosco le usanze e so com'è la gente. So cosa pensano quando guardano qualcuno. I ricchi
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erano quelli che meno si occupavano dei pettegolezzi. Passavano il tempo con le loro musiche e i loro balli. E con il loro denaro, certo. Le donne del villaggio suonavano l'arpa nelle sale, con le finestre ben aperte perché tutti le vedessero. Dopo arrivò il pianoforte, ma prima c'era l'arpa. A me non diceva nulla. E star li a guardare m'è sempre sembrato tanto brutto, anche se questa era l'usanza. Io preferivo i tamburi e le danzas. Le danzas dell'orchestra del villaggio. Ma siccome per i negri l'arpa era una novità, si fermavano davanti alle finestre e guardavano, guardavano. Il fatto è che tutte queste famiglie, i Rojas, i Manuelillo, i Carrillo, vivevano per conto loro. Affari, feste e soldi. Non si curavano dei pettegolezzi. Il povero si, perché viveva piu unito e piu ... Il ricco è ricco e il povero è povero. Questo è tutto quello che ho visto a Remedios. Molti negri non andavano alle feste perché erano vecchi. Io facevo i miei giri per via delle ragazze. Che negre! Poi prendevo la strada, di notte, con il machete alla cintura perché nessuno mi fermasse. Se non pioveva, arrivavo subito alla piantagione. Se mi stancavo per strada, mi mettevo a dormire nei campi di canna finché le gambe non erano in grado di riprendere il cammino. All'alba la canna è fresca. Il giorno dopo mi mettevo a raccontare. Mi riunivo con dei vecchi. Preferivo i vecchi ai giovani. Li ho sempre preferiti. Li preferisco ancora. Forse perché adesso sono vecchio anch'io ... ma no, anche prima, da giovane, la pensavo cosi. Loro ascoltavano i miei racconti. E io raccontavo loro delle feste, del ]ua, dei rinfreschi e dei giochi. Mi chiedevano se c'era rispetto e serietà. Io mi vergognavo a raccontare certi particolari sporchi e tacevo. Certo che mi restava il rospo in gola. Chi andava a dire a un vecchio di quelli che uno aveva il coraggio di fare l'amore con una negra in mezzo ai cespugli! E, come loro ti stavano a sentire, cosi dovevi stare ad ascoltarli. Seguirli con gli occhi e con le orecchie. Erano sinceri in tutto. Dicevano tranquilla-
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mente: «Ragazzo, tu non ascolti, tu non stai attento. Adesso tu prendi la strada per casa tua, vattene!» Bisognava correre via come razzi. Anche se erano di poche parole, volevano che, quando parlavano, li si ascoltasse. Parlavano della terra, dell'Africa, di animali, di apparizioni. Non si immischiavano in pettegolezzi né in liti. Punivano duramente chi diceva loro una bugia. Per stare con questi vecchi, bisognava essere di poche parole e rispettosi. Un ragazzo si burlava di un vecchio e il vecchio gli diceva: «Ascoltami, cosf come il sole cala, cosf te ne andrai anche tu». Ecosfera, perché il sistema era sempre quello dei tempi della schiavitu: raccogliere la terra che il ragazzo aveva calpestato e buttarla in una cazuela fino al tramonto del sole. Cosf i vecchi sterminavano i burloni. Il fatto è che i vecchi erano tremendi. Ne sapevano una piu del diavolo. Arrivava uno, e loro risolvevano tutto, con o senza denaro. Ma quando uno chiedeva qualcosa, dicevano: «Tu va' e fa' questo e quello. Quando avrai risolto il tuo problema, vieni e pagami». Bisognava fare quello che dicevano. Prima del consulto, si pagavano sempre venticinque centesimi; questo, senza contare l'altro compenso, che era maggiore. Chi non saldava il suo debito con il secondo pagamento, che era segreto, era in pericolo: gli davano una pugnalata dopo pochi giorni, gli facevano le corna con la moglie o lo licenziavano dal lavoro ... Gli capitava sempre qualche cosa. Con il vecchio africano non si poteva scherzare. Anche oggi, un palero giovane non è cosf esigente; ma un negro vecchio ha un altro stile, è piu serio, piu retto, piu ... Il passatempo dei vecchi erano i racconti. Barzellette e racconti. Raccontavano a tutte le ore, di mattina, di notte, erano sempre disposti a raccontare le loro cose. Erano tante di quelle storie, che spesso non si riusciva piu a seguirle tutte. Io facevo finta di ascoltare, ma la verità è che il finale lo avevo tutto confuso in testa. Nelle baracche dell'Ariosa c'erano due o
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tre negri nati in Africa. Credo che una vecchia sciancata, che era li:, fosse arard. Non ne sono sicuro. Gli altri erano congos. Esisteva una differenza tra gli africani e i criollos. Gli africani tra di loro si capivano; i criollos non capivano bene gli africani. Li ascoltavano cantare, ma non li capivano bene. Me la cavavo, con loro, perché passavo tutta la vita ad ascoltarli. Mi volevano bene. Mi ricordo ancora di Ma' Lucia. Ma' Lucia l'ho co~ nosciuta fuori dall'Ariosa. Non so se a Remedios o a Zulueta. Il fatto è che piu tardi l'ho vista molte volte a Santa Clara. Andavo lf a far festa. Con Ma' Lucia ero in buoni rapporti. Era una negra scura e abbastanza alta, di nascita lucumi. Già quando l'ho conosciuta si dava alla santeria. Aveva un gruppo di affiliati, tanto era famosa. Ma' Lucia era una che raccontava. Passava le ore a lisciarsi i vestiti, l'abito bianco, la blusa di filo, presuntuosa com'era. Si faceva un'acconciatura alta, come quelle di una volta. Diceva di essere africana. Faceva dolci e amaM. Li vendeva per le strade e nelle aie degli zuccherifici, alla fine del lavoro. Ha fatto i soldi. Riusci subito a comprare una casa a Santa Clara, dopo la guerra. Questa casa la lasciò a una figlia. Un giorno mi chiamò e mi disse: «Tu essere buono e taciturno, io va a raccontare a te una cosa». Allora cominciò a raccontare storie africane di ogni genere. A me, quasi tutte le storie e i racconti si cancellano dalla memoria, li confondo, li aggroviglio e allora non so se s,to parlando di un elefante o di una tartaruga marina. E l'età. Benché ci siano altre cose che ricordo bene. Però gli anni sono anni, e non si portano addosso cosi, per divertimento. Il fatto è che Ma' Lucia mi raccontava di certi costumi africani che qui non ho mai visto. Se è per questo, poi, neanche lei se ne ricordava. Mi diceva che nella sua terra gli uomini non facevano altro che disboscare e che le donne dovevano ripulire la terra e raccoglierne i frutti. Poi, far da mangiare per la famiglia, che era molto grande. Diceva che nella sua fami-
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glia c'era piu gente che alla piantagione. Secondo me, è perché in Africa le donne facevano figli in continuazione, tutti gli anni. Io una volta ho visto una fotografia dell'Africa e tutte le negre avevano il pancione e le tette al vento. Io, però, non ricordo di aver mai visto a Cuba uno spettacolo simile. Almeno, nel le baracche era tutto il contrario. Le donne si vestivano con molte sottane e si coprivano il petto. Bene, per non perdere il filo dei racconti di Ma' Lucia ... questa storia dell'elefante era molto strana. Quando lei vedeva un circo di quelli che giravano per i paesi, e si portavano dietro scimmie ed elefanti, diceva: « Tu, ragazzo, non sai cosa sono liofanti, questo che vedi qui, nel circo, non sono liofante, liofante mia terra sono piu grande, arrivano a mangiare il cuore della palma». Io non potevo replicare. Ma mi pareva molto esagerato, questo si, perché poi diceva che gli elefanti della sua terra pesavano venti, venticinque tonnellate. Noi ragazzi non potevamo non scoppiare a ridere, anche se di nascosto. Molte cose erano balle, ma altre erano vere. Bene, io dico che erano balle per me; ma loro ci credevano davvero. Dio ci scampi dal dire a una vecchia di queste che si sbagliava! Mi ricordo della storia della tartaruga e del rospo. Me la raccontò almeno cento volte. La tartaruga e il rospo erano in lite tra loro da molti anni. Il rospo aveva. ingannato la tartaruga, perché ne aveva paura. Credeva che lei fosse piu forte di lui. Prese una scodella piena di cibo e la diede alla tartaruga. Gliela mise quasi in bocca. La tartaruga, vedendo la scodella piena di cibo, andò a nozze. Mangiò fino a ingozzarsi. Non le passò nemmeno per la testa che il rospo gliela aveva messa Ii apposta. Era molto ingenua. Siccome era ingenua, la imbrogliavano sempre. Poi, cosi piena e soddisfatta, andò in giro per il monte a cercare il rospo che si era nascosto in una grotta. ·Quando il rospo la vide, le disse da lontano: «Sono qui, tartaruga; guarda». Lei guardava e non vedeva niente. Si stancò e se ne andò. Arrivò a un monticello di 0
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paglia, all'asciutto, e si mise a riposare. Il rospo la sorprese addormentata e l'avvelenò pisciandoci su. Lei si era addormentata perché era troppo piena, e per questo lui la poté prendere. Questa lezione serve perché la gente non sia ingorda. Bisogna dubitare di tutti. Un nemico può anche offrire da mangiare per ingannare. Ma' Lucia continuava a raccontarmi _del rospo. Li temeva perché si diceva che avessero un veleno mortale nelle vene; non avevano sangue, ma veleno. La prova è che quando uno fa male a un rospo, gli dà una bastonata o gli tira una pietra, quello si vendica seguendo le tracce della persona e avvelenandola per la bocca o per il naso. Soprattutto per la bocca, perché quasi tutti dormono con la bocca aperta. _ Della tigre mi diceva che era un animale traditore, che saltava sopra gli alberi per azzannare gli uomini al collo e ammazzarli. Le donne, le prendeva allo stesso modo e le obbligava a fare cose sporche. Come gli orangutan. Anche se questi erano peggio. Secondo Ma' Luda, un orangutan riconosceva le donne dall'odore e le prendeva di sorpresa. Esse non potfvano neppure muoversi. Tutte le scimmie sono cosi. E come se fossero uomini con la coda, e muti. Qualsiasi scimmia si innamora di una donna. Qui a Cuba ci sono stati molti casi. Ho sentito parlare di due donne di famiglia ricca che andavano a letto con le scimmie. Due sorelle. Una di loro era di Santa Clara. L'altra non mi ricordo, però aveva figli dalla scimmia perché ho vi~to, a casa sua, queste scimmie trattate come signori. E stato un giorno che sono andato lf, non so perché, e ho trovato una scimmia seduta su una sedia, sulla veranda. Perciò, tutto quello che i vecchi raccontavano non erano bugie; il fatto era che noi non avevamo visto le cose e dubitavamo o ridevamo. Oggi, dopo tanto tempo, mi metto a pensare e arrivo a concludere che l'africano era veramente saggio. C'è gente che dice che loro erano selvaggi e si comportavano come animali. C'è sempre qualche signorino bian-
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codi qui che lo dice. Io la penso diversamente perché li ho conosciuti. Di selvaggio non avevano nulla. Anche se non sapevano né leggere né scrivere mi insegnarono molte cose. Le tradizioni, che sono piu importanti di quello che si impara sui libri. Essere educato, non immischiarsi negli affari degli altri, parlare a bassa voce, rispettare, essere religioso, buon lavoratore ... sono tutte cose che mi hanno inculcato gli africani. Mi dicevano: « Sulla foglia di malanga cade l' acqua ma non si bagna». Questo perché io non andassi a cercare rogne. Che ascoltassi e mi informassi per potermi difendere, ma che non parlassi troppo. Chi parla troppo, si caccia nei guai. A quanta gente dovrebbero cadere bestie in bocca, perché hanno la lingua troppo lunga! Per fortuna io ho sempre taciuto. Io non dimentico le parole dei vecchi. Si! E quando sento la gente chiacchierare di negri bozales, mi metto a ridere. Vediamo un po' chi è un bozal! Li chiamavano bozales, tanto per dargli un nome e perché parlavano nella lingua del loro paese. Parlavano in modo diverso, questo era tutto. Io non li consideravo cosi, come dei bozales. AI contrario, li rispettavo. Un negro conga o un lucumi ne sapeva di medicina piu di un medico. Persino piu di un medico cinese! Sapevano anche quando una persona stava per morire. Questa parola, bozal, era sbagliata. Ora non si sente piu perché, a poco a poco, i negri africani sono scomparsi tutti. Se ce n'è ancora qualcuno, deve essere venti volte piu vecchio di me. Ogni negro aveva un fisico diverso, le labbra o il naso. Certi erano piu scuri di altri; piu rossastri, come i mandingas, o piu arancioni, come i musungos. Anche da lontano si vedeva a che nazione appartenevano. I congos, per esempio, erano di bassa statura. C'era qualche conga alto, ma era rarissimo. Il vero conga era basso e tracagnotto. Anche le donne. I lucumi erano di tutte le grandezze. Alcuni piu o meno come i mandingas che
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erano i piu alti. Io non mi spiego questa stranezza. Era proprio un mistero. Come mai possano esserci uomini piu grandi di altri, Dio solo lo sa. I lucumi erano grandi lavoratori, adatti a tutto. Anche in guerra si sono comportati bene. Nella guerra di Carlos Manuel6 • Anche senza essere preparati a combattere, si mettevano nelle colonne e facevano faville. Poi, quando questa guerra fini, tornarono a lavorare e continuarono a essere schiavi. Per questo non si illusero piu sull'altra guerra. Ma combatterono lo stesso. Non ho mai visto un lucumi tirarsi indietro. Né l'ho sentito vantarsi di essere un eroe. Altri negri africani, invece, dicevano che la guerra era una stupidaggine e che non risolveva niente. Pensavano cosi per il fallimento dell'altra. Però la maggioranza si gettò a corpo morto nell'indipendenza. Anch'io so che la guerra uccide la fiducia degli uomini; si vedono morire fratelli al proprio fianco, e non si può fare niente, poi vengono gli accaparratori e prendono il loro posto. In ogni modo, bisogna gettarsi nella mischia. Chi è vigliacco e si nasconde perde la dignità per sempre. Questi vecchi, con il ricordo ancora fresco dell'altra guerra, lottarono per l'indipendenza. Si comportarono bene, ma senza entusiasmo. L'entusiasmo, loro l'avevano perduto. Non la forza né il valore, ma l'entusiasmo, si. E poi, in fin dei conti, chi cazzo sapeva per che cosa si combatteva! L'impresa era grande, ma oscura. C'era molta incertezza con la nuova guerra. Si sentivano voci che la Spagna sarebbe caduta, che Cuba sarebbe stata libera. La verità è che chi si mise in questa guerra giocò l'ultima carta. Per questo non si possono criticare i vecchi dicendo che non avevano coraggio. Lo aveva' Carlos Manuel de Céspedes. Grande proprietario cuba.no (poi dichiarato «Padre della patria») che diede la libertà ai suoi schiavi. Cosi iniziò, il 10 ottobre 1868, la guerra dei dieci anni, che preparò le condizioni per la guerra d'indipendenza. La guerra dei dieci anni fini nel 1878 con un patto tra il governo spagnolo e il governo rivoluzionario cubano, allora alla macchia. Durante questa guerra, Esteban Montejo era già cimarr6n sui monti.
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no, invece. E, inoltre, avevano piu senso di responsabilità dei cubani. Tutti sanno che ci sono stati cubani mercenari. Tra i vecchi, non ce ne fu uno. Questa è la prova migliore. Combatterono con Carlos Manuel e diedero una lezione di patriottismo. Non voglio dire che sapevano combattere. Ma lo facevano. Quando ci si trova di fronte a qualcosa, non si può esitare. Quello che bisogna fare è buttarcisi dentro. Il cubano di quegli anni, del sessantotto, non era preparato a combattere. Aveva coraggio da vendere, ma le mani vuote. Era piu difficile trovare un'arma che un ago nel pagliaio. Ciononostante, prendevano un bastone di jiquf e si facevano un pugnale. Con questo pugnale affrontavano il nemico che aveva armi da fuoco. In genere, erano i congos a prepararlo. Se pugnalavano qualcuno, lo lasciavano stecchito. Secondo me, la punta di questi pugnali era stregata. Quando gli spagnoli vedevano un negro con uno di questi pugnali, se la davano a gambe. Nella guerra dei dieci anni usarono anche i moschetti. Nella guerra d'indipendenza, c'erano armi. La lotta si faceva da pari a pari. Perciò abbiamo vinto. C'erano moschetti, tromboni, grossi calibri, pistoloni e alcune carabine. I grossi calibri non furono usati perché scarseggiavano le munizioni. La carabina Winchester fu molto usata; e anche il moschetto, che era l'arma preferita dai banditi. I negri africani, come del resto i cubani, impararono a usare queste armi e combatterono come diavoli. In questa guerra avevano piu mezzi. Quando mi torna alla memoria un negro di questi, lo vedo sempre incazzato. Loro non dicevano che cosa facevano, né perché lo facevano. Combattevano solo. Per difendere la vita, chiaro. Quando qualcuno gli domandava da che parte stessero, essi dicevano: «Cuba libera, io sono liberale». Nessuno voleva rimanere sotto il dominio spagnolo; Ci si può mettere la firma. Nessuno voleva essere messo in ceppi un'altra volta, né mangiare carne secca, né tagliare la canna ali' alba. Per
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questo andavano in guerra. E neppure volevano rimanere soli, perché un vecchio negro che non andava in guerra restava solo e non poteva vivere. Morivano di tristezza. I negri africani erano simpatici, scatenati, chiacchieroni e furbi. Avrebbero dovuto murarsi in una baracca, senza parlare con nessuno? Molti entrarono nelle file dei combattenti seguendo i figli o i nipoti. Si misero al servizio dei capi, che erano cubani. Facevano le sentinelle all'alba, vegliavano, cucinavano, lavavano, pulivano le armi. .. erano tutti mestieri loro. Nessun bozal fu capo, nella guerra. Nel mio squadrone, comandato da Higinio Esguerra, ce n'erano tre o quattro di loro. Uno si chiamavaJaime, un altro Santiago; entrambi erano congos. Non miricordo quale dei due, mi sembra il piu vecchio, passava il tempo a dire: «Noi non avere paura guerra. Noi abituati. In Africa, noi combattuto molto». Il fatto è che li avevano gruppi - formati da uomini e donne - che gareggiavano tra loro. Si ammazzavano in queste gare. Succedeva anche qui, nei quartieri dell'Avana, a J esus Maria, a Belén, a Mangiar ... I iidiiigos si azzuffavano secondo l'usanza africana. La stessa cosa. E non si può dire che fossero selvaggi, perché questa usanza fu rispettata anche dai bianchi, quelli che si misero nel iiaiii-
guismo. Se gli africani non sapevano bene che cosa stavano facendo, neppure i cubani lo sapevano. La maggioranza, voglio dire. Il fatto è che qui c'era una rivoluzione, un casino in cui tutti furono coinvolti, dal primo all'ultimo. La gente diceva: «Cuba libera! Abbasso la Spagna! », poi dicevano: « Viva il Re! » Va' a sapere! Quello era un'inferno. Non si sapeva come uscirne. Restava una sola strada, ed era la guerra. All'inizio nessuno spiegò la Rivoluzione. Uno la faceva e basta. Io stesso non sapevo niente del futuro. L'unica cosa che dicevo, era: « Cuba libera!» I capi, poi, riunirono la gente e spiegarono. Parlarono in tutti i battaglioni. Anzitutto, dicevano che erano orgogliosi di es-
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sere cubani e che il Grido di Baire7 ci aveva uniti. Incitavano alla lotta ed erano sicuri che avremmo vinto. Quanta gente credette che si trattava di una festa in cui mietere allori! Quando videro il fuoco, si tirarono indietro. Tradirono i loro fratelli. Ce ne furono molte di queste canaglie. Altri rimasero fermi. Una cosa che rialzò il morale fu il discorso di Maceo a Mal Tiempo. Disse: «Questa è una guerra per l'indipendenza. Ogni soldato, alla fine, riscuoterà trenta pesos». Del discorso, io ho capito solo questo. E fu vero. Terminò la guerra e mi pagarono novecentottantadue pesos. Tutto quello che Maceo diceva era vero. Fu l'uomo piu grande della guerra. Egli disse che nessuno avrebbe perso, perché saremmo stati tutti liberi. E cosi fu. Perlomeno, io non ho perso. NeppUÌ'e la salute. Ho una pallottola nella coscia e anche ora, quando mi levo i pantaloni, vedo la macchia scura. Ma ci fu chi non usci piu dai monti. Dal cavallo a sottoterra. A dire il vero, la guerra era necessaria. Tanto, i morti sarebbero morti ugualmente, senza vantaggi per nessuno. Io restai vivo per caso. Sembra che la mia missione non fosse ancora compiuta. Gli dèi dànno a ognuno i suoi compiti. .. Ancora oggi, io racconto tutto questo e scoppio a ridere. Ma quando ero in mezzo al fuoco, vedendo morti dappertutto e pallottole e cannoni e altre coglionerie ... Allora era diverso. Era necessaria la guerra. Non era giusto che tanti posti e tanti privilegi restassero sempre e soltanto in mano agli spagnoli ... Non era giusto che le donne, per lavorare, dovessero essere figlie di spagnoli. Niente di tutto questo era giusto. Non si vedeva neppure un negro fare l'avvocato, perché dicevano che i negri servivano soltanto nei campi. Non si vedeva un maestro negro. Tutto era per i bianchi spagnoli. Persino i criollos bianchi venivano messi
7 Grido che annunciò l'inizio della guerra d'indipendenza. Fu lanciato nel villaggio di Baire, il 24 febbraio 1895.
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da parte. Questo l'ho visto io. Un guardiano notturno, che doveva soltanto passeggiare, dire l'ora e spegnere il lucignolo, doveva essere spagnolo. E tutto il resto era cosi. Non c'era libertà. Per questo era necessaria la guerra. Io me ne sono reso conto quando loro, i capi, spiegarono questa faccenda. La ragione per cui bisognava combattere.
La guerra d'indipendenza
La vita durante la guerra
Mi arruolai il tre o il quattro di dicembre del novantacinque. Io ero ali' Ariosa attento agli avvenimenti. Un_giorno riunii alcuni amici, i piu vecchi della piantagione, e gli dissi che dovevamo alzare la testa. Allora ce la mettemmo tutta. Il primo che venne con me si chiamava Juan F abregas. Era un negro coraggioso e deciso. Non ebbi quasi bisogno di dirgli niente. Egli indovinò quello che mi passava per la testa. Uscimmo dalla piantagione di sera e camminammo fino a un casale. Lf prendemmo i primi cavalli, che erano legatì a degli alberi. Non era un furto. Io mi incaricai di dire al padrone, con buone maniere: «Mi faccia il favore di darmi tutti i finimenti». Me li diede e io li misi al cavallo, con briglie e speroni. Ero pronto per la battaglia. Non avevo armi da fuoco, ma a que.i tempi bastava un machete. Camminai di buon passo per le strade maestre. Arrivai quasi a Camagiiey. Quando mi imbattei nelle forze mambi, gridai e loro mi videro, me e quelli che erano con me. Da quel giorno mi buttai a corpo morto nella guerra. All'inizio, mi sentii strano e confuso. Il fatto è che era tutto un casino. Gli squadroni non erano ancora formati e i capi non erano ancora stati nominati. Ma anche in queste condizioni c'era disciplina. Gli zotici e i banditi non mancavano mai. Ma, a quanto mi hanno raccontato, succedeva lo stesso nella guerra del sessantotto. Da Camagiiey giunsi, scendendo con le colonne, fino a Las Villas. Già era diverso perché, quando si è in-
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sieme, si ha piu fiducia. Mi feci degli amici per non finire male e quando arrivammo a Mal Tiempo tutti mi conoscevano, almeno di vista. Fabregas era piu equilibrato di me nelle amicizie. Tra i soldati, divenne subito popolare. Raccontava storie e fotteva come un matto. Prima di Mal Tiempo, non ci fu nessun combattimento in cui dovessi impegnarmi. Mal Tiempo fu la prima cosa che vidi, della guerra. Per gli spagnoli a Cuba, fu il primo inferno. Molto prima di arrivare li, i capi sapevano ciò che sarebbe successo. Ce lo dissero per prepararci. E cosi'. fu. Quando arrivammo, tutti avevano il diavolo in corpo. Il machete era l'arma di battaglia. I capi mi dicevano: «Quando arriviamo, alzate il machete». Maceo 1 guidò il combattimento. Ne fu sempre a capo, fin dal principio. Maximo G6mez2 lo aiutò e insieme portarono a buon fine la battaglia. Maximo G6mez era valoroso ma riservato. Aveva un sacco di intrighi per la testa. Non mi sono mai fidato di lui. La prova, la diede piu tardi. La prova che non era fedele a Cuba. Ma questa è un'altra faccenda. A Mal Tiempo bisognava stare uniti e seguire chi si rimboccava le maniche e alzava il machete. Mal Tiempo durò circa mezz'ora, ma ce n'era abbastanza per fare piu morti che all'inferno. Li'., caddero piu spagnoli che in tutte le battaglie che seguirono. Il combattimento cominciò di mattina. Erano campi lisci e aperti: una pianura. Li'., chi era abituato a combattere sui monti passò i guai suoi. Mal Tiempo era un piccolo casale. 1 Antonio Maceo. Rivoluzionario cubano mulatto, che combatté nella guerra dei dieci anni e poi, con Maximo G6mez, fu uno dei generali piu fa. mosi della guerra d'indipendenza. Nato, da umile famiglia, a Santiago di Cuba nel 1848, morf nel 1896 a Punta Brava, mentre alla testa delle truppe di liberazione stava per entrare ali' Avana. 2 Maximo G6mez. Dominicano di nascita (1833) partecipò alla guerra dei dieci anni e, con Maceo, fu il generale piu famoso della guerra d'indipendenza. Era guardato con un certo disprezzo dai negri, che riponevano in Maceo maggiore fiducia. Certo è, però, che entrambi mantennero una posizione ferma e coerente durante la guerra. G6mez sopravvisse alla guerra e mori nei pressi dell'Avana nel 1905.
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Era circondato da ruscelli, campi di canna e molti cespugli di ananasso. Quando fini il macello, vedemmo i crani degli spagnoli accatastati a mucchi tra i cespugli d'ananasso. Ho visto poche cose cosi impressionanti. Arrivando a Mal Tiempo, Maceo ordinò che la battaglia fosse condotta frontalmente. E cosi si fece. Appena gli spagnoli ci videro, gelarono dalla testa ai piedi. Pensavano che fossimo armati con pistoloni e mauser. Invece, niente! Avevamo soltanto raccolto bastoni di guayabo e li portavamo sotto il braccio per spaventarli. Quando ci videro impazzirono e si fecero sotto a combattere. Quell'avanzata non durò neanche un amen. Stavamo già tagliando teste. Ma tagliandole sul serio! Gli spagnoli si cagavano addosso dalla paura dei machete. Non avevano paura delle carabine, ma dei machete si. Io alzavo il machete da lontano e urlavo: «Adesso, maledetto, ti sgozzo». Allora il soldatino inamidato girava in fretta i tacchi e fuggiva volando. Siccome io non avevo un istinto criminale lo lasciavo andare. Ma dovetti tagliare teste lo stesso. Soprattutto quando vedevo che uno di loro si avventava su di me. Alcuni, pochi, erano coraggiosi, e questi bisognava eliminarli. Di solito io gli chiedevo il mauser e gli dicevo: «Avanti!» Loro mi rispondevano: «Senti, furfante, se è per il mauser, prenditelo». Mi tirarono molti mauser. Perché erano molto vigliacchi. Altri lo facevano perché erano innocenti, molto giovani. Quelli del Quinto, per esempio, avevano diciassette o diciott'anni. Venivano freschi freschi dalla Spagna; non avevano mai combattuto. Quando si vedevano intrappolati erano capaci di calare anche le brache. A Mal Tiempo io mi sono scontrato con molti di loro. Anche dopo, perché fecero tutta la guerra. Secondo me, li hanno mandati ·qui perché in Spagna ce n'erano d'avanzo. Nella battaglia di Mal Tiempo il battaglione piu valoroso fu quello delle Canarie. Erano ben equipaggiati. Caddero quasi tutti proprio per paura del machete.
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Non obbedivano piu nemmeno al loro capo. Terrorizzati, si gettavano per terra, abbandonavano i fucili e si nascondevano addirittura dietro gli alberi. Pur con tutta questa debolezza, furono quelli che tennero piu duro. Usarono una tecnica molto astuta, ma non appena gliela smontammo, furono fregati. Facevano quello che si chiama «far quadrato». Far quadrato era una strategia che consisteva nel fare delle trincee, per sparare dai buchi scavati per terra. Si ficcavano li dentro e formavano linee di baionette. In certi casi gli andò bene, in altri no. Mal Tiempo segnò la sconfitta di questa tecnica. I primi momenti furono difficili. Poi, senza quadri organizzati, non poterono fare altro che sparare all'impazzata. Davano baionettate ai nostri cavalli e fulminavano i cavalieri a colpi cl' arma da fuoco. Sembravano pazzi. Erano allo sbando. Fu un'orribile confusione. E il loro maggior nemico fu la paura. A dire il vero, noi cubani ci comportammo bene. lo stesso ho visto molti mambi che andavano a gettarsi contro le pallottole. Per noi le pallottole erano fiocchi di cotone. L'importante era l'ideale. Le cose da difendere, e tutto quello di cui parlava Maceo e anche Maximo G6mez, anche se poi non lo ha mai fatto. Mal Tiempo spronò i cubani. Svegliò il loro spirito e la loro forza. A Mal Tiempo cercarono di ammazzarmi. Fu un soldatino spagnolo che mi vide da lontano e mi prese di mira. lo lo presi per il collo e gli risparmiai la vita. Dopo pochi minuti, ammazzarono lui. lo mi limitai a portargli via le munizioni, il fucile e non mi ricordo se anche i vestiti. Credo di no, perché la nostra roba non era poi tanto malandata. Questo spagnolo mi guardò e mi disse: «Voi siete selvaggi». Poi si mise a correre e lo liquidarono. Certo, credevano che noi fossimo selvaggi, ma loro erano impreparati. Inoltre, venivano qui e si aspettavano tutt'altro, veramente. Credevano che la guerra fosse un gioco. Perciò, quando la situazione si fece difficile, cominciarono a tirarsi indietro. Arri-
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varono a pensare che noi eravamo animali e non uomini. Per questo ci chiamarono mambi. Mambi vuol dire figlio di scimmia e di avvoltoio. Era una frase irritante, ma noi rispondevamo tagliandogli la testa. A Mal Tiempo se ne resero conto. Se ne resero cosf conto, che adesso mambi vuol dire leone. E questo fu dimostrato a Mal Tiempo piu che in nessun altro posto. Ll'. accadde di tutto. Fu il macello piu grande della guerra. Avvenne perché cosf stava scritto. Ci sono cose che non si possono cambiare. Il corso della vita è molto complicato. Mal Tiempo servi a incoraggiare i cubani e nello stesso tempo a rafforzare la Rivoluzione. I combattenti ne uscirono convinti di essere in grado di affrontare il nemico. Maceo lo ripeté piu volte durante la marcia sui monti e l'avvicinamento in pianura. Maceo era sicuro della vittoria. Insisteva sempre su questo. Non vacillava né si scoraggiava. Era pili duro di un guayacan. Se Maceo non avesse combattuto quella battaglia, le cose sarebbero andate diversamente. Non ce la saremmo cavata. Gli spagnoli dicevano che lui e suo fratello José erano dei criminali. Non era un sanguinario. Uccideva per l'ideale. Ma non gli ho mai sentito dire che bisognasse tagliare la testa a qualcuno. /\ltri, invece, lo facevano e lo dicevano tutti i giorni. E vero, però, che era necessario uccidere. Non si può andare in guerra e incrociare le braccia, perché si fa la figura dei coglioni. Maceo si è comportato da vero uomo a Mal Tiempo. Era sempre in prima linea. Montava un cavallo nero anche piu coraggioso di lui. Sembrava che niente lo fermasse. Dopo che ebbe rotto la linea di fuoco degli spagnoli, che stavano stesi a terra con le baionette pronte, si avvicinò al mio squadrone e fu il momento in cui lo vidi. Il fuoco s'era calmato ma si sentiva sparare ancora. Maceo era alto, grasso, con i baffi e gran parlatore. Dava ordini, ma era anche il primo a eseguirli. Non l'ho mai visto frustare un soldato. Mai. In-
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vece, i colonnelli colpevoli di insubordinazione li prendeva per la collottola e li bastonava. Diceva che i soldati non erano colpevoli degli errori. Oltre a Maceo e a G6mez a Mal Tiempo, molti altri si comportarono da valorosi. Quintin Banderas fu uno di questi. Era nero come il carbone, ma quanto a slancio solo Maceo gli stava alla pari. Quintin aveva combattuto nell'altra guerra, quella del sessantotto. Era un uomo risoluto. Mi hanno detto che andava in guerra a lottare per i negri. Be', la gente dice anche molte sciocchezze. Ad ogni modo i negri avevano simpatia per lui. Io stesso avevo una grande fiducia in lui. L'ho visto varie volte a Mal Tiempo e anche dopo. A Mal Tiempo arrivò tardi e con pochi uomini. Aveva avuto altri scontri lungo la strada. Arrivò con due mule, due donne e alcuni uomini. Pochi. Agli spagnoli faceva una gran paura. Non potevano vederlo neanche dipinto. Li prendeva in giro, gli sfuggiva, si burlava di loro e, quando li prendeva di sorpresa, gli tagliava la testa. Gli domandava: « Come ti chiami?», e quando lo spagnolo diceva il suo nome: «Ti chiamavi!», e gli tagliava la testa. Banderas ebbe un contrasto con Maximo G6mez a Mal Tiempo. Non so di che si trattasse, però tutta la truppa se ne accorse. Poi ne ebbero un altro, un altro e un altro ancora. Una volta Banderas, al ritorno da Mal Tiempo, si trovò impegnato nel combattimento di La Olayta, vicino a Rodrigo. Perdette quasi tutti i suoi uomini. Fece una resistenza accanita, ma ne usd male. La colpa era di un ruscello che attraversava il terreno. I cavalli si impantanarono, si formò una fanghiglia terribile, un ... Allora lo accusarono, non so chi, di avere intenzione di arrendersl agli spagnoli. L'accusa veniva dall'odio contro i negri. E vero che c'erano negri mercenari, spie e traditori, però di Banderas non si poteva fare altro che cantare le lodi. Maximo G6mez lo volle mettere agli ordini di Carrillo, che non era un generale, ma una
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testa di cazzo. Poi Maceo chiari la questione e Quintin tornò a combattere con i suoi uomini. Ho visto molti valorosi, ma come lui solo Maceo. Poi, nella Repubblica, ebbe molte traversie. Non gli hanno mai dato una buona occasione. Il busto che gli hanno fatto è rimasto abbandonato sul molo per molti anni. Il busto di un patriota. Per questo la gente è ancora indignata. Per la mancanza di rispetto verso i veri liberatori. A raccontare la storia del busto credono che sia una bugia. Eppure, io l'ho visto. Ora non so dove sia. Forse l'avranno rimesso a posto. Io a Banderas gli farei dieci busti. Uno per battaglia. Se li merita. A Mal Tiempo ha liquidato un sacco di spagnoli delle Canarie. Credo che la metà degli spagnoli li abbia fatti fuori Banderas. Quanti ne morivano! A centinaia! Tutto il campo era pieno di cadaveri, e i sentieri, le siepi, tutto. Gli stessi mambi riempirono carri e carrette di morti per portarli a Cruces. Io non feci questo lavoro. Ne avevo abbastanza di quelli che cadevano al mio fianco fatti a pezzi. Dopo il trionfo, ci preparammo a continuare l' avanzata. Ora, con il morale piu alto che mai. Mi ricordo, però, che eravamo ancora disorganizzati e ogni momento c'erano discussioni e risse per il comando. Gli squadroni non erano ancora formati. In realtà, andavamo alla deriva. Ciò che non mancava era lo spirito combattivo, ma l' organizza~ione era a terra. Maceo e G6mez erano i capi piu importanti. Ma allora non riuscivano a controllare tutta la truppa. Mi sembra di ricordare che la prima località che raggiungemmo fosse la piantagione Las Nieves. Lf ci procurammo armi e munizioni. Continuammo poi alla volta di La Olayta, dove combattemmo al fianco di Banderas in un pantano vicino al fiume. Le forze nemiche riuscirono ad appostarsi tranquillamente li. I nostri cavalli scivolavano, quei maledetti cornuti, e fu come una seconda San Quintino. Poi arrivammo a El Mamey. A El Mamey si combatté duramente. Affrontammo uniti questo com-
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battimento. Gli spagnoli resistettero un po', ma demmo loro un'altra lezione. Continuammo per altre piantagioni. Eravamo già vicini a Matanzas ma ancora non avevamo comandanti. Attraversammo le piantagioni Espafia e Hatuey. Catturammo un s~cco di armi. In quei giorni, Maximo G6mez e Cayito Alvarez cominciarono a nominare i capi e a costituire squadroni mobili. Fu un momento difficile. Non tutti erano contenti dei loro capi. Per non fare guai, nessuno si ribellò, ma furono nominati dei capi sbruffoni. A me toccò Taj6, il rapinatore, il bandito. Lo conoscevo bene. Mi dava fastidio dover obbedire ai suoi ordini, però non c'era scelta. In guerra non si può stare a pensare, si deve obbedire. Taj6 sistemò l'accampamento nella collina El Capitolio: una collinetta da niente che sta traJicotea, San Diego ed Esperanza. Di fianco all'accampamento c'era un albero di ceiba. Dietro c'era una selva e sotto uno spiazzo pulito, in piano. Non era molto grande, ma lo tenevano ben rifornito. Arrivarci era difficile. Bisognava salire la collina tra rovi e cespugli. Mai uno spagnolo ci si è azzardato. Taj6 passava il tempo a dire: «Qui non c'è spagnolo che salga. Certo che non c'è, cazzo! » Girava su se stesso e rideva. Era piu malizioso di tutti noi messi insieme. Voleva fare dell' accampamento un fronte. Noi, certo, conoscevamo tutte le vie d'accesso. Uno degli ingressi piu facili era la porta della fattoria. Una porta che chiamavano «la porta rossa». Di là entravamo noi e anche gli amici e le amiche di Taj6. Taj6 si fece molto amico di un tale Daniel Fuentes. Costui era un cubano e fingeva di essere la guida di tutti gli spagnoli della zona. Erano vecchi amici dal tempo di pace. Quel tipo a me non è mai piaciuto. Passavo il tempo a dirlo aJuan Fabregas, quello dell'Ariosa che si era arruolato con me. J uan era molto calmo e non mi rispose mai. Ma io continuavo a dubitare. Dapprima pensavo che T aj6 volesse arrendersi. Poi mi resi conto che non era cosi, che in realtà era Daniel che riferiva a T aj6 tutti i movimenti degli spagnoli. Questa
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è la ragione per cui non ci hanno mai scoperti, né attaccati. Ogni volta che una banda di mercenari o una colonna nemica doveva passare, Daniel ci avvertiva. A me lui non piaceva perché questo tipo d'uomo è pronto a passare da una parte ali' altra. Oggi con me, domani con l'altro. Non ho mai avuto il coraggio di dirlo a Taj6, perché lo conoscevo bene. Sembrava che stesse sempre a macchinare qualche porcheria. I suoi occhi me lo rivelavano. Quando vedevo che la sentinella abbandonava il posto e nessuno diceva niente, sapevo già che Daniel Fuentes aveva parlato. Taj6 dava l'ordine di togliere le sentinelle. Tutta la truppa aspettava in silenzio e vedevamo da lontano passare gli spagnoli, impettiti sui loro cavalli scuri. In ogni modo era difficile che ci vedessero. Il nostro accampamento era pulito, senza rifiuti che rivelassero la nostra presenza. Tutti dormivano per terra. Altri soldati, invece, facevano i loro alloggi con capanne di erba di Guinea e foglie di palma reale. Taj6 aveva altri confidenti. Tra l9ro c'era Felipe el Sol, che poi fu confidente di Cayito Alvarez e forse anche cl' altri. lo biasimo questi uomini. Sono come burattini senza cervello. Però Felipe el Sol ci salvò la vita molte volte. Con tutto ciò non mi fidavo di lui. Il suo divertimento era andare in giro tra i soldati e darsi arie da furbastro. Nessuno gli badava. lo non lo guardavo nemmeno. Anche in questo caso continuavo a dire a Fabregas che quello era un bastardo. Finché sono stato con Taj6, non ci sono state perdite. Quando sono arrivato c'erano una quarantina di uomini e quando me ne sono andato erano gli stessi. Gli squadroni mobili non avevano molti uomini: per questo si chiamavano mobili. Per di piu non avevano un posto fisso. La truppa era molto scaltra. Non avevamo disciplina, né addestramento, e per questo facevamo tante castronerie. Arrivavamo persino a squagliarcela di notte, in uno, in due o in tre, a volte persino con il consenso del capitano, di Taj6. E ce ne
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andavamo nei poderi vicini dove rubavamo maiali di trenta, quaranta chili. La fattoria dei Madrazos era la piu grande e la migliore, perché aveva un allevamento speciale di maiali. Uscivamo tardi, verso le dieci di sera. Andavamo a cavallo e a cavallo prendevamo i maiali, che erano praticamente selvatici. Andavano liberi. Non li tenevano li a ingrassare. Ci lanciavamo sul primo che vedevamo. Per noi era un gioco: da cavallo, dopo che l'avevamo stancato, gli davamo un gran colpo di machete in una zampa. La zampa volava via e il maiale non poteva continuare a correre. Ci chinavamo e in un attimo lo afferravamo per il collo. La difficoltà era che il maiale sanguinava e strillava forte. Una volta ci tesero un'imboscata. Non ci presero, ma la paura fu grande. La notte successiva, per testardaggine, ci precipitammo allo stesso posto. Andammo in piu di quattro. Nessuno ci vide o almeno finsero di non essersi accorti di nulla. Continuammo ad andarci, rubando sempre di piu. Spari non ne sentimmo mai. Credo che avessero paura di noi. Vedevano tutti i giorni gente diversa, e in gruppi, e si spaventavano. Sono stato qualche mese con Taj6. Un giorno non ne potei piu e me ne andai. Stava proprio esagerando. Imbrogli e porcherie erano cose di tutti i giorni. Rubava buoi, bestiame, vendeva coppie di buoi a chi capitava, in una parola ... un disastro. Taj6 era un ladro di bestiame travestito da rivoluzionario. Ce n'erano molti cosL Il giorno a cui mi riferisco, José, suo fratello, che fece la guerra al suo fianco, venne da me un po' strano e mi disse: « Senti, Esteban, tu non dire niente, ma accompagnami a seppellire Cafi.6n». Cafi.6n era un ragazzotto valoroso del gruppo. Quando mi disse cosf mi sentii gelare. L'unica cosa che riuscii a dire fu chiedergli: «Ma come, è morto Cafi.6n?» Mi disse di sf e che non facessi tante domande. Poi con quella faccia di bronzo mi volle spiegare: «Cafi.6n rubava molto, caro mio. Con un ladro di quel genere non si può ... »
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Trovai Cafi6n impiccato. La corda era piu grossa del mio braccio. Mi sembrò tutta una montatura. Sapevo che Cafi6n era onesto. Due giorni dopo venni a sapere che tutto era successo per via di una donna. Una donna che veniva a trovare Cafi6n tutte le notti. Taj6 si innamorò di lei, benché avesse già la sua, e per questo uccise Cafi6n. Io corsi daJuan e gli dissi: «Juan, me ne vado. Cayito sta a El Platano, a poca distanza». Juan non mi tradf. Venne con me a El Platano e li ci mettemmo agli ordini di Cayito A.lvarez. Tre mesi dopo la mia fuga venni a sapere che Taj6 era passato agli spagnoli, all'autonomia, di cui quelli parlavano tanto. Non c'era da aspettarsi altro da lui. Fu cosf vigliacco che dopo essersi presentato, scappò e tornò tra le file dei liberatori. Che delinquente, Dio mio! . Con uomini come lui si fece la guerra. Bene o male, ma si fece. Gli tolsero i gradi di capitano ma egli continuò come prima; tra soldato semplice e capitano c'è poca differenza. Lo accusarono di molti delitti. Si tirò addosso un sacco di grane. Quando fini la guerra, lo vidi a El Sapo, un piccolo podere dove viveva, vicino a La Esperanza. Allora avrà avuto sessant'anni. Lo salutai e lui mi salutò, e mi fece entrare. Non accennò neppure alla mia fuga. Sapeva che non ignoravo da quale gamba zoppicasse. Mi regalò un bel gallo che piu tardi vendetti. Taj6 dovrebbe essere morto. L'inferno è poco per lui, ma dovrebbe essere li. Un uomo che si era scopato le figlie tante volte, senza lasciare neppure che prendessero marito. E che ha fatto tante porcherie durante la guerra, deve stare all'inferno. Con Cayito era piu o meno la stes$a cosa. Subito me ne resi conto. E man mano che passavano i giorni, tutto si chiariva. Cayito era colonnello. Era spavaldo e deciso. Tutto il suo reggimento aveva un atteggiamento deciso. Una disciplina speciale, molto dura, di cui era responsabile Cayito. Non penso che fosse la cosa migliore. A volte è necessaria la maniera dolce. Questi uo-
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mini che si credono piu potenti di Dio, sbagliano. Ha sbagliato anche lui. Già dal primo giorno mi resi conto che tipo era questo Cayito. Farabutto! Un sergente chiamato Félix gli si rivolse dicendo: «Colonnello, ci sono uomini di Taj6, il delinquente». Cayito ci guardò dall'alto in basso e noi firmammo la carta dell'arruolamento senza dire niente. Io andavo a curiosare dappertutto. Sentii che Cayito diceva: «Me l'aspettavo da Taj6. Già da tempo sapevo che sarebbe caduto. Troppi imbrogli, uno dietro l'altro». In queste parole c'era tutto l'uomo. In che modo aveva parlato! Con la freddezza di chi vede un delitto e lo nasconde. Basta, m'è toccata una sfortuna! Da un ladro a un altro ladro, da un assassino a un altro assassino. Chiunque abbia combattuto con Cayito può farne fede. Sgozzava il primo che gli disobbediva. Se fosse stato per lui, quest'isola sarebbe un cimitero. In quel reggimento, tutti rigavano dritti. Quando Cayito passava vicino a qualche soldato e si fermava a guardarlo un attimo di piu, questo soldato tremava per ore e ore. C'era ben poca differenza tra Cayito e Taj6. Molto poca. Tutti e due furono assassini che si intrufolarono nella guerra. Devono essersi conosciuti bene. Cayito parlava di Taj6 ogni momento, ma ne parlava male, chiaro. Nonostante tutto ciò che dice la gente, Cayito era piu calmo dell'altro. Taj6 era un avventuriero piu audace. A Cayito piaceva la strategia, a Taj6 la violenza. Io lo posso sapere, perché sono stato con tutti e due. Con Cayito ho sostenuto piu combattimenti, o meglio, piu scontri corpo a corpo. A dire il vero, con nessuno dei due, le cose sono state tanto dure. Il peggio per me fu Mal Tiempo, il piu tragico. Degli scontri che abbiamo avuto con le truppe spagnole ce ne sono due abbastanza importanti. Anche se l'idea di importante è molto relativa. Dico importanti perché ci fu fuoco e pericolo e ci salvammo la pelle. Chissà, forse per altri combattenti questo sarebbe stato un gioco. Ma uno ri-
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corda sempre le proprie cose, quando la vita era attaccata a un filo. Uno di questi combattimenti fu diretto dallo stesso Cayito. Comandava con fermezza, ma con arroganza. Quando c'era pericolo, si toccava i baffi, come se li stesse attorcigliando. Era una sua mania; una mania propria della gente di carattere. Per nulla al mondo usciva dall'accampamento. Ciò gli valse la fama di vigliacco tra alcuni che non lo conoscevano. Anche oggi c'è gente che parla male di Cayito. Gente ignorante che ne parla male, dicendo che non erà valoroso. Di lui si possono dire molte cose, tranne che fosse un vigliacco. Ebbene, c'è chi dice che era piccoletto, grassoccio e rosso. Si vede che non lo conoscevano, perché era alto, magro e biondo. Perciò non bisogna badare alla gente. Inventare è un'altra brutta mania. Io non mi stancherò mai di riconoscere che fosse un assassino e un bandito. Ma non dirò mai che era un vigliacco. Pochi uomini, nell'ora cruciale, combatterono come lui. Sconfisse sempre gli spagnoli con la sua strategia e con le bombe. E infatti ne metteva alcune sul sentiero all'ingresso dell'accampamento e le faceva esplodere ogni volta che si avvicinava qualche banda di mercenari. Queste esplosioni suscitavano panico tra i soldati. I cavalli fuggivano in un polverone di zoccoli. Mi ricordo che durante il primo combattimento fatto con Cayito, egli usò queste bombe. Bombe con detonatore elettrico lungo una quindicina di metri. Quando la sentinella vedeva venire qualcuno, avvertiva. Bastava un colpo in aria. Quello che teneva il congegno, saltava su, prendeva la maniglia, si preparava e premeva forte. Pochi istanti dopo sembrava il finimondo. Gli uomini gridavano, mollavano i cavalli, mezzo massacrati, le gambe pendevano dagli alberi e teste a pezzi erano sparse sul terreno e stavano li a seccare. C'era anche fetore, perché i morti non sepolti mandano un fetore orribile. Gli spagnoli avevano una gran paura delle bombe. Cosf Cayito ebbe molti successi in guerra.
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La lotta questa volta fu facile. Avevamo liquidato un gruppo del Quinto che si era avvicinato a curiosare. Il secondo combattimento fu piu difficile. Li fummo costretti a giocare tutte le nostre carte. Un convoglio, che veniva da non so dove, avanzava verso Manicaragua. Era carico ed era obbligato ad attraversare la nostra postazione. Dovevano a ogni costo passare per El Platano. Un informatore ci avverti del loro arrivo e Cayito chiamò la truppa e disse: «Bisogna combattere come leoni». Nessuno si spaventò, anzi, lavoglia di combattere aumentò. Cayito continuò a dare ordini. Mise in posizione una gran linea di fucilieri e si avvicinò alla fanteria. Guardò la gente e andò a piedi verso l'accampamento. Camminava e se la rideva. Pochi secondi dopo, si udirono le grida. Cayito gridava come un selvaggio. Il convoglio cadde in trappola, fermammo i soldati, prendemmo le armi, i viveri: riso, burro, lardo, prosciutto, tutto. Per giorni e giorni mangiammo a crepapelle. Non solo noi, ma anche le donne, quelle dei capi. Cayito stesso aveva con sé la sua. Si chiamava Marfa e viveva in una capanna piu che decente. Tante volte fui proprio io a portarle da mangiare. I soldati spagnoli caddero prigionieri. Nessuno gli parlava. C'era chi voleva ammazzarli, però c'era non so che ordine che proibiva di ammazzare i prigionieri di guerra. Cayito non condivideva questa disposizione. Li avrebbe eliminati subito. Gli diceva urlando: «Meritate la morte, maledetti». E quelli zitti zitti perché erano soldatini giovani e avevano paura di noi. Non gli demmo da mangiare, ma dopo tre giorni li liberammo. Sotto scorta, li mandammo al villaggio. Poi, a El Platano, non ci furono piu scontri. Sembrava che Cayito facesse paura al nemico. Lo spirito di quest'uomo era qualcosa di grandioso. Aveva piu forza lui di tutto il suo reggimento. Mai nessuno gli si è ribellato. Tuttavia, pochi negavano gli orrori che commetteva. Al villaggio di Cruces si sapeva bene che uc-
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cideva i suoi stessi soldati. Uccise addirittura suo suocero per portargli via la moglie. Prese lei e uccise lui. Ora c'è gente che lo vede come uno scherzo. Per ine era un delitto. Una volta Cayito seppelli qualcosa a El Platano. Aveva la mania di nascondere soldi, brocche piene d'oro. Il nascondiglio è rimasto oscuro. Nessuno l'ha potuto scovare. Il fatto è che Cayito ci andò con il suo aiutante, sotterrarono i soldi e poi Cayito con le sue mani ammazzò l'aiutante. C'è chi dice che lo seppelli sul posto. Io non so. Il fatto è che qualche giorno dopo andava in giro serio e a testa china. A me dissero che era perché credeva che uno dei suoi uomini avesse visto il luogo del nascondiglio. Nell'accampamento si visse male per alcuni giorni. Io stesso pensavo: «Bene, se a questo gli salta in testa che io l'ho visto sotterrare il denaro e l'aiutante, sbatte anche me nella fossa». Passarono i giorni e tornò la calma. Un mulatto jabao, in quei giorni, si buscò il cepo de campana, ma fu per altri motivi. Il cepo de campana era un castigo del diavolo. Lo affibbiava a tutti quelli che non erano della sua idea. A me, l'hanno dato una volta. Fu un ufficiale al quale ne avevo fatta una. Abbandonai la guardia senza avvertirlo e mi castigò. Mi chiamò e mi disse: «Senti, Esteban, sei un indisciplinato». Io gli risposi, perché non stavo certo zitto. A dire la verità, non mi ricordo cosa gli ho detto. Mi fregò subito. Quel prepotente fottuto chiamò due aiutanti e mi legò le mani con una corda, per non farmi scappare. Poi mi infilò uno schioppo tra le gambe perché restassero immobili. Mi lasciò cosf un giorno intero. Dal dolore vidi le stelle. A pensarci bene, non finf poi cosf male. Il soldato che abbandonava la guardia, lo chiamavano disertore, ossia traditore, e spesso lo impiccavano. Io mi salvai, però penso ancora a quella puttana di sua madre. Poi, lui e io ce l'avevamo l'uno con l'altro. Se la prendeva con me perché mi vedeva insofferente. Ogni vol-
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ta che poteva mi lasciava all'accampamento. Sapeva che il mio divertimento era andare di notte a rubare maiali e bestiame. In queste operazioni ero bravo. Lo sapeva anche Cayito. Eppure, quell'ufficiale mi teneva spesso dentro per dispetto. Mi seccava abbastanza perché, per me, non poter uscire era come stare in prigione. Credo che, in guerra, la cosa che ho fatto di piu sia stato rubare bestiame. Siccome non si poteva seminare, rubavamo bestiame. In un modo o in altro, ci si doveva pure procurare da mangiare. Chi faceva queste cose era molto considerato. Un giorno Cayito mi chiamò e mi disse: «Negro, tu ci dài da mangiare, vieni nella mia scorta». Io non gli risposi. Ci andai e cominciai a eseguire altri ordini. Venivano direttamente dal comandante. Allora uscivo tutte le notti e tornavo con qualche vitello e qualche maiale, che erano una meraviglia. Alcuni selvatici, altri domestici. Mi accompagnava sempre qualcuno. Un uomo solo non ce la faceva a sbrigare quel lavoro. C'erano posti dove si poteva seminare. A Las Villas, neanche per sogno. Camagiiey era un posto tranquillo. Lf quasi non si è combattuto. I soldati seminavano al sole e coltivavano persino ortaggi. Ci furono poderi e casali di gente ricca dove non si avvicinò mai un soldato spagnolo. Fu la provincia che combatté meno. A Las Villas era diverso. Lf gli spagnoli bruciavano le case dei rivoluzionari, e vaste zone di terreno erano controllate dalle loro bande mercenarie. E non è una balla, perché l'ho visto con i miei stessi occhi. Ciò che piu poteva fare un ribelle a Las Villas, era rubare bestiame, raccogliere malanga, germogli di patata, barbabietole, insomma ... La farina di mango si faceva cucinando la polpa senza semi. Vi si aggiungeva limone e peperoncino rosso. Era il cibo di guerra. Il resto era roba da niente. Ah! E anche molta acqua di curujey. La sete era costante. In guerra, la fame si sazia, la sete no. I cavalli dimagrivano. Invecchiavano piu rapidamen-
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te. A loro non si poteva dare acqua di curujey. La soluzione era portarli a qualche ruscello. La verità è che uno dei maggiori problemi della truppa era l'acqua. Per tutti era cosi. Perciò i capi cercavano di accamparsi vicino a un ruscello. So di sentinelle che abbandonavano i loro posti per andare in cerca d'acqua. Poi, quando tornavano prendevano il cepo de campana. Questo non l'ho mai fatto ma non me ne è certo mancata la voglia. Nella truppa c'era di tutto. Brave persone e canaglie. Io avevo pochi amici. Juan e Santiago erano ì piu intimi, perché eravamo fuggiti dall'Ariosa insieme. Anche se Santiago non mi era molto simpatico. Era sanguinario e violento. A me non ha mai mancato di rispetto, ma mi ha nascosto molte cose. Io venivo a sapere i suoi imbrogli da suo fratello. Santiago era duro di comprendonio, gridava «Cuba libera» fino a scoppiare. Un giorno si stancò di Cayito e, senza dire niente, né a me né a suo fratello, prese il largo. Poco dopo venni a sapere che aveva commesso la stupidaggine di consegnarsi agli spagnoli nel paesino di Jicotea. Quando arrivò li gli spagnoli stessi lo accusarono di aver ucciso un altro spagnolo che tagliava erba sul monte. Quest'accusa lo colse di sorpresa e non trovò le parole per difendersi. Allora lo condannarono a morte. Gli spararono una palla in fronte e lo misero nel solaio di una casa di palme a cui appiccarono il fuoco. Questo servi da ammonimento per molti giovani cubani indecisi. Io mi ricordo sempre di questo caso e mi fa rabbia. Come Santiago ce n'erano molti. Per questo non si poteva aver fiducia negli amici. Se lo avessero obbligato a parlare, avrebbe certo detto tutto. Ma non gli diedero neanche questa possibilità. La cosa migliore, in guerra, è la diffidenza. Anche in pace, ma in guerra è piu necessaria. Bisogna diffidare degli uomini. Questo non è triste, è solo vero. Ci sono uomini buoni e canaglie. La cosa difficile è di-
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stinguere tra gli uni e gli altri. Io mi sono sbagliato molte volte nella mia vita. Cayito Alvarez non credeva né in Dio né al diavolo. Faceva benissimo. Aveva nemici. Quasi tutti i suoi uomini erano, in fondo, suoi nemici. Vedevano quello che faceva, il suo banditismo, i suoi crimini e, naturalmente, dovevano odiarlo. In guerra ci furono molti uomini puri che lo odiavano in silenzio, di un odio feroce. Mentre combattevo con lui, lo osservavo. Era uno di quegli uomini cui non piaceva troppo accogliere nuovi elementi. Quando veniva qualcuno per arruolarsi, lo chiamava e parlava con lui. A volte gli diceva che se ne andasse con un altro gruppo. Lo faceva quando vedeva che l'uomo non dava fiducia. A lui interessavano uomini che tacessero i suoi crimini e le sue vigliaccate. Lo dico adesso liberamente, ma li'. ero quasi prigioniero. Cayito arrivò al punto di respingere interi gruppi. A volte succedeva che un capo cadeva e il gruppo restava senza comandante, allora doveva andarsene in un altro reggimento. A El Platano capitò molte volte. Arrivavano uomini e noi li fermavamo. A volte restavano, altre volte li mandavamo a spasso. Al gruppo che arrivava, davamo l'altolà: «Alt! Venga avanti il capo del gruppo». Veniva avanti uno solo, si faceva riconoscere. Se il gruppo era numeroso, si mandava a chiamare l'ufficiale di giornata che era autorizzato dallo stato maggiore a farli passare. Tutti erano sul chi vive. Chiamavano i fucilieri, finché il gruppo nuovo era entrato. Passavano i minuti, l'attenzione si allentava, gli amici si davano la mano, a volte si incontravano parenti: cosi si entrava nel reggimento. Se i capi erano d'accordo, li facevano arruolare ecosi appartenevano al gruppo. In questo modo molti uomini vennero a combattere con Cayito. Credo che in altri posti e con altri capi fosse lo stesso. Non lasciavano entrare nessuno senza ragione. La guerra era una cosa molto seria e non tutti erano leali. Ho sentito dire che in uno squadrone di Matanzas si erano infiltra-
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ti alcuni mercenari che si facevano passare per mambl. Finf male e nel sangue. Di qui le precauzioni per evitare questi inganni. Tra gli stessi capitani e i colonnelli c'era divisione. Per invidia, ipocrisia e per odio. Questa divisione fu causa di molti morti, per Cuba, e di molto sangue. Non sempre chi andò alla guerra ci portò il suo cuore. Alcuni, quando videro la miccia accesa, si tirarono indietro, si afflosciarono, anche gli stessi colonnelli. La morte di Maceo indebolf lo spirito di lotta. In quei gior· ni una parte considerevole dei capi si arrese alla Spagna. Era l'ultima cosa che un uomo poteva fare, la piu bassa. Passare alla Spagna nella selva di Cuba! Il colmo! Lo stesso Cayito lo volle fare. Quel figlio di puttana lo teneva nascosto, ma molti lo sospettavano già. Io stesso, a dire il vero. Ma poiché era cosi bastardo, cosi feroce, nessuno gli parlava per non vedersi sotto le zampe dei cavalli. Mi immagino quel poveraccio che in quei giorni avesse mormorato qualcosa. Credo che quella bestia di Cayito se lo sarebbe divorato, a morsi. Per fortuna, tutti tacquero la faccenda; ciascuno si teneva dentro il rospo. Fu Felipe el Sol che parlò. Era l'uomo adatto. Io non l'ho visto né sentito, quel giorno. So però che andò dov'erano Leonardo Fuentes e un certo Remigio Pedroso, della scorta di Cayito, e disse: «L'uomo sta per consegnarsi. Lo so da buona fonte». Loro, che erano di cuore duro e rivoluzionari, si prepararono bene. Andarono dove c'erano alcuni uomini di fiducia, quelli che noi chiamiamo leali, e gli diedero la notizia. Tutti di sasso, ma pronti. Aspettarono che tornasse Felipe el Sol. Alla fine della settimana comparve dicendo che le colonne spagnole si sarebbero avvicinate la mattina dopo per portarsi via Cayito e alcuni suoi fedeli. Allora ci riunimmo in un gruppo e decidemmo di dare a Remigio il compito di uccidere Cayito, al momento stabilito. In quella apparve Remigio con gli occhi fuori dalla testa e ci disse:
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« Cayito mi ha chiamato in disparte e mi ha ordinato di informarvi che lui sta per consegnarsi. lo sono stato zitto e ho promesso di farlo. Inoltre mi ha detto che gli daranno quindicimila pesos, che dividerà e che avrà il grado di colonnello dell'esercito spagnolo. Mi sono congratulato con lui, e ora eccomi qui, pronto a fare quello che voi mi dite». Noi, dopo aver sentito questo, abbiamo deciso che in ogni modo era Remigio che doveva ammazzare Cayito. Remigio accettò. Alle sette della mattina dovevano arrivare gli spagnoli. Remigio a quell'ora era pronto, e invece di annunciare che Cayito stava per consegnarsi agli spagnoli, doveva portarlo in una macchia di manghi, che dev'essere ancora li, e ammazzarlo. Il giorno albeggiò sereno. Il generale Duque doveva essere vicino; era lui che comandava la colonna spagnola, incaricata di accogliere Cayito nell'autonomia. Altri colonnelli cubani erano già passati. Cayito non se ne sarebbe andato solo. Da altri reggimenti erano venuti per passare con lui Vicente Nuiiez e Joaqufn Macagua. I tre si riunirono a una grande distanza da El Platano. La scorta di Cayito lo segui. lo, com'è naturale, ne facevo parte. Remigio era pronto da tempo. Portò Cayito e gli altri due colonnelli alla macchia di mango. Cosi riuniti li prendemmo con le mani nel sacco. C'è chi dice che ad ammazzare Cayito fu Leonardo Fuentes, un negro della sua scorta. Altri dicono che fu proprio Remigio, com'era stato deciso. La verità è che questo è difficile da provare. Cayito ricevette tre pallottole, tutte e tre mortali. Gli assassini si erano nascosti dietro ai cespugli. Quando sentirono che Cayito parlava di tradimento insieme con gli altri due colonnelli, gli ridussero il petto a un colabrodo. Cosi fini Cayito. Poi vengono i bugiardi e i contaballe e dicono che fece resistenza e che fu un leone. Niente affatto! Cadde subito senza neanche il tempo di dire ahi! Gli spagnoli vennero a sapere che quel giorno era successo qualcosa nell'accampamento e non mandarono nessuna colonna ... Il giorno dopo, di buon'ora,
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arrivò Felipe el Sol. Veniva a controllare la situazione. Felipe, siccome era il confidente dei cubani, si immaginava già tutto. Ma poi tornò piangendo, da quell'ipocrita che era, dal generale Duque e, tra le lacrime, gli comunicò la morte di Cayito. Felipe era portato per questi imbrogli. Gli spagnoli partirono per l'accampamento. Molti degli uomini di Cayito se n'erano già andati. Altri restarono nascosti per vedere che cosa succedeva. lo lo vidi, e capii, e subito tagliai la corda. Gli spagnoli arrivarono e piantarono la bandiera. Scesero, da cavallo e uno di loro tirò fuori una carta e disse: « E morto un ufficiale per aver voluto onorare la bandiera spagnola». Questa è la verità. Chi dice un'altra cosa si sbaglia. La guerra ha di queste cose, e per questo dico che ammazza la fiducia degli uomini. Pensandoci bene, Cayito non faceva altro che seguire l'esempio di altri capi. Per loro, in quell'epoca, consegnarsi non era tradimento. O meglio, si diceva che con la morte di Maceo, la lotta era fallita. Forse Cayito si consegnò perché era morto Maceo. Lo ammirava. Ma no, Cayito era un farabutto traditore.
C'è ancora gente çhe parla di Cayito. Credono di vederlo dappertutto. E perché non l'hanno conosciuto. Se sapessero chi era, non l'avrebbero sempre sulla punta della lingua. Mi riferisco a quelle luci che appaiono di notte sui monti. E ai cavalieri senza testa. Molti dicono che è lo spirito di Cayito che torna a sorvegliare il denaro che ha nascosto. Forse è Cayito. Non voglio nemmeno pensarci. Speriamo che sia un altro! Un giorno un vecchio negro mi disse che vedeva delle luci e, che queste luci erano lo spirito del bandito Cayito Alvarez. Venne tutto spaventato. lo lo guardai e tacqui. Insomma, non volevo perdere tempo a convincerlo. Dentro di me pensai: questo coglione non l'ha conosciuto da vivo e non ha combattuto con lui; se l'avesse avuto vicino da vivo non avrebbe paura di lui da morto. Quando era feroce, era vivo. Dopo la mor-
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te di Cayito, un grosso gruppo di noi, che facevamo parte del suo reggimento, partimmo verso una località chiamata Tranca, per rifugiarci. Qui ci colse la notte. Il giorno dopo dormimmo a La Morata, un paesino vicino a La Esperanza. Non eravamo ancora arrivati a El Platano, dov'era accampata la fanteria e la squadra dei fucilieri, composta tutta di negri coraggiosi. Quando arrivammo, ci fu un grande trambusto. Tutti gli uomini, erano circa seicento, ci chiesero che cos'era successo. Noi raccontammo la morte di Cayito, di Macagua, e di Nufiez. Rimasero di stucco. C'era contentezza, ma anche molta confusione. Ci organizzammo bene e i capi rimasti ci diedero l'ordine di metterci in marcia per raggiungere il comandante di brigata Higinio Esguerra. Io avevo già sentito parlare di lui. Tutti i capi erano conosciuti, e piu o meno si sapeva com'erano, come trattavano i soldati, e altri particolari. Si spettegolava di continuo sulle donne e sul fatto che questo o quell'altro fosse o meno un bandito. E cosi, quando ci diedero l'ordine, ognuno pensò dentro di sé: ancora con un altro bandito. Io non ero molto d'accordo, a dire il vero: un bandito può anche essersi riabilitato. Non appena ho visto in faccia Higinio, me ne sono reso conto. Non era uomo di molte parole. Gli piaceva di piu l'azione. Quando arrivammo ci fece alcune domande. Io non risposi, perché non credevo di averne il diritto. Lo vidi temprato e deciso. Le basette risaltavano perché era molto bianco: un uomo di campagna come ce ne sono tanti, magro e alto. Subito prese il comando. Con una sicurezza tale che tutti, piu o meno, restarono a bocca aperta. La prima cosa che fece fu di deferire a un consiglio di guerra il cognato di Cayito, un certo Espinosa, che noi avevamo fatto prigioniero, perché quel coglione aveva intenzione di disertare. Espinosa non pensava che Higinio l'avrebbe trattato cosi. Forse credeva che non avrebbe fatto sul serio. Mi ricordo che l'ultimavolontà di Espinosa fu che consegnassero il suo orologio
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d'argento, bellissimo, alla madre. Higinio stesso prese l'orologio e glielo mandò. Aveva di queste uscite: riusciva a stupirci di continuo. Poi, all'imbrunire, fece un discorso e arringò la truppa. Lo faceva per rianimarla. Spiegò la verità su tutto. Disse che Cayito era un traditore e che aveva coinvolto anche altri uomini in questa storia. La gente incominciò a squadrarsi da capo a piedi. Molti sapevano che gatta ci covava. Higinio lesse i documenti segreti di Cayito. Li lesse pubblicamente. Non ho mai sentito un silenzio come quello. Il silenzio si fece soprattutto quando cominciò a fare i nomi della gente implicata. Li disse chiari chiari, nome e cognome di ciascuno. In quella lista apparvero molti ufficialetti, ufficialetti-che non si consegnarono solo per paura. Il comportamento della nostra truppa servf d'esempio. E lo sanno tutti quelli che hanno fatto la guerra. Fu per questo che la Rivoluzione si tenne in piedi. Sono sicuro che, in questa situazione, quasi tutte le truppe si sarebbero comportate cosf. Noi ci demmo coraggio e mettemmo la Rivoluzione davanti a tutto. Questa è la verità. Tuttavia molti ufficialetti e ufficiali si cagavano addosso tutti i giorni. Facevano cose che nemmeno i bambini fanno. Per guadagnarsi il rispetto di un comandante di brigata bisognava essere un uomo molto pulito e molto sereno. Il comandante era rude, trattava la gente seccamente, ma non permetteva tradimenti. Io lo rispettavo abbastanza perché aveva una certa nobiltà. Mandò alcuni di noi, una commissione, dal generale Maximo G6mez. Diceva che questa commissione doveva essere formata da combattenti, da quelli che non avevano tradito. Ma era una commissione piccola. Avrebbero dovuto essercene di piu. Quelli che ci andarono, si possono contare sulle dita: Primitivo del Portai, tenente; Leonardo Fuentes, capitano; Zufiigas, comandante; Hugo Cuéllar, caporale e Remigio Pedroso, sottotenente. Riuscirono a vedere Maximo G6mez che in quel momento era accampato a La Campana. Maximo
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G6mez li salutò e parlò con loro. Poi diedero a ciascuno di loro una promozione per l'azione che avevano fatto. Secondo me, anche la truppa meritava una medaglia, perché era stata la truppa a ribellarsi. Anche se non ci potevano decorare tutti insieme: eravamo tanti. Dopo pochi giorni arrivarono gli ufficiali con i loro nuovi gradi e dovemmo riceverli. Non sono ancora convinto che Maximo G6mez sapesse bene com'era andata la morte di Cayito. Secondo me, gliene avevano raccontata soltanto una parte, quella che gli conveniva. Ciascuno voleva darsi delle arie. Inoltre, loro credevano che la morte di Cayito fosse avvenuta per questioni di razzismo. Gli ufficiali degli altri battaglioni, voglio dire, perché chi c'era stato sapeva com'era andata la faccenda. Ma, al momento di decidere, tutti gli ufficiali erano un sol uomo. Dicevano: «Si, si, si». Alla fine della guerra ho sentito gente che diceva, e ancora dice: «I negri erano contro Cayito, l'hanno ucciso loro». Bisogna tacere o raccontare la verità. Ma siccome pochissima gente crede a uno solo, allora è meglio tacere. E se uno non tace, si crea complicazioni; o, meglio, se ne creava, perché oggi nessuno tappa la bocca alla gente. Higinio non ebbe mai dubbi sul tradimento di Cayito. Ne conosceva bene i motivi. La verità è che quando poteva dire che la nostra truppa era esemplare, lo diceva. Ciononostante, noi non abbiamo mai avuto in lui una fiducia completa. Higinio rispettava chi lo rispettava e faceva bene. Uno deve rispettare tutti. Chi non vuole rispettare gli altri, bisogna mandarlo a farsi fottere. Non abbiamo avuto fiducia dal giorno in cui siamo venuti a sapere che era stato un bandito. Questo ci tolse ogni dubbio, ma non glielo abbiamo mai rinfacciato. Egli si comportò sempre come un patriota. Succede cosi anche con le donne di malaffare, i ruffiani e i ladri. Uno crede che siano i peggiori e non è sempre vero. I peggiori sono gli ipocriti. Con Higinio abbiamo combattuto poco. L'unica gran-
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de battaglia fu Arroyo Prieto. Per il resto si passava il tempo. Ad Arroyo Prieto abbiamo combattuto per molte ore e abbiamo vinto. Fu uno scontro serio. Non abbiamo avuto piu di due o tre perdite. Higinio si difendeva bene in guerra. Divenne presto un esperto. A Higinio piaceva combattere. Chi non combatteva non serviva a niente, era come l'ultima ruota del carro. Al diavolo! Questa guerra sotterranea, con due o tre schioppettate, era peggio di una battaglia furibonda. Peggio! Ho avuto poche volte da dire con gli ufficiali. Quando ero con Higinio a El Vizcafno mi arrivò, personalmente, un ordine. L'ordine diceva che da quel momento in poi dovevo mettermi a disposizione del colonnello Aranda, come suo attendente. A me quest'ordine suonò male. Andai subito da Higinio e gli dissi chiaro e tondo: « Senti, io non sono venuto alla guerra per fare l'attendente di nessuno». Che cazzo, dovevo andargli a mettere i gambali e a pulirgli le scarpe? Higinio mi guardò in faccia e non mi rispose. Mi girò le spalle, e io me ne andai via di corsa. Il risultato fu quindici giorni di imaginaria. L'imaginaria consisteva nel dover fare la sentinella per castigo. Bisognava passare il tempo a vigilare e a girare per l'accampamento. Chi era di imaginaria non poteva neppure chiudere un occhio. Era come stare all'inferno, con quegli acquazzoni, quel fango, quello sporco, le zanzare, be' ... Se qualcuno voleva fare il furbo e non faceva l'imaginaria, gli davano il cepo de campafia. Oltre che andare a combattere e a rischiare la pelle, si veniva anche puniti. Quell'Aranda fu presidente del Consiglio dei veterani dopo la guerra. Io l'ho visto molte volte, ma lui non si ricordava di me. Perlomeno, non mi ha mai salutato. Secondo me, si era messo in guerra perché non lo impiccassero, dato che era un criminale. Ammazzò sua moglie per impadronirsi dei suoi beni. Aranda si
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cercò un altro attendente. Quanto a me, non mi mandarono piu a chiamare per questo lavoro. Higinio e io non ci siamo piu parlati. Ho perso il cavallo, le redini, i finimenti ... Diedero tutto a quello che era andato a fare l'attendente di Aranda. Io restai pulito. Dopo pochi giorni, Corojito - che era stato nominato attendente - passeggiava per l'accampamento pavoneggiandosi con il mio cavallo. Era solo un mulatto leccaculo. A me faceva rabbia. E un giorno presi e me ne andai a piedi al villaggio di Jicotea. Ci andavo con il permesso di cercare tuberi. Ci andai con Juan Fabregas, che era stato con me durante tutta la guerra. Juan e io ci mettemmo d'accordo per fare un colpo al forte spagnolo, per catturare due cavalli e portarceli via. Quando ci avvicinammo, vedemmo che era pieno di cani. Ci levammo i vestiti perché quei maledetti cornuti non ci fiutassero. Li lasciammo in una pesa pubblica, che era a poca distanza da li. Dovevamo prenderci questi cavalli per non finire la guerra a piedi. Camminammo piano piano e, arrivati al reticolato, vedemmo la sentinella. Mi pare che non ci vedesse perché eravamo scuri ed eravamo nudi. Continuammo ad avanzare ed entrammo proprio per la porta, strisciando contro la garitta. La sentinella dormiva. Afferrammo due cavalli e fuggimmo al galoppo montandoli apelo. E senza bisogno delle candele. Perché molta gente ruba con le candele per spaventare i cani. Io dico che questi animali non sono adatti a fare la guardia. Le oche si. Le oche si adoperavano molto nelle case private, al tempo della Spagna, ma ora sono sparite. Arrivammo all'accampamento e tutti, in subbuglio, ci domandavano: «Negri, dove avete preso quei cavalli?» Juan disse: «Al forte». Nessuno rispose. Forse non gli credettero. Il fatto è che, comunque, io continuai la guerra con quel cavallo. Non gli diedi nome, né lo curai come quello di prima. Era un cavallo baio, molto bello, bellissimo. Alla piantagione Caracas, dopo la guerra, me lo pagarono quaranta monete. Non so che cosa sia successo del cavallo diJuan. Ciò
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che ho notato è che diventava molto spavaldo, quando lo montava. Non stava tranquillo. Juan cambiò dal giorno alla notte. Un giorno mi accorsi che mancava. Venne gente e mi disse: « Senti, il tuo socio si è consegnato». Io non ci feci caso. Credevo che fosse andato a caccia di scoiattoli. Passarono i giorni e non lo vedevo spuntare da nessuna parte. Poi mi giunse la notizia che si era presentato agli spagnoli. A dire il vero, quella storia mi gelò dalla testa ai piedi. Poi mi venne rabbia. Rabbia e decisione insieme. Continuai la guerra per onore. Fabregas non l'ho piu visto. L'ho cercato alla fi. ne della &uerra, ma non l'ho trovato. Poche settimane dopo la partenza di Juan, ci muovemmo in direzione di Santa Rosa, una grande proprietà dove c'era un quartier generale. Usi uni a noi Martin Morua Delgado. Questo sf che l'ho visto bene. Era rossiccio, mezzo meticcio e molto alto. Non combatté. Fu tenente senza aver mai tenuto in mano il machete. Ma era un topo di biblioteca. Passava la vita negli archivi della caserma. Sistemò gli scaffali e mise in ordine le carte. Era un uomo fatto per queste cose. La guerra per lui si faceva con le parole. Passarono gli anni e divenne famoso. ~ provocò persino la rivolta dei negri ad Alto Songo. E stato l'uomo piu intelligente che sia andato al Congresso. E il piu grande. Certi bianchi dicevano che aveva fatto parte delle bande mercenarie. Questi bianchi erano americani. Sangue venduto. Lo accusavano di essere mercenario per una questione di pelle: del colore della pelle. I veri mercenari erano uomini ignoranti e stupidi. A me non si può raccontare che un uomo di lettere possa essere stato nelle bande mercenarie. Ce n'erano di bianchi e di neri, questa è la verità. Spagnoli, cubani e delle Canarie. Cinesi non ne ho mai visti. La tattica delle bande mercenarie era diversa da quella delle truppe di liberazione. A quelli usciva il fuoco dagli occhi. Erano uomini pieni di veleno, con le budella marce. Quando vedevano un gruppetto di mambi,
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gli saltavano addosso per prenderli; se li prendevano, li ammazzavano senza tanti discorsi. Gli spagnoli che combattevano fronte a fronte, non ammazzavano cosi, a sangue freddo. Avevano un'altra concezione. Arrivo quasi a dire che combattevano da pari a pari. A vevano munizioni, buoni cavalli, finimenti, speroni, tutto l'equipaggiamento. Noi montavamo a pelo. Alle bande mercenarie davano tutte queste cose, cosf loro si credevano superiori ... Non ho mai visto gente piu Qdiosa. Anche adesso, in questo momento ce ne sono ancora su quest'isola. Bisogna rendersi conto che il tempo è passato. Ma ce ne sono ancora e guardano tutti di traverso. Io ne cqnosco uno che passa il tempo suonando la chitarra. E negro, grasso e panciuto. Ogni volta che gli passo vicino, abbassa la testa e continua a suonare. Non lo guardo per evitare liti. Ebbene, il giorno che fa qualche sciocchezza, gli do una tale sberla che non va piu a raccontarla. Prima della guerra ho conosciuto molti balordi, balordi di paese che vivevano di imbrogli. Erano vagabondi e i sabati e le domeniche si azzuffavano, facevano i bulli, cercavano rogne e si ubriacavano ... Quasi tutti, negri e bianchi, erano stati mercenari. Non avevano altra strada. Sapevano che la guerra non è un gioco, e cercavano le comodità. Le6n era uno di loro, era pratico di questo tipo di guerra ed era stato intimo amico, culo e camicia, di V alentfn il Boia, quello che ammazzò mezzo mondo con la garrota. Questi erano i mercenari. Perciò chiunque mi venga a dire che Morua era nelle bande mercenarie, è un traditore e un bugiardo. Quando mi metto a pensare a questi figli di puttana, mentre si stava combattendo con la fame, in mezzo al fango e a tutto il putridume della guerra, mi viene voglia di impiccarli. La cosa triste è che a Cuba non sono mai stati puniti. Lo stesso Maximo G6mez li volle graziare. Dicono che è stato per convenienza. Però, dico la verità, a me questa parola; convenienza, non mi convince. Li avrei messi al muro, questi uomini, come
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ha fatto la Rivoluzione qui con gli assassini del governo precedente. Al muro e basta. Non sono ancora riuscito a capire, e non ho mai capito, perché Maximo G6mez, alla Quinta de los Molinos, alla fine della guerra, abbia detto che a Cuba non c'erano né vinti né vincitori. La frase è stata questa. L'ho sentita perché ero presente al discorso. Fu accolta male da tutta la truppa. Ciò voleva dire che i mercenari erano alla pari con gli invasori. Ci fu chi si oppose a questa frase. !sidro Acea, il colonnello, che era nero come il toti, prese il calesse e andò alla manifestazione dopo che G6mez aveva detto queste parole. Arrivò furente, perché questo negro non guardava in faccia nessuno. Era guerriero di nascita. Mise il calesse nella Quinta de los Molinos, e quando la gente vide che era lui, cominciarono a gridare. C'è chi dice che furono i negri a gridare. Ma non è sicuro. Lf gridavano tutti i patrioti. Isidro entrò dicendo: «Fate largo». E arrivò alla tribuna dove c'era Mario Menocal. Tutti i generali e il popolo lo rispettavano, perché era coraggioso e brutale. Si avvicino a Menocal e gli disse: «Questa gente che sta fuori deve venire dentro». C'erano dei cancelli che non lasciavano passare e Acea aveva promesso al popolo che sarebbe entrato. Menocal lo guardò sorpreso e non rispose. Maximo G6mez continuava a parlare. Acea alzò la voce e disse a Menocal: «Allora, la gente passa o non passa? Se non passa ti sgozzo». Allora Menocal dovette dare ordine che la gente entrasse. La confusione fu terribile. Tutti si lanciarono verso la tribuna. Isidro Acea fu alzato a spalle e portato in trionfo perché aveva umiliato i capi. Maximo G6mez terminò il discorso e la gente non gli badò molto. Quel giorno aveva sbagliato con la frase «né vinti né vincitori». I mercenari bisognaya sterminarli. A pensarci bene, il colonnello Acea era un po' spaccone. E siccome a me questi uomini esibizionisti non sono mai piaciuti, quel giorno ho mandato giu le parole di G6mez sen-
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za ribellarmi. Mi è sembrato un abuso quello di !sidro. Però nella guerra uno non sa mai chi si butta per primo. Tutti quelli che ascoltavano il discorso restarono sorpresi dall'arrivo del colonnello. Mi ricordo bene di questa faccenda, perché in quei giorni ero arrivato all'Avana con le truppe. Già da una settimana ero nella capitale. Era la prima volta che ci venivo. All'inizio mi sembrava strano, poi mi sono abituato, però non mi è mai piaciuta veramente. La campagna si'., e i monti soprattutto. · L'Avana, in quei giorni di vittoria, era una festa. I negri si divertivano in tutti i modi. Mi sorprese che all'Avana ci fossero tanti negri. Uno girava gli occhi e vedeva un negro. Per l'allegria e la felicità che la guerra fosse finita, le donne uscivano per la strada. Cazzo! Credo di essermi fatto piu di cinquanta negre in una settimana. Quasi tutte le donne dei mercenari si met· tevano con i liberatori. Una mi si avvicinò e mi disse: « Voglio che tu mi prenda, mio marito era mercenario». La lasciai andare, perché non era piu giovane. Ma ogni volta che una sardina mi passava a tiro, lanciavo l'amo e la prendevo. Non dovevo neppure parlare. Le donne mi cascavano tra le braccia come pere mature. Ci vedevano vestiti da rivoluzionari, con il machete, e sembrava che ciò gli piacesse. Siccome io non ero molto festaiolo, volevo portarmele per quell'altro ballo. Molte ci venivano subito. Altre, mi portavano in giro per le viuzze del molo, dove c'era una fontana e una strada con i lampioni e barche da carico attraccate li vicino. Li'. c'era piu baldoria che in nessun altro posto: ritmi di tamburi. Suonavano su tamburi piccoli e su altri tamburi che si tenevano tra le gambe. Tutte le strade e le case erano piene di sgabelli. La gente si sedeva; i vecchi e i giovani ballavano finché cadevano distrutti. Le case dei fidfiigos erano illuminate a festa. Ci furono schioppettate, pugnalate, sbornie, risse di tutti i generi. Le orchestrine di rumba non la finivano
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mai. Certa gente che non era soddisfatta del modo in cui i cubani governavano, cantava il ritornello di Santa Eulalia, che sembrava una litania: Santa Eulalia esta mirando a los cubano.s gobernar y le causa sentimiento 1Ay, Dios! la Reina esta llorando.
Io ero contento. Non ho mai pensato che la guerra potesse finire. Mi succedeva come sui monti, al tempo dell'abolizione. Non è facile credere a queste cose. Durante la guerra mi ero abituato ad andarmene nudo, vedendo le baionette quasi tutti i giorni e sfuggendo· ai mercenari. Quando mi dissero che c'era stato l'armistizio3, per me fu come non fosse successo niente. Non ci credetti.All'Avana, me ne convinsi completamente. Sembrava la fine del mondo. Nelle strade applaudivano Maximo G6mez e gli baciavano la giacchetta. Non c'era un solo cubano che non gridasse: « Viva Cuba libera!» Nelle strade ci si stringeva la mano senza ~onoscersi, si sventolavano i cappelli e i fazzoletti... E una cosa che non posso descrivere perché l'ho vissuta profondamente. Sono stati momenti tutti miei, di cui non conservo chiaro il ricordo. Mi ricordo di piu dei vestiti, dei cappelli, delle mode che hanno portato gli americani. Dicevano che gli uomini dovevano andare a capo scoperto. Alcuni gli hanno dato retta. A me, non è andato mai a genio. Mi sono tolto il cappello solo per andare a dormire. La testa dev'essere sempre ben coperta. Mi sembra che andare in giro mostrando il cranio sia mancanza di rispetto. Gli americani se ne fregavano. Per loro tutto andava bene. Soprattutto per i turisti, che erano dei ladri matricolati. Nella capitale ne succedevano di tutti i colori. Succedevano le cose piu strane e piu volgari. Per i giova'Cessate il fuoco, dato nel 1898.
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ni, ciò era meraviglioso. Rincretinivano davanti a questi spettacoli, e restavano incantati; le sbronze e tutto il resto ... Io mi sono scatenato bene con le negre. Ma con tutto ciò ci andavo piano. Insomma, sono sempre rimasto lo stesso. Non ci si poteva piu fidare di nessuno. Sono andato in una casa di legno, che era di certi miei conoscenti. Ci sono stati dei liberatori che hanno dormito in casa d'altri per molti giorni. Tutta la città aveva aperto le porte. L'Avana, in quegli anni, era ospitale. Ma non mi incantava nessuno con storie di luminarie, mangiate e donne a poco prezzo. Non mi piacque - e questa è una cosa seria, mia - il modo di fare, l'atteggiamento della gente della capitale. Anche i ruffiani facevano schifo; tipi che vivevano d'aria e di espedienti. Ali' Avana, perché in altri posti di ruffiani non se ne trovavano. In campagna le norme sono piu rigide, leggi di uomini che non vedono fantasmi. Qui, in città, i ruffiani avevano carta bianca. Passeggiavano, davano noia, rompevano i coglioni ... Si vestivano con certe camicette che portavano due iniziali: HR. Erano di cotone fino e duravano molto. Anche le scarpe che usavano erano buone, ma brutte: di cuoio di cervo o di feltro. Molti le chiamavano pantuflas, che è una parola spagnola. Da quei mascalzoni che erano, si legavano un fazzoletto rosso al collo per fare impressione. Picchiavano a mortè le puttane, con bastoni. Le picchiavano dappertutto. Questa è stata la prima cosa che ho visto scendendo dal treno in questa città; gradassi con le camicie annodate alla cintola e il coltello alla francese, che bastonavano le donne di vita. Non si erano mai guardati bene allo specchio. Se lo avessero fatto, avrebbero forse smesso di strascicare i sandali e abusare delle puttane. Gli unici che riuscirono a porre loro un freno, furono gli americani. Li mandavano in non so che posto fuori dell'Avana e li mettevano a spaccare pietre sulla strada. Picconavano sotto il sole, pieni di vesciche, quei gran figli di puttana! Perciò questo non mi piaceva. Certo, bisognava co-
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noscere la vita di qui. Noi, liberatori, ci trovavamo davanti a cose strane e nuove, ma forse quelli di qui avranno detto che i campi erano un inferno. Quello che piu gli ha scottato, è stata la fregatura che gli hanno dato gli americani. Sembra che pensassero che quella gente veniva qui per divertimento. Poi fu provato che non era cosi: che ciò che volevano era papparsi la fetta migliore della torta. La popolazione lasciava fare. C'era gente che si rallegrava che gli americani mettessero le mani in pasta. E dicevano - e c'è ancora oggi chi lo dice - che la miglior cosa della guerra fu l'intervento americano.
In quei giorni accadde un fatto con un prete, che per me era opera del diavolo. Questo prete subi l'umiliazione piu grande che io abbia mai visto. Con la sottana e tutto, gli americani gli dissero che era uno svergognato e lo misero a spaccare pietre all'Avana, nelle vie del centro, dove oggi c'è il palazzo del presidente. Tutti i vecchi sanno questa storia. E sanno che la colpa fu degli americani. Io sono andato a vederlo perché, lo giuro su mia madre, mi sembrava una balla. Mi alzai presto e corsi nella piazzetta dove mi avevano detto che lavorava il prete. L'ho visto subito, sotto il sole, con la sottana appiccicata al corpo. Siccome i preti erano i piu rispettati, restai di stucco. Però era lui, in persona, con tutti i cristi. Queste non sono storie, né visioni. Le donne che passavano e vedevano il prete, si segnavano perché non ci credevano. Io mi pizzicai il braccio per vedere se ero sveglio. Poi del prete non si seppe piu nulla. Ora penso che egli debba venire qui in spirito per vendicarsi. Agli americani i negri non piacevano molto. Gli dicevano: «Nigre, nigre». E poi ridevano. Chi rispondeva per le rime, continuavano a infastidirlo. Se no, lo lasciavano stare. Con me, non ci si sono mai messi; il fatto è che io non li digerivo. Non ho mai scherzato con nessuno di loro. Ogni volta che potevo, mantene-
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vole distanze. Alla fine della guerra si cominciò a discutere se i negri avessero combattuto o no. Io so che il novantacinque per cento della razza negra ha fatto la guerra. Poi quelli cominciarono a dire che era il settantacinque. Bene, nessuno li criticò per averlo detto. Il risultato fu che i negri rimasero per la strada. Incazzati come bestie feroci, ma per la strada. Era ingiusto, ma fu COSI. Nella polizia non c'era neanche l'uno per cento di negri, perché gli americani avevano fatto girare la voce che quando il negro avesse preso forza, quando fosse stato educato, sarebbe stato pericoloso per la razza bianca. Cosi avvenne che emarginarono i negri completamente. I cubani di altra razza se ne stettero zitti e non fecero nulla e la cosa è rimasta cosi fino a oggi, che è diverso, perché ho visto bianchi con negre e negri con bianche - che è anche pia strano - per la strada, nei caffè, dappertutto. Morua e Campos Marquetti4 cercarono di risolvere il problema e diedero ai negri alcuni posti nel governo. Posti di guardiani notturni, portieri, fattorini. .. Anche quando si sciolse l'esercito i lavoratori negri non poterono restare in città. Tornarono ai campi, alla canna, al tabacco, tranne che negli uffici. Avevano piu responsabilità quelli delle bande mercenarie, anche se erano stati traditori. Questa è la verità, senza discussione. Lo stesso generale Maceo avrebbe dovuto impiccare molta gente per poter comandare unpo'. Poi la maggior parte della gente dice che gli americani erano i piu corrotti. Sono d'accordo; erano i piu corrotti. Ma bisogna pensare che i bianchi criollos sono stati colpevoli come loro, perché si sono lasciati dominare nella loro stessa terra. Tutti, colonnelli e spazzini. Perché la popolazione non si ribellò al momento 4 Generoso Campos Marquetti, rappresentante del Partito liberale alla Camera nel 1912. Appoggiò Martin Morua Delgado nella sua risoluzione per proibire l'esistenza, a Cuba, di partiti razzisti.
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del Maine5? E niente storie, qui anche il piu fesso sapeva che il Maine l'avevano fatto saltare in aria loro stessi per intervenire nella guerra. Se qui la gente si fosse ribellata, tutto sarebbe stato diverso. Non sarebbero accadute tante storie, ma, al momento buono, nessuno mosse un dito o disse una parola. Maximo G6mez che, secondo me, sapeva qualcosa, tacque e morendo portò con sé il segreto. Dentro di me la penso cosi; e che mi venga un colpo se dico una balla. Prima sapevo piu cose, piu imbrogli, che sono rimasti oscuri nella storia. Ne parlavo con i miei amici a tu per tu. Oggi i ricordi mi si sono troppo confusi. A parte ciò, le cose principali non le dimentico, e posso anche contare sulle dita della mano le volte che ne ho parlato con qualcuno. Una volta mi misi a dire che la storia degli americani a Santiago di Cuba era una montatura e che loro non l'avevano presa da soli. Poi ci fu chi litigò con me per non compromettersi. Quello che c'è di buono adesso è che si può parlare di tutto. E la verità è che a Santiago colui che attaccò fu Calixto Garda. Quando gli americani bombardarono la zona, il capo li era uno spagnolo chiamato Vara del Rey. Calixto Garda attaccò le truppe di Vara del Rey e le sbaragliò. Allora gli americani issarono la bandiera per far credere che la città l'avevano presa loro. Quello fu un pasticcio terribile. Vara del Rey, con cinquecento uomini, ammazzò un'infinità di americani. La cosa peggiore fu che il capo della truppa americana ordinò che nella città non entrasse nessun cubano. Fu questo che creò la tensione. I cubani, non potendo entrare nel paese, si incazzarono con gli americani e Calixto Garda ebbe 'Nave da guerra nordamericana ancorata nella baia dell'Avana e fatta saltare nel 1898 dagli stessi yankees, che cercavano un pretesto per intervenire nella guerra d'indipendenza. Oggi il monumento al Maine, che era in un parco dell'Avana, è stato demolito come atto di protesta contro gli Usa.
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per loro parole dure. A dire la verità, preferisco lo spagnolo all'americano; però lo spagnolo a casa sua. Ciascuno nella sua terra. Invece, adesso, l'americano non mi piace neanche nella sua. In guerra lo spagnolo diceva alle donne: « Senti, Pancha, tuo padre mi spara addosso, però mangia lo stesso, cazzo!» Non erano poi tanto sanguinari. Le storie di quello che facevano gli americani sf che erano il colmo. Scavavano un fosso e ci buttavano dentro la roba da mangiare. Tutto il paese l'ha provato e l'ha vissuto. Wood, Teodoro Roosevelt, e l'altro, che non mi ricordo pia come si chiamava; insomma, la banda di questi degenerati che hanno rovinato il nostro paese. A Cienfuegos6, intorno al 1899 un gruppo di mambi dovette mostrare minacciosamente il machete a un po' di soldati americani, che ·da quei farabutti che erano volevano fottersi tµtte le cubane come se fossero state • ROUSSEAU e DL\Z DE VILLEGAS, PABW L.,
Memoria descriptiva, hist6rica
y biografica de Cienfuegos, Cienfuegos, p. 269. Versione parziale del fatto: « Il giorno 24 giugno, alle quattro del pomeriggio, quando maggiore era l' ani-
mazione nella città per la festa di San Giovanni, sotto il nuovo regime, tre soldati che facevano parte del commissariato di guerra dell'esercito americano suscitarono uno scandalo in una casa di malaffare, situata a ovest di via Santa Clara. La polizia municipale cercò di arrestare i provocatori nel momento in cui passava di là il capitano Fent6n, che fermò la carrozza facendo salire i tre soldati prima menzionati, nonostante l'opposizione della polizia, e si allontanò poi rapidamente. In quel momento, uno dei soldati, che erano saliti sulla carrozza sparò sul poliziotto che cercava di fermare il conduttore del veicolo. Il poliziotto cadde ucciso. Mentre succedeva questo, un picchetto di soldati americani che era appena arrivato alla fermata della ferrovia, abbandonò la scorta che portava le paghe dei soldati cubani e cominciò a sparare. Uccisero il signor Pablo Santa Marfa che - con i suoi tre bambini - passava in carrozza per il viale de Arango. Poco tempo dopo la calma fu ristabilita. Questi avvenimenti, che causarono anche lesioni ad altre persone, finirono per l'intervento del sindaco della città e del generale Esquerra, capo della guardia rurale, i quali - rischiando la vita - si diressero sul luogo del fuoco e costrinsero i soldati americani a cessare la sparatoria. I fatti descritti diedero motivo a una protesta generale contro la condotta dei promotori di questo conflitto». Diamo il resoconto di questo fatto, che qui si riporta in versione parziale, per la sua importanza storica, perché - a quanto ci è dato conoscere - fu il primo scontro armato tra cubani e nordamericani, in risposta alla sfacciata e insolente condotta di questi ultimi.
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carne da mercato. Non rispettavano neanche la loro madre, credo. Arrivavano nelle case, vedevano una bella ragazza alla finestra o sulla porta, le si avvicinavano e dicevano: «Foky, foky, Margarita», e ci davano dentro. Questo l'ho vissuto io a Cienfuegos. Con la storia del foky, foky si presero una bella fregatura. Noi venimmo a sapere della faccenda e andammo là a controllare. Erano vestiti di giallo, tutti agghindati, però quasi sempre ubriachi. Claudio Sarrfa, che era stato sergente, diede ordine di tirare fuori il machete. E corremmo lf come belve. Cominciammo a tenerli d'occhio: e in effetti era vero. Un gruppetto di loro si mise a dare fastidio in una strada vicino al molo. Molestavano le donne, gli toccavano le chiappe e se la ridevano. Credo di non aver mai sentito in guerra tanto fuoco dentro come quel giorno. Gli arrivammo dietro e, con il machete sguainato, li facemmo scappare via di H. Un gruppo di loro se ne andò verso il molo, dove c'era la nave, a rifugiarsi. Altri scapparono sulle colline di Escambray come razzi. Non diedero piu noia a una donna nella città. Quando uscivano, lo facevano con un ufficiale ed entravano nei caffè come scolaretti. Questa è una cosa che mi è rimasta sempre dentro, perché, quel giorno, tutti noi che partecipammo allo scontro stavamo giocandoci la pelle. Ma dopo hanno fatto anche cose peggiori, e la gente se n'è rimasta tranquilla. , Gli americani si presero Cuba con le lusinghe. E vero che non bisogna dargli la colpa di tutto. I veri colpevoli furono i cubani, quelli che gli hanno ubbidito. Ci sono molte cose da chiarire. Sono sicuro che il giorno in cui si scopriranno tutte le magagne nascoste, sarà la fine del mondo. Bisogna farla finita, perché anche adesso è la stessa cosa e hanno messo le mani dappertutto. Quando fini la guerra, gli ufficialetti cubani diedero carta bianca a McKinley perché facesse di quest'isola quello che voleva. Qui, dov'è la central Santa Marta, c'erano terre del marchese di Santa Lucia. Terre
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che, secondo quanto sono venuto a sapere, aveva lasciato per i liberatori. Il fatto è che queste terre se le spartirono gli americani con Menocal. L'affare piu sporco di tutta la guerra! Menocal, zitto zitto, ne dispose a suo piacere: era piu americano dello stesso McKinley. Perciò non piaceva a nessuno. Fu un affarista, non un combattente. E come questa, ci sono lin milione di altre cose, e non finiscono mai. Prima io pensavo di piu a tutto, ma poi dovevo mettermi la mano sulla testa perché mi veniva la febbre. Io, qualche volta, penso un po' troppo. Anche se non è che le cose le pensi per divertimento. Mi vengono, e per togliermele dalla testa deve cascare il mondo. Quello che mi ha salvato è che sono stato zitto, perché non ci si può fidare. Chi si fida molto si manda in malora da solo. Alla fine della guerra, quando tutte le truppe arrivarono all'Avana, cominciai a osservare la gente. Molti se ne volevano stare tranquilli, ben comodi in città. Bene, quelli che restarono ne uscirono peggio che se fossero tornati sui monti. Peggio, perché cominciò il tira e molla, l'inganno e la menzogna. «Negro, diventerai ricco, qui». E, merda! Quello era il primo a morire di fame. Perciò quando i capi dissero: «La guerra è finita, adesso bisogna lavorare», io presi il mio fagotto e andai alla stazione dei treni, vicino alle mura dell'Avana. Non me lo sono mai dimenticato. Li mi imbarcarono per Las Villas. L'avevo chiesto io. Las Villas è la parte piu bella di Cuba e siccome sono nato H... I mercenari, invece, li hanno lasciati negli uffici perché erano uomini di conti e fesserie di questo genere, o avevano una figlia belloccia, o soldi. Io sono tornato ai campi senza un soldo in tasca. Mi sono congedato temporaneamente. Quando arrivai a Remedios, trovai certi miei conoscenti, poi partii per Cruces e cominciai a lavorare nella centrai San Agustfn Maguaraya. Era la stessa storia. Sembrava che tutto fosse tornato indietro. Mi misi a lavorare al trasportatore. Poi andai alla miscelatrice,
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dove si stava piu comodi e si guadagnavano trentasei pesos al mese. Vivevo solo in una-capanna di frasche, finché mi venne voglia di avere una donna. Me la feci, ma solo per un po' perché ero al verde. Poi la lasciai andare e tornai a stare solo. A Maguaraya non mi feci amici. I bellimbusti, i maleducati non,mi sono mai piaciuti. Li nessuno mi dava confidenza. E vero anche che io non scherzavo con nessuno. Ciascuno va al mercato con il suo canestro. Lijvoravo tutto il giorno e quando arrivava la notte andavo a riposarmi e a togliermi di dosso le niguas, che sono le bestie piu dannose del mondo. Ho percorso quasi tutti i villaggi di Las Villas. Sono stato venditore, guardiano notturno. Basta! Ho imparato tutti i mestieri perché nessuno mi prendesse per il culo. Un giorno arrivai all'Avana ed era morto Maximo G6mez. Quando uno muore, la gente si dimentica presto di lui. L'unica cosa che ho sentito dire è che appariva nella Quinta de los Molinos e che la Quinta era stregata. Passai per un parco e vidi che lo avevano messo su un cavallo di bronzo. Continuai a scendere e dopo mezza lega circa ci avevano messo Maceo, montato su un altro cavallo uguale. La differenza era che G6mez guardava verso gli Stati Uniti e Maceq verso il popolo. Tutti devono rifletterci sopra. E tutto qui. Io passo la vita a dirlo perché la verità non può essere taciuta. E se anche io muoio domani, per nulla al mondo voglio perdere l'onore. Se volessi, anche adesso potrei vuotare il sacco. Perché prima, quando uno era nudo e sporco sui monti, vedeva i soldati spagnoli che sembravano figurini, con le armi migliori. E bisognava stare zitti. Per questo dico che non voglio morire, per fare tutte le battaglie che verranno. E non mi metto in trincea né prendo armi di queste d'oggi. Mi basta il machete.
Appendice a cura di Gaetano Longo
Barnet, il cimarr6n e trent'anni di poesia
Piu o meno trent'anni fa veniva pubblicato un libro che fece rimanere tutti perplessi: lettori, critici e scrittori. Era un testo letterario o uno studio etnografico? Chi parlava? Miguel Barnet o Esteban Montejo, il cimarr6n ? Dove iniziava la finzione e dove finiva ·la realtà? Il suo autore, appunto Miguel Barnet, era un giovane ricercatore che lavorava presso l'Istituto di Etnologia e Folklore e che passava gran parte del suo tempo libero con uno dei piu grandi intellettuali cubani di questo secolo: Fernando Ortiz. Il giovane Barnet aveva pubblicato una raccolta di poesie e aveva già ricevuto il consiglio amichevole di don Fernando: se si fosse dedicato alla poesia non sarebbe mai diventato un buon ricercatore. Ma quando, nel 1965, lesse le prime pagine di quell'opera che sarebbe stata pubblicata poco tempo piu tardi, disse solamente: «Lei è un poeta che sa fare il ricercatore». Quelle parole spinsero il giovane poeta a continuare, e sulla sua strada apparve un' altra importante figura-chiave: Alejo Carpentier. Fu lui che apri alla Biografia de un cimarr6n le porte dell'Europa e poi di tutto il mondo. Con il Cimarr6n s'inizia a Cuba un genere che l'autore per primo denominò nove/a-testimonial, e che poi con gli anni ha avuto importanti esponenti in tutta l'America Latina. Quando Miguel Barnet, nel 1966, pubblica il primo «romanzo-testimoniale», Biografia de un cimarr6n, la
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sua idea di basare il discorso sul principio della referenzialità sembrò completamente anacronistica e fuori luogo rispetto agli esperimenti formali usati nella narrativa del boom, cosi di moda in quel momento, e alle opere letterarie che in quegli anni venivano scritte a Cuba. Ma Barnet ben comprese, e il tempo poi gli diede ragione sia nel suo paese sia in tutta l'America Latina, che «i cambiamenti dinamici della struttura sociale cubana potevano favorire lo sviluppo di una diversa forma letteraria capace di assorbire le circostanze storiche»' attraverso il racconto diretto del personaggio principale. In questo senso il «romanzo-testimoniale » acquistò valore non solo dal punto di vista letterario e poetico, ma anche storico. Ma nella fase del processo creativo di Cimarr6n non bisogna assolutamente tralasciare il Barnet-poeta, soprattutto il poeta che anche all'interno della propria creazione stava in parte «superando», e stava in un certo modo cambiando, quegli elementi che reggevano la poetica colloquialista della cosiddetta « generazione degli anni Cinquanta» della poesia cubana. Fin dalla sua prima raccolta di versi, La piedrafina y el pavorreal, Barnet era stato accolto da Roberto Fernandez Retamar in maniera molto positiva: « Con questo libro l'autore ci offre uno sguardo cubano che può già essere considerato caratteristico dell'espressione nazionale »2 • Questo « sguardo cubano», questo modo nuovo di guardare e affrontare la realtà, la nuova realtà rivoluzionaria, saranno la bussola del lavoro letterario dell' autore che di li a poco farà conoscere il Cimarr6n. E quasi trent'anni dopo è lo stesso Barnet a spiegare la sua poetica nel discorso per l'assegnazione, nel 1994, del Premio Nazionale di Letteratura: 1 ELZBIETA SKLODOWSKA, Miguel Barnet: Hacia la poética de la nove/a testimonial, in «Revista de la Critica Llteraria Latinoamericana», n. 27, Li-
ma 1988, pp. 139-40. ' Roberto Fernandez Retamar, retrocopertina di La piedrafina y el pavorreal di Miguel Barnet, Edicciones Union, La Habana 1963.
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«Que~to sguardo è rimasto in me con volontà deliberata. E stato la mia bussola in tutto questo lavoro, dove tanti altri sguardi hanno cercato di sviarla. Nul~ la mi ha contaminato. Niente mi ha fatto cambiare. Continuo a pensare che tutte le mode sono passeggere, anche se alcune lasciano saldi favorevoli, Il mio sguardo è questo, quello della mia sensibilità. E stato il mio elmo e ora è il mio emblema. Cuba è la mia unica vera ossessione (. .. ) Con questa bussola mi sono immerso nelle acque profonde di Yemayd, nel pozzo della cubania, dove convivono le streghe spagnole e gli orishas della santeria. Con questa bussola ho percorso i cammini tortuosi e nostalgici degli immigranti cubani in terre straniere, i camerini delle ballerine che sognarono palcoscenici europei( ... ) Questa è la bussola che mi ha fatto percorrere i parchi silenziosi, le strade alberate e quelle ombreggiate del Vedado. Non ne voglio un'altra, perché grazie a lei sono arrivato fin qui, in tempo per non pentirmi di nulla. Questa è la buss_ola che vorrei consegnare ai giovani del mio paese. E l'unica arma che veramente possiedo, il mio unico autentico patrimonio. Il resto sono solo falsità, trucchi del mestiere, cattiverie da enfant terrible»3 • Proprio riferendosi a Miguel Barnet, ha scritto Elzbieta Sklodowska: «La nove/a-testimonial è un fenomeno affascinante all'interno della letteratura ispanoamericana. Il suo successo con il pubblico è indiscutibile. Con un raro equilibrio tra espressività e referenzialità, il discusso "genere testimoniale" rappresenterebbe un frammento all'interno di un fenomeno maggiore denominato da Carlos Ronc6n "cambio nella nozione di letteratura". La "forma testimoniale" reclama, sempre di piu, una maggiore attenzione critica per 'Discorso pronunciato durante l'assegnazione del Prenùo Nazionale di Letteratura 1994, in «La Gaceta de Cuba», n. 1, La Habana 1995.
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il suo ruolo e per la funzione ormai stabilita nell'ambito delle lettere latinoamericane»4. Non c'è dubbio che il racconto dello schiavo fuggiasco si materializzò all'ombra dell'ormai famoso successo editoriale degli anni Sessanta che fece conoscere molti dei grandi scrittori latinoamericani. Ma fu solo molto piu tardi che questo genere venne riconosciuto e «consacrato»: negli anni Ottanta, attraverso simposi, tesi e monografie. Il «romanzo-testimoniale» cominciò a essere visto come una specie di « alternativa alla narrativa del boom, in quanto recupera una serie di elementi del romanzo sociale rifiutati dal boom>>'. E da qui, a livello internazionale, la rinascita letteraria di Miguel Barnet. Se di rinascita si può parlare, visto che durante un trentennio l'autore ha pubblicato cinque romanzi, varie raccolte di poesie, volumi di studi etnologici e di favole ... Per Barnet, scrivere non vuole dire solo trasformare la realtà vissuta in discorso letterario, ma anche fare in modo che questo discorso sia reale. Lo stile della scrittura di Miguel Barnet è erede diretto della tradizione orale spagnola e soprattutto africana, ed è allo stesso tempo creazione e memoria. Barnet trasforma lo spazio etico e quello estetico, mescola la realtà e la finzione. La presenza dell'autore risiede nella sua apparente assenza attraverso la quale trasporta i fatti della realtà su un piano diverso, in modo da creare una sua verità poetica. Il Cimarr6n, negli anni, si è trasformato nel modello ideale del «romanzo-testimoniale». La tecnica usata, propria dell'antropologia sociale, e lo stile letterario di indiscutibile valore poetico, hanno trasformato questo libro in un classico della letteratura latinoamericana. Le settanta edizioni di Cimarr6n provano i me4 ELZBIETA SKLODOWSKA, Aproximaciones a la forma testimonial: la novelistica de Miguel Barnet, in «Hispanoamérica», n. 40, 1985, p . .3.3. 'JOHN BEVERLEY, Anatomia del testimonio, in Dal Lazarillo al sandinismo: estudios sobre la funci6n ideologica de la literatura espaiiola e hispanoamericana, The Prisma lnstitute, Minneapolis 1987, p. 167.
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riti letterari e scientifici che ne hanno fatto un modello di questo genere letterario, in molti casi parte dei programmi ufficiali di università statunitensi, europee e latinoamericane. Come ha ben sottolineato Abdeslam Azougarh, « se là voce zittita del negro cubano aveva bisogno di un reclamo testimoniale, trent'anni dopo la pubblicazione, il Cimarr6n ha trasceso il proprio carattere intrinsecamente testimoniale e si è trasformato in un concetto metafora (... ) »6 • Se Graham Green qualificò il libro come «unico», non fu solo per l'importanza nel rivelare aspetti sconosciuti della storia della schiavitu in America o una visione critica ed eterodossa, ma anche perché il protagonista fu l'ultimo degli schiavi fuggiaschi a Cuba e forse nel resto del mondo. Molti elementi caratterizzano la storia di Esteban Montejo che ormai compie trentadue anni dalla data della prima edizione cubana e trenta da quella italiana: il dramma della schiavitu negra, le relazioni interrazziali e sessuali, una cosmogonia prodotta dal sincretismo delle religioni africane con l'ambiente sociale cubano e un penetrante e ironico giudizio della storia attraverso la visione di un emarginato, di un uomo strappato alla propria terra per essere schiavizzato. A partire dalla pubblicazione del Cimarr6n, l'autore ha creato quella che potrebbe essere definita una trilogia etnica in cui il tema dell'emigrazione ne è la colonna portante. Nel Cimarr6n troviamo l'uomo radicato nella terra, che prega i suoi orishas che non vivono in cielo, ma nella terra stessa e nelle profondità del mare; la terra, dunque, come piattaforma e sostegno della vita e del destino di Esteban Montejo. In Canci6n de Rachel l'elemento portante diventa l'aria, trasparente e incostante, mutevole e inafferra' ABDESLAM AZOUGARH,
La recepci6n de Biografia de un cimarr6n, in
«Uni6n», n. 23, La Habana r996.
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bile, unita alla frivolezza come difesa e allo stesso tempo come espressione di un'intelligenza perversa. Aria che porta via ogni cosa, perfino i ricordi della protagonista. E come ultimo elemento di questa trilogia troviamo l'acqua di Gallego, l'acqua dell'emigrante che attraversa l'oceano in cerca di fortuna, le profondità dell'Atlantico: acque della nostalgia, mare che divide. Come corollario a questa trilogia l'autore pubblica nel 1984 La vida real (La vita reale. Un cubano a New York, pubblicato in Italia nel 1997). In questo romanzo, che narra le avventure picaresche di un guajiro della campagna cubana, Julian Mesa, nella New York degli anni Q~aranta .e Cinquanta, l'elemento principale è il fuoco. E un fuoco «perenne» che perseguita il protagonista fin dall'inizio della sua vita, poi durante gli anni di lavoro come tagliatore di canna nelle province orientali, fino ai duri e traumatici anni nella New York dell'emigrazione. Anche da questo romanzo, come da Cimarr6n, si potrebbe trarre una raccolta completa di proverbi e modi di dire, in questo caso arricchito anche da quella parlata originale dei latini della Grande Mela, conosciuto come «spanglish». L'ultima fatica narrativa di Miguel Barnet vede la luce nel 1989: è Oficio de dngel, riassunto della vita di un giovane della classe media cubana durante il periodo che va dal 1940 al 1962. Qui l'autore rompe con tutte le tecniche usate precedentemente per creare un'opera che sta a metà strada tra la prosa e la poesia, dove si mescolano elementi della finzione con elementi autobiografici. Quest'ultimo romanzo - come tutti i suoi la vari in prosa - rimarrebbe in parte oscuro per i lettori che non conoscono la poesia di Barnet, dalla prima raccolta già nominata fino all'antologia Con pies de gato (1993). Tutta l'opera dell'autore, immerso in una profonda ricerca della cubanfa, riflette la preoccupazione per il tema .dell'emigrazione e dello sradicamento. La memoria è il centro di tutta la sua opera, o meglio, il con0
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cetto di riscatto della memoria come parte dell'immaginazione ne è la colonna portante. Memorialista, storico, narratore di favole, Barnet ha voluto riscattare un modo tradizionale di raccontare, come nei tempi antichi, attorno a un fuoco, ma con i mezzi e l'intonazione di oggi, come i vecchi africani che raccontavano storie inventate o reali con una drammaturgia che man mano è andata perdendosi e che in tutta quest'opera si riscatta con un prezioso senso dello humour, un tono tra il malinconico e il picaresco e, soprattutto, una poderosa vocazione confessionale. Barnet non separa la letteratura dalla realtà. Secondo lui la letteratura è un'urgenza che ha, secondo le sue parole, «la missione di svegliare l'uomo che va al patibolo, fargli scoprire un cammino piu interessante, piu seducente. (. .. ) La letteratura, dopotutto, è l'unica cosa che può fare in modo che un ricordo acquisisca eternità. E a sua volta la letteratura è l'unica cosa che con un colpo solo può uccidere un ricordo». Fine poeta e attento osservatore degli elementi che distinguono e caratterizzano la cubanità e la sua evoluzione, Barnet ha creato una propria mitologia. Tutta la sua opera non può essere che letta e interpretata come una cosmogonia, e in questo modo personaggi come Esteban Montejo, Rachel, Gallego e Julian Mesa non sono semplici testimoni di fatti, ma simboli viventi di questi fatti e della storia. In tutta l'opera dello scrittore cubano risalta anche una forte dose di stoicismo che diventa palese nella commovente frase di Esteban Montejo, frase della resistenza virile come cimarr6n: « ... non ho potuto conoscere i miei genitori. Ma non è una cosa triste perché è la verità». E se pensiamo che fu Miguel Barnet, nel 1963, tre anni prima che il libro fosse pubblicato, dopo una lunga ricerca in vari archivi, a comunicare al vecchio Esteban Montejo il nome di suo padre e di sua madre, potremo forse capire quanto sia stata profonda e complice la relazione tra l'autore e il protagonista del libro.
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Per questo, nessuno specialista, nessun accademico potrà mai discernere dove finisce il racconto di Esteban Montejo e dove inizia quello di Miguel Barnet. E cosi, dopo trent'anni, lettori, critici e scrittori perple~si, continuano a farsi le stesse domande: E un testo letterario o uno studio etnografico? Chi parla? Miguel Barnet o Esteban Montejo, il cimarr6n? Dove inizia la finzione e dove finisce la realtà?
Babalawos, computer e colonne neoclassiche: intervista con Miguel Barnet
Dal tuo primo romanzo, Biografia de up cimarr6n, fino a oggi, i tuoi lavori ti hanno fatto conoscere in tutto il mondo. A cosa pensi sia dovuto questo successo? Me lo spiego con difficoltà. Sarà forse perché i miei romanzi non sono romanzi puri. La caratteristica che mi contraddistingue da altri romanzieri cubani è che la mia non è letteratura pura perché trascende l'ambito esclusivamente letterario. In fondo, non bisogna dimenticare che sono un etnologo di professione e per vocazione, e tutto quello che scrivo ha una risonanza e la propria radice nella vita, nella quotidianità, nella società. Tutte le mie opere non hanno mai mostrato circostanze passeggere né hanno mai voluto essere poste all'interno di qualche corrente letteraria alla moda. Tuttavia, penso che a tutti piaccia contemplarsi anche se con pudore e discrezione. In ognuno di noi c'è un Narciso, che lo si voglia o no. I miei romanzi, cosi come le mie poesie, sono di forte contenuto testimoniale, anzi, direi di piu: confessionale. Ho cercato di riscattare la memoria perduta, non quella egoista e patogena, ma la memoria collettiva, il discorso mitologico e non quello cronologico; la voce corale, non quella dell'eunuco solista. Io non sono altro che una cassa di risonanza di molte voci. Cerco quello che la maggior parte degli storici ha accantonato, ciò che è ancora occulto anche se visibile. Mi sento un esploratore del lato perverso della vi-
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ta, di tutto ciò che è pagano. Cerco la redenzione degli emarginati: il mio obiettivo è che questi possano presentare le loro credenziali al mondo. Forse questa ricerca potrebbe sembrare un atteggiamento di stampo piccolo borghese, ma è un problema che non mi interessa piu di tanto. Ciò che realmente mi interessa è riscattare queste vite per la letteratura, che è l'unica cosa che può difendere un ricordo.
Non credi che nel tuo caso si potrebbe anche parlare di romanzo storico? Certo, è vero. Con la mia opera ho voluto anche riscattare per il mio paese il romanzo storico, con l'intonazione di oggi, naturalmente. Ma sempre in quel modo semplice, come quando si racconta una storia attorno a un fuoco. In particolare mi è sempre interessato scoprire e plasmare le essenze del popolo cubano, del suo carattere, e studiare in che misura questo carattere assomiglia o no a quello del resto dell'America Latina, e specialmente del cosiddetto Caribe. Ho voluto mostrare la storia di Cuba attraverso personaggi di seconda classe, forse anche di terza, non lo so. Ma sempre attraverso uno specchio concavo e alla fine ne è uscito il lato nascosto della luna, un lato piu brillante e piu ricco di quello che si crede. Non avrei mai potuto fare questo senza l'aiuto e il metodo che mi hanno dato l'antropologia sociale e il concetto materialista e dialettico della storia. Naturalmente senza l'orecchio del poeta questi libri sarebbero stati altro, probabilmente materiale grezzo per studiosi e ricercatori d'archivio. Ma non volevo questo, volevo che i miei personaggi avessero un pubblico il piu vasto possibile.
Cuba e l'uomo cubano sono il centro della tua opera fin dal!' inizio della tua camera letteraria. Ho sempre voluto che nella mia opera, sia nella prosa che nella poesia, fosse presente l'uomo cubano nella sua complessità, perché Cuba è una carta etnografi-
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ca di ricchezza infinita, è un vero mosaico culturale. Abbiamo un linguaggio omogeneo, la lingua spagnola che parliamo nella nostra forma propria cubana, ma la no~ stra cultura è molto varia. Ci sono zone dove esiste un'enorme influenza della cultura africana, altre con grande influenza ispanica, zone con influenza caraibi~ ca come nel sud della provincia orientale, e zone con influenza cinese. Dal punto di vista culturale non siamo cosi omogenei come si pensa all'estero. E questa è una delle nostre grandi ricchezze. Credi che il cosiddetto boom, negli anni Sessanta, in qualche modo ti abbia aiutato? Credo che il boom fu un affare nato in due grandi «botteghe»: Parigi e Casa de las Americas all'Avana. Si cqminciarono a pubblicare, in varie edizioni, libri di scrittori di talento, e venivano venduti come salsicce. Era un'urgenza politica. E Cuba era di moda. Paradossalmente noi cubani non partecipammo a tutto ciò. Casa de las Americas privilegiò gli altri autori latinoamericani, com'era suo diritto. A Parigi scoppiò la moda cubana e cominciò a girare per il mondo. Forse grazie a queste circostanze Galliniard pubblicò Biografia de un cimàrr6n. Ma questo fatto non mi trasformò in un autore del boom. Per fortuna non dovetti fare nessun libro solo per compiacere qualche editore. L'unica cosa a cui aspiro è che i miei lettori mi siano fedeli. In definitiva, il risultato del boom fu positivo. Tanto di cappello a scrittori come Augusto Roa Bastos, Julio Cortazar, Garda Marquez, Vargas Llosa. Rimarranno perché superarono il boom per installarsi nel1' eternità. Ma credo che il boom piu autentico sia stato quello di Alejo Carpentier, solo e colossale nel suo cielo barocco, il piu grande tra gli scrittori latinoamericani di questo secolo. Quando il boom mi chiese la seconda parte del mio romanzo Cimarr6n per pubblicarlo in Europa, risposi con un lavoro completamente diverso: Canci6n de
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Rachel. Non credo nelle mode letterarie e posso dire, senza falsa modestia, che feci centro. Se allora avessi scritto un romanzo cubano di tipo psicologico, come in quegli anni fecero alcuni miei coetanei, oggi nessuno si ricorderebbe di me.
Hai nominato Alejo Carpentier. Lo consideri uno dei tuoi maestri? Fu un maestro e un amico. Fu il primo che pubblicò un articolo sul Cimarr6n quando ero poco piu che uno sconosciuto, un piccolo ricercatore di storia cubana al quale, come grande atto di profanazione, ogni tanto veniva voglia di scrivere qualche poesia. Lavorai con lui nella Editoria! Nacional. Ricordo che era capace di raccontare le bugie piu favolose con una serietà totale. Ma devo essere grato anche aJosé Lezama Lima, Nicolas Guillén e Fernando Ortiz. Lezama Lima era un vero demiurgo. Lui mi diede la libertà che non avevo conosciuto: la libertà dell'immaginazione, dd sogno. Non potrò mai dimostrare quanto sono grato a Nicolas Guillén. Per la sua semplicità, la sua bontà, la sua opera. Nicolas era un poeta dalla testa ai piedi. Fernando Ortiz lo conobbi nel 1958 in occasione di una festa fatta a Mercedita Valdés. La relazione d'amicizia con don Fernando fu indimenticabile. Stando molto tempo con lui imparai quello che non avrei potuto imparare in cento università, perché a vent'anni conobbi figure della cultura universale che non avrei mai potuto conoscere in altro modo. La cosa piu difficile è stata mantenere la distanza, l'equilibrio necessario per non trasformarmi in una loro brutta copia. Ortiz mi apri il cammino della scienza, Lezama e Carpentier le porte della imago, cioè quell'immaginazione peculiare del romanziere per vedere la storia e le sue facce piu insolite. Da Nicolas imparai la grazia cubana, la sensualità, l'ingegno, la purezza che dev'essere sempre presente nell'opera letteraria. Lui non andava alla fonte, lui era la fonte. Ho imparato da questi miei contemporanei ma,
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allo stesso tempo, ho avuto il privilegio di stare tra la gente. I miei maestri si trovano anche nelle casas de santo, nei sol,a,res habaneros, nelle oscure cantine di New York, nei camerini dei teatri di infima categoria, nella terza classe dei vapori che da Vigo attraversavano l' Atlantico per arrivare ai porti dell'Avana e di Santiago di C uba, nelle baracche della schiavitu, nelle navi negriere e nelle capanne dei contadini. I libri e le accademie dànno una sistematicità a ciò che impariamo dagli altri, perché sono gli altri a segnare il nostro destino.
Una volta in un'intervista hai detto: (( Forse non esiste ancora una cultura cubana, ma esiste un'estetica cubana, come esiste un modo di muoversi e un modo di parlare, di gesticol,a,re. Questa è l'estetica che voglio p!,a,smare)>. Cosa intendevi dire esattamente? Credo che esista un'estetica antillana, penso alle Antille di lingua spagnola. Si trova nelle opere degli scrittori delle Antille, degli artisti, soprattutto nella musica. Ci guardiamo negli occhi, ci tocchiamo, parliamo a voce alta, amiamo spogliarci, muoverci in modo speciale. L'Africa Nera del Golfo di Guinea ci ha segnati in maniera indelebile con un marchio che ormai è il nostro emblema, un tatuaggio che, per esempio, possiamo trovare nell'opera di Wilfredo Lam. Non siamo cosi frivoli né cosi estroversi come credono gli anglosassoni ogli europei. Mostriamo solo la testa, la punta dell'iceberg con i nostri colori, a volte con toni forti, ma in foqpo abbiamo un'anima cosi dostoevskiana quanto quella di un qualsiasi altro essere umano. La mescolanza ci ha fatti resistenti, ci ha resi piu solidi di altri popoli. Una papaya e una colonna neoclassica si abbracciano in una qualsiasi delle nostre città definendoci in modo clamoroso. Come spiegare questo melange? Abbiamo sempre vissuto in mezzo a correnti confluenti. Né il surrealismo né la postmodernità sono riusciti a coglierci di sor-
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presa. Breton scappò da Cuba a gambe levate quando vide una capra su un tram dell'Avana, e sarebbe scappato ancora piu velocemente se avesse visto i membri dell'Orchestra sinfonica nazionale, vestiti in frac, suonare L'inno alla. gioia di Beethoven tra avvoltoi, allori frondosi e un fiume con acque cristalline chiamato Miele. Immagino che qualsiasi postmoderno scapperebbe allo stesso modo se vedesse un venerabile babala.wo habanero mentre tira la catenina di Ifd in un computer.
Come scrittore e come uomo qual è oggi il tuo rapporto con la. Rivoluzione cubana? Per me la Rivoluzione è stata la mia via di Damasco, la Stella d'Oriente. Senza di lei oggi sarei sicuramente un professore di un college ad Atlanta o forse un addetto agli ascensori nella mia amata New York. Questa è la pura verità. Come scrittore cerco di registrare i cambiamenti sociali prodotti dalla Rivoluzione e anche come questi cambiamenti hanno creato un uomo diverso, non voglio dire un uomo nuovo, perché è un'utopia politica, ma un cubano diverso. Un cubano con una maggiore coscienza politica e sociale, inserito in un progetto nazionale. Credo che questo progetto di nazione disegnato a Cuba con la Rivoluzione abbia arricchito moltissimo l'intelligenza filosofica del cubano che è sempre stato un uomo universale o con una vocazione universale, e nella mia opera, come in quella di ogni scrittore cubano, c'è questa vocazione.
Glossario
Sono registrati nel presente glossario vocaboli e modismi intraducibili, adottando il criterio di spiegarli in maniera elementare. Altri vocaboli, trascritti nella lingua originale, trovano la loro spiegazione nello stesso contesto della frase in cui appaiono, o sono ormai entrati a far parte del linguaggio comune.
Abakud Setta segreta cui possono aderire soltanto persone di sesso maschile. Si conforma come società di mutuo soccorso, con un esasperato culto per la virilità. Gli abakud costituivano le loro sette soprattutto nei porti di mare, sui quali esercitavano un forte controllo. Si possono equiparare alla setta Egb6 del vecchio Calabar, una delle due sette piu importanti della Nigeria. Sono di origine carabal{.
Alafia Vocabolo che significa che tutto va bene.
Arard Sottogruppo yoruba in cui si praticava, come nella santerfa, il culto dei santi. Sopravvive tuttora, soprattutto nella provincia di Matanzas. Gli arard venerano Oggun, il dio della guerra e del_le selve, e Ochun, dea dell'amore e dell'oro.
Babalao o Babalawo Vedi santero. Bandurria Tipo di chitarra spagnola, piu rotonda e con dodici corde.
Besana Spazio tra due solchi paralleli, tracciati dall'aratro. Misura agraria.
Bozal, bozal6n Negri appena giunti dall'Africa, cosi chiamati per disprezzo, perché parlavano come se avessero una museruola, deformando le parole. Il sostantivo bozal significa, appunto, museruola.
Cabildos Sodalizi di negri schiavi e dei loro discendenti organizzati sulla base della stessa origine tribale, che servivano a fini sociali e benefici, Nei cabildos si cercava di ricostruire le vecchie tradizio-
GLOSSARIO
ni africane. Si celebravano riti, si cantava e si ballava. I cabildos cominciarono alla fine del secolo XVII e alcuni si prolungarono sino all'inizio dell'epoca repubblicana.
Calalu Cibo yoruba. Si fa con polenta e carne di maiale. È il piatto preferito di Chang6. Calderilla Moneta di bronzo. Caringa Ballo molto diffuso nella provincia di Las Villas. Di origine africana. Oggi non si balla piu.. Casas de santo Case private in cui si celebravano lè cerimonie del culto della santeria. Queste case, in genere di forma rettangolare, dovevano avere un giardino sul retro, dove si seminavano piante rituali, e una stanza nel fondo con gli altari dei santi principali. Al centro di questi altari sta il santo tutelare. In queste case si celebrano quelle che a Cuba sono chiamate toques de santo, cioè feste per celebrare i santi e feste di iniziazione o cerimonie funebri. I toques de santo sono l'equivalente del candomblé a Bahia e della macùmba a Rio de Janeiro, in Brasile. Cazuela Ricettacolo di creta dove si concentravano gli attributi magici delle forze soprannaturali che si adoravano nei riti congos. In genere era una pentola. Centra! Z~na coltivata a canna da cui si riforniva uno zuccherificio che ne costituiva il nucleo centrale. La centra! è formata da diverse piantagioni di canna e da colonie di padroni diversi che mandavano il loro prodotto allo stesso zuccherificio. Fu la ferrovia a rendere possibile l'estendersi di queste colonie e il loro legame con lo zuccherificio contribuendo, cosi, allo sviluppo dell'industria zuccheriera. Cepo de campana Punizione che si infliggeva ai soldati. Consisteva nello stringere loro le gambe tra due fucili legati da due corregge. Chang6 Divinità yoruba, dio dei fulmini e dei tuoni, dell'amore, della virilità e della musica. Nel cattolicesimo si sincretizza con santa Barbara. Ciguapa Uccello simile alla civetta, ma di dimensioni minori. Durante la notte canta in continuazione. Si dice che porti male ..
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Cimarr6n Durante il periodo della schiavitu, si chiamava cimarr6n, nelle Antille, lo schiavo che fuggiva sui monti. A Cuba si ebbero molti schiavi fuggiaschi: certuni scappavano da soli e conducevano una vita isolata; altri costituivano piccoli raggruppamenti che si organizzavano secondo la loro tradizione tribale e ricostruivano le loro usanze e i costumi africani.
Colonos Agricoltori che coltivavano direttamènte la canna da zucchero o proprietari di terre adibite a questa coltura.
Congos Erano chiamati cosf i negri africani schiavi provenienti dal gruppo etnico bantu. A Cuba, i congos si estesero in tutta l'isola a partire dalla metà del XVI secolo. La regia conga o regia de palo è la religione in cui si praticano cerimonie di origine bantu, trasportate nell'isola.
Contratados Molti cinesi, filippini e indios messicani della penisola dello Yucatan erano stati mandati a Cuba con una specie di contratto di lavoro. In pratica, essi erano e vivevano nelle stesse condizioni degli schiavi africani.
Cotunto Uccello passeraceo piccolissimo e scuro.
Crio/lo Figlio di negro africano nato a Cuba.
Cuaiani Albero cubano.
Curuìey Pianta parassitaria che si abbarbica agli alberi e produce un'acqua fresca.
Danzas Forma di danza cubana, precedente al danz6n. Era un ballo di coppie e di quadri, dove la femmina e il maschio non si toccavano.
Danz6n Ballo nazionale cubano per oltre cent'anni, fino al 1940 circa. In questo ballo, avversato dal cattolicesimo e dalla borghesia per ragioni moralistiche, le coppie si toccavano per la prima volta.
Décimas È il metro del canto popolare contadino. La décima corrisponde all'espinela che a Cuba è, insieme alla cuarteta, la base ritmica delle melodie contadine.
GLOSSARIO
Ecru Piatto preferito di Obatala. Si mangia in particolari occasioni e si fa con un tipo di fagiolo molto piccolo e bianco. Il bianco è il colore simbolico di Obatala.
Eleggud Divinità yoruba. Dio del destino. Si sincretizza con sant' Antonio da Padova.
Empanadas Frittelle di farina ripiene di carne.
Endoqui Diavolo congo.
Enkangues Parola che significa fattura.
Ensaladillas Una delle forme piu primitive di teatro a Cuba. Si rappresentano spesso all'aperto. Hanno avuto la funzione di rafforzare la vena popolare del teatro cubano. Sono alla base del teatro dialettale. · ·
Esquifaci6n Vestiti dati in dotazione agli schiavi di anno in anno.
Potuto Corno o buccina che si usa in campagna per amplificare la voce. Gli si attribuisce un'origine indigena.
Ganguleria Sortilegio congo o fattura che si fa per ottenere qualche beneficio. Fondamentale per questa fattura è la nganga o cazuela. Da qui il nome di ganguleria a quelle fatture nelle quali si usa questo ricettacolo magico.
Guanina Foglia di un cespuglio che serve anche a fare un surrogato di caffè.
Gudsima Albero selvatico dal legno forte e leggero.
Guayabera Camicia nazionale cubana. Si indossa fuori dai pantaloni ed è generalmente bianca, ornata con costure e molti bottoncini. Le migliori sono di lino.
Guayacdn Albero dal legno durissimo.
Guayos Strumenti musicali fatti con una specie di rustica grattugia, su cui veniva sfregato un bastoncino.
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Guerrilla de la muerte Truppa mercenaria formata da cubani che combattevano a .favore degli spagnoli. Si rifugiavano sulle colline e agivano con tattica terrorista. Ci furono anche truppe mercenarie formate da negri e mulatti.
Giiiros Frutto di forma allungata (simile alla zucca) che si incide verticalmente e che si sfrega con un bastoncino per produrre un rumore speciale.
Giiiros de su;ey o amargos Espressione contadina per un tipo di giiiro, che deriva dalla forma del frutto.
Itamorreal Pianta molto piccola, tipicamente latinoamericana.
]abao Incrocio meticcio, nato da un bianco e da un negro. Di colore violaceo e di capelli chiari.
Jipi;apa Cappello fabbricato dagli indios di Jipijapa (Ecuador), molto usato a Cuba e a Puerto Rico.
]iquis Albero cubano - soprattutto della provincia di Las Villas - dal tronco sottile e dal legno durissimo. Si usa per fare pilastri di sostegno nelle case.
]ota Danza aragonese e valenziana.
Judio Ciò che non era cristiano si riteneva cattivo, di natura malvagia. Il vocabolo iudio fu adottato dai negri per significare tutto ciò che nel suo culto non fosse ortodosso o avesse scopi malvagi.
Lucumi Denominazione popolare e arbitraria data a Cuba ai negri provenienti dal Golfo di Guinea, soprattutto dalla Nigeria. Invece di chiamarli yoruba, com'era corretto, li chiamavano lucumi perché dicevano che venivano tutti dal regno Ulkamf, a Lucumf, in Nigeria.
Macagua Albero di legno duro e fibroso con foglie molto grandi.
Malanga Tubero grande, bianco o giallo, con una scorza color terra.
Mambi Termine tradizionale di Cuba per indicare i rivoluzionari.
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GLOSSARIO
Maracas Strumento musicale fatto con l'albero cli giiira.
Mayombe Spirito maligno. Anche nome cli uno dei gruppi o sette della regia de palo. Giocare al mayombe significava fare stregonerie a fini utilitaristici.
Medio II medio equivaleva sempre a una mezza moneta. Name Tubero simile alla patata, molto apprezzato nei paesi tropicali.
Nanigos Membri della setta Abakua, società cli origine africana formata da soli uomini, nelle province dell'Avana e cli Matanzas.
Narigonero Giovane contadino che incita il bue.
Niguas Insetto americano simile alla pulce. Le femmine penetrano sotto la pelle, soprattutto dei piedi, e vi depositano le uova che allo schiudersi provocano un bruciore insopportabile e talvolta ulcere anche gravi.
Obatald J;)ivinità yoruba. Dio della pace e della creazione dell'universo. E la Vergine de la Merced.
Obi. Nome in lingua yoruba del cocco.
Ochun Divinità yoruba. Dea della sensualità, ~ella bellezza femminile e della maternità. Moglie cli Chang6. E la Vergine de la Caridad del Cobre. Patrona cli Cuba.
Oggun
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Divinità yoruba. Dio della guerra, delle selve e degli utensili.
Oggun Aguanillé Divinità yoruba. Appellativo di Oggun. Rappresenta il guerriero.
OggunArere Divinità yoruba. Appellativo cli Oggun. Rappresenta il fabbro.
Oggun Oké Divinità yoruba. Appellativo cli Oggun. Rappresenta la collina.
Palero Praticante dei riti congos o regia de palo.
Pan deagua Pane leggero, lievitato, salato, senza burro.
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Parrandas In villaggi come Bejucal, Caibarién, Remedios e Placetas si celebrano con questo nome le feste popolari nel periodo natalizio.
Prenda Ricettacolo magico che custodisce i poteri o fondamenti della religione conga o regia de palo.
Quimbomb6 Cibo yoruba. Pianta popolare a Cuba, da dove si ricava il piatto preferito dagli africani e oggi dalla popolazione cubana in generale. Il quimbomb6 è una specie di brodo denso al quale si aggiungono tuberi e carni diverse.
Quimbumbia
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Gioco congo accompagnato dal ballo. E anche un gioco di bambini in cui si utilizzano due bastoncini, uno dei quali si fa saltare e si colpisce per vedere a che distanza arriva. Chi lo lancia piu lontano, vince.
Ranchadores Squadre - composte in prevalenza da spagnoli - specializzate nell'inseguimento e nella cattura dei negri cimarrones.
Rumba Essenzialmente una danza a pantomima, come la yuca. Rappresenta la richiesta d'amore che si sviluppa fino all'orgasmo, però in esecuzione fortemente stilizzata e di una sottile gentilezza.
Santeria La religione piu importante ed estesa a Cuba. Di origine yoruba, è oggi una simbiosi tra la religione yoruba vera e propria, il cattolicesimo e lo spiritismo. Si chiama santeria perché i suoi seguaci hanno il culto dei santi. A differenza della regia de palo, si basa sulla mitologia e non sulla magia.
Santero O santera se si riferisce alla donna. Sono gli officianti del culto yoruba cattolico. I santeros sono una gerarchia di questo culto. Prima di loro, vengono in ordine di importanza i babalaos - cioè coloro che conoscono e conservano i segreti di Ifa e della divinazione - e gli oluos, che costituiscono la suprema gerarchia della santeria. Gli oluos sono quasi sempre uomini vecchi e di molta esperienza.
Si;u Piccolo uccello rapace notturno delle Antille.
Tamal Pasta di mais, carne, pomodori e peperoni, avvolta in cartocci di mais o foglie di banano e cotta al forno o al vapore.
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GLOSSARIO
Tempia Succo contenuto nella caldaia.
Toti Uccello dalle piume nerissime.
Trapiche Parte meccanica dello zuccherificio primitivo.
Tumbandera Ballo contadino di origine africana che si faceva con una pedana interrata e una corda legata al tamburo e tesa a un albero. Il suonatore tocca la corda e ne esce un suono grave e ritmico.
Vaya;a o Baya;d Regione di Santo Domingo.
Volanta Carrozza di lusso, tirata da cavalli, usata anticamente a Cuba.
Vueltaba;eros Abitanti della zona occidentale dell'isola.
Yemayd Qivinità yoruba. Dea dell'acqua, dell'oceano e della maternità. E la Vergine de Regia.
Yuka Danza che esprime la lotta tra i due sessi e il loro congiungersi. Il danzatore fa la corte alla sua compagna, ma non è una corte, una lotta personale, bensf la corte, la lotta, l'unione sessuale in sé e per sé. La danza rappresenta un modello, un archetipo. Corrisponde alla danza di Ochun che incontra Chang6.
Zafra Periodo del raccolto e la raccolta stessa della canna da zucchero.
Zapateo Ballo molto diffuso nell'isola nel secolo scorso e agli inizi di questo. Tipico dei contadini bianchi. Oggi non si balla piu.
Indice
p.v
Introduzione
Autobiografia di uno schiavo La schiavitu 5 II
3I
Primi ricordi La vita nelle baracche La vita da cimarr6n
L'abolizione della schiavitu 47
La vita negli zuccherifici
La guerra d'indipendenza r37
La vita durante la guerra
r77 r93
Appendice a cura di Gaetano Longo Glossario