Aut Aut 382/2019. Sade, Masoch. Due etiche dell'immanenza [Vol. 382] 8842825719, 9788842825715

"Aut aut" è una rivista bimestrale di filosofia fondata da Enzo Paci nel 1951. Attraverso la pubblicazione di

284 51 2MB

Italian Pages 196 [178] Year 2019

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Table of contents :
Copertina
Sommario
Colophon
Premessa
I due vortici. Sade con Bataille
Sade e il desiderio di essere
Immanenza? Etica?
Carmelo Bene o dell’immanenza dei corpi
Singolarità, perversione, immanenza
Erotismo della morte o ciclo di isteresi. La perversione tra Barthes e Deleuze
Masochismo plurale. Il servo, l’oggetto, la voce
Disconoscimento sur place
Masoch oltre Nietzsche. Seduzione, autoaggressione e ordalia del filosofo critico
Discussioni
Il soggetto supposto intelligente
Il mistero della passe
Recommend Papers

Aut Aut 382/2019. Sade, Masoch. Due etiche dell'immanenza [Vol. 382]
 8842825719, 9788842825715

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

382 giugno 2019

Sade, Masoch. Due etiche dell’immanenza a cura di Federico Leoni Premessa

Tommaso Tuppini I due vortici. Sade con Bataille Giovanni Bottiroli Sade e il desiderio di essere Felice Cimatti Etica? Immanenza? Gianluca Solla Carmelo Bene o dell’immanenza dei corpi Federico Leoni Singolarità, perversione, immanenza Silvia Vizzardelli Erotismo della morte o ciclo di isteresi. La perversione tra Barthes e Deleuze Carmelo Colangelo Masochismo plurale. Il servo, l’oggetto, la voce Riccardo Panattoni Disconoscimento sur place Andrea Muni Masoch oltre Nietzsche. Seduzione, autoaggressione e ordalia del filosofo critico  

DISCUSSIONI Antonello Sciacchitano Il soggetto supposto intelligente Sergio Benvenuto Il mistero della passe  

rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Mauro Bertani, Graziella Berto, Beatrice Bonato, Deborah Borca (editing, [email protected]), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Alessandro Di Grazia, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Andrea Muni, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Stefano Tieri, Carla Troilo, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.L. Nancy, A. Prete, R. Prezzo, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: [email protected] Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

il Saggiatore S.r.l. via Melzo 9, 20129 Milano www.ilsaggiatore.com ufficio stampa: [email protected] abbonamento 2018: Italia w 64,00, estero w 80,00 servizio abbonamenti e fascicoli arretrati: Il Saggiatore S.r.l., via Melzo 9, 20129 Milano Telefono: 02 20230213 e-mail: [email protected] Registrazione del Tribunale di Milano n. 2232 in data 13.1.1951 Proprietà: Francesca Romana Paci Stampa: Galli Thierry, Milano Spedizione in abbonamento postale 45% art. 1, comma 1, decreto legge 353/03 convertito in legge 46/04 – Filiale di Milano.

Premessa

La posta in gioco di questo fascicolo di “aut aut” potrebbe essere formulata con una domanda piuttosto semplice. Perché mai una stagione tanto rilevante del pensiero francese novecentesco ha trovato in Sade e Masoch due stelle polari? Mi riferisco alla stagione dei Bataille, dei Klossowski, dei Lacan, dei Deleuze, dei Foucault, dei Derrida, dei Barthes, dei Sollers. Perché mai rivolgersi a due figure tanto eccentriche al canone della filosofia, e tanto eccentriche anche rispetto al canone dell’antropologia occidentale, chiamiamolo così, che la psichiatria e la psicoanalisi le hanno ritenute degne di dare il loro nome a un quadro psicopatologico specifico? Perché, in senso ancora più generale, la perversione e l’insieme delle perversioni, al plurale, si è, a un certo punto, imposto alla filosofia come una questione ineludibile, forse come l’unica questione? Una prima precisazione. Tutti gli autori francesi citati si imbattono in Sade e in Masoch ogni volta che riflettono sull’etica, sulla struttura del soggetto, sul modo in cui un soggetto si soggettiva, sul mondo in cui quel soggetto si soggettiva. Ma Sade e Masoch non sono ciò a cui essi si oppongono. Non valgono come un antimodello. Al contrario, Sade e Masoch indicano sempre la dimensione in cui muoversi. È nel solco di Sade che alcuni di loro pensano. O nel solco di Masoch, nel caso di altri. Seconda precisazione. Il binomio Sade/Masoch, utile a ricostruire una costellazione, a rintracciare una sorta di canone, regge però fino a un certo punto. Regge fino al punto in cui ci si arrende all’evidenza che Bataille o Deleuze o Lacan non hanno semplicemente riflettuto sulla perversione o sul sadomasochismo. Hanno esercitato un’opzione ben precisa. Hanno individuato il loro oggetto, forse la loro stella, in Sade oppure in Masoch, mai in entrambi, mai in un elemento eventualmente comune. Su tutti, Lacan e Deleuze hanno insistito nel disfare quel nodo altrimenti tanto stretto. Terza precisazione. Tra Bataille e Lacan, tra Klossowski e Deleuze, per fare solo qualche esempio, si tratta probabilmente di due pensieri dell’immanenza non del tutto sovrapponibili, di due immanenze di segno piuttosto differente. Per questo le simpatie si polarizzano, ora verso Sade,

ora verso Masoch. Si dovrebbe parlare di una linea sadiana e di una linea masochiana, di una linea dell’immanenza sadiana come quella di Bataille, per esempio, e di una linea dell’immanenza masochiana, come quella di Deleuze. È quanto mostreranno in modo dettagliato i testi qui raccolti, che proprio per questo motivo dovevano affrontare la questione da tanti punti di vista, moltiplicando i distinguo, soffermandosi su svariate sfaccettature. Limitiamoci per ora a dire che la via di Sade suppone che l’immanenza sia qualcosa. Sembra una sentenza abbastanza oscura, ma basta pensare a ciò che Sade mette in scena costantemente, ed ecco che la questione viene in chiaro. Per Sade quel qualcosa è la natura, la sua materia sorda, l’insieme delle sue leggi implacabili, la sua logica ferrea incessantemente convocata in estenuanti dimostrazioni. Il che è quanto dire: Sade è a distanza. La natura è una meta, va raggiunta. La materia è sempre a venire. Ostacoli di ogni genere vanno rimossi dal cammino. La distruzione dei corpi e delle anime è necessaria a travolgere quelle forme che impediscono all’informe di manifestarsi senza mezze misure. Ma la natura è l’informe? La materia è necessariamente materia macellata? L’immanenza è l’orizzonte, per Sade, ma un orizzonte lontano. Viceversa, Masoch è un cultore dell’artificio, un appassionato legiferatore, un instancabile bricoleur di forme di vita. Non tanto nel senso che gioca l’artificio contro la natura, ma nel senso che vede bene che anche la natura è un artificio tra altri artifici. Dunque la sua etica sarebbe l’etica di un’invenzione dell’immanenza piuttosto che di un’attuazione dell’immanenza, la sua etica consisterebbe nell’inventare immanenze molteplici nella misura in cui l’immanenza non è che le sue costruzioni, le sue congetture. L’immanenza non è qualcosa, per Masoch. Non va raggiunta. Ci siamo già, e ci siamo nel modo dell’invenzione, della creazione. È un’invenzione, una creazione che si serve brevemente degli strumenti che trova sul terreno, dà vita ad accordi che non mirano a fare sistema, si affida a negoziazioni che non smettono di lasciarsi attraversare dalle forze che sembrano imbrigliare. L’eroe di Masoch procede per piccole differenze, non progetta ma organizza, non comanda ma governa, non seduce ma si concede, non afferma ma suggerisce. Piega, inflette, accompagna, mai da fuori ma sempre da dentro. L’immanenza non è un orizzonte, per lui, ma una superficie. Una superficie assoluta, senza confine, senza alterità, senza rovescio. [F.L.]

I due vortici. Sade con Bataille TOMMASO TUPPINI

Il confronto di Bataille con Sade è delimitato grossomodo da due saggi: Le valeur d’usage de D.A.F. de Sade – scritto nel 1932, forse 1933, pubblicato postumo1. – e Il segreto di Sade pubblicato nel 1947 su “Critique”, poi nel 1957 tra gli interventi di La letteratura e il male.2. L’occasione del primo saggio è l’aspra polemica che contrappose Bataille ai Surrealisti (sono gli anni della sua militanza nei gruppi francesi della sinistra extraparlamentare, che durò fino al 1935). Bataille mette qui a punto per la prima volta la nozione di “eterologia”, la scienza del “tutt’altro”. L’altro saggio viene scritto durante e dopo il secondo conflitto mondiale, quando Bataille sembrerebbe allontanarsi dall’impegno politico e fare di Sade una questione estetica.3. Nel Valeur d’usage Bataille se la prende con Breton e i suoi seguaci. Per loro “la vita e l’opera di D.A.F. de Sade non avrebbero dunque altro valore d’uso che il valore d’uso plebeo degli escrementi, nei quali il più delle volte si ama soltanto il piacere rapido (e violento) di evacuarli per non vederli più”.4. I Surrealisti guardano a Sade come i popoli primitivi al loro re, “che adorano esecrandolo e che coprono di onori paralizzandolo strettamente”.5. Evacuare Sade e metterlo su un piedistallo poetico sono la stessa cosa. I Surrealisti sono “i letterati”6. convinti che “il valore folgorante e soffocante che [Sade] ha voluto dare all’esistenza umana è inconcepibile fuori della finzione”.7. I Surrealisti mostrano di non conoscere l’enigma di Sade, che Bataille propone in questi termini: com’è possibile che egli – come dice in una lettera – abbia pianto “lacrime di sangue” per la perdita del manoscritto delle Centoventi giornate di Sodoma e nel testamento, invece, si sia augurato la distruzione della propria sepoltura, l’oblio per sé e la sua opera? Il ricordo e il libro da una parte, la solitudine e l’autodistruzione dall’altra: tra le due scelte “c’è la stessa distanza che separa la freccia dal bersaglio”.8. I Surrealisti superano la contraddizione di Sade con una sintesi letteraria,

adorano ed esecrano con lo stesso gesto. Invece la contraddizione va mantenuta. Sade è la combinazione di atteggiamenti inconciliabili: la commozione fatta di rosse lacrime e la virginale indifferenza che tiene il mondo in gran dispitto, Juliette e Justine. La rivoluzione e il volumen.

La società omogenea La “società omogenea”9. dentro cui viviamo è fatta della sintesi del bisogno e dell’oggetto che lo soddisfa. La società omogenea – “istituzioni politiche, giuridiche e commerciali”10. – è una strategia di adaequatio tra l’uomo e le circostanze, tra i gruppi umani e l’ambiente: le scuole e le fabbriche soddisfano i bisogni feriali, l’arte e la letteratura quelli domenicali. Bataille chiama “appropriazione” questa sintesi, ovvero l’“equilibrio statico” tra “l’autore dell’appropriazione e gli oggetti”,11. una “omogeneità generale, come quella che l’architetto stabilisce fra la città e i suoi abitanti”.12. Due persone si danno appuntamento e chiacchierano. Il botta e risposta, le attese, il consenso, il dissenso, gli attestati di stima: tutto contribuisce al carattere omogeneo dell’incontro e al suo buon funzionamento. Stringere le mani, annuire, visitare o farsi visitare, inseguire o farsi inseguire, indebitarsi o riscuotere, ascoltare, giustificarsi, aspettare, darsi ragione, darsi torto: “Il rispetto che gli uomini si scambiano li immette in un circuito di servitù in cui si danno soltanto momenti subordinati”.13. Il bambino – poco pratico della vita – si chiede a che servono questi gesti concitati. Quando, diventato adulto, lo capisce – sono i rituali del riconoscimento reciproco e servono alla conservazione di una società –, sente tutta “la noia senile e l’inconcepibile vuoto dentro il quale sappiamo di parlare”.14. Gli adulti cominciano ad angosciarsi e a chiedersi se c’è una via d’uscita. Sade è una specie di solvente della società omogenea e delle sue istituzioni. Egli sloga l’articolazione della società. Sospende la sintesi appropriativa del bisogno. Fa esperienza del “ganz Anderes”,15. il “tutt’altro” dalla società omogenea: il passato che essa sembra aver dimenticato ma che in realtà torna a farsi valere nei momenti di crisi e di trasformazione.

Escrezione

Se nella società omogenea c’è appropriazione, allora c’è anche il déchet, lo “scarto”.16. Lo scarto è ciò che rimane quando la società omogena si è spartita l’esistenza. Lo scarto è ciò che non si lascia né assimilare né evacuare. Lo scarto è lì a mostrare che “l’essere è qualcosa di più della semplice presenza”.17. I libri di Sade ci fanno passare dalla società al suo scarto, dall’omeostasi alla violenza, dall’omogeneità all’“irruzione delle forze escrementizie”:18. dall’appropriazione all’escrezione. L’escrezione non è l’appropriazione ma non è neppure l’evacuazione. L’escrezione è un’esperienza complessa. L’escrezione è la “produzione di un ritmo alterno” che libera impulsi ambivalenti.19. L’escrezione non è un’esperienza puntuale perché è un rapporto ambiguo, che complica attrazione e repulsione. Nell’escrezione “un corpo estraneo […] può essere sia espulso in seguito a una rottura brutale che riassorbito nel desiderio di mettersi interamente il corpo e lo spirito in uno stato di espulsione (di proiezione) più o meno violento”.20. L’escrezione non ha a che fare con un oggetto addomesticato e conforme al nostro bisogno, né significa l’evacuazione di ciò che non siamo riusciti ad addomesticare. L’escrezione è, invece, l’incontro con un corpo estraneo su cui agiamo e che retroagisce su di noi. Solitamente “la sensualità […] viene risvegliata non semplicemente dalla presenza ma dalla modificazione dell’oggetto possibile”.21. Nei libri di Sade “l’oggetto come tale (l’essere umano) sarebbe di per sé indifferente: bisogna modificarlo, per ottenere da lui la sofferenza voluta. Modificarlo cioè distruggerlo”.22. Lo scarto, l’oggetto escreto, è l’oggetto modificato. Esso è sempre troppo vicino o lontano perché ci sia il tempo di appropriarsene oppure evacuarlo. Il corpo degli altri diventa estraneo e seducente quando noi lo abbiamo modificato, alterato, manipolato, aggredito, tagliuzzato, penetrato, e “l’urto risultante dalle impressioni altrui in noi”23. ci restituisce il potere di estraneità e di alterazione che gli abbiamo dato. La società ci mette in comunicazione soltanto con alcune proprietà degli oggetti e degli uomini, vietandoci di sperimentarne altre. L’uso che il libertino sadiano fa degli oggetti supera i divieti sociali, allarga gli orizzonti dell’esperienza. Per sapere com’è fatto un dado a sei facce posso rigirarlo fra le mani e lanciarlo. Per conoscerlo fino in fondo, però, dovrei anche metterlo in bocca, bagnarlo, asciugarlo, saltarci sopra, nasconderlo sotto il cuscino quando dormo, incidermi la carne con gli angoli, gettarlo nel

fuoco… L’escrezione è il regime di variazione continua che noi infliggiamo a un oggetto per realizzare la sua “totalità del possibile”:24. modificato, alterato, l’oggetto viene liberato dalla semplice presenza e raggiunge la condizione di omnimoda determinatio, la determinazione completa della sua realtà. O meglio, l’oggetto modificato, dechainé, scatenato, sciolto dagli usi che ci sono famigliari, è il primo momento dell’escrezione. Perché – secondo momento dell’escrezione – anche il soggetto subisce lo “scatenamento (in rapporto alle condotte del lavoro e, generalmente, del benessere) […] innescato dallo scatenamento concomitante dell’oggetto”.25. L’oggetto estraneo, alterato, sconvolge il soggetto. Per strappare all’oggetto tutti i segreti che la società nasconde, per avviare il processo dell’escrezione, l’oggetto e il soggetto devono sfinirsi a vicenda.

Irritazione e godimento Tra le funzioni animali – nascita, crescita, spostamento, nutrizione – la più interessante per Sade è l’irritabilità. Quello di Sade è un teatro dello sfinimento e dell’irritazione. A irritare e farsi irritare sono il corpo e l’anima elettrica,26. che del corpo è la parte più facilmente infiammabile. “Tutti gli oggetti esterni che sono un po’ singolari portano a una irritazione straordinaria le particelle elettriche del vostro fluido nervoso”,27. dice Juliette a una compagna di crimine. Scatenare gli oggetti significa irritare il mondo e sé. L’irritazione è il dolore diventato cosciente. Noirceul spiega al sodale Saint-Fond cos’è il dolore per un vero libertino: una “conseguenza dello scarso rapporto degli oggetti estranei con le molecole organiche di cui siamo costituiti. Di modo che invece di atomi inviati da questi oggetti estranei che si congiungono con quelli del nostro fluido nervoso, come fanno durante l’emozione del piacere, essi presentano in questo caso degli angoli, li pungono, li respingono e non si uniscono mai con loro”.28. Il piacere è il segno di un incontro omogeneo: vuol dire che l’oggetto è adatto al bisogno del soggetto. Il dolore, invece, è il segno che la nostra sensibilità incontra forze che l’aggrediscono e con le quali non è capace di saldarsi. Il dolore è un concatenamento senza vincolo, elettrico e non gravitazionale, fluttuante, libero, escretivo, fatto di attrazione e repulsione. Nel dolore gli

atomi dell’oggetto e il fluido elettrico-nervoso del soggetto sono agganciati in una condizione di tensione e di lotta. Non solo il piacere, anche il dolore può essere scientemente ricercato e praticato. È in quest’ultimo caso che il dolore diventa irritazione e godimento. Ora, continua Noirceul, […] che cosa impedisce che tale stimolo al dolore, molto più forte e acuto dell’altro, non giunga a suscitare in quel fluido la stessa accensione che vi si infonde con l’attrazione degli atomi emanati dagli oggetti del piacere? Inoltre, agitato per agitato, chi può impedire che, con l’abitudine, non mi adatti a star bene sia cogli atomi che respingono che con quelli che attraggono? Annoiato dagli effetti di quelli che producono soltanto una sensazione semplice, perché non potrei abituarmi a ricevere piacere da quelli la cui sensazione è acuta? […] Non si vedono ogni giorno persone che hanno il palato abituato a un’irritazione piacevole, mentre altre questa irritazione non potrebbero sopportarla neanche per un minuto? Non è vero a questo punto (se ammettiamo la mia ipotesi) che di solito, durante i propri piaceri, l’uomo cerca di stimolare gli oggetti del proprio godimento nello stesso modo in cui egli è stimolato e che tali procedimenti si chiamano, nella metafisica del godimento, effetti di delicatezza?29. Nel godimento gli altri corpi vengono modificati, alterati, stimolati “in modo tale che l’irritazione dei nostri nervi subisca un grado di violenza così prodigioso che essi ne siano come travolti, come sollecitati in tutta la loro estensione”.30. Il godimento è il concatenamento dell’escrezione. Esso è fatto dello sfregamento tra le “molecole maligne”31. nell’oggetto e nel soggetto. Nel godimento accade che elementi disparati, eterogenei, male assortiti – i corpi irritati – si mettono a comunicare. Il godimento è la habitudo del dolore, la ricerca di un contatto tra corpi e parti del corpo che di per sé si respingono. “Qui si tratta esclusivamente del godimento, e non della proprietà…”:32. nel godimento non c’è appropriazione dell’oggetto da parte del soggetto, né vincolo duraturo. “Ricevendo o producendo sul sistema nervoso la massima vibrazione possibile”33. il godimento circola dentro la comunità dei libertini e la scintilla del dolore appicca l’incendio nelle loro anime.

L’intensità della polarizzazione, il quantum di tensione tra i poli (per esempio: uomo e oggetto, uomo e uomo), decide del carattere del rapporto: esso è eterogeneo se la polarizzazione è forte, omogeneo se la polarizzazione è debole.34. Nella società la polarizzazione è debole (bisogno e oggetto = piacere), mentre è forte fuori dalla società, nel godimento dell’escrezione (carnefice e vittima, fluido nervoso e atomi dolorifici = godimento). Per Bataille la comunicazione degli eterogenei – dunque forte – è la polarizzazione fondamentale dell’esperienza.

Il vortice Le molecole maligne di Sade, l’escrezione di Bataille, istituiscono rapporti eterogenei, sono figure vorticose. Quando un flusso incontra un ostacolo dal quale riceve indietro un contro-flusso il quale, anziché perdersi, si combina con il flusso, allora si forma un vortice. Nel vortice due forze che prima non comunicavano si mettono a girare insieme. Un vortice è la polarizzazione circolare di un flusso e di un contro-flusso che possono essere fisici, biologici oppure verbali: Onde, flutti, particelle semplici […], quel che chiamiamo un ‘essere’ non è mai qualcosa di semplice […]: è travagliato da una profonda divisione interiore, è chiuso in modo imperfetto e, in certi punti, viene aggredito dall’esterno. […] Quel che sei riposa sull’attività che tiene insieme gli innumerevoli elementi di cui sei fatto, sulla comunicazione intensa degli elementi tra di loro. Sono contatti energetici, movimento, calore e migrazioni di elementi che fanno la vita intima del tuo essere organico. La vita non è mai situata in un luogo preciso: passa rapidamente da un punto all’altro […] come un flusso o una specie di torrente elettrico. […] La tua vita, inoltre, non è fatta soltanto di questo scorrimento interiore; scorre al di fuori e si apre a ciò che fluisce o le zampilla addosso. Il vortice durevole di cui sei fatto va a sbattere contro vortici simili con i quali forma una figura più ampia, animata da un’agitazione relativa.35. La storia evolutiva dell’uomo è eminentemente vorticosa, perché ha portato a intersecarsi forze che precedentemente si ignoravano: “la tranquilla orizzontalità animale” e “l’erezione vegetale” che si lascia “polarizzare, in un certo senso, dal cielo”.36. Il flusso dinamico animale incontra la

stanzialità del vegetale che gli rimanda indietro un contro-flusso di verticalizzazione: insieme formano il vortice umano. Il vortice umano è una pianta locomotrice, un vegetale animale, una tensione orizzontale che si annoda con una tensione verticale. I vortici biologici sono sempre in rotta di collisione reciproca: “Una formica, cadendo in un vortice di animali che con la sua energia schiaccerebbe tutto quanto si unisse a lui, avrebbe, a causa della debole resistenza da opporre, molto più da soffrire di quanto avesse un grosso animale che, offrendo più presa, sarebbe coinvolto molto meno”.37. La polarizzazione delle molecole che formano un grosso animale è più intensa. Un animale da preda è un vortice abituato alla lotta, è molto più vicino della formica alle “molecole spezzate e reimmerse nel crogiolo della natura”.38. Un corpo-vortice violento può entrare in un numero più ampio di concatenamenti, formare alleanze più potenti, aggredire con più efficacia. Per un uomo i picchi dell’esistenza sono fatti di quel “vortice del godimento” che si eleva “nella direzione di un cielo bello come la morte, pallido e improbabile come la morte, mentre gli occhi lo tengono attaccato con stretti legami alle cose volgari dove la necessità ha fissato il suo cammino”.39. Il godimento è la condizione di massima intensità ed eterogeneità di cui può fare esperienza il vortice umano.

La rivoluzione Sade in prigione “si faceva portare le rose più belle per sfogliarne i petali sullo scolo di una fossa”.40. Sade butta i petali nel liquame, mette insieme il fiore della letteratura e l’escrezione, fa vorticare insieme il godimento e la scrittura. La prigione di Sade è la pietra contro cui il flusso del godimento va a sbattere e che produce così un contro-flusso di immaginazione scrittoria. Davanti all’immagine di disastro che Juliette fa balenare a un’amica – il “nuovo universo” in cui esiste solo la felicità del crimine –, “un fuoco divoratore e dolce scivolerà suoi tuoi nervi e incendierà il fluido elettrico nel quale risiede il principio della vita”.41. L’immaginazione è come una scintilla buttata nei fluidi di un sistema nervoso pronto a incendiarsi.42. Il contro-flusso dell’immaginazione svolge due funzioni contemporaneamente, analitica e sintetica: prende in esame gli elementi

costitutivi del godimento, ne fissa i dettagli, e ricongegnandoli insieme, facendoli macchinare in modo nuovo, potenzia, amplia il godimento. Rispetto all’intensità del fluido nervoso, “la forza della vostra immaginazione vi fa concepire i modi di accrescerla, alcuni particolari… l’irritazione diventa più acuta e voi moltiplichereste così, se voleste, i vostri godimenti all’infinito”.43. L’immaginazione analizza la nebulosa energetica del godimento, porta luce sugli elementi per ridisegnarne le costellazioni. L’analisi e la sintesi fatte dall’immaginazione aumentano l’intensità del godimento e sono capaci di estendere il suo spazio-tempo: “le innumerevoli variazioni che l’immaginazione suggerirà in questi godimenti”44. li fanno proliferare. La tortura e lo smembramento dei corpi fatti dal libertino sono i casilimite di quella anatomia che l’immaginazione sempre mette in pratica per scoprire gli organi e i punti d’attacco del godimento. Se l’unità fondamentale dell’esperienza libertina è la “postura” – una qualsiasi forma di concatenamento fisico-nervoso – l’immaginazione scompone questo aggregato nei suoi elementi: l’“azione” e il “punto di applicazione sul corpo”.45. L’analisi dell’immaginazione fa del libertino l’ingegnere del godimento. Egli diventa capace di programmare nuove combinazioni dei corpi, reinventa i concatenamenti delle molecole maligne. Si libera dalle immediate circostanze spazio-temporali e permette la ripetizione del godimento. Il luogo deputato per l’esercizio dell’immaginazione è la prigione: “Per primo Sade, nella solitudine della sua prigione, ha dato un’espressione ragionata dei movimenti incontrollabili”.46. L’esattezza di quest’immaginazione è necessariamente l’esercizio di un solitario, un prigioniero. Il contro-flusso dell’immaginazione scrittoria comincia in un carcere, perché il prigioniero si è sganciato da tutti i concatenamenti dei corpi. Egli vive la situazione della solitudine, lo sconcatenamento assoluto che permette di ricostruire con la mente la totalità dei concatenamenti possibili. I libertini “si abbandonano ciecamente a tutti i crimini di cui le prospettive politiche della natura suggeriscono loro le idee”.47. La natura è omicida, incestuosa, incendiaria e ladra. Le prospettive politiche della natura si compendiano nel godimento. Se queste prospettive seducono anche gli uomini, anzitutto e perlopiù esse vengono misconosciute dai diretti interessati, che con i loro codici e leggi negano i concatenamenti pericolosi,

li proibiscono, e permettono soltanto quelli sicuri e piacevoli. Oppure rimangono un episodio trascurabile: si affermano ma vengono subito evacuate dalla società. Le prospettive politiche della natura rimangono negate oppure cieche fino a quando il loro flusso non rimbalza sulle pietre di un carcere. La solitudine della prigionia rimanda indietro un controflusso di immaginazione che si combina con il flusso del godimento dando origine a un vortice infuocato: la rivoluzione. La rivoluzione è l’articolazione interna (intensificazione) ed esterna (estensione) del godimento.48. La solitudine carceraria di Sade incontra l’agitazione del godimento e le rimanda addosso il contro-flusso immaginativo necessario alla formazione del vortice rivoluzionario capace di incendiare l’animo non solo dei francesi, ma degli europei.49. Non certo la rivoluzione robespierresca o roussoviana, la vittoria del risentimento plebeo o la confederazione svizzera, il legame dei citoyens nella volontà generale o davanti alla ghigliottina. Il vortice sadiano della rivoluzione si allontana dalla città e dalla nation per dare vita a società segrete, eterogenee e trasversali, il cui unico legame interno è l’affinità elettiva dei libertini.50. L’immaginazione e la scrittura ampliano il campo della rivoluzione, ma questo campo è di volta in volta delimitato, chiuso. L’estensione rivoluzionaria del godimento non è democratica e collettiva. La rivoluzione non è una marea che dilaga ma una serie di razzi che si impennano da un punto dello spazio e del tempo, diretti verso altri punti.

Il volumen La prigione non è l’unica forma di solitudine che riguarda l’universo sadiano. Nei suoi libri troviamo un altro tipo di solitudine: i quattro debosciati del castello di Silling ogni tanto abbandonano i saloni aperti al resto della comunità – dove le azioni sono già agganciate all’immaginazione, perché devono seguire scrupolosamente l’ordine del giorno dettato dalla prostituta-narratrice – e si nascondono con le proprie vittime dentro stanze segrete, oppure dietro un sipario, per compiere una “piccola infamia”51. fuori programma. Dolmancé abbandona gli amici del boudoir e si rinchiude con il giardiniere nel gabinetto attiguo perché “ci sono alcune cose che richiedono assolutamente discrezione”.52. Olimpia

Borghese ha sequestrato la figlia con il piano di aggredirla: “Penetro dunque da sola nella torre e passo per prima cosa due ore in quella follia, in quella specie di delirio, in quella sconnessione, divino linguaggio dell’ebbrezza in cui ci immerge la lussuria e che si azzarda così gustosamente con un individuo che non rivedrà più la luce. Ti riferisco male, amore mio, ciò che dissi, ciò che feci… Ero fuori di me […]. Come sono forti tali voluttà! […] L’ebbrezza che provocano è al di sopra di ogni descrizione”.53. I libri di Sade sono costellati di queste reticenze: nel godimento c’è qualche cosa che non può essere scoperto. “Ciò che nell’erotismo ci ha portati all’ultimo grado dell’intensità ci colpisce allo stesso tempo con la maledizione della solitudine.”54. I libertini si appartano, rimangono soli, perché dimenticano la “lealtà nei confronti degli altri che è la logica, che è la legge, che è il principio del linguaggio”.55. Questo linguaggio non ha presa sul linguaggio dell’ebbrezza. Il linguaggio dell’ebbrezza è un segreto e le nostre parole non possono restituircelo. Solo i letterati hanno fiducia nella capacità mimetica delle parole. Essi credono che l’interferenza tra parole di aree semantiche distanti produca quel collasso del significato in cui il poeta fa esperienza della luce nera della surrealtà. Costringono il linguaggio alle torture e contraddizioni che simulano la torsione dei corpi: le rubis du Champagne oppure la rencontre fortuite sur une table de dissection d’une machine à coudre et d’un parapluie. Invece, se “Sade ‘parla’ […], parla in nome della vita silenziosa, in nome di una perfetta solitudine, inevitabilmente muta”.56. Sade scrive nel nome di un’ebbrezza solitaria. Quello sadiano è un universo ebbro e per ciò stesso apatico, è cioè un universo intensivista.57. Ogni postura erotico-criminale è una tappa nel percorso dell’ebbrezza, eccita i nervi, è un grado d’intensità. Il principio, e anche la fine di ogni grado intensivo, è la tensione nulla, la stasi del movimento molecolare. Il concatenamento energetico dei corpi, l’intensità del godimento, comincia e finisce con il grado zero dell’energia. L’universo sadiano è fatto di forze, gradi e intensità, e ha il suo principio nonché il compimento nell’insensibilità, nell’apatia. Nel godimento “l’insensibilità si fa fremito di tutto l’essere”.58. I libertini sadiani si raccomandano a vicenda l’apatia: ogni ebbrezza e concatenamento dei corpi devono essere accompagnati da una sovrana indifferenza per ciò che accade. L’apatia è ciò che rende i personaggi sadiani dei grandi solitari, è la vera infamia libertina,

è l’ultimo nascondiglio delle loro passioni. Se il godimento dei corpi è lo scarto della società omogenea, l’apatia è il resto di questo scarto. L’apatia è il residuo di ogni dinamismo energetico, soprattutto dell’energia libertina che è un continuo “degradamento dei sentimenti”.59. Il degradamento è il percorso che fanno tutti i gradi del godimento verso l’apatia. Al fondo del degradamento l’ebbrezza ritrova il cippo funebre del proprio tragitto. Ancora una volta è in gioco la formazione di un vortice. Per comprendere la formazione di questo secondo vortice – distinto dal vortice rivoluzionario – dobbiamo cambiare prospettiva e ripensare le funzioni: il flusso, adesso, è la scrittura, mentre l’ostacolo contro cui sbatte il flusso, e da cui proviene il contro-flusso, è il nascondiglio del libertino, è il fondo dell’ebbrezza. Il sasso contro cui sbatte il flusso della scrittura è il corpo infame, il godimento sottratto agli sguardi e ricondotto al suo principio apatico. Il contro-flusso causato dall’apatia si combina con il flusso della scrittura e insieme formano il romanzo metafisico del godimento. Il flusso della scrittura romanzesca è fatto di toni e stili differenziati. Sade ci tiene a caratterizzare il tono degli enunciati che mette in bocca ai personaggi, esso è di volta in volta: iroso, impaurito, semplice, leggero, amaro, gentile… Anche gli stili di Sade sono molteplici. La sua è una scrittura polifonica. Nei romanzi c’è la solennità di Racine e il linguaggio della medicina,60. Marivaux, Molière e la restituzione del linguaggio popolare.61. Ma le lunghe tirate e gli argomenti elaborati dai libertini, prima e dopo le orge, finiscono per contaminare gli altri toni e gli stili del romanzo con il tono e lo stile neutri della filosofia.62. Questa neutralità tonale-stilistica è il contro-flusso che la scrittura romanzesca ha ricevuto dal sasso dell’apatia: l’“evidente monotonia che caratterizza i libri di Sade […] scaturisce dall’intenzione di subordinare il gioco letterario all’espressione di un evento indicibile”.63. Evento indicibile è la “voce della natura” che, spiega Norceuil, “non ci ingannerà mai”.64. Questa voce non ci inganna perché non dice niente: “la natura non ha alcuna voce”,65. non ha pathos. La “voce della natura” dice l’apatia che appartiene all’ebbrezza. Prodotto dal sasso dell’apatia, il contro-flusso della filosofia investe gli altri flussi con la neutralità del proprio tono. Il tono neutro della filosofia organizza le voci del romanzo, così come nel vortice rivoluzionario l’immaginazione analizza e reinventa le forme del godimento. Nel grand rouleau della Bastiglia – il rotolo lungo dodici metri su cui in cinquantasette giorni di lavoro Sade ha

ricopiato Le centoventi giornate – il flusso romanzesco della scrittura e il contro-flusso della filosofia si combinano in un vortice di gelo. Il tessuto di grafia continua, microscopica e fittissima che Sade arrotola e nasconde dentro il godemiché fatto costruire dagli artigiani del faubourg SaintAntoine su commissione della moglie è il secondo vortice di Sade: il volumen. Il romanzo metafisico del godimento ha un aspetto respingente. Se Le centoventi giornate “snerva sensualmente” il suo pubblico e “tutto alla fine concorre alla nausea”,66. non è solo per i contenuti, ma anche perché sentiamo la chiusura e il rifiuto che quel volumen smarrito in una cella continua a opporci. Non vuole essere ritrovato, non vuole essere letto.

I due vortici Non ci sono due periodi distinti nel confronto di Bataille con Sade: quello giovanile, arrembante e speranzoso – che invita a un uso rivoluzionario di Sade – e uno senile, in cui Sade diventa un fatto letterario. Ci sono, invece, due vortici sadiani di cui Bataille ci permette di ricostruire la morfologia: quello incendiario della rivoluzione e quello congelato del volumen. Il vortice della rivoluzione è seduttivo, accende entusiasmi all’intorno, produce altri vortici simili. Vuole avere testimoni e diffondersi, vuole essere ricordato. Il vortice del volumen, invece, è chiuso e repulsivo, la sua continuità fa corpo con se stessa e abbandona il mondo. Non vuole avere un pubblico, vuole essere dimenticato. Quale dei due vortici si produce quando ci mettiamo a leggere Sade dipende dalla nostra prospettiva. Qual è il flusso: il godimento o la scrittura romanzesca? Qual è la pietra che produce il contro-flusso: la solitudine carceraria o l’apatia libertina? Qual è il contro-flusso: l’immaginazione o il tono neutro della filosofia? Se “l’umanità è fatta di esperienze separate”,67. Bataille dichiara di aver cercato di addossarsi “la difficoltà in entrambe le direzioni”.68. Non è però facile pensare i due vortici, la rivoluzione e il volumen, insieme. Nel tempo in cui un vortice si disfa e l’altro si sta formando succede che le spire allargantesi della rivoluzione toccano il volumen che si avvolge su se stesso. Etero-logia significa questo: due volgimenti disparati che collidono. In quell’istante la rivoluzione può incendiare il volumen, oppure il volumen

raffredda la combustione della rivoluzione. Ma si tratta, in entrambi i casi, di un pensiero insufficiente, capace solo di fare ipotesi sugli effetti della collisione e che non riesce a pensare la collisione in quanto tale. Sade è l’avversario del letterato che oggidì “non riesce più ad ammettere le relazioni che si istituiscono […] tra la chiusura della letteratura e la Rivoluzione proletaria, tra Lautréamont e Lenin”.69. In Sade la letteratura “e la rivoluzione si collegano […] come gli elementi disparati di una figura compiuta, come a una rovina si collegano delle rocce, o al silenzio la notte”.70. La collisione tra la rivoluzione e il volumen accade nel punto di massima energia di cui Sade è il nome. Tommaso Tuppini insegna Filosofia teoretica all’Università di Verona. 1 G. Bataille, “Le valeur d’usage de D.A.F. de Sade”, in Œuvres completes, Gallimard, Paris 1970, vol. II, pp. 54-69. 2 Id., “Sade”, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1979, vol. IX, pp. 239-258. 3 Cfr. J.-M. Heimonet, Recoil in Order to Leap Forward: Two Values of Sade in Bataille’s Text, “Yale French Studies – On Bataille”, 78, 1990, pp. 227-228. Questa è la ricostruzione standard che gli studiosi hanno fatto del confronto di Bataille con Sade: dall’uso politico degli anni trenta all’interesse prevalentemente letterario del dopoguerra. 4 G. Bataille, “Le valeur d’usage de D.A.F. de Sade”, cit., p. 56. 5 Ibidem. 6 Ibidem. 7 Ivi, p. 57. 8 G. Bataille, “Sade”, cit., p. 244. 9 Id., “La structure psychologique du fascisme”, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1970, vol. I, pp. 339-341. 10 Id., “Le valeur d’usage de D.A.F. de Sade”, cit., p. 58. 11 Ivi, pp. 59-60. 12 Ivi, p. 60. 13 G. Bataille, “Histoire de l’erotisme”, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1976, vol. VIII, p. 153. 14 Id., “Cet enoncé étant terminé…”, in Œuvres complètes, cit., vol. II, p. 81. 15 Id., “Le valeur d’usage de D.A.F. de Sade”, cit., p. 58. 16 Ivi, p. 61. 17 G. Bataille, “L’Homme suverain de Sade”, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1987, vol. X, p. 172. 18 Id., “Le valeur d’usage de D.A.F. de Sade”, cit., p. 56. 19 Ivi, p. 59. 20 Ivi, p. 58. 21 G. Bataille, “Sade”, cit., p. 254. 22 Ivi, p. 249. 23 D.A.F. de Sade, Justine ovvero le disgrazie della virtù (1791), trad. di C. Rendina, Newton Compton, Roma 1993, p. 241.

24

G. Bataille, “Sommes nous là pour jouer ou pour être serieux?”, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1988, vol. XII, p. 113 e Id., “Histoire de l’erotisme”, cit., passim. 25 Id., “Sade”, cit., p. 254. 26 L’“anima elettrica” è il sistema nervoso pensato dalla biologia coeva a Sade. Il passaggio dal paradigma ippocratico della vita come equilibrio a un paradigma fluido-dinamico comincia a dare spazio ai fenomeni elettrici. Cfr. J. Deprun, “Sade et la philosophie biologique de son temps”, in De Descartes au Romantisme. Études historiques et thématiques, Vrin, Paris 1987, pp. 133-147. Cfr. anche: R. Cavaillès, Le matérialisme électrique et la métaphysique du crime. Une lecture épistèmologique de Sade, “Annales publiées par l’Université de Toulouse-Le Mirail – Philosophie II”, IX-6, 1973, pp. 33-49 e C. Carnicero de Castro, Le fluide électrique chez Sade, “La Découverte”, 46, 2014, pp. 561-577. 27 D.A.F. de Sade, Juliette ovvero le prosperità del vizio (1801), trad. di P. Guzzi, Newton Compton, Roma 1993, vol. II, p. 29. Qualche volta ho modificato la versione italiana. 28 Ivi, vol. I, p. 212. 29 Ibidem. 30 Ivi, pp. 259-260. 31 D.A.F. de Sade, Juliette ovvero le prosperità del vizio, cit., vol. I, pp. 296-299. 32 Id., La filosofia nel boudoir (1795), trad. di C. Rendina, Newton Compton, Roma 1974, p. 239. 33 Ivi, pp. 259-260. 34 G. Bataille, “La polarité humaine…”, in Œuvres complètes, cit., vol. II, p. 167. 35 Id., “L’experiènce interieure”, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1973, vol. V, p. 111. 36 Id., “Dossier de l’œil pinéal”, in Œuvres complètes, cit., vol. II, p. 26. 37 D.A.F. de Sade, Juliette ovvero le prosperità del vizio, cit., vol. I, p. 296. 38 Ivi, p. 305. 39 G. Bataille, “Dossier de l’œil pinéal”, Œuvres complètes, cit., vol. II, p. 26. 40 Id., “Le langage de fleurs”, in Œuvres complètes, cit., vol. I, p. 178. 41 D.A.F. de Sade, Juliette ovvero le prosperità del vizio, cit., vol. I, p. 60. 42 Ivi, vol. II, p. 46. 43 Ivi, p. 29. 44 D.A.F. de Sade, Justine ovvero le disgrazie della virtù, cit., p. 236. 45 Sono le espressioni che usa Barthes nel suo Sade, Fourier, Loyola. 46 G. Bataille, “Sade”, cit., p. 253. 47 D.A.F. de Sade, Justine ovvero le disgrazie della virtù, cit., p. 164. 48 Fare la rivoluzione significa “valorizzare la problematica struttura personale a livello di necessità universale”. La rivoluzione è “un vasto processo di decomposizione e ricomposizione sociale”, P. Klossowski, “Sade e la rivoluzione” (1947), in D.A.F. de Sade, La filosofia nel boudoir, cit., pp. 15 e 27. 49 I libertini di Sade si cercano tra di loro in continuazione, dalla Svezia all’Italia, “nessuno è più europeo di lui”, P. Sollers, “Sade dans le Temps”, in Sade contre l’Être Suprême, Gallimard, Paris 1996, p. 42. 50 Cfr. B. Sichère, Sade, l’impossible, “Lignes”, 2, 2004, pp. 141-158. 51 D.A.F. de Sade, Le centoventi giornate di Sodoma (1904), trad. di G. Nicoletti, Newton Compton, Roma 1993, p. 238. Sulla “piccola infamia” dei libertini sadiani, cfr. P. Macherey, “Sade et l’ordre du desordre”, in Á quoi pense la littérature? Exercises de philosophie littéraire, PUF, Paris 1990, p. 203. 52 D.A.F. de Sade, La filosofia nel boudoir, cit., p. 285. 53 Id., Juliette ovvero le prosperità del vizio, cit., vol. II, pp. 66-67. 54 G. Bataille, “La sainteté, l’heroisme et la solitude”, in Œuvres complètes, cit., vol. X, p. 256.

55

Id., “Sade et l’homme normal”, in Œuvres complètes, cit., vol. X, p. 188. Ivi, p. 187. 57 Di “intensivismo” sadiano parla J. Deprun, in Sade et le rationalisme des lumières, “Raison Présente”, 3, 1967, pp. 81-83. 58 G. Bataille, “L’Homme suverain de Sade”, cit., p. 172. 59 D.A.F. de Sade, Juliette ovvero le prosperità del vizio, cit., vol. I, p. 104. 60 Cfr. D.B. Morris, “The marquis de Sade and the discourses of pain. Literature and medicine at the revolution”, in G.S. Rousseau (a cura di), The Languages of Psyche. Mind and Body in Enlightenment Thought, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-Oxford 1990, pp. 291330. 61 Cfr. M. Gaillard, Le langage de l’obscénité. Étude stylistique des romans de D.A.F. de Sade: “Les Cent vingt journées de Sodome”, les trois “Justine” et “Histoire de Juliette”, Champion, Paris 2006. 62 “La sintesi di tutti i possibili costituisce la soppressione di tutto ciò che il linguaggio introduce e che sostituisce all’esperienza della vita ridondante – e della morte – una sfera neutra, una sfera indifferente. Ho voluto […] usare un linguaggio uguale a zero, un linguaggio che sia l’equivalenza del nulla”, G. Bataille, “La sainteté, l’heroisme et la solitude”, cit., pp. 257-258. 63 G. Bataille, “Sade”, cit., p. 106. 64 D.A.F. de Sade, Juliette ovvero le prosperità del vizio, cit., vol. I, p. 154. 65 Ivi, vol. II, p. 122. 66 G. Bataille, “Sade”, cit., pp. 254-255. 67 Id., “La sainteté, l’heroisme et la solitude”, cit., p. 248. 68 Ivi, p. 254. 69 G. Bataille, “Ces propositions étant énoncées…”, in Œuvres complètes, cit., vol. II, p. 80. Lenin e il proletariato c’entrano poco. Sono spettri agitati sotto il naso dei Surrealisti. 70 Id., “Sade”, cit., p. 241. 56

Sade e il desiderio di essere GIOVANNI BOTTIROLI

1. Bergson avec Sade. Le tesi dell’energetismo Il sadismo, nella sua accezione filosofica, così come viene formulato negli scritti di Sade, è una versione dell’energetismo. Con questo termine vorrei indicare una posizione, una possibilità, che non ha un solo rappresentante ma che trova probabilmente in Bergson, e nella linea Bergson-Deleuze, la sua espressione più coerente. Tuttavia, mettere in rilievo un’affinità non marginale tra l’energetismo perverso di Sade e quello metafisico di Bergson non giustifica un’equivalenza affrettata: non si dovrebbero sminuire i punti di divergenza. Non è mia intenzione, dunque, affermare la perversione come l’orizzonte che ospita e racchiude per intero l’energetismo. In prima istanza, vorrei piuttosto prendere le distanze dalla solidarietà che Lacan ha creduto di scorgere tra Sade e Kant, e proporre un punto di vista che ritengo più fecondo; e anche più fondato, benché non sia possibile in questa sede riesaminare le somiglianze sottilmente valorizzate da Lacan. Per giustificare il mio punto di vista, è indispensabile tentare una definizione di quelle che sembrano essere le tesi fondamentali dell’energetismo: 1. L’energetismo è una filosofia dell’Uno, dell’assoluto, o dell’irrelato. Afferma la potenza della vita, forse la sua onnipotenza. E la vita è dinamismo, movimento, slancio, energia. La vita, come vedremo meglio in seguito, è l’anti-separativo.

2. L’Uno è l’indiviso, il necessariamente indiviso. Più semplice di tutto ciò che è semplice, più “uno” di qualsiasi unità. Pertanto, l’energetismo tenderà a svalutare ogni tipo di relazione, a eccezione di quelle che si autodissolvono, paragonabili ai tagli inferti da un coltello sulla superficie dell’acqua. E se ogni relazione implica un “non” in quanto distingue tra termini ciascuno dei quali non è l’altro, e se il “non” è negazione, per l’energetismo non esiste negazione che possa dividere l’indiviso. 3. Ciò significa che l’energetismo nega la relazione tra l’Uno e i molti, in nome di una compattezza che sarebbe anche irreversibile staticità? No, esso afferma la relazione con i molti, ma la pensa come una “non-relazione”. In una prospettiva di radicale immanenza, l’Uno si moltiplica senza mai uscire da se stesso: non si aliena, non si separa da sé e non si moltiplica né si fraziona assumendo la maniera d’essere del separativo (quell’esteriorità mereologica, che Bergson chiama partes extra partes). 4. La forma logica dell’energetismo è la coincidentia oppositorum, cioè l’unità immediata tra l’Uno e i molti (e tra tutte le coppie oppositive che ne costituiscono una variazione). Non si insisterà mai abbastanza sulla nozione di “immediatezza”, se si vuole comprendere questa posizione filosofica. Cerchiamo di chiarirne meglio lo statuto. La coincidentia oppositorum non afferma la sintesi tra tutti gli opposti (e non viola, né supera, il principio di non contraddizione): più precisamente, indica una sintesi tra contrari, e però radicalmente diversa da quella hegeliana, che infatti non è immediata. In ogni concezione dialettica l’Uno non è mai abbastanza Uno, in quanto deriva dal superamento di una negazione – superamento che è Aufhebung, e che dunque conserva il negativo: di qui il dissenso degli energetisti, e la loro incessante battaglia contro la dialettica. L’immediatezza redime dalla negazione, in tutte le coppie oppositive affermate dall’energetismo. 5. Il postulato etico dell’energetismo suona così: tutto è bene. Si potrebbe obiettare che, in base al principio di coincidenza dei contrari, questa tesi è immediatamente solidale con quella opposta: “Tutto è male”. A un esame più attento, però, il male non risulterà essere un opposto del bene – se non dal punto di vista empirico, limitato. Il principio di coincidentia oppositorum esclude la parità del metafisico e dell’empirico. L’empirico è sottomesso al metafisico: ma per comprenderlo occorre assumere il punto di vista della metafisica.

Questa disparità, o differenza, verrà interpretata esplicitamente come sottomissione nell’universo sadiano: ma, riconosciuta o meno che sia, governa tutte le concezioni energetiste. Il rapporto è sottomesso al senzarapporto, la negazione all’assenza di negazione, e così via. 6. La prospettiva modale dell’energetismo è quella della necessità. Il che porta a valorizzare inesorabilità e concentrazione (tutte le differenze, tutti gli atti possono venire concentrati in un punto di pienezza, o di estasi). Può darsi che questa presentazione venga giudicata incompleta dai rappresentanti dell’energetismo. Per quanto mi riguarda, tuttavia, a non essere stati portati in piena evidenza non sono i principi di una filosofia dell’indiviso, bensì i suoi dogmi impliciti: (a) La tipologia degli opposti contempla soltanto due relazioni fondamentali, i contraddittori e i contrari. La coincidentia oppositorum si riferisce agli opposti nella realtà, e non a contraddizioni logiche. Dunque, per l’energetismo gli opposti (intesi come i contrari, come la relazione oppositiva eminente) sono sempre sintetizzabili; (b) Il “non” (la negazione, comunque venga intesa) indica sempre una mancanza. Vale la pena di precisare sin d’ora che l’energetismo ignora il “non” della non-coincidenza di un ente con se stesso: una possibilità logica e ontologica che trova la sua autentica dimensione soltanto nei correlativi, e grazie a essi. I correlativi sono opposti non-sintetizzabili. Non ci si lasci ingannare da quella che è in effetti una somiglianza, e cioè dal carattere antiseparativo di questa relazione, che sembra avvicinarla alla coincidentia oppositorum. A ben vedere queste due posizioni sono radicalmente in contrasto, l’una afferma una sintesi immediata (la più sintetica delle sintesi), l’altra la non-sintesi (e la fecondità degli antagonismi). I correlativi si ispirano al principio di non-coincidenza. Quanto al secondo dogma dell’energetismo, esso si regge su una visione privativa della negazione. Ignora il desiderio di essere come potenza – il “non” oltrepassante. Vi torneremo.

2. Sade Tutte le tesi dell’energetismo sono riscontrabili negli scritti di Sade. Lo possiamo verificare, ripercorrendole in ordine inverso, e meno

schematicamente. Anzitutto, il dominio della necessità, nel duplice senso di “dominio”, cioè la dominanza della necessità nell’intero universo, come campo d’azione. La medesima duplicità caratterizza il termine privilegiato dalla filosofia di Sade, vale a dire la Natura: non vi è nulla che non sia natura, e la Natura è imperiosità che si diffonde in tutti gli enti. Non dobbiamo trascurare la distinzione tra natura causante e causata. Il determinismo di Sade non si ispira alla nozione di causa efficiente, cioè a una causalità che implica l’esteriorità tra soggetto e oggetto: e tuttavia l’immanenza della causa agisce inevitabilmente nelle relazioni tra esseri separati, e iperbolicamente separabili – non è questo un aspetto della jouissance, a cui accede il carnefice, quando sovrasta la vittima? Occorre chiarire pazientemente la duplicità, o paradossalità, in cui si esprime quella logica paradossale che è la coincidentia oppositorum. Di questa logica, l’equivalenza immediata tra Natura e Legge è la manifestazione forse più importante, e da cui trae conferma la tesi di necessità. Le leggi della Natura sono inesorabili e “cieche”, e a esse la Natura è interamente vincolata.1. Nella sua concezione della necessità, Sade è un seguace di Aristotele (necessario è ciò che non può essere altrimenti) e della tradizione occidentale: necessità significa rigidità – potremmo forse immaginare una necessità flessibile? E tuttavia l’univocità del necessario si scinde in un più e un meno, in una differenza: il che non dovrebbe sorprendere, quando ci si riferisce a un universo dinamico, dove tutto è in perenne movimento. Perciò uno dei personaggi a cui verosimilmente Sade affida l’esposizione del suo pensiero, e cioè papa Braschi, osserva che “i vizi sono più necessari delle virtù”.2. Più necessari: nell’universo della necessità – diversamente da quanto può sembrare a prima vista – non tutto è egualmente necessario. L’eguaglianza è smentita dalla differenza: a meno che tra di esse non torni a stabilirsi la coincidentia. Proviamo a seguire il ritmo altalenante di questa concezione: “I vizi sono più necessari delle virtù, poiché hanno funzione crea-trice, mentre le virtù sono soltanto create o, se preferite, i vizi sono cause e le virtù sono soltanto effetti”.3. I criminali sono più necessari, in quanto assumono integralmente la spinta alla distruzione che abita la Natura, e la possiede: “Non saranno mai abbastanza gli omicidi sulla terra, in rapporto all’avidità [soif ardente] che ne prova la natura”.4. Nella Natura, l’impulso di distruzione si spinge fino a una delirante volontà di autodistruzione: brama inappagabile,

impossibile, perché nessuna vera distruzione è possibile, perché la morte è impossibile, e ciò che chiamiamo morte è solo mutazione di forma. La paradossalità di questa concezione risulta incomprensibile senza il ricorso alla logica della coincidenza immediata tra gli opposti (tra i contrari), che peraltro va precisata. Vita e morte coincidono, e tuttavia in Sade possiamo trovare (oltre che derivare) l’asserzione “non vi è morte [il n’y a point de mort]”,5. mentre non troveremo mai né implicitamente né esplicitamente l’asserzione contraria “non vi è vita”. In un universo dinamico, come viene pensato dall’energetismo, la coincidentia oppositorum è sempre sbilanciata. Non sarà certamente in esempi irenici come quello della linea e del circolo che potremo trovare casi paradigmatici di uno sbilanciamento, da cui la coincidenza immediata non viene peraltro smentita se non provvisoriamente: in una provvisorietà infinita, però, interminabile. Torniamo alla (non)-relazione tra vita e morte. Come si è appena detto, per Sade la morte è una forma di vita, morire è impossibile; sarebbe necessaria una seconda morte, per imporre una distruzione definitiva: “L’assassinio toglie soltanto la prima vita all’individuo da noi colpito; si dovrebbe potergli strappare anche la seconda, per essere ancora più utili alla natura; poiché essa vuole l’annullamento”.6. Ma la seconda morte sarebbe a sua volta una seconda vita, una vita semplicemente mutata di forma, e così via all’infinito. Abbiamo appena osservato che la coincidentia oppositorum, nella versione energetista, è sbilanciata. Eppure, all’asserzione “la morte è una forma di vita” non potrebbe seguire “la vita è una forma di morte”? Sì e no. Sì, perché la vita è continua distruzione, trionfo della morte. No, perché la morte viene inesorabilmente degradata ad apparenza, non appena si assume il punto di vista dell’Uno. Lo sbilanciamento sembra perciò confermato, a condizione di intenderlo dinamicamente, come squilibrio che rinnova un equilibrio “differenziale”. D’altronde, per citare ancora una volta il discorso di papa Braschi, l’equilibrio dell’universo (ce parfait équilibre) va pensato attraverso la nozione e l’espressione di Orazio rerum concordia discors.7. Che l’Uno (o la Natura) sia differenza, gli ideologi che prendono la parola negli scritti di Sade lo dicono continuamente. Per esempio Dorval: “Amiche mie, una sola cosa crea differenze tra gli uomini nell’infanzia delle società: la forza”.8. Essa è distribuita in modo ineguale, e l’ineguaglianza della

distribuzione implica necessariamente una lesione del forte sul debole.9. Prima ancora che tra gli individui, tale diseguaglianza si manifesta nella differenza di intensità tra due movimenti: quello primario, il più forte, in cui si trova la felicità, e che si manifesta nel vizio; e quello secondario, il più debole, che si manifesta nella virtù. La virtù delude: “Quel défaut de mouvement!”, esclama Noirceuil.10. In effetti la virtù mira al conseguimento di un piacere, al pari del vizio; ma in un mondo fittizio dove si è costretti a rinunce e sacrifici, nell’illusione che sopprimendo i nostri istinti naturali si possa ottenere una ricompensa: un mondo calcolistico, e anche per questo motivo inferiore a quello disinteressato del vizio.11. Ciascuno di noi può scegliere (“c’est à lui de choisir”).12. Ma, poiché virtù e vizio mirano entrambi alla felicità, al piacere, e poiché “solo il grado di violenza da cui siamo scossi caratterizza l’essenza del piacere”,13. ne consegue che colui che si affida al movimento secondario non potrà essere felice quanto colui che si abbandona al movimento primario, ed è vigorosamente eccitato dalla passione. Nel momento stesso in cui siamo indotti a rimarcare nella natura una differenza, che, pur essendo una differenza soltanto di grado, sarebbe capace di minacciare la sua unità indivisa, dobbiamo convenire che tale differenza è sempre riassorbibile. Non vi è propriamente conflitto tra vizio e virtù, in quanto la virtù è vizio indebolito, egoismo mascherato, rinuncia interessata e calcolatrice, “desiderio di far rifluire su di sé una dose di felicità più riposante di quella che offre la via del delitto”.14. Dunque, “nell’uomo tutto è vizio”.15. Il mondo della virtù e delle leggi deriva dall’esaurimento dello slancio vitale, da un affievolirsi dell’energia. Questa sembra essere la spiegazione offerta dall’energetismo per giustificare la possibilità, ancor prima che l’esistenza, di tutto ciò che almeno in apparenza smentisce e capovolge la realtà dell’Uno. Ritmicamente, il mondo dell’esperienza risorge dall’annientamento metafisico, le spiagge tornano a essere visibili ogni volta che la marea dell’Uno si ritrae. Riappare il mondo del Due, e delle relazioni. Si incrina la certezza nell’indiviso, svanisce la serenità di coloro che si stavano immergendo nel divino flusso. Allora l’energetista evocherà la più pacificante delle formule, la “formula magica che cerchiamo tutti: PLURALISMO = MONISMO”.16. I nostri dubbi verranno dissipati?

La versione di Sade non è l’unica possibile, ma non è irenica, e forse è più veritiera di quanto lo siano le versioni ireniche dell’energetismo. Il problema filosofico viene posto con sufficiente lucidità: come è possibile diventare Natura, e non restare confinati in una di quelle frazioni che limitano l’individualità di ciascuno? In quale forma di vita potrebbe concretizzarsi la coincidentia oppositorum? È possibile de-soggettivarsi sino a diventare una forza anonima, indistinguibile nella continuità fluida dell’universo? L’uomo di Sade aspira alla de-soggettivazione, e in questo processo scorge la via d’uscita dal Due, la possibilità che la sua condizione paradossale non diventi aporetica. La violenza e il crimine vengono scelti in quanto offrono un vertice alla passione, e, come sappiamo, il più alto grado di violenza coincide con l’estremo del piacere. Tuttavia il sadico non è semplicemente un individuo che tormenta un altro individuo: l’uomo sadiano si è identificato con la Natura stessa, la sua metamorfosi non è immaginaria né simbolica, bensì reale, per usare i termini di Lacan; e, per riprendere quelli di Bergson, si potrà dire che il sadico ha stabilito un “contatto diretto con la realtà”.17. È riuscito ad abolire tutte le mediazioni; ha l’intuizione diretta della vita. Si dirà che questo è soltanto il sogno di Sade; ma non è forse il sogno di tutti gli energetisti? Resta il fatto che soltanto in una delle sue versioni l’energetismo genera il sadismo; come si è già detto, qui non si intende affibbiare l’etichetta “perversione” a una posizione filosofica, che va analizzata e discussa filosoficamente, e non clinicamente.18. Bisognerebbe interrogarsi sul punto di divaricazione tra la versione crudele dell’energetismo e le versioni ireniche.19. Adesso vorremmo offrire qualche precisazione relativamente al concretizzarsi della coincidentia oppositorum in una forma di vita. Gli obiettivi, convergenti, sono due: la de-soggettivazione (il diventare Natura) e il godimento estremo. Resta inteso che il godimento riguarda soltanto i sensi.20. Quali pratiche ne consentiranno la realizzazione? Desoggettivarsi implica il diventare indiviso: il dissolversi di tutto ciò che è articolazione, distinzione. Perciò tutti i gesti dovranno diventare uno: e la precipitazione verso l’uno genera un furor incontenibile, condizione e attuazione della metamorfosi. Un esempio, tra i più noti: “Eccomi insieme incestuosa, adultera, sodomita, e tutto questo lo è una ragazza che è stata sverginata soltanto oggi!”, dice Eugénie, esaltata dalla rapidità con cui sta

percorrendo la strada del vizio.21. Il principio della réunion (la sintesi sadiana) viene continuamente riaffermato: “Sublimi effetti dell’unione tra delitto e lussuria, quanta energia fornite al delirio delle passioni!”, dice Dorval.22. L’unificazione esalta il soggetto, lo conduce a uno stato parossistico in cui l’Io si dissolve, e subentra una soggettività anonima, cioè una forza de-soggettivata. Ma l’intensità del godimento può venire accresciuta dal linguaggio, secondo varie modalità. Anzitutto quella organizzativa, in quanto le orge esigono ordine e coordinazione; la Natura non è caos, la réunion non conduce al disordine: “Mettiamo un po’ d’ordine nei nostri piaceri, si gode soltanto fissandoli”.23. In secondo luogo, la parola si alterna al piacere fisico, per offrirne un quasi-equivalente al fine di colmare gli intervalli, determinati dalla spossatezza: “Non basta provare delle sensazioni, bisogna analizzarle. Talvolta saperne parlare è altrettanto dolce che goderne, e quando ciò non è più sopportabile, è divino gettarsi sull’altro”.24. Il linguaggio viene posto al servizio della continuità. Infine, la parola offre ai libertini la possibilità di anticipare le sevizie che infliggeranno alle loro vittime, contribuisce alla crescente esaltazione di chi si erige a padrone assoluto dell’altro, dunque agisce a favore della jouissance.

3. Obiezioni a Lacan? Come valutare la teoria lacaniana della perversione nella prospettiva che qui è stata delineata? La descrizione del sadismo come energetismo offre un’integrazione, e in larga misura una conferma, alla concezione che Lacan ha esposto nel Seminario VII, privilegiando il libello Francesi ancora uno sforzo, e in seguito nel Kant avec Sade? Oppure la nostra prospettiva suggerisce quantomeno la necessità di chiarire alcune delle tesi più note, e più frequentemente ripetute? Proviamo a ricordarle rapidamente, cominciando da quella che sembra la più importante: il perverso mira a un godimento pieno, non intaccato dalla castrazione, cioè dalla Legge. Nel programma della perversione il principale obiettivo sarebbe dunque l’abolizione della legge – delle “vostre leggi”, come dice un personaggio di Sade, cioè delle leggi sociali in cui si riconosce la cultura dell’Occidente: non si tratta infatti di disconoscere qualunque legge, perché Natura e Legge sono la stessa cosa, ma di interiorizzare e di condividere, in un piccolo

gruppo o in un progetto politico (come lo enuncia, per esempio, La filosofia nel boudouir), un assetto organizzativo che si ispira direttamente a quelle leggi, a cui la Natura stessa è vincolata. Leggi non scritte, e la cui “traduzione” in un progetto politico dovrà risultare parsimoniosa (“Promulghiamo poche leggi, ma buone”).25. In una diversa formulazione, il perverso vuole abolire il grande Altro, dunque il Simbolico, così da annullare l’azione letale del significante. Se questa formulazione riflette correttamente il pensiero di Lacan, non meno corretta sarà l’equivalenza tra Altro, Simbolico, significante, Legge. Il perverso opera per “riunificare, agendo contro l’Altro (l’Altro della Legge), il corpo del soggetto con il suo godimento […]. Si tratta di un’ambizione che urta inevitabilmente contro l’esistenza stessa del linguaggio, la quale rende impossibile la coincidenza di corpo e godimento perché, dove c’è corpo umano, c’è sempre perdita, negativizzazione, scissione, distanza tra corpo e godimento. È una formula che ritorna frequentemente in Lacan: il corpo umano è un ‘deserto di godimento’ provocato dall’incidenza del linguaggio sulla vita”.26. L’umanizzazione della vita implica una perdita, un trauma: si può essere senz’altro d’accordo con Lacan, ma perché attribuire quest’azione a un’entità chiamata “il linguaggio”, “il significante”? Perché lasciarsi ipnotizzare dall’articolo determinativo, così utile nel riassumere funzioni, modalità, possibilità diverse, e forse in conflitto tra loro, così fallace, dogmatico e depistante nella misura in cui crea l’illusione di un’identità compatta? IL linguaggio non esiste, è lo stesso Lacan ad averlo detto, sia pure soltanto nel Seminario XX, e limitando una possibile teoria degli stili all’alternativa tra linguaggio codificato e lalangue.27. Ma allora non esisterà neppure IL significante, bensì soltanto modi o regimi. Che esista un regime di significanti, in grado di svolgere un’azione letale nei confronti della vita intesa nella sua ricchezza esuberante, traboccante di potenzialità, è fuori discussione. E che la superstizione indotta dall’articolo determinativo caratterizzi la visione del perverso è del tutto plausibile. Sconcertante è che tale superstizione caratterizzi anche la psicoanalisi. Tuttavia, è proprio il discorso di Sade a mettere in discussione l’equivalenza tra il linguaggio e la Legge (sociale, convenzionale). Come si è appena osservato, il linguaggio – o meglio un regime di linguaggio – può schierarsi dalla parte del godimento, educare la tendenza al disordine, dirigere l’orgia verso un’armoniosa combinazione dei corpi e degli organi,

in fluide variazioni, aumentare l’eccitazione anticipando gli atti che stanno per compiersi, duplicandoli su quello schermo che la parola può diventare in una fantasia condivisa. Quanto alla tesi secondo cui il linguaggio è un trauma, ebbene: felix trauma, che da un lato reprime, dall’altro dischiude possibilità di godimento sconosciute all’animale ipoteticamente rimasto al di qua della parola. Secondo la dottrina lacaniana “la pulsione è in sé perversa, indifferente all’Altro, chiusa autisticamente su se stessa […]. Mentre la soddisfazione del desiderio umano appare profondamente vincolata a quella dell’Altro […], la pulsione è una figura dell’Uno che sembra rendere impossibile ogni rapporto con l’Altro poiché gode anzitutto di se stessa”.28. Nuovamente, a partire dalle precise definizioni di Recalcati, ci si può interrogare su quello che è uno dei concetti psicoanalitici fondamentali, e ci si può chiedere se la teoria di Lacan non abbia rinunciato a sviluppi autorizzati, se non suggeriti, dal pensiero di Freud. La clinica incontra la pulsione soprattutto nelle sue manifestazioni irrigidite, negli effetti della coazione a ripetere: è forse per questo motivo che la teoria non ha saputo valorizzare ciò che nelle pulsioni è più essenziale della rigidità, ovvero della proprietà fenomenicamente più diffusa? Nella Metapsicologia e altrove Freud dice che le pulsioni sono forze plastiche.29. Alcuni anni dopo, in Al di là del principio di piacere, metterà in risalto la tendenza a ripetere, indicandola come una proprietà delle pulsioni. Un termine poco felice, perché né la plasticità (cioè la flessibilità) né la rigidità sono “proprietà”, bensì modi. Certamente, seguendo Heidegger, si potrà ammettere che in una certa misura anche i modi sono proprietà, caratteri intramondani: la flessibilità del ramo di un albero, di un contratto, di un mutuo bancario ecc., mostrano uno statuto che è assai più quello di una Eigenschaft che non di una Weise zu sein. Non solo: benché vada pensata come un modo d’essere, la rigidità si avvicina al modo di essere proprietario assai più della flessibilità. Che cos’è dunque una pulsione? Come può riunire determinazioni opposte? Perché, a quali condizioni, il più flessibile diventa il più rigido? Possiamo senza dubbio descrivere la pulsione come un conflitto tra rigidità e flessibilità, ma questa resterebbe soprattutto una descrizione, mentre stiamo cercando una spiegazione. La domanda ineludibile è questa: perché la plasticità assoluta dovrebbe includere il suo opposto? Forse la concezione energetista dei perversi aiuta a trovare una risposta: perché un’orgia ha

bisogno di venir regolamentata dalla parola? Anche la perversione ha una sua saggezza, che troviamo enunciata sin dall’inizio nella Histoire de Juliette (come già ricordato): un po’ d’ordine favorisce il piacere, impedisce ai corpi di accavallarsi comicamente in quella che sarebbe semplicemente “un’ammucchiata”. La serietà di una vera orgia è la stessa del rito. Dunque la pulsione non è autistica, o almeno non lo è interamente: in essa dobbiamo cogliere due movimenti, di eguale importanza. Per un verso, essa gira intorno all’oggetto, si chiude circolarmente su di sé – immagine della bocca che tenta di baciare se stessa. Per un altro verso, la pulsione si infila nelle articolazioni del significante, nelle sue strettoie, nei suoi labirinti, nelle vie che essa solo apre e dischiude. Se non penetra nel Simbolico, se non lubrifica le sue rigidità, se non scuote gli intrecci dei significanti, rimane un’attività sterile. La pulsione ha bisogno del significante per non venir privata della sua plasticità, per non riversarsi nella rigidità del molteplice.30. Dobbiamo ancora credere che la pulsione sia una figura dell’Uno? Non dovremmo dire, piuttosto, che l’Uno aspira – vanamente – a essere l’unica possibile versione del Trieb?

4. Il desiderio di essere è un desiderio “senza Legge” C’è dell’Uno, nella pulsione. E c’è soltanto dell’Uno se la pulsione non trova una via per non confermare tautologicamente se stessa: questa via è il desiderio. Ecco l’alternativa che caratterizza un dibattito, all’interno del quale la psicoanalisi freudiana e lacaniana si vede accusata di riproporre una concezione riduttiva dell’energia pulsionale: il desiderio come mancanza, rincorsa infinita e frustrante di un oggetto perduto, di una completezza rispetto alla quale la Legge, il significante, agisce come un ostacolo insormontabile. Negli ultimi anni, questo dibattito è penetrato nel campo della psicoanalisi lacaniana, con un’accentuazione del contrasto tra desiderio vincolato alla mancanza e godimento come volontà di pienezza (volontà ontologicamente garantita). Sono certamente condivisibili le critiche che Recalcati ha rivolto all’energetismo deleuziano, evidenziando alcune confusioni, la prima delle quali riguarda la sovrapposizione tra mancanza e privazione: in una visione non caricaturale, il desiderio è forza

generativa, e non semplicemente la rincorsa di un oggetto mancante.31. Bisogna però chiedersi, in una prospettiva più ampia, se la psicoanalisi ha saputo definire in maniera adeguata la potenza del desiderio. Il problema è complesso, e qui potrà venir affrontato solo schematicamente. La triangolazione desiderio-Legge-oggetto può venir pensata in una versione non punitiva e sacrificale, e tuttavia: a partire dalla distinzione freudiana tra desiderio di essere e desiderio di avere (più tecnicamente: tra identificazione e investimento oggettuale), sembra difficile negare che la psicoanalisi abbia privilegiato il rapporto con l’oggetto – e sia pure con l’oggetto (a), il che costituisce evidentemente un enorme progresso rispetto alla concezione ingenua di qualcosa che manca e che suscita attrazione. Il desiderio di essere non è stato indagato abbastanza, vale a dire che non è stata compresa la formidabile novità rappresentata – anche sul piano filosofico – dal concetto di identificazione, rispetto al quale Freud, in Psicologia delle masse e analisi dell’io, aveva offerto una prima pionieristica sistemazione. Da questo punto di vista, anzi, il pensiero di Lacan va giudicato un regresso rispetto a Freud. Nessuna delle versioni lacaniane del desiderio, né quella invidiosa-aggressiva (il paradigma di Agostino), né quella dialettica del riconoscimento (il paradigma hegelianokojeviano), e ancora meno quella metonimica o il desiderio di Altrove, fa emergere chiaramente il desiderio di essere come ciò che determina i processi di identificazione con un modello nelle sue diverse possibilità. A venir trascurate sono le possibilità creative, perché non vi è dubbio che alle identificazioni alienanti e “oggettivanti” (desiderio di essere il Fallo, desiderio di essere l’oggetto a) sia stata dedicata molta attenzione. Analizzare il desiderio di essere significa dunque sviluppare una teoria dell’identificazione, cioè delle relazioni che un soggetto stabilisce con un’alterità: con un altro soggetto che svolge il ruolo di modello/rivale, oppure con un oggetto (un soggetto-oggetto ma anche un oggetto nel senso letterale del termine) oppure con la Cosa. Consideriamo anzitutto la prima possibilità, di cui il divenire artista offre l’esemplificazione forse più creativa: un soggetto assorbe tutte le tecniche di colui che ammira, si lascia penetrare dal modello per il tempo indispensabile a una piena assimilazione, poi va oltre, inventa se stesso. Durante questo processo viene sperimentata l’identità nel modo della “non-coincidenza”, prima come alienazione poi come invenzione. Sono le due forme del “non” oltrepassante.

In questa sede, mi limiterò a sottolineare un aspetto essenziale: costruire la propria soggettività tramite il confronto agonistico con un modello ammirato non implica un passaggio attraverso la legge. Il desiderio di essere, nella sua forma eminente, è un desiderio senza Legge. Non senza modelli, certamente: ma senza il filtro universalizzante della legge – e senza un oggetto? Senza un oggetto piccolo a? L’unico “oggetto” per il desiderio di essere è la non-coincidenza con se stessi, è il modo d’essere del “non” oltrepassante. Il Simbolico, inteso come luogo dove si scindono e si combattono creativamente gli stili di pensiero, è la dimensione irrinunciabile del “non” come potenza, più affermativa di qualunque affermazione. Questa è la differenza fondamentale con l’energetismo, nel cui ambito l’abolizione della Legge conduce alla suprema coincidenza. Farsi Natura, de-soggettivarsi, godere dell’energia anonima dell’universo. Desiderio di essere la Cosa. Era il desiderio di Sade quando chiedeva di essere dimenticato, sepolto nell’Uno-Tutto, di cui la terra, le radici, le fronde degli alberi sono una delle mille, indifferenti manifestazioni.32. Ingenuità logica di Sade e dell’energetismo: svanire nella forma logica della coincidentia oppositorum, che è una sintesi tra contrari, cioè una possibilità contemplata e codificata dalla tradizione logica. Dunque, da un insieme di leggi che trovano il loro fondamento nella rigidità. Ciò che sfugge agli energetisti è che la logica separativa e la logica anti-separativa (nella versione dell’immediatezza) sono il recto e il verso di un medesimo foglio, dove il pensiero rigido non cessa di scriversi, alternativamente.33.

1

D.A.F. de Sade, Histoire de Juliette, UGE, Paris 1976, vol. II, parte IV, p. 455; trad. a cura di G.P. Brega, Storia di Juliette, in Opere scelte, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 260 e 261. 2 Ivi, p. 462; trad. p. 263. 3 Ibidem. 4 Ivi, pp. 462-463; trad. p. 264. 5 Ivi, p. 460; trad. p. 262. 6 Ivi, p. 463; trad. p. 264. 7 Ivi, p. 462; trad. p. 263. 8 Ivi, vol. I, parte I, p. 150; trad. p. 177. 9 Ivi, p. 151; trad. p. 177. 10 Ivi, p. 182; trad. p. 186. La traduzione italiana (“Che mancanza di vivezza!”) rinuncia a un termine chiave di Sade, cioè mouvement.

11

Ivi, pp. 184-185; trad. p. 188. Ivi, p. 184; trad. p. 187. 13 Ivi, p. 187; trad. p. 189. 14 Ivi, p. 185; trad. p. 188. 15 “Tout est donc vice dans l’homme” (ibidem). 16 G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia (1980), trad. di G. Passerone, rivista da P. Vignola, Orthotes, Napoli-Salerno 2017, p. 60. 17 H. Bergson, Pensiero e movimento (1938), trad. di F. Sforza, Bompiani, Milano 2000, p. 21. 18 In proposito, condivido le riflessioni di Federico Leoni, “Un altro Uno. Lacan, la legge, la perversione”, in A. Campo (a cura di), L’Uno perverso, Textus, L’Aquila 2017. 19 Per motivi di spazio questo problema non potrà venire discusso come meriterebbe. Mi limito a un’indicazione: l’aggressività del sadico trova la sua giustificazione teorica nell’espressione “Ho il diritto di esigere”, cioè nel principio di parità violenta a cui egli si sottomette, pretendendo che chiunque vi si debba sottomettere. 20 “Il n’y a de véritable félicité que dans les sens” (D.A.F. de Sade, Histoire de Juliette, cit., p. 188). 21 Id., La filosofia nel boudoir (1795), trad. di C. Rendina, Newton Compton, Roma 1974, p. 301. 22 Id., Histoire de Juliette, cit., vol. I, p. 150; trad. p. 177. 23 Ivi, p. 23. 24 Ivi, pp. 87-88. 25 D.A.F. de Sade, La filosofia nel boudoir, cit., p. 271. 26 M. Recalcati, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto, Raffaello Cortina, Milano 2016, pp. 419-420. Cfr. anche F. Lolli, Le perversioni nella clinica psicoanalitica, Poiesis, Alberobello (Bari) 2010. 27 J. Lacan, Seminario XX. Ancora (1972-1973), trad. di G. Contri, Einaudi, Torino 1983, p. 139. 28 M. Recalcati, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto, cit., p. 396. 29 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi. Prima serie di lezioni (1915-1917), in Opere, vol. VIII, Bollati Boringhieri, Torino 1976. 30 Un esempio, che riguarda l’insufficienza mentale grave, dove il soggetto “può mangiare di tutto, fino a scoppiare. Non importa ciò che mangia (frammenti di vetro, chiodi, pezzi di plastica, rifiuti ecc.). Ciò che conta è l’attività del ‘mangiare’, dell’inghiottire, dell’ingurgitare – in qualunque modo e con qualunque mezzo” (F. Lolli, “L’Uno è la differenza”, in A. Campo [a cura di], L’Uno perverso, cit., p. 169). L’assenza di selezione contrassegna la perdita di flessibilità. 31 Per una sintesi delle critiche a Deleuze, cfr. M. Recalcati, “L’illusione della perversione”, in A. Campo (a cura di), L’Uno perverso, cit. 32 Vale la pena di ricordare il desiderio espresso da Sade nel suo testamento, dove chiede di essere sepolto “nel folto del primo bosco ceduo” posto a destra della selva della Malmaison per chi viene dall’antico castello, e aggiunge che “una volta ricoperta la fossa, vi siano subito seminate della ghiande, affinché, ricresciute le piante sulla fossa e ricostituitosi il bosco ceduo così com’era stato prima, le tracce della sua tomba scompaiano dalla faccia della terra” (citato in G. Lély, Vie du marquis de Sade, Pauvert, Paris 1965, p. 690). 33 Per quanto riguarda la prospettiva qui adottata, mi permetto di rinviare a G. Bottiroli, La ragione flessibile. Modi d’essere e stili di pensiero, Bollati Boringhieri, Torino 2013 e Perché bisogna riscrivere Lacan. A partire dalla letteratura (cioè dalla flessibilità), “Enthymema” (rivista online), 15, 2016. Giovanni Bottiroli insegna Teoria della letteratura ed Estetica all’Università di Bergamo. 12

Immanenza? Etica? FELICE CIMATTI

Alla fin fine, etologia è un anagramma di teologia.1.

Provare a immaginare un’etica dell’immanenza sembra porre una sfida, prima ancora che filosofica, logica. In effetti qualunque etica implica un principio o una norma, e qualcuno che esplicitamente e volontariamente prenda posizione rispetto a quella norma: l’etica, scrive Moore, riguarda “what is good”.2. Più specificamente, “Ethics is undoubtedly concerned with the question what good conduct is”.3. Una condotta può essere buona solo se avrebbe potuto anche essere cattiva. Quindi non c’è etica senza qualcuno – tipicamente, un soggetto – in grado di scegliere. Il soggetto è, per definizione, qualcuno libero di scegliere. Tuttavia il mondo fisico non è retto dalla libertà, bensì da connessioni causali. Il soggetto, allora, può essere un soggetto solo a patto di non essere – in quanto soggetto – un’entità come le altre entità fisiche del mondo. Non c’è etica senza questo dualismo. Al contrario, immanenza significa che non c’è nessun dualismo, che l’ontologia è piatta, in particolare non ci sono né soggetti né norme. Il soggetto, infatti, è un soggetto solo a condizione di essere qualcos’altro rispetto al mondo. Il soggetto, qualunque sia la sua caratterizzazione, è trascendente rispetto al mondo. Ma allora, questo è il nocciolo del problema, un’etica dell’immanenza è impossibile per definizione. Sembrerebbe che o c’è l’etica, e quindi soggetto e norma, oppure c’è l’immanenza, senza soggetto e norme. Etica implica trascendenza. Cos’è allora un’etica dell’immanenza? Tuttavia, come proveremo ad argomentare, “immanenza” non è propriamente un sinonimo di “mondo”. In realtà “immanenza” significa piuttosto il collasso del dualismo fra soggetto e mondo.

Ma perché il soggetto, in qualunque accezione, “sporge”, e non può non sporgere, rispetto al piano del mondo? La formulazione più chiara, e conseguente, di questo radicale dualismo la si trova, probabilmente, nella Critica della ragion pratica. Il punto di partenza, evidente ma anche indimostrabile, è il Factum dell’“autonomia del principio fondamentale della moralità, per mezzo del quale essa determina la volontà dell’azione”.4. Ci può essere moralità, solo se questa radicale e assiomatica “autonomia […] determina la volontà dell’azione”. Qui “azione” va intesa come termine tecnico: un comportamento è un’azione se alla sua base c’è questa fondamentale “autonomia”. Questa non è una descrizione di che cosa è un’azione morale: è la sua definizione. Non si tratta di capire se qualcosa del genere esista realmente nel mondo; il punto è che senza azione in questo senso preciso, non può esserci moralità.5. Vediamo in che consiste, per Kant, questo “principio fondamentale della moralità”: Tale fatto è inscindibilmente connesso con la coscienza della libertà della volontà, anzi fa tutt’uno con essa; e per ciò la volontà di un essere razionale che, in quanto fa parte del mondo sensibile, si riconosce, al pari delle altre cause efficienti, sottoposto alle leggi della causalità, ha nel pratico, nello stesso tempo ma da un altro lato, cioè come essere in sé, coscienza della sua esistenza come tale da poter essere determinata da un ordine intelligibile delle cose, non, in verità, mediante un’intuizione particolare di sé stessa, ma secondo leggi dinamiche che ne possono determinare la causalità nel mondo sensibile; […] la libertà, se ci è attribuita, ci trasporta in un ordine intelligibile delle cose.6. La “libertà” non è una constatazione empirica; al contrario, la libertà è il fatto della moralità, ossia l’assioma (per definizione indimostrabile) della moralità. Ma se c’è la libertà ne segue che l’agente morale, qualunque sia la sua realizzazione materiale, si colloca al di fuori del mondo sensibile, cioè del mondo delle cause, ossia del mondo senza morale. La morale non è, quanto ai suoi presupposti, cosa naturale: “Al contrario, la legge morale, benché non ne dia alcuna veduta, ci pone di fronte a un fatto assolutamente inspiegabile mediante i dati del mondo sensibile e l’intero ambito dell’uso teoretico della nostra ragione, un fatto che annuncia un mondo dell’intelletto puro, anzi lo determina anche positivamente e ce ne fa

conoscere qualcosa, cioè una legge”.7. Il fatto della morale è “assolutamente inspiegabile”, tuttavia non cessa di essere un fatto, cioè un assioma. La morale, in fondo, non è altro che questo assioma, tutto il resto ne segue. Accettare questo fatto comporta, e così arriviamo all’insormontabile problema del dualismo, che il mondo morale è radicalmente diverso dal mondo naturale. In questo senso l’etica è radicalmente innaturale: Questa legge deve dare al mondo dei sensi in quanto natura sensibile (per quanto concerne gli esseri razionali) la forma di un mondo dell’intelletto, cioè di una natura soprasensibile, senza tuttavia sconvolgerne il meccanismo. Ora la natura nel senso più generale è l’esistenza delle cose sotto leggi. La natura sensibile degli esseri razionali in generale è l’esistenza di questi esseri sotto leggi empiricamente condizionate; il che, per la ragione, è eteronomia. La natura soprasensibile di questi stessi esseri è, al contrario, la loro esistenza secondo leggi indipendenti da ogni condizione empirica e quindi proprie all’autonomia della ragion pura. E, poiché le leggi secondo le quali l’esistenza delle cose dipende dalla conoscenza sono pratiche, la natura soprasensibile, in quanto possiamo formarcene un concetto, è semplicemente una natura sotto l’autonomia della ragion pratica. Ma la legge di questa autonomia è la legge morale che è dunque la legge fondamentale di una natura soprasensibile e di un mondo dell’intelletto puro, la cui copia deve esistere nel mondo sensibile, senza però pregiudizio per le leggi di esso.8. La legge morale si può trovare solo in un “mondo soprasensibile”, cioè appunto non si trova nel mondo “sensibile”. Qui non interessa quanto questo approccio sia compatibile con il metodo scientifico, il punto è che morale significa e implica libertà, e la libertà significa e implica una “natura soprasensibile”. Il dualismo non è un sottoprodotto sgradevole del punto di vista morale; al contrario, il dualismo è il fatto stesso della moralità: “La differenza fra le leggi di una natura a cui la volontà è soggetta e quelle di una natura che è soggetta alla volontà (in ordine al rapporto fra questa volontà e le sue azioni libere) consiste nel fatto che, nella prima, gli oggetti debbono essere cause delle rappresentazioni che determinano la volontà, mentre nella seconda la volontà deve essere causa degli oggetti, sicché la causalità di essa ha il suo motivo determinante

esclusivamente nella facoltà razionale pura”.9. O sono gli oggetti del mondo che sono “cause” della volontà, che quindi non è libera, oppure è la volontà che è “causa”. La libertà si pone al di fuori del mondo delle cause, cioè del mondo naturale; quindi la libertà non è di questo mondo. Il dualismo è inevitabile. Un dualismo che è imperniato sulla contrapposizione fra il mondo delle “cause” da un lato, e quell’essere razionale che non è altro, in fondo, che pura libertà dall’altro. Kant non dice che cosa sia questo ente libero. Anzi, scrive espressamente che propriamente non è un qualcosa, perché se fosse una cosa cadrebbe sotto la legislazione a cui sottostanno tutte le cose materiali. In effetti, facendo del “concetto della libertà il principio regolativo della ragione […] non conosco per nulla quale sia l’oggetto a cui tale libertà è attribuita”; in realtà così facendo, prosegue Kant, “lascio libero […] il posto vuoto per essa, cioè l’intelligibile”.10. Il soggetto libero “occupa” quel “posto vuoto” perché, in fondo, è anch’esso vuoto, nel senso che non può essere qualcosa. Questo curioso ente, infine, è il soggetto. Ma lo stesso soggetto, che è peraltro consapevole di sé come cosa in sé, considera anche la propria esistenza in quanto essa non è sottoposta alle condizioni del tempo e guarda a sé stesso come determinabile soltanto in base a leggi che egli stesso si dà mediante la ragione; in questa sua esistenza, niente precede per lui la determinazione della propria volontà, ma ogni azione, e in generale ogni determinazione della sua esistenza, che muta in conformità al senso interno, e la stessa intera successione della sua esistenza in quanto essere sensibile devono esser considerati nella coscienza della sua esistenza intelligibile semplicemente come conseguenza, mai come motivo determinante, della sua causalità in quanto noumeno.11. Il dualismo dell’etica, pertanto, è ineliminabile. Al contrario, la condizione dell’immanenza è radicalmente anti-dualistica. Per questa ragione un’etica dell’immanenza è difficile anche solo da formulare. Tuttavia è proprio di questa etica che sembra esserci bisogno, come di quell’unica per quanto paradossale etica che non rimane intrappolata nel dualismo fra causa e ragione, fra vita e legge, fra corpo e mente. In effetti la questione del corpo, quando si ragiona di immanenza, è quella centrale. Perché il corpo non può

stare, evidentemente, nella “natura soprasensibile”. Il corpo sta qui, fra le cose del mondo. Tuttavia il corpo, proprio perché è un ente mondano, sembra escludere l’etica. Per questa ragione, prima di provare ad arrivare all’immanenza, sarà necessario passare per i due autori, Sade e SacherMasoch, che del corpo e delle sue voglie hanno proposto più e meglio di chiunque altro una rappresentazione del tutto esplicita e crudele (perché il corpo è crudele in modo freddo, senza etica appunto). Si tratta di capire se il corpo sadico, oppure quello masochistico, possono “incarnare” quell’etica immanente di cui siamo alla ricerca. Nella Filosofia nel boudoir a un certo punto madame de Saint-Ange presenta alla giovane allieva Eugénie quella che, nel sistema di Sade, potrebbe rappresentare l’equivalente di una “massima” morale. In questo paradosso – colto precisamente da Lacan che infatti vede in Sade “la verità della Critica” della ragion pratica12. – è racchiusa forse una prima risposta al nostro interrogativo su quanto sia effettivamente immanente l’etica implicita nei lavori di Sade. La “massima”, che è molto semplice e diretta, sembra di primo acchito non implicare nessuna forma di trascendenza: “Fotti, in una parola, fotti, è per questo che sei stata messa al mondo. Non porre alcun limite ai tuoi piaceri all’infuori di quello delle tue forze o della tua volontà; nessuna eccezione di luogo, di tempo e di persona, tutte le ore, tutti i posti, tutti gli uomini, devono servire alle tue voluttà; la continenza è una virtù impossibile, di cui la natura, violata nei suoi diritti, ci punisce con mille mali”.13. Tuttavia già la forma linguistica dell’imperativo rimanda a una sorta di “ordine”, anche se si tratta di un “ordine” impartito non da un’autorità trascendente (per esempio la Legge, o la Chiesa) bensì direttamente dalla natura. Ora, un “ordine” ha senso solo se esiste la possibilità di ubbidire, o disubbidire, a quello stesso “ordine”. Più in particolare, è l’ordine stesso che implica e presuppone l’esistenza di qualcuno che può, o no, ubbidirgli. L’ordine, cioè, non è che l’altra faccia di qualcuno dotato della “volontà” di ascoltarlo e seguirlo, o disattenderlo. La massima “fotti”, allora, non è logicamente così diversa da quella kantiana: “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso modo come principio di una legislazione universale”.14. Nonostante la diversità del “contenuto” della massima, in entrambi i casi quello che viene indicato da un lato non è un’azione particolare, bensì un principio “universale”; dall’altro la massima si appella alla “volontà”. Lo stesso Kant,

infatti, precisa che si è in presenza di “principi pratici […] soggettivi, o massime” quando “il soggetto considera la condizione come valida soltanto per la sua volontà”.15. Da questo punto di vista la massima “fotti”, non impone alla “volontà” nulla di particolare o di empiricamente determinato, proprio perché si tratta di un “ordine” che va applicato sempre e comunque. Si dirà che per Sade è la “natura” che “ordina” al soggetto di soddisfare le sue “voluttà”. Che sia la Natura o la Legge non fa, evidentemente, nessuna differenza. In entrambi i casi siamo in presenza di un’istanza trascendente. In effetti nel “sistema” di Sade la natura occupa una posizione affatto sovraordinata rispetto alla “volontà” corporea. In Justine, ovvero le disavventure della virtù, il conte di Bressac, spiega per esempio alla sventurata Thérese perché l’omicidio non sia – dal punto di vista della natura – un crimine: “Il primo crimine – distruggere un nostro simile – è assolutamente chimerico […]. Il potere di distruggere non è accordato all’uomo; tutt’al più, può variare le forme, non può annientarle; ora, ogni forma è uguale, agli occhi della natura; niente che si perda, nel crogiuolo immenso dove avvengono le sue mutazioni; tutte le porzioni di materia che vi cadono, incessantemente ne sgorgano sotto altre parvenze; quali che siano i nostri comportamenti, non ve n’è uno che oltraggi la natura, non uno che la offenda”.16. Che quello che per un essere umano è un “crimine” non lo sia dal punto di vista della natura, infatti, non cambia la natura etica del problema. La “volontà” che “ubbidisce” alla natura non è così diversa, in fondo, da quella che ubbidisce al fischietto del vigile urbano. Il problema non è chi o perché comanda, ma il fatto che ogni comando faccia appello a una “volontà”, cioè a un soggetto. E un soggetto, se è un soggetto dotato di “volontà”, è un soggetto kantiano, quindi qualcuno che si muove – lo voglia o no, lo sappia o no – in una “natura soprasensibile”. Da questo punto di vista la “liberazione” proposta da tanti personaggi di Sade non potrebbe nemmeno essere proposta se non presupponesse qualcuno – cioè una “volontà” – capace di accogliere questa stessa possibilità. Così all’interno di un altro lungo passaggio “teorico” di Justine, Clément dice a Thérese che “l’egoismo è la prima legge della natura; lo è soprattutto nei desideri lubrichi. La natura, questa madre celeste, desidera che esso sia il solo nostro movente”.17. Se è la natura che comanda l’egoismo, questo, evidentemente, non è più “egoismo”, perché un egoismo che non può essere anche altruista non è nemmeno egoista.

Tuttavia più avanti lo stesso personaggio sembra contraddirsi, quando sostiene che “nessuna politica incatena, con le sue costrizioni, i miei desideri …”.18. In realtà la contraddizione è solo apparente, perché Sade non rinuncia mai ad appellarsi a una “volontà”. Una volontà che può così disubbidire alla legge come anche ubbidire alla natura; in entrambi i casi si tratta di scelte sovrane del soggetto.19. D’altronde che Sade non esca dal dualismo etico lo dice espressamente madame de Saint-Ange quando, sempre parlando a Eugénie, le ricorda che il corpo deve essere sempre al servizio della “volontà” di godimento: “Fotti, Eugénie, fotti dunque, mio caro angelo, il tuo corpo è tuo, solo tuo, non ci sei che tu sola al mondo che hai il diritto di goderne e di farne godere a chi ti piace”.20. Il dualismo fra corpo e “volontà” è il primo e fondamentale dualismo.21. Per Sade non è il corpo che impersonalmente gode; è la “volontà” del soggetto che impone al corpo il proprio godimento. Il corpo è letteralmente lo schiavo della mente. Da questo punto di vista Le centoventi giornate di Sodoma mostrano tanto il godimento sadico del potere, quanto il godimento sadico della “volontà” sul corpo. Infatti per i quattro libertini il corpo della vittima è del tutto simile a quello dell’animale. Lo dice espressamente il duca di Blangis, quando spiega alle vittime quale sarà la loro condizione: “Non vi consideriamo affatto come creature umane, ma soltanto come animali, nutriti unicamente per servire, e che verranno ammazzati di botte se deluderanno questa aspettativa”.22. L’animale è, da un punto di vista etico, il contrario del libero soggetto dotato di volontà. Non è un caso che anche per Kant gli animali, come i vegetali, sono nella completa disponibilità degli esseri umani: In un paese vi sono vari prodotti naturali che tuttavia devono essere visti, considerata l’abbondanza di una certa specie, anche come manufatti (artefacta) dello Stato […]. Così come dei vegetali (per esempio delle patate) o degli animali da allevamento che […] sono opera degli uomini, si può dire che li si può usare, consumare e distruggere (far morire), allo stesso modo sembra si possa dire anche del potere supremo dello Stato, il Sovrano, che ha il diritto, nei confronti dei sudditi, che nella loro grande quantità sono un suo prodotto, di condurli in guerra come a caccia e su un campo di battaglia come a una festa campestre.23.

L’unico principio “etico” di Sade è quello di privilegiare in ogni caso e a ogni costo la volontà del singolo soggetto. In questo senso si può ancora parlare di “etica”, a proposito di Sade, perché comunque mantiene una caratteristica indispensabile del campo etico, la volontà del soggetto (ché i soggetti, come nel caso delle Centoventi giornate di Sodoma, siano pochissimi rispetto al grande numero delle loro vittime, non toglie nulla al carattere perversamente “etico” della sua filosofia). Una volontà che, per realizzare le proprie voglie, deve sbarazzarsi di ogni altra norma che non sia quella raccolta nella massima brutale del “fotti”. Ogni etica si muove nella tensione fra norma e soggetto; Sade privilegia il polo della volontà individuale, a dispetto di quella della collettività. Ma siccome non c’è soggetto senza norma (così come non esiste norma senza soggetto), l’egoistico e violento imperativo “fotti” non smette per questo di essere un gesto etico. Nella Filosofia nel boudoir è il cinico e spietato Dolmancé che spiega a Eugénie perché anche il crimine, in fondo, rientri nel campo etico: “EUGÉNIE. Ma se tutti gli errori che voi esaltate sono nella natura, perché le leggi vi si oppongono? DOLMANCÉ. Perché le leggi non sono fatte per il particolare, ma per il generale, cosa che le mette in perpetua contraddizione con l’interesse, dato che l’interesse personale è sempre in contrasto con quello generale. Ma le leggi, buone per la società, sono pessime per l’individuo”.24. Il paradosso di questa affermazione consiste nel fatto che l’individuo può esserci, in quanto volontà, solo perché esiste quella stessa norma astratta e generale che limita le sue voglie. Il factum dell’“autonomia del principio fondamentale della moralità”, come scrive Kant, in realtà non sarebbe un fatto se non ci fosse già una norma morale che presuppone e istituisce quello stesso fatto. Per questa ragione, in Justine, “l’anima del libertino” viene presentata come “l’enigma della natura”.25. Come la volontà è un factum, cioè un assioma indimostrabile, così il libertino, cioè la pura volontà di godere, è un “mistero”, cioè appunto un assioma che sfugge a ogni definizione o spiegazione. L’operazione di Sacher-Masoch, invece, è opposta: non si tratta più di affermare la volontà individuale contro la norma politica e morale, bensì di sottomettervela (ma volontariamente, come vedremo), per quanto questa stessa norma possa essere arbitraria e insensata. E così Venere in pelliccia si apre con un significativo “mi trovavo in dolce compagnia”.26. Un aggettivo, “dolce”, che in Sade non sarebbe mai potuto occorrere, perché non c’è

alcuna dolcezza nel suo mondo spietato di godimento autistico: “È dalla natura”, dice il duca di Blangis, “che ho ricevuto i miei istinti […] tra le sue mani sono solo una macchina che essa muove a suo piacimento”.27. Sade gioca con questa ambiguità: da un lato la volontà è “naturale”, dall’altro, tuttavia, tutta la sua filosofia si basa sull’innaturalità del desiderio, ché i “libertini non hanno altro dio che la loro libidine, altra legge che la loro depravazione, altro freno che la loro dissolutezza, dei criminali senza dio, senza principi, senza religione”.28. Una natura distruttiva, che quindi trascina con sé il volere degli uomini: “Le nostre distruzioni eccitano il suo potere e mantengono viva la sua energia […] che importa alla sua mano, votata a una creazione perenne, se la carne che forma un individuo bipede si riproduce domani con le parvenze di mille insetti diversi?”.29. In fondo il libertino di Sade agisce sì sotto spinta della natura, ma perché è giusto seguire la natura. In questo senso il suo gesto rimane un gesto, benché in modo rovesciato, etico. Questo significa, tuttavia, che il sadico vuole il male che sostiene di non potere non compiere. Ma la volontà è al centro anche del mondo di Sacher-Masoch: “Vuol essere il mio schiavo?”30. chiede Wanda Dunajew a Severin. Mentre i libertini di Sade costringono le loro vittime alla schiavitù, la Venere in pelliccia chiede alla sua vittima di accettare volontariamente di diventare il suo schiavo. Allo stesso tempo Severin cerca nella sua “padrona” una figura trascendente: “‘Io posso amare solo ciò che è al di sopra di me’, proseguii, ‘una donna che mi soggioghi con la bellezza, con il temperamento, lo spirito, la forza di volontà, che diventi la mia despota’”.31. D’altronde lo stesso Severin è un uomo “sovrasensuale”,32. cioè appunto qualcuno che non cerca una donna in carne e ossa, bensì un ruolo, una posizione in uno schema formale del desiderio. Per questo ha bisogno di un contratto esplicito: “‘Ti permetterò di rimanermi accanto come schiavo’”, dice la Venere in pelliccia, “‘ma io so che alla prima occasione ti ribellerai di nuovo, per questo devi essere il mio schiavo realmente, e nel senso più autentico della parola. Devi firmarmi un contratto, offrirmi un mezzo per domarti con la forza, in caso di necessità, e per costringerti all’obbedienza. Vuoi?’”.33. La differenza con Sade è radicale: la vittima, per Sacher-Masoch, vuole essere vittima. Allo stesso tempo la vittima vuole che questa condizione venga stabilita in modo esplicito, vuole appunto un “contratto”. D’altronde è quello che riporta anche il contratto che lo stesso Sacher-

Masoch stipulò realmente con Fanny von Pistor: “Il signor Leopold von Sacher-Masoch si impegna con la propria parola d’onore a essere lo schiavo della signora von Pistor e a obbedire incondizionatamente a ogni suo desiderio e ogni suo ordine”.34. È il contratto – cioè la norma “etica” – a tenere legato lo “schiavo” alla Venere in pelliccia. E infatti è con un gesto libero e volontario che Severin/Sacher-Masoch si impegna a diventare lo schiavo della “dea”35. a cui ha deciso di legarsi senza alcuna restrizione: “‘Deciditi dunque, vuoi essere il mio schiavo?’. ‘Sì, lo voglio’”.36. Se Sade privilegia il polo etico della volontà, rispetto a quello della norma, Sacher-Masoch compie l’operazione opposta, mettendo l’accento su quest’ultimo, a tutto svantaggio del primo. In entrambi i casi, tuttavia, si rimane nel campo etico, cioè nel campo della trascendenza. Perché in entrambi i casi è la “volontà”, sadica o masochistica, che fonda le azioni dei loro personaggi. Per Sade la volontà di assecondare la natura, per SacherMasoch quella di ubbidire a un contratto liberamente stipulato. In effetti che la norma sia “naturale” o artificiale non ne cambia il carattere essenziale: c’è norma solo se c’è una libera volontà che agisce (o no) come la norma stabilisce che si debba agire. Da questo punto di vista Blangis e Severin sono figure etiche allo stesso titolo, per quanto possano essere incomprensibili le norme a cui “ubbidiscono”. A ragione Deleuze pone il contratto al centro sia della posizione del sadico che di quella del masochista: “Il masochista elabora dei contratti, mentre il sadico aborre e distrugge qualsiasi contratto”.37. In entrambi i casi è il contratto, e quindi la libera volontà che presuppone e implica, a occupare il centro della scena: contratto da stipulare e contratto da rigettare. Senza contratto, ossia senza una proposizione che si autopresenta come universale, non può esserci il masochista, ma nemmeno il sadico: “Considerate il paradosso”, osserva Lacan a proposito di Sade, “perché questa massima [quella espressa dall’imperativo della Saint-Ange, ‘fotti’, rivolto a Eugénie] faccia legge bisogna e basta che […] possa essere ritenuta come universale a filo e diritto di logica”.38. Ecco allora che anche il sadico, in realtà, agisce in base a una massima universale: “‘Ho il diritto di godere del tuo corpo […] e questo diritto lo eserciterò, senza che nessun limite possa arrestarmi nel capriccio delle esazioni ch’io possa avere il gusto di appagare’”.39. È Deleuze che coglie la centralità della Legge sia per la figura del sadico che per quella del masochista:

Partendo dall’idea [kantiana] che la legge non può essere fondata sul Bene, ma deve basarsi sulla sua forma, l’eroe sadico inventa un nuovo modo di risalire dalla legge a un principio superiore: ma questo principio è l’elemento informale di una natura prima che distrugge le leggi. Partendo dall’altra scoperta moderna, che la legge alimenta la colpevolezza di colui che vi ubbidisce, l’eroe masochista inventa un nuovo modo di discendere dalla legge alle conseguenze, egli “aggira” la colpevolezza, facendo del castigo una condizione che rende possibile il piacere proibito. In tal modo il masochista non rovescia in misura minore la legge, sebbene lo faccia in un modo diverso.40. Sade e Sacher-Masoch mostrano come non sia sufficiente, per immaginare una condizione di immanenza, stravolgere la legge da un lato, oppure costruirsi una propria legge perversa dall’altro. La legge non scompare con la sua soppressione, perché rimane sempre la volontà, e quindi il soggetto, che è inseparabile dalla legge. Ma finché esiste un soggetto non può esserci un’etica dell’immanenza, perché immanenza in fondo non vuol dire altro che non c’è più soggetto né volontà. Immanenza significa: non c’è spazio per l’etica. Tuttavia se Sade e Sacher-Masoch non si sbarazzano della legge, e quindi del soggetto, allo stesso tempo indicano che c’è un godimento insensato al fondo dell’umano. Una insensatezza che può voler dire due cose molto diverse; un comportamento è insensato perché è illogico, perché non rispetta la razionalità. Quindi un’insensatezza che in realtà non è che il rovesciamento del sensato. L’altra possibilità è che si tratti di un insensato che non ha nulla a che fare con il senso e il ragionamento. È in questa seconda direzione che va intesa l’insensatezza di Sade e Sacher-Masoch, muovendo anche oltre il loro stesso pensiero. Perché in fondo quello che mostrano è come il godimento del corpo sia, al suo fondo, del tutto privo di senso. D’altronde è questa la scoperta freudiana, la sessualità infantile “perversa polimorfa”, che mostra la “predisposizione verso perversioni di qualsiasi tipo [che] è una caratteristica umana generale e originaria”.41. Si potrebbe sostenere che Sade e Sacher-Masoch mostrano piuttosto quello che diventa questa natura perversa originaria, quando è posta al servizio del doppio dispositivo trascendente del soggetto e della norma. Sade e Sacher-Masoch mostrano, o almeno lasciano intravvedere, l’insensatezza del godimento corporeo, il fatto che è un godimento fuori

senso. Fuori senso significa oltre il soggetto e la norma. Quindi oltre l’etica. Ma questo non significa che oltre l’etica ci sia un caos insensato. Un mondo senza senso non è un mondo insensato.42. Deleuze chiama questo spazio “immanenza assoluta”,43. dove l’aggettivo “assoluta” mostra che si tratta di un’immanenza che non è il contrario della trascendenza, bensì il venire meno di questa stessa distinzione. Per questo “la pura immanenza è UNA 44. VITA, e nient’altro”. Una vita – e la precisazione è pertinente, visto che ci si muove nel campo che si estende oltre l’etica – che non è irrazionale più di quanto sia soggettiva. Si tratta di una vita, che è una vita del corpo, “indefinita [che] non ha momenti, per quanto vicini siano gli uni agli altri, ma soltanto frat-tempi, fra-momenti”.45. Solo un corpo perverso e polimorfo può avventurarsi in una vita come questa. Un corpo, cioè, che non teme gli incontri con gli altri corpi e con il mondo. Deleuze propone, non a caso se torniamo alla sessualità infantile secondo Freud, l’esempio del neonato come corpo dell’immanenza: “I neonati si somigliano tutti e non possiedono affatto individualità; ma hanno singolarità, un sorriso, un gesto, una smorfia, eventi che non sono caratteri soggettivi. I neonati sono attraversati da una vita immanente che è pura potenza, e anche beatitudine attraverso le sofferenze e le debolezze”.46. Ci sono “buoni” incontri, come incontri “cattivi”, per una vita del genere. Ma non sono questi corpi che fanno queste esperienze, è piuttosto la “vita immanente” che li attraversa. È questo il punto, una vita che partecipa della vita, al suo stesso livello: In un’etica […] la potenza è una quantità differenziale. Il discorso etico non riguarda le essenze […], ma prende in considerazione solo la potenza, ossia le azioni e le passioni di cui si è capaci; non: “Cos’è?”, ma: “Cosa è capace di fare o sostenere?”. Niente più essenze generali, solo singolarizzazioni. È un’etica che non ci dice niente in anticipo […]. Un pesce non può avere le specifiche possibilità di un altro pesce. Tutto qui. La quantità di potenza cambia infinitamente negli enti.47. Questa non è più l’etica a cui siamo abituati, ma non è nemmeno un’etologia – intesa come una specie di etica animale – perché il corpo etologico (cioè puramente animale) non è altro che il rovescio di quello teologico (cioè trascendente). Ma è un’etica, infine, perché ancora accoglie al suo interno delle differenze. Un’etica che non è altro, infine, che “un

campo enorme di esplorazione, di sperimentazioni, dove l’essenza non c’entra più nulla”.48. Soprattutto un’etica senza volontà, perché “la potenza non è ciò che voglio, è ciò che ho: ho questa potenza, o quest’altra […]. Fare della potenza l’oggetto di una volontà è un controsenso. Vale esattamente l’opposto: sarà in funzione della potenza che possiedo che potrò volere questo o quello. […] Si tratta sempre della stessa questione: cosa può un corpo?”.49. Felice Cimatti insegna Filosofia del linguaggio e Filosofia italiana contemporanea all’Università della Calabria. 1 A. de Swaan, Reparto assassini. La mentalità dell’omicidio di massa (2014), trad. di P. Arlorio, Einaudi, Torino 2015 p. 75. 2 G. Moore, Principia ethica, Cambridge University Press, Cambridge 1903, p. 2. 3 Ibidem. 4 I. Kant, Critica della ragion pratica (1797), in Critica della ragion pratica e altri scritti morali, a cura di P. Chiodi, UTET, Torino 1995, p. 180. 5 Da questo punto di vista tutto il gran discutere di “naturalizzazione” dell’etica non cambia i termini della questione posta da Kant; cfr. F. de Waal, Good Natured: The Origins of Right and Wrong in Humans and Other Animals, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1996; M. Hauser, Moral Minds: How Nature Designed Our Universal Sense of Right and Wrong, Little, Brown, New York 2006. O la morale umana a un certo punto si emancipa dalle sue basi biologiche, oppure non si può parlare di morale umana. 6 I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 180. 7 Ivi, p. 181. 8 Ibidem. 9 Ivi, p. 183. 10 Ivi, p. 187. 11 Ivi, p. 241. 12 J. Lacan, “Kant con Sade” (1963), in Scritti, vol. II, trad. di G. Contri, Einaudi, Torino 2002, p. 765. 13 D.A.F. de Sade, Opere, a cura di P. Caruso, Mondadori, Milano 2006, p. 67. 14 I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 167. 15 Ivi, p. 153. 16 D.A.F. de Sade, Opere, cit., p. 475. 17 Ivi, p. 570. 18 Ivi, p. 577. 19 Secondo la celebre interpretazione di Bataille; cfr. G. Bataille, L’érotisme, Minuit, Paris 1957, in particolare lo studio “L’homme souverain de Sade”. Da questo punto di vista neanche l’uomo sovrano sfugge all’etica. 20 D.A.F. de Sade, Opere, cit., p. 68. 21 Cfr. R. Esposito, Le persone e le cose, Einaudi, Torino 2014; F. Cimatti, Cose. Per una filosofia del reale, Bollati Boringhieri, Torino 2018. 22 D.A.F. de Sade, Le centoventi giornate di Sodoma (1785), trad. di G. De Col, ES, Milano 1991, p. 58.

23

I. Kant, Metafisica dei costumi (1797), a cura di G. Landolfi Petrone, Bompiani, Milano 2006, p.

301. 24

D.A.F. de Sade, Opere, cit., p. 144. Ivi, p. 587. 26 L. von Sacher-Masoch, Venere in pelliccia (1878), trad. di G. De Angelis e M.T. Ferrari, Mondadori, Milano 2013, p. 9. 27 D.A.F. de Sade, Le centoventi giornate di Sodoma, cit., p. 17. 28 Ivi, p. 57. 29 D.A.F. de Sade, Opere, cit., p. 475. 30 L. von Sacher-Masoch, Venere in pelliccia, cit., p. 34. 31 Ivi, pp. 45-46. 32 Ivi, p. 46. 33 Ivi, p. 110. 34 Si tratta del primo contratto stipulato fra Sacher-Masoch e Fanny von Pistor, riportato in appendice a Venere in pelliccia, cit., p. 185. 35 Ivi, p. 34. 36 Ivi, p. 111. 37 G. Deleuze, Il freddo e il crudele (1967), trad. di G. De Col, SE, Milano 1996, p. 24. 38 J. Lacan, “Kant con Sade”, cit., p. 766. 39 Ivi, p. 768. 40 G. Deleuze, Il freddo e il crudele, cit., pp. 98-99. 41 S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), trad. di C. Csopey, Rizzoli, Milano 2010, p. 83. 42 Sul problema etico in Deleuze, cfr. N. Jun, D.W. Smith (a cura di), Deleuze and Ethics, Edinburgh University Press, Edinburgh 2011. 43 G. Deleuze, Due regimi di folli e altri scritti (2003), trad. di D. Borca, Einaudi, Torino 2010, p. 321. 44 Ibidem. 45 Ivi, p. 323. 46 Ibidem. 47 G. Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, trad. di A. Pardi, ombre corte, Verona 2007, p. 81. 48 Ibidem. 49 Ibidem. 25

Carmelo Bene o dell’immanenza dei corpi GIANLUCA SOLLA

1. Che cos’è realmente perverso? Pierre Klossowski dedica le battute iniziali di Le philosophe scélérat alla scrittura in Sade. In particolare le dedica all’antinomia tra il linguaggio, il cui valore è sempre universale – è sempre una “generalità” –, e la singolarità della scrittura con cui di volta in volta, scrivendo, Sade prova a stabilire una “contro-generalità”.1. La scrittura non può pertanto che essere attraversata da questa tensione tra l’assoluta singolarità del suo momento e l’universalità del suo linguaggio con cui si trova comunque a operare, ma che continuamente non può che essere ribaltato e sovvertito nelle sue intenzioni. Questo vale anche per quella particolare scrittura delle vite che sono le pratiche. Rispetto al condizionamento normativo implicito nella valenza universale del linguaggio “logicamente strutturato della tradizione classica”,2. la sola forma di emancipazione per la specie umana si può realizzare valorizzando “la specificità delle perversioni”. Non è tanto l’idea della perversione – ed eventualmente la sua pratica – a costituire un contro-bilanciamento o un’alternativa. Questa va cercata piuttosto nella “specificità” che con risolutezza tanto Sade quanto Klossowski rivendicano. A essere dirompente è “il caso singolare delle perversioni”, che rispetto alla generalità normativa del linguaggio si definisce “per una assenza di struttura logica”. Essere perversi vuol dire sovvertire la logica, ma sovvertire la logica vuol dire potenziare e sfruttare la singolarità dei casi contro la generalità della norma. Il singolare sarebbe, da questo punto di vista, sempre eccessivo. La mostruosità sadiana, potremmo dire, non ha altro contenuto che questa assoluta specificità in cui, caso per caso, volta per volta, corpo per corpo, qualcosa della perversione può aver luogo. In quanto irriducibile all’universalismo che fa del linguaggio una norma cogente, la perversione consiste in questo gusto – in questa attrazione vertiginosa e irresistibile – per la singolarità. In quanto tale, essa esclude le

definizioni preconcette e l’anticipazione prescrittiva – moralizzante e giudicatrice – che fanno sempre ricorso alla generalità di una norma. Qui non è in discussione il contenuto delle norme, quanto la struttura normativa stessa, che prevede una fittizia universalità il cui correlato principale è il riferimento alla “specie umana”, qualsiasi cosa essa sia. Non è però in discussione neppure il contenuto delle perversioni, bensì unicamente l’assoluta singolarità con cui viene fatto valere, di volta in volta, ciò per cui la norma non vale, il buco cieco di ogni regola, precetto o legge. Si potrebbe proseguire interrogandosi su quanto questa “controgeneralità” non sia in fondo interna alla stessa generalità normativa e normalizzante che intende interrompere. La domanda verterebbe, in questo caso, su quanto di dialettico ci sia in questo procedimento (tanto in Sade, quanto in Klossowski). In fondo, come Sade sa e come Klossowski annota, è già l’ateismo del razionalismo a produrre un rovesciamento, estraendo dal fondo della generalità imperante una contro-generalità. La traccia che mi sembra più feconda da seguire è però un’altra: se l’universalismo è autocontradditorio, cosa ne è di quello che Klossowski chiama “il caso singolare delle perversioni”? Come si articola una perversione il cui contenuto non è una determinata predilezione, per esempio per una pratica erotica, né tantomeno fa riferimento a un desiderio inconfessabile? Come pensare quanto ha il suo tratto propriamente perverso nella sua assoluta singolarità? Cosa ne è della potenza di questa singolarità? E cosa ne è della sua possibilità di staccarsi dalla subordinazione a funzioni abituali e generali, quindi implicitamente o esplicitamente normative, che ne garantiscono, se non la vita, almeno la sopravvivenza? 2. Se la singolarità – anche quella della scrittura – è di per sé perversa, è perché è portatrice di un eccesso del corpo rispetto alla presa normativa delle istituzioni. Tuttavia tale eccesso può essere pensato in molti modi. Due di questi sono presenti in un aneddoto in cui Carmelo Bene racconta di un incontro con l’amico Klossowski. A questo aneddoto è affidata una precisazione decisiva: Una sera a cena proposi a Klossowski questa definizione del porno: “Il porno è ciò che eccede il desiderio”. Si entusiasmò: “Très beau, Carmelo”, ma suggerì una variante: “Il porno è al di là del desiderio”.

Non mi piacque. Glielo dissi. C’era qualcosa di metafisico e cattolico in quella definizione. L’eccesso dell’eros è quanto si cadaverizza, quanto è disponibile a rendersi mero oggetto. Nel porno a subire sono solo due oggetti che si annullano reciprocamente. Hai presente due pietre che copulano? Rende l’idea. Si amano in quanto si disattendono (ne ho frequentate alcune, rare, nei miei letti). Nulla a che fare con la recita complice di Masoch. Nel porno non c’è complicità, non c’è partner, non c’è desiderio e non c’è vagito. Non c’è intimità né il mito della condivisione trova qui ospitalità. Non c’è altra prossimità se non quella inquietante con l’oggetto-porno del sedicente soggetto (in realtà oggetto anche lui, suo malgrado). C’è il congelamento della specie. L’ottusità del giardino d’infanzia è l’ideale del porno. Basta mantenersi recidivi. Derive patologiche come la necrofilia sono la fungaia putrescente della vita che si decompone a vista. Tutto ciò che è patologico è l’uomo. Se non lo è, chissà cos’è. (Detto altrimenti: che sarebbe di noi se non fossimo mancati? Che sarebbe di Dio se esistesse?)3. La questione centrale di questo racconto, tratto dalla Vita di Carmelo Bene, è indubbiamente quella dell’eccesso. Se l’eros porta con sé un eccesso, ogni volta, a ogni tornante di strada, questo stesso eccesso che lo attraversa conduce l’eros all’erotismo ovvero all’oggettivazione di sé. Non apre a una dimensione altra, ma si compie tutto lì, precipitando nelle forme di un oggetto che non può che essere, come tale, che porno. Potremmo dire che il porno è la rivelazione oscena che riguarda l’oggettivazione dei corpi. È oscena perché rivela ciò che non sarebbe dovuto essere rivelato a vantaggio di un discorso consolatorio. In queste considerazioni di Bene non c’è la baldanzosa speranza di Klossowski. Manca il suo côté “metafisico e cattolico”, per cui nel porno ci sarebbe comunque un al di là per il desiderio. L’annullamento nell’oggetto esclude il trascendimento edificante. L’eccesso non è da pensarsi come al di là, ma come atto assoluto di corpi, come il loro evento. Questo conduce, al limite, al loro annullamento reciproco, dove – come pietre senza mondo – copulano. La possibilità di amarsi è data nella misura in cui gli amanti si disattendono. Ci sono solo dei corpi, tutti presi nella loro fisicità, al di fuori di ogni vagheggiamento di complicità, di relazione e perfino di desiderio. Ciò che il porno – che non è ancora la pornografia, ci torno subito – costituirebbe è appunto questo

luogo in cui la vita si produce, decomponendosi a vista. Senza deriva – senza quelle derive che Bene chiama “patologiche” – non c’è neanche uomo, ammesso di sapere cosa questo sia. Sicuramente non c’è vita. Se l’eccesso del desiderio è il porno ovvero il porno è il desiderio in quanto eccesso, questa definizione indica solo il puntuale disattendersi dei corpi. Un incontro è possibile solo in ciò che disattende le reciproche aspettative, tradendo l’immaginario che ne prende possesso e ne trattiene la vita segreta. Tutto ciò non ha evidentemente niente di volontario, dato che, come dice Bene, “la volontà non è mai buona”.4. Non c’è mai niente di buono a cui la volontà possa porre capo. Piuttosto, prendendo ispirazione da Jean Paulhan per il quale Le centoventi giornate di Sodoma di Sade fondano tutta una scienza dell’uomo, potremmo dire che qui si aprono due scienze dell’uomo, due antropologie: una legata alla dimensione dell’eccesso, l’altra a quella dell’al di là. Una pensa l’immanenza del desiderio nell’eccesso e come eccesso; l’altra esprime un modello di verticalità e di trascendente (non è qui necessario mostrare come l’Ateologia di Sade teorizzata ricada dentro le difficoltà della teologia propriamente detta).5. Sicuramente questa semplificazione pecca d’eccesso e bisognerebbe piuttosto mostrare come i due modelli, lungi dal differenziarsi radicalmente, attingano l’uno all’altro, per creare infinite forme intermedie e ibride. Tuttavia l’aneddoto raccontato da Bene segnala che l’“al di là del desiderio” di Klossowski si innesta su una rappresentazione in cui l’eccesso è ancora un effetto del desiderio. 3. Un’annotazione che Gilles Deleuze ha dedicato a Un Amleto di meno si ricollega a questo punto, là dove Deleuze scrive che il lavoro di Bene “non procede per addizione, ma per sottrazione, per amputazione”.6. Se qualcosa viene meno, è certamente la Storia in quanto cornice ovvero come schema trascendentale dentro il quale inserire le vicende, qualsiasi esse siano. Senza cornice non ci sono che corpi ad aggirarsi sul palcoscenico, ad agitarsi. Da qui la nudità dei personaggi. Prendiamo il Riccardo III (1978). Ad apparire in scena non sono che il duca di Gloucester (poi Riccardo III) e le donne: la duchessa di York, madre di Riccardo; la ex regina Margherita; la regina Elisabetta; Lady Anna Warwick; una cameriera e Madame Shore. Più che una mancanza il dispositivo teatrale produce un mancamento in cui nulla manca. Vi si produce un’insistenza di un tipo tutto particolare: una

perseveranza, un ingombro che non è dell’ordine dello statico – dell’ostacolo che stia perfettamente immobile dentro un flusso – ma che è esso stesso mobile, duttile. Coincide con un movimento descrivibile solo sulla base dei punti che tocca. Se questo movimento è quello dell’eccesso, che Bene chiama “porno” nell’aneddoto su Klossowski, e “osceno” in una risposta al testo di Deleuze, porre l’osceno al centro dell’evento teatrale – là dove non può che essere assente, dato che avviene fuori dalla scena, ma al tempo stesso non può non mancare – significa fare del teatro il dispositivo assoluto dell’eccesso. Nel Riccardo III è detto che questo osceno è “l’osceno del femminile nella storia”. È il femminile, cioè, che irrompe e offende “‘l’imbecillità’ dell’unico” ossia dell’identico (come “impossibilità del diverso”).7. Da questo punto di vista il femminile è la singolarità assoluta, è l’eccesso del singolare rispetto alla norma dinastica maschile. In questa irruzione, nella sottrazione di cui parla Deleuze e a cui risponde già il titolo di Un Amleto di meno, qualcosa può succedere: un esperimento, un’emersione di una vita impersonale dai personaggi e in particolare dalle loro voci, che sono sempre più disarticolate via via che conoscono la loro evoluzione, le loro variazioni. Senza Storia vuol anche dire: senza referente, senza orientamento, senza fine ovvero senza capo né coda. Inevitabilmente qui si dovrà fare a meno anche della mimesis, dato che non c’è più nulla da imitare. Non c’è né un passato glorioso a cui tornare, né uno da riscattare in vista del futuro. Ciò che questo esperimento disegna è un presente assoluto, che avviene sulla base di un mancamento. Nella Vita di Carmelo Bene questo registro è il registro dell’essere smedesimati, per il quale non c’è tempo, né storia, non c’è patria, né io o tu.8. Tutto procede per dis-individuazioni. L’attore mira sì a incarnarle, ma in un certo senso non ci arriva mai. Eppure l’eccesso di altre energie attraversa il suo corpo rispetto al dettato della regia. Per quanto forte sia l’idea iniziale o il progetto di scena, un corpo non smette per questo di essere ciò che di per sé è già da sempre: un atto di disindividuazione. Impossibile gestirlo. Non solo non ci sono relazioni, non ci sono neanche i personaggi e le loro rispettive identità. Così Lorenzaccio – “l’attore-cretino” per eccellenza, “sempre preceduto da se stesso” – costituisce l’irruzione di quell’eccesso che lo porta a essere in ogni ruolo fuori dal ruolo: è una parte senza parte, senza destino, “sottratta alla propria

destinazione”.9. Come capiterà al servo in S.A.D.E.,10. nessuno padroneggia il ruolo che gli è stato affidato, dato che la vicenda – che non è Storia – avanza unicamente a colpi di eccesso, di osceno e di porno.11. Nemmeno assistiamo però a un eroismo dell’eccesso, dato che questo come tale non può che mancarsi e insieme non può che trovare proprio in questo mancamento la sua unica forma. Negli eccessi che ne costituiscono l’energia immanente le cose non si fanno che per bricolage, tenendo insieme i frammenti, rabberciandoli: “Quello che conta non l’ho mai realizzato. È quanto non son riuscito a fare. È quanto è stato, come me, abortito. […] Quello che invece ti riesce di rabberciare è come la vita, i residui, quello che non avresti mai voluto fare”.12. 4. Nell’immenso archivio della sua Psychopathia sexualis Krafft-Ebing aveva decifrato la procrastinazione dell’orgasmo in termini masochistici. In quella dimensione la sospensione diventa una forma di appagamento. Diventa la vera e propria esperienza o, quantomeno, ciò che costituisce il particolare contenuto d’intensità e di pienezza dell’esperienza stessa. Questo aspetto ascetico ha presa perché promette di mantenere un controllo o, meglio, perché, come Theodor Reik ha giustamente descritto, si mantiene in un’oscillazione tra la fuga e l’avvicinamento.13. Forse però non c’è mai né l’una né l’altro in termini assoluti. C’è tutt’al più una sospensione a cui non si fugge mai né mai le ci si avvicina. Tutto si compie in un’attesa che dovrebbe sciogliere il soggetto da quanto di spiacevole alla fine il piacere ha per lui. Ciò che è qui in questione è il desiderio nel suo rapporto con la cosa. Affinché questo desiderio si mantenga nella sua purezza, qualsiasi contatto dev’essere evitato. Da qui il ricorso a schermi in S.A.D.E.: il padrone non guarda mai il corpo femminile se non per la mediazione di una schermatura che rende quel corpo solamente visibile. Non ha occhi per il corpo della donna, soprattutto quando questo si fa troppo vicino. La prossimità di quell’altro corpo femminile ne travolge la pretesa superiorità. Il padrone resta così vittima del proprio delirio di padronanza e, come tale, resta privo dell’accesso a quel corpo, al suo contenuto osceno. In S.A.D.E. il padrone è tutto preso dalla fissazione per il proprio orgasmo, che latita, ma che fa scena. Non viene, il padrone, ma mutamente asservisce tutta l’azione scenica al raggiungimento del proprio orgasmo. Il servo invece sperimenta, crea, si arrangia. Benché sia al servizio del suo padrone, è l’unico a

muoversi e ad attraversare la scena. Se il padrone è membro che non eiacula, il servo è l’invenzione singolare che si costituisce da sé. Unicamente sua è l’iniziativa. 5. Questa configurazione scenica in S.A.D.E. produce l’instabilità del singolare. Produce una variazione infinita. Travolge i ruoli affidati. Frustra l’attesa di un conflitto che, se non arriva, è perché il conflitto è ancora tutto parte di una rappresentazione e di una partizione dei ruoli. La rappresentazione è sempre convenzionale, anche quando si vuole “contro natura” (come nel tentativo di provocare l’orgasmo attraverso la messinscena di un matrimonio incestuoso con una prostituta nel ruolo di figlia). Canta il servo: “Complicato è il mio padrone / nell’orgasmo (nell’orgasmo) si vedrà”.14. Le aberrazioni di cui si compone S.A.D.E. sono altrettante delusioni. È proprio l’instabilità delle forme a permettere – al di là di una pura e semplice ripetizione dello schematismo hegeliano di servo e padrone – che il servo sia capace di metamorfosi. Si offre alla vita. Se è vero che il padrone è “ridotto a tic masturbatorio”,15. il servo non è mai pura vittima. Una volta che avrà eiaculato, il posto del padrone rimarrà vuoto e al servo non rimarrà che contemplare questa vuotezza che era da sempre là. Il padrone non è altro che funzione-di-orgasmo, espletata la quale non resta ni-ente al cospetto dell’unico che in questo tourbillon si sia dato da fare, per quanto per ni-ente appunto: il servo. Per quanto tutto funzioni come macchina di cattura del desiderio, il desiderio è davvero poca cosa: non fa che annullarsi nell’eiaculazione e tutti i ruoli (per esempio le donne in scena) sono d’improvviso superflui e possono sgombrare la scena. Il problema non è mai il desiderio. Ne è satura la scena, ma questo non cambia la sua natura “padronale”. Il problema è semmai la funzione del corpo del padrone nel corrispondere a tanto desiderio con la sua eiaculazione. Non il desiderio, ma unicamente l’orgasmo giustifica una macchina infernale, che gira a vuoto sulla difficoltà dell’orgasmo. Ne crea una rappresentazione. O, più esattamente, crea una mascherata che affossa la rappresentazione che dovrebbe finalmente dare l’orgasmo al padrone. Del resto il padrone, lui, “non desidera nulla”.16. Quello del servo è forse proprio un uso minoritario del corpo, nel senso di “un divenire in cui [non] ci si impegna”.17. Non c’è impegno. Dato che

manca la Storia, in cosa ci si dovrebbe impegnare? Il fatto che il tempo del servo non sia Storia, è quanto gli restituisce indipendenza e autonomia, dal momento che “la Storia è il marchio temporale del Potere”, come si trova a scrivere Deleuze.18. Non si tratta di storia: la storia è materia d’archivio, in cui le azioni agite sono messe agli atti, su cui l’io tiranno edifica la sua sopravvivenza spettrale. Qui si tratta invece solo di atti: assoluto presente. Il teatro sarebbe allora quell’evento che buca la storia.19. Libero dalla Storia, può nuovamente accedere alla potenza dei suoi gesti. Il gesto gli è consegnato, fuori dalla fissazione maniacale, dalla monomaniacalità con cui il padrone dispone degli altri, nella sua indifferenza. Il gesto del servo è l’onda diacronica che attraversa il dominio dei padroni, la monotonia della loro Storia, la struttura stessa del potere e della comunicazione. Non agisce come i padroni, sostituendoli nel loro agire o impegnandosi in un conflitto senza tregua che ne rivendichi i diritti, ma appunto sottrae al mondo la dimensione dell’azione per restituire la vita a dei gesti nei quali si inciampa. Ecco che cos’è il masochismo qui: l’assenza di padroneggiamento, in cui non ci sono più parti, in cui non si è che come esistenze fatte delle occasioni e delle occorrenze che attraversano. Per questo non c’è rivendicazione, né vendetta. Non c’è qui nemmeno il sentore di qualcosa come dei diritti che possano essere invocati. Il masochismo non è qui che un’altra parola per dire l’essere smedesimati in cui vive la vita impersonale dei corpi. 6. La festa a cui S.A.D.E. invita è una festa infame,20. è la festa indecente dell’ignominia.21. La sua è un’arte delle variazioni in cui l’osceno possa essere vissuto nel presente assoluto che esso esige dal corpo. Qual è per Bene la grande tragedia del tragico? Che i suoi personaggi “non accettano il freddo, il crudele del comico kafkiano, sadiano o masochiano. Hanno sempre un’anima, ovvero una flatulenza da smaltire”.22. Credendo nell’anima, si condannano a smarrire la crudeltà del corpo. Quest’aspetto è decisivo e spesso misconosciuto. Circola in rete un’intervista in cui Bene racconta del suo rapporto con Buster Keaton. Sollecitato dall’intervistatore sulla figura di questo straordinario maestro del cinema, che appare spesso come un incapace mai all’altezza della situazione ma in realtà bravissimo in ciò che fa, Bene dà una risposta esemplare: i modi di Keaton non sono una critica della realtà, ma una “formula antichapliniana, acritica”. Anzi subito

rettifica dicendo che per Keaton bisognerebbe parlare non di una formula ma di “formule” e che il suo è un “modo stirneriano”, in cui sono soppresse tutte le distinzioni abituali, benché banali, come quelle di eroe positivo ed eroe negativo, bene e male ecc. Qui a valere è in fondo l’idea che il cinema non critica la realtà, così come essa è, ma ne rimette in questione l’esistenza stessa. Nell’intervista Bene arriva a formulare questa posizione dicendo “la realtà non esiste o almeno non come noi”: non esiste dunque né una realtà fuori di noi, a cui tendere, da desiderare. Né esiste un noi fuori dalla realtà, come quell’istanza che renderebbe possibile criticare la realtà stessa perché esterna a essa. Keaton lo mostra in maniera formidabile nei suoi pezzi di bravura, nei quali non cade: scivola e ha il momento del suo “voilà”, dice Bene. È una bravura, dice Bene, ma “bravura a che?”: Keaton in fondo rivela l’inutilità, il non finalismo, che sta dietro le sue azioni, anche quelle più spettacolari. A questo proposito Bene fa notare un aspetto fondamentale. Alla fine dei film, nelle ultime scene dell’happy-end che nel buio in sala precede la riaccensione delle luci, Keaton sta seduto con la donna finalmente conquistata con le braccia conserte, gli occhi al cielo e la testa di lei sulla sua spalla. Bene vede giustamente: qui non c’è rapporto con la sposa, Keaton non guarda mai colei che pure è sembrato essere per tutto il film la meta ambita, il motore stesso dell’azione. Non c’è alcuna condivisione, per usare una parola moderna: “Anche quando è accanto a una realtà, è appiccicato alla realtà”. Non c’è rapporto. Se Keaton perfora l’ambito della rappresentazione, con tutti i suoi compiti e i suoi rituali, è fondamentalmente perché non crede alla realtà ed è questa miscredenza e scetticismo che mette in scena: non c’è rappresentazione della realtà perché in fondo non c’è realtà da rappresentare. Teniamo a mente intanto questo: Keaton non cade, scivola. A differenza dell’idea di Klossowski (per cui la vita si ripete – per riaffermarsi nella sua caduta), qui l’elogio dell’eccesso conduce a un’arte della superficie. 7. È singolare che proprio riferendosi a Klossowski e alla messa in scena del Bafometto da parte del coreografo Maurice Béjart a Parigi (non senza una punta di polemica), Bene abbia decretato (in un testo di poche pagine dal titolo Ebbene, sì, Gilles Deleuze) che “non vi si muore mai dal morire (e invece il grande masochismo dell’attore (se grande) gioca l’orgasmo col

proprio io, scommette sempre bluffando con l’eterna lotta delle sue pulsioni contro il proprio Io)…”.23. Non si tratta di un vivere per la morte che è il postulato fondamentale dell’eroismo in piccola o grande scala. Questo, com’è noto, costruisce già in vita il suo monumento, il suo mausoleo. Giocare l’orgasmo con l’io ovvero contro il proprio io significa che qui l’orgasmo non ha nulla di erotico, ma è inevitabilmente pornografico. Bisogna bleffare contro il se stesso, c’è poco da fidarsi. Qui il riferimento al masochismo conterrebbe la possibilità di lasciar perdere la dinamica istituzionale che reggeva ancora tutta la relazione servo-padrone in S.A.D.E. e il suo correlato decisivo: il lavoro finalizzato a uno scopo (nello specifico allo scopo irrisorio, ma centrale, dell’eiaculazione del padrone). L’istituzione è dovunque, e in primis nel lavoro. Dato che pare che solo il lavoro – estremo oltraggio alla vita del signore e dunque massima trasgressione – possa procurargli l’erezione tanto attesa, esso ascende qui alla funzione di modello. Michel Foucault ha definito una volta quella di Klossowski una “parola trasgressiva”.24. Ma la trasgressione è un’istituzione dell’istituzione, un’istituzione al quadrato. La consonanza di istituzione e perversione, a cui Klossowski ha dedicato pagine importanti, che è la stessa coesistenza di istituzioni e crimine,25. trova nutrimento proprio in questo rimando all’al di là. “Casa, ufficio: d’un borghese / la giornata scimunita: / tribunale, la partita, / lo star male, la violenza / sindacale, l’ufficiale / giudiziario e nel finale / la querela è da giocar! / Sì, proviamo con la vita / quotidiana e si vedrà! / Sì, proviamo con la vita / quotidiana e si vedrà! / Al lavoro del piacere / senza remora e decoro / il piacere del lavoro / basta qui sostituir”.26. Il comico svolge qui la funzione che nell’aneddoto giocava il porno: è la rivelazione oscena dell’oggettivazione a cui l’istituzione comanda i corpi, oggettivazione su cui essa si regge ma di cui pure cancella le tracce a vantaggio di un discorso moralistico e assennato. Così come il soggetto non ammette che la sua oggettivazione è ancora una sua estrema risorsa. È proprio il piacere e la confusione tra piacere e godimento che va qui sostituito, ovvero evitato. “Così l’attore (e quando dico grande voglio intendere colui che supera ‘se stesso’) non può che frequentare la scena del dispiacere che gli è proprio.” Questa necessità del dispiacere segue dal fatto

che è da esso, e non dall’appagamento piacevole del piacere, che si svolge la differenza della ripetizione. 8. Se torniamo ora all’aneddoto della conversazione tra Bene e Klossowski siamo in grado di coglierne alcuni implicazioni che all’inizio abbiamo lasciato inespresse. Per esempio ci accorgiamo come la definizione di Klossowski potesse avere agli occhi di Bene – con quel suo riferimento all’al di là – qualcosa di inguaribilmente teologico, dunque trascendente. Con Sade Klossowski sa che “la nozione di Dio e la nozione del prossimo sono indispensabili alla coscienza del libertino”.27. Per Bene è necessario prendere atto che quel senso di verticalità e di “ipercristianesimo” a cui Klossowski non era affatto disposto a rinunciare appartiene ancora a una rappresentazione del desiderio e del corpo come intenzionalità desiderante.28. Per Bene l’immanenza dei corpi parla per sé. Questa immanenza dei corpi a se stessi annulla qualsiasi prossimità (i corpi non sono prossimi gli uni agli altri), così come annulla qualsiasi distanza (non esiste la lontananza vagheggiata, ma non attraversabile del divino). Non è sullo spazio (poco, tanto, non importa) che si gioca questa partita. Né la negazione delle vite procede da altro se non dall’eros stesso che ne accompagna come eccesso il desiderio. Non ha niente del “potere trascendente di negazione” su cui Sade fondava la sovranità sull’uomo:29. se c’è negazione essa procede da ciò che permette l’incontro sempre mancato tra i corpi stessi. L’osceno la contempla e, al tempo stesso, la realizza. Potremmo dire che l’osceno ne costituisce la realizzazione. Ciò per cui non c’è appunto rappresentazione né concettualizzazione: “L’‘osceno’ è per definizione quanto si sottrae al concetto. In quanto al ‘comico’ non va mai confuso con la ‘commedia’ o, peggio ancora con il ‘buffo’. […] Il comico è tutto l’opposto. Quanto di più asociale e libertino si possa concepire, se mai fosse concepibile”.30. Di quell’orizzonte parla appunto anche il tragico in cui i drammi ricevono un senso superiore. Sono sublimati dalla cornice in cui la tragedia li inscrive. Si tratta invece di sospendere il tragico.31. Di non cedere alla sua retorica melliflua. Qui parla l’assoluto di un presente che non sta ad alcuna rappresentazione. È l’assoluto di un godimento? Si dirà: di un godimento che pare non realizzarsi masochisticamente che nel suo rimando, punto cieco, osceno, attorno al quale si organizza tutta la scena. Se questo

godimento è un impossibile, è solo perché non corrisponde a nessuna condizione di possibilità: “Non ha passato, non ha testo a monte, non ha un progetto, non ha messaggi da lasciare, non ha socialità e nessuno ‘ismo’. Non conosce il prima e non conosce il dopo”.32. Qual è il tempo di questo impossibile? “È l’atto possibile solo nell’immediato (cortocircuitato presente). Non fa futuro-passato.”33. Assoluto presente di un atto reiterato. È l’immediato dell’atto. Porno è allora l’ineliminabile dei corpi. È il loro eccesso. Ma in questo eccesso che li costituisce, non tendono a nulla. Invece quando cercano di costruirsi un racconto biografico, quando cedono alla tentazione padronale di avere o di essere una storia, questo loro tentativo non può mancare del suo correlato comico. Se i corpi si vendono per qualcosa – che sia per un’ambizione o per ottenere un riconoscimento – alla fine non è che una falsa moneta quella che ricevono in cambio del loro eccesso. Gianluca Solla insegna Filosofia teoretica all’Università di Verona. 1 Pierre Klossowski, Sade mon prochain, preceduto da Le philosophe scélérat, Seuil, Paris 1967, p. 19. 2 Ivi, p. 18. 3 C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano 1998, p. 35. 4 Ivi, p. 71. 5 Cfr. M. Surya, L’imprécation littéraire, Verdier, Paris 1999, pp. 36-41. 6 C. Bene, G. Deleuze, Sovrapposizioni, Quodlibet, Macerata 2002, p. 85. 7 Ivi, p. 14. 8 C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 111. 9 Jean-Paul Manganaro, in AA.VV., Carmelo Bene. Il teatro senza spettacolo, Marsilio, Venezia 1990, p. 29. 10 C. Bene, S.A.D.E. ovvero: Libertinaggio e decadenza del complesso bandistico della Gendarmeria salentina. Spettacolo in due aberrazioni, in Opere, Bompiani, Milano 2004, pp. 279349. 11 Ivi, p. 326. 12 C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 86. 13 T. Reik, Il masochismo nell’uomo moderno (1940), trad. di L. Volpatti, SugarCo, Milano 1963, p. 94. 14 C. Bene, Opere, cit., p. 293. 15 C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 245. 16 C. Bene, Opere, cit., p. 283. 17 C. Bene, G. Deleuze, Sovrapposizioni, cit., p. 112. 18 Ivi, p. 95. 19 Camille Dumoulié, in AA.VV., Carmelo Bene. Il teatro senza spettacolo, cit., p. 11. 20 C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 13. 21 Ivi, p. 29.

22

Ivi, p. 30. C. Bene, G. Deleuze, Sovrapposizioni, cit., p. 121. 24 M. Foucault, “La prose d’Actéon” (1964), in Dits et écrits, Gallimard, Paris 2001, vol. I, p. 364. 25 Cfr. P. Klossowski, “Sade et Fourier”, in Les derniers travaux de Gulliver, seguito da Sade et Fourier, Fata Morgana, Montpellier 1974, pp. 44 e 51. 26 C. Bene, Opere, cit., pp. 322-323. 27 M. Blanchot, Sade et Restif, Éditions Complexe, Bruxelles 1986, p. 43. Cfr. anche P. Klossowski, “Sade et Fourier”, cit., p. 58. 28 La formula “ipercristianesimo” è di Georges Bataille, rivolta a Nietzsche. Nella sua lettura Michel Surya ha proposto di estenderne l’uso a Klossowski. Cfr. M. Surya, L’imprécation littéraire, cit., p. 39. 29 M. Blanchot, Sade et Restif, cit., p. 43. 30 C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 31. 31 Ivi, p. 137. 32 Ivi, p. 72. 33 Ibidem. 23

Singolarità, perversione, immanenza FEDERICO LEONI

Il dio feticcio La perversione è obliqua, sinuosa, tortuosa. Non nega qualcosa, non afferma qualcosa. Piuttosto svia, devia, piega. Che cosa svia, che cosa piega? La sua non è una posizione ma un’operazione o un insieme di operazioni. Ma che tipo di operazioni? Se stiamo alla psicoanalisi, nevrosi e psicosi sono anzitutto posizioni, posizionamenti soggettivi. Scrive per esempio Lacan: “Il nevrotico, isterico o ossessivo, o più radicalmente paranoico, è colui che identifica la mancanza dell’altro con la sua stessa domanda”;1. viceversa: “Nella follia, quale che ne sia la natura, ci tocca riconoscere […] la libertà negativa di una parola che ha rinunciato a farsi riconoscere”.2. In altri termini, la nevrosi sta davanti a qualcosa, la psicosi non arriva a star davanti a quel qualcosa, che Lacan chiama legge, o altrove mancanza, o castrazione simbolica, o parola dell’altro. Lo stare è però decisivo in entrambi i casi, anche quando lo è nel senso dell’impossibilità di stare. L’uno la assume, quella cosa, vi sottomette la propria vita soggettiva, o piuttosto diventa un soggetto assumendola, sottomettendovisi, facendola propria. L’altro la costeggia senza incontrarla, o la incontra come un geroglifico indecifrabile, inutilizzabile. Se la nevrosi e la psicosi sono posizioni, modi di stare di fronte a quella mancanza, a quella legge, quelle della perversione non sono posizioni ma operazioni. La perversione si industria senza sosta, maneggia e rimaneggia i suoi materiali, fabbrica e rammenda continuamente quel qualcosa che la

nevrosi incontra e assume, e la psicosi non incontra e non assume. Se per la nevrosi e per la psicosi la legge o la mancanza sono un dato, anche nel senso che sono qualcosa che è stato dato, che perciò proviene da altro o da altrove, per la perversione sono invece un fatto, anche nel senso che sono qualcosa di fabbricato, qualcosa che anzi va continuamente costruito, congegnato, architettato. O forse si dovrebbe dire: creato. Per questo la perversione è complessivamente illuminata dal feticismo, che per tanti aspetti non è che una sua provincia. Non si comprende la perversione se non si comprende la sua dimensione fabbrile. La prima interpretazione che la psicoanalisi ha avanzato intorno alla perversione è in ogni senso esemplare.3. Freud mette in scena un bambino che si imbatte nella madre nuda e non ne sopporta la visione, perché quella visione gli rivela una mancanza minacciosa. La donna è priva di pene. Potrebbe un giorno esserne privato a sua volta? Il piccolo feticista distoglie lo sguardo, lo lascia vagare lungo il corpo della madre, si ferma dove trova qualcosa che gli dà sostegno. “Come sostituto del pene che manca alla donna, si è creato un feticcio”,4. commenta Freud. Poco importa che l’insopportabile mancanza intravista nell’altro riguardi il pene, come nella prima ipotesi freudiana, o un qualsiasi altro significante fallico. L’essere non è dato, l’essere esige creazione per poter essere, è questa l’esperienza fondamentale del feticista. In fondo l’operazione della perversione è perversa soprattutto perché fabbrica ciò da cui dovrebbe provenire ogni fabbricazione, perché costruisce l’ambito stesso nel quale dovrebbe muoversi ogni creazione. Crea il presupposto. Lo fa essere après coup. È in questo disordine del tempo, che si annida tutta la hybris della perversione. Non solo la psicoanalisi, anche l’antropologia si sofferma da sempre sullo stravolgimento ontologico che il feticismo porta con sé. È noto che i commercianti portoghesi sbarcati nel Cinquecento sulle cose africane avevano reagito con sconcerto al culto che le popolazioni locali tributavano alle piccole, malcerte divinità che esse ricavavano dall’assemblaggio di pezzi di legno e lembi di stoffa, perline e conchiglie. “Dei facticii”, li avevano prontamente ribattezzati. Da cui il termine divenuto classico, feticci. Come potete credere, chiedevano gli europei agli africani, alla potenza di questi dei che avete appena finito di fabbricare con le vostre mani? La risposta degli africani avrebbe potuto rovesciare facilmente

l’argomento europeo: come potremmo credere ai poteri di un dio che non abbiamo fabbricato con le nostre mani, come potremmo confidare in un dio già fatto?5.

Il dio cadavere “Dio è morto.”6. Da Nietzsche in poi questa frase risuona senza sosta insieme all’altra constatazione nietzschiana: d’ora in poi si tratterà di fare i conti col “cadavere di Dio”.7. Un cadavere di cui il meno che si possa dire è che è ingombrante. Da un certo punto di vista, del resto, la filosofia non si è sempre collocata in quel punto in cui Dio è morto, in quel punto in cui al posto di Dio c’è piuttosto un archivio, un corpo di idee e tradizioni, una serie di materiali che bisognerà riorganizzare in un’altra verità, ricomporre in un’altra forma di esperienza? Senza dubbio è nella scia di questa eredità nietzschiana che si collocano tutti i pensatori che questo fascicolo raduna in una strana costellazione. Bataille, Klossowski, Foucault, Deleuze, Blanchot, tutti loro capiscono che davanti all’annuncio della morte di Dio le scorciatoie sono inutili, e che più inutile di tutte è la scorciatoia principe, tutt’ora moneta corrente in tante discussioni. Se Dio è morto, tutto è permesso. Se Dio è morto, tutto è possibile. Ecco la grande scorciatoia, per quanto ammantata di abissale drammaticità. Nichilisti allegri e tristi, postmoderni gaudenti e pensosi reazionari si danno ogni volta appuntamento intorno a questo presunto scatenamento del possibile, ora per denunciarlo ora per esaltarlo. Quando Dio viveva, così ragionano tanto i detrattori quanto i fautori dello scatenamento, una linea netta solcava il campo degli esseri e i tragitti delle esistenze, e gli eventi e i gesti erano nitidamente ripartiti nelle due regioni del possibile e dell’impossibile. Ora invece il guardiano della soglia è assente, l’impossibile dilaga nella regione contigua, diventa felicemente praticabile o sciaguratamente disponibile. Perversione generalizzata, dice qualcuno, sempre in campo lacaniano.8. Ma non è curioso che a diventare possibili, dopo la morte di Dio, siano gli impossibili di un tempo? Non è singolare che i possibili e gli impossibili rimangano quindi gli stessi di quando Dio reggeva l’universo, o di quando, fuor di metafora, i nostri saperi e le nostre esperienze disponevano di un

qualsiasi significante padrone? In effetti non è questa perversione, non è questo scatenamento del possibile un tempo impossibile a occupare la scena filosofica dei Bataille, Klossowski, Foucault, Deleuze. C’è qualcosa come un’altra perversione, qualcosa come un altro scatenamento del possibile, che quella costellazione di pensatori cerca di mettere a fuoco. Misurarsi con la morte di Dio significa misurarsi con quest’altra perversione, con quest’altro scatenamento del possibile. Un campo di esperienza si apre, in cui nuovi possibili si rendono possibili, nuovi impossibili si disegnano a margine di quei possibili.

Il dio virtuale Che proprio la questione del possibile sia il terreno sul quale verificare lo stato di quella difficile liquidazione di Dio, lo si comprende bene se si rilegge un breve, memorabile scritto di Henri Bergson intitolato Il possibile e il reale.9. Bergson del resto è l’altro grande antefatto che va convocato, quando si cerca di rispondere alla domanda che chiede che cosa tenga insieme la costellazione “perversa” appena evocata. Bataille, Klossowski, Caillois, Deleuze, Foucault, Blanchot, Barthes, Sollers, tutti loro si collocano dopo Nietzsche ma anche dopo Bergson. Tutta la questione della fabbricazione, della natura fabbrile della perversione, della sua propensione a creare feticci, va ricollocata in questa prospettiva. L’ontologia perversa ha qualcosa di bergsoniano, e Bergson è il pensatore di quel regime del possibile che è proprio della perversione. Almeno, di quella perversione pura, felice, riuscita, che è quella della filosofia. In una decina di pagine Bergson liquida il possibile come una categoria inconsistente, semplice retroflessione di qualcosa che qui e ora è concreto, reale, attuale. “Il possibile non è altro che il reale, con, in più, un atto dello spirito che ne rigetta l’immagine nel passato una volta che esso si è realizzato.”10. C’è qualcosa di reale sotto i nostri occhi, noi lo rileviamo isolandolo dal suo contesto e dal suo divenire, infine lo proiettiamo, lo immaginiamo all’indietro, lo ipotizziamo nel passato di quel presente che vorremmo spiegare, mantenendolo però del tutto identico a com’è ora. Ecco che ai nostri occhi quel qualcosa di attuale, fantomaticamente retrocesso nel passato, inizia a valere come possibile, come prefigurazione o forse prescrizione di ciò che, guarda caso, ci ritroviamo sotto gli occhi.

Deduciamo il reale da se stesso. Fingiamo una genesi dell’attuale che è tutta astratta, essenzialmente sterile. Ciò che si realizza era già tutto contenuto nelle premesse, iniziamo a pensare. Il possibile che si è realizzato era semplicemente il necessario. E tutti gli altri possibili erano semplicemente impossibili. In un simile universo, nulla di nuovo accade mai. O come scrive Bergson, il tempo “non serve a niente”.11. A che cosa servirebbe invece il tempo, se fosse pensato come tempo concreto, come tempo fattivo, come tempo operativo? Bergson risponde con una battuta che ha qualcosa di perverso. Il tempo “impedisce che tutto sia dato”.12. È quanto dire che il tempo trattiene, e trattenendo consente la fabbricazione dell’essere, anzi impone che l’essere coincida con la perenne creazione dell’essere. Anzitutto, il tempo impone la fabbricazione di quel primo feticcio, di quel primo artificio di ogni altro artificio, che è la possibilità della possibilità. Il tempo implica in altri termini la fabbricazione di quel regime di possibili a cui ogni altra fabbricazione attingerà un singolo possibile per tradurlo in atto, lasciando intatti e inattuati tutti gli altri. Una sola volta nel suo scritto Bergson introduce un termine destinato a grande fortuna contemporanea, filosofica e non solo filosofica. “Virtuale.”13. Il virtuale bergsoniano è questo possibile in quanto si rende possibile, in quanto sta divenendo possibile, in quanto va fabbricandosi insieme alla fabbricazione che esso rende possi-bile, alla creazione che sembrerà attingervi la propria preliminare possibilità. Più esattamente, virtuale è il divenire che diviene, è la sua concretezza processuale. È il corpo del processo che qui e ora sta agendo, e che proprio in quanto sta agendo qui e ora è un puro presente senza passato e senza futuro, un corpo puramente “incorporeo”.14. Che, difatti, un passato si dia, un futuro si dia, è un effetto della soglia stessa, del suo essere in atto qui e ora, del suo stare divenendo. Poiché qualcosa qui accade, allora qualcosa emerge nel passato, iniziando a valere come il passato di questo presente. Poiché qualcosa qui accade, allora qualcosa prende corpo nel futuro, iniziando a valere come il futuro di questo presente. Qualcosa qui e ora accade, di incorporeo, e solo per questo accade che laggiù nel passato qualcos’altro prenda corpo, appaia come il corpo e il supporto, la materia e la potenza preliminare di questo atto qui e ora in atto, oppure che laggiù nel futuro qualcosa si animi e appaia come il senso e la direzione di questo atto. Il passato e il futuro, la materia-potenza

di cui si nutre il processo e la forma-entelechia in cui si condensa il processo non sono qualcosa di dato, non sono qualcosa a partire da cui o verso cui il processo si muove. È il processo che se li dà. “È il reale che si fa possibile, e non il possibile che diviene reale”, scrive Bergson.15. Sicché virtuale è il nome del reale in quanto diviene, o del reale tout court. Aristotele nella Fisica faceva un esempio semplice e celebre.16. Bergson direbbe forse: troppo semplice. L’architetto costruisce la casa usando pietre o mattoni, componendole in una forma complessiva, e il processo va appunto dalla materia, dalla potenza, all’atto, all’entelechia, alla forma compiuta. Ora, è come se Bergson ragionasse a rovescio, o mostrasse che proprio Aristotele ragiona a rovescio rispetto a quello che abbiamo appena chiamato il reale. È perché c’è un architetto che guarda alla casa come sarà, che qualcosa che giaceva nel paesaggio circostante inizia a valere come materia, come pietra da costruzione. Si potrebbe obiettare naturalmente che le pietre erano già là, anche prima che l’architetto venisse al mondo. E che se parlare di pietre sembra troppo antropomorfico, e rende facile evocare l’architetto come condizione di possibilità dell’interpretazione delle pietre come pietre da costruzione, potremmo sbarazzarci del problema dicendo che ciò che c’era già era piuttosto una materia informe, una potenzialità assolutamente prima, ignara di ogni intenzione umana e animale e persino vegetale. Ma Bergson non avrebbe difficoltà a rovesciare l’obiezione. C’è una materia perfettamente informe solo in forza di uno sguardo perfettamente informe, c’è una potenza perfettamente indeterminata solo in forza di un atto perfettamente indeterminato. La potenza, il possibile, la serie delle prefigurazioni perfettamente aperte e indifferenti, proprio questo è il primo e principale oggetto di costruzione, non il campo che la costruzione deve presupporre alle proprie spalle, non il campo in cui la costruzione deve ritagliare la propria nicchia di attualità. Ogni atto crea in primo luogo la propria potenza, ogni presente raffigura in se stesso il proprio passato, ogni fabbricazione è propriamente creazione ex nihilo. Senza un atto qualsiasi, niente varrebbe come materia. La materia prima, assolutamente inaugurale, perfettamente impregiudicata, è l’atto stesso. Lui sì è concreto, lui sì è materiale, lui sì è condizione di ogni condizione. Non è l’operazione stessa della perversione, questa sistematica sostituzione del possibile come possibile dato al possibile come possibile fabbricato, questa

riconfigurazione integrale e senza scarto che il virtuale opera nel proprio stesso corpo incorporeo, raffigurandovisi ogni volta di nuovo come possibile e insieme come più che possibile, come virtuale e insieme come attuale? Non è propriamente perverso il fatto che questo non sia solo un vedere “come”, ma un “fare come”, un piegare l’essere a una sua infinita modalizzazione, un risolvere la sostanza stessa nell’incessante evento dei suoi infiniti modi?

Il dio superficiale Una pagina della Gaia scienza è particolarmente celebre. “Abbiamo ucciso Dio”, scrive Nietzsche, e subito si chiede sgomento: “Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso?”17. Se Dio muore, manca un criterio, manca la possibilità di tracciare una linea, manca la possibilità di guardare la vita da fuori e di decidere da fuori che cosa le sia d’aiuto e che cosa le sia di ostacolo, che cosa le faccia bene e che cosa le faccia male, che cosa vada dichiarato possibile o permesso, e che cosa impossibile o vietato. Se dio muore, viene meno la possibilità di un punto di vista, e insieme di qualcosa che faccia da oggetto a quella vista. Un punto di vista è per definizione un punto lontano dall’oggetto guardato, un punto che proprio stando a distanza dall’oggetto ne fa una cosa visibile, un oggetto di contemplazione, un fenomeno che cade sotto il nostro giudizio. Se Dio muore, viene meno la possibilità di avere un punto di vista sulla vita. La vita diventa unico punto di vista su se stessa, unico metro a se stessa. Non è il sogno della perversione, che la propria vita sia la sola istanza a cui riferire la propria vita, che il proprio sentire sia l’unico metro a cui conformare il proprio sentire? Ma dopo Nietzsche questo sogno è un sogno inaggirabile, non è il sogno della perversione se non perché è il sogno di una filosofia costretta a ripercorrere le operazioni ormai inevitabili della perversione. Una vita non smetterà di ascoltarsi, di valutarsi, di giudicarsi, ma non potrà farlo d’ora in poi che dall’interno, dall’intimo della propria materia, sulla base della sola intensità del proprio sentire. Non ci sarà un occhio divino, a sorvolare il

paesaggio di un’esistenza registrandone la materia sensibile in un tracciato soprasensibile. Non ci sarà una memoria superiore, a ricapitolare la storia di un’esistenza in un racconto di cui valutare il sensato o insensato rapporto di mezzi e fini. Ogni vita sarà qualcosa come una superficie assoluta, come scriveva Raymond Ruyer, un autore che Deleuze e Lacan amavano, e che anche un Bataille o un Klossowski avrebbero forse potuto sentire affine.18. Ogni vita sarà una superficie perfettamente piatta, assolutamente immanente a se stessa, che per farsi punto di vista su di sé deve sollevarsi in se stessa e prodursi come superficie ondulata, come ondulazione di affetti che tendono a divenire concetti, prese di prospettiva, formazioni di sorvolo, senza però arrivarci mai. L’immanenza di una superficie a se stessa, il sorvolo di una superficie da parte della superficie stessa, è questa la figura di trascendenza che il nostro cielo disabitato ci obbliga a frequentare. Figura di trascendenza che si produce nonostante tutto, e che non smette mai a suo modo di prodursi, non più tramite distanza, cesura, taglio, bensì tramite inerenza, implicazione, oscillazione, ripiegatura. Così, se questa vita che è unico criterio a se stessa è il sogno della perversione, l’immediata implicazione, il rovescio improvviso di questo sogno è che la perversione vuole farsi punto di vista, ambisce a farsi linea di demarcazione, sogna la figura di una legge. Né capace di vita solitaria, né incline alla vita comune, la vita perversa offre lo strano movimento di un essere che si dispiega, ma in se stesso. Di un essere che si estende, ma senza uscire da sé pur uscendone continuamente e producendosi come la continuità stessa. Che si avvolge senza sosta intorno al proprio evento, anche se proprio avvolgendosi in sé si ritrova a disegnare un campo di forze e di significati che lo estendono infinitamente. Quel campo non è affatto presupposto al proprio evento, come una forma a priori, ma accade insieme al proprio evento, lo accompagna come un predicato indispensabile, un accidente necessario. Fine del trascendentale, sostituzione del trascendentale con un concetto simile e insieme dissimile, quello di una genesi, di una differenziazione senza tagli, di una gemmazione che procede in maniera spiraliforme. Perché lo spazio in cui si inoltra non è sgombro, aperto, ma chiuso, ripiegato, avvolto. E proprio perché avvolto intorno a quella differenziazione, anche illimitato.

Il dio bambino Affrontiamo due figure chiave di questa strana etica dell’immanenza, di cui la perversione è diventata paradigma una volta capitata tra le mani di Bataille o di Klossowski, di Deleuze o Foucault o Barthes. Due figure che chiameremo dell’infanzia e della complicità. Prendiamo la prima figura da Gilles Deleuze. Non è un mistero, per i lettori di Logica del senso, che l’intero libro sia un libro sull’infanzia, che l’infanzia giochi un ruolo strategico nella costruzione deleuziana. Che il bambino sia un emblema perfetto della perversione è del resto un portato maggiore dell’avventura di Freud, che nel momento in cui definisce il bambino come un “perverso polimorfo”19. non solo sembra specificare la perversione del bambino tramite il suo polimorfismo, ma sembra quasi risolvere la perversione nel polimorfismo. Il bambino è perverso perché polimorfo, e forse la perversione stessa è perversa perché frequenta con particolare intensità questa dimensione metamorfica per cui ogni forma è sul punto di trascorrere in un’altra forma, ogni forma è sempre sul punto di prendere forma. Ma si sa che per Freud l’infanzia è solo uno stadio all’interno di una vicenda più ampia, un passaggio destinato a risolversi in un approdo conclusivo. Deleuze eleva quel passaggio ad assoluto, innalza la provvisorietà dell’infanzia a condizione fondamentale dell’esperienza, fa del polimorfismo non un’indifferenziazione momentanea ma una genesi perenne di differenziazioni. Anche per questo l’eroina del libro è Alice, la bambina di Lewis Carroll, col suo sguardo che sembra aprirsi per la prima volta sul mondo, e che a ogni nuova situazione continua ad aprirsi sul mondo sempre per la prima volta. Non che Alice non abbia memoria, non accumuli un qualche sapere sul mondo, non disponga di un certo numero di stratagemmi a loro modo efficaci. Ma quella sua memoria si mantiene sempre sul punto di un’insorgenza insormontabile, quel suo sapere è immerso in un presente che non si versa mai del tutto nell’ampolla che le clessidre riservano al passato e al possesso. I suoi stratagemmi sono stratagemmi di una sola volta, vanno reinventati a ogni occasione perché anche il mondo in cui sono stati efficaci si ricrea in continuazione.

Apriamo la sesta serie di Logica del senso, “Sulla messa in serie”. Deleuze cita Lewis Carroll: “La cosa più strana era che ogni volta che Alice fissava lo sguardo sopra uno scaffale, quello scaffale era sempre vuoto, benché tutti gli altri fossero zeppi fino a traboccare. ‘Ma qui le cose scorrono’, disse in tono accorato dopo aver passato un paio di minuti a inseguire un oggetto grande e luminoso, che a volte sembrava una bambola e a volte una cassetta, e che si trovava sempre nello scaffale sopra quello che Alice guardava. ‘Ma sai che faccio ora? Lo voglio seguire fino all’ultimo scaffale. Non potrà certo attraversare il soffitto!’ Ma anche questo tentativo fallì. La cosa attraversa il soffitto in tutta tranquillità, come se non avesse mai fatto altro”.20. Siamo in presenza di una sorta di genesi, di incipiente organizzazione di una struttura. Qualcosa come una scena si disegna per la prima volta. Abbiamo un gioco di pieni e vuoti, un insieme di movimenti ancora enigmatici. Gli scaffali che Alice osserva sono pieni di oggetti il cui profilo è appena suggerito. E poi c’è una specie di vuoto, un posto vacante sugli scaffali, stranamente mobile. È come se su quegli scaffali ci fosse anche una merce rara, un oggetto che non sta sullo stesso piano degli altri, essendo di più e di meno di un oggetto qualsiasi. Forse anche per questo l’oggetto misterioso sembra avere due volti. “A volte sembrava una bambola, a volte sembrava una cassetta”, scrive Carroll. Questa cosa rara e strana, eccessiva e mancante, si sposta continuamente, rapidamente, ma non casualmente. Appena raggiunta, si sottrae. Inseguita, acchiappata una seconda volta, sfugge di nuovo. Non c’è dubbio, l’oggetto misterioso è lo sguardo di Alice. Quando lo sguardo si incontra, per esempio in uno specchio, non è forse allora che si sfugge, si cancella, si nega? Non è in quell’istante che lo sguardo che cerca se stesso come sguardo, trova nello specchio tutt’altra cosa, un occhio che non guarda affatto, una biglia di vetro colorato, l’ammiccare di un morto? Sì e no, in effetti. Alice sfiora il proprio sguardo nella scena, lo trova e insieme non lo trova, lo vede e insieme non lo vede. Vede non solo l’occhio ma anche lo sguardo, non solo la biglia di vetro ma una cosa viva o quasi viva. La scena danza insieme al geometrale che la istituisce, si sposta allo spostarsi di Alice, in ogni istante interamente ricalcolata dal suo movimento. Alice vede il suo sguardo senza vederlo, lo vede come una pura concavità nella scena, una mancanza che, diceva Lacan, “manca esattamente al suo posto”,21. a suo modo c’è e si fa sentire.

Così, per un verso lo sguardo di Alice si fa scena, si fa cosa sugli scaffali, si rende visibile come oggetto tra gli oggetti, cade tra le cose prendendovi tendenzialmente posto. Al termine della caduta troviamo la cassetta, troviamo lo sguardo che è sempre anche questo divenire cosa guardata, peraltro senza mai divenire definitivamente cosa, senza mai farsi vedere appieno. Prima o poi il posto vuoto si sposta. Per un altro verso, lo sguardo di Alice cade, contemporaneamente, fuori da quella scena che si va costruendo, e che si va costruendo anche grazie a questo cader fuori scena dello sguardo. La bambola indica questa seconda direzione, questo divenire soggettivo dello sguardo, questo sollevarsi sempre incompiuto, sempre precario, della scena a punto di vista su se stessa. La scena diventa Alice, intanto che Alice diventa scena. Lo sguardo diventa occhio, intanto che l’occhio diventa lo sguardo di Alice, di una bambina con nome e cognome, di un soggetto che sta di fronte a un oggetto o a un insieme di oggetti o a un mondo, come si suole dire. Tutto il passo di Carroll ha a che fare con questo doppio divenire. C’è qualcosa come un movimento unico, che proprio accadendo in un sol colpo si sdoppia, procede in due direzioni divergenti, verso la cassetta dunque verso la bambola, verso l’oggetto dunque verso il soggetto, verso il suo soggettivarsi dunque verso il suo oggettivarsi, verso il suo divenire significato dunque verso il suo divenire significante. Doppie serie che si creano in virtù di quel punto che sfugge loro, doppie serie che si annodano l’una all’altra in virtù di quel nodo che le ha divise e le allontanate l’una dall’altra. Simmetrica distribuzione di elementi che iniziano a valere gli uni in rapporto agli altri proprio in forza di quell’elemento che non ha posto tra loro, ma in cui e grazie a cui essi trovano posto e ordine. La bambola-cassetta, questa cosa polimorfa e instabile, questo oggetto propriamente perverso, stabilisce la corrispondenza ordinata degli oggetti e dei soggetti, delle cose e delle parole, dei significati e dei significanti. Definisce anzitutto la prima corrispondenza: una scena, e qualcuno che la osserva. Ecco delle cose sullo scaffale, ecco davanti a loro la bambina che guarda. E poi, definisce tutte le altre corrispondenze, comprese quelle che neppure vengono nominate. Ecco che ogni oggetto diviene ciò che è. Il libro è un libro e non un cappello, il cappello è un cappello e non un vaso di fiori, e così via. Ogni cosa coincide finalmente con se stessa, o meglio ogni

cosa diviene finalmente un significante che coincide col suo significato, anzitutto perché ogni cosa è divenuta la giunzione di un significante senza significato e di un significato senza significante. Sembra ovvio? Certo che lo è, a cose fatte. Prima, però, bisognava che le cose si facessero. Bisognava che qualcosa diventasse un significante, e che qualcosa diventasse un significato. Nei termini del suo saggio su Il possibile e il reale, bisognava che qualcosa diventasse materia per qualcos’altro, e che qualcos’altro diventasse forma per quel primo qualcosa. Il mezzo, e anche il prezzo, di questo doppio divenire divergente, è appunto la caduta dell’oggetto perverso, la sua risoluzione, la sua castrazione. O cassetta o bambola. Cancellazione tendenziale, peraltro. Che è quanto dire insistenza perenne, ai margini del campo e anzi al cuore del campo, dell’oggetto perverso. L’oggetto perverso, lo sguardo, il virtuale, “circola tra le serie”, dice Deleuze. O le serie circolano in lui, si muovono nel campo gravitazionale del suo evento, non cessano di transitare attraverso il suo geometrale immobile. Se guardiamo da questo punto di vista la questione della nevrosi e della psicosi, da cui partivamo poco fa, la conseguenza è una sola. L’ordinato corrispondersi dei significati e dei significanti (nevrosi) o lo slittare inarrestabile delle due catene l’una sull’altra (psicosi) presuppongono entrambe uno spazio in cui i significanti e i significati si costituiscono come tali o si stanno costituendo come tali. E quello spazio è la struttura di ogni struttura, è la perversione come strutturazione in corso della divisione nevrotica significante/significato e dello slittamento psicotico significante/significato. Proprio su questo punto, si potrebbe aggiungere, si differenziano la perversione come paradigma filosofico e la perversione come condizione clinica. Il perverso in senso clinico, che vuole fare della sua vita il metro unico della sua vita, è un soggetto che vuole scrivere la legge, è qualcuno che suppone di poter progettare da cima a fondo una nuova struttura.22. La perversione come paradigma filosofico mostra che il soggetto è semplicemente una delle cose scritte dalla legge che va scrivendosi, è solo uno degli oggetti disposti dalla struttura che va strutturandosi. Nella scena deleuziana non è Alice a governare il gioco, ma il suo sguardo. Il suo sguardo in quanto sta divenendo il suo, senza esserlo ancora.

Il dio oltraggiato Questo ci porta alla seconda questione, la complicità. Alice è una singolarità, è l’evento di una struttura che la struttura non può dire e che pure non smette di suggerire, è il virtuale che non cessa di creare i suoi possibili e impossibili essendone ricreato a ogni passo. Ma come si esprimono queste vite che hanno se stesse come unico metro, come comunicano queste singolarità che sono paradigma esclusivo di se stesse? Non comunicano affatto, si direbbe. Ed è sul filo di questa conclusione, adeguata e insieme inadeguata, che va collocato il testo forse più bello che l’intera stagione speculativa di cui parliamo abbia dedicato al marchese de Sade. Lo ha scritto Pierre Klossowski e si intitola Il filosofo scellerato. Da un certo punto di vista il saggio di Klossowski è un saggio sul linguaggio, una meditazione sul modo in cui comunicano quegli esseri della singolarità che sono i perversi. Ma è anche un saggio che di fatto liquida Sade, o almeno il modo in cui Sade e i sadiani hanno inteso il nocciolo di una certa esperienza.23. L’essenziale della perversione non è sadico, e non lo è neppure l’essenziale della sfida che la perversione lancia alla filosofia. Nelle pagine centrali del Filosofo scellerato, Klossowski sottolinea nel gesto sadiano una difficoltà strutturale, una difficoltà di natura anzitutto linguistica. Scrive Klossowski: “Sade inventa un tipo di perverso che parla a partire dal suo gesto singolare in nome della generalità”.24. Tutti lo sanno: nei suoi romanzi Sade non smette di descrivere, teorizzare, argomentare, dimostrare. Non è un gesto paradossale? Come può una singolarità argomentare in nome di una generalità? Della singolarità non ne sarà più nulla, se parlare significa mediare, dare rappresentazione universale a qualcosa che è dell’ordine del particolare, misurare col metro di un segno estrinseco qualcosa che a contatto con quel metro o quel segno si dividerà istantaneamente e simmetricamente. Da una parte ciò che corrisponde a quel metro e che non apparirà più come singolare ma come universale, dall’altra qualcosa che non corrisponde a quel metro e che a sua volta non apparirà più come singolare ma come negativo dell’universale, dunque ancora come universale. Di qui, per inciso, la reiterazione a cui Sade è costretto, l’eterno ricominciare delle sue dimostrazioni, l’infinito sprofondare in descrizioni sempre più crude. “Se il perverso parla, si chiede

Klossowski, può forse dimostrare in nome della generalità che non c’è generalità?”25. Ma l’oltraggio sadiano, a ben vedere, non ha il suo unico oggetto nel linguaggio. Sade deve trasgredire in modi sempre più atroci non solo il logos ma il nomos, non solo la parola ma la legge. Intollerabile è tutto ciò che è rapporto, proporzione, commisurazione, tutto ciò che lega cosa a cosa, che accomuna evento a evento. Da questo punto di vista, la ferocia della devastazione sadiana non è che il grido di dolore della singolarità davanti alla macchina della mediazione, che macina la singolarità nel gioco circolare del particolare e dell’universale. È per questo che Georges Bataille ha potuto osservare in un lampo che il linguaggio di Sade è molto più “il linguaggio della vittima” che non quello del carnefice.26. Una singolarità vuole parlare altrimenti, e forse vuole abitare altrimenti il linguaggio stesso, la legge stessa. Una singolarità non funziona così come la dialettica suppone, e neppure il linguaggio funziona così, almeno se ci collochiamo dopo la morte di Dio, dopo la caduta dell’illusione del fuori, dopo la liquidazione della figura del sorvolo. Il linguaggio potrebbe non essere un metro esteriore, che cala dall’alto sul paesaggio delle cose e delle esistenze. La legge potrebbe non essere un rapporto trascendente, che si posa sugli eventi soppesandoli dall’alto della sua estraneità. Che accadrebbe se pensassimo che proprio le cose si sollevano in se stesse facendosi figura, che proprio gli esseri si sollevano in se stessi divenendo legge o linguaggio? Assisteremmo a qualcosa come una genesi figurale del linguaggio, toccheremmo con mano una sorta di perdurante sostanza immaginale della mediazione, capace di innervare ogni rapporto, ogni proporzione fino alle estreme propaggini della loro logicizzazione. Il segreto del simbolico, il simbolo del simbolico sarebbe dunque un’immagine?

Il dio complice Quello strano romanzo filosofico che Klossowski intitola Il Bafometto27. è forse l’espressione più profonda di questo pensiero dell’incomunicante comunicazione figurale delle singolarità. Klossowski pubblica Il Bafometto due anni prima del Filosofo scellerato. Ma se Il filosofo scellerato misura l’impasse sadiana indicandone ipoteticamente l’al di là, Il Bafometto ha già risolto l’impasse e si è già installato in quell’al di là.

Lo sfondo del romanzo è quello di un medioevo più o meno fantastico. Protagonisti sono un gruppo di templari desiderosi di ricostruire il loro ordine dopo che il re di Francia, Filippo il Bello, l’ha sciolto in parte per motivi politici, in parte a causa delle efferatezze di cui si era macchiato. Tra quelle efferatezze, peraltro, ritroviamo tutti i crimini classicamente sadiani. I fratelli non mancano di sputare sul crocifisso, di praticare il bacio dell’infamia, di adorare gatti neri e altri idoli assortiti, di compiere cerimonie pagane, di dedicarsi a un esercizio di sodomia che ha tutta l’aria di essere più dimostrativo che voluttuoso. Ma in ultima analisi il romanzo passa accanto a tutto questo. Essenziale non è ciò che i templari fanno per oltraggiare Dio, ma ciò che via via sperimentano come un altro ordine della divinità, come la costruzione possibile di un ordine numinoso finalmente immanente. Al netto dello sfondo storico, i cavalieri del Bafometto si affacciano, per lunghi tratti della narrazione, su una sorta di scena senza tempo, in cui vedono materializzarsi illustri personaggi appartenenti ad altre epoche, su tutti santa Teresa d’Avila e Friedrich Nietzsche. I cavalieri stessi sembrano sospesi su una soglia perfettamente instabile, che mette il loro tempo e la loro identità in una condizione di perpetuo scambio con altri tempi e con altre identità, per la cui notevolissima resa letteraria qualcuno ha giustamente parlato di “écriture baphométique”.28. Una generale atmosfera di sognante ambiguità accompagna ogni personaggio, ogni scena. Chi parla, chi agisce? E agisce effettivamente, o piuttosto è agito, ripete l’azione di un altro, diviene la parola di un altro ripetendola, il quale a sua volta…? “Bafometto” non è altro che il nome, nel romanzo, di un idolo adorato dai cavalieri del Tempio, piccola scultura d’oro portatrice di questo potere di ripetizione metamorfica e di risonanza incrociata, sorta di oggetto perverso o di casella vuota di cui tutto il romanzo è la struttura che si dispiega, la sempre cangiante danza di identità e sostituzioni di identità. Parlando di Roberta stasera, un romanzo che Klossowski scrive una decina d’anni prima del Bafometto, un filosofo del linguaggio oggi purtroppo dimenticato come Brice Parain ha fornito con rara lungimiranza alcune coordinate capaci di illuminare l’intera produzione klossowskiana.29. Parain ricorda anzitutto che per la teologia scolastica, in cui Klossowski si è formato e non ha mai smesso di reperire suggestioni decisive, l’uomo non è soltanto un’unità di anima e corpo, ma un terzo elemento gioca un ruolo

essenziale, l’elemento dello spirito. È grazie allo spirito, prosegue Parain, che secondo gli scolastici medievali gli uomini comunicano, e comunicano non tanto perché in rapporto tra loro quanto perché, ciascuno singolarmente, in rapporto con Dio. È in Dio, in altri termini, che ogni uomo è “complice”, per usare una parola chiave del Filosofo scellerato,30. ed è sul fondo di questa complicità in Dio o di Dio con se stesso attraverso gli uomini, che accade ogni umana comunicazione, ogni mediazione e ogni rapporto che sembrerà andare dall’umano all’umano. Se seguiamo il suggerimento di Parain, dobbiamo concludere che il problema di Klossowski, tra Roberta stasera e Il Bafometto, non riguarda altro che la messa a punto di un modello di comunicazione per un verso assolutamente originale rispetto alla moneta corrente della dialettica, per altro verso assolutamente canonico se si guarda alla tradizione filosofica più classica. Solo se comunicare significa attraversare un vuoto, misurare una distanza, mediare una differenza ormai accaduta, allora la comunicazione diventa un fenomeno misterioso e in ultima analisi un esercizio di violenza. Solo se il paradigma della mediazione è posto inavvertitamente alla base della nostra comprensione del linguaggio, allora Sade ha ragione di gridare la sua angoscia, di denunciare il destino insopportabile a cui la macchina hegeliana della mediazione condanna la singolarità di una vita che solo in se stessa trova il proprio paradigma. Se invece si ricollocano la legge, il linguaggio, la comunicazione nell’elemento dell’assoluto, ogni enigma e ogni violenza svaniscono improvvisamente. Non “tutto è in tutto” ma “tutto comunica con tutto”, questa sarebbe forse la formula cui l’écriture baphométique tenta di dare corpo narrativo. Traduciamo infatti l’ipotesi della scolastica in termini più vicini a noi. Assumiamo che l’essere non sia dell’ordine del discreto ma dell’ordine del continuo. Ipotizziamo che gli esseri non siano separati, non abbiano identità e consistenza autonoma, ma che ogni essere sia un’emergenza momentanea del sistema, che ogni singolarità sia tutto l’essere anche se transitoriamente ricapitolato nella figura di quella singolarità. La stoffa diviene piega, la superficie si fa punto di vista, la struttura sorvola se stessa prendendo figura di una certa singolarità. Ma ogni evento è un simile movimento, ogni punto della stoffa esercita la stessa virtù, ogni piega ricapitola l’intera stoffa e cioè l’intera geometria delle altre pieghe. Sicché la stoffa non esiste affatto se non come uno sciame di infinite singolarità, ciascuna assolutamente

esaustiva della totalità, ciascuna perfettamente solitaria. Tutte loro sono ogni volta tutto ciò che c’è. Se queste singolarità comunicano, comunicano paradossalmente, perché comunicano non tanto sormontando una distanza che le divide, dato che ogni singolarità è tutto ciò che c’è e non ha nulla fuori di sé, quanto rapportandosi alla propria intimità, ritrovando nel fondo di se stesse ogni altra singolarità come propria figura o come variazione della propria figura. Per altro verso, queste singolarità non comunicano mai qualcosa, e non comunicano mai quel qualcosa a qualcuno, cioè un’altra singolarità. Semplicemente, divengono. Divengono ogni altra singolarità per il solo fatto di divenire se stesse, e ciò che comunicano alle altre singolarità non è altro che questo loro divenire, che è in ogni senso un divenire comune. È la bambola-cassetta di Carroll-Deleuze, è il dio eterogeneo che i portoghesi incontravano in Africa in quei precari assemblaggi di stoffe e perline. Che quelle singolarità divengano se stesse, significa peraltro che si fanno vuote, si riducono a neutro geometrale di tutte le altre singolarità prospetticamente disposte, insistono in sé come la soglia incorporea attraverso cui tutte le altre divengono, prendono corpo e significato, si fanno materia e forma di quella soglia perfettamente neutra. La comunicazione non è più il misterioso potere di sormontare differenze ormai accadute e incomponibili, ma è il semplice accadere della differenza, il semplice evento di ogni differenza come differenza ogni volta unica di tutte le altre differenze. Nei termini di Brice Parain, è in Dio che ogni essere comunica, ma ogni essere è un Dio se si vuole evitare di mettere Dio da qualche parte, facendone un essere separato e dunque finito, e gli uomini da qualche altra parte, facendone esseri separati e finiti solo al prezzo di costruire Dio a somiglianza della loro finitezza. Così, che Dio sia coerentemente posto come assoluto comporta allora immediatamente l’idea della comunità o della comunicazione tra quelli che Klossowski chiama nel suo romanzo “soffi”, con evidente riferimento al terzo elemento indicato da Parain nell’antropologia della Scolastica. Soffio, spirito, nella lingua filosoficoromanzesca di Klossowski, è ciò che resta dell’esperienza una volta sottratta l’esperienza al dispositivo di identificazione incentrato sull’assemblaggio corpo-anima. Soffio, spirito, nomina lo statuto dell’esperienza singolare una volta sganciata dal trattamento che ne dava la macchina della mediazione dialettica, che di ogni esperienza individuava

una materia e dunque una forma, un passato e dunque un futuro, una potenza e dunque un compimento, un soggetto e dunque un’azione individuale. Se viene meno il punto di vista esterno, che su una vita può esser preso solo da un Dio ridotto a sua volta a punto di vista, ciò che resta in campo è un insieme paradossale di pure dissomiglianze. Insieme paradossale perché composto ogni volta di un solo elemento, di una sola pura dissomiglianza, intenta ogni volta a elevarsi a paradigma, proprio facendo transitare e divenire ogni altro elemento nel geometrale apatico della sua singolarità. Così, illustrando questa comunicazione di singolarità inchiodate all’illimitata apertura della loro solitudine, Klossowski può scrivere: “Il soffio non è che spazio trasparente fino al punto di stimare come interno a se stesso tutto quanto gli accada, e non crea nella sua intenzione senza oggetto altro che delle esteriorità puramente ipotetiche, come ipotetica è questa stessa intenzione. Se un altro soffio gli viene incontro, eccoli supporsi reciprocamente, ciascuno secondo un’intensità variabile”.31. Federico Leoni insegna Antropologia filosofica all’Università di Verona. 1 J. Lacan, “Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio” (1966), in Scritti, trad. di G. Contri, Einaudi, Torino 1976, vol. II, p. 827. 2 Id., “Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi” (1966), in Scritti, cit., vol. I, p. 273. 3 S. Freud, “Feticismo” (1927), in Opere, a cura di C. Musatti, Boringhieri, Torino 1967-1980, vol. X, p. 494. Per uno straordinario approfondimento dei modi in cui l’operazione feticista innerva le altre operazioni, via via più lontane, della perversione, cfr. H. Rey-Flaud, Le démenti pervers. Le refoulé et l’oublié, Aubier, Paris 2002. 4 Ibidem. 5 Riformulo, a dire il vero con qualche libertà, la risposta che Bruno Latour dice gli sarebbe piaciuto sentire uscire dalla bocca degli africani in quel frangente: B. Latour, Il culto moderno dei fatticci (1996), trad. di C. Pacciolla, Meltemi, Roma 2005, pp. 46-47. 6 F. Nietzsche, La gaia scienza (1887), trad. di F. Masini, Adelphi, Milano 1997, aforisma 125. 7 Ibidem. 8 C. Melman, L’homme sans gravité, Denoël, Paris 2002. 9 H. Bergson, “Il possibile e il reale”, in Pensiero e movimento (1934), trad. di F. Sforza, Bompiani, Milano 2010. 10 Ivi, p. 92. 11 Ivi, p. 85. 12 Ibidem. Sul ruolo strategico di quest’espressione in Bergson, cfr. F. Leoni, R. Ronchi, “Introduzione”, in H. Bergson, Storia della memoria e storia della metafisica (2002), trad. di F. Leoni, ETS, Pisa 2007; R. Ronchi, Bergson. Una sintesi, Marinotti, Milano 2011, p. 161 sgg.

13

Ivi, p. 93. Come si sa, il termine “virtuale” è destinato a grande fortuna nell’opera di G. Deleuze a cominciare da Differenza e ripetizione (1968, trad. di G. Guglielmi, Raffaello Cortina, Milano 1997, p. 269 sgg.). Cfr. “aut aut”, 204, 1984, numero monografico: Sfumature. Materiali per rileggere Henri Bergson. Cfr. P.-A. Miquel, Bergson ou l’imagination métaphysique de la vie, Kimé, Paris 2007. 14 G. Deleuze, Logica del senso (1969), trad. di M. De Stefanis, Feltrinelli, Milano 1975, in particolare “Ventitreesima serie – Sull’Aiôn”, p. 147. 15 H. Bergson, “Pensiero e movimento”, cit., p. 96. 16 Aristotele, Fisica, II, 9. 17 F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., aforisma 125. 18 R. Ruyer, “Superfici assolute e domini assoluti di sorvolo” (1952), in La superficie assoluta, trad. e cura di D. Poccia, Textus, L’Aquila 2018. 19 S. Freud, “Tre saggi sulla teoria sessuale” (1905), in Opere, cit., vol. IV, pp. 499-500. 20 G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 44. 21 J. Lacan, “Seminario sulla Lettera rubata” (1966), in Scritti, cit., p. 22. 22 M. Recalcati, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica. Struttura e soggetto, Raffaello Cortina, Milano 2016, p. 419: “Egli conduce l’atto della trasgressione al suo punto più estremo, il punto in cui esso si ribalta in una nuova forma di legge”. Sulla differenza tra perversione come figura clinica e perversione come figura filosofica, mi permetto di rinviare a F. Leoni, “Un altro uno. Lacan, la legge, la perversione”, in A. Campo (a cura di), L’uno perverso. L’uno senza l’altro, una perversione?, Textus, L’Aquila 2017. 23 Primo fra tutti Klossowski con i suoi primi scritti, poi culminati nel celebre Sade prossimo mio (1947), trad. di G. Amaducci, ES, Milano 2003. 24 P. Klossowski, “Il filosofo scellerato” (1967), in Sade prossimo mio, cit., p. 32. 25 Ivi, p. 33. 26 G. Bataille, “Préface”, in D.A.F. de Sade, Justine, ou les malheurs de la vertu, Pauvert, Paris 1955, p. XXV. 27 P. Klossowski, Il Bafometto (1965), trad. di L. De Maria, SugarCo, Milano 1994. 28 J. De Cottignies, Klossowski notre prochain, Veyrier, Paris 1985, p. 94. Sul Bafometto ha pagine efficaci A. Marroni, Pierre Klossowski. Sessualità, vizio, complotto, Costa & Nolan, Milano 1999, p. 163 sgg. 29 B. Parain, Pierre Klossowski: Roberte ce soir, “Nouvelle Revue Française”, 16, 1954, pp. 720722. 30 P. Klossowski, Il filosofo scellerato, cit., p. 33. 31 P. Klossowski, Il Bafometto, cit., p. 64.

Erotismo della morte o ciclo di isteresi. La perversione tra Barthes e Deleuze SILVIA VIZZARDELLI

1. Premessa: descrizioni e forme Si può vivere con Sade, si può vivere con Masoch. A cosa dobbiamo il gusto di intrattenerci con loro, di assaporarne gli universi immaginari? Non certo alla volontà di attuare nella nostra vita i dettagliati programmi sadici e orgiastici contenuti nei loro libri, frutto di una bizzarra e satanica grandeur. Per alcuni versi, neanche allo sfinente lavoro interpretativo cui filosofi, pensatori e psicoanalisti, più frequentemente di area francese, si sono dedicati, allestendo scenari speculativi di sofisticatissima officina, fatti di vertiginosi scambi di posto e ontologici capovolgimenti. Una fatica del pensiero che talvolta sembra allontanarci dall’oggetto di godimento e dalla desiderabilità di quelle volute teoriche, pur donandoci infine, per restare nel nostro tema, un piacere altro. Del resto fu proprio Jean Paulhan, autore della prefazione alla prima versione di Justine (Les infortunes de la vertu), a sottolineare che questo libro poneva una domanda tanto ardua che un secolo intero non sarebbe stato sufficiente per darvi una risposta.1. Un esempio su tutti: Kant con Sade2. di Lacan. Lo leggiamo, lo studiamo, a ogni giro di frase ci pare di capire, ma poi non riusciamo a tollerare lo sforzo di tenere insieme una lettura azzardata della seconda critica kantiana con lo stravolgimento della massima sadica riscritta a proprio uso e consumo. Non voglio essere fraintesa: ho sofferto e tanto imparato da questo testo, come, in modi diversi, da quelli di Bataille, di Klossowski. Tutti sono decisivi, e di tutti terrò conto in queste mie brevi considerazioni, non fosse altro che per

mettere a frutto il brusio, con l’annesso godimento perverso, che sento ancora ronzare nella testa. Si può vivere con Sade e Masoch a patto di sposare una prospettiva al contempo descrittiva e formale. Dopotutto, ci muoviamo in un campo tra psicoanalisi e filosofia, che è stato sempre reso instabile dalla doppia necessità di tenere insieme lo studio e l’analisi del caso, nella sua evidenza fenomenologica, con la ricerca delle componenti strutturali, “trascendentali”, la forma appunto, capace di mostrarci la possibilità di ciò che viene trattato, contro ogni nominalismo. Il rischio di descrivere comportamenti, occorrenze, figure materiali e morali della perversione, di fatto rincorrendo affannosamente nomi, è sempre alle porte. Così come è sempre dietro l’angolo il pericolo opposto, quello di un affanno formale, che rende troppo distante il riferimento all’esperienza. Occorre quindi tenere insieme il più possibile questi due versanti. Purtroppo non ci sono esempi significativi, nella storia delle interpretazioni, di questa sintesi feconda, per cui mi limiterò a individuare i maestri dei due modelli, quello descrittivo e quello formale, rimandando magari ad altro contesto, la proposta di ibridazione. Dunque, da una parte Barthes, dall’altra Deleuze. Barthes lo assumo come la via maestra di una “fenomenologia” della perversione attraverso la delibazione della letteratura sadica, col suo gusto dei dettagli materiali, e la capacità di far balenare, lungo la linea dell’invisibile, la struttura a venire; Deleuze come esempio di un antinominalismo strutturale esplicito, che mantiene sullo sfondo i casi, le evenienze, le occorrenze. Insomma, se dovessi fare un esperimento mentale, direi che la trattazione migliore della perversione, ammesso che si voglia il testo unico e non ci si accontenti di aprire e chiudere due libri entrambi imprescindibili, sarebbe quella che disvela l’implicito dei due autori.

2. Barthes: il viaggio senza viaggio, il vestire senza vestire, il mangiare senza mangiare Un ingresso morbido nell’edificio della perversione ce lo offrono i due saggi che Barthes dedica a Sade in Sade, Fourier, Loyola (1971). La perversione viene presentata come un “canto discontinuo di amabilità”, una pluralità di incanti “in cui nondimeno leggiamo la morte con più certezza

che nell’epopea di un destino”.3. E allora si affaccia subito il tema del viaggio. Viaggiano molto i personaggi di Sade, in Europa, tra Francia e Italia, o fino in Siberia, ma è un viaggio privato della sua anima, un viaggio senza iniziazione, senza apprendistato. Le geografie delle città, delle campagne, dei giardini, anziché rappresentare luoghi di avventura, sono mappe funzionali dove nulla è da scoprire, nulla da imparare. “Le città non sono che procacciatrici, le campagne ritiri, i giardini scenari e i climi operatori di lussuria.”4. Si attraversano continenti, ma il luogo è sempre uno solo, quello chiuso, isolato, autarchico della ripetizione, dell’insistenza, dell’accanimento. Luoghi allestiti, come scene teatrali, da una sapiente e dettagliata regia che fa del quotidiano la vera utopia. “Orari, programmi di nutrizione, progetti di abbigliamento, installazioni mobiliari, precetti di conversazione o di comunicazione, tutto questo è in Sade.”5. Dunque c’è il viaggio, ma sul lato del sembiante. Occorre abituarsi a questa sfasatura dello sguardo per simpatizzare con i libertini di Sade. Lo stesso accade per l’alimentazione. Sappiamo tutto di quello che si mangia a Silling dall’alba al tramonto, entrando in un dettaglio gastronomico che fa invidia a un buon ricettario, eppure il cibo è semplicemente un segno che rinvia a un fatto di casta. Dunque anche il cibo è preso dal lato del sembiante. Come il vestire, del resto: spogliato della sua componente erotica, l’abbigliamento acquista un valore asetticamente funzionale. “L’abito o segnala, mediante artifici precisi (colori, nastri, ghirlande) le classi di soggetti: classi di età […], classi d’iniziazione (i soggetti vergini cambiano segno vestimentario dopo la cerimonia della loro deflorazione), classi di proprietà (ogni libertino dà un colore alla sua scuderia).”6. Su tutto vige un sistema di gestione, di controllo che mira a portare al vertice il godimento, a disporne nel presente, senza attesa, mancanza, iniziazione, mistero, divisione. L’esplorazione di Barthes prosegue nell’analisi dei discorsi, dei giochi di parole che apparecchiano la scena orgiastica, nell’enumerazione delle macchine voluttuose e criminali di cui si servono i libertini, macchine per violare, per fustigare, per ingravidare, per far godere. Ma l’essenziale è che tutto il gruppo vivente sia concepito come una macchina la quale, una volta in moto, produca i suoi abominevoli automatismi. Le parole chiave sono dunque controllo, ordine, saturazione, denegazione della mancanza,

assolutizzazione della volontà di godimento esteso a tutte le occasioni del quotidiano. Una energia sempre in crociera. Cos’è, allora, che più precisamente fa di questi viaggi un non-viaggio, di questa vita il rovescio della vita? Cosa ammanta di sfinimento il quotidiano? Effettivamente a essere messi in campo sono gli aspetti più pertinenti per descrivere l’immanenza della vita: il viaggio, il cibo, il godimento del corpo, il godimento della parola. Come giustificare allora il passaggio al sembiante? Qui l’analisi di Barthes si arresta e abbiamo bisogno di rivolgerci a un’altra voce.

3. Deleuze: salto sur place Barthes descrive il luogo della perversione come un sistema chiuso, preordinato e gestito in ogni dettaglio. Nell’analisi strutturale che Deleuze propone, questa chiusura prende i tratti delle serie incomunicanti. L’unità sadomasochista è definitivamente sciolta, al punto che le due perversioni vengono a costituire due mondi in sé completi e autosufficienti. Siamo tentati, ci spiega Deleuze, ad astrarre erroneamente la miscela piaceredolore, come una sorta di materia neutra comune a sadismo e masochismo. Se è indubbiamente vero che il sadico prova un certo piacere nell’infliggere torture e il masochista gode nel sentire dolore, ciò avviene in modi irriducibilmente diversi nelle due perversioni. L’analogia che lega sadismo e masochismo non può autorizzare il passaggio dall’uno all’altro sistema, dall’una all’altra serie. Innanzitutto perché “tutta l’energia disponibile di un soggetto si trova mobilitata nell’impresa di questa o di quell’altra perversione. Sadico e masochista che sia, forse ognuno recita un dramma sufficiente e completo, con personaggi diversi, senza che nulla, né dall’interno né dall’esterno, possa farli comunicare tra loro”.7. In ciascuna serie non residua una componente di energia libera, capace di legarsi, di empatizzare con l’altra serie. In altre parole, ogni personaggio di una perversione ha bisogno solamente di un elemento implicato nella stessa perversione; il masochista si costruisce dall’interno la sua Vergine in pelliccia, la quale non è né una vera né una falsa sadica, ma qualcosa di completamente diverso, che appartiene esclusivamente alla serie masochista. Lo stesso vale per il sadismo.

Barthes descrive il “gruppo vivente” della perversione come una macchina congelata nelle sue funzioni. Nel discorso di Deleuze, questa sorta di pietrificazione degli affetti si distingue nell’apatia sadica e nel freddo masochista, distinzione che compendia le dieci opposizioni che vengono descritte analiticamente nel Freddo e il crudele (1967) e su cui non possiamo ora soffermarci. L’apatia sadica è un congelamento del sentimento, al fine di guadagnare una sensualità impersonale, pura, macchinica. Qualsiasi entusiasmo degli affetti, persino quello del far del male va tenuto lontano come residuo di bontà. La freddezza masochista è invece disconoscimento della sensualità, per far trionfare la glacialità del sentimento. Masoch annuncia la nascita dell’uomo nuovo, privo di amore sessuale, ma aperto a una sentimentalità assediata dal ghiaccio, una sentimentalità che resiste sotto il freddo ed è protetta dalla pelliccia. “Il freddo è al tempo stesso ambiente protettore e medium, bozzolo e veicolo: protegge la sentimentalità sovrasensuale come vita interiore, e l’esprime come ordine esterno, come Collera e Severità.”8. Abbiamo concluso il paragrafo su Barthes chiedendoci cos’è che nell’orizzonte della perversione fa della vita una non-vita. Qui cominciamo a trovare una possibile risposta. Freddezza, apatia, glacialità, pietrificazione sono nel cuore della perversione. Ma “in che senso?”, si chiede Deleuze. Non certo perché sia qui in gioco una messa in mora dell’onnipervasività del principio di piacere, il quale non viene mai spodestato, per il fatto che, secondo Deleuze, Thanatos tace, pur essendo implicato, mentre a parlare sono le infinite combinazioni del piacere. Cosa è dunque questa siderazione perversa, nella duplice declinazione dell’apatia e della freddezza, se non è una manifestazione diretta di Thanatos? Per rispondere a questa domanda, Deleuze fa riferimento alla teoria freudiana del disimpasto pulsionale, attraverso la quale il padre della psicoanalisi spiega la costituzione dell’Io narcisistico e del Super-io. In entrambi i casi, è in gioco un fenomeno di desessualizzazione, di neutralizzazione di una certa quantità di energia erotica, resa così libera per costituire nuovi legami, nuovi concatenamenti pulsionali. Nel caso dei disturbi funzionali della nevrosi, la desessualizzazione acquista il significato di una idea-lizzazione immaginaria dell’Io, nel caso invece della sublimazione prende la via di una identificazione che spiega la potenza del pensiero nel Super-io. Il disimpasto quindi, lungi dall’essere una smentita

del principio di piacere, è la costituzione di una libido neutra, trasferibile nelle altre combinazioni. Oltre alla combinazione nevrotica e a quella sublimante, ne esiste una terza che è rappresentata dalle perversioni. In questo caso la freddezza della desessualizzazione è ancora più potente e vivida che negli altri due, ma non ha bisogno della complementarità dell’Io e del Super-io. Nel caso dell’apatia sadica e della freddezza masochista, la desessualizzazione non attende di trasferire l’energia nel legame con l’idealizzazione e l’identificazione, ma resta sur place, si risessualizza sul posto. Siamo in presenza di una erotizzazione del ghiaccio, della pietra: non occorre attendere il rivolo d’acqua di un parziale scongelamento per pervenire a nuove lagune calde, perché è il ghiaccio che si erotizza sul posto. “Si desessualizza Eros, lo si mortifica, per meglio risessualizzare Thanatos.”9. Questo equivale a dire che Thanatos continua a tacere sotto le metamorfiche e plastiche combinazioni di Eros. Possiamo ricavare da questa straordinaria interpretazione delle perversioni la lettura che Deleuze propone del testo più controverso della storia della psicoanalisi, vale a dire Al di là del principio di piacere di Freud. Tutto si gioca nell’interpretazione di quell’“al di là” che non significa per Deleuze l’introduzione di un’eccezione rispetto al principio di piacere. Quest’ultimo resta l’unico a governare la vita psichica, ma dobbiamo ammettere filosoficamente un’istanza superiore, un principio trascendentale, un principio di secondo grado che renda conto di questa sottomissione dello psichico al piacere. “Non si tratta di eccezioni al principio del piacere, ma della fondazione di questo principio.”10. Tale fondamento viene individuato nell’Eros come legame e ripetizione. È il legame (nella duplice veste di legame energetico nella stessa pulsione e di legame biologico delle cellule) che rende il piacere un principio. Resta ancora la domanda delle domande: in che modo la ripetizione può intervenire nella vita senza farvi capolino con un altro ritmo nel prima della vita, nell’inanimato? La ricerca del fondamento non si conclude col reperimento di Eros, in quanto esso può affermarsi come legame, vita, ripetizione unicamente trascinando con sé la sua negazione. Dunque al di là di Eros, Thanatos. Al di là della ripetizionelegame, la ripetizione che uccide e che cancella, la quale non costituisce un’eccezione al principio di piacere, ma ne è un resto, una conseguenza. Questa è secondo Deleuze la grande scoperta di Freud: un monismo (la

ripetizione), un dualismo di natura (la ripetizione-legame in Eros e la ripetizione demoniaca in Thanatos) e una differenza di ritmo (il ritmo alla nascita e il ritmo prima della vita, nell’inanimato). Insomma, Thanatos è uno dei ritmi della ripetizione e della vita, ed è per questo che il gelo della morte può essere risessualizzato nelle perversioni, rimanendo sul posto. Questa lettura deleuziana della perversione come salto sur place legittima l’ipotesi di chi considera la perversione nell’ottica di un’etica dell’immanenza. In fondo è la vita che parla, sebbene trascinandosi dietro la morte, come sua negazione, come altro ritmo. Si comprende quindi il senso della proposta di Federico Leoni che, per questo numero di “aut aut”, ci ha invitati a riflettere su sadismo e masochismo come, appunto, due etiche dell’immanenza. L’orizzonte del vizio sarebbe dunque escluso: a parlare sarebbero pur sempre le virtuose combinatorie della vita. Thanatos non parla, dunque. E se fosse proprio questo silenzio a consentirci di afferrare il lato vizioso della perversione? Se il pervertire, il “deviare” consistesse nel non poter più accedere a quell’abbandono inerziale che è caratteristico della pulsione di morte? In tal caso, occorrerebbe lasciare indietro il salto sur place di Deleuze per avvicinare il ciclo di isteresi.

4. Ciclo di isteresi C’è dell’insistenza, dell’ostinazione, della ripetizione potenziata nelle perversioni. Una insistenza fredda, apatica, macchinica, abbiamo detto con Barthes e Deleuze. La mia ipotesi è che questo battere e ribattere siderato, anziché rappresentare il luogo di una risessualizzazione sia una deriva in isteresi della vita. La morte non parla, e proprio per questo motivo la vita, sovrastimolata, ridondante, si rilascia, si smolla alla stregua di un materiale che ha perso la sua elasticità. Come abbiamo notato, il ragionamento di Deleuze si distende tra queste due polarità: ripetizione negativa e ripetizione legata, desessualizzazione e risessualizzazione, disimpasto e reimpasto pulsionale. Ma occorre interrogare più a fondo quel sur place che caratterizza l’apatia sadica e la freddezza masochista. Deleuze lo legge come una erotizzazione del neutro, mentre io proporrei di intenderlo piuttosto come una neutralizzazione dell’Eros, o meglio come uno sfibrarsi, uno snervarsi, uno spossarsi della vita per eccesso di vita. La morte non

parla, e ciò accade perché la volontà, come ci suggerisce Lacan, mette il godimento al centro del soggetto anziché al suo orizzonte, pretende di denegare la mancanza, la scissione a favore del “tutto ora e subito”. La sovrastimolazione che riempie i vuoti e uccide i silenzi non produce nuovo eros, ma costringe la vita in un ciclo di isteresi. Vediamo più da vicino di cosa si tratta. Quando si supera il carico specifico di snervamento, nel momento in cui il carico viene a mancare, il corpo solido, non più deformato elasticamente ma plasticamente, perde la propria capacità di ritornare alle condizioni originarie. La deformazione diviene irreversibile. Proporrei di intendere la perversione come una deformazione plastica della vita, vale a dire come una deformazione che non riesce più, per eccesso, a recuperare la condizione di partenza. Nella perversione, l’elastico è deformato al punto da non essere più un elastico. La vita si spossa nella vita, e il godimento che ne discende non ha niente a che fare con una risessualizzazione, bensì con la lontana eco dell’eros. Eros risuona tra le maglie molli del suo sfibramento. Dunque i fenomeni che abbiamo a disposizione per descrivere lo psichismo sono: polarizzazione, depolarizzazione e isteresi. Se la perversione è il regno dell’isteresi, come propongo, allora non è possibile vedere in essa operativa una pulsione di morte. Può sembrare un paradosso: l’isteresi non ha niente a che vedere con la pulsione di morte, perché quest’ultima richiede che l’elasticità della vita sia nel pieno delle sue forze. La pulsione di morte ha bisogno di elastici integri per manifestarsi, non di elastici in isteresi. Deleuze sembra non considerare che in Al di là del principio di piacere, Freud sceglie proprio la metafora dell’elastico per descrivere il Todestrieb: Una pulsione sarebbe dunque una spinta, insita nell’organismo vivente, a ripristinare uno stato precedente, al quale quest’essere vivente ha dovuto rinunciare sotto l’influsso di forze perturbatrici provenienti dall’esterno; sarebbe dunque una sorta di elasticità organica, o, se si preferisce, la manifestazione dell’inerzia che è propria della vita organica. Questa concezione della pulsione ci suona strana, poiché ci siamo abituati a ravvisare in essa un fattore che spinge al cambiamento e allo sviluppo, mentre ora la dobbiamo intendere in un modo precisamente opposto, vale a dire come espressione della natura conservatrice degli esseri viventi.11.

C’è intanto una differenza macroscopica tra la pulsione di morte che Deleuze rintraccia nelle perversioni e quella qui descritta da Freud: la prima, nella veste della desessualizzazione, è simultaneamente (sur place) un reimpasto creativo, una forma nuova di erotizzazione; la seconda, cioè quella descritta da Freud, non è da iscriversi sul versante del nuovo, del cambiamento, bensì su quello dell’inerzia e della conservazione. Dunque la pulsione di morte per come la intende Freud non è uno strumento adeguato per illuminare né la lettura deleuziana della perversione, sebbene Deleuze la riprenda con insistenza, né la perversione intesa come ciclo di isteresi, poiché in questo caso è proprio “l’elasticità della vita organica” ciò che viene a mancare.

5. La deriva in isteresi non è la vertigine della caduta Ancora un punto mi resta da chiarire, pagando un debito. Ho tratto l’idea di associare la perversione alla deriva in isteresi da un bel saggio di Massimo Prampolini dedicato, guarda caso, proprio a Barthes. Ma il mio debito finisce qui, perché l’intenzione dell’autore del saggio è quella di intendere la ripetizione perversa della lettura – Prampolini commenta Il piacere del testo di Barthes – come uno scivolamento verso la caduta, l’abbandono del godimento. Scrive infatti: Di fatto per Barthes la perseveranza nella ripetizione è una delle ineludibili quanto perverse condizioni che trovano manifestazione esemplare nel testo. In particolare nel testo da cui traggo gratificazione, piacere; e in cui la ripetizione è avviamento al godimento. Nel testo di piacere sono risucchiato nell’esperienza della deriva, e sono (accade nei bambini come negli adulti dediti alle letture di culto) ipnotizzato dalla reiterazione, tanto più preziosa quanto più letterale. Riascolto esattamente quel brano musicale, quei versi, quel racconto, ripeto esattamente quell’orazione, ripeto gli stessi gesti, in cadenza con le stesse parole […]. Entrambi – deriva e parossistica ripetizione – sono gli irresistibili scivoli che dalla gratificazione, dal piacere inducono verso il godimento, la soddisfazione. La lettura di culto, come il gioco in cui i bambini girano su se stessi fino a cadere nello stordimento, è un moto oscillatorio:

“conferma-straniamento-riconferma” ovvero “stasi, vertigine, stasi” [R. Caillois, I giochi e gli uomini].12. Si noterà come qui l’estenuazione della ripetizione, poco prima definita da Prampolini, appunto, “deriva in isteresi”, sia associata alla caduta, all’abbandono, alla vertigine del godimento. Il mio intento è stato quello di dimostrare come la deriva in isteresi della perversione sia proprio ciò che impedisce la caduta, la riuscita (mortifera quanto si vuole ma non perversa), l’abbandono. Non di scivolo quindi si tratta, ma di protratto sorvolo, fino allo sfinimento, che ci dissolve lasciandoci per aria. La caduta ha bisogno dell’elasticità della vita organica, mentre l’isteresi consuma dall’interno la possibilità di qualsiasi cedimento, essendo piuttosto un’estenuata sospensione. Insomma, Prampolini ben descrive la dinamica del godimento estetico in Roland Barthes, una dinamica che però sarei più propensa ad associare alla vertigine, proprio nel senso dell’ilinx di Caillois, che non alla deriva in isteresi. Lascerei quest’ultima alla descrizione della perversione, nel suo significato più circoscritto. Che il godimento estetico sia da Barthes associabile alla caduta lo dimostra questo passo: Donde due regimi di lettura: una va direttamente alle articolazioni del testo, ignora i giochi di lingua (se leggo Verne vado svelto: perdo qualcosa del discorso, e ciononostante la mia lettura non è attratta da alcuna perdita verbale – nel senso che la parola può avere in speleologia); l’altra lettura non fa passare niente; pesa, aderisce al testo, legge, se così posso dire, con applicazione e trasporto, coglie in ogni punto del testo l’asindeto che taglia i linguaggi – e non l’aneddoto: non è l’estensione (logica) ad avvincerla, la defoliazione delle verità, ma lo sfogliamento della significanza; come nel gioco della mano sopra all’altra, l’eccitazione non deriva da una fretta litigiosa, ma da una sorta di baldoria verticale (la verticalità del linguaggio e della sua distruzione); nel momento in cui ogni mano (diversa) salta sopra all’altra (e non dopo l’altra), si produce il buco, e trascina il soggetto del gioco – il soggetto del testo. Ora, paradossalmente (tanto si è comunemente convinti che basti andare svelti per non annoiarsi), questa seconda lettura, applicata (in senso proprio), è quella che conviene al testo moderno, al testo-limite. Leggete lentamente,

leggete tutto, di un romanzo di Zola, il libro vi cadrà dalle mani; leggete rapidamente, a frammenti, un testo moderno, il testo diventa opaco, recluso al piacere: volete che succeda qualcosa, e non succede niente; perché quello che “avviene” al linguaggio non succede al discorso; quello che “avviene”, quello che “se ne va”, la crepa fra i due bordi, l’interstizio del godimento, si produce nel volume dei linguaggi, nell’enunciazione, non nel susseguirsi degli enunciati: non divorare, non inghiottire, ma brucare, rasare con minuziosità, ritrovare, per leggere questi autori di oggi, il piacere delle vecchie letture: essere dei lettori aristocratici.13. Potremmo così dire che la deriva in isteresi si produce nella noia della fretta orizzontale, della spinta a inghiottire e a divorare, a essere sempre orizzontalmente e perversamente in crociera, proprio come accade all’energia libertina. Il godimento estetico, invece, prende la via dell’accumulo verticale, del volume, e dell’asindeto, dello slegato paratattico, per preparare la caduta. Proprio come nel gioco delle mani, qui descritto mirabilmente da Barthes. Provo a riassumere rapidamente quanto detto. Dal lato della perversione abbiamo un eccesso, una mostruosità che annoia, che raffredda, che rende apatici, una sorta di stordimento per estenuazione; dal lato del godimento estetico, per come lo descrive Barthes, siamo invece in presenza di un cedimento, di un abbandono. Si è fatta molta confusione nella letteratura su Sade e Masoch tra queste due forme di resa, di smarrimento. Un conto è la noia che scaturisce dal tentativo eroico e disumano di coincidere col corso delle cose, volendo annullare distanza e dislivello, un altro è quella sensazione di vertigine, di smarrimento sensuale, di dépense che ci fa cadere nelle cose. Bataille stesso, nella sua lettura di Sade, oscilla tra queste due accezioni.

6. L’estetica perversa: un abbaglio In quasi tutti i testi che abbiamo preso in esame, dopo un inizio dichiaratamente dedicato alla perversione, con diverse accentuazioni del versante sadico o del versante masochista, si assiste a una lenta progressione verso gli orizzonti attraenti del discorso estetico. Come se il

vizio si sciogliesse nella virtù, come se la verità della costellazione perversa si manifestasse nello spazio immersivo di un’esperienza creativa. C’è una strana connivenza, tutta teorica, tra l’estetico e il perverso. Il punto di torsione è rappresentato da quella “seduzione dello sfondo” che ritorna a più riprese nei due discorsi. Deleuze coglie nel cuore dell’anima di Masoch un elemento estetico basato su una sensualità trasmutata. Gli amori di Masoch sono ispirati dall’opera d’arte. “L’iniziazione avviene con donne di pietra. Le donne sconvolgono per il loro confondersi con le fredde statue, nel chiarore lunare, o con quadri nell’ombra. Tutta la Venere è sotto il segno del Tiziano nel mistico rapporto tra la carne, la pelliccia e lo specchio. In questo si manifesta il legame tra il freddo, il crudele e il sentimentale. Le scene masochiste hanno bisogno di fissarsi come sculture o dipinti, di riprodurre sculture e dipinti, di sdoppiarsi in uno specchio o in un riflesso.”14. Bataille descrive il deliquio della seduzione perversa come un moto dello spirito con cui l’uomo si rende uguale a ciò che è, sparisce in uno sfondo di indistinzione grazie a un movimento inverso a quello dell’individuazione: dove c’erano soggetti spinti a usare gli oggetti del mondo, ora ci sono situazioni in cui lo spirito del mondo è alla misura di ciò che è. Vale la pena notare tuttavia, come del resto fa lo stesso Bataille, che questa sparizione nello sfondo, che molto assomiglia al senso di perdita e di caduta che caratterizza un’esperienza estetica, è possibile unicamente perché non si è già da sempre installati nel mondo per come è, non si è già da sempre alla misura delle cose. Che senso avrebbe, infatti, parlare di dépense, di smarrimento senza presupporre questo sfasamento di piani? Sade, come rileva giustamente Bataille, può lasciarsi cadere nell’indeterminatezza dei suoi deliqui amorosi, e contemporaneamente accedere al sogno di una indistinzione di soggetto e oggetto, grazie allo splendore della poesia. Questa verità senza lo splendore della poesia non avrebbe umanamente la sua importanza. È toccante per noi che una affabulazione mitica si connetta a ciò che, infine, svela il fondo dei miti. Ci voleva una rivoluzione – nel fragore dell’assalto alla Bastiglia – per offrirci, nel disordine del caso, il segreto di Sade, al quale la sventura permise di vivere questo sogno, questa ossessione che è l’anima della filosofia: l’unità di soggetto e oggetto. Si tratta, in questo caso, dell’identità

raggiunta nel superamento dei limiti degli esseri, nell’andar oltre l’oggetto del desiderio e il soggetto che desidera. Maurice Blanchot ha giustamente detto che Sade aveva “saputo fare della sua prigione, l’immagine della solitudine dell’universo”, ma che questa prigione, questo mondo, non gli dava più impaccio, poiché egli ne aveva “bandite ed escluse tutte le creature”. Così la Bastiglia, in cui Sade scrisse, fu il crogiuolo in cui a poco a poco i limiti coscienti degli esseri furono distrutti: dal fuoco di una passione prolungata dall’impotenza.15. Ho riportato per intero questo passo, perché mostra con chiarezza come lo spostamento dell’attenzione verso l’orizzonte estetico cambi impercettibilmente le carte in tavola, muti l’ambientazione, fino al punto in cui non è più possibile recuperare le atmosfere ambigue della perversione. Il discorso poetico, letterario, estetico è il congedo discreto dalla perversione. Sade, dal chiuso della sua cella, può poeticamente spingere l’immaginario verso quel piano di derealizzazione e di desoggettivazione che viene trainato dalla seduzione. Ma il suo è l’abbandono di un poeta, una caduta, una riuscita, una resa benigna. Altro è il mondo del perverso, incapace di cadere, perché inadatto alla morte, al mancamento. È necessario dunque mantenere aperta la forbice tra la caduta estetica e l’isteresi della perversione. La prima è un’esperienza di cedevolezza, la seconda di installazione nell’immanenza; la prima ha bisogno di un dislivello (la poesia e il desiderio, la cella e la libertà) che renda possibile il “lasciarsi cadere”, la seconda vive nell’eterna sospensione di un godimento in crociera. Sul lato della perversione, insomma, l’abbandono diventa apatia, il rilascio si allenta nella noia, la tentazione dello sfondo diviene l’imperio dello sfondo, l’elasticità cede il posto all’isteresi.

Silvia Vizzardelli insegna Estetica e Filosofia della musica all’Università della Calabria. 1 D.A.F. de Sade, Les infortunes de la vertu (1787), introduzione di J. Paulhan, Éd. du Point du Jour, Paris 1946. 2 J. Lacan, “Kant con Sade”, in Scritti (1966), vol. II, a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 2002. 3 R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola (1971), trad. di L. Lonzi e R. Guidieri, Einaudi, Torino 2001, p. XXVI.

4

Ivi, p. 5. Ivi, p. 7. 6 Ivi, p. 9. 7 Ivi, p. 48. 8 G. Deleuze, Il freddo e il crudele (1967), trad. di G. De Col, SE, Milano 2007, p. 57. 9 Ivi, p. 133. 10 Ivi, p. 126. 11 S. Freud, Al di là del principio di piacere (1920), in Opere, vol. IX, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 246-247. Per un approfondimento della lettura deleuziana della pulsione di morte di Freud, cfr. V. De Filippis, S. Vizzardelli, La tentazione dello spazio. Estetica e psicoanalisi dell’inorganico, Orthotes, Salerno 2016, in particolare il capitolo VI. 12 M. Prampolini, “Roland Barthes e Il piacere del testo. La deriva in isteresi e l’idiozia”, in E. Fadda e M.W. Bruno (a cura di), Roland Barthes Club Band, Quodlibet, Macerata 2017, p. 163. 13 R. Barthes, Il piacere del testo (1973), trad. di L. Lonzi, Einaudi, Torino 1999, pp. 82-83. 14 G. Bataille, La letteratura e il male (1957), trad. di A. Zanzotto, SE, Milano 2006, p. 79. 15 Ivi, p. 115. 5

Masochismo plurale. Il servo, l’oggetto, la voce CARMELO COLANGELO

Lungo tutto il secolo scorso, in particolare a partire dagli anni quaranta, i temi del sadismo e del masochismo – e con essi gli scritti di Sade e Masoch – sono stati indagati con regolarità dal discorso filosofico, soprattutto di area francese, ma non solo. Grazie a un confronto sovente assai serrato con le prospettive della psicoanalisi, della fenomenologia, della critica letteraria, la riflessione filosofica, a cominciare da quella pratico-morale, si è impegnata in una disamina attenta dei due fenomeni che più apertamente manifestano la presenza, nella vita psichica, di un rapporto specifico tra desiderio e sofferenza, inferta o patita. Di primo acchito può colpire questa circostanza: mentre generalmente il sadismo è stato illustrato ricorrendo a un numero tutto sommato piuttosto ristretto di predicati (nevrotico, perverso, criminale, sociale), l’aggettivazione che modula il termine masochismo è molto più cospicua. Per limitarci alle espressioni più frequenti, si è parlato non solo, con Freud, di masochismo primario (originario) e secondario, perverso e nevrotico, erogeno, “femmineo” e morale, ma anche di masochismo ideale, fondamentale, formale, sociale, dimostrativo, estetico, ordinario. La lista è lungi dall’essere completa. Il masochismo, sembrerebbe, si dice in molti modi: il suo “problema economico” ha assunto figura e densità grazie alla declinazione delle sue modulazioni e all’analisi della sua varietà, delle sue fasi, del suo “movimento”.1. Solo nel 1924 Freud, è noto, si è risolto a parlare apertamente di “enigmaticità” della tendenza masochista e del “grande pericolo” da essa rappresentato (ben maggiore di quello legato al sadismo).2. Egli lo ha fatto chiedendosi se il dolore e il dispiacere, nella misura in cui si trovino a essere subiti e cercati come finalità, non pongano in questione il dominio del principio di piacere nei processi psichici. Più precisamente, Freud si domanda se nel masochismo il dolore non rappresenti il momento di una vera e propria “paralisi” – o di una “narcosi” – di quello che egli non ha mai

smesso di considerare il “guardiano della nostra vita psichica”, anzi della vita umana tout court, il Lustprinzip, appunto.3. Questione determinante, che il fondatore della psicoanalisi affronta con circospezione, non senza moltiplicare le ipotesi esplicative, da un lato interrogandosi sui rapporti che il “guardiano” intrattiene con le pulsioni di morte e le pulsioni erotiche, dall’altro isolando con attenzione forme, dinamiche, proprietà essenziali della tendenza masochista, sottolineandone ormai una consistente indipendenza rispetto a quella sadica. Nel successivo moltiplicarsi delle qualificazioni del fenomeno si può cogliere il segnale di una considerazione della sua natura intesa ad assumerlo in chiave per così dire transclinica: esso, cioè, oltre e più che essere indagato in termini di “anormalità” e perversione, è colto come un elemento basilare della configurazione del sintomo stesso in quanto tale, e al limite anzi come “possibilità” esistenziale che è sempre possibile veder affiorare nei destini soggettivi, nel rapporto che gli uomini intrattengono con se stessi e con l’altro. Nel campo filosofico il masochismo è stato discusso verificando i modi in cui si manifesta nell’ambito delle forme vigenti di organizzazione della vita, della cultura, della società, e al contempo tentando di ricavarne una prospettiva aggiornata sulle dinamiche del desiderio. Nello stesso torno di tempo in cui si è ragionato sull’“uomo moderno” in quanto “animale masochista”,4. il tema è stato affrontato ponendolo in rapporto con altri nuclei fortemente problematici del pensiero contemporaneo. Si potrebbe dire che, in modo implicito o esplicito, due questioni in particolare abbiano accompagnato e persino guidato l’interesse teorico nei confronti della tendenza masochista. Anzitutto il problema del rapporto tra padrone e servo, nella sua struttura, nelle sue possibilità di sclerosi e nelle sue mutazioni; in secondo luogo la questione della tenuta, nella vita individuale come in quella collettiva, delle forme simboliche dell’autorità e della Legge, questione discussa in relazione all’eclissi della funzione paterna e della sua capacità di regolare il campo del desiderio. Incrociandosi con questi cospicui plessi problematici, l’enigmaticità del desiderio masochista si è rivelata suscettibile di rilanciare la comprensione di temi determinanti della riflessione etica, offrendo possibilità interpretative capaci di presentarli in nuova luce.

Si ricorderà che il sogno che apre Venus im Pelz è rudemente interrotto dai rimproveri che colpiscono il dormiente sottraendolo alle delizie del suo incontro onirico. A scuotere il narratore è la “voce rauca” del suo servo cosacco, che lo apostrofa con severità riferendosi stranamente agli interessi filosofici del suo padrone: “In piedi e si vergogni. È il colmo! Andare a letto vestito e per giunta con un libro... e di Hegel”.5. Non si è mancato di interrogarsi sulle ragioni della comparsa del nome del campione dell’idealismo in apertura del romanzo poi divenuto paradigmatico della figurazione del desiderio di un uomo di farsi schiavo di una donna da lui stesso posta nel ruolo di padrona. E c’è chi, tra il serio e il faceto, ha potuto rammaricarsi dell’assenza di indicazioni più precise circa il volume caduto dalle mani del narratore al momento di cedere al sonno e al sogno troncati dall’ammonimento perentorio del domestico. Il riferimento però è così tenue da non aver consentito altro che ipotesi, legate anzitutto al tono umoristicamente polemico della critica che la Venere sognata dal narratore formula nei confronti dell’astrattezza e dei rigori della “filosofia tedesca”, ovvero contro la morale della “gente del Nord”, rea di non saper intendere l’amore altrimenti che nel registro del dovere e della serietà.6. Hegel però, non c’è chi lo ignori, è il titolare della narrazione teorica più celebre della modernità matura, quella proposta nella Fenomenologia dello Spirito con la figura della lotta per il riconoscimento: pagine fondanti per il discorso filosofico tra Otto e Novecento, se è vero che la descrizione del conflitto delle autocoscienze, in quanto genealogia della coppia dominantedominato e in quanto luogo di identificazione di un protagonismo essenziale del servo al di là delle gioie parassitarie del padrone, ha rappresentato lo sfondo teorico delle elaborazioni teoriche marxiste, a cominciare da quelle relative alla soppressione delle contraddizioni del sistema capitalistico attraverso la creazione, da parte del servo proletario, di una fruizione comune e libera di ciò che quel sistema produce, fruizione che diverrebbe possibile a partire da un’abolizione della proprietà privata e del valore di scambio foriera della fine dello sfruttamento di un lavoro vivo che così cesserebbe di essere servile. Non si consideri fuori luogo il rinvio alla scena hegelo-marxista: parte dell’interesse filosofico manifestatosi lungo il Novecento per le figure del desiderio presentate dal masochismo e dal sadismo attinge in effetti alle trasformazioni contemporanee, indotte anche dall’evenemenzialità storica,

della prospettiva di comprensione dei rapporti di dominazione. Tali rapporti sono in effetti risultati vieppiù problematici, e solo in parte passibili di una lettura orientata dalle categorie abituali, una volta che il tremendo “secolo breve” – prima con la subordinazione dell’esperimento comunista sovietico al primato incondizionato della produttività, poi con la sottomissione e il lavoro distruttivi nei campi di concentramento, poi ancora con l’inscrizione dell’esistenza in cicli produttivi permanenti, nel quadro di un crescente sbiadirsi della distinzione tra tempo della vita e tempo del lavoro – si è incaricato di mostrare l’inattendibilità dell’idea di un affrancamento del dominato grazie alla potenza del lavoro, e insomma il carattere mitico, piuttosto che genetico, della visione di una servitù che sarebbe in quanto tale capace di percorrere le strade dell’autodeterminazione, grazie a differimento dell’appagamento e acquisizione di sapere e consapevolezza. Per dirla con il Lacan della relazione al congresso di Royaumont del 1960 (organizzato da Wahl e dedicato a La dialettica) “non vi è illusione più manifesta politicamente e a un tempo psicologicamente” di quella secondo cui il lavoro del servo, pensato come “rinuncia al godimento [jouissance] per timore della morte”, rappresenterebbe la strada che conduce all’emancipazione.7. In effetti, nota Lacan, l’esperienza, quella storica, ma anche quella psicoanalitica del sintomo, mostra che nella realtà “il godimento è facile per il servo, e lascerà servo il lavoro”.8. Come dire che dopo la visione “eroica” della Knechtschaft in Hegel, e dopo la scommessa di Marx sull’affrancamento del proletariato – soggetto storico collettivo pensato nei termini filosofici di coscienza, universalità, razionalità – l’epoca e il pensiero hanno richiesto di interrogare criticamente l’idea che le vie della libertà siano per il servo moderno spianate e direttamente percorribili. Nella pagina citata Lacan va dritto al punto, parlando di un godimento servile qualificato come perfettamente agevole, e indicato come una delle ragioni di fondo della sospensione del presunto processo di emancipazione del lavoro. Ciò che Lacan invita a pensare, qui come altrove,9. è insomma il fatto che qualcosa nella posizione del servo (almeno nella misura in cui essa può trovarsi legata a una jouissance che, in quanto stato di eccitazione potenzialmente senza limiti, supera il mero piacere, inteso come ciò che si produce con la diminuzione di una tensione psichica) può far sì che essa conosca un ostacolo determinante per le sue possibilità di farsi altro da ciò che è.

Si è osservato che nel Novecento l’interesse diffuso per Sade e il sadismo è tributario per un verso dello sforzo di comprendere gli aspetti psichici delle atrocità prodottesi con i regimi totalitari, per l’altro della volontà di interrogarsi sulle dinamiche fondamentali della trasgressione e sulle loro eventuali possibilità emancipatrici.10. Si può dire che, almeno per alcuni suoi aspetti qualificanti, la riflessione filosofica sul masochismo conosca anch’essa – sul piano dell’indagine sul desiderio, la libertà, il rapporto con l’altro – almeno due diverse inflessioni, se è vero che da un lato si è sforzata di cogliere alla loro origine le pieghe del fenomeno della “sottomissione volontaria”, dall’altro si è rivolta a mostrare nella struttura dello psichismo masochista la presenza di una sorta di paradossale possibilità di affrancamento. A leggerle alla luce dell’osservazione lacaniana sul godimento servile, le pagine sartriane di L’essere e il nulla sull’attitudine masochista nelle “relazioni concrete con gli altri” risultano di grande interesse, tanto più in quanto si aprono con la considerazione che, in tali relazioni, “mentre cerco di soggiogare l’altro, l’altro tenta di soggiogarmi” e che perciò occorre ammettere che “il conflitto è il senso originario del per-altri”.11. Il ragionamento di Sartre può essere così compendiato: ciò a cui il masochista ambisce è disfarsi della propria libertà, alleggerirsi del peso della propria soggettività e della propria responsabilità. Egli tenta di farlo attraverso un asservimento all’altro così integrale da consentirgli di rinunciare a se stesso. “Io progetto di farmi assorbire dall’altro e di perdermi nella sua soggettività per sbarazzarmi della mia.”12. Per porsi al riparo dall’esercizio angoscioso della libertà, dall’incertezza, dal conflitto, il masochista anela alla passività di un oggetto compatto e privo di mancanze. Se egli si umilia, se desidera essere avvilito, oltraggiato, violato in ogni modo, se si “impegna tutto nell’essere-oggetto”,13. è perché da questa manovra ottiene un guadagno psichico decisivo. Facendo di se stesso un oggetto-rifiuto, uno scarto, egli raggiunge la consistenza di qualcosa di solido e totalmente compiuto, a cui non manca niente. Essere un oggetto fra gli oggetti, farsi costituire dall’altro come uno strumento inanimato, ridursi a qualcosa di inerme, di quasi inorganico grazie alla deposizione di ogni tratto di soggettività, permette al masochista di disfarsi della sua “trascendenza” e dell’umana “mancanza a essere”, e così di vivere una vita non più sottoposta all’angoscia della scelta, né votata all’esercizio della

volontà. Il godimento dell’asservimento – godimento incondizionato, non più intaccato da nessun vuoto – scaturisce allora dal farsi-passivo che il sottomesso persegue. Dispiacere e dolore non sarebbero affatto l’obiettivo ultimo del masochista, bensì il mezzo che gli permette di mirare a una peculiare totalizzazione del proprio essere. Deleuze ha volentieri indicato in Sartre una figura importante della propria formazione,14. sicché ci si potrebbe interrogare su quanto le notazioni sartriane possano aver concorso alla sua idea di occuparsi di masochismo, piuttosto che di sadismo, seguendo con ciò una via ben diversa da quella percorsa da molti tra i pensatori contemporanei a lui più prossimi, a cominciare da Klossowski e Foucault.15. Sia come sia, Présentation de Sacher-Masoch, edito nel 1967, alla vigilia dell’“intrusione del reale puro” del Maggio francese,16. apparve subito assai innovativo, nella misura in cui, fondandosi sulle analisi di Reik, rintracciava gli elementi strutturali del masochismo – per differenziarlo con cura dal sadismo e sottolinearvi l’importanza sintomale del rapporto contrattuale – e giungeva a leggerlo come una sorta di singolare “atto di resistenza”.17. La proposta di Deleuze conosce i suoi punti più caratteristici nella tematica dell’“annullamento del padre” e in quella dell’“elemento giuridico”, assunte entrambe come aspetti distintivi dell’impresa masochista, colta come tentativo di realizzare una “seconda nascita” e produrre un “Uomo nuovo”.18. Che tipo di uomo? Deleuze valorizza questa citazione di Sacher-Masoch: un “uomo che rinuncia all’amore sessuale, alla proprietà, alla patria, al lavoro”.19. Elenco privativo in cui, sullo stesso piano e al medesimo titolo, appaiono sia l’ambito erotico, nella misura in cui si lega ai sensi e alla carnalità, che quello politico-sociale, marcato da possesso, appartenenza a un luogo d’origine, obbligo produttivo. Deleuze aveva in effetti aperto il sesto capitolo del suo libro – quello in cui sono discussi funzione e senso del contratto masochista – alludendo ai Manoscritti economico-filosofici del 1844, lì dove il giovane Marx sosteneva che “la soppressione della proprietà privata rappresenta la completa emancipazione di tutti i sensi e di tutti gli attributi umani”, perché, eliminando l’alienazione, fa sì che essi cessino di essere animali, si liberino della “prigionia dei bisogni pratici primordiali” e diventino “immediatamente, nella loro prassi, teorici”,20. giacché infine il loro

“oggetto [diviene] un oggetto umano, culturale, proveniente dall’uomo e destinato all’uomo”.21. Per Deleuze l’enigma del masochismo richiede di essere affrontato cogliendovi la tensione a una metamorfosi fondamentale che consenta al soggetto di smettere di relazionarsi ai suoi oggetti in termini di possesso, avere, appagamento, piacere. Il masochista plasma una donna che, infliggendogli dolore e umiliazione, sarebbe in grado di plasmare colui che l’ha plasmata, producendo in lui un movimento che lo conduce al di là tanto della sessualità genitale (e edipica, giacché – ci torneremo – chi nel masochista viene picchiato, scrive Deleuze parafrasando Freud, non è “un bambino”, ma “un padre”),22. quanto della conflittualità sociale (perché qui, per così dire, il servo cessa di tentare di insignorirsi e, con una sorta di movenza sur place, si sottrae al campo stesso della dialettica). Attraverso il medio di un dolore sempre rinnovato e sempre di nuovo sospeso, lo schiavo masochista gode indefinitamente, blocca la necessità di un piacere conclusivo. Egli realizza un desiderio prolungato, affrancato dall’urgenza di compiersi in una finalità che lo trascende.23. Al contempo, sul piano sociale, il masochista “è schiacciato solo in apparenza”:24. al di là della sua fittizia debolezza esteriore, è pronto in realtà a deformare, parodiare, contestare, provocare le forze dominanti, sottomettendosi alle loro istanze “con tale spavalda obbedienza da rovesciarne il significato” e “rivelarne l’assurdità”.25. Non stupisce, in questo senso, che circa dieci anni dopo Présentation de Sacher-Masoch, Deleuze abbia potuto segnalare il proprio interesse per S.A.D.E. di Carmelo Bene, sottolineandone la capacità di rendere perspicuo il fatto che il “servo masochista” non va compreso come “l’immagine rovesciata del padrone, né tanto meno come la sua replica o identità contraddittoria”; nel masochismo, piuttosto, il servo “si cerca, si sviluppa, si trasmuta, si esperimenta”, e così “si costituisce per pezzi, a brandelli, partendo dalla neutralizzazione del padrone”, in funzione delle sue fissazioni e delle sue incapacità.26. Elogio del masochismo in salsa “critico-clinica”? Si può dire che il richiamo deleuziano al sintomo masochista, fondato sul confronto con il campo della letteratura – confronto che in Deleuze avviene per la prima volta precisamente con la lettura di Sacher-Masoch – sia compiuto non solo per riflettere sui modi in cui, nel godimento, la pulsione è capace di spingere il desiderio al di là del piacere e al contempo al di là delle leggi

che, regolando il conflitto col padrone, lo predeterminano, ma in certo senso anche per rispondere con un disciplinato e produttivo umorismo filosofico all’umorismo letterario precipuo dei testi a cui il pensatore si rivolge.27. Nelle sue pagine Sartre aveva precisato come il tentativo di asservimento attuato dal masochista con la sua adesione alla posizione di oggetto in vista della produzione di una completezza assoluta – del rifiuto di qualsiasi mancanza – non potesse che conoscere la sconfitta. Per quanti sforzi faccia, si legge in L’essere e il nulla, il masochista non può riuscire a percepirsi come privo di soggettività. Egli potrà umiliarsi, farsi usare come uno strumento, lasciarsi colpire finché vorrà, ma continuerà a sentire che “solo per l’altro sarà osceno e semplicemente passivo, per l’altro subirà tali atteggiamenti; per lui è sempre condannato a darseli”.28. Insomma, più il masochista cercherà di assaporare la propria oggettività e lasciarsene ammaliare, più continuerà a “essere sommerso dalla coscienza della propria soggettività”,29. e in definitiva non gli sarà possibile eludere il dato che è solo grazie alla sua più propria “trascendenza” che egli può presentarsi come un essere da trascendere (il che evidentemente chiarisce che è senz’altro lui a fare dell’altro uno strumento, piuttosto che il contrario). L’interpretazione di Deleuze sembra sbiadire la stessa opposizione pertinente sconfitta/vittoria, per invitare a pensare che l’attitudine masochista mette capo a un particolare ibrido, alla stranezza di una resa invincibile. Deleuze trae cioè tutte le conseguenze di quanto Reik aveva osservato considerando il masochismo come luogo del manifestarsi di una fondamentale sospensione (suspence) della tensione psichica, di un pronunciato tratto dimostrativo e di un elemento provocativo evidente: ciò che gli faceva dire icasticamente che “il masochista perde tutte le battaglie eccetto l’ultima” e che, alla prova dei fatti, di fronte a lui “tutte le misure inibenti dell’educazione e della cultura sono destinate a fallire”.30. Possiamo così avvicinarci alla seconda delle questioni che, come si diceva in apertura, incrociano la riflessione filosofica sul masochismo: quella che riguarda il problema dell’autorità e della Legge, nel loro legame con il tema dell’incidenza della figura paterna, assunta nelle sue virtualità normative o regolatrici del desiderio. È che in effetti “sospensione” del piacere e “provocatorietà” non sollecitano solo a una riconsiderazione del conflitto servo-padrone in grado di mostrare ciò che sconsiglia di intenderlo in termini dialettici; esse possono anche essere lette come un momento di

erosione dei generali elementi di organizzazione e delimitazione del campo del desiderio così come sono stati posti dal sapere psicoanalitico ai suoi inizi. A grandi tratti, il problema può essere ricapitolato in questo modo. Con la modernità matura, quel luogo peculiare dell’intersezione tra biologico e culturale che è per l’uomo l’istituzione familiare si trasforma profondamente, in modo correlativo alla spinta individuale all’affrancamento da ogni potere esterno. Si può ricorrere in proposito alla testimonianza di Tocqueville, acutissimo lettore delle modificazioni psicoantropologiche indotte dall’instaurarsi della società democratica di massa. Tra padre e figlio, si legge in La democrazia in America, tende a stabilirsi una forma di “intimità” e di confidenza “che rende l’autorità meno assoluta e che mal si accorda con le forme esteriori del rispetto”.31. La relazione tra i due limita allora la loro differenza alla semplice realtà biologica dell’età: il potere accordato al padre diviene null’altro che “quello che piace sia accordato alla tenerezza e all’esperienza di un vecchio”.32. La sua figura e le sue parole cessano di essere costrittive; i precetti che esse veicolano vengono assunti più come indicazioni che come regole cogenti, a carattere incondizionato. Padre e figlio tendono insomma a istituire un legame pressoché paritario, “fraterno”, che con sempre maggiore difficoltà conserva il valore di possibile luogo di iscrizione delle differenze e di trasmissione dei vincoli autoritativi della tradizione, dell’educazione, dell’ordine sociale.33. Lo sforzo teorico che alla fine del XIX secolo conduce all’invenzione della psicoanalisi rappresenta una risposta alle difficoltà profonde che per gli individui scaturiscono – testimoni le diverse configurazioni psicopatologiche – dall’impulso all’autodeterminazione e dalla crescente orizzontalità del rapporto con la figura paterna. Confermando una centralità decisiva, sulla scena inconscia, della figura di un Padre-Sovrano – della proibizione dell’incesto e della minaccia di castrazione che da lui procedono – Freud mostrava la permanente attualità, nella vita psichica, di ciò che la congiuntura storico-sociale mostrava come in via di dissolvimento. L’individuazione teorica del complesso edipico e del suo superamento, in quanto elementi essenziali per il desiderio del soggetto – il quale con la via lunga dell’attraversamento del rapporto di obbedienza/rivolta nei confronti del padre giunge alla risoluzione degli

effetti sintomali del senso di colpa e della costrizione pulsionale – è punto cardine della dottrina psicoanalitica classica, nella misura in cui implica l’idea di un valore normalizzatore dell’immagine paterna, individuata come fattore essenziale della costruzione soggettiva e della possibilità di limitare la forza del vincolo che problematicamente lega ogni essere umano al corpo materno. Con la sua idea di “Nome-del-padre”, Lacan proporrà una riattivazione del nucleo dell’invenzione freudiana, e al contempo una sua revisione, giacché egli, rispondendo al sempre più evidente fading contemporaneo dell’istanza paterna, mette a fuoco, ben al di là della persona reale o immaginata del padre, l’aspetto strutturante di quella che, nella sua teoria, diviene a tutti gli effetti una funzione simbolica, suscettibile di consentire al soggetto di confrontarsi con l’enigma del desiderio della madre (funzione di cui chiunque può farsi supporto e di cui si può dire, in sintesi, che costituisca la modalità attraverso cui la cultura, articolando il divieto dell’incesto, mette a distanza la rappresentazione immaginaria dell’onnipotenza).34. Ora, il punto è che l’invenzione freudiana dell’Edipo, e l’idea di un riferimento al padre riguardo alla questione dell’autorità, dell’ordine, della Legge, è apparsa sempre meno cogente e solo in parte funzionale alla comprensione delle vicissitudini psichiche individuali e dei “disagi della civiltà”. Se quell’invenzione poteva ancora apparire adeguata al quadro sintomale nevrotico, la sua pertinenza rispetto a ciò che eccede tale quadro – a cominciare da psicosi e perversioni (e tra queste la più frequente e significativa, appunto il masochismo) – è stata percepita come problematica. È notevole in questo senso che nello studio che precede di qualche anno la Présentation de Sacher-Masoch e ne costituisce un antefatto decisivo, Deleuze, nel contestare l’“inflazione del padre nella teoria di Freud”,35. ritenga di ricorrere, per opporvisi, alla dottrina junghiana dell’immagine primordiale della Madre e alla concezione del simbolo come “dato irriducibile dell’inconscio” così come era stata avanzata in Wandlungen und Symbole der Libido (1912), il testo di Jung che, con l’enfasi posta sugli archetipi collettivi, segna la rottura definitiva con Freud.36. Nel 1961 l’essenza del masochismo è ricercata da Deleuze in una derisione della legalità paterna che si consuma in virtù di una regressione alla Madre (attraverso una fantasia di incesto vissuta come ritorno a un

grembo materno da cui il soggetto potrà sognare di uscire nuovamente, grazie a una rinascita eroica). Esso è letto come una protesta di una parte di noi stessi oppressa dalla legge paterna e come una possibile compensazione a tale oppressione. Sei anni dopo Deleuze lascerà cadere ogni riferimento a Jung, ma terrà fermo il nucleo teorico dell’“espulsione del padre”. Tuttavia lo articolerà ormai – ben più solidamente – a partire da una rilettura della teoria freudiana del disconoscimento (Verleugnung) feticista della mancanza materna e soprattutto da una valorizzazione del carattere primigenio, assolutamente dominante del fantasma.37. Deleuze si impegna a identificare appunto nell’impersonale dispositivo fantasmatico e nella sua caratteristica capacità di destituire l’opposizione tra “soggettivo” e “oggettivo” ciò che genera il campo entro i cui limiti paradossali si dispiega il desiderio masochista (il masochismo non è che “l’arte del fantasma”, scrive).38. La scena fantasticata, teatralizzata, ritualizzata non cessa di alimentare tale desiderio, e caratteristicamente il soggetto la rinforza attraverso il contratto con una “carnefice” freddamente materna, contratto che, istituendolo come schiavo, oggetto-scarto di una donna, sospende la possibilità di vigenza o di ritorno del padre. In tal modo il masochista mira a farsi padrone del proprio godimento, avendo per così dire rifondato la legge in modo da renderla non più contraria, bensì favorevole a tale jouissance. Di qui gli elementi provocatori nei confronti delle forze dominanti della civiltà e la derisione sottilmente sprezzante opposta alle misure repressive della cultura. Non può stupire il grande interesse che Lacan – una volta riconosciuti i limiti della metafora del Nome-del-Padre e avviata l’innovativa riflessione intorno all’oggetto perduto causa del desiderio (l’“oggetto a piccolo”) – ha manifestato per la Présentation de Sacher-Masoch.39. Oltre ai temi della specificità del masochismo rispetto al sadismo e del ruolo determinante, non del dolore come tale, ma del prolungamento dell’eccitazione sessuale in concomitanza con il dolore, ciò che soprattutto interessa Lacan è il modo in cui Deleuze, nel rilevare la funzione del contratto, ricostrui-sce gli aspetti essenziali del fantasma e dell’“oggettualità” masochisti.40. Non è qui possibile evocare la complessiva interpretazione lacaniana della perversione, nel cui quadro si situa la lettura del masochismo in quanto “massimo godimento dato dal reale”.41. Vale però osservare come nel seminario del 1968-69 Da un Altro all’altro Lacan integri l’analisi di

Deleuze – sospendendone il versante “umoristico” – su un punto sicuramente rilevante, che non solo fornisce una preziosa indicazione di fondo circa le modalità peculiari in cui nella posizione del masochista si produce la sua incarnazione come oggetto-rifiuto (la sua metamorfosi in oggetto a piccolo), ma riporta anche al cuore oscuro della contemporaneità, alla spina che la storia del Novecento ha piantato nel pensiero filosofico, psicoanalitico, politico, e che non cessa di assillarlo. Lacan nota come nell’analisi del fenomeno masochista non sia stata rilevata la funzione fondamentale che vi riveste la dimensione oggettuale della voce: la scelta, la successione, l’enfasi, i toni, la cadenza, il ritmo di parole e frasi. Ciò su cui non ci si è soffermati abbastanza è la circostanza che il soggetto, perdendo del tutto la propria voce, o meglio facendo in modo da restarne privo, la rimetta completamente all’Altro, al quale per lui si tratterà di rispondere “come un cane”.42. L’oggetto a piccolo voce, la pura materia sonora di una vocalità “fredda e percorsa da tutte le correnti dell’arbitrarietà” sono reperiti da Lacan come cardine della configurazione masochista del fantasma.43. Qui il soggetto instaura l’Altro come dotato della voce in quanto oggetto perduto: egli si procura il godimento completando l’Altro con i diversi ritmi di una voce-oggetto che, rivolgendoglisi perentoriamente, potrà denigrarlo, insultarlo, impartirgli ordini mortificanti e penosi. Cade qui il riferimento di Lacan alla scena contemporanea, che converrà riportare per intero: “Diciamolo, basta aver vissuto nella nostra epoca per sapere che c’è un godimento in questa rimessa all’Altro della funzione della voce [...]. [Nell’opera di Sade] ci vengono raccontati gli eccessi più straordinari nei confronti di vittime la cui incredibile sopravvivenza può stupire. Ma non c’è neanche uno di questi eccessi che non sia non solo commentato, ma fomentato da un ordine. La cosa più sorprendente è che non provocano nessuna rivolta. Ma dopo tutto anche noi abbiamo potuto constatare con esempi storici che le cose possono andare così. In queste greggi che si sono trovate spinte verso i forni crematori, sembra che non si sia mai visto qualcuno mettersi d’un tratto anche soltanto a mordere il polso di un guardiano”.44. Questo inquietante rinvio al campo di sterminio in riferimento all’oggettualità vocale masochista (e non solo alla tendenza sadica, come è sin troppo spesso avvenuto) pare indicare ellitticamente le motivazioni psichiche che permetterebbero di inquadrare la circostanza dell’assenza di

vere rivolte contro la configurazione più atrocemente distruttiva prodottasi del rapporto dominanti-dominati. L’osservazione di Lacan richiederebbe un’estesa discussione, pronta a esaminare le pagine considerevoli di Reik sul tratto masochista che può segnare la vita di interi popoli, culture, società, gruppi,45. e al contempo a discutere l’incidenza essenziale della dimensione sonora sullo psichismo umano.46. Qui, però, per concludere, preferiamo leggervi un richiamo all’opportunità di non cessare di interrogarsi sulle figure e i modi – persino quelli “vocali” attivati nel masochismo – attraverso cui l’uomo si manifesta, con le parole di Maurice Blanchot, come un “indistruttibile che può essere distrutto”.47. 1

Cfr. M. de M’Uzan, De l’art à la mort, Gallimard, Paris 1977, pp. 132-133: “Al termine masochismo sarei portato a preferire quello di movimento masochista”. 2 S. Freud, Das ökonomische Problem des Masochismus (1924), in Gesammelte Werke, Fischer, Frankfurt a.M. 1976, vol. XIII, p. 371; trad. di R. Colorni, Il problema economico del masochismo, Boringhieri, Torino 1975, vol. X, p. 5: “Il masochismo ci appare dunque nella veste di un grande pericolo, mentre ciò non vale affatto per il suo corrispettivo opposto, il sadismo”. Dove ritenuto necessario o opportuno le traduzioni citate sono state modificate. 3 Ibidem: “Se il principio di piacere domina i processi psichici in maniera tale che il loro primo scopo è quello di evitare dispiacere e ottenere piacere, il masochismo è incomprensibile. Se invece il dolore e il dispiacere non sono meri avvertimenti, ma possono essi stessi rappresentare dei fini [Ziele], il principio di piacere ne risulta paralizzato [lahmgelegt] e in un certo senso narcotizzato [gleichsam narkotisiert] il guardiano [Wächter] della nostra vita psichica. […] Siamo tentati di affermare che il principio di piacere non è solo il guardiano della nostra vita psichica, ma della nostra vita in genere”. 4 T. Reik, Masochism in Modern Man, Farrar & Rinehart, New York-Toronto 1941; trad. di L. Volpatti, Il masochismo nell’uomo moderno, Sugar, Milano 1963, p. 8. Al termine dell’introduzione al suo volume Reik precisava: “Mi sono interessato maggiormente al problema di un tipico comportamento nei riguardi della vita, piuttosto che di quello tragicamente anormale. Questo è un problema che compromette sempre più la nostra intera cultura. Voglio far notare questo aspetto della odierna situazione umana” (ivi, p. 12). 5 L. von Sacher-Masoch, Venus im Pelz (1870); trad. di S. Formilli, Venere in pelliccia, RL Gruppo Editoriale, Rimini 2010, p. 7. 6 Ivi, pp. 4-5. 7 J. Lacan, “Subversion du sujet et dialectique du désir dans l’inconscient freudien” (1960), in Écrits, Seuil, Paris 1966, p. 811; trad. a cura di G.B. Contri, “Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano”, in Scritti, Einaudi, Torino 2002, vol. II, p. 813. 8 Ibidem. 9 Cfr. per esempio J. Lacan, Le Séminaire. Livre XIV. La logique du fantasme (1967-68), inedito, lezione del 12 aprile 1967. Sulla lettura critica della dialettica hegeliana servo-padrone e sull’interpretazione lacaniana di Marx vedi: P. Bruno, Lacan, passeur de Marx. L’invention du symptôme, Erès, Toulouse 2010; B. Moroncini, Lacan politico, Cronopio, Napoli 2014, pp. 99-126. 10 Cfr. É. Marty, Pourquoi le XXe siècle a-t-il pris Sade au sérieux?, Seuil, Paris 2011.

11

Cfr. J.-P. Sartre, L’être et le néant, Gallimard, Paris 1943, III, 3, § 1; trad. di G. Del Bo, L’essere e il nulla, il Saggiatore, Milano 1997, p. 414. 12 Ivi, p. 428. 13 Ibidem. 14 “Per fortuna c’era Sartre”, esclama parlando del dominio dell’hegelismo e della fenomenologia nel panorama filosofico del secondo dopoguerra francese: cfr. G. Deleuze, Dialogues, Flammarion, Paris 1977, p. 13; trad. di G. Comolli, Conversazioni, ombre corte, Verona 1998, p. 18. Cfr. Id., “‘Il a été mon maître’” (1964), in L’île déserte. Textes et entretiens 1953-1974, Minuit, Paris 2002, pp. 109113; trad. a cura di D. Borca, “‘È stato il mio maestro’”, in L’isola deserta e altri scritti, Einaudi, Torino 2007, pp. 98-103. 15 Cfr. Id., “Desir et plaisir” (1977), in Deux régimes de fous. Textes et entretiens 1975-95, Minuit, Paris 2003, pp. 119-120; trad. a cura di D. Borca, “Desiderio e piacere”, in Due regimi di folli, Einaudi, Torino 2010, p. 101: “Mi dico che non è casuale che Michel dia una certa importanza a Sade e io al contrario a Masoch. Non basta dire che io sarei masochista e Michel sadico. Lo si potrebbe, ma non è vero. Ciò che m’interessa in Masoch non sono i dolori, ma l’idea che il piacere interrompa la positività del desiderio”. 16 Id., Pourparlers, 1978-1990, Minuit, Paris 20032, p. 198; trad. di S. Verdicchio, Pourparler, Quodlibet, Macerata 2000, p. 192: “Credo che il ’68 sia stato la scoperta [dell’univocità del reale]. Coloro che odiano il ’68 o che ne giustificano la sconfessione considerano che sia stato simbolico o immaginario. Ma in effetti non è mai stato così: fu un’intrusione del reale puro”. 17 Ivi, p. 195; trad. p. 189. 18 G. Deleuze, Présentation de Sacher-Masoch, Minuit, Paris 1967, 20072, p. 87; trad. di G. De Col, Il freddo e il crudele, SE, Milano 1991, pp. 110-111. 19 Lettera di L. von Sacher-Masoch al fratello Karl dell’8 gennaio 1869, citata in W. von SacherMasoch, Meine Lebensbeichte, Schuster, Berlin 1906; trad. di G. Bartoli, Le mie confessioni, Adelphi, Milano 1998, p. 340. Cfr. G. Deleuze, Présentation de Sacher-Masoch, cit. p. 87; trad. p. 111. 20 K. Marx, Ökonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844; trad. a cura di N. Bobbio, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 2004, pp. 112-114. 21 G. Deleuze, Présentation de Sacher-Masoch, cit., p. 61; trad. p. 79. 22 Cfr. ivi, pp. 53-54; trad. p. 68. 23 Nel corso della lezione del 27 maggio 1980 a Vincennes, Deleuze, nell’avvicinare masochismo, amore cortese, forme della sessualità cinese, dirà che il masochista “è qualcuno che in una maniera perversa – che lo porterà a una strana impasse – vive in modo assai rigoroso il fatto che il desiderio è un processo continuo, e dunque ha orrore, un orrore affettivo, per tutto ciò che potrebbe interrompere il processo. Di conseguenza non cessa di allontanare il piacere, che è un modo di interruzione “gradevole” del processo. A profitto di cosa? A profitto, letteralmente, di un vero “campo d’immanenza” del desiderio, in cui il desiderio non deve smettere di riprodurre se stesso” (). 24 Id., Présentation de Sacher-Masoch, cit., p. 105; trad. p. 137. 25 Cfr. T. Reik, Il masochismo nell’uomo moderno, cit., pp. 98 e 151-167. 26 G. Deleuze, “Un manifeste de moins”, in C. Bene, G. Deleuze, Superpositions, Minuit, Paris 1979, p. 89; trad. di J.-P. Manganaro, “Un manifesto di meno”, in C. Bene, G. Deleuze, Sovrapposizioni, Feltrinelli, Milano 1978, p. 70. 27 L’intera settima sezione della Présentation de Sacher-Masoch è dedicata alla decisiva questione dell’umorismo, sulla quale due anni dopo tornerà la sezione XIX di Logica del senso, annodando intorno a essa non solo il tema della perversione, ma anche quelli dell’“arte delle superfici”, delle “singolarità nomadi”, dell’“evento puro”: cfr. Id., Logique du sens, Minuit, Paris 1969, p. 166; trad.

di M. de Stefanis, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 2011, p. 127. Un bilancio critico sul valore del libro su Masoch nell’itinerario deleuziano si ricava dagli studi raccolti in “Multitudes. Masoch/Deleuze”, 25, 2006. 28 J.-P. Sartre, L’être et le néant, cit., III, 3, § 1; trad. p. 429 (corsivo nel testo). 29 Cfr. ibidem. 30 T. Reik, Il masochismo nel mondo moderno, cit., p. 213. 31 A. De Tocqueville, De la démocratie en Amérique II (1840), in Œuvres, II, Gallimard, Paris 1992, p. 708; trad. a cura di N. Matteucci, “La democrazia in America”, in Scritti politici, II, UTET, Torino 1968-1969, p. 688. 32 Cfr. ivi, p. 709; trad. p. 688. 33 Resta utile in proposito la disamina storico-critica offerta da M. Cavina, Il padre spodestato. L’autorità paterna dall’antichità a oggi, Laterza, Roma-Bari 2007. 34 Cfr. J. Lacan, “D’une question préliminaire à tout traitement possible de la psychose” (1957-58), in Écrits, cit., pp. 531-583; trad. di G. Contri, “Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi”, in Scritti, cit., vol. II, pp. 527-579. 35 G. Deleuze, De Sacher-Masoch au masochisme, “Arguments”, 21, 1961, p. 42: “In generale la psicoanalisi freudiana soffre di un’inflazione del padre. Nel caso particolare del masochismo, siamo invitati a una ginnastica stupefacente per spiegare come l’immagine del Padre sia prima interiorizzata nel Super-io, poi ri-esteriorizzata in un’immagine di donna. Spesso tutto avviene come se le interpretazioni freudiane raggiungessero solo gli strati più superficiali e più individualizzati dell’inconscio. Esse non entrano nelle dimensioni profonde in cui l’immagine di Madre regna per suo conto, senza dovere nulla all’influenza del padre”. 36 Cfr. ivi, p. 46: “[Freud] non riuscì a cogliere il ruolo delle immagini originali: esse non si spiegano se non con se stesse, sono insieme il termine delle regressioni e il principio di interpretazione degli eventi in sé. I simboli non si lasciano né ridurre né combinare; al contrario, sono la regola ultima per la combinazione dei desideri e del loro oggetto, costituiscono i soli dati irriducibili dell’inconscio. L’unico dato irriducibile dell’inconscio è il simbolo stesso, e non un ultimo simbolizzato”. Su questo “scheletro nell’armadio di Deleuze”, cioè la sua “ammirazione per Jung” (cfr. S. Žižek, Notes on a Debate “From Within the People”, “Criticism”, 4, 2004, p. 662), vedi i contributi di C. Kerslake, Rebirth Through Incest. On Deleuze’s Early Jungianism, “Angelaki. Journal of the Theoretical Humanities”, 9, 2004, pp. 135-157; Id., Deleuze and the Unconscious, Continuum, London 2007, passim. 37 La messa in parentesi dello junghismo e degli archetipi, e l’importanza conferita a diniego feticista e struttura del fantasma masochista possono aver trovato i loro presupposti in due importanti contributi psicoanalitici pubblicati su “Les Temps Modernes” nel gennaio e nell’aprile 1964 e divenuti poi pressoché classici: O. Mannoni, “Je sais bien, mais quand même...”, in Clefs pour l’imaginaire, ou l’Autre Scène, Seuil, Paris 1969; trad. di P. Musarra e L.M. Cesaretti, “Sì, lo so, ma comunque…”, in La funzione dell’immaginario. Letteratura e psicanalisi, Laterza, Roma-Bari 1972, pp. 5-29 e J. Laplanche, J.-B. Pontalis, Fantasme originaire, fantasmes des origines, origines du fantasme, Hachette, Paris 1985; trad. di P. Lalli, Fantasma originario, fantasmi delle origini, origini del fantasma, il Mulino, Bologna 1988. 38 G. Deleuze, Présentation de Sacher-Masoch, cit., p. 59; trad. p. 73. 39 Cfr. J. Lacan, Le Séminaire. Livre XIV. La logique du fantasme, cit., lezione del 19 aprile 1967: “Incontestabilmente [Deleuze] scrive sul masochismo il miglior testo che sia mai stato scritto. […] È un testo che davvero anticipa tutto ciò che vi dirò ora sulla via che abbiamo aperto quest’anno; non c’è uno solo dei testi analitici che non sia interamente da riprendere, da rifare in questa nuova prospettiva”.

40

Cfr. Id., Le Séminaire. Livre XVI. D’un Autre à l’autre (1968-69), Seuil, Paris 2006, p. 134: “[…] questo contratto su cui il nostro amico Deleuze ha messo così felicemente l’accento per supplire alla fremente imbecillità che regna nella psicoanalisi”. Per la lettura lacaniana di Présentation de SacherMasoch, cfr. D. Sigler, “Read Mr. Sacher-Masoch”: The Literariness of Masochism in the Philosophy of Jacques Lacan and Gilles Deleuze, “Criticism”, 2, 2011, pp. 189-212. Più in generale, sul rapporto di Deleuze con la psicoanalisi lacaniana, si veda la riflessione di M. David-Menard, Deleuze et la psychanalyse, PUF, Paris 2005. 41 Cfr. J. Lacan, Le Séminaire. Livre XXIII. Le Sinthome (1975-76), Seuil, Paris 2005; trad. a cura di A. Di Ciaccia, Il Seminario. Libro XXIII. Il Sinthomo (1975-1976), Astrolabio, Roma 2006, p. 75. Si vedano le ricostruzioni di M. Fiumanò, Masochismi ordinari, Mimesis, Milano-Udine 2016 e la sintesi di M. Recalcati, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica, Raffello Cortina, Milano 2016, pp. 395-451. 42 Cfr. J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVI. D’un Autre à l’autre, cit., pp. 257: “Che il masochista faccia della voce dell’Altro ciò a cui darà la garanzia di rispondervi come un cane, è l’essenziale della cosa”. 43 Cfr. ibidem. Sulla voce in quanto oggetto a piccolo il rinvio d’obbligo è a Id., Le Séminaire. Livre X. L’angoisse, Seuil, Paris 2004; trad. di A. Succetti, Il Seminario. Libro X. L’angoscia, Einaudi, Torino 2007, pp. 264-277. 44 Ivi, pp. 258-259. 45 T. Reik, Il masochismo nell’uomo moderno, cit., pp. 64-65, 154-158, 214-217. 46 Per un’introduzione alla questione si veda M. Dolar, A Voice and Nothing More, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2006; trad. a cura di L.F. Clemente, La voce del padrone, Orthothes, Salerno 2014. 47 M. Blanchot, “L’indestructible” (1962), in L’entretien infini, Gallimard, Paris 1969, pp. 191200; trad. di R. Ferrara, “L’indistruttibile”, in L’infinito intrattenimento, Einaudi, Torino 2015, pp. 159-166. Carmelo Colangelo insegna Filosofia morale all’Università di Salerno.

Disconoscimento sur place RICCARDO PANATTONI

In Il freddo e il crudele1. Gilles Deleuze afferma che il concetto di disconoscimento, almeno a un primo sguardo, può apparire come un movimento molto più superficiale della negazione,2. eppure l’atto del disconoscere ha una sua specifica modalità di messa in crisi del principio di attualizzazione, tale per cui ci si rivolge a quest’ultimo senza accettarne la validità. È un tipo di operatività in potenza che si mantiene sul punto iniziale, sorgivo, della sua modalità e tende a contestare il giusto diritto di ciò che inequivocabilmente sembra, in ogni modo, destinato a doversi affermare. Introduce cioè una forma di sospensione sostanziale, una neutralizzazione in grado di aprire, al di là di ciò che comunque appare come dato, un non dato che non mira più ad alcuna realizzazione a venire. Non si tratta quindi di contrapporre a un’apparente evidenza un criterio capace di mostrarne un’altra altrettanto possibile, ma di sottrarre all’accadimento in atto ogni principio di pura evidenza, senza per questo negarne la fatticità. In questo senso la figura del masochista – almeno per come viene evidenziata da Deleuze attraverso l’opera di Leopold von Sacher-Masoch – è quella più adatta a esplicare questa modalità del disconoscimento, mostrandone simultaneamente tre differenti processi. Il primo è quello di riconoscere alla donna la presenza del fallo, attribuendole così la capacità di poterlo far rinascere ogni volta per via partenogenetica, perché in realtà alla vita non si nasce mai una sola volta, ma innumerevoli volte: nascere è un’invenzione e non è detto che ci si riesca sempre. Il secondo è quello di escludere completamente il padre da ogni ruolo relativo a questa seconda nascita, evitando così di introdurre ogni principio trascendente. Il terzo, infine, consiste nel liberare il piacere da ogni finalità

strettamente genitale e procreativa. La simultaneità di questi tre processi incentrati sul principio del disconoscimento, si sorregge inoltre sulla costellazione di altri quattro riferimenti essenziali: la sospensione, l’attesa, il feticismo e il fantasma. All’interno della teoria freudiana il feticcio è l’immagine sostitutiva di un fallo femminile che si incarna in un oggetto determinato, l’ultimo che il bambino ha visto prima di rendersi conto di quell’assenza inaccettabile e su cui lo sguardo ritorna attraverso una forma di disconoscimento in atto. Si determina così, per esempio, un feticismo rivolto verso la scarpa per uno sguardo che ridiscende verso il piede. Non si tratta quindi tanto di un oggetto in quanto tale, di un distoglimento dello sguardo dal corpo della madre per dirigerlo verso qualcosa d’altro presente alla vista, ma di un ritorno su una parte del corpo che non viene contestata, bensì sovradeterminata e associata a un’oggetto che la copre mettendola in evidenza. La scarpa è infatti l’oggetto del piede. Per questo il feticcio sottostà alla legge della collezione, perché ogni scarpa, pur nella specificità del suo riferimento singolare, rimarrà comunque l’ideale del piede mancante, vero oggetto del desiderio sostitutivo. Dunque l’immagine sostitutiva del fallo femminile è il piede assente, ideale, della scarpa che rimane invece un oggetto reale da ricercare e, una volta trovato, da rendere sempre sostituibile con un altro dello stesso tipo, ricercabile sempre di nuovo. Di conseguenza non è tanto l’oggetto scarpa che permette di mantenere il diritto all’esistenza dell’oggetto contestato, quanto il piede mancante che l’oggetto scarpa reclama. Per questo immagine e immaginario stanno decisamente insieme: l’immagine scarpa è l’immaginario del piede, così come l’immaginario feticistico della scarpa è la stessa immagine assente del piede. La pulsione feticistica non corrisponde dunque tanto a un atto di simbolizzazione sostitutiva, quanto a una focalizzazione rispetto a una messa in scena teatrale, che viene fissata e congelata nella sua scenografia; un’immagine perfettamente arrestata in se stessa, una vera e propria fotografia alla quale è sempre possibile ritornare, attraverso la ricerca dell’oggetto desiderato, al fine di evitare le conseguenze inaccettabili di un movimento che si concatenerebbe in una inevitabile sequenza rivelativa. È riconoscere all’esplorazione il criterio veritativo del dato di fatto, è lasciare

che tale esplorazione si perda nei meandri aleatori di quell’incastro non realizzabile tra il piede e la scarpa, che rimane da ricercare senza soluzione possibile. Ecco perché rispetto all’evidenza del visto non subentra alcun rimosso, si tratta piuttosto dell’intromissione di un’opacità che si illumina sull’oggetto feticcio assente, la scarpa, capace di avvolgere il piede come parte sostitutiva della mancanza del pene: solo così il piede è il luogo pulsionale sostitutivo del sesso femminile, ripreso come assente nell’oggetto scarpa. È la ripresa e la dilatazione sospensiva dell’ultimo istante in cui è ancora possibile credere al perfetto trasporto riflettente sul corpo dell’altro. In questo modo la scoperta, l’imposizione del principio di realtà, viene sconfessata dalla potenza in un reale immerso nei criteri di un puro immaginario, senza che subentri alcuna necessità di un dispiegamento immaginativo: la scarpa rimarrà comunque il solo condensato del piede. Il feticcio non ha di conseguenza nulla della mera illusione sostitutiva, ma esprime piuttosto uno stadio di intensificazione di un’esperienza singolare, che non si rassegna a una verità oggettiva che deve valere per tutti. In questo senso il feticismo è innanzitutto un disconoscimento, in quanto sostenere che la donna non manchi del pene non deriva da una semplice negazione, ma da una neutralizzazione difensiva; perché, sebbene la conoscenza reale continui a sussistere, viene tuttavia introdotta una forma sospensiva in grado di neutralizzarla. Inoltre, nonostante questa neutralizzazione sembri anteporre i diritti dell’ideale contro il reale, il feticcio non risponde tanto all’idealità di un mondo perfetto, quanto alla capacità di munirsi di ali e di fuggire il mondo nel momento di apertura di un sogno capace di trasformarlo. Non si tratta quindi tanto di negare il mondo così per come è, o di volerlo distruggere al fine di instaurare un vero e proprio principio idealizzante, ma piuttosto di una sospensione incentrata su un disconoscimento che apra a un ideale, a sua volta sospeso nel fantasma: il feticcio scarpa è il fantasma del piede come il tutto di un corpo immortalato sulla visione attesa. Su questo punto si evidenzia una differenza radicale rispetto al principio che regge il movimento sadico, dove l’infinita ripetizione, l’accumulo, il processo quantitativo reiterato che moltiplica e somma le figure di cui usufruisce, non solo non ha alcun interesse di tipo feticistico, ma lo aborre come il residuo di un legame possibile con le congiunture del tempo: la sua coazione a ripetere passa attraverso i soli cerchi infiniti di una speculazione

destinata a perdersi in una perfetta solitudine. Anche se non si tratta in effetti di una vera e propria solitudine, quanto di un reale annullamento di ogni presenza attraverso un puro atto riflessivo. Sebbene infatti il modo di esprimere i propri pensieri da parte del sadico mantenga comunque un principio personale – attraverso il quale emerge un chiaro elemento imperativo e descrittivo, dove le violenze descritte in ogni minimo particolare appaiono come variazioni sulla ripetizione di uno stesso tema –, egli si sente impegnato su un piano esclusivamente impersonale, che riconosce come un livello più elevato rispetto a ogni dettaglio descrittivo. È solo a un livello impersonale che è infatti possibile toccare la violenza devastante di una dimostrazione in grado di subordinare a sé ogni singolo elemento. Tanto è vero che quel modo di tratteggiare minuziosamente le scene descritte non ha in fondo niente di scenografico, si tratta anzi di voler dimostrare, attraverso il reiterato affastellarsi dei corpi, un mondo assolutamente vuoto; o piuttosto pieno della sola traboccante emanazione di Dio che, rivolgendosi esclusivamente verso se stesso, permette alla creazione di emergere in tutta la sua indifferenza. Per il sadico sono gli stessi corpi a svolgere la funzione di feticci, di meri simulacri da oltrepassare per giungere alla simultaneità di un’immagine senza tempo, senza divenire, decretando la perfetta immobilità di ciò che è. Giunge così a evidenza, per Deleuze, una strana forma di spinozismo: un naturalismo e un meccanicismo penetrati da uno spirito matematico. Per il sadico infatti il vero tema è la natura, una natura sorpresa nei meandri inavvicinabili dei suoi perfetti meccanismi, che solo uno spirito matematico può cogliere come forme di pura intuibilità, trascendendo se stesso. Anche lo stesso Krafft-Ebing3. lo aveva sottolineato: sebbene nell’atteggiamento sadico si mantenga un elemento personale, questo tende completamente a scomparire nella potenza impersonale che viene esercitata sulle vittime attraverso disegni geografici o matematici. Per questo nell’opera di Sade le descrizioni tendono – nonostante le loro inevitabili ripetizioni – a una più alta funzione dimostrativa, incentrata sul principio di fondo della negazione come processo attivo, in cui non si tratta tanto di stabilire, per esempio, l’evidenza che la donna manchi effettivamente del pene, ma di affermare come il feticcio scarpa non sia nient’altro che il momentaneo simulacro del piede. Come cioè sia necessario distruggerlo al fine di liberare la parzialità del corpo-piede alla naturalità del suo essere oggetto erotico. Tutto ciò che è

riconducibile all’umano, in un modo o nell’altro, non può che rimanere prigioniero di una natura seconda, che deve solo essere consumata in una reiterazione sempre più accelerata, in modo da spezzare ogni forma espressiva e ritrovare quella continuità dell’atto che in realtà – come la sola natura prima è in grado di mostrare in modo inequivocabile – non si è mai interrotta. Ecco perché il sadico aborre la collezione. Al limite può accettare il solo accumulo, purché non vi si riscontri alcun criterio ordinativo, dal momento che il suo ideale resta il fatto di rimanere assolutamente senza niente, espressione di un perfetto ascetismo. Se dunque il movimento sadico, incentrato su di un principio speculativo e analitico, si basa sul diretto processo impersonale della negazione, quello masochista mette invece in atto, nei confronti dell’impersonalità della natura, un potenziale disconoscimento, in cui il feticcio si rivela essere l’oggetto fantasmizzato per eccellenza. Il fantasma si instaura e si sospende nella contemporaneità delle due serie di personale e impersonale, giocando sui limiti dei loro bordi comuni e interiorizzandone il processo. Per questo Deleuze può affermare che nel masochismo esiste una vera e propria arte del fantasma, perché tutto deve essere avvolto nel sogno anche quando non si sta affatto sognando, ed è soltanto sulla forma liminare di quest’esperienza che la soggettivazione attraversa le proprie reali processualità. In modo tale che lo stesso feticcio si fa misura della forza interiore del fantasma, introducendo indimenticabili momenti incentrati sulla lentezza dell’attesa o sulla potenza della sospensione. Tanto è vero che negli stessi romanzi di Masoch tutto culmina sempre nella sospensione, e questo non soltanto perché i riti masochisti di supplizio e di sofferenza implicano delle effettive sospensioni fisiche, ma soprattutto perché vi troviamo la donna carnefice pronta ad assumere posizioni rigide che la identificano con una statua, un ritratto o una fotografia: nel momento topico di quando la frusta dall’alto sta per scendere a colpire la vittima, o nel momento esatto in cui la pelliccia si socchiude per mostrare la presenza parziale del corpo. Gesti che sembrano riflessi in uno specchio capace di fissarne le pose. Delle cascate irrigidite – così Deleuze definisce queste scene – dove la nitidezza delle immagini si staglia sul chiaroscuro di sofferenze sospese in una drammaticità scenica. Questa intromissione della forma-sogno nell’azione esprime il carattere primordiale del fantasma: l’attenzione non deve quindi concentrarsi sul

gesto in quanto tale, non si tratta tanto di farlo emergere nella sua esclusiva immobilità, capace di oscurare tutto ciò che lo circonda, ma di evidenziarlo nel suo contrasto con l’azione di cui rimane comunque parte. Il gesto è il sogno dell’azione, per questo le immagini sono cascate irrigidite di una scena teatrale, perché ciò che si evidenzia è un’esperienza che rimane incentrata sull’attesa e sulla sospensione: sulla continua ripresa vibrante della sua immobilità. È in questi termini che il masochista incarna la figura del moroso, di colui che continua a rimandare e rinviare ciò che di per sé è già accaduto. Questo meccanismo di rinvio sospensivo rimane allora del tutto incomprensibile se non viene riferito alla struttura temporale che lo sorregge. Si tratta infatti di una forma di attesa che si sdoppia in due serie simultanee: la prima rappresenta ciò che ci si attende e che al contempo si coglie in un ritardo costitutivo, la seconda rappresenta invece ciò che ci si aspetta e che con il suo arrivo potrebbe far precipitare l’atteso. Una tale struttura non può che prevedere inevitabilmente una certa combinazione altalenante di piacere e dolore. Se infatti l’attesa sembra prevedere l’apice del piacere nella concretizzazione fattiva del suo fantasma, questa eventualità non sarebbe altro che la negazione stessa dell’attesa in quanto tale e quindi non corrisponderebbe affatto al suo desiderio, ma rappresenterebbe il dissolvimento stesso del fantasma attraverso l’introduzione del principio fattivo di realtà. L’attesa non sarebbe più un vissuto allo stato puro, ma soltanto un passaggio intermedio in funzione del suo oltrepassamento. Per vivere il piacere dell’attesa è dunque necessario introdurre una forma di dolore che ne dilati lo svolgimento e ne disconosca la finalità, in modo tale che l’attesa non possa mai coincidere direttamente con l’atteso. Quest’ultimo tenderebbe infatti a corrispondere a ciò che ci si aspetta, ma introducendo tale coincidenza lo si lascerebbe precipitare nell’arrivo; si giungerebbe, in altri termini, all’apice del piacere e di conseguenza al dissolvimento dell’attesa stessa. Nel suo movimento sur place il masochista non è pertanto alla ricerca del dolore come forma perversa di piacere, ma è preso nella consapevolezza che non può esserci piacere senza attraversarne l’attesa: il piacere risiede pertanto esclusivamente nel desiderio di attendere al piacere stesso. Precipitare verso la scarica finale non sarebbe altro che una negazione di tale principio,

rappresenterebbe un’affermazione positiva incentrata sulla negazione di se stessa e non potrebbe che introdurre un’inevitabile coazione a ripetere. Ecco perché è proprio nell’uso del fantasma che il masochista si distingue dal sadico. Quest’ultimo infatti lo utilizza come un semplice strumento proiettivo che gli permetta di ritrovarlo poi in atto. Deleuze – per dare esplicitazione a questo passaggio – riprende come esempio il momento in cui Juliette4. suggerisce di rimanere per interi giorni senza occuparsi di lussuria, di pensare a tutt’altro e poi, nell’oscurità, sdraiarsi e immaginare gradualmente i più svariati tipi di sregolatezze. A un certo punto una prenderà il sopravvento su tutte le altre, una forma di idea delirante che dovrà essere messa per iscritto e poi eseguita il più in fretta possibile. L’uso del fantasma è dunque necessario soltanto a delineare nel modo più netto possibile la forma impellente del proprio desiderio già in atto; il fatto di scriverlo è il riconoscimento della sua attualizzazione: il godimento a venire non risiederà pertanto nella realizzazione fattiva di ciò che il fantasma sembrerebbe reclamare, ma nel transitare, grazie al riscontro dell’effettività della sua messa in atto, attraverso il suo dissolvimento. Il godimento infatti non può che rivelarsi sempre più potente di qualsiasi forma fantasmatica, anzi è l’esperienza in atto di liberazione da ogni legame con l’immaginario, anche di quello che nell’oscurità è emerso in tutta la sua limpidezza più potente. Per transitare nel puro atto reale del godimento, il sadico non ha quindi solo la necessità di liberarsi del fantasma ma, liberandosi di questo, simultaneamente constata come sia necessario sentirsi liberi anche da se stessi, da ogni mero residuo di soggettivazione: in questo modo a godere non sarà, in realtà, una vera e propria singolarità, ma Dio stesso, in quella eterna creazione emanativa di se stesso che l’esperienza del godimento dovrebbe essere. Soltanto a questo livello il movimento sadico può trovare il suo fantasma fondamentale, rispetto al quale può aprire il proprio reale contenzioso: come si gode da Dio? L’uso del fantasma masochista passa invece proprio attraverso la neutralizzazione del fantasma fondamentale di matrice sadica, non tanto sostituendo il sogno all’atto, alla forza dimostrativa del continuo, ma mantenendo l’apertura sognante come virtualità effettiva dell’atto di ogni pura attualizzazione. Lo speculativo in fondo non risulta allora essere altro che una parodia di Dio, così come il piacere non è nient’altro che una parodia scenica del godimento. Per il masochista in effetti non esiste un

fantasma fondamentale, ma soltanto un carattere primordiale del fantasma. In questi termini il masochismo non può mai essere inteso come un semplice rovesciamento del sadismo, perché questo carattere primordiale del fantasma lo porta a far sì che sia esercitata contro se stesso una costrizione che non può in nessun modo essere definita sadica, poiché ha come esclusivo principio una forma di sospensione presa in tutta la sua incipiente potenzialità. Se il sadico passa di fatto attraverso un dissolvimento della sessualizzazione – grazie a un continuo processo incentrato sull’affermazione di un’esplicita e deliberata sessualità –, il masochista invece è costantemente impegnato nel divenire che passa da una desessualizzazione alla necessità di una nuova risessualizzazione, e soltanto il fantasma può rivelarsi come il possibile teatro di questo processo sur place. Si deve dunque concludere che sebbene il principio di piacere regni su tutto, ciò non significa che governi tutto. Sebbene non vi siano infatti eccezioni a tale principio, vi è tuttavia un residuo irriducibile al suo distendersi, una pietra d’inciampo che si insinua in una vita: l’immanenza. La vocazione del piacere masochista non è dunque rivolta all’esclusiva ricerca del dolore come forma reale di godimento, ma chiama in causa il godimento come il non luogo intrinseco al piacere stesso, in modo tale da riconoscere la dinamica della sua attualizzazione, e simultaneamente, attraverso l’uso del fantasma, di revocarne la finalità stessa: il soddisfacimento non può che rimanere qualcosa di semplicemente vagheggiato. Anche la vocazione messianica si presenta nelle stesse identiche modalità: vi troviamo infatti in atto sia un riconoscimento che una revoca di ogni vocazione fattizia. Giorgio Agamben lo evidenzia con precisione nel suo libro Il tempo che resta.5. Riprendendo la Lettera ai Romani di san Paolo egli mostra come la vocazione messianica non venga qui introdotta per sostituire tutte le altre vocazioni, perché non sufficientemente autentiche, troppo aderenti al mondano, e per stabilire dunque, in questo modo, un inaccettabile confronto comparativo. La vocazione messianica è piuttosto ciò che implica la vocazione stessa, è un’urgenza che lavora e scava dall’interno ogni determinazione vocazionale, senza tuttavia che si faccia semplice vocazione tra le altre. Tanto è vero che la tensione messianica non è una modalità per orientarsi verso un al di là o per assumere la capacità di mostrare come un’attitudine o

il suo opposto siano in realtà indifferenti. L’Apostolo, nella sua lettera, non si limita a evocare negli stessi termini i piangenti così come i ridenti, i piangenti e i non piangenti, ma chiama in causa precisamente i piangenti come non piangenti e i ridenti come non ridenti. La modalità reale della vocazione messianica rimane dunque sempre in relazione con la propria revoca, in modo tale che il pianto rimarrà sempre teso verso il pianto, la gioia verso la gioia e, in questa tensione di ogni vocazione fattizia verso se stessa, ciascuna sarà al contempo revocata sull’insorgenza del proprio “non”, senza che per questo sia necessario alterarne la forma. Si tratta in altri termini di contrapporre l’uso al dominio: questa è l’immanenza intrinseca alla vocazione messianica. Perché il “come non” non ha un mero contenuto negativo, ma evidenzia come ogni vocazione non costituisca né un diritto né un’identità, quanto la sola potenza che ne permette un uso senza stabilirne alcuna titolarità. Si potrebbe declinare la vocazione messianica nei termini di una depropriazione di ogni vocazione possibile, il “come non” immanente al messianismo non può che disconoscere di fatto ogni proprietà giuridico-fattizia, lasciando sul campo della vita soltanto una “nuova creatura”, che non è altro che la rispondenza all’uso di una vocazione abbandonata all’istante. Allo stesso modo tutti i protagonisti dei lavori di Masoch sono ogni volta chiamati a una nuova nascita, a divenire gli uomini che non sono mai stati, senza che questo voglia semplicemente dire diventare degli uomini diversi, permettere che sia riconoscibile un cambiamento fattizio nella realtà di quel determinato soggetto. Nei suoi romanzi risuona continuamente come sia soltanto la donna a essere chiamata a fare del protagonista un uomo, senza tuttavia dare mai una vera e propria forma all’esito che questo impegno dovrebbe raggiungere, ma ribadendo ogni volta come sia quella sola presenza il punto di crisi attraverso cui il protagonista può cogliere che il proprio divenire uomo non è altro che “non” fare come il padre: non assumerne mai il ruolo. Troviamo così in Masoch, sovrapposte tra di loro, le figure di Cristo e di Caino. Anche l’esperienza dell’ora nona della crocifissione deve dunque subire un disconoscimento che la liberi da ogni valenza simbolica; nessun lamento deve essere sollevato nei confronti dell’abbandono del padre, perché il dolore di trovarsi crocifissi lo si deve al solo piacere inferto dalla Madre Santa. Si tratta di un reale parto del figlio nella madre, nell’immanenza della vita, in modo tale che il “tutto è compiuto” risuoni

ora, in quell’istante sospensivo, nel solo abbandono alla singolarità del proprio esistere. È il disconoscimento di ogni possibile trascendenza; non vi è in realtà nessun abbandono del padre verso il figlio, ma è il figlio che si fa abbandono del padre, perché quella croce è il taglio rispetto a ogni criterio di ricongiungimento oltre la vita: essa permette il solo perpetuo congiungimento desessualizzato con la madre. È così che il figlio, su quel taglio, non può che lasciar cadere all’istante ogni interrogazione sul mistero della morte e rimanere “legato” al solo fantasma primordiale della nascita. Anche Caino permane nel segno della croce. Ancora una volta è infatti la madre a inchiodare il figlio liberandolo dalla volontà del padre e partorendolo in un dolore che dà vita. Sarà soltanto in ragione di questa trasformazione del concetto di vita che il figlio si potrà fare fondatore di città. L’esperienza della croce non è dunque solo il disconoscimento del padre, ma anche della naturalità della madre uterina: l’uomo nuovo nasce da una donna orale che è parte essenziale del campo masochista. La donna carnefice possiede infatti una determinata natura, ma questa natura deve essere plasmata attraverso l’elemento della sua stessa perversione: deve essere continuamente pervertita a se stessa. Infatti, ogni volta che la donna carnefice entra in scena, non mostra mai alcuna valenza sadica; ogni suo gesto incarna l’elemento irrigidito dell’infliggere sofferenza in una prospettiva che appartiene esclusivamente al discorso masochista. La madre orale è colei che impedisce alla donna carnefice di essere identificata con un’inclinazione sadica; è colei che non ha alcun bisogno di riferirsi a una figura paterna e che non mostra alcun desiderio di rispecchiarsi nella figura del figlio: incarna soltanto – nella sua forza glaciale – la capacità di saper rinunciare al proprio masochismo soggettivo. Sulla croce non è dunque il figlio a morire, ma la somiglianza con il padre. La madre, attraverso il dolore della croce, non fa altro che restituire il figlio al piacere di una vocazione rivolta esclusivamente a se stesso, permettendogli così di attraversare l’esperienza di una perversione in grado di porlo sul punto d’insorgenza di tutta un’altra storia. Un contesto tematico che si presenta come una sorta di rivisitazione del marcionismo. Se infatti Cristo – come viene sostenuto da Marcione – è tutt’altro dal Dio ebraico dell’Antico Testamento, in Masoch lo è perché incarna il disconoscimento del Padre in nome del proprio essere nato esclusivamente dalla partenogenesi di una donna. Cristo – allo stesso modo di Caino – non è

dunque chiamato a sconfiggere la morte, ma a santificare la nascita. La morte non deve essere oltrepassata attraverso l’indicazione di un al di là trascendente, ma sottoposta ancora una volta alla potenza del disconoscimento: d’altronde non per niente nella stessa eresia marcionita si invita a non procreare più. Anche in questo caso si evidenzia una differenza sostanziale tra la posizione sadica e quella masochista. La Madre Santa è colei che pone il figlio in croce perché diventi a tutti gli effetti suo figlio e goda di una nascita che deve a lei soltanto. La croce non rappresenta più la contrapposizione simbolica alla vita in vista di una futura ricongiunzione con il Padre; non si tratta più di dissolversi in quella perfetta indifferenza emanativa di una natura prima, come per certi versi vorrebbe il sadico, ma di esprimere il necessario radicamento in un’esclusiva natura seconda di cui il sadico non sopporta i limiti sospensivi, neppure nel caso delle sue contingenze assolute. L’invito di Marcione a non procreare più non diventa pertanto altro che una dilatazione della struttura momentanea del tempo, in cui nella vita non si trova altro che vita: lo stesso tempo messianico è un’intensificazione del passaggio immanente della vita nella vita. Una vocazione che si trova così in ogni istante revocata nell’attesa di se stessa, come il distendersi di una modalità che non prevede più alcuna alternativa tra la trascendenza nell’uno e la ciclicità di un tempo circolare destinato eternamente a ripetersi: due forme che appartengono entrambe a una mente che pretende ancora di poter speculare su rappresentazioni possibili. Il fantasma primordiale del masochismo è il luogo, o il teatro, di questo punto d’insorgenza, è l’affiorare aleatorio in ogni momento di un’altra scena, dove la sospensione e il sogno sono gli strumenti fondamentali per non smettere di fare qualcosa con la vita. All’interno del discorso masochista diviene allora possibile cogliere l’invito marcionita attraverso la figura dell’amore interrotto. A differenza della posizione sadica, che per dissociare il godimento dalla procreazione predilige i rapporti contronatura, la pratica dell’interruzione, privilegiata invece dal masochista, fa della castrazione la condizione inaggirabile del successo amoroso. Se divenire uomo significa infatti rinascere soltanto dalla donna, il principio di castrazione si determina come la condizione imprescindibile perché l’unione incestuosa e desessualizzata con la madre sia possibile. La potenza del disconoscimento masochista si spinge in

questo modo fino a lambire il piacere sessuale in quanto tale. È in questo senso che il masochista si presenta come colui che tergiversa continuamente, che svia, che vive l’attesa allo stato puro e che poi improvvisamente salta nell’interruzione. Ritardare il piacere sessuale, dilatandone inusitatamente la temporalità, significa disconoscerne la realtà in atto, ma nel momento stesso in cui la si attraversa, in modo tale da identificarsi simultaneamente con l’uomo nuovo privo di sessualità. Ecco perché rimane essenziale, all’interno di questo continuo processo di atti sospensivi e improvvise interruzioni, che la simultanea risessualizzazione avvenga sempre sur place, in una specie di salto in fase di stallo; e il tutto all’interno di una scena teatralizzata in cui ne va della sessualità in quanto tale: del carattere primordiale del suo fantasma. Così, se il dolore masochista rimane assolutamente subordinato all’attesa, l’essenziale sarà fare in modo che questo venga valorizzato in rapporto a una ripresa che ne condizioni l’uso. Perché ciò che in realtà conta è introdurre un’ulteriore forma di disconoscimento proprio all’interno del rapporto esistente tra la ripetizione e il piacere. La ripetizione non deve infatti essere vissuta come un comportamento relativo a un piacere ottenuto e da ottenere di nuovo, a un piacere ritrovato, da ritrovare o da cercare per riconoscerlo come ancora possibile: la ripetizione risponde piuttosto alla singolare forma fantasmatica che restituisce il piacere a se stesso, lasciando decadere ogni momento preliminare come preludio di un movimento orientato al proprio fine. Nell’uso del fantasma primordiale piacere e ripetizione si scambiano così simultaneamente il ruolo, in modo tale che i processi di desessualizzazione e risessualizzazione avvengano nella sintesi disgiuntiva, sur place, delle loro due serie. Attraverso questo comune punto divergente i due movimenti, in sospensione su se stessi, lasciano che giunga a espressione non più quella che si dovrebbe comunque indicare come pulsione di morte, ma il solo fantasma del principio di piacere che trova proprio lì, nella dilatazione assoluta di quei singoli momenti sospensivi, la sua ultima parola ancora a venire.

Riccardo Panattoni insegna Etica e psicoanalisi all’Università di Verona. 1 G. Deleuze, Il freddo e il crudele (1967), trad. di G. De Col, SE, Milano 1991.

2

S. Freud, La negazione (1925), in Opere, a cura di C.L. Musatti, vol. X, Boringhieri, Torino 1978. Cfr. anche S. Benvenuto, La psicoanalisi e il reale. “La negazione” di Freud, Orthotes, Napoli 2015 e P. Virno, Saggio sulla negazione. Per una antropologia linguistica, Bollati Boringhieri, Torino 2013. 3 R. von Krafft-Ebing, Biografie sessuali. I casi clinici della Psychopathia Sexualis (1886), trad. parziale di P. Giolla, Neri Pozza, Vicenza 2006. 4 D.A.F. de Sade, Juliette, ovvero le prosperità del vizio (1797), a cura di P. Guzzi, Newton Compton, Roma 1993. 5 G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla “Lettera ai Romani”, Bollati Boringhieri, Torino 2000.

Masoch oltre Nietzsche. Seduzione, autoaggressione e ordalia del filosofo critico ANDREA MUNI

Premessa La resistenza psicologica e culturale che tutti proviamo di fronte a una qualsiasi (pur minima, simbolica, teatrale) idea di autoaggressione o sottomissione volontaria si riflette in innumerevoli espressioni del linguaggio comune. Eppure il masochismo, termine che racchiude troppi significati differenti per un’unica denotazione, non cessa di esercitare su molti di noi un fascino misterioso. Da parte mia credo che in questo fascino, antico e attualissimo nello stesso tempo, si nasconda un significato filosofico e politico che siamo ancora lontani dall’avere ancora soltanto accarezzato. Nella dinamica masochista, di cui Masoch è stato senz’altro un grande attore, ma non certo il primo, si nasconde infatti un segreto che meriterebbe di essere approfondito attraverso un’inedita genealogia. Invece di indagare il “masochismo” da un punto di visto politico, filosofico o psicoanalitico, mi piacerebbe piuttosto rovesciare il piano e provare a ripensare alcune forme di seduzione politica, psicoanalitica e filosofica a partire dalla peculiare dinamica seduttiva, e dal particolare rapporto di potere, in gioco nella strategia masochista. Nel fascio di problemi cui ci introduce il masochismo, inteso come strategia e come modalità di produzione della verità, si declina infatti in maniera del tutto singolare l’antichissimo tema della trasformazione di sé: il ferirsi, l’autointaccarsi, il farsi violenza. Lo sdoppiamento e la divisione del soggetto – concepiti anche in chiave politica come modalità di seduzione e di trasformazione dell’altro – sono infatti il nocciolo del masochismo che, ancora oggi, ci interessa e merita di essere approfondito. Le storie di Masoch ci raccontano, in ultima istanza, proprio di come sia necessario farsi del male per trasformarsi, per provare a se stessi una verità, e di come tutto questo non si possa fare senza “un altro”; ma ci raccontano anche di come “gli altri” non possano essere il supporto delle nostre trasformazioni

senza esserne, per questo, a loro volta intaccati. La seduzione masochista e il rapporto che essa articola tra il soggetto, l’altro, il godimento e la verità, ci riportano infatti a una dimensione del discorso e del rapporto intersoggettivo che nella nostra cultura rimane a tutt’oggi velata, sincopata, misconosciuta: quella ordalico-sofistica, in cui la verità non è fatta per essere conosciuta, ma giocata, inflitta e subita, come un evento che si scrive sui corpi.

L’orrore di Nietzsche A eccezione del fatto che sono entrambi morti folli, che erano ammiratori di Schopenhauer e che scrivevano in tedesco, tutto sembra dividere Nietzsche e Masoch. In primo luogo la formazione cattolica e mistico-barocca dello scrittore galiziano, radicalmente opposta a quella protestante di Nietzsche. In secondo luogo, la storia familiare: da un lato Nietzsche, figlio di un pastore protestante teneramente amato e prematuramente scomparso, dall’altra Masoch, figlio di un questore cordialmente detestato. In terzo luogo a dividerli troviamo le convinzioni politiche: da un lato Masoch, per metà slavo e affascinato del panslavismo, vicino agli ambienti anarchici bakuniniani e proudhoniani, simpatizzante delle rivolte dei contadini piccolo-russi contro la nobiltà polacca e strenuo difensore dell’impero transnazionale asburgico. Dall’altro lato Nietzsche: prussiano, acerrimo nemico di qualunque forma di socialismo, gioiosamente ateo e, a suo modo, nazionalista tedesco. Eppure, forse proprio a causa di questa siderale e paradossale prossimità, mi è parso di poter rintracciare un’affascinante complementarità in un punto decisivo del loro pensiero che mi sembra perfetta per inoltrarci nel “masochismo” che (ancora oggi) ci interessa. Nietzsche nella Genealogia ci racconta una specie di mito, una fiaba grottesca. La storia di come i poveri, gli umiliati, gli ultimi, i malriusciti, i giudeo-cristiani (per chiamarli col loro nome) sono stati capaci di sedurre i “migliori” alla loro nuova, mostruosa e inquietante verità per mezzo di quel “dio”, e di quella inedita “autoaggressività”, di cui gli antichi signori non avrebbero letteralmente saputo che farsene. Nietzsche si ferma qui, dicendoci a chiare lettere che se si addentrasse ulteriormente tra i vapori malsani di questo ripugnante segreto rischierebbe di restarne contagiato come da una malattia. Dopo aver osato scoperchiare con grande coraggio

un simile vaso di Pandora, egli sembra infatti proibirsi misteriosamente nella Genealogia tutte le domande (e le risposte) decisive. Come hanno fatto gli schiavi, a livello pratico, a sedurre i propri padroni? A ben vedere infatti – Nietzsche ce lo lascia intuire, gli schiavi non hanno trasformato i valori per mezzo della violenza ma, piuttosto, per mezzo della seduzione. E dove avrebbero trovato, gli schiavi, la volontà di potenza necessaria per compiere un così seducente e inaudito rovesciamento di valori? Risposta (ancora velata) di Nietzsche: nella cattiva coscienza e nel ressentiment covati per secoli nei confronti di quei “signori” che li dominavano, che erano davvero più forti – e quindi più “veri” – di loro. Ma come hanno fatto gli “schiavi” a dimostrare l’esistenza del loro dio, della loro nuova verità? La risposta, spaesante e vertiginosa (che prendo a prestito da una celebre sentenza di Lacan) è: amandolo, agendo come se quel dio e quella verità fossero reali. Gli schiavi della Genealogia hanno dimostrato ai propri signori l’esistenza e la superiore potenza del loro dio (della loro verità e, quindi, del loro “io”) soffrendo e morendo da martiri per questi nuovi valori, in loro nome. Nietzsche si accorge nitidamente che la volontà di verità, la morale degli schiavi, si è imposta nella storia dell’Occidente attraverso un’inedita e spaventosa forma di seduzione “masochista” che ha contagiato i primi “buoni” (i “signori”), inducendoli a riconoscersi a un certo punto della storia come i nuovi “malvagi”. La volontà di verità – la volontà che esista una separazione vero/falso che raddoppia quella morale (e cristiana) di bene/male – si è instaurata storicamente nella psiche dell’uomo occidentale a partire da questa sfida, da questa seduzione ordalico-sofistica che è l’essenza della strategia masochista. Foucault non ha mancato di rilevare, nelle Lezioni sulla volontà di sapere, fino a che punto la volontà di verità sia soltanto il circoscritto (anche se molto longevo) episodio storico di una più ampia, e strategica, volontà di sapere. Non è possibile comprendere la dinamica su cui si fonda, in tutti i tempi, l’esercizio seduttivo del potere senza indagare il fascino segreto che emana dall’autoaggressione e dall’autosacrificio. L’uomo che non teme di autoinfliggersi la verità che propugna, quella stessa verità a cui vorrebbe piegare gli altri, è, in quasi tutte le culture della terra, l’uomo d’onore, l’uomo glorioso, colui che ha il diritto di comandare gli altri e di intaccarne i valori. Nietzsche trema nel realizzare che nessuno meglio degli schiavi

della Genealogia e del loro “pastore” ha saputo mettere in atto questa perversa strategia di seduzione e vendetta, e inorridisce nel realizzare che una simile potenza seduttiva è scaturita proprio da quelle due orrende “malattie” che sono il ressentiment e la cattiva coscienza. Niente è meglio delle sue parole per restituirci il sapore del suo sconcerto: Ma questo è il fatto: sul tronco di questo albero della vendetta e dell’odio […] germogliò qualcosa di altrettanto incomparabile, un amore nuovo, la specie d’amore più profonda e più sublime… Ma non si pensi che esso si sia innalzato come la negazione di quell’odio […]. No, la verità è il contrario! L’amore germogliò da questo come la sua corona, come la corona del trionfo, con lo stesso impulso con cui le radici di quell’odio affondavano sempre più profondamente e con sempre maggior bramosia in tutto quanto era abissale e malvagio, quella corolla era sbocciata nel regno della luce e dell’altezza con le stesse mete di quell’odio, verso la vittoria, la preda, la seduzione. […] Non rientra nella magia nera di una veramente grande politica della vendetta, di una vendetta lungimirante, sotterranea, che guadagna lentamente terreno ed è preveggente nei suoi calcoli, il fatto che Israele stesso abbia dovuto negare e mettere in croce dinanzi a tutto il mondo, come una specie di nemico mortale, il vero strumento della sua vendetta, affinché tutto il mondo, ovvero tutti i nemici di Israele, potesse abboccare a questa esca?1. È impressionante l’analogia tra questa citazione nietzschiana – che ci spiega poeticamente il nocciolo della seduzione giudaico-cristiana – e la strategia del masochista che Deleuze riassume nelle ultime pagine di Il freddo e il crudele: L’Io masochista è schiacciato solo in apparenza. Quale derisione, quale umorismo, quale invincibile rivolta, quale trionfo sono celati in un Io che si dichiara così debole? La debolezza dell’Io è la trappola tesa dal masochista, che deve condurre la donna [l’altro giocatore/il Super-io proiettato nel fuori] al punto idea-le della funzione che le è assegnata [cioè quello di “altro”, di paradossale alleato]. Se il masochista manca di qualcosa, manca piuttosto di Super-io e non di Io.2.

Nel corso della storia della cultura occidentale il masochista – dal cinico al protocristiano, dalle mistiche tardo-medievali al Werther di Goethe e su fino ai personaggi di Masoch – è essenzialmente colui o colei che mette in discussione i valori dominanti spostando la questione della verità a livello del corpo e delle verità che, attraverso di esso, si possono testimoniare o smentire. Nietzsche ci accompagna fino a questa profonda ma oscura intuizione: nell’odio e nell’interiorizzazione dell’aggressività – tipica di coloro che hanno imparato a rivolgere contro se stessi la violenza che non possono (o non vogliono) sfogare verso l’esterno, cioè verso chi li comanda o verso chi li ama – si celano un’inaudita forma e un inesauribile serbatoio di seduzione e potenza. Nella Terza dissertazione della Genealogia Nietzsche non manca di offrirci addirittura l’identikit del “capo” degli schiavi diventati padroni, del grande stratega masochista. Egli è per Nietzsche il debole forte che ha saputo guidare gli schiavi alla trasvalutazione dei valori: l’uomo dell’Ideale ascetico, detto anche il “prete” o il “filosofo”. Per Nietzsche quest’uomo – “forte” per diritto di nascita ma scartato dalla sua stessa “famiglia” – è colui che ha insegnato ai sottomessi la strategia che permette di rovesciare l’autodistruttività (la cattiva coscienza) e il ressentiment (l’invidia) in una terribile arma di seduzione politica. Quest’uomo è per Nietzsche, fin dai tempi più remoti, colui che sa suscitare negli altri – nei “signori” che, disconoscendolo, ne hanno fatto un uomo del ressentiment e della cattiva coscienza – una perturbante “paura di se stessi”. Così fecero [i brahmani], da uomini di età terribili, con mezzi terribili: la crudeltà verso se stessi, la ingegnosa automacerazione, furono il principale strumento di questi eremiti e riformatori del pensiero assetati di potenza. […] Ricordo la celebre storia del re Viçvamitra, che da millenarie martirizzazioni di sé acquistò un tale senso di potenza e una tale fiducia in se stesso da intraprendere la costruzione di un nuovo cielo.3. Nietzsche, parlando dell’asceta e del filosofo, dimostra di conoscere alla perfezione la potenza e la forza creatrice che si nascondono nella sua peculiare reattività, nella sua conclamata cattiva coscienza e nel suo radicato ressentiment: “Questo apparente nemico della vita, questo negatore – appartiene davvero alle forze conservatrici e affermativamente creatrici

della vita”.4. A dispetto di quello che sarebbe piaciuto a Nietzsche, infatti, sono stati proprio gli “schiavi”, guidati dall’uomo dell’ideale ascetico, ad aver scoperto come – infliggendosi nella carne una verità – si seducono gli altri e si sovvertono i valori (compreso quello “estremo” della verità stessa). Il dio dei cristiani – e prima quello degli ebrei – non sono forse stati, in questo senso, il più grande sofisma nella storia della cultura antica? Il limite di Nietzsche è stato paradossalmente proprio quello di non riuscire a riconoscersi in questa figura; quello di ostinarsi a considerare la figura del “filosofo” come un semplice nemico esterno e non come una parte di se stesso con cui fare i conti, convivere, imparare in maniera autocritica a “saperci fare”. Nietzsche è stato infatti – nella sua vita e nella sua stessa opera – proprio questo “filosofo”, quest’uomo dell’ideale ascetico per antonomasia. Masoch e Nietzsche, entrambi borghesi, avevano orrore del proprio mondo e del proprio ambiente culturale, orrore di un mondo in cui non si riconoscevano e che non hanno fatto altro che combattere con tutto il loro essere: nelle proprie vite, nelle loro opere e fin dentro alla follia che purtroppo li ha accomunati. Entrambi avevano una tale vergogna di sé che ne sono infine impazziti. Questo non per dirne male, tutt’altro. La vergogna di sé – come ricorda maliziosamente Lacan nel Seminario XVII5. – è una disposizione soggettiva imprenscindibile per ogni intellettuale critico borghese che desideri davvero sovvertire – a partire da una lotta con se stesso – i valori di cui è imbevuto. In effetti, quando Nietzsche ci parla dell’uomo dell’ideale ascetico, del filosofo, egli sembra parlarci proprio di se stesso: Questo grande sperimentatore di se stesso, questo inappagato, questo insaziato […] come potrebbe non essere anche il più malato tra tutti gli animali? […] Quel no che egli dice alla vita porta alla luce, come per magia, una moltitudine di più squisiti sì; proprio così, se si ferisce, questo maestro della distruzione, dell’autodistruzione – è poi la ferita stessa che lo costringe a vivere.6.

Il vantaggio di Sacher-Masoch e il doppio gioco “masochista” dell’intellettuale critico

Masoch non è stato soltanto un letterato, uno storico e un filosofo. Egli è stato anche, molto più di Nietzsche, un gran seduttore e un uomo d’azione (che, tra l’altro, ha perfino combattuto una pur breve guerra). Un uomo innamorato dei contadini (e delle contadine), un “padrone”, ma anche qualcuno che godeva davvero nel trascorrere tempo alla pari, bevendo e raccontando storie, con gli ultimi del proprio tempo (briganti, ebrei, zingari). Masoch non ha mai smesso di scoprire e riscoprire, in quel mondo umile e violento dei contadini, dei briganti, delle minoranze etniche e delle comuni religiose una selvaggia felicità, una strana sintonia con gli aspetti più spaventosi della natura, che la sua esistenza borghese e mondana probabilmente gli precludeva. In questo senso non è forzato vedere in Masoch una sorta di Pasolini ante litteram, che amava teneramente il popolo slavo e le sue tradizioni, la sua mitologia matriarcale, la sua “innocente” violenza (che, da storico, egli senz’altro conosceva più che bene). Nella storia emotiva di Masoch tutti questi elementi sono collegati al profondo amore che egli – ancora una volta come Pasolini – proverà sempre per la madre e per la balia, entrambe slave. Masoch scopre fin da piccolo, e non cessa di riscoprire nei suoi racconti, la millenaria capacità di vivere, di sopravvivere, del popolo slavo; la sua tradizionale capacità di trovare la felicità nella comunità, nelle soddisfazioni “banali” della vita. Soddisfazioni che – al latifondista borghese che egli era stato costretto a diventare – dovevano sembrare ormai precluse: lo sfogo violento, cantare, ballare e bere insieme, la genuina tenerezza della famiglia, l’amore fugace e selvaggio, l’amicizia disinteressata, la natura che (come la “sua” donna slava) è insieme materna, fredda, bellissima e crudele. Tutti questi temi sono ripresi con un’insistenza sintomatica nelle sue opere. Se Nietzsche non smette mai di immaginare come proprio interlocutore quel prussiano nazionalista che egli vorrebbe “rieducare”, Masoch è di contro il più acerrimo nemico di un simile interlocutore. Egli è infatti un avversario (non solo teorico) del nazionalismo tedesco e uno strenuo difensore dei diritti dell’impero asburgico (che ritiene – a torto o a ragione – l’unico organismo statale in grado di preservare le particolarità etniche e religiose non solo della sua Galizia ma dell’intera area danubiana). È forse anche per queste ragioni che Masoch, a differenza di Nietzsche, ha avuto molto più agio nel riscontrare ed esaltare – proiettandola nei suoi racconti

sul popolo e sugli ultimi – quella superiore potenza “masochista” dei deboli e degli schiavi che invece atterriva Nietzsche. Il fatto che Masoch nei suoi racconti abbia a volte tradotto la propria autoaggressività di borghese pentito nel rapporto masochista di un protagonista maschile con delle donne non è affatto casuale. La donna slava e contadina, infatti, è forse – per il borghese germanofono e mondano di fine Ottocento – la migliore incarnazione del totalmente “altro”, dell’al di qua della Legge. Inoltre, sarebbe ingrato parlare – come hanno fatto alcuni, tra cui Deleuze – di una banale idealizzazione della donna in Masoch. Non è la donna in sé a essere idealizzata, ma tutto ciò che – più in generale – si oppone ai valori borghesi. Nelle occasioni in cui la donna è dalla parte di questi valori (come nel caso di Warwara – la protagonista di Il testamento, contenuto in Il legato di Caino –, che lascia la propria fortuna in eredità a una cagnetta), Masoch non esita a ridicolizzarla. Gli scritti maggiori di Masoch non sono affatto tutti “masochisti”, e bisogna ammettere che il pur magistrale libro di Deleuze non rende ancora giustizia alla profondità della sua opera. Deleuze infatti, pur riabilitando Masoch, aveva un interesse ben preciso in Il freddo e il crudele: corroborare (giustamente) la tesi di Lacan – di cui in quegli anni è amico e discepolo – sulla non complementarietà di masochismo e sadismo. La questione centrale nelle opere di Masoch, però, non è tanto il rapporto con la donna in sé, ma piuttosto l’insistenza di un’idea ordalica della giustizia (sommaria e contadina, opposta a quella ordinaria) e della verità (che deve essere qualcosa che si “prova” con e nel corpo, nell’etica). La provocazione che vorrei lanciare è che Masoch si sia reso conto (meglio di Nietzsche) che la seduzione masochista degli “schiavi” – intuita dal filosofo tedesco nella Genealogia – non sia altro che un mito moderno, una maschera del doppio gioco che il filosofo critico è chiamato a svolgere nella società capitalista per far marcire dal di dentro i valori borghesi di cui egli stesso è imbevuto. Lo “schiavo” nietzschiano forse, in ultima istanza, come gli eroi e le eroine di Masoch, non è che una metafora dell’intellettuale critico borghese e del compito grottesco, paradossale di cui questi deve farsi carico per riuscire a essere all’altezza delle proprie parole.

L’intellettuale critico è l’uomo dell’ideale ascetico. È lui (Nietzsche, Masoch, “noi”) che ha bisogno della seduzione masochista, è lui che deve servirsene per scatenare negli attuali signori quell’odio di sé che – fin dai tempi dei brahamani – i filosofi (quelli veri) sanno magicamente ispirare negli umili e nei potenti. Basta aver studiato un po’ di storia per sapere molto bene che i deboli veri, i sottomessi, gli sfruttati non sono affatto dei “deboli”. Il fatto di essere cristiani non ha impedito ai deboli “veri”, negli ultimi duemila anni, di massacrare i forti non appena ne hanno avuto l’occasione (vedi, prima del cristianesimo, le guerre sociali e le rivolte degli schiavi ai tempi dell’antica Roma, o – in età cristiana – la rivolta degli zeloti a Tessalonica durante il lungo crollo dell’Impero bizantino, o ancora le rivolte contadine di Munster che hanno seguito la Riforma; o ancora – non più di centocinquant’anni fa – la strage di Bronte nella Sicilia “liberata” dai garibaldini). Non sono i deboli “veri” gli schiavi che ci interessano, Masoch lo vede molto meglio di Nietzsche. I deboli veri, gli sfruttati, quando gli salta la mosca al naso, non cercano mezzucci. Lo vediamo anche oggi, mutatis mutandis, nel voto populista-sovranista attraverso cui gli strati più poveri e più ignoranti della popolazione europea, una volta di più, stanno giocando un brutto (e probabilmente autolesionistico) scherzo ai padroni, ai ben nati, alle élites del vecchio continente. Masoch si inoltra, e ci trascina, in questa zona desertica, glaciale dove ai deboli e ai poveri è restituita la loro ferocia. Egli assiste ancora ragazzo, e come figlio di questore, alla tremenda reazione dei contadini piccolo-russi contro la nobiltà polacca (che a sua volta si era sollevata contro l’Impero asburgico). Uomini impiccati agli alberi come frutti troppo maturi, ammassi di cadaveri trasportati nei carretti come sacchi di patate che grondano sangue leccato dai cani. Masoch vede la furia dei deboli, degli oppressi e degli sfruttati (con cui peraltro, da “padrone” e da intellettuale critico, solidarizza). Ma proprio per questo non può credere, nemmeno per un istante, come sembra fare Nietzsche un po’ ingenuamente, che i deboli “reali” non siano (da sempre stati) in grado – se portati al limite della sopportazione – di rovesciarsi violentemente, subitaneamente (anche se spesso solo fugacemente) in “forti”. Non vede alcuna bassezza nella loro vita, nella loro realtà, e non la vede nemmeno nella loro fede in dio.

I romanzi “masochisti” dell’autore galiziano (come La venere in pelliccia e La madre di dio) ci interessano e ci affascinano ancora oggi perché – a differenza delle opere di Nietzsche – ci aiutano a capire per quale via un uomo del ressentiment, un debole, un invidioso, un uomo dell’ideale ascetico come un Salvini, una Le Pen o un qualsiasi leader populistasovranista, possa ottenere – proprio oggi, sotto i nostri occhi e tutt’altro che miticamente – di essere amato e ascoltato da così tante persone (mentre i “migliori” intellettuali del paese sono considerati – se va bene – dei pedanti, e se va male dei farabutti). Sembra strano che nessuno si sia accorto del fatto che la strategia politico-discorsiva dei nuovi sovranisti neofascisti è proprio ordalico-sofistica (e quindi implicitamente masochista nel senso che ci interessa). Che si tratti del rapporto con l’Europa a proposito dei conti, della questione migranti, di diritto internazionale o di un qualsiasi tema etico, il leader sovranista si pone sempre teatralmente e seduttivamente nel discorso come colui che si farà arrestare, punire, uccidere, piuttosto che venire meno alla parola data. In questo modo egli si rappresenta, in maniera perfetta e ipocrita (ma questo a livello strategico non ha alcuna importanza), come il capo che tutti vorrebbero avere; come qualcuno che ci “mette la faccia”, che mette il suo corpo davanti al tuo, che si espone per primo alle conseguenze della verità che propugna. Anche se la cosa può apparire paradossale, è proprio così che – seducendo gli altri – si trasformano i valori nel reale: mostrando che si è pronti a rimetterci in proprio, in solido, per la verità che si propugna. Non che i leader sovranisti e populisti facciano nulla di tutto questo, hanno solo capito meglio degli altri che – per innescare una potentissima identificazione – spesso basta rappresentare questo atteggiamento.

Il materialismo storico, l’ordalia e la madre di dio: l’al di qua della Legge L’ultimo decennio del Novecento ci consegna Nietzsche e Masoch diversamente ospedalizzati e ormai ammutoliti nella loro follia. Entrambi hanno contribuito con la loro vita e la loro opera a dischiudere quell’abisso che Marx per primo ha cominciato a indagare storicamente e che Freud ha ricollocato all’interno del soggetto e del corpo umani. È sul bordo di questo

abisso che, credo, dovremmo ricollocare l’opera di Sacher-Masoch, ed è anche qui che risiede il suo curioso vantaggio politico e strategico rispetto a Nietzsche. Marx è stato il primo a mettere in luce, nella sua critica alla filosofia del diritto di Hegel e nella critica dell’ideologia tedesca, come non solo le strutture statali, il diritto e la filosofia ma l’intera esperienza della soggettività (leggi “coscienza”), siano un effetto sovrastrutturale del rapporto di forza economico-politico che storicamente divide (e al contempo grottescamente unisce, ancora oggi) sfruttati e sfruttatori. Se osiamo prendere davvero sul serio questo discorso, siamo costretti a inoltrarci in una spiacevole considerazione: gli intellettuali critici borghesi – come erano Marx, Masoch e Nietzsche – non hanno mai avuto altra scelta che quella di essere (a qualche titolo) autodistruttivi/autoaggressivi. Seguendo l’amara lezione marxiana dovremmo ricordarci che un filosofo davvero critico non può rinunciare, non può prescindere dal mettere in campo delle pratiche a qualche titolo “autodistruttive” (e quindi, in senso lato, masochiste) che gli permettano ordalicamente di prendere distanza dai valori borghesi (oggi diremmo autoimprenditoriali) che lo governano dal di dentro e che sono, al contempo, la vera causa del recente rigurgito neofascista delle classi meno colte e/o più povere. Senza questa pulsione, senza questo rapporto con la verità l’atteggiamento critico infatti cessa di essere un valore e si trasforma in un boomerang, in un’arrogante posa tra le tante che si possono acquistare al supermercato neoliberale delle identità autoimprenditoriali. Sacher-Masoch nei suoi romanzi, ben lungi dal parlarci banalmente di sessualità o di perversione, ci parla tra le righe del valore della verità e del “luogo” invisibile, dell’“altra scena”, in cui i valori si creano e deformano storicamente. Masoch ci parla dell’al di qua della Legge, di quel tempo logico in cui la verità, prima di funzionare come il discrimine tra il vero e il falso, cioè come il fondamento di un sistema di valori, è qualcosa che le persone si infliggono, e subiscono, a vicenda. Non è un caso che per fare ciò egli chiami continuamente in causa delle pratiche ordaliche, dei rituali in cui la statuizione della verità non si gioca a livello di una descrizione oggettiva o di un qualche supposto accordo tra un atto e una legge o modello. Nell’impressionante serie di situazioni ordaliche che troviamo nei romanzi di Masoch la verità si manifesta piuttosto sempre come un evento,

come il momento in cui tra il soggetto e la verità che egli deve dimostrare, che egli vuole essere, si frappone una prova; il momento in cui è necessaria una dimostrazione di forza (ovviamente rivolta a qualcun altro), un autodafè, in cui la sopportazione del dolore e l’erotizzazione di questo dolore che io sono giocano la parte della “dimostrazione”. Il contratto masochista in questo senso, oltre a essere una chiara parodia del modo borghese di vivere i rapporti e i sentimenti, non c’entra nulla con una qualsiasi venerazione della Legge, ma rappresenta piuttosto, ancora una volta, molto più semplicemente, una “promessa” ufficiale, incancellabile, che ci rimanda una volta di più alla dimensione ordalica del discorso e del rapporto tra soggetto e verità. È stato Foucault a mostrarci come il masochista, e il genealogista stesso, siano in fondo la figura par excellence del pervertitore di valori, poiché la loro strategia intacca – come sarebbe piaciuto a Nietzsche – il valore stesso della verità. Nel gioco del genealogista/masochista la verità è riportata alla sua dimensione corporale, materica, di sfida; quella dimensione del discorso in cui la Verità – intesa come Legge o modello apofantico-descrittivo da descrivere/definire/servire – non è la regola del gioco, ma la sua posta. Il masochista non è chi trova il suo piacere nella sofferenza. È forse piuttosto colui che accetta la prova della verità e vi sottomette il suo piacere: Se sopporto fino in fondo la prova di verità, se sopporto fino in fondo la prova alla quale mi sottoponi, allora io prevarrò sul tuo discorso e la mia affermazione sarà più forte della tua. Lo squilibrio tra il masochista e il suo partner attiene a questo, cioè che il partner pone la domanda in termini apofantici: Dimmi qual è il tuo piacere, mostramelo; spiegamelo attraverso la griglia di domande che ti pongo; permettimi di constatarlo. […] E il masochista risponde in termini ordalici: Io sopporterò sempre di più di quello che tu puoi fare. E il mio piacere è in questo eccesso, sempre rinviato, mai soddisfatto. Esso non è in ciò che fai [cercando di conoscere apofanticamente la verità che sono], ma in quest’ombra vuota che ciascuno dei tuoi gesti gli proietta davanti. Alla domanda apofantica del suo partner il masochista non replica con una risposta, ma con una sfida ordalica; o meglio, percepisce

[giustamente] una sfida ordalica e vi risponde: Al confine di ciò che puoi immaginare essere me [moi], io [je] affermo il mio piacere.7. I sistemi simbolici infatti si creano, si deformano, ma non si distruggono. Qualcuno li crea, altri li fanno esistere e progredire nel tempo, altri ancora cercano più o meno consapevolmente di intaccarli, deformarli, pervertirli. Noi esistiamo, respiriamo in loro. In questa struttura, in questi sistemi di valori, noi esistiamo come carne, parole, sangue e relazioni che li trasformano incessantemente, mentre essi nello stesso tempo ci abitano, vivono “dentro” di noi come pensiero, “valori” e in ultima istanza come “io”. Che si chiami tutto questo vertiginoso teatro del mondo umano materialismo storico, come ha fatto Marx; allotropo empiricotrascendentale, come ha fatto Foucault; o semplicemente struttura, come hanno fatto Lacan o Althusser, poco importa. Lo sdoppiamento del soggetto, il suo essere al contempo vittima e agente della struttura e del sistema di valori che con essa coincide è la questione fondamentale della filosofia contemporanea. Il problema della migliore filosofia contemporanea (Foucault compreso) è infatti ancora oggi quello di non riuscire a rendere conto della divisione del soggetto facendo a meno del riferimento a un soggetto della coscienza. Masoch, inteso come un momento della storia delle pratiche strategiche masochiste, ci aiuta a capire anche questo: che la divisione del soggetto non passa per il soggetto della coscienza, che è in realtà l’effetto di discorso che strutturalmente la maschera, ma piuttosto nella reversibilità attivo-passiva del soggetto etico, del corpo parlante-patente che io sono. Il soggetto-della-co(no)scienza e la verità intesa come descrizione vera di una qualche realtà (soggettiva o empirica che sia) sono una coppia “logica” che si sostiene a vicenda: non è possibile pensare un’esperienza alternativa della soggettività senza dare un senso differente alla verità, ma al contempo non è possibile pensare un altro senso della verità senza rinunciare alla pacificante identificazione con il soggetto-della-co(no)scienza. La questione decisiva è, dunque, quella del reciproco valore di verità e soggetto. Una domanda su tutte, in Masoch, è urgente, pressante: come si trasformano i valori? Risposta: risalendo al valore della verità. È in La madre di dio che questa problematica si fa non solo esplicita, ma tocca addirittura un apice

poetico. Non è un caso che in molti, compreso Deleuze, abbiano salutato in questo romanzo il vero capolavoro di Masoch. In La madre di dio il protagonista (Sabadil), a differenza di quello della Venere in pelliccia (Severin), trova infatti il coraggio di portare alle più estreme e drammatiche conseguenze la propria fedeltà alla verità “altra” rappresentata dalla madre di dio. In questo romanzo – che può anche apparirci di primo acchito anacronistico e ridicolo – la madre di dio è un’esplicita metafora dell’al di qua della Legge, del luogo in cui la Legge si fa. Mardona, la “madre” di dio, è un personaggio in cui ritroviamo ante litteram tutto il fascino lacaniano di un misterioso e seducente “moi, la verité, je parle”. A tal punto la dimensione della voce come al di qua, come condizione del linguaggio, è presente in quest’opera che possiamo sentire Mardona dire “dio ha parlato attraverso la mia bocca”. La madre di dio sembra anticipare non soltanto alcuni momenti lacaniani, ma anche alcune intuizioni di Foucault a proposito di un’esperienza della soggettività e della verità che nella nostra cultura restano strutturalmente mascherate, sincopate, dall’identificazione dei soggetti etici con il soggetto-della-co(no)scenza. [Si tratta] di mostrare che il soggetto universale della conoscenza non è altro, in realtà, che un individuo storicamente qualificato secondo un certo numero di modalità; di mostrare che la scoperta della verità consiste, in realtà, in un certo modo di produrre la verità, per riportare così ciò che si propone come verità di constatazione sullo zoccolo costituito in realtà dai rituali, lo zoccolo delle qualificazioni dell’individuo che conosce, ovvero sul sistema della verità-evento.8. Allo stesso modo in cui il senso non esiste che come ricaduta incidentale, effettuale, quasi volgare della materia grafica o sonora e del suo erotico con-fondersi con la superficie corporea su cui viene a marchiarsi, a scriversi, così tutte le “verità” che garantiscono un sistema di valori – generando la polpa storica delle varie morali – in origine sono state tutte delle non-verità, dei bruti pezzi di reale. Masoch, come e meglio di Nietzsche, ci insegna anche questo: che c’è un momento, un luogo, in cui la verità non è né vera né falsa: un’immanenza, un al di qua in cui essa – prima di funzionare come un modello o regola trascendente – accade come un evento.

Per una verità di questo genere [cioè diversa da quella implicata nella volontà di verità], pertanto, il problema fondamentale non sarà mai quello del metodo, bensì quello di una strategia. Tra questa verità-evento e chi ne è preda, chi la afferra o chi ne è colpito, il rapporto non è analogo a quello che lega l’oggetto al soggetto. Non è dunque un rapporto di conoscenza. È piuttosto un rapporto contrassegnato dallo scontro, dall’urto [...]. Assomiglia a ciò che avviene nella caccia, e in ogni caso si tratta di un rapporto bellicoso, reversibile, rischioso. Insomma, si tratta di un rapporto in cui c’è dominazione e c’è vittoria, e dunque di un rapporto non di conoscenza, ma di potere.9. In La madre di dio, Sabadil, dopo aver conosciuto per caso Mardona in un bosco e aver flirtato con lei, la cerca febbrilmente per tutta la regione, finché un giorno scopre che la ragazza è la guida spirituale di una comune religiosa dai costumi semplici e felici. Poco dopo, però, un ebreo chassidico alla guida di un calesse gli rivela che Mardona non è solo la guida spirituale della comunità, ma che tale comunità – che rifiuta ogni forma di trascendenza – ritiene che dio esista solo in quanto spinozianamente incarnato in una donna, venerata come Signore e Giudice Supremo (che ha precedenza persino sulla giustizia ordinaria della contea). Sabadil, dopo molte titubanze, e innamorato di Mardona dal primo momento, decide di far parte della setta, ma il suo amore sensuale per lei e le calunnie di alcuni discepoli “scismatici” producono una rottura durante la quale Sabadil osa negare la divinità della madre di dio. Pentitosi poco dopo, il protagonista si rimette ciecamente alle decisioni di Mardona, la quale con dolore lo condanna prima alla crocifissione e poi a morte per empietà. Ma il punto decisivo è che – fino all’ultimo istante – la madre di dio ricorda a Sabadil che egli si sta sottomettendo “liberamente” al supplizio. Il giovane muore di un supplizio che vuole, che desidera, poiché la sofferenza e la morte sono per lui l’unico modo rimasto per testimoniare la sua fedeltà all’al di qua della Legge rappresentato dalla madre di dio. Prima di crocifiggere Sabadil, Mardona gli dice infatti con dolcezza: “Io non ti forzo, una parola dalla tua bocca e ti rendo la libertà. Vuoi sopportare la punizione che ti infliggo o no?”.10. E Sabadil le risponde: “Io sopporterò tutto quello che ordinerai”, e più avanti: “Soffro volentieri poiché tu l’esigi”.11.

Un tentativo commovente di farci sentire sulla pelle l’impercettibile differenza, lo scarto, il battito d’ali, che passa tra il mondo governato dalla verità e il mondo al di qua: quello in cui la verità – prima di funzionare come un regime di significazioni – è qualcosa che materialmente si infligge e si patisce, che si marchia, si fa, si impone. Il vertiginoso specchio liquido che separa il me che pensa dall’io che parla e ascolta. Il finale del più celebre romanzo masochista di Masoch, Venere in pelliccia, è in questo senso molto diverso da quello della Madre di dio: al contempo più ironico e più amaro. Severin, il protagonista, a ben vedere non ha il coraggio di tenere fede all’impegno preso con Wanda, la volubile donna che ama, e in fondo – anche se di solito la cosa non viene quasi mai messa abbastanza in risalto – la fine del romanzo ci restituisce un uomo scaltrito, più sano e maturo, “curato”, ma al contempo irrimediabilmente infelice e disilluso (simile allo “spirito libero” criticato da Nietzsche nella Genealogia). Severin non ha nulla della bellezza che emana da Sabadil, così come la bellezza di Mardona è incomparabile rispetto a quella (pur stordente) di Wanda. La madre di dio soffre nel richiedere l’estremo sacrificio a Sabadil, che ama, dopo la sua morte rimane come catatonica per alcune ore. E quando arrivano i servi della Legge, di quella vera, cioè la polizia e il prefetto della contea, per evitare la carneficina dei suoi discepoli (che sono già pronti a difenderla in armi), Mardona – la madre di dio – si offre ordalicamente ai suoi giudici e futuri aguzzini affermando fino all’ultimo istante il suo diritto insensato e ingiustificabile di essere l’al di qua della Legge: “Abbassate le armi subito – comandò energicamente la madre di dio. […] Sopporterò questa prova senza lamentarmi. Tese le mani sorridente e si lasciò arrestare”.12. Non vi è dubbio che le coppie Mardona-Sabadil e Wanda-Severin siano, l’una rispetto all’altra, come la tragedia e la farsa. La tragedia che si svolge in La madre di dio, come sarebbe piaciuto a Nietzsche, merita senz’altro il posto d’onore nell’opera di Masoch; mentre la farsa – come è giusto – si riduce a non essere altro che una parodia, una ridicola smorfia degli alti motivi in gioco nella tragedia. Non a caso la tragedia (La madre di dio) si svolge sul terreno prediletto da Masoch, quello del popolo slavo, del suo sfruttamento, della sua giustizia sommaria e del suo stile di vita semplice, violento e felice; mentre la farsa è calata in ambiente alto-borghese e flirta

esplicitamente col grottesco (al punto tale che, in più di un’occasione, Severin ci svela la tentazione di ridere della propria tragedia). Il fatto che il pubblico tedesco (colto e borghese) di fine Ottocento non abbia colto la bruciante ironia della Venere in pelliccia potrebbe essere una spia interessante per riflettere su quanto – già in quel tempo – l’esperienza borghese della soggettività fosse qualcosa di più che una seconda natura.

Conclusione In La madre di dio Masoch ci fa sentire nella carne, sulla pelle, proprio questa dimensione della verità-evento che l’esperienza dominante della soggettività tende a sincopare. Non solo, egli ci fa sentire anche fino a che punto, ancora oggi, per vivere e socializzare un’esperienza della soggettività differente – alternativa rispetto a quella che ne fa una sorta di Legge “interiore” che ci abita e governa (Freud avrebbe detto Super-io) – siamo spesso costretti a chiamare in causa l’idea della morte, della sofferenza e dell’autodistruzione. Masoch ci racconta – a mezza voce – di come in questa teatrale autoaggressione, in questa angosciante (ma simbolica) pulsione di morte, si nasconda un’esperienza della soggettività, di me stesso, che mi fa godere; un’esperienza di fronte alla quale l’esperienza borghese, utilitaria, razionale ed edonista della soggettività non tiene nemmeno per un secondo. L’esperienza borghese della soggettività, pur con le sue importanti trasformazioni storiche, è infatti talmente pervasiva da coincidere ormai con il soggetto stesso, con ciò che ho l’abitudine descrittiva di chiamare “io”. Al punto tale che la sola idea, la sola eventualità di poter vivere altrimenti mi fa sprofondare di colpo in un’atmosfera masochista. Tutto questo perché – pur non essendo affatto ogni forma di masochismo di per sé qualcosa di rivoluzionario – bisogna ammettere che, al contrario, ogni pratica rivoluzionaria, ogni scelta deviante rispetto all’orizzonte di valori che costituisce l’esperienza borghese della soggettività (e il suo principio di piacere) non può che essere strutturalmente percepita (da chi la mette in pratica e la vive sulla propria pelle) come “masochista”. Niente oggi è considerato più assurdo di agire contro il proprio interesse individuale. Niente è considerato più malato e perverso di attentare attraverso i propri atti e le proprie scelte semicoscienti alla dominante

esperienza economica dell’io. Se oggi – come ha detto Žižek – il genere distopico ci mostra come sia più facile pensare la fine del mondo (cioè la fine biologica della propria vita e dell’intero genere umano) che pensare la fine del capitalismo, allo stesso modo nei romanzi “masochisti” di Masoch possiamo vedere come a volte, per l’intellettuale critico borghese, sia più facile immaginare di autodistruggersi fisicamente piuttosto che ammettere a se stesso – in maniera meno melodrammatica – che è proprio giunto il tempo di cominciare a vivere diversamente, il tempo di essere (almeno un po’) all’altezza delle proprie parole. Nietzsche ci ha lasciato molte poetiche indicazioni per guidarci in questo pericoloso ma necessario cammino autodistruttivo, di cui non ha mai smesso di avvertire l’intima urgenza (dallo Zarathustra e fino alla Volontà di potenza): Dioniso contro il “Crocifisso”: eccovi il contrasto. Non è una differenza nel martirio: piuttosto, il martirio ha un altro senso. […] Il “Dio in croce” è una maledizione scagliata sulla vita, un dito levato a comandare di liberarsene – Dioniso fatto a pezzi [invece] è una promessa di vita; la vita rinasce in eterno e ritornerà in patria, tornerà dalla distruzione.13. Ancora una volta vediamo come, forse proprio a causa del suo amore per le lettere classiche (e delle sue pose aristocratiche), Nietzsche abbia avuto dei grossi problemi non tanto a cogliere, quanto piuttosto ad accettare l’essenza seduttiva del cristianesimo. Un’“essenza” che Masoch, invece, non solo comprenderà a fondo, ma saprà addirittura far splendere oscuramente nelle atmosfere gotiche dei suoi romanzi. Il cattolicesimo mistico-barocco, eterodosso, per non dire eretico, gioiosamente e angosciosamente masochista è stato storicamente – a partire dal Seicento, passando per il romanticismo e giungendo alla psicoanalisi e all’irrazionalismo novecentesco – il principale nemico interno della razionalità capitalista. Invece di affrettarsi a fare una genealogia e una psicoanalisi del masochismo, si potrebbe piuttosto riconsiderare oggi la pratica genealogica à la Foucault/Nietzsche e l’etica implicata nelle “scoperte” della psicoanalisi come due strategie masochiste interne all’esperienza capitalista e borghese della soggettività. Un rovesciamento di prospettiva senz’altro audace, che i protagonisti della stagione post-strutturalista francese sono

stati i primi a rilanciare nella contemporaneità. Se infatti abbiamo già visto il contributo di Deleuze e Foucault a tale progetto, possiamo chiudere con queste sibilline e poco frequentate parole di Lacan a proposito dell’“essenza” dell’atto analitico: [L’atto psicoanalitico] dovrebbe essere articolato all’interno di quello che è l’orizzonte “masochista”. Sarebbe davvero molto istruttivo confrontare l’atto analitico e la pratica masochista – senza ovviamente confonderli o sovrapporli interamente. […] In un certo senso, infatti, si può dire che – finché lo desidera – il masochista è il vero padrone. È il padrone del vero gioco. Certamente può fallire, senza dubbio. Anzi, è quasi certo che fallisca […] Ma quello del masochista è un fallimento felice, perché si trova in una posizione tale per cui [sia che vinca, sia che perda] egli gode in ogni caso, ed è per questo che è il padrone del vero gioco. È evidente che non ci sogniamo neppure per un istante di imputare un tale successo allo psicoanalista… Significherebbe veramente attribuirgli una fiducia riguardo alla scoperta del proprio godimento che siamo ancora lontani dal potergli accordare.14. 1

F. Nietzsche, La genealogia della morale (1887), trad. di F. Masini, in Opere, vol. VI, tomo II, Adelphi, Milano 1986, p. 239. 2 G. Deleuze, Il freddo e il crudele (1967), trad. di G. De Col, SE, Milano 2007, p. 137. 3 F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 108. 4 Ivi, p. 115. 5 J. Lacan. Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi (1991), trad. di C. Viganò e R.E. Manzetti, Einaudi, Torino 2001, p. 230. “[…] È questo che la psicoanalisi scopre. Con un po’ di serietà vi accorgerete che questa vergogna [di vivere] si giustifica per il fatto di non morire di vergogna, cioè per il fatto di tenere in piedi con tutte le vostre forze un pervertito discorso del padrone – è il discorso universitario.” 6 F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 115. 7 M. Foucault, Lezioni sulla volontà di sapere (2011), trad. di M. Nicoli e C. Troilo, Feltrinelli, Milano 2015, pp. 100-101 (trad. leggermente modificata). 8 M. Foucault, Il potere psichiatrico (2003), trad. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2010, p. 213. 9 Ivi, p. 212. 10 L. von Sacher-Masoch, La madre santa (1886), trad. di A. Sansone, SugarCo, Milano 1968, p. 192 (nel testo ho preferito usare il titolo dell’edizione italiana pubblicata da ES, Milano 1995, che ricalca il titolo originale). 11 Ivi, p. 194. 12 Ivi, p. 202. 13 F. Nietzsche, La volontà di potenza (1901), trad. di A. Treves, Bompiani, Milano 2001, p. 554. Cfr. anche Così parlò Zarathustra: “Amo coloro che non cercano, oltre le stelle, una ragione per

offrirsi in sacrificio o perire. […] Amo colui che vive per sapere, e che vuol sapere affinché, un giorno, viva il super-uomo. E in tal modo egli vuole la propria distruzione”. 14 J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVI. D’un Autre à l’autre, Seuil, Paris 2006, p. 352.

Discussioni

Il soggetto supposto intelligente ANTONELLO SCIACCHITANO

Tutti i modelli sono falsi, ma alcuni sono utili. Uno statistico bayesiano Probabiliter conjicio corpus existere. Cartesio, Sesta Meditazione

Se l’intelligenza naturale?

è

artificiale,

la

stupidità

è

“Intelligenza” è un termine più psicologico che filosofico; non ricorre, per esempio, nel Dizionario di filosofia di Abbagnano. Da Cartesio a Nietzsche il filosofo ha problemi a trattare nozioni teleologiche. Infatti molte definizioni correnti di intelligenza presuppongono il finalismo. Si va dal problem solving – nell’ipotesi che ogni problema o sia risolvibile o si dimostri che è impossibile risolverlo, con tutti i gradi intermedi di difficoltà – alla capacità di raggiungere un fine in situazioni complesse.1. La stupidità sarebbe antiparallela all’intelligenza, estesa in diverse forme dall’inadeguatezza rispetto allo scopo fino all’ostacolo attivo al suo raggiungimento.2. A ciò si aggiunga che la nozione di intelligenza non si autofonda. A giudicare l’adeguamento dell’intelligenza ai suoi compiti – dell’intelletto alla cosa – c’è sempre un’istanza esterna, “il terzo uomo” aristotelico, un arbitro metaintelligente, non necessariamente intelligente nel senso della definizione data. Alla fine si riconosce intelligente la prestazione utile al potere. La meccanica quantistica è in questo senso intelligente perché supporta più della metà del mercato informatico, pur su basi incerte (ma dà risultati certi). Insomma, l’intelligenza sarebbe un attrezzo per fini di economia politica.

Spunta il sospetto che l’intelligenza sia una facoltà psichica artificiale o artificiosa, almeno tanto quanto la psiche stessa. Al confronto la stupidità sembra più naturale, più “umana”. Certo, non siamo più a tempi del Fedone. La città ha messo a morte Socrate e con lui la dimostrazione di esistenza e immortalità dell’anima. Oggi esiste qualcosa di meno dell’anima, ma forse più utile. Esiste la psiche o, freudianamente parlando, l’apparato psichico. Che è ancora un attrezzo: serve a conversare con altri apparati psichici, quindi a comandare e farsi comandare. (Si pensi al Superio freudiano.) Da qui la possibile autoreferenzialità della nozione di intelligenza come ciò che serve all’intelligenza. Allora il discorso filosofico si riapre. Per esempio, si può cominciare a riconoscere che l’intelligenza scientifica è tutt’altro dall’intelligenza psicologica. Non è né astuzia né adeguatezza; è l’abilità a operare con il falso su congetture di lavoro, prima formulandole, poi riducendone la falsità. Inoltre tale intelligenza è collettiva prima che individuale; è somatica prima che psichica; appartiene al corpo collettivo, cioè al falso. Lì, nel falso, l’intelligenza ha il proprio terreno di coltura. Ogni civiltà ha il proprio falso, la propria menzogna civile collettiva, la propria Culturlüge, come nella Nascita della tragedia dallo spirito della musica la chiama Nietzsche e la scrive proprio con la C all’italiana. Si pensi alle fake news e ai miti nazional-populisti che alimentano le pericolanti politiche europee. In parallelo ogni cultura ha la propria forma di intelligenza sia per mascherare sia per smascherare il falso di cui vive. Non esiste, forse, l’intelligenza naturale.3.

Il mondo è complesso L’ultima affermazione è in buona sostanza falsa. Il falso sembra ineliminabile dal discorso sull’intelligenza. Il falso sembra parte integrante e intrigante, al fondo la molla, dell’intelligenza. La probabile ragione è che il mondo (inteso come stato epistemico o modello del reale inconoscibile) è il luogo della complessità, dove l’intelligenza non può far altro che formulare congetture false (leggi: da falsificare) su sistemi caotici. Probabilmente c’è un gradiente dall’intelligenza naturale all’artificiale, dall’intelligenza del lombrico a quella dell’uomo. Sarebbe uno sviluppo

parallelo a quello che prese le mosse dagli istinti sociali degli animali e arrivò ai sentimenti morali dell’uomo, come vide Darwin. È molto probabile che l’intelligenza naturale esista; sarebbe prodotta dall’evoluzione delle specie che promuove la più adatta a riprodursi in certe condizioni ambientali. Siccome tali condizioni variano, non c’è alcuna direzione evolutiva predeterminata, a priori più di altre intelligente. Darwin fu non poco astuto a localizzare l’intelligenza della natura nella selezione naturale. Fu abile a smarcarsi dal finalismo e dal determinismo globale, vigente ai suoi tempi, pur ammettendo come Newton il determinismo a livello locale nel passare da una generazione all’altra. Ma con una differenza sostanziale: oggi, il determinismo non determina più l’evento, come pensava l’antico, ma la sua probabilità.4. La selezione naturale opera nella contingenza, non nella teleo-logia. Genera un ventaglio di possibilità e premia la migliore al momento, in una sorta di campionato della vita, senza perseguire un progetto prestabilito. Variabilità e casualità sono gli ingredienti dell’intelligenza naturale che ha prodotto il nostro mondo complesso. In biologia si chiama biodiversità. Dove c’è più diversità, lì c’è più bio. Questa è la premessa scientifica non sempre gradita al potere, che tende a omogeneizzare l’ambito su cui si impone. I migranti e i barbari restino fuori, dicono i barbari di dentro. L’isolazionismo e il protezionismo degli odierni movimenti sovranisti e populisti sono il portato di una controintelligenza sul breve periodo intelligente. Non a caso quei movimenti sono sempre governati da un Führer; il popolo c’entra poco e solo come soggetto a ipnosi. Non sappiamo cosa sia l’intelligenza, ma empiricamente constatiamo che l’ipnosi politica, seppure è il contrario dell’intelligenza, funziona in modo intelligente, nel senso di finalizzare a disegni di potere il comportamento popolare. Il Führer semplifica il complesso. Impone al falso la propria semplice e autarchica verità: “Lo Stato sono io”. La dittatura si può definire il primato violento dell’essere sul sapere, del “semplice” (da semel “una volta sola” e plectere, “piegare”) sul “complesso” (da cumplecti, “abbracciare”). Ogni dittatura, sia di destra sia di sinistra, fomenta l’ignoranza, imponendo la verità unica del proprio catechismo… come piace al popolo. Il disegno politico dittatoriale la sa lunga. Vulgus vult decipi, ergo decipiamur, si sussurrava un tempo in Vaticano.

L’intelligenza è apprendere dall’esperienza Non è mio compito tracciare la storia del programma di ricerca cibernetica noto come “intelligenza artificiale”. Mi limito a constatare che l’appellativo “artificiale” segnala l’approssimarsi del discorso scientifico e dei suoi artefatti. Sono artificiali i linguaggi studiati in logica; artificiali, addirittura non fonetiche ma ideografiche, le scritture dell’algebra; artificiali le osservazioni computerizzate dei satelliti; artificiali gli esperimenti di laboratorio, anche quando riproducono in vitro fenomeni verificati in vivo. Forse non è artificiale l’intelligenza in sé; è l’approccio scientifico a renderla tale. L’artificio, la simulazione, la prossimità al falso sono il prezzo da pagare alla scienza; lì si radica la principale e più forte ragione delle resistenze che la scienza suscita nell’intelligenza “naturale”, dalla filosofica, ostile allo scientismo e al riduzionismo meccanicista, alla politica avversa ai tecnici che pure sfrutta a suo servizio. Le premesse al programma di ricerca sull’intelligenza artificiale furono poste da McCulloch e Pitts con le loro reti neurali, i cui neuroni erano simulati da funzioni logiche a soglia che calcolavano la congiunzione, la disgiunzione e la negazione logiche dei loro input per dare i corrispondenti output, a loro volta input di altri neuroni. La prima performance di questa “intelligenza in estensione” fu nel 1958 il percettrone di Rosenblatt, una rete neurale che poteva essere addestrata a riconoscere caratteri di stampa mediante la minimizzazione della cosiddetta retropropagazione dell’errore. Il programma di ricerca fu soffocato sul nascere dalla stroncatura di Minsky e Papert, i quali dimostrarono che il percettrone non poteva discriminare tra situazioni non lineari, come la negazione della disgiunzione. Da allora si avviò un programma di ingegneria della conoscenza, una forma di cognitivismo, mirante a costruire “sistemi esperti”, cioè programmi per calcolatori, codificati da esperti nell’intento di rendere il calcolatore altrettanto esperto degli esperti. Il programma fallì scontrandosi con la complessità del reale, di fronte alla quale ha dimostrato di non sapere apprendere ad apprendere. È il meta-apprendimento la condizione epistemica fondamentale di ogni forma di intelligenza. Lo stabilì Bateson nel 1964,5. ma la posizione era stata guadagnata qualche secolo prima dalla Mathesis universalis cartesiana, che passando per l’ars combinatoria di Leibniz arriverà fino alla

logica formale di Husserl e alla cibernetica di Wiener. Wiener ebbe il merito di individuare l’anello di congiunzione tra la macchina e il vivente, sia vegetale sia animale:6. la capacità di apprendere le cause dagli effetti per via retroattiva – un’intuizione che superava l’uomo-macchina di Cartesio e La Mettrie. Non è inutile ricordare l’etimo di “matematica” dal greco manthano, che non significa “calcolare” ma “apprendere”. Si apprende dall’esperienza, in particolare dall’esperienza del dolore.7. Sanno di soffrire le macchine? Sanno di decadere? Che l’entropia aumenta? Oggi il programma di ricerca sull’intelligenza artificiale si riapre proprio sul tema matematico per eccellenza del machine learning, reso impellente dalla necessità di gestire le enormi quantità di dati generati dalle moderne tecnologie informatiche applicate ai processi produttivi. La questione è come una macchina possa imparare senza un maestro che le dica cosa apprendere, cioè confermi le prestazioni positive e corregga le negative. Detto altrimenti, esiste un algoritmo di apprendimento per apprendisti senza supervisori? La congettura scientifica, tutta da verificare, è che tale algoritmo esista. L’evoluzione naturale deve aver applicato qualcosa di simile a un algoritmo di apprendimento senza supervisore, se è vero che in tre miliardi e mezzo di anni la natura ha saputo generare la biodiversità che oggi conosciamo, senza postulare un Disegno Intelligente che prestabilisse la direzione di evoluzione del processo. Oggi ci sono diverse scuole di machine learning. Tutte credono che esista l’Algoritmo Definitivo, ma divergono sul modo di implementarlo. Tutte hanno un tratto negativo in comune: sono antipopperiane. Per Karl Popper le teorie non si possono indurre empiricamente dai dati.8. I dati servono solo a confutare teorie escogitate fuori dal regime empirico.9. Invece questi ricercatori, forse sulle orme di Pierre Duhem,10. cercano in vari modi di estrarre un sapere dal reale – teorie immaginarie da dati reali – non in modo fine a se stesso ma per estrarre ricorsivamente altro sapere dal reale. La bontà dei loro algoritmi si misura proprio sull’efficacia autoreferenziale di apprendere ad apprendere. Pedro Domingos distingue cinque tribù di “apprendisti” in altrettanti capitoli del suo libro L’algoritmo definitivo.11. Ci sono i simbolisti che sulla base dell’empirismo di Hume si cimentano nel calcolo della deduzione inversa; partono dal basso, dalle conseguenze, per “indovinare” le premesse

a monte. Su base neuroscientifica i connessionisti esplorano le possibilità di estendere la legge di Hebb: due neuroni che “sparano” insieme, rinforzano la loro connessione e in futuro spareranno probabilmente ancora insieme. Gli evoluzionisti creano darwinianamente tanti programmi diversi a caso che competono tra loro per il successo del calcolo. Dati gli effetti, i bayesiani calcolano la probabilità inversa delle cause; a loro basta conoscere la probabilità a priori delle cause e la verosimiglianza che un certo effetto sia prodotto da una certa causa. Per il teorema di Bayes, che è un teorema lineare, la probabilità delle cause cresce tanto più quanto più verosimili sono i loro effetti osservati. Infine ci sono gli analogisti che cercano nell’archivio (database) la configurazione più simile a quella data (nearest neighbour), per classificarla nella classe di quella. Quale strategia preferire? Tutte e nessuna. All models are wrong, scrisse nel 1976, lo statistico bayesiano George Box sul “Journal of American Statistical Association”. Undici anni dopo aggiunse la prudente postilla: but some are useful. Commenta Pedro Domingos: “Per un bayesiano la verità non esiste: si parte da una distribuzione a priori [delle probabilità] delle ipotesi che, dopo aver visto i dati, diventa la distribuzione a posteriori [delle probabilità], calcolate secondo il teorema di Bayes. […] Essere bayesiani significa non dover mai dire che si è certi”.12. Ma essere incerti significa essere tanto intelligenti da apprendere dall’esperienza. Da psicoanalista mi sento di fare un’osservazione, credo pertinente al tema dell’intelligenza artificiale, essendo l’intelligenza psicoanalitica una forma di intelligenza tutt’altro che naturale (fuori dal buon senso), come dimostrano tutte le forme di resistenza messe in atto contro la psicoanalisi. Dove si impara dal transfert, cioè interagendo con l’altro. Tanti analizzanti, segnatamente gli anoressici, non apprendono nulla dalla propria analisi, pur sapendo tutto della propria malattia dai libri e dai media, perché sono inibiti al transfert (al sapere) come al cibo. Finora gli approcci al machine learning soffrono della stessa inibizione affettiva verso l’altro, uomo o robot che sia.

C’è un sapere nel reale Sembra una boutade, quella dello statistico citato in esergo. Non è un paradosso. Sintetizza la pratica dei test di significatività. Si testa un modello partendo dall’ipotesi cosiddetta nulla; si suppone, cioè, che i suoi risultati

siano casuali e si calcola la probabilità che la loro configurazione, o una più sbilanciata, sia casuale. Se tale probabilità è sotto la soglia prefissata di significatività, si respinge l’ipotesi nulla e si accetta come vero il modello, senza escludere che possa essere in minima parte falso. Nel caso del bosone di Higgs la soglia fu fissata molto bassa; i famosi cinque sigma corrispondevano alla probabilità dell’ipotesi nulla pari a meno di uno su 3,5 milioni.13. Memore della mia frequentazione giovanile all’Istituto di biometria dell’Università di Milano, in tema di intelligenza artificiale simpatizzo per l’approccio bayesiano all’apprendimento, perché attraverso l’operazione di inferenza probabilistica sa modificare il proprio capitale epistemico in base all’esperienza. Se un sintomo ricorre più frequentemente in una forma morbosa, la probabilità di diagnosticare quella forma aumenta, se ricorre meno frequentemente diminuisce. A quelle simpatie si aggiunge ora l’esperienza psicoanalitica, che ha molta familiarità con il falso. È falso amore il transfert dell’analizzante sull’analista; è un falso godimento il sintomo nevrotico; è un falso ricordo quasi ogni ricordo, è un passo falso il lapsus; anche l’interpretazione dell’analista è per lo più falsa. Insomma, l’intelligenza psicoanalitica, non diversa da quella scientifica falsifica il falso. La doppia negazione apre l’intelligenza all’infinito, ci racconta Hegel.14. In breve, è falso il reale, che secondo Lacan è ciò che non cessa di non scriversi. È reale pi greco, che non cessa di prolungare all’infinito la propria scrittura decimale, essendo falso ogni troncamento del suo sviluppo alla millesima, milionesima, miliardesima cifra.15. Poiché il reale è falso per ogni epistemologia (per ogni modello), le mie simpatie – dicevo – vanno all’apprendimento bayesiano che fa posto al falso. Le verosimiglianze dell’effetto, data la causa, variano: se l’effetto si verifica, la verosimiglianza aumenta, se non si verifica, diminuisce. Parallelamente varia la probabilità della diagnosi delle cause. Il presupposto del teorema di Bayes è l’esistenza di un sapere nel reale che il teorema – una formula lineare e di semplice dimostrazione – si propone di simulare. “C’è un sapere nel reale” è un hapax negli scritti di Lacan, che l’analista parigino (forse anch’egli riconoscendo la teoreticità dell’atto osservativo secondo Duhem16.) formulò nella lettera inviata nel lontano aprile del 1974 agli psicoanalisti italiani della sua scuola.

All’analista tocca l’ingrato compito di portare alla luce un particolare sapere nel reale, quello iscritto secondo Freud nella rimozione originaria e articolato in rappresentazioni che non diventeranno mai del tutto consce. Dico “ingrato” perché i rapporti tra sapere e reale non sono pacifici, come ben sapeva Freud che localizzava nel reale un sapere unheimlich, segreto eppure palese, familiare eppure estraneo, inatteso ma prevedibile, almeno a posteriori (nachträglich) determinato, comunque perturbante, tale da determinare perfino la rottura precoce del lavoro di analisi, quando l’analizzante si aggira nei suoi pressi. Certo, congetturare l’esistenza di un sapere nel reale sembra ragionevole, benché difficile da dimostrare. È molto probabile che esista un sapere nella materia; l’evoluzione naturale ha saputo portarlo alla luce nel giro di qualche miliardo di anni, senza scomodare alcun ilozoismo. La cultura potrebbe andare più in fretta, trasformando gli eoni in decenni. Non è un caso. La meccanica quantistica ha scoperto l’entanglement (Verflechtung è il termine di Schrödinger). Se di due elettroni accoppiati e lanciati in direzioni opposte si misura lo spin di un elettrone, si sa immediatamente lo spin dell’altro, qualunque sia lo spin misurato sul primo; tutto avviene come se i due elettroni sapessero e si comunicassero informazioni sul proprio stato telepaticamente a velocità infinita (vietata dalla relatività). Da lì all’Algoritmo Definitivo il passo non è breve. È tuttavia alla portata di tutti, non essendo legato a una particolare abilità matematica. I batteri e i lombrichi non sanno del teorema di Pitagora. Eppure al nematode Caenorabditis elegans basta un cervello di 302 neuroni per apprendere e controllare il complesso coordinamento tra sensazioni e movimenti. A noi basterebbe non dimenticare l’avvertimento di Cartesio che tutto il verosimile è falso.17. È una legge epistemica, ma fonda la morale di ogni attività intelligente: DUBITA! Nonostante i suoi neuroni multitasking il C. elegans non ha ancora appreso a dubitare. Sa raggiungere certi fini esistenziali ma non è ancora veramente intelligente; non ci sa fare con il falso, non avendo imparato a dubitare.

Il corpo intelligente Non si può parlare di intelligenza senza parlare di corpo.

Nelle righe precedenti ho inanellato i primi due anelli della catena deduttiva: c’è un sapere nel falso, quindi c’è un sapere nel reale. Ora non mi resta che concludere con il terzo anello: c’è un sapere nel corpo, inteso come luogo reale del falso.18. Tentato da un certo lacanismo, direi che il corpo lega in modo borromeo il sapere e il falso, senza legarsi direttamente a nessuno dei due: tolto il corpo, falso e reale si slegano.19. La ripartenza è da Spinoza. Il corpo di Spinoza è diverso da quello di Cartesio. È res extensa ma pensa. Il corpo pensa pensieri falsi. Attenzione, non sono falsi perché manchino di verità. Sono falsi perché non sono chiari e distinti come quelli nella mente di Dio (o della Natura, che coordina l’ordo idearum all’ordo rerum). Le passioni dell’anima sono false. Il tema sarà ripreso da Lacan alla fine del seminario del 30 giugno 1954,20. dove identifica le tre passioni ontologiche fondamentali e le colloca nel suo algoritmo RSI: l’amore al giunto simbolico-immaginario, l’odio al giunto reale-immaginario e la volontà d’ignoranza al giunto simbolico-reale, una passione ben più forte delle altre due, regolarmente imposta al soggetto dal proprio contesto, prima familiare e poi civile. Insomma per trattare le passioni, o gli affetti, come li chiama Spinoza, ci vuole un’intelligenza particolare, forse non del tutto naturale. Nell’analisi degli affetti, l’intelligenza di Spinoza non esita ad affrontare il falso. Gli affetti sono falsi pensieri pensati dal corpo; sono falsi – come dicevo – non perché manchino di verità, ma perché sono pensati in modo incompleto, oggi si direbbe in modo congetturale o probabilistico. Di quale incompletezza si tratta? Apro una parentesi didascalica. In logica si distingue tra due incompletezze: sintattica e semantica; nella prima manca sia la dimostrazione sia la confutazione di un asserto; nella seconda di un asserto supposto vero, per esempio come conseguenza intuitiva di certe ipotesi, non si riesce a derivarlo da quelle ipotesi con il calcolo sintattico rigoroso. L’incompletezza sintattica è dell’intelligenza che non arriva a descrivere il proprio mondo come unico. L’incompletezza semantica è dell’intelligenza impotente a dominare tutto il proprio mondo in via algoritmica.21. Formalizzata dai teoremi di Gödel, l’incompletezza sintattica è una caratteristica comune a ogni forma di intelligenza sia umana sia artificiale, purché dotata di una certa abilità a manipolare simboli, cioè purché sia sufficientemente… intelligente.22.

Spinoza sembra optare per l’incompletezza sintattica dell’intelligenza corporea o affettiva; quando sostiene che le idee pensate dal corpo sono “confuse”, sembra intendere “indecidibili”; per loro, in particolare per gli affetti, sembra non si possa dire se sono idee vere o false.23. Aristotele direbbe che gli affetti non sono degli interi, perché rimane sempre qualcosa fuori dalla loro area semantica. Ciò facilita la transizione di contenuti da un affetto all’altro, per esempio dall’amore all’odio o viceversa; in psicoanalisi il fenomeno si chiama transfert. In realtà, fuori dall’affetto esiste ineliminabile l’altro. Qui forzo Spinoza a compiere un passo che ritengo necessario ma che nell’Etica rimane implicito nella dicotomia affetto-passione, uno attivo, l’altra passiva. L’affetto risulta dall’azione del corpo dell’altro sul mio, che reagisce in modo affettivo, cioè falso. Insomma, secondo il pensiero di Spinoza, che è essenzialmente politico anche quando è etico, il corpo è originariamente un collettivo che fa posto al corpo dell’altro.24. Perciò è il luogo del falso, perché l’uno non sa cosa pensa l’altro, al di là di qualche schema ereditato per via transgenerazionale e codificato nell’“altro generalizzato” secondo Georg Herbert Mead,25. che non è molto sbagliato supporre come l’autentico soggetto intelligente, depositario dell’intelligenza del gioco collettivo. Pensare come e cosa pensa l’altro, è questo l’orizzonte dell’intelligenza natural-artificiale; naturale perché è già in natura, artificiale perché tende a intelligere oltre se stessa, fino nel corpo dell’altro. Il tema del corpo ritorna nell’ambito della ricerca sull’intelligenza artificiale, dapprima con la dicotomia hardware-software, poi nella costruzione di robot, dapprima industriali, in seguito domestici. La coabitazione corpo-macchina ne ha fatta di strada dai tempi di Lamettrie ai nostri smartphone.

Il tempo esiste, il tempo non esiste Sono arrivato all’anello più astratto, il quarto, il più problematico e forse pure più sintomatico della mia ricostruzione del concetto di intelligenza. Riguarda il rapporto tra il tempo e la pratica dell’intelligenza, due termini di per sé sfuggenti. Schematizzo brutalmente. Per l’intelligenza antica il tempo esiste. È il tempo storico, la durata secondo Bergson, che si analizza ricostruendo la successione degli eventi, il consolidato scire per causas, basato sul

principio di ragion sufficiente: al tempo t0 c’è la causa C, al tempo t1 c’è l’effetto E. La transizione da C a E è deterministica e irreversibile. L’intelligenza storica consiste nel determinare la successione corretta, ossia legale, a prescindere, almeno prima di Galilei e Pascal, da ambiguità e incertezze probabilistiche. Oggi questo tipo di intelligenza è coltivata da due approcci non proprio galileiani e tra loro in parziale conflitto: da una parte la fenomenologia (in psichiatria con i vissuti di Minkowski), dall’altra il cognitivismo e gran parte delle neuroscienze, in particolare nelle versioni alla Edelman e Tononi, che a sua volta tenta di riprendere temi fenomenologici, tipicamente quello della coscienza, attraverso la nozione di informazione integrata. Per l’intelligenza scientifica, invece, il tempo esiste poco e in modo diverso dal tempo “naturale”.26. È anch’esso “artificiale”. In meccanica classica il tempo è reversibile, quindi non distingue tra passato e futuro, che sono simmetrici: il tempo della meccanica non è il tempo della vita quotidiana, dove succedono cose irreversibili e non si torna al passato se non sotto forma di ripetizione. In biologia il tempo è contingente; riavvolgere il film dell’evoluzione biologica e riproiettarlo farebbe vedere scenari completamente diversi, scriveva Stephen Jay Gould.27. Nella fisica dei corpi macroscopici c’è un solo esempio di temporalità deterministica e irreversibile: è rappresentato dalla seconda legge della termodinamica, che stabilisce l’aumento irreversibile dell’entropia nei sistemi isolati (ma esistono?) – la cosiddetta freccia del tempo. Tuttavia anche in questo caso la temporalità è più apparente che reale: l’aumento dell’entropia è legato ancora una volta a una componente essenziale dell’intelligenza: l’ignoranza. Non conosciamo con esattezza i microstati di un sistema, cioè posizioni e velocità di tutte molecole, di cui sono note le masse. Conosciamo solo dei macrostati caratterizzati da una certa entropia e il passaggio da stati meno probabili di minore entropia a stati più probabili di maggiore entropia. Non a caso non si parla (o si parla poco) di entropia in meccanica quantistica, dove compaiono probabilità ontologiche accanto alle epistemiche e in ogni caso si trattano interazioni di poche particelle che collidono. Senza tempo cosa resta? Restano le interazioni tra componenti elementari. Il tempo stesso è una correlazione tra stati, convenzionalmente posti in successione lineare: uno prima e l’altro dopo. Ciò dà l’illusione della

temporalità. Time is a big illusion, diceva Einstein. Voleva dire che non è un’illusione scientifica, ma forse filosofica.28. È compito dell’intelligenza scientifica smontare l’illusione del tempo. In ultima analisi l’intelligenza scientifica va veramente alla ricerca del tempo perduto o meglio di ciò che si perde nel tempo. Come le due differenti concezioni del tempo si incarnano nella pratica dell’intelligenza? Anche qui schematizzo in modo selvaggio. Se il tempo esiste, l’intelligenza è storica. Questo tipo di intelligenza è assunto come “scientifico” dal cognitivismo, che mira a verificare il vero, come nell’antica parresia. Se il tempo non esiste, all’intelligenza non resta altro che falsificare il falso, cioè quel che ancora ignora. È chiaro che verificare il vero, come avviene in ogni impianto ideologico (catechistico), è sterile; non produce nuove informazioni, mentre falsificare il falso è fecondo di nuove informazioni. Sarà quella scientifica un’intelligenza in progress? Galilei sosteneva “ché quanto alla scienza, ella non può se non avanzarsi”.29. Il tempo della scienza è tempo di sapere, non è cronologico.30. È qui in atto la simmetria tra interpretare e falsificare, tra ermeneutica e scienza. L’interpretazione attribuisce all’enunciato il valore di verità “vero” (logica degli enunciati), in particolare estende tale valutazione a tutti gli oggetti di un certo modello che verifica l’enunciato (logica dei predicati). Simmetricamente, la falsificazione attribuisce all’enunciazione il valore di verità “falso”; perciò fa uscire dal mondo “reale” e fa approdare in un altro mondo che forse non esiste; da qui l’artificiosità dell’operazione “intelligente”, praticamente una riduzione all’assurdo, di fatto inevitabile quando si tratti di infinito.31. In ultima analisi si potrebbe dire con Aristotele che l’infinito è il padre di tutte le falsità, quindi della vera intelligenza, potrei dire, intendendo alla fine per intelligenza, soprattutto per quella artificiale, l’abilità a trattare l’infinito, che non è proprio un oggetto naturale.32.

Cosa c’entra la psicoanalisi? Concludo con un riferimento alla psicoanalisi in quanto disciplina potenzialmente scientifica. Lo è in teoria nella misura in cui nell’inconscio freudiano non esiste il tempo.33. Ma lo è anche in pratica perché opera su un aspetto epistemico imparentato sia al vero sia al falso: l’incerto. Un evento

incerto non è falso, perché può verificarsi (o essersi verificato), e non è vero, perché può non verificarsi (o non essersi verificato). Come lo tratta la psicoanalisi? Qui l’intuizione di Lacan, esposta nel Seminario XI,34. è veramente pertinente. Risponde Lacan: con la congettura, come si fa ricerca in laboratorio. Il soggetto in analisi suppone, ovviamente in modo falso, che esista un soggetto – l’analista – che sappia qualcosa del suo desiderio inconscio. Il soggetto supposto sapere è il cardine attorno al quale ruota il transfert del lavoro psicoanalitico. A ogni giro di boa porta alla luce un pezzo di verità inconscia, come se anche in psicoanalisi valesse un’intelligenza che opera in modo probabilistico attraverso la logica dell’incerto35. o la sua matematica.36. Insomma, perché non concludere che l’intelligenza artificiale è l’intelligenza matematica? Come tale è l’intelligenza che sa apprendere quel che non sa, per primo quel che non sa di sapere, la realtà dell’inconscio di me stesso e di tutti. Un piccola dose di furor mathematicus… ma senza l’arroganza della verità, mitigata da una buona dose di falso, non guasta. L’intelligenza della sapienza è prudenza: sa abitare la distanza dalla verità. Non bisogna pretendere troppo dalla propria intelligenza. “I non sciocchi sbagliano”, diceva uno psicoanalista francese. Alla domanda di apertura di questo testo – se l’intelligenza è artificiale, la stupidità è naturale? – risponderei citando Musil: “Se la stupidità non assomigliasse al progresso, al talento, alla speranza o al miglioramento tanto da venir confusa con essi, nessuno vorrebbe essere stupido”. La stupidità ci riporta al rapporto con il reale. Allora parafraserei Musil così: “Se l’intelligenza non contenesse della stupidità, nessuno vorrebbe essere stupido”.37. Insomma, non esiste l’intelligenza allo stato puro; grazie a della stupidità anche l’intelligenza più artificiale diventa naturale, cioè a portata d’uomo. Non lontano da lì l’oltreuomo di Nietzsche ci strizza l’occhio. Ci invita al salto antropologico dal naturale all’artificiale, dal filosofico allo scientifico, dal vero al falso, attraversando come funamboli il baratro che li separa sulla fune che li connette.38.

1

“L’intelligenza è la capacità di realizzare fini complessi”, M. Tegmark, Vita 3.0. Essere umani nell’era dell’intelligenza artificiale (2017), trad. di V.B. Sala, Raffaello Cortina, Milano 2018, p. 61.

2

Esemplare a questo proposito è la prima commedia di Molière, L’étourdit ou les contre-temps (1658), dove Lelio intralcia sistematicamente l’operato del fedele Mascarillo, che traffica per procurargli l’amata. 3 L’intelligenza per ingannare l’altro, tipica dell’isteria, è affatto innaturale. 4 È stato recentemente tradotto il saggio del 1932 di Alexandre Kojève, L’idea di determinismo nella fisica classica e nella fisica moderna (trad. di S. Moreno, Adelphi, Milano 2018), che sviluppa il tema dell’Intelligenza del “demone” di Laplace. Traggo da Kojève la distinzione tra determinismo globale e locale. 5 G. Bateson, “Le categorie logiche dell’apprendimento e della comunicazione” (1964), in Verso un’ecologia della mente, trad. di G. Longo, Adelphi, Milano 1976, p. 303. 6 Si veda il capitolo III di N. Wiener, Introduzione alla cibernetica (titolo originale: The Human Use of Human Beings del 1950), trad. di D. Persiani, Boringhieri, Torino 1966, p. 74 sgg., dove Wiener contrappone rigidità ad apprendimento. Sei anni prima Erwin Schrödinger si era impegnato a definire che cos’è la vita (cfr. E. Schrödinger, Che cos’è la vita? La cellula dal punto di vista fisico [1944], trad. di M. Ageno, Adelphi, Milano 1955), ma non affrontò il tema dell’apprendimento, limitandosi alla trasmissione del codice genetico. 7 V.A.I. Telloni, “Mathemata pathemata: il dolore dell’apprendimento nella tragedia attica antica”, in AA.VV., Matematica e letteratura. Analogie e convergenze, De Agostini Scuola, Novara 2016. 8 “La base empirica delle scienze oggettive non ha in sé nulla di ‘assoluto’”, K.R. Popper, Logica della ricerca scientifica (1934), trad. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1970, p. 107. Più profonda l’analisi di Alexandre Kojève. “A rigore di termini, le osservazioni non possono né confermare né invalidare la teoria, la quale non si applica che alle serie infinite” (A. Kojève, L’idea di determinismo nella fisica classica e nella fisica moderna, cit., p. 69). 9 All’epistemologia di Popper sfugge almeno il 50% delle teorie scientifiche, non essendo falsificabili proprio gli enunciati probabilistici, tipici della meccanica quantistica e della biologia evoluzionista. La probabilità delle ipotesi non è per lui riconducibile alla probabilità degli eventi, l’unica matematizzabile (K.R. Popper, Logica della ricerca scientifica, cit., p. 279). 10 P. Duhem, “Alcune riflessioni sulla teoria fisica” (1892) e “Alcune riflessioni sulla fisica sperimentale” (1894), in Verificazione e olismo, a cura di M. Fortino, Armando, Roma 2006. 11 P. Domingos, L’algoritmo definitivo (2015), trad. di A. Migliori, Bollati Boringhieri, Torino 2016, pp. 79-234. 12 Ivi, pp. 195-196. 13 Attenti alla doppia negazione! 3,5.10–6 non è la probabilità che il bosone di Higgs esista; è la probabilità di ottenere dati come quelli del CERN in assenza della particella. 14 “L’infinito è la negazione della negazione, l’affermativo, l’essere che si è di nuovo ristabilito dalla limitatezza”, G.W.F. Hegel, Scienza della logica (1812-16), trad. di A. Moni, Laterza, RomaBari 1988, vol. I, p. 139. 15 C’è una bella poesia della Szymborska intitolata Pi greco. Un suo verso recita: “Tutte le sue cifre successive sono iniziali”. 16 L’atto osservativo si inserisce in un discorso senza parole. Ricordo che nel Seminario XVI del 13 novembre 1968 Lacan sostenne che “l’essenza della teoria psicoanalitica è un discorso senza parole”. 17 “Considerai pressoché falso tutto ciò che non fosse nulla più che verosimile”, Cartesio, Discorso sul metodo (1637), trad. di L. Urbani Ulivi, Bompiani, Milano 2002, p. 101. In proposito va corretta l’affermazione di Lacan che Cartesio cercasse la certezza (cfr. J. Lacan, Le Séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse (1964), Seuil, Paris 1973, p. 202). Cartesio cercava un modo “intelligente” di trattare il falso ubiquitario. 18 Ho sviluppato l’argomento in A. Sciacchitano, Il corpo pensante, “aut aut”, 330, 2006, pp. 7393.

19

Per i lacaniani, sto traducendo la catena RSI di Lacan; pongo il falso dalla parte del reale, il sapere dalla parte del simbolico (visto in chiave sintattica) e il corpo dalla parte dell’immaginario. 20 J. Lacan, Le Séminaire. Livre I. Les écrits techniques de Freud (1954), Seuil, Paris 1975, p. 298. 21 Tra il 1929 e il 1930 Kurt Gödel dimostrò la completezza semantica della logica dei predicati del I ordine e l’incompletezza sintattica dell’aritmetica, se coerente. In logica l’incompletezza sintattica fu introdotta già nel 1908 dal matematico olandese Luitzen Brouwer che nel suo intuizionismo sospese il principio del terzo escluso, caposaldo della logica aristotelica. 22 Dopo Gödel sappiamo che condizioni sufficienti perché una teoria sia sintatticamente incompleta sono che sia coerente, assiomatizzabile e tanto potente da rappresentare parte dell’aritmetica (le funzioni ricorsive primitive). 23 “La falsità consiste nella privazione di conoscenza inerente a idee inadeguate, ossia parziali e confuse” (B. Spinoza, Etica II, Prop. 35). In particolare sono false, cioè inadeguate, le idee che la mente si fa delle affezioni corporee (ivi, Prop. 25). Consegue l’inadeguatezza della conoscenza mentale del corpo (ivi, Prop. 24). Ciò non toglie che esista una logica del falso degna del nome di intelligenza. “Le idee inadeguate e confuse si svolgono con la stessa necessità delle idee adeguate, ossia chiare e distinte” (ivi, Prop. 36). 24 “Per mantenersi il corpo umano ha bisogno di moltissimi altri corpi da cui viene continuamente come rigenerato” (B. Spinoza, Etica II, 4. Postulato). 25 G.H. Mead, Mente, sé e società (1934, postumo), trad. di R. Tettucci, Giunti, Firenze 2010, pp. 212-225. 26 Per lo sviluppo di questo tema rimando a C. Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, Milano 2017. 27 “Se ripetiamo un milione di volte il film della vita a cominciare da Burgess, dubito che tornerà mai a svilupparsi qualcosa di simile all’Homo sapiens”, S.J. Gould, La vita meravigliosa (1989), trad. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1995, p. 297. 28 Ad Einstein rispose Henri Bergson in Pensiero e movimento (1934), trad. di F. Sforza, Bompiani, Milano 2000. Il contrasto Einstein-Bergson è paradigmatico della contrapposizione tra scienza e filosofia: la prima a servizio del falso, la seconda del vero. 29 G. Galilei, Dialogo dei massimi sistemi (1633), in Opere, a cura di F. Flora, Ricciardi, NapoliMilano 1953, p. 391. 30 Il tempo epistemico è anche il tempo della psicoanalisi. Cfr. A. Sciacchitano, Il tempo di sapere. Saggio sull’inconscio freudiano, Mimesis, Milano-Udine 2013. 31 La dimostrazione euclidea dell’infinità dei numeri primi è dall’antichità l’esempio fulgido di dimostrazione per assurdo. Una vera e propria dimostrazione di intelligenza (cfr. Euclide, Elementi, IX, 20). Peraltro non si dimentichi il paradosso: fu proprio l’elevato livello della performance intellettuale euclidea a inibire lo sviluppo dell’intelligenza matematica occidentale per almeno due millenni, soprattutto sul versante della generalizzazione. 32 Nel linguaggio di Aristotele l’innaturalezza dell’infinito sta nell’essere in potenza ma non diventare mai in atto. L’infinito non è intero, nel senso che non ha nulla fuori di sé, ma ha sempre qualcosa fuori di sé (cfr. Aristotele, Fisica, III, 206a-207a). Quindi non è concettuale. Parlando alla Hegel, se l’intero è il vero, l’infinito è il falso. Quindi è ostico a qualunque intelligenza “naturale”, poiché è vero che dal falso si deduce qualunque cosa. Oggi si direbbe che l’infinito è non categorico, cioè ha molti modelli tra loro non isomorfi. 33 L’analista restituisce all’analizzante la sua temporalità attraverso le cosiddette “costruzioni in analisi”. Allora, alla fine del suo percorso, Freud si chiede se l’analisi sia finita o infinita. Cfr. S. Freud, Die endliche und die unendliche Analyse (1937, Analisi finita e infinita), in Gesammelte Werke, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, vol. XVI, p. 57. 34 J. Lacan, Le Séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse (1964), Seuil, Paris 1973, p. 209 sgg.

35

B. De Finetti, La logica dell’incerto, il Saggiatore, Milano 1989. M. Li Calzi, La matematica dell’incertezza, il Mulino, Bologna 2016. La matematica moderna segna la perdita delle certezze euclidee. Lo argomenta lo storico della matematica Morris Kline in Matematica, la perdita della certezza (1980), trad. di M. Turchetta, D. Roubini e L. Bonatti, Mondadori, Milano 1985. 37 R. Musil, Über die Dummheit (conferenza tenuta a Vienna l’11 marzo 1937 e ripetuta il 17 marzo 1937 su invito della Österreische Werkbund), Alexander Verlag, Berlin 1987, p. 6. 38 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra (1883), trad. di S. Giametta, Bompiani, Milano 2010, Proemio, 3, p. 225 sgg. 36

Il mistero della passe SERGIO BENVENUTO

Non discuterò qui il dispositivo inventato da Jacques Lacan, e adottato da molte istituzioni lacaniane, detto passe. Mi soffermerò piuttosto su quel che ne dice il filosofo Alain Badiou nei suoi seminari su Lacan,1. cosa che mi permetterà di prendere le distanze da una visione non solo della psicoanalisi, ma del rapporto tra sapere e vita, di cui Badiou è importante esponente. 1. La passe era un modo per sfuggire a un inghippo fondamentale a cui vanno incontro la maggior parte delle istituzioni psicoanalitiche a cominciare dall’IPA (International Psychoanalytic Association) quando si tratta di cooptare qualcuno come psicoanalista. Per essere accettato come analista, occorre che un candidato faccia un numero minimo di ore di analisi didattica, fatta cioè con un analista al vertice della carriera detto analista didatta, training analyst. C’è un’ambiguità profonda nella nozione di analisi didattica, dato che essa da una parte sarebbe un’analisi come le altre, ma dall’altra anche una sorta di esame, di test, attraverso cui l’analizzante deve dimostrare di aver superato gran parte dei suoi problemi e di essere pronto a esercitare come analista. Insomma, l’analista didatta è da una parte l’analista, dall’altra il giudice, del candidato.2. Questo cozza con il principio fondamentale della psicoanalisi clinica: il carattere incondizionato dell’analisi, il non dover essere connessa ad alcuna altra richiesta se non quella dell’analisi. Di solito poi l’analista didatta considera il trainee, il suo candidato in didattica, come un suo diretto allievo; viene insomma a crearsi un rapporto clientelare tra analista didatta e analista cooptato. Lacan, con la sua proposta della passe, tendeva a rovesciare completamente la questione. La domanda a cui rispondere non doveva essere più “come formare al meglio degli analisti che riconosceremo come nostri pari?”, ma piuttosto “chi possiamo accettare come analista nella

nostra École freudienne de Paris?”. Almeno ufficialmente, l’École lacaniana non si preoccupa di come formare analisti, ciascuno si forma come può e con chi vuole. L’importante è che chi voglia essere Analyste de l’École (AE) testimoni del fatto che abbia davvero svolto un’analisi, che insomma ci sia stato atto analitico. Perché l’idea di fondo di Lacan è che se un’analisi è stata veramente fatta, l’analizzante è in grado di essere anche analista: diventare analista è il vero risultato di ogni analisi compiuta. Il punto quindi non è tanto mostrare che si funziona bene da analista, ma mostrare che si è fatta una vera analisi. Chi vuole essere accolto come AE, il passant, si rivolge almeno a due passeurs, che gli vengono attribuiti con un tiraggio a sorte. I passeurs sono analizzanti in fine di analisi; i loro nomi vengono proposti dagli AE. Il passant parla della sua analisi a questi passeurs, i quali a loro volta diranno quel che hanno inteso di questa analisi davanti a una giuria di AE, e questo in assenza del passant. È sulla base di quel che i passeurs avranno detto dell’esperienza del passant che la giuria deciderà se il candidato può essere accolto come analista della scuola. 2. Nel seminario del 21 dicembre 1994 Badiou evoca la passe per illustrare in che senso Lacan debba essere considerato un antifilosofo. Tutto il seminario di quell’anno è dedicato a Lacan, presentato appunto come antifilosofo. Badiou annovera sei antifilosofi, tre nell’età classica (Pascal, Rousseau, Kierkegaard), tre moderni (Nietzsche, Wittgenstein, Lacan). Egli dice che infatti questi pensatori non si rivolgono ai filosofi (anche Wittgenstein? C’è da dubitarne; a meno di non separare i logici dai filosofi), ma ad altre figure. Per esempio, Pascal si rivolge essenzialmente al libertino, Rousseau “al contadino che beve latte”, Kierkegaard alla donna… Quanto a Lacan, egli si rivolge agli analisti, anche se spesso li deride, soprattutto perché non leggono filosofia. “Voi analisti – dice in sostanza – dovreste leggere seriamente la filosofia proprio per liberarvi dai cattivi filosofemi che ostacolano la vostra pratica.” Ora, secondo Badiou, la passe è un meccanismo che dovrebbe servire proprio a bloccare il filosofico nell’analisi: la filosofia è ciò che non passa. Ovvero, il filosofico è la scoria dell’analitico. Scrive:

Mostratemi un giorno la pattumiera di una passe – penso che sarebbe piena di filosofia! È ciò che non passa! E perché è ciò che non passa, il filosofico di una cura? Perché è tutto ciò che si è trovato di ermeneutico, di piatto interpretativo, delle più svariate parlantine, di nefasta totalizzazione, di coscienza di sé in un cogito centrato, di falso sapere assoluto, dell’istanza trionfale del padrone che non rinuncia mai a sé, ecc. Che cos’è tutto questo? Ovvio, è la filosofia! (p. 83) Da notare che Badiou non si include nella serie antifilosofica. Certo esalta gli antifilosofi, tra cui Lacan, ma lui stesso non pare abiurare la posizione di filosofo. Dobbiamo considerare quindi la sua come una filosofia che si è riconosciuta come scarto, pattumiera, una filosofia che ha accettato di mancare l’atto. Perché è questo che accomuna tutti gli antifilosofi: contro le astrattezze del filosofo che pretende di dire la verità, loro indicano ciò che dà davvero senso, qualcosa dell’ordine dell’atto. Contro il primato filosofico della verità, gli antifilosofi rivendicherebbero il primato del senso. Per esempio, nel caso di Pascal, contro le verità teologiche l’atto di conversione nel Dio cristiano. Nel caso di Rousseau, contro le verità illuministe di Voltaire e di Hume, un appello mistico al primato del sentimento. Nel caso di Wittgenstein, contro la pretesa di dire verità filosofiche il primato della dimensione etica ed estetica. Badiou cita l’esempio dato da Kierkegaard del rigattiere dove tra le cianfrusaglie si trova una placca con su scritto: “Qui si stira”. Il tipico uso erroneo della filosofia sarebbe equivalente a quello di chi prendesse alla lettera quella scritta e pensasse che davvero dal rigattiere si stiri! L’atto (stirare) è esterno alla filosofia-rigatteria, mentre gli antifilosofi vogliono riportarci all’atto. Ma Badiou sa che Lacan non oppone il senso alla verità, che Lacan denuncia tutte le concezioni che indicano un senso ultimo della vita, a cominciare dalla religione, che per lui è una macchina per dare senso alla vita. Con Lacan, il gioco di Badiou si complica. La verità però è che tutto il pensiero di Lacan si inscrive in una dimensione di senso, anche se non viene dichiarata come tale: è l’idea che in ultima istanza l’essere umano desidera e gode. L’essere umano non è una facoltà contemplativa, vive nel desiderio, e in qualche modo riesce a

godere. Tutto il pensiero di Lacan si inserisce in un orizzonte molto forte di senso, malgrado i dinieghi. Dico subito che questa dicotomia tra filosofi e antifilosofi non mi pare rendere giustizia alla filosofia, per lo meno non alle filosofie maggiori. Potremmo dire che il nocciolo di tutte le grandi filosofie è antifilosofico, nella misura in cui ogni filosofia tende a trascendere se stessa, a porre qualcosa di essenziale sempre al di là del proprio dire. Ogni vera grande filosofia apre all’atto. Qui mi limiterò a evocare la scrittura di Platone, ovvero di una filosofia che, secondo quel che si pensa, sarebbe l’acme della pretesa filosofica di dire la vera verità. In realtà nei Dialoghi ciò che alla fine viene dato come sapere positivo, ciò che viene chiamata “concezione platonica”, non è mai la conclusione filosofica di una dialettica, ma l’appello, da parte di Socrate, a una sophia che proviene da altri, da saggi, poeti, mistici, da Diotima… Mai da altri filosofi. Perché, come dice la parola stessa philosophia, il filosofo resta sempre nell’anticamera della verità, la quale può essere detta solo al di là della filosofia, da un al di là a cui la dialettica filosofica non ha mai diretto accesso. E questo vale per tutta la filosofia antica (ma potremmo mostrare che vale anche per quella moderna), se ha ragione Pierre Hadot nel dire che il filosofo nel mondo antico non era necessariamente l’autore di una dottrina filosofica, ma qualcuno che aveva compiuto l’atto di scegliere un certo modo di vivere, di orientarsi filosoficamente nel mondo. Per il filosofo, la verità sin dall’inizio è detta da altri discorsi – religioso, scientifico, poetico, sapienziale – mentre la filosofia si mantiene sempre nello spazio del senso, ovvero dell’ante-verità, prima della verità. Dire la verità è attività interdetta alla filosofia. Quanto poi alla filosofia medievale, e in generale alla filosofia connessa alla teologia, il suo carattere antifilosofico mi sembra evidente, nel senso che quella filosofia si voleva ante-teologica, un’anticamera della fede. La verità non era detta dalla filosofia ma dalla Rivelazione cristiana – questo era ben chiaro anche prima di Pascal. E in effetti, che c’è di più antifilosofico della frase di congedo dalla vita di Tommaso d’Aquino, ovvero di bruciare come paglia tutta la sua opera? Ogni grande filosofia vuol essere bruciata, non è solo Wittgenstein (nel Tractatus)3. a dire che bisogna buttar via la scala con cui si è saliti.

Quindi, il primato del senso sulla verità – che Badiou attribui-sce a un pugno di antifilosofi – è di fatto una costante, anche se non sempre enunciata, riconosciuta, del discorso filosofico. 3. Dovendo certificare che c’è stato atto analitico, la passe presuppone quindi che sia possibile un atto in qualche modo irriducibile. Scrive Badiou: Ecco perché l’atto analitico non è un programma, la psico-analisi non è un’antifilosofia programmatica. È un’antifilosofia che, del suo atto, può sempre dire, almeno nella dimensione della fondazione freudiana: qualcosa, qui, ha avuto luogo. Detto altrimenti: c’è stata analisi, per sempre. (p. 85) “C’è stata analisi, per sempre”: l’atto accade una sola volta, non è ripetibile. Il programmatico riguarda il futuro, l’atto invece è qualcosa che c’è stato, si irradia dal passato, e di cui occorre riconoscere l’irreversibilità. Ora, Badiou non ci dice che cosa farebbe, in un’analisi, atto: diciamo che prende Lacan e gli ana-listi sulla parola, si fida di loro. Loro – i membri dell’ecclesia analitica – dicono che l’importante è che in un’analisi ci sia atto analitico e non bla-bla-bla, e Badiou, come il credente si fida di quel che dice il papa o il vescovo, ha fede nell’élite analitica, nelle giurie della passe. Ma non è tanto questo il punto che voglio sollevare – la dimissione filosofica rispetto a un supposto sapere sull’atto che viene delegato a una corporazione di analisti di cui il filosofo non fa parte – quanto un altro: il carattere appunto incorreggibile dell’atto (in questo caso dell’atto analitico), il suo essere per sempre. Badiou sottolinea in effetti l’importanza, per Lacan, del Ritorno a Freud. Perché le analisi fatte e scritte da Freud – le Cinque analisi di Freud4. – sarebbero il primo atto, l’atto inaugurale da cui tutti gli altri derivano. È come se, scrivendo quei casi clinici, Freud avesse compiuto la prima passe, e che a partire da quella tutte le altre, di tutti gli altri analisti che la tenteranno, prenderanno validità. (Non diversamente, direi, da come la religione cattolica legittima il potere del pontefice: come una ripetizione della prima delega pontificale effettuata da Cristo nei confronti di Pietro.5.) Freud avrebbe compiuto un atto, che si ripete – e ci si chiede a quali condizioni si ripeta – nella storia, che si reitera in un meccanismo che deve certificare l’essersi effettivamente compiuto di questo atto.

Si vede chiaramente quanto Badiou sposi una visione chiaramente sacramentale della passe e dell’atto che essa dovrebbe certificare. Penso qui ai sacramenti delle chiese cristiane, tenendo conto che sacramentum è traduzione latina del greco mystérion: i sacramenti sono i Misteri della chiesa, ovvero atti che ripetono un atto di grazia originario. Nella teoria cristiana i Misteri hanno assunto il senso della donazione di un marchio, in molti casi indelebile. Da notare inoltre che dei sette sacramenti o misteri della chiesa cattolica, quattro accadono una volta sola, e i loro effetti sono incancellabili: battesimo, conferma, ordine sacro (sacerdozio), matrimonio. Sono atti che avvengono una volta sola nella vita perché irrevocabili, attivi “per sempre” come Badiou dice dell’atto analitico. Il matrimonio cattolico è indissolubile: anche se dopo i due sposi si possono separare, anche se ognuno fa sesso con altri ecc., il soggetto resterà sposato fino alla morte dell’altro, come un tatuaggio spirituale che durerà fino alla morte del coniuge. Secondo la chiesa, certamente ogni sacramento è opera della grazia divina, ma è a sua volta la ripetizione di un atto di grazia originaria che discende da Cristo. L’analogia col modo in cui Badiou parla dell’atto analitico con i misteri della grazia divina risulta evidente. Come ogni sacramento discende dal primo atto sacramentale di Gesù, analogamente ogni atto analitico discende dai primi atti compiuti da Freud. E questo anche se Badiou non è credente, anzi si dichiara ateo e comunista (ma, come è ben noto, anche nella storia e tradizione marxiste si sono strutturati modi di pensare sacramentali del tutto simili a quelli ecclesiali, e ci si dovrebbe chiedere perché). In questa visione sacramentale e misterica della passe – ovvero della conversione o metanoia, potremmo dire, di un analizzante in analista – Badiou si chiede anche però in cosa consista l’atto che la passe dovrebbe in qualche modo riconoscere. E Badiou lo connette – perché lo dice Lacan – al matema. C’è atto quando c’è qualcosa dell’ordine del matema. Matema, da cui viene matematica, era originariamente ciò che bisogna sapere, ciò che bisogna imparare. Si tratta di una relazione puramente formale (senza senso) strettamente connessa al sapere, quindi. Ora, Lacan presenta il matema come ciò che nell’analisi – e non solo nell’analisi, ma nelle scienze per esempio – è completamente trasmissibile. Qui, secondo Badiou, l’antifilosofia di Lacan si separa da quelle dei suoi cinque predecessori: ciò che qui prevale sulla verità non è il senso, ma il matema.

Ovvero qualcosa che è del tutto trasmissibile, e che nutre un sapere. E difatti, nota Badiou, non ha importanza che i passeurs non siano dei geni e che non intendano completamente quel che ha detto loro il passant; non ha importanza che la giuria non sia composta da menti eccelse. Se atto analitico c’è stato, il suo matema è trasmissibile e verrà comunque riconosciuto. Ora, credo che Lacan, col matema (lui che era stato allievo di Alexandre Koyré) intendesse qualcosa come le equazioni della fisica, per esempio, le equazioni di Newton sulla gravitazione universale. In effetti, basta avere una conoscenza anche approssimativa della fisica per capire le equazioni di Newton; le si capisce proprio perché non hanno senso. Sono pure equivalenze formali, che tutti i fisici, anche quelli meno intelligenti, possono intendere. Ora mi chiedo, però, se questo sia vero. Mi chiedo se qui Lacan col matema, e Badiou al suo seguito, non mitizzino quel che accade nella trasmissione umana, compresa quella scientifica. Ai tempi di Lacan non si era sviluppata l’informatica, ma noi oggi possiamo dire che il matema di Lacan è un software. In effetti un software è perfettamente trasmissibile: lo si può mettere in qualsiasi computer, basta che questo hardware sappia leggerlo, e funzionerà. Possiamo fare tutte le copie che vogliamo di un software, esso resterà identico, lo si può trasmettere integralmente. Del software possiamo dire quel che Lacan dice della matematica, che è “scienza senza coscienza”. Ma è la stessa cosa per la mente umana? Ovvero, la mente umana è identificabile al rapporto che c’è tra software e hardware in un computer, come sostengono molti cognitivisti? Non ne sono affatto convinto. Un altro caso di perfetta trasmissibilità, abbiamo visto, è quella presunta da certi atti simbolici religiosi come i sacramenti. In ogni caso, il sapere religioso si vuole per lo più perfettamente trasmissibile anche quando si ammette la grande variabilità delle interpretazioni. È come la Bibbia ebraica, la Torah, testo assolutamente immodificabile, di cui non si può cambiare nemmeno una virgola. Il permissivismo ermeneutico delle religioni rinvia alla perennità del Testo sacro, che si suppone ispirato direttamente da Dio. La psicoanalisi avrebbe allora qualcosa sia del software che del sacramento religioso istituito da dio-Freud?

4. Si dà il caso che Badiou non sia interessato alle scienze vere e proprie. Le evoca raramente, e quando parla di scienza, si riferisce quasi sempre a les mathématiques. Sembrerebbe che per lui la scienza è sempre matemica, che insomma il sapere sia matematico. Ovviamente ciascuno è libero di interessarsi o meno alle scienze, di trovare stimoli filosofici nella matematica piuttosto che nel sapere fisico, biologico, cosmologico… Stupisce però che identifichi con la scienza la matematica un autore come Badiou, il quale ammira Wittgenstein. Ora, la concezione della matematica da parte del Wittgenstein del Tractatus è assolutamente chiara: la matematica non è affatto una scienza! Certamente il sapere scientifico fa continuamente uso della matematica, ma la matematica in sé non è un sapere. Non ci informa affatto sul mondo. Piuttosto è una costruzione, un gioco. Anche gli scacchi sono un gioco perfettamente matematico, ma non possiamo dire che giocare a scacchi ci faccia conoscere qualcosa del mondo. I teoremi degli scacchi ci fanno conoscere l’universo degli scacchi, ma solo quello. Scambiare, come fa Badiou, matematica e scienze è il segno, a mio avviso, di una rimozione del sapere scientifico (che Lacan invece non operava). E, per quel che riguarda l’essere umano, una rimozione del sapere biologico. Ora, si può essere oggi più o meno darwiniani, si possono criticare anche molti aspetti dell’attuale sintesi che mette assieme genetica e darwinismo, credo però che di una cosa le scienze dell’evoluzione ci abbiano convinto: che nella vita nulla si trasmette integralmente. C’è evoluzione, c’è storia della vita, c’è straordinaria moltiplicazione delle specie, sbalorditiva varietà della vita, perché il genoma – che possiamo considerare il matema biologico – non si trasmette integralmente. Molto spesso avvengono degli errori di trascrizione, si suppone del tutto casuali, ed è grazie a questi continui errori di trascrizione che si dispiega la storia della zoé. È quel che separa la vita, con la sua imperfezione, dalla gelida perfezione delle macchine create dall’essere umano. La passe è certamente un meccanismo, ma possiamo dire che un’analisi, e l’atto analitico che esso dovrebbe effettuare, è una macchina? Certamente se fossimo computer avremmo molti meno problemi di quanti non ne abbiamo, ma si dà il caso che, prima di inventare la matematica, noi esseri umani siamo esseri biologici. E questo non bisogna dimenticarlo mai. Altrimenti si cade nello spiritualismo, e penso che, nel fondo, le teorie di Badiou siano spiritualiste.

Nella vita la trasmissione non è quasi mai completa e perfetta, dunque. Ma questo è vero anche per la trasmissione dell’informazione tra umani. Da un secolo ormai si fanno ricerche ed esperimenti sulla trasmissione dell’informazione tra gli umani, e una cosa sembra da tempo evidente: il trasmettere una qualsiasi informazione per lo più modifica, devia, stroppia, fuorvia l’informazione originaria.6. Tra gli umani, l’informazione si modifica sempre. E queste deformazioni nella trasmissione di solito disegnano un senso, ovvero, il fatto che la fedeltà della trasmissione è continuamente curvata, modificata, tradita dai desideri e dagli interessi degli individui, insomma dalle loro pulsioni. Non esiste matema fuori dal gioco pulsionale. Nei termini di Badiou: la verità nella trasmissione di un sapere è continuamente plasmata dal senso umano, troppo umano, degli individui. Ora, questo è vero persino per le grandi formule della scienza, in cui sembra coagularsi un pensiero perfettamente trasmissibile. Le equazioni di Newton sono trasmissibili nella misura in cui esiste una comunità scientifica internazionale che dà sensi convergenti a concetti come massa, distanza, velocità, attrazione, spazio ecc. Ma se la comunità dei fisici si dividesse secondo paradigmi diversi, se insomma i concetti di massa, distanza, velocità ecc. cessassero di essere univoci, anche le equazioni di Newton cesserebbero di essere univoche, ovvero cesserebbero di essere completamente trasmissibili. Avrebbero diverse interpretazioni, perché ogni comunità scientifica le interpreterebbe in modo diverso, e verrebbero trasmesse diverse interpretazioni. Dietro la rigidità monumentale del matema c’è un formicolare di forme di vita, c’è il costituirsi storico delle corporazioni scientifiche, delle istituzioni accademiche e delle scuole. Proprio perché gli esseri umani non sono macchine costruite secondo un programma, ma esseri viventi soggetti sempre… a un cambiamento di programma. Capiamo quindi la strana convergenza, in Badiou, tra un discorso sacramentale della passe e il richiamo alla perfetta trasmissibilità del sapere. Per Badiou le Cinq psychanalyses sono il testo sacro della psicoanalisi, nella misura in cui esse fanno atto: qui la scrittura coincide con una prassi, con un agire. E ogni volta non si ripete un testo ma un matema, il supposto sapere formale che fa di un atto un atto.

Tengo ad affermare la mia distanza, soprattutto etica, da una visione del genere. La psicoanalisi è una pratica importante, decisiva, ma anche umile, che procede a tentoni. La pratica analitica, così fragile e così sempre esposta al sospetto di essere suggestione o prassi rieducativa, non dà all’analista alcuna giustificazione per essere arrogante o apodittico. Gli analisti non sono i sacerdoti di un sapere a loro riservato, come pensa Badiou, ma i tutori di un setting che si è rivelato produttivo. Solo fino a un certo punto l’analista sa quel che sta facendo e quel che accade, e resta spesso lei stessa sorpresa dagli effetti che l’analisi produce. In questo senso Lacan ha ragione nel dire che c’è un sapere inconscio di cui lo stesso analista non sa nulla. 5. Benché Badiou forse avrebbe problemi ad auto-classificarsi nel campo dello strutturalismo, credo che il suo pensiero illustri bene quello stile di pensiero, quelle maniere concettuali che si chiamarono strutturalismo francese. C’è un tratto distintivo dello strutturalismo a cui Badiou partecipa: l’idea che le varie forme di vita umane siano descrivibili in termini puramente formali, e che queste strutture formali siano discontinue. Il modello era la teoria di Ferdinand de Saussure: ogni lingua è sincronicamente (ovvero, in un momento dato) un insieme di distinzioni formali che formano sistema. E passare da una lingua all’altra è saltare da un sistema formale fonologico all’altro. Non credo che questa idea esaurisca la concezione saussuriana del linguaggio, tutt’altro, ma è questa idea di fondo ad aver ispirato le varie derive dello strutturalismo. La teoria strutturalista della storia è quindi una teoria assolutamente discontinuista: si “salta” da una struttura all’altra. Questo vale sia per la storia collettiva, sia per quella individuale. Non diversamente dal gioco degli scacchi: qui ogni mossa è un atto perfettamente discontinuo e indivisibile, che ha il potere di cambiare l’assetto formale di tutta la partita. La storia, in un’ottica strutturalista, è come una lunghissima partita di scacchi. Questo spiega la convergenza di certo strutturalismo con le teorie rivoluzionarie marxiste: si passa da una struttura sociale all’altra solo per via rivoluzionaria, per salti, per ristrutturazioni violente e immediate degli assetti sociali, e non per un mutamento continuo, lento, molecolare, non percepito. Lo strutturalista ignora i processi continui, che gli appaiono

irrilevanti. Lo strutturalismo eredita la visione rivoluzionaria della storia che dominò le concezioni politiche dei secoli XIX e XX. In questa ottica, l’atto è un evento del tutto discontinuo, puntuale – è il passaggio da un matema all’altro. Abbiamo detto che Badiou non ci porta alcun esempio e nessuna dimostrazione di quel che possiamo riconoscere come atto e quindi come matema nel caso di un’analisi; egli assume dogmaticamente il discorso degli analisti-sacerdoti. Laddove invece la funzione del filosofo dovrebbe essere quella di ri-pensare ciò che un’altra disciplina (sia essa religiosa, scientifica, politica, psicoanalitica…) afferma in modo da dispiegarne – come si dispiega un dépliant – il senso. La filosofia, sin dagli inizi, ha svolto il ruolo di guastafeste di tutti i saperi, ed è bene che guasti anche la festa della psicoanalisi ponendole domande perspicue e magari imbarazzanti, anziché farne, per dir così, la teologia. Mi sembra che – per restare nel parallelo religioso – Badiou voglia costruire una teologia della psicoanalisi lacaniana. Un tempo la filosofia era concepita come ancilla theologiae, oggi pensatori come Badiou ne fanno piuttosto una ancilla psychoanaliticae. Non interroga il senso delle varie cose – di cui molte sorprendenti ed enigmatiche – che Lacan dice. Le assume come Rivelazione. Personalmente credo che nella pratica analitica siano più utili alcune critiche rigorose e perspicue rivolte da alcuni filosofi alla psicoanalisi – per esempio, quelle sollevate proprio da Wittgenstein, che piace a Badiou – che da tutte le filosofie che indulgono a una timorata agiografia della psicoanalisi. Una lettura come quella di Badiou certamente gonfia – inflates dicono gli inglesi – il narcisismo degli analisti, ma trovo che il narcisismo degli analisti sia troppo diffuso, per cui sarebbe molto più sano, a mio parere, ridimensionarlo. La maturazione della pratica analitica avviene non attraverso le apologie filosofiche, ma attraverso il duro scontro con critiche spesso del tutto pertinenti, e spesso imbarazzanti. Il trionfalismo psicoanalitico di Badiou – e di molti altri filosofi di indirizzo analogo – di fatto danneggia la psicoanalisi. Queste filosofie danno per scontato che la psicoanalisi si basi su una Rivelazione, di cui Freud è stato l’artefice (e di cui Lacan, poi, sarebbe stato il Nuovo Testamento). Come in ogni Rivelazione (religiosa, politica, psicoanalitica) si afferma la coincidenza dell’atto e del simbolico, tipico di ogni fede religiosa. Nella messa cattolica, il simbolo del corpo di Cristo

(l’ostia) diventa attualmente corpo di Cristo. Per il misticismo popolare, reale e simbolico coincidono, mentre un atteggiamento illuministico porta a scindere i due. 6. Badiou fa notare che in Lacan “tutto è sospeso, in ultima istanza, all’enigmatica correlazione tra l’atto e il matema” (p. 146): ovvero, Lacan sarebbe più che mai strutturalista. Perché è questo lo strutturalismo: rimandare sempre a quell’evento misterioso di un atto che incide sul matema, che produce o disloca un matema. Di più: l’analista si sostiene grazie al desiderio del matema. Senza matema, l’analista non può sopportare il proprio atto, dice Badiou, “senza il matema, lo travolge l’orrore del suo atto” (ibidem). Affermazioni che io interpreto così: all’analista non basta produrre effetti, egli deve elaborare un sapere di quello che fa. Il matema è il sapere che l’analista ha del proprio atto. In termini terra terra: l’analista deve capire quel che ha fatto e sta facendo, altrimenti egli/lei è solo un “resto”. In questo confronto abissale, irriducibile, tra atto e matema – tra l’agire nel reale e il sapere formale che esso implica – viene eliminata, come abbiamo detto, la scabrosità del continuo. Pensiamo a Saussure. Nel Corso di linguistica generale,7. dopo aver descritto la lingua sincronicamente come un sistema, Saussure parla però anche della lingua nello spazio e nel tempo, ovvero della variabilità geografica delle lingue e del loro movimento diacronico. In effetti, non ci rendiamo conto che la lingua che parliamo sta mutando; non percepiamo il cambiamento perché esso è troppo lento. D’altro canto, spostandoci nello spazio la lingua varia e diventa altra. Saussure parlava della lingua del siciliano e di quella del piemontese: un continuum di variazioni dell’idioma va dalla Sicilia al Piemonte, ma il risultato è che, quando un piemontese e un siciliano si incontrano, non si capiscono (stava parlando degli inizi del XX secolo…), diciamo che hanno due matemi diversi. Il tempo e lo spazio attraversano trasversalmente i sistemi – i matemi, potremmo dire – e li modificano senza sosta. È questa dimensione trasversale, diciamo molecolare (come la chiamava Deleuze), che certo strutturalismo rimuove, per cui si ritrova basito – bouché – di fronte alle sorprese degli eventi del mondo e dei processi psichici. Badiou ripete spesso che il filosofo è bouché di fronte alla matematica; bouché significa che non ha accesso, che non capisce. Io trovo che un approccio

strutturalista rigido rende lo studioso (e anche l’analista) bouché nei confronti degli eventi reali, che si svolgono sempre nello sporco del continuo. Del resto il linguaggio è fortemente strutturato a livello fonologico – ogni fonema è un sistema di differenze da tutti gli altri fonemi della stessa lingua – ma non ad altri livelli, che appaiono invece casuali e contingenti. L’insieme lessicale di ogni lingua è debolmente strutturato, per esempio, le parole di una lingua sono mere sedimentazioni di usi. Ora, il molecolare ci rimanda a una figura che poi è stata oggetto di trattamento matematico: il Caos. Lo strutturalismo non vuole vedere che siamo – in particolare noi esseri umani, ma non solo – sugli orli del Caos.8. Per Badiou, come per ogni strutturalista, il reale sono forme definite da matemi. Per me invece il reale è il Caos, il fondo di rumore al di là di ogni segnale. Là mi sembra che si disegni una divergenza fondamentale sul modo di vedere il mondo e la storia. Ripensare il sociale, lo psichico, l’economico… come qualcosa che continuamente emerge dal caos e in esso riaffonda, ecco una prospettiva non strutturalista. 7. Insomma, sogno un approccio filosofico alla psicoanalisi che sia finalmente laico, non nel senso freudiano di Laie come “non medico”: un approccio che non abbia una visione sacramentale della psicoanalisi. Auspico una filosofia della psicoanalisi veramente decostruttiva, non diversamente da come la filosofia ha “decostruito” le pratiche scientifiche, la matematica e la logica, le ideologie politiche… Decostruire non significa criticare o demolire, ma mostrare il modo profondo di funzionare di una pratica. Molto spesso la teoria psicoanalitica si riduce a una sublimazione celebrativa della propria pratica, senza interrogarsi veramente sul funzionamento di tale pratica. Certamente un’analisi mette in presenza di svolte soggettive, di “atti”, di momenti cruciali di cambiamento, e tutto questo va pensato anche filosoficamente: ma appunto, senza partire, come fa Badiou, dall’idea che la concettualizzazione degli analisti sia ab initio quella adeguata, quella più chiara. Insomma, uscire definitivamente dalla psicoanalisi come sistema di Rivelazione (a opera di Freud e di Lacan) e considerarla una pratica storicamente generata su cui il filosofo ha da meditare. La psicoanalisi è prima di tutto una pratica sociale – “legame sociale” lo chiamava Lacan, diverso da altri legami sociali, i quali sono pur

sempre legami – che va capita in relazione (per eguaglianze e differenze rispetto) alle altre pratiche sociali della nostra epoca. Il mistero della psicoanalisi va interrogato, non esaltato. Per far questo, occorre abbandonare l’illusione strutturalista secondo cui la descrizione di strutture equivale ipso facto a una spiegazione ultima delle cose. Personalmente trovo molti contributi dello strutturalismo illuminanti: esso ha reso intellegibili pratiche sociali e individuali che altrimenti sarebbero tuttora del tutto opache, incomprensibili. E questo non solo in linguistica, ma anche in storia, in antropologia, nell’analisi letteraria, nell’arte… Ma rendere qualcosa intellegibile non è ancora spiegarlo, se per spiegazione intendiamo l’operazione specifica delle scienze (del sapere, direbbe Badiou) di delineare un sistema di cause. Troppo spesso lo strutturalismo identifica intellegibilità e spiegazione: basta trovare una forma a un fenomeno, e si pensa che si è spiegato interamente quel fenomeno. Con questo non voglio dire che la psicoanalisi debba essere esplicativa come ogni scienza cerca di esserlo, non penso che la psicoanalisi sia una scienza. Ma essa è una pratica che produce degli effetti, che la stessa psicoanalisi cerca di auto-spiegarsi, per dir così, e in questo sforzo la filosofia può incunearsi, senza per questo genuflettersi di fronte al supposto sapere ineffabile dell’analista. La filosofia può essere utile soprattutto a superare una certa tentazione dogmatica, che è presente in tutte le scuole di psico-analisi, ed è forte tra i lacaniani. Il dogmatismo è quando l’analista fa appello alla propria indescrivibile e indiscutibile pratica, grazie a cui può dire “le cose stanno così” senza fornire alcuna chiarificazione e nessuno strumento per criticarla. Spesso l’analista fa riferimento a un preteso sapere iniziatico che sarebbe intrinseco alla propria pratica – ma quando poi gli analisti mettono su carta la loro esperienza, si scopre che è un bluff. La pratica si rivela ben diversa dalla sua idealizzazione teorica. Come nelle credenze religiose, troppi psicoanalisti agiscono sul “prendere o lasciare: o hai fede, o sei fuori”. Certo strutturalismo spesso è stato complice di questo oscurantismo. La filosofia ha certamente un limite: non può mai essere un “mistero”, anche quando certe volte assume uno stile visionario e profetico (come fu il caso di Nietzsche e Benjamin, e di altri ancora). La filosofia è sempre una Deutung, un’interpretazione ma non qualsiasi: Deutung è interpretare nel senso di esporre nel linguaggio comune, di rendere comprensibili le cose a

tutti. Saremmo tentati di dire che la filosofia dovrebbe fare nei confronti della psicoanalisi quel che Freud fece con i sogni, una Analysedeutung. Questa vocazione chiarificatrice della filosofia cominciò già con la scelta dei primi filosofi greci quando rinunciarono alla forma poetica e preferirono generi più prosaici, per esempio il dialogo, che imita lo scambio comune dei discorsi. Da qui il problema quando la psicoanalisi si misura con qualcosa di “misterico”, come è l’analisi certamente, e specialmente la passe da cui siamo partiti. Alcuni interpretano la Deutung filosofica nel senso di una critica demistificatoria della psicoanalisi, ma non è l’unica strada. Prima ancora di essere un insieme di teorie, la psicoanalisi è una pratica sociale, che prende varie forme. Come ogni pratica, compie degli atti, insomma è “un mistero”. Ma il filosofo non può accontentarsi del modo in cui gli analisti teorizzano (glorificano) questo mistero, lo deve esaminare in relazione ad altre pratiche, lo deve laicizzare. La filosofia, per sua natura, laicizza. È il suo limite, ma anche la sua forza. È ben nota la leggenda di Talete che cade nel fosso guardando il cielo, e viene così deriso dalla servetta trace.9. Ebbene, direi che, malgrado tutto, il filosofo parla sempre alla servetta trace, non agli astronomi. Gli astronomi hanno ancor meno da fare con la filosofia della gente comune. La gente comune può anche ridere del filosofo, ma sotto sotto sa che egli si rivolge a essa (in questo senso ogni vera filosofia è antifilosofica, per riprendere la terminologia di Badiou). La Deutung filosofica non per questo respinge, o disprezza, o demistifica il misterico che c’è nella vita umana, ma lo considera da un’altra angolazione. Ovvero, si rivolge sempre a chi non è ammesso al mistero, al sacramento: lo descrive non per iniziarlo a esso, ma per rendere comprensibile ciò a cui l’uomo e la donna dell’agorà non ha accesso. Così, per esempio, mi sembra chiaro che tutti i filosofi teologici cristiani non si rivolgevano mai veramente ai credenti, ma ai miscredenti, a chi non aveva accesso alla fede. Questo carattere misterico è connesso in effetti a una dimensione che spesso gli analisti camuffano, che è quella della ritualità. Far venire l’analizzante più volte alla settimana lo stesso giorno e la stessa ora, farlo stendere sul lettino o farlo sedere vis-à-vis, il fatto che l’analista non inizi mai a parlare ma aspetti sempre che sia l’analizzante a prendere la parola, le modalità di pagamento ecc., tutto questo si svolge in una certa routine che

ha tutti gli aspetti di una ritualità. E ben sappiamo che il mistero in senso antico, ma anche il sacramento in senso cristiano, si svolgono in un contesto rituale. Tuttavia questa efficacia rituale dell’analisi è qualcosa che la filosofia dovrebbe interrogare, non inchinarsi semplicemente davanti a essa. Si dirà che la situazione della filosofia di fronte al mistero analitico non è diversa da quella della filosofia di fronte all’arte, per esempio. Certo esistono varie teorie filosofiche sull’arte. Ma anche quando la filosofia mette in rilievo il carattere ineffabile, non concettualizzabile, dell’esperienza estetica, è pur vero che la filosofia, se si decide a dire qualcosa di questa esperienza, non è semplicemente per alzare le braccia per celebrare l’arte, ma per interrogarne la peculiarità come forma di vita. La filosofia non può spiegare perché un brano musicale ci fa vibrare corde profonde, mentre un altro brano simile non ci induce le stesse vibrazioni (questo magari sarebbe più oggetto di una ricerca neuroscientifica); ma può mettere almeno in evidenza che occorrono certe condizioni, che sono tutte da descrivere, perché “il miracolo” dell’effetto d’arte si produca. La filosofia si orienta sempre verso il prosaico, anche quando parla di ciò che ci fa battere profondamente il cuore. Analogamente, per la psicoanalisi è convocata a dirci le condizioni dell’atto, anche se questo è indicibile. E in effetti, ogni analisi è un caso a sé. 1

A. Badiou, Lacan. Il Seminario. L’antifilosofia 1994-1995 (2013), trad. a cura di L.F. Clemente, Orthotes, Napoli-Salerno 2016. In particolare il Seminario III del 21 dicembre 1994. 2 Tra le critiche a questo assetto cooptativo, cfr. E. Fachinelli, Sull’impossibile formazione degli psicoanalisti. Conversazione con Sergio Benvenuto (1987), “European Journal of Psychoanalysis”, . 3 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus (1921), trad. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 2012, 6.54. 4 Cinq psychanalyses è il titolo dato dall’editore francese (PUF), nel 1935, a cinque casi clinici di Freud (il caso di Dora, del piccolo Hans, del presidente Schreber, dell’Uomo dei topi, dell’Uomo dei lupi). 5 Mt 16,17-19. 6 Ho descritto questa ampia ricerca in S. Benvenuto, Dicerie e pettegolezzi, il Mulino, Bologna 2000. 7 F. de Saussure, Corso di linguistica generale (1916), trad. di T. De Mauro, Laterza, Roma-Bari 1992. 8 Per sapere di che cosa si tratta, cfr. J. Gleick, Chaos, The Viking Press, New York 1987. 9 Cfr. H. Blumenberg, Il riso della donna di Tracia. Una preistoria della teoria (1987), trad. di B. Argenton, il Mulino, Bologna 1988.

Archivio Enzo Paci A oltre quarant’anni dalla morte di Enzo Paci, con il moltiplicarsi degli studi e delle iniziative legate alla sua opera, l’Archivio chiede a chi ha scritto e scriva su Enzo Paci di voler gentilmente inviare copia del proprio lavoro all’Archivio stesso. Lo scopo evidente è quello di riunire e fare conoscere lavori e ricerche, e i loro autori, per favorire altri studi. Nello stesso tempo si intende garantire la presenza di una collezione completa di scritti di e su Enzo Paci nel luogo che ne conserva manoscritti e biblioteca. L’invito si rivolge anche a chi abbia scritto una tesi di laurea o una dissertazione di dottorato su Enzo Paci e/o sul contesto culturale in cui si è mossa la sua attività. Al momento la collezione è parziale e sembra utile completarla. Si potrà in questo modo compilare anche un elenco degli studiosi interessati. Inoltre si è avviata l’acquisizione e la catalogazione dell’epistolario. Chiediamo pertanto a chi sia in possesso di lettere di Enzo Paci di collaborare, inviandoci fotocopia delle lettere; se ne ha tenuto copia e non ha nulla in contrario, sono benvenute anche fotocopie delle lettere del corrispondente. L’indirizzo al quale inviare il materiale è: Archivio Enzo Paci via Beato Angelico 5 20133 Milano Ringraziamo tutti anticipatamente e raccomandiamo di accludere al materiale anche il proprio recapito.