Aristotele dopo Heidegger, Per una riabilitazione dell’onto-teologia 9788879031776

La questione dell´obiettivo e dei fondamenti epistemologici della filosofia prima aristotelica è oggi al centro di un di

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Aristotele dopo Heidegger, Per una riabilitazione dell’onto-teologia
 9788879031776

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BIBLIOTECA DEL GIORNALE DI METAFISICA

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Rosa Maria Lupo

Aristotele dopo Heidegger Per una riabilitazione dell’onto-teologia

TILGHER-GENOVA

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TUTTI I DIRITTI RISERVATI Printed in Italy

Università degli Studi di Palermo Dipartimento di Filosofia, Storia e Critica dei Saperi (FIERI) Pubblicazione assistita da un contributo PRIN 2007

ISBN 978-88-7903-177-6 © 2010, Casa Editrice Tilgher-Genova s.a.s. Via Assarotti 31 - 16122 Genova www.tilgher.it

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Stare al discorso

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Con gratitudine ed amore a mio padre

Qumö, q⁄m'¢mhc£noisi kªdesin kukËmene, ¢n£du, dusmenÓn d'¢löxeu prosbalÎn ônantÖon störnon, ôn dokoãsin ôcqrÓn plhsÖon katastaqeÖj ¢sflöwj: kaà mªte nikÓn ¢mf£dhn ¢g£lleo, mªte nikhqeàj ôn oákJ katapesÎn –d⁄reo: ¢ll¶ cartoãsÖn te caãre kaà kakoãsin ¢sc£la mæ lÖhn: gÖgnwske d'oåoj r`usm’j ¢nqrËpouj úcei. Archiloco (fr. Diehl, 67 a) Cuore, cuore mio travolto da sventure irreparabili, rinfrancati, difenditi opponendo agli avversari il petto, piantato nel luogo dove si attende il nemico saldamente; e vincendo non insuperbire apertamente, vinto non lamentarti buttandoti giù in casa. Ma sii lieto delle gioie e dei mali affliggiti non troppo: impara quale regola domina sugli uomini. (trad. P. Lupo)

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Giorgio Palumbo

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Introduzione

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INTRODUZIONE

Questo libro è il modo con cui spero di riconoscere il mio debito nei confronti di un maestro per me fra i più cari, il professore Nunzio Incardona. Solo con il tempo, quando era ormai tardi per ringraziarlo anche di questo, ho compreso che la criticità del pensiero, che egli esigeva ogni studente esercitasse per discutere con lui, è soprattutto il tentativo di battere un proprio percorso, affrontando anche il rischio di incappare in un vicolo cieco e di dovere tornare indietro per guadagnare la via d’uscita. Per coloro che lo hanno frequentato è sempre stata chiara, credo, la ragione per la quale questo rischio, connaturato all’esercizio della filosofia, lo abbia portato a vivere l’esperienza del pensare come la navigazione di un nocchiero intrepido. Pensare criticamente era per lui il tenere saldo in mezzo al mare in tempesta il timone del Pequod come Achab, era un “viaggio corsaro”, sebbene a me che l’ho conosciuto alla fine della sua vita accademica, come ad altri della mia generazione, egli sia in effetti apparso molto più come un grande galeone spagnolo che procede sicuro attraverso l’oceano verso le nuove terre per ritornare ad approdare poi sempre ai vecchi ed amati lidi – Aristotele, Hegel. In questo volume ho in un certo senso proceduto come se potessi ancora una volta riallacciare con lui un dialogo interrotto anni fa, raccontandogli a posteriori, in un colloquio immaginario, ma non per questo meno vissuto, l’esito della ricerca che egli ha avuto solo il tempo di vedere appena tracciata. In questi anni la memoria della sua lezione, carica della sua ironica ed intelligente vis polemica, ha spesso messo sotto accusa l’impianto che ho provato a costruire, ma proprio questo è stato per me il segno di quanto io gli sia debitrice più di quanto questo lavoro forse dimostri.

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Aristotele dopo Heidegger

Probabilmente Incardona avrebbe trovato temerario il percorso che in questo testo ho cercato di tracciare, tentando di leggere Aristotele nell’appropriarmi della chiave interpretativa heideggeriana per mostrare in che misura la forma logica – la cosiddetta struttura ontoteologica – della filosofia prima, a dispetto delle obiezioni heideggeriane, costituisca un’efficace possibilità – o forse più esattamente un inevitabile modo – di praticare la metafisica in corrispondenza con il suo aprirsi nello spazio investigativo filosofico come indagine di tipo protologico, come metafisica del principio. Sicuramente, però, la mia ricerca nella sua genesi si lega profondamente alla figura di Incardona ed alla sua maniera di leggere la Metafisica. Soprattutto si nutre della sua lezione – alternativa a quella di Heidegger – di decostruire la metafisica e la struttura che la sottende per comprenderne l’essenza. Della possibilità di un “uso” diverso della decostruzione heideggeriana, di un esito differente della sua operazione, mi sono resa conto durante uno degli ultimi corsi di filosofia teoretica da lui tenuti. Lo smarrimento al cospetto della questione su cosa sia la metafisica nella sua origine con Aristotele vuole tradursi in questo libro non tanto in una soluzione quanto nel suggerimento di un’interpretazione: vi è una domanda che, posta a monte, autorizza l’apertura della stessa interrogazione in sé duplice sull’“ente in quanto tale” e sull’“ente divino”. L’intero significato del mio percorso si lascia, in altri termini, raccogliere nello sforzo di capire in che senso per “colui che è al di sopra del fisico”, per il filosofo primo, l’oñ n Œ ‘n ed il timiËtaton gönoj, pur nominando certamente due “cose” diverse, due “oggetti” differenti, sono la cifra di una sola ricerca che propriamente ha a cuore la comprensione di ciò che è un principio primo. Ciò che ho provato a mettere in luce è il senso della domanda che la metafisica in Aristotele prospetta in quanto scienza delle cause e dei principi primi nel suo costituirsi dopo, al di sopra, oltre la ricerca portata avanti dal fisico per restare in un certo senso prima della scienza fisica. Nonostante la determinazione della filosofia prima come scienza protologica sia esplicita nella Metafisica, la reale caratura dell’interrogazione sul principio primo, o piuttosto sui principi primi, resta di

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Introduzione

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contro latente, sfuggendo all’acribia della storia esegetica della Metafisica che è insieme la storia stessa della tradizione metafisica presa di mira nella sua interezza dal paradigma heideggeriano. Ho quindi cercato a più riprese, lungo il corso del volume, di chiarire in che modo la filosofia prima si strutturi come un’interrogazione sulla forma della causa prima, ossia sulle condizioni in base alle quali è possibile pensare che in qualcosa si sprigioni improvvisamente, senza ulteriore mediazione, il potere di dare vita ad una nuova serie di eventi che prima non era assolutamente pensabile. La questione che istituisce la metafisica come scienza – e si badi bene come scienza cercata nel cercare le condizioni di possibilità per porre la questione protologica – non domanda sul processo grazie al quale qualcosa di nuovo viene all’essere, considerando il campo della natura o dell’operare umano o del conoscere, ma sulle condizioni in base alle quali un tale processo prende di colpo avvio. La domanda protologica è la domanda sul principio, sull’¢rcª e la metafisica si apre come scienza del principio (come protologia radicale), nella misura in cui chiede come si dia una causa prima (cioè una causa che non rinvia ad un’altra causa), come si costituisca un “principio”, in forza di cosa o sulla base di quale regola sia possibile asserire che qualcosa è o lavora come una prËth ¢rcª. Porre, però, a monte questa domanda significa invertire i termini della sequenza interrogativa che la tradizione esegetica, e con essa anche Heidegger che se ne appropria per superarla, ci ha abituato a considerare: posto l’ente in quanto tale, si tratta di rintracciarne cause e principi primi, cercando ciò che al modo del fondamento sostiene e regge l’intero dell’ente, dando ragione del suo essere. La domanda protologica batte di contro un altro ritmo, registra, per così dire, un altro modo in base a cui l’essere dell’ente è preso in considerazione in ordine alla questione della causa prima. La domanda protologica non chiede come – per quale causa – qualcosa di nuovo viene all’essere. Essa domanda come – e dunque per quale causa – viene all’essere la causa per cui qualcosa di nuovo si genera, sorge, giunge ad essere. Ciò non vuol dire che il filosofo primo cerchi un’ulteriore causa che sta alle spalle delle cause prime e dalla quale esse possano essere fatte derivare. Se così fosse, nessuno dei principi primi sarebbe anapodittico. Il filosofo primo

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Aristotele dopo Heidegger

non cerca in questo senso una forma “archetipa” di causa prima da cui dedurre tutte le altre cause prime che, a questo punto, sarebbero solo cause intermedie. Nondimeno, nell’immagine che ho provato a tratteggiare del metafisico aristotelico, resta qualcosa che richiama alla memoria l’“alte Grille”, il “vecchio grillo” di Goethe che, cercando l’Urpflanze, la pianta originaria che permettesse di riconoscere che una certa forma è una pianta perché corrisponde ad un unico modello, credeva di averla trovata nell’Orto Botanico di Palermo. Il metafisico di Aristotele si nutre in un certo senso dello stesso sogno, nella misura in cui ciò di cui egli va in cerca è una forma o un modo d’essere che è archetipo, perché è originario, perché non rinvia ad altro alle sue spalle, e che è proprio di ogni causa prima. Questo modo d’essere, questa struttura della causalità prima, non è mai altro da ciascuna causa prima con cui fa corpo unico, pur potendosi nello spazio della riflessione sdoppiare o scindere da essa per apparire ingannevolmente come altro da essa, come causa della causa, come principio del principio. È la cesura fra il piano della cosa e quello della riflessione sulla cosa che porta il pensiero a raddoppiare in un certo senso l’oggetto, così da imporre al filosofo primo di riannodare la sua interrogazione dal punto in cui si ferma quella del fisico, che è racchiusa dentro lo specifico ambito d’indagine costituito dall’ente in movimento. Nel reale la forma del principio non è altro dal principio stesso ed al tempo stesso non appartiene ad un unico principio, bensì attiene ad una molteplicità di principi primi, stando quanto meno al modo con cui Aristotele tende ad esprimersi. Per questo il metafisico abbraccia la totalità dell’ente, senza frammentarlo in ambiti, perché in ogni ambito dell’ente un principio primo è tale in conformità alla regola, alla condizione della causalità prima: il qe“j aristotelico non è la causa prima della natura, la causa ulteriore a cui la natura rinvia; occupa semmai un posto opaco come la causa che fa sì che la natura, la f⁄sij , resti in se stessa una causa prima, ossia una causa che non rinvia a nessun’altra causa che non sia se stessa. Non vi è nel processo di ricerca delle cause prime una causa ulteriore a cui risalire, che stia alle spalle di quei principi primi del venire all’essere dell’ente che Aristotele ha indicato come f⁄sij e töcnh e, potremmo aggiungere,

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Introduzione

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pr©xij,

se diamo statuto di enti alle azioni, se ci sforziamo di pensarle come “pr£xei ‘nta” in corrispondenza con i f⁄sei ‘nta ed i töcnV ‘nta. Posta così, come questione propria ed originaria della metafisica, la domanda protologica sostiene e giustifica quello che appare come uno strano “strabismo” del filosofo primo, come una sua enigmatica “diplopia” che lo porta a raddoppiare l’oggetto d’indagine sdoppiandolo di fatto in due realtà eterogenee o comunque diverse, quali l’ente in quanto tale e l’ente divino, principio primo di movimento. La vista del filosofo primo in realtà non è difettosa, il suo sguardo converge a monte su un unico oggetto, il principio primo, che è indagato rispetto a ciò in forza di cui esso per sé si dà come causa prima, senza rinviare ad altro da sé nel suo manifestarsi come prËth ¢rcª. Allo smarrimento di fronte al gioco di raddoppiamento tematico che si costruisce nella traccia scritta lasciata da Aristotele, a mio avviso, offre risposta Heidegger con la sua nozione di onto-teologia. Onto-teologia diviene, infatti, il nome di un’ipotesi esegetica che merita di essere vagliata criticamente e senza pregiudizi. Ciò soprattutto per l’originalità della tesi, al di là dell’autorevolezza del suo autore e dell’influsso che essa esercita ormai da tempo in modo considerevole nell’ambito degli studi di metafisica e su Aristotele, sia che si proceda in direzione di un progetto di radicale sovversione del tratto onto-teologico della metafisica tradizionale sulla scorta dell’insegnamento di Heidegger sia, all’opposto, che si segua la linea di una sostanziale refutazione della sua proposta. Rispetto a queste due opzioni di massima, che a partire dalla metà del Novecento costituiscono i due atteggiamenti prevalenti nell’approccio alla lettura heideggeriana dell’essenza della metafisica, e più specificamente della prËth filosofÖa aristotelica, credo che sia possibile, però, percorrere una terza via che non ha come fine né il convalidare la tesi heideggeriana né l’invalidarla per pensare in continuità con la tradizione metafisica. Si tratta di una terza strada, forse più audace: restare nel solco della lezione esegetica heideggeriana per trarre elementi che non sfociano necessariamente nell’esito della Verwindung. Il paradigma onto-teologico non solo diventa in questo modo la sfida o, piuttosto, il com-

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Aristotele dopo Heidegger

pito di pensare la metafisica lasciando intatta e non violata la sua Zwiegestalt. Esso spinge altresì a chiedersi se ed in che misura la nozione di onto-teologia non possa essere portatrice di un altro significato o non possa essere segno di un’altra figura della metafisica – come appunto, a mio avviso, è in Aristotele – tramite la quale il dispositivo logico, che secondo Heidegger innesca l’ordito di un pensiero dimentico della differenza ontologica nella riduzione dell’essere all’ente, si lasci invece individuare come il tratto di un pensiero accorto, che si muove tenendo in vista, senza occultarla, la differenza fra essere ed ente. In questo senso parlare di una riabilitazione dell’onto-teologia corrisponde all’intento di mostrare non solo che la metafisica può darsi propriamente perché onto-teologica – sia pure a condizione di porre l’apertura della duplicità sulla base della caratura originariamente protologica dell’interrogazione metafisica –, ma soprattutto che dopo Heidegger è ancora possibile, se non indispensabile, praticare con Aristotele la via di una protologia radicale. Su questo punto so di non essere imparziale. Sono convinta – e del resto ogni passione filosofica nasce da un proprio convincimento, da una propria idea di filosofia – che la lunga storia del pensiero occidentale non ci autorizza ancora a certe rinunce, sia pure cariche di una valenza speculativa radicale come nella proposta di Heidegger, non ci esime dal porci domande di tipo “protologico” come quelle che determinano, in Aristotele, l’origine della metafisica. Ritengo che sia questo ciò che ancora oggi distingue il sapere filosofico da quello delle scienze, perché, per dirla con Aristotele, ciò che è in gioco è pur sempre la differenza che esiste fra una ricerca che va all’intero, e rispetto all’intero si interroga quanto ai principi, e le diverse forme di sapere, comunque valide oltre che utili e spesso senz’altro indispensabili, che si soffermano solo su una parte assumendola come l’intero della ricerca. Ciò non toglie che resta comunque qualcosa di non aggirabile ed aporetico nella circolarità onto-teologica della filosofia prima e che, dunque, Heidegger ha ragione nell’individuare in Aristotele l’origine di un problema che la tradizione porterà al proprio interno lungo la sua complessa storia senza riuscire, nonostante i suoi sforzi, a risolvere. Per me è importante rispetto alla lettura heideggeriana individuare il momento, il

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Introduzione

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passaggio in cui scatta il dispositivo onto-teologico nella metafisica aristotelica, giacché non è in ordine alla domanda sull’essere dell’ente, ma rispetto all’essere della causa prima che la filosofia prima si ritrova avvitata in un ineludibile rinvio reciproco fra la sua “natura ontologica” e la sua “determinazione teologica”. Il rinvio, il dispositivo, scatta quando tentiamo di capire che cosa di questa stessa causa, che diciamo essere prima, la fa essere appunto una causa prima, giacché resta sempre qualcosa di questa causa – ci dice Aristotele – che non si spiega a partire da questa stessa causa, pur essendo questa stessa causa. Tutto, se così posso esprimermi, si lascia spiegare a partire dalla causa prima, ma c’è qualcosa che di questa causa non si spiega a partire da questa causa, pur appartenendole essenzialmente, qualcosa che, sebbene si trattenga dentro questa causa, sta fuori dal tutto di cui la causa prima è appunto causa. La mia tesi è, in ultima analisi, che l’impossibilità di aggirare il rimando reciproco fra la condizione dell’universalità dell’ente e quella della sua preminenza scaturisce dalla questione che interroga sulla causa prima e non già dalla questione che domanda sull’intero dell’ente di cui la causa prima è causa. Ci troviamo in un certo qual modo al cospetto di uno scarto che non è solo il segno della differenza che sussiste fra l’intero dell’ente e la sua causa prima. Esso è intrinseco allo stesso principio primo, abita costitutivamente l’essere del principio allo stesso modo in cui in ogni ente la forma, come principio d’essere della cosa, eccede la cosa stessa, la trascende. In questo senso la metafisica si istituisce nello spazio della differenza che abita costitutivamente l’essere, scontrandosi certamente con il limite di non potere penetrare la pienezza d’essere del fenomeno solo per via noetica e, così, aprendosi ad una via di approccio alle cose, ai fenomeni, di tipo analogico, a tratti muovendosi per metafore e simboli ed intessendo trame di relazioni e proporzioni che si rendono visibili solo sotto la condizione di una distinzione fra modi d’essere indicativa di una differenza che attraversa l’essere. Quando lo Stagirita in Metafisica G afferma che ciò di cui il metafisico va in cerca sono le cause e i principi dell’ente in quanto ente, egli sta certamente prospettando l’orizzonte della domanda ontologica, così come coglie puntualmente Heidegger. Il punto è che Ari-

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Aristotele dopo Heidegger

stotele ricostruisce tale orizzonte in base all’ipotesi che la natura non sia l’unico genere dell’ente. Per questo del compito di questa domanda, egli chiarisce, deve farsi carico colui che indaga da una prospettiva più alta e più ampia di quella che è propria del fisico. Ma la distanza del filosofo primo rispetto al fisico non si lascerebbe apprezzare senza il riferimento alla questione protologica radicale, poiché solo chi indaga sulla natura in quanto causa prima sa che della natura vi è un tratto che non si spiega solo a partire dalla natura. In questo senso l’orizzonte della questione teologica si staglia all’origine, rappresenta il punto di avvio della stessa istituzione della questione ontologica. Ciò significa che solo muovendoci già nello spazio di questo rinvio disponiamo di un ambito dell’ente che, più comprensivo, più ampio di quello della natura, si mostra come l’intero dell’ente. Se, però, accettiamo questa condizione e teniamo fermo il riferimento all’intero dell’ente, allora dobbiamo secondo me concludere che quel tratto dell’essere dell’ente naturale che nella natura non si spiega in base alla natura, e che fa appunto della natura un principio, deve pensarsi esso stesso come ente. Il rinvio teologico è, quindi, riconquistato anche alla fine dell’indagine ontologica, così come in effetti ci viene indicato in Metafisica L. Questa circolarità che si dispiega a partire dalla domanda protologica radicale è ciò in cui si imbatte appunto Heidegger. In questo egli – mi pare – coglie nel segno, sia pure cristallizzando la struttura interrogativa di tipo ontoteologico nella forma di un pensiero ontico. Il mio tentativo di “riabilitare” l’onto-teologia con esplicito riferimento alla posizione aristotelica nasce da una proposta metodologica, perché è un certo modo di leggere Aristotele con Heidegger la via che mi ha spinto a ripensare la questione dell’ambivalenza strutturale della filosofia prima nei termini di un pensiero che si fa carico della differenza ontologica. Ho cercato, in altri termini, di mettere in gioco Heidegger in un senso “strumentale”, come un organo interpretativo notevole, provando a fare tesoro di un aspetto della lettura heideggeriana della metafisica aristotelica che mi appare per lo più tralasciato dalla critica. Questo aspetto sprigiona una potenza esegetica pari, quanto meno, alla lezione heideggeriana sulla “protofenomenologia” aristotelica, sulla cui analisi vertono ormai molti contri-

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buti di significativa importanza. Per questa ragione, nella mia prospettiva di ricerca, passa in secondo piano il discorso più complessivo che Heidegger realizza in merito alla costituzione onto-teologica della metafisica tout court e si insiste piuttosto sul punto di disgiunzione fra il “prima” ed il “dopo” Aristotele come spazio di cernita entro cui si giocano le sorti stesse della metafisica. Non opero nascostamente quando propongo un Aristotele dopo Heidegger, poiché la lettura specifica della filosofia prima aristotelica impegna Heidegger negli anni vicini, anteriormente e posteriormente, alla pubblicazione di Essere e tempo, anni in cui, in un confronto con lo Stagirita che si fa via via più polemico, Heidegger continua a rimarcare la necessità di una separazione fra Aristotele ed il resto della tradizione metafisica, sforzandosi di sottrarre l’origine aristotelica dell’onto-teologia ad un movimento di pensiero che si dà sotto l’impronta del “fondamento fondante”. Ci si può appropriare di Heidegger solo muovendosi nello hiatus, nella frattura, che egli stesso appunto sottolinea, fra l’origine aristotelica della metafisica ed il suo successivo sviluppo. Solo all’interno di questo spazio di distanza può avere senso prospettare un significato altro dell’onto-teologismo metafisico con Aristotele dopo Heidegger, assumendo il crinale heideggeriano in modo critico, pena la perdita della distanza alla luce della quale soltanto è possibile “smarcare” la filosofia prima aristotelica dalla storia che pure da essa scaturisce. È, dunque, nel solco di questo hiatus che la mia proposta interpretativa è andata maturando, fino ad assumere l’indicazione esegetica heideggeriana come la condizione di lettura attraverso cui ospitare, nelle pagine di questo lavoro, la possibilità di delineare, forse, una modalità di approccio differente alla questione aristotelica del sapere metafisico nella sua duplicità rispetto ai sentieri che sono stati finora battuti. È bene certamente tenere presente che la determinazione heideggeriana della costituzione onto-teologica della metafisica sprigiona dal suo interno una sorta di doppio potere esegetico, genera una duplice possibilità di lettura. Con l’affermazione di un onto-teologismo strutturale della metafisica si profilano, infatti, due percorsi. La prima via consiste nell’accettare per intero se non la sovrapposizione, quanto meno il nesso di assoluta coerenza e continuità fra l’origine

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Aristotele dopo Heidegger

aristotelica della metafisica ed il suo sviluppo successivo. Sulla base di questo si accetta in toto la tesi heideggeriana dell’origine aristotelica del dispiegarsi dell’essenza onto-teologica nella tradizione della metafisica, procedendo “a ritroso” nell’individuare in Aristotele la presenza in nuce di elementi che si esplicitano con piena evidenza successivamente. Pur salvaguardando il senso dell’unità e dell’interezza della tradizione metafisica, questa via corre il rischio di perdere la specificità della posizione aristotelica, fermandosi ad un’immagine storiografica che scaturisce dall’appropriazione di Aristotele compiuta dalla filosofia cristiana. In questo senso la posizione dello Stagirita risulta appiattita alla forma di un pensiero che si interrogherebbe già sotto la spinta e l’assillo della conquista della ratio fondante, del fundamentum absolutum inconcussum veritatis, della causa sui. La seconda via separa l’inizio storico aristotelico dal processo della metafisica posteriore e riconquista lo spazio speculativo ed originale della metafisica aristotelica, rischiando però di perdere il senso della continuità e, quindi, la ricchezza della tradizione. Rispetto a queste due possibilità di lettura contrarie, tuttavia, si può tentare di battere un terzo sentiero. È indubbio che la tradizione della metafisica si colloca nel solco del progetto aristotelico e, dunque, in continuità con esso. Nondimeno, essa non dà pienamente conto di questa sua collocazione proprio perché si situa nella frattura della Zwiegestalt che sta al cuore della metafisica aristotelica senza riuscire a darne fino in fondo ragione. Il tentativo di operare con Heidegger un “passo indietro” alle spalle della tradizione per rimontare all’origine si può configurare, secondo me, come il tentativo di porsi alle spalle della linea di demarcazione fra un “prima” ed un “dopo” per misurarsi con l’enigmatico Zwiespalt che prende corpo nelle pagine della Metafisica. L’analisi heideggeriana della filosofia prima aristotelica quale momento di istituzione dell’onto-teologismo metafisico non ci autorizza al primo percorso, sebbene Heidegger stesso diventi ad un certo punto, nell’ulteriore sviluppo del suo Denkweg, responsabile della legittimità di esso. Ma il paradigma esegetico onto-teologico non ci autorizza neppure al secondo percorso, cioè a negare il carattere unitario della tradizione, che mostra senza soluzione di continuità il

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proprio debito nei confronti della ricerca aristotelica. Si tratta pertanto di rispondere ad un bisogno di comprensione diverso: è l’esigenza di restituire all’origine le sue possibilità, rimettendo in gioco quasi da capo la metafisica stessa nel portare alla luce la peculiarità del modo aristotelico di determinare il compito della filosofia prima nel suo doppio domandare in chiave ontologica e in chiave teologica. A questo punto si deve, però, operare effettivamente un taglio, procurare una cesura dentro l’origine stessa per lavorare sul principio, sull’¢rcª , giacché ciò che aristotelicamente fa differenza fra l’ôpistªmh fusikª (che è deutöra, seconda, rispetto alla filosofia che è detta prËth, prima) e la metafisica non è propriamente il riferimento alla causa prima, o, più genericamente, il fatto che la prËth filosofÖa sia conoscenza di cause e principi. Anche la scienza fisica, per il fatto di essere ôpistªmh, è conoscenza di cause e principi, come qualsiasi altra scienza. Ed anche la scienza fisica nel suo procedimento investigativo si interessa e risale a suo modo al qe“j come principio primo dell’orizzonte ontologico che Aristotele pensa con il nome di f⁄sij e che rappresenta il tema di ricerca che compete all’ôpistªmh fusikª. Comprendere in che cosa consista la peculiarità della filosofia prima e le ragioni per cui essa si costituisca al modo di una “doppia” scienza vuol dire, quindi, interrogarsi su che cosa determina per lo Stagirita l’apertura di uno spazio di indagine “meta-fisico”. Il nodo, che lega il “divino” come prËth ¢rcª e l’ente nella sua totalità, nodo di cui il metafisico ha scienza ed il fisico no, è ciò che Heidegger, nel leggere Aristotele e la prËth filosofÖa come esperienza di autentico filosofare, chiama “onto-teologia”, passando certamente per la lezione kantiana. Questo nodo resta lo spazio concettuale entro cui si colloca la destinazione metafisica dell’indagine aristotelica. Per questo ciò che propriamente occorre fare è operare in vista non del suo scioglimento, ma della sua salvaguardia. Risolvere il nodo, scioglierlo, per rimuovere la contraddizione che esso genera nel legare insieme il modo d’essere di una scienza particolare, la scienza teologica, e quello di una scienza universale, la scienza dell’ente in quanto ente, sarebbe come svincolare la filosofia prima da ciò che costitutivamente la determina come “meta-fisica”. Significherebbe scomporre quel che conferisce essenza unitaria alla filosofia

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Aristotele dopo Heidegger

prima e che, appunto, la fa dire prima rispetto a tutte le altre scienze. Significherebbe ancora dividere e separare ciò che, invece, la struttura della questione protologica lega insieme. Heidegger ha senz’altro colto con precisione la necessità di legare più strettamente questo nodo per arginare il rischio della distruzione dello spazio d’apertura della metafisica, disponendosi anzi ad affrontare la prova dell’aporeticità. Ne è segno la sua volontà quasi testarda di portare insistentemente alla luce le ragioni “nascoste” che, a suo modo di vedere, determinano in Aristotele la duplicità della filosofia prima. Egli insegna, quindi, che quel che della prËth filosofÖa appare in prima battuta aporetico al pensiero è proprio ciò che il pensiero deve abbracciare per dare senso ad una ricerca che intende all’origine istituirsi epistemicamente come filosofia prima. Come frequentemente mostra la storia esegetica della Metafisica, separare ciò che il nodo lega insieme è certamente un modo per risolvere l’aporia. Ma questo è il modo che non lascia più definire la filosofia prima come “metafisica”, apportando una correzione a quella distorsione ottica che insieme, per un verso, proietta il filosofo primo oltre l’orizzonte della f⁄sij e, per l’altro, lo continua a vincolare strettamente ad esso. È per la presenza di questo nodo, come ho già detto, che il riferimento all’ente divino marca la contrada, il campo della domanda non più su una porzione dell’ente – come accade nel caso dell’ôpistªmh fusikª – bensì sulla totalità, sull’intero dell’ente. È sulla scorta di esso che il riferimento al dio segna il dispiegarsi della domanda sull’ente e non più su una regione ontologica come accade nel caso dell’ôpistªmh fusikª. È ancora questo nesso a reggere l’apertura della questione ontologica sull’ente che, a propria volta, definisce il senso a partire da cui il riferimento al dio appare il luogo necessario entro cui si lascia porre la questione ontologica sull’ente. La circolarità qui appare inevitabile: non si può non “andare in circolo”, giacché, da un lato, è solo il rimando alla domanda sull’ente che esplicita la necessità di un’indagine che abbracci ciò che è al di là dell’orizzonte della sostanza sensibile e, dall’altro, è solo l’assunzione dell’esistenza di un ente sovrasensibile ciò che determina la necessità di un’“altra” scienza che abbia di mira la totalità dell’ente e non solo una sua parte. In quanto il qe“j si situa al di là dell’orizzonte della natura, si può

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dunque dire che l’istituzione di un registro “meta-fisico” rappresenta la condizione di senso della questione ontologica sull’ente in quanto tale; è, però, nello spazio della domanda sull’ente in quanto ente che si apprezza la condizione metafisica sotto cui la filosofia prima si prospetta come ôpistªmh qeologikª, poiché solo la domanda sull’ente in generale esplicita il riferimento ad una sostanza che, per essenza, “vive” oltre l’ambito dei f⁄sei ‘nta al modo della prËth ¢rcª, del principio primo. Tuttavia, nella determinazione della filosofia prima come duplice interrogare sull’ente e sul dio, si annida, si staglia alle spalle qualcos’altro: un altro modo di interrogare sul principio primo. Domanda strana, infatti, questa sul principio posta dalla filosofia prima, se è vero che per Aristotele ogni scienza è interrogazione di cause e principi. Cosa vi è propriamente di altro, di nuovo nel modo in cui la filosofia prima interroga intorno alle cause ed ai principi, al punto che ciò determina la specificità e la supremazia di questa scienza rispetto a tutte le altre? Quel che di nuovo risiede nella domanda della filosofia prima è la sua diversa modalità di approccio alla questione del principio. Ciò che è posto in questione non è già il contenuto specifico, individuale, per così dire, del principio. Aristotele asserisce con chiarezza che primi sono tutti i principi propri della porzione dell’ente indagata ed ognuno di essi sarà individualmente e specificamente diverso per le varie sostanze individuali e le diverse specie. Ogni scienza sarà pertanto conoscenza dei principi primi di quella parte dell’ente su cui si interroga, ma nessuna andrà mai oltre, nessuna si chiederà mai cosa in generale fa dire, fa definire qualcosa principio. L’acconciarsi per dare risposta a questa questione è la mossa strategica del filosofo primo. Il fatto di porre una domanda sul principio che è primo nel suo essere riferito all’ente in quanto ente, acquisendo così una caratura universale, proietta lo sguardo interrogativo del metafisico in un’altra direzione. Il principio è primo non perché contiene in sé l’intero delle condizioni (specifiche ed individuali) che competono a tutti gli enti ed ad ogni tratto dell’ente come un principio unico universale. Un principio simile per Aristotele non esiste. Eppure, nella trama ontologica aristotelica del reale, compare sullo

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sfondo, oltre la natura, un principio che è primo “in modo eccellente”, in quanto caratterizzato da una nota distintiva propria di ogni principio che, visto nella sua costituzione formale, si lasci dire primo. Vi è un principio che è primo in modo peculiare perché, quanto al suo modo d’essere principio, si configura come separato non solo sul piano del logos, ma anche sul piano dell’essere. Tale è, infatti, il dio di cui ci parla Aristotele come prËth ¢rcª. Ogni causa, compreso il dio, è per Aristotele “causa di movimento”. Ma partire dalla ricerca di tipo protologico la comparsa del qe“j assume, nel tessuto investigativo della metafisica aristotelica, l’indicazione di un compito: pensare – o quanto meno provare a farlo – ad una causalità assoluta, del tutto svincolata dalla condizione per cui la causa comunque non cessa di apprezzarsi ontologicamente, ossia dal movimento. Se il movimento, la kÖnhsij è ciò che per Aristotele costituisce il modo d’essere dell’intero dell’ente del quale soltanto ci è possibile fare esperienza, si profila nella figura del qe“j la possibilità di pensare alla causalità della causa prima non sulla scorta della considerazione dell’effetto di cui è causa (il movimento), quanto nel suo essere in sé. Nell’economia della ricerca protologica l’accento non cade, dunque, sulla struttura, sull’essenza dell’ente, bensì sulla forma, sulla causa dell’essere causa del principio che di volta in volta si dice primo. Aristotele tratteggia questa forma configurandola anch’essa come un principio primo di movimento che ha un potere di causalità assoluto e che, essendo come puro eçdoj, è oŸsÖa allo stesso modo, né più e né meno, di un cavallo o di un essere umano. Il dio incarna, facendosene cifra ontologica reale, la causalità assoluta del principio primo. Da ciò l’inganno di ritenere che Aristotele abbia voluto procedere ad un’usiologia della sostanza divina. Ma il dio aristotelico “entra in filosofia” non già per dare ragione dell’ente, ridotto al significato principale di oŸsÖa. Il dio aristotelico si fa largo nello spazio della domanda protologica per dare corpo all’ipotesi dell’assolutezza della causa prima secondo quel tratto d’essere essenziale che non consente mai di apprezzare tale causa dall’interno dell’ambito che viene all’essere a partire da essa. In questo senso il dio a cui ci indirizza Aristotele non appare come ciò che fa da fondamento al tutto, realizzando in sé la totalità delle condizioni dell’intero dell’ente e di se stesso, e così della sua

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esistenza, in forza del suo stesso contenuto. Non sembra, allora, che la questione protologica possa venire affrontata solo sulla spinta dell’esigenza razionale della ricerca del fondamento, perché il logos, in quanto luogo della domanda sulla causa come domanda sull’essenza dell’ente, non è certo il metro di misura dell’assoluta separatezza dell’essere del dio, dato che è nel logos stesso che la forma, l’eçdoj, si dà ad ogni modo come separato, anche quando esso è forma di una sostanza composta: non è il logos lo spazio dove si misura la trascendenza del qe“j. L’essere separata della forma tramite il logos è espressione del suo potere essere sempre vincolata alla cosa di cui è forma: la separatezza della forma che pretendiamo di pensare come assoluta deve darsi come tale, allora, non già rispetto alla cosa, ma proprio rispetto alla forma stessa. Ciò significa che ciò che è separato kat¶ t’n l“gon è in qualche modo sempre separato anche quanto all’essere stesso dell’ente. Eppure Aristotele ci chiede di fare uno sforzo ulteriore che, in un certo senso, può anche apparire del tutto ridondante. Egli ci invita a pensare la forma in quanto separata in se stessa, pur amministrando questa separazione comunque nel logos come l’unico spazio di cui disponiamo per esporre la differenza, la frattura interna all’essere. Non tutto l’essere dell’ente si lascia, però, dire nel logos: rispetto all’ente l’essere si dà sempre come un eccesso. Non già, dunque, guardando alla forma in quanto separata “per logos” è possibile accedere alla condizione di assoluta separatezza della forma, appunto perché anche al cospetto degli enti sensibili si fa esperienza della trascendenza della forma, se è vero che il medico guarisce Socrate guardando alla forma della salute e se è vero che per natura Socrate nasce, viene all’essere da un uomo come uomo. Nel suo essere immanente alla cosa di cui è forma, come principio costitutivo della cosa stessa che hic et nunc ho qui davanti, l’eçdoj della cosa è sempre “oltre” questa stessa cosa. Ma vi è una forma che è per sé trascendente, che eccede non già la cosa, ma il suo stesso essere forma, se così posso esprimermi. Può il logos ospitare e pensare allora la forma come separata in se stessa? Il logos non può disporre di questa separatezza, di questa trascendenza assoluta; per questo cessa di svolgere il ruolo del fondamento fondante. E proprio per questo non può per sé dare conto dell’essere separato per sé della

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forma che si dà fuori dallo spazio logico entro il quale, di contro, si apprezza la trascendenza della forma di ogni ente sensibile. In quest’ottica, è come se Aristotele mettesse sul tavolo da gioco la carta del qe“j per approntare una teoria dell’ente in quanto ente, non già in conformità all’ente più essente, ma sulla scorta di ciò che peculiarmente si fa espressione, nel suo essere forma separata nell’essere, del potere di causalità assoluta che è proprio di un principio primo – potere di causalità guadagnato alla comprensione, quindi, non a partire dalla domanda sull’essere dell’ente, bensì a partire dalla domanda sulla forma della causa prima. Nondimeno, questa eccedenza assoluta della forma separata quanto all’essere è presentata da Aristotele al modo di ciò che è più degno di onore (timiËtaton gönoj) nell’ordine della sostanza e, quindi, dell’ente, quasi che si chiedesse alla specie (l’ente divino) di dare conto dell’intero (l’ente nella sua totalità). In realtà studiare quel “genere che è più degno di onore” per dare ragione dell’intero dell’ente non significa che il qe“j sia più ente di un uomo o di un cavallo. La differenza fra il dio e le altre sostanze non si iscrive nell’ordine di una gerarchia interna al genere della sostanza, perché tutte le sostanze hanno pari dignità di grado, pari dignità ontologica, giacché ogni sostanza individuale è per Aristotele una sostanza prima. Il dio sembra piuttosto marcare il tratto della differenza interna al genere in considerazione di ciò che è peculiare della specie, essendo comunque in quanto sostanza eterna incorruttibile ed immobile, per così dire, una specie delle sostanze. Tre, infatti, per Aristotele sono i tipi di sostanza: sensibile corruttibile, sensibile eterna, immobile eterna. In altri termini, non già per quello che dovrebbe essere come genere, come sostanza fra le sostanze, il “genere” del divino è migliore, ma piuttosto perché il qe“j è degno di onore in forza del suo essere, non potendo essere se non fosse la sostanza eterna, la vita eterna ed ottima che è. Ciò rivela, in ultima analisi, la cifra di una differenza che si dispiega nell’essere, pur venendo guadagnata a partire dalla prospettiva dell’intero dell’ente. È guardando all’intero dell’ente che il dio è la sostanza migliore di tutte, ma il qe“j è la sostanza ottima per sé, per un suo modo d’essere costitutivo e non già in relazione agli altri enti. La differenza che traspare nel dio non è una “differenza ontica”, ossia una differenza

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che si apprezza come differenza fra gli enti, ma è una differenza che si staglia nel cuore dell’essere dell’ente, anche se nella prospettiva dell’uomo questa differenza non può che rendersi visibile guardando all’intero dell’ente e non già solo all’ente divino. La domanda metafisica come domanda protologica, aprendo al dio per pensare l’¢rcª, il principio primo nella sua “eideticità”, se mi si concede l’espressione, per comprendere che cosa di un principio primo renda il principio primo tale, può guadagnare la primarietà della causa solo guardando all’intero dell’ente, ma l’intero dell’ente si apre, a sua volta, solo a partire dall’ipotesi che oltre la f⁄sij esista un genere altro, più degno d’onore, che nella nozione rende intellegibile la causalità della causa prima guadagnata non a partire dal riferimento a ciò di cui essa è causa, bensì solo in riferimento alla causa stessa. Spero di avere messo in evidenza qual è la mia tesi e qual è per me la posta in gioco della prËth filosofÖa, attorno a cui ho costruito il mio percorso, senza abbracciare la via esegetica che trova nella filosofia prima un’intrinseca problematicità che scaturire dalla confusione tematica degli ambiti di ricerca prodotta da Aristotele: l’ oñn Œ ‘n ed il qe“j. In questa diversa chiave di lettura ho cercato, quindi, nel volume di chiarire più volte le ragioni che non solo legittimano il paradigma heideggeriano, ma che altresì palesano il senso dell’operazione aristotelica della doppia determinazione. Sotto certi aspetti si è trattato di lavorare su un campo aperto, segnato dall’intreccio di più questioni: al nodo aporetico della determinazione onto-teologica della filosofia prima si connettono, infatti, come in una spirale vorticosa altri nodi aporetici, a tratti più insidiosi. Tra questi due in particolare. La possibilità di una scienza suprema dal carattere universale, quale la scienza sull’ente in quanto ente dichiara di essere, sembra entrare in conflitto con l’affermazione aristotelica circa la mancanza di principi comuni fra le sostanze in Metafisica L. Altrettanto, la determinazione della f⁄sij, in quanto regione d’essere di quegli enti che hanno in se stessi il proprio principio di movimento, rimette problematicamente in questione la relazione esistente fra il “divino”, fra ciò che è “separato” perché immateriale, e l’orizzonte degli enti naturali entro cui si dovrebbe concepire, per definizione, anche il dio in quanto primo principio di movimento di tutti gli enti

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che hanno il loro principio di movimento in se stessi. Stando alla lezione trasmessa dalla “fusikæ ¢kr“asij”, la trattazione aristotelica più completa sulla kÖnhsij – carattere ontologico essenziale che contraddistingue il “sensibile” dal “separato” –, è a partire da questa definizione della f⁄sij che Aristotele si pronuncia per l’esistenza del qe“j in quanto prËth ¢rcæ kinªsewj. È in gioco, quindi, la comprensione di una ben precisa costellazione, di una sintassi concettuale, che, nelle pagine aristoteliche giunte sotto il nome di Metafisica, ruota intorno alla questione della filosofia prima. Questa questione nella Metafisica ricorre sempre, a mio avviso, ad un doppio livello. Da un lato, si è costantemente inviati al piano di una ricerca, di un’indagine del reale e del suo andamento; dall’altro, si fa perno su un’analisi di tipo gnoseologico, di chiarificazione sul nostro modo di conoscere o, per meglio dire, sulla via che il pensiero segue nel darsi in atto in ciò che più lo contraddistingue, nel cogliere il principio quale suo proprio oggetto. A questo riguardo è, tuttavia, indispensabile, ancora una volta, un’opera di cernita. Nel contesto del suo lavoro di comprensione dell’essenzialità del nodo della prËth filosofÖa Heidegger prospetta una soluzione alla questione della Zwiegestalt che, in effetti, non è la mia, o almeno non del tutto. Egli espone la determinazione duplice dell’onto-teologismo aristotelico come modo di procedere del pensiero secondo una struttura che autori come Remi Brague, Jean-Luc Marion, Jean-François Courtine, Pierre Aubenque, Olivier Boulnois ci hanno ormai abituato a chiamare “katholou-protologia”. L’ente in quanto ente sarebbe, cioè, oggetto di ricerca su un doppio versante, sulla scorta della doppia istanza della ricerca del fondamento dell’ente: da un lato, si tratterebbe di rintracciare quei tratti universali che competono ad ogni ente in quanto tale (l’oñn kaq“lou); dall’altro lato, l’ente sommo, il qe“j sarebbe il caso esemplare di ente, il modello paradigmatico che espliciterebbe cosa autenticamente l’ente sia. Questa struttura, compresa a partire dalla determinazione della filosofia prima come domanda sull’ente e non come domanda protologica, rischia di inficiare la stessa preziosa rivalutazione speculativa heideggeriana della metafisica aristotelica. Letto solo in questi termini, il procedimento “katholou-protologico” apre già la via alla ricon-

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duzione della posizione aristotelica a quella della metafisica cristiana, spingendo ad intendere l’ente sommo come la causa sui, nel senso di quel che, dando conto dell’altro da sé – la totalità dell’ente –, dà parimenti conto, nella sua essenza, della sua stessa esistenza. Ridurre la comprensione della totalità dell’ente a quella dell’ente sommo significa trovare in quest’ultimo la ragione d’essere di ogni altro ente o, per meglio dire, la ragione di quei tratti comuni propri di ogni ente in quanto tale. In questa riconduzione del tratto comune dell’ente all’unicità dell’ente sommo si istituirebbe, quindi, una differenza di sostanzialità fra le varie oŸsÖai, differenza che Aristotele rigetterebbe, sostenendo di contro che, come ho già accennato, fra le sostanze prime, ossia fra le sostanze individuali, non si può porre una gerarchia quanto al grado di sostanzialità. La rischiosa esplicazione heideggeriana trova in qualche modo la sua ispirazione nel tratto esegetico che maggiormente la contraddistingue, ossia scaturisce da una lettura prettamente fenomenologica della filosofia aristotelica. All’esegesi specifica della filosofia prima Heidegger approda attraverso la ritraduzione della speculazione aristotelica in termini fenomenologici a partire dall’esame del modo aristotelico di intendere l’essenza dell’ente come oŸsÖa, “enticità”, sotto il tratto del modo d’essere della “costante presenza”. L’interrogare della prËth filosofÖa è, allora, considerato dall’angolo di visuale del suo oggetto, il “divino”, il timiËtaton gönoj come ciò che è massimamente presente e, dunque, essente. Da qui si dipana la lettura della filosofia prima come interrogare sull’ente in quanto ente che è indirizzato sin da principio alla sostanza prima (prËth) quale autentica espressione di ciò che è proprio dell’ente in quanto tale. Il pericolo di questa lettura consiste nella deformazione del duplice accesso alla questione dell’ente delineato da Heidegger: la sostanza divina rischia di ricoprire indebitamente un posto che aristotelicamente non le compete, divenendo la condizione d’essere di un’universalità (la totalità dell’ente) in virtù della sua forma di ente perfetto quanto al suo modo d’essere. Ora, certamente, si palesa in Aristotele l’esigenza di rintracciare il tratto che si può dire essere comune ad ogni ente in quanto tale, come sembra veicolare la ricerca di quel che è il principio dell’ente in quanto ente, al fine di soddisfare la condizione che fa

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dire di avere conoscenza di qualcosa perché se ne conosce il principio. Tuttavia, non si può sostenere che il qe“j sia espressione suprema dell’ente come quel che accoglie in sé l’universalità dell’ente nella sua totalità, ossia come ciò che in sé abbraccia tutte quelle condizioni universali che soddisfano il modo d’essere dell’ente in quanto ente. Il dio aristotelico non dà ragione né della f⁄sij propriamente detta, né di nessuno dei principi costitutivi delle sostanze sensibili che popolano il mondo della f⁄sij (materia, forma, privazione), essendo la materia e il mondo coeterni al qe“j ed essendo, di volta in volta, individualmente declinati i principi costitutivi della sostanza sensibile nelle singole sostanze individuali, senza che di ciò sia artefice il qe“j. Ritengo piuttosto che vi sia un terzo elemento che consente di comprendere l’apertura di questa struttura di duplicità della filosofia prima, colta puntualmente da Heidegger nel mostrare la compresenza di un doppio accesso alla questione dell’ente, nel tratto della sua universalità – Œ ‘n – e nell’esistenza di un altro ente, che non è una sostanza sensibile e che pone la necessità di un’altra scienza oltre la scienza fisica. La doppiezza della filosofia prima si rende accessibile alla luce di un’esigenza speculativa che la metafisica aristotelica porta ad espressione consegnandosi parimenti come indagine sul principio. Almeno nei primi anni dell’Auseinandersetzung con Aristotele, Heidegger non manca mai di sottolineare la valenza “protologica” della prËth filosofÖa. Direi anzi che il tratto “protologico” dell’onto-teologia aristotelica debba essere in prima battuta compreso come manifestazione della caratura metafisica con cui si misura la ricerca sul principio in Aristotele anche nell’interpretazione del giovane Heidegger. L’esigenza di comprensione del modo d’essere della prËth ¢rcª a partire da sé e non in riferimento a ciò di cui è causa rappresenta, in un certo qual modo, secondo me proprio una salvaguardia dal rischio contenuto nell’impostazione heideggeriana di tipo “katholouprotologico” come rischio della riconduzione della molteplicità irriducibile degli enti all’ente sommo in quanto modello d’ente paradigmatico in virtù del suo modo d’essere. La lettura di Heidegger tende nel tempo ad elaborare un modello di spiegazione che certamente è

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in sé plausibile – ed infatti esso ricorre spesso anche nelle pagine della storiografia aristotelica che si esprime indipendentemente dal canone onto-teologico. Per una riabilitazione dell’onto-teologia prova ad operare, in ultima analisi, uno sdoganamento del concetto di onto-teologia, una vera e propria liberazione. Liberazione, in primo luogo, dalle implicazioni, dalle scelte, dai percorsi che la filosofia post-heideggeriana ha compiuto declinando a propria volta, secondo i suoi modi propri, la lezione appresa da Heidegger. Liberazione, in qualche modo, quindi, anche dalle conseguenze che Heidegger stesso ha tratto dalla propria analisi. Di esse non discuto, non giacché non le ritengo condivisibili, ma perché, da un lato, esse sono in fin dei conti elaborate rispetto ad una storia posteriore ad Aristotele, a cui non mi pare si possa ridurre la speculazione dello Stagirita nel suo genuino significato, e perché, dall’altro lato, esse sono di necessità foriere di un oltrepassamento della metafisica come “onto-teo-logia”, che è materia propria ed originale del Denkweg heideggeriano. Liberazione, ancora, allora, dall’esito storico che la filosofia prima aristotelica ha comunque subito nella sua “storia degli effetti”, poiché non è la costituzione onto-teologica della metafisica fino ad Hegel ciò che ho qui inteso riproporre come materia feconda per l’esperienza filosofica contemporanea, bensì è un certo modo diverso di strutturarsi dell’onto-teologia nella sua apertura originaria in Aristotele quello che, nel tentativo di argomentare sul perché il dio “entri in filosofia” con Aristotele, mi sono sforzata di mettere in luce come ciò che ha il potere di essere ancora proficuo per il pensiero. Liberazione, infine, da quel giudizio dal tono senz’altro negativo, che, peraltro, non mi pare affatto conforme alla valutazione di Heidegger e che, in modo opprimente, pesa sull’onto-teologia, al punto da spingere molti a scartare già a priori sia le forme del pensare metafisico, in quanto onto-teologico, sia la direzione investigativa onto-teologica. Tutta la ricerca che mi ha portato all’elaborazione di questo volume è nata da una sorta di scommessa. La posta in gioco era ed è, dunque, ancora la metafisica. Quando ho iniziato ad occuparmi di Heidegger in anni non più recenti, i primi contributi, che in sede critica destavano maggiormente il mio interesse, sottolineavano l’importan-

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za di un ripensamento da parte di Heidegger delle strutture della pr©xij e della töcnh aristoteliche, ritradotte poi in chiave esistenziale all’interno dell’ontologia fondamentale dell’esserci heideggeriana, e lasciavano invece sullo sfondo il problema se o come Heidegger si fosse confrontato con l’Aristotele della Metafisica. Io avevo avuto nel frattempo già modo di frequentare, paradossalmente all’interno di un corso di filosofia morale, un Aristotele diverso. Potrei dire che il “mio” Aristotele parlava (e continua a farlo) in prima battuta nei termini di una natura o una realtà (f⁄sij) dallo statuto ontologico marcatamente fenomenico, improntato sul registro dell’apparire, del faÖnesqai, come tratto proprio dell’essere, e nel contempo, in modo del tutto corrispondente sul piano epistemico, di una filosofia dalla struttura eidetica molto chiara, caratterizzata da una fisionomia di tipo protologico ben evidente. Del resto, lo stesso Heidegger che, a detta di molti interpreti, darebbe così tanta importanza ad un ripensamento, sia pure in termini critici, della metafisica per un primato di tipo pratico dell’esistenza, trova le radici per un’ontologia fenomenologicoermeneutica in colui che egli considera non solo come un proprio maestro, ma anche come il fondatore della questione essenziale di tutto il pensiero (la Seinsfrage): Aristotele. Questo non è in realtà mai voluto essere un volume né su Heidegger né sulla Auseinandersetzung heideggeriana con Aristotele; la mia ricerca non si è voluta rivolgere sempre che ad Aristotele. Ma in questo, in effetti, Heidegger ha esercitato su di me un profondo fascino per la ragione ermeneutica che ha sempre orientato la sua interpretazione del passato: filosofare sempre di nuovo con chi ci ha preceduto e pur tuttavia sempre da soli. In fin dei conti si è trattato, allora, di provare a separare ciò che è unito e ad unire ciò che è separato. *** Desidero ringraziare la mia mamma che insieme al mio papà ha assecondato e sostenuto, anche materialmente, con amore e pazienza, la mia ostinata passione per questa ricerca. Un grazie, che in realtà è molto di più, ad Erik che non solo ha sempre aspettato i miei

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ritorni prendendosi straordinariamente cura nel tempo della mia assenza dei nostri bambini, ma che ha anche condiviso e protetto, rinnovandolo, il mio entusiasmo. Questo lavoro non avrebbe mai preso forma se non avessi ricevuto il regalo della fiducia da parte del mio maestro, il professore Giuseppe Nicolaci, a cui sono profondamente grata non solo per la possibilità che mi ha offerto, ma soprattutto per avermi istruita con rigore scientifico ed in un clima di massima libertà ed onestà intellettuale, mostrandomi con la sua preziosa capacità di accoglienza e di ascolto e con la sua generosa umanità la sua straordinaria amicizia.

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Sigle e abbreviazioni

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SIGLE E ABBREVIAZIONI

Le opere di Martin Heidegger sono citate secondo i seguenti criteri: – i volumi della Gesamtausgabe (Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1975-) sono citati con la sigla GA seguita dal numero del volume (in bibliografia si danno i riferimenti completi); – le opere citate in traduzione italiana sono indicate dalle seguenti sigle: Af

Avviamento alla filosofia, trad. it. di M. Borghi, Marinotti, Milano 2007. AMQ Aristotele Metafisica Q 1-3. Sull’essenza e la realtà della forza, trad. it. di U. Ugazio, Mursia, Milano 1992. Cf Contributi alla filosofia (Dall’evento), ed. it. a c. di F. Volpi, Adelphi, Milano 2007. Cfa I concetti fondamentali della filosofia antica, ed. it. a c. di F. Volpi, Adelphi, Milano 2000. Cfm Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, ed. it. a c. di C. Angelino, il melangolo, Genova 1992. ET Essere e tempo, trad. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 197611, n. ed. a c. di F. Volpi, Longanesi, Milano 20053. ID “Identità e differenza”, trad. it. di U. Ugazio, aut aut 187-188 (1982), pp. 2-37. IfA Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca fenomenologica, ed. it. a c. di E. Mazzarella, Guida, Napoli 2001. IfK Interpretazione fenomenologica della Critica della ragion pura di Kant, trad. it. di A. Marini e R. Cristin, Mursia, Milano 2002. Im Introduzione alla metafisica, trad. it. di G. Masi, Mursia, Milano 1990. Kpm Kant e il problema della metafisica, ed. it. a c. di V. Verra, Laterza, Roma-Bari 20003. Lpv Logica. Il problema della verità, trad. it. di U. Ugazio, Mursia, Milano 1986.

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Metafisica e nichilismo, ed. it. a c. di C. Angelino, il melangolo, Genova 2006. NB “Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele”, trad. it. di V. Vitiello e G. Cammarota, Filosofia e Teologia 3 (1990), pp. 496-532. Ntzse Nietzsche, ed. it. a c. di F. Volpi, Adelphi, Milano 19952. OEE Ontologia. Ermeneutica della effettività, ed. it. a c. di E. Mazzarella, Guida, Napoli 19982. Pff I problemi fondamentali della fenomenologia, ed. it. a c. di A. Fabris, il melangolo, Genova 1990. Pml Principi metafisici della logica, ed. it. a c. di G. Moretto, il melangolo, Genova 1990. Pr Il principio di ragione, ed. it. a c. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1991. Qc La questione della cosa. La dottrina kantiana dei principi trascendentali, ed. it. a c. di V. Vitiello, Guida, Napoli 1989. Schll Schelling. Il trattato del 1809 sull’essenza della libertà umana, ed. it. a c. di E. Mazzarella e C. Tatasciore, Guida, Napoli 1998. Sgv Segnavia, ed. it. a c. di F. Volpi, Adelphi, Milano 19943. Si Sentieri interrotti, ed. it. a c. di P. Chiodi, La Nuova Italia, ScandicciFirenze 1997. TE Tempo ed essere, ed. it. a c. di E. Mazzarella, Guida, Napoli 19914. Le opere aristoteliche sono citate secondo le seguenti abbreviazioni (in bibliografia si danno i riferimenti completi): An. Post. An. Prior. Cat. De an. De int. De part. an. Et. Nic. Met. Phys. Top.

Analytica posteriora Analytica priora Categoriae De anima De interpretatione De partibus animalium Ethica Nicomachea Metaphysica Physica Topica

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Il rivolgimento heideggeriano della tradizione esegetica

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I IL RIVOLGIMENTO HEIDEGGERIANO DELLA TRADIZIONE ESEGETICA

1. Lo spartiacque esegetico heideggeriano La doppia direzione interrogativa della prËth filosofÖa è all’origine di uno dei problemi esegetici più dibattuti nell’ambito della storiografia aristotelica. In base a quanto sembra emergere per lo meno dal VI libro della Metafisica, la filosofia prima si realizzerebbe in pari tempo come indagine ontologica e teologica. Essa si qualificherebbe tanto come un sapere intorno all’ente in generale quanto come un sapere intorno ad un particolare ente, o genere dell’ente, che è il qe“j . Così posta, questa duplice determinazione tematica appare oscura: all’interesse per l’universalità (l’ente in quanto tale) si contrappone l’attenzione per un ente particolare, benché supremo (l’ente divino). Da qui, dunque, il carattere aporetico che marcherebbe l’indagine metafisica aristotelica con il conseguente sviluppo di un ricco apparato di percorsi esegetici che segnano la storia della recezione della Metafisica lungo il corso della tradizione. Che la duplice natura dell’interrogare metafisico aristotelico sia una vera e propria crux interpretativa è un dato di fatto confermato con evidenza dalla storia delle letture aristoteliche. Essa costituisce già agli occhi dei primi commentatori in lingua greca un nodo concettuale da sciogliere. Ne scaturisce una richiesta esegetica che si fa via via sempre più chiara. Dare conto della doppia direzione di inda-

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Aristotele dopo Heidegger

gine della prËth filosofÖa per giustificarne la necessità o, di contro, per negarla richiede comunque di portare in chiaro le ragioni di questo singolare “strabismo” nello sguardo del metafisico. Ma ciò implica, in realtà, un ulteriore passaggio investigativo, perché far questo vuol dire portare alla luce il rapporto, il nesso ontologico che, secondo Aristotele, sussiste fra l’intera realtà, considerata universalmente, ed un singolo ente che è appunto il dio1. È chiaro che il nodo si scioglie e la duplicità, o almeno la sua apparente contraddizione, è eliminata se è possibile mostrare che nella Metafisica la domanda sull’ente in generale rinvia da se stessa, per una sua necessità interna, alla domanda sull’ente divino o, viceversa, che in essa la domanda su Dio, sull’ente sommo, non può essere istruita se non sullo sfondo della domanda intorno all’ente in generale. Qualunque delle due direzioni si imbocchi, si tratta in ogni caso di esplicitare un passaggio teorico che nel testo aristotelico non è mai tematizzato né argomentato in modo sistematico, ma solo 1 Walter Leszl esprime molto bene questa concatenazione di passaggi, quando asserisce che nella storia esegetica della Metafisica “ontologia e teologia sono o distinte o identificate a seconda se si attribuisce ad Aristotele una concezione non unitaria o unitaria della realtà” (W. Leszl, Aristotle’s Conception of Ontology, Editrice Antenore, Padova 1975, p. 32). Leszl si prodiga, infatti, nel mostrare che “se l’approccio dualistico alla relazione fra ontologia e teologia riflette l’attribuzione ad Aristotele o di una concezione dualistica della realtà o di due concezioni differenti di essa […], l’approccio unitario, che ammette una sola concezione della metafisica e riduce la distinzione fra ontologia e teologia ad una distinzione al massimo fra momenti o aspetti di una medesima scienza, riflette usualmente l’attribuzione di una concezione unitaria della realtà ad Aristotele” (ibid., p. 28). Una visione dicotomica del reale, quasi al modo platonico, con una netta separazione fra il mondo delle sostanze sensibili e la realtà divina del sovrasensibile, mette in stallo, in altri termini, la determinazione della metafisica aristotelica in pari tempo come ontologia e come teologia. In questa prospettiva, infatti, non si ha un’ontologia in senso stretto, in quanto non è possibile prendere di mira l’intero della realtà secondo principi comuni ai due ambiti ontologici del sensibile e del sovrasensibile. In questo modo si ha una chiara supremazia della teologia sull’ontologia secondo il criterio che l’ente divino, in quanto ente primo, è principio di tutta la realtà. Di contro, una concezione non dualistica del reale, in cui i vari tipi di sostanze sarebbero coordinati l’un con l’altro in una relazione di “interconnessione”, ha spesso come esito una prevalenza della determinazione ontologica su quella teologica o altresì una sostanziale identificazione fra ontologia e teologia nel senso di un progetto investigativo che mira alla totalità dell’ente di cui l’ente divino è parte. In entrambi gli approcci, quindi, si esplicita una relazione ontologica e logica fra il qe“j e l’intero dell’ente per dare conto dell’oggetto tematico proprio della filosofia prima.

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Il rivolgimento heideggeriano della tradizione esegetica

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annunciato, per esempio nel III capitolo del IV libro o anche nel I capitolo del VI libro. È un fatto, però, altrettanto inoppugnabile che l’esito di questo tentativo di esplicitazione conduce ben più lontano di quanto non si richieda normalmente ad un interprete: in qualche modo Aristotele porta oltre Aristotele. Il passaggio “mancante” di cui si è in cerca decide comunque, dalle fondamenta e per intero, il senso del progetto aristotelico della prËth filosofÖa. Esplicitarlo non significa solo comprendere il disegno aristotelico, ma fornirne nuovamente – e diversamente, a seconda del modo in cui accade di esplicitarlo – la fondazione. Per questa via l’impegno esegetico si prospetta ipso facto come impegno metafisico e la storia delle interpretazioni della Metafisica trapassa senza soluzione di continuità nella storia stessa della metafisica, con la quale, almeno fino alla Scolastica tardorinascimentale ed a Suárez, non cessa di far corpo unico. Di fronte al problema della duplicità dell’oggetto della filosofia prima l’esegesi aristotelica conosce soluzioni molto differenti. Essa si caratterizza, tuttavia, per una costante oscillazione fra l’opzione per così dire “ontologica” e quella “teologica”. A seconda dei diversi percorsi di analisi di volta in volta approntati dai commentatori, dagli interpreti e dai critici, si può costatare una maggiore accentuazione della componente ontologica a scapito di quella teologica o viceversa. Nel primo caso l’interrogazione sull’ente sommo è tematizzata nel limite e in funzione della necessità di rispondere alla domanda sull’essere dell’ente in generale; nel secondo, la domanda sull’essere dell’ente viene in gioco in quanto preliminarmente implicata nel percorso di risposta alla questione dell’essenza e dell’esistenza dell’ente sommo. Una simile oscillazione è indice del fatto che la via più battuta dagli esegeti è stata in genere quella di risolvere il problema a monte: spiegare le ragioni della duplicità tematica della metafisica aristotelica significa, in conclusione, negarne la presenza effettiva. Registrando la duplice determinazione dell’oggetto della prËth filosofÖa come un dato testuale imbarazzante, come un elemento aporetico che comprometterebbe la coerenza del disegno d’insieme aristotelico, la ricerca non può che spingersi oltre questa apparenza, provando per così dire a “riaggiustare il tiro” in modo da riguada-

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Aristotele dopo Heidegger

gnare un’immagine univoca della nozione aristotelica di filosofia prima2. In special modo nella critica esegetica che variamente si sviluppa dalla fine dell’Ottocento e per buona parte del Novecento questa operazione di recupero si costruisce in linea di massima secondo un procedimento di tipo confutatorio: si rigetta l’apparente carattere del doppio statuto della filosofia prima come indagine sull’ente e sul qe“j, mostrando la natura contraddittoria di una simile doppia determinazione, e si procede, quindi, al riconoscimento di uno solo dei due tratti investigativi quale unico genuino elemento definitorio. In contrapposizione a questa tendenza esegetica generale, assai viva anche all’epoca in cui matura la sua interpretazione di Aristotele, Heidegger elabora la tesi del carattere strutturale e, dunque, incoercibile della duplice direzione di indagine della metafisica. Si tratta di una tesi radicalmente alternativa: la filosofia prima aristotelica, e con essa l’intera tradizione di pensiero che ne discende e che prende il nome di metafisica, si definisce essenzialmente per il suo doppio tratto tematico ontologico e teologico, ossia per la sua natura irriducibilmente onto-teologica. Per un verso, è solo insistendo su questa doppiezza, su questa Zwiegestalt che l’unità del progetto tramandato2 È possibile, in effetti, scorgere già in Alessandro di Afrodisia, ed in special modo nel suo commento al libro G, come anche poi nelle esegesi arabe e scolastiche e tardoscolastiche, una chiara attenzione per la varietà dei compiti della filosofia prima. Tuttavia è una conquista solo della più recente storiografia quella di leggere espressamente la filosofia prima seguendo la molteplicità delle sue possibili determinazioni tematiche senza necessariamente operare una riduzione delle une alle altre (l’indagine ontologica, in ultima analisi, sembra confluire per intero dentro il lavoro della scienza teologica nella posizione ad esempio di Alessandro). In epoca contemporanea questo procedimento metodico, questa maggiore attenzione per la molteplicità tematica della prËth filosofÖa sfocia in due esiti. Da un lato si profila una posizione che assume le varie determinazioni entro un percorso investigativo non contraddittorio. In tal senso, certamente, va accordato a Giovanni Reale il merito di avere proposto fra i primi una quadruplice determinazione della filosofia prima in quanto “ontologia”, “usiologia”, “eziologia” e “teologia” attraverso un’analisi che mostri la necessità e l’integrazione reciproca delle varie determinazioni nell’intento di salvaguardare l’unità speculativa della Metafisica messa in crisi dal paradigma genetico jaegeriano (cfr. G. Reale, Il concetto di “filosofia prima” e l’unità della Metafisica di Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 19935). Dall’altro lato si incontra la strada tracciata significativamente da Pierre Aubenque che, di contro, insiste su una radicale aporeticità della metafisica aristotelica, dispersa fra i suoi diversi interessi tematici. In quest’ottica la scienza “ricercata” si staglierebbe come una sorta di ideale gnoseologico mai per intero perseguibile (cfr. P. Aubenque, Le problème de l’être chez Aristote, PUF, Paris 19774).

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ci sotto il nome e l’autorità di Aristotele si lascia comprendere secondo il suo originario dispiegamento aristotelico. Per altro verso è la storia stessa della metafisica ad insistere per intero su questa irrisolta doppiezza dell’interrogazione, iscrivendosi integralmente nello spazio logico che divide e al tempo stesso lega insieme l’indagine sull’ente come tale e l’indagine sull’ente sommo. La tesi della costituzione onto-teologica della metafisica aristotelica rappresenta una chiara presa di posizione contro le tendenze esegetiche che enfatizzano la contraddittorietà intrinseca al programma investigativo della filosofia prima. Tuttavia, anche a dispetto dell’insistenza sulla necessità del filosofo metafisico di abbracciare insieme in un unico sguardo il qeãon e l’intero dell’ente, l’interpretazione heideggeriana non sembra né scalfire né ridurre la portata enigmatica del progetto aristotelico che accosta, nel disegno di un’unica ôpistªmh, due oggetti tematici così eterogenei. Nonostante certe significative oscillazioni, l’esegesi heideggeriana pare anzi configurarsi fino a tutti gli anni Venti, ma anche in alcune pagine risalenti alla cosiddetta fase del seinsgeschichtliche Denken, come la sfida, la provocazione a mantenere intatta, lasciandola alla sua irrisolta problematicità, la distanza che separa il qe“j dalla totalità dell’ente, di cui il dio in quanto ente è pur sempre parte. La doppia “cattura” investigativa del metafisico, che con un’unica mossa afferra contemporaneamente l’ente nella sua totalità e l’ente divino, non si lascia dunque comprendere, secondo Heidegger, semplicemente riducendo o lasciando convergere l’ontologia nella teologia (o viceversa), così come è anche accaduto storicamente alla metafisica ogni qualvolta l’esegesi aristotelica ha fatto corpo unico con lo sviluppo della tradizione metafisica stessa. La tesi heideggeriana non nega l’esistenza di un movimento di rinvio fra le due direzioni di indagine, ma asserisce che il rinvio è vicendevole e che il movimento va in circolo. La piega, che sovrappone ontologia e teologia, non va nell’ottica heideggeriana “spiegata” nel senso di una distensione o di un appiattimento della flessione reciproca di ontologia e teologia: se si procedesse in tale direzione, l’ambiguità sarebbe sì sciolta, ma la metafisica perderebbe il suo peculiare elemento distintivo che la differenzia in maniera essenziale dalla scienza fisica. In un

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Aristotele dopo Heidegger

certo qual modo la curvatura, la piegatura metafisica che istituisce il circolo di ontologia e teologia non può essere raddrizzata senza perdere la possibilità strutturale dell’apertura della metafisica che, secondo Heidegger, si consegna proprio in questa enigmatica duplicità tematica. L’irriducibilità della doppiezza costitutiva della prËth filosofÖa aristotelica si coglie a pieno, per Heidegger, proprio nel vincolo che, come si diceva all’inizio, lega le sorti dell’esegesi della Metafisica a quelle della storia stessa della metafisica. Ogni volta che l’interpretazione aristotelica tenta di sciogliere e di ridurre l’ambivalenza, optando per una supremazia dell’ontologia o, di contro, per una preminenza della teologia, l’interpretazione si traduce ipso facto nella costruzione di una certa metafisica che non è più quella aristotelica in senso stretto. Così nello sforzo esegetico si evidenzia un singolare movimento in cui l’interpretazione diviene il farsi storicamente della metafisica. È proprio quel che accade, per esempio, al tempo della “riscoperta” dell’Aristotele della Metafisica prima entro il mondo arabo (Avicenna, Averroè) e poi entro la Scolastica (Alberto Magno, ma soprattutto Tommaso d’Aquino, Duns Scoto, Francisco Suárez): dare risposta alla questione dello statuto della filosofia prima aristotelica è insieme conquista di una propria autonoma posizione rispetto ad Aristotele, è formulazione di una prospettiva di tipo metafisico già altra rispetto a quella dello Stagirita. I commentari tardo-medievali rappresentano il caso più tipico di questo movimento di conversione spontanea della rigorosa esegesi in speculazione indipendente. Sia pure partendo dallo spunto offerto dal problema della determinazione della natura della filosofia prima in Aristotele, essi assumono, via via in modo più marcato, il carattere di ricerche sullo statuto della metafisica sempre meno vincolate alla problematica aristotelica. In questa direzione, in piena epoca moderna, si perdono quasi del tutto le tracce originarie del progetto metafisico aristotelico ed il dibattito sulla metafisica dimentica, in fondo, la problematicità stessa della Metafisica fino al XIX secolo. Le Disputationes Metaphysicae di Suárez sono un prezioso esempio di questo passaggio, di questa sorta di transito. Esse testimoniano come la questione specifica della prima philosophia in Aristotele, pur essendo la Metafisica pervasiva-

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mente presente nel testo del teologo gesuita, diventi un elemento quasi rapsodico di contro ad un’analisi a tutto campo sull’oggetto proprio della metafisica e sulla sua configurazione concettuale3. A questo mutamento contenutistico, a questa svolta che investe le esegesi aristoteliche trasformandole in manifestazioni autonome della metafisica nel suo darsi storico, Heidegger fa chiaro riferimento. Proprio a proposito di Suárez, ad esempio, egli sottolinea come il gesuita sia stato il primo ad aver proceduto ad “[u]na esposizione autonoma del problema metafisico”: “[È] essenzialmente sotto l’influsso di Suárez che la metafisica si è venuta a configurare, sia nel suo modo di porre le questioni, sia nel suo carattere specifico, come disciplina scolastica” 4, vale a dire come forma di un pensiero articolato in cui il rinvio dell’ontologia alla teologia o, per meglio dire, l’apertura della teologia dentro l’ontologia diviene passaggio portante, cruciale – passaggio che, poi, la Schulmetaphysik moderna riassorbe al proprio interno nella sua sistematizzazione delle branche della metafisica e verso il quale, come è noto, si indirizza polemicamente il pensiero di Kant. In questo fare corpo unico della storia esegetica della Metafisica con la storia della tradizione metafisica Heidegger intravede il rischio della perdita del momento aurorale, dell’atto di genesi della problematica metafisica nella forma della prËth filosofÖa aristotelica. Perdita grave, se insieme essa è perdita della possibilità della comprensione dell’essenza della metafisica come tale: risolvere a favore di una delle due direzioni di ricerca la duplicità enigmatica originaria che, sia pure “in modo latente”5, è nel progetto investigativo aristotelico, e dalla quale si origina la metafisica come un’onto-teologia in uno 3 Come osserva Costantino Esposito “Suárez inaugura di fatto, nel cuore stesso della filosofia scolastica, la forma moderna del trattato di metafisica. Quello che il lettore si trova davanti non è più l’abituale commento alla Metafisica di Aristotele”, giacché il testo dello Stagirita “sistematicamente parlando, non è più esso a fornire la struttura della scienza in questione, la quale andrà invece concepita e articolata secondo una sintassi sua propria” (C. Esposito, Introduzione a F. Suárez, Disputazioni metafisiche, ed. it. a c. di C. Esposito, Bompiani, Milano 2007, p. 10). La “sintassi propria della metafisica” diviene, quindi, articolazione originale dello stesso nesso fra ontologia e teologia in uno spazio di ormai consumata distanza dal pensiero dello Stagirita. 4 Cfm, p. 75. 5 Ibid., p. 72.

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sviluppo sempre più compiuto fino a Schelling ed Hegel, vuol dire sciogliere, decomporre l’intreccio, la trama, la struttura essenziale del pensare metafisico. Un’espressa articolazione del nesso di ente divino ed ente nella sua totalità, che approdi ad una risoluzione della componente ontologica in quella teologica o che, di contro, mostri la dipendenza della teologia da un progetto ontologico fondativo all’interno di una visione generale dell’ente come nella sistematizzazione scolastica, può anche divenire, in altri termini, la negazione della vocazione originaria della metafisica. Può, cioè, ammortizzare l’intenzione speculativa che anima il movimento del metafisico che si spinge oltre l’orizzonte del mondo naturale proprio nel tentativo di abbracciare insieme, sotto un unico sguardo, l’ente ritenuto supremo, sommo, divino e l’intero dell’ente considerato in modo universale. Per Heidegger, l’irriducibilità della duplicità tematica della filosofia prima aristotelica racchiude qualcosa che resta non visto, non pensato, non compreso, né da parte di Aristotele né da parte della tradizione che ne discende. Procedendo alla soluzione dell’ambivalenza originaria, da cui nondimeno essa prende le sue mosse, è come se la tradizione metafisica non sapesse governare il senso della duplicità originaria del progetto metafisico dello Stagirita. Pur espressione di una tensione esegetica volta ad Aristotele, alla tradizione sfuggirebbe il significato del fondo essenziale che al profondo, e per questo in modo così nascosto ed enigmatico, la determina strutturalmente nel suo dispiegarsi storico. È questo che paradossalmente, durante il suo svolgimento, la metafisica ha anche fatto, quasi rimuovendo la propria stessa essenza: “[I]l fondamento di questa duplicità e addirittura la sua provenienza rimangono preclusi alla metafisica, e questo non per caso o per una qualche trascuratezza” 6. Nella volontà di sciogliere ogni ambiguità, spezzando ogni circolarità, dipanando l’intrec6 Sgv, p. 331. Ed ancora: “Nella misura in cui un pensiero si mette in cammino per esperire il fondamento della metafisica, nella misura in cui questo pensiero tenta di pensare alla verità dell’essere stesso, invece di limitarsi a rappresentare l’ente in quanto ente, esso ha già in un certo modo abbandonato la metafisica. Considerato ancora dal punto di vista della metafisica, questo pensiero ritorna al fondamento della metafisica. Ma ciò che così appare ancora come fondamento, presumibilmente, se viene esperito a partire da esso stesso, è qualcos’altro di ancora non detto, per cui l’essenza della metafisica è altro dalla metafisica” (ibid., p. 319).

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cio fra qeãon ed oñn Œ ‘n, in una classificazione gerarchica del reale sul piano ontologico e logico, si è andato via via perdendo di vista il senso del progetto originario racchiuso nella duplicità tematica della prËth filosofÖa: Queste due caratterizzazioni della prËth filosofÖa [scil. come “conoscenza dell’ente in quanto ente” e come “conoscenza della sfera più eminente dell’ente”] non comportano due corsi di idee fondamentalmente diversi e fra loro indipendenti, né l’una può essere sminuita o addirittura eliminata in favore dell’altra, né l’apparente duplicità si può prematuramente comporre in unità. Bisogna piuttosto mettere in chiaro i fondamenti di tale apparente duplicità e il tipo di comunanza che lega le due determinazioni, a partire dal problema principale di una “filosofia prima” dell’ente. […] La metafisica occidentale postaristotelica deve la sua formazione, non al tramandarsi e all’evolversi di un presunto sistema aristotelico, ma al mancato riconoscimento dello stato di sospensione e di apertura, in cui Platone e Aristotele avevano lasciato i problemi centrali 7.

La “formazione del concetto scolastico di metafisica” ha, dunque, “ostacolato la ripresa della problematica originaria” insita nel “curioso sdoppiamento” della filosofia prima8. Bisogna, pertanto, interrompere il ritmo della tradizione, arginare l’imbarazzo della filosofia post-aristotelica di fronte all’ambigua determinazione della metafisica dello Stagirita. Agli occhi di Heidegger diviene basilare ritornare ad Aristotele, compiere, cioè, un passo indietro verso l’origine della metafisica e non in avanti in cerca del suo immediato superamento; occorre salvaguardare l’enigmatica ambivalenza della filosofia prima aristotelica, sottraendola ad un’articolazione sempre più rigida del nesso fra Dio e l’ente in quanto tale all’interno della tradizione metafisica improntata alla teologia cristiana: [N]on possiamo chiarire la prËth filosofÖa a partire dalla metafisica, ma, al contrario, dobbiamo legittimare l’espressione “metafisica” attraverso un’interpretazione originaria di quanto avviene nella prËth filosofÖa di Aristotele 9.

In sintesi, si potrebbe anche dire che se la tradizione esegetica si 7

Kpm, p. 17. Ibidem. 9 Cfm, p. 58. 8

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lascia riassumere come il tentativo di raggiungere un’unità tematica di fondo nella duplice configurazione della prËth filosofÖa, la posizione heideggeriana si propone programmaticamente (e fino alla fine) come un’insistenza sulla doppiezza dell’indicazione aristotelica quanto al tema della filosofia prima. Così si esprime Heidegger durante l’ultimo corso marburghese del semestre estivo del 1928, in una conquista ormai sicura della prospettiva: La filosofia [scil. la filosofia secondo la definizione aristotelica] è […] scienza dell’essere; in quanto si affatica intorno alla comprensione e determinazione concettuale, intorno al l“goj dell’oñ n Œ ‘n , essa è ontologia. […] Ma la filosofia in prima linea è anche qeologikª10.

E con ancora più enfasi un anno dopo, nel corso del semestre estivo del 1929: Questo doppio concetto di f⁄sij [scil. come “ambito della natura” nel senso di una specifica regione ontologica e come “essenza”, “natura di una cosa” e, dunque, “essenza di ogni ente in quanto tale”] è però solo il riflesso di una direzione doppia, in sé chiaramente necessaria, del filosofare: 1. verso l’essenza universale dell’ente, 2. verso l’ambito particolare dell’ente. 1. L’essenza universale dell’ente: ciò che in generale rende l’ente ente, a prescindere se questo ente sia un animale, una pianta, un uomo, una stella, un triangolo, una sedia, un numero o un Dio. […] La domanda sull’ente in quanto tale, oñn Œ ‘n. […] 2. Dove un certo ente determina tutto il resto all’interno di questa totalità, ciò che al modo più eccellente domina fino in fondo e determina questa totalità dell’ente: timiËtaton gönoj. Questo è ciò che parimenti è cercato11.

2. Heidegger e i paradigmi esegetici dell’univocità Da uno sguardo anche sommario alla complessa storia esegetica intorno alla statuto della filosofia prima emergono piuttosto distintamente le quattro strade esegetiche tradizionalmente più battute nell’intento di risolvere la duplicità tematica della prËth filosofÖa. In effetti, è solo tenendo conto di queste traiettorie portanti, che fanno 10 11

Pml, pp. 28-29. GA 28, p. 25.

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da sfondo al vario articolarsi delle specifiche ed in certi casi profondamente divergenti esegesi, che si apprezza il carattere di rottura con cui si annunciano le letture heideggeriane sulla metafisica aristotelica. a) Il paradigma storico-genetico Sebbene storicamente alquanto recente, un percorso che ha riscosso notevole credibilità, ma contro cui Heidegger si pronuncia espressamente mettendone in risalto la sterilità in varie occasioni nel corso degli anni Venti, quando esso si afferma sulla scena degli studi aristotelici, assume la Metafisica come il risultato di un accorpamento di testi appartenenti a momenti o tappe diverse della vita speculativa di Aristotele. Le varie definizioni della metafisica sono considerate frutto dell’evoluzione di pensiero dello Stagirita a partire dagli esordi nell’accademia platonica. Questa via, che si fa forte anche dell’ausilio della scienza filologica ed ancora oggi in parte attuale, corrisponde ad una tendenza esegetica di massima storicamente ben databile. È la posizione di Werner Jaeger e delle letture che maturano entro l’ambito del paradigma storico-genetico, in auge per almeno tutta la prima metà del XX secolo. Questa linea interpretativa svuota di significato, in realtà, la questione della duplice determinazione della prËth filosofÖa, perché punta proprio sull’evidenza della contraddizione fra le due definizioni tematiche per dimostrare che non ha senso tentare di ricostruire il contenuto della Metafisica secondo il criterio dell’unità speculativa dell’opera: Non è lecito considerare come unità i brani raccolti nel corpus metaphysicum, e porre a base del loro confronto una categoria comune, ottenuta facendo la media di elementi affatto eterogenei 12.

La presunta unitarietà della Metafisica è, infatti, per Jaeger solo una superficiale apparenza, risultato dell’introduzione di una coerenza, di una connessione esteriore fra le varie determinazioni della filosofia prima all’interno di una collezione di trattati di epoche diverse ed opposto orientamento, scaturiti nel corso di uno sviluppo di pensie12

W. Jaeger, Aristotele. Prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale, trad. it. di G. Calogero, Sansoni, Milano 2004, p. 223.

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Aristotele dopo Heidegger

ro in costante evoluzione. In quest’ottica, quindi, viene meno l’idea che il progetto investigativo della prËth filosofÖa rappresenti un programma d’indagine chiaro e definito, che permane nel tempo secondo identiche o similari coordinate di ricerca, senza virate o aggiustamenti di tiro radicali. Fittizia non è pertanto solo l’unità letteraria dell’opera, ma ancor più l’unità filosofica13. In alcuni punti del suo lavoro, Jaeger ammette comunque che Aristotele possa avere posto mano, nell’ultimo periodo della sua attività, al materiale della Metafisica, rielaborandolo e permeandolo di nuove determinazioni, cercando di eliminare le incongruenze fra ciò che risale alla prima fase teologica della sua speculazione (la Urmetaphysik dei libri A, B, K, L, N) e la fase posteriore delle entelechie immanenti (libri Z, H, Q, M) con la connotazione universale della filosofia prima come indagine sull’ente in quanto tale (libri G, E). Ma se l’ipotesi fosse corretta, se Aristotele avesse realmente curato un riordino della materia, ammettendo un’evoluzione della sua speculazione, le contraddizioni si trasformerebbero in un pesante atto di accusa, quasi a dire che lo Stagirita non si sarebbe avveduto delle incoerenze o che il suo intento sarebbe arenato in una resa specula13 Vale la pena ricordare l’osservazione di Leszl sulla lacuna concettuale del metodo esegetico jaegeriano. Secondo Leszl la linea interpretativa storico-genetica è autocontraddittoria, in quanto se da un lato sostiene l’impossibilità di rintracciare un’unità di vedute costante nel tempo entro il pensiero dello Stagirita per via dell’evoluzione delle sue posizioni, dall’altro cerca essa stessa di riportare ad unità e coerenza il pensiero aristotelico, proprio appellandosi al criterio dell’evoluzione (cfr. W. Leszl, Aristotle’ s Conception of Ontology, cit., p. 25). Questa obiezione coglie bene la debolezza della posizione jaegeriana. Da un lato Jaeger asserisce che la “contraddizione” sarebbe solo il frutto di una sovrapposizione indebita fra le due definizioni della metafisica (come scienza dell’ente in quanto tale e come scienza dell’ente divino) che non sarebbero coeve perché “non sono risultate da un unico atto di creazione spirituale” (W. Jaeger, Aristotele. Prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale, cit., p. 294). Dall’altro lato egli imputa, però, proprio ad Aristotele la responsabilità della contraddizione, a dispetto della tesi dell’evoluzione di pensiero dello Stagirita: “Questa determinazione dell’essenza della metafisica operata solo per mezzo del suo oggetto, l’essere immobile e trascendente, la rende d’altronde solo una scienza particolare accanto alle altre. Mentre essa, in quanto scienza universale dell’essere come tale, era posta in netto contrasto con le altre scienze, indaganti solo una specie determinata dell’essere […], qui [scil. in Met. E 1, 1026a19] è essa stessa solo la conoscenza della specie più eminente dell’essere. […] La contraddizione è innegabile, e già lo stesso Aristotele l’ha notata. […] La nota marginale [scil. secondo Jaeger Met. E 1, 1026a23-32 risalente all’ultimo periodo dell’evoluzione] non elimina la contraddizione, ed anzi la rende ancora più evidente” (ibid., pp. 292-293).

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tiva di fronte alla difficoltà del suo progetto investigativo: Potrebbe nascere il sospetto che l’¢porÖa, insieme con la l⁄sij, la quale presenta in modo così evidente l’aspetto della ricapitolazione sommaria, non risalisse affatto ad Aristotele, se essa non si trovasse anche nella redazione di K 8 e non corrispondesse al dato di fatto della contraddizione che vi sussiste. Non rimane perciò che ammettere che il filosofo non ha potuto risolvere l’aporia e che in ogni modo essa gli si è presentata solo dopo che aveva già fuso insieme le due redazioni14.

È chiaro che questa linea di lettura è per se stessa in rotta di collisione con la tesi heideggeriana secondo cui il senso del progetto aristotelico prende luce precisamente dalla duplicità dell’interrogazione metafisica, a prescindere dalla consapevolezza stessa di Aristotele: in questa “peculiare connessione” di ontologia e teologia si consuma qualcosa di decisivo, tale da decretare le sorti della tradizione metafisica; in essa si annidano “fondamenta nascoste e non ancora dissotterrate”, che è necessario portare in superficie “per decidere che cosa in sostanza accadde” all’origine della tradizione metafisica15. Proprio sollevando la questione se la filosofia autentica secondo Aristotele sia solo ontologia o solo teologia o entrambe insieme16, Heidegger si chiede: Ciò che viene ricercato sotto la denominazione “teologia” si trova realmente nell’essenza della filosofia, concepita in maniera totale e radicale? O ciò che compare in Aristotele come teologia non è altro che un residuo del suo periodo giovanile? È essa la metafisica antica, e l’ontologia quella nuova? E c’è stata una evoluzione dall’una all’altra? Questi problemi non si possono risolvere unicamente con un’in14 Ibid., pp. 293-294. Questo passaggio dell’esegesi jaegeriana, a mio avviso, non può non spingerci a riflettere su un punto molto preciso: se Aristotele è intervenuto con la definizione della filosofia prima come scienza dell’ente in quanto tale per saldare le due redazioni, i due blocchi tematici e conferire unità speculativa al suo progetto, senza rinunciare al carattere teologico della prima scienza neppure in E, che con G dovrebbe fungere da anello di raccordo della catena, probabilmente allora E ci rivela la pista da battere, suggerendoci che per Aristotele la caratura teologica della prËth filosofÖa è essenziale per il costituirsi della metafisica rispetto alla scienza fisica tanto quanto la caratterizzazione universale ontologica, cui non può semplicemente giustapporsi, così come anche Heidegger sottolinea. 15 Cfm, pp. 61 e 58. 16 “La filosofÖa è qeologikª soltanto per avere una conclusione? Oppure la filosofia è o ontologia o teologia? O entrambe le cose insieme?” (Pml, p. 29).

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terpretazione storico-filologica – al contrario, pure quest’ultima ha bisogno di venire guidata da una comprensione dei problemi, che sia all’altezza di quanto ci è stato tramandato. E una tale comprensione noi dobbiamo prima procurarcela17.

In realtà, il metodo storico-genetico, che incentra la sua esegesi sulla ricostruzione dell’evoluzione speculativa dello Stagirita, poggia su una base fragile, perché quale punto di avvio della ricerca filologica assume implicitamente e scontatamente, come fosse un dato già di per se stesso evidente, una certa comprensione filosofica: Il problema dell’evoluzione filosofica di Aristotele è stato a lungo trascurato, e non senza ragione perché le basi su cui discuterne sono tutt’altro che solide. […] Il problema dell’evoluzione è stato sollevato da Werner Jaeger. […] Esiste qui una difficoltà che sfugge allo stesso Jaeger, poiché la sua interpretazione filosofica resta chiusa entro limiti troppo angusti. […] Finché tale questione [scil. la questione di come Aristotele lasci in piedi ad esempio quelle che all’apparenza sono contraddizioni insanabili] non sarà affrontata e chiarita, la ricostruzione dell’evoluzione resterà priva di una base affidabile. L’unica via rimane quindi quella di un’effettiva interpretazione filosofica delle indagini aristoteliche18.

Del resto, sin dall’inizio, ancora nel 1922, prima quindi della comparsa dei risultati delle ricerche di Jaeger in forma compiuta nell’Aristoteles del 192319, Heidegger, proprio cominciando il suo primo vero corso specifico su Aristotele, si pronuncia senza mezzi termini: Per l’interpretazione filosofica il risultato della ricerca jaegeriana è importante sotto un aspetto negativo: non è possibile comporre le 17

Ibidem. Cfa, p. 232-233. 19 Heidegger conosce il volume jaegeriano del 1912 (Studien zur Entstehungsgeschichte der Metaphysik des Aristoteles, Weidmann, Berlin 1912) dove si annunciano già le linee portanti dell’esegesi storico-genetica. Anni dopo, nel 1939, dirà che esso è anzi “molto più corretto” dell’opera del 1923: “[U]n libro, questo [scil. l’Aristoteles dello Jaeger], che con tutta la sua erudizione ha l’unico difetto di pensare la filosofia di Aristotele in modo assolutamente non greco, scolastico-moderno e neokantiano; molto più corretto, perché meno toccato dai ‘contenuti’, è invece l’Entstehungsgeschichte der Metaphysik des Aristoteles” (Sgv, p. 197). Inoltre ha ben presente anche l’esposizione di Zeller Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung che presenta la filosofia aristotelica secondo il criterio della sua evoluzione diacronica. 18

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trattazioni in modo violento sulla base di un sistema della metafisica o addirittura dell’intera filosofia20.

b) Il paradigma critico-filologico Un’altra linea interpretativa, da cui la posizione stessa di Jaeger prenderebbe le mosse, tende ad evidenziare come la Metafisica sia l’esito di una ricostruzione post-aristotelica. Diverse incongruenze scaturirebbero dal fatto che alcune parti dell’opera sarebbero vere e proprie interpolazioni di altri autori e la Metafisica, quindi, si costituirebbe come testo unitario solo grazie ad un lavoro redazionale di differente paternità, e comunque non per intero aristotelico. Conferma di questi interventi non aristotelici sarebbero, appunto, le varie contraddizioni presenti nel testo. Fra esse, in primo luogo, risalta quella che sorge dall’accostamento improprio, soprattutto nei libri E e K, delle due definizioni fra loro stridenti della prËth filosofÖa come scienza dell’ente in quanto tale e come scienza dell’ente divino. In quest’ottica interpretativa, si imputa la difficoltà circa la possibilità di una definizione non contraddittoria della metafisica aristotelica al disordine editoriale attraverso cui la Metafisica è stata trasmessa e si dirime la questione espungendo i passi o i libri ritenuti spuri o di dubbia paternità aristotelica. Dagli interventi basati su una analisi di natura prettamente filologica si distinguono le letture basate su un procedimento speculativo-argomentativo, che mira a salvaguardare la coerenza concettuale interna della Metafisica, pur sfociando in esiti di tipo filologico attraverso l’esclusione di quel che è ritenuto spurio. Ai tempi in cui Heidegger comincia a muovere i primi passi nel suo lavoro di comprensione della filosofia aristotelica, uno dei casi più noti e significativi di quest’ultimo modo di procedere è rappresentato dall’esegesi di Paul Natorp. Essa è per Heidegger altrettanto fuorviante come la posizione jaegeriana. È interessante notare che Heidegger è sempre ben consapevole del fatto che la Metafisica non si possa considerare espressione di una forma di pensiero sistematica: 20 GA 62, pp. 5-6. Quasi a dire: leggere la filosofia aristotelica imponendole l’ordine secondo quella pretesa di rigore sistematico con cui si pratica la metafisica come disciplina scolastica è una violenza esegetica. La posizione di Jaeger, dunque, indica il modo in cui non si deve procedere.

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Quanto Aristotele ha compiuto in direzione della filosofia autentica, ci è stato tramandato in singoli corsi e trattati. In essi troviamo sempre nuove tracce e impostazioni del filosofare autentico, ma non un sistema di Aristotele che solo più tardi è stato inventato21.

Anzi, come già visto, la pretesa di ridurre il pensiero di Aristotele alla forma di una dottrina di tipo scolastico, secondo Heidegger, corrisponde ad un totale fraintendimento della filosofia aristotelica, che accade nella misura in cui anche la speculazione aristotelica “cede al destino cui nessuna filosofia sfugge: diviene filosofia di scuola”22. Ma Heidegger ritiene altresì che la mancanza di sistematicità della Metafisica non si possa spiegare solo adducendo come causa il fatto che il testo è frutto di un ordine editoriale post-aristotelico. È la concezione aristotelica stessa che presenta la filosofia prima come una ricerca, senza consegnarla in modo definitivo alla maniera di una compiuta esposizione di una scienza apoditticamente evidente: Questa stessa scienza, infatti, non è semplicemente evidente; non è un possesso diretto, come la conoscenza quotidiana delle cose e di noi stessi. La prËth filosofÖa è l’ôpistªmh zhtoumönh: la scienza ricercata, la quale non può mai diventare possesso saldo, che, in quanto tale, non avrebbe che da venire trasmesso; essa è piuttosto la scienza che può venire raggiunta soltanto se viene ogni volta ricercata di nuovo; essa è precisamente un rischio, un “mondo capovolto”; il che significa che la stessa vera comprensione dell’essere deve sempre venire riconquistata23. 21

Cfm, p. 50. Ibidem. È utile riportare i punti salienti del discorso heideggeriano in merito: “Con Platone e Aristotele la formazione di scuola divenne inevitabile. Quali effetti produsse? L’interrogare vivo e vitale si spense. […] Ciò significa che quanto della filosofia platonica e aristotelica ci è stato tramandato, l’intero patrimonio di trattati e dialoghi, tutto questo è sradicato e non viene più colto nell’autentica radice da cui è sorto; e tuttavia, ora sussiste un ricco patrimonio filosofico con cui i posteri e gli epigoni devono in qualche modo fare i conti” (ibidem). Nel tentativo di rendere questo patrimonio il più possibile usufruibile, si ricorre ad una sistematizzazione che, nelle parole di Heidegger, non può non risultare in buona misura arbitraria ed illegittima: “Tutto ciò che aveva avuto origine da questioni fra loro diversissime, apparentemente senza nessi, ma intrinsecamente riferite a una comune radice, viene ora messo insieme secondo il criterio delle diverse discipline in relazione all’insegnamento e all’apprendimento. La connessione originaria viene sostituita dalla sistemazione all’interno di materie e discipline scolastiche” (ibid., p. 51). 23 Pml, p. 26. Qui vi è probabilmente anche un’allusione polemica non solo al concetto scolastico di metafisica, ma anche all’impostazione husserliana della fenomenologia 22

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Tuttavia, tutto ciò non vuol dire affatto secondo Heidegger che non sia possibile scorgere nel progetto aristotelico una precisa concezione di tipo ontologico a partire dalla quale si determina la divaricazione tematica dell’indagine metafisica: In quanto porta a rappresentazione l’ente in quanto ente, la metafisica è in sé, in modo ad un tempo duplice e unitario, la verità dell’ente nella sua universalità e nella sua espressione suprema. Nella sua essenza essa è dunque ad un tempo ontologia in senso stretto e teologia. Questa essenza onto-teologica della filosofia vera e propria (prËth filosofÖa) deve essere fondata sulla modalità in cui l’‘n in quanto ‘n ad essa si dischiude portandosi nell’aperto 24.

Anticipando qui una sequenza di passaggi su cui sarà necessario soffermarsi successivamente in modo più approfondito, qualcosa di ancora più originario si impone secondo Heidegger nell’impostazione dell’interrogazione metafisica nel pensiero greco e, in particolare, in Aristotele. È un certo modo tipicamente greco di concepire l’essere al modo dell’ente e l’ente, ancora, in modo duplice a restituire per Heidegger le ragioni ultime della biforcazione della domanda metafisica come domanda sull’ente in quanto tale e parimenti come domanda sull’ente che più degli altri è autenticamente essente: L’essente e il suo essere sono la stessa cosa? In che consiste la loro differenza? Cos’è, per esempio, in questo pezzo di gesso l’essente? Già la domanda è di per sé ambigua, in quanto la parola “essente” può assumere due significati, come in greco, t’ ‘n. L’essente significa anzitutto ciò che, nei singoli casi, è essente: nel caso specifico, questa massa di un grigio tendente al bianco, di una forma determinata, leggera, friabile. L’essente significa, in secondo luogo, ciò che, per così dire, “fa” sì che la cosa in questione sia un essente anziché non essente; ciò che nell’essente, se è un essente, costituisce il suo essere. In conformità di questa doppia significazione del termine “essente”, il greco t’ ‘n rivecome erste Philosophie della coscienza apoditticamente evidente. 24 Sgv, p. 330. Cosa, peraltro, che secondo Heidegger non vale solo per Aristotele ma per tutta la tradizione metafisica da Platone in poi e in modo quanto mai evidente dentro la conversione cristiana della filosofia greca. A partire da una ben precisa concezione dell’essere come ente sommo e di questo ente sommo come Dio creatore accade, infatti, lo slittamento del significato dell’espressione “metafisica” dal significato “tecnicoeditoriale” a quello “contenutistico” entro una definita articolazione del nesso Dio-mondo e, dunque, dei rapporti fra scienza ontologica e scienza teologica.

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ste spesso il secondo significato, indica cioè non l’essente, ma il “fatto di essere”, l’essentità, l’essere-essente, l’essere. Per contro, “l’essente”, nel primo senso, designa le stesse cose essenti, prese singolarmente o nel loro insieme, in altri termini: tutto ciò che è in rapporto ad esse e non alla loro essentità, l’oŸsÖa 25.

Ora questo stesso duplice andamento, questa duplice determinazione è per intero riscontrabile nella nozione di oŸsÖa che Heidegger costantemente indica come il nome greco dell’essere26. Nell’oŸsÖa, infatti, è già racchiusa la medesima duplicità che caratterizza la domanda metafisica: da un lato, oŸsÖa dice l’ente nel suo significato fondamentale, quello cui tutti gli altri si riferiscono; dall’altro lato, oŸsÖa indica ciò che dell’ente, di ogni ente, è l’essenza27. Secondo la sua ricchezza semantica, in un senso ben determinato, oŸsÖa nomina, quindi, l’ente raccogliendone la polisemia sotto il riferimento a ciò (la sostanza appunto) che è primo quanto al suo proprio modo d’essere giacché alcunché di determinato, per sé necessario e sussistente. In tal modo interrogare sull’ente significa an25

Im, p. 41. Cfr. GA 31, p. 45 ss., in cui Heidegger molto dettagliatamente illustra come oŸsÖa sia la “parola fondamentale” con cui l’antichità si esprime sull’essere, mettendo in evidenza che nella sua polivocità oŸsÖa indica: 1. “l’ente semplicemente presente” (das vorhandene Seiende), ossia – potremmo dire – qualcosa come “questo uomo qui”, “questo tavolo qui”, l’ente come un alcunché di determinato per sé sussistente, che è altresí il significato più proprio di oŸsÖa in quanto sostanza prima (cfr. Cat. 2a11 e ss. e 2b15 e ss.); 2. “l’ente in quanto tale (das Seiende als solches)”, cioè in qualche modo l’oŸsÖa secondo il II cap. di Met. G (1003a33 e ss.) in cui essa compare come il significato primo dell’ente che è un pollacÓj leg“menon; 3. “l’enticità dell’ente (l’essere) (die Seiendheit des Seienden, das Sein)” tanto al modo della forma propria di ogni singola sostanza o ente determinato in quanto quell’ente specifico determinato (Socrate e non gatto, tavolo e non sedia), quanto al modo di quello che fa sì che ogni ente in quanto tale, dunque l’ente considerato universalmente, sia “ente”. 27 Cfr. Met. G, 1003a33 ss. e Met. D, 1017b21 ss., in cui dopo avere definito l’oŸsÖa come l’essenza (t’ tÖ hín eçnai) di qualcosa, si afferma in modo inequivocabile che “ne deriva dunque che secondo due modi si dice la sostanza, il sostrato ultimo che non si dice più di altro, e quel che, essendo un alcunché di determinato, sarebbe anche separato; questa è la forma (morfª) e l’essenza (eçdoj) di ciascuna cosa”. Dunque, oŸsÖa indica l’ente “in senso forte”, ciò che è non per altro, ma per sé secondo la chiara indicazione, ad es., di Met. Z, 1028a25 ss., in cui Aristotele afferma che ad “apparire maggiormente enti” sono sostanze come ciò che cammina o ciò che è sano, ossia ogni soggetto (ÿpokeÖmenon) determinato (Êrismönon) ed individuale (t’ kaq' õkaston). Cfr. anche l’incipit di Met. Z (1028a14-15) dove l’essenza è indicata come il primo significato dell’oŸsÖa, indicazione, questa, che funge quasi da Leitmotiv dell’intero libro. 26

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che procedere ad uno “studio della sostanza” 28. Tale indagine ha il carattere universale dell’ontologia, della scienza dell’ente in quanto tale, nella misura in cui sotto la specifica dizione di oŸsÖa come sostanza è racchiuso il riferimento a tutta la molteplicità e varietà di oŸsÖai in quanto tali, senza che la loro materialità o immaterialità, corruttibilità o eternità istituisca differenza d’essenza quanto all’essere sostanza. Nella sua duplicità semantico-concettuale oŸsÖa è, però, anche primariamente forma e, quindi, interrogare sull’ente in quanto tale significa interrogare sull’essenza dell’ente, sul principio che definisce, determina l’ente nel suo essere ente. Ma tanto la prima via, che potremmo dire “usiologica”, quanto la seconda, che guarda all’aspetto formale dell’ente, ospitano al proprio interno una chiara direzione “teologica”. Una dottrina della sostanza implica come sua condizione di possibilità che essa sia in grado di includere nella propria osservazione la sostanza sovrasensibile. Una ricerca che mira all’essenza dell’ente punta dritto ad un ente – ed ente secondo quel significato forte in cui qualcosa “appare maggiormente ente”, ossia come oŸsÖa – che possa, in virtù della sua forma, della sua essenza, dare conto di quel che ogni ente è solo quanto alla sua essenza. Questo tipo di ente è quel che, secondo Heidegger, Aristotele chiama timiËtaton gönoj e ¢kr“taton ‘n – espressioni tradotte per lo più come “l’ente autentico (das eigentliche Seiende)”, spesso anche nella forma superlativa “l’ente più autentico (das eigentlichste Seiende)”, “l’ente più essente (das seiendste Seiende)”. Questa stessa tessitura, poi, racchiude al proprio interno qualcosa di ancora più basilare ed in certo modo originario, che emerge già nel modo in cui la lingua greca secondo il significato quotidiano pre-filosofico usa l’espressione oŸsÖa. Varie volte Heidegger ricorda questo significato che trapassa nella 28

Cfr. Met. L, 1069a18: “Perà t¡j oŸsÖaj h` qewrÖa”. Del resto anche in Met. G, 1005a13 ss. si afferma espressamente che “è chiaro che, quindi, ad una sola scienza spetta esaminare l’ente in quanto ente e ciò che gli appartiene in quanto ente e che la medesima scienza teoretica verte non solo sulle sostanze ma anche su ciò che appartiene loro”. Tuttavia, anche spostare il baricentro dell’interrogazione metafisica aristotelica dall’ente alla sostanza non comporta significative modifiche nell’impianto onto-teologico; anzi, per certi versi, rende ancora più evidente il tenere insieme ciò che dovrebbe consegnarsi secondo il modo di una differenza irriducibile: l’universalità della sostanza come tale (la sostanza propriamente distinta in tre specie: sostanza sovrasensibile, sostanza sensibile eterna e sostanza sensibile corruttibile) e la particolarità della sostanza divina.

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lingua scientifico-filosofica; così si esprime già nel corso estivo del 1924 espressamente dedicato all’esplicazione dei concetti fondamentali della filosofia aristotelica: L’espressione oŸsÖa come termine fondamentale della ricerca aristotelica deriva da un’espressione che nella lingua naturale ha un significato corrente. […] Ma nell’oŸsÖa non è che il significato terminologico è scaturito da quello corrente che è scomparso, bensì in Aristotele, contemporaneamente, accanto al significato terminologico permane quello corrente. Ed esattamente oŸsÖa secondo il significato corrente vuol dire: “il patrimonio”, “i beni posseduti”, “gli averi”, “il podere”. Abbiamo la particolarità che i Greci considerano un ente determinato, cose esistenti come i beni posseduti, le suppellettili etc., come quel che esiste autenticamente. Se a questo punto seguiremo questo significato corrente, forse scopriremo allora che cosa i Greci in generale pensano con 29.

Quindi, la preziosa indicazione che la lingua greca custodisce nel suo dire quotidiano e che trapassa nel lessico concettuale filosofico è che oŸsÖa non dice solo l’esistere semplicemente, ma l’esistere in un certo modo, in modo autentico. Essa indica, cioè, il modo d’essere dell’ente o, come suggerisce Heidegger, “l’ente nel come del suo essere (Seiendes im Wie seines Seins)”30. Ed infatti aristotelicamente “sostanza” in senso primario, in quanto ÿpokeÖmenon, è sia l’ente determinato per sé sussistente sia l’eçdoj che indica l’essenza incorruttibile ed inseparabile dalla cosa, pena la perdita della cosa stessa31. Ciò significa che, nonostante la varietà delle sue accezioni, oŸsÖa rinvia sempre ad una necessità ontologica. Nelle parole di Heidegger, essa configura per un verso, in forza di questa necessità ontologica, l’ente come quel che è autenticamente, dunque ogni ente che è sostanza di contro all’ente che è accidente (ad esempio l’ente secondo gli schemi delle categorie). Per altro verso, rispetto alla molteplicità stessa usiologica – ed è qui la mossa interpretativa ulteriore di Heidegger –, oŸsÖa sta per quell’ente che è sempre presente (la sostanza eterna) rispetto all’ente contingente (la sostanza sensibile corruttibile), la cui 29

GA 18, p. 24. Altrettanto in GA 31, p. 51 e in Pff, p. 103. GA 18, p. 24. 31 Cfr. Met. Z, 1031b19-21 e 1032a4-6. 30

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caratteristica è di essere consegnato al ritmo del tempo come transeunte. È così che nella duplicità della filosofia prima si ripresenta in un certo modo la duplicità dell’oggetto indagato: l’universalità sotto cui si coglie la sostanza in generale e la particolarità sotto cui si consegna quella sostanza divina che non è peritura. Per questo, sin dall’inizio delle sue letture aristoteliche, Heidegger punta, per così dire, dritto al cuore della natura ontologica dell’oŸsÖa, sottolineando che nel concetto si consegna una concezione tipicamente greca dell’ente come ciò che è presente. In oŸsÖa la comprensione greca assume, quindi, l’ente (nel senso della sostanza) come “costante presenza (beständige Anwesenheit)” e l’ente divino (qeãon), l’¢kr“taton ‘n come quel che è costantemente presente in eterno. In questo modo l’essere dell’ente, l’essenza dell’ente, l’enticità stessa è considerata sotto il tratto della presenza: “Con oŸsÖa infatti non si pensa nient’altro che la presenza costante e nell’enticità è inteso proprio questo” 32. Sulla base di questa comprensione l’inizio greco-aristotelico della filosofia struttura duplicemente l’interrogazione metafisica. Si domanda sull’intero dell’ente, mantenendo l’interrogazione nella direzione che già orienta il pensiero dei primi fisiologi greci verso la totalità dell’esistente (f⁄sij). Ma si domanda anche sull’essenza (enticità) dell’ente interrogandosi sull’ente primo, supremo che per sua essenza è ciò che è massimamente presente in quanto incorruttibile. Come in un gioco di scatole cinesi, l’universalità si restituisce enigmaticamente nella particolarità, nella misura in cui l’ente divino, che è ente particolare rispetto alla totalità dell’ente, nella sua essenza è il modo in cui l’essenza dell’ente (in quanto tale), di ogni ente si consegna nella sua massima espressione. Ed è una restituzione enigmatica, nella misura in cui, come vedremo, fra l’ente divino ed il resto dell’ente, per così dire, rimane la frattura, la cesura netta che fa del qe“j un cwrist“n, un trascendente rispetto all’orizzonte dei f⁄sei ‘nta. Ritengo che Heidegger colga la tessitura ontologica greco-aristotelica, cui ho accennato, sin dai primi anni Venti, certamente già ai tempi delle Vorlesungen del semestre estivo del 1924 e del semestre invernale del 1924-2533, anni caratterizzati altresì da un inteso lavo32 33

GA 31, p. 52. Cfr. ad es. GA 19, pp. 221-225, in cui Heidegger esplica la doppiezza della filo-

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ro che punta a mettere in evidenza il tratto fenomenologico della speculazione aristotelica. È, dunque, ad una “radice comune”, ad una “connessione originaria” che la duplicità della prËth filosofÖa rinvia, e questa radice e questa connessione sono gli elementi intorno a cui la filosofia aristotelica si affatica nel suo duplice interrogare. Un’interpretazione come quella di Natorp, che sconfessa la doppiezza tematica dell’indagine metafisica in favore di una sua caratterizzazione solamente ontologica in linea con le concezioni proprie del neokantismo, per Heidegger non può chiaramente risultare soddisfacente. È il presupposto stesso da cui parte Natorp che ad Heidegger risulta inaccettabile: Sulla circostanza per cui questa duplice interpretazione del compito della filosofia prima comporta un’intollerabile contraddizione – poiché l’essere in generale, o in quanto essere (oñn a`plÓj o Œ ‘n), e un genere determinato dell’essere (‘n ti kaà gönoj ti) (1025b8 e 9) sono opposti che si escludono a vicenda –, non sembra essersi fatta fin qui chiarezza 34.

Anche se storicamente la non sistematicità dell’esposizione aristotelica consegna pressoché immediatamente alla morte di Aristotele la sua dottrina all’imbarazzo di non sapere trovare una precisa collocazione per essa entro la classificazione delle discipline filosofiche di età ellenistica, ciò non vuol dire per Heidegger che non sia possibile tornare indietro, quasi ripercorre la storia della metafisica in senso inverso verso la sua origine: Aristotele e quindi ogni filosofia rimangono per noi inaccessibili se non li superiamo in direzione delle loro origini e delle loro domande. […] Il compito è dunque quello di superare Aristotele; non in avanti, nel senso di un progresso, ma all’indietro, in direzione di un disvelamento che mostri più originariamente quel che da lui è stato pensato35.

Né appellandosi al disordine editoriale della Metafisica, né evidenziando la sua mancata sistematicità, né ancora rimarcando una presofia prima a partire dalla comprensione greca dell’essere come presenza. 34 P. Natorp, Tema e disposizione della “Metafisica” di Aristotele, ed. it. a c. di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1995, p. 65. 35 AMQ, p. 62.

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sunta assenza di ragioni di ordine ontologico è possibile dirimere la questione dello statuto della prËth filosofÖa. L’indicazione testuale della duplice definizione dei compiti della filosofia prima è, invece, tutta da preservare, a dispetto dei giudizi della tradizione esegetica che la considerano una confusione tematica, un’“insopportabile contraddizione”, un’“ingannevole alleanza tra teologia e metafisica” 36. Forte del suo assetto argomentativo, Heidegger non può non giudicare carente una posizione esegetica come quella di Natorp che dissolve l’aporia espungendo, perché a suo avviso spuri, proprio i due passaggi del primo capitolo del libro E (1026a18 e 1026a21) che introducono la determinazione teologica della filosofia prima. Secondo Natorp la caratterizzazione teologica compare in modo assolutamente contraddittorio rispetto a quanto asserito in G e, altresì, entro il contesto generale di E 37. Attraverso un serrato ragionamento intorno alla natura universale della prËth filosofÖa, Natorp si prodiga nel mettere costantemente in luce che la filosofia prima si dà come “scienza teoretica fondamentale” rispetto alle scienze teoretiche particolari secondo il compito di “dare conto” della forma, dell’essenza che è propria dell’ente in quanto tale. Aristotele non avrebbe elaborato alcuna teologia nella Metafisica e, là dove nel Corpus (ad esempio anche nei Meteorologica o ancora nella stessa Metafisica) ricorrono espressioni come qeol“goj, qeologÖa o qeologeãn, esse devono intendersi come sinonime di muqol“goj, muqologÖa e muqologeãn con chiaro riferimento alla visione religiosa politeista del tempo. I due passi del primo capitolo del libro E (1026a18 e 21), che dichiarano espressamente la natura teologica della filosofia prima, sono quindi per Natorp un’interpolazione, che “interrompe in modo inopinato la coerenza del contesto” 38. Provandosi anzi a mostrare come la scienza suprema aristotelica, la filosofia prima, in quanto scienza universale che ha di mira esclusivamente l’ente in quanto tale, non tematizzi affatto l’ente divino quale suo specifico oggetto d’indagine, 36

P. Natorp, Tema e disposizione della “Metafisica” di Aristotele, cit., pp. 65 e 76. Natorp non solo finisce per considerare un’interpolazione anche i capp. 2-4 di E, ma ritiene che essi non siano da attribuire alla “mano” dello Stagirita (cfr. ibid., pp. 102-106). 38 Ibid., 67. 37

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per assumerlo caso mai come un oggetto fra gli altri, come ente, rientrante nell’orizzonte tematico della totalità dell’ente cui la filosofia prima si rivolge, Natorp conclude: [L]’identificazione con la “teologia” non sta in piedi in nessun modo. Le frasi che vi fanno riferimento (1026a18, 21) vanno soppresse come glosse di un anonimo aggiunte al testo in un momento successivo. Una volta espunte, il contesto diventa chiaro e intellegibile sia sul piano della forma sia su quello del contenuto39.

In apparenza, rispetto a valutazioni molto esplicite contro Jaeger, Heidegger si riferisce in modo meno diretto alla posizione di Natorp40. Di solito si limita a citare il testo di Natorp marginalmente all’interno di una considerazione più generale sull’insufficienza e l’esteriorità di un’interpretazione filologica della filosofia aristotelica. In altri casi registra l’avversione del kantismo e della scuola di Marburgo contro lo Stagirita interpretato in maniera “falsata”, “fuorviante”: Il kantismo non si limitò a [interpretare] unilateralmente Kant, ma, con la stessa unilateralità, finì per guastare la concezione della filosofia greca in generale, portando a un’interpretazione falsata di Aristotele così articolata: Kant è un teorico della conoscenza; l’antitesi idealismo-realismo è già presente nel mondo greco; il realismo di Aristotele 39

Ibid., p. 72. A Natorp Heidegger è debitore della chiamata a Marburgo in qualità di professore straordinario. Safranski mette in evidenza nella sua biografia con quanto entusiasmo Natorp accogliesse il compendio stilato da Heidegger sullo stato delle sue ricerche aristoteliche, il cosiddetto Natorp-Bericht, che, come è noto, anticipa le linee guida dell’ontologia fondamentale di Essere e tempo (cfr. R. Safranski, Heidegger e il suo tempo, trad. it. di N. Curcio, Longanesi, Milano 1996, pp. 156-157). Secondo quanto racconta anche Gadamer (cfr. H.-G. Gadamer, Maestri e compagni nel cammino del pensiero. Uno sguardo retrospettivo, trad. it. di G. Moretto, Queriniana, Brescia 1980, p. 55), Heidegger nutre profondo rispetto nei confronti di Natorp, come testimonia, fra l’altro, il Nachruf con cui Heidegger apre nel 1924 la Vorlesung sul Sofista platonico (cfr. GA 19, pp. 1-5: “È difficile per noi accogliere l’eredità del suo spirito, lavorare con la stessa obiettività e sostanzialità”). Reale nota che “Natorp, nelle sue ricerche […], ha imposto un problema nella sua duplice valenza storica e teoretica, che, nella direzione storica, verrà sviluppato da Jaeger, mentre, in quella teoretica, verrà sviluppato da Heidegger” (G. Reale in Prefazione a P. Natorp, Tema e disposizione della “Metafisica” di Aristotele, cit., p. 9). Gli esiti dei due sviluppi sono del tutto opposti: in chiave storica con Jaeger si contesta e mette in stallo la duplicità della prËth filosofÖa, in chiave teoretica con Heidegger se ne afferma l’essenzialità. 40

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è ingenuamente non scientifico, tanto più che fu preceduto da Platone, rispetto al quale sarebbe uno scadimento. Questa concezione è ancora dominante – oggi in particolare 41.

E, quindi, il monito: il kantismo non deve “fuorviare la corretta interpretazione”42. Nondimeno, è ben chiaro che Heidegger considera non solo pienamente autentico il libro E, ma essenziale e fondamentale la caratterizzazione teologica della prËth filosofÖa consegnata espressamente nel primo capitolo del libro. Pertanto una lettura come quella di Natorp che mette in risalto l’uso dell’espressione “teologia” (e di quelle affini in lingua greca: “divino”, “dio”) in accordo con la visione politeista del tempo è, per Heidegger, del tutto insoddisfacente perché non coglie le ragioni della mossa speculativa caratteristica della filosofia prima nel suo prendere di mira l’ente divino: Lo qeãon e lo qei“taton non hanno nulla a che fare con la religiosità, ma significano piuttosto il timiËtaton ‘n (cfr. 1064b5), l’essere autentico, ovvero un concetto ontologico neutrale. La qeologÖa (cfr. 1064b3) è la scienza dell’ente autentico, prËth filosofÖa (E 1, 1026a24), la scienza dell’essere 43. 41 Cfa, p. 234. Come anche nella trascrizione di Hermann Mörchen: “Con Brentano comincia l’influenza sistematica della filosofia aristotelica, peraltro ostacolata dal kantismo. […] Il principale centro di opposizione ad Aristotele era rappresentato da Marburgo, dove nondimeno si produssero opere importanti sull’argomento” (ibid., p. 386). Già nel semestre invernale del 1921/22, nel primo corso heideggeriano su Aristotele, non manca un riferimento decisamente polemico nei confronti della posizione neokantiana sullo Stagirita (cfr. IfA, p. 43). 42 Cfa, p. 234. Sul confronto heideggeriano con Natorp, Jaeger ed anche con Brentano e Braig come autori all’origine dell’interpretazione heideggeriana della metafisica aristotelica cfr. E. Berti, Aristotele nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 1992 (cap. II); E. Berti, “La Metafisica di Aristotele: ‘onto-teologia’ o ‘filosofia prima’?”, Rivista di Filosofia neo-scolastica 2-4 (1993), pp. 256-282 (in partic. § II, pp. 260-267). 43 Cfa, p. 269. Nella disamina heideggeriana del significato aristotelico accordato al qe“j ed alle espressioni da esso derivate si apprezza lo sviluppo in chiave teoretica da parte di Heidegger del problema posto da Natorp. Nella Vorlesung del 1924/25 l’impostazione heideggeriana della questione sembra, ad es., costruirsi dal punto di vista formale in modo del tutto corrispondente a quella di Natorp. In questo corso di lezioni, la difesa del duplice tratto interrogativo della metafisica aristotelica si incentra, infatti, sull’analisi da parte di Heidegger del concetto di qeãon come ciò che, quanto al suo modo d’essere, si costituisce come l’essere ¢èdion in contrapposizione all’essere ôn cr“nJ del corruttibile (cfr. GA 19, pp. 33-34). Questa analisi è, a tutti gli effetti, il contraltare interpretativo, la risposta heideggeriana all’esame dell’uso di qe“j e qeologÖa in Aristotele

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Altrettanto improprio, come già detto, è secondo Heidegger ogni tentativo di appianamento della difficoltà imponendo alla materia della Metafisica (la natura della filosofia prima) sistematicità e soprattutto unitarietà nello scioglimento così dell’ambivalenza stessa della prËth filosofÖa ricompattata sotto la forma di una problematica investigativa univoca o di tipo ontologico o di tipo teologico: “La Metafisica di Aristotele è una raccolta di singoli trattati ed è sbagliato ricondurla forzatamente a una problematica unitaria” 44. La duplicità della metafisica non nasce da una svista, da un disordine, da una incongruenza di tipo editoriale, ma “[i]l fatto che in Aristotele le due accezioni [scil. della filosofia prima] sussistano ancora assieme ha le sue ragioni nella problematica della filosofia antica in generale” 45. c) I paradigmi esegetici dell’univocità nella tradizione della metafisica I due procedimenti appena illustrati costituiscono le due vie che segnano la ripresa del puntuale lavoro esegetico sulla Metafisica fra la fine dell’Ottocento ed i primi del Novecento, sotto l’impulso della filologia che, dalla metà del XIX secolo, si afferma come strumento integrante fondamentale dell’elaborazione interpretativa46. Sebbene condotto da Natorp. Ma se formalmente le due letture sembrano corrispondersi nel considerare fondamentale un’esatta comprensione di questi concetti entro il discorso aristotelico, dal punto di vista contenutistico, di contro, presentano divergenze così profonde da non lasciare dubbi sul fatto che per Heidegger la posizione esegetica di Natorp non è affatto plausibile. 44 Cfa, p. 300 (corsivo mio). 45 Ibid., p. 301. Già nel 1922, nel primo corso tematico su Aristotele sopra ricordato, Heidegger solleva espressamente la questione di come sia da intendere il concetto del divino. Non solo ritiene necessario liberarsi dalle false interpretazioni, ma giudica indispensabile che si comprenda l’orizzonte filosofico entro cui in Aristotele si apre il riferimento ad una realtà divina. Dunque, solo in modo problematico accenna alla posizione di Natorp che considera la scienza teologica di Phys. VIII, Met. XII e Eth. Nic. X “uno stadio prescientifico della riflessione” (GA 62, p. 99). 46 Non c’è dubbio che l’edizione critica della Metafisica ad opera del Bekker del 1831, che è la prima vera edizione critica del testo, contribuisce alla ripresa di interesse per la questione della filosofia prima in Aristotele, orientando la storiografia anche sul piano dell’interpretazione filologica. Anche Heidegger ricorda il contributo allo studio della filosofia aristotelica dato dalla ricerca storico-filologica sviluppatasi entro l’Accademia delle Scienze berlinese e considerata da Heidegger stesso, ancora nel 1921, “fruttuosa”: “[S]i è fatta strada, dal secolo scorso ad oggi, una fruttuosa ricerca storico-filologica

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la grande stagione di studi critico-filologici sull’opera aristotelica della prima metà del Novecento si lasci apprezzare per la serietà del suo impegno, da essa si distingue con nettezza la forza speculativa che anima i paradigmi esegetici dell’univocità sviluppatisi nella tradizione della metafisica fra l’epoca tardo-antica e la Scolastica tardorinascimentale e poi rifioriti a cavallo fra il XIX ed il XX secolo. Sono, infatti, le ragioni intrinseche alle intenzioni speculative che li sorreggono a contrapporre il canone storico-genetico e quello critico-filologico ai due procedimenti esegetici di più complessa articolazione e di più antica origine che, in particolare nella fortunata forma del commento filosofico, si sviluppano durante la storia della tradizione speculativa della metafisica. Questi due ulteriori canali corrispondono alle due vie metodiche che dall’antichità ad oggi formano, per così dire, l’ossatura della storia esegetica della Metafisica. La loro tesi di fondo si può così riassumere: la trattazione della Metafisica si lascia ricomporre da sé in un progetto speculativo unitario, benché complesso, tale da legittimarne il valore di scienza suprema. Pur confluendo nel medesimo risultato, ossia pur essendo entrambe le vie espressione della prospettiva interpretativa dell’univocità tematica della metafisica aristotelica, il loro approccio metodico le individua abbastanza precisamente. Un percorso esclude a monte, sin dall’inizio, il doppio riferimencondotta sul testo aristotelico. […] Dall’asse di questa ricerca filologica si dipartì una linea laterale con Trendelenburg, il cui allievo Brentano rivestì un significato decisivo per la filosofia contemporanea in tutte le sue correnti principali (ad eccezione della scuola di Marburgo). Da questo giudizio sparisce immediatamente ogni apparenza di esagerazione se solo si cessa di osservare lo sviluppo della filosofia moderna dall’esterno […] e si guarda invece ai problemi, alle forze e ai motivi effettivamente operanti” (IfA, pp. 45-46). Da notare è il riferimento a Brentano, il cui volume su Aristotele (cfr. F. Brentano, Sui molteplici significati dell’essere secondo Aristotele, ed. it. a c. di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1995) ha guidato il giovane Heidegger nello studio della filosofia aristotelica, come è stato in varie occasioni ben analizzato da Franco Volpi (cfr. F. Volpi, Heidegger e Brentano. L’aristotelismo e il problema dell’univocità dell’essere nella formazione filosofica del giovane Martin Heidegger, Cedam, Padova 1976; F. Volpi, Heidegger e Aristotele, Daphne, Padova 1984; F. Volpi, “Le fonti del problema dell’essere nel giovane Heidegger: Franz Brentano e Carl Braig”, Quaestio 1 (2001), pp. 39-52; F. Volpi, “La doctrine aristotélicienne de l’être chez Brentano et son influence sur Heidegger”, in B. Thouard (éd.), Aristote au XIXe siècle, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq 2004, pp. 277-293).

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to tematico, privilegiando un solo tratto investigativo, in accordo ad una previa definizione di ciò che è metafisica. Tale definizione è ottenuta stabilendo in prima battuta in modo chiaro la natura dell’oggetto di specifica competenza della metafisica a partire da cui, in qualche modo, si rendono necessarie, nel corso dell’indagine, le ulteriori determinazioni tematiche. L’altro tragitto, invece, attraverso una graduale operazione di “reductio ad unum”, fa ruotare le diverse caratterizzazioni della metafisica attorno ad una sola di esse, ritenuta fondamentale. Esso articola, quindi, il nesso fra le due componenti fino a risolvere la duplicità con il pieno e totale confluire della vocazione ontologica dell’indagine entro quella teologica o viceversa47. Nel primo caso è come se la posizione aristotelica fungesse da conferma alla definizione di metafisica preliminarmente stabilita; l’interpretazione in questo senso si sottomette tutta all’esigenza dimostrativa circa l’essenza della scienza in questione, assecondando il bisogno di una conquista definitoria netta di “metafisica”. Nel secondo caso, sebbene siano in qualche modo rispettate le diverse sfumature insite nelle differenti caratterizzazioni della prËth filosofÖa che ricorrono nella Metafisica, le varie determinazioni della filosofia prima sono “passate al setaccio” per essere poi sussunte sotto una definizione unitaria che le abbracci sulla base della loro reciproca implicazione o convertibilità. L’esito di quest’ultimo procedimento è il raggiungimento di una determinazione univoca alla quale le altre sono riportate attraverso un netto sforzo di articolazione fra universalità e particolarità. Tale articolazione è espressione dell’esatto rapporto (la precisa relazione causale) che sussiste fra l’ente divino e la totalità dell’ente. In questo modo, rispetto al primo procedimento, questo secondo sembra conquistare la definizione ultima di metafisica solo 47 Pasquale Porro avanza l’ipotesi che nel libro L della Metafisica si possa già individuare un tentativo di reductio ad unum, che dia così un’impronta unitaria alle varie indicazioni circa il tema della metafisica e che altresì espliciti il nodo di articolazione ontologica entro i piani del reale, neutralizzando la contrapposizione fra la componente ontologica e quella teologica: “[È] vero anche che in Lambda si suggerisce una possibile reductio ad unum di tutto l’esistente almeno sotto il profilo dell’ordinamento o della finalità, e in questo caso si potrebbe davvero pensare di sussumere l’ente in universale sotto un ente primo, sia pure in senso strettamente teleologico” (P. Porro, Prefazione ad Avicenna, Metafisica, trad. it. di O. Lizzini, Bompiani, Milano 2002, p. XVI).

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alla fine del lavoro esegetico. Queste due strade esegetiche affiorano già al tempo dei commentari in lingua greca, in seguito, con un calibro speculativo dirompente, all’epoca dei commentari arabi, medievali e rinascimentali, per ricomparire negli studi aristotelici prodotti su questo tema dalla fine dell’Ottocento in poi. Quel che è peculiare è che entrambe le vie segnano sin da principio i sentieri della tradizione metafisica: in esse prende vita quell’intreccio di tradizione esegetica e tradizione storico-metafisica entro cui si snodano le coordinate di sviluppo della metafisica, sebbene a tratti sotto la forma di una speculazione apparentemente solo indirizzata alla questione circa la natura della filosofia prima aristotelica. Queste due strade esegetico-speculative presentano, pertanto, una tessitura interna certamente molto più complessa rispetto a quanto è riscontrabile, ad esempio, dentro la storia del paradigma storico-genetico jaegeriano o dentro le fila dell’approccio critico-speculativo di tipo filologico. Tuttavia, nello sviluppo di queste due tendenze esegetiche improntate al criterio dell’univocità, si individua una netta linea di demarcazione a partire dagli studi dell’Ottocento: l’interesse esegetico per la metafisica aristotelica non si lega più, almeno in prima battuta, all’indagine metafisica tout court 48. 48 Anche Heidegger tende ad insistere su questa distinzione. Nota è la differenza che egli sottolinea esserci fra la storia in senso proprio (Geschichte) e la storiografia (Historie), che assume la storia come suo oggetto tematico. Vi è una storia della metafisica (Geschichte der Metaphysik), che in qualche modo bisogna costantemente tenere in vita, e vi è una storiografia come prospettiva sulla storia della filosofia in cui il passato resta irrigidito in una presentazione asettica che per il concreto domandare della filosofia è del tutto sterile. Per Heidegger bisogna “fare storia” e non storiografia, dove il “fare storia” indica lo sforzo della comprensione genuina senza pregiudizi, valutazioni critiche già stabilite ed esibizione di vana erudizione. Un chiaro esempio del metodo che secondo Heidegger bisogna adottare per muoversi dentro la tradizione è quanto si legge nell’introduzione al corso dedicato all’esame dei concetti fondamentali della filosofia antica (cfr. Cfa, p. 81). Si può, quindi, senz’altro affermare che la disposizione metodica heideggeriana, anche dove la mossa interpretativa sembra diventare più dura e fortemente polemica, risponde sempre al bisogno di un confronto vivo ed “energico” con la tradizione. Heidegger ha quasi programmaticamente stabilito il proprio atteggiamento interpretativo sin dall’inizio del suo lavoro di confronto con lo Stagirita nel 1921: “Nell’uso corrente del termine la storia della filosofia abbraccia l’intera, variegata successione di opinioni filosofiche, teorie, sistemi, massime, che vanno dal settimo secolo avanti Cristo al presente […]. Nelle pagine che seguono il significato dell’espressione ‘storia della fi-

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Un esempio può essere chiarificatore. Una posizione esegetica autorevole come quella di Philip Merlan, che riduce la metafisica alla teologia, sembra idealmente riconnettersi proprio con la linea esegetica più antica che si sviluppa da Alessandro di Afrodisia in poi. Merlan adotta, però, l’atteggiamento tipico dell’interprete che separa gli elementi cercando di dare il corretto valore storico alle questioni alla luce della tradizione; uno dei suoi obiettivi, infatti, è mostrare se e in che misura in Aristotele non si realizzi già una sorta di transito verso il Neoplatonismo49. In Alessandro di Afrodisia, di contro, è proprio in atto quella commistione di Aristotelismo e Neoplatonismo che Merlan discute criticamente. Nella lettura di Alessandro, come accade del resto subito dopo la morte di Aristotele con Teofrasto, primo scolarca del Liceo, si assiste ad uno slittamento del modo di impostare l’indagine metafisica. Dietro la stretta esegesi si coglie una mossa speculativa determinante rispetto alle sorti non solo dell’Aristotelismo, bensì anche della tradizione metafisica. In questo senso, la storiografia degli ultimi due secoli conosce indubbiamente una maggiore precisione esegetica rispetto alla libertà dei commentatori tardo-antichi e medievali. Durante il pieno svolgimento della grande stagione scolastica medievale l’interpretazione si lega al farsi della metafisica attraverso una definizione dell’oggetto d’indagine losofia’ è sempre considerato in riferimento a queste delimitazioni spazio-temporali, e ciò non tanto per il fatto che l’analisi di altre filosofie si risolve in genere in un dilettantismo più o meno francamente confessato che dà occasione a ogni sorta di banalità intellettuali, quanto piuttosto perché questa delimitazione è importante dal senso stesso della filosofia. Per ogni epoca presente la storia della filosofia si offre alla vista e alla comprensione e perciò alla possibilità di una tanto maggiore appropriazione – e, in base ad essa, di una critica tanto più decisa – quanto più la filosofia per cui e in cui si dà la storia, quella in cui ciascuno, vivendo, è in rapporto alla storia, è veramente filosofia, il che vuol dire che essa si mantiene 1. in un interrogare e, più precisamente, in un’interrogazione che giunge fino ai fondamenti, 2. nella concreta ricerca di risposte, che è il senso vero della ricerca” (IfA, p. 41). 49 Cfr. a tal proposito P. Merlan, Dal Platonismo al Neoplatonismo, trad. it. di E. Peroli con introd. di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1990. Interpretando l’oñn Œ ‘n in modo univoco come la sostanza prima separata divina, dunque caricando la filosofia aristotelica di un carattere più prettamente platonico e neoplatonico, egli esclude che la filosofia prima possa darsi come ontologia. Essa si costituirebbe, quindi, entro una vocazione marcatamente teologica (cfr. anche P. Merlan, “Metaphysik: Name und Gegenstand”, The Journal of Hellenic Studies 77 (1957), pp. 87-92 e P. Merlan, “On the Terms ‘Metaphysics’ and ‘Being qua Being’”, The Monist 52 (1968), pp. 174-194).

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della prima philosophia sempre più autonoma da Aristotele ed attraverso una rigorosa sistematizzazione degli ambiti di competenza delle varie discipline. Ma proprio per questo, quando si giunge alla classificazione più scrupolosa e meticolosa della filosofia moderna, il riferimento ad Aristotele è quasi del tutto abbandonato, tanto che in un autore come Kant il rapporto con l’origine aristotelica rispetto al problema della duplicità onto-teologica della metafisica è ormai risolto. Negli ultimi due secoli, quindi, la maggiore accortezza critica ed una migliore consapevolezza storica determinano un nuovo interesse per la questione dello statuto della filosofia prima con l’intento programmatico di una presentazione il più possibile fedele del pensiero aristotelico liberato dalle concrezioni della metafisica post-aristotelica. Nella storiografia contemporanea, pertanto, tende sempre più a disfarsi quell’intreccio di interpretazione ed indipendenza dall’origine aristotelica che – è bene ribadirlo – è decisivo nello sviluppo della storia della metafisica, come dimostra esemplarmente l’epoca medievale. Tuttavia, tanto nell’approccio storiografico più recente quanto nell’orizzonte esegetico della tradizione metafisica si assume una posizione chiara non solo rispetto alla questione dello statuto della metafisica, ma anche, in modo ancora più specifico, rispetto alla concezione aristotelica del reale e di ciò che è oggetto di sapere epistemico. La prima via, quella che procede escludendo a monte la possibilità di una duplice caratterizzazione onto-teologica della metafisica, è esemplarmente battuta da Avicenna: l’ente divino non si può propriamente considerare l’oggetto della metafisica, anche se essa ha il compito di dimostrarne l’esistenza. Così si legge, infatti, all’inizio nella I sezione del primo trattato della XIII parte (la parte sulla scienza delle cose divine) del Libro della Guarigione: È noto che ogni scienza ha un soggetto che le è proprio; indaghiamo dunque, adesso, intorno al soggetto di questa scienza [scil. la filosofia prima, “prima philosophia”]: che cos’è? Consideriamo se il soggetto di questa scienza sia l’essere di Dio […] oppure no, e Dio sia, piuttosto, una delle cose che vanno ricercate in questa scienza. Ora, – diremo – Dio non può esserne il soggetto […]; il soggetto di una scienza è

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sempre qualcosa la cui esistenza viene ammessa in quella stessa scienza e di cui si indagano soltanto i [vari] stati […]. L’esistenza di Dio […] non può essere ammessa in questa scienza come suo soggetto: essa è piuttosto qualcosa che vi va ricercato 50.

E, dunque, nella seconda sezione, la dichiarazione risoluta che determina la metafisica in senso ontologico: “Perciò, il soggetto primo di questa scienza è l’essere in quanto essere, mentre le cose che in essa vanno ricercate sono quelle che lo accompagnano in quanto è essere, senza condizione” 51. In altri termini, poiché a nessuna scienza compete di stabilire l’esistenza del proprio oggetto e siccome di Dio è l’esistenza che va provata, in senso stretto Dio non può essere considerato oggetto della metafisica. Posto preliminarmente ciò, la metafisica si definisce, pertanto, a monte, programmaticamente secondo una determinazione di tipo ontologico e non teologico, sicché il problema, eventualmente, rimane quello di decifrare in che modo la presenza del riferimento all’ente sommo, in quanto principio primo, lasci intatta la distanza e la differenza fra “metafisica” e “teologia”52. 50 Avicenna, Metafisica, cit., pp. 21-23. Va sottolineata la distinzione posta da Avicenna fra ciò che è l’oggetto della scienza (mawd.u¯, ÿpokeÖmenon, subjectum) e ciò che è ricercato dalla scienza, le “cose ricercate”. Spiega bene Amos Bertolacci: “Dio e le cause prime sono cose ricercate dalla metafisica, indagate da questa disciplina proprio perché non ne sono il soggetto: il soggetto di una disciplina, infatti, è qualcosa di comune a tutte le cose ricercate in essa, senza essere esso stesso una di queste” (A. Bertolacci, Introduzione a Avicenna, Libro della guarigione. Le cose divine, ed. it. a c. di A. Bertolacci, UTET, Torino 2008, p. 44). Ma, a mio avviso, questa distinzione, che nel caso di Avicenna introduce chiarezza per definire il tema, i compiti e lo scopo della metafisica, complica lo stato della questione in riferimento a Met. E. Qui, infatti, la doppia caratterizzazione della prËth filosofÖa risulta ammettendo che il qe“j, l’ente immobile, eterno, separato esiste e non già procedendo ad una dimostrazione della sua esistenza in quanto quello che è ricercato. 51 Avicenna, Metafisica, cit., p. 37. Bertolacci traduce invece: “Il soggetto primo di questa scienza, dunque, è l’esistente in quanto esistente. Ciò che essa ricerca sono le realtà che afferiscono all’esistente in quanto esistente incondizionatamente” (Avicenna, Libro della guarigione. Le cose divine, cit., p. 156). Questa traduzione è forse da preferire perché, in effetti, Avicenna nel corso della sezione sta elaborando i primi due capitoli di Met. G ; il vocabolo usato da Avicenna, mawgˇu¯d, rende l’‘n greco ed è tradotto in latino con ens. 52 Va tenuto presente che la metafisica è per Avicenna a pieno titolo scientia divina, appunto perché ricerca sulle cose divine. Quindi, in realtà la divaricazione dovrebbe essere enunciata con più correttezza come distinzione fra “ontologia” e “teologia”, dove a questo punto si rimette in gioco la questione se e fino a che punto ontologia e metafisica si identifichino, posto che la metafisica si indirizza altresì all’ente sovrasensibile, la cui

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Per Avicenna la scelta tematica va, quindi, effettuata immediatamente, discutendo le condizioni di possibilità a cui la metafisica deve confarsi per darsi in modo coerente e non contraddittorio come scienza. Sulla base di tali condizioni, si scartano quegli oggetti la cui natura risulta incompatibile per principio con i presupposti epistemici della scienza in questione (ad esempio un presupposto di tal genere è che la scienza tratta di oggetti che assume già come esistenti e non di qualcosa di cui si deve ancora dimostrare l’esistenza). Questa impostazione metodologica, però, dà pienamente contezza che la tradizione esegetica si è spinta ormai ben oltre il piano della semplice esegesi dello Stagirita. Essa ha conquistato uno spazio di autonomia che la legittima ad assumere prese di posizione nuove ed originali. Questo spazio è quanto mai essenziale per la sua vitalità, non meno che l’originaria impostazione aristotelica per la sua genesi. In atto è effettivamente il passaggio che, sovrapponendo senza soluzione di continuità al piano dell’esegesi, del commento letterale al testo, l’orizzonte di un’indagine autonoma, approda alla formulazione indipendente dei compiti, della natura della metafisica. Questo passaggio, però, non si consuma solo ad un certo momento della storia esegetica, bensì esso è già da sempre in qualche modo realizzato. Ce ne danno piena testimonianza, agli albori della tradizione esegetica Teofrasto ed Alessandro di Afrodisia. Dove, cioè, la tradizione comincia non vi è mai solo ripetizione, ma sempre innovazione e, così, interpretazione. Questo stato dei fatti ci avvisa, quindi, che, sin dall’inizio del costituirsi della tradizione metafisica post-aristotelica, anche in presenza di linee o posizioni esegetiche che desiderano rimanere per intero fedeli alle intenzioni dello Stagirita, si dispiegano variazioni considerevoli rispetto al modello originario aristotelico di prËth filosofÖa53. dimostrazione dovrebbe invece confluire nell’ambito tematico di una scienza come la teologia razionale strettamente intesa. A questo proposito, sulla difficoltà di una netta distinzione fra le scienze in questione cfr. J.-F. Courtine, “Ontologie ou métaphysique?”, Giornale di Metafisica VII (1985), 1, pp. 3-24. 53 In questo slittamento risulta altrettanto esemplare la divaricazione cui si assiste in epoca moderna (Wolff, Baumgarten) fra la cosiddetta metaphysica generalis (l’indagine sull’ente in generale, l’ontologia che è considerata la philosophia prima) e la teologia come metaphysica specialis. La chiara separazione delle due discipline rivela ben più di

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Di questo dà chiara attestazione anche l’altra linea esegetica tradizionale che si è definita come procedimento di “reductio ad unum”. La posizione di Tommaso d’Aquino è un caso esemplare di tale procedimento. L’imponente commentario alla Metafisica di Tommaso non sembra in prima battuta mettere in rilievo la difficoltà di stabilire il tema proprio della prima philosophia. Nondimeno, il bisogno di giungere ad una definizione completa, coerente ed organica guida l’interpretazione di lectio in lectio. Il risultato è la ricostruzione di un percorso speculativo che, avendo di mira la trattazione dell’ente in quanto tale, conclude con l’assumere Dio come chiave di volta dell’edificio epistemico metafisico. Nell’ottica tomista, il primato che si conferisce alla destinazione teologica della metafisica non si può considerare negazione in senso stretto del compito ontologico di questa scienza, ossia del fatto che essa indaga l’ente in quanto tale e i suoi principi. L’esito teologico, tuttavia, è l’unico possibile ed assorbe al suo interno la determinazione ontologica, nella misura in cui solo l’ente divino, primo ente sommo, è proprio in virtù del suo atto d’essere principio dell’ente simpliciter (a`plÓj), considerato al modo dell’intellegibile (o in quanto oggetto dell’indagine metafisica come intellegibile)54. In tal modo l’ente sommo è principio della totalità un’organizzazione scolastica del complesso ambito di ricerca della metafisica. È un modo chiaro di articolare il nesso fra due “oggetti”, ente in quanto tale ed ente sommo, o meglio fra due componenti della medesima vocazione di ricerca metafisica. È da tenere presente, però, che al fondo di questa operazione di riarticolazione dell’interezza dell’indagine metafisica con l’individuazione di parti specifiche ben distinte da una parte generale, lavora una precisa strutturazione del nesso fra la totalità dell’ente, oggetto della metafisica generale, e l’ente sommo, oggetto della teologia. Nell’impostazione della tradizione metafisica moderna, cioè, la scienza che prende di mira l’orizzonte universale dell’ente in quanto tale sembrerebbe essere sempre presupposta come quell’orizzonte generale d’indagine entro cui poi si iscrivono le tre specifiche scienze metafisiche (teologia, psicologia, cosmologia). In realtà il rapporto si costituisce inversamente, nella misura in cui l’ente sommo assolve al ruolo di ragione fondante come causa di sé e della totalità dell’ente di cui, da un punto di vista formale, esso stesso fa parte. 54 Già il proemio indirizza verso questa conclusione, asserendo non solo che la metafisica si deve occupare di quel che è massimamente intellegibile (“Ita scientia debet esse naturaliter aliarum regulatrix, quae maxime intellectualis est. Haec autem est, quae circa maxime intellegibilia versatur”), ma che l’intellegibile par excellence è Dio: “Nam cum unaquaeque res ex hoc ipso vim intellectivam habeat, quod est a materia immunis, oportet illa esse maxime intellegibilia, quae sunt maxime a materia separata. […] Ea vero sunt maxime a materia separata, quae non tantum a signata materia abstrahunt […], sed

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dell’ente e ciò che è massimamente intellegibile. Per questa via la prima scienza teoretica è scientia divina, secondo il senso oggettivo contenuto nell’espressione (scienza di ciò che è divino, scienza che ha per oggetto l’ente divino). Anche qui l’interpretazione palesa una chiara trasposizione autonoma del problema aristotelico: l’ente è oggetto della scienza solo se è colto sul piano del formale, ossia in quanto intellegibile. La metafisica è la scienza suprema perché il suo oggetto è ciò che è intellegibile in sommo grado. Essa, infatti, non astrae l’ente dalla materia come la scienza fisica, che considera l’ente materiale secondo il suo aspetto universale o “eidetico”, né astrae il suo oggetto attraverso un atto dell’intelletto come fa la scienza matematica. L’oggetto metafisico è, piuttosto, quel che è massimamente intellegibile (ossia privo di materia) per sé, nel suo essere, in quanto pura forma. La tradizione esegetica mostra, quindi, di abitare sempre uno spazio di autonomia speculativa e palesa anzi il suo prestigio quanto più manifesta la sua autorevolezza come tradizione metafisica, come gli esempi sopra riportati esplicitano bene. L’esegesi heideggeriana fa tesoro di questo stretto intreccio fra storia esegetica e storia della metafisica per governarlo, in effetti, come se la compagine delle diverse epoche della storia della metafisica si potesse considerare una grande variazione sul tema aristotelico. Questa, quanto meno, è l’immagine della metafisica che molte volte emerge dagli scritti heideggeriani, soprattutto quando “[i]l ricordo che entra nel cuore della metafisica, come un’epoca necessaria della storia dell’essere, dà da pensare che e come l’essere determini di volta in volta la verità dell’ente”, a partire però sempre da una interna divaricazione cui la metafisica sembra consegnata sin dalla sua origine55. A conferma di questa caratterizzazione marcatamente coerente della metafisica dalle origini greche platonico-aristoteliche al compimento hegeliano e nietzschiano è sufficiente proporre uno dei frequenti schizzi con cui Heidegger riasomnino a materia sensibili. Et non solum secundum rationem […], sed etiam secundum esse, sicut deus et intelligentiae” (S. Thomae Aquinatis Opera omnia, vol. IV, Commentaria in Aristotelem et alios, In libros Metaphysicorum, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1980, pp. 390 e 391). 55 Ntzse, p. 932.

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sume la duplice struttura iscritta del domandare della metafisica intorno all’ente in quanto tale: Soltanto adesso è possibile la riflessione su un rapporto fondamentale fra l’enticità in generale (prËth filosofÖa) e l’ente più alto (qeologikª) che attraversa l’intera metafisica, ma che non è mai spiegato e fondato. ¢lªqeia – f⁄sij Ñdöa – ôpökeina prËth filosofÖa – qeologikª oñn Œ ‘n – qeãon ens commune – summum ens ens certum – ens realissimum monas – Deus 56.

Le vaste analisi heideggeriane sulla storia della metafisica nelle Vorlesungen a cavallo fra gli anni Venti e Trenta si aprono, d’altro canto, sotto l’intento di illustrare i percorsi esegetici della tradizione, ritenuti espressione della tendenza interpretativa costantemente dominante nella storia critica della Metafisica fortemente animata dalla volontà di riportare l’indagine metafisica aristotelica ad una forma univoca57. Rispetto al modo in cui Heidegger si pronuncia su quelli che a questo punto si possono sinteticamente definire come i due paradigmi esegetici dell’univocità della tradizione metafisica, si nota una certa ambiguità, che rende abbastanza difficile riassumere l’esatto atteggiamento del filosofo tedesco. D’altronde, l’equivocità del suo giudizio corrisponde alla tensione interna del suo circolo erme56

GA 88, pp. 47-48. È significativa la frequenza con cui Heidegger, dai corsi degli anni Venti fino alla fine del Denkweg, ricorda la svolta interna alla storia della metafisica con il mutamento del senso dell’espressione “metafisica”. Nella nuova formulazione concettuale che si afferma entro la filosofia cristiana il “metà” dell’espressione greca met¶ t¶ fusik£ è interpretato come “trans”, secondo quel tratto, quel movimento speculativo del metafisico che va oltre, supera l’orizzonte del sensibile in direzione di un ente sovransensibile ben determinato. In questo modo l’oggetto metafisico non è la totalità dell’ente o, per meglio dire, quel che è universale in quanto ciò che è oltre l’ente, ogni singolo ente determinato, bensì specificamente l’ente particolare sovrasensibile e sommo, Dio. È altrettanto significativa, quindi, l’attenzione che Heidegger rivolge al momento moderno della storia della metafisica, in cui quel che appare come distanza ormai consumata dal pensiero aristotelico è, in realtà, espressione di un cammino speculativo che, sia pure interpretando autonomamente la filosofia aristotelica, giunge a soddisfare l’esigenza già aristotelica della conquista di un elemento primo fondante, dell’¢rcª. 57

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neutico fra origine e compimento della metafisica. Nella misura in cui questi percorsi sono, infatti, manifestazione dei modi di sviluppo della metafisica – cosa di cui Heidegger si mostra affatto consapevole – e nel momento in cui l’interesse heideggeriano si indirizza verso la comprensione dell’essenza della metafisica nella sua interezza, il baricentro dell’interrogazione heideggeriana si sposta ed anche il tono dell’Auseinandersetzung con lo Stagirita assume una forte valenza critica. Il problema per Heidegger non è più, allora, in prima battuta la questione della natura della prËth filosofÖa nell’ottica di un lavoro di comprensione della filosofia aristotelica, né la disamina di ciò che di improprio rispetto all’originaria impostazione aristotelica la metafisica ha pronunciato nel corso della sua storia. Ciò a cui si assiste è un passaggio interno al Denkweg di Heidegger: è il passo con cui egli, da un lato, si allontana criticamente anche da quanto appreso su Aristotele durante la sua formazione giovanile e, dall’altro, rimette in discussione pure se stesso58. I corsi di lezioni degli anni Venti, in cui via via maturano le coordinate portanti dell’ontologia heideggeriana, dichiarano ancora il bisogno di una comprensione genuina della prËth filosofÖa , “il filosofare autentico, quello che si interroga intorno all’ente in generale e intorno all’ente autentico”59. Questa comprensione è in sintonia con la necessità di una riformulazione dei compiti di una filosofia che, vivendo della sua essenza come interrogare in modo originario, possa a pieno titolo essere fenomenologia dell’esistenza, della fatticità. D’altronde è proprio questo il progetto che Heidegger ha in 58 Pur non affrontando il problema della comprensione della Kehre nel Denkweg heideggeriano, si ricordi, tuttavia, che il diverso atteggiarsi di Heidegger rispetto ad Aristotele e, quindi, rispetto alla tradizione metafisica è espressione di un affondo speculativo in direzione della domanda sull’essere. Ciò che si consuma non si comprende semplicemente come svolta nel cammino di pensiero heideggeriano secondo una certa storiografia, che ci ha abituato a contrapporre la fase della Fundamentalontologie di Essere e tempo al seinsgeschichtliche Denken. Dal punto di vista delle letture aristoteliche di Heidegger la “svolta” è semmai il cominciare a muoversi secondo l’andamento proprio del circolo ermeneutico: ad un certo momento, cioè, si scorge con chiarezza che Heidegger legge Aristotele avendo già a cuore la questione dell’essenza della metafisica e, quindi, sapendo che è nell’impostazione aristotelica dell’interrogare metafisico che si consegna la duplicità enigmatica con cui la tradizione metafisica ha a propria volta e in vario modo tentato di fare i conti. 59 Cfm, p. 53.

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animo quando descrive nel Natorp-Bericht lo stato delle sue ricerche: Se, in primo luogo, la filosofia non è un’attività frutto di mera escogitazione, che scorre a lato della vita, e che si occupa di alcune “generalità” e di principi da porre a piacere, ma, in quanto conoscenza che si interroga, in quanto ricerca, è l’esplicita, genuina realizzazione della tendenza ad interpretarsi delle motilità fondamentali della vita, in cui ne va per la filosofia stessa di sé e del suo essere – e se, in secondo luogo, la filosofia si propone di vedere e di cogliere la vita effettiva nella sua determinante possibilità ontologica, cioè, se si è decisa in modo radicale e chiaro, senza lasciarsi distrarre da ingegnose concezioni del mondo, a farsi carico della vita effettiva […] – allora essa ha decisamente scelto, prendendo per sé ad oggetto la vita effettiva considerata nella sua effettività60.

Nelle Vorlesungen risalenti a questo periodo l’esegesi heideggeriana, conseguentemente, tanto è attenta ad Aristotele quanto coglie scrupolosamente la distanza della tradizione post-aristotelica dallo Stagirita, secondo un movimento che, per così dire, va oltre la tradizione non in avanti ma indietro, quando “metafisica” è “definizione autentica del filosofare” e non ancora “nel senso tradizionale […] disciplina della filosofia” 61. Il movimento che “riporta” ad Aristotele ed alla filosofia greca, infatti, “ci consente di chiarire l’origine e gli inizi della filosofia occidentale, vincolandoci alla tradizione cui apparteniamo” 62. Questo andare a monte della tradizione, recuperando il senso della nascita della metafisica in Aristotele, permette di comprendere le condizioni di possibilità che definiscono la struttura onto-teologica della metafisica nell’interezza del suo sviluppo storico, nonostante proprio in tale sviluppo, di volta in volta, si elabori “una 60 NB, pp. 506-507. Se non espressamente indicato, cito dalla prima traduzione italiana del Natorp-Bericht (M. Heidegger, “Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele”, trad. it. a c. di V. Vitiello e G. Cammarota, Filosofia e teologia 3 (1990), pp. 496-532, basata sul testo tedesco apparso nel 1989 nel Dilthey-Jahrbuch VI (1989), pp. 235-269) cui sono succedute due ulteriori versioni più complete presso Reclam nel 2003 e poi in GA 62 nel 2005, alle quali sono seguite due traduzioni, una a cura di A.P. Ruoppo, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Elaborazione per le facoltà filosofiche di Marburgo e di Gottinga (1922), Guida, Napoli 2005, ed un’altra a cura di A. Ardovino e A. Le Moli, FIERI. Annali del Dipartimento di Filosofia, Storia e Critica dei Saperi 3 (2005), pp. 165-198. 61 Cfm, p. 48. 62 Ibid., p. 49.

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determinata interpretazione e concezione della prËth filosofÖa” 63. Nel recepire e nell’appropriarsi di Aristotele da parte della tradizione (specie medievale e moderna), tuttavia, “ciò che per Aristotele era un problema, diviene […] un dogma” 64. Il passaggio ad un impianto sistematico-scolastico dogmatico, con un “agganciamento” della problematica dell’essere alla teologia, non è solo espressione, però, della “religiosità del Medioevo”, ossia non può essere considerato solo una conseguenza dello spirito e della cultura di una determinata epoca. Lo sviluppo della tradizione metafisica in direzione di una forma sempre più sistematica di tipo fondazionale dell’impianto onto-teologico si distende, infatti, secondo il carattere dei problemi stessi già insiti dell’impostazione aristotelica della metafisica65. Come la “prËth filosofÖa sia già eo ipso qeologÖa”, problema “in cui alla fine Aristotele si è imbattutto senza riconoscerlo come problema”, “resta senza dubbio una domanda centrale”66. Solo facendosi carico della problematicità che si consegna nella duplice espressione della filosofia prima senza pretendere di risolverla in direzione di una determinazione tematica univoca è, dunque, possibile comprendere nell’ottica esegetica heideggeriana le ragioni “originarie”, il carattere essenziale dell’essenza dell’interrogare metafisico. Quindi, ritornare all’origine diventa in pari tempo prendere le distanze dai tentativi interpretativi della tradizione. Espressione dei modi in cui la tradizione ha cercato di risolvere il problema della connessione fra “teologia” ed “ontologia”, questi tentativi, di fatto, insistono sulla medesima duplicità che intendono o pretendono di risolvere. La vera impasse, nella prospettiva interpretativa heideggeriana che negli anni si sposta da Aristotele nuovamente in avanti verso Schelling ed Hegel, non risiede pertanto 63 Ibid., p. 56. Già in IfA, come anche in NB (cfr. p. 510 e ss.), Heidegger non manca di sottolineare che una “recezione” di Aristotele corrisponde ad una “interpretazione”, come è evidente nell’Alto Medioevo “in cui si è attuata la vera e propria recezione di Aristotele e, con essa, una sua ben precisa interpretazione” (IfA, p. 44). 64 GA 23, p. 60. È interessante che Heidegger si esprima così proprio in un corso dedicato all’approfondimento del periodo compreso fra l’Alta Scolastica e la modernità fino a Kant. 65 Cfr. ibid., p. 61 (“[Nicht lange Geschichten über die Religiosität des Mittelalters erzählen], sondern aus dem Zuge der Probleme selbst die Verklammerung mit der Theologie”). 66 Ibid., p. 60.

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nello stato problematico dell’impostazione del duplice domandare metafisico sin dalla sua origine. Piuttosto la comprensione effettiva è già pregiudicata quando ci si attiene a questi tentativi di risoluzione della tradizione entro i quali si realizza una ben determinata interpretazione della filosofia prima: [P]roprio in questo seguire la tradizione è insita la vera difficoltà. Il significato di metafisica è stato ricavato realmente da una comprensione effettiva della prËth filosofÖa e ottenuto come sua interpretazione? 67

La conclusione di Heidegger, il suo monito, suona chiaro: non si può rimanere ancorati al modo in cui la tradizione finisce per definire la metafisica come “conoscenza del sovrasensibile”. Questa accezione dell’espressione non può essere accettata: Al contrario, da ciò emerge piuttosto il compito di procurare per la prima volta il significato a tale titolo [scil. metafisica] per il momento puramente sussistente, a partire da una comprensione originaria della prËth filosofÖa68.

Si comprendono così a pieno le parole con cui Heidegger, riferendosi al proemio del commento tomista alla Metafisica aristotelica, licenzia la posizione di reductio ad unum, che abbiamo visto essere propria dell’esegesi dell’Aquinate. Il fatto che in Tommaso la prima philosophia (conoscenza delle cause supreme, ossia di Dio come principio creatore), la metaphysica (in quanto ontologia) e la theologia (in quanto conoscenza di Dio come forma separata massimamente intellegibile) confluiscano in una medesima scienza suprema di tipo regolativo-fondativo sembrerebbe corrispondere all’“opinione di Aristotele”. Questa “equiparazione”, infatti, porrebbe sul medesimo piano come espressioni costitutive della natura della scientia regulatrix conoscenze eterogenee quanto al loro oggetto, così come accade nella duplice determinazione della filosofia prima. Si è di fronte, invece, ad un esempio tipico dello stile e della maniera in cui in generale i pensatori medievali hanno dato sistemazione, in una forma chiara e 67 68

Cfm, p. 57. Ibid., p. 58.

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apparentemente non discutibile, a un patrimonio di pensiero tramandato. Per Tommaso d’Aquino si tratta di giustificare il fatto che filosofia prima, metafisica e teologia debbano venire designate con una e medesima scienza69.

Il lavoro esegetico heideggeriano dagli anni Trenta in poi si caratterizza per una prospettiva ormai diversa. Problema è in primo luogo l’essenza della metafisica in quanto onto-teologia da Aristotele ad Hegel, imparando da Kant: In questo peculiare processo di assunzione della filosofia antica nel contesto della fede cristiana […], solo con Kant si è giunti per la prima volta a un interrogare autentico. Kant ha dato per la prima volta un contributo reale alla problematizzazione della metafisica stessa, e ha tentato di dare inizio a tale problematizzazione in una direzione ben determinata70.

In questo senso, ciò che della tradizione metafisica esegetica in un primo momento, nel contesto di un lavoro ermeneutico centrato sullo Stagirita, deve apparire ad Heidegger fuorviante rispetto ad Aristotele, è ora, sia pure problematicamente, il punto di forza di questa stessa tradizione: il suo tratto “eversivo” diviene il suo elemento propulsore. A questo egli arriva, da una parte, proprio attraversando Aristotele e, dall’altra, muovendosi dentro il gioco di vicinanza e lontananza dalla lezione aristotelica entro cui si costituisce la tradizione metafisica ed entro cui abita egli stesso negli anni in cui prende vita la sua ontologia fondamentale. Ma il criterio con cui leggere la metafisica sin dall’origine greca è sempre saldo; la lezione esegetica, già matura intorno alla metà degli anni Venti, resta la stessa e lo dichiara il noto saggio su La costituzione onto-teologica della metafisica di parecchi anni successivo (1957) alla prima individuazione del tratto onto-teologico della metafisica nelle Vorlesungen marburghesi: 69 Ibid., p. 65. In linea con quanto detto le ulteriori precisazioni di Heidegger sottolineano come nella tradizione medievale e moderna il “concetto aristotelico del filosofare autentico non viene visto come un vero problema, bensì si vede solamente il problema di far convergere contemporaneamente queste differenti definizioni in un’unica scienza” (ibid., p. 71). Per Heidegger, dunque, “il concetto del filosofare o della metafisica nella sua molteplice pluralità di significati non è orientato in direzione della sua problematica interna, ma, al contrario, vengono […] unite insieme definizioni disparate dell’oltrepassare” nel senso dell’andare oltre l’orizzonte dell’ente sensibile (ibid., p. 69). 70 Ibid., p. 64.

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La metafisica […] non è soltanto teo-logica, ma anche onto-logica. Soprattutto essa non è soltanto l’una oppure anche l’altra. Piuttosto la metafisica è teo-logica perché è onto-logica. È onto-logica perché è teo-logica 71.

Se la duplicità della metafisica è la condizione sotto cui essa si costituisce al principio, è solo interrogando in direzione della provenienza dell’unità di ontologia e teologia che è possibile comprendere l’essenza della metafisica. Interrogare in direzione della provenienza (Herkunft), dell’origine significa, dunque, retrocedere verso Aristotele, spingersi oltre la tradizione non già in avanti, bensì facendo un “passo indietro”, nella consapevolezza che questo non corrisponde ad “un recupero storiografico dei primi pensatori della filosofia occidentale” 72. L’origine, infatti, “tradisce” (nel senso che insieme rivela, ed altera, tramanda ed abbandona) il compimento, così come, del resto, il compimento “tradisce” l’origine. Questo è il circolo ermeneutico che tiene insieme origine e compimento della metafisica, la cui costituzione onto-teologica “non può essere chiarita né sulla base della teologica, né sulla base dell’ontologica” 73. Dunque, ogni qualvolta la tradizione ha cercato di spiegare la duplicità riducendo ad un’unità o gerarchizzando, per così dire, fra ontologia e teologia, lì si è consumato un tradimento. Ma è nel passaggio di consegna dall’origine alla tradizione che si dispiega lo spazio intermedio, di vicinanza e lontananza dall’origine, il luogo sempre prossimo all’origine, ma mai lo stesso, in cui la metafisica si costituisce nel suo sviluppo storico. Questo spazio intermedio è vitale per la metafisica in quanto per essa si tratta di conquistare una legittimità teoretica in un’epoca in cui, in effetti, sembra mancarle un esplicito riconoscimento entro le forme d’indagine ufficializzate dalle scuole filosofiche post-aristoteliche. La conquista di questa legittimità, gioco forza, non può che avvenire riordinando, sistematizzando la materia aristotelica anche alla luce delle sorti interne all’Aristotelismo e al coevo sviluppo del Platonismo e del Neoplatonismo. L’articolazione del nesso fra le due componenti dell’indagine metafisica, la necessità di una strutturazio71

ID, p. 28. Ibid., p. 23. 73 Ibid., p. 28. 72

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Il rivolgimento heideggeriano della tradizione esegetica

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ne chiara del sapere metafisico all’interno di una gerarchia del sapere ben definita segnano, dunque, l’affermazione della metafisica non tanto epistemicamente – già in Aristotele, infatti, la metafisica è indiscutibilmente ôpistªmh – quanto dal punto di vista della sua esplicita fondazione nell’ambito scolastico della filosofia entro il cui orizzonte, per le vicende storico-culturali dell’epoca imperiale e tardoantica, si costituisce e sviluppa la tradizione metafisica. Per il fatto che non esiste ancora una “metafisica” – quanto meno guardando al nome – fino al I secolo a.C. si può dire che uno sforzo generativo, un atto di genesi si realizza in quel passaggio che Heidegger indica a più riprese durante le Vorlesungen come il cambiamento di significato dell’espressione “meta-fisica” da “titolo tecnico-libresco” a “connotazione della scienza centrale della filosofia” 74. Che sia o no condivisibile la valutazione di Heidegger, che marca la negatività di questo passaggio rispetto al vitale interrogare che egli ritiene animare la filosofia aristotelica, certamente egli coglie nel segno quando ne enfatizza l’importanza: “Questo rovesciamento del titolo non è assolutamente nulla di accidentale. Con esso viene deciso qualcosa di essenziale: il destino della filosofia autentica in occidente” 75. In questo “rovesciamento”, secondo cui l’espressione “meta-fisica” non indica più una trattazione che nel Corpus Aristotelicum segue le lezioni di fisica (la fusikæ ¢kr“asij), bensì una scienza che va oltre l’orizzonte della natura avendo per oggetto l’ente sovrasensibile, si consuma qualcosa di più della fatica di dare vita ad un progetto o ad uno schizzo investigativo. È lo sforzo di portare ad esecuzione fino in fondo un programma di ricerca ben stabilito in conformità al bisogno epistemico-fondativo della scienza metafisica, come ad esempio si è visto in Avicenna. Heidegger non si lascia sfuggire tutto questo, giacché solo sotto la condizione di una distanza fra Aristotele e la tradizione metafisica post-aristotelica è in fondo possibile strutturare, a livello di questione dell’essenza della metafisica, il circolo 74 M. Heidegger, IfK, p. 12. Questa osservazione ricorre frequentemente nelle Vorlesungen degli anni Venti (cfr. ad es. già GA 62, pp. 11-12 e poi GA 28, pp. 27-29 e Cfm, pp. 53-57) oltre che nel Kantbuch (Kpm, pp. 16-17) del 1929, che è una rielaborazione del corso marburghese del semestre invernale del 1927/28 sulla Critica della ragion pura kantiana (IfK). 75 Cfm, p. 56.

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ermeneutico fra origine e compimento della stessa. E, del resto, solo sotto la condizione della distanza il circolo può essere interrotto per fermarsi presso l’origine ed interrogare Aristotele sull’essenza della metafisica, chiedendo: “Come entra il dio nella filosofia?” 76.

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ID, p. 25.

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Struttura, procedura, esito dell’onto-teologismo metafisico

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II STRUTTURA, PROCEDURA, ESITO DELL’ONTO-TEOLOGISMO METAFISICO: I TERMINI DEL PARADIGMA HEIDEGGERIANO

1. L’onto-teologia tra fuga e paradosso Dalla seconda metà del Novecento, a seguito della massiccia recezione della lettura heideggeriana della tradizione, lo studio esegetico della Metafisica aristotelica subisce una significativa modifica di prospettiva. In questo slittamento prospettico l’interpretazione aristotelica interseca spesso un dibattito di più ampia portata intorno all’essenza della metafisica in quanto tale. Al fine di comprendere sia l’influsso del paradigma esegetico onto-teologico entro l’ambito della ricerca aristotelica sia il modo in cui esso a tutt’oggi alimenta il dibattito sulla metafisica, a partire altresì da un ripensamento dell’origine aristotelica, è opportuno evidenziare il senso della tesi centrale della lezione heideggeriana sull’essenza della metafisica e, quindi, anche della prËth filosofÖa aristotelica. La lettura heideggeriana o quanto meno le sue implicazioni consentono, infatti, di mettere bene in luce il punto nevralgico nella storia dell’interpretazione della duplicità della filosofia prima aristotelica. Si tratta, come in parte già visto, del crocevia fecondo e prezioso fra esegesi aristotelica e speculazione autonoma in cui si tesse la trama della tradizione metafisica in un movimento paradossale di allontanamento dallo Stagirita ed insieme di programmatica fedeltà a quella che si ritiene essere la sua impostazione della metafisica. Enfatizzando la struttura fondamentale dell’onto-teologismo me-

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tafisico Heidegger caratterizza in modo fortemente unitario la complessa tradizione filosofica occidentale. Basti pensare alla presentazione della tradizione nel saggio La metafisica come storia dell’essere del secondo volume del Nietzsche 1, nonché ad ulteriori scritti risalenti al periodo del cosiddetto seynsgeschichtliche Denken quali, ad esempio, Metafisica e nichilismo e Besinnung 2, oltre che i possenti Contributi alla filosofia degli anni ’36/38. Per la comprensione della lettura heideggeriana della tradizione metafisica questi volumi della Gesamtausgabe offrono materiale di riflessione importante. In essi Heidegger insiste in vario modo sull’identità della tradizione metafisica come forma di pensiero dell’ente che, nel domandare sull’essere dell’ente, cerca il koin“n , ciò che è comune a tutto l’ente nella sua interezza, così da assumere l’enticità sotto la forma determinata di un primo ente sommo: Il domandare dell’essere è dapprima, e attraverso la lunga storia compresa tra Anassimandro e Nietzsche, solo la domanda dell’essere dell’ente. La domanda mira all’ente come a ciò che ne è investito e, domandandone, cerca di ottenere che cosa esso sia. Ciò che è ottenuto tramite la domanda viene determinato come l’elemento comune a tutti gli enti. L’essere ha il carattere dell’enticità. […] [L’]enticità è, in quanto più stabilmente presente in tutto l’ente, ciò che più di tutto è, e quindi ciò che è via via prima rispetto a ogni singolo ente determinato3.

Nel determinare l’essere dell’ente come ciò che nell’ente più di tutto è sembra che si indichi una sovrabbondanza dell’essenza (del1 Cfr. Ntzse, pp. 863-910. Nel saggio la tradizione metafisica è letta nella sua unitarietà a partire dalla distinzione iniziale fra “che cos’è” (tà ôstin, Was-sein) e “che è” (”ti ústin, Daß-sein) dell’ente, sia pure mettendo in evidenza il passaggio fra la posizione greca platonico-aristotelica e quella medievale e fra quella medievale e quella moderna. 2 Esemplari le parole di Heidegger a proposito della domanda-guida (la domanda sull’essere dell’ente) della tradizione metafisica. La Leitfrage implica una “ambiguità che ricorre nell’intera storia della metafisica: nell’enticità dell’ente (in quel che un ente è in quanto tale) è pensato l’essere e tuttavia è investito dalla domanda (befragt) sempre e solo l’ente” (GA 66, pp. 271-272). La questione dell’ente in quanto tale dovrebbe restituire l’essere come quel che dice il che cos’è dell’ente, come quel che è cercato, ma di fatto la domanda insiste ancora sull’ente in quanto ritrova la risposta alla questione sull’enticità in un ente sommo determinato. 3 Cf, p. 414.

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l’essere dell’ente) rispetto ad ogni ente. L’enticità sarebbe, quindi, più dello stesso ente, sebbene essa non possa mai darsi indipendentemente dall’ente e possa mostrare questa sua preminenza ontologica solo sul piano della generalità astratta attraverso cui è colta come essere comune all’intero dell’ente. Tuttavia, in sede metafisica, proprio questa sorta di surplus ontologico dell’essenza rispetto all’ente annuncia già il passo successivo: ciò che più di tutto è diviene ciò che è (dunque un ente) più di ogni altro (“più di tutto”), cioè un ente determinato (l’ente divino) che, come tale, si situa all’interno della totalità che è ecceduta. L’eccedenza dell’essere sull’ente è allora contratta o, più esattamente, neutralizzata, perché nell’ente sommo non resta più traccia neppure della trascendenza dell’essere dell’ente rispetto ad ogni singolo ente. La trascendenza dell’ente sommo diviene, invece, l’eccedenza di un ente che è più di tutti gli altri enti: come ente che possiede il modo dell’essere proprio dell’ente più degli altri, per questo, l’ente sommo è oltre, al di sopra di tutti gli altri. Ma in questo ulteriore passaggio la metafisica volge ormai definitivamente le spalle alla differenza ontologica, costituendosi nella sua necessaria ambivalenza onto-teologica. Il “trascendimento dell’ente in direzione dell’enticità” non rimanda, pertanto, ad una forma di trascendenza oltre l’ente4; nella misura in cui la causalità dell’ente, il principio dell’ente, la sua essenza, l’enticità, è pensata sotto la forma di un ente sommo, essa è, per così dire, dello stesso “tipo” dell’ente, ossia essa è sempre espressione di un ente che, nonostante la sua eccellenza, strutturalmente è parte della totalità dell’ente. A ben vedere, è un doppio genere di trascendenza che si consegna nella risposta della metafisica alla domanda sull’enticità, segnando la duplicità del movimento che definisce la struttura dell’onto-teologismo: si ha una trascendenza “ontica”, poiché l’“ente che si eleva al di sopra dell’ente” quale suo principio rimane parte della totalità dell’ente; è una trascendenza, tuttavia, in pari tempo “ontologica”, giacché “l’oltrepassamento insito nel koin“n, l’enticità come ciò che è generale”, corrisponde all’andare oltre la totalità per cogliere quel che, in modo comune, è essenzialmente proprio di ogni ente facente 4

Ibid., p. 184.

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parte della totalità e, dunque, della totalità stessa5. È questa doppia trascendenza che regge o, più propriamente, scopre l’“intreccio” di ontologia e teologia nella struttura dell’interrogare metafisico. Il doppio livello dell’oltrepassamento operato dalla metafisica, il doppio senso della trascendenza racchiuso nell’atto dell’andare oltre (trans, meta) l’ente, determina il gioco del doppio rimando reciproco fra ontologia e teologia, fra un superare l’ente (ogni singolo ente determinato), guardando a ciò che, essendo proprio dell’ente, è comune alla totalità, ed un superare l’ente (l’intero dell’ente) in direzione di un ente sommo, l’“ente più essente”, che in virtù del suo modo d’essere ente è sempre a monte della totalità dell’ente (f⁄sij) che in esso ha il proprio principio d’essere: Solo nell’ambito della metafisica e delle sue trasformazioni essenziali il riferimento a “dio” è “religioso” – cioè è una religio: un legame retrospettivo ad una causa originaria e a una guida. Il concetto di religio è meta-fisico, e questo perché si basa sull’essente che viene legato retrospettivamente e collegato a un ente sommo – ovvero all’“essente che è più essente” in quanto è ciò che causa. Questo ente “sommo” viene poi chiamato […] l’“essere”. Tale confusione comincia già con Platone e Aristotele, nel momento in cui la questione dell’enticità nel senso della questione dell’eçdoj e del koin“n, viene esplicitamente posta, identificandoli per di più rispettivamente nell’ ¢gaq“n e nel dhmiourg“j e nel t’ prÓton kino‡n ¢kÖnhton; da quel momento comincia l’intreccio dell’oñn Œ ‘n col qeãon – cioè l’intreccio di “ontologia” e “teologia” 6.

In realtà già le Vorlesungen della seconda metà degli anni Venti come altresì Essere e tempo mostrano una caratterizzazione molto uniforme della tradizione del pensiero occidentale, considerata in modo fondamentalmente omogeneo, con chiare determinazioni della metafisica nella sua interezza come onto-teologia. Per quanto mi è dato sapere, il termine onto-teologia fa la sua comparsa nel lessico 5

Cfr. ibid., p. 224. Da qui la nota tesi heideggeriana dell’oblio della differenza ontologica da parte del pensiero metafisico: “La metafisica ritiene che si possa trovare l’essere presso l’ente, e in modo tale che il pensiero vada oltre l’ente. Quanto più esclusivamente il pensiero si rivolge all’ente e cerca per sé un fondamento che sia più essente […], tanto più decisamente la filosofia si allontana dalla verità dell’Essere” (ibid., pp. 182183). 6 Mn, p. 93.

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heideggeriano solo alcuni anni dopo, durante le lezioni friburghesi del semestre invernale del 1930/31 sulla Fenomenologia dello spirito hegeliana, ma la doppiezza speculativa della prËth filosofÖa aristotelica appare ad Heidegger come questione “onto-teologica” già intorno alla metà degli anni Venti. Mi sembra che questa consapevolezza emerga senz’altro già durante il corso marburghese del 1924/ 25, quando il riconoscimento esplicito della doppiezza della metafisica aristotelica nella comprensione heideggeriana diviene anche la domanda sull’origine, sulla ragione della duplicità: “Bisogna piuttosto porre la questione del perché la scienza greca giunse a questo cammino, in tal modo da approdare, per così dire, a queste due scienze fondamentali, ontologia e teologia” 7. Già in questo corso, dunque, le “due scienze fondamentali” rappresentano, in realtà, solo una reduplicazione del tema, della domanda sull’intero dell’ente che, in conformità alla concezione greca dell’essere come presenza (Anwesenheit), è in pari tempo considerato secondo il tratto generale del suo essere e in relazione a quell’ente che costituisce la forma più piena di presenza rispetto a tutti gli altri enti8. Sulla base di questo eloquente dato testuale mi pare si possa asserire che il circolo ermeneutico heideggeriano, scandito fra origine e compimento della metafisica, investendo il procedimento dell’ontoteologismo su tutta la tradizione, è una conquista che in qualche modo Heidegger matura all’interno del lavoro di scavo dentro la filosofia aristotelica sin dagli anni in cui il suo interesse si rivolge primariamente alla chiarificazione della fatticità e dei modi d’essere dell’esistenza umana. È attraverso l’individuazione del fatto che nella filosofia prima si annida una radicale duplicità onto-teologica che Heidegger, a mio avviso, si rende conto che nella questione della prËth filosofÖa entra in gioco il problema dell’essenza di tutta la metafisica. Sempre nel corso del 1924/25 egli sottolinea che è dentro questa radice greca dell’interrogare sull’ente che bisogna andare a 7 GA 19, p. 222. Poco prima si legge: “Tanto la teologia quanto l’ontologia sono dunque rivendicate come prËth filosofÖa” (ibid., p. 221). 8 “Per la teologia il tema è allora la presenza più alta e più autentica (die höchste und eigentlichste Anwesenheit), per l’ontologia ciò che costituisce la presenza in generale in quanto tale (Anwesenheit als solche überhaupt)” (ibid., p. 223).

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cercare, proprio perché rispetto alla problematica fondamentale sollevata dalla filosofia prima non è stato fatto “nessun passo in avanti” e, anzi, il suo significato è andato perduto9. Alle soglie della pubblicazione di Essere e tempo Heidegger è comunque ormai entrato pienamente nel mezzo di un serrato confronto con la metafisica tout court. Questo confronto, tuttavia, ancora fino ai primi anni Trenta, come mostra la corposa Vorlesung del semestre invernale del 1929/30, rispetto ad Aristotele conosce una certa oscillazione: se da una parte lo Stagirita è considerato il momento aurorale del pensiero metafisico, dall’altra è, però, sottratto al corpo della tradizione che ha, invece, nascosto e perso la ricchezza e l’originalità della speculazione aristotelica. Su un punto, nondimeno, Heidegger è netto: sin dal suo inizio aristotelico (se non in generale greco, considerando Aristotele il punto culminante della filosofia greca) la metafisica cela al suo interno qualcosa di oscuro che, però, la definisce essenzialmente. Nel corso del 1930/31 sopra ricordato Heidegger non solo dà al nocciolo essenziale della metafisica il nome di onto-teologia, ma mostra di avere individuato, secondo quelle che, certo, sono le linee portanti del suo pensiero dell’essere, la forma, il procedimento investigativo ed argomentativo che contraddistingue l’onto-teologismo. Dagli anni Trenta in poi, ormai padrone di una compiuta elaborazione del paradigma onto-teologico, quale appare nel modo più esemplare ed altresì più noto nel saggio del 1957 su La costituzione onto-teologica della metafisica, egli si muove per intero entro la circolarità della storia della metafisica fra inizio e compimento. Non problematizza più, quindi, la questione dell’onto-teologia con riferimento specifico ad Aristotele, procedendo ad una comprensione dell’essenza della metafisica in generale che solo in superficie ha il tratto della polemica10. 9 “Se in una veduta d’insieme si guarda allo sviluppo di questa intera problematica, quindi della problematica fondamentale dell’ontologia, a partire dai Greci e da Aristotele fino ad oggi, si può dire che in effetti non abbiamo fatto nessun passo in avanti, che anzi, al contrario, abbiamo perso la posizione che i Greci avevano conquistato e che, dunque, non comprendiamo più queste domande” (ibidem). 10 In merito basti qui rimandare alle significative parole del paragrafo 34 (Die Überwindung der Metaphysik. Der Übergang) in Die Geschichte des Seyns: “Il passaggio dalla metafisica al domandare in conformità alla storia dell’Essere (das seynsgeschichtliche

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Anche dopo gli anni Trenta, il movimento di comprensione heideggeriano, infatti, continua a sottostare allo stesso ritmo ermeneutico che domina Essere e tempo e che si annuncia già sin dai primi corsi di lezioni ed espressamente nel Natorp-Bericht o nel corso del semestre estivo del 1923 Ontologia. Ermeneutica della effettività 11. È il tipico andamento dell’Auslegung fenomenologica heideggeriana che si scandisce in Destruktion, ursprüngliche Aneignung, Wiederholung (“distruzione”, “appropriazione originaria”, “ripetizione”). L’invito al superamento della metafisica si consuma sempre a partire dallo sforzo di un costante ripensamento della sua essenza, nell’ottica di un convinto fermarsi al suo interno, passando attraverso una sua riappropriazione quale segno di effettiva e genuina comprensione: “Oltrepassare” significa portare qualcosa dietro di sé e sotto di sé; […] il portare qualcosa dietro di sé, affinché ciò che è oltrepassato venga, nel contempo, apparentato all’altro che invece oltrepassa – e cioè muti in seguito all’oltrepassamento stesso. […] L’oltrepassamento, in primo luogo, deve esprimere ciò che va oltrepassato in quanto tale. È in questo modo che con la questione del “senso dell’essere” sviluppata in Essere e tempo, viene “ripetuta” la questione dell’essere Fragen) è essenzialmente un passare della metafisica nel senso che non è più possibile domandare alla sua maniera. L’oltrepassamento non deriva da una ‘critica’ della metafisica, ma è la storia della necessità della fondazione della verità dell’Essere a partire dalla quale inizialmente si interroga” (GA 69, p. 36. Cfr. anche Mn, §§ 6, 23, 28). 11 Cfr. OEE, pp. 82-83: “Si tratta […] di pervenire a una comprensione della cosa che sia libera da coperture. A tal fine è necessaria l’apertura della storia delle coperture. Bisogna seguire la tradizione delle questioni filosofiche fino alle fonti della cosa. La tradizione deve essere demolita. […] Demolizione significa qui: ritorno alla filosofia greca, a Aristotele, per vedere come un originale determinato pervenga al degrado e alla copertura, e vedere che noi stiamo in questo degrado. Corrispondentemente alla nostra posizione bisogna delineare nuovamente la posizione originaria; cioè essa, corrispondentemente alla mutata situazione storica, è qualcosa di diverso e pur tuttavia la stessa cosa. In questo modo è infine offerta la possibilità di incontrare originariamente l’oggetto della filosofia”. Cfr. Pff, p. 21: “[A]ll’interpretazione concettuale dell’essere e delle sue strutture […] appartiene necessariamente una distruzione, cioè una decostruzione critica di quei concetti che sono tramandati e che debbono anzitutto essere necessariamente impiegati, allo scopo di risalire alle fonti da cui sono scaturiti. Solo attraverso una tale distruzione l’ontologia può assicurarsi fenomenologicamente della genuinità dei propri concetti. […] La costruzione della filosofia è necessariamente distruzione, vale a dire è una decostruzione di ciò che è stato tramandato attuata con un ritorno storico alla tradizione. Questo non significa negare la tradizione o condannarla all’annullamento: vuol dire invece appropriarsi positivamente di essa”.

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propria della metafisica – cioè viene nuovamente posta, e precisamente in modo più originario e viene interrogata in modo completamente diverso. […] Il passaggio è attuato in una forma assolutamente decisa e definitiva, ma, al tempo stesso, è presente anche la volontà di riappropriarsi della tradizione nella sua essenza in vista del futuro12.

È stato fin troppo sottolineato in sede critica il limite della compattezza della lettura heideggeriana della tradizione metafisica come forma di pensiero onto-teologico, a prescindere dalle intenzioni speculative sottese all’esegesi13. Nondimeno, proprio accogliendo da Heidegger questa caratterizzazione così unitaria della storia del pensiero filosofico, è possibile fare emergere l’andamento bizzarro, il carattere paradossale della metafisica nel suo sviluppo storico. Nel processo di rigorosa determinazione dell’ambito di competenza della metafisica si mostra il paradosso della tradizione metafisica, nel continuo oscillare fra il prevalere ora della teologia ora dell’ontologia, nel costante disequilibrio e nel conseguente reiterato tentativo di semplificazione fra esse14. Nel paradosso si compie, in altri 12

Mn, pp. 14-15. Con molto equilibrio François Jaran nota il pregio ed insieme il rischio del paradigma heideggeriano. L’operazione heideggeriana, riconducendo la complessità della tradizione “alla semplicità di un problema fondamentale” (la Leitfrage, la domanda sull’essere dell’ente), infatti, è “potenzialmente erronea”, nella misura in cui tralascia di considerare “le particolarità di ogni mossa filosofica individuale”. D’altro canto essa offre la possibilità di “leggere la storia della filosofia come una successione di risposte tacite a questa questione che rimane al fondo di tutta la riflessione filosofica” (cfr. F. Jaran, “L’onto-théologie dans l’œuvre de Martin Heidegger. Récit d’une confrontation avec la pensée occidentale”, Philosophie 91 (2006), pp. 37-62). Quindi, in questa presentazione quasi in blocco della storia del pensiero filosofico, il paradigma heideggeriano, anche nella prospettiva di un’analisi storiografica, permette di cogliere lo sviluppo diacronico della tradizione, ma gioco-forza corre il rischio di sfociare in una schematizzazione troppo semplicistica rispetto al carattere composito della storia della filosofia. 14 Lauri Routila osserva che rispetto alla questione dell’ambiguità della metafisica aristotelica storicamente si sono profilati due sentieri di comprensione prevalenti: “Ci sono innanzitutto due modi fondamentali di affrontare ermeneuticamente questa ambivalenza: o si cerca di trovare un appiglio interno che sia in grado di riunire le determinazioni dei concetti all’apparenza eterogenei e, attraverso questo modo, di respingere come insostenibile la supposizione di una contraddizione; o si cerca, tuttavia, di rendere comprensibile la non unitarietà di questi elementi partendo dalla particolarità sia letteraria sia concettuale della Metafisica aristotelica e in questo modo di chiarire la supposta contraddizione in parte da un punto di vista storico in parte da un punto di vista sistematico. A quasi tutti i commentatori ed interpreti di Aristotele antichi e medioevali la pri13

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termini, la fuga della tradizione dalla sua origine aristotelica. Storicamente in atto già all’interno del primo Peripato, essa si consuma in tutta la sua portata non già quando la metafisica dell’età moderna sarà capace di procedere all’edificazione di un compiuto sistema della metafisica senza più la necessità di rifarsi esplicitamente ad Aristotele, bensì proprio nel momento in cui Aristotele è espressamente assunto come l’autorità per eccellenza, ossia durante il Medioevo ed il Rinascimento. La fuga è chiara, cioè, proprio in quel continuo bisogno di “superare” l’ambiguità della filosofia prima, discutendola solo in vista della sua soluzione per trarsene fuori, dato che essa fa da impedimento ad una corretta formulazione e definizione della metafisica secondo il suo oggetto. Qui sommessamente Aristotele esce di scena. Ma proprio così la fuga diventa paradosso: la duplicità continua a riproporsi intoccata ben oltre – se non a dispetto – le intenzioni di unificazione secondo cui, invece, la metafisica si determina via via come scienza prima, dando ogni volta fondazione al proprio progetto di ricerca15. In altri termini, assumendo la lettura ma via si presentò così scontata che a stento si parlò allora di una contraddizione in Aristotele. Si accentuarono però queste due diverse determinazioni concettuali in diverse interpretazioni e in diversi modi, e si giunse spesso ad una discussione che immediatamente toccava questo problema” (L. Routila, Die aristotelische Idee der ersten Philosophie. Untersuchungen zur onto-theologischen Verfassung der Metaphysik des Aristoteles, NorthHolland Publishing Company, Amsterdam 1969, p. 14). Dalle parole di Routila emerge con ancora più chiarezza l’eccentrica condizione della metafisica: la riunificazione degli elementi eterogenei, tale da lasciare scomparire la contraddittorietà della lezione aristotelica nella sua ripresentazione e rilettura sistematica, fa da contraltare all’essenza (duplice, onto-teologica) della stessa tradizione metafisica che si rapporta ad Aristotele come alla sua fonte. Nell’interpretazione Aristotele diviene altro, in quanto ogni esegesi si converte in espressione di pensiero autonomo; nello stesso tempo, tuttavia, resta immutata, al fondo e nascostamente, celata agli occhi anche dei protagonisti, la trama, la condizione strutturale originaria della metafisica che, proprio passando attraverso il lavoro esegetico, si vorrebbe rimodellare e riformare per riconsegnarla in modo organico, profondamente unitario e non aporetico. 15 Interessanti le osservazioni di René Lefebvre, secondo cui nella lettura heideggeriana il rapporto fra teologia e ontologia appare “essenzialmente paradossale”. È il paradosso di un “equilibrio squilibrato” per il quale “i rispettivi pesi dell’ontologia e della teologia sembrano suscettibili di variare all’interno della struttura metafisica e, difatti, il peso della teologia va crescendo”. Ancora, è il “paradosso della simultaneità successiva: ontologia e teologia sono simultanee e penetrano congiuntamente dentro la storia quando si costituisce la metafisica, ma vi è una storicità specifica della problematica teologica”. Ulteriormente è il “paradosso dell’evenemenziale originale: la metafisica è origina-

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di Heidegger secondo cui l’intera tradizione metafisica è segnata da un’invalicabile duplicità onto-teologica essenziale, ogni articolazione del nesso fra ontologia e teologia, ogni esplicazione del rapporto fra l’ente e l’ente divino (il primo ente), insiste di fatto su una relazione di tipo onto-teologico. Anche i tentativi di reductio ad unum o di eliminazione a monte di uno dei due tratti tematici, attraverso una previa definizione dei caratteri della metafisica come scienza, corrispondono ad una procedura onto-teologica di fondo. Ecco, allora, che nel paradosso si rivela una mancata presa d’atto di sé della metafisica. Diviene significativo, pertanto, che Heidegger riesca a portare alla luce il nesso onto-teologico latente in ogni pagina della storia della metafisica. Il nesso, cioè, è operativo ogni volta che (per Heidegger costantemente nella tradizione metafisica) per dare ragione dell’essere dell’ente si assume una forma suprema di ente, ossia ogni volta che il piano dell’essere (sia pure come essere dell’ente) è confuso o sostituito con il piano dell’ente16. riamente insieme ontologica e teologica, eppure in essa accade l’ingresso di Dio, della teologia e della struttura onto-teologica”. Parimenti è il “paradosso dell’esclusione e dell’inclusione: ontologia e teologia si oppongono l’una all’altra come due movimenti distinti, l’ontologia sembra in quanto scienza universale precedere la teologia, scienza del primo; conseguentemente si può parlare della teologia come di uno studio che resta ontologico, poiché recupera, curvatura interna dell’ontologia, l’universalità dell’ente”. Infine si tratta del “paradosso del fondato fondante: la teologia mette radici dentro un’ontologia che la fonda; d’altra parte chi dice “logia” dice ricerca di una ragione di modo che non si può ipotizzare di parlare di un’ontologia se non siamo già dentro la logica; ma se siamo dentro la logica, siamo dentro la teo-logia che è ricerca di un fondamento ultimo; ontologia e teologia si fondano dunque reciprocamente” (R. Lefebvre, “L’image onto-théologique de la Métaphysique d’Aristote”, Revue de Philosophie Ancienne 2 (1990), pp. 136-137). 16 È opportuno ricordare che, individuando anche in Kant e in Nietzsche l’uso di questo nesso, Heidegger legge pure le loro posizioni come forme di onto-teologismo metafisico. La volontà di potenza e l’eterno ritorno dell’uguale, in quanto i modi con cui Nietzsche pensa l’essenza dell’ente e la sua esistenza, ricalcherebbero la stessa struttura, lo stesso procedimento della metafisica a lui precedente. Anche Kant, che avrebbe compiuto un primo sforzo nella chiarificazione dell’essenza della metafisica, rimane per Heidegger imbrigliato nella trama dell’onto-teologia. E, si potrebbe dire, financo Husserl dovrebbe essere considerato un onto-teologo nell’ottica di Heidegger. Se, infatti, l’ente da ultimo è il rappresentato, ossia quel che è restituito alla soggettività secondo i modi propri del soggetto (l’ente come fenomeno ridotto alla coscienza, come intenzionato da essa secondo Husserl) e se, dunque, il modo d’essere dell’ente è l’insieme delle caratteristiche che, per così dire, sono dell’ente solo in quanto esso è oggetto di un sogget-

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Quel che Heidegger mette in evidenza è che vi è una componente “logica” ineliminabile che accompagna o determina il movimento di intersecazione reciproca fra ontologia e teologia, e ciò a prescindere da una determinazione definitoria prettamente ontologica o teologica della metafisica. È perché vi è un’esigenza razionale di tipo fondativo (sostanzialmente secondo Heidegger nella forma della relazione causale) che sia in grado di restituire all’uomo una comprensione in termini universali, senza eccezioni, del modo d’essere essenziale del reale, che la metafisica, ogni visione metafisica, rimane segnata da una procedura onto-teologica17. In effetti, è in forza di questa esigenza, di questo bisogno di individuazione del principio primo che la metafisica ha voluto esprimere la sua scientificità. A questo riguardo la lettura heideggeriana dell’onto-teologismo presenta un particolare merito esegetico. La struttura individuata da Heidegger dà, infatti, conto della peculiare configurazione epistemica della filosofia prima nell’intreccio fra le due determinazioni dell’enticità nel modo della generalità (koin“n) e nel modo della preminenza (qeãon, timiËtaton gönoj): è in questo intreccio che si compie la volontà della prËth filosofÖa di porsi come la prima fra le scienze rispetto al compito di conquistare una conoscenza di tipo universale, in grado di soddisfare il criterio dell’esaustività. Sarebbe ancora parziale una conoscenza che esibisse solo il che cosa l’ente nella sua interezza sia (”ti), restando ferma alla generalità dell’ente nel senso dell’enticità come essere dell’ente, ma non desse conto del perché l’intero dell’ente sia così (di“ti) – domanda questa che mette in gioco la condizione della preminenza di un ente che si dà come prËth ¢rcª, come principio primo dell’intero. D’altro canto, non sarebbe possibile dare ragione dell’essere così sul piano dell’essere dell’ente se non si indagasto secondo le forme di cattura del soggetto, la mossa onto-teologica è già consumata. Oltre questo grado dell’enticità, ossia oltre questa modalità di concepire il che cos’è dell’ente (l’oggetto in generale) come fenomeno della soggettività, non è possibile procedere. Ciò vuol dire che l’essere dell’ente, l’enticità, è anche in questo caso pensato come ente, sia pure nel modo più generale possibile, secondo forme non ancora riempite dalla concretezza di ogni singolo ente determinato che di volta in volta è oggetto per il soggetto. 17 “L’essere, pensato in termini metafisici, è ciò che è pensato muovendo dall’ente quale sua determinazione più universale e andando all’ente quale suo fondamento e causa. […] L’ente vale come ciò che richiede una spiegazione” (Ntzse, p. 397).

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se che cosa sia questo essere così, cosa sia l’essere dell’ente18. Proprio cercando di esplicitare l’essenza del suo indagare, puntualizzando con rigore il tema della sua indagine e mostrando la legittimità epistemica del suo modo di procedere, la metafisica tenta, dunque, nel corso della sua storia di fondarsi come scienza – vale a dire, se mi si concede la formulazione, come un sapere che è in grado di dire, mostrandolo in un ragionamento, come stiano effettivamente le cose –, epurando quelle che sono considerate contraddizioni interne alla sua costituzione. In questa maniera risolvere la questione dello statuto della metafisica, guardando ad Aristotele in modo programmatico e sciogliendo l’aporia della duplice determinazione della filosofia prima, comporta – e per Heidegger ciò è accaduto – il rischio per la metafisica di negare e fraintendere la propria struttura. Si evidenzia così un ulteriore senso del paradosso: secondo il suo piano di lavoro la metafisica vuole esplicitamente dare ragione di sé e del suo indagare, fino anzi a considerare questo aspetto della sua opera come una condizione indispensabile per la sua fondazione epistemica, ma nell’atto con cui essa risolve ciò che al suo interno le appare aporetico, si lascia sfuggire quel che la contraddistingue in modo peculiare. Ciò significa che essa fallirebbe – non per l’incapacità dei suoi autori, ma per sua struttura – in un’operazione che considera indispensabile per garantirsi la certezza del proprio statuto conoscitivo. Questa sorta di incoerenza, di discrepanza fra le intenzioni della metafisica e quel che si verifica di fatto nella sua storia è enfatizzata in vario modo da Heidegger: il gesto entro cui si iscrive la duplicità della metafisica non è solo quello della dimenticanza della differenza ontologica, ma insieme anche quello della rimozione di una tale di18

Heidegger esprime così la necessità della fusione delle due istanze nell’unità ontoteologica della metafisica in quanto espressione dell’unità fra la considerazione dell’ente in quanto koin“n e la considerazione dell’ente in quanto qeãon: “L’unità di questo uno è di un genere tale per cui la dimensione ultima [scil. l’ente in quanto ente sommo secondo l’istanza teologica] fonda nella maniera che le è propria la dimensione primaria [scil. l’ente secondo il suo tratto essenziale universale in conformità all’istanza ontologica] e la dimensione primaria secondo la maniera che le è propria la dimensione ultima” (ID, p. 28). In sintesi: “Sull’unità dell’essente come tale nella sua dimensione generale e nella sua dimensione suprema si basa la costituzione dell’essenza della metafisica” (ibid., p. 29).

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menticanza. Più precisamente Heidegger ritiene che la discrepanza sia il segno di un’infondatezza che scaturisce dal mancato riconoscimento da parte della metafisica dello Zwiespalt che costitutivamente la attraversa. D’altra parte, nella prospettiva della storia dell’essere heideggeriana, questo riconoscimento porterebbe la metafisica già oltre se stessa. Se essa comprendesse l’essenzialità dello Zwiespalt, dovrebbe altresì rendersi conto del suo originario atto di riduzione dell’essere all’ente e, dunque, del suo occultamento della differenza ontologica. Ma proprio la mossa dell’occultamento è quella che storicamente, per Heidegger, segna il nascere della metafisica come onto-teologia. Se, quindi, la metafisica correggesse il suo tiro, si porterebbe già alle spalle di se stessa, consegnandosi ad un altro destino. Così, stando per esempio a quanto Heidegger asserisce nei Concetti fondamentali della metafisica. Mondo-finitezza-solitudine, è già nell’origine aristotelica della duplicità della metafisica che è da individuare l’infondatezza dell’onto-teologismo metafisico. Proprio perché il nesso onto-teologico secondo Heidegger non viene mai posto in questione o, per meglio dire, proprio perché nel considerarlo una questione da risolvere si procede al suo apparente scioglimento, esso resta radicalmente problematico. È questione, dunque, che deve essere portata fino in fondo all’evidenza di un problema, esplicitata come tale in una perspicua formulazione: solo così si può procedere alla sua piena chiarificazione. L’operazione heideggeriana, per questo, non ha come esito la risoluzione della duplicità, ma semmai la sua interpretazione all’interno della storia dell’essere, di cui la metafisica stessa è parte. Nella rimozione dello Zwiespalt, quindi, non solo si consumano sotto la forma della riduzione dell’essere all’ente l’oblio della differenza ontologica ed il nascondimento di questo stesso oblio, ma si produce nel contempo un vero e proprio “effetto-schermo”. Su questo punto Heidegger è deciso. Segno della deviazione della metafisica dal pensiero dell’essere verso la riflessione sull’ente, la riduzione dell’essere all’ente provoca l’impossibilità per la metafisica di recuperare il senso della sua essenza come forma di pensiero dell’ente. Dalla direzione verso l’essere, a cui essa sarebbe in linea di principio orientata come ricerca dell’essere dell’ente secondo il movimento di oltre-

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passamento dell’ente, la metafisica ritorna indietro all’ente: essa trascende sì la totalità dell’ente, ma puntando, in realtà, ad un ente primo19. Questo genere di riduzione dell’essere, secondo Heidegger radicalmente strutturato nel modo di domandare la Leitfrage e di darle risposta, è considerato una diretta conseguenza della dimenticanza della differenza ontologica da parte del pensiero metafisico20. In questo preciso senso Heidegger indica nella differenza ontologica il fondo da cui nasce la questione portante della tradizione intorno all’ente in quanto tale nella sua totalità: “La differenza di essente ed essere è l’ambito all’interno del quale la metafisica, il pensiero occidentale nella totalità della sua essenza, può essere ciò che è” 21. La genesi dell’onto-teologismo è, dunque, vista in riferimento alla differenza ontologica, ma al modo di un movimento inverso rispetto a quello che direttamente scaturirebbe dalla differenza stessa e che, di contro, darebbe vita ad un pensiero autentico dell’essere volto alla domanda fondamentale (Grundfrage) sull’essere e non sull’ente. La Leitfrage esprime lo sviamento metafisico dall’essere secondo la sua peculiare modalità di concepire l’ente in conformità alla compagine storica di scopertura e copertura propria dell’essere. Sulla base di questa comprensione dell’essenza della metafisica come oblio della 19 “Poiché ogni ontologia […] domanda dell’ente in quanto ente, e solo ed esclusivamente in questa prospettiva domanda anche dell’essere, essa si spinge nell’ambito della domanda fondamentale […]. Ma l’ontologia non ha alcun sentore di questa domanda fondamentale come tale né potrà mai riconoscere l’Essere nella sua somma dignità di domanda” (Cf, p. 214). La metafisica, quindi, non può mai chiedere dell’essere (la domanda fondamentale) e rimane sempre chiusa nell’ambito della domanda sull’ente (domanda-guida) poiché l’essere è sempre considerato al modo di un ente sommo: “ [C]on lo sviluppo dell’ontologia in onto-teologia è suggellata la definitiva rimozione della domanda fondamentale” (ibidem). 20 In Cf Heidegger osserva, infatti, che per il suo tratto essenziale di riduzione dell’essere all’ente l’intera tradizione si lascia unificare sotto la dicitura di “metafisica”, sia pure “nelle sue diverse epoche, secondo i diversi gradi di potenza del primato dell’essere sull’ente, dell’ente sull’essere, del confondersi di entrambi” (ibid., p. 420): “Il nome “metafisica” è qui utilizzato senza riserve per caratterizzare l’intera storia della filosofia fino ad oggi. Non vale come titolo di una “disciplina” filosofica di scuola; anche la sua genesi tarda e in parte artificiale è trascurata. Il nome indica che il pensiero dell’essere prende l’ente, nel senso di ciò che è lì presente e sussistente, come punto di partenza e come meta per l’ascesa verso l’essere, la quale diventa subito la discesa che riporta all’ente” (ibid., p. 413). 21 ID, pp. 22-23.

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differenza ontologica, Heidegger allora procede alla generalizzazione della storia della tradizione: dalla grecità fino a Nietzsche la metafisica si sviluppa secondo un modo d’essere “non essenziale”; la sua essenza è, di fatto, un Unwesen, una “malaessenza”, una “non essenza”. Non conformandosi al rispetto della differenza ontologica, essa asseconda il prevalare storico del pensiero dell’ente (il pensiero ontico inessenziale per la verità dell’essere) sul pensiero dell’essere (pensiero ontologico centrato sulla Grundfrage): “[L]a non essenza della metafisica consiste nel fatto che in essa […] l’essere non giunge in generale a dominare nella sua problematicità” 22. Heidegger non ritiene solo che Aristotele, nel caratterizzare espressamente in Metafisica E, capitolo I l’indagine metafisica secondo la duplicità onto-teologica, non sia stato in grado di spiegare le ragioni della divaricazione ed insieme della sovrapposizione fra ontologia e teologia, cioè di questo movimento speculativo essenziale per il costituirsi dell’interrogare della metafisica intorno all’ente. Reputa addirittura che lo Stagirita sia rimasto del tutto inconsapevole del passaggio alla duplicità e della problematica in essa veicolata. Parallelamente, però, attraverso il lavoro di genuina comprensione della filosofia aristotelica, egli è convinto della possibilità di rintracciare la ragione speculativa, il fondamento del passaggio, dell’approdo ad una determinazione onto-teologica della metafisica, isolando nella concezione dell’essere come presenza e nell’oblio della differenza ontologica i motivi originari del dispiegamento della compagine onto-teologica sin dall’epoca greca. Tali motivi, sfuggiti alla consapevolezza critica della tradizione su di sé, rendono, secondo Heidegger, la metafisica una forma di pensiero che non riesce a porre effettivamente in questione la sua ragione d’essere, se non – e solo in qualche modo, parzialmente – con Kant 23. 22

Mn, p. 19. Secondo Heidegger, per esattezza, Kant rappresenta il momento in cui la metafisica riflette su di sé, ma l’esito dell’operazione kantiana rimane, a detta di Heidegger, prettamente metafisico; Kant, anzi, inaugura nella storia della metafisica quella direzione che poi viene pienamente in luce con l’Idealismo, e soprattutto con Hegel nella forma dell’onto-ego-teo-logia. Per questo, il lavoro critico kantiano, che pure è diretto contro la metafisica di tipo onto-teologico wolffiano, resta per Heidegger una “metafisica della metafisica”, ossia “non rappresenta affatto un oltrepassamento della metafisica, anzi […] 23

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È a partire primariamente dalla dimenticanza della differenza di essere ed ente che la metafisica nell’ottica heideggeriana conosce, dunque, la propria genesi. Secondo questa chiave di lettura è come se una sorta di eccedenza sfuggisse sempre alla metafisica sin dal suo comparire in qualche modo già impegnata nella riflessione sul proprio statuto. Secondo il paradigma heideggeriano, la metafisica manca la comprensione della sua essenza in quanto non coglie la natura del suo procedimento metodico distintivo in base al quale la totalità dell’ente è sempre presa di mira avendo in vista un ente primo determinato che, per il suo modo d’essere, è fondamento dell’essenza dell’ente in quanto tale. Questo procedimento, che lungo il corso della tradizione si fa forte delle prove dell’esistenza di Dio come primo ente sommo perfetto, fondamento inconcusso del reale, è la chiara espressione dell’onto-teologismo della metafisica. Senza afferrare la strutturalità dell’ambivalenza onto-teologica della propria procedura investigativa – e, quindi, senza comprendere l’impossibilità della negazione di questa strutturalità se non a costo della perdita della propria essenza – la metafisica determina di volta in volta il suo tema di competenza in senso strettamente teologico o in senso squisitamente ontologico. Essa, allora, scinde all’apparenza l’unità del suo essenziale procedimento costitutivo; di fatto essa è, però, soggetta ad una forma di pensiero centrato sull’ente e non sull’essere: ciò, appunto, la determina come onto-teologia. Optando per una determinazione teologica contro una ontologica più neutra, la metafisica indaga precipuamente sull’ente divino e da qui si rivolge all’interezza dell’ente sussumendolo come principiaè piuttosto il preambolo per la metafisica nella sua configurazione moderna” (Mn, p. 16). Secondo Heidegger Kant indirizza definitivamente la metafisica verso il primato della egoità, della soggettività sull’oggetto (ente, essere) entro le trame di un pensiero di tipo rappresentativo che concepisce l’ente come Gegen-stand (quel che sta di fronte), dettando al fenomeno (all’oggetto in generale) condizioni di possibilità e di manifestatività che sono proprie dell’ego e non della cosa stessa: “L’essere è, secondo Kant, condizione della possibilità dell’ente, è l’enticità di quest’ultimo. Qui enticità ed ente vogliono dire, corrispondentemente alla posizione di fondo dell’età moderna, rappresentatezza, oggettività. Il principio supremo della metafisica di Kant dice: le condizioni della possibilità del rap-presentare il rap-presentato sono al tempo stesso, cioè non sono altro che, condizioni della possibilità del rappresentato. Esse costituiscono la rappresentatezza; ma questa è l’essenza dell’oggettività e quest’ultima l’essenza dell’essere” (Ntzse, p. 723).

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to dalla causa prima o, comunque, considerandolo come un derivato rispetto ad un significato primo di essente che è racchiuso nel modo d’essere della realtà soprasensibile. Nel connotarsi in senso ontologico, la metafisica indaga sull’ente in quanto tale, collocando l’ente sommo come parte di una totalità di altri enti con cui esso ha in comune medesime determinazioni e proprietà sul piano essenziale. Tuttavia, in entrambi i casi – ed è qui il punto nevralgico della lettura heideggeriana – la conquistata univocità della determinazione tematica non corrisponde affatto alla neutralizzazione della procedura onto-teologica, ma insiste segretamente su di essa, nella misura in cui mantiene comunque intatto l’impianto che, assumendo l’essere dell’ente in generale sotto la forma del rinvio ad un ente che sia tale in sommo grado, assume al tempo stesso l’essere di un tale ente sommo nella forma della condizione sufficiente a dar ragione dell’essere dell’ente in generale. Dichiarando in modo perentorio il fallimento della metafisica quanto alla comprensione di sé come se si trattasse di un dato storico ormai accertato, Heidegger evidenzia, così, la necessità di un passo indietro che “s’incammina verso l’essenza della metafisica partendo dalla metafisica” 24. Onto-teologia diviene il nome dell’“unità ancora impensata dell’essenza della metafisica”25; con questo resta inteso che la metafisica non ha mai questionato e, quindi, veramente pensato il proprio modo d’essere costitutivo, quasi, in tal modo, fuggendo a se stessa.

2. Il meccanismo di riduzione nell’onto-teologismo Nella prospettiva heideggeriana la défaillance della metafisica sorge dal meccanismo di riduzione che contraddistingue la peculiare modalità del suo interrogare sull’ente. Essa non coglie la provenienza dell’unità di ontologia e teologia, non afferrando l’origine della propria essenza, poiché non preserva l’eccedenza dell’essere rispetto al24 25

ID, p. 23. Ibid., p. 25.

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l’ente. Pur consegnandosi come Ereignis, come evento che si appropria della storia e così dell’esserci solo entro l’orizzonte della natura e della temporalità, l’essere per Heidegger non vi rimane, però, circoscritto nell’enigmatica provenienza della sua Gabe, della sua donazione originaria e della sua destinazione26. Ciò marca uno scarto irriducibile fra l’essere (Seyn) e l’essere dell’ente (Sein). Attraverso la domanda-guida (Leitfrage) sull’ente in quanto tale la metafisica si rivolge solo all’essere dell’ente. Senza cogliere la differenza ontologica, essa riduce dapprima l’eccedenza dell’essere, riconducendo l’essere all’essere dell’ente e pensando, poi, quest’ultimo, secondo lo stesso meccanismo di riduzione, come un ente determinato che è sommo e, quindi, tale da eccedere ogni altro ente. In quest’ottica la storia della metafisica appare come il reiterato restringimento dell’essere al rango di un ente, sia pure eccellente. Questo meccanismo di riduzione è in funzione, in modo inequivocabile secondo Heidegger, sin da Platone ed Aristotele il quale, appunto, è riconosciuto, sul piano della concettualizzazione formale della metafisica, come l’artefice della stabilizzazione della riduzione dell’essere all’ente e della conseguente essenziale duplicità dell’interrogare metafisico: 26 Secondo il registro concettuale del seynsgeschichtliche Denken, la metafisica è da intendere come “storia delle configurazioni dell’essere” (TE, p. 151), ossia – spiega Heidegger – come “oblio dell’essere”, “storia del nascondimento e del ritrarsi di ciò che dà essere” (ibidem). Si tratta di due facce, per così dire, della stessa medaglia. Liberando l’idea della metafisica dalla categoria dell’errore, Heidegger ritiene che il dispiegamento della metafisica, da un lato abbia luogo a partire dalla ritrazione dell’essere, necessaria per la piena manifestazione dell’ente. Dall’altro lato, corrispondendo al prevalere dell’ente quando nell’evento l’essere si appropria del tempo e determina la pienezza e molteplicità del regno ontico, il pensiero dimentica la differenza ontologica, attivando il dispositivo della riduzione dell’essere ad ente. L’abbandono dell’essere in favore dell’ente da parte del pensiero è, dunque, espressione di una corrispondenza fra l’esserci e l’accadere dell’essere nella storia secondo la sua modalità di donazione e ritrazione. Se il pensiero, tuttavia, discostandosi dall’orizzonte dell’ente, che è quello che gli è più familiare e di più facile accesso, riesce a “soggiornare” presso l’essere (“prendere dimora del pensiero nell’Eregnis”), la metafisica “finisce”, cioè si ha la “fine di questa storia del ritrarsi”. In tal senso Heidegger asserisce che “[l]’oblio dell’essere si ‘supera’ con il destarsi [scil. del pensiero] per l’Ereignis” (ibidem). Il tema è molto complesso per potere essere ridotto qui allo spazio di una nota; nondimeno è utile tenere presente la questione per meglio comprendere il senso generale della lettura heideggeriana della metafisica anche in riferimento ad Aristotele.

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La metafisica riconosce precisamente: che l’essente non è senza l’essere. Ma appena lo ha detto, essa traspone di nuovo l’essere in un essente, sia esso l’essente sommo nel senso della causa suprema, o sia invece l’essente per eccellenza nel senso del soggetto della soggettività quale condizione della possibilità di ogni oggettività, o sia infine, in conseguenza della co-appartenenza delle due fondazioni dell’essere nell’essente, la determinazione dell’essente sommo come Assoluto nel senso della soggettività incondizionata. Questa fondazione dell’essere […] su quello che tra gli essenti è più essente, prende le mosse, in conformità con la domanda metafisica, dall’essente in quanto tale. Essa esperisce: che l’essente è. Viene sfiorata, come di passaggio, dal pensiero che l’essere è essenzialmente presente (west). Ma questa esperienza imbocca inavvedutamente il corso dell’interrogare metafisico che […] interroga in direzione della causa suprema e del fondamento, che è, dell’essente. È la domanda dello qeãon, che sorge già all’inizio della metafisica in Platone e in Aristotele, cioè dall’essenza della metafisica27.

Heidegger asserisce in modo perentorio che comprendere l’ambiguità costitutiva della metafisica significa non assorbire nessuna delle due istanze (l’ontologica e la teologica) nell’altra, sebbene, come mostrerò nel quarto paragrafo, vi sia un definitivo esito teologico nell’onto-teologismo metafisico. La riduzione di una delle due istanze nell’altra, infatti, non è corrispondente all’articolazione interna e all’intersecazione dei due modi fondamentali attraverso cui la metafisica interroga sull’ente. L’ambiguità originaria della metafisica non nasce dal fatto che essa nello stesso tempo dichiara come suo oggetto due cose diverse come l’intero dell’ente e l’ente divino. Piuttosto si genera da una postura iniziale della metafisica, in cui l’ente in quanto tale, oggetto dell’interrogazione, si mostra già in se stesso, dunque ancora una volta in quanto tale, in modo duplice: l’ente svela il suo tratto essenziale universale (kaq“lou ÿp£rconta), ossia comune a tutti gli enti poiché proprio dell’ente in quanto tale; in pari tempo, nell’ente il tratto universale si consegna al modo del timiËtaton ‘n28. L’ente “più degno di onore” verso cui si volge la prËth filosofÖa dichiara un certo modo del pensiero metafisico di rapportarsi all’ente 27 28

Mn, pp. 189-190 (corsivo mio). Cfr. ibid., p. 88.

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Aristotele dopo Heidegger

nella sua totalità29. Per questo, il rinvio di ontologia e teologia è sempre reciproco e connaturato alla domanda sull’ente. Non potrebbe esservi interrogazione sull’ente in quanto tale senza il riferimento teologico, così come non potrebbe esservi interrogazione sull’ente sommo se non nello spazio della domanda sull’intero dell’ente. Spiega, infatti, ancora Heidegger: Ma la metafisica rappresenta l’enticità dell’ente in due modi: da un lato la totalità dell’ente come tale nel senso dei suoi tratti universali (oñn kaq“lou, koin“n), dall’altro la totalità dell’ente come tale nel senso dell’ente sommo e quindi divino (oñn kaq“lou, ¢kr“taton, qeãon)30.

Nel primo caso domina l’istanza razionale di abbracciare l’universalità, come l’orizzonte massimo entro cui è incluso tutto ciò che è, attraverso l’intellegibilità dell’essenza dell’ente in quanto tale. Nel secondo caso, con il restringimento della visuale metafisica su un ente ben preciso, sull’ente divino, prevale la necessità del dare conto dell’intero dell’ente attraverso la definizione del principio che determina l’enticità dell’ente31. È una duplicità che tradisce due modi 29 Courtine riassume così l’intreccio fra l’istanza ontologica e quella teologica, in cui la direzione teologica verso il qeãon, che pure comporta la riduzione dell’istanza ontologica a quella teologica, restituisce l’orizzonte dell’enticità e non dell’essere: “Tuttavia l’istanza così elevata a titolo di ente supremo – questa istanza benché separata e trascendente (oŸsÖa cwristª, ôpökeina t¡j oŸsÖaj) – resta ancora essente; la questione che investiga l’ente nel suo essere, la questione dell’essere dell’ente si concentra così sull’ente primo, il più alto o l’Altissimo, essa si fa protologia, ma perde con ciò stesso l’essere nella sua differenza radicale rispetto a tutto ciò che è” (J.-F. Courtine, “La critique schellingienne de l’ontothéologie”, in T. De Koninck-G. Planty-Bonjour (éd.), La question de Dieu selon Aristote et Hegel, Puf, Paris 1991, pp. 219-220). 30 Sgv, p. 330. In ID Heidegger commenta così questa sua lettura della metafisica: “Nella prolusione Che cos’è metafisica (1929) la metafisica viene quindi determinata come problema dell’essente in quanto tale e dell’essente nel suo tutto. La totalità di questo tutto è l’unità dell’essente, unità che unifica in quanto fondamento che fa emergere” (ID, p. 25). A tal proposito Courtine parla di una “ambiguità del kaq“lou”, sottolineando che è la medesima ambiguità dell’oŸsÖa nel senso dell’enticità in quanto il significato primo dell’ente e nel senso dell’ente divino, del motore immobile in quanto prËth oŸsÖa (cfr. J.-F. Courtine, Inventio analogiae. Métaphysique et ontothéologie, Vrin, Paris 2005, pp. 63-64). 31 Il tratto teologico della ôpistªmh qeologikª si commisura e si conforma al tratto epistemico della prËth filosofÖa come scienza dell’ente in quanto tale, giacché la scienza universale dell’ente dichiara di conoscere il proprio oggetto solo se ne conosce il principio. Questa lettura della ôpistªmh qeologikª corrisponde, in effetti, ad una precisa linea interpretativa in cui l’apertura ad una “teologia” sarebbe frutto della programmatica in-

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Struttura, procedura, esito dell’onto-teologismo metafisico

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affatto diversi ma correlati di concepire il senso della stabilità, della fondatezza del conoscere cui aspira la metafisica come scienza. Si tratta, cioè, dei due modi di fondazione attraverso cui la razionalità, espressa da quel suffisso logia che Heidegger ama rimarcare nella dizione onto-teo-logia, conferisce stabilità, validità e certezza, sul piano epistemico, alla conoscenza di cui è capace. Nondimeno – e su questo, quindi, Heidegger sembra assumere una posizione ben precisa nell’ambito della contesa intorno all’oggetto appropriato della metafisica – ciò su cui la metafisica interroga è primariamente l’ente nell’intera estensione, per così dire, del suo essere tale. Si danno, però, due differenti possibilità del fondare (gründen) ed è per questo che la metafisica si atteggia in pari tempo ontologicamente e teologicamente al cospetto dell’ente: “Il pensiero […] si raccoglie intorno all’essere come fondamento (Grund) nella forma di una ricerca del fondo (Ergründen) e di una fondazione giustificante (Begründung)”32. tenzione protologica della filosofia prima (cfr. ad. es. E. Berti, Introduzione alla metafisica, UTET, Torino 20065 e Struttura e significato della Metafisica di Aristotele, EDUSC, Roma 2006). È sotto questo riguardo, nota comunque Heidegger, che si apre l’ingresso dell’ente divino dentro il progetto ontologico della metafisica. In tal modo si calibra, certamente in una maniera già ben precisa, il riferimento reciproco di ontologia e teologia, assumendo la relazione causale fra l’ente e l’ente divino come trait d’union fra la considerazione dell’ente di tipo ontologico e quella di tipo teologico. Si tratta di una possibile lettura, a cui si possono opporre quelle esegesi che caratterizzano, invece, la teologia aristotelica come un tipo di scienza del tutto separata e differente dalla scienza dell’ente in quanto tale (cfr. ad es. A. Mansion, “Philosophie première, philosophie seconde et métaphysique chez Aristote”, Revue Philosophique de Louvain 56 (1958), pp. 165-221; P. Aubenque, Le problème de l’être chez Aristote, cit.) o quelle che intendono la metafisica aristotelica espressamente come una scienza che ha per tema la sostanza separata divina, cosa che, in quest’ultimo caso, legittimerebbe il parlare di una teologia aristotelica in senso proprio (cfr. ad es. P. Merlan, Dal Platonismo al Neoplatonismo, cit., e “Metaphysik: Name und Gegenstand”, cit.; J. Owens, The doctrine of Being in the Aristotelian Metaphysics, Pontifical Institute of Medieval Studies, Toronto 19783), o ancora quelle letture che vedono l’indirizzo teologico calibrarsi sul motivo principale e fondamentale di tipo ontologico, in una sostanziale convergenza fra indagine sull’ente in quanto tale e indagine sull’ente divino (cfr. ad es. S. Gomez Nogales, “The Meaning of ‘Being’ in Aristotle”, International Philosophical Quarterly 12 (1972), pp. 317-339; I. Bell, Metaphysics as an Aristotelian science, Academia Verlag, Sankt Augustin 2004; P. Donini, La Metafisica di Aristotele, Carocci, Roma 2007). 32 ID, p. 26. Così ancora Heidegger: “La metafisica pensa l’essere dell’essente tanto nell’unità di ciò che è più generale, ossia di ciò che è ovunque valido, unità che è ricerca del fondo [ergründende Einheit], quanto nell’unità della totalità, ossia di ciò che sta al di sopra di tutto, unità che è fondazione giustificante [begründende Einheit]” (ibid., p. 27).

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Aristotele dopo Heidegger

È un passaggio delicato, estremamente importante, giacché è proprio rispetto all’inestricabile vincolo fra le due modalità del fondare come due modi di guardare all’ente in quanto tale che Heidegger imposta la questione del Kerngehalt della metafisica. Cercando la semplificazione, in base alla lettura heideggeriana, si può schematizzare nel modo seguente: la metafisica ha come interesse precipuo la comprensione dell’ente nella sua universalità; questa comprensione si struttura secondo un duplice senso, un doppio modo di declinare l’universalità. Da un lato l’ente si può osservare in quanto ente: l’universalità è determinata nel senso dell’interezza, dell’ampiezza dell’orizzonte che costituisce l’oggetto d’indagine; non si osserva l’ente secondo un aspetto specifico, ma secondo quel che costituisce l’ente in conformità alla massima generalità dell’essenza sotto cui si sussume ogni ente determinato particolare33. Dall’altro lato l’universalità dell’ente si può considerare in riferimento al principio che, senza rimandare ulteriormente ad altra causa, fonda la totalità dell’ente34. 33 Cfr. Met. G, 1003b20 ss., dove Aristotele specifica che a differenza della metafisica “nessuna delle altre scienze esamina universalmente l’ente in quanto ente”. Rispetto a questa determinazione del modo in cui la metafisica considera il suo oggetto (l’ente in modo universale), Heidegger osserva che, nonostante l’esplicita indicazione aristotelica che l’essere non è un genere, l’essere dell’ente, l’enticità, come essenza dell’ente in quanto tale, è considerata, invece, come quel che è comune in un certo senso ad un insieme, ad una classe che è quella degli enti: “Nella sua forma più generale è stata formulata in Aristotele: tÖ t’ ‘n; “che cos’è l’ente?”, cioè, per lui, che cos’è l’oŸsÖa in quanto enticità dell’ente? Essere significa qui enticità. In ciò si esprime nello stesso tempo il fatto che, nonostante il rifiuto del carattere di genere dell’essere (in quanto enticità), lo si continua ad intendere sempre e soltanto come il koin“n, “ciò che è comune”, dunque come ciò che tutti gli enti hanno in comune” (Cf, p. 98). 34 Cfr. Met. A, 982b2 ss. Si tratta della concezione aristotelica della conoscenza epistemica: “attraverso (di£) essi [scil. principi primi e cause, t¶ prÓta kaà t¶ aátia] e a partire da essi (ôk) si conoscono le altre cose”; dunque conoscere l’ente nella sua totalità significa conoscere la causa di questa totalità. Si può ben obiettare che anche secondo la via ontologica si conosce la totalità dell’ente perché se ne conosce il principio, nella misura in cui per lo Stagirita la forma, l’essenza è principio della cosa. È, tuttavia, diverso il modo di rapportarsi alla totalità dell’ente. Infatti, nella considerazione ontologica, si coglie il tratto comune universale che, come determinazione essenziale a priori, compete ad ogni ente della totalità, l’ente divino incluso. In tal senso si arriva alla totalità in qualche modo alla fine, nella deduzione che l’essenza di ogni ente vale quindi per la totalità dell’ente. Nella considerazione teologica, invece, la totalità dell’ente è posta inizialmente come insieme ontologico, per così dire, in cui non è primario interrogarsi su ciò che determina ogni ente nella sua essenza specifica. Ad esempio, se l’insieme ontologico è la to-

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Struttura, procedura, esito dell’onto-teologismo metafisico

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Nella prospettiva ontologica si indaga l’ente per il tratto che è comune a tutti gli enti; nell’ottica teologica si indaga l’ente cercando quell’ente fondamentale oltre il quale è impossibile procedere in quanto elemento primo da cui, secondo un nesso causale da specificare, si trae la ragione d’essere dell’insieme dell’ente. Iain Thomson, per mostrare quale correlazione passi fra le due risposte che la metafisica dà alla questione dell’ente, mette giustamente in evidenza che la via ontologica cerca il che cosa rende un ente tale, mentre la via teologica indaga il modo in cui ciò accade. L’ente è, dunque, tematizzato rispettivamente nel suo “che cosa” e nel suo “come”, e solo comprendendo il “che cos’è” dell’ente e il suo “com’è” la metafisica soddisfa la sua peculiare istanza di comprensione della totalità degli enti in quanto tali; ma anche la nozione di “totalità degli enti in quanto tali” è in sé articolata: Nella sua forma più semplice l’affermazione di Heidegger è che ogni posizione metafisica fondamentale sulla “totalità degli enti in quanto tali” ha due componenti separate: una comprensione degli enti “in quanto tali” e una comprensione della “totalità” degli enti35.

Thomson aggiunge ulteriormente che questa duplicità si esplicita nella ricerca dei due aspetti secondo cui si costituisce la comprensione dell’ente, indagando sia ciò che fa di un ente un ente (l’essenza) sia il modo in cui un ente è tale (l’esistenza). L’esistenza, cioè, non è assunta nel senso della mera constatazione del fatto che qualcosa sia, talità degli enti naturali, il principio primo di questa totalità, rispetto all’essenza di questo insieme (ossia come l’intero dell’ente passibile di mutamento), dovrà rispondere chiarendo ciò a partire da cui si dà il movimento. In questo senso è precipuo l’uso aristotelico delle due preposizioni: il principio è ratio cognoscendi come ciò attraverso (di£) cui e a partire da (ôk) cui qualcosa è. Questione diversa è, invece, stabilire una priorità fra le due istanze. L’istanza ontologica potrebbe essere fondativa di quella teologica, in quanto l’ente divino è ente esso stesso e, dunque, sul piano formale, è conosciuto perché se ne conosce quell’essenza comune che condivide con gli altri enti. Al contrario, sarebbe fondativa l’istanza teologica, nella misura in cui è solo conoscendo ciò a partire da cui una certa realtà si dispiega come siffatta peculiare realtà che si individua anche la ragione della sua essenza. In quest’ultimo caso, entro una visione teologica di tipo creazionista, per es., l’ente divino causa il resto dell’ente, giacché ad esso si imputa la ragione, il perché dell’essenza del resto dell’ente nella sua totalità (e di se stesso nella misura in cui si intende esplicitamente la causalità di Dio al modo della causa sui). 35 Cfr. I. Thomson, “Ontotheology? Understanding Heidegger’s Destruktion of Metaphysics”, International Journal of Philosophical Studies 3 (2000), p. 300.

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Aristotele dopo Heidegger

ma come il modo proprio in cui nell’ente si realizza la sua essenza. L’ente, ogni ente è, ma l’ente è in senso forte secondo la sua essenza al modo dell’esistenza, della Wirklichkeit, dell’atto. Questa seconda formulazione della duplicità dell’indagine sull’ente come indagine sull’essenza e sull’esistenza dell’ente non è, tuttavia, a mio avviso, del tutto equivalente alla prima (in sintesi: metafisica come indagine sull’ente “in quanto ente” e sulla “totalità degli enti”). Dire che un ente è al modo dell’esistenza, ad esempio dell’atto e non della potenza, non significa abbracciare la totalità degli enti, nella misura in cui vi può essere una molteplicità di modi attraverso cui un ente è36. Diverso è asserire che ogni ente, quale che sia, è tale solo se la sua essenza, se il suo essere ente, è compiuto, realizzato secondo una certa modalità. Ora, è esattamente questo che intende Heidegger: Essendo però interrogato in quanto tale, l’essente è già esperito anche rispetto al fatto che in generale è. Pertanto, dalla domanda che chiede che cosa è l’essente, scaturisce contemporaneamente l’altra: quale, tra tutti gli essenti in quanto tali, corrisponde massimamente a ciò che è determinato come il che-cosa dell’essente. Nella domanda: “che cos’è l’essente?”, quest’ultimo viene pensato allo stesso tempo rispetto all’essentia e rispetto all’existentia. L’essente è in tal modo determinato in quanto tale, vale a dire in che cosa è, e nel fatto che è 37.

Si tratta, con più precisione, di un’applicazione all’intera tradizione metafisica di uno schema che inizialmente, mutatis mutandis, Heidegger elabora rispetto al passaggio, interno alla duplice formulazione della metafisica aristotelica, dalla domanda su quel che è comune nell’essere di ogni ente (l’enticità nel senso dell’oŸsÖa come il koin“n dell’ente) alla domanda su quale sia l’ente che “massimamente è” (la prËth oŸsÖa, la “protosostanza” come qe“j in quanto espressione par excellence del modo d’essere che è proprio dell’ente, in quanto modello ontologico dell’essere dell’ente)38. 36 Questo è un punto centrale anche dell’ontologia heideggeriana: la molteplicità dei modi d’essere dell’ente come anche dei modi d’essere di quell’ente determinato che è l’esserci è uno dei cardini della dottrina ontologica espressa in Essere e tempo. 37 Mn, p. 188. 38 Questo genere di lettura ricorre pressoché identica in GA 19 del ’24-25, in Cfa del ’26 e in Cfm del ’29-30, i corsi in cui l’analisi della prËth filosofÖa aristotelica si fa

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Struttura, procedura, esito dell’onto-teologismo metafisico

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In questa interpretazione heideggeriana della concezione aristotelica dell’ente si annida il pericolo di annullare le differenze pure essenziali che si danno fra gli enti nella loro totalità, neutralizzando la polivocità stessa dell’ente. Certamente ogni ente, nella misura e nel limite in cui lo riconosciamo come ente, può dirsi, come asserisce Heidegger, “già esperito anche rispetto al fatto che in generale è”. Ma proprio questa misura e questo limite variano. Di conseguenza varia anche il senso di quell’esperienza. Il fatto che secondo Aristotele l’oŸsÖa rappresenti il significato fondamentale dell’ente non annulla il rilevo ontologico della differenza di cui il sumbebhk“j è portatore nei suoi confronti; altrimenti sarebbe contraddetta la natura dell’ente in quanto pollacÓj leg“menon39. È opportuno rilevare che, sia pure asserendo l’impossibilità di produrne una conoscenza di tipo epistemico, Aristotele non nega affatto la realtà del sumbebhk“j che, per esempio, sotto il nome di t⁄ch ed aŸt“maton acquista dignità di causa prima, accanto a f⁄sij e töcnh, nella descrizione dei quattro tipi di causa della generazione degli enti 40. La seconda formulazione dell’interrogazione metafisica come domanda sull’essenza e sull’esistenza dell’ente esprime, quindi, un ulteriore passaggio interno all’interrogare metafisico, che tradisce il meccanismo di riduzione tipico della procedura investigativa di tipo onto-teologico. Domandare l’enticità si traduce nel domandare sull’ente sommo perché questo è considerato l’ente che fra tutti esiste come piena realizzazione dell’essenza dell’ente. Inteso in questo modo, il passaggio si basa sulla riduzione dell’essere all’ente: “In verità l’essere è rappresentato come ‘ntwj ‘n […] e precisamente elevandolo a ‘ciò che propriamente è’”, quindi al rango di un ente sommo41. Il meccanismo di riduzione opera il passaggio dal koin“n più stringente. In sintesi l’enticità come oŸsÖa: “1. in quanto koin“n – ciò che è più universale; kaq“lou. 2. in quanto aátion – il più essente; ciò che è l’essente originario (das Urseiende)” (Mn, p. 141). Si tratta, cioè, di un modo a monte duplice di concepire l’essere dell’ente, l’enticità, l’oŸsÖa : come “ciò che rende possibile l’essente” ed insieme come “causa originaria” (ibid., p. 74). 39 Cfr. Met. G, cap. 2. 40 Cfr. Phys. II, capp. 4-5. 41 Mn, p. 74. Cfr. anche ibid., pp. 188-189: “In quale rapporto, allora, sta la metafisica con l’essere stesso? La metafisica pensa l’essere stesso? No, mai. […] L’essere è ciò

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Aristotele dopo Heidegger

come determinazione universale dell’enticità, tale da abbracciare la molteplicità dell’ente, al qe“j come espressione di una determinazione unitaria dell’ente, nella misura in cui l’essere dell’ente è pensato rispetto ad un primo ente più essente che riassorbe ed annulla in sé le differenze fra gli enti42. È così che, procedendo per riduzione, la metafisica è un andare oltre che torna indietro, in un ossimoro speculativo che ridefinisce la trascendenza in termini di trascendenza ontica: “Pensando l’essente in quanto tale, essa [scil. la metafisica] sfiora nel modo del pensiero l’essere, per poi subito passare oltre in favore dell’essente, al quale essa ritorna e presso il quale essa si raccoglie” 43. Questo andare oltre per tornare indietro è il movimento a che risponde, in prima e ultima istanza, alla domanda nella quale rimane sempre l’essente ciò che è investito dalla domanda. Pertanto, nella metafisica l’essere stesso rimane impensato, e non incidentalmente, ma in conformità con il domandare proprio della metafisica. Questo interrogare e il relativo rispondere, pensando l’essente in quanto tale, pensano, sì, necessariamente partendo dall’essere, ma non pensano a quest’ultimo, e precisamente perché, in conformità con il senso della domanda più proprio della metafisica, l’essere è pensato come l’essente nel suo essere”. 42 Heidegger si può permettere, quindi, un’asserzione che, in effetti, suona estremamente problematica rispetto all’idea aristotelica della polivocità dell’ente: “Inizialmente l’ente è sempre determinato anche come õn, e in Aristotele peraltro õn e ‘n, ente e uno, sono convertibili. L’unità costituisce l’enticità. E l’unità significa qui: unificazione, originaria raccolta nell’identità di ciò che è insieme co-presente e stabile” (Cf, p. 207). Ma Heidegger ritiene appunto che nella procedura di riduzione dell’essere dell’ente all’ente sommo che si consegna nella duplice determinazione dell’oŸsÖa come essenza dell’ente e come ente sommo l’intero dell’ente è ricondotto all’unità dell’ente sommo e, da un certo punto di vista, ciò è plausibile se il qe“j è assunto in pari tempo come ¢rcª e come ente, sostanza separata. 43 Mn, p. 192. Con molta chiarezza Heidegger esprime che l’oltrepassamento della metafisica corrisponde ad un forma di trascendenza ontica: “Una cosa è collocare, come fa la metafisica, l’essere in quanto enticità in un essente più essente (timiËtaton ‘n), altra cosa è esperire l’essere, sulla base del dispiegamento essenziale della sua verità, come ‘il più essente’, nel qual caso l’Essere non è affatto ‘un’ essente e neanche un qualcosa di sommo e nemmeno l’assoluto” (ibid., p. 83). Qui, in effetti, si tocca una questione molto delicata, che diventerà centrale nel prosieguo del lavoro. In termini aristotelici si tratta della questione circa la costituzione del qe“j. Il dio si determina come primo principio di movimento della f⁄sij, e questa come l’ambito dell’ente che ha in sé il proprio principio di movimento. La f⁄sij, però, non è solo una porzione dell’ente estrapolata dalla totalità, ma in un certo modo ospita l’intero dell’ente in quanto il “luogo” entro cui ogni ente (per f⁄sij, per töcnh, per pr©xij) si dà. Il dio è altresì un ente separato, condizione, questa, necessaria per la sua determinazione in termini di ¢rcæ kinªsewj. Sorge, dunque, il problema della relazione fra l’essere oltre l’ente nei termini di una realtà che trascende l’orizzonte della natura, perché immateriale, ed essere in qualche

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Struttura, procedura, esito dell’onto-teologismo metafisico

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partire da cui la metafisica si determina strutturalmente come ontoteologia, ossia unitariamente come indagine dell’ente in quanto tale nella sua totalità. In senso ontologico la metafisica chiede, quindi, cos’è un ente, cercandone l’essenza comune, il tratto che ogni ente condivide. In questo modo sotto la forma universale dell’enticità la metafisica abbraccia la totalità dell’ente, nel senso che attraverso l’astrazione che caratterizza il suo gesto di sussunzione di ogni ente specifico determinato sotto una forma universale intellegibile comune, essa conosce in senso generico-formale cosa ogni ente sia, solo perché ente44. Nel momento in cui l’enticità è la condizione d’essere di ogni ente, essa ha il valore di un a priori che precede e trascende sempre ogni singolo ente determinato: L’enticità risulta, nel domandare che parte dall’ente e vi fa ritorno, come un’aggiunta all’ente. Nell’ambito di ciò che è investito dalla domanda e di ciò che se ne ricava, però, l’enticità è, in quanto più stabilmente presente in tutto l’ente, ciò che più di tutto è, e quindi ciò che è via via prima rispetto a ogni singolo ente determinato 45.

Il passo che declina il tratto della trascendenza dell’essenza (come l’andare oltre ogni singolo ente) in trascendentale, spiega Heidegger, è breve: La co-appartenenza, in sé molteplice e ancora a mala pena chiarita, di ontologia e teologia nell ’essenza della metafisica si manifesta in modo particolarmente chiaro là dove la metafisica, secondo lo stile del promodo dentro la f⁄sij stessa (quindi dentro la totalità dell’ente), giacché principio di una totalità che si dà sotto la determinazione del racchiudere in sé la ragione del proprio modo d’essere. Certamente qui si impone una necessaria chiarificazione delle varie nozioni rispetto alla loro intrinseca polivocità; nondimeno, si tratta della relazione che Aristotele costruisce fra prÓton e kaq“lou, a partire dalla quale Heidegger ritiene che si dispieghi la struttura onto-teologica della metafisica. 44 “Se la metafisica pensa l’essente guardando al fondamento che è comune ad ogni essente come tale, allora essa è una logica intesa come onto-logica” (ID, p. 35). Il fondamento comune all’ente è l’enticità come il principio d’essere costitutivo di ogni ente in quanto ente. 45 Cf, p. 414 (corsivo mio). In tal senso il giudizio di Heidegger a tratti diviene anche sarcastico: “La metafisica diventa la vittima sacrificale dei concetti più universali che sono emersi in seguito a quanto abbiamo ora detto [scil. enticità, õn, kaq“lou], ed essa cerca di procurarsi una qualche validità nelle vesti di una scienza relativa a ciò che è più universale” (Mn, p. 55).

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Aristotele dopo Heidegger

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prio nome, nomina il tratto fondamentale in base al quale conosce l’essente in quanto tale. Questa è la trascendenza. La parola nomina in primo luogo il trascendimento dell’essente verso ciò che esso è, in quanto essente, nel suo che-cosa, nella sua qualificazione. Il trascendimento fino all’essentia è la trascendenza in quanto il trascendentale46.

L’osservazione è molto sottile. In questa lettura non sono né la Scolastica (da Tommaso a Suárez passando per Duns Scoto) né Kant ad introdurre il trascendentale rispettivamente come proprietà dell’ente e come condizione d’essere dell’ente in quanto fenomeno, in quanto oggetto. La considerazione trascendentale dell’ente, cioè, non è più vista come “la necessità della svolta della metafisica”, che pone l’ente come oggetto della conoscenza, dunque della rappresentazione, in un processo che si conclude, attraverso il passaggio cartesiano, con il primato della soggettività47. Senza ancora ricondurre i modi d’essere dell’ente-oggetto alle forme del soggetto, l’essenza dell’ente è già considerata come condizione di conoscibilità dell’ente. Per questo, l’ente sommo, nello sdoppiamento dell’enticità come koin“n e come qeãon, è, interpretato da Heidegger come causa fondante della totalità dell’ente. I “trascendentia” medievali fino alle proprietà trascendentali kantiane dell’oggetto e alle determinazioni tra46

Ibid., p. 191. Cfr. J.-L. Marion, “La science toujours recherchée et toujours manquante”, in J.M. Narbonne-L. Langlois (éd.), La métaphysique. Son histoire, sa critique, ses enjeux, Vrin-Pul, Parigi-Laval 1999, p. 26. Ricostruendo la storia della metafisica, Marion mostra come sul piano logico la svolta trascendentale della filosofia tardo-medievale e moderna sia del tutto coerente con lo sviluppo dell’ontologia metafisica a partire dalla sua genesi greca. Marion evidenzia altresì che, sotto l’istanza di un fondare inteso nel duplice modo dell’ergründen e del begründen, è il primato della logica ad istituire la fondazione reciproca di ontologia e teologia, così che “appartiene al fondamento di reggere (per unificare) la metafisica” (ibid., p. 29). Ora, “la logica implica la rappresentazione, dunque il primato dell’ente sull’essere non rappresentabile” (ibidem), e ciò significa che l’onto-teo-logismo metafisico, sin dall’inizio della sua comparsa, opera una riduzione non solo dell’essere all’ente ma dello stesso ente. L’interezza dell’ente, infatti, dovrebbe essere riguardata nella molteplicità di ciò che essa raccoglie, dunque anche nel contingente ed in quel che non è riducibile alla forma come nozione e concetto dell’ente (ad es. la materia specifica). La natura onto-teo-logica della metafisica, invece, stabilisce “il primato del concetto sull’ente e la riduzione dell’ente a ciò che è causato (causable), fondato (fondable), rappresentato (représentable) – in breve a ciò che è cogitabile” (ibid., p. 30). In effetti, come accennavo in precedenza, per lo Stagirita ciò che afferisce al regno della contingenza non può essere oggetto di ôpistªmh. 47

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Struttura, procedura, esito dell’onto-teologismo metafisico

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scendentali husserliane del fenomeno in quanto ridotto alla coscienza sembrano inaugurare una direzione speculativa diversa all’interno della storia della metafisica, giacché valgono come determinazioni costitutive dell’ente sotto lo specifico rispetto della relazione fra oggetto e soggetto. Tuttavia essi, secondo Heidegger, non introducono sul piano formale un diverso modo di intendere l’ente come ciò a cui inerisce un’essenza comune a tutti gli altri enti. Anche in Tommaso, ad esempio, prima ancora che in Duns Scoto ed in Suárez, ciò è evidente: i trascendentali sono determinazioni dell’ente in quanto intellegibili. Heidegger, però, osserva che nel momento in cui già nel pensiero greco, l’essere dell’ente, l’enticità, è concepito alla stregua di “ÿp£rconta kaq“lou”, quindi come una determinazione universale dell’ente, eo ipso l’essenza dell’ente è posta come condizione di possibilità, come condizione costitutiva dell’ente e, così, come una determinazione di tipo trascendentale. In questo modo l’essere è dimenticato sin dall’origine, perché ridotto ad una proprietà essenziale dell’ente. Nel primato del pensiero ontico sul pensiero ontologico il trascendentale è, dunque, la determinazione dell’essenza dell’ente che scaturisce dall’atteggiamento costitutivo della metafisica (e, quindi, già nel pensiero greco e in Aristotele), secondo cui l’enticità, in quanto è quel modo d’essere che sine conditione definisce lo statuto ontologico dell’ente, è condizione ed atto d’essere dell’ente. In tal senso non vi è un momento in cui nella storia della metafisica si introduce una cesura nel reale fra ciò che di esso si consegna al nostro sguardo fenomenicamente e ciò che rimane in sé celato. Secondo il senso generale del paradigma onto-teologico, vi è semmai sin dall’origine della metafisica, con Aristotele, una frattura tutta interna all’ente, nella misura in cui un “ente trascendente”, in un certo modo da indagare, si fa carico dell’essenza dell’ente. La trascendenza del qe“j, infatti, spezza l’omogeneità della realtà, interrompendo la continuità ontologica che ancora si dà fra mondo sublunare e mondo celeste. Anche gli astri e le sfere sono detti da Aristotele qeãa, enti divini, ma essi sono sostanze sensibili, soggette alla medesima condizione d’essere degli enti della realtà terrestre: la kÖnhsij48. Il qe“j, in48

In quanto sostanze sensibili incorruttibili, gli astri sono “divini”, come “divino” è il loro corpo. Il prÓton sÓma (l’etere), infatti, è concepito da Aristotele come divino in

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vece, interrompe la continuità fra le sostanze, compare come una lacerazione interna alla totalità dell’esistente (dunque dell’ente)49.

3. Il qe“j aristotelico come paradigma dell’enticità: questioni critiche sull’esegesi heideggeriana della prËth filosofÖa Il meccanismo di riduzione attuato dalla metafisica nella sua procedura onto-teologica appronta una soluzione alla questione dell’essere dell’ente in chiave teologica sin da Aristotele, nella misura in cui l’ente divino svolge la specifica funzione di fondamento dell’enticità. Tuttavia, se l’ente divino costituisce e risolve il problema dell’enticità dell’ente perché l’ente più essente di tutti gli altri – ed è questo il contenuto esegetico del paradigma heideggeriano che va vagliato criticamente rispetto ad Aristotele nella lettura dell’enticità come ente sommo –, la distanza fra il qe“j ed il resto dell’ente si impoverisce, in quanto entrambi sono come accorpati, sussunti sotto l’idea di una ragione d’essere che è a loro comune. Heidegger ritiene che in forza del suo essere un ente eccellente l’ente divino nella metafisica aristotelica sia il modo con cui essa risponde alla questione della causa d’essere dell’ente. A mio avviso, però, egli non legge il modo d’essere del qe“j aristotelico come causa prima seguendo quella sorta di verticalizzazione ontologica propriamente tomista che identifica in modo assoluto l’ente divino con la ratio essendi dell’ente. Il fatto che l’ente divino, in quanto paradigma dell’ente, in quanto modello di ciò che “in senso autentico” l’ente è, sia l’ente da interrogare per primo in ordine alla domanda su cosa sia l’ente quanto al suo essere va tenuto in gioco dentro la circolarità del quanto ingenerato, inalterabile, incorruttibile (cfr. De caelo, 270b10-11: “Se dunque esiste un ente divino, come esiste, anche le cose che sono state ora dette sulla sostanza prima dei corpi sono dette in modo corretto” e 292b32 s., che è il solo passo dell’opera in cui espressamente Aristotele chiama gli astri “sËmata qeãa”, “corpi divini”). 49 Infatti, come anche in precedenza già ricordato, proprio in Met. L , che pure si apre con l’esplicito compito di procedere ad un’indagine della sostanza e, cioè, dei principi della sostanza, Aristotele non manca di sottolineare l’impossibilità di sussumere la sostanza sovrasensibile e le sostanze sensibili sotto medesimi principi considerati sul piano della loro purezza formale.

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rinvio fra ontologia e teologia. Il timiËtaton gönoj non costituisce l’essenza dell’ente, non è l’essere dell’ente tout court, ma è la condizione sotto la quale l’enticità, apprezzandosi al meglio nello spazio dell’ente, si apre all’inchiesta sull’essere dell’ente. L’apertura alla teologia, che individua nell’ente sommo la ragione dell’ente, è cioè possibile solo perché essa è predisposta dall’inferenza dell’ontologia secondo cui, se voglio pensare l’ente in quanto tale, devo potere individuare un’essenza che è comune ad ogni ente (il koin“n dell’ente). Se così non fosse, non sarebbe possibile riconoscere nel qe“j l’ente che più di tutto è nel senso dell’ente che più di tutti gli altri è ente, giacché nel suo essere ente la condizione propria dell’ente (l’enticità) si dà ottimamente 50. D’altro canto l’apertura dell’ontologia rinvia di riflesso alla teologia, in quanto riuscire ad afferrare l’essere dell’ente nell’ente che maggiormente lo realizza significa comprendere quale sia il modo dell’ente tale per cui posso dire tanto di un tavolo quanto di un cavallo che entrambi sono enti. Anche se Heidegger certamente legge la compagine dell’ente gerarchizzandola, non sovrappone ad essa la strutturazione propria della concezione tomista secondo cui Dio è l’essere per essenza, ossia l’ente cui per essenza compete quell’essere che ad ogni altro ente compete invece per partecipazione all’essere di Dio. Senz’altro agli occhi di Heidegger il qe“j è un ente nella cui essenza di ente l’essenza stessa dell’ente è pienamente attuata, ma non è in forza della sua essenza che al mondo ci sono tavoli e cavalli. Ciò perché nell’essere del tavolo e del cavallo compare un principio d’essere – la materia – che non colgo sul piano della forma come tale e che, anzi, nel tavolo e nel cavallo, è portatore dell’aspetto in cui la forma viene di volta in volta a manifestazione. Nell’economia della circolarità di ontologia e teologia con cui la metafisica si struttura, non è necessario individuare nella causalità prima del qe“j, nel suo essere prËth ¢rcª, il modo in cui nella condizione d’essere dell’ente divino si istituisce la condizione d’essere dell’intero ente. Si può forse obiettare che in questo modo la stessa richiesta avanzata dalla ragione di ancorare l’ente ad un fondamento stabile sembra assumere un tono più debole; di fatto, però, per la 50

Cfr. Met. L, 1072b28-29: “Diciamo certamente che il dio è un vivente eterno ed ottimo (•riston)”.

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ragione può essere sufficiente indicare nell’ente divino il modo in cui l’ente propriamente è. Che poi il dio aristotelico non sia solo ragione sufficiente per la comprensione dell’intero dell’ente, ma anche ragione necessaria comporta un gioco di relazione fra il qe“j e la f⁄sij nel quale, nondimeno, la differenza del qe“j e del f⁄sei ‘n è talmente assoluta ed irriducibile che non si può affatto assumere l’ente divino come quel che parteciperebbe il proprio essere a tutti gli enti. Il modo d’essere dell’ente divino è altro dal modo d’essere della f⁄sij che pure dipende da esso in quanto sua condizione necessaria51. Pur implicando una visione analogica dell’ente – e non mi pare che in questo si debba scorgere una forzatura della concezione aristotelica dell’ente – il canone esegetico di Heidegger non ricalca il modello interpretativo di tipo tomista al fine di esplicitare e giustificare la circolarità fra la domanda sull’ente in senso ontologico e questa stessa domanda in chiave teologica in riferimento alla causalità prima del qe“j aristotelico. Come asserito prima, però, se l’ente divino costituisce la causa essendi dell’ente in quanto paradigma dell’enticità, la separazione fra il qeãon ed il resto dell’ente “si accorcia” notevolmente. Il problema di questa interpretazione heideggeriana, che pure in prima battuta appare secondo me plausibile, è che le differenze fra i singoli enti non possono essere messe semplicemente fuori gioco nel riferimento ad un ente che si configura come primo per il suo modo eccellente di essere ente. Sono esse che restituiscono la singolarità e, quindi, l’essere determinato di ogni ente in quanto quel singolo ente. Aristotelicamente il fatto che l’essenza dell’ente come tale quasi si restringa all’essenza dell’ente sommo richiede come sua condizione la radicale irriducibilità dell’essere dell’ente (che diciamo appunto sommo) al modo d’essere di ogni altro ente. È in questa irriducibilità che si esprime la trascendenza ontologica del dio, iscritta nel suo modo d’essere separato quanto all’essere e non già solo quanto al pensiero, cioè non già solo per via di un atto d’astrazione ad opera dell’intelletto. Solo che, nel momento in cui dall’ente divino si ritorna indietro all’ente in quanto tale, è proprio questa differenza che risulta neutralizzata, ricollocando l’essere dell’ente, di ogni ente, en51

Cfr. Met. L, 1072b13-14: “Da un siffatto principio dipendono (hîrthtai) quindi il cielo e la natura”.

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tro l’ambito ontico, ossia in un ente specifico determinato. La domanda allora è: in che modo l’irriducibilità ontologica dell’ente divino, ossia l’essere separato quanto all’essere da parte dell’ente sommo, potrà mai esser fatta salva se proprio in un tale ente e grazie alla sua esistenza l’essenza dell’ente come tale, l’essere stesso dell’ente, si lascia raccogliere in unità e predicare di ogni ente? Nondimeno, poiché l’enticità si manifesta anzitutto nel modo d’essere di un ente sommo trascendente, solo in senso “teologico” la metafisica può cercare il fondamento della totalità dell’ente, sdoppiando nuovamente, per poi sovrapporre ancora le due determinazioni, l’enticità come “trascendentale” e l’enticità come “trascendenza di un ente sommo”. Individuando l’enticità in un altro ente, certamente, si può sempre obiettare che questo ente è un caso singolo della totalità sul piano della pura forma astratta. Solo questo ente, però, a differenza di ogni altro ente della totalità, è in grado di dare conto della stessa52. Rispetto a questo punto Heidegger è molto drastico nel sostenere che l’onto-teologia non è riducibile al modo specifico attraverso cui dentro la Schulmetaphysik è articolata la distinzione fra metafisica generale e metafisica speciale: Per riconoscere il tratto onto-teologico della metafisica non c’è bisogno di prendere come orientamento il mero concetto scolastico di metafisica […]. I nomi qui adoperati di ontologia e teologia non coincidono con ciò che essi nominano nel concetto scolastico di metafisica. Piuttosto, l’ontologia è il determinare l’essente in quanto tale rispetto alla sua essentia. Essa si trova nella psicologia, cosmologia e teologia. D’altra parte, la teologia rettamente pensata, domina nella cosmologia e nella psicologia (antropologia) e così anche nella metaphysica generalis 53.

Non vi è, in altri termini, una previa considerazione dell’ente divino in quanto ente all’interno di un’ontologia dell’ente in quanto tale. La 52

“Se la metafisica pensa l’essente come tale nella sua totalità, cioè guardando all’essente supremo, quello che fonda ogni cosa giustificandola, allora essa è una logica intesa come teo-logica” (ID, p. 35). Il fondamento che giustifica la totalità dell’ente è l’ente primo che determina l’enticità dell’ente, che causa la ragione d’essere dell’ente, che “costituisce il principio da cui hanno origine gli enti e da cui essi sono giustificati” (I. Thomson, op. cit., p. 304). 53 Mn, p. 190.

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componente teologica non è fondata su quella ontologica. L’ontologia è già teologica perché nella riduzione dell’essere all’ente riconduce l’enticità all’ente sommo. La teologia è ontologica in quanto trae l’essere dell’ente sommo come enticità a partire dalla domanda sull’ente in quanto tale. L’onto-teologia è – va ribadito ancora una volta – la struttura interrogativa di fondo, in cui ontologia e teologia sono rinviate l’una all’altra reciprocamente, in un continuo sdoppiamento ed insieme in una costante sovrapposizione fra trascendenza ontica e trascendenza ontologica, fra enticità come carattere trascendentale dell’ente ed enticità come trascendenza di un ente sommo. Si può, dunque, asserire che il passaggio dell’enticità all’ente sommo è espressione, nell’interpretazione che ne dà Heidegger, per usare le parole di Courtine, di una concezione in cui il summum ens è “quel che, meglio e più di tutti gli altri enti, corrisponde all’idea di essere” 54. In questo modo, però, secondo l’autore francese Heidegger starebbe interpretando l’ente sommo “nel novero delle cause prime dell’essere in quanto essere (être en tant qu’être), vale a dire come essere per essenza (être par essence), esse ipsum”55. Courtine afferma, infatti, che nel paradigma onto-teologico per Heidegger “diviene possibile ipostatizzare il problema come soluzione a due condizioni” 56. La prima è che si introduca l’orizzonte del tempo dentro la comprensione ontologica della filosofia greca. Testimonianza ne è la tra54

J.-F. Courtine, “Métaphysique et ontothéologie”, in La métaphysique. Son histoire, sa critique, ses enjeux, cit., p. 153. 55 Ibidem. 56 Ibid., p. 147. Il problema a cui Courtine si riferisce è la questione specifica della doppia definizione della filosofia prima in Aristotele che Natorp e Jaeger cercano di risolvere attraverso la chiave filologica. Nell’ottica di Courtine, attento alle buone ragioni dello storico della filosofia, l’interpretazione di Heidegger, che spiazza l’impostazione filologica indicando in quella duplicità che si dovrebbe risolvere proprio il dato da conservare per spostare il problema in chiave speculativa, appare come un “colpo di genio (coup de génie)” ma anche come un “colpo di mano (coup de force)”. Essa appunto ipostatizza il problema esegetico come la sua stessa soluzione: asserire che la duplicità non è più un problema che si risolve attraverso una chiarificazione filologica, giacché in gioco è in realtà l’essenza stessa della filosofia prima, può apparire indubbiamente un’operazione non meno precostituita dall’intento speculativo di quanto non lo sia quella orientata in senso filologico contestata da Heidegger. Si può rispondere, forse, che a favore di Heidegger parla la volontà di non disperdere tutta la storia dell’esegesi della Metafisica, e quindi della metafisica stessa, che si è destreggiata nel tentativo di risolvere speculativamente il problema testuale che Jaeger e Natorp risolvono in chiave filologica.

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duzione heideggeriana di oŸsÖa come Anwesenheit e – aggiungerei – la dichiarazione esplicita da parte di Heidegger che la filosofia greca pensa l’ente in riferimento al tempo così che l’oŸsÖa, in quanto ciò che permane, è concepita come ciò che è presente in un crescendo fino alla prËth oŸsÖa nel senso dell’ente divino come ciò che è costantemente presente. La seconda condizione è che si “reintroduca e rinnovi uno schema interpretativo canonico, quello della Scolastica latina medievale del XIII secolo ed in particolare di Tommaso d’Aquino ovvero della scuola tomista” 57. Ritengo che quanto alla prima condizione essa sia così palese che non si può che concordare con Courtine. Quando alla seconda, invece, anche se l’analisi di Courtine è certamente plausibile, non mi spingerei fino a giudicarla imprescindibile. Innanzitutto perché se lo fosse, la presentazione heideggeriana del paradigma onto-teologico risulterebbe contraddirsi proprio nel suo aspetto più vitale e a mio avviso più fecondo, che consiste nel mostrare che la duplicità è costitutiva in ordine all’essenza stessa della metafisica e che la procedura che la regge, attraverso cui essa diviene comprensibile a chi la pone in questione, è già in opera dall’origine, in Aristotele, senza che in Aristotele faccia questione. La tesi di Heidegger andrebbe in frantumi se per provarla egli fosse costretto a ripetere l’errore, da lui stesso, come dicevo prima, evidenziato, di leggere la metafisica aristotelica sovrapponendo ad essa le esegesi che maturano ad un livello diverso ed entro il contesto del Cristianesimo. In secondo luogo, perché è nella circolarità ineliminabile del rinvio fra la “questione ontologica” e quella “teologica” – una circolarità che la verticalizzazione dell’esegesi dell’ente tomista alla fine linearizza e risolve –, che si apprezza il modo in cui la prËth filosofÖa necessita di guardare in due modi all’ente: verso il basso, chiedendo in direzione dell’universalità dell’ente, ossia del tratto comune che sta alla base, per così dire, di tutti gli enti, e verso l’alto, chiedendo in direzione dell’ente che è primo. E così, però, si scopre che il chiedere volgendosi verso il basso significa già tendere all’alto, ad un ente “più essente” e, specularmente, che chiedere volgendosi verso l’alto vuol dire abbracciare l’universa57

Ibidem.

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Aristotele dopo Heidegger

lità, indicare l’universalità, dunque ciò che è “in basso”, che sta alla base, nel riferimento ad una singolarità, ad “un” ente. Ci troviamo qui nuovamente nella circolarità irrisolvibile di begründen ed ergründen che articola il gesto della fondazione. L’osservazione di Courtine, nondimeno, è preziosa perché mette in evidenza un discrimine importante, che è il limite che consente in fondo di distinguere il tratto esegetico dell’analisi di Heidegger dallo specifico percorso di pensiero che, radicandosi in questa analisi, approda alla Verwindung della metafisica. Che la struttura onto-teologica mostri un’enigmaticità originaria non vuol dire che questa struttura non possa venire afferrata in termini di comprensione della procedura in cui essa si dispiega. A questo livello effettivamente lavoriamo con un’esegesi; raccogliamo lo sforzo esegetico di Heidegger. Che il paradigma interpretativo onto-teologico faccia corpo unico con una proposta filosofica come quella heideggeriana non implica necessariamente che solo rimanendo all’interno di una tale proposta se ne possa scorgere e mettere a frutto la fecondità58. Ciò che mi preme sottolineare, in altri termini, è che la comprensione che Heidegger offre della struttura della metafisica aristotelica sotto il modo dell’onto-teologismo può sicuramente apparire come conversione in soluzione del problema della duplicità della metafisica, perché questo modo di porre il problema serve ad Heidegger per sostenere la necessità della Verwindung: è l’esito stesso del Denkweg a dichiararlo. Questo esito non sarebbe possibile se, nella sua lettura della storia della metafisica, Heidegger non facesse intervenire in modo determinante la svolta del cristianesimo e della modernità ponendola non solo storicamente ma anche “strutturalmente” in dialogo con l’inizio aristotelico. Ma ciò non legittima a sostenere che la struttura ontoteologica della metafisica, la cui consapevolezza Heidegger avrebbe acquisito nello studio del pensiero medievale e moderno, sia la chiave con cui egli si orienta preliminarmente nel confronto con Aristotele. È abbastanza documentabile del resto, come ho già detto, che la comprensione dell’onto-teologismo metafisico è una conquista che 58 Mi pare che Courtine lavori proprio in questa direzione nel suo studio critico sulla metafisica, rappresentando un buon modo di come si possa imparare da Heidegger senza cedere al destino della sua speculazione.

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Heidegger matura partendo da Aristotele. Vi è un’enigmaticità che non è banalmente l’aporia di un accostamento contraddittorio da parte di Aristotele – o di chi per lui a questo punto – di due definizioni opposte. L’enigmaticità del progetto d’indagine della metafisica è l’enigmaticità della questione stessa che la metafisica vuole trattare, o in cui essa si imbatte quando indaga sul suo oggetto, sull’ente in quanto tale. È l’enigmaticità della domanda che ponevo prima: come posso pensare insieme e, però, separatamente due ordini di realtà che sono per se stessi eterogenei, l’ente divino e l’intero dell’ente? La mia ragione, accostandoli, non rischia di fare un’operazione indebita perché elimina una differenza d’essere che è costitutiva del reale, quasi che volesse epurare questa differenza come un elemento che complica l’ordine della ragione, che le impedisce di potere abbracciare la realtà sotto l’universalità di un concetto? E se, però, la ragione decide di non fare violenza a questa differenza, come può comprendere l’intera realtà senza frammentare il suo sforzo concettuale, senza “spezzettare” la sua tensione per l’intero in singoli ambiti di indagine specifici come la scienza fisica? Vorrei insistere ancora sulla questione. Discutere la lettura heideggeriana dell’ente divino aristotelico sul versante della questione del fondamento dell’enticità è essenziale per una piena comprensione del paradigma onto-teologico e, quindi, della sua impostazione critica. L’interpretazione del dio aristotelico diventa la nota dolens del canone heideggeriano, qualora si assuma che l’ente divino sia letto secondo un modello esegetico di matrice tipicamente tomista, cosa che tradirebbe la formazione giovanile neo-scolastica del filosofo tedesco59. La questione sul modo heideggeriano di leggere la filosofia 59 Basti per il momento ricordare E. Berti, “La Metafisica di Aristotele: ‘onto-teologia’ o ‘filosofia prima’?”, cit., e “Que reste-t-il aujourd’hui de la métaphysique d’Aristote?”, in M. Narcy-A. Tordesillas (éd.), La “Métaphysique” d’Aristote. Perspectives contemporaines, Vrin-Éditions Ousia, Paris-Bruxelles 2005, pp. 227-238; J.-F. Courtine, “Métaphysique et ontothéologie”, cit., e Inventio analogiae, cit., in partic. p. 71 dove Courtine, in riferimento ad un passaggio heideggeriano del saggio “Il concetto hegeliano di esperienza”, in Sentieri interrotti (cfr. Si, p. 177) in cui Heidegger nota che l’ente divino, il qeãon “viene anche detto, con una strana ambiguità l’‘essere’”, commenta che “quel che Heidegger mostra non è manifestamente Aristotele ma piuttosto San Tommaso e la questione del passaggio dell’ens commune all’ens summum, dell’ens summum al purum esse, inteso come actus essendi”. Circa il carattere neoscolastico della lettura heideg-

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Aristotele dopo Heidegger

prima è il nodo cruciale in cui si gioca la partita non solo fra Heidegger ed Aristotele, ma in definitiva anche fra Heidegger ed i suoi interpreti rispetto alla comprensione della storia della metafisica. Data la compattezza con cui il paradigma onto-teologico caratterizza l’intera tradizione metafisica, l’individuare o meno la presenza di una sorta di vizio esegetico di fondo nell’approccio ad Aristotele decide non solo sul valore della più stretta Auseinandersetzung heideggeriana con lo Stagirita, ma anche del senso più generale del paradigma esegetico stesso in relazione alla metafisica tout court. Come dicevo, se Heidegger affronta effettivamente la problematica ontologica aristotelica in chiave tomista, quindi sovrapponendo un’interpretazione ben precisa alla concezione di Aristotele – un’interpretazione che però storicamente è già uno sviluppo, un passo oltre Aristotele –, il suo paradigma di lettura non può che apparire, dal punto di vista esegetico, improprio e, dal punto di vista speculativo, autocontraddittorio. L’interesse di Heidegger è quello di evidenziare come nell’origine della metafisica vi sia un qualcosa di irrisolto che non si dilegua semplicemente attraverso i modi con cui la tradizione ha tentato di sciogliere il groviglio di ontologia e teologia. Se Heidegger applica un modello esegetico non genuinamente aristotelico, la sua tesi relativa al modo in cui all’origine la metafisica si dispiega occultando la differenza ontologica è impugnabile per un vizio, per così dire, di forma. Se si dichiara con il supporto di un’argomentazione (anche testuale) incontestabile che in ogni caso, consapevolmente oppure anche inconsapevolmente, Heidegger sovrappone e fonde insieme il momento aristotelico e quello tomista, il significato dell’esegesi dell’intera tradizione assume un diverso calibro ed emergono per lo meno due elementi di contestazione specifici in relazione ad Aristotele: 1) il qe“j aristotelico non è causa sui; 2) esso non è l’ipsum esse della Scolastica di matrice tomista. Quanto a questa seconda tesi, ho cercato già di mostrare in che geriana di Aristotele e la formazione neoscolastica del giovane cfr. ad es. i saggi di F. Volpi, “Le fonti del problema dell’essere nel giovane Heidegger: Franz Brentano e Carl Braig”, Quaestio 1 (2001), pp. 39-52, “La doctrine aristotélicienne de l’être chez Brentano et son influence sur Heidegger”, in Aristote au XIXe siècle, cit., pp. 277-293 e il volume monografico Heidegger und die Anfänge seines Denkens, Heidegger-Jahrbuch 1 (2004).

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senso la gerarchizzazione ontologica cui ricorre Heidegger per la comprensione del timiËtaton gönoj possa essere letta non sotto il segno di un’anticipazione dell’ipsum esse, ma proprio come una mossa legata all’idea della circolarità di ontologia e teologia da cui, restando dentro la metafisica, non è possibile uscire. Si può anche sospettare che, essendo anche la concezione tomista espressione dell’onto-teologismo metafisico, ad Heidegger riesca a pennello sovrapporre Tommaso allo Stagirita per recuperare all’origine una struttura, un procedimento che la metafisica acquisirebbe successivamente nel corso della sua storia. Ma il sospetto è, a mio avviso, infondato: a riguardo non posso che riproporre la chiave di lettura di cui ho precedentemente fatto uso per motivare in che senso il modo in cui Heidegger spiega la condizione ontologica di eccellenza dell’ente divino non possa essere equiparata ad un’impostazione esegetica di tipo scolastico. In definitiva, è possibile mostrare che il dio aristotelico, ritradotto come il seiendste Seiende, l’eigentlichste Seiende, appare ad Heidegger il modo in cui la metafisica dello Stagirita dà fondamento all’enticità senza la necessità di ricorrere alla concezione tomista dell’ens summum come ipsum esse. Quanto alla prima tesi, in effetti, Heidegger pone fra le righe sotto il concetto del dio della metafisica come causa sui anche il qe“j aristotelico. Colpisce, tuttavia, il fatto che nel modo di leggere l’ente sommo come causa sui, che emerge negli scritti successivi agli anni Trenta e con maggiore chiarezza in Identità e differenza, Aristotele non sia espressamente citato. Tuttavia, ritengo che si possa anche concedere ad Heidegger di individuare nel qe“j aristotelico la traccia della causa sui senza che ciò possa considerarsi frutto da parte sua di contaminazioni esegetiche con successive concezioni metafisiche dell’ente sommo (Cartesio, Spinoza, Schelling). A riguardo credo si possa far tesoro di alcune considerazioni svolte da Marion in Dio senza essere. Sotto la nozione di causa sui, spiega Marion riferendosi al paradigma heideggeriano, è da pensare una funzione che la metafisica attribuisce ad un ente determinato che non necessariamente va individuato nell’ente divino, e che ottiene lo statuto di ente sommo in forza del suo potere fondante, del suo potere causativo. Più esattamente, nella circolarità intrinseca al doppio

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Aristotele dopo Heidegger

gesto della fondazione, nell’atto di fondazione che si istituisce come begründen e che, quindi, dispiega la metafisica al modo di una “teologica”, un ente determinato assurge al ruolo di primo ente, di ente sommo, giacché esso fonda l’essere dell’ente in un movimento speculativo di ritorno, per così dire, da questo primo ente sommo all’intero dell’ente: [L]’ente, in particolare il primo ente che ogni metafisica dichiara tale, non soltanto fonda gli altri enti a titolo di causa prima rendendone al contempo ragione, ma fonda anche l’essere dell’ente in quanto porta a compimento in modo perfetto e fin nell’esistenza le caratteristiche formali di ciò per cui l’ente è tale60.

Occorre dunque non farsi fuorviare dal fatto che Heidegger si serva di un “sintagma linguistico” che compare solo con Cartesio. Heidegger si appropria dell’espressione causa sui per esprimere un modo di pensare la causalità di un ente primo che egli ritiene comparire sin dall’origine dell’apertura della metafisica come onto-teologia. Marion sottolinea da parte sua che se si elimina questa funzione dalla struttura della metafisica, si distrugge non solo l’intelaiatura onto-teologica, ma la metafisica stessa61. In ogni caso, sgombrato il 60 J.-L. Marion, Dio senza essere, ed. it. a c. di C. Canullo, Jaca Book, Milano 2006, p. 244 (corsivo mio). 61 Spiega, infatti, Marion: “L’onto-teo-logia si definisce quindi secondo caratteri precisissimi, senza i quali un pensiero non potrebbe essere identificato come metafisico: (a) Il “Dio” deve iscriversi esplicitamente nel campo metafisico, ossia lasciarsi determinare a partire da una delle determinazioni storiche dell’essere in quanto ente, eventualmente a partire dal concetto di ente; (b) deve assicurare una fondazione causale (Begründung) di tutti gli enti comuni di cui rende ragione; (c) deve, per fare questo, assumere sempre la funzione, ed eventualmente il nome, di causa sui, ossia dell’ente in modo supremo fondatore poiché in modo supremo fondato da se stesso” (ibid., p. 247). Il fatto che Marion utilizzi poi questa griglia allo scopo di mostrare come Tommaso si sottragga alla tradizione dell’onto-teologismo metafisico induce ulteriormente a riflettere. Se davvero la messa a punto heideggeriana del paradigma onto-teologico fosse condizionata dall’indebita assolutizzazione di un motivo esegetico di matrice tomista, il primo ad essere stato frainteso, stando a questa tesi, sarebbe proprio Tommaso. Marion, d’altra parte, mantiene intatta la valenza critica del paradigma onto-teologico, pur sostenendo l’estraneità di Tommaso al meccanismo di riduzione che esso comporta. Se però assumessimo come valide tanto le osservazioni di Marion circa Tommaso quanto quelle di Courtine e di Berti circa l’impossibilità di applicare ad Aristotele il paradigma onto-teologico senza il filtro di un approccio esegetico di ispirazione tomista, sarebbe il paradigma stesso ad uscirne assai malconcio. Non resterebbe che imputarne la genesi e forse

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Struttura, procedura, esito dell’onto-teologismo metafisico

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campo dalla questione “terminologica”, la critica va spostata sulla disamina del modo in cui la causalità prima dell’ente sommo, del primo ente, è concepita dalla metafisica. In altri termini, la questione che andrebbe mossa nei confronti di Heidegger dovrebbe investire la tesi che l’“ente primo”, cui si rivolge lo sguardo del metafisico, ha necessariamente il carattere del fondamento al modo del begründen. Il problema non è che sia Dio ad esercitare questa funzione, ma che essa sia comunque attribuita ad un ente determinato: “[L]a causa sui indica la funzione di fondazione che un ente supremo esercita nel sistema della metafisica, e non sempre e necessariamente tale funzione è propria di Dio”62. Il punto cruciale sta tutto qui. Se la funzione della causa sui è intesa non solo come fondazione dell’intero dell’ente nel suo essere da parte dell’ente sommo, ma anche come fondazione di sé dell’ente sommo, la pagina aristotelica sul qe“j va sottratta al meccanismo di fondazione dell’onto-teologismo, nella misura in cui il qe“j non dà fondazione a se stesso. Il dio aristotelico dispone del proprio essere al modo dell’ente eccellente ed è tale certamente in forza del proprio essere, ma non per questo fonda da sé il proprio essere. Funziona senz’altro la relazione logica secondo cui l’essere del qe“j ne determina l’eccellenza come ente, ma questa relazione non funziona in termini inversi, ossia non è il qe“j in quanto ente eccellente che determina da sé il proprio essere. Tuttavia, vi è un’altra ipotesi che va tenuta in seria considerazione e che mi pare ottenga la sua legittimità attraverso l’analisi di Marion, fornendo supporto all’argomentare di Heidegger: la causa sui come funzione si può leggere come il modo, da parte dell’ente sommo, di dare ragione dell’intero dell’ente nel suo essere poiché questo ente “porta a compimento in modo perfetto e fin nell’esistenza le caratteristiche formali di ciò per cui l’ente è tale”. Ma, allora, secondo questo rispetto, per il criterio che illustravo in precedenza nel mostrare in che senso l’autenticità dell’ente divino invocata da Heidegcircoscriverne la validità solo a quel particolare momento della storia della metafisica che trova la sua espressione sistematica nella metafisica wolffiana. Ma in questo caso – credo – sarebbe opportuno indagare quanto Heidegger non sia debitore a Kant dell’individuazione di un dispositivo onto-teologico che scatterebbe, nello sviluppo della storia della tradizione occidentale, solo dopo Duns Scoto e Suárez. 62 Ibid., p. 246 (corsivo mio).

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ger non implichi necessariamente il ricorso alla struttura dell’ipsum esse, il qe“j aristotelico, tenendo per buono quel criterio, rientra nell’alveo delle figure storiche dell’ente supremo che assolvono alla funzione di causa sui 63. Su un punto, ad ogni modo, credo si possa concordare: asserire che il qe“j è causa prima, prËth ¢rcª, e che, come tale, questo principio ha un valore assoluto nel senso che non è possibile cercare una causa del suo essere causa che non sia interna ad essa, per evitare di procedere all’infinito nella ricerca del principio, non vuol dire in ogni caso che da questa causa consegue per necessità l’intero dell’ente. È opportuno ricorrere ad un esempio costruito specificamente rispetto alla concezione della causalità prima dell’ente divino in Aristotele. In natura, nello spazio della f⁄sij, accadono eventi che non rispettano, per così dire, la regola del venire all’essere di una sostanza 63 Sotto un certo aspetto sembra che sia lo stesso Aristotele ad introdurre in Met. L la possibilità di pensare al qe“j al modo della causa sui nel riferimento allo scopo, al fine (t’ o· õneka) che può trovarsi anche negli enti immobili. Anche se in modo molto conciso, vale la pena ricordare questo passo aristotelico che pure è corrotto e, dunque, di non facile interpretazione: “Il fatto che il fine sia nelle sostanze immobili, lo mostra la distinzione: infatti vi è il fine per qualcosa e il fine di qualcosa, di questi l’uno è nelle sostanze immobili (ôn toãj ¢kinªtoij), l’altro no” (Met. L, 1072b1-3). Dell’ente immobile, nel dio dunque, può avere senso asserire che vi sia uno scopo, ma non in relazione al movimento. Essendo un tale ente immobile, non perché in una condizione di privazione rispetto al movimento (stasi), ma in quanto strutturalmente libero dalla potenza stessa del movimento, è contraddittorio asserire che il dio abbia un fine nel secondo dei due sensi indicati. Il fine è di qualcosa che ha potenza di muoversi. Il dio non ha tensione, non tende a nulla, nondimeno rispetto ad esso è possibile pensare ad una finalità. Essa si consegna nell’aspetto che fa dire che il dio è, per così dire, solo in vista di sé. Il dio non dipende, cioè, dal cielo e dalla natura, il dio non è affinché vi siano il cielo e la natura. Il dio è vita ottima ed eterna in virtù solo del suo essere, della sua costituzione ontologica. In questo significato specifico può avere senso attribuire al dio la caratteristica di essere fine a se stesso e, quindi, in un certo modo la valenza di una causa sui: il qe“j non determina se stesso, è da sempre, ma è in forza del suo essere, della sua forma che, in quanto ciò che il dio “ha da essere”, ne rappresenta l’“in-vista-di-cui” (das Worumwillen), per riprendere la nota traduzione heideggeriana del costrutto greco t’ o· õneka. In questo caso, assumendo la forma come l’essere essenziale della cosa, fra ente immobile e fine vi è la stessa relazione che vi è fra ente mosso e fine: ogni ente, per meglio dire, ogni sostanza è in vista della propria essenza, della propria forma, ma nel dio ciò non comporta movimento perché il qe“j è atto perfetto, è già da sempre presso la propria forma compiutamente in quanto atto puro, pura ônörgeia. Nelle sostanze sensibili, invece, la conformità alla loro essenza è il fine che nel processo di vita esse hanno da raggiungere: un bambino non è ancora presso la compiutezza della propria forma in quanto essere umano e cresce (si muove) in vista di essa.

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che si può pensare sotto il nome di f⁄sij. Per natura gli individui di una specie si generano in un certo modo, con un certo aspetto ed hanno certe caratteristiche. Ma nel movimento del venire all’essere che è dominato dall’aŸt“maton il principio della generazione non segue la “regola” ontologica della natura, sebbene gli enti in tal modo generati restino dentro lo spazio della f⁄sij, continuando ad essere enti naturali. Evidentemente non ho nessun diritto sul piano dell’essere – prima ancora che sul piano morale – di dire che un bambino non è più un essere umano, anche se nasce con gravi malformazioni che ne alterano proprio l’aspetto e magari la forma che deve essere propria del vivente uomo rispetto ad ogni altra specie che rientra nel genere animale, ossia la sua parte razionale. Dunque, si indica nell’esistenza di un principio altro dalla natura il motivo di un simile caso di generazione; si dice “aŸt“maton” e non si può dare alla fine nessuna ulteriore spiegazione all’infuori del nome che si pronuncia poiché si tratta di un evento che, non accadendo né sempre (¢eÖ) né per lo più (ôpà t’ pol⁄) non può essere sussunto, per essere spiegato, sotto la forma di un principio universale che ne regola la necessità64. Nella t⁄ch e nell’aŸt“maton cessa di operare la relazione causale che, attraverso cause intermedie, si instaura fra la f⁄sij ed il qeãon. I movimenti delle sfere celesti hanno una loro regolarità e non sono casuali; dal movimento del cielo dipendono l’alternarsi del giorno e della notte, l’alternarsi delle stagioni, il ritmo della vita della natura. Ma la natura ospita al suo interno un elemento “eversivo”, un elemento che, nondimeno, dà “densità” ontologica al reale. L’unità del principio primo, quel suo stato d’essere che lo pone al principio come il primo degli enti e che gli consente di essere tale solo nella condizione di un’indipendenza dall’intero dell’ente (il qe“j non “dipende” dalla f⁄sij mentre la f⁄sij “dipende” dal dio) non determina affatto un’uniformità ontologica dell’intero dell’ente: nell’ente è la molteplicità, la varietà, la differenza che si mostra nei tanti modi in 64 Nella prospettiva aperta dagli studi sul genoma l’esempio è meno preciso, perché oggi è possibile individuare nelle malformazioni del vivente una causa di tipo genetico. Tuttavia, scoprire che è per via di un’alterazione del DNA che un individuo nasce con una certa malattia non vuol dire sapere in che modo nel DNA si sia provocata in origine l’alterazione.

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cui l’ente si può dire e pensare (t’ oñn pollacÓj lögetai). Vi è, inoltre, un altro aspetto che sembra rendere giustizia alla lettura di Heidegger. È l’esattezza dell’indicazione del “momento” in cui nel processo di riduzione messo in atto dal pensiero metafisico la differenza ontologica risulta nascosta. In questo aspetto la lettura heideggeriana non appare condizionata al fondo da un pregiudizio tomista65. Secondo il paradigma onto-teologico la condizione che regge la procedura della metafisica è l’assunzione dell’essere come essere dell’ente: è qui per Heidegger che si compie l’atto essenziale, originario di genesi della metafisica in cui, posta in oblio la differenza ontologica, prende avvio la circolarità, il rinvio reciproco di ontologia e teologia. È da questo primo passo che consegue il successivo, quello in cui la procedura di riduzione riconduce l’essere dell’ente all’ente divino, spostando il baricentro della riduzione sul piano ontico. In qualche modo, più ancora del modo in cui la metafisica indaga è, quindi, il suo tema stesso ad essere in sé problematico: la metafisica non interroga sull’essere, ma sin da principio sull’ente. È a partire dalla domanda sull’ente che essa potrebbe elevarsi, per così dire, al piano della domanda sull’essere se scorgesse che nel trascendere ogni ente per cogliere l’essere dell’ente si istituirebbe il senso di una domanda più originaria, quella, appunto, sull’essere. Ma la metafisica non coglie, non apprezza la traccia dell’essere nella domanda sull’essenza dell’ente. Dunque, nel suo modo di procedere essa calibra l’intero sforzo ai fini della comprensione di un ente determinato. Il paradigma di Heidegger, allora, non nasce perché assume a monte il fatto che la metafisica pensa nell’ente divino il carattere dell’essere che essenzialmente poi è da attribuirsi all’intero dell’ente. La metafisica si costituisce come onto-teologia a partire dal fatto stesso di porre la questione sull’ente; nella misura in cui l’ente 65 Sebbene non sia mia intenzione esprimermi in merito al problema, è interessante, però, che la recente generazione di studi critici su Tommaso d’Aquino, a partire dal paradigma heideggeriano, mostri come la speculazione tomista si muova nel regime della differenza ontologica. Ciò, evidentemente, ha un impatto notevole sul modo in cui il paradigma di Heidegger possa essere accettato o refutato; nel nostro caso specifico si sposta di livello la questione: per dare conto del modo in cui la metafisica in origine avrebbe dimenticato la differenza ontologica Heidegger si servirebbe di un modello che, invece, avrebbe conservato al suo interno la differenza.

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si mostra duplicemente allo sguardo del metafisico, si istaura allora la connessione fra la domanda ontologica e quella teologica. Per la critica heideggeriana all’onto-teologia la dimenticanza della differenza ontologica si consuma tutta sin dall’inizio, sin dal fatto che ad essere interrogato primariamente è l’essere come essere dell’ente: è la condizione della sua apertura – ossia la condizione alla quale la metafisica è scienza in quanto domanda sull’ente in quanto tale nella sua totalità – che determina la sua struttura onto-teologica. Solo dalla domanda sull’ente si istituisce la circolarità del domandare, e dunque il rinvio fra il piano della generalità dell’ente (enticità) e quello della sua preminenza (teologia). Heidegger si rende conto che le cose stanno così sin dall’origine in Aristotele; proprio perché lo Stagirita rappresenta l’ideale linea di demarcazione fra un “prima” e un “dopo” come incipit della tradizione metafisica nella storia destinale dell’essere, l’Auseinanderseztung resta sempre impregnata di quella feconda oscillazione che anima soprattutto le Vorlesungen degli anni Venti: la variazione del giudizio su Aristotele non compromette il sentimento di “familiarità”, di “parentela speculativa” che Heidegger avverte nei confronti dello Stagirita, quando la filosofia prima diviene, nelle sue analisi, quasi una forma di pensiero dell’essere ante litteram, capace di esercitare una funzione critica, cioè di discernimento e differenza fra il piano dell’essere e quello dell’ente66. D’altronde, se il paradigma onto-teologico fosse così condizionato da un modello esegetico sulla tradizione metafisica di matrice scolastica, sarebbe solo una nota stonata quell’insistente denuncia heideggeriana della “novità” della speculazione cristiana come “trasformazione cristiana del concetto di metafisica (christliche Wandlung des Metaphysiksbegriffs)” 67 con l’introduzione del concetto di creazione all’interno dell’apparato concettuale greco in un atto di appropriazione che appare addirittura una “follia” 68. Non solo: Heidegger non 66 In due Vorlesungen in particolare ciò viene fuori con nettezza: nel corso aristotelico del semestre estivo del 1924 (Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie) e nel corso del semestre estivo del 1926 (I concetti fondamentali della filosofia antica). 67 GA 36/37, p. 21. 68 “Solo questa svelatezza dell’ente ha reso possibile che la teologia cristiana si impa-

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potrebbe neppure concedersi una schematizzazione della storia dell’onto-teologia come articolazione delle due istanze (ontologica e teologica), in cui al posto rispettivamente della “generalità” e dell’“essere primario” dell’ente possono collocarsi determinazioni strutturalmente identiche, equivalenti, anche se diverse sul piano del contenuto specifico69. Le varie figure storiche dell’onto-teologismo metafisico assumono, nell’esegesi heideggeriana, l’aspetto di espressioni di una medesima struttura immutata sul piano formale, al modo di variazioni sul tema del gioco di implicanza reciproca fra le due istanze fondanti. Il rapporto fra le determinazioni sotto cui l’enticità è colta come universale e le determinazioni dell’ente primo resta inalterato, così come rimane inalterata la “funzione” svolta, sul piano della componente ontologica, dall’oñn Œ ‘n, dall’ens commune, dalla quidditas o dall’oggettualità e quella svolta, sul piano della componente teologica, dalla prËth oŸsÖa (nel senso del qe“j), dal summum ens, dalla causa prima, dal soggetto. Solo così Heidegger può affermare che “[t]utta la storia della metafisica, da quel momento in poi [scil. da Platone ed Aristotele], si articola come la successione delle differenti forme fondamentali dell’essere dell’ente che poggia sul terreno della determinazione iniziale”, ossia sul modo in sé duplice di concepire l’essere dell’ente come enticità.

4. L’esito “teologico” dell’onto-teologismo metafisico Struktur (“struttura”), Verfassung (“costituzione”), Rahmen (“telaio”), Baugefüge (“armatura”): i termini heideggeriani, come già visto, insistono costantemente sul fatto che l’onto-teologismo è il modo d’essere specifico del pensiero metafisico tout court, non restringibile ad una sola figura o ad un singolo momento all’interno di dronisse della filosofia greca. Se ciò sia avvenuto a suo vantaggio o a suo danno, lo decidano pure i teologi in base all’esperienza cristiana, ma ripensando a quanto è scritto nella prima lettera ai Corinzi dell’apostolo Paolo: […] ‘Dio non ha fatto divenir follia la sapienza del mondo?’ […] Vorrà la teologia cristiana ridecidersi a prendere sul serio la parola dell’Apostolo e quindi la filosofia come una follia?” (Sgv, pp. 330-331). 69 Rimando allo schema di Thomson che mi sembra molto efficace: cfr. I. Thomson, op. cit., p. 303.

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Struttura, procedura, esito dell’onto-teologismo metafisico

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una storia di pensiero eterogenea70. Il duplice modo di considerare l’ente nella sua interezza – secondo il tratto che è comune a tutto l’ente ed altresì in riferimento ad un ente sommo prima causa – così come la duplice esigenza razionale nella forma del fondamento che governa la considerazione dell’ente – il dare fondamento all’ente nella sua totalità al modo dell’ergründen e parimenti al modo del begründen – formano la postura onto-teologica della metafisica di fronte all’ente. Tuttavia, nonostante la radicale natura ambivalente del pensiero metafisico, Heidegger è perentorio nell’asserire che l’esito della metafisica è sempre teologico, ossia univoco. Esso è il risultato del meccanismo di riduzione che si esercita sul duplice modo di considerare l’enticità a partire dalla doppiezza dell’istanza fondativa 70

Jaran sottolinea il valore semantico “istitutivo” dei vocaboli heideggeriani che mettono in evidenza i tre caratteri fondamentali dell’onto-teologismo metafisico: la simultaneità, la circolarità, la strutturalità. La simultaneità indica la contemporanea determinazione della metafisica in chiave ontologica e in chiave teologica e non la semplice addizione delle due componenti nella formulazione della nozione di onto-teologia. La simultaneità, cioè, esprime l’indivisibilità di ontologia e teologia nella formazione del concetto di onto-teologia come modo d’essere proprio della metafisica: “La metafisica non si scinde mai in ontologia e teologia allo stesso modo in cui la filosofia si può dividere in fisica, logica ed etica. Essa è essenzialmente il doppio spiegamento di un’unica questione” (F. Jaran, op. cit., p. 40). La circolarità indica altresì il riferimento reciproco e non riducibile di ontologia e teologia, la loro mutua dipendenza e determinazione: “Questa interdipendenza dell’ontologia e della teologia riduce la metafisica ad una circolarità, ad una ‘fondazione reciproca’ che il logico non saprebbe tollerare. Né la teologia né l’ontologia occupano infatti il primo posto, essendo ciascuna delle due fondamento dell’altra […]. Colui che cerca un fondamento ultimo della metafisica finirà per essere deluso: la fondazione di una simile scienza è per essenza circolare” (ibid., p. 41). La strutturalità indica che la duplice determinazione unitaria di ontologia e teologia nella metafisica non può essere trasgredita, in quanto è “l’intelaiatura all’interno della quale si sviluppa il pensiero” (ibidem). In tal senso la metafisica non può internamente sciogliere, superare la propria duplicità onto-teologica e per questo, nell’ottica heideggeriana, il meccanismo di riduzione dell’essere all’ente può essere disinnescato solo andando oltre la metafisica, ossia interrogando sull’essere in altro modo rispetto al modo della metafisica. Da qui, dunque, la necessità di un oltrepassamento dell’onto-teologismo della metafisica proprio guardando all’origine del pensiero, ossia ad un modo di interrogare non ancora impostato dentro la cornice dell’onto-teologismo metafisico. Rispetto a sé, alla propria costituzione la metafisica, se veramente tale, infatti, non può mai operare un oltrepassamento, perché ciò le richiederebbe di diventare altro rispetto a quello che essa è, rispetto al tratto che la definisce, la caratterizza come metafisica. Questa prospettiva, osserva ancora Jaran, priva naturalmente la metafisica di una reale capacità di innovazione rispetto alla sua origine onto-teologica, capacità che invece storicamente sembra di volta in volta darsi (cfr. ibid., p. 42).

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Aristotele dopo Heidegger

secondo cui l’ente è fondato nella sua universalità ontologicamente, ma legittimato quanto al suo essere solo teologicamente. Sulla scorta del meccanismo di riduzione dell’onto-teologismo Heidegger afferma, quindi, che “ogni metafisica è ‘teologica’”, nella misura in cui “fa derivare l’essente da un essente supremo inteso come causa prima originaria”71. In modo ancora più chiaro, durante il corso del semestre estivo del 1936, dopo avere ricordato che la teologia non nasce come disciplina “al servizio di un sistema ecclesiale della fede, ma all’interno della filosofia”, spiega: Ogni filosofia è teologia nel senso originario ed essenziale che la comprensione concettuale (l“goj) dell’ente nella sua totalità pone la questione del fondamento dell’Essere, e questo fondamento viene chiamato qe“j, dio 72.

Non si tratta di una correzione del paradigma onto-teologico né di un’asserzione contraddittoria rispetto alla tesi dell’essenziale duplicità della metafisica come onto-teologia. Suona piuttosto come un’ulteriore presa d’atto della strutturalità dell’onto-teologismo della metafisica che si consegna al risultato teologico in virtù della sua “dimorfia”. L’omogeneità di fondo della tradizione metafisica come onto-teologia è, infatti, confermata dallo sbocco teologico della sua tensione conoscitiva, senza che ciò tradisca il proposito da parte della metafisica di comprendere l’ente nella sua universalità, ossia senza che tale esito annulli al suo interno la componente ontologica e, dunque, il senso della domanda sull’ente in quanto tale – condizione sotto la quale la metafisica si istituisce come scienza: Questa domanda [scil. la domanda metafisica sull’ente in quanto tale], andando al di là, domanda in direzione della causa suprema e del fondamento sommo, che è, dell’ente. È la domanda del qeãon, che sorge già all’inizio della metafisica in Platone e Aristotele, che sorge 71 Mn, p. 90. Per il fatto di considerare un ente sommo soprasensibile fondamento dell’enticità nel Nietzsche Heidegger asserisce addirittura che la metafisica è una forma di platonismo: “L’ente in quanto ente viene concepito nel suo insieme partendo dal soprasensibile e quest’ultimo viene contemporaneamente riconosciuto come il vero ente […]. Tutta la metafisica è platonismo” (Ntzse, p. 759). 72 Schll, p. 98.

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cioè dall’essenza della metafisica. Poiché la metafisica, pensando l’ente in quanto tale, rimane riguardata dall’essere, ma lo pensa partendo dall’ente e andando all’ente, per questo essa deve in quanto tale dire (lögein) il qeãon nel senso del fondamento che sommamente è. La metafisica è in sé teologia. Lo è, in quanto dice l’ente in quanto ente, lo oñn Œ ‘n. L’ontologia è al tempo stesso necessariamente teologia. Per riconoscere il tratto onto-teologico della metafisica non c’è bisogno di prendere come orientamento il mero concetto di metafisica della scuola leibniziano-wolffiana; esso non è che una forma scolastica derivata dell’essenza della metafisica pensata in termini metafisici73.

Il doppio movimento del trascendere (andare oltre ogni singolo ente determinato per la totalità dell’ente ed oltre l’ente nella sua interezza in direzione di un ente sommo) si orienta e dirige verso il primo ente perché l’istanza del fondamento che anima la metafisica ne indirizza preliminarmente l’indagine in chiave protologica. In quanto processo investigativo che sin da principio è volto a cogliere cause e principi primi, la metafisica, ogni metafisica, restringe come in un cono di luce capovolto l’ampiezza del suo sguardo: dall’universalità dell’ente alla singolarità di un ente eccelso che, nondimeno, essendo primo è altresì per questo universale, ossia atto a compattare sotto di sé l’indefinita molteplicità di ogni ente che concorre a costituire la totalità. Vi è, quindi, una sorta di equivocità interna all’oggetto precipuo della metafisica, ma anche al modo da parte di essa di tematizzare il proprio oggetto. È, cioè, un’ambiguità che abita internamente l’oggetto della metafisica sia sotto il rispetto del suo essere sia sotto il rispetto della sua nozione e, dunque, della possibilità della sua conoscenza. La scansione fra struttura, procedimento ed esito come momenti distinti eppure strettamente connessi nell’onto-teologismo permette di afferrare con puntualità questa duplice articolazione, questa Zwiegestalt. In tale scansione viene in primo piano l’istanza epistemica che già in Aristotele anima lo sforzo del sapiente: afferrare pienamente la realtà (l’intero dell’ente) conquistando un contenuto di verità che sia 73 Ntzse, pp. 819-820. Nel corso su Schelling del 1936 Heidegger dà un’inequivocabile indicazione storiografico-interpretativa della natura teologica della metafisica: “[L]a teologia cristiana è la cristianizzazione di una teologia extracristiana”. La filosofia al modo della metafisica nasce già connotata in chiave teologica (Schll, pp. 98-99).

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Aristotele dopo Heidegger

primo sia dal punto di vista della conoscenza sia dal punto di vista dell’essere: “Dunque, ciò che è primo (t’ prÓton) si dice in molti modi: nondimeno la sostanza è ciò che è primo in tutti i modi, sia secondo il concetto, sia per conoscenza, sia secondo il tempo”74. Al di là della ragione aristotelica della determinazione dell’oŸsÖa come il prÓton sul piano ontologico e sul piano gnoseologico, l’indicazione dello Stagirita è precisa: primo in senso assoluto è quel che possiamo considerare tale (prÓton) in tutti i sensi (p£ntwj): sul piano del concetto, quindi della conoscenza e, ancora, del tempo, dove l’anteriorità temporale indica la sussistenza per sé della cosa rispetto a quel che, in quanto inerente ad un sostrato, è dopo, segue il sostrato stesso. L’¢rcª prima della metafisica è “il primo” perché è quel che sul piano della conoscenza e dell’essere restituisce la ragione dell’intero dell’ente. Questa causa prima nel lessico heideggeriano è il “fonda74 Met. Z, 1028a31-33. Cfr. anche Met. D, 1018b30-34: “In un altro modo anteriore si dice quel che è anteriore secondo la conoscenza così da essere anteriore anche in senso assoluto. Fra gli anteriori le cose che sono anteriori secondo la ragione (kat¶ t’n l“gon) sono diversamente dalle cose che sono anteriori secondo la sensazione. Infatti per la ragione sono anteriori gli universali mentre per la sensazione i particolari”. Dunque, sul piano della conoscenza razionale la forma di uomo è anteriore rispetto a quest’uomo qui determinato che ho davanti a me, in quanto l’umanità è una nozione universale rispetto al singolo determinato particolare. Vi è però anche un’anteriorità rispetto all’essere e non solo rispetto al concetto: “Altre cose sono dette anteriori e posteriori per natura e per essenza (oŸsÖa)” (ibid., 1019a2-3). Sul piano ontologico, quindi, la sostanza è prima rispetto alla qualità o alla quantità perché è ciò che esiste per sé laddove qualità e quantità sono in quanto attribuzioni di una sostanza. Tuttavia, sul piano della sensazione il colore dei capelli di Marco mi sarà noto prima della conoscenza della sua nozione in quanto uomo, che nondimeno sul piano della conoscenza in quanto nozione che esprime l’essenza di Marco sarà anteriore alle sue proprietà non essenziali. Sulla polisemia del rapporto di anteriorità o priorità di qualcosa rispetto ad un’altra cfr. altresì Cat. cap. 12, dove Aristotele spiega i cinque modi (kat¶ pönte tr“pouj) secondo cui qualcosa è primo rispetto a qualche altra cosa: secondo il tempo (kat¶ cr“non) e questo per lo Stagirita è il senso più proprio (kuriËtata); secondo l’esistenza per sé, ossia il fatto che qualcosa esista indipendentemente da altro che può essergli correlato (“quello che non si può invertire secondo la conseguenza dell’essere”); secondo l’ordine (kat¶ t£xin); secondo un significato che si potrebbe dire fortemente ontologico e che, nondimeno, lo Stagirita considera ¢llotriËtatoj (il meno appropriato), ossia l’essere primo di qualcosa in quanto il migliore (t’ böltion) e più degno di onore (t’ timiËteron); secondo la causalità, cioè nella correlazione fra due cose che è insieme espressione di un nesso causale, è prima quella che è causa dell’altra. Il quarto significato sembra chiarire la ragione dell’essere “prËth” dell’oŸsÖa divina che è altresì detta da Aristotele timiËtaton gönoj e, pur tuttavia, si tratta del significato di priorità per Aristotele meno esatto fra tutti.

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mento sommo” che è detto al modo dell’ente, in quanto la metafisica dimentica l’essere nell’ente75. Dunque, il fatto che la metafisica si orienti sin dal principio del suo interrogare verso l’¢rcª dell’ente in quanto tale ne determina non solo il carattere, ma anche lo stesso esito teologico. La domanda sull’oñn Œ ‘n, su cosa l’ente sia, ha secondo Heidegger una triplice configurazione interna, una sequenza di livelli: La metafisica chiede: tÖ t’ ‘n – che cos’è “l’ente in quanto ente” che cos’è l’ente nel suo essere che cos’è l’essere dell’ente 76.

La caratura teologica della metafisica come ricerca del fondamento assoluto è dunque il modo in cui la metafisica, in un crescendo interrogativo, dà risposta alla domanda sull’ente. Rispondere alla domanda sull’ente in quanto tale rispondendo alla questione di cosa sia l’essere dell’ente è la maniera in cui la metafisica, al culmine della sua espressione ontologica, si definisce insieme teologicamente: impostare la domanda sull’essere dell’ente al modo del che cos’è significa pensare l’essere come un ente. Ma questo pensiero può essere mantenuto solo alla condizione che l’essere sia pensato nella forma dell’ente che più di ogni altro è. L’origine del passaggio è nella metafisica aristotelica in cui, secondo il paradigma heideggeriano, si consuma lo slittamento semanticoconcettuale della nozione di oŸsÖa da enticità a sostanza prima. Non indicando più un tratto d’essere che è comune ad ogni ente, quale che sia (l’enticità), oŸsÖa nomina quel modo d’essere dell’ente che si mostra essenziale rispetto a modi d’essere contingenti, accidentali o anche propri, ma comunque non necessari all’esistenza della cosa 75

Fondamento è, come è noto, uno dei modi con cui la lingua latina traduce il greco

ÿpokeÖmenon. La nozione è nel contesto della filosofia aristotelica polivoca: indica il sog-

getto di una predicazione, il sostrato, la sostanza, la forma, ma anche in un certo modo la materia. Nell’individuazione del “fondamento” come causa prima nella sostanza prima si intreccia sul piano semantico e concettuale ciò che sul piano dell’essere corrisponde alla determinazione di un ente primo, prima sostanza, separata, immobile, pura forma, cioè il qe“j, che è prima ¢rcæ kinªsewj. Cfr. ad es. anche Schll, p. 279: “Nella metafisica occidentale questo fondamento dell’ente nella sua totalità si dice ed è: Dio, qe“j”. 76 GA 49, p. 169. Questa sequenza compare ad es. anche in GA 31 nella forma “das vorhandene Seiende, das Seiende als solches, die Seiendheit des Seienden (das Seins) [l’ente esistente, l’ente in quanto tale, l’enticità dell’ente (l’essere)]” (p. 47).

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nella costituzione della sua essenza. OŸsÖa secondo questo senso specifico è, come interpreta Heidegger, “l’essere di ciascun ente in quanto ‘essenza’, ciò che persiste in ogni ente (das Immerwährende an jedem Seienden), ciò che già sempre si fa incontro in esso (was immer schon angetroffen wird an ihm)”77. Questo perdurante esistere, questo esistere sempre con riferimento al cuore dell’essere di ciò che è (l’essenza) si può dare, tuttavia, sia nell’ordine del tempo, al modo delle sostanze corruttibili, sia al di fuori di un ordine temporale, nel regime dell’eterno, come ciò che è imperituro. Questo scarto scaturisce dal fatto che la nozione stessa di oŸsÖa come “¢eà ‘n”, come ciò che è sempre, è un che di equivoco: per un verso essa indica la costanza d’essere in quanto l’essenza, ossia il modo d’essere costitutivo non mutabile e non contingente della cosa; per altro verso indica la costanza d’essere come modo d’essere di certi particolari enti determinati, “un determinato ambito dell’essente che ha questo particolare modo d’essere” 78, ossia l’insieme di quei particolari enti che come tavoli e cavalli permangono in quanto tali nel mutare delle loro determinazioni accidentali e che diciamo, appunto, per se stessi sostanze. Ma nell’ambito delle sostanze si distingue ulteriormente quell’ente specifico (o quella parte dell’intero dell’ente) che Aristotele chiama qeãon, nel quale i due significati convergono in modo precipuo. Esso è in senso stretto ¢eà ‘n in quanto incorruttibile a differenza delle sostanze sensibili periture. Tuttavia, in questo modo, si è già avviati alla ricerca di quel che esiste per sé in senso preminente, consumando il passaggio dalla nozione di oŸsÖa assunta al modo dell’enticità a quella di oŸsÖa considerata come prËth oŸsÖa nel senso del qeãon, del timiËtaton gönoj. Se alla Leitfrage si risponde con la nozione di oŸsÖa assunta in questa seconda specifica connotazione ontica, l’enticità è posta come ente sommo e l’ontologia, come indagine sull’ente nel suo essere, è caratterizzata in chiave teologica. La duplicità onto-teologica, con la conseguente definitiva postura teologica della metafisica nel dare risposta alla questione ontologica, risiede dunque in un’ambiguità della nozione di oŸsÖa. Come Heidegger chiarisce in modo lucidissi77 78

Af, p. 159 (trad. modificata). Ibidem.

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mo nei Principi metafisici della logica, oŸsÖa indica sia il modus essendi sia il modus existendi dell’ente79. Essa per un verso è il modo d’essere precipuo dell’ente in quanto tale, l’essenza come enticità; per un altro verso è il modo dell’esistere dell’ente fino allo specifico riferimento al modo dell’esistere come sostanza incorruttibile, immobile, separata in quanto quell’ente che sul piano della realtà esiste sempre, è un ¢eà ‘n in senso stretto e peculiare. Un doppio riferimento al tempo accompagna la duplicità dell’oŸsÖa. Come modus essendi oŸsÖa è un ¢eà ‘n, giacché è quell’essere della cosa che permane nel mutare delle determinazioni non essenziali della cosa; come modus existendi oŸsÖa è un ¢eà ‘n in un modo ulteriormente duplice, a seconda che si intenda rispettivamente 1) l’esistere al modo della sostanza in genere, come ciò che è per sé rispetto a ciò che è in altro e dunque l’esistere della cosa al modo del sostrato che nella sua forma non è toccato dal tempo a differenza della sua materia che accoglie le determinazioni contrarie attraverso cui si esprime il mutamento80; 2) l’esistere di un ente in sé imperituro e non passibile di alcun tipo di metabolª, poiché “fuori”, “oltre”, “al di là” della dimensione del tempo in quanto immateriale: L’espressione terminologica per indicare l’essere dell’ente, la quale in verità viene usata spesso anche per denotare l’ente stesso, è: oŸsÖa: enti-tà. Essa è ciò che costituisce l’ente come ente, l’oñn Œ ‘n, l’essere. Lo stesso termine oŸsÖa ha un doppio significato, che non è casuale e fa la sua prima chiara comparsa in Aristotele […]. OŸsÖa è l’essere nel senso di modus existendi […]. OŸsÖa è l’essere nel senso di modus essendi 81. 79 Si tratta della duplicità della questione sull’ente che si esprime in pari tempo, come abbiamo visto con Thomson, come domanda sull’essenza o il “che cos’è” degli enti (“the essence or ‘whatness’ of beings”) e come domanda sull’esistenza o il “che è” degli enti (“the existence or ‘thatness’ of beings”) (cfr. I. Thomson, op. cit., p. 300). 80 Cfr. Met. Z, cap. 3. Si tratta dell’analisi della nozione di oŸsÖa come ÿpokeÖmenon, da cui deriva l’indicazione che la forma come senso forte di ÿpokeÖmenon si può, quindi, considerare sinonimo di essenza. 81 Pml, p. 172. Heidegger aggiunge quindi: “Aristotele vuole rendere entrambi i significati, in quanto distingue la prËth oŸsÖa, questo ente così come esiste, il fatto che ci sia, dalla deutöra oŸsÖa, dall’essere un che-cosa, dall’essenza. Entrambi i significati sono orientati nel senso del tempo. Existentia: ciò che “esiste” realmente, l’essere in quanto existentia si manifesta in ciò che è ¢eà ‘n, che è sempre e mai, in nessun momento, non è, che “c’è sempre”. Essentia denota il che-cosa, l’idea, ciò che fin dall’inizio determina

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Aristotele dopo Heidegger

L’assolutizzazione ontica dell’oŸsÖa come ente preminente, quanto ad un’essenza che ne determina l’esistenza eternamente, produce, quindi, un’intersecazione di ontologia e teologia che Heidegger esprime anche come “fondamentale confusione circa l’ontologia in quanto ontica generale” 82. Si tratta, in altri termini, dell’integrazione della ricerca sull’essere dell’ente con una scienza dell’ente preminente. Questa scienza si conforma alla natura generale dell’indagine sull’essenza dell’ente, nella misura in cui una tale indagine è ricondotta al piano dell’indagine sull’ambito ontico dell’ente divino il cui essere in modo eccellente e primario è realizzazione del modo d’essere proprio dell’ente (l’enticità). L’ente primo come “assoluto” è per Heidegger la figura tipica, esemplare in cui si esprime il carattere teologico della metafisica. Il fondamento dell’intero dell’ente come causa prima espressa dall’ente sommo tratteggia in modo inequivocabile la metafisica in chiave teologica: La questione dell’essente nella sua totalità viene intesa come la questione sull’‘assoluto’. L’assoluto inteso come la causa originaria, l’essente originario – la condizione prima e universale che rende possibile l’essente nella sua totalità e in quanto tale83.

Sottolineare che la metafisica ha un approdo teologico, in quanto volta a cogliere una prima ¢rcª individuata in un ente eccellente, non è solo un modo per dare ragione dell’unità interna al concetto di metafisica fra ontologia e teologia. Mettere in evidenza la valenza onto-teologica della metafisica con il suo sbocco precipuamente teoogni ente in quanto ente e, perciò, in quanto ‘ntwj ‘n , a maggior ragione è ¢eà ‘n ” (ibid., pp. 172-173). Va notato che secondo Cat. 5 (2a11 s.) prËth oŸsÖa è il singolo individuo determinato che non è opposto all’essenza, ma è distinto dalla deutöra oŸsÖa intesa come specie e genere, ossia come i livelli più generici della sostanzialità di un ente per sé sussistente. Marco, questo singolo uomo qui che ho davanti, è “più sostanza” dell’uomo in generale come animale bipede razionale. Secondo l’ordine delle sostanze e della durata della loro esistenza rispetto alle sostanze corruttibili è invece sostanza prima il qe“j, appunto perché si tratta di una sostanza eterna affatto passibile di mutamento rispetto alle sostanze corruttibili o a quelle eterne ma mosse (cfr. Met. L, 1069a30 ss.; sebbene qui non compaia l’espressione prËth oŸsÖa in riferimento al qe“j, nondimeno nel corso del libro il dio è presentato come forma di vita ottima ed eccellente ed è detto, accogliendo l’opinione comune sugli dei, sostanza prima al cap. 8, 1074b9). 82 Af, p. 159. 83 Mn, p. 158 (Il paragrafo porta il titolo “La teologia” – L’assoluto).

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logico significa anche e soprattutto evidenziare quella tensione verso principi considerati primi che così peculiarmente caratterizza la metafisica nella sua origine aristotelica rispetto a tutte le altre scienze. Anche le altre scienze, giacché tali, sono conoscenza di cause prime, ma queste sono proprie solo dell’oggetto che ciascuna scienza studia84. La precisione dell’indicazione di Heidegger marca l’originaria caratura protologica della metafisica a partire da Aristotele: il riferimento al qeãon, la messa in gioco del divino da parte della metafisica scaturisce dall’essenza della metafisica stessa, dal fatto che essa è orientata verso principi primi, principi che attengono a tutto l’ente, all’ente in quanto tale e non solo ad una sua parte: Dai tempi di Platone ed Aristotele la domanda sull’‘n, cioè sulla sua ¢rcª in quanto aÑtÖa, è la domanda sul qeãon e perciò la prËth filosofÖa è ôpistªmh qeologikª85.

Come le altre ôpist¡mai anche la filosofia prima abbraccia l’universalità sotto un unico principio che, in un certo modo, ha natura singolare. A differenza delle altre ôpist¡mai, i cui principi sono primi solo rispetto alla porzione dell’ente considerata, la metafisica sa, però, che il suo principio vale per tutto l’ente, per l’”lon, per l’intero dell’ente e non solo per una sua parte86. Attraverso il principio primo che essa conosce la metafisica unifica il proprio modo equivoco di considerare l’intero dell’ente, quanto al suo essere, come ciò che è 84 La causa è prima quando non è causata da altra causa (ôk mæ aÑtiatÓn, cfr. An. Post. I, 76a20). Conoscere la causa prima significa essere in possesso di una conoscenza che è scienza in massimo grado, ossia scienza “più” delle altre: “Infatti sa maggiormente colui che conosce a partire dalle cause più elevate: egli difatti conosce quando conosce da cause che non derivano da cause, sicché, se questi conosce di più ed in massimo grado, anche la sua scienza sarà maggiore ed in massimo grado” (ibid., 76a18 ss.). 85 GA 49, p. 111. 86 L’universalità della causa comporta secondo Aristotele che questa appartenga alla cosa causata da essa in modo necessario e conformemente all’essere della cosa stessa: “Chiamo universale quel che appartiene ad ogni cosa sia per sé sia in quanto tale” (An. Post. I, 73b26-27). La causa prima dell’ente dunque, in quanto universale, è di ogni ente in quanto tale e in modo necessario. Subito prima Aristotele ha affermato che uno dei significati del “per sé” è quel che appartiene a ciascuna cosa in forza di se stesso. Dunque la causa appartiene alla cosa in forza del suo potere causativo, ossia per il fatto che il modo d’essere della cosa è in forza della causa che lo determina: “In un altro modo ancora per sé quello che appartiene a ciascuna cosa in forza di se stesso” (ibid., 73b10-11).

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Aristotele dopo Heidegger

comune ad ogni ente e, quanto al suo principio d’essere, come ciò a partire da cui l’essenza dell’ente è e, dunque, anche come ciò a partire da cui l’ente è, cioè esiste. L’esito teologico appare, pertanto, precostituito come la direzione che la metafisica imbocca sin da principio nel dichiarare che la condizione della sua scientificità risiede nella sua capacità di cogliere l’¢rcª dell’oggetto di cui si occupa. In modo molto forte in Besinnung Heidegger consegna proprio alla natura teologica della filosofia prima la sua condizione protologica, nella misura in cui però la teologia, come configurazione di una ricerca protologica, si dispiega secondo il valore ontologico della prËth filosofÖa, ossia per il fatto di assumere come suo tema l’intero dell’ente e non solo una sua parte: Entrambi [scil. il gönoj koin“taton e la prima aÑtÖa] permettono la considerazione dell’oñn Œ oñn a`plÓj (oŸ kat¶ möroj ti), contraddistinguendola come prËth filosofÖa. In quanto l’¢rcª dell’oñn Œ oñn a`plÓj può essere chiamato qeãon […], la prËth filosofÖa diviene in sé ôpistªmh qeologikª87.

Non si tratta quindi di una soluzione, di uno scioglimento della componente ontologica in quella teologica. È, anzi, la radicalizzazione della componente ontologica sotto la condizione di quella teologica: considerare l’ente in quanto tale, la totalità dell’ente, dal punto di vista di ciò che ne è principio, ossia il primo ente causa prima. Sia pur riferite in modo specifico al movimento speculativo schellinghiano, le parole di Heidegger, secondo il significato della sua esegesi dell’essenza della metafisica, afferranno il senso generale dell’intreccio di teologia e ontologia che sorregge l’intera compagine della metafisica: “Teo-logia significa […] porre la questione dell’ente nella sua totalità. Questa questione dell’ente nella sua totalità – la questione teologica – non può essere posta senza la questione dell’ente in quanto tale, dell’essenza dell’essere in generale. Questa è la questione dell’oñn Œ ‘n, dell’‘ontologia’” 88. 87 GA 66, p. 373. In Pff Heidegger commenta così l’origine aristotelica dell’indirizzarsi in chiave teologica dell’ontologia, marcando l’importanza della svolta aristotelica dentro il pensiero occidentale come momento inaugurale della storia della metafisica: “Che in Aristotele l’ontologia si orienti verso l’idea di Dio è di un’importanza determinante per la successiva storia dell’ontologia e per il suo destino” (Pff, p. 26). 88 Schll, p. 99. A queste parole segue tale schematizzazione grafica della circolarità e

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Struttura, procedura, esito dell’onto-teologismo metafisico

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Ancora in Besinnung, proprio nel mettere in luce il carattere “archeologico” della metafisica, Heidegger mostra che la duplicità onto-teologica della metafisica si lega tutta al duplice modo di intendere l’¢rcª in riferimento all’ente in quanto tale: L’¢rcª ha il doppio significato del gönoj (koin“n), per via del quale l’ente si determina nel suo che cosa, e dell’aátion, della causa originaria (Ursache), a causa di cui l’ente è prodotto (her-gestellt). Nel gönoj l’ente è presente in quanto questo o quell’ente determinato (das und das), a causa dell’aátion l’ente è presente nel suo “che è” (“Daß es ist”)89.

La duplicità dell’¢rcª permette di avere ragione, per un verso, dell’essenza dell’ente, di ogni ente in quanto tale (il suo che cos’è, il modus essendi) e per altro verso del fatto che l’ente sia (il che è, il modus existendi). La convergenza nell’ente sommo del duplice aspetto del principio come che cos’è dell’ente e come origine del che è dell’ente – in altri termini come principio dell’essentia e dell’existentia dell’ente – è, nella caratura protologica della metafisica, la convergenza dell’interrogazione sull’ente nel senso della ricerca del suo principio d’essere, dell’essenza, e della domanda sull’ente nel senso della ricerca del principio della sua esistenza. Il fatto che la Ursache sia un ente originario sommo (l’Urseiende) determina quella sorta di “strabismo” assolutamente costitutivo nello sguardo del metafisico90. simultaneità delle due componenti dentro la metafisica: oñn Œ

Ente in quanto ente

‘n

qeãon

Ente nella sua totalità

l“goj

Potrebbe sorgere l’incertezza su come effettivamente Heidegger concepisca la componente teologica della metafisica, asserendo che la considerazione dell’ente nella sua totalità determina in chiave teologica la metafisica. Sinora, infatti, la questione della totalità dell’ente, dell’intero dell’ente, è apparsa come la domanda ontologica. Qui, però, è sempre assunto implicitamente il passaggio protologico: la metafisica è teologica nella misura in cui considera il principio della totalità dell’ente. In questa formulazione è, a mio avviso, ancora più chiaro che Heidegger considera assolutamente unico il tema della metafisica: l’ente in quanto tale, ossia l’intero dell’ente. Vi è, però, un duplice modo di tematizzarlo, secondo la ricerca del koin“n, dell’essenza comune ad ogni ente, dell’enticità, e secondo la ricerca del principio di questa enticità. 89 GA 66, p. 333. 90 In GA 49, nel contesto di un’analisi volta ad illustrare il significato della nozione di Grund come corrispondente alla nozione greca di ¢rcª, Heidegger spiega che la di-

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Aristotele dopo Heidegger

Egli guarda all’intero dell’ente e però insieme ad un ente singolo supremo. Ciò per due ordini di ragione: sul piano della conoscenza poiché questo singolo ente supremo è il presupposto, la condizione epistemica attraverso cui il metafisico può studiare l’ente, può avere “conoscenza dell’ente come tale (oñn Œ ‘n) nella sua sfera d’integrità (kaq“lou)”91 – (ogni ôpistªmh, infatti, si costituisce come scire per causas); sul piano dell’essere poiché l’ente singolo supremo è il principio dell’intero ontico in entrambi i rispetti secondo cui dell’ente il metafisico cerca la causa prima: sotto la condizione della cattura della sua essenza e sotto quella della giustificazione della sua esistenza92. L’esito teologico della metafisica come risultato della struttura onto-teologica del pensare metafisico secondo Heidegger non è, quindi, tipico solo della filosofia cristiana o della rigorosa sistematizzazione della metafisica scolastica moderna, ma è già iscritto nell’originaria impostazione greca della metafisica: Questa “teologia” [scil. l’ôpistªmh qeologikª aristotelica] è in sé quella che in seguito fu chiamata “ontologia” e sulla base dell’esperienza cristiana dell’ente come ens creatum fu integrata e chiarita dalla theologia rationalis. […] La prËth filosofÖa di Aristotele non si può né concepire come “ontologia” nel suo significato successivo né consegnare come theologia rationalis nel senso di una disciplina specifica della metaphysica specialis. La prËth filosofÖa è prima di questa distinzione ed è in sé qeologikª (ôpistªmh). L’“ontologico” del tempo di Aristotele non può ancora essere riportato alle rappresentazioni ed ai “concetti” più universali, e il “teologico” di allora non si può limitare al divino di un dio creatore. Piuttosto le determinazioni dell’oñn Œ ‘n secondo la sua f⁄sij (cfr. Met. G 1) e secondo la prima aÑtÖa, ossia mensione dell’originarietà (espressa in tedesco dal prefisso ur) che è propria dell’¢rcª come origine di qualcosa si lega strettamente alla dimensione della supremazia, del dominare da parte del principio quel che da esso deriva: “¢rcª – ciò per mezzo di cui qualcosa comincia, l’originario e perciò il più antico, il primigenio. Nel contempo, però, questa parola significa dominio (Herrschaft) – quel che sovrasta su tutto e che insieme tiene tutto sotto di sé; il carattere del dominio appartiene ad ogni principio ed ogni vero dominio è originario. Entrambi, principio e dominio, traspaiono allo stesso modo nella parola greca ¢rcª” (p. 77). 91 Af, pp. 219-220. In GA 19 la formula con cui Heidegger definisce la metafisica aristotelica come “Erkenntnis des Seienden als solchen im Ganzen” corrisponde ad una sorta di reduplicazione del tema che è interna al modo in cui la metafisica prende di mira l’ente in quanto ente. 92 Cfr. GA 66, p. 373.

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Struttura, procedura, esito dell’onto-teologismo metafisico

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l’¢rcª, si accordano grecamente con il mostrarsi nella presenza (Anwesung) di ciò che è primo e costantemente, che dà già prima ad ogni ente di volta in volta singolo l’“aspetto” di un ente e pertanto si mantiene anche nel proprio compimento, poiché è il “principio” nel senso del “primo da cui” di ogni mostrarsi nella presenza93.

La gerarchizzazione della metafisica moderna in una strutturazione che pone l’ontologia come base e la teologia come apice della piramide conoscitiva, pur configurandosi come una linearizzazione del circolo onto-teologico e, dunque, come una riorganizzazione dell’intero edificio della metafisica, non è allora così lontana dall’impostazione aristotelica della prËth filosofÖa nella sua apertura teologica. La riarticolazione del nesso di ontologia e teologia approntato dalla Schulmetaphysik insiste infatti, secondo Heidegger, sul rinvio causale dell’ente all’ente sommo e sul meccanismo di riduzione già in atto nell’onto-teologismo della filosofia prima. La metafisica moderna continua ad osservare l’ente nel duplice modo greco, sotto l’aspetto della generalità e sotto l’aspetto della preminenza dell’ente: La base di questa struttura [scil. della metafisica dell’età moderna] è l’ontologia, il vertice la teologia. Quella tratta di ciò che appartiene ad una cosa in generale, ad un ente in genere (o in communi), all’ens commune; questa, la teologia, tratta dell’ente più elevato e più vero in assoluto, del summum ens. Quanto al contenuto questa partizione della metafisica si trova anche nel medioevo, e persino in Aristotele 94. 93 Ibid., pp. 372-373. Traduco Anwesung come “il mostrarsi nella presenza”, a partire dalle considerazioni con cui Gino Zaccaria motiva la propria scelta di tradurre il termine con “adstanziazione” per evidenziare il movimento di disvelamento e l’“istallarsi nell’aperto” che caratterizza l’oŸsÖa, in conformità alla sua fenomenicità, come quel che costantemente è presente, in quanto ciò che stabilmente permane (cfr. sulla resa di Anwesung come “adstanziazione” G. Zaccaria, L’inizio greco del pensiero. Heidegger e l’essenza futura della filosofia, Marinotti, Milano 1999, p. 177 e ss.). La comprensione di Zaccaria delle varie dizioni heideggeriane che ruotano intorno ad “anwesen” ed “Anwesenheit” è molto vicina a quella di Eugenio Mazzarella che intende l’anwesen come il movimento stesso dell’essere nel suo “dispiegare il proprio essere nell’adire la presenza”, ossia come lo stanziarsi dell’essere nel tempo, “ostendendosi”, mostrandosi nella presenza (cfr. TE, p. 102, n. 2). 94 Qc, pp. 142-143. In questo contesto, tuttavia, Heidegger mette in luce il diverso aspetto secondo cui l’epoca moderna elabora l’ontologia. I principi dell’ente come “le universali determinazioni dell’essere dell’ente” sono fondate sugli universali principi della ragione nella posizione dell’ente come oggetto della ragione. In questo senso il soggettivismo moderno introduce la figura dell’ego come fondamento dell’essere dell’ente fino

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Aristotele dopo Heidegger

Si nota, quindi, in Heidegger una neutralizzazione del significato stesso delle nozioni di “ontologia” e “teologia” nella misura in cui esse non vengono più messe in gioco in stretta conformità ai significati poi codificati in epoca medievale e moderna. Heidegger mette in luce, di contro, una sorta di valenza semantica primitiva, originaria, corrispondente all’iniziale apertura dell’essenza della metafisica non legata a contenuti religioso-dottrinali. In questo contesto esegetico, anzi, aggiunge che neppure il domandare dell’unità di ontologia e teologia nella filosofia prima, per quanto necessario al fine di comprendere l’ordito onto-teologico della tradizione, sarebbe conforme all’originario dispiegamento della metafisica in Aristotele. Cercare un fondamento della duplicità onto-teologica della metafisica nello Stagirita significherebbe, in un certo senso, perdere di vista l’originaria tessitura ontologica di ¢rcª e f⁄sij in quanto relazione che abbraccia l’intero dell’ente. In altri termini, rettificare la duplicità restituendone una ragione – cosa che, poi, pure Heidegger fa in vista del superamento della metafisica – che semplifichi la duplicità in una riorganizzazione e gerachizzazione fra le due componenti, come in un certo modo accade dentro la partizione della Schulmetaphysik, equivale a correggere lo “strabismo” che, invece, è costitutivo dello sguardo del metafisico nel suo afferrare insieme sin da principio, a monte dell’indagine, l’ente in quanto tale e l’ente divino95.

alla massima espressione nel compimento hegeliano sotto la forma dell’onto-ego-teologia. 95 Cfr. GA 66, pp. 373-374: “La domanda, verso cui ancora tendono alcune precedenti interpretazioni di Aristotele, sul senso secondo cui la prËth filosofÖa possa in sé nel contempo congiungere l’‘ontologia’ e la ‘teologia’, è già una domanda non greca; nondimeno resta necessaria la riflessione sul carattere ‘teologico’ della prËth filosofÖa ; a partire da essa soltanto diviene comprensibile ed impugnabile nel suo fondamento l’ontoteologia della metafisica moderna (Kant, Schelling, Hegel, Nietzsche). La qeologikæ ôpistªmh non è determinata ‘teologicamente’ nel senso cristiano-giudaico, ma ‘metafisicamente’, ossia grecamente”.

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Il carattere eidetico della metafisica aristotelica

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III IL CARATTERE EIDETICO DELLA METAFISICA ARISTOTELICA: DALLA PROTOLOGIA RADICALE ALL’ONTO-TEOLOGIA

1. La “malattia” dell’onto-teologia: l’essenzialismo Sotto il profilo di una considerazione della metafisica che si riferisca in modo programmatico alla lettura heideggeriana, onto-teologia ha acquisito la valenza “strategica” di un nome collettivo: nel genere singolare del nome si raccolgono per Heidegger, come già visto, i diversi percorsi speculativi che, ricalcando la medesima logica di riduzione dell’essere all’ente, nel costante rinvio reciproco di ontologia e teologia, compongono la trama storica della metafisica. Un’applicazione della nozione di onto-teologia all’intera tradizione metafisica senza eccezioni è possibile solo facendo perno su questo valore semantico generale1. L’uso generico, in effetti ormai classico dopo 1 È secondo questa valenza generica che, per esempio, Frédéric Nef contesta il modello heideggeriano, sostenendo che esso mette capo ad una nozione di onto-teologia assolutamente estranea al modo in cui la metafisica si è andata storicamente determinando. Nef, quindi, non riduce di ampiezza il paradigma heideggeriano, sostenendone l’applicabilità solo a determinati autori, ma ritiene che non sia affatto possibile trovare un solo caso in cui la metafisica sia definibile secondo la struttura onto-teologica individuata da Heidegger. Parla per questo di un’“onto-teo-logia introvabile”, affermando così che l’“ipotesi di una storia della metafisica come costituzione progressiva dell’onto-teologia” non è accreditabile: anche se la metafisica ha una storia con “un suo ritmo e sue strutture proprie”, l’ipotesi mostra il suo “carattere fragile, limitato ed ambiguo” (F. Nef, Qu’est-ce que la métaphysique?, Gallimard, Paris 2004, p. 269). Ciò si evidenzia secondo

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Aristotele dopo Heidegger

Heidegger, della nozione per indicare ogni indagine in cui il riferimento al particolare modo d’essere di un ente singolare (il qeãon, l’ente sommo, l’ente più essente) acquista uno specifico valore fondante rispetto alla domanda sull’essere dell’ente in generale (oñn Œ ‘n) impone, tuttavia, un lavoro di definizione più specifica. Si tratta, cioè, di evidenziare in primo luogo le condizioni di possibilità d’applicazione della nozione. La domanda sul discrimine fra metafisica e onto-teologia, come questione sulla possibilità di accettare o meno la linea esegetica heideggeriana con l’identificazione della metafisica tout court con la pratica di tipo onto-teologico, costringe, in altri termini, gioco-forza – ossia tanto se si propende a considerare valido il paradigma onto-teologico quanto se lo si ritiene inaccettabile – a mettere mano al compito che è necessario per il pensiero dell’essere secondo Heidegger e che è la finalità da cui trae origine la sua esegesi: la conquista della comprensione dell’essenza della metafisica2. Nef anzi proprio rispetto a quegli autori a cui l’esegesi heideggeriana sembrerebbe esemplarmente applicarsi (Aristotele, Avicenna, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto, Leibniz). La ragione del rifiuto di Nef dello statuto onto-teologico risiede nel fatto che egli si riferisce ad una definizione di onto-teologia unilaterale, secondo la quale essa indica la scienza in cui la “questione dell’ente massimo, Dio, si sostituisce a quella dell’essere” così che “questo ente massimo è pensato all’interno di una logica che maschera la differenza ontologica” (ibid., p. 405). In realtà questa definizione è una linearizzazione della tensione fra ontologia e teologia. Certamente, se così intesa, l’onto-teologia non rientra nel progetto metafisico di Aristotele o Duns Scoto perché elimina la determinazione prettamente ontologica generale. Secondo una simile definizione, in ultima analisi, si asserisce che in senso heideggeriano l’onto-teologia non è altro che la teologia filosofica. Ontoteologia per Heidegger, invece, è la risultante di ontologia, teologia, logica ed in questa combinazione è impossibile pronunciarsi su quale componente detenga il primato. La nozione heideggeriana di onto-teologia esprime una procedura della razionalità, in cui questa, mai sbilanciata a favore di uno solo dei due corni della doppiezza (l’ontologico o il teologico), articola l’indagine sull’ente oscillando fra il modo della fondazione come ergründen, bodennehmen e quello della fondazione come begründen, rechtfertigen. Per Heidegger la ricerca metafisica sull’ente in quanto tale non è una mera ontica generale, bensì un’indagine sull’essere dell’ente. La tesi della riduzione in metafisica dell’essere all’ente divino può essere messa in questione, allora, se si dimostra non che la metafisica non ipostatizza la causa dell’ente in un altro ente, ma che tale ipostatizzazione non corrisponde all’occultamento della differenza ontologica. Di questo aspetto mi occupo nel prosieguo del lavoro; ora mi preme sottolineare che, concentrando unidirezionalmente come fa Nef l’onto-teologia sull’ente sommo, sia pure in vista della fondazione dell’ente in quanto tale, si ricade nella posizione di aut aut fra teologia e ontologia che per Heidegger non è adeguata a cogliere l’essenza della metafisica. 2 In questo senso si può anche sostenere che in ballo è la possibilità di parlare di una

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Si può dire che è rispetto a questo interesse che proprio il “caso Aristotele” acquista un rilievo particolare. L’interpretazione della metafisica aristotelica, infatti, rappresenta oggi un punto di intreccio significativo fra il campo degli studi esegetici più specificamente aristotelici e quello degli studi critici sulla metafisica. Il primo si propone di giungere ad una comprensione della filosofia prima continuando ad insistere sulla necessità di pronunciarsi sul problema del suo statuto attraverso la trattazione del problema del suo oggetto di pertinenza. Il secondo tratta la questione aristotelica come parte di una riflessione più ampia che è diretta all’analisi delle condizioni di possibilità della metafisica – o dei suoi limiti e, quindi, della necessità di un suo superamento – e che è criticamente avvertita, giacché impegnata anche nel confronto con le diverse obiezioni provenienti dall’antimetafisica continentale o da quella analitica. Come ho già anticipato, il paradigma heideggeriano sposta il baricentro della questione della prËth filosofÖa e ciò perché, appunto dopo Heidegger, emerge una peculiare istanza di comprensione: a sorreggere ed indirizzare il modo in cui la natura della metafisica aristotelica è messa in discussione – dunque il contesto e le finalità delle indagini – è la necessità di capire se e come Aristotele, con la sua impostazione della filosofia prima, sia responsabile del dispiegamento originario dell’impianto onto-teologico. Aristotele non è solo colui che ha determinato espressamente l’oggetto che la lettura heideggeriana si propone di “decostruire”, ossia “la metafisica”, ma appare anche come colui che “ha posto le coordinate e le condizioni stesse della sua decostruzione” 3. E proprio su questo Heidegger conta nel suo rimandare continuamente, più o meno esplicitamente, ad Aristotele come l’origine a cui deve risalire il passo indietro nell’interrogazione sulla metafisica. Il “caso Aristotele” non serve ad Heidegger metafisica – o piuttosto della metafisica – in quanto tale prescindendo dalle specifiche figure che, costituendone la storia, danno vita ai suoi tanti volti che, in certi casi, sono da considerarsi non semplicemente eterogenei ma in contrapposizione. Ciò che nel bene e nel male Heidegger offre con il suo modello esegetico è il fatto di potere individuare dei tratti distintivi della metafisica, generando una riflessione su ciò che in modo specifico attiva, in filosofia, una procedura logica di tipo metafisico nell’approccio all’essere. 3 P. Aubenque, Faut-il déconstruire la métaphysique?, PUF, Paris 2009, p. 3.

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Aristotele dopo Heidegger

primariamente per illustrare la struttura in sé dell’onto-teologia. Se la descrizione dell’onto-teologismo metafisico fosse il solo obiettivo dell’analisi heideggeriana, al filosofo tedesco tornerebbe certamente più utile approntare la sua analisi riferendosi al modello di metafisica in atto nella pagina tardo-scolastica e moderna, dove l’impianto onto-teologico emerge con molta più evidenza, e da qui poi tornare indietro fino ad Aristotele. Ma – è bene ribadirlo ancora una volta – la questione onto-teologica appare ad Heidegger il problema stesso della filosofia aristotelica, indipendentemente e cronologicamente prima (almeno stando al materiale della Gesamtausgabe) della costruzione del circolo ermeneutico in cui l’origine della metafisica (Aristotele) è resa accessibile dal suo compimento (Hegel) e, viceversa, il compimento risulta già dichiarato nell’origine. Il “caso Aristotele” è per Heidegger come una sorta, se mi si concede il paragone, di “dossier” che la metafisica, dispersa nella storia delle sue tante interpretazioni del testo aristotelico, ha in un certo senso dimenticato e che Heidegger riprende in mano perché è lì che la duplicità onto-teologica non è solo annunciata, ma realizzata a partire da un’esperienza dell’essere originaria tipicamente greca. La distruzione dell’ontologia metafisica tradizionale è impossibile per Heidegger se non si considerano i modi attraverso cui la filosofia greca, che è alla base della tradizione occidentale, ha concepito l’essere. Per questo dall’ontologia aristotelica (e platonica) si traggono le linee direttive per la comprensione dell’essenza della metafisica: nella comprensione dell’essere dal tratto della sua costituzione temporale sulla base della quale il pensiero platonico ed aristotelico determina il senso fondamentale dell’essere come oŸsÖa risiede, come abbiamo visto, la divaricazione della questione sull’‘n. Essa è, infatti, formulata sia come questione sulla sua determinazione generale – secondo l’istanza razionale della ricerca dell’essenza come fondamento, principio (ÿpokeÖmenon secondo il senso della forma che nella sostanza è ¢rcª, principio) dell’essere dell’ente nel suo esistere come tale, sia come questione sulla sostanza che, per la sua determinazione ontologica, in modo primario realizza la condizione d’essere, la condizione essenziale dell’ente in conformità all’istanza della ricerca del principio primo (prËth ¢rcª) da cui si dà l’ente che è mosso e che, per

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Il carattere eidetico della metafisica aristotelica

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questo, non ha la pienezza ontologica dell’ente trascendente immobile. Ciò che solitamente si accetta del modello heideggeriano da parte degli studi sulla metafisica è l’obiezione al modo attraverso cui la metafisica domanda sull’ente, ponendo la condizione d’essere dell’ente in un ente sommo e così riducendo l’essere dell’ente all’ente per eccellenza. Nel modo di questionare sull’ente puntando alla conquista di un fondamento che ne giustifica l’essenza, ossia attraverso la via “teologica”, come abbiamo visto, quello che la metafisica perderebbe di vista è l’eccedenza dell’essere. È proprio questo il punto su cui tanto la lettura della metafisica heideggeriana quanto quella di Étienne Gilson sembrano per intero concordare. È utile soffermarsi sulla critica gilsoniana alla metafisica perché essa ricalca lo stesso genere di obiezione formulata da Heidegger contro l’onto-teologia. Alla formulazione della sua tesi Gilson arriva indipendentemente da Heidegger, ma concorderà con lui in seguito (“La rivendicazione heideggeriana dei diritti dell’essere è ben fondata e la metafisica ordinaria dell’ente deve essere oltrepassata”)4, nonostante le critiche mosse alla fenomenologia esistenzialista heideggeriana. Questo spinge ad attribuire ancora maggiore autorevolezza al modello heideggeriano, sebbene, come mostrerò dopo, sia la critica gilsoniana sia la critica heideggeriana si ritraducano in una critica di natura gnoseologica rispetto alla quale è possibile controargomentare sulla base di quella che si riconosce essere la struttura dell’esperienza conoscitiva della realtà da parte dell’uomo. La consonanza fra Gilson e Heidegger, d’altro canto, si palesa non solo nel contenuto dell’argomento critico, ma, appunto, nel fatto che entrambi non considerano l’errore della metafisica (per lo meno, nell’interpretazione di Gilson, di quel tipo di metafisica che egli ritiene storicamente prevalente) un accadimento fortuito, un errore casuale in cui la metafisica si imbatte senza neppure rendersene conto. La défaillance della metafisica, il suo perdere di vista l’eccedenza dell’essere – per Heidegger come occultamento del Seyn nell’intenderlo al modo dell’enticità, per Gilson come messa tra parentesi dell’esistenza sottomessa alla nozione di 4

É. Gilson, Constantes philosophiques de l’Être, Vrin, Paris 1983, p. 204.

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essenza –, si iscrive nella natura della ragione umana e ha a che fare con il modo in cui l’uomo esercita il suo pensiero. Come il pensiero secondo Heidegger cede alla tentazione della ricerca del fondamento, aprendo in tal modo la via alla procedura onto-teologica5, così secondo Gilson ciò che induce in errore la metafisica è un difetto, in realtà, del pensiero che ritiene la nozione dell’essenza più decisiva di quella dell’esistenza. Se Heidegger dichiara la necessità della Verwindung della metafisica, inferendola dalla comprensione stessa del5 La Kehre segna una certa differente valutazione da parte di Heidegger nei confronti della tensione metafisica che è iscritta nell’esistenza, di “quel segreto accadere della metafisica nell’esserci” (Kpm, p. 199) che si dispiega nel Dasein nella misura in cui “è un particolare ente che scopre l’altro ente e se stesso […] f⁄sei” (Cfa, p. 95). I temi di maggiore polemica nei confronti del primato della teoria e della sua determinazione dell’essere al modo della Vorhandenheit sono sviluppati da Heidegger dopo gli anni Trenta, anche se già nella prima fase del Denkweg emergono i motivi di critica contro il pensiero di tipo rappresentativo. Basti pensare che la fondazione di un’ontologia fenomenologica alternativa a quella metafisica si costruisce, ad es., anche sulla critica al primato della teoria in favore del primato della fatticità, come orizzonte di un accesso disvelativo all’ente più originario di quello rappresentato dal puro sapere contemplativo, considerato invece classicamente come il momento culminante dell’¢lhqe⁄ein umano. In definitiva quello che Heidegger finisce per sottoporre a critica è la struttura epistemica del conoscere che Aristotele determina fissando la natura dell’ôpistªmh come scire per causas. Heidegger, però, riconosce che il pensiero di tipo rappresentativo, che concettualizza l’essere imprigionandolo nella nozione di Vorhandenheit, è una possibilità dell’essenza dell’uomo, corrispondendo alla scelta ontologica del Dasein fra l’esistenza autentica e quella inautentica. Il pensiero rappresentativo è un possibile modo d’essere dell’esserci, è una possibile maniera di attuare il Verstehen, esprimendosi come esercizio di “pensiero raziocinativo” (riprendo l’espressione da P. Palumbo, Heidegger e il pensare metafisico, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2001, p. 144). Si tratta della distinzione heideggeriana fra un pensare come vorstellen, rationem reddere, cioè un pensare di tipo fondativo, ed un pensare come andenken, che si raccoglie ed acconcia per accogliere l’essere. Il pensiero raziocinativo tiene irrigidito l’essere nel concetto (oŸsÖa, aátion sono concetti per Heidegger che ipostatizzano l’essere, che lo riducono ad ente) e ne blocca la dinamica di velamento e svelamento, il suo accadere come Er-eignis (evento che si appropria dell’esserci) e il suo Entzug (il suo ritrarsi originario). Il pensiero che si dispone all’ascolto dell’essere è, di contro, il pensiero della cura dell’essere. Il pensiero raziocinativo è, quindi, il modo di pensare esercitato in metafisica, il pensiero onto-teologico. Esso fissa rigidamente l’essere nella nozione di un’essenza generale come proprietà dell’ente, dando fondamento all’ente al modo dell’ergründen. Nell’enticità l’ente trova il suo fondo e vi si appoggia, assicurato dalla necessità della sua enticità, del suo essere così e non in altro modo. Parallelamente l’enticità è fondata e giustificata nel suo perché (begründen) dall’(essere di un) ente determinato sommo. Il pensiero onto-teologico, in quanto raziocinativo, chiude così ogni altro domandare su ciò che è il “più degno di essere domandato” (das Frag-würdigste).

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l’essenza della metafisica, certamente non lo stesso si può dire per Gilson. Per il filosofo francese l’oltrepassamento della comune metafisica “difettosa” non solo va consumato dentro la stessa metafisica, ma deve avere come esito l’attuazione di una metafisica, come quella di Tommaso, in cui l’errore dell’essenzialismo è corretto, poiché si riesce a mettere in moto il pensiero dell’esistenza ed a svincolare l’esistenza dall’essenza, a cui l’esistenza risulta sottomessa nel momento in cui si conferisce all’essenza il privilegio di rendere intellegibile l’essere in quanto la nozione più atta ad esprimerlo. Prendendo di mira le metafisiche essenzialistiche, le “ontologie dell’essenza”, tra le quali egli in definitiva annovera anche la metafisica aristotelica, Gilson sostiene che esse approntano una concezione dell’essere come essenza, che è determinazione intelligibile, ossia determinazione di cui, per la sua universalità, è possibile elaborare un concetto6. Ma l’esistenza trascende l’essenza, si pone al di là dell’essenza e, difatti, l’essenza della cosa non ha mai un potere causativo rispetto all’esistere della cosa stessa7. Semmai, arriva a concludere Gilson, è l’esistenza che può costituire la fonte di nuove essenze: 6

Per Gilson anche la metafisica aristotelica sfocia nell’essenzialismo per una serie di equivalenze poste all’interno della nozione di oŸsÖa: “[C]iò che è, nel significato primo del termine, è l’“essere”, o la realtà (ousia); questa realtà si identifica a sua volta con ciò che la cosa è, cioè […] la sua quiddità, o essenza” (É. Gilson, L’essere e l’essenza, trad. it. di L. Frattini e M. Roncoroni, Editrice Massimo, Milano 1988, p. 46). Da una simile concezione dell’essere come essenza deriva che “[u]n essere così concepito è dunque primariamente una sostanza determinata da un’essenza esprimibile con una definizione” (ibid., p. 48), proprio perché l’essenza secondo Aristotele è intellegibile. Il rischio di questa concezione dell’essere è quello di perdere il senso originario dell’esistenza, posta come una sorta di appendice dell’essenza, mentre essa è una datità originaria, atto d’essere indipendente dall’essenza, “atto primo per il quale la sostanza esiste” (ibid., p. 69), atto che non dipende dall’intellegibilità dell’essenza e che, anzi, è condizione del darsi dell’essenza come reale, come sostanza, e non semplicemente come possibile, come mero prodotto del pensiero. 7 Si tratta, in effetti, della medesima considerazione che porta Kant a rigettare la prova ontologica dell’esistenza di Dio costruita sulla necessità dell’esistenza di Dio come ente reale in virtù della sua essenza di ente perfetto. L’esistenza, come è noto, per Kant non fa parte del concetto, della nozione di qualcosa, ma si aggiunge al concetto della cosa. La possibilità astratta dell’essenza di una cosa, cioè, non contiene di necessità la possibilità reale della sua esistenza. È per questo che l’esistenza è condizione della cosa, ossia compare sul piano della causa della cosa: come condizione necessaria dell’essere “questo tavolo qui”, da parte del tavolo che ho proprio qui davanti e su cui mi appoggio mentre scrivo, non considero solo la sua essenza di tavolo, ma il fatto che esso esista.

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“L’esistenza non è una malattia dell’essenza, ma ne è al contrario la vita, e siccome questa vita non può propagarsi che in altre determinazioni intellegibili, essa è a sua volta la sorgente di nuove essenze” 8. Il vizio delle metafisiche essenzialistische è, dunque, quello di procedere ad una riduzione dell’atto dell’esistere (dell’essere come esistenza) all’essenza: Le ontologie dell’essenza non commettono solamente l’errore di ignorare il ruolo dell’esistenza, ma si ingannano sulla natura dell’essenza stessa. Dimenticano semplicemente che l’essenza è sempre quella di un ente, che non viene espresso nella sua interezza dal concetto della sola essenza. Vi è, nel soggetto che ciascuna essenza designa, un elemento metafisico che trascende la stessa essenza9.

Da questa critica gilsoniana all’essenzialismo della metafisica emerge un elemento su cui la visione della metafisica di Gilson e quella di Heidegger finiscono per concordare: la riduzione di tipo essenzialista apre ad “una gerarchizzazione ontica dell’essenze”10, poiché fra i vari tipi di essenze corrispondenti ad altrettanti enti/sostanze la metafisica si spinge fino ad individuare quell’ente che per sua essenza fa da fondamento a tutti gli altri, l’ente sommo (è l’aspetto che Heidegger dichiarebbe “teologico” nella metafisica). L’esistenza di un siffatto ente, a questo punto, si trova ad essere erroneamente considerata come conseguenza necessaria della sua essenza e per questa via essa è resa oggetto di dimostrazione. Anche se critico nei confronti di Avicenna, Gilson ritiene che il filosofo arabo ha compreso bene l’inganno di una simile posizione e per questo ha determinato l’esistenza come accidens dell’essenza, o, più esattamente, come id quod accidit quidditati. Determinare l’esistenza al modo di ciò che è “accidente della sostanza” in Avicenna non corrisponde affatto, così come coglie Gilson, a negare l’importanza dell’esistenza come fosse qualcosa di semplicemente accessorio, del tutto irrilevante nella comprensione della sostanza. Si tratta, di contro, del modo in cui Avicenna si serve per sottolineare che l’esistenza è per sé estranea alla determinazione della quiddità di una sostanza, non concorrendo alla 8

Ibid., p. 320. Ibid., p. 279. 10 P. Aubenque, Faut-il déconstruire la métaphysique?, cit., p. 26. 9

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Il carattere eidetico della metafisica aristotelica

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sua definizione. Se, allora, rispetto ad una distinzione fra ciò che in una sostanza è essenziale e ciò che non lo è l’esistenza si colloca sul lato di quello che non determina l’essenza, essa nondimeno costituisce un caso di accidente del tutto sui generis, nella misura in cui risulta inseparabile dalla cosa stessa. Non si tratta di una determinazione accidentale come lo sono una qualità (ad esempio il colore dei capelli) o una quantità (ad esempio il peso). La distinzione fra essenza ed esistenza è necessaria perché se “l’essenza dell’uomo, per esempio, includesse di pieno diritto la sua esistenza, non ne esisterebbe che uno solo” 11. Esistono invece tanti uomini e la loro esistenza comporta delle differenze fra loro che, pur non intaccando la loro essenza come determinazione universale che è propria di tutti gli uomini in quanto tali, rendono gli uomini, come individui determinati concreti, diversi gli uni dagli altri. La quiddità di una sostanza non è in virtù del fatto che la sostanza esiste (io posso rappresentarmi un ircocervo e darne una definizione essenziale, ma l’ircocervo nel mondo reale non esiste) e, di contro, l’essere come esistenza non è in virtù dell’essenza, nel qual caso dovrebbe darsi una sola essenza per tutte le sostanze che esistono. L’essere come esistenza è un’aggiunta alla quiddità della sostanza che da possibile la rende reale. L’esistenza della cosa, nella considerazione gilsoniana, è pertanto una determinazione d’essere estrinseca all’essenza; essa non è inclusa necessariamente nella nozione dell’essenza nel senso appunto della quiddità pura della cosa12. Se l’esistenza si lega necessariamente all’essenza della cosa non è per il potere dell’essenza di determinare (causare) l’esistenza della cosa di cui è essenza. Questo legame di essenza ed esistenza si dà come necessario in forza della causa che realizza l’esistenza, ossia della causa che determina l’esistere dell’essenza della cosa come questa cosa (con la sua essenza) che esiste. Si tratta dell’intervento della causa efficiente, che realizza il passaggio all’atto dell’esistere dell’essenza della cosa come ente possibile. Questo è un punto cruciale della critica gilsoniana all’essenzialismo che il filosofo francese vede in atto anche nell’impianto meta11

É. Gilson, L’essere e l’essenza, cit., p. 115. “È questa esteriorità dell’essere rispetto all’essenza che si esprime dicendo che l’essere ne è un accidente” (ibidem). 12

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fisico aristotelico e contro cui è possibile a mio avviso controargomentare proprio tenendo conto del tipo di causalità che il dio in Aristotele esprime. Secondo la determinazione aristotelica del qe“j, il modo della causalità efficiente manca all’essere causa prima del dio come principio primo di movimento. Il qe“j compare in Aristotele come causa finale dell’essenza, della forma propria (l’essere passibile di movimento) della sostanza sensibile (corruttibile e incorruttibile), ma il dio non causa l’ente mosso (cioè la sua esistenza come ente mosso) alla maniera di una causa efficiente. La gerarchizzazione ontica delle essenze, che pure si ritrova anche in Aristotele se egli riconosce che l’ente divino è “al di sopra” dell’ente naturale, prËth oŸsÖa, perché la sua essenza è di essere atto puro (il che significa eterno, immobile, separato), nell’ontologia aristotelica non comporta affatto la perfetta intellegibilità dell’essere reale, vale a dire una intellegibilità che è a priori, cioè senza riferimento all’esistenza nel reale delle sostanze. Il dio aristotelico non dona l’essere agli enti mondani, se questa donazione d’essere è intesa come passaggio nell’ente dal suo essere possibile al suo essere reale. Il qe“j dona l’essere all’ente mosso solo nel senso e nella misura in cui nella natura il dispositivo del movimento prende avvio a partire dall’ente divino in quanto l’“in vista di cui” del movimento dei kinht£. La circolarità della metafisica aristotelica – il rimando dall’orizzonte dell’universalità dell’essere dell’ente alla primarietà di un ente determinato in virtù del suo essere quell’essente prima ¢rcª dell’essere della f⁄sij e, viceversa, il rinvio dal piano della trascendenza nell’essere della prima sostanza a quello della generalità dell’ente che è l’intero dell’ente come f⁄sij –13 appa13 Mi si conceda qui l’approssimazione rispetto alla determinazione specifica dell’ambito ontologico che f⁄sij in Aristotele nomina. Assumo qui f⁄sij come “intero dell’ente”, nel senso che anche quell’ente che ha fuori di sé il proprio principio di movimento (l’ente per töcnh e l’ente per pr©xij) si dà comunque nell’orizzonte della natura, attraverso cui si fa esperienza del suo esistere. Heidegger definisce espressamente la f⁄sij come la totalità dell’ente (cfr. ad es. Cfm, p. 39 e p. 48; Im, p. 25 e pp. 28-29), ma si tratta di un’equivalenza che va comunque discussa perché la ritraduzione heideggeriana si basa su una caratteristica propria della fenomenicità dell’ente in chiave fenomenologica a partire dal significato metaforico di f⁄sij in Aristotele (cfr. Met. D, 1015a11 ss.). Nella ritraduzione della f⁄sij come “intero dell’ente”, però, anche l’ente divino si ritrova a fare parte della f⁄sij nel senso dell’intero dell’ente che dispiega il proprio essere a partire da sé (cfr. Cfm, p. 39: “[F]⁄sij, […] l’ente, la totalità dell’ente […] in un certo

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re una circolarità onto-teologica secondo il senso del nome scelto da Heidegger per la procedura di reciproca implicanza fra il piano dell’universalità e quello della primarietà ontologica dell’ente. Ma a questa circolarità non si può sovrapporre la “vulgata della metafisica”, che poi andrebbe essa stessa confermata riferendola ad autori precisi, secondo la quale “Dio dona l’essere agli enti in virtù della sua propria essenza e in proporzione alla rispettiva essenza dei differenti enti” 14. È interessante che Gilson, nell’edizione de L’essere e l’essenza del 1948, ossia autonomamente da Heidegger con il quale invece si confronta nella seconda appendice dell’edizione del 1962, individua nello Stagirita la presenza contemporanea di un doppio canale di ricerca che si presenta come una “giustapposizione” fra scienza dell’ente in quanto tale e scienza dell’ente separato. Nota Gilson che questa duplicità in Aristotele non conosce ancora la gerarchizzazione modo include in sé anche l’ente divino”), laddove la figura del qe“j nell’ontologia aristotelica taglia, invece, in due blocchi distinti, con una cesura netta, l’insieme dei f⁄sei ‘nta propriamente detti e la sostanza divina in quanto cwrist“n. 14 P. Aubenque, Faut-il déconstruire la métaphysique?, cit., p. 27. Aubenque lascia intendere che ciò che diventa discriminante nella storia della metafisica è il ruolo della nozione di analogia (cfr. ibid., p. 27: “Se la donazione d’essere si degrada nella distribuzione (ad ognuno secondo ciò che gli è dovuto), guidata dall’analogia, essa perde la sua gratuità, la sua contingenza e così la sua assolutezza. C’è qui un argomento molto forte, teologico quanto ontologico, contro l’onto-teologia”). In effetti, come abbiamo già visto considerando la critica mossa ad Heidegger di applicare ad Aristotele una concezione ontologica di matrice tomista così da potere assumere la metafisica aristotelica come l’origine dell’impostazione onto-teologica della tradizione metafisica, si tratta, a mio avviso, di cercare di non individuare la struttura onto-teologica come la risultante di una concezione ontologica basata sull’analogia entis. Per evitare di identificare l’onto-teologia con la messa in atto di una concezione di tipo analogico (nella forma dell’analogia entis), per lo meno nel caso di Aristotele, si tratta, quindi, di liberare un senso della nozione di onto-teologia che non passa attraverso una simile elaborazione della relazione fra essere ed ente attraverso la mediazione di un ente sommo; si tratta, cioè, di tentare di evidenziare il significato di onto-teologia come modo di una funzione logica del pensiero, come una modalità propria della razionalità di approcciare la questione del reale, cercandone la trama ontologica in senso formale attraverso l’intellegibilità della forma della causa, ossia attraverso la possibilità di cogliere il modo in cui una causa funziona come causa, attraverso la possibilità di afferrare come una causa “è legata” a quel che è a partire dall’essere causa della causa. Il tema della dottrina dell’analogia dell’essere come motivo di strutturazione della compagine onto-teologica della metafisica è ampiamente indagato da Courtine in Inventio analogiae. Métaphysique et ontothéologie, cit., cui rimando.

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tomista attraverso cui la filosofia prima come scienza dell’ente in quanto ente (ens commune) è soggetta alla scientia divina, alla teologia in senso stretto come scienza di Dio. Per questo la metafisica di Tommaso resta […] quella Filosofia Prima che ha per oggetto l’essere in quanto essere e da cui tutte le altre scienze ricevono i loro principi, ma si produce in essa come una sorta di sdoppiamento, o, almeno, i due aspetti già distinti da Aristotele si gerarchizzano a loro volta invece di rimanere semplicemente giustapposti. Al posto di una metafisica, che contiene contemporaneamente “filosofia prima” e “teologia”, san Tommaso parla di una “filosofia prima” ordinata tutta quanta alla conoscenza di Dio15.

Secondo le coordinate generali dell’analisi gilsoniana del carattere prevalentemente essenzialista con cui la metafisica si è storicamente imposta (ad eccezione di Tommaso), la duplicità della metafisica aristotelica (che appunto con Heidegger si chiamerebbe onto-teologica) scaturirebbe dal fatto che lo Stagirita si affiderebbe troppo alla tendenza verso l’astrazione dell’essenza dalla pienezza d’essere della sostanza che è insieme anche atto d’esistenza. Secondo Gilson, infatti, prima dell’avvento delle filosofie esistenzialiste che, di contro, peccano del vizio opposto a quello delle metafisiche essenzialiste mettendo da parte la possibilità di una intellegibilità dell’essere16, la tendenza che si registra nella storia della filosofia è proprio quella della sostituzione dell’essere con l’essenza. È questo il punto di convergenza fra la prospettiva gilsoniana sulla metafisica e quella heideggeriana. L’errore logico dell’essenzialismo è quello di sostituire l’ordine della causalità formale con quello della causalità efficiente. L’essenza è principio o causa dell’essere solo nell’ordine della causalità formale, ma non della causa efficiente: la forma della sostanza ne determina l’es15

É. Gilson, L’essere e l’essenza, cit., p. 76 (corsivo mio). Per Gilson, quindi, “rispetto alla realtà dell’essere, assunto in tutta la sua estensione, l’esistenzialismo e l’essenzialismo sono entrambe delle astrazioni di segno opposto egualmente arbitrarie” (P. Palumbo, op. cit., p. 22). Gilson sostiene infatti: “La confusione o il divorzio tra l’essenza e l’esistenza sono due errori ugualmente fatali alla filosofia, poiché l’una e l’altro sono ugualmente inconciliabili con l’integrità dell’essere, condizione prima perché una conoscenza metafisica reale abbia essa stessa un oggetto” (É. Gilson, L’essere e l’essenza, cit., p. 302). 16

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sere sul piano dell’essenza, ma non su quello dell’esistenza. Il fatto poi che questa tendenza a sostituire l’essere con l’ente nella determinazione di un ente primo (o, il che a questo punto è equivalente, l’esistenza con l’essenza) sia una “tendenza naturale” del pensiero, un’“inclinazione naturale della riflessione filosofica”, a mio avviso, pone, però, una questione diversa che solo in parte ha a che fare con la natura propria dell’uomo come “animal metaphysicum” 17. Si tratta di una questione diversa, entro la quale sicuramente ne va anche della metafisica come forma di sapere; ma è una questione diversa che, per quanto si leghi alla domanda stessa sull’essenza della metafisica e diventi un compito della metafisica, non è la questione della metafisica, ma è la questione di cosa si è disponibili a chiamare “conoscenza”18. 17 Questa inclinazione naturale è giudicata da Gilson, in termini molto severi, come un difetto della natura razionale dell’uomo e non come un elemento della razionalità che è comunque alla base della sua capacità di elaborare conoscenza: “L’irreprimibile essenzialismo degli intelletti umani li fa ciechi a questa evidenza [scil. ossia al fatto che l’esistenza esula dal concetto dell’essenza]” (ibid., p. 297). A questo proposito nota Aubenque che la tendenza all’essenzialismo corrisponde, nella visione di Gilson, all’oblio dell’essere in termini molto vicini a quelli heideggeriani: l’essenzializzazione dell’esistenza, la riduzione dell’essere al solo lato dell’essenza, scartando l’esistenza dal concetto dell’essere, significa dimenticare che l’essere, nel senso dell’atto di esistere, è al di là dell’essenza. In questo senso, quindi, Gilson e Heidegger puntano l’accento su un medesimo errore di procedura, su una medesima metodologia di sostituzione che si manifesta nel carattere riduttivo della considerazione dell’essere solo attraverso l’essenza (Gilson) o solo attraverso quell’ente che per sua essenza è principio dell’essenza dell’ente (Heidegger). Sia Gilson sia Heidegger, allora, sembrano puntare il dito contro l’accesso all’essere tramite la possibilità della sua concettualizzazione: l’essenzializzazione dell’esistenza nella visione gilsoniana apre all’assoluta intellegibilità dell’essere, perché fa dell’essere come essenza una nozione di cui si dà definizione; altrettanto nella prospettiva heideggeriana l’abbandono dell’essere all’enticità fa dell’essere l’oggetto di una concettualizzazione che si esprime in predicazioni di tipo definitorio che ricalcano la struttura predicativa che si applica nelle definizioni degli enti (“il tavolo è…”, “l’essere è…”). Il problema dell’approccio della metafisica all’essere per Heidegger risiede nel modo in cui, appunto, l’essere è posto in metafisica come “quel che sta di fronte” (Gegen-stand) e che, pertanto, può essere rappresentato, ossia “posto in una presenza” da parte del soggetto. Questo rappresentare diventa “conoscitivo” se il soggetto fornisce al suo stesso rappresentare “il fondamento di ciò che incontra”, ossia se il soggetto “rende” il fondamento all’oggetto rappresentato (cfr. Pr, p. 47). Ma questa non è una condizione che è posta dalla cosa stessa per esistere; il fatto che il rappresentare e il rappresentato devono essere fondati ha a che vedere con un modo di procedere tipico della ragione umana che si trova impegnata, senza rendersene conto, nel cammino verso il fondamento nel suo incontro con l’ente. 18 Assumo qui il senso kantiano della nozione di conoscenza: “In una introduzione

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2. Le condizioni di possibilità dell’onto-teologia: una questione di filosofia della conoscenza? L’individuare la debolezza della metafisica in un certo uso della razionalità apre una questione più ampia che investe, piuttosto che l’essenza della metafisica in quanto tale, la possibilità iscritta nell’esistenza umana di accedere in generale alla realtà attraverso concetti o nozioni (la nozione di causalità ad esempio) che, come insegna Kant, si danno a prescindere ed indipendentemente dall’esperienza sensibile (quindi non solo sono a priori ma anche puri), sebbene si costituiscano nella coscienza solo a partire dal contatto con il mondo dell’esperienza. Queste nozioni rappresentano la grammatica sia della metafisica sia, in effetti, di qualsiasi scienza. È una questione che, mi pare, lo stesso Gilson, alla fine de L’essere e l’essenza, sposta più sul piano del carattere della conoscenza che della metafisica, anche se tiene ferma una distinzione fra il sapere della filosofia ed il sapere della scienze empiriche. Di fronte, infatti, al problema se si debba intendere per conoscenza solo ciò che procede dall’atto della concettualizzazione delle cose e si libera, fa epochè assoluta da ciò che per sua natura sfugge al concetto o se, invece, sia possibile ammettere una nozione di conoscenza che al suo interno ospiti anche il riferimento a ciò che non si lascia oggettivare in modi concettuali, accogliendolo in questa sua assoluta alterità senza pretendere di piegarlo alla forma dell’oggettualità, egli afferma: Due risposte sono qui possibili. Il filosofo può, non semplicemente cedere alla sua naturale inclinazione verso il perfettamente oggettivabile, ma giudicare anche con cognizione di causa che egli ha lo stretto dovere di espellere dalla filosofia, come radicalmente inintellegibile, ogni aspetto del reale che non si lasci oggettivare a modo di concetto. Ma resta altresì possibile un altro atteggiamento, molto più raramente o avvertenza preliminare pare che sia necessario soltanto notare che si danno due tronchi dell’umana conoscenza […]: cioè, senso ed intelletto” (I. Kant, Critica della ragion pura, ed. it. a c. di V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari, 19916, p. 50). E di nuovo: “La conoscenza non può scaturire se non dalla loro unione [scil. unione di sensibilità ed intelletto]” (ibid., p. 78). Del resto mi pare che sia secondo questo significato che anche Aristotele considera l’ôpistªmh (cfr. ad es. la teoria del conoscere abbozzata dallo Stagirita in Met. A, I cap.).

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adottato. È quello che consiste nell’accettare il reale totale così come si offre alla conoscenza, senza escluderne dapprima quegli aspetti che resistono all’astrazione. Tale è la scelta che si offre al filosofo come condizione prima di ogni passo ulteriore: o assegnarsi come scopo la conquista di una conoscenza totalmente soddisfacente per il pensiero, a costo di sacrificare quegli elementi del reale che il pensiero astratto non può accogliere senza rinunciare alle proprie esigenze; o accogliere invece il reale, a costo di limitare le esigenze del pensiero astratto19.

Questa tensione naturale ad accedere per via intellegibile al contenuto d’essere di quel che esiste (l’ente), definendolo attraverso la sua essenza (il logos definitorio del suo essere ciò che è, potremmo dire riassumendo le battute aristoteliche su —rism“j e t’ tÖ hín eçnai di Metafisica Z)20, non è solo la radice dell’impegno conoscitivo umano in chiave metafisica. Essa è la fonte di ogni possibilità di conoscere in senso epistemico, se si accetta la nozione aristotelica di ôpistªmh 21. È la capacità, cioè, di attingere a cause e principi – capacità che non si esercita, che non si rende apprezzabile solo nel caso dell’intellezione dei principi primi che attengono all’intero dell’ente, quindi nell’esercizio della metafisica. Essa è in atto in ogni procedura conoscitiva di tipo scientifico, vale a dire in ogni percorso che ha di mira la conoscenza di cause e principi, anche se essi sono tali solo rispetto ad una porzione dell’essente. Gilson (ma mi spingerei a dire anche Heidegger) giudica che questa tendenza sia però anche la matrice di un atto di sostituzione arbitrario della ragione: essa, volgendo le spalle alla dimensione della datità e, dunque, in ultima analisi, alla dimensione della trascendenza della cosa – attingibile soltanto finché la cosa ci si fa incontro nel vissuto della nostra esperienza effettiva – risolverebbe e fisserebbe l’essere della cosa nel concetto della sua es19

É. Gilson, L’essere e l’essenza, cit., p. 312. “L’essenza è di tutto ciò il cui concetto è una definizione. Non vi è definizione se il nome significa la stessa cosa del concetto (infatti tutti i concetti sarebbero definizioni […]), ma se c’è concetto di quel che è primo; tali sono le cose che si dice che non si predicano di altro” (Met. Z, 1030a6 ss.). Così della sostanza prima in quanto individuo determinato, di cui ho concetto, ho definizione ed essa non coincide con il nome della cosa (il nome tavolo indica piuttosto il definiendum ma non è il definiens, anche se designa la cosa composta da asse orizzontale e uno o più piedi d’appoggio), ma la sostanza prima, come apprendiamo da Cat. 1 cap., non si predica di alcun soggetto. 21 Cfr. Met. A, 983a25-26 e Phys. I, 184a12-14. 20

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senza. Altrettanto per Heidegger l’onto-teologismo metafisico dogmatizzerebbe questa procedura e questa tendenza, producendone una giustificazione in qualche modo assoluta nel porre come necessariamente esistente un ente che sia primo in virtù della sua essenza e nell’assumere in circolo un simile riferimento come fondamento ultimo di validità della procedura in cui questa stessa procedura si iscrive22. Questo tipo di critica è sicuramente pertinente: la datità che attesta l’esistere della cosa non è mai a carico del soggetto ma è la condizione, indipendente dal porre il dato come oggetto, che rende possibile la fenomenicità del dato come fenomeno del soggetto. È, però, al tempo stesso, la tendenza della ragione a rendere oggettivabile e, quindi, intellegibile il fenomeno – dicendo cosa sia ciò che precisamente si mostra (appunto, nella definizione dell’essenza) – quel che costituisce la forza propulsiva dell’atto conoscitivo non doxastico proprio dell’uomo come vivente capace di intellezione (n“hsij). Il problema, a mio avviso, non è semplicemente quello di accogliere, di ospitare l’alterità del dato nella nostra conoscenza di esso, né di riconoscere l’assoluta gratuità e trascendenza della sua donazione. La ragione è un mezzo potente, ma non può tutto, ha dei limiti ed io credo che ormai (quanto meno in filosofia, specie dopo la lezione della fenomenologia) essa sia disposta a riconoscerli. Il fat22 Secondo Heidegger la metafisica concettualizza in modo ontico (fissandolo appunto come ente) quello che l’essere è come darsi, nella sua fenomenicità, nel suo aprirsi, svelarsi a partire da sé, nel suo accadere nell’ente. Si potrebbe quindi dire che l’errore della metafisica è quello di scambiare l’essere con l’ente perché il pensiero tende, nel domandare circa l’essenza di un ente, ad ipostatizzare come ente quella che è la sua essenza, il suo essere. La differenza ontologica risulta così dimenticata nel momento stesso in cui l’essere è già posto non come il puro darsi dell’essere nella cosa, nell’ente, ma come ciò che si dice l’ente sia. Il porre l’essere come essenza dell’ente è, dunque, un’operazione metafisica, se per metafisica si intende il pensiero che dimentica la differenza ontologica. Il problema è che all’essere il pensiero non può che avere accesso tramite la fenomenalità dell’ente, non vi è una pura donazione d’essere, per così dire, che non passi attraverso o come donazione dell’ente, dove l’essere si mostra nel costituire l’ente nel suo essere ciò che è. Pur individuata, questa distorsione prospettica, per così dire, non si può correggere, ed Heidegger, nonostante la svolta del pensiero verso la fonte di donazione originaria dell’essere stesso che è la temporalità, non può che riconoscere che è solo l’appartenenza reciproca, la relazione non disintegrabile di essere ed ente la condizione di accesso anche alla stessa differenza ontologica (cfr. ID, p. 29: “Soltanto una cosa è chiara, che nell’essere dell’essente e nell’essente dell’essere si tratta ogni volta di una differenza”).

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to è, però, che all’interno di questi limiti la ragione ha il diritto di pretendere che le sue conoscenze siano riconosciute come vere o, meglio, come atte a cogliere ciò che le cose in se stesse sono. Questo suo diritto si traduce nel fatto che il pensiero, pur riconoscendo la trascendenza di quel che pensa, lo fa valere come ciò che è altro da sé proprio perché lo riconosce come suo oggetto. Solo in questo modo il pensiero può sapere – e così fare un passo indietro rispetto alla cosa (rispetto all’essere) – che ciò che pensa non è una sua “creazione”, ma qualcosa la cui sorgente d’essere giace fuori dal pensiero, riconoscendo la trascendenza dell’“evidenza fontale” del fenomeno23. Riconoscere che la cosa è oggetto significa ancora che il soggetto non può che imporre all’oggetto delle regole di datità, perché si tratta delle sole e delle medesime regole che permettono al soggetto stesso di accogliere la datità del fenomeno e di riconoscere questa datità come altro da sé, riconoscendo insieme che, nel suo conoscere il fenomeno, l’uomo non conosce una semplice copia della cosa, né una deformazione soggettiva, bensì la cosa, sia pure nei limiti e nelle condizioni della datità. In altri termini, le condizioni del pensiero coincidono con quelle della donazione dell’essere e sono le sole sotto le quali il pensiero, conoscendo, può fare insieme esperienza dell’eccedenza dell’essere. Non si tratta qui, secondo me, di porre un’alternativa fra le “filosofie che cominciano con l’assumere” e quelle che “cominciano con il guardare”, dichiarando che la metafisica che si costruisce come eidetica – se così posso esprimermi ritraducendo l’obiezione e tentando la controargomentazione – è una filosofia che assume, cioè pone, perché suppone, ossia dà come presupposto, che vi sia un’essenza che possa essere colta per sé a prescindere dalle condizioni della sua 23 In La via analogica (Vita e Pensiero, Milano 1996), Virgilio Melchiorre affronta in modo molto approfondito la questione e prospetta anche in che modo la fenomenologia trascendentale rappresenti la strada da battere (pp. 27-35). Per me il problema, tuttavia, pur spostando l’indagine sul piano della teoria della conoscenza, va ancora tenuto dentro la possibilità propria della metafisica di potere giustificare la sua procedura, certamente concedendo – ma credo di potermi appoggiare ad Aristotele in questo – che sia la metafisica a farsi carico di chiarire le condizioni di possibilità in genere della conoscenza. Ma questo compito, non è che uno dei compiti della metafisica indicati dalla sua cosiddetta “funzione meta”.

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datità24, condizioni che implicano comunque il rinvio insopprimibile alla cosa di cui l’essenza si predica e, dunque, l’irrisolvibilità dell’esistenza nell’essenza. Il problema non si può risolvere solo imputando all’intelletto la colpa di essere per sé incline a “misconoscere la trascendenza dell’atto di esistere” 25. Ciò perché, anche riconoscendo una natura metafisica dell’uomo incline all’essenzialismo, questa natura metafisica è altresì caratterizzata dalla sua vocazione “trascendentale”, ossia dalla facoltà della ragione di auto-regolamentarsi, di darsi delle regole che evitino che il pensiero incorra nell’errore di spingersi oltre ciò che gli è concesso dalla sua natura e dalla realtà stessa. Non a caso, però, questa capacità trascendentale, per colui che l’ha tematizzata esercitandola fino ai suoi limiti secondo le sue possibilità più radicali, cioè per Kant, corrisponde alla stessa natura metafisica del pensiero che si sottopone da sé al proprio esame critico. La “disposizione naturale alla metafisica”, sostiene Kant, “è la stessa facoltà pura della ragione” 26, che si fa carico del compito della critica per rispondere alla domanda di come sia possibile la metafisica come scienza. Kant sembra convinto che la “critica della ragione […] conduce alla fine necessariamente alla scienza” 27, ma in realtà a quale scienza arriva davvero la critica? Sappiamo che l’esito è negativo rispetto alla volontà di fondare la metafisica come scienza nel senso di dottrina di oggetti che non si danno come fenomeni. Ma alla fine dell’esercizio critico trascendentale Kant asserisce che ad una conoscenza si arriva ed essa è una conoscenza che si chiama “filosofia pura” quando appunto deriva dalla ragion pura stessa 28. Questa filo24

É. Gilson, L’essere e l’essenza, cit., p. 298. Ibid., p. 295. La tesi gilsoniana con termini propri, in ultima analisi, mette in evidenza ciò che anche la tesi heideggeriana sostiene, ossia il fatto che la metafisica è un pensiero che storicamente mostra di dimenticare la differenza ontologica. Nel caso di Gilson si dovrebbe parlare di una “differenza metafisica” fra essenza ed esistenza (cfr. J.F. Courtine, “Différence métaphysique et différence ontologique”, in Heidegger et la phénoménologie, Vrin, Paris 1990, pp. 33-53), ma questa stessa differenza metafisica si può leggere come la differenza che intercorre fra l’ente a partire da cui l’essere viene posto come enticità (essenza) e l’essere come il darsi in quanto Ereignis (esistere). 26 I. Kant, op. cit., p. 46. 27 Ibidem. 28 Ibid., p. 514. Propriamente Kant distingue la filosofia in filosofia pura che è la 25

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sofia pura non è solo nel suo esercizio propedeutica e critica. La filosofia della ragion pura è scienza perché, come sistema della ragion pura, coincide con l’intera conoscenza filosofica (sia vera sia apparente) che deriva dalla ragion pura e, aggiunge Kant, “dicesi metafisica” 29. Cosa allora “si dice” metafisica secondo la capacità che è propria della ragione di sottoporre di volta in volta la propria opera al controllo delle stesse regole che ne governano l’uso legittimo? Metafisica è il sistema, cioè un insieme ordinato, di tutte le conoscenze di cui la ragione dispone procedendo da se stessa, in modo puro, senza cioè trarre contenuto dal mondo dell’esperienza. Come metafisica viene così ad essere definita la stessa conoscenza trascendentale che la ragione ha di sé; essa è la conoscenza di quella sola realtà che alla ragione può darsi in modo puro e senza per questo ingannarsi: questa realtà è la ragione stessa che si osserva nel suo uso speculativo30. Nel far questo la ragione astrae necessariamente dall’esperienza conoscenza che deriva dalla ragion pura e conoscenza razionale empirica che deriva da principi empirici (ossia è una conoscenza che trae il suo contenuto non da se stessa come nella filosofia pura ma dal mondo dei fenomeni). 29 Ibidem. 30 Si tratta qui di porre un discrimine che è il solo alla cui condizione la ragione può innescare un’inaggirabile e però feconda circolarità fra sé come soggetto e sé come oggetto. Per “conoscenza” Kant chiede di assumere quella che scaturisce dal lavoro congiunto di sensazione ed intelletto. Delle cose che non si danno all’uomo sotto la veste di fenomeni è impossibile avere conoscenza; dei fenomeni, però, l’uomo ha conoscenza entro quei limiti posti della sua stessa natura che non gli consentono di conoscere le cose se non appunto come fenomeni e non come noumeni. Se la ragione, nel suo uso critico esercitato su se stessa, giunge tuttavia a conoscere e ciò che conosce è se stessa, Kant deve in qualche modo dichiarare che, allora, esiste un’unica realtà per la ragione rispetto alla quale essa conosce il fenomeno che è il suo oggetto al modo del noumeno, come cosa in sé o come oggetto non dei sensi. Quest’unica realtà è la ragione stessa. In un certo senso Kant riconosce questa condizione del porsi della ragione come fenomeno a se stessa di cui è possibile avere conoscenza nel suo essere in sé quando asserisce, sia pure ancora nella prefazione alla prima edizione della Critica della ragion pura, che “[n]ulla qui può sfuggirci, perché ciò che la ragione trae interamente da se stessa, non può rimanere celato, ma per opera della stessa ragione viene alla luce, appena scoperto il principio generale che la governa” (ibid., p. 11). Nell’Analitica trascendentale è però vero che egli dichiara che noi “conosciamo il nostro proprio soggetto come fenomeno, ma non già per quello che esso è in se stesso” (ibid., p. 123). Il paradosso tuttavia è che questo limite non concerne la conoscenza critica che la ragione ha di sé, ma l’appercezione pura. Vi è così uno stato in cui l’intelletto intuisce se stesso in modo spontaneo ed originario, dando vita alla rappresentazione di sé come Io penso. Certamente la rappresentazione non si produce per via empirica, essa stessa è tratta dall’intelletto a partire da se mede-

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e, cioè, astrae dall’esistenza di un mondo esterno ad essa, senza tuttavia astrarre dal suo proprio essere che anzi realizza nell’atto critico. Insieme procede all’enucleazione di regole procedurali, per così dire, che le permettono di discernere quelle che vanno considerate conoscenze vere da quelle che sono da ritenersi apparenti. La metafisica è, quindi, il sistema della conoscenza di sé della ragione nelle sue condizioni di possibilità in quanto ragione che conosce. Ma siccome quelle condizioni di possibilità della conoscenza (le “regole trascendentali”) sono le uniche sotto le quali la ragione può dire di conoscere, esse sono le condizioni stesse di ogni datità. Il darsi del fenomeno è fonte primaria del suo mostrarsi e, dunque, di ogni conoscenza. Ma da sola questa fonte non basterebbe ad avviare un processo di conoscenza, che consta sempre di sensibilità ed intelletto, se non ci fossero le regole procedurali (le condizioni trascendentali) che rendono possibile accogliere il dato e fanno sì che il fenomeno sia fenomeno per un soggetto31. La datità del fenomeno rimane in qualche modo misteriosa nella sua origine – e forse è questa la ragione che fa a dire Kant che la “radice comune da cui rampollano probabilmente” la sensazione e l’intelletto è a noi “sconosciuta” –32, ma a questo punto, nel modo in cui al soggetto umano resta possibile approntare la conoscenza secondo la capacità che gli appartiene per natura, resta indifferente conoscere l’origine a partire da cui egli incontra la cosa nella sua datità. Per questo, in definitiva, il pensiero può, a mio avviso, permettersi in modo legittimo di non disporre della datità (dell’esistenza del fenomeno come dato) per cogliere quel che di questo fenomeno resta per il pensiero rilevante. In altri termini, il pensiero contiene già in sé quella condizione in base a cui è possibile in genere accogliere qualcosa come dato. Per il fatto che questa consimo, ma la conoscenza critica della ragione non è per Kant l’appercezione. È il risultato di un’attitudine critica, che rende la ragione certa non semplicemente della sua esistenza, ma del come della sua esistenza in quanto conoscente. Qui salta davvero ogni Grenzbegriff, ogni distinzione fra fenomeno e noumeno se il patrimonio conoscitivo cui approda la critica è conoscenza pura a priori che la ragione ha di sé e se è valido il principio generale che “nella conoscenza a propri nulla può essere attribuito agli oggetti, all’in fuori di ciò che il soggetto pensante trae da se medesimo” (ibid., p. 20). 31 Queste regole procedurali sono, ad es., quelle che permettono l’applicazione delle categorie al contenuto che si attinge attraverso le forme trascendentali della sensibilità. 32 Ibid., p. 50.

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dizione è già nel pensiero, il pensiero la riconosce dunque come condizione a priori. In questo senso il pensiero si dà sempre come un pensiero dell’essere (della cosa, del reale), dove con la parola essere va intesa appunto quella dimensione originaria della cosa che non si risolve nel pensiero, rinviando invece all’enigma, per così dire, della sua donazione. Così inteso, il trascendentale kantiano mostra il proprio legame con la tradizione da cui proviene. Come afferma Melchiorre, “il termine trascendentale, pur nella sua valenza moderna, torna ora a disporre anche dell’antico significato scolastico: insomma, le condizioni universali della coscienza come condizioni in cui ne va del senso stesso dell’essere”33 – come condizioni, aggiungerei, in cui piuttosto ne va dell’essere stesso in ciò che attiene al suo “essere in sé” (“an sich”) e che è insieme il suo “essere per noi”. Qui, fra l’“essere in sé” della cosa e l’“essere della cosa per noi” sussiste una circolarità in cui l’intervallo fra l’in sé e il per noi mantiene uno spessore soltanto formale, riducendosi quanto al contenuto, fin quasi a scomparire, per riapparire come divaricazione assoluta solo se è dal punto di vista del per noi che pretendiamo di risolvere la divaricazione34. In ogni caso, 33

V. Melchiorre, op. cit., p. 27. Ciò che si realizza nella divaricazione è una sorta di astrazione di secondo grado in cui l’essenza si determina come astrazione di astrazione (cfr. É. Gilson, L’essere e l’essenza, cit., p. 302). Nondimeno, è solo nello spazio della divaricazione fra l’essere della cosa per sé e l’essere della cosa per noi che è possibile comprendere anche il primo grado dell’astrazione, per così dire, che invece è proprio della cosa stessa. Esso corrisponde al fatto che, sebbene essenza, esistenza e cosa costituiscano sul piano del reale un corpo unico, sussistono una differenza ed un trascendersi reciproco delle une rispetto alle altre, dove risulta impossibile pronunciarsi su ciò che fra essenza, esistenza e cosa si può determinare come primo in senso assoluto. Come semplice accenno, si tratta del fatto che nelle cose stesse vi è un margine di differenza fra esse ed il loro essere ed è grazie a questo margine che è possibile elaborare una qualsiasi concezione analogica del reale, tanto al modo dell’analogia proportionis quanto al modo dell’analogia attributionis. In particolare, pur non volendo risolvere nello spazio di una nota il tema dell’analogia in Aristotele, desidero far notare quanto segue. Assumendo sulla base dell’indicazione testuale di Et. Nic. V, 1131a31 ss. la nozione di proporzione (¢nalogÖa) come Ñs“thj l“gwn, e tenendo presente secondo Met. L, cap. 4 che l’identità dei principi ultimi (úscata) della sostanza sensibile è un’identità kat¶ ¢nalogÖan, è necessario porre come condizione che vi sia una forma d’essere del principio formale che si lasci pensare come altro dal principio stesso singolo e specifico che è di volta in volta principio di determinazione rispetto ad una singola sostanza sensibile. Essa è la regola stessa che mi fa cogliere la proporzione 34

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si tratta appunto di una situazione in cui aristotelicamente – se è lecito parlare di un trascendentale aristotelico – il trascendentale è ciò che attiene all’essere perché attiene al pensiero, ma attiene al pensiero perché attiene all’essere. Anche in Aristotele si lascia, infatti, apprezzare uno scarto fra l’essenza e la cosa ed è uno scarto che attiene all’essere della cosa e del quale, nondimeno, noi disponiamo solo tramite logos, ossia ponendo grazie ad un nostro atto l’essenza come separata dalla cosa. La forma (e dunque la determinazione dell’essenza) identifica la cosa, dice quel che la cosa è per se stessa. Tuttavia, la forma per se stessa trascende la cosa. Questo, se vogliamo, è il gioco interno, l’ambiguità interna alla nozione di oŸsÖa: oŸsÖa è la sostanza; nel contempo, però, oŸsÖa indica quel tratto della sostanza, l’essenza, che identificando la sostanza non si lascia afferrare come l’intero della sostanza e che è in un certo modo “oltre” la sostanza nel senso del sinolo. Che l’essenza trascende la cosa è mostrato dal fatto che proprio sotto la determinazione dell’essenza che è un universale si sussumono diversi molteplici individui. Dunque vi è un tratto dell’essere della cosa, la sua forma appunto, che è oltre la cosa stessa. Se la cosa (la sostanza) è la sostanza sensibile, la cosa non è solo la sua essenza, non si riduce alla sua sola forma. E, nondimeno, nella misura in cui l’essenza fa necessariamente corpo unico con la cosa, altrimenti non ci sarebbe la cosa in quanto quella cosa, è solo un atto della mia ragione che opera il taglio, la cesura fra cosa ed essenza, determinando così la forma come un alcunché di separato. Si tratta, a ben vedere, di un doppio livello di trascendenza o, forse più propriamente, di un intersecarsi di due che si pone nel dire che la forma del cane sta al cane Bobby come la forma del gatto sta al gatto Birillo. Questa forma del principio (forma della forma) si lascia cogliere, cioè, come la regola alla cui condizione il principio formale è, in effetti, nell’esistenza empirica della cosa, il suo principio di determinazione sul piano dell’essere. Questa regola è accessibile solo nello spazio del logos, della ragione a partire dal suo separare, con un’operazione di astrazione sua propria specifica, la cosa come sinolo dalla sua essenza. Ma la regola, per così dire, è regola della realtà ed è la condizione che in Met. H, 1045a31 ss. fa dire ad Aristotele che il t’ tÖ hín eçnai è la sola causa (aátion) dell’essere in atto della sfera di bronzo. Ciò non perché la materia non sia per sé una causa nella sfera di bronzo (è appunto la sua causa materiale), ma ad essa compete, per così dire, il poter essere della cosa e non il suo essere in atto come sfera di bronzo che l’artigiano ha da trarre dal blocco materiale che ha davanti.

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piani della trascendenza: vi è una trascendenza che è a carico dell’essere, dell’essenza della cosa stessa, e vi è una trascendenza che è a carico del logos. Se non si ammettesse una trascendenza che è iscritta già nella cosa stessa, ossia se non si riconoscesse una sfasatura fra la cosa e la sua forma, non si comprenderebbero neanche il ruolo e la forza di determinazione del categoriale e dei predicabili in genere. In altri termini, io posso formulare predicazioni in cui del sostrato si predica ciò che lo costituisce come ente per sé sussistente, e questo è il caso della predicazione dell’essenza che si dà nella formulazione di una definizione. Ma accanto a questo tipo di predicazione si pone la predicazione secondo l’accidente, secondo le altre figure delle categorie e secondo il proprio. Ora, quando formulo predicazioni che non sono definizioni, anche se non lo porto esplicitamente ad espressione, io non cesso di dire l’essere della cosa, cioè non cesso di dirlo quando della cosa predico una quantità o una qualità o l’ádion 35. Il proprio, ad esempio, non indica l’essenza (mæ dhloã t’ tÖ hín eçnai), non si predica della cosa al modo della definizione, eppure sta con la cosa in un rapporto di conversione (¢ntikathgoreãtai to‡ pr£gmatoj)36. Aristotele sostiene che per una parte della sua nozione il proprio “significa l’essenza” (t’ tÖ hín eçnai shmaÖnei), ma per un’altra parte no37. La parte del proprio che non indica l’essenza e che è il significato del proprio secondo l’accezione comune (t’ dù loip’n kat¶ tæn koinæn perà aŸtÓn ¢podoqeãsan –nomasÖan prosagoreuösqw ádion), non si attribuisce alla cosa né al modo di un genere né al modo di un accidente. L’ádion ha nondimeno un rapporto intrinseco con l’essenza di una sostanza, non è solo un’attribuzione possibile e non necessaria come lo possono essere le attribuzioni categoriali. In generale, comunque, se per Aristotele l’essere della cosa si risolvesse solo nella definizione della sua essenza, che pure ne identifica l’essere, gli altri predicabili perderebbero quel loro spessore trascendentale che, invece, in Aristotele hanno. Che i predicabili che non sono l’essenza abbiano uno spessore trascendentale è un dato incontestabile giacché il composto si lascia esperire, conoscere e dire in ciò che esso è in se 35

Sulla nozione di ádion cfr. Top. I, capp. 4 e 5. Cfr. ibid., 102a18-19. 37 Cfr. ibid., 101b19-20. 36

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stesso non solo in base alla predicazione dell’essenza, ma appunto anche in base alla predicazione delle altre determinazioni categoriali, degli accidenti, del proprio. Cercando di formulare fino in fondo la controargomentazione, si può quindi dire che nel momento in cui guardo il reale e comincio ad interrogarmi sulle cose perché le vedo – se la filosofia deve “cominciare con il guardare” 38 – io prendo in consegna la datità e procedendo da questa datità mi spingo oltre, vado al di là della semplice costatazione del fatto che qualcosa sia presente davanti a me. Tuttavia, dal punto di vista del trascendentale, questo atto dell’andare oltre non è in realtà dopo: esso precede il darsi della cosa come la condizione alla quale qualcosa può darsi per la coscienza. La fenomenologia, come secondo me anche la metafisica aristotelica, costituendosi come eidetica, sembra allontanarsi dalla cosa che pretende di determinare non secondo la sua esistenza, ma secondo la sua essenza, il suo eidos. Se questo gesto di riduzione all’essenza è al centro della critica gilsoniana all’essenzialismo metafisico, la critica di Gilson potrebbe allo stesso modo essere fatta valere anche contro la fenomenologia. Credo, però, che nell’idea aristotelica di ôpistªmh, come processo di riduzione della cosa all’essenza ed alla causa formale, sia pie38 L’assumere il proprio oggetto da parte della scienza che se ne occupa non è mai per Aristotele una mera supposizione di esistenza. Per Aristotele a nessuna scienza spetta la dimostrazione del proprio oggetto e ciò diventa un’ovvietà quando l’oggetto è un ente sensibile, ossia qualcosa della cui esistenza siamo certi attraverso il nostro vivere e la nostra esperienza di esso. Aristotele trova “ridicola” la dimostrazione di qualcosa della cui esistenza io so per via empirica, come nel caso della f⁄sij. Dice con molta chiarezza in Met. K, 1064a2 ss. – in modo equivalente anche in E, cap. 1 ma in K la formulazione è più breve – che le scienze cosiddette particolari, dalla scienza teoretica fisica alle scienze pratiche e poietiche, assumono (lamb£nousi) il loro ambito (gönoj) come esistente in realtà (Êj ÿp£rcon), dove questa assunzione può essere conseguenza della sensazione o frutto di un’ipotesi. Ciò che si assume per sensazione non è presupposto, ma deriva dal guardare, dal fermarsi sul dato che dalla realtà proviene per via sensibile. La metafisica sembra di contro costituirsi solo assumendo il suo oggetto (la sostanza immobile) per via ipotetica, ma in effetti ciò che Aristotele formula come un’ipotesi non è una semplice possibilità, ma qualcosa che egli considera quasi come evidente, perché condizione di qualcosa che è evidente come la f⁄sij. Il fatto poi che sia o no legittimo il principio gnoseologico (l’impossibilità nel conoscere di andare all’infinito) sulla cui base si deve ammettere l’esistenza dell’ente divino primo motore non mosso è questione diversa rispetto alla critica che Gilson formula contro le filosofie dell’essenza come filosofie che cominciano assumendo, ma non guardando alla pienezza del reale e dunque all’esistenza.

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namente contenuta la consapevolezza di un certo allontanamento dalla cosa. Costruendosi come eidetica, però, l’ôpistªmh non volge affatto le spalle alla cosa da cui prende le distanze. Anzi è esattamente questo gesto di allontanamento che fa spazio alla cosa stessa. Proponendosi di non fare violenza alla cosa che, solo perché data, è fenomeno per la coscienza, essa getta un ponte verso la cosa da cui si allontana: non la ingloba e non ne risolve l’essere nel sapere, piuttosto entra in relazione con essa. Il fatto è che la fenomenologia, proprio come le metafisiche essenzialiste criticate da Gilson, nel suo approccio alle “cose stesse”, si avvede che l’essere della cosa come suo eidos trascende sempre la cosa stessa e la sua mera datità. Così come l’esistenza non si riduce all’essenza che eccede, altrettanto, si potrebbe dire, l’essenza non si riduce alla sua sola esistenza, ma rinvia ad altro, alla “causa” (o al principio) da cui l’essenza procede. Il principio trascende sempre la cosa che da esso deriva, e non si tratta qui del principio che opera come causa efficiente, ma del principio a partire da cui è l’essenza stessa che è per sé principio d’essere immanente alla cosa di cui è forma. C’è un domandare su come si dia questo trascendere della forma dalla cosa di cui è forma che è il domandare della metafisica, o quanto meno una delle domande che la metafisica aristotelica si pone, quando essa tematizza la forma come principio della sostanza 39. Qui il metafisico, però, dichiara il compito di questa sua inter39 Mi rendo conto che una simile formulazione induce a pensare che io stia sostenendo che la filosofia prima aristotelica voglia solo occuparsi della questione relativa al fatto che la forma comporti l’essere in atto della cosa, cosa che in effetti lo Stagirita discute ampiamente nei due libri della Metafisica dedicati allo studio della sostanza, ossia Z e H. Ciò che invece sto cercando di esprimere è che del principio che Aristotele finisce per considerare spesso come principio della sostanza (Aristotele afferma ad es. in Met. G, 1003b17-19 che “se dunque il primo è la sostanza, sarà necessario che il filosofo conosca i principi e le cause della sostanze”, o ancora ribadisce in Met. H, 1042a4-6 che “si è detto che cerchiamo le cause, i principi e gli elementi delle sostanze” come anche all’inizio di L), sulla scorta dei passaggi interni alla sua speculazione che lo portano alla nozione di oŸsÖa come nozione base nell’indagine sull’ente, bisogna continuare ad indagare. Non basta che la Fisica ci dia prova dell’esistenza del motore primo che muove non mosso, così come non basta ancora che si elabori per altro verso una teoria dell’identità analogica dei principi della sostanza o che si esponga una teoria delle quattro cause. Per Aristotele è come se giunti a ciò che possiamo determinare come principio primo con un grado di evidenza massima si aprisse ancora uno spazio di domanda su questo prin-

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rogazione dicendo che la sua è una scienza delle cause e dei principi primi, ma, più spesso – almeno così si legge nel testo aristotelico – che essa è un’indagine intorno a principi e cause prime 40. In altri termini, non si tratta ancora di un vero possesso: il metafisico, infatti, dichiara di non disporre ancora di questi principi, e non perché non li ha affatto (nel qual caso non potrebbe dire che la scienza che egli pratica indaga intorno a principi primi), bensì perché, allora, c’è qualche altra cosa che egli deve trovare – qualche altra cosa, però, che non è altra da questi principi, giacché altrimenti essi non sarebbero primi. In questa indagine intorno, sui principi primi la metafisica si prospetta come “protologia radicale”, ossia nel senso proprio annunciato dalla preposizione che introduce l’argomento della sua ricerca – perÖ: ricerca non del principio nello stesso senso per cui dico che sto cercando un libro o che sto cercando dell’ente x la sua causa y; ricerca del principio, piuttosto, come ricerca che concerne il principio, che dice qualcosa sul principio che, entro una certa misura, questa scienza già possiede; ricerca del principio come un girare intorno al principio, un assediarlo per conquistarne la comprensione41. È, in altri cipio, uno spazio in cui non si arriva ad un principio differente da quel principio, ma in cui in un certo senso non si fa altro che ripetere questo stesso principio in ciò che esso ha di proprio (ma in un senso non del tutto esclusivo, se si tratta di un essere del principio che si può sempre porre come comune a tutto ciò che si lascia denominare ¢rcª). Direi che si tratta di una sorta di reduplicazione interna alla domanda sul principio primo, una doppia battuta, un interrogare una seconda volta per trarre fuori dal principio primo ciò che lo fa essere tale. In questo senso mi permetto di parlare di una forma del principio. 40 La scienza che siamo abituati per tradizione a chiamare “metafisica” nel Corpus dello Stagirita resta in un certo senso “anonima”, sebbene Aristotele ce ne parli attraverso diversi nomi che ad es. ne indicano la specificità nel grado di eccellenza che le compete nella scala della conoscenza: sofÖa, prËth sofÖa, prËth filosofÖa , qeiot£th kaà timiwt£th ôpistªmh, oppure attraverso locuzioni che la individuano in modo abbastanza preciso rispetto al suo tema: qeologikæ ôpistªmh, perà t¡j oŸsÖaj qewrÖa, ôpistªmh t¡j ¢lhqeÖaj, tÓn prËtwn ¢rcÓn kaà aÑtiÓn qewrhtikæ ôpistªmh, ôpistªmh tij ø qewreã t’ oñn Œ ‘n. A volte, però Aristotele ricorre ad espressioni che, di contro, prese per sé la lasciano del tutto indeterminata: ôpistªmh ôpizhtoumönh, òtöra ôpistªmh. 41 Parlo della metafisica aristotelica come protologia radicale per marcare la differenza fra essa e le altre ôpist¡mai. Tutte le altre scienze particolari sono scienze ontologiche e sono scienze che vanno alla ricerca dei principi che sono primi per il loro ambito ontologico. La metafisica, invece, non cerca un ulteriore principio che si pone alle spalle dei

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termini, non un cercare un oggetto che si dice principio, ma un indagare che riguarda questo “oggetto” che si dice principio, un indagare che riguarda il principio nel senso che lo ri-guarda: 1) lo riguarda perché lo guarda di nuovo, ripete il gesto di coglierlo, ma per quell’aspetto (o per quella regola) che fa dire, ad esempio, che la forza generata dal campo gravitazionale è il principio dell’interazione fra oggetti dotati di massa o che la forma della salute è il principio della guarigione di Corisco malato o che il dio è il (primo) principio di movimento della f⁄sij ; 2) lo ri-guarda perché lo “interessa”, nel senso che nella questione della metafisica “ne va” del principio, quasi a dire che in questa questione è il principio ciò che sta a cuore del metafisico, sebbene lo stesso si possa certamente dire – e però in modo diverso – del fisico e del matematico. In cosa consiste, infatti, quell’atto di volgersi al principio che è tuttavia un’azione teoretica con diversi significati se a compierla è il metafisico o colui che studia gli astri o colui che studia il vivente? In che modo l’aggettivo primo con cui Aristotele caratterizza i principi di cui si deve occupare la metafisica ha un significato diverso rispetto al significato con cui lo Stagirita lo usa per riferirsi ai principi di ogni conoscenza di tipo epistemico? Come leggere, in definitiva, l’aggettivo “prÓtoj” che caratterizza i principi nell’incipit della Fisica e questo stesso aggettivo quando nella Metafisica esso è usato per i principi su cui verte la metafisica? Scrive, infatti, Aristotele: “Infatti reputiamo di conoscere ciascuna cosa allorquando ne conosciamo le cause prime ed i principi primi fino agli elementi” 42. Che differenza, in altri termini, intercorre fra l’essere primo di un principio che è principio di un ente la cui esistenza è posta come certa dalla scienza che ne discute (ad principi primi, come si trattasse di trovare un principio che funga da premessa per la dimostrazione dei principi primi. La metafisica insiste sulla condizione d’essere del principio primo, sulla sua forma. Resta ferma ai principi primi, non va oltre essi, ma scava dentro essi fino alla radice del loro essere. Per questo è una protologia radicale. Non trova altri principi del reale rispetto a quelli che trova il fisico, ma di essi trova la condizione sotto la quale pensa che essi siano principi e siano principi primi. Il gesto d’indagine della metafisica è radicale nel senso per cui essa trova ciò in cui si radica l’essere primo di un principio. La metafisica non cerca una radice, nel senso di una causa ancora più a monte, ma cerca quella forma d’essere del principio primo in base a cui esso si dà e si mostra come tale. 42 Phys. I, 184a12-14.

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Aristotele dopo Heidegger

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esempio l’ente di cui si occupa il biologo) e l’essere primo di un principio che si riferisce all’intero insieme dell’ente una cui parte, però, per colui che se ne occupa sembra darsi in modo ipotetico?

3. Il no‡j come condizione del sapere epistemico Per cercare di comprendere in che modo potrebbe essere aristotelicamente plausibile ricercare circa l’oggetto assegnato al sapere del metafisico, può essere forse utile seguire fino in fondo un suggerimento contenuto nel I libro dell’Etica Nicomachea. Qui lo Stagirita afferma che non si deve “cercare la precisione in tutte le cose in ugual modo, ma ‹bisogna› cercarla in ognuna secondo la materia inerente ed in conformità a ciò che è proprio dell’indagine” 43. Aggiunge subito dopo che nel caso della ricerca dei principi, anche i principi vanno cercati in maniera diversa e che alcuni possono essere contemplati in altro modo rispetto a quelli che otteniamo per induzione, a quelli che raggiungiamo attraverso la sensazione ed a quelli che troviamo per mezzo dell’abitudine: Non si deve pretendere la causa in ugual modo da tutte le cose, ma in alcune cose è sufficiente che sia convenientemente mostrato il che è (t’ ”ti), altrettanto anche riguardo ai principi: il che è un che di primo ed un principio. Tra i principi alcuni si guardano (qewro‡ntai) per mezzo dell’induzione, altri per mezzo della sensazione, altri attraverso una certa abitudine (ôqism˘ tinÖ) ed altri (•llai ) in modo diverso (•llwj)44.

Cosa intende Aristotele qui per “•llai” ed “•llwj”? Qual è l’ulteriore altro modo (•llwj) per “vedere” i principi e quali sono questi altri diversi (•llai) principi la cui contemplazione va conseguita in modo diverso? Dalla teoria aristotelica sull’apprensione dei prin43

Et. Nic. I, 1098a27-29. Questo stesso è affermato anche al cap. 3 con lo scopo di mostrare che, essendo l’azione inerente a realtà non necessarie, i principi stessi dell’azione moralmente giusta che la trattazione si propone di illustrare non possono essere indicati con la stessa precisione con cui ad es. il matematico indica i suoi, ed infatti l’azione si caratterizza per il fatto che colui che agisce deve di volta in volta scegliere i fini e deliberare sui mezzi. 44 Ibid., 1098a33 ss.

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cipi45 si può a mio avviso affermare che questa altra modalità che dispone alla conoscenza dei principi è il tipo di ricerca da cui scaturisce la scienza nella sua valenza teoretica, scienza che in senso stretto si esprime aristotelicamente nella forma della dimostrazione46. Il lavoro zetetico, costitutivo in realtà del generarsi di ogni ôpistªmh, dispone all’intellezione dei principi da cui, appunto, consegue la scienza propriamente detta. Questo tipo di lavoro, che pure a tratti e nel suo primo immediato dispiegarsi si serve anche in alcune delle branche delle scienze teoretiche (senz’altro per alcune delle scienze matematiche e delle scienze fisiche) e nelle scienze pratiche e poietiche dell’apporto offerto dalla sensazione o dall’induzione, non è sovrapponibile al procedere della sensazione, dell’induzione o dell’abitudine. Non solo; questo stesso lavoro è anche diverso quando si tratta di scienze che hanno come finalità la conoscenza o la produzione o l’azione. In generale, comunque, ciò a cui approda il lavoro d’indagine delle scienze non è paragonabile a quello che, ad esempio, è offerto sul piano conoscitivo dalla mera sensazione o dalla stessa induzione, sebbene l’ôpagwgª, come vedremo, sia caratterizzata in vari luoghi da Aristotele come il tramite attraverso cui nell’anima, per una sorta di arresto, dal caso singolare si origina la nozione universale, che poi costituisce il principio a partire da cui la scienza come ¢p“deixij costruisce i propri sillogismi 47. Il riferimento all’abitudine 45

In De an. III, 429a15-16 Aristotele definisce il noeãn come passivo (¢paqöj) e recettivo della forma (dektik’n to‡ eádouj). Il carattere della passività nella recezione del principio funge in un certo senso da condizione e da garanzia del fatto che nell’apprensione dei principi l’intelletto è sempre nel vero (cfr. ibid., 430a26-27: “L’intellezione degli indivisibili si dà dunque nei casi in cui non è possibile il falso”, dove per indivisibili sono intesi i principi che non sono appunto composti perché altrimenti le parti costitutive sarebbero anteriori all’unità che ne deriva). 46 In Et. Nic. I, 1095a32 Aristotele sottolinea che vi è una differenza fra i ragionamenti che sono a partire dai principi (oÉ ¢p’ tÓn ¢rcÓn l“goi) e quelli che portano ai principi (oÉ ôpà t¶j ¢rc£j). In realtà vi è anche una differenza fra i modi stessi in cui si arriva ai principi. Ogni scienza nel suo momento zetetico si costituisce secondo una propria metodologia d’indagine che è conforme alla natura dell’oggetto su cui ricerca, dunque non vi è una sola via che porta ai principi, ma diverse a seconda del tipo di principio e, quindi, del tipo di indagine. 47 Cfr. infra cap. IV, § 4. Protologia ed onto-teologia. In Et. Nic. VI, 1139b30-31 Aristotele anzi afferma abbastanza drasticamente in forma del tutto concisa: “Dunque vi sono dei principi dai quali procede il sillogismo e dei quali non vi è sillogismo, quindi induzione”.

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Aristotele dopo Heidegger

sembra, però, indicare che lo Stagirita qui pensi ad una distinzione di modi che dispongono alla cattura dei principi che passa attraverso una distinzione fra le scienze teoretiche e le scienze pratiche e, forse, anche attraverso una distinzione fra le forme di sapere che, in ultima analisi, conoscono in senso forte perché conoscono le cause (e, dunque, sono scienze di tipo eziologico) e le forme di sapere che si arrestano alla conoscenza del fatto che le cose sono, dell’”ti48. Trattandosi di un’asserzione che nel testo resta incompleta, poiché non si specificano quali siano questi altri principi, sono plausibili diverse letture49. Ad esempio questo altro modo potrebbe essere la 48 Nell’incipit del II libro di An. Post. (89b24-25) Aristotele sostiene che “noi cerchiamo quattro cose, il che è (t’ ”ti), il perché (t’ di“ti), se è (eÑ ústi) e che cos’è (tÖ ôsti). Segue un esempio che marca bene la distinzione di calibro fra le conoscenze di questi quattro elementi. Cerchiamo ad es. se il sole si eclissa o no, e trovato che il sole eclissa, quindi trovato il che è, ci arrestiamo nella nostra ricerca (pepa⁄meqa). Questo è un primo stadio, in cui certamente il mezzo della conoscenza è la sensazione, perché noi costatiamo le eclissi di sole avendone esperienza sensibile. Se vogliamo però andare oltre, una volta che conosciamo il che è, cerchiamo il perché (”tan dù eÑdÓmen t’ ”ti, t’ di“ti zhto‡men). Aristotele aggiunge un altro esempio, dicendo che “dunque cerchiamo queste cose in questo modo, mentre ne cerchiamo alcune in modo diverso (únia d'•llon tr“pon zhto‡men)”. Cercato se un centauro o un dio sono e conosciuto il loro che è, passiamo poi a cercare e conoscere il loro che cos’è. Di quello di cui possiamo avere un’esperienza sensibile il che cos’è è restituito nell’immediatezza dell’esperienza della cosa ed il passo successivo per un piena conoscenza della cosa è la ricerca del perché che la mera sensazione non dà. Nel caso di enti la cui esistenza non è posta tramite l’accertamento per via sensibile (il dio, il centauro), ma attraverso, per così dire, altri indizi la piena conoscenza è data dalla conoscenza della loro essenza. La domanda che dunque sembra sorgere è: se la filosofia prima si caratterizza nel suo prendere a tema anche la parte dell’ente sovrasensibile si può considerare scienza allo stesso modo in cui lo è l’astronomia che dei fenomeni su cui indaga trova la causa? Aristotele sta infatti sostenendo che il perché del dio non viene ricercato e che ciò che basta per dire di conoscere in questo caso è la conoscenza dell’essenza. Se il dio è principio primo del moto del cosmo, non si può domandarne il perché, se non come questione sull’essere della sua essenza in virtù del quale il dio si dà come principio primo. 49 A proposito di questo passo Harold Henry Joachim dice, infatti, che lo Stagirita “parla in modo approssimativo” (Aristotle. The Nicomachean Ethics, a commentary by the late H.H. Joachim, ed. by D.A. Rees, Clarendon Press, Oxford 1951, p. 53). Spiega comunque così il ragionamento di Aristotele: “Nonostante i principi primi non possano essere dimostrati, essi possono essere compresi, conosciuti, e ciò in vari modi. Aristotele menziona qui ‘induzione’, percezione, ‘una certa abitudine’ ed aggiunge ‘altri ancora in altri modi’, rispetto alla cui spiegazione Aspasio suggerisce l’intelletto (no‡j) e l’esperienza (ômpeirÖa)” (ibid.). Anche Gauthier e Jolif sottolineano la difficoltà del passo e tendono ad individuare l’altro modo nell’apprensione noetica: “Questa frase crea difficoltà.

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via elenchica attraverso cui si mostra la validità dei principi comuni come il principio di non contraddizione. Esso potrebbe essere ancora, come spiega Tommaso d’Aquino, l’esperienza che fornisce i principi alle scienze di tipo poietico50. A mio avviso, però, qui Aristotele intende evidenziare la differenza che sussiste fra i vari modi con cui si giunge a quell’atto che nell’anima dell’uomo è in senso proprio deputato alla cattura dei principi. Lo Stagirita parla di un criterio di esattezza, asserendo che per quelle realtà che non sono necessarie, bensì tali che possono essere diverse da come sono, pretendere la medesima precisione sul piano della loro conoscenza, come è, di contro, da esigirsi in quegli ambiti d’indagine che hanno di mira le realtà che sono sempre, non è possibile. L’impossibilità è nella materia stessa della trattazione e non in un difetto del metodo che è anzi adeguato al tipo di materia che si considera. Se allora il riferimento è a principi dai quali scaturisce una scienza “esatta”, ciò attraverso cui tali principi si rendono noti all’anima dovrà essere un modo, per così dire, “più esatto degli altri”, ossia conforme a quello che esso deve raggiungere. Aristotele potrebbe qui pensare agli assiomi comuni che sono da considerarsi principi primi. Ma essendo primi, essi sono per sé indimostrabili e la via elenchica è appunto il modo di Quel che Aristotele in questo testo separa ed oppone è unito nella sua teoria dell’induzione: l’induzione (ôpagwgª ) è il processo che, partendo dall’intuizione sensibile (aásqhsij) che fornisce ad esso immagini singolari, fonde grazie alla memoria e all’esperienza (ômpeirÖa) queste immagini singolari in un’immagine composta per metter capo infine all’intuizione intellettuale (no‡j) dell’universale”. Dunque, sembrerebbe che Gauthier e Jolif considerino fra le righe che l’altro modo è l’apprensione noetica che con sensazione ed induzione costituisce un insieme, forma un unico processo conoscitivo dal dato sensibile al principio universale – genere o specie – sotto cui è sussunto il singolo caso offerto nel dato sensibile (Aristote. L’Étique a Nicomaque, introduction, traduction et commentaire par R.A. Gauthier et J.Y. Jolif, Publications Universitaires-BéatriceNauwelaerts, Louvain-Paris 19702, t. II, I: Commentaire, Livres I-V, p. 22). 50 Così spiega l’Aquinate il passo aristotelico: “Ipsa autem principia non omnia eodem modo manifestantur, sed quaedam considerantur inductione, quae est ex particularibus imaginatis, sicut in mathematicis, puta quod omnis numerus est par aut impar. Quaedam vero accipiuntur sensu, sicut in naturalibus; puta quod omne quod vivit indiget nutrimento. Quaedam vero consuetudine, sicut in moralibus, utpote quod concupiscentiae diminuuntur, si eis non obediamus. Et alia etiam principia aliter manifestantur; sicut in artibus operativis accipiuntur principia per experientiam quamdam” (Sancti Thomae de Aquino Opera omnia iussu Leoni XIII P. M. edita, t. 47/1 Sententia Libri Ethicorum, Romae 1969, lib. 1, lectio 11, n. 7).

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cui ci serve per esibirne la validità51. Tuttavia, la dialettica non si può considerare in generale una procedura esatta perché, a differenza della dimostrazione, le premesse dei suoi ragionamenti non sono proposizioni prime e vere per sé, bensì opinioni notevoli52. Ancora Aristotele potrebbe intendere che questi altri principi siano i principi propri delle singole scienze teoretiche che studiano forme di realtà necessarie53. La contemplazione dei principi propri è sì tramite il no‡j, ma è altresì preparata da un processo euristico adeguato all’oggetto da conoscere, che sarà più o meno esatto a seconda di quanto 51 In Top. I, 101a36 ss. Aristotele annovera fra le ragioni dell’utilità della dialettica il fatto che essa può argomentare attraverso ragionamenti basati su úndoxa in favore dei principi propri di ogni scienza che sono indimostrabili, altrimenti non sarebbero primi per quell’ambito dell’ente. Aggiunge lo Stagirita che la caratteristica propria della dialettica è il suo essere “ôxetastikª”, atta a indagare e in questo modo essa “possiede una strada verso i principi di tutte le indagini”. Questo non fa però della dialettica una procedura esatta in senso forte. I principi comuni come il principio di non contraddizione non sono principi propri, pur tuttavia resta una procedura dialettica nella forma elenchica quella messa in campo da Aristotele in Met. IV per giustificare la validità del principio di non contraddizione. 52 A differenza della filosofia considerata come una conoscenza di tipo epistemico, la dialettica è detta da Aristotele, come è noto (cfr. Met. G , 1004b25), “peirastica” (peirastikª), pur occupandosi di quello di cui si occupa la filosofia. La differenza è, per così dire, nel grado qualitativo di verità delle asserzioni: i ragionamenti dialettici argomentano in modo formalmente corretto, a differenza dei ragionamenti di tipo sofistico, e rispettano gli assiomi che regolano il funzionamento corretto dei sillogismi, però le premesse non hanno valore scientifico in quanto non sono asserzioni che enunciano l’essenza in seguito alla conoscenza del perché, della causa. Ciò non vuol dire che gli úndoxa da cui partono i ragionamenti dialettici sono falsi, ma non si possono considerare discorsi definitori in senso stretto, se la definizione scaturisce o dalla conoscenza dell’essenza della cosa (e dunque come discorso di tipo anapodittico del che cos’è della cosa che funge da premessa nella dimostrazione) o a propria volta si ottiene come la conclusione di un sillogismo apodittico. In ogni caso, si tratta sempre di un’asserzione che scaturisce dalla conoscenza della causa della cosa, ottenuta tramite apprensione dell’essenza o tramite dimostrazione attraverso un termine medio (cfr. sul modo in cui si hanno diversi tipi di definizione An. Post. II, cap. 10). 53 Sebbene nel regno della f⁄sij si dia anche la generazione per aŸt“maton, per così dire, la f⁄sij resta una realtà di tipo necessario. Infatti, Aristotele considera f⁄sij ed aŸt“maton come due principi generativi ben distinti. L’eccezione, ciò che sopraggiunge in modo casuale ad alterare la generazione naturale, è un alcunché di accidentale nel processo generativo naturale. In certe forme di metabolª poi, come nel movimento locale, nella kÖnhsij in senso stretto, sembra che Aristotele non preveda affatto l’intervento del caso, come per il movimento di rotazione eterno delle sostanze sensibili incorruttibili. Nel loro movimento è iscritta una legge di necessità: i pianeti e le sfere non possono che muoversi necessariamente e sempre di moto circolare eterno.

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questi principi siano universali, quindi primi54. I principi propri delle scienze particolari non sono comunque primi in senso assoluto e, dunque, le varie scienze che ne dispongono sono meno esatte rispetto a quella scienza che dispone dei principi assolutamente primi e della quale infatti, per questo, lo Stagirita dice che è la più esatta: “Pertanto è evidente che la sapienza è la più esatta delle scienze” 55. Questi altri principi, quindi, potrebbero essere, come sono propensa a ritenere, quei principi primi che, nell’ambito delle scienze teoretiche, stanno a cuore al filosofo primo. Essi sono primi in senso assoluto perché competono all’intero dell’ente e non si identificano solo con i principi comuni (assiomi), che pure sono anch’essi primi in questo modo, come il cosiddetto principio di non contraddizione la cui validità è argomentata per via elenchica nel libro G della Metafisica. I principi primi – indicati da Aristotele all’inizio di Metafisica G come i principi e le cause supreme di cui andiamo in cerca –56, sono 54 Ad es. in An. Post. I, capp. 27-28 Aristotele parla di rapporti di subordinazione fra le scienze: più esatta ed antecedente è la scienza che del genere d’ente indagato conosce i principi primi. Dunque una scienza è tanto più esatta quanto più universali (ossia primi) sono i suoi principi (cfr. anche Met. A, 982a25-26: “¢kriböstatai dù tÓn ôpisthmÓn aâ m£lista tÓn prËtwn eÑsÖn”). Una scienza è più esatta di un’altra, inoltre, se procede da un numero di principi inferiore e, in tal modo, nell’ambito scientifico che indaga su una porzione dell’ente ben determinata è “prima” quella scienza che offre i principi primi dell’ambito alle scienze subordinate che indagano parti dell’ambito (nell’ambito della ricerca matematica ad es. la matematica generale è anteriore alla geometria e all’astrologia perché ad entrambe fornisce i principi primi dell’ente che ha natura matematica; ognuna delle due poi aggiungerà ulteriori principi propri del tipo di ente matematico che considera). 55 Et. Nic. VI, 1141a16-17 (Èste d¡lon ”ti ¢kribest£th ®n tÓn ôpisthmÓn eáh h` sofÖa). 56 Cfr. Met. G , 1003a26-28: “Poiché cerchiamo i principi e le cause supreme (t¶j ¢rc¶j kaà t¶j ¢krot£taj aÑtÖaj), è chiaro che questi devono essere di necessità principi e cause di una realtà che è per sé (f⁄seËj tinoj.... kaq'aÿtªn)”, dove il problema è che ciò che si pensa in termini aristotelici come realtà per sé è la sostanza e non l’ente in quanto ente. Il carattere di eccellenza dei principi primi è, dunque, qui pensato in relazione all’eccellenza, per così dire, dell’ente che è sostanza rispetto ai modi dell’ente, ossia l’ente come accidente, come vero e falso e l’ente secondo le determinazioni delle categorie (cfr. Met. E, 1026a33-36). La conclusione di questo I cap. di Met. G (“di’ kaà h`mãn to‡ ‘ntoj Œ oñn t¶j prËtaj aÑtÖaj lhptöon”) come anche l’inizio del I cap. di Met. E (“AÉ ¢rcaà kaà t¶ aátia zhteãtai tÓn ‘ntwn”) dichiarano, tuttavia, espressamente che i principi primi sono da ricercarsi in quanto principi primi dell’ente. Sempre in Met. E, 1025b7 Aristotele parla di cause e principi che sono in modo maggiore o minore esatti e semplici (¿ ¢kribestöraj ¿ a`ploustöraj) a seconda del tipo di ôpistªmh. Ai principi primi compete-

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dell’ente in quanto tale, che è “qualcosa” di cui non facciamo propriamente esperienza in modo empirico. Ora, dato che l’apprensione noetica dei principi si dà al culmine di ogni indagine che abbia di mira una conoscenza epistemica e non solo nel caso della ricerca della filosofia prima, e dato ancora che questa stessa apprensione anche in metafisica non è mai immediata, non è un atto di folgorazione istantanea che non presuppone nulla, ma segue appunto un percorso preparatorio, risultando dai “logoi che portano ai principi”, quest’altro modo con cui si contemplano i principi può indicare l’indagine di tipo teoretico sui principi primi. Questo indagare è il lavoro della filosofia prima, fa corpo unico, per così dire, con il suo stesso darsi come scienza al di sopra delle altre scienze teoretiche. Una simile conclusione mette, allora, in luce l’aspetto zetetico della metafisica più che quello epistemico-apodittico e ciò, a mio avviso, spinge a porre una domanda essenziale per la comprensione della natura della prËth filosofÖa: qual è la “cosa” intorno a cui effettivamente indaga il filosofo primo, nella misura in cui egli mette in campo tutto un lavoro investigativo che ha per fine il contemplare i principi primi e non il cosiddetto “ente in quanto tale”, giacché del principio si coglie qualcosa che non si lascia identificare con l’ente tout court? Non è in prima battuta sull’ente in quanto tale che il metafisico

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¢rcaÖ

rebbe di essere i più esatti in virtù del loro valore universale in quanto riguardano tutto l’ente. Si può dire che questi principi siano esatti perché riguardano un ente necessario solo nella misura in cui si considera che non è possibile che un ente, in quanto ente, sia diverso da come è sotto questo siffatto rispetto, ossia in quanto un essere ente, qualsivoglia ente specifico sia. Questi principi sono esatti anche se, alla fine, si conclude che il principio primo è da intendersi come il qe“j in quanto principio primo di movimento; esso, infatti, aristotelicamente è per sé una realtà eterna, immutabile, separata e questi sono tutti caratteri che attengono a ciò che è necessario nel senso di ciò che non può essere diverso da come è (cfr. Met. D, 1015a33 ss.). Aristotele considera, quindi, esatto un principio se esso attiene a realtà necessarie e, dunque, sembra esserci una procedura di tipo epistemico comune al filosofo primo ed agli altri “scienziati”; nondimeno, fra la filosofia prima e le altre ôpist¡mai vi è una differenza: lo sguardo del filosofo primo si sposta dal suo oggetto (l’ente in quanto tale) al principio primo, e del principio – per potere dire di conoscerlo – il filosofo primo si trova a dovere indagare il principio, ossia a dovere indagare lo stesso, perché il principio che cerca di afferrare è primo, ossia non vi è nulla che sta alle sue spalle. Il fisico che cerca la causa di movimento dell’ente mosso tiene ferma la relazione causale fra l’ente mosso e la sua causa, perché solo nella relazione gli è in certo modo possibile recuperare, comprendere il potere causativo del principio di movimento.

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sembra far convergere la sua attenzione: in senso proprio, infatti, non è l’intero dell’ente ciò verso cui tende la sua ricerca, ma il principio primo perché è questo l’“oggetto” cui mira o deve mirare l’atto di apprensione noetica. Certamente anche tutte le altre ôpist¡mai tendono ai principi, ma il fatto è che ognuna delle altre scienze singolari pone o assume come data l’esistenza dell’oggetto, dell’ente di cui si cerca il principio, mentre il filosofo primo non può procedere da un’assunzione di questo tipo poiché non si ha esperienza sensibile di qualcosa come l’“ente in quanto tale” o l’“intero dell’ente”. La nozione di ente in quanto ente non è immediatamente disponibile al pensiero giacché nemmeno l’intero dell’ente, che per suo tramite si lascerebbe abbracciare, è qualcosa del cui che è potremmo prima aver fatto esperienza. È piuttosto già il frutto di una sorta di ÿp“lhyij dovuta al ragionamento, è un acquisto che si ottiene in un modo che ha senz’altro qualcosa del procedere induttivo; ma la datità dell’ente come tale è affatto diversa rispetto a quella dell’oggetto d’indagine di un architetto, di un medico o di un astronomo. Non si ricorre ad alcuna astrazione quando si pongono come esistenti i pianeti, e neppure quando si guardano gli individui che sono malati per cercare di guarirli non in modo empirico, bensì con cognizione di causa. Eppure, quando si dice che il filosofo primo è colui che ha scienza dell’ente in quanto tale, perché egli conosce – o dovrebbe arrivare a conoscere – i principi primi dell’ente in quanto tale, si sostiene che la sua ricerca, come le altre ricerche delle altre scienze, prende di mira un principio che possa mostrarsi come primo rispetto al suo oggetto che è, appunto, l’intero dell’ente. Proprio là dove sembra, però, evidenziarsi una procedura di tipo epistemico comune al filosofo primo ed agli altri “scienziati”, si fa più chiara – con tutto quel che di problematico essa comporta – la differenza fra la filosofia prima e le altre ôpist¡mai. Nella misura in cui l’oggetto del suo domandare la causa ed il principio è l’ente in quanto ente, il filosofo primo non può spostare il suo sguardo all’indietro, andare oltre il proprio oggetto, volgendogli in un certo senso le spalle, in cerca della cosa che ne è causa, come farebbero di contro i teorici delle scienze particolari. Un tale oggetto non è difatti disponibile e non si lascia attingere fuori ed indipendentemente dal ragionamento che ne ricerca la cau-

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sa; esso deve in qualche modo far corpo unico con esso. In altri termini, non perché è causa dell’essere dell’ente come tale, invece che di questo o di quell’ente, che la causa si qualificherà come prima. Al contrario, la causa prima avrà titolo a riferirsi all’essere dell’ente come tale, se ed in quanto si mostrerà in se stessa come prima. Vediamo più analiticamente: il fisico che cerca la causa di movimento dell’ente mosso dispone in partenza di un oggetto come l’ente in quanto mosso. Egli dispone, cioè, della relazione fra l’ente ed il movimento come modo d’essere di un particolare genere dell’ente, del cui che è attinge notizia dall’esperienza. È appunto il tenere ferma questa relazione ad offrire l’orizzonte ontologico alla ricerca della causa prima, ossia del principio del movimento, da parte del fisico. Solo trattenendosi in questa relazione egli giunge a comprendere il potere causativo di un tale principio mentre ne determina il che cos’è. L’esserci dell’effetto – cioè l’ente mosso, l’ente in quanto mosso – è qui il presupposto. Ma il filosofo primo, che in cerca della causa fissa il proprio sguardo sull’ente preso esclusivamente in quanto ente, ossia sull’essere stesso dell’ente, non dispone allo stesso modo, cioè preliminarmente, della relazione fra l’essere e l’ente. Per la propria ricerca della causa prima egli non ha allora altro orizzonte ontologico se non la causa prima stessa. Se è dell’ente in quanto ente che il metafisico cerca le cause ed i principi primi, affinché il sapere di un tale oggetto abbia il carattere dell’ôpistªmh, nel volgere oltre lo sguardo il metafisico non avrà altro orizzonte d’indagine che la forma stessa della causa prima, nei molti modi in cui, negli ambiti della f⁄sij, della töcnh, della t⁄ch, diciamo o esperiamo che qualcosa è, appunto, una causa prima. La forma della causa prima non è certamente da intendersi nei termini di una sorta di causa ulteriore che faccia da fondamento ultimo e da principio unificatore in ordine alla pluralità delle cause prime, perché in questo caso le cause prime cesserebbero di esse tali (ossia prime). Se del principio – cioè di quel che vige a principio rispetto ad un preciso ambito particolare di determinazione dell’ente – il filosofo primo è chiamato a mostrare in un certo qual modo ulteriormente il principio, la sua ricerca, quanto all’essere della cosa (del principio), verterà sul medesimo. Infatti il principio, ciascun principio, della cui forma il filosofo primo dà ragione, resta

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primo. Non vi è nulla, nessun altro principio ontologico, che stia alle spalle. Per comprendere quello che fa del principio primo un principio che è primo, il metafisico non deve guardare più, in altri termini, alla relazione del principio con l’ente, bensì deve cercare di osservare nel principio stesso quella sorta di regola, di principio, di modo d’essere (che è il principio stesso) alla cui condizione è possibile dire del principio primo che è tale. Nella domanda sul principio si produce una reduplicazione della domanda stessa o, forse, un suo sdoppiamento, ma la reduplicazione o lo sdoppiamento non giungono mai ad altro di diverso dal principio stesso su cui si sta domandando. In tutto questo, allora, per esplicitare in modo completo la tesi in vista della quale mi sta a cuore argomentare, non si palesa forse anche che ciò da cui si smarca il filosofo primo (l’ente tout court) gli ritorna invece in questo domandare fra le mani, se il principio resta pur sempre qualcosa che è, un ente? Il filosofo primo, ricerca intorno a questo “oggetto” che dice “principio”, i suoi “logoi” trattano di esso, gli “girano” intorno. Il punto, quindi, è: nella contemplazione dei principi primi, cosa contempla il filosofo primo? L’ente in quanto tale che è tale perché è a partire da/in conformità a questi principi? O il principio stesso, a questo punto separatamente dall’ente che è da esso? E del principio cosa ancora scorge il filosofo primo? Il suo contenuto, per così dire, o la forma che lo determina come principio e come principio primo? Ma questa forma, che Aristotele ci insegna a chiamare anche essenza, non sarà allora quella stessa che fa dire al fisico che materia, forma e privazione sono i principi primi nella sostanza sensibile, nel senso di principi propri della sostanza sensibile? Non vedrà forse il filosofo primo qualcosa che il fisico non vede, ossia quel modo comune, universale che è proprio del principio in quanto tale? Ma questo esser proprio del principio non sarà nel contempo anche il contenuto proprio del principio primo? È in direzione di queste domande che spinge la lettura della metafisica come indagine radicale sul principio (come “protologia radicale”) secondo il senso annunciato dalla preposizione (perÖ) che, spesso, nella Metafisica introduce il tema d’indagine della filosofia prima. Proprio questo costituisce, a mio avviso, anche il punto cruciale della questione onto-teologica: non è necessario pensare o, più esatta-

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mente, determinare un ente singolare con caratteristiche ontologiche ben precise, tali da permetterci di sostenere che in questo ente sta la ragione dell’intero dell’ente, per istituire una circolarità ineludibile fra l’interrogare sull’ente in quanto tale e l’interrogare sull’ente cosiddetto sommo, principio dell’ente in quanto tale. Piuttosto è la natura della domanda protologica della metafisica sulla causa prima – ossia è la richiesta di pensare il principio semplicemente nel principio (o la causa solo in quanto prima) – ad indurci ad attribuire alla cosa di cui siamo in cerca (in questo caso l’ente in quanto tale) un modo d’essere separato dall’essere della cosa di cui diciamo che questo modo d’essere – la forma – è causa. Che questo essere debba intendersi come separato nello stesso senso in cui diciamo separato in genere il modo d’essere delle sostanze è certo la conclusione di Aristotele. Ma è anzitutto il fatto di pensare o di tentare di percorrere una via che restituisca, alle condizioni di cui si è detto, una nozione, un concetto di quel che è un principio primo che, inevitabilmente, comporta una circolarità, un ritornare indietro andando avanti, un riacciuffare con lo sguardo ciò che si pensava di essersi lasciati dietro. Se, infatti, intorno al principio è possibile condurre un’interrogazione in qualche modo coerente, ciò destina sempre all’entrare in circolo, poiché non si riesce ad interrogare senza pensare che anche il principio, sia pure nel modo più neutro ed indeterminato possibile, è un ente, un ente, però, nel cui essere (ossia nell’essere che è “essere il principio”) si mostra non già l’ente in quanto tale, e neppure l’essenza dell’ente in quanto tale, bensì proprio quell’essere principio alla cui condizione io posso riuscire ad afferrare l’essere principio di ciascun principio. Non so se inoltrandoci per questa via andiamo fuori dallo spazio delineato dalla comprensione heideggeriana dell’onto-teologia. In ogni caso è da Heidegger che traggo fuori l’indicazione che ontoteologia indica una struttura di pensiero, un modo di interrogare intrinsecamente circolare, in cui le due estremità del circolo si toccano sempre reciprocamente così che la circolarità dell’interrogare non si distende mai, non si linearizza mai in una procedura investigativa “dritta”, come un percorso investigativo di tipo gerarchico, che procede di livello in livello o di tappa in tappa. Abbiamo visto, infatti, che la circolarità, l’essere con un aspetto duplice di uno stesso do-

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mandare, che Heidegger vede costituirsi nel rinvio reciproco fra il porre la domanda sull’intero dell’ente e il porre la domanda sull’ente più essente, è da Heidegger stesso pensata in termini del tutto formali, strutturali. La caratura formale della struttura consiste nel fatto che la struttura opera come una forma dell’interrogare perché si costruisce mediando ogni volta il piano dell’universalità, quello della generalità (la massima possibile) dell’ente – che è proprio ciò che fa dire di un principio primo che è, ossia che è esso ente (il principio primo non è un “non ente”, un “niente”) e che non è riducibile al significato dell’esistenza come esistenza empirica qui ed ora (giacché se questo fosse il criterio di definizione dell’ente anche la stessa nozione di “ente in quanto ente” non sarebbe) – ed il piano dell’essere primo dell’ente come quel che si pone al principio della serie, perché appunto principio primo. Caratterizzare l’interrogare metafisico aristotelico nella forma di una protologia radicale può apparire estraneo al modello esegetico heideggeriano che sembra, invece, far leva sulla ricerca del fondamento ultimo come tratto costitutivo del logos dell’onto-teo-logia. Ma non lo è, di contro, il fatto di vedere in questa interrogazione radicale sul principio l’operare di una struttura interrogativa circolare in cui si interroga sul tutto (l’ente in quanto tale) per interrogare su una parte (il principio primo) e si interroga sulla parte per riprendere in mano l’interrogazione sul tutto (il principio in quanto principio, quale che sia, in quanto la chiave di accesso che ci fa dire che conosciamo un ente, un pr©gma, le cose, il mondo perché ne conosciamo il principio). Si tratta certamente di un modo di applicare l’interpretazione heideggeriana che mostra sia di essere, a propria volta, una interpretazione sia di essere nel contempo un modo, forse, per procedere oltre lo stesso Heidegger, tornando indietro ad Aristotele: se l’essenza della metafisica aristotelica tradisce la traccia della circolarità e mai la linearizzazione perché, in effetti, in Aristotele questa interrogazione sembra prendere semplicemente l’avvio ma mai sembra concludersi, e se ancora in questa interrogazione ci si interroga sullo stesso – il principio – in una doppia battuta, secondo il senso della metafisica come domanda radicale sull’¢rcª, per trovare ogni volta il diverso (i principi propri delle scienze sono poi sempre diversi e

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sempre, caso per caso, in ogni singola scienza i principi saranno individualmente differenti), allora da questo non si genera alcuna necessità di superare questa forma interrogativa. Piuttosto si pone la domanda se una simile interrogazione sia fino in fondo perseguibile, se essa, cioè, non sia in se stessa segnata da un’invalicabile condizione aporetica. Ma qui siamo veramente già nell’Aristotele dopo Heidegger. L’ulteriore analisi del passo dell’Etica Nicomachea citato e l’esposizione della teoria aristotelica su ôpistªmh, sofÖa e no‡j mi aiuteranno adesso a discutere in direzione della delucidazione di questo aspetto aporetico. Nel processo conoscitivo i principi, nel senso di quel che restituisce il perché della cosa mostrandone l’essenza, sono considerati da Aristotele al modo di enti semplici, non divisibili, necessari, eterni, separabili. Questo loro essere richiede che la facoltà deputata alla loro contemplazione abbia caratteristiche equivalenti, similari e nell’anima umana lo Stagirita ritiene che essa sia l’intelletto57. Sensazione, induzione – che poi si dà essa stessa a partire dalla sensazione –, abitudine sono vie che dispongono l’intelletto, come disposizione o facoltà della parte razionale dell’anima (quella che presiede ai processi conoscitivi di tipo causale), all’atto specifico dell’apprensione dei principi in riferimento a realtà diverse, ossia a realtà che sono sempre o a realtà che sono per lo più e quindi non necessarie58. In questo senso, cercando nuovamente di identificare 57

In An. Post. II, 99b32 ss. Aristotele parla della necessità di disporre di una d⁄namij che ci consenta di entrare in possesso dei principi, sottolineando che essa non deve, però, essere “più degna di onore quanto ad esattezza (timiwtöra kat'¢krÖbeian)” dei principi stessi. Ciò però non significa che deve trattarsi di una disposizione fallace, anzi siccome la conoscenza in atto (kat'ônörgeian ôpistªmh) è tutt’uno con il pr©gma che conosce (cfr. De an. III, 431a1-2), l’intelletto in atto che ha apprensione dei principi, che sono realtà necessarie, ha nel suo atto di apprensione la sua qualità, il suo carattere di verità. Su questo cfr. anche ibid. 431b16-19; proprio in questo passo, fra l’altro, Aristotele destina ad un’altra ricerca la questione se sia possibile pensare enti separati (tÓn kecw rismönwn ti noeãn), anche se in effetti all’inizio dell’opera (403b15-16) egli si pronuncia già sulla questione, asserendo che spetta al filosofo primo (— prÓtoj fil“sofoj) lo studio degli enti separati, ossia enti che non sono separati attraverso l’astrazione, giacché di essi si occupa il matematico. 58 In De an. l’intelletto è detto da Aristotele d⁄namij o õxij in pari modo (cfr. ad es. 428a3).

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Il carattere eidetico della metafisica aristotelica

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quale sia questo altro modo con cui si contemplano “altri principi”, non è possibile mettere semplicemente sullo stesso piano, secondo ad esempio la lettura di Mårten Ringbom, il no‡j e la aásqhsij , l’ôpapwgª e l’ôqism“j come vie equivalenti nel processo di acquisizione delle ¢rcaÖ 59. Di fatto è possibile indicare, stando alla polisemia del termine ¢rcª, diversi enti, elementi o nozioni che possono di volta in volta considerarsi principi60. Posto che in senso stretto i principi, come “perché” ed “essenza” della cosa, si colgono per apprensione noetica, sembra che l’asserzione aristotelica debba leggersi piuttosto in una direzione che enfatizzi la distinzione fra il cogliere i principi all’interno di un processo di conoscenza che voglia caratterizzarsi come epistemico in senso forte ed un conoscere vago o impreciso o non del tutto esatto qual è ancora quello dell’empirico rispetto allo scienziato61, o quello del dialettico rispetto alla filosofo primo, o anche quello delle scienze pratiche e poietiche il cui margine di non precisione dipende dal carattere contingente dell’oggetto studiato. Sebbene il riferimento alla sensazione autorizzi a leggere questo altro modo come il no‡j, perché sensazione ed intelletto sono alla fine le due dun£meij attraverso cui l’anima riceve la conoscenza del 59

Ringbom sostiene che “si può ritenere che l’indeterminato ‘altro modo’ si riferisca alla dote naturale divina (den gudomliga naturbegåvning)” (Aristoteles, Den nikomachiska etiken, övers. och kommentar a. M. Ringbom, daidalos, Göteborg 1988, p. 34 n. 19) che egli identifica con quello che Aristotele in Et. Nic. III, 1114b7-8 presenta come “la vista attraverso cui si discerne in modo opportuno e si sceglie il bene che è conforme alla verità (‘yin [...] Œ krineã kalÓj kaà t’ kat'¢lªqeian ¢gaq’n aÑrªsetai)” e che in Et. Nic. X, 1180a18 è nominato come quel “certo intelletto” che orienta la vita retta dell’uomo saggio o ancora, poco dopo (1181b9-11), come la “disposizione” senza la quale non si può discernere in modo opportuno. La dote naturale che Ringbom caratterizza come divina non può essere allora altro che il no‡j , che, in effetti, viene concepito dallo Stagirita come una specie di parte divina dell’anima umana (cfr. ad es. De an. I, 408b29 ed Et Nic. X, 1177a15-16). 60 I vari sensi di ¢rcª in Met. D, cap. 1 hanno in comune il fatto di segnalare tutti che il principio dice il punto di avvio, di partenza del generarsi, dell’apprendere, dell’essere. È ovvio che qualcosa che può apparire in prima battuta principio perché è da lì che prende avvio il processo conoscitivo non costituisce nello stadio finale il principio ultimo cui si arriva, oltre il quale non si interroga più. 61 Cfr. Met. A, 981a24 ss. e in modo simile anche Et. Nic. X, 1180b16 ss.

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Aristotele dopo Heidegger

che è e del che cos’è, che sono entrambi principi del conoscere62, il chiamare in causa un mezzo come l’induzione, che si genera dalla sensazione e conduce all’apprensione noetica, sembra parlare in favore dell’idea che Aristotele stia pensando a procedure che sono proprie dei vari tipi di conoscenza. In questo senso, allora, egli starebbe pensando ai diversi processi del farsi di una ricerca e dell’essere in cammino verso la cattura dei principi nei vari ambiti investigativi. Questo essere alla ricerca si caratterizza diversamente a seconda se si tratta dell’indagare che porta alla costituzione delle scienze di tipo poietico, di tipo pratico o di tipo teoretico. Il fatto che Aristotele dica, inoltre, che non bisogna essere precisi in tutte le situazioni in modo identico, ma è necessario cercare l’esattezza in definitiva solo in quei casi in cui ciò è possibile perché “permesso” dalla materia stessa indagata – come appunto nel caso dei principi delle realtà necessarie che non possono essere diverse da come sono – spinge a leggere questo altro modo, come appunto ho già spiegato, nella direzione di una procedura zetetica che sfocia successivamente nell’elaborazione dell’ôpistªmh propriamente detta. La massima esattezza si raggiunge così, come già detto, nel caso della conoscenza dei principi primi. Al fine di raggiungere questa conoscenza, però, non sembra bastevole solo disporre di quelle ÿpolªyeij che si generano dall’induzione a partire dalla sensazione. Nel caso di una realtà come quella divina, che è principio primo di movimento della f⁄sij (ambito degli enti mossi che ha in sé il proprio principio di movimento), non è l’induzione che porta a concludere sulla necessità dell’esistenza di un primo motore immobile – a meno di non considerare il risultato di un’induzione il principio che tutto ciò che si muove ha una causa; e, però, non è ottenuto in modo induttivo il principio gnoseologico 62 Una sintesi del genere si ottiene incrociando informazioni ricavate da De an. e da An. Post., ma in particolare il cap. 19 di An. Post. II costruisce il chiaro parallelo con il riferimento alla distinzione fra l’animale non razionale e l’animale razionale che appunto dispone della capacità del generalizzare e del trarre inferenze (operazioni che sono espressione del suo pensare). Nel De part. an. I, 644b23-645a1 Aristotele attribuisce la conoscenza parziale (kat¶ mikr“n) delle sostanze eterne, ingenerate ed incorruttibili, che pure sono le sostanze “degne di onore” e “divine”, proprio al fatto che tramite la sensazione otteniamo pochi elementi chiari (–lÖga t¶ faner¶ kat¶ tæn aásqhsin), sebbene questa conoscenza resti comunque la più gradita (ºdion).

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Il carattere eidetico della metafisica aristotelica

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che vieta il processo all’infinito nella ricerca dei principi. Sono messi in campo, invece, altri logoi che mostrano, appunto, la necessità che la conoscenza si arresti ad un principio anapodittico nella ricerca delle cause. Ora, dal momento che è in forza dell’esistenza della sostanza sovrasensibile che Aristotele “giustifica” la presenza di una scienza al di sopra dell’ôpistªmh fusikª, devono esserci altri modi, altre strade che sono proprie di un lavoro conoscitivo epistemico – ossia tale che il sapere che da esso si genera restituisca sempre il perché –, strade, per così dire, specifiche della filosofia prima, peculiari al suo farsi come indagine scientifica. Queste strade devono avere a che fare con la conquista di ciò che si indica come principio primo, principio che proprio per la sua primarietà determina il carattere di maggiore esattezza della scienza che ne dispone rispetto alle altre ôpist¡mai. Ciò che, quindi, si evidenzia in questo procedere verso i principi, che costituisce l’aspetto zetetico che dispone ad afferrare i principi da cui poi procede la scienza dimostrativa, è che in un certo senso la scienza, in quanto un sapere specifico, è attraversata da una differenza fra il suo essere conoscenza ormai compiuta ed il suo darsi come tale grazie a quel ricercare per il quale essa si costituisce come scienza specifica di un certo campo tematico. Questo ricercare, che ogni ôpistªmh in quanto tale necessariamente sottende, è già un muoversi attorno ai principi e, però, pur approdando alla forma apodittica dell’esposizione, perché altrimenti non si avrebbe scienza in senso stretto, non si lascia dire quanto al suo metodo esso stesso apodittico. Ora, questa differenza fra l’aspetto zetetico e l’aspetto apodittico di una scienza in qualche modo sembra sciogliersi, annullarsi nella “scienza in atto”, nell’ôpistªmh kat¶ ônörgeian : una volta che i principi sono conquistati e si dà avvio al procedere apodittico attraverso cui si elaborano i contenuti di sapere specifici della scienza a partire dai suoi principi propri, la zªthsij è, appunto, ormai conclusa ed essa non si riaprirebbe se qualcuno chiedesse di argomentare in favore della validità delle premesse, che, indimostrabili, verrebbero semmai saggiate da un argomentare di tipo dialettico. Nel caso della filosofia prima, invece, questa differenza continua a sussistere, o per meglio dire la filosofia prima come scienza non si dà mai senza darsi insieme, ancora come ricerca. In metafisi-

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ca, come scienza dei principi primi, sembra non potersi isolare un livello, un punto, uno stadio a partire dal quale al filosofo primo sia possibile dire che, conclusa la fase della ricerca, egli si avvii a procedere sulla via apodittica. La scienza dei principi primi e la ricerca intorno ai principi primi continuano a differire ed insieme, però, stranamente, a fare corpo unico. Vi è, dunque, sì, come ci dice lo Stagirita, una ôpistªmh che è da considerarsi anapodittica, in quanto scienza di principi primi in senso assoluto, ma essa, pur ponendosi come scienza anapodittica, è tale in quanto è un interrogare intorno ai principi primi. Se così non fosse, che senso avrebbe per il filosofo primo, “dopo” ciò che ha conquistato il fisico, aprire una ricerca intorno a principi che gli sono noti grazie al lavoro del fisico? E d’altra parte non è la stessa ricerca del fisico a postulare dall’interno l’esistenza di una sostanza sovrasensibile che, eccedendo la f⁄sij – e, così, restando fuori dall’interesse tematico del fisico se non per quel margine che la fa rientrare nel suo interesse perché principio del suo oggetto d’indagine (l’ente sensibile in quanto ente mosso che ha in sé il principio di movimento) – apre la possibilità di domandare non più su una singola porzione dell’ente, bensì sull’intero? Vorrei, infine, portare ancora un’argomentazione in favore della lettura di questo altro modo con cui si colgono i principi nel senso della procedura zetetica delle ôpist¡mai e, per questa via, dell’ôpistªmh che ha il grado massimo di esattezza fra tutte. Come è asserito nel passo dell’Etica Nicomachea, e come confermano variamente anche i Secondi Analitici, i cosiddetti dati di fatto, il fatto che una cosa sia, il che è della cosa possono essere considerati in senso lato come principi, ossia come punti di partenza, come ciò da cui prende avvio il processo conoscitivo. La conoscenza che si arresta al fatto che qualcosa sia, però, non restituisce anche la causa del qualcosa e, pertanto, non è una conoscenza esatta63. Infatti, per dire di conoscere questo 63

I dati di fatto sono certamente principi se per principio si intende ciò da cui prende avvio un processo conoscitivo: “Un cercare il che cos’è non avendo il che è, è un non cercare nulla” (An. Post. II, 93a26-27). In questo senso essi, come subito ricordato nell’incipit di An. Post. (cfr. I, 71a12), sono ciò da cui l’uomo inizia a muoversi nel processo conoscitivo e, pertanto, sono necessari. Questi punti di partenza, però, non corrispondono alla nozione di principio come quel che restituisce il perché delle cose. Infatti Aristotele sottolinea che se anche è possibile avere un sillogismo del che è, esso non è un

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Il carattere eidetico della metafisica aristotelica

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tipo di “principi” – i dati di fatto, l’”ti – è sufficiente spesso la sensazione64. Ma il che è non è per Aristotele ¢rcª della conoscenza in senso forte: esso non è la ragione della cosa, non è ciò che si coglie come essenza in virtù della quale, in quanto ragione d’essere della cosa, ci è possibile dire che effettivamente sappiamo cosa la cosa è. Il lavoro di ricerca che fa da preludio al procedere attraverso ¢podeÖxeij in campo epistemico culmina, come ormai detto molte volte, nell’atto noetico che è proprio della facoltà (no‡j) per natura deputata a cogliere i principi che si danno come primi. L’impegno epistemico di chi ricerca si differenzia, quindi, dall’atteggiamento di chi pretende di conoscere solo ricorrendo alla sensazione o fermandosi unicamente a ciò che è dato empiricamente. Inoltre, le realtà stesse che costituiscono l’oggetto d’interesse di chi ricerca impongono strategie euristiche diverse, come ci rivela il riferimento aristotelico all’abitudine. La scienza si lascia configurare sin dall’inizio, come ho cercato di chiarire, in riferimento al percorso che prepara all’acquisizione dei principi e che non è quello dell’organizzazione apodittica delle conoscenze secondo i principi conquistati, bensì quello del lavoro investigativo che va in cerca dei principi da cui poi procede la sistemazione apodittica. Il lavoro euristico che ogni ôpistªmh sottende può allora essere posto come una delle vie che portano a “guardare” i principi, attraverso procedure che, a seconda dei casi, potranno servirsi di logoi di tipo dialettico o di procedure di tipo epagogico. In tal modo, pur condividendo tutte le scienze uno statuto comune rispetto al quale sono tali, ogni ôpistªmh si lascia tratteggiare in modo sillogismo scientifico in quanto non è un sillogismo del perché (cfr. ad es. ibid. I, cap. 13) come sillogismo che è formulato dalla scienza cui spetta la restituzione del perché della cosa. 64 In An. Post. I, 78b34 ss. Aristotele chiarisce, come già evidenziato, che vi sono dei casi in cui vi è un rapporto di subordinazione fra le scienze, ma “coloro che contemplano l’universale (oÉ t’ kaq“lou qewro‡ntej) spesso non sanno alcune delle cose individuali per mancanza di esame (¢nepiskeyÖan)” (ibid., 79a5-6). Ciò significa, in altri termini, che le scienze di grado superiore (o ad es. chi ha scienza rispetto a chi ha solo esperienza) possiedono il perché, ma mancano della conoscenza del che è che è proprio della sensazione. Aristotele porta come esempio il fatto che i medici sanno che le ferite circolari guariscono più lentamente, e conoscono questo dato perché nella loro pratica medica lo costatano. Il geometra, di contro, sa il perché del fatto, ma non si occupa di ferite e quindi non arriva alla regola partendo dall’osservazione delle ferite ma da principi che attengono all’essere curvo.

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Aristotele dopo Heidegger

specifico tanto in riferimento al proprio oggetto d’indagine ed alla sua natura quanto rispetto al proprio metodo di indagine. Ciò, in definitiva, sembra rivelare una nozione di ôpistªmh semanticamente più ampia rispetto a quanto leggiamo nei testi del Corpus; Aristotele sembra, cioè, mettere capo anche ad un significato di scienza come indagine nel suo farsi e non ancora come trattazione sistematica compiuta di tipo argomentativo. Con più esattezza ritengo che si possa indicare nella via zetetica di tipo scientifico teoretico l’ulteriore modalità che predispone l’anima all’intellezione dei principi nella misura in cui il fine stesso dell’apprensione dei principi si lascia caratterizzare come un fine speculativo che non ha di mira né l’azione né la produzione, modi di conoscenza, invece, nei quali è conveniente anche fare uso dell’abitudine65. Per Aristotele esistono difatti scienze di tipo poietico e di tipo pratico, ma nel sottolineare che vi è anche una via altra, che non è quella induttiva, è come se lo Stagirita ci volesse indirizzare o invitare a pensare ad un tipo di conoscenza (un tipo di contemplazione) che, nel suo costituirsi già come ricerca di tipo epistemico, tende quasi ad escludere il criterio del riferimento all’esperienza empirica o, piuttosto, il riferimento a quei modi che portano al principio a partire dai dati meramente sensibili, come ovviamente nella sensazione, ma anche nell’induzione e nell’abitudine. I principi “altri e diversi” che possono essere colti, allora, come principi non immediatamente ricavabili, se così posso dire, dai dati dell’esperienza sensibile o dal “commercio” con il mondo degli enti sensibili, come accade ancora nell’acquisizione degli universali tramite induzione, non sono principi intermedi. Essi sono principi primi, sia che siano assunti come primi in senso assoluto sia che si determi65 Aristotele argomenta più volte sia nei trattati di Etica sia nella Politica in favore del fatto che in campo morale l’abitudine e l’educazione attraverso l’abitudine giovino per l’agire in modo corretto. Anche una parte delle stesse virtù come disposizioni dell’anima che regolano la scelta è, difatti, concepita da Aristotele come un abito che si acquisce attraverso l’abitudine. Si tratta delle virtù etiche che, come è noto, per lo Stagirita sono frutto di educazione, appunto conseguite tramite abitudine a differenza delle virtù dianoetiche che sono per natura, ossia attengono all’essere dell’uomo in quanto animale razionale atto a contemplare la realtà attraverso le due parti dell’anima, quella calcolatrice e quella scientifica.

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Il carattere eidetico della metafisica aristotelica

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nino come quei principi che sono propri degli specifici ambiti presi tematicamente in considerazione dalle singole scienze teoretiche. Nelle scienze teoretiche, in effetti, vi sono delle ôpist¡mai che astraggono dalla materia sensibile come le matematiche e vi è una scienza che ha per tema un oggetto che, come già detto, non sembra mai potersi attingere a partire dall’esperienza sensibile. Aristotele non dice che la nozione di ente in quanto tale si ricava induttivamente, così come per via induttiva si ottengono gli universali come il genere e la specie. La nozione di “ente” non è un universale al modo del genere, quindi non si ricava dal fatto che, osservando una serie di enti che esistono come enti sensibili, nell’anima si genera la nozione di ente come genere cui appartengono tutti gli enti. Aristotele non solo sottolinea espressamente in vario modo nella Metafisica che l’ente non è un gönoj 66, ma per mostrare la necessità che al di sopra della scienza fisica è necessario porre una scienza prima ed altra si serve dell’argomento che se esiste una realtà, un’altra sostanza rispetto alla sensibile, allora lo studio dell’ente in quanto tale non spetta al fisico, ma al filosofo primo. Orbene, di questa sostanza sovrasensibile separata non per astrazione, ma quanto all’essere non si dà esperienza sensibile, sebbene sia l’esistenza di una realtà sensibile eterna a darci, per così dire, la “prova” della sua esistenza67. Si può certamente dire 66 In Met. G, 1003b19-20 Aristotele asserisce che “di ogni genere vi è una sola sensazione ed una scienza”, vale a dire dei vari ambiti dell’ente in senso specifico si occupa una singola indagine in modo particolare. La comunanza eventuale di oggetto e principio fra due scienze si ha o nei casi di subordinazione in cui una scienza è più generale di un’altra o nel caso in cui l’oggetto per entrambe è lo stesso ma sotto rispetti diversi. Così, ad esempio, l’uomo può essere oggetto dell’arte medica o della scienza teoretica che studia il movimento. Ma i principi rispetto al tipo di indagine saranno diversi: al medico spetterà tirare fuori i principi che determinano la salute nell’uomo, al fisico quelli che determinano il suo essere mosso. Sempre nel cap. 2 di questo libro Aristotele tende a parlare della filosofia prima come della scienza che è unica quanto al genere che indaga (mÖa ôpistªmh t˘ gönei). L’uso della parola genere non va inteso nel senso che anche l’ente in quanto tale costituisce un genere. Aristotele sta invece enunciando il criterio della relazione di pertinenza di ogni scienza al suo tema. Semmai, allora, sarebbe la sostanza sovrasensibile a costituire nell’intero dell’ente un genere, ma questa è una relazione che va chiarita perché questa sostanza se è parte del tutto, non può esserne il principio. Dunque, la sostanza sovransensibile come condizione dell’interrogare intorno a principi primi e principio primo essa stessa non si può intendere come un genere, così come si parla del genere degli animali o del genere degli artefatti. 67 In senso proprio l’esistenza della realtà sopralunare non dà nessuna prova che vi

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Aristotele dopo Heidegger

che in quanto principio, questa stessa realtà separata è colta tramite no‡j, ma – ancora una volta – l’intelletto è predisposto, è preparato a quest’atto. La conoscenza del qe“j, o più esattamente del suo essere, è una conoscenza che si serve di elementi dottrinali che l’anima ha noti previamente, attraverso la sua opera d’indagine precedente. Una determinazione quale, ad esempio, quella dell’immaterialità del motore immobile e così del suo essere una pura ônörgeia non è il frutto di un’intuizione immediata, ma procede da una serie di considerazioni che fanno capo a nozioni conquistate anteriormente, quale appunto la conoscenza che i corpi materiali non possono essere motori primi poiché, in quanto materiali, accolgono la potenza del movimento, rinviando così a qualcos’altro da cui si origina il loro muoversi o che è principio del loro muoversi. La diversificazione dei metodi cui allude lo Stagirita nel passo dell’Etica Nicomachea in questione sembra poter concernere, quindi, a mio avviso, i momenti, le vie preliminari che sono sottese alla possibilità di articolare sillogismi dimostrativi. Che lo Stagirita non pensi necessariamente al no‡j quando parla di un altro modo tramite cui i principi si contemplano non mi pare, infatti, del tutto congruente con le altre vie espressamente indicate, ed in particolar modo con l’indicazione dell’induzione e dell’abitudine, se in effetti la sensazione in se stessa fornisce solo dati percettivi che possono restare semplicemente tali nell’anima senza che da essi prenda avvio alcun ulteriore procedimento conoscitivo. Ma, come sostenevo anche in precedenza, non è “equilibrato” porre sullo stesso piano intelletto, sensazione, induzione ed abitudine, nella misura in cui le ultime tre modalità (sensazione, induzione, abitudine), in definitiva, dispongono o acconciano il no‡j a realizzare quell’atto suo proprio con cui “tocca” i principi. Come confermato in vari luoghi nel Corpus, per Aristotele la sola maniera attraverso cui propriamente un principio si lascia cogliere è, appunto, l’apprensione noetica68. Il verbo qewröw che ocsia un motore immobile eterno e separato, se insieme non si assume come criterio che nella ricerca dei principi bisogna arrestarsi ad un principio anapodittico, non ricavabile da altri principi. 68 Considero i passi più espliciti Met. Q, 1051b23 ss., dove il noeãn è il “toccare” l’essenza in quanto principio, e la conclusione del cap. 19 in An. Post. in cui si dichiara

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Il carattere eidetico della metafisica aristotelica

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corre nel passo indica quel modo di “guardare” che è del tutto specifico dell’intelletto: quale che sia il percorso che porta all’apprensione noetica, è sempre questa la modalità propria con cui i principi si afferranno69. I principi si contemplano, cioè sono oggetto di una visione che non è mai, però, paragonabile a quella immediata di tipo sensibile, come quando vediamo tavoli che sono davanti a noi, sebbene sensazione ed intelletto condividano una struttura ontologica in qualche modo identica, essendo entrambi ricettivi e passivi nei confronti di ciò che colgono, così che entrambi possono cogliere o meno la cosa, ma non possono essere nel falso sul suo conto. Per quanto l’apprensione noetica sia una visione diretta, che centra l’oggetto nel suo essere essenziale, essa non è come un’illuminazione inattesa, ma segue sempre un lavoro preparatorio di tipo euristico (e, dunque, è più che attesa da chi ricerca!)70. I principi che si danno espressamente che l’oggetto del no‡j sono i principi e che è solo il no‡j ad accedere ad essi e non la scienza, nella misura in cui questa, che è la disposizione dell’anima razionale che è sempre vera al pari dell’intelletto, ha valenza apodittica mentre i principi sono indimostrabili. 69 Non ritengo si possa interpretare che i principi che si osservano in diverse maniere sono i meri dati di fatto, l’”ti, sebbene subito prima Aristotele affermi che il fatto che una cosa sia, esista è in un certo senso un principio (t’ d'”ti prÓton kaà ¢rcª), in quanto è il punto di partenza della conoscenza scientifica propriamente detta. Le scienze procedono tutte dalla posizione dell’”ti per trovare il di“ti. Il dato di fatto, l’”ti può essere “visto” senz’altro tramite la sensazione, come abbiamo esperienza empirica degli artefatti o degli enti naturali che cadono sotto i nostri sensi; esso può anche essere “visto” per induzione, come possiamo asserire, senza saperne la causa, che ad un certo fenomeno se ne accompagna sempre un altro concludendo che ogni volta che p allora anche q e ponendo ciò come punto di partenza per la ricerca della spiegazione di questo nesso (ad es. che durante un temporale ad ogni lampo seguirà sempre un boato). Il riferimento all’abitudine e l’ulteriore specificazione che altri principi si osservano in altro modo indicano, però, che qui lo Stagirita sta facendo riferimento a ciò che propriamente si intende essere un principio, ossia ciò da cui il fatto è, l’¢rcæ to‡ pr£gmatoj (cfr. Met. D, 1013a23) e non il mero fatto (pr©gma) come ciò da cui parte il lavoro di conoscenza della ricerca scientifica. L’abitudine in questo passo, come spiega Marcello Zanatta, “definisce una forma speciale di esperienza per la quale la conoscenza dei principi della moralità si acquisisce attraverso la pratica e l’esercizio di questa” (Aristotele, Etica Nicomachea, ed it. a c. di M. Zanatta, BUR, Milano 1986, vol. I, p. 410 n. 9). 70 Difatti, a tal proposito, Berti afferma: “[M]i sembra […] che il nous […] non è un’intuizione immediata, cioè una specie di folgorazione gratuita, o dovuta all’abilità del docente, ma è il frutto di un processo che può essere anche lungo e laborioso, cioè di una vera e propria ricerca, anche se tale frutto non è mai assicurato dal processo stesso, cioè non ne è la conclusione necessaria, come lo è la conclusione della dimostrazione

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Aristotele dopo Heidegger

come primi sono indimostrabili, perché altrimenti essi non sarebbero appunto primi, ma questo non significa che sono le prime cose che si apprendono nel processo conoscitivo71. Considerati come l’“oggetto” di un sapere che si ottiene attraverso una contemplazione esercitata dal no‡j e non dalla aásqhsij, i principi sono sempre la cifra di una conquista, di un “premio” che si ottiene alla fine di un percorso che, a seconda dei casi, passa attraverso diverse vie. Se, dunque, è sempre l’atto noetico il momento dell’apprensione, vi sono, scientifica, ma può esserci ed anche non esserci, perché quando si cerca non si è mai sicuri di trovare, e solo alla fine della ricerca si può sapere se si è trovato o non si è trovato ciò che si cercava” (E. Berti, Le ragioni di Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 1516). 71 Tralascio di considerare la ben nota distinzione aristotelica fra ciò che è primo per noi e ciò che è primo per natura. Qui mi interessa sottolineare che la conoscenza del principio è il risultato di un processo di ricerca che è costitutivo della conoscenza epistemica. Osserva John Dudley che “[l]a contemplazione (qewrÖa) in senso stretto significa l’uso del sapere (ôpistªmh) che qualcuno possiede già”, l’“esercizio della ôpistªmh” che è “accompagnato dal riconoscimento (¢nagnwrÖzein ) di principi che sono già noti” (J. Dudley, Dio e contemplazione in Aristotele. Il fondamento metafisico dell’“Etica Nicomachea”, trad. it. di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1999, pp. 92-93). Dudley si riferisce ad un significato “ristretto” della nozione, che contrappone a manq£nein assunto nel significato di apprendere, imparare. In questo senso mostra che la differenza fra manq£nein e qewreãn è la differenza che intercorre fra imparare ed usare la scienza. Se, dunque, la contemplazione del principio segue sempre il processo della ricerca e così dell’apprendimento, in senso stretto scienza si dà solo nel qewreãn, ma Aristotele ritiene che anche il processo di acquisizione di nozioni o conoscenze preparatorie all’individuazione del principio è parte propria del lavoro di una ôpistªmh. È interessante che Dudley sottolinei che la qewrÖa corrisponde ad un riconoscimento di principi già noti. Questo essere noti dei principi indica secondo me, come sottolineavo prima, che colui che coglie i principi in quanto primi ri-conosce il principio nella sua primarietà. Il principio non gli è del tutto nuovo, per così dire, ma ora egli è nelle condizioni, per così dire, di apprezzarne il suo carattere di principio. Questo vale tanto nel caso degli scienziati delle singole scienze particolari quanto nel caso del metafisico. Non si tratta di una “conoscenza ex nihilo” se mi si concede l’espressione. C’è qualcosa del principio primo di cui noi già disponiamo, qualcosa che noi già sappiamo seppure non in senso proprio e non scientificamente, perché si tratta di regole, di ragioni, di enti – ammetto la mia difficoltà a trovare una parola sola più appropriata di altre – che governano il reale. I principi sono nella cosa stessa. Se io voglio sapere chi sono Marco e Giovanni e, dunque, mi muovo in vista del raggiungimento del loro principio d’essere, della loro essenza, non è che quando arrivo al culmine della mia indagine ed affermo che conosco Marco e Giovanni perché so che sono animali razionali, io abbia ottenuto qualcos’altro rispetto a Marco e Giovanni. È questo l’aspetto che, in parte già accennato alla fine del paragrafo precedente, mi porta a parlare di una reduplicazione della domanda sul principio, ma è questo l’aspetto che nel contempo rischia anche di rendere fortemente aporetica la scienza dei principi primi.

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Il carattere eidetico della metafisica aristotelica

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nondimeno, vari modi, varie strade per raggiungerlo. Si tratta, appunto, di una gamma di modalità, al cui interno si situa quella maniera diversa cui allude Aristotele e che potrebbe, appunto, lasciarsi molto plaubisilmente identificare nella procedura zetetica delle scienze teoretiche e, ancor più precisamente, nella procedura zetetica propria della filosofia prima. Se l’altro modo indica o potrebbe indicare il modo specifico dell’essere ricerca intorno ai principi primi della filosofia prima, in questo altro modo che dispone alla conoscenza del principio “altro”, l’apprensione si esercita in un certo senso a prescindere dagli altri modi attraverso cui si guadagna la condizione di accesso ai principi, nella misura in cui l’oggetto di cui si aspira ad attingere il principio non è un ente che cade sotto i nostri sensi (sia che si stia fermi alla definizione della metafisica “più classica” come scienza dell’ente in quanto tale sia che si enfatizzi la natura protologica della metafisica come il domandare del principio il principio). Nella domanda sul principio primo sembra che l’apprensione, grazie alla quale si conquista l’essere primo del principio, si guadagni tutta grazie ad un lavoro proprio dell’intelletto. La questione che si può tirare fuori dalle righe del passo dell’Etica Nicomachea non riguarda, quindi, più il momento in cui si coglie il principio, ma il procedimento o, più propriamente, il lavoro che sta alle spalle dell’atto di intellezione. Rispetto a certi principi – credo di potere concludere – è solo il no‡j che si attiva e lavora per realizzare il compito. Ciò significa che deve esserci un’indagine, una möqodoj che si costituisce in modo diverso dalle altre, un tipo di ricerca, cioè, che si realizza senza far ricorso agli strumenti cui ricorrono quelle che solitamente definiamo “scienze empiriche” o che, nel lessico aristotelico, pur avendo statuto teoretico, in quanto il loro fine è la conoscenza stessa e non la produzione o l’azione, considerano gli enti che esistono come sensibili (astraendo o meno dalla materia come nel caso della matematica)72. Deve trattarsi, in altri termini, di una scienza che costituen72 La questione circa l’esistenza degli enti matematici è alquanto complessa in Aristotele e la affronterò parzialmente più avanti trattando la distinzione fra le scienze di tipo teoretico in Met. E. In merito cfr. comunque i lavori di E. Cattanei, “Il problema dell’oggetto della matematica come sostanza intellegibile nella ‘Metafisica’ di Aristotele”, Rivista di Filosofia neo-scolastica 87 (1995), pp. 191-211, Enti matematici e metafisica,

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Aristotele dopo Heidegger

dosi come qewreãn al pari delle altre scienze che sono tali perché “vedono” principi73, non acquista, però, nessun contenuto specifico dal mondo sensibile nel suo ricercare i principi, nella misura in cui l’oggetto preso di mira da questa ricerca non si configura come un ente sensibile. Aristotele trae la primarietà dei principi della metafisica dal fatto che essi attengono all’ente in quanto tale, quindi all’intero dell’ente e non ad una specifica regione ontologica. Un “oggetto” siffatto non è guadagnato attraverso l’esperienza empirica: dal mondo sensibile ci giungono sensazioni di enti ben determinati e di loro proprietà e di modi d’essere ben precisi. Noi abbiamo esperienza ogni volta di singole sostanze e delle loro proprietà; abbiamo esperienza di questo tavolo qui e del suo essere bianco e non della qualità della bianchezza in sé, che peraltro per Aristotele non è comunque un tipo di ente per sé sussistente come lo è la sostanza, bensì è determinazione che si dà solo nel darsi del sostrato cui inerisce. Eppure c’è una scienza “unica” (mÖa ôpistªmh) di questo strano oggetto, ed essa, nel parco delle scienze per così dire “possibili”, si configura come la scienza altra, ancora da cercare: in altro modo, in modo del tutto proprio e differentemente da ogni altra scienza teoretica, si costituisce come qewreãn che, però, resta sempre zhteãn, un ricercare che mette anche il suo stesso essere sotto la “lente d’ingrandimento” di chi investiga, poiché questa scienza è anch’essa cercata, è essa stessa ciò di cui stiamo andando in cerca, cercando i principi primi 74. Vita e Pensiero, Milano 1996, “Gli enti matematici “per astrazione” secondo Alessandro di Afrodisia e lo Pseudo-Alessandro”, in G. Movia (a c. di), Alessandro di Afrodisia e la “Metafisica” di Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 2003, pp. 255-276 ed il volume A. Graeser (ed./Hrsg.), Mathematics and Metaphysics in Aristotle (Mathematik und Metaphysik bei Aristoteles), Haupt, Bern-Stuttugart 1987. 73 Si potrebbe qui probabilmente dire che si tratta del “senso non stretto” di qewrÖa come “osservazione, indagine, studio” (J. Dudley, op. cit., p. 97) che è quello che ricorre più di frequente nel Corpus. 74 Si tratta a mio avviso della differenziazione fra scienze particolari in quanto “scienze ipotetiche” e metafisica in quanto “assiomatica” di cui discute Juan Sanguineti (cfr. “Science, Metaphysics, Philosophy: In Search of a Distinction”, Acta Philosophica 11 (2002), pp. 69-92) riconducendola alla distinzione fra principi propri e principi comuni. Sanguineti definisce “principi ipotetici” i “principi tipici di ogni scienza particolare” e per “ipotesi” egli ritiene che si possa considerare l’assumere l’oggetto d’indagine

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Il carattere eidetico della metafisica aristotelica

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Tutto ciò non significa, tuttavia, che il metafisico, in quanto colui a cui si riconosce la particolarità di adottare un’osservazione puramente teoretica giacché impegnato a cogliere l’universale (l’ente in quanto ente o il principio primo dell’ente che, dunque, ha valenza universale), non osservi affatto anche gli elementi o le cause attraverso cui abbiamo accesso per via sensibile o di cui ammettiamo l’esistenza perché ne abbiamo esperienza empirica, come la materia. La sua considerazione della materia, però, come si nota in Metafisica Z, H, Q e L è molto formale, nel senso che si indirizza ad evidenziare il tipo di causalità che la materia come principio degli enti sensibili esercita. Il suo scopo primario non è quello di rivolgersi a porzioni del reale esistenti al modo sensibile; l’intero del reale che egli prende di mira non gli è, infatti, dato dalla somma dei singoli ambiti, come se la sua impresa si raccogliesse nel progetto di ordinare in modo organico e sistematico le conoscenze che gli arrivano dalle varie da parte delle scienze particolari per sensazione o per ipotesi. In effetti, Aristotele in Met. E e in Met. K, come ricordavo, individua una caratteristica delle scienze che ritagliano una porzione dell’ente nel fatto di porre l’esistenza del loro oggetto che, dunque, non si premurano di dimostrare attraverso la sensazione o l’ipotesi. In questo caso allora i principi ipotetici non sono il risultato conclusivo, ma perché oggetti di cui si assume come data l’esistenza sono i punti di avvio, ossia ciò di cui si cercano i principi. Ciò che garantisce la veridicità del sapere di queste scienze è il fatto che se l’oggetto è posto come esistente attraverso la sensazione, è la sensazione stessa che si ha della cosa a fornire la prova che essa esiste esternamente a chi indaga su di essa; se invece l’assunzione avviene per via ipotetica come nel caso delle scienze matematiche sarà poi necessario, dice Aristotele, che si proceda ad una delucidazione del tipo di enti di cui si tratta (ossia se immobili perché separati in sé o immobili perché separati attraverso astrazione razionale). La metafisica come scienza assiomatica, invece, si premura di dare conto dell’esistenza dei suoi oggetti, sebbene non possa che ricorrere ad una argomentazione di tipo elenchico, nel caso in cui i principi sono gli assiomi propriamente detti come il principio di non contraddizione, o nonostante sia costretta a ricorrere alla prova che le viene fornita dalla scienza fisica, nel caso si tratti di dimostrare l’esistenza di un ente primo principio di movimento. Il fatto, però, di non potere ricorrere ad una dimostrazione sua propria (quindi a quello che è distintivo delle scienze apodittiche) permette alla metafisica di essere una scienza prima, anapodittica. Il suo principio è indimostrabile, ed il suo essere primo consiste nel fatto che non è possibile costruire un sillogismo apodittico a partire da premesse che sono proprie della metafisica per dimostrarlo. La prova dell’esistenza del motore immobile non è difatti prova specifica della metafisica ma della fisica e il metodo argomentativo per mostrare la validità dei principi comuni è dialettico. La primarietà dei principi della metafisica appare da questo punto di vista risultante da una non disponibilità, da un limite che è della metafisica, piuttosto che dalla costitutizione ontologica per così dire propria del principio che lo determina come primo per sé, “per natura”.

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ontologie regionali. Aristotele ci parla semplicemente di “altri principi che vanno contemplati in modo diverso”, ma se, in conformità a quanto ho cercato di mostrare, questo altro modo viene inteso come il modo a cui ricorre il filosofo primo nel disporsi all’apprensione, in questo altro modo suo proprio egli farà ricorso ad un tipo di lavoro speculativo che impegna il no‡j in una maniera del tutto singolare. I principi primi del filosofo primo, per la cui indagine si impegna la stessa parte razionale scientifica che si impegna anche nella ricerca dei principi propri delle singole scienze, hanno uno statuto tale che la sola induzione non basta. Il principio primo, l’essere primo del principio, non è guadagnato partendo dai singoli principi propri. Esso è guadagnato come da se stesso, a partire in qualche modo da sé. Vi è, in altri termini, come un darsi del principio che è in quanto principio primo, nel quale si dispiega una sorta di riflessione di secondo grado, una “meta-riflessione”, piuttosto una “metaindagine” se così posso esprimermi. A differenza di quel che accade per le scienze il cui oggetto è attinto dal mondo di cui si ha osservazione empirica (si ha esperienza sensibile dell’ente mosso come dell’ente artefatto), il metafisico non può che adottare, nel suo interrogare sul principio, nel suo girargli intorno assediandolo, una procedura esclusivamente speculativa, ossia tale che, al modo kantiano, potrebbe ben definirsi “pura”. E così, infatti, conclude Aristotele il passo: Si deve tentare di studiare (metiönai) ciascun principio per quel che è per natura (Œ pef⁄kasin) e ci si deve adoperare quanto più possibile per determinare (diorisqÓsi) ognuno in modo conveniente 75.

Ogni principio va definito in conformità a ciò che esso è, applicando metodi diversi di trattazione nei differenti casi. I principi primi intorno a cui ricerca il metafisico non solo, allora, devono essere determinati nella loro peculiarità, nel loro tratto essenziale, in ciò che essi per sé sono; si deve altresì adottare una specifica considerazione, applicando il modo di indagine e scegliendo il mezzo che è loro più adeguato. In metafisica, quindi, l’apprensione dei principi primi deve consentire di “restituire” nella comprensione ciò che è proprio 75

Et. Nic. I, 1098b4-6.

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Il carattere eidetico della metafisica aristotelica

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del principio che si dice primo. È questo, in definitiva, a far differenza rispetto a ciò che si dice primo secondo il modo in cui lo dicono le scienze che indagano rispetto ad una singola porzione dell’ente.

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Scienza, intelletto e sapienza

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IV SCIENZA, INTELLETTO E SAPIENZA: IMMAGINI HEIDEGGERIANE IN CONTROLUCE

1. Il sapere epistemico Dal quadro d’insieme che ho delineato nel precedente capitolo emerge una difficoltà di tipo definitorio attinente alla metafisica, il cui chiarimento può essere utile per tentare di cogliere in modo ancora più preciso il significato protologico della filosofia prima a partire dal quale si apre un modo di interrogare strutturalmente onto-teologico. Si tratta di cercare di guadagnare un’articolazione più chiara della relazione fra il tratto protologico originario della metafisica aristotelica e la sua costituzione onto-teologica. Si tratta, in altri termini, di conquistare nuovamente il passaggio dalla protologia all’onto-teologia per quella ricerca speculativa che primariamente ottiene il suo spazio d’apertura nell’ambito delle scienze teoretiche a partire dalla sua determinazione in chiave protologica. La difficoltà su cui a mio avviso ci si imbatte, tenendo ferme le indicazioni aristoteliche circa l’ôpistªmh discusse precedentemente, è dunque la seguente: la metafisica può essere definita in senso proprio scienza, ôpistªmh? Aristotele, come ricordavo, non dà in effetti un nome proprio alla “scienza di cui andiamo in cerca (ôpizhtoumönh ôpistªmh)”, a meno di non volere considerare l’espressione prËth filosofÖa alla stregua di un nome proprio. La parola che, però, egli usa più frequentemente

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Aristotele dopo Heidegger

quando si trova a discutere della metafisica è ôpistªmh. Un ulteriore passo all’interno della teoria aristotelica della scienza può aiutarci a portare meglio ad espressione qual è il senso della difficoltà che scaturisce dalla determinazione della metafisica come protologia, come scienza dei principi primi, e quale potrebbe essere la via della soluzione. Uno degli aspetti che Aristotele considera determinante nell’individuazione di ciò che si dà come primo è il fatto che ciò che è primo deve essere tale in senso forte, ossia non deve rinviare ad altro alle sue spalle secondo tre rispetti: 1) né dal punto di vista del concetto – non deve derivare da altre nozioni, 2) né dal punto di vista conoscitivo – deve essere ciò a partire da cui si conoscono le altre cose che da esso conseguono, ma esso non può conseguire sul piano della conoscenza da altro, sebbene sia l’ultimo ad essere conquistato nel processo di conoscenza, 3) né dal punto di vista temporale – deve darsi prima nell’ordine della successione temporale rispetto al resto che da esso consegue1. Tradotto in termini gnoseologici, ciò equivale a porre la condizione, apparentemente evidente, che un principio per dirsi primo non deve rinviare o derivare da altro principio e non deve richiedere dimostrazione. Se qualcosa è dimostrabile allora non è primo. Conoscere in senso assoluto significa, quindi, conoscere della materia indagata i principi primi che devono essere anipotetici. Si tratta delle condizioni dell’ôpistªmh che Aristotele tratteggia lungo tutto il corso dei Secondi Analitici. Nel trattato fra le prime condizioni poste vi è quella che dichiara in quale senso una conoscenza si deve considerare assoluta e propria: “Se non è possibile conoscere le cose prime (t¶ prÓta), non è possibile conoscere né in senso assoluto né in senso proprio le cose che da queste derivano (t¶ ôk to⁄twn)” 2. Subito dopo Aristotele prospetta la nozione di conoscenza epistemica che corrisponde alla nozione di una scienza di tipo apodittico, cioè atta a dimostrare a partire da 1 Cfr. Met. Z, 1028a31 ss.: “Il primo si dice in molti modi”, ma ciò che è veramente primo deve potersi dire tale secondo la nozione, la conoscenza ed il tempo. La sostanza è ad es. considerata in Met. Z un prÓton proprio perché soddisfa tutte e tre le condizioni. 2 An. Post. I, 72b13-14.

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Scienza, intelletto e sapienza

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principi. Come lo Stagirita spesso spiega, i percorsi d’indagine di una scienza risultano indispensabili per il suo costituirsi come scienza. Quando egli pone il carattere dell’ôpistªmh nella sua attitudine dimostrativa, sottolineando che la caratteristica essenziale, peculiare della scienza non è nel percorso di ricerca, ma nella sistemazione dei risultati conquistati in una formulazione argomentativa di tipo apodittico, egli non sta facendo altro che illustrare la differenza che intercorre fra “ricerca” e “scienza”. Se non si arriva a principi a partire da cui si costruiscono dimostrazioni, non si può parlare di scienza. Nello stesso tempo, però, Aristotele sa di non potere sottovalutare il fatto che il percorso di ricerca è parte integrante della scienza, tanto da asserire, come appunto abbiamo visto, che la ricerca del principio segue percorsi diversi a seconda del tipo di principio che si deve raggiungere. Colui che si adopera nello studio dei principi dell’azione morale non seguirà la stessa procedura di colui che, invece, deve conseguire i principi primi che attengono all’intero dell’ente. L’ôpistªmh di volta in volta specifica costituisce, dunque, un’unità con la sua möqodoj ed in un certo senso il metodo, il modo di condurre la ricerca, appare non soltanto come la via propria di ogni scienza verso la conquista del suo sapere specifico, ma come lo stesso percorso giustificativo con cui una ôpistªmh si pone in quanto quella determinata scienza3. 3 Il fatto, ormai largamente evidenziato negli studi aristotelici, che il metodo di ricerca della metafisica sembra configurarsi spesso come metodo dialettico dice, in effetti, qualcosa di illuminante circa la natura della metafisica: la metafisica ha carattere anapodittico e ciò è mostrato dal fatto che essa non può dimostrare i principi di cui si avvale. Su di essi argomenta, ma la sua non è argomentazione apodittica, bensì dialettica. Inoltre, sembra spesso che lo Stagirita appronti una molteplicità di strade a seconda dei diversi temi su cui l’indagine metafisica si imbatte. In Met. G si avvale, ad es., di un’argomentazione di tipo elenchico per mostrare la validità dei principi comuni. Quando, invece, discute i principi della sostanza adotta un metodo che sembra assumere un tono apodittico perché determinate conoscenze sui principi della sostanza sensibile sono già state fornite dall’indagine della natura e, quindi, esse sono assunte come dati certi. Quando discute la necessità di porre quattro cause per ottenere una conoscenza esaustiva del reale, si serve di una metodologia ancora diversa, dossografica o di tipo storiografico diremmo oggi, passando attraverso l’analisi delle posizioni dei suoi predecessori. Quando poi tratta del qe“j come primo principio di movimento e discute la teoria della molteplicità dei motori fa uso di osservazioni tratte dalla matematica e dall’astronomia e dunque utilizza una procedura ancora differente. Non si può pertanto considerare affatto secon-

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Aristotele dopo Heidegger

In linea generale si può dire che a nessuno “scienziato” basta procedere al modo degli empirici per dire di avere una conoscenza forte del proprio oggetto, come Aristotele ci fa capire, ad esempio, nel I capitolo di Metafisica A distinguendo la ômpeirÖa dalle forme di sapere di tipo epistemico. Rispetto alla natura del proprio oggetto ogni ôpistªmh, però, si comporta diversamente. All’inizio dei Topici lo Stagirita connette strettamente il metodo con la necessità del sapere argomentare (sullogÖzesqai)4 e nel II libro della Metafisica asserisce che ogni scienza si costituisce in conformità al modo (tr“poj) che le è proprio, così che il tr“poj della matematica non si può considerare appropriato per la scienza fisica5. Vi è, quindi, una specificità del dario il fatto che per illustrare il tipo di scienza di cui la sua trattazione (la Metafisica o, per meglio dire, il suo corso di lezioni) si occupa, Aristotele discute in Met. B una serie di aporie che hanno anche una valenza metodologica ad un doppio livello: da un lato queste aporie fungono da strumento di accesso alla comprensione della filosofia prima; dall’altro lato in queste aporie, che sembrano riguardare in buona parte l’oggetto di cui si deve occupare la metafisica, si enucleano anche principi di metodo, giacché si discutono i modi convenienti per trattare l’oggetto d’indagine. In questo senso, anzi, come sottolineano Michel Crubellier e André Lask il procedere per aporie si configura come una vera e propria metodologia, come una “pratica ben regolata (well-regulated practice)” individuabile da tre caratteristiche principali: 1) dal presentare in risposta ad una questione due tesi che si escludono vicendevolmente perché contraddittorie, 2) dallo sviluppare due argomenti o due serie di argomenti adoperati per confutare ciascuna delle due tesi, 3) dal non fornire da parte di Aristotele nessuna indicazione circa la sua posizione in favore di una o dell’altra tesi (cfr. Aristotle: Metaphysics Beta, ed. by M. Crubellier, A. Lask, Oxford U.P., Oxford-New York 2009, pp. 3-13, § “Aporia as a dialectical instrument”). Ancora un’indicazione preziosa in direzione della questione della relazione che intercorre fra metodo d’indagine e scienza corrispettiva è fornita dalla tesi di Terence Irwin circa la modalità di applicazione del metodo dialettico in metafisica. Irwin definisce la dialettica messa in campo dal metafisico “dialettica forte”, perché essa non assume indiscriminatamente gli úndoxa, ma opera una cernita prendendo in considerazione come premesse dell’argomentazione solo le opinioni comuni ritenute per “buone ragioni” più rilevanti delle altre ai fini della trattazione: “La dialettica forte ci chiede di assumere solo quelle premesse che possono essere condivise sulla base di buone ragioni, a prescindere dal loro essere oggetto di opinioni comuni” (T. Irwin, I principi primi di Aristotele, trad. it. di A. Giordani, Vita e Pensiero, Milano 1996, p. 578). 4 Cfr. Top. I, 100a19 ss. 5 Cfr. Met. a, 995a12-14: “È necessario pertanto essere istruiti su come ogni debba essere compresa (¢podektöon), poiché è insulso cercare nello stesso tempo la scienza ed il modo della scienza”. Si tratta di un’affermazione perfettamente in linea con quanto asserito nel passo dell’Etica Nicomachea su cui ho lavorato all’inizio del III capitolo. Il modo della scienza fa tutt’uno con la scienza, perché solo se questo modo è adeguato a condurre chi indaga fino al coglimento dei principi la scienza può compiersi

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Scienza, intelletto e sapienza

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metodo che è in stretta relazione all’oggetto che ogni scienza prende di mira6. La distinzione introdotta nei Secondi Analitici fra scienze apodittiche ed anapodittiche appare basata proprio su una differenza di metodo. Dicendo scienza il sapere mediante dimostrazione (di' ¢podeÖxewj eÑdönai)7, l’¢p“deixij si prospetta come il modo della scienza in quanto scire per causas. Tuttavia, per lo Stagirita non tutte le scienze sono apodittiche: “Quanto a noi, asseriamo che non ogni scienza è apodittica, bensì la scienza delle cose che sono immediate è anapodittica” 8. Per cose immediate sono qui intesi i principi primi: anapodittico è il principio che non rinvia ad altro principio, che non può essere ulteriormente dimostrato9. Anapodittico, dunque, è il principio che in senso assoluto può dirsi primo. Da qui consegue che la scienza di questo principio può a propria volta dirsi anapodittica10. Ma la distinzione fra scienze apodittiche e scienze anapodittiche non è scevra da problemi, così come problematica è la distinzione aristotelica fra scienza ed intelletto e, quindi, la caratterizzazione della filosofia prima come ôpistªmh. Sotto un certo rispetto, in senso lato potremmo dire, ogni scienza pienamente come tale. Per questo Aristotele identifica ogni scienza con il suo tr“poj specifico e considera inappropriato condurre due ricognizioni separate sulla scienza e sul suo modo. 6 Ogni scienza ha un carattere di generalità perché carattere generale hanno i principi. Tuttavia non vi è una sola procedura che porti al cospetto dell’universale, quanto meno se si guarda ai differenti fini delle indagini (teoretiche, pratiche, poietiche) e al tipo di realtà preso in esame. La generalità dell’oggetto della metafisica, perciò, è diversa da quella dell’oggetto della scienza fisica così che diverse sono le strade a partire da cui le loro ricerche prendono l’avvio. La generalità dei principi della metafisica si apprezza, cioè, per mezzo di una procedura in cui i principi arrivano ad essere focalizzati diversamente da quanto faccia il fisico, pur muovendosi sia il filosofo primo sia il fisico in certi casi in una zona di intersezione comune fra le loro due scienze. Per Ian Bell, ad es., il fatto che la metafisica abbia una natura universale va considerato un indizio circa il tipo di metodo attraverso cui la metafisica si costituisce come scienza. (cfr. I. Bell, Metaphysics as an Aristotelian Science, Academia Verlag, Sankt Augustin 2004, cap. 2). 7 Cfr. An. Post. I, 71b17. 8 Ibid., 72b18-20. 9 Cfr. ibid., 71b26-28. 10 Anapodittica risulta essere senz’altro la scienza dei principi della dimostrazione, degli assiomi comuni a tutte le scienze in quanto condizioni necessarie per apprendere qualsiasi altra cosa (cfr. Met. G, 1005b15 s.). Da Met. G, 1005a33-b1 si ricava espressamente che la scienza dei principi della dimostrazione è per Aristotele la metafisica.

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è essenzialmente conoscenza di principi ed ognuna sembra avere una valenza anapodittica, se è osservata dall’interno della regione ontologica di cui tratta. Ogni scienza individua principi che sono primi rispetto alla parte di ente indagata (principi propri). Essi sono sufficienti per il costituirsi della scienza corrispettiva di quel determinato ambito o oggetto11. Ciò significa, tuttavia, che esula dalla ricerca di una tale scienza la considerazione dei principi comuni che stanno a fondamento di ogni ôpistªmh. Questo aspetto, pertanto, fa di ogni singola scienza, in certo senso, un sistema chiuso. Dal punto di vista del fusik“j, ad esempio, non ha alcuna importanza che oltre la scienza fisica si apra la possibilità di un’ulteriore scienza quale la metafisica. Per il fisico ciò che ha valore di úscaton sono i principi che egli riesce a conquistare per la conoscenza dell’ente mosso; le condizioni alle quali per lui è possibile argomentare – quindi il fatto che nelle sue dimostrazioni egli si serva non solo dei principi propri della sua scienza ma anche dei principi comuni, degli assiomi – sono date per scontate. Ciò che a lui è richiesto è il rispetto di queste regole generali – i principi comuni – al fine di assicurarsi la correttezza della dimostrazione, ma esulano dal suo compito la considerazione e l’eventuale legittimazione di tali regole. Dal punto di vista di chi è al di sopra del fisico, invece, la scienza fisica appare ristretta entro il limite costituito dalla specificità dell’oggetto preso a tema, ragione per cui i principi della scienza fisica non possono essere mai assunti come principi anche per le altre scienze, a meno che non vi sia condivisione di oggetto12. Si potrebbe dire che la metafisica è in senso forte anapodittica giacché non si occupa che di principi, ma di principi che sono primi in senso assoluto in quanto riguardano l’intero dell’ente13. Questa è la spiegazione che la teoria aristotelica sembra 11 Infatti in An. Post. I, 71b26 s. Aristotele asserisce che la dimostrazione deve procedere “da cose prime anapodittiche (ôk prËtwn d'¢napodeÖktwn)”. 12 È appunto il caso di quella porzione d’indagine che risulta comune al fisico ed al metafisico e che verte intorno alla sostanza sensibile. Nondimeno gli stessi principi sono messi in campo dai due “teoreti” in modo diverso, perché diversa è la finalità della loro indagine, rappresentata dallo scopo di conoscere rispettivamente l’ambito del f⁄sei ‘n e l’intero dell’ente. 13 Ciò che appare problematico nella determinazione della metafisica come scienza anapodittica è che sull’esistenza del qe“j, principio primo dal punto di vista ontologico,

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Scienza, intelletto e sapienza

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fornire in prima battuta. Da questo punto di vista lo statuto anapodittico della metafisica discende dalla natura dell’oggetto cui essa, precisamente in quanto ôpistªmh, si riferisce e in ragione del quale trova giustificazione, giacché come scienza protologica questa parte della filosofia è prËth, prima rispetto a tutte le altre. Ciò, però, non vuole dire che ipso facto la scienza protologica nel suo statuto epistemico cessi di far problema. Difatti è proprio questa definizione della metafisica come scienza dei principi primi che dà origine alla difficoltà di determinare il qewreãn del filosofo primo in senso stretto come scienza, ossia come sapere dimostrativo di ciò che in esso si conosce. L’indicazione dei Secondi Analitici circa la scienza anapodittica, se si riferisce alla metafisica, assunta come scienza che si occupa esclusivamente dei principi, non chiude affatto la questione dello statuto epistemico della filosofia prima. Essa anzi mette in evidenza la difficoltà di afferrare la natura epistemica della metafisica in quanto protologia, se i principi intorno ai quali essa verte, proprio perché primi, escludono per questo la possibilità di una dimostrazione di essi. In altri termini, se l’oggetto sono i principi primi, la metafisica si trova, al cospetto di essi, nella singolare condizione di non potere trovare altri principi ontologici, altre realtà a monte da cui poterli dedurre. È vero che una ôpistªmh non dimostra mai il proprio oggetto: essa lo assume non per dimostrarne l’esistenza, ma per conoscerne l’essenza. Essa ha, tuttavia, rispetto all’oggetto un valore dimostrativo nella misura in cui è anche scienza dei principi da cui si genera la cosa e che sono proprio i principi (le premesse) da cui procede l’¢p“deixij . In quanto riferita ai principi, ai propri principi, e così alle definizioni che fungono da premesse del sillogismo come logoi che dicono l’essenza della cosa, la scienza ha rispetto ad essi un rapporto è necessario argomentare partendo da premesse (ad esempio: esistono enti mossi; tutto ciò che si muove ha un principio di movimento) nel rispetto della condizione epistemica che impone di non andare all’infinito nella ricerca delle cause. Del resto, sotto un certo preciso rispetto, anche la metafisica ha natura apodittica: a partire dai principi primi essa ordina il suo sapere in una forma argomentativa di tipo dimostrativo come mostrano, ad es., la teoria della sostanza sensibile in quanto sostanza soggetta a mutamento esposta fra il VII e l’VIII libro della Metafisica, che consegue dall’individuazione dei tre principi primi della sostanza, ossia materia, forma e privazione e la stessa trattazione di questi principi come principi la cui identità si dà solo in modo analogico.

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anapodittico, appunto perché questi principi essendo primi della regione ontologica non possono essere dimostrati dalla corrispettiva ôpistªmh che indaga quella regione. Ne consegue, allora, che ogni scienza è tanto apodittica quanto anapodittica. Quando Aristotele sostiene che vi possa essere una scienza delle cause e dei principi primi, che in senso stretto sono, per così dire, il “campo di azione” solo dell’intelletto – poiché solo l’intelletto accede nell’apprensione ai principi –, è come se ci volesse suggerire, a mio avviso, che questo campo d’azione può essere investigato e reso oggetto di indagine tramite una ricerca che ha carattere epistemico. Ma allora anche la metafisica intesse con il suo oggetto – i principi e le cause prime – lo stesso rapporto che ogni altra singola scienza ha con il suo proprio oggetto. Come ogni altra scienza, in definitiva, anche la metafisica è per un verso anapodittica e per un altro verso apodittica. Se questo da un lato può essere soddisfacente per la comprensione della caratura epistemica della filosofia prima, dall’altro lato, certamente, non chiude affatto la questione di comprendere come sia possibile che si dia un siffatto sapere, il cui oggetto – i principi primi – al quale questo sapere si rapporta in modo apodittico è il medesimo al quale esso nel contempo si rapporta in modo anapodittico. Nel VI libro dell’Etica Nicomachea Aristotele distingue, in modo a mio avviso forse troppo rigido, ôpistªmh e no‡j. L’indicazione è testuale e non la si può ignorare, anche perché corrisponde per intero alla stessa distinzione posta nel capitolo 19 del II libro dei Secondi Analitici e, perché, proprio nel caso di una scienza come la sofÖa, i due termini di distinzione (scienza ed intelletto) non possono essere separati, come vedremo, in modo netto. Il II capitolo del VI libro dell’Etica Nicomachea si apre con l’affermazione che “nell’anima sono tre gli elementi propri (t¶ k⁄ria) dell’azione e della verità, sensazione, intelletto, desiderio”14. Ossia ciò che nell’anima – come forma che è propria del vivente, quindi come ciò che è decisivo considerare nella comprensione dell’essere del vivente – determina l’agire dell’uomo o la sua conoscenza come conoscenza del vero (assunto qui nel senso generico e usuale del conosce14

Et. Nic. VI, 1139a17-18.

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Scienza, intelletto e sapienza

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re le cose così come stanno) sono la parte sensibile, la parte intellettuale e la parte appetitiva15. Aristotele può tralasciare di dire che sensazione, intelletto e desiderio sono anche principi della töcnh, perché in effetti il sapere destinato alla produzione si può configurare, per un verso, come una ôpistªmh e così come “conoscenza del vero”16 e, per un altro verso, come strutturalmente analogo alla pr©xij, nella misura in cui si tratta di ambiti in cui il principio dell’artefatto o dell’azione è altro dall’artefatto e dall’azione, ed è appunto l’uomo17. Il capitolo procede attraverso la descrizione di come si generi la possibilità dell’azione retta e si conclude con l’affermazione che “la verità è il compito (t’ úrgon) di entrambe le due parti intellettive” che compongono la porzione razionale dell’anima (la porzione “che possiede ragione”, t’ l“gon úcon möroj), determinate nel I capitolo come “t’ ôpisthmonik’n möroj” (la parte scientifica) e “t’ logistik’n möroj” (la parte calcolatrice). La parte scientifica è la porzione specifica della facoltà razionale deputata alla contemplazione dei principi necessari (e dunque delle realtà che conseguono necessariamente da essi), mentre la parte calcolatrice è la parte dell’anima razionale che considera quelle realtà i cui principi possono essere diversamente o, 15 Dal De an. sappiamo che l’anima presiede all’attività di funzioni che sono possibili grazie agli organi del corpo (cfr. I, 413a4 ss.), così la parte dell’anima che presiede all’atto della sensazione è ad es. strettamente connessa alla funzione degli organi di senso (occhi, mani etc.). Nel vivente uomo l’anima costa di cinque facoltà (dun£meij): nutritiva, sensitiva, appetitiva, locomotoria e razionale (cfr. II, 414a29 ss.). Non vi è un’esatta corrispondenza in realtà fra facoltà ed organi relativi all’esplicazione di quella facoltà; ad esempio il desiderio si esprime sia come desiderio avvertito tramite organi di senso, come negli animali, sia come desiderio a carico dell’intelletto, organo proprio della facoltà razionale, come negli uomini. Che nel passo di Et. Nic. citato non compaiono la d⁄namij qreptikª e la d⁄namij kinhtikª si potrebbe spiegare con il fatto che entrambe si esplicitano come atti che il vivente realizza attraverso la mediazione del desiderio. Io mi muovo, ad esempio, al fine di raggiungere qualcosa, dunque in vista di qualcosa che desidero. 16 Cfr. l’esposizione aristotelica sulla nozione di töcnh ad es. in Met. A, 981a4 ss. e in Et. Nic. VI, cap. 4, dove l’arte è definita õxij met¶ l“gou ¢lhqo‡j (disposizione mediante ragionamento vero). 17 Si tratta della nota distinzione aristotelica fra scienza fisica, scienze poietiche e scienze pratiche come scienze che studiano “realtà mosse” e che si differenziano per la relazione fra il principio del movimento e il mosso che sussiste in ognuno dei tre ambiti della realtà mossa (cfr. ad es. Met. E, 1025b21-24 ed Et. Nic. VI, cap. 4 per la distinzione più specifica fra töcnh e pr©xij).

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potremmo anche dire forse non impropriamente, quelle realtà che non sono determinate in modo necessario sempre dai medesimi principi18. Il perseguimento della verità, dunque, non è considerato obiettivo solo della parte razionale con cui cogliamo le realtà necessarie, ma è condizione anche dell’agire giusto, in cui la scelta e la deliberazione hanno un ruolo determinante perché è lì che si dà la possibilità del discrimine rispettivamente dei fini e dei mezzi dell’azione. Aristotele potrebbe a questo punto anche fermarsi qui, destinando ad altre indagini la specificazione dei modi attraverso cui l’anima secondo il suo proprio conosce. L’oggetto specifico della trattazione è, infatti, la delucidazione di come l’uomo agisca in modo retto e, in ultima analisi, basterebbe rifarsi ai criteri di gnoseologia illustrati in sede di indagine sulle condizioni del conoscere e mostrare ciò che attiene specificamente all’operare dell’uomo saggio, quanto meno per quel che riguarda quei modi che convengono alla parte razionale calcolatrice19. Invece, quel che segue è probabilmente all’interno del Corpus uno dei luoghi più ricchi di indicazioni in merito al tema dell’¢lhqe⁄ein dell’anima umana.

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“È stato detto dunque in precedenza che le parti dell’anima sono due, la parte razionale e la parte irrazionale. Bisogna ora definire nello stesso modo la parte razionale. Si stabilisca che due sono le parti razionali, una con cui contempliamo quegli enti i cui principi non possono essere diversamente, l’altra attraverso cui contempliamo gli enti che possono essere diversamente. Infatti in conformità a quegli enti che sono diversi per genere è diversa per genere la parte dell’anima che è fatta per natura per ciascuno dei due ‹tipi di› ente, se veramente vi è conoscenza di queste cose per una certa somiglianza ed affinità. Di queste due parti chiamiamo l’una la scientifica e l’altra la calcolatrice: infatti il deliberare ed il calcolare sono lo stesso, nessuno delibera su quelle cose che non possono essere diversamente” (Et. Nic. VI, 1139a3-14). 19 Ad es. in An. Post. I, cap. 33 è proprio questo che fa Aristotele. Egli si limita a considerare solo la distinzione fra ôpistªmh e d“xa chiarendo in che senso è impossibile che di uno stesso oggetto un individuo abbia sia scienza sia opinione, rimandando ad altre ricerche la questione di come si differenzino fra loro i vari modi attraverso cui in definitiva conosciamo: “Delle restanti cose, come si debba distinguere nel caso del pensiero (dianoÖaj), dell’intelletto (no‡), della scienza, dell’arte, della saggezza e della sapienza, alcune convengono maggiormente all’indagine fisica (fusik¡j qewrÖaj), altre all’indagine etica (h'qik¡j qewrÖaj)” (ibid., 89b7-9).

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2. 'Epistªmh e l“goj Aristotele non sembra ancora del tutto soddisfatto delle conclusioni cui perviene e che leggiamo alla fine del secondo capitolo e ritiene opportuno invitare piuttosto a riprendere dall’inizio la trattazione. A questo punto la questione centrale diviene a tutto campo come l’anima per natura abbia la disposizione, la capacità di cogliere i principi, sia che si tratti dei principi direttivi dell’agire sia che si tratti di quelli che regolano la produzione o che formano il conoscere di tipo teoretico: Avendo dunque cominciato dal principio, parliamo nuovamente delle parti razionali; siano cinque di numero le maniere attraverso cui l’anima scopre il vero affermando o negando: esse sono arte, scienza, saggezza, sapienza, intelletto20.

In ognuna di queste disposizioni la scoperta del vero si lega alla condizione dell’affermare o del negare. Si tratta comunque di coglie20 Ibid., 1139b14-17. Conviene riportare anche il testo greco: 'Arx£menoi o‚n •nwqen perà aŸtÓn p£lin lögwmen. ústw dæ oåj ¢lhqe⁄ei h` yucæ t˘ kataf£nai ¿ ¢pof£nai, pönte t’n ¢riqm“n: ta‡ta d'ôstà töcnh ôpistªmh fr“nhsij sofÖa no‡j . Traduco perà aŸtÓn riferendo il genitivo neutro a tÓn nohtikÓn morÖwn, perché mi sembra più congruente con

l’invito di Aristotele a parlare di nuovo della parte razionale dell’anima che, tanto come parte calcolatrice quanto come parte scientifica, prende di mira la verità, ossia i principi. Diventa subito chiaro dal contesto comunque che queste cinque modalità sono le disposizioni, le õxeij . Desidero, inoltre, far notare l’importanza che per Heidegger hanno questi capitoli (capp. 2-6) alla cui doviziosa analisi egli dedica una parte della Vorlesung del 1924/25, raccogliendo l’invito aristotelico a comprendere i modi con cui l’anima svela il mondo, conformemente all’interpretazione in chiave fenomenologica dell’¢lªqeia (cui dedica massima attenzione nel corso del semestre invernale successivo Logica. Il problema della verità) e dell’¢lhqe⁄ein, vocabolo che Heidegger sceglie, per lo meno in questo corso, di non tradurre in tedesco (Cfr. GA 19, p. 17: “Nella misura in cui per i Greci l’aprire [das Erschließen] ed il conoscere hanno per scopo la ¢lªqeia, per loro aprire e conoscere significano ¢lhqe⁄ein in conformità a ciò che li realizza, l’¢lªqeia. Non vogliamo tradurre”), pur spiegandone il significato come modo d’essere dell’uomo: essere dell’uomo è “essere svelante (aufdeckendsein), togliere il mondo dalla chiusura e dal nascondimento. E ciò è un modo d’essere dell’esistenza umana” (ibidem). Secondo la sua concezione della verità che dagli anni Venti segna tutto il Denkweg, Heidegger afferma, infatti, che “la verità è dunque precisamente un carattere dell’ente, nella misura in cui esso accade, ma in senso autentico è una determinazione d’essere della stessa esistenza umana” (ibid., p. 23). Attraverso un’opportuna resa in termini fenomenologici del cap. 2 di Et. Nic. VI, Heidegger chiama anzi a sostegno della sua tesi sulla verità proprio Aristotele.

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re il vero attraverso affermazioni o negazioni. Ciò significa che il contenuto di verità che viene acquisito è esprimibile in forma di proposizione, di logos. Affermazione e negazione sono, infatti, anzitutto atteggiamenti interiori: esse sono nella di£noia – se invertiamo il senso della proporzione posta da Aristotele all’inizio del secondo capitolo – quello stesso che il perseguire ed il fuggire sono nella ‘rexij 21. Tuttavia, esse possono essere prese come simboli dei paqªmata dell’anima, come ci dice Aristotele alla fine del De interpretatione 22. Anche senza entrare nel merito della complessa nozione di simbolo posto in gioco in questo testo, credo si colga ugualmente il peso di questa implicazione quando Aristotele discute, come in questo passaggio dell’Etica Nicomachea, sulla parte dell’anima che “possiede logos”. Kat£fasij ed ¢p“fasij sono, in genere, i modi di articolazione simbolica del discorso umano. Qui si tratta, però, della disposizione ad essere nel vero (¢lhqe⁄ein) ed il discorso umano che, in base a questa articolazione, giunge a cogliere il vero è aristotelicamente il discorso apofantico, ossia quello in cui è possibile tanto essere nel vero quanto essere nel falso23. È innegabile, quindi, che in ciascuna delle cinque forme in cui per Aristotele la possibilità d’essere nel vero compete alla parte razionale dell’anima, la disposizione a cogliere la verità si lasci comunque apprezzare nel disporre di questa verità in chiave proposizionale secondo la forma del l“goj ¢pofantik“j. La specificazione non è superflua, anzi contiene un’informazione fondamentale della teoria aristotelica sulla conoscenza. Essa suona, cioè, come la proposta di considerare che, in definitiva, ciò che l’anima apprende e coglie come vero, anche quando si tratti di principi, di “•mesa ” che in se stessi possono solo essere colti o mancati e, quindi, ignorati, si mostrerà sempre in un giudizio, ossia sotto la forma di una proposizione suscettibile di essere vera o falsa. Le stesse 21

Cfr. Et. Nic. VI, 1139a21-22: “ústi d'”per ôn dianoÖv kat£fasij kaà ¢p“fasij,

to‡t'ôn –röxei dÖwxij kaà fugª”. 22 Cfr. De int. 24b1-2: “Le affermazioni e le negazioni che sono nella voce sono simboli (s⁄mbola) delle cose [scil. le affezioni] che sono nell’anima (tÓn ôn tÕ yucÕ)”. Il passo richiama proprio ciò che si afferma all’inizio dello stesso scritto: “Le cose che sono nella voce [scil. i suoni] sono simboli delle affezioni (paqhm£twn) che sono nell’anima” (ibid., 16a3-4). 23 Cfr. ibid., 16b35-17a4.

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argomentazioni che si elaboreranno come patrimonio di conoscenze disponibili – cosa quanto mai evidente nel caso delle dimostrazioni che per Aristotele rappresentano il patrimonio delle scienze – si costruiranno allora per intero come catene di proposizioni. Quindi, la dimostrazione, che come abbiamo visto è per Aristotele il modo d’essere della scienza, ha un’ossatura proposizionale, consta di giudizi. Nella forma del sillogismo dimostrativo le premesse sono riconducibili ad asserzioni primitive che rappresentano i principi di cui dispone lo scienziato per inferire le caratteristiche, le proprietà, i modi d’essere che descrivono l’oggetto che egli si è proposto di indagare. La possibilità di dire l’essenza nella proposizione come giudizio che funge da premessa non è il frutto di una costruzione umana arbitraria24. Essa è il modo con cui l’uomo per natura, secondo quella parte dell’anima che gli compete in modo specifico, articola la sua conoscenza del vero. John Ackrill spiega che l’assunzione preliminare dello scienziato è, come ho del resto già avuto modo di sottolineare, una conoscenza “debole”, e nondimeno indispensabile. Essa offre il mero ”ti, il semplice dato di fatto. La conoscenza “forte”, come conoscenza del di“ti, è quella in cui, colti i principi, si costruiscono definizioni essenziali (“definizioni reali”)25. Il fatto che la cosa su cui intendo ricercare 24 Si tratta, in altri termini, della capacità che è caratteristica della parte razionale dell’anima dell’uomo e, quindi, di un modo imprescindibile del suo essere un vivente, al punto che sulla base di questo appare legittima la questione se sia possibile un’apprensione noetica dei principi in cui il “logos taccia”, cioè in cui non sia in gioco sempre la mediazione della struttura predicativa con cui noi articoliamo in preposizioni il contenuto definitorio essenziale del principio. La questione è talmente complessa che meriterebbe un’esposizione a sé e la letteratura secondaria in merito è estremamente ricca, specie sul fronte delle analisi che maturano nell’ambito della filosofia del linguaggio. Dal momento, tuttavia, che sto cercando, sia pure in modo limitato, di usufruire di Heidegger come sostegno per la mia prospettiva mi limiterò a prendere in considerazione solo il modo in cui Heidegger rende via via i passi aristotelici che mi preme evidenziare per portare avanti la questione centrale del capitolo, ossia quella della costituzione della metafisica in chiave epistemica. 25 “[L]a conoscenza presupposta dalla ricerca del “perché” è solo una conoscenza “debole”, la conoscenza comune della vita di tutti i giorni senza pretese. Per contro, la conoscenza raggiunta in seguito alla scoperta del “perché” è una conoscenza “forte”, la conoscenza scientifica fondata su un’autentica comprensione” (J. Ackrill, Aristotele, trad. it. di P. Crivelli, il Mulino, Bologna 2002, pp. 160-161). La distinzione fra conoscenza “debole” e conoscenza “forte” permette ad Ackrill di rispondere a due questioni relative

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Aristotele dopo Heidegger

esiste deve essere un dato che devo assumere preliminarmente, sia pure in senso estremamente vago, altrimenti sarebbe impossibile isolare la classe di fenomeni di cui intendo occuparmi26. Vi è, dunque, una sorta di sequenza che apre l’ôpistªmh o, per meglio dire, che è la condizione del darsi dell’ôpistªmh come scienza precipuamente apodittica: Le definizioni devono essere definizioni “reali”, non semplicemente nominali: cioè indicare la natura interna o essenziale dei generi naturali di cui la scienza si occupa. A partire da esse saranno dedotte (per mezzo di sillogismi validi) le ulteriori caratteristiche di cui godono i membri di tali generi in virtù della loro natura essenziale. I punti di partenza sono, per così dire, gli assiomi della scienza, e le verità dimostrate sono i suoi teoremi. Avere acquisito la conoscenza o comprensione scientifica di una proposizione significa averla dimostrata, cioè dedotta validamente da premesse vere e necessarie che sono le autentiche “cause” (ossia le autentiche spiegazioni) della conclusione in questione27.

In altri termini, anche se il momento dell’apprensione noetica non necessita dell’apporto offerto dalla definizione espressa in proposizione, la scienza per la sua struttura peculiare dimostrativa non può procedere da principi che non siano formulati in modo proposizionale. Vi sarebbe, allora, una sorta di dislivello fra il piano esclusivaal modo aristotelico di inquadrare i “punti di partenza” della scienza: 1) come è possibile che la conoscenza che qualcosa sia (sapere che p) è anteriore al dimostrare p, ossia al dimostrare che p è perché q?; 2) come è possibile asserire preliminarmente che una cosa di tipo X esiste se ancora devo cercare che cos’è X? Quanto alla prima questione per Ackrill “il ricercatore inizia con la credenza vera […] che p; e finisce con la conoscenza di p che deriva dalla comprensione del perché p debba essere vera – finisce col sapere che p perché q” (ibidem). Quanto alla seconda questione Ackrill distingue la necessità di possedere da parte del ricercatore un concetto preliminare di X (quanto meno a livello di sapere quale sia il significato della parola X). Dunque, è indispensabile che il ricercatore sia preliminarmente “in grado di distinguere in qualche modo X” per poi “scoprirne la vera natura” (ibid., p. 162). 26 Credo si possa anche dire che l’essere della cosa – che poi ne è il principio sul piano della forma – deve essermi noto preliminarmente sia pure in modo del tutto generico e non preciso, altrimenti io non potrei mai stabilire all’origine che intendo occuparmi ad es. solo di animali bipedi e non di tutto il genere animale. Quindi, devo avere un concetto sia pure approssimativo dell’ente che intendo indagare. Ciò significa che pongo come esistente la specie dell’animale bipede e da qui procedo nella ricerca del perché il suo essere bipede. 27 J. Ackrill, op. cit., p. 152.

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Scienza, intelletto e sapienza

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mente noetico, quando nel contatto con la cosa il principio d’essere della cosa (la sua essenza) si lascia cogliere in una medesimezza con la cosa stessa, ed il piano di articolazione della conoscenza, quando solo attraverso la struttura sintetico-diairetica del dire (unendo o separando rispettivamente nel caso di proposizioni affermative o negative) si esprime la relazione della cosa con il suo principio d’essere. Ritengo che proprio Heidegger abbia pienamente colto questo scarto, vedendone anche la problematicità. Vale davvero la pena seguire la sua lettura della presenza in Aristotele di questo dislivello che egli riconduce alla possibilità dell’ingannarsi quanto all’essere della cosa come possibilità intrinseca alla struttura predicativa propria dell’enunciazione. Risale già al corso marburghese del semestre invernale 1924/25 (Platon: Sophistes) una prima analisi completa della struttura sintetico-diairetica del logos come ciò da cui si origina la possibilità dell’errore nello svelare umano, dell’ingannarsi dell’esserci nella dischiusura dell’essere della cosa. Per Heidegger questa struttura peculiare è il modo in cui nel logos l’esserci lascia vedere la cosa di cui parla in quanto qualcosa. Si tratta cioè del fatto che nella parola la cosa è restituita non immediatamente, bensì attraverso una scomposizione che è sottesa ad ogni predicazione, nella misura in cui alla cosa-soggetto è attribuita qualche altra cosa, anche nei casi in cui la predicazione è un discorso di tipo definitorio, ossia anche quando ciò che è espresso nel predicato dice la cosa stessa, il suo essere. Questa scomposizione, questo svelare l’ente in quanto qualcosa è la matrice dell’ingannarsi umano sulle cose, del contraffarle: Soltanto dove l’¢lhqe⁄ein si realizza nel modo dell’in quanto-qualcosa, soltanto dove l’in quanto è strutturalmente presente, può accadere che qualcosa sia dato come ciò che non è 28.

Heidegger spiega ulteriormente che il “lasciare vedere addicendo”, secondo la sua resa della kat£fasij, è un lögein ti kat£ tinoj29. Qui è presente il kaq'o· lögetaÖ ti (“ciò in riferimento a cui è detto qualcosa”), che per sé è l’essere indiviso della cosa rispetto al modo sin28

GA 19, p. 183. Ovviamente lo stesso tipo di spiegazione vale anche nel caso della ¢p“fasij come dire disgiuntivo. 29

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tetico attraverso cui la cosa è detta nell’attribuirle come predicato ciò con cui la cosa nel reale fa corpo unico. L’asserzione “la lavagna è nera” è una “totalità indivisa (das unabgehobene Ganze)”, ma essa è dischiusa dall’esserci attraverso la struttura del “dire-in-quanto (das Als-Sagen)” in cui si realizza una “sintesi”, un “mettere insieme”, un “comporre” la cosa (la lavagna) e ciò che della cosa è percepito (il suo essere nera). Riprendendo così la spiegazione aristotelica del III libro del De anima30, Heidegger definisce il l“goj come “s⁄nqesij dei noªmata”, sintesi nella quale “io metto insieme una cosa con l’altra, ‘come se fossero una’” 31. Nel reale la lavagna ed il suo essere nera sono, però, effettivamente per sé un’unità originaria32, ed è l’articolazione nel logos che divide ciò che nel reale è indivisibile presentandolo nella sintesi dell’asserzione ed aprendo eo ipso alla possibilità della falsità: “Soltanto dove c’è tale s⁄nqesij, soltanto dove si trova il carattere dell’in quanto, soltanto là c’è falsità” 33. 30

Cfr. De an. III, 430a27 ss. (s⁄nqesÖj tij hîdh nohm£twn Èsper ûn ‘ntwn). GA 19, p. 183. 32 Heidegger sottolinea: “Io ho già infatti questa unità sin dall’inizio sott’occhio”; ma aggiunge: “Il parlare di questa unità soltanto mi rende ciò che ho visto (das Gesehene) in senso autentico manifesto (eigentlich sichtbar), la lavagna espressamente come nera” (ibidem) – quasi a dire che finché la cosa non è portata a livello di articolazione nel logos, che è espressione di riflessione, le mie percezioni restano in un certo senso inconsapevoli, non risultano fissate come determinazioni della cosa che ho visto. Sul piano dell’immediata percezione io vedo, naturalmente, la lavagna nera, tuttavia io so che la lavagna è nera quando questa unità nella percezione, scomposta e ricomposta nel logos, affiora a livello della mia riflessione appunto attraverso la formulazione predicativa. Ciò non vuol dire affatto che l’enunciazione debba essere effettivamente pronunciata a terzi. Ciò che è richiesto per il modo d’essere dell’uomo è solo che dal piano del giudizio percettivo si passi al piano della mediazione riflessiva rappresentata dalla elaborazione del dato percettivo nel giudizio che ha luogo nel logos e nella parola. Fuori da questa struttura, da questo passaggio, io non ho veramente nota e presente la cosa. 33 Ibid., p. 184. In altri termini ogni enunciazione è in pari tempo scomposizione e composizione. È scomposizione perché soggetto e predicato sono considerati per così dire scissi e da qui l’attribuzione (o la non attribuzione e quindi una sorta di separazione di secondo grado nel caso delle enunciazioni negative) di un qualcosa (predicato) ad un qualcosa (soggetto). È, però, nel contempo composizione proprio perché al soggetto si attribuisce qualcosa, conferendo un’unità all’intero portato ad espressione nell’enunciazione (così anche nella enunciazione negativa, nella misura in cui nel dire che il “tavolo non è bianco” compongo comunque un’unità che è formata dal tavolo e dal suo colore, dalla sua qualità che pure è determinata negativamente e in modo ancora indistinto: non dico infatti quale sia il colore del tavolo, dico solo che non è bianco, ma riconosco che il tavolo possiede una qualità che è quella di essere colorato). 31

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Alla questione della struttura sintetico-diairetica del logos Heidegger dedica un anno dopo, nel semestre invernale 1925/26, una specifica parte del corso Logica. Il problema della verità 34. Qui, in una formulazione ancora più elaborata rispetto alla versione della Vorlesung dell’anno precedente, egli mostra che l’ente si svela in una costituzione sintetica, nella misura in cui l’esserci assume l’ente di cui fa esperienza sotto un ben preciso significato (in quanto pre-predicativo o ermeneutico). Questa struttura sintetica, nella quale la cosa mi appare nel significato che io le attribuisco sulla base dell’esperienza che ne ho, si distingue dalla struttura sintetica che si dà nella compagine sintetico-diairetica del discorso apofantico come discorso che determina qualcosa in quanto qualcosa (in quanto apofantico). Nell’enunciazione emerge sempre – spiega Heidegger – il carattere unitario dell’ente, ma al modo della sintesi e della diairesi perché sintetico e diairetico è il logos che dischiude l’ente. Se il logos enunciativo risulta dalla comprensione primaria, ossia dal commercio quotidiano dell’esserci con gli enti mondani, l’enunciazione evidenzia la cosa in quel che per l’esserci la fa essere significativa (ad esempio: “Ciò che ho in mano per scrivere in questo momento è una penna”). Se il logos enunciativo sorge come conseguenza di un’osservazione di tipo determinativo che si pronuncia sulla cosa non a partire dal rapporto dell’esserci con essa, ma dal “farsi presente” della cosa stessa, l’enunciazione presenta la cosa in quelle determinazioni che si ritiene descrivano la cosa nel suo essere in sé (ad esempio: “La penna è rossa”). In ogni enunciazione viene in luce, quindi, un carattere d’essere della cosa a seconda del modo in cui l’esserci si pone rispetto ad essa. Nell’enunciazione che si costruisce attraverso l’individuazione dell’in quanto ermeneutico il logos sorge dall’esperienza della cosa da parte dell’esserci, esperienza che non è un accesso diretto alla cosa “schiettamente presa”, nella misura in cui si è già “sin dall’inizio in rapporto con la cosa” nell’esperienza d’uso della cosa. Quando dalla comprensione primaria (l’esperienza della cosa come utilizzabile in vista di uno scopo), l’esserci passa alla determinazione della cosa, che pretende di far valere come descrizione oggettiva, la cosa è determi34

Cfr. Lpv, § 12, pp. 90-108.

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nata non in base al significato sotteso al rapporto d’uso dell’esserci con essa, ma a partire dal farsi presente della cosa. La cosa è allora resa oggetto d’osservazione come cosa semplicemente presente (vorhanden). Ciò rappresenta per Heidegger una “modificazione dell’originaria struttura ermeneutica” ed è il modo in cui le cose sono collocate su un livello di indifferenziazione giacché considerate come cose semplicemente presenti e classificabili secondo le loro proprietà. Nel corso del semestre invernale 1924/25 l’analisi della struttura dell’in quanto nel logos è inserita nel contesto di un commento quasi letterale alla presentazione dei modi dell’¢lhqe⁄ein del VI libro dell’Etica Nicomachea. La delucidazione della struttura dell’in quanto è situata da Heidegger, per essere più precisi, entro la cornice più ampia della chiarificazione del vincolo sussistente fra il dire come essere dell’uomo e l’ente, vincolo che si costituisce secondo un doppio binario, un doppio canale di svelatezza: allo scoprirsi (sich entdecken) dell’ente, che è a carico dell’ente e della sua natura fenomenica, risponde un dischiudere (erschliessen) l’ente da parte dell’esserci in conformità alle sue proprie maniere d’essere. La conoscenza come ¢lhqe⁄ein, nel senso dello svelare il mondo e l’ente, scaturisce dall’incontro fra il sich-entdecken dell’ente e l’erschliessen dell’esserci. Secondo la natura essenziale dell’esistenza, contraddistinta peculiarmente dal logos, il parlare si rivela il “luogo” privilegiato di questo incontro, sebbene esso non sia scevro da un’ambiguità o difettosità che è ad esso intrinseca poiché conseguenza della sua struttura sinteticodiairetica. Quasi come premessa a tutto il suo commento Heidegger sostiene difatti che “l’¢lhqe⁄ein si mostra innanzitutto nel lögein” che è “la costituzione fondamentale (Grundverfassung) dell’esistenza umana” 35. Da qui egli elabora la corrispondenza fra l’ente, il suo 35

Ibid., p. 17. Markus Brach, cogliendo la tesi sottesa alla resa heideggeriana del passo aristotelico, commenta così: “Non mi dedicherò qui ad una critica dettagliata di questa traduzione di Heidegger, ma prenderò posizione rispetto ad una particolarità a mio avviso essenziale della traduzione: si dice sopra nella citazione che l’esistenza umana apre l’ente in quanto affermare e negare. Questa è la resa tedesca dell’aristotelico ¢lhqe⁄ei h` yucæ t˘ kataf£nai hñ ¢pof£nai. In questo modo, quindi, Heidegger identifica l’esistenza umana con la parola yucª, la cui essenza sarebbe di aprire l’ente in quanto affermare e negare. Heidegger aggiunge all’asserzione questo accusativo [scil. l’ente che in tedesco è posto al caso accusativo come complemento oggetto di aprire] che per lui è importante perché significa il senso referenziale oggettivo dell’aprire. Il secondo momento

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carattere di verità come manifestatività e la possibilità del suo essere detto nella parola dall’esserci: il pr©gma è ¢lhqöj e dunque leg“menon della traduzione è quell’“in quanto” che non deve indicare un’aggiunta predicativa all’anima, ma che unifica il compimento essenziale dell’anima con l’affermare ed il negare. […] L’esserci come affermare e negare non significa altro che il fatto che Heidegger attribuisce ad Aristotele l’intenzione: ad Aristotele sarebbe già stato noto che nell’¢p“fansij della yucª vi è il senso di maturo compimento dell’esserci nel suo atteggiamento preteoretico dell’“intuizione ermeneutica”, senza avere tuttavia apprezzato il significato di questa condizione” (M.J. Brach, Heidegger – Platon. Vom Neukantianismus zur existentiellen Interpretation des “Sophistes”, Königshausen & Neumann, Würzburg 1996, pp. 283284). In altri termini, secondo Heidegger, Aristotele avrebbe intuito, senza però comprenderne la portata, che la modalità propria di realizzazione dell’esserci nel suo rapporto con l’ente è nel logos apofantico come ciò in cui la cosa si mostra in quanto qualcosa (o nel modo preteoretico dell’in quanto ermeneutico attraverso l’esperienza d’uso che l’esserci fa della cosa o al modo della considerazione teoretica in cui la cosa è osservata come quel che è semplicemente presente, vorhanden). È comunque importante sottolineare che l’“in quanto” che Heidegger premette al dativo strumentale o di mezzo t˘ kataf£nai hñ ¢pof£nai esprime il fatto essenziale, che attiene all’essenza dell’uomo, che il dire apofantico appartiene all’anima costitutivamente, per natura e non è un mero strumento su cui l’anima eventualmente delibera scegliendolo rispetto ad altri perché le appare il più adeguato in vista del raggiungimento della verità. Il dire apofanti-co è la natura stessa dell’uomo, il suo modo di rendere l’ente a sé conosciuto. Brach evidenzia subito dopo che qui è già ben visibile il tratto squisitamente fenomenologico dell’interpretazione heideggeriana: gli enti hanno un proprio carattere di verità che è costituito dal loro svelarsi nella misura in cui questo svelarsi è un darsi all’esserci, un venire incontro all’esserci (cfr. GA 19, p. 17: “La manifestatività [Unverborgenheit] è una determinazione dell’ente, nella misura in cui esso viene incontro”). La svelatezza è allora il modo d’essere che compete ad ogni ente, quale che sia, ma in rapporto con l’esserci; in questo rapporto l’ente è fenomeno, è datità, è manifestatività (cfr. ibidem: “L’¢lªqeia non appartiene all’essere nel senso che esso non potrebbe essere senza la manifestatività. Infatti la natura esiste anche prima di essere scoperta. L’¢lªqeia è un peculiare carattere dell’essere dell’ente, nella misura in cui l’ente sta in rapporto con un guardare-a [Hinsehen darauf], con un aprirsi che nell’ente si guarda intorno, con un conoscere”). Heidegger anzi, più avanti, sembra quasi giustificare l’esclusione aristotelica dell’ente come vero dall’esame delle realtà che esistono come realtà per sé sussistenti (cfr. Met. E, 1027b331028a2), fuori (úxw) dal pensiero, dicendo che, appunto, secondo Aristotele “l’oñ n Êj ¢lhqöj non rientrerebbe autenticamente nell’oggetto dell’ontologia, nella misura in cui il carattere dell’¢lhqöj non offre qualcosa dell’ente che gli si addice in quanto tale, ma soltanto in quanto esso c’è, in quanto viene incontro ad un pensare svelante” (GA 19, p. 187). La verità dell’ente è, quindi, il suo scoprirsi; come manifestatività all’esserci, come essere scoperto per l’esserci che è in rapporto con l’ente, la verità si accompagna sempre alla sua dischiusura da parte del Dasein (cfr. ibid., p. 17: “Ma l’aprire in rapporto a cui l’¢lªqeia è, è esso stesso un essere, non propriamente dell’ente che è innanzitutto aperto, il mondo, bensì un modo d’essere dell’ente che definiamo esistenza umana”). L’aspetto interessante del commento di Heidegger a Et. Nic. VI è che la sua traduzione è attraversata da una precisa interpretazione che coglie l’aspetto eidetico-fenomenologico della posizione aristotelica, nella misura in cui l’¢lhqe⁄ein come il cogliere il vero equivale per lo

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Aristotele dopo Heidegger

o, in termini inversi ma equipollenti, in quanto leg“menon il pr©gma è ¢lhqöj. L’ente, cioè, è svelato perché l’esserci lo dischiude nel suo dire, nel suo logos, ma insieme l’ente si lascia dire e dischiudere dall’uomo nella parola perché si scopre a lui secondo la sua propria manifestatività come fenomeno: Disvelate sono innanzitutto le cose, i pr£gmata. T’ pr©gma ¢lhqöj. Questa disvelatezza non appartiene alla cosa in quanto tale, ma nella misura in cui essa viene incontro, è oggetto di un rapporto. Di conseguenza l’esser disvelato è una specifica capacità (Leistung) dell’esserci che nell’anima ha il suo essere: ¢lhqe⁄ei h` yucª36.

Il lögein non è certamente il solo modo dello svelare; Heidegger riconosce, difatti, conformemente del resto a quanto è detto da Aristotele a proposito degli animali ad esempio in Metafisica A, I capitolo o nel De anima o ancora nel trattato De sensu nei Parva Naturalia, che anche gli animali dispongono come l’uomo di quei modi disvelativi che fanno capo alla sensazione senza la mediazione della parola37. Ma il l“goj, “il parlare sulle cose (das Sprechen über die Dinge)” è per l’uomo “il modo più immediato dello svelare” in quanto determinazione propria del vivente uomo, tanto che Heidegger asserisce che il l“goj “assolve primariamente alla funzione dell’¢lhqe⁄ein”38. Ciò proprio perché, sebbene nel no‡j si realizzi la dimensione disvelativa più compiuta come apprensione dei principi, l’uomo nel suo esistere quotidiano si relaziona al mondo ed all’ente nella trama della parola: nessuna indagine e nessuna m£qhsij dianohtikª, come anche Aristotele asserisce, può cominciare da una completa ignoranza. L’uomo dispone da sempre, sin dall’avvio della sua ricerca, di nozioStagirita ad afferrare il principio e, dunque, a conoscere la cosa in senso forte, quanto al suo essere, nella relazione fra no‡j ed ¢rcª, in cui il principio come essere della cosa si rende manifesto ed intellegibile all’intelletto tanto quanto il no‡j è capace di accogliere e, quindi, da parte sua di scoprire (nel senso anche di trovare ciò che prima non vedeva) l’¢rcª. 36 GA 19, pp. 24-25. 37 “Aásqhsij: […] scopre un mondo, non però nel discorso e nel chiamare, nell’indicare e nel render-si comprensibile scoprendo. Concetto fondamentale della sensibilità: “lasciarsi dare schiudente”, “lasciar venire incontro un mondo” (Cfa, p. 277), avendo subito prima posto che “l’animale si distingue […] in virtù dell’aásqhsij” (ibidem). In An. Post. II, 99b35 Aristotele dice che tutti gli animali “infatti possiedono una facoltà congenita critica (d⁄namin s⁄mfuton kritikªn) che si chiama sensazione”. 38 GA 19, p. 27.

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ni, opinioni, forme di conoscenza, esprimibili in forma assertoria, che, per quanto perfettibili, sono nondimeno tali da offrirgli il punto di partenza39. Il discorrere sulle cose come disvelare significa, quindi, che le cose, in quanto il riferimento oggettuale significato in questo discorrere, sono svelate appunto perché dette. In tal modo i pr£gmata sono determinati secondo i modi che competono all’esistenza nel suo investimento poietico (secondo la struttura dell’in quanto ermeneutico dove la cosa è svelata in riferimento al fine per il quale è prodotta) o teoretico (secondo la struttura dell’in quanto apofantico, dove la cosa è determinata a partire dal suo mostrarsi in quanto qualcosa): Nella misura in cui ora ogni l“goj è un esprimersi, un comunicare, il l“goj riceve nel contempo il significato di leg“menon. l“goj vuol dire dunque, da una parte, parlare, lögein, dall’altra parte, però, anche ciò che viene espresso, leg“menon. E nella misura in cui è il l“goj che ¢lhqe⁄ei, il l“goj è, in quanto leg“menon, ¢lhqªj. […] Proprio questo l“goj in quanto leg“menon è il modo in cui innanzitutto si dà la verità 40. 39 Ciò che l’incipit di An. Post., 71a1-2 asserisce va assunto nel senso più ampio possibile e, dunque, va fatto valere anche per ogni processo zetetico che ha di mira un conoscere di tipo epistemico: “Ogni insegnamento ed ogni apprendimento razionale avviene a partire da una conoscenza preesistente”. Così anche alla fine del capitolo (71b5-8) lo Stagirita ribadisce: “Ma nulla impedisce (ritengo) che in un certo modo si sappia e in un certo modo si ignori ciò che si apprende: non è infatti assurdo (•topon) se si sa in qualche modo quello che si apprende, bensì sarebbe assurdo se lo si sapesse ad esempio in quanto quel che si apprende e nel modo in cui lo si apprende” – ossia sarebbe assurdo dire di apprendere qualcosa che già si conosce nel suo che cos’è attraverso la conoscenza della sua causa –, tanto da specificare subito dopo cosa significhi il conoscere a` plÓj, in senso assoluto. 40 GA 19, p. 25. Heidegger dirà più avanti che è per il fatto che nel logos l’esserci realizza primariamente il suo tratto essenziale, che gli compete per natura e che è quello del dischiudere l’ente, che la problematica ontologica sull’ente nei Greci – e dunque la prËth filosofÖa – si è indirizzata verso la comprensione dell’essere dell’ente come oŸsÖa. Sebbene infatti ammetta che il compimento della stessa sofÖa debba intendersi come un noeãn “libero dal lögein” (ibid., p. 224), Heidegger ritiene nondimeno che l’ente che viene colto (l’¢rcª), come un qualcosa di semplice, di indiviso, come un ¢diaÖreton, continua ad essere compreso sul filo conduttore del l“goj. La determinazione fondamentale dell’‘n, spiega il filosofo tedesco, nel senso di ciò che è l’essenza dell’ente, è determinata come oŸsÖa e questa, a propria volta, è “formalmente” caratterizzata come ÿpokeÖmenon. Secondo Heidegger proprio quest’ultima determinazione tradisce il riferimento al logos: lo ÿpokeÖmenon è, in effetti, il nome con cui si indica il sostrato (che è sostanza prima) cui ineriscono le altre determinazioni, ossia ciò di cui le altre determinazioni sono predicate,

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Aristotele dopo Heidegger

La sequenza “pr©gma-¢lªqeia-l“goj”, ritradotta in termini aristotelici, equivale alla condizione sotto la quale le protesi di un sillogismo dimostrativo espongono nel contenuto il principio, l’¢rcª del pr©gma. Per riferirci in modo specifico al tipo di sillogismo che per Aristotele è il più scientifico, l’¢rcª del pr©gma è sdoppiata per così dire nella proposizione maggiore affermativa universale, in cui il termine medio è soggetto, e nella proposizione che funge da premessa minore, in cui il medio è il predicato. Questa esposizione dell’¢rcª del pr©gma nelle protasi (prime, necessarie, vere) si dà in virtù dell’apprensione noetica che accede al principio senza inganno41 o, più esattamente, all’essere in sé del principio in quanto essere in sé della cosa42. Questa condizione è necessaria e rappresenta, appunto, il il soggetto dell’enunciazione. Da questa certezza che “il carattere fondamentale dell’essere è attinto (geschöpft) dal contesto del l“goj” (ibidem) Heidegger, quindi, conclude non soltanto che “l’ ¢lhqe⁄ein della sofÖa, lo svelare in senso assoluto, resta ancora in un certo senso met¶ l“gou” (ibid., p. 225), ma anche che, allora, “in Aristotele la metafisica è logica e la logica è metafisica (bei Aristoteles die Metaphysik logisch und die Logik metaphysisch sei)” (ibidem) e, più in generale, che è in questo che si annida la radice della rappresentazione dell’essere come presenza che sta alla base di tutta la tradizione ontologica metafisica occidentale: “Questa irruzione del l“goj, del logico secondo questo senso strettamente greco, in questa problematica sull’ ‘n è motivata dal fatto che l’ ‘n, l’essere dell’ente stesso, è interpretato in modo primario come presenza e dal fatto che è il l“goj il modo nel quale io mi rappresento qualcosa, ossia ciò di cui parlo” (ibidem). 41 In Et. Nic. VI, 1143a34 ss. Aristotele attribuisce all’intelletto e non al ragionare di tipo calcolativo – sembra infatti che l“goj qui debba assumersi come sinonimo della parte razionale logistikª – il sapere cogliere i termini primi ed ultimi (“kaà g¶r tÓn prËtwn ”rwn kaà tÓn ôsc£twn no‡j ôstà kaà oŸ l“goj”), riconoscendo espressamente che nelle scienze pratiche (ôn taãj praktikaãj), cioè nei sillogismi pratici potremmo dire, esso coglie l’ultimo, il possibile (ossia ciò che non è necessario, quel che può anche essere diverso da come è) e l’altra protasi. In termini di sillogismo ciò significa che non solo l’intelletto coglie l’universale che è il principio primo espresso nella premessa maggiore, ma coglie anche il caso singolare sussunto sotto il termine medio che viene espresso nella premessa minore. Se è così nel sillogismo pratico, a maggior ragione lo sarà anche nel sillogismo scientifico. Dunque l’intelletto coglie l’¢rcª al modo dell’universale ed insieme il singolo pr©gma in riferimento a quell’aspetto essenziale che consente di attribuirgli il medio. Il no‡j è pertanto principio di entrambe le premesse – corrispettive a conoscenze essenziali, a conoscenze dell’essere della cosa, a conoscenze di principi – del sillogismo. Nel processo zetetico di tipo epistemico, in altri termini, il termine ultimo non è il semplice dato percettivo sensibile, ma il dato sensibile su cui si opera, per così dire, un riconoscimento di essenza. 42 Nel sillogismo apodittico – dice Aristotele – “principio è la protasi immediata di una dimostrazione, immediata è quella protasi di cui non ve n’è un’altra precedente” (An. Post. I, 72a7-8 ). Poco prima, nello stesso capitolo, Aristotele asserisce che “è neces-

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fondamento gnoseologico per la verità delle proposizioni che costituiscono i principi della dimostrazione. Tuttavia, nell’espressione proposizionale del principio secondo le due protasi del sillogismo dimostrativo, lo scarto fra il piano della pura apprensione noetica e quello della formulazione del principio attraverso il logos comporta la possibilità dell’inganno poiché la mediazione del logos inficia la condizione di assoluta manifestatività (verità) dell’essere della cosa che, sario che la conoscenza apodittica [scil. nel senso della dimostrazione, del “sillogismo scientifico”] proceda da cose che sono vere, prime, immediate, più note, anteriori e cause della conclusione” (ibid., 71b20-22). Le cose vere, prime etc. sono appunto le protasi il cui contenuto è la cosa nel suo essere o, meglio, quel che funge da “perché della cosa” che è dimostrata nella conclusione. Il sillogismo scientifico è, infatti, il “sillogismo del perché” in quanto esso procede assumendo la causa prima (cfr. ibid., 78b3-4: kaà ôsti to‡ di“ti — sullogism“j: eálhptai g¶r t’ prÓton aátion). Che il contenuto delle protasi sia l’essere della cosa è asserito in modo abbastanza chiaro da Aristotele ad es. nei capp. 4, 9 e 22 sempre del I libro di An. Post. Al cap. 4 (73b16-18) Aristotele afferma: “Conformemente alle cose conoscibili in modo assoluto, le cose che dunque sono dette per se stesse in questo modo, sono per se stesse (di'aÿt£) e necessariamente (ôx ¢n£gkhj)”, vale a dire la predicazione di tipo essenziale enuncia la relazione necessaria sussistente fra la cosa e ciò che si dice di essa in quanto la sua essenza; nel reale ciò significa che la cosa è per sé sussistente e la sua essenza, con cui fa corpo unico, le appartiene in modo necessario. L’essenza è il principio della cosa ed è ciò che si conosce in modo assoluto; non è dimostrabile ma funge da premessa per le dimostrazioni. Al cap. 9 (76a4 ss.) Aristotele sostiene che “conosciamo ciascuna cosa non in modo accidentale quando conosciamo secondo ciò per il quale appartiene, a partire dai principi di quella cosa in quanto quella cosa”. Qui Aristotele spiega che nella dimostrazione è altresì necessario che si indichi il medio, ossia ciò in virtù del quale traiamo la conclusione che x è z, ossia che a x compete z, giacché x. Ad es. nel sillogismo “tutti gli uomini sono mortali, Socrate è uomo, Socrate è mortale”, il termine medio costituito dalla seconda proposizione “Socrate è uomo” è ciò che più ancora della premessa affermativa universale dà il perché dell’essere mortale di Socrate, in quanto indica di quella cosa in quanto quella cosa (Socrate e non il tavolo di legno che ho davanti) l’essenza (l’umanità). Il termine medio da solo non è bastevole per concludere che Socrate è mortale, perché è appunto la premessa universale affermativa che esplicita come principio primo che tutto ciò che si determina uomo è per se stesso mortale. Nondimeno è in virtù del termine medio, ossia del predicare l’umanità come essenza di Socrate, che viene esplicitato il perché proprio quella “cosa” che è Socrate è mortale. Al cap. 22 (83a19 ss.) leggiamo che il modo in cui “le dimostrazioni dimostrano” è quello secondo cui “ciò che è predicato è predicato sempre di ciò di cui è predicato in modo assoluto, non per accidente” (t’ kathgoro⁄menon kathgoreãsqai ¢eÖ, o· kathgoreãtai, a`plÓj, all¶ mæ kat¶ sumbebhk“j). Quindi, subito dopo, Aristotele specifica che la predicazione di tipo essenziale, quella in cui “una sola cosa è predicata di una sola cosa nel che cos’è”, è il tipo di predicazione in cui “le cose che significano l’essenza significano proprio quello di cui sono predicate”; nella proposizione, cioè, è espresso l’essere della cosa che è il soggetto della predicazione di cui si predica una determinazione essenziale, l’oŸsÖa.

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Aristotele dopo Heidegger

sul piano dell’apprensione noetica, garantisce al no‡j la veridicità del suo atto43. È, però, solo nell’aprirsi dello scarto che può procedere ogni argomentare disvelativo dell’ente o da parte della scienza e della sapienza (come modalità della parte razionale scientifica, atta a cogliere e così scoprire la realtà necessaria che è sempre) o da parte dell’arte e della saggezza (come modalità della parte calcolatrice che ha di mira la realtà che può anche essere diversamente). Dal punto di vista di Heidegger l’apertura dello scarto, indispensabile secondo Aristotele per la costituzione del sapere scientifico, comporta sempre il rischio che le scienze in realtà siano, se mi si concede l’espressione, “sistemi ingannevoli”, nonostante il carattere di veridicità proprio dell’atto noetico che sta alla base di ogni formulazione predicativa di tipo definitorio. Aristotele probabilmente direbbe, di contro, che se davvero quanto asserito nelle premesse prime e immediate da cui procede l’argomentazione è in se stesso il contenuto di un’apprensione noetica, allora la conclusione non può essere falsa (a meno che non si commetta un errore formale nella costruzione del sillogismo). Tuttavia, proprio a causa dello scarto fra il no‡j ed il l“goj, il fatto che si sia assolutamente convinti di aver portato in premessa il contenuto di una n“hsij, non prova per sé né che la premessa sia vera né che sia vero il fatto di avere portato in premessa il contenuto dell’apprensione. A sua volta, però, tutto ciò non esclude che chi produce effettivamente una dimostrazione scientifica che funziona ha effettivamente in premessa nella forma dell’—rism“j il contenuto di un’apprensione noetica, e che la sua conclusione è, dunque, vera. In ogni caso, rispetto a quella che si comprende essere la posizione di Heidegger, il punto di vista aristotelico appare maggiormente indirizzato a non sminuire la capacità dell’uomo di legare il potere disvelativo dell’intelletto a quello della parola quando in gioco sono la conquista dei principi e la possibilità di usufruirne sul piano dell’argomentazione apodittica44. 43 “L’uso assoluto di ¢lªqeia non significa altro che l’ente nel suo essere, nella misura in cui è autenticamente svelato” (GA 19, p. 194), cosa che aristotelicamente, come Heidegger ha avuto in precedenza modo di chiarire a più riprese, accade nel “puro noeãn”, nel no‡j in quanto quello “che in senso autentico ha di mira le ¢rcaÖ e le svela” (ibid., p. 142). 44 Credo che questo tenda a venire fuori proprio a partire da una certa idea aristo-

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Dal canto suo Heidegger, che pure interpreta abbastanza strettamente il testo aristotelico, sembra affrancarsi dallo Stagirita, sottolineando piuttosto che l’esistenza umana non si realizza sempre “in modo autentico”: proprio quell’intero conoscitivo, costituito dal ricercare l’essere dell’ente (tanto nel senso delle scienze particolari quanto nel senso della filosofia prima), dal coglierlo e dal disporne in modo organico attraverso la forma discorsiva di tipo dimostrativo a partire da ciò che si è colto, non restituisce di necessità la cosa, l’ente nel suo essere45. In altri termini, quell’atto che fa da garante alla conoscenza epistemica per Aristotele è senz’altro manifestativo dell’essere dell’ente proprio perché, come spiega Heidegger, è in un certo senso “•neu l“gou” – senza logos – “nella misura in cui si comprende il l“goj come kat£fasij e ¢p“fasij” 46. Si tratta di uno scarto che Heidegger, rispetto alla lezione aristotelica, interpreta come differenza fra “il puro noeãn (das reine noeãn)” e il dianoeãn in quanto “noeãn che si realizza nello spazio di un ente che ha il l“goj” 47. Nella sua lettura, in verità, Heidegger sembra calcare troppo la mano nell’appropriarsi della terminologia aristotelica, impiegandola telica dell’apprensione noetica, in cui lo scarto fra l’intellezione e l’enunciazione, come vedremo tra breve, si contrae fino a scomparire. 45 Accenno solo brevemente al fatto che questo tema nella riflessione heideggeriana si lega strettamente quanto meno a due questioni. Da un lato esso è in relazione alla questione delle scienze ed alla problematizzazione del loro preteso valore oggettivo, questione che Heidegger ha chiara sin dall’inizio del suo Denkweg e che si esprime altresì nella forma di una critica alle scienze cosiddette positive, a dispetto anche di una parte della sua formazione in ambiente neokantiano, e prima della sua stessa revisione del progetto fenomenologico di matrice husserliana. Dall’altro lato il tema è connesso alla caratterizzazione della natura fenomenica propria dell’essere e del suo tratto di ritrazione, che è a carico dell’essere stesso e di cui all’esserci non è dato disporre, nella misura in cui rinvia a quella zona opaca che è l’enigmatica provenienza dell’Ereignis, per esprimermi in conformità al lessico heideggeriano tipico del pensiero successivo alla svolta. Negli anni Venti Heidegger ha comunque pienamente chiaro, come già visto, che lo svelarsi dell’essere accade sempre entro il rapporto fra ente ed esserci, sicché per pensare il senso dell’¢lªqeia come manifestatività assoluta dell’essere della cosa è necessario tenere stretta la relazione fra il mostrarsi della cosa nel suo essere e la dischiusura dell’esserci il più possibile conforme a questo mostrarsi. Nella Vorlesung del 1924/25 difatti, come si è visto, egli considera espressamente “l’¢lhqöj come carattere del venire incontro dell’essere (Begegnischarakter des Seins)”. 46 GA 19, p. 59. 47 Ibid., p. 179.

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per dare espressione alla sua esegesi48. Nonostante ciò resta visibile il tratto genuinamente aristotelico della questione che il filosofo tede48 A questo proposito Chiara Agnello scrive: “Prescindendo dal fatto che all’epoca in cui si esprimeva Aristotele la diatesi attiva dianoeãn non è attestata, ma lo è solo il medio dianoeãsqai, la contrapposizione fra un pensiero intuitivo ed uno discorsivo non è da Heidegger sufficientemente argomentata proprio in virtù del peso che l’idea di un’originaria significatività del mondo, al fondo di ogni possibile conoscenza, andava assumendo nel suo sistema di pensiero” (C. Agnello, Heidegger e Aristotele: verità e linguaggio, il melangolo, Genova 2006, pp. 78-79). Io ritengo, invece, che in riferimento alla questione dell’intelletto nell’uomo Heidegger non attribuisce allo Stagirita l’idea di un no‡j che si realizzi effettivamente come •neu l“gou. Questo è uno stato che piuttosto attiene al dio, cosa che fra le righe sembra che Heidegger riconosca (cfr. GA 19, pp. 132 ss., dove Heidegger discute proprio la possibilità di intendere la sofÖa come un possesso umano, una kt¡sij dell’uomo, ed anche le righe iniziali del § 26. Reichweite und Grenze des l“goj, in cui però il riferimento al divino è molto sfumato). Certamente c’è una tematizzazione del no‡j che spinge in direzione di una descrizione della condizione “ideale”, in cui l’intelletto non sarebbe o non dovrebbe essere mediato dalle forme espressive legate alla predicazione. Nondimeno, c’è nel contempo il riconoscimento che, se anche il no‡j così dovrebbe realizzarsi per comprendere il suo eccellere rispetto agli altri modi di svelamento, di fatto nell’uomo, contrassegnato essenzialmente dal suo disporre di logos, l’intelletto si realizza all’interno di questa sua natura. Heidegger riesce, a mio avviso, a recuperare l’impossibilità di separare lo svelare l’¢rcª da parte del no‡j e l’afferrarla in una dimensione che egli considera a questo punto già logica (in senso lato) proprio guardando ad Aristotele, fino ad azzardare locuzioni non meno ardite del dianoeãn rimarcato da Agnello e, però, efficaci. Credo, quindi, che le ragioni per cui in termini di coerenza di teoria gnoseologica aristotelica bisogna pensare ad un’apprensione che non è mediata dal dire, che è suscettibile di essere vero o falso, sia ben illustrata da Heidegger, il quale riesce a cogliere la differenza rimarcata da Aristotele in Met. Q, 1051b24-25 tra f£sij e kat£fasij. Rispetto a quella che potrebbe essere di contro la posizione di Heidegger stesso, dunque non più di Aristotele, non ritengo che bisogna aspettare fino al corso del semestre estivo del 1928 (Pml) per vedere che solo allora “Heidegger compie decisamente un passo avanti rispetto alle precedenti ipotesi avanzate sul noeãn, intravedendo il necessario legame fra quest’ultimo ed il l“goj” (C. Agnello, op. cit., p. 129) e ciò anche perché non mi pare che Heidegger muova una critica nei confronti della capacità umana di svelare l’essere dell’ente tramite il parlare (das Sprechen), sebbene l’indicazione di un carattere del logos intrinsecamente esposto al rischio della falsità, della contraffazione dei pr£gmata. Se costitutivo del parlare è il suo “chiamare in causa” l’ente sempre “in quanto qualcosa”, il rischio non si può più considerare semplicemente la conseguenza di un modo scorretto da parte dell’esserci di aprire l’ente, bensì come qualcosa che è determinato già a monte, a partire dal rapporto fra esserci e mondo che si compie attraverso i modi con cui quotidianamente l’esserci fa esperienza dell’ente: la struttura dell’in quanto qualcosa implica allora, che per quanto autentica possa essere la tensione dell’esserci verso la cosa, quest’ultima è per così dire sempre “dislocata” fuori da sé, è sempre detta come altro giacché al Dasein non è possibile che esprimersi così e questo nonostante questa alterità sia anche la forma in cui la cosa stessa si manifesti a partire da sé. Non c’è dubbio comunque che il commento heideggeriano, come tutte le sue esegesi del resto,

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sco riesce a tirare fuori con la giusta enfasi, sebbene la sua posizione sia in parte divergente da quella aristotelica. Lo scarto fra la dimensione noetica e quella epistemica, per così dire, è ancora sottolineato da Heidegger nei seguenti termini: “Vi è così una diafor£ tra il puro no‡j ed il no‡j s⁄nqetoj” 49. Si tratta di una differenza (diafor£) che per Heidegger scaturisce dal fatto che “il no‡j dell’uomo è sempre realizzato nel modo del parlare”50. Il passo della Metafisica, cui Heidegger rinvia distinguendo il puro noeãn come qigeãn ed il noeãn in quanto dianoeãn, che appunto egli chiama, di suo pugno, “no‡j s⁄nqetoj”, è la ben nota chiusura del libro Q (1051b24 ss.) in cui Aristotele sostiene che non sono possibili un “toccare”, quindi un conoscere, e un “dire” l’essenza che siano falsi, perché sull’essenza e le altre sostanze semplici, non composte non è possibile sbagliarsi. Si può ignorare, ossia non conoscere, l’essenza, ma se essa ci si farà incontro nel pensiero, non sarà possibile ingannarsi sul suo conto ed il nostro afferrarla sarà sempre vero, sarà il cogliere l’in sé della cosa51. Il testo aristotelico non parla di un “no‡j s⁄nqetoj”, ma di “oŸsÖai mæ sunqetaÖ” che sono gli oggetti di quel toccare e di quel dire che sono sempre nel vero. Per quel che conosco, nel Corpus non tradisce la sua concezione dell’esserci e della relazione di svelatezza e nascondimento e di apertura e copertura fra l’esistenza umana e l’essere. 49 GA 19, p. 179. 50 Ibid., p. 180. 51 Ricordiamo nuovamente quel che leggiamo nel testo: “t’ mùn qigeãn kaà f£nai ¢lhqöj (oŸ g¶r taŸt’ kat£fasij kaà f£sij), t’ d'¢gnoeãn mæ qigg£nein (¢pathq¡nai g¶r perà t’ tÖ ôsti oŸk ústin ¢ll'¿ kat¶ sumbebhk“j: —moÖwj dù kaà perà t¶j mæ sunqet¶j oŸsÖaj, oŸ g¶r ústin ¢pathq¡nai […])”, ossia: “L’afferrare e l’enunciare sono veri (infatti

non sono lo stesso l’enunciazione affermativa e l’enunciazione), invece l’ignorare è il non afferrare (sull’essenza non vi è ingannarsi se non accidentalmente; ugualmente non vi è ingannarsi neanche sulle sostanze non composte)” (corsivo mio). Importante per il discorso che sto portando avanti è quello che Aristotele ritiene si conosca dell’essenza e delle sostanze non composte: “Allora di queste cose si cerca il che cos’è e se esse sono di tal genere o no” (Met. Q, 1051b32-33), ossia se l’essenza è quello che si coglie come tale (e la riposta è “sì”, appunto perché l’afferrare questa essenza coglie con verità questa essenza) e se le sostanze non composte sono quel che cos’è, ossia l’essenza che di esse si coglie (ed anche in questo caso la risposta è affermativa perché della cosa io colgo l’essenza, ossia colgo la cosa nel suo essere in sé essenziale). Heidegger si occupa in modo circostanziato del cap. 10 di Met. Q sia nel corso del semestre invernale 1925/26 (Lpv) sia anche nel corso del semestre estivo 1930 (GA 31). Ai fini della mia questione circa il carattere epistemico della filosofia prima in relazione alla sua caratura protologica credo sia sufficiente attenersi a quanto affermato in GA 19.

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compare l’espressione, mentre in altri luoghi sempre della Metafisica, o nell’Etica Nicomachea e nel De anima, lo Stagirita parla di sostanze composte. È bene soffermarsi a considerare alcune di queste occorrenze non solo perché sono peculiari del modo in cui lo Stagirita concepisce sia la relazione fra l’intelletto ed il suo oggetto sia la natura dell’intelletto, ma anche perché rivelano in che misura Heidegger riesca nella sua esegesi a mettere in evidenza tutto ciò nell’uso autonomo rispetto ai testi della terminologia aristotelica, mostrando insieme fra le righe altresì il discrimine fra la propria concezione e quella aristotelica. In Metafisica D Aristotele dà una definizione di quel che intende per composto: composto è ciò che deriva dalla materia e dalla forma. Composto è quindi il sinolo, composte sono le sostanze sensibili che costano appunto di materia e forma52. Questa sembra essere la definizione più ricorrente53. Per esempio, nel libro H della Metafisica, discutendo il significato della nozione di oŸsÖa, lo Stagirita si chiede se essa debba essere intesa come nome che “significa la sostanzacomposto (tæn s⁄nqeton oŸsÖan)”, dunque il sinolo, oppure come nome il cui significato sono l’atto e la forma 54. Nel De anima egli definisce sostanza composta (oŸsÖa sunqöth) non ogni sostanza sensibile in modo indiscriminato ma “ogni corpo naturale che partecipa della vita”, cioè né ogni oggetto o elemento materiale e né qualsivoglia sostanza che ha materia, bensì solo quella la cui forma è l’anima55. Quel che Heidegger evidenzia è che l’intelletto umano è compo52

Si tratta del cap. 24 di Met. D dove Aristotele discute i significati della nozione di essere a partire da qualcosa, derivare da qualcosa, t’ úk tinoj eçnai. Uno dei modi (õna tr“pon) in cui si intende la nozione è “il derivare dal composto che deriva da materia e forma (ôk to‡ sunqötou ôk t¡j ¤lhj kaà t¡j morf¡j)” (1023a31-32). 53 Non mancano altri sensi: in Met. Z , 1029b23 Aristotele intende per composto tutto ciò che è costituito dal soggetto della predicazione e dal suo predicato, sia che si tratti di una definizione sia che si tratti di predicazioni che avvengono secondo le figure delle categorie. Ciò che risulta dalla predicazione è un composto, ossia l’unione della cosa e di ciò che le si attribuisce, che sia o no la sua essenza. In De an. I, 410a1 Aristotele parla di composti in senso più generico, indicando quelle cose i cui elementi non si combinano in modo casuale, ma secondo un certo rapporto ed una certa sintesi. 54 Cfr. Met. H, 1043a30. 55 Cfr. De an. II, 412a15 ss. In tal senso un tavolo, che pure è composto di materia e forma, non è una sostanza composta perché non ha per forma la yucª, ossia non è un essere vivente.

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sto non perché attiene a sostanze composte, a sinoli, quale appunto anche l’uomo è56. La sua prospettiva è, invece, che il pensare è sempre realizzato nella trama della parola; in tal senso vi è un dire anche nell’atto di quell’apprensione noetica che raccoglie al suo interno l’essenza, mettendo così in movimento l’argomentare dimostrativo delle scienze nel fornire loro quelle premesse (principi) che sono senz’altro vere. Si tratta di un dire che fa corpo unico con il toccare, con l’afferrare il principio e, dunque, è un dire che svela come svela il no‡j57. Heidegger specifica espressamente che il logos che qui vale come no‡j stesso, il dire (f£nai) il principio, potremmo dire appro56

La relazione fra l’intelletto, che per Aristotele è un alcunché di separato, ed il suo essere forma del sinolo, essendo la parte propria della “forma anima” che è forma di ogni vivente, è tema di una questione che diviene centrale nel lavoro degli esegeti aristotelici sin dalla morte dello Stagirita. Ma non è a questo che Heidegger si sta riferendo. Certamente si può anche giustificare l’espressione “intelletto composto” argomentando che l’uomo è sostanza composta e l’intelletto è assolutamente intrinseco a tale composto, al punto che per Aristotele se non disponessimo della datità dei fenomeni che ci arrivano tramite la sensazione – che è possibile solo in quanto si ha un corpo, una materia recettiva – non ci sarebbe alcun avvio di processi conoscitivi realizzati in modo completo nell’apprensione noetica. Qui Heidegger, invece, parla di un intelletto composto nel senso di un intelletto che realizza i suoi atti essenzialmente nella dimensione di un dire, sia pure ancora non definibile come un formulare, nella riflessione sulla cosa, giudizi su di essa. 57 A mio avviso questo non solo richiama quanto dice Aristotele nel passo di Met. Q in discussione, ma altresì quanto leggiamo in An. Post. I, 72b23-25: “Diciamo che queste cose [scil. che è necessario che ci siano principi primi del conoscere da cui conseguono le dimostrazioni e che essi sono anapodittici] sono così, ed asseriamo non solo che vi è scienza, ma anche un principio della scienza (¢rcæn ôpistªmhj tin£) per mezzo del quale conosciamo i termini (to›j ”rouj)”. Questo principio della scienza si può interpretare in due modi a seconda di come si intende il sostantivo ”roj. Premetto subito che le due letture sono entrambe plausibili e in certa misura dicono lo stesso e che è forse solo il contesto, in cui si parla appunto di principi anapodittici, che in questo caso mi spinge a leggere ”roj come termine ultimo, oltre il quale non è possibile procedere e, quindi, come principio. Se ”roj è reso come definizione, il principio della scienza è in qualche modo il principio della cosa stessa sulla quale la ricerca verte: le definizioni sono difatti a noi note perché in esse si esprime l’essenza della cosa, che si apprende grazie all’intelletto. Se invece gli ”roi sono letti come i termini ultimi, oggetto della definizione, come ad esempio intende Zanatta e come sono spinta anch’io a ritenere dovendo scegliere fra le due opzioni, allora l’¢rcª è l’intelletto che apprende i principi, mettendo così in moto il dimostrare epistemico. Affermare che il no‡j è principio della scienza qui è, del resto, congruente con quanto Aristotele afferma, come già visto, anche alla fine di An. Post. II, cap. 19. La soluzione di ”roj come definizione ha, però, il vantaggio di dare maggiore risalto al fatto che l’apprensione dell’essenza della cosa è immediatamente restituita come un logos definitorio, fungendo così da principio dell’ôpistªmh in quanto ¢p“deixij.

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priandoci a nostra volta del testo aristotelico, è un dire che non rischia inganno, perché non si compie al modo del l“goj ¢pofantik“j in quanto kat£fasij ed ¢p“fasij. Aristotele, però, si esprimerebbe a mio avviso in modo ancora più radicale, dicendo che lo scarto fra questo dire ed il formulare da parte delle scienze quelle enunciazioni primitive che fungono da premesse delle dimostrazioni è contratto, è così ridotto ed annullato che, di fatto, non sembra esserci alcuna distinzione fra l’afferrare i principi da parte del no‡j ed i momenti in cui quegli altri modi dell’¢lhqe⁄ein, realizzati nella forma del sapere razionale attraverso l’affermare ed il negare, pongono le loro premesse (ossia per riassumere: le scienze teoretiche, poietiche e pratiche)58. 58 Potremmo dire che vi è in un certo senso una discrepanza fra quanto Aristotele dice nel passo di Met. Q e quanto dice rispetto ai cinque modi dell’¢lhqe⁄ein nel VI libro di Et. Nic. Qui, infatti, il no‡j è indicato come uno dei cinque modi che si compie “t˘ kataf£nai ¿ ¢pof£nai”. Spiegherò adesso come la mediazione esegetica heideggeriana sotto un certo aspetto permetta di risolvere la discrepanza. Secondo Brach solo dando un preciso significato alla locuzione met¶ l“gou si comprende l’affermazione di Heidegger che “tutti i diversi modi dell’¢lhqe⁄ein stanno in una relazione con il l“goj, che tutti ad eccezione del no‡j sono […] met¶ l“gou” (GA 19, p. 22). Sempre Brach, però, aggiunge che “questa condizione in cui il no‡j non ha bisogno del lögein contrassegna il no‡j nella filosofia heideggeriana” (M. Brach, op. cit., p. 284). Ciò fa pensare ad una distinzione fra il f£nai di Met. Q, che Heidegger non può ignorare riferendosi espressamente alla frase aristotelica, ed il lögein e potrebbe valere la pena approfondire la distinzione, ma questo è un compito che riconosco esulare dalle mie competenze. Brach ritiene anche che Heidegger stia sovrapponendo ad Aristotele la propria concezione del no‡j. A mio avviso non vi è, invece, una sovrapposizione, giacché la differenza fra la posizione heideggeriana e quella aristotelica rimane abbastanza visibile, anche se certamente si tratta di destreggiarsi fra le due per separare il proprio di Aristotele e il proprio di Heidegger. Ritengo che Heidegger consideri l’intelletto come irriducibilmente segnato dalla presenza del logos e, dunque, quando egli parla di un intelletto che si realizza “•neu l“gou” sta a mio avviso prospettando come dovrebbero essere le cose e qual è l’ideale aristotelico della contemplazione, ma ciò non vuol dire né che Aristotele sia convinto che in questa condizione l’uomo possa trovarsi per tutta la durata della sua vita né che questa sia la concezione heideggeriana stessa del no‡j. Brach ha comunque pienamente ragione quando afferma: “Della fondazione di ciò [scil. del fatto che tutti i modi dell’¢lhqe⁄ein ad eccezione del no‡j si realizzano met¶ l“gou] Heidegger resta il solo responsabile ed egli non indica nessun punto dove in Aristotele questa peculiarità del no‡j potrebbe essere verificabile” (ibidem). In effetti, si tratta di una riformulazione di Heidegger a cui va, dunque, chiesta la ragione; in altri termini si tratta di vedere se, appunto, Heidegger sta leggendo fedelmente Aristotele e quello che si concede è solo una formulazione non attenta dal punto di vista della correttezza filologica o, piuttosto, se egli non stia già indirizzando la posizione aristotelica verso una direzione che intende guadagnare per la propria comprensione dell’esserci in chiave fenomenologica.

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Queste asserzioni hanno un valore originario di verità perché esse restituiscono la verità dell’anima che entra in contatto con l’ente con cui è in relazione in quanto suo oggetto epistemico (e ciò secondo scienza, sapienza, saggezza ed arte in conformità all’accezione di ôpistªmh che consente di parlare in modo legittimo tanto di scienze teoretiche quanto di scienze pratiche e di scienze poietiche). In altri termini, la verità di tali asserzioni è la verità dell’atto noetico che è deputato a contemplare i principi dei rispettivi ambiti d’interesse delle varie ôpist¡mai 59. Per Heidegger, invece, lo scarto, la differenza non solo sussiste, ma resta in certa misura ben visibile tanto che egli asserisce che nell’uomo l’atto dell’intelletto, che pure in linea di principio dovrebbe realizzarsi indipendentemente dal logos, resta legato intrinsecamente alla dimensione del dire e così alla struttura dell’in quanto. È proprio qui che si comprende l’uso heideggeriano dell’espressione no‡j s⁄nqetoj e così anche la sua stessa presa di posizione rispetto alla questione in Aristotele. Il no‡j è composto nell’uo59

Carlo Natali mette in evidenzia in qualche modo la contrazione dello scarto che ho qui delineato, contrazione che nel caso dell’intelletto divino non c’è, giacché – come direbbe Heidegger – il no‡j divino non è un “composto”. La tesi di Natali è, cioè, che l’intellezione degli indivisibili, dei principi, nell’uomo è una forma di attività priva di movimento. Natali, infatti, fonda la sua tesi su una ben argomentata distinzione fra ônörgeia e kÖnhsij e spiega che “[l]’intellezione degli indivisibili, in quanto tale, al di là del processo dialettico che può avere condotto ad essa, non è processuale […]. Non è possibile per il nous l’errore proprio della dianoia, e che consiste nel non pervenire al telos, cioè nel non attribuire correttamente un predicato ad un soggetto: quest’ultimo errore infatti è proprio di un ragionamento che avvenga attraverso un movimento del pensiero, che può non arrivare alla giusta conclusione. Se invece si intende la noesis in senso ristretto, come energheia in senso metafisico, nel senso di Metaph. IX, 6, fine, essa, per tutto il tempo in cui si verifica, ha in sé il telos, che nel suo caso è la verità, e non sta al termine del processo. Quindi non è possibile avere una noesis che non raggiunge il vero riguardo al suo oggetto, perché, ripetiamo, se la noesis è energheia, e il vero è il bene e il fine, per definizione quando l’energheia si verifica il fine è sempre presente” (C. Natali, “Attività di Dio e dell’uomo nella ‘Metafisica’”, Rivista di Filosofia neo-scolastica 2-4 (1993), p. 342). In altri termini, l’apprensione noetica dei principi da parte dell’uomo è caso di atto perfetto, atto compiutamente realizzato nella misura in cui l’intelletto che è in atto, secondo anche quanto detto in De an., III l., è presso il fine della sua intellezione, ossia presso il principio, tanto che Aristotele può dire che sono una medesima cosa l’intelletto e ciò che è pensato (cfr. anche Met. L, 1072b20 dove l’identità che si dà sotto la forma di una partecipazione all’intellegibile – kat¶ met£lhysij to‡ nohto‡ – è affermata non con esclusivo riferimento all’intelletto divino, ma anche a quello dell’uomo). Questo atto nell’uomo si dà discontinuamente, nel dio invece secondo l’eternità in modo continuo.

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mo nel senso che è sempre strettamente legato al l“goj poiché il l“goj è quel modo d’essere essenziale che costituisce la differenza specifica propria della specie dell’uomo rispetto al genere cui l’uomo appartiene (z˘on). Nel libro L della Metafisica – ed è questa un’altra occorrenza nel Corpus del termine “s⁄nqeton” – Aristotele si chiede se ciò che è oggetto del noeãn (t’ noo⁄menon) è, appunto, un s⁄nqeton, un composto o meno60. Il no‡j su cui qui discute lo Stagirita è il no‡j che è l’oŸsÖa ¢rÖsth, la sostanza eccellente, il qe“j. Lo sforzo di Aristotele è diretto quindi alla determinazione dell’oggetto dell’intellezione divina, della n“hsij che il no‡j divino esercita. Non è rilevante ora comprendere per intero tutte le argomentazioni aristoteliche che portano a definire (nel caso del qe“j) quel che è pensato dal no‡j come il pensare stesso61. È importante, invece, mettere in risalto la risposta di Aristotele alla domanda che ha appena posto, ossia se l’oggetto di questo no‡j sia un composto o meno. Così, dunque, egli si esprime: Resta ancora una difficoltà, se quel che è pensato è un composto, difatti muterebbe nelle parti dell’intero, o se è un tutto indiviso che non ha materia – nella condizione in cui si trova per un certo tempo l’intelletto umano, o piuttosto l’intelletto delle cose composte (infatti, l’intelletto non ha il bene in una parte o in un’altra, bensì ha il massimo bene in un intero, che è qualcos’altro), in questa condizione si trova l’intellezione di sé eternamente62. 60 Cfr. Met. L , 1075a5-6: “Resta ancora una difficoltà, se ciò che è pensato è un composto”. Si può ricordare che Aristotele considera nei Magna Moralia (cfr. 1212b371213a5) “•topon” il fatto che Dio contempli se stesso, ma circa l’autenticità del brano e la sua collocazione cronologica, nel caso della sua autenticità, rispetto a Met. L i critici non sono ancora d’accordo. 61 Cfr. Met. L, 1075a3-4: “oŸc òtörou o‚n ‘ntoj to‡ nooumönou kaà to‡ no‡”. Le argomentazione che qui Aristotele mette in gioco richiamano molto tutta una serie di osservazioni che lo Stagirita compie in De an. III, capp. 4-7 sia a proposito della corrispondenza fra l’intelletto kat'ônörgeian (o ônergeÖv) ed il suo oggetto ed altrettanto fra l’ôpistªmh kat'ônörgeian ed il pr©gma della conoscenza, l’ôpistht“n, sia in relazione al fatto che il no‡j stesso, essendo senza materia (•neu ¤lhj ), è esso stesso per questo un noo⁄menon, un pensato. Inoltre si rifanno alle precedenti considerazioni esposte in una lunga sequenza dove Aristotele, mettendo in evidenza la natura comune fra l’intelletto umano e quello divino, ne evidenzia anche la differenza (cfr. Met. L, 1072b13-30). 62Met. L, 1075a6-10. Seguo qui il testo fissato dal Ross: “úti dæ leÖpetai ¢porÖa, eÑ

s⁄nqeton t’ noo⁄menon: metab£lloi g¶r ®n ôn toãj möresi to‡ ”lou. ¿ ¢diaÖreton p©n t’ mæ úcon ¤lhn – Èsper — ¢nqrËpinoj no‡j ¿ ” ge tÓn sunqötwn úcei ün tini cr“nJ (oŸ g¶r

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Ciò richiama un principio gnoseologico, enunciato in verità subito prima (L, 1075a2-5), ma enucleato a mio avviso più chiaramente nel III libro del De anima: Infatti nel caso delle cose che sono senza materia sono il medesimo ciò che pensa e ciò che è pensato; infatti la scienza, quella teoretica, e quello che ne è così l’oggetto sono il medesimo (è da investigare la causa del fatto che non si pensa sempre). Nelle cose che hanno materia ciascuno degli intellegibili è in potenza, così che l’intelletto non apparterrà a codeste cose (infatti l’intelletto è la facoltà di siffatte cose senza materia), mentre all’intelletto apparterrà l’intellegibile63.

Aristotele sta dicendo, in ultima analisi, che nelle cose composte l’intellegibile è la forma ed essa è un intellegibile in potenza nella misura in cui per “essere intelletto” deve esserci un “intelligente in atto” che non è nel composto, ma che è il soggetto che conosce la cosa composta. Di contro all’intelligente in atto, quindi all’intelletto nel suo esercizio, compete l’intellegibile che è suo oggetto. Nelle cose composte, quindi, la forma (l’essenza) è l’intellegibile che nell’atto noetico costituisce una medesima cosa con l’intelletto che l’afferra. Le cose che sono composte sono conosciute, allora, sempre tramite quell’atto di separazione che l’intelletto esercita nei loro confronti al fine di isolarne e così comprenderne l’essere. Questo tipo di conoscenza si verifica nell’ôpistªmh che, difatti, costituisce corpo unico, medesimezza con il suo oggetto: ciò che essa conosce conoscendo la cosa di cui si occupa, è propriamente il principio della cosa, la sua essenza colta tramite quell’atto di apprensione noetica a partire da cui la scienza propriamente detta si dispiega come dimostrazione. Il riferimento è a questo punto chiarissimo. Aristotele parla della scienza teoretica proprio per evitare qualsivoglia incertezza circa quel carattere di necessità che attiene agli “•mesa”, “¢diaÖreta” (i principi), che costituiscono il noht“n dell’apprensione dell’intelletto e, quindi, l’ôpistht“n della scienza64. Abbiamo già visto, infatti, che le scienze úcei t’ e‚ ôn tJdà ¿ ôn tJdÖ, ¢ll' ôn ”lJ tinà t’ •riston, oñ n •llo ti) – o¤twj d'úcei aŸtæ aÿt¡j h` n“hsij t’n §panta aÑÓna;”. 63

De an. III, 430a3-9. In Met. A, 982b2 i principi primi sono espressamente definiti come ciò che in massimo grado costituisce l’oggetto della scienza: “m£lista d'ôpistht¶ t¶ prÓta kaà t¶ 64

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Aristotele dopo Heidegger

poietiche e pratiche sono scienze meno esatte delle scienze teoretiche perché “meno esatto” è il loro oggetto. Lo Stagirita sottolinea che l’intelletto non si trova in questa condizione in cui il noht“n è un “semplice”, cioè un principio, sempre – come l’intelletto divino che pensa se stesso –, bensì talvolta. L’intelletto non si esercita, cioè, sempre e solo come apprensione dei principi e, in particolar modo, come apprensione di ciò che può valere come principio primo. Inoltre, come espressamente dichiarato nel brano di Metafisica L appena citato, l’intelletto umano solo a volte si trova nella condizione di pensare gli indivisibili, giacché esso è piuttosto l’intelletto dei composti, ossia l’intelletto che pensa le cose composte. Quel che è separato non è ciò verso cui l’uomo è diretto nel suo “usuale” rapportarsi al mondo, proprio perché esso non è quello che l’uomo trova nel mondo. È invece nel logos che l’uomo dispone di ciò che è l’oggetto del suo sapere epistemico, ossia la forma della cosa che viene assunta nella sua purezza. Nella f⁄sij che abita, di cui è essenzialmente parte come f⁄sei ‘n e di cui dispone conoscendola in chiave teoretica (ôpistªmh fusikª), agendo in essa (pr©xij di cui si ha principio in senso scientifico) e producendo in essa, servendosi di ciò che è già a partire da essa disponibile (töcnh che si realizza in ogni ôpistªmh poihtikª), l’uomo pensa e si rapporta ad entità composte, a sostanze metablhtikaÖ, ad enti in quanto kinht£, ossia dotati di ¤lh, a prescindere da quale sia il principio di movimento, se f⁄sij e töcnh, considerate parimenti come principio di movimento come suggerisce lo Stagirita nel II libro della Fisica65. Ho ormai sottolineato in vario modo che aátia”. Essi sono l’oggetto di quella che è la prima delle scienze teoretiche. Si tratta della corrispondenza fra l’oggetto di una scienza e quella scienza: il “grado di nobiltà” e di esattezza della scienza dipende dal “grado di nobiltà” e di esattezza del suo oggetto. 65 È pur vero che le scienze fisiche operano un’astrazione nel senso che la materia stessa è considerata come principio in modo generico, in conformità al modo in cui nell’anima attraverso l’induzione si generano le nozioni universali. Questa astrazione che dal particolare fa risalire all’universale non è, tuttavia, pari a quella che la ragione mette in atto quando considera la forma separatamente rispetto al composto e, quindi, rispetto alla materia. Inoltre, la materia è compresa da Aristotele in relazione ai suoi elementi costitutivi, che in questo senso sarebbero i “principi” stessi di essa, ossia aria, acqua, terra, fuoco più il quinto elemento, l’etere, che è la costituente materiale delle sostanze sopralunari che, per una serie di caratteristiche proprie, determina la condizione di incorruttibilità di esse. Rispetto a questi elementi-base non c’è né astrazione né generalizzazione ulteriore, essi valgono come termini ultimi dal cui miscuglio in misura diversa si danno

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Scienza, intelletto e sapienza

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la forma in quanto separata kat¶ t’n l“gon costituisce già in se stessa un alcunché di semplice, sebbene l’intelletto umano ne afferri la semplicità nel medesimo logos che si impegna nella conoscenza epistemica del composto. Per tale ragione ho cercato di argomentare che l’essenzialismo non è un mera astrazione indebita, bensì rappresenta il modo di darsi del sapere di tipo scientifico in relazione alla nostra natura umana. Aristotele, tuttavia, oltre a questo tipo di forma, che è semplice in quel modo che solo il logos rende visibile, prospetta anche un modo d’essere della forma in cui essa si mostra come separata non solo tramite logos, ma quanto all’essere. Da un lato, certamente, si può dire che ogni forma trascende sempre il composto e così è un alcunché di separato, ma dall’altro lato la forma che è costitutivamente separata perché immateriale, ossia perché non è forma di un composto, nella trama ontologica del reale resta un unicum, un caso sui generis ed essa è il qe“j. Il dio come pura forma, infatti, è un alcunché di semplice in quanto tale, cioè non già in quanto principio e causa di un ente, ma per sé in quanto ente così sussistente (sostanza). Aristotele ci parla sempre di una pluralità di principi primi, e fra questi è annoverato anche il qe“j. Il dio non compare, però, nell’orizzonte dell’ente come quell’unico principio che risolve in se stesso l’intero dell’ente costituito da enti molteplici ed eterogenei. Piuttosto il qe“j come forma pura è posto “accanto” ad altri principi che sono detti anch’essi primi. Aristotele ci parla, dunque, di un “intero” che “non ha parti”, che “è indiviso”, ma ci parla anche di una pluralità di principi primi, di •mesa, di cose che sono “prime” (t¶ prÓta), di realtà che non sono composte (aÉ mæ sunqetaà oŸsÖai), di ¢diaÖreta. Nella maggior parte dei casi si comprende che questi indivisibili, immediati principi cui egli spesso si riferisce sono le forme considerate come separate kat¶ t’n l“gon, per opera dell’intelletto, ma noi sappiamo anche che in modo molto esplicito Aristotele ritiene che la metafisica debba prendere in considerazione, oltre che i principi comuni (il principio di non contraddizione), il qe“j come pura forma, come forma separata quanto all’essere per sé sussistente. L’essere sullo stesso piano, per così dire, da i corpi materiali con le differenze che, appunto, attengono al diverso mescolarsi degli elementi o alla sola presenza di alcuni di essi.

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Aristotele dopo Heidegger

parte del dio, della f⁄sij e della töcnh in quanto tutti principi primi a partire dai quali si determina una forma di movimento tanto dirompente quale il venire all’essere – nello “scattare” così del “dispositivo” della causa prima –, è un indizio prezioso per comprendere la caratura protologica della filosofia prima. Nella questione dei principi primi non si tratta di dare un contenuto oggettivo ad una forma pura come forma di quel che è una causa prima in quanto tale, ossia non si tratta di individuare una sostanza che si faccia carico della causalità prima come causa ulteriore che sta a monte, fondando e determinando in tal modo l’essere di ciò che è una causa prima. Si tratta invece di rendere attingibile una simile forma come essere che è proprio di quel che è una causa prima, comprendendo, per questa via, nel contempo anche il modo in cui l’intelletto umano si possa rapportare ad essa conformemente alla sua natura, alla sua essenza di animale razionale66. Il punto cruciale è, infatti, questo: l’uomo è atto a separare – almeno secondo Aristotele – le cose dalla loro essenza, dal loro essere. In questa separazione l’essenza, come principio d’essere della cosa, è un qualcosa di non composto, è un separato e si contraddistingue per il fatto di essere colto senza inganno. Esiste, però, una realtà la cui essenza è per sé separata e per questo rappresenta una forma di causa altra, perché trascende il modo in cui l’essenza nelle sostanze composte è principio, è causa d’essere, pur essendo forma, essenza, non più di quanto lo siano le altre essenze nei composti. Certamente rimane il problema di cosa garantisca la validità del66 La domanda in realtà è molto importante perché Aristotele nel passo citato di Met. L dice che in quella condizione in cui l’intelletto divino è sempre, ossia in quella condizione il cui l’apprensione è di qualcosa di indivisibile, di qualcosa che non ha materia e non ha parti, l’intelletto umano è talvolta, ma aggiunge “o piuttosto l’intelletto delle cose composte”, come se dicesse che se l’uomo disponesse di un intelletto che si volgesse sempre e solo alle cose che non hanno parti e materia sarebbe nella felice condizione del no‡j divino. Ma l’intelletto pensa le cose composte e, dunque, è in quella condizione solo quando separa le essenze, le forme: nel pensare i principi l’intelletto umano si rende simile a quello divino. La domanda allora diventa: ma è possibile per l’uomo disporsi nell’esistenza in maniera tale da esercitare costantemente solo un’intellezione dei principi, delle essenze delle cose e, ulteriormente e ancora più radicalmente, del qe“j in quanto in quanto principio primo? Vi è, cioè, un intelletto umano che non sia piuttosto delle cose composte, ma che si realizzi interamente solo come intelletto delle cose semplici sempre?

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Scienza, intelletto e sapienza

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l’atto di separazione del logos (della ragione), attraverso cui cogliamo l’in sé della cosa in quanto la sua essenza. Ritengo che solo un criterio di coerenza interna all’ôpistªmh possa forse decretare in un certo senso la legittimità dell’operazione. Non c’è, inoltre, dubbio che qui siamo in presenza di un tratto conoscitivo che resta peculiare dell’uomo e non dell’ente che egli svela, quel tratto che Gilson considera, come abbiamo visto, una tendenza all’essenzialismo non proficua o non adatta a cogliere l’intera caratura dell’essere. Il fatto è che quello che noi cogliamo come essenza della cosa non è altro dalla cosa stessa, come ho cercato in precedenza di mostrare appropriandomi della lezione kantiana. Guardando in modo specifico alla maniera in cui Aristotele argomenta, l’afferrare l’essenza della cosa è la conquista raggiunta alla fine di un processo che vede l’uomo sempre impegnato a partire dal dato concreto, dal composto. Non vi è nessuna astrazione a priori che viene compiuta sulle cose. È piuttosto l’innescarsi di un meccanismo, di una procedura conoscitiva (l’induzione) che ha a che vedere con la natura stessa dell’uomo, con il suo modo di “funzionare” in quanto sostanza atta a conoscere. La questione, quindi, veramente si sposta a questo punto sul piano di una teoria gnoseologica; eppure resta una questione metafisica, se le cosiddette scienze empiriche vengono considerate dei “sistemi” conoscitivi validi perché adottano una procedura in cui le ipotesi, che perdono il carattere meramente ipotetico e valgono come tesi, essendo le spiegazioni dei fenomeni (i loro principi), non sono considerate teorie astratte, ma la descrizione del modo in cui le cose effettivamente sono. La validità di un simile modo di conoscere non è dimostrata sul piano di una elaborazione solo teorica del modello della conoscenza epistemica, ma resta confermata piuttosto dai risultati che le scienze, così concepite, conseguono o, forse più esattamente, dall’applicazione di quelle conoscenze che quei sistemi conoscitivi epistemici ottengono nel loro essere rispondenti al modello di conoscenza epistemica come conoscenza della causa del fenomeno studiato. Non desidero sviluppare oltre la questione in questa direzione, cioè sul piano di una epistemologia, ma quello che mi preme sottolineare è nuovamente il fatto che la tendenza all’essenzialismo, il ridurre l’essere alla questione dell’essenza, sorge dal relazionarsi del-

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l’uomo alla realtà e non dal mettere tra parentesi questa realtà. Questa tendenza cessa a mio avviso di avere un connotato negativo, se viene osservata nella direzione della comprensione del rapporto dell’uomo con il suo oggetto di conoscenza. Per questo la “metafisica” aristotelica presenta anche pagine di teoria della conoscenza e mette in anticipo a nudo la cogenza della domanda che diventerà poi l’assillo centrale di Kant nella Critica della ragion pura: la metafisica può fondarsi come scienza? È una scienza? E cosa è la metafisica che pretendiamo di possedere come scienza? Stringerò, quindi, adesso ulteriormente le mie considerazioni su questo punto, per tentare di mostrare in che senso in Aristotele la questione della metafisica, che sembra doversi allora trattare solo sul piano di una questione della teoria della conoscenza, resta una questione metafisica, una questione, cioè, che verte sulla metafisica e sul suo statuto in quanto metafisica – e dunque non più sul sapere epistemico in generale – e resta una questione della metafisica, anzi la questione propria della metafisica, costituendo il compito del filosofo primo. Per questa via cercherò di tratteggiare in modo più dettagliato rispetto a quanto ho fatto nel precedente capitolo, quale sia aristotelicamente l’interrogazione della metafisica, ossia in quale modo essa interroghi sul principio, aprendosi il varco all’interno del sapere teoretico. 3. Scienza, sapienza, intelletto Ho fatto in precedenza riferimento alla celebre tesi aristotelica secondo cui l’uomo – e, aggiungerei, non tutti gli uomini – non sempre, bensì solo talvolta vive secondo la più alta vocazione teoretica la sua esistenza “metafisicamente” e “divinamente”, se sofÖa come nome per la metafisica è quel vivere nella conoscenza teoretica che rende simili al dio: “La è infatti la più divina e degna di onore” 67. La condizione in cui l’uomo è solo talvolta, a differenza del qe“j, dal punto di vista della vita umana considerata nella sua attitudine conoscitiva, si prospetta aristotelicamente come un ideale 67

Met. A, 983a5 (“h` g¶r qeiot£th kaà timiwt£th”).

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Scienza, intelletto e sapienza

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verso cui tendere. È la conclusione cui lo Stagirita giunge del resto anche nell’Etica Nicomachea. Il movimento di analisi che ci ha condotto fino a questo punto ha avuto di mira l’esplicitazione del carattere essenziale dell’ôpistªmh, per discernere in che modo ed entro quale spazio la metafisica in Aristotele possa effettivamente dirsi scienza. Esso ha preso l’avvio dal proposito di valutare in che senso la struttura eidetica, quella che Gilson considera una tendenza della metafisica all’essenzialismo, è costitutiva per la filosofia prima non meno e non più che per le scienze ontologiche regionali, eppure in quel modo peculiare che inaugura e lascia irrompere la “novità” della questione metafisica nel campo dell’indagine filosofica. La chiarificazione di una costituzione eidetica della metafisica, in ultima analisi, è scaturita dal bisogno di tentare una strada alternativa alla lettura di Gilson che considera siffatta costituzione come una postura di tipo essenzialistico in cui, attraverso la riduzione dell’essere all’essenza, si appiattirebbe l’essere al piano della sua completa intellegibilità ed oggettivazione. La critica di Gilson incrocia così la critica heideggeriana all’onto-teologismo metafisico. Per liberare in qualche modo l’origine della metafisica, la sua pagina inaugurale aristotelica, dall’accusa, separando Aristotele dalla sua storia degli effetti, è diventato allora indispensabile mettere le mani nella complessa trama che lo Stagirita tesse intrecciando i fili, gli elementi che arrivano da una teoria ontologica del reale e da una dottrina di tipo gnoseologico. A questa trama ho scelto inizialmente di avvicinarmi attraverso il riferimento ad alcuni passi dell’Etica Nicomachea proprio in compagnia dell’avversario, Heidegger. In questo senso, mettendo in gioco il commento heideggeriano per cogliere il cuore del discorso aristotelico, Heidegger svolge in questo capitolo il ruolo dell’esegeta, del “compagno di spedizione”, dell’alleato. La conclusione cui siamo così pervenuti, tramite l’excursus tracciato a cavallo fra l’ultimo paragrafo del III capitolo ed i primi due paragrafi di questo capitolo, lascia emergere un principio di teoria della conoscenza a partire dal quale, riprendendo le fila dell’argomentare dalla questione del “no‡j s⁄nqetoj”, vorrei ora cercare di stringere il cerchio intorno alla domanda: la metafisica è scienza? E in che senso è

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una scienza diversa dalle altre, una scienza “altra”? Per Aristotele l’oggetto del no‡j, il principio, si caratterizza, come già discusso, come un qualcosa di semplice, un intero che però non ha parti, perché immateriale. Un principio di questo tipo è l’essenza: un intero non scomponibile ulteriormente68. In questa assoluta semplicità del principio, che si mostra all’intelletto come un qualcosa di 68

Aristotele si occupa in dettaglio della questione dell’unità della definizione nella parte finale di Met. Z, considerando necessario integrare quanto già detto negli Analitici (cfr. incipit cap. 12 di Met. Z). Il criterio di una buona definizione sembra in generale essere quello che nella definizione “si deve dire la forma (t’ eçdoj) e ciascuna cosa in quanto possiede forma e non si deve mai dire quel che è materiale (t’ ÿlik’n) per sé” (1035a7-9). La forma per sé è un semplice, non ha parti o principi (cfr. ibid., a31: to‡ dù eádouj o‹te mörh o‹te ¢rcaÖ); la definizione che è espressione della forma non si può considerare un composto, pur esibendo sia il genere sia la differenza specifica. Essa è invece espressione unitaria della sostanza colta nella sua essenza, “deve essere enunciazione di un qualcosa di uno”, significando così la sostanza che appunto è un t“de ti, un alcunché di determinato (cfr. 1037b25-27). Il genere non esiste in senso assoluto oltre, al di fuori delle sue specie (cfr. 1038a5: eÑ o‚n t’ gönoj a`plÓj mæ ústi par¶ t¶ Êj gönouj eádh), ma il rapporto fra un genere e la sua specie è un rapporto di implicazione che esprime l’unità della sostanza, il suo essere un’identità definita. Ciò che dunque sul piano della predicazione, come nota Heidegger, sembra costituirsi attraverso la scomposizione e la ricomposizione, sul piano dell’essere è un’unità per così dire indistinta, cioè non composta da parti separabili, pena l’assenza della forma stessa della cosa e quindi della cosa. È questa unità, questa semplicità che è colta dall’intelletto nella n“hsij degli ¢diaÖreta. Gilson Granger parla della definizione come di una sorta di cerniera, di passaggio dal piano della sostanza come un alcunché di determinato “anti-predicativo”, che è “presente alla sensazione o al nous”, al piano dell’“oggetto propriamente scientifico” (G.-G. Granger, La théorie aristotélicienne de la science, Aubier, Paris 1976, p. 235). In effetti le definizioni appaiono come una sorta di “Giano bifronte” e segnano lo scarto fra apprensione noetica e scienza, ma anche la riduzione dello scarto fra il qigeãn e il f£nai nell’apprensione, se la definizione che consegue alla n“hsij, in forza della n“hsij, si garantisce la sua verità fungendo così da principio della dimostrazione da cui scaturiscono nuove definizioni. La questione dell’unità della definizione e dell’essenza è sicuramente un tema molto discusso in sede critica. Mi limito qui a rimandare ai seguenti lavori in merito: R. Bolton, “Division, définition et essence dans la science aristotélicienne”, Revue Philosophique de la France et de l’Étranger 183 (1993), pp. 197-222; M. Frede, G. Patzig, Il libro Z della Metafisica di Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 2001; D. Fonfara, Die Ousia-Lehren des Aristoteles, de Gruyter, New York-Berlin 2003; E. Halper, “Metaphysics Z 12 and H 16: The Unity of Form and Composite”, Ancient Philosophy 4 (1984), pp. 146-159; M. Kessler, Aristoteles’ Lehre von der Einheit der Definition, Berchmans, München 1976; S. Moser, Zur Lehre von der Definition bei Aristoteles, Felizien Rauch, Innsbruck 1935 (in partic. pp. 25-39); C. Rapp (Hrsg.), Aristoteles. Metaphysik. Die Substanzbücher (Z, H, Q ), Akademie Verlag, Berlin 1996; K.-H. VolkmannSchluck, Die Metaphysik des Aristoteles, Klostermann, Frankfurt a.M. 1979 (in partic. pp. 87-138).

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Scienza, intelletto e sapienza

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semplice pur essendo essenza di enti composti, emerge che anche l’intelletto ha una natura affine a quella del suo “oggetto”, ossia ai principi69. Questa condizione sembra considerata da Aristotele il segno di una cesura nell’essere delle cose, di cui è autore l’uomo, perché le essenze non sono mai separate dalle cose se non kat¶ t’n l“gon. Nondimeno, è essa la condizione a partire dalla quale le cose si rendono a noi manifeste nella loro verità, nella loro fenomenicità e non nella semplice parvenza. Questo essere separato, questo essere oltre della forma, del principio della cosa, deve allora avere a che vedere con un atto che si produce nell’anima umana non a partire da sé, ma dalla cosa stessa che diciamo essere il principio. In altri termini, il principio per mostrarsi da sé deve mostrare di sé la regola sotto la quale esso si lascia afferrare dal no‡j, deve manifestare, cioè, quella costituzione che attiene alla forma del principio e che lascia che un principio si mostri come primo. Deve esserci un tratto che, riguardato e conquistato solo dall’interno del principio e non dalla prospettiva della cosa di cui il principio è principio, rivela quale sia la natura di un principio primo. Questo tratto è costitutivamente separato dalle cose di cui il principio è principio; in un certo modo è separato anche dal principio primo con cui deve fare inevitabilmente corpo unico, giacché se si trattasse di un altro principio che si pone alle spalle del principio primo e da cui il principio primo deriva, il principio primo non sarebbe appunto primo. Al filosofo primo, che in quanto uomo dispone di un intelletto congenere all’oggetto che apprende, è consegnato il compito di dar 69 Ho già in precedenza fatto riferimento al fatto che sempre in Met. Z Aristotele argomenta diffusamente in favore di una superiorità della forma sulla materia in quanto principio di individuazione delle sostanze. Ciò non significa che la materia non sia necessaria, ma pure scomposta fino ai suoi componenti ultimi (aria, acqua, terra, fuoco) essa non restituisce specificità come la forma al punto che lo Stagirita sembra distinguere dentro la nozione di metabolª quei tipi di mutamento che toccano in un certo modo anche l’essenza nel loro essere separata o no dalla materia (generazione e corruzione) e gli altri tipi di mutamento che toccano l’aspetto materiale delle sostanze senza provocare alcuna modifica del loro essere essenziale, sebbene sia sull’intero del composto, sulla sostanza nella sua unità di forma e materia, che il mutamento ha luogo. Di un tavolo che da giallo diventa nero il mutamento, pur riguardando una qualità, quindi un aspetto non essenziale della sostanza, si rende visibile nella sostanza in quanto tale, ossia nel tavolo con la sua materia e la sua forma.

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Aristotele dopo Heidegger

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conto di questo tratto, di un certo modo di toccare col pensiero il principio che è già un dire il principio. Se alla sapienza restasse, infatti, preclusa la possibilità di accedere al principio primo nel dire, essa resterebbe condannata al silenzio. Nulla può saturare lo scarto fra il toccare ed il dire, se non appunto la sofÖa stessa incaricata di dare ragione di uno scarto che si contrae nell’apprensione noetica e che diviene di nuovo visibile nel passaggio all’ôpistªmh. Ma la sapienza è, infatti, per Aristotele intelletto e scienza, no‡j kaà ôpistªmh 70. Se il dire della sapienza non avvenisse nel toccare i principi, e se il toccare non fosse già un dire, in che senso la metafisica potrebbe essere una scienza anapodittica – una scienza a cui, sia chiaro, manca la possibilità di una dimostrazione dei principi primi perché del primo non si ha dimostrazione – dalla quale consegue la possibilità di costruire sillogismi apodittici e alla quale spetta di portare in luce la forma che è propria di un principio primo? Nell’ambito della conoscenza dei principi, abbiamo visto nel riferimento a Metafisica L, l’uomo si fa divino, dove nella similitudine costruita dallo Stagirita, in mezzo a criteri rigidamente gnoseologici, e propri di una gnoseologia eidetica, si fa spazio uno stile descrittivo per immagini, per metafore, per simboli che non è un registro retorico affatto estraneo al modo di esprimersi di Aristotele. Resta comunque del tutto gnoseologico il principio di manifestatività che è richiamato dalla figura di un intelletto umano, ontologicamente caratterizzato allo stesso modo del principio che afferra e per questo ontologicamente determinato allo stesso modo dell’intelletto divino: nel toccare che è dire non è all’uomo che spetta l’iniziativa del portare fuori alla vista la cosa, ma niente si manifesterebbe se l’uomo non si acconciasse per accogliere ciò che gli si fa incontro. L’intuizione dell’intelletto – per esprimerci in termini fenomenologici – è tutta riempita dalla cosa, dal suo essere, il pensiero si fa oggetto, quasi invertendo la formula della fenomenologia secondo cui nell’intenzionalità l’oggetto intenzionato è ridotto al soggetto. Di fatto non vi è riduzione che non sia anche riduzione del soggetto all’oggetto, se l’intelletto accoglie senza scarto, senza possibilità di inganno l’essere 70

Et. Nic. VI, 1141a19.

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Scienza, intelletto e sapienza

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della cosa. Accoglie e dice e deve dire, perché se il farsi carico della cosa, lasciandosi penetrare da essa fino ad essere una medesimezza con essa, non fosse già un dirla, la cosa detta e la cosa in sé non sarebbero lo stesso. Ma la cosa detta è la cosa stessa, ed è la cosa stessa secondo il tratto che la determina essenzialmente, è la cosa che si offre nel suo principio e nella sua essenza. È la coappartenenza reciproca, è il venirsi incontro del pensiero e della cosa in cui la sequenza pr©gma-¢lªqeia-l“goj, evidenziata tramite Heidegger e la sua caratterizzazione della verità come modo dell’incontro dell’essere e dell’esserci, è la stessa sequenza ¢rcª-qigeãn-f£nai : non è una successione che si lascia scandire temporalmente, ma un blocco, un intero senza parti, in cui l’alterità della cosa si rende ostaggio, per così dire, del pensiero e, viceversa, l’alterità del pensiero si fa soggetta alla cosa71. In Metafisica L Aristotele illustra tutto questo ricorrendo al paragone: come il dio… così l’uomo. Appare evidente che nell’uso della similitudine Aristotele non sta cercando di misurare il grado di perfezione del conoscere teoretico umano. Non c’è metro di misura, e non c’è bisogno di misurare perché la più divina delle scienze dispone del massimo grado di esattezza, che le deriva dall’oggetto stesso di cui tratta. L’oggetto non è l’intero dell’ente, ma il principio primo, il principio “più esatto di tutti”. È questo infatti che caratterizza la sapienza nella sua ¢krÖbeia, non già il riferimento all’ente in quanto tale, sebbene la primarietà dei principi più alti (¢kr“tatai) appaia spiegata in riferimento alla nozione dell’intero dell’ente. Anche nell’ultimo libro dell’Etica Nicomachea, in modo forse 71 Rosaria Caldarone spiega difatti così la contrazione massima dello scarto fra il principio ed il no‡j: “Aristotele vuole dirci, dunque, che nel momento in cui l’oggetto arriva a riempire, a saturare lo spazio della conoscenza, assorbendo lo scarto costituito dall’elemento soggettivo e strappando al soggetto l’iniziativa della manifestazione, la conoscenza non è più conoscenza di cose, di discreti. Cosa vuol dire infatti l’espressione “h` dù n“hsij h` kaq'aÿtªn”, il pensiero che è pensiero per sé, se non proprio il diventare dell’oggetto (del pensiero) tutto il pensiero, e dunque il riempimento, da parte dell’oggetto, dell’intero campo delle manifestazione?” (R. Caldarone, Eros decostruttore. Metafisica e desiderio in Aristotele, il melangolo, Genova 2001, p. 47). E da qui infatti la sua conclusione: “Ciò che viene indicato come eccellente in massimo grado, e dunque divino, è proprio il possesso dell’oggetto ancor più della capacità di impossessarsene che rinvia all’azione del soggetto” (ibid., pp. 47-48). Certo, divina è la sapienza, divino è il possesso dell’oggetto, ma – ci dice Aristotele – divino è anche l’elemento nell’uomo che fa corpo unico con il suo oggetto.

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Aristotele dopo Heidegger

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ancora più espressivo, Aristotele presenta il modo d’essere dell’uomo sapiente secondo un registro quasi per immagini e similitudini in cui la sapienza, come vivere teoretico nella contemplazione della realtà più alta, è qualitativamente caratterizzata come felice in forza del tratto divino che è nella natura del sapiente. Questo tratto divino ha infatti a che fare con la natura recettiva dell’intelletto che naturalmente non potrebbe essere in atto senza accogliere l’intellegibile. Come sul lato sensibile il piacere si genera dalla compresenza dell’oggetto che è percepito dal senziente o che affetta il senziente, altrettanto sul piano della contemplazione deve darsi compresenza dei due elementi della relazione conoscitiva, intelletto ed intellegibile, e ciò sempre secondo un medesimo schema relazionale: il loro modo di rapportarsi l’uno all’altro deve essere sempre lo stesso, ossia il no‡j deve svolgere il ruolo dell’elemento passivo e il noht“n il ruolo dell’elemento attivo72. Finché vi saranno questa compresenza e questo equilibrio delle parti l’atto contemplativo genererà naturalmente (pöfuke gÖnesqai, secondo la natura delle cose, cioè secondo ciò che naturalmente si genera dal rapporto fra intelletto ed intellegibile che si dà nell’attività contemplativa suprema) piacere. A differenza del XII libro della Metafisica, qui Aristotele spiega in un certo senso più diffusamente la ragione per cui l’uomo non si trova continuamente nella condizione di provare un piacere che deriva da una vita di tipo contemplativo. Il piacere dell’intellezione non è un esito dell’attività, un risultato che da essa scaturisce come una conquista permanente. Esso è l’attività nel suo darsi. Non è una conseguenza finale definitiva, per intenderci, pari all’essere prodotta della sedia da parte dell’artigiano. La sedia rimane dopo essere stata prodotta, e siccome l’attività dell’artigiano è arrivata al fine che realizza il suo atto produttivo in modo compiuto, l’attività cessa e l’artigiano che ha prodotto la sedia va via, lasciando però la sedia lì, come esito che non si cancella per il fatto che l’artigiano non ci lavora più sopra73. Nella contemplazione, se l’intelletto si distoglie dal suo intellegibile, è la contemplazione e, quindi, il piacere a cessare. L’intellegibile rimane 72

Cfr. Et. Nic. X, 1174b33-1175a3. La sedia lascia visibile la sua presenza anche al di fuori della relazione produttiva (della poÖhsij nel suo farsi). 73

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Scienza, intelletto e sapienza

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come una realtà per sé (non è che un principio cessa di essere tale se noi non lo osserviamo più), ma l’attività si interrompe e così scompare il piacere che essa costituisce, fermo restando che l’attività contemplativa è atto perfetto, mentre la produzione non lo è. Aristotele non può che ammettere che non tutti sono inclini alla vita contemplativa ed asserire che a chi esercita questo tipo di attività manca la forza per sostenere in modo continuo lo sforzo che esso implica. Si esprime paragonando l’atto noetico alla vista e il suo discorso rammenta per certi versi la situazione descritta da Platone nel mito della caverna, tuttavia in termini inversi: per lo schiavo che si è liberato dalle catene la luce fuori dall’antro è abbagliante e produce una sensazione immediata di dolore, di fatica. Ma lo schiavo non rinunzierebbe per nessuna ragione alla sua nuova condizione fuori dalla grotta, ed anzi sarebbe disposto a soffrire dolori ancora maggiori, per restare in quel luogo di luce che ha conquistato attraverso la sofferenza74. Aristotele ci parla piuttosto di un’attività contemplativa che è parhmelhmönh che ad un certo punto cessa di esercitarsi75. Non dà 74 Per bocca di Socrate, Platone infatti dice che qualora il prigioniero “venisse […] costretto (¢nagk£zoito) a rivolgere lo sguardo verso la luce, soffrisse (¢lgoã) nel fare tutte queste cose e a causa del bagliore non avesse la forza (¢dunatoã) di guardare quelle cose di cui prima vedeva le ombre” (Resp. l. VII, 515c-d), egli avvertirebbe difficoltà a riconoscere come più vere le cose fuori dalla caverna. Il lessico è tutto incentrato sull’avvertimento del dolore, della fatica, della sofferenza attraverso cui passa il prigioniero. Subito dopo (515e) Platone insiste nuovamente con la stessa immagine del prigioniero costretto a guardare a cui farebbero male gli occhi (pr’j aŸt’ t’ fÓj ¢nagk£zoi [ …] blöpein, ¢lgeãn […] t¶ ‘mmata) e proverebbe dolore (–dun©sqai) costretto alla salita e alla vista della luce del sole. Tutto ciò è metafora del processo di liberazione verso la verità che l’anima deve attraversare. Ma Platone insiste, secondo il quadro allegorico che ha composto, che si tratta di un percorso doloroso. Ed insiste che doloroso sarebbe anche il ritorno nella caverna a questo punto, tanto che anch’egli, come Achille desideroso di tornare nel mondo dei vivi, sarebbe disposto a “sopportare qualsiasi cosa” pur di non vivere nuovamente come dentro l’antro. Glaucone ribadisce, affermando: “Io stesso penso che senz’altro sopporterebbe tutto piuttosto che vivere in quel modo” (516e). Anche Platone si avvale poco dopo del riferimento ad una condizione divina, parlando di oggetti divini che vengono contemplati da chi conosce la verità, e che sono contrapposti alle cose umane (517d). 75 In greco il verbo paramelöw vuol dire infatti trascurare, lasciare da parte. L’idea di un limite ontologico rappresentato dalla natura dell’uomo in quanto sinolo è espressa anche in VII, 1154b21-23 e in X, 1177b22 attraverso il complemento di limitazione Êj ¢nqrËpJ con cui Aristotele fa capire che l’uomo è felice nella misura in cui all’uomo come uomo è possibile vivere secondo l’attività virtuosa contemplativa. Joachim spiega

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Aristotele dopo Heidegger

ulteriori ragioni di questo, se non parlando di uno stato ontologico proprio dell’uomo che comporta un’interruzione nell’esercizio dell’attività, così da determinarne la frammentarietà lungo il corso della vita umana: “Infatti tutte le azioni umane non hanno la forza di restare in atto continuamente” 76. Nel capitolo 7 sempre del X libro dell’Etica Nicomachea lo Stagirita riconosce, in modo del tutto parallelo e congruente con quanto è detto in Metafisica L, che vi è una sorta di carattere divino nell’uomo. L’uomo ha un qualcosa di divino perché caratteristiche divine ha l’intelletto che è la parte della sua anima più nobile, la più nobile virtù (kratÖsth ¢rhtª). Se la felicità si configura come la finalità dell’agire secondo virtù, tanto maggiore e completa sarà la felicità quanto più virtuoso sarà quell’atto. È lo stesso messaggio che arriva anche dal VI libro: l’anima scopre il vero attraverso cinque disposizioni che così rappresentano le virtù della parte razionale. Di queste virtù alcune sono superiori alle altre poiché sono disposizioni conoscitive più questo stato di arresto dell’attività contemplativa come diretta conseguenza della natura composta dell’essere umano: “La ragione è che ogni attività umana implica fatica, superamento di una resistenza, inerzia. L’intero di un essere umano non è immediatamente attuato (actual) in modo completo; il suo essere è un complesso di elementi – un elemento divino ed un elemento perituro – e non è mai assorbito interamente nella sua attività. In alcune attività (qewrÖa, l’attività del no‡j) si consegue l’•truton, l’assenza di sforzo e di fatica, e quindi si consegue un piacere continuo, per quanto possa essere possibile per un ente composto corruttibile: il suo intero essere – l’elemento perituro tanto quanto l’elemento divino – non è, però, mai completamente attuato in un’attività singola. La sua ônörgeia o attività è sempre a dispetto di, e contro, uno sfondo di potenzialità non realizzate: la sua attività è sempre la realizzazione di una d⁄namij tÓn ônantÖwn (una capacità di uno dei due opposti) e dunque implica uno sforzo ed una fatica. Quando allora vi è un’interruzione nella continuità dell’attività, vi è un’interruzione nella continuità del piacere – il piacere non dura più poiché dipende dall’attività. In molti casi, inoltre, la novità intensifica l’attività e così causa piacere, ma dopo un periodo di tempo, quando il carattere di novità svanisce, l’attività scende ad un livello più basso ed il piacere svanisce” (H.H. Joachim, op. cit., p. 281). Anche in Met. L, 1074b28-29 Aristotele dice che per una sostanza composta, dunque per una sostanza che non è solo puro no‡j sempre in atto, “è ragionevole che sia faticosa la continuità dell’intellezione (t’ sunecùj t¡j noªsewj)”. In Met. Q, 1050b24 ss. indica la differenza che intercorre fra il moto continuo ed eterno delle sostanze astrali e quello delle sostanze corruttibili proprio nel fatto che il primo non è un movimento secondo la contrarietà che, in definitiva, viene considerata la causa dell’essere faticoso del movimento che è in atto continuamente (sunöceia t¡j kinªsewj) per quelle sostanze il cui movimento si dà come passaggio da un contrario all’altro e dunque come realizzazione di una potenza. 76 Et. Nic. X, 1175a4-5.

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Scienza, intelletto e sapienza

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esatte. L’attività che è conforme a ciascuna di esse sarà quindi felice in proporzione al grado di perfezione, per così dire, rappresentato da ciascuna come modalità di svelamento. Aristotele, infatti, afferma: “Se la felicità è attività secondo virtù, è ragionevole che sia attività secondo la virtù più nobile, e questa dovrebbe essere la virtù di quel che è ottimo (to‡ ¢rÖstou)” 77. Cos’altro può essere l’attività secondo quel che in noi è ottimo se non quell’attività che si realizza in conformità a quella virtù della parte razionale dell’anima che è la più alta di tutte, ossia l’intelletto? Così, subito dopo, Aristotele aggiunge: Sia che questo ottimo sia l’intelletto sia che esso sia qualche altra cosa, che secondo natura sembra guidare e condurre ed avere cognizione (únnoian) delle cose che sono belle e divine, sia che esso sia un qualcosa di divino (qeãon ‘n) sia che esso sia la cosa più divina che è in noi, l’attività di esso secondo la sua propria virtù sarà la perfetta felicità. E questa è l’attività teoretica78.

Si tratta, dunque, dell’attività contemplativa secondo la parte dell’anima che è la più virtuosa perché quella capace di contemplare, di afferrare e dire i principi delle realtà necessarie79. Questa felicità perfetta dovrebbe implicare che l’uomo possa esercitare l’attività teoretica di questo tipo per la completa durata della sua vita (m¡koj bÖou töleion), ma una vita per tutta la sua durata identificata, per così dire, con l’atto contemplativo delle realtà più alte sarebbe “troppo al di sopra” (kreÖttwn) di quella che è compatibile con l’essere dell’uomo (con la vita a misura dell’uomo, kat'•nqrwpon) e che è adeguata in un certo senso alla sua natura di sostanza composta. E se questo ha il sapore di una sconfitta, dell’esperienza di un limite, nello stesso tempo ha anche il valore di una vittoria, di un superamento di quel limite: 77 Ibid., 1177a12-13. Vi è comunanza etimologica fra il sostantivo ¢rhtª e l’aggettivo •ristoj come forma superlativa di ¢gaq“j, quasi a sottolineare il fatto che fra le virtù dianoetiche ve n’è una che è la più virtuosa di tutte. 78 Ibid., 1177a13-18. L’únnoia è l’avere cognizione di qualcosa nel senso di averne nozione e concetto. 79 Di essi, infatti, Aristotele dice in questo passaggio (a20-21) che fra tutte le cose conosciute, in quanto le cose di cui si occupa l’intelletto, sono le cose più nobili (tÓn gnwstÓn, perà ß — no‡j ).

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Aristotele dopo Heidegger

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L’uomo non vivrà infatti in questo modo in quanto uomo, ma in quanto esisterà in lui qualcosa di divino: tanto questo qualcosa di divino eccelle (diaförei) sul composto (to‡ sunqötou) quanto la attività eccelle su quella secondo l’altra virtù. Se quindi l’intelletto rispetto all’uomo è un qualcosa di divino, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita umana80.

Aristotele tratteggia il vivere conforme alla contemplazione dei principi come un vivere divino, un’attività che si sprigiona direttamente dall’elemento divino che è nell’uomo e che è opposto alla natura composta dell’uomo. Rispetto dunque al modo in cui si esprime Heidegger sembra che qui Aristotele stia dicendo l’esatto contrario: l’intelletto è separato, non è composto. L’intelletto, traccia del divino in noi per così dire, non può che realizzarsi nel trascendere il composto che pure l’uomo è. L’eccellenza dell’intelletto è, se così posso esprimermi, la sua trascendenza e, però, l’attività nobile dell’intelletto non può esplicarsi senza interruzioni, proprio perché l’intelletto è nella natura dell’uomo, si realizza sempre essendo forma della sostanza composta che è l’uomo. All’uomo è possibile solo talvolta “soggiornare” nello spazio teoretico della contemplazione delle realtà belle e divine. È questa la ragione che fa dire ad un certo momento ad Heidegger, riprendendo un’espressione aristotelica del De anima, che il no‡j nell’uomo è il “cosiddetto no‡j” 81. Cogliendo in 80

Ibid., 1177b27-30. L’altra virtù è quella che attiene all’uomo in quanto composto; poco dopo (1178a22), infatti, la virtù dell’intelletto è detta separata (h` dù to‡ no‡ kecwrismönh). 81 Cfr. GA 19, p. 180: “Il no‡j dell’uomo non è quello autentico, ma — kalo⁄menoj no‡j”. Il riferimento di Heidegger è qui a De an. III, 432b27. Ancora una volta Heidegger gioca con le parole di Aristotele. Nel passo aristotelico si discute sulla facoltà locomotoria, vagliando quale sia la facoltà che nel vivente fa sì che il vivente si muova. Aristotele esclude che quel che muove sia l’intelletto, anzi “la facoltà razionale o il cosiddetto intelletto (t’ logistik’n kaà — kalo⁄menoj no‡j)”. Non c’è dubbio che qui Aristotele abbia in mente l’intelletto che ha di mira le realtà necessarie, perché subito si riferisce ad esso come a quello teoretico (— qewrhtik“j). Si può obiettare caso mai allo Stagirita un uso non preciso del termine logistik“n rispetto alla definizione di Et. Nic.; in ogni caso, però, non si sta facendo alcun raffronto fra una condizione di perfezione noetica rappresentata dal qe“j ed una di minore compiutezza che è quella dell’intelletto umano. Heidegger dispone liberamente delle parole di Aristotele per mettere in evidenza, nondimeno, un dato proprio della concezione aristotelica. In precedenza si era già servito della stessa locuzione — kalo⁄menoj no‡j tratta da De an. III, 429a22 ss. Qui si legge: “Il cosiddetto intelletto che è nell’anima (dico intelletto ciò attraverso cui l’anima pensa ed

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Scienza, intelletto e sapienza

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Aristotele, come ho sottolineato, la contrazione dello scarto fra il piano noetico e quello del l“goj in quanto piano dell’elaborazione in forma predicativa del contenuto dei principi nel momento di avvio dell’ôpistªmh in favore di una manifestatività assoluta della cosa, Heidegger, quindi, riconosce altresì l’impossibilità ontologica da parte dell’uomo di soggiornare sempre nello spazio di questa manifestatività. Quella mancanza, quell’assenza di l“goj nell’apprensione dei principi, che all’inizio poteva sembrare, così come è messa in campo da Heidegger, una sorta di controsenso o di paradosso se l’intelletto è una õxij, anzi è la õxij più compiutamente realizzata della parte dell’anima met¶ l“gou82, si risolve nella piena attualizzazione di un intelletto che, tuttavia, si fa nel suo compimento parola. L’espressione heideggeriana intelletto composto rivela, dunque, qualcosa che è peculiare dell’atto noetico così come è inteso da Aristotele, anche se Heidegger per portare all’evidenza la peculiarità dell’atto noetico nella concezione dello Stagirita – e questo è il punto interessante – deve ricorrere ad una forzatura, deve in qualche modo sovrapporsi ad Ariafferra) non è in atto nessuno degli enti prima di pensarli”. Secondo tale definizione, quindi, non vi è un pensare in atto l’oggetto fuori dalla compresenza di intelletto e suo oggetto e, dunque, non vi è apprensione noetica in assenza dell’intellegibile. Anche in questo passo, quindi, non vi è un riferimento ad una condizione noetica che all’intelletto umano resterebbe estranea. In ogni caso l’inesattezza che scorgiamo in Heidegger non toglie nulla al fatto che egli coglie che la limitatezza dell’intelletto umano rispetto a quello divino non ha a che fare con un’imperfezione dell’intellezione dei principi realizzata dall’intelletto umano, ma essa attiene alla natura della sostanza dell’uomo. Anche Heidegger, infatti, sottolinea espressamente che nell’apprensione dei principi il no‡j si lascia alle spalle il dire che si esprime nella forma del chiamare in causa qualcosa in quanto qualcosa. Tuttavia, poiché l’uomo non è in grado per l’intera durata della sua vita di sostenere l’attività intellettuale che lo fa essere al cospetto delle realtà più nobili Heidegger può dire che “il no‡j in quanto tale non è una possibilità dell’essere dell’uomo” (GA 19, p. 59), ed “il noeãn diviene dianoeãn per via del l“goj, del chiamare in causa qualcosa in quanto qualcosa” (ibidem). 82 In realtà, come già visto, proprio in Et. Nic. VI Aristotele fra le disposizioni che colgono il vero attraverso affermazioni e negazioni include anche l’intelletto. Il fatto è che Aristotele assume esplicitamente che queste affermazioni e negazioni sono sempre vere perché qui sono riguardate come mezzi che attengono alle disposizioni dell’anima che sono nel vero, distinguendosi da quelle affermazioni e negazioni che, ad es., si generano entro l’opinare. Se la kat£fasij è il risultato di una disposizione che per sé non si inganna sulle cose, in definitiva il discorso aristotelico è corrispondente a quanto affermato in Met. Q.

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Aristotele dopo Heidegger

stotele. Senz’altro, allora, rimane visibile il differente modo da parte di Aristotele e di Heidegger di affrontare quel dire che configura lo spazio della cattura dell’oggetto intellegibile da parte del no‡j. Resta, in altri termini, visibile la differenza che a questo punto, a mio avviso, si può esprimere come differenza fra la visione eidetica aristotelica del sapere e la posizione heideggeriana di una fenomenalità in un certo senso più ristretta e contenuta, perché assoggettata al rischio di un dire che, secondo Heidegger, si costituisce nella struttura dell’in quanto, attraverso sintesi e diairesi 83. Tuttavia, resta il dato esegetico “forte”: in una tensione interpretativa di vicinanza ed insieme distanza dal testo aristotelico, che poi caratterizza l’intera Auseinardersetzung heideggeriana con lo Stagirita, Heidegger scova il punto centrale della concezione aristotelica della conoscenza che si profila in chiave epistemica. Egli, infatti, non si limita solo, per così dire, a mettere in luce che quel “toccare” che è “dire” – o che quel “dire” che è “toccare” –, l’apprensione noetica, non è isolabile dal tessuto costitutivo di un processo euristico che ha di mira il raggiungimento di una conoscenza epistemica. Sebbene l’apprensione dei principi possa in un certo senso essere distinta nella sua purezza dall’intero processo in cui è inserita e sebbene possa essere considerata come un momento di unicità entro quella trama di modi tramite cui l’anima attraverso atti percettivi, induzione e formulazione di giudizi approda alla conquista dei principi, essa non è, come già chiarito, una folgorazione intuitiva ex abrupto. Ma non è appunto questo il dato esegetico rilevante nella lettura di Heidegger. Nel suo commento emerge piuttosto il fatto che al dire che è implicato nella piena realizzazione del processo conoscitivo, come atto del no‡j che fa corpo unico con l’afferrare il principio, è attribuito il carico dello sforzo disvelativo più pieno e nobile, ma esso non è mai il dire di un l“goj ¢pofantik“j, nonostante la struttura di una definizione richiami l’aspetto di una predicazione di tipo apofantico nella sua formulazione, ricalcando sul piano del suo aspetto la medesima struttura di attribuzione di un predicato ad un soggetto. Heidegger ci dice, cioè, che in Aristotele ci 83 In altri termini, posto lo scarto, per Heidegger quel f£nai di Met. Q è già un dire sintetico-diairetico in conformità all’esperienza umana dell’essere ed al ritmo di manifestazione e ritrazione, il cui controllo sfugge all’uomo.

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Scienza, intelletto e sapienza

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imbattiamo in una serie di indicazioni che mettono in luce una dimensione della parola che è una dimensione di svelatezza assoluta e di accoglimento assoluto della manifestatività. In questa dimensione la parola non inganna, è sempre vera, ossia svela sempre la cosa senza tradirla in accordo con la sua manifestatività, nella misura in cui fra la cosa e la parola non vi è distanza, quasi che la parola perdesse tutto il suo carico simbolico, come significante atto a rinviare ad altro, alla cosa, e si facesse essa stessa tutta questo altro, la cosa stessa. Per questa ragione Heidegger, come ho già ricordato, anche a dispetto di quella che si capisce essere la sua concezione del l“goj e della condizione pre-predicativa del discutere sulle cose, asserisce: “Il no‡j in quanto puro no‡j, se lo si vuole comprendere met¶ l“gou, possiede un l“goj del tutto peculiare che non è né kat£fasij né ¢p“fasij” 84. Heidegger, quindi, non può ignorare in sede esegetica – e da qui la sensazione di trovarsi sempre di fronte ad un’oscillazione fra il piano dell’interpretazione e quello della sua personale concezione – che il no‡j deve potersi realizzare, quanto meno per Aristotele, al di fuori di una trama predicativa potenzialmente ingannevole: Nella misura in cui deve essere afferrata l’¢rcª, questo pensare (Vermeinen) deve lasciarsi alle spalle il l“goj. Deve essere •neu l“gou per avere la possibilità di afferrare un ¢diaÖreton. Il carattere del lögein è infatti il chiamare in causa qualcosa in quanto qualcosa. Ma ciò che è assolutamente semplice, a` plo‡n, non può più essere chiamato in causa in quanto qualcos’altro. Ogni úscaton ed ogni prÓton può essere afferrato autenticamente solo se il noeãn non è un dianoeãn, ma un puro guardare-a (reines Hinsehen). Lo svelare nel modo di compimento del l“goj cessa qui di essere attivo (versagt) e si ritira85.

Il punto, dunque, è proprio questo: quando l’in-vista del processo conoscitivo è l’¢rcª, l’uomo deve farsi come il dio, deve seguire quella sua parte divina, deve in un certo senso mettere fra parentesi la 84

GA 19, p. 59. Ibid., p. 180. In precedenza Heidegger si era già espresso così: “Un’¢rcª, però, se è una ¢rcª ultima, estrema (äußerste), non può più essere affatto chiamata in causa in quanto qualcosa. Il chiamare in causa un’¢rcª in modo adeguato non può essere pertanto realizzato attraverso il l“goj nella misura in cui questo è una diaÖresij. Una ¢rcª può solo essere colta in se stessa, ma non in quanto qualcos’altro. L’¢rcª è un ¢diaÖreton, qualcosa il cui essere si oppone ad essere scomposto” (ibid., p. 145). 85

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Aristotele dopo Heidegger

parte di sé meno nobile – che pure gli serve nell’avvio della conoscenza – per vivere secondo la sua parte più nobile. E se questo, allora, è quello che l’uomo sempre deve fare quando mette in moto il processo conoscitivo in chiave teoretica, ossia in vista del puro piacere di conoscere, cosa fa differenza quando in questo processo l’attore protagonista è il fisico e quando è il filosofo primo? Se il fisico e il filosofo primo si devono atteggiare alla stessa maniera (e in realtà così deve atteggiarsi anche l’uomo saggio), in base a cosa l’attività contemplativa non ha il tratto di una ôpistªmh fusikª, bensì quello della prËth filosofÖa, della sofÖa, costituendosi come una scienza altra?

4. Protologia e onto-teologia Da quanto ho finora discusso, grazie anche a ciò che Heidegger mi ha permesso di evidenziare, credo che si possa asserire, in ultima analisi, che per l’ôpistªmh il no‡j è principio di conoscenza, perché il no‡j è ciò che è preposto dalla natura nell’uomo ad attingere i principi, ma è il l“goj la possibilità del costituirsi della scienza come tale – vale a dire essenzialmente come ¢p“deixij –, del suo “farsi” come patrimonio vero di conoscenze sorrette da dimostrazione, dove la garanzia della verità del suo conoscere è tutta a carico dell’atto noetico e non della struttura dimostrativa in sé della scienza che, in quanto struttura predicativa di tipo sintetico-diairetico, è esposta in linea di principio al rischio dell’errore86. Aristotele, forse, terrebbe a 86 Alla fine di An. Post. (II, 100b15) Aristotele determina espressamente l’intelletto come principio della scienza (no‡j ®n eáh ôpistªmhj ¢rcª ), ossia come ciò da cui la scienza procede, perché è in virtù dell’intelletto che si colgono i principi propri da cui procede ogni singola scienza particolare. Heidegger stesso nota a sua volta che tutti i modi dell’¢lhqe⁄ein, eccetto il no‡j, sono in rapporto al l“goj (cfr. GA 19, p. 22), cogliendo così esattamente il punto cruciale dell’impostazione gnoseologica aristotelica. Propriamente è, appunto, soltanto il no‡j la facoltà deputata al coglimento dei principi, sebbene nel contesto iniziale della discussione aristotelica anche l’intelletto figuri come disposizione della parte dell’anima che è met¶ l“gou. In senso molto rigoroso il noeãn è, tuttavia, indipendente nel suo dischiudere l’ente cogliendone il principio dai quei modi di accesso all’ente che si verificano nella dimensione del dire, della parola (scienza, arte, saggezza, sapienza). Heidegger aggiunge che ôpistªmh, töcnh, fr“nhsij e sofÖa “esistono nel noeãn; […] sono un modo determinato di realizzazione del noeãn, il dianoeãn” (ibid.,

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Scienza, intelletto e sapienza

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puntualizzare che non è solo l’apprensione noetica dei principi a fondare la verità della scienza, ma anche la sua stessa struttura apodittica: se i sillogismi dimostrativi sono formulati in modo formalmente corretto, di necessità da premesse vere la dimostrazione concluderà sempre con enunciazioni vere87. Per il modo di vedere di Heidegger, che pure in sede di commento al testo aristotelico lascia trapelare pienamente il bisogno di certezza e di verità che è sotteso alla teoria aristotelica sui modi dell’¢lhqe⁄ein, la possibilità dell’inganno, della copertura dell’essere dell’ente, di contro, è come se lasciasse una traccia di sé indelebile nella relazione fra esserci ed ente. Difatti, o l’esserci ha un’esperienza dell’ente cui attribuisce un significato in base al proprio modo di fare uso dell’ente e non in base all’essere in sé della cosa (in quanto ermeneutico) o l’apprendere la cosa nel suo essere, che si mostra come gesto del qewreãn, è già imbrigliato nella struttura sintetico-diairetica che è propria del logos che fa capo al determinare la cosa rigidamente secondo la modalità della Vorhandenheit, in conformità alla quale la cosa, come oggetto di osservazione e rappresentazione, è colta “in quanto qualcosa” (in quanto apofantico). Ciò che tuttavia Heidegger ci aiuta a comprendere con la sua lettura dell’¢lhqe⁄ein nel Platon: Sophistes – credo sia giusto ribadirlo – è che per Aristotele l’uomo, nei modi attraverso cui può dire di conoscere una cosa, conosce (ossia dimostra) passando attraverso l’articolazione – e dunque attraverso lo scarto fra “intelletto” e “logos” – di una struttura propria della cosa che egli si ritrova a governare nel discorso. Perché se non vi fosse uno scarto fra p. 28), dove il discrimine indicato dal “di£” è il fatto che il no‡j è la dimensione del contatto diretto con la cosa, contatto in cui il no‡j si realizza senza possibilità di errore. Gli altri modi, invece, si legano strutturalmente al dire ed il dire come kataf£nai e ¢pof£nai può secondo Heidegger in quanto atto sintetico-diairetico tanto scoprire quanto coprire l’ente nel suo essere. Nel rapporto noetico con il principio, di contro, si dà solo verità, ossia disvelamento che non copre. La garanzia della veridicità delle altre forme di disvelamento risiede allora nel fatto che ognuna si basa su un momento di apprensione del principio. Il no‡j è in questo senso un modo d’essere scoprente semplice, non composto, non sintetico, in cui esso è in unità con la cosa che viene “toccata”, con il principio. Tuttavia il no‡j non è scienza e se restassimo chiusi nell’atto noetico con cui afferriamo i principi, non ci sarebbe né apprendimento né insegnamento che aristotelicamente caratterizzano anche il modo conoscitivo della scienza. 87 Cfr. An. Post. I, 75a5-6 (ôx ¢lhqÓn ¢lhqùj ¢eÖ) e Top. I, 100a25 ss.

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Aristotele dopo Heidegger

l’apprensione noetica e la scienza propriamente detta, non si passerebbe appunto dal piano della pura apprensione noetica a quello dell’articolazione dimostrativa nella forma dell’ôpistªmh che rende la scienza anche un patrimonio conoscitivo che si può trasmettere ad altri e che, a propria volta, si può imparare da altri. L’ôpistªmh sarebbe no‡j. Invece il no‡j è il principio dell’ôpistªmh. La struttura della cosa è, quindi, la sua struttura d’essere essenziale, che all’uomo diviene nota nell’apprensione concettuale (únnoia) e di cui l’uomo si trova a disporre attraverso la formulazione di predicazioni di tipo essenziale, che segnano l’avvio della procedura dimostrativa e, dunque, dell’organizzazione in forma ordinata e sistematica del contenuto conoscitivo. Se all’uomo compete la capacità di governare la struttura d’essere della cosa nella misura in cui il “logos”, tutto peculiare, da cui prende avvio il suo argomentare dimostrativo è l’atto di svelamento della cosa senza contraffazione, nella contrazione dello scarto fra qigeãn e f£nai, l’uomo ha allora conoscenza del perché della cosa ed è nelle condizioni di potere applicare le inferenze, che valgono per un membro della classe considerata, a tutti i membri appartenenti a quella classe. Il lavoro di questa capacità non si manifesta solo nella ricerca della metafisica, ma in ogni indagine che sfocia in una conoscenza di tipo epistemico. Questa capacità può anche essere considerata, come giudica Gilson, il sintomo della patologia dell’essenzialismo, ma certo non si tratta di un difetto esclusivo delle metafisiche dell’essenza in quanto tali. Si tratta piuttosto di un tratto, di un modo d’essere che attiene alla natura propria dell’uomo. Come ho tentato di far vedere per mezzo del riferimento kantiano, la ragione può anche cercare con successo di regolamentare questo suo modo d’essere. Essa, cioè, può scoprire attraverso la critica di sé che il modo in cui si dà la relazione fra il conoscere la cosa e la cosa si costituisce per sé come il mezzo, il tramite mediante cui all’uomo è possibile cogliere quell’essere della cosa che non è altro da essa, ma che anzi è la condizione stessa della sua datità. Può scoprire tutto ciò, sebbene appunto l’essere della cosa non faccia mai corpo unico con la cosa in senso assoluto, trascenda per sé sempre la cosa ed appaia all’uomo esplicitamente come separabile sul piano della sua riflessione sulla

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cosa (kat¶ t’n l“gon – espressione che a questo punto indica un lavoro della ragione sul sinolo per assumerne la forma come aspetto del suo essere). Per farsi carico della manifestatività dell’essere della cosa, l’intelletto deve disporsi passivamente all’accoglienza della fenomenicità dell’essere, assoggettarsi ad essa. A mio avviso, questo è, in definitiva, il senso di quell’atto di cesura fra la forma e il composto di materia e forma – cesura di cui la ragione, che ne sembra responsabile, di fatto non è autrice, perché questa eccedenza della forma, dell’essenza rispetto alla cosa individuale si palesa sempre sul versante dell’essere delle cose, se sotto una stessa forma universale è possibile sussumere individui distinti. La forma è un semplice per sé, e per sé attiene al composto senza ridursi ad esso nel costituire l’identità di un sinolo88. Per Aristotele la capacità di afferrare l’essenza, che si apprezza solo nello scarto fra intelletto e scienza come elaborazione di logoi, autorizza il passaggio decisivo dalla conoscenza meramente empirica a quella che è diretta alla conquista dei principi, che ci si muova in ambito teoretico, poietico o pratico. Questo passaggio si costruisce attraverso un atto induttivo che è strettamente legato alla formulazione di giudizi di tipo universale. Il fisico, che parte dalla costatazione empirica dell’ente mosso, giunge induttivamente a dichiarare che ciò che è valido per l’ente mosso x lo sarà anche per l’ente mosso y e, sotto la formulazione di una predicazione definitoria essenziale sull’ente mosso tout court, abbraccerà insieme x e y. Questa capacità, cioè, si esprime nell’atto epagogico che è preludio indispensabile all’apprensione dei principi come lo strumento attraverso cui l’uomo appunto trae inferenze e formula tanto la proposizione universale affermativa, da cui prende avvio la dimostrazione, quanto la protasi che funge da termine medio, se in effetti il riconoscere l’umanità 88 Sotto questa luce leggo anche quanto dice Aristotele in Met. B, 999a17 ss.: “È necessario infatti che il principio e la causa siano al di là delle cose di cui sono principio (par¶ t¶ pr£gmata) e che possono esistere separati dalle cose (cwrizomönhn)”. Ciò, aggiunge subito dopo lo Stagirita, perché essi hanno natura universale e si predicano di ciascuna cosa. Solo che non tutto ciò che si predica di tutte le cose necessariamente è un genere e dunque un principio; inoltre, le specie sono maggiormente principio del genere appunto perché individuano maggiormente una sostanza individuale.

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come definizione di Socrate è un’operazione cui presiede la stessa capacità che fa dire che tutti gli uomini sono mortali89. Il riconoscere in Socrate il tratto per il quale la sua essenza è detta “essere umano” e non “pianta” non si produce, per così dire, per via di una capacità che è diversa da quella che dal caso singolare coglie l’elemento essenziale che è comune a tutti gli individui appartenenti alla classe90. Per 89

In An. Post. (cfr. 81a39 ss.) Aristotele afferma che si apprende per induzione o per dimostrazione, in quanto l’induzione procede dai particolari (ôk tÓn kat¶ möroj) e la dimostrazione dagli universali (ôk tÓn kaq“lou), così che tramite induzione si giunge all’universale e tramite dimostrazione si rende noto il perché dell’essere un che cos’è di un individuo. Asserisce subito dopo che è “attraverso l’induzione che si rendono note le cose che sono dette per astrazione (ôx ¢fairösewj) ed il fatto che alcune cose appartengano a ciascun genere, anche se non sono separate, in quanto quel genere”. In altri termini, al genere uomo ad es. appartiene oltre all’essenza razionale anche l’essere bipede. L’essere bipede non è un alcunché di separato al modo della sostanza in quanto essenza, oŸsÖa , ma è comunque una determinazione che compete all’uomo, ad ogni uomo in quanto uomo, è il suo ádion. Così in un sillogismo che potremmo considerare della prima figura, in cui il termine medio è soggetto nella premessa maggiore e predicato nella premessa minore, del tipo “tutti gli uomini sono bipedi” – principio ottenuto per induzione se l’induzione porta ad afferrare sia l’essenza sia ciò che è proprio di ogni genere – e “Socrate è uomo”, dunque “Socrate è bipede”, la dimostrazione si costruisce grazie a principi colti tramite induzione, dove il termine medio “uomo/uomini” tradisce, a sua volta, il lavoro dell’induzione perché assunto in forma universale (“tutti”). Ciò non sminuisce comunque il fatto che l’induzione si mette in movimento, per così dire, a partire dalla sensazione e che, in definitiva, tutte le õxeij con cui si disvela l’essere della cosa, nel senso del disporne come principio di conoscenza della cosa, procedono dalla sensazione (cfr. ibid. 100a11 e 100b4-5: “Ed infatti in questo modo [scil. a seguito dell’induzione che si genera dalla aásqhsij] la sensazione fa scaturire l’universale”. 90 Già Platone mostra come sia il procedere dal singolare all’universale e sia l’andare dall’universale al singolare sono atti che competono ad una medesima “abilità” nell’uomo. Abbiamo già visto in precedenza che è al no‡j che Aristotele attribuisce la capacità di cogliere il principio che è restituito nella premessa minore del sillogismo, momento in cui, in ultima analisi, il caso individuale è sussunto sotto l’universalità del genere, per lo meno guardando al sillogismo apodittico di prima figura. Heidegger specifica, ancora nel suo commento al VI libro di Et. Nic., che “il sullogism“j e l’ôpagwgª sono le due vie tramite cui si può fornire agli altri la conoscenza di cose determinate (ein Wissen über bestimmte Dinge)” (GA 19, p. 36). Si accentua così, forse, il divario fra il momento noetico e il momento epistemico-apodittico della conoscenza, nella misura in cui la scienza nella sua formulazione dimostrativa è il mezzo con cui si rende noto attraverso il logos il contenuto di ciò che si è conosciuto. L’induzione allora diventa un momento necessario sia a livello euristico, perché è la via che conduce all’apprensione noetica in cui il principio è colto secondo la sua valenza universale, come quello che vale per i vari individui che sono sussumibili sotto esso (dunque che l’umanità è forma ed è universale perché è essenza di Socrate, Fidia, Corisco e qualsiasi altro uomo), sia a livello apodittico nella misura in cui presiede alla formulazione delle due protasi del sillogismo.

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descrivere il generarsi dell’induzione Aristotele parla alla fine dei Secondi Analitici di una sorta di arresto nell’anima a seguito del quale dalla singola percezione sensibile (“si percepisce infatti il singolare, ma di contro la sensazione è dell’universale”) si origina la nozione universale della specie, del genere, o altresì dell’essenza comune a tutti gli individui appartenenti al genere, “le cose prive di parti (t¶ ¢mer¡) e gli universali” 91, così che “si conoscono in qualche modo le cose universali per mezzo del particolare” 92. L’induzione sembra allora una sorta di atto del tutto spontaneo della facoltà dianoetica. Quest’ultima, come già visto, è la capacità di articolare ciò che in sé, nella cosa, è indivisibile e che il no‡j – õxij suprema di questa facoltà – è atto a cogliere nella sua semplicità, nella non separatezza fra essere della cosa e cosa, sia pur restituendo l’essere della cosa come separato nel logos, nella predicazione, potremmo a questo punto dire forse anche così accogliendo in modo ancora più letterale quello che Aristotele asserisce quando afferma che la forma, in quanto un t“de ti, è separata tramite “logos” 93. 91

Cfr. An. Post. II, 100a15 ss. Cfr. Anche Phys. VII, 247b11 ss., dove Aristotele asserisce in modo corrispondente: “Diciamo che infatti il pensiero conosce e ragiona tramite lo star fermo e l’arrestarsi (t˘ g¶r h'rem¡sai kaà st¡nai tæn di£noian ôpÖstasqai kaà froneãn leg“meqa)”, ed altresì De an. I, 407a32, dove è l’intellezione, la n“hsij, ad essere definita come uno stato di quiete e non di movimento. A ben vedere, il risalire dal particolare all’universale e il discendere dall’universale al particolare a seguito dell’apprensione noetica – entrambi modi della conoscenza verso il principio e dal principio, in quanto, rispettivamente, procedere epagogicamente e procedere deduttivamente – si possono considerare i due modi della facoltà dianoetica dell’anima (cfr. De an. II, 414a32: “dun£meij [scil. yuc¡j] d'eápomen qreptik“n, aÑsqhtik“n, –rektik“n, kinhtik’n kat¶ t“pon, dianohtik“n ”). 93 Cfr. Met. H, 1042a29: “[…] morfª, oï t“de ti t˘ l“gJ cwrist“n ôstin”. Così anche in Phys. II, 193b4-5: “[…] h` morfæ kaà t’ eçdoj, oŸ cwrist’n oñn ¢ll'¿ kat¶ t’n l“gon (forma ed essenza, che non è separata se non secondo il logos)”. In De an. II, 413b27 ss. Aristotele, sia pure esprimendosi specificamente su ciò che concerne il rapporto fra l’anima, le sue parti ed il corpo, lascia intendere in modo piuttosto chiaro che è possibile esprimersi in termini più generali dicendo che l’essere delle cose è sempre separabile da esse tramite logos (t˘ l“gJ). Il punto è, però, come credo di avere ormai segnalato in varie occasioni, che vi è un ente che risulta separato a`plÓj, in senso assoluto, che è un “t˘ eçnai kecwrismönon”, per riprendere un’espressione aristotelica sia pure fuori dal suo contesto. Ancora più complessa è poi la questione che concerne il fatto di come l’intelletto, in quanto parte essenziale di ciò che costituisce la forma essenziale dell’uomo, sia per sé un essere separato: è il no‡j che in De an. III, cap. 5 viene presentato come cwrist“j, ¢paqªj ed ¢migªj. Mentre in riferimento al qe“j, che è appunto puro no‡j, si comprende 92

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Aristotele dopo Heidegger

Heidegger afferma in tal senso che “l’ôpagwgª è allora manifestamente l’inizio (Anfang), ossia ciò che apre l’¢rcª ” 94. Rispetto a questa anteriorità dell’induzione sulla scienza anzi aggiunge che l’ôpistªmh è “un mostrare a partire da qualcosa che è già familiare e noto” 95; dunque, essa “presuppone sempre qualcosa e quel che essa come l’intelletto possa essere visto da Aristotele come immortale ed eterno, più problematico è capire cosa possa significare l’immortalità del no‡j umano, se questi va incontro ad un reale processo di corruzione con la disintegrazione del suo essere sinolo nella sua morte. L’immortalità dell’intelletto nell’uomo allora deve essere dello stesso tipo, per così dire, dell’incorruttibilità propria di ciascuna essenza, nella misura in cui lo Stagirita argomenta che nei sinoli non è mai la forma per sé ad essere toccata dal mutamento, ma o la materia o, appunto, l’unione della materia e della forma nelle forme di mutamento secondo l’essere, ossia generazione e corruzione. La questione sull’intelletto è notoriamente una di quelle che impegna maggiormente gli esegeti aristotelici sin dal primo sviluppo del Peripato dopo la morte del maestro ed in modo costante fino alle trattazioni della tradizione esegetica giudaica ed araba. Alessandro di Afrodisia, forse il più significativo commentatore aristotelico in lingua greca, si occuperà ad es. in modo approfondito del tema (su questo ed altresì per una ricognizione generale dello sviluppo della problematica nell’antichità dopo Aristotele nella commistione di Aristotelismo, Medio- e Neoplatonismo cfr. P. Moreaux, L’Aristotelismo presso i Greci, vol. I: La rinascita dell’Aristotelismo nel I sec. a.C., trad. it. di S. Tognoli, Vita e Pensiero, Milano 2000, vol. II, t. 1: Gli Aristotelici nei secoli I e II d.C., trad. it. di S. Tognoli, Milano, Vita e Pensiero 2000, e vol. II, t. 2: L’Aristotelismo dei non Aristotelici nei secoli I e II d.C., trad. it. di V. Cicero, Milano, Vita e Pensiero 2000; P. Donini, Tre studi sull’Aristotelismo nel II sec. d.C., Paravia, Torino 1974; J. Wiesner (Hrsg.), Aristoteles – Werk und Wirkung, 2. Bd. Kommentierung, Überlieferung, Nachleben, de Gruyter, Berlin-New York 1987, in partic. P. Donini, “Aristotelismo e indeterminismo in Alessandro di Afrodisia”, pp. 72-89, H.J. Blumenthal, “Alexander of Aphrodisias in the later Greek Commentaries on Aristotle’s De anima”, pp. 90-106, H. Seidl, “Aristoteles’ Lehre von der n“hsij noªsewj”, pp. 157176 e S. Pines, “Some distinctive metaphysical conceptions in Themistius’ Commentary on Book Lambda and their place in the history of Philosophy”, pp. 177-204). 94 GA 19, p. 36. Anche nel caso della metafisica non si può in senso stretto dire che essa sia in grado di spiegare il “perché” del principio nel senso di una deduzione da altro principio, se si enfatizza il suo carattere epistemico e dunque deduttivo. Se, invece, si prova a determinare la metafisica attraverso il suo interrogare sul principio, forse è possibile catturare il modo in cui la condizione anapodittica della metafisica non rappresenta una sorta di confine invalicabile per la stessa metafisica, ossia non segna l’impossibilità di questionare come in una seconda battuta intorno al principio secondo il divieto posto dall’essere anapodittico del principio in quanto primo in senso assoluto. Forse, in altri termini, è possibile scorgere un senso dell’interrogare della metafisica che non si può racchiudere e, quindi, in qualche modo governare nel sistema di una scienza anapodittica ed insieme dimostrativa – un senso dell’interrogare che, senza violare la condizione, lo statuto di scienza anapodittica che spetta alla metafisica, permette di caratterizzare la filosofia prima in senso forte come “scienza dei principi primi”. 95 Ibid., p. 37.

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presuppone è proprio l’¢rcª. E l’ôpistªmh non apre da sé autenticamente l’¢rcª” 96. L’ôpistªmh allora presuppone l’¢rcª e lo fa a partire dal dato, dall’oggetto da cui prende avvio il suo processo euristico. Presupponendo l’¢rcª la scienza presuppone l’atto di apprensione noetica che sta sempre alle sue spalle, che segna a monte la possibilità di afferrare il presupposto, ossia il principio. Assunto un ambito dell’ente, di esso l’ôpistªmh prima, anteriormente, nel suo preliminare processo euristico, presuppone che ci siano principi primi da rintracciare; dopo, posteriormente, continua a presupporli anche se questa volta nel senso di condizioni preliminari per il suo darsi apodittico. Siamo in presenza di un punto che si rivela nevralgico per la comprensione della natura epistemica della metafisica: la scienza – nessuna scienza – non dispone mai in senso forte del principio se per possesso forte si intende il fatto che qualcosa sia conosciuta attraverso una dimostrazione. Il principio è ciò che la scienza assume come la sua stessa condizione (senza principi non vi è scienza come dimostrazione, ma neppure come percorso di indagine, di ricerca). Il conoscere il principio di cui una scienza dispone non si esplicita mai nel conoscere il perché del principio, se così posso esprimermi, se non in un modo la cui articolazione cade fuori dalle competenze che una scienza deve avere per essere tale. Per questo a nessuna scienza particolare è richiesto di dare ragione dei propri principi: ciò di cui essa deve dare ragione è l’oggetto che viene all’essere a partire da tali principi e in conformità ad essi. Che il principio valga in modo universale è cosa che si apprende per induzione. Non c’è altra ragione che, ad esempio, leghi in modo necessario per il soggetto che conosce l’essere uomo all’essere animale razionale in quanto essenza dell’uomo, se non quel passaggio all’universale, dunque all’essenza, che è in forza di un atto epagogico di cui il soggetto sembra non rispondere, perché è atto che si produce in lui spontaneamente, per così dire. Ma – si badi bene – ciò non vuol dire che non sia possibile dire a chi vuole conoscere l’uomo il perché l’uomo è un vivente razionale. Questo è difatti ciò che la biologia e la psicologia spiegano, mo96

Ibidem.

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Aristotele dopo Heidegger

strando che l’uomo è così perché dispone del no‡j. Nessuna scienza nell’ottica aristotelica potrà, però, mai spiegare la ragione dell’essere dell’uomo come no‡j, ossia perché nell’ordine della f⁄sij esiste una sostanza che è determinata per essenza tramite la sua facoltà razionale, dando dimostrazione della necessità che al mondo vi sia una sostanza la cui forma è l’anima. La scienza può, in altri termini, solo costatare la causalità del principio, ma non può fondarla, declinando ogni argomentare intorno ai principi ad esempio in chiave dialettica, appunto perché nessun principio proprio e primo può all’interno della scienza che lo assume come suo principio venire dimostrato. Se si dice, allora, che la metafisica si apre come scienza dei principi, collocando il principio nel luogo dell’oggetto, posta la struttura epistemica delineata, la metafisica non avrà mai un possesso forte dei principi, per riprendere l’espressione di Ackrill, perché i principi sono indimostrabili. Deve essere dunque un’altra la maniera che consente di trovare nella metafisica il tratto dell’ôpistªmh. La pretesa del metafisico è quella di tastare, di sondare, di chiedere perché, in che modo un principio che si riconosce primo ha il potere di mettere in movimento, di causare qualcosa. Nessuna scienza si interroga sul perché della cause apprese a monte e da cui argomenta in chiave dimostrativa. Il metafisico lo fa, ma ciò che costui tenta di fare non può mai farsi valere in senso stretto come se si trattasse di andare a rintracciare ancora più indietro un principio del principio, da cui quest’ultimo possa essere dedotto. Il suo tentativo assume piuttosto, come dicevo, il senso della ripetizione di uno stesso, di un domandare sul principio che trova la sua apertura proprio ripetendo il gesto dell’interrogare, reiterandolo, chiedendo di trarre fuori dal principio primo la forma in base alla quale si determina come primo, ossia come capace di causare senza rinviare ad altro alle sue spalle. Che scienza sarebbe infatti la metafisica se facesse saltare il divieto dell’arresto all’infinito nella ricerca della causa, se contro di essa si potesse far valere lo stesso argomento (quello del terzo uomo) costruito contro i sostenitori delle idee al modo platonico, se della forma si potesse sempre chiedere una forma che è alle spalle, alla quale risalire, e dalla quale dedurre il principio che si pretende di fare valere come primo? Anche il metafisico deve, allora, mantenersi nei limiti che sono co-

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muni a tutte le scienze, ossia deve procedere in un certo senso salvaguardando l’originarietà e la precedenza dell’apprensione noetica dei principi nel processo conoscitivo e non deve violare il divieto di procedere eÑj •peiron. Anzi è proprio in forza di questa “buona” norma, di questo criterio che regola un “buon” processo conoscitivo determinandone la “buona” riuscita, che la metafisica sembra aprirsi il varco fra le varie ôpist¡mai in quanto scienza “ultima”, ossia scienza a cui, giacché anapodittica, spetta l’ultima parola sui principi primi. Il punto è che il filosofo primo non può arrivare al principio primo sulla base della stessa regola induttiva tramite cui le altre scienze arrivano ai principi propri e ciò perché l’ente in quanto tale, come ciò in riferimento a cui sembra giustificarsi e prendere corpo l’idea che vi siano principi per se stessi primi, non si può considerare al modo di un genere o di un ambito. Se si elimina il tratto di determinazione che delimita ed individua un “settore ontologico”, una regione ontologica, non si dispone più neanche della chiave che, conformemente alla nostra natura umana conoscitiva razionale (l’induzione appunto), dentro quella regione ontologica apre alla formulazione di un principio d’ordine ontologico universale in quella regione, consentendo di abbracciare e sussumere sotto di esso tutti i membri che sono parte di quella regione. Non c’è un’induzione trans-generica, per così dire, ossia un atto epagogico che, attraversando tutti i generi dell’ente, trova il tratto essenziale comune a tutti. Si dovrebbe in tal caso immaginare come un atto induttivo di secondo grado, un’induzione che prende corpo su induzioni già realizzate, ciascuna in ogni ontologia regionale. I principi universali ottenuti in ognuna delle ontologie regionali sono, però, in se stessi invalicabili appunto perché primi e non rinviano ad un principio ontologico ulteriore che, a questo punto, cadrebbe al di fuori della regione ontologica. Secondo me si trova la conferma al fatto che alla nozione dell’ente in quanto tale Aristotele giunga a partire dalla domanda di tipo protologico, parlando in tal senso di una scienza dell’ente in quanto tale, proprio riflettendo su quello che egli asserisce in Metafisica B circa l’impossibilità di assumere l’essere e l’uno come generi som-

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mi 97. L’argomentazione è talmente nota che mi permetto di richiamarla per sommi capi. È vero che l’essere si predica di tutto, ma è anche vero che fra i generi bisogna riconoscere che esistono delle differenze, altrimenti non vi sarebbero generi diversi. Ora, anche delle differenze diciamo che sono, anche di esse predichiamo l’essere. Se l’essere fosse un genere, ne conseguirebbe che il genere si predicherebbe anche delle differenze, ossia avremmo il caso di generi predicabili delle differenze, cosa che è assurda; pertanto, per potere dire che le differenze sono è necessario che l’essere non sia un genere e, quindi, la tesi che l’ente in quanto ente costituisca un genere non può essere assunta come condizione originaria, primaria del carattere epistemico della filosofia prima. La difficoltà è che la nozione di “ente in quanto ente” sembra aprire a qualcosa di trans-generico, perché sembra costituirsi come una nozione che abbraccia ogni ambito regionale dell’ente. In questo Heidegger ha senz’altro ragione quando ci dice che chiedendo dell’ente in quanto tale e dei principi di esso la metafisica deve avere in qualche modo in vista quel modo d’essere dell’ente che è kaq“lou, l’enticità, che compete ad ogni ente a prescindere dal fatto che esso sia un ente mosso di tipo naturale o un artefatto. Ma Heidegger sa altrettanto bene che questa operazione ha senso quando nella polisemia dell’ente, che egli non nega affatto, si riesce ad individuare quello che la tradizione esegetica anglo-americana ci ha abituato a indicare come il “focal meaning”, ossia quel significato di ente rispetto al quale la predicazione assume un valore forte, facendo così da riferimento per il predicarsi dell’ente a tutto il resto che è in relazione a questo nocciolo ontologico. Questo focal meaning è individuato in quell’ente che per il suo modo d’essere ente appare “più” ente degli altri proprio perché nel suo modo d’essere si iscrive una regola di necessità ontologica: esso è quell’ente che sussiste per sé e che continua a permanere nel mutare o nello scomparire di tutte le altre espressioni ontiche che si possono di esso rintracciare e che, anzi, in esso trovano il loro sostrato come ciò che “stando sotto di esse” le sostiene, le porta a realizzazione e manifestazione. Ma il punto non 97

Cfr. Met. B, 998b14 ss. Ulteriori argomentazioni utili alla comprensione dei rapporti fra i generi, le specie e le differenze si trovano in Top. VI, cap. 6.

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è se si possa o no “acciuffare” qualcosa che sia pensabile come l’essenza dell’ente, perché per far questo noi dobbiamo disporre di un significato di ente in un certo senso univoco, ossia agganciare la polisemia dell’ente ad un significato in una certa misura univoco98. Ciò sarebbe possibile se l’ente fosse una nozione univoca o, per lo meno, fosse un genere. Invece l’essere non è un genere e, se esiste una sostanza che non è sensibile, la nozione di “ente in quanto tale” non ha più nulla di intuitivo né può essere raggiunta induttivamente a partire dall’idea di sostanza immateriale, perché della sostanza immateriale non abbiamo esperienza. Il procedimento di costruzione dell’ôpistªmh valevole per le scienze particolari non si può, quindi, adottare per spiegare la filosofia prima nella sua caratura epistemica, se si vuole tenere a tutti i costi ferma l’indicazione testuale che la metafisica è scienza dell’ente in quanto ente, dimenticando, però, l’altra indicazione testuale che assicura l’apertura della metafisica a partire dal fatto che esiste una sostanza sovrasensibile, la quale autorizza così a porre come oggetto della metafisica l’ente in quanto ente. L’impegno a interrogarsi su un tale oggetto, preso semplicemente in quanto ente, e sulle determinazioni che in quanto ente gli competono, non trova la sua giustificazione nel dire che io posso porre la metafisica come scienza solo se acconsento a dire che l’ente in quanto tale è il suo oggetto, così che di esso la metafisica possa trovare cause e principi primi, realizzandosi come uno scire per causas. Ciò non risolve nulla, poiché, non configurandosi la nozione di ente al modo di un genere, dell’“ente in quanto ente” risulta impossibile disporre a monte, così come io posso disporre anticipatamente della nozione di f⁄sij in quanto l’ambito dell’ente mosso che ha in sé il proprio principio di movimento: se assunta in prima battuta come determinazione originaria dell’essenza della metafisica, la definizione della filosofia prima come indagine sull’ente in quanto ente cade, per così dire, nel vuoto, appunto per98 Difatti anche se la sostanza è anch’essa una nozione polisemica è ben chiaro che quando compie l’operazione di ancoraggio dell’ente alla sostanza Aristotele intende la sostanza in un senso ben preciso, ossia il sostrato che esiste come un alcunché di determinato e per sé sussistente. Partendo da questo, poi, la forma stessa come essenza può essere detta oŸsÖa.

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ché dell’ente in quanto ente quel carattere espresso dall’“in quanto ente” non può farsi valere come l’indicazione di un genere, così come quando si dice l’ente mosso “in quanto mosso”. La possibilità del filosofo primo di sporgersi sempre oltre i confini delle singole ontologie regionali scaturisce solo dal fatto che c’è un qualcosa nei principi propri di ogni ontologia regionale che cade fuori dalla regione ontologica che si iscrive sotto il suo principio, che è nel principio e che, insieme, trascende il principio, quando lo riguardiamo sotto quel preciso aspetto che lo fa essere tale, ossia in relazione al suo potere causativo, al suo essere causa, interrogandoci su di esso in ordine al suo essere causa. Il potere causativo di un principio è un tratto che inevitabilmente non può che misurarsi dal di dentro dell’ontologia regionale, per così dire, perché è stando al di dentro di essa che il principio di una regione ontologica mostra di essere causa di quel modo d’essere che compete a qualunque ente che appartiene a quella regione. Ma, insieme, di questo medesimo potere causativo c’è qualcosa che non si apprezza se non dal di fuori di quella ontologia regionale, qualora qualcuno per amore del sapere – di sapere come stanno le cose con i principi – faccia scattare la questione di cosa faccia di un principio un principio. Aristotele ce lo dice nel II libro della Fisica: “Due sono i principi che muovono al modo della natura, dei quali uno non è naturale (dittaà dù aÉ ¢rcaà aÉ kino‡sai fusikÓj, Ôn h` òtöra oŸ fusikª )” 99. Da questa affermazio99 Phys. II, 198a35-36. Chi a questo punto per amore di sapere non sarebbe interessato a comprendere la forza in base alla quale ad un principio che è primo “compete” dare avvio ad un movimento, comprendendo così la condizione sotto la quale entrambi i principi, quello “fisico” e l’“altro”, si danno come primi? Aristotele sta qui dicendo che certamente anche l’altro principio che non è “naturale” muove “al modo della natura”, perché insieme al “principio naturale” costituisce quella struttura causativa che Aristotele chiama f⁄sij. Questo altro principio muove come fine, come töloj a partire da cui prende avvio il movimento e non muove al modo di una causa di movimento come una causa efficiente. Ma questo principio non è appunto un ente naturale. Per questa ragione dentro l’ambito della natura, rispetto a quelli che sono i principi primi dell’ambito naturale, della ragione ontologica dell’ente mosso, vi è un tratto della causalità che cade fuori da questo ambito. Si tratta, appunto, del tratto rappresentato dall’essere causa prima di un principio che non è un ente naturale. Questa struttura, per cui vi è un tratto della causa prima che determina il venire all’essere degli enti che fanno parte dell’ambito e che, però, cade fuori dall’ambito, si scorge anche nella regione ontologica dei töcnV ‘nta e in quello della pr©xij.

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ne emerge però subito che un’interrogazione che si spinge a chiedere cosa faccia di un principio un principio non può essere contenuta nello stesso spazio che trattiene la domanda sui principi primi di una precisa regione ontologica, ossia non può configurarsi come un compito che spetta allo scienziato di un’ontologia regionale. Egli si pone, di contro, una domanda che è propria del suo ambito e che, appunto, si esprime nella richiesta di portare alla luce quali siano i principi di esso. Costui difatti chiede qual è il principio della sua regione ontologica, ma non chiede in forza di cosa quel principio che gli appare come primo è primo, perché la risposta, limitandosi al suo ambito, non può che essere tautologica, ossia non può che suonare approssimativamente che in questi termini: il principio proprio è primo in forza del suo essere principio (che non rinvia ad altro principio) di quel tipo di ente. E questa chiaramente non è una risposta soddisfacente. Per rispondere quindi alla domanda che verte sull’essere del principio in quanto principio, lo scienziato deve uscire fuori dal suo orizzonte, perché questo tratto d’essere del principio, questa essenza del principio in quanto principio non si giustifica in base a determinazioni ontologiche essenziali che competono a tutti gli individui di quel genere. Questo tratto d’essere si apprezza speculativamente fuori da ogni spazio ontologico regionale, pur apparendo in ognuno di questi spazi ontologici particolari in quanto quel preciso principio proprio, e dunque primo, di quello spazio. Aristotele ci sta dicendo, pertanto, che per un verso, certamente, anche l’“altro principio”, che egli specifica subito essere quello che muove senza essere mosso e che muove come muove la forma e l’essenza, rientra nella considerazione del fisico, perché è principio dell’ambito di cui il fisico si occupa100. Ma in sé esso non è un principio naturale, cioè una realtà rientrante nell’ambito naturale, la cui considerazione spetta al fisico. Il discrimine fra fisico e filosofo primo sta allora racchiuso nel fatto che chi si mette al lavoro dopo il fi100 Aristotele specifica di quale principio si tratti, ma sempre sotto il tratto di un’ipotesi che perde il senso di un’ipotesi quando incrocia i nomi di “t’ tÖ ôstin” e di “morfª”: “Infatti esso [scil. l’altro principio] non ha in se stesso principio di movimento ed è tale se qualcosa muove senza essere mosso, come ciò che è immobile assolutamente (t’ pantelÓj ¢kÖnhton) ed il primo di tutti ed è l’essenza e la forma” (ibid., 198b1 ss.).

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sico non cerca ciò che è questo principio che muove l’intero della natura senza farne parte, questo lo dice già il fisico. Il filosofo primo invece, guardando a questo altro principio, ha di mira la comprensione del potere causale di questo altro principio. Dal punto di vista della causalità non è certo il fatto che un principio sia “naturale” e l’altro no a determinare una differente caratura causale e un diverso potere causativo, se entrambi non sono riducibili l’uno all’altro ed entrambi sono necessari per il darsi dell’ente mosso in quanto mosso: sia il principio di movimento che è naturale, sia “l’altro”, quello che non lo è, sono primi e lo sono dal punto di vista ontologico contemporaneamente, sicché essi sono coeterni. Qui allora scatta – o dovrebbe scattare per chi ha di mira solo l’interesse a conoscere – un dispositivo interrogativo diverso: chi domanda dopo il fisico non chiede più guardando all’ente o a un certo modo dell’essere dell’ente, ossia ad un certo ambito ontologico, fosse anche quello più universale possibile, bensì interroga in ordine all’essere di una causa che si configura come prima. In un certo senso la domanda resta ontologica, perché nella domanda è richiesto che si porti alla luce una struttura d’essere che attiene ad un certa realtà che si lascia cogliere ed individuare come principio primo. Insieme però essa non è più una domanda che ha lo stesso tratto ontologico della domanda che cerca l’essere della propria regione ontologica e che, quindi, si configura come questione ontologica perché cerca il che cos’è del proprio ambito ontologico (ossia il principio che è principio d’essere di quell’ambito ontologico regionale). Dunque, in questo senso, anche lo stesso riferimento all’ente – e da qui alla sostanza – non può essere messo in campo allo stesso modo in cui ogni altro scienziato si mette al cospetto dell’ente, assumendolo e ponendolo come posizione da cui partire nella ricerca del principio del suo proprio ambito. A questo punto è chiara la ragione per la quale Aristotele parla continuamente di principi primi al plurale pur tarando, per così dire, il carattere di nobiltà della filosofia prima, della sapienza in riferimento ad una singola realtà, quella divina. Ed è altresì chiaro che colui che interroga sull’essere del principio primo in quanto principio primo non può evitare di istituire una circolarità, come dicevo in precedenza. Il filosofo primo, cioè, non può sottrarsi

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alla circolarità fra ciò che è primo e ciò che è universale, restando così all’interno di quella tensione fra i due poli che Heidegger chiama onto-teologia. Se è così compresa la domanda della metafisica come domanda protologica, forse anche quella stessa determinazione del dio dei filosofi come causa sui potrebbe apparire meno eterodossa di come in effetti, nel contesto in cui Heidegger la mette in gioco, suona. Resta l’improprietà dell’uso di un’espressione che storicamente in epoca moderna compare specificamente per designare Dio come fondamento primo di tutto il reale fino a diventare il caposaldo dei sistemi speculativi che si costituiscono come esiti della dimostrazione di Dio nella forma della prova cosmologica. Ma a dispetto di ciò – come anche a dispetto di un’espressione come no‡j s⁄nqetoj – a questo punto la locuzione causa sui funziona in modo neutro, non per indicare il nome proprio o il nome sinonimo del Dio cristiano prima causa di movimento nell’ordine di cause di movimento cosiddette efficienti, quale sarebbe il tecnÖthj per Aristotele. Essa indica appunto una funzione, come ci ricorda Marion. Indica – e ritengo di potermi permettere di esprimermi così in relazione al discorso heideggeriano – il modo di darsi di un rapporto interno alla causa prima, nel suo in sé, fra il suo essere “causa” ed il suo essere “prima”. È in questo spazio, che è un’unità perché nell’essere della causa prima il suo fare da causa e il suo farlo al modo della causa prima fanno corpo unico, che si innesca a mio avviso una struttura di circolarità, tale per cui l’essere della causa come essere causa prima è la condizione a partire da cui si rende attingibile ogni altro principio che si configura come primo e l’essere della causa come causa (prima) non può che essere la condizione sotto la quale di una causa io penso la causalità, il potere causale, ciò che è l’essere in quanto causa. Non interrogo sulla causa prima nell’ordine della ricerca della causa efficiente per così dire, ma restando nell’ordine della forma, ossia del principio formale, essenziale, d’essere in forza del quale il principio appare ed è causa prima. Il punto è che Aristotele ad un certo momento ci parla di una sostanza che “incarnerebbe” tutto questo, una sostanza che sul piano ontologico del reale occuperebbe con la sua sostanzialità il posto di quel che, come una struttura in un certo senso logica (anche se iscritta nell’ontologia, nel reale, nel

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mondo e nell’intero del cosmo), attiene ad un lavoro speculativo di tipo gnoseologico. È qui, allora, che si aprono un’ontologia come indagine sull’ente in quanto ente (per sfociare poi nell’usiologia) e parimenti una teologia. La teologia, infatti, si apre riconoscendo l’esistenza di una causa che così funziona e che incarna questa forma causativa prima, forma che, allora, non è più vista astrattamente sulla base di una nostra separazione della forma dalla sostanza composta, ma nel reale, come sostanza che esiste in quanto forma, solo in quanto forma, cioè per sé come separata. Di contro, l’ontologia si apre in uno stesso rapporto di co-originarietà con la teologia perché di questa sostanza io posso predicare l’essere così come lo predico di tutte le altre sostanze. Heidegger, allora, ha perfettamente ragione nel dire che solo una rappresentazione o, meglio, una determinazione che attiene ad un criterio temporale decide dell’autenticità della sostanza, del suo essere più originaria di un’altra; ossia la differenza si iscrive nell’essere temporale della sostanza: l’una, l’immobile, è sostanza eterna, l’altra, quella mossa – ad eccezione degli astri – non lo è, è peritura. Ed ha ragione ad insistere anche che è sotto il profilo di un’ontologia che si afferra la sostanza come essere dell’ente, nel senso che è dentro l’ontologia che si capisce che è in virtù del fatto che della sostanza l’essere ente si predica in senso proprio che poi lo si può predicare delle altre “cose” che chiamiamo enti, e che non sono sostanze, per arrivare a quella sostanza che, nel suo essere tale, “incarna” il modo d’essere dell’ente in maniera paradigmatica, esemplare. Dunque egli ha ragione nel sostenere che nella metafisica a partire da Aristotele si tiene stretta la circolarità, la struttura di rinvio reciproco fra la “teologia” e l’“ontologia”. C’è un altro aspetto, però, che prima di concludere il tragitto abbozzato in questo capitolo vorrei da ultimo considerare. Anche questo aspetto è un motivo di riflessione sulla cautela che si deve impiegare quando si parla della filosofia prima come di un’ôpistªmh. Abbiamo ormai compreso che quando il fisico indaga sull’ente mosso naturale, egli cerca il principio d’essere dell’ente mosso, che è la sua attitudine al movimento e di questa attitudine cerca il perché, il principio. Il fisico, quindi, cerca i principi del movimento che nel mosso determinano la disposizione a muoversi ed essi sono indivi-

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duabili nella materia, nella forma e nella privazione. Questi principi non rinviano ad altro; non può esserci un ulteriore principio di essi, nella misura in cui, ritagliati gli ambiti ontologici, fra tali ambiti non vi è un rapporto di subordinazione come, ad esempio, fra biologia o astronomia e scienza fisica generale. Eppure da soli questi principi non bastano a chiarire perché una cosa così fatta, una sostanza cioè composta di materia e forma e recettiva dei contrari, ad un certo momento possa muoversi o, più esattamente, venire all’essere. Materia, forma e privazione dicono il modo secondo cui nel suo essere il mosso è passibile di mutamento, ma non è guardando ad essi che risulta chiaro cosa determina il principio di avvio del movimento nel suo essere quel qualcosa che si configura appunto come ciò che dà avvio ad un movimento, ad un passaggio dalla potenza all’atto e che mi si mostra nel fatto che nel mondo ci sono enti che si muovono secondo una modalità di mutamento tutta particolare qual è la generazione (o anche la produzione). Deve esserci in un certo qual modo una struttura che, toccando l’essere di un principio primo, consente di metterne in evidenza la forza di determinare mutamento senza essere per via della sua natura ontologica parte di ciò che muove o, meglio, dell’ambito di ciò che in virtù di esso si muove. È vero che Aristotele configura una ben precisa teoria delle quattro cause che sono indicate come la materia (causa materiale), la forma (causa formale), il fine e ciò da cui prende avvio il movimento101. Ed è vero 101 La teoria delle quattro cause che compare sia in Met. sia in Phys. è formulata in riferimento alle sostanze sensibili e, dunque, all’ente del quale soltanto abbiamo esperienza, che ci appare come fenomeno con una datità che non mettiamo in dubbio. È interessante a mio avviso che in Phys. I, 185a14 Aristotele ci dice che è ôk t¡j ôpagwg¡j che a noi risulta chiaro che vi è una regione ontologica di enti mossi. Ossia la nozione di un ambito dell’ente (vasto o meno che sia) pare ricavarsi dalla sua esistenza che risulta a noi chiara tramite l’induzione che consegue ad una esperienza sensibile di ciò che è membro del genere. Se in questo modo scaturisce la delimitazione del tipo di ente di cui si occupa la scienza fisica, viene in un certo senso spontaneo interrogare se ci siano altri tipi di ente che non siano degli enti mossi con tutta la problematicità che implica il pensare all’esistenza di qualcosa di cui noi non facciamo esperienza empirica. La domanda spinge verso un’ulteriore direzione interrogativa. Se dunque le cause che sono indicate come prime di una realtà – la sola di cui tuttavia facciamo esperienza – possono essere fatte valere solo per quell’ambito o, al limite, per quegli ambiti che si comportano in modo analogo (l’ambito degli artefatti) con le opportune distinzioni (che attengono al modo in cui il principio di movimento si colloca rispetto all’ambito) e se, però, può

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che la materia è l’unica causa che lo Stagirita individua come una causa che si può considerare prima ed eterna al pari del qe“j102. Ma la teoria delle quattro cause è una teoria che trova la sua piena applicazione per tutto ciò che noi possiamo pensare come una sostanza composta, come un sinolo, nel genere dell’ente naturale o nel genere dell’artefatto. Da sé non basta a dare conto dell’avvio del mutamento: “Inoltre oltre queste cose [scil. le quattro cause] vi è quel che tutto muove come principio di tutte le cose”103. Sembra a questo punto di potere dire che deve esserci qualcosa come un principio che ha un potere causativo che si determina in forza della sua forma. Vi è un principio che non è identificabile in un principio ontologico corrispondente ad una sostanza individuale numericamente una; esso si apprezza di contro come la forma della causa, come ciò a partire da cui si sprigiona, in conformità a quelle quattro cause, il potere causativo della causa prima del movimento. Qui, però, si incrociano e si sovrappongono il piano di una sostanza che non ha materia, il cui essere è la sua forma separata, ed il piano della causalità formale della causa prima, posto che dalla teoria delle quattro cause non caviamo nulla di ulteriore rispetto a quello che ci mostra il fisico nell’esito della sua ricerca, se non proviamo espressamente a scavare dentro la forma della causa. Ciò avviene, secondo me, proprio quando Aristotele formula la teoria dei principi anche in un altro modo, ossia quando sia nella Fisica sia nella Metafisica ci dice che “ si genera o per arte, o per natura, o esistere un tipo di ente per il quale è necessario supporre un principio diverso, appunto perché è un ambito eterogeneo, allora non devo disporre di un criterio a monte, per così dire, rispetto al quale sono in grado di apprezzare ed accogliere la manifestatività di ogni principio che in riferimento alla sua regione ontologica mi si mostra come primo? E se è questo il criterio che muove l’interrogare sui principi, non ho più bisogno di attingere la necessità di una scienza altra dal piano della sostanza, appunto perché è un criterio di principio, una struttura formale che qui si apre come oggetto dell’interrogare, una struttura che non ha nulla a che vedere con una sostanza che dispone della creazione, del venire all’essere di tutti gli ambiti di realtà possibili. Questa struttura attiene ad ogni ambito, senza essere riducibile a nessuno dei principi dei singoli ambiti, perché è in forza di essa che un principio primo si pone rispetto a quell’ambito come ciò che ha potere di causare l’essere di quell’ambito ontico, o, più esattamente, di ogni membro di quell’ambito per il quale il principio è causa dell’essere della cosa. 102 Cfr. ad es. Met. L, capp. 2 e 3. 103 Met. L, 1070a34-35.

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per sorte o per caso”104. Senza entrare a questo punto nel dettaglio, quel che si nota subito è che Aristotele sta tirando fuori un modo diverso di considerare la questione dei principi, ossia sta chiedendo di non pensare a quelle cose – che sono principi, come espressamente asserisce nel IV cap di Metafisica L –105, che sono i principi costitutivi di cui è necessario che una sostanza composta consti (t¶ ônup£rconta che sono parimenti anche aátia) per essere soggetta al mutamento, per accogliere il modo d’essere dell’ente mosso. Qui egli ci sta chiedendo di approntare una considerazione diversa, di trattare dei principi secondo il modo, il tratto d’essere che è proprio dei principi in quanto principi, e non delle cose che si muovono. Egli sta chiedendo di compiere uno sforzo ben preciso: tentare di afferrare un principio primo cogliendolo nel suo puro potere di causare l’esistenza di qualche altra cosa. Lo scompiglio, per così dire, scaturisce dal fatto che io posso sicuramente osservare il potere causativo – pensato come potere di generare movimento al punto da portare all’attuazione quel movimento tutto particolare che concerne la sostanza e che è la generazione – non più a partire dalla cosa causata, ma dal principio stesso. Non posso fare ciò, però, al modo in cui lo fanno tutti gli altri scienziati delle altre scienze particolari, ossia cercando di individuare un ulteriore principio rispetto a ciò che devo spiegare, conoscere, comprendere – un ulteriore principio che agisca come suo motore. Mi è vietato, cioè, pensare che vi sia un principio che si configuri come un principio da cui prenda avvio il principio primo di movimento o da cui si generi il principio di movimento. Se infatti opero così, resto aggrovigliato in quella logica per cui posso sempre spingermi indietro a cercare qualche altra cosa che imprima, per così dire, l’essenza di essere principio al principio primo. Mi devo fermare, e mi posso fermare se penso che il principio primo possa essere pensato non come una semplice ipotesi, ma come una realtà, come una sostanza che è da sempre. Questa sostanza è, dunque, coeterna a ciò che da sempre e per sempre si muoverà, alla f⁄sij. 104 105

Ibid., 1070a6-7. Cfr. ibid., 1070b22 ss.

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Ma, a questo punto, sorge spontaneo chiedersi perché Aristotele abbia bisogno di parlare dell’ente in quanto tale per permettere al filosofo primo di rubare il posto sulla scena della conoscenza teoretica al fisico. Io credo che la ragione stia nel fatto che se tutto il reale (tutto ciò che è, che esiste) si restringesse solo all’ambito della natura, noi non potremmo mai apprezzare la causalità del principio primo, perché ciò che troveremmo come primo dovrebbe restare dentro lo spazio della natura. E, invece, Aristotele ritiene che questo non sia possibile, che il potere causativo, la forma dell’essere del principio primo che si apprezza come il suo potere causativo che non rinvia ad altro, non possa cogliersi come un elemento della natura. Sarebbe in un certo senso contraddittorio che per spiegare un intero io debba essere costretto a scegliere in esso un qualcosa a cui conferisco il potere di reggere il peso ontologico di tutto l’intero. Per questo le risposte dei Presocratici risultano insoddisfacenti. Quindi devo pensare ad una forma di causalità che rinvia ad una realtà, ossia a qualcosa che è, di cui posso predicare l’essere in modo proprio. Una cosa del genere deve essere una sostanza e non può essere una sostanza naturale, se no mi ritroverei di nuovo al punto di partenza e cadrei nella contraddizione di spiegare il tutto con una sua parte. Il problema, che a mio avviso Heidegger coglie molto bene, è che una volta che si determina, si pone l’esistenza di una sostanza altra e quindi si è autorizzati a parlare di un intero dell’ente che non si identifica più in senso stretto con la regione ontologica dell’ente mosso, in quel momento vi è certamente il rischio che scatti nuovamente il dispositivo onto-teologico della metafisica tradizionale occidentale. Sussiste, cioè, il rischio che il dispositivo scatti al modo della lunga tradizione della metafisica che si sviluppa dopo Aristotele, nella misura in cui lo spazio di apertura di essa non si conquista più sotto il progetto di una protologia radicale, bensì sotto la concezione di un sapere che si costituisce da subito, in prima battuta, al modo di un’ontologia generale (metaphysica generalis). Ma il rischio che ciò possa accadere – o la costatazione che ciò storicamente è accaduto – non può sminuire il senso del progetto aristotelico ed il significato del modo secondo cui la filosofia prima si determina in modo duplice come “ontologia” e come “teologia” solo in seconda battuta, a partire da un’ori-

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ginaria apertura protologica (e non ontologica o teologica). Ecco perché secondo me si può ancora, senza perdere di vista la lezione aristotelica, o quanto meno il tentativo aristotelico di fare spazio ad un’indagine di tipo metafisico, parlare di un’onto-teologia senza vedersi però costretti a superarla. Ossia, se si apre la duplicità ontoteologica a partire dal profilo protologico, la filosofia prima è un’ontoteologia e non solo non si può, ma neppure si deve provare a linearizzare la circolarità. In tal caso, si cercherebbe nuovamente quel principio che tenga in piedi, per così dire, tutta la serie, facendo da fondamento nel senso della Begründung e questa, in ultima analisi, è proprio la mossa della tradizione, quando il carico della Ergründung finisce per essere rigettato tutto sulla Begründung, perché la causa prima è ciò che consegna la ragione del perché l’essenza degli enti sia ciò che sia. Questo è ciò che, come ho mostrato nel II capitolo, Heidegger ritiene essere infatti l’esito teologico della metafisica occidentale in quanto onto-teologia. In chiave aristotelica questa linearizzazione è preclusa proprio da quella che è la natura del qe“j come principio primo: non è il dio che determina la regola sotto la quale da un padre e da una madre si genera un bambino e da uno scultore prende fattezze una statua. Nella prËth filosofÖa si apre, però, la circolarità, il rinvio fra componente “ontologica” e componente “teologica”, nella misura in cui questo rinvio si istituisce a partire dalla necessità di comprendere la forma dei principi primi in quanto tali, il modo secondo cui ad una causa prima riesce di generare mutamento senza bisogno di altra causa anteriore ad essa. La circolarità si apre giacché io devo pensare che il principio primo è, e devo potergli attribuire l’essere in modo forte, perché altrimenti conseguirebbe che della sostanza mossa è principio qualcosa che io dico che è per il fatto che predico in senso forte l’essere della sostanza mossa, il che vuol dire che questo principio è un accidente della sostanza. Ma se devo fare tutto questo, per potere interrogare in direzione dell’essere, della forma di quello che è e si dà irriducibilmente in ogni ambito come principio proprio e cioè primo, allora devo porre che ci sia una sostanza che non è un ente sensibile. Se pongo questo, sono costretta ad aprire il cerchio dell’ente, e a renderlo più grande per includervi dentro anche questa sostanza separata. A questo punto, come posso

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Aristotele dopo Heidegger

non interrogarmi su quel tratto che devo pensare come universalmente comune a tutti gli enti per tenere in piedi l’idea che vi sia un intero dell’ente che non coincide con ciò che otterrei mettendo semplicemente insieme l’ambito degli enti mossi naturali e quello degli enti mossi artefatti? Come posso evitare allora che la mia domanda diventi una domanda che tocca anche l’essere dell’ente ed insieme ciò che appare “più ente degli altri” in virtù del suo modo d’essere ente temporalmente tale da caratterizzarsi come ciò che attua il modo d’essere dell’ente meglio degli altri? Il riferimento all’intero dell’ente, all’ente in quanto tale, che testualmente sembra imporsi come la condizione dell’apertura della metafisica è, per questo, la parvenza di una condizione, anche se è l’esplicita dichiarazione di questa apertura a partire dall’ente con il proposito di una conoscenza delle cause e dei principi primi dell’ente in quanto tale ciò che, per un altro verso, caratterizza in chiave epistemica la metafisica. Essa si prospetta nella sua apertura come la prima, la più nobile delle scienze e non alla fine, quando eventualmente avrebbe tutta la forza di esporre le proprie ragioni, ma all’inizio, quando ancora deve essere trovata da chi desidera praticarla. Ciò che allora si deve conquistare fino in fondo è il passaggio dalla fisica alla metafisica, per così dire, come ciò che segna la loro distinzione e decreta quale delle due sia “vincitrice” nella contesa per ruolo di prËth filosofÖa. Non appaia strano tutto questo, se si pensa che da quello che possediamo degli scritti di Teofrasto, da quel frammento che comunemente si indica come la Metafisica teofrastea, proprio colui che è stato l’allievo più fedele, quello più vicino al maestro, che lo ha seguito per venticinque anni, fin dai tempi di Asso e Mitilene anche in mezzo a tante peripezie, quello a cui spetta l’incarico di dirigere la scuola e di prendere in consegna la biblioteca106, proprio 106 Nel suo testamento, di cui sappiamo dalle Vite di Diogene Laerzio (V, 52), Teofrasto lascia la biblioteca a Neleo (“t¶ dù biblÖa p£nta Nhleã”). Dal fondo di Neleo, per una serie di vie traverse, gli scritti aristotelici giungono a Roma fino alle mani di Andronico. Gli studiosi tendono a concordare sul fatto che “la Metafisica che leggiamo noi è sostanzialmente il risultato del lavoro redazionale ed editoriale di Andronico di Rodi” (P. Donini, La Metafisica di Aristotele, cit., p. 13). Se dunque Andronico dispone degli scritti di metafisica nel modo in cui ne disponiamo noi oggi, scritti che provengono da quella che un tempo era la biblioteca di Teofrasto, e se dal testo a noi disponibile pos-

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Scienza, intelletto e sapienza

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costui “smarrisce” il senso della filosofia prima aristotelica107, declinandola al modo di un grande progetto cosmologico ed imprimendo al Peripato una svolta decisamente naturalista.

siamo trarre le informazioni relative ad una caratura teologica della metafisica risulta ancora più stridente il contrasto fra le dottrine professate da Aristotele e quelle professate da Teofrasto. 107 Cfr. G. Reale, I problemi del pensiero antico dalle origini ad Aristotele, Celuc, Milano 19724, p. 65. Reale arriva addirittura a dire che “Aristotele fu tradito dai suoi successori nel Peripato” (p. 63).

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Aristotele dopo Heidegger

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Onto-teologia o katholou-protologia?

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V ONTO-TEOLOGIA O KATHOLOU-PROTOLOGIA? IL PARADIGMA ONTO-TEOLOGICO E L’ESEGESI POST-HEIDEGGERIANA DELLA PRWTH FILOSOFIA

1. La presenza del paradigma onto-teologico nel panorama esegetico aristotelico post-heideggeriano A questo punto del mio percorso ritengo che siano opportune alcune precisazioni circa l’uso del paradigma heideggeriano in sede di interpretazione aristotelica e circa il modo in cui mi confronto con la lettura heideggeriana dell’onto-teologismo della prËth filosofÖa, prospettandone una riabilitazione dopo Heidegger a due condizioni: 1) che si liberi il concetto di onto-teologia assumendolo in un modo per così dire “neutro”, ossia che si intenda onto-teologia non come sinonimo di un pensiero eo ipso dimentico della differenza ontologica, bensì come una forma dell’interrogare filosofico che strutturalmente si muove in un rinvio circolare fra il piano dell’universalità dell’ente e quello della sua primarietà senza prediligere, quindi, la versione “katholou-protologica”, che suppone che ciò che è primo (l’ente divino), in quanto principio della serie, dia per questo ragione di ogni elemento (ente) della serie1; 1 L’espressione “katholou-protologia” è introdotta per la prima volta da Remi Brague in Aristote et la question du monde, PUF, Paris 1988 sulla scorta del passaggio finale del I cap. di Met. E. Per lo studioso francese la nozione di “katholou-protologia” rispetto a quella heideggeriana di “onto-teologia” è più aderente alla struttura speculativa generale

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Aristotele dopo Heidegger

2) che si guardi alla teoria aristotelica sulla filosofia prima come ad un progetto investigativo che resta aperto ed a partire dal quale si possono rimettere per questo in gioco le possibilità della metafisica, senza restare irrigiditi a quelle forme di sistemi conoscitivi compiuti ed al modo di interrogare della filosofia aristotelica. Aubenque individua chiaramente già nel 1962 la fortuna di un’interpretazione della metafisica aristotelica in chiave “katholou-protologica”, pur senza usare il termine e pur senza leggere ciò che è primo nel senso dell’ente divino, bensì nel senso di ciò che rappresenta il senso “primordiale” nella polisemia dell’‘n, ossia l’essenza: “La scienza dell’essere in quanto essere potrebbe allora costituirsi come scienza universale, nel senso di una scienza del sistema o della serie, […] per vie traverse: ciò che si potrebbe chiamare il ripiego attraverso il primo. La filosofia “ricercata” sarebbe allora “universale perché prima”: ontologia perché “protologia”. Non potendo ridurre i significati molteplici dell’essere ad un unico genere, la scienza dell’essere in quanto essere sarebbe almeno la scienza di quello che tra i significati è il primordiale: scienza immediata dell’essenza, essa sarebbe mediatamente scienza delle altre categorie […]. La fortuna di questa interpretazione è stata così generale che è inutile svilupparla più lungamente […]. Essa è stata associata durante il Medioevo alla teoria dell’analogia: l’unità dell’essere e della sua scienza non sarebbe un’unità generica, ma un’unità per analogia, intesa quest’ultima non come analogia di proporzionalità, la sola di cui Aristotele ha parlato, ma come analogia detta “d’attribuzione”, ossia fondata sul comune riferimento ad un termine unico e primordiale” (P. Aubenque, Le problème de l’être chez Aristote, cit., pp. 242-243). Aubenque non concorda ovviamente con questa interpretazione, ma riconosce che “è la dottrina del pr’j ûn leg“menon e la relativa concezione di una scienza “universale perché prima” che ha permesso all’Aristotelismo, malgrado tutte le sue “contraddizioni”, i suoi “dilemmi” o più semplicemente le sue aporie, di costituirsi agli occhi della posterità come sistema” (ibidem). Per Aubenque, infatti, non esiste in Aristotele una scienza dell’essere in quanto tale, come suggerisce il termine “ontologia” che si impiega generalmente per dare nome ad essa. La scienza dell’ente resta sempre a livello di un progetto di ricerca: “Aristotele stesso presenta la scienza dell’essere in quanto essere come una scienza solamente “ricercata” e in modo indubbio “eternamente ricercata”. Da allora, l’unità attuale e forse per sempre attuale del discorso sull’essere non è l’unità di un sapere, ma quello di una ricerca indefinita. Non si ha e forse non si può avere una scienza attualmente una dell’essere in quanto essere. Ma ciò non significa che non si possa avere un altro tipo di unità oltre quella della coerenza scientifica” (ibid., p. 250). Non così, invece, pensa evidentemente Heidegger, che pure rimprovera alla tradizione post-aristotelica di avere costretto in un sistema ciò che in Aristotele si presenta ancora come una problematica interrogativa aperta. Come abbiamo infatti visto, Heidegger ritiene che lo Stagirita finisca per approntare per via usiologica una scienza che si muove nella circolarità del rinvio fra il piano della generalità e quello della primarietà dell’ente conformemente a quella che è una duplicità intrinseca alla nozione di oŸsÖa. Come mostrerò nella continuazione di questo capitolo, sebbene erede della lezione heideggeriana, l’odierna “scuola francese” di studi sulla storia della metafisica, nel prediligere la lettura katholou-protologica, si porta a sua volta oltre Heidegger rischiando, però, di linearizzare la circolarità che Heidegger giudica “intoccabile”, pena la perdita della comprensione dell’apertura originaria della metafisica in Aristotele.

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Onto-teologia o katholou-protologia?

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– quale potrebbe considerarsi il sistema metafisico della filosofia tedesca moderna – che pure nella metafisica di Aristotele trovano la loro origine. a) La ricerca aristotelica sullo statuto della filosofia prima fra aporeticità ed unità speculativa: aspetti della presenza heideggeriana Rispetto alla lunga storia esegetica della Metafisica e della relativa concezione aristotelica della scienza in essa trattata il modello ontoteologico, come già detto, porta ad una modifica di prospettiva nell’approccio alla questione dello statuto della prËth filosofÖa poiché il problema della filosofia prima aristotelica è messo in campo come questione dell’essenza della metafisica tout court 2. Considerato da questo punto di vista, il contributo interpretativo di Heidegger su 2 Courtine sottolinea che l’ingresso della lettura heideggeriana nel campo degli studi sulla metafisica comporta l’interrogazione della “questione della metafisica” nel senso oggettivo del genitivo, ossia pone una questione che “sarebbe preferibile potere chiamare la questione (non)-metafisica della metafisica” (J.-F. Courtine, Inventio analogiae, cit., p. 97). In effetti, interrogando sull’essenza della metafisica si assiste ad una metamorfosi della questione della metafisica: domandare intorno a che cosa si interroghi la metafisica diviene la questione sullo statuto della metafisica, ma questa propriamente non è più la questione che la metafisica programmaticamente si pone come suo compito. Di fatto, però, come mostra già in modo esemplare la “querelle” fra Avicenna ed Averroè, quella che Routila chiama la “controversia inter Averroes et Avicennam” (L. Routila, op. cit., p. 14), sorta dal rifiuto di Averroè di accettare la tesi avicenniana sul carattere precipuamente ontologico e non teologico della metafisica, la problematica della metafisica, ossia l’oggetto attorno a cui essa si propone di interrogare ed investigare, si trasforma nella questione della metafisica nel senso appunto oggettivo del genitivo. Questionando il tema della sua indagine – ossia ponendo la domanda di quale debba essere il tema della metafisica guardando alla lezione aristotelica – la metafisica diviene essa stessa al proprio cospetto oggetto di domanda. Il mondo arabo gioca un importante ruolo di mediazione per lo sviluppo di questa problematica. Esso non contribuisce solo alla trasmissione della filosofia aristotelica al mondo occidentale latino con cui entra a propria volta in contatto tramite le scuole siriane di Nisibis e Gandisapora (cfr. E. Gilson-P. Böhner, Christliche Philosophie von ihren Anfängen bis Nikolaus von Cues, Schöning, Paderborn 19543, p. 401 ss.). L’esegesi araba mostra di essere altresì un momento cruciale per questa metamorfosi della questione della metafisica che si consuma a partire dal piano dell’interpretazione della Metafisica. Ancora Courtine mostra come già Avicenna, in definitiva, “interroga la pragmateia aristotelica nella sua articolazione onto-teo-logica” (J.-F. Courtine, Il sistema della metafisica. Tradizione aristotelica e svolta di Suárez, ed. it. a c. di C. Esposito, Vita e Pensiero, Milano 1999, p. 21) ed a ben vedere questa metamorfosi si prospetta anche nella stessa Metafisica. Per questo Heidegger insiste che bisogna andare a pescare, se così posso esprimermi, nella prËth filosofÖa aristotelica per interrogare sull’essenza della metafisica considerata nell’interezza del suo sviluppo lungo la tradizione.

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Aristotele dopo Heidegger

Aristotele rischia, tuttavia, di restare nascosto, come accade in una buona parte della letteratura secondaria non solo heideggeriana ma anche aristotelica, nella misura in cui nel cammino di pensiero heideggeriano, in effetti, l’impegno esegetico resta sottomesso alla peculiare finalità del compito filosofico. Heidegger, infatti, aggancia Aristotele e l’intera tradizione metafisica occidentale come una tappa necessaria per il pensiero dell’essere, affinché attraverso la comprensione della storia della metafisica si acceda ad un Seynsdenken scevro da forme di pensiero di tipo onto-teologico. Tuttavia, specie nelle pagine degli scritti heideggeriani risalenti alle Vorlesungen degli anni Venti e di una buona parte degli anni Trenta3, la lettura di Aristotele presenta frequentemente i connotati di un lavoro di interpretazione strettamente legato ai testi dello Stagirita, sia pure nel modo tipico di Heidegger e del suo stile esegetico secondo cui la traduzione tedesca dal greco è una resa della sua posizione di pensiero e la riformulazione della filosofia aristotelica palesa visibilmente i caratteri della sua ontologia fenomenologico-ermeneutica. Questi scritti, a noi resi accessibili attraverso la pubblicazione nella Gesamtausgabe solo tardivamente rispetto all’epoca della loro elaborazione, oltre al Kantbuch del 1929 – la cui parte iniziale è una lucida anticipazione di quanto viene poi espresso sulla tradizione metafisica in Identità e differenza –4, all’Introduzione aggiunta nel 1949 alla prolusione Che 3 È del 1939 il saggio sul concetto di f⁄sij in Aristotele, nel quale Heidegger lavora in modo puntuale sul I cap. di Phys. II. Il saggio rappresenta l’ultimo lavoro heideggeriano di interpretazione strettamente testuale dello Stagirita. Nei corsi di lezione a cavallo fra gli anni Venti e Trenta, in cui la sua attenzione si sposta verso la metafisica medievale e moderna, lo sguardo di Heidegger rimane in una certa misura ancora fisso su Aristotele e non mancano espliciti riferimenti alla concezione della filosofia prima della Metafisica. 4 Basti pensare che, ritornando sull’opera trentacinque anni dopo in occasione della terza edizione (1965), Heidegger avverte che ciò che nel testo si cerca di mettere in evidenza è che “quello che per la metafisica è il problema, ossia la questione dell’ente come tale in complesso, fa sì che la metafisica diventi problema come metafisica” (Kpm, p. 8). Heidegger, quindi, vede retrospettivamente che già alla fine degli anni Venti la questione onto-teologica come questione della metafisica è nel suo cammino di pensiero giunta ad una formulazione nitida. Proprio le pagine iniziali del volume marcano l’essenzialità della duplice determinazione, del “curioso sdoppiamento” della filosofia prima aristotelica per lo sviluppo della tradizione metafisica post-aristotelica: “Da quanto lo stesso Aristotele dichiara espressamente in proposito risulta, proprio nella determinazione dell’es-

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Onto-teologia o katholou-protologia?

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cos’è metafisica ed al saggio del 1957 La costituzione onto-teologica della metafisica – testi cruciali per la comprensione della lettura heideggeriana della metafisica – danno, a mio avviso, un’immagine abbastanza nitida di quanto significativo sia il contributo esegetico di Heidegger nell’ambito di un lavoro di ricerca sulla metafisica in Aristotele. Se ci si sforza di osservare la lettura heideggeriana in riferimento al contesto esegetico aristotelico coevo al periodo in cui il paradigma onto-teologico comincia ad essere elaborato in forma più compiuta alla fine degli anni Venti, la prospettiva di Heidegger sulla metafisica aristotelica rappresenta una sorta di unicum, sia per il contenuto specifico dell’esegesi sia per il fatto di anticipare una tendenza storiografica che esploderà solo alcuni decenni più tardi, negli anni Sessanta5. In un contesto storiografico che comincia ad essere dominato senza della “filosofia prima”, un curioso sdoppiamento. Essa è sia “conoscenza dell’ente in quanto ente” (oñn Œ ‘n ), sia, anche, conoscenza della sfera più eminente dell’ente (timiËtaton gönoj), a partire dalla quale si determina l’ente in totale (kaq“lou)” (ibid., p. 17). Non può non stupire, comunque, che in questo testo come anche in altri scritti in cui il confronto con Kant campeggia in un certo senso a tutto tondo, Heidegger non approcci la questione dell’onto-teologismo metafisico riconoscendone la paternità kantiana. Una buona ragione di questo risiede nel fatto che, come ho già accennato, anche Kant appare ad Heidegger perfettamente sincronizzato sulla logica di circolarità di tipo onto-teologico, nonostante ciò non sminuisca l’importanza dell’incontro heideggeriano con Kant rispetto all’interrogazione della questione della metafisica (sul modo heideggeriano e su quello kantiano di affrontare la questione della metafisica cfr. ad es. E. Ficara, Heidegger e il problema della metafisica, Casini Editore, Roma 2010 e F. Jaran, La Métaphysique du Dasein. Heidegger et la possibilité de la métaphysique (1927-30), Zeta Books, Bucarest 2010). 5 In particolare i corsi “aristotelici” degli anni Venti sembra che servissero ad Heidegger come una sorta di lavoro preparatorio per la stesura di una monografia aristotelica che egli aveva in animo di pubblicare nei primi anni Venti (cfr. GA 18, p. 405 e GA 62, pp. 422, 440 ss., F. Volpi, Heidegger e Aristotele, Daphne, Padova 1984, p. 72 e H.G. Gadamer, Die Griechen, in Gesammelte Werke, Bd. 3, Mohr Siebeck, Tübingen 1999, p. 286 in cui l’autore ricorda che nel 1922 Heidegger gli annunciava l’imminente pubblicazione, poi appunto mancata, di un lavoro di interpretazione fenomenologica su Aristotele a partire da Et. Nic. VI, Met. A, Z, H, Q, Phys. I e De an.). Il Natorp-Bericht, esposizione del progetto contenutistico del programmato volume aristotelico, a parte alcune esercitazioni sui testi logici di Aristotele tenute con Krebs nel semestre estivo del 1916 a Friburgo (cfr. Heidegger-Jahrbuch 1 (2004), p. 468) e ad un seminario su De an. e Met. Z risalente al semestre estivo del 1921, rappresenta notoriamente la prima reale testimonianza del concreto lavoro esegetico heideggeriano su Aristotele. È interessante che nel coevo corso del semestre invernale del 1921/22 (IfA), che pure non corrisponde

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pressoché esclusivamente dal modello jaegeriano, la lettura heideggeriana non solo entra in polemica con questo modello, ma propone altresì un’alternativa esegetica di tipo teoretico che è innovatrice rispetto all’intera tradizione esegetica precedente in seguito al bisogno di un recupero dell’unità speculativa del progetto metafisico aristotelico6. La tesi heideggeriana si costruisce nella convinzione che, per quanto possa presentare alcuni aspetti problematici ed addirittura enigmatici, la metafisica aristotelica corrisponda ad un programma speculativo unitario, non frammentabile in periodi di tempo giustapposti e non ricostruibile con criteri di coerenza estrinseci alla concezione ontologica ed usiologica aristotelica espressa in questo programma secondo la duplicità interrogativa e fondativa con cui esso è presentato dallo Stagirita. Nell’esplicitazione dell’istanza critica contro la linea esegetica storico-genetica e nel bisogno di salvaguardare l’unità speculativa del pensiero metafisico aristotelico la tesi heideggeriana preannuncia, quindi, anticipandola di circa quarant’anni, la mossa critica della storiografia aristotelica successiva che si dispiega, a partire dalla seconda metà del Novecento, per la necessità di abbandonare il metodo di matrice jaegeriana imperante per tutta la prima metà del XX secolo. Tuttavia, proprio perché Heidegger formula le sue obiezioni non a posteriori, per così dire, ossia quando la forza interna del paradigma jaegeriano appare ormai esaurita, bensì subito a ridosso della pubblicazione dei lavori dello Jaeger su Aristotele a cavallo fra il 1912 e il 1923, la sua tesi effettivamente prefigura in modo originale la tendenza esegetica alternativa a quella storicogenetica. Ciò si apprezza sebbene il contenuto specifico della lettura heideggeriana sia poi diverso nelle sue argomentazioni dalle posizioni degli autori che dalla metà del Novecento propongono, in autonoaffatto, malgrado il titolo, ad una trattazione specifica di Aristotele, si può rintracciare una prima indicazione schematica dei tre problemi fondamentali della filosofia aristotelica secondo Heidegger nel modo seguente: “1. Il problema del principio e di ciò che è principiale (¢rcª - aátion); 2. Il problema del determinare comprendente e dell’articolazione concettuale (l“goj); 3. Il problema dell’essente e del senso dell’essere (oñn - oŸsÖa kÖnhsij - f⁄sij)” (IfA, p. 145). Questa schematizzazione rivela le linee portanti della successiva lettura heideggeriana della problematica metafisica aristotelica che compare a partire dal corso del semestre estivo del 1922 Phänomenologische Interpretationen ausgewählter Abhandlungen des Aristoteles zur Ontologie und Logik (cfr. GA 62). 6 Cfr. supra, I cap.

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Onto-teologia o katholou-protologia?

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mia dalla lezione heideggeriana, la necessità di un recupero di una concezione speculativamente coerente della metafisica aristotelica, tornando nuovamente, per lo più, a scegliere in favore di una caratterizzazione unitaria in senso ontologico oppure teologico7. Il volu7

Tra i primi lavori che segnano la decadenza del paradigma di matrice jaegeriana, criticandolo in modo esplicito, si possono ricordare J. Owens, The doctrine of Being in the Aristotelian Metaphysics, Pontifical Institut of Medieval Studies, Toronto 1978 (la I ed. risale al 1951), P. Merlan, Dal Platonismo al Neoplatonismo, cit., (la I ed. è del 1953), S. Gomez Nogales, Horizonte de la metafísica aristotélica, Fax, Madrid 1955, A. Mansion, “L’objet de la science philosophique suprême d’après Aristote. Métaphysique E , 1”, in AA.VV., Mélanges de philosophie grecque offerts à Mgr Diès par ses élèves, ses collègues, ses amis, Vrin, Paris 1956, pp. 151-168, ma maggiormente “Philosophie première, philosophie seconde et métaphysique chez Aristote”, Revue Philosophique de Louvain 56 (1958), pp. 165-221, G. Reale, Il concetto di “filosofia prima” e l’unità della Metafisica di Aristotele, cit. (la I ed. è del 1961), G. Patzig, “Theologie und Ontologie in der Metaphysik des Aristoteles”, Kant Studien 52 (1960-61), pp. 185-205, V. Décarie, L’objet de la Métaphysique selon Aristote, Institut d’Études Médiévales-Vrin, MontréalParis 1961, P. Aubenque, Le problème de l’être chez Aristote, cit. (la I edizione è del 1962), K. Oehler, “Die systematische Integration der aristotelischen Metaphysik. Physik und Erste Philosophie in Buch Lambda”, in I. Düring (Hrsg.), Naturphilosophie bei Aristoteles und Theophrast, Lothar Stiehm, Heidelberg 1969, pp. 168-192 (il testo fu redatto per un simposio tenuto a Göteborg nel 1966), I. Düring, Aristotele, trad. it. di P. Donini, Mursia, Milano 1976 (l’ed. tedesca è del 1966), testo questo, in effetti, particolare perché, pur presentando il pensiero aristotelico secondo la chiave di uno sviluppo diacronico, ne mette in evidenza la profonda omogeneità e coerenza. Owens, pur concependo in modo diverso dal Merlan la “causalità della sfera suprema dell’essere” (cfr. P. Merlan, Dal Platonismo al Neoplatonismo, cit., p. 291 n. 38), propone un’interpretazione “teologista”, riportando così in auge nel XX sec., appunto insieme con Merlan, una tradizione esegetica che affonda le sue radici nelle letture di Alessandro di Afrodisia e dello Pseudo-Alessandro, sia pure con le debite ed opportune distinzioni (cfr. ad es. P. Donini, “Unità e oggetto della metafisica secondo Alessandro di Afrodisia”, in Alessandro di Afrodisia e la “Metafisica” di Aristotele, a c. di G. Movia, Vita e Pensiero, Milano 2003, pp. 15-51 e R.W. Sharples, “Lo Pseudo-Alessandro su Aristotele, Metafisica L”, in Alessandro di Afrodisia e la “Metafisica” di Aristotele, cit., pp. 219-249). Owens sostiene, sulla base dell’equipollenza concettuale fra la nozione di ente in quanto ente (Being as Being, oñn Œ ‘n), ente stesso (Being itself, t’ oñn aŸt’) e sostanzialità (Entity, Beingness, oŸsÖa), la convertibilità dell’indagine sull’ente in quanto tale in quella sulla sostanza separata divina in quanto principio primo formale a cui è possibile ricondurre direttamente o indirettamente tutti gli altri tipi di causalità (materiale, efficiente, finale). Sulla stessa linea si pone anche Gomez Nogales che, in definitiva, opera una reductio ad unum, nella misura in cui finisce per sussumere il piano dell’ontologia sotto quello della teologia. Mansion in “Philosophie première, philosophie seconde et métaphysique chez Aristote” – saggio che indica uno sviluppo nell’esegesi aristotelica di Mansion rispetto a “L’objet de la science philosophique suprême d’après Aristote” dove la scienza teologica di Met. E è vista come un’integrazione del progetto d’indagine sulle cause e i principi primi esposto in Met. A – ritiene invece che sia necessario distinguere due scienze, una di ca-

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me di Aubenque del 1962 (Le problème de l’être chez Aristote) è uno dei primi lavori che testimonia la penetrazione della lettura heidegrattere teologico (la filosofia prima propriamente detta) ed una di natura ontologica (la metafisica), così come Décarie che, a propria volta, riprende la linea esegetica di Mansion. Rispetto a questi autori Reale, Patzig ed Oehler non sembrano optare per una scelta fra la componente ontologica e quella teologica, ma cercano di giustificare la convergenza delle due componenti in un progetto metafisico unitario. Reale, come ho ricordato all’inizio, considera anzi che la filosofia prima consti di quattro piani – ontologia, usiologia, teologia, eziologia – che si intersecano e si completano reciprocamente. Patzig, giudicando che sia possibile un’interpretazione che “neutralizza la supposta contraddizione” fra ontologia e teologia e così ritenendo che il testo aristotelico per sé “confuti i tentativi di soluzione di Natorp e Jaeger” (G. Patzig, op. cit., p. 187), propone una sovrapposizione fra la componente ontologica e quella teologica in forza della predicazione paronimica della nozione di sostanza intesa sia come sostanza sensibile sia come sovrasensibile ed in forza del “metodo analogico” aristotelico, considerato “un’immagine speculare di natura formale della paronimia” (ibid., p. 204), che consentirebbe un’“ontologia analogica” in cui è possibile parlare in riferimento a realtà diverse di una relazione identica fra esse ed il loro principio d’essere, ossia l’oŸsÖa. Oehler, che giudica il problema della contraddizione fra la componente teologica e quella ontologica un falso problema (Scheinproblem), ritenendo che anzi le esegesi di tipo natorpiano e jaegeriano “coprono” la problematica reale aristotelica che è quella della relazione fra fisica e metafisica, legge la filosofia prima come un’indagine sistematica di carattere cosmologico-teologico. La metafisica si costituisce, cioè, come un’integrazione del progetto esposto nelle dottrine fisiche e si fonda su una considerazione del reale di tipo ontologico e di natura universale in conformità ai tre modi d’essere rappresentati dalle tre maniere della sostanza (sensibile corruttibile, sensibile eterna e sovrasensibile). La dottrina teologica, la Gotteslehre, sarebbe dunque il culmine di un progetto universale ontologico (universalontologischer Entwurf, cfr. K. Oehler, op. cit., p. 191). Assolutamente diversa nella sua impostazione rispetto a tutte le altre proposte esegetiche coeve è la lettura di Aubenque che considera aporetica la possibilità tanto di una scienza ontologica quanto di una teologica. La prima resta sempre alla stregua di un ideale, di una scienza sempre cercata e mai realizzata per via della polisemia dell’‘n e dell’impossibilità di concepirlo come un genere; la seconda resta una scienza “introvabile” in quanto per la sua condizione di finitezza all’uomo resta preclusa la possibilità di una conoscenza del divino se non al modo di una teologia negativa: la scienza che per tradizione si dice metafisica, dunque, in Aristotele “sembra oscillare senza fine tra una teologia inaccessibile ed un’ontologia incapace di arrestare la dispersione” (P. Aubenque, Le problème de l’être chez Aristote, cit., p. 487). Per un’analisi dettagliata del quadro storiografico che segna il superamento del paradigma genetico cfr. M. Vegetti, “Tre tesi sull’unità della ‘Metafisica’ aristotelica”, Rivista di Filosofia 61 (1970), pp. 343-383 e T. Oñate y Zubía, “El criticismo aristotélico en el siglo XX: hacia un cambio de paradigma”, in Logos. Anales del Seminario de Metafísica 1 (1998), pp. 251-269, in cui l’autrice parla di criticismo aristotelico per il periodo esegetico successivo alla stagione storico-evolutiva, caratterizzato da quattro linee interpretative di massima, ossia l’esegesi ontologica, la teologica, l’ontoteologica, l’aporetica (cfr. ibid., p. 259). Secondo questa ricostruzione Heidegger figura, tuttavia, come sostenitore di una lettura in chiave ontologica mentre modelli di

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geriana nell’ambito degli studi aristotelici. Esso è anzi, forse, il primo esempio di come il paradigma heideggeriano, dopo gli anni Cinquanta, cominci ad infiltrarsi, anche tramite il lavoro di coloro che sono stati allievi di Heidegger o che comunque si confrontano con la sua lezione, nel settore degli studi esegetici aristotelici, subendo anche una correzione proprio in riferimento alla figura dello Stagirita8. Se il materiale dei corsi di lezioni in cui Heidegger, pronunciandosi in tono polemico contro il modello jaegeriano, va via via definendo le linee portanti della sua lettura della tradizione non è appunto ancora noto al grande pubblico fino alla metà degli anni Ottanta9, la tesi della natura onto-teologica della metafisica, di contro, grazie agli scritti editi al di fuori del progetto editoriale della Gesamtausgabe, inizia a circolare già intorno alla metà del secolo scorso fino a costituire, tramite il rilancio del tema nell’ambito della filosofia continentale, l’oggetto di un dibattito sempre più denso sia nel campo d’indagine sulla storia della metafisica sia in quello della ricerca aristotelica10. La tesi heideggeriana ha anzi un effetto “iperboesegesi di tipo ontoteologico sono giudicati Mansion, Verbecke, Marx e Décarie, poiché la linea esegetica ontoteologica è pensata dall’autrice come una lettura in cui si considerano al modo di due scienze parellele, ma ben distinte, la metafisica nel senso della scienza teologica e la filosofia prima nel senso della scienza ontologica dell’ente in quanto tale. 8 Cfr. infra il successivo sottoparagrafo b). 9 Sono veramente pochi i corsi di lezione che vengono pubblicati mentre Heidegger è ancora in vita. Il corso del 1929/30 (Cfm), dove la tesi dell’onto-teologismo viene fuori in modo ormai evidente anche in assenza dell’espressione “onto-teologia”, era stato già ordinato da Heidegger in vista della sua pubblicazione, ma è solo nel 1983 che esso viene effettivamente edito. Le Vorlesungen in cui Heidegger polemizza contro la tesi jageriana sono pubblicate pressoché tutte dopo la sua morte, ad eccezione del saggio sulla f⁄sij contenuto in Sgv. 10 Johannes B. Lotz parla nel suo testo del 1943 (“Ontologie und Metaphysik. Ein Beitrag zu ihrer Wesenstruktur”, Scholastik 18 (1943), pp. 1-30) di una Doppelheit interna alla filosofia prima che si giustifica non sulla base di un’evoluzione di pensiero dello Stagirita, quanto piuttosto per il fatto che è l’oggetto della filosofia prima ad essere duplice. Secondo Lotz Aristotele avrebbe effettivamente determinato la filosofia prima secondo un doppio canale, ma non vi sarebbe contraddizione fra il carattere universale del progetto ontologico e quello singolare del progetto teologico perché al progetto di un’indagine sull’intero dell’ente corrisponde la via teologica che ha per compito l’individuazione delle cause e dei principi di esso. Così intesa, la duplicità di cui parla Lotz non è affatto paragonabile alla Doppelheit, alla Zwiegestalt prospettata da Heidegger (cfr. Sgv, p. 331; Volpi traduce semplicemente come duplicità, mentre mi appare più efficace

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lico”. Essa, in altri termini, provoca un’intersecazione reciproca fra il piano dell’esegesi e quello dello sviluppo della storia del pensiero metafisico in un clima di temperie filosofica che ricorda molto, in un certo qual modo, quello dell’Alta Scolastica e del tardo Medioevo (da Alberto Magno a Suárez), quando la ricerca sulla questione della natura della filosofia prima implica, nel contempo, lo sviluppo della storia della metafisica stessa in quanto tale, e ciò nonostante l’intento heideggeriano (e di chi segue l’esito della sua lezione esegetica) si espliciti come una decostruzione della metafisica e non già come una sua fondazione. Non si può certamente ascrivere ad Heidegger il merito di avere riportato in auge l’interesse per il problema dello statuto della filosofia aristotelica. Semmai è forse il lavoro interpretativo heideggeriano degli anni Venti a dichiarare che, sotto certi aspetti, la lettura di Heidegger è il riflesso di un rinnovato interesse in sede esegetica per la questione aristotelica che si manifesta a partire dalla fine del XIX secolo. La questione circa la natura propria della metafisica aristotelica raggiunge, infatti, in modo considerevole il suo acme fra la seconda metà dell’Ottocento ed i primi decenni del Novecento, quando diviene oggetto di ricerca non solo entro il più ristretto ambito filosofico, ma anche all’interno del campo degli studi filologici. L’area di ricerca di lingua tedesca si segnala particolarmente per la ricchezza dei contributi scaturiti dal felice connubio fra storiografia filosofica e ricerca filologica. Classiche si possono ormai considerare le osservazioni e le conclusioni di interpreti e studiosi quali Albert Schwegler11, Hermann Bonitz12, Paul Natorp e Werner Jaeger, dei quali si è già detto, Hans von Arnim13, Paul la resa di Courtine con “dimorphisme” in Inventio analogiae, cit., p. 67). Nondimeno la lettura di Lotz ha un punto in comune con quella heideggeriana che consiste nel sostenere che il progetto teologico esplicita una richiesta che si avanza all’interno del contesto del progetto ontologico. Per Heidegger l’istanza della Begründung si presenta sulla scorta della necessità di dare ragione e di giustificare l’intero dell’ente, quindi a partire da un’istanza che sorge sul piano di una considerazione ontologica dell’ente in quanto tale. 11 Cfr. A. Schwegler, Die Metaphysik des Aristoteles (Text, Übers., Komm.) 4 Bde., Fues, Tübingen 1847-48. 12 Cfr. H. Bonitz, Aristotelis Metaphysica I-II, Marcus, Bonn 1848-49. 13 Cfr. H. Von Arnim, “Zu W. Jaegers Grundlegung der Entwicklungsgeschichte

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Gohlke14, Max Wundt15, per citare solo alcuni dei nomi più noti provenienti dall’area germanica16. Nel processo di esaurimento del paradigma di matrice jaegeriana, nell’ottica di una storia della storiografia aristotelica, ad Heidegger non si può neppure attribuire più importanza rispetto agli studi critici miranti a salvaguardare l’unità intrinseca della Metafisica, sotto i cui capi d’accusa si determina la crisi irreversibile del paradigma storico-evolutivo. La crisi si annuncia in un certo senso da sé entro il paradigma genetico, manifestandosi nella completa discordanza dei risultati cui spesso approdano le varie ricerche nate entro il contesto esegetico di matrice jaegeriana17. Il metodo storico genetico implica des Aristoteles”, Wiener Studien 46 (1927-28), pp. 1-47 e “Die Entstehung der Gotteslehre des Aristoteles”, Akademie der Wissenschaften in Wien, Philos.-hist. Kl. Sitzungsber., Bd. 212, Abh. 5., Hölder-Pichler-Tempsky, Wien-Leipzig 1931, pp. 1-80. 14 Cfr. P. Gohlke, “Aus der Entstehungsgeschichte der Aristotelischen Metaphysik”, in AA.VV., Satura berolinensis. Festgabe der alten Herren zum 50 Jährigen bestehen des akademischen philologischen Vereins an der Universität Berlin, 5.XII.1874 ad 1924, Weidmann, Berlin 1924, pp. 34-49; Aristoteles und sein Werk, Schöningh, Paderborn 1948 e Die Entstehung der aristotelischen Prinizipienlehre, Mohr, Tübingen 1954. 15 Cfr. M. Wundt, Untersuchungen zur Metaphysik des Aristoteles, Kohlhammer, Stuttgart 1953. 16 Ciò che accomuna lo sforzo di molti di questi autori è il ricorso ad ulteriori criteri e parametri di valutazione non solo prettamente teoretici bensì anche filologici, stilometrici e letterari al fine di porre in ordine cronologico i vari libri che compongono la Metafisica. Nel far questo è considerato legittimo, in sede di ricostruzione critica del testo, espungere quelle parti ritenute non aristoteliche o per il contenuto o per la forma. Generalmente si scarta come non autenticamente aristotelico, frutto di possibili interpolazioni, presumibilmente teofrastee, ciò che genera contraddizione fra i diversi libri o che riproduce nell’espressione, in un modo giudicato inutilmente ripetitivo per un autore del calibro di Aristotele, posizioni di pensiero già espresse altrove, all’interno degli stessi trattati riguardanti la filosofia prima o nelle lezioni di fisica, come, ad esempio, accade nel caso dei cosiddetta excerpta del libro K che riprendono la dottrina delle quattro cause esposta nella Fisica. A questo proposito si può ricordare la posizione molto più radicale di Josef Zürcher (Aristoteles’ Werk und Geistes, Schöningh, Paderborn 1952) che ritiene che non solo la Metafisica, ma pressoché tutto il Corpus Aristotelicum a noi giunto sarebbe frutto dell’elaborazione di Teofrasto. Simile è il giudizio di Felix Grayeff (“The problem of the genesis of Aristotle’s text”, Phronesis 1 (1956), pp. 105-122), il quale reputa che il Corpus Aristotelicum sia in realtà un Corpus Peripateticum, ossia un prodotto dell’intervento e della partecipazione di diversi peripatetici. 17 Reale afferma ad es. che nell’orizzonte segnato da questa linea esegetica tutte le strade possibili sono state percorse “con il più netto e sconcertante disaccordo di risultati e di conclusioni” (G. Reale, Il concetto di filosofia prima, cit., p. 7). Questo è, in definitiva, lo stesso limite che si può riscontrare anche nella ricerca esegetica che segue i para-

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che i vari libri della Metafisica siano assunti come conferma dell’evoluzione di Aristotele per via della loro differenza contenutistica, compositiva e stilistico-letteraria, così che la sequenza data ai diversi libri deve riflettere la scansione temporale secondo cui lo Stagirita avrebbe elaborato le sue dottrine. Di fatto, rispetto a tale scansione, non vi è accordo fra gli studiosi. Basti pensare che von Arnim ribalta del tutto la parabola speculativa tracciata da Jaeger, ponendo la fase teologica come il compimento dell’evoluzione di pensiero aristotelico e non già come il suo inizio di derivazione platonica o, ancora, che William Guthrie e David Ross ritengono contro Jaeger che la dottrina del motore immobile non sia il risultato di un progetto teologico giovanile, bensì corrisponda ad una fase successiva, certamente posteriore alla formulazione del De caelo, e frutto di un lungo lavoro di ricerca, la cui definitiva espressione sarebbe il capitolo 8 di Metafisica L18. In altri termini, la mancanza di risultati definitivi e condivisi ha finito per inficiare la validità metodologica del modello geneticoevolutivo, mostrandone la carenza sul piano teoretico, quando in gioco vi sono questioni di calibro prettamente speculativo, anche se ciò non toglie che oggi non si potrebbe affrontare uno studio della filosofia aristotelica senza essere consapevoli dell’“importanza e della fecondità” della stagione di studi dominata dalla lezione jageriametri della critica filologico-letteraria. Ben condivisibile è, a questo proposito, la valutazione di Vegetti: “La tesi della Entwicklung, in effetti, celava un equivoco di fondo: scaglionando diacronicamente i problemi, e valorizzando, secondo un postulato di origine romantica, lo stadio finale dello sviluppo, che veniva così a porsi come il telos e la forma dell’intero processo, quella tesi finiva per recuperare il “sistema” di Aristotele, storicisticamente depurato della sua problematicità, appunto in tale ultimo stadio. Se sembrava così di poter univocamente assicurare ad Aristotele il suo posto nella storia dello spirito, le varie operazioni genetiche finivano per ridurre al minimo la tensione teoretica imposta da ogni lettura della “Metafisica”, senza d’altro canto potersi fondare sopra una ricostruzione dei dati storico-filologici effettivamente plausibile” (M. Vegetti, op. cit., p. 344). 18 Cfr. W.K.C. Guthrie, “The development of Aristotle’s theology”, The Classical Quarterly 28 (1934), pp. 90-98 e W.D. Ross, “The development of Aristotle’s thought”, in I. Düring-G.E.L. Owen (eds.), Aristotle and Plato in the mid-fourth century. Papers of the Symposium Aristotelicum held at Oxford in August, 1957, Almqvist & Wiksell, Göteborg 1960, pp. 1-17. Cfr. il preciso quadro tracciato da Reale ne Il concetto di filosofia prima, cit., pp. 4-8, per un’analisi delle differenze nelle ricostruzioni di Jeager, Gohlke, Wundt.

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na19. La svolta storiografica di metà Novecento, comunque, coincide con la prima diffusione della tesi heideggeriana della costituzione onto-teologica della metafisica che, in definitiva, ristabilisce la possibilità di tentare un percorso di analisi speculativa che lasci più sullo sfondo tutta una serie di questioni che, del resto, restano ancora adesso aperte. È, infatti, opportuno tenere presente che, ad esempio, proprio sulla questione della successione cronologica dei libri della Metafisica a tutt’oggi non vi è ancora completo accordo fra gli interpreti, anche fra coloro che non abbracciano più il metodo storiografico jaegeriano. La divergenza concerne non solo l’esatto ordine di composizione, ma anche la precisione nell’individuare le frasi o i passi considerati spuri. Quanto al problema dell’ordine cronologico di composizione si può accennare al fatto che, per esempio, lo Jaeger o, in seguito, il Düring collochino il libro L, il cosiddetto “libro teologico”, fra i primissimi scritti dell’intero Corpus Aristotelicum, laddove il von Arnim lo situa in una fase successiva o addirittura con19

Cfr. P. Donini, La Metafisica di Aristotele, cit., p. 19. Donini aggiunge che se è “ragionevole” abbandonare gli aspetti erronei dell’ipotesi esegetica jaegeriana, ciò non implica che bisogna ripudiare l’idea, alla cui conferma Jaeger ha contribuito con i suoi studi, che la filosofia aristotelica sia maturata in ambiente di formazione platonica, giacché rifiutare questa idea significherebbe “negarsi la comprensione di tanta parte delle opere” (cfr. ibid., p. 21). Per Donini vale il criterio “che non necessariamente tesi che appaiono diverse lo sono anche realmente e che, anche quando lo siano, ci possono essere state anche buone ragioni perché Aristotele le sostenesse entrambe in contesti diversi. Non ogni diversità di opinioni fra due passi o due opere implica una evoluzione” (ibidem). Non si tratta, insomma, di negare un percorso di maturazione interno alla vita di Aristotele, ma di ridimensionare la portata della tesi jaegeriana, che per altro, a propria volta, risulta essere uno sviluppo di un’originaria intuizione di Eduard Zeller (cfr. E. Zeller-R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, v. VI, t. 3: Aristotele e i Peripatetici più antichi, ed. it. a c. di A. Plebe, La Nuova Italia, Firenze 1966), notoriamente fra i primi a parlare di una vera e propria evoluzione di pensiero in Aristotele. Non mancano comunque studiosi che hanno continuato, anche successivamente all’abbandono della prospettiva di tipo jaegeriano, a privilegiare un approccio ancora di tipo storico-genetico, come mostra ad es. il corposo lavoro di Bertrand Dumoulin (Analyse génétique de la Métaphysique d’Aristote, Bellarmin-Les Belles Lettres, Montréal-Paris 1986). La proposta di Dumoulin appare, però, molto interessante, giacché egli, pur nella ripresa del metodo storico-evolutivo, basato in primo luogo sullo studio del lessico e della comparazione dei testi, sottopone quando è necessario a critica questo stesso metodo per salvaguardare l’unitarietà della Metafisica che, invece, nella lettura dello Jaeger appare tutta superficiale e frutto dell’introduzione di una coerenza esteriore all’interno di una collezione di trattati di epoche diverse e di orientamento opposto.

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clusiva dell’evoluzione concettuale aristotelica, giudicandolo, pertanto, posteriore a pressoché tutti gli altri libri della Metafisica 20. Quanto, invece, alla questione dell’autenticità della Metafisica può bastare ricordare che, circa l’annosa questione dell’autenticità del libro K, Willy Theiler21, Suzanne Mansion22, Auguste Mansion23, Aubenque24, Düring, e già molto prima Natorp25, considerano spurio il libro, laddove per altri autori, fra cui Jaeger26, Gohlke27, Merlan28, 20 In generale, comunque, è opinione ormai comune che L sia un trattato giovanile dello Stagirita, sebbene le posizioni espresse in esso non risultino per diversi studiosi affatto contraddittorie rispetto al progetto investigativo del libro G, che, invece, sarebbe espressione della fase compiutamente matura della speculazione aristotelica. 21 Pur non pronunciandosi espressamente per la sua inautenticità, il Theiler (cfr. “Die Entstehung der Metaphysik des Aristoteles”, in Museum Helveticum 15 (1958), pp. 85-105) esclude di fatto il libro K dall’ordine da lui proposto dei libri della Metafisica. 22 La Mansion non discute direttamente la questione dell’autenticità di K, ma giudica “estremamente confusa” la sua esposizione e considera il suo autore un allievo dello Stagirita (cfr. “Les apories de la Métaphysique aristotélicienne”, in AA.VV., Autour d’Aristote. Recueil d’études de philosophie ancienne et médiévale offert à monseigneur A. Mansion, Publications Universitaires de Louvain, Louvain 1955, pp. 141-179). 23 Alla questione di K Mansion dedica l’appendice del suo saggio “Philosophie première, philosophie seconde et métaphysique chez Aristote” (cit., pp. 209-221), in cui conclude che, sebbene il vocabolario sia “nettamente aristotelico”, il libro deve essere attribuito ad un peripatetico antico, per via anche delle varie incoerenze che parlano a favore dell’inautenticità del testo. 24 P. Aubenque, “Sur l’inauthenticité du livre K de la Métaphysique”, in AA.VV., Études aristotéliciennes: Métaphysique et théologie, Vrin, Paris 1985, pp. 288-314. 25 Natorp riassume le tre posizioni assunte dalla critica a lui più o meno contemporanea in merito alla questione dell’autenticità di K. Per Brandis, Bonitz, Schwegler e Zeller il libro sarebbe autentico e rappresenterebbe la formulazione del progetto della filosofia prima di cui B, G ed E sarebbero la realizzazione; per Ravaisson il libro K sarebbe una seconda redazione del tema della prËth filosofÖa rispetto a B, G ed E, anche se probabilmente non avrebbe dovuto sostituire la prima redazione, ma solo fornire un nuovo fondamento per un’esposizione più compiuta della filosofia prima; infine per Rose, Spengel, Christ e Überweg, con cui Natorp concorda, il libro sarebbe spurio, “un’imitazione, in un certo senso autonoma, attribuibile a un discepolo di Aristotele” (cfr. P. Natorp, op. cit., p. 138). 26 Per Jaeger l’autenticità di K 1-8 è addirittura “lampante” (Aristotele, cit., p. 279), mentre in fondo sarebbe più problematico comprendere nel contesto del libro la presenza dell’“appendice” finale di estratti dalla Fisica, che in sé non sono meno aristotelici di qualsiasi altra parte di questa silloge di manoscritti” (ibid., p. 225). 27 Cfr. P. Gohlke, “Aus der Entstehungsgeschichte der Aristotelischen Metaphysik”, cit., e Die Entstehung der aristotelischen Prinizipienlehre, cit. 28 Ph. Merlan, “Metaphysik: Name und Gegenstand”, cit.

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Décarie29, Anthony Kenny30 o Reale, la sua stesura è genuinamente aristotelica31. Credo, quindi, che non sia vano sottolineare nuovamente che il paradigma heideggeriano costituisce un impulso sul piano dell’impegno teoretico non solo nella direzione di uno sviluppo in chiave esegetica di un problema cruciale e “indubbiamente unico nella storia della filosofia”32 – quale appunto quello specifico concernente la determinazione della struttura della metafisica in Aristotele –, ma anche nella direzione del dibattito sulla metafisica, letta nondimeno 29 V. Décarie, “L’authenticité du livre K de la Métaphysique”, in AA.VV., Études aristotéliciennes: Métaphysique et théologie, cit., pp. 265-286. 30 A. Kenny, “A stylometric comparison between five disputed works and the remainder of the Aristotelian Corpus”, in P. Moraux-J. Wiesner (Hrsg.), Zweifelhaftes im Corpus Aristotelicum, de Gruyter, Berlin-New York 1983, pp. 345-366. Per Kenny manca “una reale evidenza che suggerisca l’inautenticità di Metaph. K” (p. 365). 31 Da sagnalare anche che Christian Rutten, invece, considera problematici solo i capitoli 7 e 10 di K, frutto dell’interpolazione di Teofrasto, laddove il resto del libro sarebbe espressione delle varie fasi di pensiero dello Stagirita (Cfr. C. Rutten, “La stylométrie et la question de ‘Métaphysique’ K ”, Revue Philosophique de Louvain 90 (1992), pp. 486-496). 32 P. Aubenque, “Sens et structure de la métaphysique aristotélicienne”, Bullettin de la Société Française de Philosophie 57 (1964), p. 1. Problema unico, cioè, nella misura in cui l’interprete si interroga su qualcosa di più di ciò che sembra emergere in prima battuta dal solo dato testuale. Vegetti, infatti, scrive: “Ad ogni stagione della ricerca storiografica, tuttavia, si ripropone l’enigma irritante di quest’opera che non è un’opera, dal titolo improprio ma insostituibile, vertente sopra un oggetto inafferrabile indagato con un metodo parimenti delusivo. E soprattutto si impone il quesito circa una sua latente unità se non di struttura almeno di senso e di intenzione, un quesito che ostinatamente riemerge persino all’interno delle tesi più risolute nel negare, a un altro livello, quella stessa unità” (M. Vegetti, op. cit., p. 343). Per Aubenque il problema interpretativo della Metafisica è caratterizzato dal fatto che la raccolta dei quattordici libri accorpati da editori postumi sotto un titolo che non è di Aristotele incontra una sorta di “carriera postuma” che “trasfigura a poco a poco” la raccolta di problemi e di ricerche, la cui unità e la cui coesione non sono affatto evidenti, lasciandola assurgere all’espressione compiuta di un sistema come “membra disjecta in un tutto coerente”. Ma del fatto che la raccolta non costituisca per sé affatto un sistema coerente è per Aubenque indice la ricchezza in sede storiografica delle tante analisi che si sforzano di recuparare l’immagine unitaria e sistematica che si ritiene minacciata dai diversi problemi che i trattati pongono. Osserva, però, Aubenque, che innanzitutto il vero problema è costituito dal fatto di tentare di ricorrere ad un metodo esegetico che non pretenda di sostituire l’“Aristotele di fatto” con l’“Aristotele di diritto”, tanto che, nella sua opera più celebre, Le problème de l’être chez Aristote, Aubenque non esita, come ho già detto, a considerare intrinsecamente aporetico il carattere della Metafisica in quanto propriamente aporetica sarebbe la nozione della filosofia prima che in essa si agita.

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sulla scorta di quello che si decide (o che non si decide), di quello di cui ci si avvede (o di cui non ci si avvede) nel momento della sua originaria formulazione scientifica con lo Stagirita. Si potrebbe, forse, difatti dire che affrontare la questione della prËth filosofÖa come questione della metafisica dopo Heidegger si profila a tratti come il tentativo di supportare o di controargomentare rispetto ad una ben precisa tesi di Heidegger circa l’origine inconsapevole in Aristotele del nocciolo onto-teologico che, di contro, guardando alla storia della metafisica, appare consapevolmente fondato a partire dalla svolta impressa da Duns Scoto 33. 33

Senza addentrarmi nella questione della determinazione della metafisica in Duns Scoto, è utile ricordare che il doctor subtilis, riprendendo nel prologo delle Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristotelis i termini della polemica fra Avicenna ed Averroè, opta nella Quaestio 1 (Utrum proprium subjectum metaphysicae sit ens in quantum ens vel Deus et intelligentiae) per la tesi “ontologica” avicenniana contro quella “teologica” di Averroè. La predilezione per l’esegesi di Avicenna si scorge esemplarmente anche nel prologo dell’Ordinatio: “[D]ico quod Avicenna – cui contradixit Commentator – bene dixit, et Commentator male” (Ioannis Duns Scoti Opera Omnia I, Ord., Prol., pars 3, q. 2, 194, Typis Polyglottis Vaticanis, Civitas Vaticana 1950, p. 130). Dio non è il subjectum primum della metafisica, bensì è l’oggetto di un’altra scienza ben distinta da essa: “Deus non est subjectum in metaphysica, quia […] de Deo tamquam ut primo subjecto tantum est una scientia, quae non est metaphysica” (Ioannis Duns Scoti Opera Omnia XXII, Rep. Par., Prol., 46a, Vivès, Paris 1894). La metafisica non può avere due oggetti primi come Dio e l’ente in quanto ente che sono, appunto, oggetti differenti: “Non igitur Deus, quia non possunt esse duo prima subjecta eiusdem scientiae” (Ionnis Duns Scoti Opera Philosophica III, Quaest. super libros Metaph. Arist., l. 1, q. 1, 35, St. Bonaventure University, New York 1997). Conferendo alla metafisica il valore di un’ontologia che studia l’ente in quanto ente nella sua entitas e con riferimento alla sua ratio entis, Scoto risistematizza l’edificio teoretico di derivazione aristotelica tramite una quadripartizione in cui l’alia metaphysica (o scientia trascendens), che ha per oggetto l’ente, è prima (tota prior) rispetto alla metafisica come scientia divina che si occupa di contro di Dio che, come primum ens, resta un ente particolare che non si identifica con la natura entis: “Igitur demonstratio passionis trascendentis de ente prior est ista, sicut universalis particulari, sicut medium medio, sicut omnis demonstratio de numero in communi est ante illam qua probatur aliquis numerus esse primus. Igitur metaphysica trascendens erit tota prior scientia divina, et ita erunt quattuor scientiae speculativae: una trascendens, et tre speciales” (ibid., p. 155). Courtine nota che il lavoro scotista ha per questo il valore di una dé-structuration e re-structuration, giacché ristabilisce la “continuità ontoteologica” della metafisica, iscrivendo “la particolarità teologica nell’universalità trascendentale di una metafisica che adesso si presenta espressamente come ‘generale’” (J.-F. Courtine, Il sistema della metafisica, cit., p. 124). In tal modo Scoto evita di cadere in un “raddoppiamento interno alla metafisica” o in quella determinazione aporetica di cui sarebbe responsabile Aristotele. Il punto è, però, che così Scoto – e su questa linea Suárez e Wolff – sembra sfuggire alla trama onto-teologica. Nella direzione inaugurata dalla metafisica

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Onto-teologia o katholou-protologia?

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Nel corso sui Concetti fondamentali della metafisica Heidegger, infatti, asserisce: Già nel concetto di filosofia prima, elaborato nell’antichità da Platone e da Aristotele, è presente un’ambiguità (Mehrdeutigkeit). Abbiamo visto che Aristotele orienta il filosofare autentico secondo due direzioni: come questione intorno all’essere, intorno al fatto che ogni cosa che è, in quanto è, è qualcosa, che è l’una cosa e non l’altra, e simili. Unità, pluralità, contrapposizione, molteplicità e simili sono determinazioni proprie di ogni ente in quanto tale. L’elaborazione di tali determinazioni è un compito dell’elaborare proprio del filosofare autentico. Ma a questo punto sorge anche la questione dell’ente autentico, che Aristotele definisce qeãon. Caratterizza questo ente in modo più chiaro nel contesto della ôpistªmh qeologikª . Aristotele non si è reso conto (nicht zum Bewusstsein gekommen) dello squilibrio (Unausgeglichenheit), cioè della problematicità che è insita in questa scotista si perde la traccia di una scienza ambivalente a favore di una divaricazione fra una scienza metafisica universale e le scienze speculative particolari. Paradossalmente la distinzione tardo-medievale e poi moderna fra una metafisica generale ed le metafisiche speciali sembra distruggere l’idea dell’onto-teologismo in chiave heideggeriana, perché questa distinzione corrisponde ad un’articolazione, ad un’interpretazione e, quindi, ad una stessa riduzione della doppiezza dell’oggetto della metafisica. In realtà Heidegger può comunque argomentare che, nonostante ciò, la metafisica tardo-scolastica e moderna insiste ancora sulla duplicità: a dispetto dell’apparente divaricazione dei compiti, essa continua a muoversi secondo quel ritmo di rinvio reciproco fra il livello investigativo ontologico e quello teologico. La teologia appare l’esito di un progetto ontologico rispetto al compito di trovare il principio che è a monte dell’intero dell’ente; nel contempo la ricerca del principio, determinato al modo del fondamento, orienta l’ontologia. In questo senso Kant coglie in maniera radicale l’inganno del riordino del sistema della metafisica da parte di Wolff che invano tenta di disgiungere ontologia e teologia, fondando la loro commistione con l’argomento ontologico. In termini molto sommari, secondo Kant Wolff riannoda ontologia e teologia servendosi nella prova ontologica di concetti che afferiscono alle cose in genere, cioè che si dovrebbero propriamente applicare solo agli oggetti che non sono dati alla ragione dall’esterno o che sono pensati solo dal punto di vista della loro possibilità concettuale. Dio come ente esistente non rientra in questa classe di oggetti. L’inclusione dell’esistenza della considerazione dell’essenza di Dio come ens a se realissimum e perfectissimum – cuore della prova ontologica, con l’uso in chiave ontologica delle categorie modali logiche di necessità, possibilità ed impossibilità – è, pertanto, per Kant illegittimo (cfr. I. Kant, op. cit., pp. 379-384, dove Kant nota la contraddittorietà di inserire, “sia pure sotto occulto nome”, il concetto dell’esistenza entro il concetto di una cosa pensata “unicamente nella sua possibilità”). Per un’analisi della prova ontologica e della critica kantiana cfr. D. Henrich, La prova ontologica dell’esistenza di Dio. La sua problematica e la sua storia nell’età moderna, trad. it. S. Carboncini, Prismi, Napoli 1983 e R.G. Timossi, Prove logiche dell’esistenza di Dio da Anselmo d’Aosta a Kurt Gödel. Storia critica degli argomenti ontologici, Marietti, Genova 2005.

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Aristotele dopo Heidegger

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duplice direzione del filosofare, o comunque noi non ne siamo a conoscenza 34.

Rispetto a questa indicazione sembra, allora, che si tratti di dovere decidere da parte di chi si confronta con il problema esegetico dello statuto della prËth filosofÖa dopo Heidegger se effettivamente Aristotele è rimasto inconsapevole della duplice direzione impressa all’interrogare della filosofia prima o se, di contro, in lui vi è stata una piena coscienza del doppio binario parallelo costruito nell’esplicitazione del compito investigativo della metafisica. Se Aristotele non si è reso conto dell’intreccio, così come afferma appunto Heidegger, si dovrebbe concludere che la metafisica è scaturita, in ultima analisi, da una sorta di equivoco di fondo o, piuttosto, di cecità speculativa. All’origine, cioè, la metafisica avrebbe mancato la differenza ontologica perché non l’avrebbe affatto scorta. La storia della metafisica, in quest’ottica, si costruirebbe a partire da una svista originaria. Se invece si attribuisce ad Aristotele un intenzionale strabismo strutturale, che comporta che il filosofo primo focalizza il suo sguardo tanto sull’intero dell’ente quanto sull’ente divino, diviene necessario chiarire la ragione della doppia battuta interrogativa, del doppio passo d’indagine. Ciò richiede altresì che si prenda posizione rispetto alla tesi 34 Cfm, pp. 69-70 (corsivo mio). Subito dopo Heidegger conclude: “Questo squilibrio consiste nel fatto che la questione intorno a cosa siano uguaglianza, diversità, contrapposizione, di come queste determinazioni si rapportino tra di loro e in che modo facciano parte dell’essenza dell’ente, è qualcosa di totalmente diverso dalla questione che riguarda il fondamento ultimo dell’ente” (ibidem). Si tratta dell’analisi heideggeriana probabilmente più dettagliata della metafisica vista a partire dalla genesi aristotelica ed attraverso le sue diverse declinazioni esegetico-speculative verificatesi nel corso del suo sviluppo, soprattutto durante l’epoca medievale e rinascimentale fino alla modernità. Un giudizio simile circa la non consapevolezza aristotelica della doppia determinazione della filosofia prima si ritrova ad es. anche in Kpm: “La fondazione kantiana della metafisica incominciava con il dar fondamento a ciò che costituisce la base della metafisica propriamente detta (metaphysica specialis), ossia alla metaphysica generalis. Ma questa – in quanto ‘ontologia’ – è la forma, consolidata in disciplina, di ciò che gli antichi, da ultimo con Aristotele, classificarono stabilmente come problema della prËth filosofÖa, del filosofare autentico. La domanda sull’oñn Œ ‘n (l’ente in quanto ente) si trova però, nella stessa sede, oscuramente connessa con quella sull’ente in totale (qeãon). L’appellativo di metafisica indica una concezione del problema, che lascia in gioco non solo le due direzioni fondamentali dell’indagine intorno all’ente, ma pure la loro possibile unità. E ciò, anche prescindendo dalla questione se le suddette due direzioni esauriscano la problematica di una conoscenza fondamentale, nel suo complesso” (Kpm, p. 190, corsivo mio).

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heideggeriana, ossia che si decida se ed in che misura Heidegger colga nel segno quando ritiene che nel doppio movimento di determinazione della filosofia prima si perde la traccia della differenza ontologica. Se ci si attiene ai termini del paradigma heideggeriano, riconoscendo tuttavia la cosciente paternità aristotelica dell’onto-teologismo metafisico, la metafisica sembra prendere il suo avvio da una dichiarata volontà di voltare le spalle alla differenza ontologica. Il dato testuale sembra, però, essere chiaro: Aristotele riconosce espressamente in Metafisica E, alla fine del I capitolo, la difficoltà che insorge dalla determinazione della filosofia prima in chiave teologica e si premura di chiarire in che senso essa non sia in contraddizione con la determinazione universale di tipo ontologico. L’asserzione di Heidegger, quindi, pur apparendo sorprendente rispetto al testo tramandatoci, di fatto pone l’accento su un’autentica problematicità originaria insita nel modo in cui Aristotele si premura di dipanare la matassa. Questa autentica problematicità resterebbe per sé indecifrabile se nel rimetterla in gioco, dopo Heidegger, non si cercasse di scorgere il significato in Aristotele di un atteggiarsi teoretico a monte al cospetto della differenza ontologica. In altri termini, se la questione dell’essenza della metafisica diviene con Heidegger la questione della differenza ontologica, è necessario comprendere il senso o la finalità dell’originario disporsi della metafisica di fronte a tale questione. Declinando così il problema, in modo ancora più evidente emerge che rispetto alla metafisica aristotelica il canone esegetico heideggeriano ha in fin dei conti finito per configurare due tendenze interpretative di massima. Accettandolo, si guarda ad Aristotele secondo lo sviluppo successivo alla sua impostazione di ricerca per affermare un’assoluta coerenza fra la metafisica post-aristotelica e la filosofia prima. Rifiutandolo, si sottrae lo Stagirita alla storia dell’onto-teologia metafisica, con una delegittimazione dell’interpretazione aristotelica di Heidegger35. In ciascuno dei due casi il paradigma risulta tut35 Più in generale si sconfessa la validità del paradigma heideggeriano, quando se ne contesta l’applicazione all’intera storia della tradizione che viene liberata dall’immagine statica di un pensiero strutturalmente onto-teologico. Ciò accade solitamente anche mostrando che non è pertinente attribuire ad una o a più figure fondamentali della tra-

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Aristotele dopo Heidegger

tavia prepotentemente attivo, giacché fornisce il punto di partenza della riflessione o in quanto tesi-guida o in quanto bersaglio polemico. Sebbene, infatti, tendano a rigettarlo, proprio alcuni fra i più noti aristotelisti, come anche alcuni fra i più convinti sostenitori della metafisica classica o fra i critici decisamente più avversi o più scettici rispetto ai contenuti ed ai risultati delle analisi heideggeriane, tengono ben presente il modello onto-teologico eleborato da Heidegger. Basti ricordare ancora una volta che, pur non mancando di sottolineare la propria distanza da esso ed il suo fermo rifiuto, un aristotelico del calibro di Berti, forte sostenitore della versione aristotelica della metafisica in quanto ricerca delle cause e dei principi primi, stimi il paradigma onto-teologico un’importante tappa della stodizione metafisica lo schema heideggeriano che riassume il modo onto-teologico della metafisica come richiesta e conseguente esibizione della ragione dell’ente rappresentata dall’ente sommo in quanto fondamento di sé e della totalità di cui esso stesso, in quanto ente sia pure supremo, fa parte. Un caso esemplare di invalidamento del paradigma heideggeriano è rappresentato dalla sempre più diffusa sottrazione di Tommaso d’Aquino dallo schema onto-teologico, che, in effetti, si costruisce modulandolo sulla forma della metafisica di epoca scolastica. Emblematiche sono le parole di Luis Romera che nota che non solo la posizione tomista, ma anzi tutta la metafisica che matura entro la tradizione cristiana non pone la questione della ragione dell’ente secondo l’esigenza di trovarne il fondamento, come invece accade in epoca moderna: “I termini con cui si volge l’analisi heideggeriana mettono in evidenza che il paradigma di metafisica che il pensatore tedesco prende in considerazione corrisponde primariamente all’ontologia moderna, e include quelle ontologie olistiche in cui dal principio si possono dedurre le entità dipendenti, o viceversa; ma esso è assai distante da altre modalità di pensare l’ente in quanto ente […] [L’]equivalenza moderna […] tra ragione (come prova dimostrativa della verità di un ente in un sistema omnicomprensivo d’indole razionale) e causa (come origine, fondamento o principio metafisico) non vige in altri paradigmi metafisici, ed è contraria all’impostazione del pensiero di Dio nella precedente tradizione cristiana. […] Gli esempi si potrebbero moltiplicare, passando in rassegna innumerevoli pensatori orientali e occidentali, ai quali si aggiunge anche Tommaso d’Aquino” (L. Romera, “L’oggetto della metafisica include Dio?”, in Tommaso d’Aquino e l’oggetto della metafisica, a c. di S.L. Brock, Armando, Roma 2004, p. 119 ss.). Su questa scia si muove anche Alejandro Llano che non ritiene che lo schema onto-teologico sia applicabile alla concezione tomista dell’ens summum: “Il carattere onto-teologico che Heidegger attribuisce indiscriminatamente a tutta la tradizione metafisica non implica (nel caso che si accetti questa terminologia, che ha un sapore peggiorativo) né la reificazione dell’essere né la cosificazione di Dio. Infatti Dio lo si ricerca soprattutto nella linea dell’azione, non nella dimensione della grandezza o dell’immensità di un ente universalissimo o generalissimo, come pensa Heidegger” (A. Llano, “Il superamento della critica contemporanea della metafisica”, in Ripensare la metafisica. La Filosofia Prima tra Teologia e altri saperi, a c. di L. Romera, Armando, Roma 2005, p. 56).

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ria dell’esegesi aristotelica del Novecento36. Resta, certo, una discrepanza fra il modo in cui il paradigma heideggeriano è penetrato dispiegandosi dentro il campo del dibattito contemporaneo sulla metafisica in sé e dentro quello della ricerca esegetico-speculativa sulla filosofia prima aristotelica. Non vi è alcun dubbio che a partire dall’impulso fornito dal canone onto-teologico la “questione aristotelica”, il “caso Aristotele” acquisti maggiormente il valore di un “luogo”, di una sorta di punto di incontro e di “decisione”. La “questione aristotelica”, cioè, è in un certo senso spesso il punto di convergenza per il dibattito più generale post-heideggeriano sulla metafisica; penso ad esempio sia ad alcune posizioni dell’antimetafisica contemporanea che recepisce e fa proprio il risultato della lettura heideggeriana prospettando il primato dell’etica sulla metafisica, sia alla posizione di chi, pur nella condivisione dell’esegesi di Heidegger, sottrae alla trama onto-teologica della storia del pensiero occidentale proprio la figura che invece, per Heidegger, dà la stura al dispiegarsi dell’onto-teologia, ossia Aristotele. Parlare di un Aristotele dopo Heidegger esige, a mio avviso, allora che si guardi all’Auseinandersetzung Heidegger-Aristotele in un’ottica diversa rispetto a quanto ci ha abituato la letteratura in merito. Non si tratta di osservare il rapporto di Heidegger con Aristotele per trarre in primo luogo qualche conclusione sul pensiero heideggeriano, come è solita procedere una buona parte della critica in merito che, peraltro, continua a privilegiare la strada aperta da Franco Volpi e da Jacques Taminieaux nel dare enfasi in modo quasi esclusivo al confronto heideggeriano con l’Aristotele della cosiddetta filosofia pratica a discapito del lavoro di ripensamento della metafisica aristotelica messo in campo dal filosofo tedesco. Nella prospettiva di una lettura della prËth filosofÖa aristotelica attraverso la mediazione del paradigma onto-teologico si tratta, semmai, di chiarire il modo in cui metodologicamente un uso accorto del canone heideggeriano possa risultare proficuo per l’esegesi aristotelica e per la comprensione della questione della natura della filosofia prima. Un valido modello di questo tipo di approccio e, quindi, di un’applicazione criticamente 36

Cfr. ad es. E. Berti, Aristotele nel Novecento, cap. II, cit., e “La Metafisica di Aristotele: ‘onto-teologia’ o ‘filosofia prima’”, cit.

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Aristotele dopo Heidegger

avvertita del paradigma heideggeriano è rappresentato da quella che ormai si può a tutti gli effetti definire una vera e propria scuola in Francia. Dopo la prima recezione della filosofia heideggeriana in chiave esistenzialista, in seguito ad una sorta di passaggio nato dal diverso approccio da parte di Jean Beaufret all’ontologia fenomenologica heideggeriana37, il tema dell’onto-teologia come chiave d’accesso esegetica alla storia della metafisica ha acquistato nell’area di lingua francese una sempre più cospicua visibilità fino a diventare il tema centrale di un filone di studi che ha fra i suoi esponenti più significativi autori del calibro di Aubenque, Courtine, Brague, Marion e che si arricchisce sempre più grazie al lavoro di allievi e seguaci (da Boulnois a Narbonne, da Mabille a Jaran, solo per citare alcuni dei più attivi). L’interesse primario non è quello di contestare o, di contro, rafforzare la validità della lettura heideggeriana. L’intento è, invece, quello di comprendere la metafisica e la sua storia confrontandosi con i vari autori-chiave della tradizione e procedendo ad una sorta di correzione o di rivisitazione del paradigma ontoteologico nei casi in cui esso si mostra impreciso o troppo generico, cosa che, ovviamente, può anche portare al rifiuto di applicare la chiave di lettura onto-teologica a certe figure della tradizione. Prima di illustrare questa linea di studi critici, desidero dare ancora enfasi, però, all’impatto e, dunque, alla linea di demarcazione rappresentata dalla lettura onto-teologica nel panorama esegetico aristotelico, perché vi sono casi esemplari – penso ad esempio alla posizione di Aubenque – attraverso cui mi è possibile tirare fuori nuovi elementi di riflessione intorno alla mia tesi della determinazione della filosofia prima come protologia radicale, che ho tracciato nei precedenti capitoli. Come dicevo, la presenza della tesi heideggeriana sulla metafisica occupa un posto di rilievo nel dibattito critico intorno alla metafisica sin dalla sua prima diffusione. Questo è un dato facilmente riscon37 Per un quadro generale sulla recezione francese della filosofia heideggeriana e sulle svolte verificatesi nel corso del processo di questa recezione e per puntuali indicazioni sulla linea di studi che si orienta sull’analisi della struttura katholou-protologica della metafisica cfr. D. Janicaud, Heidegger en France, v. I Récit e v. II Entretiens, Albin Michel, Paris 2001.

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trabile e, del resto, il ruolo del canone onto-teologico è a tutt’oggi preponderante, se si considera anche come il paradigma sia riuscito a mettere in dialogo in tempi recenti la filosofia continentale e la filosofia analitica – penso soprattutto alle espressioni della Neoscolastica e del Neotomismo angloamericani che non ignorano il canone heideggeriano38 – come anche la filosofia (soprattutto di taglio fenomenologico) e la teologia nello sviluppo della cosiddetta “filosofia post-secolare” quale propaggine o deriva di tendenze e tematiche maturate nel clima della filosofia post-moderna. Di contro, la penetrazione del paradigma onto-teologico nell’ambito degli studi esegetici su Aristotele è stata più lenta, sebbene inesorabile. Ciò perché dalla metà dell’Ottocento, ossia da quando è riesplosa con prepotenza, la ricerca sulla questione dello statuto della filosofia prima non si è mai arrestata, attraversando mode e tendenze di vario genere ed arrivando a produrre un apparato critico assolutamente eterogeneo, ma ricchissimo, in cui la voce di Heidegger, in fin dei conti, resta una delle tante o, comunque, non rappresenta affatto un punto di 38 Cfr. ad es. P.S. Dillard, Heidegger and Philosophical Atheology. A Neo-Scholastic Critique, Continuum, London-New York 2008. Penso, tuttavia, anche ad autorevoli filosofi americani che, muovendosi nell’ambito della filosofia della religione così da diventare anche rappresentanti della “filosofia post-secolare”, restano per certi tratti in dialogo con la tradizione analitica, come ad es. Merold Westphal, John D. Caputo, John Milbank. Interessante è l’analisi di Jocelyn Benoist: egli non solo esplicita come l’istanza dell’oltrepassamento della metafisica che matura in ambito fenomenologico con Husserl ha un carattere positivista, ma mostra che proprio per questo secondo Heidegger la posizione husserliana resta segnata da un timbro metafisico. E, però, a sua volta erede della lezione fenomenologica, lo stesso tema della “fine della metafisica” heideggeriano rimane caratterizzato per Benoist da un taglio metafisico: “La difficoltà della problematica heideggeriana e post-heideggeriana dell’oltrepassamento della metafisica ci sembra che resti limitata al suo carattere propriamente … metafisico” (J. Benoist, “Dépassements de la métaphysique”, Revue Philosophique de la France et de l’Étranger 2 (2004), p. 175) e ciò per la sua visione della metafisica secondo un’ottica storica di tipo idealista hegeliano. Per questo, alla fine, non è più così paradossale che le critiche mosse alla metafisica da parte della filosofia analitica nel XX sec. siano mosse proprio alla “postfenomenologia heideggeriana”. In questo senso, quindi, la figura di Heidegger rispetto alla questione della metafisica ha finito per costituire un terreno di strano incontro fra la filosofia analitica e quella continentale che, ognuna per le sue specifiche ragioni, hanno rigettato l’operazione heideggeriana. In sostanza per gli analitici Heidegger resta ancora un metafisico e, dunque, la sua Verwindung insiste ancora su ciò che vorrebbe oltrepassare; di contro per i continentali sostenitori della metafisica la posizione di Heidegger è appunto antimetafisica e, dunque, è da rifiutare.

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Aristotele dopo Heidegger

riferimento obbligato. Questo apparato, già ad una superficiale occhiata, si compone ancora, infatti, di una molteplicità di approcci di diversa matrice: studi maturati, ad esempio, entro l’area analitica, esegesi di stampo neoscolastico, analisi di taglio fenomenologico, prospettive legate ad un fondamentale recupero della problematica metafisica proprio in chiave aristotelica. Questa ricchezza non è solo segno della vitalità della riflessione aristotelica nella sua declinazione metafisica. È la testimonianza della vivacità di un cospicuo dibattito che non ha, come ho già detto inizialmente, effettivamente in Heidegger il “trampolino di lancio” come, invece, è per la linea di decostruzione della metafisica che si sviluppa a partire da una esplicita ripresa dei contenuti del paradigma heideggeriano (Derrida o Lévinas fra le espressioni sicuramente più tipiche). Ciò che si osserva è, però, uno slittamento prospettico a cui ho già accennato in vario modo in precedenza. Nel dibattito che scaturisce dall’esegesi heideggeriana la questione centrale diviene sostanzialmente quella sulla natura e le possibilità della metafisica in generale, travalicando così i confini della questione specifica della prËth filosofÖa. Eppure, in questo dibattito, grazie anche alla necessità di passare attraverso la tesi heideggeriana per saggiarne la validità, si continua ad attingere ad Aristotele, sia pure attraverso opportune revisioni, riproponendo il suo modello epistemico di metafisica o optando per scelte tematiche ontologiche e metafisiche di chiara ispirazione aristotelica39. 39 Non è mia intenzione dare conto delle coordinate portanti di questo dibattito nella sua variegata composizione interna, come ad es. fa, a mio avviso efficacemente, Nef nel già ricordato Qu’est-ce que la métaphysique?, cit. Rimando, tuttavia, al Giornale di Metafisica XXIX (2007), 2 del che dà preziosa testimonianza dello status quo del dibattito specialmente in Italia e che analizza soprattutto il rapporto di “ontologia” (ricerca su che cosa c’è al fine di redigere un catalogo dell’esistente) e “metafisica” (indagine sul che cos’è ciò che c’è, sull’essenza di ciò che rientra nel catalogo), secondo una distinzione usuale in ambito analitico, mettendo però in dialogo esponenti di linee di pensiero diverse. Nel contributo introduttivo (“Sul confine fra ontologia e metafisica”, pp. 285303), Varzi, riprendendo le linee del rapporto illustrate in Ontologia (Laterza, RomaBari 2005), difende la distinzione e le possibilità di praticare un’ontologia scissa dalla metafisica. Propenso ad anteporre il lavoro dell’ontologia a quello della metafisica, Varzi risponde a varie obiezioni, di cui la più forte si riassume nella questione di come sia possibile procedere alla classificazione di ciò che c’è senza specificare cosa sia (cfr. Ontologia, cit., p. 7 ss.). È interessante il suo confronto con Berti, che, di contro, sostiene una metafisica di tipo aristotelico come scienza dei principi e delle cause prime. Nella

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Della lezione heideggeriana resta così traccia visibile all’interno del denso panorama delle interpretazioni della Metafisica in quella pulsione che con chiarezza si riscontra nei diversi approcci o linee di ricerca: è l’insistente bisogno di penetrare con Aristotele entro le pieghe originarie della compagine metafisica. Questa spinta, che a tratti quasi schiaccia Aristotele entro la rigidità dell’intera tradizione metafisica assunta in blocco, corrisponde nondimeno ad un chiaro slittamento prospettico la cui paternità è da attribuire appunto ad Heidegger. Porro ha, a mio avviso, espresso in modo molto efficace l’importanza del significato del paradigma onto-teologico. Sebbene siano più specificamente espresse in riferimento all’influsso del canone heideggeriano sull’ambito degli studi sulla metafisica medievale (nellettura di Berti, rileva Varzi, l’ontologia sarebbe inclusa nella metafisica, poiché “il concetto di “ente in quanto ente”, con il quale si è tradizionalmente identificato l’oggetto dell’ontologia, viene introdotto da Aristotele […] allo scopo preciso di unificare tutte le entità di cui si devono cercare i principi e le cause prime, tutti i modi in cui si dice l’essere” (ibid., p. 23). La via dello Stagirita offre, in effetti, un modello di metafisica alternativo a quello analitico, giacché aristotelicamente la questione sul cosa c’è si può correttamente porre solo come questione su quale sia l’essenza di ciò che c’è – ed a mio avviso, infatti, in Aristotele non si dà una distinzione così netta e rigida fra “ontologia” e “metafisica” (su questo mi sia permesso di rinviare al mio saggio “Dalle ontologie alla metafisica”, Giornale di Metafisica XXIX (2007), 2, pp. 467-481, dove argomento per la necessità di un’inclusione di ontologia e metafisica anche in un’ottica husserliana, impostando in modo diverso rispetto a Varzi il rapporto fra ontologie regionali ed ontologia formale). La metafisica di tipo aristotelico resta, comunque, nel panorama contemporaneo, una delle forme più difese, praticate, o tenute presenti come riferimenti essenziali ed imprescindibili a sostegno della propria posizione, sia in ambito continentale o vicino alla storia della tradizione metafisica (ad es., il Neotomismo di Étienne Gilson o la “filosofia dell’essere esistenziale” neotomista di Mieczysl/ aw A. Kra˛piec, la metafisica di Gustavo Bontadini e la declinazione “problematica e dialettica” di Marino Gentile, la “metafisica protologica”, “debole” – o “povera ed umile” – di Enrico Berti, la versione “archeologica” di Giuseppe Nicolaci, la “sapienza metafisica” in quanto forma di pensiero responsabile di Luis Romera), sia in riferimento alla teologia (come testimonia il lavoro del teologo protestante Wolfhart Pannenberg), sia nell’ambito logico (la metafisica assiomatica di Tadeusz Czez˙owski) e in quello di ontologia e filosofia analitiche (la “metafisica descrittiva” di Peter F. Strawson, il sostanzialismo di David Wiggins e le ricerche sul tema dell’identità nella metafisica di David W. Hamlyn, l’analisi sulla polisemia dell’ente di G.E.L. Owen, le indagini sul problema della sostanza di Günther Patzig o di Michael Frede attraverso analisi di tipo logico-linguistico). Mi riferisco, ovviamente, solo ad alcune delle tante posizioni in cui si può cogliere con molta chiarezza il riferimento alla metafisica aristotelica, la sua più o meno riconosciuta appropriazione o revisione.

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le sue varie sfaccettature come prima philosophia, sapientia, scientia divina), le sue considerazioni rispecchiano bene il destino, molto spesso analogo, che incrocia la storia esegetica della prËth filosofÖa in riferimento alla diffusione della lettura di Heidegger. Porro parla di un “effetto di “neutralizzazione” (e, conseguentemente, di sdoganamento) della metafisica sancito dall’eredità heideggeriana”40. Lo sdoganamento che la lettura onto-teologica heideggeriana produce nel caso della filosofia medievale corrisponde al suo inserimento di diritto entro le trame della storia della filosofia. Il fatto, cioè, che la struttura onto-teologica sia per Heidegger pienamente in opera nel pensiero del Medioevo provoca il diritto della metafisica medievale ad essere considerata un momento centrale nello svolgimento della tradizione, dopo essere stata a lungo ritenuta una parentesi “eccentrica” della storia della filosofia41. I vari momenti della tradizione metafisica si possono quindi raccordare tutti senza soluzione di continuità grazie alla presenza dell’impianto onto-teologico, riscontrabile con puntualità in ogni tappa della storia della metafisica. Sulla base della lettura onto-teologica heideggeriana della metafisica, secondo lo studioso italiano, infatti, – e giustamente, in considerazione del senso generale del modello esegetico onto-teologico – si può assumere la sovrapposizione tra filosofia e teologia […] non come tratto esclusivo della Scolastica, ma come il naturale proseguimento di una direzione di fondo già intrapresa dal pensiero greco, e come una specie di predeterminazione delle successive vicende della storia del pensiero dell’essere fino a Nietzsche 42.

Il termine “predeterminazione” è a mio avviso troppo forte, proprio perché Heidegger non manca di mettere in risalto anche l’opera di occultamento e lo slittamento che il passaggio dalla filosofia prima 40 P. Porro, “Dalla Metafisica alla metafisica, e ritorno: una storia medievale”, Quaestio 5 (2005), p. XIV (corsivo mio). 41 Scrive ancora Porro: “[L’] influenza di Heidegger […] dovrebbe in realtà essere considerata soprattutto in modo negativo o indiretto: se insomma Heidegger riteneva di fatto che non si desse in senso assoluto una filosofia medievale, tuttavia (paradossalmente, se si vuole) proprio la sua peculiare ricostruzione monotematica della metafisica occidentale ha in qualche modo contribuito a liberare il Medioevo stesso dalla sua presunta eccentricità o estraneità rispetto al resto della tradizione filosofica” (ibidem). 42 Ibid., pp. XIV-XV.

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alla metafisica post-aristotelica produce rispetto ad una comprensione genuina della prËth filosofÖa. Tuttavia, la parola lascia cogliere bene un tratto, un’esigenza che, secondo Heidegger, domina l’intera tradizione, determinandola in ogni sua fase così puntualmente come struttura onto-teologica. L’epoca metafisica è per Heidegger, come ho ormai illustrato, interamente soggetta e votata alla ricerca del fondamento dell’ente. Questo bisogno investigativo, in questo senso, orienta sin dall’inizio greco la riflessione filosofica, imprimendole una traiettoria unidirezionale. Porro, ancora, aggiunge: “Improvvisamente, la questione del soggetto della filosofia prima (almeno nella forma semplificata della contrapposizione tra l’ente sommo e l’ente in generale) si trova ad essere rilanciata addirittura come costitutiva dell’intero pensiero occidentale (appunto, la costituzione “onto-teologica” della metafisica)” 43. Improvvisamente, perché nella proposta esegetica heideggeriana la duplice determinazione della filosofia prima non appare più, benché problematica, aporetica o, piuttosto, non comprensibile. E, dunque, nell’ottica di Heidegger – effettivamente per la prima volta nella storia della filosofia – il rapporto fra la scienza che prende di mira la totalità dell’ente e quella che focalizza l’ente primo non deve essere affatto sciolto o linearizzato se si desidera comprendere l’essenza della metafisica 44. 43

Ibidem (corsivo mio). È proprio questa tesi, secondo Porro, a decretare il mutamento prospettico della storiografia filosofica sul Medioevo: “Si produceva così un decisivo mutamento di scenario: ad attirare l’interesse non era più il tema classico della latinizzazione della tradizione greca, o ancora più direttamente, della cristianizzazione di Aristotele, ma quello del rapporto altalenante (e per Heidegger indistricabile) tra la metafisica come scienza dell’ens inquantum ens e la metafisica come scienza dell’ens summum o divinum. Proprio perché, almeno ai miei occhi, l’influsso di Heidegger a questo riguardo è stato soprattutto indiretto, e certamente non volontario (una felix culpa), non è detto che molti dei medievisti che si sono in seguito occupati della storia della metafisica lo abbiano fatto richiamandosi esplicitamente alle tesi heideggeriane: e tuttavia l’uso sempre più frequente di espressioni quali appunto ‘ontoteologia’ o ‘secondo inizio della metafisica’, in riferimento al Medioevo, sembra in definitiva trarre origine dal lessico heideggeriano” (ibidem). A mio avviso, invece, Heidegger ha consapevolmente provato ad esercitare un’opera di convincimento, certamente non sul piano storiografico, ma senz’altro speculativo. E – credo altresì – che in qualche modo egli sia effettivamente riuscito nel suo intento se si considera che, ad es., uno studioso di prestigio come Alain de Libera ritiene necessario rifarsi espressamente alla tesi heideggeriana. Mostrando l’inesattezza dell’unilaterale immagine heideggeriana del pensiero medievale come “il risultato dell’incontro 44

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Non si può certo negare che in sé il bisogno di una programmatica Auseinandersetzung con la tradizione non è una novità del percorso heideggeriano. L’esigenza di un confronto, a tratti anche polemico, con la tradizione ha alle spalle a propria volta una lunga tradizione. Già Aristotele avverte questo bisogno, quando passa in rassegna, nel I libro della Metafisica, le posizioni degli autori precedenti o a lui coevi intorno al concetto di causa. Questa esigenza si fa sempre sentire nei momenti-acme o nelle grandi svolte speculative nella storia della filosofia. Basti pensare al modo kantiano di introdurre il lavoro critico trascendentale sulla ragione. Vi è una metafisica, secondo Kant, che da un’epoca di fulgore è caduta in disgrazia, abbandonata come Ecuba45. Ma le pretese della metafisica sono per Kant valide ed il punto cruciale è proprio quello di sondare queste pretese secondo i limiti della ragione, sceverando le richieste legittime da quelle che sono arbitrarie e senza fondamento46. Anche Hegel fa rifra l’‘aristotelismo’ e il ‘tipo di rappresentazione derivato dal giudeo-cristianesimo’” (A. de Libera, La filosofia medievale, trad. it. di E. Bassato, Il Mulino, Bologna 1991, p. 13), secondo de Libera si conquista, infatti, la possibilità di insistere sulla forza esercitata dalla tradizione metafisica greco-araba e, dunque, sulla molteplicità di prospettive che confluiscono nell’Aristoteles latinus: “Il problema della delimitazione dell’essenza della metafisica come tale, intesa come ‘teiologia’ (Heidegger), cioè come il rapporto di reciproca implicazione tra un’ontologia e una teologia che rendono necessario formulare un concetto generale dell’essere in termini di univocità o di analogia, presuppone la messa in gioco di tutto il corpus metafisico greco-arabo” (ibid., p. 65). Certo, non mancano autori che recepiscono la lezione heideggeriana indirettamente e più nascostamente, e in questo senso si può parlare di una felix culpa. Oggi comunque le nuove generazioni di studiosi e critici appaiono criticamente avvertite e ben consapevoli dell’influsso esercitato dal modello esegetico heideggeriano, sia nei rispettivi ambiti specifici di ricerca sui vari momenti della storia della tradizione della metafisica sia nel campo più generale di una ricerca sulla metafisica in quanto tale. 45 I. Kant, op. cit., p. 5: “Fu già un tempo che questa era chiamata la regina di tutte le scienze; e, se si prende l’intenzione pel fatto, meritava certo questo titolo onorifico, per l’importanza capitale del suo oggetto. Ma ormai la moda del nostro tempo porta a disprezzarla, e la matrona si lamenta, respinta ed abbandonata come Ecuba”. 46 La validità delle pretese è racchiusa nel fatto che la ragione si pone davanti determinati problemi in virtù della sua stessa natura. Anche se ad essi non si può trovare risposta solo servendosi della ragione speculativa, ciò non significa, tuttavia, che i problemi attorno a cui la ragione si interroga non siano legittimi. È il celebre incipit della I prefazione alla Critica della ragion pura: “La ragione umana, in una specie delle sue conoscenze, ha il destino particolare di essere tormentata da problemi che non può evitare, perché le son posti dalla natura della stessa ragione, ma dei quali non può trovare la soluzione, perché oltrepassano ogni potere della ragione umana” (ibidem).

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ferimento ad una tradizione metafisica denigrata ed abbandonata, ma la cui ossatura portante è di contro tutta da rilanciare47. Nei programmi di ricerca o di pensiero che guardano alla tradizione precedente si scorgono due atteggiamenti fondamentali ed antitetici. Da una parte si palesa la necessità di riprendere qualcosa che è andata perduta nello sviluppo della storia del pensiero e che, nondimeno, è considerata essenziale. La valutazione della tradizione metafisica è, allora, compiuta in vista del recupero di un nocciolo fondamentale avvolto da una stratificazione successiva che ne ha nascosto la portata. Dall’altra parte, in modo opposto, si avanza la richiesta di affondare, di colpire mortalmente la tradizione metafisica che ha imposto falsi modelli e concezioni. Basti ricordare solo la posizione esemplare di Nietzsche con il suo rifiuto della tradizione metafisica. Ciò che è invece peculiare del sentimento, per così dire, che guida Heidegger nella sua Auseinandersetzung è il modo di rapportarsi alla tradizione, e per questa via ad Aristotele, nel movimento del circolo ermeneutico che si muove fra origine e compimento della tradizione della metafisica. Prioritario per Heidegger è comprendere l’essenza della metafisica, anche se certamente il superamento della metafisica appare, in effetti, già intrinsecamente prospettato sin da principio nella domanda sull’essenza della metafisica48. 47 L’aspro e duro attacco immediatamente nella prefazione alla I edizione (“Quello che prima si chiamava metafisica è stato, per così dire, estirpato fin dalla radice, ed è scomparso fra le scienze. […] È un fatto che l’interesse, sia per il contenuto, sia per la forma, sia infine per il contenuto e la forma insieme dell’antica metafisica, è andato perduto”, cfr. G.W.F. Hegel, Scienza della logica, ed. it. a c. di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 19944, p. 3) è poi seguito nell’introduzione dall’indicazione precisa del compito che attende la ragione filosofica: “Acciocché queste morte ossa della logica siano vivificate dallo spirito fino a costituire una sostanza e un contenuto, bisogna che il metodo della logica sia quello per il quale, solo, essa è capace di essere scienza pura” (ibid., p. 35). 48 L’interrogarsi in modo radicale sull’essenza della metafisica, scandagliando il fondo da cui essa si origina, destina di per sé il pensiero oltre la metafisica, nella misura in cui nell’interrogazione il pensiero sarebbe rinviato alla provenienza della dimenticanza della differenza ontologica in conformità alla quale la storia della metafisica si configura come la storia dell’oblio della dimenticanza stessa. Di fronte al gesto originario della dimenticanza al pensiero della metafisica non resta che costatare, ma solo a posteriori, la sua erranza in una torsione speculativa che lo porta alle spalle dell’essere stesso. L’appropriazione della metafisica come comprensione che scaturisce dall’interrogazione sulla sua essenza diviene così la conditio sine qua non della Verwindung. L’introduzione alla metafisica diventa per questo per Heidegger il cammino preparatorio che conduce alla doman-

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È in considerazione di questo, allora, che rispetto alle due possibili vie che la lettura heideggeriana sembra prospettare e che, di fatto, si sono imposte nell’ambito del dibattito, secondo me, diventa in un certo senso necessario aprire una terza strada, un terzo modo di rapportarsi al modello esegetico onto-teologico in riferimento alla metafisica aristotelica. Come ho già accennato, l’adesione al modello heideggeriano ha di solito portato a due atteggiamenti di massima. Da un lato c’è chi, nello spirito di fedeltà alla tesi di Heidegger, tende a leggere la tradizione della metafisica come qualcosa di assolutamente compatto ed unitario, finendo per attribuire ad Aristotele l’intuizione o l’anticipazione di teorie ed elementi, concezioni ed argomentazioni che, pur trovando magari ispirazione nella filosofia aristotelica, sono però il risultato delle speculazioni originali dei vari pensatori. Dall’altro, invece, si collocano coloro che, senza negare la presenza dell’onto-teologia nel Medioevo o nella Schulmetaphysik, non accettano la proposta heideggeriana di una figura, di una struttura unitaria dell’intera tradizione e che, dunque, tendono a sottolineare l’estraneità, per così dire, di Aristotele rispetto alla sviluppo della tradizione dell’onto-teologia. Il fatto è che, se riconosciamo ad Heidegger il merito di avere reso consapevoli che nella questione sullo statuto della prËth filosofÖa si annida in realtà il senso della questione dell’essenza stessa della metafisica, allora né l’una né l’altra strada comprendono fino in fondo qual è la posta in gioco che sta sul tavolo nel confronto con la tesi di Heidegger. Io non credo che si tratti di misurarsi con Heidegger per capire se egli ha o no ragione – nel mio caso specifico rispetto al modo con cui in Aristotele inconsapevolmente la questione ontologica e la questione teologica si stringono insieme in un nodo che non si può sciogliere. Ho già messo in evidenza che secondo me Aristotele si è posto invece il problema di dare una giustificazione della Zwiegestalt e che, da sull’essere senza adottare la forma secondo cui la domanda è stata posta dalla metafisica. Il modo metafisico di domandare sull’essere, come si è visto, si configura come la dimenticanza dell’essere, una dimenticanza talmente radicale che “col cadere essa stessa in oblio, viene a costituire l’impulso, ignoto ma costante, che sollecita il domandare metafisico” (Im, p. 30). L’introduzione alla metafisica si delinea, quindi, come il gesto che ritrova nella domanda della metafisica la traccia perduta dell’essere, acconciando così il pensiero al superamento del modo metafisico di interrogare sull’enticità.

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anzi, questo emerge come un dato testuale incontestabile alla fine del I capitolo di Metafisica E. Ho anche mostrato che, pur accettando la tesi heideggeriana, essa a mio avviso va corretta rispetto al momento in cui dentro il percorso aristotelico che porta all’apertura dello spazio d’indagine metafisico scatta il dispositivo onto-teologico. Ho, cioè, tentato di argomentare la tesi che solo ponendo la domanda sulla forma del principio primo come la vera domanda del filosofo primo risulta comprensibile una determinazione onto-teologica della prËth filosofÖa, dove in realtà – per essere fino in fondo chiara – ciò che si apprezza è che il filosofo primo interroga sull’ente in quanto ente a partire dal dischiudersi della questione teologica, giacché la nozione di “ente in quanto ente” è posta a partire dall’ipotesi che oltre la f⁄sij esista un altro tipo di realtà che è quella del qe“j. In questo senso, senza volere negare il carattere ontologico della filosofia prima, ritengo che la questione che sta a cuore al metafisico non è propriamente quella dell’ente; le cose non starebbero, quindi, esattamente come dice Heidegger, quando ci spiega che la metafisica prende avvio dalla domanda sull’ente che così costituisce la Leitfrage della tradizione. È vero che la domanda sull’ente segna come domanda-guida la tradizione della metafisica, ma è pur vero, nella mia ipotesi, che essa è una domanda che deriva da una questione più originaria che è quella sul principio. Ciò per lo meno se si resta fermi ad Aristotele. Tuttavia, se Heidegger ha ragione nel dire che se non si fa un “passo indietro” alle spalle della tradizione, non per negare la continuità della tradizione a partire dal momento greco platonico-aristotelico, bensì per comprendere cosa effettivamente si determina nell’origine, allora non si tratta più semplicemente di pronunciarsi su come stanno le cose in Aristotele e su quale sia la relazione della tradizione post-aristotelica con lo Stagirita. E non si tratta neppure più di decidere se il canone di Heidegger vada per intero accettato oppure rifiutato. Se, in altri termini, nel problema della duplicità della filosofia prima si danno insieme, sicuramente, un problema di stretta esegesi aristotelica (perché si tratta di capire qual è lo statuto della prËth filosofÖa), una questione di storia della filosofia (perché la tradizione si fa portatrice di un messaggio che risale ad Aristotele senza riuscire

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a dare fino in fondo conto del significato di questo messaggio) ed un problema di metafisica (perché bisogna capire che cosa mette in campo l’apertura dello spazio d’indagine metafisico e, dunque, che cosa può volere dire la nozione di “metafisica” nella sua essenza), allora qui saltano in un certo senso tutte le distinzioni fra un “prima” e un “dopo”. Ciò che è importante è, quindi, collocarsi il più possibile presso l’origine per liberarla nelle sue possibilità. In questo modo, secondo me, si libera anche la nozione di onto-teologia: il compito resta quello di comprendere cosa di questa possibilità originaria resta o può restare fecondo, che si concordi o no con Heidegger. Resta fermo che poi appartiene all’impegno di ciascuno prendere posizione, ma ciò che è prioritario è, appunto, rendersi conto di quello che è racchiuso in quell’origine che storicamente ci viene consegnata nella traccia scritta della Metafisica. Non posso negare, certamente, che anche per me si è trattato di dovere separare Aristotele dallo sviluppo successivo della tradizione e ciò proprio perché è la tradizione della metafisica che, nel tentativo di comprendere qualcosa di se stessa, ha finito per sciogliere il nodo, credendo così di risolvere tutti i problemi, senza di fatto rendersi conto di averlo aggrovigliato ancora. Per questo il mio percorso si configura per forza come un percorso che guarda ad Aristotele isolandolo. Ciò, però, senza dimenticare – almeno spero – che Heidegger ha individuato in Aristotele il momento aurorale della tradizione onto-teologica andando in cerca dell’essenza metafisica, sebbene il suo primo approccio con lo Stagirita prenda all’apparenza avvio da una finalità diversa quale quella dell’elaborazione di un’ontologia della fatticità. Di fatto, come ci mostrano tanto il Natorp-Bericht quanto le Vorlesungen risalenti a quel periodo, Heidegger si rivolge ad Aristotele sotto la spinta di una distruzione – cioè di una comprensione – della tradizione. Sono convinta che inizialmente Heidegger abbia maturato coscienza di una duplicità della filosofia prima solo guardando ad Aristotele, ma è a partire da questa consapevolezza o, per meglio dire, è nell’essersi trovato al cospetto della questione dello statuto della prËth filosofÖa che egli si è messo sulla strada della questione dell’essenza della metafisica, per scoprire da questo fronte che è in Aristotele che si misura il senso e l’origine della questione stessa.

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b) Prime infiltrazioni del paradigma onto-teologico: Aubenque, Heidegger, Aristotele e la questione della differenza ontologica Nel contesto di una valutazione della presenza del paradigma onto-teologico negli studi aristotelici desidero soffermarmi in particolare sulla recezione di Aubenque della lettura heideggeriana, perché tramite essa ho la possibilità di pronunciarmi sulla questione della differenza ontologica in relazione alla posizione aristotelica. La posizione di Aubenque è, a mio avviso, cruciale perché nella sue ricostruzioni della storia della metafisica e della metafisica aristotelica il filosofo francese mostra di aderire in larga misura alla tesi heideggeriana che, però, appunto contesta se applicata allo Stagirita. Le ragioni che portano Aubenque a rifiutare il canone onto-teologico in riferimento ad Aristotele sin dal volume del 1962 (Le problème de l’être chez Aristote) mettono in campo un problema per me essenziale: quanto la critica heideggeriana all’onto-teologismo come procedura di riduzione dell’essere all’ente è pertinente nel caso di Aristotele? In che modo si può continuare a parlare di un’onto-teologia in Aristotele, se si mostra che nella sua posizione la differenza fra essere ed ente non subisce un occultamento e che la sua traccia resta visibile? 49 Se, infatti, come ritengo, si può mettere in luce che la concezio49 Secondo Paul Gilbert la problematica della differenza ontologica mette in gioco anche la questione del principio. Egli, infatti, così spiega: “Descritta in una maniera del tutto generale, questa problematica ritiene che gli essenti (tutto ciò che si presenta nella nostra esperienza, le cose sensibili, le nostre parole, i nostri segni, le nostre idee, ecc.), molteplici e quindi distinti gli uni dagli altri (differenza ontica), rinviano spontaneamente gli uni agli altri unificandosi in un principio […]. Ora il principio che unifica tutti gli essenti (sensibili come un foglio di carta o intellegibili come un numero) non è nulla di ciò che esso unifica. Ciò che fa parte di una serie non può essere al principio di questa serie. Il principio, per natura universale […], deve essere differente da ciò che esso unisce, deve essere superiore” (P. Gilbert, Corso di metafisica. La pazienza d’essere, trad. it. di M.T. La Vecchia, Piemme, Milano 1997, pp. 7-8, corsivo mio). Il problema dell’ontoteologia in termini heideggeriani si può effettivamente esprimere così: nel momento in cui l’ente divino è concepito come un ente che fa parte dell’intero dell’ente appunto perché ente, esso non può poi dare conto della serie, dell’intero dell’ente perché non può essere congenere rispetto a ciò che unisce. Se infatti fosse congenere, esso dovrebbe nel contempo essere principio di tutti gli enti e delle loro differenze, il che vuol dire che in questo principio le differenze fra gli enti diventerebbero indistinguibili e, quindi, sarebbe impossibile diversificare e individuare fino in fondo ogni ente. La soluzione non è però neppure quella di porre semplicemente il principio fuori dalla serie, nel senso che non basta solo dire che l’essere non è un ente per rendere visibili le differenze fra gli enti. Si

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Aristotele dopo Heidegger

ne ontologica aristotelica – anche declinata in chiave usiologica – insiste, per così dire, su uno scarto, su una differenza che, costitutivamente, nell’essere degli enti e delle sostanze si fa spazio non solo come una differenza fra gli enti e l’essere, ma come una differenza che è interna all’essere e, in tal modo, si fa differenza fra gli enti, l’esito heideggeriano della Verwindung si rimette problematicamente in discussione. La mia finalità non è quella di negare la necessità dell’oltrepassamento, ma di raggiungere una comprensione nell’origine aristotelica del modo con cui il metafisico si muove al cospetto della questione della differenza ontologica. In Faut-il déconstruire la métaphysique? Aubenque asserisce che la risposta di Aristotele alla questione del senso dell’essere è catalogica (“catalogique”)50. L’essere, cioè, essendo intrinsecamente polivoco e non identificabile come un genere, non si riduce ad un significato primo e fondamentale, ma si dice secondo una modalità di figure che sono appunto le categorie, ma anche i modi dell’accidentalità. Per Aubenque, cioè, la struttura primaria della predicazione dell’essere non è quella della referenzialità dei vari modi rispetto ad uno fondamentale (e quindi la struttura del “pr’j õn”), ma quella del “dire secondo” (kat£) e ciò perché vi è un’“esuberanza”, un eccesso del senso dell’essere che non si lascia saturare nell’oŸsÖa. Rispetto ad Aristotele, quindi, la vera svolta di Suárez, secondo Aubenque, sta nell’operare un’astrazione da tutte le determinazioni dell’ente (quindi quelle stesse che Aristotele introdurrebbe nel distinguere il significato forte di ‘n come oŸsÖa rispetto a tutti gli altri) per procedere alla ricerca dell’abstractissima ratio entis 51. In questo modo la metatratta piuttosto di pensare che l’essere stesso che è principio degli enti sia già attraversato dalla differenza, che la sua donazione avvenga già all’origine sotto la cifra di un suo proprio differire sempre da sé in se stesso. La questione dell’onto-teologia è in questo senso quella di salvaguardare non la differenza fra essere ed ente, ma la differenza fra gli enti, ossia l’assoluta irriducibilità ad es. delle sostanze individuali, come chiede espressamente Aristotele quando ritiene che, se anche sul piano della riflessione teoretica e quindi tramite il logos (kat¶ t’n l“gon) siamo in grado di rintracciare dei principi primi, dobbiamo pur sempre restare consapevoli che essi hanno un carattere di identità solo per analogia (cfr. Met. L, 1070a31-36). 50 P. Aubenque, Faut-il déconstruire la métaphysique?, cit., p. 72. 51 La svolta di Suárez cristallizza notoriamente la circolarità onto-teologica indirizzando la metafisica sulla via di una noetica dell’ente e reimpostando la questione “teolo-

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fisica si trova a svolgere il ruolo di una scienza dal carattere trascendentale. gica” su quella “ontologica”. La teologia si ritrova “costretta” a detenere il primato con l’ontologia in senso stretto, palesando la condizione di continuo rinvio reciproco fra fondazione ontologica (ossia noetica) e fondazione teologica (quella in senso proprio ontologica perché l’ente divino si riconosce essere nella realtà principio dell’essere degli enti). Mentre la supremazia deriva alla teologia direttamente dalla preminenza del suo oggetto che è l’ente trascendente perfetto, il primato dell’ontologia ha una natura gnoseologica. Esso, cioè, si costruisce sulla possibilità dell’ontologia di approntare una considerazione di tipo generale sull’ente. Così il primato dell’ente divino si iscrive nella “cosa stessa”, nell’essere dell’ente sommo che è tale per via della sua natura ontologica. Rispetto alla nozione di ente, però, questo primato viene meno perché l’ente divino (che in sé non sarebbe intellegibile e sul quale per questo ci può illuminare solo la Sacra Scrittura), posto espressamente come un genere dell’ente, è reso oggetto di un’“ontologia regionale” contro l’“ontologia generale” rappresentata dall’indagine dell’ens ut sic, dell’ens in quantum ens. In definitiva è il fatto che disponiamo per l’ente di una fictio noetica, di una nozione che possiamo ottenere tramite la capacità di astrazione, che ci è possibile porre un concetto così astratto ed universale che all’interno di questa universalità concettuale possiamo muoverci in una trama di concetti inferiori (inferiora), tra i quali figura anche quello di Dio. Quello che è importante tenere presente è che questa supremazia della scienza dell’ente non copre però la duplicità onto-teologica, perché il sommo ente resta comunque la ratio fondante dell’intero dell’ente, della ragione d’essere dell’ente. Nondimeno opera un’inversione di rapporto. Mentre aristotelicamente è a partire dal riferimento all’ente divino che risulta conquistata l’idea dell’intero dell’ente, nell’impostazione della metafisica suareziana è a partire dall’orizzonte dell’universalità dell’ente che si ottiene, per così dire, l’ente supremo. Nella metafisica di Suárez, in altri termini, con le parole di Coujou, “l’esigenza logico-ontologica propria della scienza dell’universale soppianta l’esigenza proto-fondatrice della scienza del primo” (J.-P. Coujou, Suárez et la refondation de la Métaphysique comme ontologie, Peeters, Louvain-Paris 1999, p. 8). Se dunque gnoseologicamente il primato compete all’ente in quanto tale ed alla sua scienza, ontologicamente le cose stanno in modo inverso, perché Dio, in quanto sommo ente, detiene il primato su tutti gli altri enti. In questo senso, a seconda della prospettiva, l’una eccede sempre sull’altra e solo nella combinazione di entrambe si ottiene un’intero conoscitivo completo, per così dire, ossia nel concetto riunificato di metafisica come in sé inglobante sia il lavoro della metafisica generale sia quello della metafisica speciale, si giunge all’esaustività della metafisica come scienza. Ciò mostra chiaramente, ad es., la concezione della metafisica di Jean-Baptiste du Hamel, che di fatto espone un concetto di metafisica che è frutto della svolta moderna, pensando invece di rifarsi fedelmente alla concezione dello Stagirita nel suo commento all’intera dottrina aristotelica: “Metaphysica duplex est, scilicet generalis, et specialis. Generalis est ea, quae agit de ente, substantia, et accidente generatim sumptis; proindeque per solam mentis cogitationem abstrahit a materia. Specialis, quae agit de Deo, Angelo, et anima separata; quae proinde per naturam abstrahit a materia. Nonnulli Metaphysicam generalem et specialem considerant tanquam duas scientias totales; caeteri vulgo tanquam duas totales” (J.-B. du Hamel, Philosophia universalis sive Commentarius in universam Aristotelis Philosophiam ad usum scholarum comparatam, t. III Metaphysica, Olms, Hildesheim-Zürich-New York 2005, p. 6).

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Per parte mia ho cercato in precedenza di mettere in luce che la stessa riflessione metafisica aristotelica ha un tratto cosiddetto trascendentale in forza del suo statuto eidetico che si lega alla struttura ed alle condizioni di possibilità del conoscere proprie all’anima umana. In ogni caso, per via di questa irriducibile polisemia dell’‘n, secondo Aubenque è impossibile scorgere nel I capitolo di Metafisica E l’annuncio di una struttura di tipo katholou-protologico: il progetto aristotelico va considerato appunto come tale, come un progetto, “un programma – dedurre l’universale dal primo – che non è stato realizzato perché non lo poteva essere” 52. Nonostante, quindi, il rifiuto di applicare la nozione di onto-teologia alla filosofia aristotelica, Aubenque opera una strana mossa rispetto al paradigma heideggeriano. Egli, cioè, non contesta tanto il fatto che Aristotele non abbia dato una duplice possibilità definitoria, ma piuttosto che sulla scorta di essa egli sia di fatto approdato all’esercizio di una vera e propria scienza. In un certo senso Aubenque si serve dell’indicazione di Heidegger, la fa propria tanto da riguadagnare la stessa mossa heideggeriana di porsi al cospetto di quell’imbarazzante dato testuale senza provare a ridurre la duplicità pronunciandosi in favore di una determinazione che privilegia uno dei due corni dell’alternativa a dispetto dell’altro53. Proprio come Heidegger, anzi in realtà con argomentazioni anche più serrate, il filosofo francese esclude la possibilità di un ricorso in sede esegetica al metodo storico-genetico ed a quello filologico, giacché entrambi usano strumenti risolutivi esteriori rispetto al lavoro concettuale che i passaggi cruciali della Metafisica invece richiedono. Contro queste visioni esegetiche Aubenque oppone una metodologia d’indagine che, ispirata in un certo senso all’analisi strutturale, mira all’esplicazione della struttura tematica di fatto (ar52 P. Aubenque, Faut-il déconstruire la métaphysique?, cit., p. 74. Aggiunge Aubenque che si tratta di “una promessa non mantenuta perché non mantenibile” (ibidem). 53 In verità Aubenque tende a prospettare una distinzione fra la scienza teologica e la scienza dell’ente; però il suo percorso si esplicita nel mostrare che qualsiasi dei due progetti investigativi si provi a seguire – sia quello sull’ente in quanto tale sia quello sulla sostanza divina – la metafisica è destinata allo stallo. In questo senso la precisazione che per filosofia prima vada intesa la scienza teologica e non la scienza dell’essere in quanto essere (cfr. P. Aubenque, Le problème de l’être chez Aristote, cit., p. 38 ss.) non è così rilevante come potrebbe apparire rispetto alla conclusione cui perviene il filosofo.

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gomentativo-aporetica e dialettica secondo Aubenque) espressa dal testo aristotelico, aprendosi per questa via al confronto con il paradigma heideggeriano che non giudica, appunto, potersi applicare alla speculazione dello Stagirita, ma che ritiene di contro formidabile se riferito alla metafisica scolastica e moderna fino ad Hegel. Se la posizione di Aubenque salva la doppiezza in modo paradossale, per mostrare il doppio scacco del progetto aristotelico sia in chiave ontologica sia in chiave teologica contro l’idea di una struttura operativa di tipo onto-teologico, risuona in essa, tuttavia, qualcosa che non è nuovo per chi ha letto il Kantbuch. Aubenque sottolinea insistentemente che la ragione del duplice stallo del progetto metafisico di Aristotele non ha a che vedere con un errore di percorso o di argomentazione, bensì attiene ad una condizione propria della natura umana: la finitezza. Da limite essa si trasforma in forza propulsiva dalla quale prende avvio la tensione conoscitiva che alimenta il rapporto dell’uomo con la realtà. Essa costituisce, cioè, l’orizzonte a partire da cui all’uomo resta possibile recuperare il reale in tutta la sua concretezza: L’assenza di strada (p“roj) diviene pluralità di vie: l’incapacità del discorso umano di sviluppare un unico significato della parola essere non conduce a negare ad esso ogni significato, ma a lasciare sorgere la pluralità irriducibile delle categorie in cui esso si svela54. 54

P. Aubenque, Le problème de l’être chez Aristote, cit., p. 489. In tempi più recenti, affrontando la questione dell’attualità della posizione aristotelica, Aubenque sottolinea che la concezione polisemica dell’essere sostenuta da Aristotele apre una via feconda, sebbene essa implichi di primo acchito una tesi negativa giacché disattende l’aspettativa comune che attende una risposta univoca: “L’univocità è il regime normale del discorso” (P. Aubenque, Faut-il déconstruire la métaphysique?, cit., p. 73). Aristotele risponde enumerando i sensi possibili dell’essere; la sua risposta alla questione del senso dell’essere è per Aubenque, come ho già detto, catalogica (catalogique), sicché l’essere, non valendo come un genere, appare piuttosto come una “totalità differenziabile” (ibidem), in cui manca un principio d’intellegibilità della differenza interna all’essere perché il significato di oŸsÖa, per quanto primo e fondamentale dell’‘n, non implica affatto che la polisemia dell’essere possa ridursi ad essa: “L’essere non è né sostanza né essenza; esso non ha essenza. E non ha sostanza, perché esso non è solo soggetto (hypokeimenon), ma anche accidente. Orbene l’accidentalità non è mai chiusa: essa scaturisce in un modo che non è mai totalmente prevedibile né definibile […]. La polisemia dell’essere esprime […] questa esuberanza dell’accidentalità, che impedisce all’essere di coincidere con uno solo dei suoi significati e di esaurirsi in esso” (ibidem). Il fatto che Aristotele prospetta una gerarchia dei significati dell’essere non implica una derivazione da un significato primo di

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Aristotele dopo Heidegger

In questo senso, nella tesi aporetica di Aubenque si cela il senso della posizione di Heidegger al quale la metafisica appare un destino iscritto nella natura finita dell’esistenza umana, un “accadere fondamentale nell’irruzione dell’ente, irruzione che si verifica con l’esistenza effettiva di un ente qual è l’uomo in generale” 55. La finitezza dell’esserci, in quanto suo modo d’essere essenziale, nella dimensione ontologica temporale ed intramondana dell’esistenza, è insieme la condizione della trascendenza e, dunque, dell’apertura del mondo e così dell’ente nella molteplicità dei suoi modi d’essere56. In modo specifico, comunque, rispetto alla questione della duplicità della problematica investigativa aristotelica della Metafisica, nonostante l’eco dell’ontologia fondamentale heideggeriana, la lettura di Aubenque si smarca dal paradigma onto-teologico, da cui trae la lezione dell’impossibilità di una delle due vie d’indagine (ontologica e teologica) all’altra. Il rifiuto dell’applicazione della struttura onto-teologica non corrisponde in Aubenque ad un rifiuto della duplicità, che appunto è in un certo senso mantenuta anche da lui. Il canone heideggeriano, piuttosto, non risulta applicabile al progetto dello Stagirita perché in Aristotele manca la possibilità di un’attualizzazione, al modo di una scienza compiuta, sia dell’ontologia sia della teologia. Anzi, è assente la chiave di volta in senso logico dell’onto-teologismo, ossia la pretutti gli altri (cfr. ibid., p. 74). Anche se lo Stagirita disattende la promessa di dedurre l’universale dal primo, perché si tratta di una promessa che in sé non si può mantenere vista l’impossibilità di ridurre l’essere ad un genere o di individuarne un solo significato univoco, quello che si guadagna è molto maggiore. È un guadagno che forse apprezzano di più i teologi che non i filosofi, ma che comunque salvaguarda la gratuitità con cui l’essere si dona all’ente e, dunque, la sua stessa assolutezza: “Se la donazione d’essere si degrada in distribuzione (a ciascuno a seconda di quanto è dovuto), guidata dall’analogia, essa perde la sua gratuità, la sua contingenza ed in tal modo la sua assolutezza” (ibid., p. 32). In altri termini, se vige il criterio onto-teologico o dell’onto-teologia letta in simmetria con l’idea di una realtà ontologicamente ordinata secondo la chiave dell’analogia entis, così che un primo ente sommo distribuisce l’essere agli enti ad esso sottostanti, essendo esso stesso l’essere degli enti, non c’è più spazio per la differenza, per l’alterità. Tuttavia, non è esattamente questa l’immagine del reale che emerge dall’ontologia aristotelica: essa non parla di una derivazione dell’essere delle sostanze sensibili dalla sostanza immobile né di una derivazione o deduzione dei modi d’essere categoriali dal modo d’essere sostanziale. 55 Kpm, p. 208. 56 Cfr. ET, § 69 e il saggio “Dell’essenza del fondamento”, in Sgv, pp. 79-131.

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senza di un ente supremo che è causa prima della totalità dell’ente al modo del fondamento, di quel che regge come una base l’intera struttura ontologica del reale. Per Aubenque è questa la differenza – ossia l’ipostatizzare la causa prima nell’ente sommo divino come principio d’essere dell’intero dell’ente – che intercorre fra la posizione aristotelica e quella della metafisica scolastica e moderna, che pure trova in Aristotele la sua illustre ed autorevole radice. La causalità del motore immobile – mette in luce Aubenque – è un tipo di causalità del tutto peculiare, da cui non è possibile ricavare l’immagine di un fondamento primo che nel suo atto d’essere sostiene e giustifica l’essere di ogni altro ente. La causalità del motore immobile è esercitata al passivo. Il dio muove perché desiderato, oggetto di una tensione che è in un essere all’attivo da parte dell’ente mosso. Il dio non imprime movimento, ma resta il fine di un movimento il cui principio d’essere resta nel mosso, nel limite, per così dire, del suo orizzonte ontologico, iscritto nella sua natura di ente sensibile, nel suo essere un ente che ha materia. Non si tratta di negare al qe“j lo statuto di oŸsÖa: “Il Dio di Aristotele è incontestabilmente essenza”; però il fatto che questa essenza sia immobile e separata non ne fa un’essenza eminente e superlativa, ma realizza quello che caratterizza normalmente ogni essenza57.

Questo è un discrimine importante rispetto ad Heidegger, poiché Aubenque dà credito alla lettura della “metafisica della presenza”, nel senso che riconosce, citando espressamente Heidegger, che l’essenza per Aristotele “è conosciuta al modo della presenza” 58. Nondimeno, non è guardando all’essenza dell’ente divino che secondo Aubenque è possibile conoscere l’essenza dell’ente in quanto tale, poiché l’ente in sé polivoco non si lascia assorbire concettualmente ed afferrare tutto sotto la nozione dell’essenza e perché l’essenza del dio non ha, sotto il profilo della dignità ontologica della sostanza, più essere e più realtà di quanto non l’abbia una sostanza che è un cavallo o che 57

P. Aubenque, Le problème de l’être chez Aristote, cit., p. 414. Ibidem. Aubenque rimanda espressamente ad Heidegger ed alla sua lettura dell’oŸsÖa come Anwesenheit. 58

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Aristotele dopo Heidegger

è un essere umano. Non si tratta allora di contestare ad Heidegger l’applicazione ad Aristotele di una scala di gradi dell’essere di matrice scolastica nella forma di un’analogia entis, ma di replicare che nell’orizzonte dell’ontologia aristotelica non si dà piuttosto una gerarchia di sostanze o, in altri termini, una sostanza che è paradigmaticamente ente. Per quanto concepita come sostanza perfetta, la sostanza divina non è modello dell’essere sostanza (e meno che mai per Aubenque dell’essere essente) da parte di un ente del quale l’essere si predica in senso forte e primo al modo della sostanza. Non si guarda all’ente divino per capire come sia fatta una sostanza, perché l’essere sostanza dell’ente divino non esemplifica nel modo migliore né restituisce l’essere che è proprio di ogni sostanza in quanto tale. Nell’intero della sostanza, potremmo dire, il dio istaura una cesura e comporta un criterio di distinzione a carico dell’essere della sostanza, tale per cui ciò che non è sostanza divina non si lascia comprendere – se non forse per via analogica, ma non certo nel senso dell’analogia attributionis – sulla scorta dell’essere sostanza della sostanza divina. Ciò perché la sostanza sensibile, che ha nel movimento il suo tratto d’essere essenziale, costa di un principio ontologico ulteriore oltre alla forma che è la ¤lh. La sostanza divina impedisce ogni tentativo di sussumere sotto un principio di natura universale l’insieme della sostanza, perché essa è il segno di uno scarto interno a questo insieme, nel quale fra la sostanza sensibile e la sostanza sovrasensibile intercorre una differenza non riducibile alla forma della sostanza sovrasensibile: la materia è un principio ontologico che non si lascia in alcun modo ricondurre alla forma, per quanto governabile e determinabile da essa. Ciò che, in altri termini, vorrei esprimere, prendendo a mia volta posizione anche rispetto all’esegesi di Aubenque, è che in chiave di analogia proportionis, ossia pensando a livello di rapporto che intercorre fra una sostanza e la sua forma, il qe“j si mostra come la sostanza in cui l’essere causa d’essere della forma si palesa nel modo più pieno e diretto, appunto perché la sostanza divina immobile è immateriale. In questo senso, se analogia in Aristotele indica una relazione di identità di rapporti fra due coppie di elementi (a : b = c : d), posso pensare che fra la sostanza divina (a) e la sua forma (b) inter-

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corre la stessa relazione che intercorre fra la sostanza sensibile (c) e la sua forma (d). Se questa immagine dell’analogia di proporzionalità mi permette di comprendere il potere causale della forma, essa però non mi consente di pensare ad una forma della sostanza comune come un’essenza che vale per ogni sostanza in quanto tale. L’unica determinazione che mi permette di definire in termini universali la nozione di sostanza è il riferimento al modo del suo essere esistente, come ciò che persiste nel mutare di altri tratti d’essere e come ciò che è, quindi, per sé sussistente. Questa determinazione è molto efficace sul piano definitorio nel caso della sostanza sensibile che possiede anche modi d’essere accidentali, ma lo è meno nel caso della sostanza divina, perché la sostanza divina non consta di un principio ontologico materiale rispetto al quale è possibile pensarla come ciò che permane nel mutare delle note d’essere di tipo categoriale: non avendo materia la sostanza divina è in senso assoluto libera dalla potenza e dalla condizione del mutamento. Il riferimento heideggeriano alla costituzione temporale della sostanza come ciò che è presente assume per questo, a mio avviso, una forza di caratterizzazione particolarmente rilevante, perché spostando la determinazione definitoria della sostanza sul piano del suo carattere temporale si può ritrovare nel tratto della presenza quell’aspetto essenziale che in termini universali può definire ogni sostanza, tanto sensibile quanto divina59. In questa maniera Heidegger può considerare il qe“j, sul piano della connotazione teologica della metafisica aristotelica, come il prÓton, il primo a partire da cui in senso universale l’intero della sostanza diviene accessibile poiché prËth oŸsÖa che, più di ogni altra, è stabilmente ed eternamente presente. È chiaro che anche in questa chiave di lettura bisogna lavorare per via analogica, giacché le sostanze sono individualmente diverse fra loro e la loro omogeneità ontologica è recuperata sul piano della relazione di ognuna con la determinazione ontologico-temporale dell’esser presente. Ma se abbiamo bisogno di un punto di osservazione analogico, non è però necessario che si adoperi una nozione di analogia come analogia d’attribuzione. La nozione di analogia di proporzionalità consente comunque il gioco 59

Cfr. ad es. GA 19, § 32 a), Lpv, § 14, Cfa, p. 243 ss., Pff, § 11, b), Pml, p. 173 ss., GA 31, § 7, c) e d).

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Aristotele dopo Heidegger

di rinvio dalla nozione generica di sostanza a quella di sostanza prima (divina) e inversamente dalla sostanza prima a quella generica di sostanza in quanto tale. In questo senso contestare ad Heidegger il ricorso alla nozione di analogia è, dunque, poco rilevante e fra l’altro non incontra esattamente la questione messa da lui in luce, ossia quella del rapporto fra la questione dell’essere in generale e quella dell’ente autentico, nella misura in cui l’ente divino non è causa dell’essere in generale, ma è l’ente più stabilmente presente e, per questo, secondo Heidegger, autentico 60. 60 Cfr. Cfa, pp. 288-289: “OŸsÖa. 1) Essere come presenza lì davanti; 2) ciò che è lì presente; 3) ciò che è lì presente nel modo più autentico (¢eÖ, ¢kÖnhton, cwrist“n). Quest’ultimo nella sua presenza lì davanti. Anche la teologia è ontologia, ma la tendenza mira all’essere, eppure accentuazione dell’essere in relazione all’ente autentico, invece di una chiarificazione universale dell’essere in generale. Ma le due cose assieme: problema dell’ontologia fondamentale”. È proprio il riferimento al carattere temporale dell’ente che diventa per Heidegger anche il filo conduttore nell’analisi della nozione di principio primo in Aristotele. Quello che Heidegger – mi pare – mette in luce, almeno in GA 19, discutendo il carattere temporale dell’‘n e quindi dell’¢rcª (cfr. ibid., pp. 31-34 e pp. 221-224, parti che, a mio avviso, lette insieme portano ad espressione la questione della relazione onto-teologica fra intero dell’ente ed ente divino come causa prima) è che la priorità del dio rispetto agli altri principi si configura della sua esistenza temporale a partire dalla costituzione temporale che è propria dell’ente. Per quanto, se riguardata dal lato della forma, ogni sostanza possa apparire un alcunché di eterno ed incorruttibile, sul piano del reale la forma nella sostanza sensibile non è mai separata dal sinolo se non per logos, laddove il dio è una sostanza eterna ed incorruttibile nell’integrità del proprio essere sostanza semplice. Rispetto alle altre forme allora il dio è principio primo perché la sua eternità, nella sfera delle realtà necessarie e che sono sempre, coincide sul piano reale con l’interezza del suo essere sostanza e non solo con una sua parte. Indubbiamente l’essenza dell’“animalità razionale” è in sé incorruttibile, perché a perire non è l’essenza, bensì il composto, ma al di fuori del composto l’incorruttibilità dell’essenza vale solo a livello ideale e non reale. L’eternità del dio come principio è un’eternità ontologica, se così posso esprimermi, e non semplicemente logica o irreale, per prendere in prestito una parola husserliana. Dal punto di vista della questione protologica, allora, ciò che distingue un principio primo è proprio il suo valore temporale, di essere un ¢èdion. Se, però, la questione è osservata dalla prospettiva usiologica, non ci si può più solo attenere al criterio temporale, in quanto f⁄sij e töcnh sono principi come strutture di realizzazione del movimento, ossia sono modalità in cui il principio di movimento opera nell’ambito regionale della natura o dell’arte, ma non sono identificabili con una sostanza per sé sussistente numericamente una. Sul piano usiologico, di contro, il qe“j si impone come un principio primo individuabile in una sostanza numericamente una, eterna ed immobile, ovviamente tralasciando la questione se in effetti Aristotele propenda per l’esistenza di un solo motore immobile o di molti. Ritengo che Heidegger colga in un certo senso il discrimine fra un approccio alla questione dei principi primi per via usiologica, a partire dalla riduzione dell’ente polisemico all’oŸsÖa, ed un approccio ad essa attraverso la

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Diverso è, invece, polemizzare contro la riduzione del senso dell’essere a quello della sostanza, cosa che appunto mi pare faccia Aubenque. Se, infatti, questo è il punto debole che Heidegger rimprovera ad Aristotele, altresì questo è ciò che Aubenque critica al modo heideggeriano di leggere Aristotele: nel filosofo greco non vi è nessuna riduzione dell’essere alla sostanza; il significato primo di oŸsÖa non assorbe in sé e non fa scomparire gli altri significati. L’obiezione di Aubenque è fondata e tocca una questione che alla fine decide anche per le sorti della metafisica, come riconosce il francese che, difatti, chiarisce anche la sua proposta filosofica: La mia conclusione […] è che la metafisica stessa, se la si esamina in statu nascendi, include entro la sua pratica il suo proprio oltrepassamento. È l’ingiunzione che si potrebbe intendere secondo la preposizione meta. […] Resta il fatto che la metafisica effettiva, aporetica e dialettica nella sua pratica, è la prima impresa storica di decostruzione delle apparenze, delle pretese certezze, degli stretti saperi (des savoirs étriqués). Dentro il suo progetto e dentro il suo stesso esercizio, e non soltanto dopo essere stata decostruita, la metafisica sposta (déplace) le frontiere, le definizioni (horismoi), nella misura in cui fa dell’essere non un termine (horos) definibile, ma un orizzonte che non ha altra essenza che la propria in-finità (aoristia). Nel far questo essa supera i suoi confinamenti, decostruisce le chiusure, apre sempre di nuovo le possibilità prematuramente chiuse del pensiero 61. considerazione del carattere temporale dell’ente. Per questo egli scorge nell’oŸsÖa quella nozione ambigua a partire dalla cui concezione l’interrogare filosofico aristotelico si costruisce onto-teologicamente: l’oŸsÖa è vista secondo la determinazione temporale come ciò che è sempre e così costituisce l’enticità come il tratto d’essere essenziale che compete ad ogni ente in quanto tale, ma è altresì fissata sul piano usiologico come quella sostanza che permane eternamente. 61 P. Aubenque, Faut-il déconstruire la métaphysique?, cit., pp. 75-76. Mentre Heidegger considera la metafisica il tema della decostruzione, Aubenque ritiene invece che la metafisica sia già in sé, nel suo esercizio, il campo della decostruzione. In questo senso non vi è un oltrepassamento della metafisica, ma è la metafisica che in se stessa opera il proprio oltrepassamento, insistendo su se stessa. Non c’è dubbio che nella tesi di Aubenque l’eco heideggeriana è molto forte, eppure sostanzialmente diversa. Ciò che ritorna in Aubenque è sicuramente l’idea heideggeriana che il superamento della metafisica appaia già annunciato nell’atto della domanda sull’essenza della metafisica, già intrinsecamente prospettato sin da principio in questa domanda. È indiscutibile che Aubenque guarda alla metafisica con gli stessi occhi di Heidegger, al quale l’argomentazione della metafisica, quella che in sostanza dovrebbe sostenere la liceità del passaggio dal piano dell’essere a quello dell’ente appare oltremodo debole. L’onto-teologia si consegna al-

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Aristotele dopo Heidegger

È indubbio, tuttavia, che anche la critica di Aubenque, e dunque il progetto filosofico di cui egli attribuisce la paternità ad Aristotele, si basa su una precisa lettura del problema della questione dell’ente. Ritengo che se si anticipa l’apertura del problema ontologico rispetto a quello protologico, il rischio di un’impossibilità di “fare scienza” in senso metafisico resta inaggirabile, appunto come ben argomenta Aubenque. Se, però, si guarda all’apertura della questione ontologica a partire da quello che sta a monte, ossia dalla domanda protologica radicale, secondo me la prospettiva cambia ed il progetto di un’ontologia, certamente nel ricorso ad una visione anche analogica del reale, si mostra non solo come un progetto che oggi ha ancora un carattere attuale, ma anche come un programma con possibilità di attuazione concreta. Ciò proprio seguendo la strada di un interrogare in sé duplice, ossia sull’intero dell’ente, ma anche su un modo di essere di un ente che resta paradigmatico, percorrendo in tal modo la via di una unificazione che resta analogica, a tratti metaforica, ed eidetica. In questo senso si può anche aggirare, a mio avviso, l’obiezione di Aubenque ad Heidegger e, in definitiva, alla tradizione esegetica prevalente, che individua nella metafisica aristotelica la presenza di un’ontologia ben chiara (spesso nella forma di un’usiologia), anche quando si pronuncia in favore di una determinazione univoca di essa in senso teologico. La teologia, infatti, racchiuderebbe e ingloberebbe in sé il progetto di una comprensione dell’intero dell’ente, giacché nella reductio ad unum della duplicità della filosofia prima in chiave teologica non si elimina affatto la richiesta di dare ragione l’aporia nel suo stesso costituirsi secondo la sua möqodoj, scoprendosi, attraverso la chiave di lettura heideggeriana, in una condizione di stallo poiché la sua argomentazione non dà legittimità al suo atto di costituzione. Dopo Heidegger alla filosofia contemporanea non resterebbe, dunque, che abbracciare l’esito della tesi heideggeriana. Aubenque mostra, però, a differenza di Heidegger, che per lo meno in Aristotele, proprio nell’aporeticità del suo tentativo di realizzarsi come scienza, la decostruzione che la metafisica opera su stessa non comporta come esito un superamento del suo orizzonte, ma in un certo qual modo la radicalizza come il campo in cui l’essere si manifesta come differenza e come donazione assolutamente gratuita. In altri termini, se fermata nel suo momento germinale, per così dire, e non arrestata in un processo di rigida sistematizzazione del reale in ambiti chiusi secondo l’istanza di una causa prima fondante, la metafisica è l’opera di decostruzione più riuscita, perché ciò che in essa emerge non è l’oblio della differenza ontologica, ma semmai la sua esposizione.

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Onto-teologia o katholou-protologia?

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dell’ente, reputando che ciò sia possibile solo a partire da una determinazione dell’ente divino come causa dell’ente – e ciò secondo i vari modi in cui di volta in volta i vari esegeti leggono il rapporto causale. Aubenque ritiene che la mossa esegetica di Heidegger nasconda in Aristotele la traccia, il segno, il rapporto con la differenza ontologica. Il fatto che Heidegger legga nella prËth oŸsÖa divina dello Stagirita l’elemento di mediazione e, quindi, il principio mediatore tra l’istanza logica fondante e quella della dimensione ontica generale – appunto nella forma della filosofia prima come onto-teo-logia, ossia come forma di pensiero in cui l’ente divino, esibito come regione fondatrice dell’ente, sostituisce la questione del senso dell’essere – significa per Aubenque che Heidegger non si sarebbe reso conto che in Aristotele tanto la questione dell’oŸsÖa come pr’j õn della polisemia dell’ente quanto l’inserzione dell’ente divino nella trama ontologica del reale non sono tentativi di riduzione dell’essere all’ente. Essi, forse, si configurano come vie per arrestare la dispersione, ma di fatto restano i modi attraverso cui Aristotele cerca di rendere accessibile e visibile la differenza ontologica, ossia una differenza che si manifesta all’interno dell’ente, rendendo impossibile ridurre la differenza dei vari modi d’essere dell’ente (dunque una differenza che tocca l’essere dell’ente) ad una differenza meramente ontica. In Aristotele, in altri termini, ci si imbatte in un “discorso onto-logico del senso” e non in un “discorso onto-proto-logico della fondazione immanente”; solo il discorso onto-logico è per Aubenque discorso della differenza ontologica: A dispetto delle apparenze, solo il primo è il discorso della differenza, nella misura in cui, senza parlare della possibile pluralità dei sensi, la questione del senso implica la distinzione fra ciò che ha senso e ciò per cui si ha senso (non intendendo evidentemente il per cui come fondazione, bensì piuttosto come condizione trascendentale di possibilità). Il discorso onto-proto-logico è di contro un discorso dell’oblio della differenza, poiché il termine mediano e fondatore, in quanto fondatore, è omogeneo, commensurabile, quanto meno “analogo” alla totalità dell’ente che esso fonda. La differenza qui si riduce ad una differenza di grado, che è la negazione stessa di ogni differenza essenziale. Il proton concentra in lui in modo soltanto eminente il

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carattere comune di ciò che esso fonda; esso è l’eminenza entro l’immanenza, il contrario dunque della trascendenza62.

A mio avviso, invece, è proprio la struttura onto-teologica o “onto-protologica”, così come è chiamata da Aubenque, a marcare la differenza ontologica come differenza che trova la sua espressione nell’ente e, cioè, nella dimensione della storia e della natura. Il qe“j, in altri termini, rende visibile la differenza ontologica senza coprirla quanto meno secondo due rispetti: 1) l’ente divino mostra una differenza fra le sostanze che non attiene a nessuna determinazione categoriale bensì essenziale. Ciò significa che l’ente divino, senza essere l’ipsum esse, è differente dagli altri enti/sostanze perché nel suo essere si iscrive una differenza che nell’essere separa il divino dal sensibile; 2) riguardato nel confronto con la sostanza sovrasensibile che è sostanza semplice, l’insieme della sostanza sensibile ospita la differenza ontologica, perché nella sostanza sensibile l’irriducibilità della forma e della materia l’una all’altra crea una cesura che tocca l’essere della sostanza, della cosa stessa. Nella cosa si istalla una differenza fra modi d’essere che sono entrambi costitutivi della cosa: nessuno dei due singolarmente preso restituisce l’interezza della cosa e nessuno dei due trova nell’altro la giustificazione della sua necessità per l’esistenza della cosa. Infine, al di là della figura della sostanza divina, se è ontica la differenza fra determinazioni categoriali secondo generi, ossia se posso considerare una differenza ontica quella che esiste fra Elena che ha i capelli biondi oggi ed Elena che aveva i capelli castani ieri, una qualità ed una quantità non sono determinazioni diverse solo a livello ontico, ma anche ontologico, perché corrispondono a modi d’essere fra loro non sovrapponibili. Laddove qualcosa mostra la sua individualità secondo un modo d’essere, lì vi è già la manifestazione della differenza ontologica e, quindi, di una differenza che è intrinseca all’essere stesso e che si esplicita come differenza fra molteplici modi d’essere. L’assolutezza dell’essere, per così dire, non si manifesta allora al di fuori dell’ente, ma si dispiega al suo interno, mostrandosi non solo 62

P. Aubenque, “La question de l’ontothéologie chez Aristote et Hegel”, cit., pp. 267-268.

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nella forma di una differenza radicale fra essere ed ente, ma altresì di una differenza che tocca l’essere in se stesso, determinando la molteplicità delle sue espressioni nell’ente. La sostanza divina in Aristotele non copre tutto questo, anche se non c’è dubbio che la domanda metafisica, una volta aperta come questione di tipo protologico sui principi primi, si snoda in parallelo come questione sia sull’ente in quanto tale sia sull’ente divino. L’ente nella sua totalità, apparendo nella sua interezza solo come f⁄sij, rinvia all’ente divino come condizione a partire da cui la kÖnhsij, come essere essenziale dell’ente, mette in vista il carattere di causalità prima della f⁄sij stessa, esibendo altresì la necessità di aprire ad un tipo di causalità che non si lascia racchiudere dentro la natura stessa63. L’ente divino, dal suo canto, rinvia alla totalità dell’ente, se testualmente Aristotele legittima il passaggio dal piano della primarietà dell’ente a quello dell’universalità guardando al qe“j come principio primo di movimento dell’intero dell’ente o, più esattamente, come l’intero dell’ente che nel suo essere si determina essenzialmente come mosso. In questa prospettiva non si aderisce, quindi, né alla posizione di Aubenque – in quanto appunto la filosofia prima mostra una struttura onto-teologica che prende il suo avvio a partire dal compito della protologia radicale – né a quella di Heidegger – in quanto nell’interrogare aristotelico, pur restando lo sguardo fisso nel contempo all’ente in quanto tale e all’ente divino, la duplicità non fa da schermo alla differenza ontologica. Aubenque, dal suo punto di vista, che è quello di un’irriducibilità della polisemia dell’essere, contesta ad Heidegger in definitiva una procedura esegetica di tipo usiologico. Non c’è dubbio che questa sia di fatto la via battuta da Heidegger in relazione ad Aristotele e che, secondo lui, la struttura onto-teologica della prËth filosofÖa si annunci nello Stagirita a partire dalla mossa di riduzione dell’essere dell’ente alla nozione di oŸsÖa ed in conformità al duplice senso del concetto di oŸsÖa e più esattamente di prËth oŸsÖa. PrËth oŸsÖa è la 63 Sul modo in cui la f⁄sij resta l’orizzonte di comprensione anche per la causalità della töcnh e sul modo in cui l’essere del töcnV ‘n è concettualmente accessibile a partire dall’esperienza del f⁄sei ‘n, cfr. G. Nicolaci, “L’idea di natura fra Heidegger e Aristotele”, in Metafisica e metafora. Interpretazioni aristoteliche, L’Epos, Palermo 1999, pp. 71-91.

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sostanza individuale, il t“de ti e, per questa via, l’eçdoj come t’ tÖ hín eçnai, la forma come essenza della sostanza che è in sé il significato che funge da fondamento referenziale dell’intero polisemico dell’ente o, per meglio dire, dell’intero di tutto ciò di cui si predica l’essere64. PrËth oŸsÖa è, però, anche – e nel senso meno puntuale secondo lo Stagirita, come ho già ricordato – il qe“j, il quale è in sé puro eçdoj. Heidegger ritiene, in altri termini, che Aristotele prospetti un passaggio dal significato forte di prËth oŸsÖa a quello più debole, così da strutturare l’interrogare sull’essere dell’ente come interrogare sull’ente sommo. Questa interpretazione è ciò che Aubenque contesta. Nonostante Heidegger non attribuisca ad Aristotele l’idea di una partecipazione e distribuzione d’essere della sostanza divina a tutte le altre sostanze, egli però ritiene che lo Stagirita concepisca l’oŸsÖa come un fondamento che guida gli altri modi dell’‘n, fino a costituire quel fondo di identità che assorbe ed unifica tutti gli altri significati. È questo il cuore della lettura heideggeriana della metafisica; è dove si decide il suo carattere onto-teologico. Heidegger riconosce espressamente che per Aristotele l’unità dell’‘n conquistata per via usiologica, cioè restringendo la polisemia dell’ente nel riferimento ad 64 In Pff ad es. il legame fra oŸsÖa, eçdoj e t’ tÖ h í n eçnai è così espresso: “Questo ‘che cosa’ che determina il tÖ ôsti è compreso da Aristotele con maggiore precisione come il t’ tÖ hí n eçnai. […] Quello che ogni ente effettivamente esistente è già stato (gewesen), in tedesco si chiama Wesen, essenza. […] Il ‘che cosa’ […] è ciò che conferisce ad ogni ente la sua determinazione e che lo distingue dagli altri enti, ciò che permette di circoscriverlo e di stabilirne la configurazione. Questa delimitazione determinata […] viene meglio definita come forma […]. Forma in questo significato è ciò che costituisce la figura di un ente. Essa corrisponde al modo in cui una cosa appare, in greco eçdoj, ciò che si vede di una cosa. […] Ciò che costituisce la determinazione autentica dell’ente è anche ciò che in esso sta alla radice, il radicale, ciò che determina e traccia in anticipo ogni proprietà ed ogni azione di una cosa. Questa radice dell’ente, la sua essenza, è chiamata perciò anche natura, conformemente all’uso che Aristotele fa del termine f⁄sij. Ancor oggi noi parliamo di ‘natura delle cose’” (Pff, pp. 81-82). Più avanti si legge ancora: “Nell’eçdoj è già anticipato ciò che costituisce l’essere di un ente. Nell’eçdoj è già anticipato e delimitato il modo in cui la cosa si presenterà […]. In base a questo nesso anche il concetto di oŸsÖa assume, già nell’ontologia greca, un duplice significato. OŸsÖa significa, da un lato, lo stesso prodotto sussistente, ossia la sua sussistenza. Ma oŸsÖa significa nel contempo anche l’eçdoj, il modello solamente pensato e immaginato, ciò che l’ente […] già è autenticamente, il suo aspetto, ciò che lo definisce, il modo in cui si presenta” (ibid., p. 145, anche se Heidegger sta qui esemplificando la relazione fra ente e forma in rapporto all’esperienza della töcnh, la sua descrizione sulla duplicità dell’oŸsÖa è attinente anche al regno della f⁄sij).

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una sola forma d’ente che è l’oŸsÖa, non restituisce affatto la possibilità di pensare all’ente come ad un genere. Riferimenti chiarissimi si ritrovano nella Vorlesung del semestre estivo del 1926 65, ma soprattutto in quella del 1931, nel corso della quale in modo inequivocabile Heidegger spiega che quel che è comune all’ente in quanto tale non comporta la possibilità che l’‘n sia visto come un genere: “La koin“thj propria dell’‘n non sussiste come gönoj”66. A partire dal fatto che l’ente non si predica in modo né omonimo né sinonimo la concezione aristotelica è, allora, presentata secondo una doppia scansione. Da un lato, cioè, Heidegger riformula l’ente come polivoco al modo di un “tetracÓj leg“menon”67, in cui i quattro significati dell’ente sono enumerati secondo la lista che Aristotele stesso fornisce, ad esempio, nel capitolo 7 di Metafisica D o nel capitolo 2 di Metafisica E: l’ente secondo gli schemi categoriali, l’ente in atto o in potenza, l’ente come vero o falso e l’ente come accidente68. Dall’altro lato, dentro il modo di significazione dell’ente secondo gli schemi categoriali, Heidegger individua la polisemia dell’ente nel rapporto di co65

Cfr. Cfa, p. 238 ss. AMQ, p. 29. 67 Aristotele usa in Met. A, 983a26-27 l’espressione “tetracÓj lögetai” in riferimento alle cause: “t¶ d'aátia lögetai tetracÓj”. 68 Già Franz Brentano nel suo Sui molteplici significati dell’essere secondo Aristotele cit., che notoriamente Heidegger riconosce in Il mio cammino di pensiero e la fenomenologia essere stato uno dei suoi primi “appoggi” nello studio della filosofia (cfr. TE, p. 189), parla di una “divisione quadripartita” dei significati dell’essere, ritenendo che fra i vari elenchi di concetti e nozioni significanti l’essere, quello che Aristotele fornisce in Met. D, cap. 7 sia “la prima e più completa classificazione dell’essere” (F. Brentano, op. cit., p. 14) e che “[a]d essa si lasciano subordinare o includere, perché meno generali o meno complete, le classificazioni date in Metafisica G 2, e altre, come quella che si trova in Metafisica Q 10” (ibidem). Volpi sottolinea che lo schema che è approntato in AMQ (cfr. p. 18; la parte dello schema sulla relazione fra la sostanza e le categorie corrisponde grosso modo a quello che compare anche in Cfa, p. 248), “nel quale Heidegger riassume sinotticamente la problematica dell’essere come pollachos legomenon indica a chiare lettere l’indirizzo verso il quale, pensando con Aristotele e contro Aristotele, il domandare heideggeriano si orienta” (F. Volpi, Heidegger e Aristotele, cit., p. 184). Volpi mette altresì in evidenza la differenza che intercorre fra lo schema di Brentano (cfr. F. Brentano, op. cit., pp. 159 e 161) e quello di Heidegger: “Brentano cerca infatti nel suo schema di connettere la plurivocità categoriale dell’essere col concetto comune di essere; per Heidegger non si tratta soltanto di spiegare la plurivocità secondo le categorie, bensì la plurivocità anche secondo le determinazioni fondamentali dell’essere” (F. Volpi, Heidegger e Aristotele, cit., p. 184). 66

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aderenza (Mithaftigkeit), con-presenza (Mitanwesenheit), con-sussistenza (Mitvorhandenheit) delle determinazioni categoriali, definite appunto l’essente-con (das Mitseiende), ciò che è sempre insieme con l’essente-sostanza, in un rapporto che si esprime sul piano del l“goj69. In relazione alle quattro maniere di dire l’ente, Heidegger tende, quindi, a mostrare la convertibilità fra il carattere dell’ente come sostanza e quello dell’ente come vero/falso o come atto/potenza grazie ad un principio fenomenologico fondamentale espresso in modo molto netto nel primo corso marburghese: “Il fain“menon è l’ente stesso” 70. Ciò apre, infatti, alla concezione dell’ente come 69

Già nel corso del semestre estivo del 1922 Heidegger individua la stretta connessione in Aristotele fra la problematica dell’ente e quella del l“goj, dunque la struttura, per così dire, onto-logica sottesa alla concezione aristotelica dell’essere. L’‘n, in altri termini, è già all’inizio del confronto con lo Stagirita, visto come l’oggetto del parlare umano (das Gesagte); la datità dell’ente (das Gegebene) si manifesta nel fatto che l’ente è portato alla parola ed in essa espresso (das Angesprochene). In questo senso la gamma dei modi d’essere dell’ente ha una struttura categoriale-linguistica: “t’ ‘n è per Aristotele principalmente e puramente nel come del l“goj. Con la sua polivocità originariamente unitaria […] è comprensibile la possibilità dei diversi significati e delle diverse funzioni significative dell’oŸsÖa. Con questa polivocità è comprensibile […] che i Greci pervennero al categoriale” (GA 62, p. 300). 70 GA 17, p. 13. Ma fenomeno, fain“menon, “innanzitutto non significa altro che un modo peculiare della presenza dell’ente” (ibid., p. 9). Volpi ritiene che “la linea direttrice del lavoro filosofico del giovane Heidegger nel corso degli anni Venti sia costituita dalla ricerca del senso fondamentale e unitario che sostiene la plurivocità dell’ente” (F. Volpi, “L’esistenza come ‘praxis’. Le radici aristoteliche della terminologia di ‘Essere e tempo’”, in G. Vattimo (a c. di), Filosofia ’91, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 219). In effetti lo studio della filosofia aristotelica sembra rappresentare per Heidegger la via privilegiata per questo scopo tanto che il filosofo tedesco passa in rassegna i quattro significati fondamentali dell’‘n “per verificare quale di essi possa essere considerato come quello fondamentale” (ibid., pp. 219-220). Si può anche dire che il Denkweg di Heidegger sia scandito dall’analisi di questi quattro significati, come ci rivelano le varie Vorlesungen tenute a Marburgo e poi di ritorno a Friburgo se lette secondo l’ordine cronologico in cui furono tenute da Heidegger. Nei due corsi aristotelici dei primi anni Venti, GA 62 e GA 18, l’oŸsÖa è pensata da Heidegger come Sein, eigentlicher Seinsinn, Seinshaftigkeit o eigentliche Seinshaftigkeit ed ancora come Wie des Seins als solches, come Seinsheit, come Seinsbegriff. Esse sono tutte rese terminologiche che palesano una considerazione ancora positiva del significato di oŸsÖa per la comprensione del senso dell’essere. Il passaggio alla resa di oŸsÖa come Seiendheit significa per Heidegger concretamente l’apertura all’esame degli altri significati dell’‘n, ossia verità/falsità e potenza/atto. Questi due significati gli si rivelano cruciali per la comprensione dell’essere, così da occupare un posto centrale nell’elaborazione della tematica del Seyn come Ereignis. In particolare la rottura heideggeriana con il primato dell’ônörgeia sulla d⁄namij, diviene il modo attraverso cui Heidegger approccia la questione della donazione dell’essere come donazione di presenza

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vero/falso secondo la ritraduzione heideggeriana del concetto di verità come svelatezza dell’ente: verità e falsità divengono caratteri ontologici dell’ente, legati al suo essere fenomenico. Nel contempo Heidegger opera una sorta di inversione del rapporto, cioè del primato, fra atto e potenza, sovrapponendo alla tematizzazione aristotelica della d⁄namij e dell’ônörgeia la propria, come si osserva soprattutto a partire dal pensiero dell’essere dopo la Kehre: l’ente come fenomeno è in sé caratterizzato dalla motilità, dalla kÖnhsij che determina la possibilità del suo farsi evento71. F⁄sij si connota in Heideg(die Gabe von Anwesenheit) in quanto proprietà (Eigentum) dell’Ereignis (cfr. TE, pp. 127-128). Spiega Leonardo Samonà: “L’Er-eignis come Er-eignung può essere inteso come il ‘rendere possibile’, il gettare nella possibilità, la quale è solo in base a ciò stesso che essa diviene, e solo stando in questo riferimento raggiunge sé, cioè solo in quanto ‘non ancora’ è ‘già’. L’Er-eignis getta […] nella possibilità […]. Tuttavia, rispetto all’eredità aristotelica, qui anche l’‘aversi nella fine’ viene situato in una svolta: mentre l’enèrgheia è pensata infatti in base al dominio della manifestatività, la ‘pienezza’ dell’Ereignis non è più la svelatezza dell’ente, come tale riposante in sé, né è pensabile d’altra parte come l’apriori, la condizione di possibilità dell’ente nel suo insieme. Heidegger lega la ‘pienezza’ all’apertura stessa, alla radura, allo spazio-di-tempo che lascia ad ogni ente il compimento nel ‘proprio’” (L. Samonà, “La ‘svolta’ e i ‘Contributi alla filosofia’: l’essere come evento”, in F. Volpi (a c. di), Heidegger, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 185-186). Come ha ben chiarito Zaccaria, la Grundfrage heideggeriana come questione del rapporto di co-appartenenza fra essere e temporalità resta, però, una questione implicitamente tutta greca, che giace racchiusa nella nozione di oŸsÖa, proprio perché grecamente oŸsÖa dice la relazione dell’essere con il tempo: “Grazie al rivelarsi, mediante la dizione Anwesenheit, del tratto temporale di Anwesen-oŸsÖa , sappiamo che oŸsÖa significa essere sempre e unicamente entro una stagliatura del tempo” (G. Zaccaria, op. cit., p. 183). In altri termini, oŸsÖa cela racchiuso in sé il riferimento al carattere della motilità come carattere d’essere costitutivo dell’ente, che “non è ciò che entra nella stabilità e qui si stabilizza in un che di costante, ma ciò che sta da sé in quanto viene a stare fuori-da, in quanto sta-via-dal nascosto” (ibid., p. 188). Non è, dunque, casuale che Heidegger sviluppi la questione del senso dell’essere a partire dal suo confronto con il concetto aristotelico di oŸsÖa all’interno del contesto di un progetto filosofico che inizialmente si apre all’insegna del compito di un’ermeneutica della fatticità. 71 Per un’analisi dell’interpretazione e dell’appropriazione heideggeriana dei concetti di atto e potenza, anche in relazione alla tematizzazione della motilità come modo d’essere dell’ente cfr. ad es. i seguenti lavori: F. Volpi, “La ‘riabilitazione’ della d⁄namij e dell’ônörgeia in Heidegger”, Aquinas XXXIII (1990), pp. 3-28; P. Rodrigo, “Heidegger lecteur d’Aristote: d⁄namij et ônörgeia sous le regard phénoménologique”, Les Études philosophiques 3 (1990), pp. 353-372; R. Giusti, La potenza all’origine. Heidegger interprete di Aristotele, La città del sole, Napoli 2000; A. D’Angelo, Heidegger e Aristotele: la potenza e l’atto, Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli 2000; F. Mora, L’ente in movimento. Heidegger interprete di Aristotele, Il Poligrafo, Padova 2000; B. Elliott, Anfang und Ende in der Philosophie. Eine Untersuchung zu Heideggers Aneignung der aristotelischen

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ger come l’intero dell’ente che si disvela nella sua verità e si rende fenomeno nell’orizzonte della storia e della natura, lasciandosi così alle spalle il significato aristotelico di genere o porzione dell’ente: f⁄sij indica un modo d’essere che è determinativo in modo essenziale dell’ente in quanto tale: “Molto più importante è il rilievo dato all’idea decisiva che la f⁄sij […] è un modo dell’essere e non un ente” 72. Rispetto ai quattro significati dell’ente Heidegger costruisce, dunque, una sorta di rapporto di interscambiabilità 73. L’orizzonte della polisemia categoriale dell’ente si apre, invece, piuttosto come una polivocità interna ad una polisemia di base, che non si rivela in una Philosophie und der Dynamik des hermeneutischen Denkens, Duncker & Humbolt, Berlin 2002; B. Minca, Poiesis. Zu Martin Heideggers Interpretationen der aristotelischen Philosophie, Königshausen & Neumann, Würzburg 2006; S. Jollivet, “Das Phänomen der Bewegtheit im Licht der Dekonstruktion der aristotelischen Physik”, Heidegger-Jahrbuch 3 (2007), pp. 130-155; D. Yfantis, Die Auseinadersetzung des frühen Heidegger mit Aristoteles, Duncker & Humbolt, Berlin 2009. 72 Sgv, p. 235. In Im Heidegger si esprime in questi termini: “I Greci chiamavano l’essente come tale nella sua totalità f⁄sij. Solo incidentalmente si può, a questo proposito, notare come già nell’ambito della filosofia greca si sia ben presto verificata una restrizione del significato della parola, senza che tuttavia quello originario scomparisse dall’esperienza, dal sapere, e dall’atteggiamento filosofico dei Greci. Anche in Aristotele si avverte la coscienza del significato originario della parola, quando parla dei principi dell’essere come tale” (Im, p. 27; corsivo mio). In questo senso per Heidegger anche l’ente divino finisce per essere definito nel suo modo d’essere dalla f⁄sij, perché è in quanto principio di movimento. Il legame fra natura e movimento diventa nella concezione aristotelica così radicale da marcare non il carattere ontico, ma ontologico dell’ente. Nicolaci osserva infatti: “Al centro della visione aristotelica sulla natura sta la tesi che stabilisce la connessione fra natura e movimento. […] Alle spalle dell’idea di physis, quella di movimento (kìnesis) sembra dunque disegnarsi come una nozione formalmente più originaria e inclusiva, espressione di una qualità, di un modo d’essere possibile delle cose” (G. Nicolaci, “L’idea di natura fra Heidegger e Aristotele”, cit., p. 76). 73 Il significato dell’ente come sumbebhk“j è, in definitiva, considerato da Heidegger come una modalità del “con-essere”, nel senso che egli ritiene che l’accidente si lasci esperire secondo i modi delle categorie e si manifesti come quel che sta-con la sostanza nell’apparire secondo la struttura dell’in quanto qualcosa. L’accidente è, in altri termini, visto da Heidegger come una modalizzazione dell’essere sul piano, però, ontico, giacché “l’accidentalità è un carattere dell’essere che non è necessario all’ente autentico e non ne costituisce nemmeno l’essere” (Cfa, pp. 250-251), presentandosi nondimeno di volta in volta “con”, “insieme con”, l’essere dell’ente come un carattere d’accompagnamento possibile dell’oŸsÖa: “[L’]essenza del sumbebhk“j consiste esattamente nell’emergere par£, “accanto” a un tale ente [scil. a quell’ente che si dà già sempre stabilmente per lo più lì presente (das Immer-schon-beständig-zumeist-Vorhandenes)], di volta in volta in modo fortuito e casuale” (ibid., p. 252).

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relazione di equivalenza per così dire ontologica fra i vari significati, ma come un rapporto di dipendenza dalla nozione di oŸsÖa come categoria fondamentale: Ma l’oñ n pollacÓj leg“menon ha anche un suo significato più stretto. In questo caso non si intendono i quattro modi suddetti, ma uno dei quattro, quello cui è riservata una certa preminenza: t’ oñn kat¶ t¶ scªmata t¡j kathgorÖaj, l’essere nel senso delle categorie 74,

preminenza, dunque, che è del significato di “ente secondo gli schemi categoriali” sulla base della priorità di uno dei significati interni allo schema delle categorie, ossia sulla base del significato fondamentale di oŸsÖa75. Rispetto alla significazione dell’ente sul piano categoriale, Heidegger concepisce la relazione fra la sostanza e le sue determinazioni categoriali al modo di un rapporto di tipo trascendentale, nella misura in cui gli attributi categoriali sono considerati come quel che la sostanza (quanto meno quella composta) eo ipso include: essi sono modi d’essere che per sé attengono alla sostanza che, a sua volta, dice un modo d’essere dell’ente. La differenza consiste nel fatto che mentre i modi d’essere categoriali sono modi ontici, perché determinazioni di un modo d’essere primario, l’oŸsÖa rappresenta un modo propriamente ontologico, giacché riguarda la determinazione d’essere essenziale della cosa. Le categorie sono “caratteri formali dell’ente”, più esattamente esse valgono come “determinazioni dell’essere, gönh, “ceppi”, cui sono riconducibili concreti caratteri dell’essere, e per la precisione un ente, qui inteso in quanto esperito primariamente nel l“goj” 76. Se, dunque, l’ente è in quanto ciò che si svela nella parola, le categorie sono “modi della funzione semantica dell’es74 AMQ, p. 17. Heidegger anzi dice che il significato di “pollacÓj leg“menon” è in se stesso un “dicÓj leg“menon” (cfr. ibid., p. 18), nel senso che la polisemia dell’ente è da intendersi in due modi: da un lato l’ente è polivoco in conformità ai quattro significati espressi dall’ente secondo gli schemi categoriali, dall’ente come vero/falso, dall’ente come atto/potenza e dall’ente come accidente; dall’altro lato esso è polivoco in relazione alla polisemia rappresentata dalle varie determinazioni categoriali. 75 Aggiunge infatti Heidegger: “Con il pollacÓj s’intende parlare, adesso, di una molteplicità interna “alla categoria”; e questa molteplicità ha un certo ordine e una certa articolazione, ossia quell’ordine e quell’articolazione che già conosciamo: la subordinazione di tutte le restanti categorie alla prima” (ibidem). 76 Cfa, p. 293.

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sere dell’ente, così come esso si rende accessibile nel l“goj” 77. Con la riconduzione della fenomenicità dell’ente al piano della natura sintetico-diairetica del logos e, così, dell’ente in quanto leg“menon, come ciò che nella predicazione è dischiuso secondo la struttura dell’“in quanto”, Heidegger imposta altresì la propria lettura dell’unità analogica dell’essere in riferimento alla nozione aristotelica di oŸsÖa. Essa è illustrata già nel corso del semestre estivo del 1926, anche se è il materiale della Vorlesung del semestre estivo del 1931 quello che ce ne restituisce una versione più completa. L’unità analogica dell’essere fondata sulla nozione di oŸsÖa, come determinazione unitaria della molteplicità dell’ente, è pensata da Heidegger sia come un’analogia di proporzionalità sia come un’analogia di attribuzione, anche se a mio avviso ciò che egli intende come analogia d’attribuzione ed applica alla concezione aristotelica ontologica è piuttosto da leggersi come quel tipo di analogia che Adolf Trendelenburg chiama “proporzione qualitativa”78. In ogni caso, egli mette in qualche modo in 77

Ibidem. Per comprendere il nesso fra l’oŸsÖa e le altre categorie Heidegger insiste sulla relazione “‘n-leg“menon-dhlo⁄menon” (cfr. ibid., p. 290) che ho già illustrato nel § 2 del IV cap. come sequenza “pr©gma-¢lªqeia-l“goj”. Le categorie rappresentano quindi il modo in cui l’ente, in quanto leg“menon, “nel l“goj, si mostra e si fa incontro nei modi dell’‘in quanto che cosa’” (ibid., p. 242). 78 In Inventio analogiae Courtine si chiede se rispetto alla questione della polisemia dell’essere ed alla via di soluzione percorsa da Brentano, che in definitiva coniuga nella dottrina dell’analogia dell’essere la nozione di analogia proportionis con quella di analogia attributionis, “Heidegger abbia mai criticato il principio stesso della sistematizzazione” di Brentano (J.-F. Courtine, Inventio analogiae, cit., p. 23). In effetti, stando a Cfa e AMQ, sembrerebbe di no, visto che Heidegger stesso si serve di una sorta di via di mediazione, sovrapponendo i due modi dell’analogia (proportionis ed attributionis). Il problema di come effettivamente sia da determinarsi l’analogia che si costituisce a partire dal fatto che l’essere predicandosi nel modo più proprio dell’oŸsÖa, per questo si predica anche delle determinazioni categoriali, è in un certo senso confermato dal modo in cui Adolf Trendelenburg ha spiegato come l’analogia di proporzionalità si possa correttamente intendere non solo in termini quantitativi, cioè come una nozione matematica di analogia, ma anche in termini qualitativi: “L’analogia ha originariamente un significato quantitativo: essa è la proporzione. Aristotele pone la sua essenza nell’uguaglianza di rapporti […], e, con i matematici, la divide in aritmetica e geometrica […]. Egli osserva, però, che la proporzione non ha luogo semplicemente fra i numeri che consistono di unità pure, ma anche fra quelli che raffigurano una qualità; e, perciò, nella forma di una proporzione può apparire anche un rapporto qualitativo come la giustizia” (A. Trendelenburg, La dottrina delle categorie in Aristotele, ed. it. a c. di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1994, p. 244). Attraverso una serie di riferimenti testuali Trendelenburg conclude che per Aristotele l’analogia esprime un rapporto che è di somiglianza, se concerne la

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Onto-teologia o katholou-protologia?

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gioco un doppio concetto di unità analogica a partire dall’individuazione dell’oŸsÖa come prÓton ‘n, secondo un duplice rispetto: l’oŸsÖa è ¢rcª ed insieme koin“n dell’‘n in quanto pollacÓj leg“menon. La questione è espressamente posta così: “Ci si chiede quale pollacÓj, quale dei modi del molteplice svolga la funzione di guida per l’¢nagwgæ pr’j t’ õn, nel decidere della domanda sull’unità della molteplicità” 79. Sebbene l’‘n non si predichi né per omonimia né per sinonimia, esso – insiste Heidegger – si lascia cogliere secondo un significato che è “complessivamente uno in rapporto ai molti che gli appartengono [scil. ai molti significati che appartengono all’‘n ]” 80. Questo significato è primo e fondamentale, appunto perché “è sempre il punto a partire dal quale il significato che si porta ad esso e gli corrisponde diventa propriamente capace di parlare” 81, ossia di essere a propria volta un significato dell’‘n, di essere capace di significare l’ente. Per questa via si pone la possibilità di mettere in gioco la nozione di oŸsÖa al modo del fondamento. Heidegger chiarisce, infatti, qualità, o di uguaglianza, se concerne la quantità, così da avere un “concetto di proporzione qualitativa, sebbene in Aristotele questa denominazione non faccia mai la sua comparsa” (ibid., p. 245). Se la proporzionalità si può attestare anche nell’ambito della qualità, allora è possibile istituire una gradualità della proporzionalità di tipo qualitativo attraverso il più o il meno. Dice infatti Courtine: “Ancora si deve precisare che una tale proporzionalità nel dominio della qualità può essa stessa avere luogo secondo differenti modi: – allorquando una e medesima qualità, di stesso grado o di grado differente – giacché la qualità ammette anch’essa il più ed il meno –, è attribuita a dei soggetti differenti, per esempio se il corpo A è più caldo del corpo B, come il corpo B è più caldo del corpo C. Si è qui in presenza di una comparazione che resta, in una certa misura, ancora quantitativa” (J.-F. Courtine, Inventio analogiae, cit., pp. 26-27). In questo senso – ed è questa secondo me la chiave di risoluzione della questione – certamente Heidegger applica una nozione di analogia che può apparire molto simile a quella di attribuzione, ma non è l’oŸsÖa che dona la consistenza dell’essere agli altri significati dell’ente, o, più precisamente, agli altri enti che si presentano come un accompagnamento di essa. Si tratta invece di un grado di significatività dell’essere secondo il più e il meno che nella lettura fenomenologica heideggeriana dell’‘n sorge dal grado di presenza (secondo il “più” ed il “meno”) di ogni ente. Il fatto che Heidegger legge nell’ente divino l’ente esemplare sulla cui base si ricava la comprensione di cosa l’ente autenticamente è, viene chiarito sempre sulla scorta del carattere di maggiore presenza che l’oŸsÖa ha rispetto agli altri enti e che l’oŸsÖa sovransensibile ha rispetto a tutte le altre oŸsÖai. Si tratta, quindi, di un uso dell’analogia non d’attribuzione, ma piuttosto di “proporzione qualitativa”. 79 AMQ, p. 28. 80 Ibid., p. 33. 81 Ibidem.

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Aristotele dopo Heidegger

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che tramite questa funzione semantica che raccoglie e rende possibili anche tutte le altre significazioni, l’oŸsÖa si prospetta in pari tempo come ¢rcª (“Il punto-a-partire-dal-quale è in greco l’¢rcª”)82 ed insieme come koin“n o, più esattamente, come un koin“n ti, “qualcosa come un alcunché di comune, che in sé sussiste come un modo dell’identico per mantenere in unità i molti che gli corrispondono” 83. Egli si premura, quindi, di esplicitare subito il passaggio alla sfera della primarietà dell’ente, caratterizzando l’oŸsÖa, in quanto ¢rcª, come prÓton ‘n : “[S]iccome si tratta dell’‘n , allora deve essere il prÓton ‘n, ossia l’oñn prËtwj leg“menon” 84. È, a mio avviso, abbastanza chiaro che in siffatta determinazione dell’oŸsÖa si annuncia la mossa del doppio passo o del doppio modo di interrogare sull’ente che per Heidegger costituisce la struttura dell’onto-teologismo metafisico: l’oŸsÖa, in quanto in pari tempo ¢rcª e koin“n, è il fondamento al modo rispettivamente della Begründung e della Ergründung. In questa maniera, allora, si è in qualche misura già aperta nella lettura di Heidegger la via per la duplice caratterizzazione dell’interrogare metafisico sull’ente come interrogare sull’ente che è eminente (oŸsÖa come prÓton ‘n ed ¢rcª) e su quell’ente che si manifesta come ciò che è comune all’intero molteplice dell’ente (oŸsÖa come koin“n ti)85. 82

Ibidem. Ibidem. 84 Ibid., p. 34. 85 Il fatto che questa mossa esegetica, in cui si giustifica la riconduzione della molteplicità semantica dell’essere ad un significato fondamentale, si rivela quella che è, in realtà, un’esigenza intrinseca al pensiero dell’essere heideggeriano è ben mostrato da Courtine. Questi sostiene, infatti, che Heidegger, pur allontanandosi da Brentano e, quindi, pur sviluppando un impianto critico nei confronti della concezione aristotelica dell’oŸsÖa come Seiendheit, avverte sempre, lungo tutto il corso del Denkweg, l’esigenza di rintracciare il fondo unitario della molteplicità dell’essere, quasi come un residuo che attesta la traccia del suo lavoro di comprensione dell’ontologia aristotelica: “Parlando in termini più generali, nel fatto stesso che il discorso verta sul ‘senso’ dell’essere o sul senso dell’‘essere’ non è sin dall’inizio già implicita la presupposizione di una possibile univocità? Questa struttura di pensiero è effettivamente superata dall’ultimo Heidegger, se egli sottolinea che l’essere o meglio l’evento è un singulare tantum? A questo problema, che si potrebbe chiamare un problema classico o un problema classicamente aristotelico, se ne aggiunge ancora un secondo […], che ha un’origine husserliana e riguarda la connessione fra l’‘ontologia formale’, compresa come la determinazione dell’oggetto in generale ed in quanto tale, e le ontologie regionali (materiali) che considerano le diverse regioni dell’essere che sono delimitate da e in riferimento alle caratteristiche categoriali corrispon83

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Onto-teologia o katholou-protologia?

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Il passaggio dal livello della predicazione polisemica dell’‘n a quello della sua unità semantica in relazione al significato fondamentale di oŸsÖa è chiarito attraverso la conversione della predicazione paronimica nel rapporto di analogia secondo tre modalità o tre espressioni del nesso analogico fra l’oŸsÖa e gli altri significati dell’‘n: 1) l’oŸsÖa si rapporta all’essere in modo analogico; 2) le altre categorie si rapportano all’oŸsÖa di volta in volta mantenendo un’equipollenza di rapporto, nonostante le determinazioni categoriali e la stessa determinazione essenziale di un ente siano, quindi, ogni volta contenutisticamente diverse; 3) le altre categorie si rapportano all’essere attraverso la mediazione dell’oŸsÖa. Heidegger, in altri termini, ritraduce esplicitamente, come egli stesso riconosce, il passaggio in qualche modo cruciale di Metafisica Q, in cui Aristotele afferma: “Si è detto dunque dell’ente che è in modo primario ed in riferimento al quale si riportano (¢naförontai) tutte quante le altre categorie dell’ente, ossia la sostanza”86. Egli opera una sostituzione del verbo ¢naförontai con il verbo ¢nalögontai e così rende: Abbiamo trattato del significato fondamentale dell’essere che porta e guida tutti gli altri, significato al quale sono riportate (¢naförontai potremmo anche dire ¢nalögontai , sostituendo il “portare” con il “dire”) le restanti categorie, abbiamo cioè trattato dell’oŸsÖa87.

Quindi aggiunge che per questo l’oŸsÖa è il significato che è “koin“n che si comunica a tutti gli altri, i quali grazie a questo rapporto acquidenti (l’apriori materiale sintetico). Si cercherebbe certamente invano in Heidegger la semplice contrapposizione tematica di ‘formale’ e ‘regionale-materiale’, ma in lui si trova senz’altro una ‘ontologia fondamentale’ alla quale sono soggette le ontologie regionali: i diversi ambiti ontologici e la loro corrispettiva costituzione d’essere” (J.-F. Courtine, “Zwischen Wiederholung und Destruktion – die Frage nach der analogia entis”, Heidegger-Jahrbuch 3 (2007), pp. 118-119). La relazione fra ontologia fondamentale ed i vari ambiti ontologici raccoglierebbe, allora, l’eredità della relazione aristotelica fra una scienza dell’ente in quanto tale, che è insieme la scienza di un modo d’essere determinato ed eminente, e le varie scienze ontologiche particolari che ritagliano porzioni dell’ente. 86 Met. Q, 1045b27-29 (Perà mùn o‚n to‡ prËtwj ‘ntoj kaà pr’j o ï p©sai aÉ •llai kathgorÖai to‡ ‘ntoj ¢naförontai eárhtai, perà t¡j oŸsÖaj). 87 AMQ, p. 34.

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Aristotele dopo Heidegger

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stano essi stessi significato d’essere”88. Una simile lettura apre la porta per prospettare in Aristotele la presenza di un uso dell’analogia di attribuzione, mentre resta attestato che la concezione aristotelica dell’analogia non comporta una “trasmissione” dell’essere dalla sostanza alle altre determinazioni categoriali o, per lo meno, l’idea di una gerarchia in ordine ad un rapporto di priorità89. Il fatto è, però, che la nozione di priorità, per così dire, aristotelicamente è anch’essa polivoca e fra i criteri che determinano l’anteriorità di qualcosa rispetto a qualcos’altro Aristotele include quello “kat¶ f⁄sin kaà oŸsÖan”90, ossia il fatto che certe cose possono esistere indipendentemente da altre o meno. La sostanza è appunto una di queste. È proprio sotto questo preciso rispetto che Aristotele la considera prima, anteriore rispetto agli altri significati 91. Certamente anche le determinazioni categoriali, che sono accidentali rispetto alla sostanza che è determinazione essenziale, hanno una consistenza d’essere che in qualche modo non deriva dalla sostanza: ad esempio una qualità, 88

Ibidem (corsivo mio). Berti ha mostrato, tuttavia, che in Aristotele sono in realtà presenti sia l’analogia di attribuzione sia l’analogia di proporzionalità. Secondo la prima forma un nome è polisemico e tutti i suoi significati stanno in rapporto ad uno che è anteriore. Si tratta quindi di un “rapporto di dipendenza o di derivazione” (E. Berti, “L’analogia dell’essere nella tradizione aristotelico-tomista”, in AA.VV., Metafore dell’invisibile. Ricerche sull’analogia, Morcelliana, Brescia 1984, p. 14). Nel secondo caso ciascuno dei significati di un nome polisemico sta in uno stesso rapporto rispetto ad un altro nome, o ad una nozione o ad un concetto. Berti sottolinea però che Aristotele chiama solo questo secondo analogia, mentre il primo non è detto né analogia né attribuzione. Il problema nel passaggio dalla concezione aristotelica a quella tomista dell’analogia non è comunque un problema tanto terminologico, quanto concettuale: “Il problema che rimane aperto, al di là della variazione terminologica, è come mai il concetto di analogia, che in Aristotele non implicava nessuna gerarchia, nessun ordine di priorità fra i diversi analogati, ad un certo momento venga ad includere casi di gerarchia, di ordine per prius et posterius, come accade chiaramente nell’analogia di attribuzione. Evidentemente si tratta di una sovrapposizione della concezione platonica, o neoplatonica, della realtà come ordine digradante, al concetto aristotelico di analogia: sovrapposizione che determina la definitiva prevalenza di una metafisica, quella appunto neoplatonica, su di un’altra, quella aristotelica, anche nel momento in cui questa sembra venire ripresa, cioè nel secolo XIII” (ibid., p. 17). 90 Met. D, 1019a1 ss.: “t¶ mùn dæ o¤tw lögetai pr“tera kaà ¤stera, t¶ dù kat¶ f⁄sin kaà oŸsÖan, ”sa ôndöcetai eçnai •neu •llwn, ôkeãna dù •neu ôkeÖnwn mª ”. 91 Cfr. ibidem: “Giacché l’essere si dice in molti modi, innanzitutto è anteriore il sostrato, perciò è anteriore la sostanza”. 89

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che pure non esiste senza il sostrato cui inerisce, in forza di una tale inerenza è e, quindi, è qualcosa che è, è ente, non perché come qualità trae il suo essere dalla sostanza. Infatti, astrattamente, sul piano della nozione essa può essere considerata scissa dalla sostanza e può essere osservata, se così posso esprimermi, nel suo essere in sé in quanto qualità92. Però, una qualità resta in un rapporto di subordinazione rispetto alla sostanza dal punto di vista ontologico e deriva la sua possibilità di essere predicata di qualcosa tramite la regola generale della sua attribuzione ad un sostrato. In altri termini, il bianco si può predicare del tavolo per la condizione generale che 1) una qualità si predica in generale di una sostanza; 2) che quel tipo di predicazione categoriale è possibile rispetto a quel tipo di sostanza. Non avrebbe infatti senso dire: “Una strada è alta tre metri”. Vi è, dunque, un rapporto di dipendenza delle categorie rispetto all’oŸsÖa, nel senso che quelle devono sottendere questa per essere pensate come esistenti e per essere portate alla parola. Per quanto ambiguo possa apparire nel suo modo di esprimersi, Heidegger sottolinea esplicitamente che questa relazione analogica che si istaura nel rapporto fra la sostanza e le categorie non si può applicare all’intera relazione che può sussistere fra i significati dell’‘n secondo i quattro modi degli schemi categoriali, della potenza e dell’atto, del vero e del falso e dell’accidente. La ricerca dell’unità nella dispersione semantica dell’‘n è, cioè, perseguita secondo modi diversi: vi è il dirsi di un significato secondo la struttura dell’“¢f'òn“j”, secondo quella del “pr’j õn” 93, e secondo quella del “kat'¢nalogÖan”. 92 Nulla vieta, ad es., di esprimere una predicazione del tipo: “La qualità x è di essere così e così”. Nulla vieta cioè che si trovi la definizione stessa di una determinazione d’essere che per sé non è essenziale. Il tipo di accidentalità delle categorie è certamente diverso rispetto all’idea dell’accidentalità che Aristotele pensa come t⁄ch ed aut“maton. Certamente, anche per caso possono nascere individui con determinazioni cosiddette categoriali del tutto accidentali. Ma per caso possono nascere individui che sono diversi da come dovrebbero essere proprio sul lato dell’essenza. L’ente accidentale, quindi, quando viene indicato da Aristotele come uno dei significati dell’ente (rispetto cioè a quella che Heidegger chiama la polisemia tetracÓj), non insiste tanto sull’aspetto dell’ente categoriale, quanto sul fatto che vi sono sostanze, fatti che si verificano in modo imprevedibile perché sfuggono alla regola che dovrebbero seguire nel loro venire all’essere come enti appartenenti ad un ambito regolato da un certo principio di movimento (f⁄sij, töcnh, pr©xij). 93 “Aristotele include tra gli omonimi, accanto agli omonimi per analogia, gli omo-

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Aristotele dopo Heidegger

Heidegger è ben attento a distinguere questi modi, a non sovrapporli rifacendosi al passo dell’Etica Nicomachea in cui lo Stagirita stesso opera la distinzione 94. Resta fermo che per Heidegger non tutto sia effettivamente chiaro, ma è indubbio per lui che “Aristotele cerchi positivamente l’unità dell’‘n di fronte alla pluralità”95. Altrettanto chiaro è che per lui le strutture dell’“¢f'òn“j” e del “pr’j õn” vigono nell’ambito del significato dell’ente secondo le figure categoriali e non per l’intero ambito della polisemia dell’‘n 96, tanto da giudicare “sbagliata” l’interpretazione medievale e brentaniana che riconduce gli altri significati dell’‘n al significato di oŸsÖa, leggendo la “dottrina aristotelica dell’essere […] una ‘dottrina della sostanza’” 97. Di fatto, per Heidegger, la teoria dell’analogia in Aristotele non rappresenta affatto la soluzione della questione dell’essere98: il problema cosa sia – chiede Heidegger parlando a sua volta in greco – il “prÓton ‘n, pr’j oï t¶ •lla lögetai” (o anche: “prÓton ‘n, pr’j oï t¶ töttara lögetai ”) è “oscuro” così che conclude: “Ed è per questo motivo che la prËth filosofÖa, il filosofare vero e proprio, è in se stessa, in un senso radicale, oggetto di domanda. Tutto questo in seguito è stato messo da parte grazie alla tesi secondo la quale l’essere è la cosa più ovvia. (Che la filosofia sia essa stessa oggetto di domannimi relativi ad uno (¢f'òn“j) e gli omonimi derivati da uno (pr’j õn), i quali probabilmente coincidono tra loro” (E. Berti, “L’analogia dell’essere nella tradizione aristotelicotomista”, cit., p. 16). Incrociando ad es. il passo di Met. G, 1003a33 ss. e quello di Q, 1045b27 ss., come in verità suggerisce anche Heidegger, sembra ottenersi una piena corrispondenza fra il potere dire in relazione ad un altro significato e il potere dire derivando da un altro significato. 94 Cfr. Et. Nic. I, 1096b27 ss. e AMQ , p. 35 (“È dunque proprio in questo passo che si può notare come qui si disponga di un diverso concetto di analogia che non coincide con la relazione categoriale”). 95 Ibidem. 96 “[N]on dobbiamo dimenticare che Aristotele usa il pollacÓj in un significato più ampio ed in uno più ristretto. Quello che abbiamo appena chiarito è il pollacÓj nel significato più ristretto, con il quale si intende la molteplicità delle categorie. Ma tutte le categorie, inclusa la prima, non sono che uno solo dei punti all’interno del più ampio pollacÓj in quanto tetracÓj” (ibidem). 97 Ibid., pp. 35-36. 98 “Analogia dell’essere: questa determinazione non è una risposta data alla domanda sull’essere e neanche un’effettiva elaborazione dell’impostazione di tale domanda, ma è il titolo per la più difficile delle aporie (mancanza di vie d’uscita) che abbia bloccato il filosofare antico, e con esso tutto quel che è venuto dopo fino ai nostri giorni” (ibidem).

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da è qualcosa che sta molto lontano dall’immagine che si ha generalmente di Aristotele, la cui filosofia viene pensata più sul modello dell’attività intellettuale di uno scolastico medievale o di un professore tedesco)” 99. In conseguenza di questo rapido excursus credo che si possa sostenere a ragione che Heidegger ha cura di mostrare che la tessitura analogica fra la prima categoria e le altre va letta all’interno di una trama di significazione polisemica dell’ente anch’essa analogica e, però, più ampia rispetto a quella della dipendenza della significazione categoriale da quella sostanziale. In definitiva, proprio perché contesta la totale e completa identificazione del significato dell’essere con quello dell’oŸsÖa, egli può svincolare i significati dell’‘n come potenza ed atto e come vero e falso dal riferimento alla sostanza, per intenderli come tratti che convengono all’essere in quanto tale e non già primariamente a qualcosa che ha il carattere dell’ente come l’oŸsÖa. Resta, però, il fatto che sul piano dell’esegesi aristotelica egli legge la questione dello statuto della filosofia prima come la domanda sul modo in cui essa dà risposta al problema dell’essere, finendo per determinare il senso forte dell’essere, secondo la concezione greca che si lega alla dimensione della temporalità, come oŸsÖa. In questo modo egli introduce il paradigma di lettura secondo cui l’oŸsÖa come prÓton ‘n è ciò che costituisce la risposta alla questione dell’essere dell’ente perché è il significato esemplare di cosa un ente sia nella pienezza del suo essere ente. Per questo l’ente divino, che fra le sostanze è quella che, sempre per lo stesso criterio della temporalità si può caratterizzare come prËth oŸsÖa, assurge al ruolo di fondamento, di ragione dell’ente, nel senso dell’ente che quanto al suo essere è in massimo grado espressione dell’essere dell’ente nell’ente. Come dicevo, non scorgo in questa lettura la sovrapposizione di un modello esegetico propriamente scolastico. Altresì il riferimento al tratto della costituzione temporale dell’ente può risultare molto efficace per comprendere anche il nesso che, sul piano della riflessione, ci può aiutare a capire in che senso la nozione di oŸsÖa possa fungere aristotelicamente da filo conduttore per la comprensione dell’‘n 99

Ibidem.

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Aristotele dopo Heidegger

come polisemico. Il problema di questa esegesi per me sta piuttosto in un altro aspetto. Heidegger, cioè, a partire dalla determinazione temporale dell’oŸsÖa e quindi dell’oŸsÖa divina come ciò che è costantemente presente finisce per caratterizzare il qeãon come l’ente più essente e, dunque, nell’ordine della sostanza come quel che è più autentico. Il fatto è che Aristotele ha espressamente posto nelle Categorie il divieto di pensare ad una variazione di grado secondo il più ed il meno dentro la categoria della sostanza: “La sostanza non sembra che ammetta il più ed il meno”100. In questo senso, l’ente divino può forse fungere da paradigma di ciò che – dell’ente – esprime al meglio il modo d’essere dell’ente, ma certo non può dare conto di tutti i modi affatto diversi attraverso cui l’ente nel suo intero è determinato variamente dall’essere. La differenza fra le categorie, in definitiva, è una differenza che invoca una distinzione interna all’essere che si dona all’ente, mostrandosi come differenza fra modi d’essere. Ciò non toglie che l’ente divino espliciti il modo in cui ciò che si riconosce essere il principio d’essere di una cosa, la sua forma, possa essere colto nella sua purezza appunto in quella sostanza la cui forma è per sé separata. Ma è anche vero che, se si legge così il ruolo del qe“j, si rischia di percorrere la strada della “fictio noetica” suareziana, facendo propria l’idea che sia possibile fissare una nozione astratta di ente in definitiva univoca, laddove la presenza del dio si staglia nell’orizzonte ontologico aristotelico come segno del fatto che vi è qualcosa della causa prima di un certo ambito che non si lascia cogliere come qualcosa che è parte di quell’ambito, sfondando così la prospettiva che porta ad intendere la f⁄sij come quel fondo ultimo sul quale deve fermarsi il nostro sguardo d’indagine. Non si può pertanto contestare il fatto che, pur vedendone la 100 Cat. 3b33-34. Aristotele aggiunge subito dopo: “Non intendo dire che una sostanza non è più sostanza di un’altra sostanza – si è detto infatti che è così –, ma che ogni sostanza non è detta essere ciò che è in modo maggiore o minore”. Ciò vuol dire che tutte le sostanze individuali sono pari di grado: Socrate e Corisco sono sostanze alla stessa maniera. Quando Aristotele dice che è possibile che ci siano sostanze più sostanze di altre si riferisce al rapporto che sussiste fra la sostanza individuale e le specie ed i generi che sono appunto sostanze seconde, ossia sostanze che per via del loro grado di maggiore ampiezza, per così dire, pur restituendo l’essenza della cosa, non si identificano per intero con tutto l’essere individuale della cosa che hic et nunc mi è davanti.

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problematicità, Heidegger insiste sulla possibilità esegetica di salvaguardare in Aristotele una significazione univoca dell’ente nell’oŸsÖa come fondamento della polisemia dell’essere. Contro questa tesi Aubenque mostra l’impossibilità di procedere ad una simile riduzione, anche solo nel campo delle figure delle categorie. Per lui, cioè, non è possibile individuare la sostanza come ciò a partire da cui l’essere è predicabile anche al “resto” che si dice ente. La polisemia dell’ente dice infatti che “l’imperfezione delle essenze sublunari si esprime tramite il fatto che esse non sono solo essenze, ma anche quantità, qualità, che esse sono in una relazione, in una situazione, nel tempo o in un luogo etc.” 101. Rispetto ad Heidegger Aubenque non ritiene che il criterio dell’analogia restituisca la possibilità di una forma di significazione univoca poiché nella loro imperfezione le sostanze sensibili non sono saturabili sul piano della loro intellegibilità dall’intuizione di un’essenza perfetta: il residuo – le altre cose che sono la sostanza sensibile e che sono perché a carico della materia di cui le sostanze sensibili sono costituite – non si può afferrare e, dunque, dire secondo il modo dell’unità e della semplicità dell’essenza divina102. In questo senso, il rapporto fra l’ontologia e la teologia in Aristotele appare ad Aubenque invertito rispetto a quanto accade nella tradizione scolastica suareziana e nella metafisica leibniziano-wolffiana. La teologia come metaphysica specialis diviene una sorta di “promozione” dell’ontologia, della metaphysica generalis, secondo una deduzione dell’ente divino come ente sommo dal piano dell’ente in quan101

P. Aubenque, Le problème de l’être chez Aristote, cit., p. 415. Aubenque arriva anzi ad asserire che il ricorso alle categorie non è che “una sbiadita sostituzione di un’intuizione assente” (ibidem); ossia la dottrina delle categorie sarebbe il segno dell’impossibilità di avere conoscenza intellegibile di ciò che è carico della materia nell’essere delle sostanze sensibili, vale a dire di tutto ciò che la sostanza è non sul piano della determinazione essenziale, ma su quello della determinazione accidentale, essendo le attribuzioni categoriali modi accidentali rispetto all’essenza. Vi è, allora, come un’inversione a livello del discorso umano sull’essere: “Il Dio di Aristotele non è al di là dell’essere, ma è l’essere del mondo sublunare che è al di qua dell’essere, cioè di Dio. La teologia di Aristotele non è una ultra-ontologia, ma al contrario è la sua ontologia che si costituisce all’interno di un al di qua di una teologia che l’ontologia non arriva a raggiungere. Il problema di Aristotele non è quello di un oltrepassamento dell’ontologia, ma della degradazione della teologia. Come passare dall’essere che è quel che è all’essere che non è interamente quel che è? Perché l’unità si frammenta, perché la semplicità si complica? Perché l’univocità fa essa stessa posto all’ambiguità?” (ibidem). 102

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to tale e secondo una giustificazione ontologica espressa dall’ente divino che, a sua volta, appunto perché ente eminente, funge da fondamento dell’intero dell’ente: “[I]n un senso, in effetti, l’essere divino si deduce dall’essere in generale attraverso una semplice “specificazione”, essendo il divino un caso particolare dell’essere in quanto essere; ma la particolarità del divino è “eminente” e la metaphysica specialis è nel contempo una metafisica prima (métaphysique première)” 103. In altri termini – possiamo ben dire – nella pagina scolastico-moderna si esplicita perfettamente la struttura di reciprocità fra ontologia e teologia come circolarità di fondazione vicendevole fra metaphysica generalis e metaphysica specialis così come indicato da Heidegger, mentre essa per Aubenque è assente nella Metafisica, giacché non vi è aristotelicamente né la possibilità di approntare una scienza dell’ente in quanto tale a partire da cui dedurre l’ente divino, né la possibilità di una fondazione dell’essere dell’ente in quanto tale nell’essere dell’ente divino. Esso, in ultima analisi, non riempie della sua intellegibilità l’intero spazio ontologico occupato dall’ente (la totalità dell’ente sensibile, la f⁄sij) che si situa al di qua della trascendenza dell’ente divino104. Aubenque si discosta, quindi, dal paradig103

Ibid., p. 416. Aubenque arriva comunque a vedere un abbozzo in Aristotele di una struttura di reciprocità fra ontologia e teologia, invertendo, però, l’attribuzione della generalità e della particolarità rispettivamente l’una (la generalità) all’ente divino e l’altra (la particolarità) all’ente in quanto tale. Il dio aristotelico, spiega Aubenque, rappresenta l’orizzonte della generalità perché l’ente divino in quanto motore immobile ha il senso di una causa prima di natura universale: esso è causa finale e, quindi, principio dell’essere dell’intero dell’ente che non è l’ente divino, vale a dire della kÖnhsij in quanto essenza dell’ente sensibile. Di contro il mondo sublunare rappresenta un caso particolare dell’ente in quanto tale, ossia esso appare come un caso specifico di ente che in sé ospita la “divisione”, un caso singolare di ente che si costituisce al suo interno come scisso fra il suo sé essenziale ed il polo dell’alterità da sé che è l’alterità irriducibile della materia rispetto alla forma: “[È] l’ontologia di Aristotele, e non la sua teologia, che deve essere intesa come metaphysica specialis, metafisica della particolarità, dell’eccezione, non più questa volta eminente, bensì difettiva che costituisce, in rapporto all’essere essenziale, l’essere del mondo sublunare. Non è più dunque al teologo che compete esplicare la particolarità ma al teorico dell’essere in quanto essere. […] È la teologia, e non l’ontologia, che si rivela come la teoria dell’essere qualunque (théorie de l’être quelconque), di un essere di cui non è possibile dire nulla se non che esso è quel che è e non è quel che non è; di contro è l’ontologia che, in quanto ricerca dell’unità dentro la scissione, si costituisce come metafisica della finitezza e dell’accidente” (ibid., p. 417). 104

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ma esegetico onto-teologico poiché non ravvisa in Aristotele quel “qui pro quo” a partire dal quale scatta il dispositivo dell’onto-teologismo105. In Aristotele l’ente sommo, l’ente divino non risponde alla questione del senso dell’essere. La domanda che la presenza dell’ente divino evocherebbe è semmai un’altra: “[Q]ual è la più perfetta, la più eccellente fra le essenze di cui diciamo, senza sapere perché, che sono?” 106. Per Aubenque lo Stagirita non opera la sostituzione di questa questione con quella che Heidegger chiama la Leitfrage della tradizione metafisica: “Che cos’è l’ente?”. In Aristotele, in altri termini, l’ente divino non occupa il posto dell’intero dell’ente nel senso che il qeãon si esplicita solo come una modalità dell’essere ente, sia pure la più compiuta. Questa modalità non coincide a livello intellegibile con lo spazio dell’essere dell’ente, non si sovrappone sul piano ontologico e sul piano concettuale all’essenza dell’ente in quanto tale: nel progetto aristotelico non si formula una “risposta metonimica”, ossia non si dà la parte – l’ente divino – per il tutto – l’ente in quanto tale107. Il dio aristotelico non è quel prÓton “designato arbitrariamente” – e la designazione sarebbe davvero arbitraria se Aristotele credesse di poter semplicemente sostituire la sostanza individuale in quanto tale, quale che sia di volta in volta la sostanza individuale che si pensa come prËth oŸsÖa, con la sostanza divina – che “usurpa una funzione fondatrice e mediatrice” 108. Aubenque sottolinea che nella struttura onto-teologica opera sempre un principio mediatore che appunto permette l’interscambio del piano della generalità dell’ente con quello della sua preminenza. Esso è mediazione fra il piano ontologico, dell’essere e delle cose, e il piano del concetto, dell’intellegibilità delle cose, nella misura in cui, 105

L’espressione è usata da Aubenque ad es. sia nel saggio “La question de l’ontothéologie chez Aristote et Hegel”, cit., p. 263, sia in Faut-il déconstruire la métaphysique?, cit., p. 9. In Le problème de l’être chez Aristote Aubenque esplicita il suo disaccordo rispetto alla lettura onto-teologica di Aristotele a p. 417, n. 1. 106 P. Aubenque, Faut-il déconstruire la métaphysique?, cit., p. 9. 107 Ibid., p. 11. Solo la metafisica successiva risponde in chiave metonimica, ossia nel rispondere alla domanda sull’essere dell’ente “esibisce un ente particolare che essa erge ad ente primo e che essa decide di porre come il sostituto, il succedaneo dell’essere ineffabile di cui l’ente primo non è pertanto che una modalità” (ibidem). 108 Ibid., p. 12.

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appunto, dall’intellegibilità del primo si ottiene l’intellegibilità di ogni elemento della serie e così dell’intera serie. In questo senso, a seconda del modo in cui questo fondamento mediatore è individuato nelle varie fasi della storia della tradizione, si ha una “onto-agatologia”, una “onto-antropo-logia”, una “onto-ego-logia”, dove l’elemento teologico è sostituito da qualsiasi altro ente che è posto come principio e fondamento primo, esibito come “regione fondatrice dell’ente” 109. L’intrinseca ed irriducibile polisemia dell’ente, per Aubenque, impedisce ad Aristotele di costituire i due poli della struttura onto-teologica: non vi è un insieme dell’ente che risulta intellegibile per via di un’essenza comune ad ogni ente che è parte dell’insieme; non vi è un ente primo che è portatore di tale essenza in modo tale da fungere da fondamento mediatore. Indubbiamente la polivocità dell’ente disintegra l’omogeneità dell’intero dell’ente, ma se la domanda protologica è vista come ciò che sta monte della stessa apertura del riferimento all’intero dell’ente, si può riconquistare l’idea di un intero dell’ente attraverso il riferimento al senso primo della predicazione di ente alle cose, che è quello della sostanza110. Non si può, però, che concordare con Aubenque quando sottolinea che il qe“j non rende accessibile nessuna “generalità ultra-generica (généralité ultra-générique)”111. Questo non significa, secondo me, che il pensiero non possa o non debba affatto ricorrere alla via analogica per la comprensione di forme d’essere o di relazioni all’essere, che sotto il profilo del rapporto fra essere ed ente riflettono un’equipollenza, giacché non è mai l’ente che decreta della donazione originaria dell’essere. Qui non c’è nulla – credo – che abbia a che fare 109

Cfr. P. Aubenque, “La question de l’ontothéologie chez Aristote et Hegel”, cit.,

p. 267. 110

La struttura onto-teologica risulta allora calata dentro il piano di una “usio-teologia”, se mi si concede l’espressione. La relazione che intercorre fra la sostanza in quanto tale e la sostanza divina ricalca il gioco di rinvio reciproco delineato da Heidegger. Se, però, anche in questo modo si accede all’intero della sostanza non a partire dall’indicazione della presenza della sostanza divina che emerge dalla questione protologica, ma assumendolo a monte, la struttura del rinvio reciproco fra l’orizzonte dell’universalità, messo in campo dalla nozione di sostanza in quanto tale, e quello della primarietà, posto in gioco dalla nozione della sostanza divina, ritorna ad assumere quell’aspetto problematico dell’onto-teologismo che accompagna tutta la storia esegetica della Metafisica. 111 P. Aubenque, “La question de l’ontothéologie chez Aristote et Hegel”, cit., p. 283.

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con una “deduzione tautologica dell’ente a partire dal principio supposto della sua propria pensabilità” 112. Si tratta certamente di fare un uso accorto dell’analogia, impiegandola in modo debole, proprio perché il logos non satura l’essere. Eppure esso resta l’unico modo per ospitare la donazione dell’essere e della sua differenza e per creare trame di relazioni in cui è possibile approssimarsi alla comprensione113. A mio avviso, anche Erich Przywara, a suo modo, cioè nell’ottica di un recupero forte della prospettiva dell’analogia entis, ha in fin dei conti ammesso questo senso di una donazione d’essere all’ente come donazione della differenza quando afferma che “gli ambiti concreti dell’essere (mondo inorganico, mondo organico, mondo animale, uomo, spirito) accedono alla metafisica solo nel rispettivo prÓton ‘n, cioè in quella forma originaria e primitiva che si esplica in maniera differenziata nella loro concreta ricchezza di forme”114. Ogni ambito e, dunque, ogni causa prima che è sottesa all’ambito sono diversi, ma vi è una forma originaria verso cui si muove l’istanza di comprensione del logos nel tentativo, appunto, di portare alla luce ciò che, per così dire, “sta dietro le quinte”, ossia ciò in forza di cui nella causa prima noi possiamo attestarne l’essere come causa prima senza essere rinviati ad altra causa alle sue spalle115. Ciò che ritro112

Ibidem. Questo uso dell’analogia, e così del logos, in fondo non incrocia altro che quel desiderio di sapere che caratterizza l’impresa del metafisico e che ancora oggi insiste su quell’istanza ineludibile dei “filosofi” che – per usare i “termini brutalmente schematici” di Nicolaci – “della ‘causa’, presa nella sua assolutezza, […] vogliono […] ‘dimostrare l’esistenza’” (G. Nicolaci, Metafisica e metafora. Interpretazioni aristoteliche, cit., p. 182). In definitiva vale pur sempre un criterio che è antico quanto l’esercizio della filosofia: “Una dimostrazione, in filosofia, è una prova ottenuta soltanto mediante l’attestazione della parola. È solo di questa ‘dimostrazione’ che si tratta dunque nell’impresa del sapere filosofico. Dimostrare l’esistenza di Dio – tale è da sempre il nome della causa presa nella sua assolutezza – è ciò che i filosofi vogliono, beninteso, in base alla struttura del loro discorso, alla forma del suo movimento di avvio. In questo senso, lo vogliono ancora oggi e non solo alla fine della metafisica – in quella celebre conclusione del libro XII che ritorna, come è noto, nella conclusione del sistema hegeliano. Non credo, in altri termini, che quella che Heidegger indicava come la struttura onto-teo-logica della metafisica abbia mai cessato di governare il loro discorso” (ibidem). 114 E. Przywara, Analogia entis. Metafisica. La struttura originaria e il ritmo cosmico, trad. it. di P. Volonté, Vita e Pensiero, Milano 1995, p. 27. 115 Potremmo forse dire ancora con le parole di Przywara che si tratta della ricerca di “quel punto di incontro di morphé ed eidos” che egli vede come il luogo del rapporto 113

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veremo per questa via non è un principio generale dal quale dedurre ogni causa prima nel suo contenuto specifico di causa prima. Si tratta piuttosto di una forma che potremo scorgere in atto in ogni causa che è in atto come causa prima, secondo una medesimezza di rapporti e quindi secondo una relazione di proporzionalità invariata. In questo senso, l’analogia può essere il mezzo attraverso cui si “manifesta (intenzionalmente) un “ordinamento oggettuale dell’essere” (¢n¶ l“gon to‡ ‘ntoj lögein) e nel quale, in particolar modo, questo stesso ‘ordinamento dell’essere’ manifesta se stesso (strutturalmente, come ‘principio’)” 116. Resta il fatto che anche così, il dio aristotelico non media, ma separa, distingue, spacca in due il regno della sostanza, introducendo un criterio di distinzione che è tutto a carico dell’essere e non si afferra semplicemente sul piano ontico come una distinzione fra una molteplicità di modi d’essere dell’ente, che non comporta, però, nessuna differenza quanto all’essere dell’ente (nel senso dell’essenza universale dell’ente che è comune a tutti gli enti). In altri termini, il qe“j inserisce sul piano della considerazione ontologica dell’ente una differenza che non resta interna alla forma dell’ente e che semmai chiede di venire guardata dalla prospettiva di una preliminare disponibilità del limite che separa quel che è per f⁄sij da quello che non lo è. Questo limite all’uomo non può che restare visibile dentro la f⁄sij, mostrandosi appunto come quel tratto della causa prima della f⁄sij che non è f⁄sij e che, nondimeno, si guadagna a partire dalla f⁄sij, cioè a partire dall’attestazione che esistono enti in movimento.

2. Aporie del paradigma heideggeriano All’interno di un volume che aspira a sdoganare la nozione di fra una metafisica morfologica, che in qualche modo è una metafisica dell’immanenza, ed una metafisica eidetica, che è una metafisica ideale e deduttiva, in cui esso è “ricondotto al ‘dentro-sopra’ in cui consiste la loro unità oscillante” (ibid., p. 35). 116 Ibid., p. 91. Przywara anzi mostra che aristotelicamente l’analogia è sempre cifra della molteplicità e della differenza e non della riduzione: “L’¢n£logon diventa così di fatto quel möson che, volendo legare nella maniera più stretta, quantifica il più possibile la ricchezza qualitativa” (ibid., p. 146).

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onto-teologia credo di non potermi esimere dal confronto, sia pure rapido, con l’ambito della ricerca sulla storia della metafisica che, come accennavo, ha nell’area di lingua francese i suoi maggiori esponenti. Questa linea d’indagine non prende di mira sempre in modo specifico la pagina aristotelica della tradizione della metafisica. Nondimeno vi sono alcune analisi che possono risultare illuminanti per mettere maggiormente in evidenza la prospettiva del mio percorso d’indagine. Credo, inoltre, che sia questo campo di ricerca ad avere chiarito che, rispetto alla questione sull’essenza della metafisica, quello che è richiesto a chi indaga è di circoscrivere il campo della metafisica o, per essere più esatti, di descrivere questo campo a partire dalle regole che lo delimitano. A mio avviso, una di queste è una regola di tipo procedurale, ossia la pratica per mezzo della quale la metafisica opera nel suo interrogare. La nozione di onto-teologia può essere assunta, quindi, nel senso del metodo attraverso cui la metafisica sin dall’origine si esercita. Essa, infatti, appare come un modo di costruire l’interrogazione che si esplicita in una struttura di circolarità fra l’orizzonte dell’universalità e quello della primarietà dell’ente, rivelando che sotto questa struttura risiedono una ben precisa concezione ontologica del reale ed una determinata dottrina gnoseologica. Quest’ultima comporta anche la questione delle condizioni di possibilità della metafisica come scienza, come ho tentato di mostrare nel III capitolo, perché in effetti, nel suo atto di istituzione, la metafisica si staglia all’orizzonte come l’oggetto di una ricerca e non come un sapere sistematico già inquadrato117. Dalla carat117 In considerazione di questo aspetto regolativo-procedurale che sottende una questione di teoria della conoscenza che riguarda anche lo statuto della metafisica come “scienza cercata”, l’onto-teologia sembra indicare, a mio avviso, un’ulteriore espressione di quella che dopo Breton si suole chiamare la “funzione meta” della metafisica. Alla luce del dibattito sulla cosiddetta fonction metá appaiono significative le osservazioni di Heidegger in Cfm rispetto alla modifica di significato della preposizione greca met£. Ho già accennato al fatto che Heidegger dà spesso enfasi a questo passaggio semantico che considera in qualche modo letale, perché è nel determinare la metafisica al modo di una disciplina ben organizzata, dentro una concezione della filosofia di tipo scolastico articolata in diverse dottrine, che la metafisica perde quel ruolo di primarietà che le conferisce Aristotele come forza di un’interrogazione autentica rispetto a tutte le altre forme di conoscenza. Essa, così, si riduce ad “una disciplina filosofica che viene accomunata alle rimanenti” (Cfm, p. 57). Sulla scorta di questo passaggio il nome metafisica si im-

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terizzazione dell’onto-teologia come metodo o procedura della metafisica – caratterizzazione che si evince anche dall’analisi heideggeriana come ho evidenziato nel II capitolo – emerge, però, un criterio che impone di operare un discrimine. Si tratta del fatto che la nozione di onto-teologia presenta un significato più specifico accanto a quello più generale in conformità del quale con la dizione “onto-teologia” si assume indistintamente l’intera storia della metafisica, – ossia tutti i procedimenti che entrano nella dimensione del rinvio reciproco di “onto-logia” e “teo-logia”. La nozione abbraccia al suo interno, appunto, anche le vie argomentative in base alle quali si dà conto della relazione causale che lega ente divino ed intero dell’ente. Il fatto è che queste vie argomentative, pur insistendo sulla struttura del rinvio, sono differenti e non tutte sono indice necessariamente di una costitutiva dimenticanza della differenza ontologica. Se le vie argomentative sono diverse, allora anche le strutture del riferimento reciproco di ontologia e teologia si istituiscono diversamente. Da un lato la riconduzione di Heidegger ad un unico modello logico sembra arginare il rischio di perdere la traccia dell’onto-teologia scomposta in figure molteplici e non sovrapponibili le une alle altre. Dall’altro lato, tuttavia, l’immagine heideggeriana dell’onto-teologia rischia di essere arbitraria proprio perché la struttura di massima si declina storicamente in modo così specifico che, per riprendere pone come una sorta di modello per una certa classe di discipline che si costruiscono in analogia con essa: “Il titolo ‘metafisica’ ha così, in seguito, fornito lo spunto per costruzioni analoghe, che in conformità ad esso vengono intese in senso contenutistico: metalogica, meta-geometria, la quale si lancia al di là della geometria euclidea; il barone v. Stein ha denominato metapolitici coloro che danno una fondazione alla politica a partire da sistemi filosofici. Si parla persino di una métaspirine, il cui effetto oltrepassa quello dell’aspirina comune. Roux parla della metastruttura della proteina. Però la metafisica stessa entra in campo come titolo di una disciplina accanto alle altre” (ibid., p. 56). Posto questo, Heidegger ritiene che il compito resti quello di chiedersi con quale “diritto” noi possiamo conservare il titolo e cosa possiamo trarre fuori dal significato contenutistico del termine “metafisica” per comprendere l’essenza della metafisica nel suo dispiegarsi originario. In questa Vorlesung si assiste ad un ormai maturo movimento esegetico da parte di Heidegger che lega “origine” e “storia degli effetti”, guardando all’origine per guadagnare l’essenza della metafisica in conformità allo sviluppo storico di tale origine. La riflessione sul significato della funzione meta, in quest’ottica, diviene davvero per Heidegger il modo per raggiungere il cuore della domanda sull’essenza della metafisica.

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l’espressione di Nef, l’onto-teologia risulta introvabile. Vi è, quindi, una discrepanza fra l’idea di un impianto onto-teologico generale della metafisica in quanto tale ed i suoi percorsi di giustificazione ed argomentazione. Vi è un’ossatura onto-teologica portante che sorregge la metafisica nel suo dispiegarsi storico, ma vi sono percorsi teorici particolari attraverso cui la metafisica, nella sua storia, prende in specifica considerazione, problematizzandola e legittimandola, la propria natura. È nel solco di questa discrepanza che le ricerche sulla storia della metafisica che si rifanno al paradigma onto-teologico tendono a muoversi. Certamente nel confronto con il paradigma heideggeriano la metafisica – ogni metafisica, se la critica all’onto-teologismo colpisce l’intera tradizione di pensiero occidentale e se il paradigma heideggeriano effettivamente “definisce rigorosamente ogni metafisica”118 – incorre nel rischio che le sue ragioni giustificative cedano al silenzio argomentativo119. È ciò su cui fa perno l’appello alla necessità della Verwindung. Il confronto con il paradigma onto-teologico si può risolvere così, senz’altro, in un avvaloramento della tesi heideggeriana. 118

J.-L. Marion, Dio senza essere, cit., p. 242. Janicaud osserva che il riferimento al metodo, alla procedura della metafisica consente di pensare la metafisica come un corpus dal momento che essa è “sostenuta” dalla sua storia, dalla sua tradizione: “Questo riferimento al corpus non designa qui solamente la materialità delle opere degne di memoria, ma il lascito dei metodi e dei concetti di cui la riappropriazione è il compito di una filosofia degna di questo nome che fa la sua propria storia” (D. Janicaud, “Phénoménologie et métaphysique”, in La métaphysique. Son histoire, sa critique, ses enjeux, cit., p. 121). È una maniera forte di pensare alla metafisica come ad un insieme di proposizioni teoriche che si dà come un corpo di tesi, come una sorta di “archivio” in cui si conserva la memoria della storia della comprensione della domanda sull’essere da parte del pensiero occidentale. Di fronte alla compatta lettura heideggeriana sorge per Janicaud, allora, la questione di capire se la tradizione metafisica si snodi effettivamente secondo un “unico filo conduttore che permette di comprendere retrospettivamente la metafisica come un corpus coerente” (D. Janicaud, “Phénoménologie et métaphysique”, cit., p. 121). La domanda si può porre anche così: data l’unità sotto cui Heidegger assume l’intera metafisica, le differenti vie argomentative, che sono percorse nel corso della storia ed attraverso le quali la metafisica trova per sé legittimazione, possono essere fatte tutte confluire nella struttura del rinvio reciproco di ontologia e teologia, che per Heidegger costituisce l’essenza della metafisica in quanto tale, quale che sia l’ente primo a partire da cui i vari autori della metafisica leggono l’enticità dell’ente? E si può dire che questo rinvio in tutte le vie argomentative corrisponde ad una copertura della differenza ontologica? O ancora, come si chiede spesso Olivier Boulnois, esiste un’essenza della metafisica? 119

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Ciò è confermato, ad esempio, dal dibattito anti-metafisico novecentesco che ha in Lévinas e Derrida gli autori-guida che si muovono sul sentiero tracciato dal paradigma heideggeriano120. Per diversi aspetti nella tesi della Verwindung, restando in ambito di filosofia continentale, si può anzi rintracciare anche la matrice dei tratti che secondo Jürgen Habermas caratterizzano la rottura con la tradizione: il pensiero post-metafisico, la svolta linguistica, la ricollocazione della ragione, l’inversione del primato della teoria sulla prassi ed il superamento del logocentrismo 121. La possibilità di separare ciò che nella nozione di onto-teologia dovrebbe costituire un intero, ossia la possibilità di isolare una natura essenziale della metafisica tout court da una serie di percorsi di legittimazione via via diversi, che pur configurandone la processualità storica non risolvono in sé una tale natura, non esclude in sede critica, che possa essere la tesi heideggeriana ad imbattersi, a propria volta, nel rischio di un certo silenzio argomentativo. Heidegger motiva la necessità della Verwindung, notoriamente, in nome di un pensiero che, accogliendo la differenza ontologica, sia in “custodia” dell’essere. Vi sono, però, tutta una serie di obiezioni a lui mosse che pongono un limite all’accettazione sia del paradigma esegetico sia delle motivazioni per la Verwindung. Si tratta di critiche eterogenee e sarebbe impossibile qui enumerarle tutte, ma su almeno due desi120 Il sostanziale accreditamento della lezione heideggeriana sull’onto-teologia conferma il profondo influsso che il paradigma ancora esercita. Si può, però, anche dire che il canone ha determinato, nella seconda metà del Novecento, quasi una situazione di stallo perché ha imposto una griglia di lettura statica, dando vita a quella che Nef chiama la “vulgata dell’oltrepassamento” (cfr. F. Nef, op. cit., pp. 217-218), ossia una versione di massima, in certi aspetti anche molto semplificata, della lezione heideggeriana in cui l’oltrepassamento della metafisica è prospettato come un assunto metodologico da non mettere più in questione. 121 Cfr. J. Habermas, Nachmetaphysisches Denken. Philosophische Aufsätze, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 19972, p. 14. Habermas prende in considerazione anche autori centrali dello sviluppo della filosofia analitica, ma certamente questi motivi in area continentale trovano la loro stura nel pensiero rammemorante dell’essere che si dispiega oltre l’atto del superamento della metafisica. Habermas ritiene, però, che non sempre l’esito dell’anti-metafisica si possa caratterizzare positivamente, quanto meno il suo giudizio si evince dal modo in cui egli descrive l’“antiscientismo” dell’anti-metafisica, definito come una “Wendung ins Irrationales (una svolta verso l’irrazionale)”, che ha messo da parte una “konkurrenzfähige Erkenntnis (una conoscenza concorrenziale)” (cfr. ibid., p. 45).

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Onto-teologia o katholou-protologia?

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dero brevemente soffermarmi per la loro radicalità. È, comunque, da tenere presente che un confronto con il canone onto-teologico, che porta al rifiuto di esso, non si traduce in generale, ipso facto, in una difesa delle ragioni della metafisica poiché, pur mettendo in evidenza i difetti intrinseci al discorso heideggeriano, non si perde affatto, in certi casi, l’istanza di una forma di pensiero “post-metafisico”. Una prima controargomentazione alla tesi heideggeriana è stata mossa con molto rigore da Franco Chiereghin e, dunque, mi permetto di muovere le mie osservazioni critiche avvalendomi della sua analisi. La domanda cruciale che pone Chiereghin è: Ma anche quando il peso di questo strapotente occultamento [scil. della differenza ontologica] fosse rimosso, la differenza ristabilita e l’essere tornasse a splendere nella regione che gli è propria, così come apparve agli albori del pensiero greco, sarebbe il compito del pensiero concluso? Evidentemente no e nemmeno come semplice introduzione alla metafisica dal momento che questa deve preparare in sé il proprio superamento. Comincia così a delinearsi il pericolo crescente, a cui Heidegger espone il pensare. Se l’essere è all’origine della metafisica, tanto che anche il suo estremo abbandono è comprensibile solo in base a tale principio, il superamento della metafisica diventa legittimo solo quando sia ad un tempo superamento dell’essere. […] Che ne è allora dell’oltrepassamento? A che oltrepassare, verso dove e con quali mezzi?122.

Il compiuto superamento della metafisica sembra lasciare transitare il pensiero attraverso l’essere, per poi proiettarlo oltre esso in una “torsione che manifesti qualcosa di più profondo dell’essere stesso”123. Se, cioè, il pensiero deve riacquistare la differenza ontologica e fino in fondo accoglierla, esso si impegna ormai nella domanda sulla provenienza della differenza, di cui, stando al modo in cui essa viene tematizzata da Heidegger, non solo non è l’esserci – o più in generale l’ente – a disporre, ma in fin dei conti neppure l’essere stesso. L’ente e l’essere sono nella differenza e sono e possono mostrarsi come differenti solo perché, per così dire, “a carico della differenza”. 122 F. Chiereghin, “Einführung, Ueberwindung, Verwindung. Tre modi di rapportarsi alla metafisica in Heidegger”, in AA.VV., Ueberwindung della metafisica?, Tilgher, Genova 1986, pp. 67-68. 123 Ibidem.

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Aristotele dopo Heidegger

Ciò significa che vi è un qualcosa di ancora più originario alle spalle dell’essere, dell’ente e della loro differenza124. Heidegger afferma che nella domanda sull’essere occorre che venga in luce il Fragwürdigste 125, ossia ciò che nella domanda è il più degno di essere domandato. Su cosa sia un tale Fragwürdigste si apre la divergenza heideggeriana rispetto all’impostazione della domanda metafisica (Frage-stellung), perché in quest’ultima l’essere, in quanto appunto ciò che è più degno di essere domandato, non è veramente posto in questione. Il problema che evidenzia Chiereghin a questo proposito concerne le condizioni di possibilità della domanda sull’essere. È Heidegger stesso a dichiarare in vario modo che la domanda sull’essere deve sempre comprendere tutto quello che appartiene ad essa secondo la sua possibilità126. Ciò che quindi distingue la do124 Dopo la Kehre Heidegger, specialmente in tutto il materiale raccolto in Cf, parla di un Unterschied che è ancora più originario della ontologische Differenz. Esso si dà come il differire dell’essere stesso (Seyn) grazie al quale l’essere, di volta in volta Ereignis, si dà come essere dell’ente, per l’ente. Questa differenza assolutamente originaria resta equiparata all’essere, essendo considerata da Heidegger come ciò che è nel cuore dell’essere stesso. Tuttavia, essa appare come la condizione di possibilità della donazione e della manifestazione dell’essere e, quindi, come una legge che si impone all’essere da tergo, determinandone la fenomenicità, la dischiusura, il suo accadere; dunque appare “come qualcosa di ‘altro’ rispetto all’essere, come l’origine in base alla quale l’essere si lascia pensare” (F. Chiereghin, “Einführung, Ueberwindung, Verwindung. Tre modi di rapportarsi alla metafisica in Heidegger”, cit., p. 68). 125 Cfr. ad es. GA 88, p. 23. 126 In modo esemplare questo criterio è esposto da Heidegger nella parte introduttiva di ET al fine di delineare i caratteri della questione dell’essere. Si tratta, cioè, di quella che egli chiama la struttura formale della domanda sull’essere (cfr. ET, § 2) che determina, nella fase dell’ontologia ermeneutica, la necessità della domanda sull’essere dell’ente che pone la domanda. Da qui si dispiega, infatti, il movimento heideggeriano di comprensione svolto dall’analitica esistenziale dell’esserci. L’esserci, in quanto colui che pone la domanda, “rientra” nelle condizioni formali secondo le quali la domanda si struttura. Da questa posizione Heidegger, come è noto, prenderà in seguito distanza, scorgendo il rischio di riproporre la medesima struttura interrogativa che caratterizza il domandare della metafisica sull’essere. È proprio questa struttura formale ciò che prima della Kehre avvicina Heidegger così tanto alla struttura del duplice interrogare della metafisica che la distruzione heideggeriana dell’ontologia tradizionale, di fatto, sembra profilarsi come la volontà di una rifondazione della metafisica. Questo appare in modo chiaro ad es. in Pml. In questa Vorlesung Heidegger, con la sua distinzione fra un’ontologia fondamentale ed una metaontologia, sembra, infatti, ad un passo dal far propria la stessa struttura logica dell’interrogare nella circolarità fra la direzione dell’universalità e quella della primarietà, che caratterizza la metafisica: “Nella loro unità, ontologia fondamentale e metaontologia formano il concetto di metafisica. Ma in ciò non si esprime

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manda sull’essere da tutte le altre è il fatto che “[o]gni altra domanda non pone in questione, nel suo primo sorgere, tutto ciò che la costituisce come tale”127. Ciò significa che la domanda sull’essere resta “impraticabile” se non chiarisce le sue condizioni di possibilità. E significa anche, allora, non solo che essa non occupa più il posto della domanda originaria, ma che anzi ripercorre una struttura interrogativa che è quella attraverso cui la metafisica nel corso della sua storia si è andata fondando128. altro che la trasformazione dell’unico problema fondamentale della filosofia stessa, il quale già più sopra e nell’introduzione è stato toccato con il duplice concetto di filosofia come prËth filosofÖa e qeologÖa. E questa non è altro che la relativa concrezione della differenza ontologica, cioè la concrezione dell’attuazione della comprensione dell’essere. In altre parole, la filosofia è la concrezione centrale e totale della natura metafisica dell’esistenza” (Pml, p. 189) La metaontologia prende a tema l’ente nella sua totalità (cfr. ibid., p. 187), indicando il rivolgimento interno, il “capovolgimento”, che si verifica nell’ontologia fondamentale (ontologia dell’essere) secondo la necessità interna alla struttura formale della domanda sull’essere che spinge a rivolgersi ad un’analisi dell’esserci come quell’ente che si interroga e comprende l’essere. Conquistare la comprensione dell’esistenza significa guadagnare anche la comprensione dell’ambito ontico entro cui l’esistenza si manifesta. Da qui sorge l’apertura verso la problematica dell’ente nella sua totalità. Ora, per Heidegger, è dall’incrocio di ontologia fondamentale e metaontologia che si dischiude il pensiero della differenza ontologica. In merito a questa duplicità prospettata da Heidegger scrive Claudius Strube che “[l]a metaontologia come ‘ontica metafisica’ risale tematicamente all’essente nel cui ambito si trattiene. […] [C]iò si rivela come l’‘articolazione fondamentale dell’essere’, che, in quanto distinzione di essere ed essente, proprio come ‘differenza ontologica’ rende possibile la comprensione dell’essere. […] Heidegger riproduce il doppio concetto alla base della fondazione (aristotelica) della metafisica – ovvero prËth filosofÖa e qeologÖa – nell’unità in sé distinta di ontologia fondamentale e metaontologia” (C. Strube, “La logica come domanda sulla verità negli anni di Marburgo di Heidegger”, in E. Mazzarella (a c. di), Heidegger a Marburgo (19231928), il melangolo, Genova 2006, p. 285). Giunto al cospetto di questo progetto, però, Heidegger sembra trarsene indietro di colpo, invocando una torsione nella domanda dell’essere ben diversa da quella attuata con la metaontologia: è un rivolgimento con il quale si abbandona il piano dell’ente per portarsi alle spalle della stessa relazione costitutiva fra esserci ed essere nella domanda sull’essere al fine di lasciare che il pensiero “soggiorni” solo al cospetto dell’essere. 127 F. Chiereghin, “Einführung, Ueberwindung, Verwindung. Tre modi di rapportarsi alla metafisica in Heidegger”, cit., p. 68. 128 Il chiedere sulle condizioni della propria possibilità appare un gesto tipico della metafisica, anche prima dell’indicazione kantiana. Ho mostrato come la costituzione del progetto di una scienza metafisica in Aristotele sembra profilarsi nell’ottica di una questione sulle condizioni di possibilità del sapere epistemico e, quindi, come questione sulle condizioni di possibilità che determinano dentro il sapere epistemico lo spazio d’indagine metafisico.

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Fra queste condizioni di possibilità, osserva Chiereghin, va annoverata quella della forma linguistica attraverso cui la domanda sull’essere si esprime: “Non disponiamo infatti che della domanda: “che cos’è l’essere?” ed è quindi solo a partire da essa che possiamo ripercorrere, fin dove è possibile, il cammino di Heidegger”129. È proprio la posizione di questa domanda ad essere in sé problematica: affinché la domanda funzioni bisogna attribuire “un senso non questionabile” a ciò che si intende rendere oggetto di domanda. Ciò significa che, per quanto possa apparire di una banalità sconcertante, […] rimane il fatto che nella domanda “che cos’è l’essere?”, “è” ed “essere” si coappartengono e tuttavia proprio la domanda scava tra loro, per potere sussistere come domanda, un abisso che trasforma la coappartenenza in impraticabilità, se la domanda pretende di porsi come un inizio assoluto: l’“è” deve e non può venire coinvolto nella problematizzazione dell’“essere”; l’“essere” deve e non può revocare all’“è” la sua funzione nella domanda che lo concerne130.

La conclusione è che, se effettivamente non è possibile esercitare la domanda secondo le sue condizioni di possibilità, perché essa porta su un “terreno impraticabile”, la domanda sull’essere non vige più come interrogazione radicale sull’essere – ossia anche secondo il senso dell’“essere” che compare come predicato. Ciò di cui si fa esperienza in questa domanda è il fatto che l’essere si ritrae, sfugge alla comprensione, si rende oscuro. Questo può essere senz’altro in linea con la tematizzazione heideggeriana dell’essere come manifestazione ed autonascondimento, ma rende la tesi della necessità della Verwindung debole, perché il pensiero dell’essere incorre nello stesso problema in cui si imbatte la metafisica, rischiando di trovarsi, se così posso esprimermi, povero, indigente. 129 F. Chiereghin, “Einführung, Ueberwindung, Verwindung. Tre modi di rapportarsi alla metafisica in Heidegger”, cit., p. 68. Chiereghin avverte di essere consapevole che su questa strada si corre il rischio di “presentare come un’aporia filosofica autentica quello che potrà rivelarsi un semplice incidente linguistico” (ibid., p. 69). Di fatto, non possiamo fare a meno che ricorrere alle parole ed alle strutture linguistiche di cui disponiamo; anche per Heidegger è stato così ed è a questo che dobbiamo attenerci. 130 Ibid., p. 70. Chiereghin riconosce che si possa anche “coinvolgere” l’“è” nell’interrogare, facendo di esso stesso un oggetto di domanda, “ma in questo modo la domanda non ha più ciò su cui poggiare per potersi formulare” (ibidem).

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Cosa trarre fuori da questo rischio aporetico connaturato alla Seinsfrage? Se si guarda alla metafisica resta secondo me chiaro che, posta la coappartenenza di essere ed ente, è molto più fruttuoso praticare la strada di un accesso all’essere attraverso ciò che di esso riluce nell’ente e cercare la differenza ontologica e la traccia del differimento originario proprio dell’essere, che schiude la possibilità della differenza ontologica, nella trama delle relazioni che si danno fra gli enti ed i loro costitutivi differenti modi d’essere. Questa strada a me appare molto aristotelica, soprattutto in considerazione del fatto che nella molteplicità originaria dell’‘n traspare la donazione dell’essere come donazione di differenza. Ciò non toglie che in Aristotele resti forte anche l’esigenza di arrestare la dispersione dell’essere, ancorando la conoscenza alla stabilità dell’¢rcª ed approntando una teoria gneosologica fortemente eidetica. Ma questa esigenza non impedisce affatto di riaprire le domande poste dall’origine aristotelica e dalla tradizione. Parlando ancora in termini aristotelici, praticare questa strada significa chiedere al filosofo primo di porre la questione di come nell’essere si istauri il regime della differenza secondo quel movimento del venire all’essere che si sprigiona a partire da una causa prima. Se la causa prima, infatti, vale per l’ambito ontologico che governa, la differenza che regola l’ambito dovrebbe avere solo il carattere di una differenza ontica. Invece essa ha il carattere di una differenza ontologica, perché se guardo all’intero dell’ente, che si dischiude dall’idea che vi è una sostanza che è oltre la f⁄sij, ciò che scorgo è una differenza che è radicale e tocca l’essere dell’ente. In questo senso la domanda diviene come la forma della causa prima regoli l’essere in ordine alle cause prime senza che la distinzione e, dunque, la molteplicità delle cause prime si riducano e si riconducano all’esistenza di una causa archetipa originaria da cui dedurre le altre. Di fronte alla costatazione di una ritrazione dell’essere, Heidegger suole parlare di un enigma che governa la donazione dell’essere, solo che anche questa sorta di giustificazione non è esente dall’aporia. La seconda controargomentazione che presento nasce, infatti, dall’insistenza con cui Heidegger prospetta la necessità del destino della metafisica nella storia dell’essere. La domanda che scaturisce di fron-

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te al seinsgeschichtliche Denken è formulabile in questi termini: quale necessità sussiste sul piano logico o anche dell’essere perché la metafisica si origini come dimenticanza della differenza ontologica e proceda coprendo sempre più il suo gesto originario di occultamento della differenza? Interrogando sul Kerngehalt della metafisica Heidegger spiega che la duplicità onto-teologica si instaura nella tradizione come una procedura di riduzione dell’essere all’ente, o di confusione del piano dell’essere con quello dell’ente, che compare sin dal pensiero greco platonico-aristotelico. Il suo sforzo si volge, quindi, a mostrare che l’intera tradizione della metafisica si conforma a questa procedura. L’onto-teologismo vale, quindi, come ho discusso nel II capitolo, come struttura formale a priori della metafisica: le diverse configurazioni delle varie epoche della metafisica rappresentano solo una variazione su una modalità fondamentalmente identica di rispondere alla questione sull’enticità attraverso il medesimo meccanismo di riduzione. Ma rispetto alla necessità con cui questa struttura si impone all’origine della metafisica – ossia rispetto alla necessità con cui la metafisica conosce il suo avvio obliando la differenza ontologica – la posizione heideggeriana resta evasiva. Anche accettando l’esegesi di Heidegger che individua nel duplice concetto di oŸsÖa, a partire dalla sua determinazione temporale, la stura della Zwiegestalt onto-teologica, non sembra darsi nessuna necessità nel “destino”, ossia, nello sviluppo storico della metafisica. Non vi è nulla che sembra determinare la necessità della trasmissione del carattere onto-teologico del pensiero lungo il corso della tradizione. La tesi heideggeriana del destino della metafisica riposa sulla convinzione che è la fenomenicità dell’essere, il modo in cui l’essere si svela nelle varie epoche storiche, a costituire la ragione ultima della maniera in cui esso è stato via via concettualizzato nella filosofia occidentale. Ma Heidegger riconosce che la fenomenicità dell’essere non soggiace ad alcuna necessità: lo sfondo da cui si staglia l’apertura-storico destinale dell’essere è enigmatico. La necessità della metafisica come risposta ad un certo modo di darsi dell’essere non ha una corrispettiva necessità nella svelatezza dell’essere. Hans Jonas si è pronunciato con pungente ironia a proposito di questo aspetto della riflessione heideggeriana sulla storia dell’essere:

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Cominciamo con l’idea di fato. Esso sovrasta, sotto il nome di destino, il pensiero di Heidegger e la sua idea del pensare. Il pensare è destinale; il suo destino dipende dall’essere, che si invia al pensare ogni volta in svariati modi. L’essere parla al pensiero o lo appella, e ciò che dice, il “che dire (Sage) dell’essere”, è il destino del pensiero. Ma che cosa dica, come e quando esso parli, se e come esso si diradi (sich lichten), ciò viene decretato dalla storia dell’essere, essendo questa stessa storia in quanto storia del proprio auto-disvelamento (sich Entbergen) o nascondimento (sich Verbergen). E poiché questo non è in potere del pensatore, il pensare al soggetto dell’essere – che come genitivus subjectivus è al tempo stesso, precisamente il proprio diradamento evenemenziale (ereigende Lichtung) che ha luogo nell’uomo – presenta un carattere “destinale”. La natura destinale del pensiero consiste nella propria dipendenza da ciò che gli viene inviato, scaturendo l’invio dalla storia dell’essere. La storia dell’essere è tuttavia proprio la storia di queste sue radure (Lichtung) nel pensare e queste provengono dall’essere e non dal pensare. [...] Heidegger, in ciò non proprio coerente, di tanto in tanto sembra richiamarsi precisamente a questo medesimo elemento di vigore, nobiltà e responsabilità di sé del pensiero – così come quando sostiene che una genuina filosofia debba sorgere in una rinnovata apertura all’essere (come quella dei presocratici!), un’apertura che possiamo guadagnare solamente quando ci liberiamo dalle distorte concettualizzazioni imposte alla nostra visione da parte della storia destinale cui apparteniamo. [...] In questo caso, noi – noi prescelti tra tutti! – ci troveremmo in uno stato di grazia, il cui avvento nell’apparizione del pensare iniziale aprirebbe a una nuova era apostolica 131.

Non posso negare di trovare poco convincente la prospettiva della necessità della metafisica come momento della storia dell’essere. Questa prospettiva porta, in verità, Heidegger a rifiutare ogni caratterizzazione della metafisica come erronea o come frutto dell’errore dei singoli pensatori. Tuttavia, una metafisica liberata dall’accusa di essere un pensiero intenzionalmente “fallace”, che contraffà la verità dell’essere, non è una metafisica, per così dire, più “appettibile”. Dire che la metafisica paga per un destino che le si cuce addosso secondo l’enigmatica dialettica di donazione che è a carico dell’essere, 131 H. Jonas, Heidegger e la teologia, trad. it. di R. Franzini Tibaldeo, Medusa, Milano 2004, pp. 41-43. Si tratterebbe in sostanza di un pre-determinismo del pensiero, visto nell’ottica heideggeriana, secondo Jonas, come “evento di auto-diradamento (Selbstlichtung) dell’essere, non l’umano fallibile aspirare alla verità” (ibid., p. 69).

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mortifica anzi l’impegno dei pensatori che si sono mossi nella ricerca intorno alla domanda sull’essere. Non credo che si possa operare un confronto con la tradizione, e con l’origine di essa, avendo a monte già deciso per l’oltrepassamento. L’Auseinandersetzung deve essere sempre guidata, fino in fondo, dalla volontà di raggiungere una comprensione autentica: il rischio di restare disorientati e di non sapere conquistare il giusto accesso per il confronto con la tradizione non è qui affatto improbabile. Non intendo comunque prendere posizione a favore o contro l’atteggiamento interpretativo heideggeriano al cospetto della tradizione e, quindi, anche di Aristotele. È importante, però, essere consapevoli di quanto complesse siano le questioni che il paradigma onto-teologico mette in campo, anche esulando dallo stretto ambito dell’esegesi aristotelica. Si tenga, infine, presente che il raffronto critico con il paradigma heideggeriano può ad ogni modo giocarsi a due livelli: si possono impugnare le tesi esegetiche heideggeriane quanto al loro contenuto; si può invece puntare a scardinare la costruzione formale del paradigma. L’intento delle due prospettive può coincidere: rivalutare la metafisica contro Heidegger. Esso, però, può anche essere diverso: conquistare una prospettiva sulla tradizione che si giudica ermeneuticamente più corretta oppure mettere in questione sia il pensiero dell’essere heideggeriano sia il pensiero metafisico in riferimento agli obiettivi stabiliti per la ricerca filosofica. La scelta del “percorso-guida” nel confronto con Heidegger dà vita, pertanto, ad esiti diversi. Ritengo che essi si possono raggruppare in due categorie generali, al loro interno articolate: 1) Nel caso in cui le critiche mosse al paradigma heideggeriano confutano i contenuti esegetici heideggeriani sulla tradizione si giunge solitamente a due tipi di conclusione: a) l’onto-teologia non è procedura propria della metafisica, quanto meno nella forma stigmatizzata da Heidegger, per cui è necessario porre opportune distinzioni, valutando in un certo senso caso per caso132; 132

Questa è in definitiva, come vedremo, la conclusione di Boulnois: la tesi di Heidegger generalizza la procedura, ma a ben vedere la metafisica tout court non si può in

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b) l’onto-teologia è una procedura della metafisica, ma non corrisponde ad un inopinato occultamento della differenza ontologica, che rimane anzi ben visibile133. In ognuna delle due conclusioni è di solito implicata una difesa della metafisica; la polemica intavolata con Heidegger mira, allora, a mostrare che la metafisica non tradisce la differenza ontologica oppure, qualora lo faccia, ha ragioni più che valide per farlo. 2) Nel caso in cui, invece, la critica ad Heidegger insiste su un errore di tipo per così dire logico-formale che è costitutivo del seynsgeschichtliche Denken, posta sempre la Verwindung come condizione di questo pensiero, si approda a risultati che non corrispondono eo ipso ad una riaffermazione dell’istanza metafisica: a) l’abbandono dell’impianto onto-teologico è necessario, ma l’argomentazione con cui Heidegger lo sostiene è debole, ossia la sua argomentazione non è scevra da difetti o da elementi aporetici; b) il pensiero heideggeriano presenta gli stessi limiti o le stesse note che Heidegger individua nel pensiero metafisico. Se con Heidegger si condivide il bisogno di superare la logica di pensiero dell’onto-teologia, contro Heidegger si ritiene che gli strumenti da lui offerti non chiudono in realtà la partita con la metafisica. Pur dando credito all’interpretazione onto-teologica, la posizione di Heidegger soffre, quindi, gli stessi problemi della metafisica. Da ciò sorge l’istanza di un’ulteriore direzione di pensiero che, in qualche modo, si ponga sia contro la metafisica sia contro Heidegger, nella misura in cui entrambe hanno difetti connaturati ed il rischio del silenzio argomentativo non è più, per così dire, l’elemento che fa la differenza fra “metafisica” e “post-metafisica heideggeriana”. In questo senso, quanto tale ricondurre all’onto-teologismo. L’onto-teologia è semmai solo un momento specifico della storia della tradizione metafisica, rintracciabile nella linea Duns ScotoSuárez-Wolff. 133 Il caso forse su cui negli ultimi tempi si è maggiormente discusso è quello di Tommaso. L’impegno di Marion nel mostrare l’estraneità di San Tommaso ad una logica di tipo onto-teologico è forse il più esemplare in questa direzione, come mostra ad es. il suo saggio “San Tommaso e l’onto-teo-logia”, che compare in traduzione italiana come VIII cap. di Dio senza essere, cit.

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non rimane che rinunciare ad entrambe per altre prospettive. L’istanza di un primato dell’etica come filosofia prima contro la tradizione della metafisica è un esempio lampante di una forma di impegno filosofico che porta con sé anche un’istanza critica nei confronti di Heidegger. Rispetto a queste coordinate di massima indubbiamente generiche, sono a mio avviso tre le posizioni o, piuttosto, gli indirizzi, le correnti che, in modo inequivocabile, si alimentano del confronto con la tesi heideggeriana sull’onto-teologismo metafisico: a) la “filosofia post-secolare”; b) il recupero della metafisica operato esplicitamente in opposizione alla proposta della Verwindung; c) la corrente degli studi critici sulla metafisica che fa un uso metodologico del canone onto-teologico, esemplarmente rappresentata dalla ricerca dell’area linguistica francese. È in particolare su quest’ultima che voglio soffermarmi, anche se desidero spendere qualche parola pure sugli altri due indirizzi. 3. Le derive post-heideggeriane fra scelte di metodo e di contenuto a) La filosofia post-secolare La filosofia post-moderna si lega strettamente in molte delle sue pagine più significative alla tesi heideggeriana della Verwindung. Al suo interno, in tempi recenti, si è sviluppata una linea di ricerca che è in crescente espansione: la “filosofia post-secolare”. Essa rappresenta una delle derive più interessanti della post-modernità per il modo di farsi erede del paradigma onto-teologico heideggeriano, passando per Derrida e Lévinas, dai quali si attinge l’istanza del riconoscimento dell’alterità contro la violenza rappresentata dall’impostazione logico-teoretica della “metafisica della presenza”, manifestando nuove urgenze che giungono a maturazione sul versante della ricerca fenomenologica134. Significativamente praticata con questo nome nel134 Cfr. P. Blond (ed.), Post-secular Philosophy, Routledge, London 1998. Blond sottolinea che la teologia, essendo interessata al recupero di una prospettiva su Dio, esclude la circolarità di ontologia e teologia che è propria della metafisica. Questa osservazione

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l’area filosofica statunitense, la filosofia post-secolare si confronta in modo serrato con l’analisi heideggeriana, accogliendo il bisogno del superamento dell’onto-teologismo metafisico. Espressione di nuove tendenze e linee d’indagine nel campo della fenomenologia, essa istituisce altresì spesso una sorta di circolarità ermeneutica fra fenomenologia e teologia, riaprendo quasi con prepotenza il dibattito fra filosofia e teologia sul tema del fenomenicità di Dio e di tutto quello che da ciò può essere tratto nel campo della riflessione filosofica e teologica. In genere il punto di avvio è l’assunzione della tesi heideggeriana dell’onto-teologismo metafisico come manifestazione del “progetto filosofico di rendere l’intero della realtà intellegibile alla comprensione umana”, segno “dell’orgoglio che rifiuta di accettare i limiti della conoscenza umana” e “dell’umanismo arrogante che mette Dio a nostra disposizione”135. Esemplare è l’impiego da parte di Westphal del paradigma esegetico heideggeriano che, secondo lui, è diretto contro il come e non contro il che cosa delle asserzioni di tipo teologico. Per Westphal, cioè, la lettura critica heideggeriana dell’ontoteologia è un attacco al fatto che Dio sia messo a servizio di un “progetto” della razionalità umana, che nasconde il senso genuino della dimensione della fede. Rifacendosi alla determinazione heideggeriana dell’onto-teologia come risposta al bisogno fondativo della ragione, Westphal sottolinea efficacemente il tratto che rende le asserzioni teologiche espressioni di onto-teologismo. Un’asserzione come “Dio è creatore”, che è “condizione necessaria di ogni autentica fede ebraica, cristiana o musulmana”, è un “gesto onto-teologico (an ontotheological gesture)” se implica che “la totalità dell’ente debba da ulè senz’altro corretta, ma è altrettanto corretto riconoscere che la teologia razionale, pur nutrita di contenuti di fede, ha a sua volta adoperato l’impianto concettuale e gli strumenti dell’ontologia: è proprio questo il punto debole della teologia razionale che Heidegger enfatizza. Sebbene fra la lettura heideggeriana e quella kantiana dell’ontoteologismo metafisico vi siano importanti divergenze, proprio su questo punto Heidegger sembra essere assolutamente concorde con Kant nell’individuare il limite della teologia razionale nel ricorso all’armamentario concettuale dell’ontologia, sulla base del principio che anche Dio è un ente e che, anzi, una vera fondazione della teologia passa attraverso una dimostrazione in chiave ontologica dell’esistenza di Dio. 135 M. Westphal, Overcoming Onto-theology. Toward a postmodern Christian Faith, Fordham U.P., New York 2001, pp. 4, 7, 24.

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timo essere compresa in riferimento all’ente più alto, nella misura in cui noi possiamo comprendere questa totalità”136. È, dunque, il come un’asserzione teologica viene per così dire impiegata a determinarne il carattere onto-teologico e non già il contenuto di fede in sé espresso nell’asserzione. Il senso dell’avvertenza heideggeriana che “il dio della filosofia” chiude all’esperienza, al contatto con “il dio divino”137 non significa affatto che bisogna smettere di aver fede nel Dio creatore. Westphal ritiene, invece, che con le sue osservazioni Heidegger stia piuttosto mettendo in guardia dal rischio che un’asserzione teologica quale “Dio è creatore” diventi il tramite di un atteggiamento speculativo che concepisca l’atto della creazione divina come espressione della causalità non causata di Dio, della determinazione di Dio come causa sui. Ciò significa in pari tempo elaborare una concezione di Dio corrispondente ad un “progetto” di conoscenza “antitetico” rispetto al rapporto di fede che il credente dovrebbe avere con Dio. L’ateismo heideggeriano è, dunque, considerato da Westphal “metodologico più che di sostanza”138, e si richiama tanto al principio più generale dell’ateismo metodologico della fenomeno136

Ibid., p. 7. Cfr. ID, pp. 36-37. 138 Cfr. M. Westphal, Overcoming Onto-theology. Toward a postmodern Christian Faith, cit., pp. 10-11 e pp. 28-46. La filosofia post-secolare tende, quindi, a servirsi del paradigma onto-teologico per liberare la possibilità di un pensiero di Dio non condizionato dagli schemi del pensiero raziocinante. Un autore come Romera, che pure è fortemente impegnato nel recupero della metafisica classica di stampo aristotelico-tomista contro i capi d’accusa formulati da Heidegger, non manca, però, di sottolineare l’importanza per la teologia della tesi della costituzione onto-teologica della metafisica. Concordando con Heidegger, Romera afferma, infatti, che l’indifferentismo derivato dall’irrilevanza della questione di Dio in epoca contemporanea “è il risultato del modo in cui la ragione ha impostato la conoscenza di Dio. Nei confronti di una ragione che esige che l’ente si adegui a priori ai suoi parametri […] la metafisica si pone come una onto-logia nella quale il logos si impone all’ente, impedendogli di essere e manifestarsi secondo la sua verità. In un’ontologia che si risolve in una particolare ‘logica del logos’, la teo-logia che sorge è caratterizzata dalla sua sottomissione alla ragione umana” (L. Romera, L’uomo e il mistero di Dio, EDUSC, Roma 2008, p. 92). In quest’ottica Romera accredita la caratterizzazione heideggeriana del Dio dell’onto-teo-logia come un “Dio molto poco divino, lontano dal Dio della religione”: “Si tratta di un Dio dominato dalla logica, rimasto imbrigliato nelle maglie delle connessioni logiche di una ragione razionalista” (ibid., p. 93). Impostando così la questione certamente la teologia della Rivelazione ha molto da rimproverare all’origine onto-teo-logica della metafisica. Ma nel far propria la 137

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logia, in fondo già enunciato da Husserl, quanto al senso della critica heideggeriana del dominio della ragione teoretica in vista di un atteggiamento filosofico radicalmente interrogante e non dogmatico139. Abbracciando il paradigma heideggeriano in nome di un superamento dell’onto-teologismo, il pensiero post-secolare presenta naturalmente fortissime ricadute in ambito teologico nell’intento di liberare la stessa teologia da un’impostazione di tipo onto-teologico equivalente ad una concezione “idolatrica” di Dio, quale tipicamente è quella della teologia razionale che definisce Dio come ens summum e fondamento inconcusso di tutta la realtà140. In quest’ottica la comprensione del fenomeno della fede e l’affermazione della realtà personale di Dio nel gesto della creazione come atto d’amore diventano lezione di Heidegger non si può non far rilevare che Heidegger stesso ha chiesto di separare ciò che in questa origine si dà come momento di determinazione aurorale della metafisica da tutto ciò che da questa stessa origine è finito per scaturire con lo sviluppo della filosofia cristiana nelle sue ricadute entro l’ambito della teologia. 139 Un altro ottimo esempio della vivacità del dibattito della filosofia post-secolare è rappresentato da J.W. Robbins, Between Faith and Thought. An essay on the ontoteological condition, University of Virginia Press, Charlottesville-London 2003, in cui l’autore intesse un dialogo fra la tradizione filosofica continentale, attraverso Husserl, Heidegger, Kristeva, Ricoeur, la teologia di Barth e Bonhoeffer e la fenomenologia di Marion, l’esponente ormai più influente e considerevole della fenomenologia post-secolare. Altro nome senza dubbio significativo è quello di Caputo che si è occupato del paradigma onto-teologico, anche in maniera specifica, per esempio in riferimento a San Tommaso (cfr. J.D. Caputo, Heidegger and Aquinas. An Essay on Overcoming Metaphysics, Fordham, New York 1982), e senza lesinare, peraltro, critiche ad Heidegger (cfr. J.D. Caputo, Demythologizing Heidegger, Indiana U.P., Bloomington 1993). Caputo è considerato uno degli esponenti di rilievo della cosiddetta “weak theology” (teologia debole) che si caratterizza per la sua forma non dogmatica ed aperta alla prassi della decostruzione e dell’ermeneutica (cfr. J.D. Caputo, The Weakness of God: A Theology of the Event, Indiana U.P., Bloomington 2006). 140 Proprio la riflessione di Marion sulla possibilità di un pensiero “non ontologico” di Dio e sul carattere fenomenico di eccedenza dei fenomeni saturi rispetto all’intuizione della soggettività egologica costituisce in un certo senso un punto di non-ritorno in questa direzione (Cfr. ad es. J.-L. Marion, L’idolo e la distanza, trad. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1979; Dio senza essere, cit.; De surcroît. Études sur les phénomènes saturés, PUF, Paris 2001; Il visibile e il rivelato, trad. it. di C. Canullo, Jaca Book, Milano 2007). Marion ha, mostrato, però che anche la posizione di Heidegger nella riflessione sul tema del “sacro” resta segnata dal carattere dell’idolatria nel saggio La double idolâtrie. Remarques sur la différence ontologique et la pensée de Dieu, in R. Kearney-J.S. O’Leary (éd.), Heidegger et la question de Dieu, PUF, Paris 2009, pp. 67-94, volume questo che ha fatto storia (la I ed. per Grasset risale al 1980).

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elementi fondamentali della riflessione post-secolare che incrocia o corrisponde, come sostiene Dominique Janicaud non senza una chiara vena polemica, ad una “svolta teologica (tournant théologique)” della fenomenologia francese141. Rispetto all’atteggiamento assunto da questo ambito di riflessione sulla questione di Dio nel porsi di fronte alla tradizione può forse valere la pena sottolineare quanto segue. Sul versante di quella espressione di impegno filosofico su Dio che è rappresentata tradizionalmente dalla teologia razionale, per rispondere alla domanda heideggeriana sul perché al pensiero appaia necessario introdurre l’ente sommo nell’orizzonte del proprio interrogare, sembra bastare la risposta elaborata dal punto di vista della teologia rivelata: nell’espressione ingresso del Dio in filosofia (che è anche l’ingresso evidentemente nella teologia razionale) il genitivo sembra doversi pensare in modo soggettivo, per così dire all’attivo, come il gesto con cui Dio si rivela all’uomo. In metafisica il genitivo è invece oggettivo, perché è il pensiero che apre il passaggio all’ente divino, ponendone la causalità prima. Riprendendo un’osservazione di Didier Franck, secondo cui “il soggetto grammaticale” della domanda heideggeriana sull’ingresso del dio “non è più Dio ma la filosofia”, in quanto la domanda interroga sul modo in cui la filosofia introduce l’ente divino al suo interno, Philippe Capelle sottolinea che “la riduzione del dio a principio di ordinamento della filosofia” è “la confisca a Dio di tutta l’iniziativa ed il suo trasferimento nel quaderno dei 141

Cfr. D. Janicaud, Le tournant théologique de la phénoménologie française, Éditions de l’Éclat, Combas 1991. Per Janicaud è l’apertura alla trascendenza, all’alterità divina, all’Altro (l’Autre) come origine di una donazione pura, dell’“archi-révélation” a determinare la svolta teologica, sebbene egli stia bene attento a mostrare le differenti modalità in cui ciò si verifica in Lévinas, Henry, Chrétien, Marion. In La phénoménologie éclatée, Janicaud difende la sua definizione, spiegando che egli non ha mai voluto sostenere “che i fenomenologi critici fossero divenuti, nel senso stretto o tecnico del termine, dei teologi, né come esegeti della Rivelazione né come se essi professassero direttamente una teologia, razionale o mistica” (D. Janicaud, La phénoménologie éclatée, Éditions de l’Éclat, Paris 1998, p. 9); ciò non toglie che la loro resti per Janicaud una “svolta surrettizia verso l’Altro, l’archi-originario, la donazione pura” (ibidem). In varie occasioni Marion ha preso le distanze dalla definizione di Janicaud; in effetti, come mostra a mio avviso Réduction et Donation (PUF, Paris 1989), l’apertura alla trascendenza scaturisce nella sua speculazione da un progetto di correzione della fenomenologia rispetto alle impostazioni husserliana e heideggeriana.

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compiti della filosofia”142. La domanda heideggeriana sembra riacquistare, per questo, in tempi recenti molta importanza nell’ottica della teologia cristiana, che la può affrontare proprio liberando lo spazio dell’“iniziativa propria” di Dio, la cui autoaffermazione è determinante per il costituirsi del contenuto dottrinario della teologia non solo confessionale, ma anche razionale. Sempre più autori, pur restando interessati alla ricaduta che la risposta alla domanda può avere dentro la filosofia, tendono ormai, infatti, a rimettere in questione la domanda sul versante della teologia rivelata, affrontando ad esempio, appunto, il problema della fenomenicità di Dio al pensiero143. Rispetto all’orizzonte della mia indagine è, invece, utile fare notare che il pensiero post-secolare, abbracciando l’esigenza di un oltrepassamento dell’onto-teologismo e della tradizione metafisica secondo l’immagine datane da Heidegger, considera di solito Aristotele come l’espressione dell’iniziale apertura onto-teologica della metafisica, sebbene raramente sia affrontata una specifica problematizzazione della questione in Aristotele giacché si assumo per buone le coordinate portanti esegetiche heideggeriane sullo Stagirita. b) Il recupero contemporaneo della metafisica contro la tesi heideggeriana della Verwindung Più significativa per lo scopo della mia indagine è quella tendenza di studi che, in un andamento dialettico critico, di vicinanza e lontananza, di divergenza e consonanza rispetto al canone heideggeriano, prospetta il recupero di una prospettiva metafisica in senso forte. Il confronto con il paradigma onto-teologico comporta il riconoscimento di alcune istanze del tema heideggeriano della Verwindung, ma questa corrente di pensiero, che è peculiare degli ambienti della filosofia di stampo aristotelico e tomista, tanto europei quanto ame142

P. Capelle, “Comment Dieu entre en philosophie et en théologie”, Revue Philosophique de Louvain 99 (2001), p. 414. 143 In questa direzione cfr. oltre che il saggio di Capelle già citato anche ad es. Y. Floucat, “L’être de Dieu et l’onto-théo-logie”, Revue Tomiste 95 (1995), pp. 437-484, M. Nodé-Langlois, “Ontologie et théologie”, Revue Tomiste 102 (2002), pp. 179-201, J.-D. Robert, “La critique de l’onto-théologie chez Heidegger”, Revue Philosophique de Louvain 78 (1980), pp. 533-552.

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Aristotele dopo Heidegger

ricani, si caratterizza per il tentativo di smarcare la tradizione metafisica dalla compattezza della determinazione onto-teologica heideggeriana. In questa programmatica distanza si annuncia una chiara volontà di recupero della metafisica di matrice, appunto, aristotelicotomista. Il paradigma heideggeriano diviene, quindi, un bersaglio polemico a cui si obietta o l’inesattezza e la troppa genericità sul piano esegetico o il vero e proprio fraintendimento dell’operazione speculativa aristotelica o tomista oppure la non piena comprensione delle istanze latenti nel pensiero metafisico. Ciò che guida questo filone di ricerca non è solo l’obiettivo di approntare argomentazioni che contrastino la necessità dell’oltrepassamento della metafisica – cosa che si traduce in sostanza nella messa in rilievo di una fondamentale e necessaria caratura metafisica del pensiero e dell’agire dell’uomo. Si tratta anche di arginare la diffusione acritica del “divieto” heideggeriano della metafisica che, in definitiva, è una banalizzazione stessa della posizione di Heidegger positivamente orientata al confronto con la tradizione144. La rivalutazione della struttura della metafisica contro il suo impoverimento nella forma dell’onto-teologismo, che appare come una sorta di cieco meccanismo di mortificazione delle istanze feconde che la tradizione della metafisica custodisce al proprio interno, si accompagna a tratti alla ripresa di ambizioni forti come quella della dimostrazione dell’esistenza di Dio: Diversamente da quanto oggi supponga il pensiero filosofico corrente, ritengo che la dimostrabilità dell’esistenza di Dio – e l’effettiva dimostrazione, nel migliore dei casi – è un tema chiave per la positiva valorizzazione, tanto scientifica come storica, della stessa metafisica, la cui separazione razionalista dalla Teologia della fede è speculativamente e culturalmente letale. Orbene da troppo tempo si è abbandonata la discussione approfondita della coerenza e della validità delle diverse dimostrazioni proposte […]. [T]ale atteggiamento ha contri144 “Appare sorprendente la facilità con la quale – in generale – si è accettato che, dopo Heidegger, non è più possibile elaborare una metafisica di tipo aristotelico o anche di matrice kantiana, per richiamare le due impostazioni fatte oggetto di un esame più rigoroso nel corso della “distruzione della storia dell’ontologia” condotta dall’autore di Sein und Zeit” (A. Llano, “Il superamento della critica contemporanea della metafisica”, cit., p. 43).

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buito a rendere triviale questo decisivo campo del discorso metafisico145.

Questa posizione di Alejandro Llano appare certamente radicale, ma mette in moto nuovamente il confronto con il paradigma heideggeriano, spingendo effettivamente in direzione della questione della comprensione dell’essenza metafisica senza restare imprigionati nella griglia di un’interpretazione come quella onto-teologica, che ha finito per prevalere spesso – non lo si può negare – senza nessun accorgimento critico. In questa prospettiva reputo che sia interessante il sentiero tracciato da Romera. Questi recupera l’istanza della filosofia prima – istanza aristotelica originaria – a partire da un confronto con la lettura heideggeriana della metafisica, per mostrare che la stessa posizione di Heidegger, in definitiva, resta fedele a tale istanza, anche in considerazione delle linee direttrici da lui tracciate nella prassi ermeneutica che caratterizza l’esistenza umana: [L]’analisi di Heidegger ripropone, in primo luogo, la necessità di una filosofia prima, quale modalità di pensiero che si confronta con l’istanza risolutiva di comprensione e di azione dell’uomo, se vogliamo essere coerenti con la nostra natura intellettuale, dato che tale istanza resta sovente implicita (impensata) e tuttavia determina il nostro pensare ed il nostro agire. In secondo luogo, Heidegger determina la tematica della filosofia prima, mostrando come la suddetta istanza consista nella comprensione dell’ente in quanto ente, nel suo essere, che soggiace in ogni rapporto dell’uomo con sé e con l’ente, e, quindi, nella precomprensione storica dell’essere. In terzo luogo, però, nella discussione con l’impostazione heideggeriana, emerge la questione di una caratterizzazione ulteriore di tale tematica: vale a dire, la filosofia prima non si limita all’esplicitazione dell’ontologia presupposta in una cultura (all’ermeneutica dell’ente e dell’essere che definisce lo spazio storico di una cultura), ma si indirizza con il suo domandare radicale […] verso l’istanza dalla quale giudicare, eventualmente, un’impostazione culturale […]. Alla filosofia prima compete l’esigenza di una comprensione, per quanto modesta, dell’ente e dell’essere in quanto tali, senza ridursi alla mera analisi delle ermeneutiche storiche146. 145 146

Ibid., p. 56. L. Romera, “L’esigenza della filosofia prima: il suo carattere metafisico e sapien-

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Aristotele dopo Heidegger

Questo genere di posizioni apre al confronto con il paradigma heideggeriano a partire da un discorso teorico a monte. Accanto ad esse non mancano percorsi più strettamente legati al confronto testuale, quale quello già ricordato di Berti, che rimarca la necessità di un recupero della forma aristotelica della metafisica con un radicale mettere in questione la validità dell’esegesi heideggeriana del testo aristotelico, aprendo per questa via alla discussione più generale della possibilità in epoca contemporanea di una ripresa della metafisica dello Stagirita147. Si può comunque dire che all’interno di questa tendenza raramente si aprono veri e propri spazi di mediazione fra l’accettazione ed il rifiuto della tesi heideggeriana. L’alternativa, cioè, tende a profilarsi per lo più in termini rigidi: o si accetta Heidegger e si segue la linea della destrutturazione della metafisica o si resta dentro la metafisica, controbattendo alle critiche che ermergono dal paradigma di matrice heideggeriana. È anche vero, però, che quando nel confronto con Heidegger in vista di un recupero della metafisica si resta prossimi al piano dell’interpretazione, ciò che inevitabilmente segue è il passo che decide della metafisica. Questo passo non di rado è compiuto in relazione ad Aristotele come momento di caratterizzazione originaria della metafisica. In questo modo si finisce per acquiziale”, in Ripensare la metafisica. La Filosofia Prima tra Teologia e altri saperi, cit., p. 118). Romera conclude: “La filosofia prima si qualifica, in questo senso, come meta-fisica, poiché mira a non restare limitata all’ambito fenomenico di ciò-che-appare alla percezione e alla coscienza storica, socialmente determinata” (ibidem). Il tentativo di Romera è di mostrare come in Aristotele la filosofia prima appaia appunto caratterizzata da questa istanza di comprensione meta-fisica (cfr. ibid., pp. 123-129). Romera coglie bene comunque la doppia possibilità esegetica che si apre di fronte alla questione dello statuto della filosofia prima. O si sceglie un’indagine di tipo storico – “l’analisi storica, con il suo valore non soltanto storiografico, ma anche filosofico” – oppure si procede per via speculativa – “la considerazione della domanda da una prospettiva prevalentemente teoretica che metta in evidenza le istanze speculative ancora proficue o da superare” (L. Romera, “L’oggetto della metafisica include Dio?”, cit., p. 117). L’opzione dipende dalle finalità che si definiscono inizialmente. Romera fa, in verità, riferimento alla questione del rapporto fra metafisica e Dio in Tommaso d’Aquino, ma la sua osservazione è nondimeno applicabile anche al caso aristotelico – cosa, fra l’altro, confermata dallo stesso modo con cui egli variamente, nei suoi lavori, si riferisce ad Aristotele e ricostruisce i caratteri portanti della prËth filosofÖa. 147 Efficace nella sua costruzione in vista di questo obiettivo è senz’altro il saggio di Berti, “Que reste-t-il aujourd’hui de la métaphysique d’Aristote?”, cit.

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Onto-teologia o katholou-protologia?

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sire qualcosa di forte della lezione heideggeriana: ossia l’idea che la questione dell’essenza della metafisica si debba guadagnare attraverso la mossa del “passo indietro”. Esso non si profila come la negazione della ricchezza della tradizione che dall’origine consegue, bensì come il passaggio che porta al luogo effettivamente prossimo alla “fonte” originaria del pensiero (l’essere), vale a dire quello in cui è in gioco una decisione teorica ben precisa sul modo tramite cui si definisce il compito della metafisica secondo le sue possibilità o se ne decreta l’impossibilità. Con questa mossa sembra profilarsi un terzo percorso, che si potrebbe anche definire come quello della “conciliazione”. Si tratta di assumere una posizione intermedia fra le due opzioni della confutazione definitiva del canone heideggeriano e della sua pedissequa applicazione o fruizione. Secondo questa soluzione “intermedia” si dichiara, cioè, che il paradigma è accettabile nella misura in cui la circolarità fra l’interrogazione di tipo ontologico e quella di tipo teologico non è risolvibile, ma si avverte che il riscontro di questo entrare in circolo di ontologia e teologia non costituisce una ragione sufficiente per condividere la tesi portante del paradigma circa l’oblio della differenza ontologica da parte della metafisica. Se è possibile mostrare che non ogni interrogazione metafisica, che si gestisce, per così dire, nel rinvio reciproco fra il polo della generalità dell’ente e quello della preminenza ontologica di un ente determinato, corrisponde eo ipso ad una procedura di riduzione dell’essere all’ente, allora si tratta di tentare una diversa caratterizzazione della nozione di onto-teologia. Si tratta più propriamente di operare una neutralizzazione della nozione, di attribuirle un significato “più flessibile” in conformità a quel discrimine, di cui discutevo in precedenza, secondo il quale onto-teologia racchiude in sé anche il complesso dei procedimenti argomentativi, di volta in volta diversi, che hanno sorretto il costituirsi dell’interrogazione metafisica secondo la forma della duplicità onto-teologica. Se questo complesso è eterogeneo, appunto perché diverse sono le vie argomentative, la nozione di onto-teologia finisce per avere un significato più debole e ciò consente di assumerla senza che essa risulti del tutto inappropriata per leggere una tradizione che si è sviluppata in modo dinamico attraverso svolte e cambi

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Aristotele dopo Heidegger

di rotta teorici non irrilevanti. In tal modo questa tendenza finisce per condividere l’orizzonte o, forse più esattamente, il criterio in conformità del quale si organizza il terzo ambito di ricerca che trae ispirazione dal paradigma ontoteologico, ossia quello di area francese. Vorrei far notare, prima di passare ad illustrare le linee portanti di questo terzo polo, che è questa posizione intermedia che secondo me consente di muoversi in Aristotele percorrendo la traccia esegetica heideggeriana. Se, cioè, la struttura dell’onto-teologia in Aristotele è sottratta a quella condizione generale (la dimenticanza della differenza ontologica e l’oblio di questa dimenticanza), che invece nella versione heideggeriana “ortodossa”, “rigorosa” rende operativa la compagine onto-teologica nella storia del pensiero, è possibile mantenere l’indicazione esegetica della Zwiegestalt senza incorrere nell’assillo che ha caratterizzato la storia esegetica della Metafisica di procedere ad una determinazione univoca della filosofia prima e di considerare questa “dimorfia” come una défaillance prospettica o procedurale da dovere correggere per guadagnare il corretto accesso alla questione dell’essere. Si tratta, allora, di dovere isolare le diverse condizioni d’uso e di possibilità in base alle quali è possibile parlare di onto-teologia in momenti della storia della tradizione della metafisica sicuramente ben distinti. In questo senso si tratta, probabilmente, di seguire fino in fondo il suggerimento di Gadamer, quando afferma che la metafisica è forse non soltanto – e certamente non solo in Aristotele – quella ontoteologia che cerca di scorgere che cosa l’essere è nell’essente più alto. Essa significa piuttosto l’apertura ad una dimensione che […] comprende ogni nostro domandare, dire e sperare148.

148 H.-G. Gadamer, Phänomenologie, Hermeneutik, Metaphysik, in Gesammelte Werke, Bd. 10, Mohr Siebeck, Tübingen 1995, p. 108. A questo proposito nota MarcAntoine Vallée (cfr. “Frontières de la métaphysique: déconstruction, herméneutique et métaphysique”, Ithaque 3 (2008), pp. 27-48) che è proprio questo ciò che rende comprensibile la provocazione che Gadamer lancia alla fine dello stesso saggio: “La fenomenologia, l’ermeneutica e la metafisica non sono tre punti di vista filosofici differenti, ma il filosofare stesso” (H.-G. Gadamer, Phänomenologie, Hermeneutik, Metaphysik, cit., p. 109).

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c) Onto-teologia o katholou-protologia? La ricerca di un uso metodologico del paradigma heideggeriano Un terzo ambito della ricerca sulla storia della metafisica è espressione inequivocabile del modo in cui il canone heideggeriano si sia prepotentemente imposto marcando uno spartiacque non solo nell’ambito dell’esegesi aristotelica, ma anche nella storia della metafisica e della sua critica. Dall’analisi del paradigma onto-teologico deriva quella linea di ricerca che, al fine di rintracciare le condizioni di possibilità per l’applicazione del canone heideggeriano, ritraduce in termini propri la struttura dell’onto-teologia in struttura della katholou-protologia, che trova la sua fondazione nella metafisica aristotelica. Sul modo in cui questa struttura subisce la sua trasmissione durante lo sviluppo della tradizione della metafisica fra gli autori che appartengono a questa linea di ricerca non vi è sempre una completa concordanza. Le linee portanti della lettura, però, sono le stesse e, per questo, si può dire che essi, condividendo lo stesso intento, possono tutti essere considerati espressione, per così dire, di una medesima temperie e di un medesimo orientamento generale. Tra gli autori-chiave di questa linea di studi, oltre ad Aubenque, si collocano Rémi Brague, Jean-François Courtine, Jean-Luc Marion, Olivier Boulnois149. Questa riformulazione del motivo onto-teologico in 149 Pubblicazioni che ormai costituiscono dei “classici” per questo orientamento d’indagine sono senz’altro: R. Brague, Aristote et la question du monde, cit.; J.-F. Courtine, Il sistema della metafisica. Tradizione aristotelica e svolta di Suárez, cit., Inventio analogiae. Métaphysique et ontothéologie, cit., Estasi della ragione. Saggi su Schelling, trad. it. di G. Strummiello, Rusconi, Milano 1998, nonché i saggi “Ontologie ou métaphysique”, Giornale di Metafisica VII (1985), 1, pp. 3-24, “Philosophie et théologie”, Revue Philosophique de Louvain 63 (1986), pp. 315-344, “Métaphysique et ontothéologie”, in La métaphysique. Son histoire, sa critique, ses enjeux, cit., pp. 137-157, “Heidegger et Thomas d’Aquin”, Quaestio 1 (2001), pp. 213-233; J.-L. Marion, Dio senza essere, cit., Il prisma metafisico di Descartes. Costituzione e limiti dell’onto-teo-logia nel pensiero cartesiano, trad. it. di F.C. Papparo e G. Belgioioso, Guerini e Associati, Milano 1998, ed i saggi “Descartes et l’onto-théologie”, Giornale di Metafisica VI (1984), 1-2, pp. 3-50, “Du pareil au même. Ou: Comment Heidegger permet de refaire de l’‘histoire de la philosophie’”, in AA.VV., Heidegger, “Cahier de L’Herne”, L’Herne, Paris 1983, pp. 131160, “La science toujours recherchée et toujours manquante”, cit., nonché il testo dell’incontro fra Janicaud e Marion del 3.12.1999 pubblicato in D. Janicaud, Heidegger en France, vol. 2, cit., pp. 210-227; O. Boulnois, Être et représentation. Une généalogie de la métaphysique moderne à l’époque de Duns Scoto (XIIIe-XIVe siècle), PUF, Paris 1999 ed i saggi “Quand commence l’ontothéologie? Aristote, Thomas d’Aquin et Duns Scoto”,

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“katholou-protologia”, con specifico riferimento ad Aristotele quale origine dell’imbarazzo storico di determinare esattamente lo statuto ed il campo tematico di ciò che la tradizione ha poi detto metafisica, è per intero debitrice alla lezione heideggeriana, cosa di cui Brague, Courtine e Boulnois non fanno mistero. Tuttavia, e questo si nota con molta chiarezza, a mio avviso, nelle posizioni di Courtine e soprattutto di Boulnois, solo all’apparenza la determinazione katholouprotologica con la sua applicazione alla storia della metafisica ricalca lo schema onto-teologico individuato ed applicato da Heidegger a questa stessa storia. Revue Thomiste 95 (1995), pp. 85-108, “Dire ou tuer? La nomination de Dieu, de la transgression à la transcendance”, Revue Philosophique de Louvain 3 (2001), pp. 358383, “Du temps cosmique à la durée ontologique? Duns Scoto, le temps, l’aevum et l’eternité”, in P. Porro (a c. di), The Medieval Concept of the Time. Studies on the Scholastic Debate and its Reception in Early Modern Philosophy, Brill, Leiden-Boston-Köln 2001, pp. 161-188, “Heidegger, l’ontothéologie et les structures médiévales de la metaphysique”, Quaestio 1 (2001), pp. 379-406, “Le Besoin de Métaphysique. Théologie et structures des métaphysiques médiévales”, in J.-L. Solère e Z. Kaluza (éd.), La servante et la consolatrice. La philosophie dans ses rapports avec la théologie au Moyen Âge, Vrin, Paris 2002, pp. 45-94 e “La métaphysique au Moyen Âge: onto-théologie ou diversité rebelle?”, Quaestio 5 (2005), pp. 37-66. Nel saggio “Heidegger, l’ontothéologie et les structures médiévales de la metaphysique” Boulnois presenta, però, la duplicità della metafisica aristotelica in modo alquanto problematico e senza usare la chiave interpretativa della katholou-protologia, se non per Avicenna come “seconda figura” storica della metafisica, anche perché filologicamente la connessione di Met. G e Met. E/K sarebbe poco sostenibile, dal momento che Met. K è, per Boulnois, spurio e circa l’autenticità di Met. E sussistono ancora dubbi. Boulnois così conclude che “[l]’identificazione del comune e del supremo sarebbe allora il risultato di una mescolanza scolastica” (p. 388). In realtà, Boulnois fa riferimento alla necessità di una correzione del paradigma a seconda del tipo di tradizione aristotelica che si considera. Se nel volume Être et représentation (cfr. ad. es. p. 514) egli sostiene la natura katholou-protologica della metafisica aristotelica, qui restringe la sua valenza alla sola protologia, riferendosi ad una versione della Metafisica tramandata anonimamente all’inizio del XIII sec. in cui non compaiono i libri K, M e N. L’espressione “struttura katholou-protologica” o “katholou-protologia” compare in ogni caso testualmente sia in Brague sia in Boulnois. Courtine preferisce, invece, rifarsi direttamente alla citazione aristotelica tratta da Met. E, 1026a30, in cui la suprema scienza teoretica è scienza universale in quanto prima (kaq“lou o¤twj ”ti prËth). In Inventio analogiae. Métaphysique et ontothéologie (cit., p. 106), Courtine sottolinea, però, che l’ “unilateralità” dell’onto-teo-logia heideggeriana “riposa sul senso esclusivo di una ipo-protologia (hypo-proto-logie), ossia di una dottrina generale della sostanza intesa come ÿpokeÖmenon e del divino come prima causa, nel senso del prÓton ”qen”. Tralascio qui di prendere in considerazione gli studi di altri importanti autori come ad esempio Jean-Marc Narbonne, Vincent Carraud e Jean-Christophe Bardout.

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Onto-teologia o katholou-protologia?

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Il paradigma heideggeriano impone una visione unitaria della metafisica tout court, rintracciando la sua essenza nel nesso fra l’orizzonte universale di un’ontologia dell’ente e quello particolare di una scienza dell’ente supremo che, nella tessitura ontologica, occupa il posto del principio primo. Courtine e Boulnois, invece, si impegnano a liberare, per certi versi, la tradizione metafisica dall’impronta unitaria dell’onto-teologia. Per essere più precisi, individuano nel modo in cui la metafisica si è andata sviluppando a partire dalla prËth filosofÖa aristotelica un taglio d’indagine che, in effetti, tende a coordinare il carattere universale (katholou) con il primato che spetta alla scienza metafisica, giacché volta ad afferrare il principio primo (protologia). Tuttavia, sono bene attenti a cogliere e sottolineare le svolte che si verificano entro la storia della metafisica: La metafisica non è affatto un fiume lungo e tranquillo, e neppure una virata senza ritorno, ma essa ammette più strutture simultaneamente, più ritmi, e non si lascia riafferrare dentro un’unica verità150.

Il rapporto fra “ontologia” e “teologia” (o fra “metafisica” e “teologia”) si configura, perciò, non tanto come un connubio inscindibile, quanto piuttosto come un intreccio variamente articolato, che a rigore (e nella maggior parte dei casi) non rientra in senso stretto sotto la nozione di “onto-teologia” formulata da Heidegger. Proprio Boulnois ha, però, giustamente sottolineato che non accettare l’interpretazione heideggeriana della struttura onto-teologica della metafisica tout court non significa contestare la validità del paradigma in quanto tale, ossia rilevare l’impossibilità teorica di annodare insieme ontologia e teologia, fosse anche rispetto ad un solo momento o figura storica della metafisica. Nel rifiuto dell’applicazione in blocco del modello onto-teologico a tutta la storia metafisica si avanza piuttosto la legittima pretesa di un’applicazione del paradigma in una versione, per così dire, più ristretta. Quindi, il tratto che si corregge dell’esegesi heideggeriana è la tesi che il carattere ontoteologico sia costitutivo della metafisica nell’interezza del suo sviluppo a partire da Aristotele. Si precisa, invece, che la valenza onto-teo150

O. Boulnois, “Dire ou tuer? La nomination de Dieu, de la transgression à la transcendance”, cit., p. 363.

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logica della metafisica è apprezzabile solo a partire da un determinato momento nel corso di questa storia. Ciò che “resta da decidere in questo caso” è, dunque, quale sia il momento della tradizione metafisica in cui registrare la comparsa dell’onto-teologia. Courtine, ad esempio, individua la virata onto-teologica della tradizione metafisica nelle Disputationes Metaphysicae di Suárez, in quanto solo con la svolta trascendentale attuata dal teologo granadino, basata sul concetto di oggettività come modo d’essere della cosa, ci si troverebbe di fronte ad una vera e propria “ontologia”, che include in sé tutti gli enti, compreso Dio. Suárez, in altri termini, non ammette il rapporto di ontologia e teologia sulla base di un’assunzione di Dio come causa prima dell’ente che, nel rigore della tradizione precedente, è anzi estraneo come soggetto della metafisica, in quanto ente trascendente. Dio entra nell’ambito dell’ontologia (dunque, la metafisica è onto-teologica) perché è in primo luogo ente: “Dio non è soltanto la causa dell’oggetto della metafisica – l’ens commune –, ma è al tempo stesso una sua parte, e persino la parte principale (pars praecipua)”151. In modo molto deciso, sulla base di questo, Courtine risponde alla domanda heideggeriana su come entri Dio in filosofia, spazzandola via ed asserendo che [n]on c’è posto, in questa prospettiva, per porre la questione su come Dio “entri nella metafisica” […]: il dio, qui, è presente sin dall’inizio a lato dell’ente creato. E dunque, se il soggetto della metafisica contiene virtualmente in sé tutti gli oggetti che questa scienza considera, Dio verrà compreso di primo acchito, e necessariamente, nel novero di questi ultimi 152.

Boulnois, che in fondo si muove sullo stesso orizzonte di Courtine nel registrare a partire da Duns Scoto il progressivo slittamento o la progressiva inclusione, fino ad una totale integrazione, di Dio entro l’ambito di una scienza universale (cioè Dio, a pieno titolo, come soggetto della metafisica), ritiene che l’epoca onto-teologica della storia metafisica debba considerarsi la linea ideale Duns ScotoSuárez-Wolff-Kant. Essa “merita pienamente il nome di onto-teolo151 J.-F. Courtine, Il sistema della metafisica. Tradizione aristotelica e svolta di Suárez, cit., p. 187. 152 Ibidem.

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Onto-teologia o katholou-protologia?

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gia, perché articola le due scienze che prendono il nome di ontologia e teologia naturale”153. Invece, in epoca medievale non è ancora possibile registrare, secondo Boulnois, una vera e propria articolazione onto-teologica, nelle prime due espressioni storiche della metafisica (“protologia” e “katholou-protologia”). La metafisica medievale conosce, infatti, per Boulnois, una scansione secondo “tre figure storiche concorrenti” (che segnano, peraltro, il diverso esito dei progetti esegetici sulla Metafisica): la “protologia”, che comporta la riduzione dell’ontologia a teologia e che è rintracciabile in un manuale anonimo propedeutico allo studio della filosofia (Guide de l’étudiant)154; la “katholou-protologia” propriamente detta, rappresentata magistralmente per Boulnois da Tommaso d’Aquino, in cui la scienza dell’ente in quanto tale è annodata ad una riflessione sull’ente sussistente, Dio, in quanto principio dell’ente in quanto tale; la “katholoutinologia”, inaugurata da Duns Scoto, che pone in stretta relazione una scienza più generale, che, però, è scienza dell’aliquid, con la scienza dell’ente infinito, Dio, quale soggetto della metafisica155. Per Boulnois è solo quest’ultima versione della metafisica medievale fino a Kant, erede della struttura katholou-protologica, a realizzarsi come onto-teologia, nel “senso stretto” di un “ingresso di Dio entro la metafisica” al modo di una sua “inclusione all’interno del soggetto della metafisica”. La “protologia”, infatti, eccede la struttura onto-teologica, poiché “in essa l’ontologia è pressoché inesistente, saturata dalla teologia”; la “katholou-protologia”, al contrario, è in difetto nei confronti della costituzione onto-teologica, in quanto “Dio resta tra153 O. Boulnois, “Dire ou tuer? La nomination de Dieu, de la transgression à la transcendance”, cit., pp. 364-365. 154 Si tratta di uno scritto anonimo composto a Parigi tra il 1230 ed il 1240 da un maestro della facoltà delle arti. 155 È molto interessante notare questo slittamento nella determinazione del soggetto della metafisica: non più l’ente in quanto tale, ma l’ente come un che di determinato (tÖ, aliquid). Lo slittamento potrebbe sembrare innocente, perché anche l’ontologia dell’ente in quanto tale di tipo aristotelico sfocia nell’usiologia come scienza della sostanza, che per Aristotele è un t“de ti (un alcunché di determinato e per sé sussistente) ed il significato primario nella polisemia dell’ente. Di fatto, la trasformazione indica già la svolta in direzione della filosofia trascendentale, nel senso per cui l’ente determinato indica ciò che è determinato nel concetto, e dunque rappresentato. Sia Boulnois in Être et représentation sia Courtine in Il sistema della metafisica pongono attenzione all’importanza di questo passaggio.

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scendente rispetto alla connessione metafisica, visto come il suo polo trascendente – entro una rimonta verso il principio guidata dalla partecipazione, dalla negazione, e dall’eminenza” 156. Nel panorama della ricerca odierna sullo statuto della metafisica aristotelica all’interno di un’analisi dei modi del pensiero metafisico tradizionale, le linee d’indagine di Boulnois e Courtine appaiono, dunque, particolarmente significative. Sebbene correttive rispetto al modello heideggeriano, esse confermano il senso di svolta, di cambiamento di prospettiva che si determina entro l’ambito esegetico sulla Metafisica con la comparsa del modello di lettura proposto da Heidegger. Se la vitalità o la potenza di una posizione filosofica si misura in qualche modo anche dalla “storia degli effetti”, sia pure con la sua parziale refutazione, correzione, o limitazione nell’applicazione, il dibattito francese odierno sulla metafisica rilancia il modello esegetico heideggeriano, focalizzando la propria attenzione in modo specifico su esso. A ben vedere, questo rilancio è da considerarsi più vicino allo spirito della lezione heideggeriana di quanto non lo siano gli esiti prodotti dalla sua diffusione in chiave anti-metafisica. L’intento primario, infatti, per questi autori non è quello di un abbattimento della metafisica, ma di una sua comprensione, storica e concettuale. La posizione di Boulnois in particolare è, a mio avviso, una rivisitazione, anzi una deviazione, non in termini negativi, dal paradigma heideggeriano, di cui conserva la stessa prospettiva nell’esplicare lo statuto della filosofia prima aristotelica entro la trama d’indagine sulla storia della metafisica come suo originario momento di apertura. Lavorando sulle linee portanti dell’esegesi onto-teologica di matrice heideggeriana, Boulnois puntualizza la complessità delle svolte interne e delle declinazioni metafisiche lungo il corso della tradizione, in special modo nel Medioevo157. Secondo Boulnois, quindi, 156

O. Boulnois, “Dire ou tuer? La nomination de Dieu, de la transgression à la transcendance”, cit., p. 365. 157 Per rimanere entro l’ambito francese anche le posizioni di Brague, di Courtine o di Marion sono una variazione del modello heideggeriano. Boulnois, però, appartiene ad una generazione successiva rispetto alla loro. La sua generazione, rappresentata, ad esempio, anche da un autore più giovane come Jean-Marc Narbonne, è probabilmente più critica rispetto al paradigma heideggeriano, come mostra il volume Hénologie, Ontologie

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Onto-teologia o katholou-protologia?

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una storia della metafisica come onto-teologia in base al paradigma heideggeriano è possibile solo tenendo conto delle rotture verificatesi et Eregnis, Les Belles Lettres, Paris 2001, in cui Narbonne rigetta la possibilità di considerare il neo-platonismo come una forma di onto-teologia. Ciò che, quindi, è peculiare del lavoro di Boulnois è proprio il suo labor limae, la sua opera di affinamento del paradigma onto-teologico, nell’interesse primario di evidenziare le differenze e le discrepanze nel rapporto fra la componente di tipo universale (katholou) e quella di tipo protologico (che guarda al principio primo) del pensiero metafisico dei vari autori della tradizione piuttosto che la presunta omogeneità. Certamente, comunque, anche nella generazione di Boulnois continua a vivere lo spirito della recezione heideggeriana che, in ambito francese, passa anche attraverso la significativa mediazione di Pierre Aubenque. Inoltre si apprezza tutto il lavoro che intercorre fra la prima attestazione della dizione katholou-protologia che ricorre nel testo di Brague del 1988 e gli ulteriori sviluppi della ricerca che hanno cercato di delineare in modo più puntuale non solo i criteri di applicabilità della nozione in metafisica, ma altresì le svolte verificatesi all’interno di una tradizione che oscilla fra un’indagine di natura generale ontologica ed una protologica. Brague giustifica il ricorso alla dizione “katholou-protologia” a preferenza di quella heideggeriana “onto-teologia”, perché ritiene che nel pensiero dello Stagirita il movimento di pensiero interrogante che lega la domanda sulla totalità dell’ente (dell’intera regione ontologica considerata) alla domanda sull’ente eminente (o sull’ente che è eminente in quell’ambito regionale considerato) non sia tipico solo della speculazione metafisica, ma sia visibile in tutta la riflessione aristotelica, governando quindi anche l’indagine cosmologica e quella antropologica: “Mi sono rassegnato a forgiare questo neologismo sgraziato per esprimere un fatto che nessuna altra espressione mi sembra renda adeguatamente. È chiaro che lo stato delle cose così designato è in rapporto molto stretto con quello che Heidegger ha nominato “costituzione onto-teo-logica della metafisica” e che egli ha identificato come il tratto fondamentale che corre da un’estremità all’altra della storia della metafisica. Tuttavia, ciò che io prendo di mira con il nome di struttura katholouprotologica è più vasto, giacché non si limita a quello che, nel pensiero di Aristotele, chiameremmo “metafisica”; esso si ritrova all’interno stesso di ognuno dei domini la cui articolazione costituisce l’onto-teologia aristotelica. In ogni caso, si può ricostituire come un movimento che prende il suo avvio all’interno di qualcosa come una generalità per tendere ad una concentrazione su una realtà suprema (prima), ma tale che essa permette di recuperare la generalità che prima era stata abbandonata. La generalità non è pertanto mai recuperata allo stesso livello” (R. Brague, Aristote et la question du monde, cit., pp. 513-514). Questo significa cioè che la generalità, l’intero è recuperato tramite la funzione del primo ente come una sorta di “perno” attorno a cui ruota l’intero. Questa struttura è per Brague possibile perché al fondo lavora in modo latente la differenza ontologica, che per lui “Aristotele nomina di passaggio, ma su cui non riflette mai” (ibidem). Per Heidegger, invece, il primo ente svolge la funzione della Begründung, dunque ha un ruolo molto più potente, per così dire, ed è per questo che, secondo lui, esso è il segno chiaro della dimenticanza metafisica della differenza ontologica, in quanto è esso che esercita la funzione di fondamento dell’essere dell’ente. Non posso qui occuparmi degli slittamenti che la nozione di katholou-protologia subisce a partire dal primo impiego di Brague. Si tenga almeno presente, però, che quando è considerata equivalente alla struttura onto-teologica individuata da Heidegger, di fatto essa rappresenta già una linearizzazione della circolarità di ontologia e teologia riscontrata da lui. Quando cioè si ricava

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all’interno di questa storia, registrando con precisione la distanza o non aderenza allo schema onto-teologico nelle figure centrali della storia della metafisica. Questa messa a punto del modello esegetico onto-teologico costituisce, certamente, il pregio della ricerca di Boulnois, la cui opera di revisione non inficia il carattere di rottura del paradigma heideggeriano a cui, anzi, in tal modo, sembra che lo studioso francese dia nuova linfa. Egli, infatti, accetta il modello heideggeriano con senso critico. Anche se impone, per così dire, una chiave esegetica unilaterale, il paradigma heideggeriano si può considerare una struttura di massima rispetto a cui valutare i momenti storici della metafisica. Come dicevo in precedenza, in questo caso, esso funge da tesi-guida, da cui, però, è possibile o necessario prendere distanza, modulando il rapporto di ontologia e teologia secondo il senso impressogli dalle varie configurazioni storiche della metafisica. Ciò nonostante, anche in quest’ottica, il paradigma esercita un peso; gli si accredita plausibilità e gli si riconosce il carattere di rottura rispetto ai percorsi compiuti nel panorama esegetico sia su Aristotele sia sulla storia della metafisica. Sul modo di usare il canone onto-teologico, ovviamente, si apre la discussione polemica fra chi ne propone un restringimento e chi ritiene possibile conservare la lettura compatta della metafisica opedal testo aristotelico di Met. E, I cap. l’indicazione testuale per parlare di una “katholouprotologia”, si intende che Aristotele stia dicendo che “la scienza del principio ordina la conoscenza del tutto, perché colui che conosce il principio conosce a fortiori ciò di cui il principio è principio” (O. Boulnois, La métaphysique au Moyen Âge: onto-théologie ou diversité rebelle?, cit., p. 38), ossia l’intero dell’ente inteso come f⁄sij, cioè l’intero dell’ente in movimento, di cui il dio è prËth ¢rcª kinªsewj. Heidegger, invece, ritiene che la domanda sull’ente in quanto tale e, quindi, sull’essere dell’ente sia una domanda per se stessa originaria, posta in connessione con l’altra domanda in sé originaria che è quella sull’ente primo. A scanso di equivoci, sia qui inteso comunque che il modo ad es. con cui Boulnois individua la presenza di una struttura protologica nella storia della metafisica medievale è diverso da quello che cerco di prospettare in riferimento ad Aristotele. La protologia di cui parla Boulnois si costituisce come una ricerca eziologica, nel senso della ricerca di quali siano le cause e i principi primi, ossia della ricerca che ha di mira la determinazione del contenuto di queste cause e principi che è individuato nel concetto di Dio come ente sommo. Nel caso aristotelico, dal mio punto di vista, si tratta di portare alla luce la struttura della causalità prima – la forma del principio primo, della causa prima – che si guadagna a partire dalla considerazione non dell’ambito rispetto al quale una causa si dà come prima, bensì della causa prima nel suo essere tale, nel suo essere in se stessa tale.

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Onto-teologia o katholou-protologia?

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rata da Heidegger. Nell’impostazione di Courtine o di Boulnois si fa avanti la necessità, sicuramente legittima in sede di comprensione storico-concettuale, di isolare un particolare momento della storia metafisica in cui prendere atto della svolta onto-teologica. Ciò significa privare il paradigma heideggeriano della sua forza caratteristica, smontarlo e confutarlo nella tesi fondamentale dello statuto essenzialmente onto-teologico della tradizione metafisica nella sua interezza. Ciò implica, ancora, che l’onto-teologia come struttura di massima rispetto a cui misurare le varie tappe della storia metafisica non può più essere considerata una chiave esegetica così potente, o meglio lo può essere, ma in un senso negativo, ossia come nozione rispetto a cui prendere le distanze158. Se non si può registrare una costante presenza in atto dell’onto-teologia lungo il corso della storia metafisica, perché appunto si assiste invece ad una maggiore prevalenza della componente ontologica su quella teologica e viceversa, sembra sfuggire il motivo per cui la ricerca sulla storia della metafisica continui di fatto a tenere in così seria considerazione la prospettiva di Heidegger, muovendo nelle proprie indagini a partire da essa. Paradossalmente il rischio di una posizione come quella di Courtine o di Boulnois è quello di privare il modello heideggeriano dell’affermazione basilare su cui esso si costruisce, perdendo però, nel contempo, in tal modo, la sua preziosa indicazione esegetica ed il senso della sua novità: è guardando all’origine aristotelica che bisogna porre la domanda sull’essenza della metafisica, non semplicemente perché lì si incomincia a porre una problematica che poi si sviluppa successivamente fino ad approdare al sistema della Schulmetaphysik, ma perché la Zwiegestalt (e dunque lo Zwiespalt che questa “dimorfia” esibisce) è già ben visibile in Aristotele159. Se questa articolazione 158 Courtine riconosce espressamente questo venir meno della potenza del canone heideggeriano a cui, come abbiamo visto, rimprovera di sovrapporre su Aristotele un’immagine della metafisica e dell’analogia non aristoteliche. 159 Bernard Mabille all’inizio del suo volume Hegel, Heidegger et la Métaphysique, Vrin, Paris 2004, pp. 8-10 chiarisce quale a suo avviso debba essere la direzione-guida. Egli osserva che il rischio di chi segue il modello esegetico onto-teologico heideggeriano è proprio quello di ridurlo ad una “griglia”, ad una struttura rigida entro cui si perdono la vita ed il movimento della metafisica nel suo sviluppo. Al di là dell’indicazione heideggeriana, ricordata da Mabille con precisione, che dà “un’immagine della costituzione

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Aristotele dopo Heidegger

è spezzata – sostiene Heidegger – la metafisica non è più compresa nel suo gesto che la determina essenzialmente come meta-fisica (ossia duplicemente come interrogare che si pone al di sopra dell’interrogare della scienza fisica, perché abbraccia l’intero dell’ente, e come interrogare che si colloca al di là dell’interrogare della scienza fisica, perché raggiunge quell’ente che è oltre l’ambito della natura). Ma per Boulnois resta il fatto che la storia della metafisica presenta una “diversità ribelle”, soprattutto nel Medioevo, perché la metafisica assume altre pieghe, forme, declinazioni diverse rispetto all’origine aristotelica, che resta il punto comune di partenza delle varie posizioni che nascono anche (e spesso in primo luogo durante il Medioevo) come forme di commento alla Metafisica. Più di tutti è forse Marion colui che ha chiarito in che senso questo ambito di ricerca faccia un uso metodologico del paradigma heideggeriano. Pur accettando la sovrapposizione heideggeriana fra onto-teologia e metafisica, egli sostiene che l’unico modo “euristicamente produttivo” e “realmente ermeneutico” di praticare il paradigma onto-teologico, evitando di cadere nel dogmatismo, è la sua articolazione storica. Ciò richiede che si faccia ricorso ad un “uso metodologico della storia della metafisica” indicando con precisione quali siano gli autori ai quali il modello heideggeriano si lascia applicare in modo legittimo160. Questo tipo di approccio è effettivamente condi[scil. onto-teologica] più viva e più complessa di quella di una semplice griglia”, la struttura onto-teologica costa di “accentuazioni successive” o di livelli, piani che si sovrappongono fino ad invertire il loro ordine di sovrapposizione: al fondo vi è un discorso (logos) che “restringe” l’ente nella sua totalità (ontologia) ad un ente divino fondamentale (teologia). Tuttavia, a poco a poco, si produce “uno spostamento del centro di gravità”. Il perno attorno a cui la metafisica si costruisce onto-teo-logicamente non è la sua “costituente teologica”, bensì la sua “costituente logica”, ossia quel bisogno di dare un fondamento stabile alla problematica ontologica. Da qui, l’individuazione della ratio dell’ente nell’ente considerato supremo. Se, cioè, quel che alimenta la costituzione ontoteologica della metafisica è la sua esigenza di fondazione, ciò che della metafisica emerge è il suo cercare di costruirsi di volta in volta come un percorso che permette di giungere o di individuare un ente, estrapolandolo in qualche modo dalla totalità che lo comprende, che soddisfi l’istanza. Questo ente, appunto perché parte della totalità che si vuole comprendere e che la metafisica considera come il proprio campo d’indagine, dà cioè ragione di sé e della totalità dell’ente entro cui esso stesso è compreso. 160 Per Marion si tratta di lasciare emergere il discrimine fra metafisica e filosofia, accettando la posizione heideggeriana secondo cui “per parlare della questione dell’esse-

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Onto-teologia o katholou-protologia?

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viso da tutti gli autori dell’area francese che lavorano criticamente sul canone onto-teologico: l’unico criterio che decide la validità del paradigma non può essere altro, allora, che la metafisica stessa161. In fin dei conti, però, se il fine deve restare la comprensione dell’essenza della metafisica, ciò significa che è sempre necessario operare la mossa del “passo indietro” per collocarsi alle spalle di tutta la tradizione il più possibile in prossimità dell’origine della metafisica, ossia del momento in cui gioco-forza “qualcosa” – enigmatico o meno – accade nella storia del pensiero. Questo momento a noi viene raccontato dalla pagina di un testo tramandatoci con alterne vicissitudini dalla tradizione: è il I capitolo di Metafisica E.

re, è necessario chiudere con la metafisica” (D. Janicaud, Heidegger en France, vol. 2, cit., p. 220). Ciò non vuol dire, però, secondo Marion, accettare acriticamente tutto quello che Heidegger può avere detto in merito. 161 Marion osserva che al cospetto del canone heideggeriano si profila una “sommaria alternativa”: o si dichiara che la determinazione “onto-teologia” è un “marchio di infamia” e ci si adopera per cancellare il marchio dalla metafisica e dai suoi autori – o quanto meno dagli autori che si vogliono salvare dalla condanna heideggeriana – oppure si considera la determinazione come “motivo di gloria e di vanto” e si difende ad oltranza la cosiddetta onto-teologia senza accordare al paradigma heideggeriano alcuna validità sul piano intepretativo: “O il termine ‘onto-teo-logia’ era un puro e semplice marchio di infamia, bastante a svilire per motivi puramente ideologici ogni impresa tomista, oppure, per strategia o per sfida, diventava un titolo di gloria e vanto assunto non senza coraggio ma anche, il più delle volte, senza discernimento. Entrambe le attitudini ci sembrano inadeguate e inefficaci, dal momento che non tengono conto di due precauzioni indispensabili” (Dio senza essere, cit., p. 243-244), vale a dire non si sforzano di definire i criteri o le condizioni sotto le quali si deve parlare di onto-teologia, valutando poi nello specifico se ad esempio la posizione di Tommaso – o nel nostro caso di Aristotele o di qualsivoglia altro autore – sottostia a tali criteri e condizioni e in che misura.

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Aristotele dopo Heidegger

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Il racconto del primato conteso

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VI IL RACCONTO DEL PRIMATO CONTESO

1. La protologia radicale come eidetica del principio Nel percorso fin qui compiuto ho cercato di mettere in luce in che modo l’apertura dello spazio d’indagine della metafisica in Aristotele si determini a partire dall’istanza di una domanda sulle cause ed i principi primi secondo una prospettiva diversa da quella che caratterizza qualsiasi altra ôpistªmh. Ciò che individua la differenza fra la metafisica e le altre scienze non è lo statuto epistemico, giacché qualsiasi scienza, secondo Aristotele, per essere tale deve essere caratterizzata da una struttura gnoseologica di tipo eidetico-protologico: conoscere in senso proprio significa conoscere cause e principi; la conoscenza scientifica che si può configurare come conoscenza di un certo ambito ontologico, di una certa regione dell’ente deve essere conoscenza dei principi e delle cause prime del corrispettivo ambito. La conoscenza di queste cause e di questi principi è una conoscenza eidetica, giacché in generale ciò che l’intelletto coglie nell’apprensione è il principio secondo una sua determinazione di tipo formale: il principio primo di un certo ambito regionale dell’ente non è colto rispetto ad un contenuto specifico, che piuttosto è noto nel riferimento alla realtà individuale determinata che è presa di volta in volta in considerazione. Il principio è colto, quindi, rispetto a quel tratto d’essere tramite il quale un qualcosa si mostra come principio di una determinata regione ontologica. La scienza fisica, che studia gli

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enti in movimento, ha il compito di individuare i principi e le cause prime dell’intero ambito della f⁄sij, ma sarà caso per caso che si andrà a determinare il contenuto specifico dei principi. È la condizione analogica dell’identità dei principi che Aristotele delinea nel libro L della Metafisica, capitolo 4. Ho in precedenza messo in evidenza come la definizione della sofÖa – uno dei tanti nomi con i quali Aristotele si riferisce a quella scienza che è invalso chiamare metafisica –, come “tÓn prËtwn ¢rcÓn kaà aÑtiÓn qewrhtikæ ôpistªmh”, – dichiari in un certo qual modo che nella ricerca delle cause e dei principi primi che si rivelano tali, cioè primi, perché assunti in riferimento alla nozione di ente in quanto tale, il filosofo primo in qualche modo dispone già preliminarmente di essi. Ciò che di assolutamente nuovo ed originale configura il suo impegno d’indagine non è, dunque, propriamente l’oggetto, ma il modo in cui l’oggetto è preso in esame1. Nella filosofia prima si assiste, allora, ad una sorta di slittamento di livello. Nel caso delle singole scienze i principi e le cause prime sono una conquista che si ottiene a partire dalla considerazione dell’ambito oggettuale che da essi è causato, tenendo quindi ferma la relazione causale che intercorre fra l’ambito ed il suo principio. Nel caso della prËth filosofÖa i principi primi e le cause prime sono, di contro, “ri-guardati” non in relazione all’ambito oggettuale, bensì in relazione al loro essere in sé principi, ossia in relazione al loro potere causativo, alla peculiare forma di causalità in base a cui operano e si lasciano riconoscere come principi primi. La natura eidetico-protologica del sapere epistemico in questo caso fa la differenza fra la metafisica e tutte le altre scienze solo se si ammette che le cause e i principi primi, assunti come oggetto proprio dell’interesse del filosofo primo, sono indagati rispetto al tratto eidetico, al loro carattere d’essere formale grazie al quale essi appaiono principi primi. Il filosofo primo può allora lasciarsi alle spalle ogni relazione con i vari ambiti regionali, che singolarmente sono sorretti dai principi e dalle cause prime in quanto questi principi e queste cause vigono come principi e cause proprie dell’ambito. Egli guarda all’essere causa prima della causa prima 1

Cfr. supra, cap. II, § 2.

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Il racconto del primato conteso

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per comprendere quella forma che si può considerare propria di tutto ciò che si lascia dire causa prima. Si può asserire in quest’ottica che vi è una natura eidetica del principio primo in conformità alla quale la determinazione della metafisica come conoscenza di cause e principi primi acquista una particolare posizione all’interno dell’architettura del sapere epistemico emergente dalla filosofia aristotelica. Nel I capitolo di Metafisica E, come vedremo, il primato della prËth filosofÖa sembra tutto guadagnato a partire dall’eccellenza del suo oggetto come realtà che è massimamente degna d’onore: essa è tale non perché questa eccellenza si evidenzia nel confronto con le altre realtà 2, ma perché è il suo modo d’essere che per sé la configura così, come eccellente. In ogni caso la scienza che tematizza questo tipo di realtà detiene per questo un primato sulle altre scienze: come la realtà che è il suo oggetto di ricerca è più degna di onore rispetto alle realtà che sono oggetto delle altre scienze, altrettanto la scienza di tale oggetto sarà più degna di onore rispetto a tutte le altre ôpist¡mai3. Eppure, una volta raggiunta la determinazione della superiorità della filosofia prima in quanto ôpistªmh qeologikª e, quindi, una volta conquistata la prospettiva dell’intero dell’ente che si dischiude sulla base dell’ipotesi che ci sia una realtà oltre quella della f⁄sij, si ha l’impressione di assistere ad un 2 Aristotele parla della realtà divina come del timiËtaton gönoj, usando per l’aggettivo “tÖmioj” la forma del superlativo assoluto e non del comparativo di maggioranza. Il qe“j sembra configurarsi allora come “il più degno di onore” non rispetto ad un altro tipo di realtà, ma per sé, ossia per il fatto di essere degno di onore in modo assoluto, allo stesso modo in cui diciamo ad es. che Maria è bellissima senza riferirci ad altre persone, ma per dire che in sé Maria è molto bella. 3 Questa corrispondenza è posta testualmente anche in Met. A, 983a5 quando Aristotele dice che la “sapienza è la scienza più divina e degna di onore”, spiegando che è tale nel doppio senso secondo cui essa si lascia definire “scienza divina”. Intesa nel significato di scienza che ha per oggetto le “cose divine”, quindi come scienza del qe“j al modo del genitivo oggettivo, acquista superiorità dal suo tema d’indagine, che appunto è la sostanza ottima. Per la precisione, nel passo di Met. A qui citato Aristotele specifica che il dio è tema della sapienza perché questa si occupa di indagare cause e principi primi e il dio è, anche nell’opionione comune, una causa e un principio. Ma anche le altre scienze sono conoscenze eziologiche; è allora perché il dio si presenta come una causa ed un principio primo dalla natura eccellente, come realtà in sé eccellente, che alla sapienza deriva la possibilità di dirsi scienza “¢meÖnwn”, quella che è preferibile, che è migliore delle altre.

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cambiamento di scena4. Il primato della filosofia prima, cioè, diventa il primato di una scienza che ha carattere universale: non si tratta semplicemente del pregio che spetta ad una scienza regionale particolare; è una superiorità che viene riconosciuta alla filosofia prima perché essa è protöra, anteriore alle altre ôpist¡mai. Essa viene prima perché abbraccia l’intero dell’ente e non più perché ha come oggetto una realtà qualificata quanto al suo essere come ottima. Cosa rimane, però, della domanda protologica iniziale da cui il filosofo primo sembra conquistare la sua prospettiva d’indagine nel momento in cui il suo progetto di ricerca sembra “istituzionalizzarsi”, se così posso esprimermi, nella forma di una scienza che ha per tema l’ente e, dunque, nella forma di un sapere che deve, accanto al suo aspetto zetetico, includere un momento argomentativo apodittico? Cosa resta di quel progetto di ricerca nel passaggio alla determinazione di una scienza dal carattere ontologico universale? E se resta qualcosa, può la ricerca del principio primo come ricerca della forma 4

Non è solo in Met. E che Aristotele conquista la prospettiva dell’intero dell’ente a partire dall’ipotesi dell’esistenza di una realtà divina non naturale. Anche gli astri ed i corpi celesti possono essere infatti detti “enti divini”, ma essi restano enti naturali. Barbara Botter nota a proposito di questo uso ampio dell’aggettivo “divino” in riferimento a più sostanze che “dio/divino non indicano, per Aristotele, una sostanza individuale, bensì un modo di essere. “Dio” rappresenta […] un marchio di eccellenza, distingue cioè il primato di uno o più enti in una scala gerarchica” (B. Botter, Dio e divino in Aristotele, Academia Verlag, Sankt Augustin 2005, p. 65). Per la Botter, infatti, la questione vera per lo Stagirita “non è tanto se la divinità esista, bensì in quale forma essa si realizzi nel modo più pieno. L’interrogativo che si pone Aristotele è di sapere a quali enti potremmo attribuire senz’altro l’essere divini, ossia a quali enti conviene l’essere dei” (ibid., p. 17). L’inferenza di una scienza che è al di sopra della scienza fisica, perché essa ha per tema la totalità dell’ente in virtù del fatto che esiste una realtà oltre quella che si indica con f⁄sij, comunque, compare notoriamente anche in Met. G, 1005a33 ss. (“ûn g£r ti gönoj to‡ ‘ntoj h` f⁄sij”), mentre in Met. K, 1061b6-7 la distinzione fra filosofia prima e metafisica si guadagna a partire dall’indicazione che la scienza fisica considera gli enti non in quanto tali, bensì poiché partecipano del movimento (“tÕ fusikÕ mùn g¶r oŸc Œ ‘nta, m©llon d'Œ kinªsewj metöcei”). Questa è un’indicazione meno precisa, perché si potrebbe intendere che un medesimo oggetto può essere visto o in considerazione di ciò che lo determina come mosso o in conformità del suo statuto più generale di ente. In questo secondo caso la metafisica è superiore alle altre scienze appunto perché universale, ossia perché considera ciò che è proprio dell’ente a prescindere dal suo ambito di “appartenenza” (se f⁄sij o töcnh), sicché si potrebbe pensare alla metafisica come ad un’ontologia generale di taglio materiale. La metafisica invece si caratterizza come ontologia sulla scorta di una nozione di ente più ampia, che include anche la realtà che è oltre la dimensione della realtà composta.

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del principio essere considerata praticabile per se stessa e sulla scorta poi del progetto onto-teologico che essa istaura? Può in sostanza la filosofia prima, in nome della sua caratura protologica originaria, costituirsi effettivamente come una metafisica del principio e, quindi, come una scienza del principio, se comunque è di una ôpistªmh che siamo in cerca? Può la filosofia prima realizzare il suo compito di conoscenza eidetica del principio primo (ossia di conoscenza della forma del principio primo), nel momento in cui essa si caratterizza come un interrogare che, da una parte, solo perché prende di mira l’ente divino così abbraccia l’intero dell’ente e che, dall’altra parte, solo perché ha per tema l’ente in quanto ente può volgersi anche all’ente divino come un qualcosa di intellegibile? L’ente divino, infatti, in quanto immobile, privo di materia, resta escluso dall’indagine di qualsiasi altra scienza, il cui oggetto non esiste al modo di un puro eçdoj e, quindi, per questa sua condizione ontologica, pare escluso da qualsiasi comprensione umana che è finita e che si lega all’esperienza del finito. La sua intellegibilità sembra potersi avere a partire dalla certezza dell’esistenza della f⁄sij. Prima di tentare una risposta a questa seconda domanda, ossia cosa resta del progetto di una protologia radicale nel momento dell’istituzione di una scienza dal carattere onto-teologico, per come è possibile definire la filosofia prima secondo il I capitolo di Metafisica E attraverso una rilettura della nozione heideggeriana, vorrei tentare di rispondere alla prima questione: il programma di una metafisica del principio è o no in se stesso aporetico, posto che le cause e i principi primi sono tali in un senso assoluto, ossia nel senso che non vi è altro alle loro spalle? Ma se conoscere qualcosa significa in generale conoscerne il principio, il fatto stesso di interrogare sul principio primo (in quanto principio primo) non suppone in sé già il rinvio ad altro alle spalle del principio in forza della condizione che distingue ciò che è conoscenza epistemica (ossia certa e vera) da ciò che non lo è? Se, infatti, il progetto di un’indagine protologica radicale è impraticabile, anche la seconda questione deve subire una reimpostazione; lo statuto della Zwiegestalt della filosofia prima, che trova giustificazione in un’istanza protologica che sta a monte, va rimesso in discussione. La tesi che ho cercato di presentare a cavallo fra il III ed

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il IV capitolo dichiara che, assunta dalla prospettiva della determinazione originaria della metafisica come protologia radicale, la duplicità onto-teologica non appare più indecifrabile, anche se richiede che la nozione di onto-teologia subisca una revisione e, cioè, perda quel significato che identifica l’onto-teologia con un pensiero che dimentica la differenza ontologica. Posto che la speculazione aristotelica presenti una concezione della problematica dell’essere che non tradisce la differenza ontologica, parlare di onto-teologia nel caso della metafisica aristotelica implica che il concetto di onto-teologia sia liberato da certe implicazioni teoretiche, quale appunto quella rappresentata dalla riduzione del piano dell’essere a quello dell’ente. Come dicevo, il filosofo primo è come se partisse dal dato che vi è un tratto dentro il principio primo che è costitutivo del suo essere principio primo e che non si lascia apprezzare dentro lo spazio d’indagine in cui si guarda ancora al campo degli enti che si comprendono quanto al loro essere grazie alla conoscenza del principio. Il filosofo primo non adotta, quindi, una procedura di ricerca di tipo “ascensivo” che, partendo dalle cose che devono essere conosciute in chiave epistemica, arriva alle cause ed ai principi propri di esse. Egli aspira a cogliere il principio primo da un punto di vista diverso rispetto alla relazione causale che intercorre fra il principio e l’ambito rispetto al quale il principio si mostra come tale. Ho sottolineato che, in realtà, il tratto della trascendenza non attiene solo alla realtà divina che è in senso proprio separata perché immateriale. Vi è una trascendenza che si consegna nel reale in modo implicito e che caratterizza ogni principio che, valendo universalmente per la classe di enti che si sussume come ambito sotto di esso, pur essendo principio della classe e, quindi, di ogni membro (ente) di essa, trascende ciascun membro: per potere vigere come principio dell’intero ambito, esso non deve potersi pensare come un’assoluta identità con nessuno dei membri della classe. Certamente vi sono gradi di specificazione diversi del t’ tÖ hín eçnai, ma l’essenza che si considera corrispettiva all’essere degli enti che formano una regione ontologica vale in senso universale per tutti gli enti della regione. Ha, cioè, un aspetto di trascendenza che la sottrae all’interesse di colui che ricerca intorno alla regione ontologica per consegnarla allo sguardo del metafisico

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nel suo aspetto formale. Nel secondo libro della Fisica Aristotele afferma che “è compito della filosofia prima determinare in che modo ciò che è separato è e che cosa è” 5, dove ciò che è separato qui si può intendere come tutto ciò che è tale sia perché lo è rispetto all’essere sia perché lo è tramite il logos, come lascia evincere il contesto in cui lo Stagirita asserisce che al fisico spetta di indagare “attorno a quelle cose che sono separate per la forma, sia pure essendo nella materia”6. L’essenza è ciò che possiamo mostrare tramite la nostra parola nell’elaborazione di una definizione. Essa, notoriamente, per Aristotele ha la natura di un discorso che della cosa di cui mostra l’essenza predica il genere prossimo di appartenenza e la differenza specifica che consente l’individuazione della specie rispetto ad altre che sono sussumibili sotto il medesimo genere 7. Questo tratto di trascendenza del principio che pensiamo come principio d’essere della cosa è ciò che, sul piano conoscitivo, consente la possibilità di procedere ad una sua conoscenza eidetica, in cui esso è riguardato non già rispetto al suo contenuto specifico, ma rispetto al suo modo d’essere in quanto principio8. Aristotelicamente il discorso sulle cause e sui principi primi è affrontato in tre modi. Un primo modo è rappresentato dalla trattazione della cosiddetta dottrina delle quattro cause – materia, forma, fine, principio di movimento – di cui il libro A della Metafisica ci dà, ad esempio, una diffusa analisi. Un secondo modo può essere il discorso che individua come principi primi della sostanza tre elementi costitutivi – materia, forma, privazione – e che è esposto nella Metafisica nei libri Z, H e L nella parte iniziale (capi5 Phys. II, 194b14-15 (pÓj d'úcei t’ cwrist’n kaà tÖ ôsti, filosofÖaj úrgon diorÖsai t¡j prËthj). Anche in De an. I, 403b15-16 Aristotele afferma similmente che “il filosofo primo indaga in quanto separate ( Œ dù kecwrismöna, — prÓtoj fil“sofoj)”. 6 Phys. II, 194b12-23 (perà ta‡ta § ôsti cwrist¶ mùn eádei, ôn ¤lV dö ). 7 Cfr. Top. I, 103b15: “— —rism’j ôk gönouj kaà diaforÓn ôstÖn ”. 8 Ancora la Botter afferma: “La filosofia prima, dice Aristotele, ha per oggetto l’eçdoj

in sé, e in quanto forma di altro” (B. Botter, op. cit., p. 31), per chiarire con maggiore esattezza: “Aristotele spiega che la filosofia prima studia l’eçdoj in tutte le forme in cui esso appare, negli enti oggetto della fisica, i quali esistono separatamente, ma non sono immobili; negli enti oggetto della matematica, i quali sono immobili ma forse non esistono separatamente e sono come presenti in una materia; ma soprattutto la filosofia prima si occupa di enti differenti, i quali esistono separatamente e sono immobili” (ibid., pp. 32-33).

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toli 2-5). Infine un terzo modo si può individuare nella dottrina che pone come principi di movimento f⁄sij, töcnh, aŸt“maton e t⁄ch (questi ultimi due secondo la forma della privazione della natura e dell’arte)9. Aristotele nella Metafisica fa cenno ad una simile concezione nel libro E, quando distingue le scienze teoretiche, pratiche e poietiche sulla scorta del modo in cui il principio di movimento si colloca nei rispettivi ambiti, nel libro Z e nel libro L10. Non è difficile comprendere che i primi due modi sono, in realtà, l’espressione di una stessa concezione formulata secondo due punti di vista leggermente diversi. Le quattro cause possono essere ridotte alla coppia causa materiale-causa formale, se si assume che l’eçdoj nella generazione, che è una forma di metabolª11, ma anche nel processo naturale della crescita (ad esempio un bambino che si “muove” per diventare adulto) si prospetta come il töloj , come il fine del movimento e, per questo, anche come il principio da cui prende avvio il movimento in quanto ciò in vista di cui qualcosa viene all’essere12. Ora, riportando la privazione al polo della forma come suo segno opposto, cioè come espressione della sua assenza o del suo 9

In effetti anche “pr©xij” in analogia a f⁄sij e töcnh può essere considerata un nome per un certo tipo di causalità, giacché è in questo modo che essa sembra essere delineata ad es. in Met. E quando le scienze pratiche sono presentate accanto alle scienze poietiche come quelle che studiano l’ambito dell’ente che ha in altro il proprio principio di movimento. Quelli che potremmo pensare come enti al modo di “pr£xei ‘nta” hanno, però, una configurazione del tutto particolare che certamente non consente una loro caratterizzazione nei termini di sostanze composte, quali invece sono i prodotti di un’arte e gli enti che si generano in natura. 10 Cfr. rispettivamente Met. Z, 1032a12-13 e 1033b7-8 e Met. L, 1070a6 ss. 11 La generazione e la corruzione sono pensate da Aristotele come forme di mutamento secondo il “che cos’è”, secondo l’essenza, perché come forme di passaggio dal non essere all’essere e dall’essere al non essere esse riguardano un cambiamento della sostanza non rispetto alle determinazioni categoriali di tipo accidentale come una qualità o una quantità, bensì rispetto ad una determinazione d’essere che è essenziale. Il venire all’essere di una cosa è un movimento che si apprezza sul piano dell’esistenza reale di qualcosa con una forma che è determinazione essenziale di un sostrato materiale. 12 Nel movimento del bambino che diventa adulto l’eçdoj si mostra forse ancora con più chiarezza come il fine e, così, come il principio di movimento, essendo lo stato che il bambino deve raggiungere per essere nel pieno del suo essere come essere umano. Anche nel caso dell’arte, in cui l’intervento dell’artigiano provoca concretamente la produzione (il venire all’essere) dell’artefatto, l’eçdoj è il principio di movimento perché è a partire da esso che prende avvio il gesto produttivo; l’eçdoj, infatti, si configura come ciò in vista della cui realizzazione nella materia l’artigiano si muove nella poÖhsij.

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venire meno, anche la teoria dei principi della sostanza insiste sulla coppia materia-forma come struttura originaria o, piuttosto, come condizione ontologica necessaria affinché qualcosa venga all’essere, sia nel regime della natura sia in quello dell’arte. Di taglio diverso appare, invece, in prima battuta il discorso sul principio di movimento che si calibra sulla determinazione di f⁄sij e töcnh come ¢rcaà kinªsewj degli ambiti ontologici corrispettivi. Nell’indicare con lo stesso nome con cui si denomina e circoscrive una precisa regione dell’ente anche il principio di movimento di essa, Aristotele non sta determinando la causa del venire all’essere dell’ente secondo l’aspetto del suo contenuto (se materia o forma) e secondo la necessità del darsi di quei principi per il darsi della cosa, in quanto se non si dà compresenza di materia e forma non vi è sinolo. Egli sta invece esplicitando il modo, la regola, attraverso cui il principio di movimento, del venire all’essere (generazione e produzione) negli ambiti della natura e dell’arte, si dà rispetto all’ambito. Natura ed arte come principi di movimento dicono piuttosto un modo del principio di movimento, esprimono la condizione secondo la quale il principio di movimento – che è e resta la forma sia per gli enti naturali sia per gli artefatti – si dà rispetto al f⁄sei ‘n o al töcnV ‘n che viene all’essere. La regola che il nome “f⁄sij” ed il nome “töcnh” veicolano è, cioè, quella della posizione del principio rispetto all’ambito. “Natura” – ci dice Aristotele – dichiara, infatti, che il principio di movimento non è al di fuori dell’ambito degli enti naturali: essi hanno in sé il loro principio di movimento. “Arte”, di contro, significa che l’artefatto non ha in sé la propria ¢rcæ kinªsewj, il che evidentemente non vuol dire che una statua esiste indipendentemente dalla forma “statua”, giacché se così fosse la statua non sarebbe; indica piuttosto il modo in cui la forma in forza della quale si dà la statua come statua “funziona” in quanto principio del suo essere e del suo venire all’essere. La regola dichiara, in altri termini, che nel caso della generazione di un ente naturale il principio di movimento prossimo – ad esempio per un puledro la coppia di cavalli da cui si genera, per un bambino la coppia di esseri umani da cui è concepito – non è un ente che è fuori l’ambito: i cavalli da cui si genera il puledro sono enti naturali così come i genitori del bambino. Ciò significa che la

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forma del puledro e del bambino, che propriamente vigono a monte come principio di movimento in quanto ciò in vista di cui si dispiega il movimento della generazione, sono forma anche dei due cavalli e dei due genitori. In questo senso l’eçdoj è nella cosa generata sin da principio per l’appartenenza di essa ad un genere e ad una specie che sono generi e specie naturali. Nell’ambito dell’arte, invece, anche se la forma della statua è ciò che costituisce il principio di movimento remoto da cui prende avvio il movimento dell’artigiano che produce la statua di Atena nel Partenone, il principio di movimento prossimo, quindi l’artigiano, non è un artefatto a propria volta. Se l’eçdoj della statua – la forma statua che il marmo deve accogliere per assumere l’aspetto della statua di Atena – è principio interno all’ambito, il tecnÖthj è un principio di movimento “mediano” esterno a questo ambito: egli non è un töcnV ‘n. Da questa prospettiva “natura” ed “arte” sono principi perché significano differentemente la regola della generazione e della produzione. Essi significano il modo in cui delle quattro cause quella che costituisce il principio di movimento, come l’“in vista di cui” del venire all’essere nella gönesij e nella poÖhsij, si comporta o si situa rispetto all’ente ed alla regione ontologica di appartenenza. In realtà, dunque, la dottrina dei principi di movimento al modo della f⁄sij e della töcnh non ha un contenuto diverso rispetto a quello espresso dalla dottrina delle quattro cause e da quella degli elementi della sostanza. Nel costruirsi come teoria sul modo in cui si dà il principio di movimento in quanto causa dell’essere della cosa che nasce o è prodotta, questa dottrina apre le porte ad una considerazione sulla forma della causa prima, perché ad entrambe, alla f⁄sij come alla töcnh, si riconosce lo statuto di un principio primo. Se l’interrogazione sulle quattro cause o sugli elementi della sostanza rivela quasi in modo immediato che essi sono oggetto della riflessione del filosofo primo da un punto di vista eidetico (o, come lo Stagirita asserisce in Metafisica L, t˘ kaq“lou l“gJ, secondo un logos generale)13, nel caso della dottrina della f⁄sij e della töcnh emerge qualcosa di più. Ciò che sembra evidenziarsi è la duplice ragione on13

Met. L, 1071a29.

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tologica per la quale il metafisico definisce il suo compito come una eidetica del principio differenziandosi e, così, sancendo il primato della sua scienza sull’ôpistªmh fusikª o anche sulla töcnh, intesa come nome della conoscenza scientifica dell’ambito della produzione. Queste due ragioni ontologiche possono, a mio avviso, essere espresse nei termini seguenti: 1) se al filosofo primo spetta la comprensione dei principi primi in quanto principi primi, deve essere in qualche modo possibile rintracciare una forma in base alla quale i principi si dicono primi, anche se essi non lo sono in senso assoluto, ossia anche se essi valgono come primi solo rispetto ad un certo ambito ontologico e come principi in relazione ad una loro caratterizzazione formale generica e non contenutisticamente determinata. Ciò si ottiene solo quando non si prende più di mira l’intero ambito in quanto tale, ma un membro individuale di tale ambito (io determino che di Paolo il principio prossimo di generazione sono i suoi genitori Enrico e Maria, ma in senso generale posso dire che è la forma “umanità” che, nel fare corpo unico con quella materia che è il corpo di Paolo, diviene essenza specificata individualmente); 2) in ognuno degli ambiti delle cause e dei principi primi vi è “qualcosa” che è sempre oltre l’ambito, che non appartiene all’ambito. Nel caso della töcnh ciò è immediatamente visibile nella condizione stessa che il nome “töcnh” come principio di movimento della corrispettiva regione ontologica dice: il regno dei töcnV ‘nta è, cioè, il campo degli enti in cui il principio di movimento prossimo (l’artigiano) cade fuori dal campo. Nel caso della f⁄sij l’indicazione testuale della Fisica, che ho già ricordato14, dichiara che pensare il principio di movimento della natura comporta che di fatto due siano i principi che sono in atto: un principio è naturale (il principio prossimo da cui si genera ogni ente naturale come appartenente allo stesso genere ed alla stessa specie di ciò che viene all’essere per la comune appartenenza ad uno stesso genere ed a una stessa specie da parte dell’ente generato e dell’ente da cui prende avvio la generazio14 Vale la pena ricordare nuovamente il passo di Phys. II, 198a35-36: “Due sono i principi che muovono al modo della natura, dei quali uno non è naturale (dittaà dù aÉ ¢rcaà aÉ kino‡sai fusikÓj, Ôn h` òtöra oŸ fusikª)”.

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ne), l’altro no. L’altro principio che non è naturale è un ente che va pensato di necessità al di fuori, oltre la regione ontologica della f⁄sij. Se ne facesse parte dovrebbe avere lo stesso modo d’essere dei f⁄sei ‘nta, ossia dovrebbe essere un ente passibile di movimento. Ma se fosse tale, non sarebbe più un principio primo, bensì rinvierebbe ad un altro principio alle sue spalle a partire da cui il suo movimento sarebbe causato. È al cospetto di questa doppia modalità ontologica del principio di movimento nell’ambito della natura che la filosofia prima si costituisce come l’indagine cui spetta il compito di ricercare intorno a questo principio non naturale, dal momento che al fisico, per lo statuto della sua ôpistªmh, per le condizioni di oggettualità della sua scienza, compete solo prendere di mira ciò che ha il tratto d’essere del f⁄sei ‘n, dell’ente che accoglie in sé la potenza del movimento. La meta-fisica in questa prospettiva, pur essendo certamente anche al di sopra dell’indagine epistemica che prende di mira l’ambito della töcnh, costruisce la sua anteriorità in modo specifico rispetto all’indagine fisica. Ciò perché secondo Aristotele la ricerca delle scienze di tipo poietico ha pur sempre lo scopo di conquistare una conoscenza che abbia un’utilità e che non sia semplicemente realizzata in vista del puro piacere di conoscere. La filosofia prima ottiene il riconoscimento del suo primato all’interno delle scienze di tipo teoretico, anche se esso si esplicita pure nei confronti delle scienze pratiche e poietiche15. Osservata come scienza teoretica, la metafisica è una scienza anteriore alla fisica nella misura in cui essa prende di mira quel principio primo della natura che non compete al fisico indagare nel suo modo d’essere. Mentre il fisico guarderà al qe“j come principio primo di movimento solo perché egli tiene stretta la relazione causale che lega il suo ambito (la f⁄sij) con il dio, il metafisico isolerà il qe“j come causa prima e lo considererà nella sua natura. Se, però, alla metafisica spettasse solo questo compito e se, dunque, essa si esplicitasse solo nella sua funzione epistemica in riferimento al dio, 15 Per essere precisi, come è noto, la parte conclusiva dell’Etica Nicomachea prospetta il primato della vita contemplativa e, cioè, dell’esercizio della sapienza come l’espressione più alta del bÖoj qewrhtik“j che è insieme il primato di un’attività pratica, nella misura in cui la sofÖa si configura come forma di atto perfetto.

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al modo di una scienza teologica particolare, essa non sarebbe affatto una metafisica del principio. E se essa detenesse un primato, esso sarebbe giustificato solo sulla base del primato ontologico del suo oggetto di ricerca, anche se Aristotele ci avverte che nella sostanza non ci sono gradi secondo il più ed il meno, perché Socrate non è più sostanza di un cane e meno sostanza del dio. Questo tipo di scienza così sorta non sarebbe affatto una scienza dal carattere universale, perché considerato solo nel suo in sé il qe“j non lascerebbe recuperare nessuna prospettiva sul regno della f⁄sij se non riconquistando la medesima posizione prospettica del fisico, che tiene ferma la relazione causale fra il dio e la natura. Inoltre non si avrebbe più una metafisica del principio, perché il qe“j non è il solo principio primo. È la teoria delle quattro cause e degli elementi della sostanza a ricordarlo in primo luogo. Se la metafisica è scienza teoretica delle cause e dei principi primi, stando allo statuto epistemico che definisce ogni scienza, l’unica possibilità attraverso cui essa può realizzare lo studio che si propone è che abbia senso porre che di tutto ciò che si lascia pensare come un principio primo e come una causa prima vi è un modo d’essere che è proprio del principio, ossia che è posseduto dal principio primo in quanto tale e non in quanto “quel” principio primo. Questo modo d’essere non ha nulla di materiale, ma ha la natura di una forma, di un eçdoj, se il principio d’essere della cosa, se la sua essenza (t’ tÖ hín eçnai) si può aristotelicamente chiamare anche così 16. È a partire dal fatto che sia sensato pensare di potere impostare la questione sulle cause ed i principi primi come indagine sulle loro condizioni d’essere, rintracciando il carattere eidetico che configura un principio come tale e come primo, che prende senso la stessa ipotesi che esista, quindi, una scienza teoretica delle cause e dei principi primi. D’altro canto, è perché è possibile pensare che vi sia una forma del principio primo, che può diventare oggetto del domandare teoretico, che nel VI libro dell’Etica Nicomachea la sofÖa viene definita come la più 16 Anche la materia, se osservata rispetto al suo potere di essere una causa prima, è presa di mira da un punto di vista eidetico: non in quanto costituita da elementi materiali primi (aria, acqua, terra, fuoco), bensì come ciò che è determinante nell’essere dell’ente che è sostanza composta, qualsiasi esso sia e qualsiasi sia poi la sua specifica configurazione materiale.

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perfetta fra le scienze, quella che – ci dice lo Stagirita – “perà t¶j ¢rc¶j ¢lhqe⁄ei” 17, scopre il vero intorno ai principi, dice come stanno le cose con i principi – se così posso rendere più liberamente –, perché li coglie nel loro essere proprio in quanto principi. Difatti è per questo motivo che la sapienza è detta anche essere “intelletto e scienza (no‡j kaà ôpistªmh)”18. Sappiamo già che è il no‡j nell’anima umana ad essere deputato all’apprensione dei principi e che la n“hsij si esercita non solo quando si tratta di cogliere il contenuto del principio in relazione alla cosa che da esso è causata, ma altresì quando del principio si coglie l’essere, la forma, la regola in base alla quale esso si mostra essere un principio ed essere un principio primo. C’è nel commento del Platon: Sophistes, di cui ho già fatto uso, qualcosa che suona come una consapevolezza di ciò da parte di Heidegger. Non in quanto ôpistªmh – egli chiarisce – la sapienza ha “esclusivamente e propriamente per oggetto le ¢rcaÖ (ausschließlich und eigentlich)”, ma perché no‡j19. Essa si dà come “¢rcª-Forschung” (ricerca del principio nel senso di ricerca sul principio): in quanto anche intelletto, e non in quanto scienza, essa “scopre le ¢rcaÖ in quanto ¢rcaÖ” 20. Le parole di Brach, a mio avviso, illustrano esattamente il senso dell’affermazione heideggeriana: La sofÖa non svela le ¢rcaÖ, bensì le chiama in causa in quanto ¢rcaÖ, per dimostrare in esse la condizione di principi (Prinzipienhaftigkeit) […]. La sofÖa, per dirla in altri termini, non assume le ¢rcaÖ come assiomi, così come fa la scienza, bensì le tematizza nella loro funzione di volta in volta concreta che l’¢rcª di volta in volta chiamata in causa possiede 21.

La sapienza, cioè, in quanto è apprensione del principio nel suo essere, coglie quella forma (la funzione del principio o, forse, potremmo dire la funzione “principio”, il fatto che qualcosa svolge la funzione di principio) che di volta in volta si riconosce essere realizzata in 17

Et. Nic. VI, 1141a18. Ibid., a19. Aggiunge subito dopo Aristotele che la sapienza è “scienza delle cose più degne di onore” (ôpistªmh tÓn timiwt£twn), che sono appunto i principi e le cause prime. 19 Cfr. GA 19, p. 58. 20 Ibidem. 21 M. Brach, op. cit., p. 318. 18

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atto dal principio che di volta in volta si offre come tale allo sguardo di chi indaga. Non vi è una deduzione di questo carattere formale, di questa funzione da altro, da ulteriori principi che hanno valore assiomatico dai quali si inferiscono quelli che poi si indicano come principi primi. Vi è, però, un’apprensione che chiama in causa il principio in quanto tale, ossia che del principio mette in mostra nell’apprensione noetica la forma, la struttura, la funzione “principio”. Questo tipo d’indagine, che si esplicita e si realizza come un atto noetico, è reso possibile da un certo disporre precedente dei principi o, più precisamente, di quelli che le singole scienze chiamano in causa come principi primi del loro ambito. Nel contempo, però, esso si pone come un percorso che si lascia alle spalle, oltrepassandolo, il lavoro delle scienze regionali, come una torsione, un capovolgimento, in cui esso, venendo dopo, si colloca oltre e così diventa primo, assumendo uno statuto quasi fondativo, di anteriorità e primarietà. Esso, infatti, si profila come un domandare sull’¢rcª nell’assenza di riferimento a ciò che dal principio è causato. Vi è un potere causativo della causa prima che nel trascendere ogni singola causa prima, pur facendo unità con essa, non solo garantisce l’irriducibilità reciproca delle cause prime fra di loro, ma altresì istituisce la condizione secondo la quale di qualcosa si può predicare la causalità prima in senso assoluto22. Questa condizione richiede che un principio si ri22 Natali, ricordando che lo Stagirita discute espressamente la questione in Met. B, 996a18-b26, si chiede se possa effettivamente darsi una sola scienza che si occupi delle quattro cause, le quali rappresentano degli eádh (cfr. Met. I , 994b28: “t¶ eádh tÓn aÑtÖwn”), essendo assunte non rispetto ad un contenuto specifico, ma in senso formale come i quattro modi della causalità prima. Ora, se le quattro cause sono oggetto di un’unica scienza, portando tutte lo stesso nome di aitia, si profilano due possibilità: o esse si dicono tutte e quattro “causa”, perché “sono specie di uno stesso genere, l’aitia in generale” (C. Natali, “AITIA in Aristotele. Causa o spiegazione?”, in H.-C. Günther-A. Rengakos (Hrsg.), Beiträge zur antiken Philosophie. Festschrift für Wolfgang Kulmann, Steiner, Stuttgart 1997, p. 116), oppure sono degli omonimi. Dal momento che non esiste un genere comune fra le quattro cause, esse sono delle nozioni omonime; pertanto si tratta di definire in che modo si dia tra esse l’omonimia: “Non sappiamo quale tipo di multivocità sia presente nella nozione aristotelica di aitia, ma vediamo che si può escludere subito l’omonimia per caso: se aitia avesse quattro significati del tutto sconnessi e distanti fra loro […] non ci sarebbe una ragione evidente per la scienza di occuparsi di tutte e quattro le cause. Esse risulterebbero essere quattro nozioni differenti, la somma delle quali non potrebbe mai produrre un logos coerente” (ibid., pp. 116-117). L’alter-

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conosca come primo, ossia tale da non rinviare ad altro alle sue spalle, ed anche come universale, cioè tale da riferirsi non solo ad uno specifico ambito dell’ente, ma all’intero dell’ente. Il riferimento alla nozione di intero dell’ente serve, dunque, ad Aristotele per dare il corrispettivo riferimento oggettuale della scienza, giacché non si dispone di una realtà ontologica, ossia di un genere, che si configura come il genere dei principi e delle cause prime. La nozione di ente in quanto ente serve allo Stagirita, in altri termini, per costituire la condizione dell’ôpistªmh e per configurare la ricerca protologica come scienza; ciò è possibile solo se anche la filosofia prima ha come le altre un oggetto tematico che corrisponde ad un ambito oggettuale che si può considerare come esistente23. Ora, nativa resta allora aperta fra l’omonimia rispetto ad uno stesso (l’omonimia pr’j õn) e quella secondo l’analogia. La questione che si pone è, allora, se esista una nozione che si può considerare comune a tutti e quattro i tipi di causa, ossia se si possa individuare “una connessione semantica di un qualche tipo” (ibidem). Natali osserva che la nozione di causa ha un carattere polisemico analogo a quello della nozione di principio o di elemento o di uno. Tuttavia, mentre per ognuno di questi tre concetti Aristotele afferma espressamente quale sia il significato comune (per ¢rcª è l’essere t’ prÓton ”qen; per stoiceãon è l’essere ti ôk to⁄tou Êj prËtou ônup£rcontoj; per õn è t’ ¢diairötJ eçnai o anche t’ mötrJ eçnai prËtJ), non così fa nel caso della causa, nonostante asserisca in Met. I, 1052b15 che questo significato comune esiste. Esso “è proprio la nozione aristotelica di causa che andiamo cercando” (ibid., p. 118). A nostra disposizione abbiamo indicazioni che ci aiutano comunque a identificarla; una di queste indicazioni è l’idea che alla causa convenga la priorità, perché essa si dà anteriormente rispetto all’ente che da essa è causato, che da essa dipende quanto all’essere: “Quindi una causa aristotelica può essere considerata un pro¯ton, un principio da cui qualcosa di diverso dipende, quanto all’essere” (ibid., p. 120). Una simile nozione di causa non è, per Natali, affatto banale nonostante la prima impressione che essa susciti sia proprio quella della banalità: “A prima vista non pare un granché come teoria; ma l’impressione è falsa. Infatti l’idea della dipendenza del causato dalla causa è centrale nella nozione di causa, e, se sommiamo questa nozione con l’idea […] che vi sono solo quattro tipi di dipendenza possibile, e […] che, per ogni singolo ambito, tutte le cause sono oggetto di una stessa scienza, la dottrina aristotelica della causa diventa articolata ed interessante” (ibidem). Se, dunque, è possibile ricavare un significato, una nozione che è comune ai quattro modi con cui si parla di causa e se, per questo, la causa in questa sua molteplicità diviene oggetto di una sola scienza, si può concludere, a mio avviso, che ben prima del riferimento alla nozione di “ente in quanto ente”, il filosofo primo ha la possibilità di stilare il suo progetto d’indagine come quello di una ricerca sulle cause e i principi primi, perché il suo impegno si può tradurre nell’indagine del tratto, della forma comune a tutto ciò che si dice causa, e dunque causa prima, senza assumere il riferimento al causato per portare a realizzazione la sua ricerca. 23 Credo che Heidegger si sia reso conto di questo passaggio. Egli afferma, infatti,

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la determinazione del riferimento oggettuale della filosofia prima nell’ente in quanto tale diviene la condizione in base alla quale un principio primo è riconosciuto come tale. Nondimeno, a ben vedeche il carattere di ricerca dei principi si configura come il carattere della sofÖa “nella misura in cui ricerca i principi di quell’ente che sta sotto i principi” (GA 19, p. 58). Più oltre egli asserisce anche che essa, in quanto ôpistªmh, “fa uso delle ¢rcaÖ. Ma essa è anche no‡j. […] Il no‡j è ciò che in senso autentico ha di mira le ¢rcaÖ e le svela” (ibid., p. 143). Ciò significa che il tratto epistemico, e dunque apodittico, può essere conferito alla filosofia prima se essa dispone di un ambito oggettuale il cui essere è dimostrato con sillogismi che presentano in premesse i principi di questo ambito. In questo senso la sapienza, come scienza, fa un certo uso delle ¢rcaÖ. L’ente in quanto tale diviene, dunque, la condizione di possibilità del carattere epistemico della metafisica. In quanto è anche intelletto, essa scopre i principi, e lo fa senza avere più bisogno in questo momento di guardare all’intero dell’ente. La sapienza, dice in sostanza Heidegger, svela i principi in quanto tali, ma questi principi sono primi perché si sottintende che la ricerca della sofÖa abbia preso in esame come ambito oggettuale l’ente in quanto tale. Credo che in fin dei conti stia qui la differenza fra una lettura che pone nell’ente in quanto ente la condizione di possibilità della metafisica come scienza in quanto ambito oggettuale di essa “a monte”, come fa Heidegger, e la lettura che invece sposta “a valle”, per così dire, il riferimento all’ente. Il punto è che nel primo caso la condizione di possibilità dell’ente in quanto tale come ambito oggettuale della metafisica è, come ho cercato di mostrare, vincolata al fatto che la ricerca sin da principio si costituisca come ricerca delle cause e dei principi primi in quanto tali, giacché l’ente in quanto ente non è oggetto come lo sono gli altri ambiti tematici delle altre scienze. Quindi, è vero che la costituzione epistemica della metafisica si mostra solo nel porre l’intero dell’ente come suo ambito oggettuale, ma è altrettanto vero che ciò è possibile nell’ipotesi che vi sia una realtà diversa oltre quella sensibile. Questa ipotesi prende corpo, tuttavia, a partire dal fatto che nella realtà sensibile si mostri un tratto della causalità prima che per sé sia oltre tale realtà di cui la causa prima è appunto causa. Per Heidegger, invece, la nozione di ente in quanto ente si pone come condizione preliminare per la ricerca protologica, per la “¢rcª-Forschung”. Secondo lui la concezione greca dell’essere come beständige Anwesenheit determina all’interno della riflessione sulla natura, sulla f⁄sij l’apertura della riflessione su ciò che è oltre la natura, in quanto è nello spazio della “riflessione fisica” che si mostra la necessità dell’esistenza di un primo motore immobile. Sulla base della concezione temporale dell’essere, allora, il dio diviene l’ente che è massimamente presente e “qeãon significa soltanto il modo più alto dell’essere dell’ente” (cfr. ibid., p. 137). Sulla scorta di ciò la metafisica si configura come una sorta di propaggine dell’indagine sulla f⁄sij, una specie di iperfisica, come risulta evidente non solo nel corso appunto di GA 19 (cfr. ibidem: “La sofÖa ha di mira i timiËtata tÕ f⁄sei, cioè ciò che ha il primato riguardo al modo del suo esser presente ed è così l’autentico presente”), ma anche ad es. nel saggio di molti anni successivo sul concetto di f⁄sij (cfr. Sgv, pp. 195-196: “Questa impossibilità di aggirare la f⁄sij viene alla luce nel nome con cui designiamo il modo tradizionale del sapere occidentale che riguarda l’ente nella sua totalità. L’insieme delle rispettive verità ‘sull’’ente nella sua totalità si chiama ‘meta-fisica’. […] Metafisica è quel sapere in cui l’umanità occidentale storica conserva la verità dei riferimenti all’ente nella sua totalità e la verità su di esso. Meta-fisica è, in un senso assolutamente essenziale, ‘fi-

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re, questa condizione non dichiara affatto che un principio primo è un principio che ha un potere di determinazione causale che vige per ogni ente. Ancora una volta si tratta di lasciare emergere che il principio primo è in realtà considerato da un punto di vista eidetico, cioè esso è osservato quanto al tratto d’essere che costituisce la condizione del suo essere un principio primo. Se la domanda del metafisico avesse, invece, il senso di una domanda sul principio dell’ente in quanto tale, nel senso di un principio in grado di restituire la ragione d’essere di tutto ciò che esiste, ciò che vige appunto a monte dovrebbe permettere di sussumere i singoli ambiti dell’ente sotto di esso. Aristotele, però, non solo pensa che fra i singoli ambiti dell’ente non vi siano principi e cause ontologiche che siano in comune – appunto perché degli enti naturali e degli artefatti il principio di movimento è diverso in quanto è diversa la regola sotto la quale la ¢rcæ kinªsewj opera in ciascun ambito –, ma anche che non sia possibile che fra gli stessi tre tipi di sostanza sussista un principio comune, una ¢rcæ koinª. Non è, in altri termini, in discussione pensare di potere sommare i singoli ambiti regionali, come se in questo modo si potesse costituire un superambito ontologico che sussumesse i singoli ambiti regionali come specie di esso. È la natura del reale stesso a impedire una simile operazione, nella misura in cui nella realtà i principi della f⁄sij “non vanno bene” per il regno dei töcnV ‘nta, sebbene in entrambi i casi si tratti pur sempre di sostanze che sono costituite da una forma e da una materia: invano tenterei difatti di trarre fuori da un cavallo un letto o una statua ed invano attenderei che da un blocco di marmo venisse all’essere un bambino. La metafisica mostra, allora, di non essere una iperfisica, nel senso di una scienza che trova ulteriori principi rispetto a quelli che vengono individuati dalla scienza fisica. Anche se la filosofia prima conquisica’ – cioè un sapere sulla f⁄sij […]. [I]n genere ha poco senso dire che la Fisica preceda la Metafisica, perché la metafisica è tanto ‘fisica’ quanto la fisica è ‘metafisica’”). In questo modo la metafisica si istituisce come indagine sull’ente più autentico (cfr. GA 19, p. 137: “La sofÖa ha la priorità riguardo all’ente in se stesso, nella misura in cui l’ente che essa ha di mira possiede grecamente il primato in conformità all’essere”) ed insieme come domanda sull’essere dell’ente in quanto tale, giacché appunto l’intero dell’ente, la nozione di ente in quanto ente è comprensiva sia dell’ente che più autenticamente è sia del “resto” dell’ente.

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sta le sue condizioni di possibilità a partire da una “scoperta” che avviene nel corso dell’indagine di tipo fisico, essa non si pone semplicemente al di sopra della scienza fisica come un’ulteriore indagine regionale di grado superiore, perché di grado superiore è la regione ontologica di cui essa tratta. È vero che Aristotele pensa che esista una realtà oltre quella naturale, ma egli sa anche che questa realtà resta in parte enigmatica all’intelletto umano che, per quanto congenere, presenta pur sempre un limite ontologico nel suo essere forma di una sostanza composta, che rende parziale l’intellegibilità dell’ente sovrasensibile. È solo di ciò la cui esistenza si attesta tramite sensazione che, come abbiamo visto, Aristotele ritiene possa esserci scienza nel senso esatto del termine. Inoltre, che la metafisica non sia una scienza regionale è provato dal fatto che l’esistenza del dio si dimostra piuttosto in sede di riflessione sulla natura, tanto che, nel suo esito, la prova cui si ricorre in Metafisica L per argomentare in favore dell’esistenza di un primo motore immobile (quindi separato ed eterno, puro atto e pura forma) ricalca in qualche misura quella già costruita nella Fisica. Anche quest’ultimo aspetto presenta comunque una difficoltà, a cui vale la pena accennare, sia pure in termini molto generali. Lo scarto fra il principio primo di movimento, il qeãon, e gli altri enti si consuma a partire dalla differenza “materiale” che intercorre fra essi: il qe“j non ha materia, non conosce nella sua costituzione ontologica ¤lh; le altre sostanze, di contro, sono enti materiali, determinati altresì dalla loro materia o, più precisamente, dall’essere, nel loro essere sinolo, unità inscindibile di materia e forma sul piano della loro concreta esistenza. Da ciò consegue che il qe“j è immobile, mentre le altre sostanze sono suscettibili di movimento, sono propriamente, secondo la terminologia aristotelica, oŸsÖai metablhtikaÖ. Ora, in Metafisica E 1, Aristotele asserisce che se esistesse solo il genere delle sostanze sensibili, basterebbe l’ôpistªmh fusikª per raggiungere la conoscenza dell’ente in quanto tale. Nel caso in cui, però, esista una sostanza eterna, immobile e separata (eÑ dö tÖ ôstin ¢èdion kaà ¢kÖnhton kaà cwrist“n)24, allora dovrà esserci un’altra scienza, che sarà superio24

Cfr. Met. E, 1026a10-11.

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re all’ôpistªmh fusikª giacché superiore è il suo oggetto. È spontaneo qui obiettare che se f⁄sij denomina nello specifico quell’orizzonte ontologico che incorpora in sé il proprio principio di movimento, anche lo stesso principio primo di movimento dovrà, a giusto titolo, rientrare nell’ambito di competenza della ricerca fisica. Eppure Aristotele insiste sull’esigenza di disporre di due scienze distinte. Questa richiesta si giustifica sulla base della costituzione ontologica della prËth ¢rcæ kinªsewj. In quanto separato, in quanto immateriale (•neu ¤lhj) il primo motore non si iscrive nella sfera dei f⁄sei ‘nta. Ora, da un lato la spiegazione dello Stagirita fornisce una chiara indicazione del rapporto esistente fra prËth filosofÖa ed ôpistªmh fusikª; dall’altro lato, genera un’ulteriore difficoltà nella comprensione dell’ambito del sapere rappresentato dalle scienze teoretiche. Stando, infatti, alla spiegazione offertaci sembrerebbe che la fisica sia concepibile come la prima scienza nel caso in cui non ci sia la realtà divina, che, peraltro, in questo contesto, è introdotta per via ipotetica. Proprio questo aspetto rende ragionevole la possibilità di un primato della scienza fisica. Ma la scienza fisica e la filosofia prima si contendono il primato. Se, cioè, si conosce veramente la f⁄sij solo cogliendone il principio e se l’essenza della f⁄sij è data dal fatto che l’¢rcæ kinªsewj risulti iscritta al suo interno, allora è plausibile asserire che in realtà il dio primo motore non esiste separatamente, oltre la f⁄sij, entro il cui ambito per definizione rientra. Ne consegue che la meta-fisica assume il carattere di intra-fisica. La filosofia prima sarebbe, in altri termini, una sorta di scienza fisica dai contorni allargati, una cosmologia, la rappresentazione di una visione cosmologica generale. In questo senso, dunque, non perderebbe il tratto di universalità che la contraddistingue in quanto ontologia. I termini messi in campo da Aristotele nella presentazione di questa complessa tessitura ontologica e gnoseologica non ci autorizzano forse a pensare ad un grande progetto cosmologico in sede epistemica e ad un vasto orizzonte ontologico fondato sulla struttura della kÖnhsij in virtù della quale il mosso (t’ kinht“n) ed il movente (t’ kino‡n) si definiscono l’uno in relazione all’altro, trovando la loro collocazione? 25 25

Che fra le scienze teoretiche possa esservi una sorta di inclusione l’una nell’altra è un’idea che lo stesso Aristotele suggerisce in Met. K 4, 1061b32-33, dove la scienza fisica

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Heidegger coglie la distinzione fra le scienze e la sapienza nel tratto della seconda che, in quanto anche no‡j, rende effettivamente accessibile l’¢rcª 26. Se così stanno le cose, la questione resta effettivamente quella delle condizioni di possibilità della metafisica, ossia quella sul modo in cui e sui limiti entro i quali essa rende accessibile il principio, perché (o se ed in che misura) accede ad esso. In altri termini qui emerge la necessità di chiedersi se la metafisica come protologia radicale sia un progetto realizzabile. Secondo la prospettiva che ho provato a delineare il movimento interrogativo del filosofo primo appare come una sorta di interrogazione di secondo livello sui principi primi, giacché essi non sono ricercati a partire dal riferimento ad un ambito ontologico di cui essi sono appunto principi, ma ponendo essi stessi come oggetto d’indagine e, quindi, come ciò di cui formalmente va trovato l’essere (funzione “principio”), perché il sapere epistemico ha come sua condizione che dell’oggetto indagato si trovino le cause ed i principi (scienza come scire per causas). Rispetto a questo oggetto che si configura come “cause e principi primi”, non si può approntare una conoscenza semplicemente endoxastica, basata su opinioni comuni notevoli o su ciò che i singoli ambiti delle scienze regionali possono dal loro punto di vista rendere noto. Il fatto è, però, che nessun principio che nel reale sia primo è per Aristotele concepibile al modo delle idee platoniche. Non vi è, cioè, uno spazio ontologico considerato come è definita con la matematica come parte (möroj) della f⁄sij. La difficoltà che abbiamo tratteggiato, però, non questiona sulla relazione fra le scienze teoretiche, perché certamente, se la filosofia prima si contraddistingue per la sua universalità, una porzione del suo oggetto non potrà che coincidere con la specifica regione d’essere di cui si occupano scienza fisica e matematica in quanto scienze particolari. Il problema che ho sollevato concerne, invece, la sovrapposizione di prËth filosofÖa ed ôpistªmh fusikª o la conversione della prima nella seconda in virtù di un certo modo d’essere della f⁄sij e del suo principio. 26 Con il quadro delineato prima nei capp. III e IV ho cercato, tuttavia, di mettere in risalto che la nozione di ôpistªmh comporta, per così dire, un suo certo allargamento semantico. Scienza, cioè, deve potersi pensare non solo come dimostrazione, ma anche come processo zetetico che conduce all’apprensione dei principi posti in premesse nel sillogismo apodittico. Ciò significa, allora, che ogni scienza comporta che essa sia in qualche modo anche no‡j, o quanto meno – come dice Aristotele – che il no‡j sia ¢rcª delle ôpist¡mai, se è solo il no‡j ciò che nell’uomo è atto ad operare l’apprensione noetica delle ¢rcaÖ.

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esistente per sé, in cui si dà qualcosa come un principio primo archetipo, forma ideale di tutti i principi primi. Eppure una condizione archetipa, originaria, forma ed essere del principio, deve essere accessibile, cioè intellegibile, per il filosofo primo perché la sua indagine sia sensata. Si tratta, quindi, di uno spazio al limite, in cui da un lato nulla, se non i principi ontologici concreti primi che di volta in volta si individuano, effettivamente esiste e in cui dall’altro vi è un trascendere del principio rispetto a se stesso – ossia rispetto a tutti i principi primi concretamente determinati – che autorizza a potere ri-conoscere che un principio primo è tale perché ha una certa natura, ha una certa forma. Del principio primo (o piuttosto delle cause e dei principi primi) deve potersi pensare una regola che presa per sé renda sensata l’idea che vi sia una ricerca che si indirizzi alla sua comprensione. Questa regola deve avere un tipo di consistenza ontologica che non sia solo, per esprimerci con parole husserliane, intenzionale o irreale, ma anche reale, se è vero che ciò che a noi appare un principio primo è un principio primo secondo la realtà stessa. Se osservato dal punto di vista di un filosofo analitico, certamente questo stato di cose, questo Sachverhalt, può essere letto come il segno inequivocabile di un realismo metafisico e di una conseguente teoria fondazionalista della verità. Questa, ad esempio, è infatti la lettura di Irwin, che ritiene che il rifiuto aristotelico del procedimento all’infinito nella ricerca delle cause e dei principi “si basa sulla richiesta di una rimozione completa di ogni possibile ragione di dubbio”27, posta altresì la concezione aristotelica realistico-metafisica della priorità dei principi primi, la cui intuizione è per lo scienziato bastevole giacché essi hanno il carattere dell’autoevidenza28. Il problema di fondo, però, a mio avviso, non è quello di capire se la concezione aristotelica sia o meno di tipo realista-metafisico. Il problema nell’ipotesi della protologia radicale è rappresentato dal fatto che la questione 27

T. Irwin, op. cit., p. 165. Cfr. ibid., p. 169: “Colui che conosce deve comprendere principi primi autoevidenti in quanto tali; se infatti sono compresi non inferenzialmente [scil. sono anapodittici], senza una giustificazione ulteriore, devono essere compresi come veri e necessari se considerati in se stessi, senza riferimento ad altro. Se quindi devono soddisfare tutte le condizioni di Aristotele, i principi primi devono essere compresi mediante un’intuizione che attesti che hanno proprietà pertinenti”. 28

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del principio, come ora desiderio chiarire, porta in sé la traccia della sua aporeticità.

2. L’aporeticità della questione del principio e le condizioni di possibilità della sofÖa come “scienza teoretica delle cause e dei principi primi” Ho cercato nel percorso finora compiuto di mettere in luce in che senso la domanda protologica del filosofo primo abbia il senso di una ripetizione, perché ciò che è messo in questione è il principio in ciò che lo determina come tale, senza che ciò implichi che, rispetto ai principi primi già noti, egli acceda nell’apprensione ad un altro principio primo “nuovo”, “diverso” che stia alle spalle di essi. Non trattandosi però di un oggetto empirico, l’oggettualità della forma del principio primo deve avere a che fare con la possibilità che essa sia in sé intellegibile. Sebbene questa forma intellegibile non sia altro dal principio stesso, dal punto di vista del logos, della ragione che, per così dire, opera la separazione, il radicarsi dell’essenza del principio primo oltre il principio primo ed oltre l’orizzonte dell’ambito nel quale ogni volta il principio si mostra come primo, sembra fare di quella condizione strutturalmente necessaria affinché si dia una metafisica come scienza teoretica delle cause e dei principi primi un qualcosa di irriducibilmente aporetico per il pensiero. Rispetto a questa aporia non vale a nulla dire che la metafisica aristotelicamente si consegna come un progetto d’indagine (come una ôpistªmh ôpizhtoumönh) e non già come un possesso conoscitivo saldo e sistematico: il successo dell’operazione investigativa si misura in questo caso solo in base alla possibilità che essa sia in grado di aggirare la condizione aporetica che attiene alla conoscenza del principio primo come possibilità di pensare ad una determinazione essenziale del principio primo, che per il pensiero diventa una condizione trascendentale a priori per la donazione nel reale di principi e cause prime. Il successo dell’operazione risiede, dunque, nella possibilità che il principio si mostri in sé come l’altro da sé, ossia in quell’essere che è proprio del principio primo in quanto tale e che è di un determinato principio

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Aristotele dopo Heidegger

primo tanto quanto lo è di qualsiasi altro principio che possa dirsi tale. Ciò significa che sul piano del logos – l’unico a noi disponibile entro cui ci è possibile amministrare questa condizione – l’essere del principio si costituisce come ciò che è prima del principio, in quanto è condizione del suo essere principio primo. I casi allora sono due: – o si arriva a disporre di questa forma in uno spazio logico assolutamente prima del campo stesso in cui il filosofo primo formula la sua ricerca quando indica come oggetto del suo interrogare le cause ed i principi primi – o, se non si è propensi a riconoscere tutto questo perché nulla – neppure nella nozione – può essere prima dei principi primi, si deve concludere che l’essere del principio primo è disponibile al pensiero solo nel campo dell’esperienza, ossia solo nella misura in cui colui che di volta in volta indaga apprende l’esistenza di un principio primo perché lo riconosce a partire, per così dire, dai suoi effetti, risalendo ad esso dall’ambito oggettuale che ha stabilito essere il suo tema d’indagine. In entrambi i casi, la strada per una metafisica eidetica del principio sembra improvvisamente chiudersi, l’accesso appare bloccato. Nel primo caso, perché è un divieto in ordine alla forma stessa del principio che impedisce la costituzione di una eidetica del principio primo. Nel secondo caso, perché si procede sullo stesso percorso delle altre scienze, con il limite che, aspirando la metafisica ad essere una scienza delle cause e dei principi primi che sono tali perché si pone che vigono per l’intero dell’ente, essa di fatto non detiene nessun primato rispetto alle ontologie regionali. Essa, infatti, non dispone (secondo uno spazio logico preliminare, se così posso esprimermi) di una oggettualità intenzionale del principio, il quale si rivela essere primo sempre a posteriori, ossia perché, imbattendoci in fenomeni determinati, l’essere del principio primo (che come principio è di volta in volta diverso per i vari ambiti ontologici, così come il principio è in generale diverso per le varie classi o gruppi di fenomeni che, pur rientrando nello stesso genere, presentano differenze di specie) non si può dare a prescindere dalla relazione che mostra che x è principio di y. Ciò significa, in altri termini, che il progetto di una eidetica del principio non è in sé praticabile, perché la regola secon-

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do la quale io posso dichiarare che un principio è tale – o che qualcosa è principio di qualche altra cosa – si dà solo a partire dal contatto con la datità dei fenomeni. Si tratta, dunque, di una condizione aporetica che attiene alla possibilità dell’intellegibilità del principio primo in quanto tale (nella sua forma): da una parte, un principio primo per essere tale deve potersi isolare dalla serie che da esso deriva, perché per essere assolutamente primo, cioè del tutto indipendentemente da altro, non deve supporre altro, neppure la serie, come condizione della sua originarietà; dall’altra parte, di contro, un principio si riconosce tale solo se è riferito a qualcosa di cui è principio, quindi secondo la relazione fra esso e ciò che da esso procede. Questo nesso, questa regola si consegna nell’esperienza dei fenomeni e mai a prescindere, se la mancanza di un’identità dei principi, né fra gli ambiti dell’ente né fra le sostanze, non sembra autorizzare al passaggio ad una intellegibilità eidetica della forma del principio primo in quanto tale. Si tratta di quella condizione di primordialità del principio che “risulta dopo” o, come scrive Incardona, nel “compimento di ogni essere iniziato” 29. È una primordialità che in questo modo appare spogliata del suo stesso, di ciò che la dovrebbe appunto caratterizzare come una condizione di assoluta originarietà, in cui essa si pone per prima come ciò che è il primo (t’ prÓton). Ma questa è anche la condizione che è propria del reale, quella in cui il principio in un certo senso si fa altro da sé, ossia mostra il suo potere di mettere in movimento, di dare vita ad altro. È la condizione del “non essere di ogni inizio” e del “compimento di ogni essere iniziato”30, tale per cui alla cono29 N. Incardona, “Breviarium principii prosènanchos archèten”, Giornale di Metafisica XVI (1994), 3, p. 294. 30 Ibidem. In questo senso, continua Incardona, “la primordialità di quella fondatezza”, ossia del momento della fondazione del realtà, delle cose che esistono che è a carico del principio in quanto principio primo “è essa stessa un risultare anticipato all’atto che risulterà dopo, cioè in fine, la stessa ultimativa terminazione del primordio” (ibidem). È una primordialità che sul piano del reale, cioè, anche se è prima dei fenomeni, resta sempre ultima, per così dire, a cose fatte, compresa a partire dalle cose e dalla relazione che nel reale si manifesta fra i fenomeni ed i loro principi. Se questa è la legge stessa dell’intellegibilità delle cause e dei principi primi, che tali si mostrano solo nel regno dei fenomeni a posteriori, la stessa pretesa metafisica di procedere a monte per una eidetica del principio diventa impedimento alla stessa intellegibilità del principio che scaturisce dal-

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Aristotele dopo Heidegger

scenza, che risulta solo dal lavoro congiunto della sensazione e dell’intelletto, non resta che fare un passo indietro di fronte alle cose stesse. Non resta, cioè, che accettare che, per quanto voglia ad un certo punto fare a meno delle cose stesse per arginare la loro contingenza ed il loro carattere di imprevedibilità ed accidentalità, siano esse a mostrarsi da sé, al di là di ogni nostra intuizione o pretesa di intellegibilità, riconoscendo così che il principio si mostri tale solo nel darsi concreto dei fenomeni hic et nunc. Credo sia questo il senso della lezione di Incardona: Se il discorso filosofico ha autonomia di fondazione, è quell’unica autonomia che è e nasce dall’accettare di nascere dall’esperienza delle cose, e il discorso è critico perché è consapevole dei rapporti fra la fondazione della filosofia e tutto ciò che può avere rapporto alla filosofia 31.

Non so, a questo punto, quanto le mie argomentazioni ulteriori potranno effettivamente aggirare l’aporia. Ciò che, però, desidero mostrare, con l’analisi del I capitolo di Metafisica E, è che la questione protologica si rivela essere la vera destinazione della filosofia prima aristotelica non solo come ciò che poniamo a monte anche della sua definizione in chiave ontologica e in chiave teologica e che, così, ci consente di comprendere la Zwiegestalt senza eliminarla. La questione protologica, una volta conquistata la definizione della prËth filosofÖa secondo il doppio tratto di determinazione, ossia come indagine sul qeãon, che è insieme indagine sull’oñn Œ ‘n, marca la direzione della filosofia prima nella sua forma onto-teologica come indagine di tipo protologico. Il fatto, cioè, che il filosofo primo abbia davvero di mira la comprensione della struttura della causalità della causa prima, a mio avviso, segna il senso della ricerca che Aristotele coltiva nel solco della determinazione onto-teologica della metafisica. Non si tratta, allora, di eludere la circolarità che si consegna nella determinazione della prËth filosofÖa come “ôpistªmh qeologikª” e come l’esperienza del reale: “[I]l principio cioè in quanto termine di conoscenza secondo la sua stessa forma ancestrale, è esso stesso impedimento posto a principio o, più propriamente, anticipato assolutamente da tergo, alle spalle del non essere stesso del principio e dell’essere determinato di tutti gli elementi identificati della sua forma ancestrale di conoscenza” (ibid., p. 295). 31 N. Incardona, L’assunzione come critica della filosofia. Introduzione alla metafisica del principio, Andò, Palermo 1964, p. 117.

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“ôpistªmh ø qewreã t’ oñn Œ ‘n”. Da questa duplicità, invece, scaturisce una circolarità feconda perché ciò che una tale circolarità mette in movimento non è uno sterile rimpallo fra le due determinazioni al fine di decidere quale delle due sia fondativa rispetto all’altra32. Si tratta piuttosto del fatto che dalla duplicità viene fuori che, procedendo ad una ricerca sull’ente in quanto tale, ci si ritrova ad essere già indirizzati verso la ricerca della forma del principio primo. La filosofia prima tenta di rendere intellegibile tale forma, guardando al qe“j: nel suo modo d’essere separato, come puro eçdoj, la forma della causa prima emerge non solo come ciò che non presuppone altro alle sue spalle, ma anche e soprattutto come ciò che ha il potere di mettere in movimento qualche altra cosa in forza solo di se stesso. Resta il fatto che il dio e gli astri, le stelle e le sfere celesti ed il mondo sublunare per Aristotele sono coeterni e che, dunque, ciò che si pensa come principio primo è ciò che va inteso come principio primo di movimento, senza che questo movimento debba per forza essere inteso nel senso della metabolæ kat¶ t’ tÖ ôsti, ossia della generazione e della corruzione. La domanda protologica nel contesto aristotelico non è mai la domanda della creatio ex nihilo, ma è la questione su una struttura che regge il reale nel suo ritmo e nel suo incessante movimento, nello scandirsi del tempo, nell’alternarsi delle stagioni, nella rotazione senza fine degli astri, nel continuo generarsi di esseri umani sempre da altri esseri umani e mai da sostanze di altra specie o genere. In Metafisica A Aristotele pone espressamente la necessità di comprendere quale sia il tipo di causa e di principio di cui si occupa la 32 Questa questione non dovrebbe neppure sorgere, perché la nozione di intero dell’ente è posta da Aristotele a partire dall’ipotesi che esista il qe“j. In questo senso è la caratura teologica che dovrebbe risultare prima di quella ontologica. Il fatto è che non si può semplicemente porre l’equivalenza qe“j/indagine teologica e oñn Œ ‘n/indagine ontologica. Dall’esistenza del dio, in altri termini, ciò che consegue è che vi è un intero dell’ente che non si identifica con l’intero della f⁄sij. Dunque, se il compito è capire l’intero e non una sua parte, bisogna approntare un’altra ricerca oltre a quella del fisico e, vista da questa prospettiva, la determinazione ontologica risulta “venire prima” di quella teologica. Di fatto non ha molto senso porre la questione in questi termini, perché le due determinazioni rinviano l’una all’altra reciprocamente a seconda di come si veda questa apertura della nozione di “intero dell’ente” a partire dalla necessità di porre l’esistenza di una realtà sovrasensibile. Ecco perché la circolarità è ineludibile.

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sofÖa:

“Dal momento che noi cerchiamo questa scienza, bisogna esaminare di quali cause e di quali principi la sapienza è scienza” 33. È nel libro G che queste cause e questi principi sono qualificati come “sommi”, come “i più alti”, come “i più esatti” 34, e sono detti “primi” appunto perché cause e principi dell’ente in quanto tale 35. I principi e le cause prime sembra che abbiano “qualcosa” in più dunque, una qualità diversa rispetto ai principi ed alle cause (pur sempre prime) che sono conquistati nelle altre scienze. Aristotele pare che esprima questa distinzione in termini molto semplici e, quindi, non problematici. Si misura la primarietà dei principi di cui si occupa la metafisica perché essi valgono per tutto l’ente e non solo per una sua parte; così mentre, ad esempio, si può dire che le quattro cause individuate dal fisico valgono solo per quella parte dell’ente che è l’ente mosso, esse non sono più sufficienti per spiegare altre “zone” dell’ente. Ad eccezione del qe“j ed in fondo della materia, come ciò che è nel suo elemento ultimo o aria o acqua o terra o fuoco (o una mescolanza di questi elementi in proporzioni variabili), Aristotele non dà mai un contenuto specifico alle cause: le cause sono sempre determinate esclusivamente sulla base della loro funzionalità, della loro nozione formale. Certamente, di volta in volta, rispetto al genere o alla specie o al singolo individuo determinato, si dichiara il contenuto, ma sul piano di un discorso generale – e dunque formale – sulle cause il criterio è quello dell’osservazione di esse dal punto di vista eidetico, cioè, come ho già detto, della loro funzione di cause. Ho anche messo in evidenza che fra alcune di queste cause (eçdoj, töloj, ¢rcæ kinªsewj ) si dà una reciproca convertibilità e che il dio è l’espressione più piena di questo rapporto: il qe“j è principio primo di movimento – principio da cui prende avvio il movimento dell’intero dell’ente che si configura traendo fuori questo principio dall’intero della f⁄sij e, dunque, senza la necessità di considerarlo un principio interno alla serie che esso spiega –, ma al modo della causa finale, 33

Met. A, 982a4-7. Cfr. Met. G, 1003a26-27. L’aggettivo •kroj, usato in forma superlativa, ha tutti questi significati ed ognuno di essi è assolutamente pertinente ai principi dell’ente in quanto ente. 35 Ibid., a31-32. 34

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Il racconto del primato conteso

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come ciò in vista di cui si dà il movimento degli astri e dei corpi celesti, ed al modo della causa formale, come ciò che, spiegando il movimento perché principio primo, lascia che si comprenda quella che è l’essenza propria, il modo d’essere essenziale della f⁄sij. È qui, a mio avviso, che ci si imbatte in una sorta di discrimine: noi ci riferiamo alla totalità dell’ente per qualificare le cause e i principi come primi, ma di fatto queste cause e questi principi non hanno affatto il valore di cause e principi che valgono per tutto l’ente: la materia non è causa del dio; il dio è causa della f⁄sij non come una causa efficiente, creatrice, bensì come un principio che passivamente mette in moto e non è causa di sé. Il suo essere è la ragione del suo essere principio primo di movimento, ma non vi è ragione nel suo essere che necessiti che il suo essere sia tale. Non è la sua essenza che determina la sua esistenza, la necessità della sua esistenza è richiesta da ciò che è quanto al suo essere assolutamente altro da esso, ossia dalla natura36. Ma se la causalità prima dello stesso qe“j non può allora essere 36

A questo proposito Ermanno Bencivenga registra un passaggio nella ricerca della causa del movimento. In sostanza dal registro della ricerca della causa efficiente del movimento, ad un certo momento, Aristotele passa a quello della ricerca della causa formale, coinvolgendo così il qe“j tra le cause che concorrono a spiegare la struttura di movimento della realtà naturale: “Nel tentativo di far quadrare il circolo, cioè di risolvere l’apparente ossimoro di un movimento eterno che abbia un’origine, Aristotele in realtà cambia le carte in tavola: dall’eterna successione di cause efficienti del movimento universale si sposta a una causa finale del movimento stesso – il suo Dio, infatti, muove in quanto oggetto di desiderio, quindi causa il movimento in quanto altri enti (il primo cielo, e poi tutto il resto dell’universo) si pongono come scopo di raggiungerlo. Quando da Aristotele passiamo alla teologia cristiana, l’eternità del movimento e della successione di cause efficienti non vale più, perché si ritiene che universo e movimento siano stati creati dal nulla; il salto di qualità rimane, perché rimane pur sempre vero che qualcosa non è nel tempo (Dio, o la ragione divina, o il suo piano), e dunque non può avere il carattere di un evento, “causa” un evento (il primo istante del mondo, e per implicazione ogni istante successivo). E una causa del genere, non essendo nel tempo, non può essere di natura efficiente” (E. Bencivenga, La dimostrazione di Dio. Come la filosofia ha cercato di capire la fede, Mondadori, Milano 2009, p. 53). Spiega inoltre Bencivenga che in questo modo il qe“j aristotelico non appare una causa sui nel senso stretto della nozione, a meno di non leggere la struttura della causa sui nel modo suggerito, appunto, da lui che considera la dimostrazione aristotelica dell’esistenza del motore immobile come esempio di una prova cosmologica che, come in genere tutte le prove cosmologiche fornite dalla tradizione, ha il difetto di intendere come primo motore qualcosa di perfettissimo che invece potrebbe non essere tale. Infatti, anche lo Stagirita finisce per definire il qe“j come il bene, sebbene si possa, però, anche dire che al di fuori dell’ambito di una determinazione etica del bene, la perfezione del dio è data fuori dall’ordine morale e

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Aristotele dopo Heidegger

pensata a prescindere da ciò che ne consegue come causato, non ci si può esimere dal chiedersi in che cosa consista quel carattere di primarietà con cui sono qualificati i principi e le cause su cui verte la ricerca del filosofo primo. Il fatto di non potere concepire un principio primo, una causa prima che è comune per tutti gli enti, che in quanto tali rientrano nella nozione di intero dell’ente – che appunto prende origine dal fatto che l’ente è considerato nel suo essere ente e non sotto altro rispetto –, ci costringe in qualche modo ad assumere una prospettiva diversa. Non si imposta la ricerca sulle cause e i principi primi se non sul piano esclusivamente formale, l’unico dal quale si trae la possibilità che questa ricerca non ha di mira la scoperta di un’altra causa prima e di un altro principio primo oltre quelli già in un certo modo noti. Solo sul piano di un’osservazione formale, eidetica, lo stesso riferimento all’ente in quanto tale, che serve per dichiarare primi i principi e le cause, acquista uno spessore. Non vi è un genere “ente”; vi sono di contro regioni ontologiche contraddistinte da note peculiari che consentono la partizione fra l’una e l’altra, come appunto il movimento ed il modo in cui il principio di movimento si comporta rispetto all’ambito che da esso consegue. Di fatto di ogni ente, che in quanto ente rientra nella nozione di ente, non può che cercarsi una causa che sia riguardata e vista come causa di ogni ente solo in senso formale. Ciò in due sensi: 1) piuttosto in senso ontologico per il fatto che il qe“j è immobile ed eterno, privo di materia. In ogni caso Bencivenga spiega così in che senso si possa parlare del dio aristotelico al modo della causa sui senza che ciò comporti il parlare del dio come causa della sua esistenza: “Ma non si era detto che per Aristotele il primo motore è immobile? Che la prima causa del movimento non è causata, è priva cioè di causa? Perché dire allora che Dio ha una causa, sia pure identica a Dio stesso? Quel che abbiamo di fronte è un’altra manifestazione del “salto di qualità” caratteristico della prova cosmologica. Tutto ciò che ha una causa diversa da se stesso è contingente: esiste ma potrebbe anche non esistere, se la sua causa non avesse operato. Dio non è contingente ma necessario: non potrebbe non esistere. Il che si può anche esprimere dicendo: considerando quel che Dio è (la sua essenza), è impossibile che Dio non esista; l’esistenza di Dio segue dalla sua essenza. Quindi se ci si chiedesse “Perché esiste Dio?” si potrebbe rispondere facendo riferimento alla sua essenza, e Aristotele non esiterebbe ad ammettere che tale risposta fornisca una causa dell’esistenza di Dio. Non una causa efficiente, è ovvio: una causa formale. In conclusione, dire che Dio è causa di se stesso non è diverso dal dire che non è causato: quando si usa la seconda espressione ci si riferisce al suo non avere una causa efficiente e quando si usa la prima ci si riferisce al suo avere una causa formale” (ibid., p. 65-66).

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Il racconto del primato conteso

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ogni ente ha una causa formale, ossia un eçdoj che è forma propria e specifica che lo determina in modo individuale; 2) la causa formale dell’ente può essere osservata solo in senso eidetico appunto perché, non essendo l’intero dell’ente un genere, non vi è una causa formale dell’essere ente in quanto tale. In questo modo, della causa formale si cerca la forma, ossia ciò che si assume come il suo tratto peculiare. Di fronte a questo modo di impostare la questione si tratta, in un certo senso, solo di correggere il tiro e, forse, di considerare che in genere la filosofia aristotelica si costruisce nello sceverare i vari significati che una nozione possiede, per eventualmente chiedersi quale sia il senso che regge e governa la polisemia. A mio avviso, per aggirare l’aporeticità della questione del principio si tratta di operare questa correzione prospettica, cercando di non cadere in quella che può sembrare la trappola tesa da ogni scienza eidetica, quando pone come principio ciò che è poi l’essere stesso della cosa cercata. Dal punto di vista del reale, dell’esistenza, non essendo questa forma esistente se non nel principio, la forma della causa prima non è più della causa prima; ciò che otteniamo, in altri termini, sul piano ontologico non è di più del principio primo. Certamente nello spazio del logos, entro cui si apre ed assume senso la domanda sulla forma del principio primo – perché è solo nel logos che comunque a noi appare separato sia ciò che lo è quanto all’essere sia ciò che lo è tramite il logos stesso –, lo specchio della riflessione sembra distorcere e sdoppiare l’oggetto. Nondimeno, è solo questa sorta di sdoppiamento sui generis ad essere la condizione di possibilità che la filosofia prima si costituisca come una ricerca sulle cause ed i principi primi senza perdere né il suo carattere anapodittico né il carattere epistemico dello scire per causas. Solo a questa condizione la ricerca del filosofo primo appare sensata e coerente, conquistando uno spazio di assoluta autonomia dalle altre ôpist¡mai; solo a questa condizione, in altri termini, la filosofia prima si profila come una scienza teoretica delle cause e dei principi primi; solo a questa condizione, ancora, si articolano la differenza e la distanza fra la prËth filosofÖa e l’ôpistªmh fusikª, sancendo nello scarto fra la causa prima e la sua forma, sorto nella riflessione “di secondo livello” sulle cause e i principi primi, lo stesso primato della prima scienza sulla seconda:

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Della causa di cui già disponiamo qualcos’altro si dà ancora da ricercare; non già perché essa non sia ancora la causa prima ma anzi proprio in quanto è prima. Nulla che abbia a che vedere, dunque, con un cammino a ritroso in cerca di un fondamento ultimo; piuttosto, uno scarto, una doppia battuta, un’articolazione che consenta di portare alla parola il medesimo. Della causa, cercare la causa – il genitivo ha valore partitivo –. Se questo è il metodo di ricerca della causa prima, il passo proprio della metafisica non sta nel cercare una causa ulteriore, ma nel raccogliere la ricerca nello spazio della partizione; non dell’andare oltre, dunque, ma nel raggiungere, semmai, il medesimo a partire da ciò che, di esso, cade oltre 37.

Cade oltre: perché? Cade oltre perché è in forza di questo “qualcosa”, di questo dispositivo di azione, per così dire, che fa sì che una causa sia tale, che io riconosco che il mio desiderio di un paio di scarpe mi mette in movimento e mi fa uscire di casa come il desiderio per il quale Aristotele può dire che il qe“j muove il primo cielo come –rekt“n. C’è, quindi, un modo d’essere oltre la cosa di cui la causa è causa che fa della causa altro da ciò che causa. Se questo rasenta la banalità nel caso della cosiddetta causa efficiente (l’artigiano è altro 37

G. Nicolaci, “Meta-fisica come archeologia”, in G. Nicolaci-P. Polizzi (a c. di), Radici metafisiche della filosofia. Scritti per Nunzio Incardona, Tilgher, Genova 2002, p. 281. Osserva, inoltre, Nicolaci: “Se la questione di cosa sia l’ente rimane il tema d’origine della filosofia occidentale, ciò che ne qualifica come metafisica l’apertura e ne governa la destinazione teo-logica è la circostanza, in sé non necessaria e per tanti versi problematica, che essa venga, per così dire, riguadagnata a partire dalla domanda sui principi. Per dirla in un linguaggio aristotelico, a configurare come primi i principi e le cause di cui si occupa la metafisica non è la considerazione che, a differenza degli altri, essi vanno riferiti all’intero ambito di ciò che è (il che suppone la preliminare disponibilità formale di un oggetto come l’intero ambito di ciò che è). È invece il fatto che le cause e i principi delle cose e del sapere sono posti in questione rispetto a ciò che è per sé primo a rendere il riferimento alla totalità dell’ente disponibile ex novo al pensiero” (ibid., p. 277). Ora è perché è capace di articolare lo scarto fra la cosa (il principio) e la sua forma – che è la differenza stessa che intercorre fra il dire di una cosa il suo “che è” (t’ ”ti) e il dire della medesima cosa il suo “che cos’è”, il suo “perché” (to di“ti) –, che la sofÖa coglie la primarietà dei principi senza che ciò autorizzi poi il pensiero a fare a meno del mondo dei fenomeni in cui si apprezza di una causa e di un principio il loro essere primi: “Il passo epistemico della sapienza consiste nel guardare esclusivamente in questo punto di snodo; e dunque nel replicare, trattenendolo nel corpo stesso della causa – nella materia di pensiero da cui per se stesso comincia ogni epìstasthai – quel medesimo gesto di differimento e di rinvio del to hoti al to diòti, che è il passo attraverso cui l’epistème si apre la strada nel cuore dell’empeirìa, dove non cessa tuttavia di fondarsi il riferimento del pensiero alle cose che si danno da apprendere, in genere, come reali: ta onta” (ibid., p. 281).

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dal tavolo che produce; chi agisce è altro dall’azione da lui compiuta; nel regno della f⁄sij, il padre è un altro individuo determinato e ben distinto dal figlio), o della stessa causa materiale (nulla di ciò che è composto si identifica tout court solo con il suo costituente materiale), lo scarto si fa enigmatico quando la cesura va pensata fra ciò che Aristotele definisce come la causa formale, l’essenza, e la cosa stessa. A mio avviso è anche questa sorta di enigma che Aristotele ci chiede di provare a comprendere, quando ci chiede di capire il dispositivo di azione, per così dire, l’essere, la forma, il principio che è proprio di una causa prima. 3. I termini dell’aporia della filosofia prima in Metafisica E, capitolo I Le pagine che seguono, centrate sull’analisi puntuale del I capitolo di Metafisica E, hanno una duplice finalità. Da un lato, esse servono per conquistare la posizione per rispondere alla seconda domanda che ho posto in questo capitolo: una volta istruita come scienza sull’ente in quanto tale in forza dell’esistenza di una realtà sovrasensibile, cosa resta del progetto di un’indagine sulle cause e i principi primi? Che traccia rimane, cioè, del progetto di una protologia radicale in conformità del quale il filosofo primo conquista il suo spazio speculativo in autonomia da quello del fisico nell’ambito delle scienze teoretiche? Dall’altro lato, l’analisi mira a saggiare le condizioni di applicazione del canone esegetico heideggeriano rispetto al momento storico originario in cui la metafisica espressamente si istituzionalizza dichiarandosi ôpistªmh. Rimanendo il più possibile vicina alle intenzioni del testo – e fermo restando che si tratta pur sempre della mia lettura e che il testo della Metafisica presenta difficoltà che hanno anche a fare con la storia della sua trasmissione –, desidero nuovamente saggiare, e questa volta con specifico riferimento alla pagina del Corpus in cui per tradizione si riconosce che si apre l’aporia della determinazione dello statuto della metafisica aristotelica, in che modo ed entro che limiti si possa fare uso della nozione di onto-teologia riferendosi ad Aristotele38. Si tratta, dunque, di far tesoro delle 38

Ho svolto questo compito soprattutto nei capitoli III e IV focalizzando la mia at-

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Aristotele dopo Heidegger

indicazioni critiche offerte dalla “scuola” di studi sulla storia della metafisica di area francese: riferendomi alla posizione di Marion, alla fine del V capitolo, ho sottolineato che la richiesta che si avanza nel contesto di ricerca di lingua francese è di chiarire, quando si fa uso del paradigma onto-teologico, quali ne siano le condizioni. È inutile negare che questa operazione, nel mio caso, vuole ancora una volta procedere ad una liberazione della nozione di onto-teologia, portando alla luce aspetti essenziali della metafisica aristotelica, sondando l’origine stessa nelle sue possibilità. Per la sua problematicità il processo di definizione della filosofia prima, da zªthsij ad ôpistªmh, impone una battuta d’arresto proprio rispetto a quella trattazione in cui Aristotele sembra istituire in modo definito la prËth filosofÖa come scienza39. Il I capitolo del libro E della Metafisica, per il fatto di presentare la filosofia prima come scienza del “genere più degno di onore” e dell’“ente in quanto ente”, è diventato nella storia esegetica della Metafisica il luogo della contesa e della decisione, determinando oltre che il contenuto dell’interpretazione anche lo sviluppo successivo della metafisica stessa. tenzione su passaggi-chiave di Et. Nic. e An. Post. Ora mi preme, invece, esaminare il I cap. di Met. E, appunto perché è in questo capitolo che si costruisce originariamente l’enigma, parafrasando Heidegger, della Zwiegestalt della metafisica. 39 Nel caso della filosofia prima, tuttavia, non si tratta solo del processo epistemico costituito dal momento iniziale della ricerca e da quello successivo dell’articolazione della conoscenza appresa. Come già sottolineato, è inizialmente la stessa prËth filosofÖa, la possibilità della sua esistenza come scienza a costituire tema di indagine. Ne sono conferma non solo espressioni come “scienza ricercata” e “la scienza che cerchiamo”, che ricorrono in contesti, per così dire, introduttivi, ossia nei luoghi in cui si discutono le aporie riguardanti questa scienza in vista della previa fondazione della sua possibilità in sede epistemica, ma altresì una certa problematicità che caratterizza l’oggetto della filosofia prima, della sofÖa. In Met. A, quando la conquista di una definizione della sapienza è ancora per intero in gioco, i principi e le cause di cui questa scienza suprema si deve occupare non sono in prima battuta definiti come “primi”, bensì in modo generico come “certi”, “alcuni” principi, sebbene vi sia un esplicito rimando all’úndoxon che vuole che la sofÖa verta intorno a principi e cause prime: “E’ chiaro che dunque la sapienza sia scienza di certi principi e cause (perÖ tinaj ¢rc¶j kaà aÑtÖaj)” (cfr. Met. A, 982a1-3). Ogni incertezza, ogni vaghezza terminologica scompare invece dalle definizioni della prËth filosofÖa e del suo oggetto nei casi in cui Aristotele è ormai avviato nel lavoro proprio d’indagine della filosofia prima, così che l’unica questione veramente importante che sembra rimanere in piedi ed essere decisiva, per la possibilità di attuare la filosofia prima come scienza altra rispetto alla scienza fisica, è se il qe“j, la sostanza sovrasensibile esista o meno e con quali caratteri, con quale modo d’essere.

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Il racconto del primato conteso

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Il fatto che dalla determinazione della filosofia prima, scaturita dall’individuazione del suo oggetto di studio, sorga una difficoltà è in un certo modo riconosciuto dallo stesso Aristotele nella parte conclusiva del capitolo. Forse ciò sorprende dal momento che non fa alcun cenno al problema, almeno negli stessi termini, nella sede specificamente dedicata alla trattazione delle aporie relative alla scienza di cui si va in cerca, il libro B. Qui lo Stagirita affronta diverse questioni che sicuramente sono strettamente connesse con la questione della duplicità della filosofia prima40, ma nessuna di esse ricalca, nella formulazione, lo stesso tipo di problema che egli riconosce che emerge dalla determinazione della filosofia prima a partire dall’individuazione della sostanza immobile, eterna, separata in quanto suo oggetto. Per ottenere una comprensione il più possibile precisa propongo, dunque, una lettura del capitolo attraverso una divisione in tre parti: a) I parte 1025b3-1026a19: descrizione delle scienze teoretiche; b) II parte 1026a19-1026a23: il primato della scienza teologica e la natura del “divino”; c) III parte 1026a23-1026a32: l’aporia della filosofia prima come scienza dell’ente in quanto ente e scienza teologica. Le prime due parti del capitolo si possono considerare una descrizione del sapere teoretico e della sua fondazione sulla base della realtà stessa; la terza parte pone specificamente la questione della filosofia prima e ne tratteggia sinteticamente la soluzione. 40

A mio avviso si possono considerare le tre aporie concernenti rispettivamente il numero delle scienze che si occupano della sostanza (cfr. Met. B, 995b13), l’esistenza di una sostanza oltre le sostanze sensibili (cfr. Met. B, 995b14-15) e l’identità fra i principi degli enti corruttibili e quelli degli incorruttibili (cfr. Met. B, 996a2-3) come espressione equivalente del medesimo problema di Met. E che ora sto analizzando. La differenza è che in B la questione è formulata guardando al carattere usiologico della prima scienza e, quindi, soffermandosi più esplicitamente sul problema dell’esistenza della sostanza sovrasensibile e sulla domanda se fra le sostanze ci siano o no principi comuni, tesi quest’ultima espressamente rigettata da Met. L (cfr. Met. L, 1069b1-2). In E la domanda sembra porsi rispetto al modo in cui entro la scienza prima il suo avere di mira i principi dell’ente in quanto tale non sia in contraddizione con il suo indagare l’ente divino primo ed i suoi principi. In questo senso, si ammette già che vi sia una sostanza sovrasensibile, ma risulta problematica la compresenza del tratto investigativo usiologico universale e del carattere particolare come scienza usiologica specifica del primo ente divino. Rimangono così in piedi due delle tre aporie di B che ho ricordato.

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Aristotele dopo Heidegger

a) La prima parte di Metafisica E, capitolo I (1025b3-1026a19). Le scienze teoretiche ed il loro oggetto: il bisogno della scienza teologica e l’esistenza ipotetica dell’ente separato, immobile, eterno Nella prima parte del I capitolo di E, dopo avere affermato che a essere ricercati sono i principi e le cause degli enti in quanto enti (o dell’ente in senso assoluto, a`plÓj) e dopo avere discusso sia della scienza fisica a partire dal suo oggetto, distinguendola dalle scienze poietiche e pratiche, sia più brevemente della scienza matematica e del suo oggetto, Aristotele introduce la questione dell’esistenza di qualcosa di eterno, immobile e separato41. Nell’espressione ipotetica con cui lo Stagirita formula l’esistenza di questo tipo di realtà si palesa il senso di una domanda certamente fondamentale, ma che in questo contesto sembra essere posta ex abrupto. L’oggetto della “prËth filosofÖa” – espressione che compare solo alla fine di questo primo capitolo di E ed in K – è stato, infatti, già con chiarezza indicato nell’incipit del libro con il riferimento all’ente in quanto tale. Tuttavia, secondo Aristotele, è proprio la possibilità ontologica dell’ente eterno, immobile e separato a determinare, entro il campo del sapere teoretico, la necessità di un’ulteriore scienza oltre le due già note, fisica e matematica: di ciò che è separato non può occuparsi né l’ôpistªmh fusikª, perché questa indaga gli enti che hanno materia e che, dunque, sono in movimento, né l’ôpistªmh maqhmatikª, che studia quegli enti che sono sì immobili, ma non separati. Pur non volendo qui affrontare nel dettaglio i problemi connessi alla determinazione dell’oggetto matematico, già la sua considerazione pone la complessa questione del modo in cui un oggetto può diventare tema di indagine rispetto alla sua costituzione nel reale. L’ente matematico è definito da Aristotele come ¢kÖnhton, sebbene la sua immobilità non sia espressione di immaterialità. Ma ciò che ha materia è per questo stesso aristotelicamente suscettibile di mutamento. Quando lo Stagirita parla dell’¢kÖnhton generalmente non si riferisce alle realtà che sono nello stato di quiete, pur avendo la po41 “Se vi è qualcosa di eterno, immobile e separato, è manifesto che la conoscenza compete alla scienza teoretica, né tuttavia alla scienza fisica […] né alla scienza matematica, bensì ad una scienza prima rispetto ad entrambe” (Met. E, 1026a10-13).

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Il racconto del primato conteso

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tenza del movimento, bensì indica quella sostanza che costitutivamente non accoglie la potenza del movimento perché immateriale. Anche in E Aristotele è consapevole che la definizione dell’ente matematico come immobile ma materiale può creare delle difficoltà, tanto da asserire che “non è ora chiaro se la scienza teoretica matematica sia scienza degli enti immobili e separati”42. La questione sottesa alla determinazione dell’oggetto matematico non è tanto, infatti, se la scienza matematica sia o no possibile, quanto se lo è in relazione ad un oggetto così definito. Si potrebbe sostenere che qui il termine cwrist“n si possa assumere nel significato con cui Aristotele lo usa, sempre in E, in riferimento alla definizione dell’oggetto della scienza fisica: “Infatti la scienza fisica studia gli enti ‘separati’ ma non immobili” 43. Bisogna in questo caso considerare che anche la nozio42 Ibid., 1026a7-8. Il problema della definizione dell’ente matematico è variamente presente all’interno del Corpus Aristotelicum. In Met. B si pone la questione della definizione dell’ente matematico (numeri e corpi geometrici), chiedendo se esso vada visto come una sostanza o meno; è, però, in particolare nel libro M (cfr. capp. 2-3) che si affronta il tema del modo d’essere dell’oggetto matematico, concludendo per l’esistenza dell’ente matematico come quel che non esiste in modo separato rispetto alla realtà sensibile e che, pur tuttavia, è considerato solo nella sua quantità ed estensione e non in quanto in movimento. Lo Stagirita fa riferimento al lavoro della scienza matematica ed alla definizione dell’oggetto matematico in relazione al modo in cui le scienze matematiche lo determinano marcando la distinzione con l’ôpistªmh fusikª in Met. K, 1061a28 ss. (dove lo Stagirita è parecchio preciso nella descrizione del campo d’indagine del matematico che “indaga togliendo tutto quello che è sensibile”, pur non essendo l’ente matematico un alcunché di separato secondo quanto asserito in K, 1059b13 e in K, 1064a33), ma anche ad es. in Phys. I, cap. 2, in De caelo III, 299a13 ss., in De an. I, 403b14 ss., in Et. Nic. VI,1142a16 ss. In questo passo di Et. Nic. e in An. Post. (cfr. I, 79a1 ss.) Aristotele chiarisce altresì che la differenza fra la scienza matematica e la scienza fisica consiste nel fatto che la prima non si serve, a differenza della seconda, dell’esperienza. Per questo i giovani sono abili nelle scienze matematiche, ma data la loro età inesperta non saranno né sapienti né fisici; ancora per questo il fisico conosce che la cosa è (l’”ti) facendo ricorso alla sensazione, mentre il matematico conosce il perché (il di“ti), lavorando con le essenze (eádh) senza riferirle ad un sostrato (ÿpokeÖmenon). 43 Met. E, 1026a13-14. A proposito della natura dell’oggetto d’indagine della scienza fisica, il dibattito esegetico si è spesso diviso circa la lezione da assumere nel testo. Secondo la lezione del Ross Aristotele afferma che oggetto d’indagine dell’ôpistªmh fusikª sono le realtà “cwrist£” ma in movimento (oŸk ¢kÖnhta), aggiungendo subito dopo che è la prima scienza teoretica ad occuparsi delle realtà separate e immobili. Nella versione del Bekker, che segue la lezione tradita da Alessandro di Afrodisia, compare invece “¢cwrist£” al posto di “cwrist£”. L’edizione critica dello Schwegler corregge successivamente con “cwrist£”. La correzione dello Schwegler è poi invalsa, appunto con Ross, Bonitz, Christ, Jaeger ed è, fra l’altro, la lezione che compare nelle trascrizioni greche su

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Aristotele dopo Heidegger

ne di cwrist“n è di fatto nell’uso aristotelico polisemica. La sostanza sensibile di cui si occupa l’ôpistªmh fusikª è detta “separata” non già perché appunto immateriale, ma in quanto considerata come ciò che ha sussistenza per sé, come quel che, proprio perché oŸsÖa e prËth oŸsÖa , in quanto determinato individualmente, non esiste “in altro”, ma autonomamente, per se stesso, rispetto agli altri modi d’essere categoriali e accidentali propri di ciò che è in quanto inerisce alla sostanza44. In K fra i vari significati dell’¢kÖnhton Aristotele ne formula uno che è sinonimo di quel che è nello stato della quiete come condizione contraria al movimento45. Compreso sotto questo significato, l’ente immobile di cui si occupa la scienza matematica è ciò che, quindi, pur avendo materia, è nello stato di quiete sempre. Rimane tuttavia in piedi la questione del perché lo studio dell’ente matematico, che è dunque immobile, sia pure incessantemente al modo di una sostanza sensibile il cui stato di quiete è solo una privazione di movimento, non debba altresì competere alla scienza fisica, una parte della quale è costituita anche dalla “cosmologia” e dalla “psicologia”, ossia da indagini che in un certo modo hanno a che fare con enti incorruttibili quali gli astri e l’anima46. Coglie molto bene il problema Mansion che mette in evidenza la differenza fra il modo di cui si basa la traduzione della Metafisica. Nonostante il credito accordato alla correzione dello Schwegler, bisogna riconoscere che anche l’espressione “¢cwrist£” dell’edizione del Bekker è concettualmente plausibile. Quale che sia, infatti, la versione autenticamente aristotelica, in un caso, prediligendo “cwrist£”, si sottolinea l’essere della sostanza che è oggetto della scienza fisica al modo di un che di determinato sussistente per sé, mentre nell’altro caso, con “¢cwrist£”, si prospetta la sostanza sensibile nel suo essere sinolo di materia e forma. Si tratta di sensi diversi, sorretti da ben precise motivazioni concettuali e tali da determinare, appunto, due interventi di natura filologica opposti. 44 Cfr. ad es. Met. Z, 1028a22-24, in cui, a differenza della sostanza, le altre categorie sono determinate come quel che non esiste per sé (kaq'aÿt“) né che può essere separato (cwrÖzesqai) dalla sostanza, e Cat. 1b4-5, in cui la sostanza prima individuale, come “un certo uomo o un certo cavallo”, è definita come quel che “non è in un soggetto e non si dice di un soggetto” (o‹te ôn ÿpokeimönJ ôstàn o‹te kaq'ÿpokeimönou lögetai). 45 Cfr. Met. K, 1068b22-25. 46 In Phys. II, 193b15 ss. Aristotele si pone espressamente questa domanda a partire dal duplice significato di f⁄sij come forma e come materia. Anche se la stessa scienza fisica opera con un certo grado di astrazione dalla materia sensibile, indagando “intorno a quelle cose che sono separate per la forma, ma sono nella materia” (ibid., 194b13-14), la sua considerazione dell’ente fisico non può prescindere dalla sua costituzione materiale in quanto principio e causa della sostanza sensibile al pari della forma.

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Il racconto del primato conteso

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approccio della scienza fisica e quello della scienza matematica, sottolineando che la distinzione fra le due ôpist¡mai, e quindi, fra gli oggetti della loro indagine, consiste nel metodo opposto con cui esse lavorano; l’una, la matematica, ricorrendo all’astrazione, l’altra, la fisica, all’aggiunzione. Conseguentemente l’ente matematico, pur esistendo nella materia, è considerato astrattamente da essa, a differenza dell’ente fisico: Gli enti matematici, più astrattamente, non includono dunque, allo stesso modo implicitamente, la materia sensibile dentro la loro definizione. Per tale ragione Aristotele spesso li chiama astrazioni o prodotti dell’astrazione (t¶ ôx ¢fairösewj ); di contro gli enti fisici sono descritti occasionalmente come i risultati dell’addizione (t¶ ôk prosqösewj)47.

A partire da questa distinzione è possibile, secondo Mansion, ricostruire la differenza fra gli enti immateriali reali, ossia il qe“j, e gli enti immateriali per astrazione, cioè gli enti matematici con la loro cosiddetta ¤lh nohtª, la materia intellegibile che si può considerare opposta alla materia sensibile (¤lh aÑsqhtª o ¤lh fusikª). Nondimeno, alla luce della nozione di ¤lh nohtª, a cui Aristotele fa riferimento nel capitolo 10 di Metafisica Z, la differenza fra matematica e fisica torna a presentarsi nella sua problematicità. La stessa scienza fisica, pur studiando gli enti sensibili, non li considera individualmente caso per caso, ma sotto la forma identica per tutti di “essere enti in movimento”, tanto da poterne individuare le proprietà ed i principi comuni, proprio perché dentro la realtà fenomenale, un cerchio, concepito come semplice unità matematica, si distingue da un altro cerchio per la stessa ragione per cui un individuo si distingue da un altro, ed è la materia intellegibile che permette questa moltiplicazione della medesima essenza in soggetti diversi 48.

Solo grazie alla ¤lh nohtª sembra, cioè, possibile acquisire nozione e 47

A. Mansion, Introduction à la Physique aristotélicienne, Vrin, Paris 19462, pp. 147-

148. 48 Ibid., p. 157. Il discorso di Mansion trova chiara conferma nel passo già ricordato di Phys. II, 194b13-14 (il fusik“j indaga “perà ta‡ta § ôsti cwrist¶ mùn eádei, ôn ¤lV dö”), a partire dalla domanda posta subito sopra (194b9-11): “Fino a quanto è necessario che il fisico conosca la forma (t’ eçdoj) ed il che cos’è (t’ tÖ ôstin)?”.

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Aristotele dopo Heidegger

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definizione delle stesse cose sensibili, poiché di esse, vista ognuna individualmente come sinolo, “non vi è definizione, ma si conoscono per intellezione o per sensazione”49. I sinoli si comprendono in senso proprio cogliendo il loro principio formale, il loro eçdoj ; per comprenderne anche la materia questa deve quindi valere, per così dire, come ¤lh nohtª. Sul piano della possibilità della conoscenza non semplicemente attraverso sensazioni, la materia solo se ¤lh nohtª può risultare intellegibile come nozione. Al di fuori di questo rispetto, dei sinoli nella loro materialità non si può che avere esperienza sensibile quale possibilità della conoscenza della loro esistenza materiale hic et nunc. La questione è importante anche in vista del problema della determinazione dell’oggetto d’indagine della metafisica nella sua distinzione dalla fisica. Sebbene la materia sensibile con cui lavora il fisico chiami in causa sempre “l’elemento dell’esperienza che è implicato dentro ogni sensazione e percezione” 50, anche il fisico ricorre al lavoro dell’astrazione, come chiunque abbia conoscenza scientifica dell’oggetto di cui si occupa, considerando la forma quale principio essenziale della cosa nella “separazione” della forma dalla materia della cosa. Ed infatti Mansion commenta giustamente che l’immobilità propria dell’oggetto matematico, scaturita dal lavoro di astrazione dalla materia operato dalla scienza matematica, è comune a tutti gli oggetti astratti, a tutti quelli di cui l’intelligenza umana può formarsi un concetto. La si ritroverà bene anche dentro l’oggetto fisico, – che è per Aristotele un intellegibile ed un astratto –, così come dentro l’oggetto metafisico, al quale corrisponde nell’ordine reale una sostanza in sé immobile, ma al quale allo stesso modo corrispondono enti che non includono – in realtà che implicano – nella loro essenza la mobilità 51.

Nondimeno, nel I capitolo di E, esclusa la possibilità da parte della scienza fisica e della scienza matematica di potersi occupare di 49

Met. Z, 1036a5-6. A. Mansion, Introduction à la Physique aristotélicienne, cit., p. 171. 51 Ibid., p. 184. Mansion tuttavia conclude che “lo studio della forma e dell’essenza nella fisica si distingue nettamente dallo stesso studio nella metafisica. Questa deve indagare infatti il caso delle essenze che sono senza alcun rapporto con la materia. Fatta quest’ultima osservazione, Aristotele crede perciò di avere sufficientemente circoscritto da tutte le parti l’oggetto della scienza della natura” (ibid., p. 205). 50

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Il racconto del primato conteso

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quel che è immobile, eterno e separato, è proprio l’ipotesi circa l’esistenza di quel che è separato non già per astrazione o per opera del l“goj, bensì quanto al suo stesso essere, a porre la necessità di un’interrogazione su un siffatto ente nella particolarità del suo modo d’essere52: nella misura in cui, come Aristotele spiegherà anche alla fine del capitolo53, la realtà non si può ridurre solo all’ambito delle sostanze sensibili materiali, alla f⁄sij, bisogna ricorrere al lavoro di un’ulteriore scienza oltre la scienza fisica per dare conto di quest’altra forma di realtà. Pertanto l’ipotesi va in un certo senso sondata; bisogna, cioè, conquistare la certezza dell’esistenza dell’ambito ontologico che si caratterizza per la sua natura immateriale. Finora, dunque, nel campo della conoscenza teoretica si presentano in relazione a diversi oggetti tematici differenti scienze: vi sono una scienza dell’ente in quanto tale, una scienza fisica, una scienza matematica ed una scienza dell’ente immobile e separato. Manca un’argomentazione per l’ammissione dell’esistenza dell’oggetto di una siffatta scienza; non sembra, in effetti, nonostante l’asserzione ipotetica sull’esistenza dell’ente immobile, che la prima intenzione dello Stagirita sia qui quella di dare prova dell’esistenza della sostan52 In Phys. II 194b14-15 Aristotele enuncia, come ho già avuto modo di mettere in risalto, il compito della filosofia prima come indagine sul cwrist“n che, dunque, viene considerato esistente non per via ipotetica: “È lavoro della filosofia prima determinare in che modo ciò che è separato (t’ cwrist“n) è e che cos’è”. Si può però interpretare questo stesso passo anche nel senso che al filosofo primo spetta in generale lavorare con la forma come quel che è separabile dalla materia, ricercando il principio primo dell’ente in quanto ente. 53 Sia alla fine di questo I capitolo di E (cfr. 1026a27 ss.), sia in K (cfr. 1064b9 ss.) sembra che Aristotele si pronunci ipoteticamente circa la possibilità dell’esistenza della sostanza separata e, quindi, che introduca per via di ipotesi la necessità di una scienza di rango superiore alla scienza fisica. In L l’esistenza del dio è posta al modo di un dato, cosa da cui scaturisce come diretta conseguenza l’esigenza di un’altra scienza oltre quella fisica (cfr. 1069a36-b2). Altrettanto è in G (1005a33 ss.), dove Aristotele parla di prËth oŸsÖa, asserendo che la f⁄sij non è l’unico genere dell’ente per sostenere la necessità di una prËth sofÖa. In B (995b14 ss.), Z (1028b28 ss.), K (1059a38-b1), in M (1076a10 ss.) si palesa espressamente la necessità di indagare se oltre le sostanze sensibili esista un’oŸsÖa cwristª (o un’oŸsÖa ¢kÖnhtoj e ¢èdioj) ed in quale modo essa si dia. Ma questo si profila già come compito proprio di quest’altra scienza, sebbene si tratti ancora di mettere mano al lavoro argomentativo che possa far concludere per l’esistenza di questa sostanza separata. In L la questione della sostanza sovrasensibile sembra invece comparire come indagine più specifica calibrata sul suo modo d’essere, anche se è in questo libro che Aristotele dà conto della necessità di porre come certa l’esistenza del qe“j.

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Aristotele dopo Heidegger

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za sovrasensibile, a differenza invece di quanto asserisce in Metafisica K, dichiarando la volontà di dare dimostrazione dell’esistenza della sostanza separata ed immobile54. L’interesse appare piuttosto calibrato sull’esplicazione del sapere teoretico nelle sue branche. Nondimeno, il fatto che Aristotele implicitamente si pronunci comunque in favore dell’ammissione dell’esistenza di una realtà diversa dall’ambito ontologico della natura e degli enti matematici, al di là della forma dubitativa con cui si fa riferimento a quest’altra realtà, è confermato dal tono perentorio con cui egli discute la nozione della scienza deputata allo studio della realtà eterna, immobile, separata, dichiarandone l’appartenenza all’ambito di lavoro del sapere teoretico e determinandone il primato. Si può asserire che vi è una scienza che si incarica dello studio di quel che è immobile, nella misura in cui vi è un oggetto-realtà di tal guisa. La scienza, da questo punto di vista, non sorge mai aristotelicamente dalla “creazione” di un oggetto che non sia già per sé reale, quasi essa fosse un apparato che tenda a confermare o meno una tesi posta solo per via ipotetica55; essa anzi è sempre fondata sul corrispettivo oggetto ontologico, di cui si conquista conoscenza nell’apprensione dei suoi principi. Ciò corrisponde all’idea aristotelica che il processo d’indagine epistemico sia a propria volta una sorta di coronamento rispetto all’iniziale avvio della ricerca a partire dalla costatazione empirica dell’esistenza di qualcosa. Ecco, quindi, la ragione per cui, in prima battuta, l’esistenza di quel che è separato è pro54

“Intorno a quel che è separato ed immobile vi è dunque un’altra scienza rispetto a queste due [scil. fisica e matematica], se veramente esiste una qualche sostanza di tal genere, dico separata ed immobile, come proveremo a dimostrare” (Met. K, 1064a3336). 55 Ancora una volta torna utile il riferimento alla scienza matematica. Sebbene il suo lavoro di astrazione ponga l’oggetto d’indagine in un ambito sostanziale che nella realtà non esiste senza la materia soggetta a mutamento, la matematica si occupa di un ente che esiste nel reale in quanto ente materiale. Essa, quindi, trae il proprio oggetto dalla realtà stessa, non lo pone a partire da sé “soggettivamente”, tanto che la sua opera di astrazione ha senso solo in quanto opera rispetto ad un sostrato materiale che esiste indipendentemente da essa. È interessante notare che anche i principi comuni di cui si deve occupare la prËth sofÖa non sono solo leggi regolative di determinazione del pensiero, ma corrispondono al modo d’essere del reale stesso. In questo senso non è il pensiero che crea le sue leggi determinative; lo sforzo è di lasciare che il pensiero accolga in sé il movimento di determinazione proprio dell’essere, del reale.

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spettata come ipotesi: del qe“j non vi è aásqhsij né ômpeirÖa; la scienza che se ne occupa, per indagarlo, non parte dall’esperienza che in campo sensibile se ne può avere. È possibile procedere in questa maniera solo nel caso in cui si ha a che fare con forme di realtà legate alla contingenza della materia, con oggetti d’indagine la cui determinazione corrisponde anche alla loro costituzione materiale. Da questo punto di vista si comprende bene come Aristotele sia nei Secondi Analitici sia nell’Etica Nicomachea ponga la sensazione come condizione della scienza, nella misura in cui la aásqhsij costituisce, come abbiamo visto, il punto di avvio per l’induzione: “È impossibile avere induzione [ôpacq¡nai] non avendo sensazione” 56. Ora, non solo “il sillogismo tramite induzione è per noi più chiaro”57, ma l’ôpagwgª stessa è vista da Aristotele come il primo gradino della conoscenza scientifica in quanto “è principio anche dell’universale” 58, ossia fornisce la conferma di quel che si ottiene per astrazione, dando prova dell’universale attraverso la costatazione del singolo individuale di cui si ha esperienza sensibile59. In Metafisica K, dopo avere asserito che vi è un’altra (òtöra) scienza oltre le scienze poietiche e matematiche, le quali studiano l’ente non in quanto ente, bensì in quanto appartenente ad un genere, Aristotele afferma che queste ultime scienze “colgono in qualche modo il che cos’è” del genere d’ente di cui si occupano e fra queste “alcune lo colgono attraverso la sensazione, altre ipotizzandolo” 60. Per questo lo Stagirita conclude: “Pertanto è chiaro anche da tale induzione che dell’essenza e del che cos’è non vi è dimostrazione” 61. Da questo angolo di visuale, dunque, la filosofia prima non ha alcun primato sulle altre scienze, perché neppure essa può dare dimostrazione dell’essenza del 56

An. Post. I, 81b5-6. An. Prior. II, 68b36-37. 58 Et. Nic. VI, 1139b28-29. 59 Cfr. An. Post. I, 81b2 ss. 60 Met. K, 1064a5 ss. 61 Ibid., 1064a8-10. Cfr. anche An. Post. II, 91a1-2 in cui, dopo aver subito prima posto la distinzione fra definizione (—rism“j), che è propriamente principio della dimostrazione, e dimostrazione (¢p“deixij), Aristotele conclude che quel che si dimostra è che “questo è o non è di questo” (ossia che qualcosa esiste in quanto un certo qualcosa, ad esempio che Socrate esiste in quanto mortale), mentre la definizione “mostra il che cos’è”, cioè esibisce l’essenza che in sé non è oggetto di dimostrazione. 57

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proprio oggetto; dal momento che non è una scienza che procede per induzione, ad esempio al modo della fisica, la filosofia prima potrà solo porre tramite ipotesi l’essenza dell’ente di cui si occupa. L’ipotesi è nondimeno posta a partire dalla costatazione di casi di realtà, ossia attraverso la costatazione che vi sono enti naturali soggetti a mutamento. Il punto cruciale, tuttavia, non è che l’essenza del dio non si possa dimostrare al pari di quella di qualsiasi altro ente, bensì che la stessa esistenza dell’ente “qe“j” è posta come ipotesi non potendo in prima battuta ricorrere ad alcun caso dell’esperienza che ne attesti l’esistenza, essendo il qe“j un ente sovrasensibile. È però pienamente plausibile, ancora nell’ottica aristotelica, porre il bisogno di quest’altra scienza oltre la scienza fisica e la scienza matematica proprio per affrontare il compito di vagliare l’ipotesi circa l’esistenza della realtà immobile. Secondo Aristotele parte integrante del processo di un’ôpistªmh è, come detto ormai in varie occasioni, il lavoro, il percorso della ricerca e non solo la fase conclusiva dell’articolazione in forma sistematico-apodittica dei risultati raggiunti62. Nulla, nel momento in cui ci si muove ancora nell’ambito di un’ipotesi, porta già, da questo punto di vista, a concludere, in senso stretto, che, praticando la via della scienza “altra” rispetto alla fisica ed alla matematica, si stia già ammettendo con certezza l’esistenza della realtà eterna, immobile, separata. Vi è un passaggio in questa prima parte del capitolo che in questo senso è molto importante e può fornire la conferma a quanto affermo: “Altrettanto non dicono se il genere di cui si occupano 62 Questo aspetto credo che venga in luce in modo esemplare proprio nel processo zetetico che ruota intorno alla prima scienza. Non solo si ricerca intorno all’oggetto che essa ha di mira, bensì questa stessa scienza è tema di indagine. Così Aristotele in B introduce la necessità di occuparsi delle difficoltà che ruotano intorno alla sua nozione. Tuttavia la trattazione di queste difficoltà, per quanto sia lavoro preparatorio, stadio preliminare rispetto alla vera e propria ricerca che la filosofia prima deve poi effettuare, si configura come parte integrante del compito del filosofo teoretico primo. In generale, quindi, l’ôpistªmh per lo Stagirita si configura sempre come unità inscindibile di ricerca ed articolazione sistematica del risultato conquistato. Per questo stesso la dialettica torna sempre utile al lavoro della filosofia e di ogni scienza, supportando ciascuna non solo nella ricerca del vero e del falso, ma nel lavoro in parte preparatorio di conquista dei principi propri di ogni scienza ed in parte assertivo-argomentativo intorno ai principi che non sono apoditticamente dimostrabili (cfr. Top. I, 101a34-b4).

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esista o non esista, poiché è chiaro che spetta ad una stessa conoscenza considerare che cos’è e se esiste” 63. Configurabile per il momento come una scienza particolare, giacché quel che è separato si presenta come un gönoj dell’ente, la scienza teologica, al pari di ogni altra scienza particolare, non può dimostrare né l’esistenza del suo oggetto né l’essenza. La forma, l’eçdoj come principio non è oggetto di dimostrazione: “Pertanto è chiaro che da una simile induzione non si dà dimostrazione della sostanza né del che cos’è” 64. Asserzione questa che è in pieno accordo con quanto si legge nei Secondi Analitici, dove Aristotele mostra ampiamente come i principi non siano mai oggetto di dimostrazione, ma solo di definizione da qualsiasi punto di vista essi siano osservati. Come protasi, principi della dimostrazione, essi saranno primi e non rimanderanno ad altro alle loro spalle: “Principio è una proposizione immediata della dimostrazione, ed è immediata quella della quale non vi è un’altra ‹proposizione› anteriore” 65. Se considerati come principi comuni, il loro carattere di primi principi per via della loro universalità verrà convalidato dal loro essere previamente assunti da tutte le scienze; per questo non sono oggetto di una particolare scienza e la loro conferma può avvenire solo indirettamente. In questo senso la loro conferma avviene per via elenchica. Se poi principio è considerato il che cos’è della cosa, ossia l’essenza, questo stesso non potrà mai essere dimostrato così come non si dimostra la sostanza prima individuale, posta la medesimezza di sostanza prima individuale e sua essenza. Legando pertanto l’essenza di qualcosa, il suo modo d’essere alla sua esistenza, Aristotele afferma che la stessa esistenza della cosa non è a rigore oggetto di prova, di dimostrazione, di ¢p“deixij: non si mette propriamente in questione l’esistenza di qualcosa. Quando lo si fa, ciò accade sempre a partire dall’indagine sul modo d’essere della cosa. Ed infatti, poco dopo, Aristotele aggiunge che “se per caso il divino esiste, esiste in una natura di tal genere” 66, (ossia come 63

Met. E, 1025b16-18. Ibid., b14-15. 65 An. Post. I, 72a6 ss. 66 Met. E, 1026a20-21. 64

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ente dalla natura eterna, immobile e separata). Questa affermazione è in piena sintonia con quanto asserito anche nei Secondi Analitici: “Una scienza è più esatta di una scienza ed anteriore: quella che, essa stessa, sia del che e del perché, ma non del che separatamente da quella del perché” 67. Il pronunciarsi circa l’esistenza di qualcosa significa già dichiararsi intorno alla sua stessa essenza, e solo in questo caso si dispone di una scienza che sia “prima” rispetto all’oggetto che essa indaga. Per asserire di avere conoscenza di qualcosa non basta solo asserire che la cosa sia, ma chiarire il suo che cos’è, la sua essenza, il suo perché. È questa, infatti, la differenza che intercorre fra gli empirici e coloro che hanno scienza: “Gli empirici infatti sanno il che (”ti), ma non il perché (di“ti); gli altri conoscono il perché e la causa” 68. L’essenza, però, si conquista al modo di un principio, con un atto noetico che, come abbiamo già compreso, è sempre nel vero69; in questo senso come principio della dimostrazione, l’essenza è assunta da Aristotele come ciò da cui consegue la dimostrazione, come ciò a partire da cui si costruisce un sillogismo apodittico, e non come ciò che è oggetto di dimostrazione70. Si dimostra che un certo ente A, in quanto uomo, è animale razionale, non già né che uomo è animale razionale, né che A sia senza potere dire che è uomo, né che A in quanto singolo uomo individuale esista. Circa l’esistenza di qualcosa, quindi, o si esibisce un’attestazione empirica, come nel caso dei f⁄sei ‘nta 71, – al punto che per Aristotele è pure 67

An. Post. I, 87b31 ss. Met. A, 981a28-30. 69 Rispetto agli enti semplici, non composti (t¶ ¢s⁄nqeta ) – e tali per Aristotele sono le essenze – egli ritiene, appunto, secondo il passo già ampiamente preso in considerazione, che “il vero è il coglierli, […] mentre il non coglierli è l’ignorare (infatti non ci si inganna sul che cos’è se non accidentalmente)” (Met. Q, 1051b24-26). Cfr. altresì la conclusione di An. Post.: “La scienza e l’intellezione (no‡j) sono sempre vere e nessun altro genere di conoscenza è più esatto dell’intellezione” (An. Post. II, 100b7-9). 70 Cfr. ad es. An. Post. II, 90b24-27: “Inoltre i principi delle dimostrazioni sono definizioni, di cui prima si è mostrato che non vi saranno dimostrazioni – oppure i principi saranno dimostrabili e vi saranno principi dei principi e per questo si procede all’infinito, oppure i principi (t¶ prÓta) saranno definizioni anapodittiche”. 71 Credo che così si comprendano ancora più chiaramente le asserzioni aristoteliche già ricordate di Et. Nic. VI, 1139b26-29: “Ogni istruzione deriva dalle cose che si sono conosciute in precedenza, come dicemmo anche negli Analitici: infatti è o tramite induzione o per sillogismo. L’induzione è principio anche dell’universale, il sillogismo invece 68

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ridicolo dubitare dell’esistenza della f⁄sij –72, o ci si esprime in suo favore ricorrendo ad un complesso di ragioni che, tuttavia, non si possono porre alla stregua dell’¢p“deixij propriamente detta73. Si può argomentare circa l’esistenza di qualcosa, ma l’esistenza della cosa non può essere resa oggetto di dimostrazione, ossia, con più esattezza, l’esistenza della cosa non si può provare, deducendola come conclusione da premesse che non contengano esse stesse un’asserzione di esistenza. Non vi è un nesso necessario che vincoli l’esistenza della cosa a principi da cui inferirla. I principi a partire da cui si pone la cosa come in atto, dichiarandola esistente, se così posso esprimermi, sono i principi che dichiarano il modo d’essere proprio della cosa, la deriva dall’universale” e di An. Post. I, 81a38-b9: “È manifesto anche che se qualche sensazione è venuta meno, è necessario che sia venuta meno anche una qualche conoscenza che non sarebbe possibile acquisire, se apprendiamo o per induzione o per dimostrazione; la dimostrazione è a partire dagli universali, l’induzione è invece a partire dalle cose particolari ed è impossibile non considerare gli universali tramite induzione (poiché tramite induzione sarà possibile far conoscere anche le cose dette per astrazione, che alcune cose esistono in ciascun genere, anche se non sono separate, in quanto ciascun genere in tal modo) ed è impossibile avere induzione non avendo sensazione. Infatti la sensazione è degli individuali: non è possibile cioè acquisire scienza di essi, né infatti vi è scienza a partire dall’universale senza induzione né tramite induzione senza sensazione”. L’esistenza di una cosa o si costata attraverso l’esperienza e induttivamente si conferma l’esistenza della cosa in quanto quella cosa come caso singolo che rientra entro un genere ed una specie specifica, oppure nel caso in cui se ne dà una dimostrazione lo si fa solo in quanto si dimostra l’esistenza in quanto quel determinato ente con quell’essenza. Io non posso dimostrare che Mario esiste se non dimostrando che esiste in quanto uomo animale razionale. In questo senso si comprende come la sostanza prima non si possa mai dire di un soggetto (cfr. Cat. 2a11-13: “La sostanza che è detta nel senso più proprio, primariamente e nel più alto grado è quella che non si dice di un soggetto e che non è in un soggetto”). 72 “È ridicolo provare a dimostrare che la natura esiste” (Phys. II, 193a3-4). 73 Cfr. An. Post. I, 71b17-18: “Chiamo dimostrazione (¢p“deixin) il sillogismo scientifico (sullogism’n ôpisthmonik“n)” e I, 73a24: “La dimostrazione è quindi il sillogismo che parte da cose necessarie”. Lo Stagirita spiega dopo che per questo “la scienza apodittica (¢podeiktikæ ôpistªmh) parte da principi necessari” (ibid., 74b5), così che “se essa dimostra” (ibid., b14) realmente, ossia se il sillogismo dimostrativo è correttamente svolto, le cose non possono essere diverse da come dimostrato (cfr. ibid., b14-15), dal momento che “è necessario che il sillogismo [scil. qui come sillogismo apodittico] parte da cose necessarie” (ibid., b15). In An. Prior. il sillogismo è definito come “il discorso (l“goj) in cui, poste certe cose, deriva (sumbaÖnei) dalle cose poste qualcos’altro a causa dell’esistere di queste cose (t˘ ta‡ta eçnai ). Dico a causa dell’esistere di queste cose il derivare (sumbaÖnein) a causa di queste cose e il derivare a causa di queste cose il non aver bisogno di nessun termine (”rou) esterno per il compiersi del necessario (pr’j t’ genösqai t’ ¢nagkaãon)” (An. Prior. I, 24b18 ss.).

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sua essenza74. Ora, Aristotele legge materia e forma quali principi costitutivi della sostanza sensibile, rispettivamente come stato della potenza e stato dell’atto. La cosa è in atto perché realizza la propria essenza, in quanto è nello stato d’essere che più le appartiene, le compete secondo la sua forma. Senza entrare nel dettaglio della questione, è qui opportuno rimarcare come l’argomentazione che in L porta lo Stagirita a concludere per l’esistenza del qe“j non è costruita al modo di un sillogismo, o non si può ricondurre alla forma deduttiva di un sillogismo. Le due premesse dovrebbero, infatti, essere: 1) che ci sono degli enti che si muovono; 2) che ogni ente che si muove ha una causa di movimento. Ma da ciò si deduce solo che allora vi saranno degli altri enti che muovono, che fungono da ¢rcæ kinªsewj. Dalle due premesse non si ricava né la necessità che una di queste cause di movimento debba darsi come prima, debba essere prËth ¢rcæ kinªsewj né che, pertanto, per essere principio primo di movimento, questa causa debba essere immobile e, dunque, separata. La costituzione ontologica della prima causa del movimento e la sua necessità, in quanto primo principio di movimento, si conquistano sul piano, per così dire, gnoseologico, secondo un’esigenza che caratterizza il nostro processo conoscitivo e non già in prima battuta la realtà. È per il fatto che non possiamo nella ricerca procedere all’infinito che abbiamo bisogno di arrestarci ad un principio primo che non rinvii ad altro al di là di sé 75: l’impossibilità ontologica di 74 Da questo punto di vista, ogni scienza si configura propriamente come un’ontologia che ha di mira sempre i principi propri (“primi e veri per sé”, per riprendere la formulazione di An. Post.) dell’ambito ontologico indagato; non è, dunque, il carattere ontologico ciò che rappresenta il tratto specifico, il criterio della distinzione fra la prima scienza e le altre ôpist¡mai. Di questo lo Stagirita è ben consapevole, tanto da puntare lo sguardo dritto al modo d’essere del principio indagato dalla prima scienza e, quindi, al diverso modo di tematizzarlo da parte della prËth filosofÖa per dare senso, collocazione a questa ôpistªmh dentro il complesso delle scienze. 75 Cfr. in particolare Met. a, cap. 2. Vorrei a questo proposito notare molto brevemente che, se anche tutto ciò si può considerare espressione di quel pensiero che Heidegger definisce “fondante”, ossia di quel tipo di pensiero che richiede di giungere ad una causa prima cui arrestarsi, in quanto ciò che dà conto della totalità della realtà e, quindi, anche di se stesso, nondimeno il principio primo di movimento aristotelico, dal punto di vista ontologico, non può assurgere al rango della causa fondante del reale perché il suo non rinviare ad altro oltre sé non indica la derivazione di tutto il reale da esso. Il qe“j e la f⁄sij con il suo sostrato materiale sono secondo Aristotele coeterni ed in un certo qual modo è come se, nel ragionamento aristotelico che si costruisce intorno

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un rimando all’infinito è esclusa su base gnoseologica. La dimostrazione sillogistica, dunque, non opera nell’affermazione dell’esistenza del qe“j. È di contro un procedimento certamente argomentativo, in grado di esibire “buone” ragioni, valide sul piano delle esigenze razionali che dobbiamo soddisfare a livello della conoscenza, che porta a concludere per l’esistenza della sostanza sovrasensibile76. Tenendo all’esistenza del dio, non sia possibile porre l’esistenza del qe“j se non si pone come esistente per sé l’ambito della f⁄sij. Il principio fondante, invece, nel suo modo d’essere, sebbene si colga la necessità della sua esistenza a posteriori, ab effectibus, tuttavia si profila come del tutto autonomo dall’esistenza di ciò che esiste in virtù di esso. Il Dio creatore esiste prima delle creature e la sua esistenza non dipende affatto dall’esistenza delle cose create, anche se per noi esse sono il tramite che ce ne fa determinare come necessaria l’esistenza. Tra il dio aristotelico e la natura non sussiste sul piano dell’esistenza nell’ordine del tempo il prima e il dopo, nel senso che essi sono coeterni, da sempre, compresenti, per così dire, l’uno all’altra. 76 È molto interessante in questo senso l’analisi di Botter che mostra che la costruzione di un possibile sillogismo con cui inferire l’esistenza del qe“j è possibile assumendo quello che la studiosa indica come il criterio del “m£lista”. Dopo avere affrontato la questione sull’esistenza delle sostanze posta dal II libro di An. Post., l’autrice rintraccia il termine medio che possa consentire la costruzione di un sillogismo riguardante il qe“j come motore immobile. Con l’espressione “principio del m£lista” la Botter, come già ho mostrato, vuole “esprimere la convinzione che dio/divino non indica, per Aristotele, una sostanza individuale, bensì una modalità dell’essere”. L’autrice è infatti persuasa che “in nessun luogo, neppure nel libro Lambda della Metafisica, Aristotele abbia introdotto delle prove sull’esistenza di dio, nel significato che tali prove assumeranno nel pensiero medievale e moderno”, pur riconoscendo che in questo libro “figura una vera e propria dimostrazione per confutazione, con valore scientifico, del Motore Immobile, al quale è predicata l’apposizione “dio”; ma gli dei non sono oggetto di dimostrazione, né di scienza, perché la scienza non può che partire dall’esperienza. […] Perciò in Lambda non è dio ad essere dimostrato, ma il Principio Primo, Motore Immobile, causa prima da cui dipendono il cielo e la natura, oggetto di pensiero e di desiderio da parte del primo cielo” (B. Botter, op. cit., p. 30). Pur concordando sul fatto che il termine “divino” (qeãon) sia attribuito da Aristotele ad una molteplicità di enti e non solo al primo motore e pur condividendo l’idea che l’esser divino di questi enti esprima una modalità dell’essere che compete a certi enti rispetto ad altri (ossia agli enti eterni, immobili o no che siano), ritengo però che la stessa esistenza del motore immobile non sia del tutto dedotta apoditticamente, così come non sono per intero certa che Aristotele escluda la possibilità di avere una scienza del divino. Questa incertezza sorge innanzitutto dal fatto che la trattazione scientifica del De caelo mostra che nell’assunzione del termine qeãon in modo ampio, riferito anche agli astri, gli enti divini sono oggetto di analisi scientifica. In secondo luogo bisogna rimarcare che, pur non essendo il dio motore immobile oggetto di esperienza sensibile, posto che scienza è conoscenza di cause e principi, in questa sua valenza eziologica la filosofia prima si configura a pieno titolo come scienza che concerne il dio in quanto principio primo. Da questo punto di vista si potrebbe allora inficiare lo statuto epistemico di ogni conoscenza scientifica, giacché propriamente la forma, che co-

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conto di tutto questo, a buon diritto si può comunque asserire che non vi è contraddizione fra il porre la necessità della scienza teologica e la formulazione ancora ipotetica circa l’esistenza del suo oggetto. Le scienze, non potendo dimostrare l’esistenza degli oggetti di cui si occupano, hanno tuttavia il compito di esibire argomenti che convalidino la certezza circa l’esistenza dei loro oggetti d’indagine. Da questo punto di vista, spetterà sempre alla scienza teologica rispondere alla questione se l’ente separato, immobile, eterno esista, a partire dalla comprensione di questo suo specifico modo d’essere. Fin qui, pertanto, il discorso di E, pur nella sua complessità, non genera ancora a mio avviso contraddizioni. Dopo la spiegazione che ad un’ôpistªmh di rango superiore (protöra) rispetto alla scienza fisica ed alla scienza matematica compete, quindi, l’indagine sulla sostanza immateriale, Aristotele chiarisce che questa scienza, che chiama “prima” (prËth), è scienza degli enti divini, perché non solo ha per oggetto gli enti eterni, immobili e separati, i qeãa appunto, ma propriamente le loro cause. Vi è già qui l’indicazione precisa del tratto di superiorità che compete a questa scienza rispetto alle altre ôpist¡mai a partire dal primato che l’oggetto d’indagine deterrebbe sul piano ontologico. Aristotele lo asserirà nel prosieguo di questo I capitolo di E con molta chiarezza: È necessario che la scienza più degna di onore verta intorno al genere più degno di onore. Dunque la scienze teoretiche sono massimamente preferibili a tutte le altre scienze e questa stessa [scil. la scienza teologica] lo è fra le scienze teoretiche 77.

Tuttavia, in questo contesto, la definizione dell’“essere prima” della scienza teologica fra le varie scienze, pur alludendo ad una differenza che sul piano epistemico deve intercorrere fra le diverse ôpist¡mai quanto al loro oggetto, non si esplicita ancora in riferimento al carattere di universalità che le è proprio, come è dichiarato alla fine di questo stesso capitolo e come, ad esempio, è asserito anche in G: Dal momento che vi è qualcuno che è ancora al di sopra del fisico (infatti la natura è un genere dell’ente), l’indagine del teoretico che stituisce il principio della cosa, si mostra per intero nella sua immaterialità e come tale non è considerabile al pari di un oggetto di cui si ha concreta esperienza empirica. 77 Met. E, 1026a21-23.

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ricerca intorno all’universale ed alla prima sostanza verterebbe anche intorno a queste cose [scil. gli assiomi]. Anche la fisica è una sapienza (sofÖa), ma non la prima78.

Come ogni scienza, la scienza dei qeãa, rispetto all’oggetto intorno a cui essa ricerca, ha quindi di mira i suoi principi e le sue cause. Da qui consegue la conclusione del ragionamento: “Sicché tre sarebbero le filosofie teoretiche, la [scienza] matematica, la [scienza] fisica, la [scienza] teologica”79. È proprio il riferimento all’esatto numero del78 Met. G , 1005a33-36. La primarietà della prËth sofÖa risiede quindi nell’avere come oggetto di indagine gli assiomi (i principi comuni), l’universale (l’ente in quanto tale) e la sostanza prima (il qe“j). Il problema sta dunque in questa triplice determinazione dell’oggetto d’indagine, nella relazione che unisce tre temi che appaiono diversi. Ora, non basta asserire che la filosofia prima si occupa di tutte e tre le questioni, ma bisogna trovare il modo, l’aspetto sotto cui queste tre questioni risultano costituire un unico tema di ricerca. 79 Met. E, 1026a19-20. Natorp mette in dubbio l’autenticità del passo, sostenendo che l’espressione “qeologikª” rappresenti un’occorrenza unica nel significato in cui qui compare e, dunque, per questo, in siffatto uso, non sarebbe formulazione aristotelica. Così, infatti, egli si pronuncia: “Stranamente, nello sforzo di salvare a ogni costo l’identificazione, insostenibile per ragioni interne ed esterne, della dottrina universale dell’essere con la teologia, si è mutato il significato a queste parole semplici e chiare. […] [L]’identificazione con la “teologia” non sta in piedi in nessun modo. Le frasi che vi fanno riferimento (1026a18, 21) vanno soppresse come glosse di un anonimo aggiunte al testo in un momento successivo. […] La proposta di espungere E 1, 1026a18-19 e 2122, potrà sembrare a prima vista troppo radicale. Io tuttavia non arrischierei un’atetesi così ricca di conseguenze e così distante dai punti di vista dominanti, se non sopraggiungesse a confermarla un’ulteriore circostanza, molto più sorprendente e persino di gran lunga più nota, ma non tenuta in debita considerazione. In Aristotele, infatti, le espressioni qeol“goj, qeologÖa, qeologeãn, prescindendo dal luogo in questione e dal parallelo spurio di K 7, non rinviano affatto a una dottrina scientifica di Dio o degli Dei, e dunque non a una disciplina filosofica; il loro significato, invece, è propriamente quello di racconto poetico (mitico) sugli Dei, di mito divino, corrispondente per esempio alle espressioni muqol“goj, muqologÖa, muqologeãn. […] In generale, dunque, “teologia” designa […] uno stadio prescientifico della riflessione sulle cose, anteriore anche ai più antichi “fisici”, il quale stadio […] rappresenta l’infanzia “balbettante” della scienza” (P. Natorp, op. cit., pp. 71-74). Non volendo entrare nel merito del rapporto fra Aristotele e la tradizione poetico-mitologica a cui egli in effetti in vari luoghi si rifà, penso, però, che quanto alla mera espressione linguistica si possano fare le seguenti considerazioni. Posto che l’oggetto di cui la “scienza teologica” si occupa è definito come qe“j e qeãon, l’espressione è, da questo punto di vista, assolutamente simmetrica con il nome del tema d’indagine così come accade per i nomi di tutte le altre scienze, a cominciare dall’ôpistªmh poihtikª, che focalizza la sua attenzione sulla poÖhsij, e dall’ôpistªmh praktikª, che si occupa della pr©xij, fino all’ôpistªmh fusikª, che ha di mira la f⁄sij e i fusik£. La peculiarità del termine consisterebbe semmai nella sua etimologia, con quell’implicito riferimento al lögein ed al l“goj, ma è altresì vero che Aristotele qui usa un’espressione già in

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Aristotele dopo Heidegger

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le scienze teoretiche che innesca, in un certo senso, il movimento aporetico. b) La seconda parte di Metafisica E, capitolo I (1026a19-1026a23). Una prima ipotesi provvisoria L’esclusione della scienza fisica e della scienza matematica come possibili indagini sul divino e la presentazione invece di una scienza teologica separata come disciplina cui compete lo studio dell’ente eterno, immobile, separato non costituisce per sé problema, almeno se in prima battuta si evita la questione della sovrapposizione con il carattere usiologico generale che la “scienza ricercata” dovrebbe possedere. Aristotele pone in vari luoghi della Metafisica il problema se la prima scienza teoretica debba occuparsi di tutta la sostanza o solo di una sua parte, ossia della sostanza immobile. La domanda è posta in B ed in Z 80, laddove l’esistenza della sostanza sovrasensibile risulta assodata in G81, come ho già ricordato, nel momento in cui lo Stagiuso ai suoi tempi, senza porre in questo contesto la questione del rapporto fra il suo modo scientifico di indagare il divino e l’apparato della religione tradizionale. In questo senso, nella misura in cui si può dare conto, ad esempio contro Natorp, del significato con cui in questo contesto specifico Aristotele usa il termine, mi sembra poco rilevante quella sorta di correzione che alcuni autori, fra cui Courtine e Marion, propongono con l’uso della parola “teiologia” nel caso aristotelico per evitare pericolose sovrapposizioni con la storia della theologia medievale e cristiana (e da qui poi “onto-te[i]ologia” al posto di “onto-teologia”, rifacendosi espressamente ad un punto di Si; cfr. Si, p. 177: “A questa scienza che considera l’ente in quanto ente Aristotele dà un nome da lui stesso escogitato: filosofia prima. Questa però non si limita a considerare l’ente nella sua entità, ma considera anche quell’ente che corrisponde con purezza all’entità, l’ente supremo. Questo ente, t’ qeãon, il divino, viene anche detto, con una strana ambiguità, l’“essere”. La filosofia prima, in quanto ontologia, è, ad un tempo, teologia dell’ente che veramente è. Per essere più esatti, bisognerebbe darle il nome di teiologia”.) Nella proposta di Courtine e Marion semmai si evidenzierebbe maggiormente il riferimento ai “qeãa”, ma questo implica, a mio avviso, uno slittamento della questione su un orizzonte più di tipo epistemologico, perché con il vocabolo “qeãa” Aristotele, come in fondo trapela anche dal passo ora in questione di E, indica in generale anche i principi, oltre che in alcuni casi gli astri e le sostanze del mondo sopralunare che muovono le sfere celesti. 80 Cfr. Met. B , 995b13 ss.: “E fra le cose necessarie da indagare vi è questa: se si debba affermare che esistano solo le sostanze sensibili o anche altre oltre queste” e Met. Z, 1028b27 ss.: “Intorno a queste cose che cosa si dice convenientemente e cosa no ed anche quali sostanze esistano, se ne esistano o meno certe oltre le sostanze sensibili”. 81 Cfr. Met. G, 1005a33 ss. Il teoretico che indaga l’universale e la sostanza prima è al di sopra del fisico così che la scienza fisica non è la prËth sofÖa (cfr. 1005b1-2). Ci si

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rita conclude che al teoretico, che sta al di sopra del fisico, spetta il compito di indagare sia l’universale (t’ kaq“lou) sia la sostanza prima (prËth oŸsÖa), ed in L82. Il tratto usiologico della filosofia prima non si può assumere, comunque, come via risolutiva dell’aporia circa la determinazione della filosofia prima, vale a dire se questa sia da leggersi come scienza universale o come scienza particolare, se come ontologia generale o come teologia o entrambe insieme. La conversione della prËth filosofÖa in usiologia ripropone difatti la medesima difficoltà che si incontra nella duplice determinazione del compito della filosofia prima come indagine sull’ente in quanto ente e come studio sull’ente divino, giacché si tratta di decidere nuovamente se l’indagine debba prendere di mira l’intero della sostanza, come dichiara l’incipit di L, o solo la sostanza sovrasensibile, dal momento che della sostanza mossa (sia corruttibile sia eterna) si occupa la scienza fisica. In ogni caso, se guardiamo ad E, fino all’indicazione dell’esatto numero delle scienze teoretiche, il discorso aristotelico sembra non generare in effetti alcuna aporia, pur sorgendo la necessità di pensare la relazione che intercorre fra una scienza dell’ente in quanto ente ed una scienza della sostanza immobile. Stando ancora al testo di E, mi pare che Aristotele, del resto, non introduca primariamente la necessità della scienza teologica per dare ulteriormente conto della natura dell’ôpistªmh ôpizhtoumönh di cui discute in B, dove essa è caratterizzata espressamente come usiologia, così come lo è anche in G, in Z e in L. Piuttosto ho l’impressione che la premura dello Stagirita sia quella di offrire un’analisi dell’artipotrebbe chiedere cosa Aristotele qui intenda con “sostanza prima”, se la sostanza separata o il sinolo individuale. Infatti potrebbe essere che il teoretico è al di sopra del fisico nello studiare la sostanza in universale, dunque nell’indagare ciò che costituisce la sostanza prima nel senso della sostanza individuale. Posto infatti che la sostanza è la sua stessa forma, al filosofo teoretico “primo” spetta il compito di studiare il principio della sostanza in quanto tale, in quanto cioè ogni volta sostanza individuale, quale che sia, se quest’uomo qui o questo cavallo qui. Ma che si tratti qui della sostanza sovrasensibile e non della sostanza individuale mi pare sia confermato dalla superiorità che al teoretico primo spetta rispetto al fisico, per il fatto che la sostanza di cui il teoretico primo si occupa è maggiormente degna di onore della sostanza sensibile che è oggetto di ricerca della scienza fisica. 82 Come già detto, il I capitolo di L pone come esistenti due sostanze sensibili, la corruttibile e l’eterna, ed una sostanza immobile (cfr. 1069a30 ss.).

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colazione interna al sapere teoretico, con la cura di distinguere le sue varie parti in relazione agli oggetti tematicamente indagati. Il fatto che la scienza teologica appaia come una scienza particolare, al pari della scienza fisica e della scienza matematica, è qualcosa che in sé non rappresenta ancora un dato problematico. È, di contro, il fatto che Aristotele specifichi che le scienze teoretiche sono appunto tre che, almeno secondo me, dà avvio alla questione di quale sia lo statuto proprio della filosofia prima. Risulta infatti subito evidente che Aristotele procede ad una sovrapposizione, per così dire, della scienza teologica (“prima”) e della scienza dell’ente in quanto ente alla quale si riferisce all’inizio del capitolo, mettendo in moto tutta la questione dell’articolazione interna al sapere teoretico. Egli pone come un dato noto, accertato, che vi è corrispondenza o, più esattamente, equipollenza fra il tratto universale della ricerca e la supremazia che a questa indagine compete per via del carattere del suo oggetto tematico83. È qui, in altri termini, che si sta determinando il carattere onto-teologico della metafisica84. La questione sta, in effetti, tutta nel modo in cui intendere la caratterizzazione teologica. Essa è davvero messa in campo da Aristotele perché nel qe“j si dà la possibilità di rispondere alla domanda sull’enticità, sull’essere dell’ente, come pensa Heidegger, vedendo nel dio aristotelico già la traccia della Begründung e, dunque, di ciò che 83

Sarà propriamente il seguito del capitolo di Met. E, nella terza parte, a porre implicitamente la corrispondenza fra il tratto universale di questa prima scienza ed il suo occuparsi della sostanza prima, definendo il primato di tale ôpistªmh rispetto alle altre nella sua duplicità costitutiva, in quanto indagine sull’ente in quanto tale e sull’ente “più degno di onore”, sul dio. 84 Abbiamo già visto come Heidegger spieghi questo intrecciarsi dei due tratti, ma vale la pena riportare nuovamente uno dei passi più espliciti: “La metafisica dice che cos’è l’ente in quanto ente. Essa racchiude un l“goj (un’asserzione) sull’‘n (sull’ente). Il titolo successivo “ontologia” ne caratterizza l’essenza, a condizione, ovviamente, che lo si intenda in base al suo contenuto proprio e non nella ristretta accezione scolastica. La metafisica si muove nell’ambito dell’oñn Œ ‘n. La sua rappresentazione è diretta all’ente in quanto ente. In tal modo la metafisica rappresenta ovunque l’ente come tale nella sua totalità, l’enticità dell’ente (l’oŸsÖa dell’‘n). Ma la metafisica rappresenta l’enticità dell’ente in due modi: da un lato la totalità dell’ente come tale nel senso dei suoi tratti universali (oñn kaq“lou, koin“n), dall’altro la totalità dell’ente come tale nel senso dell’ente sommo e quindi divino (oñn kaq“lou, ¢kr“taton, qeãon). La svelatezza dell’ente come tale si è configurata espressamente in questo duplice aspetto nella Metafisica di Aristotele (cfr. Metaph., G, E, K)” (Sgv, p. 330).

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dà conto dell’intero dell’ente, reggendolo, perché costituisce il modello paradigmatico di cosa l’ente nel suo essere ente è? 85 O piuttosto la determinazione teologica è la condizione di apertura della scienza metafisica, perché l’esistenza dell’ente divino immobile dichiara la necessità di disporre di un’indagine diversa da quella della scienza fisica, innescando allora la possibilità che si possa interrogare a questo punto senza più frammentare la realtà in regioni ontologiche, ma assumendola come ambito oggettuale nella sua interezza? Quest’ultima possibilità non esclude affatto che nel qe“j si consegni qualcosa che aiuti nella comprensione dell’ente in quanto ente, ma – si badi bene – ciò non determina l’apertura della metafisica come indagine sull’intero dell’ente, supponendo che il dio svolga il ruolo di un fondamento fondante dell’ente nella sua totalità. Per questo, in conformità a quanto ho cercato di mostrare nel percorso svolto nei capitoli precedenti, ritengo che vi sia un’utilità, se così posso esprimermi, nel fare uso della nozione di “onto-teologia”, solo se essa è sottoposta ad una “neutralizzazione” rispetto alle due implicazioni teoriche che, per Heidegger, si danno come tratti essenziali dell’onto-teologismo. A mio avviso, queste due implicazioni teoriche non sono affatto necessariamente conseguenti ad un interrogare che si dice “onto-teologico” perché, nel guardare al dio, tale interrogare trova la possibilità di osservare anche l’ente in quanto tale e, nel prendere di mira l’ente in quanto tale, domanda insieme sul qe“j, senza che l’ente divino sia la “risposta” alla domanda sull’ente in quanto tale. Le due implicazioni – ricordiamo di nuovo – sono secondo Heidegger le seguenti: 1) l’onto-teologia comporta l’oblio della differenza ontologica; 2) essa è frutto di un pensiero di tipo raziocinativo che legge la causalità solo al modo del fondamento – Ergründung e Begründung insieme –, laddove la 85 In questo caso, è la determinazione ontologica ciò che sta a monte, determinando l’apertura anche del tratto teologico. Heidegger non mette in dubbio che la domanda originaria della metafisica sia la domanda sull’ente. In questo senso, rispetto alla possibilità di raggiungere una definizione della filosofia prima in relazione al suo oggetto, si può dire che per lui la prËth filosofÖa abbia in senso stretto un solo oggetto – l’intero dell’ente – e che la componente teologica si riveli come l’esito della questione sull’essere dell’ente. Tuttavia, per Heidegger è piuttosto per il fatto che la nozione di oŸsÖa sia in sé duplice che si determina il contemporaneo definirsi della metafisica come ontologia e come teologia.

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caratterizzazione aristotelica è meno “potente”, indicando principio e causa rispettivamente ciò a partire da cui inizia qualcosa e un principio da cui dipende qualcosa 86. Partendo dalla tripartizione del sapere teoretico il prosieguo dell’argomentazione non può non apparire, a questo punto, che come lo sviluppo della questione. Se, infatti, Aristotele non aggiungesse altro dopo avere specificato quali siano le scienze teoretiche, si potrebbe forse ancora pensare – è un’ipotesi che ha limiti precisi – che, parlando di quello che è eterno, immobile e separato, egli non faccia riferimento all’esistenza di una qualche realtà sostanziale determinata, della cui esistenza non si dichiara neanche in primo luogo certo, bensì stia tentando di definire in altro modo quei principi e quelle cause dell’ente in quanto tale di cui parla all’inizio del libro. Credo convenga soffermarsi su questo punto, vagliando il senso di questa ipotesi, giacché il discorso aristotelico fa esplicito riferimento alla necessità di occuparsi delle cause e dei principi che sono “in massimo grado eterni” (m£lista ¢èdia). La domanda da porsi è se Aristotele non stia provando a definire i principi sul piano formale, ricorrendo cioè a quello stesso registro di L che, nel guardare al modo d’essere dei principi, definisce le ¢rcaÖ analogicamente identiche per tutte le sostanze, ma diverse individualmente. È proprio della causa formale, dell’essenza di potere essere pensata come separata tramite la ragione, di costituire ciò che nella sostanza sensibile propriamente non muta, laddove la materia, pur permanendo, cambia, e di possedere pertanto il tratto dell’incorruttibilità e dell’eternità87. Nel momento in cui si tralascia la questione dell’esistenza della sostanza immobile pensata come un ente determinato, un alcunché di determinato in quanto una sostanza individuale specifica ca86

In questo senso, la condizione di possibilità per un uso della nozione di onto-teologia è proprio il porre separazione fra la dizione, che dice solo che si interroga in una circolarità di ontologia e teologia, e le possibili, ma appunto non necessarie, conseguenze di questo interrogare. 87 La forma, costituendo l’essenza di ciò che è individuale, è pensabile come separata: “La sostanza è il sostrato, inoltre la materia, […] e poi l’essenza e la forma, che essendo un che di determinato, è separata per mezzo della ragione (t˘ l“gJ cwrist“n)” (Met. H , 1042a27-30). Ancora “la forma non muta né di essa vi è generazione” (Met. Z , 1033b6-7), “sicché nessuno produce o genera la forma” (Met. H, 1043b17), mentre la materia “muta” (cfr. Met. Z, 1033a1), pur permanendo.

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ratterizzata da un’essenza sua propria (il dio appunto), e si fa riferimento alla necessità di studiare quel che si definisce per sua struttura come eterno, immobile, separato, nulla vieterebbe, a mio avviso, di riferire queste caratteristiche al modo d’essere della forma, del principio. In questo senso si potrebbe pensare, che essendo proprio di ciascuna scienza avere di mira i principi dell’oggetto indagato, la scienza dell’ente in quanto tale andrà pertanto in cerca dei principi dell’ente assunto in senso assoluto, come dichiara espressamente l’incipit del libro. Così l’introduzione della scienza teologica come la scienza che indaga un ente ancora senza nome, e pur tuttavia definito secondo i suoi caratteri ontologici costitutivi, apparirebbe plausibile a partire da un certo modo di definire il “principio” di tutto ciò che è in quanto ciò che è. È un’ipotesi che posso costruire, però, fermandomi unicamente alla prima parte del capitolo. Questa possibilità di lettura in sé non contrasta con ciò che Aristotele, secondo me, ha intenzione di mostrare proprio nella continuazione del suo ragionamento nel primo capitolo di E. L’uso dei due aggettivi “protöra” e “prËth” per definire la scienza teologica sono adoperati per sottolineare il primato di questa prima ôpistªmh qewrhtikª rispetto alla fisica ed alla matematica, mostrando implicitamente il modo in cui si debba comprendere questo primato, ossia indicando il criterio sulla base del quale esso si possa porre. Non essendo, però, ancora stata proposta una piena identificazione da parte dello Stagirita fra ciò che è eterno, immobile, separato ed il qe“j, si potrebbe pensare che l’oggetto di questa scienza di rango superiore è ciò che è primo, ossia il principio come principio dell’ente nella sua totalità. Ciò darebbe pieno senso all’attribuzione del carattere di universalità a questa prima scienza, giacché essa indaga principi che si riferiscono all’intero dell’ente e non ad una sua specifica parte. Ed ancora, questo offrirebbe la possibilità di considerare il principio dell’ente in quanto tale secondo il suo proprio modo d’essere che lo sottrae al movimento quale tratto ontologico della sostanza come sinolo, unione di forma e materia. La prima parte del I capitolo di E è, dunque, a mio modo di vedere, assolutamente coerente con l’analisi della “certa” scienza di Metafisica G, se così almeno si prova a leggere la locuzione “qualcosa

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di eterno, immobile, separato”, riferendo l’espressione al tratto peculiare dell’¢rcª (e di ogni ¢rcª) in quanto tale88. In G i principi e le 88 In GA 19 Heidegger costruisce una lettura che in fin dei conti pone come caratteri del principio o dei principi della realtà necessaria, quale la f⁄sij è, l’eternità, l’immobilità (ossia il fatto che un principio necessario non muta nel suo contenuto e nella sua necessità) e la condizione di separazione, se in genere ogni principio è altro dalla cosa che da esso consegue o, pur essendo lo stesso, in quanto eçdoj della cosa, presenta un carattere di trascendenza rispetto alla cosa, come ormai più volte mi sono sforzata di evidenziare. Ciò serve ad Heidegger per porre l’accento sul modo d’essere necessario dell’oggetto della scienza in senso aristotelico, in contrapposizione al modo d’essere contingente della realtà su cui la saggezza delibera. Egli parte dalla descrizione del costrutto semantico greco che definisce la costituzione temporale dei “qeãa”: un qeãon è un essere ¢èdion in contrapposizione all’essere ôn cr“nJ; è la distinzione fra l’essere eterno e l’essere nell’ordine del tempo. Al fondo gioca sempre l’idea che per i Greci “l’ente in riferimento al proprio essere è determinato da un momento del tempo” (GA 19, p. 33). A partire da qui Heidegger argomenta che “gli ¢èdia sono pr“tera tÕ oŸsÖv tÓn fqartÓn (Met. Q, 8, 1050b7), “ciò che è sempre è primo sotto il rispetto della presenza in confronto a ciò che è corruttibile”, ciò che una volta è stato soggetto a divenire, non era allora presente. Perciò kaà ôx ¢rc¡j kaà t¶ ¢èdia (cfr. 1051a19 e ss.), gli ¢èdia sono ciò che costituisce l’inizio per tutto il resto dell’ente. Essi sono allora ciò che è autentico. Infatti per i Greci essere significa: esser presente, esser nella presenza (Anwesendsein, Gegenwärtigsein). Pertanto ciò che è sempre nell’ora è ciò che autenticamente è essente, l’¢rcª, il principio dell’ente restante. Ogni determinazione di un ente, affinché essa possa essere, viene ricondotta ad un sempre essente e compresa a partire da esso” (ibid., pp. 33-34). In Aristotele si dà, però, sottolinea Heidegger, una differenza fra sempiternitas ed aeternitas; la prima è espressa dal carattere temporale dell’aÑËn che è anche del cielo, e che si oppone all’essere un “¢eà ‘n” che non si dà secondo la misura del tempo (Heidegger si rifà a Phys. IV, 221b3 e ss.: “t¶ ¢eà ‘nta, Œ ¢eà ‘nta,, oŸk ústin ôn cr“nJ”). Quest’ultimo è, appunto, “l’¢èdion, l’eterno, ciò che non è nel tempo” (GA 19, p. 34). Questa lettura della distinzione fra l’essere ¢èdion e l’essere ôn cr“nJ è diretta al cuore della struttura ontologico-cosmologica della realtà presentata da Aristotele tanto in Met. quanto in Phys. e nel De caelo. Heidegger interpreta espressamente i qeãa non come gli enti sopralunari in quanto tali (ossia gli enti eterni, il motore immobile, gli altri motori e gli astri), ma come quell’unica regione dell’ente identificabile con l’¢kÖnhton kino‡n. Per Aristotele, invece, “metafisici” – se mi si consente questa resa dello übersinnilich usato da Heidegger – sono in qualche modo tutti gli enti che propriamente sono eterni (¢èdia ), non corruttibili (fqart£) e che, però, possono essere soggetti al moto ciclico di rotazione (kÖnhsij k⁄klJ). Secondo questa prospettiva per Aristotele sono ¢èdia gli astri, seppure si tratti ancora di sostanze metablhtikaÖ. In questo modo, rispetto alla tripartizione fra le sostanze proposta in Met. L, si ha un’altra bipartizione: da un lato tutto ciò che è sinolo corruttibile, soggetto al genere di metabolª più radicale (genesi e corruzione); dall’altro le sostanze che sono eterne (¢èdioi). Ciò che a questo punto diventa criterio di distinzione non è più l’essere separato o meno delle sostanze (se, dunque, esse siano o no materiali), ma la loro costituzione rispetto al tempo. Le sostanze eterne si contrappongono a quelle periture che popolano il mondo sublunare. Per somiglianza ontologica il qe“j, come cwrist“j, e gli astri, come sostanze soggette a kÖnhsij, appartengono ad un unico orizzonte ontologico; del

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cause dell’ente in quanto tale sono definiti, come detto, ¢kr“tatai, “sommi”, “più alti” 89. Altrettanto nell’Etica Nicomachea non solo l’oggetto della scienza (t’ ôpistht“n) è considerato “eterno, ingenerato ed incorruttibile” (¢èdion, ¢gönhton, •fqarton)90, ma la sapienza è anche detta da Aristotele “scienza delle cose più degne di onore” (ôpistªmh tÓn timiwt£twn)91. L’aggettivo “timiËtatoj” è spesso adoperato per definire l’ente divino, il primo motore immobile come in Metafisica E in cui la realtà eterna, immobile e separata, “il divino” (t’ qeãon), è altresì chiamato dallo Stagirita “il genere più degno di onore” (t’ timiËtaton gönoj)92. Ora la superiorità di un principio rispetto ad un altro si può valutare secondo due rispetti: o considerando il suo carattere di universalità quanto alla sua validità sul piano dell’assunzione che di tale principio fanno le scienze, come accade nel caso dei principi comuni che vengono accolti da tutte le scienze a prescindere dallo specifico oggetto d’indagine di ognuna, o ponendo l’¢rcª come principio sul piano ontologico non già solo di una parte dell’ente, ma della sua totalità. In questo senso la determinazione del dio come primo principio di mutamento si può considerare un caso esemplare. Nella misura in cui Aristotele nel I capitolo di E non sta ancora facendo espresso riferimento al bisogno di spiegare il modo d’essere della sostanza sensibile nella sua interezza, bensì sta rispondendo alla necessità di esplicitare il modo d’essere di ogni ente in quanto ente, mi pare che la primarietà del principio sia coglibile solo in relazione all’interezza dell’ente visto in senso assoluto, a`plÓj, in quanto ente, proprio come si asserisce all’inizio del libro. A maggior ragione, dunque, posto che l’oggetto della conoscenza scientifica si caratterizza come “quel che è sempre”, che “è eterno” in contrapposizione alla realtà contingente e transeunte, il principio che è proresto è ciò che si evince anche dal De caelo (cfr. I, 269b13-270b4). Questo aspetto, in effetti, è perfettamente colto da Heidegger, il quale comunque conclude: “L’ente dell’ôpistªmh è l’¢eà ‘n. Questo è la prima determinazione dell’ôpistht“n” (GA 19, p. 34). 89 “Poiché cerchiamo i principi e le cause somme (t¶j ¢krot£taj aÑtÖaj), è chiaro che è necessario che essi siano principi e cause di una natura (f⁄sij) che è per sé” (Met. G, 1003a26-28). 90 Cfr. Et. Nic. VI, 1139b23-24. 91 Ibid., 1141a19-20. 92 Met. E, 1026a21.

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Aristotele dopo Heidegger

prio di ogni ente in quanto tale dal punto di vista, per così dire, della sua tenuta ontologica sul piano del reale e sul piano della conoscenza scientifica si presenta con il carattere dell’universalità e, pertanto, della primarietà. Potremo avere enti con molteplici modi d’essere specifici ed ognuno potrà anche mutare variamente, ma per il fatto di definire qualcosa come ente, vi sarà una forma dell’ente che gli compete per sé, in quanto ente, tale da rimanere identica per ogni ente, a prescindere da cosa siffatto ente sia individualmente93. Il limite dell’ipotesi che ho formulato risiede, tuttavia, non solo nella precisione della domanda che Aristotele sta ponendo, ossia “se esista qualcosa di eterno, immobile, separato”, bensì nella specificazione che la scienza fisica non si può occupare di una siffatta realtà. Posto che per Aristotele le idee, le forme al modo platonico non esistono, la sua domanda interroga circa l’esistenza di una determinata sostanza specifica con ben precisi caratteri ontologici. Ora, dal momento che lo Stagirita si è dichiarato convinto all’inizio del capitolo della necessità di studiare l’ente in quanto ente, appare contraddittorio che adesso si interroghi sul fatto che dell’ente in quanto tale sia possibile un principio che, come principio, si dia per sé eternamente, incorruttibilmente e in modo separato al modo di una sostanza indi93 Questa, in effetti, è l’idea che sta alla base della svolta che si consuma a partire da Duns Scoto e Suárez e questo è, inoltre, secondo Heidegger, il senso della domanda aristotelica sull’ente in quanto tale. Nella lettura heideggeriana l’interrogazione ontologica dello Stagirita determina il modo d’essere della tradizione metafisica in quanto questione sull’essere dell’ente, sulla sua enticità. Con Seiendheit Heidegger traduce, a partire dalla fine degli anni Venti, il vocabolo greco oŸsÖa, mettendo in evidenza il significato di “costante presenza” (beständige Anwesenheit) che la nozione possiede nel pensiero greco secondo l’esegesi fenomenologica operata da Heidegger. Nella resa di oŸsÖa con Seiendheit si esprime la considerazione heideggeriana della sostanza come condizione ontica ed insieme ontologica relativa all’ente ed al suo essere in quanto tratto peculiare dell’ente. La domanda su “ciò che costituisce l’ente in quanto ente si dirige autenticamente all’essere. Si domanda che cosa sia l’essere dell’ente” (GA 31, p. 40). Pertanto, secondo quanto almeno Heidegger asserisce fino alla metà degli anni Venti, la domanda aristotelica è espressione di una “critica” perché appunto pone una distinzione fra essere ed ente (cfr. ad es. Cfa, pp. 73-80 e pp. 236-237 e Pff, pp. 10-13). La nozione di oŸsÖa rappresenta la risposta alla domanda sull’ente; l’oŸsÖa costituisce infatti il carattere d’essere dell’ente, “l’esser-ente, l’enticità” (GA 31, p. 47), il modo d’essere dell’ente colto secondo il tratto della costante presenza: “Con oŸsÖa non è in effetti pensato altro che la costante presenza e questo si comprende proprio sotto l’enticità” (ibid., p. 52), nella misura in cui, al solito, grecamente l’ente in senso autentico è “ciò che è sempre presente” (ibid.).

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viduale. Il principio deve in qualche modo essere corrispondente alla natura di ciò che comporta. Se poi lo stato proprio di ogni principio è quello di essere in modo eterno, incorruttibile e separatamente, non ha neppure senso chiedersi se eventualmente dell’ente in quanto tale vi sia un principio: il suo studio, la sua indagine pone già di per sé la possibilità di pensare ad un principio dell’ente in quanto tale. Se così non fosse, l’ontologia dell’ente non potrebbe costituirsi come scienza. È inoltre chiaro che anche l’ôpistªmh fusikª in quanto ôpistªmh è indagine intorno ai principi dei f⁄sei ‘nta. Questi principi, come già visto e come risulta messo bene in luce in L, sono essi stessi sottratti al ritmo del tempo e del mutamento se assunti analogicamente nella loro universalità e, dunque, in una prospettiva eidetica. Aristotele non avrebbe, perciò, alcun motivo di porre qui la necessità di un’altra scienza oltre la scienza fisica se il compito fosse “solo” quello di dare conto dei principi della sostanza sensibile, sia pure visti sul piano della considerazione formale94. Non avrebbe senso aprire qui lo spazio di un’indagine “meta-fisica”, che ha di mira lo studio del principio in quanto tale, pur riducendo la realtà a quella sola della f⁄sij, se questa ricerca non si coniugasse con il bisogno di indagare intorno all’esistenza di una possibile altra realtà oltre la sensibile. Se interrogare l’ente in quanto ente significa ricondurre i molteplici significati dell’ente a quello fondamentale di sostanza95, 94

Altra potrebbe essere la prospettiva che porta a porre la necessità di una prima scienza teoretica al di sopra della fisica, se si puntasse l’attenzione sul fatto che la scienza fisica non si occupa in generale del principio in quanto tale, compito questo che Aristotele attribuisce alla prima scienza. Ciò significa che certamente la scienza fisica rintraccia i principi dell’ente naturale in quanto ente naturale e ne tematizza il modo d’essere, nondimeno non pone la questione su che cosa principio, in quanto nozione e in quanto determinazione ontologica, significhi. L’interrogazione su che cosa il principio sia, a prescindere da ciò di cui è principio e, dunque, a prescindere dal suo contenuto specifico di determinazione di quel che è partire da esso, è la domanda di pertinenza del metafisico. Questo è in altri termini lo spazio entro cui si misura la differenza fra il modo di tematizzare il qe“j, in quanto prËth ¢rcª kinªsewj, da parte dell’ôpistªmh fusikª ed il modo di interrogarsi su di esso da parte della prËth filosofÖa. 95 Aristotele discute della polisemia dell’ente nel prosieguo di Met. E (capp. 2-4, dove sono maggiormente tematizzati l’ente come accidente e l’ente secondo il vero ed il falso), rimandando al libro D (cfr. cap. 7). Circa la polisemia dell’ente e la riconduzione dei vari significati al senso fondamentale dell’‘n come oŸsÖa cfr. sia Met. G, 1003a33-34 e 1003b5-10 sia Met. Z, 1028a10-20; in Met. Z, 1028a30-31 Aristotele afferma con una forte espressione che l’ente in modo primario (t’ prËtwj ‘n), l’ente in modo assoluto (oñn

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Aristotele dopo Heidegger

praticando così la via della scienza usiologica, ciò che si dovrebbe realizzare sarebbe un’indagine della sola sostanza sensibile, in quanto essa sarebbe l’unica di cui si ammette l’esistenza come assolutamente certa tramite sensazione ed induzione. In questo senso, il fatto che la scienza fisica della sostanza sensibile in quanto tale studi i principi e si interroghi su questi principi non determina la necessità dello spazio di un’ulteriore prospettiva investigativa, giacché il principio della sostanza sensibile in quanto tale dovrebbe comunque rientrare nell’ambito della f⁄sij. In altri termini, se la domanda circa l’esistenza di un ente eterno non fosse la questione dell’esistenza della sostanza sovrasensibile – in piena corrispondenza con quanto posto come questione specifica di cui deve occuparsi la scienza prima –, la domanda potrebbe ancora venire affrontata dall’ôpistªmh fusikª come interrogazione sui principi della sostanza sensibile. Aristotele, invece, pone espressamente la possibilità dell’esistenza di una realtà sostanziale altra oltre la realtà delle sostanze fisiche, in totale accordo, del resto, con l’affermazione di L intorno alla mancanza di principi comuni fra le sostanze sensibili e la sostanza sovrasensibile. Egli anzi, come anche altre volte del resto, si dà cura di sottolineare che se non ci fosse altra realtà oltre quella sensibile, la prima scienza sarebbe appunto la fisica, in quanto essa esaurirebbe nella sua indagine la totalità dell’esistente96. Afferma, quindi, che il compito della scienza prima non è solo lo studio dell’ente in quanto ente o dei principi comuni, ma altresì della sostanza e della sostanza immobile. Come credo sia ormai chiaro, l’aporia della filosofia prima non a`plÓj) è la sostanza. La medesima espressione ricorre all’inizio del libro Q (1045b27 ss.),

dove nuovamente si fa riferimento alla polisemia dell’ente per introdurre la trattazione dell’ente secondo atto e potenza. Anche in Phys. si discute della sostanza come ÿpokeÖmenon rispetto a cui si dicono i vari sensi dell’ente (cfr. Phys. I, 185a31-32). 96 Asserire che la filosofia prima è al di sopra della fisica, perché studia un genere di realtà ritenuto più alto rispetto alla realtà naturale, è cosa ben diversa dall’affermare che la superiorità della prËth filosofÖa è dovuta al fatto che essa studia l’ente in universale. Ora Aristotele giustifica il primato della filosofia prima in entrambi i modi. Mentre, però, in Phys. sottolinea di più il secondo aspetto, in Met. mette in evidenza la limitazione del campo ontologico d’indagine della fisica rispetto all’esistenza di una realtà ulteriore oltre quella naturale. Il punto è capire il senso secondo il quale la filosofia nel procedere ad un’ontologia-usiologia generale sia anche indagine su un ente specifico.

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sorge dunque solo entro il contesto di Metafisica E, sebbene qui essa si mostri in tutta la sua difficoltà, ma in vario modo compare più o meno espressamente in diversi luoghi della Metafisica. Basti pensare alla conclusione del capitolo 2 di Metafisica G in cui Aristotele riassume i compiti della certa scienza: È chiaro che è dunque proprio di una sola scienza indagare l’ente in quanto ente e le cose che gli appartengono in quanto ente e che questa scienza teoretica non è solo delle sostanze ma anche delle cose che appartengono loro97.

In precedenza ha asserito che “le parti della filosofia sono tante quante sono le sostanze: sicché è necessario che una qualche parte sia prima” 98, ed è primo, ossia al di sopra del fisico, colui che studia la sostanza prima99. Si pone così, in ultima analisi, la medesima difficoltà che stiamo ora analizzando. La scienza prima sembrerebbe dovere al suo interno articolare il nesso fra il tema generale della sua indagine, l’ente in universale, e la parte considerata “prima” all’interno di questa totalità, ossia la sostanza sovrasensibile, nella riconduzione del compito dell’ontologia generale a quello in definitiva di un’usiologia generale che, appunto perché tale, deve porsi come compito anche lo studio delle proprietà della sostanza in quanto sostanza. D’altro canto, però, ritengo che anche queste precisazioni, che limitano la validità dell’ipotesi profilata come possibilità di intendere la filosofia prima al modo di un’ontologia generale dell’ente e dei suoi principi primi universali, mettendo fuori gioco la duplicità della determinazione onto-teologica, non eliminano l’importanza di un aspetto che è centrale nell’ipotesi. Si tratta di un passaggio che compare ancora nella prima parte del capitolo: “È necessario che tutte le cause siano eterne, ma queste soprattutto” 100. Lo Stagirita sta asserendo che in generale è proprio della causa possedere il tratto dell’eternità giacché, se la causa fosse qualcosa di corruttibile e transeunte e non avesse il carattere delle realtà necessarie (ôx ¢n£gkhj) che 97

Met. G, 1005a13-16. Ibid., 1004a2-4. 99 Cfr. ibid., 1005a33-b2. 100 Met. E, 1026a16-17. 98

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Aristotele dopo Heidegger

sono sempre (¢eà ‘nta) e non possono essere diverse da come sono (mæ ôndöcesqai •llwj úcein), non sarebbe oggetto di conoscenza scientifica. Che dell’accidente non si possa avere scienza, infatti, è conseguenza del fatto che la sua causa è a propria volta qualcosa di accidentale e di “indeterminato” (¢“riston)101, non ha il carattere di ciò che è sempre o di “quel che è per lo più” (Êj ôpà t’ pol⁄)102. Tuttavia Aristotele aggiunge che sono massimamente eterne (m£lista ¢èdia) le cause “per le cose manifeste fra gli enti divini”103. Non dice propriamente le cause degli enti divini, bensì precisa quali fra gli enti divini: “le cose manifeste fra gli enti divini” sono infatti quelle realtà che in qualche modo cadono sotto i nostri sensi, che possiamo vedere (altrimenti perché definirle manifeste?), ossia gli astri ed i corpi celesti che possiamo osservare. Queste realtà vengono dette “divine” fra le altre, perché eterne, ossia non corruttibili104; eterne sono, quindi, 101 “La causa dunque dell’accidente non è affatto determinata, ma è il fortuito: essa è indeterminata ” (Met. D, 1025a24-25). 102 Cfr. Met. E, 1027a19-20 ss. In Met. E, capp. 2-3 Aristotele discute il significato dell’ente come accidente e si sofferma a chiarire le ragioni della mancanza della possibilità di conoscerlo scientificamente. 103 Ibid., 1026a17. 104 La corrispondenza con Met. L, 9 è palese, dove il dio in quanto no‡j è definito come quel che è “più divino fra le cose manifeste (tÓn fainomönwn qei“taton )” (L , 1074b16). Anche nel cap. 8 Aristotele chiama come qeoÖ gli astri (cfr. Met. L, 1074b23: “”ti qeoÖ tö eÑsin o·toi”), sebbene vi siano varie ipotesi sull’interpretazione del passo. Leo Elders commenta così: “b2. A prima vista non è chiaro a quali cose si riferisca il dimostrativo o·toi. Jager pensa che si intendono i corpi celesti. Schwegler, 282, e Ross, II 395, suppongono anche che il pronome designi più probabilmente gli astri che i motori. Guthrie, d’altra parte, pensa che i 55 motori siano l’antecedente. – Io suggerirei che il pronome è di proposito lasciato vago. Il passo è retorico nello stile ed evoca probabilmente nella sua prima riga la concezione che è comune a tutti. È soltanto in b9 che è introdotto il punto di vista proprio di Aristotele (prÓtai oŸsÖai). Per questa ragione tradurremmo o·toi con ‘questi enti (lassù)’. b3. kaà periöcei t’ qeãon tæn ”lhn f⁄sin. Il verbo periöcein è ripetutamente usato nella filosofia presocratica per esprimere la convinzione fondamentale su cui si basa la maggior parte delle cosmologie greche, ossia che la circonferenza dell’universo sia migliore del centro e sia l’origine ed il principio sostentatore e reggente. L’Infinito di Anassimandro contiene ogni cosa e Democrito afferma che il ‘tutto’ circostante contiene i corpi animali ed impartisce loro il movimento. Platone scrive che il mondo ‘avvolge’ tutte le cose visibili e per Aristotele la circonferenza del mondo è il suo töloj e contiene tutti i corpi, come la forma contiene la materia” (L. Elders, Aristotle’s Theology. A commentary on book L of the Metaphysics, Van Gorcum, Assen 1972, p. 243). Ancora allo stesso cap. di L lo Stagirita asserisce che le sostanze prime sono dei; il riferimento ad una molteplicità di prÓtai oŸsÖai induce a ritenere che

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anche le loro cause. In senso ancora più pregnante risultano eterne le cause degli enti divini rispetto alle cause delle sostanze sensibili che, di contro, non sono sostanze eterne, ma corruttibili e periture105. Degli altri enti divini, di cui le sostanze celesti sarebbero parte, si tratta di indagare se esistano realmente o meno. Ciò che è separato ed immobile, pensato quindi come divino giacché immateriale, non si sottrae all’essere messo in dubbio circa l’esistenza, a differenza della realtà che cade sotto i nostri sensi. Non si dubita secondo Aristotele dell’esistenza dei corpi celesti e degli astri e questi sono pensati come “divini”. La presenza di un qualcos’altro di divino, separato (asserendo, infatti, che gli astri e i corpi celesti sono manifesti si sostiene che sono enti dotati di materia), eterno, immobile è ipotesi da indagare. Posto ciò, rimangono alcune domande. Innanzitutto non è chiaqui Aristotele consideri insieme sullo stesso piano tanto il primo motore immobile quanto i corpi celesti, considerando entrambi “enti divini”. Altresì in De an. “la luna, il sole, gli astri e l’intero cielo” sono pensati come enti divini, “t¶ qeãa ” (cfr. De an., 405a32-b1). Anche nel De caelo i corpi celesti sono detti “fain“mena”, sebbene Aristotele riconosca la difficoltà del loro studio rispetto all’indagine sui fenomeni del mondo sublunare, trattandosi di realtà più lontane e più difficili da conoscere per la mancanza di una sufficiente esperienza empirica (cfr. De caelo, 286a4-7), così che noi per il loro studio non disponiamo che di “scarse risorse” (De caelo, 292a15-16). Rispetto a Met. L nel De caelo è più chiaramente affermata la natura divina degli astri in corrispondenza al carattere divino delle sfere celesti (cfr. ad es. De caelo, 271b10-11; 286a11; 292b32) e più raramente, però, ci si imbatte invece nell’affermazione dell’esistenza del primo motore immobile pensato altresì come “a` sËmaton” (cfr. ad es. De caelo, 288b1 ss.; 292b4 ss.; 300b13 ss.). Rispetto all’interpretazione del passo del De caelo, 279a13-b3, che sembrerebbe escludere l’esistenza del primo motore immobile, accolgo il suggerimento della Botter, che mostra in che senso questo passo invece faccia riferimento all’esistenza di un ente divino immateriale oltre il primo cielo (cfr. B. Botter, op. cit., pp. 145-153). 105 Mio padre come principio della mia generazione non è causa eterna, essendo a propria volta sostanza corruttibile. Diverso sarebbe se si indicasse la f⁄sij come principio delle sostanze sensibili viste nel loro essere sostanze mosse – considerando cioè la f⁄sij come principio di movimento delle sostanze sensibili, dove la metabolª rappresenta l’essenza stessa del modo d’essere delle oŸsÖai aÑsqhtaÖ. Ma l’aspetto che lascia definire la f⁄sij come ¢rcª coglie, come già visto, un certo modo d’essere della causa degli enti fisici rispetto al modo d’essere della causa degli artefatti. Aristotele è in generale convinto che fra la causa ed il causato vi sia come una sorta di omologia quanto al modo d’essere: “È infatti in pari modo necessario che i principi delle cose sensibili siano sensibili, i principi delle cose eterne eterni, i principi delle cose corruttibili corruttibili e che in generale siano del medesimo genere (—mogeneãj) delle cose che dipendono” (De caelo, 306a9-12).

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Aristotele dopo Heidegger

ro perché bisogna porre una scienza teologica distinta dalla scienza fisica, se alla scienza teologica compete lo studio dei corpi sopralunari che, essendo sostanze sensibili, rientrano a pieno titolo nel genere d’indagine dell’ôpistªmh fusikª. Da L risulta chiaro che la cosmologia è parte dello studio che verte sulle sostanze fisiche. Anche altri trattati, quali appunto il De caelo106 e la Fisica, ci confermano che lo studio degli astri e delle sfere celesti è un tipo di ricerca che si inserisce nel quadro della generale ôpistªmh fusikª, la quale indaga gli enti materiali in quanto tali e soggetti a mutamento. Tuttavia, il fatto che gli astri siano sostanze eterne e non corruttibili costituisce per lo Stagirita una differenza specifica fra due specie di sostanze appartenenti al medesimo genere. Si tratta di una differenza così profonda che, di necessità, non si può non operare una diversificazione fra le discipline107. È sulla base di questa differenziazione che Aristotele at106 Cfr. proprio l’incipit del De caelo: “La scienza che verte intorno alla natura per la sua massima parte o pressapoco indaga i corpi, le grandezze e le affezioni ed i movimenti che appartengono loro ed ancora i principi di siffatta sostanza: infatti delle cose che sono per natura alcune sono corpi e grandezze, altre hanno corpo e grandezza, altre sono principi delle cose che hanno corpo e grandezza” (268a1 ss.). Dopo avere illustrato il concetto del corpo e dell’universo (t’ p©n), Aristotele pone come compito della ricerca sulla natura anche lo studio dell’universo (268b11-13: “In seguito è da investigare dunque intorno alla natura dell’universo, se esso sia infinito quanto a grandezza o se la massa nel complesso sia finita”) e passa quindi ad esaminare i corpi semplici e composti nei loro movimenti fino ad approdare all’analisi del movimento circolare e della sostanza che si muove di moto circolare, più divina (qeiotöra) e superiore (protöra) rispetto alle sostanze del mondo sublunare, concludendo che “pertanto chiunque ragioni a partire da tutto ciò crederebbe che oltre i corpi che sono qui ed intorno a noi vi è qualcosa d’altro che è separato, che possiede una natura tanto più degna di onore (timiwtöran) quanto più è distante dalle cose che sono qua” (296b13 ss.). A partire da qui si sviluppa la trattazione dettagliata dei corpi e delle sfere celesti. In Met. L, 1069a36-b1 Aristotele afferma espressamente che “quelle [scil. le sostanze sensibili corruttibili e le sostanze sensibili eterne, ossia gli astri ed i corpi celesti] sono tema della fisica (infatti sono secondo il movimento )”. Anche in Phys. si sostiene in vario modo la pertinenza dello studio della realtà celeste alla scienza fisica (cfr. ad es. Phys. 193b27 ss. e 198a29 ss.). 107 Così in effetti in Met. L e nel De caelo, pur essendo asserito che è tema di ricerca della scienza fisica lo studio della realtà celeste, i corpi sopralunari sono presentati come sostanze eterogenee rispetto alle sostanze sensibili corruttibili del mondo sublunare. In particolare il De caelo sottolinea la differente natura delle sostanze celesti, soffermandosi a chiarire come proprio il sostrato materiale, che lascia concepire gli astri ed i corpi celesti come sostanze sensibili dotate di materia (corpo) e forma (anima), costituisca quella stessa condizione sotto la quale di contro essi sono concepiti come enti divini: “Se dunque esiste qualcosa di divino, come esiste, anche le cose che ora sono state dette intorno

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tribuisce il titolo di “divinità” anche agli astri ed ai corpi celesti. “Divina” e “più degna di onore” è, quindi, in generale la sostanza incorruttibile rispetto a quella soggetta a corruzione. Allo stesso modo, del resto, pur trattando entrambe di artefatti ed essendo entrambe töcnai, la scultura e l’architettura sono due scienze ben distinte. Così all’interno del sapere teoretico alla fisica spetterebbe l’ambito di quel che è sensibile e corruttibile, alla scienza teologica il campo del sensibile eterno108. Rispetto a questa divaricazione tematica, è cosa del alla prima sostanza dei corpi sono dette in modo opportuno” (De caelo, 270b10-11). “Le cose ora dette” sulla natura dei corpi celesti riguardano le caratteristiche della materia dei corpi che si muovono di moto circolare. Questo è visto come movimento primo che attiene ad un corpo considerato a propria volta come corpo primo per natura (prÓton sÓma tÕ f⁄sei). Questo corpo primo che si muove circolarmente è “separato e la sua natura è tanto più degna di onore quanto maggiormente è distante dalle cose di qui” (ibid., 269b15 ss. ). Le caratteristiche di questo corpo sono di essere ingenerato (¢gönhton), incorruttibile (•fqarton), non passibile di accrescimento (¢nauxöj) ed alterazione (¢nalloÖwton), non soggetto ad invecchiamento (¢gªraton), impassibile (¢paqöj), eterno (¢èdion). Aristotele accetta per questo “primo corpo oltre la terra, il fuoco, l’aria e l’acqua” il nome tramandato dai predecessori, “etere”, secondo l’etimologia del vocabolo “per il correre sempre per l’eternità del tempo” (cfr. ibid., 270b16 ss.). 108 La fine del I libro di De part. an. presenta delle considerazioni molto interessanti in questo senso. Come nel De caelo Aristotele nota la maggiore difficoltà che si incontra nello studio della realtà sopralunare rispetto alla ricerca sul mondo sublunare e lascia quasi intendere che l’indagine sulle sostanze celesti apra la possibilità ad una diversa scienza rispetto a quella degli enti mossi corruttibili, la cui conoscenza è considerata tuttavia “maggiore” e “più ricca” rispetto a quella che si può conquistare dei corpi celesti: “Accade che abbiamo minore conoscenza (ôl£ttouj qewrÖaj) di quelle sostanze che sono degne di onore e divine (ed infatti in senso assoluto sono poche le cose evidenti secondo la sensazione a partire dalle quali qualcuno potrebbe ricercare intorno a queste sostanze che desideriamo conoscere), mentre delle corruttibili, piante ed animali, abbiamo per consuetudine (di¶ t’ s⁄ntrofon) una conoscenza più ricca. […] E questi [scil. gli enti corruttibili] per via del fatto che li conosciamo meglio e in modo maggiore ottengono la superiorità della scienza, inoltre per il fatto di essere a noi più vicini e per natura più familiari compensano rispetto alla conoscenza delle cose divine” (De part. an., 644b24645a4). È dunque la profonda differenza esistente fra la realtà terrestre e quella celeste considerata più nobile ad aprire la divaricazione fra le due indagini, rendendo la scienza delle cose divine preferibile: “Infatti, anche se comprendiamo quelle sostanze [scil. incorruttibili] a poco a poco, tuttavia per via della dignità della conoscenza, la loro conoscenza è più piacevole rispetto a tutte le cose che sono presso di noi, così come è più piacevole conoscere le cose amate per caso e in piccola parte che conoscere con esattezza molte altre grandi cose” (ibid., 644b31-35). Del resto nel primo libro Aristotele si sofferma lungamente a descrivere i criteri di differenziazione fra le specie appartenenti ad un medesimo genere e sottolinea la validità della distinzione in base agli opposti: “Inoltre dividere rispetto agli opposti” (ibid., 643a31). Da questo punto di

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tutto diversa, invece, sostenere la necessità di una scienza che si occupi di vagliare l’ipotesi dell’esistenza dell’ente immobile, eterno e separato, definendo però la scienza teologica nel contempo come la disciplina che deve altresì occuparsi anche dello studio dei corpi celesti. Per un verso, indubbiamente il modo d’essere divino, per così dire, appare come il trait d’union fra il primo motore immobile ed il mondo sopralunare, rendendo ancora più stretto il vincolo di inseparabilità fra il principio e ciò che è a partire da esso – e qui intendo nello specifico il qe“j come diretta causa del movimento perfetto circolare delle sfere celesti. Per un altro verso, però, la differenza fra il primo motore immobile e le sostanze incorruttibili è radicale, assoluta, tale da istituire una netta cesura fra ciò che è sensibile e ciò che non lo è; per questo lo Stagirita ritiene che la cosmologia sia ancora un’indagine di pertinenza del fisico, mentre la teologia compete al filosofo primo. Se dunque l’incorruttibilità dei corpi celesti legittima la possibilità che ad una medesima scienza possa competere lo studio delle sostanze eterne, è necessario allora cercare di dare risposta alla domanda sul rapporto fra i due temi di ricerca, dal momento che i corpi celesti e gli astri rimangono pur sempre realtà sensibili assolutamente altre nel loro modo d’essere costitutivo rispetto all’essenza dell’ente separato. Non solo: quand’anche si volesse marcare la distinzione fra le realtà di cui si occupa la scienza fisica e quella di cui si occupa la scienza teologica (senza pronunciarsi previamente circa l’esistenza di quel che è separato), puntando sulla differenziazione fra sostanze sensibili eterne e sostanze sensibili corruttibili, come in parte accade in L , rimane da comprendere la sovrapposizione fra il compito di indagare i principi di questo tipo di sostanze, che sono eterni, ed i principi dell’ente in quanto tale. In altri termini, anche escludendo l’ipotesi che un ente eterno, immobile, separato esista, il nesso fra la scienza teologica che indaga le sostanze sopralunari e la scienza dell’ente in quanto tale non è comunque affatto chiaro. E vista la corruttibilità e l’eternità delle sostanze sensibili rappresentano determinazioni opposte rispetto alle quali discernere le sostanze materiali, mettendo così in evidenza quell’aspetto che essenzialmente le diversifica: “Tra le sostanze, quante se ne presentano per natura, alcune sono ingenerate ed incorruttibili per tutta l’eternità, altre partecipano della generazione della corruzione” (ibid., 644b22-24).

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Il racconto del primato conteso

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non lo è proprio anche perché si lascia aperto il rischio del rimando all’infinito nella conoscenza della causa. Se le cause degli enti sensibili eterni, che appartengono ancora al genere delle sostanze che in quanto materiali sono passibili di kÖnhsij, fossero a loro volta realtà, magari non attualmente in movimento, ma comunque dotate di materia (fosse anche quella sorta di “materia divina” che è l’“etere”), queste cause non sarebbero prime perché rinvierebbero ad ulteriori principi. È in opera, sia pure in modo assolutamente nascosto, la struttura argomentativa di L. Spiegare a questo punto di E, da parte di Aristotele, che a maggior ragione le cause degli enti divini manifesti sono eterne, significa già fare riferimento a quel percorso argomentativo che porta a rintracciare una prima causa di movimento a propria volta eterna, ma immobile e separata. Il riferimento al principio come oggetto della scienza teologica, in entrambe le possibilità che in pari tempo lo definiscono come principio delle sostanze sopralunari eterne e come principio dell’ente in quanto tale, apre una radicale interrogazione sullo statuto della filosofia prima. La questione sull’oggetto proprio di indagine della prËth filosofÖa determina la natura stessa di questo sapere, la sua struttura, il suo carattere, il senso del suo primato. Ed infatti, giunto all’individuazione delle tre scienze teoretiche, Aristotele conferisce maggiore dignità alla scienza teologica quale diretta conseguenza della maggiore dignità che compete al suo tema di ricerca: il timiËtaton gönoj è ciò di cui essa si occupa. L’espressione “gönoj”, adoperata per definire l’oggetto della scienza teologica, sembra per un verso chiarire la tripartizione del sapere teoretico in tre branche distinte quanto al loro oggetto, ma, per altro verso, non illumina affatto circa la relazione interna alla filosofia prima fra il suo essere scienza dell’ente in quanto ente e scienza dell’ente divino – aspetto quest’ultimo che, come detto, pone altresì il problema della scienza cui compete lo studio delle sostanze sopralunari eterne, ma materiali. Ora, della questione circa questa relazione interna alla duplice determinazione della filosofia prima Aristotele si avvede distintamente, come mostra l’ultima parte del capitolo.

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c) La terza parte di Metafisica E, capitolo I (1026a23-1026a32). Il racconto La parte cruciale della terza parte del I capitolo di E è rappresentata dalla domanda che lo Stagirita pone e della risposta che egli offre, raccogliendo così fino in fondo il carico della difficoltà che la determinazione dello statuto della metafisica comporta. Egli ammette che vi sia la possibilità da parte di un qualche interlocutore di dubitare del carattere universale della prËth filosofÖa in quanto prima scienza: “Infatti qualcuno potrebbe dubitare se mai la filosofia prima sia universale o verta intorno ad un genere e ad una qualche sola natura”109. La formulazione della difficoltà è, ovviamente, molto interessante. Innanzitutto l’esplicita ammissione da parte di Aristotele della difficoltà del nesso interno alla duplice definizione della filosofia prima come scienza dell’ente in quanto tale e scienza teologica porta già ad escludere, a mio avviso, una serie di ipotesi esegetiche cui ho accennato in precedenza. Cade, ad esempio, l’accusa mossa allo Stagirita secondo la quale egli non si è avveduto dell’aporia, non avendo compreso di avere determinato in duplice modo la prima scienza teoretica – accusa che è, in fin dei conti, quella che formula anche Heidegger. Per lui la mancanza di chiarezza da parte di Aristotele circa la doppiezza della prËth filosofÖa è, infatti, alla base della mancanza di interrogazione della metafisica sul suo stesso fondamento. È dunque questo fondamento che bisogna porre in questione per portare alla luce la duplice struttura costitutiva della metafisica e comprendere come ciò ha determinato in modo definitivo le sorti del pensiero metafisico occidentale. Perde vigore anche l’esegesi che si fonda sull’evoluzione di pensiero dello Stagirita, nella misura in cui, pur ponendo la cosiddetta fase teologica anteriormente al periodo in cui Aristotele approda ad una visione ontologica del problema dell’ente in quanto ente, entrambi gli ambiti di ricerca – la sostanza divina immobile e l’ente in quanto tale – sono esplicitamente indicati in Metafisica E come oggetti d’indagine propri della filosofia prima. Inoltre viene meno l’ipotesi che Aristotele non abbia affatto fornito alcuna indicazione sul modo in cui una simile difficoltà deb109

Met. E, 1026a23-25. Cfr. anche Met. K, 1064b6-8: “Qualcuno potrebbe dubitare se bisogna porre la scienza dell’ente in quanto ente come universale o meno”.

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ba essere affrontata. Sebbene la soluzione che è consegnata nelle battute finali del capitolo sia espressa in termini estremamente concisi, vi è la traccia di una ben precisa argomentazione che sorregge la duplice struttura dell’interrogare metafisico aristotelico. Il compito è, dunque, quello di esplicitare ciò a cui questa traccia molto sinteticamente allude. Formulando la difficoltà in cui l’interlocutore potrebbe imbattersi, Aristotele usa il termine “f⁄sij” per definire il possibile oggetto d’indagine della filosofia prima. Se facciamo riferimento alla polisemia del termine110, la questione sullo statuto della prËth filosofÖa si determina giocando attorno a questa polivocità della nozione di f⁄sij: “Ancora in un altro modo si dice natura la sostanza degli enti naturali” 111 e, dunque, poi per metafora “si dice natura ogni sostanza” 112. Anche in Metafisica G compare l’uso di f⁄sij come sinonimo di oŸsÖa. Discutendo la molteplicità dei significati dell’ente, Aristotele chiarisce che “l’ente è detto in molti modi, ma in riferimento ad un uno e ad una certa natura”113 e, dopo avere spiegato che la polisemia non è da intendersi come semplice omonimia, ma secondo quel nesso che nelle Categorie è indicato come paronimia114, egli afferma che l’oŸsÖa è il “principio” cui si riferiscono tutti i significati dell’ente115. Posto che degli artefatti che pure sono sinoli si occupano le töcnai, qui la questione diviene se la filosofia prima, esplicitandosi come scienza della sostanza, riguardi la sostanza nella sua totalità o sia scienza di un genere particolare della sostanza, di un solo tipo di oŸsÖa. Si pone lo stesso interrogativo che scaturisce dalla lettura di L – e che è espressamente posto da B e K – circa la possibilità di una scienza che, per un verso, sembra essere usiologia generale e, per l’al110

Cfr. Met. D, cap. 4. Ibid., 1014b35-36. 112 Ibid., 1015a11-12. 113 Met. G, 1003a33-34. 114 Cfr. Cat. 1a12-15. In realtà la nozione di paronimia introdotta in questo passo è un po’ diversa da quella che ricorre in Met. G, perché in Cat. si tratta della struttura della predicazione “¢f'òn“j” ed in Met. della struttura della predicazione “pr’j õn” (cfr. supra cap. V, § 1 b) ). 115 Met. G, 1003b5-6: “Così anche l’ente si dice in molti modi ma tutti rispetto ad un solo principio (o¤tw dù kaà t’ oñn lögetai pollacÓj mùn ¢ll'§pan pr’j mÖan ¢rcªn)”. 111

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tro, però, focalizza la propria attenzione su quella porzione singolare, su quella sostanza particolare, il dio, rispetto ad una generalità tematica rappresentata dalla sostanza assunta in universale come insieme di tre sostanze differenti, due sensibili ed una immateriale. Calibrare quindi la prima scienza come usiologia, di fatto, come ho già detto, non risolve la questione della Zwiegestalt, della “dimorfia”: che si accentui o meno il valore usiologico dell’indagine, la questione rimane comunque quella dell’articolazione interna di un sapere che si prospetta tanto universale, perché tale è il suo oggetto (l’ente in quanto ente/la sostanza in quanto tale), quanto particolare perché concernente un singolo genere dell’ente (il timiËtaton gönoj). La battuta d’arresto a questo punto di Metafisica E appare agli occhi dello stesso Aristotele il segno di una chiara necessità investigativa, l’indicazione di un preciso lavoro che al primo filosofo teoretico compete affrontare. La risposta alla difficoltà non è in fondo che una riformulazione dei compiti della scienza ricercata, della prËth sofÖa, così come indicato in B ed in G. Aristotelicamente si può dire che nel corso della ricerca ci si arresta ogni qualvolta ci si trova di fronte ad un’aporia od una difficoltà in un momento che appare conclusivo o quanto meno cruciale nell’argomentare. Diverse volte lo Stagirita introduce con la formula “¢porªseie •n tij”, “qualcuno potrebbe dubitare” (o con una consimile), un problema che si ritiene sia indispensabile affrontare per procedere oltre nell’indagine. La battuta d’arresto, pur essendo uno stallo solamente provvisorio, giacché anticipando la possibile obiezione si è già nella condizione di argomentare in vista del suo superamento, diviene parte integrante del processo investigativo. Qui, però, la presenza dell’“¢porªseie •n tij” assume, per chi oggi legge il testo, un valore davvero enfatico: è proprio questa la crux che ha fatto da Leitmotiv all’intera tradizione esegetica, determinando la storia della stessa metafisica. È anche chiaro, però, che la preoccupazione aristotelica di ammettere la difficoltà – che per lo Stagirita è fittizia perché egli evidentemente sa già come risolverla e per questo la introduce “ad arte” – circa la natura particolare o universale della prËth filosofÖa è certamente funzionale; è quasi un espediente retorico di cui egli si avvale per introdurre l’ulteriore chiarimento circa il carattere proprio della filosofia prima in

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quanto suprema ôpistªmh in riferimento al suo oggetto tematico, che la pone al di sopra di tutte le altre scienze. In modo specifico la risposta all’obiezione rappresenta l’espressa ammissione da parte di Aristotele che solo duplicemente la filosofia prima si può costituire come “meta-fisica”, ossia come ulteriore indagine di rango superiore rispetto all’ambito di ricerca di competenza del fisico. La soluzione proposta dallo Stagirita risulta così formulata: Se dunque non esiste nessun’altra sostanza al di là delle sostanze che per natura sono composte, la fisica sarà la prima scienza; ma se esiste una sostanza immobile, la stessa è anteriore ed è filosofia prima, ed è universale in questo modo, ossia perché è prima: essa avrà il compito di investigare anche l’ente in quanto tale, sia che cosa è sia le proprietà che gli competono in quanto ente116.

A questo punto, non resta forse che chiudere il pugno per sentire fino in fondo nella stretta ciò che abbiamo in mano, avendolo conquistato via via. Resta poco, forse, da dire, ma quello che resta è importante, è essenziale. Resta, forse, la possibilità di un racconto, di raccontare davvero una storia, in cui si può tentare di capire come “sono andate le cose”, lì all’origine, quando sulla scena compare un altro personaggio, un po’ bizzarro, che sostiene di potere vedere due cose contemporaneamente. L’antefatto ci è ormai ben noto: l’esistenza di un’altra sostanza oltre alle sostanze naturali costituisce la ragione del bisogno di ricorrere ad una scienza che è anteriore, ma anche prima. Essa cioè non solo “sta al di sopra” della scienza fisica, per la dignità “ontologica” del suo oggetto epistemico, ma è prima in senso assoluto: è la scienza teoretica che detiene il primato su ogni altro tipo di conoscenza epistemica. Questo primato, che sembra conquistato tutto appunto solo grazie ai caratteri ontologici del suo oggetto, si trasforma quasi sotto i nostri occhi nel primato di una scienza che è prima proprio in forza del suo carattere universale, ossia del suo prendere di mira “il tutto”, l’intero dell’ente, ma non certo al modo di una mathesis 116 Met. E , 1026a27-32: “eÑ mùn o‚n mæ ústi tij òtöra oŸsÖa par¶ t¶j f⁄sei sunesthkuÖaj, h` fusikæ ßn eáh prËth ôpistªmh: eÑ d'ústi tij oŸsÖa ¢kÖnhtoj, a¤th protöra kaà filosofÖa prËth, kaà kaq“lou o¤twj ”ti prËth: kaà perà to‡ ‘ntoj Œ oñn ta⁄thj ®n eáh qewr¡sai, kaà tÖ ôsti kaà t¶ ÿp£rconta Œ ‘n”.

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universalis, progetto ambizioso dei sistemi della metafisica moderna. Essa non si occuperà mai di dire che cos’è tutto il reale, tutto l’esistente. In vario modo Aristotele avvisa che un’impresa del genere non è perseguibile e che è pur sempre una procedura eidetica, basata sulla riconduzione dei casi singolari all’universale (procedura epagogica), quella che costituisce la maniera in cui, in genere, ogni ôpistªmh realizza il suo obiettivo117. Ma questo è già uno slittamento di senso. Ed è qui che è successo qualcosa, è qui che il racconto deve svelare il retroscena. Le domande infatti sono tante. Perché mai, pur sapendo che esiste un altro tipo di realtà oltre quella naturale, questo sapere deve corrispondere eo ipso al compito di formulare un’indagine dal calibro universale? Perché colui che può lasciare convergere il suo sforzo di comprensione solo sulla sostanza immobile, deve anche impegnarsi nella ricerca sull’ente in quanto tale? Non si potrebbe affidare il compito a qualcun altro? Perché deve essere il filosofo primo a fare entrambe le cose? Se il qe“j non è l’unica causa prima, non è il solo principio da cui deriva tutto il cosmo che gli è coeterno, pur “standogli appeso” (hî rthtai), perché dire che occuparsi della comprensione della sostanza immobile significa già, o deve significare, praticare un’indagine universale sull’intero dell’ente? E cosa resta del progetto della protologia radicale a partire dal quale il filosofo primo si mette all’opera, dopo il fisico, perché non altre cause e altri principi egli ha in animo di trovare rispetto a quelli che già il fisico gli ha detto esistere? Resta una consegna “a valle”, resta esattamente lo stesso: lasciare che l’indicazione di un compito si faccia compito in atto, si faccia ricerca, per così dire, concreta, che la scienza cercata sia trovata. Aristotele sa che il dio è sostanza come lo è un uomo e come lo è un cane; ma sa anche che fra i tipi di sostanze si dà una differenza d’essere non riconducibile a nessun’altra causalità che non sia quella stessa che ogni volta fa conoscere una cosa conoscendone la forma, ossia l’essere della cosa stessa. Questa differenza rende impossibile pensare fino in fondo il progetto di una teoria generale della sostanza (o del117

Nel testo l’universalità della scienza è spiegata come una conseguenza del suo essere prima, ossia del suo studiare la sostanza immobile (kaq“lou o¤twj ”ti prËth).

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l’ente per sé sussistente), perché non ci sono principi ontologici comuni a tutte le sostanze (a tutti gli enti). Eppure l’unica condizione per la quale può acquistare corpo il progetto è quello di “fare finta” di procedere ad una simile teoria generale, quasi violando l’impossibile, per attestare che il progetto di una ontologia universale è davvero impossibile, ma che in questo fallimento si conquista esattamente quello di cui si stava andando in cerca. Se il filosofo primo restasse chiuso, per così dire, solo nell’ambito dell’indagine della sostanza immobile – come se altro ancora potesse dire su questa sostanza, qualcosa di nuovo e di diverso rispetto a tutto quello che gli ha già raccontato il fisico o anche il saggio – non resterebbe nessuna traccia del suo intento originario, quello con cui egli si è presentato alla comunità scientifica asserendo di potere dire cose nuove, cose diverse sui principi rispetto a quelle che può dire il fisico. Dunque, egli non può che istituire la domanda sulla forma del principio primo come domanda sull’essere dell’ente, perché questo sì che costituisce la differenza fra il suo modo di fare scienza e quello del fisico, dato che anche questi sa che il dio esiste. Ma una volta che opera questo passaggio, le mosse successive risultano in un certo senso obbligate. Risulta obbligato che si ancori la polisemia ad un significato primo che è quello di oŸsÖa e che l’ambizione di un’ontologia generale si mutui in quella di un’usiologia generale. E di fronte all’impossibilità di procedere anche per questa via, non resta che aggirare l’ostacolo ricorrendo alla teoria dell’analogia dell’identità dei principi. Solo che anche a questo punto succede qualcosa di strano. Aristotele ci parla espressamente di questa analogia in L calibrandola sulle sostanze composte. Chiusa questa discussione, riprende in mano il progetto di una teoria della sostanza che sa già impossibile, perché sa già che fra i tre tipi di sostanze non vi è un principio comune. Dunque ritorna a restringere il campo, ritorna al punto di partenza, quello attraverso cui il filosofo primo mostra il primato della sua indagine rispetto a quella del fisico: la trattazione della sostanza immobile. Ma il proposito non è più lo stesso. Dopo lo scacco dell’impossibilità di un’usiologia generale, sembrano restare due strade: o fare singole usiologie, e poi mettere assieme i risultati e dire che nella somma delle parti si ha una conoscenza esaustiva dell’intero, oppure cer-

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care di aggirare l’ostacolo. Credo che il filosofo primo provi a fare proprio questo, un po’ di nascosto. Naturalmente si tratta di ricostruire cosa può essere successo e, quindi, questa versione dei fatti può anche non essere attendibile. Tuttavia, può forse valere la pena di finire il racconto. Il filosofo primo ha solo una strategia per aggirare lo scacco, e questa consiste nel chiedere comunque al cospetto della natura ontologica del qe“j cosa o in che modo la conoscenza del suo essere è pur sempre un guadagno, dato che alla fine il filosofo primo non fa che “rubare” al fisico la prova dell’esistenza del dio. Egli si accorge, però, osservando da un punto di vista più alto del fisico, perché non resta confinato ad una sola regione dell’ente, che nell’essere forma pura del qe“j viene alla luce, in un modo che senz’altro è tutto da chiarire, proprio quel tratto della forma della causa prima di cui si è proposto l’indagine. Certamente, vale il divieto di approntare una scienza della sostanza in quanto tale, se non esistono principi comuni fra le sostanze, ma non c’è nessun divieto di fare quello che in fondo fa anche il fisico, ossia di considerare i principi nella loro forma, nel loro aspetto eidetico. In questo modo, l’eçdoj in quanto tale – separato o no quanto all’essere, separato o no solo tramite il logos – è proprio ciò che, nei passaggi che portano alla riconduzione delle tre forme della causalità (formale, finale, di movimento) al modo della causalità formale, rivela la forza del suo potere causativo, al di sopra della stessa materia, ossia di quello di cui abbiamo certezza che esiste perché ne abbiamo esperienza sensibile e che, nondimeno, per sé, nella sua indeterminazione, non mette in moto nulla, accogliendo semmai ogni movimento e portandolo alla vista. Questo potere di mettere in movimento ciò che si muove e di raccogliere l’essere delle cose rendendole, per come è possibile, intellegibili, è dunque ciò che egli ora vede, che sa non più ipotizzandolo sulla scorta delle notizie che gli ha passato il fisico. Il filosofo primo ha riconquistato la posizione: è andato in circolo, ma ha scoperto che questa circolarità è governata “a monte” ed a “valle” dalla stessa richiesta speculativa, dalla stessa necessità di comprensione di quello scarto che governa la sua indagine, marcandone la differenza rispetto a quella del fisico: è lo scarto fra il principio

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primo ed il suo essere in quanto principio primo; è la regola tramite la quale è primo il principio di movimento che si dice “f⁄sij” ed è primo quello che si dice “töcnh”; è la regola, ancora, per cui è primo il qe“j come principio primo di movimento della f⁄sij ed è primo, rispetto al caso singolo della mia generazione, mio padre da cui ha preso avvio la mia generazione. Da qui, comincia l’impresa, si svolge forse un’altra storia. Dopo Heidegger, però, è questo – almeno credo – il racconto del primato conteso che, forse, Aristotele proverebbe di nuovo a raccontare.

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Bibliografia

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BIBLIOGRAFIA

1. OPERE DI ARISTOTELE In aggiunta all’edizione integrale di riferimento in lingua greca si indicano le edizioni critiche consultate di singole opere in lingua greca in ordine di pubblicazione. Separatamente si elencano le traduzioni in lingua italiana o altra lingua consultate in ordine di pubblicazione. 1.1 EDIZIONI INTEGRALI DEL CORPUS ARISTOTELICUM Aristotelis Opera, ex recensione I. Bekkeri, edidit Academia Regia Borussica, 5 voll. (Berlin 1831-1870); editio altera quam curavit O. Gigon, de Gruyter, Berlin 196063 1.2 EDIZIONI CRITICHE DI SINGOLE OPERE Metaphysica, recognovit W. Christ, Nova impressio correctior, Teubner, Leipzig 19063 Categoriae et Liber de interpretatione, recognovit brevique adnotatione critica instruxit L. Minio Paluello, Clarendon Press, Oxford 1949 Physica, recognovit brevique adnotatione critica instruxit W.D. Ross, Clarendon Press, Oxford 1950 De caelo, recognovit brevique adnotatione critica instruxit D.J. Allan, Clarendon Press, Oxford 19552 De anima, recognovit brevique adnotatione critica instruxit W.D. Ross, Clarendon Press, Oxford 1956 Metaphysica, recognovit brevique adnotatione critica instruxit W. Jaeger, Clarendon Press, Oxford 1957 Politica, recognovit brevique adnotatione critica instruxit W.D. Ross, Clarendon Press, Oxford 1957 Topica et Sophistici Elenchi, recognovit brevique adnotatione critica instruxit W.D. Ross, Clarendon Press, Oxford 1958 Ars Rhetorica, recognovit brevique adnotatione critica instruxit W.D. Ross, Clarendon Press, Oxford 1959

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Aristotele dopo Heidegger

Ethica Nicomachea, recognovit brevique adnotatione critica instruxit I. Bywater, Clarendon Press, Oxford 19592 Die Metaphysik des Aristoteles, Grundtext, Überset. und Kommentar nebst erl. Abhandlungen von A. Schwegler, 4 Bde, Fues, Tübingen 1847-48, Nachdr. Minerva, Frankfurt a.M. 1960 Analytica priora et posteriora, recognovit brevique adnotatione critica instruxit W. D. Ross (praef. et app. auxit L. Minio Paluello), Clarendon Press, Oxford 1964 De arte poetica, recognovit brevique adnotatione critica instruxit R. Kassel, Clarendon Press, Oxford 1965 Aristotle’s Metaphysics, a revised text with introduction and commentary by W.D. Ross, 2 voll., Clarendon Press, Oxford 19703 Ethica Eudemia, recognoverunt brevique adnotatione critica instruxerunt R.R. Walzer et J.M. Mingay, Clarendon Press, Oxford 1991

1.2 TRADUZIONI 1.2.1 TRADUZIONI INTEGRALI DEL CORPUS ARISTOTELICUM Opere, voll. 11, Laterza, Roma-Bari 1982-84 The Complete Works of Aristotle, The Revised Oxford Translation ed. by J. Barnes, Princeton U.P., Princeton 1984 1.2.2 TRADUZIONI DI SINGOLE OPERE L’Étique a Nicomaque, introduction, traduction et commentaire par R.A. Gauthier, J.Y. Jolif, voll. 1-4, Publications Universitaires-Béatrice Nauwelaerts, LouvainParis 1970 Aristoteles’ Metaphysik, in der Übers. von H. Bonitz. Neu bearb., mit Einl. u. Kommentar, hrsg. v. H. Seidl, 2 Bde, Felix Meiner, Hamburg 1978-80 Den nikomachiska etiken, övers. och kommentar a. M. Ringbom, daidalos, Göteborg 1988 Le categorie, ed. it. a c. di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 1989 Metafisica, ed. it. a c. di G. Reale, Rusconi, Milano 1993 Dell’interpretazione, ed. it. a c. di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 19932 Etica Nicomachea, ed. it. a c. di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 19944 Fisica, ed. it. a c. di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1995 Le confutazioni sofistiche, ed. it. a c. di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 1995 Poetica, ed. it. a c. di D. Pesce, Rusconi, Milano 1995 Retorica, ed. it. a c. di M. Dorati, Mondadori, Milano 1996 Anima, ed. it. a c. di G. Movia, Rusconi, Milano 1996 Analitici primi, ed. it. a c. di M. Zanatta, in Aristotele, Organon, vol. 1, UTET, Torino 1996 Analitici secondi, ed. it. a c. di M. Zanatta, in Aristotele, Organon, vol. 2, UTET, Torino 1996

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Aristotele dopo Heidegger

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3. AUTORI ANTICHI, MEDIEVALI E MODERNI

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Metafisica della ragione e idea teologica

475

INDICE

Introduzione ....................................................................................

7

Sigle e abbreviazioni ........................................................................

31

Capitolo I - Il rivolgimento heideggeriano della tradizione esegetica 1. Lo spartiacque esegetico heideggeriano ........................................ 2. Heidegger e i paradigmi esegetici dell’univocità ..........................

33 42

Capitolo II - Struttura, procedura, esito dell’onto-teologismo metafisico: i termini del paradigma heideggeriano 1. L’onto-teologia tra fuga e paradosso ............................................ 2. Il meccanismo di riduzione nell’onto-teologismo ........................ 3. Il qe“j aristotelico come paradigma dell’enticità: questioni critiche sull’esegesi heideggeriana della prËth filosofÖa ........................... 4. L’esito “teologico” dell’onto-teologismo metafisico .....................

77 93 106 122

Capitolo III - Il carattere eidetico della metafisica aristotelica: dalla protologia radicale all’onto-teologia 1. La “malattia” dell’onto-teologia: l’essenzialismo .......................... 2. Le condizioni di possibilità dell’onto-teologia: una questione di filosofia della conoscenza? ........................................................... 3. Il no‡j come condizione del sapere epistemico .............................

137 150 164

Capitolo IV - Scienza, intelletto e sapienza: immagini heideggeriane in controluce 1. 2. 3. 4.

Il sapere epistemico ..................................................................... 'Epistªmh e l“goj ..........................................................................

Scienza, sapienza, intelletto ......................................................... Protologia e onto-teologia ...........................................................

193 203 230 244

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Ermeneutica e filosofia trascendentale

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Capitolo V - Onto-teologia o katholou-protologia ? Il paradigma onto-teologico e l’esegesi post-heideggeriana della prËth filosofÖa 1. La presenza del paradigma onto-teologico nel panorama esegetico aristotelico post-heideggeriano .................................................... 2. Aporie del paradigma heideggeriano ............................................ 3. Le derive post-heideggeriane fra scelte di metodo e di contenuto

269 336 350

Capitolo VI - Il racconto del primato conteso 1. La protologia radicale come eidetica del principio ....................... 2. L’aporeticità della questione del principio e le condizioni di possibilità della sofÖa come “scienza teoretica delle cause e dei principi primi” ................................................................................... 3. I termini dell’aporia della filosofia prima in Metafisica E, capitolo I

373

Bibliografia ......................................................................................

451

395 405

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