Apocalisse. Modernità e fine del mondo


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Italian Pages 351 Year 2008

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Table of contents :
Copertina
Frontespizio
Copyright
Indice
Prefazione
Sotto una stella umana
Parte prima - Verso il Novecento. Genealogia del disastro
Friedrich Nietzsche: apocalisse e senso della storia
La contro-apocalisse leopardiana
Michelstaedter: quale fine del mondo?
«Si trasformi in stella notturna / il nostro saper la figura». Per un’escatologia rilkiana
Rovine di paradiso, regni millenarî e nullità di Dio. Kafka al tempo di Zürau
La beatitudine del nulla. Paragrafi sulla vocazione apocalittica della poesia moderna
Parte seconda - Olocausto
Pensare Auschwitz. Apocalisse dell’umano
Elie Wiesel e Primo Levi: la Shoah come ri-velazione
Den Trümmern der Himmel entgegen… Macerie dei cieli e sguardo di Dio nella poesia di Paul Celan
Parte terza - Arte, musica e cinema
Laboratorio Apocalisse
Immagini
Caduta e volo. I mediatori angelici di Chagall
Immagini
Visioni apocalittiche nella musica del Novecento
Il sacrificio dello Stalker. La fine del mondo nel cinema di Andrej Tarkovskij tra visione profetica e tormento poetico
Parte quarta - Pensiero filosofico-letterario, pensiero globale-digitale, pensiero poetico
Emil Cioran: la catastrofe necessaria
Hans Jonas. La paura dell’apocalisse come chance
Dopo la fine del mondo. Pier Paolo Pasolini e Alce Nero
L’ultima rivelazione. Ceronetti, Campo
Apocalissi, globalizzazione, digitalizzazione. Il caso di Vilém Flusser
Sacrificio bianco. Tavole della lingua poetica
Parte quinta - La pòlis, la nostra storia
Città con fine
La guerra apocalittica
Lessico politico del disastro
Quarta di copertina
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Apocalisse. Modernità e fine del mondo

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Teorie & Oggetti della Letteratura 32

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Apocalisse Modernità e fine del mondo a cura di Neil Novello

Liguori Editore

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Il volume è stato pubblicato con il contributo dell’Università degli Studi di Bologna, del Dipartimento di Italianistica, della Fondazione Istituto Gramsci Emilia Romagna

Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (Legge n. 633/1941: http://www.giustizia.it/cassazione/leggi/l633_41.html). Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla registrazione analogica o digitale, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati, anche nel caso di utilizzo parziale. La riproduzione di questa opera, anche se parziale o in copia digitale, è ammessa solo ed esclusivamente nei limiti stabiliti dalla Legge ed è soggetta all’autorizzazione scritta dell’Editore. La violazione delle norme comporta le sanzioni previste dalla legge. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile al seguente indirizzo: http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal L’utilizzo in questa pubblicazione di denominazioni generiche, nomi commerciali e marchi registrati, anche se non specificamente identificati, non implica che tali denominazioni o marchi non siano protetti dalle relative leggi o regolamenti. Liguori Editore - I 80123 Napoli http://www.liguori.it/ © 2008 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Giugno 2008 Novello, Neil (a cura di): Apocalisse. Modernità e fine del mondo/Neil Novello (a cura di) Napoli : Liguori, 2008 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 4419 - 9 1. Catastrofe

2. Disastro

I. Titolo

Aggiornamenti: —————————————————————————————————————————— 16 15 14 13 12 11 10 09 08 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

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Indice

XIII

Prefazione di Gian Mario Anselmi

XVII

Sotto una stella umana di Neil Novello

Parte prima. Verso il Novecento. Genealogia del disastro 3

Friedrich Nietzsche: apocalisse e senso della storia di Carlo Gentili

19

La contro-apocalisse leopardiana di Marco Moneta

31

Michelstaedter: quale fine del mondo? di Marco Cerruti

35

«Si trasformi in stella notturna/ il nostro saper la figura». Per un’escatologia rilkiana di Raoul Melotto

49

Rovine di paradiso, regni millenarî e nullità di Dio. Kafka al tempo di Zürau di Neil Novello

69

La beatitudine del nulla. Paragrafi sulla vocazione apocalittica della poesia moderna di Matteo Veronesi

Parte seconda. Olocausto 95

Pensare Auschwitz. Apocalisse dell’umano di Stefano Zampieri

107

Elie Wiesel e Primo Levi: la Shoah come ri-velazione di Francesco Lucrezi

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viii

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125

INDICE

Den Trümmern der Himmel entgegen... Macerie dei cieli e sguardo di Dio nella poesia di Paul Celan di Barnaba Maj

Parte terza. Arte, musica e cinema 139

Laboratorio Apocalisse di Dario Trento

155

Caduta e volo. I mediatori angelici di Chagall di Marcello Massenzio

169

Visioni apocalittiche nella musica del Novecento di Roberto Calabretto

183

Il sacrificio dello Stalker. La fine del mondo nel cinema di Andrei Tarkovskij tra visione profetica e tormento poetico di Fabrizio Borin

Parte quarta. Pensiero filosofico-letterario, pensiero globale-digitale, pensiero poetico 195

Emil Cioran: la catastrofe necessaria di Fabio Rodda

217

Hans Jonas. La paura dell’apocalisse come chance di Angela Michelis

229

Dopo la fine del mondo. Pier Paolo Pasolini e Alce Nero di Carla Benedetti

239

L’ultima rivelazione. Ceronetti, Campo di Magda Indiveri

251

Apocalissi, globalizzazione, digitalizzazione. Il caso di Vilém Flusser di Francesca Rigotti

261

Sacrificio bianco. Tavole della lingua poetica di Vito M. Bonito

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ix

INDICE

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Parte quinta. La pòlis, la nostra storia 271

Città con fine di Antonio Clemente

281

La guerra apocalittica di Edoardo Greblo

291

Lessico politico del disastro di Adriana Cavarero

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La mia ala è pronta al volo, ritorno volentieri indietro, poiché restassi pur tempo vitale, avrei poca fortuna. Gerard Scholem Gruss vom Angelus

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Prefazione di Gian Mario Anselmi

La lezione più silenziosa, forse più subdola, dell’escatologia moderna e contemporanea riguarda propriamente il senso della fine. A tale riguardo, non si tratta di proporre un’ermeneutica della storia per inquadrarla sullo sfondo della catastrofe avvenire. Si tratta, invece, di leggere la modernità e il nostro tempo come età d’iscrizione della catastrofe nel corpo mobile della realtà. Nelle sue forme d’espressione, la fine del mondo ha abolito l’astratto carattere della lontananza occupando il centro dell’esistenza umana. Vivere al centro della rivelazione, essere nel cuore dell’apocalisse, implica che la fine del mondo è anzitutto la coscienza umana della fine nel mondo. L’apocalisse non è pertanto una rivelazione sulla fine del mondo, ma è la nostra capacità di accettare per vero che viviamo una fine crudamente scalfita sulla pelle dell’attuale ordine del mondo. D’altra parte, intorno all’idea della fine mondana germoglia la sua fisiologica elaborazione: il finire. Se dunque appare ineluttabile il principio della fine del mondo, il principio reggente, e, per così dire, la consapevolezza della finitudine, al contrario, il problema escatologico contemporaneo richiede di intercettare con esattezza il luogo o i luoghi che esperiscono tale finire. Anche perché non sempre la locuzione fine del mondo, nell’ampiezza semantica del suo significato ultimo, include la porzione umana che contribuisce ad accelerare il finire della storia mondana. È pertanto da distinguere – all’interno della prospettiva nominata fine del mondo – una fine della mondanità come paesaggio esterno di una fine ugualmente letale: la fine dell’umano come particolare della fine del mondo. Separare la patologia della fine del mondo, il suo finire come decorso di un organismo malato, distinguerlo dal cordoglio per un lutto fulminante che ricaccia l’umanità nel nulla primordiale, significa anzitutto distinguere tra due diversi ambiti d’annullamento del creato. Il rischio di desertificazione dell’ordine naturale al contempo riguarda, infatti, sia il decadimento lento e progressivo di una fisiologia senile destinata alla morte, sia l’istantaneità fulminante del cataclisma come irreversibile disastro universale. La storia culturale del mondo esprime entrambe le occorrenze. Da un lato, la fine del mondo si riflette nel degrado della sfera umana, con l’ordine

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XIV

PREFAZIONE

visibile della storia moderna gettata nella radura desertica dell’inculturale, dall’altro, al contrario, è propriamente il regime globale di inculturalità del mondo ad aumentare il rischio radicale della caduta inappellabile e senza speranza. Com’è noto, un aspetto della sociologia di Zygmunt Bauman sta propriamente nel concetto di liquidità. Che non è – come erroneamente si potrebbe pensare – la sintomatologia del mondo sottoposto alla tensione attiva dell’energia umana, che pensa, progetta e realizza. È invece il rovescio di una medaglia il cui lato in ombra riflette lo stato di permanente intervallo della nostra epoca storica e culturale. Si ha l’impressione, piuttosto che di una «modernità liquida», della sua progressiva solidificazione postmoderna. La meccanica del mondo appare inceppata. La fluidità di una società coesa e progettante è attaccata da un virus super-individualista e anti-socializzante, che menoma alle radici il fisiologico funzionamento dell’organismo comunitario. La maglia del tessuto civile è divelta da poteri politici senza memoria del bene comune, l’economia delle nazioni oscilla tra la stabilità e la recessione, lo stato sociale è sostituito dalla solitaria intrapresa del singolo individuo, mentre sullo sfondo del paesaggio umano vige l’effettiva mancanza al diritto di produzione, al diritto di fare la storia. E non c’è alcuno che colga l’urgenza di ripensare alla marxiana economia politica della vita, alla reintegrazione dell’esistenza entro il canale vitale e produttivo della comunità umana. Anche questo è riconoscere nel corpo del mondo le immedicabili ferite da cui sgorga il sangue della fine e del finire, da cui fluisce il vivere stesso in uno stato di mortale agonia. Camminare nel mondo senza salvezza, per il viandante postmoderno, significa essere assalito da un cerchio di fiamme, significa altresì partecipare al rituale di un universo entrato in stato di mortalità. Se è vero che l’orizzonte dell’immanenza apocalittica è un segno del pensiero moderno differente dal fronte imminente del pensiero giudaico-cristiano, ciò implica che l’immanente non è più un territorio lontano e inarrivabile, così com’era all’alba del moderno, bensì è per così dire corso incontro all’umano. Post-modernità e post-umano intercettano anche il vettore di una neonascente età post-apocalittica, ossia la sensazione di un vissuto residuo caduto e già gettato di là dal confine di un mondo vivibile. Si tratta di comprendere che il cammino contemporaneo nell’apocalisse è già alla fine, si configura pertanto come un ingresso nell’età post-apocalittica. La volontà umana di edificare – con la propria tensione progettuale – un nuovo ordine esistenziale sull’attuale forma della storia è propriamente una volontà di ripristinare la decisività di fare la storia, in sostanza è l’azione tesa

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PREFAZIONE

XV

ad iniziare un mondo. Inizio del mondo è così ogni azione umana edificante la storia, la fine del mondo è invece l’impossibilità di agire e partecipare al dialogo comunitario per la progettazione della storia. Quando un mondo è vuoto di “rinascite” necessarie a disegnare di nuovo l’orizzonte della storia, a corroborarla e difenderla dallo stato di mortalità non progettante, dall’accettazione condizionata della forma del mondo nella sua invariabilità, quando un mondo non può più costituirsi in un ennesimo inizio, solo allora crolla ed assume la catastrofe a titolo della sua fine. Per questo il richiamo di George Steiner ad un nuovo umanesimo non è affatto un nostalgico appello alle antiche tradizioni, ma la consapevolezza, che condividiamo, di poter ancora sperare (come nell’Umanesimo) nell’umano e nel rinascere, possibilità che coltiva il sapere stesso dell’Apocalisse.

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Sotto una stella umana di Neil Novello

[…] è il caso per esempio della importante questione, più volte dibattuta di recente, di come propriamente si «venga dal regno di Dio al regno dell’uomo», come se questo «regno di Dio» fosse mai esistito se non nell’immaginazione e i dotti signori non fossero sempre vissuti, senza saperlo, in quel «regno dell’uomo» del quale ora cercano la strada […]. Karl Marx – Friedrich Engels, L’ideologia tedesca

Come clinici della cultura occorre individuare la «fisiologia» e la «patologia» del finire: distinguere cioè i due momenti, il rischio della fine senza orizzonte, il restringersi degli orizzonti di operabilità mondana sino al loro crollo senza «oltre», e la ripresa di questo rischio, la riplasmazione della fine in testimonianza di un inizio, la fine di «questo» mondo e l’inizio di un «altro» mondo. Ernesto De Martino, La fine del mondo

La parola greca apokálupsis non si sporge sull’abisso del disastro né rimanda l’eco tremenda della catastrofe. È una parola innocua: significa anzitutto «rivelazione». E anche altro. Un lessico dalla forma costellata schizza fuori dell’idea-apokálupsis fondando un rizoma, una foce ad estuario che affonda in un minimo tesoretto terminologico: «s-velamento» o «de-velamento» oppure «scoprimento», «apparizione». A volte anche ri-velazione, atto di nuovo velamento, nascondimento, contro-apokálupsis. Alla fine chi rivela (o ri-vela) è il profeta: ma rivela, nel suo ex-ponere, il già rivelato. Nel primo versetto dell’Apocalisse di Giovanni di Patmos, libro che chiude il Nuovo Testamento e la Sacra Scrittura, si legge: «Rivelazione di Gesù Cristo…» (Ap. 1, 1). Rivelare è pertanto il compito di Cristo. E il Cristo del Vangelo (di Matteo, di altri vangeli) è colui che sa, è il profeta per eccellenza: il presente, il passato e il futuro, ad eccezione, però, del tempo della fine. Nel Vangelo secondo Marco si legge: «Ma circa a quel giorno e a quell’ora, nessuno sa nulla, né gli angeli in cielo, né il Figlio, (nessuno) se non il Padre» (13, 32).

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XVIII

NEIL NOVELLO

Il testimone, la parola escatologica di Dio, passa anzitutto dal Demiurgo al Figlio, il Figlio poi la dona al mediatore angelico per giungere finalmente a Giovanni di Patmos. Ultimo viene il profeta – e come scrive Max Weber sulla celebre pagina di Sociologia della religione –, colui che parla-in-luogo-di è anche il «portatore di un carisma», è il donatore del dono di Dio. Ma sul mistero della profezia, sull’inafferrabilità umana del «carisma»-dono profetico, nelle Locuzioni e Questioni sull’Ettateuco, Agostino coglie un centro paradossale quando indica nella parola dell’ultimo testimone (e della parola di Dio come testimone), l’impossibilità di una traduzione per l’uomo: «I profeti dicono le cose che hanno inteso dalla bocca di Dio, e un profeta di Dio non è altro che il portavoce di Dio agli uomini che non sono degni di udire Dio, o che non possono comprenderlo». Il profeta è pertanto l’autistico depositario terreno della verità divina, non è possibile tradurre la lingua di Dio. Apokálupsis pertanto è la balenante immagine di un mosaico in macerie, il sapere della Parola divina venuto al mondo. Nell’Enchiridion sull’Apocalisse di Giovanni, l’abate calabrese Gioacchino da Fiore scrive: «Perciò a ragione questo libro è stato chiamato “Apocalisse”, in quanto scopre ciò che è nascosto e rivela ciò che è segreto. Esso è, infatti, la chiave degli avvenimenti passati, il registro di quelli futuri, l’apertura dei sigilli e la manifestazione dei segreti». Di là del rovesciamento autistico della parola divina migrante al profeta, a rivelarsi è pertanto il Tempo nel significato di momento della Parusía e del Regno. C’è il tempo dell’ora, dell’imminente incardinato alla tradizione sia giudaica, sia cristiana – come ricorda Kermode in Senso della fine – e il tempo polisenso propriamente neotestamentario e paolino, equilibrato tra l’imminenza del giudaismo, il già del Regno (Betlemme), e la variante del dopo o indeterminabile quando, la lettura (e attesa) del futuro ritorno terreno di Cristo. Ed è qui che l’apokálupsis inizia a compiersi, o meglio, inizia a colmarsi della profezia originaria versandosi per così dire nell’éschaton, nel luogo dell’estremità, della fine e della fine del mondo. Il giudaismo appartiene ad un’epoca senza Parusía, pertanto identifica l’indeterminato sarà senza coscienza, il Cristianesimo invece intercetta l’Avvento e guarda alla seconda Parusía. Sullo sfondo della storia della salvezza, per il Cristianesimo, la differenza dal giudaismo sta propriamente nell’elezione storica della secondità, nell’elaborazione culturale del ritorno di Cristo. Nell’Apocalisse di Giovanni si legge: «Qui ci vuole comprendonio, per capirci. Le sette teste sono i sette colli sui quali siede la donna; e sono anche i sette re, di cui cinque sono già caduti, uno regna ancora, e l’altro ha da venire; e quando verrà, sarà per poco» (Ap. 17, 9-10). Per il profeta, rivelare è gettare un’àncora nel tempo, nell’ora e nel dopo, pur nella persuasione

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SOTTO

UNA STELLA UMANA

XIX

– come ricorda Minois in Storia dell’avvenire – che il «dominio del tempo resterà un’illusione perpetua», pur nella equivoca certezza che l’Apocalisse esprime un «incubo informe e insensato». Nella loro astratta indeterminazione temporale, ora e dopo tuttavia figurano la temporalità apocalittica. Come ricorda Newton nel Trattato sull’Apocalisse, la profezia investe la coevità, anzitutto per la «conversione alla verità degli uomini di quell’epoca» (gli Apostoli, San Paolo), investe anche l’avvenire, gli «ultimi tempi nei quali noi siamo capitati». Il primo tempo incrocia il volto crudele della persecuzione cristiana, l’Impero romano, Nerone, Domiziano, il secondo, o meglio, il tempo successivo al primo, è l’ultimo, la frontiera estrema dell’apokálupsis, l’occorrenza escatologica. Sullo sfondo della Sacra Scrittura, l’Apocalisse di Giovanni decreta una chiusura formale, insieme è però un libro aperto, un libro di apertura. Tra il Genesi e l’Apocalisse, l’ideale cerchio disegnato dai testi della Bibbia non riunisce alfa con omega, attraverso Giovanni semmai è forata la tela biblica per traguardare l’avvenire. Un sỳmbolon è la figura cardinale del «settimo sigillo». Il «silentium» che viene alla volta celeste dopo la sua apertura è solo il presagio, ancora muto, del futuro: «Quando aprì il settimo sigillo, ecco, si fece silenzio in cielo per quasi una mezz’ora» (Ap. 8, 1). L’Apocalisse reca in sé le stigmate simboliche del «settimo sigillo», perché è dal breve vuoto sonoro che si sprigiona la terribilità. Il «Libro misterioso che ti brucia la lingua» – come confessa Rozanov nell’Apocalisse del nostro tempo – è pertanto spiraglio da cui guardare il tempo escatologico, per la precisione è una fulminante occhiata divina lanciata verso la fine del tempo. All’estremità opposta della Creazione, il profeta osserva erigersi la figura inquietante e solenne dell’apocalittico, il testimone della fine del mondo. È una questione di tempo. Per la tradizione apocalittica giudaica, l’olam hazzeh designa una durata ovvero l’arco temporale che dal Principio culmina nella Fine. L’olam habba coglie il dopo della Fine. È il nesso di indeterminazione peculiare dello stato di intemporalità, il caos celeste dopo la fine del mondo. Per la precisione, è ciò che nel pensiero cristiano distingue tra la sfera del tempo e dell’eternità. Nella loro apparente contiguità, l’idea di mobilità del nunc movens è destinata a perdersi, mentre subentra la pietrificazione dell’universo o il nunc stans. Essi si riflettono in una sequenza a scarto, in perfetta discontinuità si susseguono dopo la frattura: dalla caduta nel tempo, l’éschaton inaugura la caduta del tempo. Fine del mondo significa pertanto un tempo senza più se stesso, senza più figura: l’éschaton è dunque l’accadimento temporale di un rovesciamento di prospettiva, una rotazione della forma mondana. Dopo la Creazione-semina, stare nell’éschaton significa mietere. Nell’Apocalisse di Giovanni, la scena è una meraviglia: «Poi, vidi una nuvola bianca e, se-

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XX

NEIL NOVELLO

duto sulla nuvola, uno simile a Figlio d’uomo, con in capo una corona d’oro e in mano una falce tagliente. Un altro angelo uscì dal santuario dicendo al seduto sulla nuvola: – Metti mano alla falce e mieta; è venuta l’ora della mietitura, e già secca è la messe della terra. E Colui ch’era seduto sulla nuvola vibrò la falce sulla terra e la terra fu mietuta» (Ap. 14, 14-16). Un fronte apocalittico è la speranza della Fine con la definitiva consegna del Bene umano sulla consolante mano di Dio. Dopo la seconda Parusía di Cristo, il Regno Millenario, il definitivo castigo del Male e il Giudizio Universale viene il Regno di Dio: «Il settimo angelo sonò la tromba, e in cielo corsero grandi voci che dicevano: – L’impero del mondo è nelle mani di nostro Signore e del suo Cristo; Egli regnerà nei secoli dei secoli, amen» (Ap. 11, 15). Un altro fronte, l’apocalisse di matrice stoica e platonico-aristotelica, pagana, preferisce un’immagine rovesciata del destino universale e della dottrina teleologica dell’éschaton. Essa introduce il concetto di apokatástasis o di ciclicità della vita del mondo. Se l’éschaton è una modalità catastrofica per abitare l’oltre-tempo, battezzata sotto il segno della sua fine, l’apokatástasis figura un’idea non teleo-teleologica, bensì radicata in un disegno ciclico di fini e inizi. O meglio, di fini per altri inizi, all’insegna dell’eterna rigenerazione della forma del mondo. È ciò che – nel Mito dell’eterno ritorno – Eliade nomina l’«èra nuova» non già per accadente trasfigurazione celeste del volto mondano, bensì per rifondazione assoluta del cosmo. Pertanto l’annuncio della «fine dell’ordine mondano esistente», in Fine del mondo di De Martino è interpretato, tra le altre cose, come «tema delle periodiche distruzioni e rigenerazioni del mondo nel quadro del mito dell’eterno ritorno o come tema della catastrofe terminale nel quadro dell’unilineare e irreversibile corso escatologico della storia umana». La Fine è occorrenza penetrabile, si presenta soltanto a titolo di opera non finita perché dalla cenere del disastro ri-albeggia il mondo e si ritorna all’Ur-Zeit. Il suo traguardo, insomma, non è escatologico, bensì protologico. E perché l’apokatàstasis, per così dire, defuturizza il principio di futuro escatologico innescando un’idea rinnovatrice improntata all’immagine dell’avvenire-passato. Al contrario, la Fine può anche costituire un muro di fiamma da incenerire ogni cosa, un irrimediabile End-Zeit. Sullo sfondo di Storia comparata della civiltà un filosofo della storia come Toynbee rovescia il decline and fall del pensiero occidentale (da Polibio a Spengler, passando da Machiavelli ed Herder) indicando nel ri-nascimento permanente la traduzione, l’altra possibilità, nonché l’antidoto contro i regimi ustori e nullificanti della catastrofe. Sul versante dell’analisi economica, la ciclicità come figura oscillante tra stato di crisi e stato di ascesa o ripresa, contraddistingue ad esempio l’opera di Kondratieff, di Schumpeter,

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SOTTO

UNA STELLA UMANA

XXI

ove l’immagine dell’apocatàstasi è inserita nel quadro non uni-lineare della fluttuazione tra stagnazione, recessione e crescita. Se la coevità escatologica è una figura giudaico-cristiana, lo spartiacque tra la visione antica (o ciò che deve accadere presto) e la visione moderna (o ciò che deve accadere negli ultimi tempi) traduce il pensiero apocalittico dell’ora del principio di Fine in una forma del dopo. A rigore, ciò è intessuto non già nell’altrove-futuro, bensì nell’ovunque della storia. Al centro del dialogo tra l’antico e il moderno, sta il pensiero escatologico popolare del Medioevo. È la traduzione della temperie apocalittica – come la definisce Norman Cohn ne I fanatici dell’Apocalisse – in forma di «chiliasmo rivoluzionario». Esso è attuato da leggendarie figure di capi eresiarchi. Da Tanchelm ed Eudes de l’Étoile fino al Cristo di Zwickau, Thomas Müntzer (erede ideale di Konrad Schmidt, al rogo nel 1368) e Jan Bockelson, alias Giovanni di Leida. I cristi medievali sono guide di orde disperate vaganti per il centro e il nord-est dell’Europa o stanzianti, come nel caso di Giovanni di Leida, nella cittadella teo-comunista di Münster, o di Johannes Willemsen in Vesfalia. Talvolta le masse si mettono in viaggio verso Gerusalemme (specie nel millennio della Passione, il 1033) ponendosi nell’attesa del ritorno di Cristo. È una forma di azione messianica e millenarista, in sé forma di proto-marxismo medievale. Essa riguarda l’empito rivoluzionario di masse guidate da Messia terreni miranti a rovesciare l’ordine del mondo. Alla fine del XIV secolo, lo spettro ur-comunista e l’immagine del Millennio come nuova età dell’oro e della pacificazione umana, si aggira per l’Europa. Nella modernità l’immagine dell’éschaton non è più dislocata nella duratura notte del tempo, bensì inaugura un nuovo stato della coscienza umana, la fine del mondo non è là perché il là è venuto a noi in forma di qui e ora. E perché noi siamo il notturno apocalittico. Kermode scrive: «Non più imminente, la Fine è immanente». Se è vero – è ancora Kermode a parlare – che l’«Apocalisse è straordinariamente “elastica”», è la modernità ad aver condotto la sua estensibilità ad un punto di massima trazione e al rischio di rottura. E il principio d’immanenza apocalittica nella modernità e ancor più nel nostro tempo, da un lato richiama per concordanza la relazione coessenziale tra la storia moderna e l’esito apocalittico-escatologico, dall’altro pone in crisi propriamente lo statuto storico e culturale dell’apocalisse. Nell’Amore del pensiero, Carchia scrive: «Non c’è dubbio che l’idea oggi dominante di modernità sia sorretta dalla convinzione dell’avvenuta scissione del nesso cristiano di apocalissi e storia». All’aurora del moderno, è difficile non incrociare (contro la profezia, il lavoro formalizzatore della Chiesa medievale, il noto scetticismo di Montaigne) il baluardo insormontabile della secolarizzazione. La filosofia della storia di stampo illuministico, l’idealismo, il

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materialismo, il pensiero positivista del progresso, la modernità e la secolarizzazione – ad esempio, nel pensiero di Löwith – intercettano l’apocalittica occupando, per così dire, il vuoto lasciato dopo la sua distruzione. Il Regno non è ancora venuto, l’imminente si è dissolto nella storia, e una marcata lontananza separa ormai il presente dall’antica Promessa (il Regno, appunto). Sulla febbrile pagina dell’Ideologia tedesca, Marx ed Engels pensano alla locuzione e alla realtà religiosa del «Regno di Dio». E parlano della «stravaganza di questo castello in aria teorico» anteponendo così al primato del cielo la dura e forse più vera consistenza della «situazione terrena reale». Oltre che per l’apocalittica, la secolarizzazione (non necessariamente marxengelsiana), corrode anche alcuni fatti culturali appartenenti alla storia delle idee, abbandonati dalle élites culturali, non dalla cultura popolare: tra il mito e il sacro o l’astrologia (con l’ironia di Bacon, lo sprezzo di Gassendi), la sfera del magico subisce l’urto della scienza moderna. Se però c’è un’età che più dell’antichità, più del Medioevo – che pure prova a secolarizzare, alla fine del IV secolo, la profezia –, un’età che rivela scenarî da apocalisse è senz’altro la modernità. Dopo aver trattenuto il respiro nell’attesa dell’apoteosi finale del mondo, la modernità è non già l’espiazione di uno scampato pericolo, bensì la caduta umana nella finitudine, non più nella fine, del mondo. E non è più possibile, sullo sfondo dell’immanenza apocalittica moderna, affidare alla fede e all’agostiniana Città di Dio (con la relativa negazione del mito pagano dell’eterno ritorno), il compito della redenzione umana se perdura, per così dire, una dogmatica distrazione dalla storia. Nel presagio del catastrofico avvenire moderno, Gioacchino è forse il pensatore di una visione apocalittico-redentrice calata per la prima volta nello specchio fragile e pericoloso della città dell’uomo. Al crepuscolo del Medioevo, la modernità del pensiero gioachimita sta nella ri-definizione dell’apocalittica trascendentale e nell’auspicio della salvezza non più, non solo proveniente dalla mano di Dio (οίκονομία). Esso è da cogliere nella o attraverso la storia, per la precisione, la storia del mondo. Decorre allora il processo di edificazione di un corso alla stella della redenzione anzitutto incardinato al nome dell’umano e solo dopo a quello del divino. Se pertanto è vero – come scrive Eugen Weber – che la «Città di Dio non era di o per questo mondo», alla città dell’uomo ovvero alla storia, l’abate calabrese affida la missione di una salvezza da conquistarsi soprattutto percorrendo le vie buie e insanguinate della terra. Non è un caso che nel De Trinitate Agostino pone la filiera ante legem, sub lege, sub gratia quale sequenza del principio-grazia divina, mentre Gioacchino inverte tale dogmatica innescando la via alla praxis storica della grazia. Nell’Enchiridion, l’abate estende e duplica l’idea sottesa al sub gratia agostiniano

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UNA STELLA UMANA

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unendo all’elemento originario una grazia ammantata di maggior splendore. Dopo il tempo del Padre (ante legem e sub lege, legge naturale e mosaica) e il tempo del Figlio (sub gratia, legge evangelica), Gioacchino indica il tempo dello Spirito Santo (sub ampliori gratia), preceduto da Elia e incardinato nel solco della nuova storia. L’anno di rotazione al Vangelo eterno è il 1260. Più precisamente il nome del nuovo Regno assume la fisionomia di una vera e propria civitas solis, un’utopia realizzata, e non più, o non soltanto, il Regno Millenario, finitudine condannata pur sempre a finire allo scadere del millennio. Gioacchino ha scrutato con massimo rigore dottrinario il futuro della storia umana eleggendo l’anno di svolta 1260 a momento di evoluzione del mondo verso il regno dello Spirito. Per un noto avversatore del pensiero gioachimita com’è Tommaso d’Aquino, proprio il fallimento del 1260 invita a revisionare il tema della profezia e la lettura umana del futuro portando a compimento la lunga storia di de-profetizzazione culturale nella storia medievale. Il XX canto dell’Inferno dantesco ove il poeta della Commedia condanna i lettori di futuro, tra l’antichità greco-latina e il Duecento, è figlio della lezione di Tommaso. Dante condanna gli indovini e gli astrologi evocando anzitutto la tradizione letteraria greco-latina: l’augure greco Anfiarao prelevato dalla Tebaide di Stazio, l’indovino di Tebe, Tiresia, colto in un racconto collaterale dalle Metamorfosi ovidiane, l’aruspice etrusco Aronte. E ancora Manto, l’augure Eurìpilo. Di là dello spaccato sull’antichità, Dante balza in avanti nella storia medievale accanendosi contro gli astrologi Michele Scotto, Guido Monatti e Benedetto alias Asdente. Il principio moderno dell’immanenza apocalittica, annunciando dunque la morte di Dio, rovescia anche il millenarismo escatologico, anzi lo traduce inaugurando la variante storica del millenarismo secolare. Come scrive Minois, l’«orizzonte ormai è sulla terra». Tale processo subentra al solco di idee tracciate in origine da Gioacchino da Fiore e si compie attraverso il pensiero di Thomas More (Utopia entra in dialogo dialettico con la città platonica e la città divina di Agostino) e il pensiero di Tommaso Campanella, per inserire così il millenarismo – dopo una metamorfosi di tipo eretico-materialista – in un quadro finale d’utopismo comunista. In un’ideale storia delle idee, quasi reagendo su tale sfondo della storia del pensiero, un dialogo obbligatorio – come insegna Agamben – si attua tra San Paolo e Marx. Il discorso critico verte sulla persuasione che l’autore del Capitale opera una «secolarizzazione del tempo messianico». È una sorta di messa in immanenza – di carattere non oppositivo – del messianismo paolino. Se è vero che le Lettere di Paolo sono il «testo messianico fondamentale dell’Occidente», nondimeno il nesso messianismo/storia nel pensiero dell’apostolo, per Agamben richiama un’idea di «tempo messianico come

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NEIL NOVELLO

paradigma del tempo storico». L’ordine di principi entro cui si muove il messianismo escatologico corre lungo la linea che va dall’Avvento alla cosiddetta seconda Parusía. Dall’epifania al ritorno di Cristo, o Secondo Avvento, l’elaborazione del protocollo messianico porta alla sconfitta dell’Anticristo (tra l’«apparizione, l’apoteosi e la cacciata» come scrive Solov’ev nel Racconto dell’Anticristo) per inaugurare il Regno Millenario. È il millennio d’amore, pace e umanità («sapïenza, amore e virtute» saranno anche il nutrimento dell’enigmatico «veltro» dantesco, Inf. I, 101-105), il preludio magnifico al Regno di Dio. Così come Giovanni Battista è preludio augurale all’Avvento di Cristo, a ridosso del Regno Millenario, il Christoferens Elia viene al mondo e annuncia la seconda Parusía. È un mito resistente anche nella letteratura contemporanea. Nel paesaggio di cenere e macerie di The Road di McCarthy, anche gli anonimi viandanti, il padre e il figlio, incontrano un misterioso personaggio, l’unico nominato in un mondo di rari spettri senza nome: il vecchio Ely. E dopo la morte del padre, il figlio, orfano ormai dell’intero mondo, è raccolto da un enigmatico «uomo», un «reduce di antichi scontri», un Cristo ritornato che consegna il fanciullo ad una «donna»-madonna d’anima oracolare: «Diceva che il respiro di Dio è sempre il respiro di Dio, anche se passa da un uomo all’altro in eterno». Il «respiro di Dio», lo Spirito Santo, l’amore nel mondo. Tale è la filiera che nella Fine del mondo De Martino riassume in forma di disponibilità heideggeriana ad attendere Dio, la cosiddetta «operabilità del mondo», la «testimonianza da rendere da uomo a uomo per anticipare e affrettare il compimento della promessa: l’amore e la predicazione missionaria del Vangelo». Dopo aver attraversato come un’ostia benefica L’uomo senza qualità di Musil (Verso il Regno Millenario), il «Regno Millenario» unisce magicamente nome a cosa. Nel tardo frammento Respiri di un giorno d’estate, sesta bozza di sei frammenti scritti da Musil nell’ultimo biennio di vita, la ricerca del Regno, per Ulrich e Agathe vago e imprendibile astro, sembra giungere ad un approdo esistenziale. Scrive Musil: «Il tempo s’era fermato, un millennio era lieve come l’aprirsi e il chiudersi di un occhio, era giunto al Regno Millenario, Dio stesso forse si faceva sentire». Il narratore parla in nome di Agathe: nel giardino edenico, solitarî sognatori, Agathe più ancora di Ulrich divinizza la percezione di una rarefatta «estasi» ponendola a titolo di «Regno Millenario». È il perentorio avvento di un «Regno dell’Amore», sineddoche aurorale di un «regno di Dio sulla terra». Ed Agathe pensa a «come ci si dovesse comportare nel Regno Millenario»:

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UNA STELLA UMANA

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“Bisogna starsene quieti quieti, – le diceva una voce. – Non lasciar posto a nessun desiderio, neanche a quello di far domande. Bisogna spogliarsi anche dell’accortezza con cui si bada ai propri affari. Privare il proprio spirito di tutti gli strumenti e impedirgli di servire di strumento. Bisogna togliersi il sapere e il volere, liberarsi della realtà e del desiderio di volgersi a essa. Concentrarsi in sé, finché mente, cuore e membra siano tutto un silenzio. Se si attinge così la suprema abnegazione, allora infine il fuori e il dentro si toccano, come se fosse saltato via un cuneo che divideva il mondo…!”.

Il quadro classico del messianico (e della profezia messianica) è inserito in uno schema-filiera di colpa e catastrofe, ma approda alla redenzione. E la redenzione, ancorché giungere a plasmare un regno terrestre, specie per il popolo eletto, Israele, scardina l’esito politico per affrontare la longue durée del tempo spirituale. L’attesa diviene condizione dello spirito, la storia si dissolve è balena l’immagine, al tempo di Geremia, dissacrante, di un diverso messianismo di tipo escatologico. Ma se risponde al vero che la sfera del tempo (e del suo tradimento: l’intemporalità) regola il rapporto tra l’olam hazze, il tempo esteso tra la Creazione e la Fine, e l’olam habba, il dopo-storia o il senza-tempo, altrettanto vero è pensare al tempo messianico – è intuizione di Eugen Weber – come ad un tempo «leggendario». Anche Paolo, còlmo della leggenda temporale inerente alla seconda Parusía (nella Prima lettera ai Tessalonicesi, 4, 15, si vede vivo nella seconda Parusía, non più nella Seconda lettera ai Corinti, 5, 1ss), aspramente riflette – con la sua irriducibile vocazione messianica – sulla natura della vita messianica. Tra l’antico e il moderno, tra San Paolo e Marx, un dialogo a specchio è rinvenibile tra il concetto paolino di klēsis, vocazione, chiamata, e il concetto marxiano di classe. Il concetto mediatore è il termine luterano Beruf, traduzione di klēsis, più precisamente il suo significato di vocazione mondana. Klēsis, Beruf e classe compongono però una filiera monca: la parola latina classis, secondo l’etimologia di Dionigi di Alicarnasso, la parte dei cittadini chiamati alle armi, contribuisce – scrive Agamben – a porre in «relazione con la klēsis messianica uno dei concetti-chiave del pensiero marxiano»: la classe appunto. La klēsis riflette un codice di mutamento, uno slittamento da uno stato a un altro, da uno stato giuridico a un altro, da una condizione umano-mondana a un’altra perché si è nella chiamata. Anzi si è, per così dire, la chiamata (la figura dell’hōs mē paolino implica pertanto una radicale nullificazione del restante (temporale) rispetto all’unicità e assolutezza della chiamata/vocazione). Scrive Agamben su Paolo: «Hōs mē, “come non”: questa è la formula della vita messianica e il senso ultimo della klēsis». Perché stare nel messianico paolino significa inverarsi nell’hōs mē, intendere il restante quale essenza transeunte: in una parola, abolire l’idea del Messia escatologico. Il mondo

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NEIL NOVELLO

non si schiude, si ridischiude entrando in una prospettiva di oltrepassamento. Per la Prima lettera ai Corinti, 7, 30, è il compimento, il coglimento di un ubi consistam da universalizzare nel mondo per l’oltre mondo. Sul fronte dell’ideale dialogo tra Paolo e Marx, il rapporto di correlazione logica tra la klēsis e la classe/proletariato, intesa come condizione/possibilità della nuova inter-classe marxiana, anche qui è il risultato della distruzione, dell’annullamento dell’idea stessa di classe (la scissione tra l’individuo e la sua figura sociale). Perché questa sia l’ultima/l’unica classe: la non-classe proletaria nascente sullo sfondo della metamorfosi socialista. Pertanto se il messianico paolino, attraverso l’hōs mē, il come non, si dà nel quadro del senza altro, anche la classe marxiana – attraverso la dissoluzione delle classi – identifica l’entrata nella sfera del senza altro. Il vocatus messianico perde un mondo per un mondo nuovo, il proletario in fuga dalla costellazione-classe redime sé nella catarsi di sé-classe. La comunità di klēsis equivale alla comunità del proletariato redento. In entrambi i casi, il principio della rigenerazione umana richiamando il comune epilogo salvifico dà luogo ad una forma di redenzione-liberazione terrestre, ad un vero e proprio compimento messianico senza Messia. Nel Manifesto del partito comunista, la profezia marxiana si riconferma di matrice paolina, specie perché la scomparsa delle «differenze di classe» sospende, anzi abolisce il «carattere politico» del cosiddetto «pubblico potere», sorta di katéchon anti-millenarista, per inaugurare finalmente uno stato di seconda Parusía senza riapparizione messianica. Se il tempo escatologico esprime la fine del tempo, il tempo messianico introduce al tempo della fine. O meglio, per Paolo il messianico è il tempo necessario prima della fine del tempo. Ma il tempo messianico non è cronologico, è una leggenda, noi non attendiamo la seconda Parusía di Cristo nel tempo (come il pensiero cristiano), per Paolo noi attendiamo il tempo opportuno: un altro tempo, il kairòs. La seconda Parusía è un’immagine-guarigione, pertanto non è neppure letteralmente un Secondo Avvento, bensì è lo stato-kairòs che viene (e viene da Dio), cosicché la parola para-ousía, nel suo significato etimologico, ossia nel senso ultimo di essere accanto, di farsi presenza a sé come condizione dell’essere, è per così dire lo stare dell’essere accanto a se stesso. Tra il già dell’Avvento e il non ancora della seconda Parusía, il tempo messianico è l’ogni momento verificabile tra l’olam hazze e l’olam habba, con le parole di De Martino è l’«accentuazione progressiva della vigilanza e di una svalutazione del “quando” databile e del “dove” geografico del Regno». In termini d’astrazione concettuale è il cardine di rotazione che svincola l’olam hazze esponendo l’olam habba, ciò che nella Storia dell’avvenire, pensando al Millennio, Minois definisce la «totalità realizzata». Ed è il Millennio che traduce

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UNA STELLA UMANA

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il tempo nella sua assenza, il senza-tempo. Nella sua potenza visionaria, Giovanni immagina il preludio alla seconda Parusía: «Poi, vidi il cielo aperto, e apparire un cavallo bianco. Chi lo montava, è chiamato il fedele, il verace, che giudica e combatte con giustizia» (Ap. 19, 11). Estraneo all’éschaton, il compimento, il colmo del tempo messianico paolino è da ascrivere al plērōma, il frangente estremo prima di venire al Regno di Dio, al contrario il katéchon, l’essenza frenante, l’inibizione, intercetta e mette in eterna incubazione la seconda Parusía. Contro la Legge di Dio, il katéchon è una forza anti-divina, il non-Dio terrestre, l’Impero, il potere, la contro-Legge. E il katéchon che lavora per l’Anticristo e contro il Regno Millenario, è il concetto paolino che nella Città di Dio ha inibito l’interpretazione di Agostino: «Io confesso che proprio non capisco quel che ha detto». L’Anticristo espropria la storia della teleologia escatologica divina perché procrastina il Regno Millenario – devastando il mondo – e ciò che vi è correlato, la seconda Parusía. La storia pertanto cammina lungo una via notturna, anzi il notturno è l’habitat della storia, e insieme la condizione essenziale che inibisce la seconda Parusía, il Regno Millenario e il Regno di Dio. Ma è anche, però, la sola condizione perché la seconda Parusía, il Regno Millenario e il Regno di Dio vengano all’uomo. Nella Seconda lettera ai Tessalonicesi, Paolo racconta ai fratelli che prima della seconda Parusía «dovranno avvenire la defezione e la rivelazione del peccato, il figlio della perdizione, colui che si contrappone e si esalta contro ogni – come lo chiamano – dio o oggetto di venerazione, così da insediarsi nel tempio divino, presentandosi come dio». Nel buio della notte, la notte è l’Anticristo: la nostalgia però è il pensiero dell’alba futura. Ciò pertanto distingue il messianismo di Paolo, legato all’angosciosa speranza dell’imminenza (ma è fatto culturale che rimonta fino al Libro di Daniele) o dell’hic et nunc del messianico. Distingue pertanto questo messianismo dal messianismo cristiano, incardinato invece ad una logica da eterno intervallo, ove il già dell’Avvento è anche la bruciante memoria del non ancora, l’indeterminazione temporale della seconda Parusía. Con il XVI secolo, le forme proto-moderne della profezia apocalittica, del tempo escatologico, annunciano, forse in un estremo tentativo di attualizzare il pensiero ebraico-cristiano, l’imminenza della fine. La visione della storia del mondo – come occorrenza giunta sull’orlo dell’abisso – riluce nel quadro antagonistico tra la Riforma luterana – e la tesi sull’imminenza del disastro – e la procrastinazione della catastrofe – specie con l’età della Controriforma –, riportata in auge dalla Chiesa e dislocata in un indeterminato futuro. La modernità come luogo dell’«autoaffermazione» – insegna Blumenberg in La legittimità dell’età moderna – tradisce il nome escatologico di Dio. Per

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NEIL NOVELLO

noi, dopo o anche mai, grava il nulla teologico: non c’è più Dio. Al pensiero sul tempo del mondo, la radicale visione della modernità blumenberghiana sostituisce il nudo tempo della vita. Tra il pensiero sul tempo del mondo e il pensiero sul tempo della vita, anche Blumenberg interpone l’avvento tranchant della storia. Dopo l’apocalittica, viene l’epifania corsara della storia. Ma l’apocalittica cristiana non è una speculazione transtorica, anzi la filiera tra la natività, la Passione, la Crocifissione e la Resurrezione di Cristo insieme esprimono il miliare di un decorso: storia è il tempo necessario per giungere alla fine della storia. La fine del mondo, pertanto, significa l’esaurimento dell’Attesa. E l’indugio prolungato nel tempo è propriamente l’attesa di un compimento ancora incompiuto. Ancorché favorire l’esaurimento dell’Attesa, la modernità letteralmente esaurisce l’Attesa, dissolve per così dire l’arco agapico sognato nel tempo tra il già dell’Avvento e il non ancora della seconda Parusía. L’umanità è giunta all’estremo orizzonte del moderno senza dissolvere il paradosso dell’Attesa. E identificando nell’Attesa il volto rivelato della storia umana intravede lo spettro beckettiano dell’eterno intervallo. Così com’è per il Regno, anche Godot non giungerà mai riducendo l’Attesa a baluardo di se stessa. Pertanto la modernità de-escatoligizza l’Attesa del Regno edificando la cattedrale crollante della vita sulle macerie e la polvere della storia. Quando nel terzo libro della Gaia scienza, Nietzsche fa urlare al suo «folle»-Zarathustra «Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!», il cielo arrotolato dell’Apocalisse di Giovanni («e il cielo si ritirò, come un rotolo che si ravvolge», Ap. 6, 14) è crollato da un pezzo empiendo la terra di rovine celesti. E siamo veramente senza Dio. Non bastasse a dissolvere il divino come essenza dell’oltre-terrestre, nell’Anticristo nietzscheano si legge: «Il “regno dei cieli” è una condizione del cuore – non qualcosa che giunge “oltre la terra” o “dopo la morte”». Dopo il crollo siderale, per Nietzsche (all’apparenza, attraverso la ri-consacrazione eretica di Origene), il cuore umano è tutto, ed è solitario viandante nella tenebra del mondo. La redenzione passa per questa via potenziale: il cuore dell’uomo. Nell’Amore del pensiero, Carchia ripensa al «lavoro dello spirito» come viatico per la piena «“autoaffermazione” dell’uomo». Ma se è vero che lo «spirito […] fornisce il contrassegno storico all’apocalittica», a rigore Carchia riconosce anche la tragica, negativa e auto-escludente coimplicanza di modernità e redenzione, di deriva della redenzione nella modernità. E c’è di più. Che l’impossibilità moderna di elaborare la fine, la cosiddetta «euforia della gnosi postmoderna», si inserisce in un quadro di schiacciante irreversibilità salvifica. Aver detemporalizzato e destorificato la fine, chiede di riconoscere che si è nudamente nella fine: «Più nessuna

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UNA STELLA UMANA

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dilazione, più nessun indugio: dunque anche più nessun compito, più nessun impegno». La tenebra del mondo – la celebre «catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine» ai piedi dell’«angelo della storia» di Benjamin – è né più né meno che la nostra storia, il nostro incubo terreno nella storia. Questa è però la sola via, Dio è morto e l’uomo è tutto e solo, è gettato e perduto nel mal du siècle. Forse soltanto in La democrazia in America di Alexis de Tocqueville, la predizione più dettagliata, più spietata, più disperata dell’uomo e della realtà del nostro tempo – ormai oltre centosettanta anni fa – la parola apocalisse significa decadenza socio-culturale, entropia della civiltà, potere inumano, in altri termini, l’idea di rivelazione come notte umana. Nel passo dell’oracolo sull’Idumea del profeta Isaia, si legge una splendida metafora del cammino nella storia come esperienza da eterno notturno, come viaggio primordiale nell’immanente: «Mi gridano da Seir»: “Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte»? (Is. 21, 11). Sullo sfondo di un’idea di rivelazione come pretesto formale del cammino sull’aspra e pericolosa via della storia – con le parole di Minois –, l’«Apocalisse è una filosofia della storia dagli aspetti messianici, cadenzata dal succedersi dei grandi imperi, delle catastrofi e della vittoria finale». Ma il viaggio al termine della notte dell’oracolo sull’Idumea non è ancora terminato, Orwell – nel celebre 1984 – scommette su una precisa identità dell’avvenire: «Se vuoi un’immagine del futuro, pensa ad uno stivale che calpesti un volto umano in eterno». Se il XX secolo cammina nella tenebra, ancora ad inizio del terzo millennio l’idea stessa di futuro è per così dire neutralizzata (come accade in Noi di Evgenij Zamjatin). È bruciata nel fallimento dell’idea moderna di progresso, dissolta dalla Scienza, ladra di futuro e cattiva figliastra del perduto Dio, musa assassina – come ricorda Spengler nel Tramonto dell’occidente – nel suo configurarsi ritorno fatale di pendolo: trionfo della scienza e morte della cultura. Ma con la nascita del saeculum, se la stella della redenzione non passa più dall’incontro oltre-umano con Dio, l’«“oltre la terra”» e il «“dopo la morte”» si rovesciano nell’ipotesi di un compimento puramente umano, la nietzscheana «condizione del cuore». Apocalisse dunque è questa rivelazione del «cuore». Come ricorda Natoli, non è più un «futuro che irrompe, dunque, ma, al suo posto, l’uomo come costruttore di futuro: un uomo che diviene allora signore della salvezza, ma anche dell’apocalisse». Alla fine dell’uomo, pertanto, non si potrà che ripartire dall’uomo. Il futuro, la salvezza e l’apocalisse stanno lungo la via dell’umano, se anche umano fosse una vita trascorsa a ricercare ciò che è andato perduto, il futuro, ad esempio. Ma è all’umano che occorre tornare. «E vidi, oh, vidi

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XXX

NEIL NOVELLO

un cielo nuovo e una terra nuova, perché il cielo e la terra di prima erano passati, spariti» (Ap. 21, 1). O nel Regno di Dio dopo il Giudizio universale, il senza-tempo dell’éschaton, o nella nuova forma del mondo subentrata alla spoglia perduta del vecchio mondo, l’apokatástasis. All’uomo l’uomo chiede di ritrovarsi in una notte che si sfa in mattino, ove la storia non è più un freddo accumulo di presenti, ma veramente una conquista d’avvenire. Mai più che in quest’ora della storia, Heidegger occupa un centro, un cardine di pensiero che fa ruotare l’ordine escatologico del mondo immettendolo su una piattaforma apocatastatica e ponendo la Fine veramente a titolo di fine. Ormai solo un Dio ci potrà salvare, è il desiderio di Dio urlato da un estremo antro terrestre. Heidegger spera/dis-pera nell’epifania del Dio, crede/non crede nella memoria della promessa e resta attonito dinanzi allo svanire di questo uomo nel crepuscolo-Maelstrom della modernità: Ormai solo un Dio ci può salvare. Ci resta, come unica possibilità, quella di preparare (Vorbereiten) nel pensare e nel poetare, una disponibilità (Bereitschaft) all’apparizione del Dio o all’assenza del Dio nel tramonto (al fatto che, al cospetto del Dio assente, noi tramontiamo).

L’ora annunciata non è mai venuta, il «Dio assente» heideggeriano somiglia al Dio assegnato da Lukàcs a Kafka, atheos absconditus, un nonDio-non-rivelato. Alla morte di Dio, la storia dovrà morire a Dio prima di perire dinanzi a se stessa: un nuovo mondo viene radicalmente dopo: dopo il Creatore e anche dopo la creatura. L’hōs mē di San Paolo, che si dà nel quadro del senza altro, è ormai rovesciato di segno: il come non diventa come se. Con le parole di Eliade – le definitive parole del Mito dell’eterno ritorno – la condizione preliminare per la «rigenerazione ciclica del tempo», per la «creazione nuova», è nientemeno che l’«abolizione della “storia”». Se per Eliade la «storia può essere abolita, e di conseguenza rinnovata, un numero considerevole di volte prima della realizzazione dell’èschaton finale», nel libro sulla Fine della storia e l’ultimo uomo, Fukujama associa all’impossibilità di «immaginare un mondo sostanzialmente diverso dal nostro» nonché all’assenza di un «miglioramento essenziale rispetto al nostro ordinamento attuale», l’inquietante ipotesi che la «Storia sia giunta alla fine». Ciò porterebbe a sostenere non già l’ipotesi della fine assoluta del mondo, non è in gioco il radicale mito nordico del ragnarök a nutrirci d’inquietudine, bensì che noi abitanti della fine della storia siamo nella o attraversiamo la fine relativa di un mondo perché la fine della storia non equivale in nulla ad una prospettiva da no future del mondo. Nella Fine del mondo, la telegrafica precisione di De Martino, rivolta a definire la logica di tale frattura parziale, è veramente memorabile:

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SOTTO

UNA STELLA UMANA

XXXI

Il crollo dell’ethos del trascendimento su tutto il fronte del valorizzabile: rischio radicale dell’esistere. Il mutamento di segni dell’ethos del trascendimento valorizzante e la destrutturazione progressiva dell’appaesamento culturale del mondo.

È pertanto tra il «rischio radicale dell’esistere» (si pensi al pericolo atomico) e la «destrutturazione progressiva dell’appaesamento culturale del mondo che l’uomo misura la paura dell’estinzione, la perdita di presentificazione, in altri termini, la coatta, silenziosa fuga dall’umano. Dopo la catabasi da Dio, il crollo della verticale teologica, la realtà e la conseguente sindrome del finire totale, della fine del mondo senza redenzione celeste né terrena figurano uno spettro che tuttavia vaga per il mondo, ovunque edificando teatri dell’assurdo. Senza Dio l’uomo ingaggia una lotta con se stesso. Un fronte di tale scontro è l’Olocausto. Nel film Shoah, una nuda memoria aleggiante sulle macerie del male e i suoi sopravvissuti, Claude Lanzmann espone il resto del genocidio, Simon Srebnik, riportando il superstite – l’altro è Michaël Podchlebnik – a Chelmno sul Ner. Anche su questa prima località dello sterminio ebraico, il 7 dicembre 1941, gli occhi di Dio erano spenti da lungo tempo. Davanti alla landa deserta del campo, Simon confessa a Lanzmann: «Difficile da riconoscere, ma era qui. Qui bruciavano la gente. Molta gente è stata bruciata qui. Sì, è questo il luogo. Nessuno ripartiva mai più di qui». Della confessione di Podchlebnik, la traduttrice riporta la seguente notizia: «Il terzo giorno ha visto sua moglie e i suoi figli. Ha deposto sua moglie nella fossa e ha chiesto di essere ucciso». Nelle parole dello svizzero Richard Glazar, superstite di Treblinka, parole per l’amico Carel Unger, la più prodigiosa sintesi del disastro umano assume il contorno della più esemplare metafora ebraica. Dopo qualche minuto dall’arrivo al campo, Richard rincontra Carel e la coscienza ebraica è già colma di fine del mondo: È un diluvio, un mare mostruoso. Abbiamo fatto naufragio. E viviamo ancora. E non dobbiamo far niente. Ma soltanto aspettare ogni nuova ondata, distenderci sopra, prepararci alla prossima ondata… e tenerci a galla ad ogni costo. Niente altro.

Oltre i due dispersi figli di Noè, la «catena di morte» di Treblinka – come la definisce l’Unterscharführer Franz Suchomel intervistato da Lanzmann –, e di ogni altro campo di sterminio nazista, Auschiwitz-Birkenau, Sobibór, Bełżec, produce la fine del mondo. A dialogo con Raul Hilberg, l’autore di La distruzione degli ebrei d’Europa, Lanzmann entra nella meccanica storico-culturale dell’Olocausto, perviene a quella che Hilberg defini-

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XXXII

NEIL NOVELLO

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sce l’«apoteosi», in sceneggiatura trascritta con il più pertinente termine di «“culminazione”»: Hilberg – Infatti fin dai primi tempi, fin dal IV secolo, dal V e VI secolo, i missionari cristiani avevano detto agli ebrei: «Non potete vivere fra noi come ebrei». I capi secolari che li seguirono fin dall’alto medio evo decisero allora: «Non potete più vivere fra noi». Infine i nazisti decretarono: «Non potete più vivere». Lanzmann – Dunque le tre tappe furono: prima, la conversione, seguita dalla ghettizzazione… Hilberg – L’espulsione. E la terza fu la soluzione territoriale, quella che fu messa in opera nei territori sotto controllo tedesco, che esclude l’emigrazione: la morte, la Soluzione finale. E la Soluzione finale, vede, è davvero finale, poiché i convertiti possono sempre restare ebrei in segreto, gli espulsi possono ritornare un giorno, ma i morti non ricompariranno mai.

Se si scampa alla morte, come accade a Simon Srebnik, la storia della vita finisce per somigliare tanto alla storia di una morte. A Lanzmann che ascolta in silenzio il racconto sull’atroce cremazione di ebrei asfissiati e non ancora morti, Simon, unico e sempre vivo in un mondo d’implacabile, incessante mortalità, esprime la spettrale immagine di sé nell’avvenire: «Pensavo così. Ma anche sognavo: se sopravvivo, sarò l’unico al mondo, più nessun essere umano, solo io. Unico. Rimarrò solo io al mondo, se esco di qui». Un ideale interlocutore di Simon Srebnik è Filip Müller, ebreo cecoslovacco, sopravvissuto alle cinque liquidazioni del «Sonderkommando» di Auschwitz, che nella figura dell’abbandono riassume il sentimento da ultimo uomo del mondo: «Potevamo vedere con i nostri stessi occhi il significato profondo dell’essere umano: là arrivavano uomini, donne, bambini, tutti innocenti… improvvisamente sparivano… e il mondo restava muto! Ci sentivamo abbandonati. Dal mondo, dall’umanità». La fuga da Auschwitz – la fuga dopo l’eccidio degli ebrei cecoslovacchi del ghetto di Theresiaenstadt – per Rudolf Vrba (Walter Rosemberg), è invece il tentativo di invertire il processo inarrestabile della fine del mondo. La ragione è semplice e sconcertante per la grandiosa bellezza del pensiero, «fuggire al più presto per avvertire il mondo». E Vrba – con Alfred Wetzler – evade il 7 aprile 1944. Dopo quasi tre settimane di un vagare disperato, il 25 aprile i due transfughi raggiungono la cittadina di Zilina in Slovacchia. Riescono a ritrovare alcuni notabili ebrei in clandestinità. Due giorni dopo, il 27 aprile, già possiedono un rapporto scritto di loro pugno sull’orrore di Auschwitz. E la loro testimonianza finalmente può penetrare – tra le prime, le più crude – nella cieca coscienza dell’Occidente.

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SOTTO

UNA STELLA UMANA

XXXIII

Un altro fronte della catastrofe è senz’altro l’apocalisse di Hiroshima. Se è vero che in Essere o non essere Anders è latore di una lucida e attuale visione del rischio apocalittico nucleare, quando scrive che «siamo già al punto che non la nostra sparizione, ma la nostra sopravvivenza sarebbe un miracolo», veramente lancia un pensiero oracolare a centrare il bersaglio del terzo millennio. Soprattutto indica nell’umanità post-atomica il sopravvivente della «nuova era storica», il resto umano dissolto al rintocco fatale delle 8: 30 antimeridiane del «giorno zero» 6 agosto 1945. Un attimo da cinquanta milioni di gradi nella bruciante ora giapponese da cui sale al cielo l’aria cruda del finire. Come ricorda la poetessa Yoko Ohta, è un «momento della fine del mondo», è il principio della fine di un mondo. Una storia – tre giorni dopo a Nagasaki – ritratta in un raccapricciante cimelio urbano: Il mattino del 9 un uomo si era appoggiato al muro, senza sospettare di nulla. In quel momento scoccò il fulmine. E in un attimo il muro fu una superficie ardente, e l’uomo ridotto in cenere. Ma non arse la zona del muro che l’uomo aveva coperto e riparato, nell’ultima frazione di secondo della sua esistenza. Quel pezzo di muro fu fissato, come in una foto al lampo di magnesio. Come in una negativa. L’uomo ha salvato quel pezzo di muro, e se stesso in quel negativo. Poiché è la sola traccia che sia rimasta dei suoi giorni; e la sola destinata a sopravvivere. Che cosa resterà, dunque, di noi? Ecco che cosa resterà dell’ultimo uomo: il suo profilo sull’oggetto che il suo corpo verrà casualmente a riparare al momento del lampo. Sarà l’ultima immagine dell’ultimo uomo: ammesso che si possa chiamare un’immagine. Poiché non ci saranno testimoni per ritrovarla e per riconoscerla: ma solo altri profili, altre ombre su altri muri. E quelle ombre saranno cieche e non potranno riconoscersi.

L’epopea dell’ultimo essere umano è breve un istante (o lunga una vita com’è per Simon Srebnik), un’irriconoscibile traccia, anonimo unto umano a macchiare una maceria. Di là del tempo che fissa l’atroce aneddoto, il pikadon, il lampo-tuono di Hiroshima e Nagasaki, figura una sineddoche della fine e ciò che resta è il residuo, ciò che nelle Tesi sull’età atomica di Anders, nel frammento Età finale e fine dei tempi, fa di noi soltanto sopravvissuti, non coloro che esistono, bensì «quelli-che-esistono-ancora». Perché – come ricorda Robert Jungk in Hiroshima, il giorno dopo – «non fu una apocalissi istantanea e paurosa a colpire la città», anzi il pikadon inaugurava anche una lenta agonia di anni estesa per tutto l’orizzonte dell’avvenire. Come profeta Svevo nell’ultima, febbrile pagina della Coscienza. Si auspica un’agonia sospesa tra l’istante della «catastrofe» e l’illusione post-apocalittica della «salute», se anche il triestino vede un futuro di malattia e una morte con

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XXXIV

NEIL NOVELLO

fine scolpita nella poderosa immagine della terra tornata di nuovo πλανήτης, vagabonda senza uomo. Contro le catastrofi del Novecento, in un estremo slancio umanisticomondano, nella Fine del mondo De Martino confessare che il «problema è unicamente quello di una maggiore potenza di espansione dell’umanesimo moderno, e di una riplasmazione della società e dello stato che consenta una maggiore sicurezza esistenziale e una più saldamente fondata confidenza nella potenza dell’opera umana». Il mito di un «cielo nuovo e una terra nuova» (Ap. 21, 1) verrebbe pertanto ad essere il di là dell’ultima catastrofe storica cieli e le terre nuove di Giovanni ritraggono metafore simboliche dell’estremo che muta, che muterebbe in una sfera umanizzata di oltre assoluto. È l’idea di ri-nascenza del mondo a e da sé, la ri-nascenza come stato da una volta per sempre. Tornare a vivere sotto una stella umana, sullo sfondo inquietante – ormai globale, veramente immedicabile – della demartiniana perdita di «patria culturale», fra i più tremendi presagi da condizione-inferno nel nostro tempo e nella nostra vita, è auspicio che richiede una ri-appropriazione storico-culturale della cultura dell’umano. E anche il mondo espropriato all’uomo e divorato dalla modernità tornerà a splendere come nostro mondo. «Io non debbo mai essere solo» – scrive De Martino – per essere invece nell’«incessante partecipazione a un progetto comunitario dell’utilizzabile». Non dunque l’elaborazione di una nuova ontologia dell’umano, non è questa la via per un nuovo tempo dell’uomo. Uscire fuori della condizione-intervallo, sospendere lo stato di epoché del mondo, credere – con la Speranza di Malraux – a ciò che Garcia confessa a Magnin, una tra le «cose più commoventi del mondo», avere fede in un’«Apocalisse della fraternità». Che significa più che solo o semplicemente essere, significa dissolvere il conflitto tra la coscienza del dover essere e la disperazione del non poter dover essere. Perché all’uomo finalmente occorra di con-compiersi, costola umana riconquistata al centro della vita, per prodursi in un’auto-rivelante apocalisse terrena. Per fondare veramente una civitas humana.

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PARTE PRIMA Verso il Novecento. Genealogia del disastro

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Friedrich Nietzsche: apocalisse e senso della storia di Carlo Gentili

La filosofia di Nietzsche è apocalittica o anti-apocalittica? L’argomento delle riflessioni che seguono coincide in larga parte con il tentativo di rispondere a questa domanda. Dato provvisoriamente per acquisito che il senso comunemente assegnato al concetto di apocalisse indica l’approssimarsi della fine dei tempi (o gar kairos engys; tempus enim prope est, Ap 1, 3)1, che la «rivelazione» (Apokalypsis Iesou Christou, Ap 1,1) riguarda «cose che debbono tra breve accadere» (ibid.), e che la profezia annuncia la fine della potenza mondana («È caduta è caduta la gran Babilonia, quella che col vino bramoso della sua fornicazione ha abbeverato tutti i popoli», Ap 14, 8), non c’è dubbio che si possa riconoscere a molte pagine di Nietzsche, quanto meno, un tono apocalittico. Per limitarci a pochi esempi, nell’af. 343 (Quel che significa la nostra serenità) che apre il V libro della Gaia scienza (aggiunto nella seconda edizione dell’opera, uscita nel 1887 cinque anni dopo la prima) Nietzsche riprende il tema della morte di Dio (già trattato negli aff. 108 e 125 della prima edizione) per sottolineare come questo evento sia troppo grande perché ci si possa rendere conto «di tutto quello che ormai, essendo sepolta questa fede, deve crollare, perché su di essa era stato costruito […] per esempio tutta la nostra morale europea». Quel che ne seguirà è «una lunga, copiosa serie di demolizioni, distruzioni, tramonti, capovolgimenti», e chi fosse capace di divinare questi avvenimenti diventerebbe «il profeta di un ottenebramento e di un’eclisse di sole, di cui probabilmente non si è ancora mai visto sulla terra l’uguale» (FW, KSA, 3, 573 [OFN, V/II, 23940])2. Lo stesso annuncio della morte di Dio dell’af. 125 (un evento di per 1

Le citazioni dell’Apocalisse sono tratte da Apocalisse di Giovanni, tr. it. e cura di M. Bontempelli, Milano, Feltrinelli, 1992. 2 Per le opere di Nietzsche citate si sono usate le seguenti abbreviazioni: FW, La gaia scienza; Eh, Ecce homo; Za, Così parlò Zarathustra; DD, Ditirambi di Dioniso; JGB, Al di là del bene e del male; AC, L’anticristo; UBHL, Sull’utilità e il danno della storia per la vita (Considerazioni inattuali, II). Le opere e le lettere di Nietzsche sono citate secondo le seguenti edizioni: F. Nietzsche, Sämtliche Werke, Kritische Studienausgabe (KSA), a cura di G. Colli e M. Montinari, 15 voll., Berlin-New York, de Gruyter, 19992; Opere di Friedrich Nietzsche (OFN), ed. it. diretta da G.

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CARLO GENTILI

sé apocalittico) è intriso dell’angoscia e del terrore suscitati dall’imminenza di una fine: «Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina?» (FW, KSA, 3, 481 [OFN, V/II, 151]). È superfluo osservare che quel che viene con ciò annunciato è l’esatto opposto della profezia dell’Apocalisse: qui si tratta della morte di Dio, là del suo trionfo. Ma, al di là dei toni, perfino i mezzi indicati denunciano una manifesta affinità. Si tratta, anche per Nietzsche, di muovere guerra al vizio. Nell’ultimo periodo della sua riflessione egli giunge ad elaborare il concetto di una «grande politica» (große Politik) rivolta «contro ciò che corrompe, avvelena, calunnia, manda in rovina» e che consiste in una «guerra mortale al vizio» (25[1], KSA, 13, 638 [OFN, VIII/III, 408]). Se lo scopo di questa guerra è di «allevare» (züchten) una nuova umanità «come un tutto superiore», e per conseguirlo è necessario sradicare corruzione, rovina e vizio, questo scopo rassomiglia sorprendentemente a quell’ira divina che annuncia l’ora di giudicare i morti, di dare il premio ai servi di Dio e a tutti coloro che ne temono il nome: corruzione, rovina e vizio devono essere sterminati come vengono sterminati «coloro che sterminano la terra» (eos qui corruperunt terram, Ap 11, 18). Ma, anche in questo caso, l’obiettivo è l’opposto: la grande politica porta la guerra «tra volontà di vita e sete di vendetta contro la vita» (25[1], KSA, 13, 637 [OFN, VIII/III, 407]); è guerra a tutto ciò che è contronatura, e «il prete cristiano è il più vizioso tipo d’uomo, giacché insegna la contronatura (die Widernatur)» (25[1], KSA, 13, 638 [OFN, VIII/III, 408]). Nell’estasi prodotta dalla decisività di questo annuncio, in cui culminano il destino dell’umanità e (nella convergenza con il testo di Giovanni) della creazione, Nietzsche trascende la propria soggettività per trasfigurarsi addirittura, oltrepassando la mediazione della testimonianza degli Apostoli, nella persona stessa di Gesù. Il frammento che abbiamo fin qui esaminato inizia con le parole «Io porto la guerra», in evidente analogia con le parole di Gesù in Matteo: «Non sono venuto a portare la pace ma la spada» (Mt 10, 34). In modo ancor più evidente, nel capitolo finale di Ecce homo (Perché io sono un destino) Nietzsche pone se stesso nel centro del compimento del destino dell’umanità: Conosco la mia sorte. Un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di qualcosa di enorme – una crisi, quale mai si era vista sulla terra, la più profonda collisione della coscienza, una decisione evocata contro tutto ciò che finora è

Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1964 e ss.; F. Nietzsche, Sämtliche Briefe, Kritische Studienausgabe (KSB), a cura di G. Colli e M. Montinari, 8 voll., 20032; F. Nietzsche, Epistolario (E), ed. it. diretta da G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1976 ss.

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FRIEDRICH NIETZSCHE:

APOCALISSE E SENSO DELLA STORIA

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stato creduto, preteso, consacrato. Io non sono un uomo, sono dinamite. (Eh, KSA, 6, 365 [OFN, VI/III, 375])3

L’identificazione con il Gesù che viene nella fine dei tempi è palese, e a poco valgono le successive precisazioni, con le quali Nietzsche afferma di aver scritto il libro (Ecce homo) con lo scopo di premunirsi contro l’eventualità di essere, un giorno, fatto santo: «Non voglio essere un santo, allora piuttosto un buffone (ein Hanswurst)… Forse sono un buffone» (ibid.)4. Queste frasi sono piuttosto un accenno alla sua tesi del Gesù idiota, desunta da Dostoevskij, sulla quale ci soffermeremo più avanti. Quelli fin qui esposti non sono che pochi argomenti, dei molti possibili, a sostegno della apocalitticità della filosofia di Nietzsche. Già in essi, tuttavia, si delinea una contraddizione con uno degli insegnamenti nietzschiani fondamentali: come possono conciliarsi l’annuncio della fine dei tempi e l’avvento di un tempo nuovo con il pensiero dell’eterno ritorno dell’uguale? Si tratta, con esso, dell’annullamento stesso del tempo nel suo sviluppo lineare, ossia nella sua interpretazione specificamente cristiana: sia essa quella della Heilsgeschichte o della filosofia della storia di matrice hegeliana. Questo pensiero si annuncia nel penultimo aforisma (341, Il peso più grande) della prima edizione della Gaia scienza. In una lettera, spedita da Genova all’amico Heinrich Köselitz il 25 gennaio 1882, Nietzsche lo definisce «un pensiero che in effetti richiede “millenni” affinché possa prendere forma. Dove troverò il coraggio di formularlo!» (KSB, 6, 159 [E, IV, 151]). Il termine millenni allude, per contrasto, proprio al Cristianesimo, definito spesso da Nietzsche errore bimillenario5. Che il pensiero dell’annullamento del tempo abbia bisogno di tempo – e per di più calcolato su quel metro con il quale si misura il tempo che dev’essere annullato – non è la sola contraddizione della dottrina dell’eterno ritorno6. Nell’af. 341 l’annullamento del tempo viene proposto 3

Si veda anche il fr. 25[6] del dicembre 1888-gennaio 1889 (KSA, 13, 39-40 [OFN, VIII/III, 409-10]). 4 Cfr. in Così parlò Zarathustra la canzone del mago nel capitolo Il canto della malinconia, che si conclude con i versi: «Ch’io sia bandito / Da ogni verità, / Giullare soltanto (Nur Narr)! / Soltanto poeta!» (Za, KSA, 4, 374 [OFN, VI/I, 365]). La canzone viene ripresa, con poche Dichter! varianti, nei Ditirambi di Dioniso con il titolo Soltanto giullare! Soltanto poeta! (Nur Narr! Nur Dichter!) (DD, KSA, 6, 377-80 [OFN, VI/IV, 5-11]). 5 Si veda, p. es., l’af. 357 della Gaia scienza, in cui l’ateismo è definito «una vittoria finale e faticosamente conquistata della coscienza europea, in quanto è l’atto più ricco di conseguenze di una bimillenaria educazione alla verità, che nel suo momento conclusivo si proibisce la menzogna della fede in Dio» (FW, KSA, 3, 600 [OFN, V/II, 268]). 6 Se, tra gi effetti prodotti dall’eterno ritorno dell’uguale, dev’essere annoverato anche – come sostiene Karl Löwith – il riattraversamento della storia della cristianità per tornare

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CARLO GENTILI

con chiarezza: «L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta – e tu con essa, granello di polvere!». Di fronte al demone che ci dice questa verità, noi potremmo o dibatterci nella disperazione, oppure intendere questa rivelazione come la «cosa più divina». Sarebbe, questa seconda ipotesi, la dimostrazione del nostro amore per la vita, che non ci farebbe desiderare altro «che quest’ultima eterna sanzione, questo suggello (Besiegelung)» (FW, KSA, 3, 570 [OFN, V/II, 236-37]). Che una sanzione eterna possa essere anche ultima, che essa possa per di più presentarsi come un suggello, che richieda una decisione (il termine Besiegelung ha questa doppia valenza semantica) è chiaramente una contraddizione che rivela tuttavia l’interna necessità dalla quale il pensiero dell’eterno ritorno è determinato: anch’esso ha bisogno del tempo dell’annuncio che lo precede, presuppone una storia nella quale esso si inserisce come il culmine, esige l’attimo in cui ci si decide per esso. Anche il modo in cui l’eterno ritorno viene presentato nello Zarathustra risente, seppure in maniera meno evidente, di questa contraddizione. Nietzsche si preoccupa, in questo caso, di risolvere nella circolarità quell’elemento stesso che, fornendo la misura del tempo, dovrebbe necessariamente porsi al di fuori di esso. Nel capitolo La visione e l’enigma, nella terza parte del libro, si offre a Zarathustra e al nano – figura allegorica dello «spirito di gravità» che attrae «in basso verso abissi», mentre Zarathustra vuol salire aufwärts, «verso l’alto» (Za, KSA, 4, 198 [OFN, VI/I, 190]) – la visione della «porta carraia» (Thorweg), sulla quale sta scritta la parola «attimo» (Augenblick). Da essa «comincia all’indietro una via lunga, eterna: dietro di noi è un’eternità»; ma, «se tutto è già esistito […] Non deve anche questa porta carraia – esserci già stata?». E dunque tutte le cose non sono forse annodate saldamente l’una all’altra, in modo tale che questo attimo trae dietro di sé tutte le cose avvenire? Dunque – anche se stesso? (Za, KSA, 4, 200 [OFN, VI/I, 192])

In questo modo l’attimo cessa di rappresentare una stasi nel fluire del tempo per divenire l’elemento stesso costitutivo della sua circolarità. Se quealla patria greca, è allora un’intima contraddizione della circolarità del tempo il fatto che questo «ripristino dell’antichità» si compia «al culmine della modernità» (K. Löwith, Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkehr des Gleichen (ed. or. 1935-1956), in Id. Sämtliche Schriften, vol. VI, Stuttgart, Metzler, 1987, p. 241 [Nietzsche e l’eterno ritorno, tr. it. e c. di S. Venuti, Roma-Bari, Laterza, 19852, p. 113]). Come vedremo commentando l’af. 341 della Gaia scienza, questo concetto della culminatività del tempo sembra tuttavia indispensabilmente connesso con l’idea di un tempo che deve eternamente ritornare.

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FRIEDRICH NIETZSCHE:

APOCALISSE E SENSO DELLA STORIA

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sta conclusione ha il suo bersaglio, in ultima analisi, nel Cristianesimo – in quanto mina la culminatività della venuta di Cristo che segna la pienezza dei tempi e stabilisce un prima e un dopo nella storia –, essa distrugge di fatto una concezione del tempo che appare codificata almeno a partire da Aristotele. Nella Fisica questi conclude sulla necessaria distinzione tra il tempo e l’istante (to nyn) partendo dalla domanda se il tempo costituisca il «numerato» e «numerabile» (to arithmoumenon kai to arithmeton) oppure «il mezzo per cui numeriamo» (o arithmoumen) (219 b 6). Ma, in questo secondo caso, il tempo verrebbe a coincidere con l’istante, mentre esso è piuttosto quel «medio» (metaxy) che è compreso tra un «prima» (proteron) e un «poi» (ysteron) (219 a 15). Se dunque il tempo è determinato dall’istante (219 a 25-a 30), esso non può coincidere con l’istante in quanto questo è contemporaneamente diverso e identico: diverso in quanto «è sempre in un diverso», identico in quanto «è ciò che una sola volta è» (219 b 12-b 15). L’istante è piuttosto il «limite» (peras) del tempo e, se paragoniamo il tempo ad una linea, ne concluderemo che l’istante non è una parte del tempo, così come i punti non sono parti della linea (220 a 15-a 20). Essendo il limite del tempo, l’istante «non è un tempo, ma un accidente (symbebeˉeken) di questo; in quanto esso fa da misura, è un numero» (220 a 21-a 22). In conclusione, il tempo è sempre identico quanto alla sua essenza (come «numerato» e «numerabile»), ma è sempre diverso per accidente, perché diversi sono gli istanti come numeratori. Nella concezione nietzschiana, l’attimo viene trascinato nella vorticosa circolarità del divenire e non si offre più come punto di riferimento esterno. Questo, tuttavia, non elimina il momento della decisione per la circolarità. Nello sviluppo de La visione e l’enigma Zarathustra e il nano si imbattono in ciò che costituisce propriamente l’enigma: «Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca» (Za, KSA, 4, 201 [OFN, VI/I, 193]). Il pastore segue il consiglio di Zarathustra, che lo esorta a staccare con un morso la testa del serpente: «Lontano da sé sputò la testa del serpente –: e balzò in piedi». Quel che ne segue è la descrizione di una trasfigurazione: Non più pastore, non più uomo, – un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise! Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo. (Za, KSA, 4, 202 [OFN, VI/I, 194])

Il serpente è sempre, in Nietzsche, una figura della circolarità: il simbolo, insieme all’aquila, dell’anello del ritorno7. Che il pastore ne morda 7

Così l’aquila e il serpente, gli animali di Zarathustra, vengono descritti al loro primo comparire: Zarathustra «si mise a scrutare il cielo – aveva infatti udito sopra di sé lo stridio

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CARLO GENTILI

la testa sta ad indicare l’atto col quale l’uomo decide se stesso per l’eterno ritornare delle stesse cose; il morso non corrisponde ad una rottura, ma ad un impossessamento. Richiamandosi all’episodio dello Zarathustra, Nietzsche osserverà in Al di là del bene e del male (af. 140): «Consiglio come enigma – “Perché il legame non si spezzi – devi prima averlo morso” (“Soll das Band nicht reissen, – musst du erst drauf beissen”)» (JGB, KSA, 5, 97 [OFN, VI/II, 78]). È in virtù di questa decisione per l’eterno ritorno che, nel riso di colui che non è più un uomo, si annuncia il tempo dell’Übermensch. La decisione, tuttavia, non recide il flusso del tempo: è, anzi, soltanto grazie ad essa che il legame non viene spezzato. Il fluire e la decisione, il tempo senza dimensioni e l’attimo, il circolo e il punto si richiamano a vicenda in un nesso necessario. Vale a dire, la profezia dell’annullamento del tempo necessita tuttavia di un punto, collocato ben dentro il tempo, nel quale quella profezia viene pronunciata e che divide il tempo in un prima e un poi. Allo stesso modo, nella visione di Giovanni, è soltanto nel momento culminante del tempo che fino ad allora è stato, è a partire da quell’eternità rivolta all’indietro, che il sesto angelo può giurare «che non vi sarà più il tempo» (Ap 10, 6), e il settimo angelo può annunciare il tempo nuovo: «Il regno del mondo è passato al signore nostro e al Cristo suo, che regnerà per i secoli dei secoli» (Ap 11, 15). Con il pensiero dell’eterno ritorno dell’uguale la filosofia di Nietzsche rivela la propria specifica dimensione profetica. Lo stesso recupero nietzschiano della grecità non dev’essere inteso come quella restaurazione del passato che aveva caratterizzato larga parte del Romanticismo tedesco, ma vuole aprire al futuro di un’epoca nuova. In altre parole, Nietzsche non si limita ad indicare una via che procede all’indietro; ma, facendo questo, indica nel contempo una via che procede in avanti. L’eterno ritorno dell’uguale corrisponde ad un infuturamento della prospettiva storica. E questo al prezzo di aprire un’insanabile frattura con la constatazione che tutto deve ritornare. Nietzsche dà in questo modo alla dimensione greca dell’eterno ritorno un significato essenzialmente non-greco. «Zarathustra – ha scritto Karl Löwith – è “l’uomo redentore del futuro” e tutta la filosofia di Nietzsche è un “preludio” del futuro»8. Perché questa redenzione si compia non basta accettare che tutto eternamente ritorni: occorre altresì volerlo. acuto di un uccello. Ecco! Un’aquila volteggiava in larghi circoli per l’aria, ad essa era appeso un serpente, non come una preda, ma come un amico: le stava infatti inanellato al collo. / “Sono i miei animali!”, disse Zarathustra e gioì di cuore» (Za, KSA, 4, 27 [OFN, VI/I, 19]); su ciò si veda D.S. Thatcher, Eagle and Serpent in Zarathustra, «Nietzsche-Studien», vol. 6, 1977, pp. 240-60. 8 K. Löwith, Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkehr des Gleichen cit. p. 256 [tr. it. cit. p. 124].

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Questo senso generalmente apocalittico della filosofia nietzschiana disegna un quadro nel quale dev’essere tuttavia collocato il confronto diretto con il libro dell’Apocalisse. Nietzsche ne dà una valutazione negativa; nell’annuncio del Giudizio egli vede riassunto lo spirito di vendetta del Cristianesimo contro la vita. L’Apocalisse di Giovanni è l’espressione del ressentiment cristiano, la quintessenza del Cristianesimo come nichilismo reattivo. Nell’Anticristo questo essenziale fraintendimento viene messo sul conto della prima interpretazione dell’annuncio: quella dei discepoli. Quella «piccola comunità» non ha compreso «proprio la cosa principale», ossia l’esemplarità della morte di Gesù sulla croce in cui si era manifestata «la libertà, la superiorità su ogni sentimento di ressentiment» (AC, KSA, 6, 213 [OFN, VI/III, 217]). Nella «“buona novella”» (frohe Botschaft), in cui si raccoglie il senso dell’annuncio di Gesù, è assente qualunque riferimento ai concetti di colpa e castigo e, con l’eliminazione del «peccato», è eliminata anche ogni distanza tra l’uomo e Dio: l’insegnamento di Gesù conduce ad «una nuova pratica di vita; la pratica propriamente evangelica» (AC, KSA, 6, 205 [OFN, VI/III, 207]). Sentirsi «in cielo», sentirsi «eterni», sono metafore che rinviano al modo in cui «si deve vivere» (AC, KSA, 6, 206 [OFN, VI/III, 208]); grazie a queste immagini quel «grande simbolista» intende «tutto ciò che riguarda la natura, il tempo, lo spazio, la storia, solo come segno, come occasione per allegorie» che rinviano a quelle «realtà interiori» che egli prese per sola verità (AC, KSA, 6, 206 [OFN, VI/III, 209]). Di questa nuova pratica di vita è parte essenziale anche l’esperienza della morte: «Questo “lieto messaggero” (froher Botschafter) morì come visse, come aveva insegnato – non per “redimere gli uomini”, ma per indicare come si deve vivere» (AC, KSA, 6, 207 [OFN, VI/III, 210]). Questo modello di vita, che è eterno in quanto rivela l’essenza della vita stessa, si colloca al di fuori e al di là di ogni tempo. Il nome dato da Nietzsche a questa vita divenuta eterna è «regno di Dio»: il suo compimento è l’esperienza, propriamente cristiana, dell’annullamento del tempo. Con essa si annulla anche quella nozione della «morte naturale» che nel Vangelo è assente perché relegata nel mondo «meramente apparente»: «L’“ora della morte” non è un concetto cristiano – l’“ora”, il tempo, la vita fisica e le sue crisi non esistono affatto per il maestro della “lieta novella”» (AC, 6, 207 [OFN, VI/III, 210]). In quanto annullamento del tempo, il regno di Dio è annullamento della morte e della storia. Con una decisa sfumatura pietistica, Nietzsche ne colloca il luogo nel cuore dell’uomo; in un frammento del novembre 1887-marzo 1888, che fa parte di una serie di materiali poi rielaborati nell’Anticristo, egli annota:

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CARLO GENTILI

Il regno dei cieli (das Himmelreich) è uno stato del cuore (ein Zustand des Herzens) (dei fanciulli si dice “giacché loro è il regno dei cieli”); non è qualcosa che sta “sopra la terra” (über der Herde). (11[354], KSA, 13, 154 [OFN, VIII/II, 358])

Il regno dei cieli non appartiene al mondo delle apparenze ed è pertanto negazione del tempo storico: Il regno di Dio (das Reich Gottes) non “viene” in modo cronologico-storico, non giunge secondo il calendario, come qualcosa che un giorno c’è e il giorno prima no; si tratta invece di un “cambiamento nel modo di sentire dell’individuo”, qualcosa che viene in ogni tempo e in ogni tempo non c’è ancora. (Ibid.)

Queste parole sono un calco evidente delle parole di Luca, con le quali Gesù risponde alla domanda dei farisei su quando sarebbe venuto il regno di Dio: «Il regno di Dio non viene in modo visibile, né si potrà dire: Eccolo qui oppure eccolo là, poiché ecco, il regno di Dio è già in mezzo a voi (entos ymon)» (Lc, 17, 20-21). La tradizione cristiana ha frainteso queste parole assegnandole a una dimensione puramente spirituale: ma lo spirito è «un nostro concetto culturale» che «non ha alcun senso nel mondo in cui vive Gesù»; esse sono piuttosto il segno dell’idiotismo di Gesù: quello stato di «morbosa irritabilità del senso tattile» che rifugge da ogni contatto con la realtà per rifugiarsi «nell’“inafferrabile”» (in’s “Unfassliche”), che esprime ripugnanza «a ogni concetto spazio-temporale, a tutto ciò che è stabile, costume, istituzione, Chiesa» per rifugiarsi «in un mondo meramente “interiore”, un mondo “vero”, un mondo “eterno” … “Il regno di Dio è in voi” (Das Reich Gottes ist in euch)9» (AC, 6, 200 [OFN, VI/III, 202]). Questa dimensione puramente interiore del regno di Dio è invece rinnegata già nel primo formarsi del dogma cristiano: l’idea di un «Dio persona» – il presupposto di quell’amore cristiano alla cui ambiguità non sono estranei, secondo Nietzsche, i residui di una sensualità in cui trovano sfogo «gli istinti più bassi»10 (AC, KSA, 6, 190 [OFN, VI/III, 191]) –, di un «“regno di Dio”, 9

Nietzsche segue la traduzione di Lutero, che rende l’entos ymon, alla lettera, con inwendig in euch: “dentro di voi”. Per l’interpretazione di questi passi rinvio al mio Nietzsche, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 252 ss. 10 Quest’ombra di sensualità sarebbe la conseguenza della volontà, che caratterizza il Cristianesimo originario, di imporsi sul terreno di una cultualità già determinata dai «culti di Afrodite o di Adone» (AC, KSA, 6, 190 [OFN, VI/III, 192]). Poiché questi culti erano quelli della religiosità popolare, ne deriva al Cristianesimo una sorta di ripaganizzazione che corrispondeva alla sua aspirazione a diffondersi «in masse ancor più larghe, ancor più rozze»; la conseguente necessità di «volgarizzare, imbarbarire il cristianesimo» lo condusse ad assorbire «le dottrine e i riti di tutti i culti sotterranei dell’imperium romanum, l’assurdità di ogni sorta di

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che sopraggiunge, di un “regno dei cieli”, trascendente» non sono che «grossolanità ecclesiastiche» (kirchlichen Cruditäten) delle quali «niente è più anticristiano». Questa grossolanità corrisponde proprio all’incapacità di intendere quelle idee nella loro natura puramente e raffinatamente simbolica: è il frutto di una «derisione del simbolo» che le interpreta secondo le categorie concrete dello spazio e del tempo. Contro di essa si erge, come il fondamento autentico dell’annuncio di Gesù, l’affermazione che «il “regno dei cieli” è una condizione del cuore (ein Zustand des Herzens) – non qualcosa che giunge “oltre la terra” o “dopo la morte”» (AC, KSA, 6, 206-07 [OFN, VI/III, 209-10]). Questa negazione dello spazio e del tempo corrisponde al rifiuto della dimensione storica nella quale la tradizione cristiana ha trasferito il senso dell’annuncio di Gesù, ossia corrisponde al regno dei cieli come dimensione esclusivamente interiore. Quella dimensione storica trova la sua espressione, tra l’altro, in quella culminatività del tempo che ha il suo evento nella rivelazione del libro dell’Apocalisse. È significativo che, rielaborando nel testo dell’Anticristo il frammento del novembre ’87-marzo ’88, Nietzsche vi aggiunga un riferimento proprio all’Apocalisse: «Il “regno di Dio” non è qualcosa che si attende: non ha un ieri e un dopodomani, non giunge tra “mille anni”» (AC, KSA, 6, 207 [OFN, VI/III, 210]). «Mille anni» (chilia ete) è la misura del tempo che stabilisce, nel cap. 20 dell’Apocalisse, la durata delle epoche dell’incatenamento e della liberazione di Satana: il settimo angelo s’impossessò del drago, l’antico serpente, che è il diavolo, Satana, e lo mise in catene per mille anni, lo buttò nell’abisso, e sopra lui chiuse e sigillò perché non traviasse più i popoli fino a che non fossero passati mille anni. (Ap 20, 1-3)

«Compiuti mille anni» Satana, di nuovo liberato, conquista la terra e contro di lui Dio riporta il suo trionfo definitivo, dopo il quale «i morti furono giudicati da quanto nei libri stava scritto intorno alle loro azioni» (Ap 20, 12). Questo Giudizio è giudizio dei morti in quanto Giudizio della storia, di quel passato bimillenario a partire dal cui compimento, soltanto, il Giudizio può essere formulato. Storia, azione compiuta e Giudizio divengono segni di una stessa identità, modi di essere di un’unica realtà. Ma in questa identità si cela il grossolano equivoco dell’interpretazione cristiana: la «storia del cristianesimo» non può essere che «la storia del fraintendimento, divenuto gradatamente sempre più grossolano, di un simbolismo

ragione malata». Questa «barbarie malata ascese infine a potenza come Chiesa» (AC, KSA, 6, 209 [OFN, VI/III, 212]).

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originario». Che il «senso storico», di cui «la nostra epoca va superba (stolz)» (AC, KSA, 6, 208-09 [OFN, VI/III, 211]), non sia stato capace di svelare questa grossolanità si spiega col fatto che proprio quel senso storico è nato e si è sviluppato in conseguenza dell’identità di storia e Giudizio, nel segno comune del compimento: Si prese di mira un momento storico: il “regno di Dio” viene per giudicare i suoi nemici … Ma con ciò si è frainteso tutto: il “regno di Dio” come atto conclusivo (Schlussakt), come promessa! (AC, KSA, 6, 214 [OFN, VI/III, 217])

Questo tempo che viene giudicato come storia grazie all’atto che lo compie corrisponde al nostro concetto di storia in generale. Che la nostra epoca vada superba del suo senso storico è quanto Nietzsche aveva già denunciato nella II Inattuale, Sull’utilità e il danno della storia per la vita: la inattualità consiste, tra l’altro, proprio nel tentativo di intendere «come danno, colpa e difetto dell’epoca qualcosa di cui l’epoca va a buon diritto fiera (stolz), la sua formazione storica» (UBHL, KSA, 1, 246 [OFN, III/I, 260]). Questa fierezza deriva all’uomo moderno dall’acquisita consapevolezza di aver superato i livelli più bassi della vita organica, che si accompagna all’uguale consapevolezza di avere avuto in ogni caso in essi la propria origine. La continuità che si stabilisce tra queste due diverse consapevolezze è ciò che l’uomo chiama storia: «Oggi la storia umana è solo la continuazione della storia degli animali e delle piante» (UBHL, KSA, 1, 312 [OFN, III/I, 332]). Ma questa continuità può essere percepita soltanto una volta che il processo storico è giunto alla fine, ossia dalla prospettiva del compimento della storia. Il che è possibile soltanto se l’uomo intende se stesso come un tale compimento; e l’uomo che intende se stesso in questo modo è l’uomo moderno: Rimirando come un miracolo l’enorme strada che l’uomo ha già percorsa, lo sguardo è còlto da vertigine di fronte allo stesso uomo moderno, che può abbracciare con lo sguardo questa strada. Egli sta alto e superbo (stolz) in vetta alla piramide del processo del mondo; mettendovi sopra la pietra finale della sua conoscenza, sembra che egli gridi alla natura in ascolto tutt’intorno: “siamo alla meta (wir sind am Ziele), siamo alla meta, noi siamo la natura compiuta”. (UBHL, KSA, 1, 313 [OFN, III/I, 332])

Perché questo accada, tuttavia, occorre presupporre che non esista differenza alcuna tra la vita dell’uomo e la vita del tutto, che ogni organismo individuale realizzi, mentre porta a compimento il proprio fine, anche il fine della natura. Occorre, cioè, pensare che quella “meta”, quel “fine” (Ziel), siano inclusi nel tutto fin dall’inizio; e, se l’uomo ne acquisisce consapevolezza solo progressivamente, ciò significa che la presenza di quel fine dev’esse-

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re intesa come inconscia. Questo modo di concepire la storia, che Nietzsche critica con durezza, è infatti quello esposto da Eduard von Hartmann nel capitolo della sua Philosophie des Unbewussten che porta il titolo Das Unbewusste in der Geschichte. Partendo dall’affermazione che «natura e storia, ovvero la nascita degli organismi e lo sviluppo del genere umano, sono due problemi paralleli», Hartmann risolve il conflitto tra l’autonomia e la libertà degli organismi e degli individui da un lato, e la necessità e la causalità del «piano» della natura dall’altro, richiamandosi a Schopenhauer e interpretando come meramente apparente la libertà della volontà11. Se di libertà degli individui si può parlare, poiché occorre presupporre «uno sviluppo sistematico nella storia» (einen planvollen Entwickelungsgang in der Geschichte), ciò indicherà soltanto la loro capacità di contribuire al processo nel quale i fini della natura divengono progressivamente coscienti. Per questo «noi ci avviciniamo, a partire dall’ultimo secolo, a quella condizione ideale in cui il genere umano fa con consapevolezza la propria storia (seine Geschichte mit Bewusstsein macht)». E, pur se questo processo si presenta ancora come lontano dalla sua conclusione, perché ogni individuo non serve che il proprio scopo egoistico, il risultato complessivo sarà conseguito, rivelandosi tuttavia, alla fine, qualitativamente diverso dalla combinazione dei singoli scopi12. Esso dipende infatti non dalla limitatezza degli scopi individuali, ma dall’originaria presenza di un fine ultimo nella storia; il che rende questa limitatezza non errata in sé, ma solo «unilaterale» (einseitig), ossia capace di vedere quel fine ultimo solo nella parzialità delle prospettive. Dunque, è la conclusione di Hartmann, Greci, Romani e Musulmani hanno avuto ragione nel formarsi l’idea del fato, in quanto questo sta a significare nient’altro che «l’assoluta necessità di ciò che accade, appesa al filo della causalità», cosicché «ogni elemento della serie è determinato e predeterminato dall’elemento che lo precede, e quindi l’intera serie è determinata e predeterminata dall’elemento iniziale». E il cristianesimo si è con ragione forgiato il concetto della Provvidenza (Vorsehung), secondo il quale «ciò che accade, accade con assoluta saggezza in modo assolutamente conforme allo scopo (zweckmässig)». Ciò che accade è dunque lo strumento «dello scopo previsto (vorgesehenen [sc. contemplato dalla Provvidenza]), dell’inconscio che non sbaglia mai, il quale è anche l’assolutamente logico»13. In questa conclusione, che riassume la teodicea cristiana da Agostino a Leibniz, Nietzsche legge la spiritosa invenzione di un inconscio considerato 11 E. von Hartmann, Philosophie des Unbewussten, vol. I: Phänomenologie des Unbewussten, Berlin, Duncker, 18788, p. 322. 12 Ivi, p. 323. 13 Ivi, p. 344.

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come «fonte di ispirazione», grazie alla quale il mondo «risplende in una luce apocalittica» (UBHL, KSA, 1, 314 [OFN, III/I, 333]): e ciò significa, alla lettera, che il mondo riceve il suo significato soltanto a partire dalla rivelazione finale, alla quale Nietzsche associa lo scopo previsto (dalla Provvidenza) di Hartmann14. Al pari di Leibniz, anch’egli può dunque annunciare «che il nostro tempo dev’essere proprio soltanto così com’è». I tratti, anche i peggiori, della nostra epoca moderna vengono così giustificati da Hartmann non solo in base al passato, ex causis efficientibus, ma addirittura in base al futuro, ex causa finali; dal giorno del giudizio (von dem jüngsten Tage) il furbacchione fa irradiare la luce sul nostro tempo, e allora si trova che quest’ultimo è ottimo. (UBHL, KSA, 1, 314 [OFN, III/I, 334])

In questa giustificazione, come in ogni teodicea, non c’è spazio per il male, che si trova immediatamente rovesciato nel suo opposto: “È evidente che l’Anticristo prende sempre più piede” – ma così deve andare, così deve accadere, giacché con tutto questo noi siamo sulla via migliore […] “Perciò di buona lena avanti nel processo del mondo (im Weltprozess), come lavoratori nella vigna del Signore, in quanto è solo il processo che può condurre alla redenzione!” (UBHL, KSA, 1, 315 [OFN, III/I, 335])15

Citando espressioni di Hartmann che rimandano alle immagini neotestamentarie, Nietzsche intende denunciare l’evidente struttura teologica della sua giustificazione della storia. Struttura che si traduce nella concreta realtà storica trovando la sua mediazione nella hegeliana filosofia della storia. In un frammento risalente al periodo di elaborazione della II Inattuale Nietzsche osserva come quel Weltprozess altro non sia che «il processo del mondo hegeliano», che si è perso «in un grasso Stato prussiano con una buona polizia». E, dunque, non si tratta che di una «teologia camuffata, e questo vale anche per Hartmann» (29[53], KSA, 7, 650 [OFN, III/III/II, 251]). Il quale Hartmann, dal canto suo, proprio a Hegel e a Schelling si richiama per dimostrare che non c’è bisogno di fare ricorso a un destino, a una Provvidenza o a un Dio puramente trascendenti quando il movimento 14 Per un commento più puntuale delle tesi di Hartmann da parte di Nietzsche si vedano i frr. 29 [51], 29 [52], 29 [53], 29 [59] dell’estate-autunno 1873 (KSA, 7, 646-50 e 654-55 [OFN, III/III/II, 247-51 e 254-56]); sulla risposta di Hartmann alle critiche di Nietzsche cfr. W.v. Rahden, Eduard von Hartmann ‘und’ Nietzsche. Zur Strategie der verzögerten Konterkritik Hartmanns an Nietzsche, «Nietzsche-Studien» vol. 13, 1984, pp. 481-502. 15 I passi citati tra virgolette sono citazioni da Hartmann; cfr. fr. 29[59] (KSA, 7, 646-50 [OFN, III/III/II, 254-56]).

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della storia può essere spiegato col fatto che «questo Dio è disceso nel mio petto», e che dunque «la mia volontà è per me nello stesso momento, in maniera inconscia, la volontà di Dio»; e ciò significa che quando io voglio inconsciamente qualcosa di completamente diverso da ciò che la mia coscienza unicamente crede di volere, quando inoltre la coscienza si sbaglia nella scelta dei mezzi per il suo scopo, la volontà inconscia elegge tuttavia proprio questo mezzo come commisurato al suo scopo16.

Questo imporsi della volontà inconscia su quella individuale è però legittimabile solo ex causa finali, ossia solo se un fine ultimo esiste ed è anche conosciuto. Su questo Nietzsche cala la scure della sua scepsi: «Ma noi non siamo capaci di pensare l’inizio e la fine: quindi lasciamo pure perdere questo “sviluppo evolutivo” (Entwicklung)» (29[53], KSA, 650 [OFN, III/III/II, 251]. Ciò esclude che il rango della storia dipenda dalla finale rivelazione del suo senso. Ma esclude anche, più radicalmente, che di storia si possa semplicemente parlare se, quanto meno, parlare di storia vuol dire anche parlare di senso della storia e dunque, in ultima analisi, di una filosofia della storia. Sembra infatti radicarsi qui quel rifiuto della Weltgeschichte o, più esplicitamente, di ogni filosofia della storia, alla quale Jacob Burckhardt aveva ispirato le sue celebri lezioni Sullo studio della Storia17, e dalle quali Nietzsche fu fortemente influenzato. Ma, al di là della Weltgeschichte, resta, nella prospettiva di Burckhardt, soltanto la pratica di una dedizione nei confronti del passato, di un amore per il passato in quanto passato che, invece, Nietzsche rifiuta espressamente come pratica erudita, secondo la celebre affermazione del Vorwort della II Inattuale: «Certo, noi abbiamo bisogno di storia, ma ne abbiamo bisogno in modo diverso da come ne ha bisogno l’ozioso raffinato nel giardino del sapere». Quel proposito di voler servire la storia «solo in quanto la storia serva la vita» (UBHL, KSA, 1, 245 [OFN, III/I, 259]), se

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E. von Hartmann, cit., p. 343. Dall’Introduzione dell’11 novembre 1868: «La filosofia della storia fino ad oggi: un centauro, in quanto la storia, vale a dire il coordinare, è non-filosofia e la filosofia, vale a dire il subordinare, è non-storia» (J. Burckhardt, Über das Studium der Geschichte, a cura di P. Ganz, München, Beck, 1982, p. 225 (Sullo studio della storia, a cura di M. Ghelardi, Torino, Einaudi, 1998, p. 3). Burckhardt elabora in quest’occasione un concetto di Schopenhauer, secondo il quale la storia non può rientrare nella filosofia in quanto le manca «il carattere fondamentale della scienza, la subordinazione delle conoscenze, al posto della quale può presentarne soltanto la coordinazione. Perciò non esiste un sistema della storia, come c’è invece di ogni altra scienza» (A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, Leipzig, Brockhaus, 1873, vol. II, p. 500 [Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di A. Vigliani, Milano, Mondadori, 1989, p. 1312]). 17

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apre un’insanabile e forse inconsapevole frattura con il maestro Burckhardt, avvia la riflessione nietzschiana sulla storia su un percorso senza uscite, alla fine del quale non resta che la constatazione nichilistica. Come ha ben visto Karl Löwith, contrapponendo il falso inattuale Nietzsche all’autenticamente inattuale Burckhardt, la risoluzione dell’ostilità tra storia e vita in favore di quest’ultima, in quanto indica nella vita, e cioè nel momento presente e ultimo, il metro su cui misurare l’utilità della storia, corrisponde alla secolarizzazione di un memento mori che ha «la sua ultima ragione storica nella religione cristiana, che di tutte le ore di una vita umana ritiene l’ultima la più importante»18. Nietzsche è pertanto costretto a muoversi ancora all’interno della concezione cristiana, fosse pure soltanto per constatare che quel senso che essa cerca nella storia, in realtà, non esiste. Per l’appunto, la constatazione nichilistica. Come si legge in un frammento del novembre 1887-marzo 1888 – rielaborato nell’estate 1888 – il nichilismo «come stato psicologico» subentra «quando abbiamo cercato in tutto l’accadere un “senso” che in esso non c’è, sicché alla fine a chi cerca viene a mancare il coraggio» (11[99], KSA, 13, 46 [OFN, VIII/II, 256]). È solo un fatto conseguente che la riflessione di Nietzsche si eserciti, da questo punto in avanti, contemporaneamente sul cristianesimo e sul nichilismo, e che i materiali del Nachlaß da cui verrà tratto il testo dell’Anticristo riflettano nel contempo sul fenomeno del nichilismo. Ciò dà luogo al tentativo – uno dei motivi centrali dell’opera pubblicata – di escludere l’individuo storico Gesù dall’interpretazione storico-teologica (e teleologica) a cui la tradizione cristiana l’ha consegnato. Il che significa, innanzitutto, rimuovere il tipo Gesù da quel nesso di passato, presente e futuro – la connessione, cioè, tra storia e profezia – in cui la sua figura teologica, il Cristo19, diviene insieme compendio e compimento della storia. In un altro frammento del novembre 1887-marzo 1888, sotto il titolo Sul tipo Gesù, Nietzsche scrive:

18 K. Löwith, Jacob Burckhardt. Der Mensch inmitten der Geschichte Geschichte, in Sämtliche Schriften, vol. 7, Stuttgart, Metzler, 1984, pp. 69-70 (Jacob Burckhardt. L’uomo nel mezzo della storia, tr. it. di L. Bazzicalupo, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 28-29). 19 Si vedano in proposito le considerazioni di Massimo Cacciari: «Nietzsche oppone Gesù e cristianesimo, poiché oppone fondamentalmente Gesù al Cristo. Cristo è per lui figura puramente teologica, artificio ecclesiastico-intellettuale che nasconde il senso della parola di Gesù, compromettendola irrimediabilmente con l’eredità ebraica, da un lato, e con la filosofia ellenistica, dall’altro» (M. Cacciari, Il Gesù di Nietzsche, in Nietzsche. Illuminismo. Modernità, a cura di C. Gentili, V. Gerhardt, A. Venturelli, Firenze, Olschki, 2003, pp. 114-15).

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FRIEDRICH NIETZSCHE:

APOCALISSE E SENSO DELLA STORIA

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– Che cosa resta da detrarre? tutta la forma di motivazione (Motivirung) della sapienza di Cristo, come pure degli atti della sua vita … questi ultimi verrebbero compiuti in obbedienza alle predizioni (Verheißungen); egli adempie (erfüllt), ha uno schema di tutto ciò che il Messia deve fare e patire, ha un programma … D’altra parte ogni “giacché”, in bocca a Gesù, è antievangelico … Utilità, astuzia, ricompensa, castigo … (11[369], KSA, 13, 165 [OFN, VIII/II, 368])

Che si possa giudicare la storia, che si possano distribuire ricompense e castighi, è possibile solo se se ne considerano gli atti secondo la relazione causa-effetto e a partire dall’effetto ultimo: tutto ciò «è ebraico, vedi Apocalisse» (11[369], KSA, 13, 165 [OFN, VIII/II, 369])20. Questa esclusione del tipo Gesù da ogni problematica impostata sul senso della storia assume, nell’Anticristo, la forma della contestazione puntuale dell’interpretazione fornita da Ernest Renan nella sua Vie de Jésus. La critica di Nietzsche si appunta contro due termini riferiti da Renan alla figura di Gesù: quelli di genio e di eroe, «i due concetti (Begriffe) meno appropriati che possano darsi al riguardo»; «se c’è qualcosa di non evangelico – prosegue Nietzsche –, è proprio il concetto di eroe» (AC, KSA, 6, 199 [OFN, VI/III, 201]). Ad essere sinceri, il modo in cui Renan ricorre ai due termini non fa pensare a dei concetti: egli li utilizza secondo l’uso e il significato correnti, senza mai soffermarsi su una definizione precisa. Tra le varie occorrenze del termine héros, tuttavia, ve n’è una che può aver indubbiamente richiamato in modo particolare l’attenzione di Nietzsche. Nel riferire le fasi finali del processo a Gesù, Renan sottolinea come gli Ebrei reclamassero di fronte a Ponzio Pilato l’esecuzione della condanna in nome della Legge, violata, a loro dire, da Gesù che si dichiarava “Figlio di Dio”. «La loi ètait détestable – conclude Renan –; mais c’était la loi de la férocité antique, et le héros qui s’offrait pour l’abroger devait avant tout la subir»21. Ignorando la precisione con la quale Renan sottolinea, in tutto il libro, il significato eversivo della predicazione di Gesù nei confronti dell’ortodossia ebraica, Nietzsche legge probabilmente in questo passo una volontà di saldare l’antico e il nuovo attraverso il sacrificio stesso di Gesù. La passività (subir) con cui egli si as20

L’Anticristo appare fortemente caratterizzato dalla contrapposizione tra ebraico e cristiano. I capp. 24 e 25 ricostruiscono i momenti salienti della storia del popolo di Israele soffermandosi in particolare sulla nascita della casta sacerdotale e sulla creazione della Legge. Nietzsche utilizzò, a questo fine, il libro di J. Wellhausen, Prolegomena zur Geschichte Israels, di cui lesse l’edizione del 1883 (oggi: Berlin-New York, de Gruyter, 2001). 21 E. Renan, Vie de Jésus (1863), Paris, Aubry, 1945, p. 336. Sulla lettura nietzschiana di Renan si veda, tra l’altro, S. Barbera-G. Campioni, Wissenschaft und Philosophie der Macht bei Nietzsche und Renan, «Nietzsche-Studien», vol. 13, 1984, pp. 279-315.

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CARLO GENTILI

soggetta alla Legge, sia pure al solo fine di abrogarla, è interpretata come il punto di mediazione grazie al quale la ferocia antica può rovesciarsi nella radicale novità dell’annuncio. In una parola, Nietzsche legge nel sacrificio di Gesù l’indicazione di un tempo, stabilito con precisione, che divide la storia nel momento stesso in cui ne garantisce la continuità e, dunque, il senso. La contestazione del carattere eroico attribuito a Gesù assume quindi il significato di una contestazione di questo tempo storico. I successivi richiami a Dostoevskij e il riconoscimento di Gesù come idiota devono essere collocati in questo contesto22. Gesù è idiota in quanto vive esclusivamente nella dimensione dell’attimo presente, che è eterno nella misura in cui nega il tempo e non si dà pensiero di senso alcuno; questo significa la lieta novella: «La vita vera, la vita eterna è trovata, – non viene promessa, esiste, è in voi: come vita nell’amore, nell’amore senza detrazioni o esclusioni, senza distanza» (AC, KSA, 6, 200 [OFN, VI/III, 202]). Regno dei cieli, regno di Dio sono espressioni che proclamano la conquista per l’eterno del tempo presente. Che il crederlo sia il frutto di una «mescolanza di sublimità, malattia e infantilismo» (AC, KSA, 6, 202 [OFN, VI/III, 204]), che il regno dei cieli appartenga quindi «ai fanciulli» e che ciò rappresenti nient’altro che un caso di «pubertà ritardata e non sviluppatasi nell’organismo» (AC, KSA, 6, 203 [OFN, VI/III, 205]) – tutto questo è, alla fine, meno decisivo del risultato che per questa via può essere conseguito: il regno dei cieli è nel presente e ogni presente è nel regno dei cieli. La parola decisiva nei confronti di Dostoevskij e del santo-idiota Gesù Nietzsche non la scrive nell’Anticristo, ma in un frammento della primavera 1888 (intitolato Gesù. Dostoevskij) in cui afferma che Dostoevskij «ha indovinato (errhaten) Cristo»; e ciò perché egli fu quello «psicologo» vissuto in un mondo «in cui un Cristo potrebbe nascere in ogni momento [corsivo nostro] (jeden Augenblick)» (15[9], KSA, 13, 409 [OFN, VIII/III, 199]. Con ciò tutte le promesse e gli adempimenti, il passato e la profezia, la storia e la dimensione apocalittica che le dona senso vengono messe definitivamente fuori gioco.

22 Anche Dostoevskij lesse il libro di Renan, e questa lettura fu tra le fonti di ispirazione de L’idiota, terminato di scrivere nel 1869. Per quanto riguarda l’influenza di Dostoevskij su Nietzsche si vedano: C.A. Miller, Nietzsche’s Discovery of Dostoevsky, «Nietzsche-Studien», vol. 2, 1973, pp. 202-57; Id. The Nihilist as Tempter-Redeemer. Dostoevsky’s “Man-God” i Nietzsche’s Notebooks, «Nietzsche-Studien», vol. 4, 1975, pp. 165-226; Id. Nietzsches “Soteriopsychologie” im Spiegel von Dostoevskijs Auseinandersetzung mit dem europäischen Nihilismus, «Nietzsche-Studien», vol. 7, 1978, pp. 13-149; G. Pacini, Nietzsche lettore dei grandi russi, Roma, Armando, 2001.

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La contro-apocalisse leopardiana di Marco Moneta

1. Leopardi apocalittico? Appare problematico, a prima vista, associare il suo nome alla tradizione di pensiero apocalittica quale si è sviluppata attraverso i secoli. Difficilmente si potrebbe ritrovare nella sua opera1 quella dialettica tra un adesso di infelicità, di sofferenza e di oppressione e un non ancora di beatitudine, di redenzione e di salvezza che costituisce il tratto caratteristico di tale tradizione. Non sostiene forse Leopardi per bocca di Tristano, nel dialogo conclusivo delle Operette morali, che «[il] genere umano […] non crederà mai né di non saper nulla, né di non esser nulla, né di non aver nulla a sperare» (precisando «dopo la morte» nelle contemporanee note dello Zibaldone)2? Per tacere dell’assenza nella sua opera – per altro densa di riferimenti a motivi e linguaggio biblici3 – dell’Apocalisse di Giovanni, dell’apocalittica biblica e del simbolismo apocalittico, sia pure opportunamente risemantizzato4. Assenza oltretutto paradossale, se si considera che nella letteratura apocalittica5 l’attesa dell’evento salvifico scaturisce da un giudizio 1 Edizione da cui cito: G.L., Opere, a cura di R. Damiani e M. A. Rigoni, Milano, Mondadori, 1987-1988; vol. I, Poesie; vol. II, Prose; voll. III, IV, V, Zibaldone (che riproduce, con lievi modifiche, il testo critico di G. Pacella). 2 Dialogo di Tristano e di un amico, in Prose, p. 213; Zib. 4525, 16 settembre 1832. 3 In particolare, oltre a Genesi, ai Libri c.d. Sapienziali: Giobbe, Qohelet, Proverbi e alcuni Salmi. Su Leopardi e la Bibbia si vedano P. Rota, Leopardi e la Bibbia. Sulla soglia d’«alti Eldoradi», Bologna, Il Mulino, 1998 ed E. Niccoli - B. Salvarani, In difesa di “Giobbe e Salomon”. Leopardi e la Bibbia, Reggio Emilia, Diabasis, 1998. 4 Vedi: Lorenzo Geri, La prospettiva apocalittica nella polemica di Giacomo Leopardi contro lo spiritualismo, in K. Cappellini - L. Geri, Il mito nel testo. Gli antichi e la Bibbia, Roma, Bulzoni, 2007, p. 143. 5 La letteratura sull’apocalittica biblica è sterminata. Si vedano K. Koch, Difficoltà dell’apocalittica [1970], Brescia, Paideia, 1977; P. Sacchi, L’apocalittica giudaica e la sua storia, Brescia, Paideia, 1990 (con ampia bibliografia); B. Corsani, L’Apocalisse e l’apocalittica del Nuovo Testamento, Bologna, Centro Editoriale Dehoniano, 1997. Sul piano della storia delle idee si possono vedere N. Cohn, I fanatici dell’Apocalisse [1957], Torino, Edizioni di Comunità, 2000; E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino, Einaudi, 1977; E. Weber, Le apocalissi. Profezie, culti e millenarismi attraverso i secoli [1999], Milano, Garzanti, 2000; M. Cometa, Visioni della fine. Apocalissi, catastrofi, estinzioni, Palermo, :duepunti edizioni, 2004; Apocalisse e postumano, a cura di P. Barcellona, F. Ciaramelli, R. Fai, Bari, Dedalo, 2007.

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circa il presente dell’uomo6 altrettanto pessimistico di quello leopardiano. Ad accrescere le perplessità contribuisce l’osservazione che, per Leopardi, l’eidos della perfezione si colloca in una remota età dell’oro, da cui il genere umano è irreparabilmente decaduto, piuttosto che in un futuro di redenzione, in una nuova era, in una sorta di nuovo inizio o di seconda creazione. Insomma, la sua distanza dalla tensione escatologica dell’apocalittica biblica e in particolare – vista la sua genealogia intellettuale – da quella cristiana è innegabile. Se, infatti, fino a tutto il 1821 aveva confidato nel cristianesimo quale principale rimedio contro la degradazione del mondo a «deserto» causata dalla ragione ed esaltato il valore felicitante e salvifico della rivelazione cristiana di «un’altra vita»7, dopo tale data avviene nel suo pensiero una sensibile correzione di rotta, che lo allontana progressivamente dalla credenza in «un Dio infallibile, e rivelatore di arcani»8. Le promesse cristiane di «una felicità grandissima e somma ed intera» nel mondo a venire, gli paiono a quel punto «ben poco att[e] a consolare in questa vita l’infelice e lo sfortunato, a placare e sospendere i suoi desiderii, a compensare quaggiù le sue privazioni», perché prospettano una felicità di natura inconcepibile per l’uomo, estranea a quella ch’egli desidera e che può desiderare: Promettere all’uomo, promettere all’infelice una felicità celeste, benchè intera e infinita, e superiore senza paragone alla terrena, e a’ piccoli beni ch’egli desidera, si è come a un che muor di fame e non può ottenere un tozzo di pane, preparargli un letto morbidissimo, o promettergli degli squisitissimi e beatissimi odori9.

Il discorso escatologico sembra, quindi, chiuso, almeno a partire dal 182310. Altrettanto problematico appare ascrivere il pensiero di Leopardi a un registro apocalittico inteso, secondo la declinazione semantica moderna, come pensiero catastrofico, della fine, dell’orrore… Catastrofi cosmiche, estinzioni, orrori sono presenti, lo vedremo, nella sua opera. Non è presente, 6

Il profeta Daniele lo definisce «abominio della desolazione» (Dn, 9, 27); Leopardi «serraglio di disperati, e forse anche un deserto» (G.L., Frammento sul suicidio, in Id. Prose, p. 275). 7 Zib. 403-420, 9-15 dicembre 1820 e Zib. 423-433, 18 dicembre 1820. 8 Zib. 430, ivi. 9 Zib. 3497-3501, 23 settembre 1823. Assai efficaci, al contrario, gli sembrano le minacce cristiane circa la vita futura (l’inferno), che gli uomini possono facilmente comprendere perché basate sulla «pena del senso». 10 Sulle promesse cristiane («frivoles espérances d’une prétendue félicité future et inconnue») vedi anche la lettera a De Sinner del 24 maggio 1832, in G. L., Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, 2 voll., Torino, Bollati-Boringhieri, 1998, p. 1913.

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invece, un’ideologia della catastrofe. Leopardi non va confuso con un «catastrofista», uno che speri nella catastrofe, che nello sconvolgimento radicale dell’ordine veda l’ultima possibilità di senso di una realtà indecifrabile e intollerabile. Scatti purificatori, fanatismi distruttori, spasmi d’attesa, angosce da fine del mondo, scenari raccapriccianti, parossismi iperbolici, non fanno parte né della sua scrittura (per altro molto sorvegliata), né del suo bagaglio intellettuale, estetico e morale. Tutte queste considerazioni sono indubbiamente vere e legittime. Nondimeno, forse memore del noto asserto desanctisiano secondo cui «Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone»11, sono convinto – ed è quanto mi propongo di mostrare in questa nota – che avvicinare il suo pensiero a una tradizione, quale l’apocalittica, che per secoli ha fornito la chiave di accesso alla storia umana, non sia del tutto improprio. Si avverte, nella sua scrittura, specie in quella poetica, un’esplorazione insistente delle cose ultime, una visione estrema delle vicende umane, un trattenersi intrepido sui destini dell’uomo che, pur non aprendosi ad alcuna prospettiva trascendente e senza contemplare alcuna redenzione, attinge nondimeno – nei temi, nei toni, nelle immagini, nelle atmosfere – la sostanza del genere apocalittico: il suo essere pensiero estremo, disvelamento totale e definitivo, forma rivelante, visione, nel senso ultimo del termine. 2. Il vocabolo greco apokàlypsis è, si sa, il sostantivo derivato dal verbo apocalypto, che rende il gesto del “togliere il velo”, del “rivelare”, del “portare alla luce”. L’apocalisse, nella tradizione giudaica e cristiana, esprime l’attesa di un cambiamento repentino e totale, di un evento finale catastrofico-salvifico che, ponendo termine alla realtà esistenziale presente, percepita come tragica, apra una nuova, beata ed eterna prospettiva di vita («un nuovo cielo e una nuova terra» è detto nell’Apocalisse di Giovanni). L’apocalisse è dunque una rivelazione, in genere attuata da un soggetto visionario cui è stato accordato di accedere a realtà abitualmente inaccessibili, dei disegni di Dio circa il futuro ultimo della storia dell’uomo e del mondo. Implicando una rottura radicale, cosmica, tra l’éra (eone) presente, segnata dall’incessante crescita del male e del peccato, e l’età (eone) futura, ove si manifesterà pienamente il «regno di Dio», la tendenza apocalittica si presenta come una concezione al tempo stesso pessimista e ottimista: pessimista verso il presente, degradato e da stravolgere; ottimista circa il futuro (dei salvati, ovviamente), visto come la reintegrazione di uno stato definitivo di perfezione, di felicità e di giustizia. 11

F. De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi e altri saggi leopardiani, Como-Pavia, Ibis, 1998, p.

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Se è così, se l’apocalittica è rivelazione del destino ultimo dell’uomo e del mondo, allora non si può non osservare come ciò informi anche la poetica di Leopardi, ne costituisca anzi il nocciolo, sia pure senza attribuire alla necessità della catastrofe cosmica alcuna prospettiva liberatoria o di speranza. Un forte determinismo, in ogni caso, accomuna le due visioni. Che altro significa la scoperta della «nullità d’ogni cosa e l’efficacia del vero»12 se non la rivelazione dell’essenza malvagia e inemendabile del destino ultimo dell’uomo? E benché, negando ogni apertura salvifica, la prospettiva leopardiana si ponga agli antipodi rispetto all’apocalittica giudaica e, soprattutto, alla cristiana (è con quest’ultima che Leopardi si confronta), ciò non toglie che, in qualche modo, ne riproduca in negativo, quasi ne fosse il calco, il pathos e la tensione; ad esempio, nel riconoscimento della centralità del problema del male; oppure nella permanenza di un residuo nostalgico d’infinito e d’immortalità, tanto da far dire, un po’ enfaticamente, «che i suoi versi grondino di cristianesimo»13. Un tratto apocalittico traspare, fatti i debiti distinguo, anche dalla forma della rivelazione. Come per la tradizione apocalittica l’uomo di Dio è un visionario, un soggetto che ha beneficiato di una specie di “assunzione” che gli ha dato accesso alla contemplazione di verità normalmente inaccessibili, così nello Zibaldone leggiamo che le «altissime verità», i «misteri più nascosti, gli abissi più cupi della natura, i rapporti più lontani e segreti» si colgono non col «fino ragionamento» o con la «minuta e squisita analisi»14, ma con l’«occhiata onnipotente» del [v]ero poeta lirico, vale a dire l’uomo infiammato del più pazzo fuoco, l’uomo la cui anima è in totale disordine, l’uomo posto in uno stato di vigor febbrile, e straordinario […] e quasi di ubriachezza15.

Ma cosa scopre l’«occhiata onnipotente» se non la nullità e la vanità del tutto, se non che, come è detto in Ad Angelo Mai, «a noi presso la culla / immoto siede, e su la tomba, il nulla»16? Allora, se non c’è alcuna prospettiva di salvezza, alcun disegno divino nella storia, alcuna discesa della Gerusalemme celeste; se la concezione apocalittica della storia come progressivo maturare dei tempi fino allo scontro finale tra le forze del bene e le forze del male, con la definitiva vittoria di quelle del bene, altro non sono che «antiche 12 Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte, in G. Leopardi, Prose, cit. p. 273. 13 S. Natoli - A. Prete, Dialogo su Leopardi. Natura, poesia, filosofia, Milano, Bruno Mondadori, 1998, p. 122 (il passo citato è di Salvatore Natoli). 14 Zib. 1849-56, 5-6 ottobre 1821. 15 Zib. 1856, ibidem. 16 Ad Angelo Mai, vv. 74-75, in G. Leopardi, Poesie, cit. p. 18.

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fole»; se il destino dell’uomo è il nulla («l’infinita vanità del tutto» di A se stesso); se tutto è nulla al mondo, «solido nulla», e tutto precipita nel nulla, come negare che ciò non abbia, a sua volta, risvolti e portata apocalittici? Di un’apocalisse, però, che rovescia quella giudaico-cristiana: un’apocalisse capovolta, di segno contrario, una contro-apocalisse. 3. Qual è, più esattamente, il contenuto della rivelazione leopardiana? In quali luoghi della sua opera la si può trovare? Chi ne è il soggetto portatore? Per rispondere a queste domande, bisogna soffermarsi su una nozione che, nel pensiero di Leopardi, mette capo a una vera e propria teoresi di rilevanza etica ed estetica, oltre che gnoseologica: la nozione di vero. Uno dei luoghi in cui è esposta più compiutamente è il Dialogo di Tristano e di un amico, del 1832. Nel dialogo Leopardi-Tristano pronuncia, prima di Nietzsche e di Freud, il seguente assioma antropologico: Gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e si adirano contro chi la pensa altrimenti. Perché in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più a proposito suo. Il genere umano, che ha creduto e crederà tanto scempiataggini, non crederà mai né di non saper nulla, né di non esser nulla, né di non aver nulla a sperare17.

Gli uomini non possono accettare il vero perché la ferita narcisistica sarebbe intollerabile. Essi, infatti, sono codardi, deboli, d’animo ignobile e angusto […] prontissimi e risolutissimi […] ad accomodarsi con qualunque condizione a qualunque sorte più iniqua e più barbara, e quando sieno privati d’ogni cosa desiderabile, vivere di credenze false, così gagliarde e ferme, come se fossero le più vere e fondate del mondo18.

Tale essendo «la vigliaccheria degli uomini», agli «uomini forti» – a coloro che, come dirà Nietzsche, si distinguono per l’«intrepidezza del pensiero di fronte alla durezza e alle conseguenze pericolose»19 – non resta 17

Dialogo di Tristano…, in G. Leopardi, Prose, cit. p. 213. Identico discorso nei Pensieri (LIV): «Abbiasi per assioma generale che, salvo per tempo corto, l’uomo, non ostante qualunque certezza ed evidenza delle cose contrarie, non lascia mai […] di creder vere quelle cose, la credenza delle quali gli è necessaria alla tranquillità dell’animo, e, per dir così, a poter vivere»; e nei Paralipomeni (IV, 14-17). 18 Dialogo di Tristano…, ivi. 19 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, in F. Nietzsche, Intorno a Leopardi, a cura di C. Galimberti, Genova, il melangolo, 1992, p. 109.

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altro se non «la fiera compiacenza di veder strappato ogni manto», talvolta irridendo, tal altra compiangendo, sempre, in ogni caso, senza boria, «alla coperta e misteriosa crudeltà del destino umano»20. La vanità della vita, la nullità d’ogni cosa, l’onnipervasività del male e, di conseguenza, l’essenza malvagia del destino, ecco il vero rivelato da Tristano e dalle varie figure apocrife del vaticinio leopardiano, quali il Gallo silvestre, Stratone da Lampsaco, Giove, il Coro dei morti e così via. 4. È possibile leggere La storia del genere umano21, il testo di esordio delle Operette morali, come una genealogia della rivelazione del vero. Collochiamoci, ad esempio, nel punto in cui Giove, nauseato dalle petulanti e presuntuose richieste degli uomini affinché sia inviato sulla terra il «genio grandissimo» della Verità, si risolve non solo ad inviarlo «per alquanto di tempo», ma a dargli anche «eterno domicilio» tra loro. È un momento cruciale per la storia del genere umano, il momento, diremmo oggi, del disincanto del mondo. La decisione di Giove suscita la gelosia degli altri Dei che la giudicano un favore eccessivo fatto agli uomini. Ma egli, che vede più lontano, fa loro osservare esser vero piuttosto il contrario, perché la Verità laddove agl’immortali ella dimostrava la loro beatitudine, discoprirebbe agli uomini interamente e proporrebbe ai medesimi del continuo dinanzi agli occhi la loro infelicità22.

Di modo che agli uomini niuna cosa apparirà maggiormente vera che la falsità di tutti i beni mortali; e niuna solida, se non la vanità di ogni cosa fuorché dei propri dolori23.

Insomma, fa notare Giove, la discesa della Verità tra gli uomini, l’apparir del vero, non farebbe altro che restituire loro, come uno specchio, l’immagine della condizione e destino orrendi che li contraddistingue, inducendo effetti devastanti sulla loro vita: ogni speranza cadrebbe, l’insoddisfazione si acuirebbe insopportabilmente, «ogni opera industriosa» verrebbe aborrita, ogni valore e ogni «naturale virtù immaginativa» destituiti. L’egoismo trionferebbe ovunque e l’umanità andrebbe in rovina. Demolite così le perplessità degli altri Dei, Giove invia effettivamente la Verità sulla terra. 20 21 22 23

Dialogo di Tristano…, in G. Leopardi, Prose, cit. p. 214 Storia del genere umano, in G. Leopardi, Prose, cit. pp. 5-19. Ibidem, p. 14 Ivi.

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Tutti i «luttuosi effetti» da lui profetizzati si verificano puntualmente, e così gli uomini si ritrovano a vivere «in quella suprema miseria che eglino sostengono insino ad ora [cioè «insino» al tempo di Leopardi], e sempre sosterranno». Ora e sempre, si noti il vaticinio. Il destino degli uomini rivelato da un genio, da un fantasma, da un inviato dagli dei. Il seguito dell’operetta è noto: impietositosi, Giove, per bilanciare i tragici effetti del disvelamento del vero, invia tra gli uomini il dio Amore, capace di risuscitare l’«infinita speranza e le belle e care immaginazioni degli anni teneri»24. La catastrofe annunciata, pertanto, non arriva. È evitata, in questo caso, grazie a un dio. Ma solo parzialmente, giacché il «rinverdimento» suscitato da Amore (una sorta di salvezza intramondana) raggiunge solo i pochissimi nel cui animo «egli si elegge ad abitare», le persone generose e magnanime. Il destino della maggior parte degli uomini, incapaci di uscire dalla propria grettezza e dal proprio egoismo, rimane invece quello, profetizzato da Giove, di una «suprema miseria». La catastrofe, nel senso dell’estinzione del genere umano, avviene invece realmente nel Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo: «gli uomini sono tutti morti», annuncia il Folletto all’incredulo Gnomo. Interessante è anche conoscere in che modo gli uomini siano «venuti a mancare»: [p]arte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infradiciando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male25.

Ma è un annuncio che, sottolineando l’assoluta irrilevanza dell’estinzione dell’uomo rispetto al mondo che continua indisturbato il suo corso, ha un registro più ironico che apocalittico. Nel dialogo Il Copernico, al contrario, la beffarda risposta che il sole, deciso a non più sorgere (e con ciò a non più riscaldare la terra), dà all’ora prima, preoccupata della ricaduta che ciò potrà avere sugli uomini, Che importa cotesto a me? che, sono io la balia del genere umano […]26?

non impedisce a Leopardi di rappresentare tale ricaduta con sembianze apocalittiche, di un’apocalittica glaciale per così dire: 24 25 26

Ibidem, p. 19. Dialogo di un folletto e di uno gnomo, in G. Leopardi, Prose, cit. p. 34. Il Copernico. Dialogo, in G. Leopardi, Prose, cit. p. 183.

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E così, in capo a pochi anni, si perderà il seme di quei poveri animali: che quando saranno andati un pezzo qua e là per la Terra, a tastone, cercando di che vivere e di che riscaldarsi; finalmente, consumata ogni cosa che si possa ingoiare, e spenta l’ultima scintilla di fuoco, se ne morranno tutti al buio, ghiacciati come pezzi di cristallo di roccia27.

Ma dove risuonano con massima forza echi apocalittici28 è nel testo originariamente posto a chiusura delle Operette morali29, il Cantico del gallo silvestre. Se la Storia del genere umano si può leggere come la “riscrittura” del Genesi, il Cantico può essere letto come la “riscrittura” dell’Apocalisse. In ogni caso, l’operetta testimonia la sensibilità di Leopardi per l’esplorazione delle cose ultime (confermata l’anno seguente dal Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco). Il soggetto rivelante, il «gallo gigante» della tradizione rabbinica sospeso tra due mondi (il cielo e la terra) e tra due tempi (l’adesso e il non ancora), annuncia ai «mortali», con un canto (attraverso la musica, dunque, non discorsivamente), il sorgere del giorno. L’incipit del cantico, incentrato sul qui e ora, suona come un cupo richiamo al carattere ciclico, raggelante e coercitivo del risveglio quotidiano (il ri-apparir del vero): Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in su la terra […] Sorgete; ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero30.

Introducendo la dimensione del futuro (verrà tempo; non… ancora), l’esortazione del gallo si propone agli uomini come rivelatrice del loro destino: Mortali, destatevi. Non siete ancora liberi dalla vita. Verrà tempo che niuna forza di fuori, niuno intrinseco movimento, vi riscoterà dalla quiete del sonno; ma in quella sempre e insaziabilmente riposerete. Per ora non vi è concessa la morte: solo di tratto in tratto vi è consentita per qualche spazio di tempo una somiglianza di quella [c.vi nostri]31.

La morte, dunque, per gli uomini è la promessa di un sonno senza risveglio, di una condizione «lieta e sicura» in cui riposare «sempre e insa27

Ivi. Vedi anche: G. Ceronetti, Leopardi e il gallo cosmico, Genova, Marietti, 1991; C. Galimberti, in G. Leopardi, Operette morali, Napoli, Guida, 1998, p. 387; L. Sasso, Nomi di cenere, Pisa, Edizioni ETS, 2003, pp. 46-50. 29 La raccolta, nelle intenzioni originarie di Leopardi, si sarebbe dovuta aprire con la Storia del genere umano e concludere con il Cantico del gallo silvestre. L’analogia col percorso biblico è chiara: la Storia del genere umano e il libro del Genesi come apertura, il Cantico del gallo silvestre e il libro dell’Apocalisse come chiusura. 30 Cantico del gallo silvestre, in G. Leopardi, Prose, cit. pp. 161-2. 31 Ibidem, p. 163. 28

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ziabilmente». Ma, per l’esistenza universale, è la legge fondamentale (l’ontologia): Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio e unico obietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono. […] Ogni parte dell’universo si affretta infaticabilmente alla morte, con sollecitudine e celerità mirabile32.

E, per quanto l’universo, a differenza degli uomini, appaia «immune dallo scadere e languire», nondimeno anch’esso «continuamente invecchia». Di qui l’apocalittica (Leopardi in nota la definisce «poetica») visione, a chiusura dell’operetta, dell’estinzione dell’esistenza universale: Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi33.

Anche il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco34 – che insieme al Cantico forma, a giudizio di Cesare Galimberti, un dittico sui novissimi35 – tocca l’argomento della fine del mondo e dell’esistenza universale. «Della fine del mondo» è infatti il titolo della terza e conclusiva parte del testo. Ma, diversamente dal Cantico, tale evento si inquadra in una prospettiva materialistica, che ne muta l’ontologia (pur mantenendone l’assiologia)36: al rientro nel nulla (il dileguarsi dell’universo) il Frammento sostituisce la visione, altrettanto apocalittica, di un eterno divenire di distruzione e di rinascita di una materia imperitura, da cui emerge la previsione37 di una sicura, sia pur lontana, 32

Ivi. Ibidem, pp. 164-5. 34 Il Frammento, composto nell’autunno del 1825, venne pubblicato postumo da Ranieri nel 1845 e collocato, secondo l’indicazione di Leopardi, in posizione immediatamente successiva al Cantico. 35 C. Galimberti, commento alle Operette morali, in G. Leopardi, Operette morali, a cura di C. Galimberti, cit., p. 403 e p. 413, n. 30. 36 C. Luporini, Assiologia e ontologia nel nichilismo di Leopardi, in Id. Decifrare Leopardi, Napoli, Macchiaroli, 1998, pp. 227-34. 37 Previsione basata sull’ipotesi della scienza newtoniana sei–settecentesca di un progressivo appiattimento dei pianeti in seguito al movimento di rotazione intorno al proprio asse. Oggi si ritiene che la causa dell’estinzione del nostro sistema dipenda piuttosto dal ciclo di vita del 33

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distruzione per ragione naturale dell’uomo e dell’universo che lo ospita: Venuti meno i pianeti, la terra, il sole e le stelle, ma non la materia loro, si formeranno di queste nuove creature, distinte in nuovi generi e nuove specie, e nasceranno per le forze eterne della materia nuovi ordini delle cose ed un nuovo mondo [c.vi nostri]38.

Apocalittico, dunque, anche il Frammento: per il tema della distruzione (fine, catastrofe) e rinnovamento (rinascita, inizio) periodici dell’universo, ma anche per il rimando, attraverso l’iterazione dell’aggettivo nuovo, al «nuovo cielo» e alla «nuova terra» dell’Apocalisse di Giovanni39. 5. Leopardi scrive nel periodo della «morte di Dio». La sua contro-apocalisse, respingendo ogni escatologia, negando qualunque senso al di là della catastrofe – la vita è «notte senza stelle a mezzo il verno»40 – si presenta come il capovolgimento dell’ottimismo teologico sotteso al pensiero apocalittico, per il quale invece la notte di questo mondo non rappresenta la parola definitiva, ma rinvia a un piano provvidenziale divino che autorizza a pensare un senso al di là della catastrofe. Fintanto che tale ottimismo si presenta come puro oggetto di fede, di credenza, di speranza – benché non scevro di tensione drammatica – Leopardi, orfano, non dimentichiamolo, delle mancate promesse del cristianesimo41, si limita pietosamente e non senza un fondo di nostalgia a stigmatizzarne il carattere illusorio, chimerico, fallace. Del resto, non gli sfugge la centralità, in tale pensiero, della questione del male, che è anche il suo assillante problema42. Ben diversamente, invece, si profila il suo atteggiamento nei confronti della convinzione dei contemporanei di essere sole, che ha un’età di 5 miliardi di anni ed è a circa metà del suo ciclo. Sulla lettura «catastrofica» della storia della natura che si sviluppa nella cultura europea sul finire del Seicento, vedi M. Cometa, Visioni della fine, (in part. il cap. Estinzioni), cit. pp. 77-107. 38 Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, in G. Leopardi, Prose, cit. p. 171. 39 Un chiaro rimando all’Apocalisse giovannea, per suffragare il carattere palingenetico dell’amore, è anche in Aspasia (“Apparve / Novo ciel, nova terra, e quasi un raggio / Divino al pensier mio”, vv. 26-28). 40 Aspasia (v. 108), in G. Leopardi, Poesie, cit. p. 106. 41 «Iddio, o per sé, o ne’ suoi Angeli, non isdegnava ne’ principii del mondo manifestarsi agli uomini, e di conversare in questa terra colla nostra specie […] Ma cresciute le colpe e l’infelicità degli uomini, tacque la voce viva di Dio, e il suo sembiante si nascose agli occhi nostri, e la terra cessò di sentire i suoi piedi immortali, e la sua conversazione con gli uomini fu troncata». (Abbozzo dell’Inno ai Patriarchi, in G. Leopardi, Poesie, cit. p. 678). 42 Sulla centralità del problema del male nell’apocalittica vedi P. Sacchi, cit. pp. 20-1 (dove si rinvia a D. S. Russell, The Method and Message of Jewish Apocalyptic, Philadelphia, Westminster Press, 1964) e pp. 79-98.

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già in una nuova era («Aureo secolo ormai volgono, o Gino, / i fusi delle Parche»43), di stare cioè, in qualche modo, realizzando sulla terra le condizioni della vita redenta («la matura speme […] onde visibil pegno / già concedon gli Dei»44). La «morte di Dio», è vero, ha lasciato orfani. Ma ancor più, verrebbe da dire, eredi. Sono coloro, secondo Leopardi, che, in veste laicosecolare e banalmente ottimistica, rinnovano l’idea che la storia umana sia un percorso di progresso verso il meglio («le magnifiche sorti e progressive») e di salvezza intramondana. Così, lo spazio lasciato vuoto dalla «morte di Dio» viene colmato da una nuova soteriologia, l’ideologia del progresso, per la quale il presente non solo è migliore del passato, ma anche foriero di un futuro migliore ancora, di cui si rendono garanti la tecnica o l’utopia politicosociale. Nei confronti di quest’ideologia si esercita, impietoso e feroce – nella Palinodia, nei Paralipomeni e ne La ginestra – il sarcasmo dell’ultimo Leopardi. Di un Leopardi, però, desolato cantore del trionfo di un «Regno di Dio» capovolto rispetto a quello delle apocalissi bibliche: il regno di Arimane, il dio del male e delle tenebre dello zoroastrismo, l’«arcana malvagità»45, il «brutto / Poter che, ascoso, a comun danno impera»46.

43 44 45 46

Palinodia al Marchese Gino Capponi (vv. 38-39), in G. Leopardi, Poesie, cit. p. 114. Ibidem (v. 238 e vv. 256-57), pp. 119-120. Abbozzo Ad Arimane, in G. Leopardi, Poesie, cit. p. 685. A se stesso (vv. 14-15), in G. Leopardi, Poesie, cit. p. 102.

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Michelstaedter: quale fine del mondo? di Marco Cerruti

Il tema che mi si propone mi induce a ritornare alla mia ormai lontana monografia su Michelstaedter, apparsa esattamente quarant’anni fa, alla fine del 19671. E dico subito le ragioni anche di qualche disagio. Il libro ebbe all’uscita varie recensioni su giornali e periodici, non solo specialistici, da «L’Espresso» a «La Fiera letteraria», ricevendo inoltre da più parti riconoscimenti di merito e di utilità; e infine ancora molto di recente gli è stata riconosciuta una parte di rilievo, nel quadro d’insieme della critica michelstaedteriana, per aver «gettato le basi in relazione all’autore per una nuova ermeneutica materialistica». Eppure si è trovato anche a incontrare non poche riserve, in particolare per l’essere dichiaratamente aperto – forse per la prima volta nel caso di Carlo e anche sulla base di testi sino allora inediti – appunto su prospettive di tipo marxiano-francofortese. Si tratta per altro, oggi, in sostanza per me, oltre, ma insieme, inevitabilmente, alla luce delle tante pagine che si sono scritte sinora sul tema, di ritornare alla questione di fondo: Michelstaedter nel suo pensiero ultimo – elaborato poco prima del suicidio intervenuto, ricordo, il 17 ottobre 1910, all’età di 23 anni – svolgeva una riflessione prevalentemente astratta, in conformità con la tesi di laurea scelta nell’ambito della filosofia antica, sul motivo della classica tradizione filosofica del contrapporsi di «persuasione» e «rettorica», ovvero spingendosi ad analizzare la «rettorica incarnata nella società» ed evidenziando le peculiarità e i limiti della «comunella dei malvagi» che di tale «rettorica incarnata» costituisce il corrispettivo storico, valutava anche criticamente, e in termini nettamente negativi, di fatto, la società a lui contemporanea? Società, vorrei precisare con le parole di un mio scritto recente, «sempre più segnata dai fenomeni di massificazione, omogeneizzazione dei singoli, impoverimento spirituale e fisico, disumanizzazione». 1

Cfr. M. Cerruti, Carlo Michelstaedter. Con testi e disegni inediti, Milano, Mursia, 1967 (riproposto con alcune varianti, presso il medesimo editore, nel 1987). Per una (relativamente) aggiornata bibliografia michelstaedteriana si rinvia a G. Taviani, Michelstaedter, Palermo, Palumbo, 2002 (pp. 195-203), e a S. Cumpeta – A. Michelis (a cura di), Eredità di Carlo Michelstaedter, Udine, Forum, 2002, pp. 257-279.

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MARCO CERRUTI

“A lui”, inoltre, contemporanea, o più in genere, come sembra ormai con crescente evidenza, contemporanea tout court? Il mondo in sostanza, come si legge nel titolo d’insieme di questo convegno2, della «modernità». Credo, certo con tutte le correzioni di tiro che s’impongono a un lavoro molto giovanile e alla luce dei tanti rilievi che si sono in seguito avanzati, ma anche tenendo conto di interventi piuttosto recenti, che la risposta sia da ricercarsi senza ombra di dubbio nella seconda direzione. Mi sembra, voglio dire, ormai fuori discussione che Carlo, con l’occhio attento, finemente attento alla realtà di fatto sperimentata (quella delle città di Gorizia e Firenze), ma soprattutto rielaborando i suggerimenti che potevano venirgli dalla letteratura più o meno “filosofica” degli ultimi decenni (emergenti, fra i molti, oltre a Hegel e Marx, Ibsen e Tolstòj), fosse venuto definendo una visione fondamentalmente negativa del mondo contemporaneo. Forse, vale la pena di aggiungere, per quanto riguarda La persuasione e la rettorica, con un eccesso di schematicità, prevalentemente da ricondursi alla condizione in certo modo precaria del testo, una tesi di laurea che esigeva su tempi brevissimi di venir conclusa e spedita all’Università di Firenze. Ma a questo proposito, vorrei precisare, converrebbe riflettere con la calma del caso, più di quanto non si sia in genere fatto, sul gran numero di cose importanti scritte da Michelstaedter fra l’agosto 1910 e il giorno della morte, cioè sull’arco assai breve di circa due mesi. Testi fra l’altro non sempre univoci: alcune delle lettere e delle poesie più significative; la seconda parte, Della rettorica, de La persuasione e la rettorica; molte pagine sparse. Qui il discorso può farsi, anzi si fa particolarmente delicato. Se la linea indicata è quella giusta, Michelstaedter ne La persuasione e la rettorica non solo opponeva a quest’ultima, la “rettorica”, la “persuasione”, ma postulava di fatto la necessità, per chi s’incammini sulla «via alla persuasione», di sottrarsi per quanto possibile al mondo della «rettorica incarnata nella società». E prospettava, in questo quadro, non certo la concreta fine del mondo della “rettorica”, considerata la complessità del medesimo nel suo articolarsi nell’esistenza di tutti, ma una sorta di utopia – di non-luogo e non-tempo possibili – di una sua auspicabile e auspicata estinzione3. In più offrendo, con La persuasione e la rettorica, in quanto libro benché non ancora pubblicato, a tale prospettiva un concreto contributo significativo, attesa anche l’assoluta e tormentata autenticità, fra i non pochi che si offersero in quel momento 2 Apocalisse. Modernità e fine del mondo. Bologna, Dipartimento di Italianistica, 23-24 novembre 2007. 3 Si veda, per più recenti prospettive sul tema, M. Cerruti, Notizie di utopia, Padova, Liviana Editrice, 1985.

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MICHELSTAEDTER:

QUALE FINE DEL MONDO?

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così arduo nella storia della cultura occidentale: basti pensare, se il riscontro è possibile, a The Waste Land, apparso nel 1922, del coetaneo T. S. Eliot. Ci si può chiedere, ancora: come spesso avviene questo pensiero utopico valeva a “consolare” chi l’andava elaborando? Non è ovviamente facile rispondere. Da un lato la stessa stesura della tesi di laurea, la cui ultima parte era dedicata, come si è detto, a sviluppare il tema «la rettorica nella vita», la complessa gestione dei rapporti familiari e più nell’insieme l’attenzione, che fu forse crescente negli ultimi giorni, a «l’infinita oscurità che beve l’anima», da un lato tutto questo, e altro ancora, valsero, si può pensare, a rendergli accettabile il sempre più difficile pèlerinage sulla «via alla persuasione», sostenibile il gioco fra le cose da farsi e da non farsi, da accettare o da escludersi. Da un altro, si può altresì ipotizzare che Carlo, in profondo vivendo, accanto all’utopia, anche – come si coglie dagli strati meno di superficie dei testi – l’esigenza radicale della fine della «rettorica incarnata nella società», cioè in sostanza la fine di un mondo, di quel mondo, non aprisse un discorso in qualche modo consolatorio sul proprio in sé, sull’“io” che questo pensava, ma intendesse chiudere in certo modo qualunque ulteriore riflessione al riguardo. Come del resto avrebbe fatto, immediatamente dopo, con la scelta del suicidio. Non privi di qualche luce possono apparire, sul tema, gli ultimi versi, per altro di per sé oscurissimi, di All’Isonzo, testo scritto nella notte del 22 settembre 1910: (...) E al mar l’annunzio porta della lotta che nebbia e vento nel ciel combattono, al mar l’annuncio porta del tumulto che in cor m’infuria, quando la nausea, quando il torpore, il dubbio, l’abbandono per la tua vista, Argia, più fervido l’ardir combatte e sogna il mare libero.

Quanto a un’effettiva incidenza – nell’ambito della realtà personale, dei singoli lettori, e sociale – dell’invito a contrastare il mondo della “rettorica” e a percorrere la «via alla persuasione», in cui si può riconoscere il nucleo per così dire costruttivo de La persuasione e la rettorica, un discorso in merito non può che risultare negativo. Affidata appunto, paradossalmente, a una tesi di laurea e resa di pubblica fruizione con la stampa, nel 1913, della medesima, tale incidenza sarebbe stata, in qualche raro caso, legata a quella che fu la vicenda di scarsa “fortuna” del libro: di cui è fra l’altro raro trovare menzione, se non in tempi molto recenti (ma ancora non sempre,

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MARCO CERRUTI

si veda l’assenza dello stesso nome di Michelstaedter nel manuale di Pozzi-Mattioda pubblicato da Utet Libreria nel 2002), nelle varie storie della letteratura italiana. Ci si potrebbe anche chiedere a questo proposito, e mi rendo ben conto della moderata significatività del rilievo, se una qualche incidenza non potrebbe avere la scuola, posto che non l’abbia già avuta in qualche luogo e tempo, in questa direzione; ma, è ancora da chiedersi, quanti insegnanti sono effettivamente a conoscenza – una conoscenza maturata e critica, intendo, non solo nozionistica – del discorso del goriziano? Così il suo “messaggio” rischia di restare affidato, secondo un’immagine tanto romanticamente suggestiva quanto innocua, a quella intensa pagina del Dialogo della salute, esso pure riferibile al 1910, ove si legge di colui che «guarda in faccia la morte e dà vita ai cadaveri che lo attorniano. E la sua fermezza è una via vertiginosa agli altri che sono nella corrente. E l’oscurità per lui si fende in una scia luminosa […]». E nondimeno… Quando quel mio libro uscì quarant’anni fa, come ho già ricordato, in prima edizione, suscitò un certo interesse nella stampa più attenta ai fatti di cultura. Si era fra l’altro in un periodo, quello ruotante intorno al 1968, di rinnovata reattività del mondo intellettuale e in particolare studentesco (nelle Università si produssero, com’è noto, non lievi “contestazioni”) e quel testo che si richiamava esplicitamente a filosofi come Adorno, Horkheimer, Marcuse – il cui One-Dimensional Man, sul tema del «grande rifiuto», era appena uscito in traduzione italiana –, finì per inserirsi abbastanza naturalmente in quel quadro di tensioni e di attese. Fu così che, tramite perlopiù l’editore, mi arrivarono anche riscontri e messaggi di qualche lettore sconosciuto. Ne ricordo uno in particolare, su disadorna cartolina postale, che dopo un breve apprezzamento al libro concludeva, o meglio mi chiedeva: «E tu: che fai?». Mi parve l’inconsapevole riscontro, in “spirito” sottilmente mounieriano, alla temperie di cultura, e non solo, entro cui era maturato, a Torino, il mio incontro con Michelstaedter.

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«Si trasformi in stella notturna / il nostro saper la figura». Per un’escatologia rilkiana di Raoul Melotto

Se volessimo studiare il tema apocalittico o il modello escatologico presente nell’opera rilkiana, potremmo di certo cominciare con un componimento scritto a Berlino verso la fine dell’Ottocento dal titolo Das Jüngste Gericht (Il Giudizio Universale). Il poema, 154 versi in tutto, porta in calce la seguente didascalia: Aus den Blättern eines Mönchs (Dagli appunti di un monaco). Si tratta di un testo caratteristico della prima produzione del poeta praghese, ancora debitore del clima letterario della fin de siècle. All’epoca Rilke è infatti impegnato, sotto la guida spirituale dell’esperta amica Lou Andreas-Salomé, a esplorare culturalmente le regioni più note all’eclettismo e al dilettantismo europei. Da un lato riconosceremo perciò in questi versi l’interesse per il repertorio iconografico di tradizione umanistica e rinascimentale (l’affresco in Cappella Sistina di Michelangelo, i maestri fiorentini dell’Annunciazione, le allegorie dei primi umanisti pisani); di cui è pervaso per altro, dalla prima all’ultima pagina, il quaderno degli appunti e delle osservazioni raccolte da Rilke a partire dal suo primo viaggio in Italia. Dall’altro si potrà osservare, invece, un nucleo esiguo ma ugualmente dettagliato di temi di ascendenza neoromantica, derivati dalla frequentazione dell’opera nietzscheana e riconducibili più generalmente alla familiarità del giovane poeta con la Lebensphilosophie di quegli anni. Quasi del tutto assenti, o elaborate piuttosto in un linguaggio speculativo e decadentista, paiono invece le istanze del misticismo religioso che Rilke manifesta nello stesso periodo, durante il viaggio in Russia, scrivendo le prime due parti del Libro d’ore. L’esperienza della povertà rurale e del canto popolare, di un’arte del vivere semplice e in sintonia con le asperità e le dimensioni sconfinate della steppa orientale, sembrano non trovare spazio alcuno nell’immaginazione accesa e turbata del monaco berlinese. Quasi tutta la prima parte del poema consiste effettivamente nella visione allucinata – espressa in prima persona per voce di un eremita raccolto in preghiera – di ciò che potrebbe realizzarsi alla fine dei tempi secondo

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la volontà di una giustizia sopraterrena. Dopo aver brevemente descritto la «selvaggia scena» («das wilde Bild», v. 17) del ritorno alla vita dei defunti con i tratti visivi propri al dipinto di un allegorista medievale (i morti appaiono in «consunte vesti», in «ossami fragili», con «denti nudi» e «orbite svuotate», vv. 9, 10, 38 e 40), il monaco torna a rivolgersi a Dio chiedendo soccorso per entrambi, uomo e Onnipotente, prima che si consumi la fine dei tempi: Oh, arresta tu il corso a tutti i giorni perché a questa fine non s’affrettino, – forse ti riesce ancora di sottrarti al gran silenzio che entrambi vedemmo. Forse ancora tra noi puoi uno eleggere che tolga senso e slancio e anima a quest’orrida ripetizione della vita, uno che in preda a grande collera e pur lieto, attraverso tutte le cose nuoti prodigando instancabile le forze, saggiando tutte le corde, incognito sommozzatore, e illeso scenda in tutte le morti1.

Il ritratto del Salvatore abbozzato in questi pochi versi corrisponde all’immagine di un eroe zarathustriano, capace di sottrarsi all’«orrida ripetizione» dell’esistenza, rivalutandone la dimensione terrestre con incontenibile gioia di vivere, con generoso consumo di sé e abbandono illimitato alle cose del mondo. Più che del Redentore dei Vangeli, apparso tra gli uomini per annunciare la venuta del Regno dei Cieli, Rilke sembra qui parlare di un prodigo esploratore dell’Hiersein, cui è affidato il compito di toccare tutte le corde della vita, compresa quella più insondabile e paurosa: la morte. Di tutt’altro genere è il sonetto dal titolo omonimo scritto otto anni dopo a Parigi. Inserito nella seconda parte delle Nuove poesie, esso rappresenta perfettamente lo stile più maturo del poeta tedesco, divenuto nel frattempo “allievo” e attento osservatore della scultura di Rodin e dei colori di Cézanne. Das Jüngste Gericht è infatti l’esempio di una lirica interamente calata 1 Tutte le poesie citate nel saggio sono riprese da Rainer Maria Rilke, Poesie, 2 voll., a cura di G. Baioni e A. Lavagetto, Torino, Einaudi-Gallimard, 1995. Per la versione italiana di Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge si è fatto riferimento a R. M. Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, a cura di F. Jesi, Milano, Garzanti, 1974. I testi in lingua originale sono riportati in appendice secondo l’edizione stabilita da M. Engel e U. Fülleborn nella Kommentierte Ausgabe (KA), 4 Bde, Frankfurt am Main e Leipzig, Insel, 1996.

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nella dimensione oggettiva/oggettuale del mondo. La vicenda allegorica dell’Apocalisse e i toni del racconto biblico vengono tradotti in una scena statica e sospesa nell’istante di una contemplazione. A essere osservato è presumibilmente un affresco, un dipinto, una vetrata: poco importa cosa esattamente stia ricordando e descrivendo Rilke nei quattordici versi del sonetto. Importa al contrario misurare la sapiente costruzione ritmica, prosodica e sintattica con cui il poeta isola questa nuova immagine del Giudizio Universale: Atterriti come giammai non furono, senz’ordine, bucherellati e sfatti, accovacciati nell’ocra spaccata del loro campo stanno, e non si staccano dal sudario cui sono affezionati. Ma ecco, angeli vengono a instillare gocce d’olio nelle secche giunture e a mettere a ciascuno nelle ascelle il bene ch’egli non profanò allora nello schiamazzo della sua esistenza; così là avrà un po’ di calore ancora onde non si raffreddi la mano del Signore lassù, quando da ambo i lati dolcemente li afferrerà per pesarne il valore.

Diviso in due articolati periodi (vv. 1-5 e 6-14), resi fluidi dal frequente uso di enjambement (ai versi 3, 4, 6, 7, 8, 9, 12, 13) e da un ardito gioco di allitterazioni (vedi tutta la prima quartina e i versi 11 e 12), il sonetto dà forma alla grottesca scena di una schiera di defunti recalcitranti di fronte all’appello degli angeli dell’Apocalisse. L’attaccamento al proprio sudario, la paura dell’ultimo giudizio sono motivi ovviamente allegorici, ripresi forse più dal contesto iconografico che da quello scritturale; tuttavia, già nei primi versi, essi vengono mitigati e tradotti nel registro oggettivo della cosa che sta di fronte al poeta. A prevalere, quindi, è l’allusione al medium di rappresentazione (il dipinto) piuttosto che il riferimento alla scenografia e agli elementi che la compongono (il camposanto, l’aspetto dei morti). Con uno slittamento di natura semiotica Rilke sembra osservare ancor prima il colore ocra («Ocker», v. 3) e i segni concreti dell’usura presenti sul supporto pittorico che i tratti propri alla scena della Resurrezione (i segni cioè lasciati nel terreno dalle salme risorte). O almeno sembrerebbe preferire la

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sovrapposizione dei due livelli, quello segnico dei colori e della loro qualità materiale con quello allegorico della scena descritta. In tal senso il vocabolo geborst (v. 3), che letteralmente significa “scoppiato”, “spaccato”, indicherebbe sia la crepatura del colore sia le fenditure della terra. Ma ancor più evidente è la volontà da parte del poeta di trasformare la scena apocalittica in un sinistro fenomeno sonoro, là dove gli sforzi dei defunti per restare avvinghiati ai loro sepolcri vengono resi nella prima quartina con una sequenza impressionante di fonemi occlusivi (ock-ak-ock-ockOck-Ack-ak). Se non di fonosimbolismo, arte della seduzione musicale propria ai segni della poetica simbolista francese, sembrerebbe qui lecito parlare per lo meno di un livello assai alto di performance del testo, uno dei tratti distintivi di quasi tutta la produzione lirica del Rilke più maturo. La seconda parte del sonetto si caratterizza invece per un uso ponderato dei tempi e dei modi verbali. Incominciato dall’avversativo «Aber» al verso 6, il periodo con cui Rilke descrive il gesto degli angeli in vista del giudizio divino (la preparazione delle salme con l’olio dell’estrema unzione) viene ad articolarsi prima in una sequenza di due brevi infinitive («um Öle / einzuträufeln»; «um […] / das zu legen») e subito dopo in un segmento frasale più lungo (gli ultimi quattro versi), in cui compare il congiuntivo (ai versi 12 e 14). Il primo dei due congiuntivi esprime la finalità dell’olio santo, ossia la custodia di quanto non deve essere profanato in vita perché benedetto da Dio. La stessa mano che ha toccato il morente potrà così, quando sarà giunta l’ora del Giudizio, afferrare di nuovo il suo corpo e sentirne il calore. Il secondo indica invece il presupposto perché vi sia o no salvezza, il peso del valore di una vita, la sua condotta e le sue conseguenze. L’Apocalisse più che essere rivelata o prevista, come accadeva nelle parole del monaco, resta qui parzialmente inespressa, manifesta forse più nei segni della liturgia sacramentale (l’olio, il corpo sede dei sensi) e nei modi verbali che la formulano, che nella rappresentazione vera e propria del suo avvento. Simile all’ottativo greco, questo modo tipicamente rilkiano nell’uso dei verbi tedeschi segnala spesso nelle Nuove Poesie ciò che accadrebbe o accadrà se si verificassero o meno certe condizioni. Il più famoso di questi casi è certamente quello illustrato da Archaïscher Torso Apollos (Torso arcaico di Apollo), un componimento scritto a Parigi nel 1908, in cui le impressioni suscitate dall’osservazione di un busto ellenico vengono descritte a partire dall’assenza del capo, degli occhi e delle membra nella figura divina. Attraverso negazioni e congiuntivi ipotetici l’incompletezza dell’Apollo scultoreo diviene per lo spettatore (l’io del poeta o lo stesso lettore) il segno di un’assoluta presenza:

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Non conoscemmo il suo capo inaudito, e le iridi che vi maturavano. Ma il torso tuttavia arde […]. Altrimenti non potrebbe abbagliarti la curva del suo petto […]. E questa pietra sfigurata e tozza […] non scintillerebbe come pelle di belva, e non eromperebbe da ogni orlo come un astro: perché là non c’è punto che non veda te, la tua vita. Tu devi mutarla [corsivo nostro].

Si noterà come il congiuntivo tedesco serve qui al poeta per rappresentare e rendere plausibile l’effetto di qualcosa che non esiste, che prima c’era e che ora è “nascosto”, potenzialmente raccolto dietro all’apparente incompletezza del busto. La frammentarietà del resto ellenico è perciò promessa, per chi si sofferma a contemplarne la figura, di una vita mutata, e può esprimersi in conclusione come imperativo esistenziale. Colui che sa cogliere i segni di questa presenza/assenza nell’opera d’arte può essere coinvolto in un fenomeno di ribaltamento della prospettiva cognitiva: non più soltanto soggetto della conoscenza, egli diverrà oggetto della visione. Detto altrimenti: il processo di relazione tra l’io che osserva e la cosa osservata segna, nel momento stesso in cui l’arte si manifesta in tutta la sua “costruttività”, il destino stesso dell’uomo. Si tratta di una nozione di poesia che non mira semplicemente alle immagini delle cose, siano esse statiche o dinamiche, ma che cerca al contrario di sublimarne l’aspetto concreto o oggettivo in figure astratte, in strutture metriche e manipolazioni sintattiche. In ragione di un’intrinseca qualità estetica propria al Ding-Gedicht (“poesia-cosa” o “poesia dell’oggetto”), il modello apocalittico di Das Jüngste Gericht viene così ad essere integrato nella cornice secolare del canzoniere parigino, dove ogni mutamento, ogni rovesciamento di senso accade per volontà di un’appropriazione “figurale” di tutta la realtà, compresa quella semiotica. Il Ding-Gedicht, infatti, non è solo poesia che ha per tema una realtà rilevante per la percezione sensibile (come un dipinto, un’opera scultorea, un dettaglio architettonico). Esso è anche forma, lingua, veicolo della raffigurazione, che costituisce essa stessa una cosa, che è una realtà linguistica, non meno concreta dell’oggetto creato dalle arti plastiche. Lo stesso Rilke ha parlato a tal proposito di «Umschlag», un capovolgimento corrispondente alla trasformazione che le cose subiscono dopo essere state osservate attentamente:

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Il guardare [Schauen] è un fatto così meraviglioso, del quale sappiamo talmente poco; attraverso il guardare siamo tutti volti all’esterno, ma proprio quando ne siamo al culmine, gli oggetti, che anelanti hanno atteso di esser inosservati, sembrano procedere in noi da loro stessi, e mentre si compiono nel nostro intimo intatti e stranamente anonimi, senza di noi, spunta nella cosa di fuori il loro significato, un nome più convincente, più forte, l’unico possibile, col quale riconosciamo devoti e contenti l’avvenimento in noi stessi, senza arrivarvi da soli, ma solo cogliendolo assai lentamente, da molto lontano, sotto i segni di una cosa ancora estranea e già straniata nuovamente nell’istante successivo [lettera alla moglie scritta l’8 marzo 1907; traduzione nostra].

Importante per Rilke è che, attraverso uno sguardo orientato nel suo insieme al solo oggetto, venga esclusa ogni consapevole riflessione dell’io su se stesso. In tal modo può emergere un evento interiore proveniente da una parte dell’io incosciente, irrazionale. E all’esterno, nell’oggetto, può finalmente sorgere un significato, resosi all’improvviso evidente come conoscenza di sé e della cosa nella parola trovata, senza che l’oggetto venga appreso “mimeticamente” secondo forme o segni familiari all’uomo: dopo tutto il Ding resta «estraneo» («fremd»). Anche alla conoscenza di sé l’io non arriva che per pura intuizione, affidato ai «segni» («Zeichen») di una cosa che si sottrae di continuo alla sua comprensione. Si tratta di una forma radicale di esperienza legata allo «Schauen», che si manifesta già con le poesie scritte tra il 1906 e il 1910 e che la critica ha spesso tradotto nei termini di una dialettica tra prossimità e distanza, tra presenza e assenza. Questa dialettica però si presenta nelle Nuove poesie sotto il nome di Umschlag, e quello che accade al poeta e alle cose quando si verifica un simile capovolgimento è chiamato da Rilke ugualmente Verwandlung, una “trasformazione” intesa come cambiamento interiore di chi osserva la cosa e, contemporaneamente, come “metamorfosi” della cosa attraverso il suo essere osservata. E infine “transustanziazione” della cosa e del poeta nella parola lirica2. Poiché quanto Rilke va qui descrivendo altro non sarebbe che il sorgere di una poesia in conformità al suo nuovo concetto di lirica. Una simile poesia viene compresa – sempre da Rilke – come «Figur» di tipo estetico e verbale. Per farsene un’idea più chiara, scrive il poeta, bisognerebbe pensare al profilo «astratto ed effimero» di una «figura di danza» (in una lettera a Clara Westhoff, la moglie, del 26. 4. 1906); osservando il ballo di una gitana a casa del pittore Ignacio Zuloaga, Rilke ne ricava un esempio perfettamente riuscito, dove il processo linguistico e la danza raffi2

Wandlung, parola chiave nella tarda produzione rilkiana, indica infatti la “consacrazione eucaristica” nei simboli del pane e del vino.

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gurata finiscono con il sovrapporsi e coincidere in modo evidente: […] così rapido e ardente nel cerchio degli spettatori a scatti il suo ballo rotondo incomincia a diffondersi. E all’improvviso è fiamma, fiamma piena. Con uno sguardo accende i suoi capelli e di colpo con arte temeraria l’intera veste ruota in questo incendio, […] Poi: come se non le bastasse il fuoco, tutto lo aduna e da sé imperiosa lo scuote con un fiero gesto e guarda: eccolo: sulla terra si dibatte, si leva ancora in fiamme e non s’arrende. Ma sicura, trionfante, alzando il viso in un dolce sorriso di saluto, sotto i forti piedini pestandolo lo estingue [scritta a Parigi nel 1906]..

La designazione di figura vuole in tal caso mettere in evidenza il processo linguistico che nella poesia Spanische Tänzerin (Danzatrice spagnola) si attua in quanto fenomeno temporale, scandito dai frequenti avverbi di tempo («plötzlich», «auf einmal», «dann», vv. 6, 8, 12)3, con una conseguente pianificazione o strutturazione del capovolgimento improvviso, a partire dal quale deve ovviamente essere collocato il punto («doch», con valore avversativo, v. 17) in cui avviene la metamorfosi ma anche il concludersi del movimento iniziato nella prima strofa («Wie […] beginnt im Kreis», vv. 1-5). Per la lirica di Rilke deve allora essere stato di grandissima importanza, come più volte rilevato dalla critica a proposito del suo saggio su Rodin, quel motivo di derivazione filosofico–vitalistica caro alla cultura della Jahrhundertwende, per cui in ciascun volto o corpo sarebbe leggibile una forma di vita archetipica, originaria: essa si caratterizzerebbe anzitutto come movimento («Bewegung»); e la struttura di questo movimento sarebbe a sua 3 Gli stessi avverbi, però, potrebbero suggerire anche la repentinità di quanto accade, evidenziando l’altro tratto caratteristico del Ding-Gedicht rilkiano: se le cose-realtà sono segnate essenzialmente dalla loro caducità, e sottomesse perciò all’universale legge della morte, la cosa-poesia appare sottratta a questo destino. Il suo segno è quello della durata, che nella variegata libertà del discorso rilkiano non esclude anche un significato di intensità, di grado diverso e superiore di realtà.

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volta riconoscibile come un cerchio, un vortice, una giravolta, simboli adatti a rappresentare un unico e incessante flusso vitale. Di qui la predilezione rilkiana nelle Nuove Poesie anche per metafore quali la fontana, la palla, l’albero ricurvo, tutti esempi utilizzati per rappresentare la stretta connessione tra vita e forma, nella perfetta chiusura e autosufficienza del Kunst-Ding (cosa dell’arte). Fu proprio grazie a questa interpretazione dell’arte di Rodin che Rilke poté affrontare l’importante sfida estetica di avvicinare in un modo sino ad allora sconosciuto la poesia, ritenuta tradizionalmente un’“arte del tempo” (in conformità all’essenza della lingua una «Zeitkunst», come ebbe a dire Lessing nel Laocoonte)4, alla scultura, intesa dall’estetica di tutto l’Ottocento come “arte dello spazio”. Con ciò le Nuove poesie divengono un documento ancora più rappresentativo della cultura dell’epoca. Ai cui segni distintivi Rilke accennerà proprio in conclusione del suo Rodin, nel 1907, scrivendo che l’elemento tragico dell’arte scultorea rodiniana consiste nell’esser sorto in un tempo «che non ha più oggetti, case, una realtà esteriore. Giacché quanto è interiore, ciò che stabilisce quest’epoca, è privo di forma, incomprensibile: scorre via» («Denn das Innere, das diese Zeit ausmacht, ist ohne Form, unfaßbar: es fließt»; KA, IV, p. 478; traduzione nostra). Se possiamo rintracciare una linea di sviluppo negli anni che vanno dal saggio su Rodin passando per la stesura dell’importante romanzo Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge (I Quaderni di Malte Laurids Brigge, 19021910) sino alla conclusione del grande ciclo delle Duineser Elegien (1912-1922), essa va nel senso di un riconoscimento di come sia sempre più difficile realizzare il rapporto dell’io con la realtà a partire dalla percezione di una forma sensibile. Per rappresentare la condizione dell’uomo moderno, nel suo isolamento, nella sua separazione rispetto alla natura, la stessa poesia deve fare i conti con strumenti (i segni verbali, le figure retoriche) sempre più astratti. Come Valéry, anche Rilke vede infatti uno stretto legame tra la nozione di Figur e il fenomeno della tecnica moderna. Tanto la macchina, che «minaccia ogni conquista» e «con un sol tratto ordina e crea e distrugge» (come si legge in uno dei Sonetti a Orfeo, scritti nel 1922), quanto la poesia moderna, figurale e antimimetica, che da parte sua cerca di trasformare o trasfigurare («verwandeln»; Elegie Duinesi IX, v. 65) le cose, obbediscono a 4

La tradizione del Laokoon di Lessing (Laokoon oder über die Grenzen der Malerei und Poesie, 1755) criticava la commistione dei generi, prendendo di mira la poesia descrittiva (o “poesia pittorica”) e la pittura allegorica (o “pittura letteraria”), dissertando sulla demarcazione indispensabile da stabilire tra pittura e poesia, con il conseguente rifiuto delle tesi di Winckelmann, che non escludeva al contrario la superiorità delle arti plastiche rispetto alla letteratura.

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un generale impulso storico, a una tendenza che, in più occasioni, egli ha descritto come separazione dal mondo della realtà visibile e delle immagini della tradizione o come fuga e ritiro della conoscenza umana all’interno dell’inconscio (cfr. ad es. le lettere a W. Hulewitcz, 10. 11. 1925; H. Pongs, 21. 10. 1924). Ma questo processo di astrazione, sempre più manifesto in ogni aspetto della vita moderna, viene giudicato non solo in termini positivi. Rilke non smetterà mai infatti di lamentare la condizione deficitaria di un’esistenza, come quella dell’uomo odierno, che ha dovuto improvvisamente rinunciare all’«equivalenza sensibile», a un rapporto privilegiato, sicuro e “ontologicamente” fondato con la realtà esteriore. Dal Malte in poi, infatti, un simile lamento risuona ininterrotto in quasi tutte le opere scritte in versi e prosa: Destinato com’eri alla rappresentazione […] commettesti la violenza senza esempio della tua opera, che sempre più impaziente, sempre più disperata cercava tra il visibile l’equivalente per la visione interna [unter dem Sichtbaren nach den Äquivalenten suchte für das innen Gesehene; da I quaderni di Malte Laurids Brigge, p. 64].

Per comprendere appieno i significati con i quali il poeta declinerà successivamente le proprie visioni escatologiche, bisogna dunque tener presente il doppio aspetto della Figur rilkiana. Se per un verso essa è il frutto di un’operazione radicalmente antimimetica, figlia a sua volta di un’epoca terminale per l’uomo, in cui le cose e le persone finiscono con l’esser private sempre più della loro oggettività; per un altro, la figura è vista non più, e non soltanto, come strumento di un sapere costruttivo, bensì quale forma a sua volta legittima e ancora autorevole di immagine, rappresentazione (di Bild). Che essa non possa più essere definita mimetica, si comprende dal suo carattere artificiale e virtuale, che la rende simile alla tecnica. Eppure la Figur resta a un tempo immagine e riproduzione, esattamente nella misura in cui conserva i tratti figurabili (ancora rappresentabili) di ciò che ha trasformato: è, in definitiva, ricordo di quanto lei stessa ha superato. Da questa posizione ambigua deriva uno statuto ontologico della figura rilkiana non determinabile univocamente. Troveremo in quasi tutta l’opera più tarda asserzioni che definiscono la figura come rappresentazione di un ordine umano, sovrapposto a quello della natura o comunque non prestabilito da essa. Come il canto di Orfeo è in grado di coprire lo strepito delle Menadi («coprì il tuo ordine, figura di bellezza, il loro strido», I, 26, v. 3), così la figura vince e sovrasta l’originaria confusione e assenza di relazioni significative che caratterizzano la sfera primitiva dell’esistenza. In tal senso essa può essere strumento indispensabile per orientare la cultura, per gene-

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rare un accordo fondamentale tra civiltà e natura, svolgendo una funzione comparabile a quella del mito o della religione; tuttavia la figura resta in ultima istanza mera apparenza: una finzione tanto bella quanto utile. In una dedica del 1924 si legge: Per sciogliere l’intrico del quotidiano essere, che ciascuno conobbe a modo suo, si trasformi in stella notturna il nostro saper la figura [scritta per la signora A. G. Kröller].

Due anni prima, nei Sonetti a Orfeo (I, 11, vv. 12-14): Anche la congiunzione astrale inganna. Pure, per qualche istante ci rallegri credere alla figura. Questo basta.

Ciononostante, una visione che accentua il carattere fittizio della costellazione non impedisce al poeta di celebrare, nel sonetto immediatamente successivo, la figura come luogo di un’esistenza compiuta e reale («Lode allo Spirito che sa connetterci, / perché la nostra vita è fatta di figure»; I, 12, vv. 1-2). Con una simile idea dell’illusione, dell’apparenza, Rilke non si colloca lontano dall’estetica di Nietzsche o di Baudelaire. Allo stesso modo, però, troviamo anche affermazioni in cui il poeta ammette per la figura un fondamento ontologico, considerandola più come segno di una comunicazione già implicata nell’ordine immutabile delle cose, che come semplice inganno o incanto. La figura artistica risulta così essere non di rado nell’ultimo Rilke il completamento di un ordine già predisposto, al quale la natura lavora da sempre, anche se rozzamente e senza scopi apparenti. Negli stessi Sonetti (II, 28, vv. 1-5), infatti, possiamo leggere: […] Tu quasi bimba ancora, per un attimo converti la figura di danza nella pura costellazione d’uno di quei balli onde il sordo ordine della Natura vinciamo per breve ora.

Per quanto esplicito sia qui il dettato di superare l’ordine della natura, quest’ultima sembra implicitamente essere riconosciuta come principio guida di tutti i nostri sforzi. La liquidazione del postulato mimetico riesce solo in parte. Nell’insieme resta e forse resterà sempre aperta e irrisolta la questione se per il poeta la figura sia comprensibile primariamente come ordine artisti-

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co, come costruzione, o non piuttosto quale compimento e perfezione di un corso naturale degli eventi. In Rilke l’estetizzazione è una forma personale del vissuto che cerca di superare i contrasti o le aporie dell’esistenza. Per farlo essa ha bisogno di una effettività, di un insopprimibile elemento nelle cose, rispetto al quale la figura è solo in apparenza diversa. Non esiste infatti un vero antagonismo tra la parola e la realtà, poiché il segno verbale appartiene già alle cose: il poeta può usarlo entro i limiti di una spontaneità o originalità che, miticamente e in prospettiva escatologica, sono da sempre nel linguaggio. La contingenza con cui si verifica l’evento-poema è forte per Rilke quanto lo è la condizione di un qualsiasi processo naturale. Resistervi è ovviamente il compito dell’io personale, dell’uomo Rilke, che offre così lo spunto all’altro io, quello della celebrazione orfica (la Rühmung), di guidarlo nell’impresa sapienziale. È necessario allora provare l’inganno della figura, la vanità dell’affanno estetico, con tutto il pathos neo-romantico o pietistico di una passività individuale, per far sì che la parola riconquisti la sua funzione più autentica e legittima: soccorritrice o salvifica, essa sarà pronunciata non più come sapere dell’arte, ma come arte del vivere. Appendice Das Jüngste Gericht Aus den Blättern eines Mönchs […] O, greife allen Tagen in die Speichen, daß sie zu bald nicht diesem Ende nahen, – vielleicht gelingt es dir noch auszuweichen dem großen Schweigen, das wir beide sahen. Vielleicht kannst du noch einen aus uns heben, der diesem fürchterlichen Wiederleben den Sinn, die Sehnsucht und die Seele nimmt, einen, der bis in seinen Grund ergrimmt und dennoch froh, durch alle Dinge schwimmt, der Kräfte unbekümmerter Verbraucher, der sich auf allen Saiten geigt und unversehrt als unerkannter Taucher in alle Tode niedersteigt. [Das Buch der Bilder. Des zweiten Buches erster Teil, KA I, p. 298, vv. 73-85] Das Jüngste Gericht So erschrocken, wie sie nie erschraken, ohne Ordnung, oft durchlocht und locker,

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hocken sie in dem geborstnen Ocker ihres Ackers, nicht von ihren Laken abzubringen, die sie liebgewannen. Aber Engel kommen an, um Öle einzuträufeln in die trocknen Pfannen und um jedem in die Achselhöhle das zu legen, was er in dem Lärme damals seines Lebens nicht entweihte; denn dort hat es noch ein wenig Wärme, daß es nicht des Herren Hand erkälte oben, wenn er es aus jeder Seite leise greift, zu fühlen, ob es gälte. [Der Neuen Gedichte anderer Teil, KA I, p. 528] Archaïscher Torso Apollos Wir kannten nicht sein unerhörtes Haupt, darin die Augenäpfel reiften. Aber sein Torso glüht noch wie ein Kandelaber, in dem sein Schauen, nur zurückgeschraubt, sich hält und glänzt. Sonst könnte nicht der Bug der Brust dich blenden, und im leisen Drehen der Lenden könnte nicht ein Lächeln gehen zu jener Mitte, die die Zeugung trug. Sonst stünde dieser Stein entstellt und kurz unter der Schultern durchsichtigem Sturz und flimmerte nicht so wie Raubtierfelle; und bräche nicht aus allen seinen Rändern aus wie ein Stern: denn da ist keine Stelle, die dich nicht sieht. Du mußt dein Leben ändern. [Der Neuen Gedichte anderer Teil, KA I, p. 513] Spanische Tänzerin Wie in der Hand ein Schwefelzündholz, weiß, eh es zur Flamme kommt, nach allen Seiten zuckende Zungen streckt – : beginnt im Kreis naher Beschauer hastig, hell und heiß ihr runder Tanz sich zuckend auszubreiten.

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Und plötzlich ist er Flamme, ganz und gar. Mit einem Blick entzündet sie ihr Haar und dreht auf einmal mit gewagter Kunst ihr ganzes Kleid in diese Feuersbrunst, aus welcher sich, wie Schlangen die erschrecken, die nackten Arme wach und klappernd strecken. Und dann: als würde ihr das Feuer knapp, nimmt sie es ganz zusamm und wirft es ab sehr herrisch, mit hochmütiger Gebärde und schaut: da liegt es rasend auf der Erde und flammt noch immer und ergiebt sich nicht – . Doch sieghaft, sicher und mit einem süßen grüßenden Lächeln hebt sie ihr Gesicht und stampft es aus mit kleinen festen Füßen. [Neue Gedichte, KA I, p. 491] Das Anschauen ist eine so wunderbare Sache, von der wir so wenig wissen; wir sind mit ihm ganz nach außen gekehrt, aber gerade wenn wirs am meisten sind, scheinen in uns Dinge vor sich zu gehen, die auf das Unbeobachtetsein sehnsüchtig gewartet haben, und während sie sich, intakt und seltsam anonym, in uns vollziehen, ohne uns, – wächst in dem Gegenstand draußen ihre Bedeutung heran, ein überzeugender, starker, – ihr einzig möglicher Name, in dem wir das Geschehnis in unserem Innern selig und ehrerbietig erkennen, ohne selbst daran heranzureichen, es nur ganz leise, ganz von fern, unter den Zeichen eines eben noch fremden und schon im nächsten Augenblick aufs neue entfremdeten Dinges begreifend – . [Briefe in zwei Bänden, a cura di H. Nalewski, Insel, Frankfurt/Main e Leipzig 1991, p. 247] So wie du warst, auf das Zeigen angelegt, ein zeitlos tragischer Dichter, mußtest du dieses Kapillare mit einem Schlag umsetzen in die überzeugendsten Gebärden, in die vorhandensten Dinge. Da gingst du an die beispiellose Gewalttat deines Werkes, das immer ungeduldiger, immer verzweifelter unter dem Sichtbaren nach den Äquivalenten suchte für das innen Gesehene. [Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge, KA III, p. 512]

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RAOUL MELOTTO

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Geschrieben für Frau A. G. Kröller Daß wir das tägliche Wesen entwirrn, das jeder andes erfuhr, machen wir uns ein Nachtgestirn aus der gewußten Figur. [Die Gedichte 1922 bis 1926, KA II, p. 377, vv. 5-8] IX Auch die sternische Verbindung trügt. Doch uns freue eine Weile nun der Figur zu glauben. Das genügt. [Die Sonette an Orpheus. Erster Teil, KA II, p. 246, vv. 12-14] XXVIII O komm und geh. Du, fast noch Kind, ergänze für einen Augenblick die Tanzfigur zum reinen Sternbild einer jener Tänze, darin wir die dumpf ordnende Natur vergänglich übertreffen. [Die Sonette an Orpheus. Zweiter Teil, KA II, p. 271, vv. 1-5]

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Rovine di paradiso, regni millenarî e nullità di Dio. Kafka al tempo di Zürau di Neil Novello

Da un certo punto in là non c’è più ritorno. È questo il punto da raggiungere. Franz Kafka

A Praga, una sera piovosa del 13 agosto 1912, Kafka giunge a casa dell’amico Max Brod, al numero 1 della Schalengasse. Occorre rivedere la sequenza delle prose per Meditazione, il libro di racconti uscito per Rowohlt all’inizio del 1913. A poco meno di 30 anni, Kafka sta per sovrapporre le inattese incursioni della vita alle ragioni ancora acerbe della letteratura. Pur accadendo il disvelamento della Condanna, nella fulminante notte del 22 settembre 1912 la letteratura resta per così dire senza ancora piena rivelazione1. Ma nel salotto borghese della famiglia Brod, il mese precedente la creazione del suicida Georg Bendemann (La condanna), Kafka fa la conoscenza di Felice Bauer, Felìss-tremendum, la venticinquenne berlinese che lo avrebbe «profondamente sconvolto»2: come una sacra epifania. Una settimana dopo, per la precisione il 20 agosto, con inquietante lucidità, Kafka annota sui Diari: Signorina Felice Bauer. Quando il 13 agosto arrivai da Brod, ella era seduta a tavola, eppure mi parve una domestica. Non avevo alcuna curiosità di sapere chi fosse, ma mi ambientai subito. Viso ossuto e vuoto che mostrava apertamente il vuoto. Collo libero. Camicetta trascurata. Pareva vestita alla casalinga benché, come si vide in seguito, non lo fosse. (Le riesco un po’ estra1 La notte del 22 settembre 1912 senza arrestarsi mai Kafka scrive La condanna: «Kafka sa ormai che può scrivere. Ma questo sapere non è un sapere, questo potere non è suo. A parte poche eccezioni, egli non trova mai in quello che scrive la prova che scrive veramente». M. Blanchot, Da Kafka a Kafka, tr. it. di R. Ferrara, D. Grange Fiori, G. Patrizi, L. Prato Caruso, G. Urso, G. Zanobetti, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 74. 2 M. Brod, Kafka, tr. e cron. di E. Pocar. Intr. di R. Fertonani, Milano, Mondadori, 1978, p. 125.

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NEIL NOVELLO

neo perché la osservo così da vicino). È vero che ora sono estraneo a tutto il bene nel suo complesso e per giunta non ci credo ancora. […]. Naso quasi rotto. Capelli biondi un po’ lisci, senza attrattiva, mento robusto. Mentre mi mettevo a sedere la guardai per la prima volta più attentamente, quando fui seduto avevo già un giudizio incrollabile3.

Dal 20 settembre 1912 al 16 ottobre 1917, tra Praga e Berlino inizia uno sconcertante, fluviale, drammatico scambio epistolare. Il «giudizio incrollabile» su Felice, registrato sulla pagina dei Diari, significa che d’ora in avanti Franz scriverà per la donna a profluvio, spesso più lettere giornaliere. Un quieto torrente sprigiona una forza inimmaginabile. Kafka incatena sé a Felice: le «lettere sono un rizoma, una rete, una tela di ragno» necessaria a placare una brama di vampiro4. Il 13 agosto 1912, di notte incontra l’«umile e accorta mediatrice, che poteva introdurlo nella sconosciuta città degli uomini, nella terra di Canaan»5. Il misterioso angelo ibseniano («Se tu sei il mio angelo custode (e ogni giorno più credo che lo sei»)6 planato a Praga stanzia giusto il tempo di scoccarsi in cuore. E per proseguire nel più lungo viaggio che da Berlino porta a Budapest al matrimonio della sorella. Ma Canaan resta un sogno. Nei Diari, il 19 ottobre 1921, interrogandosi sull’«essenza del percorso nel deserto» e in implicito su Mosè e il popolo ebraico, Kafka dichiara che giungere a Canaan è «inverosimile» perché la «previsione può avere soltanto il significato di far capire quale momento imperfetto sia la vita umana»: Mosè non arrivò a Canaan, non perché la sua vita fosse troppo breve, ma perché era una vita umana7.

Perché se si è sul metaforico confine tra due limitrofi universi di pensiero – come scrive Blanchot – «cercare la Terra Promessa dalla parte di Canaan o cercarla dalla parte di quest’altro mondo che è il deserto»8, per Kafka significa il tradimento dell’idea di confine spazio-temporale, la distruzione

3

F. Kafka, Confessioni e diari, a c. di E. Pocar, Milano, Mondadori, 1988², p. 366. Tanto da far pronunciare a Deleuze e Guattari la locuzione «Kafka-Dracula». G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, tr. it. di A. Serra, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 47. 5 P. Citati, Kafka, Milano, Mondadori, 2000, p. 35. 6 Felice è «angelo custode» nella lettera del 27.VIII.13. F. Kafka, Lettere a Felice. 19121917, raccolte e edite da E. Heller e J. Born, tradotte da E. Pocar, Milano, Mondadori, 1988, p. 465. 7 Id. Confessioni e diari, cit. pp. 598-99. 8 M. Blanchot, Da Kafka a Kafka, cit. p. 100. 4

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della comprensibilità, nient’altro che la via sacrificale nella folle perpetuità del cammino lungo l’arida landa dell’infinitamente aperto9. Alla fine del lacerante quinquennio epistolare con Felice, all’alba del 13 agosto 1917 Kafka si sveglia di soprassalto dopo un’ennesima notte trascorsa tra insonnia e dormiveglia. Il 29 agosto 1917 ad Ottla racconta la cronaca e l’ingresso della malattia nella sua leggenda personale: Circa tre settimane fa di notte ho avuto uno sbocco di sangue dai polmoni. Erano circa le quattro del mattino, io mi sveglio, mi meraviglio della strana quantità di saliva in bocca, la sputo, ma poi mi decido ad accendere la luce, strano, è una macchia di sangue. E così comincia. Chrleni, non so se è scritto bene ma è un’espressione efficace per questo sgorgare dalla gola10.

«Chrleni», sputare o espettorare, sa di venuta al mondo, di epifania del sommerso, di parola espropriata al silenzio, è cosa nata dal fino-ad-alloranulla: il «sangue maltrattato è schizzato fuori» scrive a Felice il 9 settembre 191711. Il repentino sbocco, con la sua plastica icona di «macchia» disegnata dal flutto sanguigno come una firma ancora illeggibile e già incancellabile, chiude in cerchio il tempo della vita: 13 agosto 1912-Felice Bauer-13 agosto 1917. Alla metà di settembre del 1917, da Zürau scrive a Max Brod: «Così non si può andare avanti» ha detto il cervello e dopo cinque anni i polmoni si sono dichiarati disposti a dare il loro aiuto12.

Kafka si ammala a trentaquattro anni. Il lontano tempo della rivelazione sentimentale proietta un raggio fatale nell’estate della tubercolosi: il sangue versato getta una luce torbida e tenebrosa sull’età dell’amore. Da Praga, parlando a Felice dello «sgorgo dalla gola», il 9 settembre conclude la lettera scrivendo: «Non è un coltello che ferisce solo di punta, ma gira e si ritorce anche all’indietro»13. Per Kafka nasce un «“caso”» – come scrive in una lettera, intorno ai primi di ottobre del 1917, all’amico Felix Weltsch

9 «Il deserto si distende in una sorta di cattiva infinità, dove, ad ogni passo, risuona quell’aporia – originaria, infinitamente ripetuta, e che pure in Kafka rinnova tutto il suo pathos –, quell’aporia riguardo alla stessa pensabilità dello spazio e del tempo: per quale mai miracolo possiamo raggiungere il prossimo villaggio?». M. Cacciari, Icone della legge, Milano, Adelphi, 1985, p. 58. 10 F. Kafka, Lettere, a c. di F. Masini, Milano, Mondadori, 2001, p. 953. 11 Id. Lettere a Felice. 1912-1917, cit. p. 802. 12 Id. Lettere, cit. p. 191 13 Id. Lettere a Felice. 1912-1917, cit. p. 804.

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–: la salute è appesa per due capi nel vuoto: la «volontà di guarire» e la «volontà contraria»14. L’angelo della morte scompiglia il gioco amoroso e la volontaria rottura del fidanzamento con Felice apre a Kafka le porte di Zürau, il borgo della speranza. Il nuovo centro subentra alla periferia della disperazione, l’ex centralità del mondo praghese. Il malato ripara a casa di Ottla, l’amata sorella («e infine Zürau (non ignoto, non proprio bello, ma con te)»)15, e vero angelo custode della pericolosa stagione esistenziale16, custode anche dell’elettiva età spirituale. Nel quinto quaderno tra i Quaderni in ottavo, Kafka annota: Qualora nel prossimo futuro io dovessi morire o divenir del tutto inabile alla vita – cosa tutt’altro che improbabile, dato che nelle due ultime notti ho avuto forti attacchi di emottisi – potrei dirmi di essermi schiantato da solo. Se mio padre, un tempo, nelle sue furibonde ma vane minacce, soleva dirmi: Io ti schianto come un pesce – in realtà non mi toccava nemmeno –, ora questa minaccia si avvera indipendentemente da lui. Il mondo – F. è la sua rappresentante – e il mio Io schiantano il mio corpo in un contrasto inconciliabile17.

Il «giudizio incrollabile», annotato il lontano 20 agosto 1913, ritorna come un uragano ad estinguere per sempre l’icona salvifica e ingannevole di Felice Bauer, la «vecchia follia»18. Nel testamento auto-analitico della lettera a Felice scritto presumibilmente il 30 settembre 1917, l’homo duplex è consapevole di essere «due individui in contrasto». Più avanti, Kafka esprime la loro qualità: «l’uno buono, l’altro cattivo». E confessa che il «migliore dei due appartiene a te», alla persona di Felice, non associa però la parola «migliore» all’essere «buono» o «cattivo», limita la descrizione ad un dato: «Il sangue che il buono (ora lo chiamiamo buono) versa per conquistarti 14

Id. Lettere, cit. p. 215. Ivi, p. 953. 16 «Ottla mi porta davvero, per così dire, sulle sue ali attraverso il mondo difficile». Ivi, p. 190. 17 Id. Confessioni e diari, cit. p. 761. 18 Il giorno della confessione sulla malattia, Kafka scrive alla sorella Ottla: «Negli ultimi tempi ho sofferto terribilmente per la vecchia follia, d’altro canto solo l’ultimo inverno è stato finora la più lunga interruzione di questa sofferenza durata cinque anni. È la più grande battaglia che mi sia stata imposta o meglio affidata, e una vittoria (che p. e. potrebbe attuarsi in un matrimonio, F. è forse soltanto la rappresentante del principio probabilmente buono di questa battaglia), voglio dire di una vittoria con una perdita di sangue piuttosto sopportabile avrebbe avuto in questa mia storia universale privata un che di napoleonico». Id. Lettere, cit. p. 954. 15

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giova al cattivo»19. Con disarmante nettezza di giudizio, alla fine si limita a dichiarare la verità sul mondo-Felice («Tu sei il mio tribunale umano») e rivela la più irrefutabile verità su stesso: Io infatti in segreto non considero questa malattia una tubercolosi, o almeno non la considero tale in primo luogo, vi scorgo bensì il mio fallimento generale20.

Alle porte di Zürau, ritorna l’eco di un tormento dell’infanzia. In una cupa lettera per Felice datata febbraio 1913, Kafka si dichiara «a terra», mentre la donna è colta nel vortice della «sventura». Il racconto riguarda un sinistro presagio percepito «da bambino». E raffigurato nella visione di una «brutta stampa a colori nella vetrina di un negozio di quadri». Nella vita di Kafka, l’immagine del «suicidio di una coppia di amanti» traduce il destino in una metafora dell’esistenza. È un’immagine potente al punto da incendiare per sempre l’immaginazione kafkiana, tanto da eleggerla in effigie come l’unica «via d’uscita» reale dall’«amore»21. Sul ciglio del baratro, le due infelicità esplorano un medesimo orizzonte, fino a bruciarsi sotto lo stesso sole. A un anno di distanza, Kafka potrà finanche scrivere: «Sei disgraziata, F., e io ti distruggo. Questa è appunto la disgrazia mia»22. E così violarsi al calor bianco. Il 30 settembre 1917, finalmente si congeda da Felice con un prefigurante «io non guarirò mai»23. Da lontano, tra cielo e terra sembra correre un bacio. Da vicino grava invece un’abissale lontananza, cielo al cielo di Kafka e terra alla terra di Felice, a figurare la drammatica confessione di qualche anno prima, la primavera del 1913. Kafka scrive all’amata sull’«impossibilità di contatti umani con me»24, presagendo così la perfetta solitudine da paradiso terrestre, la sua personale, lucida, heideggeriana Geworfenheit nell’esserci, la sua deiezione. L’individuazione e la coscienza del «fallimento generale» confessato a Felice, nella lettera del 4 settembre 1917 per l’editore Kurt Wolff sembra illuminare l’indistinta e quasi indecifrabile terra dove il «male» incarnato nella malattia riflette la provvidenziale luce di un astro benefico:

19 20 21 22 23 24

Id. Lettere a Felice. 1912-1917, cit. pp. 804-6. Ivi, p. 806. Ivi, p. 308. Ivi, p. 535. Ivi, p. 807. Ivi, p. 325.

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Il male attirato già da anni con dolori di testa e insonnia è infatti scoppiato all’improvviso. È quasi un sollievo. Parto, anzi devo partire, per un lungo soggiorno in campagna25.

Il «sollievo» pertanto indica la fulminea ascensione della realtà esistenziale in «simbolo», e la tubercolosi anziché scardinare la bontà della vita, ad un tempo rivela il suo volto salvifico soltanto mascherato di malvagità26. Il tribunale ha emanato la sentenza: l’imputato non è assolto né condannato, in stato d’espiazione cammina verso la nuova redenzione o la morte27. In un appunto del 15 settembre 1917, dopo la fioritura della malattia, la rottura con Felice, la licenza dal lavoro e il trasferimento a Zürau, sui Diari Kafka scrive: Tu hai la possibilità, se pure questa esiste, di incominciare. Non sprecarla. Non potrai evitare la sozzura che affiora da te, se intendi di entrare. Ma non avvoltolarti in essa. Se la ferita ai polmoni è soltanto un simbolo, come tu affermi, il simbolo della ferita, la cui infiammazione si chiama Felice e la profondità giustificazione, anche i consigli del medico (luce, aria, sole, tranquillità) sono simboli. Afferra questo simbolo28.

«Afferra questo simbolo» scrive Kafka29. La tessitura simbolica dell’esistenza ordisce solo in apparenza una trama sibillina. L’universo è pertanto un vocabolario di simboli, il corpo di Kafka ricettacolo di scrittura simbolica, teca segreta d’arcani Sinnbilder, arca carnale espiante una legge cosmogonica fatta corpo da incidere, corpo da Colonia penale. Il sỳmbolon migrante tra la letteratura e la vita ingenera astralità di linguaggio. È come lo «scrivere sull’acqua»30. Con la nativa parola «incominciare», pronunciata nei Diari, 25

Id. Lettere, cit. p. 189. A testimonianza del clima psicologico sospeso tra condanna e salvezza, a Max Brod e Felix Weltsch scrive che il «mio possesso terreno è aumentato da una parte con l’aggiunta della tubercolosi, ma dall’altra è anche diminuito un po’». Ivi, pp. 189-90. 27 Nella simbologia kafkiana, anche nel verdetto della malattia sembra aggirarsi lo spettro del padre-dio della Condanna: «E perciò sappi: ti condanno a morire affogato!». Id. Racconti, a c. di E. Pocar, Milano, Mondadori, 2006, p. 153. 28 Id. Confessioni e diari, cit. pp. 583-4. 29 Da Zürau, i primi di marzo del 1918 scrive a Max Brod: «Subentra sempre da sé, col silenzio il mio mondo si fa sempre più povero; ho sempre considerato mia sventura particolare il non avere io (incarnazione dei simboli!), per così dire, abbastanza forza nei polmoni per insufflare al mondo la varietà che esso, come insegnano gli occhi, evidentemente possiede». Id. Lettere, cit. p. 282. 30 E capire – anche per un critico come Fortini – significa veramente il rischio di «scrivere sull’acqua»: «Avere come soggetto il simbolo, cioè affermare un mondo nel quale ogni cosa e parola, ogni sentimento ed ogni ragione sono segno, sintomo e spia di altro, e dove tutto si 26

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segue l’esposizione in luce dell’«infiammazione» legata ad un nome ormai rinnegabile ma fatale, un Sinnbild di nome Felice. Dopo la promessa mancata dell’assoluto, Kafka entra nella sfera dell’assoluto e il tempo di Zürau è il suo scenario paradisiaco. È la rivelazione rivelante: l’apocalisse. Dallo spettro della fine Kafka vede liberarsi la salvezza, è questa la figurazione del «miracolo» kafkiano intuito da Arendt: Il miracolo è rappresentato dalla salvezza e non dalla fine perché solo la salvezza, e non la fine, dipende dalla libertà dell’uomo e dalla sua capacità di modificare il mondo ed il suo corso naturale31.

Con un fulminante scarto spirituale, Kafka vede dissolversi il tempo della storia e desertificarsi il mondo. Di passaggio, pensando a Kafka, Deleuze e Guattari parlano di un «mondo infinitamente desertico», di un «intenso mondo desertico»32. Zürau pertanto è l’emblema di una in-vocazione, Kafka si schiude dinanzi alla chiamata per avviarsi su una via di solitaria «santità»33. A millenni dal primo esilio divino, esiliato anche dalla vita-Praga, Adamo non ritorna nel paradiso terrestre, bensì vi è di nuovo. Che pertanto è un’eversione radicale (dal padre, dal «Dio Padre e Distruttore Assoluto»34, dal mondo), ed è anche un’altra cosa – come scrive Bataille –: un ritornare a «vivere nella sfera, come un escluso»35, dentro il cerchio e con la volontà di aggirarsi nell’accanto, in eterna rotta sulla circonferenza, più precisamente nel tra, sulla superficie ineffabile dell’adiacenza. La forma del secondo ritorno, il contro-esilio edenico, dopo la cacciata originaria, il bando puramente terrestre fuori le porte del vivente, è anche un perdonarsi dinanzi al cielo. A Zürau, Kafka non conquista, bensì si riconquista nella forma terrestre dell’eternità36. Esilio dal mondo è anche esilio da sé. Adorno parla di stato o condizione trasforma irrimediabilmente, significa davvero scrivere sull’acqua». F. Fortini, Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Torino, Einaudi, 1989, p. 264. 31 H. Arendt, Il futuro alle spalle, a cura di L. Ritter Santini, tr. it. di V. Bazzicalupo, S. Muscas, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 31. 32 G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, cit. p. 17. 33 Scrive Brod che la «categoria della santità (non già quella della letteratura) è l’unica giusta per considerare la vita e l’opera di Kafka». M. Brod, Kafka, cit. 45. 34 F. Fortini, Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, cit. p. 265. 35 G. Bataille, La letteratura e il male, tr. it. di A. Zanzotto, Milano, SE, 1990, p. 142. 36 Nel terzo tra i Quaderni in ottavo, Kafka scrive: «C’erano tre diversi modi di punire il peccato originale: quello più mite venne applicato effettivamente, ed è la cacciata dal paradiso terrestre; il secondo era la distruzione del paradiso stesso; il terzo – e questa sarebbe stata la pena più tremenda – il vietato accesso alla vita eterna, lasciando tutto il resto come prima». Id. Confessioni e diari, cit. p. 736.

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d’«incantesimo» dove la «pura soggettività si ribalta in mitologia, lo spiritualismo coerente in abbandono alla natura»37. Nel terzo tra i Quaderni in ottavo, l’11 dicembre 1917, tra la «cacciata» e l’eterna immutabilità (anche terrena) della condizione paradisiaca, Kafka riscrive la storia della creazione e ripensa il destino dei patriarchi: La cacciata dal paradiso è, nella sua parte essenziale, un fatto perpetuo, fuori del tempo. Voglio dire che la cacciata dal paradiso è, sì, definitiva, che la vita nel mondo è inevitabile, ma l’eternità del fatto (o, per dirla in termini temporali: l’eterna ripetizione del fatto) ci rende possibile non solo il poter restare perennemente in paradiso, ma il restarci in effetti, e sempre, che noi lo si sappia o non lo si sappia quaggiù38.

Per la prima volta Kafka intende kairòs scrivendo una perfetta metafora ontologica. Stavolta però Adamo – pur nel solco della perpetuità – è senza Eva, eccetto l’angelo-mediatrice-Ottla è senza nessuno: Zürau è una sorta di sezione aurea estesa tra lo spazio vitale ospitante la reincarnazione ferina di Gregor Samsa e la Ur-Bau, la psicologia e il bioritmo del locus nella Tana. Perché Kafka teme la collisione tra il cerchio umano-vitale più tangente a sé e la propria assoluta sovranità singolare: è uomo d’invalicabili frontiere ma radicalmente inchiodate all’interiore39. Anche la costola della donna, Eva-Felice, strappata un tempo, giace ora abbandonata. Il 21 settembre 1917, sui Diari si legge: Io ho commesso il male per cui viene torturata e oltre a ciò faccio il servente allo strumento di tortura40. 37

T. W. Adorno, Prismi. Saggi sulla critica della cultura, tr. it. di C. Mainoldi et alii, Torino, Einaudi, 1972, p. 270. 38 F. Kafka, Confessioni e diari, cit. p. 726. Di conseguenza, se il paradiso è ovunque, nulla del paradiso è andato distrutto. Kafka lo scrive il 30 dicembre 1917 nel terzo dei Quaderni in ottavo: «Se ciò che si dice sia stato distrutto nel paradiso terrestre era distruttibile, non si trattava certo dell’essenziale; ma se era distruttibile, noi viviamo in una fede errata». Ivi, p. 729. E la «fede errata» ovvero la falsa credenza che viviamo fuori del paradiso (e non al suo interno) trova una conferma nel duplice appunto sul paradiso datato al 18 gennaio 1918. Nel primo Kafka scrive: «Noi fummo cacciati dal paradiso, che però non venne distrutto. La cacciata dal paradiso terrestre fu, in un certo senso, una fortuna, perché, se non ne fossimo stati cacciati, lo si sarebbe dovuto distruggere. Con la nostra cacciata il paradiso fu salvato dalla distruzione». Di seguito, in un altro pensiero aggiunge: «Noi fummo creati per vivere nel paradiso, il paradiso era destinato a servirci. Il nostro fine è stato mutato; ma nessuno ha mai detto che sia mutato anche il fine del paradiso». Ivi, p. 732. 39 A Oskar Baum, e in maniera indiretta anche agli altri amici, Max Brod e Felix Weltsch, scrive: «Perciò, dato che con voi posso parlare liberamente, vi prego quasi con la stessa cordialità con cui prima vi avrei pregato di venire: non venite». Id. Lettere, cit. p. 207. 40 Id. Confessioni e diari, cit. p. 586.

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La tubercolosi, svegliata dal mondo, uccide i suoi simboli: Felice, Max, Felix e Oskar, il padre, la madre, amori, amici e parenti, harem di Padri41. A Zürau, tutto è solitudine con paesaggio (umano, naturale), e Kafka un dio ctonio venuto al mondo da bui antri terrestri alla riconquista della luce. E Zürau prova anche a colmare il vacuo di un metafisico rimorso, con le lucide parole di Camus, la «nostalgia del paradiso perduto»42 perché a Kafka rimorde non il dogma celeste, bensì la celestialità. Ciò sutura anche lo strappo dalla prima origine, l’Urphanömen perduto della creazione. Il tempo senza peccato lontano dall’Albero della Conoscenza, il nudo tempo da paradiso terrestre ritorna a splendere. E reca in sé il volto oscuro del perdono, la memoria creaturale, la meraviglia di una neonatalità – con le parole di Lucàks –, lo stupefacente momento del «non-esserci-ancora-mai-stato»43. Chiuso il circolo di destino esteso tra l’atto della creazione, l’Albero della Conoscenza e il perdonarsi, del tempo in seno al patriarca biblico resta solo un puro ricordo mentale. La catastrofe estingue la memoria e la coscienza acuisce il principio della responsabilità. Il 25 settembre 1917, nei Diari Kafka scrive: La via del bosco. Hai distrutto ogni cosa senza averla neanche posseduta. Come vuoi ora ricomporla? Quali forze rimangono allo spirito vagabondo per questa massima fatica44?

Distruggere senza poi possedere significa essere colti dalla fulminea ira di Dio per aver peccato violando la prima regola della creazione. Come Bendemann nella Condanna: vittima di «Dio padre». Nell’ultimo capitolo di Angelus Novus, pensando alla figura del padre kafkiano, Benjamin è persuaso che il «peccato di cui accusa il figlio sembra una specie di peccato originale»45. Lo «spirito vagabondo» chiamato alla «massima fatica» – come

41 Il tassello letterario che scardina il complesso edipico figurato in letteratura con la Condanna del 1912 è la Lettera al padre del 1919, per Edmund Wilson l’«apologia della propria vita, con la quale gli avrebbe imputato la responsabilità del proprio fallimento», esattamente il capo d’imputazione espresso due anni prima a Felice Bauer. E. Wilson, Saggi letterari. 19201950, tr. it. di G. Giudici, G. Gualtieri, Milano, Garzanti, 1968, p. 275. 42 Più avanti Camus scrive: «Infatti, se la nostalgia è l’impronta di ciò che è umano, nessuno, forse, ha saputo dare tanta carne e rilievo ai fantasmi del rimpianto». A. Camus, Il mito di Sisifo, in Opere. Romanzi, racconti, saggi, a c. e con intr. di R. Grenier. Apparati di M. T. Giaveri, R. Grenier, Milano, Bompiani, 2000, pp. 329 e 334. 43 G. Lukàcs, Il significato attuale del realismo critico, tr. it. di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1957, p. 88. 44 F. Kafka, Confessioni e diari, cit. p. 587. 45 W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, a c. di R. Solmi, con un saggio di F. Desideri, Torino, Einaudi, 1995, p. 278.

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si legge nei Diari kafkiani il 25 settembre 1917 –, sa che «incominciare» significa abiurare quel peccato negando il cielo, e così rovesciare l’ordine del cosmo annunciando nientemeno che la nullità di Dio, perché anzitutto è deus absconditus. Ma c’è di più. Che il Dio di Kafka, attraverso le estreme potenze del Processo e del Castello, allegorizza la forma nichilista della trascendenza: non-Dio è «nulla». L’ombra nietzscheana dell’Anticristo («In Dio è divinizzato il nulla, è consacrata la volontà del nulla!…»)46 è presente anche nel pensiero di Lukàcs: «Se qui c’è un dio, è un dio dell’ateismo religioso: atheos absconditus»47. La mirabile promessa, stavolta propria del dio interiore (non del «Dio personale», che oscura l’«indistruttibile»), chiama pertanto ad una seconda genesi («Tu hai la possibilità, se pure questa esiste, di incominciare. Non sprecarla»)48. Si potrà tornare al paradiso terrestre venendo all’Omphalós. Con la sua celebre lucidità, Borges distingue il pericolo dogmatico del «dio personale» dall’idea di Kafka come «spirito religioso» («Ma uno spirito religioso può non credere in un dio personale»), proprio perché l’«idea di credere in un dio personale non fa necessariamente parte dello spirito religioso»49. E lo «spirito religioso» kafkiano, piuttosto che coincidere con l’alterità divina, a Zürau realizza l’abitabilità umana di un centro. Da nato, Kafka-Adamo è rinascente. E nel paradiso di Zürau, l’Omphalós non è più l’Albero della Conoscenza, semplicemente non c’è, il paradiso è tutto paradiso, è il di là di bene e male: O bella ora, formula magistrale, giardino inselvatichito! Tu esci di casa ed ecco che per la viottola del giardino ti viene incontro la felicità50.

46 F. Nietzsche, L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo, Nota introduttiva di G. Colli, versione di F. Masini, Milano, Adelphi, 2003, p. 21. 47 G. Lukàcs, Il significato attuale del realismo critico, cit. p. 49. E più avanti Lukàcs scrive sul «mondo come allegoria di un trascendente nulla». Ivi, p. 60. 48 Le parole di Kafka a Kafka (Diari, 15 settembre 1917) rievocano con impressionante fedeltà la condizione umana di Karl Rossmann, il protagonista di America, specie il giorno in cui comprende che la salvezza, e la felicità, passa per un’unica, forse un’estrema occasione da non sprecare: Clayton e l’enigma del teatro naturale di Oklahoma: «“Oggi dalle sei di mattina a mezzanotte, all’ippodromo di Clayton, viene assunto personale per il Teatro di Oklahoma! Il grande Teatro di Oklahoma” vi chiama! Vi chiama solamente oggi, per una volta sola! Chi perde questa occasione la perde per sempre!». F. Kafka, Romanzi, a c. di E. Pocar, Milano, Mondadori, 2006, p. 269. 49 J. L. Borges, Conversazioni con Osvaldo Ferrari, a c. di F. Tentori Montalto, Milano, Bompiani, 1993, p. 99. 50 F. Kafka, Confessioni e diari, cit. p. 584.

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La «felicità» che «viene incontro» è dea da incontrare: lungo la «viottola» della nuova vita, un’«assolata striscia di felicità»51, come scrive Kafka il 19 ottobre 1917 nel terzo quaderno di Otto quaderni in ottavo, donarsi alla felicità è per possederla. «Ma la felicità solo nel caso io possa sollevare il mondo nel puro, nel vero, nell’immutabile» scrive nei Diari il 25 settembre 1917. Non è un mito resistente per Kafka. «“Felice nell’infelicità”», la definizione adottata per Kafka, nelle ingenue parole di Max Brod nega con icastica precisione non già la via maestra da percorrere nel tempo edenico a Zürau, bensì viola la lucente stella del noumeno interiore. Nella lettera del 12 ottobre 1917, Kafka scrive a Brod: Caro Max, a dire il vero mi sono sempre meravigliato che per me e per altri tu abbia in cuore la frase «felice nell’infelicità», non già come costatazione o rammarico o monito in caso estremo, bensì come rimprovero. Non sai dunque che cosa significa? Con questa riserva mentale che naturalmente contiene anche l’«infelice nella felicità» è probabile che sia stato impresso il marchio a Caino. Quando uno è «felice nell’infelicità» vuol dire anzitutto che non va più di pari passo col mondo, ma significa pure che per lui tutto è in rovina o va in rovina, e nessuna voce franca lo raggiunge più e pertanto egli non può seguirne alcuna sinceramente. Proprio così mal ridotto non sono o almeno non lo ero finora52.

Ciò che Kafka recrimina contro Brod, e difende quattro giorni dopo in una lettera a Felice – adoperando le medesime parole –, è il significato dell’espressione «“felice nell’infelicità”». Non andare più di «pari passo col mondo» perché «tutto è in rovina o va in rovina» e «nessuna voce franca» viene a lui né può «seguirne alcuna». Così Brod rovescia Kafka. A Felice, il 16 ottobre 1917 traduce la lettera per Brod. Non ritrovarsi di «pari passo col mondo», aver «frantumato il mondo» ovvero non percepire la «voce franca», e, da impotente, non riuscire a «seguirne alcuna», implica che nel confino di Zürau, nel suo assolo con il mondo, «incapace di ricostruirlo vivo», Kafka vi sarebbe «cacciato e perseguitato attraverso le sue macerie»53, dannato a contemplarne il disastro. E il senso d’impotenza, che diversamente affligge Joseph K. nel Processo e K. nel Castello, per Lukàcs appare «intensificato ed elevato a concezione del mondo», simbolo dell’arte moderna54. Ma nel disastro, Kafka nega la lettura del disastro, l’anti-Caino protesta contro Max e Felice rivendicando la redenzione seppure da disperato espiante. E salvezza e disperazione esprimono il possibile innestato nel solco 51 52 53 54

Ivi, p. 708. Id. Lettere, cit. p. 216. Id. Lettere a Felice. 1912-1917, cit. p. 808. G. Lukàcs, Il significato attuale del realismo critico, cit. p. 40.

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dell’impossibile, la fioritura dell’assoluto. Blanchot scrive che la «preoccupazione della salvezza è in lui immensa, tanto più forte in quanto è disperata, tanto più disperata in quanto non conosce compromesso»55. La parola «incominciare» da Zürau-Eden, raccolta come una provvidenziale pepita nei Diari alla data del 15 settembre 1917, significa semmai conquistare il «passo col mondo», edificare il Regno sulla «rovina», cogliere la «voce franca» o provarsi a «seguirne alcuna». Dopo ogni fine del mondo, «incominciare» significa – ancora nei Diari alla data del 19 settembre – scaturire da una nuova origine. Per Kafka si tratta di affidarsi alla grazia di energie esuberanti nel momento in cui il dolore ha palesemente consumato tutte le mie forze fino al fondo del mio essere che esso sconvolge56.

È l’esperienza dell’apocatàstasis. A Zürau veramente si è sotto un nuovo cielo e si va per una nuova terra. Anche se Kafka abita la malattia, non vive da malato, abita il «dolore» ma la «grazia di energie esuberanti» lo solleva al cielo della trasfigurazione, del mutamento di figura del mondo. L’angelo della morte sorvola il giardino, sua penitenza è il perpetuo girovagare senza pace e senza vittima. A Zürau, «Figura maestosa, principe del regno» è Adamo. E Adamo, a tu per tu con il nuovo mondo, il 7 novembre 1917 nel terzo dei Quaderni in ottavo, può finanche testimoniare: Qui non ci sono mai stato: si respira diverso, più fulgida del sole splende vicino ad esso una stella57.

Nel paradiso terrestre, Adamo vive tra il godimento e la preclusione dell’errore. E il godimento è finalmente lo sprigionamento della libido per l’Albero della Vita. Zürau è l’Albero della Vita, l’Albero della Vita fiorisce soltanto a Zürau. Nella totalità paradisiaca del piccolo villaggio della Boemia, di là della dicotomia tra il bene e il male, Kafka è nella verità del destino: il suo nome è la promessa del solo bene. Sa che l’Albero della Conoscenza e il conseguente «peccato originale» sono il reale impedimento ad attingere dall’Albero della Vita. Ma per la renovatio mundi di Zürau, godere significa anzitutto vivere e beneficarsi dell’Albero della Vita, perché – come si legge l’11 febbraio 1918 nel quarto tra i Quaderno in ottavo – «Vivere significa: essere al centro della vita; vedere la vita con lo sguardo col quale io l’ho creata»58. Kafka desidera l’Albero della Vita. 55 56 57 58

M. Blanchot, Da Kafka a Kafka, cit. p. 73. F. Kafka, Confessioni e diari, cit. p. 585. Ivi, p. 715. Ivi, p. 744.

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Nel terzo tra i Quaderni in ottavo, il 16 gennaio Kafka scrive: Perché ci lamentiamo del peccato originale? Non è per colpa sua che siamo stati cacciati dal paradiso terrestre, bensì a causa dell’albero della vita, affinché non ne mangiassimo i frutti59.

Se Adamo è una «Figura maestosa, principe del regno», l’appunto datato al 18 gennaio 1918 del terzo tra i Quaderni in ottavo è dedicato all’Albero della Vita, il «signore della vita». Il peccatore che viola l’Albero della Conoscenza, è però un peccatore paradossale del paradiso, poiché è anche un uomo non salvato dalla verginità dell’Albero della Vita60. Violare l’Albero della Vita significa l’assoluzione dal peccato originale, perché salvarsi transita dallo sverginare l’Albero della Vita. Kafka nota che Adamo, dopo la sventura dell’Albero della Conoscenza, non per la vita ha abitato il mondo. Contro l’avvertimento ferale di Dio, conserva soltanto la vita relativa della mortalità. Neppure si eleva – secondo il subdolo suggerimento del serpente ad Eva – all’altezza di Dio. Più che la morte annunciata dal Creatore – come scrive Kafka nel terzo dei Quaderni in ottavo il 18 gennaio 1918 – Adamo è destinato appunto alla mortalità, e più che la divinità annunciata da Satana, Adamo conquista la «scienza divina»61. Nel quarto tra i Quaderni in ottavo, il 5 febbraio 1918 Kafka espone – in uno dei vertici intellettuali più abbaglianti del periodo a Zürau – «due specie di verità» intorno all’Albero della Conoscenza e all’Albero della Vita: Esistono, per noi, due specie di verità, quali vengono rappresentate dall’albero della scienza e dall’albero della vita. La verità di chi agisce e la verità di chi riposa. Nella prima il bene si distingue dal male, la seconda non è altro che il bene stesso, e ignora sia il bene che il male. La prima verità ci è concessa realmente, la seconda possiamo solo intuirla. Questo è l’aspetto triste della cosa. Quello gioioso, invece, è che la prima verità appartiene all’attimo fuggente, la seconda all’eternità, per cui la prima finisce per spegnersi nel fulgore della seconda62.

Dei tre modi di «punire il peccato originale», la «cacciata dal paradiso terrestre», la «distruzione del paradiso», il «vietato accesso alla vita eterna», 59

Ivi, p. 731. «Noi siamo peccatori non soltanto per aver assaggiato l’albero della scienza, ma anche per non aver ancora assaggiato l’albero della vita. Peccaminosa è la condizione in cui ci troviamo, e ciò indipendentemente da ogni colpa». Ivi, p. 732. 61 Ivi, p. 733. 62 Ivi, pp. 739-40. 60

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nel terzo dei Quaderni in ottavo, alla data del 25 gennaio 1918, la comunità umana espia soltanto il peccato «più mite», la «cacciata dal paradiso terrestre». Oltre la mancata «distruzione del paradiso», Kafka indica quale «pena più tremenda» il divieto dell’assunzione umana alla «vita eterna»63. Il paradiso non è andato distrutto e la «vita eterna», nel pensiero del 5 febbraio 1918, annotato nel quarto tra i Quaderni in ottavo, diventa «eternità» da opporre all’«attimo fuggente», puro «bene» che «ignora sia il bene che il male» e si oppone alla coesistenza di bene e male, la «verità di chi riposa» da opporre alla «verità di chi agisce», finalmente l’Albero della Vita da sostituire all’Albero della Conoscenza. A Zürau Kafka è l’Albero della Vita e intuisce l’eterno. In un appunto del 19 febbraio annotato sul quarto tra i Quaderni in ottavo, Kafka scrive: Intuizione ed esperienza. Se l’«esperienza» è un riposare nell’assoluto, l’«intuizione» non può essere che la via indiretta verso l’assoluto, passando per il mondo64.

Eva, la matrice dell’errore, è lontana, l’antica violazione dell’Albero della Conoscenza è memoria elaborata, sublimata. Nel pensiero di Adamo, della donna grava soltanto il ricordo. Anche se alla donna è concesso specchiarsi nel nitore del paradiso terrestre, non può sostarvi per lungo tempo. «Come la vedo io, porta sulle spalle essenzialmente per colpa mia il colmo dell’infelicità»: perché Eva è una «donna innocentemente condannata alla tortura»65. La via verso l’assoluto, la «mèta finale» o il «compito supremo»66, nell’annotazione del 19 ottobre 1917 in Otto quaderni in ottavo, e, più in generale, gli aforismi scritti a Zürau, per Blanchot non adeguano l’«affermazione spirituale» alla «prova di una trascendenza negativa»67. I frammenti di Zürau pertanto non si distribuiscono nel siderale, anzi nullificano l’idea stessa del divino e la verticale a Dio. L’assunzione celestiale non specchia alcuna epifania deiforme: Del mondo si sentiva dire che era nato dal nulla, senza che ormai si cogliesse l’enormità e la blasfemia di quelle parole. Blasfemia non rispetto a un Dio, ma rispetto al tutto. Al tempo stesso, il mondo veniva ridotto al visibile, al vyakta. Di esso si diceva che fosse fisica più chimica. Perciò tutto visibile: o dai 63 64 65 66 67

Ivi, Ivi, Ivi, Ivi, M.

p. 736. p. 746. p. 586. p. 708. Blanchot, Da Kafka a Kafka, cit. p. 83.

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nostri occhi o dagli occhi di ingombranti macchine appostate nei laboratori. Questo era il mondo in cui Kafka nacque e fu educato, da ebreo benestante e assimilato di Praga, che parla tedesco e impara presto che il mondo ormai, nella normalità del suo funzionamento, sa fare a meno di ogni specie di Dio e di ogni specie di dèi68.

Il «tribunale supremo» e Dio non figurano un vertice: a quel fine Kafka non desidera tendere. Nel terzo di Otto quaderni in ottavo, un aforisma di Zürau recita: «Se fosse stato possibile, costruire la torre di Babele senza scalarla, lo si sarebbe permesso»69. L’Omphalós è un centro di vita, per Kafka è l’atto simbolico di «abbracciare con lo sguardo tutta la comunità umana ed animale»70, la volontà di dispiegarsi – attraverso la Grande metafora di Zürauparadiso terrestre – nella creazione di sé-paradiso. Se per Camus in «Kafka, i due mondi sono quelli della vita quotidiana da una parte e dell’inquietudine soprannaturale dall’altra»71, ritornare Adamo vuol dire «incominciare» di nuovo ma lontano da Dio. Con la parola «antitesi», nei Diari Kafka nega il dogma paradisiaco. E Steiner coglie nella «diffidenza» kafkiana l’evocazione «dei balbuzienti afflitti dal messaggio di Dio, dei veggenti che cercavano di sottrarsi alla presenza e alle pretese della Parola»72. Kafka nega anche il Genesi biblico. Al «tribunale supremo», Kafka sostituisce il «tribunale umano»73, ciò che però lo disastra è il trascendente, non il secolare. Tra gli aforismi di Zürau, il 30 novembre 1917 annota: La parola sein significa, in tedesco, le due cose: essere e appartenergli74.

Ciò chiede di tradurre la parola «sein» con «esser-ci», «Da-sein», e «appartenergli», «Ihm-gehören»75. Essere, esserci e appartenere loro. La Grande metafora dell’Eden e la «mèta finale» affidata al «tribunale umano» (di cui Felice-Eva è il giudice supremo e la metafora antropomorfa) sono casa all’essere. Sull’identità terrestre della «mèta finale», ciò che è terrestre è anche il cammino. Il 19 ottobre 1917, quasi in apertura del terzo Quaderno in ottavo, Kafka scrive: 68

R. Calasso, K., Milano, Adelphi, 2002, p. 64. F. Kafka, Confessioni e diari, cit. p. 715. 70 Ivi, p. 588. 71 A. Camus, Il mito di Sisifo, cit. p. 325. 72 G. Steiner, Linguaggio e silenzio. Saggi sul linguaggio, la letteratura e l’inumano, tr. it. di R. Bianchi, Milano, Garzanti, 2001, p. 130. 73 F. Kafka, Confessioni e diari, cit. pp. 588–9. 74 Ivi, p. 722. 75 R. Calasso, a c. di, Aforismi di Zürau, Milano, Adelphi, 2004, p. 61. 69

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La vera via passa su una corda, che non è tesa in alto, ma rasoterra. Sembra fatta più per far inciampare che per essere percorsa76.

Tra il 28 settembre e il I° ottobre 1917, oscillando tra i Diari e le Lettere a Felice, Kafka rovescia l’originaria catastrofe paradisiaca per riscrivere idealmente un contro-Genesi. Per cogliere una sorta di Regno Millenario, il regno dell’amore decorrente da un’immaginaria seconda parusía come allegoria ego-ontologica, bisogna percorrere una via kafkiana. Percorrere un giro completo sul nastro di Möbius (dalla luce al buio), non tornare indietro al punto di partenza (dal buio alla luce), bensì procedere per un secondo giro e giungere al punto di partenza (dal buio alla luce). Ad un tempo, camminare lungo il dritto e il rovescio del mondo, spingersi lungo la totalità del Luogo in un cammino infinibile perché – come scrive Bataille su Kafka – «uno scopo è sempre, senza speranza, nel tempo – come un pesce è nell’acqua – un punto qualunque nel moto dell’universo: poiché si tratta di una vita umana»77. Da Zürau, nella lettera a Felice presunta del 30 settembre o del I° ottobre, Kafka scrive: Se mi esamino in merito alla meta finale, risulta che non aspiro veramente a diventare un uomo buono e a rispondere a un tribunale supremo, ma proprio al contrario, ad abbracciare con lo sguardo tutta la comunità degli uomini e degli animali, a conoscerne le loro fondamentali predilezioni, i loro desideri e ideali morali, a farli risalire a semplici precetti, e svilupparmi in quel senso, possibilmente presto, per riuscire gradevole a tutti, o precisamente (qui viene il salto) così gradevole da poter infine eseguire, unico peccatore che non venga arrostito, la volgarità che contengo, apertamente, davanti a tutti, senza perdere l’amore di tutti. Riassumendo, m’importa dunque soltanto il tribunale degli uomini che oltre a ciò voglio ingannare, ma senza inganno78.

L’«abbagliante brano di autoconoscenza»79 – come lo definisce Kafka in una lettera di metà ottobre 1917 a Max Brod – parla di un Regno Millenario espresso dalla filiera essere-esser-ci-appartener-gli: appartenere-loro con l’essere. E l’essere è anzitutto il riconoscimento della propria «volgarità» (o relatività dello status umano), nientemeno che la volontà di insediarsi nel cuore dell’amore terrestre attraverso l’aperta confessione del peccato da «peccatore» (in assoluzione), di integrarsi da finito nell’infinita totalità del cosmo. Nel terzo dei Quaderni in ottavo, l’aforisma del 12 novembre è 76 77 78 79

F. Kafka, Confessioni e diari, cit. p. 708. G. Bataille, La letteratura e il male, cit. p. 138. F. Kafka, Lettere a Felice. 1912-1917, cit. p. 805. Id. Lettere, cit. p. 212.

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eloquente: «Il compito sei tu. Da nessuna parte si vede un alunno»80. Dissolvere la «volgarità» significa scavalcare la linea umana dell’umano, tendere al troppo umano, verificare se la rinascita può essere anche una rinascenza ontologica. Pervenire alla persuasione assolvendo un «compito» sovrumano significa – come per Michelstaedter – rinunciare al Dio della «φιλοψυχία», alla divinità del piacere81 per «esser persuaso e persuadere, avere nel possesso del mondo il possesso di sé stesso – esser uno egli e il mondo. –»82. Più che in Michelstaedter, bandita la via «rettorica», Kafka percorre vie vitali di «persuasione», anche idee di suicidio, non suicidi per incarnarsi nell’elezione83. Entrare in stato d’apocalisse riflette pertanto la condizione limite ed aurorale del disastrarsi, della distruzione di sé da vivente. In un passaggio del terzo quaderno di Otto quaderni in ottavo, Kafka intende la persuasione come un atto devoto, con massima precisione scrive sull’atto d’inchinarsi: Conosci te stesso non significa: Ossèrvati. Ossèrvati è la parola del serpente. Significa: Fatti padrone delle tue azioni. Questa frase, pertanto, significa: Ignòrati! Distruggiti! Dunque una cosa cattiva. E solo chi si china profondamente ne ode anche il messaggio buono, che dice: “Per fare di te stesso quello che sei”84.

L’oggetto del «compito» è la totalità. Ancora nel terzo quaderno dei Quaderni in ottavo, alla data 19 ottobre 1917, Kafka scrive sulla difficoltà di cogliere l’assoluto, il principio-totalità dell’essere per appartenere-loro: 80

Id. Confessioni e diari, cit. p. 715. In una lettera dei primi di dicembre 1917 per Max Brod, Kafka parafrasando il pensiero dell’amico scrive: «Chi non si sente “malato, reo, impotente” nella lotta col proprio compito o meglio, chi non è un compito che risolve se stesso? Chi può redimere senza essere redento nello stesso tempo?». Id. Lettere, cit. pp. 246-7. 81 C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a c. di S. Campailla, Milano, Adelphi, 1992, p. 50. 82 Ivi, p. 82. 83 Alla metà di novembre del 1917, da Zürau Kafka scrive a Max Brod: «La prossima via d’uscita che forse fin dagli anni dell’infanzia si è presentata era non già il suicidio, ma l’idea di esso». F. Kafka, Lettere, cit. p. 233. 84 Id. Confessioni e diari, cit. p. 713. Nel terzo dei Quaderni in ottavo, il 24 novembre si legge: «Non esiste l’avere, esiste solo l’essere: quell’essere che anela all’ultimo respiro, alla soffocazione». Ivi, p. 719. Il 22 gennaio 1918, ancora nel terzo dei Quaderni in ottavo, Kafka riprende il pensiero della distruzione di sé: «Dal peccato originale in poi siamo press’a poco tutti uguali nella facoltà di distinguere il bene dal male; eppure proprio qui cerchiamo la nostra preminenza. Ma solo al di là di questo potere distintivo cominciano le vere differenze. L’apparenza contraria è data da questo: che nessuno può accontentarsi della sola conoscenza, ma deve cercare di comportarsi conforme ad essa. La forza di farlo, però, non gli è stata data, perciò ciascuno deve distruggere se stesso». Ivi, p. 734.

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NEIL NOVELLO

Come vuoi anche solo sfiorare il tuo compito supremo, come vuoi anche solo intuirne la vicinanza, anche solo sognarne l’esistenza, anche solo invocarne il sogno, anche solo osare d’imparar le lettere che compongono l’invocazione, se non sei in grado di concentrarti a tal punto che, quando sarà il momento decisivo, tu possa stringere il tuo tutto nella mano come si stringe un sasso da scagliare, un coltello per macellare85?

La rivelazione delle rivelazioni, la vera apocalisse per Kafka è il nome del mistero, l’«indistruttibile». È la catena misteriosa chiamata a fondare la comunità umana perché l’«indistruttibile» è proprio dell’uomo nell’umanità86. La totalità ontologica e la totalità mondana, il «compito supremo» e il «tutto» restano sotto la linea madre dell’«indistruttibile». L’occasione in cui Kafka pensa alla seconda parusía, al ritorno del Messia e al Giudizio Universale, nel terzo tra i Quaderni in ottavo il 30 novembre 1917, per la prima volta introduce la parola «indistruttibile» inserendola in un circolo aporetico ove brilla anche la stella dell’«essere»: Credere significa liberare in se stessi l’indistruttibile, o meglio: liberarsi, o meglio accora: essere indistruttibili, o meglio ancora: essere87.

Per Kafka, il secondo Avvento del Messia coincide con una conquista: venire allo «sfrenato individualismo della fede» umana. È un traguardo dell’anima, un’utopia88. Avere «fede» e «credere», ancorché richiamare il Messia, è e dovrà essere una condizione dell’uomo, della comunità umana capace di incarnarsi, oltre all’«essere indistruttibili», nell’«essere». A distanza di quattro giorni, il 4 dicembre, nel terzo quaderno dei Quaderni in ottavo, l’«indistruttibile»/«essere», come condizione e viatico umano per il sogno di una seconda parusía dell’anima, è destinato a fallire l’incontro con il tempo del Giudizio89. 85

Ivi, p. 708. Il 24 dicembre 1917, nel terzo di Otto quaderni in ottavo, Kafka scrive: «L’indistruttibile è unico. Ogni singolo uomo lo è e nel medesimo tempo esso è comune a tutti. Ecco l’origine dell’incomparabile, inscindibile unione che lega gli uomini». Ivi, p. 728. 87 Ivi, p. 721. 88 Nel terzo tra i Quaderni in ottavo il 9 dicembre 1917 si legge: «Colui che osserva l’anima non può penetrare nell’anima; esiste però una linea marginale in cui viene in contatto con essa. Ciò che si scopre in tale contatto è che anche l’anima ignora se stessa. Perciò deve necessariamente restare ignota. La cosa sarebbe triste solo se esistesse qualcosa all’infuori dell’anima, ma in realtà non esiste nient’altro». Ivi, p. 725. 89 «Il Messia verrà soltanto quando non ci sarà più bisogno di lui, arriverà solo un giorno dopo il proprio arrivo, non arriverà l’ultimo giorno, ma all’ultimissimo». Ivi, p. 722. 86

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ROVINE

DI PARADISO, REGNI MILLENARî E NULLITà DI

DIO

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Forse non si è verificato il teorema di Nietzsche nell’Anticristo: «Il “regno dei cieli” è una condizione del cuore – non qualcosa che giunge “oltre la terra” o “dopo la morte”»90. Il ritorno del Messia, la vita millenaria indicherebbe la conquista umana dell’«indistruttibile»/«essere». Anche se l’anima, pure l’anima imprendibile non riconosce il proprio volto, perché l’«anima ignora se stessa», come scrive Kafka il 9 dicembre 1917 nel terzo tra i Quaderni in ottavo91. Lontano da tale vetta spirituale, connaturato al suo fatale nascondimento92, il fallimento testimonia l’inattuabilità dell’elevazione, il carattere ostruente dell’«esitazione» umana93, con lucida disperazione espressa da Kafka, nella sua cosciente carenza di creatura terrestre, all’altezza del terzo tra i Quaderni in ottavo. Alla data del 22 gennaio 1918, la «fede»/«mannaia» espone il tracciato ma ad un tempo impone l’impercorribilità della celestialità mondana, ciò che è necessario è gettato in una sconsolante aporia spirituale, l’«indistruttibile» come remota alea, sola sfinge dell’inverificabile possibile: Una fede lieve e pesante come la mannaia di una ghigliottina94.

Il «bocciolo diventa fiore»95, nella stupenda immagine di Benjamin è proprio ciò che non è accaduto. Un poeta come Auden, oltre che puntellare al meglio la cifra benjaminiana parlando dello scrittore finanche come del «massimo maestro della parabola pura», annota che l’«informazione biografica, che non apporta praticamente nessun contributo alla comprensione dell’opera del romanziere o del drammaturgo tradizionale», al contrario si rivela di «grande utilità nel caso di un autore di parabole come Kafka»96. Anche di Kafka come soggetto parabolico. E Kafka al tempo di Zürau sfiora l’acme per scivolare, più che mai umano in cammino lungo il pendio della parabola, dall’altra parte della vita. 90

F. Nietzsche, L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo, cit. pp. 45-6. F. Kafka, Confessioni e diari, cit. p. 728. 92 Ancora nel terzo tra i Quaderni in ottavo, Kafka scrive: «L’uomo non può vivere senza una perenne fiducia in qualcosa d’indistruttibile in lui, la qual cosa non esclude che, sia tale fiducia, sia quell’elemento indistruttibile, gli possano restare perennemente nascosti. Uno dei modi coi quali può esprimersi questo nascondimento è la fede in un Dio personale». F. Kafka, Confessioni e diari, cit. p. 723. 93 «Esiste un punto d’arrivo, ma nessuna via; ciò che chiamiamo via non è che la nostra esitazione». Ivi, p. 716. 94 Ivi, p. 735. 95 W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, frammenti cit. p. 286. 96 W. H. Auden, Saggi, pref. di E. Siciliano, tr. it. di G. Fiori Andreini, Milano, Garzanti, 1968, p. 224-26. 91

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NEIL NOVELLO

Forse qui fiorisce – oltre che la cupa premonizione di un’«epoca di disumanità», per Steiner tratteggiata da Kafka come icona dal «volto insopportabile» –, quella «tentazione del silenzio» sospesa tra la coscienza del «Verbo» originario e l’aurora muta della «fine»97. È un arco trans-epocale destinato a concretare l’impari e perdente conflitto tra la letteratura e il male radicale. Nel terzo dei Quaderni in ottavo, il 6 dicembre 1917, matura un clamoroso Kafka-Dysangelium: Il male è il cielo stellato del bene98.

Forse è il più esemplare Sinnbild da interporre a ledere tra la vita spirituale inafferrabile e la crudeltà del mondo. Per vederlo rovesciarsi, cielo di male crollante sulla terra, esposto nel mondo, katéchon alla buona vita.

97 98

G. Steiner, Linguaggio e silenzio. Saggi sul linguaggio, la letteratura e l’inumano, cit. p. 131. F. Kafka, Confessioni e diari, cit. p. 723.

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La beatitudine del nulla. Paragrafi sulla vocazione apocalittica della poesia moderna di Matteo Veronesi

I Nel giorno della Quaresima, scriveva Gioacchino da Fiore, «velum illud mysteriale quod pendet a conspectu altaris tollitur a facie populi» (Concordia Veteris et Novi Testamenti, V, 48). Riprendendo la simbologia del velamen, dell’integumentum (del «velame de li versi strani»), la quale da Dante (segretamente suggestionato, nella teofania con cui culmina il poema sacro, dall’immaginazione visionaria del francescanesimo spirituale e delle eresie pauperistiche, fra il Gioacchino del Psalterium decem chordarum e il Clareno traduttore della Scala Paradisi) arriverà, attraverso il Boccaccio delle Genealogie deorum gentilium, fino al Salutati del De laboribus Herculis, e oltre, il «calavrese abate Giovacchino» coglieva, forse, l’aspetto essenziale della tensione in senso lato apocalittica che attraversa il dire poetico al pari di quello profetico: apocalittico (diremmo con Derrida) nel duplice senso di rivelatore ed agonico, epifanico ed ultimativo, teso all’alétheia, allo svelamento, al non–nascondimento e, del pari, alla deriva, all’annullamento, al vuoto, all’ammutolimento, alla distruzione o alla vanificazione di ogni senso. Come Gioacchino chiariva nel Liber introductorius in Apocalypsim (I, 22) – e come già suggeriva, dai Padri alla Scolastica, l’esegesi cristiana –, il «velo della lettera», la «lettera che uccide» (qualcosa di simile, in fondo, alla benjaminiana Sachgehalt, o al certum di Vico) sono implicitamente identificati con il paolino «corpus animale» che occulta ed opprime, con la sua greve opacità, il «corpus spirituale», la carne redenta e sublimata che – metaforicamente e misticamente «sepolta con Cristo» nell’acqua luminosa del battesimo – anela ad una nuova nascita. «Erunt […] nobis corpora spiritualia et ea ipsa spiritu repleta divino»; il sacrificio pasquale è stato consumato «ut die vero pentecostes lingue ignee cernerentur oculis». Allora i «verba historica» si trasfigureranno in «verba mystica», e sarà possibile – secondo una modalità semiotica ed ermeneutica simile a quella che ritroveremo, postmodernamente, nell’Eco di Lector in fabula – «libri materiam intimare […] et, quam sit intentio operis, enodare»: penetrare, in

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MATTEO VERONESI

altre parole, e scrutare a fondo la Wahrheitsgehalt, il «contenuto di verità», il «vero» che sta al di là del «certo», oltre la superficie del factum, dell’eventum e della loro aderente mímesis, ed appropriarsene nel profondo, usque ad medullam, fin quasi a farne propria carne e proprio sangue – fino, insomma, a sentire, come nel piccolo libro che l’Angelo porge al Profeta (Apocalisse, 10, 8), la mielata dolcezza che si nasconde oltre l’acre amaro del primo gusto, oltre l’acerba durezza della superficie. Ma questo sforzo ermeneutico è virtualmente illimitato, nascendo dal contatto, o dal conflitto, tra la finitezza della coscienza interpretante e la potenziale infinità dei significati racchiusi nell’interpretandum, che è il Verbo divino. «Quanto tempore» – si chiedeva Agostino – «legi poterit liber, in quo scriptae sunt universae vitae universorum?» Solo «mentis intuitu mira celeritate» sarà possibile scorgere e scrutare, nel suo infinito ed intemporale dispiegarsi, quel «liber» il cui ineffabile «nomen» sarà assunto, alla fine dei tempi, dalla «divina vis» (De Civitate Dei, XX, 14).

II In questo senso, si può forse affermare che il dire apocalittico sia condizione essenziale e privilegiata della parola poetica, tensione del Verbo verso la sua piena rivelazione, la sua intensa illuminazione, il suo autosuperamento e il suo conseguente naufragio nell’al-di-là-del-senso, nello zanzottiano «alto, altro linguaggio, fuori idioma» – anche a costo di perdersi, infine, nel vuoto, nel nulla, nel silenzio. Eppure, sospesa e divisa fra la storia e l’eterno, la perennità dell’aspirazione e della vocazione e il concreto, transeunte emergere di autori, opere, correnti, movimenti, «sistemi letterari», la «poesia apocalittica» ha avuto, nell’Inghilterra dell’entre deux guerres, una sua oggettiva e ben determinata manifestazione, che – legata ad antologie come The New Apocalypse e The White Horseman – trovò in Dylan Thomas l’esito più alto. Una poesia, questa, che si immerge, a sua volta, in un divenire storico e storiografico, collocandosi ad un crocevia di matrici ed ascendenze da un lato (dal Wit dei metafisici eufuisti e barocchi alla lirica visionaria, preromantica e romantica, di un Blake o di uno Shelley), discendenze, echi, influssi dall’altro (basti pensare alla circolazione che la poesia di Dylan Thomas ebbe in Italia grazie alle versioni ardue e simpatetiche di un Montale e di un Bigongiari, o alla suggestione che gli Apocalittici poterono esercitare su autori francesi di formazione surrealista, da Éluard a Michaux, da Soupault al Jean Jouve traduttore dei Poèmes de la folie di Hölderlin).

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È come se la parola apocalittica riattingesse l’eterno, si ricongiungesse con la trascendenza e l’alterità passando attraverso una loro precisa incarnazione storica. Eppure, la condizione apocalittica della parola (la voce solitaria del poeta-profeta che grida dall’isola di Patmos) continua a rappresentare emblematicamente lo statuto ontologico, la dimensione forse essenziale, e per così dire fatale, del discorso poetico. Apocalittico, scriveva Henry Treece in How I see Apocalypse1, è il poeta «who senses the chaos, the turbulence, the laughter and the tears, the order and the peace of the world in his entirety. […] As his words are prophetic, they will tend to be incantatory, and so musical». Non siamo lontani dalla poetica simbolista dell’alchimie du Verbe, della sorcellerie évocatoire, del dire in versi come explication orphique de la Terre. «Language» – scriveva già Shelley nel quarto atto del Prometheus Unbound, in versi che poterono porgere a Campana suggestioni decisive – «is a perpetual orphic song». Nell’esagitata visionarietà del poeta, sarà proprio la forza mitopoietica del canto orfico a plasmare dal nulla e dal vuoto il «nuovo cielo» e la «nuova terra» dell’Apocalisse, a «costruire nel vuoto / un mondo dominato dalla saggezza». L’Apocalisse, ha scritto Roberto Mussapi, è un «archetipo della genesi dell’opera», la sorgente di un flusso verbale simile ad un «clangore fastoso e incandescente […] interrotto però da improvvisi, infinitamente quieti intertempi di silenzio»2: ancora la musique du silence, il «musicale silenzio» di Mallarmé e di D’Annunzio – o l’ungarettiano «inesprimibile nulla» che si insinua «tra un fiore colto e un altro donato», e che coincide, emblematicamente, con l’eterno. Del resto, il poeta di Sentimento del tempo fu appassionato lettore ed interprete di Blake – dell’aedo che nei Songs of experience aveva fatto risuonare la Parola apocalittica, il Verbo che fu, che è e che è destinato a tornare (Apocalisse, 1, 4), «the voice of the Bard / Who present, Past and Future sees» (così come il profeta-veggente di Patmos «quaecumque vidit», e il poeta della Commedia dovrà rendere «manifesta […] tutta sua visïon»)3. 1

London, Lindsay Drummond, 1946. R. Mussapi, La forza visionaria dell’Apocalisse, «Corriere della sera», 29 aprile 2007. 3 Sugli echi apocalittici nella poesia preromantica e romantica, si possono vedere S. GolRepresentation, Ithaca, Cornell University dsmith, Unbuilding Jerusalem. Apocalypse and Romantic Representation Press, 1993; E. Ahearn, Visionary fictions. Apocalyptic writing from Blake to the modern age age, New Haven, Yale University Press, 1996 (che evidenzia la tensione agonica ed apocalittica sottesa, in diverso modo, tanto all’esperienza del simbolismo, quanto a quella delle avanguardie Literature, storiche); M. H. Abrams, Natural Supernaturalism. Tradition and Revolution in Romantic Literature New York, Norton, 1971; H. Bloom, Blake’s Apocalypse, Doubleday, ivi, 1963. 2

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Ma l’eternità del Verbo, della Parola divina rischia di risolversi nel nihil aeternum, nella «solitaria caligo Patris», nel vuoto incolmabile, nell’irredimibile assenza – nell’«inesprimibile nulla» di cui si è detto. L’Urizen blakiano ha scritto «nella solitudine» il suo fatidico «Libro di eterno bronzo», dopo avere «lottato con il fuoco» – con l’inestinguibile ed inconsumabile fiamma dell’Esodo e dell’Apocalisse – ed essersi immerso nell’immenso e vacuo «grembo della Natura». «All was darkness / In the flames of Eternal fury»; tutto è «formless unmeasurable death», biblico, esiodeo ed ovidiano Caos primigenio, prima che l’armonioso discorso della parola poetica sopraggiunga ad imprimervi contorni, proporzioni, significati. E Urizen soffre nel vedere «that life liv’d upon death»: la vita si nutre della morte, l’Essere trae sostegno e sostanza dal Nulla; l’Agnello sacrificale è insieme Alfa ed Omega, principio eterno ed eterna morte – «primogenitus mortuorum», primizia, a seconda delle possibili interpretazioni, dei morti e insieme dei risorti, che, aspersi dell’acqua battesimale – l’acqua simbolo di rinascita, purificazione, vita, ma, del pari, possibile spazio del naufragio, dello sprofondamento, dell’annientamento – sono stati idealmente «sepolti insieme a Cristo», al di là del tempo. Il paradosso cristiano – ma anche platonico e gnostico – della tombaculla, della morte che è vera nascita e vera vita sembra collocarsi al cuore stesso della condizione e della vocazione apocalittiche della poesia moderna. Lo Shelley di Adonis – che forse influenzò, attraverso il D’Annunzio alcyonio, il primo ermetismo fiorentino – prega, ribaltando l’ordinaria percezione esistenziale, che la Vita non divida più «what death can join together» (LIII), cioè essenza ed esistenza, aspettazione e compimento, eterna quiete e canto proteso e dispiegato. Ma la parola, nel suo cercare il principio, l’infinito, l’eterno, deve infine perdersi nei deserti del silenzio, nelle plaghe del vuoto, nelle radure sconfinate del non essere. Tutti i corpi celesti – scrive il Blake di The Mental Traveller – devono infine disperdersi e confondersi in «A desart vast without a bound», in «a dark desart all around», in vasti cerchi concentrici ed espansi di nulla, di assenza, di vuoto ontologico. «Stelle, tutto svanisce, sole, luna, / Si fa vasto un deserto senza limite, / Non resta niente da mangiare o bere, / Deserto attorno buio», traduceva Ungaretti, aprendo voragini di vuoto, ferite di assenza e di tenebre attraverso quelle stesse inversioni, quelle stesse anastrofi tese e dolorose che solcano il dettato di Sentimento del tempo. E sarà interessante vedere come, nel Discorsetto su Blake4, l’Ungaretti critico, muoven4

Ora in G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Saggi e interventi, a cura di M. Diacono e L. Rebay, Milano, Mondadori, 1997, pp. 596-99.

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dosi sulle orme di Eliot e di Mallarmé, proietti sul suo autore quello stesso «miracolo della parola» (intessuto di «innocenza» e «memoria», di «onestà» sorretta da «sapere tecnico») perseguito nella sua poesia. Scriveva Padre David Maria Turoldo in Il Dramma è Dio5 (libro tutto calato nella temporalità apocalittica, tesa e rovente, di un Essere per la morte preannunciata e trepidamente attesa, e permeato da un pensiero poetante vivido ed estremo, commisto di prosa e versi) che «il Nulla è tanto necessario all’Essere, quanto l’Essere è necessario a se stesso». L’uomo potrà identificarsi con la Deità, essere con lei «una cosa sola», solo quando avrà raggiunto «il pieno nulla»; allora nella parola della poesia risuonerà l’eco, fioca ma profonda, del «misterioso incredibile verbo / non mai finito e sempre al presente, / così maestoso suo verbo sul mondo» – il «verbo non pronunciante ancora e impronunciato» dell’eliotiano Canto di Simeone tradotto da Montale. Un Verbo coincidente con l’essere che era, è e sarà, con l’Alfa-Omega, con l’«id quod est» dell’Esodo – e insieme con il nihil aeternum e la via tenebrarum dei mistici, o con l’heideggeriano Essere di Che cos’è metafisica, del quale, infine, «ne è nulla». «Tempo è di rifare la strada, / di tornare nel deserto / dove il roveto è ancora in fiamme: // e riudire la voce...». Come si chiedeva l’apocalittico George Barker in O who will speak from a womb or a cloud?, «O who / Who but the not yet born can tell me of my bourne? (...) / Who but the dead can kiss the not yet born?». L’essere ha nel nulla la propria radice prima e, insieme, il proprio esito ultimo, il proprio essenziale inveramento. Il vero fondamento risiede in quel medesimo eterno Nulla che precede la nascita e segue la morte. E proprio con quella nihilitas, con quell’inespugnabile e primigenio silenzio si identifica l’UomoDio primogenitus mortuorum. Eppure, la fine è nuovo principio, l’Omega è Alfa, la morte nascita. «Principio altro principio genera», dice ancora Turoldo, «in vite irripetibili / come le primavere». Al termine del tempo umano, «il medesimo silenzio dell’origine / nuovamente fascerà le cose»; il silenzio sarà seme della voce, la quiete scaturigine di un nuovo discorso, e di un discorso nuovo – l’apocalittico «canticum novum», appunto, il «dolce stil novo» di un dire reso più limpido e veridico dalla luce della catarsi e della grazia. «Till life is death there’ll be no reason / Till life and death unite there’ll be no reason», scrive Dylan Thomas nella chiusa – semanticamente e logicamente ambigua come quello stesso cortocircuito esistenziale ed ontologico che vuole ritrarre – di Poem 39. E in Altarwise by owl light tutta la tensione 5

Milano, Fabbri, 1997.

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apocalittica, sacrificale ed escatologica si concentra nella figura – umile e insieme universale – di «Jack Christ» («Cristognuno», traduce felicemente Roberto Sanesi6), sorta di prometeico Ur-Mensch, di «uomo protofenomenico», o forse di hostia, di agnello sacrificale anonimo ed onnipresente – qualcosa di simile, insomma, al più radicale, rivoluzionario ed enfatico «Christ of Revolution and Poetry» invocato da David Gascoyne in Ecce homo.

III Scorrendo il Quaderno di traduzioni pubblicato a Milano, nel 1948, dalle Edizioni della Meridiana, si ha la sensazione che il Montale traduttore – tanto nelle modalità dell’atto interpretativo, quanto nella stessa scelta dei testi, da Hopkins alla Dickinson a Dylan Thomas, da Eliot a Pound – abbia dato espressione a quella stessa vocazione metafisica e trascendentale, e dunque apocalittica, che aveva animato, fra le Occasioni e la Bufera (raccolte segnate profondamente dall’apocalisse storica e terrena della guerra), anche la sua poesia originale7. Per non fare che un esempio, nell’«adattamento» della densa ed enigmatica Transfiguration di Djuna Barnes, «Down falls Christ into his death» diviene «dispare Cristo e rientra nella sua morte»; la criptica e polisemica chiusa («The Unchained sun, in raging thirst, / Feed the last day to the first») è resa: «Un sole furibondo, arso di sete, / sugge l’ultimo giorno e insieme il primo». In entrambi i casi, ad essere accentuate sono l’invisibilità, l’ineffabilità del divino e la stretta coimplicazione, la profonda circolarità, la serrata e reversibile symploké, di nascita e morte, principio e fine, Alfa ed Omega. La traduzione si fa – potremmo dire con Benjamin e con Steiner, ed estendendo il discorso, con le debite distinzioni, anche all’Ungaretti traduttore di Blake e di Góngora, o al Luzi interprete di Mallarmé – «redenzione del linguaggio», ricomposizione della ferita e della diaspora babeliche nella grazia limpida ed illuminata di un’autocoscienza aperta all’alterità, affacciata sulla soglia delle cose ultime. Fra la seconda e la terza delle raccolte poetiche montaliane, le figure – in diverso modo sacrificali e salvifiche, o addirittura teofaniche e cristo6

D. Thomas, Poesie, Torino, Tea, 1996, p. 75. Cfr. R. Gigliucci, Sulla colonna più alta. Montale e l’apocalisse, http://www.disp.let.uniroma1. it/fileservices/filesDISP/Per15%20Gigliucci.pdf (cui sono debitore di molti spunti). D’obbligo il riferimento a L. Barile, Adorate mie larve. Montale e la poesia anglosassone, Bologna, Il Mulino, 1990. 7

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logiche – di Clizia, di Iride, di Volpe sono cinte da un alone trasfigurante che assume sfumature e bagliori chiaramente apocalittici. Del resto, con la poesia apocalittica inglese Montale si confronta espressamente in un articolo del ‘51, occasionato dall’antologia di Carlo Izzo Poesia inglese contemporanea8. Gli emblemi e i segnali dell’olocausto e dell’apocalisse (il fuoco, il sangue, il lampo) accompagnano le epifanie di questi angeli e di queste cristofore. «Nulla finisce, o tutto, se tu folgore / lasci la nube» (ancora la circolarità, o l’indistinzione, di principio e fine, tutto e nulla). «Alla scintilla / che si levò fui nuovo e incenerito»: il fuoco inestinguibile del roveto ardente, l’ignea epifania del trascendente sono un lavacro da cui potrà forse sorgere, puro ed aurorale, il canticum novum, secondo i voti del «fanciullo antico» di Riviere, il testo che chiudeva gli Ossi («cangiare in inno l’elegia», «nel sole / che vi investe, riviere, rifiorire!»). Ma forse non si è, finora, sufficientemente evidenziata la matrice baudelariana delle salvifiche epifanie femminili che popolano l’immaginario montaliano così come – pur se in forme più eteree ed evanescenti – quello ermetico. Si legge nella celebre poesia À une passante: «Un éclair... Puis la nuit! – Fugitive beauté / Dont le regard m’a fait soudainement renaître, / Ne te verrai-je plus que dans l’éternité? // Ailleurs, bien loin d’ici! trop tard! jamais peut-être!». La possibile salvezza, la possibile rinascita, mostratesi solo per un breve istante, sono immediatamente catturate dalle tenebre eterne, e rigettate nella prospettiva apocalittica di un’eternità indeterminata, senza principio né fine, in cui ciò che visse si confonde con ciò che mai non nacque, dissolvendosi l’uno e l’altro nella fosca e dilabente aura del nevermore di Poe. Viene in mente la montaliana fanciulla che «entra nel buio» di un avvenire ignoto e sinistro, non tutelata che da un umile, tenero e fragile «lare della dispersa sua famiglia». L’orizzonte è, in senso lato, mefistofelico, faustiano – è quello del «puro nulla», del «Nulla eterno» con cui, nel coro mistico del Faust, il Maligno identifica il passato, che non sembra, nella prospettiva diveniente, transeunte, interamente mondana, del tempo alienato, poter essere in alcun modo inverato o redento. Ma proprio la diffusa ed abbagliante simbologia ignea e metamorfica sembra accomunare (basti qui citare il Luzi dell’Alta, la cupa fiamma e di Las Animas o il Bigongiari di Viso di fiamma, di Rogo, di Incandescente: «in una sacra luce indifferente, / tu assorbita dal cosmo, oggetto al colmo / di cui bevevo, sacro, ogni sussulto») il sistema semantico dell’ermetismo fiorentino a quello di Montale – autore, peraltro, perlopiù prossimo ad una concretezza e ad 8

Parma, Guanda, 1950; l’articolo montaliano in Il secondo mestiere, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1996, t. I, pp. 1150 sgg.

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un’“oggettività” eliotiane o sereniane, e per ciò stesso avulso dalle disincarnate fascinazioni foniche ed analogiche della poésie pure. Siamo ancora lontani dall’amarezza, dal disincanto, dall’agro, lucidamente rassegnato sorriso, del Montale ultimo. Osservava, sottile ed acuto, il Luzi di Vicissitudine e forma che, in Montale, «il tumulto che si produce tra la diffidenza metafisica e il desiderio vitale che urge e scatta cerca una risposta, ma trova tutt’al più una sospensione nelle frasi e negli oggetti-sintomo che, posti come evidenze, sono in realtà delle incognite»9. Fino ad un certo segno, la «libertà inibita», la «vita senza scampo», la «vicissitudine sospesa» proprie dell’inquietudine luziana potevano trovare riscontro in certe cadenze ossessive, strenue, vincolate del primo e del secondo Montale – salvo però abbracciare, poi, il «giusto della vita», la «vita fedele alla vita», abbeverarsi alla luce di una trascendenza fattasi storia, tempo, presenza, esperienza, e trovare così nuovo respiro e nuova speranza. Ma, in entrambi i casi, l’iter ontologico, conoscitivo ed espressivo dell’«evidenza» che si fa «incognita», dell’oggetto che diviene simbolo, e che sollecita lo sguardo a penetrare e a procedere oltre la sua superficie fenomenica, riflette, ancora una volta, una vocazione apocalittica alla alétheia, alla rivelazione, al disvelamento, alla ricerca del varco che si apra tra i velami della lettera. Come dice un celebre verso degli Ossi, tutte le tracce portano scritto: “Più in là”. E, si noti, il campo semantico e la simbologia flammei, sacrificali, catartici trovano riscontro – per non fare che un esempio – in Una facile allegoria, testo di Fortini raccolto in Poesia e errore: «Ogni anno del libro una parola / ogni sigillo di delusa storia una sillaba luminosa, / in fiamma alito aria / tutta tramuterà questa sostanza». «Tutto trasparentissima sostanza» apparirà – quasi per una sorta di dare e avere tra post-ermetismo ed “impegno” – l’Essere al Luzi di Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini. La parola, il dire poetico si fanno fuoco e luce, in uno sforzo di essenzialità e di purificazione, in una ansiosa speranza di rigenerazione e di rinascita. Fra post-ermetismo e neo-avanguardia, la parola poetica si tende e vibra sospesa fra la luce del fuoco purificatore e la junghiana, greve aqua permanens della Palude inerte ed immutabile. Due simboli, questi, che sembrano coesistere e stridere in Eliot, dai Four quartets ad A Murder in the Cathedral: «Water and fire shall rot / The marred foundations we forgot / Of sanctuary and choir. / This is the death of water and fire» (Little Gidding, II). E anche le devote monache di Canterbury temono, giunte all’estremo discrimine, il Vuoto e il Nulla che si spalancano oltre la soglia ultima del tempo e della storia, oltre 9

M. Luzi, Montale, la compiutezza dell’arte, in Id. Vicissitudine e forma, Milano, Rizzoli, 1972.

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l’apocalittica «rovina della casa». «God is leaving us, God is leaving us, / more pang, more pain than birth / or death. / Sweet and cloying through the dark air / Falls the stifling scent of despair». Oltre l’essere, al di là o al di sopra della vita e della morte, si incontrano, «foully united forever» in virtù di una aberrante coniunctio, alchemica od incestuosa, «nothing with nothing», il Nulla con il Nulla. La circolarità, tipicamente eliotiana, di fine e principio, di morte e vita, è immersa e dissolta nella prospettiva dell’annientamento, della distruzione, di un’eternità negativa e deserta. Ma, come mostra fra gli altri il discorso luziano, la vocazione apocalittica della forma artistica può anche divenire – direbbe Ernst Bloch – «parvenza anticipatrice», fantasmatica prefigurazione di un futuro di pienezza e di libertà. «La fine della storia […] praticherà la sola conservazione possibile del passato: quella che lo distrugge in quanto passato e lo fa presente»10. In quest’ottica, tornando a Montale, non sarà privo di significato che proprio in Satura figuri A un gesuita moderno, testo che – in una prospettiva nettamente nichilistica ed antimetafisica – irride il pensiero di Teilhard de Chardin, il cui evoluzionismo volontaristico e personalistico, la cui ottimistica utopia di un phénomène humain destinato a risolversi, alla fine dei tempi, nel trionfale e fulgido Omega di una compiuta e pacificata Noosfera avevano forse influenzato, anni prima, il bergsoniano, fluente vitalismo dell’Anguilla, protesa verso un agognato e duraturo sbocco esistenziale («la scintilla che dice / tutto comincia quando tutto pare / incarbonirsi, bronco seppellito»). «L’Humanité – scriveva Teilhard in Le Phénomène humain –, prise dans son ensemble, devra […] se réfléchir à son tour ponctuellement sur elle-même». La Fine del mondo coinciderà con il «retournement interne en bloc, sur elle-même, de la Noosphère, parvenue simultanément à l’extrème de sa complexité et de sa centration». «Capable de contenir la personne humaine, il ne saurait y avoir qu’un Univers irréversiblement personnalisant». Come già erano parsi suggerire, fra genialità intuitiva, delirio visionario e lucida coscienza letteraria, il Poe di Eureka e il Mallarmé del Coup de dès, la parola poetica – madre e figlia di se stessa, quasi per una sorta di partenogenesi, raccolta nella sua aseità, nella sua libera consapevolezza, nella sua contemplante, quasi adorante autocoscienza – può riverberare la musica mundana, la silenziosa armonia dell’universo, la direzione e il significato di ogni fibra e di ogni particola dell’esistenza universale.

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F. Fortini, Verifica dei poteri, Torino, Einaudi, 1989, p. 100.

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IV «Quante perfezioni, quante / quante totalità. Pungendo aggiunge. / E poi astrazioni astrificazioni formulazioni d’astri / assideramento, attraverso sidera et coelos / assideramenti assimilazioni» (La perfezione della neve, in La beltà). Qui sembra tornare la simbolica «argentea neve», «testimone di vita immortale», dello Hölderlin di Patmos, tormentato inno che si pone, fin dal titolo, in un orizzonte profetico ed apocalittico. «Evoè lungo i ghiacci e le colture dei colori / e i rassicuranti lavori degli ori»: non si vede come chiosare l’euripideo e polizianeo grido bacchico se non rinviando al sincretismo cristiano-dionisiaco di Hölderlin (penso al «mistero del tralcio» rievocato proprio in Patmos, o all’elegia Pane e vino). Non è casuale, per inciso, che, in chiave soteriologica, il Montale della Bufera identificasse Clizia con la platonica Diotima, protagonista della Thalia di Hölderlin, né che Luzi chiudesse la sua introduzione all’Idea simbolista citando, a proposito della «sanzione dolorosa» imposta dal «mistero dell’incarnazione», proprio il poeta tedesco11. Ma, all’altezza della Beltà, appare ormai chiara, in Zanzotto, la consapevolezza che è dileguato ed è andato perduto «von Reden […] / der lebedige Laut», il «vivo limpido suono sgorgante dal Verbo» (mentre ancora, per Hölderlin, «l’Opera divina somiglia alla nostra»). Noi – si leggeva nell’incipit di Mnemosyne, amaramente citato da Zanzotto in Sì, ancora la neve – siamo «Ein Zeichen […] deutungslos», «un segno senza significato». «Risuona la pagina e allora le querci / fremono presso i nevai. […] / Giungono i mortali all’abisso» – all’heideggeriano Abgrund. «Così volge l’eco / insieme con essi». Ma, in Zanzotto, all’eco tenue e sfumata, alla delicata dissolvenza metafisica che segnavano, in Hölderlin, la distanza, l’alterità, la “gettatezza” del dire umano rispetto alla lingua del profondo, del principio, dell’origine, si è ormai sostituita la lacaniana deriva del Significante – la béance, il vuoto e la ferita essenziali e immedicabili di un Autre imperscrutabile e franto, che non traspare, se non tra i lacerti doloranti e gli sparsi barlumi di un vero inferno verbale, di una sorta di allucinato Averno della parola. Nella Pasqua a Pieve di Soligo, in Pasque, la sacralità del rito è ormai violata ed alienata nel mondo delle «cose puttane», di una comunicazione e di un vivere civile ormai reificati, mercificati, inautentici. «Saetta il coup de dès 11

Vedi L. Terreni, Introduzione, in F. Hölderlin, Inni e frammenti, Firenze, Le Lettere, 1991, pp. XIV sgg.

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che sconnette e connette / l’es e l’io, il tuo es e il tuo io, Dio, fuor delle serie abbiette, /fuori volume, fuori cosa e cose, fuori furori / e normule, in un parto che ogni suo alvo divori…». È evidente, qui, come Zanzotto rilegga l’estremo, delirante e insieme lucido, naufragio mallarmeano attraverso la lente del lacanismo, diagnosticando l’irrevocabile oscuramento, l’immedicabile alienazione dell’antiqua Mater, della lingua autentica ed originaria. Viceversa, nello Zanzotto di Pasque Maria, tornata dal sepolcro, riferisce di non aver visto se non «attizzarsi consumarsi il mito del vedere». È come se il roveto ardente si fosse incenerito, se la luziana «conoscenza per ardore» fosse stata dissolta ed azzerata dal suo stesso «interno fuoco» (che la montaliana Iride sapeva ancora «scorporare», cioè sublimare e rendere assoluto ed universale). La visio mystica si è ormai offuscata, adulterata, intorbidata, fino ad eclissarsi, a divenire assente ed irriconoscibile nella selva labirintica e franta delle allegorie del moderno. I rhemata zoes aionou, le «parole di vita eterna» un tempo proferiti dall’Agnus Dei, suonano ormai corrotti e distorti. Nella chiusa di Alto, altro linguaggio, fuori idioma, la poesia è un «foglio di carta / per sempre rapinato dall’oscurità / ventosa» (altrove, sempre in Idioma, compare «una carta che va / verso nord, nel vento, verso la notte»). Il dire sembra, insomma, incamminarsi – il poema, dice Celan, «è sempre in cammino» – verso la soglia oscura del Gouffre, dell’Abîme, del «désastre obscur» lambiti ed arrischiati dal verbe poétique mallarmeano. L’heideggeriano “oblio dell’Essere”, l’eclissi della ritualità e del sacro sembrano essere irrevocabili. E, pur se con una minore carica di innovazione stilistica (ma non del tutto sordo, forse, alle sperimentazioni secondonovecentesche della versificazione colica e sintagmatica, più che tonico-sillabica), anche il Luzi di Al fuoco della controversia non poteva percepire che un verbo distorto e alienato, un «perso dialetto», «uno sconcio farfugliamento / del tempo e del vivente»; il dantesco ed apocalittico scriba Dei era divenuto «scarso», «distratto», «anchilosato». Eppure, sola possibile salvezza era, ancora, la conoscenza mistica, la noche oscura del alma, il «numinoso ottenebramento» e la «numinosa nullità» creaturale di Frasi e incisi di un canto salutare. Ma è proprio qui che riaffiora la dimensione apocalittica (la teologia radicale, che deve a Blake non meno che a Nietzsche, ha del resto mostrato che il Divino, a somiglianza della Fenice che risorge dalle sue ceneri, può essere ripensato proprio a partire dal dato della sua morte e della sua sparizione). Scrive Gillo Dorfles, in dialogo con Enrico Castelli, che il vero «tempo demoniaco» – il mikròs chrónos che l’Apocalisse (20, 3-4) concede al Maligno per compiere la sua nefasta missione, opposto allo schellinghiano Zeitlose Zeit

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(«tempo intemporale») della ritualità e del mito – coincide con la fittizia, ingannevole ed alienata plenitudo temporum dell’età contemporanea, con la bontempelliana, frenetica ma vacua, «vita intensa» e «vita operosa» che contrassegna, oramai, lo svago non meno che il dovere, il momento della festa come quello del travaglio12. La fuga temporum, l’Essere-per-la-morte sono falsamente esorcizzati tramite la Chiacchiera, l’oblio dell’Essere, il vivere inautentico – laddove, al contrario, ogni discorso letterario autenticamente e consapevolmente moderno scava senza pietà in quel vuoto, in quell’alienazione, in quella nequitia, onde portarvi la luce – per quanto implacabile ed angosciosa – dell’autocoscienza critica.

V Il nesso neoavanguardistico di ideologia e linguaggio emerge anche e proprio nel solco di questo dramma e di questa emergenza. Se Zanzotto poteva ancora, secondo Sanguineti, concedersi qualche abbandono al «brodo del poetese», lasciar talora riaffiorare – con una sorta di nostalgia mai disgiunta, peraltro, da una lucida e sofferta consapevolezza storica e culturale – il “grande stile” e l’idealizzante evasione di una voce lirica cristallizzata dalla tradizione petrarchesca, foscoliana, leopardiana, ungarettiana13, per il Gruppo 63 la marxiana critica delle ideologie o la nietzscheana «transvalutazione di tutti i valori» non possono che passare attraverso il programmatico e consapevole straniamento di tutti gli istituti letterari della cultura e del canone borghesi; la disalienazione dell’uomo non può che coinvolgere l’irriverente ed irridente (ma quanto criticamente e culturalmente consapevole, ed anzi tesa ad una nuova, voluta ed invocata “museificazione”) demistificazione dei valori storici ed espressivi già dati, e comunemente accolti. Di conseguenza, se da un lato la Neoavanguardia rimproverava a Pasolini certi toni elegiaci, intimistici, neo-crepuscolari, borghesemente e paternalisticamente populistici – forse fraintendendo e misconoscendo, in parte, l’“estetismo” e l’“alessandrinismo” che lo stesso poeta delle Ceneri di Gramsci, preso nello «scandalo del contraddirsi», rivendicava per sé –, dall’altro la “libertà stilistica” e il “neo-sperimentalismo” teorizzati dal Pasolini di Passione e ideologia si contrapponevano al tecnicismo, alla ripetitività, al manierismo in cui si sarebbero irrigiditi – trasformandosi in fredde procedure replicabili e reiterabili ad libitum – certi moduli stilistici del Gruppo 63. 12 13

G. Dorfles, Itinerario estetico, Pordenone, Studio Tesi, 1987, pp. 301 sgg. Cfr. G. L. Beccaria, Le forme della lontananza, Milano, Garzanti, 1989.

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E, se da un lato Zanzotto leggeva Laborintus come «sincera trascrizione di un esaurimento nervoso», Sanguineti poteva controbattere – con toni a loro volta apocalittici, ma, in pari tempo, non metafisici o fatalistici, anzi dialetticamente reattivi e militanti, attivamente immersi nel divenire delle congiunture storiche e dei fenomeni culturali – che quell’“alienazione”, quell’adorniano e brechtiano “straniamento” rispecchiavano un’oggettiva situazione epocale, una “crisi di linguaggio” lamentata da un’intera civiltà, un pathos patologicamente straniato. Parlando nei termini della fenomenologia husserliana e della DaseinAnalyse, si potrebbe dire che lo “stile costitutivo”, la “costanza dello stile” che presiedono all’Ideenflucht, alla “fuga delle idee”, all’inarrestabile concatenarsi ed inanellarsi delle associazioni psichiche e foniche, delle reminiscenze, dei richiami fonosimbolici ed archetipali, divengono oggetto di coscienza letteraria, storica, ideologica, si fanno perno di un preciso e deliberato progetto culturale, vengono coinvolti nel disegno di una poetica militante che arriva addirittura, provocatoriamente, a rivendicare un proprio diritto alla storicità e alla “museificazione”. La lucida e programmatica autocoscienza del poeta-critico esorcizza l’astoricità, l’alienazione, la reificazione, l’irrazionalismo – il rischio, insomma, di quella «perdita di realtà» di cui proprio il «sentimento della fine del mondo» rappresenta un sintomo caratteristico14. Come l’esperienza del maestro Mallarmé insegna in modo eloquente, quando non si intravede un futuro, quando lo spazio e il tempo si avvertono compressi ed occlusi, come una morsa intorno alla coscienza che nonostante tutto vuole perdurare, e non si rassegna alla definitiva, immedicabile disgregazione – quando su ogni orizzonte si accampa il sole nero dello sguardo melanconico –, allora non resta che l’assurda, ostinata resistenza della parola, la “disperata speranza” della poesia, l’insensata ricerca e richiesta di senso insita in ogni cammino di pensiero e di creazione. Si potrebbe dire, con una rapsodia di citazioni, che nell’opera d’esordio sanguinetiana all’«ordine come limitazione come negazione», alla «tragedia teologica metamorfica» si oppone la luce – laicamente rivelatrice e redentrice – della parola poetica, che riesce – per parafrasare Pound – a disalienare il linguaggio, a scaltramente smascherarlo e renderlo nuovamente autentico, pur se presa, coscientemente, dentro il «cerchio di nulla» che orla e ricinge il «totius orbis thesaurus» compendiato in Ellie. Ma, nel Pasolini poeta e lettore dei poeti, a questa Palus putredinis, a questa melma dell’alienazione e della reificazione continua a contrapporsi, 14

L. Binswanger, Melanconia e mania, Torino, Bollati Boringhieri, 1971, pp. 22-3.

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ostinata (un po’ come nel primo Montale, in Luzi, nell’Ungaretti del Dolore, o, magari, nel Pound del Canto 98, che contamina Plotino e Dante inseguendo ancora i barlumi della divina visio, della vista interiore e spirituale, o del CXV, in cui, con sinestesia dantesca, «la luce canta eterna / fuoco fatuo sulle paludi / dove il fieno fatuo bisbiglia / ai moti della marea»), la «pura luce», l’immutabile «luce intellettuale» della contemplazione e del pensiero. Così, in Pasolini, la poesia abbraccia l’ideologia, nel contempo nobilitandola e trascendendola, secondo un’attitudine in cui sarà possibile vedere, a seconda delle angolature ideologiche e delle scelte di poetica, una volontà di resistenza e di redenzione oppure, da un altro punto di vista, un’illusione consolatoria, se non mistificante. E nella Resistenza e la sua luce, un testo della Religione del mio tempo, è ripetutamente evocata una «pura luce» che è, insieme, “stile” e morale, forma ed etica, scelta estetica ed impegno ideologico. La «libertà stilistica» di Pasolini si richiama espressamente a quella «poesia della tradizione» che la «generazione sfortunata» – vittima delle rigide etichette ideologiche non meno che del consumismo e del conformismo – non poté assaporare. Non è casuale che Pasolini risalga, attraverso Contini, fino al D’Annunzio lettore di Carducci e di Conti, alla sua idea – neoplatonica e schopenhaueriana – dello stile come «resistente virtù vitale», come plotiniana «impronta di luce» che l’artista getta sul magma tenebroso ed informe della hyle, della materia nuda e cieca15. Nel Mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante, questa «pura luce» era l’«arabesco indecifrabile […] dato per la gioia del suo movimento», il nirvanico «luogo della requie / dov’è la liberazione dei desideri»; coloro che morirono per l’idea sono riusciti ad infrangere – grazie ad una sorta di laica resurrezione – quel «rifugio sepolcrale / della paura e del desiderio» che è il corpo. Il “principio speranza” dell’ideologia colma di sé lo spazio utopico dell’attesa messianica, saturo di un’ansia di purificazione e di palingenesi. Eppure, la tensione apocalittica ha modo di affiorare anche in Sanguineti – sebbene, in Postkarten (60), egli ironizzi in modo tagliente sulle «squisite disperazioni» dei «neostrutturalisti dannunziani» (esplicita, poco dopo, l’allusione all’Avalle esegeta degli Orecchini di Montale), consumate «tra i lampi / ardenti dell’apologetica indiretta apocalittica» (deformazione parodica, forse, dei «barlumi» e del «lampo», numinosi ed epifanici, che tramano i versi di Montale). 15

P. P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, con un saggio di C. Segre. Cronologia a cura di N. Naldini, Milano, Mondadori, 1999, pp. 1232 sgg.

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Apocalittica, quasi escatologica è, nella Dolce vita, un testo del ’60 confluito in Fuori catalogo, la dialettica diveniente fra il «vuoto tempo dell’attesa», la «vuota attesa del vuoto» (molto simile alla temporalità apocalittica in quanto alienata di cui si è detto), gli ingannevoli e mistificanti «misteri dell’anima» da un lato e, dall’altro, ben più vivo, concreto, combattivo, «inamovibile e vero, il duro tempo della nostra storia». Già in Laborintus (10) riaffioravano, pur se distorti dai ribollimenti magmatici dell’inconscio junghiano, i fantasmi cristiani del mysterium tremendum e dell’“unità mistica” (certo riconducibile alla lettura che Jung dava della simbologia alchemica come chiave d’accesso al subconscio); il Verbo in cui coesistono passato e futuro era esso stesso travolto dalla frammentazione sintagmatica, dall’intima e radicale destrutturazione del dettato. Ma, in modo ancora più evidente, tutta tramata di citazioni apocalittiche greco-latine è la poesia Factum est, dedicata a Luciano Berio e, come la sua musica, divisa fra l’incorporea perfezione del vuoto, del silenzio, del wittgensteiniano Indicibile e la massa informe ed imprevedibile del rumore, fra la compiuta e razionale corrispondenza del serialismo e dell’ars combinatoria e l’abrupto, irrisolto irrompere della dissonanza inesplicabile: «et vidi (quia prima abierunt) la donna (mysterion, un nome): ecce nova facio omnia». Ma la disgregazione apocalittica non sopprime il “principio speranza”, non compromette del tutto la possibilità e l’apertura di un umanesimo marxista. Proprio in Alfabeto apocalittico (ispirato dalla polimorfa, dissonante e straniata “nuova figurazione” di Enrico Baj) si legge, sulla scorta del binomio biblico e medievale di homo e humus, dell’immagine della cenere che deve inesorabilmente tornare alla cenere, pur nella speranza di una qualche risurrezione: «Humano è all’huomo habere e non haberi, / hoc est humano, est hodie et erat heri: / homo est humo, che humano è humilemente, / hapax est homo, humano humanamente». L’antico detto di Antigene, immerso ed amplificato in un pastiche che fa pensare al Folengo o all’Hypnerotomachia Polyphili, sfocia nell’agnizione del valore dell’individuo – dell’irripetibile ed inviolabile hapax dell’esistenza umana16. E, sempre in un’ottica apocalittica, il futuro lascia dischiuse la possibilità e la speranza di una rinascita e di un rinnovamento. Del resto, tutta l’opera del Sanguineti poeta e romanziere è attraversata dal tema ossessivo della

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Cfr., per l’interpretazione del passo, F. Curi, Del montaggio, «Il Verri», n. 23, ottobre 2005, pp. 20 sgg. D’obbligo, per l’interpretazione d’insieme dell’autore, F. Curi, Gli stati d’animo del corpo, Bologna, Pendragon, 2005; Id. Struttura del risveglio. Sade, Sanguineti e la modernità letteraria, Bologna, Il Mulino, 1991; L. Weber, Usando gli utensili di utopia. Traduzione, parodia, riscrittura in Edoardo Sanguineti, Bologna, Gedit, 2004.

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circolarità e della ricorsività di parola e silenzio, corpo e vuoto, nascita e morte, grembo materno e bara; e Novissimum Testamentum si chiude su di una dantesca «eterna pace», evocata in un’ottica «provocatoriamente religiosa». «La morte è davvero morte della scrittura»17; ma una morte che può, forse, preludere ad una virtualmente perpetua, pur se integralmente mondana, risurrezione, nell’ininterrotta catena delle coscienze ermeneutiche. E, sempre in un’ottica apocalittica, il futuro lascia dischiuse la possibilità e la speranza di una rinascita e di un rinnovamento, emblematizzati nella visione, quieta, dolce, insolitamente quasi lirica, dei bambini abbandonati al sonno: «Ma vedi il fango che ci sta alle spalle, / e il sole in mezzo agli alberi, e i bambini che dormono» (Purgatorio de l’Inferno, 17)18. Dove il fango alle spalle è ancora quello della Palus Putredinis di Laborintus – una livida e immota palude (coincidente vuoi con l’Anima junghiana, vuoi con il grembo primigenio, vuoi con il melmoso «mare dell’oggettività»), che, come Sanguineti stesso spiegava nel citato intervento Poesia informale?, era missione del poeta oltrepassare, pur portandosene addosso, come traccia, testimonianza o memento, qualche chiazza di belletta, qualche scoria o regesto di alienazione, qualche scaglia di scorza reificata. E ha avuto ragione Fausto Curi a richiamare, riguardo alla transizione da Laborintus a Purgatorio de l’Inferno, l’«apocalisse senza escaton dell’occidente moderno e contemporaneo» diagnosticata dal De Martino della Fine del mondo; apocalisse che, in Sanguineti, non prospetta, come nel pensiero debole e nell’esistenzialismo negativo, una «disperata catastrofe», ma piuttosto una «fine del mondo» la quale prelude ad un «mondo che comincia», una «frattura» e una «rottura» sperimentali ed avanguardistiche che aprono la via ad un dire poetico, ad uno spazio linguistico nuovamente «praticabili», vivibili, esperibili, posti nuovamente in stretto e vivificante contatto con il loro tempo, con la realtà e con la storia19.

VI «Quanto sei bella, giglio di Saron, / Gerusalemme che ci avrai raccolti. / Quanto lucente la tua inesistenza», scriveva Franco Fortini nella poesia Per l’ultimo dell’anno 1975, dedicata ad Andrea Zanzotto. La tenebra luminosa dei mistici è divenuta Abgrund, precarietà angosciosa, tremolante indeterminatezza ontologica, dubbio tormentoso che avvolge e vela così le origini come i destini ultimi. 17

L. Weber, Usando gli utensili…, cit. pp. 252-55. Cfr. Id. Risvegliarsi nell’inferno della storia, www.griseldaonline.it/archivio/weber_print.htm 19 F. Curi, Struttura del risveglio, cit. pp. 203 sgg.

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E sempre nella cupa luce apocalittica e cabalistica di una cultura della Parola, del Testo, del Libro, gettata però nelle profondità minacciose di un’ontologia negativa, si muove anche lo Zanzotto di Stanza immaginata e intravista, in Idioma: «Lampada accesa ogni oggetto s’illumina / per una divina desuetudine / e prepotenza / nessun tempo è mai passato / ogni tempo – unicamente – verrà». Il Verbo che è stato, è ed è destinato a tornare è proiettato nel futuro; e solo in un orizzonte ulteriore, di là da venire, ancora indeterminato e nebuloso, può celarsi, apocalitticamente, la vera rivelazione, la suprema a-letheia, che potrebbe anche coincidere con il divinum Nihil («Là sta idea, consistenza, renitenza / Là fu, mai fu, là – unicamente – accogliere»). Né è casuale che il testo sia dedicato ad Edmond Jabès, il poeta ebreo e francese che (dal Libro delle interrogazioni al Libro della sovversione non sospetta a La memoria e la mano) seppe rileggere la cultura della Parola e del Libro attraverso la luce opaca, dissolvente e disgregante di Mallarmé, di Blanchot, di Derrida, consapevole che, come «le néant a, pour seul répondant, le néant», così «Dieu, pour unique référance, Dieu», cosicché proprio e soltanto sotto il segno dell’assenza, del silenzio, del vuoto, la parola poetica può celebrare – nell’aseità e nell’autonomia della sua coscienza riflessa, muovendosi «d’un vertige à l’autre, d’un néant à l’autre» – la propria mistica unione con l’Essere e con il Nulla, chiusi, al pari della poesia, in una loro solitudine tragica e lieve, vertiginosa e sublime20. Vicino a Jabès (alla sua «paura di tutto che imbianca le nubi», alla sua «paura apocalittica di Nulla», al suo ossessivo «terrore dell’estremo silenzio»), oltre che al beckettiano «nulla racchiuso nelle parole», era il Caproni del Conte di Kevenhüller, che (forse memore dell’aulente ed inafferrabile pantera del De vulgari eloquentia, ma anche del drakòn profetizzato nell’Apocalisse) evocava la «Destra che ti vivifica e uccide» (letterale, e forse non casuale, l’eco paolina), la quale sta celata «dietro la Parola», dietro il Verbo-distruzione che sequestra l’esistente e lo fagocita in sé fino ad azzerarlo21. «… l’addio era una foglia dalla Parola, /che cadeva, e il Suo Nome alle spalle / irruppe dalla Morte come un falco». «Nessuno torna indenne al suo Dio». Questi versi di Nelly Sachs, dalla raccolta Und niemann weiss weiter, del ’57, mostrano quanto profondamente (dal profeta Daniele fino allo Zohar) la cultura ebraica sia permeata, anche nelle sue espressioni laiche, da una tensione messianica, escatologica, apocalittica, che avverte vivamente 20

Cfr. L. Blok de Behar, Edmond Jabès: una poética del vacìo, «NADJA», 3, www.liccom.edu. uy/docencia/lisa/articulos/Jabes.htm 21 Cfr. D. Baroncini, Caproni e la poesia del nulla, Pisa, Pacini, 2002, pp. 192 sgg.

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MATTEO VERONESI

la prossimità circolare e ciclica (già più volte ricordata) di vita e morte, di luce e tenebre, di linguaggio e mistero. «Dall’interno delle tenebre scaturì la luce, dall’interno del segreto […] il significato profondo e manifesto» (Liber Zohar, III-80b). Il Nome divino cade dalla morte, come l’addio dalla Parola. Il rapporto con l’Altro si pone sotto il segno della distanza, dell’eclissi, dell’evanescenza. Il Verbo è fasciato da un sudario impenetrabile di silenzio e di tenebre – così come la sofferenza inesplicabile, assurda, jobica nasconde e dissimula la propria ragione e il proprio significato. Violando il veto posto da Adorno nella Dialettica negativa, Celan e Primo Levi osano – come Nelly Sachs – scrivere poesia dopo Auschwitz e su Auschwitz22. A Celan fu anzi rimproverato di avere – con l’iterativo ed ipnotico fluire di Fuga della morte – quasi estetizzato, quasi redento, sublimandoli in fascinazione fonica e labirinto immaginifico, l’orrore dell’Olocausto, lo sgomento dell’apocalisse storica. Ai «capelli di cenere» di Sulamith si sovrappongono, quasi intrecciandovisi, i «capelli d’oro» della goethiana Margarete (la quale era, peraltro, essa stessa coinvolta ed oppressa dal disegno mefistofelico di calarsi fino «in fondo al nulla per trovare il tutto» – disegno riscattato, infine, dalla contemplazione assoluta dell’Eterno Femminino). «Ad essa, alla notte, la parola / che sorvolano gli astri e i mari sommergono, / ad essa la parola vinta al silenzio», scrive Celan in Argumentum e silentio, una poesia significativamente dedicata a René Char. Anche nell’orizzonte apocalittico e sacrificale – anche «all’estremo, quando non ci sarà che suono di catene» – la Parola continuerà, ostinata, a «testimoniare della Notte», a rivelare una conoscenza arcana ed essenziale, ad additare «dove è semente»23, dove giace la sorgente del logos spermatikós, del dire fecondo e fecondante, invano disperso nei deserti della modernità. E non è casuale, come si accennava, che questi versi siano dedicati al poeta di Feuillets d’Hypnos, capace di immergere la tragedia della Resistenza nella superiore ed assoluta percezione di una temporalità e di una storicità eraclitee e heideggeriane. Escatologicamente, solo «l’espoir du grand lointain informulé (le vivant inespéré)» può lenire la «plaie au flanc» (174) da cui è afflitto quello che Vittorini chiamava il «mondo offeso».

22

Cfr. R. Bonavita, La Shoah e la poesia del Novecento, www.storicamente.org/bonavita_shoah. htm (quasi un ancora oscuro e vibrante, forse inconsapevole, testamento spirituale del giovane studioso, prematuramente accomiatatosi, di propria volontà, dalla corte dei viventi). 23 Ho tenuto presente la versione di G. Bevilacqua, in P. Celan, Di soglia in soglia, Torino, Einaudi, 1996, pp. 103-105.

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Ed è interessante notare come vari poeti italiani del secondo Novecento (da Luzi a Caproni, da Fortini a Bigongiari) si accostino, in veste di critici come di traduttori, ad André Frénaud, il poeta di Il n’y a pas de Paradis e Les Rois Mages: poeta di epifanie negative, di nichilistiche folgorazioni, che ascolta straniato la musica silenziosa dell’essere, declinata nel «murmure misérable du poème» («il balbettio del poema», traduceva il Luzi della Cordigliera delle Ande, forse avvertendo, lui pur così lontano dall’ateismo, dalla singolare «mistica senza Dio», di Frénaud, una oscura e rivelatrice prossimità al «perso dialetto», allo «sconcio farfugliamento» di Al fuoco della controversia).

VII «Oh la beatitudine del nulla, / candida come un foglio senza margini, / disteso davanti al vecchio che contempla / quieto, senza più molto futuro / e desiderio, ora che è sospeso / l’essere, e tutto è come se non fosse / mai esistito oppure già si fosse dopo, / nell’infinito ozio di Dio». Così scrive (nella poesia La beatitudine del nulla, in La scena del mondo24) Giorgio Barberi Squarotti, certo uno dei poeti più autenticamente apocalittici del secondo Novecento italiano, capace (al pari di Luzi e di Bigongiari) di misurarsi con gli spazi e le tensioni della poesia «atonale» e «informale» (così come con la visionarietà evocativa e fluente di un Thomas o con il citazionismo frenetico ed onnivoro di un Pound) senza cedere alla deriva dell’ecolalia, al balbettio indistinto di un significante abbandonato alla sua vitalità autoreferenziale ed aleatoria. La finis temporum dischiude le distese indifferenziate di una temporalità annichilita ed immobile; la mallarmeana “pagina bianca”, su cui alla fine di tutto «Rien n’aura eu lieu que le lieu», diviene spazio emblematico di un “tempo di là dal tempo”, insieme anteriore, simultaneo e postumo in rapporto a qualsiasi tempo umano: di una temporalità, insomma, tipicamente tragica, in cui, come dice Seneca, un’irrappresentabile «Mors individua» travolge il corpo, l’esistenza, il pensiero, reimmergendoli nel Caos originario, «quo non nata iacent» (Troades, vv. 397 sgg.). Piemontese come Barberi Squarotti, e come lui forte di una pronuncia «concisa» e insieme lucidamente «sanguinosa», di una parola poetica intesa come assiduo, celaniano «colloquio disperato» con l’essere e con l’esistenza, il Levi poeta di Ad ora incerta mostrava un cosmo tornato al caos, devastato dall’orrore della storia: «L’ordine donde il cosmo traeva nome è sciolto; / 24

Torino, Genesi, 1990.

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MATTEO VERONESI

Le legioni celesti sono un groviglio di mostri, / l’universo ci assedia cieco, violento e strano […]. / E tutti noi seme umano viviamo e moriamo per nulla» (Le stelle nere). L’umanità è ridotta ad uno stuolo di montaliani «natimorti», di eliotiani «hollow men». Si legge nel capitolo I fatti dell’estate, in Se questo è un uomo: «Conchiuso il tempo in cui i giorni si inseguivano vivaci, preziosi e irreparabili» – si ricordi l’oraziano, tutto umano, intensamente ed autenticamente vissuto, proprio perché transitorio e perituro, inreparabile tempus –, «il futuro ci stava davanti grigio e inarticolato. […] Per noi, la storia si era fermata». L’orizzonte apocalittico si è qui declinato in una imago aeternitatis allucinata e distorta, in una temporalità alienata e reificata, priva di speranza e di luce, in cui si consuma e si disperde ogni residuo di umanità; un tempo greve, inerte, melmoso, in cui – come dice il Montale del Sogno del prigioniero – «albe e notti si distinguono per pochi segni». La celaniana «cenere» (che richiama, abbracciando uno sguardo metafisico, la mallarmeana e montaliana «cendre des astres») avvolge anche Anna Frank: «La sua cenere muta è stata dispersa dal vento» (La bambina di Pompei). La Palus Putredinis sommerge le vittime innocenti: «Se dureranno il danno e la vergogna / Vi annegheremo nella nostra putredine». Sono, la prosa e il verso di Levi, talora attraversati – pur nella loro scarna nettezza, nella loro tesa ed etica necessità espressiva – dalla percezione dell’ineffabile, dal senso di un Indicibile che, come in certo Dante infernale, non risiede nelle altezze del sublime, ma nell’abisso dell’orrido – non nella vertigine celeste, ma nelle profondità cave e sorde del subumano. Ma la disgregazione apocalittica del linguaggio, la disarticolazione seriale e atonale della versificazione e della sintassi, la contaminazione alienata e straniata di registri, codici, archetipi, si attuano anche nella poesia di Amelia Rosselli, la cui esistenza fu a sua volta devastata – prima con l’uccisione del fratello, poi con l’esilio della famiglia – dalla «fede feroce», come la chiama Montale, del nazifascismo. «Dopo il dono di Dio vi fu la rinascita. […] / Dopo della gioia / scese l’inferno dopo il paradiso / il lupo nella tana. / […] Dopo della notte cadde l’intero sostegno / del mondo. Dopo dell’inferno nacque il figlio bramoso di / distinguersi» (Variazioni belliche). Versi, questi, che paiono quasi riecheggiare, immergendolo però in un’atmosfera di sospeso, enigmatico ed angoscioso agnosticismo, l’Eliot di A Murder in the Cathedral, la cui parola poetica si incammina, oltre la vita e la morte, verso il vuoto, il silenzio, l’assenza, il deserto: «Only is here / The white flat face of Death, God’s silent servant, / And behind the face of Death the Judjment / And behind the Judjment the Void, more / horrid than active shapes of hell; / Emptiness, absence, separation from God».

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Ma, dopo l’inferno, sorge il figlio; dopo la morte del tempo, prende forma un nuovo cominciamento, una sorta di laico «novus saeclorum ordo». Si potrebbe citare, emblematicamente, ciò che Zanzotto scriveva (in una pagina critica concettualmente e semanticamente non lontana dal suo universo geologico, stratificato, abissale di «poeta ctonio») riguardo all’ultimo Pasolini: «Fango e neve, cerchio e linea di fuga, dimissione e soffocato grido di presenza. […] Si tratta ancora di un procedere più che mai solo e nudo» – si noti, in filigrana, il riverbero ungarettiano –, «come agli inizi del parlare, di ogni vero parlare». Il pensiero poetante, potremmo dire parafrasando Bloch, è «omogeneo» ad un non essere, ad un nicht-Sein che coincide con il noch-nicht-Sein, con il «non-essere-ancora» di una speranza aperta, nonostante tutto, «nella nostra sofferenza e nella nostra vasta tenebra»25. La percezione della «fine del mondo» si traduce in «trasformazione apocalittica del mondo», in possibile, ancorché remoto, avvento di un’umanità infine autentica, disalienata, redenta – proprio come lo è la parola nell’atto poetico, o nella pura e cosciente immedesimazione metatemporale dell’ermeneutica e della traduzione. «Die septimo nos ipsi erimus». Alla fine dei tempi si compirà davvero, stavolta in chiave positiva, autentica, non più ingannevole, e sotto la benedizione divina, la diabolica promessa della Genesi di essere «sicut dei»26.

VIII Larga, e pressoché impossibile da riassumere, la risonanza dell’immaginario apocalittico nelle esperienze e nelle direzioni più diverse della poesia secondonovecentesca. Mallarmé – specialmente quello estremo, sismico e frantumato del Coup de dès – ha certo rappresentato un comune terreno di riflessione e di sperimentazione tanto per le correnti e i percorsi post-ermetici, quanto per Zanzotto e per l’avanguardia. Dal Coup, sia Ungaretti che Zanzotto sembrano derivare la prospettiva della «conflagration à ses pieds / de l’horizon unanime», del «naufrage» (le «circonstances éternelles / du fond d’un naufrage», la «neutralité identique du gouffre»), del gelido cordone che avvolge la pagina, cingendola di vuoto e 25

Cfr. E. Bloch, Spirito dell’utopia, a cura di V. Bertolino e F. Coppellotti, Firenze, La Nuova Italia, 1980, pp. 316-319. 26 S. Quinzio, Silenzio di Dio, Milano, Mondadori, 1982, pp. 89-90.

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di assenza («cette blancheur rigide / dérisoire / en opposition au ciel»)27. «Nel mistero delle proprie onde / ogni voce terrena fa naufragio», scrive Ungaretti (Il tempo è muto). «La verità, per crescita di buio, / Più a volarle vicino s’alza l’uomo, / Si va facendo la frattura fonda», si legge a conclusione di un testo ungarettiano emblematicamente intitolato Apocalissi, che sembra arieggiare, con il suo richiamo alla frattura, alla ferita, al naufragio, un’ontologia e una gnoseologia di stampo esistenzialista, e in particolare jaspersiano. Nello Zanzotto di Elegia pasquale, l’«agnello flagellato / (...) illumina i mali dei morti»; fra gli «orti di marmo», fra le distese di lapidi trapela ed occhieggia il «crudo preludio del sole». Quasi come nell’Eliot dei Four quartets, «in my beginning is my end»; non resta che covare ed attendere il futuro «in the empty silence». Ma, nella Pasqua a Pieve di Soligo, in Pasque, la sacralità rituale del tempo ciclico appare ormai (lo si è visto) violata ed alienata nel mondo delle «cose puttane», di una comunicazione e di un vivere civile ormai reificati, mercificati, inautentici. Maria, tornata dal sepolcro, riferisce – nei versi già citati – di non aver visto se non «attizzarsi consumarsi il mito del vedere», quasi come se la visio mystica, la luziana «conoscenza per ardore» fossero state incenerite, estinte, azzerate dal loro stesso interno fuoco. In un altro contesto, all’indistinto balbettio, alla informe ecolalia (pur sorretti da un preciso progetto culturale) della Neoavanguardia (che a loro volta avversavano e straniavano criticamente il «brodo del poetese», le cristallizzazioni mistificanti, consolatorie, alienate e alienanti, della tradizione lirica alta, canonica, codificata) il Pasolini di Passione ideologia e della Religione del mio tempo saprà contrapporre, come pure si è visto, la dantesca «pura luce» di uno «stile», di una «libertà stilistica» che saranno specchio di una scelta letteraria e, insieme, etica e civile. Come a dire che, proprio dal cuore oscuro e tumultuoso del suo esilio, della sua “gettità”, della sua “condizione apocalittica”, la parola poetica continua a farsi testimone di un ostinato, per quanto paradossale e straniato, umanesimo. Pur nella estrema varietà delle sue scelte e dei suoi cammini, il discorso poetico secondonovecentesco sembra avere offerto proprio la tenace, resistente, programmaticamente e consapevolmente metarazionale, magari malinconicamente sorridente o tragicamente ironica, possibilità di questo nuovo umanesimo, fosse esso cristiano o ateo, letterario o civile – assumes27

Questa chiave di lettura deve molto alle introduzioni di Carlo Ossola in Antologia della poesia italiana – Novecento, a cura di Id. e C. Segre, Torino, Einaudi-Gallimard, 2003.

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se esso le forme eburnee e distanti di una vociano-ermetica, o addirittura paradossalmente carducciana e dannunziana, religio litterarum o quelle più dinamiche, contrastate, combattive, della militanza e dell’impegno. E si potrebbe ripetere, con il Pound dei Pisan Cantos (che continuava ancora, dal fondo dell’inferno manicomiale, a levare la sua voce esile e roca, ma vitale ed essenziale): «To have gathered from the air a live tradition / or from a fine old eye the conquered flame / This is not vanity». Che è, dell’essenza e del fine del fare poetico, definizione assoluta ed inesauribile.

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PARTE SECONDA Olocausto

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Pensare Auschwitz. Apocalisse dell’umano di Stefano Zampieri

C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta. Walter Benjamin, Tesi di Filosofia della storia, tesi n. 9

Perché Auschwitz Auschwitz non è un angolo morto della storia, non è una svolta insensata, un’eccezione, un elemento fuori scala. Nulla di tutto questo, piuttosto una situazione estrema per l’umanità stessa. Auschwitz rappresenta il punto limite, il punto nel quale tutte le premesse di una storia, di una civiltà, diventano effettive realtà, nel quale tutte le condizioni si realizzano, il luogo in cui tutto il passato diviene futuro, ed il futuro si fa presente in una sacca del tempo che non ne rappresenta l’eccezione ma piuttosto la proiezione, non il copione sbagliato finito per errore sulla scena della storia, ma l’anticipazione che porta in atto la potenza di condizioni reali. Pensare Auschwitz, in questo senso è come entrare in una macchina del tempo (e delle possibilità) in cui vediamo poste in essere le condizioni della nostra civiltà. Quel che è accaduto allora, è qualcosa che sta nel nostro presente, è la verità disvelata del nostro presente, è il punto in cui il presente si annoda con il passato per mettere in luce il suo percorso.

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STEFANO ZAMPIERI

L’idea poco rassicurante che pensare Auschwitz non sia fare storia ma piuttosto pensare il nostro presente nella dimensione in cui si sporge verso il futuro, deve restare una idea limite. Pensare al limite è sempre esperienza del limite stesso del pensiero, ma qui non si allude semplicemente al confine della finitezza che non ci consente di andare oltre la nostra natura, ma si intende evidenziare anche un certo limite di possibilità che come civiltà abbiamo imboccato, per molti motivi e per effetto di innumerevoli condizioni storiche, economiche, culturali, sociali, politiche. Qui ci poniamo sulla scena del presente, e cerchiamo di fissarlo con fermezza, ma per farlo dobbiamo aggirarlo astutamente perché il presente non si lascia fissare così come se niente fosse, esso si ritrae, si nasconde, il suo pudore è all’origine della nostra cecità di uomini del terzo millennio. Noi, dunque, tentiamo questa operazione aggirante: osservare il presente attraverso un Evento catalizzatore, Auschwitz, nel quale le tracce del nostro tempo appaiono ingigantite come sotto una lente di ingrandimento1. Ad Auschwitz si è realizzato un progetto di ampie dimensioni che ha coinvolto l’intera struttura amministrativa burocratica di una civiltà avanzata e culturalmente ricca, ed ha utilizzato tutti gli strumenti di una moderna società industriale: il campo di sterminio appare dunque costruito come una azienda, gestito in termini di produzione e di efficienza, organizzato secondo criteri di massima efficacia col minimo dispendio; il suo prodotto, l’annientamento dell’uomo, è misurato in termini quantitativi e valutato secondo principi economici; il suo linguaggio è quello della gestione aziendale2. Auschwitz nasce in questo contesto, forzando le potenzialità tecnologiche amministrative e burocratiche della società moderna, nella direzione di un fine mostruoso: l’annientamento di una parte dell’umanità, fine che, 1 Non siamo soli in questo cammino, ci accompagnano almeno alcuni pensatori più sensibili, Theodor W. Adorno, Hannah Arendt, Günther Anders, Maurice Blanchot, che hanno saputo collocare Auschwitz nel posto che gli spetta all’interno della riflessione sul destino dell’uomo contemporaneo. Sul ruolo degli intellettuali in questo contesto si vedano gli studi di Enzo Traverso, Auschwitz e gli intellettuali. La Shoah nella cultura del dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2004, che è la versione italiana di un originale francese in parte diverso, L’Histoire déchirée. Essai sur Auschwitz et les intellectuels, Paris, Les editions du Cerf, 1997, e poi Gli ebrei e la Germania. Auschwitz e la “simbiosi ebraico-tedesca”, Bologna, Il Mulino, 1994, tit. or. Les juifs et l’Allemagne. De la “symbiose judéo-allemande » à la mémoire d’Auschwitz, Paris, Editions La Decouverte, 1992. 2 Su questo tipo di lettura si vedano W. Sofsky, L’ordine del terrore. Il campo di concentramento, Roma-Bari, Laterza, 2004, tit. or. Die Ordnung des Terrors. Das Konzentrationslager, Frankfurt am Main, Fisher, 1993 e Z. Bauman, Modernità e Olocausto, Bologna, Il Mulino, 1992, tit. or. Modernity and the Holocaust, Oxford, Basil Blackwell, 1989.

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PENSARE AUSCHWITZ. APOCALISSE

DELL’UMANO

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a ben guardare, appartiene di diritto alla civiltà occidentale, fa parte della sua storia, attraverso tutte le varianti razziste dell’etnocentrismo, dell’imperialismo, del colonialismo, che nel corso della sua storia si sono sempre manifestate in termini di annientamento dell’altro. Sotto questo profilo, dunque, la “soluzione del problema ebraico” rappresenta la variante europea di una tendenza connaturata alla società occidentale all’annientamento dell’altro come base della sua affermazione, e in questo senso appartiene per un verso alla stessa famiglia di altri genocidi (l’annientamento dei popoli andini o dei nativi americani, o degli zingari o delle popolazioni africane o amazzoniche…) ma al contempo possiede una sua specificità assoluta in quanto rappresenta l’annientamento di un altro interno alla stessa civiltà occidentale europea, ad essa connaturato, e rispetto ad essa indistinguibile. Ciò che con l’ebreo si è tentato di annientare, è stato prima di tutto una certa idea di uomo occidentale, che in qualche modo è parsa (e pare) incompatibile con l’affermazione assoluta della civiltà occidentale stessa3. Auschwitz annuncia la realizzazione del sogno di una società tecnologica razionalmente organizzata. Ma al contempo, osservando l’Evento ci rendiamo conto con orrore che questo grande progetto occidentale tanto più si realizza e si afferma quanto più inessenziale, superfluo, disumanizzato, mercificato, reificato come direbbero alla Scuola di Francoforte, vi appare l’uomo. Pensare Auschwitz, dunque, significa pensare il disastro verso cui la società odierna è avviata: l’affermazione di questa società rappresenta infatti anche la trasformazione dell’umano, sempre più superfluo, inessenziale, sempre più cosa e meno uomo. Il disastro che Auschwitz annuncia con la sua presenza nel nostro passato è il venir meno dell’umanità dell’uomo, esso annuncia l’apocalisse dell’umano di cui come Evento è soltanto una momentanea e limitata anticipazione. Pensare Auschwitz, dunque, costringe ad un atto di radicalità nei confronti del nostro tempo e della nostra condizione perché in Auschwitz il nostro destino si vede, appare come orrida prefigurazione, affiora come una immagine dal fondo dell’acqua. C’è una osservazione essenziale che Günther Anders ci propone e sulla quale dobbiamo riflettere. Se ci si chiede che cosa ha reso possibile Au3

Queste tematiche sono state affrontate con grande lucidità da Enzo Traverso in La violenza nazista. Una genealogia, Bologna, Il Mulino, 2002.

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STEFANO ZAMPIERI

schwitz, egli afferma, accanto alla discrepanza tra ciò che la tecnica ci ha reso capaci di fare e quel che riusciamo a immaginare, a percepire delle nostre azioni, vi è la «macchinizzazione (o apparatizzazione) del nostro mondo moderno»4, ciò indica in primo luogo il fatto che ognuno di noi ha perso la consapevolezza del processo produttivo generale fissato com’è sulla piccola porzione di attività che gli appartiene. Ma al contempo ciò significa che il mondo delle macchine puntando al principio del massimo rendimento tende ad escludere ciò che non è ad esso strettamente funzionale: «Ciò a cui le macchine aspirano è una situazione in cui non esista più niente che non sia al loro servizio, niente che non sia “co-meccanico”, nessuna “natura”, nessun cosiddetto “valore superiore” e anche nessun uomo (poiché per esse avremmo valore soltanto come squadre di servizio o di consumo)»5. L’Apparato tecnico scientifico punta dunque alla realizzazione di una sorta di macchina mondiale nella quale l’uomo è previsto solo come operatore, o come consumatore, in entrambi i casi cioè come parte funzionale privata di ogni tratto di imprevedibile umanità. È questa logica che spiega quanto accadde ad Auschwitz, la distruzione industriale dell’uomo, la condiscendenza burocratica, la razionalità perversa. Ma se Auschwitz è un evento passato e definitivamente chiuso, questa stessa logica è invece del tutto viva, è quella che ancora oggi guida e domina il nostro mondo, più di quanto potesse farlo negli anni ’40 del secolo scorso. Si tratta dunque di una realtà che non appartiene al nostro passato ma bensì al nostro presente e al nostro futuro. È la realtà in cui viviamo, e se Anders intravedeva soltanto «l’alba del totalitarismo meccanico»6 noi oggi, sulla soglia del nuovo millennio, possiamo vederne il giorno pieno, e ci resta solo da sperare che la macchina mondiale non sia ancora del tutto padrona di noi. In questo senso possiamo dunque affermare convintamente insieme ad Anders che «Auschwitz ha impresso il suo marchio alla nostra epoca, e ciò che è accaduto là potrebbe ripetersi ogni giorno», nella misura in cui ovunque incombe il peso di un «totalitarismo tecnico»7 che è resistito al crollo di tutti gli altri totalitarismi e sfugge al nostro pensiero critico perché ci viviamo immersi.

4 G. Anders, Noi figli di Eichmann, Firenze, La Giuntina, 1995, p. 53; tit. or. Wir Eichmannsöhne, München, Beck, 1964, 1988. 5 Ivi, p. 57. 6 Ivi, p. 62. 7 Ivi, p. 65. Sul rapporto tra la tecnica e il destino della civiltà è fondamentale U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano, Feltrinelli, 1999.

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Sia chiaro, non si tratta di indicare qualche conseguenza marginale del grande processo di civilizzazione tecnologica nel quale siamo collocati, non si tratta di evidenziare degli spiacevoli ma inevitabili effetti secondari di esso, né di discutere se tali effetti siano redimibili, o contenibili, o valgano comunque più o meno il prezzo del beneficio che fino ad oggi abbiamo ottenuto dal mondo della tecnica e che contiamo di ottenere ancor più in futuro. La situazione non è questa. Non si tratta affatto di qualche spiacevole effetto collaterale, quanto piuttosto di uno sviluppo complessivo, di una prospettiva, di una direzione, di un fine nel quale l’uomo non è previsto, se non attraverso una metamorfosi che lo rende sempre meno umano, sempre meno padrone di sé e sempre più servo delle proprie macchine, sempre più replica esso stesso di un modello che non è umano: consumatore di merci, polo magnetico di bisogni, spettatore di una realtà virtuale, percentuale statistica, elemento di una casistica, frammento di un sistema del quale non ha più il controllo. Pensando Auschwitz tutto ciò appare totalmente, a condizione si comprenda che Auschwitz è proprio il frutto di questa società, non di un’altra, e che il nazismo non rappresenta una diabolica perversione, ma una fuga in avanti, un precipitato di elementi che porta ad una condizione estrema dalla quale ci si difende con le moderne democrazie occidentali che rappresentano una garanzia solo di fronte al suo contenuto di violenza diretta ed esplicita ma non sono in grado di cogliere quelle condizioni che stanno alle spalle tanto dei totalitarismi quanto delle democrazie stesse. E che ora determinano quella situazione di disagio diffuso con la quale ci troviamo a fare i conti ogni giorno e che ci trascina, come individui e come civiltà, verso una apocalisse ben peggiore di ogni totalitarismo perché, per ora, sembriamo incapaci di riconoscerne i tratti e quindi di approntare qualsiasi azione di difesa. Mentre dal totalitarismo così come l’abbiamo conosciuto siamo in grado di difenderci, rispetto alle sue condizioni profonde siamo indifesi, e quindi destinati ad essere travolti dalle nostre stesse metamorfosi.

L’uomo di Auschwitz Pensare Auschwitz, dunque, equivale a pensare la modernità. Lo si vede benissimo per esempio (ma è un esempio non casuale) rispetto al tema generale dell’identità umana: il Campo ci pone di fronte ad una scena nella quale accade qualcosa di profondamente diverso da quel che tradizionalmente abbiamo pensato e da quel che per istinto acquisito ci verrebbe da fare. Non

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basta più pensare l’uomo come l’individuo autosufficiente, l’uomo cartesiano che in fondo basta a se stesso perché trova in se stesso il fondamento del proprio essere e la ragione del proprio esistere. Pensando Auschwitz questo modello dell’individuo moderno viene portato alle sue estreme conseguenze e così appare in tutta la sua debolezza: messo alla prova della situazione estrema nessuno appare più bastare a se stesso, nessuna interiorità, nessuna coscienza, sembra capace di affrontare la vita che si realizza nel Campo, nessuna individualità è più sufficiente. Il progetto degli aguzzini è proprio quello di rompere ogni legame, anche quelli più stretti, il padre che ruba il pane al figlio, la madre che uccide la sua creatura, di cancellare ogni relazione, di trasformare l’uomo in un “pezzo”, un numero, un oggetto rigidamente e artificiosamente isolato, dominato solo dall’istinto di sopravvivenza anche a prezzo della vita altrui. Questo progetto si realizza nella gran parte, ed è proprio ciò che trasforma gli individui in una massa facile da manovrare, in una folla priva di volontà. Dall’altra parte, tuttavia, dalle parole dei testimoni noi apprendiamo come l’isolamento non si realizzi mai interamente: esso si manifesta nelle forme esteriori dei comportamenti, ma non è possibile chiudere le porte e le finestre della propria coscienza, non è possibile cancellare la presenza dell’altro, buona, cattiva, solidale, conflittuale, agonistica… a meno di non trasformarsi in quel personaggio ben noto ad Auschwitz, che i sopravvissuti chiamano il “Muselmann”, cioè colui che si chiude autisticamente in sé rinunciando a qualsiasi reazione esteriore, a qualsiasi atto di sopravvivenza e a qualsiasi agire, e si siede ciondolante in attesa della morte. Solo il “Muselmann” realizza interamente il progetto dell’isolamento totale dell’individuo, ma il “Muselmann” è un uomo morto, è un uomo vivo già morto. Il Campo tenta di portare dunque al suo estremo limite il sogno cartesiano di un individuo autosufficiente, solitario, autonomo, fondamento a se stesso. Ma nel realizzarsi quel progetto mostra la propria intima tragicità: il suo frutto più alto, non è più un uomo vivo, pieno e autentico, ma solo uno schiavo, un automa di carne, un morto vivente8. Osserviamo il nostro futuro in quell’immagine… Ancora, Auschwitz ci costringe a pensare la natura della libertà individuale non solo in termini di costrizione e di limiti, ma anche in quelli di possibilità. La società di Auschwitz esprime il progetto della funzionalità assoluta attraverso la cancellazione delle possibilità individuali che si trovano 8

Per una lettura del tema della relazione nel Lager rinvio al mio saggio Il flauto d’osso. Lager e letteratura, Firenze, La Giuntina, 1996.

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non soltanto ridotte alle funzioni elementari della sopravvivenza ma al contempo annullate di fatto dalla imprevedibilità di ogni atto, dalla impossibilità di sviluppare strategie, di costruire progetti, di fronte allo strapotere di un destino, o di una casualità che non consente né giustizia né calcolo delle conseguenze: ogni atto può portare alla morte, nessun atto può garantire sicurezza. In questa dimensione, la libertà non è più soltanto ridotta dalla condizione di cattività e di prigionia, perché in quanto tale essa sarebbe conservata almeno come ideale e come possibilità, ma essa è piuttosto annullata come dimensione reale dalla cancellazione dei rapporti tra l’uomo e gli eventi. Nessuna previsione, nessuna progettualità è più possibile. Ciò che appare devastato è il sistema di coordinate, che rende il reale una rete di possibilità. La libertà non appare semplicemente ridotta da una costrizione esterna, il filo spinato, le SS, gli aguzzini, ma è resa priva di senso da una mutazione radicale dell’essere nel mondo dell’uomo, della relazione tra l’uomo e il suo mondo9. Ancora una volta proviamo a cercare noi stessi, il nostro futuro, in questa immagine…

Il disagio della civiltà Chiunque può constatare intorno a sé un oceano di disagio quasi un ambiente nel quale tutti viviamo immersi come pesci nell’acqua. E che si presenta via via come una radicale incertezza di fronte alle grandi decisioni da prendere, che siano davvero grandi o che lo sembrino solamente; o come senso di impotenza di fronte alle sventure del mondo, di fronte all’ingiustizia, alla libertà costretta, al diritto violato; o ancora come disorientamento di fronte ad una rete di relazioni che non siamo più in grado di tenere insieme saldamente e che pare ogni volta strapparsi inesorabilmente di fronte ad un lutto o ad una separazione; o come l’incapacità di fissare limiti e di aprire rispetto ad essi un campo di possibilità in base al quale elaborare dei progetti; o semplicemente come quel timore e tremore che coglie l’esistenza ad ogni passaggio, il fanciullo che diviene adulto, l’adulto che diviene maturo, e l’uomo maturo che diviene vecchio, estranei come siamo a noi stessi, inabili a disegnare la nostra stessa figura di uomini in un tempo e in uno spazio. Ecco, forse questo nostro disagio altro non è che l’anticipazione dell’apocalissi dell’umano verso cui siamo avviati. Ne rappresenta il segno più 9

Una rappresentazione straordinariamente efficace di questa impossibilità radicale di progettare la propria esistenza si può leggere in un singolare romanzo di G. Perec, W o il ricordo d’infanzia, Torino, Einaudi, 2005, tit. or. W ou le souvenir d’enfance, Paris, Denoel, 1975.

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evidente. Così possiamo leggere in tutta la varietà delle nostre inadeguatezze e delle nostre incertezze, la nostra incapacità di adattamento ad una condizione che ci vuole trasformati e sostanzialmente superflui, separati gli uni dagli altri, strappati dalla rete della socialità che non è più intesa come parte costitutiva del nostro essere ma come uno sfondo con il quale confliggere; sempre più privi di quella libertà che non si realizza, laddove non è più possibile un rapporto di previsione e di scambio con la realtà. Di qui si articola quella vasta area del disagio per indicare la quale possiamo soltanto segnalare una serie di luoghi che si sovrappongono confusamente, e non si prestano ad una esposizione sistematica. La quale, del resto, non è affatto importante, perché comunque sappiamo che sullo sfondo incontriamo sempre la nostra ridotta attitudine a vivere l’identità personale come un tessuto di relazioni, il fallimento del nostro sentimento di libertà di fronte ad un mondo incomprensibile, le incertezze relative all’individuazione dei nostri limiti e alla configurazione del progetto di vita se non addirittura lo sgomento di fronte al nostro essere nel mondo e alle trasformazioni continue che implica. Che tutto questo possa sembrare inutilmente catastrofico è facile pensarlo tanto quanto è difficile fare il passo dal nostro disagio individuale ad una condizione collettiva che ci sfugge da tutte le parti, che non riusciamo a fissare nettamente. Ma la natura del disagio è dentro l’essenza stessa del nostro tempo: questo è l’insegnamento che ci proviene dal pensare Auschwitz in modo adeguato. Perché le diverse attualità del disagio in verità sono collegate direttamente a questo meccanismo di sviluppo, a questo processo di affermazione tecnologica che presuppone una radicale trasformazione dell’uomo, la rottura delle sue costitutive relazioni, la sua metamorfosi in oggetto, in parte funzionale della macchina, in cosa perfettamente sostituibile, la cui ragion d’essere è nella sua perfetta adattabilità ad un processo del quale non è più il fine ma solo il mezzo. Così ci troviamo a convivere con una realtà quotidiana di disagio che in certo modo struttura e caratterizza la nostra civiltà in quanto segno evidente di una condizione che è individuale e collettiva insieme. Rispetto alla quale è urgente riaprire un dialogo, così come tenta di fare ad esempio la Consulenza Filosofica a condizione, naturalmente, che essa venga intesa non come un problem solving, quanto piuttosto come una occasione per rimettere nel discorso il disagio strappandolo alle letture terapeutiche, il cui modello è quello del gesto medico che cura le malattie ma ignora l’uomo. Allo stesso tempo il disagio deve essere sottratto alle silenziose e ossessive macerazioni interiori del singolo che non si sa più interrogare, né si sa dare risposte, che in generale non è più capace di dialogo interiore. Appare allora la necessità

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di costruire un intreccio nel quale la dimensione della riflessione individuale, cioè la vita esaminata, si leghi ad una serie di pratiche collettive di riflessione. Perché il disagio del singolo esige di essere messo alla prova della realtà condivisa dalla comunità10. Partire da Auschwitz per riaprire questo dialogo, è soltanto una possibilità, una delle possibilità, quella che certamente a me, per la mia storia personale, per le mie conoscenze, per i miei studi, per le mie letture, per la mia sensibilità (per tutte le forme apparenti e sotterranee del mio disagio) risulta essere necessario.

La testimonianza C’è ancora qualcosa che ci giunge dal pensare Auschwitz. Rispetto ai molti eventi tragici dell’ultimo secolo, infatti, Auschwitz presenta due ordini di singolarità. Il primo, come si è detto, intrinseco all’evento, che si caratterizza per il fatto di non essere il portato marginale di altri fenomeni storici, ma un progetto in sé ampiamente elaborato e definito sulla base di tutte le competenze tecnologico burocratico amministrative della società moderna, applicazione di tali competenze al processo di distruzione di un nucleo umano come tale non cioè per una sua colpa (vera o immaginaria) né quale mezzo di un fine superiore, ma per un mero dato biologico immutabile. Ma il secondo ordine di singolarità di Auschwitz sta nel fatto che tale evento ha messo alla prova la capacità umana di fare esperienza. Non solo perché ha dato vita a innumerevoli testimonianze, cosa che anche altri eventi del ’900 hanno prodotto (si pensi solo alla Prima Guerra Mondiale o al Gulag) ma soprattutto e ancor più perché ha posto l’interrogativo pressante rispetto alla possibilità di essere testimoni di un Evento decisivo per l’umanità. Auschwitz mette, infatti, alla prova la nostra capacità di testimoniare e quindi, ancora una volta, ci costringe a pensare alla natura di questo gesto, alla sua consistenza, alla ragione della sua urgenza, a quel che determina rispetto all’Evento. Forse anche dalla difficoltà che oggi manifestiamo di testimoniare gli eventi del nostro tempo trova alimento questo nostro disagio collettivo. Ci accontentiamo di testimonianze già scritte, di modelli già pronti che sem10

Su questo intreccio che caratterizza la Consulenza Filosofica intesa come pratica dialogica a due ma anche come attività di Pratica Filosofica di gruppo si veda il mio, L’esercizio della filosofia, Milano, Apogeo, 2007.

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brano toglierci dall’imbarazzo di fronte ai fatti che altrimenti dovremmo interrogare in altro modo, in modo “testimoniale” per così dire, cioè appunto come partecipi e non semplici osservatori estranei. Il testimone è tale perché è lì anche se non ne è protagonista, ma è proprio lì, dentro l’evento, e l’evento è qualcosa che gli appartiene. Non siamo più capaci di testimoniare di fronte al nostro tempo. È l’accusa che poniamo a noi stessi pensando Auschwitz. Se è vero che la memoria tramandata oramai non ci appartiene più, perché più nulla ci tramandiamo di persona in persona, in quanto la società della rappresentazione si è assunta l’onere di tramandare per noi attraverso le forme cangianti delle mode e delle culture, è anche vero che la nostra memoria personale, in quanto esperienza vissuta è altrettanto ammutolita di fronte ad una generale incapacità di ascolto. Questo significa aver perso la capacità di testimoniare, e questo, soprattutto, è quel che il pensiero di Auschwitz ci suggerisce, un bisogno di testimoniare assoluto, una necessità che è sempre la prima parola del reduce e l’ultima della vittima11. Se una via da seguire c’è, una via che vada in direzione avversa, che possa cioè rallentare la caduta nell’abisso, essa si trova proprio lì, nella nostra ancora confusa e incerta capacità di essere testimoni del nostro tempo. Ma testimoniare il proprio tempo rischia di essere un’espressione retorica. Non si tratta, infatti, solo di aprire gli occhi su quel che succede, significa altrettanto saper raccontare noi stessi ovvero saper entrare in rapporto con l’altro, presenti e pensanti, assumendo un ruolo di scambio e d’ascolto reciproco, perché la narrazione di sé non resti il solito monologo, ma si trasformi in colloquio nello spazio e nel tempo.

Apocalisse dell’umano Che un certo tono apocalittico faccia parte dei luoghi comuni della nostra civiltà è cosa certa, e che dunque anch’esso rischi di perdersi nel generale chiacchiericcio della nostra cultura è una possibilità che bisogna mettere nel conto. Ogni testimonianza, purtroppo, rischia di diventare spettacolo. 11 Sul tema fondamentale della testimonianza, oltre al mio già citato Il flauto d’osso. Lager e letteratura, segnalo il testo di A. Wieviorka, L’era del testimone, Milano, Raffaello Cortina, 1999, tit. or. L’ére du témoin, Paris, Plon, 1998; G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, e G. Bensoussan, L’eredità di Auschwitz. Come ricordare?, Torino, Einaudi, 2002, tit. or. Auschwitz en héritage? D’un bon usage de la mémoire, Paris, Editions mille et une nuits, 1988.

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D’altra parte “tono apocalittico” è quello che rompe la tonalità familiare, un modo per tagliare la parola, una parola considerata oramai inadeguata e insufficiente, perché velante, oscurante, rispetto ad una verità che deve essere manifestata, esposta12. Verità che però qui non è presentata come “rivelazione”, bensì come frutto di esperienza, come il frutto di una testimonianza che si tratta in primo luogo di saper ascoltare. Che questo tipo umano sia destinato al disastro è quanto assumiamo come fine e termine del nostro discorso. Ma non è tanto un atteggiamento pessimistico e decadente che ci muove, quanto piuttosto un grande sentimento di rabbia, per tutto il bene che potrebbe esserci e non c’è, per tutto il disagio, la sofferenza, la difficoltà, il dolore, lo spreco di vita, di energia, di talento, di intelligenza che questa condizione sta determinando nell’umanità che ci circonda, e dunque in noi stessi. Se vogliamo pensare Auschwitz come una esperienza fondamentale della nostra modernità, se vogliamo pensarlo per cercare il senso del nostro disagio di oggi, non possiamo accontentarci di una lettura essenzialmente morale come quella che si realizza periodicamente nel corso delle commemorazioni. È necessario capire la radicalità di quel che Auschwitz ha messo in gioco, è necessario capire che «i campi segnano l’ingresso in una nuova era politica, quella della possibile fine della civiltà e della specie umana. In questo senso Auschwitz, catastrofe fondamentale del secolo, oltrepassa l’ambito dell’identità ebraica per porre la questione più generale della sopravvivenza dell’umanità intera»13. In definitiva, dunque non è possibile pensare Auschwitz se non si è in grado di porre una serie di interrogativi fondamentali sul nostro presente e di mettere in discussione l’archeologia della nostra modernità, i suoi limiti e le sue trappole, i condizionamenti di una società individualistica volta, insieme, all’esaltazione del singolo e al suo progressivo isolamento, la revisione progressiva dei nostri margini di libertà nel quadro di una sempre più debole capacità di interazione col mondo. Dice benissimo Zygmunt Bauman: «L’Olocausto fu pensato e messo in atto nell’ambito della nostra società razionale moderna, nello stadio avanzato della nostra civiltà e al culmine dello sviluppo culturale umano: ecco

12 Cfr. J. Derrida, Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia, in AA.VV., Di-segno, a cura di G. Dalmasso, Milano, Jaca Book, 1984, pp. 107-143, tit. or. D’un ton apocaliptyque adopté naguére en philosophie, Paris, Galilée, 1983. 13 G. Bensoussan, L’eredità di Auschwitz. Come ricordare?, cit. p. 111.

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perché è un problema di tale società, di tale civiltà e di tale cultura»14. Un problema, aggiungo io, interamente aperto di fronte a noi, fonte del nostro disagio e anticipazione di quella apocalisse verso cui precipitiamo.

14

Z. Bauman, Modernità e Olocausto, cit. p. 11

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Elie Wiesel e Primo Levi: la Shoah come ri-velazione di Francesco Lucrezi

1. Se apokalỳptein vuol dire ‘rivelare’, ‘scoprire’, e se l’apokàlypsis è l’‘apparizione’, la ‘rivelazione’, è ben noto come tali parole, nella cultura europea, abbiano visto rovesciare il proprio significato, a seguito dell’influenza esercitata dalla cd. letteratura apocalittica, ebraica e cristiana, e soprattutto della particolare collocazione e considerazione attribuita a tale filone letterario. Il carattere fortemente visionario e simbolico presente nel libro di Daniele1, nell’apocalissi di Giovanni e nella letteratura cd. ‘intertestamentaria’, in quanto intermedia tra Vecchio e Nuovo Testamento (Salmi di Salomone, libro di Enoch, Apocalissi di Esdra e di Baruch)2 ha dato fondamento a una visione ‘oscura’ ed ‘esoterica’ del messaggio della salvezza, volta ad annunciare il riscatto, messianico o escatologico, attraverso una scrittura cifrata e tenebrosa, sovente intesa come vivida rappresentazione delle «doglie del parto» anticipanti la venuta del Messia3. Il linguaggio ‘apocalittico’, così, è divenuto non più ‘rivelatore’ di futuro, decifratore di mistero, ma piuttosto, al contrario, sorgente di enigma, ‘oscuratore’ del presente, deputato a rappresentare ciò che va detto ma non può essere spiegato, in quanto espressione di un senso nascosto, di un messaggio sigillato. Decaduta, dopo la fine del Secondo Tempio, come genere letterario, e dopo aver percorso, come un fiume carsico, in modo silenzioso e sotterraneo, millenni di storia ebraica e cristiana, l’apocalittica ha prestato nuovamente la sua forza significante a chi si sia prefisso il compito impossibile di interpretare la Shoah: l’evento-limite della storia umana, che ha lacerato per sempre ogni orizzonte di senso, ogni residua fiducia nelle idee di progresso e di civiltà. 1

Sul punto, F. Lucrezi, Oracoli e regno, ora in Id. Messianismo regalità impero. Idee religiose e idea imperiale nel mondo romano, Firenze, Giuntina, 1996, 1ss. 2 Cfr. F. Lucrezi, Imperatore e Messia, in Id. Messianismo..., cit. spec. 64ss. e letteratura ivi cit. 3 Sul rapporto tra letteratura apocalittica e attesa messianica, rinvio al saggio citato Imperatore e Messia, spec. 61ss.

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FRANCESCO LUCREZI

Particolarmente illuminanti, al riguardo, le considerazioni dei due più grandi testimoni dell’Olocausto, le cui parole e i cui destini appaiono, per alcuni versi, particolarmente vicini e paralleli, per altri, singolarmente lontani, se non opposti. 2. Per Wiesel, la Shoah rappresenta una sorta di oscura ‘contro-rivelazione’, un «estremo opposto, ma non meno determinante, rispetto alla rivelazione sinaitica»4. Se sul Sinai da un roveto ardente provenne la parola divina, dalle fiamme di Auschwitz non giunse che silenzio, il gelido silenzio di Dio: «Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre la mia Fede. Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima»5. Le fiamme dell’anti-Rivelazione diventano, nella storia del popolo ebraico, altrettanto significative di quelle della prima Rivelazione, il silenzio di Dio è altrettanto importante e irreversibile della sua parola. Auschwitz, come è stato detto, costituisce un’«anti-creazione», il luogo dove il mondo e l’uomo sono stati «decostruiti»6. È il luogo ove il volto di Dio si è oscurato, la città dell’«eclissi di Dio»7, nella quale il Signore è tornato a essere il «Dio nascosto» del Deuteronomio e di Isaia, colui «che nasconde il suo volto»8. E, come ha scritto Bruno Forte, se la rivelazione è uno ‘svelamento’, uno «scoprirsi del velo», essa è anche un ‘ri-velarsi’, 4 P. Stefani, Presentazione di E. Wiesel, Entre deux soleils, trad. it.: Al sorgere delle stelle, Casale Monferrato, Marietti, 1985, XII. Cfr. M. Giuliani, Auschwitz nel pensiero ebraico. Frammenti dalle “teologie dell’Olocausto”, Brescia, Morcelliana, 1998, 69ss. Rinvio anche al mio saggio (i cui contenuti sono ripresi e sviluppati nel presente intervento) La parola di Hurbinek. Morte di Primo Levi, Firenze, Giuntina, 2005, 68ss. 5 E. Wiesel, La nuit, trad. it.: La notte, 3a ed. Firenze, Giuntina, 1986, 39s. Cfr. Id. Contre la mélancolie. Célébration hassidique II, trad. it.: Contro la malinconia. Celebrazione hassidica II, Milano, Spirali, 1989, 187. 6 M. Giuliani, Auschwitz, cit. 20s. Cfr. L. Antinucci, Shoah. Mistero dell’uomo mistero di Dio. Alcune testimonianze, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2003, 82s. 7 M. Buber, Gottesfinsternis, trad. it. Milano, Mondadori, 1980, nuova ed. 1992; Id. L’eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia. Cfr.: F. Miano, Eclissi di Dio e sospensione dell’etica in Martin Buber, in P. Amodio, R. De Maio, G. Lissa (curr.), La Sho’ah tra interpretazione e memoria, Atti del Convegno Internazionale di Studi di Napoli, 5-9/5/1997 (promosso dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, dal Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta” dell’Univ. di Napoli Federico II, dall’Alliance Israélite Universelle e dal Dipartimento di Filosofia dell’Univ. di Milano), Napoli, Vivarium, 1998, 701ss.; M. Giuliani, Auschwitz, cit. 175ss. 8 Isaia 8.17; 45.15. Deut. 31.17-18. Cfr.: B. Carucci Viterbi, “Chi non esperimenta il nascondersi del volto non fa parte di loro”. Il nascondersi di Dio, il bene, il male, in E. Baccarini. L. Thorson, Il bene e il male dopo Auschwitz. Implicazioni etico-teologiche per l’oggi, Atti del Simposio Internazionale di Roma, 22-25/9/1997, Milano, Paoline, 1998, 82s.; F. Heer, Theologie nach Auschwitz, in G.B. Ginzel, Auschwitz als Herausforderung für Juden und Christen, Heidelberg, Lambert Schneider,

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ELIE WIESEL

E

PRIMO LEVI:

LA

SHOAH

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un nuovo nascondimento9. «Dio ha celato il suo volto al mondo», afferma Yossl Rakover, autore immaginario, in un noto racconto di Zvi Kolitz, di un drammatico testamento-denuncia, scritto nel ghetto di Varsavia, alla vigilia dell’ineluttabile fine10. La testimonianza di ciò che ha vissuto non è, per Wiesel, una sorta di ‘racconto’ o, tanto meno, di ‘spiegazione’, quanto, piuttosto, parte integrante di quel lungo e doloroso «processo a Dio» che segna tutto il suo percorso letterario, e che vede le due ‘parti’ (il Creatore, «giudice-imputato», e la sua creatura, «vittima-accusatore») fronteggiarsi in una contrapposizione radicale, che diventa costitutiva della reciproca identità. Il popolo ebraico, dopo la Shoah, non è lo stesso di prima, così come è cambiato il suo Dio. 3. Anche per Primo Levi (tanto più lontano, rispetto a Wiesel, dalle tradizioni e dal senso di appartenenza al popolo ebraico e alle sue Scritture) l’esperienza di Auschwitz diventa una sorta di nuova Bibbia, un Terzo Testamento scritto col fuoco, sulla carne del «popolo eletto»11. A coloro che hanno avuto la ventura di raccogliere questo nuovo messaggio non si chiede di credere, o di pregare, ma unicamente di testimoniare, di raccontare ciò che è stato. La testimonianza, così, si impone come una necessità, un ineludibile obbligo morale nei confronti delle generazioni presenti e future12, tutte chiamate, per sempre, a ricordare: «Meditate che questo è stato», recita la poesia stampata in epigrafe a Se questo è un uomo: «Vi comando queste parole./ Scolpitele nel vostro cuore/ Stando in casa andando per via,/ Coricandovi alzandovi;/ Ripetetele ai vostri figli./ O vi si sfaccia la casa,/ la malattia vi impedisca,/ I vostri nati torcano il viso da voi». Levi seppe ricavare dalla propria sventura la massima fortuna che possa avere un uomo, quella di trasformare tutta la propria vita in una missione: «Se penso alla mia vita e agli scopi che mi sono prefissi, uno solo ne riconosco ben preciso e cosciente, ed è proprio questo, di rendere

1980, 473; N. Lamm, The Face of God. Thoughts on the Holocaust, New York, Yeshira University, 1986, passim; M. Giuliani, Auschwitz, cit. 91ss. 9 B. Forte, Gli “alta silentia” e l’autocomunicarsi di Dio: silenzio, parola, incontro. Un dialogo teologico con Hegel, Schelling e Barth, in E. Guerriero, A. Tarzia (curr.), L’ombra di Dio. L’ineffabile e i suoi nomi, Milano, Paoline, 1991, 119. 10 Z. Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio, ed. it. Milano, Adelphi, 1997. Cfr. L. Antinucci, o. c. 142ss. 11 Sui numerosi riferimenti, negli scritti di Levi, alle immagini bibliche, cfr. S. Nezri-Dufour, Primo Levi: una memoria ebraica del Novecento, Firenze, Giuntina, 2002, 145ss. 12 Cfr. F. Cereja, Primo Levi e la costruzione della memoria storica, in P. Momigliano Levi, R. Gorris (curr.), Primo Levi testimone e scrittore di storia, Firenze, Giuntina, 1999, 54ss.

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testimonianza»13. Avvertì anch’egli, e con particolare intensità, quel ‘legame indissolubile’ con gli scomparsi che avrebbe accompagnato per sempre tutti i sopravvissuti, diventando, per alcuni, «una vera e propria ragione di vita»14. Il ruolo di testimone, scelto da Primo Levi, gli ha permesso di convivere con la memoria dell’Olocausto, il cui racconto è stato per lui dovere etico e motivo di vita. Ma lo ha anche ‘imprigionato’ nel ricordo, perché raccontare la prigionia significa riviverla15, non allontanarsi dalla ‘malattia del Lager’. «Quanto più scrivo – confessa Jorge Semprùn, sopravvissuto a Buchenwald –, tanto più riaffiora la memoria; ma con la memoria, ovviamente, anche l’angoscia»16. E, per difendersi, non pochi reduci hanno intrapreso la strada esattamente opposta a quella percorsa da Levi, scegliendo la rimozione e l’oblio: «Con il rifiuto di ricordare è quasi come se ci salvaguardassimo. Perché quell’equilibrio psichico che noi poco per volta, con grande fatica, siamo riuscite a ottenere, si fa presto a perderlo di nuovo, ricordando. Siccome questo lo capiamo, ci rifiutiamo di ricordare»17. Raccontare Auschwitz vuol dire valicarne nuovamente i cancelli, se non prendervi stabile dimora18. Ma, come nell’episodio biblico della fuga di Lot da Sodoma, volgersi indietro può pietrificare, trasformando in una statua di sale19. 4. L’11 aprile del 1987 Levi pone termine, insieme, alla propria testimonianza e alla propria vita. Impossibile dire in che misura egli, inseguito dalla depressione, fuggisse, dentro di sé, il deserto emotivo, l’annichilimento del senso, la cancellazione di ogni scopo e di ogni significato, e in che misura tale pietrificazione fosse germinata da un’alterazione della sua attività elettrica cerebrale, e non piuttosto da una lucida, consapevole memoria della prigio-

13

Cfr. V. De Luca, Tra Giobbe e i buchi neri. Le radici ebraiche dell’opera di Primo Levi, Napoli, Istituto grafico editoriale italiano, 1991, 94. 14 P. Di Blasio, La colpa di sopravvivenza, «Psicologia contemporanea», n. 166 (2001), 18ss. 15 Così V. De Luca, o.c. 19. 16 In J. Semprùn, E. Wiesel, Se taire est impossible, ed. it.: Tacere è impossibile. Dialogo sull’Olocausto, Parma, Guanda, 1996, 23. 17 Testimonianza di Bianca Paganini Mori, in L. Beccaria, A. M. Buzzone, Le donne di Ravensbrück. Testimonianze di deportate politiche italiane, Torino, Einaudi, 1978, 149. 18 A. Neher, L’exil de la Parole. Du silence biblique au silence d’Auschwitz, trad. it.: L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Casale Monferrato, Marietti, 1983, 151ss. Cfr. E. Baccarini, o.c. 158. 19 B. Carucci Viterbi, “Chi non esperimenta il nascondersi del volto non fa parte di loro”. Il nascondersi di Dio, il bene e il male, in E. Baccarini, L. Thorson, o.c. 81.

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nia, dal suo riabitare il campo della morte, il luogo del «non significato»20. Occorre solo prendere atto del suo gesto, della fine della testimonianza con una «non parola», una resa al silenzio. «Parlare… bisogna. Pure il silenzio prevale», ebbe a scrivere Levi, nel 195521. E, anche negli ultimi anni di vita, egli si trovò ancora a lottare – verosimilmente, con sempre maggiore stanchezza e frustrazione – contro silenzio, oblio, «disprezzo della passione»22, negazione della memoria. Non si può dire se, a prospettargli l’idea della morte, sia proprio stata una sconsolante sensazione di solitudine, di inutilità, di sconfitta. «Oggi so – scrisse ne Il sistema periodico – che è un’impresa senza speranza rivestire un uomo di parole, farlo rivivere in una pagina scritta… Di lui non resta nulla, nulla se non parole, appunto»23. La parola, la forza della parola, infatti, fu sempre la principale arma di Primo Levi, la stella polare che segnò tutta la sua esistenza, tanto durante la prigionia quanto dopo. Una parola creata, voluta espressamente per onorare il dovere della testimonianza, se è vero, come confessò lo stesso autore, che, se non avesse vissuto l’esperienza di Auschwitz, non avrebbe probabilmente mai scritto nulla24. Ma la parola, chiamata a esprimere il senso della Shoah, cede, ammutolisce. A questa scomparsa del senso, a questo precipizio in un universo «inintellegibile» e «in-sensato»25, a questa «morte del logos ad Auschwitz»26, Levi cercò di resistere, opponendo la perdurante fede nella possibilità di comunicazione, unica àncora per la naufragante umanità: «per me allora fu un’esperienza spaventosa. C’è chi non ha bisogno forse di comunicare, chi è capace di sopportare la solitudine e di cavarsela ugualmente. Io invece avevo bisogno di parlare, di trovare risposte che mi confermassero che non ero un oggetto»27.

20

Cfr. F. Lucrezi, La parola di Hurbinek, cit., passim. Deportati, anniversario, ora in A. Cavaglion (cur.), Primo Levi per l’ANED. L’ANED per Primo Levi, Milano, Franco Angeli, 1997. Cfr. F. Cereja, o.c. 58s. 22 E. Springer, Il silenzio dei vivi. All’ombra di Auschwitz, un racconto di morte e di resurrezione, Venezia, Marsilio, 1997, 121. 23 P. Levi, Il sistema periodico, ed. Torino, Einaudi, 1994, 51. Cfr. V. De Luca, o.c. 81. 24 Id. Appendice a Se questo è un uomo, ed. Torino, Einaudi, 1976, 246. Cfr. P. Giuntella, Presentazione di V. De Luca, op. cit. XII. 25 P. Marche, P. Levi, Se questo è un uomo. Versione drammatica di Pieralberto Marche e Primo Levi, Torino, Einaudi, 1966. Cfr. S. Nezri-Dufour, o.c. 206. 26 S. Nezri-Dufour, loc. ult. cit. 27 Intervista di G. Boursier, «La Gazzetta del Popolo», 17/11/1966. 21

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La parola, da ‘via di salvazione’, può quindi essere diventata, per Levi, una via di perdizione? La testimonianza, scrive Jean Amèry (compagno di prigionia di Levi, anch’egli morto, nel 1978, di propria mano), va avanti «soweit die Sprache reicht»,28 fin dove arriva la parola, per poi arrestarsi. Ma la parola viene a mancare, si arresta innanzi alla morte, che la respinge, poiché la morte è «nichts, ein Nichts, eine Nichtigkeit»29: nulla, un Nulla, una Nullità, impermeabile all’essere, alla vita, al verbo. 5. La parola su Auschwitz va oltre le umane possibilità, cerca di violare i confini del nulla, si tende come un filo sull’abisso. Può reggere il funambolo, come può spezzarsi. «Per parecchio tempo – afferma Jorge Semprùn, in un dialogo con Elie Wiesel –, quindici anni, sono stato costretto a tacere per sopravvivere… Altri sono tornati a vivere scrivendo. Primo Levi, per esempio». Ma Wiesel la pensa in modo opposto: «Credo che Primo Levi si sia ucciso perché era uno scrittore. Ne sono convinto»30. Un giorno, continua Wiesel, si troverà l’ultimo sopravvissuto, al quale saranno rivolte le ultime domande. Ma egli, invece di rispondere, si ucciderà. «Se non sarà il suicidio – risponde Semprùn –, sarà il silenzio. Il risultato non cambia»31. La parola nasce, nella creazione, come il più prezioso dono di Dio agli uomini, segno della loro sopraelevazione nel creato32. Ma dove Dio si è oscurato, dove l’uomo si è ammutolito, ogni parola, ogni voce è spenta per sempre. E, come spiega André Neher, non resta posto che per «due realtà indescrivibili per essenza: il grido e il silenzio»33. «Appare allora il silenzio, non come una passeggera sospensione della parola, ma come il portavoce dell’invisibile nulla»34: principio muto della creazione35, luogo

28 J. Améry, Hand an sich legen. Diskurs über den Freitod, Stuttgart, Klett-Cotta, 1976, ed. 1983, 11. 29 O.u.c. 23. 30 J. Semprùn, E. Wiesel, o.c. 21. 31 O.c. 45s. 32 Cfr. M.-A. Ouaknin, Le Dix Commandements, ed. it.: Le dieci parole. Il decalogo riletto e commentato dai Maestri ebrei antichi e moderni, Milano, Paoline, 2001, e la Presentazione di O. Di Grazia. 33 A. Neher, Clefs pur le judäisme, trad. it.: Chiavi per l’ebraismo, Genova, Marietti, 1988, 103. 34 Id. L’Exil, cit. 74. 35 O. Di Grazia, Presentazione di C. Vigée, Dans le silence de l’Aleph. Ėcriture et Rèvèlation, trad. it.: Alle porte del silenzio. Scrittura e Rivelazione nella tradizione ebraica, Milano, Paoline, 2003, 10.

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segreto dell’unità originaria36. «Abbiamo imparato – nota Wiesel – che certe esperienze umane si situano al di là del linguaggio, o meglio, che il loro linguaggio è il silenzio»37; nel silenzio c’è «un appello, un grido che un popolo ha forgiato per tenderlo come un’offerta alla notte e al cielo – offerta di un’umanità giunta al termine del linguaggio, al termine della creazione, al di là di un segreto che resta indecifrabile»38. La parola è impedita, è espulsa: è «in esilio», per usare l’espressione adoperata da Neher nell’eloquente titolo del suo libro: L’esilio della parola. Auschwitz rappresenta «l’invito più tragico all’incontro con il silenzio»: è l’«avvenimento-limite nella storia umana del silenzio», il luogo dove «il popolo biblico bruciò di silenzio»39. In questo spazio, la parola non è ammessa: essa si perde nel deserto, risucchiata dal vuoto, o suona urlo, lacerazione del logos («grida, popolo ebraico massacrato, grida, grida più forte!», recita il Canto di Katzenelson40); per entrarvi, occorre «immergersi nel silenzio, nelle tenebre»41. «Ogni linguaggio, ad Auschwitz, è stato ipotecato e non è più riscattabile»42: linguaggio e Shoah sono «incompatibili come la vita e la morte, come l’essere e il nulla»43. Di fronte alle vittime di Auschwitz, l’uomo è «obbligato al silenzio», come innanzi all’impronunciabile Nome44. 6. Ciò nonostante, Primo Levi cerca, invano, di ricondurre la Shoah nel mondo della ragione, da cui sarebbe sfuggita, come un drago impazzito. Fra i motivi che lo aiutarono a sopravvivere ad Auschwitz, Levi indica «la volontà… di riconoscere sempre, anche nei giorni più scuri, nei miei compagni e in me stesso, degli uomini e non delle cose, e di sottrarmi così a quella totale umiliazione e demoralizzazione che conduceva molti al naufragio spirituale»45. 36

C. Vigée, o.c. 18. E. Wiesel, Contre la mélancolie. Célébration hassidique II, trad. it.: Contro la malinconia. Celebrazione hassidica, cit., 187. 38 L.u.c. 39 A. Neher, L’Exil, cit. 147. Cfr.: L. Antinucci, o.c. 55ss.; B. Forte, Le imperfezioni del Santo o l’altro nome della sua Alterità, in “Siate santi perché io sono santo” (Lv 19, 2). Costruirsi e costruire fra diversi, Atti del XXIII Colloquio ebraico-cristiano di Camaldoli (4-8/12/02), Villa Verrucchio (RN) 2003, 24s.; M. Giuliani, Auschwitz, cit. 179ss. 40 Y. Katzenelson, Il canto del popolo ebraico massacrato, ed. it. Firenze, Giuntina, 1995, 27. 41 L. Antinucci, o.c. 52. 42 M. Giuliani, Auschwitz, cit. 22. 43 O.u.c. 23. 44 I. Kajon, Auschwitz come esperimento cruciale. Il “senso sofferente di Dio” (Isaia 49-57) nell’interpretazione di André Neher ed Emmanuel Levinas, in E. Baccarini, L. Thorson, o.c. 285. 45 Appendice, cit. 247. 37

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Si rifiuta di considerare ciò che aveva vissuto come un evento privo di senso:46 «Visitatore, osserva le vestigia di questo campo e medita: da qualunque paese tu provenga, tu non sei un estraneo. Fa che il tuo viaggio non sia stato inutile, che non sia stata inutile la nostra morte»47 – scrisse, rivolgendosi a chi intendesse valicare i cancelli del «più grande cimitero del mondo». Era assolutamente necessario, come è stato scritto, «che da Auschwitz uscisse un insegnamento, che la vita… rinascesse dall’universo del nulla»48. Di fronte al male assoluto e radicale, Levi, frustato dall’interrogativo del ‘perché?’, raccoglie la sfida, non lascia cadere la tormentosa domanda. La vicenda di Giobbe, in questo senso, assume per lui un’importanza centrale ai fini di un’interpretazione del male e della stessa esistenza: «questa storia splendida e atroce racchiude in sé le domande di tutti i tempi, quelle a cui l’uomo non ha trovato risposta finora né la troverà mai, ma la cercherà sempre perché ne ha bisogno per vivere, per capire se stesso e il mondo»49. Di qui una «volontà instancabile», una «speranza permanente» di capire50 ciò che non può essere compreso, ma non può neanche essere dimenticato o rimosso: qualcosa che fa sgretolare come castelli di sabbia le verità costruite dalla ragione, ma pare, ciò nondimeno, offrire un’oscura chiave d’interpretazione della condizione umana. «La natura è immensa e complessa, ma non è impermeabile all’intelligenza»51, e anche l’esperienza estrema del Lager chiede di essere analizzata e interpretata: «Ci si potrà forse domandare se proprio metta conto, e se sia bene, che di questa eccezionale condizione umana rimanga una qualche memoria. A questa domanda ci sentiamo di rispondere affermativamente. Noi siamo infatti persuasi che nessuna umana esperienza sia vuota di senso e indegna di analisi, e che anzi valori fondamentali, anche se non sempre positivi, si possano trarre da questo particolare mondo di cui narriamo»52. Il bisogno di capire, come è stato notato, animava Levi nella sua veste di scrittore allo stesso modo che nel suo mestiere di chimico53: «ravvisare o

46

Così S. Nezri-Dufour, o.c. 56. P. Levi, Al visitatore, in A. Cavaglion, o.c. 48 S. Nezri-Dufour, o.c. 210. 49 P. Levi, La ricerca delle radici, Torino, Einaudi, 1981, 5. Cfr. P. Giuntella, cit. XIII, V. De Luca, cit. passim, spec. 77ss. 50 S. Nezri-Dufour, o.c. 210, 217. 51 P. Levi, Il sistema periodico, cit. 52 Id. Se questo è un uomo, cit. 109. Cfr. I. Kajon, o.c. 275. 53 C. Cases, Introduzione a P. Levi, Opera omnia, Torino, Einaudi, 1987, vol. I, XX. Cfr. V. De Luca, o.c. 8. 47

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creare una simmetria, – ebbe a dire – ‘mettere qualcosa al posto giusto’, è un’avventura mentale comune al poeta e allo scienziato»54. 7. Ma la Rivelazione (entrambe le Rivelazioni: quella del Sinai come quella di Auschwitz) è lontana da ogni ‘simmetria’, non permette di «mettere qualcosa al posto giusto», sfugge ai parametri della scienza e della ragione. Di questa radicale estraneità, molto più di Primo Levi, appare persuaso Elie Wiesel, per il quale l’Olocausto, evento-cardine dell’intera storia umana, rappresenta una realtà che non può essere conosciuta, né, tanto meno, comunicata, trattandosi di un’esperienza «intrasmissibile»55: «Ho raccontato un po’ del mio passato non perché lo conosciate, ma perché sappiate che non lo conoscerete mai»56. Auschwitz «n’est pas un sujet littéraire»57, è «relegato al di là della conoscenza»: «ciò che noi abbiamo vissuto si situa al di là del linguaggio, dall’altra parte della vita e della storia»58, ogni scrittura su Auschwitz va denunciata come fallace59: la storia dei Lager «non si lascerà decifrare che alla fine dei tempi»60. Robert Antelme scoprì un’incolmabile distanza tra «il linguaggio di cui disponevamo e l’esperienza che quasi tutti stavamo inseguendo dentro di noi… A noi stessi allora quello che si aveva da dire, cominciò a sembrare inimmaginabile»61. «Chi non ha visto non può capire», ribadisce Carlo Slama62, e Federico Cereja prende atto che «i nostri strumenti di comprensione sono inadeguati, il nostro lessico è povero, non può darci l’idea di ciò che è stato il Lager»63. Raccontare è ‘impos-sibile’64,

54 55 56 57 58 59

In E. Ferrero (cur.), Primo Levi e Tullio Regge. Dialogo, Torino, Einaudi, 1987, 9s. E. Wiesel, Entre deux soleils, trad. it.: Al sorgere delle stelle, cit. 63. Id. Signes d’exode, trad. it.: Credere o non credere, Firenze, Giuntina, 1986, 18s. L. Poliakov, Auschwitz, Paris, Juillard, 1967, 77. E. Wiesel, Signes d’exode, cit. 17. R. De Maio, Olocausto e tradizione occidentale, in P. Amodio, R. De Maio, G. Lissa, o.c.

15. 60

G. Marcel, Prefazione a V. E. Frankl, Uno psicologo nel Lager, Milano, Ares, 1967, 2a ed. 1975, 60. 61 R. Antelme, Prefazione a La specie umana, Torino, Einaudi, 1969, 5. 62 C. Slama, Lacrime di pietra, Milano, Mursia, 1980, 87. 63 O.c. 53. 64 R. De Maio, o.c. 15; G. Quazza, Un problema: storiografia sulla deportazione e strutture della ricerca, in F. Cereja, B. Mantelli (curr.), La deportazione nei campi di sterminio nazisti, Milano, Franco Angeli, 1986, 57.

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l’abisso della Shoah resta «indicibile»65, «incomprensibile»66, «insondabile»67, «incomunicabile»68. Non esistono veri testimoni, perché i reduci sono «sprachlos»69, senza parole. Auschwitz resta inenarrabile, inesprimibile, irricordabile, si apre come una voragine, si erge come il tremendum70, un «unicum nella storia della umanità»71, nero monumento impermeabile alla ragione e alla parola. Wiesel sente profondamente tale lacerazione di senso, che, se strazia la sua anima, non nega però la sua identità ebraica. Egli resta sempre, culturalmente, religiosamente e antropologicamente, un figlio di Israele, e, quando nega Dio, o si ribella a lui, lo fa sempre da ebreo, da figlio tradito, abbandonato dal Padre. Il grido contro Dio, la ribellione alla sua volontà, perfino la negazione della sua esistenza fa infatti parte integrante della tradizione israelita, ne rappresenta uno dei momenti più alti e veri. Elie Wiesel varca i cancelli di Auschwitz da studente talmudico quindicenne, profondamente devoto a Dio, fiducioso nella sua potenza e misericordia. Ne esce lacerato, per sempre, nella sua fede, ma non nella sua identità giudaica, in quanto sempre perfettamente consapevole di aver vissuto la propria esperienza in quanto ebreo. 8. Molto diverso, invece, il caso di Primo Levi, che non resta ebreo, nonostante la Shoah, ma, sostanzialmente, diventa tale, proprio attraverso di essa.

65

O. Di Grazia, Shoah e bioetica. Una rilettura dello sterminio degli ebrei in prospettiva bioetica, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2002, 63; Id. La memoria dopo Auschwitz, in A. Tirelli (cur.), La negazione dell’altro. Percorsi della memoria per non dimenticare, Atti del Seminario “La Shoah tra storia e memoria” (I.T.C. “Luigi Sturzo” di Castellammare di Stabia, febbraio-marzo 2000), del Convegno “Dal silenzio alla testimonianza: intolleranza ieri e oggi” (Terme di Castellammare di Stabia, 22/5/2000) e dei due incontri in occasione de “Il giorno della memoria” (Liceo Scientifico “Emilio Segré” di Marano di Napoli, I.T.C. “Luigi Sturzo” di Castellammare di Stabia, 23 e 25/1/2001), Castellammare di Stabia 2001, 71; V. Jankélévitch, Pardonner?, trad. it.: Perdonare?, Firenze, Giuntina, 1987, 12. 66 G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, 7; M. Giuliani, o.c. 19. Cfr. L. Antinucci, o.c. 81. 67 N. Bobbio, I barbari dei Lager possono tornare…, «La Repubblica», 17/5/1990. 68 M. Giuliani, o.c. 19. 69 E. Davidovic, Als Rabbiner in Auschwitz (intervista di G. B. Ginzel), in G. B. Ginzel, o.c. 438. 70 A. A. Cohen, The Tremendum. A Theological Interpretation of the Holocaust, New York, Crossroad, 1981. Cfr. M. Giuliani, o.c. 97ss. 71 Conversazioni e interviste 1963-1987, a cura di M. Belpoliti, Torino, Einaudi, 1997, 246 (settembre 1986). “Follia…unica nella storia”: Appendice cit. 243.

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Egli confessa di avere percepito (come molti altri ebrei italiani, prima delle leggi razziali del ’38)72 la propria origine israelita, prima dell’esperienza della deportazione, in modo molto superficiale: l’ebraismo era stato, per lui, «un puro fatto culturale. Se non ci fossero state le leggi razziali e il Lager, io probabilmente non sarei più ebreo, salvo che per il cognome»73. «Io mi sentivo ebreo, da una stima vaga, al venti per cento: mio padre e mia madre e i miei nonni lo erano, ma praticanti abbastanza poco… e più che altro per ragioni sociali, tradizionali. L’appartenenza a una certa cultura devo dire che era molto scarsa»74. «Avevo sempre considerato la mia origine come un fatto pressoché trascurabile ma curioso, una piccola anomalia allegra, come chi abbia il naso storto o le lentiggini; un ebreo è uno che a Natale non fa l’albero, che non dovrebbe mangiare il salame ma lo mangia lo stesso, che ha imparato un po’ di ebraico a tredici anni e poi lo ha dimenticato»75. Ma le leggi razziali e le persecuzioni ‘costrinsero’ gli ebrei, in Italia, a riconoscere la loro scomoda identità: «Mi sono riconosciuta ebrea a causa della persecuzione», confessa, per esempio, Luciana Nissim Momigliano76, deportata da Fossoli di Carpi (Modena) la mattina del 22 febbraio 1944, insieme a circa 650 deportati. Fra questi, il ventiquattrenne Primo Levi77, al quale, di lì a poco, sarebbe stato impresso a fuoco, nel campo della morte, il suo nuovo «nome e cognome», il numero di riconoscimento 174 517. Questo marchio incide per sempre, non solo nella carne, ma anche nell’anima di Primo Levi, quell’identità che, se per lui trascurabile, lo rendeva invece tanto ‘speciale’, insieme ai suoi compagni di sventura, agli occhi dei nazisti: «le leggi razziali e il Lager mi hanno stampato come si stampa una lamiera: ormai ebreo sono, la stella di David me l’hanno cucita e non solo sul vestito»78. 72

Cfr.: M. Molinari, Ebrei in Italia: un problema di identità (1870-1938), Firenze, Giuntina, 1991, spec. 114s.; A. Nirenstajn, È successo solo 50 anni fa. Lo sterminio di sei milioni di ebrei, Firenze, La Nuova Italia, 1993, 166s.; F. Coen, Italiani ed ebrei: come eravamo. Le leggi razziali del 1938, Genova, Marietti, 1988, passim. 73 Autoritratto di Primo Levi (intervista di F. Camon), Padova, Nord-Est, 1987, 71s. 74 Intervista di Enzo Biagi, «Panorama», 1/3/1982, p. 58. Cfr. S. Nezri-Dufour 9s., 16s. 75 P. Levi, Il sistema periodico, cit. 37. 76 L. Nissim Momigliamo, Auschwitz 1946, in Ead., L’ascolto rispettoso. Scritti psicoanalitici, Milano, Raffaello Cortina, 2001, 280. 77 L.u.c. 11ss. 78 Autoritratto, cit. 72. Cfr.: S. Nezri-Dufour, o.c. 9s.; P. Giuntella, o.c. Xs.; V. De Luca, o.c. 3ss.

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9. Si può dire, pertanto, che la Shoah ha ‘creato’ il Levi ebreo. Ma è una ‘creazione’ soltanto «in negativo», in quanto egli, sul piano culturale ed esistenziale, resta sostanzialmente quello di prima: un ‘gentile’, un goj. Condannato, in quanto tale, a raccontare qualcosa che si è rivelato l’evento assolutamente centrale della sua esistenza, atto a marchiare a fuoco, per sempre, la sua identità e la sua natura: ma che, ciò nonostante, sente completamente estraneo al suo universo logico e concettuale, e che perciò non può, in nessun modo, comprendere. Lo affligge il «senso di colpa» dei sopravvissuti, segnati dalla vergogna di essere vivi79 al posto di un altro, magari di un uomo migliore, più degno di vivere80 («perché mi sono salvato io e non i miei cari, e non i sei milioni?», si domandava Schulim Vogelmann, sopravvissuto ad Auschwitz, dove aveva perduto la moglie e la figlioletta di otto anni81); e di esserci riusciti, forse, grazie a una crosta di pane trafugata, a una gamella di zuppa sorbita di nascosto. Di qui il sospetto, fondamentalmente irrazionale, ma annidato in profondità, «come un tarlo»82, di essere colpevoli perlomeno di «omissione di soccorso»83, di avere agito da Caino del proprio fratello, di avere soppiantato il prossimo e di vivere in vece sua. Lo angoscia l’annebbiamento del confine tra vittime e carnefici: è «ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema demoniaco, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada e le sporca, le assimila a sé»84. («Il sentimento di libertà, – scrive Wiesel – di essere stato risparmiato, equivale a confessare: sono contento che un altro se ne sia andato al mio posto»85). Lo opprime la cancellazione dell’innocenza, la quale «non aveva diritto di cittadinanza» nel Lager, ove molti rispettavano un’inedita legge, rapida-

79 Cfr. M. Ravenna, Carnefici e vittime. Le radici psicologiche della Shoah e delle atrocità sociali, Bologna, Il Mulino, 2004, 309; L. Nissim Momigliano, La memoria del bene, intervista di A. M. Guadagni, in appendice a Ead., L’ascolto rispettoso, cit. 285. 80 P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986, 62. Cfr. B.M. d’Ippolito, prefaz. a I. Toth, Ėtre juif – après l’Holocauste. Essere ebreo – dopo l’Olocausto, Firenze (Fiesole), Cadmo, 2002, 9s. (ed. bilingue, pubblicata in volume autonomo, del testo della relazione Ėtre juif - après l’Holocauste, in P. Amodio, R. De Maio, G. Lissa, o.c. 135ss.). 81 Riferito da D. Vogelmann, La mia parte di dolore. Testimonianza di un “figlio dell’Olocausto”, in Amodio, De Maio, Lissa, o.c. 186. 82 V. De Luca, o.c. 27. 83 P. Levi, I sommersi e i salvati, cit. 59. Cfr. M. Ravenna, o.c. 308ss. 84 Prefaz. a J. Presser, La notte dei Girondini, Milano, Adelphi, 1976, 13s. 85 E. Wiesel, Le chant de morts, 1966, ed. it.: L’ebreo errante, Firenze, Giuntina, 1986, 47. Sul punto, cfr. L. Antinucci, o.c. 46s.

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mente assimilata: «uccidi i tuoi compagni se vuoi sopravvivere»86. «Volevi salvare tua sorella – racconta un sopravvissuto – e spingevi nella fila della morte qualcun altro al posto suo»87. Lo tormenta la scomparsa di ogni motivo, di ogni ‘perché’: «hier is kein warum», «qui non c’è perché», si sentì rispondere Levi, appena introdotto nel Lager, a una richiesta di chiarimento88. Non si rassegna alla morte della morale, schiacciata da una lotta per la sopravvivenza che imponeva il più crudo ‘imbestiamento’: ogni debolezza, ogni pietà era vietata, solo un completo egoismo, un’assoluta durezza d’animo potevano aiutare a vivere un giorno di più, un’ora di più. Un nuovo, infernale codice etico chiedeva ubbidienza, ed era impresa ardua, se non impossibile, sopravvivere restando fedeli alla ‘vecchia’ morale89, ormai lontana quanto la più remota stella dell’universo. Non riesce a comprendere, soprattutto, come possa esistere una violenza ‘inutile’90, non giustificata da nient’altro che dalla propria necessità di manifestarsi. Primo Levi, sostanzialmente, non vive la Shoah da ebreo, ma da essere umano. Egli, come è stato detto91, la «de-giudeizza», e la interpreta come una catastrofe dell’umanità, che non riesce a spiegare, in quanto contraddice tutte le più elementari leggi etiche e razionali costruite, attraverso i millenni, dalla civiltà umana. Ciò spiega anche la freddezza da lui spesso manifestata nei confronti dello stato Israele, la risorta patria degli ebrei, il rifugio dei sopravvissuti, verso cui egli non mostrò una particolare solidarietà, spesso prestandosi, da ebreo «di sinistra», sopravvissuto all’Olocausto, alle malevoli strumentalizzazioni di chi, per alimentare forsennate campagne di odio anti-sionista, cercava critiche «al di sopra di ogni sospetto» contro l’operato del governo di Israele (o, per meglio dire, contro lo stato ebraico nel suo insieme)92.

86

V. e L. Pappalettera, La parola agli aguzzini. SS e Kapo svelano gli orrori dei campi di sterminio nazisti, Milano, Mursia, 1979, 49. 87 I. Sarna, Auschwitz in eredità, in Id. Fino alla morte. Tredici storie israeliane, ed. it. Firenze, Giuntina, 1997, 17. 88 P. Levi, Se questo è un uomo, cit. 30. Cfr. P. Giuntella, Il nazismo e i Lager, Roma, Studium, 1979, 13. 89 Cfr. L. Poliakov, Auschwitz, cit. 85. 90 Violenza inutile è il titolo del quinto capitolo de I sommersi e i salvati. 91 Un’espressione riferitami da Fiamma Nirenstein. 92 Un fenomeno ben descritto e analizzato, da ultimo, da Emanuele Ottolenghi, nel libro Autodafè. L’Europa, gli ebrei e l’antisemitismo, Torino, Lindau, 2007.

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Ma, nel mondo dei gojm, fuori dall’ebraismo, Levi non trova, non può trovare il senso della «ri-velazione» della Shoah. 10. L’Olocausto, per Levi, assurge a valore di prova della non esistenza della divinità: «l’esperienza di Auschwitz è stata tale per me da spezzare qualsiasi resto di educazione religiosa… C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio»93; «se non altro perché Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe parlare ai nostri giorni di Provvidenza»94; «l’esperienza del Lager… mi ha impedito, e tuttora mi impedisce, di concepire una qualsiasi forma di provvidenza o di giustizia trascendente»95. Dio non esiste, oppure è del tutto indifferente alle sorti del suo popolo («dov’era Kadòsh Barukhù, ‘il Santo, Benedetto egli sia’, colui che spezza le catene degli schiavi e sommerge i carri degli Egizi? …lentamente, confusamente, si faceva strada in noi l’idea che eravamo soli, che non avevamo alleati su cui contare, né in terra né in cielo»96; «l’Eterno, benedetto egli sia, perché se ne stava nascosto dietro le nuvole grigie della Polessia invece di soccorrere il suo popolo?»97), o è, perfino, direttamente responsabile della sua agonia, come un crudele carnefice («i treni corazzati li hanno fatti i tedeschi, ma i tedeschi li ha fatti Dio»98; «venti miliardi d’anni prima d’ora, – recita la poesia Nel principio – splendido, librato nello spazio e nel tempo,/ era un globo di fiamma, solitario, eterno, / Nostro padre comune e nostro carnefice»99). E non c’è niente di più immorale che aggrapparsi, per viltà, paura, disperazione, a un Dio inesistente, folle o crudele. Se, però, nell’ebraismo, il rifiuto di Dio non implica una perdita dell’identità ebraica, diverso è il significato di tale negazione all’esterno del popolo del libro, laddove l’ebraismo è visto essenzialmente come una religione, più che come un valore identitario, per cui la negazione di Dio porta inevitabilmente alla negazione dell’appartenenza israelita. Un ebreo che nega Dio non cessa di essere tale, ma tale negazione assume un valore diverso per chi sia stato «creato» ebreo dalla Shoah, andando così a vedere in tale evento, insieme, la propria ‘creazione’ e ‘anticreazione’ giudaica.

93

Autoritratto, cit. 72. Cfr. R. Pititto, Dire Dio ad Auschwitz: Edith Stein e la Sho’ah, in P. Amodio, R. De Maio, G. Lissa, o.c. 708. 94 P. Levi, Se questo è un uomo, cit. Cfr. L. De Luca, o.c. 23, S. Nezri-Dufour, o.c. 152. 95 Id. I sommersi e i salvati, cit. 117. 96 Id. Il sistema periodico, cit. 97 Id. Se non ora, quando? Torino, Einaudi, 1982. 98 Id. Opera omnia, cit. 2.95s. Cfr. V. De Luca, o.c. 50. 99 Id. Nel principio, in Ad ora incerta, Milano, Garzanti, 1984.

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11. Elie Wiesel, invece, come abbiamo detto, vive, interpreta e racconta la Shoah da ebreo, e la sua sofferenza è come quella di Giobbe, il cui grido di dolore verso il cielo non può comunque recidere un legame di appartenenza e di identità che va al di là dell’umana volontà. Come Levi, anche per Wiesel la Shoah è un segno dell’inesistenza, o dell’impotenza, del Signore («si Dieu existe, il ne peut permettre Buchenwald»100), ma ciò non nega, né (come per Levi) «crea», la sua identità ebraica: se mai, la arricchisce di nuovo, oscuro significato, che richiama il senso arcano dei discorsi dei quattro amici di Giobbe, Sofar, Elifaz, Baldad ed Eliu. Se Dio esiste e tace, non si può più credere in lui e nella sua giustizia: «Perché taceva? – si chiede, esattamente come Primo Levi, anche Elie Wiesel – Come interpretare il suo silenzio?»101. Di qui quella rabbiosa fiammata di rivolta teologica – non meno drammatica di un sollevamento in armi – che vede tanti religiosi ebrei, durante il genocidio, trascinare Dio davanti al tribunale della sua stessa giustizia102. Una disperata ribellione che Wiesel esprime metaforicamente ne Il processo di Shamgorod («fra gli ebrei che stanno per morire e Dio che non muore, come potete scegliere Dio?»103), e che ha uno dei suoi precedenti nel gesto di quei rabbini del Medioevo che, ricordando il sacrificio di Isacco, osarono puntare l’indice contro l’Altissimo: «Per un solo bambino, d’altra parte salvato all’ultimo momento, vi è stato uno scompiglio in cielo e gli angeli hanno gridato allo scandalo – ed ora, mentre migliaia di innocenti periscono, Tu taci»104. Giobbe vorrebbe chiedere conto a Dio del suo operato: «Oh, sapessi come trovarlo, come arrivare fino al suo soglio! Stabilirei innanzi a lui un processo, e riempirei la mia bocca di accuse!»105. Ma «che cosa importa a Dio che tu sia giusto?»106, lo ammonisce Elifaz. Come Giobbe, come Levi, Wiesel grida la sua innocenza, e si fa accusatore: «Che il suo nome sia in100

Cit. da P. Momigliano Levi, R. Gorris, o.c. 83. Cfr. G. Lissa, Dio nella tempesta. Wiesel e la Sho’ah, in P. Amodio, R. De Maio, G. Lissa, o.c. 635ss. 101 E. Wiesel, Signes d’exode, cit. 18s. Cfr.: Id. Contre la mélancolie, cit. 171; A. Nirenstajn, Rassegnazione-coraggio. Perché Dio lo ha permesso, in P. Amodio, R. De Maio, G. Lissa, o.c. 109ss.; G. Lissa, o.c.; N. P. Levinson, Auflehnen gegen Gott (intervista di G. B. Ginzel), in G. B. Ginzel, o.c. 423ss. 102 Cfr. E. Wiesel, Nota introduttiva a Id. Le procès de Shamgorod tel qu’il se deroula le 25 février 1649, trad. it.: Il processo di Shamgorod, Firenze, Giuntina, 1986; A. Neher, Clefs, cit. 59, 118. 103 E. Wiesel, Le procés, cit. 102. 104 Da A. Neher, Clefs, cit. 104. 105 Giobbe 23. 3-4. Cfr.: J. Weinberg, Le Juif et son Dieu devant le four crématoire, in Témoignage chretien, 1085, 22/4/1965, 12; P. Giuntella, Il nazismo, cit. 284s. 106 Giobbe 22.3.

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grandito e santificato… – mormorava mio padre. Per la prima volta sentii la rivolta crescere in me. Perché dovevo santificare il Suo nome? l’Eterno, il Signore dell’Universo, l’Eterno Onnipotente taceva: di cosa dovevo ringraziarLo?»107. «Ma perché, ma perché benedirlo?… Sia lodato il Tuo Santo Nome, Tu ci hai scelto per essere sgozzati sul Tuo altare?»108. «Lo studente di Talmud, il ragazzo che ero, si erano consumati nelle fiamme. Restava soltanto una sembianza. Una fiamma nera si era introdotta nella mia anima e l’aveva divorata»109. Tre prigionieri sono impiccati in pubblico, due adulti e un bambino, dal «volto di un angelo infelice»: gli adulti muoiono, ma il piccolo corpo del fanciullo, appeso al cappio, continua a scuotersi, a lottare contro la morte, per più di mezz’ora, sotto gli occhi fissi del popolo di Auschwitz. Qualcuno domanda: «Dov’è dunque Dio?», e Wiesel sente dentro di sé una voce che gli risponde: «Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…»110. «Strana evocazione della Passione! – commenta Neher – Con questa differenza tuttavia, profonda come l’abisso: che ad essere in croce non è Dio, ma un bambino ebreo innocente, e che questo bambino, fra tre giorni, non risorgerà»111. «Nietzsche – commenta Lucia Antinucci – parla dell’orrore per la morte di Dio e Wiesel dell’orrore perché Dio vive»112. 12. Anche Wiesel, dunque, si ribella al Creatore. Ma la sua è una ribellione di figlio, che resta tale, anche se di un padre snaturato. Il senso fondamentale della sua esperienza, infatti, non consiste nel credere, ma nel sentire, ‘vedere’ la Shoah come una nuova, incandescente Ri-velazione. Il Dio crudele, il Dio inerte, silenzioso, perfino il «Dio che non esiste» resta comunque al centro dell’identità ebraica, dalla quale Wiesel non può e non vuole, in alcun modo, uscire.

107

E. Wiesel, La nuit, trad. it.: La notte, Firenze, Giuntina, 1986, 38s. Cfr. L. Antinucci, o.c. 37ss. 108 Id. o.u.c. 69. 109 O.u.c. 49. 110 Id. La nuit, cit. 66s. Cfr.: L. Antinucci, o. c. 41, 63; D. Cohn-Sherbock, The Crucified Jew, London, Fount, 1993; F. Lucrezi, Il silenzio lacerato, «Orma», n. 1 (1990) 125; Id. La parola di Hurbinek, cit. 69s. ; L. Steinwender, Christus in Konzentrationslager, Salzburg, O. Muller, 1946, ed. it.: Cristo in KZ. Ricordi e avvenimenti, Torino s.d.; P. Giuntella, Il nazismo, cit. 291, nt. 8. 111 A. Neher, L’Exil de la Parole, cit. 15. 112 L. Antinucci, o. c. 71s.

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Per conservare la fede anche nel dolore «spero in Lui anche se mi uccide»113), Giobbe deve accettare di non capire, di non ricevere alcuna risposta: «io grido verso di Te, ma Tu non mi ascolti»114. E il Salmo recita: «mio Dio…, perché mi hai abbandonato?… io grido di giorno e tu non mi esaudisci, e anche la notte non vi è requie per me»115. Wiesel accetta pienamente la dimensione biblica del puro interrogare: «non esiste una risposta»116, «ci resta soltanto la domanda»117. Si può, infatti, credere in Dio nonostante il male. Oppure, addirittura, può essere proprio il male a ri-velare il volto del Creatore: a svelarlo, ma anche a nuovamente oscurarlo, velarlo. Si può decifrare, «nei mali e anche nel Male, l’impronta digitale del Creatore»118. Il volto di Dio può essere velato nel volto della morte: «la morte è il Messia», sono le ultime parole de La famiglia Moskat di Isaac Singer119; «la voce di Auschwitz manifesta una presenza divina», scrive Fackenheim120; «il chassidismo – ricorda Wiesel – insegna che ‘nessun cuore è intero come un cuore spezzato’, e io dico che nessuna fede è solida come una fede ferita»121. 13. Wiesel sente profondamente la funzione di ri-velazione assolta dalla Shoah nei confronti del popolo ebraico, comprende come tale abisso rappresenti il tragico approdo di un millenario cammino di dolore; e, anche, un nuovo punto di partenza. Il suo atteggiamento, nei confronti di tale esperienza, parte dalla consapevolezza della sua centralità nella storia di Israele, e della centralità di Israele nella Shoah. Da questo punto di vista, la percezione di Wiesel è vicina a quella di Emmanuel Levinas, che vede nell’Olocausto un segno della tragica ‘elezione’ di Israele, la quale è ri-velata da «un vento glaciale», dagli «ululati d’implacabili folle», da un’eterna sospensione sull’orlo del baratro: un’elezione che «è certo una sventura», e che però rivela il destino metastorico di Israele, «la sua origine al di qua delle civiltà»122. È Dio che manda Satana da Giobbe: il nemico è anche un 113

Giobbe 13.15. Giobbe 30.20. 115 Salmo 21.3. 116 E. Wiesel, Entre deux soleils, cit. 141. 117 Id. Signes d’exode, cit. 19. 118 A. Neher, Clefs, cit. 53. 119 I. B. Singer, The Family Moskat, trad. it.: La famiglia Moskat, Milano, Teadue, 1989, 583. 120 Cit. da J. Bemporad, Cosa possiamo dire di Dio noi ebrei dopo l’Olocausto?, in E. Baccarini, L. Thorson, o.c. 73. 121 La mia fede ferita, intervista di A. Monda, «La Repubblica» 3/3/2004. 122 E. Levinas, Noms propres, trad. it.: Nomi propri, Casale Monferrato, Marietti, 1984, 158s. 114

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messaggero della divinità, l’incontro con Satana è anche un incontro con Dio. Giacobbe diventa Israele passando attraverso una lotta mortale contro un messo del Signore, sul guado di Panuel, da cui esce per sempre benedetto e per sempre ferito, dicendo: «ho visto Dio faccia a faccia, eppure sono rimasto vivo»123. Dalle ceneri dell’Olocausto, così, Wiesel vede levarsi un tremendo interrogativo: come le piaghe di Giobbe, anche le fiamme dei forni sono state un’atroce ‘prova’ voluta da Dio per vincere Satana?124. Una domanda che tornerà a essere posta, senza poter mai trovare risposta: «è lo stesso Altissimo, che si diverte quasi sadicamente, con un macabro gioco, a saggiare la fede del suo eletto?»125; «nello stesso modo in cui Geremia ha l’audacia di identificare in Nabucodonosor un ‘servitore di Dio’, avrà la generazione di Auschwitz l’audacia… di riconoscere in Auschwitz un’aggressione divina?»126. 14. Elie Wiesel vede dunque, ad Auschwitz, ri-velarsi il volto di Dio. La Shoah, così, acquista per lui un preciso significato, tutto interno alla storia di Israele, che è quello, appunto, dell’oscuramento, del silenzio. Primo Levi è fuori di questa percezione. Egli non inserisce la Shoah nella storia di Israele, ma la interpreta come esperienza dell’intero genere umano, cercando tuttavia di scorgere in essa un senso, un messaggio. Ma nessuno potrà mai distillare dalla Shoah alcun insegnamento, se non il nulla, il vuoto: l’‘angoscia atavica’ precedente alla creazione, a cui Levi fa riferimento ne I sommersi e i salvati: «quella di cui si sente l’eco nel secondo versetto della Genesi: l’angoscia inscritta in ognuno del ‘tòhu vavòhu’, dell’universo deserto e vuoto, schiacciato sotto lo spirito di Dio, ma da cui lo spirito dell’uomo è assente»127. Una differenza di percezione e di comprensione di cui, forse, l’estremo gesto di Primo Levi rappresenta l’ultimo, oscuro segno128. Ma è un gesto che, alla fine, ricongiunge entrambe le testimonianze sulla Shoah, accomunandole nell’ombra della ri-velazione, dell’oscuramento del significato. Che resta l’unico modo, forse, in cui il «Terzo Testamento», la moderna Apocalisse, può essere interpretata.

123 Genesi 32.30. Cfr. E. Schweid, Ma’avaq ’ad sachar (lottò con lui fino all’alba), Jerusalem, Tel Aviv, 1990. 124 E. Wiesel, La nuit, cit. 49. 125 L. Antinucci, o. c. 150. 126 A. Neher, Clefs, cit. 113. 127 P. Levi, I sommersi e i salvati, cit. 128 Sul punto, F. Lucrezi, La parola di Hurbinek, cit. passim.

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Den Trümmern der Himmel entgegen… Macerie dei cieli e sguardo di Dio nella poesia di Paul Celan di Barnaba Maj

A rigore la poesia di Celan non è apocalittica ma post-apocalittica. Il significato di questo saggio ruota intorno a questa unica affermazione. Un certo ciclo della violenza storica è giunto al suo compimento. All’inizio di questo ciclo sta la prosa crudele di Kafka. Alla sua fine sta la non meno crudele poesia di Celan. Entrambi – per usare parole dello stesso Celan – hanno scritto «sotto l’angolo d’inclinazione del creaturale» (Der Meridian, 1960). Ho scelto alcuni testi esemplari, non sempre tra i più celebri, per condurre un «corpo a corpo» con la lingua celaniana, secondo il presupposto di cui ha parlato Josif Brodskij: Omero ha inventato la lingua del mondo, Celan l’ha «reinventata». Mi baso sul corpus principale della sua opera, in edizione italiana notoriamente raccolto in un unico volume a cura di Giuseppe Bevilacqua (Poesie, Mondadori, Milano 19981, 20056 – in sigla = P)1. Altrettanto notoriamente, accanto alla celebrazione del lavoro di Bevilacqua non sono mancate critiche soprattutto alle scelte linguistiche. Anche a me è capitato di non condividere alcune scelte. Nel corso del tempo mi sono reso conto che tali critiche sono davvero ingenerose. Il curatore italiano ha affrontato l’intero corpus della poesia celaniana e quindi ha il grande merito di averlo trasportato nella nostra lingua secondo una coerente linea di interpretazione. Le variazioni qui proposte non contengono perciò nessuna critica ma ubbidiscono semplicemente alla necessità linguistica imposta dal taglio critico seguito. Intenzionalmente, infine, non tengo conto né delle poesie giovanili – cui gli studiosi tedeschi hanno già dedicato accurate ricostruzioni e analisi – né di testi inediti e postumi, che hanno trovato in Michele Ranchetti un fine e sensibile interprete linguistico italiano.

1

Cfr. anche G. Bevilacqua, Letture celaniane, Firenze, Le Lettere, 2001.

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Macerie e cecità Il verso riportato nel titolo appartiene al “primo” testo poetico di Celan. Il sottotitolo lo traduce in parte e lo collega a un altro passo contenuto nello stesso testo. È in Sand aus den Urnen, prima sezione di Mohn und Gedächtnis (1952). Il titolo Ein Lied in der Wüste è chiaramente ispirato ai libri profetici della Bibbia. Il testo è scritto in prima persona: ich è un cavaliere che con la sua spada va all’assalto della morte (P, 6-7). La landa desertica ha un nome, molte volte ripetuto con le variazioni del caso in cui si trova: die Gegend von Akra. Dopo avere bevuto cenere (Asche) dalle fonti di Akra, il cavaliere dice: und zog mit gefälltem Visier den Trümmern der Himmel entgegen. (4)

Il sintagma den Trümmern der Himmel è decisamente interpretabile secondo la semantica storica. Esso marca la differenza storica che corre fra rovine e macerie. Le rovine consentono l’elaborazione della memoria storica – le macerie ne rappresentano la cesura. L’immagine ricorda le illustrazioni dell’Apocalisse di Albrecht Dürer e l’uso emblematico, se non addirittura “architettonico-compositivo”, che ne fa Andrej Tarkovskij in Ivanovo Destvo (1962), in particolare nella scena in cui il piccolo Ivan, dopo essere scappato dai suoi amici ufficiali e soldati da cui si sente “tradito”, incontra un vecchio ormai “impazzito” fra rottami e lamiere contorte. A visiera abbassata il cavaliere va contro le (affronta le / muove incontro alle) macerie dei cieli. Il verso successivo si apre con un Denn, ha dunque una funzione chiaramente esplicativa: Poiché… Denn tot sind die Engel und blind ward der Herr in der Gegend von Akra, und keiner ist, der mir betreue im Schlaf die zur Ruhe hier gingen. (5-6)

L’“oscurità” celaniana non deve indurre nell’errore di trascurare l’alto grado di referenzialità della sua lingua alla realtà. In altri termini, Celan va innanzi tutto letto seguendo il significato proprio dei termini che usa. Qui dunque si dice: Poiché gli angeli sono morti e il Signore si fece cieco nella landa di Akra, e non c’è nessuno che per me si curi nel sonno di chi venne qui a trovare riposo. Ruhe (riposo) è un ben noto eufemismo per morte – la condizione della morte. Con ogni possibile variante, prendersi cura dei morti è un rito an-

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tropologico-religioso previsto da tutte le culture. Qui però si dice im Schlaf, nel sonno. Non può riferirsi a chi si deve prendere cura ma evidentemente ai morti stessi: è nel sonno che ci si deve prendere cura di coloro che qui vennero a trovare riposo. Dunque, essi dormono. A cosa corrisponde questa indicazione? Curarsi dei morti mentre dormono è un’allucinazione prodotta dall’affetto più lacerante. La creatura che mi / ci è morta, non è morta, sta dormendo, devo / dobbiamo prenderci cura di lei. Ma qui nessuno lo fa per il / al posto del cavaliere, né gli angeli né il Signore. Le creature sono state abbandonate. Il deserto è frutto dell’abbandono. Gli angeli sono morti. E il Signore? Non ha distolto lo sguardo come accade in certi luoghi dei Salmi, di più, molto di più. Si è fatto cieco. L’apocalisse è già avvenuta e tutte le immagini che seguono illustrano l’evento: la luna annientata, le mani con anelli arrugginiti, le maglie della corazza della notte da cui gocciola sangue. Così è l’io-cavaliere che alla fine si farà der eiserne Cherub von Akra e potrà ancora pronunciarne il nome, sentendolo avvampare sulla guancia. Un celebre, non felicissimo saggio di Gadamer ha avuto comunque il merito di porre l’interrogativo su chi sia indicato dai pronomi personali di Celan2. Il testo di Ein Lied in der Wüste ha un chiaro carattere narrativo. L’io racconta di un luogo e del suo arrivo in esso. Davvero fondamentale è la scelta dei tempi. Il testo è diviso in gruppi di quattro versi. Il primo ha soltanto Präterita: ward gewunden, riß, trank, zog; il secondo ha due presenti (sind, ist), due Präterita (ward, Zuschanden gehaun ward), di nuovo due presenti (blühn, gleichtun); il terzo ha due presenti (muß, beten), un Präteritum e un presente (war, es sickert), di nuovo un Präteritum (ward), due presenti (sprech, fühl). La rievocazione del passato diventa esperienza del presente, in cui sono riportate immagini del passato. Se tutto ciò si condensa in un nome, si tratta allora di vedere chi può pronunciarlo. La continuità è perfettamente espressa dal semplice uso di noch nell’ultimo verso (12). È la poesia a potere pronunciare il nome. L’io che parla è l’io della poesia, che per Celan si colloca sotto il segno dell’attualità dell’incontro. Ma su questa attualità domina il noch, appunto la domanda su chi ancora – cioè: dopo tutto – può pronunciare il nome.

2

H.-G. Gadamer, Chi sono io, chi sei tu. Su Paul Celan, a c. di F. Camera, Genova, Marietti, 1989.

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Il colore dei capelli – l’avvento dell’uomo Ancora nello stesso ciclo ricorre un testo dedicato esplicitamente alla memoria della mamma uccisa. Forse per questo è fra i più “semplici” mai scritti da Celan. Espenbaum – Albarella… (P, 22-23) evoca la morte con immagini di rara delicatezza: Meiner Mutter Haar ward nimmer weiß. (2)

Meine blonde Mutter kam nicht heim. (4) Meiner Mutter Herz ward wund von Blei. (8)

Nella sequenza, tutta di versi pari, ogni volta la parola conclusiva ripete il dittongo ei, il cui suono ai è con tutta evidenza vicino al lamento: weiß, heim, Blei. Le immagini sono metonimiche; addirittura l’aggettivo blonde del verso 4 specifica il sostantivo Haar del verso 2. La mamma, dunque, è identificata con i capelli e il cuore. Il colore dei capelli è biondo ma ciò viene detto dopo che il verso precedente ha già affermato una cosa terribile: a lei non è stato concesso che divenissero bianchi. La ragione è indicata nel verso 8. Se davvero la mamma è stata ferita a morte al cuore, questo cuore è certamente anche quello del poeta. È l’immagine di una vita spezzata, di due vite spezzate. Così dopo le prime quattro coppie di versi, l’immagine finale è concentrata su un termine chiave: Tür. La porta è una soglia (Schwelle), per entrare o per uscire. Una porta, custodita da un guardiano, è quella che per esempio trova di fronte a sé l’uomo della campagna che vuole entrare nella Legge nella celebre parabola di Kafka. L’idea del passaggio o meglio ancora della stretta è un’immagine esistenziale assolutamente centrale nella poesia di Celan, come ha dimostrato Peter Szondi3. Nella coppia finale di versi (9-10) l’immagine evoca un mondo rovesciato da una violenza inaudita, in cui non c’è più passaggio dall’al di qua all’di là né, quindi, comunicazione fra mondo dei vivi e mondo dei morti: Eichne Tür, wer hob dich aus den Angeln? Meine sanfte Mutter kann nicht kommen.

Al citato verso 4 il verbo kommen è composto con il sostantivo heim. Qui ricorre da solo. Certamente indica il passaggio: la mia dolce (soave) mamma non può passare. Ma indica anche che, dopo una morte che le ha impedito

3

P. Szondi, L’ora che non ha più sorelle. Studi su Paul Celan, a c. di J. Bollack, Ferrara, Gallio, 1990.

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di “tornare a casa”, non può venire. Ovvero, da morta non può venire. Con ciò alludo all’ossimoro contenuto in questa coppia di versi. Una porta che sta nei cardini si apre e si chiude. Una porta “scardinata” dovrebbe creare il vuoto, lasciare un varco. Invece questa porta fatta di quercia – il legno così forte da rappresentare il simbolo stesso della forza – è tolta dai cardini in modo da abolire il passaggio. La violenza scardinatrice si sottrae alla catarsi tragica e a qualsiasi consolazione teologico-religiosa. Ha tolto all’esistenza e alla morte il suo passaggio. Ecco perché per esempio in altro testo, poi citato nella prosa di Der Meridian, Celan scrive che occorre camminare sulle mani: per poter scrutare il cielo come abisso. Il tema dell’abisso in cui è precipitato il tempo della storia ricorre con potenza inaudita nel testo di Spät und tief (P, 54-57). È il tempo della civiltà e della storia dell’Occidente, il tempo innestato e “impregnato” dal cristianesimo. Questo testo si chiude con un verso indimenticabile, che va ben al di là di tutta l’evocazione della figura di Cristo da van Gogh all’espressionismo: Es komme ein Mensch aus dem Grabe. (27)

Come ci si arriva? Il testo è costruito sull’opposizione fra i pronomi wir e ihr, con un’intermediazione di sie – di sicuro un elemento “corale” –, per lasciare esplodere nel finale un “incommensurabile” es. Tutto il peso della prima parte verte sul verbo schwören (giurare): Wir schwören bei Christus dem Neuen, den Staub zu vermählen dem Staube, (6) […] Wir schwören der Welt die heiligen Schwüre des Sandes, wir schwören sie gern, wir schwören sie laut von den Dächern des traumlosen Schlafes und schwenken das Weißhaar der Zeit… (9-12)

Ed ecco ciò che loro gridano: Sie rufen: ihr lästert! (13)

Il verso è uno stacco, che separa prima e seconda parte, dominata questa volta dal sintagma wir wissen. Ma ciò che noi sappiamo in fondo conta poco: Ihr mahlt in den Mühlen des Todes das weiße Mehl der Verheißung, ihr setzet es vor unsern Brüdern und Schwestern – (16-17)

Siete voi questa volta ad ammonirci che noi stiamo bestemmiando (19). Torna così per l’ultima volta wir wissen (20). Ma ora l’oggetto del sapere è il sin-

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tagma della preghiera, il sintagma dell’avvento: venga. Lo sappiamo, la colpa ricada su di noi. Ricada su di noi la colpa di tutti i segni ammonitori, venga il mare gorgogliante, l’aspra ventata del ritorno, il giorno di mezzanotte, venga ciò che ancora non fu mai. Difficilmente una traduzione può rendere l’impressionante ripetizione di es komme in apertura dei versi 21, 22, 23 e 26 nella sequenza 20-26. Come detto, è il sintagma della preghiera: venga il tuo regno, ma sono anche le parole della parusía – il linguaggio mistico-religioso4. Wir wissen es wohl, es komme die Schuld über uns. Es komme die Schuld über uns aller warnenden Zeichen, es komme das gurgelnde Meer, der geharnischte Windstoß der Umkehr, der mitternächtige Tag, es komme, was niemals noch war! Lo sappiamo bene, venga su di noi la colpa. Venga su di noi la colpa di tutti i segni ammonitori, venga il mare gorgogliante, l’aspra folata di vento del ritorno, il giorno di mezzanotte, venga, ciò che ancora non fu mai!

La ripetizione culmina nel verso finale già citato. Non ha punto esclamativo. Non ha enfasi. Ciò significa che il crescendo è terminato – è un verso in calando, da pronunciare sommessamente. Va attentamente meditato: Es komme ein Mensch aus dem Grabe.

Non è certo l’attesa della seconda parusía. Voi avete impastato la bianca farina della promessa nei mulini della morte. Tutto ciò che noi diciamo, voi lo definite bestemmia. Lo sappiamo: allora la colpa venga su di noi, anche la colpa dei segni ammonitori. Purché venga ciò che noch niemals war! Prendiamo su di noi il male e le colpe del mondo – il male in realtà commesso su di noi – in nome di ciò che si è detto che è stato e invece non fu mai ancora! Si apre così il rovesciamento del tempo, il giorno di mezzanotte. Ciò che è accaduto mostra che l’uomo non è ancora venuto: Venga un uomo dal sepolcro.

Non si sfugge: la shoah revoca la redenzione del peccato. 4

Cfr. S. Wolosky, Language Mysticism. The Negative Way of Language in Eliot, Beckett, and Celan, Stanford, Stanford UP, 1995.

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La lacrima Nelle prime due delle tre parti che compongono Aufs Auge gepfropft (Innestato nell’occhio) da Von Schwelle zu Schwelle (1955 – P, 176-177), l’importantissimo tema celaniano dell’occhio (Aug) è collegato – ancora una volta metonimicamente – con quello della palpebra (Lid). Con un vertiginoso gioco linguistico e parimenti vertiginosa apertura d’immagine, palpebra e cielo sono strettamente connessi: Himmelweit spannt sich das Lid diesem Frühling. Lidweit dehnt sich der Himmel, darunter, beschirmt von der Knospe, der Ewige pflügt, der Herr. (6-10)

È una corrispondenza quasi concentrica. La palpebra si tende / spande a questa primavera “a tutto cielo” – secondo la vastità del cielo. E il cielo si estende “a tutta palpebra” – secondo la vastità della palpebra. Sotto questo doppio cerchio, al riparo della gemma, l’Eterno, il Signore ara. Di nuovo metonimicamente il verbo pflügt porta al nome dell’attrezzo, il vomere (Pflugschar). È con esso che il Signore ara. Ora tutto si sposta sul sonoro. Il testo invita a prestare ascolto al vomere. Lo fa per tre volte: Lausche der Pflugschar, lausche. Lausche: sie knirscht über der harten, der hellen der unvordenklichen Träne. (11-14) Presta ascolto al vomere, presta ascolto. Presta ascolto: esso stride sopra la dura, la chiara, l’immemorabile lacrima.

Il gruppo finale introduce una chiara dissonanza nella precedente corrispondenza. C’è qualcosa che fa stridere il vomere del Signore: la lacrima. È dura come pietra (un tema su cui hanno richiamato l’attenzione fra gli altri Jean Bollack e Otto Pöggeler)5. Causa dello stridore. Questa lacrima in Celan non potrebbe mai essere nera (schwarz) ma assolutamente chiara. Il terzo aggettivo è storicamente assai connotato nella lingua tedesca, rimanda alla fine del XVIII secolo. Ma la sua scomposizione letterale produce un risultato 5

J. Bollack, Poésie contre poésie. Celan et la littérature, Paris, PUF, 2001; O. Pöggeler, Der Stein hinterm Aug. Studien zu Celans Gedichten, Gedichten München, W. Fink, 2000.

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molto interessante. Vuol dire: detto di qualcosa rispetto al pensiero del quale nulla può essere pensato prima. Celan sembra usarlo proprio in questo senso etimologico. Sia immemorabile che immemoriale sono lontani dal poterlo rendere, perché questo senso letterale è in certo senso opposto a quello intuitivo. Per la verità anche i dizionari tedeschi spiegano unvordenklich come riferibile a cosa di antichissima data o per così dire “contemporanea” dell’originario pensiero umano. Ma se lo si legge così, la lacrima diventa qualcosa che appartiene all’origine. L’accezione che propongo invece la rende qualcosa di impensabile prima che accadesse ciò che l’ha prodotta. Qualcosa che sta nel tempo storico e che appunto fa stridere il vomere maneggiato dal Signore, non a caso chiamato in primo luogo der Ewige.

Lo splendore Non è difficile “decodificare” il testo di Assisi (P, 180-181), assai prossimo al precedente. Sembra chiaro che Celan è stato in visita ad Assisi. Addirittura il testo suscita l’impressione di essere stato scritto la notte stessa della visita. Umbrische Nacht: questa apertura lascia immaginare Celan affacciato di notte alla finestra. Vede Assisi. Lo dice chiaramente il verso 11: Pietra, ovunque guardi, pietra. Le immagini sotto gli occhi evocano quelle del passato biografico di S. Francesco, condensate dalla figura dell’asinello (Grautier). Tutto si riassume in un’unica parola: Glanz – Splendore. È quella che apre il primo verso dell’ultima coppia (17-18) e lo chiude, per farla intenzionalmente rimare con Franz, il nome del santo: Glanz, der nicht trösten will, Glanz. Die Toten – sie betteln noch, Franz. Splendore, che non sa confortare. I morti, Francesco, implorano ancora.

Questa traduzione produce un’interpretazione univoca: lo splendore ha un limite, che viene ricordato al santo. Penso che l’interpretazione vada resa meno univoca e che il senso sia leggermente diverso. La parola Glanz viene ripetuta. La rima con il nome rende “fraterno” il richiamo e indubbiamente porta a identificare in Francesco la fonte di emanazione dello splendore. In certo senso, anzi, Francesco è lo splendore. La notte, l’argento, l’ulivo, le campane, la pietra: tutto è traccia di Francesco. Eppure esso non vuole / può consolare. Fraternamente si dice a Francesco che i morti – essi implorano ancora. Anche Francesco lo sa. Chi lo chiama lo vuole insieme a sé. Perché questo splendore possa raggiungere chi implora.

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Das Purpurwort Psalm - Salmo è fra i testi più noti da Die Niemandsrose (1963 - P, 378-379). È un testo chiave per sostenere la nothingness di Dio (George Steiner) o, come anche si potrebbe dire, la sua nessunità6. Nella storia della creazione dell’uomo ci sono tre momenti: la creazione a immagine di Dio (Genesi 1, 26-27); la formazione dell’uomo (2, 7); i nomi attribuiti da Adamo agli animali (2, 19-20). Solo nel primo momento si dice: Iddio disse. Quanto accade nel terzo momento, fa comprendere che nel formare l’uomo Dio gli ha donato la parola, cioè ciò con cui Lui stesso ha proceduto alla creazione del mondo. In 2, 19, infatti, sembra che Dio sia quasi “curioso” di vedere quali nomi Adamo darà agli animali che ha condotto innanzi a lui. Il gruppo iniziale di tre versi del testo di Celan riprende il secondo momento (2, 7): «E il Signore Iddio formò l’uomo dalla polvere della terra e alitò nelle sue narici un soffio vitale e l’uomo divenne anima vivente», ma vi include già anche il terzo, chiaramente evocato nel quarto gruppo finale (14-20) come tema del rapporto fra parola di Dio e parola dell’uomo. Non a Dio, ma a Nessuno si rivolge il salmo: Niemand knetet uns wieder aus Erde und Lehm, niemand bespricht unsern Staub. Niemand. (1-3) Nessuno c’impasta di nuovo, da terra e fango, nessuno insuffla la vita alla nostra polvere. Nessuno.

Assai difficilmente il verbo besprechen può essere reso con “insufflare la vita”. È la memoria del versetto biblico (2, 7) ad agire. Di per sé, il verbo vuol dire banalmente discutere qualcosa. Sicuramente Celan ne fa invece un uso etimologico che si basa sul valore del prefisso inseparabile be-, il quale indica che quanto espresso dal verbo-base viene portato a compimento. La certezza di ciò deriva dal fatto che in altri contesti Celan mette in relazione fra loro i diversi composti di sprechen. Per capire il valore-base di be- occorre ricordare che in genere ha significato opposto a ent-. Contro ogni apparenza, in senso etimologico questa antonimia vale anche per besprechen e entsprechen. Attraverso questa riduzione, si ha: “dare il parlare / la parola” e “togliere il parlare / la parola”. Perciò il verso 2 si può leggere così: 6

Cfr. Kommentar zu Paul Celans Die Niemandsrose, hrsg. von Jürgen Lehmann, Heidelberg, C. Winter, 2003.

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nessuno dà parola alla nostra polvere, nessuno rende parlante la nostra polvere.

Mantenere questo significato è essenziale per comprendere la relazione che corre fra il termine Niemandsrose del terzo gruppo di versi con il termine Purpurwort del quarto e ultimo gruppo. Lo vedremo alla fine. La seconda strofa di cinque versi (4-8) ci immette nel regno dell’assurdo. Paradossalmente è proprio Nessuno a essere lodato. Ed è di fronte a Nessuno che si afferma la dimensione del wir, in questo testo decisamente dominante: Gelobt seist du, Niemand. Dir zulieb wollen wir blühn. Dir entgegen. Che tu sia lodato, Nessuno. Per amor tuo, noi vogliamo fiorire. Di contro a te.

Il verbo blühen acquista un rilievo centrale. Il suo significato è sia simbolico che letterale, cioè fisico. Nessuno è lodato perché grazie a Lui noi vogliamo fiorire. Fiorire è l’aprirsi alla vita di una pianta. Vogliamo fiorire di contro a te. Qui entgegen ha sicuramente più significati –: verso / in direzione di / contro / di contro / in opposizione –, a differenza del caso esaminato in Ein Lied in der Wüste. Dovremmo ora attenderci l’indicazione sul fiore che prende forma. L’indicazione arriva ma dopo un sorprendente passaggio ontologico: Ein Nichts waren wir, sind wir, werden wiv bleiben, blühend: die Nichts-, die Niemandsrose. (9-13) Un Nulla eravamo noi, siamo, resteremo, fiorendo: la rosa del Nulla, la rosa di Nessuno.

Le due preposizioni avverbiali zulieb e entgegen della strofa precedente

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hanno preparato ciò che qui trova un’importante conferma. Tra il noi e Nessuno rimane un legame. Indirettamente, esso viene rafforzato dall’ultima strofa che è interamente basata su un lungo complemento preposizionale introdotto da mit e su un complemento ad esso interno con von: Mit dem Griffel seelenhell, dem Staubfaden himmelwüst, der Krone rot vom Purpurwort, das wir sangen über, o über dem Dorn. (14-20) Con lo stimma chiara-anima, lo stame deserto-cielo, la corona rossa della parola di porpora, che noi cantammo al di sopra, oh al di sopra della spina.

La descrizione del fiore culmina nel riferimento alla corona, resa rossa dalla parola di porpora. È questo il punto di massima espansione della fioritura e corrisponde appunto al besprechen del verso 2. La spina al di sopra della quale essa è stata cantata è il nome del dolore che si fa fioritura di fronte al Nessuno della creazione. Il nulla della creatura si fa fiore e canto sopra il dolore in direzione di Nessuno che non più impasta, non più rende parlante.

A nord del futuro Fra i testi che richiamano il tema del tempo spicca una breve poesia di cinque versi dal ciclo Atemwende (1967) o Svolta del respiro (P, 516-517): In den Flüssen nördlich der Zukunft werf ich das Netz aus, das du zögernd beschwerst mit von Steinen geschriebenen Schatten. Nei fiumi a nord del futuro lancio la rete, che tu esitando tieni sospesa con ombre scritte da pietre.

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La struttura sintattica è ammirevole. Prima frase: (complemento spaziale + complemento spaziale interno) (verbo + oggetto); seconda frase: (relativa con complemento oggetto + nuovo soggetto + verbo) (complemento di mezzo + complemento interno). Con tutta evidenza, è una struttura duale: 2 complementi, 2 verbi, 2 soggetti, 2 oggetti, 2 complementi. Il raccordo fra le due frasi avviene tramite l’oggetto. La grammatica pronominale è chiaramente ich-du. La “referenzialità” della lingua celaniana qui è esemplare. L’“io” è un pescatore che getta nell’acqua dei fiumi la sua rete; “tu” è chi le appesantisce, tenendole ferme e sospese nella corrente. È un’immagine molto precisa su cui agiscono due potenti fattori di straniamento, entrambi collocati nei due complementi interni: nördlich der Zukunft (1) e mit von Steinen geschriebenen / Schatten (4-5). La prima locuzione “spazializza” il tempo. L’indicazione è chiaramente die Zukunft, il futuro. L’avverbio nördlich lo colloca in territorio inesplorato, lo rende un futuro che c’è già – il verbo auswerfen, infatti, è all’indicativo presente – ma è ancora del tutto sconosciuto. Proprio per questo è necessario che la rete non sia travolta dalla corrente dei fiumi, che venga appunto fermata con pesi e tenuta sospesa nell’acqua. Ma – e qui è il secondo straniamento – il “du” richiamato nella seconda parte del testo non usa pietre. Chiaramente c’è un’inversione, resa evidentissima dalla posizione solitaria di Schatten in chiusura del testo. Nulla è più immateriale e leggero delle ombre, che sono dunque l’opposto della materialità e pesantezza delle pietre. Ma le ombre sono anche da sempre l’immagine dei morti e le pietre i segni del lutto. Dunque, le immateriali e leggerissime ombre hanno peso in virtù del fatto che sono “materiate” di scrittura. E questa scrittura è fatta da o è direttamente pietre – Steinen. Per questo il “tu” agisce in modo esitante, zögernd. Di sicuro il post-apocalittico qui ha il suo centro nella scrittura poetica: das Netz (la rete). Il mondo appartiene ormai alla velocità, che inghiotte anche la memoria. La rete-scrittura vuole trattenere il mondo e la memoria. Ciò che la tiene ferma, sospesa nel flusso, sono le ombre scritte da pietre, un’incancellabile traccia di memoria luttuosa. Il suo luogo è il nord inesplorato dell’utopia. Certamente il “du” non è la morte né Dio. Può essere il ricordo della mamma morta che sta per tutti i morti, uccisi nello sterminio. Ancora più verosimilmente, può essere l’autore della scrittura poetica che si rivolge a se stesso – colui che ora scrive si rivolge a colui che è arrivato al qui / ora con il carico della sua memoria e di una storia che, in quanto post-apocalittica, obbliga a riscrivere tutto. Lo sguardo di Dio è il totalmente assente.

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PARTE TERZA Arte, musica e cinema

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Laboratorio Apocalisse di Dario Trento

Introduzione L’Apocalisse di Giovanni è un testo del nostro canone culturale. Per lunghi periodi resta sottotraccia e poi, spinto dalle occasioni, torna ad agire, diventa strumento di riflessione, interrogazione e interpretazione. In prima istanza risponde al sempre incombente terrore della fine del mondo, della storia e della vita, in ogni forma di esperienza e naturalmente anche nelle arti figurative. Ma in modo meno vistoso e più profondo è un formidabile strumento di interpretazione, prestato da una forma di conoscenza antica, nascosta e difficile, la profezia. Questo mio intervento vuole porre l’attenzione su alcune ricorrenze nell’arte italiana del XX secolo, con particolare attenzione alla seconda forma d’uso del testo. L’esame è concentrato su due periodi ristretti, il quindicennio dal 1930 al 1945 e l’ultimo ventennio del secolo scorso.

“Dal profondo grido a te o signore” In una lettera della primavera 1931 a Marino Mazzacurati, Scipione (Macerata, 1904 – Arco (Trento), 1933) denuncia l’ostracismo della critica nei confronti suoi e dei suoi amici e riguardo al suo lavoro osserva: «Con l’Apocalisse, io ho tradito Oppo, che mi aveva indicato la strada maestra – nel ritratto di mamma». Dal tono si capisce che il pittore considera L’Apocalisse (o Il sesto sigillo, Ap. 6, 12 - 17, 1930) (Fig. 1) il punto di arrivo della sua attività. Scipione aveva cominciato a esporre solo tre anni prima, nel 1928 a 24 anni, ma in poco tempo aveva bruciato le tappe. Era partito nel 1927-28 con un autoritratto all’antica e con immagini di arcadia primitiva per scivolare, l’anno dopo, in nature morte barocche di sfrenati racconti di sensi: pettini, piume, stiletti, polipi, carte da gioco. Col 1930 erano emersi gli attori: la

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conturbante sirena, la cortigiana romana, il principe cattolico, il cardinale decano, alcuni ritratti. Con pochi dipinti, esposti in mostre strategiche a Roma e alla Biennale di Venezia, con Mario Mafai Scipione aveva imposto il canone della giovane pittura italiana, incrinando il muro gessoso di Novecento e la palizzata di Strapaese. Ma Scipione aveva contratto la tisi e da anni alternava periodi di sfrenatezza a convalescenze e ricoveri in ospedale. La sua disponibilità al cibo, al sesso, all’amicizia e agli incontri era proverbiale. Dai pochi anni in cui aveva scelto di dedicarsi alla pittura, attraverso i sodalizi con Mafai, Antonietta Raphäel, i poeti e i letterati, aveva percorso uno straordinario tragitto intellettuale. La condizione fisica lo aveva costretto a passare continuamente oltre i confini appena segnati. Nel 1930 aveva realizzato un gruppo di vedute di Roma dense di energia e simboli, statue di angeli, cieli attraversati da cataclismi meteorologici e sacre apparizioni. La sensibilità animista gli permetteva di conoscere attraverso l’esposizione sfrenata dei sensi, ma allo stesso tempo egli era ben consapevole che il mondo dentro il quale nuotava era governato da una forza generatrice. Con il 1930 l’artista si dirige verso di essa. In un dipinto, Gli uomini che si voltano (Fig. 2) rappresenta di spalle due uomini nudi dai corpi grevi, le gambe tozze e pelose, le teste grosse. Posti al centro di un paesaggio, stanno per venire risucchiati da un cataclisma. Come documenta Antonino Santangelo, testimone delle frequentazioni di Scipione e Mafai alla Biblioteca di storia dell’arte di Palazzo Venezia, il tema dell’immagine è una fine del mondo: «Gli Uomini che si voltano ebbero origine forse, come occasione esteriore, dalla lettura di alcuni versi di Montale e, figurativamente, dalle dolorose e atterrite contorsioni degli Apostoli del mosaico bizantino dell’Ascensione, in Santa Sofia di Salonicco». Per il riferimento montaliano è stata proposta da Paolo Baldacci una poesia da Ossi di seppia. Quanto al riferimento iconografico, per la figura di destra, è dimostrabile la derivazione da un apostolo riprodotto nella monografia sull’arte bizantina di Muratoff pubblicata da Valori Plastici l’anno prima che il quadro fosse dipinto (Fig. 3). Corrispondono, oltre alla postura generale del corpo, la testa inclinata verso l’alto, il profilo marcato e il grande occhio dilatato. La figura di sinistra ha lo stesso tipo di viso disegnato con tratti marcati e semplificati, grandi occhi geometrici, bocca contratta, forte contrasto tra luce e ombra. Ma quest’ultima figura alza un braccio facendolo uscire dal quadro e ricongiungere al cielo. Nel terrore generale quel gesto diventa un’invocazione, simile ad altre testimoniate negli scritti di Scipione: Un uomo nudo cammina: è bianco come un albero senza corteccia

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e tutte le cose create vogliono toccarlo. […] Nell’aria c’è il fuoco, il tuono scoppia e la folgore scrive nel cielo i caratteri di Dio. Il timore, il timore di lui spezza il corpo nell’adorazione.

L’animismo di Scipione lega direttamente una materia pregna di fisicità al divino. L’Apocalisse del 1930 (Fig. 1), il quadro di cui parla Scipione nella lettera a Mazzacurati, presenta ancora uomini nudi dentro un paesaggio sconvolto. Una annotazione di Santangelo ci permette di approfondire gli elementi della composizione: «L’Apocalisse, parsa a tutti grechiana, nacque dalla contemplazione di un sarcofago paleocristiano con la Guarigione del cieco nato, che nella fantasia gli si trasformò immediatamente in un gesto di bontà del Cristo, in atto di chiudere gli occhi al giovane perché non si accorgesse dei peccati e dei dolori del mondo» (Fig. 4). La fonte per le due figure a destra può essere una scena simile a quella del ‘sarcofago con orante’ del Museo del Laterano di Roma. La natura seducente e l’umanità erotizzata di Scipione sono catturati in un vortice mosso dalla mano ferrea di Dio. Nelle lettere di Scipione, scritte dal 1931 dal sanatorio di Arco, si moltiplicano i segni dell’identificazione del pittore con i profeti della Bibbia. Nel Profeta in vista di Gerusalemme un uomo primitivo in groppa a un cavallo imbizzarrito e in mezzo a una natura travolta da morte e rovina, fa salire la sua preghiera vedendo davanti a sé la salvezza. Nel 1932 Caino e Abele addormentati diventano ancora una efficacissima sintesi della condizione umana: il corpo greve di Caino, immerso in un sonno pesante, rivolto verso il suolo, quello di Abele, chiaro e quasi immateriale, offerto indifeso alla luce (Appella, nn. 273-274). Ma anche questa non è l’ultima tappa. Nella fase finale della malattia l’artista, raggiunto uno stato di calma e serenità, rappresenta Gli uomini che gridano, anch’essi ispirati a un passo Biblico (Salmo 129). Due lettere del pittore a Mafai spiegano la simbologia del lavoro: «il disegno è nato da un Salmo che incomincia “Dal profondo gridai a te Signore”. Dopo averlo fatto mi sono accorto che le braccia sollevate in alto degli uomini s’incrociano e formano il segno evviva: W. Infatti, come è spontanea e fotografica la grafia di quel sentimento. Non so se esista una scienza che studia il significato e la nascita grafica dei segni. Il segno di abbasso, […], mi fa vedere due esseri che lottano abbracciati […] in principio era una sola figura, quella di sinistra, poi per nascondermi venne quell’altra figura, e si generalizzò: infatti due uomini possono essere anche tutto il mondo».

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Il compimento dell’ascesi di Scipione realizza un modello di santità vicino al cristianesimo primitivo: «Che cosa vuol dire tutta questa serenità di cui godo pur nelle tristi condizioni di salute? Questa pazienza e questa calma nel cuore. Sono stato mesi interi obbligato nel letto, senza noia e senza stancarmi. Certo è un gran dono di Dio, ma anche il mio sangue è meno torbido. Lei sa come io sono stato tutta la mia vita un lussurioso e sempre sono stato tormentato terribilmente dai sensi. Anche essi si sono placati».

Un profeta nella città del sole Nel carcere dove resta rinchiuso 45 giorni per antifascismo, Renato Birolli (Verona, 1905 – Milano, 1959) trasmette a Sandro Bini il suo stato d’animo: «quand’anche tu non rispondessi mai, attenderei paziente la Nuova Gerusalemme dalle 7 cinta quadrate inscritte l’una nell’altra e d’oro diamanti crisoliti etc., piuttosto di non crederti». Il riferimento all’Apocalisse fa coppia con un rimando successivo, più blando: «Ieri al tramonto, tirai la branda sotto la finestra e facendomi guanciale alla nuca con le palme, guardai al pertugio un cielo di un cobalto formidabile, da dipingere dieci Giudizi Universali, benché quel cobalto fosse più di Tintoretto». Non troveremo altri riferimenti espliciti all’Apocalisse in Birolli, ma sbaglieremmo a non cercare in quella direzione indagando la sua pittura di un preciso momento. Un’altra citazione epistolare ci porta al cuore del problema. A Giuseppe Marchiori, che gli confidava di essersi rifugiato nella lettura del Candide di Voltaire, il giovane ribatte netto: «E Voltaire, ahimè, sotto le spoglie meravigliose del più vibrante genio, ha qualità demoniache che tolgono la pace e la fede […] Io leggo Campanella e, quando proprio non ne posso più dal freddo morale, leggo Pascal e altri sublimi folli che videro l’universo folgorato da molteplici grazie». Siamo al 21 novembre 1935 e se dobbiamo cercare tra i «sublimi folli» frequentati da Birolli nel momento, ci imbattiamo in Ezechiele, prefiguratore dell’Apocalisse. Se dell’Apocalisse Birolli cita la proiezione trionfale della Gerusalemme celeste, delle profezie di Ezechiele guarda alla parte che prefigura la nuova Gerusalemme. Al giro di boa della sua maturazione d’artista, il pittore si sente profeta di un nuovo Eden. Il richiamo a Campanella del 1935 non è a caso. In un quadro come I Poeti del 1935 (Fig. 5) i «quattro giovani in smoking (I poeti)» sono stati identificati come poeti ermetici sodali dell’artista o come suoi compagni artisti. Ma, nella gerarchia fissata dalla loro disposizione, i quattro personaggi possono riferirsi ai quattro governatori della Città del Sole campanelliana,

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il «principe sacerdote […] che s’appella Sole» con, di fronte, i «tre principi collaterali: Pon, Sin, Mor, che vuol dir: Potestà, Sapienza e Amore». L’identificazione è rafforzata dagli elementi del paesaggio a destra, dove un sole dentro un cielo surriscaldato si raddoppia dentro un fiume incandescente. Difficile pensare che i due soli speculari non indichino un concetto preciso: vengono in mente i principi cosmologici degli abitanti della Città del Sole: «Tengono dui princìpi fisici: il sole padre e la terra madre; e l’aere essere cielo impuro, e ‘l foco venir dal sole, e ‘l mar essere sudore della terra liquefatta dal sole e unir l’aere con la terra». L’Eldorado, altro dipinto di questa stagione, si ispira a un popolare bagno estivo milanese sul Lambro presso la Cascina Monluè; ma lo trasforma in una mitica ‘terra dell’oro’. Arriviamo così a un terzo quadro di quell’anno, La visione di Ezechiele (Fig. 6). Anche qui, nei quattro personaggi vestiti alla moderna, sono stati riconosciuti amici e sodali del pittore. Il dato certo è la presenza di Birolli nel giovane col libro di Pascal, quello probabile è la presenza di un suo amico-sodale alla sua destra (Sandro Bini?). Da sottolineare, invece, che le tre figure restanti poggiano su un piano separato e incandescente, identico a quello dove siedono i quattro ‘poeti’. Nelle due tele, infatti, un cielo e un primo piano incandescenti racchiudono strisce sottili di paesaggio. In ambedue i paesaggi ricorre una piccola casa rossa geometrica e nella Visione di Ezechiele compare il profilo dell’Istituto Chimico Industriale Ronzoni «popolarmente chiamato il Kremlino», visibile dallo studio di Birolli in Piazzale Susa. Il punto di appoggio è la quotidianità, innestata nello spazio incandescente dell’utopia. In una nota dei Taccuini del marzo-aprile 1936 Birolli osserva: «Il fuoco delle ruote rivelatesi a Ezechiele nella seconda visione, trascende talmente l’illusione sensoria da poter essere espresso con qualunque colore e meglio d’ogni altro dal bianco assoluto». In una nota del settembre 1940 Birolli registra la distanza sopravvenuta tra lui e il quadro: «Un Vescovo segna il vertice di una piramide di figure di giovani vestiti in verde e in blu. Rosso il Vescovo sul rosso del cielo. Il quadro non è buono, anzi è mancato; ma è sempre quel rosso a segnare una temperatura». Cerchiamo di avvicinare i significati della composizione. Il ‘Vescovo’ al centro collocato è «Ezechiele figlio di Buzi, sacerdote» (Ez. 1, 3), vestito con i paramenti del sacerdote cristiano. Il bastone da pastore che impugna con la sinistra si riferisce al compito di condurre il popolo d’Israele che, portato a rovina da cattivi pastori, sarà di nuovo radunato dal Signore (Ez. 34, 11-16). Perciò l’indice della mano destra diretto verso il personaggio seduto a terra richiama la promessa fatta da Dio di un nuovo pastore: «Farò sorgere per loro finalmente un pastore che le pascolerà: il mio servo Davide» (Ez. 32,

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23). Di questa figura, a sua volta, è confermato il ruolo sacerdotale perché questi, con la mano destra, indica la mitria che gli sta accanto. Infine il personaggio a destra che impugna una lunga asta è l’«individuo dall’apparenza bronzea» che impugna una canna «lunga sei cubiti, ciascuno d’un cubito e un palmo» che misura e descrive le forme del futuro tempio di Gerusalemme (Ez. 40, 3 e 5 e ss.). Così arriviamo a una prima decifrazione del quadro: ammesso alla visione profetica, il pittore viene edotto della sua missione; il suo ruolo, affine a quello del personaggio con l’asta a destra, è indicato dall’asta posta di scorcio, sul tappeto d’erba ai suoi piedi. All’altezza del 1935-1936 questo quadro dimostra la consapevolezza, da parte del pittore, di missione profetica e morale da svolgere. Ora «morale» è aggettivo impiegato ossessivamente da Birolli nelle note di quegli anni e «profeta» è ruolo da lui attribuito a se stesso e a una sua figura di riferimento, Edoardo Persico. In questo frangente Birolli si dimostra prosecutore consapevole del metodo di Scipione sulla ricerca di simboli profondi e universali nella realtà immanente. L’appropriazione del mondo messa in opera dall’artista (sviluppata in questo frangente dalla serie dei disegni delle Metamorfosi) è destinata a conoscere un progressivo prosciugamento dopo il 1936, fino ad assestarsi in uno razionalismo di stampo leopardiano. In una lettera a Bini del 1940 il pittore confessa: «Né mi piace oggi la mistica […] Eppure Sandro, era buona per noi». Con l’irrompere della scia di distruzione e dolore, provocata dalla guerra, il riproporsi concreto dei temi apocalittici scandagliati nelle Metamorfosi non lascia più spazi a proiezioni o palingenesi. «Né sentimento della vita, né alcun sentimento religioso, ci riscaldano […] Gesù è sepolto, non ha resurrezione». L’esperienza profetica è definitivamente sepolta.

Una domanda per Cagli Il 6 giugno 1944, da Kölleda, Germania, Corrado Cagli (Ancona, 1910 – Roma, 1976) scrive negli Stati Uniti alla sorella una frase sibillina: «In questi giorni il mio spirito e il mio sangue sono stati in tumulto. È un terribile errore forzare una figura di Caravaggio in un paesaggio di Liebermann, ma quel che dovrebbe essere detto non può essere detto». La frase contrasta con le note idilliache scritte poco sopra, ma cosa vuol dire? È una traccia straziata dell’incontro inatteso con l’orrore. Il lager di Buchenwald, distante pochi chilometri da Kölleda, è stato liberato da poche settimane, tra l’11 e il 16 aprile 1945 e il soldato statunitense Corrado Cagli è stato tra i primi testimoni dell’orrore.

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Da quel contatto egli ha ricavato poco più di una decina di disegni, realizzati a memoria a breve distanza dalla visione diretta. Il fatto è deducibile dalla forma delle composizioni. Un artista che abbia pratica professionale col disegno, se posto a osservare una scena sconosciuta, può riprodurne a distanza anche molti elementi. Per far questo deve però memorizzare sistematicamente molti dettagli di quanto ha visto. Non è ciò che è accaduto a Cagli: ciò che gli si è parato davanti a Buchenwald gli ha provocato una repulsione tale, che egli è riuscito a memorizzare solo pochi elementi. I suoi disegni riproducono sostanzialmente due scene di cadaveri allineati, con la variante della testa girata verso l’alto o riversa a terra (Fig. 7). Quei disegni non hanno avuto sviluppi né ritorni. Per il resto della sua vita Buchenwald è rimasto una ferita cauterizzata. Eppure l’artista non era arrivato al lager del tutto impreparato. Nato da una famiglia ebrea «assimilata» alla società italiana, negli anni Trenta del Novecento, da campione della sua generazione, aveva delineato i miti e le aspirazioni dei suoi coetanei e fornito icone efficaci al fascismo. Per questo aveva vissuto la promulgazione delle leggi razziali come una punizione inspiegabile. I rapporti con la società ebraica cosmopolita gli avevano procurato una informazione precoce sulla persecuzione degli ebrei tedeschi e sulle minacce per gli italiani, risvegliando il suo orgoglio ebraico. Così aveva cercato nella memoria biblica gli emblemi da opporre alle contrarietà presenti. Sono di questi anni disegni di Giuditte con la testa mozzata di Oloferne e di David con la testa di Golia. Uno di questi, accompagnato dal motto biblico «Ricordati: se Saul ne uccise mille e Davide ne uccise diecimila» (I Sam. 18, 7) il pittore lo aveva regalato alla sorella Ebe l’estate prima del varo delle leggi razziali. Il disegno era diventato un talismano d’esilio per Ebe Cagli. Trasferitosi in un primo tempo in Francia, con l’occupazione tedesca del paese, Corrado Cagli aveva riparato negli Stati Uniti. Il suo esilio era durato otto anni, dal 1939 al 1946, un lungo tempo di precarietà e angoscia. Chiedendo la cittadinanza americana, Cagli si era impegnato a fare il servizio militare e dopo Pearl Harbour (1942) era stato richiamato nell’esercito. In quel momento la percezione della precarietà e del pericolo si era fatta più forte in lui. Di conseguenza la ricerca di salvezza si era fatta più diretta, con un ruolo determinante giocato dai modelli profetici. Documentano il processo alcuni disegni e le tracce di un’impresa che sembra perduta, trasmessi in alcune lettere alla sorella. In una lettera datata 16-22 aprile [1944] Cagli scrive: «Non ho potuto scriverti prima perché ho appena finito di dipingere la nostra cappella a Fort Lewis […], l’intero lavoro consiste di sette pannelli circa cinque piedi per tre […] I soggetti sono: 1 un profeta che parla a una città. 2 la statua di sale e la fine di Sodoma e

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Gomorra. 3 il cespuglio che brucia e la vocazione di Mosé. 4 la torre di Babele. 5 Davide e Golia. 6 Gabriele che lotta con l’angelo. 7 di nuovo un profeta, ma che parla al deserto, come sempre». L’artista conclude: «Sono stato io stesso un profeta che parla al deserto, per quanto riguarda questo lavoro e non mi stupirei se mi procurasse qualche guaio». L’origine di tutto ciò è forse in una frase di una lettera dell’anno precedente dove, facendo il punto della tragedia in corso, Cagli osservava: «Io credo che mi sia accaduto al di fuori delle mie energie, qualcosa, di molto vicino al miracolo, che ha mutato e potuto mutare l’estro di morte in fede». È uno squarcio minimo su una maturazione che avrebbe permesso di recepire l’impatto con Buchenwald in modo diverso. Ma durante gli otto anni di esilio Cagli ha continuato ad oscillare tra l’orgoglio ebraico e la nostalgia per l’Italia. Due Tobioli, sopraggiunti dopo lo sbarco in Normandia, convivono con dure allegorie manieriste. Il disegno di Tobia a Saint Lò (Fig. 8) prosegue la scia della auscultazione profetica della realtà, prefigurando l’esito positivo di una lunga tensione: l’ebreo che attraversa l’Europa devastata nella divisa di soldato americano si sente parte di una forza che sta portando la salvezza. Ma a un passo dalla liberazione, l’impatto con il Lager inibisce ogni ulteriore capacità di elaborazione: «quel che dovrebbe essere detto non può essere detto». Congedato dall’esercito, Cagli cicatrizza l’Olocausto nell’ideologia della Resistenza. Rimane però almeno un residuo nel rapporto con la sorella che, a differenza di lui, non riuscirà mai a superare il trauma dell’esilio e della persecuzione: «In quel silenzio obbligato in cui avevo vissuto da quando m’ero trasferita in California, avevo scoperto che era la vita a impormi il mio destino, che non potevo scegliere nulla, né il luogo in cui volevo vivere, né la gente con cui volevo stare, neppure le lingue in cui avrei voluto esprimermi. Nulla. Quando avevo fatto quella scoperta mi s’era spezzato qualcosa dentro. Allora m’ero chiusa in me stessa, pur mantenendo l’apparenza di una vita normale». Diversamente il fratello, tornato in Italia, si era ributtato nelle battaglie dell’arte proseguendo la sua vicenda di artista d’avanguardia. Ma la sua opera degli anni d’esilio, inglobata finora nel contenitore generale dell’«arte della resistenza», con la mutazione di prospettive degli ultimi anni, è chiaro che dovrà essere spostata a una diversa interpretazione.

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Ferrazzi, la storia, De Chirico, il testo In un appunto del 1916, a proposito del colore in un suo quadro, Ferruccio Ferrazzi (Roma, 1891 - Roma, 1978) ricorda il modello che lo aveva ispirato: «il ciclo apocalittico del mosaico di S. Cosma e Damiano in Roma è una tragica forma di colore, eppure è visto nell’ambiente di Roma, perché anch’io vi ho sentito così il tramonto in fiamme». Fin dall’inizio agisce quindi sull’artista, come modello formale, una delle matrici della raffigurazione cristiana dell’Apocalisse. L’esplicitarsi operativo di temi apocalittici nella sua opera segue però un percorso sinuoso, man mano che matura in lui la consapevolezza della violenza del mondo. Una delle tappe è la visione tragica delle distruzioni del terremoto di Avezzano il 14 gennaio 1915. «Tutto era morto con gli uomini: le case, gli animali impazziti, gli alimenti disseminati per terra, l’aria stessa; s’aveva disgusto di respirare perché un che di morto, di stantio pareva emanare da tutte le cose […] In un certo punto sotto le mura diroccate, in un breve rialzo di terra con un albero schiantato, vidi una donna alta, magra, diritta, con le braccia abbandonate e le mani annodate tra loro. La testa era scapigliata e fissa, pareva uscita dalla terra come risorta». Quella visione lavora sull’artista a tappe successive. Altri luoghi su cui matura la sua visione pessimistica della storia sono le allegorie di vita sociale (Festa notturna, 1921-1923) e le rappresentazioni della forza animale in azione, ad esempio nei tori da monta. Nel 1926 la prima citazione esplicita di soggetti legati all’Apocalisse si lega all’incarico di decorare la cappella funeraria della famiglia Ottolenghi ad Acqui Terme. Ma quel lavoro, proseguito tra riprese e modificazioni fino al 1961, diventa il crogiolo in cui decantano tutte le elaborazioni di Ferrazzi. Un passo intermedio è rappresentato dalla Diavoleria (1929). In un appunto del 1931 il pittore sostiene di aver voluto esplicitare in quell’allegoria il «nervoso prismatismo della nostra epoca», concludendo: «Tutte le visioni notturne che ogni tanto ritornano in me, tragiche e orgiastiche, si compendiano per ora nell’ultima “Diavoleria”. Altre intendo rappresentarne, terribili come visioni apocalittiche». Ma è ancora un fatto tragico – la deflagrazione della guerra mondiale – a portare l’artista alle deduzioni estreme. Dopo aver assistito agli allarmi aerei, alle privazioni della popolazione e ai bombardamenti, a partire dal 1943, nel ritiro di Tivoli e nel laboratorio di un quadro (La stanza) (Fig. 9), Ferrazzi ricompone tutti i temi neri della sua riflessione: «iniziata come studio accademico di nudo e dell’antico […] nel corso dei tre anni di gestazione vede entrare in scena lo scheletro di un cavallo e la figura di un uomo decapitato che precipita, parafrasi della scena di un attentato contro il comando tedesco all’hotel Flora di Roma».

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Sotto l’incalzare degli eventi un soggetto ‘accademico’ viene piegato a dimostrazione di una violenza nuova. La composizione deflagra a partire dal centro e il prisma, paradigma formale e concettuale del pittore come figura della complessità e magia del secolo nuovo, ora disegna gli effetti dei nuovi strumenti di distruzione. L’Apocalisse diventa il paradigma della tragica evoluzione della storia che ingloba l’atomica di Hiroshima, riportata nella Resurrezione dipinta nella chiesa di Santa Maria Assunta ad Amatrice (1951) o nel mosaico della cripta del Mausoleo Ottolenghi di Acqui Terme. Quest’ultimo, nelle stesse parole di Ferrazzi, è «la sintesi di emozioni provate […] durante la vita: la guerra, il terremoto di Avezzano, le figure desolate dei negri di Cuba, il lavoro festoso con i cavalli, i cieli turbinosi o sereni». Uno degli ultimi quadri dell’artista, Apocalisse del nostro tempo (1977), si presenta come sintesi di tutti i temi della sua pittura e come referto finale del destino umano. Quando nel 1941, in piena guerra mondiale, Giorgio De Chirico (Volo, 1888 – Roma, 1978) illustra l’Apocalisse (Fig. 10) con atteggiamento opposto a Ferrazzi ostenta sovrana indifferenza per la storia. Per lui l’Apocalisse è solo un testo, terreno di prova esemplare per un demiurgo dell’interpretazione quale si sente. In una pagina dedicata all’impresa ribadisce la sua maschera abituale di sacerdote della pittura. L’impresa di dare figura a un testo sovrano di immaginazione si conclude perciò in un esercizio di sbrigliata immaginazione visiva. «Nel lungo sogno d’inverno, in quella grande e strana casa che è l’Apocalisse, piena di stanze buie, di doppie porte imbottite, di vecchi tappeti e di portiere affumicate, di tavolini orientali e di mobili pesanti e scolpiti, di stanze ed ancora stanze (che c’è la stanza per i giochi per i ragazzi, e quella per i genitori amati e venerati, e poi la stanza per i parenti, per i congiunti, gli amici ed i parassiti. Quella per i domestici burloni, ingegnosi, irenisti e ladri, e quella per i cuochi inquietanti ed osceni, e quella per le governanti igieniste, severe e puritane), in quella grande e strana casa, dico, io sogno, incuriosito e felice, come il fanciullo, tra i suoi balocchi, nella notte di Natale». Il pittore demiurgo, perfettamente mimetizzato nel costume borghese, millanta una lettura felpata del testo più terribile dell’Occidente, da visione di un film di De Mille in un pomeriggio domenicale. Il dato sconcertante è la distanza dell’impresa effettiva dall’atteggiamento dichiarato, una lettura fedele e attenta al testo che conferma capacità simboliche del pittore accostabili alle prove di Dürer e William Blake.

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Tre laboratori di fine millennio Nell’estate 1978, la lettura de Gli otto peccati capitali della nostra civiltà di Konrad Lorenz porta a maturazione la riflessione che Enrico Baj (Milano, 1924 – Vergiate (Varese), 2003) stava conducendo sui rischi dello sviluppo tecnologico. Tra settembre 1978 e febbraio 1979 l’artista realizza un grande ciclo sul tema dell’apocalisse ecologica (Fig. 11). L’opera viene elaborata tenendo costantemente come riferimento il libretto di Lorenz, al punto da collocarlo nella Galleria Marconi di Milano ad apertura di mostra e da citarlo nel manifesto: «Apocalisse & Trionfo della Morte ovvero quanto accadrà a seguito degli otto peccati capitali della nostra civiltà con l’apparizione di mostri […]». Esplicita fonte di ispirazione dell’opera sono quindi i trionfi della morte medioevali del Camposanto di Pisa, di Palermo e il Medioevo fantastico di Jurgis Baltrusaitis, usati per ammonire ma anche satireggiare la modernità attraverso un linguaggio semplice e diretto, ispirato a una «pittura popolaresca simile a quella dei madonnari». Dunque l’opera è concepita come macchina scenica popolare, atta prima a spaventare, per poi divertire e rassicurare, come gli antri dei pirati nei luna park da fine Ottocento ad oggi. Preparata per un percorso ascensionale su tre piani, l’opera conferma l’intenzione: «Il primo livello rappresentava, sotto forma di teli, le macchie nere, l’incubo e la premonizione. Al secondo livello si entrava in un’atmosfera rarefatta di attesa estatica. Mentre al terzo e ultimo piano ci si trovava a fronteggiare una esplosione di colori e di mostri, l’Apocalisse vera a propria». Il finale, secondo il modello scelto da Baj, doveva trasmettere «una teratologia da gioiosa fine del mondo» portando una speranza vitalistica. Le letture che avevano accompagnato la realizzazione dell’impresa comprendevano gli etologi Lorenz e Mainardi assieme agli psicologi Willelm Reich e Erich Fromm, agli ‘antipsichiatri’ Laing e Cooper e inoltre a Edgar Morin, Baudrillard, Hall, Moles, Lévi–Strauss, Herbert Butterfield, Alexandre Koyré. Insomma una schiera di rappresentanti del pensiero radicale e progressista di quegli anni. Umberto Eco, curatore del volume che ha accompagnato la prima esposizione dell’opera, ha operato un deciso rimaneggiamento del programma. Considerando che l’artista aveva citato opere d’arte moderna e antica, e che inoltre il pensiero apocalittico degli autori moderni spesso era debitore della tradizione antica, ha integrato l’antologia dell’artista con citazioni prese dall’Apocalisse di Giovanni e da testi della tradizione apocalittica medioevali e rinascimentali. Ma così facendo ha occultato il carattere originario dell’opera. Esso non sarebbe più riemerso, perché negli allestimenti successivi (Mantova, 1983, Miami, 1985, Locarno, 1993) lo stesso artista ha modificato i connotati dell’opera, inserendo pezzi

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estranei e pezzi nuovi, fino a imprimere, nell’ultimo allestimento, un prevedibile carattere «fin de siècle». Beppe Devalle (Torino, 1940) non aveva considerato esplicitamente l’Apocalisse nella preparazione della personale di Ferrara del 1996, anche se la barra del suo percorso era comunque decisamente orientata sul sacro. Nelle immagini dei mass media aveva riconosciuto alcuni archetipi: l’angelo, la vittima, il trasgressore, la santa, il salvatore... Aveva spezzettato le icone trovate su riviste illustrate e giornali in frammenti corrispondenti a forme simboliche unitarie che aveva riconosciuto ed evidenziato attraverso il collage. Il punto di arrivo del processo sono stati dipinti che slittavano nello spazio dell’iconografia cristiana, con titoli come Salvatore, Addolorata, Lord and Master, Battista, Cristo, Sebastiano, Maria, Francesco, The Tempter. La materia prima di questa rinnovata iconografia erano stati cantanti pop, modelle, attrici o personaggi di cronaca, normalmente percepiti come figure ‘pagane’. Di fatto il ‘Battista’ di Devalle è un bullo palestrato con la mano vicina al sesso e anche il ‘Cristo’, che indica con un gesto codificato la ferita al costato, ha un corpo da ballerino, da seduttore di dark room o da modello e un viso modellato per il cinema o la televisione (è, in controparte, lo stesso del ‘Battista’, il viso del cantante rock Jason - Jay - Kay) (Fig. 12). Ciò non toglie nulla alla vocazione di queste figure per il sacro. Nella fase finale della preparazione del lavoro, in collaborazione con Maria Mimita Lamberti, i collages sono stati messi in relazione con l’Apocalisse di Giovanni, portando i loro significati sottesi a forte contrasto. La cifra profetica ha precisato il significato dei segni, evidenziandone i valori stabili e generali. L’artista ha successivamente allargato lo scavo su figure di scrittori, artisti, scienziati e protagonisti della cronaca, fino a coinvolgere la sua cerchia amicale e familiare e la sua storia personale. I paradigmi dei media, materiale di partenza trattato con la rigorosa «elaborazione formale» di un «moralista» moderno (Lamberti), si sono rivelati così, come simboli pubblici condivisi, preziosi strumenti delle persistenze del sacro e del tragico nel nostro tempo. Nel 1998 Andrea Chiesi (Modena, 1963) e Giovanni Lindo Ferretti (Reggio Emilia, 1953) hanno presentato ai Chiostri di San Pietro a Reggio Emilia un «cantiere artistico di fine millennio» basato sull’Apocalisse di Giovanni. La collaborazione tra i due, operativa da tempo (Chiesi aveva disegnato le copertine dei dischi delle formazioni musicali animate da Ferretti), ha trovato in questo cantiere uno dei suoi momenti più intensi. Il progetto non ha mutato le loro modalità d’azione, anche perché il testo sapienziale faceva già parte della loro formazione. Sono partiti dal rifiuto dell’approccio millenaristico («non crediamo nell’imminente fine dei tempi») e dalla constatazione della contraddittorietà del XX secolo, che «ha

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LABORATORIO APOCALISSE

dato benessere e prosperità a tanti come mai era accaduto prima», ma al contempo ha generato anche terribili sciagure. «Non è difficile accorgersi che le calamità descritte nell’Apocalisse sono state ampiamente superate da alcuni disastri accaduti nel nostro secolo. Per gli abitanti del Vietnam o della Bosnia o dell’Algeria o di altre terre l’Apocalisse è già arrivata». In prospettiva rovesciata, il testo di Giovanni diventa così uno strumento per «vivere e riuscire a sopravvivere nel nostro tempo, nel benessere sfarzoso e nel disastro continuo e ricercare la speranza e la forza di non soccombere ogni volta». Infatti: «Attraverso le visioni più oscure appare talvolta la luce e la salvezza». Le immagini di Chiesi (Fig. 13) presentano corpi di uomini e donne denudati anche di capigliature e elementi di individuazione, ridotti a condizione indifesa. Ripresi in pose semplificate e in gesti rituali e stereotipi, sono generalmente uniti in gruppi, intenti alla cura di uno di loro ridotto in stato di debolezza, o ferito da accudire o caduto da portare a sepoltura. L’umanità di Chiesi risponde alla violenza con gesti di cura. Il suo spazio d’azione è la periferia della società post-industriale. Forme dei corpi e vedute sono caratteristiche della cifra punk, ma la disposizione in successione sacrale e l’accostamento parallelo della riflessione scritta di Ferretti dilatano il messaggio a risonanze allargate e plurali: «Esiste una sconfitta / pari al venire corroso / che non ho scelto io / ma è dell’epoca in cui vivo».

Conclusione Nell’anno 2000, la Royal Accademy of Arts di Londra ha esposto in una mostra dedicata all’Apocalisse La Nona Ora (1999) di Maurizio Cattelan (Fig. 14), immagine in cera di papa Giovanni Paolo II abbattuto da un meteorite. Il titolo, allusione all’ora della morte di Gesù, conferma l’intento millenaristico del lavoro, ma la messinscena condotta secondo i meccanismi del comico inibisce ogni apertura di interpretazione e quindi impedisce l’inclusione nel sapere apocalittico. A ridosso di un evento tragico accaduto a breve distanza, l’attacco alle Torri gemelle di New York l’11 settembre 2001 (Fig. 15), le tele della serie Lepanto di Cy Twombly (Fig. 16) si trovavano esposte alla Biennale di Venezia. I quadri di Twombly, ideati senza alcun riferimento intenzionale alla materia apocalittica, sono stati provocati dalle guerre etniche del decennio precedente nella ex Iugoslavia. Ma nel momento dell’attentato alle Torri gemelle hanno saputo mostrare una grande capacità di prevedere e significare l’evento (ringrazio Nadia Melotti per questa suggestione). Americano residente a Roma dal 1957, Twomby ha condensato

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DARIO TRENTO

una percezione del conflitto basata sul suo luogo di osservazione, una città al centro del Mediterraneo, posta sul confine che divide la civiltà cristiana da quella mussulmana. La capacità profetica mostrata dall’artista vigile e angosciato dal suo avamposto rimanda al Giovanni di Patmos, angosciato per il destino delle chiese cristiane, che scruta il presente e il futuro con attenzione incandescente, e offre un’indicazione su come riavviare oggi la pratica dell’Apocalisse. * Dedico questo lavoro a Maria Mimita Lamberti.

Nota bibliografica Sul rapporto tra l’Apocalisse e le arti figurative vedi N. Grubb, Revelations. Art of the Apocalypse, New York, London, Paris, 1977; F. Van der Meer, L’Apocalypse dans l’art, Anvers, 1978; The Apocalypse and the shape of thigs to come, a cura di F. Carey, London, 1999. Su Scipione. Scipione, Carte segrete (1942), Prefazione di A. Rosselli, Nota di P. Fossati, Torino, 1982; A. Santangelo, Scipione 1904-1933, in Scipione. Mostra postuma a cura del Centro di azione per le arti, Regia Pinacoteca di Brera, Milano, 1941; G. Appella, Scipione 306 disegni, Roma, 1984 (nel testo citato come “Appella”, seguito dal numero di catalogo dei disegni); P. Baldacci, Scipione spartiacque tra due mondi, in Scipione 1904-1933, Roma, 2007; E. Montale, Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Milano, 1984; P. Muratoff, La pittura bizantina. Con 256 riproduzioni in fototipia, Roma, [1929]; R. Grabar, L’arte paleocristiana (200-395), Milano, 1967. Su Renato Birolli. Metamorfosi. 46 disegni di Renato Birolli, 6 pagine di Sandro Bini, Milano, 1937; R. Birolli, Metamorfosi, con scritti di F. Bartoli, S. Bini, R. Birolli, P. Fossati, Torino, 1976; R. Birolli, Scritti con riferimento alla città (1941), in AA. VV., Renato Birolli, Parma, 1976; R. Birolli, Taccuini 1936-1959, a cura di E. Emanueli, Torino, 1960; S. Bini, Scipione poi Birolli, in «Stile», Milano, 18 giugno 1942, in S. Bini, Responsabilità della Forma, a cura di F. Bartoli, e Z. Birolli, Milano, 1971; Carteggio Bini - Birolli, a cura di G. M. Erbesato, Vicenza, 1986; L. Lorenzoni, Birolli e Marchiori. Carteggio 1934 - 1936, in Renato Birolli 1935, a cura di F. Lanza Pietromarchi, Verona, 1996; Renato Birolli. Eldorado, a cura di P. Rusconi, Milano, 2000; E. Pontiggia, Renato Birolli, La nuova Ecumene (La visione di Ezechiele), I poeti, in Milano anni Trenta. L’arte e la città, a cura di E. Pontiggia e N. Colombo, Milano, 2004; T. Campanella, La città del Sole, a cura di L. Firpo, Roma-Bari, 2006. Su Corrado Cagli. Cagli. Disegni per la libertà, testi di U. Terracini, A. Palazzeschi, G. Ungaretti, R. Alberti, Rovigo, 1977; S. Giannelli, P. Macchi, Cagli. Disegni di guerra, Milano, 1971; E. Cagli Seidenberg, Il tempo dei Dioscuri, Roma, 1980; E. Cagli Seidenberg, Come ospiti. Eva e gli altri, Roma, 1991.

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LABORATORIO APOCALISSE

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Su Ferruccio Ferrazzi. F. Ferrazzi, Autobiografia di un uomo e di un’idea, in C. L. Ragghianti, J. Recuperi, Ferruccio Ferrazzi, Roma, 1974; Ferruccio Ferrazzi, Visione, simbolo, magia. Opere 1915-1947, a cura di F. D’Amico, N. Vespignani, Milano, 2004. Su Giorgio De Chirico. L’Apocalisse. 20 litografie originali di Giorgio De Chirico. Introduzione di M. Bontempelli, Milano, 1941; G. De Chirico, Perché ho illustrato l’Apocalisse, in «Stile», gennaio 1941; ora in G. De Chirico, Il meccanismo del pensiero. Critica, polemica, autobiografia 1911-1943, a cura di M. Fagiolo, Torino, 1985. Su Enrico Baj. E. Baj, Apocalisse, a cura di U. Eco, Milano, 1979; E. Baj, Automitobiografia, Milano, 1983; E. Baj, Apocalisse /Apocalypse, introduzione di G. Ferretti, testi di AA. VV, Milano, 1995. Su Beppe Devalle. Devalle. Nomi blasfemi, a cura di M. M. Lamberti, Ferrara, 1996. Su Andrea Chiesi. L’Apocalisse di Giovanni. Cantiere artistico di fine millennio, dipinti di A. Chiesi, scritti di G. L. Ferretti, testi di L. Beatrice, V. Dehò, G. Marziani, Reggio Emilia, 1998. Su Maurizio Cattelan. Apocalypse. Beauty and horror in contemporary art, a cura di N. Rosenthal, Londra, 2000. Su Cy Twombly. La Biennale di Venezia. 49 Esposizione internazionale d’arte. “Platea dell’umanità”, a cura di H. Szeemann, Milano, 2001.

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Figura 1 – Scipione, Il sesto sigillo, 1930.

Figura 2 – Scipione, Gli uomini che si voltano, 1930.

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Figura 3 – Apostolo, X sec. Salonicco, Santa Sofia.

Figura 4 – Arte paleocristiana. La guarigione del cieco nato. Roma, Museo del Laterano.

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Figura 5 – Renato Birolli, I Poeti, 1935.

Figura 6 – Renato Birolli, La visione di Ezechiele, 1935.

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Figura 7 – Corrado Cagli, Buchenwald, 1945.

Figura 8 – Corrado Cagli, Tobia a Saint Lò, 1945.

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Figura 9 – Ferrucccio Ferrazzi, La stanza, 1943-1946.

Figura 10 – Giorgio De Chirico, Apocalisse, 1941.

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Figura 11 – Enrico Baj, Apocalisse, 1978-1979.

Figura 12 – Beppe Devalle, Io sono l’alfa e l’omega, 1996.

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Figura 13 – Andrea Chiesi, Apocalisse, 1998.

Figura 14 – Maurizio Cattelan, La Nona Ora, 1999.

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Figura 15 – New York, 11 settembre 2001.

Figura 16 – Cy Twombly, Lepanto, 2000.

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Caduta e volo. I mediatori angelici di Chagall di Marcello Massenzio “Il y a… des ciels de folie” (Blaise Cendrars, Portrait)

1. Il mio contributo all’analisi delle apocalissi prende spunto dalla grande tela di Marc Chagall intitolata La Chute de l’ange (1923-47; Fig. 17), il cui significato si trova lucidamente riassunto nelle parole di Lionello Venturi: «La Chute de l’ange ou la catastrophe de l’humanité, tel est alors son thème et il en donne une interprétation d’une violence inouïe» (Venturi 1956: 84). Una duplice, doverosa premessa: non ho la pretesa di accostarmi a Chagall da storico dell’arte; il mio approccio tende a situarsi nel punto d’intersezione tra il dominio della storia delle religioni e quello dell’antropologia culturale, sviluppando alcune delle linee di ricerca emerse nel recente saggio La passione secondo l’Ebreo errante, al cui interno è riservata una posizione di primo piano all’analisi dell’universo simbolico chagalliano, dominato dall’icona dell’Ebreo errante. Non è questa la sede per esaminare il lungo, travagliato processo di gestazione dell’opera, documentato dagli studi, dagli abbozzi, dai disegni preparatori che ricoprono un considerevole arco di tempo: un periodo nel corso del quale si preannuncia e si consuma l’immane tragedia della Shoah. Questi lavori, considerati nella loro successione, sono una preziosa testimonianza del modo in cui l’artista interiorizza e, ad un tempo, oggettiva la sequela di anni terribili che lo vedono protagonista e non semplice spettatore; si potrebbe dire che essi costituiscono un eccezionale “diario” che merita, in ragione della sua complessità, un discorso a sé stante, che un giorno mi auguro di poter intraprendere. Il senso della catastrofe che pervade la tela menzionata – una catastrofe che decolla dal piano contingente per assumere proporzioni cosmiche – è analizzato con finezza da Franz Meyer, uno dei più acuti esegeti dell’opera di Chagall: La caduta dell’angelo frantuma la quieta compagine delle cose, porta nel mondo la rivolta. […] L’esperienza degli anni apocalittici che seguirono il

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MARCELLO MASSENZIO

1933, vi è penetrata e ne ha potenziato l’espressione. Non è perciò inesatto riaccostare la catastrofe cosmica della caduta dell’angelo con la catastrofe storica. L’angelo è il fuoco piovuto dal cielo, incendio, fiamma insaziabile. Le sante potenze della vita sono minacciate. È vero che manca nei singoli particolari un vero legame materiale con l’ora storica. L’irruzione dell’angelo avviene nell’anima di ognuno, come vicenda travolgente. Ma proprio per questo è ancora storia, in un senso più grandioso, ossia come destino interiore di ogni uomo del nostro secolo. L’angelo non è un principio attivo. Il luciferino compare solo come principio passivo. Chagall lo rappresenta in figura femminile, con grossi seni, come una creatura di felice pienezza che proviene dal regno della beatitudine. Una volontà invincibile lo ha precipitato in basso, lo ha gettato nella quieta compagine del mondo umano. Il suo volto ora è contorto dall’orrore, la bocca semiaperta, l’occhio sbarrato. E intorno a quest’occhio, col suo bianco pauroso, si muove in cerchio tutto l’insieme. Il quadro diviene un’immensa ruota; e in questo grande congegno segreto si inseriscono e coordinano tanto il crollo precipite dell’angelo che il turbinoso movimento delle altre figure. (1962: 489-90. La sottolineatura è mia).

2. Non vi sono dubbi per quel che riguarda il soggetto dell’opera, che verte sul crollo del mondo retto da un principio d’ordine: crollo in cui prende forma e si dilata l’esperienza apocalittica legata alla peculiare vicenda storica che precede e segue la salita di Hitler al potere. La tematica della fine del mondo, vista nella complessità delle sue articolazioni interne, a me pare mirabilmente racchiusa nel dettaglio dell’orologio a pendolo che accompagna l’angelo nella sua caduta e che, a mio modo di vedere, “significa” questa stessa caduta: un dettaglio che si presta, a giusto titolo, ad essere considerato come «un moment qui fait événement dans le tableau, qui tend irrésistiblement à arrêter le regard, à troubler l’économie de son parcours»; un dettaglio che si manifesta come «le lieu où se condense l’investissement du tableau (et de son thème) par l’auteur» (Arasse 2007: 12, 14). A precipitare insieme con l’angelo non è un oggetto qualsiasi, ma un oggetto carico di una valenza semantica forte che “abita” molti dei dipinti di Chagall. Si tratta dello strumento di misura del tempo, che di norma figura in posizione verticale o inclinato su un lato; il fatto che esso partecipi della caduta dell’angelo introduce uno scarto differenziale rispetto allo schema abituale, in cui sembra racchiuso uno specifico messaggio relativo al crollo del tempo culturalmente ordinato e, quindi misurabile, ciò è a dire del tempo che fa da supporto alla storia, del tempo distinto, articolato in secondi, in minuti, in ore, la cui successione è scandita dal ritmo dei rintocchi. Il significato implicito rinvia al regredire del tempo allo stadio di flusso indistinto, che è proprio della dimensione caotica opposta all’ordine culturale. L’ipotesi interpretativa qui proposta poggia sull’insegnamento di Emile Durkheim, il

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cui “classico”, Les formes élémentaires de la vie religieuse (1912), costituisce uno dei punti di riferimento essenziali per comprendere il passaggio dalla natura alla cultura, che comporta il superamento del continuum naturale tanto sul piano dello spazio che su quello del tempo. In breve, è come se Chagall nel dipingere La Chute de l’ange avesse voluto prospettare l’immagine capovolta di questa fondamentale svolta. L’ipotesi di lavoro appena formulata pone l’accento su un motivo (l’incommensurabilità del tempo) che, variamente orchestrato, è ben presente alla sensibilità artistica contemporanea: in un saggio recente di T. Samoyault si legge, tra l’altro, che «la montre cassée indique l’instant absolu sans plus ni avant ni après: un instant qui ne sera plus jamais une seconde. Elle indique une simultanéité absolue, la fin de la durée» (2004: 10). L’orologio rotto – o divenuto molle, informe (S. Dalì, La persistenza della memoria, 1931), o ridotto a quadrante senza più lancette (I. Bergman, Il posto delle fragole, 1957), o colto nel movimento della caduta al suolo (Chagall) – è una metafora della fine del tempo inteso come successione regolare di segmenti tra loro correlati e/o del tempo tornato ad essere quello dei primordi, oppure del tempo riconsegnato all’istante assoluto dell’eternità: in questa cornice la simultanea presenza del sole e della luna nella Chute de l’ange acquista una straordinaria forza evocativa. Il ricorso alla comparazione permette di scorgere un’ulteriore valenza che arricchisce l’immagine chagalliana: la pendola, oltre ad essere uno strumento di misura del tempo, è una componente significativa dell’arredo domestico (Pacoud-Rème 2007: 48-49), tale da evocare – per estensione – la nozione stessa di spazio “appaesato”, guadagnato alla cultura. In tale prospettiva la “caduta” allude al dissolvimento della “domesticità del mondo”: la dimensione temporale e quella spaziale divengono così l’una il riflesso speculare dell’altra. In margine alle presenti note non è irrilevante notare che in Chagall la connessione tra l’angelo e la pendola – proiettata oltre il tema della caduta – può portare alla fusione delle due figure in un unico simbolo: si pensi, a titolo esemplificativo, al quadro intitolato La pendule à l’aile bleue (1949; Fig. 18), dove la pendola diviene una “creatura” munita di ali, che si libra in alto alla maniera dei messaggeri celesti. Lo spazio dominato dalla tragica figura rossa dell’angelo in procinto di precipitare in basso è disseminato di icone che ricorrono nelle molteplici tele che Chagall ha dedicato al tema del mondo in rovina, fra le quali La Crucifixion blanche (1938; Fig. 19) occupa una posizione preminente: alludo allo Jewish Jesus crocifisso, all’Ebreo errante con il sacco sulle spalle, all’Ebreo che fugge serrando al petto la Torah, alla Madre con bambino. A

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MARCELLO MASSENZIO

queste figure si aggiunge una quinta, raffigurante un uomo che volteggia nell’aria, riconducibile all’archetipo del Luftmensch, che, come ha rilevato B. Harshav (2004: 61-2), è una delle matrici dell’Ebreo errante. Non mi soffermo sull’analisi delle icone menzionate e delle relazioni che intercorrono tra loro, rinviando il lettore ai miei precedenti lavori (Massenzio 2007; 2007a: 57-67). La presente dissertazione risponde ad un nuovo tipo d’interesse, che mi porta a seguire il volteggiare della pendola passando da un’opera di Chagall ad un’altra: in questa prospettiva, punterò dapprima lo sguardo su due grandi tele, intitolate rispettivamente Résistance e Résurrection (Figg. 20 e 21), entrambe composte tra il 1937 e il 1948, le quali affondano le loro radici nella medesima temperie culturale che è propria della Chute de l’ange (esse fanno parte del Trittico che comprende anche Libération (19371953; Fig. 22); per quanto riguarda la genesi e l’unità del trittico, si veda Forestier 1990: 24-26). Résistance si basa sullo schema bipolare distruzione/fuga che caratterizza i due capolavori menzionati La Crucifixion blanche e La Chute de l’ange. La distruzione è dovuta ai disastri prodotti dalla guerra, che fanno da sfondo all’immagine dello Jewish Jesus crocifisso; il tema della fuga, della ricerca di una via di scampo, prende forma nelle tre proiezioni dell’«archetipo del rifugiato» (Amishai-Maisels 1993: 25), che tentano di portare in salvo se stessi e, al medesimo tempo, qualcosa che per ognuno di essi rappresenta un valore irrinunciabile: il sacco-mondo, il sacro rotolo, il figlio. In questa tela la messa in scena della Crocifissione presenta un tratto inedito, dovuto alla presenza della donna nuda in rosso, la quale è raffigurata nell’atto di precipitare a capofitto, disegnando nello spazio una linea curva che s’interseca con la parte inferiore del legno della croce. Si tratta di una variante dell’angelo-donna della Chute? È un’ipotesi che mi pare plausibile, se si tiene conto sia della stretta affinità che lega le due opere sul piano dei contenuti, sia di una concordanza più puntuale: anche in Résistance compare il dettaglio della pendola colta nel movimento stesso della caduta al suolo. Movimento che, per un verso, sembra essere il prolungamento di quello descritto dalla figura femminile e che, per altro verso, trova il suo compimento nell’immagine del pittore giacente al suolo ai piedi della croce, la tavolozza dei colori nella mano: immagine che svela una nuova sfaccettatura della crisi – quella dell’artista impossibilitato ad esprimere la propria arte – e che, rappresentando il culmine dell’azione, finisce per polarizzare su di sé lo sguardo dello spettatore. È come se la caduta, in questo caso, fosse vista al ralenti e scomposta in segmenti, di cui l’uno è la prosecuzione dell’altro. Alla luce di quanto si è appena detto, si può ipotizzare che l’intento di Chagall sia quello di dar forma – all’interno della catastrofe cosmica

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la cui eco si prolunga nella fine del tempo misurabile – all’arresto dell’attività pittorica in quanto espressione emblematica della creatività culturale: un nuovo, importante tassello verrebbe così ad aggiungersi alla messa in scena dell’apocalisse, accrescendone le implicazioni e dilatandone i piani di lettura. (La questione sarà ripresa nel paragrafo seguente). Inoltre Chagall, ponendo l’accento sulla forma d’arte alla quale si è consacrato, inserisce nella composizione una nota autobiografica, che porta a scorgere nella figura del pittore riverso al suolo – una proiezione, forse, dell’angelo caduto – un drammatico autoritratto. È stato osservato, infatti, che nel primo pannello del Trittico «Chagall s’y est représenté en peintre, tout d’abord gisant à terre, comme assommé par sa vision apocalyptique» (Pacoud-Rème 2003: 241): ciò è in linea con lo spirito che pervade l’opera di Chagall che «s’identifie avec sa personnalité d’artiste, elle est une métaphore poétique de sa proprie biographie» (Venturi 1956: 104). 3. Résurrection riprende i temi presenti in Résistance e li depura riducendoli all’essenziale. Il centro dello spazio è dominato da due protagonisti: il Cristo ebreo crocifisso dal corpo scheletrico, drammaticamente allungato, e il pittore sorpreso mentre precipita a testa in giù, la tavolozza nella mano, lungo l’asse verticale della croce. L’immobilità dell’uno contrasta con il movimento vertiginoso impresso al corpo dell’altro: ci si domanda quale possa essere il senso di un simile accostamento, che ha dello straordinario se si tiene conto dei canoni tradizionali di rappresentazione. Per cercare di rispondere all’interrogativo, è necessario partire da una considerazione preliminare: nel pannello in esame la figura rovesciata del pittore sembra aver preso il posto dell’angelo in caduta. L’affinità tra le due immagini, che già affiora in Résistance, si è ulteriormente approfondita, al punto da far pensare ad una sorta d’identificazione dell’una all’altra; ciò pone di fronte ad un nuovo interrogativo: a quali motivazioni di carattere ideologico obbedisce un simile procedimento? A questo punto occorre aprire una parentesi al fine di concentrare l’attenzione su un’opera che getta luce sulla concezione dell’arte pittorica che Chagall sembra aver fatto propria. La scelta è caduta su uno dei capolavori del periodo russo, L’apparition (1917-18; Fig. 23): qui la scena – che s’ispira al modello classico dell’Annunciazione, «reinterpretato nel senso di un autoritratto classico» (Foray 2001: 102) – non ha che due protagonisti: il pittore, sorpreso nell’atto di esercitare la propria arte, e una superba figura di Angelo/Musa che lo visita. Le due immagini sono iscritte in due triangoli, i cui vertici si toccano: si tratta non di un particolare di trascurabile importanza, bensì di una maniera sottile di alludere ad una particolare concezione

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metafisica del processo creativo che ha luogo nella pittura, la cui radice ultima risiede nel contatto tra il piano umano e quello sovrumano: Questo dipinto… è più di un’opera profana sul tema dell’ispirazione dell’artista: la posa della musa, che è quella di un angelo con le ali e la mano levata nell’atteggiamento dell’arcangelo Gabriele dell’iconografia classica, ne fa un messaggero… della fonte divina dell’ispirazione (Foray, 2001: 104).

Il legame dell’arte con il sacro, in virtù del quale l’artista si realizza come intermediario tra due mondi e come latore di un messaggio divino, è un’idea che attraversa l’opera di Chagall. L’Angelo, messaggero celeste sulla terra, media tra i poli della trascendenza e dell’immanenza, tra “alto” e “basso”; il pittore, individuo terrestre che, in quanto creatore, si proietta nella sfera della trascendenza, media a sua volta tra il visibile e l’invisibile, tra il mondano e l’ultramondano, tra “basso” e “alto”. La complessità dell’argomento richiede un grado di approfondimento storico-culturale, che esula dai confini della presente ricerca; la sintesi che ne è stata fornita ha la funzione di far emergere alcune delle ragioni di fondo che fanno del pittore e dell’angelo due figure profondamente affini, in certa misura interscambiabili, nonché complementari, essendo entrambe necessarie alla realizzazione delle opere d’arte, delle creazioni pittoriche nel caso specifico. Le osservazioni precedenti fanno comprendere che la caduta dell’angelo contiene già in sé, in modo implicito, il messaggio di “morte della pittura” che le prime due opere del Trittico si incaricheranno di portare alla luce, da un’altra angolazione. In definitiva, è nella cornice di una visione dell’arte – e del mondo – imperniata sul principio della relazione tra il divino e l’umano che il gioco delle sostituzioni e delle identificazioni, cui si è fatto cenno, può trovare la sua giustificazione ultima. Ed è proprio in riferimento al concetto di mediazione più volte evocato che è possibile dare una risposta, certamente parziale, anche all’interrogativo di partenza suscitato dalla singolare visione del dramma della Crocifissione che Chagall ci prospetta in Résurrection. Dramma “doppio” che si svolge tanto sulla croce quanto lungo il suo fianco destro – rispetto a chi guarda – e che concerne il pittore non meno del Messia crocifisso: due figure che, sia pure con modalità differenti, ricoprono entrambe il ruolo di intermediario tra la dimensione immanente e quella trascendente. Pertanto, la morte dell’uno e la caduta verticale dell’altro, segnalando il venir meno della funzione di raccordo tra i piani che compongono l’architettura dell’universo, ne lasciano presagire la destrutturazione. Su tali premesse si fonda – è la mia ipotesi di lavoro – l’unità di questa doppia “passione” secondo Chagall: unità che i noti versi autobiografici tratti dal poema Si mon soleil – «Et tel le Christ je suis crucifié

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/ Fixé avec des clous sur le chevalet» (Chagall 1975: 14-20) – contribuiscono a consolidare, illuminandola dall’esterno rispetto al contesto esaminato. 4. Prima di procedere oltre, vorrei fare un inciso per impostare un’analisi comparata dettata, in prima istanza, della suggestione: mi pare che possa essere individuato qualche punto di convergenza tra l’angelo “apocalittico” di Chagall e l’angelo di Walter Benjamin – più esattamente, l’Angelus novus di Paul Klee (Fig. 25) “letto” dal filosofo nella celebre nona tesi sul concetto di storia, il cui testo è riportato qui di seguito: C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera. (1997: 35-7).

Per questi due “grandi del Novecento”, accomunati dall’esperienza di una tragedia storica immane oltre che dal retroterra culturale, la figura angelica riveste un ruolo particolarmente incisivo, la cui valenza è, ad un tempo, individuale e collettiva. Per quanto attiene a Benjamin, la nostra analisi, che non pretende certo di essere esaustiva, si appoggia sul saggio di Gershom Scholem Walter Benjamin e il suo angelo (1996): qui l’Autore, dopo aver decifrato con grande finezza l’enigmatico frammento autobiografico di Benjamin, Agesilaus Santander (1933), afferma tra l’altro: «Nell’allucinazione l’immagine dell’Angelus Novus diventa per Benjamin l’immagine del proprio angelo in quanto realtà occulta di se stesso» (1996: 55). Successivamente il saggio delinea l’itinerario intellettuale che porta dall’angelo personale all’angelo della storia: quanto a quest’ultimo, Scholem mette in luce la complessa trama filosofica che ne costituisce il fondamento e al cui interno la componente di matrice ebraica occupa una posizione rilevante: Ciò che all’osservatore umano… appare come storia e come passato, l’angelo lo vede come un’unica grande catastrofe, che accumula… rovine su rovine. […] Al contempo, però, nella mente di Benjamin vi è il concetto kabbalistico di Tikkun, della restaurazione e della riparazione messianiche (Scholem 1996: 61).

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La visione catastrofica della storia costituisce il nucleo ideologico che può legittimare il confronto in atto, proiettandolo oltre il livello della suggestione stimolata dall’evidenza di talune rassomiglianze; confronto che – come è sempre auspicabile che avvenga – conduce altresì alla messa a punto delle differenze. Nella Chute de l’ange Chagall fissa l’istante decisivo in cui il “senso del mondo” si sta inabissando, per lasciar posto al caos: ciò implica un’idea di successione temporale, sotto forma di passaggio da un “prima” di pienezza a un “dopo” di vuoto assoluto. Idea, questa, estranea alla nona tesi di Benjamin in cui l’insensatezza della storia, sorretta dal fantasma illusorio del progresso, costituisce il dato permanente che annulla ogni distanza qualitativa tra passato, presente e futuro, uniformemente posti nel segno della rovina montante. La condizione dell’angelo di Benjamin è intensamente drammatica: egli è il solo ad avere coscienza dell’effettivo stato delle cose del mondo e, al contempo, è “imprigionato” nel mondo, condannato a partecipare del movimento vano della storia, trascinato in avanti, suo malgrado, da un’oscura forza di natura demoniaca. Anche l’Angelo di Chagall è una vittima, agito com’è da una volontà invincibile – riprendo l’espressione di F. Meyer – che lo scaraventa in giù, impedendogli per sempre di esercitare il ruolo di messaggero celeste, ponte ideale tra il divino e l’umano. L’Angelo caduto e l’Angelo della storia sono figure parimenti tragiche, entrambe espropriate della funzione che conferisce loro senso. All’Angelo di Klee/Benjamin una sorta di maleficio (la bufera che spira dal paradiso) impedisce di fermarsi per esercitare quella pietas alla quale si sente votato («Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti, riconnettere i frantumi»): una sovrumana pietas d’impronta messianica, nella quale risiede – per quanto al presente insoddisfatta – la sola possibilità di riscatto. L’importanza del ruolo assegnato alla prospettiva messianica, in quanto “risposta” ai disastri della storia, risalta – con accenti diversi – anche nella lettura proposta da M. Ranchetti e G. Bonola (1997: XVIII), come traspare, ad esempio, dal brano che segue: «La chiave di volta di questo rapporto tra storia e messianismo è ancora la figura dell’angelo. […] L’angelo nella sua visione trascendente vede ovunque nella storia il negativo e la necessità della redenzione, cui egli, semplice angelo, non può provvedere». L’orizzonte metafisico di riscatto costituisce, quindi, l’altra polarità presente nello scritto del filosofo che garantisce, malgrado tutto, il persistere della speranza di salvezza mitigando, di riflesso, la visione catastrofica della storia. La coesistenza di tensioni contrastanti è ravvisabile, in forme differenti, anche nella tela di Chagall: la drammaticità apocalittica della “caduta”, pur dominando la messa in scena, è come attenuata dalla presenza di figure umane tese alla salvezza, proiettata in un “altrove” indefinito. Si è già avuto

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modo di accennare a questa tematica, riflessa nelle tre icone che rinviano all’archetipo del rifugiato: queste, raggruppate e dislocate nello spazio in base a criteri di volta in volta divergenti, ricorrono in tutte le opere di Chagall fin qui esaminate per segnalare il tenace proposito di “resistere” alla sciagura cosmica incombente o ai disastri bellici già avvenuti. In questo caso la prospettiva salvezza, risolvendosi nella fuga, possiede un carattere “terreno” e non fa riferimento all’orizzonte metastorico. Il Messia è evocato, ma egli appare non già nelle vesti dell’atteso redentore, ma in quelle del martire ebreo crocifisso, compartecipe della sorte tragica del suo popolo e non proiettato oltre essa, sulla scia del modello incarnato dal Cristo nella Crucifixion blanche. 5. L’ultimo pannello del Trittico, Libération, va oltre il livello di cui si è appena parlato, nella misura in cui essa prospetta il momento antitetico rispetto alla caduta, vale a dire quello della “resurrezione” sviluppato con originalità e con ricchezza inventiva non comuni. Il “risorto” non è Cristo, ma il pittore che, già “doppio” dell’angelo caduto, ora è ritratto mentre siede nuovamente dinnanzi al cavalletto, intento a dipingere in una posa che ricorda quella di Apparition: in tal modo, com’è stato scritto, «il affirme la victoire de la peinture sur la mort» (Pacoud-Rème 2003: 241). Alla luce di tali considerazioni, non mi sembra improprio parlare di “Trittico del pittore”, al fine di porre in piena luce il carattere unitario del discorso che si dipana nei tre pannelli. L’interpretazione qui proposta non è isolata: ad esempio, S. Forestier polarizza il proprio sguardo sul motivo dell’occhio del pittore – presente in Libération – facendo di questo dettaglio il “luogo” in cui si condensa il significato nascosto dell’opera, e così conclude: «l’œil est le motif par lequel la peinture prend conscience d’elle-même» (Forestier 1990: 25). Il nuovo inizio après le déluge è posto nel segno della ripresa della creatività artistica, di cui la pittura non è la sola espressione: le si accompagna la musica, che svolge una funzione non meno pregnante, se si tiene conto della posizione assegnata al suonatore di violino: questi, raffigurato in posizione eretta – anche se il suo equilibrio appare alquanto instabile – poggia i piedi proprio nella parte più interna dello spazio circolare che risalta in tutta evidenza nella zona mediana della tela. Si tratta di uno spazio delimitato da due grandi anelli gialli che incorniciano un cerchio dipinto in rosso, il fulcro della rappresentazione: spazio denso di risonanze simboliche. Considerato il contesto in cui esso è inserito, mi pare plausibile avanzare l’ipotesi che Chagall, ricollegandosi alla simbologia del “centro”, abbia inteso creare una propria imago mundi. Il “mondo” evocato, chiuso com’è entro confini nettamente disegnati, è quello in cui stare, dopo la fase della dispersione e

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dell’erranza al di là delle frontiere d’origine. Questa chiave di lettura acquista maggiore spessore in considerazione del fatto che la metà inferiore della tela è occupata per intero da una dimora abitata: un segno ulteriore di stabilità, di recupero della sedentarietà, che non esclude, tuttavia, l’esistenza di un’alternativa, la quale prende forma nella capacità poetica della coppia di sposi di vivere sospesi nell’aria. La decifrazione dell’apparato simbolico risulterebbe incompleta e unilaterale se prescindesse dall’analisi di un ulteriore dettaglio – non meno ricco di valenze culturali – visibile nella metà superiore della tela; qui, sul lato opposto a quello in cui campeggia il pittore, fa la sua apparizione un gruppo di tre personaggi, due adolescenti e un adulto, appartenenti al mondo del circo: un suonatore di tamburo, un suonatore di flauto e un giocoliere. Nell’universo poetico di Chagall, com’è noto, al circo spetta una posizione di rilievo (Chagall: 1967), il cui significato d’insieme non può essere afferrato se non al termine di un itinerario di ricerca a sé stante che esula, per ovvie ragioni, dai confini del presente excursus. In questa sede ci si accontenterà di valutare il tema in rapporto al contesto specifico di cui esso fa parte, traendo spunto dall’interrogativo seguente: in quale misura l’evocazione del mondo circense partecipa del clima culturale che pervade Libération? Per rispondere alla domanda occorre partire “da lontano” osservando preliminarmente, sulla scorta di Starobinski, che Chagall appartiene alla vasta, variegata schiera di artisti per i quali «le monde du cirque et de la fête foraine représentait, dans l’atmosphère charbonneuse d’une société en voie d’industrialisation, un îlot chatoyant de merveilleux, un morceau demeuré intact du pays d’enfance, un domaine où… l’illusion, les prodiges simples de l’adresse ou de la maladresse mêlaient leurs séductions […]»; un mondo trasfigurato e mitizzato che, al contempo, si presta ad esprimere metaforicamente «l’épiphanie de l’art et de l’artiste» (Starobinski 2004: 7-9). I tre artisti girovaghi, che sembrano emergere da un altro universo, evocano la dimensione dell’arte, dell’altrove, dello straordinario; come tali, essi sono legati da affinità elettiva agli altri personaggi posti lungo lo stesso asse: il pittore, affiancato, non a caso, da un suonatore di violoncello, e il violinista collocato in posizione mediana. Esiste, inoltre, un rapporto di parentela, più segreto ma non meno significativo, tra gli artisti del circo e l’Ebreo errante, la cui icona costituisce uno dei fili conduttori del discorso pittorico che si dipana dalla Chute ai primi due pannelli del Trittico: gli uni e l’altro appartengono allo spazio esterno, al “fuori”; gli uni e l’altro si spostano di continuo nello spazio portandosi appresso il proprio mondo, che resta comunque “a parte”, meraviglioso e marginale allo stesso tempo; gli uni e l’altro fanno apparizioni più o meno lunghe, ma comunque provvisorie, pre-

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ludio di una prossima sparizione. È come se gli artisti girovaghi rendessero presente – in maniera mediata, puramente allusiva – l’Ebreo errante, che non fa la sua comparsa in Libération. Si tratta di figure in bilico tra opposte polarità, oscillanti tra l’esserci e il non esserci più: accostabili, in quanto tali, al violinista che domina la scena, altra figura “sospesa”, nel cui equilibrio precario è possibile scorgere una delle chiavi d’accesso alla terza tela del Trittico; accostabili, una volta di più, al pittore, angelo “diviso” tra caduta e resurrezione, nella cui risalita – forse solo temporanea – si può leggere una variazione sul tema dell’épiphanie de l’art et de l’artiste. In un simile gioco di corrispondenze e di rimandi è nascosto, probabilmente, il messaggio che ci rinvia Libération, la cui festosità è attraversata – e ridimensionata – da un sentimento di sottile inquietudine, generato dalla consapevolezza delle ombre che gravano sulla ritrovata armonia del mondo: mondo che, per essere tale, deve comunque salvaguardare la memoria del passato, al quale rinviano le figure appena abbozzate, disegnate nella luce, di Mosé e del Crocifisso, situate nell’estremità superiore destra della tela. L’immagine che pare riassumere in sé l’intero arco della presente ricerca non appartiene al Trittico, pur condividendone pienamente lo spirito; Chagall l’ha dipinta nell’Autoportrait à la pendule (1947; Fig. 24) che mostra il pittore dalla doppia figura, umana e animale, intento a dipingere una tela che raffigura lo Jewish Jesus crocifisso, soccorso da una bianca figura femminile. La scena è dominata dal volo di una pendola munita di mani che, a mo’ di ali, la proiettano verso l’alto: un’allusione – così mi pare di poter decifrare – al “tempo ritrovato”. 6. Ernesto de Martino (2002: 6-10) ha proposto di dividere le manifestazioni imperniate sul tema della fine del mondo in due grandi categorie, assumendo come criterio distintivo la presenza o l’assenza della prospettiva di reintegrazione dell’ordine: se questa appare all’orizzonte, si è di fronte alle «apocalissi culturali»; in caso contrario, si deve parlare di «apocalissi psicopatologiche». Il riferimento a tali parametri interpretativi si rivela utile al fine di comprendere la peculiarità della visione apocalittica chagalliana, la quale si presta ad essere inquadrata nel novero delle apocalissi culturali per due ordini di considerazioni: perché non vi è un atteggiamento di “resa” alla catastrofe, neppure nelle circostanze più fosche (si ripensi a quanto è stato rilevato a proposito del tema della fuga) e, soprattutto, perché l’itinerario ideale tracciato dal pittore si conclude con la visione del mondo ordinato, risollevatosi dall’abisso nel quale era piombato. Vi è, tuttavia, qualcosa che sfugge alla presa di un tale schema, qualcosa

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di non secondario che trascende la distinzione tipologica cui si è fatto cenno: qualcosa di ascrivibile al sentimento di lacerazione indotto dalla consapevolezza della fragilità dell’ordine ritrovato, sul quale continua pur sempre a gravare la minaccia della caduta: la scelta di sovrapporre all’imago mundi la figura del violinista in bilico, creando in tal modo un simbolo marcato da una sottile ambivalenza, può essere considerata una spia indicativa in questa direzione. È come dire che l’ordine non rappresenta l’alternativa netta alla crisi, in quanto l’idea stessa di ordine è permeata del senso della crisi: da qui la vertigine intellettuale che l’apocalisse di Chagall comunica allo spettatore avveduto.

Nota bibliografica Amishai-Maisels, Ziva 1993. Depiction and Interpretation, Oxford: Pergamon Press. Arasse, Daniel 2007. Le détail, Paris: Champs Flammarion. Benjamin, Walter 1997. Sul concetto di storia, a cura di M. Ranchetti, G. Bonola, Torino: Einaudi. Chagall, Marc 1967. Le Cirque, Paris: Tériade. 1975. Poèmes, Genève: Cramer Editeur. De Martino, Ernesto 2002. La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Torino: Einaudi. Durkheim, Emile. 1994. Les formes élémentaires de la vie religieuse, Paris: Quadrige/Presses Universitaires de France (trad. it. Le forme elementari della vita religiosa, Milano, Edizioni di Comunità, 1963) Foray, Jean-Michel 2001. Marc Chagall e il messianismo, in: R. Chiappini (ed.), Marc Chagall, Ginevra-Milano: Skira. Forestier, Silvie 1990. Au cœur d’un chef d’œuvre. Résistance, Résurrection, Libération, Rennes: Editions Ouest-France. Harshav, Benjamin 2004. Chagall and his Times, Standford: Stantford University Press.

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Massenzio, Marcello 2007. La Passione secondo l’Ebreo errante, Macerata: Quodlibet. 2007(a). L’ebreo errante e il suo doppio nell’opera di Chagall, in: C. Zevi, M. Meyer (eds.), Chagall delle meraviglie, Ginevra-Milano: Skira. Meyer, Franz. 1962. Marc Chagall: la vita e l’opera, Milano: Il Saggiatore. Pacoud-Rème, Elisabeth 2003. Résistance, Résurrection, Libération, in: Jean-Michel Foray (ed.) Chagall connu et inconnu, Paris: Editions de la Réunion des musées nationaux. 2007. A la pendule, aux ânes et aux autres. Essai sur la symbolique de l’hybridation dans l’œuvre de Chagall, in: Marc Chagall. Monstres, Chimères et Figures Hybrides, Paris: Réunion des musées nationaux. Ranchetti, Michele, Bonola, Gianfranco 1997. Introduzione, in: W. Benjamin, Sul concetto di storia, Torino: Einaudi. Samoyault, Tiphaine 2004. La montre cassée, Lagrasse: Editions Verdier. Scholem, Gershom 1996. Walter Benjamin e il suo angelo, Milano: Adelphi. Starobinski, Jean 2004. Autoportrait de l’artiste en saltimbanque, Paris: Gallimard. Venturi, Lionello 1956. Chagall. Etude biographique et critique, critique Genève: Skira.

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Figura 17 – Marc Chagall, La Chute de l’ange, 1923-1947.

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Figura 18 – Marc Chagall, La pendule à l’aile bleu, 1949.

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Figura 19 – Marc Chagall, La Crucifixion blanche, 1938.

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Figura 20 – Marc Chagall, Résistance, 1937-1948.

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Figura 21 – Marc Chagall, Résurrection, 1937-1948.

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Figura 22 – Marc Chagall, Libération, 1937-1953.

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Figura 23 – Marc Chagall, L’apparition, 1917-1918.

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Figura 24 – Marc Chagall, Autoportrait à la pendule, 1947.

Figura 25 – Paul Klee, Angelus Novus, 1920.

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Visioni apocalittiche nella musica del Novecento di Roberto Calabretto A Maria Elena, con affetto

La distruzione finale del mondo sottostà ad un imperativo armonico, perché le scosse e i collassi dell’Apocalisse sono misurati per settenari […]. All’apertura dei sette sigilli vi saranno numerosi rumori […]. Al settimo sigillo, per mezz’ora circa, si fa silenzio, perché tutti gli urli, gli strepiti e le acclamazioni, invece di scoppiare ulteriormente, sfogano in silenzio, nella cosiddetta rovina del silenzio1.

Con queste parole, poste ad esordio di un saggio sulla musica della fine del mondo, Giovanni Garrera inizia ad indagare la natura dei suoni che accompagnano l’Apocalisse. Una natura completamente libera da qualsiasi forma di repertorio riconoscibile che rende questa realtà del tutto differente da quelle note all’uomo. Come saranno, allora, gli squilli di tromba che scandiranno la distruzione e la seguente resurrezione, le urla, le voci degli angeli e l’avvento finale della Gerusalemme finale? Ma tutte le indagini sui suoni della fine del mondo rientrano tra gli studi che trattano le musiche di tipo inaudito e inaudibile – continua Garrera –, seppure risulta che sarà assordante la fecondità sonora della fine. La fine del mondo suonerà, in maniera anche ottusa e tremenda, fragori formidabili di strazio e di sfascio, sibili e botte di fanfara, urli per glorificazioni e fischi di giubilo. Sarà un fracasso complesso, strillato e suonato in continuazione, a tutto volume, tanto che chi ascolta non sono solo orecchi umani. […] Dopo l’Apocalisse si opererà sempre più per il trascendimento del suono, perché la musica non udita è migliore di quella udita (Plutarco, De anima procreatione in Timaeo, 26), perché la musica della Gerusalemme finale indica una musicalità immobile, che non si sente, perciò si andrà contro l’arte degli strumenti e delle voci, contro il musico artifex e virtuoso di strumento2.

Le suggestioni sonore contenute nei testi dell’Apocalisse sono molteplici e accompagnano costantemente le immagini che affollano queste pagine, 1

G. Garrera, Apocalisse di Giovanni. Con un saggio della fine del mondo “Super Apocalypsim Musica”, Reggio Emilia, Diabasis, 2003, p. 55. 2 Ivi, pp. 60-61, 95.

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dando luogo ad un ‘paesaggio sonoro’, per usare un’accezione oggi molto in voga, ricchissimo3. Non deve allora stupire se, nel corso della sua millenaria storia, la musica spesso si è confrontata con questi luoghi dando vita ad opere d’incomparabile bellezza. In particolar modo, l’immagine del giudizio finale contenuta nel Dies Irae ha sempre ispirato moltissimi autori che hanno utilizzato differenti strumenti linguistici per esaltare la forza e le suggestioni contenute in queste parole4. Su tutti basti pensare alla singolare maniera con cui Arvo Pärt nel proprio Miserere unisce due testi di diversa provenienza, il Salmo 50 e le prime otto strofe della sequenza funebre del Dies Irae, dove viene rappresentato il Giudizio universale con tutti i suoi orrori e la conseguente richiesta di pietà e salvezza5. Ai silenzi che avevano

3 Per citare solo i titoli di alcuni paragrafi del testo di Garrera, abbiamo: Ronzio della distruzione, Suono acqueo, Come organo idraulico, Le estasi a squarciagola, Settenari delle armonie caotiche e molti altri. Al fine di apprezzare la complessa musicalità di questi testi, rinviamo comunque al volume di Garrera. 4 Com’è noto, moltissimi sono i Requiem venuti alla luce nel corso del tempo. A tutte queste opere, però, non faremo riferimento nel corso di queste pagine. 5 L’opera appartiene allo stile tintinnabuli del compositore. Uno stile che nasce da una determinata condizione spirituale e concretamente si realizza a partire da una nuova scrittura le cui caratteristiche sono: «una riduzione agli elementi tonali fondamentali (scale e triadi); una nuova frase musicale basata sulla ripartizione di questi elementi in due linee distinte: le voci melodiche fondate su frammenti di scale […], e le voci tintinnabuli […], formate esclusivamente dalle note di una triade; un nuovo tipo di cadenza che, entro un determinato arco di tempo, conferisce a ogni singola nota un preciso peso e significato; un ‘sistema compositivo altamente formalizzato’, in cui i percorsi melodici e armonici siano determinabili da una rete strettamente connessa che si articolano in una formula strutturale fondamentale» (L. Brauneiss, Un’introduzione allo stile tintinnabuli, in Arvo Pärt allo specchio. Conversazioni, saggi e testimonianze, a cura di E. Restagno, Milano, Il Saggiatore, 2004, pp. 148-149). Questo stile sembra nascere proprio dall’osservazione delle sonorità della campana che hanno il potere di essere indefinite. «Il bronzo sonante o personante – precisa ancora Garrera –, i piattini squillanti, le coppette metalliche o i dischetti battuti uno contro l’altro, i tintinnabula e i sistemi di campanelle percosse: significano un nulla di echi suggestivi e sonori, che rientra nelle pratiche profetiche» (Ivi, p. 71). Dal canto suo, Arvo Pärt ha detto: «Tintinnabuli è una zona nella quale mi trovo a vagare quando sono alla ricerca di risposte, nella mia vita, nella mia musica, nel mio lavoro: in quelle ore ho la certezza assoluta che tutto ciò che si trova al di fuori di questa zona non ha senso. La complessità e le varie sfaccettature delle cose mi confondono ed ho bisogno di ricercare l’unità. Qual è quest’unità? Quest’unica cosa? Come posso trovare una via per accedervi? Tracce di questa unità perfetta appaiono in diverse sembianze e tutto ciò che è insignificante scompare. Tintinnabuli è così. A questo punto sono solo in silenzio, ho scoperto che è sufficiente quando una sola nota risuona in maniera piacevole. Questa singola nota, o una pausa, mi confortano. Compongo con pochi elementi, una o due voci. Costruisco la struttura musicale con i materiali primitivi, la triade, una specifica tonalità: le tre note della triade sono come campane ed è ciò che io chiamo tintinnabulation» (Parole di Arvo Pärt in Richard Rodda, Bookleet del CD Fratres).

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scandito i primi momenti dell’opera6, subentra la «sconvolgente pienezza sonora» del Dies Irae che poi, nella quarta sezione Rex tremendae, sfocia in una pausa generale, in una quiete che, grazie al risuonare delle note tintinnabuli, approda alla certezza della redenzione. Anticipiamo subito che, all’interno di questo ricchissimo universo, la breve riflessione contenuta in queste poche pagine cercherà di mettere a fuoco solamente alcuni momenti di questa lunga storia, prendendo in esame un seguito di opere venute alla luce nel corso del Novecento, dove i testi dell’Apocalisse sono stati oggetto dell’attenzione di molti compositori7. Varrà anche la pena premettere che questi brevi appunti, non solo non hanno la pretesa di esaurire questo problema, che al contrario semplicemente aprono, ma intendono offrire un rapido excursus privo di approfondimenti analitici al fine di mettere in risalto le diverse modalità con cui questi testi sono stati avvicinati. Non ultimo, alcuni riferimenti verranno fatti a ‘visioni apocalittiche’ prive di riferimenti ai testi sacri, che hanno preso vita nella seconda metà del secolo ventesimo, quando l’incubo di una distruzione nucleare e di altre catastrofi terrorizzava l’umanità, ispirando anche alcune opere musicali.

«Il n’y aura plus de temps». Le visioni apocalittiche di Olivier Messiaen In questo ben preciso contesto, la figura di Olivier Messiaen rappresenta un punto di riferimento privilegiato. Il compositore francese, «figura del musicista cattolico diviso quanto a formazione culturale e scelte lessicali, ma unito nella coerenza tra credo religioso e non accidentale pratica compositiva»8, più di tutti forse ha espresso con grande profondità che cosa comporti in genere l’accezione ‘sacro’ in musica: La musica può adattarsi al sacro in varie maniere – ha così detto nella celebre Conferenza di Notre-Dame, tenutasi il 4 dicembre 1977 –. Prima di tutto c’è la 6 «A confronto con gli altri pezzi tinnabuli, è particolarmente interessante il modo con cui, in quest’opera, la parola determina la musica: le singole parole sono separate dalle pause di una voce tintinnabuli (T) strumentale, che non risuona contemporaneamente alla melodia principale (M), ma le risponde in maniera dialogica» (L. Brauneiss, “Miserere”, in Arvo Pärt allo specchio. Conversazioni, saggi e testimonianze, a cura di E. Restagno, cit. p. 233). 7 Accanto alle opere di cui parleremo in queste pagine, molte altre sarebbero da citare ed analizzare, quali il poema sinfonico Apocalisse di Gian Carlo Menotti oppure l’Apocalypse selon Saint-Jean, oratorio fantastico di Jean Françaix e altre. 8 G. Carli Ballola, Ofanim, in Berio, a cura di E. Restagno, Torino, EDT, 1995, p. 226.

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musica liturgica, che accompagna la struttura dell’Officio e ha significato solo durante l’Officio. Segue la musica religiosa – e questo termine copre un vasto campo di epoche e di paesi diversi, di estetiche diverse. Infine c’è l’apertura verso l’al di là, verso l’invisibile e l’indicibile, che si può realizzare con l’aiuto del suono-colore, e si riassume nella sensazione di éblouissement9.

Il Quatour pour la fin du temps, scritto En hommage à l’Ange de l’Apocalypse qui lève la matin vers le ciel en disant: Il n’y aura plus de Temps, sembra nascere proprio a partire da queste premesse. Quest’opera venne composta in circostanze singolari. La sua stesura risale, infatti, agli ultimi mesi del 1940, quando il musicista francese era internato nel campo di concentramento di Görlitz. La prima esecuzione, il 15 gennaio 1941, avvenne in condizioni memorabili. Nel Campo sepolto dalla neve, queste pagine furono suonate di fronte a circa cinquemila persone e con strumenti in pessime condizioni10. Messiaen stesso sedeva al pianoforte, accanto a tre compagni di prigionia: Jean La Boulaire (violino), Henri Akoka (violoncello) ed Etienne Pasquier (violoncello). Gli elementi d’ispirazione dell’opera provengono da una visione dell’Apocalisse di San Giovanni, che allora ricorreva nei sogni del compositore tormentato dalla fame e dalla paura11. 9 «Come la musica usa migliaia, milioni di complessi di suoni – continua Messiaen –, come questi complessi di suoni sono sempre in movimento, componendosi e scomponendosi senza tregua, così i colori corrispondenti arbitrariamente danno arcobaleni mescolati, spirali blu, rosse, violetti, arancione, verdi, che si muovono e girano con i suoni, alla stessa velocità dei suoni, con le stesse opposizioni di intensità, con gli stessi conflitti di durate, con lo stesso svolgimento contrappuntistico dei suoni. E più i suoni rimescolano e colpiscono il nostro orecchio interiore, più questi oggetti variopinti smuovono e sollecitano il nostro occhio interiore, più si stabilisce il contatto, il rapporto con un’altra realtà: rapporto così potente che può trasformare il nostro ‘io’ più nascosto, più profondo, più intimo, e fonderci in una verità più alta di quella che speriamo di attendere» (O. Messiaen, Conference de Notre Dame, Paris, Leduc, 1978). 10 «Il violoncello di Etienne Pasquier aveva soltanto tre corde, mentre i tasti del mio pianoforte si abbassavano e non si sollevavano più» (O. Messiaen, Note introduttive contenute nel booklet del CD, Quatuor pour la fin du temps, Paris, Erato, 1993, p. 4). 11 «E vidi un altro angelo forte discendente dal cielo con gettata addosso una nuvola, e l’arcobaleno sulla sua testa e la sua faccia come il sole e i suoi piedi come colonne di fuoco, e con nella sua mano un libretto aperto. E posò i suoi piedi: il destro sul mare, il sinistro poi sulla terra, e strillò a gran voce così come muggisce un leone. E quando strillò, i sette tuoni risuonarono parlando le loro voci. E quando i sette tuoni parlarono, stavo per scrivere, e ascoltai una voce dal cielo che dice: Sigilla ciò che di parlato suonarono i sette tuoni, e non scriverlo. E l’angelo, quello che vidi rizzato sul mare e sulla terra, alzò la sua mano, la destra, al cielo e giurò in colui che vive nei secoli dei secoli, che creò il cielo e le cose in esso e la terra e le cose in essa e il mare e le cose in esso: che il tempo non sarà più, ma nei giorni della voce del settimo angelo, quando stia per tronare: ecco che fu finito il mistero di Dio, come evangelizzò ai suoi servi profeti» (Apocalisse di Giovanni, X, 1-7, traduzione di

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Oltre ad essere una delle espressioni maggiormente compiute dell’universo simbolico di Messiaen, il Quartetto è uno straordinario compendio del suo linguaggio che nasce dalla combinazione di diversi elementi che vanno dall’uso di alcuni stilemi della tradizione occidentale ed extraeuropea al ripristino dei modi antichi e allo studio del canto degli uccelli. Nel Quartetto, allo stesso tempo, troviamo una straordinaria esemplificazione della sua concezione del ritmo che, come Messiaen stesso ha più volte ribadito nel corso della propria esistenza, è stata una delle maggiori preoccupazioni della propria riflessione e attività compositiva12. Com’è noto, il maestro francese è stato uno dei primi musicisti a porre la dimensione del tempo musicale al di fuori delle tradizionali coordinate, come quella lineare e vettoriale. Di conseguenza, anche la sua concezione del ritmo accantona l’idea di una progressione creata da un tempo di base che veicola la sensazione in un procedere ordinato. La sua musica appare così legata ad una “pulsazione” che rende tutti i movimenti identici, per cui passato, presente e futuro sono indistinguibili. Il rifiuto della dinamica progressiva comporta l’uso di tecniche alternative a quelle tradizionali che siano in grado di portare la musica a rappresentare l’eterno nella temporalità del linguaggio sonoro. Ecco perché la capacità che l’uomo ha di parlare con Dio è possibile solo quando il senso del tempo scompare, come accade nella secolare storia del canto gregoriano e in molte altre culture amate dal compositore, come quelle provenienti dall’antica Grecia e dall’India13, dalla musica di Bali e dal canto degli uccelli. L’idea di una ‘musica amensurata’, affrancata dalla nozione di battuta e di tempo nell’accezione tradizionale, si basa allora su un’idea di ritmo che nasce da una successione di gruppi di unità formati

Giovanni Garrera, in G. Garrera, Apocalisse di Giovanni. Con un saggio della fine del mondo “Super Apocalypsim Musica», cit. p. 29). «È stato ispirato direttamente da questa citazione dell’Apocalisse. Il suo linguaggio è essenzialmente immateriale, spirituale, cattolico. Questo Quartetto si compone di otto movimenti. Perché? Sette è il numero perfetto, i sei giorni della creazione santificata dal sabato divino: il sette di questo riposo si prolunga nell’eternità, diviene l’otto della luce indefettibile, della pace inalterabile» (O. Messiaen, Préface al Quatuor pour la fin du temps, Paris, Durand, 1942, p. I). 12 «Per il musicista ed il rythmicien la percezione del tempo è la fonte di tutta la musica e di tutto il ritmo. Un musicista è per forza un rythmicien, altrimenti non merita di essere chiamato musicista. Se egli è un rythmicien, deve affinare il senso del ritmo attraverso un’intima conoscenza della durata vissuta, con lo studio dei diversi concetti di tempo e dei differenti stili ritmici» (O. Messiaen, Traitè de rythme, de coleur et d’ornitologie, v.1, Paris, Leduc, 1994, p. 9). Non va dimenticato che Messiaen è l’autore di un monumentale trattato in sette volumi. Cfr. O. Messiaen, Traitè de rythme, de coleur et d’ornithologie, Paris, Leduc, 1997. 13 Il linguaggio ritmico di Messiaen si forma progressivamente sulla base degli insegnamenti provenienti dai sistemi ritmici esistenti dall’antichità: le Deçî-tâlâs indù e la metrica greca.

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per addizione dell’unità di misura e non per suddivisione della stessa in cui si susseguono accenti deboli e forti14. Anche se nelle partiture della musica di Messiaen permangono i segni di battuta, il loro valore cambia. Le misure sono di durata diseguale in quanto ciascuna comprende un numero di unità corrispondente alla sua forma organica. L’emancipazione dalla battuta misurata avviene mediante l’adozione di diversi procedimenti. Come il compositore stesso ribadisce nella Petite théorie de mon langage rythmique anteposta alla partitura del Quatuor, il suo utilizzo di un linguaggio ritmico particolare nasce a partire da alcuni elementi fondanti. Egli parla così del valore aggiunto – un valore breve che viene aggiunto ad un ritmo qualsiasi, in veste di note, pausa oppure di punto –; dei ritmi aumentati e diminuiti; e dei ritmi non retrogradabili, ritmi la cui forma retrograda è identica a quella diretta e sono simmetrici rispetto ad un centro. A questi va aggiunto il pedale ritmico che viene ripetuto instancabilmente senza considerare gli altri che entrano a far parte della partitura15. Nella musica di Messiaen, «compositeur de musique et rythmicien» com’egli stesso amava definirsi, la musica si sottrae quindi alle costrizioni della battuta e della simmetria periodica. La distruzione della percezione tradizionale del tempo, realizzata attraverso questi espedienti, nasce però da un ben preciso fine che è quello di cercare una comunione con tutti gli aspetti della creazione: la musica testimonia quindi la continua ricerca da parte dell’uomo di unirsi a Dio. Una ricerca che ispira anche le visioni sonore del Quatuor pour la fin du temps, non a caso, molto distanti da quelle che appartengono alla tradizionale letteratura musicale basata sui testi dell’Apocalisse16. Questa partitura, affollata da silenzi e da visioni estatiche, non intende semplicemente trasporre quanto il testo sacro contiene ma piuttosto vuole rendere musicalmente lo straordinario mistero contenuto nelle parole dell’angelo che annuncia la fine dei tempi. 14 «Quand’ero piccolo – scrive il compositore – amavo già i numeri primi, quei numeri che, per il semplice fatto di non essere divisibili, emanano una forza occulta, poiché voi sapete che la divinità non è divisibile» (P. Mari, Olivier Messiaen: l’homme et son œuvre, Paris, Seghers, 1965). 15 In alcuni momenti della partitura del Quatuor l’utilizzo di queste situazioni è evidente: basti pensare alla Liturgie de cristal, dove abbiamo un pedale ritmico, oppure alla Danse de la fureur, pour le sept trompettes, basata invece su dei ritmi non retrogradabili. Non ultimo, la stessa struttura formale dell’opera intera, con l’Intermède nella posizione centrale il cui materiale rinvia al primo e al terzo movimento e annuncia quello del sesto e dell’ottavo, nasce da un gioco di corrispondenze che riporta proprio ai ritmi retrogradabili. 16 Lo stesso compositore ha più volte ribadito la distanza che intercorre fra questa sua opera e le tante che si sono ispirate ai testi dell’Apocalisse.

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Il secondo e il settimo numero della partitura, Vocalizzo per l’Angelo che annuncia la fine del Tempo e Groviglio di arcobaleni, per l’Angelo che annuncia la fine del Tempo17, sono dedicate a queste immagini18. Nel secondo numero19, le parti estreme del movimento sono composte da elementi speculari, per cui gli arpeggi verso l’acuto del pianoforte, a cui segue una cascata degli accordi verso il grave della prima parte, vengono riproposti alla fine, ma l’arpeggio ora va verso il grave seguito da un’ascensione di accordi verso l’acuto. La musica evoca la forza dell’angelo, mentre nella sezione centrale subentrano le armonie celesti. Il settimo è, invece, dedicato all’angelo e all’arcobaleno; la sua forma prevede delle variazioni del primo tema intercalate dagli sviluppi di un secondo20. Un altro momento della partitura ripropone, invece, la Danza del furore, per le sette trombe21. I quattro strumenti procedono all’unisono. La musica non intende, in alcun modo, evocare le trombe dell’Apocalisse e le diverse catastrofi che le accompagnano ma piuttosto dispiega una serie di situazioni ritmiche per cui il tema si serve in vario modo dei “valori aggiunti”. 17

La partitura è articolata in otto movimenti e lo stesso compositore ha anteposto alcune parole ad ognuno di essi. Cfr. O. Messiaen, Préface al Quatuor pour la fin du temps, cit. pp. I-II. 18 Proprio nella musica di Messiaen sembrano riflettersi le parole di Andrej Tarkovskij: «Perché nell’Apocalisse non ci sono simboli. È immagine. E se il simbolo può essere interpretato, l’immagine non può essere interpretata» (A. Tarkovskij, L’Apocalisse, trad. it. di A. A. Tarkovskij, intr. di M. Luzi, saggi di T. Špidlìk, G. Ibba, con una nota di A. Ulivi, Firenze, Edizioni della Meridiana, 2005, p. 17). Da questo, come ha sottolineato Giovanni Ibba, deriva una precisa considerazione sulla natura del ‘tempo’ nell’Apocalisse che risulta essere «un sistema di immagini», in grado di suscitare emozioni in coloro che leggono questo testo. Cfr. G. Ibba, Immagini e visioni, in ivi, pp. 9-10. 19 «La prima e la terza parte evocano la potenza di questo forte angelo, coronato dall’arcobaleno e avvolto da una nuvola, che poggia un piede sul mare e uno sulla terra. La parte centrale: le armonie impalpabili del cielo. Al pianoforte dolci cascate di accordi blu-arancioni, che circondano col loro carillon lontano la melopea quasi da canto piano del violino e del violoncello» (O. Messiaen, Préface al Quatuor pour la fin du temps, cit. p. I). 20 «Ritornano qui alcuni passaggi del secondo movimento. L’Angelo pieno di forza appare, e soprattutto l’arcobaleno che lo corona (l’arcobaleno, simbolo della pace, della saggezza, e di tutte le vibrazioni luminose e sonore). Nei miei sogni, sento e vedo accordi e melodie classificate, colori e forme conosciute; poi, dopo questo stadio transitorio, passo nell’irreale e subisco estasiato un turbinio, una compenetrazione di suoni e colori sovrumani. Questa spada di fuoco, queste colate di lava blu-arancione, queste stelle improvvise: eco il groviglio, ecco l’arcobaleno!» (Ivi, p. II). 21 «Ritmicamente, il pezzo più caratteristico della serie. I quattro strumenti all’unisono si atteggiano a gong e a trombe (le prime sei dell’Apocalisse seguite dalle varie catastrofi, la tromba del settimo angelo che annuncia il mistero del compimento di Dio). Musica di pietra, formidabile granito sonoro; irresistibile movimento di acciaio, di enormi blocchi di furore scarlatto, di lucida ebbrezza. Ascoltate soprattutto il terribile fortissimo del tema aumentato e cambiato di registro, verso la fine del pezzo» (Ibidem).

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Altri due numeri sono dedicati agli uccelli, le creature divine sempre al centro dell’attenzione del compositore. Il Quartetto inizia con la Liturgia di cristallo22 e nasce proprio da queste suggestioni sonore. Il pianoforte disegna un ostinato ritmico giustapponendo tre ritmi indiani, mentre il clarinetto dipana il canto dell’uccello. Il terzo movimento, Abisso degli uccelli23, è affidato al clarinetto e al suo canto privato di qualsiasi accompagnamento. Dal pianissimo iniziale si passa al crescendo molto fino all’atroce fortissimo. Le indicazioni che affollano la partitura abbondano di richiami, come: desolato, gaio, capriccioso, soleggiato come un uccello, brillante, espressivo e triste…, mentre il ritorno alla desolazione avviene nel registro grave dello strumento. Vi sono poi alcune visioni, Lode all’eternità di Cristo e Lode all’immortalità di Cristo24, dove il violoncello, nella prima, disegna una melodia accompagnato dal pianoforte con una lentezza estatica25. A distanza d’anni, in un arco di tempo che va dal 1987 al 1991, Messiaen ritornerà a confrontarsi con i testi dell’Apocalisse in Éclairs sur l’au-delà, un’opera che si pone quale compendio di tutta la sua poetica. In questa monumentale partitura, sei degli undici numeri che la costituiscono fanno riferimento all’Apocalisse di San Giovanni. È singolare che Éclairs sur l’au-delà sia affollata dal canto degli uccelli che compaiono in gran numero nei diversi numeri. Il terzo, dedicato a L’oiseau-lyre et la Vielle-fiancée («E la città, la santa, Gerusalemme nuova, vidi discendente dal cielo, da Dio, preparata come una

22 «Fra le tre e le quattro del mattino, il risveglio degli uccelli: un merlo o un usignolo solista improvvisa, circondato da pulviscoli sonori, da un alone di trilli perduti in alto fra gli alberi. Trasponetelo sul piano religioso: avrete il silenzio armonioso del cielo» (Ivi, p. I). 23 «Clarinetto solo. L’abisso è il Tempo, con le sue tristezze, le sue infelicità. Gli uccelli, il contrario del Tempo; è il nostro desiderio di luce, di stelle, di arcobaleni e di vocalizzi giubilanti» (Ibidem). 24 Rispettivamente numero 5 e numero 8 della partitura. «Cristo è qui considerato in quanto verbo. Una grande frase, infinitamente lenta, del violoncello, magnifica con amore e riverenza l’eternità di questo verbo potente e dolce. Maestosamente, la melodia si espande, in una sorta di lontananza tenera e suprema. ‘In principio era il verbo, e il Verbo era in Dio’. […] Ampio solo di violino, simmetrico al solo di violoncello del quinto movimento. Perché questa seconda lode? Essa si indirizza specialmente al secondo aspetto di Cristo, al Cristo-Uomo, al Verbo fatto carne, resuscitato immortale per comunicarci la sua vita. Essa è completamente amore. La sua lenta scalata verso l’acuto estremo è l’ascensione dell’uomo verso il suo Dio, del Figlio di Dio verso il Padre, della creatura resa divina verso il Paradiso» (Ivi, p. II). 25 A completamento dell’opera va infine ricordato il quarto numero, Intermezzo. «Scherzo di carattere più esteriore che gli altri movimenti, ma collegato a loro, comunque, da ‘richiami’ melodici» (Ivi, p. I). Alcuni elementi provenienti da altri luoghi dell’opera collegano questo intermezzo agli altri movimenti del Quartetto.

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sposa ornata per il suo marito»)26, è costruito sul canto di questo uccello che il compositore aveva ascoltato nella foresta australiana rimanendo incantato dalla sua bellezza. Al canto dell’uccello-lira, che diviene forse il motivo centrale dell’intera composizione, seguono, poi, quelli di ben quarantasette specie, raccolti in ogni luogo del mondo e che ripetutamente compaiono nel corso dell’opera. Le visioni apocalittiche si riaffacciano nel sesto episodio, Les sept Anges aux sept trompettes, mentre nel nono, Plusieurs Oiseaux des arbres de Vie, il compositore immagina la vita eterna come un enorme albero, atto a rappresentare Cristo, con le anime degli eletti, raffigurate dagli uccelli che cantano sui suoi rami.

«Volano uccelli implumi… I corvi sono tutti bianchi» Il Quartetto di Messiaen, come anticipavamo, viene alla luce in una situazione apocalittica, nel momento della dittatura nazista quando, agli occhi dell’umanità, vi era la certezza che non vi sarebbe più potuto essere un domani. Nel 1965, Giacomo Manzoni scrive Atomtod, un’opera su testo di Emilio Jona che si pone come eloquente testimonianza dell’impegno politico da lui vissuto negli anni Sessanta-Settanta. Quest’opera parla di un’altra situazione apocalittica che negli anni della Guerra fredda sembrava possibile e descrive l’ipotetico scenario alle soglie di una distruzione nucleare con l’umanità divisa in due gruppi: i privilegiati che riusciranno a salvarsi nei rifugi27 e la folla anonima, che invece è destinata a soccombere in una nobile e inutile morte catartica. Il racconto, pertanto, si svolge all’esterno e all’interno di queste sfere-rifugio dove i personaggi sono delle evidenti allegorie del potere economico-politico. In questo caso, ovviamente, non vi sono riferimenti a testi sacri e le visioni apocalittiche nascono invece da situazioni storiche contingenti28. Il titolo, 26 Apocalisse di Giovanni, XXI, 2, in G. Garrera, Apocalisse di Giovanni. Con un saggio della fine del mondo “Super Apocalypsim Musica”, cit. p. 49. 27 Il Proprietario e coloro che lui avrà scelto al suo fianco, come il Costruttore, un Generale, un Sacerdote, un Servo e Slam, una giovane donna che dovrà soddisfare i bisogni carnali dei rifugiati. 28 Molte sono le opere venute alla luce nel corso del ventesimo secolo, ispirate a visioni apocalittiche. Tra le tante, ricordiamo Ofanìm di Luciano Berio e Pietra di diaspro di Adriano Guarnieri. Ofanìm in ebraico significa “ruote” e “modi” e sta a designare anche delle gerarchie angeliche. L’opera una Cantata per voce femminile, 2 cori di bambini, 2 gruppi strumentali e live elctronics. È costituita da otto sezioni, su frammenti di Ezechiele che descrivono la visione del carro celeste e del trono divino, e dal Cantico dei Cantici; l’ultima sezione di Ezechiele, come specifica il musicista, non ha più come oggetto il cielo ma una madre. Isolato dal suo

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volutamente in tedesco, richiama la funzione della morte nella storia letteraria e musicale tedesca e si pone come un atto di accusa verso la Germania nazista, industria della morte e ideatrice morale della bomba atomica29. La materia fonica di Atomtod si presenta in maniera estremamente differenziata dove l’elettronica si contrappone a melopee gregorianeggianti, al jazz e alla musica leggera30. Questa netta dicotomia rispecchia la suddivisione con cui è contesto, questo frammento perde la sua funzione allegorica per divenire testimonianza concreta delle madri a noi vicine, dell’Europa di Hitler e della Palestina di oggi, evocando il ricordo degli esodi e degli olocausti che si sono radicati nella nostra coscienza per divenire, alla fine, anch’essa testimonianza di una situazione reale e presente. Come dirà lo stesso Berio: «I frammenti drammatici e visionari di Ezechiele, il più personale e apocalittico dei Profeti, entrano in collisione con i versi terreni e sensuali del Cantico. Le visioni di Ezechiele ruotano in un cielo infuocato, minaccioso ma anche fantasmagorico: pieno di figure in perpetua trasformazione di colori e di elettricità (ancor oggi, in ebraico moderno, viene definita con lo stesso vocabolo, hashmal, usato da Ezechiele). Le immagini poetiche del Cantico indugiano invece sul volto e sul corpo di un essere amato e desiderato. Il frammento conclusivo (Ezechiele, 19) si muove però in direzione diversa. L’oggetto di una descrizione, altrettanto angosciata ma meno movimentata e più pensosa, non è più il cielo ma una madre, una madre strappata dalla sua terra e cacciata nel deserto» (Parole di Luciano Berio in G. Carli Ballola, Ofanim, in Berio, a cura di E. Restagno, cit. p. 227). Anche nella recentissima Pietra di diaspro, opera-video di Adriano Guarnieri dove i testi dell’Apocalisse di Giovanni si uniscono alle poesie di Paul Celan, viene raffigurato uno scontro fra il potere, con la sua simbologia babilonese («Tenendo conto che Pietra di diaspro è un’opera contro il potere», scrive a tal fine Luigi Pestalozza), ed il suo superamento, tramite Gerusalemme, città ideale lucente di pietra bianca. Lo stesso compositore ha definito quest’opera «un’Apocalisse moderna» dove il disvelamento dal sacro rimanda ad un umanesimo, che non riesce a realizzarsi nel vivere contemporaneo, e dove lo sguardo verso le cose ultime porta ad una chiesa visionaria e non confessionale. «Non volevo un teatro che desse risposte né narrative, né esistenziali. Intendevo trarre dall’Apocalisse frammenti che rimandavano ad una dimensione spirituale e interiorizzata, tenendo presente il significato etimologico della parola, nel senso di rivelazione, non di distruzione e fine del mondo. C’è comunque un simbolo che ho ripreso esplicitamente, quello di Babilonia, “città forte… che hai abbeverato tutte le genti del vino, del furore… e della tua prostituzione”. Lì ho preso letteralmente il simbolo del potere, e così pure, all’opposto, la pietra di diaspro, la pietra di luce, la città luminosa dell’utopia, che non siamo riusciti a raggiungere, ma a cui tendiamo […]. Dunque un’idea di immagini e letteratura apocalittica antica, vicina ad immagini di letteratura contemporanea. Il passaggio fra i due mondi è netto, come fosse un tutt’uno. Celan è autore che nella sua letteratura ha una radice ebraica, non confessionale; ma che tratta in maniera ‘apocalittica’ il tormento del male, nella società d’oggi» (Parole di Adriano Guarnieri in P. Petazzi, “Io so: i fili luccicano”: introduzione a Pietra di diaspro; A. Guarnieri, Pietra di diaspro, Ravenna, Ravenna Festival, 2007, pp. 26 e 9). 29 Pestalozza ha ben definito quest’opera come una «fantastica e insieme realistica rappresentazione e comunicazione di idee, situazioni, concetti mordenti, politicamente inequivocabili, criticamente incisivi, demistificatori» (Parole di Luigi Pestalozza in A. Gentilucci, Guida all’ascolto della musica contemporanea, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 264). 30 «Il mescolare le più varie combinazioni e i contrastanti atteggiamenti stilistico-musicali vale però solo nella misura in cui il linguaggio malgrado tutto ‘univoco’, sempre di origine

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strutturata l’opera. La musica ‘soft’ degli interni ha una funzione di rievocazione e di evasione. Nel suo assumere gli stilemi jazz e imitando situazioni che sono entrate nella nostra coscienza da secoli, ha una connotazione negativa. Quando questi personaggi cantano uno dopo l’altro, intonando i versi ai quali è consegnato il loro credo, danno vita ad un singolare concertato dove ciascuno però intona i testi scambiati. In questo modo le loro parole si rivelano ideologicamente equipollenti, varianti del motivo di fondo che consiste nel riconoscimento del potere. Il dramma non consiste più nell’incrocio di situazioni drammatiche ma piuttosto nell’assenza di qualsiasi valore. La musica degli esterni, a cui va la solidarietà del compositore31, è invece quella dell’umanità che si confronta con il suo presente e che non cerca l’evasione, facendo finta di rifugiarsi da un pericolo da cui in realtà non può fuggire32. I sopravvissuti alla catastrofe, infatti, non hanno più sembianze umane e si muovono come degli automi: il loro inno ad una nuova immortalità, per quanto «Solenne e statico come Gregoriano», è lacerato da incursioni elettroniche sempre più prolungate. I suoi versetti non riescono

espressionista, anche se arricchito d’ogni possibile conquista sul piano della disponibilità materica, riesce ad operare fondamentali distorsioni dei segnali acustici esistenziali presi a prestito sì che la ‘stilizzazione’ determina all’interno del processo compositivo la ricostruzione e al tempo stesso la critica dell’alienazione imperialistica e capitalista» (Ivi, p. 265). 31 A tal fine, Massimo Mila ha invece espresso alcune perplessità e, nella sua recensione alla prima scaligera di Atomtod, ha scritto: «Qui invece la vocalità corale è nobile, ma un po’ accademica, e quella individuale si appoggia a Schoenberg o a Nono. La scena stessa, la regia così potentemente creativa di Virginio Puecher, non dimostra pietà per quei poveretti. Preferisce sospingere la loro disperazione verso i deliri del grottesco, secondo una certa vena segreta di satanismo alla Hyeronimus Bosch, che sonnecchia sotto tutta l’ammirevole realizzazione scenica. È vero che la sventura e il dolore rendono ridicoli. Ma chi ha davvero pietà degli sventurati, non sta a sottolinearlo. Né Dostoevskij né Tolstoj hanno mai cercato di far leva sul grottesco per scandagliare a fondo le miserie dell’uomo. Invece qui non c’è pietà. Al suo posto c’è la propaganda didascalica» (M. Mila, Mette in castigo i potenti, «L’Espresso», 18 aprile 1965, ora in Id. Mila alla Scala. Scritti 1955-1988, Milano, Rizzoli, 2001, p. 193). 32 «Finché non li uccide, la metafora è chiara, la logica di classe su cui si regge il potere nucleare, o dunque la logica che la musica di Atomtod incarna nel suo diversificarsi nelle musiche della società che le produce per annientarle, per vanificarne perfino il gusto, per ridurle a cose, a strumento di piacere, semmai, mai per usarle come mezzo di comunicazione, impedendogli anzi di servire per conoscere, imprigionandole nel bunker della vera morte e della falsa vita, negandogli la possibilità di progredire, di stare con gli uomini alternativi al disastro, con la classe antagonistica e uccisa, tanto che la musica che si salva con gli esponenti del potere, è il gregoriano, simulato nell’ultima pagina di Atomtod, emblema musicale della regressione non solo musicale, non solo conseguente alla morte atomica» (L. Pestalozza, Manzoni: il teatro come punto d’arrivo, in Per Giacomo Manzoni, a cura di C. Di Gennaro e L. Pestalozza, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2002, p. 295).

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ad approdare alla conclusione, interrotti dalle scariche del nastro magnetico che alla fine creano un rombare ininterrotto. Al termine della catastrofe nucleare anche l’innodia non funziona più e in quel canto interrotto e turbato dalla scariche sembra di veder crollare le cattedrali; si schiantano tutti i templi eretti dalla fede e si spezzano tutte le lapidi perché non ci sarà più nulla da ricordare33.

Questa, infatti, è una catastrofe definitiva nei cui confronti non è possibile alcuna reale forma di ripresa: dopo di essa non potrà esserci nessuna forma di vita.

Un’opera ultima Nella sua ultima opera, Andrej Tarkovskij dà vita a delle visioni apocalittiche dove, quale ulteriore motivo d’interesse per la nostra indagine, proprio la musica e i rumori assumono delle ben precise valenze34. Giovanni Morelli, in un suo magistrale saggio sulla dedica di Luigi Nono al regista35, ha parlato di Sacrificio (Offret, 1986) come di un’«esecuzione di tipo musicale»36 e, nel delineare le sue componenti, ha identificato alcune strutture di indagine temporale dello spazio che si realizzano nel corso dell’opera «come spar-

33

Parole di Enzo Restagno nella conferenza tenuta al Teatro Comunale di Treviso, in occasione della rappresentazione di Atomtod a Treviso avvenuta il 2 aprile 1981. Cogliamo l’occasione per ringraziare l’Archivio storico del Teatro, e in particolar modo l’avvocato Gianfranco Gagliardi e il dott. Alessandro Argentini, che ci ha dato la possibilità di ascoltare una registrazione di questa conferenza. 34 Si pensi al momento in cui la televisione annuncia un’imminente catastrofe nucleare e un boato fragoroso di aerei a reazione fa tremare la casa. 35 G. Morelli, Dedicato a una dedica “No hay caminos hay que caminar... Andrej Tarkowskij, in Con Luigi Nono. Festival Internazionale di Musica contemporanea, a cura di M. Messinis, Milano, Ricordi La Biennale, 1993, pp. 131-141. 36 Non a caso, questo cinema ha suggerito o ispirato molte opere musicali, al punto che molti compositori hanno espressamente dedicato a Tarkovskij alcuni momenti del loro catalogo, come Wolfgang Rihm, Beat Furrer, György Kurtág e, in particolar modo, Luigi Nono. Molte sono le affinità fra il cinema di Tarkovskij e la poetica di Nono. Basti pensare, quale testimonianza maggiormente evidente, alle sue ricerche sull’erraticità della risonanza. Nello specifico della partitura dedicata dal compositore veneziano a Tarkovskij, va poi sottolineata la singolare consonanza nella fisicità della produzione-ascolto del suono, qui realizzata in movimenti verticali-orizzontali e circolari. In questo caso, pertanto, non abbiamo a che fare con una semplice dedica (come può essere quella, pur sempre interessante, di Toru Takemitsu a Tarkovskij con il suo Nostalghia), ma piuttosto con una vera e propria ‘traduzione musicale’ della pellicola.

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gimento e raccolta di relazioni verticali/orizzontali in plurime funzioni»37. In Sacrificio, infatti, abbiamo: I rumori connessi al tema dei bombardieri invisibili e altri tuoni [orizz. per lo più da destra a sinistra], le improvvisazioni ai flauti giapponesi [orizz. da sinistra a destra], l’«ambientalità risonante globulare-vagante» dei canti e dei cries dei pastori di Häriedalen e di Gotland. Il silenzio più greve marca invece ciò che corrisponde ai movimenti di macchina verticali38.

In una celebre sequenza si percepiscono anche dei suoni «qui sont dejà sur l’autre versant de la vie»39. Sono dei canti svedesi, come informano i titoli di coda, che risuonano nell’aria riportandoci in una dimensione particolare, quella dell’infanzia, «in cui l’immortalità ci pareva essere il nostro tempo reale»40. È un fuori campo particolare, che si aggiunge a quello delle grida d’uccello, che l’immagine non rivela mai e di cui nessun personaggio parla. Al suono, in questo caso, è affidato il compito di manifestare una dimensione trascendente, uno spazio di natura metafisica. A queste strutture di indagine temporale, si uniscono poi molti movimenti circolari, a partire dalla citazione bachiana che troviamo ad inizio e conclusione del racconto. I titoli di testa, che illustrano il film, compaiono sul nucleo centrale dell’Adorazione dei Magi di Leonardo, rappresentato dal verbo donato al mondo e dal riconoscimento della sua regalità. La macchina da presa esplora la tavola leonardesca al termine delle didascalie, descrivendo l’albero retrostante la Vergine che indica l’epifania del Verbo. L’Aria per contralto Erbarme dich, mein Gott dalla Passione secondo Matteo inizia con una dolcissima introduzione, affidata al violino solo, mentre il testo si pone come un gesto di supplica da parte di Pietro dopo il suo rinnegamento di Cristo. Il lamento e le lacrime sono una richiesta di pietà e, allo stesso tempo, un atto di sottomissione che passa attraverso l’invocazione a Dio e il volontario disporsi da parte dell’uomo all’ascolto. Nella notte dell’apocalittico compleanno di Alexander, lo spettatore fisserà più volte assieme al protagonista la riproduzione di questa tavola e avrà l’occasione di osservare 37

Ivi, p. 133. Inoltre, «per quel che riguarda lo specifico della “musicalità” della sonorizzazione del film, nello scontro significativo dei movimenti attribuito ai rumori (graduati di intensità, a rappresentare passaggi avvenuti e passaggi solo annunciati) con i contromovimenti derivati dagli inserimenti dei flauti, dei primi non è smentita la “realtà”, mentre dei secondi è sottolineata la “funzione di riproduzione» (Ibidem). 39 M. Chion, L’au-delà de l’image, «Le Monde de la Musique», febbraio 1987, p. 9. 40 Id. L’audiovisione, Suono e immagine nel cinema, trad. it. di D. Buzzolan, Torino, Lindau, 1997, p. 107. 38

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soprattutto l’emiciclo dei convenuti ad assistere all’Epifania. Nell’incipit di Sacrificio questo non si vede ma si ascolta e si comprende dall’Aria bachiana che sintetizza e anticipa la conversione di Alexander, evento intorno al quale si basa lo svolgimento dell’opera. Proprio grazie a questa musica, Tarkovskij mette in risalto la disposizione interiore del fedele che, attraverso il lamento e il pianto, esprime il completo abbandono alla grazia divina. Apocalisse, in questo caso, non implica morte e distruzione, ma piuttosto la rivelazione dell’ordine del creato, della saggezza divina che informa il mondo41.

41

Non a caso il commento sonoro al sogno estatico dello Stalker comprendeva alcuni versetti dell’Apocalisse, letti da una voce over.

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Il sacrificio dello Stalker La fine del mondo nel cinema di Andrej Tarkovskij tra visione profetica e tormento poetico di Fabrizio Borin

Anche solo in termini strettamente cronologici, non ci sarebbe bisogno di aspettare che l’inquietante figura dello stalker arrivi, nel 1979 con il film omonimo, ad arricchire la galleria dei personaggi in crisi e minacciati da un mondo ostile rappresentati nel cinema tarkovskiano. Infatti, se si ripercorrono velocemente le tipologie espresse nei caratteri della filmografia del regista Tarkovskij (1932-1986), si possono con tutta evidenza verificare alcune fulgide “apocalittiche” anticipazioni. Già il ragazzo protagonista tratteggiato ne L’infanzia di Ivan (Ivanovo detstvo, 1962) e definito allora da Jean-Paul Sartre ad un tempo «mostro» e «martire» della Seconda Guerra Mondiale, troverà sì la morte nel finale, una morte peraltro non raccontata, visualizzata ex post solo nei suoi effetti in un’istantanea fotografica, ma si tratta comunque di un prezzo da pagare – se si vuole si può parlare fin d’ora di individuale e volontario sacrificio – un tributo di coscienza alla crisi di un mondo malato reso, forse, a malapena sopportabile dai noti quattro sogni di Ivan disseminati all’interno della pellicola. Il ritratto di questo dodicenne è quello della paura che Tarkovskij intende trasferire allo spettatore rispetto alla crudele esperienza del dolore inferto all’innocenza, dell’irreparabile tragica sofferenza provocata all’infanzia, dell’assurdità della logica della guerra. Ma anche dell’innaturale costrizione psicologica, della tortura morale cui è sottoposto, in quelle condizioni, l’Uomo-bambino; dello sconvolgente scenario di miseria, desolazione e lutto che la cieca e violenta sopraffazione lascia sul campo dei ricordi, dopo1. 1

Fredda e determinata staffetta che si muove velocemente tra le linee nemiche, il cui odio per l’invasore nazista, che gli ha ucciso l’amatissima madre e forse anche la sorellina, lo porta a collaborare con i soldati dell’Armata Rossa impegnati nella «grande guerra patriottica», il giovane Ivan è un alieno rispetto alla sua età che vede e vive la morte: appunto, un mostro; è però anche martire perché la sua infanzia è stata appunto brutalizzata, sacrificata, martirizzata,

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FABRIZIO BORIN

E le radici di questo tremendo dopo, di questi incubi, sogni, allucinazioni, stanno tutte nelle poche parole dedicate da Ingmar Bergman ad Andrej Tarkovskij, scritte prima che il regista russo gli rendesse in qualche modo omaggio andando a girare il suo testamentale Sacrificio (Offret/Sacrificatio, 1986) nell’isola di Farö, eremo terminale anche dell’autore svedese. Afferma Bergman: Quando il film non è un documento è un sogno. Per questo Tarkovskij è il più grande di tutti. Lui si muove con assoluta sicurezza nello spazio dei sogni, lui non spiega e, del resto, cosa dovrebbe spiegare2?

La grande apertura bergmaniana si arricchisce tuttavia di uno spessore generazionale ed etico incomparabile giacché l’orizzonte onirico, incubico, labirintico di Tarkovskij non è meramente immaginativo – come potremmo invece dire a proposito dell’universo visionario del cinema della Memoria e della Crisi reinventato da Federico Fellini – e non è soltanto introspettivamente autoterapeutico perché, caricandosi di una riflessione macerata e sofferta sulle radicali ragioni della Vita dell’Uomo e sulla funzione disinteressata dell’Arte quale strumento della sua elevazione spirituale, ecco che quell’orizzonte tarkovskiano si impone realmente con maggiore ampiezza: con il linguaggio del sogno cinematografico il regista è in grado di architettare e raccontare forme poetiche di inedite profezie, di reinventare mondi e abissi dell’anima da fine del mondo. Si tornerà, in conclusione di queste brevi note, sul punto e tuttavia, se la Macchina-Cinema è «la morte al lavoro», quell’Armageddon che con Stanley Kubrick assume i contorni grotteschi e derisori della tragedia nucleare per il tramite dell’ordigno «fine-di-mondo» (penso naturalmente al satirico Dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Dr. Strangelove, or How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, 1963) con Tarkovskij – anche con Tarkovskij – la fine del

cancellata dall’aggressione brutale del conflitto bellico. Difendendo il film – Leone d’oro alla Mostra di Venezia ’62 – contro parte della critica italiana di sinistra che parlava, ad esempio, di «soluzioni formalistiche», il filosofo francese ricorda: «Non si tratta né di espressionismo né di simbolismo ma di un modo di raccontare che l’argomento stesso esige, e che il giovane poeta Voznesenski chiamava “surrealismo socialista”. […] Gli incubi, le allucinazioni non hanno nulla di gratuito. Non si tratta di un pezzo di bravura e neppure di un sondaggio praticato nella “soggettività” del bambino. Essi restano perfettamente oggettivi, si continua a vedere Ivan dall’esterno come nelle scene “realistiche”, la verità è che il mondo intero per questo bambino è una allucinazione e che lo stesso bambino, mostro e martire, è in questo universo un’allucinazione per gli altri». (J.-P., Sartre, Andrej Tarkovskij, «Études Cinématographiques», 135-138, novembre 1983, pp. 5 e 13). 2 I. Bergman, Lanterna magica, Milano, Garzanti, 1987, p. 71.

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mondo è un futuro già previsto, visualmente in atto, e da molto tempo: per il regista infatti l’Apocalisse è struggente visione («l’Apocalisse è immagine» osserva il poeta Luzi introducendo le parole del regista sul tema)3. Si diceva, la guerra per L’infanzia di Ivan. Un evento traumatico, rovinoso, che il giovane personaggio, appunto, rende magistralmente in una anticipazione di disperazione e di realismo onirico che apre la strada agli altri apocalittici antieroi tarkovskiani. Tutti apparenti losers, inesorabilmente perdenti perché individualità deboli schiacciate dalla Storia, dalla Ragione e dal Progresso scientifico, in realtà – nell’autorevole ribaltamento operato da Tarkovskij – indomiti e forti araldi della Poesia e dell’Irragionevole; in definitiva inquieti combattenti per la strenua difesa dell’Utopia, forse della piena “rivelazione” del sincero sentire dell’animo dell’uomo anche a costo di estremi sacrifici. Con il cinema, grande arte poetica del sentimento, a fornirne il sostegno. Questo è. Meglio, questo potrebbe dunque essere. Se però non fosse tardi, se ormai, come esplicita un tormentatissimo Tarkovskij soprattutto in Stalker e più compiutamente in Sacrificio – ma, e lo si è ricordato poco sopra, questo vale dagli inizi del suo cinema, a conferma del fatto che fin dagli esordi l’autore possiede una poetica matura insieme ad uno stile apocalittico inimitabile – dunque, si diceva, per Tarkovskij si potrebbe affrontare la Fine del Mondo se davvero non fosse profeticamente troppo tardi per modificare il percorso verso la Distruzione e il Caos che la Civiltà Contemporanea ha imboccato quando ha pervicacemente, ciecamente e ottusamente preferito lo sviluppo materiale dell’individuo a danno della sua evoluzione spirituale. Prima però di arrivare ai due “folli” apocalittici dell’autobiografico cinema dell’ultimo Tarkovskij, cioè alla sofferente e disperata guida di Stalker e allo “smanioso” Alexander di Sacrificio, seppur molto schematicamente, occorre continuare a far cenno alle precedenti “vittime” volontarie. Come il monaco pittore di icone Rublëv (Andrej Rublëv, 1966-1969) che fa voto di silenzio e di rifiuto del proprio divino talento perché sente e vede intorno a sé il terrore degli uomini e negli uomini e non vuole infliggere ulteriori terribili visioni all’umanità. Come per lo psicologo Kris Kelvin di Solaris (Soljaris, 1972), nella cui esperienza assai poco fantascientifica in senso tradizionale e assai più imago di un viaggio interiore dell’uomo dopo la vertigine della prova materializzata del pensiero che teme e ad un tempo “desidera” una qualche modalità di fine del mondo4. Solo in Stalker, lo si vedrà, il film-cervello si 3 M. Luzi, Introduzione, in A. Tarkovskij, L’Apocalisse, trad. it. di A. A. Tarkovskij, intr. di M. Luzi, saggi di T. Špidlìk, G. Ibba, con una nota di A. Ulivi, Firenze, Edizioni della Meridiana, 2005, p. 5. 4 È appena il caso qui di segnalare che i fenomeni di duplicazione si qualificano in termini

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trasformerà pienamente in film-inconscio (la mai varcata soglia della stanza dei veri desideri). Come per l’intera, enigmatica preghiera sulla quale si erige la spina dorsale de Lo specchio (Zerkalo, 1974), ambiguo ritratto dell’entourage dell’artista Tarkovskij in crisi di incombente interpellazione al Tempo e ai labirinti della Memoria. È infatti con questo film, doloroso e instabile come l’inconoscibile “Zona” – forse una prova apocalittica da superare – in arrivo con la pellicola successiva, che il regista regola, portandola ad una esecuzione perfetta, la sua personalissima cifra di autore per il cinema. È difatti con l’impreciso congegno de Lo specchio che prendono definitiva identità le qualità squisitamente filmiche della sua ri-costruzione dei due magnifici metaforici day before, due apparenti antinomie con le quali Tarkovskij individua e affida al cinema spirituale e di poesia contemporaneo l’Immagine del dopo, prima che questo si produca. Intendo riferirmi all’etica del linguaggio cinematografico – le teorie sul concetto di “figura”, la religione tenacemente anti-ejzen�tejniana del tempo ininterrotto e del piano-sequenza avverso il cinema di montaggio –, ma anche dell’estetica simbolica dei mondi della Natura, non opposti ma soprastanti quelli della Cultura) nei suoi quattro elementi, con enormemente grande e appassionato ricorso sia all’acqua e alle sue varianti che all’aria: il vento nel suo cinema non di rado è connesso al caro motivo cine-fideistico del volo o della levitazione. Indispensabili tutti e due a disegnare, con i movimenti della cinepresa gli incroci dei movimenti del personaggio nel film, ma anche il simbolo della croce tra vita terrena e aspirazione a punti di vista più elevati, come emblematicamente è dato in Sacrificio5. di variazione che a partire dal Golem passando per Frankenstein e Metropolis (1927, Fritz Lang) e, per l’appunto, per la pietra miliare di Solaris, si trasferisce senza soluzione di continuità nel postmoderno Blade Runner (1982, Ridley Scott) dai cui replicanti si scivola nei più diversi androidi, cloni, robot, macchine elettroniche dello schermo e dell’ingegneria genetica contemporanea e fanta-futuribile. 5 Il pretesto forte del tema base del film, la causa scatenante il sacrificio – l’apparizione dello spettro apocalittico, della “bestia” nucleare – sono rappresentati da Tarkovskij in maniera estremamente sintetica, ad un tempo esemplare ed ambigua. Mentre la cameriera Maria attraversa, da destra a sinistra, in campo lungo lo spazio antistante il piccolo boschetto e la casa, un tintinnìo di bicchieri introduce asincronicamente lo stacco della casa dove l’altra cameriera, Julia, sta pulendo un bicchiere che poggia insieme agli altri sul vassoio che vibra inducendo alla paura, non prima però di avere timorosamente guardato a lungo verso l’alto. Forti rumori sibilanti e persistenti di aerei supersonici a bassa quota sopra la casa, le stoviglie della credenza scosse sugli scaffali, stacco sul dottore, in piedi al centro della stanza. E proprio sull’idea di movimenti perpendicolari e paralleli alla linea immaginaria obiettivo della cinepresa-punto della camera (dell’inquadratura) si esprime la possibile guerra nucleare. Quasi a volerla scongiurare, la m.d.p. traccia una croce seguendo in panoramica

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Analogamente a quanto accade al poeta Gorčakov di Nostalghia (1983) che, in Italia sulle tracce del musicista-esule Pavel Sosnovskij vissuto nel Settecento e morto suicida al suo ritorno in patria, vivendo la com-passione del “matto” Domenico6 e del suo gesto prima estremo e dopo inutile – per Tarkovskij, entrambi azioni e atteggiamenti esaltanti la fede nel divino presente nell’uomo – assume su di sé il tormento di Domenico e così facendo vince, ma forse è preferibile dire non perde. Il russo non perde la dignità cercando di attraversare in un estenuante, interminabile, bellissimo piano-sequenza la piscina di Santa Caterina a Bagno Vignoni con un mozzicone di candela accesa, come l’italiano non la perde quando pedala su una bicicletta ferma oppure perché vive in una casa fatiscente, cadente e decadente come la Ragione della Società della Scienza del Ventesimo secolo in cui piove mentre splende il sole e dove le leggi normali del dentro e del fuori della coscienza non valgono più, tanto che 1+1 è uguale a 1; oppure ancora non la perde quando è maturo il “tempo di tirare le pietre” con le accuse, lanciate come sassi sul perbenismo dell’ottusa, sazia normalità razional-borghese, a Roma, dall’alto della statua dell’imperatore filosofo Marco Aurelio al Campidoglio. Per immenso amore, lo stesso Domenico non perde la paura per la fine del mondo presagita al punto da tenere segregata in casa la sua famiglia: significativamente, per la coerenza tarkovskiana della continuità della rappresentazione attraverso le Macerie dell’Anima, della Catastrofe, si noti che il personaggio di Domenico viene dal regista affidato allo stesso attore bergmaniano Erland Josephson, poi l’Alexander di Sacrificio, alta sintesi dei caratteri di tutti gli altri personaggi, compreso il contadino Efim del prologo di Andrej Rublëv che osa l’impossibile: volare per realizzare l’arte sacrificando “soltanto” la propria vita. Si osservi che la prematura “sepoltura” dei suoi cari da parte di Domenico è esercitata per amore non a contrasto dell’esito catastrofico, non inteso quale minaccia il dottore che si dirige fuori della casa e Marta e Julia che attraversano orizzontalmente e alternatamente l’inquadratura per preparare lo zoom veloce sulla credenza dove spicca un vaso di vetro trasparente pieno di latte che, quando è quasi in primo piano, cade infrangendosi sul parquet. 6 La follia, il disagio mentale non sono disgiungibili in Tarkovskij dal tema della malattia, dell’infelicità, dell’orfanità, come testimoniano i molti caratteri e personaggi, anche minori, di un’intera filmografia interessata ad operare il consueto ma sempre scandaloso radicale ribaltamento: se la società che si autodefinisce sana ha imboccato presuntuosamente la via della propria autodistruzione – annullando la Poesia in nome della Scienza («usiamo il microscopio come fosse un manganello» lamenta Alexander nell’incipit “shakespeariano” di Sacrificio – e dunque è fatalmente malata senza speranza e alla radice, allora il malato tarkovskiano, latamente inteso, sarà portatore di ricchezza e di manifestazioni di diversità assolutamente salutari, positive.

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FABRIZIO BORIN

bensì come accadimento mentale ormai verificatosi, oppure perennemente in atto o, se si vuole, un esito continuamente preconizzabile, palpabile, vicino eppure sempre distante, lontano. In questa prospettiva allora, Gorčakov-Domenico, figura sovrapponibile oppure mutuabile come nell’inquadratura dello specchio in Nostalghia, è una sorta di “guida” che ha bisogno di uno stalker per sentire e condividere la sofferenza di un suo simile e farsi trovare pronto quando davvero emergerà alla verità e alla coscienza dei due ultimi personaggi tarkovskiani da considerare, la fine del mondo. Il titolo che s’è dato a queste poche pagine, Il sacrificio dello Stalker, riafferma l’esistenza di un “filo apocalittico” che unisce indissolubilmente le vicende autobiografico-apocalittiche del regista Tarkovskij, quelle dello sconfortato e però mai domo stalker e quelle del “folle per rinuncia” Alexander. In definitiva, per riassumere quanto detto e con Bergman aprire, se si potesse impropriamente immaginare, l’ultimo “sigillo” tarkovskiano, è con la sequenza ideale Ivan-Rublëv-Kelvin-(Tarkovskij-allo-specchio)-stalker-Domenico/Gorčakov-Alexander che, nel momento in cui si sottolineano le non perdite precedenti, si esplicano le tre fasi del cinema del regista, quelle che altrove ho avuto modo di indicare come «gli esordi tecnico-sperimentali ed epici» (Il rullo compressore e il violino/Katok i skripka, 1960, L’infanzia di Ivan e Andrej Rublëv: 1962, 1966-1969), la «fase mediana o della memoria» (19721974: Solaris e Lo specchio), la conclusiva e «straziante trilogia della catastrofe» (evidentemente Stalker, Nostalghia, Sacrificio)7. Il sacrificio dello stalker pertanto intende sottolineare, per un verso, che già questi fa offerta di sé prima dell’intenzionalmente indefinito pericolo (nucleare) da estinzione del mondo proposto in Sacrificio e, per altro verso, che la vocazione, la missione, il destino che tocca ai registi dell’animo – qui penso sia al personaggio dello stalker sia ad Andrej Tarkovskij stesso – è sacrificatio alla quale non è possibile sottrarsi, un fato scritto per toccare i cuori di pietra aridi e venali degli uomini, come noto, nel film, simbolicamente espressi dal Professore (la Tecnica, ancora e sempre l’odiata Scienza) e dallo Scrittore (la Poesia, l’Arte, la Cultura). Dato però che, a dispetto dello scacco che attende ed afferra quasi mortalmente alla gola lo stalker al ritorno dalla Zona, a giudizio di chi scrive, ogni volta lui continuerà a portarci intellettuali, non nella speranza che non ci sia la fine del mondo o che le cose possano tornare come erano prima della toccante 7

F. Borin, L’arte allo specchio. Il cinema di Andrej Tarkovskij, Roma, Jouvence, 2004, p. 18.

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IL

SACRIFICIO DELLO

STALKER

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preghiera di Alexander, ma che l’apocalisse interiore dell’uomo tarkovskiano – al pari dell’offerta leonardesca dell’Adorazione dei Magi che appare sui titoli di testa di Sacrificio – possa raggiungere e nutrire alla radice la coscienza dell’individuo; non più una coscienza collettiva, sociale, di gruppo, ma singola, individuale, personale, intima. Per liberarsi da «quell’insopportabile, disumano terrore» che attanaglia il protagonista, Tarkovskij non esita a fornire il rovescio della medaglia alla preghiera di Alexander e lo fa con l’episodio della strega Maria presso la quale si reca nella notte dell’apocalisse sacrificale. Sospesi ed insieme indecisi tra lo scampato Pericolo Apocalittico, incerti nel confessare la salvezza di Alexander e della sua famiglia grazie alla fede religiosa piuttosto che per l’azione indecifrabile della “strega” Maria che dona allo stesso Alexander l’amore buono della fede nell’uomo, quello che importa al regista è operare un profondo cambiamento di prospettiva. Malgrado il pessimismo generalizzato e l’intolleranza di Tarkovskij verso l’ipocrita e sterile convincimento che, se servisse, la società potrà ancora fare qualcosa per cambiare direzione – se qualcuno mai dovesse pensare di cominciare a fare qualcosa invece di parlare soltanto –, per ristabilire quell’equilibrio frantumato tra il dominio dello Spirito e quello del Benessere Consumistico massificato; allora, malgrado questo, Tarkovskij-Alexander sposta il piano del pessimismo totale, che vede intorno a sé solo malinconiche esistenze spezzate, verso la posizione altamente morale della responsabilità e dell’atto individuale, della negazione concreta e visibile dell’egocentrismo e dell’imbarbarimento tecnologico delle coscienze, anche e soprattutto se questo atto personale è portatore dello scandalo (artistico): e il cinema tarkovskiano indubbiamente lo è. Facendo dire al personaggio che il «peccato è tutto ciò che non è necessario» l’autore pretende da se stesso e dal pubblico una partecipazione ancora più serrata, estrema: le cicatrici dei personaggi antecedenti testimoniano che Arte, Scienza e Poesia non sono servite, non servono a niente e soprattutto che le ferite aperte dello stalker, ammirevoli ma inefficaci, non si rimargineranno mai giacché la presunzione di salvare tutti porta solo al fallimento perché gli uomini, distratti dalle forme moderne e mediatiche del Caos, si accontenteranno dell’esistente minacciato e non avranno il coraggio di guardarsi dentro alla ricerca della Verità. Allora si deve rompere ogni indugio e non pretendere più di aiutare tutti, ma solo l’abnegazione potrà essere utile. Con Sacrificio il cineasta passa dalla “follia” della clausura di meditazione per la conservazione di una morale anche artistica – «il cinema per me non è una professione, è una morale che rispetto per rispettarmi» amava ripetere Tarkovskij – al provocatorio gesto “folle” della dedizione. L’incendio finale della propria casa, da iscrivere nel registro della Rinuncia più piena

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FABRIZIO BORIN

(all’amatissimo piccolo Ometto, alla moglie, agli affetti più cari e ad ogni cosa terrena) è la purificazione di Alexander che cancella il crollo di ogni appiglio umano al Mistero, il negativo vanificato dalla fiducia ottimistica dei secchi d’acqua che il “muto” Ometto porta sotto l’albero secco. Una fiducia che, paradossalmente – se solo si pensa all’importanza del tempo nel cinema di Tarkovskij – prescinde dalla componente temporale nel senso che non ci viene dato di sapere quando l’albero secco comincerà a fiorire, come aveva raccontato Alexander8. In una conferenza dedicata al tema dell’Apocalisse tenuta a Londra nel 1984, vale a dire nel periodo subito dopo Nostalghia e la gestazione di Sacrificio, Tarkovskij così si esprime: Viviamo in un tempo molto duro, e la sua durezza accresce di anno in anno. Tuttavia, conoscendo la storia, possiamo ricordare i periodi in cui spesso è stata avvertita l’imminenza dell’evento apocalittico. Certamente è detto: «Beato chi legge e quelli che ascoltano le parole della profezia e fanno tesoro di quanto in esse sta scritto; perché il tempo è vicino» (Ap. I, 3). Ciò nonostante, e malgrado questo, la relatività del tempo è così evidente che non possiamo determinare con precisione il momento e la necessità dell’insorgere di quanto scrive Giovanni. Può accadere domani, ma può accadere tra mille anni. Proprio in questo consiste il significato della condizione spirituale dell’uomo: percepire la responsabilità di fronte alla propria vita. È impossibile immaginarsi che la Rivelazione sia sorta proprio quando il nostro tempo stava giungendo al termine. Di conseguenza, è inverosimile trarre delle conclusioni dal testo dell’Apocalisse riguardo al tempo in quanto tale9.

Se uno dei maggiori autori del cinema contemporaneo, che ha fatto dell’etica del tempo narrativo, onirico e cinematografico una colonna portante della sua arte, si “arrende” ben volentieri all’evidenza per la quale il 8

Il vecchio monaco ortodosso Pamve, dopo aver piantato un albero secco sul pendio di una montagna lontana dal convento, dà incarico al suo novizio Ioann Kolow di andare ogni giorno ad innaffiare l’albero finché questo non fosse diventato verde. E il giovane infatti, per tre anni, ogni mattina, prende un secchio d’acqua si arrampica su per il monte e innaffia l’albero finché un bel giorno lo trova coperto di gemme fiorite. L’importanza del gesto, di qualsiasi atto necessario ed essenziale e soprattutto l’importanza della fede nel credere sono qui prolungate, nella riflessione di Tarkovskij, in relazione alla lunga attesa dell’Atto decisivo e sulla forza dirompente che la volontà di reiterazione per il raggiungimento di uno scopo disinteressato, può senza dubbio produrre: «A volte – conclude Alexander – io mi dico che se ogni giorno, esattamente alla stessa ora uno compisse la stessa azione, come un rituale, nello stesso identico modo, sistematicamente, ogni giorno alla stessa identica ora… il mondo cambierebbe. Sì, qualcosa cambierebbe, senz’altro cambierebbe». 9 A. Tarkovskij, L’Apocalisse, cit. p. 18.

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IL

SACRIFICIO DELLO

STALKER

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tempo apocalittico non consente di tirare una qualsivoglia conclusione, e se la dimensione del tempo costruito tarkovskiano si avvicina talmente al tempo reale sì che quello, sublime e riprodotto, è esposto ad essere confuso con la realtà (del film, s’intende), la convenzionalità di questo tempo filmico è qualcosa che mentre permette al regista di entrare in sintonia con il tempo dei grandi temi a lui cari e con quello non meno decisivo del pubblico, è anche un universo di spazio-tempo in grado di svincolarsi vertiginosamente da una inesistente coerenza d’ordine espressivo secondo la quale il “prima” viene prima del “dopo”, ecco che allora le lunghe schegge di cinema che Tarkovskij ri-crea precisamente ricreando i suoi mondi dell’anima, sono brani di quel tempo dell’incubo e del disastro in accostamento all’incertezza della manifestazione della fine. Una fine che i suoi personaggi – in specie, lo si ricorda ancora una volta, lo stalker e Alexander – hanno contraddittoriamente esaltate dentro di loro. Infatti, sentendosi pronti, vivono altruisticamente la loro predestinata crisi di assenza di sintonia con la società, giorno per giorno10, assistendo contemporaneamente al marcire dell’istanza abnegativa ma pure alla progressiva messa a fuoco di un baratro terminale: non hanno altra scelta se non quella di imporre la loro servitù morale al pari del poetaservo puškiniano, di mettersi a disposizione. Di tutti. Se si vuole allora, la lezione poetica e profetica degli inermi ed irrefrenabili santi laici tarkovskiani è sempre moralmente valida, ben riconoscibile e presente, libera dall’incerto tempo del mondo ma anche dentro quello della sua indefinibile fine.

10 Per verificare questo, come anche per toccare con mano la prigione stalkeriana che è stata la continua dissolvenza incrociata che investe il regista nella consumazione – tra lo zen ed i cascami del realismo socialista sovietico – delle oscillazioni dello smanioso pendolo della sua sofferta vita privata sempre indivisibilmente integrata con quella artistico-progettuale, cfr. A. A. Tarkovskij (a cura di), Diari. Martirologio 1970-1986, Firenze, Edizioni della Meridiana, 2002.

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PARTE QUARTA Pensiero filosofico-letterario, pensiero globale-digitale, pensiero poetico

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Emil Cioran: la catastrofe necessaria di Fabio Rodda

Mi scomoderei, al limite, per l’Apocalisse, ma per una rivoluzione… Collaborare a una fine o a una genesi, o a una calamità ultima o iniziale, sì; ma non a un cambiamento verso un meglio o un peggio qualsiasi. Ho cercato la salvezza nell’utopia, e ho trovato un po’ di consolazione soltanto nell’Apocalisse. Emil Cioran

Premessa «Desidero infinitamente estasi luminose, eppure allo stesso tempo non ne vorrei, perché ad esse fanno inevitabilmente seguito le depressioni. Vorrei invece che un bagno di luce scaturisse da me e trasfigurasse il mondo intero, un bagno che, lungi dalla tensione dell’estasi, conservasse la calma di un’eternità luminosa. Avrebbe la leggerezza della grazia e il calore di un sorriso. Vorrei che il mondo intero galleggiasse in questo sogno di luce, in questo incantesimo di trasparenza e di immaterialità; che non vi fossero più ostacoli, materia, forme o confini. E in questa visione, vorrei morire di luce»1. A ventidue anni, in un piccolo paese della Transilvania, Emil Cioran scriveva il suo primo libro anticipando le riflessioni di tutta la futura opera. La sua filosofia nasceva da un bisogno fisico, dal dolore devastante causato dall’insonnia, da quella mancata interruzione nel flusso della vita che paralizza gli istanti lasciando intuire ciò che rimane al di là dell’esistente, del logico, del comprensibile. Cioran è il filosofo delle domande ultime, dell’assurdo concettuale, del nichilismo portato alle estreme conseguenze. Non possiamo domandare alle E. M. Cioran, Pe culmile disperării, Bucarest, Fundaţia pentru literatură şi artă “Regele Carol II”, 1934, trad. it. di F. Del Fabbro, C. Fantecchi, Al culmine della disperazione, Milano, Adelphi, 1998, p. 32. 1

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FABIO RODDA

sue opere un sistema, una risposta ma solo nuove e ossessive domande scaturite dal corpo, dal dolore, esperienza fondamentale del genere umano. La sua filosofia è, come diceva egli stesso, urlata, travolgente ed in perenne stentato equilibrio tra disperazione ed ironia. La sua è una filosofia della vita, del corpo e della mente come unico motivo, oggetto d’indagine e soggetto dell’indagine stessa. Uno specchio in cui l’uomo si osserva tra la propria caducità e l’essenza divina di cui coglie le tracce. L’uomo di Cioran è un viaggiatore che vede di fronte a sé il mare di nebbia della vita e ci si butta cosciente di non poter fare altro; maledicendo la propria necessità, agognando il paradiso perduto di quiete ed indiviso da cui un funesto demiurgo, un feroce creatore, lo ha voluto allontanare. Nelle opere di Cioran, necessariamente più incline al genio artistico e discontinuo che alla trattazione, non troviamo rigore logico, deduzioni che possano giustificare; semmai incontriamo il dubbio assoluto, il parossismo della solitudine, l’estremo di ogni condizione intellettuale perché forse è proprio lì, tra le pieghe del tempo, negli attimi eterni, nelle continue cadute e fallimenti che possiamo incontrare Dio, noi stessi, la storia, il mondo. E qui, sospesi sopra l’abisso delle nostre paure più ancestrali, dei nostri drammi esistenziali, possiamo cercare di smantellare il castello delle illusioni per fare un po’ di spazio alle verità, o alla loro feroce assenza.

Modernità, Storia e Utopia Che cosa sono, secondo Cioran, la modernità, la storia, l’apocalisse? Possiamo parlare di concetti temporali? Di fenomeni sociali? La risposta non è semplice. Nell’opera di Cioran tutti questi termini assumono significato a partire dall’esperienza della lucidità, dalla malattia che porta l’uomo ad allontanarsi dal proprio canone di vita per incontrare l’assoluto. Divengono metafore atemporali che spiegano un evento privato come un dramma assoluto; archetipi che ritornano sempre perché fanno parte di quelle “cose” umane che mai potranno cessare di determinare l’esistenza, che riemergono al di là del tempo perché rientrano nell’ontologico, nel fondamento invisibile ai più. Cercherò di fare un minimo di chiarezza. Con modernità non possiamo intendere né un periodo storico vero e proprio, né un cambiamento radicale rispetto ad un passato determinato. La modernità in Cioran è solamente, come per il Leopardi del Frammento sul suicidio, una drammatica scoperta: il vero uccide la vita, che solo l’oblio rende possibile.

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EMIL CIORAN:

LA CATASTROFE NECESSARIA

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Il moderno si distacca dal classico come frattura tragica di conoscenza: nell’epoca dell’oro l’uomo viveva la propria condizione naturale accettando la casualità della propria presenza e l’insensatezza del proprio destino seduto all’ombra dell’Albero della Vita. Poi l’orgoglio prometeico della specie umana, razza che scoppia d’ideale, allontanò l’uomo dalla vita indirizzandolo lungo il sentiero dannato della conoscenza. Nell’epoca moderna, o età del ferro, l’uomo vive il dramma assoluto della propria deradicalizzazione totale: lontano dall’ingenuità primordiale, perduta la fede cieca, abbandonato l’Albero della Vita per il conoscere, l’essere umano oggi non può che avvertirne la mancanza, il distacco. Non può che esprimersi in negativo perché non può che parlare di assenza, di ciò che ha perduto, dell’Eden abbandonato per arrivare a scoprire che non c’è nessun tèlos, nessun senso, nessun Dio che non sia un demiurgo cattivo contro cui scontrarsi ma ormai lontano, distaccato dal mondo, malefica creazione come frantumazione dell’assoluto indistinto in cui le coscienze non si separano e non si ribellano alla propria natura. Ma, allora, viene da chiedersi che cosa sia effettivamente la storia. Cioran espone il suo punto di vista in Storia e utopia: «che la storia si svolga e niente più, indipendentemente da una direzione determinata, da uno scopo, nessuno vuole riconoscerlo»2. «La storia non è forse, in ultima istanza, il risultato della nostra paura della noia, di quella paura che ci farà sempre prediligere il piccante e la novità del disastro, e preferire qualsiasi disgrazia al ristagno?»3. La fede nella storia, quindi, non è che un’altra falsificazione, un tentativo di trarre conoscenza dalla semplice osservazione dei fatti che accadono. E ancora più falsa è la pretesa che essa si erga a tribunale, a giudicante morale perché non vi è nessun tèlos, nessun approdo secondo i cui dettami si possa stabilire un’etica: «Il divenire esclude un compimento assoluto, un fine. L’avventura temporale si svolge senza una mira esterna ad essa, e finirà quando le sue possibilità di avanzare saranno esaurite. Il grado di coscienza varia con le epoche, senza che tale coscienza si accresca in virtù della loro successione. Noi non siamo più coscienti di quanto lo fossero il mondo greco-romano, il Rinascimento o il XVIII scolo; ogni epoca è perfetta in se stessa e peritura»4.

2

E. M. Cioran, Histoire et utopie, Paris, Gallimard, 1960, trad. it. di M. A. Rigoni, Storia e utopia, Milano, Adelphi, 1982, p. 113. 3 Ivi, p. 134. 4 Id. Écartèlement, Paris, Gallimard, 1979, trad. it. di M. A. Rigoni, Squartamento, Milano, Adelphi, 1981, p. 55.

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FABIO RODDA

La Vita si muove lontano dalla storia, razionalizzazione del tempo. «Squilibrio ininterrotto, essere che non cessa di frantumarsi, il tempo è propriamente un dramma di cui la storia rappresenta l’episodio più rilevante. Che cos’è, in fondo, la storia, se non uno squilibrio anch’essa, una rapida, violenta frantumazione del tempo stesso, un impeto verso un divenire in cui nulla più diviene?»5. Nella storia si manifesta la Volontà come negazione dell’inazione. La storia è storia del “fare”, ovvero, dell’errare poiché ogni volta che l’uomo si allontana dalla non-azione, dalla passiva esistenza come essere creato, diviene creatore e quindi responsabile egli stesso del male che sta nella creazione. Diviene aiutante malefico di quel cattivo demiurgo che ha frantumato l’unità incosciente per creare un regno di dolore e mancanza, in cui l’unica certezza è la fine e l’unico desiderio l’eternità nel ricongiungimento con lo sconosciuto di cui si soffre la mancanza. «L’uomo fa la storia, la storia, a sua volta, lo disfa. Egli ne è l’autore e l’oggetto, l’agente e la vittima. Ha creduto fino ad ora di dominarla, adesso sa che gli sfugge, che si sviluppa nell’insolubile e nell’intollerabile: un’epopea insensata, il cui esito non implica nessuna idea di finalità. Come assegnarle uno scopo? Se ne avesse uno, lo raggiungerebbe soltanto quando fosse giunta al termine. Ne trarrebbero vantaggio solo gli ultimi discendenti, i superstiti, i resti, essi soli sarebbero appagati, approfittando del numero incalcolabile di sforzi e di tormenti che avrà conosciuto il passato. Visione davvero troppo grottesca e ingiusta. Se si vuole ad ogni costo che la storia abbia un senso, lo si cerchi nella maledizione che pesa su di essa, e da nessun’altra parte»6. La storia come processo, come dato non solo osservabile ma investito di valore morale e di speranza teleologica è, quindi, una delle tante menzogne della fede. Ma oltre alla storia che, abbiamo visto, è storia del fare, l’uomo, per sopportare il male insito nella creazione, ne ha inventato la negazione illusoria: l’utopia. Essa pare la risposta affannata all’improvvisa presa di coscienza sulla storia, alla menzogna della promessa di un tribunale morale possibile. E allora, in preda al panico ed allo sconforto, l’uomo inventa utopie, «un miscuglio di razionalismo puerile e di angelismo secolarizzato»7. Allontanandosi ancora una volta dalla propria carne, dal proprio sangue, dalla Vita che si ostina a pulsare nelle vene rinsecchite di un’umanità 5 Id. Précis de décomposition, Paris, Gallimard, 1949, trad. it. di M. A. Rigoni, T. Turolla, Sommario di decomposizione, Milano, Adelphi, 1996, p. 74. 6 Id. Squartamento, cit. pp. 58-59. 7 Id. Storia e utopia, cit. p. 109.

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EMIL CIORAN:

LA CATASTROFE NECESSARIA

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affranta da se stessa, l’uomo vede la propria miseria e inventa l’utopia. «La miseria è effettivamente il grande ausilio dell’utopista, la materia su cui lavora, la sostanza di cui nutre i suoi pensieri, la provvidenza delle sue ossessioni»8. Scordando la saggezza del cercare nel presente la propria via, l’uomo, accecato dal bagliore della conoscenza e dalla propria natura arrogante, preferisce immaginare la felicità affidandosi ad ogni tipo di fede anziché volere la felicità nella presente esistenza. «La saggezza, che nulla affascina, raccomanda la felicità data, esistente; l’uomo la rifiuta, e soltanto questo rifiuto ne fa un animale storico, voglio dire un amatore di felicità immaginata»9. Immaginare uscendo da sé, dal proprio vero. Immaginare la negazione dell’accaduto rovesciandolo nel futuro: così nasce il gioco della menzogna della storia e dell’utopia, a sua volta menzogna della menzogna, la cui alternanza non genera altro che esseri incapaci di vivere la propria vita come presente, di sentire se stessi nel mondo dando effettivamente dignità alla propria vita. E così il genere umano è destinato a soffrire, è votato al male, all’incapacità di svincolarsi perché nemmeno vuole vedere il Reale che lo circonda; preferisce costruire ipotesi, teorie, paradigmi e fedi proiettate in un futuro che non fa che svilire il presente. Scordiamo che «c’è un’eternità vera, positiva, che si estende al di là del tempo; e ce n’è un’altra, negativa, falsa, che si situa al di qua: quella stessa in cui imputridiamo, lontano dalla salvezza, fuori dalla competenza di un redentore, e che ci libera di tutto privandoci di tutto»10. E in quest’eterno mentire per non affrontare la Vita, l’uomo delega le proprie decisioni, abbandona il teatro dell’esistenza per sparire beckettianamente nell’oscurità delle proiezioni future basate sul passato. Nel gioco di ieri e domani, egli, perduto nella ricerca del sapere e lontano dal proprio ritmo vitale naturale, scorda di vivere l’oggi. E così Cioran, quando si lancia in previsioni sul futuro dell’umanità, non può che disperare: «Il gregge umano disperso sarà riunito sotto la guardia di un pastore spietato, sorta di mostro planetario dinanzi al quale le nazioni si prostreranno, in uno stato di sgomento vicino all’estasi»11. E il tono non può mutare quando dalla storia trae delle considerazioni: «A giudicarla dai tiranni che ha prodotto, la nostra epoca sarà stata tutto, 8

Ivi, p. 103. Ivi, p. 102. 10 Ivi, p. 127. 11 Ivi, p. 56. 9

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tranne che mediocre. Per ritrovarne di simili bisogna risalire all’Impero romano o alle invasioni mongoliche. Molto più che a Stalin, è a Hitler che spetta il merito di aver dato il tono al secolo. Egli è importante, non tanto per se stesso quanto per quello che annuncia, abbozzo del nostro avvenire, araldo di un fosco avvento e di un’isteria cosmica, precursore di quel despota su scala continentale, che compirà l’unificazione del mondo attraverso la scienza, destinata non a liberarci, ma ad asservirci. Tutto questo, un tempo lo si sapeva; un giorno lo si saprà di nuovo. Siamo nati per esistere, non per conoscere; per essere, non per affermarci»12. Ma noi cerchiamo, non viviamo. Noi ci affermiamo, non siamo. Per noi non può esservi che l’apocalisse. Ma quale apocalisse, se la storia non è che una menzogna?

Il canone della lucidità «Se l’uomo avesse avuto la minima vocazione per l’eternità, invece di correre verso l’ignoto, verso il nuovo, verso le devastazioni che porta con sé l’appetito di analisi, si sarebbe accontentato di Dio, nella cui familiarità egli prosperava. Ha voluto invece emanciparsi, strapparsi da lui, e vi è riuscito oltre ogni speranza. […] non appena l’uomo, separato dal Creatore e dal creato divenne individuo, vale a dire frattura e incrinatura dell’essere, e non appena, accettando il proprio nome sino alla provocazione, seppe di essere mortale, il suo orgoglio si accrebbe, non meno che il suo smarrimento. Moriva finalmente a modo suo, ne era fiero, ma moriva del tutto, e questo lo umiliava»13. Troviamo ne La tentazione d’esistere, l’opera più marcatamente filosofica di Cioran, la narrazione della parabola metafisica dell’uomo: è l’invidia per Dio a muovere un essere debole verso il volere; la volontà è, come per Schopenhauer, il motore unico dell’esistenza umana, ma anche la sua condanna: desiderando, individualizzandosi sempre di più, marcando la propria condizione di determinato, l’uomo si allontana dall’Eden di cui conserva la memoria, materializzata in quella sensazione di assenza che tormenta le anime sensibili. Nella volontà, mossa dallo scontro con Dio, l’uomo si allontana irrimediabilmente dalla propria rimpianta origine nell’indistinto che non conosce 12

Ivi, p. 57. Id. La chute dans le temp, Paris, Gallimard, 1964, trad. it. di M. A. Rigoni, La caduta nel tempo, Milano, Adelphi, 1995, pp. 14-15. 13

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fratture, quindi individualità, distaccandosi sempre di più dall’indiviso da cui è stato generato. L’uomo, attratto più dalla conoscenza che dalla vita, spinto all’azione e determinato nell’individuo, attraverso la scelta ritorna al peccato originale e nel fare, nel semplice agire, ripropone il male insito nella creazione, nella frantumazione dell’Unico che rimpiange. L’uomo per orgoglio e per volontà è caduto nel tempo. Questo il destino comune dell’umanità. Ma la maggior parte degli uomini vive piuttosto serenamente la propria esistenza senza venir mai sfiorato dall’idea della propria caduta nel tempo. Che cosa porta, allora, solo alcuni (i più sensibili, quindi i più malati, secondo l’idea del poeta veggente maudit o, se vogliamo, del poeta vate di D’Annunzio) a cogliere questo meccanismo? Proprio il tempo, o, meglio, la sua percezione: è la noia, il tedio, quello che Cioran chiamava cafard, il primo sintomo di una fuoriuscita dall’inconsapevolezza, di una presa di coscienza che diviene immediatamente determinante. Attraverso il tedio l’uomo costituzionalmente predisposto14 coglie la dimensione dell’assenza, della mancanza. Ciò che manca è l’unità, il nondisgregato che viene avvertito attraverso la malinconia, quel vago magnificamente descritto, più di tutti, da Leopardi. Il percorso inizia dal corpo, dalla sensazione: il dolore quasi fisico dell’ansia esistenziale, dell’angoscia kierkegaardiana che si manifesta nell’insonnia, nel tempo non più interrotto, nella notte che non porta alla fine del giorno ma all’assoluto, conduce lo sventurato in questione a non vivere più allo stesso ritmo del mondo. L’uomo che inizia così, attraverso l’agonia, la propria condizione di malato non può più tornare indietro: oramai la falsità del reale è svelata e rimane la spasmodica volontà di cercare il vero.

14

È la natura, meglio, il caso a determinare chi è o non è in grado di percepire la falsità del mondo apparente e a coglierne i nessi più intimi, le menzogne più sottili. Non si tratta di una questione di merito o volontà ma di necessità: volente o nolente lo spirito sensibile vibra, per così dire, secondo un ritmo differente da quello dei propri simili e ne coglie le dinaniche più nascoste. L’esclusione del libero arbitrio nella non-scelta di riconoscere la menzogna del reale per tormentarsi nella ricerca del vero è un tema fondamentale che si ripropone in tutta l’opera di Cioran: l’uomo, convinto della propria innaturale rilevanza, del proprio essere centro dell’universo, pretende anche nel momento della malattia, della deviazione dal corso naturale della propria esistenza di esserne causa unica in quanto volontà. Ma la volontà può ben poco contro il destino, il caos e le forze della natura di cui non abbiamo alcuna conoscenza.

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«Senza dubbio, le sole esperienze davvero autentiche sono quelle che nascono dalla malattia. Tutte le altre hanno fatalmente un marchio libresco, poiché un equilibrio organico non consente che stati suggeriti, la cui complessità è più frutto di un’immaginazione esaltata che di una reale effervescenza»15, ma «Ogni malattia implica eroismo, un eroismo della resistenza»16. Le risposte non bastano più perché si avverte a priori che il problema sta nella domanda: la domanda sull’uomo non contempla risposte, non offre vie d’uscita positive. Rimane solo la possibilità di negare, di smantellare le bugie sapendo che non si potrà costruire al posto di esse nessuna verità perché non esiste la verità. Non esiste una strada che conduca ad una meta. Siamo figli del caos, creati per caso in un mondo basato su tutto ciò che noi non siamo: siamo dannati dal momento in cui abbiamo commesso il vero peccato originale: domandare perché. Abbiamo rubato la mela del sapere al demiurgo geloso e beffardo che aveva creato l’Eden solo per vederci cadere sotto i colpi della nostra stessa volontà. «Solo un Dio avido di imperfezione in sé e fuori di sé, solo un Dio devastato poteva immaginare la creazione; solo un essere così esacerbato può aspirare a un’operazione del genere»17, e noi ne siamo il prodotto peggio riuscito. Inadatti alla quiete e alla vita abbiamo voluto scappare dall’Eden per cercare la nostra strada tra i tormenti della ricerca di un perché, per poi dimenticarcene e credere che sia veramente tutto qui, nella materia, nel presente. Chi avverte tutto questo è costretto ad un percorso doloroso di ricerca infinita, di cui sa già che non esiste fine o anche solo motivo di felicità. L’uomo il cui ritmo essenziale non batte più in sincrono con quello del mondo si perde nell’assoluto della solitudine sapendo già che non esiste conforto, che non sia illusione. La malattia è un percorso nuovo, una strada sconosciuta la cui missione filosofica non è che svelare l’illusorietà del sentimento di eternità dell’esistenza e di riportare la morte nella vita. Vuole ricondurre l’esistenza alla propria origine e fine al di là della contingenza del mondo reale; infine, rendere lo sguardo del malato finalmente lucido. La lucidità, forse l’idea più importante di tutta l’opera di Cioran, porta ad un indesiderabile smascheramento: «Quello che la lucidità rivela è l’inconsistenza; l’ordine del mondo si vuole stabile, giustificato e moderatamente 15 16 17

Id. Al culmine della disperazione, cit. p. 37. Ivi, p. 38. Id. La caduta nel tempo, cit. p. 109.

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felice, ma per chi vede, nessuno di questi attributi resta in piedi, essendo sostituiti da un’immonda fragilità che riproduce se stessa, senza fondamento valido e terribilmente sfortunata»18.

Tempo, frattura, individuo «7 gennaio 1968. Anni e anni per svegliarmi da quel sonno in cui gli altri si crogiolano; e poi anni e ancora anni per sfuggire a questo insopportabile risveglio»19. Noi esistiamo principalmente come corpo, materialità; ma questo, se è l’elemento fondante anche del pensare (solo «il pensiero che conserva un profumo di carne e di sangue»20 non diviene un sofisma o un inutile percorso logico incapace di uscire dai vincoli del proprio costrutto), è anche la prima mistificazione, il primo velo da scostare immergendosi proprio nella materialità della nostra esistenza per scoprirne la matrice, l’origine e se possibile il destino. È attraverso le sensazioni del corpo che comprendiamo anche l’incorporeo, lo spirituale. È attraverso il corpo che riconosciamo la dannazione dell’esistenza, il male intrinseco nella creazione come atto di separazione da un indefinito imperturbabile per costruire singoli solitari e sofferenti. Il corpo è matrice unica e imprescindibile ed allo stesso tempo vincolo insuperabile, limite invalicabile al pensiero. Non tutti, ciononostante, sentono il proprio corpo e ne colgono i segnali alla stessa maniera: «Gli uomini, in genere, si dividono in due categorie: quelli a cui il mondo offre occasioni di interiorizzazione e quelli per i quali esso rimane esteriore, oggettivo e insignificante»21. L’idea di destino è presente nel retroterra del pensiero di Cioran: solo alcuni individui sono destinati a comprendere e subire questa maledizione del corpo che non segue la natura, del sangue che pulsa ad un ritmo differente da quello della vita giungendo alla scoperta del pensiero disilluso, della ricerca delle verità dopo la certezza dell’assenza di una sola Verità nell’orizzonte dell’uomo. Come il veggente di Verlaine, poeta maledetto con gli occhi spalancati anche su ciò che non vorrebbe vedere, l’uomo di Cioran attraversa il mon18 F. Savater, Ensayo sobre Cioran, Madrid, Noche oscura, 1974, trad. it di C. Valentinetti, Cioran, un angelo sterminatore, Milano, Frassinelli, 1998, p. 143. 19 E. M. Cioran, Cahiers 1957-1972, Paris, Gallimard, 1997, trad. it. di T. Turolla, Quaderni 1957-1972, Milano, Adelphi, 2001, p. 601. 20 Id. Al culmine della disperazione, cit. p. 33. 21 Ivi, p. 128.

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do da ammalato, nel senso di un non appartenente al regno della natura. L’uomo di Cioran è caduto nel tempo della vita. È schiavo di quella che Scopenhauer chiamò conoscenza intuitiva e non può nulla contro la propria essenza corrotta: «Il crollo nascerà allora da un eccesso di pienezza. Esistono stati e ossessioni con cui è impossibile convivere […] Diventiamo lirici quando la vita dentro di noi palpita ad un ritmo essenziale, e quando ciò che stiamo vivendo è talmente forte da sintetizzare il senso stesso della nostra personalità. Ciò che abbiamo di unico, di specifico, si compie in una forma così espressiva che l’individuale si eleva al livello dell’universale»22. Il linguaggio lirico diviene unico mezzo possibile per tentare di esprimere ciò che non fa parte del regno della vita: così solo la poesia può avvicinarsi alla musica, vero canone espressivo diretto dell’oltre-uomo. Tornano i temi archetipici del suono e della danza. Come la filosofia del martello di Nietzsche vuole danzare sulle macerie del sapere appena distrutto, così il pensiero di Cioran non può che esprimersi per aforismi e piccoli poemi in prosa. Perché le parole sono fondate nel regno della vita e non sanno dire ciò che non riguarda la vita stessa. Le parole perdono il loro normale significato, l’atto stesso del parlare, dell’incontrare i propri simili e riconoscere in essi dei compagni di sventura perde di senso. Non rimane che la solitudine elevata parossisticamente a forma mentis, a canone imprescindibile perché obbligato dall’impossibilità di comunicare. Per questo, ci dice Cioran, sono fiorite le fedi e le utopie, per superare l’incomunicabile e la solitudine le prime, per dimenticare il presente e trovare una giustificazione alle proprie miserie le altre: «Il delirio dei miserabili è generatore di avvenimenti, fonte di storia: una folla di esagitati che vogliono un altro mondo»23. La solitudine esistenziale determinata dalla lucidità, imposta dalla malattia e non certo desiderata, diviene causa del dolore ma fonte (anche se inevitabile) di una nuova visione e, quindi, di una nuova esistenza comunque solitaria. «Come potrei rallegrarmi della luce che un altro non può vedere o del suono che non può udire? La pietà e la consolazione non solo non servono a niente, ma sono anche offensive. E poi, come compatire l’altro quando soffriamo infinitamente noi stessi?»24. Se la modernità si distingue dal periodo classico dell’uomo, dall’epoca dell’oro, per la fuoriuscita del genere umano dal ritmo della natura e quin22 23 24

Ivi, pp. 16-7. Id. Storia e utopia, cit. p. 104. Id. Al culmine della disperazione, cit. p. 75.

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di dall’Eden dell’indistinto, per l’individuo essa costituisce una frattura di consapevolezza più o meno velata, mascherata: «Tutti gli esseri sono infelici, ma quanti lo sanno? La coscienza dell’infelicità è una malattia troppo grave per figurare in un’aritmetica delle agonie o nei registri dell’incurabile. […] Soffrire davvero significa accettare l’invasione dei mali senza la scusa della causalità, come un favore della natura demente, come un miracolo negativo… Nella frase del Tempo gli uomini s’inseriscono come le virgole, mentre tu, per arrestarlo, ti sei immobilizzato in un punto»25. Nella consapevolezza del proprio essere temporale, l’uomo avverte drammaticamente la perdita dell’orizzonte dell’eternità e nella propria azione determinata dalla volontà egli diviene solo una pedina casuale del meccanismo autoreferenziale e privo di senso dell’esistenza. La frattura con la natura, giunta ad autoconsapevolezza, genera il tragico e la perdita di ogni speranza. Ma Cioran, abbiamo già visto, distingue uomini e uomini. Essi non sono tutti uguali: se li accomuna il terribile destino dell’esistenza, alcuni ne rimangono inconsapevoli (pur soffrendo senza cognizione di causa), altri si ammalano e, attraverso l’esperienza dell’agonia, modificano la propria prospettiva esistenziale aprendo gli occhi sul reale in un nuovo modo, quello dello sguardo lucido. «All’uomo astratto, che pensa per il piacere di pensare, si contrappone l’uomo organico, che pensa sotto l’effetto di uno squilibrio vitale, e che è al di là della scienza e dell’arte. Amo il pensiero che conserva un profumo di sangue e di carne, e a una vuota astrazione preferisco mille volte una riflessione sorta da un’esaltazione dei sensi o da una depressione nervosa… Perché non vogliamo accettare il valore assoluto delle verità vive, che si generano in noi e rivelano realtà e valori che fanno parte di noi? Perché non capiamo che si può pensare in modo vivo alla morte, ai problemi più vertiginosi?»26. Questo nuovo stato, avvertito in maniera solamente sensibile, corporea, può divenire un nuovo modo di vedere le cose anche al di là del momento, dell’esperienza in sé della malattia: in pratica, la lucidità può diventare costante al di là dello stato mentale momentaneo, senza più bisogno di estasi e degenerazione. Può diventare metodo d’indagine. Se l’insonnia, «punizione per questo istinto filosofico»27, ci impone il-

25

Id. Sommario di decomposizione, cit. p. 45. Id. Al culmine della disperazione, cit. p. 33. 27 Id. in AA.VV., Luoghi ritrovati: E. M. Cioran e P. Tutea a confronto, a cura e introd. di F. Del Fabbro, trad. it. di C. Fanteschi, con una nota di R. Carifi, Porretta Terme, I quaderni del battello ebbro, 1995, p. 37. 26

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nuovo status della lucidità, se «La coscienza è una fatalità»28, questa coscienza della coscienza ora è acquisita e fa parte dell’uomo “risvegliato”.

Apocalisse come inevitabile fallimento «Prima di conoscere l’insonnia ero una persona normale. Per me è stata una rivelazione. Quando ho perduto il sonno mi sono reso conto di come esso sia una cosa straordinaria. Perché la vita è sopportabile solo grazie al sonno. Ogni mattina inizi una nuova avventura, o la stessa avventura, ma con un’interruzione. L’insonnia è una rivelazione straordinaria perché sopprime l’incoscienza»29. La malattia è, abbiamo visto, fuoriuscita dal ritmo vitale, caduta dal tempo. Abbandonata la strada della vita, l’uomo, parossisticamente solo, incontra l’abisso. Ma in quest’abisso di solitudine assoluta il malato non può che parlare con Dio. E lo rimpiange mentre lo maledice. Il fascino provato da Cioran per la mistica e per le vite dei santi si spiega proprio in questo passaggio: arrivato al solipsismo assoluto, riconosciuta la mancanza di fondamento del tutto in cui siamo immersi solo per un canone naturale, negata la possibilità stessa di una visione teleologica in funzione di una verità, Dio diviene unico interlocutore di un lamento per la propria condizione e ancor di più per la malattia che ci ha reso lucidi. «I più infelici sono coloro che non hanno diritto all’incoscienza»30, la lucidità è un dono indesiderato che il destino ha voluto riserbare ad alcuni che ora hanno visto l’infinito che ci precede, l’indistinto da cui siamo caduti nel mondo come singoli necessariamente incompleti e sofferenti per questo nostro intuito ma mai conosciuto status ontologico. Caduti dal tempo abbiamo acquisito un nuovo canone che è divenuto metodo: «La lucidità, monopolio dell’uomo, rappresenta il punto di arrivo del processo di rottura fra lo spirito e il mondo; è necessariamente coscienza della coscienza, e se noi ci distinguiamo dalle bestie, il merito o la colpa sono esclusivamente suoi»31. Questa coscienza della coscienza, questo movimento del pensiero su se stesso, questa rivolta degli organi al ritmo della vita, benché del tutto fatale, condizione involontaria, è ora acquisita. Ed ecco che il risvegliato

28 29 30 31

Ivi, p. 37. Ivi, p. 34. Id. Al culmine della disperazione, cit. p. 56. Id. La caduta nel tempo, cit. p. 89.

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dalla malattia, che lo ha portato alla lucidità, possiede ora uno strumento di ricerca unico. Prese le distanze da se stesso in quanto appartenente al regno della natura, l’uomo di Cioran dovrà avere l’eroismo della resistenza alla malattia, per non abbandonarsi alla disperazione ma cogliere la forza della rivelazione: la rivelazione dell’assenza di ogni rivelazione, ma la consapevolezza della propria ontologia. E con la lucidità del nuovo uomo ecco necessariamente il dubbio assoluto: «La prima cosa in cui lo sveglio progredisce è il sospetto… Il sospetto e il dubbio precedono la diagnosi che segnala la deficienza nel manto verbale che copre il re del mondo. Si incomincia a gridare che il re è nudo, ma si finisce per dubitare della sua stessa regalità, cioè della sua “realtà”»32. Ma non vi è alcuna salvezza in questa presa di coscienza; solo un nuovo modo di guardare le cose, se vogliamo un nuovo metodo ermeneutico secondo il canone della lucidità. Ma che cosa ci resta dopo questa discesa negli inferi della lucidità, dopo l’incontro con Dio, scoperto nel suo ruolo di specchio di noi stessi, e spogliato di ogni realtà, dopo la certezza dell’impossibilità di trovare un fine perché fini non esistono al di là del ritmo della vita. Cosa resta dopo l’esperienza della noia, la malattia e la perdita di tutte le certezze ed il riconoscimento della propria solitudine assoluta? Rimane il fuoco del proprio esser vivo, del proprio essere finalmente non più un determinato ma un possibile: «l’esperienza che sto descrivendo non è necessariamente deprimente, poiché essa è a volte seguita da un’esaltazione che trasforma la vita in un incendio, in un inferno desiderabile»33. Ma resta la domanda: dove sta, allora, il principio del male, il motivo del nostro dolore? Dove la frattura di cui a volte avvertiamo vagamente la presenza? Cioran ci risponde nel suo capolavoro: «Il principio del male sta nella tensione della volontà, nell’inattitudine al quietismo, nella megalomania prometeica di una razza che scoppia di ideale, che esplode sotto le proprie convinzioni e che, per essersi compiaciuta di irridere il dubbio e la pigrizia – vizi più nobili di tutte le sue virtù –, ha imboccato una via di perdizione: la via della storia, miscuglio indecente di banalità e apocalisse»34. Il male risiede nella caratteristica fondamentale dell’individuo: il volere 32

F. Savater, Cioran, un angelo sterminatore, cit. p. 23. Intervista con F. Savater, in E. M. Cioran, Oeuvres, Paris, Gallimard, 1995, p. 1748. (trad. dell’autore). 34 E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, cit. p. 14. 33

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per se stesso. In questa elevazione delle proprie pulsioni ad importanza superiore rispetto al resto del mondo sta la tensione demoniaca che ci allontana dalla natura. Il nostro essere carichi di desiderio e l’importanza che, in un certo senso, ci diamo sono la scintilla dell’allontanamento dal mondo: la mela, simbolo del potere e della conoscenza, fu motivo della cacciata dal Paradiso come per Lucifero, angelo ribelle al volere unico ed assoluto di Dio, fu la perdita della luce divina. «Tutto ciò che l’uomo intraprende si rivolta contro di lui. Qualsiasi azione è fonte di disgrazia, visto che agire è contrario all’equilibrio del mondo, è prefiggersi un obbiettivo e proiettarsi nel divenire. Il minimo movimento è nefasto; si scatenano forze che finiscono con lo schiacciarci. Vivere veramente è vivere senza scopo: la saggezza orientale, che ha ben colto gli effetti negativi dell’agire, lo raccomanda. Non una sola scoperta che non abbia conseguenze funeste. L’uomo perirà a causa del suo genio: ogni forza che mette in azione gli nuoce. È un animale che ha tradito: la storia è la sua punizione»35. L’azione è la fonte del male, ma l’uomo non può esistere senza agire, è colmo di desiderio e volontà ma questo non può che allontanarlo dalla vista di Dio. L’uomo che esce dal tempo abbandonando la convenzione della vita si ammala. Ma che valore ha, filosoficamente parlando, questa presa di coscienza ontologica del malato su se stesso e il mondo? Cioran di fatto descrive una forma di epoché organica non voluta ma subita dalla quale nasce un nuovo canone di analisi della realtà: la lucidità. L’uomo che si ammala, attua una vera e propria epoché fenomenologica restando però nel mondo36. Non vi si allontana, subisce fisicamente e del tutto casualmente una forma di agonia che lo porterà ad una sorta di risveglio, a riaprire gli occhi assumendo ora uno sguardo lucido sul mondo in grado di distinguere vero da reale, prima e più nefasta confusione agli occhi comuni.

35

Id. in S. Jaudeau, Mistique et sagesse, trad. it. di L. Carra, Mistica e saggezza, in Id. Conversazioni con Cioran, Parma, Guanda, 1993, p. 24. 36 Se per Husserl il “metodo” necessario all’analisi del reale e alla ricerca delle essenze era un’astrazione dal proprio contesto, un’epoché fenomenologica ottenuta sospendendo ogni affermazione implicita di realtà, con Cioran l’atteggiamento fenomenologico si mantiene (come sospensione dell’affermazione di realtà dell’oggetto-mondo) ma viene attuata restando ben calato nel mondo delle sensazioni, nell’osservazione empirica dell’oggetto mondo di cui rimane corporalmente e quindi emotivamente una parte.

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Ecco che il pensatore di Răşinari può affermare: «toute lucidité est la conscience d’une perte»37; non esiste possibilità di comprensione se non attraverso la malattia che porta a cadere dal tempo, attuando un movimento inverso a quello che fece l’uomo alla fine dell’epoca (metafisica e non storica, ovviamente) dell’oro. Riconosciutosi esso stesso contingente al mondo, caduto nel tempo, l’uomo si trascende in quell’abisso su cui era tesa la corda di Nietzsche tra animale e oltre-uomo, ammalandosi, provando l’agonia che lo condurrà alla lucidità, ma anche a quell’«ultima tappa di un cammino, punto estremo della solitudine»38 che è la coscienza della coscienza, l’avvertire il tempo e la menzogna del mondo; in due parole, l’esser lucido. Ma il distacco da sé, dalla propria comune realtà, è portatore di follia. Porsi al di fuori di tutti gli schemi, anche da quelli della logica come applicativo valido ai fatti della vita, divenire cacciatori di verità ad ogni costo, pensare contro se stessi, contro la propria falsa natura agente sotto l’Albero della Conoscenza a discapito della natura oziante all’ombra dell’Albero della Vita porta necessariamente alla perdita dell’equilibrio, della cosiddetta ragione: «Quasi ci si fosse sollevati ad altezze straordinarie alle quali si è colti da vertigini, si vacilla, si perdono la sicurezza e la percezione normale del concreto e dell’immediato»39. È il brivido dell’abisso, il panico che ci prende di fronte alle domande ultime, quelle che sappiamo già non possono avere risposte, ma non possiamo smettere di farci. «Con la sua prosa agile e netta che ricorda Paul Valéry e uno scavo impietoso nel caos che evoca la penna forsennata di Albert Camaco, Cioran sembra ripetere la domanda che fu di Kierkegaard – Chi mi ha giocato il brutto tiro di gettarmi nel mondo? – ma riducendola all’ossessione, rischiarando il percorso di lumi che non appartengono a nessuna ragione, ad una specie di aura epilettica che inchioda il pensiero a una lucidità esasperata. […] Cioran rovescia i temi della questione attribuendo il possibile, la libertà e la gioia allo stato anteriore alla disdetta di nascere»40. La condizione umana, la resa dei conti ultima con (contro) Dio trova in Cioran un cantore spietato, pronto a descrivere nella maniera più realistica,

37 E. M. Cioran, Amurgul Gandurilor, Sibiu, Dacia Traianaˇ, 1940, trad. du roumain par M. Patureau-Nedelco, Le crépuscle des pensées, Paris, L’Herne, 1991, p. 86. 38 Intervista con S. Jaudeau, 1988, in E. M. Cioran, Entretiens, Paris, Gallimard, 1995, trad. it. di T. Turolla, Un apolide metafisico. Conversazioni, Milano, Adelphi, 2004, p. 251. 39 E. M. Cioran, Al culmine della disperazione, cit. p. 30. 40 R. Carifi, in AA.VV., Luoghi ritrovati: E. M. Cioran e P. Tutea a confronto, cit. p. 6.

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quindi tragica, lo stato naturale dell’uomo: animale di carne, sangue e istinti costretto ad una vita di materia ma consapevole che questa non basta, che non è tutto qui, che non era stato creato per un tale mondo. Nella sua opera, la consapevolezza di questa condizione di caduta dal divino al terreno diviene, sul piano fisico malattia e degenerazione della salute mentale, sul piano metafisico caduta nel tempo e allontanamento dall’Albero della Vita, dal ritmo del tutto. Il dramma sta nella perdita assoluta, nel tormento intollerabile del sapere che nulla, nel regno dell’esistere, può più tornare all’indeterminato: «Tout le processus de décadence n’est qu’un détachement progressif de l’existence; non pas un détachement par la transcendance, par le sublime ou le renoncement, mais par une fatalité pareille a celle qui jette à terre le fruit pourri de l’arbre»41. Non c’è soluzione, non c’è rimedio né speranza. La visione di Cioran è una visione ultima e disincantata: «Tutto è possibile e niente lo è; tutto è permesso e niente. Qualsiasi direzione s’imbocchi non sarà migliore di un’altra. Realizzare qualcosa o niente, credere o no, è lo stesso, come lo è tacere o gridare. Si può trovare una giustificazione a ogni cosa, come si può non trovarne alcuna. Tutto è nello stesso tempo irreale e reale, naturale e assurdo, straordinario e piatto. Nessuna cosa può essere anteposta a un’altra, come nessuna idea è migliore di un’altra. Perché rattristarsi della propria tristezza e gioire della propria gioia? Che importa se le nostre lacrime sono di piacere o di dolore? Ama la tua infelicità e detesta la tua felicità, mescola tutto, confondi tutto. Rinuncia alle distinzioni, alle differenziazioni e ai piani. Sii come una piuma sospinta dal vento o un fiore portato dalle onde. Resisti quando non serve, e sii vile quando bisogna resistere. Chissà se in questo modo non ci guadagni? E se così non fosse, che importa se ci perdi? C’è forse qualcosa da guadagnare o da perdere in questo mondo? Ogni guadagno è una perdita, come ogni perdita è un guadagno. C’è forse una ragione per aspettare un determinato atteggiamento, idee precise e parole appropriate? Sento che dovrei sputare fuoco a mo’ di risposta a tutte le domande che mi sono state o non mi sono state mai poste»42. Ma cosa rimane all’uomo? Quale parametro di realtà? «Les doctrines manquent de vigueur, les enseignements sont stupides, les convictions ridicules, et stériles les fleurs des théories. Dans tout ce que nous sommes, il

41

E. M. Cioran, Cartea amagirilor, trad. du roumain par G. Klewek, Th. Bazin, Le livre des leurres, Paris, Gallimard, 1992, p. 26. 42 Id. Al culmine della disperazione, cit. pp. 132-3.

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EMIL CIORAN:

LA CATASTROFE NECESSARIA

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n’est de vie que dans les raidissements de l’âme. […] Oubliez un instant de surveiller votre âme; et voilà qui décampe en direction du ciel»43. Ma cosa spinge la nostra anima a cercare il cielo, a volere Dio? La caduta nel tempo, nella sua menzogna: «Rien ne nous précède, rien ne nous côtoie, rien ne nous succède. L’isolement d’une créature est l’isolement de toutes. L’être est un jamais absolu. […] Hier, aujourd’hui, demain. Des catégories de domestiques. Je cheminai sur les sentiers des hommes et je n’en croisais pas d’autres. Des larbins et des souillons»44; il sentire che il nostro “essere è un giammai assoluto”, un irrealizzato, o meglio, la realizzazione monca di un’infinità meravigliosa di cui abbiamo sentore attraverso la mancanza, il dolore. «Nessun dolore è irreale: il dolore esisterebbe anche se il mondo non esistesse. Quand’anche fosse dimostrato che esso non è di alcuna utilità, potremmo ancora trovargliene una: quella di proiettare una certa sostanza nelle finzioni che ci circondano. Senza il dolore, saremmo tutti dei fantocci, non ci sarebbe più alcun contenuto dove che sia; con la sua sola presenza, esso trasfigura qualsiasi cosa, perfino un concetto. Tutto ciò che tocca è promosso al rango di ricordo; lascia traccia nella memoria, che dal piacere è solo sfiorata: un uomo che ha sofferto è un uomo segnato (come si dice di un debosciato che è segnato – e a ragione, visto che la dissolutezza è sofferenza). Il dolore dà coerenza alle nostre sensazioni e unità al nostro io, e resta, una volta abolite le nostre certezze, la sola speranza di sfuggire al naufragio metafisico. […] Soffrire significa essere totalmente sé, significa accedere a uno stato di non coincidenza con il mondo, giacché la sofferenza è generatrice di intervalli; e quando ci attanaglia, non ci identifichiamo più con nulla, nemmeno con essa; è allora che, doppiamente coscienti, noi vegliamo sulle nostre veglie»45. Di nuovo, solo il corpo non mente e solo la sofferenza ci porta alla realtà, all’assenza di mascheramento. «E allora? Non resta che fare della propria vita un fallimento; solo così si perverrà al distacco, unica forma di libertà concessa all’uomo»46. «Io mi distruggo, è quello che voglio; nell’attesa, in questo clima asmatico creato dalle convinzioni, in questo mondo di oppressi, io respiro; respiro a modo mio. Un giorno, chissà, conoscerete forse questo piacere di mirare

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Id. Bréviaire des vaincus, Indreptar pătimaş, trad. du roumain par A. Paruit, Bréviaire des vaincus, Paris, Gallimard, 1993, p. 20. 44 Ivi, p. 37. 45 Id. La caduta nel tempo, cit. pp. 89-90. 46 A. M. Tripodi, Cioran, metafisico dell’impossibile, L’Aquila, Japadre, 1987, p. 30.

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FABIO RODDA

a un’idea, di colpirla, di vederla agonizzare, e poi ricominciare l’esercizio con un’altra, con tutte; questa voglia di prendervi cura di un essere, di stornarlo dagli antichi appetiti, dagli antichi vizi, per imporgliene di nuovi, più nocivi, affinché a causa di questi perisca; di accanirvi contro un’epoca o contro una civiltà, di scagliarvi contro il tempo e martirizzarne gli istanti; di volgervi poi contro voi stesso, di suppliziare i vostri ricordi e le vostre ambizioni, e, esaurendo il vostro respiro, appestare l’aria per meglio soffocarvi… un giorno forse conoscerete questa forma di libertà, questa forma di respirazione che è liberazione da sé e da tutto. Potrete allora impegnarvi in qualsiasi cosa senza aderirvi»47.

Conclusione: la catastrofe necessaria «Dopo aver sciupato l’eternità vera, l’uomo è caduto nel tempo, dov’è riuscito, se non a prosperare, per lo meno a vivere: la cosa certa è che vi si è adattato. Il processo di questa caduta si chiama Storia. Ma ecco che lo minaccia un’altra caduta, di cui è ancor difficile valutare l’entità. Questa volta non si tratterà più per lui di cadere dall’eternità, ma dal tempo; e cadere dal tempo significa cadere dalla storia; significa, una volta sospeso il divenire, arenarsi nell’inerzia e nel languore, nell’assoluto della stagnazione, dove il verbo stesso si arena, non potendo sollevarsi fino alla bestemmia o all’implorazione. Imminente o no, questa caduta è possibile, anzi inevitabile. Quando toccherà in sorte all’uomo, egli cesserà di essere un animale storico. Allora, avendo perduto finanche il ricordo della vera eternità, della sua prima felicità, egli volgerà lo sguardo altrove, verso l’universo temporale, verso quel secondo paradiso da cui sarà stato bandito»48. La catastrofe necessaria dell’uomo lucido sta nella seconda caduta: la caduta dal tempo: se cadendo nel tempo l’uomo s’era fatto storico ed era riuscito a sopravvivere, ora un nuovo orizzonte si prospetta agli occhi dei risvegliati: nessuna missione, nessuna possibilità in questa vita, ma la consapevolezza della propria caduta nel tempo. Non rimane che il fallimento nelle cose del mondo, perché queste sono dannate. Non rimane che il pensare contro se stessi, perché nulla ha senso logico e niente è più soffocante della coerenza con dei preconcetti e delle idee stantie. Non rimane che la stoica accettazione della propria condizione, perché 47 48

E. M. Cioran, La tentazione di esistere, cit. p. 103. Id. La caduta nel tempo, cit. p. 129.

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EMIL CIORAN:

LA CATASTROFE NECESSARIA

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non ci sono risposte alle nostre domande: «A toutes nos questions, l’Ennui donne la même réponse: ce monde est éventé. Alors, nous décidons de tout faire contre lui. La nouveau n’existe qu’en nous. Pas dans les choses, pas dans les êtres. Le réel est une féerie d’apparences qui nous charment aussi longtemps que notre chanson s’accorde au rythme de leur danse. Sans notre connivence, le voile flottant sur le spectacle nommé vie se déchire, et de l’illusion qui nous brouillait la vue il reste quelques lambeaux floconneux, à peine des ombres du réal chimérique»49. La noia, esperienza fondante, fa crollare le certezze, svuota di senso ogni cosa e ci avverte che non c’è nulla da fare né in questo mondo né altrove, che non ci può essere nulla in grado di alleviare le nostre pene, di soddisfare i nostri bisogni. L’apocalisse sta nello smascheramento. Nel far propria l’esperienza dell’agonia, nel comprendere che non siamo altro che caso generato da caos, che solo il relativismo più assoluto può allontanare dalla menzogna senza pretendere nessuna verità, perché la verità non esiste. Ma da quest’apocalisse nasce, a mio avviso, una nuova possibilità, un nuovo metodo. Accettato che non c’è verità, che non c’è fine ma solo un inizio lontano di cui non conserviamo che un inconsapevole ricordo doloroso, accettato che l’impossibilità di definire un qualunque orizzonte prossimo inficia ogni categorizzazione e quindi anche ogni giudizio, possiamo cercare una nuova via, difficile e dolorosa, ma, quantomeno, onesta, che vuole heideggerianamente stare nel vero sapendo che una Verità non c’è. Se il paradiso ci è precluso e l’inferno non esiste se non nella nostra stessa esistenza, se non esiste né missione né possibilità di redenzione rimane comunque l’uomo. L’essere umano semplicemente spogliato delle mistificazioni della religione e delle facilonerie delle morali spicciole su cui fondiamo i nostri sistemi di vita. Rimane l’uomo nudo. L’uomo in sé, capace di resistere al dolore di una tanto grande rivelazione e di lottare in quella briciola di spazio che il caso gli concede istante dopo istante, relativizzando le proprie azioni al momento e niente più. L’uomo di Cioran ha perso la fede in Dio e nelle utopie, sa di non poter esprimere giudizi che non siano falsificabili, sa di essere un momento insignificante nell’eterno di cui è condannato a non fare più parte; ma l’uomo di Cioran finalmente può essere quella corda sopra l’abisso che tendeva Zarathustra, quella radura che cercava Heidegger e non un sistema 49

Id. Bréviaire des vaincus, cit. p. 57.

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FABIO RODDA

da concludere in una griglia categoriale. È l’assenza di fondamento a fargli da sfondo, nient’altro. L’uomo ora può solamente. Non deve più nulla né a Dio né alla speranza, e in quest’assenza di fede può combattere momento dopo momento tutta la vita per determinare quello spicchio d’esistenza non completamente voluto dal caso. La volontà, in sé malefica ma per natura irrinunciabile, può ritornare strumento per scegliere sempre, per agire in una direzione e non in un’altra, non perché si crede in qualche cosa, ma proprio perché non vi si crede. La grandezza dell’azione che crediamo buona o cattiva non sta in se stessa, ma nell’essere scaturita senza altre finalità, senza speranze perché non ce n’è, ma, tanto fa; si può scegliere lo stesso. Non eravamo fatti per questo mondo, ci dice Cioran; l’apocalisse di noi stessi è cominciata con la modernità, l’epoca della frattura col ritmo vitale dell’epoca dell’oro. Alcuni tra noi se ne sono involontariamente accorti, per uno scherzo del demiurgo beffardo, che ha creato tutto questo e che si prende gioco di noi. Non c’è via d’uscita né speranza in un’altra vita. Abbiamo a disposizione solo il regno del qui ed ora, e questo somiglia molto di più ad un inferno che al paradiso perduto. Ma, aggiungo io, ora che sappiamo tutto questo, le nostre azioni possono assurgere veramente alla purezza che distingue solo ciò che non ha fine né fede. Ora la nostra volontà dannata, certa di non poter trovare budelli di redenzione, può librarsi per divenire qualcos’altro. Ora l’uomo è finalmente possibilità e nient’altro. E in questo possibile vi è la bestia e l’oltre–uomo. A nessuno tranne che ad ogni singolo individuo il tentare un destino proprio. A nessuno tranne che a se stessi il giudicare ogni istante in relazione all’istante stesso e nient’altro. Certamente rinunciare alle fedi, alle utopie; alla storia come possibile concludersi in atto di un percorso non è facile. Occorre rinunciare a tutte le categorie, alla logica come mezzo di conoscenza, alla parola come mezzo d’espressione, alla speranza e alla redenzione. Più facile pensare ad un tribunale della storia, più bello credere nella società perfetta sviluppata sulle buone idee, infinitamente più lieve aspettare e sperare un futuro migliore, un’altra vita in cui essere felici. Ma noi non siamo tutti uguali, non vogliamo tutti le stesse cose, e nessuno può rappresentare me stesso, nemmeno io stesso perché potrei essere incoerente e smentirmi. Da qui il fallimento di ogni generalizzazione, di ogni teoria, soprattutto, di ogni categoria. Filosofia teoretica? Certamente.

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EMIL CIORAN:

LA CATASTROFE NECESSARIA

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Le letture di Cioran non servono certo a migliorare le questioni politiche o sociali del mondo, non portano da nessuna parte, descrivono spietatamente e basta. Raccontano senza menzogne e niente più. Alla sensibilità di ognuno cercare nel mondo o fuori di esso. «Che sia maledetta per sempre la stella sotto la quale sono nato, che nessun cielo voglia proteggerla, che essa si sbricioli nello spazio come una polvere senza onore! E l’istante proditorio che mi precipitò fra le creature sia per sempre depennato dalle liste del Tempo! I miei desideri non possono più accordarsi con questa mescolanza di vita e di morte in cui si avvilisce quotidianamente l’eternità. Stanco del futuro, ne ho attraversato i giorni, e tuttavia sono tormentato dall’intemperanza di non so quale sete. Come un saggio infuriato, morto al mondo e scatenato contro di esso, sopprimo le mie illusioni soltanto per fomentarle meglio. Questa esasperazione in un universo imprevedibile – nel quale peraltro tutto si ripete – non avrà dunque mai un termine? Fino a quando dovremo ridire a noi stessi “Esecro questa vita che idolatro?”. La nullità dei nostri deliri fa di noi tutti altrettanti dèi sottomessi a un’insipida fatalità. Perché insorgere ancora contro la simmetria di questo mondo quando il Caos stesso non è altro che un sistema di disordini? Dato che il nostro destino è quello di marcire con i continenti e con le stelle, trascineremo, come malati rassegnati, e sino alla fine del tempo, la curiosità verso un epilogo previsto, spaventevole e vano»50.

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Id. Sommario di decomposizione, cit. p. 222.

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Hans Jonas. La paura dell’apocalisse come chance di Angela Michelis

Abstract – Nel presente saggio si argomenta come il tema dell’apocalisse s’inserisca nella riflessione di Hans Jonas a partire dalla sua esperienza personale e dall’esperienza che, in qualche modo, può dirsi collettiva nella contemporaneità. S’indaga successivamente come la filosofia ovvero la riflessione dell’autore si sia rapportata alla questione e come la stessa paura dell’apocalisse venga trasformata in un’indicazione di orientamento per comunicare e agire nel presente e nel futuro.

A partire dall’esperienza Gli anni della Seconda Guerra Mondiale per Jonas, ebreo e arruolato volontario nella brigata ebraica dell’esercito britannico, passati costantemente fra la vita e la morte, determinano una svolta dell’indirizzo filosofico delle ricerche dell’Autore, che si rifletterà nel periodo successivo della sua esistenza, poiché proprio in quel duro e impietoso scontro con la realtà vengono a maturazione alcune consapevolezze. L’esperienza continuativa dell’importanza fondamentale della corporeità per la sopravvivenza nel pericolo costante e nella precarietà estrema della situazione di guerra, durata anni per Hans Jonas, porta in piena evidenza agli occhi dell’uomo e del pensatore la fusione insolubile d’interiorità ed esteriorità nell’organismo vivente e il suo imprescindibile legame con l’ambiente. Questa fusione, fra interiorità ed esteriorità, che mantiene una dialettica fra elementi diversi e permette comunque per Jonas la possibilità della libertà e della responsabilità per l’uomo, diviene la chiave d’indagine di una filosofia che è pensata oltre gli schematismi riduzionistici per interpretare in modo più efficace l’esperienza a cui si trova di fronte, pensata nuovamente come oggettività non fagocitabile dal soggetto, come realtà. Sul solco di questa nuova direzione d’indagine che parte induttivamente dall’esperienza, Hans Jonas ha dedicato molta della sua vita a riflettere teoricamente sulla soluzione delle questioni del nostro tempo, nella consapevolezza che dalla capacità di rispondere a esse, di trovare strategie di pensiero e d’azione efficaci, dipenda il nostro futuro.

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ANGELA MICHELIS

Nell’ontogenesi, le situazioni di pericolo per la sopravvivenza dell’individuo, come, nella filogenesi, le situazioni di pericolo per la sopravvivenza di un popolo o dell’umanità stessa costringono ad operazioni mentali di realismo e obbligano a cercare vie risolutive a breve e a lunga scadenza. Così la paura di una qualche fine del mondo, di un’apocalisse diviene rivelativa, motivo di scoperta e di scelta di nuovi modi per affrontare il presente e il futuro, assecondando il destino dell’originario significato etimologico della parola apocalisse, che deriva dal greco aπōκάλυψις, apokalupsis e significa appunto “rivelazione”, “l’alzarsi di un velo” o “scoperta” in senso letterale1. Per apocalisse, successivamente, nella terminologia della letteratura del primo Ebraismo e Cristianesimo si è inteso una rivelazione di cose nascoste da Dio a un profeta scelto e questo termine è spesso usato per descrivere il resoconto scritto di tale esperienza. In epoche recenti “letteratura apocalittica”, o “apocalittico”, sono stati utilizzati comunemente per descrivere le varie parti delle scritture ebraiche o cristiane, sia canoniche sia apocrife, in cui si forniscono predizioni escatologiche in forma di rivelazione. Il termine, attualmente, è usato in contesti allargati e comprende spesso significati non propriamente apocalittici: nell’uso comune delle lingue occidentali apocalisse si riferisce alla fine del mondo. Il significato corrente può essere derivato per ellissi dall’espressione apokalupsis eschaton, escatologia apocalittica, che significa “rivelazione della conoscenza alla fine dei tempi”. La fine escatologica del mondo nella letteratura apocalittica viene spesso accompagnata da immagini di resurrezione, di giudizio dei morti, da idee di rinnovamento e di giustizia. A tale letteratura hanno attinto i cosiddetti “movimenti millenaristici” nati sia all’interno di religioni, ad esempio nel Cristianesimo e nell’Islam, sia all’interno di sette, e nel loro prospettare una qualche fine, talvolta, hanno dato per reazione un impulso rigenerativo alla civiltà e, talvolta invece, hanno originato fanatismo e implosioni d’energia inutili o dannose per i singoli e la collettività.

La parola greca aπōκάλυψις, apokalupsis, sembra essersi originata presso gli ebrei che parlavano greco, per poi passare ai cristiani che ne dilatarono i significati. L’uso trova la sua origine nel titolo dato al Libro dell’Apocalisse di Giovanni, detto anche Libro della Rivelazione, del Nuovo Testamento; il titolo proviene dalle parole di apertura del libro apokalupsis iesou kristou, in cui il termine “rivelazione” è usato solo per descrivere i contenuti del libro stesso, e non come designazione letteraria. Il nome Apocalisse venne poi attribuito a ulteriori scritture dello stesso genere, molte delle quali apparvero in quel periodo. A partire dal secondo secolo dopo Cristo il nome venne usato per diversi libri, sia cristiani sia ebraici, che mostrano gli stessi tratti caratteristici. L’uso del termine greco per definire opere appartenenti ad una determinata classe letteraria è quindi di origine cristiana, derivato dalla rivelazione del Nuovo Testamento. 1

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HANS JONAS. LA

PAURA DELL’APOCALISSE COME CHANCE

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La storia, memoria dell’esperienza dell’umanità, ci ammonisce a vegliare sul ruolo della paura della fine, che ciclicamente rinasce come paura della fine del mondo per l’umanità, nata sotto il segno della precarietà a fronte di sempre nuove incognite. Il passaggio dal secondo al terzo millennio si presenta con gravi questioni aperte che possono far temere, anche all’Occidente, la fine di “civiltà”, la fine di un mondo: si pensi al dominio dell’economia tardo-capitalistica sulla politica, sulle sue istituzioni, sui mezzi di comunicazione di massa e alle conseguenze del complesso di tali fattori su quella forma di governo che noi chiamiamo “democrazia”, oltre che sulle vite individuali, al fenomeno della globalizzazione dei mercati senza la globalizzazone dei diritti, alle guerre per il predominio economico, culturale e religioso, alla crisi ecologica. Le catastrofi ecologiche paiono, però, ad una riflessione approfondita, la minaccia più grave che incombe sul nostro prossimo futuro. Il riscaldamento dell’atmosfera, l’assottigliarsi dello strato d’ozono, le variazioni climatiche che ne derivano, lo scioglimento dei ghiacciai, l’erosione dei terreni, l’inquinamento delle acque e dell’aria, la riduzione delle varietà delle specie vegetali e animali, il disboscamento eccessivo, la diminuzione delle risorse alimentari ed energetiche tradizionali, la crescita demografica esponenziale sono alcune punte dell’iceberg che ci sta venendo incontro. Le ultime parole pubbliche di Hans Jonas, quelle con cui chiude il discorso2 in occasione del ricevimento del Premio Nonino a Udine in Italia, il 30 gennaio 1993, – ottenuto in quanto Il principio responsabilità3 fu ritenuto dalla giuria il miglior libro tradotto in italiano nel 1992 – riguardano proprio la crisi ambientale che rappresenta il grande pericolo e insieme la grande opportunità di questo cambio di millennio: Preso nella morsa di questa sfida, il genere umano diventa per la prima volta uno solo, che lo sappia già o no, saccheggiando la propria dimora terrena, condividendo il destino della propria rovina, essendo l’unico possibile salvatore di entrambi: la terra e se stesso. Una nuova solidarietà di tutto il genere umano sta sorgendo fra noi. Una colpa comune ci lega, un interesse comune ci unisce, un destino comune ci attende, una responsabilità comune ci chiama. 2

Il discorso è stato pubblicato in italiano lo stesso anno, trad. it. di C. Angelino, in appendice a H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Genova, il melangolo, 1993, pp. 43-49; in inglese è pubblicato per la prima volta nel 1996 come epilogo dal titolo: The Outcry of Mute Things, in Id. Mortality and Morality. A Search for the God after Auschwitz, ed. and intr. by L. Vogel, Evanston, Illinois, Northwestern University Press, 1996, pp. 198-202. 3 Id. Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, a cura e intr. di P. P. Portinaro, trad. it. di P. Rinaudo, Torino, Einaudi, 1990, 1993 (2a ed). Ed. or. Das Prinzip Verantwortung. Versuch einer Ethik für die technologische Zivilisation, Frankfurt am Main, Insel Verlag, 1979.

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ANGELA MICHELIS

Nella luce accecante di questo nuovo orizzonte che si apre, i conflitti razziali impallidiscono, e il loro clamore dovrà cadere nel silenzio. Lo so, non cadrà nel silenzio, ma d’ora in poi potremo farlo tacere con un nuovo appello a quel grandioso senso di comunità che mai prima d’ora si era affacciato sull’umanità. […] L’ultima rivelazione, che non giungerà da alcun monte Sinai, né da alcun monte delle beatitudini, né da alcun albero della bodhi di Buddha, è il grido silenzioso che proviene dalle cose stesse, quelle che dobbiamo sforzarci di risolvere per arginare i nostri poteri sul mondo, altrimenti moriremo tutti su questa terra desolata che un tempo era il creato4.

Di fronte a tali osservazioni si fa chiaro l’invito dei tempi a riappropriarci della politica, intesa come ricerca del bene della comunità, dell’urgenza di darle forza e vigore sulla base della riflessione consapevole che il destino dell’individuo non prescinde dalla società in cui vive, dalla nazione e oggi dal contesto internazionale, ma più di tutto non prescinde dallo stato di salute della terra sulla quale abitiamo. Occorre ripensare la terra come oikos, inscindibile unità d’elementi naturali e culturali senza cui non possiamo essere ciò che siamo, per progettare e attuare un progresso sostenibile; questo richiede in primis un rinnovato sforzo educativo dei cittadini del mondo alla qualità piuttosto che alla quantità e all’ascetismo necessario per una più equa ed ecologica distribuzione delle risorse. Non si può percorrere tale via se non partendo dall’ascolto di quelle domande di libertà e solidarietà, naturali e radicate nella profondità di ogni essere umano, che possono elevarsi in modo meraviglioso oltre la soddisfazione di tutti i bisogni e sono la chiave per riaffermare la dignità di ognuno, quella dignità che sa opporsi alle cieche e violente strumentalizzazioni che accadono al seguito del dio-denaro e del dio-potere.

L’interpretazione e l’ausilio della riflessione filosofica Certo, le questioni cruciali dei nostri tempi ci richiamano all’urgenza di un impegno etico e di un impegno politico, ma innanzi tutto all’urgenza di un accordo su ciò intorno a cui ci si deve impegnare. La filosofia non può rimanere indifferente a tali sfide, perché è proprio quel sapere di cui oggi si necessita. Essa, infatti, è la riflessione che permette di trasformare l’esperienza individuale in ampie prospettive che trascendano l’immediato e connettano in modo essenziale le varie voci, per trovare soluId. Il razzismo, in Id. Il concetto di Dio dopo Auschwitz, cit. pp. 48-9. Ed. or. The Outcry of Mute Things, in Id. Mortality and Morality. A Search for the Good after Auschwitz, cit. pp. 201-2. 4

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HANS JONAS. LA

PAURA DELL’APOCALISSE COME CHANCE

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zioni comuni da cui ripartire per progettare e realizzare un nuovo mondo possibilmente migliore per tutti. Questa è stata la forza del pensare umano, da cui sono nate le civiltà della vita. Non possiamo più esimerci dal ridare centralità al continuo, umile confronto con l’esperienza per ogni conoscere e agire da questo derivato, nell’attenzione costante alla possibilità della falsificazione delle costruzioni culturali per un adeguamento che ricerchi sempre più il vero. Egli scrive in Scienza come esperienza personale: Qui non è più il piacere della conoscenza, bensì la paura del futuro o la preoccupazione per l’uomo a motivare fondamentalmente il pensiero che si costituisce esso stesso come un atto appunto di responsabilità e, mentre sviluppa il concetto di questa, lo rende appunto comunicabile. […] Da qui la fatica dell’articolazione, che serve sì anche all’autochiarificazione del proprio pensiero, ma mira pur sempre, in fondo, alla comunicazione. Essa è un elemento vitale in ogni teoria che di volta in volta deve essere intesa come parte del movimento collettivo del sapere5.

Jonas sostiene che le correzioni stesse necessarie ad evitare la corsa collettiva, a cui stiamo assistendo, verso la «grande catastrofe» ecologica, «esigono di continuo un nuovo impegno dell’ingegno tecnico e scientifico»6 e dunque richiedono proprio un rinnovato sforzo di razionalità e d’amore, cioè delle massime capacità umane. Richiedono uno sforzo che si caratterizzi primariamente per l’attenzione alle conseguenze dell’applicazione del sapere scientifico e del potere tecnologico per l’individuo, per le società e per la natura. Egli comprende che la scienza moderna e le sue applicazioni sono comunque indispensabili per trasformare la predominante cultura economica del tardo capitalismo individualista in una cultura economica dell’ecologia del pianeta nel suo insieme. Infatti, la ricerca scientifica ci fornisce i dati conoscitivi che aumentano la capacità di orientarci e di affrontare le sfide del mondo positivamente, se vengono utilizzati con saggezza e prudenza. È un dato evidente che l’uomo, purtroppo, accrescendo conoscenze e potenzialità in modo sorprendente e “magnifico”, non ha però compreso in profondità la preziosa lezione della naturalità della vita al punto da saperla

5

Id. Scienza come esperienza personale, trad. it. di F. Tomasoni, Brescia, Morcelliana, 1992, pp. 29-30. Ed. or. Wissenschaft als persönliches Erlebnis, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1987, p. 26. 6 Cfr. Id. Tecnica, libertà e dovere, in Id. Scienza come esperienza personale, cit. pp. 48-9. Ed. or. Technik, Freiheit und Pflicht, in Id. Wissenschaft als persönliches Erlebnis, cit. pp. 45-6.

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ANGELA MICHELIS

rispettare nella sua grandezza e nella sua limitatezza. Nel cammino teorico e scientifico iniziato con la modernità, non ha tenuto in giusto conto della dialettica necessaria fra materia ed energia spirituale, fra oggettività e soggettività, alla base dei fenomeni vitali. «La vita è essenzialmente relazionalità con qualcosa; e la relazionalità in quanto tale implica “trascendenza”, un andare oltre, un indicare al di là di sé da parte di chi intrattiene la relazione», come osserva Hans Jonas in Organismo e libertà7 e questo è ciò che permette la continuazione all’insieme di un organismo naturale o sociale, al sistema in divenire e glielo permette nella forma di una ricerca del bene per l’insieme dell’organismo stesso. L’auto-interpretazione della vita, nella riflessione dell’uomo, non può esimersi dal prendere in considerazione queste osservazioni per ritrovare la possibilità di un agire concorde verso una progettualità realizzabile e sostenibile nello spazio e nel tempo. Come giungere oggi dalle osservazioni, dai punti di vista, di differenti esseri umani che nella loro natura individuale si presentano inevitabilmente prospettiche e limitate, ad un’universalizzazione che permetta la comunicazione e l’azione in vista del bene comune? Orientarsi, ci ricorda Kant, significa distinguere e cercare l’Oriente sia in senso proprio, cioè riferito ai punti cardinali dello spazio terrestre, sia in senso traslato, cioè riferito a ciò che la ragione postula come verità8. Che cosa postula la ragione come verità? Ovvero che cosa ipotizza, che cosa crede, che cosa immagina come verità la ragione? Nella modernità la verità razionale era data dalla possibilità di poter erigere a principio universale la regola che risulta dall’uso della ragione stessa della soggettività di ogni uomo; ma se nella contemporaneità la soggettività si ritrova frantumata al suo interno, influenzabile, molteplice e contraddittoria, essa è divenuta luogo precario per ogni possibile fondazione di principi universali, occorre fuoriuscire da essa e cercare nell’oggettività, nella realtà esterna che ci circonda, il perno evidente da cui far ripartire la comunicazione e quindi l’azione. 7 Id. Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, a cura e presentazione di P. Becchi, trad. it. di A. Patrucco Becchi, Torino, Einaudi, 1999, p. 11. Ed. or. Organismus und Freiheit. Ansätze zu einer philosophischen Biologie, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1973, p. 16; la traduzione italiana è tratta dalla medesima edizione ripubblicata con il titolo Das Prinzip Leben, Ansätze zu einer philosophischen Biologie, Frankfurt a/M, Insel Verlag, 1994. 8 Cfr. I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensare, trad. it. di M. Giorgiantonio, Lanciano, R. Carabba Editore, 1930, pp. 47-70. Ed. or. Was heisst: sich im denken orientieren? (1786), in Kants Werke. Akademie Textausgabe, Abhandlungen nach 1781, Band VIII, Berlin, Walter de Gryter &Co, 1968, pp. 131-48.

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HANS JONAS. LA

PAURA DELL’APOCALISSE COME CHANCE

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Filosofi come Hans Jonas e pensatori religiosi e laici, individuano tale dato evidente nella domanda di cura e rispetto della vita, che ai giorni nostri ci giunge dalla natura stessa, a fronte di possibili scenari apocalittici per un uso smodato degli strumenti dell’homo faber, ovvero dell’uomo che sviluppa la dimensione produttiva e tecnologica sopra ogni cosa e prometeicamente sogna di poter produrre tutto ciò di cui necessita, dimentico dei limiti costitutivi del suo essere e del suo esistere9. Il pericolo effettivo individuale o collettivo conduce a riscoprire che l’oggetto fuori di noi è in noi come condizione stessa dell’elemento soggettivo e intenzionale; pensiamo alla materialità del nostro corpo che è alla base della nostra stessa possibilità di pensare, all’imprescindibilità del nutrimento, d’incamerare materia esterna per sopravvivere, alla necessità di un riparo dalle intemperie per non compromettere il buon funzionamento del nostro organismo nel suo complesso. La stessa ragione dell’uomo, del soggetto, dunque, se vuol dire qualcosa della realtà che lo circonda, dell’oggetto, e non essere vuota tautologia, non girare a vuoto, deve coniugare riflessione ed esperienza, soggettività e oggettività, in una nuova propensione responsabile verso l’oggetto, verso ciò che pare esterno ma che in realtà ci riguarda profondamente e ci permette di essere ciò che siamo. A fronte di soggetti umani divenuti ipertrofici, ossia “iper-produttivi”, “iper-culturalizzati” e “iper-tecnologizzati”, occorre un ripensamento, un adeguamento e un coordinamento degli stessi sistemi culturali e sociali prodotti dall’uomo: i nuovi tempi lo richiedono e chi ha a cuore la continuazione della vita dei propri simili e della natura tutta, quale quotidiano miracolo di bellezza e di libertà pur nella sua precarietà, non può non adoperarsi a tal fine. Quegli esseri che la natura stessa ha dotato di magnifiche qualità, gli esseri umani, sono chiamati ora a mettere a frutto i loro talenti: in natura, nel pericolo cresce anche ciò che salva, e ciò che salva occorre individuarlo, curarlo, ascoltarlo, seguirlo. Progettare e affrontare il divenire è un compito a termine, che avviene in una situazione intrinsecamente limitata, ma è sostanzialmente adeguato alle nostre capacità e tocca propriamente a noi uomini, quali epifenomeni della natura, affrontarlo con responsabilità.

9

Cfr. A. Michelis, Responsabilità e tarda modernità: Hannah Arendt e Hans Jonas, in P. Coda - G. Lingua (a cura di), Esperienza e libertà, Roma, Città Nuova, 2000, pp. 155-166.

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ANGELA MICHELIS

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Orientarsi per comunicare e agire La salvaguardia della vita sulla terra è un compito in relazione e mai a termine, e nella sua complessità e imprescindibilità, richiede la partecipazione cosciente di tutti gli esseri umani, cittadini, intellettuali, economisti, imprenditori, legislatori e politici, in particolare nella congiuntura storica del nuovo millennio che presenta come prima veridica necessità quella di un rapporto più equilibrato fra esseri umani e natura. Nelle società multiculturali odierne che presentano una pluralità di opinioni intorno al bene, all’uomo, ai fini desiderabili della vita associata, i quali paiono spesso irriducibili e di sempre più problematica gestione democratica, rintracciare l’universale, a cui richiamarsi per la costruzione di sistemi equi, di cooperazione nel tempo, risulta un’operazione controversa, difficile al punto da sembrare impossibile10. Se si assume come criterio risolutivo quello formale-procedurale del pensiero liberale, padre delle democrazie occidentali11, per soddisfare il requisito della neutralità12 rispetto alle differenti visioni culturali della vita buona si rischia in molte situazioni di delegare tutto, compresi i diritti più fondamentali e costitutivi, alle maggioranze e/o ai poteri forti del momento. A fronte di tale situazione aggravata dall’iperbolico sviluppo della tecnologia compresa quella genetica, le cui conseguenze future sfuggono in modo preoccupante alla stessa scienza umana, si può, partendo dalla riflessione sulla crisi ecologica, individuare in modo induttivo un imperativo etico che abbia però la pretesa dell’universalità, della categoricità; un imperativo primo condivisibile razionalmente a cui attenerci per l’agire. A ben vedere, un mondo senza umanità sarebbe privo di quegli stessi esseri che hanno la capacità dell’autonomia responsabile, dunque appartiene in modo fondamentale, precipuo, alla nostra responsabilità far sì che 10

Cfr. F. Viola, La democrazia deliberativa tra costituzionalismo e multiculturalismo, «Ragion Pratica», n. 20, 2003, P. P. Portinaro, Il labirinto delle istituzioni nella storia europea, Bologna, Il Mulino, 2007. 11 Cfr. C. A. Viano, L’utilitarismo, in Id. (a cura di), Teorie etiche contemporanee, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, 2a ed., pp. 34-58; Id. Etica Pubblica, Roma-Bari, Laterza, 2002. 12 Cfr. J. Rawls, Political Liberalism, New York, Columbia University Press, 1993; trad. it. di G. Rigamonti, Liberalismo Politico, a cura di S. Veca, Milano, Edizioni di Comunità, 1994; C. Larmore, Political liberalism, chapter VI, in Id. The Morals of Modernity, Cambridge, Cambridge University Press, 1996, pp. 121-151; E. Lecaldano, Etica e significato: un bilancio, in C.A Viano (a cura di), Teorie etiche contemporanee, cit. pp. 59-86; P. Comanducci, Il neocontrattualismo nell’etica contemporanea, in C. A. Viano (a cura di), Teorie etiche contemporanee, cit. pp. 108-127; B. Pastore, Diritto e neutralità nel liberalismo politico rawlsiano, «RIFD. Quaderni della Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto», n. 4, 2004, dedicato a John Rawls, pp. 237-57.

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HANS JONAS. LA

PAURA DELL’APOCALISSE COME CHANCE

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la possibilità della responsabilità stessa permanga con l’esistenza dell’essere umano. Jonas formula tale imperativo in una “prima formula positiva” nel suo libro Il principio responsabilità così: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra»13. Tale primo imperativo nella sua minimalità e necessità non può essere negoziabile nella comunicazione fra le persone, nella comunicazione intersoggettiva, sia essa comunitaria, nazionale e internazionale. La comunità degli esseri corresponsabili è il luogo a cui per natura è affidata la custodia dell’essere umano e del suo oikos. La categoricità di questo imperativo non si basa più soltanto su una coerenza formale-razionale da rispettare nell’intenzione di ogni operare, come quella kantiana guidata dall’imperativo: «Opera in modo che la massima della tua volontà possa valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale»14. La categoricità di questo rinnovato imperativo etico si basa, invece, sull’ampliamento della procedura formale ad un contenuto materiale, se pur minimale, la permanenza della vita umana sulla terra, che acquisisce l’universalità, cioè la validità per tutti, induttivamente a partire dalla considerazione della situazione di rapporto fra uomo e natura oggi, nel contesto storico della tarda modernità. Se ne deduce che la categoricità di un imperativo etico nella contemporaneità può essere ancora pensata e affermata, in quanto rileva in modo veritiero ciò che permette al sistema di mantenere un equilibrio, di funzionare e conservarsi, ovvero il suo bene. Mantiene al proprio interno, però, come risorsa vitale, la possibilità dell’adeguamento al divenire continuo dell’essere, la possibilità della falsificazione e del rinnovamento. La novità di tale proposta consiste nel tenere insieme l’importanza dell’apporto delle conoscenze scientifiche e l’individuazione di un imperativo primo di responsabilità irrinunciabile, quale perno per la possibilità del consenso in situazione. La nostra responsabilità si presenta come un destino non contrattabile nella sua sostanza: non può rischiare la continuazione dell’umanità e l’ormai potente e lunga leva del potere umano necessita di un ampliato sapere predittivo per indirizzare e correggere in modo adeguato il nostro comportamento in base a previsioni e valutazioni. Nelle esortazioni alla preservazione, alla conservazione della complessa integrità dell’essere umano con il suo carico di libertà e responsabilità, della 13 14

H. Jonas, Il principio responsabilità, cit. p. 16. Ed or. Das Prinzip Verantwortung, cit. p. 36. Cfr. I. Kant, Critica della Ragion Pratica, Libro I, cap. I, § 7.

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ANGELA MICHELIS

sua esistenza e dignità, da parte di pensatori come Hans Jonas, non viene negata la connessione positiva di questo con il sapere e con il progresso, come possibilità di un miglioramento ulteriore in ogni campo. Anzi è presente una forte fiducia nella ragione umana15, intesa aristotelicamente come capacità di orientamento sia nelle questioni teoriche sia nelle questioni pratiche, o nel linguaggio dei moderni come capacità di analisi, di progettazione, di azione e di correzione continua per l’individuo e per le comunità. La necessità di un superamento della ragione soggettocentrica verso una insopprimibile realtà dell’oggetto, portata alla luce prepotentemente dalle reazioni di una natura alterata con cui ci si trova inevitabilmente a confronto, non richiede certo un’uscita dalla “ragione”, che è, comunque, considerata elemento costitutivo dell’essere umano. Comporta, invece, la coscienza rinnovata della nostra altrettanto costitutiva corporeità e animalità e insieme dell’importante ruolo dei sentimenti e delle passioni. Il sentimento del rispetto, e anche il timore e la trepidazione, per l’essere, riconosciuto dalla ragione come migliore rispetto al non-essere, a partire dall’osservazione della direzione in natura di una costante lotta alla sopravvivenza, è proprio ciò che muove la volontà verso la richiesta di cura, verso l’obbligazione morale individuata razionalmente. Jonas argomenta che la paura e la trepidazione sono sentimenti che insieme all’analisi razionale, costituiscono e danno forma alla responsabilità umana; sono elementi che frenano la ragione che può diventare ipertrofica, iperattiva, e dimenticare i propri costitutivi limiti e legami, dimenticare la possibilità dell’errore sempre presente. Egli è consapevole che «la speranza è una condizione di ogni agire»16 in quanto fare affidamento sull’eventualità positiva di ottenere qualcosa è un atteggiamento che in situazioni normali facilita il raggiungimento dell’obiettivo. Non misconosce, non nasconde, tuttavia, il ruolo positivo della paura17 che contribuisce a sentirsi responsabili in anticipo davanti all’incertezza degli eventi e a mettere in progetto strategie di prudenza, le quali, calcolando il rapporto dei probabili successi e insuccessi, aumentano le possibilità di evitare errori fatali. 15 Cfr. H. Jonas, La filosofia alle soglie del Duemila. Una diagnosi e una prognosi, a cura, intr. e trad. it. di C. Angelino, Genova, il melangolo, 1994, pp. 27-52. Ed. or. Philosophie. Rückschau und Vorschau am Ende des Jahrhunderts, Frankfurt a/M, Suhrkamp Verlag, 1993, pp. 7-43. 16 Id. Il principio responsabilità, cit. p. 285. Ed. or. Das Prinzip Verantwortung, cit. p. 391. 17 Cfr. Id. Il dovere della paura, in Id. Sull’orlo dell’abisso. Conversazioni sul rapporto tra uomo e natura, a cura e intr. di P. Becchi, trad. it. di A. Patrucco Becchi, Torino, Einaudi, 2000, pp. 82-89. Ed or. Die Bereitschaft zur Furcht ist ein sittliches Gebot, in Id. Dem bösen Ende näher. Gespräche über das Verhältnis des Menschen zur Natur, W. Schneider (Hg.), Frankfurt a/M, Suhrkamp Verlag, 1993, pp. 84-90.

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HANS JONAS. LA

PAURA DELL’APOCALISSE COME CHANCE

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L’esercizio della responsabilità implica paura e speranza, che vanno tenute insieme con coraggio, con «quel che si definisce il coraggio della responsabilità»18. Questa è la chance, la forza euristica, contenuta nella ragionevole paura di una qualche apocalisse, per Hans Jonas. Egli scrive: Quando parliamo della paura che per natura fa parte della responsabilità, non intendiamo la paura che dissuade l’azione, ma quella che esorta a compierla; intendiamo la paura per l’oggetto della responsabilità. […] La responsabilità è la cura per un altro essere quando venga riconosciuta come dovere, diventando “apprensione”, nel caso in cui venga minacciata la vulnerabilità di quell’essere. Ma la paura è già racchiusa potenzialmente nella questione originaria da cui ci si può immaginare scaturisca ogni responsabilità attiva: che cosa capiterà a quell’essere, se io non mi prendo cura di lui19?

Proprio la paura di un’imminente catastrofe, dovuta ai sempre più probabili e violenti disastri ecologici, alle possibili implosioni tecnologiche, quale risveglio traumatico dal moderno sogno faustiano, è ciò che ci riconsegna all’evidenza di una comunanza di destini fra esseri umani e natura, istruendoci sulla necessità di conservarne e rispettarne l’integrità e la dignità in un agire condiviso sotto il segno della prudenza. Concludiamo con l’invito a ri-pensare la realistica esortazione di Hans Jonas all’agire politico nella “città dilatata” della contemporaneità, a quell’agire per il bene comune, che tutti ci riguarda: Una volta era possibile dire: fiat justitia, pereat mundus, “sia fatta giustizia e vada in rovina il mondo” – dove “mondo” significava naturalmente l’enclave rinnovabile nel tutto-che-non-va-mai-in-rovina. Quella frase non può più essere pronunciata neppure in senso retorico, da quando l’andare in rovina del tutto per effetto di azioni umane, giuste o ingiuste che siano è diventato una possibilità reale. Questioni che non furono mai in passato oggetto della legislazione, diventano di competenza delle leggi che la “città” totale deve darsi affinché ci sia un mondo fatto per le generazioni future20.

18

Id. Il principio responsabilità, cit. p. 285. Ed. or. Das Prinzip Verantwortung, cit. p. 391. Ibidem. 20 Ivi, pp. 14-5. Ed or. Das Prinzip Verantwortung, cit. p. 33. Cfr. A. Michelis, Il dilatarsi della città, in Id. Libertà e Responsabilità. La filosofia di Hans Jonas, Roma, Città Nuova, 2007, pp. 147-156. 19

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Dopo la fine del mondo. Pier Paolo Pasolini e Alce Nero di Carla Benedetti

Non c’è più bisogno di alcuna rivelazione. È già tutto sotto i nostri i occhi: mutamenti climatici, scarsità di acqua, esaurimento delle risorse, guerre omicidiali per impossessarsi del poco che resterà, finché resterà. Se il corso del mondo non muta, in meno di un secolo il pianeta sarà inabitabile per l’uomo. Per la prima volta nella sua lunga storia l’umanità si trova a fare i conti con la possibilità di scomparire dal pianeta in tempi ravvicinatissimi, e di trascinare nella sua agonia molte altre specie viventi. Nessun filosofo del passato, nessuno scrittore, artista, storico, teologo, sociologo o antropologo si era mai trovato prima d’ora a guardare le cose da questa prospettiva. Né Leopardi né Kafka né Pasolini né Primo Levi avrebbero potuto immaginarla e ciò che stiamo vivendo negli ultimi decenni è un’assoluta novità. In queste condizioni la forma apocalittica, così come ci arriva da una lunga tradizione, religiosa e secolare, e come è stata poi riattualizzata nel secolo scorso da molti pensatori e artisti, è ormai non solo una forma vuota, ma anche una sclerosi grottesca del pensiero, che rischia di indurre narcosi invece che risvegliare. Non c’è più tempo. Occorre pensare in maniera proporzionale all’enormità di ciò che ci sta investendo. Credo che la forma apocalittica abbia due limiti: il primo consiste nell’essere rivelazione o annuncio di ciò che accadrà. Il secondo consiste nell’essere rivelazione o annuncio di qualcosa che deve accadere, in altre parole di vedere i processi in atto sotto la lente della necessità, teologica o storica. La forma mentis apocalittica, che secondo me è il difetto di gran parte del pensiero critico novecentesco1 – è sempre chiudente. Il suo messaggio è: «Sarà necessariamente così e non ci puoi fare niente!» Ma esistono dunque altri modi per parlare della fine del mondo senza essere apocalittici, senza cioè chiudere il pensiero nella trappola dell’ine1

Della forma apocalittica tipica di alcuni critici della società come Guy Debord, ho parlato con più ampiezza nell’articolo La coda della lucertola, uscito nella rivista «Il primo amore», n. 1, 2007.

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CARLA BENEDETTI

vitabilità? Ci sono altre forme capaci di farci percepire la gravità della situazione in cui ci troviamo, e nello stesso tempo di attivare altre strutture mentali nell’uomo contemporaneo, altre strutture di giudizio, che funzionino da correttivi rispetto a quelle che ci stanno portando verso la catastrofe? Di questo parlerò nel mio intervento, che espone in maniera parziale i risultati di una ricerca ancora in corso.

1 Fingendo di rivolgersi a un ragazzo napoletano di nome Gennariello, Pasolini parla di una «fine del mondo» già avvenuta. Il testo, datato 24 aprile 1975, fa parte delle Lettere luterane: Tu mi dirai: le cose sempre cambiano. «’O munno cambia.» È vero. Il mondo ha eterni, inesauribili cambiamenti. Ogni qualche millennio, però, succede la fine del mondo. E allora il cambiamento è, appunto, totale. Ed è una fine del mondo che è accaduta tra me, cinquantenne, e te, quindicenne2.

Singolare è la posizione in cui si colloca lo scrittore rispetto alla catastrofe che sta indicando: egli parla infatti da dopo la fine, non da prima. Quindi non annuncia, non rivela ciò che deve accadere, come invece è tipico del genere apocalittico, anche nella sua riattualizzazione novecentesca da parte di molti pensatori critici, a cominciare da Guy Debord, che pochi anni prima aveva pubblicato La società dello spettacolo. A differenza di essi, Pasolini non assume mai le vesti di un annunciatore di apocalisse. A sottendere il suo discorso e la sua immaginazione è in effetti un’altra forma, che qui cercherò di descrivere ricorrendo a narrazioni lontane, extraeuropee, provenienti da culture che già hanno vissuto una loro fine del mondo. Si tratta di una forma molto diversa da quella apocalittica, più conflittuale, non pacificata, e soprattutto non chiusa da nessuna teologia o filosofia della storia. A cosa si riferisce Pasolini con «fine del mondo»? Certamente alla distruzione antropologica di cui parla in tanti altri suoi scritti, alla cancellazione di culture e di forme di vita ad opera del neocapitalismo, che egli identifica a volte con il “consumismo”, ma che di preferenza chiama «Nuovo Potere». Si tratta infatti di un potere che riesce a penetrare in zone mai raggiunte da nessun’altra forma precedente, nemmeno dai totalitarismi della recente 2

Ora in P. P. Pasolini, Scritti sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, con un saggio di P. Bellocchio. Cronologia a cura di N. Naldini, Milano, Mondadori, 1999, p. 575.

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LA FINE DEL MONDO

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storia dell’Europa. Perciò esso è sentito come nuovo. Neanche i regimi erano mai riusciti a agire in un modo altrettanto capillare e rapido, entrando tanto a fondo nella vita degli individui, fino a riplasmarla secondo i propri intenti, recidendo precedenti legami, togliendo vincoli stratificati da secoli. Non era riuscita a tanto neppure quella «cerchia di delinquenti al potere» che ha nome fascismo. C’è invece riuscito questo nuovo potere. Il documentario girato a Sabaudia illustra molto bene, e in via contrappositiva, cosa sia il potere di un «nuovo potere». La città è stata edificata secondo i dettami dell’architettura di regime, tuttavia appare bella, a differenza delle mostruose periferie del periodo successivo, sconvolte dal boom edilizio. Pasolini riprende dunque una città voluta dal fascismo, ma con abitati a misura d’uomo, con le case basse, i viali, i giusti rapporti tra edifici e spazi aperti. L’ideologia fascista non era riuscita a intaccare certi criteri urbanistici preesistenti, magari riposti nei saperi delle maestranze, dei muratori: tecniche di costruzione, modi di concepire lo spazio pubblico, il rapporto tra le case, le piazze e l’ambiente. Invece anni dopo la speculazione edilizia ebbe la meglio anche su quei criteri preesistenti, distruggendoli completamente. E sappiamo quanto la gestione dello spazio urbano possa influire sulla vita che vi si svolge, e quanto sia carica di conseguenze per gli individui. L’edificazione selvaggia ha dunque colpito la nostra vita in maniera molto più radicale della dittatura fascista. Ha cambiato stili di vita, ha distrutto tessuti sociali preesistenti, mentre la propaganda del regime aveva agito solo sulla superficie. Pasolini è dunque attento a cogliere i mutamenti che avvengono non nel campo istituzionale, politico o economico, ma in quello della vita: dagli spazi urbani e paesaggistici all’architettura dei desideri, dalle aspirazioni degli individui al loro modo di percepirsi dentro alla società. Dal lato degli individui egli registra la catastrofe anche in termini di nevrosi, angoscia e infelicità, provocate dal «Nuovo Potere». La nuova povertà, ad esempio, non è paragonabile a quella di prima del consumismo: quella era semplicemente povertà, questa è invece «benessere rientrato, frustrato». E Pasolini si spinge fino a registrare, come aspetto del cambiamento e della distruzione, persino il cinismo indotto nelle menti delle persone dalla caduta delle illusioni, persino la violenza gratuita di cui allora si vedevano già esempi nelle strade – si ricorderà il caso di cronaca dei due fratelli Carlino che uccisero un automobilista per ragioni di traffico: Pasolini lo commentò in questa chiave. Mentre altri intellettuali del tempo non vedevano le lacerazioni provocate da quelle modificazioni, oppure pur vedendole tacevano, Pasolini le descrisse con sgomento, indignazione e dolore. E accusò gli intellettuali italiani di non vedere l’insieme, cioè di «separare i fenomeni»: di non voler vedere «il

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CARLA BENEDETTI

mosaico della realtà italiana, che non si può guardare nel suo insieme se non a costo di restare impietriti»3. Stiamo quindi parlando di una fine del mondo, o meglio della fine di un mondo, avvenuta nel profondo delle esistenze – non semplicemente nei modi di vestire e di atteggiarsi, come vuole un’interpretazione assai riduttiva di Pasolini, tutta appiattita sulla tesi dell’omologazione4. Stiamo parlando di un processo che ha lacerato legami sociali, fatto «strage di illusioni» (direbbe Leopardi) e indotto nevrosi, infelicità, cinismo, disperazione, violenza. In questo Pasolini è molto più vicino alla Simone Weil di La prima radice che parla della malattia dello sradicamento, o a Günther Anders5 che non a Guy Debord. Per di più egli parla da dopo, dalla posizione non di chi annuncia ma di chi ha già potuto vivere questa fine del mondo. Perciò la sua critica è intrisa anche di un doloroso senso di perdita: Infatti non è un cambiamento di epoca che noi viviamo, ma una tragedia. Ciò che ci sconvolge non è la difficoltà di adattarsi a un nuovo tempo, ma un immedicabile dolore simile a quello che dovevano provare le madri vedendo partire i loro figli emigranti e sapendo che non li avrebbero visti mai più6.

Infine, terza cosa importante da notare, Pasolini sta parlando di un mutamento rapidissimo, avvenuto in pochi anni, in un decennio al massimo: Credo che a pochi uomini in tutta la storia umana sia successo di vivere in pochi anni (sei o sette) mutamenti più radicali di quelli che hanno vissuto gli italiani adulti dalla fine degli anni Sessanta ad oggi. A me per esempio è successo di vedere la più simpatica gioventù di Italia trasformarsi nella più odiosa. In ciò non c’è niente di sfumato, di incerto, di graduale: no: la trasformazione è stata un rovesciamento completo e assoluto7. 3 Bisognerebbe processare i gerarchi DC, articolo del 28 agosto 1975, raccolto in Lettere luterane (ora in Scritti sulla politica..., cit., p. 635) 4 Su come la vulgata dell’omologazione riduca la portata delle analisi di Pasolini, e su come la sua idea di potere si avvicini piuttosto a quella di Foucault, rimando al mio saggio Quattro porte su Petrolio di Pier Paolo Pasolini, in Petrolio. Un progetto di Mario Martone a partire da “Petrolio” di Pier Paolo Pasolini, progetto grafico di A. Favi, editor A. D’Adamo, Napoli, Cronopio, 2003 (leggibile anche in rete a questo indirizzo: http://www.cinetecadibologna. it/sitopasolini/narrativa_petrolio_benedetti01.htm#porta1). 5 Si veda Simone Weil, in La prima radice, trad. it. di F. Fortini, Milano, SE, 1990, pp. 49 e segg. Di Günther Anders si vedano soprattutto le Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, in Id. L’uomo è antiquato, trad. it. di L. Dallapiccola, vol. 1, Torino, Bollati Boringhieri, 2003. 6 Sandro Penna: Un po’ di febbre (1973), in Scritti corsari, ora in Saggi sulla politica..., cit., p. 423. 7 Risposte, in P. P. Pasolini, Lettere luterane, ivi, p. 649.

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DOPO

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LA FINE DEL MONDO

Nemmeno le rivoluzioni sono mai riuscite a tanto. La rivoluzione francese e poi quella russa hanno certamente provocato dei sovvertimenti rapidi e radicali, ma di tipo politico-istituzionale, non di forme di vita. Ma se si allarga un po’ il raggio dell’analisi al di fuori dell’Europa, ci accorgiamo che invece esistono intere popolazioni che hanno vissuto in tempi moderni un’analoga «fine del mondo», patendo in pochi anni distruzioni e mutamenti altrettanto terribili: sono le moltitudini dei popoli colonizzati. Così, se si guarda all’Africa, all’America, all’Australia, ci si rende conto che il «Nuovo potere» non è affatto una cosa nuova.

2 Cos’è un nuovo potere? Ovviamente è una forma diversa da altre già attestate. Ma non è solo questo: è anche una forma che ha superato una certa soglia, un limite, e che perciò viene avvertita come tremenda. Può essere una forza di assoggettamento, di coercizione o di manipolazione, ma che comunque è penetrata profondamente nella vita degli individui, raggiungendo livelli mai raggiunti prima. Da questo punto di vista molto generale, che fa astrazione dalle differenze particolari tra le singole teorie, possiamo dire che l’oggetto delle descrizioni dei pensatori critici del Novecento è sempre stato un “nuovo potere”. Magari non lo hanno chiamato così. Tuttavia mi pare evidente che è di un «novum» e di un «tremendum» che parla Adorno quando descrive l’industria culturale, o addita la minaccia della «società amministrata». Anche queste sono forme di dominio che prima non esistevano, e che hanno varcato un limite. E così anche la «società dello spettacolo» di Debord e il bio-potere di Foucault. Così il «Nuovo Potere» di cui parla Pasolini quando nei suoi ultimi libri, e soprattutto in Petrolio, descrive l’inferno del Neocapitalismo. Cos’è dunque nuovo in questi “nuovi poteri”? La forza e la capillarità della loro azione, e il fatto di essere impensabili, impresagibili, attraverso le categorie precedenti. Né lo sfruttamento di classe, né l’imperialismo, né altre forme di oppressione politica e economica fino ad allora espletatesi in Occidente, potevano rendere conto di queste nuove forme di controllo, influenza, manipolazione e dominio sugli individui e persino sulla vita biologica. Nuovo si associa quindi sia a sconosciuto sia a esorbitante, e quindi anche a terribile, tremendo. Ma il tipo di sguardo che Pasolini cerca di guadagnare su questa nuova realtà non è lo stesso di Adorno, di Foucault né di Debord. E non solo perché proviene da un poeta, da un artista. È uno sguardo diverso anche logicamente, proprio perché si pone da un altrove rispetto al suo oggetto. E

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non è semplicemente l’altrove dell’osservatore o dello studioso. Non è nemmeno l’altrove estetico del flâneur, a cui lo sguardo di Debord è strettamente legato. Per trovargli un parente prossimo bisogna cercare più lontano, ma in un lontano che comunque ci è anche vicinissimo. Bisogna saltare fuori dall’Occidente. Penso a quello sguardo che ci proviene da ciò che continua a essere l’alterità dell’Occidente, dal cuore di tante civiltà sopraffatte, e spesso anche distrutte, dalla colonizzazione.

3 Occorre secondo me fissare nettamente una distinzione tra due modi di parlare di fine del mondo. C’è un modo di parlarne che proviene da uno sguardo e da una posizione di resistenza, o di conflitto, e uno invece prodotto da uno sguardo che capitola. Ho pensato per la prima volta a questa differenza leggendo in un saggio antropologico il testo di un canto aborigeno che narra l’arrivo degli europei e altre storie tramandate oralmente e ormai stratificate, mitizzate, che hanno per personaggio Capitan Cook8. Narrazioni fatte ovviamente dal punto di vista degli aborigeni, cioè di coloro che hanno perso e visto distruggere la loro società. In certi punti esse assomigliano a delle lamentazioni. Tuttavia, per quanto possa sembrare improbabile, si tratta di racconti di resistenza, non di capitolazione. Come è possibile che chi si trova dalla parte dello sconfitto possa raccontare la sua stessa distruzione da una prospettiva di resistenza? Quand’è che si spenge la forza critica del passato? Quando si può dire che venga meno l’alternativa alla catastrofe? Gli aborigeni dell’Australia, gli indiani d’America, così come moltissime altre popolazioni e civiltà extra-europee hanno subito negli ultimi secoli non semplicemente una guerra di conquista, ma qualcosa che è l’equivalente di ciò che per noi occidentali è la nascita di un nuovo potere. Un potere non solo efferato e distruttivo, ma anche nuovo e tremendo, in quanto sovverte le leggi fino ad allora vigenti. Quindi anche qualcosa che appare, a chi lo subisce, incomprensibile, inaudito, per spiegare il quale si dovranno inventare nuove categorie. Le storie aborigene infatti ruotano tutte attorno all’enigma della “legge” di Capitan Cook, sentita come radicalmente altra, e intollerabile.

8

D. Bird Rose, Dingo Makes Us Human. Life and Land in an Aboriginal Australian Culture, Cambridge, Cambridge University Press, 2000.

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Gli aborigeni ovviamente conoscevano la guerra, ma solo quella che si fa per depredare, non quella che si fa per sterminare. Fare guerra per depredare era parte del loro universo morale, non invece la guerra di annichilimento. E quella degli europei è stata una guerra di sterminio. Questa guerra perciò sovvertiva il loro orizzonte morale. I loro racconti infatti non solo parlano di dolore e di lutto, ma ruotano attorno a una domanda, centrale e bruciante: come può esistere una legge come quella dei conquistatori. Com’è possibile che lo sterminio si riproduca nel tempo fino a diventare una legge. Come può la conquista essere collocata in un universo morale. Pensiamo ora a come il marxismo concepisce il capitalismo dal punto di vista dell’evoluzione storica: una forma di produzione che viene dopo il feudalesimo, e che a sua volta è la condizione per un processo rivoluzionario ulteriore. In altre parole il capitalismo viene descritto storicamente come un processo inevitabile, che certo porterà più avanti, verso il socialismo futuro, ma appunto come una tendenza della storia. Invece il “nuovo potere” conosciuto dagli aborigeni non è inserito nella logica di nessun processo storico, non appare loro inevitabile, arriva anzi ex abrupto, e resta un trauma, quindi una contingenza. La resistenza sta appunto nel non considerare il nuovo fenomeno come inevitabile, ma al contrario nel continuare a percepirlo come contingente, inspiegabile, intollerabile, terribile: cioè come il male. All’opposto, le storie di capitolazione sono quelle che descrivono i fenomeni come se fossero parte di un’ineluttabile corso del mondo. Parlano di apocalissi e di catastrofi come se fossero processi necessari della storia. E qui sta la fallacia della forma apocalittica, intrisa di teologia o di filosofia della storia. Nelle storie aborigene la resistenza emerge proprio dal tipo di sguardo che esse conservano sui fenomeni: uno sguardo che si rifiuta di riordinare e reinquadrare la comprensione del cosmo in modo da poter inglobare come necessario ciò che è accaduto. Queste storie raccontano perdite, lutti, ma nello stesso tempo sono “rigeneranti” – come direbbe Pasolini9 – non solo perché ascoltandole ci capita davvero di guardare noi stessi con lo sguardo dell’altro, di diventare noi europei, moderni, illuministi, altri a noi stessi. Ma anche perché, pur nella cupezza della descrizione, esse ci lasciano percepire l’intollerabilità di ciò che è accaduto. Quella forza impresagibile, capitata all’improvviso a distruggere il loro universo, continua a essere sentita come contingente, inspiegabile, intollerabile. Da qui la resistenza insita nel loro sguardo. Quello di pensatori critici 9

In un’intervista, Pasolini disse che la lettura del Vangelo era stata per lui «rigeneran-

te».

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occidentali come, ad esempio, Debord è invece uno sguardo che capitola di fronte all’inevitabilità del nuovo potere che sta descrivendo. Ce lo descrive e ce lo annuncia infatti come se fosse parte di un ineluttabile corso del mondo, che lo spiega e lo rende necessario. I colonizzati non vedevano niente di necessario nel nuovo fenomeno che si è abbattuto sul loro mondo. A volte l’arrivo dei colonizzatori è stato persino interpretato come un incontro con i defunti. E resta un trauma, e una contingenza, terribile ma non necessaria. Nei racconti dei colonizzati c’è perciò un coinvolgimento emotivo che manca completamente alle diagnosi degli altri. C’è disperazione, mentre le descrizioni dei “pensatori critici” hanno spesso il tono affascinato di chi annuncia un’apocalisse stupefacente, che desta meraviglia nell’intelletto più che disperazione nell’anima.

4 Gli Indiani d’America sono stati distrutti fisicamente e culturalmente dai conquistatori europei. La loro forma di vita oggi non esiste più. Ciononostante di essa abbiamo molte testimonianze, qualcuna arrivataci direttamente come una freccia nel fianco di questa strana cosa che chiamiamo modernità: ottusa, accecata dalle ideologie, astratta e violenta. Come quell’incredibile autobiografia dello stregone dei Lakota, raccolta nel 1930 dallo scrittore John Neihardt10. Alce Nero, ancora quasi un bambino, ha vissuto una guerra priva di regole, ai suoi occhi inspiegabile, che mirava alla distruzione della nazione indiana. Come tutti gli Indiani d’America della sua generazione ha visto l’arrivo di un nuovo potere, sconosciuto, che ha sovvertito antiche leggi e che avverte come il male. Per capire questa altra “legge”, terribile e inaudita, e per ricavarne nozioni che potrebbero essergli utili a salvare la sua nazione, Alce Nero si fa lui stesso antropologo e parte per l’Europa, con una compagnia che porta in giro uno spettacolo di danze selvagge. Va in Inghilterra, dove si esibisce davanti alla regina. È poi a Parigi, sempre con lo sguardo di chi vuol capire come sia possibile avere una forma di vita come quella dei bianchi. Viaggia fino a Napoli, una grande città sul mare sovrastata da una montagna a forma di tenda – così la descrive. Il libro spesso commuove, ma non per la nostalgia di un passato distrutto, semmai per una possibilità di sviluppo della comunità umana diversa da quella che l’Occidente ha saputo creare. 10

Black Elk, Alce nero parla. Vita di uno stregone dei Sioux Oglala. Messa per iscritto da John G. Neihardt (Arcobaleno Fiammeggiante). Illustrata da Orso In Piedi, Milano, Adelphi, 1990.

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Un’altra possibilità, che in quel round della partita è andata distrutta, ma che è comunque attiva, come sguardo critico sul presente. Ecco un passo dal racconto di Alce Nero: Ormai tutta la nostra gente si stava sistemando in case grigie quadrate, sparse qua e là su questa terra da fame, e i Wasichu avevano tracciato intorno a loro una linea, per recintarli. Il cerchio della nazione era stato spezzato, e non c’era più un centro per l’albero fiorente. La gente era disperata. Li sentivo pesanti, pesanti e bui; così pesanti che non li si poteva più sollevare; così bui che non gli si poteva più far vedere nulla. La fame ritornava spesso tra di noi, adesso, perché buona parte di ciò che il Grande Padre a Washington ci mandava, probabilmente lo rubavano i Wasichu, che erano pazzi per il denaro. C’erano molte menzogne, ma non le potevamo mangiare. La lingua forcuta faceva promesse. Io seguitai a curare i malati per altri tre anni, e molti vennero a me e furono salvati; ma quando pensavo alla mia grande visione, che doveva salvare il cerchio della nazione e far fiorire nel suo centro l’albero sacro, mi veniva voglia di piangere, perché il cerchio sacro era stato spezzato e sparso qua e là. La vita del popolo era in quel cerchio; e che sono molte piccole vite, se la vita di quelle vite se n’è andata?11

Si potrebbe forse considerare questo sguardo (o anche quello di Pasolini che gli è molto vicino per tonalità e posizione) come sterile nostalgia per un passato che non c’è più? Credo proprio di no. Si può essere disperati senza capitolare, anzi, a volte, solo se si è disperati è possibile opporre una resistenza. Una critica nei confronti dell’odierno assetto del mondo, del potere distruttivo della sua tecnologia e economia di guerra – che sta portando verso la più concreta e fino a pochi decenni fa inimmaginabile fine del mondo – non può non prendere dentro anche questo tipo di sguardo, fatto di emozione e disperazione, che è il segno del conflitto, dell’insubordinazione allo “spirito del tempo”, e quindi della possibilità di una resistenza. Del resto le altre possibilità di “comunità umana” non sono affatto il passato. Sono ancora presenti, stratificate e attive. Niente viene superato dalla storia – diceva Pasolini contro Hegel – neanche ciò che è andato distrutto. E anzi, come scrive l’antropologo Johannes Fabian nella prefazione all’edizione del 1982 di Il tempo e gli altri:

11

Ivi, p. 216.

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[…] lottiamo per riportare le esperienze passate, seppellite da strati di ‘inculturazione’ nelle altre società e in altri linguaggi, a un tipo di presenza che le renda criticamente fruttuose12.

Fruttuose a quel tipo di critica che, come scrive Foucault, serve a farci percepire il presente come non necessario, a lasciare aperta l’idea che le cose avrebbero potuto e possono andare diversamente. Se Pasolini ha parlato di una fine del mondo, lo ha fatto con questo tipo di sguardo. La sua descrizione è piena di quella stessa commozione che trapela dal racconto di Alce Nero. Qualcuno proprio per questo l’ha considerata troppo soggettiva, personale, intrisa di nostalgia e del senso di una perdita. Ma è proprio per questo che, come il lamento di Alce Nero, essa ci rimanda tutti gli inquietanti interrogativi sul nostro mondo, così efferato da dipingersi anche come inevitabile, conforme allo spirito della storia. Come tutte quelle narrazioni miracolosamente raccolte dagli etnografi, che ci arrivano da culture spezzate, distrutte, che non perdono per questo il loro carattere «rigenerante», essa è un racconto di resistenza. Come lo è lo sguardo pur cupo e pessimista di Leopardi di fronte al Vesuvio sterminatore nella Ginestra.

12

J. Fabian, Il tempo e gli altri. La politica del tempo in antropologia, trad. it. di L. Rodeghiero, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2000. Il libro contiene una critica radicale dell’antropologia, accusata di aver contribuito a creare l’idea di uno sviluppo storico, di un’unica Storia e di una misura comune del Tempo, ed è stato determinante nel far guadagnare all’Occidente uno sguardo diverso sulla pretesa Storia.

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L’ultima rivelazione. Ceronetti, Campo di Magda Indiveri

Ovunque ci volgiamo nella bufera di rose La notte è illuminata di spine, e il rombo Del fogliame, così lieve poc’anzi tra i cespugli, ora ci segue alle calcagna. Ingeborg Bachmann1

L’Apocalisse viene dopo. La catastrofe, la caduta degli astri, l’ultimo giorno: tutto questo è aggiunto, interpretato, quasi posticcio. Se in principio fu l’Apocalisse di Giovanni, su ciò che si dice nel testo di partenza è stata rovesciata una rete interpretativa, e apocalittico ha trovato la sua collocazione nei dizionari, accanto a bovarismo, donchisciottesco, kafkiano. «Tra le parole diventate ormai insoffribili, per la loro laida degenerazione in luoghi comuni, c’è apocalittico, che bisognerebbe gettare in un bagno d’acido a ripulirsi dalle croste vergognose dell’uso improprio e della ripetizione estenuante»2. Così, perentorio e iconoclasta, Guido Ceronetti. Nonostante questa affermazione, dire che Ceronetti è scrittore apocalittico non è blasfemo né discutibile. Basta scorrere i suoi interventi sulla stampa, poi raccolti in volume, le sue note critiche. Paolo Milano recensendo nel 1975 La carta è stanca, lo definì «cronista dell’Apocalisse». Ed è rivelatrice la descrizione che di Ceronetti fa il filosofo Cioran: La sua aria d’uomo che non è di nessuna parte, la sua aria d’inappartenenza originaria, di predestinazione all’esilio quaggiù, mi ha fatto pensare immediatamente a Myskin. […] Dà l’impressione di un uomo ferito, allo stesso modo, sarei tentato di aggiungere, di tutti coloro cui fu negato il dono dell’illusione. Tra tutte le persone, le meno insopportabili sono quelle che odiano gli uomini. Non bisogna mai fuggire un misantropo3. 1

I. Bachmann, Poesie, trad. it. di A. M. Mandalari, Parma, Guanda, 2006, p. 55. G. Ceronetti, Messaggio dalla Calypso, in Id. La carta è stanca, Milano, Adelphi, 1976, p. 42. 3 E. M. Cioran, Guido Ceronetti. L’inferno del corpo, in Id. Esercizi di ammirazione, trad. it. di M. A. Rigoni, Milano, Adelphi, 1995, pp. 202-05. 2

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È necessario tornare, per intendersi, all’opera primaria. La vera Apocalisse è una specie di panopticon che parte dall’abisso e all’abisso ritorna. Giovanni, ovvero il sapiente di Patmos, scrive in forma visionaria l’interpretazione evangelica sul senso della storia umana. Dell’originale greco, un idioma seriale, trascurato, secondo i suoi esegeti, eppure ricco di iperboli e di anafore, è stata fatta da S. Girolamo la versione latina, ma «la traduzione di S. Gerolamo e il testo di Giovanni sono come due cavalli che tirano a bordi contrapposti, che continuamente scartano»4. Lo svelamento avviene in un passaggio da Dio all’angelo a Giovanni che testimonia quel che vede. Una porta nel cielo è ingresso della visione, una voce ordina di scrivere quel che appare e Giovanni si volta «ut viderem vocem», per vedere la voce. Che è definita voce di molte acque e spada larga, acuta, a due tagli. Ceronetti è apocalittico se carichiamo la parola di più significati: profezia, paradosso, abisso, preghiera, rivelazione. Apocalisse è profezia, ma non nel senso del pre-dire né del pre-vedere. Il profeta non vede il futuro, vede il presente. Vede nel presente quello che gli altri non vedono, e dice del presente quello che gli altri non vogliono ascoltare. Il profeta parla prima, parla davanti, in pericolosa confusione tra pro/feta e pro/fessore. Vede, e parla, prima degli altri perché deve far vedere, far ascoltare, torcendo il muso dell’umanità renitente perché sia costretta a guardare. Per questo c’è bisogno di un’altra lingua, e lui, come profeta, ne possiede il vocabolario, se ne può fare traduttore. Apocalisse è anche alfabeto di segni che permetta all’umanità di prevedere le svolte traumatiche del suo cammino, inteso come tempo a termine in una Einbanhstrasse, una benjaminiana strada a senso unico, fitta di segnali da decifrare. Apocalisse è paradosso, pensiero paradossale nel senso letterale del termine, cioè “al di fuori della doxa”, dell’aborrita opinione comune, che Ceronetti ama provocare e scandalizzare. Apocalisse è dysangelium, annuncio al negativo, cattiva novella, avviso della fine: «il cielo verrà arrotolato come i fogli di un papiro, le stelle cadranno come fichi da un albero piegato dal vento». «La paura dell’apocalisse – segnala Ceronetti in un articolo sul «Dopo dei Dopi» – si fissa alla paura umana della morte, che come diceva Ingmar Bergman è venire «trasformato da qualcuno in nessuno». L’errore che fa nodo è nell’immaginare un confine. Ma è metafora inamovibile dal nostro immaginario mentale. Essere liberi dalla rimozione della morte dipende da una modalità del costume linguistico,

4

R. Mele, Il teatro di Dio, in Apocalisse di Giovanni, Salerno, Edizioni 10/17, 2002.

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da uno specifico coraggio linguistico»5, che svela e nomina l’ora che viene. «“L’imminente è imminente” dice il Corano nella sura della Stella: l’Ora era, è vicina sempre»6. Il verbo greco apokalyptein, da cui deriva il sostantivo apokàlypsis significa, in senso materiale e figurato, “scoprire”, “togliere il velo”, “rivelare qualcosa di nascosto”, svelare, o meglio, develare. Interessante prossimità con la parola greca alètheia, che per indicare la verità passa ancora attraverso un atto di svelamento. Celare, cella, l’avverbio latino clam, derivano tutti da kalypto, mentre il greco ha anche krypto da cui cripta ecc. Kalypto è raro nel greco classico, mentre assume importanza in traduzione dell’ebraico galah, vocabolo molto presente nell’antico Testamento, che ha il senso della “contemplazione”, e quindi ancora di attenzione sullo sguardo che si volta su se stesso, che fissa e attende. La vedetta. «Però qualunque sii il punto di questa sera ch’aspetto, si la mutazione è vera, io che son ne la notte, aspetto il giorno, e quei che son nel giorno, aspettano la notte: tutto quel ch’è, o è cqua o llà, o vicino o lungi, o adesso o poi, o presto o tardi» scrive Giordano Bruno nelle parole di dedica al Candelaio7. Sicuramente apocalittica è l’immagine che Guido Ceronetti dà del tradurre nella prefazione ai Carmi di Catullo: che è danzare «con un decapitato»8. Si riferisce in particolare alle traduzioni del «molto lontano da sé» (il greco, il latino, l’ebraico, l’aramaico), condotte instancabilmente, nella sua lunga vita (ha compiuto ottant’anni nell’estate 2007). Nell’introduzione alla sua traduzione da Marziale, oltre a riandare all’eccitazione e al piacere provati nei lontani anni Sessanta, anni impegnati nell’opera di «riscrittura», rappresentati con la posizione di un «inginocchiato sulla pietra dura dei linguaggi morti», raccomanda al lettore di imparare il latino. Così, «invece di Ceronetti – ammonisce il medesimo – leggerai Marziale»9. Nel Libro dei Salmi dichiara che «nessuno ci darà mai un antico testamento italiano, completo, grande, decisivo: un buon motivo per imparare l’ebraico»10.

5

G. Ceronetti, Ceronetti di fronte al dopo dei dopi, «Il Foglio Quotidiano» , anno XII, n. 196, 21 agosto 2007. p. 1. 6 Id. La Bibbia di Quinzio, in Id. La vita apparente, Milano, Adelphi, 1982, p. 45. 7 G. Bruno, Il Candelaio, Torino, Einaudi, 1964. 8 G. Ceronetti, Nota a Catullo, I Canti, Torino, Einaudi, 1969. 9 Marziale, Epigrammi, versione di G. Ceronetti, con un saggio di C. Marchesi, Torino, Einaudi, 1966. 10 Il Libro dei Salmi, versione e commento di G. Ceronetti, Milano, Adelphi, 20062.

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Recentissimamente ha protestato per l’abbandono della Messa in latino, e non per ragioni religiose: «Non va trascurata la bruttezza, l’imprecisione, l’inadeguatezza delle traduzioni adottate, bibliche e liturgiche, nella messa conciliare. Basterebbe quel “e col tuo spirito”, così letterale e così patata, di risposta a Dominus vobiscum… Che cosa s’intende per spirito? Che cosa rinvia di più al semplice vobiscum dell’officiante lo spiritus della risposta? Basterebbe quello sviante “togli” letterale per tollis in Agnus Dei qui tollis peccata mundi, perché il senso è al mille per mille “porti”, secondo l’imprescindibile origine biblica da Isaia 53, 7 dov’è pura metafora e non prefigurazione messianica. L’Agnello divino porta, si carica dei peccati, altro non può fare, non toglie nulla, non cancella nulla, sarebbe una cuccagna! Il senso del verbo latino tollo è pregnante ma anche a portata di dizionario, consiglio di dargli un’occhiata»11. Non è la distanza temporale con un testo che spaventa Ceronetti nell’opera di traduzione, ma la confusione che si è ingenerata tra linguaggio comune e Poesia. «L’orrore della vita ci è rannicchiato dentro, come un perpetuo feto. Ogni nuova traduzione che tento di un testo antico mi porta questa paura: come agirò con lui se non ne conosco il dio? Il dio è introvabile e il rapporto col testo somiglia a un ballo col decapitato. Quando un poeta moderno converte nel proprio linguaggio un poeta antico, avrà compiuto un assassinio. C’è sempre odore di animale abbattuto, dove il passaggio da una poesia a un’altra ha avuto luogo. Al testo di regola bisogna aderire, perché muoia bene: non si può dire che uno che uccida con le proprie mani non aderisca anima e corpo alla sua vittima. Il rapporto testo-traduttore è dei più stretti e mortali, e la distruzione è portata nel testo ancora prima che sia stato tradotto, se si è non troppo stupidamente vissuto»12. Ricorre nel pensiero ceronettiano il legame tra traduzione e morte, tra traduzione e linguaggio altro. Scrive tra i suoi aforismi: «Ecco che cosa è in profondo tradurre: esercitarsi, non in una lingua, ma a morire. Lungo la via si manifestano compagni che non ti abbandoneranno» e anche «Il mistero del linguaggio non è dei soli viventi ma abbraccia i morti»13. E poi: «Imparare le lingue è soltanto utile. Nelle lingue imparare qualcosa del linguaggio è l’essenziale. Pervenire fino alla parola è l’unica cosa che conti. C’è di più, ancora: toccare il suono, la vibrazione»14. Nel tradurre dunque si agisce a livello alchemico, perché si può «intravedere dallo spioncino il ribollimento dell’inconoscibile, la presenza co11 12 13 14

«La Stampa», 11 luglio 2007. G. Ceronetti, Nota a Catullo, cit. Id. Pensieri del tè, Milano, Adelphi, 2000, p. 47. Ivi, p. 58.

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stante, dentro le parole che il fornello ha salinizzato, dell’abisso… »15. Come se la traduzione permettesse di avvicinarsi ad una essenza, ad una energia cosmica, ad un dio; letteralmente, “ut viderem vocem”: per vedere la voce. In un articolo in cui ripercorre la sua vita come in un esame di coscienza, analizzando il suo mestiere di traduttore Ceronetti riconosce di interpretare i testi con criteri molto personali, «esasperando il movimento tragico, tagliando il più possibile i draghi della pietas intorno all’autonomia della parola sacra. Il dio d’Abramo lo riconosco dal tuono; anche questo è un dio che s’incarna in un linguaggio; la sua verità avrà i limiti di questo linguaggio? E si può tradurre questo Dio in un altro linguaggio, contaminato da altri Dei, da presenze che lo disturbano? Lo faccio bene, dicono: questo aggrava la mia empietà. Il cattivo traduttore non danneggia l’Abitatore dei testi, perché non ne sposta niente; ma la buona traduzione potrebbe riuscire a spostarne qualcosa. So bene di essere fuori da questi testi che ho addentrato. La mia giustificazione è che mi abbiano scelto per far colare in un altro stampo qualche tratto della loro immagine»16. I testi dunque scelgono l’interprete, lo chiamano per essere aperti. «L’ultima parola sarà sempre quella di un uomo solo, che scava i fenomeni col proprio pensiero, riceve immagini dall’ignoto, lotta col male morale e metafisico, sente le analogie, profetizza e ragiona. Dobbiamo avere scorte di parole non labili, antiche e moderne, per fulmineamente applicarle, con strabismo infallibile, nei punti inconsueti, nei luoghi improprii, dove c’è più fame e meno speranza di loro»17. La questione sta dunque in quel coraggio linguistico di cui si parlava all’inizio e che corrisponde allo sguardo apocalittico, alla fiducia nella parola come carne, come luce «che si mangia» («La langue, rien que la langue,/ voilà l’important» è citazione di Céline, riportata da Ceronetti in una sua prefazione) che sia «sfida di parole viventi», «ferita che ama», «porta» di un significato importante per la sopravvivenza18 – non semplicemente la correttezza filologica, anche se è necessaria, ma il passaggio a un livello ulteriore, profondo, che giunga all’inermità dell’uomo. Il traduttore come medico delle parole, «insetto chirurgo» cui piace «specillare qua e là dentro la storia»19. Medicare che è come pregare: azioni tutte profondamente umane, alle radici dell’umanità. 15

Il Libro dei Salmi, cit. G. Ceronetti, L’Esame di mezzanotte, in Id. La carta è stanca, cit. 17 Id. Beatitudine dell’inquinamento, in Id. La carta è stanca, cit. 18 «Ci sono delle porte in quei messaggi antichi, in quelle voci perdute; custodite o sprangate, inaccessibili, ci sono». G. Ceronetti, Kafka e Leopardi, in Id. La vita apparente, cit. 19 Id. Introduzione a Id. La vita apparente, cit. 16

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«Dire uomo è dire preghiera, essere orante, fatto per essere abitato, indossato, riempito d’echi dalla preghiera. […] Si prega, recitando(lo)? Io ne ho ricevuto della calma, traducendo(lo) infinite volte… Tradurre è meditare. Ho meditato realmente solo sui testi che ho tradotto o che ho pensato, sui treni delle letture perdute, come tradotti; su parole isolate ho anche più lungamente meditato; ne ho ricavato, a mia volta, isolamento, si sta come su un scoglio, contenti. Pregare è un po’ come credere che la fine del mondo sia già avvenuta. Parlando del buio siamo già usciti dal buio, la preghiera ne anticipa il dissolvimento del mondo. L’uomo che prega non è necessariamente migliore dell’uomo che non prega! Ma ha uno sfogo, ha nel corpo un foro in più». È interessante notare come in Ceronetti la preghiera e la poesia siano forme di apertura a una conoscenza più profonda della condizione umana, della sua infimità. L’uomo parla sempre de profundis. Il Salmo 130 tradotto da Ceronetti suona «Dalle bassure ti invocherò Signore»: da un luogo profondo non si può che gridare, chiamare l’alto, la disperazione è esclusa. Il nostro chiamare è dall’esistenza, dal cuore, dal nulla, dal deserto. E Dio è l’abisso spalancato di cui ha conoscenza la cerva del salmo 42, altro elemento di forte meditazione per Ceronetti. Le bassure sono anche il cespuglio del ginepro, a’arar, da cui il derelitto chiama. Nello Zohar, il Libro dello Splendore, si dice: «Vieni e considera. Il pensiero abissale è il principio di tutto. Per il fatto che è pensiero, si trova all’interno, segreto e non palese. Spingendosi oltre il pensiero giunge laddove si trova il respiro (ruach)». E Dio guarda la preghiera che viene dalla nullità. «Il vuoto non può che essere orante, non può che attendere. L’attesa è una strana salvezza, chi abbraccia questa forma di tempo non ha altro da fare che attendere, e intanto bramire, lamentarsi, pregare. Più gridiamo frattura, più armonia provochiamo»20. Sulla stessa linea riguardo alla preghiera incessante, pur con un retroterra religioso diverso, scrive nel 1967 sul «Giornale d’Italia» Cristina Campo: la giaculatoria che deriva il suo nome appunto da jaculum, dardo o freccia scoccata, il pregare come si pulsa o si respira, sono strumenti di apertura. «È certo che se l’uomo conoscesse la sterminata potenza della sua anima quando un costante movimento verticale l’assicuri come un canapo a Dio, persino un mondo qual è il nostro cesserebbe di atterrirlo, e beninteso, di affascinarlo»21. 20 21

Id. Morte della preghiera, in Id. L’occhiale malinconico, Milano, Adelphi, 1988. C. Campo, Dardi verso il cielo, in Id. Sotto falso nome, Milano, Adelphi, 2002.

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L’ULTIMA

RIVELAZIONE.

CERONETTI, CAMPO

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La traduzione si apre alla dimensione etica, perché, come sostiene Berman, è «nella sua stessa essenza, animata dal desiderio di aprire l’Estraneo in quanto Estraneo al proprio spazio di lingua»22. La concezione della funzione sacra del tradurre, come una liturgia, una preghiera, è comune alla poetica di questa traduttrice singolare. «Cristina Campo, la più recente traduttrice italiana di John Donne, non invita a una gelida cena letteraria, con sermoni e pizzi elisabettiani in salsa storico–filologica: mostra il poeta, uno dei più sacri che furono, nel ragnatelo del sacro che l’imprigiona. Per grazia di un occhio che ha saputo abbracciarla, la magnificenza […] viene armoniosamente percorsa, come un paramento dall’ago che lo trapunta. Saluto […] le dita, riconosciute dal battito musicale del ventaglio, di una sapienza oggi tra le più strane. La Campo, che possiede la scienza esatta dei riti, […] riconduce gli opposti al centro coincidente scorrendo per i labirinti infallibili della liturgia. L’idoneità di John Donne ai riti e alla musica è perfetta, perché lo è la sua umanità e l’umanità intrecciata di riti e di musica della sua traduttrice»23. Così Guido Ceronetti in una recensione sull’«Espresso» (ora nel volume La carta è stanca del ’76) all’edizione Einaudi (’71) delle poesie di John Donne, tradotte da Cristina Campo. Bel gioco di specchi, un traduttore che interpreta il lavoro di una traduttrice. Ma le affinità tra i due non si esauriscono qui. Il grande “apocalittico” riconosce alla Campo una serie di qualità che coglie lucidamente e definisce con parole esatte e felici; l’occhio, l’ago, la musica, il rito. Parole chiave, per chi sappia il pensiero di Cristina Campo, che dedicò la sua vita al leggere, all’interpretare, al tradurre, e di questa triade poi leggere e scrivere diventano i capisaldi, le facce interscambiabili. Il lavoro di scelta e di traduzione di ventiquattro poesie, amorose e teologiche, di John Donne è in ordine di tempo l’ultima opera di traduzione della Campo pubblicata, ma non la più recente, perché in realtà va ascritta a un tempo molto più esteso. Sappiamo dalle lettere (altra grande e importante attività di Cristina, opera letteraria anch’essa) che la lettura di Donne appartiene a un periodo molto precedente, la seconda metà degli anni Cinquanta, nel passaggio tra Firenze e Roma, periodo fertilissimo perché molti degli interlocutori letterari della Campo – Simone Weil, Donne, Eliot, Lawrence – vengono letti e metabolizzati proprio in quegli anni. Scrive dunque a Mita il 17 novembre 1958 «Leggo le Upanisad; la Bhagavadgita, 22

A. Berman, La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza, a cura di G. Giometti, Macerata, Quodlibet, 2003. 23 G. Ceronetti, Poesia e riti, in Id. La carta è stanca, cit.

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John Donne» e il 2 giugno 1959: «Dice Donne: “ma ora il sole è a picco sul nostro capo, noi calpestiamo le ombre e ogni cosa è ridotta a coraggiosa chiarezza”: È così, non è vero?»24. E dunque dal ’58 la lettura e la traduzione prendono veste editoriale, completate da due saggi interpretativi, più di dieci anni dopo. Abbiamo citato Simone Weil: di lei, scoperta a Firenze, portata con sé a Roma, lungamente meditata, Cristina tradusse Venezia salva pubblicato per Morcelliana nel ’63: abbiamo lo scambio epistolare con l’editore Minelli che ne testimonia l’attenzione, la cura, il lavorìo (con la versione più volte cambiata in bozze). Ugualmente importante il carteggio con il poeta William Carlos Williams, di cui tradusse molte liriche e alcuni testi in prosa. Dalla villeggiatura a Manziana Cristina scrive a Mita di un «poeta che è stato con me sul lago e in queste notti. Ha 72 anni ed è come un cinese antico. “Il nostro segno è il fiore” dice da qualche parte»; due mesi dopo riprende: «Anche il Williams si forma, lentamente». Era il 1957. Questa intensità e concentrazione di lettura, questo girare lungamente intorno ai propri «testi d’anima», e condividerli con i propri corrispondenti, ha fatto sì che dopo la sua morte sia stato necessario inventariare tutte le traduzioni poetiche e pubblicarle in un volume, La Tigre Assenza, insieme alle poesie originali di Cristina: una raccolta che singolarmente assomiglia a quella ordinata da Ceronetti sotto il titolo di Come un talismano, inteso come manuale di sopravvivenza all’orrore, e che Cristina avrebbe gradito perché sulla linea del Libro degli amici dell’amato Hofmannsthal. Di teoria della traduzione la Campo nei suoi saggi, ora raccolti con il titolo Gli imperdonabili, non ha mai parlato esplicitamente; è interessante però leggere cosa consiglia all’amico Alessandro Spina nel momento in cui inizia la collaborazione per la traduzione e introduzione de La città di Rame, cioè la 556esima delle Mille e una notte. Spina traduce dall’arabo, e Cristina gli scrive: «La traduzione va benissimo. Non tema di essere troppo arabo, traduca prima tutto com’è, con le ripetizioni, circonvoluzioni, meandri, cerimonie. E proprio questa base rozza, letterale, che dà le migliori idee per evaderne»; e in una lettera successiva: «Per la lingua, che ne dice di rileggere Marco Polo (XIII secolo) e padre Daniello Bartoli? Sarebbe un impasto meraviglioso, credo»25. Metodo dunque di rielaborazione, di lavorazione della lingua nella traduzione, che è necessario impastare, contaminare, per ottenere il precipitato giusto. 24

C. Campo, Lettere a Mita, a cura e con una nota di M. Pieracci Harwell, Milano, Adelphi, 1999. 25 Id. Lettere a un amico lontano, Milano, Scheiwiller, 19982.

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L’ULTIMA

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La questione è che la Campo concepisce il tradurre allo stesso livello del comporre poetico, di cui dice (in Parco dei Cervi) che è «un precipitare improvviso, biologico vorrei dire: un punto che va toccato da tutti gli organi insieme – come destarsi un mattino e sapere una lingua nuova: i segni, visti e rivisti, diventano parole». Sono dunque naturali le leggi che sottostanno a quel «formarsi lentamente» del testo, che è «enigma ogni volta nuovo e nuovamente proposto; mai risolto se non nell’ora decisiva, nel gesto puro […] alimentato giorno dopo giorno di visione e silenzio» (Della fiaba). Il testo che si legge e si traduce prende forma nella richiesta di attenzione, nella capacità di rinuncia, di astensione e di accumulo, nell’attesa dell’ora propizia che è la «lampeggiante fissura tra l’ordito e la trama in cui la spola penetra fulmineamente» (Notti). Di questo si alimenta la poesia e al tempo stesso la traduzione. E poi, di quel sapore massimo di ogni parola (è definizione weiliana) che si ottiene attraverso la consapevolezza che i significati sono come faglie di una colonna geologica, ciascuna «riservata al grado di attenzione di chi la dovrà accogliere e decifrare» (Attenzione e poesia)26. Acquista perciò un senso evocativo l’invito che in una lettera Cristina fa all’amica Maria Zambrano: «Aspetta il tuo libro là dove gli hai dato appuntamento. Non lo tradire» (25 luglio 1962)27. Nessuna separazione dunque tra leggere, tradurre, comporre. L’intero approccio di Cristina Campo alla letteratura ci pare possa avvenire sotto l’egida di una lenta filtrazione, un colarvi di un senso lungamente preparato e poi cairologicamente reso perfetto; si tratta dell’esercizio di una virtù naturale e negativa («ècrire, come traduire, negatif» è altro emblema weiliano) che è «paziente accumulazione di tempo e di segreto che si rovescia subitamente». Occorre lasciare dei vuoti, come indica Pasternak riportato dalla Campo, che la precipitazione a suo tempo colmerà. L’ultimo carteggio pubblicato, quello con Leone Traverso28, il maestro e compagno degli anni fiorentini, ci rende vividamente una Cristina entusiasta, assetata di letture di cui si imbeve. «Tutto ieri, nel sole, ho letto Eliot…Vorrei non aver mai scritto una parola – solo oggi comincio a capire come si fa» (6 aprile ’56); «Abbi pazienza se non so bene quel che ti scrivo. Ho perduto di nuovo l’alfabeto e non so intendermi che con Thomas – dove appunto l’alfabeto scompare» (10 maggio ’56); «So già quel che vorrei dire, ma anche – ahimè – che solo Emily riuscirebbe a dirlo come desidero… Sai, l’orlo della veste dell’angelo trattenuto e lasciato – (Mid-night, «good 26

Id. Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987. «Humanitas», 58, 3, 2003. 28 C. Campo, Caro Bul. Lettere a Leone Traverso (1953-1967), a cura e con una nota di M. Pieracci Harwell, Milano, Adelphi, 2007. 27

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night»,/I hear them call,/The angels bustle in the hall/ Softly my future climbs the stairs…)». Letture che mettono in discussione tutta se stessa e la fanno riflettere sulle sue radici: «…fino a 3 anni fa non avevo assimilato quasi nulla di quanto avrebbe potuto servirmi come mestiere più tardi. È strano che per trovare nella memoria qualcosa che vi abbia decisamente gettato un seme io debba risalire ai 13 anni, quando copiai da una rivista inglese la poesia A wife at daybreak di Emily Dickinson, allora pochissimo conosciuta in Europa (e a me totalmente ignota, si capisce)… unici semi che il mio terreno accolse completamente». Leone Traverso è lui pure grandissimo traduttore (in una lettera del ’55 Cristina si complimenta per l’Hölderlin da lui tradotto: «Hai lavorato bene, vecchio Lev! Raggi d’oro saettano da testo e versione – specchio ustorio che rischia di mandarmi a fuoco»). Ma mentre per lui si tratta di un ufficio di «impiegato della poesia altrui», una «vita di riflesso, di tramite ai sentimenti e alle parole altrui» (6 agosto ’56) di cui sente tutto lo sgomento, tradurre per Cristina è leggere e comporre, è vivere. Ne è consapevole il suo interlocutore, riconoscendole di essere dello stesso paese degli autori letti, Eliot, la Dickinson, la Weil: «Quella, Vie, è la gente del tuo paese – come dicevi – non io: quell’impeto raccolto, quella perseveranza oltre la speranza, quel respiro anche nell’angustia più tremenda, voluta». Un paese lontano, quello di Cristina Campo, sospeso nel lento, liturgico precipitare della parola, come riconosce ne Il flauto e il tappeto: «A noi non spetta che attendere nel paziente deserto, nutrendoci di miele e locuste, la lentissima e istantanea precipitazione». Quello che in Cristina Campo è composta liturgia, poesia e riti, appunto, attesa di una rivelazione, in Ceronetti è consapevolezza dell’essere «pedina di dolore», «cammino di morte», muggito. Per questo negli anni Ottanta, dopo le grandi traduzioni bibliche, il Cantico, Giobbe, i Salmi, il Qohelet, più e più volte riscritti, prepara un libro di traduzioni come «manuale di difesa mentale dall’invasione delle tenebre»29. Lo definisce talismano, parola che tra l’arabo e il greco (telesmena) significa “cose consacrate”, figure con una loro relazione con gli astri. Si tratta di una antologia di testi tradotti che lungo l’arco dei secoli e delle terre sono «testimoni volontari, non messi apposta, né cercati». Nella postfazione, intitolata Poesia e solitudine, dà conto del suo agire. 29

G. Ceronetti, Come un talismano. Libro di traduzioni seguito dal saggio Poesia e solitudine, Milano, Adelphi, 1986.

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«Il tragico che si rapprende in parole, che urla nelle scritture ci ha consegnato Salamov, Celine, Beckett, un mucchio d’immagini dove io rovisto tutto il giorno, buco nero della maschera di Dioniso. Del tragico di ieri dovremmo farci scorte come si fa nei rifugi atomici, e rimangiarne instancabili, perché c’è il rischio che ben presto, infelicità e sciagura non siano più che pretesti e vie per l’inebetimento, il rischio che la fascinazione della stupidità e l’eccesso dell’infamia rendano muto anche il tragico, incomprensibili, persino inudibili gli ululati di dolore e non sia lasciato spazio che all’insignificanza». In lotta con l’inebetimento Ceronetti concepisce una parola profilattica, stornatrice del male, un atto di pietà contro quella tenebra che è tanto avvolgente da far sì che si stenda la propria mano e non si riesca più a vederla. Allora i testi poetici tradotti – dal Corano, a Saffo, a Blake, a frammenti di Zola, a poesie di guerra contemporanea, sono «pane di carta e di carte». Più volte, come un verso molto meditato, cui aderisce con tutto se stesso, Ceronetti richiama il Qohelet 11, 1: «gettalo all’acqua il tuo pane/i giorni in cui ne trovi/non li conterai». Ne discute la traduzione, le interpretazioni successive. Nelle parole poetiche ritrova il pane «che avevo gettato alpenè hammaim, sulla faccia dell’acqua, e che credevo relegato nei fondali del Quasi nulla! Che cosa c’è di meglio che ricevere gratitudine in cambio di un quantusculum, nell’infinito, di tenebra scostata?». «La lettura di questi testi è catarsi: di cui è artefice la lingua, il traduttore non trasmettendo che il sentimento e l’anima in penombra, non può provocarle. In italiano provoca lacrime il suono del Tasso nella Gerusalemme, il suono (non il sentimento) di Leopardi: chi li legga tradotti resta asciuttissimo. Non è la storia della Pia a fare che la voce tremi, è l’inesorabile monacatura del suono nel verso “ricorditi di me che son la Pia”. Allora la traduzione viri sulla cattura di tutti i segmenti mentali occulti che può acchiappare e i combaciamenti di luce possibili, se non vuole restare inerte. Una geografia emotiva». Su questa strada, anche l’uso di frammenti di traduzioni, come barbagli di luce, la vera e propria ermeneutica del frammento, viene giocata per scostare la tenebra. «Un breve insieme di parole con su impresso un sigillo arcano, di parole viventi, che respirano, non è cosmo, sistema planetario? Non è tutto il finito, tutto l’abisso? Sempre più i presocratici del Diels li si pensa corpus di interi, non mucchietto di code di lucertola. Solo nei frammenti, in ciascun frammento giace l’essenza (è certezza moderna e occidentale) di una rivelazione (pessimisticamente in profondo negata al rotolo, al capitolo intero)». Non alla grande opera quindi ci si affida ma ai residui, nella consapevolezza che l’uomo non è più altro che essere mortal-

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MAGDA INDIVERI

mente amputato, smembrato, ma pur in questo intero. Sono le immagini di Hernandez a parlare all’ultimo Ceronetti: basta «un pedazo» per vivere; «un residuo di carne è un uomo intero». E il treno delle traduzioni continua ad attraversare la notte senza fine, come dice Hernandez «detenei ese tren agonizzante/que nunca acaba de cruzar la noche»: «fermatelo quel treno in agonia/attraversante notte senza fine»30. E se il margine si allontana senza per noi poterci entrare, come Mosè nel deserto, almeno il pane gettato nell’acqua avrà condotto altri più vicino alla meta. Negli ultimi anni un passo ancora in avanti dell’irriducibile Ceronetti lo porta a scommettere e a spendersi sulla lettura ad alta voce, sul teatro di attori o di marionette. «Molta vita questi testi mi hanno carpita, molta me ne hanno data; oggi vorrei ritrovare i suoni. Chiedo disperatamente aiuto alla scena, a quel vacuum». Ne esce un volumetto, Siamo fragili, spariamo poesia, che non è più solo un’antologia ma è un copione31, costruito per passione del verbo magico guaritore, fatto di soffio e di saliva. «Occorre la parola vocale». Nell’introduzione al Libro di Giobbe, aveva scritto: «Soffrire è il mio mestiere d’uomo, e non facendolo passabilmente rischierei di morire scontento. […] Il pane che ho gettato so che lo ritroverò»32. E nel 1988 aveva progettato una messinscena del testo, un quadernetto per Franco Parenti, che poi si arrestò per la morte di quest’ultimo. Nelle note per la messinscena, pubblicate nell’edizione del Libro di Giobbe del 1997, compare il concetto di abisso ma anche di aperto, la cara, sorprendente possibilità che Apocalisse sia oriente. La voce recitante, debole lume, serpente di latta, può ancora impedire alla tenebra di entrare. E alla voce che chiede «Che cosa vuoi?» una voce – voce di bambino, o di sapiente – eternamente risponde: «Vedere se c’eri».

30

Ivi, pp. 171-2. Id. (a cura di), Siamo fragili, spariamo poesia. I poeti delle letture pubbliche del Teatro dei Sensibili, Magnano, Qiqajon, Comunità di Bose, 2003. 32 Il Libro di Giobbe, versione e commento di G. Ceronetti, Milano, Adelphi, 19975. 31

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Apocalissi, globalizzazione, digitalizzazione. Il caso di Vilém Flusser di Francesca Rigotti

Apocalisse e globalizzazione «Ecco che si avvicina l’anno 2000, e attorno a questa forma simbolica alcuni motivi profondi cominciano ad affollarsi. Nel corso di questo nostro decennio tale tessuto si farà sempre più fitto e velerà sempre di più lo sguardo sugli eventi, avvolgendoli anzi nella propria ragnatela. Forse i recenti avvenimenti in Islam sono da comprendere in base a tali aggrovigliamenti. Non ci rimane altro che osservare e aspettare la lacerazione del tessuto nell’anno 2001»1.

Questo testo visionario e profetico, scritto da Flusser nel 1990 e pubblicato postumo nel 1993, ha dell’incredibile. Per il riferimento ai «recenti avvenimenti in Islam» (quali? L’invasione del Kuwait?), per quell’accenno alla «lacerazione del tessuto» (un riferimento alla lacerazione del velo nel tempio di Gerusalemme?) che si sarebbe dovuto verificare nel 2001. Il 2001 stava semplicemente, nell’intendimento di Flusser, per l’anno dopo il 2000, suppongo, ma come ci suona spiritato e insieme profetico quell’avvertimento! È innegabile comunque che il testo sia un chiaro riferimento apocalittico, tra i tanti che venivano pronunciati all’avvicinarsi della data dell’anno 2000. A partire dalla svolta tra il secondo e il terzo millennio la pubblica opinione mostrò infatti un rinnovato interesse nell’interpretare eventi e fenomeni correnti in termini teologici, sacri, escatologici. L’evento presente veniva decifrato alla luce del tempo futuro mentre la lettura si appellava a storie e figure del passato. Questo valeva per molti eventi di quegli anni, ma in particolare per uno di essi, che nel momento storico in cui viviamo appare come il più presente, importante, cogente, ma anche minaccioso e angosciante: la globalizzazione.

1

V. Flusser, Nachgeschichte. Eine korrigierte Geschichtsschreibung, a cura di S. Bollmann, E. Flusser, Düsseldorf, Bollmann, 1993, p. 281, traduzione mia (FR). Cfr. il cap. 5 ((L’apocalisse) del volume di P. Bozzi, Vilém Flusser. Dal soggetto al progetto, Milano, Utet, 2007, pp. 140-184.

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FRANCESCA RIGOTTI

Sappiamo che l’uomo è un animale teleologico, che di fronte a un problema o a un evento cerca sempre di individuarne il senso in base a una visione finalistica che considera il corso storico diretto dalla sua origine al suo compimento, a un fine, un tèlos. Il fenomeno della globalizzazione, letto in termini di filosofia della storia, ovvero dotato di una origine nel passato e di una proiezione verso il futuro, appare collocato alla fine della storia, il luogo dell’apocalisse. Un autore russo della fine dell’800, Vladimir Solov’ev, spirito religioso e visionario, lo anticipa con grande chiarezza: alla fine della storia si apre la via alla pace e al benessere per la terra intera, alla fine della storia si realizza l’avvento dell’universalità2. La globalizzazione tuttavia non si trova solo alla fine del tempo della storia, ma anche – e in questo sta la differenza con altri fenomeni collocati anch’essi dall’immaginario alla fine dei tempi, della storia o del mondo – alla fine dello spazio: al di fuori della terra conquistata e del mercato globale, al di fuori del pianeta terra infatti non c’è più nulla. Tutto ciò dà un vivo senso di rotondità della terra, come dice Ricoeur, ma infonde una altrettanto vivace paura del vuoto spaziotemporale, aprendo la porta a visioni escatologiche di tipo apocalittico. Le paure per la globalizzazione – che convivono accanto ad accoglienze entusiastiche piene di afflati liberatori e «progressisti» – sono di vario genere. Sono paure politiche, che paventano la nascita di stati mondiali totalitari, la diminuzione delle competenze locali, la subordinazione degli interessi nazionali, la crescita abnorme di un potere politico–economico–militare che astraendosi dal mondo dispone del mondo. Sono paure morali e psicologiche, di perdita dell’identità locale in nome di una condizione universale vista come non sempre desiderabile. Sono paure culturali, di sgomento davanti alla perdita di culture tradizionali in nome di una «civilisation de pacotille» globale (Ricoeur), oppure sono semplici paure non identificate, angosce e ansietà senza nome di fronte al nuovo e all’ignoto. O sono infine, come nel caso specifico di Vilém Flusser, paure per l’inarrestabile perdita del mondo materiale delle cose e degli oggetti, dovuta all’altrettanto inarrestabile diffusione dei media elettronici. Flusser comunque, pensatore pure molto attento all’attualità, di globalizzazione non parla mai. Il perché è presto detto: tale parola non era ancora di moda, anzi probabilmente non era ancora stata inventata, tanto per confermare il fatto che il concetto di globalizzazione e il termine per designarlo nascono insieme nel momento in cui del fenomeno ci si accorge, 2

W. Solowjow, Die Erzählung vom Antichrist [1900], tr. ted. Luzern, Vita Nova, Verlag, 1946.

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APOCALISSI,

GLOBALIZZAZIONE, DIGITALIZZAZIONE: IL CASO DI

VILÉM FLUSSER

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ovvero negli anni ’90 del secolo XX: non nasce certo il fenomeno in sé, che è invece, – è proprio il caso di dirlo – «vecchio come il mondo», e che col mondo, o almeno con la comparsa al mondo delle prime due persone, ha inizio, anche se ovviamente gli ultimi decenni hanno assistito a una vertiginosa accelerazione del fenomeno grazie alla diffusione dei trasporti veloci delle merci, delle persone, degli stili di vita, delle informazioni (in questo caso, più che veloci, istantanee). Con la diffusione del termine e del concetto di globalizzazione si estende e si diffonde allo stesso tempo il sentimento di disagio e malessere, di angoscia e impotenza, di paura per la fine del mondo, la fine della storia, la fine della politica, provocato dal diffondersi di un’economia globale che minaccia di farci vivere in un mondo standardizzato diretto dall’onnipotente computer, un mondo di consumatori di merci e non più di cittadini e membri di una società. Non solo: si coglie in questi esempi il fatto sorprendente che il linguaggio di questa paura è legato a un sistema di credenze religiose, è legato al linguaggio apocalittico. Si potrebbero farvi tanti altri esempi, tratti soprattutto dalla cultura popolare di massa: è da notare infatti che mentre l’interpretazione di testi apocalittici occupava una volta le menti migliori di un’epoca: Agostino, John Milton, Isaac Newton, William Blake, Lord Byron, ecc. oggi sembra fiorire a un livello popolare distante dalla vita accademica o dai centri culturali3; benché numerosi continuino ad essere gli autori che se ne occupano criticamente anche in prospettiva filosofica4. Dalla cultura di massa proviene l’esempio del cantante rock, autoproclamatosi adoratore di Satana o «Antichrist Superstar» Marylin Manson oppure della cantante rock Madonna che nella canzone In this life, un’elegia per gli amici morti di Aids, alterna al canto la recita di brani del Libro dell’Apocalisse comprese le condanne ai «fornicatori» e agli «idolatri»5.

3 Cfr. M. Wilson Carpenter, Representing Apocalypse: Sexual Politics and the Violence of Revelation, in R. Dellamora, Postmodern Apocalypse. Theory and Cultural Practice at the End, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1995, p. 5. 4 Penso per es. a J. Derrida, On an Apocalyptic Tone Recently Adapted in Philosophy, «Oxford Literary Review», 6, 2, 1984 e No Apocalypse, not now (full speed ahead, seven missiles, seven missives), «Diacritics», summer 1984, pp. 20-31. 5 R. Dellamora, Postmodern Apocalypse, cit. p. 1.

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FRANCESCA RIGOTTI

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Politica e linguaggio religioso È un dato incontestabile che il linguaggio politico abbia sempre filtrato e continui a filtrare immagini e metafore dal linguaggio religioso: si guardi dunque al fenomeno della globalizzazione, col quale si intende l’estensione all’intero pianeta terra di strutture e istituzioni comuni nel campo dell’economia, della politica, delle scienze, dell’istruzione, della cultura, non ultimi nella criminalità organizzata e nella minaccia dell’ambiente – sulla base di questa premessa tecnica. E si osservi quante volte il fatto viene paragonato al Leviatano. È noto che il Leviatano, prima di essere il titolo dell’omonimo testo politico di Thomas Hobbes (1651) è un mostro che compare nell’Apocalisse, libro biblico che mostra con immagini potenti la fine della storia e del tempo. Esso evoca il tempo della lotta finale nella quale Cristo coi suoi angeli e i suoi aiutanti sconfigge le forze degli abissi e si colloca sul trono della sovranità. Di questo mostro si dice nella Scrittura: «Vidi […] una bestia che saliva dal mare; aveva dieci corna e sette teste; sulle corna v’erano dieci diademi e le teste portavano nomi blasfemi […] e adorarono la bestia dicendo: chi è simile alla bestia? E chi può combattere con essa? […] Le fu dato potere di far guerra ai santi e vincerli; e le fu data potestà su ogni tribù, popolo, lingua e nazione. L’adoreranno tutti gli abitanti della terra» (Apocalisse, 13, 1-8). Punti salienti della raffigurazione del Leviatano sono dunque: il potere immenso, l’inarrestabilità, il riconoscimento prestato da tutti i popoli della terra. Con gli stessi termini si tende a spiegare la globalizzazione (economica, politica, culturale, digitale). Un’altra somiglianza, essenziale a questa analisi, è il timore che il mostro suscita. Non v’è potenza che lo superi o gli sia paragonabile (Non est potestas super terram quae comparetur ei). Ma è proprio grazie a questa potenza che lo stato politico globale può assicurare pace e benessere. È in questo senso per es. che lo auspicano Vittorio Hösle e soprattutto Otfried Höffe6: uno stato mondiale repubblicano, federale, democratico, come unica soluzione per assicurare pace e rispetto dei diritti umani, anche se soggetto al rischio di farci vivere «centuries of boredom», secoli di noia, secondo la tanto celebre quanto finora non avveratasi profezia di Francis Fukujama. Sul versante elettronico Flusser sembra riproporre, tale e quale Hösle e Höffe, non a caso esponenti della cultura tedesca, tanto filoapocalittica 6

Rispettivamente in Moral und Politik, München, Beck, 1997 e in Demokratie im Zeitalter der Globalisierung, München, Beck, 1999 (trad. it. La democrazia nell’era della globalizzazione, Bologna, Il Mulino, 2007).

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quanto filohölderliniana, la globalizzazione digitale come l’unica premessa per la pace nel mondo, per un messaggio e una speranza di salvezza. Se la cultura tedesca più di altre sembra coltivare sentimenti e visioni di apocalisse, come sostiene Klaus Vondung7, questa medesima cultura pare anche sempre disposta a evitare però panorami pessimisti e senza uscita come la tragedia classica, e a interpretare piuttosto l’Apocalisse un po’ come, in medicina, la crisi della malattia: il punto più alto del disagio e del malessere, il crinale supremo al quale possono seguire soltanto la fine dell’organismo, ma anche la sua salvezza. Salvezza, o almeno speranza di salvezza, che tanto più è vicina e probabile quanto più determinata dallo stesso fenomeno che ha provocato il malessere, la malattia e infine la crisi stessa. In questo consiste quello che ho chiamato l’«hölderlinismo» della cultura in questione: nel ritenere che la salvezza verrà anch’essa dal pericolo: «Wo aber Gefahr ist, wächst Das Rettende auch» Dove però è il pericolo, Anche ciò che salva cresce8.

Come commenta Heidegger, «il pericolo stesso, se è in quanto pericolo, è ciò che salva. Il pericolo è ciò che salva in quanto in base alla sua essenza porta ciò che salva»9. E che cosa mette in pericolo tanto quanto poi dal pericolo salva, se non la scienza e la tecnica? Nel caso della globalizzazione politica, la fine della politica corrisponde a un nuovo inizio, come spiega chi, come Ulrich Beck, sostiene che coloro che rimpiangono lo stato sociale e lo stato nazionale sono solo degli irrimediabili nostalgici, rispettivamente di sinistra e di destra, quando non dei perdenti, che vorrebbero tornare allo stato precedente all’invasione del mercato mondiale10. 7

K. Vondung, Die Apokalypse in Deutschland, München, dtv, 1988, p. 9 e passim. Cfr. anche P. Bozzi, Vilém Flusser. Dal soggetto al progetto, cit. pp. 140 sg. 8 F. Hölderlin, Patmos, in Id. Sämtliche Werke, a cura di N. von Hellingrath, F. Seebass, L. von Pigenot, seconda ediz., Berlin, Propyläen, 1923, vol. IV, 2, p. 227 (trad. it. Le liriche, liriche a cura di E. Mandruzzato, Milano, Adelphi, 1977, tomo II, p. 261, Patmo, traduzione modificata). 9 M. Heidegger, Einblick in das was ist, in Id. Bremer und Freiburger Vorträge, Frankfurt am Main, Vittorio Klostermann, 1994 (trad. it. Conferenze di Brema e Friburgo, a cura di P. Jaeger); ed. it. a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 2002, p. 102). 10 U. Beck, Was ist Globalisierung? Irrtümer des Globalismus-Antworten auf Globalisierung, Frankfurt, Suhrkamp, 1997, p. 217.

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Lo stato universale reso possibile dalla globalizzazione non è né può essere il nuovo Leviatano, proprio perché rispettoso della pace, del diritto e dei diritti dei cittadini del mondo, perché lo stato planetario che dovrebbe nascere dalle rovine dell’ordine antico, col suo fulcro sulle sovranità nazionali dotate di istanze decisionali centrali che vengono progressivamente svuotate di senso e di potere, sarà una civitas civitatum, non un monstrum11. Nel caso della globalizzazione digitale, la fine dell’ideologia corrisponde al nuovo inizio della «comunicologia» prospettata da Flusser, una comunicologia per tutti e fra tutti, ecumenica e messianica, disposta a coinvolgere tutta l’umanità nel fraterno abbraccio della società telematica, come vedremo nelle prossime pagine. Anzi, non fraterno, nel caso specifico di Flusser che diceva di non apprezzare i legami «imposti» da nascita o parentela, bensì amicale, nello spirito dei legami «liberamente scelti» tra amici e conoscenti cui Flusser tanta importanza attribuiva12.

Apocalittici e integrati Ma torniamo al nucleo del problema, che è quello dei timori apocalittici provocati dalla globalizzazione. Cerchiamo innanzitutto di definire con maggior precisione questo termine, probabilmente il più usato e abusato dell’ultimo quindicennio: intendiamo qui con globalizzazione la diffusione su scala planetaria di stili di vita occidentali, con la crescente interdipendenza dei flussi di comunicazione e dei mercati economici e finanziari. Quello che ci si prospetta, in base a tale tendenza, è il mondo del capitalismo transnazionale in cui il solo futuro concepibile è quello del capitalismo globale, della civiltà planetaria, della coscienza planetaria. Come ci sono i pacificatori (gli «integrati») che cercano di tranquillizzare ci sono però anche le sentinelle pronte ad allertare, gli «apocalittici»: essi ci dicono che la globalizzazione è solo un eufemismo per l’imperialismo capitalistico, dal quale Marx aveva messo in guardia più di un secolo fa, e che il capitalismo globale è il Nuovo Leviatano col quale dobbiamo fare i conti: un nuovo sistema di potere eretto su scala mondiale, un potere indiretto e fluido che interviene sugli stati ma è anche interno ad essi, che non difende i cittadini di una data nazione dall’invasione straniera, che era

11 Riprendo la terminologia da Tilman Evers, Supranationale Staatlichkeit am Beispiel der Europäischen Union: civitas civitatum oder monstrum?, «Leviathan», 1994, 22, 1, pp. 115-34. 12 Per es. in V. Flusser, Bodenlos. Eine philosophische Autobiographie, Bensheim e Düsseldorf, Bollmann, 1992, pp. 253-57.

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APOCALISSI,

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uno dei pregi che Hobbes assegnava al Vecchio Leviatano, ma che regola e disciplina coloro che in ogni paese sfruttano la debolezza degli altri. Il «terrore» caratteristico del Vecchio Leviatano era il potere poliziesco dello stato. Il terrore caratteristico del Nuovo Leviatano è la disoccupazione, sono i tagli dei salari, è la paura che le aspirazioni di famiglie o gruppi verso miglioramenti ambientali o economici possano causare, negli agenti del Nuovo Leviatano, lo spostamento dei loro investimenti in altri luoghi dove i lavoratori sono più vulnerabili alle domande dei datori di lavoro13. Non era comunque certo questo lo sfondo intellettuale e politico che interessava Flusser, tutt’altro. Vilém Flusser amava tornare e ritornare sul pensiero dell’Apocalisse e della fine della storia, ricorrente per esempio nella raccolta di scritti Nachgeschichte («Postistoria»)14. Due dei quali si intitolano esplicitamente Millennium zu verkaufen («Millennio in vendita») e Vom Ende der Geschichte («Sulla fine della storia»): Flusser parla in quelle occasioni del «millenarismo» come di una aspettativa di terrore e insieme di speranza del momento in cui il Messia, tornato sulla terra, avrà la meglio sul demonio, vinto in un conflitto catastrofico, e instaurerà un segno chiliastico di pace. Questa è la struttura di base del millenarismo che è rimasta immutata, a detta di Flusser, oggi come nel Medio Evo15: alla fine di una catastrofe cosmica, la realizzazione del regno celeste sulla terra. Il pericolo delle nuove e attuali forme di millenarismo è quello di invocare e richiamare, se non di realizzare la catastrofe stessa, per poter proclamare, alla fine di quella, l’avvento del regno celeste. Flusser vedeva all’opera tale principio nel nazismo, dove il «terzo Reich» (o impero) che seguiva il primo (l’impero romano) e il secondo (l’impero guglielmino) avrebbe realizzato, dopo aver messo ogni cosa a fuoco e fiamme, la promessa età dell’oro. Lo vedeva all’opera, pur se con maggiore finezza intellettuale, nel marxismo, secondo il quale la società comunista egualitaria e pacifica si sarebbe istaurata soltanto dopo una durissima lotta (di classe)16. Applicando gli stessi criteri di Flusser si potrebbe vedere oggi la realizzazione dello stesso principio nel, chiamiamolo così, «democratismo», la dottrina cioè secondo la quale l’età dell’oro della democrazia regnerà soltanto alla fine di una lotta durissima dell’impero del bene (il «quarto Reich» o un suo equivalente) contro l’impero del male degli stati canaglia.

13

R. J. S. Ross, K. C. Trachte, Global Capitalism. The New Leviathan, New York, State University of New York Press, 1990, pp. 2-3. 14 Già citata qui alla nota 1. 15 V. Flusser, Nachgeschichte, cit. p. 273. 16 Ivi, p. 275.

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Tesi che ben si attaglia soprattutto a chi pensa che gli attentati dell’11 settembre siano stati organizzati da rappresentanti dell’establishement degli Stati Uniti per avere una giustificazione a intraprendere la catastrofe che apre alla redenzione.

Millenarismo e monoteismo In ogni caso, concludeva Flusser inconsapevole delle future nefandezze dei nuovi fondamentalismi, il millenarismo fa parte delle radici della nostra cultura, sempre presente sotto maschere sempre diverse, impossibile da estirpare fino in fondo e in grado di influenzare gli eventi più importanti17. Giudaismo, cristianesimo e Islam sono ai suoi occhi i portatori del pensiero chiliastico che rappresenta anche troppo spesso il cuore vero e proprio del pensiero religioso, e che coincide con la speranza di qualcosa di molto diverso. Potremmo a questo punto commentare che il millenarismo è la zona d’ombra del monoteismo e del linguaggio di violenza e brutalità, che accompagna e descrive la fondazione e l’affermarsi di questo tipo di religione. È la tesi presentata da Jan Assmann in una serie di studi recenti18, che Flusser non poteva evidentemente conoscere, ma che probabilmente, data la sua origine ebraica e la sua non chiarita posizione nei confronti della religione, lo avrebbero interessato. Il quesito principale che si pone Assmann è infatti se «sull’idea monoteista, che dovrebbe essere esclusivamente adorazione di un unico dio anziché di una pluralità di dèi, o sulla distinzione tra vera e falsa religione, tra vero e falso dio, grav[i] forse qualcosa di violento»19. Pensando all’idea e alla struttura dell’apocalisse comune ai tre monoteismi, giudaico, cristiano, islamico, ci si chiede dunque se la risposta non possa essere sì. Sì, la distinzione tra vero e falso – dio, assetto politico o affermazione scientifica che sia – è oppressa da qualcosa di violento: sia a livello di violenza verbale, dove occorre con-vincere (e convertire) gli altri del proprio vero con la forza delle parole, sia a livello di violenza fisica dove la vittoria si consegue con le armi e la forza bruta, non soltanto quindi con le armi della dialettica e della retorica. Lo schema di questa prospettiva vuole che la verità e il bene emergano dalla lotta dunque, o ancor meglio dalla catastrofe, quando «la tromba 17

Ivi, p. 280. Cfr. tra questi Jan Assmann, Monotheismus und die Sprache der Gewalt, Wien, Picus Verlag, violenza Bologna, Il Mulino, 2006 (trad. it. Non avrai altro dio. Il monoteismo e il linguaggio della violenza, 2007). 19 J. Assmann, Non avrai altro dio, cit. p. 27. 18

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squillerà […] e noi saremo tutti trasformati»20. La teoria della catastrofe, una teoria della struttura caratteristica del nostro presente indica, a parere di Flusser, il fatto che la catastrofe si situa all’interno di una tendenza, e precisamente nel punto in cui la struttura inaspettatamente si trasforma in maniera non prevedibile e non calcolabile. Nella nostra situazione aspettiamo dunque il «punto catastrofico» così come aspettiamo e desideriamo anche, in un angolo della nostra coscienza, il «dopo» (Nacher)21. Ma questa attesa e questo desiderio non sono certo apocalittici, anche se il nostro «dopo» non corrisponde più al «regno di Dio sulla terra»22.

Il mondo salvato dalla digitalizzazione Qual è dunque il «dopo» di Flusser, se c’è e se esso non può più coincidere con l’ingenua speranza del «regno di Dio sulla terra»? Nonostante i ripetuti richiami all’Apocalisse e nonostante il suo riferimento costante al filone filo-apocalittico, Vilém Flusser è troppo ottimista e troppo innamorato di sé per essere un pensatore apocalittico quale poteva essere il suo compagno di cultura e di esilio Günther Anders. Alla fine della storia, nella postistoria (Nachgeschichte) dell’oggi, c’è posto per un «dopo», del quale Flusser individuava gli indizi degli incerti inizi e che noi oggi scorgiamo con maggiore chiarezza. È la coscienza storica di una nuova forma di coscienza («das geschichtliche Bewußtsein einer neuen Bewußtseinform», la società digitale, la società dell’informazione e della comunicazione. È questo il «dopo» di Flusser, l’unica cosa che davvero gli stia a cuore, quella sulla quale ha costruito la sua filosofia della storia, ritornandoci continuamente sopra. È il «dopo» che non potrà più venire rac-contato («er-zhält») e invece soltanto più contato («ge-zählt)» o rappresentato per immagini23. È questa la sua fine della storia, più che apocalittica, trionfalistica. È vero che nulla più viene raccontato, nulla più accade e di nulla c’è più storia: c’è dell’altro però. C’è qualcosa di nuovo e curioso e eccitante per il quale val la pena vivere anche per vedere come prosegue e che in ogni caso, interverrà hölderlinianamente a salvare i danni autocausati, se ce ne sarà bisogno: c’è la rivoluzione del digitale, c’è la nuova scrittura «alfanumerica», curiosa espressione inventata da Flusser

20 21 22 23

Cor. 1, 51-54. V. Flusser, Nachgeschichte, cit. p. 102. Ibidem. Ivi, p. 282.

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dal senso non perfettamente chiaro24, che si appresta a sostituire la scrittura alfabetica. Circa 5.000 anni fa, racconta e riracconta Flusser nei suoi saggi non esenti da ripetizioni, si compì in Mesopotamia (attuale Irak) una rivoluzione tecnica decisiva: si iniziò a scrivere per spiegare le immagini. E quando si scrive e si legge, l’occhio segue la riga o linea, così che lo sguardo scorge non rapporti tra cose bensì processi, che scorrono e fluiscono in un tempo univoco e uniforme, dal passato al futuro. Con la scoperta del testo lineare inizia la storia: con la scrittura lineare l’uomo ha inventato la storia25. Circa 3.500 anni fa, nel Mediterraneo orientale dalle parti di Ugarit, qualcuno propose di indicare con pochi segni (circa 26) i suoni della lingua. La proposta venne accettata. Uno dei suoi risultati fu, scrive Flusser nel suo tono saggistico conciso, sàpido, brillante, «la civiltà occidentale con la sua filosofia, la sua scienza e la sua tecnica»26. La storia continua con la scoperta della stampa, dei caratteri mobili e poi del computer, con le sue «conseguenze imprevedibili»: segue un elenco delle innumerevoli e straordinarie prestazioni dell’elettronica e dell’informatica e sono proprio quelle, a mio avviso, che bloccano il millenarismo di Flusser impedendogli di naufragare nella deriva apocalittica. Da una parte vi gioca quello che è stato più volte invocato come la panacea di tutti i mali: l’«hölderlinismo»: scienza e tecnica salveranno il mondo dai pericoli in cui esse stesse l’hanno cacciato. Dall’altra però interviene una specie di curiosità e di esaltazione quasi infantile: come potrebbe interrompersi questa storia-postistoria così intrigante e così sorprendente, dove la «sorpresa è così grande che siamo ben lontani dall’averla digerita»?27.

24 Id. Alphanumerische Gesellschaft. Die Zukunft des Buchstabenlesens, in Id. Die Revolution der Bilder, Mannheim, Bollmann, 1995 (Società alfanumerica in La cultura dei media, trad. it. di T. Cavallo, postfazione e cura di A. Borsari, Milano, Bruno Mondadori, 2004, pp. 28-50). 25 Id. Menschheitsgeschichte, cit. pp. 256-7. 26 Ivi, p. 257 (traduzione mia). 27 Ivi, p. 261.

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Sacrificio bianco. Tavole della lingua poetica di Vito M. Bonito

Pensare significa fallire, pensai. Thomas Bernhard

Ciò che viene alla creazione viene per nascondere. La creazione è l’ornamento che deve ri-velare il segreto. L’apocalisse sta conficcata dentro la lingua poetica. Svelamento e discesa. Dal nulla, nel nulla. Rivelazione dal nulla vuol dire anche rivelare il nulla, rivelarsi del nulla. Ovvero svelare il nulla e ri-velare il nulla, renderlo opaco attraverso l’ornamento del creato. Infine, nascondere ciò che resta e deve restare segreto. Decisivo è il pensiero nascosto. Quel pensiero che non si può e non deve dichiararsi, rendersi chiaro. Perché sarebbe la fine di tutto. Il perduto è ciò che nasce. Viene a noi nella genesi. La lingua poetica viene per estinguere, per finire. È il fallimento della prima frase, l’estinzione dell’a-venire. Il vero paradosso dell’apocalisse è che non rivela e non pone fine a niente, poiché tutto è cominciato dalla fine. La lingua poetica è il pensiero nascosto. L’aria che respiriamo e che si perde dentro di noi, che ci soffoca e non ci salva. La lingua poetica è respiro a cui viene a mancare il respiro. La lingua poetica accade nell’irrespirabile, è l’irrespirabile. La lingua poetica ci rende dei senzarespiro dentro un pensiero nascosto. Non è necessario pensare all’apocalisse fuori di noi. Ciascuno in sé porta

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VITO M. BONITO

le stigmate dell’apocalisse. Il proprio fallimento, la propria estinzione. La lingua poetica è la consapevolezza che bisogna raggiungere – quel pensiero nascosto, quel fallimento della prima frase. Il punto da cui non vi è ritorno così tanto perseguito da Kafka. Ciò che la lingua poetica dice è niente, perciò la lingua poetica raccoglie ciò che è segreto, e ciò che è segreto è semplicemente voce che si ripete prima di essere udita. Udire è ubbidire. Il sacerdote ode il canto del capro, il suo belato cieco, e obbedisce. Il capro obbedisce e ode il canto del sacerdote. È lo stesso canto, la stessa ubbidienza. È lo stato dell’agonia. È la permanente radiazione dell’agonia. Una luce che principia. È la fase intransitabile di un sacrificio permanente. In questo sacrificio è l’animale che detiene il segreto. La lingua poetica è atto tragico nella sua massima intensità. È stato intensivo di morte senza soluzione. Sacrificio bianco, senza morte, senza espiazione, infinito. Qui il tragos muore dentro il proprio cambiare voce, dentro il proprio odore animale. Chiama l’odore – chiama l’orrore. La lingua poetica compie un sacrificio. Deve compiere un sacrificio. Deve scendere nella luce sacrificale. L’alba è là dove principia il sacrificio. Scendere nella luce sacrificale è atto d’obbedienza. L’obbedienza obbliga all’ascolto. La lingua poetica, come l’atto di creazione, fa sacrificio di sé. Compie una discesa definitiva, si mette a morte. Fare sacrificio di sé è fare la fine, è rifarsi a una liberazione assoluta. La lingua poetica concepisce la morte. Come ha scandito Claudia Castellucci, «l’atto di creazione fa provare la morte. Prova la morte […]. Si tratta di un sacrificio». La lingua poetica deve porsi, allora, «in un orizzonte privo di paragoni»: né dentro né fuori, come l’apocalisse. Svelamento di una discesa. La lingua poetica è innanzitutto perdita di se stessa, fioritura del residuo, saliva estrema che fa lume su un sacrificio perennemente in atto, in cui il sacerdote bela come un capro.

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SACRIFICIO

BIANCO.

TAVOLE

DELLA LINGUA POETICA

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La rivelazione è vuota, è il vuoto. Nasce da un rifiuto. L’origine è il rifiuto, è come il dolore che ha per spazio tutto il pensiero. La lingua poetica deve nascere da un no senza equivoci, senza redenzione. E per questo deve compenetrarsi del disastro della nascita. La lingua poetica è la potenza passiva che può solo presentarsi nella forma vuota di un rifiuto a nascere, di una nascita dal rifiuto. La lingua poetica rivela il “soffiato via” che non ha più nulla a che fare con il soffio di vita. Ma con una candela che si spegne. La lingua poetica è il tremore dell’insonnia. La veglia sterminata e desertica che non fa ricordare, né dimenticare. Il mystērion sta nella notte. Non solo nel segreto di una cerimonia. Così ci svela Giovanni Semerano. La radice μυσ- si sposta dal silenzio al segreto, a ciò che è celebrato di notte. Il μύστης, l’iniziato, sta nell’oscurità dei misteri. Più che colui che chiude gli occhi, è – come ancora spiega Semerano – «“chi veglia nella notte arcana dell’attesa”». Veglia su un luogo che non si deve guardare, né dire. Il μύστης è colui che veglia nella morte, nell’indicibile. Ci sono parole di Plutarco, così come le tramanda Giorgio Colli, che fanno strada: «E giunta alla morte, l’anima prova un’emozione come quella degli iniziati ai grandi misteri. Perciò riguardo al «morire» [teleutàn] e all’«essere iniziati» [teleisthai], la parola assomiglia alla parola, e la cosa alla cosa». La lingua poetica, come l’insonnia, non vede mai cominciare un altro giorno. Subisce la rivelazione; agonizza in un respiro inanimato, in una solitudine devastata. «La fine è nel principio, tuttavia si continua», ci direbbe Hamm, nel beckettiano Finale di partita. Con lui, tutte le voci di Beckett ci insegnano che la parola di quei personaggi viene da chi non si capacita di essere vivo. Quei personaggi, quelle voci – ha scritto Emile Cioran – «sono saltati dalla nascita all’agonia, senza transizioni, senza esistenza: rifiuti umani che non hanno più nulla da apprendere o da affrontare, che rimuginano – ilari o stupefatti – delle futilità e che, di tanto in tanto, lanciano per disprezzo qualche lampo, qualche oracolo. Li si capisce soltanto se si ammette che qualcosa si è irrimediabilmente spezzato, concluso, che essi appartengono non alla fine della storia ma a ciò che viene dopo, a quell’avvenire forse imminente, forse lontano, in cui il rimpicciolimento dell’uomo raggiungerà la perfezione di un’utopia capovolta».

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VITO M. BONITO

L’apocalisse è l’attesa del noi senza di noi. Quest’attesa si illumina, deve illuminarsi di un’estraneità senza redenzione. Un’attesa che, come l’apocalisse, ci costringe ad attendere fuori da noi, fuori dalla nostra attesa, fino a che non c’è più nulla da attendere. La lingua poetica è l’attesa di una parola senza di noi. È l’attesa estranea che spalanca e comprime tutti i punti dello spazio, che esercita un’agonia permanente in un rifiuto che viene per togliere ogni cosa da attendere. La lingua poetica dice la verità, ma non in ciò che dice. La lingua poetica dice la verità, in una lontananza-da-sé intransitabile. L’apocalisse ci tiene semplicemente. Con un’infinita negligenza. L’apocalisse è il dolore innocente. Noi siamo il dolore innocente. La lingua poetica è il dolore innocente. L’apocalisse e la lingua poetica sono un tempo vuoto senza progetto. La lingua poetica non ci lascia attendere. Ci pone sempre di fronte al segreto che ci mette a morte e non si rivela, né ci rivela a noi stessi. Nella lingua poetica i morti risorgono morenti. I vivi non hanno importanza nella lingua poetica. I vivi sono indifferenti alla lingua poetica. La lingua poetica ci dimentica, ci ha dimenticato, da sempre. Ci ha dimenticato senza meraviglia, senza profondità, senza eternità. Nella lingua poetica non ci sono parole che contino più di altre. Tutte sono dette nell’uguaglianza in cui si consumano. Nessuna può essere redenta, né essere ricordata più di altre, né dimenticata dopo le altre. Ciò che è nascosto non può essere custodito. Inermi, noi siamo stati abbandonati dal segreto. A parlare invece di morire, a parlare mentre moriamo. L’apocalisse è il nostro abbandono che ci lascia nel suo a-venire. Nella lingua poetica, come nell’apocalisse, si consuma ogni forma, ogni metamorfosi. Ogni forma perde forma ogni lingua è una lingua, la sola lingua la lingua sola. «La parola caos, in greco – scrive Pascal Quignard –, indica il volto che si fende; indica la bocca umana che si apre». L’apocalisse, come la lingua

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SACRIFICIO

BIANCO.

TAVOLE

DELLA LINGUA POETICA

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poetica, si annuncia come voce di fronte, bocca spalancata del caos. Lingua sterminata, del disastro, sempre al di là del proprio senso. Lingua che non cerca la propria origine – semmai la propria fine. La La La La La La

lingua lingua lingua lingua lingua lingua

poetica poetica poetica poetica poetica poetica

è è è è è è

un un un un un un

esercizio esercizio esercizio esercizio esercizio esercizio

sulla povertà di mondo. sull’agonia. sul sacrificio. contro la realtà. contro la memoria. contro la poesia.

Non ci sono figure nella lingua poetica. La sua nudità, la nudità che la lingua poetica è, oltrepassa ogni figura. È l’inaudito che si fa udito, in ascolto. E noi come cosa udita soffochiamo. La lingua poetica è un pensiero paralizzato nella luce. Fiorisce e si disfa in una luminosa immobilità. Lingua senza impero, senza casa. Qui tutto si perde – la lingua fa silenzio, la luce fa silenzio, le forme fanno silenzio, il senso fa silenzio. Fare-silenzio, questa è la lingua. Nascere è la prova della morte, della nostra conoscenza della morte. La lingua poetica è nascere non venendo alla vita. La lingua poetica non può richiamare indietro nulla. Non redime, non convoca, non dona alcun ritorno. È un atto sacrificale che non ha fine. La ferita in cui si perde ogni fiore; luce del non sapere, luce del non saperdire, luce del non saper-più-dire. L’anonimia è il regno senza sovranità della lingua poetica. C’è come uno splendore nel senzanome, come uno stupore ferino, un corpo di sapienza che nella sua più luminosa stoltezza sente fendersi il volto, la bocca che si apre. L’anonimia è il principio di una comunità immediata. La lingua poetica è opera servile e serve il nulla. Nella lingua poetica si capita, come un cane capita nel suo nessunluogo. Nell’apocalisse la lingua poetica vede la sua precedenza, ne comprende il silenzio abissale, s’incammina verso un rito della commozione.

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VITO M. BONITO

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La commozione è il luogo di una comunità immediata. La passione è il luogo di una comunità immediata. Chi sta nella lingua poetica sta nel ‘che cosa’ del pensiero. Il ‘che cosa’ non ha figura, non ha lingua. È segreto. Il compito della lingua poetica è l’anonimia. Abitare un silenzio profondissimo, la precedenza, l’immagine segreta. Sottrarsi alla storia, alla ‘perfezione’ umana. Nella lingua poetica siamo tavole del silenzio. Il sacrificio fonda la comunità. La comunità si dà di fronte a un evento, a un’immagine. La lingua poetica deve tornare all’estrema tensione emotiva; mossa dalla bellezza della rivelazione deve produrre commozione. Deve servire la commozione. Servire la commozione è essere esposti all’estrema immediatezza, inerme, inattesa; è la condizione di testimoni senza casa, senza patria. Essere fuori di sé, fuori del soggetto, è la prima forma della comunità, dell’essere in comune e dunque del non essere immune. La lingua poetica canta la gioia della propria morte, dell’uscita dalla lingua di ogni parola, della perdita di parola, di un non ritorno che la salva della ripetizione, dal riconoscimento, dalla redenzione. La lingua poetica sottrae all’uomo la sua potenza onomastica. Lo riconduce all’anonimia come stupore senza nome, senza nomi. Chi sta nella lingua poetica deve raggiungere lo statuto del senzanome. Il senzanome è lo straniero e rivela il luogo in cui sta come luogo inabitabile. Chi scrive abita un altrove che coincide con la stoltezza di un fiore, con l’immobilità di un corpo che riabita perennemente la propria paura e il proprio stupore. L’animale è il senzanome che ci sprofonda nel non-umano, l’animale fa a meno della prospettiva ottica e verbale del logos; entra con esatta presenza sulla scena del mondo, in una condizione di rivelazione senza lingua, senza mondo. Un’apertura senza svelamento non è povertà di mondo – come vorrebbe

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SACRIFICIO

BIANCO.

TAVOLE

DELLA LINGUA POETICA

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Heidegger per l’animale. L’animale porta con sé il segreto, il non avere nome, l’impossibilità ad essere riprodotto; si mette nel vuoto della lingua, nella pienezza abissale del silenzio. La lingua poetica è un pensiero incompiuto, un pensiero che non sa, che entra nell’opacità e nel buio, là dove non c’è più logos, là dove si avanza senza più vedere. Perché resta solo l’inaudita sofferenza del pensiero. L’animale è l’apocalisse umana. È una rivelazione senza mondo. La lingua poetica è rivelazione senza mondo. Segreto è non avere nome. Non dunque lo svelamento, ma l’indicibile. Dunque la potenza amnestica dell’animale; del suo linguaggio che non sa dire, che non conosce, che tace di fronte al segreto. Perché inferiore, perché segreto. Perché ciò che sa, ed è ciò che gli uomini fanno fatica a ricordare, è semplicemente «comment c’est». Dire l’istante, mettersi in fiamme, fuori di sé. Dire la spoliazione, dire la rivelazione. La lingua poetica toglie. In questo scavare, accecare, sta la sua genesi. Dunque essa viene per togliersi. Chi scrive si dà a morire, dà a morire ogni forma adulta. Chi scrive si dà a morire nella lingua e ascolta la lingua mentre muore. Chi scrive ha il compito di stare alla fine. Questo stare alla fine come infans fa sentire tutto il peso del silenzio, tutta l’incandescenza del pensiero. Stare alla fine è un atto di contraddizione rispetto alla creazione. Chi scrive non comunica nulla, porta solo a compimento un’immagine segreta. La lingua poetica porta alla fine l’umano. Chi scrive trascina la parola sulla scena dei misteri, nell’estraneo che lo rende inferiore, e con lui ogni parola. Credere non è necessario. Vivere non è necessario. Morire non è necessario. Salvarsi non è necessario. Salvarsi non è necessario.

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PARTE QUINTA La polis, la nostra storia

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Città con fine di Antonio Clemente

Il confine tra «polis» e «natura» è stato cancellato. La città degli uomini, un tempo un’enclave nel mondo non-umano, si estende ora alla totalità della natura terrena e ne usurpa il posto. Hans Jonas

Il concetto di città finisce con questa frase: «l’urbe è un nodo nella viabilità universale»1. Era il 1867 quando Ildefonso Cerdà capì che era necessaria una nuova parola «per indicare quell’insieme di fatti diversi ed eterogenei chiamato città»2. Si chiudeva un’epoca e se ne apriva un’altra in cui orientamento e delimitazione non sarebbero stati più i caratteri fondativi della città. Ieri un’intuizione, in forte anticipo rispetto ai tempi; oggi una consapevolezza diffusa: «la città è un oggetto anacronistico appartenente al passato; il processo attuale di urbanizzazione ci coinvolge nel posturbano»3. D’altro canto, anche il solo immaginare una realtà formalmente compiuta all’interno della quale ogni parte sia proporzionata all’intero è diventata impresa quanto mai ardua. La città si è radicalmente trasformata con il passaggio della scala urbana da circoscritta a smisurata. Da tempo, ormai, le caratteristiche del fenomeno urbano non sono più concentrazione e continuità ma dispersione e frammentazione. Il territorio appare come un raggruppamento di multiformi espressioni costruttive; di trame filamentose che si addensano ora in piccoli grumi edilizi, ora in estensioni senza fine. E senza finalità. «Per molti versi, quella che abbiamo vissuto è stata la storia di una progressiva saturazione dello spazio terrestre»4, di un’occupazione del suolo che ha superato ogni frontiera, di una dilatazione dell’urbano verso ogni dove. 1 I. Cerdà, Teoría general de la urbanización, Madrid, Istituto de Estudios Fiscales, 1968 (1867), Tomo I, p. 336 (traduzione mia). 2 Ivi, p. 29. 3 F. Choay, L’orizzonte del posturbano, trad. it. di E. d’Alfonso, Roma, Officina, 1992, p. 11. 4 J. L. Nancy, Essere singolare plurale, trad. it. di D. Tarizzo, Torino, Einaudi, 2001 (1996), p. X.

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ANTONIO CLEMENTE

Ovunque ed in nessun luogo, è così che la città è diventata diaspora edilizia in assenza di figura urbana. Non c’è più rapporto fra struttura spaziale e contesto, topografia e identità territoriale, forma urbis e genius loci. Al punto che i programmi di intervento sono diventati «astratti nel senso che non sono più legati ad un luogo o ad una città: essi gravitano attorno al sito che offre il maggior numero di interconnessioni»5. La città è suolo di passaggio; sempre meno luogo di abitazione, sempre più spazio di transito; circolazione; trasporto. La mobilità dell’individuo non è più legata alla misura dei suoi passi e del suo sguardo. Ma alla capacità di spostamento. Planetaria ed urbana. Una capacità di spostamento che quasi mai diventa viaggio; esperienza; itinerario creativo. Non a caso «la domanda che la maggioranza dei passeggeri portoricani si rivolge non è: “Di dove sei?” ma: “Tra quanti posti fai la spola?»6. Estensione ininterrotta verso territori senza orizzonte, la città è un agglomerato di sconosciuti7 in cui le dimensioni demografiche non sono più proporzionate alle sue dimensioni fisiche: «nel 1950, le città con una popolazione superiore al milione di abitanti erano ottantasei in tutto il mondo; oggi sono quattrocento, e nel 2015 saranno almeno cinquecentocinquanta»8. Per riferirsi alle medie dimensioni. Le grandi sono ben altro: venticinque agglomerazioni urbane al di sopra dei dieci milioni di abitanti di cui cinque oltre i venti9. Entità talmente estese da essere incomprensibili alla mente. Figure gigantesche. Aree inimmaginabili. È stato oltrepassato ogni limite ed è solo per convenzione che la città assume il nome del confine amministrativo in cui ricade. Non c’è soluzione di continuità: il fenomeno urbano è interminabile. E se ieri tale fenomeno era legato prevalentemente al mondo occidentale, oggi riguarda tutti i continenti10. Queste dinamiche territoriali rivelano come città sia una parola inadeguata alla realtà contemporanea; un vocabolo che abita lo spazio dei dizio-

5

R. Koolhaas, Euralille, in AA.VV., Sensori del futuro. L’architetto come sismografo, Milano, Electa, 1996, p. 104. 6 M. Belpoliti, Doppio zero, Torino, Einaudi, 2003, p. 203. 7 Cfr. A. Clemente, La città inumana, in V. M. Bonito, N. Novello (a cura di), L’età dell’inumano, Roma, Carocci, 2005. 8 M. Davis, Il pianeta degli slum, trad. it. di B. Amato, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 11. 9 http://geography.about.com/od/urbaneconomicgeography/a/agglomerations2.htm 10 La popolazione, in ordine decrescente dalla città più grande fino alla decima, è espressa in milioni di abitanti: Tokyo (35,53), Mexico City (19,24), Mumbai (18,84), New York (18,65), São Paulo (18,61), Delhi (16,00), Calcutta (14,57), Jakarta (13,67), Buenos Aires (13,52), Dhaka (13,09). http://www.citymayors.com/statistics/largest-cities-2007.html

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nari; un termine che ognuno usa come preferisce e racconta come vuole. Città è una parola privata del suo referente diretto e quindi senza realtà. Un invito implicito all’inseguimento di una delle sue possibili accezioni. Non all’interpretazione. Ed è proprio questo il motivo per cui anche la disciplina urbanistica non può dirsi esente da quella «peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze»11.

Urbanistica, fine paradosso La distanza tra le parole e le cose è aumentata. A dismisura. E con essa le difficoltà dello sguardo, soprattutto in relazione al fatto che nell’urbanizzazione planetaria convivono due opposte affinità. Tra loro indissociabili. Per un verso il mondo diventa città, grazie al sistema delle grandi imprese economico-finanziarie che invadono il mercato con uguali prodotti e servizi. Ovunque. E con identici contenitori commerciali, stessi marchi, analoghe strategie di persuasione all’acquisto. Un processo di appropriazione del territorio, del tutto indifferente rispetto ai contesti geografici, alle realtà culturali, alla memoria storica. Ogni tipologia di vendita è interamente introversa. I suoi itinerari sono obbligati dalla necessità di circuire il potenziale cliente. Non certo dal rapporto con il luogo. Tale principio progettuale crea un paradosso: non importa in quale parte del mondo ci si trovi, sentirsi a casa è facile. Basta entrare in un qualsiasi ipermercato per ritrovare tutti gli abituali prodotti, uguali espositori della merce e gli stessi tragitti per arrivarci. Un’atopia domestica che consente l’orientamento, pur in assenza di qualsiasi informazione sullo spazio che si attraversa.

11

I. Calvino, Lezioni americane, Milano, Garzanti, 1988, p. 58. La frase citata è stata più volte ripresa all’interno del dibattito architettonico ed urbanistico «Siamo interessati a diffondere la consapevolezza che anche l’architettura è affetta da quella peste del linguaggio che Calvino descrive tanto magistralmente». G. De Carlo, Editoriale, «Spazio e Società», n. 43, luglio/settembre 1988, p. 4. «Il più delle volte le polemiche nascono dalla disattenzione e dalla sciatteria con la quale le parole ed i segni vengono usati ed intesi, da una sorta di “peste del linguaggio”. Disattenti allo spessore dei significati che ogni termine inevitabilmente veicola, ci si attacca ad una delle sue possibili accezioni per costruire fantasmi e con essi combattere eroiche quanto inutili battaglie». B. Secchi, La regola e il modello, «Urbanistica» n. 97, giugno 1989, p. 4.

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Per altro verso, la grande città rappresenta un mondo. Dove coesistono le contraddizioni e i contrasti che si vengono a creare fra molteplici etnie che condividono lo spazio urbano. Dove convivono, spesso a breve distanza, diverse condizioni abitative, differenze culturali, d’origine, di condizione economica. Dove confluiscono «la violenza, l’esclusione, i ghetti, i giovani e i meno giovani, le diverse generazioni, gli immigrati, i clandestini: in una parola, tutta la complessità e la disuguaglianza presenti nel mondo»12. Nello spazio tra questi due estremi coincidenti, vi sono molte situazioni intermedie. Non meno critiche dal punto di vista descrittivo ed interpretativo; e con analoghi problemi di natura teorica e difficoltà di carattere metodologico. È dimostrato come «alcune città – fra le quali New York, Tokyo, Londra, San Paolo, Hong Kong, Toronto, Miami, Sydney – si siano evolute in “spazi” di mercato transnazionali e, avendo prosperato in quanto tali, abbiano finito con l’avere più cose in comune fra loro che non con le rispettive aree regionali e nazionali, molte delle quali sono andate perdendo importanza»13. Un’organizzazione mondiale dell’inurbanità all’interno della quale ciò che conta realmente è «l’interazione tra tecnologia e capitale. La loro inseparabilità»14. Ecco perché la città ha un rapporto sempre meno legato alle identità territoriali, al quadro ambientale, alla situazione geografica. E sempre più ancorato alle reti immateriali. L’organizzazione mondiale dell’inurbanità non ha alcun interesse a pianificare la città. Per essa è prioritaria, invece, l’integrazione alle reti planetarie dei mercati finanziari, dei media, dei mezzi di comunicazione, del web. Nei confronti di questo processo di progressivo distacco dal contesto locale l’urbanistica è in forte difficoltà: le motivazioni sulle quali è nata la disciplina sono antitetiche. Le sue origini sono strettamente connesse alla terra, al progetto di suolo, alla costruzione dello spazio pubblico. Ancora Cerdà: «la parola urbs, contrazione di urbum indicava l’aratro, lo strumento con il quale i Romani, all’atto della fondazione, delimitavano l’area che sarebbe stata occupata dalla popolazione; l’aratro denota ed esprime tutto ciò che poteva contenere lo spazio circoscritto dal solco tracciato con l’aiuto dei buoi sacri. Si può quindi dire che, i Romani urbanizzavano 12

M. Augé, Tra i confini, trad. it di X. B. Rodriguez, Milano, Mondadori, 2007 (2006), p. 12. 13 S. Sassen, Le città nell’economia globale, trad. it. di N. Negro, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 8. 14 D. DeLillo, Cosmopolis, trad. it. di S. Pareschi, Torino, Einaudi, 2003, p. 22.

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l’area e tutto ciò che essa conteneva. Con questo solco si compiva una vera e propria opera di urbanizzazione, e cioè l’atto di convertire in urbs un campo aperto o libero»15. Sono proprio questi presupposti fondativi ad essere andati in crisi. E l’urbanistica si trova in una situazione contraddittoria tale per cui «i sistemi di governo e di controllo dei fenomeni che essa presuppone non esistono più. Il che ha diverse implicazioni. Il fatto che si è determinata una profonda divaricazione tra l’idea che i professionisti hanno del proprio ruolo (convinti come sono, per tradizione, di rappresentare la cosa pubblica e la volontà collettiva) e ciò che viviamo oggi, ovvero una logica del tutto opposta, che è quella di mercato e che, per definizione, non concede spazio a questo tipo di preoccupazioni»16. La risposta a questa divaricazione ha portato gli urbanisti su prospettive differenti. Da un lato, vi sono coloro i quali hanno scelto di prestare il proprio consenso alla dittatura del mercato. Ed è così che si è aperta la strada ad una prassi operativa fatta non più di azioni progettuali ma di conformazioni alle necessità del profitto imprenditoriale, della produzione di danaro, dell’estrazione di ricchezza. Da un altro lato, vi è la litania degli urbanisti che continuando ad invocare gli insegnamenti dei «santi padri dell’urbanistica moderna» auspicano il ritorno alle norme certe e rassicuranti dello spazio euclideo, rigoroso, omogeneo, ordinato; che, almeno sulla carta, può avere esiti certi, confini sicuri, tracciati regolari. È la teoria del «come dovrebbero funzionare le città e di ciò che dovrebbe risultare positivo per gli abitanti e le loro attività economiche. Essi credono in tutto questo con tale devozione che quando la realtà li contraddice […] sono costretti a metterla da parte con un’alzata di spalle»17. Due atteggiamenti diversi per un unico risultato: anestetizzarsi rispetto alla realtà. A ben vedere, il territorio si modifica attraverso dinamiche proprie, indipendenti da chi ne disegna le sorti; da chi traccia futuri; da chi si esercita su come dovrebbero andare le cose. Il fenomeno urbano percorre vie di fuga di difficile interpretazione, oscure ed inesplorate: «tutto il complesso degli antichi valori è oggi inefficace e controproducente; non solo non funziona

15

I. Cerdà, Teoría general…, cit., p. 30 (traduzione mia). R. Koolhaas, Di fronte alla rottura. Le mutazioni urbane, in F. Chaslin, Architettura della tabula rasa. Due conversazioni con Rem Koolhaas (2001), trad. it. di S. Marchi, Milano, Electa, 2003, p. 37. 17 J. Jacobs, Vita e morte delle grandi città, trad. it. di G. Scattone, Torino, Edizioni di Comunità, 2000 (1961), p. 7. 16

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più, ma paralizza chi deve pensare la città»18. Di fronte alle domande che pone l’interazione del territorio con le reti immateriali l’urbanista si ritrova smarrito19. Senza parole. In assenza di regole e modelli di riferimento. È di tutto questo che occorre prendere atto. Evitando di eludere la realtà di un fenomeno urbano nel quale emergono evidenti fratture, discontinuità, eccezioni, singolarità, anomalie. L’attrito visivo che incombe nello sguardo dell’urbanista dovrebbe essere il presupposto per un atto di coraggio: lasciar crollare il quadro concettuale, il vocabolario professionale e, più in generale, tutto il sapere consolidato per vedere che cosa resta. «Forse questo è il punto più interessante di tutti: vedere quello che accade quando non rimane più nulla e scoprire se, anche così, sopravviveremo»20.

Architettura in fine «Dimmi se tu, sensibile come sei agli effetti dell’architettura, hai mai osservato, passeggiando per questa città, che molti dei suoi edifici sono morti, mentre altri parlano, e alcuni infine, assai più raramente, cantano»21. Oggi, una parte cospicua dell’architettura contemporanea è esercizio di dissonanza. Urlo senza dialogo. Gesto tecnico volutamente disarmonico ed astrattamente scultoreo. Emilio Tadini l’ha definita archiscultura22 ovvero una forma del tutto libera nello spazio che si pone «su un’ideale piedistallo, come l’emblema di una Bellezza pura, e proprio per questo irresistibile, indiscutibile, indicibile»23. Ineffabili per definizione, queste costruzioni rappresentano «eventi architettonici, “singolarità” che sono anche avvenimenti artistici concepiti per attirare visitatori da tutto il mondo»24 e per contrapporsi, in 18

R. Koolhaas, Di fronte alla rottura…, cit. p. 38. Cfr. A. Clemente, Ritrovarsi smarriti. Città e letteratura, in M. Indiveri, V. M. Bonito, N. Novello (a cura di), Finisterrae. Scritture dal confine, Roma, Carocci, 2007. 20 P. Auster, Nel paese delle ultime cose, trad. it. di M. Sperandini, Torino, Einaudi, 2003 (1987), p. 27. 21 P. Valéry, Eupalino o l’architetto, trad. it. di R. Contu, Pordenone, Biblioteca dell’Immagine, 1991 (1921), p. 7. 22 «Diamoci dentro, con i neologismi, una volta tanto. Sperando che sia evidente che pretenderebbero di rispondere anche a qualche funzione ironica. Avete notato, per esempio, che questa parola inventata, archiscultura, evoca la parola “arciscultura” – che è piuttosto terribile. Non per niente fa venire in mente cose come la scultura più grande del mondo e altre del genere. Qualche brivido, no?». E. Tadini, Nell’era dell’archiscultura. Il vuoto oltre la forma, «Costruire», n. 229, giugno 2002, p. 152. 23 Ibidem. 24 M. Augé, Rovine e macerie, trad. it. di A. Serafini, Torino, Bollati Boringhieri, 2004 (2003), p. 92. 19

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maniera radicale, all’idea che «soltanto una piccolissima parte dell’architettura appartiene all’arte: il sepolcro e il monumento. Il resto, tutto ciò che al servizio di uno scopo, deve essere escluso dal regno dell’arte»25. Priva di qualsiasi rapporto con la storia delle forme, l’archiscultura si pone al di fuori del tempo. La sua sagoma è la dimostrazione evidente della discontinuità dalle utopie, dai progetti del passato e dal desiderio di immaginare una possibile traiettoria per il futuro. Una monumentalità temporanea che mira al presente, non all’eternità. Il suo esito formale è orfano di qualsiasi legame con la tradizione. È una testimonianza conclusa in se stessa. Che abita lo spazio del suo involucro e di un tempo che «non anela all’eternità di un sogno di pietra, ma a un presente “sostituibile” all’infinito»26, in netto contrasto con «la tradizione dell’Occidente» all’interno della quale «la città, la casa, il tempio, il teatro, lo stadio, la chiesa, il castello […] vogliono rispecchiare l’Ordinamento eterno del mondo e quindi intendono essere il meno caduchi possibile e presentarsi essi stessi con una certa qual aura di eternità»27. L’archiscultura è il fuori-luogo per eccellenza. Edificio senza cittadinanza che si pone come universo autoreferenziale; presidio extraterritoriale immune da ogni relazione con il contesto locale; elevazione senza urbanità. Resta evento isolato, lezione afona, esercitazione priva di ripercussioni ambientali. Dentro il territorio urbano, fuori dalle sue trame. Forma che non si può ripetere una seconda volta perché unica. Il suo aspetto esteriore rappresenta, per scelta, un arbitrio estraneo al fatto che «la stanza deve apparire accogliente, la casa abitabile. Il Palazzo di Giustizia deve apparire al vizio segreto come un gesto di minaccia. La sede della banca deve dire: qui il tuo denaro è custodito saldamente e con oculatezza da gente onesta»28. L’archiscultura è volume in prima persona, celebrazione verticale del suo autore, testimonianza concreta del come si sia «passati troppo rapidamente dall’ambizione moderna di far partecipare ogni architettura ad un progetto politico sul mondo al suo contrario: una pura estetizzazione, una forma di cinismo nel modo di integrare l’architettura ai meccanismi del mercato e della moda»29. I segnali di questa stretta connessione sono 25

A. Loos, Architettura (1910), in Id. Parole nel vuoto, trad. it. di S. Gessner, Milano, Adelphi, 1984 (1962), p. 254. 26 M. Augé, Rovine…, cit. p. 92. 27 E. Severino, Raumgestaltung, in Id. Tecnica e architettura, a cura di R. Rizzi, Milano, Raffaello Cortina, 2003, p. 89. 28 A. Loos, Architettura…, cit. p. 255. 29 A. Picon, Architetti e ingegneri come orfani senza un’utopia, intervista a cura di E. Piccoli, in «Il giornale dell’architettura», n. 25, gennaio 2005, p. 5.

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evidenti. È sufficiente osservare quello che accade nel sistema mondiale dell’architettura. Sempre più spesso, la firma di un grande progetto è cosa diversa da chi ha effettivamente concepito l’opera. Questo avviene perché l’architetto è diventato l’amministratore delegato dell’impresa che porta il suo nome. Uno sdoppiamento tra la firma, che garantisce la qualità (come accade con qualsiasi marchio industriale) e l’effettivo contributo personale. Che resta minimo. Talvolta, ininfluente. D’altro canto, come potrebbe l’architetto garantire la presenza nei vari cantieri (spesso in parti differenti del pianeta), partecipare a riunioni, conferenze, dibattiti, interviste, proporre varianti, garantire l’apparato economico finanziario che ha investito sul suo nome e, nel contempo, dedicarsi personalmente alla cura di tutte le opere che portano la sua firma? Probabilmente non è lontano il tempo in cui anche in architettura si adotterà il sistema della moda: morto lo stilista gli sopravvive il marchio a garanzia del prodotto. L’itinerario costruttivo dell’archiscultura, dal concepimento alla realizzazione, è l’antitesi della misura che, tanto in greco (mètrios) quanto in latino (metìri), significa prudenza, moderazione, saggezza, sapienza. È l’imposizione della grande dimensione, del fuori-scala, dell’anticonformismo a tutti i costi. E della negazione di ordine, proporzione, regola. Senza moderazione alcuna, punta all’effetto retinico. Meno a quello mentale. Meraviglia momentanea piuttosto che stupore duraturo. Non potrebbe essere altrimenti dato che è stato abbandonato il principio fondamentale sul quale si fonda l’architettura: «costruire, significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell’uomo su un paesaggio che ne risulterà modificato per sempre; contribuire inoltre a quella lenta trasformazione che è la vita stessa della città. Elevare fortificazioni in fin dei conti equivale a costruire dighe: equivale a trovare la linea sulla quale si può difendere una sponda o un impero, il punto dove sarà contenuto, arrestato, infranto, l’assalto delle onde o quello dei barbari. Costruire un porto, significa fecondare la bellezza d’un golfo»30. Altre invece sono le direzioni, i sentieri su cui architetti e urbanisti si sono messi in marcia, abbandonando, così, la loro prerogativa principale: provare a migliorare le condizioni del presente. Hanno perso il senso della possibilità ovvero la capacità di pensare al reale come ad un caso particolare del possibile. Senza questa tensione ideale, si apre all’inverno dello spirito. Ed ogni previsione diventa un azzardo. Ogni idea un rischio. Ogni ipotesi di cammino un semplice desiderio «perché l’umanità ha smesso di progredire, 30

M. Yourcenar, Memorie di Adriano, trad. it. di L. S. Mazzolani, Torino, Einaudi, 1988 (1951), p. 51.

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esegue soltanto»31. Ed è proprio per questo che il futuro si rivela come un approdo inevitabile verso il quale si procede inermi. Giorno dopo giorno. Eppure sarebbe necessario ribaltare la prospettiva, e accordarla a un forte principio di responsabilità. I territori dell’urbanità trascurata continuano ad essere scossi nel profondo da una molteplicità di disastri. Infine, resta da dire che, purtroppo «dopo ogni catastrofe l’umanità prende coscienza della sua vulnerabilità, poi dimentica»32.

31

E. De Luca, G. Matino, Sottosopra, Milano, Mondadori, 2007, p. 31 (la frase citata è di E. De Luca). 32 Ivi, p. 28 (la frase citata è di E. De Luca).

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La guerra apocalittica di Edoardo Greblo

Può anche darsi che l’11 settembre non abbia rappresentato una cesura decisiva nella storia universale, ma ha certamente portato una sfida radicale alle categorie politiche della modernità. Come non pochi commentatori hanno sottolineato, il crollo delle Twin Towers ha provocato il crollo delle categorie portanti dell’ordine internazionale, sia nella versione dello jus publicum europaeum sia in quella bipolare della Guerra fredda. In particolare, ha segnato la dissoluzione del “nemico” inteso come realtà statuale, e quindi visibile, individuabile, e della interpretazione della politica moderna basata sulla coppia amico/nemico. L’attacco è stato infatti progettato e portato a termine da “martiri” apolidi, fanatici immuni dalle lusinghe e dalle sanzioni dell’era della deterrenza, membri di una entità “privata” senza volto e senza nome che non riconosce né fronti né frontiere né distinzioni tra vittime civili e vittime militari1. E tuttavia, per spiegare un evento la cui intensità ha superato ogni immaginazione, è forse all’immaginario della teologia apocalittica che bisogna fare ricorso. In fondo, le guerre mondiali che abbiamo conosciuto nel Novecento, le due “calde” e quella “fredda”, rispondevano a logiche di funzionamento riconoscibili, perché prevedevano il coinvolgimento di entità pubbliche che permettevano l’identificabilità dei protagonisti, la definizione dei confini, una certa coerenza tra i mezzi e gli obiettivi. Nulla di tutto questo è applicabile alla “guerra apocalittica”, anzitutto perché non si tratta di una guerra convenzionale, quanto, piuttosto, di una forma estrema di terrorismo. Questo non significa che tutto il terrorismo sia apocalittico, così come è riduttivo circoscrivere la guerra apocalittica a una manifestazione estrema di terrorismo – un termine, oltretutto, molto spesso piegato a usi di parte: è abitudine ricorrente degli Stati, per esempio, quella di definire come terrori1

C. Galli, La guerra globale, Roma-Bari, Laterza, 2002. Cfr. M. Juergensmeyer, Terroristi in nome di Dio. La violenza religiosa nel mondo, trad. it. di F. Galimberti, Roma-Bari, Laterza, 2003, e G. Kepel, L’essenziale di Al-Qaeda, in Al-Qaeda. I testi, presentati da G. Kepel, trad. it. e cura di J.-P. Milelli; scritti di Osama bin Laden et alii; introduzioni e note di T. Hegghammer et alii, Roma-Bari, Laterza, 2006.

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stica ogni guerra non convenzionale2. Rispetto al terrorismo “tradizionale”, il quale si è storicamente configurato come una forma criminale di violenza, incompatibile con i sistemi “regolamentati” di distruzione, che si serve del terrore perché funga sia da monito e da elemento di deterrenza nei confronti del nemico, sia da strumento “educativo” nei confronti di masse altrimenti passive cui viene chiesto di unirsi all’azione sanguinaria, il terrorismo islamista ha però introdotto un elemento di radicale discontinuità. L’avversario non è più un iustus hostis, un nemico legittimo con cui trovare, prima o dopo, una soluzione di compromesso, ma un nemico assoluto privo di ogni specificazione, qualcosa che si tratta semplicemente di annientare al punto da rendere la violenza pressoché autonoma rispetto ai fini dichiarati. Nel terrorismo apocalittico permeato di una teologia messianica votata alla distruzione, la violenza indiscriminata rivolta contro un nemico identificato con il “miscredente” coincide con la volontà di spargere ovunque un terrore “sacro” che risponde, stando a quanto dichiarato da bin Laden, alla logica dei “benedetti attacchi” contro “la capitale mondiale degli infedeli”. Tuttavia, anche se la strage di inermi innocenti perpetrata dal terrorismo jihadista si è ammantata di significati “religiosi” simbolicamente trascendenti, neppure l’attribuzione dell’aggettivo “sacrale” alla guerra apocalittica può essere univoca: gli atti criminali attuati da una minoranza armata che parla in nome di una maggioranza religiosa, in questo caso i musulmani di tutto il mondo, non recano stampata in fronte, per così dire, la distinzione tra ciò che è religioso e ciò che non lo è. Un movimento politico può attribuire la massima importanza alle questioni relative al significato ultimo degli eventi e della storia, e creare intorno a sé un alone di legittimazione profetico e sacrale, anche se le sue linee d’azione destinate a uccidere e ad alimentare il fanatismo sono largamente secolarizzate. Il terrorismo jihadista ne è un esempio: esso mira a promuovere una guerra santa, condotta in nome di un obiettivo generico e indeterminato come il fantasma del Bene, contro un nemico altrettanto generico e indeterminato come il fantasma del Male, accusato di sacrilegio per avere effettuato una serie di violazioni sistematiche nei confronti di alcuni condensati simbolici e concreti dell’islamismo. Il qaedismo tende così ad autoascriversi un ruolo di avanguardia, di minoranza armata destinata a esercitare un ruolo di guida nei confronti della più generale comunità dei credenti (umma), allo scopo di realizzare, con singole azioni di annientamento indiscriminato, la radicale distruttività di un’eccezione divina destinata a punire l’Occidente 2

Cfr. C. Tilly, Terror, Terrorism and Terrorist, «Sociological Theory», 1, 2004; R. Senechal de la Roche, Toward a Scientific Theory of Terrorism, «Sociological Theory», 1, 2004.

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secolarizzato e le sue aggressioni al mondo islamico. L’elenco di queste “aggressioni” è nutrito: la permanenza delle truppe americane in Arabia Saudita in prossimità delle città sacre ai musulmani, la guerra del Golfo, condotta dagli Stati Uniti contro l’Iraq, il controllo di Gerusalemme da parte di Israele e, più in generale, la fine dell’impero Ottomano avvenuta circa ottant’anni fa. Nonostante si tratti di questioni che afferiscono al campo della geopolitica, esse vengono interpretate in chiave religiosa e reclamano, di conseguenza, una risposta improntata alla teologia estrema del jihad, della guerra santa. Apparentemente, il terrorismo jihadista sembra aspirare alla restaurazione post-apocalittica del califfato islamico, travolto dalla legge secolare o da pressioni esterne. Nel quadro della teologia apocalittica che lo ispira, la quale non prevede alcuna neutralizzazione ma la sola prosecuzione di un conflitto interminabile, questa volontà di restaurazione trasforma la religione in uno strumento di inimicizia assoluta che richiede la guerra santa. Mentre in passato i fondamentalisti islamici avevano rivolto la propria ostilità contro il loro nemico più prossimo, cioè gli Stati islamici che esercitavano la propria sovranità sui territori abitati da musulmani, la politicità teologizzante che dà corpo, letteralmente, al fanatismo terroristico, ha invertito l’ordine delle priorità, attaccando gli Stati Uniti (o il loro fantasma proiettivo) perché considerati come il principale ostacolo all’affermazione di un “Regno” arabo. Il jihad, così, finisce per non essere più “contenibile” entro i confini del terrorismo “tradizionale” che è, a suo modo, la tragica controfigura di un ordine ancora statuale. Nella teologia apocalittica che guida i terroristi suicidi non si esprime perciò alcuna volontà ordinativa: le loro azioni criminali sono piuttosto un’espressione di informità politica, che agisce in un contesto deterritorializzato e despazializzato per promuovere azioni “puntuali” in paradossale sintonia mimetica, per quanto di segno rovesciato, con un ordine che ha sostituito le tradizionali funzioni gerarchiche con vincoli di interdipendenza sistemica sempre più disseminati. Con la guerra apocalittica, che mette il singolo atto in cui si concentra la logica apocalittica della distruzione in condizioni di rappresentare il rovescio speculare e iperconcentrato del Tutto, vengono a cadere le distinzioni tradizionali tra dentro e fuori, tra interno ed esterno, tra spazio della sicurezza e spazio del rischio. Si tratta di una lotta “sacra”, ma non certo priva di una valenza strategica del tutto secolarizzata, rivolta contro i “Crociati” – l’Occidente cristiano, gli Stati Uniti e coloro che ne prolungano l’egemonia negli Stati musulmani. La dimensione imbevuta di trascendenza che è propria del terrorismo jihadista è comprovata dall’assimilazione della guerra santa a un atto di giustizia: a differenza delle guerre tradizionali, che

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EDOARDO GREBLO

non dovevano fare giustizia ma produrre un assetto diversamente ordinato, e quindi implicavano una conclusione prevedibile, una guerra che esige lo sradicamento del Male non implica alcuna conclusione, ma va condotta e perseguita sino al “giorno del giudizio”. Resta da vedere se la teologia apocalittica cui si ispira l’ideologia del terrorismo jihadista ne caratterizzi anche l’organizzazione e le linee d’azione. In generale, la configurazione temporale dell’ideologia apocalittica viene elaborata in modo da promettere una trascendenza che, a “vittoria” raggiunta, è in grado di prolungarsi nell’eternità. Ma la temporalità che sorregge le azioni perpetrate da una setta apocalittica combattente sembra ritagliata su un diverso profilo: e cioè quello, sostanzialmente manicheo, di una battaglia imminente, prossima nel tempo e dalle conseguenze epocali, tra le forze del Bene e le forze del Male. Nell’ottobre 2001, Michael Ignatieff ha descritto gli attentatori dell’11 settembre in termini analoghi: Ciò di cui siamo spettatori è una forma di nichilismo apocalittico. Il nichilismo dei loro mezzi – l’indifferenza per i costi umani – colloca le loro azioni non solo al di fuori dell’ambito della politica, ma persino al di fuori della guerra stessa. La natura apocalittica dei loro obiettivi rende assurdo pensare che stiano ponendo richieste politiche in senso stretto. Essi stanno mirando alla violenta trasformazione di un mondo irrimediabilmente peccaminoso e ingiusto. Il terrore non esprime una politica, ma una metafisica, il desiderio di conferire un significato ultimo e definitivo al tempo e alla storia attraverso atti sempre crescenti di violenza, che culminano in una battaglia finale tra il bene e il male3.

Tuttavia, anche se la guerra apocalittica è un concetto metafisico, i miti possono mobilitare persone e gruppi nella direzione di azioni violente subordinate a obiettivi strategici. In questo caso, la guerra apocalittica è una guerra non convenzionale non solo perché è “asimmetrica” a causa della privatizzazione di uno dei belligeranti (come tale formalmente non titolare del diritto di guerra), ma anche perché non è indirizzata contro uno Stato quanto contro l’umanità o una sua parte, distruggendo quella dimensione giuridica del conflitto che è volta a regolamentare lo scontro armato. A suo tempo e ciascuno a suo modo, sia Sorel sia Simmel avevano riconosciuto la capacità della violenza di alimentare il mito di una possibile trasformazione dell’ordine sociale. Per quanto l’obiettivo potesse essere irraggiungibile, il solo fatto di poterne disporre costituiva un fattore di mobilitazione politica. 3

M. Ignatieff, On the brink of war: it’s war - but it doesn’t have to be dirty, «The Guardian», 1 October 2001.

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Ciò significa, in altre parole, che la violenza apocalittica “religiosa” può essere contemporaneamente strategica e sacralizzata in senso simbolico. La teologia apocalittica che ispira il terrorismo jihadista sembra confermata, tra l’altro, sia dalla sua organizzazione interna sia dal contesto esterno. A prescindere dalle capacità organizzative necessarie a trasformare le Torri incendiate nell’icona totale e spettacolare della guerra apocalittica, queste richiedono, piuttosto che una struttura di tipo gerarchico e verticistico, un’organizzazione di tipo decentralizzato e disaggregato, una sorta di internazionale fondamentalista capace di reclutare nuovi adepti anche al di fuori dei suoi tradizionali bacini di reclutamento. Si tratta di caratteristiche che il qaedismo condivide con le sette apocalittiche in genere e a cui possono essere ricondotte tanto le sue fonti di finanziamento quanto, e soprattutto, il suo impianto organizzativo, caratterizzato da un sistema di alleanze tra un certo numero di organizzazioni preesistenti collegate tra loro per formare una rete più ampia di gruppi di cellule e il cui profilo si modifica a seconda delle circostanze. L’aggressività planetaria di cui si è dimostrato capace si deve anche a questa peculiarità organizzativa, che permette a una rete decentralizzata di organizzazioni “cellulari”, che si oppongono alle strutture “vertebrate” dello Stato, come dice Appadurai, di «ingegnerizzare» la distruzione nutrendosi della devozione fideista e sacrificale di terroristi fanatizzati. Vi è però anche il contesto esterno a differenziare il terrorismo jihadista sia dalle organizzazioni militari convenzionali, sia dalle organizzazioni terroristiche prive di una ideologia apocalittica. Le organizzazioni militari convenzionali ricevono di solito sostegno dal paese in cui avviene il reclutamento, e la distinzione tra i membri delle organizzazioni militari o paramilitari e i civili è di solito abbastanza netta. Le organizzazioni terroristiche prive di una più ampia legittimazione popolare, dal canto loro, possono costringere individui e gruppi a stringere rapporti di tipo collaborativo ma, anche in questo caso, vengono conservate alcune linee di distinzione tra i terroristi e la popolazione civile. Al contrario, una banda criminale in grado di portare a termine un atto di guerra a sfondo apocalittico può essere (o sentirsi) l’avanguardia armata di una più vasta maggioranza (provvisoriamente) inerte o spettatrice, da cui ricavare sia sostegno infrastrutturale diretto sia sostegno “morale” indiretto. Può darsi che gli apparati di sicurezza siano capaci di sradicare un’organizzazione terroristica isolata, ma una setta apocalittica capace di godere dell’appoggio di un ambiente permeato di integralismo e di fanatismo religioso è certo molto più difficile da estirpare. Sarebbe fuorviante considerare il qaedismo come una setta apocalittica composta da singoli individui isolati, privi di legami – diretti e indiretti – con il mondo

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di cui intendono essere l’avanguardia armata. Una delle difficoltà principali nella cosiddetta “guerra al terrorismo” è infatti rappresentata dalla probabile esistenza di legami consolidati tra i gruppi apocalittici e una rete più vasta e diffusa di altre organizzazioni militanti di tipo islamico. Anche al di là delle reti di appoggio materiale, il terrorismo jihadista gode verosimilmente di connivenze e sostegni da parte di una più ampia religiosità islamica permeata da un immaginario apocalittico. Né va dimenticato che decentralizzazione e universalismo intransigente non sono caratteristiche indipendenti: tendono invece a rafforzarsi reciprocamente. La guerra apocalittica non si manifesta come una sequenza ininterrotta di episodi terroristici, ma tende ad assumere, piuttosto, il profilo di una guerra senza fine in cui uno dei due contendenti, l’Occidente che risponde all’attacco come guerra santa con la dottrina della guerra giusta e si presenta come il Bene impegnato in uno “scontro di civiltà”, corre il rischio di lasciarsi trascinare su un terreno di scontro in cui l’ansia di giustizia e la volontà di contro-giustizia finiscono per rispecchiarsi l’una nell’altra. In questo senso, è stato osservato, «gli Stati si trovano di fronte a una situazione particolarmente delicata: sono moralmente obbligati a controllare gli atti della guerra strategica di tipo apocalittico ma, nella misura in cui operano in questo senso, si trasformano anch’essi in attori di tipo apocalittico»4. Se gli Stati, in altre parole, accettano di scendere sul terreno di un’interazione violenta di tipo simmetrico, si genera una situazione suscettibile di porre i contendenti in condizione di rivendicare patenti di legittimità pressoché equivalenti. Simmetria non significa equivalenza: la specularità tra i contendenti non può e non deve nascondere differenze radicali e incommensurabili tra responsabilità e motivazioni di partenza. Ma neppure occultare l’esito controfattuale che ne deriva, «nella figura autoconfutativa di una guerra volta ad evitare la guerra»5 che genera la moltiplicazione esponenziale di quegli stessi rischi che si vorrebbero evitare. Ora, la mobilitazione militare e diplomatica condotta dall’amministrazione americana, benché sia stata di enormi proporzioni, si è rivelata poco efficace nell’affrontare un nemico le cui motivazioni aderiscono a una teologia orientata apocalitticamente. La guerra al terrorismo deve infatti misurarsi con un dilemma prevedibile: come affrontare le sette apocalittiche senza estendere il contagio fondamentalista e senza incentivare la tendenza dei terroristi jihadisti a cooperare con altri gruppi globalizzando ulteriormente il 4

J. R. Hall, P. D. Schyler, S. Trinh, Apocalypse Observed: Religious Violence in North American, Europe, and Japan, London, Routledge, 2000, p. 200. 5 R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Torino, Einaudi, 2004, p. 161.

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GUERRA APOCALITTICA

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terrore. Sebbene le strategie di contenimento possano avere arginato o anche intaccato le capacità operative di al Qaeda, c’è da dubitare che siano state sinora in grado di circoscrivere il jihad 6. Anche perché la strategia terroristica non prevede una serie ininterrotta di azioni violente e destabilizzanti, quanto singoli atti dimostrativi dotati di alto valore simbolico e basati su «una tecnica di annientamento che punta sull’attimo invece che sul processo»7. In questo senso, un periodo di quiescenza anche prolungato non è di per sé significativo. Una setta apocalittica può inoltre portare a termine operazioni devastanti anche quando si trova in condizioni di agibilità materiale estremamente compromesse, e del resto la violenza spettacolarizzata del qaedismo si è dimostrata tragicamente efficace sebbene sia stata attuata da un numero sostanzialmente limitato di terroristi suicidi. Mentre le guerre del passato e la stessa definizione tradizionale di guerra, che prevede l’esistenza di norme in grado di regolare il conflitto, l’individuazione delle parti come soggetti di diritto internazionale e la presenza, fra queste, di (almeno) un soggetto riconducibile all’espressione di un governo, ossia di un organo giuridico dello Stato, permettevano (e richiedevano) la possibilità di decidere chi fosse il vinto e chi il vincitore, oltre che di individuare un limite temporale che permettesse di stabilire il momento della vittoria o della sconfitta, la guerra apocalittica è vistosamente priva di tutte queste caratteristiche. Proprio perché viene giustificata in termini teologici piuttosto che politici, cioè con il desiderio di riparare a un torto più che di costruire un assetto di pace, è tendenzialmente interminabile. Se le cose stanno in questi termini, sembrerebbe plausibile la drastica alternativa prospettata da Ignatieff: la vittoria assoluta oppure la morte. Il problema, però, è che la vittoria sarebbe difficile da definire, dal momento che gli obiettivi dei terroristi apocalittici sono spesso oscuri, grandiosi o entrambe le cose. L’ispirazione escatologica che anima i terroristi jihadisti rende sfuggente o inafferrabile lo stesso significato di “vittoria”, almeno secondo un’accezione suscettibile di rinviare a una realtà in qualche modo verificabile8. Infatti, nella prospettiva del jihad, la vittoria non coincide con la produzione di nuove forme e di un nuovo ordine politico, ma con la destabilizzazione delle geometrie spaziali e con la cancellazione dell’egemonia occidentale per lo meno nei paesi che i terroristi jihadisti considerano islamici. Infine, l’evidente necessità di dilazionare nel tempo la realizzazione di un simile obiettivo, invece di scoraggiare 6 Cfr. I. Shapiro, Containment: Rebuilding a Strategy against Global Terror, Princeton, Princeton University Press, 2007. 7 A. Cavarero, Orrorismo ovvero della violenza sull’inerme, Milano, Feltrinelli, 2007, p. 104. 8 M. Juergensmeyer, Terroristi in nome di Dio, cit.

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il reclutamento dei terroristi può incrementare ulteriormente l’alone di “sacralità” di cui si avvalgono per giustificare la loro causa. Com’è noto, nei giorni immediatamente successivi all’11 settembre l’amministrazione americana ha definito la guerra al terrorismo come una “crociata”, mentre alle operazioni militari in Afghanistan è stato inizialmente attribuito l’appellativo di “giustizia infinita”. Formulazioni poi ritrattate ma significative, perché indicative di una cornice ideologica in cui si tratta di agire etsi Deus daretur. «Anche per questa via, insomma, si producono due identità in guerra senza fine, incomunicanti ma rispecchiantesi l’una nell’altra, l’una fantasma per l’altra»9. Diversamente da come accadeva nella modernità, quando si trattava di creare un ordine mondano secolarizzando la teologia per legittimare la sovranità statuale, l’amministrazione americana è sembrata voler riproporre la propria difesa dell’umanità minacciata dalla barbarie operando esattamente “come se Dio ci fosse”, conferendo anch’essa alla guerra al terrorismo gli attributi di una guerra apocalittica. Appellarsi alla “guerra giusta” contro l’“asse del male” significa inquadrare il conflitto secondo una prospettiva in cui si riflette, per una sorta di mimetismo involontario, il tono apocalittico impresso dai terroristi jihadisti alla loro lotta contro l’umanità e avallare, agli occhi dell’opinione pubblica musulmana, le loro azioni criminali come altrettante manifestazioni della guerra “santa” contro gli “infedeli”. Quando la retorica apocalittica trasforma la religione in uno strumento al servizio di una volontà ultima di conflitto, l’eccesso di difesa finisce per far precipitare la guerra planetaria in uno scontro simmetrico in cui sembra svanire qualsiasi scarto differenziale. C’è da dubitare, per molteplici ragioni, che lo scontro di civiltà ipotizzato da Huntington sia davvero rispondente al tipo di conflittualità che agita il mondo globalizzato. Tuttavia, impostare l’offensiva antiterroristica etsi Deus daretur può contribuire a legittimare le forze che combattono in nome del jihad agli occhi della ben più vasta comunità islamica. Se la dottrina strategica per la sicurezza americana si colloca in un orizzonte apocalittico speculare rispetto a quello invocata dal terrorismo jihadista, entrambi i contendenti si trasformano nei protagonisti di una “crociata”, sia esplicitamente dichiarata, come nel caso di al Qaeda, sia ambiguamente evocata, come nel caso dell’amministrazione Bush. Per cogliere le implicazioni di un’impostazione avvolta da un’aura apocalittica è sufficiente richiamare quelli che per Juergensmeyer sono i soli scenari realisticamente prevedibili per degli attori globalizzati impegnati in una guerra “cosmica”: per entrambi la sconfitta è impensabile, e per entrambi la vittoria, sotto una 9

C. Galli, La guerra globale, cit. p. 40.

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LA

GUERRA APOCALITTICA

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qualsiasi prospettiva storicamente definita, è estremamente improbabile. Per l’Occidente, questa prospettiva dischiude una deriva orwelliana, uno scenario entro il quale jihad e guerra giusta si alimentano a vicenda erodendo le libertà civili, consolidando uno Stato di sicurezza internazionale e una cultura paranoica della sorveglianza10. Il terrorismo come tale non è nulla di nuovo. Ma in una realtà che genera un gigantesco sconfinamento delle geometrie spaziali che ordinavano la mappa politica della modernità, ciò che a suo tempo poteva ancora configurarsi come un “atto dimostrativo” localmente circoscritto si è saldato con ideologie religiose fideisticamente disponibili a scatenare l’apocalisse su scala globale. In questa situazione, il problema non è quello di “vincere” una guerra apocalittica: l’estirpazione del Male non ha mai fine. La sfida, piuttosto, consiste nel tentativo (e nella necessità) di spingere il momento storico oltre il tempo della guerra apocalittica, al di là della logica apocalittica e manichea che non ammette gradazioni tra il Bene e il Male, che pone il concetto stesso di vittoria al di là del controllo storico e che non prevede trattative, compromessi o negoziazioni con un nemico “satanico” che può solo essere distrutto – al di là del ciclo intermittente di violenze cieche e criminali attraverso le quali i combattenti dell’apocalisse cercano una diretta conferma dell’ideologia funesta di cui si alimentano.

10

Per queste implicazioni, cfr. D. Lyon, Massima sicurezza. Sorveglianza e guerra al terrorismo, trad. it. di E. Greblo, Milano, Raffaello Cortina, 2005.

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Lessico politico del disastro di Adriana Cavarero

Quando il cuore di tenebra dell’Occidente conflagra al napalm nel Vietnam, Apocalypse Now di Coppola cita esplicitamente il celebre «“the horror, the horror”» del capolavoro conradiano1. Nonostante il mezzo espressivo e il momento storico siano diversi, i due autori condividono lo sforzo di rappresentare una violenza estrema che, superando le sue forme note e persino l’ampia galleria dell’umana crudeltà, sfiora la follia e il non senso. Non si tratta di guerra o di devastazione coloniale e nemmeno di omicidio su larga scala. Si tratta piuttosto di un crimine ontologico che, eccedendo le pratiche dell’omicidio collettivo e, per così dire, strategicamente organizzato, mira alla disumanizzazione. Anche la sfera dell’inumano, riconducibile a un’accezione dell’umano o, se si vuole, di un’essenza dell’uomo, di cui sarebbe originaria e intrinseca deriva nichilistica2, viene infatti qui travalicata. L’espressione oltraggiosa del ‘bestiale’ sopravanza la logica del nulla. Certo è che il lessico politico tradizionale, anche quello in versione militare, sta decisamente fuori dal quadro. O, meglio, lo abbraccia per segnalare quanto ciò che qui occupa la scena sfugga alla sua pur sanguinosa nomenclatura. Impegnata a disumanizzare l’umano al di là del discrimine elementare fra la vita e la morte, come Conrad e Coppola intuiscono, la storia della distruzione ha un vocabolario tutto suo che trova radici in altri e più turbolenti assetti concettuali. Orrore è il lemma che più gli si addice. Ma l’immaginario apocalittico non può ovviamente mancare. Come vale la pena di notare, nel titolo della pellicola di Coppola è soprattutto il now ad attirare la nostra attenzione. Non più proiettato nel futuro più o meno imminente dell’escatologia cristiana, l’apocalisse accade ora, va in scena nel nostro presente immediato, è adesso. Come se la fine

1 Al tema dell’orrore in Cuore di tenebra di Conrad ho dedicato una breve analisi nel mio, Orrorismo ovvero della violenza sull’inerme, Milano, Feltrinelli, 2007: testo al quale qui mi permetto di rimandare per una più ampia riflessione sulla violenza contemporanea e sulla letteratura critica in materia. 2 Cfr. C. Galli, Premessa. L’inumano e oltre, in Età dell’inumano, a cura di V. M. Bonito e N. Novello, Roma, Carocci, 2005, p. 9.

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ADRIANA CAVARERO

della storia fosse visibile in diretta e ‘svelasse’ un significato al cui nucleo di orrore, ormai giunto al suo culmine, non segue nessuna redenzione. O come se la finzione cinematografica avesse previsto la spettacolarità orrorista dell’11 settembre 2001, sbagliando però il sito geopolitico del disastro. L’11 settembre 2007, nel sesto anniversario del crollo delle Twin Towers, l’edizione on line del «New York Times» si è aperta con un articolo intitolato Remembering Lower Manhattan’s Days of Horror. Che si sia trattato di ‘horrific days’, definiti esplicitamente e più volte apocalittici, viene ribadito da un altro articolo nella medesima pagina, dove, oltre a notare che in quel momento «l’irreale diventò inimmaginabile», si sottolinea come esso «segnò l’inizio di un altro tempo, il quale, a sei anni di distanza, ha avuto un seguito ma non ancora una fine». Amplificata dai media, la convinzione che dopo l’11 settembre 2001 ‘niente sarebbe stato più come prima’ si diffuse già nell’immediatezza del massacro. Don DeLillo, per esempio, parlò di «un evento catastrofico che cambia il nostro modo di pensare ed agire»3, aggiungendo così la sua voce a un ampio coro di intellettuali che concordavano sull’interpretazione del momento. In larga misura, anche se con gradi diversi di riflessione, l’evento veniva sostanzialmente percepito come una svolta epocale che segnalava nuovi e spaventosi tempi e perciò, sul piano narrativo se non su quello letterale, evocava l’apocalisse. A sei anni di distanza, siamo appunto in grado di registrare la tenacia di questa interpretazione. Subitaneamente scelto fra i repertori figurali del lessico del disastro a disposizione della platea mondiale, l’immaginario apocalittico, col suo nucleo sostanziale di orrore, continua oggi ad imporre la sua supremazia. Per quanto ormai stretto fra le immagini della sua anticipazione hollywoodiana e quelle della sua iterazione infinita all’epoca della riproducibilità elettronica, il crollo delle torri newyorkesi continua a mantenere il suo valore intensivo di segno catastrofico dei tempi, precisandosi come rivelazione di una cesura storica fra passato e futuro che, dopo essersi improvvisamente manifestata allora, ancora non passa. ‘Rivelazione’ – o, più alla lettera, ‘svelamento’ – può sembrare qui un termine enfatico, nonché pericoloso perché troppo in sintonia con l’appello alle religioni, in chiave guerresca, che miete oggi grandi fortune e alimenta la deriva orrorista del presente. A ciò si aggiunga che l’abitudine all’iperbole linguistica, unita alla passione per il sacro di anime inquiete e culturalmente confuse, ha ormai affondato il nome di apocalisse nel dizionario delle banalità. Che il crollo delle Twin Towers abbia resuscitato l’immaginario 3

Cfr. D. DeLillo, In the ruins of the future, «Guardian», December 22, 2001.

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apocalittico di matrice giudaico–cristiana è però un dato tutt’altro che banale. Insuperabile per potenza figurale, tale immaginario sta crucialmente all’origine di una complessa tradizione con la quale la modernità intrattiene costanti, benché discontinui, rapporti. Fra la letteratura critica dedicata al tema, basterà forse citare un celebre studio di Löwith che inscrive il fenomeno nella derivazione della moderna filosofia della storia dall’escatologia cristiana, oppure un testo di Voegelin che insiste invece sul modo in cui il processo di secolarizzazione, sottraendolo alla sfera del trascendente, immanentizza l’éschaton4. Al di là dei risvolti specialistici, il problema fondamentale riguarda appunto il mitologhema catastrofico, in versione apocalittica, che si raccoglie intorno all’éschaton. Notoriamente tratto da un etimo greco che denota le cose ‘ultime’, nell’economia cristiana della storia della salvezza, il termine va a indicare l’età finale, per lo più identificata con il secondo avvento di Cristo, che porta a compimento la storia del mondo e la chiude, aprendo all’eternità del regno di Dio. Nella letteratura contemporanea ad Agostino lo schema prevede il susseguirsi di sei o sette epoche della provvidenza divina nel mondo, dalla caduta di Adamo in poi, ciascuna collassante per l’inarrestabile attività del demonio secondo uno sviluppo che si conclude con un evento catastrofico definitivo, ossia l’apocalisse. Agostino stesso, identificandola con l’epoca della chiesa cristiana, parla di un’ultima età «a cui avrebbe posto fine l’avvento dell’Anticristo profetizzato nella rivelazione di Giovanni e del conseguente giudizio universale a conclusione dei tempi»5. Secondo la dottrina cristiana, la teologia della storia prevede, in sostanza, non solo la fine del mondo e, perciò, di quel tempo storico profano che era iniziato con la creazione, ma anche l’intervento radicalmente distruttivo dell’apocalisse. Cruciale per il paradigma escatologico, la fine dei tempi non è graduale o affidata a una lenta consumazione, bensì improvvisa e clamorosa. Benché la forza frenante del katèchon possa ritardare l’avvento dell’Anticristo6, il saeculum e tutta la sua sostanza mondana, per far posto all’eterno regno di Dio, devono collassare in una definitiva ed immane catastrofe. La quale mette in scena l’orrore di una distruzione totale che eccede di gran 4 Cfr. K. Löwith, Significato e fine della storia, pref. di P. Rossi, trad. it. di F. Tedeschi Negri, Milano, Il Saggiatore (Net), 2004 e E. Voegelin, La nuova scienza politica, saggio introduttivo di A. Del Noce, trad. it. di R. Pavetto, Torino, Borla, 1968. 5 K. Griewank, Il concetto di rivoluzione nell’età moderna. Origini e sviluppo, a cura di I. Horn-Staiger, pres. di C. Cesa, trad. it. di G. A. De Toni, Firenze, La Nuova Italia, 1979, p. 24. 6 Sull’importante tema del katèchon, che qui non posso affrontare, rimando volentieri a Giuseppe Fornari, Figure dell’Anticristo. L’apocalisse e i suoi freni nel pensiero politico contemporaneo, in Religione e violenza. Identità religiosa e conflitto nel mondo contemporaneo, a cura di G. Parotto, Trieste, EUT, 2007, pp. 61-86.

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lunga il terrore della morte individuale. Ciò che viene in primo piano non è infatti la morte dei singoli, ossia la fine della loro esistenza terrena, bensì il disegno trascendente che qui si invera mediante un atto distruttivo di cui le vittime sono, per così dire, funzione. Nella misura in cui eredita questo schema, piegandolo però, e non senza contraddizioni, a una visione secolarizzata della storia che sostituisce il progresso infinito al governo temporalmente definito della provvidenza, la modernità eredita anche l’immaginario apocalittico e la sua intensità orrorista. È bene precisare che la questione qui sollevata non riguarda i continui ritorni o, se si vuole, le dirette interferenze, di esplicite istanze religiose nella sostanza laica della modernità, bensì il fenomeno per cui proprio questa sostanza laica metabolizza il modello escatologico. Per dirla con Carl Schmitt, ormai infatti «sappiamo che la fede nel progresso del positivismo e dell’illuminismo non era altro che una secolarizzazione del giudaismo e del cristianesimo, e che essa aveva tratto da quelli la sua concezione degli eschata»7. Secondo Löwith e Voegelin, la secolarizzazione del modello passa soprattutto attraverso la versione originale e rivoluzionaria di Gioacchino da Fiore, monaco vissuto nel XII secolo. Questi, da un lato, interpreta il proprio tempo «come fase storica finale del divenire della salvezza, che precede l’èschaton trascendente di una nuova era, introdotta dalla seconda venuta di Cristo»8; e, d’altro lato, ispirandosi al principio trinitario, semplifica il disegno del succedersi delle epoche riducendole a tre. Entra così, nella speculazione occidentale sulla storia, un importante sistema di idee che, passando, fra gli altri, per Hegel, giunge sino ad influenzare la nostra consuetudine a dividere la storia in epoca antica, medioevale e moderna. Crucialmente, per quanto riguarda l’immaginario apocalittico, il passaggio alla modernità avviene però soprattutto mediante le rielaborazioni millenaristiche e chiliastiche dello schema di Gioacchino. Celebri per aver consegnato alla modernità il paradigma della rivoluzione come instaurazione nel mondo della società dei perfetti, queste dottrine accentuano la necessità di una fine catastrofica e improvvisa dell’ultima epoca, legittimando una lettura della storia che finisce per ritmare l’intero ordine delle epoche sul loro sfacelo. L’enfasi va irrimediabilmente sul momento distruttivo. L’apocalisse, per così dire, si moltiplica o, per lo meno, diventa disponibile per una teoria che la assuma come espressione finale, possibilmente clamorosa e preceduta da ‘segni’, del chiudersi di ogni epoca. 7 C. Schmitt, Tre possibilità di una immagine cristiana della storia, in Id. Un giurista davanti a se stesso. Saggi e interviste, a cura di G. Agamben, Neri Pozza, Vicenza 2005, p. 250. (Pubblicato nel 1950, il saggio è una recensione al testo sulla filosofia della storia di Löwith). 8 K. Löwith, Significato e fine della storia, cit. p. 176.

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Non è infatti raro che, sfruttando l’intensità simbolica del mitologhema catastrofico, la storiografia moderna lo manipoli per adattarlo al gioco delle periodizzazioni, secondo il principio generale per cui «gli eventi dominano il tempo, incidendo in esso le loro tacche»9. La notte di San Bartolomeo o il terremoto di Lisbona appartengono notoriamente a questo repertorio che non disdegna di accoppiare il teatro collettivo del crimine con l’effetto di disastri naturali. All’interno di una lettura delle vicende umane come succedersi traumatico delle epoche, diventa comunque logico attribuire lo statuto di ‘segno’ ad eventi particolarmente atroci e sanguinari. Una buona parte delle narrazioni storiografiche della modernità, in questo senso, anche quando rinuncia all’enfasi oratoria consentita dal mitologhema, manifesta una sintomatica predisposizione per il registro apocalittico. Se la posta in gioco è non solo datare la fine di un’epoca bensì esprimerne con intensità simbolica e, insieme, sintetica il momento di chiusura, la figura dell’apocalisse fornisce inevitabilmente lo sfondo più adatto. Il quale, anche nel contesto della storiografia che indulge a una retorica disposta a sfruttare l’aura religiosa del disastro orrorista, tende però a rimanere tale nella sua sintomatica lontananza. Per definizione, la narrazione sulla storia è infatti caratterizzata da «uno sguardo restrospettivo»10 e, perciò, da un postazione prospettica che, rispetto all’accadere dell’evento-segno, gode già di una distanza rassicurante. Essa finisce così per tranquillizzare i posteri proprio nel momento in cui, riducendola ad artificio retorico del periodare, pur sfruttandone la magnitudo, è costretta a dislocare l’apocalisse nel passato. Come val la pena di ribadire, si tratta di un’operazione che smentisce la fine ultima della storia inscritta nel concetto escatologico di apocalisse, assicurandoci invece che la fine di un tempo non è, dopo tutto, la fine dei tempi, e che la catastrofe epocale, proprio nel suo farsi segno irreversibile e decisivo, riguarda solo il collasso di un’età alla quale è già seguita un’altra. Benché conti sull’enfasi della distruzione finale, l’impianto prevede infatti una paradossale sequela di ‘ultimi’ giorni che, ponendo fine a un tempo particolare ovvero ‘segnando’ la sua fine come epoca determinata, ritmano la totalità del tempo storico sottoponendolo al loro ordine. Da evento unico e definitivo, proiettato dalla scrittura sacra in un futuro più o meno prossimo, l’apocalisse viene così ridotta a modulo storiografico di un passato ordinato in precise cadenze. La 9 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, a cura di G. Bonola, Casale Monferrato, Marietti, 1985, p. 361. 10 L’espressione è di Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, intr. di A. Dal Lago, trad. it. di S. Finzi, Milano, Bompiani, 1989, p. 140.

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dimensione del presente sembra invece, sia in un caso che nell’altro, sfuggire alla presa. Ciò giustifica, fra l’altro, l’impressione di eccezionalità ed anomalia che ha accompagnato il crollo delle Twin Towers visto con gli occhi dell’Occidente. Apocalypse now, appunto. Per dirla col gergo dei media, in quel giorno di orrore ci è stato concesso di osservare l’apocalisse trasmessa in diretta, nel momento del suo stesso accadere, su scala mondiale. La percezione della catastrofe in atto, a dir poco spettacolare e capace di mimare quasi alla lettera alcuni passaggi del testo biblico, si è notoriamente sovrapposta alla delusa attesa della fine del millennio in forma di baco: grottesca parodia elettronica di collasso epocale, farsa di un’apocalisse in rete, disastro virtualizzato senza esplosioni. Che dovesse finire un’epoca e, più in dettaglio, una modernità che, nella sua fase recente, si definiva sintomaticamente post–moderna, era del resto già messo nel conto dalla comunità accademica più avvertita. Sul piano generale delle aspettative, mancava però l’occasione di un evento che, facendosi segno, datasse la cesura: un disastro clamoroso, consegnato all’opera dell’orrore, che chiudesse insieme l’epoca e il millennio. Quale segno allora più adatto di un’apocalisse spettacolare, trasmessa in diretta dal centro dell’impero? Sottovalutare l’effetto apocalittico del crollo delle Twin Towers, ribadito a sei anni di distanza e quasi con le stesse parole, è in effetti difficile, se non controproducente. Né vale l’avvertimento che si tratta di una costruzione retorica a sfondo religioso o di una filosofia della storia che non è ancora riuscita a fare i conti con l’eredità di Gioacchino. Tutto questo, unito alla trivializzazione dell’enfasi oratoria medioevale sullo sfacelo del saeculum, c’è, ma rimane il fatto che, nel vocabolario occidentale, l’apocalisse si rivela il termine più adatto per indicare i giorni di orrore in cui l’agenda storica mette direttamente in scena la distruzione. In tal senso, l’11 settembre è la nostra notte di San Bartolomeo in pieno giorno, l’ennesimo giorno di una serie di massacri degli inermi che, a quanto pare, sembrano poter assurgere, più di altri giorni, a datare la fine delle epoche. Per la sensibilità odierna, evidentemente, la storiografia politicamente corretta, o forse solo ottimista, che indica nelle paci o nei trattati i giorni fatali, appare inadeguata a produrre una datazione plausibile. Paci o trattati sono, del resto, atti che si stipulano col nemico dopo guerre più o meno regolari. Le quali, com’è ormai palese nonché tragicamente accertato, esistono oggi solo in quanto nomi illusori di un vuoto linguaggio che ha riesumato l’antica arte politica della menzogna. Manifestatosi platealmente nel disastro di New York, lo spirito del tempo vuole ben altro. Vuole carneficine e massacri di vittime inermi. Vuole corpi che esplodono per dilaniare altri corpi. Oppure corpi

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arrostiti, smembrati, poltiglia umana resa irriconoscibile da una distruzione che è disumanizzazione. Come se il lato nascosto della storia politica del Novecento venisse improvvisamente alla luce. O come se l’orrore mostrasse il crimine ontologico che si è consumato nelle pieghe di questa storia. L’apocalisse delle Twin Towers, tanto più in quanto riproposta continuamente in immagine, si presta infatti ad essere innanzitutto interpretata come un evento che ‘svela’ l’orrore del Novecento giunto, con la fine catastrofica dell’epoca, al suo culmine. Inaugurato dal genocidio degli Armeni e incentrato sull’abominio di Auschwitz, il secolo, anche sotto l’aspetto delle sue guerre regolari, sembra specializzarsi nelle carneficine di massa che hanno per oggetto gli inermi. Per lo meno sul piano della quantità, e nonostante lo sgozzamento sia una figura orrorista esemplare, siamo ben oltre la fatidica notte di San Bartolomeo che ha potuto ispirare un’ampia pinacoteca. Gran parte della lettura sugli eccidi del Novecento deve infatti adattarsi ai grandi numeri: milioni di civili morti sotto le bombe o negli appositi luoghi di sterminio. Hiroshima e Nagasaki con la loro aura di disastro spettacolare. In questo senso, la scena dell’11 settembre 2001, con pochi mesi di ritardo, mostra la sostanza del secolo e lo chiude alla perfezione. Le vittime dell’attacco vengono infatti scelte dai massacratori, e spettacolarmente esibite alla platea mondiale, proprio nella loro esemplare qualità di inermi. Non c’è guerra, qualsiasi significato, anche lato, si voglia dare al termine. E non c’è neanche terrore, se non come effetto collaterale dell’orrore. Lemma centrale dell’attuale lessico della violenza, l’orrore viene infatti spinto in primo piano dallo spirito di un tempo che ci impone ormai il compito di ricostruire la storia genealogica dell’umana distruzione. Apocalisse è, appunto, un termine irrinunciabile. Catturate nelle griglie concettuali che distinguono i soldati dai civili e stabiliscono criteri per rendere più o meno regolare il massacro, guerra e terrorismo sono invece decisamente nomi inadeguati. Essi appartengono ancora al vocabolario dell’homo necans in veste di glorioso guerriero che si scontra con i suoi simili. Razzie, saccheggi, stupri e uccisioni di gente inerme fanno, notoriamente, parte del contorno. Ma è, in sostanza, il nemico in armi, l’altro speculare, il contendente del medesimo, a funzionare come primo, necessario elemento dell’antropologia guerriera. Più o meno su larga scala, il duello ne è il fulcro. Uccidere o venire uccisi, invece che semplicemente morire, è il modo in cui i belligeranti declinano la condizione umana della mortalità. Sulla scena rivelata dall’apocalisse dell’11 settembre, l’altro da sterminare è invece il qualsiasi, totalmente vulnerabile, che non indossa alcuna divisa e viene ucciso nella sua qualità di esemplare di vittima casuale. Nella sua fase più recente, la storia della distruzione destituisce materialmente la lingua del guerriero. Sia questo una figura robotica che

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colpisce a distanza oppure un corpo che si fa esplodere in stretta vicinanza. Non ci sono guerrieri, solo massacratori. C’è, oggi, un ampio ventaglio di studi, capace di incrociare storia e narrazione, che recupera dalla dimenticanza, se non dalla censura politica o dall’indifferenza intellettuale, le stragi degli inermi che hanno attraversato il vecchio secolo e l’inizio di quello nuovo. Jan Gross racconta, per esempio, di come il 10 luglio 1941 a Jedwabne, in Polonia, metà dei cittadini abbia massacrato – mediante strangolamento, bastonature, decapitazione, annegamento, sgozzamento e altre tecniche di mattanza – l’altra metà, ossia 1600 ebrei, togliendo questa faticosa incombenza agli occupanti nazisti11. Oltre che nella storia dei pogrom e in quella dell’antisemitismo, l’episodio è iscrivibile nella categoria dei ‘carnefici della porta accanto’ per i quali, appunto, proprio il vicino – tale per quella prossimità quotidiana che lo rende vulnerabile nel reciproco esporsi di coloro che vivono accanto – diventa l’altro da massacrare. Né è lecito qui, come non è lecito nei casi odierni di Baghdad o Gaza, spiegare il fenomeno solo in base alla logica del conflitto etnico e religioso. Concentrata sull’inerme e sulla sua disumanizzazione, la violenza in campo sfrutta infatti questa logica ma, significativamente, la eccede. O, meglio, porta allo scoperto il nucleo orrorista che da sempre la innerva. C’è un passo, nell’Apocalisse giovannea, che impegna da secoli gli esperti di enigmi numerici nella letteratura profetica. «Chi ha intelligenza», recita il testo, «calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d’uomo. E tale cifra è seicentossessantasei». (XIII). Indulgendo a una lettura decisamente spregiudicata e filologicamente scorretta, ci si potrebbe forse oggi chiedere se il numero di questa bestia, che sale dagli abissi, alluda al nome segreto dell’umanità piuttosto che a «un nome d’uomo». Per una concezione laica della storia che si affranchi dal processo della secolarizzazione modellato sull’escatologia cristiana, la profezia apocalittica diventa infatti fruibile innanzitutto come archivio fondamentale di un lessico auratico della distruzione. Sono l’essere umano e il crimine ontologico di cui, ora come allora, si mostra capace, a venir qui convocati dal linguaggio. Qualsiasi siano i numeri che lo esprimono, il suo nome è bestia: una bestia tanto più ripugnante in quanto la sua attitudine al massacro non si iscrive più nel disegno di alcuna trascendenza o provvidenza. Del resto, in questa dimensione che deve registrare le catastrofi senza poterle allineare in un ordine sensato della storia, non solo non c’è fine ma non c’è neanche giudizio. Nel disastro che tocca le radici dell’ontologia prima ancora che quelle della 11

Cfr. J. T. Gross, I carnefici della porta accanto. 1941. Il massacro della comunità ebraica di Jedwabne in Polonia, trad. it. di L. Vanni, Milano, Mondadori, 2002.

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politica, la violenza sugli inermi resta ingiudicata sotto un cielo senza stelle e senza redenzione. Riflettendo sulla violenza del nostro tempo, Carlo Galli ha sottolineato come, oggi, l’inumano oltre che agito sia anche «rappresentato (si pensi agli sgozzamenti e alle torture trasmessi in televisione): quando a chi agisce e a chi patisce si aggiunge chi guarda, lo spettatore, allora la normalizzazione dell’inumano, la sua banalizzazione rischiano di accrescersi»12. Anche se si sostituisce la fenomenologia del disumano alla ‘cultura’ dell’inumano13, per segnalare appunto un’eccedenza rispetto alla tradizione e mobilitarne gli assi categoriali, il quadro è, precisamente, questo. Ogni discorso sulla violenza odierna sembra destinato a scontarsi con la famigliarità di un’assuefazione all’orrore, mediaticamente prodotta, che non solo scoraggia la rilettura in termini teorici della catastrofe ma anche, e preventivamente, la ingloba in una retorica dell’orrore apocalittico già banalizzata e consumata. È, anzi, probabile che la voce, o, meglio, il grido delle vittime inermi siano rese inudibili proprio da una lingua enfatica ormai estenuata nella ripetizione. E che la mutezza degli inermi, massacrati dalla storia attuale casualmente e tuttavia in esclusiva, alluda proprio al senso di un disastro di cui c’è iperrappresentazione ma non ancora una lingua. Di facile utilizzo, benché culturalmente inevitabile, la figura dell’apocalisse nasconde anche un ingorgo linguistico che va a bloccare altri nomi.

12 13

C. Galli, Premessa. L’inumano e oltre, in Età dell’inumano, cit. pp. 8-9. Cfr. V. M. Bonito e N. Novello, Dall’umano. Per introdurre, in Età dell’inumano, cit. p. 20.

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Teorie & Oggetti della Letteratura

A. Helbo (a cura di), Semiologia della rappresentazione J.C. Gardin, Le analisi dei discorsi U. Carpi, Bolscevico immaginista. Comunismo e avanguardie artistiche nell’Italia degli anni venti F.P. Botti, G. Mazzacurati, M. Palumbo, Il secondo Svevo P. Getrevi, Nel prisma di Tozzi R. Genovese, Teoria di Lulu M. Jeanneret, La scrittura romantica della follia. Il caso. Nerval R. Luperini, Montale o l’identità negata P. Fasano, L’utile e il bello C. Benedetti, La soggettività nel racconto. Proust e Svevo U.M. Olivieri (a cura di), Change: un laboratorio del ’900 N. Ordine, La cabala dell’asino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno F. Curi, Parodia e Utopia J. Risset (a cura di), Georges Bataille: il politico e il sacro G. Frasca, Cascando. Tre studi su Samuel Beckett M. Sechi, La figura del corvo. Percorsi letterari degli anni cinquanta P. Voza, Tra continuità e diversità: Pasolini e la critica. Storia e antologia M.A. Grignani, Retoriche pirandelliane M.C. Cabani, Gli amici amanti. Coppie eroiche e sortite notturne nell’epica italiana E. Mattioda, L’ordine del mondo. Saggio su Primo Levi E. de Pasquale, Il segreto del giullare. La dimensione testuale nel teatro di Dario Fo M. D’Ambrosio, Le “Commemorazioni in avanti” di F. T. Marinetti. Futurismo e critica letteraria F. Moliterni, R. Ciccarelli, A. Lattanzio, Primo Levi. L’a-topia letteraria. Il pensiero narrativo. La scrittura e l’assurdo F. Pozzo, Emilio Salgari e dintorni F. Montesperelli, Flussi e scintille. L’immaginario elettromagnetico nella letteratura dell’Ottocento C. Bordoni, Stephen King, La paura e l’onore nella narrativa di genere N. Ordine (a cura di), La letteratura comparata: questioni di metodo M.I. Macioti, Giallo e dintorni F. Montesperelli (a cura di), Tra Frankenstein e Prometeo. Miti della scienza nell’immaginario del ’900 G. Amoroso, Raccontare l’assenza. Annotazioni sulla narrativa italiana del 2005 D. Trotta, La via della penna e dell’ago. Matilde Serao tra giornalismo e letteratura. Con antologia di scritti rari e immagini N. Novello (a cura di), Apocalisse. Modernità e fine del mondo

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