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Italian Pages 80 [79] Year 2022
Ana t omi a de lpol i t i c o Ac ur adi J a mi l aM. H. Ma s c a t
Ma t e r i a l i I T
Ét i e nneBa l i ba r Ant oni oNe g r i Ma r i oTr ont i
Quodl i be t
Materiali IT
Étienne Balibar, Antonio Negri, Mario Tronti Anatomia del politico A cura di Jamila M. H. Mascat
Quodlibet
© 2022 Quodlibet s.r.l. Macerata, via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 www.quodlibet.it isbn 978-88-229-0798-1 | e-isbn 978-88-229-1315-9 Materiali IT Collana diretta da Dario Gentili e Elettra Stimilli. Comitato scientifico: Paolo Bartoloni, Greg Bird, Vittoria Borsò, Sieglinde Borvitz, Daniela Calabrò, Timothy Campbell, Edgardo Castro, Felice Cimatti, Donatella Di Cesare, Gianfranco Ferraro, Simona Forti, Federica Giardini, Céline Jouin, Vanessa Lemm, Enrica Lisciani-Petrini, Davide Luglio, Federico Luisetti, Pietro Maltese, Danilo Mariscalco, Claudio Minca, Mena Mitrano, Marcello Mustè, Constanza Serratore, Suzanne Stewart-Sternberg, Giusi Strummiello, Davide Tarizzo, Miguel Vatter.
Indice
7 Introduzione di Jamila M. H. Mascat
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Mario Tronti e la fine della politica
Étienne Balibar
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L’autonomia del politico di Mario Tronti
Antonio Negri
Un passo indietro, un salto in avanti. Risposte a Étienne Balibar e Toni Negri 57
Mario Tronti
Introduzione di Jamila M. H. Mascat
1. Tronti, il politico, la politica Nell’aprile del 2019, presso l’Università Paris 1 Panthéon-Sorbonne, Étienne Balibar, Toni Negri e Mario Tronti hanno partecipato ad una tavola rotonda organizzata dalla sottoscritta e intitolata Le démon de la politique. Autour de l’oeuvre de M. Tronti1. La peculiarità dell’incontro salta immediatamente agli occhi: Tronti figura tra gli interlocutori di una conversazione in cui l’iter del suo pensiero è materia di discussione. Lungi dal convertirsi in un omaggio puramente celebrativo alla sua opera, la tavola rotonda ha riunito in presenza tre tra i principali esponenti del marxismo contemporaneo, le cui riflessioni nel corso degli ultimi decenni hanno avuto spesso modo di incrociarsi, pur confliggendo o demarcandosi le une dalle altre, sia direttamente sia indirettamente, ovvero ad opera e per bocca di altri interpreti2. Per i relatori presenti è stata l’occasione di confrontare dal vivo i propri distinti e divergenti percorsi intellettuali e politici in merito alle rispettive letture di Marx, della storia novecentesca e della congiuntura attuale. Da un lato, lo scambio tra Tronti e Negri si inscrive nel solco di quella breve ma 1 Il titolo dell’incontro ricalcava il titolo del volume: M. Tronti, Il demone della politica. Antologia di scritti (1958-2015), a cura di M. Cavalleri, M. Filippini, J. M. H. Mascat, il Mulino, Bologna 2017. 2 Cfr. M. Trotta e F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», DeriveApprodi, Roma 2008; R. Esposito, Pensiero vivente. Origini e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino 2010; D. Gentili, Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica, il Mulino, Bologna 2012; D. Gentili, E. Stimilli, G. Garelli (a cura di), Italian Critical Thought: Genealogies and Categories, Rowman and Littlefield International, London-New York 2018.
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cruciale esperienza che fu per entrambi l’operaismo degli albori, esperienza condivisa e poi contesa; dall’altro, il dialogo tra Balibar e Tronti discute del corso della storia operaia e del destino della politica moderna attraverso le mutazioni intercorse a cavallo del ventesimo e ventunesimo secolo. I testi qui raccolti sono il frutto di questo incontro e come tali ne riflettono la vocazione dialogica3. Non c’è una questione specifica che possa sinteticamente sussumerli tutti e tuttavia emergono alcune intersezioni tematiche che, ad una rilettura retrospettiva dei tre saggi, appaiono come le corsie preferenziali della conversazione. Balibar nell’incipit del suo intervento individua quattro temi trontiani da sviscerare – il punto di vista di parte; la composizione di classe o composizione politica; l’autonomia del politico; il tramonto della politica –, decidendo finalmente di affrontare solo il secondo e l’ultimo. Negri, invece, si sofferma essenzialmente sull’autonomia del politico, su cui fa perno per una rilettura generale della parabola dell’autore di Operai e capitale. Tronti, infine, nella sua risposta ad entrambi, opera a sua volta una scelta selettiva, concentrandosi «sulla vexata quaestio che va sotto il titolo di “autonomia del politico”» e sul tramonto della politica, problemi che gli appaiono fortemente correlati4. Ritenendo ridondante procedere ad una sintesi degli interventi che seguono, in questa introduzione si proverà a dire trasversalmente qualcosa a proposito di uno dei temi emersi, benché non esplicitati durante l’incontro, ossia in merito alla comprensione dell’influenza dell’operaismo delle origini sul seguito dello sviluppo del percorso di Tronti. Allo scopo di rintracciare un resto operaista nel corso dell’esperienza politico-intellettuale di Tronti successiva all’operaismo, è necessario interrogarsi innanzitutto su come leggere il lungo corso della traiettoria da lui percorsa nell’arco di mezzo secolo: è reperibile una linea di condotta? E, se sì, come conciliare i salti rivendicati nella strategia teorica di Tronti con la presenza di un Leitmotiv, se non continuo quantomeno coerente, di un filo rigorosamente rosso e mai reciso, sebbene puntellato di nodi, ovvero variazioni discontinue? 3 Il testo di Toni Negri è rimasto invariato, quello di Étienne Balibar è stato minimamente rivisto e corretto, quello di Mario Tronti è stato scritto ex post, rileggendo gli interventi di Negri e Balibar. 4 Infra, p. 58.
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Tronti ricorre in più occasioni a una formula presa in prestito dal Re Lear di Shakespeare che sintetizza continuità e discontinuità nelle parole del conte di Kent condannato all’esilio: «Kent da voi prende commiato; in una nuova terra seguirà la sua vecchia strada»5. Nella riflessione degli ultimi anni, il compito di ripensare l’età dell’oro della storia operaia con le spalle al futuro, erigendo la memoria in una nuova arma per l’antica guerra, diventa l’impresa politica per eccellenza6. La guerra di sempre è la lotta di classe, una lotta che fu guerra civilizzata, trasfigurata al presente nello scenario desolato e impolitico di uno scontro di civiltà. In questa congiuntura, per Tronti, la battaglia tutta politica per l’egemonia non può che essere combattuta nel campo della teoria. L’agire, ridotto al reagire, impone un ritiro dalla prassi e un impegno nel pensiero, ribadendo l’impossibilità di situarsi altrove che nella necessaria divaricazione tra teoria e pratica politica. Il controtempo di questa dicotomia segna marcatamente l’elaborazione dell’ultimo Tronti, maturata in tempi non eccezionali, dal momento che solo nello stato d’eccezione pensiero e azione procedono di pari passo7. L’acquisita consapevolezza della non sincronia di teoria e prassi, tattica e strategia, trova espressione nel motto sintetico «pensare estremo, agire accorto», che si traduce in monito: «sulla curva della pratica rallentare, sul rettilineo della teoria accelerare»8. A partire da qui è possibile concepire la condotta trontiana come una linea spezzata ma coerente, la cui coerenza si mantiene nella tensione tra la continuità del punto di vista e la discontinuità dei punti di svolta. Più che di un prolungamento delle origini, si parlerà allora di proiezioni e dislocazioni che di volta in volta inaugurano nuove concrezioni teoriche edificate sul primato originario del politico.
M. Tronti, In nuove terre per antiche strade, CRS, Roma 2015, p. 3. Il riferimento, ovviamente, è al volume di M. Tronti, Con le spalle al futuro. Per un nuovo dizionario politico, Editori Riuniti, Roma 1992. 7 Scrive Tronti: «È da tenere presente che pensiero e politica, teoria e pratica, secondo una dizione nostra antica, si intrecciano, si rispondono, si determinano a vicenda, solo nello stato di eccezione. Quando lo stato è normale i due piani si divaricano e diventano quasi indipendenti l’uno dall’altro» (M. Tronti, In nuove terre per antiche strade cit., p. 5). 8 Ivi, p. 6. 5 6
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2. Politica, Novecento e oltre Il titolo manifestamente weberiano dell’antologia di scritti trontiani – Il demone della politica (2017) – dice del carattere diabolicamente politico che anima il percorso di Tronti, filosofo totus politicus, a partire già dall’elaborazione di Operai e capitale quale rilettura politica del Capitale di Marx adattata alla congiuntura della lotta di classe in Italia al principio degli anni Sessanta, che fu «romanzo di formazione per giovani menti antagoniste»9. Una duplice vocazione domina l’attività teorico-pratica di Tronti, votata tanto alla Causa, quella della parte operaia, «minoranza di massa»10, quanto alla Cosa, la Politica e il suo inferno11. Politico pensante e pensatore politico sempre cum ira et studio, uomo di parte e di partito, Tronti respinge l’etichetta di riformista rivendicando per sé la definizione ossimorica di «rivoluzionario conservatore»12. Inevitabilmente duale appare la matrice del suo pensiero, filosofia del polemos e della totalità, della parte che si erige al tutto, dell’Uno diviso due, ma senza sintesi edificante – mai l’Uno e sempre il due senza tre. A questa divaricazione originaria, che domina tutta la riflessione trontiana, si sovrappone una postura che rivendica l’esercizio del Dalla lettera inviata da M. Tronti in occasione della giornata di studio su Operai e capitale organizzata all’Università Paris X Nanterre l’11 giugno 2016 (https:// operavivamagazine.org/cari-compagni/). 10 M. Tronti, Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma 2009, p. 94. 11 Cf. il seguente passo di Max Weber in Politik als Beruf (1919): «Chi vuole fare politica in generale, e soprattutto chi vuole esercitare la politica come professione […] entra in relazione con le potenze diaboliche che stanno in agguato dietro a ogni violenza. […] Chi aspira alla salvezza della propria anima e alla salvezza di altre anime non le ricerca sul terreno della politica, che si pone un compito del tutto diverso e tale da poter essere risolto soltanto con la violenza. Il genio o il demone della politica e il dio dell’amore, anche il dio cristiano nella sua forma ecclesiastica, vivono in un intimo contrasto, che in ogni momento può trasformarsi in un conflitto insanabile» (M. Weber, La scienza come professione. La politica come professione, tr. it. di H. Grünhoff, P. Rossi e F. Tuccari, Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 109). Sul rapporto Tronti-Weber si veda il contributo di E. Stimilli, L’autonomia dei mezzi e la politica come vocazione «di parte», in Andrea Cerutti e Giulia Dettori (a cura di), La rivoluzione in esilio, Quodlibet, Macerata 2021, pp. 173-188. 12 M. Tronti, In nuove terre per antiche strade cit., p. 16: «È il discorso certamente non di un riformista democratico, piuttosto quello di un rivoluzionario conservatore. In verità, io sto cercando nuove armi per la vecchia guerra. Armi intellettuali, s’intende: per quella guerra, civile, nel senso di civilizzata, che fu di classe». 9
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salto come prassi intellettuale e politica. Oltre mezzo secolo fa Tronti scriveva: «Le grandi cose si fanno per bruschi salti»13. Di salti, cari a Lenin lettore della Logica di Hegel, il pensiero di Tronti ne ha fatti tanti, talvolta tacciati di cadute o regressioni14. Connubio sui generis di realismo e trascendenza e mistica della politica, la strategia teorica di Tronti si adopera di volta in volta di fronte ai mutamenti di congiuntura e d’epoca per saltare e salire, innervandosi sull’aspirazione verticale di uno spirito che ambisce a disordinare il mondo15. «Le scoperte che contano spezzano sempre il filo della continuità», proseguiva Tronti, preannunciando già più di cinquant’anni fa quella che sarebbe stata poi l’euristica di una vita16. In effetti, le scoperte teoriche trontiane si inscrivono in successione discontinua nel solco del suo pensare estremo. Dapprima la «rivoluzione copernicana» di Operai e capitale, che subordina lo sviluppo capitalista all’iniziativa operaia e rivendica per quest’ultima un «diritto all’esperimento», inaugurando una delle stagioni più vitali del marxismo contemporaneo17. Poi, negli anni Settanta e Ottanta, l’autonomia del politico, indigesta, biasimata e incompresa, che assegna alle organizzazioni del movimento operaio il compito di utilizzare la macchina dello Stato contro il piano del capitale all’interno della società capitalistica. Segue, a partire degli anni Novanta, il tramonto della Grande Politica operaia, la fine della storia del «popolo lavoratore» comunista scaturita dalla tragedia politica del crollo del blocco sovietico18. Si dischiude così una nuova fase di feconda «disperazione teorica»19, in cui l’imperativo della comprensione della modernità naufragata alla fine del secolo breve – della sua portata rivoluzionaria e dei suoi traguardi disattesi – si traduce in un pensiero metaforico che cerca nei cieli della teologia politica delle leve concettuali per sollevare il mondo terrestre totalizzato dalla logica del capitale e colonizzato dallo spirito dell’homo democraticus20. M. Tronti, Operai e capitale, DeriveApprodi, Roma 2006, p. 8. Cfr. D. Bensaïd, Les sauts! Les sauts! Les sauts!, in Id., La politique comme art stratégique, Syllepse, Paris 2011, pp. 37-51. 15 M. Tronti, Il demone della politica cit., pp. 607-618. 16 M. Tronti, Operai e capitale cit., p. 8. 17 Ivi, p. 83. 18 M. Tronti, Noi operaisti cit., p. 20. 19 M. Tronti, La politica al tramonto cit., p. IX. 20 M. Tronti, Il demone della politica cit., pp. 597-606. 13 14
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Infine, a partire dagli anni 2000, si profila per Tronti ancora un salto in alto e all’indietro lungo la via regia della libertà comunista, ripercorsa in frammenti nella scrittura aforistica di quel lungo soliloquio con il proprio daimon che è Dello spirito libero (2015)21. Qui s’avverte lo sforzo radicale di disgiungere ancora più radicalmente teoria e prassi per strappare una «verità assoluta di parte» attraverso un sofferto corpo a corpo con il culto del progresso e il mito del futuro, ovvero scagliando il passato, la grande Storia del «piccolo Novecento» contro le seduzioni del nuovo che impera22. Poiché la memoria è un’arma, il passato risulta più forte del futuro per combattere il presente, dal momento che il passato è reale mentre il futuro, immaginato e agognato, è finzione suscettibile di svincolarsi da qualsiasi appiglio alla realtà. La memoria contiene dunque una potenza antagonistica e corrosiva più forte di qualsiasi utopia23. Per Tronti, perciò, la strada verso il futuro potrà essere dischiusa soltanto dall’accumulazione originaria di tutto il capitale memoriale necessario alla critica dell’oggi, di questo mondo che – scrive – basta guardarlo per odiarlo24. Così l’impellenza di riattivare il pensiero della politica in un tempo storico dominato dall’anti-politica democratica e populista anima tutta la produzione trontiana degli ultimi trent’anni, a partire dalla meditazione sulla genesi e fine della politica moderna attraverso i tortuosi tornanti novecenteschi. E proprio tale ostinata vocazione a riattivare il principio del politico, può essere considerata, entre autres, come un lascito del primo operaismo. 3. L’operaismo che resta Ma cosa resta dell’operaismo originario nel seguito del percorso di Tronti? Per rispondere a questa domanda bisogna ripartire proprio dalla fine dell’avventura operaista, ovvero dal paradigma dell’autonomia del politico che Tronti sviluppa all’inizio degli anni Settanta, a mo’ di chiusura e cesura con l’operaismo di M. Tronti, Dello spirito libero. Frammenti di vita e pensiero, il Saggiatore, Milano 2015. M. Tronti, Il demone della politica cit., p. 627. 23 Cfr. M. Tronti, Disperate speranze, «Infiniti mondi», 11, 2019. 24 M. Tronti, In nuove terre per antiche strade cit., p. 16. 21
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battesimo. A tal proposito si tratta in primo luogo di mostrare che in realtà il tema e problema della politica come direzione dei processi e organizzazione della forza affiora già a più riprese nel corso della fase operaista, manifestandosi più nitidamente durante l’esperienza di «classe operaia» inaugurata sotto la guida editoriale di Tronti nel 1964. Seguiremo qui un percorso che va a ritroso dagli anni 2000 – Noi operaisti (2009) – in direzione degli anni Sessanta – Operai e capitale (1966) –, passando per L’autonomia del politico (1977)25 e tre articoli pubblicati da Tronti su «Contropiano» nel 1968 che tematizzano esplicitamente la questione del rapporto tra classe, partito e Stato26. La traiettoria proposta muove alla ricerca di un resto operaista nella meditazione trontiana posteriore alla stagione gloriosa dell’operaismo – «un tempo delle buone idee e delle buone pratiche»27, ma contesta in partenza l’ipotesi di considerare il pensiero di Tronti successivo come un residuo impoverito della matrice operaista originale. È lo stesso Tronti, peraltro, a chiamare in causa la nozione di resto nella relazione tenuta durante il convegno «Rileggere “Operai e capitale”» nel 2007, e significativamente intitolata Perché ancora l’operaismo28. In questa circostanza Tronti si domanda «che cosa resta dell’operaismo» nelle nuove condizioni del capitalismo contemporaneo che hanno segnato il passaggio dalla centralità alla marginalità della classe operaia. Tale resto, a sua detta, non costituisce un reperto archeologico privo di vita, ma piuttosto un germe che continua a disseminare pensieri fecondi, un modo di pensare politico, uno stato d’eccezione intellettuale, uno stile irrinunciabile imparato presso quella scuola d’eccellenza che è stata la fabbrica29. Cf. M. Tronti, Sull’autonomia del politico, Feltrinelli, Milano 1977. Il volume raccoglie i testi presentati da Tronti in occasione di due seminari tenuti rispettivamente nel dicembre 1972 presso la Facoltà di Scienze Politiche di Torino, su invito di Norberto Bobbio, e nell’aprile 1976 a Milano, presso la Fondazione Feltrinelli, per iniziativa di Giuseppe Del Bo e Salvatore Veca. 26 Si tratta di M. Tronti, Estremismo e riformismo, «Contropiano», 1, 1968, pp. 4158; Id., Il partito come problema, «Contropiano», 2, 1968, pp. 297-318; Id., Internazionalismo vecchio e nuovo, «Contropiano», 3, 1968, pp. 505-526 27 M. Tronti, Noi operaisti cit., p. 6. 28 Ivi, pp. 103-112. 29 Ivi, pp. 7-12. 25
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L’operaismo resta nella storia del marxismo contemporaneo, nella misura in cui rimane un punto di partenza nei suoi capisaldi irrevocabili: primo tra questi il punto di vista ancorato nel campo della parte operaia, quindi un’articolazione peculiare del nesso di teoria e pratica, rapporto asincrono e non corrispondente e, infine, una vocazione spiccatamente antiriformista30. D’altra parte, se l’operaismo resta, la storia contemporanea appare a Tronti come un resto, sbiadito e deformato, della lotta di classe che fu nella fase di espansione del neocapitalismo industriale, al punto che le battaglie della posterità ai suoi occhi non restituiscono nient’altro che il riverbero degli effetti della tragica disfatta operaia. La sconfitta della classe, battuta per Tronti già nell’immediato dopo68, che segna la fine di un ciclo, prelude alla crisi della politica moderna, crisi d’epoca destinata ad approdare alle ceneri crepuscolari della forma politica novecentesca dopo il collasso del comunismo. Un resto d’altra natura della radice operaista, che Tronti non manca di segnalare, va reperito nella continuità di un interrogativo a cui la sua riflessione nel tempo avrebbe puntualmente apportato risposte diverse. Per Tronti, infatti, il congedo da «classe operaia» nel 1967 trova giustificazione nella necessità di individuare una nuova risposta, possibilmente migliore, alla domanda originaria, ovvero cosa avrebbe consentito agli operai di battere il proprio avversario di classe. In questo senso l’autonomia del politico non incarna altro che il tentativo di «aggirare la postazione nemica per prenderla alle spalle». «Fondamentalmente – nota Tronti – era questo che io pensavo. Era la continuazione della guerra di classe con altri mezzi». E, sempre in questo senso circoscritto, la «cultura dell’operaismo» pare a Tronti «peculiarmente compatibile con la pratica del realismo politico»31. L’idea di «mettere in crisi la forma capitalistica attraverso le lotte non bastava», osserva Tronti retrospettivamente, dal momento che bisognava fare i conti con «la politica, cioè la forma Stato e i partiti»32. Leggiamo in Noi operaisti: Ivi, pp. 105-106. Ivi, p. 23. 32 M. Tronti, G. Dettori, Origini ed eredità dell’operaismo, «Filosofia italiana», 2, 2020, p. 139. 30 31
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Non ho francamente mai pensato che potessimo organizzare noi gli operai per scagliarli, duri e puri, contro il capitale. In mezzo c’era un passaggio che non si poteva saltare, anche se essere operaisti, allora e dopo, ha sempre simbolicamente significato sostenere che si trattava di saltare questo passaggio. È una contraddizione che l’esperienza si è portata dentro, dalla formazione alla dissoluzione. In realtà, l’organizzazione c’era: non era quella della classe operaia senza alleati, ma quella con alleato il popolo lavoratore; nella forma del sindacato e del partito esistenti33.
In questa consapevolezza Tronti rinviene il nucleo del suo operaismo politico non compreso e non condiviso da molti all’interno dell’esperienza operaista34: l’intuizione politica che rivendica la necessità della costruzione, per mezzo della lotta di classe, di «un gruppo dirigente, un modello di ceto politico alternativo a quello del movimento operaio, cosiddetto ufficiale» in vista della conquista dell’organizzazione35. Così Tronti può affermare che «la scoperta teorica dell’autonomia del politico avviene dentro l’esperienza pratica dell’operaismo» e non in rottura con essa36, e che «il primato della politica è già presente, fin dal primo numero, nell’iniziativa di fare “classe operaia”, “mensile politico degli operai in lotta”»37. Enfatizzando il leninismo strutturale dell’operaismo delle origini – «Il grido di Lenin in Inghilterra –: prima gli operai poi il capitale, cioè prima le lotte operaie poi lo sviluppo capitalistico, ebbene, questo è politica. E che cos’altro può essere, visto che è volontà, decisione, organizzazione, conflitto?»38 –, Tronti ribadisce l’idea che «la parte deve farsi partito per cogliere la totalità, e per poterla aggredire da potenza a potenza»39. M. Tronti, Noi operaisti cit., p. 20. Si veda M. Filippini, Mario Tronti e l’operaismo politico degli anni Sessanta, «Cahiers du GRM», 2, 2011 (https://journals.openedition.org/grm/220). 35 M. Tronti, Noi operaisti cit., pp. 21-22: «Il “dentro e contro”, quel sofisticato, forse troppo, complesso principio elaborato nella forma classica di un “Operaismo politico”, non trovò l’occasione per radicarsi in individui in carne e ossa e rimase un enunciato di metodo, indispensabile per capire, inefficace per agire». 36 Ivi, p. 25. Tronti nota, inoltre, che «Solo la sua elaborazione storica, e storico-concettuale, avviene dopo. E con l’elaborazione, la consapevolezza di aver mancato l’obiettivo della sintesi del dentro e contro» (ibid.). 37 Ivi, p. 27. 38 Ibid. 39 Ivi, p. 38. 33 34
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Questa convinzione, espressa chiaramente nell’editoriale di «classe operaia» 1905 in Italia (1964), suscita opinioni controverse quando, chiarisce Tronti, «dicendo partito si capiva che si intendeva PCI»40. Eppure gli appare evidente che «La lotta per il partito di domani non può prescindere dalla lotta sul partito com’è oggi […]», poiché «Le soluzioni nuove nell’organizzazione non nascono mai come negazione del vuoto politico di tutto ciò che è stato, ma sempre come lotta positiva contro ciò che l’organizzazione attualmente è, come critica della sua politica passata e come pratica della sua crisi futura»41. Per un verso, l’autonomia del politico matura quindi in risposta al problema della forza operaia in continuità con il lascito dei problemi ereditati dall’operaismo: A un certo punto mi sono accorto […] che non eravamo noi a non farcela: era la classe operaia che non ce la faceva più. Non ce la faceva ad abbattere l’avversario di classe. Non ce la faceva senza dotarsi di una armatura politica. Era la forma dell’organizzazione politica, anche se cercavamo una forma dell’organizzazione politica nuova42.
Per l’altro, l’autonomia del politico appare come un teorema risultante dall’istituzione di una relazione analogica tra il ruolo degli operai rispetto al capitale e il ruolo del partito di classe rispetto allo Stato: trattasi della trasposizione del dentro e contro dal piano della lotta di classe al piano della politica organizzata e istituzionale43. 40 41
Ivi, p. 54. M. Tronti, O partito unico o partito in fabbrica, «classe operaia», 3, maggio 1965,
p. 2. M. Tronti, Noi operaisti cit., p.109. Nota Tronti in proposito: «In realtà io ho pensato che l’armatura politica della classe operaia, almeno in Italia, si sarebbe potuta dare nell’unica forza politica che esisteva sul terreno, che era il PCI. Io andavo alla ricerca di una forza politica, che poi ho trovato» (ibid.). E altrove precisa: «Che questa “organizzazione politica” fosse il PCI, questo era meno esplicito, era una cosa che pensavo io. Non ho mai ritenuto che si trattasse di costruire un nuovo partito, bisognava fare in modo che esplodesse il PCI, questo partito doveva diventare la forma organizzata delle lotte operaie in atto. E questa era la cosa che non passava. Non passava sia perché non c’era nessun riscontro empirico, sia perché c’era una forma di antagonismo nei confronti del PCI» (M. Tronti, «Intervista», in M. Trotta e F. Milana [a cura di], L’operaismo degli anni Sessanta cit., p. 605). 43 Con parole recentemente adoperate da Tronti: «Se la fabbrica si faceva società, dovevi stare come classe dentro la società per essere contro di essa. E questa era la politica. 42
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La questione del rapporto tra organizzazione e istituzioni viene sviscerata nei contributi redatti da Tronti per la rivista «Contropiano» nel 1968, in particolare in Il partito come problema ed Estremismo e riformismo. «Lotta operaia e potere politico», afferma Tronti, «vanno utilizzati con abilità: la lotta, per unificare partito e classe; il potere, per dividere capitale e Stato»44. La strategia provvisoria delineata individua dunque nella sfera politica il campo d’intervento del potere operaio: «Non più proletariato e borghesia, non più sfruttati e sfruttatori, non più una classe subalterna e classe dominante, ma sviluppo economico capitalistico da una parte e potere politico operaio dall’altra»45. Mentre allora il vecchio riformismo segnala l’incapacità del partito di riconnettersi con la propria base di classe, l’estremismo dice, all’opposto, dell’incapacità della classe in lotta di «salire al vertice dello Stato»46. Per uscire da queste impasses la tattica di lungo periodo prefigurata dall’autore di Operai e capitale all’epoca indica tre obiettivi congiunti: lottare sul salario, ricostruire il partito, puntare al governo. «Salario-partito-governo – scrive Tronti – è la forma scheletrica lo schema-guida, che assume oggi, nella congiuntura presente del capitale internazionale, il cammino storico classe-partito-Stato»47. Non si tratta in alcun modo di una soluzione ottimale della crisi politica in corso – «Crisi politica capitalistica pur in assenza di un’organizzazione politica operaia: questa è la situazione di oggi»48– ma di un passaggio obbligato che non consente di eludere il problema del rapporto partito-classe. Il partito come problema, ovvero «il nodo del partito, la conquista dell’organizzazione», è per Tronti la questione principale da affrontare49. Tale questione si palesa già nei primi testi di «classe operaia», nel tentativo di ripensare «la scissione transitoria fra lotta E quando la politica si faceva Stato, dovevi essere come partito dentro lo Stato per essere contro». Cfr. M. Tronti, Saggio in forma di intervista di Mario Tronti (a cura di G. Dettori e A. Cerutti), in A. Cerutti e G. Dettori (a cura di), La rivoluzione in esilio cit., p. 331. 44 M. Tronti, Estremismo e riformismo, «Contropiano», 1968, 1, p. 44. 45 Ivi, p. 47. 46 Ivi, p. 56. 47 Ivi, p. 57. 48 M. Tronti, Internazionalismo vecchio e nuovo, «Contropiano», 1968, 3, p. 510. 49 M. Tronti, Operai e capitale cit., p. 17.
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di classe e organizzazione di classe, fra momento permanente della lotta e forme organizzative provvisorie»50. Fedele alla tensione duale che determina e governa le articolazioni della sua riflessione politica, Tronti non opta per la lotta né per l’organizzazione, ma teorizza la necessità dell’una per l’altra, sottlineando che, da una parte, bisogna constatare come l’intensificazione della lotta non basti senza la crescita di un’organizzazione determinata e capace di governare la potenza operaia e, dall’altra, è necessario comprendre «come far corrispondere in modo permanente un’organizzazione nuova a queste nuove lotte»51. Lenin in Inghilterra (1964) esprime quindi «la ricerca di una nuova pratica marxista del partito operaio: il tema della lotta e dell’organizzazione al più alto livello di sviluppo politico della classe operaia»52. Analogamente, 1905 in Italia (1964) esorta a chiarire ogni ambiguità circa la relazione tra la classe e le organizzazioni del movimento operaio. Come scrive Tronti, non si tratta di scegliere tra spontaneismo e organizzazione, ma «tra due vie possibili per arrivare all’organizzazione nuova», e conclude: «noi diciamo che si può scegliere oggi la via che passa attraverso una crisi positiva di una parte almeno delle vecchie organizzazioni»53. Così «classe operaia» si chiude con l’ultimo editoriale di congedo, Classe partito classe (1967), che si pronuncia sull’urgenza di adoperarsi a cercare e forgiare nuove armi e nuovi mezzi per la lotta di sempre, e definisce il compito imminente della costruzione – non ex nihilo, ma sulla base dell’esistente – di «una struttura politica dell’organizzazione che ricalchi ed esprima, a livello di capitale sviluppato, la totalità della classe operaia, nei suoi bisogni e nei suoi movimenti»54. In tal senso l’autonomia del politico, che tematizza le condizioni dello «scontro frontale» tra la classe e il capitale ponendo di nuovo al centro la questione dell’organizzazione, non può che esser letta alla luce delle considerazioni maturate in seno all’operaismo politico trontiano degli anni precedenti55. «È qui», nota Tronti, «che la classe operaia si trova scoperta, è qui che si trova Ivi, p. 92. Ibid. 52 Ivi, p. 93. 53 Ivi, p. 106. 54 M. Tronti, Il demone della politica cit., p. 222. 55 M. Tronti, Sull’autonomia del politico cit., p. 58. 50 51
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senza armi», ed è a partire da qui che va risolto il problema della ricomposizione politica della classe in lotta56. 4. In principio fu il politico L’analisi trontiana della natura del PCI è disincantata e strumentale: se non è possibile «usare oggi il PCI in senso rivoluzionario», occorre quantomeno «impedire il processo di esplicita socialdemocratizzazione del partito comunista. Perché impedire questo significa già bloccare la stabilizzazione politica del capitalismo in Italia»57. Non l’ingenua fiducia nelle magnifiche sorti e progressive del partito comunista spinge Tronti a guardare al PCI, quanto invece il calcolo delle forze e del rapporto di forza, e cioè la convinzione che la politica operaia, forma suprema della politica tout court, non possa prescindere dall’interrogarsi sullo Stato e sui mezzi del conflitto. Poiché l’organizzazione in politica fa la forza, è a partire dall’organizzazione e all’interno dello Stato che bisogna predisporre le armi e le mosse per la guerra di classe. Benché l’autonomia del politico possa essere letta senza soluzione di continuità come il frutto maturo e mutato del primato del politico già scoperto durante la ricerca operaista, è evidente che, nel corso della riflessione sviluppata all’interno di questa cornice, la divaricazione sempre teorizzata tra tattica di partito e strategia della classe si approfondisce58. Di qui l’approdo scandaloso, a detta dello stesso Tronti, del suo pensare estremo, che a lungo gli sarebbe stato rimproverato: un’autonomia del politico intesa come autonomia del partito dalla classe, e di conseguenza interpretata Ibid. M. Tronti, Operai e capitale cit., pp. 116-117. 58 Scrive Tronti in Classe e partito (1964): «la stessa classe non possiede a nessun livello, né a quello della spontaneità né a quello dell’organizzazione, il momento vero e proprio della tattica» (M. Tronti, Operai e capitale cit. p. 113). Si veda anche questo passaggio in Marx, forza lavoro, classe operaia, in M. Tronti, Operai e capitale cit., p. 258: «È un’arte diffìcile, su cui a lungo bisognerà esercitarsi nei prossimi anni, fino a diventarne degli interpreti virtuosi: tattica e strategia devono unificarsi nel nostro cervello; mentre nelle cose, tra i fatti, bisogna curare di tenerle sempre divise e all’occorrenza contraddittorie. Non aver tenuto conto di questo, è l’errore storico di tutte le posizioni di sinistra nel movimento operaio. Questo errore non è perdonabile. Perché è l’illusione da intellettuali di una “politica scientifica”, la via più breve della sconfitta pratica per la classe operaia». 56 57
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come un ostacolo alla possibilità di prefigurare qualsiasi politica di classe. Tronti arriva a formulare una simile proposta per assurdo: «vogliamo dire che il partito deve acquistare autonomia dalla classe, che la classe deve concedere al suo partito l’autonomia di cui esso ha bisogno per compiere questa operazione di appoggio al grande capitale, in questo particolare momento? Diciamo – scandalizzando tutti – anche questo»59. Eppure, al colmo di una simile disgiunzione, Tronti ribadisce l’unità degli opposti, affermando che l’autonomia del politico, nelle condizioni date, è in realtà e non può che essere «rivendicazione operaia», quindi rivendicazione della classe60. Il partito che «deve imporre a un certo punto alla classe quello che la classe stessa è» appare come lo strumento necessario alla realizzazione di un intervento imprescindibile in seno all’apparato statuale61: «si tratta di fare dello stesso Stato la forma moderna di una classe operaia organizzata in classe dominante, in una storia del capitale che, naturalmente, a quel punto continua e per un momento ancora non si conclude»62. Un simile intervento, che prevede in ultima istanza e provvisoriamente la possibilità di un’autonomia del partito dalla classe, rimanda al piano di un’analisi congiunturale complessa in cui va situata e compresa l’intuizione trontiana dell’autonomia del politico dei primi anni Settanta. Se, da un lato, Tronti individua nel politico quale macchina e motore agente della politica operaia ciò che «tiene dentro di sé, da una parte il livello oggettivo delle istituzioni di potere; dall’altra il ceto politico, cioè l’attività soggettiva del fare politica. […] lo Stato più la classe politica»63, dall’altro, iscrive l’autonomia del politico in una teoria delle articolazioni dello sviluppo economico e politico del capitale che dice dell’esistenza di un «ciclo politico del capitale», distinto e M. Tronti, Sull’autonomia del politico cit., pp. 34-35. Ivi, p. 20. 61 M. Tronti, Operai e capitale cit., p. 255. 62 M. Tronti, Sull’autonomia del politico cit., p. 19. Tronti prosegue: «si tratta, all’inverso, addirittura di consapevolmente arrivare a prendere in mano questo processo di ammodernamento della macchina statale, di arrivare addirittura a gestire non, come si dice nel gergo, le riforme in generale, ma in particolare quel tipo di riforma specifica che è la riforma capitalistica dello Stato» (ibid.). 63 Ivi, p. 10. 59 60
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asincrono rispetto al ciclo economico, ovvero della «specificità del ciclo politico rispetto al ciclo economico» contro ogni tentazione economicista64. Come è stato notato, l’autonomia del politico sancisce la non-identità tra i due distinti livelli della lotta di classe, l’economico e il politico, e assegna alla classe il compito di intervenire su entrambi65. In questo senso, l’autonomia del politico scaturisce da una nuova consapevolezza della tendenza oggettiva della crisi capitalistica e della strategia del capitale per farvi fronte, a partire dalla quale Tronti teorizza la necessità di rivendicare e predisporre un uso operaio delle istituzioni per non lasciare al capitale il piano dello Stato66. Allo stesso tempo, l’autonomia del politico scaturisce anche da una valutazione dello stato delle lotte, formulata in particolare alla luce della stagione del Sessantotto – il ’68 degli studenti contrapposto al ’69 degli operai –, contestazione senza rivoluzione di cui Tronti traccia un bilancio impietoso: le lotte per la liberazione, culturalmente più avanzate, hanno lasciato dietro di sé una rimonta e una rivincita capitalistiche, il pensiero unico di una, e una sola, forma sociale possibile, una neodittatura democratica, padronale e patriarcale, la subordinazione di tutto ciò che è umano a un’idea e a una pratica universale borghese della vita67.
64 Ivi, pp. 12-13. Ne La politica al tramonto, Tronti descrive l’autonomia del politico al cuore della politica moderna come «un gioco di autonomie, del sociale dal politico, del politico dal sociale, dell’economico da tutti e due, dell’istituzionale dal giuridico, di questo da quello, differenze da governare, “golpe” e “lione”, attraverso lo strumento-forma del partito, grande soggetto della mediazione, o soggetto della grande mediazione, tra masse e Stato» (M. Tronti, La politica al tramonto cit. p. 64). 65 Si veda a tal proposito il saggio di A. Anastasi e M. Mandarini, Un presunto «tradimento». La critica del politico di Mario Tronti, in A. Cerutti e G. Dettori (a cura di), La rivoluzione in esilio cit., pp. 117-137. 66 Più precisamente, per Tronti, spetta al PCI il compito di prendere l’iniziativa politica della modernizzazione capitalistica in nome della classe per non abbadonare questo terreno al capitale, che rappresenta nella congiuntura un elemento di attrito e rallentamento. Ritorna qui l’idea secondo cui la classe operaia non può vincere se non anticipando, accelerando e guidando il processo di sviluppo capitalistico e costringendo la controparte avversaria alla difensiva. Un’opzione analoga è formulata nel Poscritto di Problemi (1970) a Operai e capitale, dove Tronti assegna al movimento operaio organizzato l’obiettivo di «rendere subalterno il capitale con i capitalisti dentro questa stessa società» (M. Tronti, Operai e capitale cit., p. 292). 67 M. Tronti, Noi operaisti cit., p. 31.
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Perciò, in almeno due accezioni, una più propriamente concettuale, e l’altra metodologica – da intendersi in senso non puramente formale –, è possibile limitare la presunta cesura contrassegnata dall’autonomia del politico rispetto alla fase operaista, per farne un punto di svolta anziché un momento di rottura68: in primo luogo, ribadendo che il primato del politico, fondamento dell’autonomia del politico, si rintraccia già nel leninismo operaista del primo Tronti, per cui la centralità dell’organizzazone è una priorità fin dagli inizi; in secondo luogo, rievocando la ben nota linea di condotta, scoperta già negli anni dell’operaismo, che assegna alla tattica il compito di rovesciare puntualmente la strategia. In effetti, nel tentativo compiuto dall’autore di Operai e capitale di elaborare una nuova risposta alla vecchia domanda (come sconfiggere l’avversario di classe), pesa il bilancio delle lotte degli anni Sessanta, che nel 1968 è già quello di una cocente sconfitta. Un simile bilancio, come si diceva, obbliga Tronti ad affermare la necessità, quantomeno temporanea, di far prevalere la tattica di partito sulla strategia di lungo corso della classe. In questo senso il partito è chiamato ad agire metonimicamente, incarnando la parte per il tutto, e trasponendo il conflitto all’opera nelle lotte di fabbrica nella battaglia dentro e contro lo Stato. Se gli effetti di questo riorientamento della focale politica abbiano risospinto la teoria trontiana verso una controrivoluzione copernicana, speculare e inversa rispetto a quella inaugurata con l’operaismo, è materia di dibattito, anche all’interno dei tre contributi qui raccolti. È inevitabile constatare che, dalla formulazione dell’autonomia del politico in poi, l’interesse di Tronti lungo il continuum classe-partito-Stato si sia concentrato principalmente sul ruolo del partito nello Stato più di quanto non si sia dedicato a tematizzare il rapporto (e conflitto) tra classe e partito, tralasciando di continuare a indagare il corso delle lotte e le mutazioni della classe. L’autonomia del politico segna in questo senso un punto di non ritorno nella traiettoria intellettuale e politica di Tronti. Con essa si definiscono e si consolidano acquisizioni teoriche non reversibili: la concezione della politica come calcolo delle forze, in cui il ruolo 68 Si veda anche M. Filippini, Punto di vista e autonomia del politico, in A. Cerutti e G. Dettori (a cura di), La rivoluzione in esilio cit., pp. 103-116.
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del partito-organizzazione è centrale, e il primato del politico (ceto politico e Stato) nell’arena della politica. Si può dunque suggerire che l’autonomia del politico riveli l’anatomia del politico nella costellazione teorica di Tronti. È pur lecito interrogarsi, operando un salto in avanti attraverso la parabola trontiana, su come Tronti abbia ripensato il calcolo delle forze e dei rapporti di forza al tramonto della politica. Infatti, se la fine della politica (comunista) determina anche una crisi delle forme del conflitto e dell’organizzazione che inaugura il cammino inesorabile della deriva antipolitica; se l’organizzazione, in altri termini, perde la parte, e se la parte, frantumata e dispersa, smarrisce il punto di vista di classe, come è possibile intervenire nel contesto di una simile configurazione, per operare una ricomposizione della parte e del punto di vista e insieme ricostruire l’organizzazione della classe? Alla fine degli anni Novanta, ne La politica al tramonto Tronti si misura con la questione del che fare? nel prosieguo di una storia minore, «storia senza lotte», a sua detta69. Più fondamentalmente s’interroga sulla possibilità di «puntare sulla politica senza, dietro, la forza operaia»70. In altri termini, cosa significa e cosa può l’autonomia del politico di fronte alla catastrofe della politica? All’epoca, Tronti ne conclude, di nuovo provvisoriamente, che la fine della politica (che non è fine della storia, bensì trionfo e rivincita della storia sulla politica moderna) segni anche la fine dell’autonomia del politico. Inoltre, il fatto di scorgere, come già in passato, nel minoritarismo di parte il pericolo di un «radicalismo impotente» porta Tronti a optare in seguito per una politica non minoritaria, segnata nondimeno da un riformismo diversamente impotente, che in ultima istanza non consente di perseguire l’obiettivo di dotare la parte de «le forme più potenti di lotta, gli strumenti più efficaci di organizzazione, e le più raffinate elaborazioni di pensiero» di cui si avvertono la mancanza e l’urgenza, al fine di resuscitare «tutta la potenza scardinante della classe operaia»71.
M. Tronti, La politica al tramonto cit. p. 76. Ivi, p. 80. 71 M. Tronti, Saggio in forma di intervista di Mario Tronti (di G. Dettori e A. Cerutti), in A. Cerutti e G. Dettori (a cura di), La rivoluzione in esilio cit., p. 331. 69 70
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Nulla impedisce di ipotizzare tuttavia, con e contro Tronti72, che nella congiuntura presente, una risignificazione assolutamente eretica dell’autonomia del politico, fedele al primato del politico ma ad un politico di segno diverso, possa apparentarla, all’insegna delle gesta del Barone di Münchhausen, al tentativo di strappare la classe alle sabbie mobili dell’antipolitica contemporanea, del populismo democratico e di quello autoritario73. Insomma, ci si può legittimamente domandare se sia utile ricorrere al concetto dell’autonomia del politico per designare la possibilità di un uso antagonista del punto di vista di classe volto a recuperare e ricostruire la parte operaia, quella parte che ha cessato di sapersi parte, sopraffatta dall’egemonia della parte capitale. Come una leva, l’autonomia del politico quale autonomia del punto di vista di classe dovrebbe in ultima istanza consentire di combattere a controcorrente questa impostura – «lo spirito assoluto del capitalismo»74 – e permettere alla parte di riconoscersi e dirsi di nuovo tale. In questo senso si può perfino dire che l’autonomia del politico, intesa come iniziativa politica indirizzata alla classe allo scopo di ricostituirla a partire dalla frammentazione sociale e umana che la domina in questa fase, sia l’unica opzione percorribile per una politica radicale della parte. Se il compito all’ordine del giorno in vista di un simile obiettivo si lascia individuare con relativa facilità – si tratta, come suggerisce Tronti, di ripartire dal lavoro e dai conflitti sul lavoro come spinta propulsiva del confitto sociale – il dilemma a questo punto riguarda la questione non eludibile dell’organizzazione: come è possibile esercitare l’autonomia del politico senza una forza politica in grado di guidarne il processo? Impossibile, in effetti, voler organizzare politicamente la classe senza organizzazione. Per Tronti la questione è ulteriormente complicata dalla condizione che egli pone imprescin72 Ne La politica al tramonto Tronti afferma che la fase dell’autonomia del politico in quanto espressione della politica moderna ormai defunta che presuppone lo stato d’eccezione e la possibilità per la politica di rovesciare la storia, sia ormai conclusa (M. Tronti, La politica al tramonto cit., p. 71). Al tempo stesso, in un’intervista più recente, Tronti invoca l’autonomia del politico ritenendola «più attuale oggi di ieri» proprio di fronte all’atomizzazione diffusa del lavoro e della classe: si veda M. Tronti, Saggio in forma di intervista di Mario Tronti (di G. Dettori e A. Cerutti), in A. Cerutti e G. Dettori (a cura di), La rivoluzione in esilio cit., p. 335. 73 M. Tronti, Il demone della politica cit., p. 581. 74 M. Tronti, La politica al tramonto cit. p. 82.
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dibilmente a monte di ogni impresa politica, ovvero la vocazione maggioritaria della politica di massa. In un contesto in cui le organizzazioni di massa non rappresentano manifestamente gli interessi della parte, come ricongiungere la classe e la politica organizzata? Rispondere non è cosa semplice. E tuttavia, forse, la storia minore insegna anche la necessità di ripartire momentaneamente da una politica minore, senza alcun compiacimento nei confronti dei minoritarismi. Una politica che, facendo di tale necessità virtù, scelga di disertare le organizzazioni di massa passate alla controparte e impari a ricominciare dalle lotte della classe.
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Mario Tronti è una figura di spicco del pensiero e della politica in Europa: filosofo, militante, comunista, senatore, successore di Pietro Ingrao alla direzione del Centro per la Riforma dello Stato, noto in Francia, sebbene con un po’ ritardo, soprattutto per aver dato vita e contribuito, sulla scia di Raniero Panzieri, che ne fu il principale promotore, e poi insieme a Toni Negri, Rita Di Leo e molti altri, alla corrente operaista del marxismo contemporaneo, attraverso la pubblicazione di «Quaderni rossi» e poi di «classe operaia». Operai e capitale, apparso nel 1966 e poi ripubblicato in una nuova versione accresciuta nel 1971, rappresenta ancora oggi la testimonianza eclatante della potenza intellettuale e politica che ha animato questa corrente2. Tuttavia, la storia intellettuale di Tronti Questo intervento è stato presentato in occasione della Table ronde autour de l’œuvre de Mario Tronti, ospitata presso le aule della Sorbona, dal centro di ricerca Normes, Société, Philosophie (ISJPS) – Université Paris 1 Panthéon Sorbonne, il 5 aprile 2019. Questa visita di Mario Tronti a Parigi è un evento importante a cui vorrei rendere omaggio, ringraziando Jamila Mascat per averlo organizzato e Jean-François Kervégan per averlo presieduto. Molti di noi qui in Francia che leggono Tronti da anni speravano da tempo di poterlo vedere ed ascoltare dal vivo. Alcuni sono qui oggi, altri sono stati impossibilitati a partecipare – tra questi ad esempio, Andrea Cavazzini, che, insieme ai suoi compagni del Groupe de Recherches Matérialistes (GRM) ha notevolmente contribuito a far conoscere il pensiero e la storia dell’operaismo in Francia. Segnalo in particolare il dossier curato da Cavazzini per i «Cahiers du GRM» su la séquence rouge italienne e l’operaismo: A. Cavazzini (a cura di), La séquence rouge italienne, «Cahiers du GRM», 2, 2011; https://orbi.uliege.be/bitstream/2268/112402/1/CahierII-complet_dec_11_ac_ liens.pdf. 2 M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966, ripubblicato poi nel 1971. In francese ne esistono due edizioni, entrambe tradotte da Yann Moulier-Boutang: M. Tronti, Ouvriers et capital, Christian Bourgois, Paris 1977 e M. Tronti, Ouvriers et capital, Entremonde, Genève 2016. 1
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non è rimasta ferma agli anni Sessanta e successivamente ha attraversato, come nel caso di molti di noi, molteplici fasi di riflessione, d’invenzione, di lotte e polemiche, di cui il volume antologico Il demone della politica (2017) restituisce una panoramica vivida e affascinante3. Non si tratta per quel che mi riguarda di commemorare l’opera di Mario (che peraltro non si è conclusa), ma di problematizzarla tentando di intavolare un dialogo. Procederò quindi in maniera necessariamente soggettiva, a partire dalle mie conoscenze e dai miei interessi, quelli di un tempo e quelli di oggi. Avevo anticipato a Mario che avrei affrontato fondamentalmente quattro temi: il «pensiero partigiano» o «della parte»; l’idea, centrale nell’operaismo delle origini, di una «composizione politica» o «composizione di classe» del capitale ; l’oscillazione de «l’autonomia del politico» tra un pensiero dell’istituzione e un pensiero dell’insurrezione; e infine la visione «pessimista», per non dire nichilista, della scomparsa della politica nel mondo contemporaneo, al termine di quella grande «battaglia perduta» del Novecento, combattuta tra il comunismo – organizzato in partito – e il capitale – organizzato sotto forma di Stato e mercato – che ha poi spianato la strada all’economicismo. In realtà per ragioni di spazio e di coerenza, pur tenendo a mente, sullo sfondo, i temi del pensiero partigiano e del politico come processo autonomo, questioni che sono strettamente legate tra loro attraverso la ripresa di un modello di polemos che senza dubbio deve molto a Schmitt, ma che si radica anche nel solco di una tradizione filosofica più antica, mi concentrerò sul secondo e sul quarto aspetto. Le questioni che questi due aspetti sollevano – l’interazione tra tecnica e politica in seno allo sviluppo del modo di produzione capitalistico e il destino dell’Occidente, e nello specifico dell’Occidente europeo o eurocentrato, quale luogo di nascita e deterioramento della forma politica dei conflitti sociali in epoca moderna – mi sembrano di grande attualità. L’una e l’altra evocano il tema del conflitto e del ruolo della lotta di classe nel corso della storia moderna e quello della «centralità operaia» all’interno di una porzione di questa storia. E tuttavia tali temi sembrano svilupparsi attraverso registri espressivi piuttosto eterogenei: uno più analitico e dialettico, l’altro più speculativo e tragico. Inoltre, almeno apparen3 M. Tronti, Il demone della politica. Antologia di scritti (1958-2015), a cura di M. Cavalleri, M. Filippini e J. M. H. Mascat, il Mulino, Bologna 2017.
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temente, una doppia cesura separa queste due riflessioni: una cesura oggettiva – quella tra le due congiunture entro cui tali riflessioni si dispiegano, diciamo prima e dopo il ’68; e una cesura soggettiva, che prende atto del rovesciamento dell’offensiva operaia, un tempo capace di sfidare l’egemonia borghese costringendola alla difensiva, in una controffensiva del capitale globalizzato e finanziarizzato volta a sottomettere le masse alla logica di un individualismo concorrenziale e consumista. Questo ribaltamento si traduce in un disincanto, una tristezza dell’anima, o un’accidia che ha abbandonato ogni speranza di mobilitazione collettiva. Eppure, in Tronti opera costantemente un elemento di volontarismo (e di decisionismo) che possiamo rintracciare nell’articolazione gramsciana dell’ottimismo della volontà e del pessimismo dell’intelligenza. Sembra, in effetti, che si operi un passaggio da un’intelligenza «pessimista» – ovvero realista, à la Weber, messa al servizio di una volontà «ottimista» e investita nell’azione [politica] – ad una «volontà di volontà», che è piuttosto affermazione etica, punto d’onore della soggettività irriducibile di fronte al destino dell’epoca, che esprime il «grande rifiuto» di cedere al determinismo. Da ciò deriva anche quel movimento di transizione apparente, che vorrei tentare di problematizzare, da una politicizzazione integrale della storia (il solo modo di strappare la dialettica alle «sintesi» riconciliatrici del razionale e del reale) a una disgiunzione non meno radicale della storia e della politica, in cui la politica rappresenta l’eccezione rispetto alla storia, ciò che ne interrompe il corso, non solo strategicamente o congiunturalmente, ma ontologicamente e in modo quasi-transcendantale. A dire il vero, m’interessano soprattutto queste tensioni e oscillazioni per l’alternativa di fronte a cui ci pongono nel momento in cui ci sforziamo di passare da un secolo all’altro, obbligandoci a fare i conti con la radicalità del cambiamento di scenario, senza per questo smettere di riflettere e di essere coinvolti, al di là di tutti quegli aspetti esistenziali che rappresentano il tesoro perduto di una generazione. In un primo momento, mi occuperò di approfondire l’idea di una composizione politica del capitale, in maniera un po’ tecnica, e poi, in un secondo momento, ritornerò sulla questione del destino dell’Occidente, o del destino della politica in Occidente. La nozione di «composizione politica» o «composizione di classe» del capitale combina una descrizione della distribuzione
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della forza-lavoro operaia tra masse diverse, aventi caratteristiche distinte (operai qualificati e non qualificati, o più in generale lavoratori «manuali» e «intellettuali») con una valutazione degli effetti dell’organizzazione politica (o politico-sindacale) sui metodi di sfruttamento e sui livelli di accumulazione del capitale. L’idea è implicita nelle analisi del New Deal americano elaborate da Tronti e esposte nel suo celebre Marx a Detroit, ed è teorizzata nella parte centrale di Operai e capitale – «Prime tesi», in particolare al §8 sulle «forme della lotta»4 e al §9 sul «lavoro come non-capitale»5. In Operai e capitale, il discorso è tutto incentrato su ciò che Marx definiva il «duplice carattere del lavoro», e in particolare sul duplice carattere – antitetico e antagonista – della «forza-lavoro» che il capitale incorpora al processo di valorizzazione e che si costituisce essa stessa in forza di contestazione e di resistenza e, in ultima istanza, in rifiuto del lavoro, che è peraltro sua condizione di esistenza. Dentro e contro il capitale, come ha ribadito Toni Negri. Cito da Operai e capitale: «Arbeitskraft può diventare, deve diventare Angriffskraft, è il passaggio, questa volta politico, dalla forza-lavoro alla classe operaia»6. Tronti può qui servirsi e approfittare della polisemia e dell’intensità della parola «forza» in italiano che non troviamo nell’equivalente inglese (force, o anche power) e francese (force, o ancora capacité). Tale polisemia eccede il gioco marxiano tra Arbeitskraft (le capacità fisiche e intellettuali dell’operaio che possono essere «erogate» nella produzione) e Arbeitsvermögen (la capacità/disponibilità di lavoro salariato, che deve essere costantemente riprodotta)7. Il capitale, in realtà non si serve di operai, bensì – e ciò in misura tendenzialmente sempre maggiore, man mano che si passa dalla manifattura alla grande industria – di una classe operaia, cosciente di sé. E deve quindi lottare contro questa stessa classe operaia per potersene servire. Tuttavia, una tale constatazione si presta ad essere letta anche in un altro senso, quale nuova legge di accumulazione: rileggen4 M. Tronti, Operai e capitale cit., p. 202: «La composizione della classe operaia, ossia la composizione di classe degli operai». 5 Ivi, p. 211: «Lavoro soggettivo contrapposto a lavoro oggetivato, lavoro vivo contrapposto a lavoro morto». 6 Ivi, p. 210. 7 Si vedano a questo proposito le analisi di Pierre Macherey, in P. Macherey, Les sujets des normes, Éditions Amsterdam, Paris 2014.
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do le analisi del Capitale sui conflitti a proposito della lunghezza della giornata di lavoro (che Marx paragona a una «guerra civile» durata mezzo secolo) e confrontandole con Keynes, Schumpeter, Ford e Taylor, Tronti ripensa la «sussunzione reale» di Marx, ovvero la trasformazione del rapporto di produzione [che si determina] nel processo di lavoro stesso. L’instaurazione di una rivoluzione industriale permanente combina l’innovazione tecnologica con l’intensificazione delle cadenze del lavoro, e poi opera una mutazione della nozione stessa di «tempo di lavoro», sottoponendo l’organizzazione del lavoro salariato a forme sempre più meccanizzate e repressive (poliziesche, o perfino terroristiche) della «disciplina di fabbrica». Ora, se prendiamo in considerazione il livello di sviluppo del conflitto che scaturisce da questo processo, cioè le forme di resistenza, il rallentamento dei ritmi di produzione e il sabotaggio, le sfide lanciate dall’organizzazione sindacale (ovvero politica) all’organizzazione padronale, e infine la cristallizzazione di un rifiuto del lavoro, in particolare delle sue cadenze infernali e della sua disciplina totalitaria, approdiamo a tutt’altra nozione della «composizione organica» del capitale, che non accorda più lo stesso ruolo al valore-lavoro e che rivela il doppio volto, passivo e attivo, dell’alienazione capitalista. In Marx, la «composizione organica» sussume la composizione tecnica, la conversione progressiva del lavoro vivo in lavoro morto, meccanizzato, nel quadro di una ripartizione quantitativa del valore tra «capitale costante» e salari, ossia «capitale variabile». Per Tronti e per gli operaisti la composizione organica designa una sintesi più complessa, instabile e conflittuale, della composizione tecnica (o più semplicemente della tecnologia) e della composizione di classe, che non è soltanto una divisione sociale del lavoro, ma un rapporto qualitativo tra sfruttamento e resistenza, e quindi, in ultima istanza, tra due capacità di organizzazione diseguali che si scontrano l’una con l’altra (o altrimenti giungono a dei compromessi): l’organizzazione capitalista del lavoro e l’organizzazione di lotta dei lavoratori – donde l’importanza strategica attribuita alla questione sindacale, dal movimento degli operai inglesi contro il divieto delle «coalizioni» all’inizio del XIX secolo fino alle rivendicazioni portate avanti dagli operai francesi e di altri paesi nel 1968 per la generalizzazione della «sezione sindacale azien-
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dale» e i tentativi d’imporre l’esistenza di «consigli di fabbrica»8. La «composizione-valore», o meglio la dinamica temporale della trasformazione di questa composizione, non è altro che l’esito di tutto ciò. È quel che ci permette di affermare, alla fine, che l’innovazione tecnologica ininterrotta che condiziona la riproduzione allargata del capitale, la «distruzione creativa» schumpeteriana, non è soltanto suscitata dalle resistenze operaie e dal rifiuto del lavoro in quanto schiavitù salariata, ma è condizionata, nel contenuto e nelle forme, dalle esperienze della lotta di classe: essenza sociale della tecnologia, mai «neutra», ovviamente. Lo stesso sviluppo industriale è à double-face: consolidamento dell’organizzazione «scientifica» del lavoro e accrescimento della produttività, ascesa verso un antagonismo irriducibile. Potere contro potere. È questo fenomeno che Tronti ha ribattezzato come la sua «rivoluzione copernicana»9: nella dialettica storica del capitale, il conflitto si sostituisce dunque alla contraddizione come motore del suo sviluppo. Ma è anche un modo di ritrovare in tutta la sua radicalità la tesi del giovane Marx esposta in Miseria della filosofia (1847): «È il lato cattivo a produrre il movimento che fa la storia»10. Ciò significa che la storia procede dal lato negativo. La questione si pone comunque: una tale rappresentazione (che converge in parte con schizzi abbozzati nella stessa epoca da altri marxisti meno sistematici – penso a Harry Braverman negli Stati Uniti e ad alcuni «maoisti» francesi, come Robert Linhart, per esempio), è coestensiva a tutta la storia del capitale, o descrive piuttosto una fase, certo prolungata, ma alla fin fine limitata, e dunque particolare, di questa storia compresa fra la (prima) rivoluzione industriale e lo sviluppo del fordismo-taylorismo? E poi si perpetua nella rivoluzione informatica, con la sua tecnologia «immateriale» 8 Si veda quanto scrive Bruno Trentin – grande avversario di Tronti, all’epoca – in B. Trentin, Il sindacato dei consigli (intervista di Bruno Ugolini), Editori Riuniti, Roma 1980. 9 M. Tronti, La rivoluzione copernicana, trascrizione dal verbale della riunione del 27 maggio 1963, in F. Milana e G. Trotta (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», DeriveApprodi, Roma 2008, p. 291, ripreso anche in M. Tronti, Il demone della politica cit., pp. 123 sgg. 10 K. Marx, Miseria della filosofia, tr. it. di F. Codino, in K. Marx e F. Engels, Opere, vol. VI, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 182.
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e la «composizione» della forza/capacità di lavoro che le è propria, frammentata e assoggettata secondo metodi completamente diversi? È la domanda – posta da Negri e dai teorici del capitalismo cognitivo – che non possiamo respingere, anche qualora volessimo apportarvi risposte diverse. Che differenza ci sarebbe, d’altra parte, rispetto alla concezione gramsciana della «rivoluzione passiva»? Si sa che Gramsci (che aveva ripreso questo concetto da uno storico italiano della Rivoluzione francese e del Risorgimento, Vincenzo Cuoco) se ne serviva tendenzialmente per pensare la «convergenza» dei sistemi socio-politici nella loro stessa opposizione: il fatto, ad esempio, che il sistema Taylor s’imponga sia nel fordismo e nel New Deal americano (per essere poi da lì esportato in tutto il mondo con la generalizzazione del lavoro alla catena di montaggio) sia nello stakanovismo sovietico – di cui noi oggi sappiamo, grazie a Rita Di Leo, che ha permesso all’interno dei kombinat la creazione di rapporti di forza politici sorprendentemente equilibrati tra la resistenza operaia e la pianificazione industriale (o Stato-pianificatore), un «compromesso storico» da cui l’URSS non ha potuto tentare di svincolarsi senza autodistruggersi11. Tronti e l’operaismo integrano dunque la lotta di classe come motore delle trasformazioni che avvengono nel rapporto di produzione stesso, laddove, in apparenza, è il capitale che prende l’iniziativa e «rivoluziona» l’organizzazione del lavoro. L’istanza determinante «in ultima istanza» è la composizione o la decomposizione del collettivo operaio, della classe organizzata. Da cui deriva la questione cruciale del luogo o, meglio, del sito di questo conflitto di organizzazioni. Implicitamente il quadro generale è nazionale: è il campo d’azione dello Stato pianificatore a coordinare le politiche economiche (monetarie, salariali) che incidono sul tenore di vita degli operai e determinano i margini di riconoscimento delle loro organizzazioni. Si tratta dunque di ciò che ho ribattezzato altrove come «lo Stato nazionale-sociale» keynesiano, al tempo stesso repressivo e riformatore. Ma, in realtà, il vero luogo strategico, quello dove si affrontano realmente, violentemente e tatticamente, in un rapporto di forza «immediato» sia fisico che intellettuale, o perfino mentale, i battaglioni delle classi antagoniste, è necessariamente la 11 Si veda R. Di Leo, L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa, Ediesse, Roma 2012.
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fabbrica, la stessa fabbrica che gli operaisti hanno scelto come terreno privilegiato del loro intervento12. Siamo qui certamente di fronte all’elemento più profondo della critica operaista di Gramsci (di cui si può ben dire che riguardi anche un certo Lenin): non c’è più un «momento economico-corporativo» che sussista come una costante al di sotto del momento della lotta politica organizzata (il cui livello superiore sarebbe precisamente lo scontro armato), dunque non c’è più disgiunzione (se non contingente, terminologica) tra sindacato e partito, «lotta di classe economica» e «lotta di classe politica», residuo di cui tanti marxisti non si sono mai sbarazzati (compreso Althusser, che, influenzato dall’esperienza della «rivoluzione culturale» cinese e dello stesso Gramsci, ha cercato di aggiungervi anche un terzo «livello», quello della «lotta di classe ideologica»). La lotta «economico-corporativa» esiste, certo, ma è un effetto di ritorno della politica del capitale, e in particolare del modo in cui esso utilizza la mediazione «democratica» dello Stato per normalizzare la lotta di classe operaia e incorporarla nel suo piano. Una simile dialettica ha condotto a un «finale» imprevisto, attraverso una terribile astuzia della storia (e la storia non è che astuzia). Il capitale ha rovesciato il fronte della lotta di classe attraverso la globalizzazione, la delocalizzazione, la finanziariarizzazione, e senza 12 Hanno quindi reintergrato in un’unica dialettica ciò che Marx, sempre indebitato nei confronti della divisione hegeliana tra «società civile» e «Stato», aveva esplicitamente distinto nelle sue diverse topiche. Si veda il capitolo 47, intitolato Genesi della rendita fondiaria capitalistica, in K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro terzo. Il processo complessivo della produzione capitalistica, tr. it. di M. L. Boggeri, Editori Riuniti, Roma 1970, pp. 199-200): «La specifica forma economica, in cui il pluslavoro non pagato è succhiato ai produttori diretti, determina il rapporto di signoria e servitù [das Herrschafts- und Knechtschaftsverhältnis], come esso è originato dalla produzione stessa e da parte sua reagisce su di essa in modo determinante. Ma su ciò si fonda l’intera configurazione della comunità economica che sorge dai rapporti di produzione stessi e con ciò insieme la sua specifica forma politica. È sempre il rapporto diretto dei proprietari delle condizioni di produzione e i produttori effettivi [das unmittelbare Verhältnis der Eigentümer der Produktionsbedingungen zu den unmittelbaren Produzenten] – un rapporto la cui forma ogni volta corrisponde sempre naturalmente ad un grado di sviluppo determinato dei modi in cui si attua il lavoro e quindi della sua forza produttiva e sociale – in cui noi troviamo l’intimo arcano, il fondamento nascosto di tutta la costruzione sociale e quindi anche della forma politica del rapporto di sovranità e dipendenza, in breve della forma specifica dello Stato in quel momento [die politische Form des Souveränitätsund Abhängigkeitsverhältnisses (…) die spezifische Staatsform]».
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dubbio anche per mezzo della nuova rivoluzione tecnologica prodotta dall’informatizzazione: tutto ciò permette di dissociare in senso spaziale il «planning» dei flussi di produzione (la distribuzione delle «catene di valore» e di merci in tutto il mondo) e il comando dei collettivi di lavoro in cui si sviluppa la resistenza. Mettendo fine alla «centralità» della fabbrica, questo processo disgrega la soggettività operaia senza rigenerarne un’altra equivalente. La rivoluzione post-industriale ha dunque ricreato questa insensatezza storica di cui Operai e capitale proclamava la scomparsa: l’operaio isolato all’interno della sua «massa». Senza dubbio in questo caso si potrebbe parlare di «rivoluzione passiva». Ma la domanda di Tronti, che diventa esplicita nei suoi testi più tardivi, è: c’è una «responsabilità» della classe operaia e del suo collettivo organizzato o «partito» rispetto a questa sconfitta annunciata? Per non aver potuto, saputo o voluto trasformare la lotta di fabbrica già politica nella presa del potere dello Stato – dunque in una rivoluzione, sul «modello» della Rivoluzione d’Ottobre, opportunamente adattata alle condizioni dell’Occidente tardo-contemporaneo – la classe operaia ha «permesso» al capitale di inventare e istituire un’economia post-industriale nella quale il salariato e la forza-lavoro non sono più capaci di contrastare il potere capitalistico né «da dentro» né «da fuori». Tuttavia, è necessario analizzare questa incapacità; bisogna cioè decifrare la congiuntura che la lotta non ha saputo gestire. Sarebbe materia di lunga discussione, però io credo di poter dire che i due elementi in primo piano nella riflessione di Tronti sono, da una parte, la disgiunzione senza sintesi delle rivolte antiautoritarie e delle lotte di classe «dure» contro l’organizzazione del lavoro nel 1968 e oltre13 e, d’altra parte, la militarizzazione (sulle scia delle «guerriglie urbane» del Terzo Mondo, o ricalcando tradizioni nazionali) di frazioni radicali della «nuova sinistra»: da qui la rottura definitiva con il «partito» e la caduta nella trappola mortale del terrorismo e del contro-terrorismo. Passo allora alla seconda questione, al declino della politica nel mondo attuale. Ho parlato di pessimismo, di disincanto, di melan13 M. Tronti, Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma 2009, p. 32: «La verità – malgrado si pensi ordinariamente il contrario – è che quello che si chiamava ancora “il partito della classe operaia” era più disponibile ad ascoltare il ’68 degli studenti che il ’69 degli operai».
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conia. Questi stati d’animo esistono e io li prendo molto sul serio, tanto più che spesso li sperimento in prima persona. Ma vorrei porre l’accento sulla tesi, lo schema teorico che ne costituisce la giustificazione. Mi riferirò soprattutto, in modo naturalmente allusivo, a La politica al tramonto e a Noi operaisti, che avevo letto molto tempo fa e che ho riletto di nuovo14. Il punto, qui, sono i modi e le conseguenze della neutralizzazione del politico che, usurpando il nome della «politica» e poi servendosi sempre di più soprattutto degli appellativi di governance e di regulation, domina il campo della storia contemporanea – la scena del presente o, come diceva Foucault, di «ce que nous sommes», cioè di quel che siamo diventati. Tale neutralizzazione del politico produce di volta in volta una proliferazione di conflitti e violenze, e una disgregazione del loro significato d’insieme, irriducibile ad un antagonismo semplice, e di conseguenza una disgregazione della loro capacità di ispirare grandi «mobilitazioni» e passioni collettive. Nei testi di Tronti successivi alla teorizzazione dell’autonomia del politico (radicata nella lettura di una genealogia che va da Machiavelli a Hobbes, fino a Clausewitz, a Weber e a Schmitt), l’idea di una centralità della classe operaia non viene abbandonata, bensì ricollocata alla luce della centralità o del protagonismo del movimento operaio organizzato sulla lunga durata; il che equivale a fare non soltanto dell’organizzazione ma anche dell’istituzione una condizione della politica (perché il «partito», come lo Stato, è fondamentalmente un’istituzione, anche quando si dota di un obiettivo insurrezionale). Questa tesi, che non è incompatibile con Gramsci, e ancora meno con Togliatti, potrebbe tuttavia condurre ad un rinnovato storicismo: la classe diventa forza storica quando si organizza e s’istituzionalizza in forma di partito, dunque il partito è ciò che la rende una formazione sociale storicamente determinata e resistente alla distruzione. Ora, mi sembra che proprio questo sarebbe l’errore da non commettere. Si tratta al contrario, per Tronti, di inserire la distanza la più radicale, quasi uno «scarto d’essenza», tra i processi Lunghi estratti del primo di questi testi figurano nella terza sezione de Il demone della politica cit. In francese La politique au crepuscule è stato tradotto nel 2000 da Michel Valensi presso le Éditions de l’éclat. Nous, opéraïstes, invece, è stato pubblicato nel 2013 (M. Tronti, La politique au crepuscule, tr. fr. di M. Valensi, Éditions de l’éclat, Paris 2000; Id., Nous opéraïstes. Le «roman de formation» des années soixante en Italie, tr. fr. di M. Valensi, Éditions de l’éclat / Éditions d’en bas, Paris 2013). 14
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e le logiche della storicità e quelli della politica, o della politicizzazione, anche se empiricamente i rispettivi effetti non possono che mescolarsi. Possiamo allora rileggere le famose tesi del Manifesto del Partito Comunista sulla storia, concepita come traiettoria generale e successione di epoche della lotta di classe, imprimendovi una torsione. Lo sviluppo degli antagonismi e delle lotte di classe, la loro ascesa tendenziale verso gli estremi (o inversamente la suspence nell’attesa di una tale ascesa in presenza di un rapporto di forze equilibrato) non è il cammino della razionalizzazione del reale e della realizzazione del razionale il cui spettro hegeliano non hai mai smesso di proiettarsi sul discorso marxista. Ciò comporta conseguenze di ogni sorta: c’è in effetti un processo che prende corpo come razionalizzazione del reale, ma questo processo è la storia, non è la politica. Si potrebbe anche dire che la storia in quanto tale assorbe, normalizza e «digerisce», quindi snatura, la politica, abolendo la sua autonomia a vantaggio dei propri fini «astuti». La storia così intesa, nella prospettiva di Hegel, è finalizzata alla costruzione dello Stato moderno, o meglio alla socializzazione progressiva dello Stato (Sittlichkeit), cosa che permette anche di comprendere come essa possa condurre all’assoggettamento dello Stato al processo economico dall’interno dei suoi «apparati», il che ne implica la spoliticizzazione. Tronti riprende una tesi già presente in Operai e capitale (Prime tesi, §11) per cui «Non ci sono lotte di classe al di fuori del capitalismo» (e dunque stricto sensu non ci sono classi al di fuori del capitalismo) contro ciò che egli designa come «l’illusione archeologica» del marxismo evoluzionista e storicista (che sappiamo derivare non soltanto da Engels, colui che ne ha fatto il fondamento del «materialismo storico», ma già dall’opera in Marx). A questa tesi Tronti aggiunge una coloritura apocalittica15: il capitalismo è il momento storico in cui la storia si discosta dalla propria logica 15 Si tratta forse di un elemento già prefgurato e intravisto nella «frase dimenticata» del Manifesto (cap. 1), a proposito del gemeinsamer Untergang der kämpfenden Klassen: «Libero e schiavo, patrizio e plebeo, barone e servo della gleba, artigiano e garzone, in breve oppressori e oppressi sono sempre in contrasto fra loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte latente a volte aperta; una lotta che è sempre finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta» (K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, tr. it. di D. Losurdo, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 5-6).
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cumulativa e progressiva, per fare posto alle figure politiche dell’antagonismo amico/nemico: lo Stato «sovrano», le guerre di Stato, l’imperialismo, le lotte di classe che dividono effettivamente la società in campi irriducibili. Ma è anche il momento storico in cui queste stesse figure si distruggono mutualmente, svaniscono in un processo di superamento che non è il comunismo (e d’altra parte il comunismo per Tronti non è tanto l’utopia della società senza classi quanto il «movimento reale» della scissione e dell’antagonismo tra soggettività collettive, che resta sempre impregnato di negatività). Si potrebbe allora ricorrere a una concettualità schimittiana che, a mia conoscenza, Tronti non mobilita, ma che certamente conosce, e che da parte mia ho sempre considerato come una vetta d’elevatissima invenzione analitica: l’idea, esposta nel 1923 in Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus – scritto all’indomani della Rivoluzione russa e della Marcia su Roma di Mussolini16 –, di un conflitto o antagonismo di secondo livello: non soltanto fra avversari della stessa natura (classi, nazioni, regimi politici), ma fra differenti «miti», differenti modi di schematizzare l’antagonismo stesso. Qui bisognerebbe riformulare le cose in questo modo: il conflitto di secondo grado, quello che ha veramente una portata ontologica, è il conflitto fra la storicità e la politica, o meglio fra l’assorbimento della politica nella storia, e la politicizzazione della storia che deve allora tradursi in un’interruzione, in un’irruzione dell’antagonismo e della sua propensione a «raggiungere gli estremi» nel continuum della storicità (quest’ultimo sia che lo si rappresenti come «dialettico» o come conflittuale). La lotta di classe organizzata è dunque sia la forma di un antagonismo socialmente (culturalmente, ideologicamente) determinato (a fianco di altri antagonismi, per esempio nazionali), sia il principio, sarei tentato di dire l’assoluto, che oltrepassa sempre la storicità per imporle di uscire da sé stessa. Tronti è qui molto vicino a Benjamin. Ora, tuttavia, le cose si complicano, perché si tratta comunque di parlare di una «storia» che ereditiamo, che abbiamo in parte vissuto, di cui abbiamo esperito la tragicità, e rispetto alla quale ci domandiamo che destino ci abbia riservato. Bisogna dunque affrontare dei problemi di valutazione e d’interpretazione, anche sotto 16 Si veda C. Schmitt, La condizione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo, tr. it. di G. Stella, Giappichelli, Torino 2004.
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forma di narrazione. Ne affronterò molto brevemente due, peraltro strettamente legati tra di loro. Il primo concerne la valutazione degli effetti della forma partito nella storia del movimento operaio, che Tronti chiama anche «il socialismo». Taglia in due, brutalmente, la storia del Novecento (il punto cardine è il 1956), separando una fase, che sarebbe quella della Grande Politica (espressione nietzscheana, lo sappiamo), in cui l’antagonismo è non soltanto proclamato ma praticato come tale (fin nelle sue forme più «irrigidite», quali quelle della Guerra fredda), e una fase della piccola politica, nella quale si accentua la convergenza di ideologie e sistemi nel quadro di un economicismo trionfante. Al cuore della Grande Politica, quella portata avanti dal movimento operaio dopo la rottura leninista con le strategie del riformismo e dopo la Rivoluzione d’Ottobre, figura ovviamente il protagonismo e l’istituzionalizzazione della forma partito17. È così che la classe operaia, di fronte allo Stato, si dota dell’equivalente di un Leviatano o di una potenza «sovrana» (capacità di decidere sullo stato di eccezione), che sia in grado, di conseguenza, di esercitare la violenza e di controllarla. Ma la stessa costruzione del partito rivoluzionario conduce, seguendo la logica della politica autonomizzata, al divenire-Stato del partito (e della classe attraverso il partito), nonché all’iscrizione di questo stesso Stato all’interno di una «guerra civile mondiale» (di cui la Guerra fredda rappresenta l’ultimo avatar, carico di tutte le potenzialità contraddittorie di una ripresa rivoluzionaria o di una burocratizzazione integrale del movimento operaio). Tronti indica molto chiaramente che la Rivoluzione d’Ottobre, così com’è stata pensata e diretta da Lenin, conteneva in sé la tensione e il conflitto tra la forma partito e la forma consiglio, o soviet, che possiamo e dobbiamo considerare come un elemento di democrazia radicale, il che non vuol dire «spontaneismo» puro e semplice. Ma Tronti è anche molto chiaro sul fatto che, nell’ambito dell’antagonismo mondiale contro il capitale, o della lotta tra 17 In questo senso mi è sempre sembrato che Tronti s’inscrivesse nella tradizione della strategia «classe contro classe», che, nella storia del Komintern, ha rivaleggiato con le strategie del «fronte popolare». Si veda il mio saggio Un point d’hérésie du marxisme occidental: Althusser et Tronti lecteurs du Capital, presentato in occasione del convegno «Actualités d’Ouvriers et capital. Mario Tronti», tenutosi presso l’Université Paris-Ouest l’11 giugno 2016 e pubblicato online sulla rivista «Période»: http://revueperiode.net/ un-point-dheresie-du-marxisme-occidental-althusser-et-tronti-lecteurs-du-capital/.
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rivoluzione e controrivoluzione (ovvero la rivoluzione comunista e la rivoluzione conservatrice) che ha caratterizzato la prima metà del Novecento, la trasformazione del partito in Stato è stata una necessità politica ineludibile. Se però continuiamo ad iscrivere la traiettoria del comunismo del secolo scorso, retrospettivamente, nella prospettiva tragica di un crollo finale di cui subiamo ancora le conseguenze, dobbiamo ricollocare le alternative decisive – il ribaltamento di un’offensiva, carica di speranza e innovazione, nell’autodistruzione, o come avrebbe detto Derrida, nell’auto-immunità» – non nella scelta tra la forma-Stato e la forma-soviet (i consigli, o, l’autogestione), ma nella scelta fra diversi usi dello Stato, ovvero diversi modi di «costituirlo» materialmente. Anche su questo punto, forse, Tronti non è poi così lontano da Gramsci (il teorico del farsi Stato del proletariato), nonostante gli omaggi insistenti al «realismo» di Stalin. Poi vorrei insistere soprattutto su un secondo aspetto, che riguarda la funzione metastorica del movimento socialista e della lotta di classe, di cui il movimento operaio è stato principio di organizzazione, in quanto vettore di civilizzazione, e perciò di protezione e di preservazione della politica nel Novecento (diciamo à la Schmitt: Hegung der Politik). Tronti si riferisce alla nozione teologica, ripresa da Schmitt e magnificata in particolare da Taubes, del katéchon paolino, come forza che «trattiene» la storia sull’orlo del suo violento ribaltamento che precede il Giudizio Finale (sappiamo che per San Paolo questo katéchon è la Chiesa stessa), e descrive in particolare la divergenza tra la sua vocazione e quella di Toni Negri come una differenza fra il punto di vista «katechontico» e il punto di vista «escatologico» di un’imminenza del comunismo (che sarebbe in realtà già presente)18. Io non cerco di dirimere la questione in un senso o nell’altro, ma penso che le riflessioni sviluppate da Tronti, ispirate da questo principio, sulla funzione civilizzatrice del movimento operaio e del socialismo, sono delle riflessioni magnifiche, illuminanti, e fondamentali per la comprensione della storia da cui proveniamo. Ci mostrano davvero che cosa significa applicare un punto di vista politico all’interpretazione della storia. Ciò che Tronti sostiene non è che il movimento operaio abbia voluto la pace (in questo caso avrebbe 18
M. Tronti, Noi operaisti cit., p. 111.
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completamente sbagliato, come Jean Jaurès e anche Rosa Luxemburg nel 1914), ma il fatto che negli sforzi condotti per trasformare la guerra inerente al capitalismo (in quanto imperialismo, fusione compiuta di statalismo ed economicismo) in guerra civile o guerra di classe, è stato in un colpo solo capace di trattenere la logica della guerra dalla sua deriva sterminatrice, per trasformarla, o tentare di trasformarla, in rivoluzione, operando cioè una mutazione qualitativa, ed essenzialmente «civilizzatrice», del capitale. Io non dico che sia vero nei fatti, tanto più che (ma forse sono io ad essere troppo storicista qui), specialmente per quanto riguarda i riferimenti a Stalin quale incarnazione tra le altre di questa funzione katechontica, non posso esimermi dal porre la questione della scarsa considerazione, che mi pare evidente, [da parte di Tronti], degli effetti di mimetismo che appaiono tra la rivoluzione comunista e la rivoluzione conservatrice nel corso del Novecento, e che sono sfociati nella risonanza di pratiche genocidarie tra il comunismo sovietico e il nazismo. Dico però che l’osservazione è pertinente, tanto in relazione allo stato di confusione che regna tuttora tra l’idea di un’emancipazione politica e le idee di concordia, di pace civile e cosmopolitismo, quanto alla luce della constatazione di ciò con cui dobbiamo fare i conti oggi: l’eliminazione o l’occultamento degli antagonismi di classe, la riduzione di questi ultimi a problemi quantitativi di disuguaglianza e di esclusione, non coincide con una pacificazione dei rapporti sociali, ma al contrario con la proliferazione e la normalizzazione di una violenza estrema (l’aveva annunciata profeticamente Benjamin nelle sue tesi Sul concetto di storia), in particolare lungo tutte le frontiere geopolitiche e geoeconomiche della «globalizzazione». Tante implicazioni possibili si prestano ad essere derivate dalla tesi katechontica, e mi sembra che Tronti ne abbozzi almeno due, giustapponendole a qualche pagina di distanza nel lungo saggio Politica Storia Novecento che apre La politica al tramonto19. Una delle due, esposta in tono minore, che in una certa maniera trattiene il tragico, o gli restituisce una funzione dialettica, è quella che consiste nel prendere atto delle trasformazioni del capitalismo stesso, le quali, anche solo provvisoriamente, sembrano essere il risultato degli effetti della lotta di classe all’interno e ai margini 19
M. Tronti, La politica al tramonto, Einaudi, Torino 1998, pp. 5-82.
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del modo di produzione. Sono Keynes e Roosevelt, e con loro la socialdemocrazia europea in senso lato, che hanno imparato la lezione di Lenin temendone l’esempio. Si ha qui il reciproco della tesi sviluppata in Operai e capitale a proposito del ruolo della lotta di classe nella dinamica dell’accumulazione, che ora viene applicata all’emergenza del welfare state, o a ciò che Robert Castel aveva chiamato la «società salariale», la società che integra la classe operaia, o almeno una parte della classe operaia, attenuando anche gli effetti dello sfruttamento (attraverso la redistribuzione, piuttosto che attraverso la riorganizzazione della produzione, senza dubbio)20. Opponendo una contro-violenza alla violenza del capitale, il movimento operaio l’ha dunque costretto a limitare la sua capacità distruttiva del materiale umano. Proseguendo questa riflessione, si è anche costretti a ridiscutere la questione della democrazia, ed è forse per questo che Tronti non si accosta all’argomento se non controvoglia, perché dovrebbe ammettere che esiste una democrazia conflittuale, anzi una democrazia come forma di conflitto. Bisognerebbe stabilire che la «democrazia», così come la «politica», è un concetto che si suddivide e non si situa unilateralmente dal lato delle norme di adattamento della società alla governamentalità statale, dal lato della creazione o dell’imposizione del consenso per mezzo della repressione degli antagonismi o della loro riconversione in pluralismo costituzionale. Ci sono forme insurrezionali della democrazia che emergono ciclicamente (penso a quel che succede ad Algeri in questi giorni) e che fanno parte della storia del movimento rivoluzionario, anche se, proprio per questa ragione, queste forme non possono che essere fragili e tendenzialmente destinate ad essere eliminate. A fianco di questa pista minore, troviamo ovviamente la strada maggiore: è quella che Tronti sviluppa in un affresco grandioso del conflitto tra le diverse modalità del conflitto, ovvero l’oscillazione del movimento operaio fra un movimento di regressione verso la guerra civile aperta (che tende anche verso forme «infra-statali» di militarizzazione del conflitto sociale) e la progressione verso una modalità superiore del conflitto, che ripropone – in un certo senso permanentemente – il gesto leninista che aveva inaugurato il secolo: la trasformazione della guerra e della militarizzazione imperialiste 20 R. Castel, Le metamorfosi della questione sociale: Una cronaca del salariato, tr. it. di C. Castellano, A. Petrillo, A. Simone, C. Tarantino, Mimesis, Milano 2019.
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in guerra «sociale» e mobilitazione rivoluzionaria. Ma questa è anche la pista più profondamente marcata dai tratti dell’aporia e del pessimismo politico, perché Tronti, in effetti, ci spiega che la tragedia del Novecento, prefigurando il tracollo della «Grande Politica» nella «piccola politica» (che in realtà è semplicemente una non-politica, una politica della depoliticizzazione permanente), è derivata dall’incapacità del socialismo d’imporre alla società capitalista una disgregazione totale dei suoi interessi e della sua unità a partire da un messa in discussione radicale del capitalismo come sistema, [a partire cioè da] una polarizzazione di tutti i conflitti sociali intorno alla figura dell’operaio come «forza-lavoro», che è indissolubilmente capacità produttiva e potenza del rifiuto. La storia del politico in Occidente è così inscritta da Tronti nel segno di una catastrofe, che non siamo ancora riusciti a revocare, e il cui rovesciamento è improbabile. Il kairos non ritorna, e in ogni caso non ritorna negli stessi termini. Leggendo tutto questo nel 2019, mi pongo evidentemente (e gli pongo, ci pongo) molte domande. Una di queste consiste nello stabilire se questa storia, anche con la dimensione civilizzatrice e katechontica che la caratterizza, non sia troppo esclusivamente occidentale. «Kommunismus oder Europa» s’intitola un capitolo de La politica al tramonto21. E Tronti dice esplicitamente, cosa che non ha suscitato soltanto plausi, che non c’è stata una ripresa del movimento operaio e delle lotte operaie descritte da Marx nell’antagonismo emerso tra Nord e Sud globale, ad un livello paragonabile di organizzazione. Dice anche che tra il Nord e il Sud del mondo non ci sarebbero altro che conflitti derivati da uno sviluppo economico disuguale e flussi migratori da regolare. L’attualità sembrerebbe indurre a credere che questo sia vero, ma anche a pensare che si tratti di una situazione in evoluzione costante, suscettibile di politicizzazione. Forse verso il peggio. Una seconda domanda consiste nel chiedersi, retrospettivamente, se la catastrofe politica e perfino spirituale rappresentata dalla neutralizzazione della politica non sia offuscata da un’altra «catastrofe», di cui viviamo oggi i prodromi: la catastrofe ambientale o climatica. La vittoria ipotetica del movimento operaio rivoluzionario nella grande «guerra civile mondiale» del ventesimo secolo avrebbe potuto trattenere o impedire questa catastrofe? Non 21
M. Tronti, La politica al tramonto cit., pp. 179-192.
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ne abbiamo alcuna certezza, anzi, si può anche pensare che una tale vittoria avrebbe aperto la strada a un produttivismo ancora più selvaggio, salvo se avesse lasciato emergere al suo interno delle contraddizioni di cui il marxismo e il leninismo (e l’operaismo) non avevano la minima cognizione. Ma, a sua volta, questa idea, ancora più pessimista che le precedenti, dischiude una domanda che la filosofia di Mario Tronti ci permette di formulare con forza e sul lungo termine: la domanda circa le forme che può, o che deve, assumere oggi un pensiero di partito, un pensiero parziale e partigiano (Tronti gioca costantemente sul doppio registro del partito, della parte e della parzialità, a cominciare dall’idea di una divisione della società e del suo spirito in classi, dominanti e dominate, sfruttatrici e sfruttate, alto e basso). Se avessi avuto tempo, avrei provato a ricollocare questa idea nel novero di una serie di altri concetti prossimi: «lo spirito di scissione», inventato da Proudhon e Sorel, ma ripreso da Gramsci22, e quello della «lotta di classe nella teoria» proposto da Althusser23. Limitiamoci a costatare semplicemente che se la catastrofe planetaria alla quale dobbiamo far fronte oggi è massiva e totalizzante, e benché minacci di fatto tutta l’umanità (senza dubbio a livelli molto diversi, tanto che alcuni possono organizzarsi per evitarla), la possibilità di opporvi una risposta politica non può evidentemente risiedere in un’unanimità, un cosmopolitismo ecumenico tanto improbabile quanto inefficace. Sono necessarie invece delle scissioni, lo sviluppo di un polemos che segua delle linee di demarcazione da determinare, imporre e pensare. Sono queste le condizioni dell’universalità: il realismo e la passione. Traduzione di Jamila M. H. Mascat
22 Trattasi di un tema che ha ispirato il titolo di un bel libro di André Tosel, L’esprit de scission. Études sur Marx, Gramsci et Lukács, Annales littéraires de l’Université de Besançon, Besançon 1991. 23 Per un accenno di riflessione su quest’ultimo punto, rinvio al mio saggio: Essere principe, Essere populare: Machiavelli ’s conflictual epistemology, in F. Del Lucchese, F. Frosini, V. Morfino (a cura di), The Radical Machiavelli. Politics, Philosophy, and Language, Brill, Leiden-Boston 2015, pp. 349-367.
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Debbo confessare il mio imbarazzo nel discutere questo volume di scritti di Mario Tronti, complessivo della sua vita di studioso e militante. Quando ero giovane – non troppo tuttavia: attorno alla trentina –, Mario m’insegnò a leggere Marx. Assunse molte responsabilità, facendolo – ed io gliene sono ancora grato. A partire da questa lettura, mi dedicai ad una vita militante. Ma nel 1966, sei o sette anni dopo quell’incipit, consegnandoci Operai e capitale, Mario ci lasciò – non dico «mi» ma «ci», perché nel frattempo erano divenuti tanti gli «operaisti» presenti non solo nelle università, quanto, soprattutto, nelle grandi fabbriche del nord Italia. Ci disse, nel 1966, che il decennio dei Sessanta era finito prima del suo termine e con esso il tempo dell’autonomia operaia, che bisognava trovare un livello più alto per le lotte che avevamo condotto e conducevamo, che bisognava portare la lotta nel Partito comunista italiano. Non era quello che già facevamo?, gli rispondemmo. Non fummo infatti, né allora né più tardi, insensibili al problema ed al compito di sviluppare politicamente le lotte operaie. Il fatto è che il Partito non lo gradiva affatto. Nel crescendo delle lotte operaie che doveva condurci al ’68/’69, non capimmo dunque perché lasciare a sé stessa l’autonomia delle lotte. Mario disse allora che il ’68 ci aveva definitivamente confuso. Secondo lui, avevamo preso per un’alba quello che invece era un tramonto. Ma quale tramonto? Certo, si annunciava la fine dell’egemonia dell’operaio-massa, ma potevamo confonderla con quella della lotta di classe proletaria? Nel prolungarsi durante tutti gli anni ’70 del lungo ’68 italiano, quella conversione di Mario non poteva convincerci. Fu allora che smisi di leggere Tronti. Quando questo volume mi arrivò, mi accor-
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si che ne avevo già letto solo il primo terzo, due terzi mi restavano da leggere. Certo, anche se non lo leggevo, Tronti non era assente dal mio quotidiano. In maniera stizzosa, ad esempio, lessi in quegli anni un saggio di storia del pensiero politico moderno che Mario pubblicò allora e che, ad uno spinozista quale stavo diventando, parve parziale e non certo grato nell’esaltazione senza riserve che ivi era fatta della teoria hobbesiana del potere. Come se la storia del politico moderno non dovesse essere attraversata anche dal pensiero e dalla storia dei vinti, dalla linea della rivolta, dal sogno comunista, fino a rappresentarsi in Marx come critica dell’economia politica e potenza di soggettivazione classista. A questa figura della storia del moderno ero profondamente legato, e da Operai e capitale avevo appunto appreso ad inseguire la «storia interna della classe operaia» – la storia cioè della sua progressiva soggettivazione. Facevo ciò sviluppando l’intuizione trontiana che indicava il punto nel quale la soggettivazione della forza-lavoro era tanto maturata da «contare veramente due volte [dentro il sistema del capitale]: una volta come forza che produce capitale, un’altra volta come forza che si rifiuta di produrlo; una volta dentro il capitale, un’altra volta contro il capitale»1. Perché allora, mi chiedevo, Mario dimentica nel lavoro storico la lotta contro il capitale ed il soggettivarsi potente del proletariato? Poi ancora, in quegli anni, mi arrabbiai quando Cacciari ed Asor Rosa, sulla linea di Mario, attaccarono Foucault perché – dicevano – dissolveva lo Stato, oggetto e soggetto della loro concezione del politico. Fu allora che, probabilmente per la prima volta in maniera piena, mi accorsi che il terreno politico scelto dai miei vecchi compagni era dato esclusivamente come apparato statale ed era staccato, separato radicalmente dal livello della lotta di classe. Che incredibile limitazione anche dal punto di vista offertoci da Foucault, il cui concetto di potere risonava talmente del dualismo del marxiano concetto di capitale! Più recentemente, poi, mi domandai perplesso che cosa significasse operaismo, essendomi sentito chiamare «post-operaista», quando invece avevo assunto come compito teorico quello di espandere i dispositivi metodici e le intuizioni politiche del «grezzo» operaismo anni ’60 nell’analisi della trasformazione della composizione delle 1
M. Tronti, Operai e capitale, DeriveApprodi, Roma 2006, p. 179.
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classi e della lotta di classe a livello internazionale. Ci tenevo molto, sul mercato globale del sapere, ad essere qualificato come «operaista»: non mi vergogno di dirlo, e con piacere lasciavo il «post-» a chi davvero se n’era andato da un’altra parte. Ero certo «minoritario» ma, come spesso capita ai minoritari, sentivo che presto le opzioni partitiche statualiste di quelli che veramente venivano dopo gli (post-)operaisti, si sarebbero infrante nel rinascere della lotta di classe. Tuttavia, per evitare arrabbiature sempre più frequenti, mi dissi infine: bisogna che vada a sentire di nuovo Mario. Ero in galera e Mario teneva, nel 2001, la lezione conclusiva della sua carriera accademica a Siena. Chiesi un permesso ai carcerieri e sorprendentemente me lo concessero. Rivedevo Siena dopo tanti anni di esilio, cosa non estranea alla mia richiesta di ascoltare Mario. «Politica e destino» si chiamò la lectio di Mario2. Mi accorsi allora di quanto fossimo divenuti estranei. Conoscevo bene Freiheit und Schicksal («Libertà e destino»), il testo del giovane Hegel, già tradotto ed interpretato in Italia da Cesare Luporini, che Mario assumeva come spunto del suo studio – ci avevo lavorato nella mia tesi di libera docenza3. Ebbene, che cosa avveniva a quel testo fortemente repubblicano del giovane Hegel nella lettura di Mario? Egli operava uno scivolamento inaudito dalla Bestimmung hegeliana al Geschick heideggeriano, dalla determinazione etico-politica di Hegel e dal suo affidamento rivoluzionario alla Begeisterung popolare – da ciò dunque alla decisione heideggeriana «dell’abbandono (dell’ente) nell’essere». Ma perché questo passaggio? Come poteva giocarsi lo spostamento dall’entusiasmo hegeliano alla mortale riflessione heideggeriana? La risposta si rivelava essere fortemente metaforica. Era qui detta come presa di coscienza della definitiva crisi di un destino politico giocato interamente sull’appartenenza al Partito. Ma ora, nel 2001, non c’è più il Partito. Perché? Metaforicamente rispondeva dunque Mario a quella domanda: «Ma, perché non c’è più popolo!»4. Era quindi caduta la «vocazione», Cfr. M. Tronti et al., Politica e destino, Luca Sossella, Roma 2006. Cfr. C. Luporini, Un frammento politico giovanile di G.W.F. Hegel, «Società», 1, 3, 1945, pp. 60-114. 4 M. Tronti, Il demone della politica, a cura di M. Cavalleri, M. Filippini e J. M. H. Mascat, il Mulino, Bologna 2017, p. 577. 2 3
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«il compito di organizzarci come classe dirigente, egemonicamente dominante»5. Mi chiesi allora: ma che cos’è questa mitologia egemonica che fa reagire Mario in maniera tanto drammatica e – a mio avviso – tanto disastrosa, dinnanzi al presente della lotta di classe? Ecco qui l’«enigma Tronti» – che non mi sembra impossibile da svelare: consiste nella dislocazione del «punto di vista» dal dentro/contro il capitale, al dentro il Partito con la proposta di imporne l’egemonia sullo sviluppo capitalista; nella discontinuità profonda fra il Tronti di Operai e capitale e quello dell’«autonomia del politico». In parole povere, uno spostare dal basso all’alto la sorgente del potere e l’iniziativa della lotta di classe. Nel 1972 era apparso in gran luce il concetto di «autonomia del politico», in uno scritto così intitolato. Non era più il residuo di una tradizione storica, della memoria di Hobbes. Il concetto si organizza piuttosto sull’idea che bisognava finirla con il «monoteismo» marxiano, e cioè con la pretesa che critica dell’economia politica e critica della politica potessero avere la medesima sorgente. Si trattava invece, secondo Mario, di due pratiche critiche diverse. Politicamente questa duplicazione era giustificata – in maniera non del tutto paradossale – dall’idea che, negli anni ’70, il capitalismo avesse dimostrato di essere insufficiente a sostenere lo Stato moderno, e cioè lo sviluppo capitalista nella forma dello Stato moderno. Ma se il capitalismo è in ritardo, è la politica che deve scuoterlo. Occorre sollecitare il politico a modernizzare lo Stato. Ma «politica» è oggi solo la forza della classe organizzata nel Partito. A chi dunque il compito di modernizzare lo Stato? Alla «classe operaia [che] risulta in questa chiave la sola vera razionalità dello Stato moderno»6. Qui il paradosso è pieno. «Classe operaia come razionalità dello Stato moderno»: l’affermazione è ardua da giustificare, sia nei confronti dell’operaismo «grezzo» dei primi anni ’60, sia guardando più avanti, al destino della classe come a quello dello Stato moderno. Ché, nel primo caso, la razionalità operaista aveva rappresentato l’opposto di una funzione progressiva dello sviluppo capitalista; se essa lo causava, lo faceva in quanto agente antagonista; in nessun caso come agente strumentale, tantomeno come funzione razionale. 5 6
Ivi, p. 574. M. Tronti, Il demone della politica cit., p. 297.
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Nel secondo caso, guardando in avanti, e cioè allo sviluppo della dialettica lotta di classe/Stato, quel che si può dire è che, nei successivi decenni, essa si è esaurita nella forma metaforizzata da Tronti – nel senso che la classe, quando essa agisca come forza antagonista e propulsiva del capitale, non sarà mai più rappresentata dal Partito. Ma torniamo a noi, al 1972. Tronti riconosce che tale autonomia del politico possa essere presa come progetto politico direttamente capitalistico. In questo caso, concede, essa risulterebbe come l’ultima delle ideologie borghesi. Tuttavia, essa può, oggi, anni ’70, essere ancora realizzabile come rivendicazione operaia. «Lo Stato moderno risulta, a questo punto, niente meno che la moderna forma di organizzazione autonoma della classe operaia»7. Il rapporto è perfezionato una decina d’anni dopo, nell’epoca di Berlinguer, quando si comincia a parlare del «compromesso storico». Dico perfezionato perché accompagnato da un’ulteriore sottovalutazione del ruolo rivoluzionario della classe operaia. Detto teoricamente da Mario: «La classe operaia, sulla base della lotta dentro il rapporto di produzione, può vincere solo occasionalmente; strategicamente non vince, strategicamente è classe, in ogni caso dominata»; ma se non gioca semplicemente sul terreno di classe, se spariglia ed assume il terreno politico, si determinano momenti in cui il processo del dominio capitalistico può esser rovesciato8. Ecco, radicalmente compiuta, la rottura con l’operaismo anni ’60. Nella discussione (quel testo sull’autonomia del politico è elaborato in una discussione) la tesi viene attenuata, si reintroduce talvolta il rapporto dualistico di capitale teorizzato in Operai e capitale: «Non c’è mai all’interno della società capitalista un dominio di classe univoco»9. Immagino – siamo nel ’72 – che gli interlocutori ricordassero a Mario l’intensità delle lotte in corso. Ed ecco come Tronti reagisce: «Uno sviluppo capitalistico di questo tipo non può marciare se non elimina difronte a sé questo apparato statuale che non corrisponde più al livello attuale dello sviluppo economico capitalistico. Questa è la previsione che noi facciamo»10. Ivi, p. 298. Ivi, p. 302. 9 Ivi, p. 305 10 Ivi, p. 307. 7 8
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Su questo Mario ha senz’altro ragione: è il momento nel quale il capitale si apre alla riorganizzazione globale della sovranità. Ma questa volta la «grande politica» gli sfugge. Assai ingenuamente, infatti, Tronti pensa ancora che si tratti di operazioni interne al tessuto dello Stato-nazione ed ingenuamente aggiunge: «Quando il capitale decide di spostare la sua azione su quel terreno [sottintende ancora, evidentemente, il tema della riforma dello Stato], l’intero gioco della lotta di classe si sposta anch’esso, fatalmente, su quel terreno. Secondo me, si tratta addirittura di anticipare la stessa mossa capitalista su questo terreno, affrontando il tema della strozzatura politica e quindi della riforma dell’assetto statuale prima ancora che il capitale ne prenda coscienza ed elabori un progetto di effettiva e concreta realizzazione di questa riforma. Così, il processo, io non direi di riforma ma di rivoluzione politica dello Stato capitalistico così com’è, è un progetto che la classe operaia deve anticipare»11. Ed ecco la rivendicazione dello strumento dell’autonomia del politico: «Noi troviamo un livello del movimento operaio, cioè un’organizzazione storica del movimento operaio, disponibile per un’azione di questo tipo»12. E ancora: «Noi ci troviamo difronte, per un progetto di questo tipo, a degli strumenti organizzativi che per una politica passata, per una loro struttura interna, sono disponibili per un’azione di questo tipo. È una situazione storica paradossale ma è un paradosso da utilizzare»13. Si potrebbe irridere a questo presunto «realismo politico», ma a che scopo, quando si sia misurato, come a noi è oggi possibile, l’idealismo che lo sorreggeva? La classe deve farsi Stato: questa è dunque l’«autonomia del politico» così come essa appare di nuovo ne Il tempo della politica del 198014. Il testo è interessante. C’è una certa autocritica a proposito della condanna del ’68. Si rivendica ad esempio la matrice operaia del ’68, si afferma persino che prima del ’68 c’è un ciclo di lotte operaie vittorioso, a livello europeo ed internazionale, che lo preparava. Tronti esemplifica sul «caso italiano», sull’insieme dei processi che avevano portato gli operai in lotta ad uscire dalle fabbriche. Apre persino ad una prima definizione del «sociale» come nuovo terreno Ibid. Ivi, p. 309. 13 Ibid. 14 M. Tronti, Il tempo della politica, Editori Riuniti, Roma 1980. 11 12
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della lotta di classe. Ed impreca contro l’incapacità del Partito di assorbire e/o di dialettizarsi con i nuovi movimenti: «Lentezza di riflessi, paura del nuovo, istinto di autodifesa»15. Ma poi, come se niente fosse, riprende l’insistenza sul Partito come chiave di ogni processo. Quello che è letteralmente insopportabile è che tutto questo discorso si dà ormai a partire dalla cancellazione di ogni approccio critico all’economia politica e sostenendosi su un volontarismo bizzarro. «Rosenzweig indicava una prospettiva di lettura della politica moderna, von Hegel zu Bismarck. È possibile tirare oltre la linea e continuare il discorso e rimescolare le carte, von Bismarck zu Lenin? Può scandalizzarsi solo chi non ha spirito di ricerca, chi ha paura di sporcarsi le idee manovrando le pratiche del nemico, chi pensa in piccolo, per linee di coerenza ideologica e non sulla base della produttività politica di una scelta teorica»16. Può essere. Ma io vi ricordo che, dopo aver assaggiato quel passaggio attraverso Bismarck, Rosenzweig aveva concluso alla mistica Stern der Erlösung17. Non si offenderà Tronti, perché è lo stesso cammino che egli farà. Ci ritorneremo. Ma ora seguiamo ancora il tema dell’autonomia del politico. 1998, un altro importante documento: Politica Storia Novecento. «Si chiude la fase dell’autonomia del politico», dichiara qui Tronti18. Perché si chiude la fase dell’autonomia del politico? Perché «la sconfitta del movimento operaio [siamo nel 1998] si mostra senza un seguito di possibile riscossa»19. Ed ecco la sequenza-fuga: «La classe operaia non è morta […] ma è morto il movimento operaio. E la lotta di classe non c’era perché c’era la classe operaia, la lotta di classe c’era perché c’era il movimento operaio»20. Dopo la subordinazione della lotta di classe all’autonomia del politico, con la fine del PCI finisce anche la lotta di classe. Come dunque volevasi dimostrare, posso aggiungere. E proporre un’ulteriore risposta alla domanda sulla fine dell’autonomia del politico: perché la linea del pensiero di Tronti va da ogni errore politico ad una trasfigurazione M. Tronti, Il demone della politica cit., pp. 382-390. Ivi, p. 408. 17 Cfr. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, tr. it. di G. Bonola, Marietti, Torino 2000. 18 M. Tronti, Il demone della politica cit., p. 524. 19 Ivi, p. 325. 20 Ivi, p. 528. 15 16
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trascendentale di questo (dal fallimento del «Partito in fabbrica» all’idea dell’«autonomia del politico», dalla crisi del ’68 all’affermazione della classe come Stato, dal fallimento del compromesso storico alla teologia politica), in una fuga in avanti che non ha termine. Ci concede Tronti che restino le rivolte dei subordinati… «nel loro corso eterno»21. Come volevasi dimostrare, il discorso va ora all’eterno. «Il Dio che si fa uomo e l’uomo che si fa Dio non si sono alla fine incontrati… e l’XI delle tesi di Marx su Feuerbach (“Finora i filosofi si sono limitati ad interpretare il mondo, adesso è venuto il momento di cambiarlo”) va pesantemente messa in dubbio… cade il dogma della prassi»22. È finito il PCI, è finita ogni politica rivoluzionaria. Ma anche progressista o riformista. Se non fosse tanto urlata, questa convinzione potrebbe darsi in una luce crepuscolare e ordinare insieme la nostalgia (quante volte richiamata) del «popolo comunista» e il senso di tempi nuovi incomprensibili. Un’aura pasoliniana. Nello scritto Karl und Carl ritorna il discorso sull’autonomia del politico, ma sublimato23. Tronti ce lo dà come «l’ultima cosa che resta». L’autonomia del politico, cioè, non più collegata alla storia del movimento operaio o alla sua politica ma qui finalmente data come fatto ontologico, come necessità del pensiero, della vita e della convivenza umana. Non è più un modo ma un attributo dell’essere, si potrebbe dire ironicamente. Tronti riconosce che «l’ingenua occasione dell’incontro» con Schmitt fu all’inizio, per gli operaisti che nel ’70 entravano nel PCI, prodotta «dall’ambizione pratica di carpire a Schmitt il segreto dell’autonomia del politico per consegnarlo come arma offensiva al Partito della classe operaia»24. Ciò conferma, appunto, la nostra ipotesi precedentemente espressa. Ma bisognava, aggiunge Tronti, andare oltre la contingenza. Bisognava riconoscere che si era fatto un passaggio strategico, assumendo da Schmitt il pensiero «dell’originarietà del politico, della politica come potenza originaria» (nelle parole stesse di Schmitt). La logica non poteva essere più consequenziale. Si era costruito un nuovo monoteismo opposto a quello denunciato in Marx. Ivi, p. 529. Ivi, pp. 530-553. 23 Ivi, pp. 549-560. 24 Ivi, p. 556. 21 22
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Che dire del resto di questo libro? Che spesso confonde il giudizio politico sulla realtà presente dentro risonanze spirituali, teologiche e trascendentali. Il potere si destoricizza definitivamente. Subentra intero il teologico-politico. Il senso del religioso viene assunto come tonalità di un nichilismo conseguente alla dichiarazione della fine del linguaggio politico moderno e del suo mondo – fine contemporanea all’esaurirsi XX secolo. Siamo dinnanzi ad una precipitazione catastrofica, inarrestabile. Ormai tutto è uguale, e l’unica funzione del pensiero politico non può essere che quella katekhontica: di bloccare, di disaccelerare quella precipitazione. Mi spiace sinceramente che l’originario tentativo di Operai e capitale di riconquistare il politico attraverso la soggettivazione dell’attore proletario nella lotta di classe termini in una triste commiserazione dell’umana «virtù». Questa si era incrociata alla «fortuna» e così, nel Partito, potevamo non solo salvarci dalla rovina ma costruire un nuovo mondo. Ma, venuta meno la «fortuna», anche ogni «virtù» decade. Come è poco machiavellico questo destino. Nell’opera machiavellica, quella «fortuna» che scompare è comunque portatrice, nella sua latenza, di nuova «virtù». Tale è oggi la situazione. Ed un pensiero geneticamente robusto come quello di Tronti non avrebbe dovuto perdere la capacità di avvertirlo: la fine del Partito registra sì la fine di un’epoca ma segnala la nascita di nuove soggettivazioni. Lamentare la sconfitta produce una oziosa rinnovata fuga metafisica – è invece necessario un faticoso ma positivo ripiegamento sulla critica dell’economia politica, una nuova interrogazione sulla «composizione» tecnica e politica della classe lavoratrice che, su queste contingenze, viene costituendosi in nuove figure. Come si sono modificati la forza-lavoro ed il capitale variabile nel loro rapporto al capitale fisso, dentro le trasformazioni del modo di produrre capitalista e nel passaggio dalla fase industriale a quella post-industriale? Che cos’è quell’«intellettualità» che costituisce la nuova moltitudine di lavoratori e quali le forme del suo essere produttiva? E la nuova centralità della cooperazione lavorativa, la sua aumentata intensità nel lavoro immateriale, cognitivo, in rete, ecc., questa trasversalità potente, quali conseguenze determina? Se l’«operaio sociale» diviene «lavoratore cognitivo» ed innesta sulle qualità del primo (mobilità e flessibilità) cooperazione linguistica e tecnologica, in che maniera si possono configurare il rapporto ed
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il salto da composizione tecnica a composizione politica del nuovo proletariato? Se è vero che all’interno di questo tumulto trasformativo la sola cosa che non si modifica è che il capitale vive di plus-lavoro e continuamente riconfigura plus-valore e profitto al suo interno, quel rapporto tra composizione tecnica e politica è possibile, è un dispositivo latente da sviluppare ed un compito da farsi. Quel che è certo è che l’operaismo va aggiornato, e può esserlo, quando la socializzazione produttiva e l’operare cognitivo investono l’accumulazione e la vita intera. Non a caso, nella riproduzione sociale, nella vita, i movimenti femministi divengono centrali. Non solo: il punto di vista dei «subordinati» rivela interamente la sua connessione con i movimenti di classe. Non si poteva riattualizzare qui, nelle nuove lotte di questi soggetti, quel punto di vista che aveva creato l’operaismo – quel vedere ogni sviluppo storico della lotta per la liberazione dal lavoro «dal basso», dalla lotta di classe degli sfruttati? E quindi la capacità di dare a questo punto di vista un’intensità biopolitica ed un’estensione universale? Non accade che, dopo la fine della centralità della fabbrica, la lotta di classe riconquisti qui, interamente, la sua virtualità rivoluzionaria? Arresto qui le domande e suggerisco quello che, a partire da quell’inchiesta sulla nuova composizione tecnica del proletariato, si può ricavare per l’ipotesi di una nuova composizione politica. Essa può darsi quando, riconoscendo l’eccedenza produttiva del lavoro cooperativo e/o cognitivo che caratterizza la nuova accumulazione, la classe lavoratrice si rivolta e si mostra capace di reggere nel tempo la rottura del rapporto di produzione, di costruire contropotere e di istituire in tal modo legittimità costituente. Qui il nome del politico si riaggancia a quello del produrre, non in senso economicista ma nel senso che le lotte hanno costruito, come libera capacità di produrre e comandare sulla vita. Per finire. Un punto fortemente polemico nei confronti di Mario. Diversamente da quanto egli sostiene, in ogni momento nel quale articola la sua teoria del politico e/o del potere, Lenin non ha nulla a che fare con l’autonomia del politico. Perché Lenin fu, appunto, monoteista, ma in senso opposto a quello schmittiano, ricavando da Marx anche l’idea del politico che, nella materia, consisteva essenzialmente nella proiezione massificata del lavoro vivo; nella for-
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ma, nell’organizzazione di partito ricalcata sulla fabbrica operaia, sulla comunità produttiva; nel progetto, in un’impresa rivoluzionaria di costruzione del comune. Non c’è, in Lenin, modo di staccare la materia dalla forma. Il riferimento qui spesso fatto alla NEP, per mostrarci il realismo opportunista di Lenin, introduce alle politiche staliniane che seguiranno, piuttosto che al modello politico leninista, dove dominano il tema dell’estinzione dello Stato, di una transizione come fase di riappropriazione e trasformazione da parte del proletariato dei poteri dello Stato, e la volontà di creare una società senza classi. È ben vero che Tronti attenua, avanzando nella sua distruzione della tradizione comunista, quest’assegnazione di Lenin all’autonomia del politico. L’autocritica trontiana (fosse tale! Si presenta invece sempre come superiore potenza di verità) – l’autocritica sembra cambiare terreno. La mitologia dopo la teoria, l’ascesi dopo la mistica: «Il marxismo del XX secolo, nella forma del leninismo, è molto filosofia della mitologia»25. Benvenuta comunque questa modificazione. Estremamente pericoloso era avanzare sull’idea di un Lenin dedito all’autonomia del politico, poiché in ciò è implicito un forte accento di revisionismo storico. Dopo Lenin uguale a Bismarck, viene Lenin uguale a Hitler, idea del tutto accettabile per Schmitt – ma per noi davvero no. Il riferimento al trascendentale politico, tipico della patologia statalista novecentesca, Ahi, quali lutti addusse agli Achei!, ha d’altronde fatto il suo tempo. Nel mondo globalizzato, ogni reminiscenza statalista è destinata a piegarsi al sovranismo, all’identitarismo, e rinnova derive fasciste, mentre la figura dello Stato impallidisce nel contesto della globalizzazione. Ben lungi dal riapparire come soggetto autonomo, lo Stato assume un ruolo subordinato nel «gioco globale del tasso di profitto». Come dicono altri compagni tuttora operaisti: «Sicché si può ben concludere che lo Stato non è oggi sufficientemente potente nei confronti del capitalismo contemporaneo. Al fine di riaprire una prospettiva politica di trasformazione radicale è assolutamente necessario qualcosa d’altro, una differente sorgente di potere»26. Ecco dove la prospettiva operaista, quella che Tronti ci ha regalato e che da parecchio tempo rifiuta, può aiutarci. Ivi, p. 443. Si veda S. Mezzadra, B. Neilson, The Politics of Operations: Excavating Contemporary Capitalism, Duke University Press, Durham 2019, p. 231. 25 26
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Se la mia lettura del volume si ferma dunque al suo primo terzo, non è detto che proprio di lì, da quel primo terzo, non si possa nuovamente procedere alla scoperta del politico marxiano.
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Un passo indietro, un salto in avanti. Risposte a Étienne Balibar e Toni Negri Mario Tronti
Ho ascoltato i due discorsi di Balibar e Negri, nel seminario di quel pomeriggio a Parigi. Dopo la discussione che ne seguì, il poco spazio rimasto, nei tempi della Sorbona, mi permise solo una breve replica. Meglio così. I testi erano impegnati e impegnativi: non potevano essere liquidati con qualche battuta. A leggerli, nell’articolazione molto complessa di argomenti, mi suscitano molteplici rilievi sia di adesione che di critica. Naturalmente, non tutti quegli argomenti possono essere qui trattati. Ne sceglierò alcuni, che più sento anche come miei propri effettivi problemi. Con Toni Negri e Étienne Balibar mi sento di dire che c’è un’amicizia politica. Che cos’è un’amicizia politica? È un sentimento di fraternité umana, molto umana, che si stabilisce tra persone che stanno, e sono consapevoli di stare, da una stessa parte contro un’altra parte. Il legame che unisce è la consuetudine della lotta e il comune nemico, che da parte sua non smette di marcare la sua presenza. I differenti mezzi scelti – decisioni contingenti, collocazioni organizzative, percorsi intellettuali, appartenenze culturali – non riescono a dividere. Quel legame ha una radicata profondità maggiore. Il comune sentire vince sul diverso ragionare. La pratica di affetto vive di vita propria rispetto ai divergenti accordi teorici. Abbiamo vissuto a lungo, abbastanza per vederne tante… La realtà storica è cambiata più in fretta dei nostri pensieri. E tuttavia abbiamo tallonato, punto per punto, misura per misura, i cambiamenti. Non siamo stati, come si dice, solo a vedere. Anche se l’urgenza del fare ha qualche volta inquinato le nostre intenzioni. Ma è così, la passione di sovvertire questo presente lascia poco spazio al sapersi muovere con efficacia nelle sue tante contraddizioni. Per
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quanto mi riguarda, mi pare di aver fallito spesso nel voler indirizzare gli accadimenti, meno spesso nel tentare di comprendere gli eventi. Meglio mi riconosco nella figura mitica di Epimeteo che in quella di Prometeo. L’ho presa alla larga, ma per venire al dunque. L’occasione dell’incontro è stata la pubblicazione in Italia dell’eccellente lavoro a cura di Matteo Cavalieri, Michele Filippini e Jamila M. H. Mascat, Il demone della politica, in cui si ricostruisce un mio percorso più che cinquantennale di pensiero intorno alla cosa1. Quale cosa? Die Sache selbst. Credo di non aver mai scritto una riga senza tenerla fissa in mente. Una volta mi è capitato di dirla così: «ribellarsi è giusto, ma bisogna farlo bene, saperlo fare bene, imparare a saperlo fare bene e per questo non basta forse una vita». Ci tengo al tutto di questa definizione. Non sono sicuro di aver imparato definitivamente. Ma certo ho continuamente cercato di farlo. E le fasi in cui è scandito abbastanza correttamente quel percorso, del resto non ancora concluso, va letto sulla base di questa premessa. Percorso accidentato, perché accidentato è stato ed è il corso dei tempi. Marx ci ha insegnato a leggere il capitalismo nel Gesamtprozess del suo incessante sviluppo, attraverso periodiche crisi. Storia lunga e contingenza corta: il corpo a corpo del pensiero è con l’una e con l’altra. Mi è servito molto leggere Marx in compagnia di Machiavelli. Tra le quattro tematiche ben isolate da Balibar – punto di vista di parte; composizione politica/composizione di classe; autonomia del politico; tramonto della politica – egli ha poi scelto di soffermarsi in particolare sulla seconda e sulla quarta. Negri ha ripreso, approfondendolo, il suo giudizio sulla terza. A me pare allora necessario soffermarmi qui su questa terza e sulla quarta, molto tra loro correlate. Toni è tornato dunque qui alla grande sulla vexata quaestio che va sotto il titolo di «autonomia del politico». Ce la portiamo dietro da decenni ed è difficile dire qualcosa di nuovo, in bene e in male, sull’argomento. Balibar la pone in questo modo: «l’oscillazione de “l’autonomia del politico” tra un pensiero dell’istituzione e un pensiero dell’insurrezione»2. Prendiamola da questo verso. Anche se ai termini di istituzione e insurrezione io preferisco l’uso dei termini, 1 M. Tronti, Il demone della politica. Antologia di scritti (1958-2015), a cura di M. Cavalleri, M. Filippini, J. M. H. Mascat, il Mulino, Bologna 2017. 2 Infra, p. 28.
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classici, di tradizione e rivoluzione. Ma c’è tra i due oscillazione o non c’è, piuttosto, un tentativo di composizione? Il problema – perché di un problema si tratta – si lega all’altro, sollevato da Negri, su continuità o discontinuità tra l’esperienza dell’operaismo, anni Sessanta, e la ricerca sul politico, anni Settanta. Preliminarmente mi chiedo però se non si possa sgombrare il campo dalle definizioni di operaisti e post-operaisti. Abbiamo fatto in quegli anni una breve intensa esperienza comune, che ha segnato umanamente le nostre vite, e miracolosamente ha segnato poi la vita di intere generazioni di militanti. Senza quel passaggio, ognuno di noi sarebbe stato diverso. Eravamo giovani, nessuno si è fermato lì, siamo cresciuti, ciascuno all’inseguimento di quella maturità di cui si è detto: Ripeness is all. I conti con l’esperienza operaista penso di averli fatti definitivamente con il testo Noi operaisti, che introduceva, nel 2008, il grosso volume di DeriveApprodi: L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia»3. L’incipit era un po’ brusco. Si raccomandava effettivamente un’operazione intellettuale che distinguesse tra operaismo e post-operaismo. Ma si aggiungeva che quella era «la mia verità», senza pretendere che fosse la verità di tutta intera quella storica esperienza. I conti in realtà li ho fatti con il mio operaismo. E questo ha una personale specificità, da riconoscere, altrimenti non si capisce. Io non nasco politicamente operaista. Io nasco politicamente comunista. E non di un comunismo come orizzonte pratico-ideale. Vedo che anche Toni parla della sua storia come «Storia di un comunista», tra l’altro uno dei suoi libri più belli4. A leggerlo, ho avuto momenti di sincera commozione. Il mio era una scelta di appartenenza pratico-organizzativa, calcando il tradizionale curriculum: a 18 anni iscrizione alla Fgci, a 21 al PCI. L’esperienza operaista è durata circa quattro anni, l’appartenenza comunista quaranta. E ho accompagnato alla bara il caro estinto. Ai tempi di «classe operaia» ero, sia pure provvisoriamente, fuori e contro. Non certo un emissario del partito nel movimento. Ma quando presi l’iniziativa di chiudere il «mensile politico degli 3 F. Milana e G. Trotta (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», DeriveApprodi, Roma 2008. 4 T. Negri, Storia di un comunista, a cura di G. De Michele, Ponte alle Grazie, Milano 2015.
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operai in lotta» fu una «sofferta decisione», come recita il titolo di un passaggio del Quartetto op. 135 di Beethoven, ad anticipazione delle dissonanze. Conservo la collezione rilegata di «classe operaia», quest’opera di un autore collettivo, come il tesoro in uno scrigno. Ma mi accorsi, dopo tre anni di intenso ed entusiasmante lavoro comune, che i miei straordinari compagni tendevano a fare gruppo, nel senso in cui saranno i «gruppi» degli anni Settanta, a nessuno dei quali mi è mai venuto in mente di aderire. Considero quella forma di organizzazione un modo sbagliato di fare lotta politica. Sono un pensatore del conflitto e della forza. Meglio avere a che fare con una grande forza dalle pratiche ambigue che con una piccola comunità dalle idee chiare. Più utile allo scopo la potenza di un’organizzazione che il lascito di una testimonianza. E di un’altra cosa purtroppo mi accorsi: che lì, alla fine, rischiava di esserci più anticomunismo che anticapitalismo. Li ho lasciati, è vero, come dice Toni, ma non sono andato da un’altra parte. Penso che, da allora ad oggi, il vero punto di differenza stia nell’idea di politica, o nel concetto del politico. Sull’idea stessa di conflitto c’era e permane una profonda disparità. Per quanto mi riguarda, continuo a leggere tutto quanto mi capita di scritto sull’arte della guerra. Sovrappongo ma non contrappongo l’arte della guerra occidentale e quella orientale. Molto diverse, ma non opposte. Correggo Clausewitz con Sun Tzu, Kutuzov con Mao, e viceversa. La modellizzazione, e la sua applicazione attraverso la teoria dell’«attrito», va composta con la nozione di «potenziale della situazione». François Jullien ci ha richiamato a considerare sempre il valore dell’efficacia, sia nell’azione che nella trasformazione. Quando il movimento operaio, nell’organizzazione del conflitto, si è impadronito e munito unitamente sia di tattica che di strategia, ha ottenuto i migliori risultati. Quando li ha separati ha sempre perso. Nel grande ciclo di lotte di classe degli anni Sessanta, attraverso l’esperienza operaista, ho visto direttamente con i miei occhi la potenza della spinta sociale che premeva dal basso e contemporaneamente l’impotenza, per quella sola via, di mettere in crisi le strutture di potere ben consolidate nell’alto. Ho capito che non c’era, non poteva esserci, una corrispondenza meccanica. C’era in realtà un blocco nel passaggio, per usare ancora termini impropri, da struttura a sovrastruttura, ma questo per insufficienza teorica
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di un apparato tradizionale da materialismo storico, economicista e produttivista, che pesava ancora in gran parte. La svolta verso la considerazione di un’autonomia del politico nasceva da qui. Poi, da una sponda opposta, mi si è rimproverato di non aver portato fino in fondo quella considerazione, di non aver elaborato un apparato di sostituzione o di superamento di quella insufficienza teorica marxista, di aver abbandonato troppo presto quella che era rimasta una scoperta più che una prospettiva. Ma anche questo non è vero. L’applicazione di pensiero sul problema del politico sarà di lì in avanti il filo conduttore di una ricerca che, appunto, Il demone della politica, documenta ampiamente. Non un percorso lineare, piuttosto, ripeto, accidentato, fatto di svolte, di stacchi, di fughe in avanti e all’indietro. Se c’è, in questo percorso, un corpo a corpo della politica con la storia – come ha sottolineato Balibar –, ne segue necessariamente un corpo a corpo del pensiero con la realtà in mutamento. La cifra che ne dà rappresentazione, io l’ho poi trovata nel doppio movimento che mi assicura insieme possesso della lunga durata e governo della contingenza. Possesso teorico e governo pratico. E questo, sapendo che tra i due piani non c’è ed è vano cercare un’assoluta coerenza logica. Possono contraddirsi, e gestire quella contraddizione è il quotidiano difficile esercizio di un pensare che non può fare a meno del fare e di un fare che non può fare a meno del pensare. Perché la politica è sempre comunque pensiero agente e azione pensante. Quando stai fermo con la testa sul tuo punto di vista di parte, non corri pericolo di cattura da parte del sistema, pericolo che pure va tenuto sempre presente, e puoi manovrare la tua posizione sia davanti a una lotta di fabbrica sia dentro le regole di un’istituzione, puoi essere sia movimento sia partito. Direi che non solo puoi, ma devi. Se la politica è guerra, è anche battaglia, e quindi manovra. Per fare politica con un pensare efficace, devi frequentare il basso del sociale e l’alto del potere, essere «populare» ed essere «Principe». A me è servita molto un’altra frequentazione, tutta intellettuale, che vedo polemicamente assente nelle insubordinazioni antagonistiche. Dalla prima esperienza operaista, in particolare a partire dall’avventuroso passaggio di «classe operaia», e subito dopo, è scaturito un filone di ricerca di intenso interesse. Andrà sotto il nome di «cultura della crisi», o di «pensiero negativo». Si trattava
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di fare i conti con il primo Novecento, e comunque con i suoi primi decenni, quando una rivoluzione di tutte le forme, aveva rotto violentemente con il passato ottocentesco, positivista, illuminista, storicista. Una costellazione di tentativi di rivolta contro la belle époque delle magnifiche sorti e progressive, che la grande guerra, verificherà idealmente nel suo tragico corso e l’azzardo bolscevico del ’17 realizzerà nella pratica. Tutto un mondo di disagio della civiltà, che il movimento operaio non aveva incrociato e che si trattava di immettere, contro corrente, dentro la sua storia. Di lì, l’interesse per il pensiero grande-conservatore, e per i suoi esponenti di spicco, come uso operaio di una critica del moderno. L’autonomia del politico nasce anche con queste stigmate, che, per chi sa leggere, si possono trovare in nuce nel testo stesso di Operai e capitale5. La divergenza di cammino con Negri, come lui sa bene, nasce in realtà dentro il passaggio di «Contropiano», quando si separa da Asor Rosa e Cacciari proprio su questo punto. Mi sento di sostenere allora che quella divergenza, che avrà poi ben altri sviluppi, ha una radice di dissenso culturale, più che di diversa scelta politica. L’«enigma Tronti» non sta nell’aver dislocato il «punto di vista» da dentro e contro il capitale a dentro e contro il partito. Sta, da marxista non eretico ma eterodosso, di nuovo in quel doppio movimento, solo apparentemente contraddittorio, di pensiero e prassi, che, a dispetto dei tanti democratici progressisti da cui si sentiva circondato, lo ha portato, per prova ed errore, a proporsi nella figura inedita, almeno nel nostro campo, di «rivoluzionario conservatore». L’enigma sta ad altri risolverlo. Da parte mia, non di enigma si tratta, ma semplicemente della risposta al «conosci te stesso» dell’oracolo di Delfi. Il conosci te stesso va coltivato insieme al non farsi riconoscere. Solo così puoi attrezzarti a «conoscere il nemico meglio di quanto il nemico conosca sé stesso»6. Due sono stati i propositi di fondo che hanno costituito l’operaismo di «classe operaia». Uno in rottura e uno in continuazione rispetto a «Quaderni rossi». L’uno verificato, l’altro falsificato dall’immediato decorso storico. Il primo compariva nel primo numero del «mensile politico degli operai in lotta»: era quella declinaM Tronti, Operai e capitale, DeriveApprodi, Roma 2006. Si tratta della riformulazione di un aforisma di Sun Tzu. Si veda Sun Tzu, L’arte della guerra, a cura di M. Conti, Feltrinelli, Milano 2013. 5 6
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zione del punto di vista della parzialità rovesciando, nello sguardo, il rapporto di forza: prima le lotte operaie poi lo sviluppo capitalistico. Uno strappo volontaristico: può darsi. Ma la verifica ci fu immediatamente sul campo. Gli anni Sessanta si concludevano con la spallata dell’autunno caldo, dopo il quale la società capitalistica in Italia non fu più come prima. E gli anni Settanta nel loro controverso svolgimento, tra attacco violento al sistema e risposta violenta di sistema, stanno lì a dimostrarlo. Ma il discorso è più ampio. L’intero ciclo delle lotte a livello internazionale minava alla radice le fondamenta del capitalismo industriale. I «trent’anni gloriosi» venivano da lontano, ma sono andati purtroppo molto vicino. Qui ci sarebbe da aprire un discorso di geopolitica di classe, che andrebbe approfondito con ben altri strumenti, da parte di storici contemporanei e di economisti politici. Il ciclo di lotte operaie degli anni Trenta del Novecento aveva alle spalle, è vero, la grande crisi, ma perché trovò un capitale disponibile a concessioni mai fatte prima, che dopo la seconda grande guerra, e anche grazie ad essa, segnarono i tre decenni successivi? Perché, a mio parere, c’era un assetto internazionale bipolare, c’era un amico/nemico a livello mondo. C’era un socialismo che si diceva realizzato, che con tutti i suoi limiti e difetti, per non dire altro, dava rappresentazione simbolica di una irriducibile potenza alternativa, dotata di tutta la forza necessaria, cresciuta, da non dimenticare, con la vittoria sul nazismo sulla propria sacra terra. Il capitalismo risponde all’esistenza consolidata dell’Unione Sovietica e cambia sotto quella spinta, non certo nella sua natura ma certo nelle sue forme: esattamente come lo sviluppo capitalistico rispondeva alle lotte operaie. I decenni del welfare vedono un rapporto di forze quasi alla pari tra movimento dei lavoratori e suo antagonista borghese. Il caso italiano non fa questa volta eccezione. Anzi, diventò un caso di studio. Il PCI dava, a livello nazionale, la stessa rappresentazione simbolica che l’Urss dava a livello internazionale: aveva combattuto il fascismo, aveva organizzato la Resistenza, aveva costruito, insieme ad altre componenti politiche popolari, la Repubblica e la Costituzione. Era la forza temuta e stimata dagli avversari. Contava e costringeva, con esso, quotidianamente a fare i conti. Perché, invece, dopo il ciclo di lotte anni Sessanta-Settanta quell’equilibrio nel rapporto di forze si è sbilanciato tutto al contrario, inaugurando una vera e propria età
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di Restaurazione antinovecentesca? Perché, ancora a mio parere, quella forza simbolica reale era enormemente indebolita. L’Urss di Gorbaciov marciava a grandi passi verso il crollo, il PCI del dopo Berlinguer a piccoli passi verso l’estinzione. Un pezzo di storia che non ho letto sui libri, l’ho politicamente e umanamente vissuta. È un lutto che ho dovuto elaborare. Questo fa la differenza di tonalità, rintracciabili nella stessa scrittura, delle ultime fasi di pensiero. Non rinnego affatto tratti di pessimismo antropologico e di tragicismo storico lì presenti. E anche da quel punto di sguardo ho preso coscienza di come lo spontaneismo dei movimenti e delle insubordinazioni mai è stato visto come un pericolo mortale per il sistema di potere, che si è sempre più consolidato. Da allora, tra globalizzazione e finanziarizzazione, il capitalismo ha avuto a che fare solo con le sue contraddizioni di funzionamento interno, che consistono e persistono di per sé, come la crisi dal 2008 in poi ha evidenziato. E altre ne arriveranno. Ma è un problema loro. Il cavallo del capitale, senza il fantino che lo frusta, non corre, bensì trotterella, zoppicando. Non per questo si schianterà. E non sarà il Comune a metterlo in crisi. Ma la crisi di società diventerà di civiltà. Il quasi compiuto tramonto dell’Occidente sta a dimostrarlo. Ecco il motivo, di cui parleremo tra poco, della necessità di un allargamento di campo della visione antagonista. Ma intanto volevo mettere questo punto fermo: con i gruppi, i movimenti, le insubordinazioni, compreso il nostro operaismo, si è fatto il solletico al corpaccione inerte del sistema di potere vigente e presente. Niente di più. Ripeto una verità, credo inconfutabile, che ho già avuto modo di dire più di una volta: i comunisti, quelli reali non quelli immaginari, sono stati gli unici che hanno messo veramente paura ai capitalisti. E continuo a non capire come mai così tanti, troppi, professionisti dell’anticomunismo, si siano ritrovati e si ritrovino tuttora più tra i «rivoluzionari» che tra i «riformisti». Il secondo proposito di fondo dell’operaismo di «classe operaia», ereditato, questo, dai «Quaderni rossi»: più lo sviluppo capitalistico si sviluppa, più la classe operaia si rafforza. Falso! Era, quella, l’ortodossia marxista, economicisticamente determinista, partita politicamente soprattutto dalle pagine del Manifesto, che, dall’elogio delle sorti progressive del capitalismo, ricavava il magnifico avvento di una coscienza di classe parallelamente in ascesa. Un
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vizio storicista, che diventò non a caso patrimonio teorico del revisionismo da Seconda Internazionale e quindi della socialdemocrazia classica. Oggi è diventato patrimonio distopico dei post-moderni, che vedono nella fine del lavoro umano ad opera di macchine intelligenti l’avvento del paradiso in terra. Se si doveva aspettare che la rivoluzione operaia fatalmente avvenisse nei punti più alti dello sviluppo capitalistico, non ci sarebbe stata la forzatura dell’Ottobre bolscevico. Non ci sarebbe stata la «lunga marcia» maoista, che ha portato alla rivoluzione cinese. E ora ci ritroveremmo senza il pezzo di storia di quei dieci giorni che sconvolsero il mondo, geniale uso rivoluzionario dell’autonomia del politico. E non ci sarebbe nel contesto geopolitico di oggi l’inquietante presenza di quella contraddizione planetaria che è la Cina attuale. Ma, in particolare, sulla figura di Lenin, vedo che tra me e Toni c’è un dissenso profondo. Invito a leggere attentamente i testi leniniani dopo la presa del potere. Stato e rivoluzione si rovescia nel suo contrario. Adesso il rivoluzionario di professione è uomo di Stato7. Il basso da sovvertire diventa il nemico, l’alto da governare l’amico. La NEP è il rovesciamento dell’Ottobre, ma per portarlo, con graduale intelligenza degli avvenimenti, al suo effettivo compimento. Étienne, si diceva, ha giustamente sottolineato la necessità di problematizzare quel passaggio difficile, dal punto di vista sia teorico che pratico, che mi ha visto declinare una politica contro la storia. Non tanto una politicizzazione politica della storia, ma, parole sue, «una divaricazione di storia e politica, dove la politica rappresenta l’eccezione in rapporto alla storia, ciò che ne interrompe il corso, non solo strategicamente o congiunturalmente, ma ontologicamente e in modo quasi trascendentale». Questo apre al tema che forse, in questo momento, mi interessa di più discutere. Più dell’autonomia del politico. Non solo perché il tema, per quanto mi riguarda, è in corso di elaborazione, ma perché lo ritengo quello più attuale nella crisi generale, che è quasi crollo, del tradizionale rapporto, critico, novecentesco, di Zivilisation e Kultur. Quanto, negli ultimi decenni, è stato rubricato sotto il titolo di «crisi della politica» è crisi di regolamentazione degli spiriti animali capitalistici. Il Novecento politico, su iniziativa del mo7 Si vedano i testi raccolti in Lenin, Economia della rivoluzione, a cura di V. Giacché, il Saggiatore, Milano 2017.
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vimento operaio – in Occidente con l’organizzazione delle lotte, a Oriente con la presa del potere – aveva imposto regole ai liberi movimenti del capitale. Quello che Balibar chiama l’État national-social keynésien, non allo stesso modo, a mio parere, riformatore e repressivo, era la risposta a quell’iniziativa. Si imponeva il primato della politica, insieme nel socialismo e nel capitalismo. Il ritorno di Ottocento neoliberale che, dagli anni Ottanta del Novecento, chiude in anticipo il secolo, abbatte questo primato. Là dove non esiste la società ed esistono solo gli individui, il rapporto verticale della politica viene sostituito dal rapporto orizzontale del mercato. I governi tornano ad essere comitati d’affari delle classi dominanti. La governance al posto del government. Il post-Novecento ottocentesco si caratterizza per una globalizzazione che non ha più bisogno della colonizzazione. Empire di Negri e Hardt fu un notevole contributo di analisi su questi temi. Lo lessi con molto profitto. Mancava di questo lato del problema. O lo assumeva in tutt’altra forma. Per me, il primato della politica è implicito nell’autonomia del politico. Quando insieme sono caduti, a chi la caduta ha più giovato? Il rapporto di forze in quelle antinomie che Balibar correttamente mi attribuisce – pouvoir contre pouvoir, classe contre classe – è passato da un equilibrio a uno squilibrio. E, quel che è più grave, non di piccole proporzioni. Riformisti e rivoluzionari si dividevano sui mezzi per raggiungere lo stesso fine. Adesso il fine è scomparso e ci si accapiglia sui mezzi non si sa per fare che cosa. E pratica del Governo e immaginazione del Comune le vedo come due esperienze di impotenza sia a migliorare lo stato delle cose che a sovvertirlo. Quando c’era la classe operaia, scrisse Aris Accornero8. Appunto, quando c’era il movimento operaio – classe e organizzazione di popolo intorno alla classe –, e cioè quando era credibile poter abbattere il sistema capitalistico. Certo, «c’era», perché quel soggetto politico è morto, e non si dà nella storia umana miracolo di resurrezione. Ma vive in noi, probabilmente suoi ultimi eredi, come modello di un che fare alternativo. E quanto all’immediato dopo, per quanti sforzi faccia, non vedo ancora neppure il germe di una simile nuova potenza antagonista. 8 Cfr. A. Accornero, Quando c’era la classe operaia. Storie di vita e di lotte al cotonificio Valle Susa, il Mulino, Bologna 2011.
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Nel frattempo, non si tratta di stare con le mani in mano a livello di pensiero. Seguo con curiosità tanti tentativi di riprendere il filo di un discorso interrotto. E non mi spaventano le fughe in avanti. Mi preoccupano le liquidazioni sommarie di tutto ciò che è stato, in nome di ideologie, di segno diverso, tutte affascinate dal nuovo che avanza. Ma c’è un punto che stranamente nei miei interlocutori non viene preso in considerazione, e che invece proprio sul tema «crisi della politica» considero strategicamente essenziale. È quel passaggio che va sotto il titolo di «per la critica della democrazia politica»9. Io insieme all’idea di progresso mi sono liberato dell’idea di democrazia. Ho frequentato abbastanza i demo-progressisti per arrivare a capirlo. Sul tema, ho detto molto meno di quello che penso. Ci sono pensieri che tu sai non possono essere del tuo tempo. E non sai nemmeno se potranno essere di un tempo futuro. Ma ti servono nel tuo percorso di ricerca, che hai bene in mente dove vuole andare ad approdare. Però sulla pratica applicativa del concetto, sulla democrazia realizzata, cioè sulle democrazie contemporanee, ho detto quello che c’era da dire. Si tratta del più perfetto sistema politico, fin qui elaborato e applicato, di stabilizzazione della formazione economico-sociale capitalistica. Le soluzioni totalitarie novecentesche hanno dato una buona mano a giustificare, addirittura a livello etico-politico, la sua indiscutibile necessità. Ma quando, sulla base di quel sistema, l’homo oeconomicus si è incontrato e identificato con l’homo democraticus si è chiusa la porta stretta attraverso cui, per dirla con linguaggio teologico-politico benjaminiano, in qualunque momento poteva passare il messia che annunciava un ritorno della passione rivoluzionaria. Le democrazie contemporanee hanno originato, hanno scatenato, l’epoca delle neutralizzazioni in cui consiste la crisi della politica, cioè il tramonto della politica moderna che sta accompagnando il compimento del tramonto dell’Occidente. Il pericolo attuale non è il populismo. Lì c’è la radice «popolo», che non possiamo con leggerezza abbandonare a sé stesso. Il popolo va ben governato, non bisogna lasciare che si malgoverni da sé. Il pericolo è l’antipolitica, come umore reazionario di massa, che le sinistre di oggi, sia moderate sia radicali, non sono state in grado di contrastare, 9 Cfr. M. Tronti, Per la critica della democrazia politica, in M. Tarì (a cura di), Guerra e democrazia, manifestolibri, Roma 2005, pp. 15-24.
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perché l’avevano subalternamente introiettata. Queste democrazie solamente e puramente elettorali, «democrazie recitative» secondo la definizione di Emilio Gentile, vittime sacrificali del consenso, al servizio della dittatura della comunicazione, hanno offerto, istituzionalmente e ideologicamente, il campo di unificazione tra populismo e antipolitica10. Così, non solo si è chiusa la porta per passare al di là, ma l’al di qua del capitalismo-mondo contemporaneo è rimasto con le mani libere di perseguire i propri interessi di sempre, mai da sempre così rapaci e allo stesso tempo mai così al sicuro. Nel contesto di questa contingenza lunga, direi che non si vedono i segni di una transizione, si notano piuttosto le caratteristiche di una stagnazione: una storia capace ormai solo di ripetere sé stessa. Le trasformazioni, soprattutto tecnologiche, danno l’illusione del grande cambiamento in una condizione dove invece «le stesse cose ritornano». E allora, la contraddizione sociale non fa intravedere una possibile crisi di società, si esprime in una reale, e tuttavia ancora generica, ripeto, crisi di civiltà. Sono tendenze di fondo che vengono da lontano, dentro le avventure mai concluse della modernità. Di disagio della civiltà si parla da un secolo, da un secolo si discorre di tramonto dell’Occidente. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento Ernesto De Martino, nel suo opus magnum postumo La fine del mondo, parlava di «apocalisse senza eschaton»11. Definizione attualissima. Pessimismo, disincanto, malinconia, aggiungerei noia: Balibar mostra di prendere molto sul serio queste tonalità degli ultimi miei discorsi, perché correttamente le vede come modalità e conseguenze dei processi di neutralizzazione del politico, e non ho nessuna difficoltà a riconoscerle, con Foucault, anche come una proliferazione di conflitti e di violenze, azioni però prive della capacità, e forse della possibilità di assemblare una forza antagonistica capace di ispirare grandi mobilitazioni e grandi passioni collettive: parole di Étienne. E ha torto Negri a vedervi solo una fuga metafisica verso misticismo, ascetismo e quant’altro. È che va riconsiderato lo scacco della ragione moderna di fronte ai processi secolarizzati di alienazione della condizione umana indotti da una mentalità bor10 Cfr. E. Gentile, Il capo e la folla. La genesi della democrazia recitativa, Laterza, Roma-Bari 2017. 11 E. De Martino, La fine del mondo, Einaudi, Torino 2019. L’edizione francese del 2016 ha preceduto quella italiana del 2019.
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ghese di tale andamento totalizzante da arrivare ad invadere l’anima della persona. Nella tradizione teorica del movimento operaio, non c’è solo un buco antropologico, c’è un vuoto che a ragione si può chiamare, appunto, teologico in senso politico. Un esempio illuminante. Scriveva De Martino: La storiografia religiosa marxista è innegabilmente infantile. Di tale infantilismo noi dobbiamo innanzitutto spiegarci le ragioni storiche, poiché la comprensione di tali ragioni costituisce anche il mezzo migliore per aiutare l’infante a diventare adolescente e infine – superata la crisi di pubertà – a farsi adulto12.
Ecco una bella pista di indagine sul campo della nostra storia, da consegnare a giovani menti antagoniste, sgombre di antichi pregiudizi. Si tratta di aprire qui, come su altri temi, dunque, vie di ricerca consapevolmente mirate ad invadere territorio nemico a caccia di armi intellettuali che fino ad oggi ci sono mancate. Nel mio caso, il corpo a corpo con il pensiero grande conservatore, realista, antiideologico, perfino controrivoluzionario, aveva questo senso. Tale passaggio, per me uno dei più produttivi, è stato quello meno compreso. Ne ho ricavato poi una prospettiva di pensiero che accennava già oltre l’autonomia del politico, prendendo atto che la politica, nel senso moderno della parola, non basta più a sé stessa. E questo è un problema che riguarda chi vuole efficacemente praticare il suo essere, in modo nuovo, quello che una volta si nominava come rivoluzionario di professione. Chi vuole semplicemente riprodurre e conservare l’esistente non ha bisogno di «cercare ancora». Ha tutto quello che gli serve, qui e ora, comprese le care pigre ortodossie del suo avversario. L’agire e il pensare politico antagonisti hanno fatto magari anche bene ad aprirsi alla biopolitica, ma forse hanno soprattutto bisogno oggi di sporcarsi le mani e le idee con campi di discipline molto più estranee alla propria tradizione dottrinaria: antropologia, psicologia, geopolitica. C’è una condizione umana oggi imprigionata nell’idea borghese di individuo che occorre liberare recuperando un’idea comunitaria di persona. C’è una massificazione delle opinioni e dei comportamenti, indotta dalla dittatura della comunicazione, che ha 12
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bisogno, per essere compresa e contrastata, di strumenti che la psicologia delle folle aveva già elaborato. C’è una storia-mondo che sposta il suo asse strategico dall’Atlantico al Pacifico, con nazioni-continente che ripropongono in termini del tutto inediti l’idea di spazio vitale per immense concentrazioni di popoli. E c’è, non da ultimo, nel cuore di un mondo così sicuro di sé, razionalmente fornito delle soluzioni per ogni problema, tecnologicamente proteso verso avveniristici approdi post-umani, c’è magari l’inquietante, anzi perturbante, affacciarsi di un evento imponderabile, non previsto, non prevedibile, che riporta a schiantarsi sulla terra tutti i celesti voli interplanetari del progresso. La politica deve ancora imparare a fare i conti con la non-ragione, che non è una generica irrazionalità della storia ma l’intervento dell’imprevisto in quanto imprevedibile, cioè dello scarto improvviso, dell’eccezione nella norma della vita quotidiana. Qui va messo a frutto, con tutto il peso dell’intelligenza, e anche con la virtù della prudenza, quel destino nichilistico della politica moderna che, con il riconoscimento della «immane potenza del negativo», risale a Hegel prima ancora che a Nietzsche. Potente negatività, che è «l’energia del pensare». E negatività, nelle forme di vita di oggi, è libertà. La lettura di Kojève della Fenomenologia dello spirito, come protagonisti il lavoro e la lotta, direttamente ci riguarda13. Allora, tutta l’attenzione quindi alla biopolitica. Ma mi pare, francamente, uno sguardo corto sul presente, complementare semmai, ma non certo esclusivo. E c’è quest’altra vexata quaestio della teologia politica. La ritengo innanzitutto uno strumento ermeneutico indispensabile per capire, per decifrare, la storia del Novecento. E se non si capisce, se non si decifra, la storia degli eventi novecenteschi, non si capisce, e qui non c’è proprio niente da decifrare, la cronaca degli avvenimenti post-novecenteschi. Quello è stato un secolo veramente teologico-politico. Come lo fu il Seicento. Non a caso si sono ritrovati, in un arco lungo di storia, Hobbes e Schmitt, Cromwell e Lenin. I tempi delle guerre civili sono sempre tempi teologico-politici. Lì, il criterio del politico si esprime al grado massimo della sua intensità. L’amico/nemico è proprio dell’agire politico di sempre, ma non sempre allo stesso livello di espressione. È diverso al tempo della pace dei cento anni e nell’epoca 13 Cfr. A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, tr. it. di G. F. Frigo, Adelphi, Milano 1996.
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delle guerre civili europee e mondiali. È diverso quando i due concetti vengono presi come metafore o come simboli oppure quando arrivano a far proprio un significato, concreto, esistenziale. Proviamo a misurare la vicenda della lotta di classe a livello Ottocento con quella a livello Novecento. Vediamo il salto di differenza nell’intensità, che è data dalla concretezza dell’esistenza di un insieme di uomini «che combattono». La militanza di partito sopravanza l’appartenenza allo Stato. Nella figura del partigiano, l’ostilità assoluta si esprime nella sua irregolarità extragiuridica. Che sullo stato d’eccezione chi decide è il sovrano vuol dire che decide chi, nel dato momento, ha la forza necessaria per la decisione. Lo Stato può perdere il monopolio della forza quando, ad esempio, una classe politicamente organizzata è capace di strappargli quel monopolio. È accaduto. L’atto rivoluzionario è questo. È il passaggio della decisione sovrana in altre mani, quelle di un nuovo e diverso soggetto della lotta politica, in quel momento anche senza contenuto statale. Io ho letto così, e così l’ho utilizzato, il passaggio dalla «politica» al «politico». L’autonomia del politico aveva anche questo senso. È stato, per me, il primo caso, e non rimarrà il solo, di consapevole attraversamento di un territorio nemico, per conoscerlo, e per utilizzarlo. Negri, con la sua intelligenza polemologica, colse bene precocemente, in una riflessione sulla forma Stato, il rapporto di continuità che si stabilisce qui tra autonomia del politico e teologia politica. Ma, ecco, solo a partire da questa considerazione, non si vede il resto. E il resto è l’allargamento di orizzonte e l’approfondimento del tema, che il passaggio comporta. Diceva Musil: «A vedere la Weltgeschichte troppo da vicino non si vede niente»14. Se l’autonomia del politico ha molto a che fare con la contingenza, la teologia politica ha molto a che fare con la storia. Ciò che permane e che ritorna deve inquietarci, e perturbarci, tanto quanto ciò che cambia e si trasforma. Scriveva Alberto Methol Ferré, filosofo uruguayano, lettore attento e acuto del nostro Augusto Del Noce, in un libro su L’America Latina del XXI secolo15: la teologia politica rappresenta 14 «Così risulta la storia mondiale da vicino: non si vede alcunché» (R. Musil, L’Europa smarrita. Tre saggi sull’illusorietà della razza e della nazione, tr. it. di A. Ottaviani, Meltemi, Milano 2019, p. X). 15 Cfr. A. Methol Ferré e A. Metalli, L’America Latina del XXI secolo, Marietti, Genova 2006.
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la «dimensione base dell’uomo» e non confrontarsi mai, seriamente, corporeamente, con questa base e, di conseguenza, anche con la paura, la fragilità e il bisogno di sicurezza della maggioranza degli uomini, significa condannarsi a non capire la storia; e il marxismo, soprattutto il marxismo italiano post-anni Sessanta del Novecento, non solo non ha mai pienamente compreso e riconosciuto questa base in quanto, per esso, il mondo è totalmente indeterminato, desostanzializzato, senza più nessuna base, ma questa base ha anche cercato, in tutti i modi, di estirparla, gettando gli uomini in una situazione insostenibile, in una collettiva disperata solitudine. E non si tratta dell’uomo in generale, ma di quella specifica maggioranza di esseri umani composta dalle persone che non hanno presenza attiva in questa forma di mondo e di vita e non possono averla fino a quando non hanno raggiunto un cosciente livello di organizzazione per le lotte. Ma portarle a quel livello a nessun intervento politico sarà mai concesso se non riesce, o addirittura rifiuta, di radicarsi in quella «cultura» più profonda di bisogni socialmente materiali quotidianamente vissuti. Non è stato mai possibile, non sarà mai possibile, un rivolgimento radicale senza che una élite trascini un popolo. Per imporre un contro-potere è necessaria una contro-classe dirigente, in grado di motivare oggi un popolo dopo la classe, che non è la stessa cosa di un popolo prima della classe. Se moltitudine volesse dire questo, non avrei obiezioni. E poi mi chiedo: si può falsificare la sentenza di Schmitt secondo cui «tutti i concetti più pregnanti della moderna teoria dello Stato sono concetti teologici secolarizzati»? Non credo proprio. La teologia politica è questo. Sui processi di secolarizzazione c’è stato un dibattito d’idee, novecentesco, di altissimo livello. Attraversarlo è d’obbligo per chi vuole oggi pensare l’agire politico. A me interessa da questo punto di vista: in quei processi secolarizzanti, la mentalità borghese si è diffusa, interiorizzata, massificata, naturalizzata. Sì, anche di mentalità bisogna cominciare a parlare, come ci hanno insegnato significative scuole di ricerca storica; e di raggiunta naturalità borghese della pasta uomo, spontaneamente acquisita nella frequentazione quotidiana della società di mercato, documentata da tanti studi antropologici. Le forme di vita si sono adeguate. Il qui e ora ne risulta come l’unica prospettiva. Non compare nessun al di là nell’al di qua di questa formazione economico-sociale capi-
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talistica. Il procedere delle cose è uno e uno soltanto. E nessun altro è ammesso. Non si è riflettuto abbastanza sul fatto che, quando è caduto il muro di Berlino, si è aperto un passaggio orizzontale da un luogo all’altro e nello stesso tempo si è chiuso il passaggio verticale da un tempo a un altro. Fallita un’esperienza di fuoriuscita dallo stato presente, non se ne dà più nessun’altra. Ha scritto di recente la filosofa Donatella Di Cesare, in un contributo all’Almanacco di filosofia e politica della Scuola Normale di Pisa dedicato a Crisi dell’immanenza: a un’attenta diagnosi, il regime ontologico del globo risulta essere oggi quello di una immanenza satura, «una immanenza statica e compatta», senza «né cesure, né vuoti, né linee di fuga, né vie d’uscita», e dunque senza fuori, senza una qualche, se pure residua, esternità16. La critica di tutto ciò che è rischia allora di non essere più credibile senza quel «sogno di una cosa» che si era materializzato nella lotta per ciò che poteva essere, in quanto però era già stato. La dittatura democratica del presente è l’attuale gabbia d’acciaio da squarciare in un punto per uscirne, liberi. Il rimanere fedeli a questo quasi impossibile compito, non comporta di iscriversi all’anagrafe mortuaria dei vinti, semmai piuttosto di richiamarsi alla nobile stirpe dei redenti. E, dunque, non so: Linksmelancholie? Non mi dispiace nemmeno questa tonalità passionale se è, come è per me, spassionata presa d’atto del dato di realtà. Qui non si arriva: da qui si parte. Ben venga l’esodo. E, nel frattempo, l’esilio. Con l’aggiunta dell’eterna disputatio immanenza/trascendenza. E la decisione, divisiva, tra kathechon e eschaton. Tutti concetti teologici secolarizzati… L’oltre è il problema. Lo scientismo marxiano, il famoso dellavolpismo, ai primordi dell’esperienza operaista, ci servì per liberarci della dominante tradizione dello storicismo, idealistico e poi materialistico, italiano. Raggiunta l’acquisizione fondamentale, il punto di vista di parte operaia, non c’era più luogo per quell’orizzonte neoempirista. Quello era già il rovesciamento di questo. Dicemmo, sbagliando, «scienza operaia». La verità della parzialità non si dimostra in laboratorio. Si realizza nelle lotte. Non è sociologia, è politica. Fu questo, del resto, il salto da «Quaderni rossi» a «classe 16 Cfr. D. Di Cesare, Il regime dell’immanenza satura e l’espulsione dell’altro, in «Almanacco di Filosofia e Politica 1», Crisi dell’immanenza. Potere, conflitto e istituzioni, a cura di M. Di Pierro e F. Marchesi, Quodlibet, Macerata 2019, p. 42.
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operaia». Discussioni, oggi, prima del diluvio. Ma, voglio dire, di lì cominciò la lunga marcia all’insegna del demone della politica. Non ho difficoltà a riconoscere, diversamente declinata nelle fasi del lungo percorso, un’oscillazione tra realismo politico e romanticismo politico. In mezzo, continui tentativi, non di impossibile composizione teorica ma di contemporanea effettuazione pratica. Nella lingua del pensiero poetante leopardiano, la compresenza contrapposta – oggi va di moda il «divergente accordo» – delle «illusioni vitali» e del «funesto vero». Registro che il tipo di lavoro intellettuale, difficile, complicato, che la cosa comporta, mi dà risultati almeno di comprensione, a livello di storia come a livello di contingenza. Sorrido quando, anche da parte avversa, mi si dà atto di un’analisi «lucida». Questo è un tempo ideologicamente opaco, la storia è un fondale vuoto senza futuro, e allora la contingenza, invece che stato d’eccezione, diventa cronaca del giorno per giorno. In queste condizioni, il pensiero politico ha l’obbligo etico di vedere lucidamente ciò che è affinché l’agire sovversivo non coltivi «l’oltre» in astratto, ma ne cerchi nel qui e ora la sua effettiva praticabilità. Non c’è dunque solo l’oltre come problema, c’è «il problema dell’oltre, oggi», del come portarlo politicamente ad effettualità. Sono ultimamente tornato a parlare di utopia, sia pure nella forma blochiana di «utopia concreta», dopo aver a lungo antagonisticamente preferito la dimensione della profezia. Quanto più la realtà si chiude, tanto più il pensiero ha bisogno di aprirsi. Credo che sia così: che la storia del movimento operaio, finale riassunto, elevato a potenza, delle eterne lotte delle classi subalterne, mi autorizzi a tenere rigorosamente insieme realismo e messianismo. Empiricamente, e dunque sostanzialmente, è probabile che sbagli: ma non me ne importa niente. Non mi preoccupa l’errore: quello che mi preoccupo di tenere lontano è lo spettro della resa. Questa è impossibile da pensare e da dire. La resa non più solo a ciò che è, ma anche a ciò che diviene, e dunque avviene. Oggi l’avvenire è tutto nelle mani del presente. Il divenire è tutto nell’essere. Heidegger non c’entra niente. C’entra semmai Romano Guardini, che, in dialogo polemico con lui, escludeva quel ruotare su sé stessa della finitezza esistenziale, indicando la ricerca del senso come direzione verso un al di là, che comporta sempre un salto. Si tratta allora, con tutti i mezzi possibili, di strappare il filo della continuità storica attuale.
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Non è da escludere un oggettivo, materiale, punto di interruzione, per eccesso di progresso, per sicurezza di sviluppo, per volontà di potenza della ragione, anche nel senso di quell’accadere imprevisto di cui si diceva. Ma penso a eventi storici, non a catastrofi naturali. A questi, bisogna sempre tenersi pronti. Nel frattempo – viviamo nel frattempo –, l’appartenenza alla tradizione rivoluzionaria ti assicura che il realismo non diventi opportunismo, e la frequentazione della tradizione conservatrice ti assicura che il sovversivismo non diventi velleitarismo. La passione non basta: sì, ci vuole anche il disincanto. Un quotidiano disincantamento pronto a ogni evenemenziale occasione di reincantamento. E così, sino alla fine, quando le Parche si decideranno a tagliare quello nostro, di filo.
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Materiali IT
Francesco Marchesi, Riscontro. Pratica politica e congiuntura storica in Niccolò Machiavelli Enrica Lisciani-Petrini e Giusi Strummiello (a cura di), Effetto Italian Thought Elettra Stimilli (a cura di), Decostruzione o biopolitica? Dario Gentili, Crisi come arte di governo Elettra Stimilli (a cura di), Teologie e politica. Genealogie e attualità Marco Assennato, Progetto e metropoli. Saggio su operaismo e architettura Antonio Montefusco (a cura di), Italia senza nazione. Lingue, culture, conflitti tra Medioevo ed età contemporanea Carla Benedetti, Manuele Gragnolati e Davide Luglio (a cura di), Petrolio 25 anni dopo. (Bio)politica, eros e verità nell’ultimo romanzo di Pier Paolo Pasolini Giacomo-Maria Salerno, Per una critica dell’economia turistica. Venezia tra museificazione e mercificazione Corrado Claverini, La tradizione filosofica italiana. Quattro paradigmi interpretativi Andrea Cerutti e Giulia Dettori (a cura di), La rivoluzione in esilio. Scritti su Mario Tronti Étienne Balibar, Antonio Negri, Mario Tronti, Anatomia del politico, a cura di Jamila M. H. Mascat Matteo Trentini, Per una storia negativa. «Contropiano» e l’architettura
Finito di stampare nel mese di aprile 2022 a cura di nw srl presso lo stabilimento di Legodigit srl - Lavis (tn)