160 106 45MB
Italian Pages 742 [748] Year 1992
ZANICHELLI
Nelle edizioni Zanichelli Opere generali, Manuali Barnes, Calow, Olive
Prescott
Invertebrati.
Una nuova sintesi Darwin
L’origine della specie (CSS 5)
Davies
Lineamenti di entomologia
Eckert, Randall Fisiologia animale Griffin Struttura e funzioni degli animali (BM 7) Hildebrand Anatomia comparata dei vertebrati
Mitchell, Mutchmor, Dolphin Nicolai.
Zoologia
Fotoatlante degli uccelli d’Europa L’evoluzione (BM 1)
Savage Simpson
I fossili e la storia della vita
(NCS 1) Storer, Usinger, Stebbins, Nybakken Zoologia PE x Weisz Zoologia (2 volumi)». a; Wilson, Eisner, Briggs, Dickerson, Metzenberg, È O'Brien, Susman, Boggs La vita sulla terra
La cellula
Watson, Hopkins, Roberts, Steitz,
Weiner. Biologia molecolare del gene 2 volumi (4° edizione) Weiss, Greep Istologia Wilson, Hunt Il libro dei problemi per Biologia molecolare della cellula di B. Alberts et. al. Wolfe Biologia cellulare
Ecologia Alcock
Etologia. Un approccio evolutivo
Begon, Harper, Townsend Burnett, Eisner
Ecologia
L’adattamento
negli
animali (BM 6) Caruso
Educazione ambientale
.Goldsmith, Hildyard, Bunyard, McCully 5 000 giorni per salvare il pianeta. Un atlante dell’ecologia Lovelock Gaia: manuale di medicina planetaria
.
Matthey, Della Santa, Wannemnacher
Biologia Curtis.
Biologia (2° edizione) Futuyma Biologia evoluzionistica Hardin, Bajema Biologia. Principi e implicazioni i
Guida pratica all'ecologia Atlante di Gaia. Un pianeta da salvare a cura di Myers Odum Ecologia (BM 3) Ricklefs Ecologia Ricklefs Economia della natura (CB 1)
Krommenhoek, Sebus, van Esch Biologia in immagini. Atlante di microscopia
Ridley Introduzione al comportamento animale (Le Ellissi)
elettronica, anatomia vegetale, istologia, embriologia, radiografia
Scossiroli, Palenzona
Ageno
Lezioni di biofisica
McMahon, Bonner
Dimensioni e vita
Elementi di ecologia
(NCS 12)
Guide
Luria, Gould, Singer Una visione della vita. Introduzione alia biologia
Bezzel
Il Birdwatching
Bezzel
Uccelli Passeriformi
Wilson
Sociobiologia. La nuova sintesi
Biologia della cellula, Istologia Alberts, Bray, Lewis, Raff, Roberts, Watson Biologia molecolare della cellula (2° edizione) Avers
Biologia molecolare della cellula
De Robertis, De Robertis cellula e molecolare (5° edizione)
10/92-T49
Biologia della
Bezzel Uccelli 2. Rapaci diurni, Galliformi, Columbiformi, Rapaci notturni, Picchi e altri Bezzel Uccelli 3. Pelagici, Anatre, Aironi, Limicoli, Gabbiani e altri
Chiavetta
Lang
Guida ai rapaci notturni Tracce d’animali
Gensbol Guida ai rapaci diurni d’Europa, Nord Africa e Medio Oriente Porter, Willis, Chiristensen, Nielsen
Guida all’identificazione dei rapaci europei in volo
MILTON HILDEBRAND
ANATOMIA COMPARATA DEI VERTEBRATI prima edizione italiana condotta sulla terza edizione americana È
ta
» SeLIC CAMPIONE
VOLUME Sh lo COMMERCIO Esclu sog anO:
oliig
della
Bolla
. Art. "A n. 6 DP.A o dll kar Ecgn
I. HILDEBRAND ANATOMIA COMPARATA DEI VERTEBRATI - EDIZ, I ZANICHELLI 0606831
ZANICHELLI
G RATUITO di Accom»
627) 1978 627/
Titolo originale: Analysis of Vertebrate Structure, Third edition Copyright © 1988 John Wiley & Sons, Inc. First edition: 1974 Second edition: 1982
Traduzione: Dario Sonetti Revisione: Bernardo Fratello
Copyright © 1992 Zanichelli Editore S.p.A., Bologna
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
L’editore potrà concedere a pagamento l'autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore a un decimo del presente volume. Le richieste di riproduzione vanno inoltrate all'Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere a Stampa (AIDROS), via delle Erbe 2, 20121
Milano,
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L’editore considera legittima, per quanto di sua spettanza, la fotocopia di volumi fuori catalogo, cioè non più compresi nei propri cataloghi, con l'eccezione di edizioni precedenti di volumi di cui è in catalogo una nuova edizione. Del pari non è considerata legittima la fotocopia di volumi non più nel catalogo Zanichelli ma pubblicati al momento da altro editore. Realizzazione
editoriale: Art di Manieri M. & C. s.a.s.
Copertina: Duilio Leonardi Prima edizione:
settembre
Ristampe 5 E
2
3
Realizzare un libro sto, sulle immagini che è praticamente Siamo quindi grati Per segnalazioni o Zanichelli Editore Via Irnerio 34 40126 Bologna tel. 051/293111
1992
1
19967
“19957
1994-1993
41992
è un’operazione complessa, che richiede numerosi controlli: sul tee sulle relazioni che si stabiliscono tra essi. L'esperienza suggerisce impossibile pubblicare un libro privo di errori. ai lettori che vorranno segnalarceli. suggerimenti relativi a questo libro l’indirizzo a cui rivolgersi è: S.p.A.
- fax 051/249782
Stampato a Bologna dalla Tipolito Babina Via Aldo Moro 18, S. Lazzaro di Savena - Bologna per conto della Zanichelli Editore S.p.A. - Bologna
INDICE
Prefazione
Capitolo 1 La morfologia dei Vertebrati Definizioni, scopi e relazioni con altre discipline Perché studiare la morfologia dei Vertebrati? Orientamenti nello studio e nell’insegnamento della morfologia dei Vertebrati
PARTE I GENERALITÀ DEI VERTEBRATI: principali modelli strutturali Capitolo 2 Natura, origine e classificazione dei vertebrati Relazioni tra animali Vertebrati e animali non Cordati Relazioni tra i Vertebrati e gli altri Cordati L’origine dei Vertebrati Le classificazioni e la loro interpretazione Una classificazione dei Vertebrati
Capitolo 3 I Pesci Classe Agnatha Vertebrati con mascelle Classe Placodermi
(Gnathostomata)
Classe Chondrichthyes Classe Acanthodii
Classe Osteichthyes Capitolo 4 I Tetrapodi Il passaggio alla vita terrestre Classe Amphibia Classe Reptilia Classe Aves Classe Mammalia PARTE
II FILOGENESI
E ONTOGENESI
DELLE
STRUTTURE:
l'evoluzione nell’arco dei tempi e per i grandi gruppi dei Vertebrati
Capitolo 5 Le fasi iniziali dello sviluppo Embriologia e morfologia Gameti e fecondazione
IV
Indice © 88-08-11832-0
81 81 87 87 88
Segmentazione Gastrulazione e formazione del mesoderma Neurulazione e creste neurali La realizzazione progettuale del corpo Membrane fetali e placentazione
91
Capitolo
6 Tegumento e suoi derivati
91 92. 94 94 100 ek2
Le funzioni dell’apparato Sviluppo e struttura generica della pelle Generalità nello sviluppo dei derivati dalla pelle Il tegumento dei Pesci: importanza dei derivati dermici Il tegumento dei Tetrapodi: importanza dei derivati epidermici Filogenesi?
113 113 lO) 116 117
Capitolo 7 Denti Origine e struttura Sviluppo Attacco e rimpiazzo
123 128 124 126 127. 133 134 162
Capitolo 8 Lo scheletro della testa Importanza dello scheletro per la morfologia Ulteriori informazioni sui tessuti duri Origine, funzioni e struttura segmentata della testa Componenti scheletrici della testa Relazioni tra le componenti craniche Evoluzione dello scheletro della testa Caratteristiche craniali
155 155 159 167 168 169 170 dei 177 186
Capitolo 9 Lo scheletro acefalo Struttura e sviluppo delle vertebre Evoluzione della colonna vertebrale Costole Sterno Origine delle appendici Pinne mediane Struttura ed evoluzione delle cinture Struttura ed evoluzione delle appendici pari Altre ossa
Evoluzione del dente
189
Capitolo 10
189
Funzione
Muscoli e organi elettrici
e forma dei muscoli
192
Struttura microscopica, contrazione e fisiologia
196
Forza, accorciamento,
198
Categorie di muscoli
201
Evoluzione
215
Organi elettrici
lavoro e torsione
dei muscoli
Indice
V
© 88-08-11832-0
217 217 218 223 223 224 226
Capitolo 11 Celoma e mesenteri Natura e funzione Sviluppo, evoluzione e ricapitolazione Capitolo Funzioni . Sviluppo Struttura,
12 L’apparato digerente principali e organizzazione strutturale del tubo digerente adattamento ed evoluzione
243 243 244 252 293 263
Irrorazione delle branchie interne Scambiatori di gas nell’aria Ventilazione dei polmoni
267 267 269 276 279 293 299 301
Capitolo 14 Il sistema circolatorio Caratteristiche generali del sistema Il cuore Sangue e tessuti produttori di sangue Vasi sanguigni Considerazioni funzionali Evoluzione del sistema linfatico Il sistema circolatorio e la termoregolazione
305 305 307 312
316
Capitolo 15 Apparato escretore e osmoregolatore Caratteristiche generali e sviluppo dei reni Evoluzione del rene Struttura del rene e osmoregolazione Vesciche urinarie
319 319 321 327 339 339 336
Capitolo 16 Apparato genitale e vie urogenitali Sviluppo e filetica delle gonadi Struttura delle gonadi Dotti urogenitali e accessori La cloaca e i suoi derivati Organi copulatori Strategie riproduttive
339
Capitolo 17 Il sistema nervoso: generalità, midollo spinale e nervi periferici Nozioni elementari sul sistema nervoso Sviluppo del midollo spinale e dei nervi periferici Il midollo spinale Evoluzione dei nervi spinali
340 344 346 350
Capitolo 13 Apparato respiratorio e vescica natatoria Funzioni principali e organizzazione strutturale Scambiatori di gas nell’acqua
351
Nervi cranici
357
Il sistema autonomo
VI
Indice © 88-08-11832-0
361 361 363 365 366 Sg 5768) 379 383 389
Capitolo 18 Sistema nervoso: il cervello Come studiare il cervello Sviluppo del cervello Altre informazioni sull’organizzazione del cervello Tronco encefalico posteriore: dal midollo allungato al mesencefalo Tronco encefalico anteriore: diencefalo Cervelletto e ponte Emisferi cerebrali Evoluzione del cervello Sostegno e nutrimento del sistema nervoso centrale
391 992 394 397 909 406
Capitolo 19 Organi di senso Recettori semplici Organi dell’olfatto e del tatto Sistema della linea laterale; elettroricezione L’orecchio Gli occhi
417 417 418 426
Capitolo 20 Ghiandole endocrine Caratteri generali delle ghiandole endocrine Struttura, funzione ed evoluzione delle ghiandole Neurosecrezioni
427
PARTE
HI
evoluzione
ADATTAMENTO
in relazione
STRUTTURALE:
all’habitat
429 429 430 434 437 445
Capitolo 21 Le componenti strutturali del corpo Gli animali visti come specialisti Caratteristiche dei materiali di sostegno Sforzi e linee di sforzo Utilizzo e progetto di elementi strutturali Unioni di elementi strutturali
455 455 461 466 471 476
Capitolo 22 Meccanica della postura e del movimento Grandezza e direzione delle forze I sistemi muscolo-osso in quanto macchine Meccanica del supporto del corpo Meccanica del movimento Disegni in scala
479
Capitolo 23 terrestre
479 481 482 484
Crescita proporzionata e rapporto superficie/volume
Forma, capacità funzionali, dimensioni
Crescita non proporzionata Allometria
Vertebrati giganti
di un vertebrato
Indice
VII
© 88-08-11832-0
487 487 489 491 491 496 501 505 508 510
Capitolo 24 Correre e saltare Vantaggi della velocità e della resistenza nella corsa Corridori, saltatori e loro capacità Caratteristiche generali dei corridori Lunghezza del passo Frequenza del passo Massa corporea, resistenza alla fatica e condizioni progettuali per economizzare gli sforzi Stabilità e manovrabilità Andatura Salti e corse bipedi Capitolo 25 Scavare e strisciare Vantaggi del saper scavare Vertebrati fossorii Caratteristiche comuni agli scavatori Modalità diverse di scavo Tenere la polvere lontana da bocca, polmoni e organi di senso
515 516 516 520 520 522 523 523 525 5199 533 534
Strumenti di scavo Base programmatica di un grande sforzo rivolto all’esterno Contromisure alle azioni del suolo sul corpo Rimozione e accumulo del terreno smosso Muoversi strisciando (senza zampe)
539 539 540 544 548 554
Capitolo 26 Arrampicarsi Vantaggi dell’arrampicarsi Vertebrati scansori Esigenze basilari degli arrampicatori Adattamenti per la propulsione Adattamenti per mantenere il contatto con il substrato
Manovrare
Capitolo 27
sottoterra
Nuotare e immergersi
561 561 562 562 566 567 DIA 582 583 586
Adattamenti particolari dei nuotatori secondari
591 DOZ 593 596
Capitolo 28 Volare e planare Origini del volo e suoi vantaggi Vertebrati paracadutisti e planatori Volatori e loro abilità
Nuoto, tuffi e immersioni
Vantaggi del nuotare e dell’immergersi Qualità speciali di nuotatori e tuffatori Requisiti generali di nuotatori e tuffatori Resistenza al movimento nell’acqua Forma, funzione e modalità di propulsione Controllo della posizione verticale Stabilità, frenata e manovrabilità
VII
Indice © 88-08-11832-0
599 099 602 604 612 615 618
Esigenze generiche dei volatori
623 623 625 628 629 629
Capitolo 29
631 632 637 638 641 644 646 648 650 656
Capitolo 30 L’alimentazione L’alimentazione in acqua Cinesi cranica Alimentarsi servendosi di un proiettile Altri mezzi per procacciarsi il cibo Manipolazione e trangugiamento del cibo Adattamenti per mangiare cibi molli o cibi duri Adattamenti per mangiare alimenti turgidi, friabili e di vario tipo Adattamenti per mangiare alimenti coriacei e fibrosi Altri adattamenti alimentari
661
CONCLUSIONE
663
Capitolo
Prima di tutto riuscire a sollevarsi in volo Resistenza aerodinamica
Propulsione Controllo del volo Struttura Altri adattamenti strutturali
Energetica e locomozione
Condizioni basilari Locomozione Nuoto Volo
Aumenti
terrestre
dei costi di traslazione
31
La morfologia
dei vertebrati:
le sue
sua unitarietà e le sue prospettive di sviluppo 667
Bibliografia
689
Indice analitico
diversificazioni,
la
PREFAZIONE .
Una prima caratteristica di questo libro è l'ampiezza della trattazione. Come sempre, dovendo la conoscenza dei fatti precedere la loro interpretazione, include la descrizione degli elementi strutturali. Vi è compresa, come ormai è usuale, anche l’interpretazione della struttura in termini di filogenesi, perché l'evoluzione degli organismi viventi è la più grande storia che la biologia possa narrare e non c’è di meglio delle linee filetiche dei vertebrati per illustrare tale storia con continuità e forza di persuasione. Però questo libro tratta anche dell’interpretazione degli elementi strutturali in termini di funzioni che assolvono, di sviluppo cui vanno incontro e di vari altri fattori. Una seconda caratteristica di questo libro sta nell’enfasi con cui tratta i diversi argomenti. Alla filogenesi viene attribuita grande importanza, ma ciononostante risulta meno predominante che in altri libri di testo. Più del consueto viene posto l’accento sull’interpretazione in termini funzionali delle strutture. Ciò costituisce al momento l’obiettivo di molte ricerche e questo ci dà l'opportunità di aggiungere le nuove acquisizioni alle ormai classiche conoscenze; attira l’attenzione sulla varietà e sulla perfezione strutturale dei vertebrati, mentre al contempo si presta a un trattamento analitico al quale, per mia esperienza, gli studenti rispondono con interesse. Una moderata attenzione viene posta alle evidenti e avvincenti relazioni tra sviluppo e struttura dell’adulto. I biologi dello sviluppo pongono ora meno attenzione agli aspetti generali dello
X
Prefazione © 88-08-11832-0
sviluppo di quanto non facessero molte generazioni fa, ma questo non ha impedito che venisse compiuto un eccellente lavoro sulla crescita relativa e sulla morfogenesi evolutiva; interpretazioni delle strutture basate su dimensioni corporee, età, sesso e variazioni individuali concludono spesso i loro scritti. Una terza caratteristica di questo libro è il suo stile e il modo di presentare i diversi argomenti: ne risulta un testo uniforme, integrato e di più facile comprensione. Tutte le illustrazioni sono citate nel testo con il numero del capitolo seguito dal numero progressivo e le figure sono direttamente annotate (non con richiami a complesse didascalie). Mi auguro che questa presentazione sia chiara e risponda allo scopo, non che sia solo un fatto tecnico. Nel libro viene presentata una discreta quantità di materiale di studio: però la descrizione fine a se stessa è ridotta al minimo — specialmente nella Parte III — e i dettagli che non hanno a che vedere con l’interpretazione sono stati omessi. «Di solito» e «talvolta» vengono utilizzati spesso per una maggior precisione, ma specifiche eccezioni alla più comune struttura sono «di solito» omesse. È stato utilizzato un vocabolario abbastanza completo dei termini basilari per la morfologia, evitando l’introduzione di una inconsueta terminologia o quella di stretta derivazione dal greco o dal latino se può essere altrettanto ben utilizzata quella del linguaggio comune. È stato compiuto ogni sforzo per far risaltare gli elementi concettuali dalle illustrazioni e un ampio uso si è fatto delle parentesi per mettere su un piano subordinato esempi e indicazioni. Quarta caratteristica, il libro è pieno di illustrazioni appositamente concepite, originali, di buona qualità e stile unitario: su di esse abbiamo lavorato insieme mia moglie ed io. È lei ad aver realizzato tutti i disegni e gli schizzi, mentre io ho scelto il materiale (in gran parte dalla mia collezione didattica) e completato a inchiostro tutte le illustrazioni. I disegnatori della casa editrice hanno realizzato su mie indicazioni le figure schematiche e inserito al loro posto le annotazioni. Per ciascun soggetto abbiamo cercato un buon compromesso tra una condizione pittorica, che risulta tale quanto più materiale estraneo si inserisce, e una condizione schematica, che può arrivare ad essere così semplificatrice da ridurre un corpo vivente a sole analogie meccaniche e geometriche. Quinta peculiarità, questo libro presenta la morfologia dei vertebrati nella sua vivace attualità disciplinare: le trasformazioni dalla pinna alla zampa, dalla mandibola agli ossicini dell’orecchio medio, dall’arteria branchiale alla circolazione carotidea, e tante altre sono storie che le nuove generazioni debbono conoscere, ma debbono conoscere anche gli studi in corso, i problemi irrisolti, le spiegazioni non del tutto convincenti, i nuovi risultati acquisiti, quali aree di ricerca sono più attive e in che direzione muovono gli studi disciplinari. E infine, mi auguro che questo libro risulti interessante, anche se non
ci si può aspettare che un ambito di studi così ampio e complesso possa risultare interessante in tutti i suoi aspetti.
E comunque un fatto decisamente tragico
che l’insegnamento della anatomia comparata si limiti a volte a una parata di nozioni vecchie, di scheletri polverosi, e di esemplari rinsecchiti: non vi è in natura nulla che abbia una struttura tanto elegante quanto il corpo dei vertebrati. Avrei davvero piacere se il lettore in qualche occasione dimenticasse di dover sostenere l'esame ed esclamasse:
«Questo sì che è interessante!».
La Parte I è una presa di visione della varietà dei vertebrati: gli studenti
Prefazione
XI
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debbono essere in grado di riconoscere e collegare fra loro i più importanti gruppi sistematici (= taxa) per poter seguire quanto verrà detto nelle Parti II e III. Le brevi descrizioni che puntano a far risaltare le caratteristiche tipiche e i caratteri di interesse tassonomico sono propedeutiche a queste parti. I gruppi estinti vi vengono presentati oppure no, a seconda delle loro relazioni con quanto verrà in seguito. Nella Parte II il consuetudinario approccio agli apparati e ai sistemi organicì viene utilizzato per far conoscere le caratteristiche generali della struttura dei vertebrati appartenenti alle diverse classi e sottoclassi, mettendo in primo piano le condizioni strutturali che evidenziano le loro relazioni filetiche. Quelle strutture che non vengono utilizzate per caratterizzare i taxa maggiori o che non vanno incontro a progressivi cambiamenti fra categorie successive, vengono poste in second’ordine o trascurate. La trattazione risulta meno dettagliata che in altri libri di testo, ma ritengo che vi sia abbastanza «carne al fuoco», forse anche più di quanta non ne possa venir digerita in un solo corso di studi. Molti studenti sono convinti che i docenti di anatomia abbiano la «mano pesante» nell’accumulare troppi dettagli, molti più del necessario. Quei pochi studenti, in proporzione, che diverranno dei morfologi di professione non avranno certo difficoltà nel reperire altrove le informazioni supplementari. La Parte III riguarda i maggiori gruppi funzionali di vertebrati: dopo i capitoli sulla meccanica osteomuscolare, i successivi trattano dei principali adattamenti per la locomozione e l’alimentazione. Gruppi non legati da relazioni di parentela, a volte di convergenza, sono analizzati insieme per vedere come le spinte evolutive hanno sopperito alle loro comuni esigenze. Vi sono incluse anche quelle modifiche estreme che nella Parte II sarebbero risultate un elemento di disturbo e distrazione. A questa edizione sono stati aggiunti due brevi capitoli sui rapporti dimensionali in scala e sull’energetica. Alla fine del libro sono raccolte circa 350 indicazioni bibliografiche, alcune con qualche nota di commento, per fornire agli studenti una indicazione di partenza per eventuali tesine o seminari interni e per dare una piccola soddisfazione alla curiosità di chi si pone questioni più specifiche. Di oltre 150 parole sono stati indicati fra parentesi, la prima volta che sono state utilizzate, i
significati delle parole latine o greche che le compongono: ciò non ha intendimenti etimologici, è stato fatto solo perché fosse più facile comprenderle e quindi memorizzarle. Si dà per scontato che lo studente abbia seguito un corso di biologia generale o zoologia; una «infarinatura» di embriologia, di fisiologia e di evoluzionistica avrebbe il vantaggio di dare allo studente la sensazione di muoversi su un terreno conosciuto, ma non la si dà per avvenuta. Così pure, qualche richiamo di algebra e di geometria, un corso di fisica renderebbero la Parte III più facile, ma più per la fiducia che darebbe allo studente che non per le formule apprese. Molti studenti si lamentano del fatto che nei libri di testo vi sia più di quanto possa essere appreso nei tempi previsti: il buongustaio a tavola non è certo in grado di mangiare tutto quello che presenta il menù, ma non per questo preferirebbe una minor possibilità di scelta. Non tutti hanno gli stessi gusti e
lui stesso potrebbe fare una diversa scelta in un diverso momento. Quello che
posso dire è invitare i docenti a non propinare agli studenti più di quanto non
XH
Prefazione © 88-08-11832-0
sia ragionevole che essi possano assimilare nel tempo disponibile. In un corso annuale potrebbe venir esposto l’intero contenuto, mentre per un corso semestrale occorrerà operare qualche scelta. Una «dieta bilanciata» potrebbe venir composta con porzioni tanto della Parte II che della Parte III, facendo intravedere più di un approccio all’analisi strutturale, e gettando «alle ortiche» il mito che un qualsiasi approccio possa essere di qualche utilità solo se tutti i più importanti capitoli vengono trattati, sia per questo che per altri libri di testo. Dei quasi 1000 diversi disegni, circa il 65% è originale, circa il 20%
lo
è in prevalenza e il rimanente è costituito da copie parzialmente modificate. Riconosciamo il nostro debito verso gli autori delle illustrazioni che hanno ispirato molte di quelle che appaiono in questo libro: le fonti più utilizzate sono state Mammals of the World di Walker, molti libri di A. S. Romer e il Traité de Zoologie. I revisori del testo non sono certo responsabili delle carenze, mentre molti di loro, competenti
e coscienziosi,
hanno
decisamente
contribuito
a mi-
gliorarlo. Mi ritengo fortunato per aver avuto così validi revisori. Sarò grato a docenti e studenti che mi faranno pervenire correzioni, commenti e buon materiale da utilizzare nelle eventuali successive edizioni. Milton Hildebrand Davis, California
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CAPITOLO
LA MORFOLOGIA DEI VERTEBRATI
Definizioni, scopi e relazioni con altre discipline | 1 ]
Anatomiaè
conoscenza della struttura di un organismo vivente; descri-
vere le componenti e l’organizzazione del corpo dei vertebrati è compito degli anatomici. La morfologia è concettualmente più ampia dell’anatomia. I morfologi si interessano non solo di anatomia, ma cercano anche di comprendere il perché di quella struttura e di quei modelli strutturali. L'informazione deve provenire da fonti diverse se la conoscenza vuole essere ragionevolmente completa. Gli attuali vertebrati sono discendenti modificati di specie più antiche. Da ciò risulta che la forma di una particolare struttura o una serie di relazioni strutturali divengono comprensibili solo se inquadrati in una storia evolutiva. La morfologia quindi riceve molto dalla paleontologia, dalla paleobiologia, dalla tassonomia e da altre discipline che le possano fornire prove di affinità evolutiva,
comprese
la citologia,
la biochimica
e la biologia
molecolare.
La
filogenesi della forma è il tema principale della Parte II di questo libro. La struttura può essere interpretata anche in termini di adattamento all’ambiente esterno, ed è per questo che la comprensione della morfologia fun-
zionale dipende da conoscenze di biomeccanica, di fisiologia, di ecologia e di
4
Introduzione
il
2
© 88-08-11832-0
etologia. L'analisi funzionale è l'argomento principale della Parte III e spunti ad essa correlati si ritrovano in ogni parte del libro. Alcune strutture e molti modelli di organizzazione risultano più comprensibili correlandoli allo sviluppo ed ai meccanismi evolutivi. L’embriologia viene introdotta con il Capitolo 5 e trattata più a fondo in altri capitoli della Parte II. Altri aspetti della biologia dei vertebrati possono contribuire ulteriormente alla comprensione della struttura. La forma, per esempio, può dipendere da dimensioni, età o sesso, e le variazio-
ni individuali possono avere un’origine nutrizionale, patologica o ambientale. Le relazioni fra forma e taglia corporea sono analizzate nel Capitolo 23, mentre gli altri argomenti sono approfonditi più avanti in questo stesso capitolo. La morfologia dei vertebrati è quindi correlata a molte altre scienze. Un morfologo dovrebbe migliorare la sua preparazione sui principi della biologia a tutti i livelli, per poi affrontare gli studi sulla struttura dei vertebrati acquisendo familiarità almeno con i concetti e le metodologie di una disciplina correlata. Riassumendo, questo libro descrive l’anatomia dei principali gruppi, per struttura e capacità funzionali di vertebrati, e interpreta le loro differenze morfologiche principalmente in termini di relazioni di parentela ancestrale e di funzionalità, utilizzando discipline correlate per raggiungere questo obiettivo.
Perché studiare la morfologia dei Vertebrati? |2 |
Per ottenere il massimo rendimento da qualsiasi corso di studio, lo stu-
dente deve essere convinto che i risultati giustifichino lo sforzo. Ho qui sottoelencato alcuni dei benefici che gli studenti possono ottenere dallo studio della morfologia dei vertebrati. 1. La conoscenza dell’anatomia ha dirette applicazioni in molte specializzazioni nell’ambito della biologia stessa. Il chirurgo e il veterinario, l’embriologo sperimentale e il neurofisiologo, il paleontologo e il patologo, devono tutti avere familiarità con la struttura dei loro materiali. 2. La conoscenza della struttura animale ha fornito importanti contributi alle scienze mediche e alla tecnologia. Ne sono un esempio la selezione di animali per la sperimentazione, l’attuazione di innumerevoli studi in fisiologia di base e applicata, la progettazione di protesi. Si studiano gli animali per migliorare i progetti delle strutture portanti di navi e aerei. 3. Lo studio della morfologia fa comprendere meglio quale sia la natura dell’organismo su cui si sta operando e quali siano i principi che ne governano la forma. Lo studio interpretativo fa sì che si passi da praticante a professionista, da tecnico a studioso, da catalogatore di fatti ad esperto. Questo beneficio è difficile da valutare, ciononostante è di grande valore individuale. 4. L’analisi della struttura può far aumentare l’interesse scientifico e persino la passione per lo studio della forma animale. Questo beneficio può essere molto gratificante. 5. La morfologia dei vertebrati fornisce indicazioni particolarmente valide dei processi e dei prodotti dell'evoluzione organica. Ciò facilita la risposta a domande da sempre ritenute importanti: quali forze governano il corso della
2
Se]
1. La morfologia dei Vertebrati
5
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vita? Come si può conseguire una capacità previsionale nel tempo e nello spazio? Come spiegarsi la perfezione del corpo degli animali?
L’analisi morfologica dei vertebrati aumenterà così la competenza biologica e il piacere nel proprio lavoro.
3 Omologia e analogia. Sono omologhe le caratteristiche di due o più organismi qualora risultino avere una comune origine (vedi esempi da 1 a 4, Figura 1.1). Un’omologia è accertata se le caratteristiche possono essere chiaramente collegate da una continuità nelle registrazioni (reperti) fossili ed è ragionevolmente sicura se si può dimostrare che esse si formano durante lo sviluppo embrionale da identici primordi. In casi specifici può essere difficile stabilire un’omologia e discutibile la valutazione di quanto remoto sia il comune progenitore. Ciononostante il concetto è inequivocabile e molto importante. Sono analoghe le caratteristiche di due o più organismi se esse svolgono funzioni molto simili (esempi 2, 3, 5 e 6, Figura 1.1). Un’analogia può essere dedotta comparando le stesse strutture oppure altre caratteristiche simili, ma si può sicuramente stabilire solo dopo un’analisi comportamentale e biomeccanica. Caratteristiche analoghe possono essere anche omologhe. Anche un’analogia può essere difficile da dimostrare in alcuni casi. Quali livelli di equivalenza stabilire è spesso motivo di discussione e persino il concetto (di analogia) e la sua definizione rimangono a volte controversi. In questo libro il riferimento è normalmente
alla classe, alla sottoclasse
o all’ordine e qui il concetto
risulta
molto pratico e raramente ambiguo.
Le caratteristiche di due o più organismi possono anche essere messe in relazione per similarità d’aspetto (esempi 3, 4, 6 e 7, Figura 1.1). Tali caratteristiche sono solitamente analoghe e frequentemente sono sia analoghe che omologhe. Caratteristiche associabili solo per l’aspetto sono insolite a meno che la somiglianza sia superficiale. Se due caratteristiche sono correlabili per omologia e aspetto ma non per funzione, una di esse è stata quasi certamente sottoposta a un cambiamento
evolutivo della funzione
(vedi l’accenno a preadat-
tamento nel par. 12). Di seguito troverete esempi di relazioni diverse fra omologia, analogia e aspetto; come collochereste ognuno di essi in Figura 1.1? (1) L’osso quadrato dei rettili, che sostiene la mascella, e l’incudine dei mammiferi che è un ossi-
cino dell’orecchio medio (vedi Figura 8.13). (2) Il pene dei mammiferi e gli pterigopodi sulle pinne pelviche degli squali, i quali convogliano entrambi lo sperma
nella femmina
(vedi Figura 9.15). (3) Gli ossicini dell'orecchio
medio
dei mammiferi (derivati da ossa craniche) e le ossa di certi pesci (derivate dalle vertebre), in quanto anch’esse trasmettono onde sonore all’orecchio. (4) Il gran-
de osso cannone nella zampa inferiore dei mammiferi fissipedi (per esempio
nella mucca, nella vigogna) e un osso simile nella zampa dello struzzo (vedi Fi-
gura 24.15): entrambi rendono il piede adatto alla corsa. L’omologia entro una serie è un concetto del tutto indipendente che viene qui menzionato per la somiglianza lessicale. Due strutture sono omologhe entro una serie se occupano posizioni spaziali diverse in una serie di strutture simili. Le singole vertebre sono serialmente omologhe, così come lo sono tra loro i denti di una chiostra (fila) dentale, gli archi branchiali, i fasci muscolari
ecs
Introduzione
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Zampa di lucertola
Pinna di delfino
Pinna di tartaruga marina
Pinna di delfino
Origine comune Funzione uguale Aspetto simile
Origine comune Funzione diversa Aspetto diverso
;
3
Ala di pinguino
—Ala di rondine
Lingua di rospo
ORIGINE
* Origine comune Funzione uguale Aspetto diverso
Dito di geco
2
4
Origine comune Funzione diversa Aspetto simile
Istiophorus
Dito di raganella
Pelicosauro
Origine diversa * Origine diversa (cutanea) Funzione uguale (adesione) Aspetto diverso
Funzione diversa
Aspetto simile 6 Pinna di pesce (carpa)
Pinna di delfino
Origine diversa Funzione uguale Aspetto simile
3
4
5
1. La morfologia dei Vertebrati
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che si succedono nella coda di un pesce, i tubuli nel rene dei vertebrati inferiori. Di solito le strutture di tali serie formano dei gradienti: le vertebre si ingrandiscono verso la pelvi, i denti diventano spesso più complessi verso il fondo della bocca, le branchie possono diventare più piccole verso la parte terminale della serie. Elementi omologhi entro una serie hanno potenzialità simili di cambiamento: qualsiasi vertebra embrionale posteriore alle costole formerà un'articolazione con la pelvi se verrà posta sperimentalmente adiacente ad essa.
Inoltre i cambiamenti solitamente influenzano più elementi della serie: se un dente diventa più grosso e più complesso, anche quelli vicini tendono a fare altrettanto.
Hanno una omologia sessuale quelle strutture che si sviluppano da abbozzi embrionali equivalenti, pur risultando sessualmente dimorfe. L’ovario è l’omologo sessuale del testicolo, e il clitoride è l’omologo sessuale del pene. 4 Adattamento. L'adattamento è il processo evolutivo che porta a conformare un tipo di vita a un particolare ambiente, o che consente di rimanere idonei a un ambiente che gradualmente cambia. Quindi, l'adattamento è la condizione per essere adeguati all'ambiente. Tutti gli individui e tutte le specie sono adeguatamente adattati fintanto che continuano a sopravvivere. I morfologi applicano questo concetto tanto alle caratteristiche strutturali e comportamentali degli animali (per esempio la conformazione del cuore, i meccanismi della nutrizione, le strategie per l'accoppiamento) anziché agli interi organismi. Gli adattamenti possono essere acquisiti e non ereditati, come le formazioni callose su mani e piedi, ma ai morfologi interessano molto più i numerosi adattamenti ereditabili. Si è quindi soliti considerare implicito che gli adattamenti siano proprietà strutturali o comportamentali che contribuiscono alla sopravvivenza della specie attraverso la selezione naturale. Non tutte le caratteristiche sono pertanto adattate al meglio, o addirittura tutte direttamente vantaggiose. Un carattere può essere, come è di solito, il risultato di un compromesso tra vantaggi selettivi in competizione o soltanto una conseguenza della differente taglia corporea (vedi Capitolo 23), oppure perché i processi di sviluppo non possono fornire una soluzione migliore, anche a causa della casuale perdita di variabilità dei fattori genetici. Un analogo processo di selezione può produrre caratteristiche diverse in popolazioni differenti, così come si rileva fra popolazioni di isole confinanti, così come potrebbe anche non esservi nessuna pressione selettiva, come è il caso degli organi vestigiali. 5
Forma e funzione. È evidente che forma e funzione sono strettamente
correlate; strutture appropriate mettono un animale in grado di assolvere spe-
< Figura 1.1. Differenze e relazioni tra origine comune (omologia), uguale funzione (analogia), ed aspetto simile. (* In 2, le lingue sono strutture omologhe, ma non lo sono i sistemi di proiezione verso la preda; in 5, le componenti di rilievo del tegumento non sono omologhe, mentre le unghie lo sono. Il diagramma a cerchi è di Hailman, 1976, modificato.)
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Introduzione
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cifici compiti. La natura di fondo della correlazione è però meno evidente ed è stata oggetto di molte discussioni. Dalla teoria evolutiva darwiniana sembra conseguire che la funzione preceda la forma e fornisca il vantaggio selettivo che guida il cambiamento della forma (cioè, i mutanti che sono meglio adattati a soddisfare un bisogno biologico esistente tendono a sopravvivere). Tuttavia, la forma può precedere la funzione sia nell’embriogenesi (i polmoni si sviluppano prima di essere utilizzati) che nell’evoluzione (vedi l’accenno al preadattamento nel par. 12), e sono anche da prendere in considerazione cambiamenti simultanei nella forma e nella funzione. La precedenza può a volte basarsi solo su considerazioni teoriche. Il più delle volte la correlazione di una specifica forma con una specifica funzione può essere stabilita con sicurezza; a volte si incorre però in errori, presumendo che una particolare struttura sia adattata ad un particolare scopo poiché ciò sembra ovvio o plausibile o la sola interpretazione possibile. Si deve anche evitare di generalizzare da un singolo animale a un vasto gruppo di animali, senza un’adeguata attenzione a variazioni nel gruppo. Le correlazioni fra forma e funzione dovrebbero essere considerate semplici ipotesi fino a quando non si sia dimostrato, su base progettuale possibilmente accoppiata ad esperimenti ed osservazioni sul campo, che la forma osservata davvero adempia alla postulata necessaria interazione con l’ambiente.
| 6 |} Approccio alla morfologia. Alcune considerazioni guidano il morfologo nel riconoscere e distinguere omologie ed analogie e nel correlare la forma con la funzione. 1. È spesso utile confrontare la forma di più animali, appartenenti a gruppi sistematici diversi, che condividano una stessa funzione, sia essa il nuoto veloce, l’arrampicamento per adesione o l’alimentazione a base di formiche. Allo stesso modo è spesso d’aiuto studiare le forme di animali, appartenenti allo stesso gruppo sistematico, che utilizzino sistemi diversi per nutrirsi, muover-
si, riprodursi o altro. 2. Non si deve dedurre da un’analogia che vi sia anche un’omologia. Tanto i cavalli che i buoi hanno grosse dimensioni, zoccoli e denti molari simili, poiché entrambi
corrono
veloci
e mangiano
erba. Le strutture comuni
si
sono evolute in risposta a comuni abitudini, e non sono state ereditate da comuni progenitori. I ricci, i porcospini e un mammifero che depone uova (l’echidna), pur appartenendo a gruppi sistematici molto diversi, hanno aculei poiché gli aculei forniscono una difesa soddisfacente per animali che non possono correre o combattere. 3. Quando si studiano più strutture insieme la corrispondenza di molte parti suggerisce relazioni evolutive mentre la corrispondenza di poche parti può essere il risultato di altre cause. Per esempio, vi sono pesci cartilaginei e pesci ossei dotati di organi elettrici: ciò suggerirebbe una comune origine, ma questi pesci sono così differenti per tante altre caratteristiche che è virtualmente sicura un'evoluzione indipendente dei loro organi elettrici. Equini e bovini hanno entrambi complicate corone dentarie ma i loro stomaci, la formula dentaria e la struttura del cranio non sono a favore di una stretta affinità. 4. Lo studio delle strutture complesse, anche se più difficile, può ren-
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1. La morfologia dei Vertebrati
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dere più dello studio delle semplici. Le costole, molto semplici, è difficile possano nascondere segreti; il cranio ha invece così tante ossa, forami e rilievi ed una tale molteplicità di funzioni che può dare molte indicazioni su abitudini e storia del suo legittimo proprietario. Inoltre, è ben difficile che strutture corrispondenti di animali non affini siano simili solo per caso se esse sono anche complicate. 5. La condizione primitiva o ancestrale di una struttura si ritrova più facilmente in un animale che ha mantenuto la condizione ancestrale in altre parti. Si devono evitare circoli viziosi: non si può affermare che una caratteristica sia primitiva perché la si è ritrovata in un animale che si ritiene sia primitivo, né si può ritenere che una caratteristica sia primitiva solo perché è presente in un animale che per altri fatti risulta relativamente primitivo, in quanto persino nelle specie animali da più tempo esistenti vi sono strutture di alta specializzazione. Ciononostante, un animale che sia stato riconosciuto primitivo nell’espressione di diverse caratteristiche è di particolare importanza; per esempio, se si lavora sulla filogenesi dei tipi di placenta nei roditori, sarebbe bene vedere quale sorta di placenta abbia il cosiddetto castoro di montagna (Aplodontia rufa). Questa potrebbe essere di un tipo abbastanza comune, ma se risulta insolita è anche più interessante, perché questo animale (che non è un vero castoro), per scheletro, muscoli e reperti fossili, risulta il roditore vivente più primitivo. La Parte II di questo libro dedicherà particolare attenzione ad animali con numerose caratteristiche primitive: Polypterus fra i pesci, Sphenodon tra i rettili, l’ornitorinco fra i mammiferi, e altri. 6. È importante anche rilevare la presenza di organi vestigiali o degenerati, che non hanno nessuna funzione. Si può con assoluta tranquillità ritenere che simili strutture fossero funzionali in un progenitore, e ciò ci dice qualcosa sull'evoluzione dei discendenti. Gli occhi ciechi della talpa e dei pesci cavernicoli indicano che i loro antenati potevano vedere e alcune minuscole ossa nei pitoni e nelle balene ci dicono che i remoti progenitori di questi animali avevano zampe (Figura 1.2).
Balena 19 m
Osso pelvico 41 cm Femore 4 cm
Figura 1.2. Organo vestigiale, esemplificato dalla pelvi di una balenottera.
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Introduzione
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[ossa
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Riconoscimento e valutazione della variabilità. Il morfologo non de[7] scrive quasi mai un singolo animale come individuo; i singoli animali vengono studiati per acquisire conoscenze su una specie animale. Gli individui di una
stessa specie sono però sufficientemente diversi l’uno dall’altro da far sì che un singolo esemplare non sia adeguatamente rappresentativo. In generale le singole caratteristiche variano indipendentemente l’una dall’altra: un esemplare può essere nella media per una e ben lontano dalla media per un’altra. Alcuni caratteri sono però collegati cosicché la variazione di
uno è correlata a variazioni nell’altro; fra certi mammiferi,
ad esempio, un in-
dividuo che possiede corone dentarie extralunghe ha probabilmente premolari extralarghi ed una mascella extralunga poiché questi caratteri sono funzionalmente collegati. Strutture con una variabilità relativamente grande fra individui di una stessa specie hanno un valore limitato per interpretare la forma. I denti molari o i malleoli devono essere proprio esatti per funzionare bene, così essi non variano molto. Gli sterni, d’altra parte, possono essere più piatti o più lunghi o più segmentati dell’usuale senza un grande danno per la funzione. Conseguentemente, c’è più variabilità negli sterni, ma queste configurazioni non costitui-
scono utili indicazioni strutturali. Può essere importante studiare il dimorfismo sessuale così che si possa
stabilire il sesso di un particolare vertebrato e non si possano scambiare i caratteri sessuali per caratteristiche di specie o per caratteristiche adattative di altra natura. Naturalmente il dimorfismo sessuale coinvolge principalmente le gonadi, i dotti genitali, i genitali esterni e gli organi sessuali accessori: questi possono essere sostanzialmente diversi nei due sessi o molto simili. Le differenze sessuali dei genitali possono essere molto più evidenti ad un certo stadio del ciclo riproduttivo che in un altro, a causa di cambiamenti nelle dimensioni, nella posizione,
nella colorazione,
nelle secrezioni
e nella congestione
vascolare. Altri aspetti del dimorfismo sessuale non sono in relazione diretta con l’apparato genitale, mentre sono correlabili al ruolo sessuale e al comportamento; riguardano differenze nella colorazione, nella quantità e distribuzione di scaglie, penne, o peli, nelle strutture di aggancio e nella forma delle pelvi, nella presenza o sviluppo di creste, speroni, corna ramificate, zanne, e ghiandole odorifere. La taglia corporea dell’animale adulto e la velocità di crescita sono, in molte occasioni, sessualmente dimorfiche e sono comuni le differenze nelle proporzioni corporee e nella configurazione generale fra i due sessi; sono i maschi ad avere di solito uno scheletro più grande e più massiccio. Vi sono spesso differenze sessuali nel sistema muscolare ed in quello circolatorio, nel cervello e nella ipofisi.
| 8 ] Il morfologo deve anche saper distinguere le variazioni dipendenti dall'età da variazioni di altro tipo. L'accrescimento ad anelli o strati successivi dei tessuti duri spesso riflette con accuratezza i periodi alterni di crescita rapida e lenta. Come per gli anelli degli alberi, anche questi sono correlati a periodi di clima o nutrimento favorevoli, solitamente stagionali. In circostanze favorevo-
Das 8
1. La morfologia dei Vertebrati
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li le scaglie e gli otoliti dell'orecchio interno dei pesci ossei, la corazza e le 0ssa lunghe delle tartarughe, i fanoni e i tappi auricolari delle balene, la dentina
e il cemento
dei
denti
dei mammiferi,
mostrano
tutti marcati
anelli
di
crescita.
Le parti dure rivelano l’età anche in altri modi: i centri di iniziale ossificazione nelle ossa in formazione appaiono in sequenze regolari, i vari denti dei mammiferi erompono e sono sostituiti ad età diverse ma definite, le suture fra le ossa si chiudono secondo un programma prestabilito e le epifisi alle estremità delle ossa lunghe si fondono con l’asta dell’osso in epoche precise. L’età di giovani umani e di altri animali (di cui si sono stabilite le sequenze temporali) possono essere determinate entro limiti abbastanza ristretti con la radiografia del cranio, dei polsi o di altre giunture.
Pur con minor precisione anche altri fatti possono
essere messi in re-
lazione all’età: grandezza e struttura del baculum (un osso nel pene di alcuni mammiferi),
struttura della parete del cranio (uccelli), grandezza relativa delle
orbite, grandezza e conformazione di corna e palchi, vascolarizzazione delle ossa, sviluppo di creste e protuberanze nello scheletro, posizione degli assi basicraniali, sviluppo relativo del rostro o dell’area facciale. La struttura dei tessuti molli li rende meno precisamente correlabili all’età, anche se il peso della lente dell’occhio (misurato dopo un’accurata rimozione ed essiccazione) è a volte un’attendibile indice dell’età. Le modifiche della cute, in particolare in vicinanza di una muta, i cambiamenti nella com-
posizione del muscolo e nel sistema circolatorio sono anch'essi ascrivibili al progredire dell’età. Se un animale è estinto, raro o altrimenti difficile da procurarsi, può essere necessario lavorare con pochi esemplari, ma un morfologo deve cercare di ottenere un adeguato numero di esemplari presi a caso. A questo punto può effettuare una prima cernita riunendo gli individui in base al sesso, all’età, alla localizzazione geografica o ad altri criteri, purché disponga di un sufficiente numero di esemplari per ogni sottocampione (25 è un numero di solito adeguato) per stimare gli effetti di queste variabili. Gli esemplari di tali sottocampioni sono diversi fra di loro, e questa variabilità individuale deve essere analizzata, se si vuole conoscere a fondo una data caratteristica. La struttura tipica di una caratteristica, l'estensione della variazione e la tendenza a cambiare sono tutte
caratteristiche di popolazione; esse non possono essere acquisite da un singolo esemplare. L’analisi statistica delle caratteristiche di popolazione non rientra negli intenti di questo libro, anche se dovrebbe essere materia di studio per aspiranti
morfologi. Persino alcuni parametri relativamente semplici possono essere di grande aiuto: la media aritmetica esprime la condizione «media». La deviazione standard mostra in che grado valori separati tendano a raggrupparsi intorno ad un valore medio. L’errore standard della media permette di giudicare se le medie ottenute da diverse popolazioni (o campioni di diverse popolazioni) sono significativamente differenti. Il coefficiente di variazione rende possibile stabilire se animali di diversa grandezza assoluta sono comparativamente variabili, cioè se un determinato toporagno varia così tanto fra i toporagni quan-
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Introduzione
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[DE
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to un determinato elefante fra gli elefanti. I morfologi utilizzano abitualmente questi e molti altri parametri ed utilizzano anche tecniche grafiche. La statistica, sebbene importante, non deve distogliere l’attenzione dall'accuratezza, dall’attendibilità e dalla validità. I risultati sono accurati se privi di errore, attendibili se ripetibili, e validi se significativi. Il voto dato ad uno studente per un esame è accurato se la somma dei singoli punteggi e la loro registrazione sono state fatte con diligenza, è attendibile nella misura in cui un altro esaminatore darebbe lo stesso voto e se lo studente, ripetendo l’esame, riavesse un punteggio simile. È valido (non in senso burocratico) se il voto assegnato indica il grado di approssimazione dello studente verso gli obiettivi del COrso. La ricerca, come per i voti agli studenti, è al meglio quando è accurata, attendibile e significativa. {9 | Il contributo della paleontologia. La paleontologia è lo studio della vita preistorica come ce la rivelano i fossili. Alcuni fossili di vertebrati sono soltanto tracce o impronte corporee lasciate nel fango milioni di anni fa, in seguito trasformate in roccia. Un intero animale raramente si è preservato: insetti intrappolati in un’antica resina hanno mantenuto la loro delicata struttura quan-
do la resina gradualmente si è trasformata in ambra, e grandi mammuth precipitati in crepacci di ghiacciai si sono conservati per 50 000 anni in un frigorifero naturale. Solitamente solo denti e ossa si conservano e persino per questi il lento processo di mineralizzazione ha sostituito il tessuto organico originale con un’esatta copia in minerale duro. Per essere conservato lo scheletro deve essere preservato dalla forza distruttiva della corrosione e ciò significa che deve essere subito interamente ricoperto dopo che la putrefazione lo ha liberato dai tessuti che sosteneva in vita. Frane, sabbia portata dal vento, cenere vulcanica coprono alcuni scheletri, ma la maggioranza di quelli che fossilizzano sono ricoperti da fango e sabbia depositatasi nei laghi o nei corsi d’acqua, o in piane di ampie valli che vengono inondate. Nel tempo la melma si trasforma, per la pressione, in scisti e la sabbia in arenaria. Sopraelevamenti della crosta terrestre e una successiva erosione hanno portato alla luce i fossili contenuti. Le rocce sedimentarie sono quindi una gigantesca cassettiera per i fossili che contengono: i più vecchi fossili sono negli strati più antichi e i più recenti negli strati più recenti. I cambiamenti evolutivi nella struttura degli animali procedono passo dopo passo con l’accumularsi dei sedimenti terrestri. Il paleontologo dei vertebrati nell’interpretare la struttura degli animali deve affrontare molte difficoltà: di solito deve lavorare su materiali frantumati e su frammenti, a volte trova fossili di animali che vissero su altipiani aridi dove gli scheletri si disintegrano all’aria secca e sotto il sole cocente e, con poche eccezioni, lavora su un solo organo. Ciononostante i paleontologi hanno descritto un numero di vertebrati estinti triplo rispetto ai vertebrati viventi. Il morfologo, l’embriologo, lo zoogeografo, l’immunologo e altri specialisti hanno contribuito a rivelare parte della storia dell’evoluzione, ma è del paleontologo il contributo maggiore (vedi però nel par. 22 quale opinione abbiano i sistematici cladisti).
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1. La morfologia dei Vertebrati
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10 La teoria evolutiva. Gli evoluzionisti ritengono che le specie attuali discendano da progenitori comuni e che la selezione naturale abbia avuto un importante ruolo nel dirigere i cambiamenti strutturali. Tuttavia ora essi sono meno concordi nella loro interpretazione del processo di quanto lo fossero negli anni ’30 e ‘40 quando fu espressa una «sintesi moderna» della teoria darwiniana. L’analisi della struttura molecolare del DNA e delle proteine ha dato forza ai concetti propugnati dai genetisti evoluzionisti, ma ha anche dimostrato che la variazione genetica è ben più complessa di quanto si pensasse. Si riconosce ora che tanto le piccole quanto le grandi alterazioni genetiche possano risultare in piccoli o grandi cambiamenti strutturali. Alcuni ricercatori pensano che le mutazioni siano meno casuali di quanto si credesse una volta, e siano perlomeno in parte dipendenti dal tempo, tanto che il loro accumularsi costituisce una sorta di orologio molecolare. Il tradizionale credo, ora chiamato gradualismo filetico o sintesi moderna, è che il cambiamento evolutivo entro una linea di discendenza sia dovuto a un lento e continuo accumulo di quelle mutazioni che sono favorite dalla selezione naturale. Ciò comporta che le strutture e anche le specie discendenti rimangano ben adattate agli habitat che gradualmente cambiano; non c’è una netta demarcazione fra le specie antiche e i loro discendenti. I vuoti nella documentazione fossile sono attribuiti a periodi di cambiamenti relativamente rapidi sulla Terra (che temporaneamente aumentano la velocità di selezione naturale e diminuiscono la fossilizzazione) e a piccole popolazioni (che quindi lasciano pochi animali che possano
fossilizzare).
Una diversa teoria, detta degli equilibrii punteggiati o intermittenti, sostiene che la maggioranza delle specie, pur mostrando a breve periodo qualche cambiamento nella struttura, cambi poco sui lunghi periodi della storia della Terra. L’evoluzione di nuove specie deve quindi essere relativamente improvvisa in termini geologici. Le specie discendenti sono nettamente diverse dalle loro immediate progenitrici per forma e funzioni. L'evoluzione si realizza per più linee filetiche con un processo di diversificazione relativamente veloce e meno frequentemente entro una linea filetica con un lento rimpiazzo. Il dibattito fra coloro che propongono l’equilibrio punteggiato e il gradualismo
filetico è stato intenso,
contrasto tra le luzionisti sono posizioni siano sworth, Lande
ma
il terreno comune
è vasto
(ed è netto il
loro condivise assunzioni e quelle dei creazionisti). Alcuni evoconvinti che, sfrondate di idee sbagliate ed esagerazioni, le due compatibili (vedi gli articoli di Stebbins e Ayala e di Charlee Slatkin nella sezione bibliografica).
Evoluzione e habitat. L’interpretazione delle componenti strutturali as11 sume maggiore significato dalla familiarità con le più salienti caratteristiche del processo evolutivo, accettate virtualmente da tutti i morfologi. Raccomando cal-
damente letture ulteriori su questo argomento.
Ne vengono qui riportati solo gli elementi schematici e si dà per scontata una conoscenza generale della variabilità genetica, della selezione naturale e della storia terrestre. Una fra le prime considerazioni da fare è sulla relazione fra cambiamenti evolutivi e stabilità dell'ambiente. Con poche eccezioni, l’evoluzione è il
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Introduzione
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risultato dell’azione reciproca fra cambiamenti ambientali e organismi adattantesi. Ogni specie animale si adatta, e dipende, da un particolare tipo di vita (predazione, alimentazione a base di semi, pascolo) in un particolare tipo di habitat (palude, corso d’acqua, prateria). Se l'habitat è grande e costante nelle sue caratteristiche (oceani, foreste tropicali, foreste di conifere), gli animali ivi abi-
tanti avranno il tempo per diventare ben adattati. È più vantaggioso per qualsiasi specie rimanere il più possibile così com'è, cosicché la selezione naturale tende a impedire cambiamenti. I grandi habitat cambiano lentamente nella storia della Terra (per esempio le foreste avanzano e recedono) ma la maggioranza degli animali si muovono con essi, rimangono adattati e cambiano relativamente poco. Però, mentre l’habitat nel suo insieme si sposta poco nello spazio, l’habitat ristretto di una popolazione di animali può invece cambiare a poco a poco; una costa sabbiosa può gradualmente divenire più rocciosa, o una foresta di abeti isolata fra le montagne può diventare più alpina via via che il limite della vegetazione arborea si sposta verso sud. L'espressione media dei caratteri di una specie è quindi meno
vantaggiosa. La selezione naturale perciò spinge
verso la realizzazione di un animale differente. Se l'habitat si altera uniformemente, il cambiamento evolutivo è più o meno unidirezionale e perciò viene detto lineare. Se il vecchio habitat si suddivide in più unità differenti, la popolazione animale originale si frammenterà in più parti che si adatteranno indipendentemente e l’evoluzione si dirà ramificata. Quando l’habitat di una specie ivi residente si altera tanto velocemente da non permetterle di adattarsi alle nuove caratteristiche, per quanto riguarda quella specie l’habitat non cambia, scompare: basterà che la Terra si inclini un po’ più sul suo asse, che un mare interno si prosciughi lasciando solo terrazzamenti di linea costiera su colline aride e che le praterie, invase anno dopo an-
no da semi di pino, cedano il passo alla foresta. Via via che un habitat diventa sempre meno soddisfacente, la forza della selezione naturale, cioè la pressione selettiva, rende sempre più precario il vecchio tipo di vita. Infine, alcune varianti estreme della popolazione potranno adattarsi meglio alla vita nel nuovo habitat, purché quell’habitat sia disponibile in quanto non occupato da efficaci concorrenti. La pressione selettiva allora diventa forte spingendo all’abbandono del vecchio stile di vita per il nuovo. | 12] Diversi fattori possono contribuire al successo in questo rischioso tipo di evoluzione. Sono strutture specializzate quelle che si modificano per eseguire particolari funzioni con grande efficacia, mentre sono strutture non specializzate (o strutture generalizzate) quelle adatte ad eseguire adeguatamente una funzione meno particolare o più funzioni. Nonostante strutture non specializzate possano subire minor pressione per cambiare (essendo appropriate ad una più vasta gamma di condizioni), esse hanno anche maggiori capacità di cambiamento, e ciò favorisce la sopravvivenza quando il cambiamento diventa essenziale. E così che l’ancestrale piede a cinque dita è stato convertito in un appoggio migliore per saltare, volare, nuotare (arti palmati), afferrare e così via.
Organi specializzati sono soddisfacenti fino a che le loro limitate funzioni sono
soddisfacenti e necessarie (è probabile che ancora per lungo tempo ci saranno formiche per i formichieri e krill per le balene, ma, se sarà necessaria una nuova funzione, tali organi difficilmente si potranno adattare.
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1. La morfologia dei Vertebrati
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Quando una specie deve velocemente adattarsi a condizioni alterate non vi è tempo sufficiente per sviluppare una pluralità di nuove strutture. Essa deve fare assegnamento per un certo periodo di tempo sull’uso intensificato 0 alterato di attributi che già possiede. La selezione naturale può anche «scoprire» che una struttura, precedentemente utile in un certo modo, può essere utilizzabile per un altro scopo. Di tali strutture si dice che possiedono un preadattamento. Per esempio, è stato un lungo e complesso processo evolutivo quello di convertire le zampe deambulanti dei rettili pre-uccelli in ali di uccelli, mentre è stato relativamente veloce e semplice, per diversi gruppi di uccelli, utilizzare le loro ali come mezzi per nuotare invece che per volare, appena qualche decina di milioni di anni per l’evoluzione di efficaci arti natatori (esempio 4, Figura 1.1). In modo simile fu relativamente «facile» per certi gruppi di pesci inghiottire aria da respirare poiché essi potevano utilizzare, con solo lievi modifiche, strutture e comportamenti che lentamente si erano evoluti per inghiottire cibo nell’acqua. Ne consegue che non si può sempre dedurre dalla momentanea funzione di una struttura quale sia stata la base remota della sua origine. Forme non specializzate, versatilità e preadattamento sone buone carte
da tenere nel gioco «o ti adatti o ti estingui». Così come gli habitat possono scomparire, ne possono apparire di nuovi. Una nuova palude, formatasi vicino a paludi già esistenti, verrà popolata da quelle vicine e non avverrà nessuna evoluzione; invece un nuovo mare interno,
se esteso e isolato, è un posto per notevoli opportunità evolutive per quegli animali che lo colonizzano. D'altronde un habitat può essere antico ma la sua disponibilità recente: la terraferma divenne disponibile ai vertebrati appena rettili e anfibi comparvero. C’erano già piante terrestri e artropodi a sufficienza per fornire cibo e rifugio, e c'erano milioni di miglia quadrate, un invito alla colonizzazione di nuovi diversi habitat senza possibili competizioni con gli animali che vi si erano stabiliti. In queste eccezionali circostanze l'evoluzione rapidamente crea nuove forme animali: la si dirà allora una radiazione adattativa. Quegli animali che hanno successo nel duro gioco dell’evoluzione «adattati o perisci» si estinguono per cambiamenti progressivi: i progenitori scompaiono via via che i discendenti si evolvono. Ma molto più numerose sono le specie animali che non lasciano specie figlie: esse si estinguono perché non hanno superato la competizione, perché è avvenuto uno sbilanciamento nel rapporto predatore-preda, o perché non vi è stata alcuna capacità ad adattarsi in parti non competitive dell'ambiente. Si pensa che le estinzioni di massa (come per i dinosauri) siano risultate da eventi catastrofici di origine extraterrestre,
come gli impatti di asteroidi, ma è difficile conciliare tutti i dati, cosicché la teoria rimane controversa.
[13 ] L’evoluzione e il tempo. La Figura 2.5 mostra la scala del tempo in relazione all’evoluzione dei vertebrati. I numeri sono facili da leggere ma difficili da comprendere. Può essere di aiuto porre in relazione il tempo geologico con qualcosa di pertinente e finito; si può ad esempio equiparare ad un anno l’arco
di tempo da quando la vita iniziò sulla Terra: i vertebrati apparvero perciò ver-
so il 20 ottobre, imammiferi il 7 dicembre, e l’Homo sapiens fece il suo debutto alle 23,48 del 31 dicembre.
16
Introduzione
(i
14
]
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La registrazione fossile presenta molte linee evolutive relativamente complete e continue: gli elefanti erano una volta numerosi e diversificati e i cammelli svilupparono tutte le taglie ed erano abbondanti sui quattro continenti. I cavalli, le tartarughe, i coccodrilli, le varie specie di dinosauri, e molti altri
gruppi, sono tutti rappresentati da generi chiaramente imparentati. Una simile linea di discendenza è detta linea filetica ed è solitamente rappresentata da generi che sono posti in relazione nel tempo da un'evoluzione sia lineare che ramificata, ed arrivano all’estinzione per cambiamenti progressivi. Una linea filetica è spesso realizzata entro una singola famiglia ma può anche includere, in tutto o in parte, altri taxa. Molte linee filetiche appaiono improvvisamente nella registrazione fossile e, se non ancora sopravviventi, sembrano
scomparire
dalla registrazione piuttosto che fondersi in una o più altre linee (vedi i commenti sui «vuoti» nella registrazione fossile del par. 10). Differenti linee filetiche si evolvono a diverse velocità, la singola linea si evolve a differenti velocità in tempi diversi e le differenti caratteristiche di una linea si evolvono a differenti velocità nello stesso tempo. Pur in queste condizioni, vi sono comunque casi di sopravvivenza di linee e di un ritmo di cambiamento evolutivo lento. I caratteri tipici dei conigli, degli armadilli e delle tartarughe si formarono ognuno più di 65 milioni di anni fa. Gli opossum sono rimasti tali per 100 milioni di anni, e lo stesso si può dire per i coccodrilli. Alcuni gruppi di pesci (celacanti, dipnoi, squali) sono sopravvissuti per 300 milioni di anni. Il picco massimo di velocità di evoluzione per le classi dei vertebrati in termini di numeri di nuovi generi per milione di anni è stato circa: placodermi 3; pesci cartilaginei 2; pesci ossei 6; anfibi 3; rettili 12; mammiferi
30. Il ritmo
a cui il genere sostituisce il genere nella linea del cavallo fu 1 per 7,5 milioni di anni, che è alto per i vertebrati, ma non particolarmente alto per i mammiferi. La più alta velocità la si ebbe fra i vertebrati terrestri, probabilmente perché essi furono i più adattabili e i loro habitat si formarono e scomparvero più velocemente. I sistemi sociali, che restringono le dimensioni di un’efficace popolazione riproducentesi, possono aver dato anche loro un contributo.
| 14) Tendenze evolutive. È sorprendente il fatto che entro linee filetiche ogni cambiamento adattativo tenda a progredire più o meno nella stessa direzione senza fermarsi, zigzagare o invertire la marcia. Simili cambiamenti graduali sono detti tendenze evolutive e, sebbene non universali, essi sono stati consueti per grandi popolazioni evolutesi a un ritmo moderato. Le tendenze evolutive sono orientate e prolungate dalla pressione selettiva, e continuano a manifestarsi finché continuano ad essere vantaggiose. Una comune tendenza, il che non significa universale, è stata quella per
le grandi dimensioni corporee. Ripetutamente e in linee filetiche non correlate, c'è stato un graduale aumento della taglia, passando da modesti progenitori a discendenti giganteschi. Esempi del vantaggio delle grandi dimensioni e degli adattamenti per sostenenere un grande peso li troverete nel Capitolo 23. Esempi della tendenza comune a ridurre il numero delle parti seriali sono dati dai denti in molte linee evolutive, dalle dita laterali nei mammiferi provvisti di zoccoli (Figura 1.3), da-
14
1. La morfologia dei Vertebrati
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Progenitore condilartro
Figura 1.3.
Cavallo eocenico Hyracotherium
Cavallo miocenico Miohippus
Cavallo moderno Equus
Tendenze evolutive nelle proporzioni e nel numero delle strutture disposte
in serie nel piede anteriore sinistro del cavallo.
(Non in scala.)
gli archi branchiali nei pesci primitivi e dalle ossa craniche dai pesci ai mammiferi. Al contrario in alcune linee i denti e i muscoli sono aumentati in nu-
mero. Anche le tendenze che portano a cambiamenti nella grandezza relativa delle parti del corpo sono state comuni. Ne sono esempi lo sviluppo graduale di zanne, corna ramificate e becchi insoliti. D’Arcy Thompson nel 1917 mostrò come queste tendenze nelle proporzioni corporee siano mirabilmente descritte dalla progressiva distorsione di un reticolo di coordinate cartesiane (Figura 1.4). Altre tendenze implicano un’aumentata specializzazione delle parti, come è avvenuto per la sempre più complicata disposizione dello smalto nei denti macinatori dei cavalli. Il riconoscimento di tendenze è importante come mezzo per seguire la traccia dell'evoluzione. In questo libro ne sono dati molti esempi. Raramente una singola isolata tendenza può essere identificata in quanto il cambiamento iniziale o primario di solito necessita di tendenze dipendenti o secondarie in risposta a necessità funzionali. Ne consegue che l’aumento della taglia corporea richiede anche modifiche posturali, scheletriche e muscolari; l'aumento dell’efficienza dei denti masticatori premolari richiede l’allungamento del muso e una modifica nella meccanica mascellare. Un’approssimativa linearità è intrinseca nella maggior parte delle tendenze. Le dimensioni, le proporzioni fra le parti del corpo, il numero di parti in una serie, possono solo aumentare, rimanere le stesse o diminuire. Simili tendenze raramente progrediscono a ritmo costante, e spesso hanno temporanei
arresti, tuttavia la direzione del cambiamento è di solito costante poiché lo è
18
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Introduzione
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Cavallo moderno
Equus
Ipotetico stadio intermedio,
simile al cavallo miocenico Merychippus
Cavallo ancestrale
Hyracotherium
Figura 1.4. Tendenze evolutive nelle proporzioni e nelle dimensioni del cranio equino messe in risalto dalla progressiva distorsione di una griglia.
anche la direzione del vantaggio a sopravvivere. Tendenze nella forma e nel grado di complessità sono meno rettilinee. Anche tendenze del tipo fermati-o-avanza in genere arrivano a una fine se e quando la condizione del massimo vantaggio viene raggiunta: le zanne della tigre dai denti a sciabola si allungarono fino all’Oligocene e quindi rimasero circa le stesse per 40 milioni di anni. Inoltre molte tendenze hanno mete teoricamente determinate: il cambiamento verso una maggiore lunghezza dei denti sottoposti a maggiore logorio termina con l’avvento delle radici a crescita con-
[443
[25
1. La morfologia dei Vertebrati
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tinua; il cambiamento verso la perdita delle dita laterali termina con il dito unico dello zoccolo; il cambiamento verso la perdita delle capacità visive termina con gli occhi rudimentali. Ed ancora, alcune tendenze sembrano fermarsi a bre-
ve distanza dal vantaggio massimo mentre altre sembrano andare troppo oltre. Per esempio, alcuni elefanti estinti avevano zanne così grandi che si curvavano e sì incrociavano e non potevano più spingere, sollevare o scavare efficacemente. Ci sono diverse ragioni per cui questo può succedere. Primo, la selezione naturale non si cura degli individui anziani; essa privilegia il valore dei riproduttori e dei potenziali riproduttori, ma disdegna gli individui che non si riproducono più. Inoltre se la continuazione di una tendenza è vantaggiosa in un senso ma svantaggiosa in un altro, la tendenza si fermerà quando vantaggi e svantaggi di ulteriori cambiamenti si bilanceranno. Ciò è frequente, pur non essendo spesso facile individuare casi specifici. Una potenziata corazza dermica potrebbe dare ad un pesce una protezione aggiuntiva contro la predazione ma lo rende meno agile; la maggior snellezza di un arto potrebbe dare all’antilope più velocità ma la rende più soggetta ad una lesione; un’accresciuta curvatura del becco potrebbe rendere ad un uccello più facile procacciarsi un certo tipo di cibo, ma più difficile procurarsene un altro. Il risultato è un compromesso ottimale, non una struttura ottimale per qualsivoglia funzione. | 15) Parallelismo e convergenza. Linee discendenti possono assomigliarsi molto una all’altra in caratteri che non sono presenti nel comune antenato. Il parallelismo è un cambiamento evolutivo, presente in due o più linee, tale che corrispondenti caratteristiche sono sottoposte a modifiche equivalenti rimanendo più o meno simili. I discendenti sono somiglianti circa come lo erano i loro progenitori e in ogni momento la corrispondenza risulta stretta. I ratti canguro nell’ovest del Nord America e i gerbilli dell’Africa e dell’Asia mostrano un impressionante parallelismo: entrambi possiedono lunghe zampe posteriori, corte zampe anteriori, la perdita di dita laterali, pelliccia morbida di colore marrone rossiccio, lunga coda, grandi occhi, capsule auricolari ossee ad ampolla e vertebre del collo compatte (Figura 1.5). E improbabile che il comune progenitore avesse queste caratteristiche; sulla base di altri caratteri, questi roditori sono classificati in diversi subordini. Analogamente, le talpe dorate del Sud Africa e le talpe marsupiali dell’Australia appartengono a differenti ordini,
ciononostante
hanno
in comune
zampe
anteriori
robuste
e con
unghioni, occhi rudimentali, perdita di orecchi esterni, placca cornea nasale ed altri caratteri. Ciascuna linea parallela risulta adattata a tipi e luoghi di vita pressoché identici: i ratti canguro e i gerbilli al forte calore dei deserti sabbiosi; le talpe dorate e quelle marsupiali a vivere sottoterra. È l'efficacia della selezione naturale che produce animali così simili, con adattamenti strutturali che si evolvono per far fronte ad esigenze funzionali quasi identiche.
La convergenza è un cambiamento evolutivo in due o più linee tale che caratteristiche precedentemente dissimili diventano simili. I discendenti sono tra loro più simili di quanto lo fossero i progenitori, sebbene la somiglianza raramente risulti tale anche nei particolari. Le esigenze funzionali simili risultano assolte in modi per qualche aspetto diversi in quanto il comune an-
20
105)
Introduzione
© 88-08-11832-0 PARALLELISMO
CONVERGENZA
I Ratto-canguro
Squalo
È Ittiosauro
Delfino classe
Mammalia
Roditore primitivo
classe Reptila Insettivoro primitivo
Classe Ch
;
ONdrIchthyes
Rettile ancestrale
Vertebrato agnato
Figura 1.5. Parallelismo e convergenza portano entrambi ad una corrispondenza strutturale in risposta a comportamenti simili; vi è però differenza nell’estensione delle somiglianze da un piano generale comune al dettaglio della singola struttura.
tenato è spesso (ma non sempre) troppo lontano per consentire un parallelismo. La notevole somiglianza dello squalo con l’ittiosauro (un rettile estinto) e con il delfino ne è un esempio classico (Figura 1.5). Il progenitore comune era un pesce corazzato primitivo dissimile da ognuno dei tre. Nessuno degli antenati del primo viveva fuori dell’acqua mentre gli altri due hanno sì antenati terrestri, ma diversi. Ciononostante la coda di ognuno di essi ha una forma che ne
favorisce la funzione di fendere l’acqua (pur essendo una rivolta verso l’alto, una verso il basso ed una orizzontale con alette laterali). Hanno tutti e tre numerosi denti semplici (ma sono senza radici in uno, radicati in scanalature in
un altro e radicati in cavità nel terzo). Lo stesso tipo di generale rassomiglianza, con variazioni nei dettagli, si mantiene per la spina dorsale, gli occhi e le pinne pari e impari. Un altro esempio è la somiglianza di uccelli e rettili volanti: nonostante la comune origine piuttosto remota, hanno entrambi grandi occhi, narici prossimali, lungo rostro, lungo collo, tronco breve, grande sterno saldato al cinto pettorale, molte vertebre in connessione con il cinto pelvico, ossa pneumatiche e altre caratteristiche comuni. I concetti di parallelismo e convergenza si fondono uno nell’altro. Ognuno di questi processi rende i vari gruppi simili più per funzioni e sembianze che per filogenesi. Trascurando la disputa su funzione o filogenesi, resta
16,
16
1. La morfologia dei Vertebrati
21
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importante il fatto che il morfologo a volte può mal interpretare una prova se parallelismo e convergenza non sono riconosciuti e ben interpretati.
Orientamenti nello studio e nell’insegnamento della morfologia dei Vertebrati 16 Può essere utile mettere a confronto la vecchia impostazione di una disciplina scientifica con quella attuale. Utile non perché il confronto mostri quali aspetti metodologici e quali problematiche ci facciano risultare «moderni», ma perché mette in grado partecipanti e osservatori di accertare il progresso e
la vitalità della disciplina e fare proiezioni a breve termine su materiali, metodi e loro rilevanza. L’attuale studio della morfologia dei vertebrati differisce dall'anatomia comparata di diverse generazioni fa sotto molteplici aspetti, il che però non vuol dire che solo modifiche e cambiamenti caratterizzano o dovrebbero caratterizzare tutto il lavoro di ricercatori e insegnanti. In passato si facevano più congetture di quante non se ne facciano ora;
ad esempio vennero elaborate e discusse, sulla base di deboli prove, teorie opposte sull’origine delle appendici pari e dei denti multicuspidati. Ora, invece, la maggioranza dei morfologi preferisce lavorare su teorie già messe alla prova o per lo meno provabili. Molti problemi irrisolti (per esempio le particolareggiate omologie delle parti di vari crani di condroitti e l’origine del rene dei vertebrati) sono stati decisamente accantonati perché con le risorse odierne sono
possibili solo risposte dubbie. Viene data ora meno importanza alla filogenesi e più alla funzione, meno ai generali adattamenti e più a quelli specifici, meno all’omologia e più all’analogia. I morfologi ora pongono in rilievo più le differenze che le somiglianze. Gli studi descrittivi rimangono di estrema importanza, ma non sembrano più tanto soddisfacenti se non sostengono anche l’interpretazione della forma e della funzione. I taxa maggiori sono ora meno studiati mentre lo sono di più i minori. Viene dato meno rilievo a strutture isolate e più alle unità funzionali. L'esame di materiali conservati è sempre più spesso integrato dallo studio di animali viventi. La morfologia è ora meno chiusa e più eclettica sui materiali, sui metodi e sulla scelta dei problemi. Essa si integra con altre discipline. La variabilità viene considerata più importante, cosicché, quando è possibile, viene utilizzato un più grande numero di esemplari. Le tecniche di campionatura sono diventate basilari. La correlazione e altri metodi quantitativi sono utilizzati per l’analisi. Non sono più accettabili studi superficiali e generalizzazioni da dati insufficienti. La dissezione, micromanipolazione compresa, rimane una tecnica mol-
to importante sebbene troppo spesso trascurata. In anni recenti tuttavia i mor-
fologi hanno utilizzato molta nuova strumentazione e molte nuove tecniche. Ne sono esempi la microscopia
(ottica ed elettronica), l’istochimica,
la cinemato-
grafia (riprese ad alta velocità, radiografia, fluoroscopia incluse), la proiezione di film analitici (a direzione e velocità variabile, a controllo remoto), la rappresentazione computerizzata, le tecniche grafiche ed artistiche, i metodi stereotas-
22
16
Introduzione
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sici, la telemetria, la programmazione computerizzata, l’analisi di registrazioni televisive, le tecniche elettrofisiologiche (comprendenti l’elettromiografia e l’uso di sensori dell’attività nervosa), le tecniche fisiche, elettriche ed ingegneri-
stiche,
di
registrazione
dei
dati
(comprendenti
fotoelastica e fotostress, l’uso di trasduttori
l’osteometria,
di forza e misuratori
l’analisi
di tensione,
l’uso di oscilloscopi e registratori multigrafici). Inoltre sono importanti, particolarmente nell’insegnamento, le tecniche per fissare, preservare e imbalsamare gli animali; la preparazione, anche a fini espositivi, di scheletri ossei e cartilaginei, in liquidi o seccati; il fare preparati dimostrativi essiccati ossa-muscoli; l’iniezione (con coloranti) di vasi, dotti e cavità; la dissezione e colorazione del tessuto nervoso; l’essiccamento all’aria di visceri cavi; il metodo di congelazione-essiccamento; l’inclusione; il modella-
mento e lo stampaggio. Ho descritto e illustrato queste tecniche altrove (vedi i riferimenti bibliografici alla fine del libro). Gli anatomisti chiedevano un tempo «a cosa assomiglia?». I morfologi continuano a porsi la stessa domanda, ma ora si chiedono anche «come funziona?» e «come è venuto ad assumere tale forma?». Ma soprattutto durante gli ultimi venti anni lo studio della morfologia dei vertebrati ha acquistato lo spirito di vitalità e l'eccitazione che viene da un progresso in accelerazione.
GENERALITÀ DEI VERTEBRATI: i
principali modelli strutturali
° i *--#e vasi
—
dì
CITI
Figura 6.6 Sezione della pelle di un anfibio.
102
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
[ 69 | © 88-08-11832-0
uperficie esterna della La
DaCI Derma
/
Epidermide
Superficie interna della a
-Cemniera
Strato pellicolare
2
Pelle «vecchia» eliminata con la muta
——..-—
—m—BPbcheratina
DE, F
=== SS
a-cheratina
i
Cellule vive
SEED se >
Derma
—
DES
SI fe :
Pelle «nuova» dopo la muta
Strato intermedio
uu
Zona di distacco
"___ Prossimo strato di f-cheratina ==
Prossimo strato intermedio
=
Figura 6.7. Sezione della pelle e dell'epidermide di un rettile squamato appena prima di una muta.
e questo può avvenire più volte in un anno. Subito dopo una di queste mute si entra in quella che viene definita una fase di quiescenza: l’epidermide ora consiste di uno strato germinativo e di una generazione epidermica esterna, formata tipicamente da cinque strati. Dall'esterno verso l’interno si osserva un primo strato spesso, acellulare, morto e cheratinizzato completamente da f-cheratina. La superficie esterna di questo strato è cosparsa di microscopiche spine e ha un nome, strato pellicolare. Al di sotto di questo strato f vi è un sottile strato («intermedio») di non ben conosciuta funzione e poi uno strato abbastanza spesso di materiale morto, anucleato, lasso, con a-cheratina. Al di sotto di questi vi sono ancora due strati di cellule vive: il più esterno verrà successivamente a formare lo strato a mentre quello più profondo andrà incontro a uno schiarimento preludente al distacco di muta. Al termine della fase di quiescenza dall’epitelio germinale viene rapidamente prodotta tutta una serie di nuovi strati a costituire la generazione epidermica interna, che maturandosi si separa dallo strato più profondo della generazione epidermica esterna, fatto che dà il via al cambio di pelle («muta»).
La placca cheratinosa alla superficie esterna di una grossa squama piatta è detta scudo. Gli scudi di coccodrilli e cheloni non si distaccano e con la crescita si ha un’ulteriore aggiunta di materiale cheratinizzato sotto l’intera superficie interna di ciascuno scudo, tale da compensare il logorio. In ogni ciclo
| 69
70
6. Tegumento
e suoi derivati
103
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di crescita si ha un’espansione marginale dello scudo e si formeranno così i familiari cerchi concentrici sulla corazza delle tartarughe (Figura 6.8). Il derma dei rettili è sottile. Non vi sono ghiandole mucose, come
del
resto si verifica nella pelle di tutti gli altri veri tetrapodi terrestri. Ghiandole odorose di vario tipo (ghiandole sessuali, ghiandole preanali, pori femorali ecc.) sono localizzate nella coda (alcuni sauri), nell’area cloacale (quasi tutti gli squamati), sulle cosce (nelle lucertole) e sotto le mascelle (nei coccodrilli). Le loro
secrezioni influenzano il comportamento sociale. Alcune ossa reperibili nella pelle dei rettili sono già state menzionate poche pagine addietro.
70 Il tegumento degli Uccelli: pelle sottile con penne. Adottando una diversa strategia, gli uccelli hanno in quasi tutto il corpo una pelle sottile e appena cheratinizzata, lassamente unita ai sottostanti tessuti: sono le appendici della pelle, le penne,
ad essere
molto
cheratinizzate.
La parte inferiore
delle zampe e i piedi sono però coperti da squame cornee simili a quelle degli archeosauri, che non vengono mai perse. Anche il becco è molto cheratinizzato. Il dente dell’uovo degli uccelli e di alcuni rettili è un rilievo del becco o del rostro che il nascituro utilizza per rompere il guscio dell’uovo (vedi Figura 5.1). (1 dente dell’uovo di serpenti e lucertole ha la stessa funzione, ma è un
vero dente.) Gli speroni dei galli sono spine cornee attorno ad un elemento osseo. Salvo rare eccezioni, i soli derivati ghiandolari della pelle negli uccelli sono le grosse, ramificate, alveolari, ghiandole dell’uropigio subito sotto la co-
Figura 6.8. Carapace di una tartaruga di terreni aridi, Gopherus; evidenti le linee di crescita delle singole placche. Visione dorsale, versante frontale a sinistra.
104
70
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
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da, che secernono un olio di cui si servono gli uccelli per aspergerne le penne, e sono molto sviluppate negli uccelli acquatici. Pur mancando una documentata conoscenza delle tappe intermedie, vi sono valide indicazioni biofisiche, ontogenetiche e anatomiche che le penne si sono evolute dalle squame epidermiche del predecessore rettiliano degli uccelli. Contengono
f-cheratina, cioè lo stesso tipo di cheratina che si ritrova nello
strato superficiale esterno delle squame degli arcosauri. La cheratina della pelle degli uccelli, come pure quella del più sottile strato superficiale interno delle squame degli arcosauri, è a-cheratina. È probabile che le penne abbiano inizialmente avuto una funzione isolante e solo più tardi abbiano acquisito quella di sostegno nell’aria. Vi sono parecchi tipi di penne e molte forme intermedie: fra le più familiari e complesse sono le penne di contorno che conferiscono all’uccello la forma
esterna
e assicurano
un
cuscinetto
d’aria nel volo (Figura 6.9). Poche
strutture animali hanno un disegno più bello: l’asse ha un calamo cavo, prossimale (più vicino al corpo) e un rachide pieno, distale (più lontano dal corpo);
il vessillo è costituito da barbe, che si dispongono perpendicolari al rachide su versanti opposti, e da più piccole barbule, che si distaccano dalle barbe. Le barbule del versante distale di ciascuna barba sono provviste ai bordi di amuli che agganciano le barbule che si distaccano dal versante prossimale dell’adiacente barba. Ne risulta una rete forte, leggera e flessibile; se danneggiato, il vessillo sì scompagina senza che i suoi elementi si rompano. L’integrità della penna viene ristabilita dall’uccello lisciandola con i bordi del becco, riagganciando così gli uncini.
SET N
PI
VI)
Amuli
Barbula distale
Barba
Barbula prossimale Calamo
Figura 6.9. Struttura di una penna di contorno.
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Le penne
6. Tegumento e suoi derivati
delle ali (remiganti)
e le penne
105
della coda (timoniere) sono
larghe e a bordi netti. (Le remiganti primarie sono attaccate alla mano, le remiganti secondarie al braccio.) Una variante delle penne di contorno non ha uncini, perciò non dispone di un vessillo unito, ma cotonoso. Molti uccelli, e fra questi quelli degli ordini più primitivi, hanno penne doppie, nel senso che dalla base della penna principale se ne distacca un’altra più piccola e morbida, l’iporachide. Le penne di contorno sono uniformemente distribuite su tutto il corpo in parecchi generi di uccelli (probabilmente una condizione primitiva), ma di solito sono limitate ad alcune strisce di pelle dette pterili. Le penne partendo dagli pterili ricoprono anche le zone frapposte. La disposizione degli pterili è un carattere tassonomico (utile al sistematico per stabilire il taxon). 71 Le piume non hanno quasi affatto rachide: lunghe barbe si distaccano dalla base della penna e sono senza uncini. Le piume sono piccole e soffici (Figura 6.10). Le piume, nascoste dalle penne di contorno, sono distribuite un po’ dappertutto e non sono confinate agli pterili; loro funzione è garantire l’isolamento termico. Le setole derivano dalle penne di contorno per una parziale o totale perdita del vessillo; sono penne corte e rigide, utili per tenere lontano dalle narici oggetti estranei (falchi, merli), aumentare l’ampiezza utile della bocca (succiacapre) o formare
delle ciglia (struzzi).
I colori delle penne dipendono da due fattori: i colori giallo, arancio, rosso, marrone e nero sono dovuti a specifici pigmenti introdotti nella penna durante il suo sviluppo; il colore bianco è un risultato della microstruttura della penna; l’azzurro, il verde e le tinte iridescenti provengono dalla combinazione di pigmenti neri, gialli (e altri) con una microstruttura che riflette solo parzialmente la luce.
Le penne sono soggette a muta e vengono rimpiazzate una o (meno frequentemente) due volte l’anno. In molte specie la caduta è scaglionata nel tempo cosicché non ne venga modificata la funzionalità, ma le oche e pochi altri uccelli perdono le penne per il volo tutte insieme. Lo sviluppo di una penna ha inizio con una «salienza» di mesoderma, la papilla dermica, che viene ricoperta da ectoderma. Questo abbozzo si approfonda nella pelle, provocando così attorno alla sua base una piccola depressione, il follicolo della penna (Figura 6.11). La penna è costituita da solo ectoderma, ma l’ectoderma non solo deve essere nutrito dal mesoderma vasco-
Figura 6.10.
Una piuma.
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Filogenesi e ontogenesi delle strutture
Guaina della penna — dovrà rompersi perché la penna si spieghi
Rachide cheratinizzato Anima lassa del rachide
È . i Guaine della polpa in degenerazione per il suo retrarsi
Barbule cheratinizzate
Barbe cheratinizzate — si ripiegano per congiungersi al rachide
Collare
”
Papilla dermica
Vasi sanguigni
i
FEE (3
Epidermide embrionale Derma
| Follicolo della penna Collare
Figura 6.11.
Sezione di una penna di contorno in sviluppo.
lare, ma deve essere attivato da questo. Risultati sperimentali rendono evidente
che in assenza di mesoderma non si forma assolutamente una penna, mentre, se vi è una papilla, anche un ectoderma che non avrebbe normalmente prodotto penne ne produce una. Una guaina della penna, cheratinizzata, riveste in superficie le penne in eruzione e viene successivamente persa. Alla base del follicolo lo strato germinale forma un collare. Le barbe di una piuma si sviluppano direttamente dal collare verso l’esterno al di sotto della guaina. Una prima tappa nello sviluppo di una penna di contorno è lo sviluppo di un rachide come escrescenza di un punto del collare: le barbe si sviluppano dapprima come rami del rachide e successivamente come formazioni dello stesso collare migranti nel rachide via via che si allunga. Quando la guaina viene asportata dalla penna in maturazione le barbe si dispiegano a destra e a sinistra del rachide passando così dalla cilindrica penna embrionale alla piana penna matura. 72 Pelle, squame e ghiandole tegumentarie dei Mammiferi. La pelle dei mammiferi è relativamente spessa, in particolar modo il derma da cui si ottiene il cuoio. Lo spessore varia però molto a seconda della specie animale e della zona del corpo (e a volte anche a seconda delle stagioni). L’epidermide si ispessisce dove i peli sono radi e nelle aree soggette a pressioni e abrasioni, come sono le piante dei piedi, le ginocchia callose di cammelli e facoceri, i duroni nelle code prensili. Tra strato germinativo e strato corneo possono esservi più strati di transizione, il più costante dei quali è lo strato granuloso (Figura
[72 ]
6. Tegumento e suoi derivati
107
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6.12). Fasci di muscolatura liscia nel derma prendono rapporto con i follicoli piliferi. Lo strato corneo diviene a volte squamato, come nelle code dell’opossum e del castoro. L’unghia è una struttura molto cheratinizzata che si avvolge attorno alla sottile estremità ossea del dito: il margine distale e le parti superiore e laterali formano la lama e sono più dure della parte sottostante (suola). Gli zoccoli derivano dalle unghie. La lama dello zoccolo di un cavallo è costituita da compattati tubuli cornei. L’intero zoccolo a volte si slarga sotto l’impatto della ricaduta dopo un salto. L’armatura di un armadillo è costituita da un’epidermide molto cheratinizzata unita a ossificazioni dermiche. Il solo pangolino (un mammifero dell’ordine Pholidota) dispone chiaramente di squame embricate sul dorso (vedi Figura 25.2). Queste squame, che possono essere anche più lunghe di 2-3 cm, cadono una alla volta e si riformano più larghe via via che l’animale cresce. I fanoni delle balene sono escrescenze dell’epitelio boccale simili a tavolette che funzionano da setaccio per il cibo (vedi Figura 3050!
Le ghiandole del sudore (o ghiandole sudorifere) sono esclusive dei mammiferi. Molte specie hanno oltre un milione di queste piccole ghiandole distribuite sull’intera superficie corporea; altre ne hanno molto meno e limitate al muso o alla suola dei piedi; altre ancora, e tra queste balene e foche, non ne hanno bisogno e non ne hanno. Le ghiandole sudorifere sono tubulari, semplici
Epidermide { Dotto di ghiandola
/
/,
2
Strato corneo
2
Strato granuloso
=
Strato germinativo
sudoripara
Ghiandola sebacea
Muscolo liscio
Fusto del pelo con la medulla interna e la corteccia esterna
Avvolgimenti della ghiandola sudoripara
Follicolo del pelo
s.i=ic——
Cono del pelo Papilla dermica
Figura 6.12. Sezione della pelle di un mammifero.
Grasso
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Filogenesi e ontogenesi delle strutture
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73
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(non lobate) e avvolte a gomitolo nella parte più interna. Ve ne sono due tipi, leggermente diversi per struttura e natura del secreto. Si sviluppano nell’embrione da zaffi di ectoderma che si approfondano nel derma. L’evaporazione del sudore dalla superficie della pelle contrasta il surriscaldamento e riduce lo slittamento dei piedi sul substrato. Sale, urea e altri prodotti di scarto vengono escreti nel sudore. Le ghiandole delle palpebre (ghiandole di Moll), che si aprono nelle ciglia, e le ghiandole del cerume dell’orecchio esterno sono ghiandole sudorifere modificate e slargate. Anche le ghiandole sebacee sono esclusive dei mammiferi. Una o più di queste ramificate ghiandole alveolari si scaricano in ciascun follicolo pilifero; le si ritrova non collegate ai peli nei capezzoli, nelle labbra e sui genitali. La loro secrezione oleosa lubrifica il pelo e previene l’eccessivo essiccamento della pelle sottile. La lanolina, utilizzata come sostanzabase nei cosmetici, non è altro che la raffinata secrezione sebacea della pecora. Ghiandole sebacee modificate (ghiandole di Meibonio) si trovano nelle palpebre, e la loro secrezione forma un film sopra i globi oculari e di norma previene la fuoriuscita del liquido lacrimale. Molti mammiferi dispongono di ghiandole odorifere; vi è una grande varietà, sia nelle caratteristiche che nella distribuzione. Possono servire per di-
fendersi, riconoscersi o per l’attrazione sessuale; sono localizzate nella regione anale (nei mustelidi), sul muso
(pipistrelli, antilopi), sul dorso (ratto canguro),
sui piedi (in alcuni artiodattili) o su un’altra qualsiasi parte del corpo. Alcune ghiandole odorifere deriverebbero da ghiandole sudorifere mentre altre deriverebbero da sebacee. Solo i mammiferi sono provvisti di ghiandole mammarie, che secernono il latte che i giovani lattanti poppano. Prima indicazione dello sviluppo delle ghiandole è la comparsa nell’embrione di un paio di creste epidermiche, le linee del latte, che vanno dal petto fino all’inguine: a intervalli lungo queste linee, laddove poi si sviluppano le mammelle, l’ectoderma si approfonda nel derma e si dirama in zaffi compatti. Nelle femmine questi zaffi si allargheranno alla maturità, accrescendosi sotto la pelle e divenendo ghiandole composte (lobate) e alveolari. La maggior parte del seno umano è grasso. La ghiandola diviene attiva al momento del parto sotto l’influenza di ormoni ovarici e ipofisari. Il numero delle mammelle si accorda a quello dei giovani nella cucciolata e può variare da un paio ad una dozzina di paia; le mammelle possono essere pettorali (primati, elefanti, pipistrelli, foche), inguinali (ungulati) o intervallate fra queste due zone (roditori, carnivori). Le ghiandole mammarie
derivano filetica-
mente da primitive ghiandole sudorifere. Ciascuna ghiandola del latte si apre con numerosi dotti alla superficie: nei monotremi sono accolti in una depressione da dove il piccolo lappa il latte, condizione che viene ritenuta primitiva. Di solito la zona di emergenza dei dotti è rilevata a formare un capezzolo che il lattante prende con la bocca e succhia. Negli ungulati è invece la pelle attorno al punto di emergenza che è rilevata formando così un capezzolo cavo (Figura 6.13). Pelo. L’origine filetica del pelo non è chiara, né vi sono indicazioni che il pelo si sia evoluto da squame rettiliane. Dove peli e squame sono contemporaneamente presenti (come nella coda dei ratti, nelle fasce degli armadilli e sul
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6. Tegumento
e suoi derivati
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© 88-08-11832-0 Muscolatura anulare
Dotti galattofori Ghiandole sebacee
Tessuto connettivo
Grasso
f3: Ghiandola mammaria attiva
{SN
YAN CL e)
a
FADCIOL
È
PF
Guaina di tessuto connettivo
Figura 6.13.
Sezione di un capezzolo e dei tessuti annessi, in un primate (a sinistra) e
in un artiodattilo (a destra). Riportati in scale diverse.
dorso dei pangolini), il pelo cresce tra le squame, la cui distribuzione si impone a quella del pelo. Una distribuzione similare del pelo si ha a volte anche laddove le squame mancano. Qualche valida indicazione è stata data da Maderson a favore dell’ipotesi che i peli si siano formati dalle appendici sensorie rettiliane, tipo meccanorecettori, localizzate fra le squame e interessate al comportamento termoregolatorio: queste strutture sarebbero aumentate di numero riuscendo ad assicurare una copertura isolante al corpo. Alcuni rettili mammalo-simili (teriomorfi) potrebbero già essi aver raggiunto questo stadio nell’evoluzione. Un tipico pelo ha una radice espansa ed un’asta che, sotto la pelle, si cela in una guaina epidermica, il follicolo del pelo (vedi Figura 6.12). Una o più ghiandole sebacee di solito si versano nella fenditura tra asta del pelo e tessuti adiacenti. Il follicolo penetra angolato sotto la pelle ed un sottile muscolo liscio, proveniente dalla parte più esterna del derma, vi si inserisce in modo da provocare, contraendosi, l'approssimarsi del follicolo alla superficie e il raddrizzamento del pelo. Questo fatto, che nell'uomo provoca al più la «pelle d’oca», in molti mammiferi comporta un maggior spessore della pelliccia, aumentandone le capacità dissuasive e di isolamento termico. Le sezioni del pelo ne mettono in evidenza due o tre diversi strati, il
più importante dei quali è la cortex, relativamente densa e contenente il pigmento del pelo. Attorno a questo, esternamente, vi sono microscopiche scagliette che ne costituiscono la cuticola. Dimensioni, forma e modo di sovrapporsi di queste scagliette variano da specie a specie. I teriologi (studiosi di mammiferi o terii) traggono a volte vantaggio da questa individualità quando si propon-
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Filogenesi e ontogenesi delle strutture
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gono di identificare il pelo nelle borre degli strigiformi o nello sterco dei carnivori. I grossi peli hanno anche una medulla centrale formata da residui di cellule morte e spazi pieni d’aria. La giarra è costituita da peli diritti e relativamente lunghi che danno ad una pelle i suoi colori e il suo disegno; sono spesso raggruppati a due o a tre.
Divaricando i peli di molti mammiferi (e in special modo degli «animali da pelliccia») ci si accorge che vi sono peli più corti, molto sottili e numerosi: è questa la borra o lanuggine. Sono di solito appiattiti e ciò li rende ondulati; si raggruppano di solito in una dozzina o più attorno ad un pelo della giarra, intrappolando innumerevoli bolle d’aria, il che favorisce l’isolamento termico ed ostacola la penetrazione dell’acqua fino alla pelle. Peli molto grossi sono quelli delle ciglia e delle criniere e quelli della coda degli ungulati; quelli dei baffi, o vibrisse, sono anche più grossi, specializzati come organi tattili. La rigida asta di una vibrissa funziona come una leva che ha come fulcro la pelle riuscendo così a trasferire sulla radice ogni piccolo movimento. Iì bulbo alla sua estremità interna è circondato da tessuto erettile ricco di terminazioni nervose. I «peli» più pesanti di tutti sono gli aculei, cavi e molto rigidi. La cuticola all'estremità dell’aculeo di un istrice forma delle sottili ed effettive barbe. Molti mammiferi mutano una o due volte l’anno e le pellicce estive e invernali possono essere molto diverse in densità, qualità e colore. Il nuovo pelame di solito compare dapprima in una o più zone e si allarga poi all’intero manto con sequenze caratteristiche di quella specie. Il mesoderma riveste un ruolo di minor rilievo nella formazione di un pelo di quanto non ne rivesta in quella di una squama o di una penna. Un solido zaffo di ectoderma si approfonda nel derma e le pareti dello zaffo diverranno la bistratificata guaina del pelo. Una piccola papilla dermica si forma all'estremità interna slargata dello zaffo e le cellule ectodermiche che ricoprono questa papilla proliferano formando il pelo che emerge dalla pelle dopo aver spinto da parte le cellule della guaina.
74 Corna e palchi di corna. Le corna dei tetrapodi sono di più tipi. Il corno del rinoceronte è fatto di fibre cheratinizzate di 1/2 mm di diametro compattate in una struttura solida, dura quanto basta (come hanno appreso a loro spese alcuni collezionisti di trofei animali) da perforare un’autoblindo. La crescita si effettua partendo dall’epidermide; vi sono molte e piccole papille dermiche alla base del corno, che è a crescita continua e non è caduco. Le «corna della giraffa» sono solo delle proiezioni bastoncellari delle ossa del cranio e sono permanentemente ricoperte dalla pelle. I palchi di corna dei cervidi sono anch’essi protuberanze ossee del cranio, ma sono caduchi e vengono rinnovati ogni anno. L’osso, duro e compatto,
è ricoperto dalla pelle («velluto») solo durante la crescita (Figura 6.14). Raggiunte le definitive dimensioni, la circolazione sanguigna nel velluto si interrompe, il che provoca la morte della pelle e la sua definitiva eliminazione. Al termine della stagione degli amori l’osso alla base del palco, appena sopra una espansione rugosa detta «rosetta», si indebolisce e il palco di corna cade. I pal-
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6. Tegumento e suoi derivati
CORNO DI BOVINO
CORNO DI CERVICAPRA
Sezionato per evidenziare astuccio e cavicchio osseo
Figura 6.14.
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CORNA DI CERVIDI Dopo il distacco
Nel velluto
Tipi diversi di corna.
chi di corna hanno forme diverse, talvolta slargata, e di solito sono negli animali maturi. Le pronghorns sono esclusive delle antilocapre, artiodattili anch’esse sono protuberanze ossee del cranio ricoperte da pelle, ma vece di produrre pelo, formano un corno. L’asta ossea è permanente rivestimento corneo
ramificati americani: queste, inmentre il
è caduco e si riforma ogni anno.
Le vere corna dei bovini e delle antilopi (e di alcuni dinosauri e dei camaleonti,
fra i rettili) hanno l’osso interno vascolarizzato e a volte in esso si
estendono anche i seni frontali: esterna all’osso vi è una guaina cornea di origine epidermica. La sostanza cornea non è filacciosa come quella del corno del rinoceronte e dello zoccolo equino: la crescita avviene per deposito dall’interno cosicché l’osso cranico tende a scivolar fuori, fatto compensato da anelli di crescita cornea attorno alla base. Il corno è «permanente», anche se vi è una qual-
che sfaldatura del vecchio corno. Il corno del rinoceronte e la guaina delle vere corna sono simili in
quanto ciascuno cresce solo per accumulo all’estremità basale di materiale duro che non può più in seguito modificare la sua forma. In questo ricordano gli artigli, le zanne e le conchiglie dei molluschi. Quando queste strutture crescono allo stesso modo
da tutte le parti, esse crescono
dritte: ma il più delle volte la
crescita non è uguale tutto attorno alla base e, se il punto di minima crescita è esattamente dalla parte opposta di quello di massima crescita, la struttura assumerà una forma a spirale logaritmica (equiangolare). Ne è un esempio il corno del rinoceronte. Se invece il punto di minima crescita non è opposto al punto di massima crescita, allora una spirale elicoidale (a cavatappi) si sovrappone parzialmente ad una piatta spirale logaritmica. Le corna dell’ariete ne sono un esempio.
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Filogenesi e ontogenesi delle strutture
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Filogenesi? 75 Come abbiamo preannunciato agli inizi del capitolo, è ora possibile fornire per i diversi tipi di scaglie ossee e strutture affini una filogenesi ragionevolmente soddisfacente. La tendenza evolutiva è stata quella di una loro riduzione, tanto in dimensioni che in complessità. Qualche tentativo è stato fatto
di stabilire una filogenesi anche per le altre strutture tegumentarie, ma l’obiettivo è reso confuso da molteplicità di origini, plasticità evolutiva, parallelismi e convergenze. Di poco aiuto sono state la paleontologia e gli studi sullo sviluppo, sull’innervazione e sulle funzioni svolte. Alcuni morfologi ritengono che le diverse ghiandole mucose dei vertebrati acquatici siano probabilmente comparse in epoche diverse, evolvendo per linee indipendenti, e che non vi sia omologia con alcuna ghiandola di rettile, uccello e mammifero. Né d’altronde si ha idea di quanto siano correlabili le ghiandole granulose di ciclostomi, pesci e anfibi. Sembra invece più consistente la corrispondenza nelle linee generali dei derivati cheratinizzati
della pelle dei vertebrati terrestri, ma vere strutture
tegumentarie omologhe potrebbero anche non sussistere al di sopra del livello tassonomico di classe fra i moderni vertebrati.
CAITOLO
DENTI 76 zionata ragioni, valenza
I denti hanno per la morfologia dei vertebrati un’importanza sproporal loro contributo nella struttura complessiva del corpo. E ciò per molte prima fra tutte la loro bassa degradabilità che ha comportato la loro prefra i reperti fossili. Seconda, il loro alto grado di adattamento, tanto da
rendere possibile stabilire, in base ai denti, quale fosse la dieta base di un ani-
male. Terza, la grande variabilità nei dettagli strutturali fra i diversi gruppi di vertebrati, associata d’altronde con una relativa stabilità strutturale fra i compo-
nenti uno stesso gruppo tassonomico, hanno dato ai denti un valore inestimabile per la sistematica; vi sono esperti in grado di identificare molte specie di mammiferi basandosi su di un solo dente molare. Ed infine, in apparente contrasto con la forte adattabilità alla dieta, attraverso i denti è talvolta possibile ricostruire un percorso evolutivo nelle sue linee generali entro, e fra, generi o famiglie od ordini. Per tutte queste ragioni i denti sono stati oggetto di molti studi.
Origine e struttura 77
Un accenno all’antica corazza tegumentaria è stato fatto nel Capitolo 6
e nel par. 57 ne è stata fatta anche una ricostruzione grafica; questa corazza ha dentelli superficiali di smalto (o di similsmalto, secondo alcuni autorevoli stu-
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VA
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
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diosi) e di dentina fusi con l’osso sottostante. I denti si sono evoluti dai dentelli liberatisi dall’armatura superficiale in prossimità della bocca via via che l’ossificazione del tegumento tendeva a ridursi. La parte di dente completo soprastante la radice, e in definitiva quella soggetta a logorio, è la corona. La radice si approfonda nella gengiva e di solito è ancorata ad un osso dell’arcata mandibolare. All’interno la cavità della polpa accoglie vasi sanguigni e nervi (Figura 7.1). La massa del dente è formata per lo più da ortodentina. Le basi dei denti di alcuni pesci sono costituite da un’osteodentina vascolarizzata che ne fa tutt'uno con l’osso della bocca. I denti non ancora logorati dall’uso sono coperti da smalto, di rado con spessori superiori ai 2 mm anche negli animali più grossi. In cosa consistano questi tessuti duri si è detto nel Capitolo 6. Le radici dei denti infissi in alveoli sono ricoperte da un sottile strato di cemento. (Anche nella corona di alcuni denti specializzati per triturare vi è cemento.
Vedi
Figura 30.17.) Il cemento
è un
osso
non
vascolarizzato,
senza
osteoni e quasi sempre acellulare. È ricco di fibre collagene e più morbido della dentina.
Smalto
4a= Mucosa gengivale _—
Dentina
7
Cavità della polpa Vasi e nervi
Membrana periodonte
Cemento
Figura 7.1. Sezione longitudinale di un dente incisivo di mammifero.
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7. Denti
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Sviluppo 78 Conoscere il processo di sviluppo di un dente renderà più facile comprendere le modalità di rimpiazzo e l’origine di denti complessi a partire dai più semplici. Un primo momento nella formazione di un dente si ha nel periodo embrionale, quando si forma, lungo i margini della bocca, una piega dell’ectoderma entro il sottostante mesoderma delle gengive: questa struttura a doppia parete costituisce la lamina dentale (Figura 7.2). A intervalli lungo di essa, noduli di tessuto fanno salienza nel suo margine profondo rendendolo simile (come si vede da una sezione trasversa della mandibola) ad un calice rovesciato. Questo tessuto, ritenuto di solito un mesoderma, è in realtà derivato dalla cresta
gangliare, le cui cellule sono migrate in questo mesoderma (vedi par. 57), cosicché si preferisce indicarlo come mesectoderma o ectomesenchima. La coppa a doppia parete del calice costituisce ora l'organo dello smalto. Le cellule più interne, adamantoblasti, formeranno lo smalto. Ciascun nodulo mesodermico, o papilla dermica, svilupperà alla sua superficie quelle cellule (odontoblasti) che formeranno la dentina. L'intero complesso prende il nome di abbozzo del dente. Vi è una reciproca induzione (sul tipo di quella notata per il tegumento nel par. 63) tra organo dello smalto e papilla dermica, per cui ciascuno dei due è necessario al corretto funzionamento dell’altro. La forma della corona del futuro dente è determinata dalla conformazione dell’interfaccia tra organo dello smalto e papilla nel momento in cui si formano i tessuti duri: fino a quel momento, l’interfaccia è gradualmente plasmata dalle pressioni differenziali e dalla crescita delle diverse parti dell’abbozzo del dente. Se vi sarà più di una cuspide, la deposizione di smalto e dentina inizierà là dove sarà il culmine del-
la principale cuspide. Mentre va avanti il processo, lentamente il dente che si sta formando si porta verso la superficie della gengiva: l’organo dello smalto regredisce con l'emergere della corona, cosicché non potrà esservi ulteriore aggiunta di smalto. La formazione di dentina continua anche dopo che il dente ha iniziato a svolgere la sua funzione. Il cemento si forma soltanto se vi è dentina. La papilla diverrà la polpa.
Smalto _
Dentina
Epitelio gingivale _ j Listerella
dentaria
>
Adamantoblasti
Organo dello smalto Papilla dermica ‘
/
Mesenchima
dn
Primordio del ©
®
LE
dente di rimpiazzo
Figura 7.2. Sezione diagrammatica dello sviluppo di un dente tecodonte.
A
S
116
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Filogenesi e ontogenesi delle strutture
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Attacco e rimpiazzo 79 I denti dei pesci cartilaginei sono ancorati alla pelle con fibre collagene (fibre di Sharpey) che vanno dal derma entro la dentina. I denti di quasi tutti i vertebrati, però, sono fissati, chi più chi meno, alle ossa della bocca. A volte il margine più esterno di ciascuna mandibola forma una parete sottile che nel suo versante interno (linguale) ha una serie di cavità ove accoglie i denti. Ogni dente si unisce all’osso solo con la superficie esterna (boccale) della sua radice
ed è unito all’osso da fibre collagene o da cemento. Questa modalità di attacco, che forse è anche la primitiva, è detta pleurodonte (= lato + dente) (Figura 7.3).
Altri denti non hanno quasi radici, risultando uniti senza discontinuità al bordo rivolto verso la bocca delle ossa mascellari: questa forma di attacco, evolutasi indipendentemente in più occasioni, è detta acrodonte (= culmine + dente). Altri denti ancora inseriscono le loro radici in pozzetti (alveoli) delle os-
Pelle Mandibola DS
PLEURODONTE
ACRODONTE
TECODONTE
Figura 7.3. Sezioni di mascelle evidenzianti diverse modalità di attacco dei denti.
[79 ]
7. Denti
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sa: è questa la condizione tecodonte (= guaina + dente). Vi sono fra queste forme di impianto molte gradazioni intermedie. Il rimpiazzo dei denti si rende necessario e per ragioni di crescita e per compensarne il logorio e le perdite accidentali. Prima ancora che un dente sia entrato in funzione comincia a formarsi un nuovo abbozzo dentario così da poterlo rimpiazzare: quando questo secondo dente è formato, la radice del primo viene riassorbita provocandone l’allentamento e la caduta. Il rimpiazzo dei denti pleurodonti avviene in posizione appena più linguale o appena avanti le radici del vecchio dente, portandosi poi nella posizione primitiva dopo la caduta del vecchio dente. Il rimpiazzo dei denti tecodonti si forma immediatamente sotto le radici dei vecchi denti. In molti vertebrati il rimpiazzo dei denti è una funzione continua, generazione dopo generazione, che permane per tutta la vita: questi animali sono detti polifiodonti (= molti + crescere + dente). Molti mammiferi
(e alcuni rettili
ritenuti fileticamente vicini ai mammiferi) hanno due sole generazioni di denti e sono detti difiodonti. Vi sono anche denti acrodonti e alcuni che fondendosi assieme formano delle larghe piastre dentarie che non vengono rimpiazzate. , Molti animali che sembra abbiano una sola generazione dentaria ne hanno in realtà una o più perse prima della nascita o abortite nell’embrione. I denti polifiodonti non vengono rimpiazzati a caso, in quanto potrebbe anche risultarne un temporaneo blocco funzionale. Due condizioni vengono di solito comunque assicurate: prima, immaginando i denti disposti in due serie alternate, una costituita da denti, diciamo così, dispari e l’altra da denti pari; il rimpiazzo di una serie risulta sfasato al rimpiazzo dell’altra, cosicché, essendo denti adiacenti in fasi differenti del loro ciclo di crescita, le posizioni vacanti sono fiancheggiate da denti validi; seconda condizione è che i denti contigui di una serie (e cioè denti fra cui si frappone un dente dell’altra serie nella bocca) sono di norma in uno stadio di sviluppo leggermente diverso, più avanzato essendo quello del dente più spostato verso il retrobocca. Edmund e, più recentemente, Osborn hanno proposto alcuni modelli di sviluppo che spiegano quanto osservato. Osborn ritiene che la migrazione di ectomesenchima induttivo nelle mandibole dal retro dia inizio alla prima ondata di sviluppo dei denti procedendo dal retrobocca verso la parte anteriore: se ciascun dente in sviluppo esercita una qualche inibizione allo sviluppo di denti nelle immediate adiacenze ciò è sufficiente allo stabilirsi di una serie pari ed una dispari. I grossi denti si sviluppano con minore velocità dei denti piccoli e ciò influenza la sequenza di rimpiazzo del singolo dente nel caso di animali con denti di dimensioni diverse.
Evoluzione
del dente
80 Dalla corazza denticolata all’eterodonzia. I CICLOSTOMI hanno denti cornei, di forma conica, nell’imbuto orale e sulla «lingua». Alcuni estinti AGNATI hanno, nella bocca, piastre ossee, da piccole a medie per dimensioni,
rese superficialmente ruvide da dentelli. Fra iPLACODERMI, i predaci artrodiri hanno sul margine delle loro mandibole piastre ossee a bordi frastagliati che a
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sr
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volte contengono dentina (vedi Figura 3.5). Tutte queste strutture sono analoghe ai denti, ma sono ad essi omologhe solo nel senso molto generico di una derivazione dagli stessi tessuti embrionali (vedi par. 64). I denti negli altri PESCI sono molto diversi ed è difficile individuare tendenze evolutive. I loro denti sono, tipicamente, numerosi, conici o laminari (Figura 7.4), e omodonti (= uguale + dente), cioè tutti all’incirca delle stesse di-
mensioni e forma; sono impiantati sui margini delle mascelle e, negli attinopterigi, a volte anche sul palato, sulle arcate branchiali e sulla lingua. Molti di questi pesci sono acrodonti e i loro denti sono fusi all'osso o uniti ad esso da tessuto connettivo. (Il tessuto connettivo può a volte formare un cardine che consenta al dente di reclinarsi.) I denti acrodonti di solito non cadono. I denti
degli squali sono ancorati alla pelle e vengono di continuo rimpiazzati da nuovi denti che migrano sui margini mascellari dall’interno (Figura 7.3). Eccezioni a questa regola generale (correlata alla dieta, vedi Capitolo 30) riguardano la riduzione o la perdita dei denti, la fusione con formazione di permanenti piastre trituratrici (chimere, dipnoi, la maggior parte delle razze) e lo sviluppo di cuspidi multiple (cladoselaci, pleuracanti) o di verticilli (acantodi).
I denti di molti CROSSOPTERIGI (ma non canto) somigliano a quelli degli attinopterigi sotto no un’importante e distintiva caratteristica: il loro pieghettati in un complicato disegno rilevabile in
quelli del sopravissuto celamolti punti di vista ma hansmalto e la loro dentina sono una sezione trasversa (Figura
7.4). Questa strutturazione, detta labirintodonte, rafforza il dente e lo rende più
resistente all’usura. I denti di tipo labirintodonte rimasero in attività per 100 milioni di anni, anche fra gli anfibi (da cui il nome di estinti LABIRINTHODONTIA) e i più antichi RETTILI (gli estinti anapsidi). Gli attuali ANFIBI hanno di norma un numero di denti inferiore a quello dei loro progenitori (non ne hanno i rospi) e i denti sono piccoli, semplici, pleurodonti (non v’è traccia di labirintodonzia), supportati da peduncoli di origine dentale ai quali sono uniti da un tessuto meno rigido (Figura 7.5). Ciò consente una lieve flessione del dente verso l’interno della bocca, fatto che viene
interpretato come un aiuto al trasporto e all’ingestione del cibo. Molti RETTILI, e così pure gli estinti UCCELLI con denti, sono omodonti. In essi si ritrovano tutte le forme di attacco: alcuni serpenti e molti arcosauri sono (o erano) tecodonti, parecchi serpenti sono acrodonti e la maggior parte dei sauri è, almeno
in parte, pleurodonte; molti rettili sono polifiodonti,
anche se non sempre i denti acrodonti vengono rimpiazzati. Le tartarughe sono sdentate. Diversi rettili, ripartiti in ordini diversi, ma prevalenti tra gli estinti TERAPSIDI, hanno denti diversi per forma e funzione lungo l’arcata dentaria; questa dentizione
è detta eterodonte
acquisizione l’hanno ereditata funzione masticatoria.
(= differente
i MAMMIFERI
+ dente).
Questa
significativa
ed è prevalentemente legata alla
| 81 ] Alcune conseguenze del masticare. Quasi tutti i vertebrati si servono dei denti solo per afferrare o trattenere il cibo, dopodiché lo ingoiano; i MAMMIFERI, oltre che afferrare e trattenere il cibo, di solito lo tranciano, lo schiac-
ciano e lo triturano. Queste nuove funzioni hanno un grande valore, in quanto
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7. Denti
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CLADOSELACHII
PLEURACANTHODII
Salmonide
DIPNOI
Exagrammide
ACTINOPTERYGII
Varanide
Dente labirintodonte stilizzato,
iO
caratteristico di CROSSOPTERYGII
LABYRINTHODONTIA
COTYLOSAURIA
LEPIDOSAURIA
Figura 7.4. Denti caratteristici di alcuni taxa.
accelerano la digestione e ampliano notevolmente la gamma delle diversità dei cibi, specialmente quelli di origine vegetale. Quando il cibo viene ridotto in tranci, schiacciato o triturato, risulta vantaggioso trattenerlo nella bocca e masticarlo; perché questo avvenga è però necessario che: (1) si modifichino l’an-
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Filogenesi e ontogenesi delle strutture
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Figura 7.5. Suddivisione dei denti di Lissamphibia in corone e peduncoli, quali si ritrovano nella cecilia Gymnopis.
cestrale articolazione della mandibola e il palato (vedi discussione al par. 98); (2) vi siano guance per mantenere il cibo in bocca; (3) la lingua sia in grado di disporre il cibo nella opportuna posizione e (4) vi siano denti di più tipi diversi. I mammiferi non eterodonti lo sono come acquisizione secondaria in adattamento ad una dieta di pesci o insetti (ad esempio i delfini e gli armadilli). Altre caratteristiche distintive sono legate all’eterodonzia: i denti dei mammiferi sono tecodonti in quanto questi denti consentono una migliore ripartizione delle forze di rottura senza
successivi
allentamenti
dell’attacco; sono
disposti
ai margini delle mascelle, mettendo così in grado molti mammiferi di fare uso indipendentemente dell’una o dell’altra fila marginale di denti. La specializzazione dei denti ha comportato aumento di dimensioni, maggiore complessità, potenza e modalità di utilizzo; questi fatti, a loro volta, hanno portato ad una riduzione del numero dei denti in contemporanea attività funzionale e ad una riduzione del numero delle serie di rimpiazzo. Molti mammiferi
(e molti terapsidi) sono
difiodonti, ma
questa asser-
zione merita un approfondimento: i tipici mammiferi hanno una prima serie di
denti costituita dai temporanei denti da latte più i permanenti molari. Il fatto che tutti questi denti siano della stessa generazione non risalta molto in quanto le eruzioni sono cadenzate e i denti possono o non possono essere decidui. La seconda generazione di denti include tutti i denti permanenti, molari esclusi. (Alcuni marsupiali rimpiazzano un solo dente per emiarcata e le talpe neanche uno.)
| 82 |] Numeroe forma dei denti. Una tipica dentatura di mammifero sciorina tre o quattro diverse forme di denti. Gli incisivi sono adatti ad afferrare il cibo ed a volte anche per tranciarlo (Figura 7.6): possono avere l’estremità libera a punta di cono per trattenere insetti o infiggersi nella carne, oppure a lama semplice per tagliare i fusti delle piante. Sono denti relativamente piccoli e hanno una radice singola: la loro funzione richiede che siano collocati nella parte anteriore della bocca. Gli incisivi superiori sono impiantati nella più anteriore delle due ossa della mascella (l’osso premascellare). Il numero
dei denti viene
di solito dato per la mezza arcata di un lato della bocca (emiarcata dentaria) ed è espresso come fosse una frazione, ove il numero complessivo di denti di un tipo costituisce il numeratore se si riferisce all’emiarcata superiore e il denominatore se all’emiarcata inferiore. Gli incisivi nei mammiferi euteri sono sempre 3/3, a meno di riduzioni secondarie. Questi numeri possono venire superati da alcuni marsupiali.
[82 _]
7. Denti
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Incisivi
Incisivi
Canino
Canino
Premolari
Premolari
Molari
Molari
Figura 7.6. Dentatura eterodonte di mammifero esemplificata dai denti di un cane.
La posizione immediatamente posteriore a quella degli incisivi è occupata dai canini: sono denti a punta semplice e hanno una radice singola. Se non sono secondariamente modificati sono lunghi e forti e servono per trattenere e
perforare, sia per nutrirsi che per combattere. I canini sono sempre, a meno di riduzioni, 1/1. L’alveolo per il dente superiore è nella sutura fra le due ossa della mascella o subito dopo. Tutti i denti decidui posteriori ai canini sono detti premolari e tutti i non decidui della prima generazione sono detti molari. I molari sono di solito più grandi dei premolari e hanno più cuspidi e più radici. I numeri dei premolari e dei molari negli ancestrali mammiferi terii erano probabilmente 4/4 per i primi e 7-8/7-8 per i secondi, mentre i primitivi conteggi per i mammiferi euterii si pensa siano 4/4 e 3/3 rispettivamente. La distinzione tra premolari e molari in base alla definizione datane non sempre è possibile: guardando il teschio di un adulto è difficile stabilire quali sono stati rimpiazzati e quali no. L’intera linea di denti forma una serie continua, ove ogni dente somiglia un po’ ai suoi immediati vicini, e la specializzazione può rendere indistinguibili anche i diversi tipi di dente: gli artiodattili hanno i canini inferiori simili agli incisivi e gli equidi hanno dei premolari molariformi. Per di più, la distinzione fra molari e premolari cade del tutto se la generazione di rimpiazzo dei denti è incompleta o assente. Per queste ragioni è forse più conveniente trattare insieme i due tipi di denti come denti zigomatici. Numero e tipo di denti sono esprimibili con una formula dentaria, costituita dalle frazioni già annotate scritte in sequenza a partire dagli incisivi: così, la formula dentaria del lupo è 3/3, 1/1, 4/4, 2/3; per il cervo è 0/3, 0/1, 3/3, 3/3; e: per l’uomo è 2/2, 1/1, 2/2, 3/3.
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83
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
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[83 ] Ulteriori notizie sui denti zigomatici. I denti zigomatici dei primitivi mammiferi
(mammiferi
del Giurassico,
marsupiali,
insettivori) e di alcuni tra
gli ordini più moderni hanno molte cuspidi (vedi i denti posteriori nella Figura 8.21): i molari superiori hanno di solito tre cuspidi principali disposte come ai vertici di un triangolo, mentre i molari inferiori ne hanno di solito cinque principali. Cuspidi accessorie sono anche possibili. Le cuspidi sono disposte in modo da non corrispondersi quando la bocca si chiude; questi denti sono adatti a una dieta a base di carne o di invertebrati. Per quali vie si siano originati denti pluricuspidati da quelli ad una sola cuspide è tuttora questione dibattuta. La teoria di Bolk ha ora solo un interesse storico: la sua teoria della concentrazione, esposta in una intera serie di pubblicazioni della prima decade di questo secolo, postula una fusione di denti provenienti da due successive generazioni di rimpiazzo. La teoria della concrescenza di Kukenthal e Rose fu formulata intorno al 1890 e ipotizza che i denti multicuspidati siano dovuti alla fusione di denti unicuspidati adiacenti. Questo avviene in realtà in alcuni pesci, ma non sembra si tratti di un fenomeno
usua-
le. La teoria più apprezzata, detta la teoria della differenziazione, fu esposta intorno al 1880 da Cope e Osborn, per essere poi rivista ed ampliata alcuni anni dopo da Gregory. Questa teoria, a favore della quale disponiamo di abbondanti fatti a sostegno, sia paleontologici che embriologici, afferma che la singola cuspide del dente ancestrale gradualmente venne affiancata da due cuspidi secondarie formatesi dalle pareti laterali della corona dentaria. Piccole cuspidi aggiuntive potrebbero essersi formate da un bordo (cingulum) che forma un cerchio alla base della corona. Il quadro sinottico delle cuspidi è molto vario e intricato: vi si aggiunga anche il fatto che le singole cuspidi possono essere connesse in tanti modi da rilievi (vedi Figura 30.17). Ogni cuspide e valle ha un proprio nome, e hanno una terminazione diversa cuspidi corrispondenti dei denti superiori e inferiori: sfortunatamente alcuni dei termini di uso più ampio sono inadatti, non esprimendo una reale omologia tra denti inferiori e su-
periori.
La descrizione e l’analisi funzionale dei tipi principali di denti zigomatici sono molto interessanti: rinviamo il tutto al Capitolo 30, dato che sono decisamente legate agli adattamenti alla dieta più che ad una prospettiva evolutiva fra i maggiori taxa, alla quale è più interessata questa prima parte del testo.
CAPITOLO
LOSE RELERNO DIBHGAINSSITA
Importanza dello scheletro per la morfologia 84
Un sistema scheletrico interno, snodato come
quello dei vertebrati non
si ritrova in alcun altro gruppo animale ed è il sistema organico più importante
per studiare la morfologia dei vertebrati. Risulta sufficientemente conservativo nelle sue caratteristiche generali da essere utile a individuare le principali linee di sviluppo filetico dei vertebrati: ossa omologhe e tendenze evolutive sono dimostrabili senza troppe grandi difficoltà negli scheletri caratterizzanti i principali gruppi tassonomici nella loro successione temporale di comparsa sulla Terra. Lo scheletro possiede inoltre un ruolo funzionale chiave: varianti anche di un certo rilievo si sono sempre sovrapposte al gradualmente evolventesi schema generale e lo scheletro è stato sufficientemente plastico nel rispondere alle specifiche richieste attitudinali dei diversi animali. Fornisce inoltre valide ‘informazioni su alcuni adattamenti dei vertebrati: quelli di postura e di locomozione
sono evidenziati con accuratezza,
e molto spesso lo sono anche altri.
Grazie alla sua durezza ed alla sua durata, lo scheletro (comprendendovi anche i denti) va abbastanza spesso incontro ad un processo di fossilizzazione ed è da questo che traiamo di fatto (anche se non proprio del tutto) le informazioni sulla vita dei passati vertebrati. La paleontologia può anche essere
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[ [84 ] 85 © 88-08-11832-0
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
intesa come l'anatomia comparata e la morfologia degli animali estinti: nessun’altra scienza ha fornito un contributo altrettanto ampio alle nostre conoscenze dell'evoluzione
dei vertebrati ed è, come
è noto, quasi completamente
basata
sullo studio delle parti dure degli organismi. Fortunatamente per i paleontologi, di tutti i sistemi organici è quello scheletrico a dire di più, all’osservatore preparato, sugli altri sistemi: molti muscoli hanno le loro inserzioni su ossa e su queste spesso determinano tuberosità o incisioni che denunciano posizioni ed estensione di questi contatti; gli importanti nervi cranici rivelano le loro dimen-
sioni e percorsi grazie ai fori cranici che essi attraversano; lo sviluppo delle differenti parti del cervello lo si può dedurre da quello della scatola cranica; le cavità nasali, le orbite, gli spazi auricolari forniscono diverse informazioni sui rispettivi organi di senso; conformazione
e distribuzione
dei canali sensoriali
nella testa possono essere descritte nei dettagli; persino alcuni vasi sanguigni lasciano il segno sullo scheletro. Ultima importante caratteristica è che di tutti i sistemi organici è questo il più facile da salvaguardare, conservare e mostrare: è pertanto una buona scelta quella di iniziare con lo scheletro l’insegnamento e l’apprendimento della morfologia dei vertebrati.
Ulteriori informazioni
sui tessuti duri
| 85 ) I tessuti duri sono
stati descritti via via che li si incontrava:
corno,
smalto, dentina e osso nel Capitolo 6 e il cemento nel Capitolo 7. Volgendo ora la nostra attenzione allo scheletro interno bisogna aggiungere ai precedenti un altro tessuto duro, la cartilagine, ed è anche necessaria qualche parola in più sullo sviluppo e la costituzione dell’osso. La cartilagine è un tessuto al tempo stesso duro e flessibile. Presente in molti invertebrati, è però caratteristico dei vertebrati: le sue cellule (condrociti) sono disperse in lacune entro una matrice glicoproteica (condromucina) ricca
di fibre e molto idratata. I condrociti iniziano la loro attività nella membrana superficiale del tessuto, detta pericondrio, e gradualmente si arrotondano e crescono, allontanandosi sempre più gli uni dagli altri via via che la matrice, da essi prodotta, aumenta
(Figura 8.1). Nella cartilagine non
vi sono
né nervi né
vasi sanguigni; essa deriva dal mesoderma con la sola peculiare eccezione di parte della testa e della regione branchiale, derivabile anche dalla cresta gangliare, inizialmente ectodermica. La cartilagine ialina possiede relativamente poche fibre ed è traslucida in sezioni sottili: le sue superfici sono molto lisce e lo si può rilevare toccando le superfici articolari delle ossa, che essa ricopre. Il suo contributo alla lubrificazione delle giunture avrà il suo giusto rilievo nel par. 287. La cartilagine fibresa ha un fitto intreccio di fibre collagene che ne fanno un buon cuscinetto ammortizzatore, come è quello intercalato fra le nostre vertebre lombari. La cartilagine elastica è ricca in fibre elastiche, risultandone di conseguenza flessibile ed elastica, come è quella del padiglione auricolare. La cartilagine calcificata contiene invece depositi di sali di calcio che la rendono dura e consistente: è comune nello scheletro degli elasmobranchi. A differenza dell’osso, una volta
[285
8. Lo scheletro della testa
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125 i
Figura 8.1. Cartilagine ialina.
formatasi, la cartilagine non va incontro a rimodellamenti. Vi sono condizioni intermedie alle caratteristiche dei tipi qui descritti. Su basi ontogenetiche si possono identificare due tipi di ossa: le ossa di sostituzione od ossa endocondrali, che gradualmente rimpiazzano la cartila-
gine formatasi prima (nel condrocranio embrionale lo scheletro cartilagineo viene eroso immediatamente prima che avvenga la deposizione di osso; questo processo verrà meglio descritto nel par. 121); le ossa che non sono precedute da cartilagine, dette ossa da membrana, specie se si formano appena sotto la pelle, come sono le ossa della volta cranica. Le ossa da membrana, descritte nel Capitolo 6, associate al tegumento (placche, scaglie, dentelli, osteodermi) sono a volte dette anche ossa dermiche. Una volta formatesi, ossa da membrana e os-
sa di sostituzione risultano identiche: la distinzione è però utile per stabilire origini e omologie dei vari elementi scheletrici. Una condizione fisica dell'osso e della cartilagine che ne condiziona molte altre è la loro eterogeneità. A parte piccole imperfezioni e impurezze, ghisa, ceramica e vetro sono sostanze omogenee, cioè uniformi in ogni parte e in qualunque direzione; diverso è invece il legno che risponde in maniera di-
versa a seconda del piano su cui si esercitano le tensioni. Anche l’osso si comporta in maniera analoga, in quanto possiede lamelle e osteoni con specifici orientamenti e zone compatte o spugnose (vedi par. 66). Nella cartilagine cellule interne e fibre sono distribuite senza apparente ordine. Di conseguenza non si può, ad esempio, parlare genericamente della resistenza dell'osso, ma occorre specificare tipo di osso e direzione delle sue componenti per dare un’approssimativa idea della resistenza ad un determinato sforzo. La cartilagine e ancor più l’osso risultano eterogenei anche nella composizione, in quanto entrambi consistono di due diversi componenti: per entrambi uno dei componenti è un complicato intreccio di fibre collagene più o meno orientate cui si aggiungono anche fibre elastiche, mentre l’altro componente è una glicoproteina (per la cartilagine) o l’idrossiapatite (per l’osso). Le proprietà fisiche dell’insieme sono diverse da quelle di ciascun componente di
per sé e non sono semplicemente la somma o la media dei due. Le fibre collagene sono molli, flessibili e resistentissime all’allungamento, mentre l’idros-
siapatite è durissima, fragile e resistente alla compressione; una fine granu-
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| 85
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
86
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lazione aggiunge resistenza in quanto la distribuzione dei granuli in file comporta una maggior resistenza per unità di sezione. L'insieme composito dell’osso risulta allora più rigido delle fibre collagene, più flessibile e resistente alle fratture dell’apatite, più adatto a sopportare pesi e più versatile nel rispondere alle varie sollecitazioni di quanto non possa ciascun componente di per sé. Anche la tecnologia moderna utilizza materiali compositi, quali fibre di vetro nella resina, boro nell’alluminio,
tungsteno
nel rame
e molti altri ancora.
Anche le lacune ossee (vedi Figura 6.3) contribuiscono ad aumentarne
la resistenza, dato che una microfrattura, raggiungendo una lacuna, tende ad arrestarvisi. Entro i singoli elementi scheletrici l’osso, e non la cartilagine, è di solito spugnoso. Le spicole della trama sono orientate in modo da rendere massima la resistenza in rapporto al peso secondo modalità illustrate nei parr. da 281 a 283. Ed infine le fibre nella matrice organica dell’osso sono intrecciate o stratificate secondo moduli complessi che incrementano la resistenza alla rottura.
Origine, funzioni e struttura segmentata della testa Possiamo ritenere, senza troppi timori di sbagliarci, che quando il remoto progenitore precordato dei vertebrati, smettendo di cibarsi da filtratore, divenne un predatore mobile, divenne
altresì simmetricamente
bilaterale, con
le strutture per alimentarsi nella sua parte anteriore, qui concentrandovisi an-
che alcuni organi di senso. Inevitabilmente, il sistema nervoso rispose a questa convergenza di strutture motorie e sensorie ampliandosi e formando un cervello; uno scheletro cefalico cartilagineo si formò allora per accogliere e proteggere cervello e organi di senso, fornendo anche un contributo per più efficienti meccanismi alimentari e respiratori. La corda dorsale si estendeva probabilmente fino all’estremità anteriore del corpo, come avviene nell’anfiosso. La parte posteriore della testa dei vertebrati, come avviene per il tronco, risulta fondamentalmente segmentata. Jollie ritiene che subito dietro l’orecchio del vertebrato progenitore vi fossero due segmenti e mezzo. (Le singole metà degli sclerotomi possono unirsi nell’embrione, e da qui il mezzo segmento.) Nei pesci è possibile si siano aggiunti uno, due o più segmenti alla parte posteriore del capo. Si è a lungo ritenuto che la parte anteriore della testa dell’antico vertebrato incorporasse parecchi somiti, cioè segmenti embrionali del mesoderma, ma questo fatto è ben più difficile da dimostrare. Gans e Northcutt hanno fatto notare che la parte della testa anteriore all’orecchio (e all'estremità della corda) si sviluppa dalla cresta neurale, da placodi ectodermici e da mesoderma derivato dall’ipomero, e come nessuno di questi sia segmentato. Essi ritengono che questa parte della testa sia una nuova
acquisizione
(del vertebrato)
alla testa
protocordata. Nondimeno, il mesoderma cefalico embrionale, allo stesso modo
del mesoderma laterale del tronco, forma creste e solchi detti somitomeri. Questi non si differenziano in somiti indipendenti, con tanto di dermatomo, miotomo e sclerotomo come nel resto del corpo, anche se successivamente i più anteriori forniscono il tessuto contrattile della muscolatura estrinseca dell’occhio. La matrice connettiva di questi muscoli ha origine nella cresta neurale e
l'orientamento spaziale dei muscoli è determinato dalla sequenza delle creste.
Eeenips:
8. Lo scheletro
=
testa
della —
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127 a
Così, pur essendo dubbia un’ancestrale segmentazione dello scheletro anteriore della testa, l’origine segmentale di questi muscoli è certa.
Componenti scheletrici della testa 87 Lo scheletro della testa è abbastanza complicato, sia per ciò che concerne le origini che per quanto si riferisce alla struttura; ne deriva la necessità di suddividerlo in parti che possano essere descritte singolarmente. Le componenti preferibili sono logicamente il condrocranio, lo scheletro viscerale e le strutture dermiche, dato che i contributi di queste tre componenti alla formazione del cranio sono, nelle fasi iniziali, distinguibili sia nel senso filogenetico che in quello ontogenetico. Il condrocranio fa da supporto al cervello e agli organi di senso speciale; lo scheletro viscerale (o splancnocranio) fa da supporto alle arcate branchiali e ai loro derivati; gli elementi dermici (o dermatocranio) completano con elementi relativamente superficiali la struttura cranica. Il condrocranio e lo scheletro viscerale possono rimanere cartilaginei od ossificarsi, comunque sono sempre presenti. Lo scheletro dermico è sempre osseo e di solito è presente, sempreché non sia stato secondariamente perso da alcuni fra i più importanti gruppi vertebrati. Senza stare a discutere chi si sia evoluto prima, è da notare che fin nei primi vertebrati agnati sono presenti tutte e tre le componenti. Il termine «cranio» viene spesso utilizzato per indicare tutto lo schele-
tro della testa: è però anche usato, ed è in questo senso che qui verrà utilizzato, per indicare l’insieme della scatola cranica e della mandibola superiore, comprese le cavità orbitarie e auricolari.
Questa formulazione
è comoda,
anche se
inesatta. 88
Condrocranio e suoi derivati. Molti organi possono funzionare anche
se sottoposti a moderate pressioni conseguenti a contatti con l’ambiente o ad attività locomotorie o digestive: questo non è però vero per il sistema nervoso
centrale e per gli organi di senso speciale. Il tubo neurale dei primitivi vertebrati risulta in qualche modo protetto dalla sottostante corda. Il cervello, più largo, era riparato dorsalmente da scaglie ossee o da placche formate dal derma ed era fiancheggiato e sostenuto da cartilagine ialina. Capsule e bacchette cartilaginee a protezione degli organi di senso e a sostegno del rostro erano fuse a questo sostegno cerebrale a formare il condrocranio (= cartilagine + cranio). Questa struttura persiste in tutti i vertebrati fin dalla loro comparsa 550 milioni di anni fa. Quegli animali che non hanno un cranio ossificato (ciclostomi e pesci cartilaginei) hanno condrocrani pressoché completi e pesanti; molti animali che invece hanno cranio osseo lo hanno cartilagineo solo durante la vita larvale o fetale. Raggiungendo uno stadio di vita adulto questi animali rimpiazzano almeno in parte le cartilagini, più delicate, con ossa più dure. Omologie fra le principali caratteristiche del condrocranio nei diversi vertebrati possono essere definite tenendo conto delle loro relazioni con elementi più conservativi, quali la corda dorsale, l’ipofisi, i nervi cranici e i vasi sanguigni; omologie fra le numerose e complesse bacchettine e cavità sono più difficili da stabilire e di alcune si può tranquillamente ritenere che ciò non av-
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verrà mai, né una riconsiderazione storica dello sviluppo ha dato utili risultati. Ben più chiare sono le omologie fra le diverse ossa partendo dal condrocranio. Il condrocranio
è una struttura unitaria, risultato della fusione
di ele-
menti embrionali distinti: disporremo questi ultimi in cinque gruppi abbastanza ampi e costanti (Figura 8.2).
La corda dorsale (o notocorda) si colloca entro, appena sopra o appena sotto, la base del condrocranio che si sta sviluppando; può rimanere indipendente od obliterarsi, ma di solito le sue guaine divengono cartilaginee unendosi così al condrocranio. Il suo contributo è piccolo ma importante, in quanto la sua presenza nella testa, il più delle volte, precede nel tempo quella di tutte le altre strutture scheletriche. Oltre al fatto che la costante posizione del suo estremo anteriore, appena dietro l’ipofisi, è per noi un buon punto di riferimento.
Anteriori alla corda vi sono due barrette, dette trabecole (= piccole travi). L’ipofisi si forma tra le loro estremità posteriori. In alcuni fra i vertebrati a testa slargata le due barrette restano indipendenti e ben separate (condizione detta platibasica), mentre in altri esse sono unite da una lamina cartilaginea o si fondono anteriormente formando una sottile struttura a forma di Y con la gamba diretta anteriormente (condizione tropibasica). La parte trabecolare del condrocranio si mette in relazione con il cervello anteriore, con le capsule olfattorie, con le orbite e con il rostro. Negli embrioni in stadio più avanzato di sviluppo è a volte reso ancor più complesso da ricurve escrescenze che formano
Capsula olfattoria
Trabecola
Posizione dell’ipofisi Finestra basicraniale Cartilagini paracordali fuse a costituire la piastra basale Corda Capsula otica
Arco neurale di vertebra cervicale
ac
Figura 8.2. Componenti del condrocranio dei vertebrati in visione dorsale. A sinistra, embrione precoce generalizzato; a destra, da un embrione della lucertola Lacerta allo stadio di sviluppo di 25 mm un po’ semplificato.
88
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|
8. Lo scheletro della testa
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un elaborato intreccio. Le creste neurali contribuiscono anch'esse alla formazione delle trabecole. Dietro le trabecole ed a fianco della corda dorsale si forma un altro paio di cartilagini chiamate (data la posizione) cartilagini paracordali; ben presto queste si spingono sotto, sopra e attorno alla corda formando così la piastra basale. La parte anteriore della piastra racchiude di solito una cavità abbastanza ampia, mentre i suoi margini laterali sono forati consentendo così il passaggio ai nervi cranici. Le pareti laterali del condrocranio sono, di solito, incomplete; sono formate da complicati intrecci di elementi lineari uniti alla piastra basale lungo i suoi margini laterali. Risulta abbastanza evidente l’origine segmentale della piastra basale dagli sclerotomi dei somiti della testa e la si considera in serie con le basi delle vertebre. Sul retro della piastra basale vi sono una o due proiezioni dette condili occipitali, che si articolano con la prima vertebra della spina dorsale. La loro interessante origine da elementi vertebrali verrà chiarita nel Capitolo 9. Un quarto contributo al condrocranio viene da uno o più paia di archi innalzantisi dagli angoli posteriori della piastra basale a fiancheggiare o attorniare la spina dorsale proprio ove essa si unisce al cranio. Li si può considerare come gli archi neurali delle vertebre craniche. Negli embrioni di alcuni pesci vi sono anche corte costole. I singoli archi si associano negli embrioni in stadio più avanzato di sviluppo e sono collettivamente indicati come arcata occipitale (occipite = parte posteriore del capo). Ultimo contributo alla formazione del condrocranio viene dalle cartilaginee capsule sensoriali che albergano cavità nasali e orecchio interno. Le capsule nasali si uniscono alle estremità anteriori delle trabecole, mentre le capsule otiche, o uditive, si uniscono ai margini della piastra basale appena davanti l’arcata occipitale. Anche gli occhi sono racchiusi in capsule cartilaginee, ma queste restano indipendenti, cosicché gli occhi possano muoversi per loro conto e non con tutta la testa. Le ossa si formano nel condrocranio di sei delle nove classi di vertebrati (cioè in tutte tranne che negli agnati, nei placodermi e nei condroitti). Nomi e posizione di queste ossa si apprendono meglio dall’osservazione diretta e dalla Figura 8.3. Non vi è lista di queste ossa che sia valida per tutti i vertebrati che hanno crani ossei; la maggior parte delle ossa è costantemente presente, ma alcune (compresi mesetmoide e orbitosfenoidi) sono spesso assenti. Nei vertebrati appartenenti a classi di più recente comparsa sulla Terra le ossa otiche e alcune ossa basali sono fuse l’una all’altra. 89 Scheletro viscerale e suoi derivati. La faringe è per lo più niente altro che un’espansione del tubo digerente nel tratto compreso tra cavità orale ed esofago o stomaco. Nei primi stadi dell'evoluzione dei cordati la faringe era perforata lateralmente da fessure branchiali appaiate, utilizzate tanto per la respirazione che per l’alimentazione. Una parte della faringe fornisce il suo contributo ancor oggi ai meccanismi alimentari in tutti i vertebrati provvisti di mandibole, mentre la funzione respiratoria della faringe viene conservata in tut-
ti gli agnati, nei pesci e nelle larve di anfibio. Quando i tetrapodi non utilizzarono più la faringe per respirare, si resero disponibili per altre funzioni
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Filogenesi e ontogenesi delle strutture
Epipterigoide (alisfenoide dei mammiferi)
Prootico
Periotico
Opistotico
Sopraoccipitale Esoccipitale Basioccipitale
Quadrato
Sfenetmoide
(nei mammiferi può formare pre- ed orbito-sfenoidi più il mesetmoide)
Figura 8.3.
Ossa di sostituzione (autostosi) del cranio e della mandibola in uno stadio
primitivo dell'evoluzione tetrapode (ammenoché non sia altrimenti indicato). Le ossificazioni del condrocranio sono ombreggiate, quelle dell’arcata mandibolare sono a tratteggio. Tutte le ossa sono doppie, tranne quelle sottostanti il cervello e il sopraoccipitale.
muscolatura e struttura scheletrica, che subirono così un adattamento al supporto e controllo della lingua e dell’apparato fonetico. La faringe ha pertanto una lunga e interessante storia.
I primi protocordati avevano una dozzina di paia di branchie. Questo numero crebbe fino ad un centinaio in alcuni protocordati (anfiosso), intrappolando così le particelle alimentari sulle appiccicose travature branchiali mentre l’acqua veniva forzata ad attraversare la faringe. I vertebrati più antichi di cui si abbia una buona conoscenza si nutrivano con cibo più grossolano e non avevano bisogno di una faringe così specializzata: il numero delle fessure branchiali era compreso tra 5 e 15 paia. Quando si evolvettero le mascelle questi numeri vennero ulteriormente ridotti, stabilizzandosi attorno a 6 paia (qualcuna in più in alcuni pescecani e in meno
in alcuni tetrapodi).
Tra una tasca branchiale e l’altra, e così anche davanti alla prima e dietro l’ultima, vi sono barrette scheletriche (derivate essenzialmente dalle creste neurali) e relativa muscolatura assieme a filamenti respiratori, ai nervi e ai vasi
sanguigni ad essi connessi.
Tutto questo viene detto arcata viscerale ed è viscerale in quanto in gran parte formatasi da una speciale parte del tubo digerente. Il numero base delle arcate viscerali in un vertebrato gnatostomo è di un’unità superiore a quello delle primitive tasche branchiali, cioè 7. Tra segmentazione delle arcate viscerali e segmentazione della testa esiste un'interessante relazione. La componente mesodermica del tubo digerente si forma dall’ipomero embrionale, ma, a differenza dei sovrastanti somiti, l’ipomero non è segmentato: ne consegue che muscoli e scheletro delle arcate visce-
89
8. Lo scheletro della testa
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rali non sono fin dall’inizio in accordo con la segmentazione del corpo. La disposizione seriale delle branchie, però, impone ai derivati del faringe una segmentazione secondaria che si integra funzionalmente con la segmentazione dei nervi cranici, per cui non deve necessariamente risultare la stessa in tutti i vertebrati. La presenza di un’arcata viscerale preorale è dubbia, o al più controversa: la prima arcata, costante, è quindi immediatamente dietro la bocca. Ha il numero 1 e le altre, in sequenza, i numeri interi successivi; a ciascuna fessura, o
tasca, branchiale viene attribuito lo stesso numero (Figura 8.4). Nessun'altra
parte dello scheletro
dell’arcata che la precede
dei vertebrati,
facendo
ovviamente
eccezione per la corda dorsale, ha un’origine più remota dello scheletro viscerale. Ogni arcata branchiale risulta sostenuta da una sola barretta cartilaginea nei vertebrati agnati; quest’ultima può piegarsi e inarcarsi, unendosi alle sue consimili al di sopra e al di sotto della fessura branchiale, ma non è articolata. Lo sono invece quelle dello scheletro delle arcate viscerali degli gnatostomi, ove se ne ritrovano per arcata un numero base di quattro; le due mediane, chia-
mate epibranchiale quella più dorsale e ceratobranchiale la più ventrale, hanno un posto di rilievo nella nostra storia. Vi sono anche elementi impari, mediani e ventrali fra le estremità inferiori delle barrette branchiali di destra e di sinistra. La prima arcata viscerale si ingrossa e si allarga per diventare mascella e mandibola nei vertebrati gnatostomi ed è perciò chiamata arcata mandibolare. Le componenti epibranchiali dei due lati formano la mascella e prendono il nome di palatoquadrato, mentre sono i due ceratobranchiali a formare la mandibola costituendo quella che è chiamata cartilagine mandibolare. Entrambe si ancorano più o meno saldamente al condrocranio per assicurare la necessaria tensione
(vedi più sotto)
e anche
la seconda
arcata viscerale,
o arcata
ioidea, può venir coinvolta nell’assicurare un efficace raccordo di supporto. È Condrocranio
i
lomandibolare Posizione dello spiracolo
Posizione delle fenditure branchiali
———
—_
Palatoguadrato
]— Mandibola
Arcate viscerali
-+_ ———
il Arcata mandibolare
Faringobranchiale
Epibranchiale Ceratobranchiale Ipobranchiale
2. Arcata ioidea
Ao
AI branchiali
Figura 8.4. Scheletro viscerale primitivo esemplificato da uno stilizzato elasmobranco. Confrontare con la Figura 8.8.
132
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Filogenesi e ontogenesi delle strutture
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l’epibranchiale della seconda arcata a svolgere la funzione-chiave e perciò prende il nome di iomandibolare. Alle successive arcate, essenzialmente impegnate nella funzione respiratoria, viene riservato così il nome
di arcate branchiali: è
pertanto la terza arcata viscerale ad assumere il nome di prima arcata branchiale. Questa terminologia è resa più chiara dalla Figura 8.4. I processi di ossificazione operanti nelle cartilagini viscerali comporteranno, e ciò vale anche per il condrocranio e per quasi tutto lo scheletro postcraniale, il formarsi di ossa di sostituzione
(Figura 8.3). Come verrà messo
in
maggior risalto nella successiva sezione, la maggior parte delle ossa funzionalmente connesse con le mascelle non sono ossa di sostituzione e quindi non derivano dallo scheletro viscerale. Le vere ossa della prima arcata sono di norma piccole, anche se nessun altro osso può vantare una storia di pari entità e imprevisto. Ne riparleremo più avanti in questo capitolo.
{ 90 ) Contributi tegumentali. Le rigide scaglie o la pesante corazza della maggioranza degli ostracodermi, dei placodermi, dei dipnoi e dei crossopterigi risultarono più solide e complete sopra la testa, supportando la dentatura e fornendo una base di sostegno al cervello, alle delicate branchie e agli altri tessuti molli. Nei vertebrati più antichi queste ossa del tegumento erano di forma e dimensioni molto diverse: gli anaspidi erano rivestiti di piccole scaglie, i cefalaspidi avevano estesi gusci robusti e gli artrodiri larghi piastroni formati da più elementi fra loro suturati. Quando, tempo dopo, venne raggiunto lo stadio evolutivo dei pesci ossei, queste componenti si stabilizzarono attorno a di-
mensioni
intermedie.
I crossopterigi
svilupparono
una
strutturazione
delle
diverse ossa che si conservò per tutta la storia dei tetrapodi, e le diverse classi
ne hanno poi modificato lo schema di fondo con fusioni, delezioni (specialmente ove vennero a mancare le branchie, nella parte posteriore del cranio, tra testa e cinto pettorale), sprofondando le ossa sotto la pelle e persino sotto alcuni muscoli. Nel cercare di stabilire le omologie fra tante ossa fu necessario ricorrere al maggior numero possibile di indizi: la sequenza paleontologica dei diversi cambiamenti ne ha indicato le linee di tendenza; si è prestata attenzione alle relazioni di queste ossa con le ossificazioni del condrocranio,
con i nervi, con
i vasi sanguigni, con gli organi di senso e con l’apertura, a volte esistente alla sommità del cranio, che accoglie l’epifisi; un aiuto è venuto dai canali sensorii delle forme acquatiche in quanto essi seguono uno schema definito lasciando nelle sottostanti ossa scanalature, fossette, gallerie; di una certa utilità sono stati anche il numero dei centri di ossificazione e la sequenza della loro comparsa nell’animale giovane e ciò in quanto un particolare osso di solito ossifica da un definito numero di centri che appaiono con una preordinata successione in connessione con i centri di altre ossa e con lo sviluppo del cervello, dato che parecchie parti del cervello sono capaci di indurre specifiche ossificazioni nelle loro adiacenze. Siccome però le caratteristiche di alcuni centri sono variabili bi-
sogna andar cauti nel valutare le loro indicazioni. Servendosi di tutte queste
sorgenti di informazioni si sono potute stabilire le omologie di quasi tutte le ossa di origine tegumentaria. Nomi e posizioni delle ossa più costanti sono indicati nella Figura 8.5.
91
8. Lo scheletro della testa
133
© 88-08-11832-0 Orbi rbita
Frontale Postfrontale
SERIE DI OSSA DELLA VOLTA __Prefrontale \_lugale SERIE CIRCUMORBITALE ARIA Nasale
dll I ul
Sil
AT
7
Parietale
|
Arie
—
j
o .
;
Narici esterne
Intertemporale Sopratemporale TE otica
SERIE
SERIE TEMPORALE
MASCELLARE
Squamoso È Quadrato-iugale
Premascellare
SERIE PALATALE
Mascellare Vomere
Palatino
| Pterigoide
Ectopterigoide
p,rasfenoide
Coronoidi
SERIE ManpIBOLARE
=
Pentale
Soprangolare
Prearticolare (sul lato interno della mandibola)
Angolare
Spleniali
Figura 8.5. Principali ossa da membrana (allostosi) del cranio e della mandibola in uno stadio primitivo dell’evoluzione tetrapode. Tutte le ossa sono doppie eccettuato il parasfenoide. (Le ossa sclerali della capsula ottica non sono state disegnate.)
Relazioni tra le componenti craniche { 91 ]
Tener conto di queste componenti dello scheletro cefalico (condrocra-
nio, splancnocranio e dermatocranio)
è più che un fatto di convenienza; anche
nell’adulto possono infatti mantenere una qualche indipendenza strutturale e questo si verifica certamente in molti anamni. Lo scheletro delle branchie deve restare ben distinto almeno fintantoché le branchie risultano attive, e così pure per le ossa da membrana è necessario restino superficiali quando, giustapponendo i loro margini, formano una copertura continua. Per di più, nell’evoluzione di diversi gruppi animali, le ossa del cranio hanno a volte acquisito tutte una più cospicua ossificazione oppure sono incorse in una totale regressione. In altre occasioni,
d’altronde, le forme derivate dalle singole componenti
sono
frutto di un’evoluzione indipendente. Il condrocranio e lo scheletro viscerale hanno, in ciclostomi e condroitti, acquisito una particolare rilevanza mentre il
dermascheletro è incorso in una regressione. E, d’altra parte, le ossa di sostituzione del cranio, e solo queste, tendono a regredire negli ultimi cefalaspidi, nei dipnoi, in alcuni primitivi attinopterigi e nei recenti labirintodonti. Sembra evidente che ossa di sostituzione e ossa di membrana rispondano in modo diverso alle forze evolutive pur quando il loro aspetto sia lo stesso.
A dispetto di un’originale e potenziale indipendenza delle ossa da membrana da quelle di sostituzione, esse risultano intimamente abbinate nei vertebrati più recentemente evolutisi. L'ampliamento del cervello forza le ossificazioni condrocraniche verso l’esterno, mentre per contrasto il potenziamento della muscolatura masticatoria forza parecchie ossa da membrana verso l’inter-
134
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
[aio © 88-08-11832-0
no. Queste componenti finiscono così per incontrarsi e insieme formare una singola, solida struttura.
Quando la prima arcata viscerale divenne masticatoria fu meccanicamente necessario darle maggior vigore di quanto non ne servisse funzionando solo per la respirazione e il filtraggio del cibo. Ciò venne inizialmente realizzato unendo al condrocranio il palatoquadrato cartilagineo, mentre successivamente lo iomandibolare della seconda arcata divenne un puntello di ulteriore rinforzo alle mascelle. In seguito o lo iomandibolare da solo ne garantì la giunzione oppure alle ossa dermiche ricoprenti il palatoquadrato se ne aggiunsero altre, anch’esse dermiche, garantendo un più sicuro ancoraggio. Numero, posizione e solidità dei diversi punti di attacco delle mascelle alle rimanenti parti del cranio sono stati molto varii e si conosce una buona dozzina di forme diverse di sospensione delle mascelle. A complicare ancor più questa storia sta il fatto che forme similari di sospensione si siano evolute indipendentemente in più occa-
sioni. Interpretandola con criterio, si può considerare ancora adeguata la semplice (relativamente) terminologia proposta da Thomas Huxley tempo fa. Questi termini ed una indicazione dei gruppi animali cui applicarli sono evidenziati nella Figura 8.6, mentre alcuni aspetti di questa storia sono più ampiamente riconsiderati nelle pagine successive.
Evoluzione
dello scheletro
della testa
I Vertebrati Agnati: innovazioni e varianti. Il condrocranio degli agnati resta cartilagineo per tutta la vita, ragion per cui ben poco se ne conosce per le forme estinte; nei cefalaspidi, però, esso risulta fosse spesso ricoperto completamente da una sottile lamina ossea. Lo scheletro viscerale degli agnati è un’ininterrotta struttura cartilaginea; le singole arcate si riuniscono tanto dorsalmente che ventralmente alle fessure branchiali
e si connettono
altresì al condrocranio
(Figura 8.7). Tutte
le
arcate sono branchiali: il loro numero è variabile ed è comunque alto in riferimento alle arcate degli altri vertebrati. (Le specializzate parti boccali dei ciclostomi sono sorrette da cartilagini non derivanti dallo scheletro viscerale e non hanno corrispettivi fra gli altri vertebrati.) Lo scheletro dermico (= dermascheletro) della testa degli agnati può formare estese aree corazzate (cefalaspidi, pteraspidi), ridursi a piccole scaglie (anaspidi) o a nulla (ciclostomi). Questi elementi dermici non sono omologhi
delle ossa craniche di altri vertebrati.
93 ] Placodermi: il debutto delle mascelle. Il condrocranio dei placodermi somiglia a quello dei vertebrati agnati nell’essere o del tutto cartilagineo o solo in parte ossificato. Importanti innovazioni si hanno nello splacnocranio: la più rilevante è che la prima arcata non supporta branchie ma mascelle. Le mascelle di alcuni artrodiri predatori sono davvero impressionanti. Ossa di sostituzione costituiscono spesso un largo palatoquadrato, che risulta autostilico (= auto-supportante) in quanto unito al condrocranio da tendini e non dallo iomandibolare.
93 ] [ 94 © 88-08-11832-0
8. Lo scheletro della testa
TETRAPODI non mammiferi
135
Molti OSTEITTI
sd SERA
Molti SELACI
CROSSOPTERIGI
Molti CONDROITTI Alcuni OSTEITTI PLACODERMI ACANTODI ANFISTILIA PLACODERMI ed altri PESCI PRIMITIVI
ORTA Povaaniomene dall'iomandibolare
Arcata mandibolare supportata
I
Arcata mandibolare parzialmente supportata dall'iomandibolare
AUTOSTILIA Arcata mandibolare non connessa all'iomandibolare
Figura 8.6. Principali modalità di connessione delle mascelle al neurocranio. L’arcata mandibolare e suoi derivati tratteggiati, condrocranio ombreggiato, iomandibolare e suoi derivati in nero, denti e allostosi solo delineati. Possono esservi connessioni inter-
medie fra quelle raffigurate.
La seconda arcata resta una tipica arcata branchiale. Come per altri vertebrati di più recente evoluzione, in alcuni placodermi è accertato che ciascun’arcata branchiale fosse sorretta da più elementi scheletrici. Il dermascheletro il più delle volte era formato da pesanti piastre cefaliche e toraciche connesse a cerniera (artrodiri e antiarchi). Le singole ossa der-
miche dei placodermi non possono essere omologate a quelle esistenti nella corazza 0 sul cranio di altri vertebrati. | 94 | Pesci cartilaginei: specializzazione e regressione. Nella lunga storia dei
pesci cartilaginei l’influenza dei processi di ossificazione è stata nulla o quasi. A vicariare la protezione offerta dalle ossa dermiche al cervello di ostracodermi e placodermi provvide un’insolita compattezza del condrocranio, con una base
136
[947]
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
[95
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Cartilagini dorsali
Capsula olfattoria Cartilagine orbitale
Arco neurale
Capsula otica
Cartilagine labiale
Cartilagine linguale
Scheletro viscerale (cestello branchiale)
Capsula pericardica
Figura 8.7. Scheletro cefalo-branchiale di un ciclostomo in visione laterale, quale si osserva nella lampreda Petromyzon.
a pareti laterali complete (Figura 8.8). Pur non ossificandosi mai, il condrocranio viene a volte talmente indurito da granuli di minerali di calcio che non si riesce a tagliarlo con un coltello. Nelle scuole a volte si fa studiare il cranio cartilagineo di un pescecane, ma non è certo da considerare come modello tipico della struttura del cranio dei vertebrati in genere. L’arcata mandibolare ha di solito una sospensione iostilica (quasi tutti gli attuali pescecani) mentre era frequentemente anfistilica nelle forme estinte (pleuracantodi, cladoselaci, anche alcuni squali viventi). Negli olocefali, in conformità con quanto suggerisce il nome, la sospensione del cranio è irrobustita, da una fusione stabile con la scatola cranica, quasi un’autostilia tanto da consentire una dieta a molluschi conchiferi. Vi sono di solito sei, anche se possono
arrivare a otto, arcate post-mandibolari. Le tipiche arcate branchiali hanno ciascuna quattro elementi scheletrici più un’impari cartilagine mediana. La segmentazione e la conformazione dello scheletro viscerale dei pesci cartilaginei sono ritenute piuttosto primitive tra i pesci. Pesci ossei: diversità e complessità. In nessun'altra classe il cranio può essere più diverso e complesso di quanto non sia fra i pesci ossei. Ciò non dovrebbe meravigliarci più di tanto data l'ampiezza della classe, se non fosse che le altre parti del corpo non dimostrano altrettanta diversità. Questa varietà è da attribuire ad adattamenti alle più diverse diete alimentari, alle diverse forme del corpo, ai diversificati comportamenti, tutti fattori, per questo tipo di studi, di minor rilievo di quanto non siano le linee direttive dell'evoluzione. È fondamentale che nelle due sottoclassi si riconoscano differenti tipi di cranio, dato
che in una sola di esse debbono essere inclusi i predecessori dei tetrapodi ed è proprio il cranio a fornirci una chiara indicazione di quale delle due sottoclassi sia.
95
8. Lo scheletro della testa
137
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Orbita Rostro
Capsula olfattoria =
Capsula otica
TT
em
lomandibolare
Vertebre
A
Faringobranchiale Epibranchiale Ceratobranchial n
Cartilagine labiale Palatoquadrato
Mandibola ©CE EEE
Basibranchiali
PESCECANE, Squalus ì
Rostro
Capsula olfattoria
Palatoquadrato
Capsula otica
dd
Pd
Orbita
1 lomandibolare
e
Capsula
=
Palatoquadrato
otica
lomandibolare
Mandibola
RAZZA, Raja
Mandibola
AQUILA DI MARE, Myliobatis
Figura 8.8. Scheletri cefalici di pesci cartilaginei tipici in visione laterale. Sopra: condrocranio, scheletro viscerale e vertebre anteriori; sotto: condrocranio, mascelle con relativi supporti.
Il condrocranio dei primi osteitti era relativamente ben ossificato fino a risultare, a volte, apparentemente privo di suture. Da questa iniziale condizione i dipnoi erano già regrediti, fin dal periodo Mesozoico, alla sola ossificazione delle ossa esoccipitali in una scatola cranica per il resto cartilaginea. Anche i crossopterigi pervennero ad un cranio quasi del tutto cartilagineo, ma con una netta e peculiare caratteristica: la duplicità (Figura 8.9). L'unità anteriore (o etmosfenoidale) deriva dalle trabecole e supporta orbite e rostro; unita ad essa da un raccordo mobile, l’unità posteriore (otico-occipitale) deriva dalle cartilagini paracordali e accoglie il cervello. Questa peculiare caratteristica dei crossopterigi è correlata alla potenza e al grado di apertura delle loro mascelle. I tipici pesci attinopterigi hanno crani più o meno completamente ossificati e con ossa unite da suture evidenti. Lo scheletro viscerale è più o meno lo stesso nelle due sottoclassi. Ossa da membrana portano i denti, così che l’arcata mandibolare di solito regredisce. Dal palatoquadrato si formano nei pesci ossei più ossa di sostituzione: tra esse è il quadrato ad avere il maggiore significato evoluzionistico, in quanto va a costituire la parte superiore della cerniera mascellare nei pesci ossei, negli anfibi, nei rettili e negli uccelli. Il solo osso di sostituzione della mandibola è il piccolo articolare che costituisce la parte inferiore della cerniera. La seconda arcata non ha funzione branchiale. Il suo largo iomandibolare assicura in modo esclusivo la sospensione della mascella al neurocranio (con l'eccezione dei dip-
95
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
138
96
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Sopratemporale Intertemporale
Squamoso
Tabulare tn
Postorbitale
Ossa congiungenti il cinto al cranio
Postfrontale Prefrontale Frontale
Ossa opercolari
;
Lacrimale
Premascellare
Quadrato-iugale Cleitro del cinto
pettorale
Dentale Mascellare
Soprangolare
Angolare
diaz Unità etmosfenoidea della scatola cranica
si
VENT Unità oticoccipitale della scatola cranica \
XY
È
Regione otica
ie
a
Pterigoide _
Capsula olfattoria —
fine,
Palatino
dpr
LE
=
lomandibolare
— Quadrato
WA ni ixcisa ssi ra." Ectopterigoide
h
Figura 8.9. Scheletro della testa di Eusthenopteron, un crossopterigio ripidista. Le ossa da membrana (allostosi) superficiali nel disegno in alto; nel disegno in basso il condrocranio bipartito e altre parti scheletriche interne.
noi), che risulta quindi iostilica (attinopterigi)
o anfistilica
(crossopterigi).
Vi
sono di solito cinque arcate branchiali: possono avere un supporto osseo (quasi tutti gli attinopterigi) o cartilagineo (nei dipnoi) e non differiscono in maniera sostanziale da quelle dei placodermi e degli elasmobranchi. Con poche eccezioni si osserva negli osteitti uno scheletro dermico, costituito da ossa di medie e piccole dimensioni, pressoché completo (Figura 8.10). Una serie di ossa unisce il cinto pettorale al cranio. Ben evidente e caratteristico è un mobile osso opercolare (opercolo) che ricopre le branchie. La disposizione delle ossa dermiche è diversa fra i principali taxa: quella dei crossopterigi, e solo quella, trova omologie nella disposizione delle ossa negli anfibi. Questo fatto riveste una particolare importanza e costituisce una delle indicazioni che siano stati i crossopterigi gli antenati di tutti i tetrapodi. Per le
ossa da membrana degli altri pesci, che pure hanno nomi comuni a quelle dei tetrapodi, le relazioni filetiche sono molto dubbie. 96 Anfibi: permanenza o regressione. Quando i progenitori degli anfibi fuoriuscirono dalle acque persero quelle caratteristiche da pesce, tipo l’arco di
96
8. Lo scheletro
della
testa
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Parietale Sopratemporale Postparietale
Sottorbitale x Postorbitale
Frontale
4]
v
Lacrimale Nasale Premascellare
Ossa opercolari
\
Mascellare Cleitro del cinto pettorale
n
pene
; Angolare
Soprangolare
Raggi branchiostegi
Amia calva
se Sopraoccipitale Parietale
Pterotico
-
Post-temporale
Parasfenoide
Entopterigoide
DRS
Frontale
| ‘asale x
Lacrimale Mascellare
>S 4
Là
Yao
LD
b
SERE “
dalla parte destra lo sternomastoideo, il complesso pettorale ed il tensore della fascia. Vedi anche le Figure 9.23 e 9.24.
10. Muscoli e organi elettrici
138
213
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Miloioideo = intermandibolare (ripiegato sulla destra)
Digastrico Massetere
Genioioideo Sternoioideo Cleidomastoideo
Stiloioideo
\
;3\
IGES lotiroideo Sternoioideo
Sternocefalico
Pettorale (tagliato) Dentato del collo
Cleidobrachiale
Coracobrachiale Sa :
Pettorale trasverso
Bicipite brachiale
Pettorale superficiale
Sottoscapolare
È
Grande rotondo
Tensore della fascia antibrachiale
Tricipite brachiale
Grande dorsale (allontanato dal pettorale)
Scaleno Trasverso del torace
Grande dorsale
Pettorale profondo
Grande dentato toracico
Pettorale ascendente
Retto dell'addome
Obliquo esterno dell'addome Obliquo interno dell'addome
Psoas-iliaco Pettineo
Abduttore caudale della gamba
(
Tensore della fascia laterale
Vasto laterale
Retto della coscia Vasto mediale Adduttore della coscia
Sartorio
Gracile
Semimembranoso Semitendinoso
Gastrocnemio Flessori del piede e delle dita
Estensori del piede e delle dita
Sternocefalico
;
5
Temporale
Cleidocervicale
Cartilagine dell'orecchio (tagliata)
Trapezio toracico anteriore
Romboide della testa
Parte acromiale del deltoide
Splenio
Cleidobrachiale
Dentato del collo Pettorale
Brachiale
o
Ch£ - — Sopraspinato
Parte spinata del deltoide Tricipite brachiale
ZA
-———_—
Inserzione del pellicciaio del tronco (tagliato)
Romboide
Sottospinato
Grande dentato toracico Lungo spinoso
Trapezio toracico posteriore
Lungo dorsale toracico
Grande dorsale
Piccolo dentato caudale
e Obliquo esterno dell'addome
__ Intercostale Ileocostale
Lungo dorsale lombare Fascia toraco-lombare
Multifido Tensore della fascia lata
.
Sartorio Paramerale
Gluteo medio
Vasto laterale
Fascia lata —
Gluteo superficiale
£
Adduttore della coscia
|
Bicipite femorale
I
—e_ |
E 1
Semimembranoso > Semitendinoso
ri
|
Gastrocnemio
Otturatore nismo
Il ]/
A A
Soleo
138
139
10. Muscoli e organi elettrici
215
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è spesso un muscolo che si stende sul tronco dove può servire a ripiegare il corpo (echidna)
o si suddivide per scuoter via gli insetti dalla pelle (cavallo).
I sei muscoli estrinseci dell’occhio dei pesci si mantengono nei tetrapodi con poche rimarchevoli variazioni (Figura 10.10). Il bulbo oculare, però, non può più ruotare attorno al suo asse ottico e si sono evoluti, per divisione di uno dei muscoli preesistenti, uno o più muscoli aggiuntivi. Dal retto posteriore si
sviluppa un retrattore del bulbo, diviso in una o quattro parti, che fa rientrare il bulbo oculare nella sua cavità orbitaria. La sua azione è protettiva e può anche aiutare ad inghiottire. Tale muscolo, rilevante negli anfibi e in alcuni rettili, viene perso in molti mammiferi.
Organi elettrici 139 Organi elettrici si trovano in un mezzo migliaio di specie di pesci appartenenti a sette famiglie di condroitti e osteitti. È possibile che aree riccamente innervate sugli scudi del capo dei cefalaspidi fossero anch’essi organi elettrici, sebbene questa interpretazione sia respinta da molti paleontologi. Gli organi possono essere sulla coda (Raja, Gymnarcus), sulle pinne (Torpedo), sotto la pelle (Melapterurus), dietro l’occhio (Astroscopus) o su gran parte del tron-
co (Gymnotus). Essi di solito originano da cellule muscolari (per questo sono inclusi in questo capitolo), ma non è esclusa la loro origine da tessuto ghiandolare o nervoso. Le diversità di presenza, localizzazione, struttura e anche fisiologia, indicano che gli organi elettrici sono antiche specializzazioni evolutesi indipendentemente in specie diverse, costituendo un tipico fenomeno di
convergenza. Molti pesci sono solo debolmente elettrici: la razza elettrica è però in grado di sviluppare 50 A (l’ampere è l’unità di misura della quantità di energia elettrica liberata) ed il gimnoto può produrre più di 500 V (il volt è l’unità di misura della tensione elettrica). Sono state registrate scosse di 2000
W
(il watt,
unità di misura della potenza, è il prodotto del flusso di corrente per la tensione). La comunicazione, l'orientamento e la rilevazione delle prede sono le più comuni funzioni degli organi elettrici, in particolare per i pesci che vivono in acque torbide o buie. Gli organi di alcune specie servono inoltre per l’offesa e la difesa; persino grossi pesci possono rimanere folgorati dalle più potenti scariche. I pesci elettrici emettono scariche costanti e sono molto sensibili ai disturbi che gli oggetti producono nei campi elettrici intorno al loro corpo. Gli organi di senso che controllano il campo elettrico derivano dal sistema della linea laterale e sono localizzati alla base di profonde fossette nella pelle (vedi parr. 251 e 252).
< Figura 10.18. Muscolatura dorsale di un mammifero, un gatto, Felis. Sono stati rimossi dalla parte destra i muscoli trapezio, cleidobrachiale, grande dorsale, la fascia lombodorsale, il tensore della fascia lata ed il bicipite del femore. Vedi anche le Figure 9.23 CROZZA
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139
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
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L’unità funzionale dell’organo elettrico è l’elettroplacca, una larga cellula multinucleata a forma di moneta (Figura 10.19). Di solito una delle due superfici piatte è minutamente pieghettata; i mitocondri si concentrano sotto questa membrana. L’altra superficie piatta è riccamente innervata. Centinaia 0 migliaia di elettroplacche sono impilate a formare colonne e molte colonne sono presenti normalmente in un organo. Nella condizione di riposo, si sviluppa un potenziale elettrico fra l’interno (negativo) e l’esterno di ogni placca. Quando l’organo è stimolato dal suo nervo, i potenziali momentaneamente si invertono (per lo meno in alcune specie) cosicché la corrente oltrepassa il potenziale di riposo. L'organo può essere «installato» sia in serie (polo positivo di una cellula contro polo negativo dell’adiacente, per dare il massimo voltaggio, il che può essere utile per i pesci di acqua dolce) oppure, ed è la condizione più frequente, in parallelo (polo positivo contro polo positivo, per dare il massimo amperaggio).
Muscoli
Elettroplacche
Organo elettrico
Figura 10.19. Organo elettrico dell'anguilla elettrica, Electrophorus. A sinistra, una sezione trasversale dell’animale; a destra, pile di elettroplacche.
CALioro
TI
CELOMA E MESENTERI Natura
e funzione
140] Le cavità celomatiche sono degli spazi che circondano il cuore, i polmoni, il tubo digerente con relative ghiandole, e certi organi urogenitali. Il celoma, in ciò differendo dalle cavità dei sistemi nervoso e respiratorio, è presente in tessuti di origine mesodermica. La funzione del celoma è permettere agli organi interni di muoversi liberamente e cambiare la loro grandezza e posizione relativa come richiesto mentre il cuore batte, i polmoni si riempiono e si svuotano, nel tratto digestivo passa del cibo e l’utero gravido si ingrossa. Il rivestimento del celoma che copre la parete interna del corpo e racchiude i visceri è una membrana sierosa costituita da cellule appiattite che secernono un fluido che lubrifica gli organi cosicché possano scivolare facilmente uno sull’altro.
I mesenteri si estendono attraverso il celoma dalla parete del corpo ai visceri. Sono fogli di membrana sierosa rafforzati da sottili lamine o bande di fibre elastiche e collagene. I mesenteri che uniscono un organo all’altro sono detti omenti o «legamenti» (quest’ultimo è un termine inappropriato in quanto non sono veri legamenti). I mesenteri sostengono gli organi interni, senza ostacolarne la funzione, e sono attraversati da nervi e vasi. Nei mammiferi sono co-
muni siti di immagazzinamento del grasso.
218
140 | 141 |
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
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Il celoma ha avuto relativamente poca importanza per il morfologo dei vertebrati poiché la sua struttura è troppo semplice e costante per contribuire con efficacia all’analisi funzionale ed evolutiva. Le differenze fra i mesenteri sono rilevabili a livello di classe e talvolta con significative differenze posturali (per esempio tra il cane, l’uomo ed il bradipo). Le configurazioni dettagliate dei mesenteri sono spesso troppo complicate da poter essere decifrate senza un'analisi embriologica.
Sviluppo, evoluzione e ricapitolazione [141] Nell’anfiosso, negli echinodermi e in altri invertebrati deuterostomi, il celoma si forma da una serie di borse che si estroflettono dalla parete dorsolaterale del tubo digerente, processo chiamato enterocelia. Questo può essere stato il primitivo metodo di formazione del celoma nei vertebrati. In tutti i vertebrati viventi il celoma si forma, però, dalla cavitazione o dalla fessurazione
di mesoderma inizialmente compatto con un processo chiamato schizocelia (da rivedere al par. 56). Gli embrioni dei vertebrati ai primi stadi possono avere piccole e temporanee cavità nei miotomi
(miocele), nei mesomeri
(nefrocele) e con qualche
dubbio, anche negli sclerotomi (vedi Figura 5.9). Le singole cavità del nefrocele diverranno le capsule renali dell’adulto (vedi par. 193); quelle del miocele non hanno derivati o funzioni conosciute. Il celoma dell’ipomero è lo splancnocele, ma poiché è grande e permanente e dà origine a tutte le altre cavità celomatiche dell’adulto, di solito è chiamato semplicemente celoma. Questo celoma divide l’ipomero in uno strato splancnico (splancnopleura) interno e uno strato somatico (somatopleura) esterno. Con l’espansione del celoma le splancnopleure destra e sinistra si muovono l’una verso l’altra. Entrambe si riuniscono nel piano medio-sagittale del corpo o incontrano l’endoderma del tubo digerente e dei suoi diverticoli. mcontrandosi dorsalmente al tubo digerente formano il mesentere dorsale, mentre ventralmente al tubo digerente formano il mesentere ventrale e fra il tubo e i suoi derivati formano gli omenti.
Parti del mesentere ventrale degenerano molto presto e ciò porta alla confluenza della cavità celomatica destra e sinistra (degli ipomeri nistro) (vedi Figura 11.1 e Figura 5.9).
destro e si-
Le parti della splancnopleura che incontrano il tubo digerente e i suoi derivati formano la muscolatura liscia, il tessuto connettivo e le membrane sierose dei vari organi. La somatopleura rimane in contatto con la parete interna
del corpo. Essa forma la membrana sierosa che delimita la parete esterna del celoma e, come osservato nel Capitolo 10, può formare del mesenchima che contribuisce alla muscolatura ipoassiale ed appendicolare. Poiché le cavità celomatiche possono essere presenti nelle porzioni ventrali degli archi viscerali e nella muscolatura caudale dell’embrione in sviluppo, si può arguire che il celoma fosse, un tempo, più esteso; il celoma fun-
zionale dei vertebrati viventi si estende però solo dal livello della parete posteriore della faringe alla cloaca. Inizialmente, sia nella filogenesi che nel-
141
| [142
11.
Celoma
e mesenteri
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Mesentere dorsale
Strato somatico (somatopleura) dell'ipomero
Tessuti muscolare e di supporto del tubo digerente
Celoma (accentuato)
Superficie secretoria del tubo digerente
Suoi
Tessuto di supporto
degli organi digestivi (fegato, pancreas)
Mesentere ventrale in degenerazione Tessuto secretorio
Figura 11.1. Derivati dall’ipomero in relazione con il tubo digerente e il celoma. Questo stadio di sviluppo segue l’ultimo mostrato nella Figura 5.9.
l’ontogenesi, il tubo digerente è dritto ed è sostenuto da mesenteri dorsali e ventrali dritti e continui. Questa semplice struttura diventa molto più complicata negli adulti della maggioranza dei vertebrati a seguito della partizione del celoma, delle delezioni, dei ripiegamenti e delle fusioni dei mesenteri durante l’allungamento del tubo digerente. Noi ne seguiremo solo le tendenze principali. Il cuore dei pesci si trova anteriormente al cinto pettorale e ventralmente e posteriormente alle camere branchiali. Nelle MISSINE un setto trasverso si estende al di sopra della parete ventrale del corpo, posteriormente al cuore, in parte separante una cavità pericardica anteriore da una più grande cavità peritoneale (Figura 11.2). Nei selaci il setto trasverso in sviluppo separa temporaneamente le due cavità e quindi secondariamente sviluppa piccoli orifici. Le lamprede e gli altri pesci mantengono un setto completo (vedi Figura 12.2). Queste relazioni basilari non si sono modificate negli URODELI. La piccola cavità pericardica rimane ben avanti, separata con un setto trasverso dal celoma principale che può ora essere chiamato cavità pleuroperitoneale poiché sono presenti esili polmoni, ancorati alla parete laterale del corpo da mesenteri laterali. [142] Il cuore degli ALTRI TETRAPODI si trova a livello del cinto pettorale o posteriormente ad esso. I polmoni si trovano dorsalmente al cuore. (Parte del fegato si intromette fra cuore e polmoni negli uccelli e in alcuni rettili ma non nei mammiferi.)
Il cuore è separato dai polmoni (e dal fegato se presente) da setti più o meno orizzontali che nell’embrione hanno la loro origine, come pieghe della membrana sierosa, dalle pareti laterali del corpo (destra e sinistra). Queste pieghe possono congiungersi sulla linea mediana del corpo, e sono chiamate mesocardi
laterali
(uccelli)
o membrane
pleuropericardiche.
Posteriormente
si
uniscono al setto trasverso per formare la membrana pericardica dell’adulto, il pericardio.
220
142
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
© 88-08-11832-0
Cavità
Cavità
Pareto
ELA
Figura 11.2. Suddivisione del celoma nei pecilotermi. I mesenteri non
sono indicati. Vedi anche la Figura
i
161R5:
Cuore
MISSINE
Parete ventrale del corpo
Setto trasverso
Polmone
URODELO Cavità
Cavità
pericardica
pleuroperitoneale
Membrana
Setto
pleuropericardica
trasverso
LUCERTOLA
I COCCODRILLI,
ALCUNE
LUCERTOLE
E GLI UCCELLI hanno il celo-
ma pleuroperitoneale suddiviso in cavità aggiuntive a causa di complesse crescite e fusioni dei mesenteri. I sacchi aerei toracici degli uccelli separano un setto obliquo ventrale da un diaframma polmonare dorsale che è provvisto di muscoli striati. I loro polmoni crescono contro le pareti corporee interne dorsolaterali, facendo sparire le cavità pleurali nell’adulto. Nella partizione del loro celoma i MAMMIFERI allo stato embrionale ricordano dapprima i pesci primitivi (divisione incompleta, posteriore al cuore, costituita da un setto trasverso) e quindi i rettili (pericardio derivato dal setto trasverso e membrane pleuropericardiche). I mammiferi a questo punto separano le cavità pleurali pari dalla cavità peritoneale per mezzo di un diaframma. La porzione ventrale di questo organo origina dal setto trasverso. La porzione dorsale deriva dal mesentere dorsale ed anche da un altro paio di accrescimenti delle pareti laterali del corpo, le membrane peritoneali (Figura 11.3). Il muscolo striato del diaframma proviene dai miotomi cervicali (e per questo è innervato dai nervi cervicali) poiché si sviluppa a quel livello nell’embrione e quindi migra posteriormente quando il collo si allunga e i polmoni si espandono. La cavità pericardica degli anuri e dei rettili è limitata dorsalmente dalla membrana pericardica e ventralmente dalla parete corporea. Negli uccelli il fegato in crescita si fa strada fra la parete corporea e le membrane, facendo avvolgere il cuore quasi esclusivamente dalla membrana pericardica. Nei mammiferi la crescita dei polmoni fa lo stesso, questa volta cancellando la primitiva
142
11.
Celoma
e mesenteri
221
© 88-08-11832-0 Membrana pleuropericardica (cresce dalla parete laterale del corpo verso la linea mediana)
Polmoni Cavità pleurica
Cavità pericardica
Membrana pleuroperitoneale (cresce dalla parete laterale del corpo verso la linea mediana)
Cuore
FERITE
Cavità peritoneale
Setto trasverso (origina dalla parete ventrale del corpo)
Esofago
Cavità pleurica Membrana pleuropericardica
Mesentere ventrale
; Polmone che si accresce
fra la parete del corpo e la
Mediastino 7 Pericardio (deriva
membrana pleuropericardica
dalla membrana
pleuropericardica)
Cavità pericardica Cuore
Figura 11.3.
Suddivisione del celoma in un mammifero visto in sezione sagittale (sopra)
e in sezioni trasversali (sotto).
condizione
rettiliana
in quanto
la cavità
pericardica
risulta completamente
esclusa dalla parete del corpo (Figura 11.3). Le cavità pleurali destra e sinistra sono quindi separate da mesenteri dorsali e ventrali e dalla membrana pericardica. La membrana partitoria che ne risulta è chiamata il mediastino e si ritrova solo nei mammiferi. I mesenteri degli ANAMNI o rimangono quasi dritti e completi (dipnoi), o sono pressoché assenti eccetto le parti in relazione con lo stomaco e il fegato (lamprede, selaci) o si estendono fra questi estremi. Fusioni e plicamenti moderati sono comuni. I mesenteri dei pesci sono di solito pigmentati — probabilmente per proteggere le gonadi dalle radiazioni luminose. Il fegato embrionale dei TETRAPODI inizia a crescere entro il setto trasverso. Appena si ingrandisce, si espande fuori dal setto posteriormente e infine si separa più o meno completamente dal diaframma in sviluppo, trascinandosi dietro il legamento coronario. Il fegato, fuoriuscito dal setto, si ingrandisce nel mesentere ventrale. La parte del mesentere ventrale che si estende dal fegato alla parete corporea ventrale è il legamento falciforme; la parte fra il fegato e il tubo digerente è l’omento minore. Una piccola porzione di un’altra parte del mesentere ventrale può ancorare la cistifellea alla parete corporea. Nei
222
142
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
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tetrapodi il mesentere ventrale scompare fra il fegato e la cistifellea. Il mesentere dorsale è più completo ed è molto complicato da pliche e fusioni. Fra lo stomaco e la parete del corpo il mesentere dorsale dei mammiferi diventa una struttura sacciforme
detta borsa omentale
(= membrana
+ borsa).
ECARITOIO
Li
L'APPARATO DIGERENTE
Funzioni principali e organizzazione strutturale 143 |
L’apparato digerente svolge le funzioni di (1) ingerire il cibo, (2) imma-
gazzinarlo temporaneamente, (3) demolirne fisicamente la compattezza, (4) aggredirlo chimicamente, (5) assorbire i prodotti della digestione e (6) accumulare
per un certo tempo e poi eliminare quanto non è stato digerito. La maggior parte dei vertebrati non si nutre in continuazione; quando
vi è disponibilità di cibo è opportuno che questo finisca entro il corpo più rapidamente di quanto non possa essere digerito. Quando il cibo occupa molto volume, e così pure quando mangiare e bere si svolgono a lunghi intervalli e in tempi brevi, è necessario che cibo e acqua vengano temporaneamente immagazzinati. Il principale organo con funzioni di magazzino è lo stomaco. In alcuni uccelli la sacca di accumulo è un’espansione dell’esofago. Molti roditori e qualche altro mammifero hanno tasche guanciali interne o esterne (le cui aperture sono, rispettivamente, interne o esterne alle labbra). Se la digestione è lenta (come avviene con la vegetazione molto fibrosa) è grande la quantità di cibo in corso di digestione e di conseguenza grande la capacità dell’intero tubo digerente. Una disgregazione fisica del cibo — specialmente se ricco di cellulosa —
224
143 ] [144]
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
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è necessaria perché dalle parti indigeribili vengano separate le sostanze nutritizie e perché, così facendo, aumenti la superficie di contatto tra cibo e succhi digestivi. Questa disgregazione fisica viene attuata: (1) tagliuzzando, triturando e comprimendo il cibo con i denti, sia della rima orale che faringei (in alcuni pesci), o nello stomaco
(il ventriglio di molti uccelli); (2) inumidendo, ammor-
bidendo e sciogliendo il cibo con le secrezioni fluide della bocca, dello stomaco e dell’intestino; (3) strizzando e rimescolando
il cibo con la peristalsi (onde di
contrazione nel senso antero-posteriore), l’antiperistalsi e i movimenti di segmentazione (movimenti senza funzione traslatoria) dello stomaco e dell’intestino tenue; (4) emulsionando i grassi con le secrezioni del fegato.
La demolizione chimica del cibo avviene prevalentemente nello stomaco e nell’intestino tenue, attuata da enzimi prodotti in questi organi e nel pancreas. La costituzione chimica degli alimenti assunti dai diversi animali è abbastanza simile da non comportare sorpresa il fatto che enzimi digestivi e ghiandole che li secernono siano anch'essi simili nei diversi vertebrati. Quegli animali che si avvalgono della fermentazione batterica quale ausilio alla digestione (gli ungulati, alcuni marsupiali) debbono assicurare una lunga permanenza del cibo nello stomaco, nel cieco e nel colon. L’assorbimento dei prodotti terminali della digestione richiede grandi superfici di contatto tra cibo digerito ed epitelio intestinale. Ciò viene conseguito con un lungo intestino, con pieghe interne al tubo digerente, con villi microscopici che ne tappezzano le pareti interne e con microvilli ancora più piccoli in alcune porzioni dell’intestino: tutto questo verrà descritto nei particolari più avanti. L’apparato digerente dà indicazioni sulle abitudini alimentari in generale, e occasionalmente la sua struttura può risultare utile in sistematica. Nello stabilire relazioni filogenetiche non ha avuto l’importanza degli altri apparati e sistemi: in parte ciò è dovuto al fatto che singoli organi risultino costantemente strutturati allo stesso modo (intestino tenue), in parte alla loro eccessiva semplicità (vescica biliare o cistifellea) e in parte al fatto che le variazioni cui è an-
dato incontro non hanno un gran significato evolutivo (lobi del fegato e del pancreas, anse intestinali).
Sviluppo del tubo digerente 144
La gastrulazione comporta il formarsi, nell’embrione,
di uno strato cel-
lulare interno, l’endoderma, che si dispone a limitare una cavità sferica se il tuorlo è scarso e una cavità laminare se il tuorlo è abbondante (vedi Figure 5.7, 5.8 e 5.10). In entrambi i casi, con l’allungarsi dell'embrione, l’endoderma si di-
spone a formare un tubo con le modalità indicate nella Figura 12.1. Questo tubo diverrà la parete interna del tubo digerente. Alle sue estremità si connette all’ectoderma, aprendosi all’esterno con la bocca e con l’ano. Il tratto intermedio del tubo digerente, negli embrioni ricchi di tuorlo (pesci, rettili, uccelli), si
espande costituendo un sacco del tuorlo, che racchiude e gradualmente assorbe
tutto il tuorlo (vedi Figura 5.11). Inizialmente il tubo digerente è quasi diritto, ma ben presto si attorciglia, producendo anche diverticoli esterni che diverranno pareti interne e cel-
144
12. L'apparato digerente
225
© 88-08-11832-0 Parte anteriore
del tubo intestinale
Parte posteriore
Intestino
Testa
\ Sacco del tuorlo
DON: e. Diverticolo tiroideo
del tubo intestinale Coda
Limite anteriore dell’intestino tenue
Gronda laringeo-tracheale Faringe
Funicolo ombelicale
Tasca di Rathke
Membrana faringea
Diverticolo epatico
Stomodeo Regione cardiaca
Tasche bem ie
somaro Pancreas
Adenoipofisi
Diverticolo allantoideo
Intestino tenue Intestino crasso
Cloaca
Membrana cloacale Tiroide
Abbozzi polmonari
Fegato
Allantoide (esterna Cistifellea
al sacco del tuorlo)
Figura 12.1. Sviluppo del tubo digerente e dei suoi annessi in un amniote. Non sono raffigurati altri organi e le cavità celomatiche. Uno stadio più avanzato è schematizzato nella Figura 11.3.
lule secernenti degli organi associati al tubo digerente (Figura 12.1 e Figura 11.3). I derivati delle complicate tasche che si formano nella cavità orale e nella faringe hanno funzioni respiratorie ed endocrine, per cui verranno descritti nei Capitoli 13 e 20. Immediatamente posteriore alla faringe dei tetrapodi, un diverticolo ventrale prefigura l'apparato respiratorio. Parecchi diverticoli si svi-
luppano dal tratto del tubo posteriore allo stomaco che sta slargandosi: diverranno fegato, cistifellea, pancreas e relativi tubicini di scarico (= dotti). In prossimità dell’ano degli amnioti, verso il termine del tubo, un diverticolo ventrale si accresce rapidamente per divenire quell’annesso embrionale membranoso conosciuto come allantoide.
226
144.
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
[145]
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I tessuti connettivi annessi
(e di conseguenza
e muscolari associati al tubo digerente egli organi la maggior parte della loro massa)
sono
di origine
mesodermica. Il differenziamento di questo mesoderma è legato all’ontogenesi del celoma, come descritto nell’ultimo capitolo.
Struttura, {145)
adattamento
ed evoluzione
Bocca e cavità orale. La complessa
struttura costituente bocca, cavità
orale e faringe non può essere convenientemente descritta nell’ambito di un solo apparato. I denti sono già stati descritti (Capitolo 8). Le derivazioni respiratorie e ghiandolari della faringe verranno trattate nei Capitoli 13 e 20, mentre le diverse specializzazioni connesse con l’alimentazione lo saranno nel Capitolo 30. Il VERTEBRATO ANCESTRALE era con molta probabilità un filtratore. Come l’anfiosso e la larva di lampreda, doveva avere una bocca piccola, una ca-
vità orale molto limitata e una grande faringe, specializzata nel rimuovere dall’acqua, intrappolandole nel muco che ricopriva le numerose maglie branchiali (vedi Figure 2.3 e 3.4), microscopiche particelle di cibo. Il muco veniva poi convogliato verso l’intestino da movimenti ciliari. Gli AGNATI hanno compiuto un passo oltre la filtrazione, ma non possedendo né mascelle né veri denti, essi ingeriscono bocconi piccoli o mollicci e in relazione a ciò le loro cavità orali sono piccole. Le strutture boccali possono essere adatte per aspirare (molti ostracodermi) o specializzate per aderire ad un ospite e abraderne la carne (i ciclostomi). Gli anaspidi, alcuni cefalaspidi e così pure i ciclostomi, dispongono di un organo raspante collocato nella parte inferiore della cavità orale, organo cui viene dato il nome di lingua ma non è affatto omologo alla lingua degli altri vertebrati. Bocche e cavità orali di ELASMOBRANCHI e OSTEITTI sono molto diversificate. Pur mancando di labbra carnose, le parti boccali possono essere protusibili o altrimenti specializzate (e se ne parlerà ancora di più nel Capitolo 30). Cavità orale e faringe sono di solito dilatabili. Sulle arcate branchiali si osservano a volte formazioni atte a setacciare il cibo, a triturarlo, ad addentarlo (vedi
Figura 12.2 e Figura 30.1). Gli elementi basali dello scheletro viscerale sostengono una lingua rigida, che pur nella sua scarsa mobilità può essere fornita di denti: essa è parzialmente omologa alla lingua dei tetrapodi. Dato che il cibo dei pesci è sempre bagnato non vi è necessità di ulteriore lubrificazione e nella bocca non vi sono che sparse cellule mucose. Le tendenze evolutive per i TETRAPODI sono rivolte nel complesso ad un'iniziale accentuazione della lubrificazione orale seguita da una più o meno limitata capacità digestiva di natura fisica e chimica. Le loro cavità orali hanno capacità medie o grandi, a seconda delle abitudini alimentari. La lingua, sem-
pre presente, è sostenuta da elementi derivati dalla seconda e terza (e a volte anche dalla quarta) arcata branchiale; di solito carnosa e molto mobile, è invece
relativamente rigida e fissa in molti uccelli e in alcuni rettili. Può anche svolgere una sua funzione all’esterno della bocca, nell’afferrare il cibo (vedi Figura
30.7), e interna alla bocca: posizionare il cibo durante la masticazione, inghiot-
145
12. L'apparato digerente
227
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Dentelli faringei Esofago
Cervello
Dotto pneumatico
Condrocranio Tessuto adiposo
Midollo spinale Cranio osseo Vertebre
Vescica natatoria (con funzione respiratoria) Stomaco 57
Setto trasverso
Arcate branchiali i
Fessure branchiali
Cinto pettorale Muscolo sternoioideo
Cavità pericardica Ventricolo
Aorta ventrale
Figura 12.2. Sezione sagittale della testa e della parte anteriore del corpo di un pesce neopterigio primitivo, del genere Amia.
tirlo e così pure nel controllo delle emissioni sonore. I mammiferi sono forniti di labbra mosse da elementi derivati dal muscolo platisma. I tetrapodi hanno ghiandole salivari con dotti che si aprono nella bocca; queste ghiandole sono multicellulari, composte, il più delle volte lobate (Figura 12.3). Prendono nome dalla loro collocazione labiale, linguale, palatale, nasale, mascellare, parotidea (negli erbivori sono spesso le più grandi), mandibolare (nei carnivori le più grosse) ecc. Però numero, distribuzione, dettagli strutturali sono diversi nei diversi animali, ed una corrispondenza nominale e di posizione non è necessariamente un’equivalenza funzionale. Tutti i tetrapodi che non sono divenuti animali acquatici hanno bisogno di una secrezione mucosa e sierosa per lubrificare il cibo asciutto: a volte è solo di questa funzione che sentono la necessità. In alcuni mammiferi (e a un più basso livello in pochi altri tetrapodi) è presente nel secreto anche un enzima che digerisce gli zuccheri, e vi sono state individuate anche tracce di enzimi litici di proteine e grassi. Comunque, una primaria importanza della digestione orale è piuttosto dubbia. In diversi animali le ghiandole della bocca hanno acquisito speciali funzioni: le loro secrezioni collose possono determinare l’adesione del cibo alla loro lingua (rane, formichieri); divengono ghiandole del veleno in alcuni serpenti, in qualche sauro, nei topiragno; secernono anticoagulanti nei pipistrelli vampiri (e nelle lamprede). Le ghiandole nasali di alcuni uccelli (e rettili) marini migrano
nelle cavità orbitarie svolgendo una funzione escretoria dei sali.
228
146
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
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Sbocchi delle ghiandole parotidi e zigomatiche sotto il labbro in vicinanza del dente ferino
Ghiandola zigomatica sotto l’arcata zigomatica
o < Cartilagine dell'orecchio Ghiandola parotide
(SP
Sbocchi dei dotti mandibolare
— Ghiandola mandibolare
a
Anzjhe
0a
e sottolinguale al di sotto della
lingua in posizione mediana
Figura 12.3.
Ghiandole boccali, o salivari, di un cane.
[146] Struttura fine del tubo digerente. La struttura fine del tubo digerente è sostanzialmente simile in tutta la sua lunghezza. Il tubo è formato da una serie di guaine a strati sovrapposti (Figura 12.4). Lo strato principale, il più interno, è la mucosa: consiste di un epitelio superficiale, di una tonaca propria più profonda e di una muscolaris mucosa. Le cellule epiteliali a volte sono piatte (epitelio pavimentoso), ma di solito sono cilindriche con nucleo verso la base (epitelio cilindrico). Intercalate fra le cellule meno specializzate vi sono cellule
mucipare caliciformi e (in specifiche regioni del canale alimentare) ghiandole unicellulari o pluricellulari che secernono succhi digestivi. L’epitelio forma parecchie pieghe quando il lume intestinale è vuoto. La tonaca propria è un tessuto connettivo lasso sottostante l’epitelio e nei villi costituisce la parte interna. Appena oltre vi è (e non sempre) un sottile strato di muscolatura liscia, la muscolaris mucosae, che determina movimenti della superficie intestinale non coinvolgenti il tubo digerente nel suo insieme. La seconda importante guaina del tubo digerente è la sottomucosa, tessuto connettivo lasso di rilevante spessore includente nervi, capillari, dotti linfatici e linfonodi, e i gangli del sistema nervoso parasimpatico. Le più grandi cripte e ghiandole dell’epitelio possono spingersi entro la sottomucosa. La sottomucosa è a sua volta inguainata in un terzo importante tessuto, il muscolare esterno, costituito da fibre disposte in stretta spirale attorno al tubo nella parte rivolta verso il lume (e perciò chiamata strato muscolare circolare), la cui contrazione allunga e riduce il lume del tubo, e da fibre lisce di-
sposte quasi in senso longitudinale (e quindi indicate come strato muscolare longitudinale) con funzione di accorciare il tubo. L'azione coordinata di questi due strati muscolari provoca peristalsi e segmentazione. La faringe, il retto e parte dell’esofago sono connesse alle strutture adia-
centi, mentre le altre parti sono mobili nel celoma e sono avviluppate in membrane sierose.
147
12. L'apparato digerente
229
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Vasi sanguigni Mesentere Sierosa
Muscolatura longitudinale Muscolatura circolare
E
TI
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DX
7
pi/ {i
(FU ff
I
|
2
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}
i;
Mucosa e
sottomucosa
Pliche circolari
INTESTINO TENUE
: : Glicocalice
Mitocondrio
fo Microvilli
Capillare Vaso linfatico
Cellula mucipara caliciforme
Cripta del Lieberkùhn
CELLULA EPITELIALE
Figura 12.4.
Struttura dell'intestino tenue.
147 ] Esofago e stomaco. L’istologia dell’esofago è peculiare sotto due aspetti: l’epitelio, ricco di pieghe e molto estensibile, è costituito da cellule piatte stratificate, che negli animali nutrentisi a grossi bocconi sono corneificate; la guaina muscolare esterna, nella parte anteriore dell’esofago (specie nei mammiferi), invece di fibre muscolari lisce può averne di striate (e quindi volontarie). Le pareti dello stomaco sono diverse da zona a zona tanto nella struttura microscopica che per la funzione svolta (Figura 12.5). Queste zone possono essere nettamente delimitate o confluire l’una nell’altra. La reciproca collocazione può avere una qualche relazione con la funzione mentre non ha che scarso significato per la sistematica. La zona più anteriore ha una struttura fine non
230
147
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
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Regione esofagea
Fondo Duodeno
Regione pilorica
PESCECANE
RANA
Triakis
Rana
ALLIGATORE Alligator
AVVOLTOIO Gyps
Reticolo
Proventriglio
Rumine
Regione cardiaca
Ventriglio
Abomaso
PAVONE
CANE
MAIALE
RUMINANTE
Pavo
Canis
Sus
(Schematico)
Figura 12.5. Stomaci di vertebrati esemplificativi, evidenzianti alcune variazioni nella conformazione e nella distribuzione dei diversi tipi di parete. Visioni ventrali degli organi sezionati.
molto diversa da quella dell’esofago e pertanto viene detta regione esofagea, anche se la sua origine dall’esofago è molto dubbia. Negli animali che si nutrono a grossi bocconi è relativamente più espansa che negli altri: come per l’esofago, la sua sola secrezione è muco. Nei soli mammiferi è presente una regione cardiaca: anch’essa secerne solo muco, ma le cellule del suo epitelio sono cilindriche. La regione digerente dello stomaco è il fondo. La sua parete è inspessita da un fitto strato di dritte ghiandole gastriche tubulari. Le aperture di queste ghiandole appaiono in superficie come bocche di microscopici pozzetti. Le cellule cilindriche delle ghiandole hanno caratteristiche diverse: possono secernere un enzima (la pepsina) che inizi la digestione delle proteine, possono secernere acido cloridrico che assicuri l’acidità necessaria all’attività digestiva di questo enzima e possono a volte secernere anche un enzima che attacchi i grassi. Le cellule del collo di queste ghiandole secernono muco. Gli stomaci dei mammiferi secernono anche la renina per coagulare il latte. La regione più prossima all’intestino è la regione pilorica, le cui ghiandole tubulari a gomitolo secernono muco.
La tonaca muscolare esterna dello stomaco è relativamente spessa: all'estremità anteriore dello stomaco, fibre circolari formano uno sfintere, il car-
147
12. L'apparato
digerente
231
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dia; all’estremità posteriore lo sfintere pilorico controlla il passaggio del chimo (cibo in parte digerito) nell’intestino. Non può essere identificato uno stomaco negli animali filtratori e negli AGNATI. L’esofago dei pesci è di solito breve e da questo, a volte, si passa senza discontinuità nello stomaco (Figura 12.2); il più delle volte l’esofago è provvisto di papille dirette verso lo stomaco. In molti selaci lo stomaco è ciliato. Lo stomaco dei pesci è o dritto o piegato a ] o U (Figura 12.6); particolarmente grande lo hanno i selaci, mentre manca in alcuni pesci (chimere, dipnoi) che si cibano solo di alimenti ridotti in piccolissimi frammenti. L’esofago degli ANFIBI è breve, ciliato e ben fornito di ghiandole mucose. I RETTILI tendono ad avere un esofago più lungo come conseguenza di una maggiore lunghezza del collo e dei polmoni più sviluppati. L’esofago è spesso ciliato quando il cibo usuale è cedevole, ma è corneificato in alcune tartarughe. Lo stomaco è ancora semplice e dritto oppure appena ricurvo nella fin)
Fegato
nr
Esofago
7
Cistifellea
Fegato
Stomaco aperto per mostrare
papille e pliche Dotto coledoco Cistifellea
Cechi pilorici Stomaco
Dotto coledoco
Intestino tenue
Pancreas
Milza Mesentere
Milza I
t î ;
Valvola spirale nell'intestino
ta
iL, -
Intestino crasso
Ì \ i
Ghiandola
vo
digitiforme Colon
\de
Retto
PESCECANE,
Figura 12.6.
Squalus
TROTA, Salmo
Porzioni del tubo digerente di un elasmobranco
(a sinistra) e di un teleo-
steo (a destra) che si nutrono, prevalentemente, il primo di carne e il secondo di insetti. Visioni ventrali.
232
147
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
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maggior parte degli anfibi e dei rettili, ma è curvo e dotato di una forte muscolatura nei coccodrilli (Figure 12.5 e 12.7). L’esofago degli UCCELLI è lungo e la sua parete è di solito corneificata. In parecchie famiglie un certo numero di specie ha una permanente dilatazione della parte inferiore dell’esofago che svolge la funzione di organo di ritenzione del cibo: questa dilatazione prende il nome di ingluvie (Figura 12.7). Di solito trattasi di un’espansione ventrale e chiaramente protundente, ma a volte è dorsale e allora risulta meno evidente. Lo stomaco degli uccelli è ripartito in due: la parte anteriore, derivata dal fondo ma indicata con il nome di proventriglio, è molto ricca di ghiandole e secerne enzimi digestivi; la parte posteriore corrisponde alla regione pilorica ed è conosciuta come ventriglio. Possiede spesso una muscolatura molto sviluppata, così da poter stritolare un cibo grossolano (a volte con l’aiuto di pietruzze ingerite dall’uccello). Proventriglio e ventriglio sono nettamente distinti nelle specie granivore e meno bene nelle specie carnivore
(Figura 12.5).
L’esofago dei MAMMIFERI
Esofago
è lungo, privo di ciglia e corneificato nei
i
Esofago
— (più lungo
ì
n
(più lungo
di quanto qui
EF
3
di quanto qui
rappresentato)
Stomaco
)
rappresentato)
_
Ingluvie
Cistifellea
Milza Dotto coledoco
Fegato (non ha cistifellea)
Pancreas Fegato
Proventriglio Milza
7 DI otto epatico
; Intestino tenue
Ventriglio
Pancreas
Intestino crasso TER
Retto (più lungo,
di quanto qui
TRE
osi
__&
Ansa duodenale Ultima ansa dell'intestino tenue
pendici ciecali
Cloaca
Li o)
rappresentato)
VARANO, Varanus
PICCIONE, Columba
Figura 12.7. Porzioni del tubo digerente di un rettile (a sinistra) e di un uccello granivoro (a destra). Visioni ventrali.
147 | | 148
12. L'apparato digerente
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mangiatori di cibi abrasivi come sono gli artiodattili, i perissodattili e i roditori. Lo stomaco può essere semplice e sacciforme (uomo, molti roditori, parecchi
insettivori, carnivori), oppure suddiviso, in maniera più o meno complicata, in vari comparti (vedi oltre). Una regione esofagea è a volte presente e in alcuni casi è abbastanza larga. L'intero stomaco dei monotremi è corneificato e la maggior parte di quello dei ruminanti è di tipo esofageo. Una regione del cardia, che si ritrova solo nei mammiferi, è tipica ma non generalizzata.
148 | Intestino. La digestione si completa e i succhi nutritivi vengono assorbiti nella parte anteriore dell’intestino. Ciò richiede una superficie molto estesa e pertanto il tubo si ripiega più volte mentre le pareti della mucosa intestinale formano rilievi circolari (assenti in molti piccoli vertebrati), villi digitiformi microscopici (se ne ritrovano da 10 a 40 per mm?) e infine microvilli (se ne con-
tano fino a 200.000 per mm? sulla superficie esposta delle cellule epiteliali: con la loro ricopertura polisaccaridica formano così quello che viene detto orletto striato) (Figura 12.4). Tra pieghe, villi e microvilli la superficie esposta del tubo digerente può aumentare di 600 volte. Le cellule epiteliali si moltiplicano entro le cripte tra i villi e migrano (di solito in due giorni) all’apice del villo dove si disfano nel lume intestinale, liberando quegli enzimi che avevano sintetizzato nel corso della loro migrazione. Svariati enzimi lipolitici, proteolitici e glicolitici vengono così rilasciati, forse più negli amnioti che nei pesci. Cellule caliciformi sparse producono muco. Vengono anche secreti ormoni che influenzano l’attività di stomaco, fegato e pancreas (secretina, pancreozimina, colecistochinina, enterogastrone). Le secrezioni del fegato e del pancreas si riversano in una porzione dell’intestino prossima allo stomaco, il duodeno. Il succo intestinale che risulta da tutto ciò è alcalino. L’assorbimento dei prodotti della digestione è un processo attivo e complesso che a volte si completa solo nel citoplasma della cellula epiteliale. Nella parte posteriore dell’intestino, decisamente la meno lunga, si ha l'assorbimento degli elettroliti inorganici e di una gran quantità di acqua, mentre si formano le feci. In questa regione mancano di solito villi e microvilli; le cellule mucipare sono abbondanti e nella sottomucosa sono frequenti i linfonodi. Quella parte di intestino che oltrepassa il celoma e attraversa il cinto pelvico viene detta retto. L’ultima parte del tubo digerente è in molti vertebrati una cloaca, dove vengono convogliati i rifiuti corporei dell’apparato digerente e di quello escretore, oltre che i prodotti delle gonadi (vedi Figura 16.12). Le regioni anteriore e posteriore dell’intestino sono ben distinguibili nei tetrapodi e vengono indicate rispettivamente come intestino tenue e intestino crasso (= grosso, dato il suo relativamente maggior diametro). Spesso nei tetrapodi vi sono anche uno o due diverticoli intestinali a fondo cieco, posti alla confluenza del tenue con il crasso: a ciascuno viene dato il nome di cieco. È probabile che avessero la funzione di aumentare la superficie dell’intestino, ma al momento svolgono funzioni diverse, quali quella di immagazzinamento, di camere di fermentazione o di concentrazione vitaminica.
L’intestino dei CICLOSTOMI corre dritto dalla faringe alla cloaca, con lievi differenze regionali. Questa condizione, propria anche dell’anfiosso, è in-
234
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
[148]
[149]
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dubbiamente primitiva per i vertebrati. Nelle lamprede, una plica marcata della
mucosa intestinale corre lungo tutto l’intestino in una larga spirale. Può essere ritenuta analoga, se non forse anche omologa, alla valvola spirale che fra breve verrà descritta.
Le caratteristiche del tubo digerente nei SELACI sono relativamente co-
stanti. Il canale alimentare, ora troppo lungo per attraversare in linea retta il ce-
loma, ha una conformazione a N. Una piega si forma nel lungo stomaco e un’altra nell’intestino: le tre parti così determinate sono all’incirca di uguale lunghezza e quasi parallele all’asse lungo del corpo. Nella parte terminale vi è la valvola spirale (Figura 12.6); larga nella zona mediana, questa parte è atfusolata ad entrambe le estremità. La mucosa è rilevata in una singola plica, come nella lampreda, ma in questi animali la spirale è molto più stretta, assomigliando sotto certi aspetti al percorso lungo una scala a chiocciola. A seconda della specie il numero dei giri va da 5 e mezzo a 50, con il funzionale vantaggio di un grande sviluppo della superficie epiteliale. Un equivalente incremento viene conseguito con una maggiore lunghezza dell’intestino ripiegato più volte, quasi a gomitolo, ma la struttura a spirale si adatta meglio ad una lunga e affusolata cavità corporea quale quella di questi pesci. Un breve retto si rapporta alla cloaca. Un’appendice dorsale del retto viene indicata come ghiandola digitiforme o cieco rettale, la cui funzione è l’escrezione dei sali (vedi par. 199). Le CHI-
MERE non hanno cloaca né vi è una ghiandola rettale anche se un tessuto ghiandolare simile è presente nella parete del retto. Facendo ora un passo indietro, assume una certa importanza il fatto che in un PLACODERMA fossile, un antiarco, sia stata rilevata l’impronta di una spirale nell’intestino: questa complicata struttura è sicuramente primitiva fra i vertebrati. L’intestino degli OSTEITTI presenta più varianti che non quello dei condroitti; raramente dritto, di solito si ripiega in una o due curve a S e a volte è anche avvolto su se stesso. Può essere anche meno lungo del corpo, ma in genere è ben più lungo di quello dei pesci cartilaginei, anche 12 volte la lunghezza corporea in alcune specie. Una spirale intestinale è presente in tutti gli attuali osteitti, a eccezione dei teleostei (in molti di questi vi sono residui della valvola). Fra questi ultimi, negli appartenenti al gruppo degli attinopterigi, vi è un’altra caratteristica peculiare che comporta l’aumento della superficie intestinale: nelle immediate adiacenze dello stomaco sono presenti dei diverticoli chiamati appendici piloriche (Figura 12.6). In genere vi sono decine o centinaia di queste appendici, ma in qualcuno possono esservene poche e in qualche caso mancare del tutto. Questi ciechi tubulari possono aprirsi nell’intestino singolarmente oppure confluire prima in una struttura accessoria; istologicamente sono simili all’adiacente intestino. Fra gli osteitti solo dipnoi e crossopterigi dispongono di una cloaca. Non vi è la ghiandola digitiforme. L’intestino delle larve di anuri (girini) è lungo e convoluto, ma quello
degli ANFIBI adulti (e delle larve urodele) è relativamente corto e semplice
estendendosi per non più della metà o dei 3/4 dell’intera lunghezza corporea. Come in altri tetrapodi, ad un intestino tenue convoluto segue un più breve intestino crasso; al limite fra i due può esservi una singola, piccola appendice del colon. Quest'ultima struttura è apparentemente vestigiale in molti anfibi attuali,
149 ] [150
12. L'apparato digerente
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per cui la sua presenza in questa classe di animali può essere ritenuta primitiva. E presente una cloaca. L'intestino di molti serpenti e degli anfisbenidi è quasi dritto e appena convoluto nella maggioranza degli altri RETTILI. La sua lunghezza è di solito compresa fra la metà e il doppio della lunghezza del tronco, con una tendenza ad un rapporto più alto nelle tartarughe. Si riconosce una porzione tenue dell’intestino e una crassa. In molte specie vi è un’appendice del colon dorsale, che in altre specie è stata persa. Il duodeno degli UCCELLI forma regolarmente una lunga e sottile ansa che occupa ventralmente la cavità enterica e bordeggia il pancreas. Il restante intestino tenue è relativamente lungo e forma pieghe e anse secondo complessi schemi che risultano costanti entro la categoria sistematica familiare. L’intestino crasso è corto, quasi dritto e ricco di villi: occupa una posizione dorsale. Normalmente vi sono due appendici del colon e ben di rado ve ne è una o più di due; sono digitiformi, il più delle volte assai lunghe e si inseriscono nel canale intestinale di lato o ventralmente. È presente una cloaca con un diverticolo dorsale a funzione anticorpale, noto come borsa di Fabrizio. La morfologia macroscopica del tubo digerente dei MAMMIFERI è molto diversificata e solo nelle linee generali correlabile con la posizione sistematica (Figura 12.8). L’intestino può essere non più lungo di 2-6 volte la lunghezza del tronco (in molti carnivori e insettivori) o lunghissimo, fino a 20-25 vol-
te quella del corpo (in alcuni artiodattili e in qualche mammifero marino). Il duodeno forma di solito un’ansa, ma i suoi legami con il pancreas sono meno stretti che non per gli uccelli. Confrontandoli con gli uccelli, anche gli schemi di avvolgimento delle anse dell’intestino tenue sono meno regolari; l’intestino crasso è di solito più lungo e voluminoso, specialmente negli erbivori. Molti mammiferi, fra loro ben diversi, hanno una coppia di appendici del colon: questa potrebbe forse essere una condizione primitiva, anche se la regola è una sola appendice ventrale. Quest’appendice può essere piccola (e a volte anche mancare), ma può anche essere lunga due o più volte l’intera lunghezza del tronco. Linee di sviluppo evolutivo del tubo digerente sono scarsamente evidenziabili, anche se in alcuni gruppi sistematici si osservano caratteristiche particolari (valvola spirale, ciechi pilorici, ventriglio, ghiandola rettale): sono invece piuttosto ben rilevabili i molti adattamenti funzionali. 150] Adattamenti del tubo digerente. Morfologia del tubo digerente e sue peculiarità funzionali risultano il più delle volte correlabili facilmente, rendendo possibile la determinazione approssimativa, a partire dall’apparato digerente di un vertebrato, delle sue abitudini alimentari e della dieta; in alcuni casi, particolarmente fra i pesci e i mammiferi marini, la strutturazione complessiva risulta di difficile comprensione. Un vertebrato che si nutra di un cibo facilmente digeribile o finemente sminuzzato, che si alimenti poco ma spesso o addirittura in continuazione, non
necessita di un comparto di immagazzinamento temporaneo del cibo e gli è sufficiente un canale alimentare breve. In questo gruppo rientrano molti filtratori e planctofagi, quei parassiti che raspano via la carne dei loro ospiti, alcuni di
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Corpo trapezoide Tratto del nervo
abducente
Tratto piramidale della via piramidale
Nuclei dei nervi
Peduncolo cerebellare posteriore __-
glossofaringeo e vago Nucleo del nervo ipoglosso
pÒ
Formazione reticolare
Tratto cerebrospinale
CON vo
ei
della via piramidale
SEZIONE
Nuclei delle olive
IN C
Figura 18.4. Sezioni trasverse del tronco encefalico di un bue, ai livelli indicati dalle lettere nella Figura 18.3. Il contrasto fra nuclei e vie è stato accentuato con coloranti.
Il tetto del IV ventricolo è rivestito dal plesso coroideo posteriore. Questa è una delicata membrana molto pieghettata e molto vascolarizzata a cui il cervello fornisce solo il sottile strato ependimale. La funzione dei plessi coroidei è descritta alla fine di questo capitolo.
Tronco
encefalico
anteriore:
diencefalo
236] La parte anteriore del tronco encefalico differisce da quella posteriore nell’essere interamente originata dalle lamine alari embrionali, nel non avere nuclei per i nervi cranici e nessuna formazione reticolare e inoltre per essere in relazione a funzioni che sono fra le più evolute. Il telencefalo embrionale, che forma gli emisferi cerebrali, bilateralmente pari nella maggior parte dei vertebrati, non ha strutture nella linea mediana
ad eccezione
di più commissure
372.
236
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
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e della sottile parete anteriore del ventricolo. Conseguentemente, il diencefalo forma la parte più anteriore del tronco encefalico. È conveniente suddividere il diencefalo in tre parti. La stretta porzione dorsale del diencefalo costituisce l’epitalamo di cui molta parte non ha funzione nervosa. Quella più anteriore è il plesso coroideo anteriore del terzo ventricolo (Figura 18.8). Posteriormente al plesso vi è un’invaginazione di struttura simile (la parafisi) che non si sviluppa nell'uomo. Seguono nell’ordine i nuclei abenulari o abenule (spesso la destra di grandezza diversa rispetto alla sinistra!): sono presenti in tutti i vertebrati e contribuiscono al coordinamento dei riflessi olfattivi. Dietro le abenule vi sono due estroflessioni, l'organo parietale e la ghiandola pineale o epifisi. Queste strutture non si adattano all’organizzazione dei capitoli per sistemi di organi. Sono qui citate per la loro origine e per i rapporti strutturali, nel Capitolo 19 perché ciascuna di esse può funzionare come organo di senso e nel Capitolo 20 poiché una di esse può funzionare come ghiandola endocrina. L’abenula ha una piccola commissura mentre una più grande commissura posteriore segna il confine posteriore dell’epitalamo. Le sue fibre collegano alcuni nuclei dei due lati del diencefalo e forse anche del mesencefalo. Ciascuna delle due spesse pareti laterali del diencefalo è chiamata talamo. Costituisce la parte più grande del tronco encefalico anteriore, ed è lunga 4 cm nell’uomo. I due talami sono in parte delimitati dai ventricoli laterali e sono separati uno dall’altro dal terzo ventricolo ad eccezione della parte in cui la grande commissura mediana si estende in questa cavità (Figura 18.8). Ogni talamo si presenta come
una compatta massa
allungata costituita da molti nu-
clei: se ne ritrovano trenta o più. Un gruppo ventrale di nuclei (talamo ventrale) si ritrova in tutti i vertebrati e invia nell’encefalo retrostante fibre motorie.
Un gruppo dorsale (talamo dorsale) proietta fasci di fibre sensitive (ad eccezione delle vie olfattive) agli emisferi cerebrali (sia alla parte striata che corticale
come sotto definite). I nuclei dorsali sono i più sviluppati nei tetrapodi, in particolare nei mammiferi. Due dei nuclei dorsali sono di particolare interesse. Sono localizzati nella parte terminale
del talamo vicino al tetto del mesencefalo,
uno
di essi è
il corpo genicolato mediano che costituisce parte della via uditiva ed è collegato da una via ai collicoli posteriori del tetto (Figure 18.3 e 18.4) e l’altro è il corpo genicolato laterale che è una stazione di trasmissione nella via visiva primaria. Visti in sezione trasversale, i corpi genicolati laterali di alcuni mammiferi (come i lobi ottici di molti vertebrati) sono striati in circa sei spessi strati. Il campo visivo è proiettato su questi strati. Il talamo è il centro di trasmissione agli emisferi cerebrali e inoltre è l’ultimo centro prima degli emisferi dove le funzioni corporee sono modulate.
Vi sono prove che in diverse classi di vertebrati un livello di consapevolezza comprendente la percezione sia del dolore che del piacere è localizzato nel talamo. La parte ventrale del diencefalo costituisce l’ipotalamo. Esso contiene circa una dozzina di paia di nuclei che insieme integrano e controllano la maggior parte delle funzioni autonome del corpo comprendenti il bilancio idrico, la regolazione della temperatura, l’appetito, la digestione, la pressione sangui-
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18. Sistema
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nervoso: il cervello
i
373
I
gna, il sonno, la veglia, il comportamento sessuale e le emozioni. Coerentemente con la natura duale del sistema autonomo, ogni funzione ha nell’ipotalamo due centri, uno per l’eccitazione e uno per l’inibizione. Sulla superficie ventrale dell’ipotalamo è situato il chiasma ottico dove convergono e sì incrociano i nervi ottici (di solito con una parziale decussazione delle loro fibre) prima di continuare sui due lati del cervello come tratti ottici. I tratti ottici terminano nei corpi genicolati laterali. Appena dopo il chiasma ottico vi è un’area chiamata tuber cinereum che comprende diversi nuclei del sistema parasimpatico e sottende all’ipofisi. L'importante ipofisi è in parte di origine nervosa ma funziona (in parte sotto l’influenza dei nuclei dell’ipotalamo) come ghiandola endocrina. Per questo è descritta nel Capitolo 20. Dietro l’ipofisi vi è un paio di piccole ma evidenti protuberanze dette corpi mamillari. All’interno vi sono nuclei dallo stesso nome che hanno una funzione olfattoria. Essi sono presenti in tutti i tetrapodi e forse nei pesci.
Cervelletto e ponte 237] Il cervelletto è una parte antica dell’encefalo; esso si è ingrandito ed è cambiato nel corso dell’evoluzione molto più di quanto abbia fatto il tronco encefalico. Ne consegue che è una parte variabile dell'encefalo e che alcune porzioni del cervelletto dei mammiferi sono relativamente «nuove». Il cervelletto si sviluppa dalla parte dorsale del metencefalo e un po’ in ritardo rispetto allo sviluppo del tronco encefalico. Il cervelletto dei ciclostomi e degli anfibi è piccolo e liscio. Poiché è semplicemente un ispessimento della parete del tubo neurale non ha cavità. Nei pesci e nei rettili il cervelletto, ancora di solito liscio, è di cospicue dimensioni e include parte del IV ventricolo. Quest’organo negli uccelli e nei mammiferi è molto grande, lobato e convoluto in stretti giri (pieghe convesse) e solchi
(scanalature
concave)
(Figura 18.5). Le sue compatte
pareti escludono
pressoché il IV ventricolo. A differenza del midollo spinale e del tronco encefalico, la materia grigia del cervelletto si localizza in una sottile corteccia superficiale. La materia bianca centrale si ramifica in ogni lobo e giro. In sezione longitudinale questa materia bianca sembra un’arborescenza e fu chiamata in latino arbor vitae. La corteccia cerebellare di tutti i vertebrati è istologicamente divisa in tre regioni: un profondo strato granulare, che possiede diversi tipi di cellule, uno strato di cellule del Purkinje mediano e uno strato molecolare superficiale, che possiede cellule sparse ma è costituito principalmente da sinapsi. Gli impulsi afferenti sono ritrasmessi due volte entro la corteccia prima di raggiungere le grandi ed estremamente ramificate cellule del Purkinje (vedi il neurone più ramificato della Figura 17.1). L'ordinamento delle cellule nella corteccia assicura che gli impulsi avranno un’ampia diffusione. Il cervelletto funziona per mantenere l'equilibrio e controllare il coordinamento
motorio. Esso non inizia attività motorie, ma elabora quelle iniziate
altrove. Esso fornisce un’inconscia regolazione temporale e un’integrazione dei muscoli antagonisti che devono simultaneamente rilassarsi. Se il cervelletto è
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Filogenesi e ontogenesi delle strutture
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Strato molecolare Corteccia
Strato delle cellule di Purkinje
Arbor vitae
Strato granulare
Materia bianca
Peduncoli Nucleo dentato
Figura 18.5.
Sezione parasagittale del cervelletto umano.
danneggiato l’attività muscolare perde il controllo e la precisione. Inoltre alcuni circuiti di memorizzazione possono essere localizzati nel cervelletto. Per poter fare il suo lavoro il cervelletto deve ricevere dal sistema sensoriale segnali in entrata a vasto raggio. Nei vertebrati primitivi, il cervelletto è costituito da due parti. Una è l’archicervelletto. Il suo principale segnale in entrata proviene dal labirinto dell'orecchio e dal sistema della linea laterale tramite nuclei interposti a queste vie nel tronco encefalico, non escludendo peraltro l’esistenza di vie spinali. L’archicerebello è mantenuto negli amnioti come lobi auricolari o flocculari dell’organo più evoluto (Figura 18.12). L’altra parte è il paleocerebello, che si trova sulla linea mediana dell’organo. I suoi segnali d’entrata provengono per larga parte da propriocettori di tensione musco-
lare del tronco e sono ritrasmessi dal midollo spinale e dal nucleo olivare inferiore. Questa parte del cervelletto è importante per il controllo del nuoto nei pesci. Quando i muscoli appendicolari divennero più rilevanti con l’evoluzione degli amnioti e la corteccia cerebrale divenne più estesa e dominante, il cervelletto rispose evolvendo un neocerebello. Pur non nettamente delimitato il neocerebello forma gli emisferi dell'organo. Vi sono anche segnali in arrivo al cervelletto dai sensi del tatto, vista e udito e dalla formazione reticolare. Il cervelletto ha meno fibre efferenti che afferenti. Gli impulsi in uscita si originano nelle cellule del Purkinje e sono ritrasmessi dai nuclei cerebellari. La localizzazione di questi nuclei negli anamni è varia e complessa. Nel cervelletto degli amnioti, più voluminoso, essi sono localizzati alla base e nei mammiferi si suddividono per diventare tre o (nei primati) quattro paia di nuclei separati. Il più grande e caratteristico è il nucleo dentato, che (come l’oliva inferiore del midollo allungato) ha un contorno pieghettato. C'è una relazione topografica fra i nuclei cerebellari e le regioni della corteccia cerebellare. Vie
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P2383)
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18. Sistema nervoso: il cervello
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efferenti vanno da questi nuclei ai nuclei vestibolari, alla formazione reticolare,
al nucleo rosso e al talamo dorsale. Le vie afferenti ed efferenti fra il cervelletto e la corteccia cerebrale si sono evolute non appena le più recenti e più dominanti parti della corteccia cerebrale si sono evolute. Associata a questo cambiamento vi è l'apparizione, in alcuni uccelli, e la prominenza nei mammiferi, del ponte. Questa aggiunta alla parte ventrale del tronco encefalico a livello del cervelletto riceve nei suoi nuclei pontini fibre dalla corteccia cerebrale e ritrasmette impulsi al cervelletto attraverso i peduncoli medi (i peduncoli che sostengono il cervelletto sono stati descritti precedentemente con il tronco encefalico posteriore). Il ponte, inoltre, trasmette impulsi da un lato all’altro del cervelletto.
Emisferi cerebrali [238]
Struttura generale.
Gli emisferi
cerebrali
costituiscono
il telencefalo
nell’adulto. La parte più anteriore del telencefalo è sempre divisa bilateralmente. Quasi tutto l’organo è diviso negli amnioti e ogni metà è quindi chiamata emisfero cerebrale. Il telencefalo è simile al cervelletto in quanto ha origini antiche sebbene si ingrandisca e cambi nel corso dell’evoluzione. Tuttavia i cambiamenti sono qui più pronunciati e non costituiscono una singola progressione, ma seguono
invece tendenze separate che portano a differenti punti finali in teleostei, uccelli e mammiferi. La filogenesi del telencefalo è una delle più’ sorprendenti nell'evoluzione dei vertebrati. All'estremità anteriore di ogni emisfero si trova il bulbo olfattorio che riceve i nervi dell’olfatto. La parte che rimane di ogni emisfero è divisa in due parti principali: il corpo striato è in una posizione ventrale. È costituito da vari nuclei rilevanti e spesso si gonfia per diventare più grande e globoso. La corteccia o pallio costituisce il tetto e le pareti laterali di ciascun emisfero cerebrale. I suoi centri associativi tendono ad essere distribuiti in uno strato sottile. Nei vertebrati, tranne che negli attinopterigi, il corpo striato e la corteccia sono separati in parte dai ventricoli laterali. Dove la corteccia e il corpo striato si fondono, il confine può risultare indistinto. Le omologie dei vari nuclei sono valutate per mezzo di prove strutturali, comparate, funzionali e istochimiche. Il telencefalo è completato da vari tratti e commissure. Queste parti saranno discusse nell’ordine. 239] Bulboe tratto olfattorio. Gli assoni delle cellule recettrici dell’epitelio nasale arrivano ai bulbi olfattori (Figura 18.8). Essi convergono qui per sinaptare due tipi di neuroni entro grovigli di terminazioni nervose di forma sferica chiamate glomeruli. Gli assoni di questi neuroni di secondo livello entrano nei tratti olfattori che conducono gli impulsi fuori dai bulbi. Un altro tipo di neurone fornisce circuiti locali di retroazione all’interno dei bulbi stessi. Ci sono meno fibre nei tratti in uscita che nei nervi in entrata, in tal modo i bulbi effettuano un’addizione di impulsi. Neuroni di terzo e quarto livello, localizzati altrove nel cervello, sono anch'essi coinvolti nella complicata elaborazione
segnali olfattivi.
di
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Filogenesi e ontogenesi delle strutture
239]
[ 240]
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La grandezza di queste strutture in relazione al resto del cervello varia in un largo intervallo a seconda dell'importanza dell’olfatto nella vita dell’animale (Figura 18.12).
Corpo striato e nuclei basali. Il corpo striato è così chiamato per l’a(240) spetto di parte della sua sostanza in alcuni vertebrati, come si può osservare in una sezione. Per i mammiferi, nuclei basali è un sinonimo approssimativo. Viene anche utilizzato il termine gangli basali. Il corpo striato è costituito da tre parti principali, denominate in base alla loro funzione. Si dovrebbe tuttavia riconoscere che l’errata concezione storica nella sequenza della loro evoluzione ha maggiormente enfatizzato queste distinzioni. Inoltre, le omologie assegnate
alle parti fra le diverse classi di vertebrati sono in alcuni casi ipotetiche. Una parte dello striato è detta archistriato (Figura 18.6). Essa integra i sensi olfattorio e somatici generali. L’archistriato dei pesci è costituito da diversi nuclei mal separabili chiamati amigdale (= a forma di mandorla). I tetrapodi mantengono la struttura e nei mammiferi la corrispondente amigdala è una massa globulare che tende ad essere ventrale rispetto agli altri nuclei basali. Persino nei mammiferi essa rimane in parte un centro associativo per i segnali
olfattivi, ma contribuisce inoltre allo stato di allerta, alla deglutizione del cibo e alle emozioni. Il paleostriato è presente in tutti i vertebrati con vari nomi dati alle sue parti. L'’omologo nucleo basale dei primati è il globo pallido, la cui funzione è descritta in seguito. Il nome neostriato riflette la credenza per lungo tempo mantenuta che questa parte dello striato si sia evoluta solo negli amnioti, una visione che ora non è più accreditata. Alcune strutture a cui è stato assegnato questo nome
si
può ora dimostrare che non sono omologhe (in particolare negli uccelli), ma i suoi derivati fra i nuclei basali dei mammiferi sono il lungo nucleo caudato, che si inarca sugli altri, e il putamen (= conchiglia). Il corpo striato è il più alto centro di integrazione dei pesci (sebbene, come vedremo, non dovrebbe essere sminuita l’importanza della corteccia). Lo striato appare enorme nei rettili ed è solitamente considerato il loro più alto centro di integrazione, sebbene sembri ora probabile che parte della corteccia sia di fatto incorporata nello «striato». Il paleostriato e il neostriato sono anch’essi voluminosi negli uccelli e sopra di essi vi è un esclusivo e spesso iperstriato a quattro strati. Anch’esso deriva dalla corteccia. Considerando il loro rilievo, la funzione dei nuclei basali è scarsamente conosciuta nei mammiferi. I nuclei caudato, putamen e globo pallido sono dominati in essi dalla corteccia e dal talamo. Inviano fibre l’uno all’altro, al ta-
lamo e alla sostanza nera. Si pensa che essi intervengano insieme nel funzionamento delle masse muscolari in antagonismo al più delicato controllo dei singoli muscoli. Lesioni a uno o più gangli basali portano a specifici disturbi motori, riconoscibili
come
diversi da quelli risultanti da lesioni al cervelletto
o alla corteccia cerebrale. Inoltre, prove di utilizzo del glucosio in una scimmia da parte dei nuclei basali, quando l’occhio viene stimolato, fanno ritenere che i nuclei siano implicati con la visione. (Due nuclei supplementari sono comunemente nominati nella letteratu-
240
18.
Sistema
nervoso:
il cervello
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Ventricolo unico
Archicorteccia
Lamina epiteliale
Corteccia
È
Paleocorteccia
Corpo striato fuso alla corteccia Ventricoli uniti Emisfero cerebrale everso
Corpo striato
ELASMOBRANCO
TELEOSTEO
Primordio
Primordio di
dell'ippocampo
neocorteccia
Neocorteccia Primordio del
lobo piriforme Ventricolo
Neostriato?
laterale
Paleostriato
Nuclei settali Archistriato
Corpo striato relativamente
piccolo
ANFIBIO
RETTILE
Archicorteccia
Neocorteccia Ippocampo = archicorteccia ,
; Iperstriato =
Capsula interna
neocorteccia
Fessura rinale
Corpo striato
Nucleo caudato
Putamen Globus pallidus = paleostriato
Paleocorteccia
(ridotta)
Neostriato
Amigdala = archistriato Lobo piriforme = paleocorteccia
UCCELLO
MAMMIFERO PRIMITIVO
Figura 18.6. Sezioni trasversali schematiche di emisferi cerebrali evidenzianti le strutture comparabili del corpo striato e della corteccia.
378
240]
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
[ 241
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ra scientifica sul corpo striato dei mammiferi. Sebbene il putamen sia filogeneticamente e funzionalmente più correlato al nucleo caudato, esso può fondersi strutturalmente con il globo pallido a formare il nucleo lentiforme. Classificato come nucleo basale è inoltre il claustrum situato lateralmente e appiattito. Esso infatti può essere derivato dalla corteccia più che dal corpo striato. Sebbene sia presente sia nei rettili che nei mammiferi, la sua funzione non è chiarita.)
[241] Corteccia cerebrale. Si riconoscono tre parti principali della corteccia: paleocorteccia, archicorteccia e neocorteccia. Con l’eccezione degli attinopterigi e dei mammiferi, la paleocorteccia è situata lateralmente al ventricolo e l’archicorteccia è dorsale o mediana al ventricolo. La neocorteccia può essere interposta fra le altre parti o, in rettili e uccelli, risultare apparentemente ventrale o laterale al ventricolo, associata con lo striato. Paleocorteccia
e archicorteccia
si riteneva
un
tempo
fossero
solo in
relazione all’olfatto e costituissero le uniche parti della corteccia dei pesci. Si sa ora che gran parte della corteccia di molti pesci non ha funzione olfattoria. Gli esperimenti hanno dimostrato che parti della corteccia contribuiscono al comportamento aggressivo, riproduttivo e di apprendimento, rendendo possibili risposte elaborate. Conseguentemente la neocorteccia è anch’essa probabilmente antica, sebbene i suoi confini non siano chiari al livello evolutivo dei pesci. L’architettura del telencefalo degli attinopterigi è una loro esclusiva. La corteccia e il corpo striato sono spessi, si fondono insieme, ed entrambi sono situati lateralmente e ventralmente a un unico ventricolo. La paleocorteccia e l’archicorteccia sono certamente presenti e probabilmente lo è anche la neocorteccia.
Nei rettili e negli uccelli una sottile corteccia si estende ampia a sovrastare l’ingrandito corpo striato. Come già detto, sembra però probabile che parte del grande striato (la porzione dell’iperstriato negli uccelli) sia veramente neocorteccia. Non sembra che gli uccelli subiscano serie conseguenze dalla rimozione chirurgica della loro sottile corteccia superficiale, sebbene vi siano indicazioni che una certa capacità mnemonica venga persa. Contrariamente al credo comune, alcuni uccelli sono più intelligenti di molti mammiferi non primati, ed è stato dimostrato che la loro abilità a risolvere problemi e a ricordare
come risolvere nuovi problemi di tipo simile, risieda nell’iperstriato. Nei mammiferi la paleocorteccia e l’archicorteccia sono separate dalla neocorteccia che si incunea e si allarga fra di esse. Anteriormente,
la paleocor-
teccia comprende i tratti olfattori. Posteriormente essa è spinta verso il basso intorno alla parete laterale fino a una posizione fiancheggiante il tronco encefalico anteriore. Il risultante lobo piriforme è rilevante nei mammiferi con un acuto senso dell’olfatto. Esso è separato superiormente dalla neocorteccia dalla fessura rinale. I lobi piriformi costituiscono la corteccia olfattoria. L'archicorteccia è spinta dalla neocorteccia nella direzione opposta, alla sommità dell’encefalo in prossimità della linea mediana (rettili, monotremi,
marsupiali) od oltre il bordo entro la parete mediana dell’emisfero (altri mammiferi). Spostandosi si arrotola nel senso della sua lunghezza e si sprofonda in
o: 18. Sistema
241 | | 242
nervoso: il; cervello
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gran parte sotto la superficie, formando in tal modo una lunga banda ad arco che viene a contatto con il ventricolo laterale. Il suo nome, ippocampo, è suggerito dal suo aspetto arrotolato quando la si osserva in una sezione trasversale (Figure 18.6 e 18.7). L’ippocampo dei mammiferi è essenziale per la memoria delle relazioni spaziali. Il disordine mnemonico associato alla malattia di Alzheimer può essere il risultato della patologia che isola l’ippocampo dalle altre parti del cervello. Insieme all’ipotalamo, all’amigdala, all’abenula e ai corpi mamillari, l’ippocampo costituisce il sistema limbico, che controlla gli aspetti del comportamento sessuale ed emotivo, della memoria, dell’apprendimento e della motivazione. Sembra che regoli parti più primitive del cervello inibendo comportamenti stereotipati e permettendo quindi l’accomodamento a nuove circostanze.
Tutti i grandi mammiferi e alcuni più piccoli hanno una neocorteccia convoluta; i giri e i profondi solchi aumentano grandemente l’area superficiale totale. In linea solo generale l’intelligenza è in relazione alla grandezza assoluta e relativa del cervello e alle circonvoluzioni; il cervello umano non è il più grande né in assoluto né in relazione al peso corporeo e nemmeno il più convoluto. La materia grigia è interna nella corteccia degli anamni ma è superficiale in quella degli amnioti. Le varie parti della corteccia possono essere distinte istologicamente. Gli strati cellulari sono diversi per densità, grandezza, configurazione,
connessioni
e affinità tintoriali dei loro neuroni.
Le cellule nei sei
successivi strati della corteccia dei primati tendono ad essere ordinate in colonne verticali, ognuna avente sino a 100 cellule. I piccoli mammiferi hanno più cellule per unità di volume del cervello che non i grandi mammiferi. 242 La corteccia dei primati è divisa in regioni per una maggiore facilità di riferimento (per esempio frontale, temporale, parietale, occipitale) e gli specialisti hanno standardizzato il modo per indicare le sottoregioni. In una striscia trasversale alla sommità del cervello umano, al margine posteriore della regione frontale, è la corteccia somato-motoria primaria (Figura 18.9). L'ultimo controllo dell’attività motoria volontaria risiede qui, sebbene questa parte della corteccia sia «allenata» e «consigliata» da altre parti della corteccia e dal cervelletto, dalla formazione reticolare, dai nuclei basali, dal nucleo rosso e da altri centri.
Appena posteriormente alla corteccia somato-motoria,
sul margine an-
teriore della regione parietale, vi è la corteccia somato-sensitiva primaria. In modo simile, la corteccia uditiva primaria è alla sommità del lobo temporale e la corteccia visiva primaria (che si sviluppa nei mammiferi in concomitanza alla perdita da parte dei lobi ottici del mesencefalo di gran parte della loro funzione) è nella regione occipitale. Queste aree hanno una relazione punto-perpunto con la funzione (sebbene in alcuni mammiferi ci sia una sovrapposizione fra punti adiacenti): il controllo motorio del pollice è in uno specifico posto proprio al di sotto del punto del dito indice e sopra il punto del collo; le tonalità musicali sono percepite in punti ben determinati in sequenza dalle alte alle basse frequenze; i punti di visione sono sistemati in relazione al campo visivo. Se la pelle del volto è relativamente
sensibile (come nell’uomo),
le aree
corrispondenti della corteccia sono relativamente grandi; se le mani sono rela-
380
242
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
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Superficie sezionata della corona radiata laddove emerge dalla capsula interna Nucleo caudato
(protundente nel ventricolo laterale)
Forame interventricolare
Putamen = parte dorsale del nucleo lenticolare (esposto dalla dissezione) Corpo calloso
Fornice
Ippocampo
Superficie sezionata del corpo calloso
Emisferi cerebrali rimossi, ma segnato il perimetro della loro sezione frontale a livello del corpo calloso
Corteccia cerebrale Corona radiata
Ventricolo laterale
Corpo calloso Nucleo caudato Capsula esterna Capsula interna Commissura anteriore
Setto pellucido Claustrum Nuclei settali Nuclei lenticolari
Scissura interemisferica
È Ventricolo laterale (plesso coroideo asportato)
Comic Coda del nucleo caudato
Terzo ventricolo
Capsula interna
Nuclei talamici
Capsula esterna Nucleo lenticolare Ippocampo
i
7
E
i un
( >
4
Commissura molle
è
S+»»_— s
Amigdala fessura rinale Tratto ottico
Terzo ventricolo
——_—_________________+ Peduncolo cerebrale
Ipotalamo
SEZIONE IN B
Figura 18.7.
Telencefalo e talamo di bue, dissezionati in visione dorsale (sopra) e se-
zionati in visione trasversale ai livelli corrispondenti alle lettere. Nelle sezioni, il con-
trasto fra nuclei e vie è stato accentuato con coloranti.
242
18.
Sistema
nervoso:
il cervello
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Abenula e commissura abenulare
Plesso coroideo anteriore
Commissura posteriore Epifisi ta
Fornice
Corpo calloso
Collicolo anteriore
Setto pellucido Collicolo posteriore Corteccia cerebellare
Corteccia cerebrale L
sa
È Commissura anteriore Lamina terminale Chiasma ottico
Ponte
Acquedotto di Silvio Corpo mammillare
Terzo ventricolo Commissura molle
Figura 18.8.
Plesso
tz
coroideo
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CAPITOLO
20
GHIANDOLE ENDOCRINE
Caratteri generali delle ghiandole endocrine 263 | Prese insieme, per diversi aspetti le ghiandole endocrine funzionano come il sistema nervoso: ognuna controlla e integra funzioni corporee, ognuna realizza il controllo rilasciando sostanze (spesso dello stesso tipo) e ognuna può realizzare interazioni entro il suo proprio sistema per coordinare le sue attività. Il controllo endocrino si differenzia dal controllo nervoso nel tendere ad essere più lento e più prolungato; per di più, i due sistemi si integrano. Le ghiandole endocrine sono sprovviste di dotti e secernono sostanze chiamate ormoni che rilasciano nel sistema circolatorio per essere così distribuite. Solo certi tessuti del corpo possono rispondere a un certo tipo di ormone. La risposta può essere morfologica, come per gli ormoni sessuali che influenzano lo sviluppo di caratteristiche sessuali secondarie, o fisiologica, come per l’ormone surrenale che influenza la funzione renale. Molti ormoni agiscono direttamente sui tessuti che sono recettivi ai loro «messaggi».
Spesso, tuttavia,
l’azione è indiretta. Così, un ormone secreto dall’ipotalamo del cervello e rilasciato dall’ipofisi stimola l’ovario a secernere un ormone a cui risponde la parete uterina. Tutte le ghiandole endocrine sono piccole e molto vascolarizzate. Esse
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sono spesso a piccoli grumi sparsi nei vertebrati inferiori, ma tendono ad essere riunite in singoli organelli nei tetrapodi. La maggioranza di esse sono costituite da cordoni di cellule più o meno cuboidali disposte fra sinusoidi e sostenute da una matrice di tessuto connettivale (Figura 20.1). Diverse ghiandole endocri-
ne (neuroipofisi, urofisi) sono invece costituite da piatte cellule indipendenti e una (la tiroide) è costituita da follicoli. Gli ormoni delle ghiandole di origine mesodermica (gonadi, corteccia surrenale, placenta) sono steroidei, mentre gli
ormoni delle ghiandole di origine ectodermica o endodermica sono proteine, peptidi o altri derivati di aminoacidi. Poiché le ghiandole endocrine utilizzano il sistema circolatorio per trasmettere segnali, la loro forma è di poca importanza e una ghiandola può di solito essere singola, multipla o diffusa senza relazione alla funzione. Solo il volume dell’aggregato di cellule è critico. Il sistema è antico (probabilmente il sistema endocrino e quello nervoso evolvettero insieme), ma le sue secrezioni sono rimaste sorprendentemente costanti nel corso delle ere, pur essendovi alcune eccezioni, e le risposte alle secrezioni sono diversificate. Lo sviluppo delle ghiandole endocrine ha origini diverse, e di solito questi organi non sono correlati uno all’altro nello spazio e lo sono in modo incompleto nella funzione. Esse non costituiscono un sistema d’organo nel senso usuale. La funzione endocrina è ancora insufficientemente conosciuta per la maggioranza dei vertebra-
ti inferiori.
Struttura, funzione ed evoluzione delle ghiandole Ipofisi. L’ipofisi,
o ghiandola pituitaria, è localizzata sotto l’ipotalamo
del cervello (vedi Figure 18.8, 18.10 e 18.11). Nei mammiferi è alloggiata in una tasca ossea dell’osso basisfenoide. Sebbene sia piccola, questa ghiandola è, sia Cordoni di cellule secretorie
Canalicoli sanguigni
Tessuto connettivo
TIPO CORDONI CELLULARI — SINUSOIDI
Follicoli secretori
Secrezione immagazzinata
TIPO FOLLICOLARE
Figura 20.1. Due tipi istologici di ghiandola endocrina.
264
20.
Ghiandole
endocrine
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per struttura che funzione, uno degli organi più complicati del corpo. Essa si sviluppa, sorprendentemente, con una duplice origine. La parte chiamata nell'adulto neuroipofisi si forma dalla parte del pavimento del diencefalo embrionale chiamata infundibolo. Questa struttura può evaginarsi (nella maggioranza dei tetrapodi) o quasi non ripiegarsi (anfibi, alcuni pesci). La parte rimanente della ghiandola, o adenoipofisi, si forma invece da un’evaginazione della parte ectodermica della cavità buccale embrionale (lo stomodeo) chiamata tasca ipofisaria o tasca di Rathke (Figura 20.2). Questa tasca, e i suoi derivati, sono va-
riamente lobati nei differenti vertebrati. La sua connessione con la bocca di solito si interrompe durante lo sviluppo. In generale, la neuroipofisi ha una suddivisione anteriore, l’eminenza mediana (non identificata in forme inferiori ai dipnoi), e una suddivisione posteriore o ventrale, la pars nervosa, o lobo posteriore della ghiandola (Figura 20.3). L’adenoipofisi è costituita da diverse parti. La più grande, più costante e più attiva è la pars distalis (o lobo anteriore). Una pars intermedia è solitamente presente ma manca negli uccelli. Altre parti possono anche mancare e la loro funzione è dubbia. Esse differiscono molto fra i vertebrati e qualche omologia può essere fatta, se è il caso, solo combinando indizi dall’embriologia e dall’istochimica. L’eminenza mediana e la pars distalis hanno un’irrorazione
ematica
comune;
la pars nervosa
ha un’irrorazione
ematica
indi-
pendente. La neuroipofisi è atipica fra le ghiandole endocrine in quanto essa è prevalentemente costituita da lunghe fibre nervose parallele che si originano nell’ipotalamo del cervello (Figura 20.4). Questa parte dell’ipofisi funziona infatti immagazzinando e quindi rilasciando nel circolo ematico ormoni elaborati nell’ipotalamo e trasferiti alla neuroipofisi per neurosecrezione (di cui tratteremo più avanti). Molto diversa è l’adenoipofisi, costituita da cordoni di cellule
secretorie di varia specie disposti senza uno schema fisso fra i sinusoidi. La pars intermedia secerne un ormone, l’ormone melanocita-stimolan-
te, che influenza la pigmentazione della pelle. La pars nervosa rilascia gli ormoni polipeptidici vasotocina e vasopressina, che contribuiscono all’osmo-
Romboencefalo Mesencefalo
Diencefalo
Midollo spinale
ZA br
Corda Mt
Esofago EA
TE, cano
Infundibolo — diverrà la DIneuroipofisi
Tasca ipofisaria
(di Ratke) — diverrà
l’adenoipofisi
umolico Co
Diverticolo oo
Cavità orale Lingua
Figura 20.2. Origine embrionale dell’ipofisi, mostrata in una sezione sagittale della testa di un embrione di mammifero.
420
264
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
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Chiasma ottico Parte tuberale
Lobo principale Spazio contenente DIPNOO
Ì tessuto vascolare
Parte intermedia
—T
Lobo nervoso
& DI MAMMIFERO
TELEOSTEO
ELASMOBRANCO
LAMPREDA
LUCERTOLA
Figura 20.3. Anatomia comparata dell’ipofisi, vista in sezione sagittale. La porzione anteriore è a sinistra.
regolazione stimolando il rene a riassorbire liquidi, e, nei mammiferi, l’ossitocina, che provoca la montata lattea e la contrazione dell’utero. La pars distalis secerne perlomeno sei ormoni, quattro dei quali funzionano stimolando altre ghiandole endocrine: l'ormone tireotropo agisce sulla tiroide, l'ormone adrenocorticotropo agisce sulla corteccia surrenale, l’ormone
follicolo-stimolante sull’ovario durante la maturazione delle uova e l’ormone luteinizzante sull’ovario durante la formazione del corpo luteo. Gli ormoni di questi organi bersaglio, a loro volta, sopprimono la produzione di questi ormoni pituitari. La pars distalis secerne anche un ormone della crescita (o somatotropina), che influenza moltissimo la crescita e può influenzare il metabolismo li-
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265
20.
Ghiandole
endocrine
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Nucleo paraventricolare dell'ipotalamo
îSi Chiasma ottico
È;
Nucleo sopraottico dell'ipotalamo
@..
Corpo mammillare Cellule neurosecernenti
Lobo nervoso
Figura 20.4. Relazioni delle cellule neurosecretorie. La porzione anteriore è a sinistra.
pidico, e la prolattina (od ormone lattogeno o luteotropo), che è necessario per l’allattamento nei mammiferi, ma possiede una vasta gamma di funzioni in altri vertebrati. Per molte delle diverse strutture dell’anfiosso si è fatta l’ipotesi che fossero omologhe dell’ipofisi dei vertebrati, ma nessuna conclusione valida è stata raggiunta. Nei ciclostomi e nei pesci, esclusi i sarcopterigi, la neuroipofisi costituisce il più o meno appiattito pavimento del cervello sopra altre parti della ghiandola; una pars nervosa non può essere chiaramente distinta. L’atipica adenoipofisi delle missine è dispersa in isolette fra altri tessuti. L’adenoipofisi dei selaci è unica nell’avere un lobo ventrale di omologia sconosciuta. I pesci, e in
particolare gli attinopterigi, si distinguono per il modo in cui adenoipofisi e neuroipofisi si intrecciano su una vasta area. Nei dipnoi e nei tetrapodi l’intrecciarsi di neuroipofisi e adenoipofisi è molto ridotto o, più spesso, interamente perduto. La pars nervosa si forma da tutto o parte dell’infundibolo, che è ora evaginato dal pavimento del cervello. Ciò comporta che la ghiandola sia ancor più sottesa al cervello. La pars intermedia è grande nei rettili, piccola o assente nei mammiferi e assente negli uccelli. Quando è assente, il suo ormone, l’ormone melanocita-stimolante, può essere prodotto dalla pars distalis.
265 | Tiroide. Le cellule secretrici della tiroide sono derivate da un’evaginazione medioventrale dell’endoderma della faringe embrionale circa al livello della seconda tasca faringea (Figura 20.2). Il mesenchima circostante contribuisce come tessuto di sostegno. La ghiandola consiste sempre di un raggruppamento di follicoli arrotondati e ogni follicolo è delimitato da un singolo strato di cellule, di solito cuboidali (a volte colonnari quando l’attività è intensa) e do-
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tate di microvilli sulla loro superficie libera (Figura 20.1). La tiroide possiede un’irrorazione ematica estremamente ricca per le sue dimensioni. E la sola ghiandola endocrina ad avere un immagazzinamento extracellulare del suo secreto. Questa secrezione,
globulina.
Questa
chiamata colloide, riempie i follicoli e contiene tiro-
proteina, ricca in iodio, è convertita
per idrolisi in due
ormoni, la tiroxina e (in quantità molto minore) la triiodotironina.
La ghiandola inizia a funzionare precocemente nell’ontogenesi, contribuendo al controllo del differenziamento, della crescita, della metamorfosi, del-
la distribuzione del pigmento e dello sviluppo sessuale. Ha un effetto notevole sulla velocità metabolica e può influenzare la muta (anfibi e rettili), la forma del
piumaggio, la temperatura corporea e le funzioni del sistema nervoso e degli apparati digerente ed escretorio. La tiroide interagisce con l’ipofisi e, perlomeno in alcuni casi (anuri), con l’ipotalamo. La ghiandola si ingrossa quando è malata. Tutti i vertebrati possiedono una tiroide e la sua origine risale ai cefalocordati. L’endostilo sul pavimento della faringe dell’anfiosso, e così pure della larva di lampreda, l’ammocete (vedi Figura 3.4), funziona producendo e mobilitando muco utilizzato nell’alimentazione per filtraggio. Ciononostante, vi sono indizi che parte dell’endostilo sia il precursore filogenetico della tiroide: (1) l’endostilo, come la tiroide, si forma da un’evaginazione medioventrale della faringe; (2) parte di esso, come la tiroide, concentra iodio dal sangue; (3) alla
metamorfosi l’endostilo dell’ammocete è parzialmente trasformato nella tiroide dell’adulto. Nei ciclostomi e in molti teleostei la tiroide è relativamente dispersa e in modi diversi distribuita in prossimità dell’aorta ventrale, delle arterie branchiali afferenti, del cuore, delle branchie, del rene, della milza, del cervello o dell’occhio. È più compattata in altri vertebrati ma può essere duplice (anfibi, lucertole, uccelli), bilobata (dipnoi, molti mammiferi) o singola (pesci cartilaginei, la maggioranza dei rettili) (vedi Figure 10.8 e 14.19). La tiroide dei tetrapodi è di solito vicina a laringe, trachea o bronchi.
Paratiroide. La parte secretrice delle ghiandole paratiroidi si differenzia dall’epitelio della terza e quarta (e nei rettili anche seconda) tasca faringea. Stranamente è dalla volta dorsale delle tasche che si originano nei mammiferi, mentre originano dalle parti ventrali negli altri vertebrati. È chiaro da questa e altre prove che le tasche faringee condividono le potenzialità per formare il tessuto ghiandolare e il tipo di ghiandola formata da una specifica regione non è costante.
La ghiandola consiste di cellule densamente impacchettate, organizzate in cordoni o ammassi. L’ormone paratiroideo è un polipeptide chiamato paratormone. Esso influenza il livello del calcio e, meno
direttamente, il livello del
fosforo nel sangue. In assenza dell’ormone il calcio scompare dal sangue in poche ore, sopravviene il tetano muscolare e segue la morte. Una carenza dell’ormone porta ad anormalità delle ossa e dei denti. Tessuto ghiandolare con funzione sconosciuta, che può essere omologo alla paratiroide, è stato identificato in ciclostomi e pesci. Tuttavia, è riconosciuta con certezza soltanto nei tetrapodi e perciò si è evoluta relativamente tardi.
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20.
Ghiandole
endocrine
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Di solito è divisa in una o due coppie di piccole ghiandole. Possono essere lineari (uccelli), ma di solito sono più o meno globulari. Sono localizzate nell’area della gola, per lo più vicine o persino incluse nel timo o nella tiroide (da qui il nome di paratiroide).
267] Corpi ultimobranchiali e cellule parafollicolari. I corpi ultimobranchiali sono presenti in tutti i vertebrati ad esclusione dei mammiferi e forse dei ciclostomi. Possono essere singoli o a coppia e sono situati vicino all’esofago o alla ghiandola tiroide. Si sviluppano dalla coppia più arretrata delle tasche faringee. Il loro ormone è la calcitonina, che influenza il metabolismo del calcio in modo simile, ma molto più rapido, al paratormone. Le cellule parafollicolari entro la tiroide dei mammiferi sono omologhe ai corpi ultimobranchiali e anch’esse secernono calcitonina. 268] Organo interrenale e corteccia surrenale. Le ghiandole surrenali degli amnioti sono situate adiacenti ai reni. Vi sono due tipi di tessuti surrenali, solo nei mammiferi separati in distinte regioni, la corteccia e la midolla. I due tessuti sono diversi per funzione e per origine embrionale. Qui verrà trattato il tipo di tessuto corticale mentre del tessuto midollare si discuterà nel prossimo paragrafo. Nei pesci ossei il tessuto che equivale alla corteccia surrenale è detto tessuto
interrenale.
Queste strutture sono simili alle gonadi per la natura steroidea dei loro ormoni e per la loro origine embrionale. Il tessuto corticale si origina dal mesoderma che delinea la cavità celomatica attigua alla zona di origine delle creste genitali. Le cellule secretrici dei tessuti corticale e interrenale formano cordoni organizzati in tre strati nei mammiferi ma con poca o nessuna organizzazione in altri vertebrati. Molti ormoni corticali sono conosciuti nei mammiferi: alcuni di questi sono anche prodotti altrove nel corpo, alcuni sono prontamente trasformati in altri, e solo di una dozzina si sa che sono attivi fisiologicamente. Tutti insieme questi ormoni sono chiamati adrenocorticosteroidi. Sono classificati in base alla struttura chimica e alla funzione generale in quattro gruppi. Un gruppo (comprendente il cortisone, il corticosterone e il cortisolo) interviene nel metabolismo dei carboidrati e delle proteine. Un secondo gruppo (comprendente il deossicorticosterone) influenza il metabolismo idrico e salino. In sua assenza subentra disidratazione, abbassamento della pressione sanguigna, morte. Il terzo gruppo (comprendente l’aldosterone) è tipico dei mammiferi ed è in relazione al metabolismo del sodio e del potassio. L’ultimo gruppo (comprendente l’adrenosterone) somiglia agli ormoni sessuali. La maggioranza di questi ormoni interagisce con l’ipofisi e molti sono implicati in risposte allo stress.
Il tessuto interrenale dei ciclostomi è disperso lungo le vene cardinali posteriori e altri vasi. Nei pesci teleostei il tessuto interrenale può essere diffuso o no, ma di solito forma numerose piccole chiazze situate vicino o dentro il rene cefalico. La ghiandola è tipicamente allungata e interposta fra i reni nei pesci cartilaginei, allungata e aderente ai reni negli anuri, diffusa e aderente negli urodeli. Il tessuto corticale degli amnioti forma un paio di corpi compatti si
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Filogenesi e ontogenesi delle strutture
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tuati sopra o nelle vicinanze delle estremità anteriori dei reni (vedi Figure 16.9 e 16.10).
269] Corpi cromaffini e midolla surrenale. Il tessuto corrispondente alla midolla surrenale è di solito più disperso fra i vertebrati ed è detto tessuto cromaffine per le sue proprietà tintoriali. Il tessuto cromaffine e midollare è innervato da fibre preganglionari del sistema nervoso autonomo. Nervi e ghiandole derivano tutti dalle creste neurali ectodermiche dell'embrione e secernono tutti adrenalina e noradrenalina, ma le ghiandole ne producono (particolarmente l’adrenalina) molto più del sistema nervoso. Il corpo risponde a questi ormoni in molti modi che lo rendono più capace di affrontare improvvise emergenze (per esempio aumentando inibendo la muscolatura liscia).
il glucosio ematico e la pressione sanguigna,
La distribuzione del tessuto cromaffine nel corpo corrisponde a quella del tessuto interrenale ma tende ad essere anche più diffusa, in particolare nei
pesci, ove può essere presente lungo le vene postcardinali ma anche sopra o dentro i reni. Il tessuto cromaffine può trovarsi vicino ma separato dal tessuto interrenale (alcuni pesci e alcuni lepidosauri), può mescolarsi con il tessuto interrenale o corticale (alcuni pesci, la maggioranza degli anfibi e dei rettili, gli uccelli), o può trovarsi come la midolla entro un tessuto corticale che lo ricopre (la maggioranza dei mammiferi). Anche i mammiferi, tuttavia, hanno corpi cromaffini o paragangli associati con alcuni gangli simpatici.
|270)
Gonadi e placenta. Lo sviluppo e la struttura delle gonadi sono stati
presentati nel Capitolo 16, ma questi organi devono essere menzionati nuova-
mente come ghiandole endocrine. L’ovario produce diversi estrogeni (dei quali i più importanti sono l’estradiolo e l’estrone), i progesteroni e, nei mammiferi,
la relaxina. Gli estrogeni controllano la crescita e lo sviluppo dell’apparato genitale femminile e sono indispensabili per la riproduzione. Essi inoltre promuovono
e mantengono
i caratteri
sessuali
secondari,
che
sono
marcati
in
alcuni vertebrati e insignificanti in altri. Il sito di secrezione dell’estrogeno sembra sia la teca interna nei mammiferi e probabilmente anche lo strato granuloso (vedi Figura 16.4) ma è dubbio per i vertebrati che non possiedono un'effettiva teca. In seguito all’ovulazione, il follicolo scoppiato dei mammiferi si trasforma in una temporanea ma efficace ghiandola detta corpo luteo. Questa struttura secerne progesterone, un ormone che è essenziale per il differenziamento finale del tratto riproduttivo femminile in preparazione della fecondazione e della gravidanza e inoltre per il mantenimento della stessa. Strutture simili al corpo luteo dei mammiferi si formano dagli ovari di altri vertebrati (squali, teleostei, urodeli, uccelli, alcuni rettili) ma apparentemente non in tutti. È quindi
fonte di perplessità che tutti i vertebrati abbiano uno o più progesteroni. La relaxina è il solo ormone delle gonadi che non è uno steroide. In alcuni mammiferi,
perlomeno,
esso agisce sulle sinfisi pubiche, sulle ghiandole
mammarie e sui genitali, preparandoli per le loro funzioni al momento del parto e dopo.
Le cellule interstiziali del testicolo (vedi Figura 16.5) producono gli or-
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za
20. Ghiandole endocrine
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moni maschili globalmente indicati come androgeni. Gli androgeni più importanti sono il testosterone e l’androstenedione. Gli androgeni sono necessari per la crescita, il differenziamento e la funzione del tratto genitale maschile e dell’organo copulatorio (se presente), e per il controllo delle caratteristiche sessuali secondarie e del comportamento sessuale. Tutti i vertebrati producono androgeni. Il tessuto interstiziale non è stato identificato in tutti, ma cellule omologhe possono essere presenti nei tubuli seminiferi o confinanti con le ampolle seminifere. A complicare la situazione, i maschi producono estrogeni e le femmine androgeni, tutti da fonti non adeguatamente conosciute, sebbene le surrenali siano probabilmente coinvolte. Le cellule di sostegno (o di Sertoli) entro i
tubuli seminiferi possono produrre un ormone necessario per la maturazione dello sperma. La placenta dei mammiferi è una ricca risorsa non solo di estrogeno e progesterone, ma anche di gonadotropina e prolattina, che per il resto è prodotta dall’adenoipofisi. La prolattina è necessaria per la produzione del latte nei mammiferi ma è presente anche nei vertebrati inferiori dove possiede svariate funzioni. Tutti gli ormoni delle gonadi hanno complesse interazioni con l’ipofisi, in relazione alla funzione interrenale o corticale o alle attività della tiroide e dell’ipofisi. La funzione delle gonadi è di solito stagionale e il controllo basilare è spesso il fotoperiodo mediato dall’ipotalamo. Poco conosciute sono le vie metaboliche nei pesci. 271) Varie, possibili e probabili ghiandole endocrine. Origine e natura esocrina del pancreas sono state trattate nel Capitolo 12. Le sue migliaia di isolette (vedi Figura 12.12) secernono insulina, che nei mammiferi controlla il deposito
di glicogeno nei tessuti, e glucagone, che ne controlla il rilascio. Tra i pesci vi può essere un minor numero di isolette, ma che sono comunque più grandi, situate entro il pancreas o lungo il dotto biliare. C'è una grande variabilità nella risposta a questi ormoni — il metabolismo proteico e i soluti del sangue possono esservi coinvolti. Ormoni sono secreti dallo stomaco e dall’intestino tenue (come gastrina, secretina, pancreozimina,
colecistochinina).
Questi agiscono su altre parti
dell'apparato digerente per coordinare il processo digestivo. Apparentemente presenti in tutti i vertebrati, questi ormoni
sono
praticamente
noti solo nei
mammiferi e persino in questa classe l’origine cellulare della secrezione è sconosciuta. Il minuscolo organo pineale sulla sommità del cervello (vedi Figura 19.17) è nelle classi inferiori un fotorecettore.
Nei tetrapodi (nei quali è detto
anche epifisi) esso assume funzioni endocrine che sembrano coinvolgere relazioni fra controllo della temperatura o della riproduzione e l’illuminazione. La pineale può influenzare l’attività dell’ipotalamo e dell’ipofisi. In molti tetrapodi secerne melatonina in seguito a segnali chimici dai nervi. La sua produzione ha un ritmo giornaliero (stimolata dal buio e inibita dalla luce) e può far scattare la riproduzione stagionale o le attività migratorie. La melatonina influenza i melanofori delle rane e inibisce le gonadi dei mammiferi. Gli atri dei mammiferi sono stimolati dalla tensione delle pareti a pro-
426
Filogenesi e ontogenesi delle strutture
2748)
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durre il peptide ormonale detto fattore atriale natriuretico, che è immagazzinato in granuli nelle cellule cardiache e che interagisce con vasi sanguigni, reni, surreni e cervello nella complessa regolazione della pressione sanguigna e nell’escrezione di acqua e sodio. I pesci possiedono ciò che sembrano essere cellule neurosecretrici nella parte caudale del midollo spinale. Nei teleostei queste sono collegabili a un rigonfiamento vascolare ventrale detto urofisi. Si sospetta che abbia funzione endocrina, probabilmente influenzante l’osmoregolazione, la regolazione ionica e la pressione sanguigna renale. Nei pressi delle arteriole afferenti dei glomeruli renali vi sono le cellule iuxtaglomerulari, che contengono granuli e sono l’origine dell’ormone renale renina. Quest'ormone poco conosciuto sembra influenzi il bilancio salino e la pressione sanguigna. La maggioranza dei pesci nei reni possiede anche i corpuscoli di Stannius. Questi corpi sono originati dai dotti escretori. Il loro numero per lo più va da due a sei, ma alcuni pesci ne hanno dozzine. Possono produrre un ormone con effetti osmotici. La ghiandola del timo è stata sospettata per una funzione endocrina, ma nessuno lo ha potuto stabilire con certezza. Non solo vi sono queste evidenti ghiandole endocrine con funzione sconosciuta, ma ci sono apparenti «ormoni» conosciuti che non sono prodotti da ghiandole. L’urea e l’anidride carbonica originano da tessuti non endocrini e sono trasportati dal sangue e convogliano «messaggi» a organi distanti dal loro punto di rilascio. Per non confondere la definizione di ormone, queste e simili sostanze sono dette paraormoni.
Neurosecrezioni
Una certa enfasi dovrebbe essere data alla stretta relazione prima annotata fra certe parti del sistema nervoso e certe ghiandole endocrine. Neuroni di due o più nuclei dell’ipotalamo, estendendosi, vanno effettivamente a costituire la neuroipofisi. Quelli che raggiungono la pars nervosa elaborano ormoni di quella parte della ghiandola. Questi ormoni sono rilasciati nel circolo generale. Quei neuroni che raggiungono l’eminenza mediana rilasciano ormoni che entrano in un sistema portale in miniatura che corre dall’eminenza mediana alla neuroipofisi (Figura 20.4). Questo sistema portale è assente nei pesci, ma l’intrecciarsi di neuroipofisi e adenoipofisi in molti pesci può compiere la stessa interazione. La struttura dell’urofisi suggerisce che le sue cellule nervose possano anche essere neurosecretorie e che l’allargamento del midollo spinale è in parte il risultato dell’immagazzinamento temporaneo del prodotto. La corteccia surrenale e altri tessuti cromaffini istologicamente non somigliano al tessuto nervoso, eppure essi funzionano come se si fossero evoluti da fibre postgangliari del sistema nervoso autonomo. La stimolazione nervosa stimola la midolla a secernere. L’epifisi di alcuni mammiferi secerne il suo ormone su stimolazione del sistema nervoso autonomo. La neurosecrezione è conosciuta anche in cro-
stacei, insetti e altri invertebrati. Queste osservazioni rendono chiaro che la di-
stinzione fra sistema nervoso e ghiandole endocrine non è netta e che molto rimane da apprendere su questa relazione.
ADATTAMENTO STRUTTURALE: EVOLUZIONE IN RELAZIONE ALL'HABITAT
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CAPITOLO
21
LE COMPONENTI STRUTTURALI DEL CORPO
Gli animali visti come specialisti 273| LaParte II di questo libro prospetta numerose interpretazioni funzionali di strutture quali gli apparati respiratorio, circolatorio ed escretore, gli occhi e il cervello. Particolare rilievo, tuttavia, viene dato all’analisi delle strutture da
un punto di vista filogenetico e ai cambiamenti evolutivi comuni a tutti gli animali appartenenti a grandi taxa, come classi e sottoclassi. Vengono passate in rassegna caratteristiche primitive e non specializzate. In particolare vengono considerate quelle strutture che risultano utili ad animali con abitudini diverse: per esempio le mascelle, che sono generalmente vantaggiose; due paia di appendici, che dimostrano la bontà del piano di struttura; una circolazione che, divisa in polmonare e sistemica, risulta più consona ai tetrapodi. La Parte III è dedicata al parallelismo o alla convergenza degli adattamenti funzionali in vertebrati diversi; particolare attenzione viene data ai mec-
canismi della locomozione e della nutrizione in cui i parallelismi si osservano più chiaramente. Animali con caratteristiche simili si trovano spesso distribuiti in gruppi sistematici diversi, ma qui vengono trattati insieme, i loro problemi comuni vengono identificati, i vari adattamenti sono interpretati sulla base della morfologia funzionale.
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Adattamento
strutturale i
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Questo tipo di analisi è complicata da svariati fattori. Animali diversi possono fare le stesse cose in modo diverso: sia gli scoiattoli che i potto (Perodicticus potto) si arrampicano, ma i potto afferrano lentamente i rami mentre
gli scoiattoli vi corrono sopra o vi si avvinghiano con unghie acuminate. Non esiste animale che presenti tutte le modificazioni strutturali che sono in rapporto con le sue normali abitudini. Però un tipo animale può possedere diverse specializzazioni: le rane saltano e nuotano, gli scoiattoli volanti si arrampicano e planano, i cormorani volano, nuotano e si tuffano sott'acqua. Inoltre, le attività degli animali sono determinate non solo da adattamenti strutturali ma anche da fattori comportamentali: le volpi grigie, per esempio, scalano gli alberi mentre le volpi rosse non lo fanno. Non si può conoscere dalla dissezione chi delle due davvero si arrampica. Molti animali possono correre, nuotare, arrampicarsi e qualcuno scavare anche senza speciali adattamenti strutturali. Al contrario vi sono animali che non riescono a muoversi nei modi per cui, sulla base della loro morfologia, sembrano essere più adatti: il gorilla adulto ha la struttura per arrampicarsi dondolandosi con le braccia sotto i rami, ma per le sue dimensioni raramente fa così. A dispetto di queste complicazioni, comunque, non risulta difficoltoso determinare le principali abitudini di un vertebrato dalla sua struttura. Alcune indicazioni
sono
impercettibili, altre ovvie, ma tutte hanno
un senso.
La loro
identificazione e interpretazione può essere molto stimolante. Gli animali sono così splendidi nelle loro specializzazioni! Questa parte del libro inizia con tre capitoli dedicati ai principi basilari di meccanica relativi alla nutrizione, alla postura e alla locomozione in generale. Nei successivi capitoli verranno analizzati adattamenti specifici.
Caratteristiche dei materiali di sostegno 1274] materiali del corpo che espletano funzione di sostegno o di movimento sono l’osso, la cartilagine, il muscolo, il tendine e il legamento. (Gli organi molli sono sostenuti anche da fitte reti di fibre collagene.) L’adeguatezza di questi materiali per le varie esigenze del corpo dipende dalle loro caratteristiche. Tre importanti proprietà dei tessuti di sostegno viventi non sono condivise da alcun materiale a disposizione di un architetto o di un ingegnere. Prima di tutto, tutti sono in grado di crescere senza interrompere la loro funzione. Essi hanno una notevole capacità di riparare sia grandi che piccoli danni. Tale proprietà protegge questi tessuti dalla fatica o dalla perdita di resistenza con ripetuti carichi di lavoro, come invece avviene con materiali di sostegno non viventi. Il ritmo di riparazione è più veloce per muscolo e ossa che non per le cartilagini e in tutti questa capacità diminuisce con l’età. In secondo luogo, tutti hanno la straordinaria capacità di adattarsi alle circostanze, alterando lentamente la loro composizione e configurazione in risposta alle sollecitazioni. È risaputo che la forza muscolare aumenta con l’esercizio. L’adattabilità degli altri tessuti di sostegno è esemplificata più avanti in questo capitolo. Infine, tutte queste proprietà assicurano un’adeguata durata per un periodo di vita di costante uso. Nessuna struttura fatta dall'uomo, anche se lontanamente compara-
| 274
275
21. Le componenti strutturali del corpo
431
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bile per la complessità delle parti in movimento, si avvicina al corpo sotto questo aspetto.
La resistenza di materiali di sostegno che risulta dalla loro eterogeneità e dalla presenza al loro interno di microscopiche lacune è stata puntualizzata nel par. 85. Prima di considerare ulteriormente la resistenza degli elementi strutturali del corpo è necessario richiamare e introdurre alcuni concetti e termini. L'importante concetto di forza è stato trattato nel par. 129, e sarà ripreso
qui. Il peso di un animale che preme sul terreno è una forza, la trazione di un muscolo sulla sua inserzione è una forza e la spinta della coda di un pesce contro l’acqua è una forza. Poiché le forze del corpo sono concentrate in parti come le inserzioni dei tendini e i punti di contatto delle ossa, è utile prendere in considerazione la pressione, o forza per unità di area. La pressione può essere espressa in kg per cm° (o più esattamente in dina o newton per cm°). Il carico è un termine generale che si riferisce a ogni forza che viene ap-
plicata a un oggetto solido. Le ossa adiacenti delle gambe e della colonna vertebrale scaricano le une sulle altre; i muscoli in attività caricano le ossa cui si
collegano. Per consentire a un oggetto sotto carico di rimanere in equilibrio, forze uguali devono operare in opposte direzioni. (Questa è un’applicazione della Terza Legge di Newton.) In tal modo, quando un tetrapode sta fermo in piedi, la forza verso il basso del suo peso è contrastata da un’eguale forza diretta verso l’alto da parte del suolo. Il carico è trasferito tramite le ossa delle gambe al suolo. Quando degli oggetti trasmettono delle spinte ci sono delle forze interne di una parte dell’oggetto che agiscono sulle parti adiacenti. La condizione interna che risulta dalla trasmissione di un carico esterno è chiamata sforzo. I carichi esterni determinano sforzi interni. Lo sforzo viene espresso in unità di pressione. Quando un qualsiasi carico viene applicato a un oggetto ne risulta una deformazione. La tensione viene espressa come deformazione relativa all’oggetto sollecitato. La tensione può essere espressa da cambiamenti in lunghezza, in volume o nell’angolatura. La deformazione può essere permanente o temporanea. Carichi moderati causano deformazioni permanenti nella creta da modellare. Un tale materiale difficilmente può sostenere il corpo di un animale. Se la deformazione è temporanea, il ripristino può essere quasi immediato, come per le ossa, o talvolta più lento, come per le cartilagini, i tendini o i legamenti. La capacità di un materiale di tornare completamente alla sua forma originale dopo la rimozione del carico è detta elasticità. I materiali strutturali del corpo presentano virtualmente una perfetta elasticità nell’ambito dei normali limiti di carico. Alcuni materiali elastici, come la gomma, sono notevolmente deformati da una forza moderata, mentre altri, come l’acciaio, sono deformati solo legger-
mente da una grande forza. Questa proprietà è espressa dal coefficiente di elasticità (o coefficiente
di Young),
che è lo sforzo diviso per la tensione.
Se il
coefficiente è alto il materiale è rigido; se è basso il materiale è facilmente deformabile. Questi concetti sono riassunti e ampliati nella Figura 21.1. 275) L’importante proprietà della resistenza, riferita ai materiali di sostegno, è la capacità di resistere alla forza senza rotture o deformazioni permanenti. La resistenza varia, naturalmente, con il tipo di materiale ed è proporzionale all’area della sezione trasversale dell’oggetto (per esempio più l’osso è grosso più è
432
Adattamento
275)
strutturale
© 88-08-11832-0 Punto di cedimento —
Punto di rottura
Area plastica — parziale recupero quando il carico è rimosso; danni strutturali Area elastica — completo recupero quando Carico sforzo o
il carico è rimosso, l'inclinazione del tratto
rettilineo costituisce un indice della rigidità o del coefficiente di elasticità dell'osso
la EDI Deformazione o tensione
Figura 21.1.
Curva di deformazione da carico per le ossa.
resistente). Come descritto nel par. 85, la resistenza di materiali eterogenei varia con l’orientamento relativo della forza alle linee di struttura. La resistenza varia inoltre consistentemente a seconda della direzione delle forze applicate rispetto alla superficie; cioè l’interazione fra oggetti adiacenti dipende dalla direzione delle forze che agiscono fra esse. Ciò è vero sia per un carico applicato a una superficie esterna reale di un oggetto e sia per uno sforzo applicato a una superficie interna immaginaria. Le forze sono solo di due tipi: perpendicolari alla superficie e parallele alla superficie. Esse possono, naturalmente, essere applicate anche con un’angolatura intermedia, ma da un’analisi che verrà fatta nel Capitolo 22 risulta che tali forze possono sempre essere riportate a una componente perpendicolare e a una orizzontale. Le forze perpendicolari sono di due tipi: la compressione che risulta da una forza diretta verso un oggetto. Essa tende a far diventare un oggetto più cor.to nel verso della forza applicata (la tensione è detta negativa) (Figura 21.2). La trazione risulta da una forza diretta Jontano da un oggetto. Essa tende a far diventare un oggetto più lungo (tensione positiva). Le colonne e i pilastri resistono a forze di compressione;
catene
e corde
che tengono
sospesi oggetti sono
sottoposte a forze di trazione. Compressione e trazione si verificano contemporaneamente, ma avvengono ad angolo retto tra loro. Le forze applicate parallelamente a una superficie ma in direzioni opposte causano torsione. La torsione fa slittare una parte di un materiale trasversalmente alle parti adiacenti. Le forbici tagliano per torsione. Se un blocco di fogli è tenuto tra le due mani e una delle mani viene fatta ruotare rispetto all’altra, il blocco-notes risulta distorto dalla torsione e le pagine slittano una sopra l’altra.
Muniti di questi concetti, consideriamo ora la robustezza dei materiali
275
21. Le componenti strutturali del corpo
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COMPRESSIONE
TRAZIONE
TORSIONE
Figura 21.2. I tre principali tipi di forza e le distorsioni che esse tendono a causare in un oggetto solido.
di sostegno del corpo. L’osso compatto fresco (non l’osso disidratato o imbalsamato o ingessato) caricato parallelamente alle sue trabecole presenta una resistenza alla compressione da 1330 a 2100 kg/cm?. Questa è circa quattro volte la resistenza alla compressione del cemento. I valori per la cartilagine variano, ma sono più bassi di quelli dell’osso. I tendini e i legamenti, quando sono compressi nel senso della lunghezza, si ripiegano semplicemente come delle corde. L’osso compatto fresco caricato parallelamente alle sue trabecole ha una resistenza alla trazione che varia da 620 a 1050 kg/cm?, che è circa la metà della sua resistenza alla compressione. La resistenza alla trazione della cartilagine è minore di quella dell'osso. Comunque i tendini e i legamenti, sebbene costituiti da materiale più molle e leggero, hanno circa la stessa resistenza dell’osso alla trazione. La resistenza dell’osso compatto alla torsione può essere bassa (500 kg/cm?), se sollecitato parallelamente alle sue trabecole, o alta (1176 kg/cm?), se sollecitato trasversalmente alle sue trabecole. La cartilagine, i tendini e i legamenti sono meno resistenti alla torsione. Può sembrare che la resistenza dei tendini e dei legamenti alla trazione, e dell’osso a tutte le forze, sia molto superiore alle necessità. Ciò è vero nel mantenimento della postura e svolgendo un'attività moderata.
Nel corso di un’attività faticosa, comunque,
le forze eser-
citate sullo scheletro da singoli tendini possono raggiungere le parecchie centinaia di chilogrammi, e carichi eccessivi, come nel caso di una caduta, occasionalmente possono causare rotture o lacerazioni. È chiaro dalle raffigurazioni precedenti che le forze di torsione risulterebbero limitative nel corpo se esse si approssimassero alle normali forze di compressione e di trazione. In realtà, la semplice torsione è poco comune, ma le ossa possono essere torte da un movimento sinuoso (per esempio, rotazione) nello stesso tempo in cui sono compresse, e le forze di flessione (come quelle che tendono ad arcuare e a curvare),
molto comuni nello scheletro, sono la combinazione di torsione, compressione e trazione. Le grandezze relative dei vari tipi di sforzo nello scheletro sembrano normalmente essere in proporzione alla capacità dell’osso di resistere loro. Le forze di compressione sono più grandi, le forze di torsione sono più piccole. Quando le ossa si rompono, ciascun tipo di forza può esserne stato il respon-
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Adattamento
strutturale
i
[2a
aiezzo
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sabile, quantunque le fratture dovute alla compressione siano le meno comuni.
Sforzi e linee di sforzo
Sarà più facile capire come gli elementi strutturali del corpo siano fatti per avere la massima efficienza dopo aver appreso come le forze si trasmettono all’interno di oggetti omogenei. Quando un cilindro solido appoggiato al suolo è compresso da un carico uniforme, la forza verso il basso del carico è contrastata da una eguale e opposta forza diretta dal suolo verso l’alto. Queste forze sono rappresentate dalle frecce grandi nella Figura 21.3A; quando le forze opposte sono rappresentate invece da numerose frecce, ciascuna rappresentante un’unità di forza, vien fornita più di un’informazione e la regolare spaziatura delle frecce mostra come la pressione sia uniforme sulle estremità del cilindro (parte B). All’interno del cilindro le unità di forza hanno la stessa ampiezza e direzione della pressione esterna, così che ogni piano preso arbitrariamente può essere rappresentato da frecce, essendo il numero delle frecce proporzionale all’area considerata. Le linee che noi disegniamo per rappresentare l’andamento delle unità di forza quando passano attraverso un oggetto sono dette linee di forza (linee isostatiche). In questo esempio le linee sono diritte
e uniformemen-
te spaziate poiché il caricamento è uniforme (parte C); esse rappresentano solo la compressione e possono essere anche chiamate linee di compressione. L’ampiezza della forza di compressione nel piano dell’illustrazione è proporzionale all’altezza del rettangolo ombreggiato (essendo le unità arbitrarie). Alla superficie del cilindro e sui piani verticali all’interno non vi è né trazione né torsione. (In questo e negli esempi seguenti, la forza risultante dal peso dell’oggetto stesso non viene presa in considerazione.) Una forza di trazione applicata uniformemente all’estremità di un cilindro o di un bastone, e che si oppone al caricamento all’altra estremità, può anch’essa essere rappresentata da frecce che indicano le unità di forza. Inoltre, le linee rette rappresentano le vie della forza all’interno dell’oggetto, ma questa volta esse sono linee di trazione (rappresentate da linee tratteggiate nella parte D). L'ampiezza della forza di trazione è ancora proporzionale all’altezza del rettangolo ombreggiato. Questo modello è molto simile ai tendini e ai legamenti sotto sforzo. Le ossa non sono mai cilindri uniformemente compressi sulle estremità
in direzione dell’asse maggiore. Se un’estremità del cilindro è compressa su un’area ristretta, allora la tensione adiacente è notevole, ed è rappresentata attraverso linee di compressione tutte strettamente vicine (parte E). Quando le linee oltrepassano il punto di applicazione del carico, si diffondono fintanto che non abbiano raggiunto un’equa distribuzione. Le parti esterne del cilindro non sono soggette a sforzi, ma ai confini tra le aree in tensione e non, e anche immediatamente al di sotto del carico, le linee di forza sono complesse (e non rappresentate). Questo modello si adatta al femore cilindrico, compatto e lungo 2 m, del grande dinosauro Brontosaurus, che pesava 54 500 kg, ma per i motivi sottoesposti, le lunghe ossa dei tetrapodi raramente sono cilindri compatti. Passiamo, dunque, ad altre applicazioni del concetto di linee di forza.
276
21. Le componenti strutturali del corpo
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Compressione
Trazione AAAAAAAA
Ì Terreno A
B
a KS
È
Componente di compressione D
SN È
D
- Le linee di sforzo si
arcuano in
si e
5[=
D)2 9 8
E£5 La 2
Le linee di sforzo si
È E
maniera complessa
= Si 2(=
arcuano in
I
Linee di sforzo complesse
8
Linee di sforzo complesse
D
(>
o (0%
E
(>) o
foi
@ à Lal
Dalla torcente componente risultanti Sforzi
È
G
H
Figura 21.3. Diagrammi delle linee di sforzo all’interno di oggetti cilindrici.
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436
Adattamento
Dn
strutturale
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Qualora un carico non sia applicato perpendicolarmente alla superficie [277] superiore di un cilindro (come negli esempi sopra esposti), ma sia applicato lungo un bordo superiore perpendicolarmente all’asse del cilindro, lo sforzo cui il cilindro è sottoposto lo porta a incurvarsi. Le linee di compressione si arcuano lontano dal punto di applicazione del carico e vanno a decorrere longitudinalmente nel bordo opposto del cilindro a una certa distanza dal carico (parte F). Le linee di sforzo corrono longitudinalmente nella parte del cilindro vicina al carico. La rappresentazione delle linee di compressione e di tensione vicine al punto di carico sono complesse e qualche volta dipendono dal tipo di materiale e quindi non sono raffigurate. Vi è anche torsione. Va notato che compressione e trazione sono massime ai rispettivi bordi del cilindro (ove le linee di sforzo sono disegnate più vicine) e ciascuna cala a zero a livello dell’asse centrale del cilindro. Lo sforzo in ciascuno dei punti intermedi tra il bordo e il centro è proporzionale all’altezza in quel punto del relativo triangolo, come mostrato nella parte F. Se una trazione sostituisce una compressione il carico di sforzo rimane il medesimo, ma gli sforzi sono invertiti. Questi modelli sono abbastanza raffrontabili con la compressione del cibo contro le mascelle e con la tensione dei muscoli sulle opposte estremità degli apici delle spine neurali verticali, anche se, per motivi spiegati nel prossimo paragrafo, queste ossa non
sono cilindriche. La maggior parte dei carichi applicati alle ossa lunghe non sono né paralleli né perpendicolari ai loro assi maggiori, ma sono invece a un angolo intermedio,
come
quando
un
osso
ne carica un
altro tramite
un’articolazione,
o
un tendine si inserisce obliquamente su un osso. Tali carichi possono comunque essere convertiti in sforzi longitudinali (di trazione o di compressione) e trasversali (di torsione) (vedi par. 291). La parte G rappresenta questa condizio-
ne più generale, quando sono presenti sia la compressione sia la torsione. Le intensità di questi sforzi nel piano raffigurato possono essere separatamente
rappresentate dall’altezza di un rettangolo la prima e da quella di un paio di triangoli congruenti la seconda. Lo sforzo complessivo può essere rappresentato
combinando queste figure: si noti come la compressione superi la trazione e che l’asse di forza zero non sia più l’asse centrale del cilindro. E infine, sebbene
il cilindro ci abbia fornito un adatto modello,
sono
poche le ossa di forma cilindrica con bordi opposti paralleli. La maggior parte delle ossa grandi presenta estremità slargate e asta incurvata. Modelli reali con questa forma generica possono essere sottoposti sia a compressione sia a trazio-
ne tendenti a curvarli ancora di più (vedi parte H) o a raddrizzarli (parte I). La disposizione delle linee di sforzo nelle aste incurvate vi è rappresentata; quelle vicino ai punti di applicazione dei carichi sono complicate e sono perciò omesse. Va notato che lo sforzo è distribuito da un capo all’altro di ciascuna asta (eccetto che in un punto focale centrale in ognuna) ma è massimo in prossimità dei bordi concavi e convessi delle aste. Piccole cavità, incavi e canali indeboliscono
i materiali determinando
locali concentrazioni di sforzo. È stato dimostrato da Currey che le ossa sono costruite per minimizzare una tale perdita di resistenza. È l’asta, non le estremità, che sopporta la maggior tensione, ed è pertanto priva, o quasi, di rilievi. I canali per i vasi sanguigni normalmente decorrono con un certo angolo rispet-
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21. Le componenti strutturali del corpo
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to all'asse maggiore dell’osso e le lacune che ospitano gli osteociti hanno i loro assì corti ad angolo retto all’asse maggiore dell’osso. Queste configurazioni riducono la concentrazione degli sforzi. (La presenza di lacune nell’osso cellulare è anche vantaggiosa per fermare l’espandersi di microfratture e le microfratture vengono eliminate dal costante ricambio di tessuto osseo.) Inoltre, le ossa tendono a presentare almeno piccole prominenze o creste dove i tendini si congiungono ad esse. Ciò causa una minore concentrazione dello sforzo all’interno del corpo dell’osso, rispetto a quanto dovrebbe altrimenti avvenire.
Utilizzo e progetto di elementi strutturali 278] Tendini, legamenti e cartilagini. I tendini trasmettono la spinta dei muscoli alle ossa, una funzione cui li rende idonei la loro flessibilità e una formidabile resistenza alla trazione ben si adatta ad essi (Figura 21.4). Sono costituiti
da fasci strettamente impacchettati di fibre collagene. I tendini che devono spostarsi notevolmente rispetto a tessuti adiacenti sono rivestiti da guaine e in alcuni casi scorrono lungo canali lubrificati che assomigliano agli spazi intorno
alle articolazioni mobili dello scheletro. La forza di contrazione di un muscolo, anche se grosso, è di solito concentrata dal suo tendine su una piccola area dello scheletro. Ciò contribuisce alla precisione del movimento e permette a muscoli diversi di agire in modi diversi sullo stesso punto. È importante che i tendini permettano ai muscoli di
Tendine del peroneo lungo
Tendine del tibiale craniale i È
Tendine dell'estensore lungo delle dita o
Flessore laterale delle dita i
Retinacoli degli estensori |
__Tendine del gastrocnemio (corda del garretto)
Tendini dell'estensore comune delle dita
Retinacolo dei flessori
SS > Osso sesamoide Brini , (pisiforme) Briglie anulari
Tendine dell’estensore del dito laterale
{==
—/ 7 ==
Tendine del flessore superficiale
delle dita Tendine del peroneo breve Tendine del peroneo lungo
Figura 21.4. Esempio di relazione intercorrente fra tendini, legamenti e ossa, in una visione laterale della caviglia sinistra e del piede della volpe grigia, Urocyion. (Disegnato da una dissezione essiccata e quindi leggermente raggrinzita.)
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Adattamento
[278]
strutturale
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muovere parti dello scheletro a una certa distanza dalla propria posizione. La distribuzione dei pesi e le fattezze del corpo sono controllate in modo che contribuiscano alla velocità, durata e agilità (di cui si parlerà nei prossimi capitoli). Le dita umane sarebbero senza alcuna utilità se fossero intralciate dai loro stessi muscoli. Alcuni tendini trasmettono una trazione girando attorno ad angoli di articolazioni mobili nello stesso modo delle corde che passano nelle carrucole. La carrucola vivente può essere un passaggio nell’osso (come avviene per i tendini dei flessori delle dita attorno all’estremità prossimale del tarsometatarso di alcuni uccelli), una proiezione ossea formante un canale (come avviene per i tendini degli adduttori dell'angolo del piede all’esterno della caviglia di molti mammiferi), o una briglia legamentosa (come avviene per i tendini degli estensori delle dita sul davanti della caviglia). Tendini sotto sforzo che siano dritti sopportano solo forze di trazione, ma dove un tendine si piega, intervengono anche forze di torsione. Come conseguenza, i tendini inspessiscono in queste posizioni.
Se altre forze oltre a quelle di trazione sono particolarmente intense (come avviene per il tendine del muscolo quadricipite che passa davanti al ginocchio), piccole ossa sono meglio capaci di resistere a tali forze interrompendo i tendini. Queste sono chiamate ossa sesamoidi. Alcuni legamenti possiedono virtualmente la stessa struttura e proprietà del tendine, mentre altri hanno fibre collagene meno regolarmente orientate e contengono fibre elastiche in varie proporzioni. Poiché i tendini sono sempre correlati ai muscoli, essi funzionano solo quando i muscoli funzionano. I legamenti, invece, funzionano passivamente e sono quindi utili quando è richiesta
una tensione costante. A mo’ di legature, cordicelle ed elastici, essi tengono insieme lo scheletro, limitano il movimento di alcune articolazioni e fanno parte di meccanismi antigravità. Alcuni legamenti sono semplicemente porzioni ispessite delle capsule
intorno alle giunture mobili. Queste si fondono con il tessuto connettivale adiacente con margini indistinti. Altri legamenti, che uniscono anch'essi articolazioni mobili, sono spessi e sporgenti. Cappi legamentosi e manicotti guidano i
tendini, in particolare alle giunture. Alcuni di questi si fondono nelle guaine dei tendini stessi. Il legamento nucale è un esempio di un meccanismo antigravità. Questo forte ed estendibile legamento
(cioè avente
un basso modulo
di elasticità)
è importante nei grossi mammiferi con teste pesanti e lunghi colli (Figura 21.5). Esso si estende dalle sommità dei processi spinosi vertebrali del torace fino al retro del cranio e dei processi spinosi delle vertebre cervicali anteriori. La testa e il collo sono tenuti nella normale postura di riposo senza nessuno sforzo muscolare. Un modesto strattone muscolare spinge la testa verso il terreno, stirando simultaneamente i legamenti. Quando i muscoli si rilassano, i legamenti si accorciano e quindi elevano la testa. Gli ungulati possiedono un meccanismo sospensorio che ammortizza il loro passo. Ogni zampa è sostenuta da una benda elastica legamentosa. Questo meccanismo è descritto nel par. 431. Gli artigli del gatto rimangono retratti passivamente grazie a un legamento elastico.
279|'{[280,]
21. Le componenti strutturali del corpo
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Figura 21.5. Legamento nucale del cavallo, un meccanismo antigravità.
La cartilagine si ritrova ove una modesta resistenza a compressione, trazione
e torsione
(in diversa
combinazione
a seconda
delle circostanze)
deve
combinarsi con solidità e una certa flessibilità. Essa ha sull’osso il vantaggio che è più leggera. I vari tipi di cartilagine (vedi par. 85) possono essere distorti in vario grado, ma tutti tornano alla loro forma originale quando vengono rilasciati. La cartilagine elastica, la più flessibile, sostiene l'orecchio esterno, il naso è l’ epiglottide dei mammiferi. La cartilagine fibrosa costituisce un cuscinetto resistente ma piuttosto flessibile: essa forma i dischi intervertebrali e le sinfisi pelviche di molti tetrapodi; la si ritrova all’inserzione di alcuni tendini. La cartilagine ialina forma lo scheletro embrionale, degli elasmobranchi e parti dello scheletro degli adulti di molti vertebrati. Nei tetrapodi può sostituire l’osso dove la maggior resistenza dell’osso non è necessaria (per esempio nel carpo e nel tarso delle salamandre). Irrigidisce inoltre la trachea e riveste le superfici articolari delle giunzioni mobili dove la sua durezza, levigatezza e capacità di rilasciare acqua sotto pressione (vedi oltre) riducono la frizione e giovano alla lubrificazione. Possono presentarsi condizioni intermedie fra i principali tipi di cartilagine. Vari gradi di calcificazione possono indurire la cartilagine ialina delle costole dello sterno dei mammiferi, le epifisi degli anfibi e lo scheletro degli elasmobranchi.
[280] Ossa che resistono alla compressione e alla trazione. Per poter risparmiare su peso, massa e richieste metaboliche, gli elementi di sostegno del corpo sono progettati per fornire un’adeguata resistenza con un minimo di materiale.
Questo principio è importante per l’analisi dello scheletro. Nel topo, che pure ha uno scheletro sottile, si ritrova un’adeguata resistenza a tutte le sollecitazioni. Per le ragioni spiegate nel Capitolo 23, tuttavia, i tetrapodi molto grossi non sarebbero capaci di sostenere i carichi risultanti se
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Adattamento
strutturale
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essi fossero in proporzione enormi topi. Gli elefanti, vari mammiferi
giganti
estinti e molti dinosauri sono (o erano) obbligati a modificare la struttura, la po-
stura e il comportamento per minimizzare le sollecitazioni sullo scheletro e per resistere efficacemente alle altre sollecitazioni. Le precedenti figure mostrano come le ossa possano sostenere una forza compressiva per unità di sezione trasversale più di qualsiasi altro tipo di forza. Un animale potrebbe sostenere se stesso con un minimo di ossa (e di peso e massa) se potesse limitare tutti i ca-
richi alla sola compressione. Ciò che non è possibile neppure per una tavola statica, non lo è certo per un animale in movimento; per questo i grandi animali
terrestri minimizzano le sollecitazioni, compressione a parte, in modi tali che possono essere predetti dallo studio di Figura 21.3. Gli arti a colonna di tali animali hanno ossa relativamente cilindriche con teste quasi in linea con le loro aste e ciò riduce le forze di piegamento (vedi Figura 23.4). Nel Capitolo 22 verrà spiegato il fatto che i corpi vertebrali della maggior parte dei tetrapodi terrestri sono soggetti principalmente a forze compressive che agiscono sulle opposte facce, anteriore e posteriore. Se essi dovessero risultare sufficientemente grandi per la necessaria inserzione dei muscoli e del sistema di leve e dovessero essere anche compatti, dovrebbero essere molto più forti (e pesanti) del necessario. Essi non sono compatti, ma neppure cavi. Spicole di osso, chiamate trabecole, rinforzano l’interno di ogni corpo vertebrale, prevalentemente orientate nella direzione delle linee di compressione (vedi Figura 21.6). Le ossa del braccio del gibbone sono sollecitate prevalentemente da forze di trazione quando l’animale si dondola attaccato ai rami degli alberi. Solo alcune ossa e in pochi animali sono sottoposte essenzialmente a sforzi di trazione; se c'è una trazione costante e frequente a cui resistere, l’osso viene so-
stituito da un legamento, forte rispetto al suo peso e con minori probabilità di rompersi se piegato lateralmente. Un esempio ne è il legamento sacrotuberoso mostrato in Figura 21.7. Le ossa sono localmente sollecitate da intensi sforzi di trazione ove si inseriscono i tendini. Ciò avviene il più delle volte in prossimità delle estremità, dove anche le spinte flettenti sono comuni.
281] Ossa che resistono alla flessione in un piano. Quando un cilindro compatto resiste a una forza flettente applicata su un piano (per esempio il piano della carta nelle parti F e G di Figura 21.3), le sollecitazioni risultanti so-
Figura 21.6. Sezione longitudinale di un corpo vertebrale mostrante l'orientamento delle trabecole parallelo alle forze di compressione. L'esemplare è una vertebra lombare di un caribù, Rangifer.
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21. Le componenti strutturali del corpo
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Figura 21.7. Un esempio di legamento che resiste a una trazione frequente è il legamento sacrotuberoso del cane, che resiste alla tendenza dell’osso innominato a ruotare sul sacro nella direzione mostrata dalla freccia, quando i muscoli che fanno oscillare la zampa sul retro fanno trazione sull’ischio.
no concentrate in quel piano e sono massime alla superficie del cilindro. Ne consegue che un cilindro, quantunque sia adatto a sopportare tanto una compressione quanto una trazione, risulta antieconomico, dato lo spreco di materiale, per resistere alla flessione su un piano. Un ingegnere utilizza invece «travi ad I» come travi portanti. Questo tipo di trave è costituita superiormente e inferiormente da barre di acciaio che vengono sollecitate quando la trave è caricata e da una parete che le unisce. (Quale barra venga compressa e quale tesa dipende dalla relazione che intercorre fra carico e supporto, vedi Figura 21.8.) Le ossa non sono mai progettate come semplici «travi ad I», inoltre lo stesso principio di costruzione spiega la distribuzione «a manubrio» del materiale a volte osservabile nelle sezioni trasversali delle ossa. La trave del carpentiere e il travetto forniscono un’ulteriore utile analogia. Viene utilizzato legname che ha una sezione trasversale rettangolare, non quadrata, ed è sempre orientata in modo che la dimensione maggiore sia parallela al carico (cioè di solito verticale). La ragione di questo sta nel fatto che la resistenza alla flessione è uguale al prodotto di una costante per la larghezza di una trave (dimensione trasversale al carico) moltiplicato per il quadrato della sua altezza (dimensione in linea con il carico): R=clh?. Se una dimensione è il
doppio dell’altra, la trave sarà quindi due volte più resistente di taglio che di piatto; se una dimensione è tre volte l’altra, la trave sarà tre volte più forte di taglio. È ovvio che il corpo dell’animale è a «conoscenza» di queste nozioni e «sa» conformarsi ad esse. L’arco zigomatico è una trave ossea con il bordo in-
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Adattamento
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strutturale
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Carico
Travetto di legno
Trave a |
Arco zigomatico di orso
DRS
Mandibola di leone
Ileo di volpe
Figura 21.8.
Neurospina di antilocapra
b-
|
Struttura di osso analogo alla «trave a I» (a sinistra) e al travetto (a destra).
curvato verso i muscoli che agiscono su essa. Lo stesso vale per la maggioranza dei processi spinosi delle vertebre. Il pigostilo degli uccelli è una lama ossea orientata parallelamente alla resistenza dell’aria ad essa trasmessa dalle penne della coda. La mandibola,
a livello dei denti, è come
una trave con un orien-
tamento adatto a sopportare carichi impartiti da denti e muscoli. La resistenza di una trave al piegamento è inversamente proporzionale al quadrato della sua lunghezza. Per questa ragione, le travi ossee non sono lunghe; altre forme strutturali sopportano carichi che devono essere tenuti a una certa distanza dal supporto del meccanismo. Il legamento nucale ne è un esempio; altri saranno
descritti più avanti.
282 | Ossa che resistono alla flessione su più piani. Abbiamo visto che una
trave piatta resiste efficacemente alla flessione quando è caricata di taglio, ma è debole quando è caricata di piatto. Le ossa lunghe degli arti dei tetrapodi de-
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vono resistere alla flessione in più direzioni; perciò non possono essere piatte. Il cilindro, scartato per l’eccessivo spreco di materiale quando le forze flettenti sono su un piano, risulta ora un efficace modello in quanto gli sforzi di compressione e di tensione si possono scaricare prevalentemente ai bordi opposti
del cilindro, non importa quale sia la direzione di carico. È pur vero, però, che le sollecitazioni sono minime in prossimità dell’asse centrale del cilindro (riguarda le parti F-I della Figura 21.3). Quindi, la maggior resistenza con il minimo materiale la si consegue con un cilindro cavo. Ciò spiega le aste cave delle ossa lunghe. La flessione controllata della colonna vertebrale di un pesce avviene alle giunzioni intervertebrali. I corpi vertebrali stessi devono resistere alle forze di piegamento prodotte da muscoli assiali. La spina dorsale ha funzioni che complessivamente sono quelle di un tubo osseo piuttosto flessibile, la cui cavità discontinua è costituita dagli spazi fra i corpi vertebrali anficeli. Tornando ai tetrapodi, poiché la resistenza di un tubo al piegamento varia inversamente al quadrato della sua lunghezza, e poiché le ossa lunghe sono stabilizzate da muscoli che agiscono sulle loro estremità, esse dovrebbero essere più soggette a frattura al centro della loro asta se non viene presa nessuna
precauzione per evitarlo. Le aste di tali ossa contrastano questo pericolo essendo un poco più spesse al centro, aumentando il loro diametro o in entrambi i modi
(vedi Figura 9.19). Quantunque le ossa lunghe possano
essere
sottoposte
a forze flettenti
da diverse direzioni, la sollecitazione può essere maggiore in un piano predeterminato. L’osso può quindi raggiungere un compromesso fra la trave e il tubo diventando a sezione trasversale ovale, il cui asse maggiore sia in direzione della sollecitazione dominante e con le pareti più ispessite dalla stessa parte della sollecitazione e dalla parte opposta. Le falangi dei pipistrelli tendono ad avere questa conformazione (Figura 21.9). A volte succede che la sollecitazione sia maggiore lungo il lato concavo di un osso curvo (Figura 21.3, parte H), e la parete dell’osso debba quindi essere lì più spessa. Osservando le parti da F a I della figura e tenendo conto del fatto che
Figura 21.9. Sezione trasversale di una falange di pipistrello evidenziante la struttura, in relazione alle forze che la sollecitano normalmente.
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Adattamento
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strutturale
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la maggioranza dei muscoli si inserisce vicino alle estremità delle ossa lunghe e del fatto che le forze trasmesse da un osso a un altro attraverso un’articolazione flessa sono raramente parallele all’asta dell'uno o dell’altro, è evidente che le linee di sforzo attraversano le estremità di queste ossa. Ne consegue che le estremità delle ossa lunghe non dovrebbero essere dei tubi; poiché le estremità compatte risulterebbero più forti (e più pesanti) del necessario, il progetto strutturale più economico è una rete di trabecole interconnesse e di sottili lamine di osso che seguono le linee di sforzo e questo è ciò che noi ritroviamo. Le linee di sforzo cambiano seguendo il cambiamento dei carichi così che il corpo adotta linee che sono un compromesso fra i carichi più abituali. (La forma ad arco delle trabecole è di solito evidente, come per le trabecole in basso nella Figura 21.10, ma raramente sono regolari come nella testa del femore umano che è così frequentemente rappresentato.) La natura spugnosa delle estremità delle ossa lunghe può inoltre giustificare una funzione ammortizzante dei colpi. Dove più ossa funzionano come una singola unità per sopportare carichi abituali, le linee di sforzo, e quindi le trabecole, attraversano anch'esse quelle ossa come unità. Il tarso umano
ne è un esempio. Esso funziona come
una trave caricata nel mezzo dalla tibia (vedremo più avanti che ciò è solo parte della storia).
Legamento patellare che si fonde nell’osso
Figura 21.10. Sezione longitudinale dell’estremità prossimale di una tibia di bue mostrante l'orientamento delle trabecole, in relazione ad alcune forze agenti sull’osso.
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283 | Ancora su adattamento e forma delle ossa. Abbiamo visto che le forme delle ossa sono una conseguenza dell’adattamento: ossa a trave resistono al piegamento su un piano; ossa cilindriche cave resistono alla flessione su diversi piani; le trabecole interne sono orientate lungo le linee di sforzo. Ciascun animale eredita la forma generale del suo scheletro, ma la forma precisa è determinata dall’uso. La conformazione, lo spessore delle ossa e il modello delle loro trabecole sono stabilite quando il giovane animale va in giro e cresce, e si modificano se cambiamenti nella distribuzione delle masse e nel comportamento (compresi quelli dovuti a lesioni) alterano i carichi abituali. E evidente che lo scheletro vivo costantemente valuta intensità e direzioni delle sue sollecitazioni predominanti. Le ossa possiedono dei sensori incorporati che controllano la tensione e «informano» i meccanismi adibiti alla demolizione della crescita delle ossa. Quando la sollecitazione dominante è periodicamente da modesta a intensa, l’osso è lentamente rimodellato in modo tale da ridurre lo sforzo. Sembra che l’apparato sensore abbia una base bioelettrica: un potenziale elettrico stazionario è stato misurato lungo ossa intatte, una
variazione di potenziale di breve durata si ha in risposta a un carico, correnti di frattura si sviluppano dove vi è un danno. Il meccanismo vivente per controllare lo sforzo, sebbene sia scarsamente conosciuto, sorpassa di molto i metodi disponibili ai morfologi. Modelli (di solito bidimensionali) ritagliati da fogli di plastica fotoelastica, come il plexiglas, se posti sotto sforzo e fotografati in luce polarizzata mostrano bande chiare e scure da cui possono essere calcolate le linee di sforzo. Modelli di ossa sono stati analizzati nello stesso modo, ma i risultati sono soggetti alla critica che le ossa non sono né bidimensionali, né omogenee (in composizione e distribuzione). Quando una lacca dura ma fragile è dipinta su un oggetto che viene quindi sottoposto a carico, la lacca sviluppa microfratture in un modello che indica la distribuzione della sollecitazione sulla superficie. In anni recenti risultati più importanti si sono ottenuti applicando alle ossa (comprese quelle viventi) indicatori di deformazione che mostrano il grado della sollecitazione locale. L’analisi sperimentale ha appurato il fatto sconcertante che curvatura e sezioni trasversali delle ossa lunghe spesso non sono progettate per minimizzare la distorsione. Ciò dipende dalle limitazioni nelle relazioni tra superfici articolari e inserzione dei muscoli; inoltre diverse ossa lunghe sembrano essere «non necessariamente» così curve come determinerebbero forze di piegamento quasi costanti. Forse il corpo trae beneficio dall’assicurarsi che una qualsiasi deformazione estrema possa avvenire in una predeterminata direzione piuttosto
che in una casuale.
Unioni di elementi 284
strutturali
Dal tendine al muscolo, dal tendine all’osso. La resistenza elastica dei
tendini arriva a sopportare, grosso modo, fino a 4 volte il massimo sforzo su di esse scaricato dai rispettivi muscoli. L’unione del tendine al muscolo è a volte un po’ meno forte del muscolo ma solo di poco. Il tendine sembra finire dove il muscolo
inizia, ma in realtà si ramifica e pervade tutto il muscolo,
e le sue
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Adattamento
strutturale
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fibre si fondono con quelle del perimisio e dell’endomisio. Nel rivestirsi della propria guaina il muscolo calza anche il suo tendine. I muscoli che originano da larghe aree di osso (per esempio, sopraspinato) possono ottenere una presa sufficientemente forte incorporando il loro tessuto connettivo con il periostio dell’osso. I tendini e i legamenti tuttavia esercitano uno sforzo così grande su un’area così piccola che si rende necessa-
rio un attacco molto valido. Immaginatevi la difficoltà di incollare l’estremità di una corda flessibile a un materiale duro e liscio e che ciò abbia abbastanza resistenza da sostenere sforzi di trazione di 900 kg/cm? persino con l’angolo di attacco che cambia! Le inserzioni dei legamenti e dei tendini sono quindi i punti deboli nel sistema osso-muscolo, anche se le capacità del corpo superano quelle della tecnologia umana nel risovere i problemi. Le fibre collagene dei tendini non sono attaccate all’osso; esse si incorporano in esso (Figura 21.10). L’osso spugnoso costituisce tutto lo scheletro nei piccoli animali. I grossi animali possiedono gli osteoni nella maggior parte dello scheletro, dove dominano le forze di compressione, ma conservano l’osso spugnoso all’inserzione dei tendini. Le fibre dei tendini penetrano l’osso e là diventano indistinguibili dalle sue fibre. (Può intervenire la cartilagine fibrosa. Inoltre, la calcificazione può interessare un tendine alla giunzione tendine-osso.)
Rimane ancora un’apparente fonte di debolezza. Consideriamo un grosso tendine di sezione trasversale circolare che si inserisca ad angolo retto sulla superficie di un osso. Se tutti i fasci del tendine sono di uguale lunghezza, quando subentra della tensione essi condividono equamente il carico. Se l’angolo di inserzione cambia, come ci si potrebbe aspettare nel caso in cui la tensione causi movimento, la distanza relativa dal muscolo all’osso diminuisce sul lato del tendine che ora forma un angolo acuto con l’osso e aumenta sul lato che forma l’angolo ottuso. Ci si dovrebbe aspettare che le fibre sul lato lungo del tendine portino tutto lo sforzo e che saltino via una a una. Ciò non succede e questo principalmente poiché le fibre collagene di un tendine, sebbene siano parallele nel corpo del tendine stesso, si intrecciano alla sua inserzione, distribuendo quindi lo sforzo su tutta l’inserzione. Inoltre, la forza di un tendine possiede un largo fattore di sicurezza; esso non deve sostenere nella sua interezza la contrazione del muscolo ad esso associato. Le fibre del tendine a riposo sono un poco ondulate; uno strappo che le raddrizzi sul lato lungo trasmette anche parte della tensione sul lato corto se la differenza di lunghezza è lieve. Inoltre l’angolo d’inserzione di solito non cambia moltissimo. Alle inserzioni dei legamenti, le loro fibre elastiche sono in gran parte
rimpiazzate da fibre collagene. Perciò le inserzioni dei legamenti sono simili a quelle dei tendini, anche se i particolari di ognuna differiscono a seconda della grandezza dell’animale, dell'angolo generale d’inserzione e dalla specifica posizione.
1285] Tipi e funzioni delle articolazioni. Le articolazioni fra le ossa sono classificate sulla base sia della struttura che della funzione, anche se queste sono ovviamente correlate. Una prima categoria strutturale è quella della giunzione non mobile detta sinartrosi (= insieme + giunzione). Le ossa possono essere
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connesse solo da tessuto connettivale, il che costituisce la regola per le ossa da
membrana (da «allostosi») (per esempio, della volta del cranio), o solo da cartilagine, il che di solito si verifica per le ossa da sostituzione (da «autostosi»)
(per esempio, alla base del cranio oppure fra asta ed epifisi delle ossa lunghe). Le linee d’inserzione fra le ossa connesse da sinartrosi sono chiamate suture. Sebbene «non mobili», alcune suture sono abbastanza flessibili da fornire un qualche assorbimento ai colpi, particolarmente in risposta a una tensione. Queste giunzioni sono punti di crescita; le suture devono rimanere aperte durante
la crescita. Quando il periodo della crescita termina, le sinartrosi degli uccelli e dei mammiferi tendono a ossificare e quindi spariscono una ad una seguendo un programma caratteristico per ogni specie. Tuttavia la maggior parte delle suture dei marsupiali e alcune suture in molti altri mammiferi rimangono aperte tutta la vita. Le sinartrosi sono inoltre caratterizzate dalla configurazione della sutura e ciò le correla alla funzione. Se la sutura è approssimativamente dritta e le ossa hanno bordi quasi squadrati si tratta di una sutura armonica o piana, co-
me fra le due ossa nasali o fra le ossa della base del cranio nella maggioranza dei mammiferi
(Figura
21.11).
Le suture
armoniche
possono
resistere
a una
compressione ma poco a uno sforzo di taglio o alla piegatura. Se le stesse ossa a bordi squadrati sono connesse per sovrapposizione, l’unione, detta appunto a sovrapposizione, potrebbe essere anche più forte. Tuttavia, come anche i costruttori umani hanno appreso, quando una giunzione a sovrapposizione è compressa o tesa l’area di contatto non è uniformemente forzata. Quando si è utilizzata della colla, essa tende a ritirarsi dai bordi e a ce-
dere al centro. Se i bordi sovrapponentisi sono invece tagliati obliquamente cosicché le due parti rimangono allineate, l’unione è detta sutura squamosa. In questo caso, l’intera area di contatto è uniformemente posta in tensione dalla maggioranza dei carichi e la resistenza è notevolmente migliorata. Le suture squamose uniscono spesso sottili ossa piatte. Le si ritrovano fra alcune ossa della mandibola dei rettili e nella maggioranza dei vertebrati congiungono diverse ossa craniche. Una sinartrosi che è molto efficace a resistere alla compressione e al taglio fra strutture dure che non siano sottili e piatte è la giunzione a piolo e incasso (detta anche gonfosi). Questo tipo di unione connette i denti tecodonti alle ossa mascellari e spesso lo iugale alla mascella. La maggioranza delle epifisi delle ossa lunghe si uniscono alle loro aste per mezzo di complesse giunzioni comprendenti più pioli e incassi, a volte relativamente profondi (estremità distale del femore dei mammiferi) e a volte superficiali (estremità prossimale della tibia). Un’altra sinartrosi è la sutura dentata (a incastro), sutura così irre-
golare che le ossa adiacenti si intrecciano ripetutamente lungo la loro unione. Questo solido tipo di giunzione lo si ritrova fra le ossa della volta del cranio di alcuni tetrapodi, in particolare anfisbenidi (che scavano con la testa) e artiodattili (che sostengono corna e palchi). La configurazione delle superfici intrecciantisi è in rapporto con il tipo di forza che devono sopportare. Queste giunzioni sono efficaci ad assorbire energia.
286]
Una seconda e intermedia categoria strutturale è la anfiartrosi (= sui
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Adattamento
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strutturale
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SUTURA SQUAMOSA
SUTURA DENTATA
SUTURA ARMONICA O PIANA
GIUNZIONE A PIOLO E INCASSO
(GONFOSI)
GIUNZIONE A SOVRAPPOSIZIONE (non comune negli animali)
Figura 21.11. Alcuni tipi di sinartrosi. Sopra, cranio di ghepardo, Acinonyx; al centro, cranio di un daino, Odocoileus; sotto, epifisi distale e asta del femore di un giovane lupo, Canis.
due lati + articolazione)
che permette limitati movimenti
in risposta alla com-
pressione, alla trazione o alla torsione, pur assicurando una certa solidità. Le superfici delle ossa adiacenti possono essere rivestite da cartilagini ialine, a loro volta connesse da un cuscinetto di fibre collagene o da cartilagine fibrosa. L’unione delle ossa con questo tipo di giunzione è detta sinfisi invece di sutura.
Esempi ne sono la sinfisi mandibolare di molti vertebrati, la sinfisi pelvica, che permette nelle femmine verso la fine della gravidanza una maggiore motilità delle pelvi, e le giunzioni fra la maggioranza dei corpi vertebrali, che assicuranoi movimenti della spina dorsale. Il modo di funzionare delle articolazioni fra i corpi vertebrali è condizionato dalla loro conformazione (per la terminologia vedi par. 103). Le articolazioni fra vertebre proceliche e quelle fra vertebre opistoceliche permettono un adeguato movimento in ogni direzione, resistono alla
compressione e alla lussazione meglio delle vertebre anfipiatte. Le vertebre proceliche e quelle opistoceliche sono perciò comuni nel collo dei tetrapodi e nelle loro code se queste sono poderose. Le vertebre anfipiatte sono di solito confinate al tronco dove la forza di torsione è minima.
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In un altro tipo di anfiartrosi chiamata sindesmosi,
le ossa sono unite
da zone moderatamente spesse di fibre collagene o da legamenti e permettono un movimento piuttosto ampio. Esempi ne sono l’unione del radio all’ulna e della fibula alla tibia in quei mammiferi che hanno un certo gioco fra queste coppie di ossa. Le sindesmosi sono caratteristiche di alcune classi: sono comuni nei teleostei fra le ossa delle mascelle superiori protrusibili e fra quelle degli opercoli mobili. L’ultima categoria strutturale generale è rappresentata dalle articolazioni liberamente
mobili o diartrosi (= articolazione + separazione). Le superfici
articolari delle ossa sono rivestite da una liscia cartilagine ialina (Figura 21.12). Durante la vita fetale si sviluppa la cavità articolare che è necessaria per il movimento di un osso su un altro. Dove non è delimitata da ossa rivestite di cartilagine la cavità è racchiusa da una capsula articolare. La capsula può essere sottile e membranosa ma di solito è per lo meno in parte robusta e fibrosa, contenendo sia fibre collagene che elastiche. La capsula è internamente limitata da una membrana sinoviale cellulare, che è più o meno ripiegata. Essa contiene cellule adipose e, in alcune giunzioni, cuscinetti adiposi che invadono la cavità e aiutano ad ammortizzare il suo cambiamento di conformazione quando la giunzione si muove. I legamenti che assicurano una diartrosi possono essere inclusi completamente o in parte nella capsula, o possono essere dentro la cavità articolare, come nell’anca e nel ginocchio dei mammiferi. Robusti cuscinetti di cartilagine fibrosa chiamati menischi sono fissati all’interno delle cavità di va-
Asta dell'osso Periostio
Cavità midollare
Membrana sinoviale
Cartilagine ialina
Cuscinetto adiposo Cavità articolare con liquido sinoviale
Parte fibrosa della capsula articolare
Trabecole arcuate dell'osso spugnoso
Figura 21.12.
Struttura di una diartrosi.
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rie articolazioni. Essi possono guidare le ossa in movimento dove le superfici ossee hanno altrimenti una scarsa aderenza, come nel ginocchio. In alcune articolazioni il menisco consente movimenti altrimenti impossibili. In alcuni mammiferi, per esempio, vi è rotazione fra mandibola e cuscinetto fibroso, ma vi è traslazione fra cuscinetto e cranio (Figura 21.13). Le cavità articolari contengono una piccola quantità di liquido sinoviale, apparentemente prodotto dalla membrana sinoviale. Questo liquido chiaro e giallastro è simile ai fluidi tissutali e contiene mucina. È più o meno viscoso a seconda dell’articolazione. La sua funzione è di nutrire la cartilagine ialina (priva di vasi sanguigni) e, soprattutto, di lubrificare l’articolazione. 287] Per quanto due superfici possano essere opportunamente sagomate e per quanto siano accuratamente lucidate (per esempio due pezzi piatti di vetro), quando si appoggiano una sull’altra esse si toccano solo in coincidenza di rilievi microscopici. Quando le superfici asciutte scivolano una sull’altra i microrilievi si sfregano producendo calore, frizione e logoramento. Se fra le due superfici viene introdotto un lubrificante avvengono minori contatti fra solido e solido e la pressione su di essi è minore. Gran parte della forza di torsione si esercita fra le molecole
di lubrificante, cosicché la frizione e il logoramento
sono ridotti. Questo tipo di lubrificazione, comune l’uomo, è detto lubrificazione limite. Se lo strato bastanza spesso da tener separate completamente sono sotto considerevole pressione, quando esse
nei macchinari costruiti daldi lubrificante può essere abdue superfici, anche se esse scivolano una sull’altra tutta
la forza di torsione si scarica entro il lubrificante
e non vi è usura. Questa è la
lubrificazione perfetta. Per realizzare ciò (senza una pompa esterna), le superfici non devono (come nelle articolazioni animali) essere molto coerenti; perciò
la superficie lubrificante è sagomata a forma di cuneo. Quando l’articolazione si sposta, le superfici scorrono su un velo di lubrificante di spessore crescente, in tal modo compensando il lubrificante che viene spremuto via. Un tempo si riteneva che la lubrificazione delle articolazioni fosse del tipo perfetto, tranne che all’inizio e alla fine del movimento. Si è ora dell’opinione che la straordinariamente bassa frizione delle articolazioni risulti principalmente da una combinazione di lubrificazione limite e di un altro tipo chiamato lubrificazione idrostatica. La cartilagine articolare è costituita in parte (20-40%)
da collagene (che resiste molto alla trazione), da proteoglicani (re-
Traslazione
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Cranio \\ ,ÙÌ III Ò
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0,
TÙÌ Î
DOS
Mandibola Rotazione
Menisco
Figura 21.13. Visione schematica della giunzione temporomandibolare evidenziante, in visione laterale, una probabile funzione del menisco.
287
288
21. Le componenti strutturali del corpo
451
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sistenti alla compressione), da cellule, lipidi e altre proteine; queste formano una matrice spugnosa. La rimanente parte della cartilagine è costituita dal liquido sinoviale che la impregna come una spugna. Sotto pressione, il liquido viene spremuto alla lunga fuori dai pori (scaricando quindi lo sforzo) e dalla cartilagine all’esterno, nella parte sotto sforzo dell’articolazione dove agisce da lubrificante. Quando il carico viene spostato ad altra parte dell’articolazione, come avviene di solito quando si cambia direzione di moto, il liquido è risucchiato nella cartilagine a causa dell’elasticità della matrice e per il legame elettrico dell’acqua con i proteoglicani. L’imperfetta corrispondenza delle superfici articolari facilita questo processo di ricarica. I leucociti nel liquido sinoviale rimuovono dalla capsula articolare ogni microscopico frammento di cartilagine eventualmente prodottosi dal contatto fra le superfici. Le diartrosi sono classificate in base alla funzione e alla forma delle superfici articolari. Funzione e forma sono correlate, ma più forme possono ser-
vire a funzioni simili e una forma generica può assolvere diverse funzioni. Le terminologie quindi tendono verso l’inadeguatezza e l’incoerenza. Inoltre vi sono forme intermedie e combinazioni. La nomenclatura non sostituisce l’interpretazione. Un’articolazione a cerniera (ginglimo) possiede una testa più o meno cilindrica che ruota in una corrispondente cavità. Il movimento avviene principalmente intorno a un asse, come per il cardine di una porta. L’articolazione
della mandibola con il cranio dei carnivori è un ginglimo semplice. La testa di un ginglimo a cardine può avere linguette, flange o prominenze che si ingranano
con
corrispondenti
scanalature
e rilievi nella cavità
(vedi Figura
24.16).
Questi accorgimenti limitano un eccessivo movimento su un piano e resistono a una lussazione. Esempi ne sono l’articolazione del ginocchio, l’articolazione della caviglia di molti mammiferi e quelle fra le falangi, specie fra i corridori.
Alcune articolazioni a ginglimo possono essere ulteriormente definite a scatto (Figura 21.14). Queste sono stabilizzate dai loro legamenti nelle posizioni aperta e chiusa e sono instabili nelle posizioni intermedie. Ogni ginglimo ruota
attorno a un asse che poggia entro un elemento convesso ed è trasversale al piano del movimento. I legamenti che tengono l’articolazione unita sono in posizione laterale a questo piano. La lunghezza di un tale legamento che si inserisce con un’estremità esattamente sul perno rimane costante quando l’articolazione si muove e la tensione non cambia. Se, invece, un legamento passa oltre il perno per inserirsi appena sopra di esso, la sua lunghezza e la tensione sono ri-
dotte quando la giunzione si muove nell’una o nell’altra direzione da una posizione intermedia. L’articolazione quindi scatta in una posizione aperta o chiusa. Le articolazioni a scatto si trovano nel gomito e nella caviglia (garretto) di molti grossi mammiferi. Il meccanismo fornisce un certo sostegno passivo nella postura di sosta. Per meglio garantire l’unione, le articolazioni a scatto hanno di solito su ciascun lato del perno due legamenti che si incrociano oppure un solo largo legamento avvolgente. (Sapreste dire come i legamenti di un ginglimo potrebbero essere predisposti per far scattare l'articolazione in un'unica prefissata posizione aperta, chiusa o intermedia?) 288 | Un’enartrosi o diartrosi a sfera è costituita da una testa emisferica che ruota in una cavità ad essa quasi coerente. Sono possibili movimenti vari ed
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Adattamento
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strutturale
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Figura 21.14. Meccanismo di un’articolazione a scatto. Quando l’osso superiore ruota, a mo’ di cardine, dalla posizione 1 alla posizione 2 sull’osso inferiore, che èfisso, l’inserzione B del legamento AB si sposta a B' lungo un arco attorno al perno del movimento P. Poiché la distanza AB' è minore di AB, la giunzione è instabile nella posizione 1.
estesi, inclusa la rotazione, e ne sono esempi consueti l'articolazione della spalla e dell’anca. Può essere anche citata l’unione del condilo occipitale all’atlante negli arcosauri. Una cavità poco profonda (spalla) permette una maggior escursione di una cavità profonda (anca). Le articolazioni fra le vertebre proceliche
e quelle fra le vertebre opistoceliche hanno una struttura a sfera-e-cavità, ma hanno un minor campo di movimento e di solito non sono considerate enartrosi, pur essendolo. Una modificazione della diartrosi a sfera è la diartrosi condiloidea ove una testa allungata o un condilo corrisponde a una cavità glenoidea. L'esempio è dato dall’articolazione femoro-tibiale e dall’articolazione temporo- mandibolare nei mammiferi. Piuttosto simile all’ultima citata, per funzione, è l’articolazione a perno o tracoide, che permette la rotazione di un osso attorno al proprio asse maggiore. Durante la pronazione e la supinazione della mano, l’estremità prossimale del radio fa perno sull’ulna; la sua testa discoidale ruota nell’incavo radiale. Allo stesso modo, la mano fa perno sul processo stiloideo dell’ulna. Se la testa convessa di un osso è biassiale invece di emisferica e si adatta in un incasso biconcavo, ne risulta una giunzione ellissoide. Il movimento avviene attorno ai due assi (per esempio flessione-estensione e adduzione-abduzione), e il movimento
attorno al terzo asse è impedito, molto differente da
una giunzione a perno. L'articolazione umana
radio-carpo ne è un esempio.
Con la stessa funzione, sebbene abbia una struttura diversa, è l’articolazione a
sella, quale si trova fra le vertebre cervicali eterocele degli uccelli (vedi il pellicano nella Figura 9.2). La superficie articolare della vertebra anteriore (cioè l’estremità posteriore del precedente corpo vertebrale) è convessa orizzontalmente e concava verticalmente, mentre quella della vertebra posteriore è concava orizzontalmente e convessa verticalmente.
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21. Le componenti strutturali del corpo
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Un'altra famiglia di giunzioni sono le articolazioni pianeggianti o artrodie. Le superfici articolari sono più o meno piatte e permettono movimenti che dipendono essenzialmente dalla natura dei legamenti associati. Il contatto fra le ossa può essere mantenuto se esse scivolano una sull’altra, come fanno la pre- e la postzigapofisi delle vertebre. Abitualmente le superfici articolari non sono perfettamente piatte, cosicché i movimenti di scivolamento in parte le forzano. Alcuni movimenti separano le estremità appiattite delle ossa a un grado sorprendente; le articolazioni fra le ossa carpali dei grossi mammiferi ne sono un chiaro esempio (vedi la vigogna nella Figura 24.17). La patella ha una superficie curva che slitta nel solco patellare del femore. Le vertebre lombari degli artiodattili possiedono postzigapofisi che girano in gronde, e prezigapofisi che sono a forma di grondaia. Queste articolazioni consentono
solo alcuni movimenti.
Esse non sono più tanto «piane», eppure
non hanno un nome particolare. Altre articolazioni non sono catalogabili secondo una terminologia corrente, anche se meritano la nostra attenzione. Molti uccelli possono muovere
il
becco superiore sulla scatola cranica (più dettagliatamente trattato nel Capitolo 30). La giunzione di solito è costituita soltanto da una zona di sottile osso flessibile, un tipo non nominato nei testi di anatomia umana. Gli anuri possiedono sia sindesmosi che diartrosi fra le vertebre sacrali e il cinto pelvico. La giunzione può funzionare come un perno sul piano verticale o può permettere un incurvamento da lato a lato. In alcune rane questi movimenti sono possibili a un certo grado e la colonna vertebrale può muoversi a telescopio in avanti e indietro sul cinto pelvico sotto il controllo di una serie di muscoli.
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MECCANICA DERE ROSIURA E DEL MOVIMENTO
Grandezza
e direzione
delle forze
289| Vettori di forza e loro scomposizione. Si è già definita la forza nel par. 129. Le forze sono grandezze vettoriali: hanno cioè grandezza e direzione. Entrambe le proprietà sono importanti nell’analisi dei sistemi osteomuscolari ed entrambe possono essere rappresentate graficamente da una linea retta orientata, cui viene dato il nome di vettore. Questa linea inizia di solito là dove è il punto di applicazione della forza, come potrebbe per esempio essere il punto d’inserzione del tendine (può essere fatto anche l’inverso, cioè far terminare in quel punto la linea). L'orientamento della linea costituisce la rappresentazione grafica della direzione della forza e la lunghezza del segmento quella della grandezza della forza secondo una scala arbitraria (per esempio, 1 cm = 10 N). Nella Figura 22.1, la parte A raffigura la testa lunga del muscolo tricipite con la sua inserzione sull’olecrano dell’ulna di un mammifero. Se la forza di contrazione ha all’incirca un valore proporzionale all’area della sezione mediana trasversa del muscolo, o meglio è stata direttamente valutata in vivo, si potrà rappresentare la forza di contrazione con un vettore F, nella parte B. La testa mediana del tricipite (parte C) si inserisce allo stesso punto con lo stesso tendine e può quindi allo stesso modo vedersi rappresentata dal vet-
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Adattamento
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strutturale
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E
Figura 22.1.
F
J
Vettori di forza e somma
delle forze.
tore F, della parte D. (Se il secondo muscolo si inserisse vicino al primo, ma non con lo stesso tendine, si potrebbe ancora ritenere che agiscano su uno stesso punto qualora la prosecuzione delle due rette comportasse la loro intersezione.) Qualora
due muscoli
facciano
forza sullo
stesso
punto,
ma
con
diversa
direzione e diversa potenza, diviene importante stabilire grandezza e direzione della loro comune azione. In un certo senso è come se ci chiedessimo quale vettore potrebbe rappresentare un unico muscolo ipotetico che esercitasse sulla stessa inserzione un’azione pari a quella dei due muscoli; si potrebbe parlare allora di risultante delle due forze e il vettore che la rappresenta costituisce la
somma delle forze. La risultante è di solito calcolata graficamente disegnando un parallelogramma delle forze così come risulta nella parte E: due lati contigui del parallelogramma sono costituiti da F, e F,, mentre gli altri due lati sono completati con linee a tratteggio. La diagonale, R,, è il vettore cercato che rappresenta la forza risultante. In un parallelogramma i lati non contigui sono uguali, per cui un’alternativa soluzione grafica può essere quella di disporre F, in modo che abbia origine là dove F, termina
(o viceversa) e disegnare poi il segmento
di retta che
289][|290]
22. Meccanica
della postura e del movimento
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chiude il triangolo (cioè quel triangolo che risultava da due lati contigui del primitivo parallelogramma e dalla diagonale opposta al loro angolo, corrispondente a metà dell’area). Questo terzo lato è di nuovo
il vettore cercato, R, (vedi
parte F). 290 ] Nella stessa posizione (parte G) ha la sua inserzione anche un altro muscolo, l’anconeo, e poniamo che il suo vettore sia F;. Per determinare la risultante, R,, dell’azione simultanea dei tre muscoli, si può disegnare la diagonale del parallelogramma costituito sui vettori R, e F,, oppure chiudere il triangolo che ha R, e F, come lati contigui (parti H e I). In entrambi i casi si tratta di un problema risolto in due tempi, in quanto R, è stato in un primo tempo ricavato da F, e F,. Una soluzione più immediata la si ottiene unendo in una qualsiasi sequenza origine-termine i vettori F,, F, e F;, per chiudere poi con un segmento
di retta il poligono che ne risulta (parte J). Questa linea di chiusura, con origine nel punto di origine della prima forza e termine nel punto di termine dell’ultima forza applicata, è ancora R,, cioè il vettore della forza risultante dall’azione dei tre muscoli. Grandezza e direzione della risultante possono anche venir valutate, se è necessario, con una maggior precisione servendosi di metodi trigonometr1C1: La determinazione di grandezza e direzione della forza di contrazione di un muscolo pinnato costituisce un’applicazione dell’addittività delle forze. Si consideri lo stilizzato e piatto muscolo pinnato della Figura 22.2A: lo si potrebbe pensare costituito da due muscoli che fanno forza in direzioni divergenti su di un comune tendine centrale. La forza di contrazione di una delle due parti è grosso modo proporzionale all’area di una sezione trasversa di tutte le fibre di quella parte (o anche alle distanze AB o AC se il muscolo ha uno spessore uniforme). I vettori F) e Fs della parte B rappresentano le forze delle parti destra e sinistra del muscolo. Completando il parallelogramma delle forze si troverà che il vettore della risultante è la diagonale R. (Esprimibile anche con
Figura 22.2. Applicazione delle regole di scomposizione delle forze a uno stilizzato muscolo pinnato piatto.
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Adattamento
strutturale
290
291
|
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R = 2Fcos@.) Il valore di R è massimo quando le fibre muscolari si inseriscono sul tendine comune con un angolo di 45° circa da entrambe le parti. Si tenga però presente che l’angolo d’inserzione potrebbe cambiare mentre il muscolo si contrae.
Per sviluppare una forza di contrazione uguale a quella sviluppata da questo muscolo pinnato, un muscolo nastriforme a fibre parallele richiede una maggiore estensione BC (Figura 22.2A). Un muscolo di questo tipo la cui lunghezza eguagliasse quella del muscolo pinnato avrebbe però fibre molto più lunghe e di conseguenza potrebbe far muovere di più il suo punto d’inserzione. Ovviamente, un muscolo pinnato può sviluppare una grande potenza per l’intera sua larghezza, ma ha una ridotta ampiezza di contrazione. I muscoli pinnati, a differenza dei muscoli le cui fibre decorrono parallele ai loro tendini, non divengono più gonfi con la contrazione, un bel vantaggio se il muscolo deve poter funzionare in uno spazio limitato. E in più, la disposizione pinnata si accorda bene con una forma non regolare. Il tendine centrale di molti muscoli pinnati è ossificato: ne sono un esempio le «bacchette di tamburo» del tacchino. Analoghe stecche di osso si ritrovano nei muscoli del becco e del collo di alcuni uccelli ed erano presenti sul dorso di alcuni grossi dinosauri. Fra i mammiferi la disposizione pinnata del muscolo si ritrova in quasi tutti i flessori degli arti e nel milo-ioideo. Il deltoide umano
è un muscolo pinnato piuttosto complesso, come lo è il sottoscapolare
di alcuni mammiferi
(vedi Figura 25.8).
Chi legge può cercare di stabilire in che direzione operi la risultante di un muscolo a ventaglio, quale il pettorale, il trapezio o il latissimo del dorso, che si contragga in tutta la sua estensione (il che non è necessario avvenga). Se
si attribuisce a ciascuna forza, espressa da una delle parti di un tale muscolo, una propria grandezza, allora si potrà stabilire quale valore abbia la forza risultante.
291] Componenti delle forze. Così come due o più forze possono venir combinate in una sola forza risultante, è possibile scomporre una determinata forza in due o più componenti; così come un’infinita serie di coppie di forza può avere la stessa risultante, è possibile un’infinità di coppie componenti una determinata forza. Pertanto è di solito auspicabile sia specificata la direzione di ciascuna delle componenti desiderate e allora la soluzione sarà unica. Si consideri il vettore del tricipite dei mammiferi (una sola testa oppure una
combinazione
di tutte le teste) raffigurato nella Figura 22.3A.
Quando
il
muscolo si contrae si ha una rotazione in senso antiorario dell’ulna rispetto all’omero: l’inserzione del muscolo traccia un arco attorno al perno dell’inserzione. Raggio dell’arco è la distanza tra perno e inserzione: in qualsiasi momento, la direzione del movimento dell’inserzione è la direzione della tangente all’arco che passa nel punto d’inserzione. (Una tangente al cerchio tocca la circonferenza del cerchio in un punto ed è perpendicolare al raggio che passa per quel
punto. In istanti successivi la tangente cambierà con il muoversi dell’articola-
zione in quanto l’inserzione si muoverà lungo l’arco.) L'inserzione del muscolo non si muove, di solito, nell’esatta direzione della spinta muscolare: è, pertanto, importante valutare la grandezza di
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22. Meccanica
della postura e del movimento
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Direzione del
A
movimento iniziale
Direzione della componente che
—
\
provoca tutto l
movimento
_Vettore di forza
Arco percorso dalla
i
del tricipite
inserzione muscolare
=== Tangente all’arco di / | oilmovimento nel punto i .
ri
Direzione della )
| di inserzione del muscolo
d
Raggio dell’arco
Fog
componente che non
di movimento
provoca alcun movimento A
B
]
|
i
|
|
21
3
Vettore della componente desiderata
Vettore della componente che provoca il movimento
Vettore della componente che non provoca movimento
Componente di slittamento |
Componente propulsiva = Fp
Componente di p pressione
onente Comp di supporto
Spia deli piede sul terreno = R
db Carico del femore
sulla tibia
I
|
l
E
Figura 22.3. Determinazione della componente (desiderata) di una forza.
459
460
Adattamento
strutturale
291
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quella parte, o componente della spinta, che va nella stessa direzione del movimento. È opportuno scegliere due componenti, la cui risultante sia la forza sviluppata dal tricipite. Una delle componenti verrà scelta in modo da rappresentare tutta la forza sviluppata dalla direzione del movimento e pertanto, come abbiamo or ora spiegato, dovrà avere la direzione della tangente che passa per il punto d’inserzione. L’altra componente verrà scelta in modo che non determini affatto movimento, né in senso orario, né in senso antiorario: una sola direzione soddisfa questa esigenza ed è la normale (o perpendicolare) all’arco del movimento nel punto d’inserzione (vedi parte B). (Il vettore di questa componente è un’estensione del raggio dell’arco al punto d’inserzione.) Conoscendo le direzioni delle due componenti, non è difficile valutare le rispettive grandezze graficamente, completando il parallelogramma delle forze in modo che il vettore del tricipite ne costituisca la diagonale; e, dato che le due componenti sono state scelte in modo da risultare perpendicolari una all’altra, il parallelogramma risulterà essere un rettangolo (parte C). In questo momento ci interessa la componente in direzione del movimento, così che, essendovi nel parallelogramma solo angoli retti, potremo risolvere il nostro problema in modo più immediato (parte D): (1) tracciare una retta
dal punto di perno del movimento al punto d’inserzione del muscolo, che costituirà il raggio dell’arco di movimento; (2) disegnare la retta perpendicolare a questo raggio nel punto d’inserzione e che non è altro che la tangente la cui direzione è quella della componente desiderata; (3) tracciare la retta perpendicolare alla tangente che passa per il punto terminale del vettore della forza in esame. Questo segmento è il lato del rettangolo delle forze parallelo a (e quindi uguale a) quella componente della forza scelta perché non determina alcuna rotazione dell’ulna rispetto all’omero; (4) il vettore della componente desiderata nella direzione di moto è ora quella parte della tangente compresa tra il punto d’inserzione del muscolo e l’inserzione con la perpendicolare del punto precedente. Sembra una faccenda complicata, ma ci vuole meno tempo a disegnare il diagramma che a leggere le istruzioni per realizzarlo. 1292] Nel Capitolo 21 si è detto che un carico applicato trasversalmente all’estremità di un osso lungo può essere ripartito in una componente compressiva
diretta secondo l’asse lungo dell’osso e in una componente di slittamento laterale che tende a far flettere l’osso. Le direzioni delle componenti desiderate dipendono dalla natura del problema e sono ortogonali tra loro. Completando il rettangolo delle forze se ne potranno valutare le rispettive grandezze (parte E). Quando il piede di un animale in corsa tocca il terreno, fa da supporto
e al tempo stesso da propulsore per l’animale; la direzione della componente di supporto è verticale (in senso opposto alla forza di gravità) e quella della componente propulsiva è orizzontale nella direzione di movimento. Se la spinta esercitata dal piede a un determinato istante può essere valutata, allora è facile calcolare le grandezze delle componenti (parte F). Allo stesso modo
potranno essere valutate le componenti di una qualsiasi forza, in modo da ana-
lizzare la forza centrifuga (vedi Figura 24.18), l’ondulazione laterale nei serpenti (vedi Figura 25.12), l’attrito (vedi Figura 26.4) e le componenti dirette in
avanti e di fianco della spinta impressa dalla coda di un pesce all’acqua (vedi Figura 27.6).
292][293]
[294
22. Meccanica
della postura e del movimento
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Le componenti delle forze possono essere calcolate trigonometricamente, oltre che graficamente.
In questo caso il calcolo è più semplice e diretto di
quanto non venga richiesto nella scomposizione delle forze perché si utilizzano esclusivamente angoli retti. Così, nella Figura 22.3F, F, = RsenOeF,=R coso. Si faccia attenzione al fatto che con l'aumentare da 0° a 90° dell’angolazione fra una data forza e una sua componente, la grandezza della componente si riduce da quella dell’intera forza a un valore nullo. In senso meccanico, un muscolo è tanto più efficace nel far ruotare un osso quanto più esercita lo sforzo in direzione del movimento. Con l’inserimento angolato delle sue fibre sul tendine centrale, un muscolo pinnato può disporre di un numero molto alto di fibre e quindi sviluppare una forte azione di contrazione. Però, dato che aumentando l’angolo d’inserzione diminuisce la componente efficace della forza, l’angolo ottimale d’inserzione (di solito di poco inferiore ai 45°) risulta un compromesso tra questi opposti fattori.
I sistemi muscolo-osso in quanto macchine 293 | Per macchina s’intende un meccanismo che trasferisce una forza da un punto a un altro punto, modificandone di solito anche la grandezza; così, quando con un cacciavite solleviamo il coperchio di una scatola di latta con un leggero sforzo applicato al manico verso il basso si produce una grande spinta verso l’alto della punta del cacciavite poggiato sul bordo della scatola. Im modo analogo, quando il muscolo tricipite sposta all’insù il processo dell’olecrano si genera una forza diretta verso il basso da parte del piede anteriore (Figura 22.4, parti A e B). Tutti i sistemi osteomuscolari sono macchine. È conveniente indicare come potenza (P) la forza applicata alla macchina e come resistenza (R) la forza sviluppata. Nel corpo, la potenza risulta applicata dalla tensione dei tendini o dei legamenti, dalla gravità, dai carichi esterni; le resistenze utili in definitiva
si sviluppano a livello dei denti, dei piedi, delle dita e anche altrove. Per il momento prenderemo in considerazione solo macchine semplici con una sola forza di potenza e una sola forza di resistenza.
294] Bracci di leva e momenti di forza. Una forza di potenza può essere trasferita in una forza di resistenza grazie a un albero a gomiti, a un sistema idraulico, a una puleggia, a una leva o a un qualche altro meccanismo. Molti sistemi del corpo connessi con l’alimentazione e con la locomozione trasferiscono le forze mediante leve e solo di questi noi ci occuperemo. Una leva è una struttura rigida, come può esserlo un palanchino o un osso, che trasferisce una forza ruotando (parzialmente) attorno a un perno (su cui poggia: il fulcro). Ciascuna forza dista dal perno per un tratto della leva, detto braccio di leva: il braccio di potenza (b,) si estende dal punto di applicazione della forza di potenza al fulcro e il braccio di resistenza (b,) o di carico si estende dal fulcro al punto di applicazione della forza di resistenza. Nell’esempio del cacciavite utilizzato per togliere il coperchio, b, si estende dalla mano sul manico fino al bordo della scatola e b, si estende dal bordo della scatola fino alla punta inserita sotto il co-
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Adattamento
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strutturale
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N
{Meet
CORRIDORE
è Braccio di leva conosciuto
Braccio di leva conosciuto
Peso
Peso
ignoto
noto
Figura 22.4. Rapporti tra forze di potenza e forze di resistenza, bracci di leva e momenti di forza. (I momenti di potenza e quelli di resistenza non sono stati regolati in modo da essere in equilibrio.)
perchio. Nell’altro esempio, b, è l’olecrano e br l’avambraccio dall’articolazione del gomito al piede anteriore. Il prodotto di una forza per il suo braccio di leva è detto momento di forza (M). Ogni funzionamento di una leva comporta almeno due momenti, uno
per il sistema di potenza e uno per quello di resistenza: quindi, da quanto abbiamo appena detto, M, = Pb, e Mx = Rbr. I momenti sono espressi in dyn-centimetro o unità equivalenti (oppure in grammo-centimetro se si utilizzano le unità di peso invece delle più precise unità di forza). Quando Pb, > Rbr la leva (si abbassa) ruota nella direzione di P e quando Pb, < Rbx la leva (si abbassa) ruota nella direzione di R e quando Pb, = Rbr il sistema è in equilibrio senza
muoversi. È possibile, ovviamente,
valutare una qualsiasi variabile quando si co-
noscono già le altre variabili quando un sistema di leva è in equilibrio; è basata su questo principio la bilancia romana (o stadera): il prodotto di un peso noto (il romano) per il suo braccio di leva (la scala calibrata o stilo) viene regolato fintantoché non eguaglia il prodotto del peso da valutare per il suo braccio di
[294 ] [295 ] [296
22. Meccanica
della postura e del movimento
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leva fisso (Figura 22.4C). Allo stesso modo, quando un tetrapode è immoto, le forze di tutti i muscoli posturali sono calibrate in modo che i momenti di potenza eguagliano i momenti di resistenza, per cui riesce a mantenersi dritto in piedi senza muoversi. Altri esempi vi verranno presentati più avanti in questo stesso capitolo. E importante che chi volesse studiare la meccanica del corpo animale abbia compreso il valore dell'equazione Pb, = Rbr (e sia in grado di risolverla).
In questo modo si comprende come, essendo auspicabile per un mammifero che scava produrre un rilevante sforzo di potenza con il suo piede anteriore quando fa contrarre il tricipite ed essendo R = Pb,/bx, l’animale possa esercitare una maggior potenza aumentando lo sforzo P o il b,, oppure riducendo il br. Gli adattamenti di molti animali scavatori intervengono proprio su queste variabili (raffronta B con D nella Figura 22.4).
295 | Forza applicata e forza efficace. S'impone ora un chiarimento: il prodotto della forza per il braccio di leva risulta uguale al momento di forza del sistema solo quando forza e braccio di leva risultano perpendicolari l’uno all’altra. Vi sono due modi per conseguire questo obiettivo: entrambi sono di semplice esecuzione, ma può essere più facile applicare uno piuttosto che l’altro al reperto dissezionato o all’animale da esperimento, cosicché li illustreremo tutti e due. Nella realtà la lunghezza del braccio di leva della potenza è costituita dalla distanza in linea retta fra l’inserzione del muscolo che determina il sollevamento e il perno del movimento che la contrazione del muscolo comporta: parliamo in tal caso di reale braccio di leva (b,,). Come abbiamo già fatto parlando delle componenti delle forze, questa linea (un raggio dell’arco descritto dal punto di inserzione nel corso del movimento) risulta perpendicolare alla componente della forza nella direzione di moto. Se indichiamo con il nome di potenza applicata (P,) la forza sviluppata dal muscolo e con il nome di potenza efficace (P,) la componente nella direzione di moto, la condizione attuale può essere espressa con M = P.b,, (Figura 22.5A). Servendosi di questo metodo, si dovrà ogni volta calcolare la potenza efficace prima di calcolare il momento di forza. Il secondo metodo, alternativo al primo, utilizza invece la potenza applicata, senza prendere in considerazione la relazione tra la sua linea di azione e quella della sua componente efficace. In questo caso risulterà appropriata, come braccio di leva efficace (b,,), la perpendicolare dalla retta d’azione del muscolo al perno. Questa perpendicolare incontra P, prima dell’inserzione quando l’angolo tra P, e b,, è acuto; incontra invece il prolungamento di P, dietro l’in-
serzione quando l’angolo tra P, e b,, risulta ottuso (metti a nella Figura 22.5). Ora M = P,b,, e la stessa relazione varrà dell’articolazione, cosicché P,b,; = P.b,.. I due metodi sono nella parte D. Siete capaci di disporre le forze in modo che
confronto B con C per ogni posizione messi a confronto P, = P, e b,; = by?
296 ] Rapporti tra potenza e resistenza. Finora, nei miei esempi, il perno risultava sempre collocato tra potenza e resistenza. I momenti sono pertanto volti in senso opposto, l’uno in senso orario e l’altro in senso antiorario rispetto al
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Adattamento
strutturale
296
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Figura 22.5. Utilizzo della potenza applicata o della potenza efficace e dei relativi bracci di leva nel calcolo del momento delle forze.
perno. Questa condizione è frequente nel corpo di un animale ed è usuale per i muscoli
estensori
(vedi Figura 22.6A). Due altre disposizioni sono possibili,
entrambe agenti nello stesso verso. In un caso la resistenza è più vicina al ful-
cro che non la potenza (una condizione poco frequente, ma ve ne presentiamo nella figura due esempi), mentre nell’altro la resistenza è più distante dal fulcro che non la potenza (una disposizione usuale per i muscoli flessori, come raffigurato nella parte C). Si noti come nella prima disposizione (o leva di 1° ordine) le due braccia di leva siano indipendenti e possano risultare l’una o l’altra più lunghe, anche se nel corpo animale il braccio di resistenza sia di solito il più lungo. Nelle altre due disposizioni il braccio di leva più lungo (che è il braccio di potenza nelle leve di 2° ordine e il braccio di resistenza in quelle di 3° ordine) comprende nella sua totalità il braccio di leva più corto: essi «condividono» parte della leva. La Figura 22.6 mette in chiaro come una stessa articolazione e uno stesso muscolo possano funzionare quali sistemi di leva di diverso ordine: quando si cammina sulla sabbia, il piede (con nostro imbarazzo) funziona a volte contemporaneamente come due tipi di leva. Il fatto importante non è che voi memorizziate i diagrammi, ma che apprendiate come identificare per ogni specifico sistema osteomuscolare il fulcro, le forze di potenza e di resistenza e le braccia di leva tanto di potenza che di resistenza.
297
22. Meccanica
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della postura e del movimento
465
a
Potenza
A
Resistenza
TER Figura 22.6.
Tre disposizioni delle forze di potenza e di resistenza in un sistema di leve.
297 | Sommatoria dei momenti di forza: sistemi biarticolati. Più forze di potenza possono agire sulla stessa leva. Per valutarne l’effetto complessivo se ne può determinare per ciascuna indipendentemente il momento, sommare tra loro tutte quelle che tendono a far muovere la leva in un verso e sottrarre a queste tutte quelle che tendono a spostare la leva nel verso opposto. Resistenze multiple, come risultano essere quei denti che contemporaneamente frantumano il cibo, vanno
trattate allo stesso modo.
Qualora il peso di una parte della macchina vivente sia anch’esso da prendere in considerazione, come potrebbe avvenire nel caso siano richieste valutazioni precise, allora, in aggiunta ai momenti risultanti dall'azione dei muscoli, si dovrà stimare il momento della forza di gravità sulla leva (per esempio, del braccio o della coscia). La leva reagisce alla gravità come se tutto il suo peso fosse concentrato nel suo centro di massa. Il peso della leva moltiplicato per il
466
Adattamento
297 ][298]
strutturale
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suo
effettivo braccio
di leva, valutato
dal centro
di massa,
sarà difficilmente
identificabile servendosi dei calcoli, ma non lo è sperimentalmente se l’oggetto è isolabile: basterà sospendere l’oggetto (per esempio con una fune) prima per un punto e poi per un altro punto della sua superficie. Il punto ove si incontrerebbero le due rette di supporto è il centro di massa. Muscoli
biarticolati,
cioè per due articolazioni,
che passano
sono
ab-
bastanza frequenti (per esempio, il gastrocnemio, il gracile, il bicipite, la testa lunga del tricipite). Questi muscoli possono far muovere una delle due articolazioni, entrambe o nessuna, a seconda dell’azione degli altri muscoli e dei ca-
richi portanti. In ogni caso la contrazione muscolare comporta, o sollecita, il movimento
di entrambe
le articolazioni,
cosicché il muscolo
effettua simulta-
neamente sui due bracci di leva uno sforzo di potenza. I tendini di alcuni muscoli flessori delle dita passano su tre o più articolazioni. Questi sistemi sono particolarmente inanalizzabili in dettaglio, sia teoricamente che sperimentalmente, anche soltanto istante per istante. Però una valutazione approssimativa della meccanica di un’unità operativa (una palata di scavo, un passo in corsa) la si può effettuare prendendo in considerazione le principali resistenze, stimando all’incirca lo sforzo e l’attività dei principali muscoli (con l’elettromiografia, costruendo diagrammi lunghezza-tensione e in altri modi), determinando quelle che sono le posture usuali (con metodi diversi, ivi compresa la cinematografia ai raggi X) e misurando le braccia di leva. Non è certo da aspettarsi che una cosa così meravigliosamente
movimento
complessa come
un corpo vivo in
sia analizzabile con facilità.
Meccanica del supporto del corpo 298 | Bilanciamento e controbilanciamento. La meccanica del supporto del tronco dei tetrapodi è stata a lungo oggetto di studi speculativi e analitici; diverse forme di ponteggi sono state ritenute strutture analoghe. Le ricurve spine
dorsali di molti piccoli mammiferi somigliano a un ponte ad arco (vedi Figura 22.7A). Questa analogia è quasi perfetta (vedi sotto), ma fallisce con le spine dorsali di molti grandi mammiferi che non si dispongono ad arco. Il ponte a capriata, con la soprastruttura rigida (parte B), non può essere ritenuto un analogo della spina dorsale se questa viene assimilata alla sede stradale: la spina dorsale è in effetti sottoposta a compressione longitudinale, mentre una strada simile è sotto tensione. Se invece la spina dorsale viene assimilata al profilo superiore di un ponte a capriata e la muscolatura addominale alla base stradale, allora la distribuzione degli sforzi risulterebbe corretta, pur se la rigida inte-
laiatura dei tiranti venisse a mancare. Questo fatto fa ritenere possibile anche un’analogia con una sacca oblunga chiusa (il tronco con le sue incluse cavità celomatiche) ripiena di un fluido. Una sacca simile potrebbe essere sorretta alle estremità e avere tensioni periferiche del tipo riscontrato nel ponte a capriata. Però, se le pressioni risultassero tali da prevenire il ripiegamento della sacca vivente non le consentirebbero l’adeguata flessibilità. A volte è stata proposta un’analogia con il ponte sospeso o a cantilever (parte C). La strada, questa volta sottoposta a compressione, corrisponderebbe
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N E2:99 [?2a0
|
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ToN
NMZAZI \
Figura 22.7. Profili di ponti proposti quali analoghi delle strutture di supporto del corpo di un tetrapode.
alla spina dorsale, mentre il profilo superiore del ponte corrisponderebbe ai muscoli epiassiali lunghi. I tiranti incrociati potrebbero identificarsi con le neurospine e i muscoli epiassiali corti. Ed è proprio qui che l’analogia non risulta proprio calzante, in quanto le appropriate strutture non sono realizzate in modo
da assicurare una rigidezza sufficiente a un supporto costante. Non ne deve però conseguire che in questo modo non debba essere fornito alcun supporto quando l’attività muscolare determina tensione. Un'altra caratteristica del ponte a cantilever trova riscontro nel sistema di supporto corporeo di molti tetrapodi. L’unità funzionale di un ponte a cantilever va dalla metà di un’arcata alla metà dell’arcata contigua. Nel costruire il ponte, sui lati opposti delle torri vengono contemporaneamente agganciate le funi di sospensione e relativi cantilever. (Un cantilever consiste di una travatura a mensola che poggia a un solo estremo.) In questo modo, il carico da una parte è controbilanciato dal carico sulla parte opposta. Esprimendosi con altri termini, la massa
di un cantilever per la distanza dalla torre del suo centro di
massa è un momento di forza di ugual grandezza e verso opposto a quello del cantilever dall’altra parte della torre: vi è quindi equilibrio e la torre non si inclina né cade. Il principio del bilanciamento e del controbilanciamento è di continuo utilizzato dai tetrapodi (Figura 22.8).
299] Archie corde d’arco per ossa e fibre. Un’altra analogia con le strutture di supporto del corpo risulta essere la più valida fra quelle che riguardano i ponti: essa considera come fosse un arco da caccia il tronco vertebrale di un vertebrato, tronco che può venir curvato come un arco da caccia (molti piccoli mammiferi) oppure mantenuto quasi dritto con l’estremità che piega verso il basso come un archetto da violino (salamandre, coccodrilli, lucertole, parecchi grandi mammiferi) (vedi Figura 22.9, parti A e B). La principale corda di questo arco vivo è costituita dalla muscolatura addominale ventrale, dallo scaleno e
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Adattamento
2:99
strutturale
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Dia
Figura 22.8. Il principio del bilanciamento e del controbilanciamento nel supporto del corpo di un animale.
Arco da caccia
Archetto di violino
A
B
Legamento nucale =
Le unità cefalica e caudale sono cantilever
corde dell'arco cervicale
Arco del tronco — Capriata
tipo violino
controbilancianti l'unità tronco Capriata
Arco cervicale — tipo arco da caccia Muscolo = corde dell'arco del tronco
(0)
Figura 22.9. Analoghi di arco e fattori correlati nel supporto di un corpo.
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22. Meccanica
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muscoli annessi, dallo sterno che tra i due s’interpone. I muscoli psoas e quadrato, al di sotto delle vertebre lombari, costituiscono una corda d’arco secondario più breve. La spina dorsale non può flettersi se queste corde vengono mantenute in tensione. Le vertebre cervicali dei mammiferi più grossi formano anch'esse un arco, questa volta rovesciato. Le sfioccature del legamento nucale formano molteplici corde d’arco. Il legamento può venir teso dai muscoli, diminuendo così la curvatura dell’arco per abbassare la testa. Tutti i sistemi analoghi finora proposti hanno l’inconveniente di essere passivi e statici, mentre il corpo è attivo e dinamico. Il tronco non può restare bilanciato sulle gambe allo stesso modo di un ponte sui piloni; la lunghezza e l’orientazione dei cantilever animali sono soggetti
a cambiamenti;
i carichi su
archi e corde animali mutano di grandezza e direzione. Per di più vi è stata una certa tendenza tra i morfologi a compiere una selezione tra i diversi analoghi, piuttosto che tentare una combinazione tra loro. Si può pensare che il tronco abbia un sostegno ad arco, la spina dorsale, di cui viene evitato il collasso grazie a corde muscolari che, a loro volta, possono essere in parte alleviate dal carico grazie al controbilanciamento di un cantilever a capriata (una estesa e pesante coda) e in parte dal controbilanciamento di un cantilever ad arco rovesciato (il collo carico alla sua estremità del peso della testa, Figura 22.9C). Dobbiamo pensare che quando un tetrapode si ferma sulle zampe, questo complicato sistema resta in equilibrio solo con una tensione non interrotta di pochi muscoli e un’episodica tensione correttiva da parte di pochi altri. Nel par. 282 il piede umano è stato visto come una trave caricata nel suo centro. È così, ma è anche un arco che poggia sul terreno con il tallone e con il cuscinetto plantare, che non collassa grazie a muscoli e tendini (l’aponeurosi plantare) che possono essere tesi rialzando le dita. Nel par. 281 l’arcata zigomatica è stata considerata una trave, come è, ma spesso è anche un arco, ancorato saldamente alle estremità e rinforzato da una corda d’arco ossea, l’asse basicraniale e a volte anche dal legamento postorbitale, che ne assicura la sospensione in alto al processo postorbitale.
300
Imbracature, fermi e chiusure. Quanto è stato finora discusso si riferi-
sce essenzialmente ai fattori di supporto assiale del corpo. Le zampe non sono però rigide colonne verticali, ma sono articolate e di norma flesse: è importante capire come possano sostenere il corpo. Nei periodi di attività sono i muscoli, mentre realizzano il movimento, ad assicurare il supporto; nei periodi d’inattività l’animale può evitare alle zampe un ruolo di supporto poggiando sul ventre
(anfibi, rettili), accovacciandosi
(roditori, lepri), sedendosi
(primati) o
sdraiandosi (carnivori, parecchi artiodattili). I grossi tetrapodi restano però alzati per lunghi periodi: le loro zampe debbono perciò sostenere senza troppa fatica il loro ruolo di supporti. A questo contribuiscono diversi fattori. Le articolazioni,
legamenti
compresi,
sono
strutturate,
come
già detto
nel Capitolo 21, in modo da porre un limite tanto al genere di movimento che alla sua estensione. Nei grossi mammiferi, nessuna articolazione distale a spalla
e anca (e anche queste solo in grado limitato) può flettersi nel piano trasversale:
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Adattamento
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strutturale
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un supporto passivo è assicurato contro le ripiegature laterali. Anche l’iperestensione nel piano sagittale viene prevenuta sia con legamenti che con fermi ossei: gomiti, ginocchia, garretti e dita non possono collassare «piegandosi indietro». La tendenza a collassare a seguito di flessione può essere ridotta od ostacolata in molte maniere diverse da quella della contrazione muscolare. I tetrapodi più grossi (sia viventi che estinti) si reggono in piedi (o si reggevano) con i diversi segmenti dell’arto allineati secondo la verticale o quasi, poggiando così un osso sull’altro e riducendo i momenti di flessione (sui quali diremo qualcosa di più nella successiva sezione). Il ginocchio umano (e probabilmente anche alcune delle articolazioni per stare dritti in piedi di altri animali) può essere disteso solo fino alla verticale. Se sforzato, vi è una leggera torsione in una direzione verso la quale l’articolazione non può ulteriormente aprirsi: si impedisce così il ripiegamento nel verso opposto e si fornisce un fermo di chiusura alla flessione. Una certa resistenza alla flessione viene anche fornita da articolazioni a scatto (vedi par. 287 per la loro descrizione). Questa resistenza può aiutare a evitare il collasso di un'articolazione che di per sé è quasi in equilibrio. Negli ungulati il collasso dell’articolazione del nodello tra metapodio (od osso comune) e falange prossimale viene impedito da un’imbracatura. Questa articolazione è sempre piegata quando è sotto carico e l’angolazione dipende dal carico. È quindi un importante ammortizzatore. Essendo piegata deve però esser
sorretta:
a questo
provvede
un
cospicuo
legamento
sospensore
che
si
estende dalla superficie posteriore dell’estremità prossimale del metapodio fin sotto il nocello
(ove si ancora a ossa sesamoidi)
e quindi si porta attorno alla
falange prossimale inserendosi poi sulle superfici anteriori delle falangi distali (Figura 22.10). Quando il piede viene pesantemente caricato dal peso dell’animale fermo o dall’impatto con il terreno durante il movimento, il legame si tende, lasciando che l’articolazione si fletta con maggiore angolazione. Nel far questo, il legamento accumula energia potenziale che verrà liberata con il ritorno dell’articolazione all’angolazione neutra quando il carico su di essa diminuirà (vedi anche
Figura 29.2).
Gli ungulati, a differenza degli elefanti, di solito hanno le articolazioni della grassella flesse (corrispondenti al ginocchio umano) e le articolazioni del garretto (o del calcagno) moderatamente flesse. Un supporto passivo che allevia il lavoro dei muscoli estensori viene fornito ai perissodattili e ad alcuni artiodattili da un meccanismo semplice, efficace e sottoposto a controllo volontario. Da un lato la tibia e dal lato opposto il quasi completamente tendineo muscolo flessore superficiale della falange (o delle falangi) delimitano un parallelogramma i cui lati brevi sono in alto l’estremità distale del femore e in basso il calcagno e le altre ossa tarsali (Figura 22.11). Tutti gli angoli di questo parallelogramma debbono cambiare nello stesso momento. La grassella e l’articolazione del garretto non possono flettersi indipendentemente, per cui se uno solo degli angoli non dovesse modificarsi, l’intero sistema rimane bloccato. Questo può avvenire grazie a un meccanismo di blocco dell’articolazione della grassella. Il bordo mediale della gronda della rotula è spesso e termina prossimalmente in un tubercolo. La rotula è unita alla tibia con molti e forti legamenti
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della postura e del movimento
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Attacco del legamento sospensore all'osso cannone
Briglia carpica — previene l'iperestensione del tendine Tendine del flessore superficiale
Legamenti Goniono Sopensgre del nodello
delle dita (= tendine perforato) Tendine del flessore profondo delle dita (= tendine perforante)
Ancoraggio del legamento sospensore all'osso sesamoide Tendine dell’estensore
laterale del e;
3
Briglia anulare Tendine perforante
Legamento interdigitale
Figura 22.10. Struttura del piede anteriore destro di bovino, evidenziante il meccanismo di sospensione. (Raffigurazione di un preparato congelato e seccato, pertanto leggermente contratto.)
che permettono a mala pena alla rotula di essere portata (dal muscolo quadricipite) sopra il tubercolo quando l’articolazione viene distesa. Quando la rotula risulta così bloccata, la flessione dell’articolazione viene impedita dai legamenti: la rotula deve essere spostata lateralmente e in basso nella gronda della rotula prima che l’arto possa venir piegato. Questi meccanismi di supporto sono degli esempi: molti altri se ne conoscono (alcuni, legati a specifici adattamenti, verranno descritti nei capitoli che seguono) e senza dubbio molti altri debbono essere identificati.
Meccanica
del movimento
301] Velocità e bracci di leva. Il movimento è un cambiamento di posizione. Un’alta frequenza di cambiamenti di posizione è detta sveltezza (in lingua inglese, speed), una bassa frequenza,
lentezza.
Velocità
(v) è la frequenza
dei
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Adattamento
strutturale
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Figura 22.11. Meccanismo di supporto dell'arto posteriore di molti ungulati, esemplificato con una veduta mediale della zampa destra di un cavallo. Rotula bloccata sopra la troclea del femore
Due dei molti legamenti della rotula
Articolazioni della Ta Corda del garretto (flessore superficiale delle falangi)
Calotta calcaneale (ancoraggio del flessore superficiale delle falangi) Articolazione del garretto
cambiamenti di posizione in una determinata direzione (in lingua inglese, velocity). Di un animale si potrà dire che è lento sulla terraferma e svelto in acqua quando non si dà alcuna indicazione direzionale; di muscoli e ossa si dovrebbe sempre dire che raggiungono certe velocità in quanto la direzione dei loro movimenti, riguardo alle strutture associate, è sempre quella loro propria. La velocità viene numericamente espressa in centimetri al secondo, o in unità equivalenti, e la direzione è definita o implicita. La velocità, come la forza, è quindi una grandezza vettoriale e può essere rappresentata con una freccia (vedi par. 289). Così come è possibile costruire un parallelogramma per addizionare più forze che agiscono insieme, così se ne può costruire uno per addizionare molte velocità, costanti o istantanee, che agiscano anch'esse insieme. Quando un uo-
mo si allontana nuotando dalla riva di un fiume, la sua velocità rispetto all’acqua e la velocità dell’acqua rispetto alla riva si combinano insieme per portarlo verso la valle diagonalmente a una velocità superiore a entrambe le due velocità
singolarmente considerate. Allo stesso modo, se l’estremità distale dell’omero di un animale in corsa viene portata avanti rispetto alla scapola alla velocità istantanea v, (Figura 22.12A) mentre il corpo si sta muovendo rispetto al terreno alla velocità v,, allora R, la diagonale del parallelogramma, è la velocità risultante dell’estremità distale dell’omero rispetto al terreno. Una velocità può essere scomposta in più componenti. Come per le for-
301
22. Meccanica
della postura e del movimento
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V Componente orizzontale
Componente verticale
Figura 22.12.
Calcolo delle componenti e della risultante di una velocità vettoriale.
ze, una conveniente
scomposizione
è quella secondo angoli retti, così da co-
struire un rettangolo delle velocità evidenziante le componenti, come nella parte B per una planata di scoiattolo volante africano, un anomaluride. A volte è opportuno combinare insieme le forze (o i momenti) che agiscono indipendentemente sulla stessa leva: due muscoli possono far più forza di uno. Le velocità, invece, non possono essere indipendentemente applicate a parti diverse della stessa leva: non considerando l’inerzia del sistema (il che potrebbe risultare un’eccessiva semplificazione), due muscoli non sono più veloci di uno. La velocità di un qualsiasi punto della leva è determinata solo dalla distanza di quel punto dal fulcro e dalla velocità angolare, che è la velocità di rotazione della leva intesa come elemento unitario. Così, quando i carichi sono leggeri, le velocità relative delle differenti inserzioni agenti insieme sulla stessa leva ossea sono determinate essenzialmente dalla loro posizione e non da differenze eventuali nella velocità di contrazione dei diversi muscoli.
(Sì ricordi,
però, che la velocità di accorciamento di un muscolo decresce con l’aumento del carico e che una riduzione del braccio di leva comporta un aumento dello sforzo muscolare.)
Abbiamo appreso che la relazione delle forze di potenza e delle forze di resistenza con le rispettive braccia di leva è espressa dalla formula PI, = Rx, da cui P = Rlx/1, e R = PI,/1x. La resistenza cresce con l’allungarsi del braccio
di potenza e diminuisce con l’allungarsi del braccio di resistenza: un mammifero scavatore ha bisogno di un lungo olecrano e di un corto avambraccio. Ne consegue, dal precedente paragrafo, che le velocità di potenza e quelle di resistenza (v, e vg) sono anch'esse in relazione con le rispettive braccia di leva, ma lo sono secondo una relazione inversa: v,lr = vgl,, cosicché v, = valp/ lr e
va = vplr/l,. Perché il piede possa muoversi a velocità elevata sarebbe opportuno che l’olecrano fosse corto e l’avambraccio lungo. La stessa leva non può al tempo stesso intensificare tanto la forza che la velocità nello stesso muscolo.
474
Adattamento
strutturale
301 |)[ 302 | © 88-08-11832-0
Il problema di mettere a disposizione di un animale «sistemi-motore» tanto a basso che ad alto regime sarà discusso nel par. 326. (L’ottimizzazione di una struttura non dipende solo da fattori meccanici come questo, ma anche dai fattori fisiologici ad essi connessi.) A volte può far comodo valutare la velocità di un animale come un tutto. Può anche risultare utile conoscere la massima velocità di una parte del corpo (come potrebbe essere quella del centro di massa di un saltatore al momento di spiccare un salto) o la velocità in un determinato istante (come quella del piede di un corridore quando tocca il terreno), ma le parti degli animali in movimento di rado si muovono a velocità costante, per cui le velocità medie sono spesso poco utili. Sarà perciò necessario prendere in considerazione altre variabili. 302 Massa e accelerazione. Un oggetto permane in condizione di stasi o in moto uniforme a meno che non venga sottoposto all’azione di forze esterne. (È questa la Prima Legge di Newton.) Gli oggetti, di per sé, tendono a rimanere in quiete o a muoversi con velocità costante: questa tendenza viene chiamata inerzia. Non è esprimibile con numeri, ma la pratica sembra indicarci che gli oggetti pesanti risultano più inerti dei leggeri. In effetti, il fattore critico non è il peso, determinato dall’attrazione gravitazionale, ma la massa (m), che rappresenta la quantità di materia e resta immutata nello spazio siderale e sulla Terra. I vertebrati vivono sulla Terra ove la massa è rapportabile al peso, che è misurabile, e la differenza non riveste importanza pratica; comunque, ritengo preferibile servirsi del concetto di massa. La capacità di un oggetto che si muove in linea retta di vincere una resistenza è detta momento lineare (M) ed è uguale a mv. Il momento
si conserva:
quando un sistema perde momento un altro sistema ne guadagna del pari. Così, quando un uccello si posa su un posatoio, il momento perso dall’uccello viene acquisito dal posatoio che può mettersi a oscillare. La relazione tra massa (m) e forza (F) in quanto cambio di velocità nell’unità di tempo o accelerazione (a), è stata codificata nella Seconda Legge di
Newton ed è semplicemente F = ma, utilizzando le appropriate unità di misura. L’accelerazione viene espressa in centimetri al secondo per secondo o in unità equivalenti, ed è ovvio come leghi insieme velocità (v), tempo (t) e distanza (s).
Se un oggetto è in quiete quando su di lui si esercita una spinta, le relazioni basilari saranno che v = at, s = vt e Ft = mv; altre equazioni potranno derivare da queste per sostituzione. Se un oggetto è già in movimento quando su di lui sì esercita una spinta, le equazioni dovranno subire una qualche modifica. Derivazioni e interpretazioni potrete trovarle nei testi elementari di meccanica. Queste relazioni indicano che se un oggetto deve bruscamente accelerare o decelerare (per esempio, il corpo di un uccello all’involo o la lingua di un camaleonte in caccia) è opportuno che sia leggero in modo da evitare sforzi eccessivi; se un oggetto è pesante (come il corpo di un elefante) sarà necessario un tempo relativamente più lungo per raggiungere la velocità massima. Una più alta velocità viene conseguita quando una forza continua ad agire su un oggetto
per un tempo relativamente lungo (una delle ragioni delle lunghissime zampe posteriori delle rane e dei tarsi).
[302 ] [ 303
22. Meccanica
della postura e del movimento
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i
Queste formule e questi esempi sono riferibili solo a un moto rettilineo: dato che gli animali e le loro parti in movimento spesso operano per linee curve
sarà opportuno prendere in considerazione altri fattori.
303 | Movimenti curvilinei e rotatorii. Quando un tetrapode salta o distacca momentaneamente tutti e quattro i piedi dal terreno mentre corre, come pure quando un uccello richiude le ali in volo per un istante, il centro di massa (non considerando la resistenza del vento) tende a continuare il suo movimento alla
stessa velocità nella stessa direzione (secondo la Prima Legge di Newton), ma è al contempo accelerato in una direzione diversa dalla forza di gravità. Una componente del suo moto, la velocità di caduta, non è pertanto costante e così il movimento risultante non può essere rettilineo. In mancanza di supporti, il corpo saltante si muove nell’insieme, indipendentemente da qualsiasi movimento compiano le sue appendici, secondo una curva parabolica. Quando un animale in corsa cambia direzione di colpo, anche la sua velocità vettoriale cambia, pur se resta costante la sua velocità scalare. Vi è quindi una forza laterale o centrifuga, che lo porta verso l’esterno del suo percorso curvo, forza che deve essere controbilanciata da un’equivalente forza cen-
tripeta onde evitare uno slittamento. Questi sono esempi di moto curvilineo, particolarmente rilevabile nell’andatura a salti, nei cambi di direzione, nelle virate in volo e nelle picchiate,
di cui tratteremo ancora nei successivi capitoli. Non avendo ruote, i vertebrati utilizzano le loro parti mobili (zampe, pinne) sia per sostenersi che per muoversi. Queste parti potrebbero esser viste come settori di ruota che in continuazione cambiano verso di rotazione. E questo non sarebbe sufficiente, in quanto le appendici debbono essere di continuo accelerate e decelerate. Inoltre le parti oscillanti dovrebbero avere il vantaggio
della versatilità: la lunghezza funzionale e il periodo di oscillazione di un arto debbono subire continue modifiche per adattarsi alle ineguaglianze del terreno o alla sua pendenza. Le ruote che girano e le leve oscillanti di un animale in movimento ruotano attorno a un asse: ad esse è possibile applicare le regole dei moti rotatorii. Si immagini un arto esteso che debba velocemente ruotare al gomito o alla spalla nel corso della fase di supporto di un passo di corsa: la sua velocità angolare (0) è la frequenza di rotazione o giri compiuti nell’unità di tempo; la sua accelerazione angolare (a) è la frequenza di cambiamento nella velocità angolare; il suo momento d’inerzia (/), che corrisponde alla massa in movimento rettilineo, è un indice della resistenza dell’arto all’accelerazione. Questo movimento
d’inerzia è calcolabile come prodotto della massa per il quadrato di una costante (K), indicata come raggio di rotazione, il cui valore dipende dalla distribuzione delle masse nell’arto. Questo valore è maggiore per gli arti lunghi rispetto ai corti e maggiore per quelli che sono più pesanti distalmente rispetto a quelli che lo sono prossimalmente. Il momento di forza (M) dell’arto sarà /a. Il momento angolare (L) risulta uguale a / e come il momento lineare viene anch’esso
conservato. Ripiegando un arto, o la spina dorsale, o la coda in modo da concentrare la massa in prossimità dell’asse di rotazione verrà ridotto il valore di k e quindi di /. Dato che L non cambia, dovrà aumentare /w. I corridori auto-
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mobilisti e i ginnasti cercano di controllare la rotazione dei loro corpi in questa maniera: gatti, topi delle piramidi e gibboni fanno altrettanto. Applicare queste formule, o formule da queste derivate, all'analisi quantitativa dei movimenti effettivi di un animale è reso estremamente difficile da tutta una serie di complicazioni: i vari segmenti articolati del corpo di solito ruotano attorno ai loro propri assi nel tempo stesso che ruotano attorno a un asse comune. Ciascun segmento ha quindi i suoi propri valori per ciascuna variabile e i valori delle variabili, per i valori considerati nel loro insieme, cambiano di continuo. Per di più, uno stesso segmento può ruotare simultaneamente attorno a più assi (per esempio, esservi estensione con supinazione, oppure flessione con adduzione).
In genere, però, applicare le formule / = mk?, M = la e L = Jo rende più facile l’interpretare parecchi adattamenti morfologici. Si è già visto come massa e distribuzione della massa in una struttura oscillante siano fattori critici per il funzionamento della struttura, a meno che la parte abbia una piccola massa (zampe e mandibole di tetrapodi molto piccoli), o si muova con lentezza (le zampe di un poltrone), o debba contrapporsi a una resistenza esterna ben superiore alla resistenza che comporta la propria massa (le zampe anteriori di un mammifero scavatore). Quando una struttura oscillante si muove veloce deve avere la muscolatura che la muove, ovviamente piuttosto pesante, ben lontana
dal punto che si muove più velocemente (la parte distale di una zampa o di un’ala), e quindi meglio se può trasmettere a queste parti le forze attive con leve e tendini provenienti dalle parti in movimento relativamente più lento (spalla dell’antilope, petto degli uccelli). Le forze possono essere ridotte e le velocità angolari aumentate qualora le parti distali delle strutture oscillanti divengano più leggere e sottili. Gli animali molto grossi eliminano queste oscillazioni per quanto è possibile (per esempio, flessione ed estensione della spina dorsale).
Disegni in scala 304]
Nel risolvere i problemi di morfologia funzionale spesso risulta utile ri-
correre al disegno in scala. Si isola il sistema in studio, si localizza il suo cen-
tro di massa, si misurano tutte le forze esterne che agiscono sul sistema, poi si schematizza il sistema e si rappresentano con vettori tutte le forze (Figura 22.13). Vi potranno essere un massimo di sei forze esterne: una forza di traslazione in ciascuno dei piani ortogonali dello spazio (forza che tende a far spostare l’intero sistema come sola unità) e una forza di rotazione attorno a ciascun asse ortogonale dello spazio (forza che tende a far ruotare il sistema attorno al suo centro di massa). Quando il sistema è in quiete, la somma di tutte le forze
di rotazione deve essere zero. È questo un utilissimo mezzo di controllo per stabilire se tutte le forze sono state identificate e se qualcuna di esse è sopra- o sottostimata. L'unità meccanica isolata non deve essere necessariamente un intero animale, come per l'esempio in figura, ma può anche essere un arto o un segmento di arto, una mascella, un dente o altro complesso strutturale. È anche possibile (quando le variabili possono essere identificate e misurate) realizzare
304
22. Meccanica
della postura e del movimento
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FORZE DI TRASLAZIONE Verticale: A = 2 + 4
Orizzontale: 1 = 3
Laterali: non raffigurate — probabilmente piccole
FORZE DI ROTAZIONE Sull’asse laterale: Ba (in senso orario) = Cb (in senso antiorario) Secondo altri assi non raffigurati — probabilmente piccole
Figura 22.13. Disegno in scala e diagramma delle forze che agiscono su una scimmia in equilibrio. A, B e C sono le forze esterne che agiscono sull’animale; 1-4 sono le componenti di queste forze; a e b sono i bracci di leva delle forze che tendono a far ruotare il corpo attorno al suo centro di massa.
un disegno schematico in scala per un sistema in movimento a un certo istante
(come quello di un motociclista in curva). Però questo diagramma è un po’ più difficile da costruire.
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Figura 24.19. gravità).
Fattori coinvolti nella stabilità (CG = centro di
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ragrafi, debbono spesso muoversi secondo vie curve mentre corrono e ciò per un animale molto stabile presenta serie difficoltà. Ne consegue che la manovrabilità si ha spesso a discapito della stabilità: un agile corridore controlla attivamente le spinte laterali modificando la sua posizione più che affidarsi passivamente alle proporzioni corporee. Un mammifero galoppante che voglia improvvisamente cambiare direzione deve impostare il cambio sulla zampa anteriore interna, cioè il piede interno al giro deve arrivare sul terreno dopo quello a lui opposto in ciascuna doppia sequenza di passi. In questo modo la successiva pedata cadrà nella direzione verso cui intendeva girare e l’animale bilancerà su di essa il suo peso. La sfortunata antilope non riesce a sfuggire il ghepardo che la persegue compiendo degli scarti, dato che il ghepardo ne ricalca quasi le impronte.
Andatura 1330] Una sequenza regolarmente ripetuta di movimenti delle zampe nel camminare o nel correre è detta andatura. La scelta dell’andatura è condizionata dalla velocità di movimento,
dalla manovrabilità, dalla stabilità, dalle dimen-
sioni e dalla struttura corporea. Se la messa a terra dei piedi di due zampe, anteriori o posteriori, è regolarmente distanziata nel tempo, come nell’ambio, nella passeggiata, nel trotto, si dirà che l’andatura è simmetrica. Nell’andatura camminata ogni piede poggia sul terreno più della metà del tempo, nell’andatura saltata ogni piede poggia sul terreno meno della metà del tempo. Nell’ambio i due piedi dello stesso fianco si sollevano quasi contemporaneamente, il che impedisce che quello anteriore e quello posteriore si ostacolino a vicenda. I camelidi e alcuni canidi si muovono d’ambio quando la loro andatura è moderatamente veloce e alcuni cavalli da tiro vengono addestrati a gareggiare adottando questa andatura (Figura 24.20). Tutti i corridori d’ambio hanno le gambe lunghe; l’andatura potrebbe risultare instabile per animali a zampe
corte.
Al passo, le quattro pedate sono indipendenti; in molti tetrapodi, a parte i primati, un piede anteriore poggia al suolo subito dopo il piede posteriore dallo stesso lato (sequenza laterale), evitando
in tal modo
che piede anteriore
e piede posteriore interferiscano. La stessa andatura può essere mantenuta nella corsa, ma ciò è inconsueto, a parte alcuni cavalli da circo. Sono le andature con
messa a terra dei piedi indipendenti che assicurano la maggiore stabilità. Nel trotto, che come l’ambio viene adottato di solito dai mammiferi per
Figura 24.20. Esempi di andature simmetriche nei tetrapodi. Ogni profilo mette in ri-® salto la posizione del corpo nel momento in cui il piede posteriore sinistro tocca il terreno. Andando dall’alto verso il basso del foglio i due piedi anteriori ruotano in senso antiorario rispetto ai piedi posteriori. I diagrammi di andatura rappresentano con la lunghezza dei vari segmenti di retta la durata del contatto al suolo dei diversi piedi. Ogni diagramma si riferisce a un ciclo completo iniziando dal momento in cui il piede posteriore sinistro tocca il terreno.
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Correre
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Scala dei tempi RI
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Piede anteriore sinistro Piede posteriore sinistro Piede anteriore destro
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Piede posteriore destro
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Cavallo al passo lento
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PASSEGGIATA: SEQUENZA LATERALE DI UN PIEDE PER VOLTA
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Cavallo al passo
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Scimmia cappuccina
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Antilope cefalofo VELOCE SEQUENZA DIAGONALE DI CORSA
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spostamenti a moderata velocità, un piede anteriore e uno posteriore dai lati opposti del corpo si sollevano quasi nello stesso istante. I piedi che poggiano sul terreno e che sopportano il peso del corpo individuano un piano verticale che accoglie anche il centro di gravità del corpo, cosicché questa andatura risulta favorevole per gli animali con corpi larghi o, come le lucertole, con zampe divaricate sui fianchi. I primati, quasi tutti, e molti altri tetrapodi, si muovono con una sequenza diagonale: uno dei piedi anteriori si posa sul terreno subito dopo che vi si è poggiato il piede posteriore dell’altro lato del corpo. Il piede posteriore passa a lato del piede anteriore onde evitare interferenze. Alcuni lemuri e alcuni piccoli artiodattili hanno questa andatura quando corrono. Le andature al galoppo e a balzi sono dette asimmetriche dato che la messa a terra dei due piedi di uno stesso paio avviene a intervalli ineguali (Figura 24.21). Il piede di uno stesso paio che poggia per primo in ciascuna sequenza di doppio passo viene detto piede-guida. Se il carico è equamente ripartito tra avanti e dietro, l'andatura sarà quella di un galoppo trasverso (cavallo); se non è equamente ripartito, l'andatura, più manovriera ma meno stabile, sarà un galoppo ondulante (ghepardo). Le andature asimmetriche, a meno che non siano effettuate lentamente, portano a un allungamento del passo con l'inserimento di periodi di sospensione con tutti i piedi sollevati dal suolo. La sospensione può aversi con tutte e quattro le zampe raccolte sotto il ventre dell’animale (cavallo) oppure con arti anteriori e posteriori distesi (cervi): in alcuni
animali si verificano entrambe (ghepardo, antilocapra). Conigli, martore e molti altri mammiferi di analoghe dimensioni, poggiano alternativamente al suolo i due piedi anteriori mentre poggiano all’unisono i piedi posteriori. Questa andatura è detta a balzi o saltellante. Molti scoiattoli, topi e altri piccoli mammiferi poggiano insieme i piedi dello stesso paio di zampe, effettuando così un saltello. Molti artiodattili poggiano tutti e quattro i piedi all’unisono, realizzando una serie di rimbalzi. Nel balzo e nel rimbalzo ciascuno dei piedi posteriori deve cadere in avanti e lateralmente al suo corrispondente piede anteriore per evitare possibili interferenze: cioè, i piedi posteriori lasciano impronte più distanziate tra loro di quelle dei piedi anteriori.
Salti e corse bipedi 1331] Imammiferi saltatori sono in grado di effettuare partenze da fermi più veloci e di modificare velocità e direzione di moto più rapidamente dei loro affini quadrupedi. Queste capacità, importanti nello sfuggire ai predatori, comportano un prezzo che va a scapito dell’efficienza. Dato che il corpo deve essere ripetutamente sollevato (esercitando uno sforzo antigravitazionale), sarà neces-
saria molta energia. Raramente i saltatori mantengono a lungo una veloce pro-
gressione. L'altezza (h) a cui può saltare un animale bipede dipende solo dalla sua
velocità ascensionale (v); h = v?/2g, ove g è il coefficiente di gravità. Un gala-
gone di 250 g è stato visto saltare un ostacolo verticale di 2,26 m da accucciato: questa prodezza ha comportato l’elevazione per oltre 2 m del suo centro di gra-
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Scala dei tempi r
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Cavallo da corsa
GALOPPO VELOCE: UGUAL PESO AVANTI E DIETRO: SOSPENSIONE IN POSIZIONE RACCOLTA
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Cane da pastore
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GALOPPO MODERATO: DIVERSO PESO TRA AVANTI E DIETRO: SOSPENSIONE IN POSIZIONE RACCOLTA
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ANDATURA SALTELLANTE: PESO ESCLUSIVAMENTE SULLE ZAMPE ANTERIORI: SOSPENSIONE IN POSIZIONE ALLUNGATA
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ANDATURA A BALZI: | PIEDI SI MUOVONO TUTTI ALL'UNISONO
Figura 24.21. Esempi di andature asimmetriche nei mammiferi. Ogni profilo mette in evidenza la posizione del corpo nel momento in cui il piede posteriore sinistro (e piede-guida) tocca il terreno. Le indicazioni per il diagramma sono quelle della Figura 24.20.
vità ed è forse vicina al record del regno animale, anche se un ratto canguro, saltando fino a 2,4 m, ha fatto quasi altrettanto. Un atleta di salto in alto
prende la rincorsa per convertire la velocità di traslazione in velocità di elevazione e pur tuttavia sposta verso l’alto di poco più di 1 m il suo centro di gravità. La velocità di spinta necessaria a sollevare di 2 m il centro di gravità è di 625 m/sec, mentre è di 442 m/sec quella utile per 1 m. La lunghezza (L) di un salto dipende dalla velocità allo stacco e dall’an-
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golo di elevazione (©): L = (v° sen ©)/g. In teoria la massima distanza viene conseguita quando © = 45°, all’incirca l’angolo scelto da rane e galagoni nei loro salti in lungo. Il salto verticale del galagone, descritto prima, equivale a un salto in lungo da fermo di 4,5 m circa. Un atleta di salto in lungo corre veloce fino al segno di stacco e si stacca dal suolo con un angolo compreso fra i 25° e i 35°, non potendo cambiare la direzione di moto fino a 45° quando è al massimo della sua velocità. I ratti canguro e le lepri saltatrici africane di solito si staccano anch'essi dal terreno con un’angolazione inferiore ai 35°. L’accelerazione necessaria per acquisire la velocità di stacco è v?/2s, ove s è la distanza dal punto di applicazione della forza: questa, a sua volta, è la differenza nella lunghezza funzionale della zampa posteriore scattante fra la sua iniziale posizione flessa e quella finale distesa. Come mostrano le loro proporzioni, lunghi arti posteriori sono di gran vantaggio per i saltatori. La massa (m) del corpo non influisce direttamente sulle formule per l’altezza e la lunghezza del salto: però, la forza che deve essere esercitata sul terreno per accelerare il corpo alla velocità di stacco è pari a mv?/2s. Aumentando la massa aumenta all’incirca in proporzione la potenza di spinta, cosicché, entro certi limiti, animali di dimensioni diverse ma di uguali proporzioni possono conseguire risultati simili. Nondimeno, il corpo non può sopportare sforzi eccessivi, per cui raffrontando animali molto diversi per dimensioni, occorre prendere in considerazione complesse situazioni fisiologiche. Non è as-
: Coccigeo-femorale
Gluteo medio Tensore della fascia lata (con grande parte della fascia rimossa)
Vasto laterale
Adduttori
Bicipite femorale Semitendinoso
| Tibiale craniale
Gastrocnemio
Figura 24.22. Zampa posteriore destra di un roditore saltellante, lo scirtete cavallino Allactaga; in evidenza la muscolatura prossimale, gli allungati segmenti distali dell'arto, la riduzione delle dita laterali e alcuni dei principali muscoli superficiali (a sinistra) e profondi (a destra).
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solutamente possibile stabilire chi, tra locusta e canguro, sia miglior saltatore. 1332] L’allungamento relativo degli arti posteriori e dei loro segmenti distali è più spinto per i saltatori che non per i corridori (Figura 24.22). La tibia può essere una volta e mezza o anche due volte più lunga del femore (vedi il canguro, Figura 24.9). Molte ossa tarsali risultano altresì allungate (rane, tarsi-spettro, galagoni, vedi Figura 26.6). L’allungamento degli arti posteriori dei mammiferi saltatori è reso ancor più eclatante dal fatto che gli arti anteriori non sono modificati per andare veloci: sono di solito utilizzati nell’andatura lenta e per maneggiare il cibo, cosicché, pur non divenendo vestigiali, sono spesso di ridotte dimensioni. Alcuni bipedi che esercitano una spinta alternata sulle zampe, aumentano la lunghezza del passo per l'oscillazione della pelvi rispetto al lungo asse della colonna vertebrale e gli esseri umani ne sono un chiaro esemSpina della vertebra
ì
anticlinale non inclinata
Spine delle vertebre
lombari molto lunghe
Fusione di vertebre cervicali
ed inclinate in avanti
Vertebre lombari grandi, centri più larghi che spessi gione cervicale breve
Vertebre toraciche
Connessione ileo-sacrale ampia; sacro robusto
relativamente piccole, assottigliate, inclinate all'indietro
Coda lunga e pesante
a Figura 24.23. Alcune caratteristiche della colonna vertebrale di un mammifero saltellante, la lepre saltatrice africana, Pedetes.
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pio. I rettili bipedi condividono con i mammiferi saltatori la necessità di una lunga coda: questa viene rialzata durante la corsa in modo da controbilanciare la parte anteriore del corpo, spostando così il centro di gravità sulle zampe posteriori. Le lucertole bipedi non possono correre in quel modo se parte della coda viene loro amputata; i conigli non possono assumere un’andatura da saltatori con una coda così corta; l'assenza di una coda è in stretta correlazione
con l’andatura eretta dell’uomo. Molti mammiferi saltatori si servono della coda come di un elemento propulsivo, assicurandosi così anche un terzo punto d’appoggio mentre stanno ritti sulle zampe posteriori. Anche se, una volta che un saltatore si sia distaccato dal suolo, il centro di gravità debba muoversi lungo la predeterminata parabola fino al momento in cui il saltatore tocchi di nuovo terra, è possibile che un saltatore cambi l’orientamento del proprio corpo durante il salto con una sferzata della coda. Il ratto canguro è in grado di rigirarsi completamente mentre è in sospensione, pronto a tornare sui suoi passi con il balzo successivo. La coda termina spesso con un ciuffo di peli, cosicché, per il maggior peso distale e per la resistenza all’aria, si ha una maggiore efficienza nel controllo del salto. Una maggiore concentrazione di pesi verso la linea di spinta delle zampe posteriori viene realizzata anche accorciando in qualche modo la parte presacrale della spina dorsale, specialmente nelle rane e nei mammiferi. La regione lombare della spina dorsale dei mammiferi saltatori è robusta e ha ben sviluppate neurospine; la regione toracica è più debole e ha neurospine piccole. A questi rapporti va aggiunto il fatto che la vertebra anticlinale, di transizione tra quelle con neurospine volte all’indietro e quelle con neurospine volte in avanti, ha una collocazione relativamente anteriore (Figura 24.23). Le vertebre cervicali
dei roditori saltatori tendono a fondersi l’una nell’altra, apparentemente per ridurre le oscillazioni del capo. I roditori che saltano o saltellano hanno la tendenza a sviluppare due legamenti, in funzione di ammortizzatori d’urti, che limitano il movimento di frustata della spina dorsale: uno è costituito da un ventaglio di legamenti che sì portano in basso e in avanti dalla larga neurospina della seconda vertebra toracica alle vertebre cervicali, l’altro è un largo legamento sopraspinoso che unisce la neurospina volta in avanti dell’ultima vertebra lombare con la neurospina volta all'indietro della prima (o seconda) vertebra sacrale (Figura 24.23)
CAPITOLO
259
SCAVARE E STRISCIARE 333 | I vertebrati che passano la maggior parte, o tutta la vita, nel terreno vengono detti ipogei (= sotto + terra): molti di loro scavano gallerie e sono detti anche scavatori. Molti altri vertebrati si muovono invece sul terreno, ma dispongono di adattamenti speciali per estrarre dal terreno il loro cibo o trovare nel terreno un riparo: tutti loro, per questa abilità nello scavare, sono detti fossorii. Qualche vertebrato vive nei cunicoli scavati da altri animali e ve ne sono parecchi, fra i tetrapodi, che all’occasione scavano, pur senza disporre di specifici adattamenti strutturali: così le lucertole-alligatore si aprono un varco nel terriccio superficiale per nascondervisi, i tordi razzolano via le foglie cadute per mettere allo scoperto il cibo, i caribù raspano via la neve dai licheni di cui si nutrono e l’elefante gratta via il terreno con le zampe anteriori fino a raggiungere, scavando, la falda acquifera quando le risorse d’acqua in superficie sono all’asciutto. In questo capitolo metteremo l’accento sugli scavatori più specializzati. L’habitus fossorio si è forse evoluto in tutte le classi dei vertebrati, an-
che se non si sa molto sulle capacità di scavo di ostracodermi e placodermi. Adattamenti fossorii si sono evoluti indipendentemente in molti ordini di pesci e di mammiferi e più volte nello stesso ordine in parecchi ordini. La capacità di muoversi strisciando sul terreno è spesso correlata allo scavarsi una tana e ne tratteremo alla fine del capitolo.
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Adattamento strutturale
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Vantaggi del saper scavare 334]
I vertebrati fossorii dispongono di parecchi vantaggi: 1. Scavando
realizzano micro-habitat adatti al riposo, all’estivazione o
all’ibernazione. La tana è più fresca e più umida dell’aria del deserto (molti roditori del deserto sono attivi in superficie solo durante la notte e per il resto del tempo devono rintanarsi per rinfrescarsi), più calda del vento invernale (i tamia
striati che vivono in montagna congelerebbero se si addormentassero sulla neve) ed, entro certi limiti, al sicuro dagli incendi (molti piccoli tetrapodi sopravvivono al fuoco della foresta).
2. Molti scavatori, la maggioranza dei quali di piccola mole, trovano nel terreno il loro cibo, costituito da insetti del suolo e da larve di molti altri insetti, da lombrichi, da radici e da tuberi. Molti predatori scavano per nutrirsi
degli scavatori più piccoli.
3. Gli scavatori possono immagazzinare cibo nel sottosuolo ove è al sicuro dagli altri animali e può essere recuperato in un’altra stagione. Le lepri fischianti (o pica) e molti roditori di generi diversi fanno larghe scorte di semi e di erbe secche; le volpi artiche sotterrano carcasse di uccelli e uova.
4. Quasi tutti i vertebrati fossorii sfuggono ai predatori rifugiandosi nel sottosuolo. Molti di loro si allontanano appena dalle loro tane e vi si rifugiano al minimo accenno di pericolo. 5. Lo scavo consente nidi e covi protetti ove deporre uova e allevare i cuccioli. Molti vertebrati, dal toporagno pigmeo americano all’oritteropo con i suoi 60 kg, allevano la loro prole sottoterra.
Vertebrati
fossorii
335 | Agnati e Pesci. I corpi appiattiti e gli occhi dorsali dei cefalaspidi e degli antiarchi indicano come essi si alimentassero sul fondo. Forse praticavano una qualche forma di scavo alla ricerca del cibo o per sottrarsi alla vista. Razze e torpedini sono larghe e schiacciate: possono ricoprirsi del materiale di fondo, lasciando però liberi occhi e spiracoli. Le platesse e le passere di mare sono bilateralmente appiattite e poggiano con un fianco sul fondale; l’occhio del lato che finirà a contatto con il fondo migra sull’altro fianco durante lo sviluppo. Una leggera azione di affossamento si aggiunge spesso alla colorazione mimetica con il risultato di rendere questi pesci ben poco visibili. Tra i teleostei ad abitudini fossorie vi sono ghiozzi e pesci gatto, le tracine e molte anguil-
le. Ciclidi e centrarchidi scavano fossette nidamentali nel fondale. Le anguille simbranchiformi delle paludi asiatiche scavano nel fango profondi e ampi rifugi. I dipnoi scavano buche verticali nel fondolago per superare i periodi di secca. 336] Anfibi. Le cecilie (vedi Figura 4.2) si muovono serpeggiando entro il suolo e alcuni urodeli dalle zampe corte strisciano fra lettiera e terriccio. Altri
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25.
Scavare
e strisciare
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urodeli, e fra questi sono gli ambistomidi come la salamandra-tigre, hanno corporatura e zampe robuste che utilizzano per scavare. Gli anuri frequentemente frugano nella fanghiglia e molte specie sono in grado di scavare nel suolo vere e proprie buche servendosi delle zampe posteriori o, più raramente, delle zampe anteriori e della testa. 1337] Rettili. Molti serpenti sono fossorii. Le anfisbene e le lucertole apode (Figura 25.1) hanno assunto abitudini simili e strutture convergenti. Molti scincidi e altri lacertidi s’infossano nel terreno o vi si nascondono e i tuatara s’intanano sottoterra. Tutte le tartarughe seppelliscono le loro uova servendosi dei piedi posteriori come fossero vanghe; le testuggini hanno gli arti anteriori modificati così da risultare veri attrezzi di scavo.
338] Uccelli. Nessun uccello dispone di evidenti adattamenti allo scavo, ma le procellarie, le pulcinelle di mare, i pinguini, qualche strigiforme e molti altri uccelli nidificano in cavità della roccia o in cunicoli di cui si appropriano espropriando i mammiferi o che essi stessi scavano con becco e unghie. [339]
Monotremi e Marsupiali. L’ornitorinco e l’echidna sono efficaci scava-
tori; l’ornitorinco mette allo scoperto le sue unghie ripiegando le lamine interdigitali usate durante il nuoto. La talpa marsupiale è forse il mammifero meglio adattato alla vita sotterranea (Figura 25.2). Un paramele striato (o bandicoot) e
Collo assente
Corpo allungato e sottile
Cranio pressoché bloccato
Apertura della bocca stretta e protetta
BOA DI GOMMA, Charina
ANFISBENA BIPEDE, Bipes
Squame lisce
Testa
Occhio ridotto,
non carenate
cuneiforme
protetto sotto una squama
LUCERTOLA APODA, Anguis
LUCERTOLA VERME, Diplometopon
Figura 25.1. Tipici rettili che si muovono nel suolo, evidenzianti alcuni adattamenti alla vita fossoria.
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Adattamento
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strutturale
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Orecchio esterno quasi assente Corpo appiattito
FRINOSOMA CORONATO, Phrynosoma
CITELLO UNGHIUTO, Spermophilopsis
Labbra chiuse dietro
Piede largo BATIERGO, Cryptomys
SCALOPO ACQUATICO, Scalopus
Collo corto e forte
Occhio vestigiale Muso slargato
S
TALPA MARSUPIALE, Notoryctes
CRISOCLORIDE, Amblysomus
ARMADILLO GIGANTE, Priodontes
PANGOLINO, Manis
Figura 25.2. Altri esemplari di vertebrati scavatori e loro adattamenti.
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25. Scavare e strisciare
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così pure un vombato, il cui peso è quasi un terzo di quello dell’uomo, riescono a scavare gallerie lunghe anche 30 m. 340 | Insettivori. Le vere talpe (famiglia Talpidae), con una dozzina di generi diversi, sono scavatori veramente efficienti. Le talpe possono muoversi appena sotto la superficie del suolo nel terreno umido che loro preferiscono alla velocità di due volte la lunghezza del corpo ogni minuto e di 200 volte in un giorno. I crisocloridi (o talpe dorate), non imparentati con le talpe, sono fra gli scavatori ipogei più specializzati e raschiano via la terra con forti unghie. Il riccio, il tenrec e il toporagno comune scavano anch'essi cunicoli. 341) Sdentati, Pangolini e Oritteropo. Gli armadilli (nove diversi generi), i pangolini e l’oritteropo sono fra i più robusti raspatori nello scavare. I formichieri non
scavano
cunicoli, ma
sono
in grado di sventrare
un termitaio
o di
aprire il terreno per rifocillarsi di insetti. 1342] Carnivori.I sei diversi generi di tassi e la mellivora sono cuno tra loro scava anche per portar fuori dalle loro gallerie i si nutrono. Diversi canidi si scavano una tana o tirano fuori da ditori di cui si nutrono, pur non avendo specifici adattamenti scavare.
fossorii: qualroditori di cui sottoterra i rostrutturali per
343 | Conigli e Roditori. Le lepri fischianti e i conigli sono scavatori abbastanza efficaci. L'ordine Rodentia è il più ricco di specie scavatrici e qui ne verranno ricordate solo alcune. Il castoro di montagna, Aplodontia, scava nella sponda dei corsi d’acqua. Scoiattoli terricoli, marmotte e cani della prateria (tutti della famiglia Sciuridae) sono scavatori instancabili: molti di loro scavano
estesi sistemi di gallerie nel suolo duro. I geomidi (la famiglia è articolata in otto generi) sono roditori sotterranei del Nord America che scavano complessi cavernicoli di grandi proporzioni. Ratti canguro, dipi e lepri saltatrici sono tutti saltatori, pure si adoperano per scavare il loro rifugio giornaliero nel suolo sabbioso. I batiergidi africani scavano utilizzando i loro denti. Lo spalace ungherese (Spalacidae), i ratti del bambù e quelli delle radici (Rhizomidae) e, senza eccezioni, tutti gli ellobini (Muridae), scavano anch'essi con i denti. Il miospa-
lace o miotalpa asiatico (Cricetidae) possiede enormi unghie negli arti anteriori ed è uno scavatore abilissimo. Anche gli imparentati ratti toporagno (Blarinomys), topi coniglio (Reithrodon) e topi chinchilla (Eumeomys) e il non imparentato tuco-tuco (Ctenomyidae), tutti dell'America del Sud, grattano il terreno per scavare le loro gallerie. Un loro affine, il coruro (Octodontidae), probabilmente si serve dei denti. Per apprezzare meglio le prodezze degli animali fossorii immaginate una gara sportiva per stabilire chi, fra gli uomini, sia in grado di rimuovere per primo con le sole unghie 30 volte il suo peso corporeo di suolo compatto e poi, servendosi di mani e piedi, trasportare lo scavato a 10 m di distanza ammuc-
chiandolo, realizzando la piattaforma più alta possibile. Il piccolo tuco-tuco fa
ciò ogni giorno e non per una gara, ma come attività usuale; e tra l’altro alle
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343]
Adattamento strutturale
[344] [ 345 © 88-08-11832-0
olimpiadi degli animali, il tuco-tuco non riuscirebbe nemmeno ad entrare in finale, preceduto con distacco da geomidi, spalacidi e batiergidi.
Caratteristiche comuni agli scavatori 344] I vertebrati fossorii debbono poter rispondere con efficacia ad alcune condizioni: (1) ogni scavatore deve essere in grado di impedire che sabbia, polveri, terriccio entrino nella bocca, negli occhi, nelle orecchie, nelle vie respira-
torie, nella cloaca o nell’ano; (2) la maggior parte degli scavatori deve poter manovrare entro il terreno o comunque entro spazi ristretti; molti debbono trovare la loro strada, individuare ed evitare i predatori e per alcuni è anche essenziale localizzare il partner e proteggere la prole in condizioni di completa oscurità; (3) quanti non si limitano a scavare nella sabbia, nel materiale accumulatosi al suolo o nella fanghiglia hanno bisogno di strumenti per rompere e disgregare il suolo; (4) molti debbono esercitare sforzi considerevoli sul terreno, dato il loro modo di scavare; (5) molti debbono rafforzare le loro giunture nel-
l'intento di evitare l’iperestensione; (6) quanti scavano gallerie pervie debbono o compattare il suolo o trasportarlo via e accumularlo altrove; (7) il costo energetico dello scavare è molto alto e perciò gli scavatori migliori cercano di risparmiare energia e disperdere il calore (argomento di cui si tratterà in seguito, al Capitolo 29).
Modalità
diverse di scavo
345] Ivertebrati scavano in molti modi diversi. Un primo modo potrebbe essere chiamato «scavare per coprirsi»: l’animale si limita a ricoprire se stesso con la sabbia o con il fango. Non scava buchi né si sposta entro il substrato ed è difficile che scavi in profondità; l’animale può ricoprirsi per evitare le condizioni ambientali della superficie, ma di solito agisce così per attendere le prede (lasciando scoperti gli occhi protundenti) o per sfuggire o per evitare i predatori. Lo scavatore può infilarsi nella sabbia o nella fanghiglia (alcuni pesci e anuri), può far vibrare il proprio corpo per quei pochi secondi che servono a farlo immergere nella sabbia (alcune lucertole del deserto), può correre o nuo-
tare velocemente e poi tuffarsi nella sabbia (molte lucertole, diversi pesci) oppure esercitare alternativamente con i fianchi una pressione sul terreno creando così una fossa nella quale si sistema (molti serpenti). Molti di questi animali hanno corpo appiattito e organi di senso più o meno modificati: per lo più i loro adattamenti sono comportamentali e gli scavatori per ricopertura non vengo-
no di solito detti fossorii. Un secondo modo, utilizzato da anguille sinbranchiformi, da cecilie, da
alcune salamandre, da amfisbene, da lucertole apode o a zampe molto corte, da serpenti scavatori, verrà qui individuato come «insinuarsi nel suolo» (Figura 25.1). L'animale si muove
entro il suolo che di solito è soffice e sabbioso ma
può anche essere abbastanza compatto. Talvolta il terreno si chiude dietro l’a-
nimale senza che la galleria permanga, ma il suolo può essere compattato man-
345
25.
Scavare
e strisciare
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tenendo pervio il cunicolo. È necessaria una forte specializzazione: il corpo è allungato e sottile, il che riduce la quantità di suolo da spostare; le zampe sono ridotte o mancano del tutto; la testa è abbastanza fissa e viene utilizzata di solito come strumento di scavo. Un altro metodo è quello di «scavare grattando»: flettendo ed estendendo alternativamente le sue zampe, come fa un cane che abbia un osso da interrare, l’animale rompe e disgrega il suolo con le sue unghie, spingendolo o gettandolo all’indietro. Qualche tartaruga, qualche uccello, armadilli, pangolini, carnivori, scoiattoli di terra e molti altri mammiferi scavano a questo modo. Così vengono scavate tane, covi e gallerie, a volte anche nel terreno duro. Un quarto metodo, «scavare con denti a scalpello», è utilizzato da geo-
midi, spalacidi e molti altri roditori. Enormi incisivi, mascelle potenti e forti muscoli del collo sono utilizzati per rimuovere il suolo, poi allontanato servendosi della testa o dei piedi. Può venir scavato un suolo duro, ma di solito viene preferito un suolo un po’ umido o comunque più lavorabile. Un quinto metodo è quello di «scavare con una rotazione omerale»; il metodo è ben esemplificato nell’azione di una talpa. Una talpa messa sul terreno umido, che essa preferisce, riesce ad affondarvisi scomparendo
alla vista
in meno di sei secondi. Queste macchine scavatrici sotterranee hanno i piedi anteriori allargati a pala e le zampe posteriori corte e potenti. Non vi è pronazione né supinazione dell’arto anteriore e (in contrasto netto con chi scava grattando) il movimento del gomito porta solo a posizionare il braccio senza fornire alcuna forza al movimento. Il gomito viene portato più alto della spalla e la spinta nello scavo viene dalla rotazione dell’omero eccezionalmente corto ma robusto e largo, attorno al proprio asse lungo (Figura 25.3). Questo movimento, nelle talpe, è attuato dal relativamente enorme muscolo grande rotondo. L’echidna tiene il suo largo omero orizzontale al terreno e fa ruotare l’osso attorno al suo asse lungo quando cammina: è probabile che questi forti animali siano anche scavatori con rotazione omerale. I crisocloridi e molti roditori effettuano lo «scavo con la testa» per realizzare bassi cunicoli e compattare il suolo friabile. Alcuni di loro sono in grado di sollevare con la spinta della testa da 15 a 20 volte il loro peso: i muscoli del collo e gli estensori delle braccia sono molto potenti. «Scavare agganciando e tirando» è il modo dei formichieri. Essi inseriscono una grossa unghia in una
Asse di rotazione
/
/S Perimetro del corpo
Clavicola Sterno
Figura 25.3. Meccanismo di scavo per rotazione dell’omero, visto dal davanti, di un talpide, Scapanus.
522
Adattamento
strutturale
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crepa di un termitaio o di un formicaio, l’agganciano e tirano via tutto. Flessori e supinatori del braccio sono ingrossati.
Vi sono molti vertebrati che scavano servendosi di più metodi: molti roditori sono sia grattatori che scavatori coi denti, molti rettili o grattano con le robuste zampe anteriori oppure le ripiegano e usano il metodo di insinuarsi nel suolo. Molti scavatori non rientrano in pieno in queste categorie (per esempio
i dipnoi si infilano nel fango utilizzando tanto il corpo che le pinne, il pesce Opisthognathus aurifrons sposta e dispone le pietre con le sue potenti mascelle, il giovane coccodrillo stacca a morsi zolle di argilla dalla sponda fangosa). Alcuni vertebrati divengono ospiti non invitati di molte gallerie (utilizzate e non) scavate dai loro cugini più capaci, limitandosi per loro conto ad effettuare piccole modifiche e una qualche pulizia.
Tenere la polvere lontana da bocca, polmoni e organi di senso 1346)
I grossi scavatori (vombato, oritteropo, tasso) riescono senza troppa dif-
ficoltà ad evitare che la polvere entri loro in bocca, o almeno che vi entri il più tardi possibile. Anfibi, rettili e insettivori fossorii hanno tutti uno stretto controllo della chiusura della loro bocca: i margini di una delle due mascelle a volte hanno una gronda in cui s’inserisce l’altra. La mascella inferiore di alcuni rettili scavatori è arretrata rispetto alla superiore. Le labbra impellicciate degli scavatori con denti a scalpello si chiudono dietro i protundenti incisivi, così che l’animale può evitare che la terra gli entri in bocca mentre sta scavando con i denti. I vertebrati diurni che scavano per farsi una tana, per allevarvi la prole o ibernarvisi continuando il loro foraggiamento in superficie, hanno occhi di dimensioni normali (tartarughe, ricci, cani della prateria, canidi). I roditori notturni che si rifugiano sottoterra per sfuggire al calore del giorno hanno grandi occhi (ratti canguro, topi saltatori). Si ritiene che questi animali socchiudano gli occhi quando scavano: non è da escludere che alcuni fra loro siano provvisti di meccanismi per nettarsi gli occhi. I serpenti e anche alcune lucertole hanno palpebre fuse insieme ma trasparenti. Parecchi generi di serpenti scavatori hanno dei «cornetti» che si innalzano avanti ai loro occhi e che si ritiene forniscano loro una qualche protezione. I veri specialisti hanno occhi piccoli o piccolissimi (monotremi, armadilli, pangolini, geomidi, batiergidi africani, ratti delle radici e tuco-tuco), a volte vestigiali, ma in grado di distinguere la luce
dal buio pur non formando immagini, se non addirittura ricoperti dalla pelle (cecilie, anfisbene, talpe marsupiali, talpe, crisocloridi, spalaci ungheresi).
Molti anfibi e rettili scavatori non hanno un condotto uditivo esterno e, se vi è un timpano, questo è spesso. La ricezione dei suoni è spesso mediata
da un qualche speciale meccanismo coinvolgente o la pelle o la mandibola o qualche altra struttura. Il dotto uditivo esterno dei mammiferi scavatori tende ad essere piccolo, né è da escludere che alcuni scavatori possano anche chiudere il condotto. Le aperture esterne delle narici sono anch'esse piccole negli scavatori;
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25. Scavare e strisciare
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j
nei rettili il tratto più vicino all’esterno della via olfattiva è stretto e piega subito verso l’alto. Una zona umida intorno alle narici favorisce l’adesione della sabbia prevenendo l’inalazione di singoli granelli. Le aperture possono chiudersi o almeno restringersi per l’azione di valvole o di tessuto erettile e a volte sono ricoperte da una piega della pelle. L’armadillo è capace di interrompere gli atti respiratorii per 3-4 minuti mentre scava con buona lena fra polvere e sabbia. Alcuni topiragno hanno speciali diverticoli polmonari, efficaci nel bloccare e rimuovere materiali estranei.
Manovrare
sottoterra
347 | Le manovre nell’ambito ristretto di un cunicolo sono rese agevoli in molti modi: alcuni anfibi, alcuni rettili fossorii, tutti i mammiferi fossorii hanno le zampe corte; la spina dorsale è relativamente rigida nei serpenti scavatori, mentre è flessibile nei mammiferi fossorii; vi è chi è capace di rigirarsi completamente avvoltolandosi a palla per poi muoversi in un’altra direzione; molti vertebrati fossorii hanno una pelle così lassa che l’animale può quasi rigirarsi in essa, lasciando poi che la pelle lo segua; tutti gli scavatori di gallerie sono in grado di esercitare una controspinta di sostegno. Fra gli scavatori ve ne sono alcuni che hanno particolari ragioni per una lunga coda: le specie saltatrici l’utilizzano per bilanciarsi, il pangolino la utilizza come strumento di aggancio nelle sue arrampicate e molti se ne servono come propulsore mentre scavano. Per lo più i processi evolutivi sembra abbiano considerato la coda un elemento di disturbo per una vita sotterranea, per cui di solito la coda è corta, anche nei serpenti fossorii e negli altri scavatori apodi (con qualche eccezione fra anfisbene e lucertole). I vertebrati sotterranei di più piccola mole (cecilie, crisocloridi, spalacidi ecc.) il più delle volte non hanno coda o questa è molto piccola. Ben poco si sa su come questi animali ipogei riescano a trovare la loro
strada nella più assoluta oscurità di un sistema di gallerie. Un innato senso direzionale e la memorizzazione di un’accurata mappa dell’immediato circondario della loro dimora sono stati evidenziati in molti scavatori. Ciuffi di peli sensorii sono comuni sulla testa e possono anche presentarsi sui bordi dei piedi, sulla coda o altrove. Molti scavatori sono particolarmente sensibili ai suoni di bassa frequenza che possono recepire attraverso il terreno.
Strumenti
di scavo
348] Quando una persona ammucchia della sabbia asciutta o delle foglie secche deve spendere energia per trasportare il materiale, ma teoricamente ben poca per frantumarlo o disperderlo. Lo stesso vale per quegli scavatori che limitano il loro habitat alla sabbia o al terriccio sciolti: ne consegue, quindi, che possono essere anche del tutto privi di strumenti per rompere un suolo compatto.
Quando vogliamo rimuovere del terreno molle dobbiamo prima romper-
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Adattamento
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strutturale
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lo, ma ciò non presenta grosse difficoltà: basta disporre di una grossa pala. Per questo, le talpe limitano le loro attività a terreni abbastanza soffici: esse compattano, rompono e asportano il terreno facendo su di esso pressione e graffiandolo con le loro unghie. Anche qui è una «grossa pala» che serve: le talpe hanno unghie grosse e piedi anteriori molto larghi (Figure 25.3 e 25.9). In modo simile le anfisbene scavano infilando a forza la testa cuneiforme nel terreno e poi (a seconda delle specie) rialzando il capo compattano il suolo nella parete della galleria. Chi scava in un terreno secco e compatto deve spendere molta energia nel rompere il suolo prima di poterlo rimuovere. La pala non penetra nel terreno franco, cosicché è necessario intervenire con un piccone per romperlo. L'efficacia del piccone è conseguenza del fatto di liberare tutta la forza impressagli su una piccola area, cioè una forte pressione viene esercitata su una zona ristretta. Fra i vertebrati gli scavatori con i denti a scalpello o con forti unghie si tengono lontani da terreni rocciosi o comunque inattaccabili, pur scavando gallerie in terreni decisamente duri. Mordono il terreno con i loro incisivi o lo grattano con le loro unghie, e così facendo applicano una notevole pressione su un’area ridotta prima di attaccare un altro punto. La lama deve essere lunga e forte per conseguire lo scopo. Il tasso argentato (Taxidea taxus) ha cinque unghie, la più lunga delle quali è quasi la metà del braccio, dal gomito al polso. Il castoro di montagna (Aplodontia), il tuco-tuco (Ctenomys), i gopher delle saccocce (Geomys) e i citelli (Citellus) hanno 3-4 unghie molto sviluppate, la più lunga delle quali può arrivare ad essere (in alcuni gopher) quasi tre quarti di un braccio. I formichieri, le talpe marsupiali e le talpe crisocloridi hanno 1-2 unghie molto sviluppate, la più lunga delle quali può essere (in alcune crisocloridi) anche più lunga del braccio (Figura 25.7). Le «pale» delle talpe possono esercitare una pressione maggiore, tenuto conto delle diverse dimensioni corporee, delle «vanghe» dei citelli, ma questi ultimi esercitano su suoli ben più dure pressioni, più che doppie, di quanto non facciano le talpe. Gli strumenti degli scavatori sono soggetti a un fortissimo consumo. I rettili fossorii compensano questo fatto mutando la pelle molte volte, cosicché
superfici rinnovate siano esposte al contatto abrasivo. Gli incisivi superiori di alcuni
geomidi
crescono
alla velocità
di 248
mm/anno;
gli incisivi
inferiori,
soggetti a più ampie manovre dato che la mandibola si sposta entro una gronda liscia, possono
crescere alla velocità di 445 mm/anno.
Queste velocità di cre-
scita sono da 2,5 a 3 volte superiori a quelle di roditori non fossorii di dimensioni analoghe. L’unghia mediana dell’arto anteriore di un gopher cresce di 90 mm/anno e quella di un tuco-tuco di 72 mm/anno. Gli incisivi dei roditori e del vombato hanno lo smalto solo sulla superficie anteriore. La dentina, più morbida, si consuma di più sul retro e questo
fatto determina l’autoaffilamento della superficie di taglio. Il rospo dalla vanga (Scaphiophus) scava con uno strumento un po’ di-
verso: possiede un tubercolo epidermico corneo sul bordo esterno del piede posteriore che utilizza infilandosi a marcia indietro nel terreno smosso (Figura 25.4). La talpa marsupiale, le talpe crisocloridi e molti roditori hanno nasi callosi di cui si servono per aprire e smuovere il terreno, mentre molti altri scavatori si servono della parte alta della larga testa (Figura 25.10).
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25.
Scavare
e strisciare
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Figura 25.4. Piede del rospo dalla vanga, Scaphiopus, con il suo tubercolo per scavare.
Base programmatica di un grande sforzo rivolto all’esterno 349] I vertebrati fossorii che scavano nel suolo grado di applicare una notevole forza sul substrato. corridori e degli arrampicatori, sono conformati in stemi osso-muscolo (in particolare quelli dell’arto
compatto debbono essere in Per questo, a differenza dei modo che i loro notevoli sianteriore) producano grandi sforzi verso l’esterno (F,). Nel Capitolo 22 si è detto che F, = F;l;/ l,, ove F; in-
dica la forza rivolta verso l’interno (del corpo), mentre 1; ed |, sono, rispettivamente, i bracci di leva verso l’interno e verso l’esterno. Risulta evidente, allora, che un modo per aumentare F, è quello di ri-
durre l,: ne consegue che i più efficienti scavatori hanno tutti zampe e collo corti. In forte contrasto con quelli dei corridori, gli arti degli scavatori hanno le ossa distali relativamente corte: il radio è quasi sempre più corto dell’omero e la mano,
non considerando
la falange terminale con la sua unghia, è decisa-
mente più corta del radio. Pur risultando forti, i metacarpali possono essere anche cortissimi (tartarughe, echidna, talpe) (Figura 25.5) e le falangi prossimali
possono risultare anche più larghe che lunghe (echidna, pangolini, formichieri, talpe). Un diverso modo di incrementare la forza verso l’interno è quello di accrescere il braccio di leva rivolto all’interno: è così che i muscoli impegnati nell’azione di scavo tendono a inserirsi piuttosto lontano dall’articolazione che muovono. L’inserzione nei mammiferi dei loro muscoli deltoidi di solito arriva oltre la metà dell’omero (lontano dall’articolazione della spalla che fa ruotare)
(Figura 25.6). Una parte del muscolo grande dorsale delle talpe crisocloridi allunga il suo braccio di leva interno della giuntura della spalla spostando la sua inserzione dalla parte prossimale dell’omero (sua usuale posizione) fin quasi all’articolazione del gomito (Figura 25.7). L'ampio epicondilo mediano dell’ome-
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Adattamento
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strutturale
algo
E
“=
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Unghie lunghe, forti
Falangi corte
Ossa sesamoidi
sotto le falangi distali
Carpo e metacarpo corti Ì
icondilo Dal grande epico mediano prendono
origine i muscoli pronatori e flessori
Figura 25.5. Alcuni adattamenti per scavare, messi in risalto dalla visione dorsolaterale dello scheletro dell'arto anteriore sinistro di una tartaruga, Gopherus (sopra), e dell’echidna, Tachyglossus (sotto).
ro, che è una caratteristica di tutti gli scavatori con le unghie, allunga il braccio interno di leva del muscolo pronatore deil’avambraccio. Un’origine relativamente prossimale sull’omero del lungo muscolo supinatore allunga il suo braccio di leva interno e lo mette in grado di flettere la mano come pure di abbassare l’avambraccio (Figura 25.8). Un osso pisiforme del carpo relativamente lungo allunga la leva di uno dei flessori della mano. Cruciale per lo speciale meccanismo della rotazione omerale delle talpe quando scavano è un larghissimo vistoso tubercolo per l'inserzione sull’omero dell'enorme muscolo grande rotondo. Questo fatto porta l'inserzione lontano dall’asse lungo centrale dell’osso e quindi allunga il braccio di leva interno rendendo possibile una poderosa rotazione dell'omero sul proprio asse lungo (Figura 25.9). Questi adattamenti degli scavatori risaltano in modo particolare quando si esprimono le lunghezze del braccio di leva interno come frazioni dei relativi
bracci di leva esterni. Nel misurare tipici scheletri di esperti scavatori appartenenti a 27 generi ripartiti fra sette diversi ordini di mammiferi ho trovato la prominenza olecranica (il braccio di leva interno del tricipite) pari a circa 1/5 (in
Figura 25.6. Alcuni adattamenti di chi scava raspando, rilevabili da una visione late-> rale nello scheletro dell'arto anteriore.
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25.
Scavare
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Il lungo raggio di curvatura
Il blocco osseo impedisce
rafforza l'articolazione
l'iperestensione
Visione laterale e dorsale del terzo dito
Rilievi e gronda rafforzano la giunzione
\ 4N el
Dal grande epicondilo laterale prendono origine d igi supinatore inat ed estensori
Carpali, metacarpali e falangi, corti
PANGOLINO, Manis
Dall’acromion prendono origine i deltoidi
pt yj
Tutte le€ ossa sono pesanti,
forti,
Ser
dure
L'estensione dell'angolo posteriore della scapola allunga il braccio di leva del muscolo grande rotondo
x Il radio corto comporta la riduzione del braccio di leva esterno del muscolo tricipite
(GU) 0 Ve
DES
SES ay Di
Il lungo processo olecranico
costituisce il braccio di leva interno del muscolo tricipite
Grande osso sesamoide fra i tendini dei muscoli flessori ARMADILLO, Dasypus Inserzione del pettorale, lunga
Inserzione dei deltoidi
Unghie grandi e forti per rompere il terreno
Il lungo osso pisiforme è il braccio di leva dei muscoli flessori carpali
TASSO ARGENTATO, Taxidea
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Adattamento strutturale
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Processo olecranico molto allungato
L'epicondilo mediano molto
Carpali e metacarpali brevi, falangi soppresse
allungato dà origine ai pronatori e ai flessori del carpo Una bacchetta ossea con
legamenti tendinei alle due estremità riunisce la flessione del polso con quella del gomito
Muscolo grande dorsale molto ampio ed inserito sull'omero È molto distante
Parte del muscolo romboide Deltoide Acromion
._ Tricipite massiccio Trapezio
M. levatore della scapola
Occhio rudimentale
coperto dalla pelle
Muscoli sternomastoideo e cleidomastoideo
N
M
|
Processo
UScolo
olecranico
pettorale
Clavicola
S®
ù
Estensori
SS È );
Unghia del terzo dito enorme, simile ad una lama
Ù
Figura 25.7. Strutture associate allo scavo nella talpa crisocloride, Amblysomus.
un citello), 1/3 (in un gopher, in uno spalace africano), 1/2 (nell’oritteropo, nel pangolino, nella talpa), 2/3 (nello spalace ungherese, negli armadilli) e perfino
3/4 (nella talpa marsupiale, nelle talpe crisocloridi) la lunghezza dell’ulna distale al perno dell’articolazione del gomito (Figura 27.5). Uno studio più com-
pleto mostrerebbe senza dubbio che gli scavatori differiscono dai loro affini non-fossorii per avere più alti valori del rapporto 1;/1, per ogni sistema osso-muscolo impegnato nell’azione di scavo.
Una terza maniera di aumentare lo sforzo diretto all’esterno è quella di accentuare anche la potenza di sforzo diretta verso l’interno. I muscoli più im-
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25.
Scavare
e strisciare
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© 88-08-11832-0 M. romboide (tagliato)
M. sottoscapolare
M. deltoide, potente
M. grande rotondo, si inserisce lontano dall’articolazione
della spalla M. supinatore, piuttosto lungo, origina lontano dal gomito e si divide determinando così tanto supinazione che flessione
M. bicipite
Na
M. dentato __—_—_ (tagliato)
M. grande dorsale, ampio, si inserisce con il m. grande rotondo ed il m. pettorale (non rappresentati)
Sb LEELO
._
L’epicondilo si porta in fuori
Il m. pronatore si
così il braccio di leva del
lontano sul radio
medialmente, allungando
inserisce molto
Mm. flessori carpali
e digitali molto
potenti
m. pronatore e dei mm. flessori carpali
Figura 25.8. Struttura dì scavo del formichiere gigante, Myrmecophaga, in visione mediale dell’arto anteriore sinistro. (Disegnata basandosi su una dissezione essiccata e pertanto un po’ raggrinzita. M = muscolo.)
pegnati nello scavo sono spesso enormi e, per dare spazio a questi muscoli, origini e inserzioni sono grandi. Questi fatti, e le proporzioni, rendono le ossa degli arti anteriori degli scavatori scabre e dure. L’epicondilo mediano dell’omero (origine di flessori delle dita) e la cresta deltoidea (inserzione dei deltoidi) sono
molto prominenti. L'angolo posteriore della scapola può risultare slargato per dar spazio alle origini del muscolo grande rotondo e della testa lunga del muscolo tricipite. Il segmento anteriore dello sterno nelle talpe e nelle talpe crisocloridi è lungo e corposo per ricevere adeguatamente gli attacchi dei loro larghi muscoli pettorali (Figura 25.9). Quanti scavano con i denti hanno larghe aree d’inserzione e di origine per i loro poderosi muscoli mascellari; quanti comprimono il terriccio con la testa hanno una grande area occipitale piatta per l'inserzione dei forti muscoli del collo (Figura 25.10).
Vi è anche un altro fattore nel piano progettuale per la realizzazione di grandi sforzi verso l’esterno: quando cominciano a scavare una nuova galleria, alcuni degli animali che strisciano sottoterra arrotolano il corpo sopra la testa sovraccaricandola in modo che si infili nel terreno. I grossi scavatori con le unghie arcuano il dorso posteriore fin sopra gli arti inferiori e possono anche darsi una spinta con la coda, applicando così il peso del corpo ai loro strumenti di scavo. Gli scavatori sotterranei, però, sono di solito piccoli e di conseguenza
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Adattamento
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strutturale
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Tendine
M. grande
del m. bicipite
dorsale
entro un canale ù
M. grande rotondo
una
TTZWES
9
gronda
M. bicipite
Braccio di leva del m. grande rotondo
a)
7a Manubrio dello sterno
Origine del m. grande rotondo
M. flessore profondo, legamentoso
Clavicola
Inserzione
Processo olecranico
del m. grande rotondo
«(77777
i Origine del m. flessore profondo
Il manubrio carenato
è punto d'origine del m. pettorale
Gronda e canale per il tendine del
ì
muscolo bicipite
È
Un osso sesamoide allarga la pianta del piede
M. trapezio
M. grande dorsale
M. grande rotondo, molto ampio
Parti del m. romboide M. sternomastoideo Occhio, rudimentale
Po e ricoperto dalla pelle
a
M. pettorale posteriore
su un tendine del
m. grande rotondo
Figura 25.9.
—
INN
Inserzione del m. grande dorsale
Mm. flessori M. bicipite
n l'io
W
== N
Setole rigide allargano la zona plantare
Struttura di scavo per rotazione dell’omero nelle talpe. Sopra, in visione
ventrale; al centro e sotto, in visione laterale. Sopra e al centro, la talpa americana, Sca-
panus; sotto, la talpa euroasiatica, Talpa.
350
25.
Scavare
e strisciare
531
© 88-08-11832-0 Occhio ed orecchio nascosti sotto il pelo
fé
ì
Incisivi forti a crescita continua
Frangia di setole rigide che funzionalmente allarga la testa
Cranio scabro, muso compatto e forte
Naso grande e duro
Un occipitale largo e
inclinato è osso di inserzione per i forti muscoli del collo Unghie non slargate, come _-__-T invece le hanno quelli che con le unghie scavano
Figura 25.10. Alcuni adattamenti di chi scava con i denti spalando via il terriccio con la testa, lo spalace ungherese, Spalax.
leggeri. (Possono perciò dissipare calore con relativa facilità, nutrirsi con ciò che trovano nel terreno, rimanere a una certa profondità nel terreno stesso, evi-
tare elementi rocciosi e grosse radici.) Per evitare frane del terreno scavato, a parte la semplice rimozione all’esterno, debbono forzare i loro corpi sui loro strumenti di scavo. Gli scavatori con rotazione dell’omero si puntellano su un lato della galleria con una zampa anteriore mentre scavano con l’altra. Perché questa manovra sia attuabile, gli arti anteriori hanno una collocazione decisamente laterale, l’uno opposto all’altro. Un uomo che faccia il sollevatore di pesi può alzare sopra la testa un peso circa il doppio del proprio peso corporeo: è stato calcolato che con le sue spinte una talpa può spostare un peso pari a 32 volte il suo peso corporeo. Se un’anfisbena spinge con la testa in avanti, al contempo spinge con il «tronco» all’indietro; quando chi scava con i denti fa forza con i suoi incisivi inferiori al contempo spinge in basso con i suoi piedi anteriori. Anche i piccoli scavatori di cunicoli si fanno forza con le zampe posteriori. I rospi xenopodidi possono in modo sincrono allungarsi indietro all’altezza dell’articolazione sacro-iliaca e così facendo forzano la testa a penetrare in avanti nel fango. In risposta all’uso delle zampe posteriori per puntellarsi, le ossa innominate dei mammiferi tendono quasi a disporsi orizzontalmente (in linea con la spinta in avanti). L'articolazione dell’anca è piuttosto spostata verso il dorso per arrivare
532
Adattamento
strutturale
[350 ]
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ad essere quasi in linea con la spina dorsale: ciò riduce le forze di compressione sulla sinfisi pubica, che è per lo più debole se non addirittura del tutto as-
sente (talpe, formichieri, pangolini, qualche geomide) (Figura 25.11). Le ossa
innominate sono saldamente suturate, o fuse, con un numero relativamente alto
di vertebre e il sacro è lungo.
Ossa innominate disposte parallelamente al sacro e fuse con esso
vari
Acetabolo quasi sullo stesso
L'acetabolo è in
piano della spina dorsale
prospezione laterale
Ischio fuso al sacro
Non vi è sinfisi pubica
GOPHER DALLE SACCOCCE
SCAPANO (TALPIDE)
Thomomys (femmina)
Scapanus
Ileo fuso con il sacro
Molte vertebre sacrali
Sinfisi
L'ischio si articola con il sacro
pelvica cbaie
FORMICHIERE Tamandua
Figura 25.11.
PANGOLINO Manis
Alcune caratteristiche della pelvi di mammiferi fossorii. Visioni ventrali,
in alto; visioni dorsali, in basso.
95
I52
25.
Scavare
e strisciare
533
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Contromisure alle azioni del suolo sul corpo 351] Gli animali che si muovono nel suolo riducono o si oppongono alle azioni del suolo sul corpo in molti modi diversi. La pelle dei pesci che s’insinuano nella sabbia del fondale è particolarmente ricca di ghiandole mucose. Le scaglie sono assenti (molti pesci, anfibi) o, se presenti, lisce e piatte (rettili), per ridurre l’attrito del suolo sul corpo. Nei serpenti uropeltidi che si muovono entro il terreno bagnato l’attrito viene limitatamente ridotto da creste microscopiche che interrompono il velo liquido sul corpo. La testa è corta e stretta. Il cranio è relativamente solido: molte suture vengono completamente obliterate e altre immobilizzate. Non vi è né collo né spalle. La riduzione o la perdita delle zampe è di per se stessa un adattamento importante allo scivolare. Per spostare quanto meno terreno possibile, il tronco diviene lungo e sottile, in altre parole, serpentino. Le comuni lucertole hanno circa 23 vertebre presacrali mentre le lucertole fossorie ne possono avere 60 e le anfisbene hanno oltre cento vertebre presacrali. Cecilie e serpenti possono averne 250 e più. Costole cervi-
cali e lombari sono comuni. I vertebrati che si spostano in stretti budelli devono evitare le sporgenze e lo scorticarsi contro le pareti del cunicolo. Gli scavatori sotterranei hanno orecchie piccole o non ne hanno affatto. Il pelo è sciolto, spesso corto e il più delle volte dritto così da potersi piegare in ogni direzione. Alcuni mammiferi ripuliscono il loro pelo leccandosi come fanno i cani, altri si spazzolano via fango e terriccio con le zampe.
In qualche modo occorre evitare slogature e lussazioni delle giunture dell’arto anteriore e della mano quando un dito si incastra fra le pietre o in una grossa radice. La lussazione delle falangi negli echidna, nei pangolini e nei formichieri viene prevenuta dalle superfici quadre articolari o da conformazioni ossee che limitano la rotazione delle giunture (Figura 25.6). La slogatura delle dita viene prevenuta nei pangolini e nei formichieri da ampie aree di contatto fra le ossa alle giunture e da profondi incastri, come quelli delle falangi degli ungulati. Una qualche protezione da questi inconvenienti la danno anche la pesantezza e la solidità dell’intera struttura, e a volte anche la compattezza delle palme (tartarughe, echidna, talpe). Sono stati descritti anche dei legamenti che limiterebbero le possibilità di lussazioni.
Rimozione
e accumulo
del terreno
smosso
352] Gli animali che scavano tane o cunicoli debbono rimuovere e accumulare da qualche altra parte la terra che hanno scavato. Molti serpenti fanno uso delle spire che compie il loro corpo per spazzare via la sabbia sciolta e quant'altro dalle gallerie. Lucertole e tartarughe adoperano come scope i loro piedi. Alcuni rettili riescono a lasciar libero, al di sotto del loro corpo, uno spazio d’aria che consenta loro i movimenti respiratori nonostante il sovraccarico. Via via che i mammiferi scavano il terreno con zampe o denti, lo spingono dietro di lo-
ro o sotto il corpo: di tanto in tanto l’animale spinge ancor più all’indietro il terriccio smosso servendosi delle zampe posteriori. Quando il cunicolo retro-
534
Adattamento
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strutturale
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stante comincia ad essere troppo ingombro, è tempo di portar via il terriccio: per far questo vengono usate maniere diverse. Alcuni fanno marcia indietro nel cunicolo e spingono con vigore, via via che ripercorrono il cammino, il materiale smosso: le zampe posteriori vengono utilizzate simultaneamente (tucotuco, batiergidi, armadillo) o alternativamente. Altri si rigirano per spingere avanti a loro con le sole zampe anteriori (talpe) o con zampe anteriori, spalle e muso (gopher) o con naso e culmine della testa (spalace ungherese) il terriccio
smosso. I serpenti «muso a foglia» (Phylloryncus) e «muso di porcello» (Heteredon) si servono probabilmente anche delle loro teste come pale, così come fanno le anguille sinbranchiformi e le anfisbene. Gran parte del terriccio viene portato in superficie, ma una certa quantità viene utilizzata per tappare i cunicoli secondari dismessi.
I piedi utilizzati per rimuovere il terreno, anteriori o posteriori che sia-
no, sono resi più larghi in diversi modi: le dita sono palmate (rospi, tartarughe marine e non, talpe, talpe crisocloridi), la pianta del piede è slargata da cartilagini od ossa disposte lateralmente al primo dito (castoro di montagna, talpe, gopher, tuco-tuco ecc.), il piede è contornato da peli rigidi e dritti (quasi tutti i mammiferi ipogei). Allo stesso modo lo spalace ungherese aumenta l’efficienza della sua larga e piatta testa come spazzola della polvere coronandola di strisce laterali di peli dritti (Figura 25.10).
Muoversi
strisciando
(senza zampe)
La possibilità di locomozione terrestre senza zampe si è evolutivamente realizzata in molte e indipendenti occasioni fra gli anfibi e le lucertole, ma la sua migliore espressione si è avuta con le anfisbene e con i serpenti, interessan-
do molte migliaia di specie, tanto che questo adattamento deve considerarsi un grande successo. Si ritiene possibile che gli antenati di questi animali siano andati inizialmente incontro a un’evoluzione verso corpi assottigliati che permettessero il passaggio entro strette fessure o il movimento ondulato e che solo in un secondo momento abbiano perso le loro zampe. I vertebrati apodi si muovono in natura secondo quattro principali modalità, adottandone a volte più di una a seconda della situazione; sono state osservate anche forme varianti e a volte anche tipo sferzata o saltello. La prima e più comune è l’ondulazione laterale. Il corpo si flette in anse serpentine, a destra e a sinistra; l’animale individua così, con le sue spire, la localizzazione
di prominenze quali pietre e fusti di piante; il corpo esercita allora una pressione laterale (non verticale) su questi oggetti secondo un asse direzionale obli-
quo e diretto all'indietro rispetto alla direzione di movimento dell’animale. Lo
studio della meccanica delle forze su ogni oggetto prominente mette in evidenza le analogie con l’azione svolta dalla coda di un pesce: la spinta che il serpente esercita sull’oggetto (per esempio nella Figura 25.12) comporta una controspinta da parte dell’oggetto sul corpo di uguale entità e in senso opposto (F,). Questa forza ha una componente diretta verso la direzione di progressione (F,) del serpente e una componente a questa perpendicolare e quindi laterale (F)). (Il valore di F, è in parte ridotto dall’attrito, vedi oltre.) Il movimento ri-
353
25.
Scavare
e strisciare
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i F, =—
Componente di F, nella direzione di movimento del serpente (animale intero)
Spinta del serpente sull'oggetto Componente laterale
di F
6
Direzione di movimento
di questa spira
Figura 25.12. Rappresentazione schematica del movimento per ondulazione laterale di un serpente. (Il valore di F, risulta un po’ ridotto dall’attrito di scorrimento.)
sulta continuo per il fatto che le ondulazioni si continuano lungo tutto il corpo. Ciascuna spira sembra che rimanga ferma nello stesso posto mentre il corpo si sposta nella direzione voluta dalla testa. Un serpente non può muoversi nella direzione voluta svolgendo solo una spira esclusivamente su un solo oggetto verso cui esercita la sua azione di spinta mentre si muove: ciò perché quell’unica particolare spira non si muove nella direzione verso cui il serpente intende muoversi, ma si sposta invece nella direzione del suo asse come descritto nella Figura 25.12. Questa direzione è ortogonale a quella di F, e quindi F, non ha alcuna componente nella direzione di movimento della spira. Per un movimento continuo del serpente sono necessari tre o più oggetti non dallo stesso lato del corpo. L’azione è più efficiente se vengono utilizzati pochi oggetti (3-5, a meno che il serpente non sia molto lungo e sottile). Le componenti laterali delle diverse spinte sono maggiori di zero e la somma delle componenti dirette in avanti (meno la resistenza opposta dall’attrito) costituisce la forza propulsiva dell'animale. Ci si renda conto che tutte queste forze sono interconnesse:
quando il «collo» viene a contatto con nuovi
oggetti e la coda scivola via dai più arretrati, mentre tutti gli intermedi slittano all'indietro, l’animale deve immediatamente aggiustare ampiezza e direzione delle spinte di tutte le spire attive. C'è da meravigliarsi nel rendersi conto della
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Adattamento
353
strutturale
354 |
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complessità dei meccanismi di controllo retroattivi e del controllo nervoso richiesti. I serpenti non riescono ad andare avanti servendosi dell’ondulazione laterale quando sono entro stretti cunicoli, non riuscendo ad esercitare spinte dirette obliquamente all’indietro con le loro spire. Né possono, con questo s1stema, avanzare su superfici lisce dovendo esercitare le spinte lateralmente, non verticalmente. Per di più, d’altronde, esiste una forza verticale, costituita dallo
stesso peso dell’animale: ciò comporta attrito, in questo caso controproducente. Il coefficiente d’attrito (vedi par. 367) viene ridotto al minimo dalle lisce superfici delle squame ventrali del serpente. Vi è anche un attrito da scivolamento delle prominenze su cui il serpente esercita le sue spinte e anche questo contrasta la forza propulsiva dell’animale. I serpenti possono muoversi molto rapidamente fra puntelli non bloccati infissi su una superficie piana lubrificata. [354] Una seconda modalità di progressione apoda è quella di movimento in linea retta (rettilineo): se ne servono molti serpenti e tutte le anfisbene, spe-
cialmente se il loro corpo è corto. La pelle, molto estensibile, è blandamente unita alle parti ventrali del corpo. I muscoli che uniscono le costole alle sottostanti squame, diretti in avanti, determinano una posizione embricata di queste in alcune regioni, con relativa formazione di pieghe cutanee (Figura 25.13). Negli intervalli tra queste regioni, la cute è invece tesa. Dove le squame si sono disposte ad embrice riescono a far presa sul terreno, dove risultano giustapposte sono invece distaccate dal sottostante terreno. Una dopo l’altra, altre squame sì aggiungono posteriormente alla zona pieghettata mentre altre, anteriormente,
ne escono disponendosi parallele alla direzione di progressione. In un certo senso, le squame si muovono un po’ come le zampe di un millepiedi, come se un’onda di movimenti si propagasse lungo il corpo. Il gruppo di squame disposte ad embrice tocca obliquamente il suolo ed è quindi necessario un qualche attrito per evitare uno slittamento. I muscoli che tirano le squame all’indietro e in alto verso le costole trascinano il corpo con un movimento continuo realizzato entro la pelle. Il corpo si muove lungo una linea diritta. Il movimento è simmetrico, in direzione con la testa ed è lento. Questo tipo di movimento viene utilizzato per avvicinarsi quanto più possibile alla preda o per muoversi entro uno
stretto tunnel.
Squame avanzanti per
Spinta dei muscoli
azione dei muscoli dal tronco alla squama
I
]
Squame increspate, appesantite, stazionarie
Figura 25.13.
La componente diretta in avanti
dal tronco alla squama
I
|
esercita la sua azione lungo l’asse longitudinale del corpo
|
|
ì Squame distese, senza sovrappeso, in movimento
L'attrito impedisce lo scivolamento all'indietro
Rappresentazione schematica del movimento rettilineo di un serpente.
354
25.
Scavare
e strisciare
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Una terza modalità di progressione è per punti d’appoggio successivi, normalmente adottata da cecilie, serpenti e anfisbene. L'animale si raccoglie su se stesso in una o più pieghe ad S, la più arretrata delle quali fa pressione in basso e all’indietro sul substrato, confidando sull’attrito per non slittare (Figura 25.14). La componente anteriore di questa molla viene distesa facendo avanzare testa e parte anteriore del corpo, tenute distaccate dalla parete di appoggio per ridurre la resistenza opposta dall’attrito di scorrimento e aumentare l’attrito statico sulle stazionarie spire posteriori aumentando i carichi su di loro. Prima che la stabilità sia compromessa, la parte anteriore del corpo prende di nuovo contatto con il substrato, si raccoglie in spire e arresta i suoi movimenti così che,
a sua volta, può richiamare a sé la parte posteriore del corpo prima di riprendere il ciclo di avanzamento. La stabilità della base offerta dalle spire stazionarie aumenta se queste vengono forzate contro le pareti di un cunicolo o contro
qualche fessura nella corteccia di un albero o contro qualche roccia o anche se contratte
attorno a un ramo.
Questo movimento a fisarmonica è comune, in particolare, fra le specie arrampicatrici o che cacciano nelle tane, ed è il più delle volte associato con il movimento per ondulazione laterale. Fra questi animali alcuni si servono di una variante di questo movimento a fisarmonica, in quanto la parte anteriore della spina dorsale si torce o
Figura 25.14. Posizioni successive di un serpente avanzante in un cunicolo con un movimento a fisarmonica (per successivi punti d'appoggio). Le parti più scure del corpo sono stazionarie, mentre le parti più chiare sono in movimento.
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Adattamento
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strutturale
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si inarca entro la pelle, rigonfiando, e non piegando, il corpo in quel tratto. La parte allargata blocca il corpo nel cunicolo, assicurando un punto saldo alla testa che così può spingersi in avanti nel suolo. Ultima modalità di locomozione è quella laterale, probabilmente evolutasi da quella a fisarmonica (o per successivi punti d’appoggio) quale adattamento a un più veloce ed efficiente moto su terreno smosso o su sabbia. La Figura 25.15 consente di rilevare come il serpente lasci una serie di tracce, più o meno rettilinee e parallele fra di loro, angolate rispetto alla direzione di moto dell’animale e lunghe pressappoco quanto l’animale stesso. Il serpente è in contatto contemporaneamente
con due o tre di queste impronte, con parte del cor-
po disposto sulla traccia e parte arcuato fra le tracce. Via via che porzioni successive del corpo intervengono a prolungare un’impronta, si distaccano dalle precedenti altre parti in successione. Le parti del corpo che poggiano sull’im-
pronta sono stazionarie, mentre quelle aggettanti tra le tracce sono in movimento e tenute sollevate dal suolo (che potrebbe anche essere molto caldo). Ritmicamente testa e collo sono spinti in avanti per dare avvio a una nuova impronta. L’intera azione è molto rapida. Molti serpenti sono capaci di muoversi in questo modo, ma le specie desertiche sono le più quotate. In contatto con il terreno, parte stazionaria
Inizio di nuove impronte Direzione di movimento del serpente
a
Parte distaccata dal terreno, in movimento
x
Tracce
sulla sabbia
;
Figura 25.15. Posizioni successive di un serpente avanzante con movimenti laterali.
CAPITOLO
26
ARRAMPICARSI 355] I tetrapodi che sono in grado di arrampicarsi possono essere chiamati scansori (dal verbo latino scandere = salire). A volte vengono indicati come arboricoli, ma il significato più appropriato di questo termine è «che vive sugli alberi» e non è il più adatto per questa forma di locomozione; molti uccelli lo sono, ma pochi fra loro si arrampicano. Molti tetrapodi sono abili arrampicatori e molti di più sono quelli che all’occasione si arrampicano con destrezza. La capacità di arrampicarsi si sviluppò in modi indipendenti più spesso di quanto non sembri e in più ordini anche più volte. Sono stati ben studiati gli adattamenti all’arrampicarsi dei primati e di alcuni fra gli altri animali vertebrati più vistosamente adattati al rampicare, mentre ben poco se ne sa degli adattamenti arrampicatorii di molti piccoli tetrapodi.
Vantaggi dell’arrampicarsi 356]
La capacità di arrampicarsi offre molti vantaggi selettivi.
1. Gli arrampicatori possono raggiungere su alberi e arbusti cibi quali foglie, germogli, fiori, frutti, legno tenero, miele, ragni, insetti, uova di uccelli e nidiacei.
540
Adattamento strutturale
[356]
[357]
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2. Molti arrampicatori evitano la predazione tenendosi lontani dal suoin salvo sulle rocce o sulle piante quando il pericolo incombe: mettendosi lo o per di più, arrampicandosi, si raggiungono posti di vedetta abbastanza sicuri. 3. Molti predatori inseguono la loro preda fin sugli alberi: la martora raggiunge lo scoiattolo sugli alberi, la vipera arboricola africana (Atheris) aspet-
ta tra le frasche i roditori scansori. Il leopardo solleva la sua preda su un albero per sottrarla a iene e sciacalli anche in sua assenza.
4. Arrampicandosi, molti animali, trovano un posto riparato dove riposare durante quella parte del giorno che li vede inattivi; in modo analogo trovano o costruiscono sicuri nidi appartati ove allevare la prole. 5. Dove il sottobosco è fitto gli arrampicatori possono muoversi con maggiore libertà e rapidità sotto la volta arborea di quanto non riuscirebbero a fare sul terreno. 6. Quegli animali che praticano il volo planato debbono arrampicarsi per raggiungere i punti di lancio.
Vertebrati
scansori
357] Pesci e Anfibi. Parecchi pesci in grado di respirare aria sono capaci di muoversi sul terreno e possono raggiungere anche le zone più fitte della vegetazione utilizzando le forti pinne mobili e fors’anche i raggi delle altre pinne: però nessuno di essi è realmente scansorio. Tra gli anfibi, le molte specie di rane arboricole, appartenenti almeno a sette diverse famiglie, sono abili arrampicatrici (Figura 26.1); vi sono anche molte salamandre arboricole (famiglia Plethodontidae), alcune talmente abili da riuscire a camminare su un filo.
1358] Rettili. Molte lucertole e molti serpenti sono degli arrampicatori: molti fra loro scendono di rado dagli arbusti o dagli alberi. Degni di nota sono i camaleonti (famiglia Chamaleontidae), i gechi (Gekkonidae), diverse iguane (Igua-
nidae) fra cui le anolidi (i cosiddetti falsi camaleonti
d'America)
e i serpenti
arboricoli tropicali. 1359] Uccelli. Non considerando gli uccelli che si posano sugli alberi o che sì alimentano svolazzando di ramo in ramo, di veri uccelli arrampicatori ne rimangono
pochi (Figura 26.2): sono
i picchi, i rampichini
(di due famiglie), i
picchi muratori (di tre famiglie), i pappagalli, i crocieri, i dendrocolatti picchi e lo hoazin. Possiamo aggiungere i picchi muraioli e il picchio muratore delle rupi che si arrampicano sulle pareti rocciose. Per arrampicarsi i picchi muratori si servono delle sole zampe, i picchi utilizzano zampe e coda, i pappagalli zampe e becco e l’hoazin zampe e ali.
360] Marsupiali e Insettivori. Undici generi di opossum su dodici sono eccellenti arrampicatori e tutti e diciassette i generi di falangerini sono costituiti da marsupiali dalla facile arrampicata (Figura 26.3). Possono arrampicarsi an-
350
26.
Arrampicarsi
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n
RANA ARBOREA Hyla
CAMALEONTE Chamaeleo
SERPENTE ARBORICOLO Chironius
Figura 26.1. Anfibi e rettili scansori tipici.
FALSO CAMALEONTE AMERICANO Anolis
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Adattamento
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strutturale
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PICCHIO MURATORE Sitta
PICCHIO DORATO Colaptes
PAPPAGALLO Pyrrhura
Figura 26.2.
Tipici uccelli rampicanti.
che molti gatti marsupiali o dasiuri e, sorprendentemente, anche un genere di canguri è divenuto secondariamente un arrampicatore. Fra gli insettivori, i cinque generi di tupaie sono dei bravi arrampicatori.
1361] Dermotteri e Pipistrelli. I dermotteri, come altri animali capaci di volo planato, sono arrampicatori arboricoli (vedi Figura 28.1). Molti pipistrelli utilizzano gli alberi come posatoi senza per questo arrampicarsi, ma abili arrampicatori si ritrovano in parecchi generi.
361
26. Arrampicarsi
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BRADIPO Choloepus
TRICOSURO VOLPINO Trichosurus
POTTO
TARSIO Tarsius
Perodicticus
DRIOMIO Dryomys
Figura 26.3.
Tipici mammiferi arrampicatori.
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544
[362]
Adattamento strutturale
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Primati. Quasi tutti i primati sono esperti arrampicatori e i pochi che [362] si arrampicano raramente o che non lo fanno affatto hanno progenitori arboricoli (babbuini, alcuni lemuri, gorilla, uomo). Particolarmente interessanti adattamenti strutturali e i modi di arrampicarsi di alcuni lemuri (famiglia muridae), degli indri (Indridae), dei lori, dei potto e dei galagoli (Lorisidae), tarsi (Tarsidae), delle scimmie ragno e delle scimmie lanose (Cebidae), degli
gli Ledei en-
telli (Cercopithecidae), dei gibboni e dell’orango (Pongidae). [363] Sdentati e Pangolini. I due generi di formichieri più piccoli sono costituiti da arrampicatori, come lo sono anche i due generi di bradipi. Alcuni pangolini sono arboricoli. [364] Roditori. I roditori scansori sono di solito meno modificati di quanto non siano i migliori arrampicatori degli altri ordini: vi sono nondimeno più ar-
rampicatori in quest'ordine che in qualsiasi altro. I nomi comuni di molti tra questi non sono familiari o sono generici. Fra i roditori che si arrampicano vi
sono gli scoiattoli (Sciuridae), gli scoiattoli volanti (Pteromyidae), i tamia o chipmunks (Tamiidae), gli anomaluri (Anomaluridae), i topi della sera sudamericani Calomys, i topolini saltatori nordamericani Zapus, i ratti mercante Neotoma (Cricetidae), i topolini delle risaie Micromys, i topi selvatici Apodemus,
i topi arboricoli asiatici Chyropodomys, i ratti dei tetti Rattus, i topolini delle case Mus, i topi delle banane Dendromus (Muridae), i ghiri (Ghiridae), i porcospini americani
(Erethizontidae)
e i topi spinosi (Echimyidae).
1365] Carnivori, Iracidi e Ungulati. I carnivori arrampicatori sono strutturalmente poco modificati per questa capacità funzionale e fra loro sono da com-
prendere tutti i componenti
la famiglia degli orsetti lavatori (Procyonidae) e
alcuni delle famiglie di ermellini (Mustelidae), orsi (Ursidae), manguste
(Vive-
ridae), gatti (Felidae) e di due generi di volpi. Un genere di iracide è ben adattato per arrampicarsi su tronchi lisci, mentre gli altri sono veri rocciatori. Non considerando le occasionali acrobazie di qualche capra, nessun ungulato si arrampica sugli alberi, ma le capre di montagna (tar himalayano, stambecco) e le pecore di montagna (muflone, bighorn), i camosci e le antilopi saltarupe sono magistrali rocciatori.
Esigenze basilari degli arrampicatori Gli arrampicatori hanno due basilari esigenze: (1) debbono muoversi su
tre dimensioni in un ambiente peculiare per essere discontinuo e (2) debbono
non cadere, sia che stiano muovendosi sia che stiano fermi, anche in circostan-
ze particolarmente difficili. Corridori e scavatori debbono anch’essi muoversi in un ambiente in un certo qual modo «irregolare» e anche per loro è essenziale non «cadere», per cui non c'è da meravigliarsi per il fatto che gli adattamenti strutturali e comportamentali degli arrampicatori non differiscano qualitativamente, ma di solito solo in grado di accentuazione, da quelli di molti altri animali. Molti arrampi-
366 | |367|
26. Arrampicarsi
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catori non risultano sostanzialmente modificati dal loro modo di muoversi. I topi campagnoli Microtus non sono un gran che diversi dai topolini delle case Mus, le specie terricole e scansorie delle marmose (Marmosa) sono abbastanza simili e strutturate allo stesso modo sono le volpi grigie americane (Vrocyon) capaci di arrampicarsi e le volpi argentate (Vu/pes) che non lo sono. Fra tutte le specializzazioni locomotorie quella di arrampicarsi si combina al meglio con la maggior parte delle altre specializzazioni: il leopardo si arrampica e corre, i canguri arboricoli si spostano a balzi sul terreno, il tamandua dalle quattro dita (Tamandua) disfa i termitai, le raganelle arboree nuotano, i cinocefali compiono le loro planate e i pappagalli i loro voli. Nondimeno alcuni arrampicatori (le raganelle arboree, diverse salamandre, i gechi, le lucertole anolidi, molti pipistrelli) si servono di peculiari meccanismi e buona parte degli altri familiari meccanismi risultano modificati abbastanza profondamente. Le esigenze degli arrampicatori nel muoversi nel loro discontinuo ambiente richiedono
adattamenti
al salto in lungo, al salto in alto, al dondolarsi
appesi, al dover tirare a sé un ramo e al doverlo raggiungere. Le esigenze degli arrampicatori per evitare di cadere in caso di difficoltà richiedono adattamenti per aggrapparsi, mantenere l’equilibrio, abbracciare, aderire, esercitare un effetto-ventosa, tenersi agganciati, sostare sopra un ramo o una sporgenza. Questi adattamenti verranno qui di seguito analizzati, ma, essendo numerosi e combinandosi fra loro in molti modi (il saltare in alto con l’aggrapparsi, il dondolarsi
con l’agganciarsi, il correre col tenersi attaccati, il muoversi lentamente con quello di esercitare un effetto-ventosa, il correre e saltare in lungo con l’aggrapparsi e il tenersi stretti al tronco ecc.), sarà forse più opportuna una immediata discussione delle leggi fisiche cui un arrampicatore deve sottostare per restare in contatto con rocce, tronchi e ramoscelli, tutti più o meno viscidi. Ve ne sono
in pratica due sole — una per realizzare il contatto e l’altra per mantenerlo — anche se l’attrito, che assicura la combinazione fra esse, risulta molto importante. 367
Il ruolo dell’attrito. Quando una scimmia è ferma su un ramo orizzon-
tale con ogni piede immediatamente sottostante al rispettivo cinto, la spinta verso il basso del corpo è controbilanciata da un’uguale spinta verso l’alto da parte del supporto. Vi è compressione all’interfaccia fra piede e ramo, ma in teoria nessuno sforzo di taglio e di conseguenza nessuna tendenza del piede a scivolare. La spinta del piede sul ramo (S) e la forza perpendicolare (= normale) al ramo (N) coincidono
(Figura 26.4A). Questo risulterebbe altrettanto vero per
un cavallo fermo e al momento la scimmia non si sta arrampicando più di quanto non si stia arrampicando il cavallo. Se la scimmia cammina su un ramo orizzontale, il suo piede preme contro la superficie formando un angolo con la verticale: questa spinta può essere scomposta in una componente perpendicolare alla superficie e un’altra di taglio, cioè parallela alla superficie (P nella Figura 26.4B). Se il piede della scimmia non slitta è perché alla componente P si oppone una frizione (F) di pari valore, costituita dall’attrito del piede con il suo supporto. Allo stesso modo, il cavallo riesce a camminare solo perché l’attrito contrasta le forze propulsive parallele al terreno. Se la scimmia si ferma su un ramo inclinato (rispetto al piano orizzon-
546
Adattamento
367
strutturale
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Figura 26.4. Ruolo dell’attrito nel prevenire le scivolate.
tale), la spinta (S) è scomponibile
in N e P anche se non vi è azione di moto
(riquadro C) ed è necessario un certo attrito per evitare che il piede slitti verso la parte più bassa del ramo. Se la scimmia si muove lungo il ramo inclinato, N diminuisce e P aumenta (riquadro D): anche l’attrito dovrà di conseguenza aumentare perché la scimmia non scivoli indietro. È evidente ora come la scimmia arboricola e il terricolo cavallo debbano seguire strade diverse, dato che gli
adattamenti per potersi arrampicare richiedono modifiche che accentuino l’attrito.
Come? L’attrito costituisce un fenomeno complicato non facilmente sottoponibile a una corretta analisi. La massima frizione sviluppabile prima che si abbia uno slittamento dipende dalla qualità e dalla tessitura dei materiali a contatto e dalla forza che tra loro si esercita. Un’approssimativa relazione valida
per superfici asciutte e rigide è F = uN, con u quale coefficiente d’attrito, da determinare empiricamente per ciascuna combinazione di materiali: però, se una delle superfici è ricurva e viscoelastica (cioè è al contempo vischiosa ed elasti-
ca) come sono le piante dei piedi e i polpastrelli delle dita, allora F = uN°, dove a < 1. Un aumento del valore di N comporta in tal caso una riduzione di u e
più facile lo scivolare indietro. In questa circostanza l’animale non può evitare la caduta tenendosi più forte: come sanno bene gli autisti è più facile prevenire una scivolata invece che fermarla, in quanto u diminuisce quando inizia lo scivolamento. Risulta facile arguire dalla formula F = uN che agli arrampicatori si offre una possibilità di avere una F maggiore sia (1) scegliendo substrati che diano alti valori di u, sia (2) sviluppando superfici tegumentarie che comportino
367
368
26.
Arrampicarsi
547
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un incremento
di u, sia (3) elaborando meccanismi
che facciano aumentare N.
I metodi 1 e 2 sollecitano ulteriori studi; è presumibile che vengano prese particolari precauzioni quando il substrato è bagnato, in quanto la lubrificazione riduce notevolmente l’attrito (e modifica la formula per calcolarlo). Per quanto vediamo, gli arrampicatori sono in grado di far aumentare il valore di N in diversi modi; non è compreso fra questi quello di accentuare il peso corporeo, essendo per lo più gli arrampicatori di dimensioni medio-piccole così da non spezzare i rami che li sostengono e non perdere in agilità. Risulta ancora
dalla formula che, per valori molto alti, l’attrito è pres-
soché indipendente dall’apparente area di contatto. Anche se piatte e levigate, le superfici in realtà vengono in contatto solo in pochi microscopici punti di maggior rilievo, che costituiscono solo una piccola frazione dell’area visibile di apparente contatto. Quando l’area visibile di contatto viene ridotta, la pressione sull’area residua aumenta e un numero più alto di punti microscopici viene forzato al contatto, il che assicura il mantenimento della reale area di interazione fra le due superfici. È per questo che un’antilope, il saltarupe africano Oreotragus, può dare spettacolo di arrampicata in roccia sulle punte dei suoi piccolissimi zoccoli. Nondimeno alcuni arrampicatori hanno larghi cuscinetti plantari, il che riduce l’abrasione per unità di superficie tegumentaria; per la loro maggiore flessibilità i plantari grandi toccano il substrato su più piani, con il che aumentano la stabilità preparando il piede a resistere, sfruttando l’attrito, alle forze distaccanti provenienti dalle più diverse direzioni. Grandi superfici plantari comportano anche un aumento delle possibilità di incastro (vedi sotto) e ri-
duzione delle possibilità di avvolgimento (vedi sopra). [368] Il ruolo degli incastri. Quando la superficie piatta di contatto fra un oggetto e il suo supporto è inclinata rispetto al piano orizzontale, allora, come già indicato, vi è una forza, P, parallela alla superficie che deve essere contrastata da una pari forza d’attrito, A, per evitare ogni scivolamento.
La forza P, però,
ha una componente orizzontale (O nella Figura 26.5A), per cui lo slittamento può essere impedito anche da una controspinta anch'essa orizzontale (0°): se il supporto dispone di una parete perpendicolare alla direzione di scivolamento, questa controspinta c’è (Figura 26.5B). L’incastro viene quindi a sostituirsi all’attrito nell’assicurare la stabilità. Quando l’unghia di un’iguana, di un chipmunk, di un pappagallo si infila in una fessura, in un sasso o in un ramo, è
A
B
Figura 26.5. Ruolo dell’incastro nel prevenire le scivolate.
Cc
548
Adattamento
368]
strutturale
[369]
[ 370
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questa forma di supporto ad essere operativa. È sempre questo principio di incastro in controspinta ad essere implicato quando l’oggetto entra in contatto con il suo supporto con una più o meno abbondante dozzina di piccoli incastri (Figura 26.5C). Le numerose penne codali bacchettiformi del picchio e le piastrelle cornee sottocodali dello scoiattolo volante del Gabon (Anomalurus) sono
esempi di questo tipo di supporto quando gli animali le premono contro una ruvida corteccia (Figura 26.2).
Un reticolo di piccoli punti di contatto è anche una delle condizioni base per la forza d’attrito, così che quando le superfici d’incastro divengono troppo piccole (per esempio le squamette nei piedi delle piccole lucertole oppure le rilevate «impronte digitali» nei polpastrelli di un galagone) il confine fra attrito e incastro come condizione di supporto diviene indiscernibile. Un cuscinetto plantare a contatto con un ramo mediante le sue prominenze macro- e microscopiche, sfrutta tanto l’attrito che l’incastro per evitare una scivolata. Le
unghie a uncino di un bradipo non slittano su un ramo liscio grazie all’attrito e quando con il margine tagliente incidono un po’ il legno sfruttano anche l’incastro.
369] Il ruolo dell’aderenza. L’aderire di una superficie a un’altra è una conseguenza dell’attrazione molecolare. Gli arrampicatori sfruttano due forme di adesione. Una è nota come adesione capillare (o adesione liquida) e si realizza
quando fra le superfici a contatto s’interpone un adatto adesivo: così un vetrino coprioggetti per microscopia aderisce al vetro, verticale, di una finestra se vi s’interpone un sottile strato liquido acquoso. È esperienza comune che i materiali appiccicosi sono degli adesivi migliori dell’acqua e i polpastrelli di alcuni anfibi secernono un materiale colloso che assicura un legame fra loro e le foglie anche
se verticali, lisce e non rigide.
L'altra forma di adesione è quella dell’adesione secca: quando una superficie metallica liscia scivola sopra un’altra, è possibile si stabiliscano fra le due dei legami molecolari per la forte pressione e l’alta temperatura in corrispondenza dei microscopici punti di contatto. È questa una forte sorgente di attrito. Di solito, però, i materiali asciutti non possono essere tenuti a lungo in stretto contatto in abbastanza punti, anche se levigati e puliti, tanto da consen-
tire alle forze intermolecolari di stabilire fra essi un significativo legame. La capacità dei gechi e delle lucertole anolidi, entrambi con piedi non umidi, di camminare in su e in giù su di un vetro ha sfidato a lungo ogni spiegazione. Vi sono
ora indicazioni
sperimentali
che sono
proprio le specializzatissime
strutture dei loro piedi (vedi oltre) a consentire loro di stabilire con il substrato delle forze di attrazione tra molecole (o forze di Van der Waal), e cioè un’ade-
sione senza colla o altro adesivo fluido.
Adattamenti per la propulsione 370
Camminare,
correre,
slanciarsi
e saltare.
Gli animali
che per lo più
camminano o corrono lungo ramificazioni più o meno orizzontali, come iguane,
topi degli alberi (Dendromus), formichieri dalle due dita (Tamandua), non han-
370
SZA
26. Arrampicarsi
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no problemi di propulsione molto diversi da quelli di chi si muove sul terreno. I piedi e a volte anche la coda possono essere diversi per tenere stretto il substrato, ma il resto del corpo non è particolare. Alcuni arrampicatori spesso, anche se non esclusivamente, si spostano lanciandosi da un supporto su di un altro. Il salto può essere a volte verso l’alto, ma più spesso è verso l’esterno o parzialmente verso il basso. L'animale può essere in movimento quando si slancia e il corpo è più o meno orizzontale al momento dell’impatto. Ne sono un esempio alcuni serpenti arboricoli; numerose lucertole; gli scoiattoli; le scimmie cappuccine, urlatrici, nasica, presbiti, cercopiteci e cercocebi. Questi arrampicatori (serpenti a parte) hanno spesso arti lunghi, ossa sottili e una meccanica muscolare simile a quella dei corridori, senza però la correlata riduzione in lunghezza della parte prossimale dell’arto. Il torso è relativamente lungo, forte e flessibile. Molti primati si spostano essenzialmente a salti. Quando sono fermi tendono ad assumere una posizione eretta del corpo e spesso si fermano prima di spiccare un balzo. Il salto può avvenire in una qualsiasi direzione, compresa la verticale. Questi animali tanto specializzati sono i tarsi, i galagoni, gli indri e i lemuri di due generi. I più piccoli fra questi prodigiosi saltatori possono superare i 2 m con un balzo in alto e i più grandi saltano oltre 10 m in lungo e verso il basso da un albero all’altro. Tutti hanno lunghe zampe posteriori, una postura flessa ai ginocchi e in genere una conformazione degli arti da saltatori (vedi parr. 331 e 332), anche se il femore non è più corto della tibia. Il piede (a differenza di quello di gerbilli e ratti canguro) deve essere adattato ad aggrapparsi al substrato, ma nei tarsi e nei galagoni è ancor più allungato per saltare, grazie all’allungamento degli ossi navicolare e calcaneo (Figura 26.6). [371] Distendersi, portarsi avanti e fare ponte. Molti dei più sperimentati arrampicatori si spostano prevalentemente o parzialmente allungandosi da un supporto all’altro ed effettuando una trazione in avanti. Intervalli abbastanza grandi possono essere superati con precauzione facendo ponte senza abbandonare prima il sicuro supporto. Gli oranghi, i potto, i lori e (alla loro rovesciata maniera)
i bradipi ne sono ben noti esempi, anche se alcune rane, i cama-
Scafoide
Calcaneo
Figura 26.6. Tarsio allungato di un saltatore, esemplificato da quello del piede sinistro di un primate, Galago.
550
Adattamento
371
strutturale
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leonti, gli opossum, i falangeridi, molte scimmie, i galeopiteci, gli echimidi e molti altri si servono di questo metodo di propulsione. Vi sono alcune indicazioni che una progressione tipo orango fosse quella utilizzata dai progenitori dell’uomo. Questi animali debbono poter soddisfare tre importanti esigenze. La prima è una discreta capacità di distensione: quindi (con l’eccezione degli uccelli) le zampe sono più lunghe di quanto non lo siano per un qualsiasi altro adattamento locomotorio, eccezion fatta per il volo planato, per il salto (arti posteriori) e per il volo (arti anteriori). I segmenti prossimale e mediano
dell’arto
una lunghezza quasi uguale. I piedi sono grandi, in quanto debbono soppiù alla necessità di aggrapparsi che non alla propulsione, per cui non allungati come è successo per i corridori e i saltatori terrestri. Anche il tende ad allungarsi. Molti serpenti arboricoli attuano la distensione in una maniera decisamente diversa. La morfologia delle vertebre anteriori, e con essa una complessa muscolatura, si oppongono alla flessione dorsale così che il corpo non si fletta quando è in estensione da un supporto all’altro. La seconda esigenza è quella di essere agili e flessibili. Per non disperdere le forze derivanti dai più diversi movimenti, le teste degli omeri e dei femori non si limitano a una curvatura sferica ma costituiscono proporzioni più ampie del solito di sfere complete (del tutto diversa questa condizione in corridori, scavatori e volatori). I cinti, compresi quelli di alcuni rettili scansori, sono modificati in modo da consentire un’ampia libertà di movimenti. Verso la loro estremità, scapola e clavicola di mammiferi sono spesso modificate in forme che, raggiungendo valori estremi nei brachiatori, descriveremo nel successivo paragrafo. Per consentire la massima supinazione e pronazione dell’arto anteriore, ulna e radio sono indipendenti e pressoché ugualmente sviluppati, la testa prossimale dell’arto è rotondeggiante, la faccetta articolare del radio attorno alla quale ruota il radio è quasi cilindroide e in posizione laterale
hanno perire si sono torace
(non anteriore
come
nei corridori)
(vedi Figura 24.13); un
processo
stiloideo
all'estremità distale dell’ulna costituisce di solito un perno attorno al ruota il corpo. Anche la fibula è indipendente e relativamente grossa. La zione articolare è ellissoidale, non a cerniera, e sono possibili cospicui menti di rotazione, adduzione e abduzione con il tarso. Creste e solchi relativamente poco sviluppati alle articolazioni dell’arto e del piede (vedi
quale giunmovisono Figu-
Taf2417):
Terzo fatto, questi arrampicatori necessitano di un’appropriata meccanica osteomuscolare. Non è necessaria una gran forza, cosicché né i muscoli né le loro attaccature sono rilevanti e le ossa sono leggere e sottili. Molti di questi
animali (e in particolare i bradipi) assumono di solito una postura per cui i muscoli estensori non contrastano la forza di gravità nella consueta maniera; di conseguenza, questi muscoli sono meno sviluppati e i loro bracci di leva interni
sono più corti di quanto non sia normale nei mammiferi terrestri. La leva in-
terna del tricipite (il processo olecranico), per esempio, passa da valori di un ottavo (in un opossum) a un dodicesimo o meno (nei bradipi) di quelli della leva esterna (pari alla lunghezza del resto dell’ulna). Flessori, pronatori, supina-
tori e abduttori sono più sviluppati.
372,
26. Arrampicarsi
551
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372 Brachiazione. Alcuni primati si spostano servendosi delle braccia (brachiazione) che fanno oscillare al di sotto dei rami. A differenza di altri metodi
di propulsione vengono utilizzati come sostegni i soli arti anteriori. La brachiazione viene esercitata in maniera esemplare dai gibboni e dagli affini siamanghi e, al bisogno, dalle scimmie ragno, lagotrici, urlatrici, presbiti, guereza, nasica e dagli scimpanzé, dagli oranghi e dai gorilla (abbastanza di rado). Afferrandosi con una mano a un supporto al di sopra del corpo e più avanti nella direzione del movimento, l’arrampicatore si dondola come un pendolo al di sotto del supporto, ruota il corpo di quasi 180° rispetto al braccio sostenitore (cioè avanza la spalla non impegnata) e, al termine dello slancio dell’altro braccio, si afferra con l’altra mano a un supporto che lo sovrasta. Il braccio libero e anche le zampe (nel siamango) vengono portate in avanti nel dondolarsi. Ciò fa spostare il centro di gravità dell’animale dall’asse di perno verso quello del braccio di supporto, rendendo così massimo il guadagno in velocità e in energia cinetica. Nella spinta in su il braccio libero e le gambe sono ripiegate per rendere più corto il pendolo, cosicché diminuisce il suo momento d'inerzia e aumenta la sua velocità angolare. Come avviene per un bambino che dà l'impulso sull’altalena, vi è un netto guadagno nella quantità di moto. Nella locomozione rapida ciascun supporto può essere raggiunto solo dopo un perio-
do di volo libero. Gibboni e siamanghi compiono le loro arrampicate in prevalenza per brachiazione e sono eccellenti acrobati. I brachiatori, come i corridori scattisti, sono particolarmente adattati per la loro specialità. Hanno gli stessi adattamenti per la distensione, per l’agilità e per l’uso delle braccia sotto tensione degli arrampicatori per distensione-e-spinta, solo che queste modifiche sono più accentuate (Figura 26.7). Gli arti posteriori sono lunghi rispetto al tronco, specialmente nei gibboni e nelle scimmie ragno, ma gli arti anteriori lo sono in maniera spropositata, risultando lunghi anche due volte o più del tronco negli oranghi, nei gibboni e nei siamanghi. La fossa dell’omero che accoglie il cortissimo processo oleocranico è profonda tanto da consentire al ginocchio di essere completamente disteso. La supinazione del braccio di supporto accoppiata alla rotazione del tronco fa avanzare la spalla guida (non di supporto) durante un’oscillazione, aggiungendo all’azione forza e distensione. Per favorirne la realizzazione il muscolo supinatore è forte, il suo braccio di leva interno viene allungato dall’arcuarsi del radio, lo sterno è largo, la cassa toracica più larga che profonda (Figura 26.8) e vi è un’articolazione carpale di tipo rotatorio. La clavicola è lunga, distendendosi sopra l’ampio petto fino al grande processo acromiale. La scapola si dispone appiattita sul dorso più che sui lati del torace come avviene per gli animali che non praticano la brachiazione. La cavità glenoidea è orientata in avanti e di lato, non verso il basso (Figura 26.9). Il muscolo grande dorsale,
il pettorale, il bicipite e il capo lungo del tricipite rafforzano la spalla in funzione antitensione. Potenti sono anche il muscolo trapezio, che sposta il processo acromiale all’innanzi verso il collo, e il muscolo dentato, che spinge verso il fianco della cassa toracica l’angolo posteriore della scapola. L’inserzione e l’orientamento di questi muscoli sono inoltre modificati in modo che insieme possano far ruotare la scapola sul tronco fino a una specifica disposizione. Ciò fa sollevare il braccio al di sopra del corpo e, durante lo slancio,
552
Adattamento
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Figura 26.7. Caratteristiche dello scheletro appendicolare degli arrampicatori, esemplificato dalla gamba sinistra di un pol-
Dita di lunghezza _\ quasi uguale
trone, Choloepus Articolazioni senza creste
e gronde
Articolazione del polso ellissoidale
Le articolazioni consentono la
Radio e ulna quasi uguali,
pronazione e la
indipendenti
supinazione dei piede
Fibula grossa indipendente
Faccetta articolare del radio laterale Testa del radio arrotondata
Gronda patellare poco profonda
Ossa lunghe, sottili, leggere, non scabre
sta
Il grande trocantere è piccolo
Testa dell'omero come una parziale sfera
relativamente grande
(a sinistra) e
dal braccio sinistro di una scimmia ragno, Ateles (a destra).
arrotondate
PCACATICA COCA COORTE CATA
dz
26. Arrampicarsi
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Sterno più largo
Torace più profondo che largo
n Torace più largo che profondo
ma) ny),
La vertebra diaframmatica (ombreggiata)
più arretrata
Vertebre lombari
.
Saar
più lunghe e più numerose
X
by ay
SR
N
)
4
NI L NO A
clILL SF
CERCOPITECO Cercopithecus
Figura 26.8. e una
SCIMMIA RAGNO Ateles
Differenze negli scheletri del tronco tra una scimmia che salta (a sinistra)
che si dondola
(a destra).
probabilmente fa ruotare il corpo attorno al braccio non sottoposto a sforzo. A differenza dei cursori dei quadrupediì che saltano, i brachiatori hanno brevi torsi compatti così che il tronco possa girarsi come un tutt’'unico. L’area lombare contribuisce poco alla locomozione e perciò è quasi rigida, con, relativamente, poche vertebre che per di più hanno corpi corti (Figura 26.8). Le zigapofisi delle vertebre lombari dei mammiferi sono strutturate in modo da favorire flessioni ed estensioni, ponendo
però limiti alla rotazione della spina
dorsale attorno al suo asse lungo. Le zigapofisi delle vertebre toraciche anteriori consentono la rotazione. La transizione si realizza entro lo spazio di una sola vertebra.
Questa vertebra,
la vertebra
diaframmatica,
è ben più arretrata nei
brachiatori (che fanno ruotare la spina dorsale a ogni oscillazione) che nei cur-
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Adattamento
sgzA ore
strutturale
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Acromion lungo e forte Processo coracoideo prominente
Cavità glenoidea poco profonda ed orientata relativamente verso l’avanti
Angolo posteriore relativamente acuto
Figura 26.9. Adattamenti della scapola per la brachiazione esemplificati in quella di una scimmia ragno, Ateles. Le aree ombreggiate corrispondono a zone ossee relativamente appesantite, in quanto vi è il braccio di leva del meccanismo su cui gira la scapola.
sori e nei saltatori (che flettono ed estendono la spina dorsale, ma non la ruotano).
Alcuni arrampicatori hanno movimenti lenti (camaleonti, lori) mentre molti (corridori, saltatori e brachiatori) sono vivacissimi. Questi ultimi abbiso-
gnano di risposte neuromuscolari notevolmente rapide e precise. Le basi morfologiche per un tale controllo possono essere ritrovate nella relativa preminenza del cervelletto, delle olive bulbari, del nucleo rosso, della corteccia motoria e sensitiva, delle vie e dei centri ottici. Gli occhi sono grandi e rivolti innanzi,
così da favorire il sovrapporsi dei campi visivi e quindi la percezione della profondità.
Adattamenti per mantenere il contatto con il substrato E) Aggrapparsi. Quando le dita e il palmo (della mano e del piede) di un camaleonte, di un potto o di una persona si stringono attorno a un ramo o a un
palo e lo afferrano saldamente, lo sforzo muscolare crea forze normali alla superficie del supporto. Queste forze aumentano la resistenza dell’attrito allo scivolamento: più forte è la stretta, maggiore è la resistenza. Un animale con forti
flessori digitali può allora incrementare le normali forze in grado di esercitare, semplicemente servendosi del proprio peso corporeo. In più, aggrappandosi, può resistere allo scivolamento in qualsiasi direzione.
9749.
26. Arrampicarsi
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L’aggrapparsi costituisce una maniera particolarmente versatile ed effi-
cace per mantenere il contatto con il substrato e i diversi arrampicatori hanno sviluppato indipendentemente molti meccanismi aggrappanti. Diversi serpenti si aggrappano ai rami sfruttando le spire del corpo. Il primo dito si oppone agli altri in due o in tutte le zampe
in alcune rane arboree, nelle salamandre arbo-
ricole, in alcuni uccelli e opossum, in molti primati (Figure 26.10 e 26.11). Il secondo
dito della mano
non si dimostra molto efficace, di solito, nella presa
di forza (anche nell’uomo) e in potto e lori è divenuto corto e debole. Il koala e altri falangeridi effettuano la presa fra il secondo e il terzo dito, così come fanno gli echimidi. I pappagalli e altri uccelli arrampicatori oppongono al secondo e terzo dito il primo e il quarto. Le palme delle mani, le piante dei piedi e le dita degli aggrappatori sono nude e sensibili. Alcuni mammiferi terrestri persero irreversibilmente una o più dita fra le laterali: se i loro discendenti fecero secondariamente la scelta arborea non
RAGANELLA
GECO
POTTO
TARSIO
Hyla
Gecko
Perodicticus
Tarsius
SALAMANDRA ARBOREA
CAMALEONTE
Bolitoglossa
Figura 26.10.
Chamaleo
PAPPAGALLO Pyrrhura
Mani (sopra) e piedi (sotto) sinistri di alcuni arrampicatori.
INDRI Indris
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Adattamento
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strutturale
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Figura 26.11.
Disco adesivo sull’ala di un pipistrello, Thy-
roptera.
poterono utilizzare quelle dita per afferrarsi e svilupparono interessanti forme di compensazione. Il formichiere dalle due dita può schiacciare il suo tallone opponendolo con forza alle sue dita residue e un porcospino americano (Erethizontidae) può far raggrinzire in senso longitudinale la pianta del piede e mantenersi con forza aggrappato sfruttandone i bordi laterali. A volte anche la coda si è evoluta divenendo organo per aggrapparsi. Di una tale coda si dirà che è prensile e fra le sue caratteristiche vi sono la lunghezza, la forza, la sensibilità e una curvatura terminale. Fra gli animali provvisti di coda prensile vi sono alcune salamandre, i camaleonti e molti altri sauri, alcuni serpenti arboricoli e le scimmie lagotrici, i formichieri, i pangolini,
i cercoletti, svariati fra ratti e topi e un porcospino americano (Coendon). Molti fra questi animali avvolgono ventralmente la coda, ma quel porcospino lo fa dorsalmente. Le code prensili sono spesso flessibili alla loro base e hanno verso l'estremità vertebre larghe. Spesso hanno cuscinetti nudi laddove si afferrano. 1374]
Bilanciarsi, attaccarsi, muoversi su cuscinetti, aderire a ventosa. Gli
arrampicatori che si spostano con disinvoltura devono essere dei buoni equilibristi. E una conseguenza dei principi esposti nel par. 329 se i mammiferi scansori che camminano o corrono sopra i rami riescono ad avere una maggiore
stabilità abbassando il loro centro di gravità. Salamandre arboricole, serpenti e lucertole hanno già un basso centro di gravità; scoiattoli, ratti e topi, uistiti, cer-
coletti
o hanno zampe corte o le flettono per tenere basso il corpo; gli uccelli
che cercano da mangiare sui tronchi degli alberi hanno zampe corte (è il tarsometatarso
ad accorciarsi
di più) così da mantenere
il più vicino possibile al
supporto il loro centro di gravità. I cinti del camaleonte consentono alle zampe di disporsi verticalmente al di sotto del corpo (fatto inconsueto fra i rettili) consentendo all'animale di mantenere l’equilibrio anche su arbusti sottili. Gli ar-
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26. Arrampicarsi
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i
rampicatori che si dondolano o si appendono al loro supporto utilizzando le loro appendici unghiute (vedi sotto) sono in equilibrio stabile, come nelle sedie a dondolo che tendono a mantenere una determinata posizione. Molti arrampicatori hanno lunghe code che danno il loro contributo a mantenere l’equilibrio; gli arrampicatori senza coda si dondolano, penzolano o si muovono piano. Molti arrampicatori utilizzano le loro code per attaccarsi, per tenersi su, per puntellarsi. Picchi, picchi muratori e rampichini si puntellano con le pinne della coda; l’ultimo pezzo della spina dorsale (pigostilo) e relativa muscolatura sono rafforzati allo scopo. Alcune specie di tarsi hanno un’area nuda e grinzosa alla base della coda che ne fa un più efficace puntello. Gli scoiattoli anomaluridi hanno squame cornee ventrali nelle loro code. Le appendici di molti arrampicatori dispongono di cuscinetti plantari larghi e morbidi; a volte sono rese rugose da piccoli rilievi o impronte digitali che favoriscono attrito e incastri. I primati, i porcospini e i formichieri hanno cuscinetti plantari ben sviluppati; le raganelle, alcune salamandre arboricole, gli opossum, i falangeridi, gli indri, i potto, i galagoni, i tarsi hanno grossi polpastrelli. Gli arrampicatori con code prensili hanno cuscinetti codali. I piedi che hanno questi cuscinetti tendono ad allargarsi e aprirsi. Le ossa metapodiali sono ben distanziate, a sezione circolare, con le estremità distali arrotondate e senza scanalature d’accoppiamento alle articolazioni. Allo stesso modo sono arrotondate le falangi, a parte quelle terminali che a volte sono spatolate. Artigli e unghie sono disposti in modo da non interferire con l’azione dei cuscinetti. Le ventose della tecnologia umana sono di solito costituite da una profonda coppa di gomma, il cui bordo deve essere compresso contro la superficie liscia. L’elasticità della gomma mantiene il bordo a stretto contatto con la superficie, riducendo la pressione entro la coppa cosicché la pressione atmosferica comprime la coppa contro la superficie. La componente di taglio dello sforzo è contrastata dall’attrito. I pipistrelli di due diversi generi hanno delle ventose a disco che funzionano allo stesso modo sulle nocche delle dita e alle caviglie (Figura 26.11). Un tessuto elastico, e non la tensione muscolare, mantiene la suzione
x
entro il disco una volta che è stato fissato.
375 Attaccarsi con ganci e con uncini. Molti arrampicatori, che non si aggrappano, si servono di artigli forti e ricurvi per agganciarsi al substrato. Le punte degli artigli si incastrano in piccole fenditure. Sui fusti più grossi è più sicuro affidarsi agli artigli che alle dita aggrappantisi. Quando il peso dell’animale è insufficiente a mantenere un sicuro incastro, una parte degli artigli può essere messa in opposizione agli altri. I due piedi di uno stesso paio di arti possono disporsi ben distanziati ai lati opposti del corpo (lucertola delle muraglie) oppure i piedi posteriori possono venir rivolti in avanti e all’interno cosicché gli artigli degli arti posteriori si contrappongono agli artigli degli arti anteriori oppure (nella posizione a testa in giù) alla gravità. La posizione rivoltata del piede posteriore si osserva negli scoiattoli, in molti marsupiali, nei primati meno evoluti, nelle tupaie e in molti carnivori. Questa importante abilità risulta da adattamenti delle articolazioni dell’anca e della caviglia e dall’ampiezza delle articolazioni entro il tarso. Aggiungiamo che gli uccelli arrampicatori contrappongono uno o due artigli del piede agli altri artigli dello stesso piede. I
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Adattamento
strutturale
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muscoli flessori delle dita sono potenti e la falange terminale è conformata in modo
da realizzare una buona
leva verso la chiusura
(Figura 26.12).
Vi sono arrampicatori con appendici modificate a uncino che si dondolano o si appendono ai loro supporti. Bradipi e pangolini utilizzano come ganci da 1 a 3 artigli molto lunghi, forti e ricurvi. I pipistrelli e i cinocefali si servono di 5 artigli pressoché uguali. I primati che si dondolano utilizzano le ultime
quattro dita della mano tenute vicine come fossero un uncino. La mano
è de-
cisamente lunga e le falangi sono ricurve in modo da conformarsi alla condizione cilindriforme dei rami. Le code prensili possono venir utilizzate come uncini oppure per aggrapparsi. In tutti questi casi i tendini dei muscoli flessori dell’uncino sono abbastanza corti da impedire passivamente che l’uncino si riapra: un gibbone morto può restare appeso al suo braccio disteso, una scimmia ragno morta rimaner appesa all’estremità della sua coda.
Aderire. I polpastrelli espansi delle raganelle sono ricchi di ghiandole dal secreto appiccicoso, di cui si servono queste piccole rane per tenersi incol-
late a rocce, foglie e rami. In aggiunta, di solito, accostano al substrato le loro umide cosce facendovele aderire. Molte salamandre tropicali hanno una membrana fra le dita aperte, realizzando così un’unica grande placca adesiva. Per togliere il contatto la si rovescia ai bordi o la si solleva dal didietro. Le rane possono avere un pezzo di cartilagine o un osso «in più» subito accanto alla falange terminale, il che sembra che assista l’animale nel tastare intorno con la punta delle dita alla ricerca del punto migliore ove mantenere il contatto con il substrato. Il geco ha unghie con margine acuto che agevolano il suo afferrarsi a substrati ruvidi. Se il supporto è liscio e appena inclinato, l’animale riesce a mantenere la sua posizione grazie all’attrito. Muovendosi però su superfici lisce e sovrastanti,
questa creatura
mette
in azione
uno
dei meccanismi
di più evi-
dente adattamento. Sotto a ogni dito vi sono da 16 a 21 grandi lamelle embricate (Figura 26.13). Sulle superfici esposte delle lamelle di ciascun dito vi sono
all’incirca 150 000 setole filiformi lunghe dai 30 ai 130 um. Ciascuna setola si sfiocca in quasi 2000 pelini e ciascuno di questi termina come la testa di un
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Braccio di leva a del muscolo flessore delle dita
Artiglio grande,
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ricurvo, acuminato
Figura 26.12. Adattamenti del piede di un uccello per arrampicarsi, esemplificati nel terzo dito di un picchio, Colaptes (sopra), a confronto con quello di una smergo, Mergus (sotto), che non si arrampica né si appollaia sui rami.
376
26. Arrampicarsi
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Dito con lamelle embricate
Figura 26.13. Gecko.
Setole sulle lamelie
Filamenti e piastrine terminali sulle setole (diametro del disco pari a 2,5 um)
Adattamenti per arrampicarsi aderendo, esemplificati da un dito di geco,
chiodo, larga 0,2 um circa. Vi sono in tutto qualcosa come 100 milioni di queste testine che toccano il substrato ai loro bordi. (Tutti questi numeri variano nelle diverse specie.) Una debole forza di taglio (determinata dal peso del corpo o dalla spinta muscolare) è necessaria per dare alle setole la curvatura a S che assicura la corretta posizione sul substrato delle piattine terminali. Seni sanguigni sotto le lamelle ammortizzano le dita e regolano la pressione in modo che il massimo numero di piattine terminali possa agganciarsi a qualsiasi irregolarità delle superfici. Complessivamente vi sono tanti di quei contatti e così stretti che l’animale aderisce per tensione superficiale. La presa è salda: se cercassimo di staccare un grosso geco da una lastra verticale di vetro, la lastra cadrebbe in frantumi. L’adesione alla lastra verticale continuerà anche se uccidessimo l’animale o lo mettessimo sotto vuoto. Questi sauri, inoltre, hanno difficoltà nell’aderire a materiali a bassa tensione superfi-
ciale (per esempio il teflon) e, se le setole si impolverano o si scompigliano, la capacità di arrampicarsi si riduce fintantoché la pelle muta e nuove setole sostituiscono le vecchie.
Per interrompere
il contatto, il geco riesce a staccare la
pelle delle sue flessibili dita dal substrato facendole rotolare all’indietro, co-
minciando dalle punte. Le non affini lucertole anolidi hanno setole non sfilacciate più corte, ma la funzione da svolgere è la stessa: è questo un esempio bellissimo di evoluzione convergente.
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CAPITOLO
1
NUOTARE E IMMERGERSI
Nuoto, tuffi
e immersioni
377]. Un vertebrato che viva in acqua viene qualificato come acquatico: non vi sono purtroppo termini appropriati per quei vertebrati che sono in grado di nuotare a velocità particolarmente alte o con grande abilità oppure per tempi molto lunghi. Tutti i pesci sono nuotatori primari, in quanto anche i loro predecessori nuotavano; tutti gli altri vertebrati nuotatori sono nuotatori secondari
o di ritorno, in quanto i loro predecessori hanno attraversato una fase di vita terrestre e di conseguenza si trovano in condizioni svantaggiose, tanto struttu-
rali che fisiologiche, che a molti di loro hanno di fatto impedito di divenire del tutto acquatici. Quasi tutti i vertebrati sono in grado di nuotare in un modo o nell’altro e in ogni classe ve ne sono di veramente efficienti; non vi è nessuna netta linea di demarcazione fra nuotatori e non. Pertanto noi privilegeremo in questo ca-
pitolo quelli che trovano nell’acqua cibo e rifugio e che sono capaci di nuotare sotto la superficie, in immersione.
Per quanto sia stato scritto molto sul nuotatore, molto occorre ancora apprendere, essendo le analisi dettagliate spesso difficili da analizzare.
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Adattamento strutturale
378]
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Vantaggi del nuotare e dell’immergersi [378]
È quasi fare dell'accademia mettersi a discutere del valore che ha la vita
nell’acqua per la sopravvivenza dei nuotatori primari: è un modo di vivere che ha avuto successo e per molti di loro la natura non ha offerto altre alternative. Come scrivemmo nella Parte II di questo libro, il passaggio alla vita terrestre fu così radicale che richiese quasi 100 milioni di anni per giungere a completamento. Il percorso inverso, di nuovo nell’acqua, fu «più facile» e avvenne in più occasioni. I nuotatori secondari e i tuffatori possono avere sui non-nuotatori almeno uno dei seguenti vantaggi:
1. Hanno la possibilità di accedere a un’ampia varietà di alimenti acquatici, come pesci, plancton, grossi invertebrati e vegetali. 2. Sfuggono ai predatori terrestri: è vero che in tal modo sono perseguibili dai predatori acquatici, ma i processi evolutivi hanno comportato, caso per caso, una condizione di maggior sicurezza.
3. Gli oceani e le grandi vie d’acqua intercontinentali hanno favorito la dispersione e le migrazioni.
Qualità speciali di nuotatori e tuffatori 379] Velocità. Una prima qualità caratterizzante molti vertebrati acquatici è la velocità. Il più veloce pesce cartilagineo è probabilmente lo squalo tonno o makò (Isurus oxyrhynchus), mentre fra i pesci ossei questo onore è condiviso da componenti della famiglia Scombridae (tonni, sgombri), Istiophoridae (pesce ventaglio americano e marlin) e Xiphiidae (pesce spada). Il tonno può raggiungere i 27 km/h (Figura 27.1) e un pesce simile alla sarda, Acanthocybium solandri, i 77 km/h: sono velocità pari a 18-21 volte la lunghezza del corpo per ogni secondo, di un ordine di grandezza superiori a quella realizzabile da un nuotatore umano. Velocità maggiori sono state accreditate per il pesce vela americano, per il marlin e per il pesce spada, ma quei record necessitano di qualche verifica. Molti anfibi e rettili viventi sono acquatici, ma nessuno è particolarmente veloce: può darsi che lo fossero gli estinti sauri marini chiamati mosasauri e gli ittiosauri dall’aspetto di delfini (vedi Figura 4.7). Alcuni pinguini raggiungono i 36 km/h (Figura 27.2). Fra i mammiferi acquatici i migliori nuotatori nei rispettivi ordini, pur non essendo velocisti, sono l’ornitorinco, il chironette minimo o yapok, il castorino (Figura 27.3), i lamantini, gli ippopotami. Otarie e foche possono nuotare a oltre 22 km/h, mentre i delfini raggiungono i 40 km/h e si dice che le balenottere possano arrivare ai 65 km/h.
380) Immersioni in profondità. Molti nuotatori primari si spingono nelle profondità oceaniche; nonostante dipendano dall’approvvigionamento di aria
in superficie, anche nuotatori secondari si immergono in profondità e qui pos-
380
27. Nuotare e immergersi
563
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:
Indice morfologico della coda =
Li
apertura
È
corda
= alta
Apertura
MARLIN NERO, Makaira
—
Pinnule dorsali e ventrali determinano una riduzione
dei flussi liquidi contrastanti
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La forma del peduncolo e quella delle sue carene laterali determinano una riduzione pressoria sulla pinna caudale
PALAMITA, Sarda
Corpo fusiforme
Peduncolo caudale sottile, rigido
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TONNO
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Za
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Coda rigida
ROSSO, Thunnus
Figura 27.1. Esempi di pesci con evidenti adattamenti per il nuoto veloce.
sono restare per giungere i 290 m mersi anche per nelle immersioni di remo e inabili
lunghi periodi. La tartaruga verde (Chelonia mydas) può ragdi profondità e i serpenti di mare (Hydrophidae) restano im2 ore. Pellicani, sule, sterne, petrelli tuffatori utilizzano le ali e i pinguini sembra volino sott'acqua con le loro ali a forma al volo aereo: una specie di pinguino è senz’altro stata accre-
ditata di una discesa a 265 m e di 18 minuti di immersione.
Le alche, le urie,
le pulcinelle di mare e i petrelli tuffatori nuotano e volano con le loro ali affusolate. Cormorani, svassi, tuffetti
e alcune anatre nuotano in immersione ser-
vendosi dei piedi; a volte qualcuno di questi uccelli nuotando utilizza ali e piedi. I tuffetti possono raggiungere profondità di 55 m.
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Adattamento
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strutturale
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TARTARUGA CARETTA Caretta
SERPENTE MARINO Pelamys SVASSO CORNUTO Colymbus
SFENISCO DEMERSO Spheniscus
Figura 27.2. Esempi di nuotatori subacquei fra rettili e uccelli.
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27. Nuotare e immergersi
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CASTORINO Myocastor
LONTRA Lutra
LAMANTINO Trichechus
Figura 27.3. Esempi di mammiferi acquatici di tre diversi ordini: roditori (sopra), carnivori (al centro) e sirenidi (sotto).
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Adattamento strutturale
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Diversi roditori possono rimanere immersi dai 6 ai 10 minuti e il lamantino per 16 minuti. Fra i carnivori tuffatori vi sono i cani pescatori o cani
procioni (Nyctereutes spp.), il mampalon (Cynogale bennetti), l’icneumone delle paludi (Atilax paludinosus), le lontre (Lutra spp.) e le lontre marine (Enhydra lutris). L'otaria della California può immergersi fino a 146 m, la foca della Groenlandia (o foca della sella) fino a 273 m e quella di Weddell fino a 600 m. Quest'ultima si sposta anche di 12 km dal suo buco nel ghiaccio, restando sott'acqua per almeno 30 minuti, arrivando anche a 70 minuti se resta ferma. I delfini restano immersi dai 10 ai 20 minuti. Altri primati sono quelli di 50 minuti per la balenottera azzurra, di 90 minuti per il capodoglio e di 120 minuti per l’iperodonte dal rostro (Hyperodoon ampullatus). Un delfino è stato addestrato a immergersi ripetutamente a 300 m, le balenottere si spingono a 500 m e i capodogli arrivano fino a 1100 m, dove la pressione è di 110 atmosfere. Resistenza. Un salmone nuotò per 1000 km risalendo un fiume con una
spesa energetica equivalente a una velocità media in acque tranquille di 4,2 km/h. Molti pesci scombroidi e lo squalo tonno nuotano in continuazione. Le otarie orsine di norma migrano per 12 000 km/anno. Le balene grigie della California navigano a una velocità media di 5,5 km/h nella loro annuale migrazione di andata e ritorno per oltre 19 000 km. La balenottera azzurra si dice sia in grado di nuotare a 27 km/h per due ore (con una ferita da arpione). Accelerazione e manovrabilità. Altre qualità dei vertebrati acquatici sono meno documentate. Le trote possono accelerare di 50 m/sec per secondo, raggiungendo la massima velocità di 9 volte la lunghezza del corpo/secondo in 0,15 secondi. Il delfino macchiato, Stenella dubia, può arrivare alla velocità di 40 km/h in due soli secondi. Le capacità di manovra dei banchi di pesci e l’agilità dei pesci della barriera corallina, dei serpenti marini, dei pinguini, delle lontre e di molti altri animali nuotatori colpiscono l'immaginazione.
Requisiti generali di nuotatori e tuffatori 383 Tutti gli efficienti nuotatori e tuffatori debbono (1) ridurre la resistenza che l’acqua offre al movimento di un corpo, (2) far avanzare se stessi in un mezzo relativamente denso, (3) controllare la profondità di immersione e (4) man-
tenere l'orientamento e la direzione del corpo. I nuotatori secondari debbono anche (5) escludere l’acqua dalle loro vie respiratorie e dalle orecchie, (6) evitare i danni conseguenti allo schiacciamento degli spazi pieni d’aria, (7) modificare orecchi e occhi in modo che possano funzionare (ancora) sott'acqua e (8) modificare la loro fisiologia respiratoria e circolatoria in modo da consentire la
sospensione della respirazione e impedire la formazione delle bolle gassose nel
sangue (emboli) nel tornare in superficie dopo l’immersione in profondità. A1l-
cuni uccelli
e mammiferi
acquatici debbono
anche (9) controllare la tempera-
tura corporea in un ambiente ad alta conduttività termica e (10) adattare la loro
biologia riproduttiva alla vita nell’acqua.
384
27. Nuotare e immergersi
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Resistenza al movimento nell’acqua 384 | Origine e caratteristiche della resistenza al movimento nell’acqua. Vi sono molte forme di resistenza al moto, che presenteremo una per volta per comodità didattica. La prima forma di resistenza è quella d’attrito. Si immagini un oggetto rigido, liscio e affusolato che si muova sott'acqua. Un leggero velo d’acqua ne bagna la superficie e si muove con esso, ma già a brevissima distanza da questo non si ha alcun movimento dell’acqua dovuto all’oggetto. Tra l’oggetto e l’acqua indisturbata vi è una zona di contorno ove i successivi strati d’acqua scivolano uno sull’altro: quelli più vicini all’oggetto si muovono veloci quasi quanto l'oggetto, mentre quelli via via più distanti si muovono sempre meno. Le forze tangenti così generate tendono a far rallentare l’oggetto in moto creando una resistenza contraria. La zona di contorno è più ampia nella parte
posteriore dell’oggetto in moto (Figura 27.4). Se un oggetto liscio e affusolato si muove lentamente nell’acqua, i successivi strati della zona di contorno scivolano uno sull’altro senza quasi creare vortici e si potrà parlare di flusso laminare; se però l’oggetto si muove a maggior velocità, là, dove la zona di contorno si fa più ampia, oppure dove vi sono rugosità e asperità superficiali, l’acqua diviene vorticosa (Figura 27.5). L'energia che spinge l’acqua a formare vortici è prodotta dall’oggetto, il che comporta un forte aumento della resistenza al moto: si parla allora di flusso turbolento. Un flusso turbolento genera una zona di contorno più ampia di quanto non faccia un flusso laminare e una maggiore resistenza. Molti pesci quando si muovono lentamente generano flussi laminari, ma quando vanno veloci il flusso diviene turbolento attorno alla parte posteriore del corpo, e vedremo come ciò possa risultare vantaggioso. Per essere realistici sarà opportuno, prima di tentare una qualsiasi semplificazione, esaminare nei dettagli le diverse variabili. La resistenza opposta
Linee di flusso Zona di contorno
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Figura 27.4. Linee di flusso, zona di contorno e distribuzione delle pressioni quando il flusso attorno a un oggetto affusolato è laminare.
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Adattamento
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strutturale
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Figura 27.5. Linee di flusso che evidenziano la turbolenza provocata da un pesce che nuota visto dall'alto. Conformazioni diverse possono presentarsi a seconda delle variabili.
dall’attrito (espressa in dyn) è pari al prodotto di 0,5 volte la densità del fluido per l’area dell’oggetto per una costante detta coefficiente di resistenza al moto. Questo coefficiente deve essere calcolato per ogni situazione e varia con la forma e le condizioni della superficie dell’oggetto (quindi con la natura laminare o turbolenta del flusso); risente inoltre di un fattore, detto numero di Reynold, che esprime il rapporto tra l’inerzia del fluido e la sua viscosità. Per calcolarlo occorre considerare la velocità e la lunghezza dell’oggetto, oltre che la densità e la viscosità del fluido. È un numero puro con valori molto alti (intorno a 10°510”°) per i grossi vertebrati dal nuoto veloce.
1385] Tutto questo sembra molto complicato, ma proviamo a scomporlo valutandone gli elementi. La velocità entra nella formula principale come potenza al quadrato e interviene nel calcolo del numero di Reynold: ne consegue che i vertebrati nel nuoto lento incontrano una trascurabile resistenza, indipendentemente dalle altre variabili, e ne sono testimonianza i corpi non certo idrodinamici del cavalluccio marino e dei pesci scatola (Ostracion). All’opposto, la resistenza opposta ai veloci nuotatori sale molto rapidamente con l'aumento della velocità. Il metabolismo quasi raddoppia a ogni aumento di velocità di una lunghezza corporea/s, per cui risulta chiaro come i più veloci nuotatori si avvicinano moltissimo ai limiti biologici. Ne consegue che, per nuotare veloci, sarà bene ridurre per quanto possibile tutti quei fattori che, a parte la velocità, fanno crescere la resistenza. Con poche eccezioni, i nuotatori non possono far nulla (o quasi) per modificare la densità o la viscosità dell’acqua, cosicché non vale la pena di occuparci di questi elementi della formula. La resistenza aumenta con le dimen-
sioni corporee, ma così fa anche la potenza svolta dalla macchina animale, per cui questi due fattori di fatto si compensano. In conseguenza di alcune considerazioni fisiologiche piuttosto complesse si ritiene che i nuotatori di dimensioni medio-grandi godano di alcuni vantaggi. I nuotatori più veloci sono i grossi pesci e le piccole balene. Ci restano le importanti variabili della forma del corpo e delle caratteristiche della superficie corporea. Prima di vedere come risultano adattate per un nuoto veloce ed efficiente, sarà però opportuno prendere in considerazione altre fonti di resistenza al moto. Quando un oggetto affusolato si muove nell’acqua, sposta un volume di liquido pari al proprio volume più un terzo del volume della zona di contorno. In più vi è anche un richiudersi dell’acqua dietro l’oggetto che si sposta. A certe
condizioni di velocità, dimensioni e forma dell’oggetto, la richiusura dell’acqua
385 | | 386
27. Nuotare e immergersi
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© 88-08-11832-0 non
è immediata
e lo strato avvolgente si scompone,
il che crea un risucchio
dietro l’oggetto e fa sì che l’acqua segua la scia. (Un osservatore dalla poppa di una nave sì rende facilmente conto che l’acqua nella scia sfugge via con minor rapidità di quella ai bordi.) Vi è in più anche una pressione positiva sulle parti anteriore e posteriore dell’oggetto e una pressione negativa nella zona intermedia. L'energia necessaria a determinare questi movimenti di acqua e queste va-
riazioni di pressione deriva dall’oggetto. La resistenza che ne risulta viene indicata come resistenza pressoria ed è trascurabile quando il numero di Reynold è basso, ma non lo è più, anche se non facile da calcolare, quando il numero è alto. Infine, se l’oggetto si muove in superficie, come fa una nave o un’ana-
tra, o abbastanza vicino alla superficie da generare onde superficiali, allora dall’oggetto deve provenire anche l’energia necessaria per provocare le onde e si avrà una resistenza ondulatoria. La resistenza è maggiore quando l’oggetto si sposta appena sotto la superficie. Le variabili associate con la resistenza ondulatoria non sono comprese
appieno.
Queste considerazioni sulla resistenza al moto di un oggetto rigido dovrebbero aver reso evidente che nei vertebrati nuotatori sono necessari adattamenti nella forma del corpo e della costituzione delle superfici del corpo. In più, non essendo i nuotatori dei corpi rigidi, la resistenza può venir ridotta da adattamenti comportamentali.
386 | Riduzione della resistenza al moto grazie ad adattamenti della forma del corpo. La resistenza pressoria è bassa quando il corpo è lungo e sottile, come quello di un serpente e di un’anguilla, perché non vi è che un minimo spostamento e risucchio d’acqua. La resistenza d’attrito è minima, però, quando il corpo è corto e tondeggiante, in quanto la superficie ha un’area minima. Il migliore compromesso è un fuso che ha una sezione trasversa circolare ed è più spesso nel tratto mediano nel senso della lunghezza. Il corpo dei tonni, dei pesci spada e dei delfini si avvicina moltissimo a questa forma. La mancanza di un collo funzionale (nuotatori primari, cetacei e sirenidi), la simmetria della te-
sta, il modellarsi del torace e delle masse muscolari, la distribuzione del grasso e delle sostanze oleose, tutto può contribuire a un miglior assetto idrodinamico. Qualsiasi elemento protundente dalla forma-base provoca di norma turbolenze e vortici, comunque un aumento della resistenza al moto. In conseguenza di ciò i nuotatori più efficienti riducono o eliminano tutte le prominenze di maggior rilievo che non siano necessarie alla propulsione e alla direzione del moto. Fin dai loro predecessori i nuotatori non mammiferi non hanno né orecchie (esterne) né genitali esterni; i mammiferi acquatici hanno perso le orecchie (esterne) e i loro testicoli si sono portati entro l'addome. Mammelle, capezzoli e così pure il pene non interrompono il profilo dinamico del corpo quando non sono in funzione. I veloci nuotatori primari non hanno alcun elemento articolato fra pinne e corpo; i veloci nuotatori secondari hanno zampe cortissime per portare il più vicino possibile al corpo i piedi o le pinne. L’omero dei cetacei può arrivare ad essere non più lungo di quanto è largo, il femore dei pinnipedi anche meno del doppio della larghezza e il femore degli uccelli tuffatori è corto
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Adattamento
strutturale © 88-08-11832-0
anch’esso, con gran parte della muscolatura della zampa che non sporge dalla linea del tronco. Cetacei e sirenidi hanno le appendici pelviche ridotte a vestigia interne, mentre vi sono altri nuotatori che dispongono i loro arti posteriori in modo tale da non risultare sporgenti, anzi prolungano il profilo fusiforme del corpo. Le articolazioni del ginocchio nei pinnipedi, nei castori e in molti uccelli tuffatori sono strutturate in modo da rendere attuabile il cambio di posizione dell’arto. Salamandre, coccodrilli e sauri acquatici dispongono i loro arti aderenti al corpo mentre nuotano flettendo coda e tronco. Le pinne laterali e quelle caudali, per fornire una propulsione al corpo, debbono d’altra parte sporgere in fuori e presentare una superficie piana. Molti nuotatori muovono
in un certo
modo le loro pagaie laterali nel loro movimento di spinta e in modo diverso nel modo di recupero. La rotazione dell’intera appendice sulla sua base può portare a un vero e proprio taglio dell’acqua (come fanno le pinne di un leone marino). I lobi mediani nelle dita degli svassi vengono ruotati in modo simile nel richiamare in avanti i piedi, e i loro lobi laterali si piegano passivamente. Queste pinne laterali e questi lobi, come pure le pinne mediane e quelle appendici pari che vengono essenzialmente usate per dirigere la rotta, hanno una sezione tra-
sversa idrodinamica, cosicché il flusso d’acqua su di esse è quasi laminare quando fendono l’acqua. Le pinne pettorali dei pinnipedi, le ali di molti uccelli tuffatori e le pinne pari dei pesci vengono portate aderenti al corpo quando l’animale ne sta sfruttando la spinta (in scivolata). I teleostei sono anche in grado di ridurre l’area delle loro pinne ripiegandole. Le pinne dorsali e anali (inclusa la «vela» dell’istioforo americano) possono essere ripiegate entro solcature sulla superficie del corpo durante il nuoto veloce. I tetrapodi palmipedi flettono le loro zampe e ritraggono e ripiegano le loro dita nel movimento di recupero dopo la spinta natatoria. 387]
Riduzione della resistenza al moto grazie ad adattamenti della super-
ficie corporea e comportamentali. È un vantaggio conseguire un flusso lamina-
re sulla più ampia porzione possibile del corpo: a questo fine i pesci hanno scaglie piccole e lisce, o non le hanno addirittura, ricoprendosi di muco. Le piccole penne simili a scaglie dei pinguini e il pelame delle foche e delle lontre costituiscono una copertura molto liscia. Cetacei e sirenidi (e fors’anche gli ittiosauri) sono
(o erano) secondariamente
nudi e con la pelle untuosa.
I nuotatori più grossi e più veloci non sono in grado di prevenire un flusso turbolento sulla maggior parte del loro corpo e, nei fatti, ne traggono vantaggio perché una moderata turbolenza riduce di molto la separazione degli strati limitanti e il riflusso posteriore. La «strategia» del nuotatore consiste quindi nel provocare, però controllandola, una superficiale turbolenza. In netto contrasto con i grossi vortici associati con la resistenza alla pressione, i vortici determinati da una turbolenza così provocata sono molto piccoli e in prossimità del corpo. Così come avviene con le fossette di una palla da golf, l’aumentata resistenza d'attrito provocata da questa turbolenza è più che compensata dalla riduzione della resistenza alla pressione. Gli adattamenti associati a queste condizioni sono numerosi, ma le verifiche sperimentali della teoria ancora scarse.
Molti pesci hanno sulle scaglie molte protuberanze grandi quel tanto
387 | |388 | | 389
27. Nuotare e immergersi
571
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che basta a provocare turbolenza; prominenze simili si trovano anche sulla spada del pesce spada. Di solito più scaglie dispongono di microrilievi che insieme costituiscono delle longitudinali «gronde di scolo» che si ritiene controllino i flussi entro lo strato avvolgente. La pelle dei cetacei e quella dello squalo gigante (Cetorhinus maximus) hanno uno strato spugnoso capace di subire deformazioni
elastiche, probabilmente
ammortizzanti
i contraccolpi
della turbo-
lenza. Le pinnule sul peduncolo caudale di molti pesci gran-nuotatori (Figura 27.1) e le carene laterali sulle loro code sono interpretate come riduttori di turbolenza e deflettori del flusso dietro la pinna caudale. Non è solo la liscia pellicola di muco che ricopre il pesce a ridurre la resistenza al moto. Il muco è solubile in acqua ma solo se rimescolato, per cui non viene via con tanta facilità: in concentrazioni ridotte, come può essere al-
l'1%, riduce l’attrito di flusso di quasi il 60%, riducendo così fortemente la viscosità dell’acqua dello strato limitante. I pesci dotati di un forte potere di accelerazione, come sono le trote, sono i più provvisti di muco. È abbastanza importante che i più veloci nuotatori assumano portamen-
ti che li fanno simili a sottomarini o a siluri; fattori complessi e solo in parte conosciuti ne sono alla base. È stato rilevato il fatto che il distacco degli strati avvolgenti comporta una retrosuzione, per cui l’acqua finisce con il seguire il nuotatore. Però nella sua azione propulsiva la pinna caudale spinge l’acqua indietro, così da annullare questa forma di resistenza. Gli opercoli dei più veloci osteitti si aprono alternativamente, in sincronia con le ondulazioni del corpo, con il risultato che l’acqua viene espulsa dalle branchie a velocità abbastanza elevata da ridurre la resistenza al moto oppure da avviare (se desiderabile) un
processo di turbolenza. Quando gli animali nuotano appena sotto il pelo dell’acqua, la resistenza dovuta al formarsi delle onde si aggiunge alle altre resistenze portando la resistenza totale a valori superiori ai minimi di ben cinque volte. Non è probabile che vi siano molti vertebrati in grado di nuotare veloci in questa posizione. I salti «gioiosi» dei delfini possono anche essere solo (o in parte) un modo per evitare di nuotare in superficie mentre si riforniscono d’aria.
Forma, funzione e modalità di propulsione 388
I vertebrati nuotatori si servono, per ottenere la propulsione necessaria,
solo di ondulazioni e oscillazioni: non utilizzano nulla che abbia analogia con vele, eliche o motori a reazione (a parte le piccole spinte determinate dall’azione delle branchie).
389] Origine delle forze propulsive. Tutti i nuotatori ondulanti e quasi tutti quelli oscillanti si danno una spinta in avanti facendo agire nell’acqua un propulsore (cioè, una pinna o una parte del corpo) in senso diagonale. Le forze che interessano la coda di un pesce serviranno a far capire come nasce questa spinta motoria (Figura 27.6). La pinna è larga e appiattita così che l’acqua non possa agevolmente fluirle attorno ma faccia invece resistenza ai suoi movimenti laterali: in altre parole, la sua resistenza è elevata quando oppone all’acqua la sua
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Adattamento
3 89
strutturale
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Pinna caudale
A
Peduncolo- caudale
B
d
6
7
È
8
3
CALL ibi
Corrente aerea
Corrente aerea _— n
FR
=
itiva
pressione posi
C
D
Figura 28.4. Alcuni dei fattori che influiscono sulla spinta ascensionale.
l’ala nel modo raffigurato nella parte B. Perché l’aria si divida in questo modo non è del tutto chiaro, ma si può constatare che l’aria passante al di sopra dell’ala si sposta più rapidamente dell’aria che passa al di sotto. Muovendosi più rapidamente fa sì che la sua pressione diminuisca. Di conseguenza (come stabilisce il teorema di Bernoulli) la pressione è più alta sotto l’ala che sopra. La parte perturbata del flusso dell’aria è più sottile vicino al bordo anteriore di ciascuna ala: è qui che l’aria acquista velocità e determina l'abbassamento della pressione. In tutte le altre parti dell’ala le forze sono in rapporto proporzionale con le adiacenti pressioni dell’aria (parte C). Tutte le forze che agiscono sull’ala conseguenti al suo spostamento sono scomponibili in due componenti, la resistenza aerodinamica (R), per definizione parallela al flusso d’aria e opposta alla direzione
di volo, e la componente
ascensionale
o portanza
(P) ad essa
perpendicolare (parte D). Queste forze agiscono sul centro di pressione (X) localizzabile di solito tra un quarto e metà della distanza fra il margine anteriore e quello posteriore dell’ala. In altre parole, tutte le forze in atto hanno sull’ala lo stesso effetto di R e P su X. Nel volo orizzontale in aria calma la componente P è diretta verso l’alto ed è di senso contrario alla spinta gravitazionale. Nel volo ascendente o discendente ad ali immobili l’elevazione non è verticale, ma perpendicolare alla direzione di flusso dell’aria: avrà pur sempre una componente verticale (a meno che il volatore non voli rovesciato oppure volga verso il basso il margine anteriore dell’ala, rendendo negativo a), ma avrà altresì una componente orizzon-
2108
0 FAV29)
28.
Volare e planare
601
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tale diretta in avanti (nel volo discendente) o all’indietro (nel volo ascendente).
Mentre a passa a valori più elevati, aumenta anche P e il centro di pressione si sposta in avanti fino a un quarto circa della distanza fra i due margini dell’ala. Quando a supera però i 15° la corrente d’aria non fluisce più senza vortici sulla faccia superiore dell’ala, ma si distacca invece dall’ala in maniera turbinosa: la spinta ascensionale cessa di colpo e il volatore si dirà in stallo. Vi sono altre variabili ancora: un’ala convessa verso il basso, in sezione
(Figura 28.5) risulterà inarcata. Le ali dei vertebrati volatori sono tutte inarcate, almeno in prossimità del corpo. La linea ideale congiungente i bordi anteriore e posteriore di un’ala inarcata vien detta corda. Per di più la disposizione delle ossa e della muscolatura in un’ala di vertebrato rende il bordo anteriore più spesso, rendendo così la stessa ala «aerodinamica»
in sezione trasversa. Questo
fatto risalta chiaramente nelle ali degli uccelli. E infine, la presenza di una seconda piccola ala immediatamente avanti il bordo anteriore della prima ala crea una zona fessurata nella superficie alare. Questa fessura devia l’aria da sopra il bordo immediatamente al di sotto dell’ala principale, apportando energia nella zona retrostante il bordo e prevenendo la turbolenza di distacco. Ne consegue che P cresce ancora e a diviene più ampio prima che l’ala entri in stallo. Il primo dito e penne annesse dell’ala di un uccello è noto come alula. Non è più lunga di 1-3 decimi dell’ala e quando viene spostata in avanti crea una fessura sul fronte della superficie alare. (Alcuni uccelli dispongono di tutta una serie di fessure fra le punte delle remiganti primarie all’estremità delle ali. Della loro
Figura 28.5. Bombatura e profilo aerodinamico dell’ala di un uccello in particolari sezioni trasverse.
602
Adattamento
strutturale
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funzione se ne discuterà in seguito.) I pipistrelli non dispongono di ali fessurate, ma sono in grado, abbassando il pollice, di realizzare una specie di alettone anteriore. Allo stesso modo, allargando a ventaglio la coda, alcuni uccelli realizzano un vero alettone di coda. Possiamo ora mettere in una più precisa relazione queste variabili. La portanza è uguale a 1/2 pV?SC,, con p = densità dell’aria, V = velocità dell’aria, S = area della proiezione sul piano orizzontale della superficie alare («l’ombra dell’ala») e C,= coefficiente di portanza. Le due ali e quella parte del corpo che le unisce funzionano come un tutto che va considerato unitariamente nel calcolare S. Quando le ali non stanno battendo la portanza è maggiore verso la parte mediana e minore verso le estremità. Il coefficiente C, è un numero adimensionale («puro») di solito pari a 1,5 per gli uccelli, con possibilità di valori superiori a 2 con le ali fessurate. Il suo valore dipende dall’inclinazione dell’ala, dalla sua lombatura e dal suo profilo aerodinamico, dalla presenza di fessure o di alettoni e dalla loro conformazione, dalla tessitura della superficie alare e dal numero di Reynold. A sua volta il numero di Reynold è uguale al prodotto della densità dell’aria per la velocità dell’aria per la lunghezza media della corda della bombatura dell’ala, il tutto diviso per la viscosità dell’aria. Per i vertebrati volatori assume valori che vanno da 40 000 a 130 000 (che risultano
quindi più bassi dei corrispondenti numeri per nuotatori). Ai nostri fini questo complesso di variabili può essere semplificato. Dato che densità e viscosità dell’aria sono espresse da numeri piccoli e tra l’altro ben poco controllabili dal volatore, potremmo trascurarle nel valutare la portanza. La bombatura e la forma dell’ala influenzano la portata per lo più in stretta dipendenza con l’inclinazione dell’ala. Ciò rende di particolare importanza per la portanza i valori dell’angolo di inclinazione, della superficie alare e della velocità dell’aria. La velocità dell’aria è espressa al quadrato nella formula-base della portanza ed entra anche nel calcolo del numero di Reynold. Ne consegue che, se i volatori sono veloci, vi è abbastanza portanza anche quando le ali sono sottili, ad area ridotta, con lieve bombatura, senza fessure e poco inclinate; d’altro canto, se i volatori sono lenti, sono necessarie ali grandi e bombate, con una
forte inclinazione, perché l’ascensione avvenga con rapidità. (Vi è, per la verità una componente diretta verso l’alto nel volo battente ascensionale, che però considereremo in seguito. Un volatore può ottenere una spinta verso l’alto inserendosi in una corrente ascensionale e di questo si discuterà parlando di veleggiare, di volo planato e di volo in formazione.)
Resistenza
aerodinamica
413] La resistenza aerodinamica (cioè la resistenza opposta dall’aria al movimento del volatore) agisce orizzontalmente in senso contrario al volo quando questo avviene a quota costante e in aria tranquilla. È opportuno scomporre la resistenza aerodinamica (R) in due componenti, passiva e indotta. La resistenza aerodinamica passiva (R,) (o resistenza parassita) è quel-
la resistenza aerodinamica che agisce su un’ipotetica lamina alare di lunghezza
infinita ed è pure tutta la resistenza agente sulle ali e sul corpo che le unisce
413
28.
Volare e planare
603
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î
(il tutto considerato unitariamente)
di un volatore reale, escludendone
la resi-
stenza indotta dal movimento dell’aria attorno alle estremità alari. La resistenza aerodinamica è generata dall’energia ceduta all'ambiente con l’attrito dell’aria sul corpo, con lo spostamento dell’aria, con la formazione di gradienti di pressione nell’aria e con la produzione di vortici. R, = 1/2 pV?SC,,, con C,, quale coefficiente della resistenza aerodinamica e le altre variabili con lo stesso significato di quelle utilizzate nella formula per P. Il valore di C,, varia a seconda della bombatura, del profilo, della filettatura, del contorno dell’insieme ala-corpo e a seconda del numero di Reynold. (Si tratta delle stesse variabili che influenzano il valore di C,,, ma le reciproche relazioni sono diverse.) Nel riportare in su le ali, gli uccelli possono
ridurre notevolmente
Gp consentendo
al-
l’aria di passare tra le penne. I volatori, come i nuotatori, valutano e controllano il fluire sul loro corpo del fluido entro cui si muovono. Nella galleria del vento l’energia persa dai modellini di uccelli è quasi due volte quella persa da uccelli vivi. Uno studio analitico ha consentito di accertare un flusso di tipo laminare sulla maggior parte della superficie corporea di un avvoltoio. La pressione dell’aria al di sotto di un’ala in volo ascensionale positiva rispetto alla pressione atmosferica e quella al di sopra negativa, e ciò determina un flusso d’aria che da sotto l’ala si porta verso l’esterno, passa attorno alla punta e scorre verso l’interno al di sopra dell’ala. (L’aria proveniente frontalmente, agendo come una barriera, impedisce questo flusso attorno ai bordi anteriore e posteriore.) Questo flusso determina forti vortici alle estremità alari e modifica nelle altre parti il movimento dell’aria determinando un piccolo aumento di a (Figura 28.6). Ciò sottrae energia al volatore e determina quella che è nota come resistenza aerodinamica indotta (R;), pari a 1/2 pV°SC,;, ove C,; è
il coefficiente di resistenza indotta e le altre variabili sono quelle già note. Poiché R, è determinata dal fluire dell’aria attorno alle estremità alari, essa aumen-
ta con l'aumentare del gradiente di pressione attorno alle ali ed è minore per le ali a punta o strette. (Vi è una minore disponibilità di estremità alare per l’a[S ria che fluisce attorno.) La sottigliezza dell’ala è espressa dall’allungamento Vortice dell'estremità alare in relazione ra con la resistenza aerodinamica indotta
Rapporto caratterizzante l'allungamento alare =
apertura :