Amnesie. Dalla strage di Erba al delitto di Cogne 8866524263, 9788866524267

È possibile uccidere e poi dimenticarsi di averlo fatto? È possibile descrivere l'assassino in un modo e poi cambia

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Italian Pages 240 [241] Year 2018

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Amnesie. Dalla strage di Erba al delitto di Cogne
 8866524263, 9788866524267

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INCHIESTE Collana a cura di Armando Palmegiani

Fabio Sanvitale – Armando Palmegiani

Amnesie dal delitto di Cogne alla strage di Erba

© 2018 SOVERA MULTIMEDIA s.r.l. Via Leon Pancaldo, 26 - 00147 Roma Tel. (06) 5585265 www.sovera.it e-mail: [email protected]

I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i paesi.

Prologo

Leggere il giornale sarà una cosa all’antica ma ci piace troppo. Niente di meglio, prima di cominciare una doppia indagine su due casi criminali di ieri, che vedere quali delitti sono successi oggi. È il nostro lavoro. Con Fabio siamo al baretto di Maurizio, a via Marmorata, per un “buon caffè” – lui lo chiama così ed è proprio vero – e commentiamo la solita lite, col solito pensionato che ha accoltellato il solito vicino. “Dev’essergli partita la brocca, come successe a te anni fa. Pensavo stessi per ammazzare qualcuno”. Fabio mi guarda assente: “Ma che dici? A che ti riferisci?”. Incredibile. Come è possibile che non ricordi la scenata che ha fatto anni fa in una riunione di redazione? Non l’avevo mai visto così imbestialito, gli succede raramente ma pensavo che volesse uccidere quelli a cui stava urlando. E ora non ricorda nulla di quell’episodio! Va bene che sono passati dieci anni, ma… “Cioè, possibile che non ricordi nulla?”. “Oddio, forse sì, ce l’avevo col caporedattore, mi sembra…”. “Veramente vidi che eravate in cinque”. “Ma pensa tu. Oddio, forse hai ragione. Che poi, qual era l’argomento che mi aveva fatto infuriare? E mi sembra di aver gettato anche delle cose per terra…”. “Esatto. Questo te lo ricordi, almeno. Pensa se dovevi testimoniare per un omicidio…”. Roma, di fronte a metro Piramide. “Hai preso tutto?”. Fabio sta caricando la mia auto con almeno due valigie di dimensioni giganti, il bagagliaio dell’ormai nota1 Alfa 147 nera sembra traboccare. 1

Per chi ha già letto i nostri libri.

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“Sì, ci siamo e partiamo. Le ho caricate tutte. Destinazione Aosta”. Un viaggio di 7-8 ore è quello che ci serve per ripassare tutto, ma Fabio sembra avere la testa altrove. “Ancora non mi capacito. Mi sembra che sia successo perché avevano modificato un articolo che avevo scritto, almeno credo, lo avevano non tagliato ma proprio modificato del tutto ed ecco perché quel pomeriggio mi misi a urlare, anche se non capisco cosa innescò quella reazione…”. “Veramente era mattina e non ci fu nessuna provocazione. Ti avevo accompagnato. Sei entrato come una furia già nel portone, non gli hai dato il tempo di fiatare”. “Mamma mia. Completamente un’altra cosa, proprio diversa! Ma sul serio? Sai cosa penso? Che siccome era un ricordo davvero sgradevole, l’ho cancellato in parte e poi ben nascosto nella memoria. Non mi andava di ricordarlo e l’ho anche alterato. Capisci che cose incredibili succedono nella nostra mente?”. “Ripeto: per fortuna che non dovevi testimoniare su quell’episodio!”. “Il problema Armà è proprio questo, quello che ho ripetuto decine di volte nelle mie lezioni, la testimonianza va presa con beneficio d’inventario. I casi che abbiamo scelto stavolta ce lo dimostrano pienamente”. Intanto cerco di districarmi per le strade di Roma nel tentativo, non facile, di attraversare la città per prendere l’autostrada alle 8 del mattino. La luce del giorno lampeggia su migliaia di automobili. “Sì, ma non si tratta solo dei testimoni, qui abbiamo proprio amnesie dell’autore di un omicidio, delle vittime, dei familiari, di tutti. Abbiamo delle vere modificazioni della realtà. Ti ricordi quando abbiamo affrontato il caso Wanninger?2 Tipo 7 persone vedono l’assassino della ballerina tedesca scendere dal quarto piano, eppure riescono a darne descrizioni contrastanti. C’è chi vede l’abito blu e chi lo vede grigio, insomma non riuscivano a mettersi d’accordo”. 2

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In “Morte a Via Veneto”, Sovera, 2012.

“Ti ricordi ‘Il Padrino’?”. “Certo, dici la scena in cui Michael Corleone impara a uccidere”. “Esatto, quella, il killer anziano che gli dice come fare: cammina piano, la pistola a fianco al corpo, non guardare nessuno negli occhi. Una cosa del genere”. “Noi parliamo dei testimoni oculari come se fossero il Vangelo, specialmente se poi sono dei bambini; li vediamo angelici, non in grado di dire bugie, innocenti per definizione. Come se non avessimo mentito tutti, da bambini. Gli adulti, poi, lo fanno per tantissimi motivi e con tecniche davvero raffinate. Certo ci sono i bravi mentitori e quelli scarsi, che riusciamo a cogliere sul fatto, ma riuscirci dipende anche dalla nostra predisposizione a dubitare di tutti o piuttosto a non poter credere che una data persona possa aver mentito. Se ti ricordi di quando abbiamo scritto il nostro primo libro, sul caso Girolimoni3, allora ti ricorderai che anche lì c’erano a un certo punto dieci testimoni…”. “Certo, sono quelli della sera che a via Giulia sparisce quella bambina, la Biocchetta…”. “Esatto, lei. E ti ricorderai che descrissero il rapitore in modo molto diverso. Solo l’età ballava dai 30 ai 50 anni… su una cosa erano però tutti d’accordo, era un uomo ‘di civile condizione’. Cioè elegante, non un poveraccio come gli abitanti del rione”. “Ho capito. Per la polizia però era impossibile che l’assassino fosse una brava persona e quindi negli interrogatori cercavano uno con le fattezze fisiche del mostro, non la brava persona…”. “Esatto e che succede se fai le domande nel modo sbagliato? Che ottieni le risposte sbagliate, cioè quelle che vuoi sentirti dire, ma che non sono la verità. È un po’ quello che successe con Jack lo Squartatore: la polizia non poteva accettare che fosse inglese e cercava di sentirsi dire che era straniero, magari ebreo”. “Quindi la memoria può essere fuorviata da tante cose, 3

“Un mostro chiamato Girolimoni”, Sovera, 2011.

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compreso il modo in cui si cerca di far affiorare un ricordo. Stai dicendo che noi poliziotti facciamo queste cose?”. Ecco, se succede il testimone è bruciato”. “Ho l’impressione che sarà difficile risolvere i casi di questa nuova indagine”. “Sono d’accordo. Sono maledettamente d’accordo”.

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Capitolo 1

Quella mattina a Cogne

Il silenzio di questo viaggio è strano. In genere siamo più chiacchieroni. Stavolta dobbiamo spingere l’Alfa 147 fino a Fabro Est, molto dopo Orvieto, perché Armando si faccia vivo: “Ma non ricostruiamo la storia?”. E sì, che la ricostruiamo. Solo che non è facile parlare di Cogne. Saremo abituati, ma solo chi ha visto le foto del fascicolo del caso può capire quanto ti si chiuda la gola se provi a parlarne. Quelle sono immagini che perseguitano, sono una maledizione. Te le sogni di notte. “Allora. C’è una comunale che scende facendo delle curve tra due sperdute località della Val d’Aosta, Gimillan e Cogne. Immagina il posto. È come a teatro. Il fondale è l’imponente solennità del Gran Paradiso, dipinto di bianco. Il cielo ha l’azzurro intenso dei giorni d’inverno. Le prime quinte sono proprio di fronte: una serie di monti più bassi con dei paesi sopra, sparsi qua e là. Tra loro corre quella comunale che, ancora due chilometri, e porta a Cogne, numero 1.400 abitanti, 70 km di piste da sci, paesino lindo e pinto noto per le dentelles (i pizzi a tombolo), già luogo di minatori e di re che cacciano i cervi. C’è lo scuolabus giallo che scende e qualche auto che passa, è mattina presto. Ci sono un po’ di case sparse lungo la strada, e quella è frazione Montroz”. “Dove è successo tutto” dice Armando mentre sorpassa un Tir giallo, spagnolo. “Esatto. A un certo punto della strada che va giù, proprio dove c’è il cartello bianco ‘Montroz-frazione di Cogne’, tutto in legno, con la fioriera rettangolare di legno sotto la scritta, quasi in curva, parte una stradina interna. Ecco: di 270 metri, che tiene insieme un pugno di case, di tipiche case di quelle parti, che quando vai in Val d’Aosta gli fai le foto, fatte di pie-

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tra e legno a vista, molto legno e tegole di ardesia. Queste case sono località Caouz. E adesso, immagina che quella stradina si lasci qualche casa a sinistra e qualche altra a destra e finisca in faccia ad un’ultima abitazione, al numero 4/a, che chiude la striscia d’asfalto. Messa un po’ di traverso. Proprio come il destino”. “Dalla porta-finestra a doppia anta che sta a pianoterra di quella casa, alle 8,28 di una mattina, è uscita una donna gridando, chiamandone un’altra per nome, -Daniela!- un’altra che abita di fronte e che in quel momento è apparsa sul balcone” fa Armando. “Proprio Daniela -Daniela Ferrod- che è la prima persona ad entrare in casa e a vedere cos’è successo: quella casa con quattro comignoli, col balcone del primo piano tutto in legno scuro, in stile alpino, una cosa robusta, fatta per durare. Si precipita fuori in giacca a vento e ciabatte, pensando a una cosa da niente”. Quella casa guarda tutta la Val di Cogne, le montagne, quella casa è un sogno. “Abbiamo il verbale, vero?”. “Sì, eccolo, lo apro. Dice così: Sono entrata in camera da letto, quella di Annamaria e Stefano4, ed ho visto il bambino Samuele5, era supino sul letto, con indosso il pigiama, con tutta la faccia e la testa piena di sangue (…) ho notato che c’era del sangue sulla parete dietro il letto. Il bambino aveva la testa sul cuscino ed era scoperto, sentivo che si lamentava, emetteva dei suoni, apriva e chiudeva gli occhi. (…) Samuele era completamente scoperto almeno sino alle ginocchia, non ricordo se proprio fino ai piedi. Il piumone si presentava scostato sulla parte destra del letto matrimoniale. Annamaria era in piedi vicino al letto; aveva le mani lungo i fianchi e non toccava il bambino. Era lì che guardava il bambino, non piangeva, forse era sotto choc e mi diceva di andare a chiamare Ada, la dottoressa Satragni, che abita lì vicino perché venisse subito”. “Quindi entra direttamente nella camera da letto?”. 4 5

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Lei 30 anni, lui 34. 3 anni.

“Sì, dalla porta-finestra”. “Nessuno guarda l’orologio, ma noi sappiamo che adesso sono le 8,31”. “Esatto, ora lasciamo perdere come lo sappiamo. Quello che conta è che Daniela inorridisce. Ecco, tutto, da qui in poi e da qui all’indietro, si gioca e si giocherà sul filo dei minuti”. “E la Satragni, che dice?”. “Ada mette a verbale questo: Quando ieri mattina la sig.ra Annamaria ha chiamato telefonicamente il mio domicilio per richiedere il mio intervento, ha inizialmente preso la cornetta la mia governante, che ho percepito rimanere scossa dalle notizie che le venivano riferite. Ho chiesto allora chi fosse l’interlocutore e mi veniva risposto che era la signora Annamaria la quale stava riferendo che il figlio Samuele stava male, la governante ha precisato che (…) stava perdendo sangue dalla bocca. (…) Dopo di che, ribadendomi ancora (è Annamaria che parla ad Ada, adesso, N.d.A.) questa perdita di sangue dalla bocca, ha esclamato “Oh Dio”; immediatamente dopo, continuando l’esclamazione, non mi ricordo esattamente se ha detto: “Gli sta scoppiando il cervello” oppure “Gli è scoppiato il cervello”. Intanto comincia a piovere; e anche parecchio. “So cosa stai per dire” fa Armando “che devo cambiare le spazzole dei tergicristalli”. “Con calma, mi raccomando, è solo un anno e mezzo che sono andate. Tra un po’ ci saranno i solchi sul parabrezza…”. “A parte che per essere precisi saranno 2 anni, piuttosto… Anche Ada abita nella stessa stradina, proprio all’inizio, giusto? Dunque, mi stai dicendo che Daniela esce fuori di casa e si ritrova nell’agitazione di una mattina mai vista. Trova Annamaria nella stanza: sta in piedi, le mani lungo il corpo, fissa il figlio. È sotto choc, come quando sei bloccato e non sai che fare. Annamaria la spedisce quasi subito a mettere fretta alla dottoressa. Mentre Daniela è per strada, a passo svelto, ecco! La vede. Ada sta già arrivando, sulla Panda bianca del suocero, Marco Savin. Che ora può essersi fatta? Le 8.32, più o meno. Sbaglio?”. “Non sbagli. Ada è una donna con i capelli bianchi e neri e la voce delicata, sottile, gentile. Entra in casa, Marco resta fuori. Quello che vede ora la dottoressa è qualcosa che, tra quel-

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le valli, non ha mai visto. Qualcosa che non abita in frazione Montroz, non abita a Cogne, non abita ad Aosta e se abita da qualche parte, lo fa in altri posti di cui leggi poi sui giornali, ma non lì. Daniela intanto è fuori, seduta su un sasso, tremante, che ripete: ‘Adesso devo portare i bambini all’asilo’. Ripete questo, da sola. Ti leggo la sua deposizione ai carabinieri, ok?”. “Vai”. Ada: “Il bambino si presentava disteso sul letto, supino, immobile e gemeva sommessamente ed era parzialmente coperto, non ricordo se era coperto fino all’inguine o fino alla cintola, quello di cui sono certa era che il tronco dallo sterno all’insù era visibile e indossava il pigiama6. Il viso era completamente imbrattato di sangue, il cranio era imbrattato di sangue, erano visibili di primo acchitto due importanti ferite aperte, una sulla fronte a livello del lobo frontale del cranio da cui emergeva la massa cerebrale e l’altra a sinistra con partenza all’occhio sinistro e diretta verso l’alto con tendenza a portarsi verso il lobo frontale di sinistra (…). Ho successivamente avvicinato al bordo del letto il bambino per poterlo avere più vicino a me ed ho chiesto alla madre di fornirmi una bacinella con dell’acqua ed un fazzoletto per poter liberare il volto del bambino dal sangue (…). A questo punto decido di portarlo all’esterno7, chiedo alla madre un cuscino ed una coperta per poter appoggiare e coprire il piccolo (…) allestita questa sommaria barella sollevo da terra il bambino e a braccia lo porto all’esterno sull’angolo dell’abitazione più prossima all’elicottero. Durante questo trasporto il bambino perde sangue dalle ferite, avviene il gocciolamento e chiedo alla madre di aiutarmi a tamponare le ferite”. “Dev’essere stato allucinante. Quando c’è di mezzo un bambino è sempre allucinante, hai voglia ad avere trent’anni di servizio…” “Uccidere un bambino è la cosa peggiore, crudeltà pura. Ada è sconvolta e pensa a una diagnosi impossibile, aneurisma. Ora ti dico cosa succede pochi minuti dopo. Intanto, più o meno nello Il 27 febbraio successivo Ada mette a verbale questo: “Voglio precisare che la parte del piumone che doveva coprire parte del letto ove si trovava Samuele era parzialmente rivoltata sull’altra parte del letto”. 7 Perché, intanto, stava arrivando l’elisoccorso 6

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stesso momento della Panda bianca, anche un furgone entra nella stradina: è quella di Ottino Guichardaz, suocero di Daniela, che è andato a Montroz per lavorare un po’ alla casa in costruzione dell’altro suo figlio, Ulisse. Vede la nuora e Annamaria parlare davanti casa di quest’ultima e se ne stupisce: che ci fanno lì, a quell’ora? Pensa che uno dei loro figli si debba essere sentito male, ma tutto sommato gli sembrano tranquille e va per i fatti suoi. Alle 8.41 un elicottero si alza dall’Ospedale di Aosta. Il pilota è Massimo De Pompeis, il medico di servizio a bordo è Leonardo Iannizzi. Ivano Bianchi, la guida del soccorso alpino. Nel frattempo anche Marco è entrato nella stanza e il 118 di Aosta ha detto ad Ada di portare il bambino fuori per fare presto”. “Comunque prenderlo e portarlo fuori è stata una indicazione singolare, non la riesco a capire. La gravità della situazione la Satragni l’aveva ben capita e spostare il corpo per guadagnare solo qualche secondo nel trasporto non ha senso. Anche da questo particolare capiamo quanto siano abituati nella zona ad affrontare eventi del genere”. “Vero, ma continuiamo, la dottoressa dice a Marco di richiamare il 118 per spiegare meglio all’elicottero dov’è la casa e lui li chiama dal fisso della camera da letto. Lei porta il bambino fuori. Questo per dirti come stava messa la stanza…”. “Stava messa che su quel parquet chiaro ci ha camminato il mondo”. “Sul posto ora accorre anche Elmo Glarey, capostazione della Protezione Civile, allertato dalla centrale operativa per dare una mano all’elicottero8, ed Alberto Enrietti, membro del Soccorso Alpino. Alle 8.51 l’elicottero atterra con difficoltà sulle pendici di Montroz, vicino casa Lorenzi, in una nuvola di polvere. Da giù, da Cogne, nei bar, nei negozi, nelle strade, la gente alza la testa sentendo l’elicottero abbassarsi sempre più. Arriva anche Vito Perret, una guardia forestale in pensione che abita lì vicino, attirato dalla confusione che di solito non abita tra quei macigni immobili. Ottino sente il rumore farsi più assordante, esce, si avvicina, incontra Marco e chiede che diavolo succede”. 8

Viene allertato alle 8.35.

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“Che dice il medico dell’elicottero, come si chiama…?”. “Leonardo Iannizzi, si chiama. Scende, guarda il bambino e rimane ghiacciato. Sarà un medico, ma sulla testa di Samuele c’è un buco da cui vengono fuori pezzi di cervello. Un pezzo di calotta cranica è letteralmente saltato, c’è proprio un buco nella testa, non c’è altro modo per dirlo. Il bambino gli appare in stato comatoso terminale. Il medico gli inserisce una cannula in bocca per evitare la retroflessione della lingua e gli somministra dell’ossigeno. E Ada, in tutto questo, che gli dice che è stato un aneurisma…9 Daniela spedisce Ottino a casa a guardargli i nipoti: osserverà il resto della scena dal balcone. Aspetta, ti leggo il verbale di Iannizzi. Leonardo: ‘Il bambino si trovava poggiato a terra sopra il marciapiede antistante casa, sopra un cuscino e avvolto da una coperta. La dottoressa al mio arrivo scopriva una ferita sulla fronte del bambino che aveva provveduto a tamponare. Sono rimasto sconvolto dalla lesione, questa aveva bordi netti, era ampia e si vedeva materia cerebrale fuoriuscire (…) entravo allora in casa e raggiunta la camera da letto mi trovavo davanti una scena impressionante, vi erano spruzzi di sangue sulla parete del capezzale del letto che continuavano sul soffitto. Il letto stesso era ampiamente sporco nella zona centrale’”. “Ma per il medico tutto questo era normale?”. “No, non lo era. Leonardo, mentre si dà da fare intorno al bambino, dice a Elmo e Ivano, senza farsi troppo sentire, di andare a vedere anche loro e avvertire i carabinieri. Altro che aneurisma: ma scherziamo?”. “Eppure la Satragni, al contrario del medico dell’eliambulanza, che comprende la situazione in una frazione di secondo, parla di aneurisma. Vede parti della calotta cranica staccate, sangue ovunque, trasporta il bambino con le sue mani e parla di morte naturale?”. “Cosa vuoi che ti dica… Stavamo dicendo? Ah, se non ricordo male qui arriva Stefano, no? Alle 9, mi sembra”. Un aneurisma cerebrale è, detto in parole poco scientifiche, un piccolo bozzo che si crea su un vaso arterioso. Può stare lì anche tutta la vita senza dare nessun segno di sé. Se però si rompe, abbiamo una pericolosissima emorragia cerebrale. 9

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“Sì, qualche minuto prima delle 9 Stefano frena la sua jeep davanti casa. Trova suo figlio fuori. La camera da letto ridotta a macelleria la vedono tutti, in quei minuti. Senti qua. Elmo: ‘Io sono entrato nella camera appena un passo dentro e notando sangue sul letto sul soffitto, sul muro e mi sembra anche sulla tenda, ho pensato che fosse successo qualcosa di strano, quindi sono uscito e ho chiamato con il mio cellulare la Stazione Carabinieri di Cogne’. Sono le 9.04. Ma la cosa che mi ha lasciato di sasso è questa. Non se ne parla mai, senti Ivano: ‘In attesa che il medico terminasse di medicare il bambino entravo in casa per verificare cosa fosse successo effettivamente e chiamare il centro operativo attraverso la radio in dotazione, affinché chiamasse i Carabinieri. Mentre entravo la madre mi ha seguito e allora, per non farmi sentire da lei, sono entrato nel bagno e da lì ho fatto la chiamata. Per andare nel bagno sono passato attraverso la camera da letto e la mia attenzione veniva attirata dal letto che si presentava cosparso di sangue. Nella camera da letto c’era sangue un po’ dappertutto’”. “Scusa, non capisco. Perché Annamaria, mentre il figlio è tra la vita e la morte si mette a seguire uno dei soccorritori che entra nella stanza vuota?”. “È quello che vorrei sapere anch’io. Stefano vuole capire cos’è successo, Annamaria non lo sa, tutti chiedono ai medici come sta il bambino, gente che si affaccia nella camera da letto, altri seduti con le mani nei capelli. C’è un bordello enorme, anche perché l’elicottero resta sospeso a poco dal suolo per la difficoltà ad atterrare. Immagina la scena. Intanto, sono le 09.06 quando il Comandante della Stazione Carabinieri di Cogne, ricevuta la chiamata di Ivano, allerta la centrale operativa del Comando Gruppo Carabinieri di Aosta. Nessuno lo sa, ma la casa di Annamaria è appena diventata una possibile scena del crimine10. 10 Nella camera da letto, dopo l’arrivo dell’elicottero, entrano anche Vito (“Io ricordo che vi era il letto sporco di sangue ed anche i muri, il pavimento ed il soffitto erano pieni di macchie ematiche”) e Alberto (“Ho visto che c’era sangue sul cuscino, sulla parete a mò di spruzzo e poi materiale che sembrava vomito e invece la dottoressa diceva essere stata materia cerebrale. La mamma era disperata e diceva che a Samuele era esplosa la testa”).

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“In mezz’ora, in una sola mezz’ora, tre vite cambiano per sempre”. “Sì. Alle 9.19 Samuele viene caricato sull’elicottero, dove continuano i tentativi di rianimazione. Mentre l’elicottero diventa un puntino disperato nel cielo, al suolo c’è molto movimento. Intorno e dentro casa ci sono Annamaria, Stefano, Ada, Vito, Daniela, Elmo, Alberto. I muti testimoni del disastro”. “Il resto lo so, senza che me lo racconti. Alle 9.47 l’elicottero atterra in ospedale. Passano otto minuti. Alle 9.55 il dott. Bellini del Pronto Soccorso di Aosta constata la morte di Samuele”. “Annamaria si gira verso Ada e le dice: ‘Samuele era bello, era bello il mio bambino. Ma io me lo sentivo che sarebbe morto’. Lo ripete due volte”. “Sono passati un po’ di minuti. Stefano ha già urlato e s’è accasciato al suolo. Annamaria gli è seduta accanto, sul divano turchese: è qui che glielo chiede. ‘Ne facciamo un altro di figlio? Mi aiuti a farne un altro?’11. E lo ripete, ma lui non risponde. Guarda fisso davanti a sé”. Ogni cosa è cambiata, nell’ultima ora. I Lorenzi abitano quella casa al 4/A dal 1997. Due anni di lavori, mattone su mattone, per farla proprio uguale al sogno della famiglia felice. Il giardino, le grandi finestre che la mattina ti offrono la vista del Gran Paradiso. Una roba da cartolina, da settimana bianca tutto l’anno. Qui è stato concepito Samuele. Qui è appena morto Samuele. La tragedia è compiuta.

11 La frase è sentita e riportata a verbale dal carabiniere Casasole. Annamaria e Stefano smentiscono sia mai stata detta. Naturalmente non si può comunque ritenerla la prova di niente, questo è chiaro.

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Capitolo 2

Le prime 48 ore

Fermi al tavolo di un autogrill, con la pioggia che ancora ci scorre sul collo. Ma perché non prendiamo mai un ombrello, quando andiamo da qualche parte? Intorno a noi visi bagnati dal temporale, mentre il mondo sembra aver infilato tutte le sue nuvole sopra questa area di servizio, una dentro l’altra. “Comunque, ce la siamo voluta. Un altro caso difficile”, dice Armando, guardando la folla anonima di gente zuppa, intorno. Siamo seduti a un tavolo del ristorante. “E invece è così. Le strade per affrontare il male non le sbagliamo mai. O forse sono loro che cercano noi”. “Questa immagine di Annamaria che dice una cosa così profonda sul divano e di Stefano che nemmeno risponde, perso in pensieri suoi, mi ha sempre colpito molto. E alla fine una spiegazione c’è”, dico. “Sarebbe?”. “Sarebbe che nelle prime ore, nei primi giorni, sono le due famiglie, sia i Lorenzi che i Franzoni, a chiedersi se la versione di Annamaria sia la verità o no. Dubitano di lei, la sospettano. Le fanno domande di continuo, per capire. E lei sente la loro freddezza. Non capisce, pensa sia per la tragedia. Invece no: Giorgio Franzoni12 ripete di continuo ‘C’è qualcosa che non va! C’è qualcosa che non va!’. La situazione peggiora quando arriva il risultato dell’autopsia: altro che aneurisma. Lì in famiglia l’hanno proprio torchiata. Comunque, se persino i suoi familiari all’inizio hanno dubitato della sua versione, non è così strano che i carabinieri lo facessero…”. È il padre e non è minimamente parente della moglie di Prodi, che per caso si chiama Franzoni anche lei. 12

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Ma Armando sembra inseguire un pensiero solo suo. “Fabio, rivediamoci la scena, cerchiamo di capire dove ci troviamo e com’è la scena che si presentò ai Carabinieri, ok? Iniziamo con il dire che la villetta è di 3 piani. Dalla strada privata asfaltata, quella che attraversa il nucleo di case e porta alla fermata, per intenderci quella percorsa da Annamaria, si accede al primo livello, cioè al piano terra, quello dove sono le camere da letto, quello che si apre sul giardino. A fianco dell’abitazione, esternamente, c’è una scala in muratura che porta al secondo livello, cioè al primo piano. Qui c’è l’ingresso principale, un portoncino contrassegnato dal civico 4/A, da lì si può andare solo su un viottolo sterrato che conduce ad altre abitazioni. Il secondo livello è quello ‘giorno’, chiaro? C’è, ovviamente, anche una scala interna che porta giù, alla zona notte”. “Quindi il piano inferiore si può raggiungere in due modi?”. “Esatto. Dalla scala interna e dalla scala esterna”. “Sì, abbastanza chiaro, ma come sono posizionate queste stanze per chi vede la villetta da fuori?”. “Descriviamo la villetta come se entrassimo dal civico 4/A, anche perché strutturalmente è l’ingresso principale. Intanto diciamo che, venendo dalla stradina asfaltata, l’abitazione sulla sinista che precede la nostra villetta è quella di Daniela Ferrod; non è una villetta, ma piuttosto una piccola palazzina. La Ferrod vede solo il prospetto sinistro della villetta Lorenzi, ricordati che la sto descrivendo dal portoncino 4A. Quindi avendo visibilità di parte della scala esterna che ti dicevo e del piano sottostante, cioè il primo livello, lei vede: l’entrata del garage e le due finestre delle camere da letto. Quella destra della camera dei bambini e quella di sinistra della camera da letto dei Lorenzi, dove si sono svolti i fatti. Girando l’angolo, dalla parte opposta al portoncino col 4/A, c’è il retro della casa, dove troviamo la porta-finestra che dà nella camera da letto dei Lorenzi, si apre su un panorama bellissimo e unico. Quella parte di frazione è infatti su un versante collinare e le case vedono il paese e poi la bellissima valle contornata dal Gran Paradiso, che è larga all’inizio, pensa, quasi mezzo chilometro. Vedrai quando ci saremo… Dimenticavo, la villetta, al secondo livello ha il civico 4/A

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come dicevamo, ma al primo livello, vicino alla porta-finestra, c’è un secondo ingresso, contrassegnato dal civico 4/B”.

“Esatto. Dalle 9.20 alle 10 la casa di Annamaria e Stefano è aperta a tutti. È solo 40 minuti dopo la partenza dell’elicottero che i carabinieri effettuano un accertamento urgente sullo stato dei luoghi e isolano la casa. Alle 16 vengono posti i sigilli, i Ris entreranno il giorno dopo”. “Ora, come ti dicevo, casa Lorenzi è fatta su 3 livelli: il secondo livello, non quello della strada asfaltata, è adibito a zona giorno, con la cucina e un salotto con un tavolo da otto e le sedie laccate, il divano turchese, una libreria coi soprammobili, una bella stufa, di ghisa, e le travi a vista. Sopra al 3° livello c’è la mansarda utilizzata anche come studio. Ho dimenticato di dirti che al livello inferiore, il primo, quello del giardino e dove giunge la strada asfaltata, ci sono anche la cantina, il garage oltre la zona notte, con le camere da letto di Annamaria e Stefano e dei figli Davide13 e Samuele. Ogni piano si sviluppa per circa 90 metri quadri”. 13

6 anni e mezzo.

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“Tendine di pizzo traforato alle finestre. Buon gusto. Intorno, il prato, la stradina, le altre case, Cogne in basso, Gimillan in alto e il Gran Paradiso di fronte. Ora, in questo luogo di pace e fornai, è appena successo un omicidio. E, per saperlo, basta entrare in camera da letto dei Lorenzi. O guardare il cadaverino di Samuele. Sì, basta fare due più due per capire che Samuele è stato assassinato ed è successo dentro quella stanza, quella dei genitori. Lo si capisce dall’assenza in altri luoghi della casa di tracce ematiche o segni di lotta. Il bambino è stato colpito là dove la mamma l’ha trovato, nel letto matrimoniale, supino, sulla parte sinistra dello stesso (per chi guarda). D’altronde, lì c’è una grossa macchia di sangue, lì ci sono frammenti ossei e materia cerebrale, proprio sul cuscino ad esempio. Ma, se guardi bene e ti abitui all’orrore, quella stanza dice molto di più. Sai?”. Intorno a noi la pioggia batte sui vetri e qualcuno ci chiede cosa prendiamo. Dobbiamo sembrargli due matti, qui a parlare di tracce di sangue sul lenzuolo, sul piumone, sull’abatjour e sulla parte di muro a sinistra del letto, sulla testiera e sul muro retrostante, sul muro, sul comodino, sul termosifone e le tende a destra del letto e - alza la testa che le vedi - anche sul soffitto, proprio lì, al centro, vicino al lampadario… “Come si può odiare così tanto un bambino di tre anni?”. “Ci arriveremo” risponde Armando. “A parte questo, in quella stanza non è caduto un ninnolo. Il cuscino a fianco di Samuele non s’è spostato di un centimetro. Non c’è confusione, non c’è niente. Quel vortice di violenza s’è abbattuto solo ed esclusivamente su Samuele, il resto non gli è interessato. È come un uragano che arriva in città entra in un cassetto e distrugge solo quello che c’è dentro”. “È per questo che il Ris dei Carabinieri chiede agli oggetti di raccontare, di spiegare cosa diavolo è successo. Qualcosa di interessante c’è, no? Nell’angolo inferiore sinistro del letto (sempre per chi lo osserva) c’è un pigiama femminile di colore azzurro con disegni a fantasia. La maglia è al rovescio tra il lenzuolo e - strano, vero? - Il materasso. I pantaloni sono invece mezzo arrotolati tra le pieghe del piumone. Tutta roba che dovrai spiegarmi meglio, come gli schizzi di sangue sulle pareti”.

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“Certo. Niente da segnalare, invece, sulle maniglie di casa, sui pavimenti, sui mobili, sugli stipiti delle porte, sui davanzali. Nella zona giorno, nel disimpegno del bagno, ci sono un paio di ciabatte Fly Flot, bianche. Sono di Annamaria, è pacifico. I carabinieri le sigillano in una busta di plastica, perché sulla suola quelle macchioline rosse potrebbero essere sangue”. “Tracce esterne, zero”. “Effettivamente non le trovo nei verbali di sequestro fatti nella moltitudine di sopralluoghi effettuati, come mai?” “Vari fattori sicuramente… per lasciare una traccia di sangue a terra, specialmente fuori dell’abitazione, doveva succedere che il sangue all’interno fosse copioso non sul letto, ma specialmente a terra. Non intendo piccole tracce per proiezione, ma proprio tracce evidenti da gocciolatura, come per esempio sulla pavimentazione, nel caso dell’omicidio di Chiara Poggi, ecco quelle erano tracce evidenti. Ricordiamoci che il delitto, come hai accennato, avviene in una sola stanza, quasi al centro di un letto matrimoniale e che le tracce riscontrabili sono principalmente di due tipi: la maggior parte di quelle che vediamo sul letto sono dei pattern da proiezione - come vengono anche detti dei beating - cioè sangue che usciva dalla testa del piccolo Samuele quando veniva colpito. Queste tracce sono di varie forme ed interessano gran parte del cuscino, del tratto di materasso limitrofo e molto il piumone, ma su questo punto ne parleremo in seguito che ti dico meglio… mentre le altre, ecco, sono in parte sul letto, ma soprattutto sulla testiera anteriore o per esempio le pareti, sono dei cast-off”. Fabio mi guarda con la faccia perplessa. “Ok, la faccio semplice. Quando si utilizza un corpo contundente per colpire, specialmente se è un’azione molto lesiva, la scena e il corpo si ‘imbratterà’ di sangue. Se l’autore infligge più colpi ogni volta che alza il braccio, e quindi ricarica per il colpo successivo, l’oggetto lancia delle piccole goccioline molto veloci, visto il movimento del braccio.” “E queste goccioline vengono proiettate ovunque… interessante”. “Sì, certo, in particolare saranno in linea con il movimento

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del braccio e, cosa singolare, avranno una direzione di provenienza opposta a quella del corpo”. “E come si fa a capire la direzione?”. “Non è difficile, avranno quasi tutte la forma di punto esclamativo e il puntino di questa figura è posizionato all’opposto della direzione di provenienza. Ma torniamo a noi, quindi per prima cosa, per trovare tracce all’esterno, le tracce di sangue devono essere state veramente abbondanti sulla pavimentazione della stanza e non mi sembra questo il caso. Poi, l’autore deve calpestarle - e non diamolo per scontato - e poi deve percorrere un tragitto il più corto possibile verso l’esterno, perché anche in caso di calpestio di grosse quantità di sangue, succede che al terzo o quarto passo già non si vede più l’impronta col sangue. Se poi ci sommiamo l’arrivo dei soccorsi, tutti i protagonisti della nostra storia che entravano e uscivano da quella porta-finestra e infine le pale di un elicottero che veramente smuovevano tutto, sai che ti dico? Che mi sarei meravigliato se ci fossero state tracce evidenti, lì fuori”. Il cameriere, che definitivamente ci guarda come due matti, si sbriga a lasciare sul tavolo quello che gli abbiamo chiesto e scappa via. Stappiamo due Coca-Cola d’ordinanza. “In quelle prime ore si cerca a 360 gradi. Per quanto ci siano già delle cose che tornino poco, a livello di contraddizioni e illogicità, i carabinieri non forzano la mano ad Annamaria quando la interrogano. Il perché è chiaro: nessuno vuole pensare che possa essere stata lei. Anzi, trova un conforto, un appoggio proprio nel maresciallo Catalfamo, che è amico di famiglia. Che non dubita talmente per niente di lei che, contrariamente alla prassi, non annota nemmeno il contenuto dei colloqui che hanno. Sappiamo solo che ci sono stati, ma cosa gli abbia detto Annamaria non lo sa nessuno. Le indagini passano sempre per degli esseri umani…”. “Ti ricordi?” - fa Armando, di colpo - “alle 19 del giorno del delitto, quando ormai è certo che si può parlare di omicidio e ci sono già elementi che potrebbero far venire dei sospetti su Annamaria, il maggiore Fruttini e Catalfamo sentono Annamaria facendole due domande due, te le ricordi? Le ho appuntate… aspetta… su questo foglietto qui…

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«Quando stamattina facendo rientro in casa, dopo aver accompagnato suo figlio Davide alla fermata dello scuolabus, ha trovato suo figlio Samuele ferito, ha poi notato se dalla sua camera mancava qualche oggetto?» «Vi sono stati episodi particolari che ricorda, successi nel tempo, in cui erano coinvolti i suoi figli o lei?». “Tutto qui?”. “Tutto qui, Fà” e gira il foglietto. “Sono due domande che cercano un assassino esterno. Lo psichiatra Vittorino Andreoli lo spiegherà benissimo: “Cogne è stato un delitto contro la nostra cultura. Il vero eroe della famiglia italiana è la madre. Lei allatta il figlio, fa sacrifici, rinuncia a sé stessa. Nei paesi nordici l’ideale materno non esiste: faticherebbero a capire il nostro interesse per Cogne. Da noi c’è invece il mito della madre eroica”. “Parole sante: Andreoli è meraviglioso. Perché in Italia la mamma è sacra e su di lei si regge la famiglia. Se una mamma uccide è la fine, la fine della famiglia. E questo nemmeno un carabiniere può consentirlo. Tanto è vero che non prendono nemmeno i suoi vestiti per analizzarli, all’inizio”. “Gli omicidi, quelli come questo voglio dire, non li fai per soldi, li fai perché ti esplode qualcosa dentro. Un delitto così nasce da qualcosa che non capiamo, che apparentemente non ha senso. Quindi, se sei d’accordo, smettiamo di cercarlo, il movente, o non lo capiremo mai. E ragioniamo sui dati. A proposito, bisognerà mandare un po’ di materiale a Giorgio Bolino14”. “Già fatto, prima di partire”. Un piatto di spaghetti al pesto più in là, ci rendiamo conto di come si sono sviluppate le indagini. La prima ipotesi che formulano i Carabinieri, nelle ore successive ed è la più scontata ma, come diciamo sempre, ogni indagine deve partire dal Rasoio di Occam, quella regola che sintetizzando dice: l’ipotesi più semplice è sempre quella più plausibile. Quindi l’esperienza suggerisce ai militari un omicidio intraGiorgio Bolino è medico legale all’Istituto di Medicina Legale di Roma e docente presso l’Università Sapienza. 14

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familiare con una partecipazione indiretta del marito. Si parte dal pigiama di Stefano Lorenzi, piegato sotto il cuscino, inutilizzato. I carabinieri pensano: il marito ha fatto il turno di notte, torna, trova la moglie a letto con l’amante, lite, lei si sente male (infatti di mattina presto è stata chiamata la guardia medica per Annamaria), il marito poi va al lavoro, lei sbrocca e fa fuori il figlio. Ma questa ipotesi naufraga presto, Stefano ha una buona spiegazione, da uomo razionale qual è: “Arrivava la Guardia medica. Non volevo ricevere il medico in pigiama. Mi sono vestito. L’ho ripiegato sotto il cuscino, mentre d’abitudine lo lascio sul letto o in bagno, ché poi se ne occupa Annamaria”. L’equivoco è chiarito, ma la pista familiare è partita e la ricerca di un assassino si è trasformata in quella di un’assassina. Cogne, in fondo, comincia solo adesso. Mentre aggrediamo il pollo con le patate, Armando tira fuori l’ennesimo foglietto. “Franzoni Annamaria, nata a San Benedetto Val di Sambro il 23 agosto 1971” legge. “Ma che sappiamo di lei? O forse non c’è molto da dire: una vita ordinaria. È la terza di 11 figli, famiglia di gran lavoratori. Nel 1991 si diploma ragioniera, va a lavorare per la stagione a Lillaz, vicino Cogne, quella stessa estate, e lì conosce Stefano, che sposa il 13 giugno 1993. Davide nasce il 9 settembre 1995. Si trasferiscono a Montroz nel luglio 1995. Samuele nasce il 12 novembre 1998. In realtà è tutto qui, una vita semplice”. È il momento del creme caramel quando arriviamo, con perfetto tempismo, all’autopsia. È l’autopsia il momento in cui la parola omicidio diventa ufficiale. “Allora, vediamo cos’è successo, no? Passami il cucchiaino, per favore. Fino ad ora sappiamo, scusa la banalità, che Samuele è morto tra le 7.30-7.40 e le 8.24-8.2515. Ecco, sono le 14 del 31 gennaio quando il professor Francesco Viglino effettua una prima, sommaria autopsia. Bastano già queste poche parole a capire il disastro: ‘Grave trauma cranico-encefalico con sface15 Cioè tra quando è uscito Stefano e quando Annamaria ha trovato il figlio.

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lo traumatico della regione fronto-temporoparietale dell’ovoide cranico, conseguente rottura e lacerazione di importanti vasi arteriosi meningei con relativa imponente emorragia ed anemia metaemorragica con choc ipovolemico ed importante edema cerebrale maligno’. È scritto nel linguaggio misterioso dei medici, ma vuol dire che sopra le sopracciglia e sulla testa sono arrivati almeno 17 colpi16, alcuni talmente forti e ripetuti nello stesso punto da far vedere il cervello, altri -meno forti- hanno “solo” infossato la scatola cranica. L’assassino ha leso l’arteria e la vena meningea sia a sinistra che a destra e anche i rami frontali e orbitari; risultato, gran parte del sangue di Samuele è schizzato via molto rapidamente. Roba di pochi minuti. Non è che voglio darti particolari macabri, è che voglio arrivare a un punto preciso, quello dove Viglino parla delle ferite e scrive: ‘È ben difficile che si siano potuti produrre spruzzi con proiezione di sangue a distanza se non di qualche centimetro’”. “Però, come abbiamo visto, alle proiezioni dirette dalle ferite dobbiamo aggiungerci anche i cast-off, quindi ecco giustificate le proiezioni più distanti. Ricordiamoci una cosa importante, comunque: nessuno può determinare con precisione come è stata lasciata ogni singola traccia di sangue, in un evento delittuoso. Chiaro?”. “Scusa, ma c’è un punto in cui dice quando è morto Samuele, no?”. “Sì eccolo, te lo leggo: ‘Si deve ritenere come la morte possa essere intervenuta intorno ai 10-12 minuti dall’aggressione’. Per essere più precisi: ‘Si può tranquillamente affermare che la morte sia ragionevolmente intervenuta qualche attimo prima o nel contesto dell’inizio dei soccorsi in quanto le condizioni del piccolo che sembrano trasparire dalle dichiarazioni sono quelle di un paziente in condizioni terminali di morte clinica sottoposto a manovre di tipo rianimatorio con conseguenti possibili fenomeni di reviviscenza’”. “Ecco quella parola che non riuscivo a ricordarmi: reviviscenza!”. “Ma perché ti interessa tanto?”. 16

Viglino precisa che dare il numero esatto è impossibile.

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“Perché non ho capito che vuol dire in italiano”. “Che Samuele è già morto quando arriva Ada, ma non lo sembra”. “Aaaaah ecco, ora dimmi dell’arma, allora”. “Sull’arma, allora, sull’arma è buio come fossimo in galleria. Viglino dice che è un oggetto di facile ed agevole impugnabilità, rigido, discretamente pesante, con margini acuti rettilinei e spigoli vivi. Cioè qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa ma un’arma impropria, questo sì”. “Infatti non l’hanno mai trovata”. “No, e hanno smontato anche i sanitari per guardare nei tubi, sollevato assi del pavimento e fatto buchi nella canna fumaria17. Nemmeno studiando le lesioni sulla manina sinistra, sulle prime falangi delle dita indice e medio, dove ci sono alcune ferite lacero-contuse, s’è capito di più. Per Viglino sono lesioni precedenti le altre. Samuele ha quindi visto il suo assassino ed era sveglio perché ha provato a difendersi. Era sveglio anche per un altro motivo: la stanza dei genitori era in luce. Le ante delle finestre erano state spalancate da Stefano prima delle 6: ma questo lo vedremo dopo”. “Ma ti convince il discorso dei 10-12 minuti di Viglino? Non so, è così preciso, forse troppo preciso…”. “Mi lascia un po’ perplesso ma tutto sommato è poco importante, alcune volte la determinazione del tempo di morte è fondamentale mentre in altri casi, come questo, è ininfluente, abbiamo già un contesto di dichiarazioni e testimonianze che restringe il lasso di tempo molto più di quanto potrebbe farlo un patologo. Dai, adesso andiamo, la strada per Aosta è ancora lunga”. Qualche chilometro dopo, mentre anche il primo pomeriggio si tinge di pioggia, sentiamo cosa racconta Annamaria. Come racconta quella mattina. Racconta che dopo l’uscita di Stefano (alle7.30-7.40) è stata nel letto matrimoniale con Davide a farsi le coccole e di averlo portato di sopra, nella zona giorno dove c’è la cucina, alle 8, per 17

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I Lorenzi quantificheranno in 51.000 euro il totale dei danni subiti.

fare colazione: latte freddo e corn flakes. Annamaria e Davide sono ancora in pigiama, devono ancora lavarsi e tutto; il bambino ha appena iniziato a fare colazione. “Senti cosa dice: Sono stata lì con lui, mi ricordo di essermi affacciata alla finestra, quella della sala, ho guardato fuori, gli ho detto ‘Davide dai mangia’ e lui era un po’ lento non mi ricordo cosa mangiava a colazione e intanto cercavo di dire ‘Dai, fai presto’ che passano i minuti, guardavo l’orologio”. “Beh, cos’è che non ti torna?” dice Armando mentre sfiliamo sotto un viadotto. “Non mi torna che il tempo, tra quel pugno di case in mezzo alle montagne, assume una distorsione, come gli orologi nei quadri di Dalì. Sono le 8 passate, Davide fa colazione a due all’ora e Annamaria guarda dalla finestra: questo per dieci minuti. Non racconta mai cosa fa lei dalle 8 alle 8.10, mentre il figlio beve il latte, nella cucina con la grande cappa, le mattonelle quadrate chiare alle pareti che proseguono sul piano di lavoro e due vecchi taglieri appesi alle pareti: Annamaria, così precisa nel descrivere tutti i concitati minuti successivi, vissuti premendo l’avanzamento veloce del dvd, qui sembra aver messo su ‘pause’. Non ci dice nulla, solo di essersi affacciata dalla finestra della sala, di avergli detto ‘Davide, dai mangia’ e di avergli controllato lo zaino. Tutto qui. Il tempo si ferma, mentre lo scuolabus si avvicina, curva dopo curva, inesorabile. Madre e figlio stanno in cucina, e basta”. “Scusa, non ti seguo”. “Non capisco quei dieci minuti lentissimi. Poi, quando ormai il tempo si è ridotto all’osso per uscire e ci sono solo cinque minuti, più o meno, alle 8.10, succede di tutto: lei scende 10 gradini, per la scala interna, quella col cordone chiaro al posto della ringhiera, va in camera da letto e si toglie la casacca del pigiama, restando in mutandine (i pantaloni erano rimasti nel letto), non trova la biancheria intima perché Stefano l’ha spostata in bagno mentre aspettavano la Guardia Medica, va in bagno a prendere la canottiera, decide che si lava dopo perché è tardi, torna in camera sua, si veste (reggiseno, canotta, felpa, jeans, calzini), entra in camera dei bambini, quella col parquet scuro e, muovendosi a memoria in mezzo a

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quel casino di sgabello-giocattoli-tappeto e stando attenta a non fare rumore per non svegliare Samuele (che dorme nella culla di legno scuro,) prende i vestiti di Davide dall’armadio, quello col Pinocchio snodabile di legno accanto. Poi ripassa dal bagno per prendere spazzolino e dentifricio di Davide, risale 10 gradini, trova Davide che sta ancora facendo colazione, lo lava, gli lava i denti, lo veste in salotto18, gli prepara la cartella, poi Davide esce fuori, lei sente piangere Samuele, scende 10 gradini, lo trova sulle scale, lo porta in camera matrimoniale e gli dà un fazzoletto, lo calma, risale 10 gradini, accende la tv, si mette le scarpe senza allacciarle, prende il giubbotto, esce chiudendo piano19. Ed è anche stata male la sera prima e fino a poche ore prima, con annesso intervento della Guardia Medica…”. “Un fazzoletto? Uhm… uno strano oggetto transizionale”. “Prego?”. “Tipo la coperta di Snoopy, no? Sono quegli oggetti che, come ha teorizzato Winnicott, psichiatra e psicanalista inglese, prendono il posto del legame madre-figlio. Un oggetto che ci tranquillizza, di solito è un pupazzo di peluche, una coperta, ma stranamente questa volta è un qualcosa di più piccolo come un fazzoletto. Ok, ho divagato, torniamo 18 Generalmente Davide veniva vestito di sotto, nella camera dei bambini. Quella mattina invece dice di averlo vestito di sopra. 19 “Guardo l’orologio, sono quasi le 8.15, siamo in ritardo perché il pulmino passa tra le 8.15 e le 8.20, e ci occorrono tre o quattro minuti per arrivare alla fermata. Continuamente dico a Davide di fare presto, giro la chiave della porta per aprirla, sto per prendere la mia giacca e le scarpe quando sento Samuele che piange. E allora a Davide gli dico: «Aspetta un attimo» e lui mi dice: «Ma dai mamma, vado io, vado io!» e io gli dico: «No, tu aspettami» e allora scendo giù velocemente”. Lo prende in braccio e lo porta nel lettone. «Lo metto su un fianco, lui si rannicchia, gli metto a posto il lenzuolo e lo rimbocco con il piumone fino alle spalle, lo accarezzo e gli do un fazzoletto che prendo dal comò. Samuele è abituato a succhiarsi il dito annusando un fazzoletto da naso che lui chiamava “nanna”. Socchiude gli occhi come per riaddormentarsi, succhiando il dito, annusando la sua nanna». Annamaria può risalire, accendere la tv per far credere a Samuele che è in casa. “Ho preso la giacca e messo le scarpe e facendo molto piano ho aperto la porta, non chiudendola a chiave nell’uscire per paura di fare rumore”.

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a quel giorno; certo che di colpo Annamaria sembra Superman…”. “Naturalmente può ricordarsi male i tempi, ma lei insiste sempre su questa versione perché dice che teneva d’occhio l’orologio e ci sta, visto che ha un appuntamento col pulmino. È lei a dire che sente piangere Samuele alle 8.15”. “Quindi quello che non ti torna è appunto che quei dieci minuti sono lunghi come un’eternità. E che invece nei cinque minuti successivi diventa una scheggia”. “Capisci, è illogico! È come vedere un film prima al rallentatore, poi a doppia velocità, non ha senso… Che ne pensi?”. “Che non tiene, per un motivo abbastanza logico… a parte quello che era successo la notte e che comunque riguardava solo Annamaria, il resto era normale routine e sai, mi rimane difficile pensare che normalmente, ogni giorno, si iniziava la giornata in maniera molto lenta per poi accelerare incredibilmente quando si era giunti all’orario del passaggio del pulmino. E bada bene, dichiarare che il pulmino passa dalle 8.15 alle 8.20 significa che comunque devi essere alla fermata un po’ prima delle 8.15, perché in caso contrario rischi di perderlo. Il tutto, sottolineo, con il controllo costante dell’orologio, come lei stessa dichiara più volte”. “C’è anche un’altra cosa che non mi torna… perché non ha svegliato Samuele? Non dimentichiamo che anche lui doveva prendere un pulmino, quello della Materna. La sera prima era andato a letto alle 22.30, come sempre, quindi perché non lo sveglia per fare colazione tutti e tre, come al solito? Ti leggo come lo spiega lei, perché a posteriori ovviamente ogni singolo comportamento acquista un altro peso… ‘Vedevo che comunque continuava a dormire e allora ho detto, per non svegliarlo, mi dispiaceva perché fuori faceva molto freddo, ho detto tanto faccio una corsa…’. E poi, ancora: ‘Non facevo a tempo a vestirlo, dopo, quando lui si è svegliato, non avrei fatto in tempo e allora… poi era caldo del letto e allora mi son detta Accompagno Davide, lo lascio qua’. Annamaria la mette sempre con un’eccezione, un caso, che quel mattino Samuele non sia stato svegliato e non sia andato con loro”. “Scusa, ma non abbiamo letto, tra le carte, che invece la

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cosa più normale era che portasse un bambino alla volta alla fermata e cioè il contrario?”. “Esatto. La dirà proprio lei, di fronte alla Corte d’Appello20: ‘Qualche volta andava (Samuele, N.d.A.), con Davide al pulmino. (…) Era normale per me uscire due volte’, così implicitamente ammettendo, che erano più le volte che andava solo Davide che quelle che andavano insieme21. Quindi, era normale che Samuele venisse lasciato da solo a casa per quei pochi minuti. A meno che non si svegliasse anche lui; e allora andava. Lo conferma, il giorno stesso, anche Dino: ‘La maggior parte delle volte la signora Annamaria lo accompagna (Samuele, N.d.A.) al giro della materna, dopo aver accompagnato il figlio Davide a quello delle elementari, mentre alcune volte accompagnava tutti e due i figli al giro delle elementari’. “Ma allora perché farlo passare per un fatto eccezionale?’”. “Eh. Le risposte possono essere tante. Io posso dirti perché si mente… Per 1.000 motivi. Per avere vantaggi (avere un’immagine migliore di sé, alzare l’autostima, migliorare la posizione sociale, migliorare le relazioni sociali - mascherando le proprie valutazioni negative, evitando di urtare i sentimenti, adulando l’altro - ecc.), per gestire risorse limitate, per avere più degli altri senza fatica e senza onestà comunicativa, per proteggere gli altri, per danneggiarli (usando l’insinuazione, la calunnia, l’imbroglio, l’istigazione, la mistificazione, la truffa), per evitare svantaggi (cioè sanzioni, perdere la faccia, venire messi ai margini dal gruppo, ecc). Per sembrare a proprio agio, prevenire quanto il mentitore sa o erroneamente ritiene l’interlocutore sappia, per fare gli spiritosi, per scoprire una menzogna altrui, per il piacere di mentire, per costringere l’altro a dire la verità, per convenzione, per esorcizzare la realtà e cancellare l’accaduto, ecc… Per evitare una punizione a sé o a altri, per dare una buona impressione, per far sapere, per non far sapere, per sapere, per non sapere, per fare, per non fare, per salvare la faccia propria o altrui, per iniziare, tenere in vita o concludere una relazione interpersonale, per creare, Interrogatorio del 19.12.05. Nel suo libro del 2006 dice invece “Andavamo normalmente al pulmino delle 8.20 tutti e tre insieme”. 20 21

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evitare o limitare conflitti, per vendicarsi di un inganno subito, per far soffrire/preoccupare gli altri, per evitare sofferenze e proccupazioni, per togliere dall’imbarazzo, per pietà o commiserazione… La verità è che le motivazioni possibili sono talmente tante che cercare di definire una classificazione della menzogna sarebbe inutile. Naturalmente, tutte queste tipologie non sono nettamente separate tra loro: sono sovrapponibili. Quali stava usando Annamaria in quei momenti?”. Ci fermiamo a mettere benzina. Scorrono guardrail, centinaia di auto, le gocce continuano a martellare la carrozzeria. Il cielo è nero, ma la notte è lontana. “E qui siamo arrivati a un punto che è cruciale. Annamaria accende la tv per far credere a Samuele di essere ancora a casa, esce senza nemmeno sfilare le chiavi (che restano dunque all’interno), per paura che sennò Samuele senta, si chiude la porta alle spalle e raggiunge Davide, che nel frattempo s’è avviato in bici: ‘Mi sono allacciata le scarpe lì fuori. Davide nel mentre aveva fatto il pezzo del marciapiede, la scala, aveva preso la bici dalla scala e si stava incamminando, io dietro l’ho seguito’. Davide, per la cronaca, ha già superato le prime due case: tanto che Annamaria si allaccia le scarpe, si infila il giaccone nel piazzale della casa (‘il pulmino passa alle venti … io sono partita due minuti prima e ho guardato l’orologio’22: quindi è uscita alle 8.18) ed è costretta a corrergli dietro per raggiungerlo poco prima della casa di Ada, dove Davide appoggia la bici. Non noti nulla?”. “Che è stata male per una congestione la sera prima23, ha chiamato la Guardia Medica pochissime ore prima, e ora esce di casa senza giaccone e se lo mette fuori, a meno 10 gradi, rischiando la congestione numero due…”. “Certo, però la storia della tv accesa non ha senso”. “Perché?”. Intercettazione ambientale del 31.1.02 presso la Caserma dei Carabinieri. Congestione a cui chiaramente non ha creduto nemmeno Stefano, perché sennò non sarebbe stato tanto pollo, per farla riprendere, da non trovare di meglio, quella sera, che aprire la finestra e far entrare l’aria ghiacciata della notte di montagna. 22 23

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“Perché lei ha detto che la tv accesa serviva a tranquillizzare Samuele se si fosse alzato, ma anche di averla messa a un volume che si sentiva solo stando al primo piano e non sotto… Ma che senso aveva accenderla per rassicurarlo, se poi il suono non si sentiva sotto?24 Anche questo è strano, no?”. “Certo, non aveva bisogno di aggiungere questo particolare falso. Sembra messo lì apposta per far vedere che il bambino, lei, l’ha lasciato vivo. Sai una cosa, sembra che stia unendo pezzi di storie diverse, i ricordi delle mille volte che ha accompagnato il suo bambino al pulmino. Come se volesse aumentare la storia di particolari per convincere chi ascolta, con la ferma convinzione che più particolari si ricordano e più una persona c’è stata”. “Senza sapere che è proprio il contrario, uno dei principi di base nella testimonianza falsa è il gran numero di particolari inseriti. Più uno descrive minuziosamente una scena o una situazione e più è facile che la stia inventando, perché in genere non sappiamo essere così dettagliati, non memorizziamo così tanto… Ora, senti qua. Dopo aver portato Davide alla fermata dello scuolabus25: ‘Sono tornata a casa velocemente, ho aperto la porta, l’ho chiusa a chiave dall’interno26, ho ritrovato la mia borsa per terra dove l’avevo lasciata, con il portafoglio, ho subito tolto le scarpe nell’antibagno, ho messo le ciabatte’. La tv è in sottofondo come l’ha lasciata. ‘Ho visto l’ora: le 8.24-8.25. Sono scesa di sotto da Samuele e ho visto che si era girato a pancia in su e tirato la coperta sopra il capo. Ho creduto che volesse giocare a nascondino come era solito fare con il fratello, quindi ho tirato giù la coperta e l’ho visto in un lago di sangue che respirava affannosamente ed era pallido. A quel punto ho iniziato a chiamarlo, ho sentito che respirava’27. E qui trova il figlio in fin di vita”. “Se adesso giro le chiavi, facendo due scrocchi, Samuele sente, perché nel silenzio totale, perché in quella casa anche se avevo acceso la televisione…(…) non arrivava rumore, non sentiva perché da sotto la tv sopra non erano volumi che poteva sentire”. 25 Qui stiamo assemblando due dichiarazioni diverse per facilitare il racconto. 26 Con un solo giro di chiave. 27 Non dimentichiamo che le imposte della stanza le aveva aperte Stefano 24

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“Scusa, mi spieghi la faccenda del famoso pigiama, dov’era finito a quel punto? Io non ho mai capito la sua posizione precisa”. “Non abbiamo un documento preciso che ci indichi dove il pigiama sia stato rinvenuto, intendo il punto esatto, ma un verbale che indica tra il lenzuolo e il materasso la maglia, mentre i pantaloni, tra le pieghe del piumino. Peccato perché la sua posizione al momento dell’evento invece è estremamente importante”. “E le altrettanto famose ciabatte, che movimenti hanno avuto?”. “Lei dice così: ‘Quando ero in attesa del soccorso, quando Ada mi ha detto di prepararmi, perché dovevo andare con Samuele, sono nuovamente salita di sopra a prendere le scarpe e la giacca, le ho infilate, ho lasciato le ciabatte al piano vicino l’ingresso e sono riscesa’”28. “Ma quindi, scusa, sono importanti le ciabatte?”. “Fondamentali nella linea accusatoria, poi magari se vuoi rivediamo tutta la parte di proiezione delle tracce ematiche che le riguarda, ma in linea di massima abbiamo due reperti importanti in quella scena, il pigiama e le ciabatte. Sono i due reperti su cui si trovano le tracce del sangue di Samuele.” “Sì, per forza, la parte delle tracce di sangue dobbiamo rivederla con calma. Ma ritorniamo a quel giorno, la prima ipotesi è l’assassino esterno, giusto?”. “Eh sì, al punto che giudici e carabinieri chiedono ai Lorenzi se qualcuno ce l’aveva con loro. D’altronde, nessuno crede che lei c’entri qualcosa”. “Questa ipotesi l’abbiamo esaminata: è quella dei Lorenzi e c’è sempre sembrata qualcosa che per potersi verificare necessitava della compresenza di troppe situazioni al limite dell’impossibilità…”. “Certo. Se sono l’assassino, non ho scampo: devo tenere per vedere quando arrivava la Guardia Medica. La stanza è dunque in penombra quando entra Annamaria. 28 Per la precisione, le ciabatte verrano trovate nella zona giorno, nell’antibagno che si trova subito a destra dell’ingresso.

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d’occhio la casa ogni mattina (per un’ora, almeno e con quelle temperature polari), perché non posso mai prevedere cosa farà Annamaria. Devo conoscere la disposizione delle stanze. Devo cercare Samuele, la mia vittima, perché quella mattina non è nella sua stanza. Devo avere con me un’arma impropria, il che fa contemporaneamente a cazzotti con l’aver premeditato il delitto. Devo anche avercela a morte coi Lorenzi. Devo nascondermi come un camaleonte perché intorno a quel gruppo di case ci sono solo prati scoscesi. Non che manchino degli anfratti e cespugli dove mettersi, ma da qualsiasi punto di osservazione alla casa l’assassino sarebbe stato in campo aperto per decine di metri, in pieno giorno.” “Sì, ma a parte le varie dichiarazioni che seguiranno, anche della Franzoni, sulla possibilità o meno di avere un nascondiglio all’aperto, ricordiamoci che il retro dell’abitazione29, per intenderci dove è posta la porta finestra della camera da letto, non è lineare ma ha una rientranza (a sinistra per chi la osserva dalla valle) dove è posto l’ingresso secondario, contrassegnato dal civico 4/B, e quindi una persona si sarebbe potuta semplicemente nascondere lì, non visibile dalla camera da letto e nemmeno dal piano giorno”. “E infatti Dino, interrogato il 6 febbraio, dice: ‘Il mattino del 30 gennaio, nel giro delle elementari, quando verso le 8.20 ho preso a bordo Davide Lorenzi, non ho notato egualmente nulla di anomalo, non ho incontrato anima viva lungo la strada appiedato, né ho notato sul terreno compreso fra Gimillan e le casa dei Lorenzi nessun movimento sospetto, né nessuna persona. Tra l’altro quel tratto di terreno è tutto scoperto’. E non solo lui: nessuno dei vicini (Marco, Daniela) o gli stessi Annamaria e Davide hanno notato o visto qualcuno”. “Che però non possono essere dichiarazioni esaustive”. “Esatto”. “E poi c’è il tempo”. “E poi c’è il tempo. Ho molto meno di sei minuti per fare tutto: prima devo aspettare che Annamaria e Davide si siano 29 Ricordiamoci che il retro è rispetto all’ingresso principale, situato all'altezza della zona giorno, primo piano, e ci si arriva tramite la scala esterna.

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allontanati abbastanza e poi devo scappare ben prima, per evitare che Annamaria mi veda già dalla strada. La faccenda comincia a farsi complicata. Molto complicata, quando esce fuori che l’assassino ha indossato almeno la casacca del pigiama. Che poi, perché perdere tempo prezioso a indossarla davanti a Samuele, peraltro?”. “Scusa, aspetta, alt. Cos’è questa cosa dei sei minuti? Perché sei minuti?”. “Eh, sono quelli che vanno dalle 8.18, quando esce, alle 8.24, quando rientra. A voler stare larghi possiamo dire otto, guarda”. “Ok, un’altra cosa. Questa è una storia con vari travisamenti. Tutti hanno detto di tutto. Ad esempio, prendi come appare a tutti Annamaria in quelle ore. Diversi testimoni l’hanno definita lucida, fredda, controllata. Forse è solo questione di punti di vista. Forse è solo questione di come ci aspettiamo che debba reagire una persona di fronte a tragedie del genere. Deve urlare, perdere il controllo? È questa la normalità? Quella mattina Ada appare sconvolta a tutti, eppure la madre non è lei: è normale, questo? Quella mattina è tutto sottosopra: Ada, che dovrebbe essere professionale, è sotto choc e le tremano le mani, Annamaria bloccata. Ma c’è un solo modo di reagire al dolore, allo spavento, all’orrore? In realtà, il grande allarmismo di Annamaria lo si capisce dal fatto che con una mano chiama il 118 e contemporaneamente, con l’altra, Ada. Alla domestica, di Ada Rosanna, pare davvero agitata. Poi resta come bloccata in un fermo immagine, all’arrivo dei soccorsi, ma quando dice che non sapeva cosa fare di fronte a tutto quel sangue, come non crederle?”. “Certo. Così, lascia fare ai medici. Quella che darà una mano alla descrizione della sua freddezza presunta è l’operatrice del 118, Nives Calipari. Da dove abbia preso l’idea che Annamaria fosse lucida e calma durante la telefonata davvero non lo sappiamo: basta ascoltarla per accorgersi del perfetto contrario. Non dobbiamo fare lo stesso errore: partire da un’ipotesi colpevolista e poi interpretare tutto alla luce di quella. Per la nostra indagine sarebbe un disastro. In ogni caso, anche se fosse, essere calmi è solo un modo di reagire alle tragedie,

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non è la prova di nulla. Altrimenti tutti quelli calmi sarebbero automaticamente degli assassini”. “Sì, hai ragione. Comunque, è alla fine di quelle 48 ore che il Sostituto Procuratore della Repubblica, Stefania Cugge, dichiara che la chiave del delitto va cercata in ambito familiare. E cambia tutto”.

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Capitolo 3

A che ora è morto?

È scesa la sera e continua la serie infinita dei sorpassi per arrivare in serata ad Aosta. “Però, guarda che se alle 8.32, ora d’arrivo di Ada e di inizio dei soccorsi, togliamo 10-12 minuti, come dice Viglino, arriviamo alle 8.20-8.22, ora in cui Samuele era di sicuro da solo in casa” fa Armando. “Sì, l’autopsia è dalla parte di Annamaria. Porta all’aggressore esterno e indirettamente dice che Leonardo e Ada hanno scambiato un morto per un vivo. Incredibile, vero?”. “Talmente incredibile che le indagini virano un’altra volta. Invece di puntare Annamaria ci si guarda intorno. Vengono sentite un sacco di persone. Il punto adesso diventa capire quanto tempo ha avuto l’assassino per entrare, uccidere e fuggire. Dino, il conducente dello scuolabus: ‘Alle 08.20 giungevo alla seconda fermata30 (…), ove prelevavo due bambini, Savin Sophie31 e Lorenzi Davide (…) i bambini erano in compagnia della mamma di Davide Lorenzi, la signora Annamaria, che attendeva sulla strada accanto a loro. Come al solito ho salutato la signora Annamaria, dopo di che ho avviato la marcia e ho visto la signora Annamaria riavviarsi a piedi verso casa sua sulla strada asfaltata’. Anche Marco, prima di accompagnare Ada, ha visto Annamaria, quel giorno: ‘Quella mattina (…) la signora Annamaria ha accompagnato il figlio Davide alla fermata predetta. Io ho notato che passavano tra le ore 08.15 e le ore 08.20 lungo l’unica strada che conduce proprio all’abitazione dei Lorenzi. Annamaria Franzoni e Davide eraLo scuolabus passava tre volte per la stessa strada, partendo dal capolinea, da cui si muoveva alle 7.30 (giro delle medie), alle 8.15 (giro delle elementari), alle 8.40 (giro delle materne). 31 Sophie è la figlia di Ada. 30

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no entrambi a piedi (…). Nel momento in cui sono passati io dal terrazzo li ho salutati e loro hanno fatto altrettanto con me (…) procedevano ad andatura regolare’”. “Va bene, ma quanto ci vuole per fare quella strada tra le case, a piedi? Non c’è una perizia da qualche parte?”. “C’è. Tre minuti e trenta secondi per andare alla fermata e tre minuti e dieci secondi per rientrare in casa (senza un bambino il passo è più veloce anche se la strada è un poco in salita e lei stava riportandosi dietro la bici che Davide aveva lasciato appoggiata proprio al muro di casa Satragni)32. Totale sei minuti e quaranta più il tempo di attesa alla fermata, ovvio”. “Ecco, Dino ci dice che alle 8.20, quando frena alla fermata, Annamaria e Davide sono già lì. Il che vuol dire, sempre se la matematica non è un’opinione, che devono essere usciti alle 8.16. E Annamaria non è tornata prima delle 8.24, più o meno33. Ma anche se fosse uscita alle 8.1834, come dice lei, si trovava sempre fuori casa mentre le ammazzavano il figlio….”. “Ricapitolando: fino alle 8.16-18 Samuele è vivo, alle 8.24 la madre lo trova agonizzante. Dunque, qualcuno deve essere entrato in casa in quei sei-otto minuti. Stiamo sempre alle dichiarazioni di Annamaria, d’altronde, perché quella mattina, in casa Lorenzi, Samuele non l’ha visto nessuno. Non lo vede Davide, che in genere lo salutava prima di andare a scuola; non lo vede il padre, Stefano, che è uscito alle 7.30-7.3535 per andare al lavoro ma non ha salutato Samuele, perché andava di fretta. Samuele, quella mattina, è già un fantasma. Lo vede solo lei”. 32 Naturalmente, nessuno può dire se la velocità tenuta da Annamaria quella mattina sia stata più alta o più bassa di quella dei carabinieri che presero le misure. I due esperimenti giudiziali furono svolti il 2 marzo e il 4 giugno 2002: quelli ottenuti sono tempi medi. 33 Al tempo di percorrenza della strada verso casa va infatti aggiunto un po’ di tempo che è quello necessario allo scuolabus per accostare, far salire e sistemare i due bambini. Possiamo stimarlo in mezzo minuto/un minuto al massimo. 34 È possibilissimo, i 3 minuti sono ovviamente calcolati a passo normale. 35 L’orario è quello dichiarato da Stefano ai Carabinieri quel giorno stesso.

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“Naturalmente, però, dobbiamo prendere questa storia dei minuti con le molle. Non siamo in un telefilm americano, in cui danno l’ora della morte al secondo. La Medicina Legale non fa questo, anche perché come ben sai ognuno di noi reagisce diversamente alle lesioni che subisce. Certo, possiamo escludere che quando esce Stefano sia già successo qualcosa, ma poi veramente abbiamo una forchetta temporale estesa. Anche Viglino lo sa bene e lo sottolinea in perizia”. “Però c’è un colpo di scena. Nella relazione integrativa del 12 marzo successivo il medico legale conferma la sua valutazione, approssimando però la stima di ulteriori cinque minuti in più o in meno. Quindi, l’omicidio è avvenuto tra i 7 e i 17 minuti prima dell’arrivo di Ada. Perciò, se prendo le 8.32 e tolgo questi 7-17 minuti, sono in una fascia che va dalle 8.15 alle 8.25. Lunghi minuti in cui Samuele è rimasto solo, se si eccettua quel minuto-tre minuti prima che Annamaria e Davide escono di casa alle 8.16-18. È la svolta. Il tatto e comprensione dei primi interrogatori lasciano il posto alla sfiducia, al dubbio, al freddo, quando verranno anticipati i risultati della perizia integrativa. Perché quei cinque minuti che Viglino aggiunge ricollocano improvvisamente Annamaria sulla scena del crimine”. “Scusa, ma nessuno mi toglie dalla testa che la Procura avesse puntato Annamaria e non avesse gradito la prima perizia. Non possono aver chiesto al medico-legale un approfondimento sperando o facendo intendere dove volevano andare a parare? O Viglino si è adeguato alla Procura?” “Non lo so, fatto sta che Viglino dice che all’arrivo di Ada il bambino era già morto, che in quel momento era in ‘uno stato di coma irreversibile rapportabile al punteggio 3 della Glasgow Coma Scale’. Si tratta della classificazione ufficiale delle forme di coma. Insomma, quello che Ada vede è solo reviviscenza. E che ne pensano Ada, i testimoni e l’equipaggio dell’elicottero?”. Ada: “Accertavo che Samuele aveva polso carotideo e che gemeva flebilmente, segno questo più che eclatante della vitalità del piccolo”. Marco: “Ho sentito che il bambino emetteva un gemito a brevi intervalli, sembrava quasi un lamento, non

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forte ma in ogni caso si sentiva”. Leonardo: “Ho cercato di verificare se rispondeva agli stimoli pizzicandolo sulla faccia e sul corpo. Non rispondeva a nulla, aveva il respiro molto lento, anche se c’era, serrava la bocca. Era in stato comatoso, ma ancora respirava. Durante in tragitto perdeva tono muscolare e non risultava più avvertibile il polso carotideo”. “Santa Madonna, Samuele, insomma, non reagisce a niente ma respira. Sembra vivo, ma è già morto, dice Viglino. No, muore durante il trasporto, dice Leonardo. Com’è possibile?”. “Se tu me l’avessi fatto dire, lo sapresti già da due ore. Questa benedetta reviviscenza, Viglino, la definisce così: ‘Alla morte vera e propria: perdita della funzione cerebrale e della funzione circolatoria, può seguire una fase in cui stimolazioni esterne possono produrre una condizione di fenomeni riferibili a vitalità ma di tipo sicuramente agonico, contratture muscolari, tetanie e gasping respiratorio’. La Morte, Fabio, non è una cosa che arriva di colpo e stop: è un processo attraverso più fasi, che vanno dalla ‘morte relativa o morte clinica’ fino alla ‘morte assoluta’36”. “Spiegati meglio”. “Ora te lo leggo. Nella ‘morte relativa’, nonostante l’avvenuta cessazione di tutti i fenomeni vitali fondamentali (attività nervosa, circolatoria e respiratoria) sono possibili, in conseguenza di vaneggiamento o manipolazioni del cadavere, più o meno finalizzati alla rianimazione, fenomeni di revivescenza che possono anche essere interpretati come fenomeni vitali. Dipende da come il corpo reagisce alla mancanza di ossigeno. Alla morte relativa segue, dopo un tot, la morte assoluta, dove i fenomeni di reviviscenza37 non sono più possibili”. “Per cui Ada e Leonardo hanno scambiato una cosa per un’altra. Samuele sembrava vivo”. “Esatto, tanto è vero che quando Leonardo introduce questa benedetta cannula di Gluedel, a Samuele non viene da vomitare come dovrebbe. Perché? Perché non c’era più Quando Viglino parla di 10-12 minuti, intende che ci sono voluti 10-12 minuti per passare dalla morte relativa a quella assoluta. 37 Viglino si ostina, nella sua perizia, a chiamarla “revivescenza”, ma a norma di Treccani si scrive invece “reviviscenza”. 36

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vita in lui. E infatti, conclude Viglino, non tossiva affatto, anche se le sue alte vie respiratorie erano piene di sangue. Tutto chiaro?”. “Sì. Ma se facessimo una telefonata a Giorgio Bolino? Come la vedi?”. Becchiamo Giorgio mentre sta lasciando l’Istituto di Medicina Legale ed è nel traffico di Roma. “Scusa, ma davvero si poteva parlare con così tanta precisione di 12 minuti (con la successiva approssimazione di più o meno 5)?”, gli urla Armando nel vivavoce. “Guardate, il bimbo è morto quando i soccorritori hanno avuto modo di constatare la cessazione di ogni fenomeno vitale e ciò è avvenuto alle ore 09:55 presso l’ospedale di Aosta (a meno che non vi siano atti sanitari che fissino il momento della morte durante il trasporto in elicottero). Il Dottor Iannizzi afferma di avvertire il respiro e il polso carotideo (che non avvertirà più in elicottero): il che riprova che il bimbo al suo arrivo era vivo. Lo stadio 3 della Glasgow Coma Scale non è poi in alcun modo l’equivalente di una diagnosi di morte: è solo la descrizione dell’assenza di risposta agli stimoli, che può precedere la morte, ma che in taluni casi può evolvere anche verso il miglioramento (tante volte leggendo le cartelle cliniche capita di vedere queste fortunate evenienze, tante altre invece lo stato GCS trapassa nella morte). Quanto affermato poi dal dott. Viglino circa la mancanza di sangue nelle vie aeree (sangue però presente nello stomaco) farebbe pensare ad un laringospasmo, così come sottolineato successivamente dai consulenti della difesa: non ci sono dati istologici che confermano o meno l’assenza di sangue nelle vie aeree”. Giorgio fa una pausa. “Non si comprende, quindi, come si possa essere stabilito che fra i colpi e la morte siano trascorsi 12 minuti”. “Cominciamo a capire. Quindi, al di là di dare un termine di tempo più o meno preciso per l’epoca di morte, alla fine abbiamo: la posizione di Viglino e i suoi 12 minuti, quella dei primi consulenti della difesa Boccaletti e Griva (morte intervenuta pochissimi minuti dopo il trauma), quella dei consulenti suc-

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cessivi sempre della difesa- dell’Istituto Europeo di Medicina Legale e Scienze Forensi (la morte clinica non è sopraggiunta con l’arrivo della Satragni ma all’arrivo del dr. Iannizzi). È possibile, alla fine, sposare secondo te una tesi piuttosto che l’altra?” “La tesi dei secondi consulenti della difesa - quelli dell’Istituto Europeo di Medicina Legale e Scienze Forensi- è l’unica clinicamente e scientificamente accettabile: a meno che i sanitari intervenuti con l’elisoccorso non abbiano mentito sulla presenza di respiro e battito cardiaco (ma perché?); peraltro, se non ci fossero stati fenomeni di vitalità, a che scopo prestare il soccorso e spostare il corpo? I cadaveri non si portano in ambulanza o in elisoccorso, ma si lasciano dove sono stati rinvenuti. Tralascio ogni commento sulla confusionaria ricostruzione fatta da Viglino circa le fasi del processo biologico del morire”. “Ma scusa, una cosa: quanto è comune il fenomeno della reviviscenza di cui parla Viglino?”. “La reviviscenza si ha quando, nell’apparente cessazione delle funzioni vitali, si tenta comunque la rianimazione e questa è seguita (nell’arco di 20 minuti) dal ripristino di un valido battito cardiaco e di una sufficiente funzione respiratoria, magari associate a ripresa (pur parziale) delle funzioni cerebrali; in diversa ipotesi -cioè con manovre rianimatorie non seguite da reviviscenza- si dichiara che il soggetto è deceduto. Nel caso in esame, questo è avvenuto in ospedale o al più in elicottero ma non nella casa o durante i primi soccorsi”. “Giorgio, ma è possibile contare i colpi inferti e dire che sono almeno 17, come ha fatto Viglino?”. “Correttamente lui parla di 17 focolai lesivi e quindi di un numero minimo di colpi; in realtà sono stati certamente di più, in quanto in alcune aree si ravvisa sovrapposizione delle lesioni ed in altre spicule ossee da frammentazione della volta cranica che possono aver accentuato l’espressione lesiva. Mi manca il dato di sopralluogo: se non erro vi erano schizzi di sangue fino al soffitto, il che indicherebbe l’applicazione di una discreta forza in una concentrata azione cronologica. Circa il mezzo impiegato è veramente arduo dare giudizi

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se non di massima, come appunto ha fatto Viglino. Qualche informazione di più si poteva avere facendo la Tac prima dell’autopsia e non al solo cervello dopo l’autopsia (come sembra sia stato fatto)”. L’Alfa si infila in una galleria, la linea cade, non sentiamo più Giorgio. Per un po’ avremo solo assenza di segnale. Abbiamo fatto appena in tempo.

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Capitolo 4

La paura corre sul filo

Il panorama è cambiato: le montagne sono sempre più vicine, la pianura sta finendo, quelle rocce lontane ora stanno diventando sempre più reali. È come uscire da un mondo per entrare in un altro, che non conosciamo. Adesso tocca a me. “Alt. Riavvolgiamo il nastro. La stanza in cui viene trovato Samuele è in penombra38. Dopo aver scoperto il corpo del figlio, cosa fa Annamaria?”. “Comincia a chiamare il mondo”. “Ricostruiamole, queste chiamate, perché questa cosa delle telefonate non è chiara, a livello di orari”. “Perfetto, sono d’accordo. Questo è un momento cruciale per capire, dalle sue frasi, molte cose. Annamaria ha appena trovato Samuele nel sangue. Cosa fa? Panico. Fa il giro del letto per prendere il cordless bianco. Non ricorda se ci vuole il prefisso o no per chiamare il 118 e fa un po’ di tentativi, ma le dita premono tasti a caso. È nell’ansia totale. Con in mano il telefono, apre la finestra e grida aiuto verso casa Ferrod, ma vede tutto chiuso, porte e scuri. Chiude la finestra. Sale di sopra e qui riesce a far partire la chiamata al 118, usando il fisso”. “E fin qui. Da questo momento in poi, però, la cronologia delle telefonate di Annamaria diventa uno dei tormentoni del caso Cogne. È qui che abbiamo trovato una cosa che non andava, no?”. Le ante della porta finestra erano chiuse, le imposte della finestra aperte. Sui vetri, le classiche tendine bianche. I due pesanti tendoni blu a piccoli disegni chiari erano aperti e fissati a sinistra e a destra. Il sole si sarebbe trovato di fronte alla finestra solo alle 9.30, comunque la stanza non poteva certo dirsi al buio, tanto che entrando Annamaria non accende la luce. 38

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“Esatto. Allora, attento. 8.28.1739: la telefonata al 118 da Telecom fisso, quella che parte dal piano di sopra. La telefonata dura 1’40’’ (l’abbiamo riascoltata, ricordi?), finendo pertanto alle 8.29.57. All’operatrice Nives Calipari Annamaria dice che il proprio figlio vomita sangue dalla bocca e non respira, sta malissimo”. “E Annamaria che dice ai carabinieri? C’era qualcosa, da qualche parte…”. “Annamaria depone: mentre è al telefono «penso allora al nostro medico di base che abita vicino a noi, mi giro e vedo il mio cellulare sul mobile. Lo prendo e cerco il numero della dottoressa, ma sulla mia rubrica non riesco ancora a trovarlo. Prendo l’elenco telefonico, ma non riesco a concentrarmi. Finalmente trovo il numero. Comincio a comporlo (e infatti si sente l’interferenza del cellulare sul fisso, dopo esattamente 1’14’’ dall’inizio della chiamata, N.d.A.) mentre con l’altro telefono finisco di dare i dati all’operatrice del 118”. “Ok, qui ha tutte e due le mani impegnate, a un certo punto parte la telefonata ad Ada mentre ancora sta finendo col 118”. “Yes. Dalle 8.27.30, per un minuto, Annamaria parla ad Ada dal suo cellulare Omnitel. Le risponde la governante Rosanna Grappein. Le dice convulsamente che il bimbo sputa sangue, quindi Rosanna le passa Ada e a quest’ultima dice ‘di andare immediatamente a casa sua, di fare prestissimo perché c’era Samuele che stava perdendo sangue dalla bocca, tanto sangue’, esclamando subito dopo ‘gli sta scoppiando il cervello oppure gli è scoppiato il cervello”. Mentre finisce di parlare con Ada, scende di sotto’. “Quindi sembra che sia solo a questo punto, quando riscende di sotto, che si accorge che Samuele ha un buco in testa. Perché il mio intuito mi dice che qui c’è qualcosa che non mi convince?”. “Non ti seguo, Fà”. “Scusa, dalla telefonata si capisce che lei improvvisamente scopre l’enorme ferita sulla testa del figlio mentre riscende dal 39

Orario della Centrale Operativa 118.

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primo piano e sta ancora finendo la telefonata con Ada. Ora, a parte il fatto che nel suo libro la racconta diversa e dice di aver visto subito ‘una grossa e profonda ferita alla fronte’, non appena ha scoperto il figlio… se anche così non fosse, scusa, se nella stanza -a livello di condizioni di luce- non è cambiato niente da quando ha trovato il corpo ad ora, allora come ha fatto a non vederla prima, cioè subito, la ferita? E se l’ha vista, perché non ne ha parlato al 118?”. “Aspetta, scusa… senti qua… “Annamaria: ‘Terminata la conversazione, aprivo la porta-finestra per aspettare Ada e nell’uscire, non so se la prima volta o la seconda, vedevo Daniela alla quale dicevo che Sammy stava male, lei mi chiedeva che cosa fosse successo e vedendomi così disperata è corsa subito verso di me’. A Daniela urla che il bambino perde sangue dalla testa!”. “Peggio che andar di notte: se ha appena visto il buco, come fa a dare un allarme così ridotto, che fa pensare a un semplice taglio che sanguina?”. “Certo, giusto. A questo punto Annamaria si accorge che il lenzuolo che aveva rimboccato a Samuele insieme al piumone è invece accartocciato in fondo al letto. Ma pure qui non è chiarissima nelle dichiarazioni, cosa significa? Che quando scopre il volto di Samuele il piumone spinge il lenzuolo fino in fondo? Intanto Daniela arriva sulla soglia della porta-finestra, e guarda. ‘Oh mio Dio!’ urla; e retrocede. Stop. Ora sono io che ti chiedo cosa non quadra”. “Perché, cos’è che non quadra?”. “I due orari, quelli delle prime due telefonate, non possono stare in quest’ordine, anche se questi sono gli orari attribuiti dai giudici. Se la prima è delle 8.28, la seconda non può essere delle 8.27…” dice sorridendo Armando. Conosco quel sorriso. Dietro c’è un ragionamento lungo come la galleria in cui siamo appena entrati. “E quindi? Cos’è successo?”. “Te lo dico io cos’è successo. È successo che le discrepanze d’orario sono dovute al fatto che i tempi d’inizio sono stati fissati da gestori diversi e quindi uno dei due s’è sbagliato, è evidente. I casi sono due: • L’orario d’inizio della prima telefonata è corretto e allo-

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ra la successiva ad Ada è sbagliata perché, visto che la prima è durata 1’40’’, la seconda prima delle 8.29.57 (in pratica, le 8.30) non può essere iniziata… ma allora, se è così, sono sbagliati anche gli orari di tutte le successive -che adesso vedremo- perché si sovrapporrebbe tutto. Possibile? Certo, però improbabile. • Oppure, è l’orario della prima telefonata che è sbagliato e va arretrato non di poco, ma esattamente di 1’40” rispetto all’ inizio della seconda telefonata, visto che la seconda inizia immediatamente dopo la prima. A questo punto la prima telefonata la retrodatiamo alle 8.25.50 (un orario decisamente coerente con il rientro a casa di Annamaria, che non può essere stato possibile, visti i tempi di percorrenza40, prima delle 8.24; poi la scoperta del corpo, salire di sopra, i tentativi sbagliati di chiamare il 118 e finalmente avviare la chiamata di soccorso…). Il resto resta uguale, a questo punto: alle 8.27.30 chiama Ada, quindi grida aiuto ancora verso Daniela che stavolta la sente e s’affaccia”. “Pazzesco. I giudici che sbagliano l’orario delle chiamate…”. “A questo punto ti dico le altre telefonate che fa: 8.29.11 Annamaria chiama per errore una scuola di Arvier dal cordless Telecom. 8.29.26 Annamaria, sempre con lo stesso cordless, riesce a chiamare il fisso della Ronc -ditta per la quale lavora Stefanoper massimo 1’30’’, dicendo alla segretaria Giacinta Prisant che il bambino è morto e di dire a Stefano di tornare subito, ma senza dirgli quello che è successo. Giacinta chiama Stefano sul suo cellulare alle 8.31.05. 8.31 circa, arriva Daniela (che infatti non trova Annamaria al telefono). 8.32.02 Stefano chiama Annamaria. La telefonata dura poco perché il cellulare di Annamaria muore. Annamaria ricorda d’avergli detto che a Samuele è scoppiata la testa. 40 Tempi di percorrenza: alle 8.20 Dino la trova alla fermata con Davide, mettici trenta secondi/un minuto per far salire il bambino e Sophie sullo scuolabus, sedersi, salutarsi e ripartire. Più i circa tre minuti per ritornare a casa.

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8.32.43 Il 118 chiama Annamaria. In quel momento arrivano Ada e Marco sulla Panda. Ada dice che ha trovato Annamaria al cordless che sta parlando col 118; sta dicendo a Nives che al bambino è scoppiata la testa. Il 118 parla anche con Ada e Marco. 8.33.46 Richiama Stefano sul fisso. 8.45.16 Ada sollecita l’elisoccorso del 118, la chiamata dura 18’’, parla con l’operatore Antonello Piffari. 8.48.21 La protezione civile chiama per coordinare l’arrivo dell’elicottero”. “Ne traiamo due conclusioni. La prima è che, incredibilmente, i magistrati hanno sbagliato la ricostruzione dei tempi delle due telefonate. Ne consegue che non esiste nessun buco di 3 minuti tra il rientro a casa di Annamaria e la telefonata di soccorso numero uno (cioè dalle 8.24 alle 8.27, al 118) perché gli orari errati dei tabulati telefonici hanno sviato i magistrati. E la telefonata numero uno non fu ad Ada ma al 118”. “Perciò, se stiamo cercando un colpevole, questo ha ucciso prima di uscire di casa. E non dopo…”. “E certo, non ne aveva il tempo. Poi c’è il discorso sulle descrizioni che lei dà delle condizioni di Samuele. Qui è stato detto di tutto, le discussioni sulle sue contraddizioni sono lunghe come il traforo del Monte Bianco”. “Rimettiamo in fila cosa ha detto Annamaria, allora”. “Al 118, prima telefonata, Annamaria dice il figlio vomita sangue dalla bocca e non respira, sta malissimo. A Rosanna dice che la stessa cosa, che il bimbo sputa sangue, ad Ada “che stava perdendo sangue dalla bocca, tanto sangue”, esclamando però subito dopo “gli sta scoppiando il cervello oppure gli è scoppiato il cervello”. A Daniela urla invece che il bambino perde sangue dalla testa, quindi il cervello non è più scoppiato. A Giacinta, addirittura, che il bambino è morto. Subito dopo, sia a Stefano che nella seconda telefonata al 118, dice a Nives che il bambino non è morto, ma che gli è scoppiata la testa”. E per un lungo minuto non sappiamo proprio che dire. “Cioè… È come se Annamaria si rendesse conto e non si rendesse conto di quello che è successo, come se vedesse e non vedesse il figlio” dico io. “Partiamo dal fatto che la stanza era

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in penombra. Va bene, ma c’è una cosa. Samuele aveva un buco in testa, sopra l’arcata sopraciliare destra. Una lesione così grande che, penombra o no, era difficile non vedere. Per questo le prime dichiarazioni al 118 sono veramente riduttive delle condizioni disperate del bambino, condizioni di cui si accorgono subito tutti quelli che intervengono, tanto che Leonardo si accorge che ad Ada tremano le mani”. “Va bene che Annamaria era concentrata sul bambino e può non aver visto gli schizzi di sangue sulle pareti e sul soffitto. Ma la testa di Samuele non l’ha vista?”. “E perché dire a Giacinta che il figlio è morto quando non lo era ancora? Perché subito dopo, invece, chiede ad Ada come sta il figlio?”. “Una spiegazione della frase detta a Giacinta la dà. In un’intercettazione ambientale del 31 gennaio 2002 Annamaria dice al marito di aver detto così a Giacinta perché si sentiva che il figlio non ce l’avrebbe fatta. Meno strano, a pensarci bene, è che la Franzoni chiami la segretaria della ditta del marito e non direttamente lui: ricordiamoci che voleva farlo accorrere senza allarmarlo troppo, quindi il filtro della segretaria poteva servire a questo. Allo stesso modo, scusa, dire a Stefano - nella seconda telefonata- al 118 nell’ultima, che al figlio è scoppiata la testa non è affatto strano: è la diagnosi che aveva fatto Ada appena arrivata. Aneurisma, cioè gli è scoppiata la testa. Annamaria ripete quello che ha detto Ada, semplicemente”. “Certo, non è che si può interpretare tutto in chiave colpevolista. Ma, se ripenso alla frase detta a Giacinta, una madre spera sempre che suo figlio ce la faccia, deve sperarlo. Deve. Una madre che scopre il figlio come lei ha trovato Samuele, chiama i soccorsi spiegando la situazione anche per più grave del reale, per farli arrivare prima. Nel contempo, però, ai familiari sminuisce la gravità del fatto, per non farli preoccupare troppo. Questa è la normalità di una risposta emotiva. Annamaria ha fatto la seconda cosa, ma la prima no. Al 118 minimizza la situazione, piuttosto. Certo, non possiamo darle torto quando afferma di aver dato versioni contrastanti perché un attimo le sembrava che suo figlio potesse farcela e uno che

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era spacciato. Insomma, parte delle sue strane frasi si spiegano facilmente, altre no”. “Sono prove? No, Fabio, comunque non sono prove. Forse indizi. Cose strane, sicuro. Una serie di cose sono spiegabili. Altre vanno contro la logica comune. Ma non sono prove”. Resta come una strana sensazione: qualcosa è parzialmente fuori posto, ma non sappiamo cosa. Intanto, usciamo dalla galleria.

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Capitolo 5

Samuele

Mamma mia che aria fredda, perfettamente limpida. Respirare qui ad Aosta è un piacere. Usciti dall’albergo ci siamo ovviamente persi (anche se perdersi qui è difficile pure per un bambino). Siamo in una via lunga, con la pavimentazione bianca e grigia. Al centro, fioriere di pietra e panchine di legno. Ai lati i caffè, i negozi, tanta gente imbacuccata in questo inverno che aspetta la neve. Tutto ha un’aria seria, un po’ antica, robusta. Queste strade danno certezze. Però ci siamo accorti di una cosa. Parliamo tanto di Annamaria e ci dimentichiamo di Samuele. Dimentichiamo che la vittima è lui. Anzi, scusate, perché è morto lui e non Davide? “Vediamo cosa sappiamo della vittima. Sappiamo che aveva tre anni e che ha capito che lo stavano aggredendo quella mattina. Lo sappiamo dalle lesioni da difesa alle mani: insomma, Samuele era sveglio. Sappiamo che era un bambino come gli altri: cresceva bene, in una famiglia dove era amato”, dice Armando chiudendo bene il giaccone. “Sì, Samuele stava bene. La pediatra si chiama Daniela Guttuso e dichiara che non aveva patologie particolari, nessuna irregolarità nello sviluppo, che cresceva nella norma. Stefania Pandolfini, insegnante di scuola dell’infanzia, dice che era un bambino molto vivace, ipermotorio, che necessitava di una continua attenzione”. “E io continuo a non capire perché lui. È un bambino molto protetto dalla madre, e lo dice anche lei: ‘Stavano sempre con me, loro’41”. “Per trovare qualche voce un po’ fuori dal coro ci vogliono le amiche di Annamaria, sentite già il giorno stesso del delit41

Interrogatorio del 16 marzo 2002.

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to. Qui la faccenda diventa un po’ diversa. Sediamoci lì che ti leggo”. “Dai”. Paola Croci42: “In tre occasioni (la prima nel 1999, N.d.A.), Annamaria, sorridendo, mi ha detto che Samuele aveva la testa grande e che sembrava un nanetto, (…) Secondo me, effettivamente aveva la testa un po’ sproporzionata, un po’ più grande del normale, ma non glielo ho mai detto… Il fatto che lei me lo dicesse sorridendo e che non approfondisse il discorso, penso che per lei non fosse importante…”. Zita Glarey: “Annamaria era preoccupata per qualcosa che non andava nella testa di Samuele. Non ricordo, però, se per il fatto che questa testa emanasse calore o se fosse più grande del normale… mi sembra di ricordare che sia stata Manuela Di Macari a riportare qualcosa che aveva sentito dire”. Esatto Manuela Di Macari dice: “Sicuramente di questo fatto ne ho parlato con Zita Glarey e Gilda Vaudois e tutte e due mi hanno confermato di aver sentito anche loro quella storia, senza però precisarmi la loro fonte di informazione… Con Zita Glarey che mi diceva: sì, lo sapevamo e mi precisava di sapere pure che Annamaria aveva spesso la sensazione che Samuele avesse la febbre e perciò si rivolgeva spesso al medico”. Gilda Vaudois conferma le amiche43. “Sì, però ricordiamoci che vengono sentite dopo l’omicidio, quando ormai è noto che il bambino era stato colpito alla testa. È allora che vanno a ripescare nella propria memoria, e parliamo anche di episodi sporadici, parole dette in vari contesti, vissuti anche 3 anni prima. Si ricordano quelli perché sono inerenti, ma non potremo mai sapere se, per esempio, nel corso di qualche chiacchierata, la Croci o la Glarey abbiano affermato, che so, che il proprio figlio, se ne hanno, avesse problemi al piede o altro… capisci? Comunque, una preoccupazione esagerata e iperprotettiva come questa può essere un movente?”. “E naturalmente Annamaria, agli inquirenti, descrive il È la moglie di Enrietti. Non abbiamo preso in considerazione le dichiarazioni fatte da altre testi in quanto suscettibili di dubbi circa la loro attendibilità. 42 43

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suo Sammy ‘perfetto, bellissimo, dolcissimo e affettuosissimo’. Nega di essere stata mai preoccupata per lui. Quindi su questo c’è un muro contro muro”. “Però ti ripeto: perché hanno ucciso Samuele e non Davide?”.

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Capitolo 6

Davide

È notte ma il cielo è bianco e qui, da queste parti, significa una cosa sola. “Ma sai che la figura di Davide è molto particolare…”, fa Armando mentre cominciamo a cercare un ristorante. “Che vuoi dire?”. “Che Davide smentisce sua madre. Sentito proprio dal maresciallo Catalfamo, 48 ore dopo il delitto, dice di essere stato cambiato di sotto, come sempre. Dice di non essere mai stato cambiato di sopra. Nemmeno quel giorno. Una cosa che non aiuta Annamaria, così come altre affermazioni del bambino”. “Scusa, ma cosa ne dice lo psicologo di quelle dichiarazioni?”. “Quale psicologo? Perché pensi che ci sia stato?” “Beh, visto che la Carta di Noto, il protocollo internazionale sull’ascolto dei minori in caso di abuso ma anche di testimonianza, è molto chiaro a riguardo, si sa che il minore deve essere ascoltato con il supporto di uno psicologo. La Carta era stata creata già da alcuni anni 44, quindi era impossibile che ad Aosta non la conoscesse nessuno.” “Sembra impossibile ma è stato così, non è stato applicato nulla della Carta, nemmeno la registrazione della testimonianza del bambino. Comunque nei suoi ricordi, insomma, il giorno del delitto non è stato diverso dagli altri…”. “E dice pure che non ricorda nemmeno di essere stato 10 minuti a fare le coccole con lei! Di più: aggiunge che la madre è scesa a vestirsi non mentre lui finiva colazione, ma solo La Carta di Noto è un documento creato a seguito del convegno avvenuto a Noto il 9 giugno 1996, successivamente parzialmente ampliato e modificato; ed indica in 13 basilari punti le linee guida da adottare in caso di testimonianza di un minore. 44

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dopo averlo preparato. Dopo, quindi, che lui era uscito per farsi qualche minuto di bici prima dello scuolabus. Come sempre. Poi era arrivata la mamma e si era avviato in bici verso la fermata e qui le deposizioni collimano: la mamma l’aveva raggiunto per strada, prima di casa Satragni. Quindi è vero che lei è rimasta qualche minuto sola dentro casa. Davide ribadirà queste dichiarazioni, così come dirà, nell’immediato, di non aver visto nessuno sul sentiero e che Samuele faceva colazione con lui solo qualche volta, il che collima con quei testi che dicevano che raramente i due bambini andavano insieme allo scuolabus. Samuele anche quella mattina dormiva e non aveva fatto colazione con lui”. “Molto interessante! Davide ha 6 anni e può essersi confuso su tante cose, ma viene da pensare che per un bambino giocare in bici sia più importante di arrivare in orario allo scuolabus; se quel giorno, se proprio quel giorno non l’avesse fatto, gli si sarebbe timbrato in testa. Il cambiamento di un’abitudine così piacevole e attesa se lo sarebbe ricordato, tanto più che è stato interrogato subito”. “È questo il punto, trovare il figlio che smentisce la madre ce ne vuole…”. “In effetti ci si aspetterebbe che Davide si spalmi sulle dichiarazioni della madre; ma tempo per influenzarlo (anche involontariamente, intendiamoci) non ce n’è: viene sentito a botta calda. Sì, colpisce anche me che dica cose diverse, quando spesso i bambini si adeguano agli adulti in testimonianza… Quante volte l’abbiamo visto? Con risultati catastrofici per la giustizia, finendo col far condannare innocenti e assecondando gli investigatori. Ma che vadano contro un genitore o contro una figura di riferimento con la quale non c’è alcun problema è forse una delle rare volte che lo vedo”. “Eh lo so a cosa pensi. Stai pensando a cosa successe nella Bassa modenese nel 1998, quando 16 bambini sono stati allontanati dai genitori e sono state indagate circa 40 persone,per satanismo no?”. “Esatto una delle pagine più buie della giustizia italiana”. “Fa una bella differenza, quello che dice Davide, anche dal punto di vista investigativo: perché tutte le sue dichiarazioni

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aumentano il tempo in cui Annamaria può essere rimasta da sola con Samuele. Infatti: • togliendo i dieci minuti delle coccole che vanno dalle 7,50 alle 8 aumenta lo spazio temporale a disposizione di Annamaria (per fare qualsiasi cosa, s’intende: dallo stare con Davide per colazione fino all’irreparabile); • vestendosi Annamaria mentre Davide gioca fuori in bici si crea un tempo preciso in cui lei e Samuele sono certamente di sotto, da soli. Quanto lungo? Lo stesso Stefano dichiarerà, successivamente, che Davide è stato fuori in bici 4-5 minuti, evidentemente perché gliel’ha detto la moglie. Dunque, 5 minuti”. “Scusa, hai detto cinque minuti?”. “Sì”. “Vieni”. Mi metto a camminare veloce, quasi correndo verso l’hotel, mentre Armando mi rincorre chiedendomi cos’è successo. Attraversiamo la hall come fulmini, saliamo le scale fino al primo, apro la 102 e senza togliermi il giaccone cerco delle deposizioni nel fascicolo. “Ma mi spieghi che stai facendo?” chiede Armando col fiatone, seduto sul letto. “Ecco! Guarda qua. Davide, interrogatorio del 1 febbraio 2002, 48 ore dopo: ‘Sì, io saluto Sammy tutte le mattine, come mi dice la mamma’. Sì, ma quando? Quando l’ha salutato? Non è una questione di poco conto. Significa mettere un punto e dire: a quest’ora Sammy era vivo! Risposta: l’ha salutato prima di salire nella zona giorno. Attenzione, perché poi Davide spiega che una volta salito al piano di sopra, non ha più visto né sentito il fratellino, anche quando è risceso per essere cambiato nella camera matrimoniale. Samuele in quel momento era in camera sua. In silenzio. Il che vuol dire che non ha più visto Samuele all’incirca dalle 7.50. Mi segui?”. “È mezzo chilometro che ti seguo: ma dove vuoi arrivare?”. “Annamaria, verbale del 31 gennaio 2002: ‘Arrivate le 8.15 Davide è uscito e mentre stava uscendo io ho sentito Samuele che piangeva e l’ho visto subito che era a metà scala’. Questo è quello che dice il giorno stesso. Idem nel verbale del 6 febbraio

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2002, eccolo: ‘A quel punto Davide è uscito e io sono scesa giù da Samuele che era sulle scale, l’ho portato nel mio letto dicendogli di stare tranquillo che io ero in casa e di riposare’. Bene. Fin qui nessun accenno a Davide che saluta Samuele, giusto no?”. “Giusto”. “Stessa solfa nelle dichiarazioni fatte al Gip il 16 marzo 2002: ‘Davide ha salutato giù il suo fratellino, poi siamo saliti su, non ha più rivisto il suo fratellino’. Poi, di colpo, il 16 luglio del 2002, durante l’intervista televisiva al Maurizio Costanzo Show, Annamaria se ne esce che «Davide l’ha salutato prima45, e gli ha detto… mi ha detto ‘Mamma stai tranquilla vado io a prendere il pulmino’. Praticamente, Davide diventa il suo alibi di ferro: al momento di uscire Samuele, era vivo. Quindi è stato ucciso mentre loro due erano fuori!”. “Ma come? Ha detto sempre che Samuele e Davide non s’erano mai incontrati!”. “Può un ricordo essere recuperato dalla memoria cinque mesi e mezzo dopo i fatti? E perché una cosa così fondamentale, decisiva non l’ha detta subito? Risposta di Annamaria: non la ricordavo, me l’ha fatta tornare in mente Davide. D’accordo, va bene, stessa domanda: e Davide perché non l’ha detta subito? Passano pochi giorni e il 27 luglio Davide afferma davanti al giudice di aver salutato il fratellino due volte prima di uscire di casa, così come di avere visto gente sconosciuta sulla strada per la fermata. È un capovolgimento di fronte da doppio salto mortale. Solo che quella deposizione di Davide è il risultato di pressioni molto forti fatte dal padre: si capisce bene ascoltando l’audio delle dichiarazioni del bambino”. “Aspetta, mi fai ricordare qualcosa. Ma è quella volta di Davide sotto un tavolo?”. “Esatto, proprio quella. Ci sono lui, Stefano e l’avvocato Taormina per parlare della mattina del delitto. Intimorito dall’avvocato -e ci sta- lui si nasconde. Non volendo il bambino parlare con Taormina, allora lo fa il padre”. “Mi ricordo! Certo. La registrazione di quel dialogo tra pa45

Intende dire: prima di uscire per andare alla scuolabus, subito prima.

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dre e figlio è piena di domande suggestive fatte da Stefano, il quale ovviamente non può sapere come si interroga un minore. Sbaglia il modo di fare tutte le domande, lo fa sentire responsabile della libertà della mamma… col risultato di far dire a Davide quello che lui voleva sentirsi dire. I giudici riterranno quest’alibi postumo pari a zero e Annamaria finirà a processo lo stesso”. “Ed ecco dove volevo arrivare. Alle dichiarazioni spontanee rese alla Corte il 19 dicembre 2005. Annamaria, dopo aver detto che Davide ha salutato Samuele contro ogni evidenza, adesso torna, non si sa perché, alla prima versione: Davide non saluta Samuele”. “Per poi scrivere, nel suo libro del 200646, il contrario: ‘Ho un alibi di ferro proprio nei minuti in cui è avvenuto l’omicidio. Mio figlio Davide ha salutato il fratellino due volte e quando siamo usciti di casa, prima lui e poi io, Sammy era ancora vivo’”. “Quando hai detto cinque minuti mi si è accesa una lampadina. Cosa è successo in quei cinque minuti? È evidente che Annamaria è una teste del tutto inattendibile su questo aspetto della storia”. “Se Davide avesse salutato Samuele, lei lo avrebbe detto fin dal giorno stesso dell’omicidio. Non sono particolari che si dimenticano, questi. Specie quando ti aiutano ad evitare la galera. Davvero no”. “E ora che abbiamo messo questo punto fermo, possiamo andare a cena”, dico alzandomi. “Era ora!”, fa Armando.

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“La verità”, scritto con Gennaro De Stefano, Piemme.

Capitolo 7

I vicini di casa

Abbiamo deciso per “Nando”, in via Sant’Anselmo. Ce ne hanno parlato bene. Non appena entrati io e Fabio siamo conquistati dal pavimento in legno e dalle pareti che danno un’aria di calore dopo tanta aria gelida. Il menù parla la lingua del paradiso: planiamo su timballo di riso con finferli (qualunque cosa essi siano), fonduta valdostana con crostini e paiolo di polenta, col quale rischieremo probabilmente l’ustione (quelli del tavolo a fianco ci sono riusciti benissimo -a ustionarsi-, voglio dire) e poi… e poi, se sopravviviamo, vedremo per il dolce. “Ma noi dei vicini non abbiamo ancora parlato” dice Fabio, versandosi il rosso. “Lo facciamo adesso. Penso che tu sia d’accordo se dico che si fa fatica a credere che l’assassino non venga da quel piccolo gruppo di case tra i monti, proprio per la necessità di controllare da vicino i tempi degli spostamenti di Annamaria. Ripassiamo gli alibi di tutti, eh?”. “Comincia”. “Stefano, intanto: va a lavorare a mezz’ora di auto da Montroz e intorno alle ore 08.15-8.20, si trova ad Aosta, nel negozio Electric Center. I testimoni confermano. Poi ci sono Carlo Guichardaz e la moglie Daniela Ferrod. Abitano, l’abbiamo visto, di fronte ai Lorenzi. Con Carlo, Stefano e Annamaria hanno avuto degli screzi durante i lavori della casa. I Lorenzi non avevano una strada d’accesso alla loro proprietà, così chiesero ai Guichardaz il diritto di passaggio provvisorio. Nessun problema, fu una concessione gratuita da parte di tutti, tranne che di Carlo, che chiese una cifra molto alta. Poi si trovò l’accordo, ma non certo la simpatia. Hanno due figli anche loro, Patrick e Christian, ma le famiglie non si frequentano. Carlo esce alle 5.45 per andare all’ingrosso

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Doks di Burolo (To) a comprare verdura per il suo negozio di alimentari: la fattura di uscita è delle 8.43. Ma già alle 8.08 chiama casa, agganciando correttamente un ripetitore nella zona di Biella. Alibi perfetto. Daniela invece è in casa, quella mattina, con i figli che prepara per lo scuolabus. Ha i capelli biondo cenere, mossi, fino alle spalle e un gran paio di occhiali. Risponde al marito e poi esce verso le 8.25-8.3047 sul balcone della sua camera da letto: è allora che sente e risponde alle seconde grida di Annamaria, accorrendo così come si trova. Ovviamente, sa tutto dei tempi di Annamaria e abita a soli 50 metri da lei, a 55’ da Samuele48. Ti torna?”. “Perfettamente. Annamaria dice che quando lei passava, Daniela apriva la finestra e la insultava, ma che poi andò a chiederle scusa. I figli non giocano più insieme e certo non c’è cordialità tra loro: perlomeno i Lorenzi l’hanno vissuta così. Sulle prime loro non sospettano di lei49, ma poi definendola scostante e strana, il 31 gennaio, alle 6.30 di mattina, Annamaria comunica i suoi sospetti innanzitutto a telefono con Ada50. Nel pomeriggio ne parla con Stefano: indica Daniela prima ancora di sapere che è stato un omicidio, prima ancora dell’autopsia. E non dirmi che Annamaria non è strana: dopo che escono i risultati (è il giorno dopo il delitto, il 31 gennaio), interrogata, verso le 21, ripete invece che non ha avuto contrasti con nessuno. Poi esce dalla stanza, nella sala d’attesa c’è Stefano che sta dicendo al maggiore Fruttini che lui sospetta di Daniela e lei che fa? Si inserisce al volo e conferma quello che dice il marito! La stessa notte, in un’intercettazione ambientale, i Lorenzi ne riparlano tra loro. Ti leggo, perché è importante: È l’orario che riferisce lei ed è corretto rispetto ai tempi reali. È il tempo che ci vuole per andare dalla porta di casa Guichardaz alla camera da letto dov’era Samuele. 49 La primissima dichiarazione di Annamaria, la mattina del delitto: afferma di “non aver rancori con nessuno e di non riuscire a capire chi potesse avere avuto un odio tale nei confronti suoi e della sua famiglia”. 50 Li motiva così: “perché i rapporti con la stessa erano particolarmente tesi, sentiva da parte della Ferrod un sentimento di astio, rancore ed invidia, si sentiva dalla stessa spiata e scrutata”; così ricorda la dottoressa e così riferisce in caserma. 47 48

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Stefano: “Abbiamo le prove. Chi ci poteva eventualmente spiare senza… senza che noi lo notassimo da dietro le finestre? Solo…”. Annamaria: “Ha avuto degli atteggiamenti (incomprensibile) dalla finestra mi vedeva passare a me…” Stefano: “Scusa Bimba, chi è presente, chi ci può spiare senza che noi ce ne accorgiamo dalla finestra? Guarda che loro dicono che è una cosa, è un atto che non mi ricordo mai come lo definiscono che però è una persona che tre secondi dopo può stare meglio di prima…”. Annamaria: “Ma…”. Stefano: “Ed essersi dimenticato tutto e comportarsi… È questo che hanno detto loro che mi ha fatto paura…”. Annamaria: “Sicuramente è lei la persona più… che mi viene da pensare”. Stefano: “Era lei, e lei sapeva che te… conosce casa nostra a menadito… E lei s…”. Annamaria: “È tutta molto disordinata, è tutta un po’ schizzata, è tutta… è un po’ strana, per quello anche i miei bambini non giocavano”. E poi: “Mi sentivo osservata da dietro le tende… cercava di non fare uscire i suoi bambini, li teneva chiusi per non farli giocare con i miei… ha degli atteggiamenti stranissimi […]. Ha una doppia personalità, ha invidia nei nostri confronti…”. Anche nei verbali d’interrogatorio Annamaria ripete i suoi sospetti: “Perché era una persona strana, che aveva avuto molti rancori nei suoi confronti; quella mattina, non le aveva chiesto niente; non era entrata subito nella camera da letto, era rimasta sul marciapiede”. Ancora: “La Ferrod la spiava dietro alle tende e lei si sentiva controllata dalla medesima. Le finestre della Ferrod erano chiuse quella mattina, ma vi erano tante altre possibilità di vedere fuori, se lei usciva solo con Davide” . Il 18 marzo, al PM: “mi spiava da dietro le tende… ha dei problemi gravi…ha una doppia personalità… è una persona che cambia esteriormente, faceva paura e dopo l’ho vista piano, piano, riprendersi ed essere come una persona normale… lei è una persona che non è nemmeno capita in casa, non ha

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amicizie, non parla, tutto quello che ha di rabbia, lo tiene per sé… Lei ha bisogno di scaricarsi, si crea questi fantasmi nella testa, che, a volte, a me mi faceva paura”. “Ok, quindi lei punta Daniela. Carlo Robioglio invece lo scartiamo subito. Abita in un piccolo appartamento al piano terra della stessa villetta dei Guichardaz-Ferrod. È in affitto da loro: fa il cuoco in un albergo di Cogne. Dichiara di essere uscito alle 8.25 in auto e di non avere sentito o visto nulla”. E qui ci interrompiamo per il momentaneo arrivo del timballo: nel senso che resterà davvero momentaneamente nei nostri piatti, con la fame che abbiamo. È Fabio a continuare. “Graziana Blanc e il marito Carlo Perratone. Stefano aveva svolto attività politica nel consiglio comunale di Cogne e qui aveva conosciuto Perratone, membro del consiglio comunale uscente. La sera prima del delitto i Perratone sono attesi per il dopocena dai Lorenzi. Una serata tranquillamente conviviale51. Il classico giro della casa, il caminetto, la bottiglia di vino: tutto come si usa. Tranne una frase, di cui Annamaria si ricorderà dopo, al momento di cercare un nome per l’assassino. È la frase che Graziana le dice a un certo punto. In un’intervista al «Corriere della Sera» e al «Secolo XIX», Annamaria infatti dichiara: ‘A lei e a suo marito ho mostrato tutte le stanze di casa. Non so come è venuto il discorso, ma ci hanno raccontato che Tranne il fatto che Annamaria si sentì male prima del loro arrivo. Poi si sentì meglio e tornò a star male alle prime luci dell’alba, tanto che alle 5.39 del mattino del 30 gennaio Stefano (che è stato volontario del 118), anche se non molto convinto, chiama la Guardia Medica. I sintomi sono del tutto simili a quelli della sera precedente: «Non lo so, mi davano fastidio le gambe, le braccia, mi sentivo male, questo stomaco pesante e un po’ mi girava la testa, mi sono provata a sedere sul letto, lo vedevo girare, ho detto ‘Stefano non sto bene’». Stato ansioso, capogiri, tremori alle braccia e alle gambe, brividi di freddo, debolezza. Sviene. Per Annamaria è la stessa congestione della sera prima. Arriva la dottoressa Stefania Neri. Sono circa le 5.50-6.00. Sulla porta c’è Stefano, che apre le imposte della camera da letto. Ma ora la paziente sta abbastanza bene e lei pensa inizialmente ad un evento stressante e poi a un inizio d’influenza. Prova a prescriverle medicine, ma Annamaria non le vuole. Per molte volte, in carcere ma anche ben prima, Annamaria avrà quelle che sono registrate come crisi d’ansia. Stessi sintomi di quella mattina. Non era una congestione, insomma. Daremo senso migliore a tutto questo quando parleremo delle perizie psichiatriche. 51

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un anno prima avevano perso un figlio. E lei a un certo punto ha detto: ‘Dovreste provare anche voi cosa significa’’. Ora non conta tanto che Graziana abbia smentito la frase. Conta essenzialmente che non significa nulla. Guardate come cambia la frase se ci aggiungete un ‘per poterlo capire!’. Quello che sembra un augurio di morte diventa il triste ricordo di ciò che si è passato. I Perratone, comunque, la mattina del 31 gennaio 2002 aprono alle 8 i loro due negozi (lei a Rue Bourgeois 79 e lui a frazione Gimillan 22). Dopo pochi minuti, nel secondo, arriva Gino Guichardaz per comprare le sigarette. Diverse persone confermano l’alibi di Carlo, cioè la sua presenza in negozio”. Pausa per versare il secondo bicchiere di rosso valdostano. Fabio continua. “Poi c’è Ulisse Guichardaz, cognato di Daniela Ferrod e fratello di Carlo. Lo riconosci subito: il mento sporgente e poi così stempiato, ha i capelli neri solo sulle tempie. Annamaria lo descrive come ‘una persona perfetta, solo un poco paranoico’. Ulisse fa il guardaparco e ha una casa in costruzione proprio di fianco a quella del fratello, per cui in quel periodo dorme dai suoi. È il suo alibi. Il padre, Ottino, mattiniero, proprietario dell’albergo ‘Fior di roccia’, già dalle 7.15 entra e esce di casa fin verso le 8.30, e conferma che fino a quell’ora il figlio era in casa. La madre, Paolina, è a Lecco in quei giorni. E a casa del padre, alle 8.13, Ulisse è a telefono col fratello Carlo, che gli chiede di aprire il negozio di ortofrutta di via Mines de Cogne, alle 9. Ulisse, dopo essersi preparato, esce di casa alle 8.45 da via Filon Liconi, giù in paese, a 1,2 km da casa Lorenzi; e in Panda va al negozio. Ora, se anche il padre avesse mentito, mancherebbe comunque a Ulisse il tempo per andare in auto, parcheggiare, uccidere e tornare, visto che alle 8.13 è a telefono. L’unica possibilità per incastrarlo sarebbe, allora, dimostrare che Ulisse in realtà non è a casa dei suoi alle 8 di mattina e che a rispondere sia stato il padre e non lui (qualcuno ha pure risposto)”. “Che potrebbe anche essere” faccio io “ma questo implica che, subito dopo, Ottino abbia chiamato Ulisse sul cellulare per dirgli, dovunque fosse, di aprire quel benedetto negozio,

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che Ulisse aprirà regolarmente e in cui resterà fino a mezzogiorno (ci sono testimoni). Solo che non risultano chiamate del cellulare di Ottino su quello di Ulisse, né a casa, in quei minuti. Inoltre, anche dalla casa in costruzione di Ulisse è comunque impossibile vedere -e quindi spiare- quella dei Lorenzi”. “E qui si apre il meraviglioso capitolo Gelsomino. Ulisse verrà pedinato per 27 giorni52 da un investigatore privato assunto dalla difesa, Giuseppe Gelsomino, che osserva nel guardaparco strani atteggiamenti. Nascosto nel suo furgone attrezzato ‘Bobo’, Gelsomino scruta la sua preda53. Cosa trova l’investigatore? Nel suo rapporto, pronto alla fine del 2003, dice che Ulisse è innanzitutto una persona strana: dorme spesso in auto, come bagno usa un parcheggio, si trucca e si traveste con parrucche nere sintetiche e occhiali. Parte di queste informazioni l’investigatore le riceve da Annamaria. Gelsomino ritiene, così come aveva già fatto il primo consulente investigativo dei Lorenzi, che l’assassino non volesse uccidere, ma fare altro. Abusare di Annamaria? Rubare? Fare un dispetto? È un feticista che cerca un oggetto preciso? Ma, entrato in camera, s’è trovato davanti Samuele, che doveva essere altrove. Imprevisto. E allora l’ha colpito perché il bambino l’ha riconosciuto. Tacitazione testimoniale. Come arma ha usato qualcosa che aveva con sé, visto che da casa Lorenzi non manca nulla. Questa persona è Ulisse? Gelsomino dice di sì54. Per questi motivi: • spiava i Lorenzi • il giorno prima aveva rimproverato Samuele, in negozio, in modo forse esagerato • aveva mentito dicendo di aver dormito, la notte prima del delitto, dai genitori, visto che il padre lo aveva chiamato da casa sua, sul cellulare, alle 00.03 • era strano il fatto che non fosse accorso, come tutti i Tra il 19 marzo e il 24 luglio 2003. Naturalmente non puoi portare un furgone sconosciuto in un paesino minuscolo senza che dopo un po’ gli abitanti e la preda non si accorgano che c’è qualcosa di strano. E infatti in alcune occasioni Ulisse se n’era accorto e aveva fatto ciao con la manina ai suoi astuti pedinatori, scambiandoli per giornalisti. 54 Nel suo libro Annamaria non ne fa apertamente il nome, ma tutti i riferimenti sono chiaramente a Ulisse. 52 53

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cogneins, verso Montroz; anzi, al momento dell’arrivo dell’elicottero era ansioso e camminava avanti e indietro davanti il negozio, guardando verso la montagna • aveva confidato a un maestro di ballo latino-americano della discoteca che frequentava55, in presenza di altri allievi, che non poteva continuare le lezioni perché sicuramente lo avrebbero arrestato per l’omicidio • era un tossicodipendente e un perverso sessuale che aveva cercato di abusare di Daniela. Annamaria dice che Daniela le ha raccontato che lui la tormentava e aveva cercato di violentarla: e che Ada sapeva; racconterà a Gelsomino di momenti in cui aveva percepito un interesse del guardaparco verso di lei, tipo che la trattava in modo diverso se era con Stefano o da sola. Insomma, Ulisse è una persona con problemi psichici o un assassino? Il 30 luglio 200456 l’avvocato Taormina, deposita alla Procura di Torino una denuncia firmata dai Lorenzi57, chiedendo di indagare su di lui. Tra luglio 2002 e aprile 2006 l’avvocato per almeno 36 volte dirà di essere in grado di fare il nome dell’assassino senza farlo mai. Si scoprirà dopo che era tutta una tattica per mettere pressione sul suo sospettato, Ulisse, sperando in un suo passo falso”. “Infine c’è Gino Guichardaz, detto Fuffy. Soffre di schizofrenia cronica residua. In paese tutti lo conoscono, è quello che ha atteggiamenti e movimenti strani. Gino dice che quella mattina alle 7.15 è uscito a piedi, come tutte le mattine, da casa sua (frazione Gimillan 88) a Cogne dove è arrivato alle 8.30 e dove, come tutte le mattine, si è preso un caffè al bar Licone di via Bourgeois 62. E al bar confermano di averlo servito tra le 8.15 e le 8.50: naturalmente nessuno stava lì a guardare Il “Divina” di Aosta. Taormina aspetta 7 mesi perché è convinto che in Assise Annamaria sarebbe stata assolta, nel frattempo. Invece viene condannata, lui è sottosegretario e la sua politica di annunci infiniti diventa un imbarazzo politico per Forza Italia, così alla fine capisce che se non si sbriga ci rimetterà la faccia sia politicamente che con la stampa, che l’avrebbe massacrato. E si decide. 57 Stefano la firma pur non condividendola, come d’altronde era contrario il padre di Annamaria. 55 56

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l’orologio. Per strada, all’andata, si è fermato a comprare le Camel da Carlo Perratone, alle 8. È questo il suo vero alibi, perché dal negozio di Perratone a casa Lorenzi ci sono 1,6 km, percorribili in 22 minuti. Troppo. Ma perché lo sospettiamo? Solo perché è strano? Escludiamo poi i Savin e Ada Satragni, abitanti all’inizio della strada, per la totale assenza di movente, la distanza da casa Lorenzi che non consentiva di vederne partenza e arrivi, gli alibi reciprocamente offerti da tutti i presenti in casa quella mattina (Ada, suo padre, sua figlia, la domestica). Ah, i vicini saranno tutti intercettati dai Carabinieri senza che emerga qualcosa di interessante”. Pausa per il terzo bicchiere di vino. E per ordinare il dolce, qualcosa col cioccolato, anche se non abbiamo capito bene cosa ci portano. In effetti siamo davvero bolliti. “Che ne pensi di Ulisse? È un uomo forse molto ansioso, forse paranoico, forse con dei problemi o è un assassino?” mi chiede Fabio. “Cosa vuol dire che non era a casa a mezzanotte? Pensaci bene. Forse che è arrivato dopo mezzanotte, semplicemente, visto la telefonata delle 8.13 di mattina che lo chiama fuori58. Quanto al fatto che apparisse agitato, è semplice: aveva visto un elicottero del soccorso volare verso casa dei nipoti, temeva fosse successo qualcosa, aveva già chiamato Daniela che -ovviamente- non gli aveva risposto. Si calmerà quando suo padre, che è sul posto, lo chiamerà alle 9.50 per dirgli che i bambini stanno bene. Che avesse spiato i Lorenzi si rivelerà solo un’impressione di Annamaria. Come si scoprirà che non esisteva alcun testimone della sua confessione danzante né delle stranezze che gli venivano attribuite (aveva dormito in auto solo una volta, perché aveva notato di essere pedinato e voleva vedere la reazione di ‘Bobo’; usare i parcheggi come wc, ecc)”. “Esatto! Manca, poi, un movente per Ulisse: ad esempio Ulisse spiega il fatto di non essere stato a casa dal padre a mezzanotte della sera prima dicendo che era andato al corso di danza latino-americana al “Divina” e di aver fatto tardi. E comunque era già a Cogne quando riceve la chiamata, lo dimostrano le celle telefoniche. 58

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la lite per la strada fu tra Stefano e suo fratello, non con lui. I Lorenzi, alla fine, devono confermare che, a parte l’episodio sgarbato con Samuele il giorno prima, non c’era mai stata alcuna lite o situazione sgradevole tra loro e lui. Si scoprirà anche che Gelsomino l’aveva classificato come tossico solo perché parcheggiava spesso in uno spiazzo usato da tossici… infine, Daniela negherà la presunta violenza e Ada smentirà di averne mai saputo qualcosa59. Una Caporetto investigativa, per la difesa…”. “Purtroppo per l’investigatore, ‘Bobo’ non troverà l’assassino di Samuele: Gelsomino, quello che diceva che occorreva ‘un’indagine emozionale’, qualunque cosa fosse, spiando Ulisse che osservava il paesaggio alpino s’era convinto che dentro di lui ci fosse ormai un desiderio di uccidersi per il rimorso. Con queste premesse, che assassino poteva mai trovare?60”. “Non c’è dubbio, Armando: di tutti i vicini l’unica interessante davvero è Daniela. D’altronde, come dice Annamaria, è la sola in tutta la zona che certo non aveva bisogno di nascondersi, se avesse ucciso Samuele; aveva litigato coi Lorenzi; conosceva casa loro; conosceva i loro tempi; non aveva risposto alla prima chiamata di aiuto di Annamaria; quando era arrivata, non era entrata in camera. Poi però controlli bene e scopri che: Daniela non poteva vedere, da casa sua, la porta dei Lorenzi, ma solo la scala; che non era entrata subito nella stanza, sia per l’orrore, sia perché Annamaria l’aveva spedita a sollecitare Ada; che Annamaria, alla fine di tutto quel giorno, le aveva anche lasciato in custodia le chiavi di casa; che non aveva risposto alla prima chiamata di aiuto semplicemente perché Annamaria l’aveva fatta con una voce talmente strozzata in gola che non l’aveva sentita61… Confermerà solo che Daniela le aveva raccontato, in terapia, che Ulisse la sbeffeggiava, la ridicolizzava. 60 Gelsomino aveva comunque ideato una trappola perfetta per Ulisse: spedirgli sotto falso nome, dall’Australia, una lettera in cui gli diceva di avere una foto in cui lo si vedeva uscire dalla casa subito dopo aver commesso il delitto, per vedere che reazione avrebbe avuto. Dobbiamo commentare? 61 Come confermerà la stessa Annamaria, intercettata, parlando con l’amica 59

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Daniela spiega inoltre al PM (siamo all’11 febbraio 2002) che, sì, è stata in cura da Ada, in qualità di psichiatra, anni prima, ma a causa di problemi con sua suocera e col cognato. Aveva fatto psicoterapia per circa due mesi. Confermava le liti con i Lorenzi; diceva che non si era mai resa conto che loro avessero del rancore nei suoi confronti, o che non considerassero buoni i loro rapporti ed aveva ribadito che, da parte sua, non vi mai stato risentimento. Stop”. “E io aggiungo che a casa Guichardaz viene svolta un’ispezione un’ora e mezza dopo il delitto: danno un’occhiata, guardano anche nella lavatrice, in bagno e in garage62. Viene anche accertato, appunto, che, con gli scuri chiusi, o anche nascosti dietro uno dei muri di contenimento di casa loro, è impossibile vedere quella dei Lorenzi63 e che, a finestra aperte, comunque, si vedono solo le scale esterne di casa loro. È un passaggio importante, spesso poco sottolineato: le finestre di casa Guichardaz sono sotto il livello stradale”. “È anche vero, però, che alle 8.09 di quella mattina Daniela risponde sul cellulare al marito: per il resto è vero, non ha un vero e proprio alibi…”. “Aspetta Fa’, questo è sicuramente uno dei punti fondamentali per capire l’innocenza della Ferrod e non è l’unico. La telefonata, per quanto breve, l’avrebbe collocata, in quell’istante, nella propria abitazione e lei non ne fa menzione quando viene interrogata! Quando mai abbiamo visto un sospettato tralasciare un particolare così importante a suo favore? Vogliamo fare una prova?”. “Quando dici così mi preoccupo tantissimo”. “Ehm, immagino. Ora, ipotizziamo per un attimo di escludere Annamaria come autore dell’omicidio e pensiamo che l’omicida sia invece Daniela. Iniziamo con il movente: AnnaAnna Biancardi. 62 Il 6 febbraio saranno sequestrati gli abiti che Daniela indossava il giorno del delitto, il RIS non ci troverà niente di utile. Il 12 invece c’è una vera e propria perquisizione, anche questa senza esiti. 63 E, aggiungiamo noi, con gli scuri aperti non è possibile vedere in ogni caso la porta da cui uscirono quella mattina Annamaria e Davide e quindi nemmeno sapere se era stata chiusa a chiave oppure no.

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maria la definirà ‘strana, sospettosa, disordinata e schizzata’, tanto per dirne qualcuna. Tutto questo, però, avviene dopo, quando lei inizia ad essere sospettata: ma prima?”. “Non aveva dissapori con i vicini, è vero… è la prima dichiarazione che fa ai Carabinieri”. “Ammetti che sembra proprio voglia di trovare un colpevole al suo posto? E poi, quando Annamaria si accorge della tragedia, cosa fa? La prima persona cui chiede aiuto è proprio quella ‘strana e schizzata’, non ti sembra strano? A cui lascerà anche le chiavi di casa al momento di andare all’ospedale di Aosta. Poi vediamo invece come Daniela avrebbe compiuto l’omicidio: intanto sapeva che il piccolo Samuele veniva lasciato da solo a casa quando Annamaria accompagnava Davide, così come sapeva anche che impiegava due-tre minuti per andare e altrettanti per tornare. Ma questo Daniela non lo nasconde agli inquirenti quando viene sentita…”. “Un vero genio criminale…”. “Esatto, che dimentica di dire della telefonata e ‘confessa’ invece candidamente di sapere che il piccolo rimaneva da solo in casa. Ma continuiamo. Se conosceva bene quest’ultimo particolare è ovvio che era a conoscenza anche dell’orario in cui Samuele veniva accompagnato al pulmino, quindi doveva pianificare il suo crimine nella fascia oraria 8.15-8.20. Se dalle 8.15 era possibile agire e visto i 3 minuti che impiegava la Franzoni per accompagnare Davide, Daniela alle 8.12 al massimo doveva essere già pienamente operativa e trovarsi in un punto da cui poteva vedere il giardino in cui Davide giocava, per essere quindi sicura che la Franzoni quel giorno accompagnasse proprio lui al pulmino; un punto da dove potesse vedere anche che la porta-finestra del piano notte era eventualmente aperta -e quel giorno non lo fu fino a quando Annamaria scoprì il delitto- anche perché era il solo accesso da cui sarebbe potuta entrare. Se infatti fosse entrata dal piano superiore, il civico 4A, avrebbe aumentato di almeno un minuto, un minuto e mezzo, il tempo di percorrenza e poi ci sarebbe stato il rischio di incontrare la Franzoni nella fase di fuga. Immaginati la scena: giungere alla villetta, salire le scale esterne, entrare, riscendere al piano notte, compiere l’omicidio, risalire al piano giorno,

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uscire, ridiscendere le scalette e portarsi a casa senza farsi vedere dalla Franzoni che intanto era sulla strada del ritorno”. “Vero, doveva anche essere sicura che sarebbe stato possibile entrare da lì, dalla porta-finestra.” “Certo, se non avesse visto le due imposte in legno aprirsi e rimanere socchiuse non si sarebbe mai azzardata a provare la sua azione omicidiaria, no?”. “Sempre nell’ipotesi che sia Daniela l’omicida.” “Esatto, si sarebbe dovuta appartare in un punto ben preciso, probabilmente verso la valle in modo di vedere la portafinestra, ovviamente dopo la telefonata delle 8.09 che la colloca nella sua abitazione. Vogliamo vedere come sarebbe stato il comportamento della Ferrod in prima persona?”. “Sì, la vedo interessante”. “La Ferrod si è convinta ed è pronta per compiere il crimine. 8.09. Da questa posizione non riesco a vedere la portafinestra della camera da letto, quella che spesso la Franzoni lascia aperta, devo uscire ed appostarmi in un luogo migliore. Suona il telefono, troppo rischioso non rispondere. Era mio marito, mi tocca sbrigarmi a raggiungere il punto dell‘appostamento. 8.10. Ecco, quello è Davide che gioca con la bicicletta, troppo occupato non si accorgerà che gli passo praticamente davanti. Ottimo punto di osservazione, tra pochi istanti sarà ora. Da qui vedo bene gli spostamenti della Franzoni, che accompagna Davide al pulmino, ma anche la porta finestra nel piano ‘notte’. 8.14-8.15. Arriva Annamaria, sta chiamando Davide, una scena vista decine di volte, si stanno allontanando è ora di spostarsi”. “Ok. Dal punto di appostamento raggiungo la casa, entro dalla porta-finestra e mi accorgo che Samuele è nel letto matrimoniale64. Lo raggiungo e inizia la furia omicidiaria. Possiamo ipotizzare 4-5 minuti da quando vede allontanare la Franzoni?”. Ricordiamoci che è un particolare che non avrebbe potuto sapere. 64

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“Esatto, mi sembra un tempo congruo, continuiamo in prima persona. 8.18-8.20. Mi allontano, tutto è finito, torno a casa. Devo ricompormi, sono piena di sangue e devo sbarazzarmi di questa arma, spero che non mi veda la Franzoni mentre torna, praticamente gli passerò vicinissima”. “Qui non ci siamo proprio, la Franzoni poteva benissimo vederla”. “Sono d’accordo Fabio, ma per concludere questa ricostruzione surreale pensa pure che alle 8.31 la Franzoni inizia a urlare e la Ferrod accorre senza essere sporca di sangue nè sui vestiti nè sul volto o i capelli, irreale”. “Staremmo parlando di una trasformista di altissimo livello con un cronometro in mano”. “Esatto, ecco perché dobbiamo scartarla”.

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Capitolo 8

Non chiudete quella porta

Non è lunga la strada tra Aosta e Cogne. Solo 27 km: in una quarantina di minuti saremo là. Fabio guarda fuori dal finestrino, forse chiedendosi come mai un delitto del genere, così drammatico, così potente, è successo proprio in questo panorama di sicurezza e tranquillità. Stanotte stavo pensando che Annamaria ha dunque avuto tempo per uccidere. Quanto? Non ho voglia di mettermi a fare il calcolo dei minuti e dei secondi, tanto le variabili sarebbero trecentomila. Però certo, se Davide dice che non è stato in camera della mamma per le coccole, tutti i tempi arretrano di una decina di minuti ed è credibile che Davide sia uscito a giocare in bici verso le 8.10, per quei 4-5 minuti di cui parla, d’altronde, lo stesso Stefano. Minuti in cui Annamaria e Samuele sono rimasti da soli e che bastano a compiere un omicidio. In effetti, è l’ipotesi dell’Accusa. Ma c’è un elemento della casa di Cogne che più di tutti colpisce la fantasia, la logica e l’indagine. Quella maledetta porta del primo piano. Montagne, prati, frazione Montroz, casette alpine. Manca solo Heidi. Pensare che qualcuno si avvicini senza esser visto è difficile. In piena luce e a quell’ora, poi. I vicini non hanno visto nessuno muoversi tra le 8 e le 8,30. Stefano non ha visto nessuno. Davide nemmeno. Annamaria, idem. Finestre e porta del garage, chiuse. Lo conferma anche lei. Resta la porta di casa. Quella che non ha chiuso a chiave. “A che stai pensando?” chiedo a Fabio. “Al perché questa storia è diventata così mediatica. E le risposte che ho trovato sono queste: innanzitutto ha ragione Andreoli. In Italia la mamma è una figura eroica, centrale, su cui si fonda la famiglia. Immaginarsela che uccide fa effetto in qualunque paese, ma da noi di più. Poi perché l’infanticidio,

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se è stata lei, è un reato estremo e raro, quindi colpisce molto. Poi, Annamaria è fuori parametro: le madri assassine sono diverse da lei, in tutto. Lei è totalmente diversa da come dovrebbe essere una che uccide il figlio. E poi è successo in Valle d’Aosta, dove c’è un omicidio l’anno se tutto va bene: quindi un’eccezione, un fatto anomalo, che uno si chiede perché”. Silenzio. “Questa faccenda della porta è strana”, dico io. Fabio si volta e mi guarda, mentre qualche fiocco di neve comincia a cadere. “Annamaria e Stefano si contraddicono, sulla porta” proseguo. “Lei, all’interrogatorio di fronte ai Pm di Aosta del 18 marzo 2002, dice: ‘Era la prima volta che lo lasciavo solo con la porta non chiusa a chiave’. Sintetizzano i giudici, quel giorno: ‘Non aveva una regola, a volte la chiudeva, a volte la lasciava aperta, quando al pomeriggio andava a fare una passeggiata sino a Gimillan; al mattino, la chiudeva quasi sempre. Quella mattina, non l’aveva chiusa per non far rumore, anche se c’era la televisione accesa’. Il giorno stesso del delitto Stefano però dichiara il contrario: ‘Quando mia moglie accompagna i bambini la lascia aperta, cioè non chiusa a chiave’. Non lo trovi strano?”. “La contraddizione sì, la faccenda di lasciare aperto in generale, no”. “Esatto. Qui si scontrano la visione dei giudici di Aosta contro quella di Annamaria. Pensaci un attimo. Loro sono di città: in città solo un matto lascerebbe un bambino di tre anni solo in casa e senza chiudere la porta. Annamaria è sempre vissuta in paese65 e in paese ci si conosce tutti. Lasciare la porta accostata, magari con la chiave fuori, è normale. Insomma, non è tanto questo il fatto strano, se ci pensi bene… chi vuoi che entri, a Cogne? Semmai, il fatto strano è che, volendo, Samuele quella porta avrebbe potuto anche aprirla e uscire, visto che non era chiusa a chiave…”. “Il vero punto è un altro. È capire perché quella porta viene Prima di trasferisi a Cogne abitava a Monteacuto Vallese, nel bolognese. Duecento anime. 65

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trovata aperta da Daniela e Vito, nel caos di quella mattina, quando Annamaria dice di averla chiusa rientrando. Volevi dire questo, no?”. “Ma scusa, cosa scrive Annamaria nel suo libro, ‘La verità’? Non ho mai avuto paura e non ho mai sentito l’esigenza di chiudermi a chiave dentro casa. Perché allora, e proprio quella mattina, di ritorno dallo scuolabus, chiude la porta lasciando pure la chiave nella toppa dopo uno o due giri, a maggior precauzione?66 È il 10 febbraio quando Annamaria si presenta spontaneamente -spontaneamente- dai Carabinieri per dichiarare di essersi ricordata di aver chiuso, al rientro. Ricordi cosa dichiara Ada? ‘Dopo che il bambino è stato barellato, il dottor Iannizzi, o forse un altro collaboratore, ha detto che poteva esserci stato qualcuno che era entrato dall’esterno. A ciò la signora Annamaria rispondeva, quasi infastidita, che questo non era possibile perché… Non sono stupida, era chiuso e so bene quello che faccio’67), E poi la contraddizione tra l’aver lasciato accostato/aperto all’andata (con Samuele da solo in casa) e aver chiuso a chiave rientrando (quando Samuele è con la mamma). Niente da fare, non mi torna… proprio una contraddizione ora ti dico con cosa. Cercami la prima deposizione di Daniela, scusa…”. “Vuoi dire… sì, aspetta che la trovo… dov’è finita… ah, eccola! ‘Quando si è allontanato l’elicottero, siamo saliti lungo le scale esterne e la dottoressa Satragni mi ha detto di andare a prendere un bicchiere d’acqua per Annamaria. Allora io sono entrata nell’abitazione: la porta era chiusa, ma non a chiave e quindi girando la maniglia sono entrata’68. “Ecco, capisci che voglio dire? A parte la contraddizione tra il lasciare aperto quando non c’è nessuno in casa col figlio e il chiudere quando c’è lei… Nell’immediato dice che ha chiuChe fosse una maggior precauzione lo dice Annamaria. Quando i Carabinieri hanno controllato la serratura, hanno visto che si apriva benissimo anche con la chiave inserita da dentro. 67 Per correttezza va detto che né Leonardo né Ivano ricordano di aver scambiato un dialogo con Annamaria. 68 Questo fatto avviene verso le 9.15. Nessun altro dei presenti riferisce di aver usato la porta del primo piano, prima di allora. 66

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so, mentendo perché Daniela ci dice invece che trova aperto, poi dopo undici giorni va dai carabinieri e dichiara che si è ricordata di aver chiuso, quando invece lo aveva dichiarato già nell’immediato…”. “In ogni caso, mente. Per entrare, ce lo dice Daniela, bastava abbassare la maniglia. Niente di più. Il primo consulente dei Lorenzi69, mettendo insieme le dichiarazioni dell’Annamaria - che dice di aver lasciato chiuso- con Ada che dice di aver trovato aperto alle 9.15 (quando sale al primo piano per prendere un bicchiere d’acqua, appunto) ne trae la conclusione che evidentemente- l’assassino aveva visto tornare Annamaria quando non faceva più in tempo a scappare70 ed era quindi rimasto nascosto dentro casa al momento del suo rientro, uscendo di soppiatto mentre lei scopriva il figlio, chiudendosi dietro la porta a chiave. Da qui ne deduce pure che l’assassino doveva avere la copia delle chiavi…”. “Sì, teoria affascinante ma non mi torna, l’assassino che ha sempre i secondi contati fin dall’inizio (e con Annamaria in casa ancora di più) avrebbe dovuto perdere tempo a chiudersi a chiave la porta alle spalle. Quando succede, è per ritardare la scoperta del corpo, ad esempio: ma con Annamaria già in casa, a che serviva perdere tempo in quel modo, col rischio pure di farsi sentire, quando la sola cosa che contava era fuggire a gambe levate?”. “Vero, più che logico”. Un cartello ci dice che siamo a 10 km da Cogne. E i fiocchi aumentano. Qui si fa sul serio. “In questa ipotesi, Armando, Mister X entra solo per fare un dispetto ai Lorenzi: ricordi? Per danneggiarli in qualche modo, visto che prova odio, per fare qualcosa (non si sa cosa) in camera loro; s’è imbattuto in Samuele e quindi lo ha ucciso per tacitazione testimoniale. Ma non sapeva che c’era in casa Prima che arrivassero Gelsomino e “Bobo”. Il punto più vicino casa Lorenzi oltre il quale si riacquista o si perde (a seconda se si sta andando o venendo) la visuale dell’abitazione, è a 85 metri dallo stesso, cioè un soffio, un minuto a piedi. Parliamo sempre della stradina verso la fermata. 69

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Samuele?71 Se aveva pianificato tutto appostandosi, non aveva pensato di entrare a volto coperto? E valeva la pena di farsi denunciare solo per fare un dispetto? E se è entrato d’istinto, non gli è balenato nel cranio che la madre era appena uscita con un solo figlio?”. “Premesso che qualcuno che li odiasse così tanto non s’è trovato, quell’ipotesi si perde anche nel mare magnum delle contraddizioni di Annamaria su quella benedetta porta e quindi, per noi, questo bel discorso finisce qui. Anche perché…” “Sapevo che non sarebbe finita lì”. “Ma scusa, l’arma sconosciuta che non si è mai trovata? Per fare un dispetto, una violazione di domicilio l’individuo si sarebbe portato dietro un corpo contundente? Annamaria e Stefano non parlano di oggetti spariti nell’abitazione”. “A meno che…”. “A meno che non intendano ricordarlo per un ovvio motivo”. “Anche perché tutto il discorso dell’assassino chiudi-porta si basa sul presupposto che Annamaria abbia detto il vero fin dall’inizio, cioè su una erratissima logica investigativa, quella verificazionista: parto dal presupposto, in questo caso, che una persona sia innocente e poi vado a cercare le conferme a questa tesi. Se invece se ne usa una falsificazionista, in cui cioè si mette tutto in dubbio ciò che ha detto ma anche le nostre stesse convinzioni, il risultato è diverso”. “Ho capito: non vuoi chiuderla velocemente, questa pista, e nemmeno in maniera semplicistica. Allora andiamo fino in fondo, se anche volessimo seguirla, e credere all’assassino chiudi-porta (evidentemente di città, visto che a Cogne non si usa chiudere con le mandate), chi aveva avuto le chiavi di casa Lorenzi in passato? Sarebbero le prime persone di cui sospettare. Secondo il primo consulente stiamo parlando di: • Mario Lorenzi (padre di Stefano) e la moglie; Peraltro, da quando erano tornati dalle vacanze di Natale, cioè il 7 gennaio, Annamaria afferma che la mattina non aveva mai lasciato Samuele da solo. Le altre volte che lo aveva fatto era stato a settembre-ottobre dell’anno prima. Quindi Mister X decide di fare il dispetto proprio il giorno in cui Samuele è da solo, ma guarda un po’… 71

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• Giorgio Perratone, fratello di Carlo Perratone, vicino dei Lorenzi, che aveva svolto compiti di custodia della casa; • Dante Deysamonet e Loredana Alaimo, due amici dei Lorenzi; • anche i Guichardaz-Ferrod due anni prima, durante le festività natalizie, avevano avuto le chiavi mentre i Lorenzi erano in vacanza”. “Quindi stiamo dicendo che l’intruso ha pianificato la sua azione da mesi e forse anni prima e che una di queste persone se le è fatte sottrarre (e rimettere a posto) senza accorgersene? Una cosa è il cinema, un’altra la realtà di un processo”. “Appunto”. “Guarda, ci siamo”. Un cartello blu reca le lettere in maiuscolo che dicono: COGNE.

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Capitolo 9

Il sangue

“Ma in tutto questo casino temporale, gli investigatori si sono raccapezzati?”. “Bella domanda Fa’, intanto possiamo dire che i giudici lo hanno fatto. Le indagini sono proseguite in tre distinti modi: una la definirei di tipo investigativo classico, quindi indagine porta a porta con i vicini, le abitudini della famiglia, chi frequentavano, i loro contatti, le utenze cellulari anche come intercettazione e altro; uno di tipo analitico con l’analisi dei tempi più o meno come abbiamo fatto noi e infine la parte tecnico-scientifica.” “A proposito, prima che mi dimentico, ma le investigazioni non hanno eccessivamente puntato Annamaria escludendo, e quindi non seguendo, altre piste identificative?” “Questa è una critica che ormai sentiamo in ogni caso in cui ci siamo imbattuti, vengono sempre criticate le forze dell’ordine e la magistratura di seguire e innamorarsi di una sola tesi. Non è proprio così, non è mai così. Nelle prime fasi di indagine si cercano e si analizzano tutti gli elementi, senza pregiudizi, alcuni filoni investigativi vengono abbandonati subito, dandone comunque atto nelle ‘informative’ che vengono inviate all’Autorità Giudiziaria; se ci sono più piste promettenti si continua in parallelo a seguirle. Ho letto ‘informative’ che riportavano più ipotesi valide per la soluzione del caso. Poi, più si avanza nelle indagini più le piste così dette ‘morte’ vengono accantonate ed infine ne rimane (o dovrebbe rimanerne) solo una, quella valida”. “Esatto, comunque ritornando a noi, il primo ed il secondo filone li abbiamo abbastanza analizzati, mentre è interessante quello sulle indagini tecnico scientifiche”. “Anche perché le indagini investigative portano a poco, la

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Franzoni non viene particolarmente pressata nelle prime fasi, i vicini non destano grandi sospetti, non ci sono sorprese con celle telefoniche ed intercettazioni, insomma la parte investigativa generale non fornisce elementi interessanti. Diverso è per quanto riguarda le indagini tecnico-scientifiche. Era in quel periodo molto in auge il RIS di Parma e quindi gli investigatori puntano tutto su di loro”. “Mi ricordo una cosa strana riguardo i sopralluoghi che fecero, penso che da qualche parte abbiamo anche tutti i verbali di ‘apertura e chiusura sigilli’, quel verbale che deve essere fatto ogni volta che si accede in un ambiente sottoposto a sequestro”. “Sì, ci dovrebbe essere un volumetto che li raccoglie da qualche parte…”. “Volumetto? Ne hanno fatti molti? Troppi?”. “Sì, l’analisi della scena del crimine è una attività complessa, per quanto la tendenza sia di effettuare un solo accesso, magari anche che duri più giorni, alla fine è praticamente impossibile. Fare accertamenti tecnici successivi e di tipo irripetibile con metodologie differenti prevede già un secondo accesso. Ma per questo caso si è veramente esagerato, gli accessi furono troppi, sicuramente più di venti. Senza contare il sopralluogo finale fatto dai consulenti tecnici della difesa dove veniva trovata un’impronta che apparteneva a loro stessi. Comunque, ritornando a noi diciamo che la ricerca di tracce canoniche, impronte e DNA, a Cogne non portò praticamente a nulla”. “Beh, se l’omicidio avviene in un contesto intrafamiliare è pure comprensibile… no?”. “Esatto, questo è uno dei problemi che si ha negli omicidi intrafamiliari, la ‘scienza’ spesso non ci aiuta”. “A quel punto le indagini tecnico scientifiche piegano sull’unico aspetto possibile: la ricostruzione della dinamica mediante la Bloodstain Pattern Analisys, l’analisi delle tracce di sangue che si basa su misurazioni al millimetro e documentazione fotografica specifica. Nei delitti intrafamiliari, o quanto meno quelli dove le tracce canoniche non aiutano, spesso viene utilizzata, ricordiamoci dell’omicidio di Garlasco. Solo l’analisi delle tracce sulla pavimentazione ha permesso di condannare Alberto Stasi”.

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“Altro caso su cui ci sarebbe molto da dire”. “Sì, sono d’accordo, però non divaghiamo. Partiamo da un dato certo, tutte le tracce di sangue appartengono a Samuele. A questo punto si deve capire dove sono distribuite, come ci sono arrivate e, cosa da non trascurare, come mai in alcuni punti non ci sono”. “Che l’omicidio sia avvenuto nella camera matrimoniale non credo che ci siano dubbi”. “Assolutamente, anzi le tracce di proiezione che vengono rinvenute sulla testiera del letto e sulle pareti vicine sono determinanti per far capire agli investigatori la posizione assunta da Samuele al momento dell’attacco e, indicativamente, il numero dei colpi inferti”. “Quali sono le tracce da proiezione? Aspetta, ti passo le foto. Non riesco mai a distinguerle”. “Vedi, sono queste… generalmente hanno la forma di punto esclamativo. La loro particolarità è che il ‘puntino’ del punto esclamativo, come ti avevo detto, è posizionato dalla parte opposta della direzione di provenienza dello schizzo ematico”. “Qualcosa non mi torna, vedi in quest’area, sulla testiera del letto? E qui, ancora più in alto? Com’è possibile?”. “Fabio, avviene sempre così, le tracce vengono nella quasi totalità rilasciate dall’arma utilizzata nell’azione di ricarica, non nell’azione di infliggere il colpo”. “Questa poi. Quindi l’analisi di queste tracce nella stanza che informazioni può darci?”. “Praticamente ci indica che l’omicidio è avvenuto nel letto fornendoci l’esatta posizione del corpo, anche se non è che questo sia un grande apporto a livello investigativo… sicuramente l’assassino ha cambiato, nel corso dell’azione violenta, la sua posizione. Infatti le tracce di ‘ricarica’ non sono sempre coerenti tra loro e indicano delle linee diverse. Sempre osservando il letto dai piedi si vedono sul lato sinistro ulteriori proiezioni, mentre sul lato destro, per capirci quello dove si trova la finestra, sulla lampada posta sul comodino ci sono invece delle macchie che provengono da sinistra verso destra alcune sono dall’alto verso il basso, altre orizzontali. Insomma, le proiezioni delle tracce ci fanno capire che l’aggressore era po-

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sizionato sul corpo del piccolo Samuele e non lateralmente. In questa analisi voglio tralasciare le tracce rivenute nelle varie pareti, sul calorifero, o di quelle presenti sull’armadio di fronte o il comò, che poco aggiungono alla ricostruzione. Invece è magari importante rilevare questo: che la porta della camera da letto presenta quattro macchie solo sul lato esterno e nessuna sulla parete retrostante. Quindi l’omicidio si è compiuto con la porta aperta. Ora, il pavimento della stanza è in parquet, e presenta diverse macchie di gocciolamento, alcune delle quali scheletrizzate: per capirci, sono gocce tonde che, dopo che si sono asciugate per qualche minuto, sono state ‘strusciate’ o calpestate e ne rimane quindi solo il bordo circolare. Non sono comunque presenti apprezzabili impronte di calpestio. Ci sono, sì, dei residui di materia cerebrale, però potrebbero essere stati lasciati in fase di soccorso, verosimilmente caduti a terra dopo l’arrivo di Ada. Un particolare che mi lascia perplesso sai qual è? La ricostruzione della scena del crimine, in un ambiente idoneo, da parte del RIS. Praticamente hanno ricostruito la stanza, nei loro laboratori, appositamente per capire le dinamiche omicidiarie”. “Un’idea non male, simulare di nuovo l’omicidio. Non capisco cosa non ti torna”. “Sì, sulla carta, in teoria. Intanto iniziamo con il dire che in fase di rilievo c’è stato qualche piccolo problema. Il RIS deposita in data 17.9.2002 il fascicolo e allega una planimetria, aspetta che te la faccio vedere. Noti qualcosa di particolare?”. Accostiamo la macchina e tiro fuori da un fascicolo una piantina a colori, questa.

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Planimetria depositata dal RIS il 17.9.2002.

“Aspetta, Armà, scusa…”. Fabio se la gira e rigira tra le mani. “C’è qualcosa che non mi torna, ma è in scala? Aspetta, fammi controllare le misure della larghezza della stanza, a sinistra abbiamo quattro misure parziali in centimetri: 55, 58, 140 e 87, totale… sì, fa 340. A destra due misure parziali: 55 e 265, la somma è 320. Poi qui c’è un totale: 330. Ma insomma quanto è larga questa stanza?”. “Esatto, come vedi abbiamo qualche problema con la larghezza; ma adesso osserva il mobile in basso a destra, quello che riporta la larghezza di 200, non lo vedi ad occhio più corto della lunghezza del letto dove viene riportato sempre 200? E, tanto per concludere, vedi la larghezza della finestra a destra, 120, può essere mai, così ad occhio, uguale alla larghezza della porta finestra in basso, dove è riportata sempre la misura di 120?”. “E per fortuna che l’analisi delle tracce di sangue è una cosa al millimetro, dove ogni misura ha una grande importanza”.

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“Il punto è che, in fase di disegno, non hanno considerato che la porta non è in linea con la parete ma è rientrata e questo gli ha fatto sballare il tutto. Così, quando ricostruiscono la stanza, sbagliano così tanto le proporzioni che, nella parete che vedi in planimetria a sinistra (parete destra per chi entra dalla porta d’ingresso), vicino al comò, c’è un ‘servo muto’ appendi-abiti. Che quando completano la ricostruzione non gli entra più…”. “Dimmi che non è vero”. Fabio è basito. “Non solo è vero, ma si vede anche dalle fotografie: guarda questa della parete al momento del sopralluogo e guarda questa del locale ricostruito”.

La parete destra della camera da letto (immagine del sopralluogo).

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La parete destra della camera da letto nella scena ricostruita dal RIS.

Do a Fabio il tempo di riprendersi. “Più interessanti sono le analisi mediante la BPA sugli zoccoli e il pigiama della Franzoni e sul piumone di quel letto. Iniziamo intanto con gli zoccoli, di marca Fly Flot, di colore bianco, misura 38, che vengono repertati dal RIS nell’antibagno del piano superiore, appena all’entrata, sulla destra. La ciabatta sinistra presenta sulla suola tracce di calpestio sul sangue, ma la cosa più interessante sono due microtracce di proiezione”. “Sulla suola? Come fanno a stare sulla suola?”. “Esatto, strano, vero? Quindi la suola doveva essere rivolta verso l’alto. Se ne deduce che la ciabatta doveva essere presente nella stanza del delitto durante l’uccisione di Samuele e non, invece, come ha dichiarato Annamaria, nell’antibagno al piano superiore. Altro particolare importante è la presenza di tracce di natura biologica all’interno sempre dello zoccolo sinistro. Queste tracce, anche se sono state molto dibattute in sede processuale - quindi prendiamo i risultati solo come

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indicativi - erano state considerate appartenenti a Annamaria (presumibilmente sono cellule di sfaldamento dovute all’uso delle calzature), miste però al profilo genetico di Samuele. E secondo le analisi del RIS il profilo biologico di Samuele è fatto di microtracce di sangue. Ora, che ci fa lì il sangue di Samuele? E mi ricordi la storia di queste ciabatte, voglio dire dal punti di vista testimoniale?”. “Con immenso piacere. Intanto tu riparti. Dicevamo, stavano nel disimpegno antistante il bagno, poggiate per terra in modo assolutamente ordinato, tranquillo e parallelo. Ora ti dico cosa indicano i testimoni che sono entrati sulla scena del delitto, la stanza matrimoniale: hanno dichiarato di non aver visto gli zoccoli. Annamaria ha detto di esserseli messi quando è rientrata e poi di esserseli tolti per mettersi le scarpe quando Ada le ha detto di prepararsi per salire sull’elicottero, cioè subito dopo che Ada era arrivata. Marco ha visto Annamaria vestita tutta di scuro dal balcone e poi, uguale, anche a casa72. Leonardo pensava al bambino e non s’è messo a notare scarpe. Vito non ci ha fatto caso. Ivano nemmeno. Daniela, idem73”. “Annamaria se non sbaglio dice che, siccome ha tolto quasi subito le ciabatte, è ovvio che gli altri non possono ricordarsi che le aveva portate per poco. E Ada, che dice? Ada è l’unica a ricordare. Ma cosa?”. “Se ne sono accorti in pochi. Ascolta. Al primo interrogatorio, il giorno dopo il delitto, non ricorda se Annamaria avesse scarpe o zoccoli. Anche due giorni dopo non lo ricorda, ma 72 Lo dichiara però il 27 febbraio, quando glielo chiedono. Un mese dopo, non è una risposta attendibile. 73 La Procura fa pesare molto la dichiarazione di Daniela del giorno dopo in cui dice di non ricordare il tipo di calzature ma che, se Annamaria avesse indossato qualcosa di colore chiaro o addirittura bianco, per contrasto con il colore dei pantaloni, lo avrebbe notato e riferito. Ma non possiamo prendere una dichiarazione fatta col condizionale per certa. O ha visto o no. E sospetta appare una successiva deposizione di Daniela, del 4 febbraio, in cui precisa di ricordarsi che Annamaria “ai piedi calzava delle scarpe scure, non credo che fossero ciabatte”. Anche lei sta costruendo, in buona fede, un ricordo che non ha, quindi escludiamo anche lei.

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comincia a convincersi di averla vista con le scarpe74. Come mai? In quel momento sta inconsciamente facendo un’induzione. Siccome ha visto gli zoccoli nell’antibagno e non ricorda di aver mai detto ad Annamaria di cambiarsi, vuol dire che non li portava. E quindi, in un successivo interrogatorio dell’8 febbraio, mette a verbale: ‘Ho il ricordo della signora Annamaria tutta vestita di nero: neri i capelli, nera la maglia, neri i pantaloni e neri gli stivaletti. Sono sicura di non avere mai detto di andare a prepararsi’. Se la vediamo dal punto di vista della psicologia della testimonianza, questa è la classica dichiarazione in cui una teste cerca di trovare la risposta a qualcosa che davvero non sa. Infatti, Annamaria racconta una cosa, questa: che qualche mattina dopo l’omicidio quando, su mia richiesta, la dottoressa venne a farmi visita, chiede cosa portassi ai piedi durante il soccorso; io, travolta dal dolore e dai miei pensieri, non faccio caso a questa sua domanda, ma lei insistendo chiede se avessi le ciabatte o le scarpe e una delle mie sorelle indispettita risponde ‘Sì…sì…le scarpe, ma che cosa c’entra…’. C’entra che in tutto quel trambusto, in quei momenti drammatici, Ada non ha fatto caso alle calzature di Annamaria, ovvio. Così, quando glielo chiedono carabinieri e giudici, cerca di fare quello che può. Loro si aspettano una risposta, sono certi che lei lo sappia; lei sente che ci si aspetta qualcosa da lei, avverte la pressione e va per logica. Ma, onestamente, proprio non ricorda. Tanto che lo chiede ad Annamaria, cosa portava”. “Certo che uno si chiede: ma davvero non si ricorda cosa è successo, quello che ha visto? Che i nostri ricordi finiscano in aceto per via del meccanismo dell’oblio lo sappiamo tutti…”. “Ma all’atto pratico sai che ci succede? Vediamo cosa può essere successo ad Ada. Può esserci stata una défaillance spontanea: se un ricordo non viene utilizzato per un po’, allora sbiadisce fino a quando di fatto diventa impossibile recuperarlo. Oppure, un fenomeno di riproduzione erronea: al posto Il 1° febbraio infatti mette a verbale: “Non sono sicura se avesse le scarpe, ma sono quasi sicura che le aveva”. 74

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dell’episodio dimenticato si utilizza un sostituto che, al massimo, può somigliare a ciò che non ricordiamo più, ma che di certo non è il ricordo originale. O ancora, può essersi verificato l’oblio per interferenza: succede quando nella fase di percezione, contemporaneamente a quanto stiamo ora cercando di recuperare, sono arrivati altri stimoli su altri canali sensoriali. Ad esempio, insieme a uno stimolo visivo ne è arrivato uno uditivo. Si crea allora una confusione -un’interferenza, appunto- tra tutti gli stimoli, con due direzioni temporali possibili (retroattiva, da qui all’indietro; proattiva, da qui in poi). Non è che il ricordo si perde, ma diventa meno disponibile. Poi c’è l’oblio per confusione, che conosciamo tutti: più ci concentriamo su un compito, più altri elementi, che pure sono presenti ai nostri sensi, sono percepiti, sì, ma subito dimenticati. L’attenzione che stiamo prestando al compito assorbe le nostre energie cognitive. Ancora: l’oblio motivato. Con lui scegliamo inconsapevolmente o consapevolmente di cancellare dai nostri ricordi tutto ciò che è per noi sgradevole. Un fallimento, una lite, qualcosa di traumatico, i comportamenti dei quali ci vergogniamo. È una forma di oblio che riguarda tutti, anche quelli che se ne credono immuni. Nella psicanalisi freudiana corrisponde al concetto di rimozione, come meccanismo di difesa dell’Io rispetto ai vissuti negativi. È questo il nostro caso? Perché di certo non c’è stato l'oblio traumatico: quello che intercorre dopo una serie di traumi cranici ripetuti (es.: pugilato) o di lesioni cerebrali degenerative, come nell’Alzheimer. A essere danneggiata è la capacità di memorizzare eventi recenti, mentre si mantiene intatta la capacità di recuperare eventi passati. Ora, pensa alla terza tipologia e capirai perché Ada non ricordava nulla. È solo dopo che per lei Annamaria diventa tutta vestita di nero. Per logica. Perché ha visto le ciabatte di sopra. Perché sa di non averle detto di cambiarsi. Perché gliel’hanno detto i Franzoni, ma non perché ricorda davvero cosa calzava Annamaria!”. “Se Ada non sa dove fossero gli zoccoli, comunque noi sappiamo dire che erano lì, nella stanza del delitto e allora le ipotesi investigative sono diverse e tutte possibili: erano poggiati

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al muro e ricevono gli schizzi di sangue e poi l’assassino (la Franzoni) li indossa? Erano ai piedi dell’assassino, si sfilano quando sta colpendo il piccolo e poi li re-indossa imbrattandoli all’interno del sangue di Samuele? Sono rimasti sul pavimento mentre l’assassino saliva sul letto e colpiva? Tutte possibili. Adesso però vediamo il piumone e il pigiama. Intanto ricordiamoci che Annamaria, secondo le sue dichiarazioni, quando entra nella stanza col piumone copre la testa di Samuele. Intanto ti do alcuni particolari: il letto è alto con il materasso 0,60 metri, è lungo - come abbiamo già detto - 2,00 metri e largo 1,72 metri. Il piumone trapuntato ha le dimensioni di 256x236 cm, il bordo è di circa 12 centimetri e l’interno è suddiviso dalla trapuntatura in rettangoli di 29x26 cm. Il RIS procede in questo modo: suddivide arbitrariamente l’intera superficie in quadrati di metri 0,60 per lato. Quindi, in 16 settori. Ognuno viene contrassegnato partendo da quello in alto a sinistra (lo spigolo del piumone che, adagiato sul letto, era in corrispondenza della porta d’ingresso), con il numero 85, finendo a quello in basso a destra, numero 100. Ogni settore viene poi nuovamente suddiviso in 4 quadranti AS (altosinistra), AD, BD e BS (ruotando in senso orario). Vengono quindi contate le gocce presenti in ogni settore, la loro grandezza e quale area ricoprono. In linea di massima risultava da questa analisi che, ovviamente, i settori nella parte superiore, quindi quelli interessati più direttamente dall’azione omicidiaria sono quelli con una percentuale maggiore di sangue. A parte i dati numerici che vorrei tralasciare, ogni quadrante viene colorato in modo più o meno scuro a seconda della quantità di sangue presente, guarda lo schema che ne risulta. Non noti nulla di particolare?”. “Beh, sì, che a parte alcuni settori marginali, il quadrante BS del settore 90 risulta senza tracce di sangue, un’isola nel piumone”. “Esatto, un’isola, che nella BPA viene definita come ‘Void area’, un’area mancante di tracce ematiche che deve essere spiegata: e qui inizia il problema. Il grande conflitto tra accusa e difesa. Tutto è legato a questa ‘Void area’ e alle tracce sul pigiama di Annamaria. Secondo l’accusa Annamaria colpisce

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il piccolo Samuele prima di portare il fratellino al pulmino, quindi l’omicidio avviene quando ancora indossava il pigiama, su questo punto l’accusa è sicura, non ha colpito il piccolo quando era vestita, né d’altronde aveva il tempo successivamente per ricambiarsi. Quindi il pigiama lo aveva indosso al momento dell’omicidio. Secondo la difesa, che punta sull’intervento esterno, l’omicidio si svolge in quel brevissimo lasso di tempo in cui lei va ad accompagnare il figlio al pulmino. Quindi, secondo l’accusa, la ‘Void area’ è causata dalla posizione di Annamaria in ginocchio sul letto, proprio nel settore, BS90, che spiegherebbe anche le tracce di sangue all’interno degli zoccoli. Secondo la difesa la ‘Void area’ è invece causata dal pigiama che aveva lasciato sul letto quando si era cambiata, quindi l’assassino non è mai salito sul letto, ma ha colpito il piccolo ponendosi in piedi alla sinistra del letto. Chiaro?”.

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“Sì, finalmente ci sto capendo qualcosa, con ‘sto piumone. Ma la posizione dell’aggressore, chiunque sia, deve comunque essere vista insieme alle tracce presenti sul pigiama stesso, no?”. “A questo punto effettivamente i due elementi si legano, ma prima di andare a vedere il pigiama, facciamo ancora una considerazione sul piumone. Intanto vedi che i settori in basso, dal 97 al 100, non hanno che poche tracce di sangue”. “Logico, il piumone, come sempre accade, ha la parte terminale che si ripiega”. “Corretto, quindi: se la parte terminale, che ti ricordo è di 60 centimetri, si ripiega verso la fine del letto, quanto piumone era sul letto al momento dell’omicidio?”. “Mi sembra di stare a scuola. Tre settori, quindi 180 centimetri”. “Ricordati questo dato che è molto importante. Allora iniziamo con il pigiama della Franzoni, la casacca viene rinvenuta tra il lenzuolo di sopra e quello di sotto, rovesciata”. “Rovesciata? Come la camicia di Pasolini della nostra ultima indagine?”.

Il lato anteriore del pigiama.

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“Sì, sembra quasi una regola, trovare gli indumenti rovesciati negli omicidi. A parte questo, le tracce di sangue, che vanno dalle micro gocce per proiezione a macchie anche di 5 millimetri, di cui è cosparso il pigiama, sono poste tutte all’interno come se fosse stato indossato proprio rovesciato. Particolare importante è che non risultano trasferimenti di sangue per contatto tra la giacca e le lenzuola che vi erano a contatto. I pantaloni del pigiama, poi, sono rinvenuti fra il lenzuolo superiore e il piumone. I pantaloni vengono poi suddivisi dagli analisti del RIS in 12 zone, 6 nella parte anteriore e 6 in quella posteriore, se vedi le immagini è abbastanza logica questa suddivisione.” “Sembra interessata più la parte destra, vero?”. “Sì e se ovviamente pensiamo alla maglia del pigiama indossata al contrario, vediamo che la parte destra viene interessata in particolare dalle gocce che vengono proiettate in fase di ricarica dell’arma”.

Il lato posteriore del pigiama.

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“Ma tutte queste tracce possono essere state provocate dal contatto con il piumone che era stato a sua volta interessato dalla sostanza ematica? Quando magari il pigiama è stato appoggiato sopra il piumone?”. “No, questo è stato escluso, ci sono solo due ipotesi possibili, pigiama indossato dall’assassino o che era appoggiato sul piumone, nella ‘Void area’, negli attimi omicidiari. Una considerazione sulla tipologia delle tracce rilevate sui pantaloni, sulla gamba destra le tracce di sangue sono piccole e generalmente di forma tondeggiante, questo significa che sono giunte in maniera perpendicolare”. “Cioè? Sono state schizzate direttamente dalle ferite mentre si producevano?”. “Non si può escludere, ma potrebbe anche essere, e spiegherebbe le tracce sul retro del pigiama, che le gocce provenivano dall’alto. Immagina la scena, l’arma che colpisce la vittima e che l’assassino ricarica verso l’alto. La forza centrifuga fa partire delle gocce che fanno una traiettoria a ‘campanile’, passano su il corpo e ricadono lambendo la schiena e colpendo i polpacci, scusa se sono stato poco tecnico, ma così mi sembra più chiaro”. “Figurati, ma se così fosse il polpaccio che viene attinto deve stare parallelo al materasso, no?”. “Giusto, parallelo al materasso e quindi…”. “Con la gamba sul letto, o tutte e due le gambe sul letto, visto che la base di entrambi i pantaloni risulta interessata da queste tracce. Me l’hai fatto vedere adesso”. “Esatto, e se vedi bene le tracce sono distribuite su tutta la lunghezza della gamba destra, particolarmente sulla zona anteriore del femore e del ginocchio e sulla parte esterna della gamba. Lo stesso vale più o meno per la gamba sinistra. Però ora presta attenzione. Ipotizza che l’assassino fosse in ginocchio sul letto, occupando lo spazio della ‘Void area’’. “Praticamente l’ipotesi dell’accusa”. “Sì, ora abbiamo detto che gli ultimi settori, quelli numerati dal 97 al 100, non sono stati interessati dal sangue, quindi erano piegati in corrispondenza della pediera. Significa che la parte di piumone che rimaneva sul materasso era formata da

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circa tre settori e dato che ogni settore è di 60 centimetri il piumone, al momento dell’omicidio si estendeva per circa 180 centimetri”. “E lo abbiamo detto prima. Mi sembra corretto, ma dove vuoi arrivare?”. “Al fatto, Fabio, che la Void area si posiziona a 60 centimetri dal fondo del letto, il che vuol dire che l’assassino era in ginocchio all’incirca a 60 centimetri dal fondo del letto. Come dicono i consulenti della difesa d’altronde…”. “Ma questo è impossibile… ma scusa, come poteva da quel punto colpire il bambino alla testa che era posizionata sul cuscino… avrebbe dovuto stendersi in maniera surreale”. “Il punto è proprio questo, è qui che ti volevo portare: non si possono fare considerazioni geometriche e precise su qualcosa di irregolare come un piumone su un letto. Chi ci dice che l’ultima fila di settori debba essere per forza piegata verso il basso? E se in quel momento fosse stata piegata su se stessa? E se la famosa ‘Void area’, punto cardine delle dinamiche ematiche, fosse stata causata da una semplice piegatura del piumone? E, qui concludo, lo sai cosa penso? Che in quegli attimi, e stiamo parlando di un’azione che è durata indicativamente 15-20 secondi, l’assassino abbia aumentato la foga aggressiva e da una posizione defilata in piedi si sia avvicinato sempre più al piccolo Samuele, salendo con una gamba sul piumone. Quando vengono inferte più lesioni, quando c’è un overkilling, quando l’azione omicidiaria è superiore alle necessità dell’evento, c’è un progressivo accanimento nel gesto. Quindi è altamente plausibile che l’omicida si sia progressivamente avvicinato alla vittima”. “Questo discorso tiene, quindi l’errore che viene fatto nelle ricostruzioni del RIS è di simulare le varie ipotesi ma sempre in maniera statica, secondo il punto di vista della difesa o dell’accusa…”. “Esatto, è questo”. Tre settimane dopo la consegna, da parte del RIS, della perizia sulle macchie di sangue, Annamaria Franzoni viene arrestata. È il 14 marzo 2002.

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Capitolo 10

Le 6 matrioske

Siamo davanti casa Lorenzi. È successo qui. La realtà sorprende sempre: nelle foto sembrava più grande, invece tutto ci appare più raccolto. E fa strano vederla a chiudere la strada, come se fosse inevitabile, come se di tutte le case non poteva che succedere qui. Dentro la sua testa ci sono ordinate pareti coi quadretti, mobili bassi di buon gusto. Pavimenti in cotto. Puoi discutere dell’arma quanto vuoi, delle telefonate, di quello che ti pare, ma il vero cuore battente di questa storia è uno solo: perché? È tutto quello che la gente vuole sapere. Strano è strano. Solo una parte delle madri che uccidono i figli soffrono di una evidente malattia psichiatrica, che ne riduce la capacità di intendere e di volere: la maggior parte sta fuori dalla malattia. Ma qualcosa in comune, tutte, ce l’hanno: vivono in contesti problematici; hanno seri disturbi del controllo degli impulsi o di personalità, come il disturbo antisociale; sono fragili, non si sentono capaci di fare da madre; oppure sono madri abusanti, che ripetono comportamenti di abusi a loro volta subiti; oppure, sono madri con la Sindrome di Medea (per vendicarsi del compagno colpiscono il figlio). Annamaria non ha niente di tutto questo. Se è stata lei, è un enigma per la scienza. “Ti lascia spiazzato, Annamaria. La guardi ed è disperata. E ti chiedi se dietro tanto dolore, vero, reale, può esserci un omicidio oppure no”, dico. “Al di là di tutte le prove e le analisi, il mistero di questo delitto è nella mente di Annamaria, in quella cassaforte lì”, risponde Fabio. Fissiamo la casa come se ci aspettassimo da lei una risposta. Nevica davvero, nevica tanto. I sorpassi, la gente nelle strade di Aosta, le gallerie, il rumore nel ristorante: tutto è perso, lontano.

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Un delitto come quello di Cogne non poteva non avere una perizia psichiatrica, per capire se lei era in grado di intendere e di volere al momento del delitto, oppure no. Il silenzio è irreale. “Partiamo dalla prima perizia” dice Fabio, quasi leggendomi nel pensiero. “Richiesta il 28 marzo 2002 dal Gip Gandini ai professori Francesco Barale, Francesco De Fazio, Alessandra Luzzago75, vede i periti depositare il loro elaborato il 23 luglio 2002. C’è anche la consulenza tecnica del professor Ugo Fornari per il PM, mentre consulenti della difesa sono i professori Boggetto, Nivoli, Torre76, che non trovano in Annamaria nessun problema psicopatologico. Vediamo allora se trovano qualcosa di strano i periti del Gip: un ‘forte distanziamento difensivo dal coinvolgimento emotivo nei confronti di situazioni nuove, tale da comportare una rigidità a livello cognitivo ed una regressione alla dipendenza nella gestione delle emozioni e degli affetti, a protezione di un sé vitale. Tutte le energie psichiche erano rivolte allo sforzo di tenersi insieme’. In pratica, Annamaria, quando è alle prese con una situazione nuova e imprevista, che modifica il suo equilibrio, si chiude, si fa rigida, dipendente da chi la protegge e equilibra (Stefano, soprattutto), senza farsi coinvolgere emotivamente da tutti gli altri, senza curarsene. Il che non è una malattia, però. Le fanno vari test: MMPI, il QED (un test per la valutazione degli stati dissociativi, come ad esempio l’amnesia dissociativa) e risulta che è a posto, nessun problema. Le fanno il Rorschach, tutto ok. I periti ci parlano, le fanno l’Elettroencefalogramma, nessuna patologia psichiatrica o depressione. Quindi al momento del delitto era completamente in grado di intendere e di volere ed escludono anche la presenza di un’alterazione momentanea”. “E questi sono i primi periti, quelli dell’Assise”, rispondo chiudendomi bene il giaccone. “Poi arrivano quelli dell’Appello. Anche il Procuratore 75 Barale, ordinario di Psichiatria a Pavia; De Fazio di Medicina Legale a Modena; Luzzago di Psicopatologia Forense a Pavia. 76 Tra loro ci sono perlomeno due luminari: De Fazio e Fornari, con un’esperienza enorme e un’altrettanto enorme capacità di capire la mente umana. De Fazio lavorò sul caso del Mostro di Firenze stilandone un bellissimo profilo.

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Generale (cioè il Pubblico Ministero dell’Appello) nomina suo consulente il professor Ugo Fornari77. Che arriva e dice: tutto molto bello nella prima perizia, ma per me i colleghi non hanno lavorato in maniera approfondita. Sarebbe stato utile confrontare i dati storici forniti da Annamaria con altre fonti esterne; fare esami clinici più articolati, come il test di Hamilton per la depressione e il test di T.A.T. per inquadrare la personalità; accedere al diario clinico di Annamaria, quello del carcere; si sarebbero dovuti valutare gli episodi psicosomatici. E qui inizia una lotta tra i periti, sul perché avessero e non avessero fatto quei test. Ci risparmiamo la lotta, vero?”. “Ci puoi contare. Torniamo un attimo a Fornari: per lui in Annamaria c’è una scissione tra un mondo interno buono, protettivo e salvifico ed un mondo esterno, cattivo, minaccioso e persecutorio; parla della solitudine che lei provava e della rabbia e il rancore contro il marito, che la lasciava tante ore sola. E già dal Rorschach per lui si vede una patologia evidente, una personalità molto difesa, distaccata dalla realtà, a tratti immatura, dipendente, con evidenti problemi relazionali che, sotto la crosta difensiva, era molto vulnerabile. Insomma, una donna che può esplodere, in contesti stressanti; non era quell’esempio di normalità che voleva far vedere… So cosa stai pensando: no, da fuori nessuno avrebbe potuto capire”. “La Corte d’Appello, di fronte a perizie così diverse, il 12 dicembre 2005 nomina allora un collegio di suoi periti psichiatri78 per fare una nuova e definitiva perizia. C’è un piccolo problema. Annamaria rifiuta di sottoporsi al nuovo esame. Allora loro prendono i test già eseguiti, il diario clinico del carcere, la precedente perizia psichiatrica, le intercettazioni ambientali, Ordinario di Psicopatologia Forense all’Università di Torino. Ha periziato Gianfranco Stevanin, Donato Bilancia e Pietro Pacciani. 78 Il prof. Gaetano De Leo, ordinario di Psicologia giuridica e sociale all’Università di Bergamo, docente di Psicologia giuridica all’Università “La Sapienza” di Roma; il prof. Franco Freilone, ricercatore e docente affidatario di Psicodiagnostica e Psicopatologia differenziale presso l’Università di Torino; il prof. Ivan Galliani, associato di criminologia e difesa sociale e medicina legale presso l’Università di Modena; il prof. Giovanni Battista Traverso, ordinario in Psicopatologia forense presso l’Università di Siena e direttore del Dipartimento di Scienze Medico-legali dell’Università di Siena. 77

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le interviste rilasciate in trasmissioni televisive79, parlano coi parenti”. “Ma ha senso una perizia senza l’imputata?”, chiedo perplesso. “Sì, perché in altri casi si fa: nella circonvenzione di incapace (art.643 C.P.), quando il periziato, cioè la vittima, è già morta al momento delle indagini. Idem per l’‘omicidio del consenziente’ (art.579 comma 1 e comma 3 n.2 C.P.) e per l’‘abbandono di persone incapaci’ per malattia di mente (art.591 C.P.), o decedute per effetto dell’abbandono subìto (comma 3)”. “Ok allora. Sei mesi dopo, il 15 giugno 2006, viene depositata la relazione di De Leo, Freilone, Galliani e Traverso. I quali dicono che innanzitutto non ci sono le cosiddette patologie ‘maggiori’ (psicosi, depressione maggiore, insufficienza mentale, sindrome paranoide, schizofrenia, sindrome schizoaffettiva, ecc.) ma qualcos’altro. Cari signori -dicono i peritisappiate che quanto più è profondo uno stato di alterazione della coscienza, tanto più lento è il ripristino di una condizione di ‘normalità’ dopo un evento traumatico. Invece Annamaria, subito dopo il delitto (già nella chiamata al 118) è lucida e orientata, senza connotazioni persecutorie, senza elementi di depressione (se li avesse avuti sarebbe stata passiva, invece ha fatto un sacco di cose), insomma è subito in sé; quindi l’alterazione, se c’era, non doveva essere così profonda da determinare una completa esclusione delle capacità di intendere e di volere, ma al massimo una seminfermità mentale”. “Sai cosa credo? Che entrare nella mente di Annamaria è come aprire una serie di matrioske”. “È proprio così. Ho la stessa impressione… Matrioska numero uno: la fragilità. Spiegano i periti che Annamaria ha troppo bisogno di approvazione e attenzione, è troppo ‘una personalità immatura e dipendente, con scarsa formazione di una vera e propria autonomia personale’, per l’eccessiva dipendenza dai genitori. E infatti, non si fida per niente di tutto Facendo bene attenzione al fatto che in televisione esiste il montaggio, con tutto quel che comporta. 79

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quello che non ha il marchio Franzoni. Per conseguenza, ha totale sfiducia nei confronti degli inquirenti, è sospettosa verso quelli che sono al di fuori della cerchia dei familiari, crede che gli altri non siano in grado di capirla. Naturalmente, da tutto questo ne viene fuori una donna con ‘una bassissima soglia di tolleranza delle esperienze spiacevoli’. “Come tante altre persone, però…”, risponde Fabio mentre tutto, il terreno, la strada, è bianco. “Certo. Ed ecco la matrioska numero due: autorefenzialità e niente empatia. Il risultato dell’immaturità è, anche, che si mette al centro, sempre: ‘È presente una costante tendenza a sentirsi al centro della situazione’, nel senso di una visione della realtà egocentricamente narcisistica. Annamaria colpisce i periti perché nelle intercettazioni parla soltanto di quanto sta male lei, del suo dolore. È per il suo dolore che piange, per i sospetti che girano su di lei, non per Samuele”. Fabio tira fuori un foglio dalla tasca. Si gela. La casa ci sta osservando, sente quello che diciamo. “Scrivono i periti: ‘Non parla mai di dolore, non si chiede mai se il figlio possa aver sofferto, quanto possa aver sofferto. Tutto ciò appare, quantomeno, singolare sul piano dei fenomeni psichici’80. E ancora, parlano dell’‘impressione di inautenticità dei vissuti, del dolore, della partecipazione alla situazione’. E, quando si è così ripiegati su se stessi, l’empatia è solo apparente. Il vero interesse di Annamaria è Annamaria, quello che lei può sembrare, l’essere vista in modo irreprensibile, senza difetti di fabbrica”. “Insomma, la ragazza del Mulino Bianco”. Mi sembra evidente. “Giusto. Ed ora, ti dico io la matrioska numero tre: ansia e somatizzazione. Le prime due bamboline le creano una grande ansia, che è abile a nascondere dietro una grande protettività verso i figli. Ma che poi esce fuori con i suoi malesseri, proprio come la sera prima del delitto81. E la mattina stessa. Malesseri che spariscono come sono venuti, non appena ot80 81

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Se ne accorgono anche i sanitari del carcere. Tecnicamente, il suo è un “disturbo d’ansia con conversione somatica”.

tiene quello di cui ha bisogno, e cioè l’attenzione di Stefano o dei familiari”. “Andiamo sempre più in profondità…”. “Matrioska numero quattro: l’isteria. Ricordi quel ‘Samuele è morto’, detto a Giacinta? È quella frase che fa dire al prof. Freilone che l’assetto di personalità di Annamaria è, appunto, isterico! In lei c’è appunto ‘la scissione di due rappresentazioni mentali82, che possono essere anche tra di loro contraddittorie, che coesistono e si alternano nello stesso tempo nella persona, quindi, può capitare, un momento prima, di chiedere i soccorsi e, il momento dopo, affermare che la persona è morta’. Che cos’è la psiche, eh?”. “Aspetta, ma stai parlando di ‘disturbo isterico’, giusto? Cioè avere una spiccata tendenza a recitare una parte chiedere attenzione, fare la brava moglie, a negare la realtà, a rimuoverla, a cestinare le cose sgradevoli per non affrontarle, no?”. “E a dividere la realtà in tanti cassetti diversi che non comunicano tra loro; potremmo dire che è un modo di simulare, di non essere autentico, di essere teatrale che però diventa patologico senza -attenzione- che chi ha il disturbo non sappia, anche, rendersi conto della realtà, usarla. Insomma, la lucidità c’è tutta, nell’isterica. La realtà la vede, però non le piace: e quindi la allontana. E, al posto di tutto quello che non va, ci mette una bella visione idealizzata della realtà”. “Esatto! E hanno anche la capacità di cambiare rapidamente registro emotivo (quel ‘mi aiuti a fare un altro figlio?’, così, di colpo. Oppure il famoso ‘ho pianto troppo?’83. Oppure quando Stefano le dice il risultato dell’autopsia. Prima reazio82 In parole povere, una rappresentazione mentale è qualcosa che, nella nostra testa, sta al posto (rappresenta, appunto) di qualcosa che esiste nella realtà. Se penso al concetto di casa posso vederla dentro di me, descriverla, distinguerla da altre cose. Succede perché ne ho una rappresentazione, cioè un insieme di icone, simboli, percezioni, conoscenze che me la fanno conoscere anche se non ce l’ho davanti ora. 83 L’11 marzo 2002 Annamaria è a Studio Aperto (Italia 1). La frase la pronuncia a telecamere spente e crea un casino enorme, peggiorando la sua immagine, facendola apparire falsa e calcolatrice. Annamaria spiegherà di aver fatto quella domanda perché temeva che, per il troppo piangere, non si fosse capito quello che aveva detto. E ci sta. Va detto.

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ne, emotiva, giustamente: ‘Ho bisogno di vedere qualcuno… lascia la finestra aperta’, ‘Non potrò più vivere’. Poi, un attimo e torna subito lucida: ‘Hanno trovato qualcosa?’, ‘Ma chi può essere stato?’, ‘Ma come ha fatto secondo loro… a cogliere l’occasione?’). È questo interruttore che li colpisce84, insomma (oh: niente a che vedere con la personalità multipla, quella è tutt’un’altra cosa!)”. “Hai fatto bene a specificarmelo, sennò ci cascavo anch’io nello sdoppiamento di personalità. Che poi il disturbo isterico crea anche dei disturbi fisici molto visibili che però nascono dal suo autosuggestionarsi; e infatti se ne vanno di colpo, così come erano venuti qualche ora prima. Succede quando Annamaria percepisce un grave pericolo imminente, e quindi ecco un senso di paura intollerabile, che la rende confusa e disorientata, e che il corpo trasforma in malessere. Malesseri che aveva accusato ben da prima del delitto (la sera prima, la mattina stessa) e che accuserà anche dopo; e sempre con lo stesso schema. Grande allarme, necessità di aiuto (Stefano, la Guardia Medica) e di attenzione, poi passa tutto e lei minimizza come se non fosse successo nulla”. “Va bene, Fabio, tutto molto bello, e fin qui Fornari e i periti della Corte d’Appello vanno d’amore e d’accordo, ma allora che diamine le è successo, quella mattina di fine gennaio? Per ora, le prime quattro matrioske, pur spiegandoci una serie di cose, non individuano un’infermità mentale né altro… individuano un disturbo, che è una cosa meno grave”. “Esatto, e infatti i periti fanno allora un’ipotesi: quella ‘di un delitto commesso in una fase critica delle condizioni di base’, vale a dire che qualcosa ha aggravato queste matrioske e ha fatto esplodere Annamaria in quel minuto di violenza pura. Per spiegare cos’è successo, tirano fuori tre parole Ora ci spieghiamo meglio anche il malessere di Annamaria la mattina del delitto, sparito non appena arrivà la dottoressa Neri della Guardia Medica. La Neri ne fu sorpresa: la paziente se ne stava seduta sul letto, serena, solo pochi minuti dopo la richiesta di intervento urgente. E alla visita non dimostrava di avere proprio nulla, né voleva medicine per essere curata. Per i periti sia quella della sera prima che quella della mattina dopo sono un’unica, grande crisi d’ansia e basta. Una richiesta d’attenzione. 84

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complicate: stato crepuscolare orientato. Una condizione che entra in gioco spesso nei casi di infanticidio. Ma di che stanno parlando?”. “Lo vorrei tanto sapere”. “Ed allora apriamo la matrioska numero cinque: lo ‘stato crepuscolare orientato’85. Cioè -siamo arrivati al cuore del problema- un tipo di disturbo che bruscamente arriva e bruscamente se ne va. Ecco la risposta che i professori cercavano!86 Dura da alcuni minuti ad alcune ore o anche alcuni giorni87. Durante lo stato crepuscolare la persona si fissa su un tot di pensieri, quindi è lucida per alcune cose, mentre per altre no, sta in una specie di appannamento o non ci sta proprio: insomma, la sua coscienza di ciò che ha intorno è ristretta. Quello che la comanda davvero è ciò che ha dentro: ciò che si agita dentro diventa più reale del vero, di questa casa, della nostra auto, di quella montagna. E non si ricorda niente di quello che è successo durante la crisi: amnesia88. Oppure conserva dei ricordi evanescenti: ogni tanto, finito tutto, ci possono essere come dei lapsus, dei momenti (potrebbero essere ‘Samuele è morto’, o ‘Cosa mi è successo’, o quel ‘È corsa di sotto con una 85 Orientato vuol dire finalizzato a qualcosa, vuol dire che la persona non ha un comportamento scomposto, fa una cosa che vuole fare. Questo disturbo della coscienza si osserva nell’epilessia temporale, a seguito di gravi eventi stressanti, e in alcune forme di nevrosi isterica, appunto. 86 Nel 2005, all’ università Salpetriere di Parigi, durante l’International Congress of Law and Mental Health, sono state definite le 20 tipologie di madri figlicide. Tra queste c’è anche quella che soffre di “fundus isterico con fattori esistenziali precipitanti”. 87 Va e viene, ma non è che la crisi coincide col delitto e basta. Parte un po’ prima (da qualche ora a qualche giorno) e finisce un po’ dopo (da qualche ora a qualche giorno). A uno dei periti, in udienza, il P.G. chiede: “la crisi crepuscolare inizia col delitto e finisce col delitto?”. Risposta: “Capisce bene che non esistono crisi psicotiche che iniziano con il reato e finiscono con il reato…”. 88 Peraltro, nel 2009, Annamaria è stata sottoposta da due periti della difesa (il professor Giuseppe Sartori, docente all’università di Padova in neuroscienze cognitive e neurologia clinica, e il professor Pietro Pietrini che all’Università di Pisa studia le basi cerebrali delle funzioni mentali) a due test specifici, lo A-Iat e il Tara, per capire se soffre di amnesia. La loro risposta è che non c’è nessuna amnesia e che nella sua mente non esiste il ricordo di aver ucciso il figlio. Il che vuol dire che, secondo loro, non mente quando dice di non averlo fatto.

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rabbia allucinante’, quando immagina il delitto una settimana dopo, tanto per dirne tre89) in cui… è come se la mente inciampasse e venisse fuori la verità, per un attimo: perché lei c’era, era in quella stanza piena di sangue…’. “E allora, se le cose stanno così, Annamaria era capace o incapace di intendere e di volere?”. “I professori concludono che ‘è quindi da ritenersi che lo stato di alterazione non fosse così profondo da determinare una completa esclusione delle capacità di intendere e di volere’”. “Siamo tornati all’inizio, quando dicevano che meno è profondo lo stato di alterazione, più è rapido il ritorno alla lucidità…”. “Esatto… Seminfermità mentale, è la conclusione”. “Aspetta, scusa: ma finisce così? Non c’è un’altra matrioska? Un disturbo isterico e basta? Non è così facile. Non mi torna! Proprio dopo la crisi, dopo il delitto, Annamaria ha cercato di cancellare le prove di ciò che aveva fatto (si è lavata il viso e le mani, ha spostato le ciabatte al piano di sopra, ha dato indicazioni contraddittorie sullo stato di salute di Samuele ai soccorsi, ha accusato Daniela e Ulisse sapendoli innocenti, ha detto numerose menzogne ad esempio quelle contraddette da Davide o quella sulla porta)”. “… E allora vuol dire, che non aveva nessuna amnesia, ma si ricordava cos’aveva fatto al punto da volere farla franca… E se non c’è amnesia non c’è stato crepuscolare. E se non c’è stato crepuscolare non c’è la quinta matrioska e allora Annamaria è capace di intendere e di volere”. “Beh, complimenti! Hai fatto lo stesso ragionamento della Corte d’Appello. Ma sei certo che tutti quei gesti fossero davvero un voler cancellare le prove? Non saremo noi che interpretiamo in modo colpevolista tutto quello che fa Annamaria?”. La prima frase è quella detta a Giacinta. La seconda è nell’intercettazione telefonica n. 315 del 6 marzo 2002: parla con l’amica Anna Biancardi, cui dice: “Guarda oggi sono andata a fare una passeggiata… è che non ce la facevo più a stare in casa… e sono riuscita dopo un‘ora così… ad estraniarmi un pochino, ad essere più tranquilla… poi tutto ad un tratto mi torna in mente Samuele e dico: ma cosa mi è succ.. cosa… gli è successo (piangendo)… perché non è qui con me, l’ho lasciato lassù da solo”. 89

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“Allora, guarda: se ha spostato le ciabatte o no è indimostrabile, l’aver dato indicazioni contraddittorie può essere spiegato con lo stato di panico in cui si trovava, le accuse ai vicini possiamo vederle come grossi errori di valutazione …”. “… Però le menzogne smentite poi da Davide e quelle sulla porta e… beh, sì che sanno di depistaggio consapevole…”. ”Esatto… Sta di fatto che cinque matrioske spiegano tanto, ma non spiegano tutto. Resta la sesta matrioska, allora, l’ultima, quella che, lo sai, non si apre. Cos’ha trasformato un disturbo isterico in un omicidio? Qual è stato l’evento scatenante? Qui si entra nelle ipotesi. Perché in quelle ore nella vita di Annamaria non c’era nessun lutto, licenziamento, nessuna catastrofe esterna che potesse giustificare in qualche modo una crisi psichica di quella portata. Forse, allora, è stata la crisi di pianto di Samuele, forse il non stare ancora bene, forse lo stress mai sfogato di mesi in cui Stefano era al lavoro e lei doveva far girare le pale del Mulino Bianco, forse l’idea -che andava avanti in silenzio da mesi- che Samuele tanto non ce l’avrebbe mai fatta e che non le era uscito il bambino perfetto. Forse quella frase dei Perratone: dovreste provare anche voi che vuol dire… Chissà”. “In effetti, Ada dice che per due volte, appena arrivata la notizia della morte di Samuele, Annamaria le ha detto che si sentiva che il figlio sarebbe morto90”. “In realtà Samuele -l’abbiamo visto- non aveva proprio niente fuori posto: la testa un po’ grande, un po’ sottopeso, le gambette un po’ magre. Niente di che, ma forse nella testa di Annamaria tutto questo era decisamente più di un po’, perché nell’idea del Mulino Bianco i bambini sono sani, sorridenti, biondi. Perfetti. Da cartolina, come il Gran Paradiso. Devi essere molto fragile per aver bisogno di un mondo perfetto intorno: cioè di quello che non può esistere”. “E certo. Sembrava ed era una madre iper-premurosa, super-presente. Ma Samuele non migliorava, ai suoi occhi. Di più è difficile dire: d’altronde, Annamaria ha rifiutato la perizia numero due… E allora. Samuele si era svegliato e piangeva, 90

Ada lo riferisce a caldo, negli interrogatori del 2 e del 6 febbraio 2002.

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ed avrebbe (forse) voluto uscire con il fratello, o non separarsi dalla mamma. Annamaria doveva fronteggiare un bambino inquieto che non voleva dargliela per vinta. L’organizzazione che aveva disegnato per quella mattina rischiava di saltare. Annamaria era stanca, voleva solo rimettersi a letto con Samuele e tanti saluti. E invece si scontrarono due testardi, madre e figlio. Un problema quotidiano per milioni di madri, ma qui la madre ha in testa tutte le matrioske di sopra. È l’ultima; è l’ultimo mistero di Cogne”. Davanti a noi la casa del delitto è coperta di neve. E anche noi, adesso, siamo coperti di neve. L’aria è fredda, i fiocchi cadono in un silenzio senza fine. Il mondo si è fermato. Sembra di vederli uscire quella mattina come mille altre, lei e Davide. Ecco la finestra dietro cui è morto Samuele. “Ricordava tutto, ha sempre ricordato tutto, allora.” “Non lo sapremo mai. Fino al disturbo isterico ci arriviamo tutti: è dopo il problema. Ci siamo convinti che è stata lei. Ha ucciso lucidamente e sta simulando come un premio Oscar, dal 2002? Oppure il disturbo isterico è esploso in una crisi crepuscolare, ha ucciso e poi ha dimenticato tutto un minuto dopo, salvo avere qualche lapsus?91 Oppure all’inizio era consapevole di essere un’assassina - e quindi ecco le menzogne sulla porta e quelle smentite da Davide- e poi, a un certo punto, si è protetta da ciò che ha fatto, nascondendosi la realtà e costruendosi in testa una serie di ricordi falsi, una versione della realtà in cui lei è innocente e a cui da allora crede sinceramente? La verità è che gli stessi periti della Corte d’Appello hanno detto di non saperlo. La scienza a un certo punto deve fermarsi, di fronte al mistero dell’ignoto: la mente è ignota a noi stessi. Noi conteniamo un ignoto su cui indaghiamo. Come speriamo di comprenderlo? Non lo sapremo mai”. “Secondo te, perché non ha mai confessato? Magari all’inizio” dico io. “Se aveva già dimenticato tutto non poteva confessare Nell’esperienza del professor Vincenzo Mastronardi, che ha esaminato tante madri figlicide all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere, c’è la coscienza che un’amnesia subito dopo un delitto si vede: la donna è in uno stato di confusione molto evidente. Annamaria non lo era, questo è certo. 91

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qualcosa che non pensava di aver commesso. Se invece sapeva cos’aveva fatto… la vera pazzia sarebbe stata proprio confessare. Se non l’ha fatto subito, e vale per ogni criminale, dopo non aveva più senso farlo. Dopo che aveva creato il dubbio, che c’era gente che faceva comitati e gruppi su Facebook per salvarla, dopo che la sua stessa famiglia aveva superato i dubbi e la proteggeva, che la gente le mandava messaggi, come sarebbe stato possibile confessare, a quel punto? Annamaria ha cercato di salvare la sua immagine, o simulando o dimenticando, ma ha sempre cercato di salvare la sua immagine: così, Davide e Gioele potranno continuare a credere che la mamma era innocente e Stefano che ogni sera non s’addormenta a fianco di un’assassina. Confessando, avrebbe perso tutto. Non facendolo, ha gettato fumo negli occhi. Ha salvato quello che restava, la sola cosa che contava e conta per lei: sé stessa, la sua fragilità impaurita, spersa nel mondo”. “Sai, per confessare e per ricordare ci vuole più coraggio che a uccidere. Quello è un attimo. Il resto te lo porti dentro, ogni giorno e ogni notte. Anche da libero. Fino all’ultimo minuto della tua vita”.

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Capitolo 11

Una mattina d’inverno, a Cogne

Gli sportelli si chiudono e cade la neve dai nostri giacconi, sui sedili, sui tappetini, sul cambio. Accendiamo a manetta il riscaldamento. Partiamo verso la prossima tappa del nostro viaggio. Ora è tutto più chiaro. È il momento, tocca a me, mentre Armando guida. “I dieci minuti delle coccole, quella mattina, non ci sono mai stati: Davide li ha smentiti. La colazione arretra alle 7.50. E finisce ragionevolmente alle 8. Questo spiega perché Annamaria ha potuto prendersela così tanto calma, mentre Davide ci metteva un secolo a mangiare latte freddo e corn flakes: non erano in ritardo. Poi, Davide è sceso ed è stato cambiato di sotto, come sempre, non di sopra. Cambiato in camera matrimoniale, per evitare di svegliare Samuele. Ci sta. Ed è uscito a giocare un po’ in bici alle 8.10, minuto più minuto meno”. “In perfetto orario, senza quella congestione che avrebbe trasformato Annamaria in Supergirl che fa tremila cose in cinque minuti”. “Esatto, non solo così è più logico92 ma soprattutto torna con le deposizioni”. “Annamaria, a questo punto, può entrare in camera sua per vestirsi. All’improvviso, mentre si sta vestendo, Samuele piange, nella sua cameretta. Ha pochi minuti per calmarlo e non deve fargli capire che lo sta lasciando da solo. Si rimette al volo la casacca del pigiama: nella fretta la mette al rovescio e col davanti dietro, senza pensarci. Almeno suo figlio penserà che la mamma non sta uscendo. Samuele però non smette di È sempre un errore usare i propri parametri logici per interpretare quelli degli altri. 92

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piangere, forse lei lo strattona, non possiamo saperlo, però sta facendo tardi e il bambino non smette, lo prega, lo strattona ancora e alla fine esplode. Scende la notte. Annamaria guarda quello che ha fatto. Istintivamente, prende il piumone e copre il viso del figlio. Vedi Fabio, la notte che cala è una notte breve. Gli occhi, che sono rimasti sempre aperti, ricominciano a guardare. In una frazione di minuto compie due azioni tipiche della criminologia: l’overkilling e l’undoing. L’overkilling riguarda l’azione omicidiaria: è quando l’azione lesiva è di gran lunga superiore a quello che basterebbe per compiere l’omicidio. L’undoing è invece un gesto di vergogna che compie l’omicida, quando capisce di aver fatto un qualcosa di abominevole e vuole nasconderlo ai suoi stessi occhi. Il piumone quindi è una barriera tra lui e la vittima. L’overkilling e l’undoing ci danno delle indicazioni. Il primo ci indica un legame affettivo vittima-autore e il secondo ci indica un forte ‘imbarazzovergogna” oltre che un assassino disorganizzato’. “Direi quasi che questo profilo corrisponde molto bene ad Annamaria”. “Sì, con tutte le cautele del caso, corrisponde molto bene, effettivamente. Ma torniamo a quel giorno, Annamaria scende dal letto con la gamba o le gambe, se nell’ultima frazione è salita completamente. Si toglie i due pezzi del pigiama e li lancia sul letto. Forse dopo essersi lavata le mani, visto che non ci sono tracce di sangue sui bordi delle maniche, altrimenti le avrebbe macchiate”. “Aspetta, questa parte si interseca con quella di prima. Il sopra del pigiama lo leva e infatti poi viene trovato sotto il piumone”. “Sì certo, allora dicevamo, appena si toglie il pantalone calpesta delle tracce di sangue sul pavimento, quindi mette gli zoccoli. Sulla soglia della stanza però se li toglie, perché capisce che non deve lasciare tracce in giro. Lì si vede la lucidità di chi ha compreso la gravità del suo gesto. Si lava le mani e il viso93. Si veste. Lascia le ciabatte da qualche parte, forse capoAda non noterà alcuna traccia di sangue sui vestiti o su viso o capelli, né tanto meno la vedrà Daniela. 93

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volte per non lasciarle sporcare col sangue… Esce, accostando solo la porta”. “Sai cos’è? Certe volte coviamo rabbia e rancore dentro di noi e lo mascheriamo benissimo. Sappiamo farlo, noi esseri umani; sappiamo farlo per anni. Magari facciamo vedere una minima parte di ciò che proviamo, ma dentro è un ribollire. Chi è fuori può stare con noi ogni giorno, ma non può vedere, non sa vedere. Siamo umani: sappiamo manipolare, sappiamo mimetizzarci, sappiamo fingere. Anni dopo ti accorgi che tua cugina, tuo padre, tuo figlio, tuo marito, il tuo amico non sono quelli che credevi. Ma perché la gente se ne stupisce sempre, quando tutto questo diventa un delitto?”. “Così è stato. In una grande famiglia che tutto protegge e dove tutto si tiene, nasce una figlia con le sue insicurezze e il suo bisogno di protezione, che vuole creare e avere intorno quel senso perfetto di protezione e calore che ha sempre avuto e che è parte di sé. Vuole ricreare quell’ambiente, il solo dove sta bene, quello che le hanno insegnato. Ci riesce, raggiunge il suo ideale, crea il suo paradiso terrestre. Moglie e madre che si realizza nella sua casa, nel suo matrimonio, nei suoi figli. Ma l’ultimo pezzo di quell’incastro forse proprio perfetto non è, diventa uno stress, diventa fuori posto, rovina il quadro, lo incrina. Rischia di essere dissonante, trasformando lei stessa nel pericolo gravissimo di una delusione per sé e per la sua famiglia. Nella paura di essere rifiutata, perché difettosa anche lei. C’è un disturbo psichico in lei, c’è da tanto ma nessuno lo sa. Una mattina, senza sapere come, Annamaria si ritrova là dove la luce lascia il passo all’ombra: al crepuscolo, appunto. La coscienza è al suo confine, come la montagna quando stende la propria ombra nera sul terreno e lo divide in due. Parte per un viaggio di qualche minuto. Un sogno violento, come attraversare una piazza stranamente vuota. Un’allucinazione, forse. Qualcuno la chiama ‘l’ora che non ha sorelle’, il momento unico in cui la mente viaggia altrove per ristabilire il suo equilibrio, in cui cerca la pace e non ha più tempo per farlo. C’è un solo modo. Il pezzo difettoso va eliminato. Così è stato”. “Rientra e accosta nuovamente, senza chiudere a chiave, ha fretta. La breve notte di Annamaria è finita, il black out è ter-

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minato. Nei pochi minuti in cui è uscita il sangue si è già essiccato e infatti quando rimette a posto gli zoccoli sul pavimento dell’antibagno non lascia tracce. Ma l’arma?”. “E chi lo sa. Certo, nessuno perquisisce Annamaria, in quel momento. Perché avrebbero dovuto? Non era sospettata. L’arma me la immagino che finisce nel suo zainetto. Se tutta la zona è stata successivamente invasa da carabinieri, vicini e quant’altro; se è stata perquisita nei giorni successivi, se lei è l’assassina, allora c’è poca scelta. Mi immagino che se ne sia disfatta nelle ore successive, in qualche cassonetto o cestino. Non sapremo mai cosa poteva essere. Certo sembra difficile che si tratti di un oggetto casalingo, visto che, almeno stando a Stefano, non manca nulla”. “E Samuele è sopravvissuto alle ferite per quasi un’ora. Purtroppo Viglino non ha detto tutte cose sensate: non c’era nessuna reviviscenza e il calcolo dei minuti era sballato. Il bambino è morto durante il trasporto in elicottero, altro che”. “Però, una cosa, Fabio: ogni anno i figlicidi ci sono, ma ci dev’essere un perché ci ricordiamo proprio di Cogne. Ci ho pensato. Certo, la madre che uccide il figlio (e in quel modo) per noi italiani è un colpo al cuore. Poi il luogo: la casa isolata, il paesino stile Heidi dove il Male non dovrebbe arrivare nemmeno nelle favole. E poi, Annamaria che come madre infanticida è fuori parametro. La madri infanticide spesso, nel 56% dei casi, prima o poi crollano e confessano: Annamaria non ha fatto né l’una né l’altra cosa. Forse dovremmo vedere anche come è stata sentita nei giorni successivi all’omicidio, no? Poi, vivono esperienze disagiate, uccidono nelle prime settimane dal parto, sono madri di 15/18 anni, con un partner violento, un gruppo famiglia disgregato. La Franzoni è totalmente fuori casistica. Il 70% di loro manifesta già da prima disturbi mentali, lei no. Lei è il contrario e anche per questo Cogne ci ha travolti: era l’ultimo posto dove aspettarsi di trovare il sangue d’un bambino sul soffitto. E queste eccezioni alla regola hanno confuso molto le acque. Hanno impedito di riconoscere in lei una potenziale assassina. Ecco perché cercare una logica in questa storia funziona fino a un certo punto. Sì, quella mattina d’inverno a Cogne è successo l’incredibile; e nel modo più incredibile”.

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Annamaria è stata condannata con pena definitiva a 16 anni di carcere94. Ne ha scontati 6 e 11 mesi ed è ai domiciliari. Dal luglio 2019 sarà una donna libera, ammesso che lo sarà mai davvero. Il Tribunale di Torino l’ha condannata per calunnia ai danni di Ulisse, poi è arrivata la prescrizione. La casa di Cogne è ancora dei Lorenzi, ma da allora è rimasta disabitata. In paese, di quella storia, non vogliono più sentir parlare. Ma, da qualunque punto della Val di Cogne, come ti giri, la casa la vedi; è lì, aggrappata alla montagna. Non se ne va. In silenzio, immobile, ferma come l’altalena che sta sul retro, nel freddo. Sta lì. Non se ne va dai nostri ricordi. Samuele Lorenzi è sepolto nel cimitero di Monteacuto, in una tomba senza nome e senza volto, per evitare gli ultimi selfie degli ultimi turisti dell’orrore.

94 La perizia d’Appello aveva stabilito che Annamaria aveva dei problemi psichici, ricordate? Per i periti era seminferma di mente, per la Corte no; quei problemi sono stati insomma ritenuti qualcosa di meno grave, non sufficienti per dare la seminfermità ma sufficienti per costituire un’attenuante. E siccome le attenuanti erano pari alle aggravanti e si era in un rito abbreviato, c’è stato lo sconto di pena di un terzo, più 3 anni tolti per l’indulto. Ecco come i 30 anni del primo grado sono diventati 16. Usufruisce dei domiciliari come beneficio per le madri che hanno figli minori dei 10 anni.

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Capitolo 12

Un’amnesia ad arte

Stiamo andando verso Erba, belli carichi di dubbi e di dati certi. Alcune cose ci tornano, altre no. Vogliamo capire. Apparentemente la faccenda è semplice, ma alcuni fatti sono molto molto contraddittori tra loro. Volevo dare un’occhiata al navigatore dello smartphone ma Armando si ostina a non usarlo: mai vista una persona così dentro la tecnologia e così tradizionalista. Da qualche parte dev’esserci la Dora Baltea: uno di quei fiumi il cui nome ti si stampa in testa all’ora di geografia, alle medie, fino a diventare qualcosa di mitologico. E invece, esiste davvero. Come Hône, che stiamo superando adesso. Intorno sfila un mondo ordinato di casette, muretti in pietra a secco, montagne a ogni sguardo e la vita, che diventa bianca di neve. Tre ore di strada non ce le leva nessuno. “Ci metteremo una cifra”. “Ah sì? E perché?”. “Due incidenti più lavori in corso dalle parti di Sesto San Giovanni”. “Hai acceso il cellulare? Ma come ti sei permesso? Chiudi subito quell’app del diavolo, ma come puoi goderti un viaggio con il sottofondo di una voce metallica che ti dice cosa fare? Comunque arriveremo prima del buio, penso…”. “Ma stai girando destra! Da Ivrea dovremmo andare verso Milano, non verso Torino!”. “Effettivamente la strada per Erba è quella… ma volevo farti vedere una cosa, dammi qualche minuto”. Il concetto di minuti in Armando è del tutto soggettivo. Quasi un’ora dopo ci troviamo davanti alla Certosa Reale, a Collegno. Armando ferma la 147 e inizia… “Qui parte la storia più curiosa e controversa dello scorso secolo. Una storia che lega due argomenti a noi cari: la memo-

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ria e la Scientifica. Ci troviamo nel 1926. In realtà la storia inizia a poche centinaia di metri da qui, nel cimitero di Collegno; nella parte israelitica, in cui viene fermato un uomo di circa 45 anni con un cappotto un po’ ‘gonfio’. Da sotto quel cappotto cade, infatti, un vaso in rame. Portato in Questura rifiuta di dare le sue generalità, dicendo di non saperle, dà in escandescenza colpendo con la testa i muri appena ne ha occasione e ripetendo a voce alta ‘sono un povero disgraziato’”. “Qualcosa mi dice che stiamo parlando dello Smemorato di Collegno, una storia incredibile… che purtroppo si ricorda solamente per il film che interpretò Totò”. “Vero. La Polizia segnala l’uomo misterioso e gli prende le impronte digitali; il cartellino segnaletico di allora era pressoché identico a quello dei nostri giorni, fotografia fronte-profilo, dati somatici riportati in forma sintetica e poi le impronte digitali. E qui arriva il primo problema, appunto: le impronte digitali. Visto che non si trattava di un reato grave, non vengono trasmesse a Roma al Casellario Centrale d’Identità, ma rimangono solo a livello locale, cioè Torino. La ricerca viene quindi fatta solo all’archivio di Torino e dà esito negativo”. “Adesso sarebbe stato differente”. “Sì, certo, con l’avvento dell’AFIS, l’Automated Fingerprint Identification System, il caso si sarebbe risolto in pochi minuti. Ma in realtà sarebbe bastato aspettare qualche anno, quando tutti i cartellini segnaletici, qualunque fosse stato il motivo del segnalamento, sarebbero confluiti al Casellario Centrale. Sarebbe bastato questo e subito avremmo avuto l’identificazione: ma non è successo. Lo Smemorato viene quindi ricoverato al Manicomio di Collegno, che all’epoca si trovava nella Certosa che abbiamo davanti: e qui diventa il paziente numero 44170. Passa qualche mese, siamo nel febbraio del 1927, e la foto dello Smemorato viene messa di profilo sull’edizione della Domenica del Corriere nella rubrica: ‘Chi l’ha visto?’. Ovviamente era per vedere se qualcuno lo riconosceva, visto che lui non sapeva dire chi fosse”. “Già da allora c’era Chi l’ha visto?”. “Sì, ma non c’era ancora la nostra Federica Sciarelli. A quel punto, che succede? Varie persone scrivono al giornale

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o direttamente al manicomio di Collegno; ricordiamoci che non era finita da tanto la prima Guerra Mondiale e il prezzo di sangue che aveva pagato l’Italia era stato veramente alto, moltissimi non tornarono mai dalle loro famiglie… dispersi e mai ritrovati. Tra i più convinti nello scrivere ci fu il professor Orlando Gastaldelli di Verona, che nella foto riconobbe il proprio amico Giulio Canella, professore emerito di Filosofia, Capitano del 64° Fanteria, disperso durante una battaglia sulla cresta del monte Kroenasten in Macedonia nel novembre del 1916, dieci anni prima. Era così convinto della somiglianza che mise nella lettera la fotografia della moglie di Giulio, Giulia Canella”. “Stesso cognome?”. “Sì, Giulia era la figlia del cugino carnale di Giulio, un matrimonio tra consanguinei non proprio ben visto. Comunque, a parte questo, fanno vedere la foto allo Smemorato e questi cosa fa? La prende e la trattiene con sé: l’unica foto tra le tante arrivate che gli suscita questa reazione. Viene avvertito Renzo, il fratello di Giulio, che lo va a trovare, non si sa molto di questo incontro ma non sortisce un grande entusiasmo da parte dei due. È la volta quindi della moglie, Giulia, che si reca al manicomio il 27 febbraio 1927. All’inizio lo osserva senza che lui la veda ma, secondo quanto dirà in seguito, appena lui si alza e può vederne il portamento e il fisico non ha dubbi… una scena commovente, un misto di abbracci e preghiere per il marito ritrovato”. “Se non ricordo male la storia, ci fu anche una cartolina trovata in tasca allo Smemorato riportante la scritta ‘Al mio caro babbo’ e la signora Canella che vi riconosce la scrittura infantile del figlio Giuseppe, una cartolina che aveva affidato alla Croce Rossa con la speranza che potesse giungere al marito disperso in guerra”. “La cartolina fu sicuramente un elemento importante in quel momento. Intanto è passato più di un anno dal furto nel cimitero. I due iniziano a passare quindi più tempo insieme fino a quando addirittura il direttore del manicomio gli permette di passare una notte insieme in un albergo di Collegno. Arriva il giorno della liberazione, è il 2 marzo del 1927, finalmente

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quello che è ormai il professor Canella può riabbracciare i due figli, Giuseppe detto Beppino, e Rita che hanno entrambi poco più di 10 anni”. “Tutto è bene quello che finisce bene, si direbbe”. “Esatto, ma non andò così… intanto qualcuno fa notare al direttore del manicomio una cosa leggermente importante e cioè che lo Smemorato era comunque internato per aver commesso un furto: c’era un discorso penale da rispettare e quindi lo vanno a riprendere pochi giorni dopo. E poi succede una cosa inaspettata, esce fuori la seconda moglie dello sconosciuto, la signora Rosa Negro: ‘Lo sconosciuto è mio marito, Mario Bruneri’.

La fotografia segnaletica di Mario Bruneri

“Un bel tipino il Bruneri, se non ricordo male. Nato a Torino nel 1886, garzone e poi tipografo, e con qualche precedente penale, più che altro legato alla truffa. Girovaga un po’, ad esempio a Genova, dal 1923 al 1925, si fa chiamare Raffaello La Pegna e ha una relazione con una ragazza, Camilla Ghidini, che poi lo caccerà nei guai… ma lo vedremo in seguito. Si

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trasferisce poi a Milano per diventare Alfonso Minghetti, qui si fa aiutare da un prete per avere delle referenze. Si annoverano anche un paio di tentativi di suicidio, diciamo che non si fa mancare nulla. Ma vuoi sapere una cosa curiosa? Anche il figlio di Bruneri si chiama Giuseppe ed ha 14 anni, il ragazzino ricorda bene di avergli scritto pochi anni prima, in occasione del suo onomastico”. “Il suo mestiere di tipografo e la sua passione per i libri, specialmente in gioventù, spiegano la sua cultura varia, ma non molto precisa. Nel periodo che passa da internato, scrive libretti, lettere e tanto ancora”. “Sì, ed è qui che se ben ricordo inizia una vera e propria processione per capire se lo Smemorato sia il professor Canella o il tipografo Bruneri. Si succedono la bellezza di 69 persone, di cui, visto che ti piacciono le statistiche: 45 propendono per Bruneri; 3 per Canella, 2 indecisi e 19 per il ‘non Canella’. Diciamo che le urne si chiudono con la ‘vittoria’ di Bruneri. E tra chi non lo riconosce per Canella c’è addirittura padre Agostino Gemelli, che nel 1907 aveva collaborato con il professore per una rivista; e non si erano lasciati in buoni rapporti. Ma non ci si ferma solamente ai riconoscimenti. Intanto diciamo che la famosa cartolina era stata stampata nel 1920 e quindi non poteva essere stata inviata dalla signora Canella, come asseriva, nel 1919. Poi si arriva alla Polizia Scientifica, finalmente. Viene incaricato il dottor Sorrentino, che abbiamo già conosciuto nei sopralluoghi delle vittime del Mostro di Roma95 di: ‘Accertare se le impronte digitali dell’individuo fermato nel manicomio di Collegno siano identiche a quelle dell’individuo che fu rinchiuso nelle carceri giudiziarie di Torino il 21 gennaio 1920, il 29 luglio 1920 e il 14 gennaio 1922 e di accertare se l’orecchio destro dello sconosciuto di Collegno si identifichi con quello di Bruneri Mario o del capitano Giulio Canella’”. “Vedi, adesso ti mostro il telegramma con cui viene sollecitato l’accertamento a Roma. E la Polizia Scientifica arriva a una conclusione precisa: lo Smemorato è Bruneri”. I nostri lettori lo hanno già incontrato in “Un mostro chiamato Girolimoni”, Sovera, 2011. 95

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“Finalmente la storia termina! Ok, proseguiamo con la nostra strada e andiamo a Erba”. “Ti piacerebbe, ma non termina affatto. È questo il punto che ti dicevo prima, vennero messi in discussione gli accertamenti della Polizia Scientifica, per essere precisi venne fatta una comparazione sia dattiloscopica e anche fisiognomica, mettendo in comparazione le fotografie di Bruneri, di Canella e dello Smemorato, insomma non dovrebbero esserci dubbi. E invece no, inizia una lunga storia giudiziaria che si concluderà solo nel 1931, dopo ben 4 sentenze. Ti rendi conto, le impronte a livello identificativo venivano universalmente utilizzate da circa 50 anni, eppure si dubitò della loro valenza identificativa? Ottolenghi, il padre della Polizia Scientifica, scrive in una monografia: Dal momento dell’arresto nel Cimitero si iniziò una “nuova vita pel Bruneri che ha del meraviglioso, del fantastico, nuova vita che comprende diverse personalità. In un primo periodo il Bruneri simula la personalità di de-

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mente amnesico coi medici del manicomio; poi di fronte agli avvenuti riconoscimenti il Bruneri assume gradualmente una nuova personalità, quella del Canella, prima del manicomio, approfittando con fine astuzia di tutte le notizie che gli provenivano dai familiari e amici di casa Canella, poi nella vita colla famiglia Canella. L’interessante è che cercando di personificarsi con quella del Canella, il Bruneri filosofo, poeta, autobiografico è andato assumendo una personalità, che sempre più si allontanava da quella del Canella e ne assumeva una nuova originale le cui basi erano pure quelle del Bruneri; i cui atteggiamenti si orientavano alle circostanze imposte da una parte dalla lotta impegnata, dall’altra dalla convivenza coi Canella e dalla formazione di una nuova famiglia, la nascita di tre figli”. “Ma alla fine però una sentenza definitiva c’è stata”. “Sì, quella che ti dicevo del 1931 dove si sentenzia che lo Smemorato è Bruneri. Pensa che gli avvocati dei Canella erano il leggendario Carnelutti e Farinacci, che da poco non era più il segretario del partito fascista. Comunque, nell’attesa delle varie sentenze, lo Smemorato aveva intanto generato due bambini, Elisa nel 1928 e Maria Beatrice nel 1931. Anche lì puoi immaginarti altri problemi per l’iscrizione all’anagrafe, quindi altre storie giudiziarie visto che non era previsto, allora, il riconoscimento come padre di un ‘qualcuno’ che non fosse il marito della partoriente. Dopo la sentenza definitiva Bruneri - ovviamente adesso è il caso di non chiamarlo più Smemorato - rimane nel carcere di Pallanza fino al maggio del 1933, quando Vittorio Emanuele III concede il condono. È la volta quindi del Brasile, dove si trasferiscono tutti i Canella… e dove Bruneri morì nel 1941”. “Mi ricordo che ultimamente è stato riaperto il caso, venne fatta una indagine biologia sugli eredi del Can… Bruneri, ecco diciamo, di quello che andò in Brasile”. “Sì, venne ripreso un punto interessante per cui la difesa si batteva già da allora. Vero è che le impronte del cartellino segnaletico di Bruneri corrispondono a quelle dello Smemorato, ma venne ipotizzato che, il giorno di uno degli arresti di Bruneri, quello del 1920, nella sala d’aspetto della Questura di Torino si fossero trovate presenti due persone, Bruneri e Ca-

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nella - tornato dalla guerra con un’amnesia - e che Bruneri, per non lasciare le sue impronte digitali, avesse approfittato dell’amnesia e della somiglianza tra loro per spingere il professor Canella nella stanza dove si trovava il personale della Scientifica”. “Suggestiva ipotesi… però non venne creduta nei vari gradi di giudizio e fecero bene”. “E così, a distanza di circa 80 anni, ecco che la trasmissione ‘Chi l’ha Visto’ ha fatto confrontare a livello genetico il DNA degli eredi di Bruneri con quello degli eredi di tutti i figli della signora Canella, sia quelli avuti con il Professore che con lo Smemorato96”. “… E?” “E lo Smemorato era Bruneri: ed aggiungerei io, come anche lui stesso ha sempre saputo. Ma non ti ho fatto vedere tutto”. “Sei un essere infingardo”. “Ok, appena compro un vocabolario ti rispondo per le rime, intanto vedi questa, è una lettera della Canella alla Bruneri, leggi quello che le scriveva nel 1929: ‘Torno con questa a ripetervi la proposta già fattavi, sarei disposta a versarvi quella tal cifra… tutto ciò unicamente per una sola e semplice cosa, non dovete riconoscere il vostro congiunto, in fondo lui è felice così e potreste sempre ricevere un aiuto… non vi nascondo che resto in grande ansia’. Anche lei sapeva benissimo, allora”. “A proposito, ma, secondo te, avrebbero potuto scoprirlo, Bruneri, oggi come oggi? Dna e impronte a parte, voglio dire”. “Bella domanda. Anche oggi poliziotti e giudici possono essere ingannati facilmente da un mentitore abile, che sa bene come fare: con uno di basso livello non ci cascano, ma qui parliamo di Bruneri, che era chiaramente molto, molto abile e sapeva improvvisare. Ad esempio, uno psicologo che periziasse oggi il tipografo ne studierebbe il non verbale: un’arma importante per scoprire la menzogna, perché spesso non è controllato dall’interrogato, che si concentra molto di più sul verbale e sull’espressione del viso. È molto difficile alterare intenzional96

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Se ne è occupata una delle migliori genetiste italiane, Marina Baldi.

mente gli aspetti non verbali della nostra comunicazione, sai? Alla fine ti tradisci. Però anche qui devi trovare quello che sa leggere questo linguaggio: tutti pensano che la menzogna sia riconoscibile dal nervosismo, la bocca secca, il piangere, lo sguardo distorto, il toccarsi spesso, dal sorridere nervosamente, dal fare molte pause, dal tono acuto della voce (che avviene involontariamente perché, in stato di tensione emotiva, le corde vocali si restringono). E invece…”. “E invece?”. “Invece, potrebbero anche essere una banale dimostrazione che la persona è semplicemente sotto stress. Solo un mentitore di serie B si fa sgamare in questi modi. Però ci sono quelli bravi, professionali, come ti dicevo… L’esigenza di controllare bene il proprio discorso fa sì che questi mentitori siano molto in controllo, per cui azzerano tutti questi stereotipi. Anzi: ti guardano in faccia, sorridono, interagiscono. Bruneri dev’essere stato uno di questi. Ma poiché il volto è più controllabile del corpo, come ti dicevo, che succede? Che il bravo mentitore si concentra sul viso e spesso dimentica del tutto la postura che assume. Quindi dovremmo cercare segnali di menzogna nelle mani e nei piedi, piuttosto che nel volto e nella voce: anche il bugiardo esperto, infatti, potrebbe tradirsi muovendo mani e gambe (per toccarsi i capelli, grattarsi il naso, tamburellare con le dita) molto meno delle persone normali. Essere più rigido, insomma. Inoltre, il sorriso del mentitore, sai com’è? Asimmetrico (sorride solo con la metà inferiore del viso). Pazzesco, eh?”. “Pazzesco! Ma tu dici che anche nel verbale uno esperto si può tradire, oppure no?”. “Può farlo, certo. Per scoprirlo bisogna stare attenti a queste cose. Sono quelli che Inbau chiama ‘Indicatori dell’inganno’. Allora: innanzitutto, chi mente racconta i fatti in sequenza, molto ordinatamente, fa un bel compitino insomma… mentre chi è sincero va avanti e indietro nel racconto, si ricorda le cose di colpo e le inserisce quando può. Poi, chi mente non trasmette emozioni nel suo raccontare e la quantità di dettagli che riferisce non è disposta omogeneamente ma cambia nei punti del racconto. Ha dei vuoti temporali (nei punti scomodi del

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racconto): salta le parti che non sa come spiegare. Il mentitore abile si esprime in modo scorrevole, con sicurezza, usa parole definitive come ‘assolutamente, certamente, veramente’, ripete sempre uguale la sua storia, senza dimenticarsi o ricordarsi mai particolari nuovi”. Armando accende il motore. Ci pensa un attimo su e poi parla, guardando il vecchio manicomio. “Sai che ti dico? E se fosse stata una scelta di opportunità non solo per lui ma anche per lei? Da parte di lui, sicuramente; era un tipografo squattrinato che andava avanti a espedienti, che da tempo aveva abbandonato la famiglia, viveva di truffe. In questa situazione trova una ragazza carina e ricca che lo riconosce come marito. Un’occasione unica, direi. Però, ci pensi che Bruneri ha passato tutta la vita a fingere di essere un altro? Chissà se alla fine si era davvero convinto di esserlo”. “Chissà! Però hai ragione, è stata una scelta d’opportunità anche da parte di lei. Siamo nel 1927, una vedova, anche se benestante, con due bambini piccoli aveva comunque molte difficoltà. Poi, pensiamoci bene: al posto di un severo professore di filosofia si ritrova un ‘tizio’ con l’arte di arrangiarsi, eclettico ed istrionico, diciamo che era sicuramente più simpatico, no?”. “Dai che ti ho fatto perdere solo poco tempo. Adesso si riparte: destinazione Erba”.

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Capitolo 13

Quella notte a Erba

“Visto che non posso nemmeno vedere la strada tramite il navigatore del cellulare e abbiamo tempo, riepiloghiamo la cosa dall’inizio?”. “Prima di riepilogare, hai notato che in fondo si assomigliano, Erba e Cogne?”. “Come, scusa?”. “Beh, sì. Tutto è successo in un quarto d’ora o poco più, tutto è successo in pochi metri quadri, tutto è stato veloce, compresso. Sono due delitti claustrofobici, solo a parlarne mi manca l’ossigeno”. “Allora apri il finestrino, c’è una bell’aria di montagna”. “Sei insopportabile… e non faceva ridere. Allora: siamo a Erba, provincia di Como. È l’11 dicembre 2006. In via Volta 50 c’è un signore davanti alla tv, si chiama Vittorio Ballabio; sua moglie, Monica, siccome hanno finito di cenare, apre la portafinestra del piccolo balconcino che dà sulla corte, per scuotere la tovaglia. Vede fumo nero uscire da una finestra della palazzina di fronte”. “Che ore sono?”. “Ballabio dice che la tv faceva le 20.20. Esce e va da un vicino, Glauco Bartesaghi, che abita al 48 di via Volta, perché sa che è un vigile del fuoco volontario97. Glauco apre la sua finestra, vede il fumo, dice alla moglie di chiamare il 115, si mette gli scarponcini professionali e, con Vittorio, attraversa la strada e corre al civico 25. Dal cancelletto sbuca in cortile e gira a sinistra, poi entra in un portoncino aperto98: sta seguendo il fumo nero. Sale svelto le due rampe di 11 e 7 scalini Fa il volontario da oltre vent’anni. Il portoncino della palazzina era guasto da diverso tempo o funzionante a seconda delle dichiarazioni dei diversi abitanti del cortile. 97 98

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fino al primo piano, mentre l’altro va a procurarsi un piccolo estintore. Per alcuni minuti Glauco è solo. Racconterà che la luce delle scale doveva essere accesa quando è entrato (tu sai perché te lo ricordo), tuttavia alla fine non esclude di averla accesa lui. Alla fine delle due rampe, avvolto dal fumo nero, trova un uomo a pancia in su, con la testa a cavallo della porta dell’interno 5 e i piedi sul pianerottolo. Indossa tuta e ciabatte. Ma cosa ci fa lì? Potrebbe morire! Lo tira verso le scale per non fargli respirare fumo. Ha sangue in faccia e sul collo. Entra nell’appartamento, nel buio; un po’ di luce arriva dal riverbero dell’incendio, ma sono fiammate rosse e gialle che non riescono a illuminare anche le scale. Fa qualche passo, i polmoni si gonfiano dell’odore di bruciato, vede una ragazza sdraiata a pancia in su, con la testa verso l’interno dell’appartamento. La ragazza brucia. La spegne usando i suoi stessi indumenti. Trascina anche lei sul pianerottolo, con lo sforzo enorme di portare un corpo abbandonato. Cerca di rientrare, ma tossisce, respirare è impossibile. Non riesce a vedere cosa c’è in corridoio. Il fumo lo spinge fuori. La casa ha fuliggine sulle pareti, pezzi di carta bruciata che volano, la plastica degli interruttori che si sta aggrinzando e una polvere nera che si sta depositando sulle riviste, sulle mensole bianche, sulla cucina, sul quel fogliettino quadrato con scritto ‘olive tonno prezzemolo limone’; e poi la cenere. La cenere. La cenere. Questo Glauco non lo può vedere, è troppo distante da quella cucina, ma vede Vittorio: è alla base della seconda rampa di scale. Si guarda le mani: sono sporche di sangue. In quel momento i due uomini sentono una donna che chiede aiuto per tre volte, la voce99 proviene dal piano di sopra. Ma allora c’è qualcun’altro ancora vivo! Glauco ci prova a fare questi altri 18 scalini e sale tenendosi al muro e al corrimano, senza vedere bene dove mette i piedi. Arriva fino all’ammezzato, ma è come se avesse corso per un chilometro. Deve fermarsi: fumo. Riscende, è al limite, Vittorio gli passa quel piccolo estintore per auto che ha trovato, lui fa un ultimo tentativo, un respiro ed entra in casa. Glauco, riferendosi a questa voce, l’ha definita di volta in volta come grida o come lamenti. 99

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Lo aziona in camera da letto, dove le fiamme sono più intense, ma non serve a niente. Là dentro è l’inferno. Da quando è entrato non sono passati più di 5 minuti, occhio e croce. Via, bisogna andare… Scende e vede la famiglia siriana che abita a piano terra: sta fuggendo. Poi con Vittorio sposta la Lancia K nera che sta davanti al portoncino della palazzina, per permettere ai soccorsi di posizionarsi100. Facile: ci sono le chiavi nel quadro. C’è anche la moglie di Glauco nel cortile: il marito le chiede di chiamare sia il 118 che i carabinieri, perché quello che ha visto sopra è sangue. Queste sono, per infiniti minuti, le uniche tre persone a sapere che dentro ci sono quattro vittime, vive o morte101”. “L’uomo sul pianerottolo è vivo, ancora lucido, ai soccorritori del 118 indica, con le dita della mano, le scale che portano di sopra, dove si sentiva la richiesta d’aiuto. Ha atteso lunghi minuti nel buio e nel fumo, mentre sentiva la vita colare via dal collo e la morte salire lentamente le scale. Poco dopo, al piano di sopra, dal buio dell’interno 5, le torce dei Vigili del Fuoco illuminano anche una donna. La porta è rimasta spalancata su questo cadavere, inginocchiato e rannicchiato su se stesso: è quella che aveva gridato. A questo punto, il cortile s’è riempito di questo mondo e quell’altro. Vigili, sanitari, carabinieri. Nessuno dormirà più, quella notte in via Diaz. Perché al primo piano del 25/C c’è stata una strage”. “Allora, intanto sarebbe molto carino da parte tua se ricordassi chi sono le vittime”. “Ci mancherebbe, figurati. La ragazza è Raffaella Castagna. 30 anni. Lavora in una comunità di Longone al Segrino, Villa Cusi102. Sposata dal 2003 col tunisino Azouz Marzouk103 Non è chiaro se l’auto sia stata spostata prima o dopo di entrare. Glauco sa che in quella casa c’è anche un bambino. 102 Villa Cusi è una Comunità protetta a media assistenza per pazienti psichiatrici. Raffaella ci lavorava da un anno e mezzo, part time, come educatrice. 103 Matrimonio contrastato, per ragioni religiose e per i precedenti penali di Azouz: i Castagna non erano andati alle nozze. Negli ultimi mesi i fratelli di Raffaella, racconta Azouz, non le parlavano più perché lei aveva chiesto un anticipo sull’eredità per potersi trasferire in Tunisia col marito e avviare lì un’attività imprenditoriale. 100 101

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si sta avvicinando all’Islam104. Suo padre è un mobiliere molto noto in zona, anche per le sue attività benefiche. Raffaella, quella sera, è arrivata alla stazione di Erba alle 19.48 ed a prenderla c’è andata un’altra delle vittime, Paola Galli, 57 anni, sua madre. 5-6 minuti e sono in via Diaz 25/C. Diciamo quindi alle 19.55 circa. La Lancia K è la sua, in particolare del marito, ha lasciato le chiavi nel quadro perché sale su giusto un attimo. Poi c’è Valeria Cherubini, la donna del piano di sopra, 55 anni, quella che dovrebbe aver chiesto aiuto. L’uomo, che viene soccorso e spostato sul pianerottolo, invece è Mario Frigerio, 65 anni, marito di Valeria. Abitano al piano di sopra in una mansarda, da 4 anni. Infine, c’è Youssef Marzouk, il bambino. Ha solo 2 anni e assomiglia molto a suo padre, viene ritrovato senza vita là in fondo, nel soggiorno, sul divano. Ah, e poi c’è il cane dei Frigerio, Martina. Muore per avvelenamento da ossido di carbonio, accanto alla padrona. E partono le indagini”. “Sì, in due direzioni. Ovviamente non è stata una rapina, non manca niente e bruciare tutto non ha senso. La prima direzione, allora, è quasi scontata: è stato l’uomo nero. La ragazza, infatti, è sposata con un tunisino. A mezzanotte il Procuratore Capo della Repubblica fa il passo più lungo della gamba e dice che lui è il principale sospettato: evidentemente nessuno crede a suo fratello, che ripete che sta in Tunisia. Scatta la caccia a Marzouk, che peraltro ha precedenti per spaccio. Solo che poi a mezzogiorno del giorno dopo si scopre che l’uomo nero dal 2 dicembre precedente è davvero all’estero. Niente da fare. Ma quella notte ci sono altri due sospettati: abitano a piano terra, quasi sotto l’appartamento della Castagna. Vengono fuori perché in caserma ad Erba qualcuno si ricorda che hanno una lunga storia di liti con la ragazza: addirittura sono arrivati a pedinarla in auto il 3 gennaio precedente105. Dichiarerà Luigi Lazzarini, anche lui abitante in quel cortile: “Nell’ultimo periodo [Raffaella N.d.A.] continuava a ripetere a Youssef di stare attento, di non fare ruCarlo Castagna dice che sua figlia era ancora cattolica, una collega di lavoro testimonia che si stava avvicinando ai riti e alla fede del marito Azouz, ad esempio provando a rispettare il Ramadan. 105 Come risulta dal verbale dei Vigili Urbani. 104

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more, era terrorizzata dall’idea di litigare con i Romano’. E così circa alle 2.30 di quella notte, mentre ancora l’odore del fumo è nell’aria, i militari bussano alla loro porta, che dà sul cortile: sono Olindo Romano e Rosa Bazzi. Uno che si chiama Olindo non te lo scordi più, c’è poco da fare”. “Vediamo cosa ci aspetta a Erba. Il numero 25 di via Diaz contrassegna un ampio varco, protetto da una cancellata, costituita da 3. I due laterali, pedonali, e quello centrale, carrabile. In realtà c’è a destra un ulteriore passaggio pedonale, magari un tempo era il punto dove si posizionava il guardiano, non so. Il cancello carrabile di giorno è quasi sempre aperto, fatto da non trascurare. Una volta entrati ci si trova in una corte molto carina, contornata da case basse, gialle, con il tetto in tegole rosse, molto tipica, se non ricordo male gli appartamenti che danno sul cortile sono 25. Entrando, subito a sinistra, abbiamo una palazzina a un piano che presenta 2 garage e due portoncini (al 25/A abita Lazzarini, al 25/B i Romano); e poi, proseguendo sempre a sinistra, la palazzina della strage, al 25/C. È un piano più alta e, sul cortile, dà con 3 finestre e il suo portoncino. Ora, il secondo garage della prima palazzina è di proprietà dei Romano così come il secondo portoncino è l’ingresso al loro appartamento; il garage è comunicante con l’appartamento ed è stato trasformato in un locale lavanderia”. “Lavanderia? Ma quante persone ne usufruivano, scusa?”. “Ecco, diciamo solo loro due: in realtà Rosa era maniaca della pulizia e ogni giorno metteva in funzione 1 o 2 lavatrici. Per essere precisi il locale era anche il loro ingresso principale, infatti accedevano solo da lì, si toglievano le scarpe su un tappeto e per casa erano solo in pattine o pantofole”. “Questo spiegherebbe anche una leggera mancanza di amicizie…”. “Effettivamente. L’appartamento, nella sua estensione destra, si trova sotto la camera da pranzo della Castagna e quello è il motivo delle loro liti, i rumori. Torniamo al cortile e in particolare al portoncino del fabbricato a due piani, quello dove si svolge la strage. Entrando, si trova: a piano terra due appartamenti, in uno vive la famiglia siriana -Khalouf Abdul

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Karim con la moglie ed i suoi due figli- mentre l’altro è di proprietà di Sam Amicucci, che però lo stava ristrutturando. Al piano superiore altri due appartamenti, quello di Raffaella Castagna e nell’altro vi è un affittuario, Pietro Ramon, un signore con grossi problemi di udito. Salendo ancora si arriva alla mansarda dove abitavano Mario Frigerio e la moglie Valeria Cherubini”.

La palazzina della strage, a destra il portoncino d’ingresso.

“Che poi, Armando, scusa, chi sono Olindo e Rosa? Sono i classici vicini di casa. Si fa fatica a pensare che c’entrino qualcosa. Olindo è figlio del 1962, Rosa Angela del 1963. Lui viene da una famiglia contadina, studia da geometra, si diploma col minimo sindacale, trentotto, è un ragazzo chiuso. Servizio militare negli alpini. Nel 1985 interrompe i rapporti con la famiglia dopo essersi picchiato col padre e un fratello per ragioni di eredità. Nel 1989 entra alla Econord di Figino Serenza, guida il camion del riciclo di plastica e vetro, turno dalle 6 alle 12. Rosa è la sua prima ragazza. Lei ha abbandonato la scuola dopo la 5^ elementare e fin da piccola soffre di asma e grandi emicranie. Al momento è ausiliaria addetta

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alle pulizie in ospedale e arrotonda come donna di servizio. La madre dice che parla troppo e lavora poco e che a 11 anni forse è stata molestata da uno zio. Con Rosa ha litigato, perché voleva casa sua per andarci con l’Olindo, mentre lei ovviamente non voleva andarsene. Insomma, Rosa e Olindo non hanno una famiglia, non hanno figli, amici, interessi. Hanno solo loro stessi. E il loro piccolo mondo, in via Diaz 25. Olindo e Rosa si materializzano più o meno alle 22.30106 in cortile, chiedendo ai Vigili del Fuoco di verificare se a casa loro fosse tutto a posto e potessero rientrare. Gli dicono sìssì, tutto a posto. Restano un po’ in cortile a guardare il disastro e poi chiudono la porta. Nonostante il caos dovrebbe disturbarli immensamente, si mettono a dormire presto (da quello che affermano), la sveglia di Olindo lo buttava giù alle 5. Sul comò c’è Wilbur Smith, sulle mensole libri sugli Ittiti, poi lo stereo compatto Aiwa, i quarzi sul centrino, i mobili di massello scuro, le classiche enciclopedie che stanno lì a prender polvere, i bicchieri dietro il vetro della credenza, la cucina rustica, i piatti alle pareti e gli elefantini di giada. Un angioletto Thune sul comodino. Nel cassetto della cucina ci sono 6 coltelli col manico nero, 4 in un altro: che manchi l’undicesimo?”. “Ma perché li sospettano, liti a parte?”. “Beh, innanzitutto per il loro atteggiamento poco congruente con la situazione. Mi spiego meglio, sono troppo calmi quando dovrebbero essere scossi dal sangue e dal fuoco che è successo a 30 passi da casa loro. Guarda, qui lo dice bene: ‘Volevano far credere di essersi addormentati da tempo, il che francamente appare alquanto strano se solo si pensa a tutte quelle morti atroci avvenute a pochi metri di distanza ed al fatto che il loro appartamento, più ancora di altri, aveva rischiato di essere attinto dalle fiamme di quel disastroso incendio. E nonostante questo, nessuno dei due aveva mostrato alcun interesse per l’accaduto diversamente da tutti gli altri abitanti della corte, né lui né lei avevano chiesto alcun chiarimento o delucidazione agli inquirenti’107. E poi i carabinieri, quando quella notte stessa 106 107

Li vedono sia Bartesaghi che Carlo, il padre di Raffaella. Dalla sentenza della Corte d’Assise di Como.

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un’assonnata Rosa apre loro la porta, sentono che la lavatrice va e chiedono: scusi, come mai? Poi chiedono dov’erano all’ora della strage e lei per tutta risposta subito va in camera da letto, e dalla borsa poggiata sul comodino prende uno scontrino del Mc Donald’s di Como, quello di via Plinio 2108. Riporta come orario le 21.37109. Sono le 3.30 quando i militari danno un’occhiata in casa e sequestrano gli abiti che si trovano nell’asciugatrice non ancora avviata -e quindi bagnati- nella lavatrice e in tre cesti in cortile. C’è roba bagnata, da stendere o stirare. Alcuni indumenti sono macchiati di rosso. Danno anche un’occhiata alla loro auto, così.110 Trovano due coltelli e una tanica di quelle per la benzina. Poi se li portano dietro in caserma, per le deposizioni di rito”. “Però il loro camper non lo perquisiscono, strano”, dice Fabio mentre la statale è già diventata un’autostrada. L’orizzonte è piatto e alla mia destra c’è una spalletta di cemento. Siamo in Piemonte e non ce ne eravamo nemmeno accorti. “Sì. Qui i militari notano che Rosa ha un cerotto all’indice della mano destra e Olindo un po’ di lividi: sul dorso della mano sinistra, nei pressi del dito medio e uno bello grosso sull’avambraccio. Insomma, qualche dubbio ce l’hanno e per non sapere né leggere né scrivere, mentre sono in caserma, gli piazzano delle microspie in auto e, dal giorno dopo, prendono ad ascoltarli anche mentre sono in casa”. “Ma questa cosa che non parlavano mai della strage è vera o no? Tu hai letto i verbali”. “Fabio, smentiamo subito questa balla. Non è vero che non ne parlavano mai. La stessa Corte d’Appello lo afferma in sentenza: in casa lo fanno con i Ramon, con la Messina (alla quale dicono di voler andare a trovare Mario in ospedale). Che poi c’è un fatto apparentemente curioso o sospetto per molti: dal 13 al 15 dicembre i Carabinieri non annotano nulla (precisaPer la cronaca: 8,25 euro. C’è una specifica annotazione del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Como che accerta uno sfasamento di 8 minuti in meno sul registratore di cassa, quindi l’ora reale, al momento dell’emissione dello scontrino, era le 21.45. 110 Ispezione fatta dal maresciallo Nesti e dall’appuntato Cardogna, l’auto era parcheggiata in Piazza del Mercato. 108 109

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mente dalle 20.51 del 12 alle 12.10 del 16) nei loro brogliacci e quindi non sappiamo se abbiano parlato dei fatti o no”. “Beh, la mancanza di annotazioni per ben tre giorni non può essere la base su cui sostenere che non abbiano commentato la strage, visto che comunque l’hanno fatto”. “E poi, comunque, un’intercettazione funziona su due livelli: nel primo vengono audioregistrati tutti i dialoghi che si svolgono, nel secondo vengono trascritte tutte le particolarità, quindi per chi ha fatto un primo screening non ci sono stati colloqui ‘sospetti’. Ma a parte questo, anche se la cosa sembra sospetta, non si pensa alla soluzione più semplice, almeno per quanto riguarda l’appartamento”. “E quale sarebbe? Ok, so che dopo mi dirai”. “Ovviamente. Ora, per quanto riguarda le intercettazioni in auto, l’11 è un lunedì, dal 12 al 15 la Seat la prende Olindo per andare a lavorare e si sposta da solo. I colloqui in auto, quindi, non esistono almeno fino al sabato, 16. Per quanto riguarda le ambientali non sempre forniscono elementi utili: devono essere ‘piazzate’ in posti utili, diciamo che non è facile. Le utenze cellulari, poi, verranno intercettate solo in un secondo momento”. “E comunque il 16 eccoli là che commentano, leggono i giornali, fanno ipotesi”. “Certo, e sai che ti dico? Che non è comunque, nemmeno questa, né una prova a favore né contro. Loro avevano sgamato il falso tecnico che era andato a controllargli il telefono, quindi…111”. “Quindi non avrebbero detto nulla, se fossero stati colpevoli. Alla fine però, gli elementi emersi finora dicono poco, no? Ad esempio, io a te ti vedo sempre conservare gli scontrini: li metti nel portafoglio. L’hai fatto anche al ristorante, ad Aosta. E poco fa alla stazione di servizio, quando ci ricordiamo di pagare ovviamente. Tra l’altro, Olindo spiega che lo scontrino è rimasto alla moglie perché è andata lei a prendergli il caffè, dopo. Far andare la lavatrice di notte, poi, non è un reato: Si capisce dall’intercettazione delle 14.40 del 12 dicembre: “Basta non parlare in casa… o che hanno toccato o che hanno messo qualcosa qua… può darsi, può darsi…”. Oppure quella delle 16.10, stesso giorno: “Ho idea che è proprio quello dentro casa però, perché lui ha smontato solo la cornetta…”. 111

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anzi, si risparmia in bolletta112. Lividi: lui guidava i camion della spazzatura, no? E lei faceva la donna a ore, no? Quindi l’atteggiamento dei Carabinieri, sospettarli insomma, è corretto - visto che non stavano messi bene con Raffaella - ma fin qui niente di strano”. “Così come non è strano o indicativo nemmeno l’atteggiamento tranquillo di Rosa e Olindo nei giorni successivi alla strage113. Come se gli assassini si riconoscessero sempre dall’agitazione del giorno dopo! Sarebbe facile catturarli allora! Invece un fatto insolito -ma anche questa non è una prova- è che fossero usciti, quella sera: l’ex vicina Daniela Messina già il 23 dicembre testimonia di essersi stupita moltissimo quando Olindo le aveva detto che erano stati a Como: ‘Lui passava la sera appoggiato alla sua auto a fumare sigarette. Qualche volta li ho visti, sì, uscire la sera, ma lo facevano decisamente di rado’. Anche il vicino di casa Lazzarini dirà lo stesso”. “Sì, comunque per dirla tutta, gli investigatori all’inizio scelgono la strada più ovvia, il marito tunisino. Il cambio di rotta avviene in corsa, anche se quasi nell’immediato, e io non credo che su questo abbiano sbagliato. Non è che ‘non stavano messi bene’ con Raffaella, era proprio una guerra aperta! Due anni di contenziosi e denunce reciproche. Poi il tutto si svolge in una corte chiusa, che lascia poco spazio agli estranei e c’è da considerare il tempo molto stretto in cui avviene il crimine. Poi le indagini devono e dovranno continuare, ma in quel momento la strada sembrava indubbiamente quella giusta”. “Piuttosto, cos’è quella roba che dicevi prima della luce delle scale?”. “Dunque, ci sono due cose sulla luce. Una riguarda il siriano, che sentendo rumori di sopra s’è piantato allo spioncino di casa sua e ha visto la luce delle scale accendersi e spegnersi tre volte. Un’altra cosa: ti avevo detto che mancava la luce in casa di Raffaella, no? L’Enel conferma: alle 17.40 si è verificata un’interruzione volontaria della corrente nell’appartamento. Rosa dirà che non era insolito che attaccasse la lavatrice di notte. “Faccio la lavatrice tutti i giorni, anche più d’una: ieri ho fatto il bianco, poi il colorato e poi gli stracci”. 113 Ne parla l’amica Nadia Cantoni. 112

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Qualcuno l’ha tolta, dai contatori. Perché? Per far lasciare aperta la porta di casa, al rientro, e quindi aggredire Raffaella, Paola e Youssef con l’effetto sorpresa”. “Questo sai cosa significa? Premeditazione, chiunque sia stato. Lo sai che in passato, Olindo aveva già staccato la corrente ai Castagna per dispetto, perché facevano troppo casino: lo testimonia Daniela Messina, l’ex vicina di casa114”. Non dico nulla, ma so che Fabio sente il rumore dei miei pensieri. “Scusa, ma le ferite invece… ci dicono qualcosa?” mi chiede, come risvegliandomi da un sogno. “Te lo dico come ci fermiamo, ho bisogno di accendere il pc. Ti faccio vedere”.

Che aveva abitato al piano terra, di fianco ai siriani, da settembre 2003 a settembre 2006. 114

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Capitolo 14

Scena del crimine con strage

Qualche chilometro più in là, rallento e freno a Villarboit Sud. L’aria fuori è ghiacciata. Entriamo in uno Chef Express che sembra una scatola blindata e Fabio accende il pc, mentre ordiniamo qualcosa di bollente. Iniziamo a scorrere l’autopsia. Siamo carichi di freddo e ci abbandoniamo a queste immagini. Né bugie, né pietà: solo la realtà, pura e dura. Dicembre ci ascolta, nevoso e instabile. Scola, il medico legale, deduce che gli aggressori sono 2, di altezze diverse, uno mancino, che portassero guanti, che le due armi da punta e taglio fossero una più grande e una più piccola, che il corpo contundente avesse lo spigolo smusso. “Vediamo prima la scena del crimine e poi parliamo delle ferite?”. “Sì, che siamo rimasti a metà sui luoghi”. “Abbiamo già accennato a chi abitava nella palazzina e abbiamo detto dove viene rinvenuta la vittima che si salverà, Frigerio. La scena del crimine vera e propria è l’appartamento della Castagna, salendo al primo piano la porta si trova di fronte, con apertura antioraria. Si entra in un corridoio che si estende trasversalmente a sinistra, dove si presentano, sulla parete destra (che per un esperto del crimine sarebbe quella anteriore), le porte di accesso rispettivamente alla camera da letto matrimoniale, al bagno (prima c’è un piccolo antibagno), alla cameretta del piccolo Youssef; infine, il corridoio comunica senza porta al soggiorno con angolo cottura dove, nel terzo destro della parete anteriore, c’è una porta finestra che affaccia in un piccolo terrazzino”. “Terzo destro della parete anteriore? Non ti riesce farla semplice, vero?”. “Va bene, davanti a destra, ora è più chiaro? Non mi distrar-

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re che perdo il filo. Il terrazzo è piccolo, davanti c’è il muro del fabbricato dove abitano i Romano, a destra via Diaz e a sinistra il cortile. Tutte le finestre delle stanze invece affacciano su via Diaz. Ora, la camera da letto è uno dei due punti in cui i Vigili del Fuoco hanno constatato che è stato innescato l’incendio. A parte la distruzione totale, vedi Fabio le immagini dell’armadio a parete? Ci sono due cose che voglio farti notare: i residui di libri sul letto e proprio le ante dell’armadio. L’incendio è stato appiccato mettendo dei libri sul letto, poi sono stati cosparsi dei liquidi infiammabili, se non ricordo male del profumo”. “Stavo giusto vedendo che i libri provengono dal corridoio”. “Esatto, percorrendo il corridoio, a sinistra, ci sono alcuni ripiani fissati sulla parete a libreria e due ripiani sono vuoti tra l’altro. La seconda cosa che ti dicevo, invece, ci permette di fare delle considerazioni. Le ante combuste in legno hanno una superficie esterna a pelle di coccodrillo. I quadretti grossi e lucidi, di solito, erano interpretati dagli investigatori come l’indicazione di un incendio veloce e caldissimo, il che suggeriva la possibile utilizzazione di un liquido accelerante, però effettivamente non vi è alcuna prova scientifica di un tale fatto, diciamo che è una considerazione che si può fare nell’immediatezza, prima delle analisi strumentali”. “Quindi dal letto il fuoco si è propagato all’armadio, ma non li vedo attaccati”. “Non si è propagato, è quello che succede negli incendi particolarmente intensi: la temperatura aumenta, nella parte alta della stanza, fino a raggiungere circa i 600 gradi e a questo punto si genera un flusso termico che è sufficiente a far raggiungere ai materiali cellulosici, come l’armadio, la loro temperatura di accensione, in modo da innescarli tutti contemporaneamente. Viene detta fase del ‘flashover’. “Proseguiamo l’esame dell’appartamento, nel corridoio vediamo la libreria di cui avevamo accennato: nei ripiani restanti ha materiale combusto, tra l’altro i ripiani subiscono gli effetti della camera da letto, visto che si trovano praticamente di fronte. Poi abbiamo il bagno con l’antibagno, molto interessato da nero fumo ma non dall’incendio direttamente, vedi? Nemmeno vengono danneggiate le parti in plastica della lava-

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trice. Arriviamo alla cameretta del piccolo Youssef. Entrando, sulla sinistra, c’è il lettino, nella parete anteriore si apre la finestra e a sinistra un armadio. Le analisi diranno che uno dei due focolai partiva proprio dal lettino, probabile visti i residui, ma sicuramente era un focolaio non intenso come quello della camera da letto. Probabilmente il lettino è stato cosparso di liquido infiammabile, ma non con altro materiale combustibile, come è stato per la camera da letto con i libri. Anche l’armadio è poco interessato dalle fiamme. Infine, il soggiorno con angolo cottura è interessato da nero fumo, il calore qui è stato talmente intenso che ha staccato i quadri dalle pareti”. “I corpi dove sono stati trovati?”. “Il primo corpo che troviamo, giungendo sul pianerottolo, è quello di Raffaella Castagna, che sappiamo è stato tirato fuori dall’appartamento da Glauco. I piedi sono in direzione della scala che porta al piano superiore e la testa sfiora il ciglio della porta. È supina, con le braccia estese e le mani che poggiano sulla pavimentazione all’interno dell’appartamento. Guarda questa foto, le sue calzature, due zoccoli bassi, sono sfilati e vicini ai piedi. Vedi, poi abbiamo pure un accendino in parte sotto il polpaccio destro, potrebbe essere di Raffaella, sai entrando e vedendo che la luce non si accendeva avrebbe potuto estrarlo, ma penso che possa essere anche degli assassini, che lo perdono nella fase di aggressione ai Frigerio. Poi si trova in quella posizione perché trascinato dal corpo di Raffaella, quando viene afferrata per le gambe da Glauco. Analizzarlo era di fondamentale importanza, se ne poteva trarre un profilo biologico interessante”. “Anche le impronte digitali, no?”. “Più difficile, area piccola e in genere tenuta con parte del palmo, invece un profilo biologico sulla rotella d’accensione si poteva trovare quasi sicuramente”. “Quindi poteva essere degli assassini?”. “Probabile, guarda, lì vicino a terra c’è anche un mazzo di chiavi”. “Che non dovrebbe essere lì, perché trovare sul pianerottolo un mazzo di chiavi? Ma sono state analizzate, un prelievo biologico?”.

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“No, nessuna analisi, ma guarda quest’altra immagine, è della porta d’ingresso dell’appartamento dei Frigerio, vedi la serratura? Quella superiore è a doppia mappa e quella inferiore è semplice. Il mazzo vicino alla gamba della Raffaella è, presumibilmente, di Frigerio, che l’aveva in mano quando è stato aggredito. Il portoncino dell’appartamento dei coniugi Romano, comunque, ha una serratura semplice, non a doppia mappa”. “Quindi le chiavi non appartengono a degli assassini sbadati”. “Questo magari non possiamo saperlo, però propendo per il fatto che siano dei Frigerio”. “Vai avanti”. “Torniamo al corpo di Raffaella, probabilmente è stata cosparsa da una sostanza infiammabile, vedi i suoi abiti particolarmente combusti? Leggiamo cosa riporta il medico legale: ‘Frattura cranica comminuta fronto-parietale bilaterale estesa alla base cranica, con emorragia subaracnoidea, emotetraventricolo e lacerazione del parenchima del lobo frontale destro. Numerose ferite d’arma da punta e taglio superficiali, una penetrante l’emotorace sinistro con emotorace scarso, una ipofaringe destra ed una l’addome con emoperitoneo scarso’. Entriamo nell’appartamento, qui troviamo a metà del corridoio, adiacente alla parete, il corpo di Paola Galli prona con la testa in direzione del soggiorno. Indossa ancora un giaccone scuro è distesa prona con le gambe estese, quella di destra è in parte all’interno della stanza del piccolo Youssef. Non vediamo le mani, sono coperte dal corpo, vedi però che tra il corpo e la parete ci sono due giochini, un piccolo Pinocchio in legno, probabilmente lo aveva in mano la nonna. Sotto la gamba sinistra un calza-scarpe personalizzato da un negozio di calzature di Erba e, lì vicino, un tesserino in lingua araba, viene lasciato lì anche nei giorni successivi, quindi non credo che sia rilevante. Vediamo cosa riporta il medico legale: ‘Frattura cranica comminuta, scomposta, occipito-temporale sinistra, estesa alla base cranica, con emorragia subaracnoidea, emotetraventricolo, lacerazione del parenchima del lobo temporale sinistro e contusione al lobo occipitale sinistro. Fe-

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rite d’arma da punta e taglio superficiali al collo ed all’ascella sinistra’. Proseguiamo nell’appartamento e giungiamo al soggiorno con angolo cottura, qui sul divano che dà lo schienale in direzione della porta di accesso troviamo il piccolo Youssef. In questa strage è il culmine del dolore. Il piccolo corpo è sul divano con i piedi che toccano il pavimento, il medico legale riscontra: ‘una ferita da punta e taglio penetrante il collo con sezione completa dell’arteria carotide sinistra’.

Le scale che portano alla casa di Frigerio, si vede l’ingresso dell’abitazione della Castagna

Saliamo di un piano, andiamo all’appartamento dei coniugi Frigerio. Tra l’appartamento del primo e quello del secondo piano c’è una scala inframezzata da un piano di sosta. Nella prima rampa vediamo sulla parete sinistra degli imbrattamenti di natura ematica, in particolare in corrispondenza del primo gradino c’è una serie di tracce proiettive di forma pressappoco circolare. Osservandole bene sono un misto di sangue e saliva.

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Si accerterà che il sangue è quello di Mario. È una espirazione dal cavo orale, compatibile con l’aggressione al pianerottolo, viene contrassegnata dal numero 17 nei rilievi fotografici. Vicino a questa abbiamo, sempre sul muro, 3 impronte palmari ben delineate, lasciate da una mano imbrattata di sangue: sono talmente precise che sia per le impronte digitali che per il DNA è stato possibile ricondurle a Valeria. Nella seconda rampa, sempre sulla parete sinistra, ci sono altri imbrattamenti, anche se più bassi e meno definiti. Una cosa curiosa, nello spazio delle scale ci sono circa una decina di gocce per precipitazione sugli scalini, cioè quelle di forma circolare”. “Sono poche, mi sembra?”. “Sì, hai ragione, mi sembrano pochine. Arriviamo quindi alla mansarda dei coniugi Frigerio, varcata la soglia…”. “Ma quanto ti piace parlare con la terminologia da esperto di sopralluoghi?”. “Più di quanto pensi. Dicevo, entrando nella mansarda si accede alla zona giorno che si estende trasversalmente a sinistra. Nella metà destra c’è la zona salotto, con un divano e due poltrone, a sinistra, parzialmente sotto un tetto spiovente più basso, c’è un tavolo rotondo con alcune sedie. A sinistra della porta d’ingresso, a destra per chi la osserva da dentro, c’è l’accesso alla cucina, molto ampia e con una porta finestra che dà su un piccolissimo terrazzino delimitato dal tetto rialzato, di circa un metro e venti o poco più. Sulla parete sinistra c’è la porta che conduce ad un corridoio che porta a sua volta al bagno, a un ampio ripostiglio e alla camera da letto. Quasi di fronte alla porta d’ingresso c’è l’accesso al terrazzino, abbastanza stretto. Da qui si può accedere al tetto ma questo è rialzato di circa un metro e venti, come dicevo. La porta finestra al momento ha l’imposta di sinistra chiusa e quella di destra aperta. Il corpo di Valeria viene rinvenuto in corrispondenza dell’anta di sinistra, in ginocchio, rannicchiato con il viso che poggia a terra con gli avambracci”. In quel momento arriva il cameriere con un tè e un cappuccino. Sbircia le foto sul pc e si allontana in fretta, come se avesse visto la scena di un crimine. “Con le mani come in preghiera?”.

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“No, anche se era girata la voce. Le mani sono distanti tra loro. Il sangue forma in corrispondenza della parte anteriore del corpo un’ampia gora. Valeria è vestita con una maglia a maniche lunghe grigia e dei pantaloni grigi, indossa delle scarpe marroni. Le gambe come ti ho detto sono rannicchiate, in ginocchio, tra il polpaccio destro e la coscia è in parte stretto un giaccone nero, che poggia sulla pavimentazione in prossimità della parte posteriore del corpo. Una cosa interessante è la tenda, in particolare quella in corrispondenza dell’imposta di sinistra: è poggiata sul corpo di lei. Poi è tutta imbrattata di sangue. Vediamo come la descrive la relazione medico legale: ‘La donna indossa sciarpa grigia intrisa di sangue, felpa grigia, calzoni grigi, maglia nera, scarpe marroni, canottiera grigia, calze bianche, reggiseno e slip neri; all’anulare sinistro fede in metallo giallo, al collo cordoncino marrone con più nodi e crocifisso in legno a forma di Tau. È di sesso femminile, dell’apparente età di anni 55, della lunghezza di cm 158, con rigidità in atti in ogni distretto corporeo ed ipostasi viola, fisse scarse, alle parti declivi della regione dorsale,…’. ‘Frattura cranica composta parieto-temporale sinistra, con emorragia subaracnoidea bilaterale e contusione cerebrale. Avvelenamento acuto da ossido di carbonio. Numerose ferite d’arma da punta e taglio superficiali, una penetrante inizialmente il polmone sinistro, con emotorace scarso’. Tra il divano e le due poltrone viene rinvenuto anche il piccolo cane dei Frigerio, morto per il monossido di carbonio. Quasi sotto la poltrona, in prossimità dell’ingresso, c’è un fazzoletto intriso di sostanza ematica, contrassegnato dal numero 47, mentre il cuscino dello schienale di questa poltrona è riverso a terra, un metro circa verso il centro della stanza ed ha sopra impressa una impronta di scarpa, una scarpa da lavoro”. “Se ne è parlato molto di questa impronta, no?”. “Ha un carrarmato tipo anfibio, similare a quella che si rinviene sul pianerottolo di casa Frigerio, penso che possa essere riconducibile ai soccorritori. In particolare, se fai caso a queste foto, vedi che nessuno degli intervenuti sulla scena del crimine ha utilizzato dei dispositivi di protezione. Si vede meglio

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in queste foto, quando viene trasportato via il corpo di Paola, tutti indossano scarpe senza sovrascarpe e calpestano la scena, tracce di sangue ed altro. Però vedi bene la scena, c’è anche un piccolo cuscino a terra, nello spazio tra le due poltrone, con vicino un guanto nero, l’altro è sulla poltrona a cui manca lo schienale. Vogliamo ipotizzare cosa sia successo? Intanto il decesso del cane ci fa comprendere quanto l’aria era satura di fumi e monossido di carbonio, di conseguenza l’imposta di destra è stata aperta dai Vigili del Fuoco. In questo contesto Valeria, salita nella mansarda, procede quasi a tentoni e urta il cuscino ‘schienale’ fino a farlo cadere a terra”. “Ma secondo te, quanta visibilità c’era in quel momento?”. “Visto il cane morto asfissiato nonostante il calore e visto che i fumi che tendono sempre a salire, penso proprio che l’ambiente era veramente saturo. Poi immagina gli occhi di lei come potevano stare, con tutto quel fumo. Ma, a parte questo, non abbiamo pensato alla cosa più ovvia, come poteva in quel fumo essere inseguita da un omicida che l’accoltellava in maniera, se vogliamo, così regolare?”. “Vero, il problema del fumo non lo aveva solo la vittima, ma anche l’eventuale aggressore. Non poteva vedere nulla e avrebbe avuto anche lui serie difficoltà a respirare in quell’ambiente”. “Esatto, siamo spesso abituati a studiare le scene del crimine dalle immagini ma non pensiamo mai a due fattori: il primo è che vengono effettuate dopo che l’evento accade, magari molto dopo, quindi in questo caso quando tutto il fumo era uscito dalla finestra; secondo, l’illuminazione reale, non dico in questo caso, ma in genere quella delle immagini fotografiche, vengono effettuate con l’ausilio del flash, quindi vengono illuminate anche zone in ombra, per essere sintetici le scene che vediamo non sono mai quelle che vede l’omicida”. “Abbiamo un sacco di elementi: che dici possiamo azzardare una ipotesi di come si sono svolti i fatti?”. “Sì certo, qualche particolare che abbiamo visto in questi giorni mentre leggevamo gli atti ce lo siamo scordato, magari adesso che ricapitoliamo ci verrà in mente”. “Iniziamo con il dire che è uno degli omicidi, di quelli che

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abbiamo trattato, in cui l’orario dell’intera dinamica è tra le più precisi. Come orario d’inizio abbiamo l’arrivo dell’auto di Paola, quindi 19.56-19.58; scendono dall’auto e lasciano le chiavi nel cruscotto. Questo ci fa capire che l’intenzione di Paola era solamente di salutare la figlia per un lasso di tempo brevissimo. Salgono, aprono la porta ed entrano. Qui si accorgono che l’interruttore non funziona, cioè non si accende la luce, adesso pensaci un attimo. Se capitasse a noi, cosa faremmo?”. “Beh, mi accerterei che sia un problema solo del mio impianto e non di tutta la zona. Quindi, sono praticamente sul pianerottolo e provo ad accendere una o due volte la luce delle scale”. “Esatto, il siriano del piano terra ricorda proprio questo. Che in quei momenti la luce si accendeva e si spegneva. Continuiamo, la porta rimane aperta almeno per usufruire della luce delle scale ed è in questo momento che inizia l’azione omicidiaria. Gli assassini, metto il plurale necessariamente vista la dinamica, entrano nell’appartamento salendo dalle scale. Dobbiamo escludere altre possibilità, da sopra non potevano venire visto che poco prima era scesa Valeria col cane e quindi non potevano appostarsi lì. E le altre porte del fabbricato erano chiuse”. “Ma questo significa che li hanno seguiti, gli erano praticamente dietro”. “Esatto, gli erano dietro, ricordati com’è il cortile. Paola entra con l’auto dal cancello e quindi gira a sinistra passando davanti a tutto il corpo del fabbricato, se qualcuno le attendeva non potevano non vederlo e, se avessero visto una qualche figura sospetta, sarebbero state più attente, forse non lasciando il portoncino aperto o non lasciando le chiavi nel quadro. Ricordiamoci che non stiamo parlando di un omicidio d’impeto ma pianificato, visto anche le armi utilizzate”. “A meno che…”. “… Chi li attendesse fosse stato visto da Paola e da Raffaella ma non avesse destato particolare sospetto o preoccupazione”. “Qualcuno che abitava lì, ovvio”. “Quindi ritorniamo a noi, dalla porta aperta entrano i due

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assassini. Ora è un poco difficile definire perfettamente la dinamica. Possiamo dire che le due donne non riuscirono a scappare oltre il corridoio”. “Ferite molto profonde al collo, c’è chi parla di uno scannamento, di metodi d’uccisione utilizzati da qualche cultura araba. Però mi sembrano tutte supposizioni non basate su fatti o dati”. “Sono d’accordo, sono tutte suggestioni del momento dovute all’iniziale pista araba: forzature, in pratica. Se vedi, le ferite maggiori sono al collo però, tranne che al piccolino, sono accompagnate da ferite inflitte direi quasi a caso. Alcune di queste alla testa, ma accompagnate poi da colpi con corpi contundenti, d’altronde nessun esperto colpisce in testa con un’arma bianca. Una veloce azione omicidiaria, che non credo sia durata più di 5 minuti, diciamo che termina alle 20.02-20.04. Gli assassini, dopo le donne, vanno a colpire anche il bambino che intanto si era rifugiato dietro il divano nel salone”. “Per ora questi orari riprendono quelle che saranno le dichiarazioni di Frigerio abbastanza bene”. “A quel punto gli assassini pensano all’incendio. Per nascondere le prove. Mettono dei libri sul letto, spargono del liquido, forse profumo, sul letto matrimoniale e nel lettino del piccolo e danno fuoco. Hai notato una cosa? Gli incendi vengono fatti partire dalla camera da letto e da quella del bambino quando i corpi sono immobili nel corridoio e nel salone. Viene scelta la parte iniziale dell’appartamento e non quella terminale, come il salone appunto, che infatti non sarà interessato dall’incendio. Non credo che sia una coincidenza, ricordiamoci che sotto le due camere da letto abitava il siriano mentre il salone era sopra i coniugi Romano, che non abbiano voluto rischiare danni alla loro casa?”. Quante volte abbiamo visto quelle foto: la culla carbonizzata, i giochi colorati sciolti dal calore, gli stipiti anneriti e piegati, le porte gonfie di bolle nere, i libri accartocciati sulle mensole, lo specchio del bagno coperto di polvere buia, un caos di oggetti liquefatti per terra. E la “U” di legno celeste che componeva “Youssef”, per terra, accanto al sangue.

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“Sai che non avevo pensato che anche l’incendio fosse pianificato?”. “Fino a ora mi viene in mente un’azione pianificata, o forse il termine più idoneo è ‘pensata’, da gente inesperta, se posso dare la prima definizione che mi viene in mente. Pensiamo pure che l’incendio sulla scena del crimine è la forma più comune di staging115 e se vogliamo la più intuitiva. Il fuoco nasconde le prove. Il liquido infiammabile, forse profumo diranno le analisi, ed i libri fanno prendere fuoco in maniera molto veloce agli ambienti. Diciamo che dopo 5 minuti, o poco meno, l’ambiente inizia a saturarsi, il fumo inizia a essere insopportabile anche nel corridoio. A quel punto i due assassini…”. “Dai per scontato che siano Olindo e Rosa?”. “Diciamo che sto cercando di fare una ricostruzione abbastanza asettica, però comunque non penso che sia stato un solo autore. Quindi, dicevo: i due assassini socchiudono la porta per uscire e si trovano davanti Mario che era sceso dalla sua mansarda, allertato da Valeria che, rientrata col cane, aveva visto il fumo uscire dalla porta. L’assassino riaccosta rapido la porta. Questa parte è descritta così anche da Mario, la vedo abbastanza logica. Un secondo dentro l’appartamento e l’assassino deve però per forza riaprire per via del fumo: e quindi colpisce alla testa Mario. Vediamo bene la posizione assunta in quel momento da Mario, è in piedi sul pianerottolo in prossimità dell’ultimo gradino, l’assalitore esce dall’appartamento e lo colpisce d’impeto sul lato destro del viso. Mario ruota il capo verso destra e ha una fuoriuscita di saliva mista a sangue, l’espettorato che notiamo nelle foto, contrassegnato dal numero 17 dei rilievi del RIS come abbiamo detto.

115 Alterazione intenzionale della scena del crimine da parte dell’autore al fine di salvaguardarsi o di abbassare l’impatto emotivo per l’evento che ha causato (tipo coprire il corpo della vittima), come avevamo visto per il piccolo Samuele.

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Le tracce sulla parete, che porta al piano dei Frigerio, in prossimità della lettera G è posizionata la traccia 17.

Poi continua l’azione omicidiaria colpendo Mario ormai a terra. Per quanto riguarda la moglie, Valeria, scendeva le scale dietro al marito e quindi viene assalita dal secondo aggressore quando ancora si trova sulle scale. Viene colpita da numerose coltellate frontalmente e cerca di girarsi e darsi alla fuga verso il proprio appartamento. Immaginati la scena, lei si gira ed è al 2°-3° gradino in salita, l’assassino invece si trova sul pianerottolo e quindi l’accoltella alle spalle. Se l’assassino non è molto alto e sferra delle coltellate, dove la colpisce?”. “Alla zona lombare, certo. Rosa non è particolarmente alta e quindi è quello il livello dove avrebbe potuto colpire”. “Esatto. Quindi, una volta colpita, cade e rimane in una posizione inclinata, con la testa che è all’altezza degli scalini 2 e 3. Valeria è lì, ha ricevuto 43 coltellate, ma nessuna di loro è grave: lei non lo sa, ma può farcela, può sopravvivere. Ha una brutta frattura cranica con emorragia interna e una ferita che interessa la parte iniziale del polmone sinistro: queste le

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lesioni più gravi. Ma soprattutto sta respirando monossido di carbonio. Olindo, quando confessa, descrive molto bene la posizione di Valeria. Perché avrebbe dovuto descrivere una scena in quel modo? Non era un particolare che si evinceva dalle fotografie, che in fase di interrogatorio purtroppo gli faranno vedere, ma direttamente dalla memoria di quello che è successo. Poi con Valeria a terra c’è l’accanimento, con i colpi alla testa. A questo punto c’è una traccia che lascia delle perplessità. È la numero 55, che si trova dentro l’abitazione, appena entrati, di fronte alla porta, a circa un metro. Il profilo genetico di quella traccia è di Valeria, ma lei non è mai entrata: com’è possibile? Intanto vediamo che è molto bassa, possiamo pensare a due possibilità abbastanza probabili. Il sangue era su una delle armi utilizzate, per esempio il tubo metallico ricoperto di gomma di cui parlerà Olindo: posso ipotizzare che l’assassino, rientrando un attimo nell’appartamento, toccava la parete in una delle fasi del brandeggio dell’arma. Altra ipotesi probabile è quella che la traccia sia stata lasciata dai soccorritori. Se vedi bene, proprio nella zona di pavimento limitrofa, i Vigili del Fuoco posizionano un sistema di illuminazione, un treppiede con un faro. Ora, basta che prima di introdurlo nell’appartamento lo abbiano poggiato un attimo a terra, che uno dei piedini si sia imbrattato del sangue di Valeria, e che poi nel posizionarlo all’inizio del corridoio il piedino abbia strusciato sulla parete, per ottenere tale traccia. Non è un’ipotesi da scartare, come potrebbe dirti chiunque abbia posizionato un treppiede nel corridoio stretto di una scena del crimine”. “Esatto, è una traccia su cui ha molto insistito la difesa, vedendo in lei la prova che gli assassini l’abbiano lasciata riattraversando casa Castagna, dopo aver ucciso Valeria. Secondo gli avvocati, gli assassini stavano correndo verso il terrazzino, per calarsi da lì in via Diaz. Di questo dovremo riparlare. Quindi Olindo e Rosa, ormai è chiaro che ritieni che siano stati loro, quando vanno via lasciano Mario a terra e la moglie in diagonale sulle scale, come confesseranno?”. “Sì, siamo ormai alle 20.10-20.15, a quel punto scendono veloci e vanno verso il loro garage-lavanderia, però visto che nessuno si accorge di loro, l’autovettura, probabilmente era

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parcheggiata già fuori dal cortile, propendo propendo al massimo per le 20.15, qui si devono vedere i minuti. Intanto il fumo si fa sempre più intenso e continua a salire. Valeria, nonostante i colpi alla testa e le innumerevoli coltellate si alza e arranca sulle scale”. “Questa parte è contestatissima dalla difesa, come poteva avere la forza di salire con tutte quelle ferite? E poi lasciare solo 11 gocce di sangue sugli scalini?”. “La scena la conosciamo: sulla parete sinistra delle scale ci sono numerose impronte palmari di sangue. Sono così dense che fanno capire quanto ne sia fuoriuscito dalle ferite di Valeria. Quindi che lei stesse perdendo molto sangue è certo. Ma dove è finito, se a terra lascia solo quelle poche gocce? In parte il sangue viene probabilmente assorbito da un fazzoletto che Valeria aveva presumibilmente con sé, quello che troviamo quasi sotto una poltrona nella mansarda. Poi parte del sangue viene assorbita dai vestiti e poi probabilmente lei usa la mano sinistra per spingersi le ferite e nell’appoggiarsi alla parete”. “… Cioè?”. Armando parla, ma a me sembra di vederla: Valeria che cerca la vita nella sua mansarda dalle pareti calde, tra i mobili in bambù e il tappeto persiano, tra le piante e gli angioletti di Natale poggiati sul termosifone, lasciando le chiavi di casa col cuoricino ancora penzolanti dalla porta spalancata. E le due tazze bianche della colazione già pronte, sulla tovaglietta celeste a quadri, per un domattina e un buongiorno che non sarebbero mai arrivati. Mi sveglio, come da un sogno. “… Guarda l’intensità dello ‘stampo’: sembra omogeneo in tutte le impronte. Ecco perché lo dico, capisci? Ogni volta che si appoggiava ne lasciava molto e questo perché stava comprimendo le ferite. Una volta arrivata al piano superiore barcollando, indicativamente sono le 20.15-20.20, senza più il sostegno del muro, fa cadere il fazzoletto che aveva in mano, urta il cuscino-schienale della prima poltrona che incontra e si dirige verso la finestra, forse per aprirla e sfuggire al fumo, si aggrappa alla tenda imbrattandola, provocandone una piccola lacerazione con un dito, ed infine si accascia a terra”. “E il giaccone trovato vicino al corpo?”.

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“Non credo se lo sia tolto appositamente, ma in tutta questa concitazione, l’aggressione, la caduta, l’andatura quando sale le scale, alla fine era facile che si sfilasse naturalmente anche perché non era molto attenta a far sì che non si sfilasse, in quel momento drammatico. Questo spiega anche la non corrispondenza tra le ferite riscontrate sul corpo ed i tagli presenti sul giaccone. Specialmente quando lei si trova a terra e viene colpita nella zona lombare il giaccone è parzialmente tolto. Ricordiamoci che il tutto avviene nella quasi oscurità. Quando poi sta per accasciarsi, davanti la porta finestra di casa sua, può aver chiesto aiuto”. “Qui aggiungo io una cosa. È stato detto che era impossibile per lei gridare aiuto con la gola squarciata e la lingua tagliata. Sono affermazioni del tutto errate. La lingua non era tagliata nel senso di mozzata, ma aveva un taglio laterale per una coltellata che era entrata dall’angolo della mandibola sinistra, quindi poteva gridare eccome. E la gola non era affatto squarciata. È completamente diverso”. “Il famoso grido sentito da Glauco… era reale”.

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Capitolo 15

I testimoni

“A proposito, ma Olindo e Rosa… com’è il loro alibi, scusa?”, mi chiede Armando. Conosco quella faccia. Vuole controllare che io sappia bene la storia, quindi faccio finta di niente e gli servo il piattino, per vedere se mi sta a sentire. È la terza volta che l’allegra famigliola al tavolo di fianco occhieggia questi due strani figuri che viaggiano con un bagaglio di senso di morte e che ne parlano senza problemi tra i tavolini laccati bianco dell’autogrill e le grandi mattonelle quadrate che sanno d’inverno. Oltre le ampie vetrate comincia a nevicare un mondo bianco. “Semplice. Dicono che sono usciti alle 20 - o un po’ primaper andare a Como a vedere vetrine e mangiare al Mc Donald’s. Lui non porta quasi mai l’orologio, quindi più preciso non può essere. Quando sono usciti l’auto di Luigi Lazzarini, vicino di casa116, era parcheggiata tra il loro camper e la loro Seat. Non notano l’auto di Paola. Cioè, vogliono dire di essere usciti dopo che Lazzarini era rientrato e prima che arrivassero le vittime. Mezz’ora-tre quarti d’ora di strada. Parcheggiano in viale Lecco. Siccome ti leggo nel pensiero, ti dico anche qualcos’altro. La tanica, dice Olindo, gli serve per il camper; i due coltelli sono un Opinel che ha dal 1981 e l’altro, uno di tipo svizzero. Nega che lui e Rosa siano mai stati aggressivi con i Castagna, come nega anche il pedinamento. Conferma invece la cosa più leggera, di aver staccato il contatore a Raffaella, in passato, ‘in risposta a una delle sue feste rumorose’. Ah, e poi le intercettazioni non dicono un granché”. “Oddio, come alibi non è un molto…uscire praticamente all’ora del delitto. Poi bisogna vedere se i tempi ci sono. L’a116

Lazzarini abita proprio di fianco a loro.

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spetto più interessante è che avessero staccato la luce a Raffaella in passato, anche se non è una prova, ma un indizio”. “Sui tempi posso dirti questo: che fanno un esperimento giudiziale il 26 dicembre, alle 21.30. I carabineri rifanno con Rosa e Olindo il percorso da casa loro a Como. E vedono che in auto ci vogliono 30 minuti, andando a 60 km/h. Più altri 20 minuti a piedi da viale Lecco, dove parcheggiano, fino al Mc Donald’s. L’orario effettivo al momento di pagare è delle ore 21.45. Dieci minuti per mangiare. Altri 40 minuti per tornare indietro ed ecco che alle 22.30-22.40, minuto più minuto meno, sono in cortile. Noti niente?”. “Cosa dovrei notare, scusa?”. Sorrido sornione. “Che, se sono partiti alle 20, come dicono, non sono arrivati al Mc Donald’s prima delle 20.50. Se hanno fatto lo scontrino alle 21.45, c’è qualcosa che non torna… Lo scontrino è la prima cosa che fai. Diciamo pure che un po’ di fila è facile trovarla, ma in un fast food è una fila veloce. Diciamo che sono arrivati alle 21.40, guarda: restano 40 minuti di buco. Dicono di aver visto le vetrine. Per un’ora? Da come descrivono le loro azioni, è stata una guardata veloce. Roba da 10 minuti in più. Insomma, che hanno fatto in quei 30 minuti che avanzano?”. “La risposta alla tua domanda arriverà quando vedremo le confessioni di Olindo e Rosa, ok? A proposito, i Ris quando sono arrivati?” e verso il miele nel tè. “Ma quanto ce ne metti, a Fà?” fa Armando. Effettivamente il terzo cucchiaino fa un po’ impressione. “Molto”. “Ah, ecco. I Ris arrivano il giorno dopo, dunque il 12 dicembre. E il 15 dicono che sui vestiti sequestrati a casa Romano non c’è sangue. Questo indizio cade subito, insomma. Cosa fanno i Carabinieri e la Procura, in quei giorni, mentre il Ris è al lavoro? Controllano i pazienti della clinica doveva lavorava Raffaella, ma nessuno mancava all’appello la sera del delitto. Essendoci anche degli psichiatrici, non si sa mai. Si coordinano con la Guardia di Finanza, che stava facendo accertamenti sullo spaccio di droga nella zona. Esaminano insomma la possibile concorrezialità tra tunisini e albanesi e quindi l’idea di

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una vendetta trasversale contro Azouz, anche perché il modo in cui è morto il bambino fa arabo, almeno nell’immaginario collettivo. Ma regge poco, fin quando il medico legale Scola dice che quelli contro Youssef sono stati colpi dati a casaccio. Anche stavolta niente uomo nero. Si intercettano i Romano. Si intercettano i Castagna. Si sentono testimoni. Vediamo che dicono? Facciamo l’elenco”. Annuisco, sono alle prese con una fetta di torta alle mele (e penso che Armando l’abbia fatto apposta a chiedermelo ora). “Il primo in cui si imbattono è Abdul Karim Khalouf, 32 anni, muratore a Lodi. È il siriano che vive sotto l’appartamento di Raffaella117 con la moglie Baddouka e i figli. Il 13 dicembre 2006 dichiara che quella sera è rientrato alle 18.30, stanchissimo dopo l’ennesima giornata di una vita passata a svegliarsi alle 5.30; e non ha sentito nulla di particolare fino alle 20, quando invece ha sentito dei passi nell’appartamento di sopra. In realtà li ha sentiti anche prima; li ha sentiti per un’oretta, fino alle 19.30. E non gli sembravano quelli di Raffaella, che aveva invece una camminata molto più pesante. Erano leggeri, quei passi, e sono continuati fino a che non ha sentito appunto un’altra camminata veloce, pesante, verso le 19.45-20: ‘passi veloci come se qualcuno corresse’, passi che attraversano l’appartamento e tornano indietro, poi ‘un grosso colpo e poi dei lamenti’”. “Interessantissimo! Khalouf ha chiaramente sentito la strage, anche se non stava lì a controllare precisamente che ora fosse”. “Yes. Subito dopo, rumori da diversi punti della casa e poi come se i mobili venissero spostati. Silenzio. Dopo circa 10 minuti, due o tre tonfi (o rumori di mobili spostati) e poi ancora una decina di minuti di un silenzio assoluto, inquietante. Poi di nuovo tre rumori provenienti dalla porta d’ingresso dei Castagna; e subito dopo dei lamenti (quindi, Valeria). Abdul Karim teme che Azouz stia picchiando Raffaella. ‘Volevo uscire per vedere, ma mia moglie me lo ha impedito perché aveva paura’. Dopo neanche 5 minuti da questi ultimi rumori hanno bussato L’altro appartamento del pianoterra era vuoto. Precedentemente ci aveva abitato Daniela Messina. 117

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alla finestra della cucina per avvertirci dell’incendio e dall’altra parte della strada c’era già gente’. E scappano. “Ma allora cos’è successo dalle 18.30 alle 19.30? Li stavano aspettando in casa? Qui si apre un’interrogativo enorme”. “Poi c’è Carlo Castagna. Il padre di Raffaella, il 21 dicembre, riferisce che un anno o più prima, la figlia l’aveva chiamato perché era in corso una lite coi Romano. Ascolta: questo ti dà una misura della situazione. Quando era arrivato c’era Olindo che insultava Raffaella chiamandola ‘puttana’; dopo di che se l’era presa anche con lui, gridandogli ‘sei un pezzo di merda, un coglione’ e altro. Intervennero pure due vigili urbani che trattennero Olindo, evitando che il suo atteggiamento minaccioso lo facesse avvicinare troppo ai Castagna. Aggiunge che i Romano gli telefonavano alle due di notte per dirgli che ‘quella bastarda di sua figlia’ stava facendo casino, lui chiamava Raffaella e lei gli diceva: guarda che è dalle 10 che dormo”. “Non parliamo di Azouz Ben Sadok Marzouk? È il marito di Raffaella. È uscito dal carcere, per indulto, il 2 agosto precedente: droga. Il 12 dicembre conferma anche lui le liti coi Romano, dovute al fatto che lui e la moglie facevano rumore. Descrive Olindo e Rosa come attaccabrighe e aggiunge che i Romano, quando lui era in carcere, avevano picchiato e insultato sua moglie: infatti era stata sporta querela118”. «Oh, e qui c’è Ibrahim Chemcoum. Tunisino119, si presenta spontaneamente dai carabinieri, il giorno di Natale. Dice che si trovava in Piazza Mercato, all’ora della strage, e andava verso il Bennet quando aveva notato un furgone bianco con due persone a bordo, una delle quali dice una parola, ‘benzina’. Non ci fa caso. Torna dal Bennet e sotto gli archi della Piazza, vicino la fontanella120, sente dei rumori e un urlo di donna veAlla fine si conteranno tre querele passate e una in corso tra i Romano e i Castagna. Quelle precedenti erano andate a finire tutte con remissione da parte del querelante. Quella in corso sarebbe andata in udienza due giorni dopo la strage e vedeva i Castagna parte lesa contro i Romano. Ovvio che i carabinieri abbiano notato la coincidenza di tempi. 119 Di lui si perderanno successivamente le tracce in Italia. 120 Significa che si trovava al confine tra via Diaz e Piazza Mercato, a 100 me118

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nire dalla parte del macellaio121. Un uomo poi urla in italiano “assassino” e “aiutatemi”. Chemcoum si sta dirigendo verso via Volta quando rivede il furgone bianco: stavolta è parcheggiato in direzione via Mazzini-via Volta. Si ferma a bere alla fontanella, davanti il calzolaio, quando passa uno robusto, col cappotto chiuso, mani in tasca, berretto che gli copriva le orecchie, barba biondiccia che gli dice ‘buonasera’, in italiano. In quel momento dal furgone sente dire in tunisino ‘Aia fisa’ che vuol dire ‘vieni subito’. La persona col cappotto, allora si mette, quasi correndo, a raggiungere il furgone che ripartiva velocemente. Tutta la scena si svolge, insomma, tra la Piazza e l’imbocco di via Diaz”. “E Fabrizio Manzeni, elettricista, che alle 20.20 si affaccia in via Diaz 28, primo piano, per sbattere la tovaglia e nota davanti al cancello di casa sua due persone, che non vede in faccia e per lui sono extracomunitari, spostarsi verso Piazza del Mercato, parlando e gesticolando. Uno dei due ha in mano un cellulare e si rivolge a una terza persona, che non può vedere. Sono, probabilmente, quelli che vede passare Chemcoum, mentre lui sta alla fontanella. Questi due testimoni sono interessanti perché gli assassini devono essere usciti tra le 20.20 e le 20.25, cioè mentre Chemcoum e Manzeni vedono quello che vedono. Giusto?”. “Giusto” e sorseggio l’ultimo goccio di tè. “E poi c’è il signor Pietro Ramon, 76 anni, che abita di fianco a Raffaella e che non ha sentito nulla, perché è quasi completamente sordo e guardava la tv con le cuffie. Salendo le scale, la sua porta è veramente a 90° con quella dei Castagna. Eppure non si è accorto della morte, delle grida, del fuoco e del fumo, di Mario e Valeria, del bambino, niente. Glauco gli ha suonato al campanello, la casa andava a fuoco, ma lui guardava la Rai”. “Ramon si è salvato perché non ha sentito cosa stava accadendo. Pensa se ci avesse sentito bene, se avesse visto l’omicidio di Valeria dallo spioncino, se avesse aperto la porta. Sarebbe stata la quinta vittima”. tri dalla scena della strage e si stava allontanando in direzione opposta (il Bennet è in un centro commerciale dalla parte opposta di Erba). 121 È la macelleria Tantardini, che sta appunto in una rientranza di via Diaz.

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“Già. Finché non ha visto la porta d’ingresso spaccarsi di botto, gli è preso un accidente e ha visto un pompiere afferrarlo esterrefatto e portarlo giù così come stava, in pantofole”. “E poi c’è Mario Frigerio. È appena scampato alla morte grazie a una malformazione della carotide e si trova ancora in rianimazione all’ospedale Sant’Anna di Como, piano terra, stanza 7. Il 15 dicembre, pochi giorni dopo la strage, appena uscito dal coma farmacologico, c’è da lui il Pm Simone Pizzotti. Ha una sola corda vocale, Mario. Riesce a soffiare qualche parola per mezz’ora. Il tempo di raccontare cosa è successo: è l’unico sopravvissuto alla strage. Dice: stavo guardando la tv, erano circa le 20 e mia moglie, come sempre, voleva uscire a portare fuori il cane, quando abbiamo udito delle grida di donna provenire dal piano di sotto. Non erano le solite discussioni che sentivamo. Era un urlo strano. Ho detto a mia moglie di aspettare per uscire. Dopo 10 minuti122 c’era silenzio assoluto e mia moglie è uscita, poi è tornata e mi ha detto che c’era del fumo nell’appartamento di sotto. Scendiamo, la luce delle scale era accesa. Vedo la porta dei Castagna socchiusa, poi richiusa e subito dopo riaperta. In quei due secondi che si apre, nello spiraglio, vedo una faccia che non conosco. La porta però si riapre di colpo e un uomo mi prende di peso, mi tira nell’appartamento, mi butta per terra, cado in ginocchio, mi sale sopra e mi picchia violentemente a pugni e calci, alla schiena e ai fianchi. In quel momento si spegne la luce delle scale.Non ho fatto davvero caso se avesse guanti o no. Tentavo di rialzarmi mettendomi gattoni, ma l’aggressore mi si sedeva sopra e colpiva. Intanto vedevo dei bagliori provenire dal fondo dell’abitazione. Sentivo mia moglie gridare due volte ‘no!’ e poi ‘aiuto!’. In quel momento la luce si spegneva e capii che gli aggressori dovevano essere due, se stavano colpendo anche 122 Questi tempi dati da Mario vanno presi con le molle. Certo non stava lì a guardare l’orologio: certe volte dice 5 minuti, altre 10 o 15. Raffaella però rientra alle 19.56, secondo i tempi presi dai Carabinieri. L’aggressione è iniziata subito, quindi qualche minuto prima delle 20. Valeria da lì ha aspettato 5-10 minuti: calcoliamone 10 per il cane, risalire, avvisare il marito e riscendere. Occhio e croce, quindi, l’aggressione a Mario e Valeria è finita cica alle 20.15.

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lei: però l’altro proprio non lo vedevo. L’uomo estrae allora un coltello e mi taglia la gola. Volevo gridare ma la voce non usciva. Non sapevo nemmeno se mia moglie fosse ancora lì o no e non riuscivo a gridare. Allora battevo con la mano sul pavimento per attirare l’attenzione dei siriani del piano di sotto, ma niente. Poi ho perso conoscenza: ero convinto che sarei morto nel fumo e nel sangue. Com’era l’uomo? Gli chiedono. E lui: corporatura robusta, tanti capelli corti neri, quasi a spazzola, carnagione olivastra, occhi scuri, senza baffi, vestiti scuri, corporatura quadrata. Testa grossa. Ci hanno trattato come capre, non so che lingua parlassero perché non li ho sentiti parlare”. “Ora, Armando, è evidente che qui la pista dello straniero esce avvalorata: perlomeno da quell’olivastro di cui parla. Il giorno dopo, per fax, l’avvocato di Mario scrive al Pm che l’aggressore era più alto di lui di circa 6-10 cm, aveva molti capelli neri corti, era quasi rasato, mascella grossa, forte come un toro. Mario sta parlando di uno straniero, proprio dopo che lo straniero -cioè Azouz- è stato escluso. Andrea, il figlio di Mario, nei giorni successivi cerca di chiedere al padre, più volte, cosa fosse successo: lui gli risponde solo una-due volte. Ripete sempre la spiegazione data a Pizzotti e aggiunge che se l’avesse visto in foto l’avrebbe riconosciuto. Però, ho notato una cosa: Andrea, in un verbale di interrogatorio del 3 gennaio 2007, se ne esce che suo padre gli aveva detto -tra il primo interrogatorio di Pizzotti del 15 e quello che farà con il luogotenente dei carabinieri Gallorini il 20- che l’aggressore era ‘alto come lui o poco più’. Ma come è possibile? All’avvocato descrive un gigante e al figlio uno come lui?”. “Esatto. E qui arriviamo proprio al 20 dicembre123, quando va a interrogarlo il luogotenente Gallorini, che comanda i Carabinieri di Erba. La voce di Mario è solo un soffio, anche ascoltando la registrazione di quel giorno si fa fatica a capire cosa diamine dice. Il luogotenente chiede a Mario se conosceva delle persone, tra cui Carlo Castagna, suo figlio, Azouz e i suoi fratelli. Gallorini gli chiede di colpo se conoscesse 123

È lo stesso giorno del secondo interrogatorio di Olindo e Rosa.

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anche Olindo, allora Mario cambia espressione e fa: ‘perché mi chiedete dell’Olindo?’. Andrea: ‘È stato come se si aspettasse la domanda, cioè aveva l’espressione come se dicesse ‘ci siete arrivati’, come se si aspettasse quel nome’. Andrea, nello stesso verbale: ‘Mio padre chiese al carabiniere se poteva farla lui una domanda e gli chiese perché gli aveva fatto il nome del signor Romano. Il carabiniere gli disse che era semplicemente perché voleva sapere se lo conosceva, e chiese a mio padre perché lui era tornato sul nome del Romano’. E Mario: ‘Perché c’è qualcosa che non mi quadra, come se mi sfuggisse qualcosa’. Mario allora si mette a piangere, non riesce più a parlare. ‘Francamente, si capì, il senso era che poteva essere stato lui’. Nell’interrogatorio successivo, il 26 dicembre, lo conferma anche ai Pm Astori e Nalesso. Mario dirà: la faccia nello spiraglio era di Olindo. L’aveva riconosciuto subito. Era a un metro. S’era stupito di vederlo dentro casa di Raffaella lì, ma aveva continuato a scendere: ‘sono andato in fiducia’. Pensava di poter essere d’aiuto… Nei giorni successivi Mario confermerà al figlio che era stato l’Olindo e che non voleva crederci che una persona conosciuta, il vicino, potesse avergli fatto questo. E non si muoverà più da questa accusa”. “Però, scusa, la volta prima aveva descritto uno tipo arabo e ora dice che è Olindo?”. “Certo che fa strano. Anche se… guarda, è proprio strano…perché se togli l’olivastro e i centimetri in più -che vanno e vengono- Olindo ci sta tutto: grosso, capelli corti neri, mascella robusta, forte, occhi scuri… però il 26 cambia proprio descrizione. Anzi, dice che l’assassino era ‘forse un po’ olivastro’, tanto che Astori replica ‘quindi sul colorito della pelle non me lo sa dire?’. Insomma, un po’ è Olindo e un po’ no”. “Adesso, è chiaro che siamo di fronte a un meccanismo di Psicologia della Testimonianza che è proprio quello che ci interessava… cioè, questo è proprio quello che stiamo indagando. Siccome sono proprio curioso di sapere come spiega il non averlo detto subito, te lo leggo124: ‘Perché quando mi sono sve124

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Dal verbale d’udienza del 26 febbraio 2008, in Corte d’Assise.

gliato volevo… ma è stata una cosa mia, volevo proprio capire il motivo che era talmente una cosa grossa e irreale, volevo capire il perché mi aveva fatto questo una persona che, anche se non la conoscevo bene, ma era comunque un vicino di casa e non gli avevo mai fatto niente. E proprio è stata la cosa che più volevo capire perché, come le ripeto, io sempre fin dal primo istante che mi sono svegliato la persona che mi ha colpito era lui, questo era fuori di dubbio, questa era la sicurezza che avevo assoluta, però non capivo il perché e lì ho voluto poi capirlo io il perché. Una cosa, non so, (…) troppo grossa, è una cosa che non avrei mai immaginato che capitasse a me (…) alla fine mi è uscito il nome, volevo come liberarmi e gliel’ho detto al comandante Gallorini perché era proprio un peso che avevo. Infatti mi sono liberato e gli ho detto ‘sì, è lui’ (…) La mia intenzione era di dire ‘È l’Olindo’ sempre, questo per tutta la vita fino a quando vivrò dirò, non perché lo voglio dire, perché è la sacrosanta verità, è stato l’Olindo che mi ha aggredito’. Spiega di non aver accusato subito Olindo perché voleva cancellare quel ricordo dalla sua memoria”. “Già quando ricordiamo non ricordiamo mai tutto quello cui abbiamo assistito, figuriamoci poi se siamo testimoni di qualcosa, con lo stress della situazione, il desiderio di aiutare e magari delle domande suggestive…”. Mario ha parlato, noi restiamo in silenzio. È Armando a parlare per primo. “Quello che non capisco è questo: ok, lui ha una sensazione di sgomento e incredulità per quello che gli era successo, va bene, ma com’è possibile che al risveglio non ha detto subito il nome dell’assassino? Doveva riordinare le idee? Non capisco proprio”. È questo che lascia sconcertato anche me, mentre la neve si infila tra i capelli. Dobbiamo ripartire subito, il tempo sta peggiorando, il cielo è bianchissimo e la strada lunga.

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Capitolo 16

Altre ombre?

Natale è a pochi giorni da qui ma che strano, io e Armando proprio non ce ne accorgiamo. La testa, gli occhi, il cuore, sono tesi e concentrati su questa indagine. “Ma siamo sicuri che non ci siano altre piste? Insomma, a parte questo, la difesa ha sempre fatto notare che erano possibili altre vie di fuga per gli assassini, volendo dire quindi altri assassini che non fossero i Romano” chiede Armando, mentre rallentiamo per via dello spazzaneve. “A che ti riferisci?”. “Prendiamo la morte di Valeria, ok? Non abbiamo approfondito una faccenda. Anzi, due. O tre”. “Sarebbe?”. “Allora, lei si lamenta mentre Glauco è nell’incendio, ma non riesce a intervenire. Per la difesa, gli assassini l’hanno inseguita e quindi, in quel momento, loro sarebbero proprio al piano di sopra, al punto che dovremmo ritenere Glauco molto ma molto fortunato a non essere riuscito a salire, sennò sarebbe morto anche lui”. “Ho capito: adesso mi vuoi dire ‘da dove sarebbero fuggiti gli assassini, allora’?”. “E certo, perché di possibilità ne abbiamo solo due. Allora, una sono gli abbaini di casa Frigerio e quindi dai tetti, saltando sul balconcino di casa Castagna e poi per strada…”. “… E la seconda è la finestra delle scale, al pianerottolo tra terra e primo piano” aggiungo mentre superiamo un camion di trasporti spagnolo. “Se avessero preso quella, tanti saluti. Oppure, sono fuggiti - come dice la difesa - da casa Castagna e la prova sarebbe nella famosa traccia 55 che è sangue di Valeria su un muro di casa di Raffaella, ricordi?”. “Ti rispondo così: se uno è giovane certi salti dal tetto li può

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fare. Ma gli abbaini vengono trovati chiusi e saranno aperti dai Vigili del Fuoco per far uscire il fumo125. Adesso però supponiamo che invece non sia così, che le porte-finestre fossero accostate e non chiuse, e che siano scappati comunque dai tetti, in modalità James Bond. Tra pochissimi minuti busseranno alla finestra di Abdul Karim per dirgli che sta andando a fuoco la sua palazzina. C’è già gente sul marciapiede opposto. Nessuno vede nessuno sul tetto e tantomeno saltare giù. Ah, e la finestra delle scale viene trovata chiusa da Glauco, che la apre per far uscire il fumo…”. “Quindi sono scappati dopo l’uscita di Glauco? Ma lui e Vittorio in cortile non hanno visto nessuno fuggire. Non resta che la terza ipotesi, sono ripassati da casa di Raffaella. Premesso che anche qui nessuno ha visto nessuno saltare dal balconcino in strada, poi, scusa: ma se Glauco nemmeno riusciva più a respirare in quel fumo tanto da resistere pochi minuti - e fa il Vigile da una vita - adesso ci devono essere riusciti gli assassini, dopo averne respirato prima in casa Castagna, poi a casa Frigerio e poi per le scale? Ma dai!”. “Giusto, ecco. E non ci dimentichiamo che Valeria è morta con un alto tasso di anidride carbonica nel sangue. 37 di carbossiemoglobina, Fabio: è proprio tanto. Quel 37 lo avrebbero respirato anche i suoi assassini e sarebbero morti come lei, altro che fuga alla James Bond”. “Te ne dico un’altra, sempre a proposito di aggressori esterni. A che gli sarebbe servito spegnere la luce a casa Castagna e poi aspettare al buio dentro casa? Arrivare con così tanto anticipo per poi bruciare l’effetto sorpresa con un attacco alla cieca?”. “E questo la dice lunga anche sulle testimonianze di Chemcoum e Manzeni, se permetti…”. “Ti dico come la vedo. Chemcoum, della cui buona fede non dubito, non sa fornire nessun particolare utile a identificare le persone che ha visto, a parte che sono tunisine126. Precisamente dal Vigile del Fuoco volontario Lorenzo Civati, che conferma in Assise. 126 I carabinieri non hanno mai dato peso a questa testimonianza, tanto da inviarla in Procura solo il 15 gennaio 2007, ben dopo le confessioni di Olindo e Rosa. 125

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Poi non capisco questo fantomatico assassino, che si allontana dalla palazzina come se stesse facendo una passeggiata, tanto tranquillamente da mettersi a salutare uno sconosciuto, cioè Chemcoum stesso. E i tre visti da Manzeni? Stesso discorso: se sono gli assassini, stanno lì a farsi notare per strada che gesticolano invece di correre via come Bolt? Sia lui che Chemcoum non riferiscono di averli visti sporchi di sangue, come dovrebbero essere. E poi non mi torna l’ora. La difesa non può sostenere che quelli siano gli assassini e contemporaneamente affermare che mentre Glauco era nella palazzina del delitto gli assassini erano al piano di sopra che finivano Valeria, se alla stessa ora i due testi127 li vedono per strada. Decidiamoci: o sono sopra o sono per strada. E poi ci sono le grida… Siamo sicuri che Chemcoum le abbia sentite davvero? Mario non ha fatto in tempo a gridare che gli hanno tagliato le corde vocali; Glauco dice che quelli di Valeria erano lamenti. È la stessa testimonianza di Abdelkarim, cui dà molto credito la difesa, che toglie peso a quella di Chemcoum. Il tunisino infatti sente gridare ‘assassino-aiutatemi’, ma com’è che i siriani di sotto -che erano lì terrorizzati e attenti- non lo sentono? E davvero Chemcoum poteva sentire delle grida provenire da un luogo chiuso a 100 metri di distanza?”. “Mi togli le parole di bocca. E anche a voler ipotizzare un’altra pista, Fabio, quale sarebbe il movente? Ayari Mohamed Ben Mongi, detenuto a Como ed ex complice nello spaccio di Azouz e di suo fratello Salem, dichiarerà che alcuni siciiani ce l’avevano con Salem in quanto lui probabilmente li aveva venduti al momento dell’arresto: così, si sarebbero vendicati sterminando la famiglia di Azouz, obiettivo più alla portata di quella di Salem, che abitava in un palazzo di 5 piani pieno di arabi, a Merone. Altri si aggrappano alle liti che Azouz avrebbe avuto in carcere con dei pezzi grossi: Marzouk aveva avuto discussioni in carcere ed era spostato di reparto due volte, fino all’isolamento. Una lite con lo ‘spesino’128 e poi un’aggressio127 Manzeni parla proprio delle 20.20, che è la stessa ora in cui Ballabio nota per primo il fumo. 128 Tra l’altro, quando il 15 dicembre suo cugino Ben Amor Borhen Hamdi

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ne perché definito ‘infame’129. Niente che possa causare una strage. Vero, lo spesino della lite era Maurizio Agrati: che non è uno da due soldi, anzi. Accusato di traffico di cocaina col Cartello di Medellin, era dentro per tentato omicidio, e probabilmente era legato alla ‘Ndrangheta. Bene, diciamo che Azouz aveva offeso in modo totale questo Agrati. Ancora: basta questo per una vendetta trasversale che diventa una strage? Nel mondo del crimine le punizioni sono proporzionate all’offesa. A parte le suggestioni della difesa, non è emerso nulla in tal senso”. “Esatto! Una vendetta trasversale la fai quando il tuo bersaglio è irraggiungibile: quando era a Erba, Azouz invece era facile da trovare, non si nascondeva mica130”. “Lo sai che c’è stata anche una pista Castagna?”. “… Cioè?”. “Sì, nasce dal fatto che Chemcoum riconosce uno dei figli di Castagna come l’uomo che ha visto per strada e dal fatto che la porta d’ingresso di Raffaella non presenta segni di effrazione, quindi l’assassino aveva le chiavi. Ma dell’attendibilità di Chemcoum abbiamo già parlato e la mancanza di effrazione non vuol dire nulla: se ha aperto Raffaella è chiaro che nemmeno lì c’è effrazione. Poi c’è che uno dei fratelli di Raffaella si contraddice sul suo alibi (dormivo? Ero a Cantù?), poi c’è che i Castagna si disfano velocemente della Panda di Paola, donandola 8-10 giorni dopo alle suore guanelliane, su idea del figlio Beppe. Tanto più che le suore ricordano che l’auto è arrivata 2-3 giorni dopo da loro, invece. Insomma, il sospetto sarebbe che uno dei figli abbia fatto una strage per questioni di eredità e che poi i Castagna si siano disfatti della Panda va dai carabinieri, dice che la lite di Azouz in carcere era scaturita da una partita di calcio e non per la spesa; e che era avvenuta più o meno nel 2005. Lo spesino è la figura che all'interno di un carcere raccoglie le richieste di acquisti da parte dei detenuti come lui. 129 Paolo Verbena, vicedirettore del carcere, dirà che Azouz non temeva di essere ucciso ma temeva per la sua incolumità, che è diverso. 130 Si è anche supposto che Azouz in quei giorni fosse scappato in Tunisia per sfuggire alla vendetta, quando in realtà nelle settimane precedenti girava per Erba senza nascondersi.

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che recava tracce del massacro. È tutto molto forzato, però. Ma davvero prendiamo per buona la memoria delle suore, che parlano con l’investigatore privato della difesa solo il 12 marzo 2010, quindi 4 anni dopo?”. “Senti, ma non c’è anche un esperimento giudiziale sul siriano? Sbaglio?”. “Non sbagli. Fanno un esperimento acustico con Lidio Ramon e Abdul Karim”. “Lidio… sarebbe? Quello che abita di fianco?”. “Sì, il figlio del signore che abitava di fianco a Raffaella, stesso pianerottolo, e che si chiama Pietro. Ti ricordi? Era quasi completamente sordo. Più o meno alle 18.50 era andato a trovarlo il figlio 46enne, Lidio, come ogni giorno, fino alle 19.10. Fanno camminare avanti e indietro sia Lidio che Gallorini, due-tre volte, mentre Abdul Karim ascolta di sotto e deve dire da dove vengono i passi e quali si assomigliano a quelli che ha sentito. Abdul Karim dice che i passi di Lidio sono quelli giusti e la direzione è quella di casa Ramon. Ma non si pensa ad una eventualità diversa, che i passi fossero di Paola, la mamma di Raffaella, che sarebbe potuta passare prima nell’abitazione. Magari le ha portato la spesa, possiamo escluderlo? Di certo la porta non doveva essere forzata, l’agguato partito da dentro non tiene. Le dichiarazioni del siriano vengono prese in due verbali, è in particolare nel secondo che è più preciso e parla di grandi rumori, presumibilmente legati all’aggressione, all’incirca alle 19.50-20.00, il che corrisponde”. “Senti, Armà, un’ultima cosa: ti ricordi che Abdul Karim guarda dallo spioncino e vede che la luce delle scale viene accesa per tre volte di seguito? Cosa vuol dire? Il temporizzatore andava per 3 minuti ogni volta, ma non possono essere passati 9 minuti tra l’uscita di casa di Mario e Valeria -che accendono la luce- e la fine della loro aggressione. Mi sembra tanto. E poi, com’è che Abdul Karim non vede nessuno scendere o passargli davanti?”. “Primo, non credo che lui sia stato dieci minuti attaccato allo spioncino, al massimo ogni tanto si metteva a vedere; secondo, tre attacchi del temporizzatore ci stanno, dall’ingresso della Castagna nel fabbricato alla fuga degli assassini. Della

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testimonianza di Abdul Karim se ne sono dette tante, addirittura che uscendo avrebbe trovato un pezzetto di carta, con lo scotch attaccato, che sarebbe stato messo in precedenza sul suo spioncino dagli assassini. Fatto che non viene avvalorato da nessun verbale e che va contro il dato che lui dallo spioncino vedeva benissimo. Come lui stesso dice. Fabio, anche questo ci dice qualcosa. Ci sono 30 passi e 20 metri circa tra la porta della lavanderia dei Romano e il portoncino della palazzina del delitto. Dietro la porta verde scuro di casa loro sono attaccate le stelle adesive di Natale. Nel portaombrelli ce ne sono cinque più una mazza per i pavimenti. Pareti celesti. Pavimento in cotto chiaro. La lavatrice Rex. Gli unici che potevano farlo, come ti avevo detto prima, erano proprio loro. Tra l’altro, facci caso, Mario non parla di piumini o giacconi addosso al suo aggressore, e anche questo rimanda a qualcuno che non ne aveva bisogno, che non veniva dalla strada. Gli arabi visti per strada non erano macchiati di sangue. La fuga degli assassini sembra essersi esaurita all’interno del cortile. Non c’è niente da fare, tutto quello che sappiamo finora riporta a 30 passi e 20 metri. A Olindo e Rosa”. Qualche punto fermo cominciamo ad averlo, ma fuori la visibilità è un disastro. A stento vediamo il parabrezza. Grandi luci arancioni delimitano una strada che non vediamo più. La radio manda messaggi di un maltempo epocale. Ormai siamo inghiottiti dal bianco. È ovunque. Il Gps ci dice che siamo persi tra Magenta e lo svincolo di Rho. La velocità scende. Erba diventa lontanissima. Come la verità, che appare e scompare, si avvicina e poi svanisce. Un attimo prima è qui, un attimo dopo ti chiedi se l’hai mai sfiorata nella folla. L’inverno ci sta assorbendo nel suo ventre. E non sappiamo che fare.

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Capitolo 17

Tracce

Due ore per fare 25 km. Siamo sconvolti. Il pranzo è un’ipotesi abbandonata. Siamo andati a due all’ora, cercando di intuire un’autostrada che non vediamo più. Guido con la faccia incollata al parabrezza, abbiamo capito di aver superato un enorme casello solo perché lampeggiava. Mentre Fabio cerca di intuire quando saremo all’altezza dello svincolo di non sappiamo cosa, ci sembra di intravedere dei cartelli verdi che dicono “Pero-Fieramilano”. “È qui!! Gira, gira!” mi grida come se fosse l’ultimo giorno della nostra vita. “Non vedo se arriva qualcuno!”. Vedo Fabio voltarsi indietro. “Non lo so nemmeno io, ma se vai avanti finiamo in bocca all’incidente e restiamo bloccati definitivamente!”. E allora lentamente vado verso destra e mi faccio il segno della croce. Un camion con due rimorchi ci manca di un paio di centimetri. Fabio è incollato al Gps e mi guida come un cieco nella tormenta. Seguiamo una strada che non c’è più. Ormai non possiamo fare altro che andare avanti in questa bufera senza svolte. È come precipitare in un ascensore sotto il pianoterra. “Il 26 dicembre è comunque un giorno di svolta in questa storia. In poche ore si salda un dato testimoniale - Mario conferma ai magistrati la sua accusa ad Olindo - e uno criminalistico. È il giorno della ricerca di prove biologiche sulla Seat Arosa” dice Fabio, di colpo. “Certo, nel momento in cui i magistrati hanno la testimonianza di Mario è chiaro che Olindo e Rosa sono messi male. Questo però loro non lo sanno. E i magistrati puntano forte su di loro”.

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“Spiegamela bene, tanto andiamo a due e poco più avanti c’è un hotel. Non abbiamo scelta”. “Iniziamo con le prove fisiche, la traccia di DNA rinvenuta nella Seat di Olindo, prendi il fascicolo così ti faccio vedere.” “Aspetta, che ho tutti gli atti qui, ora lo prendo. Non lo trovo, ma sei sicuro che ci sia?”. “Sì certo, però mi ero dimenticato di dirti che nel verbale di accertamenti tecnici urgenti del 28 dicembre è riportata la Seat con la targa AX337YP, un piccolo errore: è la targa dell’auto dei Castagna”. “Iniziamo bene… Ma poi questi accertamenti ‘urgenti’ a distanza di 17 giorni?”. “Inspiegabile, come sai gli accertamenti possono essere fatti dalla Polizia Giudiziaria in urgenza, ex art. 354 del Codice di Procedura Penale, quando c’è il rischio di dispersione delle prove. Sono sintetico, ma quando non sussiste tale rischio gli accertamenti devono essere svolti con le modalità previste dall’articolo 360 del Codice, cioè dando avviso alle parti, difesa, parte civile ecc. con un certo anticipo dando, quindi, alla difesa anche la possibilità di nominare un proprio consulente tecnico. Ma soprattutto a questi ultimi accertamenti possono presenziare gli avvocati e i predetti consulenti tecnici, sì, ma non l’imputato o le parti coinvolte”. “E ovviamente in quelli di Erba non è stato dato avviso, erano ‘urgenti’, e ha presenziato l’Olindo”. “Ovviamente. Vediamo come si sono svolti gli accertamenti all’interno del garage del Reparto Operativo dei Carabinieri. Dapprima vengono effettuate le fotografie, otto, dell’autovettura così com’era”. “Che era stata sequestrata prima?”. “Ovviamente no, che era stata guidata da Olindo fino al garage. Presumibilmente perché viene fatta la scelta investigativa di non sequestrarla e di metterci dei microfoni ambientali, che non si riveleranno utili. Forse era il caso di sequestrarla subito, di certo avrebbe chiarito qualche punto nell’immediatezza ed avrebbe tolto qualche perplessità. A parte com’era arrivata comunque, dopo le fotografie viene effettuata una ricerca tramite ‘mini crimescope’ per la ricerca di materiale biologico.

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Su questa parte soffermiamoci un attimo, il mini crimescope appartiene alle così dette luci forensi, di cui fanno parte tutte quelle apparecchiature che emettono fasci di luce monocromatici ad una data lunghezza d’onda. Se per esempio si deve cercare dello sperma si userà una lunghezza d’onda nell’ultra violetto che lo rende fluorescente, ecc. Poi ci sono lunghezze d’onda generiche che permettono di esaltare una gamma di sostanze ed elementi importanti, per esempio io uso quella a 455 nano metri che mi dà dei risultati ottimi. Nella relazione del Brigadiere Carlo Fadda si legge: ‘Dava esito negativo: la ricerca eseguita mediante l’utilizzo dell’apparecchiatura ‘mini crimescope’, per la ricerca di materiale biologico’. Ma quali lunghezze d’onda ha usato? Quale frequenza? Cercava tracce ematiche o fluidi biologici in generale? Domande che non avranno risposte. Comunque, dopo la ricerca con le luci passa il Luminol. Ora però una piccola precisazione, il Luminol è un composto chimico che al contatto con il sangue, anche molto diluito, crea una chemioluminescenza bluastra molto intensa, ma visibile solamente al buio. In realtà interagisce anche con altre cose, come ad esempio il succo di pomodoro, infatti serve esclusivamente per indicare il punto di campionamento, poi le analisi di laboratorio possono o meno confermare la presenza di sangue. Il composto deve essere preparato al momento, i suoi cristalli devono essere attivati aggiungendoli ad una soluzione abbastanza complicata di perossido di idrogeno ed altro in acqua. In parole povere al momento di effettuare l’accertamento l’operatore deve aggiungere una polvere di colore bianco a una boccetta di liquido comprensiva di un nebulizzatore. Una volta aggiunta la polvere bisognerà agitare il tutto per almeno 20 minuti per far ben sciogliere la polvere. Una volta pronto, si spengono tutte le luci e completamente al buio si nebulizza nell’area che si deve analizzare, nel nostro caso si procederà in genere ad effettuare un quadrante alla volta dell’autovettura. Se appare una fluorescenza si fissa il punto, generalmente accendendo una piccola torcia al momento, e si campiona con uno stick monouso”. “Alcune cose non mi tornano, la traccia non viene fotografata e poi scusa ma è possibile che tutte le operazioni venga-

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no fatte da un solo operatore, Fadda? A me sembra tutto così complicato”. “Hai proprio ragione, le operazioni con il Luminol non possono proprio essere fatte da soli, immagina la scena, con una mano nebulizzi nell’area, poi vedi una fluorescenza, quindi con l’altra mano accendi la torcia, e poi con l’altra mano campioni ed infili lo stick nella custodia”. “Ho capito… servono troppe mani: e per fotografarla?”. “Sul fatto che non sia stata fotografata credo che sia normale quando si tratta di autovetture. La fotografia del Luminol viene effettuata al buio completo, con tempi di posa, dell’apparecchio fotografico, di circa 30 secondi… quindi con il cavalletto. Questo implica che è quasi impossibile posizionare un apparecchio fotografico con il cavalletto che riprenda a priori (perché non si sa dove possano avvenire le chemioluminescenze) un quadrante e poi nebulizzare il Luminol. Lo vedo veramente impossibile. Comunque ricapitoliamo le azioni che vennero effettuate: le fotografie, ti ricordo 8 scatti; la ricerca con il mini crimescope (di cosa non sappiamo); la nebulizzazione del luminol; la fotografia dei quattro punti dove si avverte la chemioluminescenza ed infine le relative quattro campionature. Di queste si riscontrerà che solamente la terza, presente sul battitacco dello sportello lato guidatore, era sangue e in particolare di Valeria. Per quanto riguarda la chemioluminescenza della campionatura nr. 1, relativa alla portiera sinistra tra la maniglia e la griglia del diffusore sonoro, viene effettuata anche un’analisi speditiva mediante Hexagon Obti, è un test che sembra quello per vedere se si attende un bambino, molto semplice, che dice nell’immediatezza se è sangue umano. Il test dà negativo. Ovviamente è sempre una scelta rischiosa, parliamo di micro campionature ed invece di spedirle al laboratorio si decide di sfruttarne una parte (poi vai a sapere quanto ne hanno messo) per avere un risultato indicativo immediato, non ho capito bene il perché effettivamente. Ma non finisce qui, prendi le immagini originali, quelle digitali tratte dall’apparecchio fotografico, sì, quelle in quella cartella lì. Vedi qual è l’ultima delle 8 foto che riprendono l’auto, prima della ricerca con il mini crimescope?”.

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“Sì, eccola, fa vedere l’interno del sedile posteriore, l’orario che riporta la fotocamera al momento dello scatto è: 23.30 e 41 secondi mentre la prima che riprende la chemioluminescenza è stata effettuata alle 23.37 e 32 secondi. No, aspetta, scusa… ma così è impossibile, come potrebbe averlo fatto? Soltanto per preparare il Luminol ci vogliono 20 minuti!”. “Calcolando che Fadda doveva fare tutto da solo, io vedrei meglio un’altra fotografia, me ne sono accorto l’altro giorno… vedi la 3^ foto e guarda come l’ho schiarita in parte, cosa vedi?”.

“Che c’è un’altra persona, dietro la Seat… Fadda non era solo”. “Esatto, ma lui lo dice pure, che non era solo. Dice che c’era Olindo a controllare, ora se ingrandisci bene…Vedi l’altro uomo? Ha una boccetta del Luminol in mano, che dici? Sembra Olindo che aiuta Fadda a preparare il Luminol?”.

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“Non ci posso credere, dimmi che non è vero”. “È vero, è vero…”. “Ma poi il risultato delle analisi sulle quattro tracce trovate è importante, la traccia numero 3, come abbiamo detto, appartiene alla Cherubini, un elemento che aiuta tantissimo l’accusa, direi schiacciante. Però mi domando, quella traccia come c’è finita sul battitacco dell’auto sul lato guidatore?”. “Dopo 15 giorni certo è difficile dirlo… Olindo nella sua prima confessione non riesce a darne una spiegazione, dato che si erano totalmente cambiati i vestiti. Lui pensa addirittura che la traccia possa essere caduta per gocciolamento dai capelli, pensa un po’. In realtà la spiegazione potrebbe essere un’altra, che poi verrà contestata addirittura in aula dalla difesa. La possibilità che la traccia sia stata lasciata dai Carabinieri che la mattina, a distanza di poche ore dall’evento e dopo la perquisizione nell’abitazione dei Romano, effettuano proprio una perquisizione nell’autovettura. La perquisizione viene effettuata dal Luogotenente Gallorini, sempre presente in qualità di Comandante, dal Maresciallo Capo Luca Nesti, dall’Appuntato Salvatore Rizzello e dal Carabiniere Vito Rochira”. “Ma scusa, sia Gallorini che Rochira sono entrati - risulta a verbale - nell’appartamento sia della Castagna che dei Frige-

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rio a fare un’ispezione quando ancora i Vigili del Fuoco erano all’opera, i casi sono due o avevano dei sovracalzari quando sono entrati nell’appartamento o possono aver lasciato loro la traccia”. “Premesso che in molte fotografie si vedono vari personaggi, da chi viene a traslare le salme ai Vigili del Fuoco, tutti senza alcun tipo di protezione alle scarpe, il che lascia sicuramente perplessi, il punto è che Gallorini dice una cosa diversa in dibattimento. Non possono averla lasciata loro due perché… non l’hanno fatta loro quella perquisizione nella Seat, anzi l’unico ad averla fatta è stato l’Appuntato Moschella mentre poi ad interagire con l’auto - per mettere le microspie ambientali - è stata una ditta privata che, ovviamente, non aveva interagito con la scena del crimine”. “Cioè, mi stai dicendo che l’unico carabiniere che non firma il verbale e non viene riportato nel verbale è quello che effettua materialmente la perquisizione? Ma può essere un atto valido? A me sembra che Gallorini si sia accorto della cappellata e abbia cercato di smorzare la situazione”. “Esatto, gli viene contestato in aula, ma secondo lui avviene questo: solo Moschella. Sulla validità non mi esprimo, ma anche ad annullare l’atto della perquisizione di per sé non cambia molto. Sarebbero da annullare gli atti sequenziali invece, come gli accertamenti tecnici che abbiamo visto, magari quello sì”. “Senti, la perquisizione nella casa dei Romano risulta negativa: viene fatta quella notte, non avremmo dovuto trovare qualche traccia, un qualche piccolo indizio?”. “Non dimentichiamo che la pianificazione, per quanto approssimativa, dell’aggressione e non voglio dire dell’omicidio, avviene il pomeriggio, almeno due ore prima dell’evento con il distacco della corrente elettrica. Un tempo idoneo per preparare un tappeto dove cambiarsi, abiti puliti, scarpe pulite. Pure la ricerca che fanno negli scarichi è negativa, ma ricordiamoci che loro togliendosi gli abiti si puliscono con gli stessi e con il rubinetto fanno solamente la pulizia finale, non credo che siano state molte le tracce entrate in quegli scarichi. Direi proprio scarse e diluite, penso siano state impossibili da rilevare”.

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8 gennaio 2007, ore 13.30: Olindo sta leggendo ad alta voce il giornale a Rosa, che è in pantofole. Suonano i carabinieri, loro non si rendono conto di quello che sta accadendo, pensano siano venuti a liberarli dall’assedio della stampa; Rosa si preoccupa di ricordare al marito dove sono le scarpe, di prendere il portafogli; e chi chiude cosa. Invece li stanno arrestando. Ecco Erba: è qui.

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Capitolo 18

Hanno confessato

L’hotel si chiama Barcelò e ha un numero spropositato di stelle. Armando, che ama le cose semplici, storce un po’ il naso di fronte a questo lusso, che invece a me piace decisamente. Ci ritroviamo al quattordicesimo piano della torre, con lo strepitoso spettacolo della bufera a 360 gradi. Vista da qui, sembra uno spettacolo innocuo: ma abbiamo rischiato grosso. Fuori c’è un silenzio irreale. Il traffico dell’A4 sta svanendo lentamente. Ci siamo solo noi, gli abitanti della torre. O i prigionieri? Dopo una doccia bollente il mondo ci sembra migliore. Possiamo riprendere a ragionare, perché siamo arrivati al grande snodo di questo caso. La stanza è un open space: parquet chiaro, bagno a vista con lavabo bianchissimo tutto arrotondato, tutta la metà superiore della parete sopra il letto è a specchio. Dalla parte opposta, sotto il muro, un bianchissimo e lungo tavolo da lavoro sul quale arriva una luce blu. Perfetto, possiamo cominciare. “Due cose vanno dette: da Raffaella del casino c’era e da prima che si sposasse. Era giovane, invitava gli amici, c’erano cene. E lei di sicuro non era una persona silenziosa. In casa sua c’era un viavai di arabi che agli occhi dei vicini (come confermerà anche Mario) non era tranquillizzante. E non lo erano nemmeno i precedenti di Azouz. Questo va detto. Adesso non è che dobbiamo beatificare le vittime. “Gli unici che ribollivano, in tutto il cortile, erano Olindo e Rosa. Gli amici di Raffaella testimonieranno le urla e gli insulti che partivano da loro anche quando rumore proprio non ce n’era. Su questo non ci piove. Ma si può uccidere perché il vicino ti dà fastidio? Può essere un movente? Come sai, Fabio, quando si parla di movente ci vado molto cauto. Non credo che ci debbano essere sempre moventi particolarmente importanti, molto spesso la cronaca nera ci fa vedere dei casi dove da una banale lite per

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un parcheggio si arriva all’omicidio. È l’escalation che genera questo. Siamo noi che ci aspettiamo che un omicidio debba per forza avere un movente importante. Ora, vediamo nel nostro caso una discussione legata al rumore che viene dai Castagna al piano superiore. A quel fastidio i coniugi Romano ci aggiungono il fatto di dover vedere degli stranieri nel ‘loro’ cortile, stranieri che ritengono traffichino droga. Da lì una discussione, la parola fuori posto, l’esposto, gli spintoni, il pedinamento, te lo ricordi che i Romano vennero sorpresi a pedinare Raffaella, vero? Ecco un susseguirsi di eventi che può saturare lo spirito dei Romano; e credimi, ho visto molto di peggio”. “E ti dirò di più. Qualche anno fa mi sono imbattuto nel tizio che ha ucciso la vicina di casa perché aveva addestrato un pappagallo che lo insultava131. Oppure del classico vecchietto che uccide il vicino perché tiene la tv troppo alta132. Non parliamo della stessa cosa? E quindi certo, è come dici: il problema del movente proporzionato al reato non esiste”. “Quindi, detto che discutere se il movente ha senso o no è una perdita di tempo, contro di loro fino ad ora c’è: l’ostilità violenta verso le vittime e la mancanza di un alibi; la testimonianza di Mario. E i dati criminalistici. Non è poca roba133. Ma ora sta per cambiare tutto. E su queste testimonianze comincerà un casino che non è ancora finito. Leggimi quel riassunto che avevi preparato”. “Primo interrogatorio di Olindo, 8 gennaio 2007. L’uomo conferma che erano assenti da casa. Non sa come possa esserci del sangue sugli indumenti sequestrati nella lavatrice134. Su 131 Il 2 maggio 2017 a Capoterra (Cagliari) Ignazio Frailis accoltella Maria Bonaria Contu. I dissapori nascevano per la gestione dei 13 tra gatti e cani dell’uomo… e del pappagallo della vittima. 132 È successo a Villaricca (Na) il 12 giugno 2014 (Giovanni Chianese, incensurato, uccide Davide Elia Miccio). 133 Secondo i PM ci sarebbero elementi fortemente indiziari anche nelle intercettazioni: sinceramente, a noi non sembra. Sono frasi da cui traspare tutto l’astio dei Romano verso i Castagna, certo, in cui non c’è nessuna pietà per le vittime, certo, in cui si sospettano come autori i “marocchini” amici loro, ma niente di più. 134 In realtà, come già sappiamo, il sangue non c’è. È il classico trucco per far confessare…

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Raffaella: ‘Non c’era verso di fargliela capire. Questa più che schiamazzi e casino non faceva mai, questa’. Dice che quando faceva feste bisognava dormire sul divano: e ne faceva due a settimana. Che a nessuno fregava nulla. Conferma che una volta le ha tirato contro un vaso di fiori, le diceva ‘troia, puttana’. Poi gli raccontano per filo e per segno tutto quello che ha dichiarato Mario, accusandolo. Olindo replica: ‘Prendo atto che mi si invita di nuovo a riflettere sul fatto che per le accuse a mio carico rischio l’ergastolo. Pazienza. Vorrà dire che smetterò di lavorare e che avrò vitto e alloggio gratis’”. Primo interrogatorio di Rosa, 8 gennaio 2007. Dice di essersi fatta quel taglio all’indice della mano destra 4 giorni prima del delitto, a casa dell’avvocato Mariani, dove andava a servizio. Le viene contestato che, la notte della strage, il sangue era invece vivo sotto il cerotto. Racconta che dopo il matrimonio Azouz e Raffaella avevano iniziato a litigare e lui la picchiava, poi aveva installato abusivamente una parabola. Un’altra volta, Azouz aveva lavato il suo appartamento con la canna dell’acqua, allagando le scale. Provano anche con lei il trucchetto del sangue. Non funziona. Il primo round si conclude insomma senza vincitori, ma la Procura ha un asso nella manica: tenere separate le due metà della mela, Olindo e Rosa. E farli consumare… Secondo interrogatorio di Olindo, 10 gennaio 2007, dalle 14.45 alle 15.10. Olindo ha chiesto di incontrare i Pm: vuole parlare, però è indeciso su cosa fare e cosa dire, è confuso. Alla fine ammette che ha chiesto di vederli per poter incontrare Rosa. Vuole prendere tempo, parlare col Gip, pensarci bene prima di dire qualcosa. Dice che non sa cosa fare. I Pm cercano di fargli capire in tutti i modi che gli conviene parlare. Ma Olindo ripete che quello che lo preoccupa davvero è sua moglie. Che Rosa non c’entra niente. ‘Nella mia posizione, sinceramente, cosa mi conviene fare?’, chiede. Alla fine riconferma il primo interrogatorio; e chiede per l’ennesima volta di vedere lei. In un rumore di fascicoli che si chiudono la deposizione finisce. I Pm sono innervositi, Olindo è paralizzato dalla paura. Viene autorizzato a parlare col suo avvocato, i magistrati intanto prima di passare a Rosa, consentono a marito

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e moglie di vedersi. Sono le 15.15, più o meno. Sono 4 minuti di dialogo. ‘Mi diceva il suo collega che volendo si può anche lavorare e percepire uno stipendio’, dice Olindo -quasi organizzandosi per il futuro- all’agente della Penitenziaria mentre aspetta. Olindo è pratico, ha parlato col magistrato. Dice Rosa che se confessano c’è il rito abbreviato, le attenuanti, e intanto lei esce. Bisogna ‘tagliare le gambe al toro’. Rosa si oppone, piange. ‘Non c’è niente da confessare, niente’, ripete. Secondo interrogatorio di Rosa, 10 gennaio 2007, ore 15.25-16.30. ‘Ma era così tremendo ‘sto fastidio, così tremendo? Eh? Mamma mia, per quattro rumori!’, inizia il Pm Astori. È passato un minuto e 44 secondi dall’inizio dell’interrogatorio, circa 5 dal colloquio col marito, quando Rosa dice: ‘Sono stata io, perché da tempo non ce la facevo più a sopportarla. Non ne potevo più di mal di testa’. Colpo di scena! Olindo? Era di sotto e dormiva mentre lei uccideva, è solo venuto su, ha visto i corpi e le ha chiesto ‘ma cosa hai fatto?’, mentre la porta di casa Castagna era ancora aperta. Poche parole: Rosa chiede che siano i magistrati a farle le domande. E risponde. Quella sera è fuori in cortile a sistemare cose, quando vede rientrare Raffaella e le dice di finirla coi rumori, quella le risponde con un sacco di parolacce. La luce gliel’ha staccata prima, alle 19.30. Astori cerca di capire quante volte Rosa ha acceso la luce delle scale: quel ‘tre volte’ è uno dei punti di svolta dell’interrogatorio: quando Olindo è arrivato e poi quando hanno affrontato Mario. Già, e quando è arrivato Olindo? ‘Quando ha visto tutto per terra’135. Ammette che è stato Olindo -mentre stavano uscendo dall’appartamento- a colpire Mario con due pugni atterrandolo, mentre lei lo ha accoltellato così come ha colpito Valeria, che è rimasta sui primi due gradini verso il piano di sopra. Rosa però inverte le cose: dice che prima è scesa Valeria e poi Mario, richiamato dalle grida di aiuto di lei. È falso. Il Pm le dice di ricominciare da capo. Rosa fa capire che c’era un problema anche con Azouz. ‘Mi spaventava’. Piange. Lui le faceva paura e più volte l’aveva minacciata dicendole che l’avrebbe ‘scopata’: si ‘tirava giù la 135

Si riferisce ai corpi di Raffaella, Paola e Youssef.

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cerniera dei pantaloni’, mostrandoglielo e dicendole che glielo avrebbe fatto provare; una volta l’aveva palpeggiata. Poi dice che si sono cambiati completamente, anche se i loro abiti presentavano poche macchie di sangue; e che si è lavata le mani sporche di sangue. E che hanno buttato tutto insieme in un sacco della spazzatura poco fuori dal condominio, lasciandolo fuori dal cassonetto; poi si corregge e dice no, sulla strada per Como. Altre domande: Rosa dimostra di sapere come sono distribuite le stanze di casa Castagna. Ma Astori picchietta con la penna sul tavolo: quella non è tutta la verità, Rosa vuole salvare il marito. Ricominciano daccapo. Ma Rosa comincia a mischiare verità e balle. Per esempio, spiega che ha seguito Raffaella portandosi dietro un coltello di casa nella sinistra e ‘un ferro’ nella destra, che stava nella loro lavanderia e che aveva prelevato lei da una discarica. Indossava dei guanti. La trova con la porta di casa aperta, la casa buia. Colpisce Raffaella nel corridoio, in testa136, standole di fronte, “vicino la porta della camera da letto”, usando la mano destra. Fin qui ci sta, poi però se ne esce che ha ucciso Paola e Youssef 10-20 minuti dopo, quando sono rientrati: Paola nel corridoio (‘vicino la camera del bambino’) e il bambino nella zona soggiorno, che invece è corretto. È chiaro però che mente anche, quei minuti non esistono. Il Pm Fadda le dice allora che ha detto metà vero e metà falso. Le chiedono di Youssef, di far vedere come l’ha colpito: lo accoltella con la sinistra137, mentre è in piedi sul divano, tenendolo fermo con la destra. Astori ha gli occhi spalancati. Rosa cerca di salvare Olindo: lui ha solo gettato a terra Mario e gli ha dato due pugni, l’ho accoltellato alla gola e colpito col ferro io. Altra contraddizione: hanno dato fuoco a tutto insieme, senza alcun combustibile, solo con un accendino che s’era portata su… ma prima aveva detto che era stato solo Olindo, a farlo… Allora lo ammette: lei ha fatto la camera del bambino, Olindo la matrimoniale. Poi comincia a sbagliare: nega che abbiano cercato di dare fuoco anche ai corpi e dice che ha picchiato 136 137

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In un altro passaggio dice invece che Raffaella stava entrando in casa. Rosa è mancina.

Mario sulla testa. I Pm le contestano ancora ‘che non è possibile che da sola ha fatto tutto quel macello lì’; e c’è ancora una pausa di riflessione. Rosa ha una sola preoccupazione e la butta fuori piangendo: ‘Non fate del male all’Olindo’. Ha paura che lo torturino… Terzo interrogatorio di Olindo, 10 gennaio 2007, ore 16.45 - 21.25. Gli dicono che la moglie si è assunta tutta la responsabilità, coinvolgendolo nel solo incendio della casa. Dice che non è vero. Allora gli fanno ascoltare i primi due minuti delle dichiarazioni della moglie. Dice che la sua verità è ancora diversa, ma vorrebbe attendere ancora un po’ prima di dirla. Che quella di Rosa ‘non è vero niente’. È qui che il Pm riesce ad aprire una crepa, quando gli chiede chi dei due gli desse più fastidio: Raffaella o Azouz. Lei, dice Olindo: cominciava a fare rumore presto, picchiava sul pavimento, contro i caloriferi, usciva sul balcone e muoveva i bidoni della pattumiera, tutti i giorni e spesso anche di domenica. Erano 6 anni che non ce la facevano più. Scorrono pagine e pagine di racconto di quegli anni di tormenti -che salto- e poi… Quella sera, e qui Olindo inizia a raccontare, è in cortile a fumare, la Lancia K arriva e lui viene assalito dal rancore verso Raffaella: decide di darle una lezione, anche se non vuole uccidere. Le stacca la luce138. Prende uno dei coltelli dalla cucina. Poi si mette dei guanti e prende una sbarra di ferro, tutta roba trovata in discarica139. Entra dal portoncino, usando delle chiavi che gli erano state consegnate per errore e si era tenuto. La porta è aperta, forse perché stanno portando fuori la pattumiera. Quando sente le voci che si avvicinano, entra. La luce dentro casa è spenta140, quella della scala invece l’ha accesa lui. Aggredisce per prima Raffaella che sta uscendo sul pianerottolo: le dà delle sprangate in testa. Poi passa a Paola. Poi a Youssef, anche se qui è fumoso. Ma le donne si lamentano, allora torna e le colpisce alla 138 Questo resta un particolare controverso. Nel corso dello stesso interrogatorio Olindo dirà che forse l’ha staccata Rosa, lui no di sicuro… 139 Olindo insomma comincia a confessare, ma facendo attenzione a evitare l’aggravante della premeditazione. 140 In un altro passo dello stesso interrogatorio dice invece che Raffaella si era ri-accesa la luce da sola, dal salvavita.

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cieca, anche alla gola, anche se non ricorda come ha fatto a uccidere Paola. Qui però tira fuori un particolare su Raffaella: “le ho messo un cuscino sulla testa per… come per soffocarla”. Appicca il fuoco, con un accendino, usando quello che trova, buttando dei libri sul letto141. Quando il fumo si fa insopportabile fa per uscire e si trova Mario davanti. È buio. Lo colpisce con la spranga, ma non in testa142; e poi usa un altro coltello piccolo che ha sempre con sé nei pantaloni, perché il primo l’aveva lasciato cadere. Finito con lui, aggredisce Valeria con coltello e spranga su testa e schiena. Ma al coltello si è allentata la lama, dondola, allora lui con una mano la tiene ferma e con l’altra cerca il coltello, tanto che il Pm Fadda gli chiede se lui è ‘l’uomo elastico’… La lascia sulle scale. Torna a casa: Rosa non si è accorta di nulla per via della tv. Mentre vanno a Como le confessa il delitto e gettano tutto in un cassonetto, il cui contenuto il giorno dopo sarebbe stato incenerito. I giudici sono perplessi: è una versione opposta a quella di Rosa. E poi, chi è Olindo, Terminator? ‘Non si fa un macello così da soli in dieci minuti!’, gli dice Astori. Gli contestano anche che non ha saputo descrivere l’omicidio del bambino e l’incendio della sua cameretta. E che invece Rosa ha descritto bene la camera del bambino. Gli chiedono di pensare bene a quello che dice. Pausa. Alla ripresa Olindo chiede che sia presente il maresciallo Finocchiaro e conferma la sua versione, ma specifica che l’incendio della cameretta, l’omicidio del bambino e quello di Valeria li ha commessi la moglie, quest’ultimo insieme a lui. È la svolta. Racconta: che la decisione l’hanno presa insieme un paio di mesi prima, quando era arrivata loro la citazione per l’udienza del 13 dicembre143, perché da vittime erano diventati addirittura imputati. Studiavano da un po’ le mosse dei Castagna e del vicinato ma non volevano ucciderli, solo dare una lezione. Le armi erano una sbarra staccata dal crick del La stessa modalità descritta da Rosa. Anche Olindo dice che ha usato il coltello con la sinistra e la spranga con la destra, come Rosa. Lo fa per salvarla. 143 Udienza per l’unica querela ancora in piedi tra loro e i Castagna, ne abbiamo parlato prima. Lesioni personali, minacce e insulti. 141 142

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suo camion di lavoro -che aveva infilato in un tubo di gommaun coltello a scatto e uno da cucina144. Nelle due-tre settimane precedenti si erano già appostati sul pianerottolo dei Frigerio per aver l’occasione di colpire quando Raffaella rientrava, ma avevano mancato l’attimo. La sera del delitto invece erano entrati nella palazzina e avevano aggredito lui Raffaella e Paola, lei Youssef, poi insieme le avevano finite, lui di spranga e lei di coltello. Mentre resta la confusione su buio o luce dentro l’appartamento, Olindo specifica che le coltellate alla gola delle due donne le aveva tirate Rosa che, essendo mancina, aveva usato la sinistra. Lui impugnava la sbarra. È qui che Olindo comincia a parlare al plurale. Allora si rendono conto della gravità di quello che hanno hanno fatto e decidono di mettere fuoco alla casa per cancellare le tracce, anche se hanno paura di far danno anche alla loro. Lui appicca il fuoco alla camera matrimoniale e lei alla cameretta del bambino. Non ricorda se hanno messo fuoco anche alle due donne. Quando escono però si trovano davanti Mario e decidono di aggredirlo. Anzi, sono già usciti e Rosa ha già chiuso con le chiavi lasciate appese all’interno, e lui era già sotto, al portoncino, quando ha visto Valeria che torna col cane; torna su di corsa, per rientrare in casa di Raffaella e dire a Rosa di non uscire. Mario, poi, l’ha colpito sul pianerottolo con la spranga e non coi pugni, cercava di prenderlo alla testa ma non sa, nel fumo, se ci è riuscito; poi è caduto dentro l’appartamento. Intanto Rosa, con una mano sulla bocca di Valeria, la colpisce. Lui va ad aiutare Rosa col secondo coltello però la lama dondolava, allora ritrova il primo, che aveva lasciato andare per colpire Mario, e la colpisce alla testa, ferendo anche Rosa all’indice destro. E nessuno di loro ha inseguito in casa Valeria: la lasciano con la testa in giù, verso la porta insomma, sulle scale. Dice che non si sono mai divisi i compiti. Dice che non era tutto premeditato145, che non volevano ucciderli ma pestarli e quindi i Dice che ce l’aveva in auto già così fatta da due anni “sa quando vai in giro non si sa mai se trovi qualche deficiente e tiri fuori la stanghetta”. 145 “Noi quando siamo partiti, siamo partiti per dargli una lezione. Quando siamo entrati nell’appartamento, io non so che cosa sia successo, abbiamo ucci144

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vestiti di ricambio non erano già pronti in lavanderia (si sono cambiati perché poi sangue ce n’era), così come non avevano pensato di nascondere il viso. Sono andati su a dare una lezione, e poi è finita com’è finita. Poi dice del lavatoio vicino il cimitero di Longone al Segrino dove si sono sciacquati via delle macchie residue, e dove hanno diviso tappeto e vestiti in tre sacchi più piccoli che poi hanno buttato in tre cassonetti: uno del vicino cimitero, poi, sulla strada per Como, uno ad Albavilla e uno a Lipomo. Terzo interrogatorio di Rosa, 10 gennaio 2007, ore 21.35 22.56. Dieci minuti e qualche caffè dopo aver chiuso con Olindo, i magistrati cambiano stanza e riprendono con la moglie: Rosa è più tranquilla, ‘perché so che l’Olindo ha preso tutte le colpe lui’. Doccia fredda: non è vero, e glielo dicono, anzi le leggono il verbale riassuntivo delle dichiarazioni di Olindo, sia delle prime che delle seconde. Ma Rosa scambia la prima per la seconda e comincia col confermare insomma la prima, quando ci si aspetterebbe che confermasse la seconda: glielo devono spiegare, che stanno leggendo la prima. Non ha l’aria di capire. È un punto strano, questo. A molti è sembrato che non sapesse nemmeno lei cosa confermare e che questa fosse la prova della sua innocenza, ma pensateci un attimo: non è così. Rosa entra convinta che Olindo si sia preso la colpa lui e l’abbia scagionata, che è poi l’ultima cosa che le ha detto lui in quei cinque minuti che si sono parlati. Le leggono il primo verbale, e cosa dice? Questo. È il verbale che le fa comodo e quindi lei conferma, perché è quello che, stando a quanto le ha detto Olindo, gli farebbe fare solo 5 anni e poi sarebbero stati di nuovo insieme. Il male minore. Ma alla fine del secondo verbale di Olindo Rosa capisce che il marito ha confessato tutt’altro da quello che le aveva detto: ‘Ho fatto tanto casino’, ammette. La prima confessione ‘non è vero niente’. E allora comincia a confermare la versione di Olindo, l’ultima, confermando quello che i Pm avevano già capito: lui aveva la spranga e lei il coltello. Con qualche precisazione: che Mario l’ha colpito solo Olindo alla testa (ed è falso), so e basta. Noi siamo partiti per fare una cosa e poi ne abbiamo fatta un’altra”.

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Valeria insieme. Lei ha colpito Valeria solo alla gola e alla coscia, Olindo alla testa. Nega poi che sono usciti e rientrati perché saliva Valeria. Poi ci ripensa e conferma. Altra differenza: dice che hanno fatto un sacco solo di tutta la roba. Insiste che il bambino ha gridato, quando i siriani non l’hanno sentito. Aggiunge invece che a Como Olindo getta via le calze imbrattate di sangue in un cestino e che la decisione di uccidere l’hanno presa il giorno prima, che si erano divisi i compiti. L’esasperazione, dice, l’ha indotta ad agire a viso scoperto. ‘Ho deciso di uccidere il bambino perché piangeva e mi aumentava il mal di testa. Il bambino mi avrebbe visto e l’ho ucciso perché urlava così tanto. La nostra vita era diventata impossibile, volevamo dare una lezione al Marzouk’. Poi, di colpo nega di aver mai staccato la luce. La invitano a dire se Azouz l’aveva violentata e le dicono che sarebbe l’unico elemento a suo favore, ma lei dice che non vuole parlarne. È notte alta, le 23.30, quando Olindo e Rosa, alla fine di una giornata allucinante, si incontrano di nuovo e fanno una cosa strana: fanno programmi e non discorsi da innocenti costretti a confessare. Nuovamente intercettati, sembrano liberati da un peso, dicono che si incontreranno, che andranno a scuola, faranno lavoretti in carcere, si potranno vedere una volta al mese. E Rosa dice che è contenta di aver fatto quello che hanno fatto e ‘guarda che non sono cattivi’. Davanti al Gip il 12 gennaio, ribadiscono la loro ultima versione. Finita? Mica tanto”. Intorno alla torre c’è un silenzio assoluto. Il mondo si è fermato. Mettiamo un dvd nel pc: è l’intervista fatta dal criminologo Massimo Picozzi a Rosa del 24 febbraio 2007. Picozzi, loro consulente all’epoca, registra un video di 38 minuti, per fare una valutazione della loro personalità al fine di una possibile, successiva perizia psichiatrica146. Qui Rosa rac146 La scappatoia della perizia era stata ideata dal primo avvocato della coppia, Pietro Troiano, ma non verrà poi usata dai nuovi difensori e l’incarico al criminologo verrà revocato. Una volta che la difesa aveva deciso di non utilizzare più questi filmati, non è stato più possibile introdurli nel processo neanche per l’accusa, perché si trattava di materiali prodottì dalla difesa e quindi utilizzabili esclusivamente a sua discrezione.

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conta che Azouz l’ha violentata dentro casa sua, nel novembre precedente. Eccola. “Non c’era nessuna legge, non c’era nessuno che mi aiutava”. Rosa soffre. “Lui è entrato nel mio territorio, se lui mi picchiava fuori mi andava bene, io potevo anche lasciar perdere, ma lui è entrato nel mio mondo, cioè per me io chiudevo la mia casa stavo nel mio mondo, lui è entrato… nel mio corpo, è entrato in casa mia”. Avanti veloce. “Sembrava un negozio quando si tira giù la tapparella, sono andata da Olindo e ho detto basta, perdo tutto quello che ho, mi son guardata la mia casa, perdo tutto ma non ce la faccio più, ho preso un pezzo di ferro… e ho detto, bene, te la faccio pagare io, ho preso il coltello, sono arrivata a metà scala e sento che stava arrivando un’altra persona, non mi importava chi era… era l’ Olindo, mi è passato davanti, in questa mano (la destra, N.d.A.) avevo il ferro, me l’ha tolto, mi è passato davanti, la porta era aperta, è partita una cosa dai piedi, è salita, quando è arrivata allo stomaco, ho sentito come vomitare (…) niente, Olindo è entrato, lei gli ha dato il colpo, lei la mamma è caduta, si è accasciata subito, lei invece si è alzata subito, mi ha sputato in faccia, si è messa a ridere, abbiamo lottato insieme, lì le mani sono andate, il ferro è andato… ho cominciato a pestare, a pestare, cioè più picchiavo, più picchiavo, più accoltellavo, più mi sentivo… è stupido a dirglielo… forse non dovrei dirglielo… però mi sentivo… più sollevata… mi sentivo forte. Anch’io avevo le mie forze, combatti con me adesso… Fai adesso… reagisci… quando andava per terra era io che la raccoglievo… quando la accoltellavo lei parlava ancora… perché quando siamo usciti erano vivi ancora… io dicevo, parla, reagisci… mi sentivo… anch’io sono diventata forte. Anch’io sapevo che potevo difendermi…”. Che dobbiamo dire? Secondo dvd. Silenzio. Intervista del criminologo Massimo Picozzi a Olindo, febbraio 2007. “Non sono mai stato razzista. Quelli hanno abitudini diverse, le posso accettare, ma se si mettono a cantare sotto la mia finestra divento razzista. Quella faceva una festa dietro l’altra”. Avanti veloce: “In macchina avevo un grosso ferro. Lo tenevo sotto il sedile perché in giro non si sa mai. Prendo

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quello. Mia moglie il coltello. Ma il coltello era per difendersi, almeno così avevamo in testa. Poi ci siamo scatenati e abbiamo fatto strage. Se devo dire la verità, quando ho ucciso non ho provato né piacere né disgusto. Era una cosa naturale, come ammazzare un coniglio. Se l’è cercata, le sta bene. Non mi dispiace niente”.  “Fabio, qui non solo abbiamo altre due confessioni, ma la cosa interessante è che per la prima volta ne parlano in modo molto emotivo. Poi a giugno 2007 c’è stato, però, un cambio di avvocati, giusto? E addio perizia”. “Esatto, Armando. Da Paolo Troiano a Schembri, Bordeaux e Pacia. La linea difensiva cambia: non ammettere nulla (altro che perizia psichiatrica!) ma contestare tutto dalle fondamenta. Dopo lo smarrimento dei primi mesi, la separazione, l’arresto, quel senso di colpa che ti sbattono in faccia i Pm, la tv, tutta l’Italia, è successo un classico: nelle loro celle Olindo e Rosa ci hanno ripensato e si sono detti: colpevoli, noi? Ma stiamo scherzando? Si sono ripresi dallo smarrimento. Ci hanno costretti loro, noi non meritiamo di marcire qui. E così si arriva alla ritrattazione: il 10 ottobre 2007, davanti al Gup. È un ribaltamento fatto di poche parole, non motivato, scarno: non è vero, non siamo stati noi. Prima di allora in ogni carta, richiesta, lettera, colloquio con altro detenuto, si erano riconfermati colpevoli e non pentiti”. “C’è, secondo me, una fase intermedia del loro percorso, che inizia con la confessione e finisce con la ritrattazione. Una fase intermedia, dove devono dare una giustificazione alle loro azioni, difendere la loro metà. Qui abbiamo il tentativo di addossarsi la colpa e contemporaneamente di alleggerire la loro posizione, quindi la colpa era dei Castagna che avevano invaso il loro mondo. Una parte però la vedo interessante, quando in particolar modo Rosa parla dell’aumento di forza mano a mano che l’azione omicidiaria si svolgeva… ecco, raccontare questo sentimento, questa sensazione personale, raccontare il proprio stato lo vedo come un atto molto sincero, che non può essere considerato parte di una ricostruzione fantasiosa”.

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Capitolo 19

Ma chi sono Olindo e Rosa?

“Eh sì, alla fine poi di loro non sappiamo che poche cose”, dice più a sé stesso che a me Armando, mentre scendiamo per raggiungere il ristorante dell’hotel. “E della loro psiche non sappiamo quasi nulla147. Il mondo di Olindo e Rosa è difficile da penetrare. Non frequentano nessuno e quasi nessuno li frequenta. Ti ricordi Mariella, amica d’infanzia di Rosa? Dice che loro due vivevano in simbiosi, isolati”. “Olindo d’altronde lo ammette, d’essere un solitario. Uno che non si fida degli altri, tanto che le poche amicizie le crea tutte la moglie. Uno che cerca gli altri proprio se non può farne a meno. Che non ama le imposizioni. Si definisce scontroso e irascibile e di Rosa ha amato, infatti, la solarità. Si sposano a settembre 1984 e da subito si dimostrano scontrosi col prossimo: a Merone comprano casa, ma non gli fanno fare certi lavori di ristrutturazione e se ne vanno. A Longone sul Segrino trovano dei vicini poco silenziosi e se ne vanno. Arrivano a Erba, sperando di trovare pace e silenzio in via Diaz. Sappiamo com’è andata”. “Figli Olindo non li ritiene necessari, d’altronde è sempre stato un po’ egoista e lo ammette; Rosa dal canto suo si rende conto che con quel marito un po’ ossessivo un figlio sarebbe entrato in contrasto e se ne fa una ragione148”. 147 Quel poco ce lo dice la psicologa del carcere di Como, Graziella Mercanti: “Siamo di fronte a un rapporto totalizzante, esaustivo rispetto a qualunque tipo di esigenza esistenziale, il rapporto diventa un contenitore di esistenza, di natura simbiotica, di dipendenza in cui la Bazzi mantiene un livello di autonomia maggiore rispetto al marito. Un rapporto inscindibile, la moglie è un prolungamento del sé per Olindo, l’essenza stessa della sua esistenza”. Altre considerazioni e informazioni arrivano dalla consulenza di Massimo Picozzi. 148 Comunque, dopo due anni di matrimonio avevano perso un figlio e un successivo intervento le precludeva nuove gravidanze.

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“Di Rosa dicono che litiga un po’ con tutti, i carabinieri che intervengono alle liti del cortile hanno l’impressione che lei soggiogasse lui. La madre di Olindo odia Rosa, un classico. Dice che è una vipera velenosa… Margherita, una vicina di casa, che non erano violenti, ma a conti fatti Rosa provocava Raffaella, urlava, se ne andava, poi tornava, se ne andava, insomma un caos”. Lei e Olindo la chiamavano Ciottolona, interdetta, cogliona. Daniela Messina, la vicina, ricorda che, quando passava Raffaella, Olindo le diceva “handicappata!”, lei rispondeva e lui concludeva “vai al Cottolengo, che almeno sei coi tuoi simili!”. “Comunque, hanno entrambe litigato con le loro famiglie. E Olindo quanto a insulti non era secondo alla moglie. Bellicosi, insofferenti, Olindo e Rosa non sono certo i vicini di casa che vorresti avere. Sono due tipi tranquilli basta che tutto sia fatto come dicono loro”. “E il vicino della porta accanto, Luigi Lazzarini149? Te lo sei scordato? Depone che, se sua moglie stendeva le lenzuola, subito i Romano si lamentavano, mentre loro in cortile ci mettevano lo stendino, le scope, tutto. Una volta Rosa, che era la più aggressiva dei due, gli dice ‘se non sposti la macchina ti rovino’. Un’altra vicina, la signora Emma Carangelo, dice che Rosa la insultava davanti al figlio (‘puttana, troia’) dicendole di tenere chiusa la finestra del bagno, perché arrivava cattivo odore150”. Eccoci arrivati, ci dirigiamo verso la sala della cena. “Sai che c’è? Questa storia è anche l’epilogo dell’incontro di due mondi opposti, tanto pieno di vita l’uno quanto chiuso l’altro. I Castagna erano certamente tutto quello che i Romano odiavano, trovavano insopportabile e anche minaccioso per il loro equilibrio. Ma bisogna essere proprio chiusi verso l’esterno per avere zero capacità di stare con gli altri, bisogna davvero non tollerare che esistano, questi altri”. “Che poi” fa Armando, sedendosi “casino da Raffaella ce n’era, certo. Lei ci aveva provato a mettere dei tappeti per Lazzarini non ha mai avuto problemi con i Castagna. Emma e il figlio non hanno avuto invece alcun problema con i Castagna, che abitavano al piano di sopra. 149 150

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smorzare il baccano. Faceva togliere le scarpe agli ospiti e gli raccomandava di non spostare le sedie in modo da far rumore… Ma dai…”. Armando si volta, sorpreso. In effetti, guarda tu: la sala ha enormi oblò da cui vedere il mondo e alberi senza foglie che spuntano dal pavimento. La sua sedia è color verde acido, la mia ha un disegno a pelle di mucca. “Ma non erano impregnati solo di astio e aggressività a parole, come dice la vicina. Olindo e Rosa sono anche quelli che mettono le mani addosso a Paola e Raffaella, che vengono fermati nell’aggredire Carlo, nel minacciarlo di morte. Di questo, Armando, mi sembra che molti si dimentichino”. “Certo. Sono anche quelli che dalla stazione di Erba fino a quella di Canzo-Asso, in auto, seguono il treno per far paura a Raffaella. Un pedinamento ostile. Ce ne vuole, per arrivare a tanto”. “E un’altra cosa che mi colpisce è lo strano rapporto di Rosa con Azouz. Nei primi tempi in carcere sogna che Azouz la picchia e lei non riesce a difendersi. Rosa dice che quasi fin da subito Azouz le aveva fatto allusioni sessuali, ma che lo stesso Olindo aveva minimizzato gli episodi; implicitamente, non s’è sentita difesa dal marito. Ossessionata dai gesti e dai commenti di Azouz, che poi ha negato di aver mai avuto qualsiasi interesse sessuale verso di lei, Rosa ha cominciato a somatizzare con cefalee e asma. Temendo d’essere aggredita, gira con un coltello. Le viene il dubbio di essere lei a provocarlo, e si mette vestiti slargati. A Picozzi racconta dell’ingresso furtivo in casa di Azouz, che la violenta. Il racconto dell’aggressione, di cui non parlerà mai coi giudici, è per lei quello che le ha fatto scattare la molla dell’aggressione: ‘perdo tutto, ma non ce la faccio più’”. “Ecco perché diceva che durante l’aggressione le sembrava di vedere il volto di Azouz su quello delle vittime! Il suo obiettivo principale era lui e ci restò male quando Olindo le disse che non c’era in casa…”. Ci sediamo e chissà perché mi viene in mente Picozzi. “Sai cosa pensa di loro lo psichiatra? Secondo me ci ha preso. Trova che lei non abbia patologie, ma che teatralizzi

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troppo. A lui trova un disturbo paranoide: Olindo legge tutta la sua vita in chiave di persecuzione. Lascia le abitazioni quando l’ambiente è secondo lui ostile. Lui e Rosa sono partiti da dati di realtà, si sono chiusi simbioticamente a difesa, hanno vissuto l’esterno come ostile e il nemico s’è scelto da solo: Raffaella. Hanno agito senza farsi domande: si sono sentiti, insieme, così potenti da negare ogni possibilità di essere scoperti. Nessun esame di realtà, nessuna visione di un’alternativa alla strage, zero senso critico. E l’omicidio li ha compattati ulteriormente. Non c’è senso di colpa, in loro, niente”. “Comunque, pensaci: da soli non l’avrebbero fatto, insieme sì. Una cosa è certa: se hanno mentito, se hanno confessato, l’hanno fatto comunque insieme. Alla fine del carcere a loro, passato il primo momento, gliene frega poco. Basta che ci mettete in cella insieme, chiede Olindo. Basta proseguire il trantran, va bene anche una cella, va bene anche buttar la chiave, ma insieme. Non li hanno accontentati”.

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Capitolo 20

La Bibbia

La cena è stata ottima e ci ha tirato su il morale. “Fabio, niente di meglio che leggere un po’ le Sacre Scritture prima di crollare dopo una giornata del genere, no? Così dormiamo il sonno dei giusti”. Se avessi davanti un abitante di Plutone lo guarderei con meno stupore. “Massì, la Bibbia di don Bassano Pirovano, no?” fa Armando ridendo. Vai a capire che parlava di quella che il cappellano del carcere di Bassone (Como) regala a Olindo! A un certo punto diventa parte di questa storia, per via degli appunti che lui scrive sulle sue pagine. Saliamo in camera e sfogliamo quelle parti degli atti in cui se ne parla. 24.4.2007: “Accogli nel tuo regno il piccolo M. Youssef sua mamma Castagna Raffaella sua nonna G. Paola e C. Valeria a cui noi abbiamo tolto il tuo Dono, la Vita”. 12.6.07 (sotto una foto di Raffaella): “Olindo e Rosa ti capiscono se non li avessimo uccisi tutti avremmo fatto la tua fine. Tutti sapevano nessuno fece nulla noi ti capiamo”. Poi in basso: “Riposate in pace”. Ma cosa gli era preso? Dovevano essere ancora nella fase del pentimento. 18.6.07: “Ringrazio il maresciallo Antonino151 ha detto le cose come sono successe e l’aiuto che mi ha dato con lui parlavo del camper dei canarini col suo collega verità al 30%. Tutti sapevano nessuno fece nulla per impedire la tragedia”. Qui riprendono a pensare che hanno fatto bene…152 Antonino Finocchiaro. È lo stesso pensiero che Rosa aveva espresso, intercettata in auto, il 20 dicembre: “Però quando noi andavamo dai carabinieri che dicevamo quello che succedeva… và se alzavano il culo e venivano giù… eh, se loro alzavano il culo non succedeva”. 151 152

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5.5.07: “Il contadino che semina raccoglie noi non abbiamo raccolto ciò che abbiamo seminato. Bensì abbiamo partecipato portati dall’odio e dall’esasperazione al raccolto che altri hanno seminato nel tempo volontariamente la cosa è diversa”. Senza data: “La vendetta è come un veleno che ti invade tutto il corpo”. 31.5.2007: “Oggi a colloquio con la mia vita153 mi ha raccontato che sono alcune notti che vede Raffaella davanti alla sua branda come quella sera col sangue che le scende sul volto e i colpi che io gli ho inferto quando la uccidemmo gli ha detto che abbiamo fatto bene a ucciderti, poi chiede alla Rosa di aiutare tuo padre che è in pericolo. Piccolo Youssef che è stato battezzato e come sua nonna ha ricevuto l’estrema unzione loro sono già nel regno dei cieli: Raffaella vaga tra i due mondi nel vento finché anche lei non troverà la sua pacenoi ti sentiamo ti abbiamo perdonata siamo pentiti anche se non completamente, un giorno ti perdoneremo con tutto l’amore dei nostri cuori. Ci hai rovinato la vita e il resto della nostra esistenza. Dicci cosa vuoi noi te lo daremo affinché tu possa trovare la pace, avevi tutto e ci hai rovinato che cosa vuoi ancora da noi che stiamo scontando la nostra pena per causa tua e della tua famiglia. Anche per noi verrà la morte e avrà i tuoi occhi Raffaella”. 28.7.07: “La vendetta ha la memoria lunga”. 31.7.07: “Dio perdona anche quelli come noi che su questa terra hanno vissuto l’inferno, sei sempre la mia anatroccola”. 23.8.2007: “(…) Forse accetteremo il suo perdono154 e lo perdoneremo quando io e mia moglie saremo ancora uniti, forse? (…) Sapeva tutto e non ha mai fatto niente per evitare una strage già annunciata. Per quanto riguarda i coniugi Frigerio dovevano farsi i cazzi suoi chiunque li ha uccisi ha fatto bene sono lui e il fratello e i figli spacciatori di droga”. 26.8.2007: “Coi piedi per terra. Se quello che dicono i no153 154

Cioè Rosa. Quello di Carlo Castagna, che ha pubblicamente perdonato Olindo e Rosa.

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stri due avvocati che conoscono i fascicoli, le dichiarazioni, gli orari detti dai testimoni etc etc. Quella sera né io né mia moglie stando alla loro ricostruzione avevamo il tempo materiale per uccidere i coniugi Frigerio, altrimenti non avremmo avuto il tempo necessario per salire in auto e uscire dal cortile senza essere visti. Come di fatto quella sera non abbiamo visto nessuno e nessuno ha visto noi ha visto la nostra auto era posteggiata fuori casa. A questo punto facciamo un passo indietro se quello che ho citato sopra corrisponde al vero. Rivediamo le deposizioni che abbiamo rilasciato ai carabinieri di Erba e di Como. Quella sera io e mia moglie siamo usciti di casa verso le 20 forse anche prima per andare a Como. Io e mia moglie in quel contesto eravamo e lo siamo ancora due imputati perfetti con tanto di movente, le liti con la famiglia Castagna e il M. Azus. Teniamo presente che non eravamo e non siamo i soli ad avercela con loro. Poi si è sparsa la voce che a uccidere erano stati dei vicini di casa e che era imminente l’arresto. Ai carabinieri stava sfuggendo di mano la situazione senza dirci niente ci hanno portato alla c.c. di Como risolvendo il loro problema. Qui siamo passati dalla disperazione alla confusione, dopo le pressioni dei giornalisti ma soprattutto dei carabinieri che venivano a casa nostra quando volevano come se fosse casa loro. F.d.P. poi qui in carcere divisi in isolamento non vedendoci non avendo notizie, abbiamo rilasciato le confessioni che ci hanno danneggiato ci siamo sfogati mischiando la realtà con la fantasia e le notizie apprese dai giornali dalla TV e non so cos’altro. Ci siamo trovati in qualcosa di più grande di noi non sapendo cosa fare nella nostra ignoranza. L’avvocato Troiani ha fatto poco o nulla. Quando abbiamo reso le confessioni io pensavo che mi avrebbero messo in cella con mia moglie, anche lei aveva questa speranza. In quei momenti eravamo smarriti confusi non ci rendevamo conto quasi di cosa facessimo e dicessimo ci volevamo proteggere a vicenda. Dopo la mia prima e la sua deposizione ci hanno richiamato dentro sempre uno alla volta per rettificare le due deposizioni e dargli una logica. Sembravano degli avvoltoi che volessero le nostre teste. Della verità non gli fregava niente volevano solo finire in fretta. Poi il nostro silenzio, la nostra rassegnazione e le nostre sofferenze.

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Poi la deposizione di mia moglie che non so neanche io cosa abbia detto -piccola ti amo-”155. 2.09.07: “Che prove hanno contro di noi? Frigerio chi ha visto realmente se ha visto qualcosa. La paura, l’hanno pagato per fare il mio nome o che altro. La prova biologica non ripetibile trovata dai carabinieri di Como dopo vari giorni chi ce l’ha messa. La mia auto è sempre aperta. Che altre prove hanno a nostro carico. Abbiamo fatto il loro gioco nella nostra ingenuità. Ma non è finita: a queste poche parole e domande ci crediamo solo io e la Rosa”. 29.10.2007: “Dopo un lungo silenzio una voce si leva, tra le tante, la nostra. Non vi è uomo che possieda tutta la verità, ciascuno ne conosce una parte. Di quella sera che mai alcuni di noi dimenticheranno… A voi non importa la verità, altri sono i vostri scopi, neppure un cagnolino scodinzola per nulla. Noi con la nostra verità e bugie, e i nostri errori, abbiamo dato loro corda, tanta corda. Noi perfetti capri espiatori stiamo già pagando, portati e indotti dalle circostanze e dagli eventi, non per quello che una parte di voi pensa: Ma non pagheremo per ciò che non abbiamo mai commesso…”. “Armando, secondo te cosa significano queste parole? Sarebbe facile liquidarle come sproloqui figli di un periodo confuso. Secondo me: uno, abbiamo fatto un massacro e un po’ ci dispiace, ma non è stata colpa nostra, ci hanno costretti loro. Due, siamo talmente convinti che sia così che non sappiamo se accetteremo il perdono di Castagna e se potremo mai, noi, perdonare lui. Poi, il 26 agosto, dopo aver cambiato avvocato, e aver sposato una linea più aggressiva e battagliera, ecco l’appunto che delinea la nuova strategia processuale, che infatti sarà esattamente questa156.” 155 Il cambio di avvocati è di un paio di mesi prima. Olindo ha appena riassunto quella che sarà la loro nuova linea difensiva. Questo appunto è, in pratica un promemoria. 156 Che dice Olindo di tutto questo? Al processo d’Assise dichiarerà che “erano scritti in linea con il mio pentimento. Alcuni scritti con una punta di rabbia, un modo come un altro per sfogarsi. Non volevo rivendicare nulla. Era solo uno sfogo e un passatempo”. Insomma, sminuisce la portata di quelle parole ed è ovvio: se la linea al processo era “siamo innocenti”, non avrebbe potuto dire altro.

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“Secondo me è la fine del percorso che ti dicevo. Si è partiti sotto pressione con una confessione, si è passati ad una fase di parziale negazione e di scarico di responsabilità quando sono stati sentiti da Picozzi fino ad arrivare alla, tarda, consapevolezza del grave quadro processuale e quindi a negare tutto. Intanto pensa alla prima confessione, alle moltissime contraddizioni e incoerenze nel racconto… Prendi la testimonianza di Olindo. Il suo è un racconto vero, ma modificato per essere più accondiscendente con gli investigatori. Vuoi sapere perché? Ricordiamoci che in quel momento Olindo ha la necessità di prendersi tutta la colpa e quindi non può raccontare la verità, ma deve soppesare il tutto per far ottenere alla moglie un ruolo secondario, ecco quindi la fonte delle decine di incoerenze nel racconto. Il fatto che le dica non significa innocenza. Ovvio che alla fine con gli avvocati difensori le strade erano due, il patteggiamento (che comunque vista la gravità avrebbe presumibilmente comportato lo stesso l’ergastolo) o il negare e sperare in una generica mancanza di indizi accusatori, una speranza molto fievole”.

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Capitolo 21

Tutto quello che non torna. E che torna

Nevica meno, siamo ripartiti. Tra un’ora, se Dio vuole, saremo a Erba. Il 3 maggio 2011 la strage chiuse la sua storia processuale con la conferma, anche da parte della Cassazione, della condanna all’ergastolo per Olindo e Rosa. Però, se il processo è andato così e c’è ancora gente che è convinta che Olindo e Rosa siano innocenti è perché c’è tutta una serie di cose che non tornano, nonostante tutto. Sembrano stati loro, ma ci sono punti interrogativi che mi ronzano in testa. “Ti riferisci ai dubbi sulla scena del crimine…” fa Armando “Esatto. Poi c’è il capitolo testimonianza di Mario e confessioni, ma quelle sono altre storie”. “Cosa non ti torna?”. “Ok, vediamo un po’ di cose che mi devi spiegare. Anche perché loro hanno chiesto la revisione del processo… Ad esempio, come mai non c’è dna o impronte o nemmeno un pelo dei Romano sulla sdc? Vabbè, avevano i guanti e poi c’è stato l’incendio: e il resto?” “Ma ti pare facile trovare tracce dopo un incendio del genere? Addirittura due corpi sono in parte combusti! L’incendio è il miglior modo per effettuare uno staging sulla scena del crimine, ricordiamocelo”. “E come mai non c’è traccia del dna di Valeria sotto il cerotto sul dito di Rosa, se lei dice di essere stata morsa?” . “Morsa? E chi ce lo dice con sicurezza? Lo dice lei. Nemmeno Olindo conferma questo punto e pensa più ad un colpo accidentale”. “Senti qua. Come mai Rosa dice di essersi appoggiata a un certo punto al muro per non cadere ma non c’è traccia di questo?” .

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“Mi rifiuto di risponderti! Dove si è poggiata? Con quale parte del corpo? A che altezza? Era prima dell’incendio? La zona è stata poi interessata da nero fumo? Andiamo avanti…”. “Non fare così. Poi c’è la posizione del corpo di Youssef. Rosa dice di averlo ucciso mentre era in piedi sul divano. Secondo la difesa la posizione del bambino, con le gambe penzoloni, il volto girato a destra e le braccine aperte è stata assunta solo dopo l’arrivo dei soccorritori, perché se fosse stato ucciso in piedi il sangue sarebbe schizzato a sinistra157 del bambino e anche sul soffitto, due cose che non si trovano”. “Non mi piace parlare dell’uccisione del piccolino. Intanto ti dico che non è stato sgozzato come è stato detto, ma ferito al collo, è diverso: il sangue non sarebbe mai uscito con un particolare getto, non ci vedo incongruenze in questo”. “Ok. Sia Olindo che Rosa dicono che hanno usato un cuscino per soffocare Paola nel corridoio, visto che non erano sicuri che fosse morta. Ma sul cuscino non c’è sangue, come mai?”. “Il cuscino c’è sulla scena del crimine ed è posizionato vicino alla testa di Paola. La zona è particolarmente inquinata e c’è una fotografia che fa vedere la traslazione del corpo della Galli con il cuscino ancora presente, ma siamo sicuri che è stato analizzato per dire che non c’è sangue o era una impressione visiva? Scusa, Fà, siamo a Saronno. Manca mezz’ora. Ma quante domande hai?”. “Taci e rispondi. Ecco, siamo a Valeria. È stata inseguita di sopra oppure no? Secondo i consulenti della difesa, Valeria ha subito solo ferite superficiali durante l’aggressione sul pianerottolo, perché ha lasciato poche tracce di sangue in quell’area o sulle scale e la maggior parte di sopra; perché la parte alta dei suoi abiti non è inzuppata di sangue; perché il giubbotto trovato vicino al cadavere aveva pochi tagli e quindi deve essersi sfilato mentre l’assassino cercava di bloccarla di sopra. La difesa nota anche che Olindo dice di averle dato 5-6 colpi in testa, quando invece in autopsia sono molti di più”. 157

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Ricordiamoci sempre che Rosa è mancina.

“Ti ho detto come ritengo sia stata la dinamica di Valeria. Un giubbotto non completamente infilato, aperto sicuramente sul davanti, una aggressione che la sorprende, il giubbotto che si sfila già dalle prime fasi concitate e disperate; e che quindi permette di giustificare la mancanza di sangue ed i tagli incoerenti con quelli presenti sul corpo. Penso che quando Valeria saliva, almeno una delle due maniche era già sfilata e per la posizione presente ritengo quella sinistra. A proposito, ancora andiamo a considerare attendibile ogni particolare di Olindo? Ricordiamoci la concitazione del momento, che rende difficile avere una memoria lucida delle azioni fatte e da fare e poi il fatto che vengono sentiti un mese dopo, dopo una rielaborazione mnestica totale del fatto, come mi insegni”. “Hai ragione. Ma allora, se non è stata inseguita, come si spiega che con così tante ferite sia riuscita a salire per diciotto gradini in mezzo al fumo, lasciando a terra, pur con quelle ferite, solo pochissime gocce di sangue?”. “Mi ripeto in maniera sintetica: abiti, fazzoletto che poi ritroviamo vicino alla poltrona, mano sinistra che alternativamente tampona e imbratta il muro. E poi, comunque, la non perdita di tantissimo sangue… ricordiamoci che lei muore per il monossido di carbonio, non per collasso cardiocircolatorio! Anche di questo quasi nessuno se ne ricorda mai”. “Diamine, hai ragione! È la quantità delle lesioni che inganna. Ah, aspetta! A proposito, quell’incendio poteva essere innescato solo con un accendino?”. “Sì, certo, se erano solo i libri la vedevo difficile e lunga, ma usando un liquido infiammabile il tutto diventa facile e rapido”. “Stai andando bene. E sul percorso fino alla lavanderia che mi dici, perché non c’è sangue delle vittime? Si è detto: perché i Vigili avevano inondato il cortile coi loro liquidi, ma non è mica vero. Se rivedi le foto sia dei Vigili che dei Carabinieri ti accorgi che solo la parte di fronte al portoncino è allagata, ma il resto no e soprattutto non lo è il marciapiedino che corre intorno ai due edifici, quello dei Castagna e quello dove c’era la porta della lavanderia dei Romano…”.

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“Scusa, te le faccio io due domande: primo, perché doveva esserci così tanto sangue che gocciolava? Visto che al massimo i due assassini avevano i vestiti imbrattati e secondo, ma pensi che con la concitazione del momento, con i Vigili che salivano e scendevano da quelle scale, se ci fossero state delle goccioline presenti nel cortile qualcuno se ne sarebbe accorto prima che fossero state numerose volte calpestate?”. “Invece qui la risposta ce l’ho già”. “Meno male. Ma a cosa?”. “Se sono stati loro, com’è che non li ha visti nessuno quando sono fuggiti? Semplice, erano di corsa, il percorso fino alla lavanderia era brevissimo e poi il loro camper li copriva alla vista di quasi tutte le finestre del cortile. Poi era inverno e ora di cena, la gente non stava alla finestra a guardare. Adesso dimmi delle tracce che non ci sono nella lavanderia. Davvero una accurata preparazione e un tappeto potevano evitare che qualche macchiolina di sangue finisse sul pavimento o altrove?”. “Sì, questa conversazione sta diventando un ripasso di tutta la faccenda, mamma mia. Potevano evitarlo, avevano pianificato il tappeto e gli abiti puliti, potevano benissimo farlo. Per quanto riguarda il non farsi vedere, basta che uscissero dalla lavanderia prima delle 20.15-20.18 a piedi, raggiungendo l’auto parcheggiata fuori”. “Ti vedo stanchino, come mai? Giuro che è l’ultima: se il sangue coagula in fretta, come hanno fatto a lasciare quella macchiolina sull’auto dopo il delitto?” “Penso seriamente che non l’abbiano lasciata loro ma è stato un inquinamento accidentale in fase di perquisizione, questo è il mio pensiero”. Più ci avviciniamo e più facciamo rotonde. Stiamo entrando nel paese che ha vinto il Guinness dei Primati delle Rotonde. “Mi hai chiarito un sacco di dubbi, sai? Insomma, se quello che non torna alla fine si spiega, allora le cose non stanno come gli innocentisti vorrebbero. Perché poi, attenzione, c’è anche quello che torna. Ci sono le confessioni, ripetute poi davanti al Gip e sulla Bibbia. In cui dicono cose che solo un assassino poteva sapere e che non erano nel verbale di fermo”.

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“Per esempio?”. “Per esempio, quando Olindo dice che hanno lasciato Valeria sulle scale e a che altezza; di non averla inseguita, che invece sarebbe stata proprio la cosa da dire per avvalorare la pista degli assassini esterni. O Rosa, quando dice di aver colpito Valeria alla coscia (cosa che non poteva sapere dal fermo, perché non c’era). O quando dicono di aver acceso la luce tre volte, che è esattamente quello che conferma Abdul Karim. O in quali punti della casa erano state colpite le vittime. Prendi la posizione di Raffaella: sui giornali era uscito che era stata ammazzata sul pianerottolo, ma i giornalisti non sapevano che era lì perché Glauco l’aveva trascinata. Olindo e Rosa collocano correttamente dentro casa il suo omicidio. La dinamica dell’aggressione a Mario: che è uguale a quella indicata da lui”. “E l’incendio? Prendi i riferimenti ai libri usati per innescarlo, è tutto vero (nel fermo non si parlava ancora di libri…); e la negazione di aver usato vestiti o asciugamani o acceleranti, vero anche questo. O quando Rosa spiega che i punti di innesco erano 3, la gonna di Paola, l’angolo del piumino matrimoniale, il piumino nella stanza di Youssef. Il deposito degli accertamenti tecnici sull’incendio era avvenuto il giorno prima e non potevano conoscerli in nessun modo, no?” “Esatto, però sai, sono passati molti giorni, forse era trapelato qualcosa, non so, non lo prenderei come elemento fondamentale questo”. Mancano davvero pochi chilometri: sembra incredibile che ce l’abbiamo fatta. E penso: molti dicono che non possono essere stati loro perché sono sempre tranquilli, in qualsiasi intercettazione di quel periodo. Non pensano mai a darsi alla fuga, anche quando sanno che Mario si era risvegliato dal coma e poteva fare il loro nome. E invece stanno lì a preoccuparsi che per fare il luminol gli hanno imbrattato l’auto. “Sembra che nessun innocentista si renda conto che, per darsi alla fuga, bisogna pur sapere dove andare e come andarci…” dice di colpo Armando, come se potesse leggermi nel pensiero.

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“Ecco, appunto: come potevano farlo, se avevano le telecamere di tutte le tv puntate addosso e non potevano uscire di casa? Cosa potevano fare, se non fingersi tranquilli con tutti, anche quando erano ormai vicini all’arresto? Ostentare una finta tranquillità”. Cosa stiamo cercando? Stiamo cercando la verità. E vediamo davanti a noi tutti gli ostacoli. Le regole del gioco le conosciamo: sappiamo che dietro questo ragionamento semplicistico e ingenuo degli innocentisti c’è l’idea che il colpevole si tradisce sempre e di sicuro, mentre l’innocente invece è onesto e puro, come un bambino. “Fabio, l’idea che l’essere umano finga è totalmente estranea alle anime candide. Come se i bambini non mentissero e noi stessi non avessimo mentito chissà quante volte nella nostra vita. Come se non ci fossimo cascati chissà quante volte nelle menzogne di amici, amanti, parenti, compagni di lavoro, politici. Tutta gente che conosciamo bene, di cui sappiamo le sfumature del viso, della voce, dello sguardo. E invece no, poi ci troviamo di fronte Olindo e Rosa, che per noi sono due solenni sconosciuti, e pretendiamo con sicurezza di distinguere il vero dal falso, con la sicurezza che a noi non la si fa, soprattutto con la certezza di distinguere il sincero dal mentitore, dimenticando tutte le volte che siamo stati fregati”. “La verità158 è che non conosciamo le tecniche per distinguere il vero dal falso, anche se pensiamo di essere degli esperti: se guarda in basso mente, se piange è sincero, e così via. E diciamo sempre la stessa frase: se mentono, beh allora sono da Oscar! La Franzoni è colpevolissima e ha mentito fino alle lacrime: non è da Oscar lo stesso? C’è dunque bisogno di essere attori per mentire bene? No. È il solito, drammatico equivoco: chi commette una strage deve essere un mostro di finzione, bruttezza, avere capacità soprannaturali di sangue freddo e non può essere uno come noi. Ma no, continuiamo a pensare che esista la faccia del colpevole, la mossa del colpevole, il comportamento del colpeSecondo gli importanti studi di Aldert Vrij (che riuniscono a loro volta decine di ricerche precedenti) dei primi anni Duemila, riusciamo a distinguere la menzogna mediamente nel 56,6% dei casi, che è poco più del 50%; gettando una moneta e decidendo a caso si otterrebbe praticamente lo stesso risultato. 158

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vole, la preoccupazione visibile del colpevole. L’autocontrollo, la calma, la proclamazione della propria innocenza invece sono di tantissimi assassini, bravissimi a fingere disinteresse, interesse, emozione, indifferenza, calma. Neanche questo è o può essere considerato un fatto strano o addirittura una prova. Che tristezza dover spiegare ancora queste cose”.

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Capitolo 22

E quelle confessioni?

“Eh, quelle confessioni… Quante ne hanno dette. L’ipotesi più gettonata dagli innocentisti è che quel 10 gennaio159 ci siano state pressioni su Olindo e Rosa”. “Non ho capito cosa non ti torna. Hanno confessato, no?”. Armando mi guarda con aria stupita. “Sì, ma voglio essere certo. Non so, il mio intuito mi dice che qualcosa non torna”. “Vediamo, scusa. ll sospetto nasce dal fatto che quella mattina erano andati in carcere, alle 10-10.30, due carabinieri del Comando Provinciale di Como per rilevare le impronte di Olindo: i marescialli Cappelletti e Finocchiaro. Ti ricordi? Parli di loro, no?”. “Non solo di loro. Però ora parliamo di questo. Dunque, loro si vedono solo con Olindo. Prese le impronte, però si accorsero che lui era insofferente e voleva parlare. Cappelletti dice che ci parlò qualche minuto: poi dovette rettificare in qualche ora, visto che dai registri del carcere risultava essere stato nella struttura 2 ore: e infatti solo alle 12 aveva avvertito il magistrato che Olindo voleva parlargli. Cos’era successo? Gli avevano promesso qualcosa in cambio di un’autoaccusa? Questa è la domanda. Ti ricordo come stanno le cose. All’udienza del 18 febbraio 2008, in Corte d’Assise, Olindo fa delle dichiarazioni spontanee: i due carabinieri gli avevano detto che, se avesse confessato, tra rito abbreviato, buona condotta e attenuanti in 5 anni sarebbe stato fuori e -soprattutto- che sua moglie sarebbe tornata subito a casa160. Altrimenti, ergastolo. Allora aveva chiesto di parlare con Rosa, che non vedeva da Olindo e Rosa erano stati arrestati l’8 gennaio. Un conteggio totalmente privo di ogni fondamento. Ciò non toglie che potrebbero averglielo detto comunque. 159 160

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due giorni, per sapere che ne pensava. Ma i militari gli avevano risposto che solo il Pm poteva autorizzare l’incontro, e che non si sarebbe presentato senza prima una confessione. Questo è quello che dice: che la confessione l’aveva concordata con i due marescialli. Le armi usate, tutto”. “Esatto, Fà e infatti a quel punto i due militari restarono con lui, con l’incarico di farlo parlar d’altro in attesa dell’arrivo del Pm. Ora, Olindo annoterà sulla sua Bibbia di aver parlato con loro di camper e canarini, mentre in sede di dichiarazioni spontanee al processo dirà: ‘Io rimasi tutto il tempo parlando con loro del più e del meno, di come si erano svolti i fatti (…) dell’incendio che era… che secondo loro si era evoluto in maniera troppo veloce, su un accelerante che non avevano trovato’. I Pm poi arrivarono alle 14 e i due marescialli si trattennero con loro fino alla fine delle confessioni. Ora, per quanto i due carabinieri non avessero un motivo specifico di restare fino alla fine degli interrogatori (le impronte le avevano prese), prima di vedere in questo il segno di un complotto è meglio vedere l’ipotesi più semplice: è assai probabile che siano rimasti perché avevano stabilito un rapporto umano con Olindo e quindi potessero esercitare una pressione su di lui per farlo confessare. Fin qui niente di illegale: dipende se era un ‘dai, confessa’ oppure un ‘se non confessi ti succede questo’. Dipende anche se stavano facendo pressione su due colpevoli o su due innocenti, no?”. “Certo, ovvio”. “Ora, sta di fatto che nelle registrazioni delle confessioni di Olindo e Rosa non si sente mai nessun giudice fare pressioni sugli imputati o prospettare sconti di pena. Inoltre, nei due colloqui che quel giorno i Romano ebbero in carcere, sempre intercettati, nemmeno loro parlano mai di pressioni ricevute. Finocchiaro, poi, non aveva seguito le indagini e non avrebbe nemmeno potuto suggerire particolari. Certo, potrebbe aver fatto pressione inventandosi sconti di pena. Bene. Oppure, Finocchiaro avrebbe potuto, sapendo informalmente l’esito della perizia sull’incendio (che era stata consegnata ai giudici 24 ore prima) dire qualcosa a Olindo. Ma se Olindo avesse saputo dal maresciallo che cercavano un accelerante, perché non

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lo ha infilato poi nelle sue confessioni? Le avrebbe avvalorate ancor di più, no? Invece no, non ne parla”. “Hai ragione! Adesso che mi ci fai pensare: Olindo, prima di accusare Finocchiaro di averlo spinto a confessare, lo ringrazierà in un appunto sulla Bibbia e ne richiederà comunque la presenza durante gli interrogatori, individuando in lui un sostegno. Inoltre, se sfogliamo quella famosa Bibbia, non troviamo traccia alcuna di pressioni ricevute per parlare. E lì Olindo poteva scrivere quello che voleva, senza costrizioni: non era mica un interrogatorio, era uno sfogo suo. Privato”. “L’unica sai quale resta? Che potrebbero esserci state pressioni e promesse fuori onda. È possibile che i due marescialli abbiano prospettato sconti di pena a Olindo e che questo lo abbia spinto a confessare quello che non aveva fatto? Nella prima intercettazione Olindo dice effettivamente a Rosa che, se confessa, si farà solo 5 anni e lei invece sarà libera. È evidente che Olindo non può esserselo inventato, quindi qualcuno deve averglielo detto: Cappelletti, Finocchiaro o uno dei magistrati, che erano in quel momento appena arrivati in carcere. Non lo sapremo mai però, ripeto, se è vero che lo hanno spinto a confessare, questo non vuol dire che lui fosse innocente. Non è che una falsa promessa equivale a innocenza. Posso pure spingere a confessare un colpevole. Le promesse, i trucchi non provano nulla. Il punto è: Olindo è colpevole o innocente?”. “È stato anche detto che la prima intercettazione tra moglie e marito, quella del 10 gennaio che precede la confessione di Rosa, non è certo quella di due colpevoli. Ecco, invece quel dialogo non prova nulla, a meno di essere molto ingenui. Certo che non sembrano due colpevoli: nemmeno nelle loro intercettazioni in auto lo sembrano. Eppure è proprio in una di quelle che uno dei due dice che probabilmente ci saranno delle microspie in casa161. È facile pensare, a questo punto, che - a maggior ragione - i due si aspettassero di essere registrati anche in quel colloquio in carcere chiaramente cruciale, e abbiano fatto il gioco delle tre carte, fingendo un’innocenza che non c’era”. “È stato poi detto anche che Olindo aveva ricevuto già il 161

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L’intercettazione del 13 dicembre 2006, alle 14.40.

testo del provvedimento di fermo e poteva quindi creare una confessione su quella falsariga: per esempio, lì c’è scritta la posizione approssimativa dei corpi, la dinamica delle aggressioni, l’ora del delitto. È anche vero, però, che Rosa non sa leggere, quindi non può aver desunto nulla. Ma ancora una volta stiamo dando per scontato che Olindo fosse innocente: l’approccio è proprio sbagliato! Gli elementi che abbiamo portato nei capitoli precedenti ci portano a partire piuttosto dalla convinzione che fosse colpevole. E quindi, questo non sposta nulla. Che poi, per la stessa logica per la quale Olindo avrebbe copiato la confessione dal fermo, beh, allora avrebbe dovuto confermare le cose sbagliate scritte su quel foglio: ad esempio, di aver inseguito Valeria al piano di sopra, o parlare di 3 punti di innesco dell’incendio quando invece ne indica sempre due. Come la mettiamo?”. Fuori dalla finestra è già buio. La stanza è calda, ha ripreso a nevicare. Se guardiamo oltre il vetro ghiacciato, sembra il mondo di un angelo che sta sognando angeli. Eppure è successo a qualche chilometro da qui. Eppure quante volte Olindo e Rosa hanno guardato questa stessa strada, gli stessi alberi, la stessa insegna del tabaccaio? Passerà l’inverno, come sempre. Intanto è scesa una notte così nera che macchia le lenzuola. C’è meno gente che lascia le impronte sulla neve, sempre meno. Stanno svanendo. Le luci dei lampioni, intanto, si fanno più piccole. Riprendo. “Passiamo alle due confessioni? Sono molte le critiche su quella di Rosa, vediamo le principali. Rosa, dicono, non sa a che ora è stata tolta la luce (dice alle 19.30, invece erano le 17.40), né se c’era buio o no durante la strage. Il primo dato sembra inspiegabile solo finché non pensiamo che quel contatore non l’ha staccato lei ma Olindo162 e Rosa non sa esattamente a che ora l’ha fatto. Poi, se c’era buio o luce durante la strage: un conto è il siriano che sta allo spioncino e osserva, un 162 Olindo, nel secondo interrogatorio del 10 gennaio 2007, non ricorda a che ora ha tolto la luce, ma dice di averlo fatto quando era già buio. Più in là, stesso interrogatorio, dice che invece l’ha fatto la moglie. È verosimile che invece se ne sia occupato, visto che in passato, il dispetto di staccarla ai Castagna l’aveva fatto lui. Non è un dettaglio, questo.

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conto sono loro. La concitazione dell’azione e il tempo passato tra quella notte e l’interrogatorio valgono sulla memoria di Rosa come su quella di tutti. Tanto più che Olindo dice dapprima che era sempre buio, durante l’aggressione, per poi contraddirsi e raccontare un particolare vero, cioè che i Frigerio avevano acceso la luce scendendo. Quindi tanto buio non era”. “Poi, Rosa dice un sacco di frasi che finiscono con un ‘giusto?’, come se stesse cercando di indovinare se sta dicendo bene o male. E anche secondo me è così: sta cercando di indovinare. Rosa non sa leggere, il fermo non l’ha letto e quindi, sì, sta andando a tentoni ma sulle parti che non conosce del delitto: quelle commesse dal marito. Quelle commesse da lei le dice bene”. “Dice che Valeria è scesa prima del marito ed è stata colpita per prima. Inspiegabile anche questo, a meno che non ci rendiamo conto che lei stava dietro Olindo e non ha visto proprio la scena dei Frigerio che scendevano. Ha solo visto Olindo che aggrediva Mario, non l’ordine di discesa”. “Te ne dico qualcun altro io di particolare, Fabio. Valeria non è stata accoltellata solo alla gola, come dice Rosa, ma ha ben 23 ferite da punta e taglio, 12 da taglio ed infine 8 lacero contuse al cuoio capelluto. Vero è che non sono profonde, nessuna di loro è infatti mortale. Ferite sparse su tutto il corpo… ma Rosa sta parlando solo delle sue coltellate. Olindo a parte aggiungerà due coltellate in testa”. “Già, ma allora perché non dirle tutte?”. “Perché Mario e Valeria sono vittime secondarie di questa strage. L’obiettivo era Raffaella e la sua famiglia. Un mese dopo, interrogati, Olindo e Rosa non hanno certo dimenticato quante coltellate hanno tirato, ma sminuiscono le due aggressioni perché sono quelle che probabilmente più li toccano, in qualche modo: come per togliersi un po’ di colpa di dosso, per sminuirla un po’ ”. “Ancora. Valeria ha ricevuto violenti colpi al cranio di cui Rosa non parla mai: falso. Racconta di due sprangate”. “Ah, se è per questo fanno notare anche che Raffaella, per Rosa, è stata colpita all’ingresso, ma non ci sono macchie da schizzo in quel punto: in realtà, Rosa esattamente dice ‘mentre

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stava entrando o uscendo’. È vaga, non è che indica un punto preciso, tipo sulla porta. Anche su Paola fanno notare qualcosa: Rosa dice che è stata colpita all’ingresso quando non è vero. E invece ne parla due volte e colloca quest’aggressione in corridoio, quindi nel posto giusto”. “Altre presunte contraddizioni si spiegano facile. Rosa non è stata vista da Mario durante l’aggressione: certo, ma dipende dalla dinamica dell’aggressione, no? Mario è stato gettato subito a faccia per terra… cosa doveva vedere? Poi, si dice, com’è che nessuno dei due sa chi ha ammazzato chi? Ma non è vero, una volta che smettono ognuno di prendersi la colpa al posto dell’altro le confessioni combaciano, quanto a responsabilità”. “Rosa dice infine che Paola e Youssef sono arrivati 10-20 minuti più tardi di Raffaella”. “Sì, è una delle tante incoerenze, c’è qualcosina anche su Olindo, sai? Lui ad esempio confessa di aver colpito Mario con la sbarra almeno 1 volta, ma non sulla testa: l’autopsia nega proprio colpi di sbarra su Mario. Al contrario, non parla mai di aver colpito Valeria alla testa con la spranga: invece lo ha fatto”. “Anche qui, certe cose si spiegano. Per i colpi di sbarra alla testa, Olindo sta attuando lo stesso meccanismo di sopra: sta sminuendo la sua furia omicida, come per allegerire la sua immagine di fronte al giudizio esterno della Giustizia. Non sai quante volte vediamo una cosa del genere, quasi irrazionale, quasi incomprensibile. Sono meccanismi psicologici di negazione che entrano in gioco. Potrei anche aggiungere un dato relativo ai meccanismi di testimonianza: c’era molto fumo, siamo sicuri che Olindo, colpendo quasi alla cieca in quella situazione di scarsa visibilità, si sia reso conto di quante volte ha colpito Mario? Siamo sicuri che un mese dopo si ricordi il numero esatto? Oppure, ad esempio, dice che hanno usato guanti di tela bianchi, che però Mario non ha visto: è diverso, Mario dichiara che non ci ha fatto caso. Ricordiamoci sempre in che posizione stava, no? infine, Olindo dice ha colpito Raffaella all’ingresso, quando i colpi invece risultano più dentro la casa. Falso: lui non nomina mai l’ingresso. Dice che forse

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Raffaella stava uscendo, ma non la colloca in un punto preciso. Poi però spiega che è tornato indietro per il corridoio e le ha colpite ancora, e così ci dice che erano cadute entrambe nel corridoio, non certo all’ingresso”. “E ora ti dico io un’altra cosa che torna: i tempi della strage rispetto alle dichiarazioni di Olindo sui luoghi in cui hanno gettato gli abiti e la strada che hanno fatto dopo. Senti qua: 20.12-20.15, finisce l’azione omicidiaria, i Romano raggiungono il garage. 20.15, circa iniziano a cambiarsi, si mettono i vestiti di ricambio, probabilmente già pronti, tutto l’abbigliamento che avevano lo lasciano sul tappeto del garage -lavanderia, poi lo avvolgono ed escono. 20.18 escono di casa. Probabilmente l’autovettura l’avevano già lasciata fuori, magari quando hanno staccato la corrente quel pomeriggio. 20.30, raggiungono il cimitero di Longone al Segrino che dista 5 chilometri, diciamo che impiegano 10 minuti; alle 20.40 sono lì. 20.50, hanno separato in tre sacchi il tappeto contenente gli indumenti, gettano uno dei sacchi nel cassonetto sul posto e si lavano le mani al ruscello lì accanto; 21.05, circa sulla strada per Como gettano un secondo sacco ad Albavilla. 21.15, sempre sulla Provinciale per Como gettano l’ultimo sacco a Lipomo. 21.30, parcheggiano in viale Lecco a Como e danno un’occhiata ai negozi. 21.40, si trovano al Mc Donald’s, fanno la fila. Lo scontrino viene emesso alle 21.45. Ho verificato le percorrenze intermedie, il tempo tornerebbe abbastanza bene, con questa dinamica”. “Armando, abbiamo sistemato molte cose: ma sai anche tu che cosa resta. Resta qualcosa che finora abbiamo evitato, perché è troppo scomodo e ci fa saltare il banco. Tu sai di cosa parlo”. “Eh sì, delle foto della scena del crimine. Maledizione, ma

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perché gliele hanno mostrate?163 Che errore da principianti. Tu come la vedi: farlo era una necessità o un errore investigativo?” “Dipende, alcune volte può essere utile, veniva utilizzato di più qualche decina di anni fa. Il sospettato veniva messo alle strette per farlo confessare, anche facendogli vedere ciò che aveva combinato. Era un sistema che forse dava qualche frutto, ma che processualmente creava tanti mostri. Come poi è successo qui. Le intercettazioni erano andate male, le analisi sull’autovettura avevano capito che si sarebbe potuto metterle in dubbio, la testimonianza di Frigerio si annullava da sola. Insomma, la confessione dei due era fondamentale, a qualunque costo. Il punto è che non immaginavano che i due andassero oltre le intenzioni: dopo un mese dal fatto erano talmente spinti a dover confessare che riportavano anche i particolari che logicamente non ricordavano più… e quindi inventavano di sana pianta. Come facciamo ora a dare un valore alla loro confessione? Quanto valore gli possiamo dare ormai, dopo che hanno parlato con le foto davanti?”. La faccenda delle foto rischia davvero di far saltare il banco. Avevamo una convinzione, che fossero colpevoli. Le foto, che non possiamo ignorare, riaprono tutto. Ricordo quando Armando mi fece ascoltare il file. Ci sembrava quasi di essere nella stanza. È l’interrogatorio del 10 gennaio 2007. “Fabio, senti questo punto della registrazione audio dell’interrogatorio”. “Perché, non è stato ripreso in video?”. “No e penso pure di sapere il perché, senti bene”. Intanto il computer riproduceva l’interrogatorio e dopo circa 5 minuti Armando mi domandò: “Hai sentito?”. “Cosa di preciso? Ho sentito benissimo Olindo che descrive l’omicidio della Cherubini, di come la colpisce alla testa con il coltellino, quello piccolo. Un Olindo che non riesce a giustificare al magistrato come abbia fatto la Cherubini a risalire nel proprio appartamento, che ripete di averla lasciata ‘lì sul 163 Non stiamo inventando nulla. In un verbale del 6 giugno 2007, redatto alle 8.35 nel carcere di Como, Rosa, interrogata dal Gip, dice tranquillamente che le foto gliele hanno mostrate.

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pianerottolo, sul primo o secondo gradino a salire, messa con la testa in giù’”. “Non intendevo quello, senti il Pubblico Ministero, aspetta ti rimetto il punto preciso”. Ed è lì che sì sentimmo: “Sì, un’ultima cosa e poi ritorniamo alle altre fot… questioni”. “Coooosa?”. Ricordo perfettamente la sensazione che ebbi: sospeso a mezz’aria. “Ci siamo, Fabio, le confessioni sono avvenute con le foto della scena del crimine davanti”. “Ma sarà rimasto scritto anche nel verbale che trascrive l’interrogatorio…”. “Proprio no, leggi la parte del verbale: ‘Un’ultima cosa e poi veniamo alle questione164: come le è venuta l’idea di fare fuoco?’”. “Gesù. Magicamente è sparito il riferimento alle fotografie. Non ci sono mai state, in quella stanza, in quel momento cruciale”. “Eh già”.

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Errore ortografico presente nel verbale originale.

Capitolo 23

Mario è attendibile?

Ci scoppia la testa, decidiamo di uscire. Camminiamo verso il centro di Erba. Tra poco sarà ora di cena ma abbiamo lo stomaco chiuso. Cosa è successo davvero? Quale spettro era sul pianerottolo dell’interno 15, quella sera di dicembre di tanti anni fa? Quelle foto ci fanno traballare. “E non è tutto” mi dice Fabio mentre calpestiamo la neve. “C’è da quadrare la faccenda di Mario”. “Non possiamo non affrontarla. Riepiloghiamo. Il 15 dicembre c’è il colloquio del Pm Pizzotti con Mario -giusto?- in cui il testimone descrive il suo aggressore: dice di non conoscerlo e ne dà una descrizione. Sono presenti Andrea, figlio di Mario, l’avvocato Manuel Gabrielli, un medico e un ispettore di polizia che trascrive il verbale”. “Gli innocentisti dicono che Mario ha descritto un assassino che è l’opposto di Olindo. È un uomo di corporatura robusta, capelli corti neri, carnagione olivastra, occhi neri, mascella forte. Il giorno dopo Mario ribadisce la descrizione al suo avvocato, specificando l’altezza dell’assassino: dai 6 ai 10 cm più di lui165. Dal 15 al 20 dicembre -quando arriva Galloriniribadisce la stessa descrizione ai figli, salvo contraddirsi e dire che era alto quanto lui. Se togli l’altezza, l’unica differenza con Olindo è la carnagione”. “Mario sta chiaramente descrivendo un arabo, sta orientando lì le indagini, tanto che il 15 fa anche notare che casa di Raffaella era frequentata da diversi arabi. Ti dirò di più, il primo verbale di dichiarazioni era già chiuso e firmato, quando viene riaperto per apporre sotto una riga: proprio per aggiun-

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Mario e Olindo hanno più o meno la stessa altezza.

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gere la frequentazione166 della casa da parte di personaggi di etnia araba. Ma se ha visto bene Olindo, perché dice queste cose? Solo cinque giorni dopo, il 20 dicembre, c’è il cruciale colloquio di circa un’ora tra lui e il luogotenente Gallorini, in cui esce il nome di Olindo, che poi Mario confermerà il 26 al Pm Pizzotti. Qui succede un’altra cosa strana: Andrea testimonierà al processo di aver chiesto 4-5 volte al padre, tra il 20 e il 26, se era stato proprio Olindo: e lui confermava. Ma nelle intercettazioni del 22 e del 24 dicembre 2006, cioè sempre tra l’incontro con Gallorini e in attesa del Pm, Mario invece dice al suo avvocato di non ricordarsi nulla, tanto che il 24, ai figli, Mario dice di ‘non avere un cazzo da dire’ al Pm167. Altro che confermare il nome di Olindo! Poi arriva il 26, arriva il Pm: e Mario, col giudice, conferma invece che ha visto Olindo! Qui dobbiamo indagare i meccanismi di memoria di Mario, perché visto che non dubitiamo della buonafede di chi ha preso una coltellata alla gola, però possiamo dubitare dei suoi processi di memoria, visto che alterna conferme e smentite. Che ne pensi?”. “Che dobbiamo essere onesti, Armando. C’è di più: Gallorini, contrariamente a quanto ha dichiarato168, ha fatto il nome di Olindo molte volte a Mario in quell’interrogatorio del 20 dicembre, altro che una sola come disse poi. Per essere precisi, glielo nomina quattro volte prima che lui pianga169. È pacifico che Mario, che era ben lucido, non possa non aver capito su chi volesse andare a parare Gallorini”. Nel verbale viene aggiunto fedelmente “Si dà atto che il Frigerio ha altresì dichiarato che l’appartamento dei Castagna era frequentemente frequentato da extracomunitari di etnia araba”. 167 La Procura ha depositato - e legalmente lo può fare- solo quei pezzi di intercettazione che dimostravano la sua tesi. In quel caso fu la difesa a scoprire che tra le parti scartate e quindi non trascritte c’era anche altro. Questi brani non sono stati ammessi dalla Corte d’Appello in quanto presentati “fuori termine”. 168 Gallorini dirà in Assise, il 18 febbraio 2008, riferendosi a Mario: “No, lui indicava una persona perché tra l’altro non ha mai indicato il nome di Olindo, anche perché io non gliel’ho mai chiesto”. Non è vero. 169 “Lei conosce il signor Olindo?(…) Lo saprebbe riconoscere? Voglio dire, se avesse visto Olindo lo avrebbe riconosciuto… diciamo per assurdo. (…) Se lei avesse avuto di fronte l’Olindo… avrebbe saputo che era Olindo…”. 166

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“Eppure, la contraddizione tra quanto dichiarato da Gallorini in dibattimento e i verbali di trascrizione è stata ignorata dalla Corte d’Assise. Nonostante fosse evidente che il luogotenente stava cercando di farsi confermare il nome di Olindo (visto che il 20 dicembre la pista araba era già dissolta), la Corte si è messa a riascoltare invece l’audio del primo interrogatorio, quello del 15, usando di sua iniziativa un software chiamato ‘Cool Edit 2000’. Volevano potenziare la voce di Mario, che onestamente era un soffio. E fin qui. Lo fanno, però, senza l’aiuto di nessun consulente170, e di colpo sentono Mario dire già il 15 ‘è stato Olindo’. Ma come? Nessuno l’aveva sentito! Il Pubblico Ministero, l’avvocato, i figli, i periti, nessuno! La spiegazione è che la Corte, per fare da sola, ha preso un granchio: l’audio, per potenziarlo, è stato anche velocizzato dal software, ingannando così i giudici. Il problema è che questa è diventata una prova contro Olindo, alla fine. Mettiamola da parte, che non è una prova di un bel nulla. Infatti, in Corte d’Appello, verrà considerato più logico che in quel passaggio Mario stesse dicendo ‘uscendo’ e non ’Olindo’171”. “Bene. Risolto questo, torniamo all’interrogatorio del 20 dicembre. Abbiamo detto che Gallorini nomina Olindo quattro volte, ma voglio leggerti qualche altra domanda fatta sempre dal sottufficiale prima che Mario parli. Dimmi tu… ‘Lei è ritornato sull’argomento quindi noi… però allora a questo punto da parte nostra diventa doveroso chiederglielo: poteva essere…cioè lei mi sembra dubbioso’; poi Mario dice qualcosa sugli occhi, ne parlano, se potevano essere o no dell’assassino. ‘Le ho messo il dubbio?’, fa Gallorini. ‘Non lo escluderebbe?’. Quindi ripete l’ultimo soffio di Mario: ‘Potrebbe essere lui’. Armà, non so a te, ma a me sembra che Mario non fosse affatto certo del suo riconoscimento… È solo a questo punto che inizia a piangere. Ecco, ci siamo. Gallorini ripete un altro soffio a voce alta: ‘Cioè lei dice che qualche dubbio aveva anche lei per la testa, c’era qualcosa che non le quadrava per la testa, Potevano farlo, s’intende. Non è illegale. Per i giudici d’Appello il software poteva aver trasformato “senza alcuna intenzione di falsificare scientemente il risultato auditivo” una parola in un’altra. Un errore in buonafede, insomma. 170 171

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tipo… (…) Come se lei sentisse che c’era qualcosa che non capiva, che però non riusciva a focalizzare’. Insomma, tutto questo è normale?”. “Ora, Fabio, naturalmente, è fuori di dubbio che Mario non avesse davvero alcun motivo di mentire e accusare una persona per un’altra, tant’è vero che non ha mai accusato Rosa, non avendo visto in faccia chi aggrediva Valeria. Della sua buona fede non dubitiamo, ma la domanda è: perché, se Mario aveva capito da subito che era stato Olindo, non ne ha fatto il nome invece di prendere tempo? Non è che ha detto: non ricordo. Ha descritto una persona, invece, diversa da Olindo nel colore della pelle e nell’altezza. E perché, domanda numero due, dopo aver oscillato tra il sapere chi fosse l’aggressore e il non saperlo, ha poi fatto il nome di Olindo? E, domanda numero tre, come non rilevare che le domande di Gallorini erano suggestive? Inutile negare che gli elementi investigativi venivano mano a mano inquinati. Qui c’è la teoria dell’‘aiutino’, diffusa ormai in ogni campo e in ogni luogo. Pensiamo sempre che sia meglio aiutare una scelta, dare una piccola spinta per una decisione che ci riguarda, la frase ‘meglio ricordarglielo, non si sa mai’ è diventata quotidiana. Ma qui non si doveva ricordare di prendere il latte o un buon voto a scuola, qui c’era in gioco il destino di persone”. Armando questa volta mi ha lasciato attonito, giusto il tempo di riprendermi e poi ricomincio: “D’altronde c’è un equivoco diffuso, credere che la memoria sia una sorta di spazio dove sono immagazzinati dei dati, come una biblioteca. La memoria invece non è affatto statica, è sempre al lavoro, è dinamica e troppo spesso altera i nostri ricordi”. “Che vuoi dire?”. “Che tanti aspetti entrano in gioco per deformare il ricordo, o per renderlo difficile da immagazzinare, fin da subito. Ad esempio, se una serie di avvenimenti accadono contemporaneamente, riterremo sia accaduto prima o leggermente prima quello cui diamo più risalto, più importanza; e questo al di là della realtà dei fatti. Se, come spesso accade, un fatto si verifica inaspettato di fronte a noi, mentre facciamo e pensiamo ad altro, ne tratterremo in memoria solo una parte, quella che ci

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è stato possibile percepire. Se siamo presenti a un evento spiacevole e ci sembra duri tanto, ci hai fatto caso?, è perché vorremmo che finisse. Se siamo in un fatto piacevole, invece, siamo attenti al contesto, non alla durata, e quindi ci sembra che la fine arrivi troppo presto. In entrambi i casi il dato temporale risulterà deformato -nel ricordo- dallo stato emotivo. Ora, che succede se tutto questo capita a un testimone? Se si sentiva aggressivo al momento in cui ha visto una persona, potrebbe percepirne e descriverne come aggressiva la faccia, indipendentemente che lo fosse o no… allo stesso modo, se un teste è rimasto sconvolto, agitato, dal delitto, potrebbe proiettare il suo stato d’animo sul sospettato e descriverlo allo stesso modo, aggravandone la posizione. Ma senti qua… Oltre l’emotivo, un elemento di straordinaria importanza sta nel fatto che privilegiamo, ogni volta, un’organizzazione mentale rispetto a un’altra”. “Ho capito. Cioè, decidiamo di immagazzinare solo una parte delle informazioni presenti e sulle altre non saremo in grado di dire nulla. Addirittura, se assistiamo a qualcosa in un ambiente completamente nuovo, la nostra testimonianza perde appigli di memoria e quindi dati, risultando lacunosa. È come se dovesse prima categorizzare quello che vede e solo dopo ordinarlo…”. “E c’è di più! Cosa succede a ciò che vediamo o sentiamo, nel momento stesso in cui viene percepito e immagazzinato? La traccia viene in ogni caso trasformata, già dal momento in cui si deposita. Esistono infatti una serie di ‘trappole’, di cui nemmeno ci accorgiamo. Ad esempio l’‘inadeguatezza percettiva’: la realtà che vediamo/sentiamo e quello che percepiamo possono non corrispondere. Ti sembra strano? E perché? Ognuno di noi ha una diversa acuità percettiva: cioè avverte o no gli stimoli deboli e legge in modo diverso le minime differenze tra loro, ad esempio tra differenti condizioni di luce. Oltre questo, la nostra percezione è settoriale. Noi ci ricordiamo una faccia nella sua globalità e non come una serie di particolari. Quando proprio li notiamo, alcuni vengono osservati più di altri: naso, occhi, bocca. Guance, fronte e colorito lo sono meno di tutti. La parte superiore del viso, poi, viene ricor-

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data più di quella inferiore. Dopo 35 giorni si ricordano bene i visi particolarmente brutti o attraenti, mentre gli altri, quelli privi di caratteristiche spiccate, molto meno; il tempo ottimale per il recupero attendibile di un volto è una settimana al massimo… poi si riduce la possibilità di riconoscimenti corretti e aumenta quella di falsi, insomma. Hai visto che casino?”. “Ora che mi ci fai pensare, penso alla memoria acustica, riconosciamo la voce di un amico dopo anni, ma dimentichiamo quella di un estraneo dopo poche ore. Banali trucchi che ho visto usare da certi sequestratori -come parlare lentamente o usare un tono soffocato al telefono- fanno crollare il tasso di identificazione: sussurrare lo fa scendere al 30%”. “E quindi, ecco cosa ti volevo dire: siamo tornati all’inizio. Nessun teste ricorda tutto quello che ha visto: fa una scelta senza accorgersene. Incredibile, eh?”. “È il principio dell’attenzione selettiva, giusto? D’altronde, per forza lo facciamo, dobbiamo sottrarci al bombardamento continuo di stimoli (dall’interno e dall’esterno) e poi la nostra attenzione è divisa tra troppe cose. Quindi, se ho ben capito, alcune informazioni saranno elaborate in modo maggiore, altre minore e altre per nulla…”. “Esatto! E, se l’attenzione è selettiva, lo sarà anche la memoria. Tutte queste problematiche ci fanno capire quanto siano errate certe convinzioni popolari sul funzionamento della memoria. Giusto per dire, non è affatto vero che un ricordo è vero per il semplice fatto che è venuto in mente o che ogni evento lascia in memoria una traccia che mai potrà confondersi con altre tracce. Molte volte le false confessioni ci hanno mostrato quanto non è vero nemmeno che un individuo non potrebbe mai ricordare di avere commesso un crimine in realtà non commesso. Altri falsi miti: che la memoria sia una fotografia precisa e che la sicurezza di chi ricorda sia garanzia di come il fatto sia successo davvero e nel modo raccontato. Tornando a Mario, ci sono quattro tipologie di testimone: uno è il teste che ricorda molto, bene e decida di raccontare quello che sa. È il teste ideale, ma è più facile fare tredici al Totocalcio che trovarlo. Poi c’è quello che ricorda poco o niente e non riporta niente. Paradossalmente, è il teste perfetto… non

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racconta ciò che non ha visto e non fa danni. Poi c’è il teste che ricorda molte cose, ma decide di tacere o dire cose diverse. È il caso della menzogna. Questo purtroppo si trova abbastanza. E, alla fine, c’è il teste che non ricorda in modo accurato172, ma racconta comunque molte cose che non corrispondono a verità. Ovviamente può essere in malafede o in buonafede (cioè, mente non sapendo di mentire, spesso ingannando splendidamente gli investigatori). Una testimonianza completamente attendibile (in cui il teste ricorda tutto, con precisione e senza riferire elementi falsi), insomma, è rara… in quale di questi gruppi è Mario?”. “Bella domanda. Anche perché stare in un gruppo piuttosto che in un altro dipende da molti fattori: quanto il testimone era attento in quel momento, l’interpretazione emotiva di ciò che vediamo (l’abbiamo detto prima), la volontà o meno di ricordare e di dire la verità, il tempo che è passato, il livello di fiducia in ciò che sta dicendo, la modalità con cui viene svolta l’identificazione del sospettato, eventuali pressioni degli investigatori e del contesto sociale, il discutere con altri testi…penso soprattutto a quelli che si chiamano tecnicamente ‘errori di traslazione inconsci’ (quando un testimone riconosce un volto familiare e per questo lo sovrappone erroneamente all’autore del crimine; oppure ha avuto la possibilità di vedere il sospettato in una situazione diversa dalla scena del crimine) o al fenomeno del ‘giudizio relativo’ (il testimone tende a identificare come colpevole la persona che assomiglia di più a quella presente in memoria, ma che non è identica’)”. “Ci possiamo fidare di Mario? E se il suo fosse un falso ricordo?”. “Cioè, stai dicendo che…”. “…Che con le domande che gli ha fatto Gallorini la sua memoria potrebbe avere inserito, in un ricordo che era confuso, quello che gli faceva intuire il militare. Mi spiego: in questi casi si accede per prima alle informazioni fuorvianti (cioè Gallorini che lo spinge a fare il nome di Olindo) e poi a quelle giuste, perché le prime sono più recenti e le seconde meno…”. 172 Dobbiamo intenderci sul termine “accuratezza”: è indipendente dalla quantità di elementi ricordati. Ricordarsi un solo elemento -ma giusto- vale in accuratezza come 10 elementi giusti.

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“Quindi, Mario, che era incerto e nient’affatto un teste sicuro di sé, potrebbe aver subito la pressione delle aspettative di Gallorini e aver inserito dei dati esterni senza accorgersene. È un fenomeno che si chiama ‘post event misinformation effect’: modificare il ricordo una volta esposti a informazioni scorrette a distanza di tempo o anche, addirittura, all’uso di certe parole piuttosto che di altre nel fare le domande. Alla fine si ottiene un bel mischiume di vero e falso in cui si crede ciecamente e che si espone con grande sincerità… E non dimentichiamo che lui ha visto l’assassino solo per quei due secondi, nello spiraglio: ‘come ha aperto mi ha buttato per terra’. E in quelle condizioni: ‘non si vedeva quasi niente, il fumo era tantissimo’173”. “Secondo me c’è una sola cosa da fare: Giuliana Mazzoni174”. “La professoressa? A quest’ora? Ci ucciderà!”. “Sì, ma dobbiamo sapere. Dobbiamo”. Compongo un numero inglese. Nonostante l’ora infame la professoressa decide di non commettere un reato violento e ci risponde gentilmente. D’altronde, il caso lo conosce. Ma è possibile capire cosa ha visto o non ha visto Frigerio? “Se una persona viene riconosciuta viene riconosciuta, punto. Se Frigerio ha visto abbastanza non può non avere riconosciuto Olindo, anche perché il riconoscimento dei visi è abbastanza automatico, specie se parliamo di una persona che conosce bene come il vicino di casa: il nome viene immediatamente alla mente, non è difficile da recuperare”. Può essere che lo avesse riconosciuto e abbia scelto di non dirlo subito perché era sconvolto dal fatto che l’assassino fosse il suo vicino Olindo? “È un meccanismo plausibile: lo riconosce immediatamente e sulle prime dice che non può essere stato lui”. Anche il trauma subito può avere influito? “Un trauma grave può influire negativamente sulla meDeposizione del 2 gennaio 2007. Giuliana Mazzoni è dal 2007 professore in Psicologia e Neuroscienze all’università di Hull, Gran Bretagna. Ha una lunga esperienza di insegnamento universitario all’estero e si occupa delle tematiche della Psicologia della Testimonianza. 173 174

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moria. C’è da anni un dibattito importante sulla possibilità di recuperare successivamente qualcosa che è stato visto, ben riconosciuto e poi cancellato, ad esempio da un trauma. Alcuni sostengono che diventa inaccessibile, anche perché codificato in modo non verbale, che rimangano solo gli elementi emozionali; altri sostengono che sia recuperabile utilizzando tecniche specifiche”. E i farmaci che Frigerio assumeva in ospedale? “È certo che una persona possa risentire dei postumi dell’anestesia, ma una settimana dopo proprio no, a meno che a Frigerio non siano stati somministrati dei calmanti, degli psicofarmaci potenti. In questo caso ci sarebbe stata acquiescenza alle domande che gli venivano poste”. Che idea s’è fatta della faccenda? “Confesso: a me pare strano che non abbia fatto subito il nome di Olindo”. Frigerio, subito, parla di un arabo. “Sembra tanto che stia portando da un’altra parte. O è intenzionale, nel senso che l’ha riconosciuto ma non lo vuol dire perché, come dicevamo, deve convincersi che è stato proprio il vicino, oppure non lo ha riconosciuto affatto (e il nome di Olindo vien fuori dopo). Se non lo ha riconosciuto, o ha visto una persona diversa da Olindo o non ha avuto gli elementi oggettivi per riconoscere nessuno. Perché c’era molto fumo, perché era buio, perché non ci si vedeva bene. In questo caso Frigerio ha ricostruito un viso che non aveva visto, in base ai suggerimenti che gli venivano dati”. Tipo quelli di Gallorini. “La tecnica di fare le domande che ha usato Gallorini è una tecnica che, in moltissimi altri casi, ha portato a far fare affermazioni sbagliate”. È possibile che Frigerio, ascoltando più volte il nome di Olindo, abbia inconsapevolmente sovrapposto il suo viso a quello dell’assassino, che aveva visto in modo così parziale da non riconoscerlo? “Esattamente. Olindo -è un’ipotesi- nasce dopo. Ripetendo un sacco di volte il nome di una persona conosciuta molto bene, nella nostra mente a quel nome si associa il suo volto

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e il volto poi si integra con i dettagli scarsi che abbiamo memorizzato: alla fine diventa il volto mancante. Ma è un volto ricostruito, ovvio. Ci sono decine e decine di esempi di questo tipo in Psicologia della Testimonianza. La ricostruzione dipende dal nostro sistema cognitivo e anche dagli elementi attentivi: si vede un elemento prima, uno dopo e poi questi elementi vengono associati, anche se appartengono a persone diverse”. Cosa può essere successo, secondo lei? “La grande stanchezza, il sapere di dover dire, l’aspettativa e l’insistenza di Gallorini (che insiste tanto!), il sapere che c’era un colpevole già individuato sul cui nome bastava solo assentire… alla fine Frigerio può aver accettato quello che gli veniva suggerito. Accettando, il volto della persona suggerita, come dicevo, è diventato il volto che è stato visto ma non riconosciuto (nel senso che era il volto di una persona sconosciuta a Frigerio)… Il nome di Olindo, per tutta questa serie di meccanismi, è secondo me semplicemente dovuto ai suggerimenti ripetuti di Gallorini. Se invece Frigerio avesse davvero visto Olindo, se davvero avesse avuto elementi sufficienti per indicarlo, allora è un po’ meno spiegabile perché non l’abbia detto subito. Può essere il ‘non è possibile che sia lui, ci devo ripensare’, certo. Ma ci sono tutta una serie di elementi che mi fanno dubitare della cosa…”. Quali? “Il fatto che Frigerio dica che non ci si vedeva, che la porta è stata aperta molto rapidamente, che era buio, la sua descrizione iniziale che è dissonante rispetto alle caratteristiche fisiche di Olindo, il fatto che ne faccia il nome solo dopo insistenze. Tutto questo fa pensare che non lo avesse ricosciuto. Mi chiedo: come è possibile che una testimonianza come questa sia stata una testimonianza chiave? È discutibilissima e distruggibilissima”. Mi colpisce che gli avvocati dei Romano non l’abbiano attaccata usando un esperto di Psicologia della Testimonianza… “In Italia gli esperti vengono chiamati solo su alcune tipologie di casi penali, all’estero invece in tante tipologie tra cui certamente gli omicidi. Nonostante la grande consapevolezza relativa ai problemi della testimonianza acquisita dagli

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avvocati negli ultimi anni, ancora molti esitano a chiamare un esperto o forse non sanno bene come usare questa risorsa. Forse però così facendo i legali dei Romano hanno rinunciato alla partita. Avrebbero potuto chiamare un esperto. D’altronde, la Psicologia della Testimonianza esiste in Italia dal 1938”.

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Capitolo 24

Una sera d’inverno, a Erba

Piazza Mercato (che sulla carta si chiamerebbe Piazza Vittorio Veneto), è in mezzo al paese. Al centro, il portico che un tempo era pieno di merci da vendere. Le fontanelle. Ci siamo arrivati camminando, senza pensare. Sono le 20 passate, c’è un gran silenzio. Dove saranno tutti? Hanno lasciato solo le loro impronte sulla neve. C’è una vecchia torre di pietra, tra le case. Tutto sa di ordinato; e non è per il bianco che copre questo piccolo pezzo di universo. Palazzine basse, antiche: rosa chiaro, beige, arancio leggero. Come un’aria di festa trattenuta nelle tasche, come un’operosità seriosa. Poi ti giri e la vedi. Via Diaz è una strada a senso unico, una di quelle che partono dalla piazza. La casa della strage, ieri come oggi, te la trovi sulla destra. La intravedi, se ti allontani un po’ dal portico. Di colpo sta lì; e non si muove. Come un ricordo sbagliato, come un incubo dimenticato, come una cosa che sta ferma e ti fissa da dietro l’angolo. Come a dire: ti sembra tutto tranquillo? Sei sicuro? Guarda che io sono qui, eh? Allora vai un po’ avanti, superi Hobby Maglia, e mano mano quella casa diventa sempre più grande. Sempre più presente. Così, passi tra due palazzine dai muri possenti, quelli d’una volta, da cui non puoi scappare, e alla fine sei lì; è inevitabile. Eccolo, il cancelletto pedonale da cui sono passati tutti. Sta lì, vicino agli sportelli dei contatori dell’acqua. E d’improvviso ti rendi conto che lo stesso asfalto che hai appena calpestato l’hanno fatto anche Olindo e Rosa, quella sera, quando sono andati a prendere l’auto in Piazza, per correre a farsi l’alibi a Como. A cosa pensavano? Di cosa hanno parlato? Il cancello è rimasto aperto, chissà perché. Entriamo. Sembra un posto carino, per vivere. Questo cortile sghembo, i balconi che immaginiamo fioriti fino a settembre. I muri gialli, le tegole rosse. I tubi

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marroni di grondaia, già pieni di ghiaccio. Le grate alle finestre del piano terra. Neanche i suoni delle posate, dietro le finestre accese. E questa neve fredda, che ormai copre tutto dalle prime ore del pomeriggio. Che ormai copre tutto. Copre tutto. Tutto. Ora è tutto più chiaro. Sappiamo cosa dire di questo delitto. È il momento, tocca a me. Una strage premeditata e non improvvisata. Nella preparazione delle armi. Nei due appostamenti precedenti, nello studio degli orari. Nella conservazione dello scontrino, nel crearsi subito un alibi, o almeno provarci. Poi si diranno tante cose, che invidiavano la felicità dei Castagna, ma a noi sembra che più che invidiarli li odiassero: c’era una ragazza che faceva casino e feste e quindi automaticamente la dava a tutti. C’era l’arabo delinquente, c’erano tutti i pregiudizi tipici di un modo di pensare superficiale e retrogrado, mischiati con la paura dello straniero e i precedenti -oggettivi- di Azouz. Mischiati con quell’idea di egoismo per la quale ognuno è bene che si impicci dei fatti suoi, e che nessuno si impicci dei loro, se non per dargli ragione. Olindo e Rosa volevano solo starsene da soli nel loro Mulino Bianco, davanti a Rai Uno, a odiare tutti quelli che stavano fuori da casa loro, e che ce l’avevano con loro. Convinti di essere superiori, che gli altri si sbagliassero sempre (i carabinieri non li difendono, i parenti non li capiscono, i vicini non li lasciano in pace, i giudici non danno loro ragione; e così via). Senza mai mettersi in discussione, senza mai guardarsi intorno e dire: com’è che stiamo sempre da soli? Senza accorgersi di quanto erano respingenti, perché a loro andava bene esserlo. E non sarebbe successo nulla se non fossero arrivati i Castagna a venti metri da casa loro. I Castagna: l’antitesi dei Romano. Hanno i soldi e loro no, danno fastidio, sono arroganti, sono di liberi costumi, si mettono in casa dei criminali. Gente pericolosa, insolente, una minaccia per l’ordinato, piccolo, intollerante mondo di Olindo e Rosa. Una minaccia durata 6 anni e che ha portato i due a tirar fuori una violenza che c’era già, a farla diventare sempre più gonfia, fino a esplodere in quel modo atavico, bestiale, sproporzionato. Poi sono arrivati i Frigerio. Perché non se ne sono stati a casa, invece di scendere? Vedi che vuol dire impicciarsi?

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Poi l’arresto, dopo molto tempo. Sul momento confessano, perché c’è lo schock dell’arresto e la fragilità della separazione, quindi recuperano una centratura psichica e negano, negano tutto: per strategia processuale, o vogliamo dire per spirito di sopravvivenza? Ma gli va male. Quel ‘non siamo stati noi’ dice molto di più: loro percepiscono la strage non come un reato, ma come un atto dovuto, inevitabile, la cui colpa non è loro -ovviamente - ma di chi non l’ha evitata, i Castagna e tutte quelle ridicole istituzioni che adesso pretendono pure di processarli e fargli la morale. Recuperata la centratura, ritrovata l’indifferenza. Al processo si avvalgono della facoltà di non rispondere. Solo Olindo dice qualcosa, prima della sentenza. Un intervento sconcertante, sia che lo si veda colpevole, sia che lo si veda innocente. Si siede e fa un discorsetto in cui due frasi cominciano con ‘niente’. Tre precisazioni da ragioniere, tutto qui. L’impressione è questa: dico qualcosa perché me l’hanno detto, ma io proprio niente ho da dire. Nessuna ammissione ma nemmeno nessuna difesa veemente, accorata, nessun grido d’innocenza. Fate un po’ come vi pare: noi non siamo di questo processo. Usciti dal cortile, riprendiamo a camminare per le strade di Erba. Fila tutto. I dettagli che potevano sapere solo loro. Il movente. I tempi. La mancanza di piste alternative. Ma. Ma la testimonianza di Mario non tiene. Ma gli hanno fatto vedere quelle foto. Ma la traccia nell’auto è discutibile. Per noi sono colpevoli, ma senza quelle prove granitiche che sembravano esserci. Ci sarebbe stato molto di più da discutere, altro che. Forse è la prima volta che ci imbattiamo in un caso in cui vengono condannati giustamente i colpevoli, ma contro ogni regola, prassi e buona norma. Ci domandiamo: ma il fine può giustificare i mezzi? Loro resteranno per sempre così: convinti di aver fatto l’unica cosa possibile. La sola scelta che potesse far finire i mal di testa di Rosa e dormire sul divano l’Olindo. Sono morte 4 persone, ma che fa? Finalmente, c’è pace. Olindo e Rosa, mentre siamo qui a camminare, sono ancora in carcere. Poi, come sempre, il caso guida le nostre vite. Paola, che quasi mai saliva a casa della figlia quando la riaccompagnava

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e quella sera, chissà perché, invece sale. Valeria, che di solito portava fuori il cane mezz’ora, ma quell’11 dicembre si gelava, il cane era vecchio e così. È diventata una strage per puro caso. Restano le parole di due assassini. Lei: “Ho cominciato a pestare, a pestare, cioè più picchiavo, più picchiavo, più accoltellavo, più mi sentivo… è stupido a dirglielo… forse non dovrei dirglielo… però mi sentivo… più sollevata… mi sentivo forte. Anch’io avevo le mie forze, combatti con me adesso… Fai, adesso… reagisci…(…) le dicevo, parla, reagisci… mi sentivo… anch’io sono diventata forte”. Lui: “Se devo dire la verità, quando ho ucciso non ho provato né piacere né disgusto. Era una cosa naturale, come ammazzare un coniglio. Se l’è cercata, le sta bene. Non mi dispiace niente”.  Niente. È passato così tanto tempo. Carlo ha dato l’appartamento che fu casa del fuoco e del sangue in comodato alla Caritas: ci vive una famiglia della Nuova Guinea. Pietro Ramon è morto: in casa sua ci vive il figlio, Lidio. Mario è morto, dopo aver vissuto anni da ombra di ciò che era. Azouz è in Tunisia. La casa di Olindo e Rosa è stata venduta all’asta nel 2011, oggi ci vive Alessandra. La cucina è rimasta quella di allora. Ci ritroviamo di colpo in mezzo alla gente. Sbuchiamo da una strada laterale su una specie di corso centrale. Ecco dov’erano tutti! C’è il mercatino, le luci, le palle colorate, gli stand, Erba tutta chiusa nei cappotti, che fa nuvolette quando parla. Gli alberi sono pieni di addobbi luminosi. C’è l’aria della festa e di colpo ci sentiamo riscaldati, anche se fa zero gradi. Ci guardiamo sorpresi. Camminiamo dritti, sbuchiamo in piazza. Ed eccolo davanti a noi. Come abbiamo fatto a dimenticarcene? “Ma è Natale…” fa Armando, rimanendo a bocca aperta di fronte a un colossale abete colorato. “È proprio Natale. Ossignore, anzi… è il 24. Oggi è la vigilia!”. “E tra due giorni, il 26, ho il pranzo con mia sorella Elisabetta… quindi ’sta cosa di stare così nel profondo nord mi stranisce”.

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Presi dalla nostra indagine, presi dalla caccia alla verità, ci eravamo completamente dimenticati di Natale. Se non avessimo sbagliato strada, saremmo rientrati in albergo ancora pensando a Cogne, a Erba, al male, al sangue. Invece no. Stiamo qui in piedi sotto una nevicata. Era passato da poco l’ultimo Natale di Samuele, sarebbe stato tra poco l’ultimo Natale per Raffaella, per Paola, per Valeria, Youssef. Quante vite non ci sono più. Siamo riusciti a fare qualcosa per loro, siamo riusciti a scrivere un frammento bruciato di verità? Non lo sappiamo. “A proposito… Buon Natale, Armando”. “Buon Natale, Fabio”. Stavolta, le orme che si allontanano nella neve sono le nostre.

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Appendice: I tempi del delitto di Cogne

2002 • 30 gennaio 2002: delitto di Cogne. • 31 gennaio 2002: prima sommaria autopsia. • 2 febbraio 2002: si scava intorno alla casa e si usa il metal detector alla ricerca dell’arma. • 3 febbraio: l’avvocato Carlo Grosso, noto penalista torinese, assume la difesa della Franzoni. All’epoca vicepresidente del Csm, Grosso ha casa nello stesso edificio di Ada Satragni, a Cogne. • 4 febbraio 2002: seconda e più approfondita autopsia. • 7 febbraio 2002: i Ris portano via dieci sacchi pieni di oggetti. • 13 febbraio 2002: i Lorenzi lasciano Cogne e tornano a Monteacuto Vallese per sfuggire alla pressione della stampa. • 23 febbraio 2002: i Ris dicono che le macchie sul pigiama sono da schizzo, quindi era indossato. • 1 marzo 2002: la ricerca dell’arma prosegue nei tombini e nelle fogne circostanti. • 10 marzo 2002: intervista di Annamaria Franzoni a “Studio Aperto” • 11 marzo 2002: escono le interviste al “Secolo XIX” e al “Corriere della Sera”. • 13 marzo 2002: il Gip su richiesta del PM emette mandato di cattura. • 14 marzo 2002: arresto della Franzoni. • 28 marzo 2002: Il Gip assegna la perizia psichiatrica ai professori Luzzago-De Fazio-Barale. • 30 marzo 2002: il Tribunale del Riesame annulla il mandato di cattura, suggerendo di indagare su altre persone in quanto la pista dell’assassino esterno è credibile.

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• 10 aprile 2002: il Pm fa ricorso contro la decisione del Riesame. • 2 maggio 2002: la villetta viene dissequestrata e i Lorenzi la puliscono a fondo. • 10 giugno 2002: la Corte di Cassazione annulla il Riesame, rimandando al Tribunale di Torino per una nuova valutazione. • 25 giugno 2002: l’avvocato Grosso lascia la difesa e arriva Taormina. • 16 luglio 2002: al “Maurizio Costanzo Show” la Franzoni annuncia di aspettare il terzo figlio. • 23 luglio 2002: i periti del Gip rispondono che non c’è alcuna patologia psichiatrica nella Franzoni. • 19 settembre 2002: il Tribunale del Riesame conferma la misura del Gip e cioè le misure cautelari per la Franzoni. Taormina ricorre di nuovo in Cassazione. • 8 ottobre 2002: la perizia del professor Fornari per il Pm conclude che la personalità della Franzoni non è così solida come sembra. 2003 • 26 gennaio 2003: nasce Gioele Lorenzi. • 31 gennaio 2003: la Cassazione annulla la richiesta di custodia cautelare del Riesame e gli rimanda di nuovo gli atti. • 10 febbraio 2003: il Gip Gandini afferma che la pericolosità sociale è venuta a mancare e ordina i domiciliari a Ripoli Santa Cristina. Il carcere non serve più. • 3 luglio 2003: il Pm chiede il rinvio a giudizio per Annamaria Franzoni. • 16 settembre 2003: inizia il processo con rito abbreviato di fronte al Gup Gramola. Il giudice non ha ritenuto valide le perizie e consulenze tecniche fin qui svolte e nomina suoi nuovi periti Schmitter, Pascali e Boccardo.

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2004 • 23 aprile 2004: Schmitter consegna e conferma le analisi dei Ris di Parma. • 19 luglio 2004: il Gup di Aosta condanna Annamaria Franzoni a 30 anni. • 28 luglio: indagini difensive di Taormina e dei suoi consulenti, che operano nella villetta di Cogne alla ricerca di tracce. • 30 luglio 2004: la difesa accusa Ulisse Guichardaz sulla base del rapporto Gelsomino; individua inoltre un’impronta e tracce organiche, scoperte dai consulenti dei Lorenzi in garage, durante le indagini difensive. • 2 novembre 2004: la Procura denuncia per frode processuale - e calunnia verso Ulisse - Stefano Lorenzi, la moglie, Taormina e parte dello staff di tecnici (Enrico Manfredi e Claudia Sferra) più l’investigatore privato Giuseppe Gelsomino. L’accusa è di aver falsificato le prove. È il cosiddetto procedimento Cogne-bis. 2005 • 16 novembre 2005: inizio del processo di Appello. L’accusa chiede una nuova perizia psichiatrica, la Franzoni si rifiuta. Viene svolta lo stesso, sulla base di tutta la documentazione esistente e delle interviste video da lei rilasciate, dai professori De Feo, Freilone, Galliani e Traverso. 2006 • 14 giugno 2006: esito della perizia. C’è uno stato crepuscolare orientato, personalità isterico-narcisista su base ansiosa. Niente pericolosità sociale. La capacità di intendere e di volere è ridotta. • 20 novembre 2006: in polemica con la Corte, Taormina rinuncia all’incarico. Al suo posto viene nominata Paola Savio, avvocato d’ufficio.

225

• 12 dicembre 2006: Taormina rientra nel processo e chiede che venga spostato a Milano, poiché a Torino il clima non è sereno. 2007 • 20 febbraio 2007: la Cassazione decide che il processo resta a Cogne. • 4 marzo 2007: Paola Savio assume da sola la difesa, Taormina esce definitivamente. • 27 aprile 2007: la Corte d’Appello di Torino condanna la Franzoni a 16 anni (24, ridotti di un terzo per via del rito abbreviato). 2008 • 12 marzo 2008: la Franzoni viene condannata in primo grado a 3 mesi per diffamazione verso il capo della Procura di Aosta, Maria Del Savio Bonaudo, avvenuta durante “Porta a porta” del 2004. • 25 maggio 2008: la Cassazione conferma la condanna a 16 anni. La Franzoni entra in carcere. 2010 • 9 aprile 2010: la Corte d’Appello di Milano modifica la condanna per diffamazione in 800 euro di multa. 2011 • 19 aprile 2011: il Tribunale di Torino, nell’ambito del Cogne-bis, condanna la Franzoni a 1 anno e 4 mesi per aver calunniato Ulisse Guichardaz e per frode processuale. 2012 • 15 luglio 2012: Taormina fa causa civile alla Franzoni

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per non averle pagato l’onorario, 800.000 euro. I Lorenzi sostengono invece che l’avvocato si era impegnato gratuitamente e di essere stati peraltro danneggiati dal Cognebis. 2013 • 9 ottobre 2013: la Franzoni è ammessa al lavoro esterno al carcere. Esce al mattino, rientra la sera. 2014 • 31 marzo 2014: la Corte d’Appello di Torino chiude il Cogne-bis dichiarando prescritto il reato di calunnia ai danni di Ulisse Guichardaz e la frode processuale. • 26 giugno 2014: Annamaria Franzoni viene scarcerata dopo che una perizia psichiatrica del professor Augusto Balloni ha escluso il rischio di recidiva del reato. Passa agli arresti domiciliari e viene affidata ai servizi sociali. Torna in famiglia, a Ripoli Santa Cristina. 2017 • 16 febbraio: il Tribunale Civile di Bologna deposita la sentenza con la quale i Lorenzi sono obbligati a pagare circa 400.000 euro di onorario all’avvocato Taormina.

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Appendice: I tempi della strage di Erba

2006 • 11 dicembre 2006: strage di Erba. • 12 dicembre 2006: i Ris intervengono sulla scena del crimine. • 15 dicembre 2006: prima deposizione di Mario Frigerio, sopravvissuto alla strage, al Pm Pizzotti. • 20 dicembre 2006: seconda depozione di Frigerio, al luogotenente Gallorini. • 25 dicembre 2006: il teste Chemcoum si presenta dai Carabinieri. • 26 dicembre 2006: esperimento giudiziale con i Romano per verificare i tempi del loro alibi. Stesso giorno, i carabinieri cercano tracce sull’auto dei Romano. Stesso giorno, Frigerio fa la terza deposizione, al Pm Pizzotti. 2007 • 8 gennaio 2007: arresto di Olindo Romano e Rosa Bazzi. • 10 gennaio 2007: Olindo e Rosa confessano. • 6 giugno 2007: di fronte al Gip, Rosa per la prima volta dice apertamente di essere stata violentata da Azouz Marzouk. • 10 ottobre 2007: Olindo ritratta la sua confessione di fronte al Gup. 2008 • 26 novembre 2008: la Corte d’Assise di Como li condanna all’ergastolo.

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2010 • 26 aprile 2010: la Corte d’Appello di Milano conferma. 2011 • 3 maggio 2011: la Cassazione chiude il caso. 2013 • 3 dicembre 2013: Marzouk dichiara che per lui i Romano sono innocenti. 2018 • 1 febbraio 2018: la Corte d’Appello di Brescia respinge la richiesta della difesa dei Romano di avere un incidente probatorio su alcuni reperti della scena del crimine ritenuti all’epoca ininfluenti, alla ricerca di nuovi profili genetici.

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Bibliografia

Annamaria Franzoni con Gennaro De Stefano, “La verità”, Piemme, 2006 Carlo Taormina, “La mia verità sul delitto di Cogne”, in allegato a “Il Giornale” Cesare Musatti, “Elementi di psicologia della testimonianza”, Bur, 1991 Edoardo Montolli, “L’enigma di Erba”, in allegato a Oggi, aprile 2010 Giuliana Mazzoni, “Si può credere a un testimone?”, Il Mulino, 2003 Giulio Canella175, “Alla ricerca di me stesso”, 1930 Letizia Caso, Aldert Vrij, “L’interrogatorio giudiziario e l’intervista cognitiva”, Il Mulino, 2009 Lisa Roscioni, “Lo smemorato di Collegno”, Giulio Einaudi, 2007 Luigi Anolli, “Mentire”, Il Mulino, 2003 Luisella de Cataldo Neuburger, “Psicologia della testimonianza e prova testimoniale”, Giuffrè, 1988 Luisella de Cataldo Neuburger, Guglielmo Gulotta, “Trattato della menzogna e dell’inganno”, Giuffrè 1996 Paola Pagliari, “Non siamo stati noi”, Youcanprint, 2015 Pino Corrias, “Vicini da morire”, Mondadori, 2007 Renzo Canestrari, Antonio Godino, “La psicologia scientifica”, Clueb, 2007 Valentina Magrin, Fabiana Muceli, “La chiave di Cogne”, Cavallo di Ferro, 2008

175

230

Ma è più corretto dire Mario Bruneri…

Videografia Tutta la verità-Erba, di Cristiano Barbarossa e Fulvio Benelli, in onda su Nove il 10 aprile 2018 Un giorno in Pretura del 6 e 20 dicembre 2008, in onda su Rai 3 Linea Gialla del 15 ottobre 2013, in onda su La7 Linea Gialla del 17 dicembre 2013, in onda su La7 Archivi Tribunale di Aosta, atti del processo Franzoni Tribunale di Milano, atti del processo Romano Periodici e quotidiani Panorama, 1 agosto 2002 Ugo Fornari, Nadia Delsedime, “Disturbi della memoria e funzionamenti mentali patologici: implicazioni in psichiatria forense”, in Giornale italiano di Psicopatologia, 2005/11 Vittorio Zincone, “Il delitto di Cogne”, in L’Europeo 2004/4 Sitografia http://milano.repubblica.it/cronaca/2014/09/16/news/strage_di_erba_morto_mario_frigerio_sfugg_alla_morte_e_incastr_con_le_sue_accuse_olindo_e_rosa-95877311/ http://www. difesadellinformazione.com/ultime_notizie/34/nelle-intercettazioni-il-vero-volto-di-azouz-marzouk/ http://milano.repubblica.it/cronaca/2017/10/27/news/strage_di_erba_il_21_novembre_udienza_su_nuove_possibili_ prove-179524092/ http://ricerca.gelocal.it/lanuovasardegna/archivio/lanuovasardegna/2002/03/02/PA602.html http://stragedierba.blogspot.it/ http://torino.repubblica.it/cronaca/2017/06/01/ news/settimo_analogie_con_il_caso_franzoni_lo_psi-

231

chiatra_la_mente_e_abile_a_creare_un_altra_verita_166949948/?refresh_ce http://www.adnkronos.com/fatti/cronaca/2017/09/12/strage-erba-esami-nuovi-reperti_zCssToVdNbaq6wjMjfmUiI. html http://www.affaritaliani.it/milano/strageerbaolindokillerMI2011.html?refresh_ce http://www.cinquantamila.it/storyTellerThread.php?threadI d=CogCronologiaDiCogne http://www.dailymotion.com/video/x4lveh http://www.dailymotion.com/video/x4lvfh http://www.ilgiornale.it/news/strage-erba-spuntano-alcuneintercettazioni-fantasma-sul.html http://www.ilgiorno.it/lecco/cronaca/2013/02/05/840972como-erba-strage-addio-ramon-testimone.shtml http://www.oggi.it/attualita/notizie/2011/04/12/specialestrage-di-erba http://www.psicologiagiuridica.com/index. php?sz=archivio&tp=proc&r=4 http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Strage-Erba-giudici-si-ad-analisi-nuove-possibili-prove-olindo-rosa-speranorevisione-processo-50a984a3-e9c7-40cc-9424-58983e4d0c28. html http://www.repubblica.it/2008/11/sezioni/cronaca/strageerba/dichiarazione-olindo/dichiarazione-olindo.html http://www.repubblica.it/online/cronaca/cognequattro/cognequattro/cognequattro.html http://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/articoli/articolo85491.shtml https://www.ilgiorno.it/como/cronaca/strage-erba-1.2743931 https://www.psicotypo.it/falsi-ricordi/ https://www.youtube.com/watch?v=0Qxb30xMh84 https://www.youtube.com/watch?v=2W9o-zBmgJQ https://www.youtube.com/watch?v=FvWVsCNxjbE https://www.youtube.com/watch?v=lUHXltN43WY https://www.youtube.com/watch?v=pHdUBNyAu7g

232

https://www.youtube.com/watch?v=uAYmmSLnlgM www.crimine.net www.detcrime.com

233

Indice

Prologo 5

Capitolo 1 Quella mattina a Cogne

9

Capitolo 2 Le prime 48 ore

17

Capitolo 3 A che ora è morto?

37

Capitolo 4 La paura corre sul filo

44

Capitolo 5 Samuele 51 Capitolo 6 Davide 54 Capitolo 7 I vicini di casa

59

Capitolo 8 Non chiudete quella porta

72

Capitolo 9 Il sangue

78

Capitolo 10 Le 6 matrioske

94

Capitolo 11 Una mattina d’inverno, a Cogne

106

Capitolo 12 Un’ amnesia ad arte

111

Capitolo 13 Quella notte a Erba

121

Capitolo 14 Scena del crimine con strage

132

Capitolo 15 I testimoni

147

Capitolo 16 Altre ombre?

156

Capitolo 17 Tracce

162

Capitolo 18 Hanno confessato

170

Capitolo 19 Ma chi sono Olindo e Rosa?

182

Capitolo 20 La Bibbia

186

Capitolo 21 Tutto quello che non torna. E che torna

191

Capitolo 22 E quelle confessioni?

198

Capitolo 23 Mario è attendibile?

207

Capitolo 24 Una sera d’inverno, a Erba

218

Appendice: I tempi del delitto di Cogne

223

Appendice: I tempi della strage di Erba

228

Bibliografia 230

DEGLI STESSI AUTORI nelle nostre Edizioni Un mostro chiamato Girolimoni. Una storia di serial killer, di bambine e innocenti. 2011 pp.176 Morte a Via Veneto. Storie di assassini, tradimenti e Dolce Vita. 2012

pp. 224

Omicidio a Piazza Bologna. Una storia di sicari, mandanti e servizi segreti. 2013

pp. 204

Sangue sul Tevere. Storie di serial killer, valigie e canari. (con Vincenzo Mastronardi) 2014 pp.269 Sacro sangue Storie di svizzeri, menzogne e omicidi 2015 pp.216 Accadde all'Idroscalo. L'ultima notte di Pier Paolo Pasolini 2016 pp.312

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