Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili 9788874622528, 887462252X

Scritto nel 1933, "Ambienti animali e ambienti umani" è l'opera matura di uno dei maggiori biologi del se

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Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili
 9788874622528, 887462252X

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Quodlibet 49 Scritto nel 1933, Ambienti animali e ambien­ ti umani è l’opera matura di uno dei maggio­ ri biologi del secolo appena trascorso, un classico del pensiero europeo del Novecento che ha formato intere generazioni di studio­ si del comportamento animale e della natura umana, in ambito scientifico, filosofico e per­ sino letterario. Uexküll è considerato il fondatore del­ l’etologia contemporanea e un importante precursore dell’ecologia. Ma la sua nozio­ ne di «ambiente» - termine che è lui stesso a introdurre in ambito scientifico - è ben più avanzata di quella dell’odierna vulgata ambientalista: non a caso è declinata al plu­ rale. L’ambiente in cui e di cui vive una de­ terminata specie, il paguro o la volpe, la talpa o la zecca, è una sfera separata e impe­ netrabile al punto da indurre l’autore a par­ lare, nel sottotitolo, di mondi «sconosciuti e invisibili». Questi mondi o ambienti sono parte costitutiva dell’animale, che non può essere «compreso» senza che si provi ad ac­ cedere a essi: parafrasando Heidegger (peral­ tro suo grande e immediato estimatore) si potrebbe dire che la «struttura ontologica» di un animale coincide esattamente col suo «essere-nel-(rispettivo)-ambiente». Le strategie dell’autore per pararci da­ vanti questi piani dell’invisibile, orchestrate a quattro mani con l’illustratore Georg Kriszat, che va considerato a tutti gli effetti un coau­ tore, costituiscono tutto lo spettacolo di que­ sto libro. Esse indurranno Gilles Deleuze - colui che ha definito l’Etica di Spinoza non una morale, ma un’etologia - ad annoverare

Jakob von Uexküll

Ambienti animali e ambienti umani Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili Illustrazioni di Georg Kriszat a cura di Marco Mazzeo

Quodlibet

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Indice

Prefazione di Marco Mazzeo

Ambienti animali e ambienti umani Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili

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Premessa

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Introduzione

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1. Lo spazio e l’ambiente

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2. L’orizzonte

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3. Il tempo percettivo

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4. Gli ambienti semplici 5. Forma e movimento come marche percettive

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Titolo originale Streifzüge durch die Umwelten von Tieren und Menschen. Ein Bilderbuch unsichtbarer Welten

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(1 9 3 4 )

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6. Obiettivo e piano 7. Immagine percettiva e immagine operativa

© Marina von Uexküll

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8. Percorsi conosciuti

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9. Dimora e territorio

© 2010 Quodlibet Sri via Santa Maria della Porta, 43 - 62100 Macerata www.quodlibet.it ISBN

978-88-7462-252-8

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10. Compagni di vita

13 5

11. Immagine e tonalità di ricerca

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i2. Gli ambienti magici 13. Gli ambienti: soggetto e oggetto 14. Conclusione

Prefazione Il biologo degli ambienti Uexkiill, il cane guida e la crisi dello Stato

N ota al testo

I. Il biologo e il poeta: Rilke e il riccio di mare Per me la terra è un gigantesco riccio di mare, tutte le parti viventi dipendono le une dalle altre. Jakob von Uexkiill

Dopo quarant’anni, viene ripubblicato in italiano, con traduzione e apparati completamente rinnovati, un classi­ co del pensiero europeo del Novecento, l’opera matura, sicuramente la più godibile e chiara, di uno dei maggiori biologi del secolo appena trascorso. Quel che oggi costituisce un luogo comune teorico che ha dato origine a una branca separata e relativamente auto­ noma della ricerca scientifica, l’ecologia, è stato imposto all’attenzione del pensiero contemporaneo da un perso­ naggio energico ma dal carattere difficile, un barone prus­ siano nostalgico dei bei tempi andati ma che, spesso suo malgrado, ha dischiuso le porte alle più diverse forme di innovazione scientifica e culturale. Jacob von Uexkùll1 (1864-1944) è il quinto figlio di una famiglia aristocratica. 1 II cognome Uexkiill deriva dal nome di un villaggio lettone e in esto­ ne significa «un villaggio» (Kalevi Kuli, Jakob von Uexkiill: an Introduc­ tion, «Semiotica», 2001, 134, p. 9).

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Nato in Estonia ma di lingua e cultura tedesca, è colui che ha utilizzato per primo in biologia la nozione di «ambien­ te» in modo sistematico e rigoroso. Nel 1888, dopo aver studiato zoologia a Dorpat, si trasferisce a Heidelberg dove lavora con Wilhelm Kühne, allievo di J. Müller (uno dei fondatori della moderna fisiologia). In questi anni Uexküll studia l’opera di Kant e comincia a dividere il proprio tempo tra la Germania e la stazione zoologica di Napoli. Qui incontra Gudrun von Schwerin: qualche anno dopo, nel 1903, la baronessa sposa questo biologo spigoloso e imprevedibile che studia animali strani come le meduse o i ricci di mare ma che, al contempo, è uno dei pochi a fraternizzare con gli autoctoni, per i quali è «un vero napoletano». Nel marzo del 1905, durante una visita nel castello Friedelhausen di proprietà della suocera, Uex­ küll incontra Rainer Maria Rilke con il quale, oltre a discu­ tere di biologia e poesia, comincia a rileggere la Critica del­ la ragion pura di Kant2 e a gettare le basi di un rapporto duraturo (ancora nel 1921 Rilke scrive del suo dispiacere per non aver potuto assistere a una sua conferenza3) che farà di Uexküll il consulente biologico del poeta tedesco. Sono gli anni durante i quali, tra il 1907 e il 1909, Uexküll mette a fuoco la nozione di «ambiente». Fino a quel momento il termine (in tedesco Umwelt) era impiegato soprattutto in senso sociologico per riferirsi a contesti sto­ rico-culturali umani. Per questa ragione, prima di riuscire 2 Nel Rilke-Arkiv è stata ritrovata una copia del libro che a pagina 120 reca la dedica «in ricordo dei nostri studi kantiani a Friedelhausen agosto 1905 J. von Uexküll» (Malte Herwig, The unwitting muse: Jakob von UexkülTs theory o f Umwelt and twentieth-century literature, «Semioti­ ca», 134, 2001, pp. 355-556). 3 Malte Herwig, The unwitting muse: Jakob von UexkülTs theory of U m w elt and twentieth-century literature, cit., p. 558.

9 ad aprire ad Amburgo l’Istituto di ricerca ambientale (1926), Uexküll incontra parecchie difficoltà, perché la dicitura che ne indica le finalità appare contraddittoria. Fondare un centro di studio degli Umwelten all’interno di un giardino zoologico per comprendere più a fondo le specificità bio-percettive delle diverse forme di vita più che un progetto di ricerca appare una provocazione bella e buona4. L’obiettivo di Uexküll, invece, è esplicito: mettere in cri­ si in modo definitivo un pregiudizio antropocentrico, l’idea che le varie specie animali, le meduse e i gatti, i lombrichi e i ricci, vivano in uno spazio senso-motorio identico al nostro, come se le nostre modalità di senso e di azione costituissero il punto di riferimento per la vita di qualunque organismo. Attraverso un continuo lavoro di indagine e di divulgazione, che lo porta a pubblicare articoli su riviste specializzate ma anche su quotidiani di ampia diffusione, Uexküll descrive il modo in cui ogni forma di vita ritaglia il proprio ambiente secondo le strutture percettive e la con­ formazione che la contraddistinguono: per il cane lo spazio ha innanzitutto una organizzazione olfattiva che struttura il suo ambiente in territori nei quali lasciare tracce odorose; i luoghi sorvolati dalla mosca risentono della particolare morfologia di occhi composti da migliaia di elementi, ognu­ no dotato di cristallino proprio. Questo decentramento di prospettiva, che libera lo stu­ dio di quel che ci circonda da ogni pregiudizio specista, ha fatto sì che nel Novecento Uexküll abbia costituito un punto di riferimento teorico inaspettatamente ampio. Può risultare prevedibile l’attenzione dedicata a Uexküll da P R E F A Z IO N E

4 Gudrun Uexküll, Jakob von Uexküll. Seine Welt und seine Umwelt, Christian Wegner Verlag, Hamburg 1964, p. 143.

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parte degli etologi legati direttamente al suo lavoro (Kon­ rad Lorenz) o dai biologi più aperti a prospettive per cer­ ti aspetti eterodosse (Uexkùll non è un darwinista) come Adolf Portmann. Meno scontata è la penetrazione delle sue idee, lenta ma inesorabile, negli ambiti più diversi del­ la ricerca contemporanea. Il pensiero di Uexkùll forma intere generazioni di filosofi: non solo appartenenti alla cosiddetta antropologia filosofica (Scheler, Plessner e Gehlen), a Heidegger o al neokantismo (Cassirer), vicini per lingua e contingenze storiche, ma anche i francesi Mer­ leau-Ponty e Deleuze, gli spagnoli Ortega y Gasset e Una­ muno, gli americani Sebeok e Bateson. Negli ultimi anni, si è aperta una specie di gara, interessante anche se a volte dal sapore vagamente cupo, a rintracciare la varietà degli ambiti di ricerca che hanno risentito di Uexkùll e della nozione di ambiente: la matematica di R. Thom, laprossemica di Hall, la teoria dei sistemi di Bertalanffy, la psicolo­ gia e la linguistica di H. Werner (che nel 1933 lavora nel suo laboratorio), la psichiatria fenomenologica di Binswanger, il connessionismo di A. Clark, la poesia di Rilke (anche Thomas Mann è suo lettore) e la neurofisiologia di Berthoz5. L’impatto sul pensiero contemporaneo di que­ sto curioso personaggio, spiritoso e irascibile, in grado di fondare uno dei primi centri per l’addestramento di cani5 Berthoz ha appena pubblicato un libro collettaneo sulla neurobio­ logia dell ’U m welt (Alain Berthoz, Yves Christen (Eds.), Neurobiology o f «Umwelt»: H ow Living Beings Perceive the World, Springer Verlag, Berlin-Heidelberg 2009). N el 1993 lo scrittore danese Peter H oeg ha tratto ampio spunto dall’opera di Uexkiill nel romanzo I quasi adatti (Mondadori, Milano 1997). Rimando al numero monografico che la rivi­ sta «Semiotica» ha dedicato al biologo estone (anno 2001, numero 134) per una descrizione più dettagliata della sua influenza su autori e campi di ricerca contemporanei.

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guida per ciechi ma anche di sfiorare la morte in duello in pieno stile ottocentesco è talmente ampio da essere, anco­ ra oggi, non del tutto quantificabile.

2. Biologia dello Stato Se va in pezzi l’organizzazione dello Stato e del popolo, ha origine la massa, nient’altro che putrefazione. Jakob von Uexkùll

Se Uexkùll è così determinante per la ricerca scientifica e filosofica del Novecento, come mai attendere quarantan­ ni per ripubblicare la sua opera più chiara e godibile e addi­ rittura settanta per proporne una traduzione nuova? La risposta è semplice: nel suo percorso intellettuale Uexkùll ha perso un treno importante, il darwinismo. In questo senso, la sua opera è stata penalizzata da una visione spes­ so anevolutiva della vita animale, poco sensibile al proble­ ma delle trasformazioni, delle origini e delle estinzioni di specie e organismi. Paradossalmente, però, questo elemento di marginalità teorica lo ha preservato da una serie di fraintendimenti, mode od ossessioni che hanno caratterizzato una parte significativa dell’evoluzionismo contemporaneo. Gli ecces­ si di una visione della vita centrata sulla trasmissione dei geni, ad esempio, ha segnato una rappresentazione carica­ turale dell’organismo, struttura passiva semplice portatri­ ce di unità di replicazione: per Uexkùll, al contrario, l’ani­ male non è vittima ma artefice e protagonista del proprio ambiente. La riscoperta della varietà degli ambienti degli animali non umani ha una conseguenza decisiva: Uexkùll

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si trova di fronte a una questione chiave e d’avanguardia, individuare le caratteristiche zoologiche che contraddistin­ guono l’ambiente umano. In modo netto e senza enfasi, Uexkiill cerca di comprendere da biologo cosa stia succe­ dendo alla vita politica della nostra specie. Qual è il rap­ porto tra gli ambienti propri degli esseri umani, la fragili­ tà della repubblica di Weimar e l’avvento della società di massa? Con la conclusione della prima guerra mondiale, i due Uexkiill, il biologo che pendola tra Germania e Italia e il pubblicista polemico contro la decadenza dei costumi europei, si fondono in una figura unitaria non priva di contraddizioni e incertezze. Nel 1920 pubblica un libro, supplemento del quotidiano conservatore «Die deutsche Rundschau», dal titolo Staatsbiologie {Anatomie-Physio­ logie-Pathologie des Staates), cioè «Biologia dello stato (anatomia-fisiologia-patologia dello stato)» che riorganiz­ za in modo sistematico un progetto già abbozzato negli anni precedenti6: portare il naturalismo ambientale fino alle sue estreme conseguenze. Secondo Uexküll la vicinan­ za tra animali umani e non umani deve essere vista nel doppio senso di marcia7. N on occorre solo rivendicare la parentela tra comportamenti umani e ambienti animali ma 6 Questo libro è giustamente considerato una delle espressioni più precoci e potenti dell’immagine biopolitica dello stato come organismo (Roberto Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004, pp. 7-8). Occorre segnalare comunque che già nel 1915 Uexkiill pubbli­ ca un articolo dal titolo significativo Popolo e stato (Jakob von Uexkiill, Volk und Staat, «Neue Rundschau», 1915, 26, pp. 53-66). 7 Da questo punto di vista il titolo di uno scritto del 1919 è partico­ larmente eloquente: D er Organismus als Staat und Staat als Organismus (L’organismo come Stato e lo Stato come organismo). La sua struttura simmetrica incarna il tentativo di prendere sul serio l’equiparazione tra ambienti animali e umani: spiegare i primi con alcune nozioni tipiche dei secondi e viceversa.

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U cercare di comprendere il senso biologico delle istituzioni umane. L’obiettivo è ambizioso: dalla fine dell’Ottocento, diversi autori (di solito sulla scia di Ernst Haeckel, il bio­ logo che conia il termine «ecologia») avevano sostenuto l’analogia semplice e rassicurante tra l’organizzazione sociale umana e quella degli insetti eusociali, le api ad esempio, tra i quali domina pace perpetua e automatica armonia8. La guerra che aveva distrutto buona parte del­ l’Europa ribadisce che l’analogia è, a dir poco, fuori luogo: gli alveari non si annientano a vicenda, le api non si massa­ crano in battaglie di trincea. La differenza tra le due forme sociali è data dal fatto, sottolinea Uexkiill, che gli esseri umani «non sono uguali tra loro»9. E questa la radice di almeno tre caratteristiche della nostra specie che creano problemi a chiunque voglia dirsi naturalista. La prima compare con chiarezza nella parte finale di Ambienti ani­ mali e ambienti umani·, mentre di solito il rapporto tra specie e ambiente è di tipo uno a uno (tutti i cani hanno uno stesso ambiente, diverso da quello delle mosche o dei lombrichi), nel caso della specie umana ad avere il proprio ambiente è il singolo individuo. La quercia è una unità strutturale ritagliata in modo specifico dalle varie forme di vita: il gufo ne sfrutta i rami e la volpe ne abita il tronco; il guardaboschi pensa alla legna e la bambina ai volti di stre­ ga evocati dalla corteccia nodosa. I primi due esempi distinguono specie (il gufo e la volpe), gli ultimi due individui (guardaboschi e bambina sono entrambi sapiens). La varietà ambientale interna alla nostra specie rappresenta

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8 Boria Sax, Peter H. Kopfler, Jakob von Uexkiill and the Anticipa­ tion o f Sociobiology, «Semiotica», 2001, 134, p. 770. 9 Gudrun Uexkiill, Jakob von Uexkiill. Seine Welt und seine Umwelt, cit., p. 118.

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contemporaneamente una risorsa e un problema: spiega la ricchezza e la varietà della vita umana ma anche la sua potenziale disorganizzazione. È per questo motivo che Uexkiill, quasi con disperazione, è costretto ad affermare che gli esseri umani sono privi del piano costruttivo {Bau­ plan), in grado di armonizzare i comportamenti delle altre forme di vita. Le pulsioni che nelle api sono coordinate tra loro, nella nostra specie sono autonome: la pulsione a formare lo Stato e la pulsione a formare un popolo non sono armoniche perché di volta in volta occorre rimetter­ le in equilibrio10. In una delle sue opere più importanti, Theoretische Biologie (Biologia teoretica), Uexkiill afferma che ogni essere umano ha addirittura due ambienti: uno riguarda i compiti naturali della riproduzione e appartiene alla fami­ glia, cellula fondamentale del popolo (Volk); l’altro corri­ sponde al ruolo che ciascuno di noi assume nella catena produttiva, compito storico legato allo Stato11. La proliferazione degli ambienti umani è considerata da Uexkiill in modo positivo solo se inquadrata all’interno di un sistema politico autoritario in grado di garantire l’ar­ monia tipica di ogni ambiente animale. Lo Stato assume dunque un ruolo ambivalente: per un verso è una struttu­ ra esplicitamente storica la cui presenza nel mondo anima­ le è oggetto di oscillazioni e perplessità; per un altro è la struttura in grado di salvare l’umanità dalla «putrefazio­ ne», dal ritorno a una indistinta animalità di massa. Per Uexkùll varietà ambientale umana, mancanza di un piano costruttivo e disorganizzazione pulsionale sono le 10 Ivi, pp. 104, 119. 11 Jakob von Uexkiill, Theoretische Biologie, Suhrkamp, Frankfurt am Main (prima ed. 1928) 1973, pp. 330-332.

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U tre radici antropologiche dal caos sociale rappresentato da comuniSmo e democrazia. Il 30 dicembre 1918 Uexkùll scrive a Chamberlain12: Anche se il suo fenotipo è stato finora così carente, il geno­ tipo del popolo tedesco è buono. Ma oggi non abbiamo a che fare con l’espressione del fenotipo quanto con una malattia acu­ ta, che ha colpito l’organismo statale. N on posso più lasciare da parte le similarità che esistono tra le rivoluzioni come si trattas­ se di qualcosa di superficiale. In tutti i casi emerge sempre lo stesso quadro sintomatico. Si tratta di un cancro, cioè della cre­ scita di cellule individuali e della parallela distruzione degli orga­ ni corrispondenti. La cosa che mi meraviglia di più è la delusio­ ne dei democratici che hanno considerato normale la crescita delle masse, sebbene sia stato proprio questo a segnare l’inizio della malattia13.

Nel 1933 (lo stesso anno nel quale scrive Ambienti ani­ mali e umani) Uexkùll ripubblica, con modifiche, Biolo­ gie des Staats e lo conclude con l’auspicio che il partito di Hitler arresti la decadenza patologica della Germania14. A differenza di altri (ad esempio Heidegger), Uexkùll non 12 L’opera principale di Houston Stewart Chamberlain (1855-1927), della quale Uexkùll scrive una recensione, è un libro sulla razza come chiave di volta della storia, ispiratore di alcune delle idee del nazionalso­ cialismo. Per Uexkùll, Chamberlain rappresenta un confidente prezio­ so: il loro rapporto si protrae fino alla morte di quest’ultimo, nel 1927. Al funerale di Chamberlain presenzia Hitler in persona: da alcuni anni infatti lo scrittore inglese si era iscritto al partito nazionalsocialista, ave­ va incontrato di persona il futuro Führer e sposato Èva Wagner, la figlia del compositore Richard e amica personale di Hitler. 13 II testo integrale della lettera è riportato in Anne Harrington, Reenchanted Science. Holism in German Culture from Wilhelm II to Hitler, Princeton University Press, Princeton 1996, p. 230. 14 Anne Harrington, Reenchanted Science, cit., p. 62.

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diventa, però, un intellettuale organico allo Stato nazista15. La ragione, almeno la più interessante dal punto di vista teorico, risiede nella diffidenza che in alcuni esponenti del partito nazista suscita la nozione di ambiente. Le origini sociologiche del concetto fanno cadere sull’opera il sospet­ to che si tratti, in realtà, di un frutto mimetizzato del pen­ siero bolscevico, sostenitore della centralità della storia (e non della razza) per la specie umana. Nell’aprile del 1931, Uexkiill e il suo collega G. Sarris figurano tra i relatori del Dodicesimo congresso della Socie­ tà tedesca di psicologia. L’intervento descrive il comporta­ mento di quattro cani che marcano il loro territorio (ne par­ la anche il capitolo 9 di Ambienti animali e ambienti uma­ ni). Alla fine della relazione, Ernst Cassirer (1874-1945) apre la discussione ricordando che «secondo Rousseau il 15 L’adesione di Uexkiill al nazismo rimane una questione non del tut­ to chiara. È indubitabile che, almeno in una prima fase, Uexkiill vide con favore l’ascesa di Hitler. È probabile che successivamente le cose, almeno in parte, fossero cambiate. N el maggio 1933 il biologo scrive una lettera alla vedova di Chamberlain nella quale definisce «una crassa barbarie» (Gudrun Uexkiill, Jakob von Uexkiill, cit., p. 172) la politica nazista del­ la razza (secondo quanto riferisce la moglie di Uexkiill, la missiva aveva come vero destinatario Hitler; alla richiesta di visionare la lettera in origi­ nale la famiglia ha però risposto che non si sa dove sia finita: Anne Har­ rington, Reenchanted Science, cit., p. 235). N el giugno del 1934, Uexkiill è invitato a partecipare a una discussione filosofica organizzata dalla Acca­ demia del diritto tedesco nella casa di Nietzsche a Weimar. Nonostante il tema dell’incontro riguardi la distruzione da parte di Hitler della democra­ zia e dello Stato di diritto, Uexkiill presenta un intervento che riguarda l’importanza della libertà di ricerca nelle università, organi di senso del­ l’organismo statale. La relazione viene presto interrotta perché fuori tema e non gradita (Gudrun Uexkiill, Jakob von Uexkiill, cit., pp. 174-175). Secondo quanto riportato dalla moglie, nel 1944 Uexkiill, ormai grave­ mente malato e trasferitosi da alcuni anni a Capri, accoglie con sollievo la notizia dell’attentato a Hitler (ivi, p. 263).

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17 primo uomo che aveva costruito un recinto dicendo che da quel momento il lotto di terra era di sua proprietà avrebbe dovuto esser ucciso. Dopo aver ascoltato la relazione del professor Uexkùll sappiamo che tutto questo non sarebbe stato sufficiente. Si sarebbe dovuto uccidere il primo cane che ha marcato il proprio territorio»16*. Alla conferenza assiste anche il futuro ministro della propaganda nazista. Joseph Goebbels (1897-1945), però, manifesta il proprio disprezzo verso ricerche che «si occupano di cose stupide e assurde, invece di contribuire a rivolgere la sensibilità del popolo tedesco verso i suoi veri compiti»'7. Mentre in alcu­ ni ambienti nazionalsocialisti il pensiero di Uexkùll diven­ ta un importante punto di riferimento'8, la matrice sociale della nozione di ambiente e, contemporaneamente, l’ecces­ sivo interesse verso il regno animale fanno sì che le sue idee siano considerate con cautela se non con sospetto. Di fatto, la fortuna così come la marginalità della nozione di ambiente sono legate al carattere promiscuo di un concetto che negli anni non cessa di rimanere ambiguo: nasce come termine che descrive la socialità umana; viene impiegato per definire la specifica condizione di ogni sin­ gola forma di vita; con la fine della prima guerra mondia­ le il termine Umwelt è di nuovo alle prese con le istituzio16 Gudrun Uexkiill, Jakob von Uexkiill, cit., pp. 168-169. 17 Ivi, p. 169. 18 Uexkiill è apprezzato da Alfred Rosenberg, uno degli intellettuali del partito nazista (almeno fino al 1934 quando, invitato a un colloquio a tu per tu dopo l’incidente avvenuto nella casa di Nietzsche, i due hanno uno scontro verbale: Gudrun Uexkiill, Jakob von Uexkiill, cit., p. 175). Il fondatore della biologia nazista Ernst Lehmann recensisce la seconda edi­ zione di Biologie des Staates, mentre nel 1937 la divisione studentesca del partito nazionalsocialista della Prussia orientale pubblica brani dell’opera di Uexkiill nel suo giornale universitario di propaganda ringraziandolo per l’ispirazione (Anne Harrington, Reenchanted Science, cit., pp. 68-69).

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ni umane, anche se all’interno di una prospettiva diversa, di tipo naturalista, che pensa di risolvere la questione attra­ verso nozioni biologicamente improbabili e controverse come quelle di famiglia, popolo e Stato.

3. Mondo e ambiente: qual è / ’habitat19 degli animali umani? N oi non abbiamo mai dinanzi a noi, neanche per un giorno, lo spazio puro dove sbocciano fiori a non finire. Rainer M. Rilke

A differenza di molti naturalisti contemporanei, Uexkiill non si tira indietro di fronte alla questione di comprendere la relazione tra biologia e politica, animalità e Stato. Allo stes­ so tempo, il biologo estone sembra spesso soddisfatto di una idea tutto sommato semplice, di tipo cumulativo. Qual è la differenza tra gli ambienti animali e quelli umani? Secondo Uexkiill gli ambienti umani sono più complessi, vari e numerosi poiché coincidono non con la specie ma con i singoli individui. Qualche anno prima dell’uscita di Ambienti animali e ambienti umani, Heidegger dedica al problema un intero corso universitario (nel 1929-1930) proprio per mettere in discussione questa idea. La sua pro­ posta è differenziare due termini che, nell’opera di Uexkùll, sono sinonimi e riservare la nozione di «mondo» {Welt) alla descrizione della condizione umana. L’animale vive «stor19 Utilizzo la parola habitat come termine franco per indicare quel che circonda la specie umana senza ancora dire se si tratti di un mondo, un ambiente o di quelli che Uexkiill chiama i dintorni di una forma di vita.

19 dito» nel suo ambiente, catturato dal ciclo funzionale tipi­ co dell’istinto: le sue funzioni vitali di base sono organiz­ zate da meccanismi rigidi. L’ape non passeggia qua e là tra i fiori, ma si muove condotta da uno stimolo preciso e incoercibile, ad esempio, il profumo del trifoglio. Conti­ nua a nutrirsi di polline finché la sazietà non inibisce l’istinto nutritivo. Anche se si recide l’addome dell’ape, questa continua a cibarsi incurante di quel che accade a lei e a quel che la circonda: l’insetto è letteralmente «assorbi­ to» dall’ambiente20. L’essere umano, invece, si contraddi­ stingue per il carattere «aperto» di un mondo che, a diffe­ renza dell’ambiente, la nostra specie deve formare e costruire: «da J. von Uexkiill in poi è divenuto consueto parlare di mondo-ambiente degli animali. La nostra tesi al contrario dice: l’animale è povero di mondo»21. Heideg­ ger afferma esplicitamente che questa distinzione non va intesa «nel senso di un ordinamento gerarchico di caratte­ re valutativo»22. Allo stesso tempo, tra la condizione ani­ male e quella umana non esisterebbe una distanza mera­ mente quantitativa «riguardo ad ampiezza, profondità e vastità» del loro ambiente, quanto quel che egli chiama un «abisso»23. 20 Martin Heidegger, D ie Grundbegriffe der Metaphysik Welt Endlichkeit - Einsamkeit, Klostermann, Frankfurt am Main 1983 (trad. it. di P. Coriando, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo - Finitez­ za - Solitudine, Il Melangolo, Genova 1999, pp. 302 e sgg.). 21 Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 250. 22 Ivi, p. 251. 23 Ivi, p. 337. Heidegger utilizza alcuni dei primi scritti di Uexkiill pubblicati nella rivista «Zeitschrift für Psychologie» dal 1896 in poi, la seconda edizione (del 1921) del libro nel quale aveva introdotto per la prima volta la nozione di ambiente ( U m welt und innenweit der Tiere, 1909) e la seconda edizione di Theoretische Biologie.

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Questa differenza sarebbe legata al fatto che l’essere umano è «formatore del proprio mondo», espressione che ha una accezione triplice24. L’essere umano produce il pro­ prio mondo: a differenza delle altre forme di vita, per noi è impossibile sopravvivere senza creare una struttura sto­ rico-culturale. In altri termini, per gli umani la variazione storica non è un’opzione ma una necessità biologica (non si forma un mondo nello stesso senso nel quale si forma una «associazione di canto»2S). In secondo luogo, quello umano non è l’animale razionale ma l’animale che ha il logos·, tramite il linguaggio dà immagine, rappresenta quel che lo circonda. A questo tema, Heidegger dedicherà tut­ ta la parte finale del suo corso universitario, rileggendo a suo modo il De interpretatione aristotelico: l’animale uma­ no è un essere vivente aperto «perché può esprimersi su ciò in direzione di cui è aperto»26. In terzo luogo, l’essere umano è formatore di mondo perché il mondo è tutto quel che lo circonda. Quest’ultimo aspetto della nozione è deli­ cato. Per un verso il mondo non è rigido come l’ambiente: non ci fornisce quella invidiabile sicurezza di comporta­ mento che è facile scorgere nella vita animale. Per un altro verso, però, il mondo è una struttura pervasiva: non siamo animali che hanno un po’ di mondo e un po’ di ambiente, che in parte devono costruire i loro dintorni e in parte no, ma una forma di vita radicalmente e totalmente mondana. Il mondo non si affianca, né mitiga un ipotetico ambiente umano ma ne sostituisce interamente la presenza. Questa pervasività non si manifesta nell’azione rigida e veloce del comportamento istintuale ma nella possibilità che nella 24 Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 365. 25 Ivi, p. 364. 26 Ivi, p. 398.

21 nostra esperienza appaiano i limiti della condizione uma­ na, la finitezza di una vita destinata a concludersi. Dire che il mondo è una struttura meno rigida dell’am­ biente significa affermare che il mondo è una struttura «aperta» e costruita. Queste due caratteristiche segnano un passaggio cruciale per comprendere la plausibilità del con­ cetto. Il primo è particolarmente interessante perché indica un cortocircuito teorico, il cui interruttore è ancora una vol­ ta Uexküll. Heidegger, infatti, lavora su questo termine a partire dall’ottava delle Elegie Duinesi di Rilke. La tesi di Rilke è che qualsiasi essere vivente ha percezione dell’aper­ to, una forma indefinita di accesso alle cose, «un nessundove senza negazioni»27 che corrisponde a un rapporto di pie­ na aderenza con le circostanze e che richiama la dimensione sospesa e paradisiaca con la quale molto spesso il pensiero religioso rappresenta la condizione animale. Nel 1946, in occasione del ventesimo anniversario del­ la morte del poeta, Heidegger tiene una conferenza nella quale riprende il testo di Rilke sostenendo che, nei con­ fronti della dimensione dell’aperto, tra noi e gli animali non umani esiste una «differenza infinita»28. Se da una parte Heidegger riconosce che «lo stordimento è una apertura più intensa e trascinante di qualsiasi conoscenza umana»29, dall’altra la condizione animale ritaglia nel proprio ambienP R E F A Z IO N E

27 Rainer Maria Rilke, Duineser Elegien, Insel Verlag, Frankfurt am Main 1923 (trad. it. di E. e I. D e Portu, Elegie Duinesi, Einaudi, Torino

1978, P- 49)· 28 Martin Heidegger, Wozu D ichter?, in M. Heidegger, H olzwege, Klostermann, Frankfurt am Main 1950 (trad. it. di P. Chiodi, Perché i poeti?, in M. Heidegger, Sentieri interrotti. La N uova Italia, Firenze 1984, p. 27°). 29 Giorgio Agamben, L ’aperto. L’uomo e l ’animale. Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 62.

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te un set limitato e preciso di oggetti con i quali entrare in relazione ed è cieca al significato di tutto quello che non vi corrisponde. Mentre l’aperto animale di Rilke è assoluto e statico, l’apertura del mondo umano sarebbe caratterizzata da una apertura storica che fa della formazione delle proprie condi­ zioni di sussistenza un elemento originario e sempre all’ope­ ra. Sia per Rilke che per Heidegger il nostro è un mondo: per il primo ciò vuol dire che la nostra condizione vive di una mancanza (l’assoluto nel quale è immerso l’animale e che noi sfioriamo solo nell’infanzia e nell’innamoramento); per il secondo la disaderenza alle circostanze tipica del mon­ do costituisce la possibilità di percepire le cose per quel che sono e non solamente per il rilievo funzionale che rivestono nell’ambiente. La tesi dell’uomo formatore di mondo è stata sostanzial­ mente accettata da una intera tradizione, la cosiddetta antro­ pologia filosofica, che, seppur con correzioni e distinguo, ha cercato di approfondire, modificare e descrivere la neces­ sità di una categoria descrittiva specifica per l’animale uma­ no. In più di una circostanza, però, questa distinzione ter­ minologica ha destato il sospetto che, al di sotto di una mera questione terminologica, si riproponesse di soppiatto una frattura teologica in grado di dividere in due il regno dei viventi. Purtroppo, questo punto ha finito con diventare ogget­ to di continui fraintendimenti che, come accade nel gioco infantile del telefono senza fili, hanno generato una catena quasi inestricabile di equivoci. Nel dibattito sull’appropriatezza delle nozioni di ambiente o mondo umano, riemerge con costanza quasi ossessiva lo stesso rimprovero: aver sot­ tovalutato la capacità che hanno gli animali di agire e modi-

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ficare il proprio ambiente. Sia Uexkiill, difensore della nozione di ambiente umano, che Heidegger, fautore della nozione di mondo, criticano Darwin per aver sottovalutato l’incidenza dell’organismo sul suo ambiente30. Questi due, a loro volta, sono stati spesso accusati di avere un’idea statica e quasi caricaturale della vita animale. Molto probabilmente, nessuno degli autori in questione aveva intenzione di cadere in un errore tanto banale. Uexkiill afferma esplicitamente che l’animale contribuisce a costruire il proprio ambiente (cfr. l’inizio del § 12 di Ambienti animali e ambienti umani, ma anche gli esempi delle patelle di mare, le talpe e gli uccelli che costruiscono nidi e porzioni del loro territorio). Hei­ degger ricorda che l’organismo è innanzitutto movimento e autocostruzione e che il cerchio che circonda l’animale «non è una corazza fissa posta intorno all’animale, bensì ciò con cui l’animale si circonda nella durata della sua vita»31. Anche Darwin mostra di non esser vittima di una visione statica di quelle che oggi chiamiamo nicchie ecologiche. A dimostrarlo è lo stesso Uexkiill. In Ambienti animali e ambienti umani Darwin viene citato solo una volta (cap. 5), a proposito di uno studio sui lombrichi che, erroneamente, è stato spesso relegato (insieme agli scritti sulle formazioni coralline) nella produzione geologica o minore del naturali­ sta inglese. Si tratta invece di un libro affascinante nel quale Darwin mostra che l’azione del lombrico modifica struttu­ ralmente quel che lo circonda. Il suo lavoro di filtraggio tra­ sforma la composizione chimica del terreno, favorisce la proliferazione della vita macrobiotica modificandone la 30 Jakob von Uexkiill, Darwin und die englische Moral, «Deutsche Rundschau», 1917, 173, p. 229; Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 365. 31 Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 331.

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porosità, l’areazione e il drenaggio. In un anno i lombrichi sono in grado di smuovere per ogni acro qualcosa come sedici tonnellate di terra: «l’aratro è una delle più antiche e più utili invenzioni dell’uomo; ma, molto prima che esistes­ se, la terra era regolarmente arata, e continua ad essere ara­ ta dai lombrichi o vermi di terra»32. Oltre a tradire un’attenzione non proprio impeccabile per le tesi avversarie (episodio non raro nelle dispute scien­ tifiche e filosofiche), la reciprocità del rimprovero espri­ me un disagio più profondo che segnala la presenza di un nodo teorico ancora da sciogliere. Da questo punto di vista, gli ambienti umani di Uexkùll e il mondo di Heideg­ ger sembrano soffrire di handicap complementari: se ogni essere umano ha il suo ambiente come facciamo a com­ prenderci? Se, al contrario, il nostro specifico è rappresen­ tato dalla costruzione del nostro habitat, come la mettia­ mo con casi di vita animale in grado non solo di modifica­ re la struttura del terreno in cui vivono, ma addirittura di trasformare gli stessi manufatti umani (Darwin insiste sul­ l’importanza dell’azione dei lombrichi per la conservazio­ ne o la distruzione dei reperti archeologici)? Negli ultimi anni sono state avanzate diverse proposte che tentano di mettere a fuoco le caratteristiche specifiche della nicchia ecologica umana. Alcune (la cosiddetta psico­ logia evoluzionistica33) hanno insistito sul carattere cogni­ tivo dell’ambiente umano: un habitat organizzato da una 32 Charles Darwin, The Formation o f Vegetable Mould through the action o f the Worms with Observations on their Habits, Murray, London 1881 (trad. it. di M. Lessona, La formazione della terra vegetale per l ’azio­ ne dei lombrichi con osservazioni intorno ai loro costumi. Unione tipografico-editrice, Torino, 1882, p. 98). 33 Cfr. ad es. John Tooby, Irven Devore, The Reconstruction of H om inid Behavioral Evolution through Strateging Modeling, in Warren

25 pletora di istinti legati all’intelligenza strumentale, alle capacità mentali umane di rappresentazione e alla manipo­ lazione dell’informazione. Altre, con diretto riferimento a Uexkùll, hanno insistito sulla struttura linguistica di un ambiente che si fonda sulla possibilità, tutta umana, di «avanzare ipotesi»34 e segnato dal paradosso del «sapere che esistono confini che delimitano anche la Umwelt uma­ na senza poterli mai attraversare»35. Seppur nella loro diversità, queste risposte sembrano mettere a fuoco un dato paradossale: la condizione umana è caratterizzata da un elemento ambivalente36 che ha conP R E F A Z IO N E

J. Kinzey (Ed.), The Evolution o f Human Behavior: Primate Models, Suny Press, Albany 1987, pp. 183-237; Clark H. Barrett, Leda Cosmides, John Tooby, The Hominid Entry into the Cognitive Niche, in Steven W. Gangestad, Jeffry Simpson (Eds.), Evolution o f Mind. Fundamental Questions and Controversies, The Guilford Press, N ew York 2007, pp. 241-248. 34 Felice Cimatti, N el segno del cerchio. L ’ontologia semiotica di Giorgio Prodi, Manifestolibri, Roma 2000, p. 133. Cfr. il più recente Felice Cimatti, Il possibile e il reale. Il sacro dopo la morte di Dio, Codi­ ce, Torino 2009, pp. 70 e sgg., nel quale emergono con chiarezza alcuni dei suoi tratti paradossali (sappiamo con certezza che c’è qualcosa al suo esterno ma non cosa sia: p. 73; tra organismo e ambiente c’è sempre una relazione indiretta; è un ambiente sempre all’insegna dell’incertezza e della crisi: pp. 95-96). 35 Franco Lo Piparo, Il mondo, le specie animali e il linguaggio. La teoria zoocognitiva del Tractatus, in M. Carenini, M. Matteuzzi, Perce­ zione linguaggio coscienza. Saggi di filosofia della mente, Quodlibet, Macerata 1999, p. 194. 36 Questo elemento ambivalente può essere definito come l’analogo ambientale dell’antinomia di Russell (Paolo Virno, Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, Boringhieri, Torino 2003, p. 204) e individuato nell’oscillazione, tipicamente umana, tra una istanza di apertura alla contingenza e una opposta di protezione (Massimo De Carolis, Il paradosso antropologico. Nicchie, micromondi e dissociazione psichica, Quodlibet, Macerata 2008, p. 28 e sgg.). È forse proprio l’am-

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tribuito a favorire ambiguità ed equivoci. Da un lato mani­ polazione dell’informazione, costruzione di ipotesi, scon­ tro con il limite sono esperienze umane talmente pervasive da apparire come il candidato ideale per descrivere una struttura ambientale. Dall’altro, si tratta di strutture che invece di fornire sicurezze comportamentali incrinano le rigide certezze tipiche di una nicchia ecologica, tanto da richiedere la continua costruzione di domini parziali e sto­ ricamente limitati, di «mondi ambientali»u, «pseudoam­ bienti»38, «nicchie» o «micromondi»3?.

4. L ’animale dei dintorni Per la prima volta nell’intera storia dei viventi, una specie, la nostra specie Homo sapiens, è uscita dal suo ecosistema. Niles Eldredge

Negli ultimi anni, un gruppo ristretto ma agguerrito di biologi ha cominciato a rileggere il Darwin dei coralli e dei lombrichi mostrando che i casi nei quali gli animali con­ tribuiscono a costruire l’ambiente di cui fanno parte sono bivalenza una delle categorie chiave per comprendere [’organizzazione pulsionale, psichica e linguistica della vita umana (Marco Mazzeo, Con­ traddizione e melanconia. Saggio sull’ambivalenza, Quodlibet, Macera­ ta 2009). 37 Helmuth Plessner, Anthropologie der Sinne, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1980 (trad. it. di M. Russo, Antropologia dei sensi, Raffaello Cortina, Milano 2008, p. 80). 38 Virno, Quando il verbo si fa carne, cit. p. 168. 39 D e Carolis, Il paradosso antropologico, cit., p. 45; pp. n o e sgg.

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molto più comuni di quanto si potrebbe credere40. Tra i viventi, la costruzione della nicchia, definita come «il pro­ cesso grazie al quale gli organismi, attraverso il metaboli­ smo, le loro attività e le loro scelte modificano la nicchia propria e/o di altre specie»41, costituisce probabilmente più la regola che l’eccezione. Gli organismi tendono a creare una «eredità ambientale» in grado di facilitare o ren­ der possibile la sussistenza delle generazioni successive. Ciò può avvenire secondo modalità relativamente sempli­ ci (la pratica molto diffusa tra gli insetti di lasciare cibo vicino alle uova affinché le larve abbiano di che nutrirsi dopo la schiusa42), ma anche attraverso comportamenti più complessi (seppur ancora controversi43) che sembra­ no indicare la presenza nel regno animale di alcune forme di trasmissione culturale. Questo approccio è interessante perché costringe a fare i conti con un dato di fondo: gli animali costruiscono mol­ to spesso porzioni significative dell’ambiente; anche loro sono, in qualche modo, formatori del proprio habitat. Allo stesso tempo, però, se ci si ferma qui la domanda che pone Heidegger continua a rimanere senza risposta. In cosa consiste la differenza tra umani e non umani? Solo noi facciamo guerre, torturiamo i nemici e scriviamo 40 John Odling-Smee, Kevin N . Laland, Marcus W. Feldman, Niche Construction. The N egleted Process in Evolution, Princeton University Press, Princeton 2003. 41 Kevin N . Laland, John Odling-Smee, Scott F. Gilbert, EvoDevo and Niche Construction: Building Bridges, «Journal of Experimental Zoology», 2008, 310B, p. 549. 42 A tal proposito Uexküll fa riferimento alla larva del coleottero: in questo volume, cap. 12. 43 Kevin N . Laland, William Hoppitt, Do Animals H ave Culture?, «Evolutionary Anthropology», 2003, 12, pp. 150-159.

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romanzi: anche questo, come si dice, è un fatto. Limitarsi ad affermare che «gli umani sono più flessibili nell’adatta­ mento»44 o che hanno una capacità di costruire nicchie «straordinariamente potente»45 purtroppo non sembra dirimere la questione (si tratta ancora di adattamento? Cosa vuol dire «straordinariamente»?). Il problema che esplode tra le mani di Uexküll è ancora aperto: individua­ re le caratteristiche portanti dell ’habitat degli esseri uma­ ni richiama sulla scena tutte le sfide che è necessario affrontare per comprendere la natura umana. In Ambienti animali e ambienti umani, Uexküll si impe­ gna in due affermazioni. La prima l’abbiamo vista: l’am­ biente umano è misura dell’individuo e non della specie. La seconda è altrettanto importante, perché può offrire uno spunto teorico in grado di contribuire a uscire à&ÌVimpasse costituito dall’opposizione rigida (o dalla identificazione) tra mondo e ambiente. Uexküll afferma esplicitamente46 che i dintorni delle spe­ cie animali, cioè l’invariante costituito dalla struttura mate­ riale del pianeta Terra, corrispondono all’ambiente umano: la loro Umgebung è la nostra Umwelt. Questo collasso garantisce una possibilità: la nostra è la specie in grado di accedere agli ambienti delle altre forme di vita. L’Homo sapiens è organismo dalla spiccata sensibilità ambientale per­ ché ha la possibilità (con l’immaginazione e la parola, con lo sviluppo della tecnica, ma anche con la semplice osserva­ zione empirica) di descrivere e comprendere gli ambienti di 44 Kevin N . Laland, Extending the Extended Phenotype, «Biology and Philosophy», 2004, 19, p. 323. 45 Kevin N . Laland, William Hoppitt, D o Animals H ave Culture?, cit., p. 158. 46 In questo volume, p. 55.

29 chi vive intorno a lui. Questa sensibilità, però, è frutto di un collasso: quel che per le altre specie si presenta nettamente distinto (per tutto il libro Uexküll si impegna a sottolinea­ re la differenza tra ambiente e dintorni di un animale) nel nostro caso si trova sovrapposto. Il risultato della sovrapposizione è a doppio senso di marcia. Per un verso gli umani hanno un ambiente costi­ tuito dai dintorni: un ambiente talmente pervasivo che i sapiens non hanno dintorni che siano diversi dal loro ambiente. In questo senso quella umana sembra una vera e propria «supernicchia» in grado di contenere e assorbire tutte le altre. Per un altro verso, il termine utilizzato da Uexküll suggerisce la presenza di una incrinatura. La paro­ la italiana «dintorni» rappresenta la traduzione, limitata e imperfetta, del tedesco Umgebung. Letteralmente l’espres­ sione indica «quel che si dà (gebung proviene dal verbo geben, dare) intorno (la preposizione um)». Questo «intor­ no» contiene un elemento vertiginoso, indice di un rove­ sciamento. Rilke lo impiega in verbi composti per contras­ segnare la condizione umana e il suo distacco dall’infinita apertura cui aderisce ogni animale: «i nostri occhi sono come rigirati (umgekehrt) [...]. Ma chi ci ha rigirati {umdrehet) così che qual sia quel che facciamo è sempre come se fossimo nell’atto di partire?»457. L’assorbimento tra ambiente e dintorni è reciproco: se i dintorni assumono il carattere specie-specifico dell’ambiente, questo a sua volta finisce per trovarsi alle prese col carattere interstiziale tipi­ co dei dintorni. L’Umgebung è una struttura estesa ma, per definizione, marginale e di confine: i dintorni di una specie sono la tara che rimane una volta che da una qualunque struttura biologico-materiale (una stanza, un albero, una P R E F A Z IO N E

47 Rainer Maria Rilke, Elegie Duinesi, cit., pp. 52-53.

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porzione qualsiasi del pianeta) si sottraggano gli ambienti propri delle singole specie. Questo elemento residuale esplicita il carattere di rovesciamento insito nella vita uma­ na sottolineato da Rilke, il poeta allievo di Uexkiill. In Ambienti animali e ambienti umani si precisa con candore che il rapporto tra un animale e il suo ambiente è ottimale mentre il rapporto tra un animale e i suoi dintorni è pessimale. Solo in questo modo la natura può evitare che si verifichino forme di scompenso dovute al successo di una specie a danno di tutte le altre. Nell’ambito della riflessione sul carattere ambientale della vita umana, l’affermazione assume immediatamente un volto problematico. Oggi è sot­ to gli occhi di tutti: lo squilibrio, secondo Uexkiill reso impossibile dalla diade ambiente ottimale/dintorni pessimali, fotografa con precisione la situazione attuale, nella quale sta emergendo una caratteristica «esclusiva della con­ dizione ecologica dell’uomo, che non si è mai presentata in nessuna altra specie [...]: siamo una specie a distribuzione globale internamente integrata»4*. Ogni giorno utilizzia­ mo per vivere almeno 40.000 specie e, soprattutto, ogni anno ne provochiamo l’estinzione di circa 27.0004 49 8 minac­ ciando la presenza della vita sul pianeta, oltre che il nostro futuro50. Se l’animale umano vive del collasso tra ambiente e din­ torni, ciò vuol dire che a scomparire è anche il sistema di 48 Niles Eldredge, Life in the Balance. H um anity and the Biodiver­ sity Crisis, 1998 (trad. it. di A. e G.P. Panini, La vita in bilico. Il pianeta Terra sull’orlo dell’estinzione, Einaudi, Torino 2000, p. 208). 49 Eldredge, La vita in bilico, cit., pp. 250, 310 e sgg. 50 Antonino Pennisi, Il p rezzo del linguaggio: filosofia dell’evolu­ zione 0 dell’estinzione dell’H om o sapiens f XV Congresso della società di filosofia del linguaggio, Università della Calabria, 15-17 settembre 2008, atti in stampa, Aracne, Roma.

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contrappesi garantito dalla sfasatura tra le due strutture. Questa mancanza di equilibrio configura un doppio scena­ rio teorico. Il primo è che sia l’ambiente ad assorbire il carat­ tere dei dintorni e che entrambi diventino entità pessimali: è la tesi dell’essere umano come animale disadatto (cara all’an­ tropologia filosofica di Gehlen, ma anche a un neurobiolo­ go come Deacon). Il secondo scenario è che sia YUmgebung ad appiattirsi sulla Umwelt e che anch’essa diventi ottimale: la tesi che sostiene la superistintualità dell’essere umano e della sua potentissima nicchia cognitiva. Qual è l’opzione più adeguata a descrivere la nostra condizione, la prima, che ci definisce animali potenziali, o la seconda, l’opzione che preferisce indicarci come animali potenti} A costo di un piccola delusione, occorre rispondere «entrambe e nessuna». Si tratta, infatti, di una falsa con­ trapposizione, di due facce dello stesso fenomeno. La pri­ ma soluzione vede il nostro habitat dall’interno: è sulla mancanza di focalità stabili e garantite di un ambiente non ottimale che si concentrano le analisi, seppur tra loro diverse, dell’antropologia filosofica. La seconda faccia del­ la moneta propone una descrizione della nostra vita dal­ l’esterno, cioè messa a confronto con l’impatto sulle altre specie: l’espansione ecologica àeWHomo sapiens e il suo impatto sugli altri ambienti (positiva e negativa, di rimbo­ schimento e sboscamento, di allevamento e sterminio) nasce dal fatto che siamo «animali dei dintorni». Detto in altri termini, il collasso tra ambiente e dintor­ ni provoca un rovesciamento che può esser riassunto nel­ la formula opposta a quella proposta da Uexkiill: la vita umana è immersa in un ambiente non ottimale e in dintor­ ni non pessimali. L’ambiente rischia di risultare pessimale proprio quando diventa esteso. Come per una immagine

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fotografica ingrandita, l’estensione ha un prezzo: la man­ canza di focalità predefinita, i contorni sgranati5'. Chi ha ragione quindi? Chi sostiene che siamo anima­ li mondani e non ambientali o chi, invece, insiste nel dire che il nostro è sempre un ambiente, seppur linguistico o cognitivo ? La nozione di Umgebung è in grado di sintetizzare que­ sto contrasto riconoscendo a entrambe le posizioni torti e ragioni. È grazie all’immaginazione, dice Uexkiill, che pos­ siamo entrare in ambienti diversi dal nostro. Ciò è reso pos­ sibile proprio dalla perdita dell’equilibrio tra ambiente e din­ torni che pesa sia sui sapiens, sia sugli animali non umani che rischiano di rimanerne schiacciati. I dintorni si caratterizza­ no per una continua sovrapposizione di punti di vista diffi51 A tal proposito è particolarmente interessante il confronto tra Homo sapiens e l’altro gruppo di esseri viventi a distribuzione endemi­ ca, i batteri: cfr. Marco Mazzeo, Il mondo come corpo e rappresentazio­ ne, «Forme di vita», 2003, 1, pp. 56-73. Questa mancanza di focalità è un problema teorico non riducibile alla polemica su una tesi cara a una parte dell’antropologia filosofica, quella dell’essere umano carente (rispetto alle altre forme di vita) di specifiche strutture biologiche inna­ te, gli istinti. Anche se fossimo, come afferma buona parte della scienza cognitiva contemporanea, animali che «brulicano» (Dan Sperber, Modu­ larity and Relevance: H ow Can a Massively Modular M ind Be Flexible and Context-Sensitive?, in P.S.L. Carruthers, S. Stich [Eds.], The Inna­ te Mind: Strucuture and Content, Oxford University Press, Oxford 2005, pp. 53-68) di moduli (termine analogo a quello di istinto), il pro­ blema dell’organizzazione del nostro comportamento resterebbe intat­ to, anzi emergerebbe con gravità ancora maggiore. Quella del «brulica­ re», infatti, è una immagine efficace che rende in modo icastico il perico­ lo di un’azione caotica e disarticolata. In questo caso, si tratterebbe di capire in primo luogo come gli esseri umani riescano a comportarsi in modi tanto diversi (dagli altri animali, ma anche gli uni dagli altri) e in secondo luogo come possano farlo nonostante esista una pletora di moduli autonomi che, seguendo precise istruzioni genetiche comuni alla specie, tende ad andare per conto proprio.

33 cilmente distinguibili tra loro. Pongono il problema tutto umano, Uexkiill lo afferma più volte in modo esplicito, del­ la contraddizione (widersprechen52): uno stesso oggetto, un albero ad esempio, è contemporaneamente rifugio per la volpe, fonte di cibo per il picchio, legna per il guardaboschi, minaccia per la bimba spaventata. L’incommensurabilità dei punti di vista che esiste tra l’ambiente della volpe e quello del picchio (e della quale questi animali ovviamente non si avvedono) si traspone nella possibile incommensurabilità dei punti di vista dei singoli esseri umani. Poiché il nostro ambiente collassa nei dintorni possiamo espandere in modo indefinito i nostri campi operativi e percettivi. Per questa ragione, la nostra vita corre il pericolo di rimanere invischia­ ta nel dedalo di punti di vista contraddittori che caratteriz­ za la logica dei dintorni e nel contempo può nutrirsi della torsione propria di quel che circonda ogni essere umano, di quella preposizione del contorno e del rovesciamento, 1’um, che tormenta l’ottava elegia di Rilke. Questa pluralità ambi­ valente e paradossale non rappresenta la putrefazione pro­ pria della società di massa, come vorrebbe l’Uexküll più autoritario e meno coerente, ma il sapiens in quanto tale, l’animale dei dintorni. Piuttosto, la nostra epoca ci consegna il problema filosofico di costruire un naturalismo in grado di elaborare concetti non teologici e utili a illustrare questa spe­ cificità senza nasconderla nel cassetto dei compiti futuri. Lascia nelle nostre mani il problema politico di una gestio­ ne non repressiva del molteplice umano in un periodo nel quale l’istituzione dello Stato nazionale ha intrapreso, e già da un pezzo, il viale del tramonto. P R E F A Z IO N E

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s2 In questo volume, pp. 55, 102, 128, 158, 160.

Ambienti animali e ambienti umani Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili

Premessa

integrazioni tra parentesi quadre sono del curatore.

Questo libro, peraltro di piccole dimensioni, non ha la pretesa di fare da manuale per una nuova scienza. Contiene piuttosto quella che si potrebbe definire la descrizione di una passeggiata in mondi sconosciuti. Mondi che, anzi, non sono solo sconosciuti ma invisibili, al punto che molti zoo­ logi e fisiologi negano addirittura il loro diritto all’esistenza. Tale resistenza, certamente strana per chi conosca la varietà della vita animale, è più comprensibile se si pensa al fatto che non è possibile accedere a questi mondi in modo automatico. Abbiamo a che fare con pregiudizi che bloccano a tal punto la porta d’accesso a questi mondi, da non far trasparire alcun riflesso del loro interno splen­ dore. E la chiudono in un modo così energico che chiun­ que non si sbarazzi di questi preconcetti non è raggiun­ to nemmeno da un raggio della luce e dello splendore che li illumina. Per questa ragione, chi vuole mantenere la convinzione che gli esseri viventi siano solo macchine può rinunciare da subito a trovare la via d’accesso che conduce a questi mondi invisibili. Chi invece non abbia ancora giurato fedeltà alla teoria meccanicista degli esseri viventi, potrà trovare nelle pagine che seguono molti spunti di riflessione. Tutti i nostri ogget­ ti d’uso comune e le macchine non sono altro che strumen-

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ti delFuomo. Ci sono anche strumenti che servono per ope­ rare sul nostro mondo che chiamiamo utensili: a questa cate­ goria appartengono anche le grandi macchine che nelle fab­ briche trasformano le materie prime, producono binari, automobili e aeroplani. Esistono però anche strumenti che affinano la nostra percezione, dell t protesi percettive come i telescopi, gli occhiali, i microfoni, le radio e così via. In questo senso si potrebbe supporre che un animale non sia nient’altro che una selezione di «utensili» e di «pro­ tesi» congrui, coordinati da un sistema di guida: una mac­ china dotata delle funzioni vitali di un animale. In effetti questa è la concezione dei meccanicisti, che paragonano l’animale a un meccanismo rigido o, a seconda dei casi, a un processo dinamico e plastico. In ogni modo, gli anima­ li vengono ridotti a puri e semplici oggetti. Così facendo, però, ci si dimentica che sin dall’inizio è stata soppressa la cosa più importante e cioè il soggetto che si serve di questi strumenti per percepire e operare. Il meccanicista cerca di saldare tra loro i vari organi per­ cettivi e di movimento degli animali attraverso la combina­ zione, impossibile, di utensili e protesi percettive come fos­ sero pezzi di una macchina, senza prestare attenzione alle loro percezioni e ai loro movimenti. In tal modo si finisce col meccanizzare non solo gli animali ma anche gli esseri umani. Secondo il comportamentismo, i nostri sentimenti e la nostra volontà sono solo apparenza; nel migliore dei casi li si può considerare come un fastidioso rumore di fondo. Ma chi è dell’opinione che i nostri organi di senso serva­ no a percepire e i nostri organi motori servano a condurre le nostre attività operative non vedrà più negli animali solo assemblaggi meccanici, ma ne scorgerà anche il macchini­ sta, presente in loro come ciascuno di noi è presente nel

39 proprio corpo. N on concepiremo più gli animali come semplici cose ma come soggetti, le cui attività essenziali sono operative e percettive. Solo così si aprirà finalmente la porta che conduce ai vari ambienti animali. Tutto quello che un soggetto perce­ pisce diventa il suo mondo percettivo (Merkwelt) e tutto quel che fa. costituisce il suo mondo operativo (Wirkwelt). Mondo percettivo e mondo operativo formano una totali­ tà chiusa: l’ambiente. Gli ambienti, multiformi come gli animali che li abitano, offrono a tutti gli amici della natura territori nuovi, di una ricchezza e bellezza tali che vale senz’altro la pena farvi una passeggiata, anche se un simile splendore non si rivela ai nostri occhi corporei ma solo a quelli della nostra mente. La cosa migliore è cominciare la nostra passeggiata sce­ gliendo una giornata di sole e immergerci in un prato fiori­ to tra il ronzio dei coleotteri e il volo delle farfalle. Traccia­ mo intorno a ciascuno degli animali che popolano il prato una bolla di sapone che ne rappresenti l’ambiente e che contenga tutte le marche percettive accessibili al soggetto. N on appena entriamo in una di queste bolle di sapone, i dintorni (Umgebung) che fino ad allora circondavano il soggetto si trasformano completamente. Spariscono molti dei colori di cui era pieno il prato, altre proprietà emergono dallo sfondo, si producono nuovi rapporti. In queste bolle di sapone si formano mondi nuovi: invitiamo il lettore a sco­ prirli insieme a noi. Grazie a questo viaggio, speriamo di convincere molti di voi dell’esistenza di questi ambienti e, facendo ciò, di compiere un passo decisivo in grado di apri­ re un campo di ricerca nuovo e infinitamente ricco. Gli autori di questo libro si sono divisi il lavoro: uno (Uexkùll) ha scritto il testo, l’altro (Kriszat) si è occupato P R E M E S SA

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delle illustrazioni. Questo libro testimonia il comune spiri­ to di ricerca che anima tutti coloro che lavorano nell’Institut für Umweltforschung (Istituto per la ricerca ambienta­ le) di Amburgo1. È d’obbligo un ringraziamento particolare al dottor K. Lorenz, che ha aiutato molto il nostro lavoro spedendoci alcune immagini che illustrano le sue importanti ricerche sulle taccole e gli storni. Il professor Eggers è stato così gentile da inviarci il resoconto accurato delle sue ricerche sulle falene. L’acquarellista Franz Huth ha fatto il bozzet­ to della stanza e della quercia, Th. von Uexküll ha prepa­ rato quello delle figure 46 e 59. A tutti loro esprimiamo i nostri più sentiti ringraziamenti. Amburgo, dicembre 1933. Jakob von U exküll

Introduzione

Chiunque viva in campagna, o sia andato in giro tra i boschi con il proprio cane, avrà fatto la conoscenza di un minuscolo animale che, appeso tra i rami dei cespugli, atten­ de la preda (sia umana che animale) per lasciarsi cadere sul­ la vittima e nutrirsi del suo sangue. A quel punto l’animale, lungo da uno a due millimetri, si gonfia fino a raggiungere la grandezza di un pisello (figura 1).

I.

1 Cfr. Friedrich Brock, Verzeichnis der Schriften Jakob Johann v. Uexkülls und der aus dem Institut fü r Umweltforschung hervorgegan­ gen Arbeiten [Elenco degli scritti di J.J. von Uexküll e dei lavori pubbli­ cati dall’Istituto per la ricerca ambientale di Amburgo].

Zecca.

La zecca non è pericolosa, ma costituisce un ospite fasti­ dioso sia per i mammiferi che per l’uomo. Studi recenti sono riusciti a far luce su molte particolarità della sua vita, tanto che ora è possibile tracciarne un quadro quasi completo.

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Quando l’uovo si schiude, la zecca non è del tutto for­ mata poiché le mancano ancora un paio di zampe e gli orga­ ni sessuali. In questo stadio, però, è già capace di attaccare animali a sangue freddo come le lucertole, che attende sulla punta di uno stelo d’erba. Dopo diverse mute, nel parassita si sviluppano gli organi mancanti. A questo punto può dedi­ carsi anche alla caccia di animali a sangue caldo. Dopo l’accoppiamento, la femmina sale su un cespuglio fino alla punta di uno dei rami sfruttando le otto zampe di cui è dotata. Poi si lascia cadere da una altezza sufficiente a raggiungere qualche piccolo mammifero di passaggio o a far­ si portare via dal contatto con animali di taglia più grande. La zecca, priva di occhi, raggiunge il punto in cui appo­ starsi grazie alla sensibilità della sua pelle alla luce. Questo brigante di strada, sordo e cieco, si avvicina alla vittima attraverso l’olfatto. L’odore dell’acido butirrico, prodotto dai follicoli sebacei di tutti i mammiferi, agisce sulla zecca come un segnale che la spinge ad abbandonare il luogo in cui è appostata facendola cadere in direzione della preda. Se cade su qualcosa di caldo (proprietà individuata dall’ani­ male grazie a un acuto senso della temperatura), ciò vuol dire che la zecca ha raggiunto la sua preda, ovvero un ani­ male a sangue caldo: per trovare un posto il più possibile privo di peli e infilare la testa nel tessuto cutaneo ha biso­ gno solo del suo senso tattile. A quel punto comincia a suc­ chiare lentamente il sangue. Esperimenti condotti con membrane artificiali e liquidi diversi dal sangue hanno mostrato che la zecca è del tutto priva del senso del gusto; dopo aver perforato la membra­ na, infatti, il parassita succhia qualunque liquido presenti la giusta temperatura. Se la zecca invece, stimolata dall’acido butirrico, cade su

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un corpo freddo, ciò vuol dire che ha mancato la preda e che deve risalire fino al luogo nel quale era appostata. Per il parassita, un’abbondante bevuta di sangue costi­ tuisce il suo primo e ultimo pasto, perché dopo aver man­ giato non le resta altro da fare che lasciarsi cadere a terra, depositare le uova e morire. Il modo nel quale si svolge la vita della zecca ci fornisce la pietra di paragone per mettere alla prova la solidità di un approccio propriamente biologico, del tutto diverso dallo studio puramente fisiologico della vita animale, che è stato fino ad oggi quello usuale. Per il fisiologo, qualunque esse­ re vivente è un oggetto, situato in un mondo che è sempre lo stesso, quello umano. Egli ne scruta gli organi e il modo in cui si coordinano tra loro come un tecnico esaminerebbe una macchina sconosciuta. Il biologo, al contrario, si rende conto che ogni essere vivente è un soggetto che vive in un proprio mondo di cui l’animale costituisce il centro. Non è possibile dunque paragonare l’animale a una macchina, ma solo al macchinista che la conduce. È bene, dunque, porsi direttamente la domanda: la zec­ ca è una macchina o un macchinista, è un semplice oggetto o un soggetto? Il fisiologo parlerà della zecca come se fosse una mac­ china e dirà: «Nella zecca possiamo distinguere dei ricetto­ ri, cioè degli organi sensoriali, e degli effettori, cioè degli organi operativi, collegati nel sistema nervoso centrale da un sistema di controllo. Tutto ciò, nel suo insieme, funzio­ na come una macchina ma da nessuna parte è possibile tro­ vare un macchinista». «È proprio qui l’errore», risponderà il biologo, «non c’è neanche una parte del corpo della zec­ ca che assomigli a una macchina, mentre sono in azione solo e sempre dei macchinisti».

T

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Il fisiologo continuerà imperterrito: «Si vede con chia­ rezza che tutti i comportamenti della zecca si basano su riflessi2 e che l’arco riflesso costituisce il fondamento di tut­ ta la macchina animale (figura 2). L’arco riflesso parte da un ricettore, cioè da un apparato che lascia entrare solo deter­ minati agenti esterni, come il calore e l’acido butirrico, e respinge tutti gli altri. Il processo termina infine in un mu­ scolo che mette in movimento un effettore, che può essere un apparato di movimento o di presa.

KK»

R

CS

CM

E

2. L’arco riflesso (R = ricettore; C S = Cellule sensoriali; C M = Cellule motorie; E = Effettore).

Le cellule sensoriali che provocano l’eccitazione senso­ riale e le cellule motorie che producono l’impulso moto­ rio servono solo da collegamento, per trasmettere le onde di eccitazione di natura strettamente somatica, prodotte dal recettore nei nervi al sopraggiungere della stimolazio­ ne esterna. L’arco riflesso opera la trasmissione del movi­ mento come fa ogni macchina. Da nessuna parte emerge 2 In origine la parola «riflesso» fa riferimento alla possibilità che ha uno specchio di catturare e rinviare un raggio luminoso. Applicato agli esseri viventi, questo termine si riferisce all’intercettamento da parte di un ricettore di uno stimolo esterno e alla risposta scatenata dallo stimo­ lo negli effettori dell’organismo. Lo stimolo è così trasformato in un impulso nervoso che deve attraversare diverse stazioni intermedie prima di arrivare dal ricettore all’effettore. Questo percorso viene chiamato, per l’appunto, arco riflesso.

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alcun fattore soggettivo; di uno o più macchinisti non c’è traccia». «Succede esattamente il contrario», risponderà il biolo­ go, «abbiamo a che fare ovunque con macchinisti e non con parti meccaniche. Infatti, tutte le cellule che compongono l’arco riflesso lavorano non alla trasmissione del movimen­ to, ma alla trasmissione dello stimolo. Lo stimolo deve però essere percepito dal soggetto perché per gli oggetti lo sti­ molo semplicemente non esiste». Si pensi ad esempio al batacchio della campana: questa macchina lavora solo se le sue parti si muovono di qua e di là in un determinato modo. Per il resto, il batacchio rispon­ de a qualunque altra sollecitazione (freddo, caldo, acidi, basi e anche elettricità) in modo generico, come farebbe un qual­ siasi pezzo di metallo. Da J. Müller* in poi sappiamo, però, che un muscolo si comporta in tutt’altra maniera. A qualun­ que sollecitazione esterna, il muscolo risponde contraendo­ si. Tutte le sollecitazioni sono trasformate nello stesso tipo di stimolo e il muscolo risponde con lo stesso tipo di impulso, che provoca la contrazione del suo corpo cellulare. Müller ha dimostrato che qualunque agente esterno colpi­ sca il nervo ottico (onde, pressione, elettricità) provoca sem­ pre una sensazione luminosa, cioè che le nostre cellule ottiche rispondono con lo stesso «segno percettivo» (Merkzeichen). Possiamo dunque concludere che ogni cellula vivente è un macchinista che percepisce e opera e che di conseguenza * [Johannes Müller (1801-1858) è il fondatore della fisiologia contem­ poranea. Uexküll studia gli scritti di Müller anche negli ultimi anni della sua vita. N el periodo che trascorre a Capri (1940-1944) scrive un breve saggio dal titolo D er Sinn des Lebens (Il senso della vita) che si concentra su una lezione tenuta da Müller nel 1824 (Gudrun Uexküll, Jakob von Uexküll. Seine Welt und seine Umwelt, Christian Wegner Verlag, Ham­ burg 1964, p. 210)].

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possiede il proprio (cioè specifico) segno percettivo e il pro­ prio impulso, cioè il suo «segno operativo» (Wirkzeichen). Le varie modalità percettive e operative del soggetto anima­ le nel suo insieme sono da ricondursi quindi alla coopera­ zione di questi minuscoli macchinisti cellulari, ciascuno dei quali dispone di un solo segno percettivo e un solo segno operativo. Per rendere possibile una cooperazione ordinata, l’organismo utilizza le cellule cerebrali (anch’esse dei mac­ chinisti elementari) e ne raggruppa la metà in «cellule per­ cettive» nella parte del cervello deputata alla ricezione stimo­ lativa, cioè nell’«organo percettivo», in unità più o meno grandi. Queste unità associative registrano gli stimoli ester­ ni che giungono al soggetto animale come fossero tanti pun­ ti interrogativi. L’altra metà delle cellule cerebrali è utilizza­ ta dall’organismo come «cellule operative» o cellule d’im­ pulso e vengono raccolte in unità associative attraverso le quali l’organismo controlla i movimenti degli effettori che forniscono le risposte del soggetto animale agli interrogativi formulati dal mondo esterno. Le unità associative tra cellule percettive formano gli «organi percettivi» del cervello e le unità associative tra cel­ lule operative ne formano «l’organo operativo». Dunque, anche se possiamo immaginare l’organo percet­ tivo come il luogo di incontro tra reti mutevoli di «cellule macchiniste», portatrici di specifici segni percettivi, resta il fatto che queste cellule sono entità individuali spazialmente distinte. Anche i loro segni percettivi resterebbero isolati se non avessero la possibilità di fondersi in nuove unità al di fuo­ ri degli organi percettivi. E, in effetti, questa possibilità esiste davvero. I segni percettivi di un gruppo di cellule si fondono tra loro fuori dal corpo, in quelle unità che costituiscono le proprietà degli oggetti che si trovano intorno all’animale.

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D ’altronde, è una cosa ben nota a noi tutti: tutte le per­ cezioni umane, che rappresentano i nostri specifici segnali percettivi, si riuniscono per formare le proprietà degli oggetti esterni che utilizziamo come marche percettive per le nostre azioni. La sensazione «blu» diventa il blu del cie­ lo, la sensazione «verde» diventa il verde del prato e così via. È proprio grazie alla marca percettiva blu che ricono­ sciamo il cielo, così come riconosciamo il prato grazie alla marca percettiva verde. Con gli organi operativi succede esattamente la stessa cosa. In questo caso sono le cellule operative a giocare il ruolo dei macchinisti elementari, organizzate in gruppi ben articolati secondo i loro segni percettivi e operativi. Anche in questo caso esiste la possibilità di fondere in unità segni operativi isolati che agiscono sui rispettivi muscoli, sia come singoli impulsi di movimento sia come melodie for­ mate da impulsi articolati ritmicamente. In seguito a ciò, gli effettori messi in moto dai muscoli imprimono la loro «marca operativa» (Wirkmal) sugli oggetti che si trovano all’esterno del soggetto. La marca operativa che gli effettori del soggetto attri­ buiscono all’oggetto è riconoscibile immediatamente come la ferita prodotta dal rostro della zecca sulla pelle del mammifero. Solo però la lenta e faticosa individuazione della funzione di marca percettiva assolta dall’acido butir­ rico e dal calore ha permesso di tracciare un quadro davve­ ro completo dell’attività della zecca nel suo ambiente. Se si vuole utilizzare una metafora, ogni soggetto ani­ male affronta il suo oggetto con le estremità di una pinza, una percettiva e una operativa. La prima attribuisce all’og­ getto una marca percettiva, la seconda una marca operativa. In questo modo certe proprietà dell’oggetto diventano por-

48 A M B IE N T I A N IM A L I E A M B IE N T I U M A N I tatrici di marche percettive, mentre altre fanno da suppor­ to a marche operative. Poiché tutte le proprietà sono con­ nesse tra loro grazie alla struttura dell’oggetto, attraverso quest’ultima le proprietà coinvolte dalle marche operative esercitano la loro influenza sulle proprietà che si fanno cari­ co delle marche percettive, modificandole. Detto nella maniera più semplice e concisa, la marca operativa di un oggetto disattiva la sua marca percettiva. Oltre alla varietà di stimoli che i ricettori lasciano passa­ re e alla disposizione dei muscoli che conferiscono agli effettori determinate possibilità d’azione, per lo svolgersi di una qualunque azione di un soggetto animale due sono le cose decisive: il numero e l’organizzazione delle cellule che, grazie ai segni percettivi, attribuiscono marche percet­ tive agli oggetti dell’ambiente; il numero e l’organizzazio­ ne delle cellule operative che, grazie ai segni operativi, imprimono marche operative sui medesimi oggetti. L’oggetto fa parte dell’azione solo nella misura in cui questo deve possedere le proprietà necessarie per fare da supporto alle marche operative e percettive, proprietà che devono essere connesse tra loro per mezzo di una contro­ struttura. mondo percettivo

ricettore supporto della marca percettiva (controstruttura) supporto della marca operativa effettore

mondo operativo 3. Il circuito funzionale.

49 Una rappresentazione perspicua del rapporto tra sog­ getto e oggetto è fornita dallo schema del circuito funzio­ nale (figura 3). Lo schema mostra che il soggetto e l’oggetto si incastra­ no l’uno con l’altro, costituendo un insieme ordinato. Con­ siderato inoltre che un soggetto è legato allo stesso oggetto o a oggetti diversi da più circuiti funzionali, è possibile com­ prendere la prima asserzione fondamentale della teoria del­ l’ambiente: tutti i soggetti animali, i più semplici come i più complessi, sono adattati al loro ambiente con la medesima perfezione. All’animale semplice fa da contraltare un am­ biente semplice, all’animale complesso un ambiente ricca­ mente articolato. Se ora inseriamo nel circuito funzionale la zecca (il sog­ getto) e il mammifero (l’oggetto), vediamo che si susseguono logicamente tre circuiti funzionali. A farsi carico delle mar­ che percettive del primo circuito sono i follicoli sebacei del mammifero, poiché l’eccitazione dell’acido butirrico produce nell’organo percettivo della zecca segni percettivi specifici che vengono proiettati all’esterno come marche olfattive. I pro­ cessi in atto nell’organo percettivo producono per induzione (non sappiamo in cosa consista questo fenomeno) gli impul­ si corrispondenti nell’organo d’azione, il quale, a sua volta, provoca il rilascio della presa. Dopo essersi lasciata cadere, la zecca conferisce ai peli con i quali viene in contatto la marca operativa dell’urto, che produce una marca percettiva tattile in grado di disattivare la marca olfattiva dell’acido butirrico. La nuova marca tattile attiva un movimento d’esplorazione fino a che questo, a sua volta, non viene soppresso dalla mar­ ca percettiva termica nel momento in cui la zecca arriva in un punto privo di peli e comincia a perforarlo. Senza dubbio ci troviamo di fronte a tre riflessi che si danIN T R O D U Z I O N E

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no il cambio e che sono attivati da agenti esterni fisici o chi­ mici, entità verificabili in modo oggettivo. Ma chi si accon­ tentasse di questa constatazione e pensasse, così, di aver risol­ to ogni difficoltà, dimostrerebbe solo di non aver nemmeno visto il vero problema. Non è in questione la presenza o meno dello stimolo chimico (provocato dall’acido butirrico), dello stimolo meccanico (provocato dai peli) e tanto meno dello stimolo termico prodotto dalla pelle. Il punto è che tra le centinaia di agenti materiali prodotti dal corpo del mammi­ fero, solamente tre diventano per la zecca portatori di marche percettive. Perché proprio quei tre e non altri? Non abbiamo a che fare con uno scambio d’energia tra due oggetti, ma con relazioni che sussistono tra un sogget­ to vivente e il suo oggetto. Tutto questo è situato su tutt’altro piano, cioè tra il segno percettivo del soggetto e lo sti­ molo proveniente dall’oggetto. La zecca è appesa immobile all’estremità di un ramo che sporge nel bel mezzo di una radura. Questa posizione le offre la possibilità di cadere sul primo mammifero di pas­ saggio. Alla zecca non arriva dai dintorni nessuno stimolo: ma ecco che le si avvicina un mammifero il cui sangue è indispensabile per la procreazione della sua discendenza. A questo punto accade qualcosa di meraviglioso. Di tut­ ti gli agenti, fisici o chimici, prodotti dal corpo del mammi­ fero, solamente tre, e in un preciso ordine, diventano stimo­ li. Nel mondo sterminato che circonda la zecca, tre stimoli brillano come segnali luminosi nell’oscurità. Sono potenti indicatori che permettono alla zecca di individuare la strada da seguire, consentendole di raggiungere il proprio obiettivo con grande sicurezza. Affinché tutto questo sia possibile, il parassita dispone, oltre che del suo corpo, dei ricettori e degli effettori, di tre segni percettivi che può trasformare in mar-

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51 che percettive. E il corso delle sue azioni è così fortemente prescritto da queste marche percettive che la zecca può pro­ durre solo marche operative del tutto determinate. L’intero, ricco mondo che circonda la zecca si contrae su se stesso per ridursi a una struttura elementare, che consiste ormai essenzialmente di tre sole marche percettive e tre sole marche operative: il suo ambiente. Ma è proprio questa povertà dell’ambiente a determinare la sicurezza del suo com­ portamento: e la sicurezza è più importante della ricchezza. Questo esempio mette in evidenza i tratti fondamenta­ li della struttura dell’ambiente, tratti che valgono per qua­ lunque animale. La zecca possiede, però, una capacità ancora più sor­ prendente, in grado di darci un’idea più precisa di che cosa sia un ambiente animale. È palese che l’eventualità fortuna­ ta che un mammifero si trovi a passare sotto il ramo sul qua­ le è appostata la zecca, o che addirittura la urti, è straordina­ riamente rara. Per assicurare la continuità della specie, que­ sto svantaggio non è adeguatamente compensato neanche dal grande numero di zecche che si trovano nella boscaglia. Ad aumentare le sue possibilità di imbattersi nella preda è una capacità straordinaria: la zecca può sopravvivere per un tempo lunghissimo senza nutrirsi. Presso l’Istituto zoologi­ co di Rostock, sono state tenute in vita delle zecche che erano a digiuno da diciotto anni3. 3 La zecca è fatta, da ogni punto di vista, in modo tale da poter sop­ portare la fame per periodi molto lunghi. Le cellule seminali, che la fem­ mina porta dentro di sé mentre attende la preda, restano avvolte nelle loro capsule fino a che il sangue del mammifero non arriva nello stomaco. A questo punto le cellule seminali si liberano e vanno a fecondare le uova che si trovano nell’ovaio. L’adattamento perfetto della zecca alla sua pre­ da, nel caso in cui riesca a raggiungerla, contrasta con le scarse probabili­ tà che essa ha ha di riuscire nell’impresa malgrado il lungo appostamento.

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Gli esseri umani non possono di certo attendere diciot­ to anni come fa la zecca: il nostro tempo è composto da una serie di istanti, cioè da segmenti temporali molto brevi, alPinterno dei quali il mondo non presenta alcun cambia­ mento. Durante quell’intervallo che è l’istante, il mondo è fermo. Per la specie umana, l’istante ha la durata di un diciottesimo di secondo4. Vedremo più tardi che la durata dell’istante cambia da specie a specie, ma a qualunque las­ so di tempo corrisponda l’istante della zecca, non è possi­ bile resistere per ben diciotto anni in un ambiente assolu­ tamente statico. Dobbiamo supporre, dunque, che la zec­ ca durante la sua attesa si trovi in uno stato simile a quel­ lo del sonno, che anche negli esseri umani interrompe per ore la scansione temporale. N ell’ambiente della zecca, però, il tempo non è sospeso solo per qualche ora: il perio­ do d’attesa può protrarsi per diversi anni, fino a che il segnale dell’acido butirrico non sveglia la zecca riportan­ dola in attività. Bodenheimer ha ragione quando usa il termine pessimale per caratterizza­ re il mondo estremamente ostile nel quale vive la maggior parte degli ani­ mali. Solo che a esser così non è il loro ambiente, ma i loro dintorni. Come regola generale potrebbe valere l’idea che è Yambiente a esser ottimale, cioè estremamente favorevole, mentre i dintorni sono sempre pessimali. L’essenziale è sempre che sia la specie a sopravvivere, quand’anche doves­ se soccombere una grande quantità di singoli individui. Proprio perché l’ambiente è ottimale, se i dintorni di una specie non fossero pessimali, questa finirebbe col prevalere su tutte le altre specie. 4 Prova di ciò è fornita dal cinema. Durante la proiezione di un film, le immagini devono fermarsi per un istante e succedersi, a scatti, l’una dopo l’altra. Per far sì che le immagini siano nitide, questo processo di successione deve essere nascosto interponendo uno schermo tra un’im­ magine e l’altra. I nostri occhi non si accorgono di nulla se l’immobilità dell’immagine e l’oscuramento prodotto dallo schermo si producono in un intervallo della durata massima di un diciottesimo di secondo. Se inve­ ce questo intervallo si protrae, l’immagine comincia a risentire di un fasti­ dioso sfarfallio.

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Il caso della zecca ci fornisce un insegnamento molto importante. La nostra impressione è che il tempo faccia da contenitore per qualunque avvenimento e che, di conse­ guenza, sia l’unico elemento stabile nel continuo fluire degli avvenimenti. Abbiamo visto, invece, che è il soggetto a dominare il tempo del suo ambiente. Mentre fino ad ora avremmo detto che senza tempo non può darsi un sogget­ to vivente, ora sappiamo che occorre dire il contrario: sen­ za soggetto vivente, il tempo non può esistere. Nel prossimo capitolo vedremo che la stessa cosa acca­ de con lo spazio: senza soggetto vivente non si danno né spazio né tempo. È in questo modo che la biologia si colle­ ga alla filosofia di Kant: la utilizza per un fine scientifico, cioè per evidenziare quanto sia decisivo il ruolo giocato dal soggetto nella teoria dell’ambiente.

55 ni che vediamo estendersi intorno a lui: i dintorni non sono altro che il nostro stesso ambiente, l’ambiente umano. Il primo obiettivo della nostra ricerca è isolare le marche per­ cettive di un animale tra tutte quelle che fanno parte dei suoi dintorni e ricostruire il suo ambiente. La marca per­ cettiva dell’uvetta lascia la zecca indifferente, mentre nel suo ambiente quella dell’acido butirrico gioca un ruolo fondamentale. L’ambiente del buongustaio non mette l’accento sul significato dell’acido butirrico ma solo sull’uvetta. Ogni soggetto tesse intorno a sé una ragnatela di rela­ zioni con alcune proprietà specifiche possedute dalle cose che lo circondano ed è proprio grazie a una rete tanto fitta che può condurre la propria esistenza. Qualunque siano le relazioni tra un soggetto e gli ogget­ ti che popolano i suoi dintorni, esse vivono al di fuori del soggetto, là dove dobbiamo cercare le marche percettive. Per questo motivo, le marche percettive sono sempre legate tra loro sia in senso spaziale sia in senso temporale, visto che devono succedersi secondo un ordine determinato. Troppo spesso ci culliamo nell’illusione che le relazioni intrattenute da un soggetto con le cose che costituiscono il suo ambiente si collochino nello stesso spazio e nello stes­ so tempo di quelle che intratteniamo noi con le cose che fanno parte del mondo umano. È un’illusione che si nutre della fede nell’esistenza di un unico mondo, in cui sareb­ bero inseriti tutti gli esseri viventi. Solo in questi ultimi anni, i fisici hanno cominciato a dubitare dell’esistenza di un universo in grado di comprendere all’interno di un solo spazio tutti i viventi. Che uno spazio del genere non possa esistere emerge già dal fatto che gli esseri umani vivono in tre spazi che si compenetrano, si completano, ma che anche, in parte, si contraddicono. I . L O S P A Z IO E L ’A M B IE N T E

I. Lo spazio e l’ambiente

Come il buongustaio cerca nel dolce solo l’uva passa, così la zecca, di tutti gli oggetti che popolano i suoi dintor­ ni, è attirata esclusivamente dall’acido butirrico. A noi non interessa sapere quali siano le sensazioni gustative che pro­ va il buongustaio quando assapora l’uvetta. Constatiamo solamente che l’uva passa diventa il carattere percettivo del suo ambiente, poiché questa assume per lui un particolare significato biologico. Allo stesso modo, non ci poniamo il problema di quali siano le sensazioni olfattive o gustative della zecca, perché ci accontentiamo di registrare il fatto che l’acido butirrico diventa una marca percettiva, una enti­ tà biologicamente significativa. Ci limitiamo a constatare che nell’organo percettivo della zecca devono esistere cellule percettive che emettono segnali, come supponiamo accada anche nell’organo per­ cettivo del buongustaio. I segni percettivi della zecca trasformano uno stimolo, l’acido butirrico, in una marca percettiva tipica del suo ambiente, nello stesso modo in cui i segni percettivi del buongustaio trasformano, nel suo ambiente, lo stimolo costi­ tuito dall’uvetta nella marca percettiva corrispondente. L’ambiente dell’animale, del quale ci stiamo occupando in queste pagine, costituisce solo un frammento dei dintor-

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6 A M B IE N T I A N IM A L I E A M B IE N T I U M A N I a) Lo spazio operativo ( Wirkraum)

Quando, a occhi chiusi, muoviamo le gambe o le braccia, conosciamo con esattezza la direzione e l’estensione dei nostri movimenti. Con le mani tracciamo nello spazio dei percorsi che possiamo definire «lo spazio di gioco dei nostri movimenti» o, più semplicemente, spazio operativo. Percor­ riamo queste traiettorie suddividendole in piccoli segmenti, che potremmo chiamare passi d ’orientamento. Conosciamo bene, infatti, la direzione di ogni singolo passo per mezzo di una sensazione di direzione o segno d ’orientamento. E precisamente distinguiamo sei assi d’orientamento, organiz­ zati per coppie oppositive: destra e sinistra, alto e basso, avanti e dietro. Esperimenti accurati hanno dimostrato che i passi d’orientamento più piccoli che siamo in grado di fare hanno un’estensione di circa due centimetri. La nozione di passo d’orientamento non fornisce, come è ovvio, una misura par­ ticolarmente precisa dello spazio. E facile rendersi conto di una simile imprecisione se si prova, sempre a occhi chiusi, a far toccare l’indice della mano sinistra con l’indice della mano destra. La maggior parte delle volte non ci riusciamo: i due indici si mancano l’un l’altro per un paio di centimetri circa. È importante tener presente che ricordiamo facilmente i percorsi che abbiamo fatto: è quel che ci permette, ad esempio, di scrivere al buio. Questa capacità si chiama «cinestesia», una parola complicata che non dice nulla di più di quello che abbiamo detto finora. Lo spazio operativo non è soltanto uno spazio motorio formato da migliaia di passi d’orientamento ma possiede anche un sistema di controllo dei sei assi che si intersecano perpendicolarmente tra loro: il sistema delle coordinate

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spaziali, punto di riferimento per le varie posizioni che il nostro corpo assume nello spazio. E di fondamentale importanza che chiunque si occupi del problema dello spazio si persuada di questo fatto. In fondo, non c’è nulla di più semplice: per determinare con sicurezza dove si trova il confine tra la destra e la sinistra, basta chiudere gli occhi, mettere la mano in posizione per­ pendicolare sopra la fronte e muoverla di qua e di là. La linea di confine coincide con il piano mediano del corpo. Se poi si mette la mano di taglio, cioè in posizione orizzon­ tale, e la si alza e abbassa davanti al viso, è possibile stabili­ re la linea di confine tra l’alto e il basso che, di solito, cade all’altezza degli occhi (esiste un buon numero di persone per le quali, invece, cade all’altezza del labbro superiore). A variare di più è la linea di confine che separa l’avanti dal dietro. Possiamo individuarla muovendo la mano vertical­ mente in avanti e indietro facendola girare intorno alla testa. Un gran numero di persone situa questo piano nella regione che corrisponde al condotto uditivo, mentre altre lo collocano in corrispondenza dello zigomo o, addirittura, davanti alla punta del naso. Tutte le persone che non siano affette da qualche deficit particolare hanno dentro la testa un sistema di coordinate formato da tre piani (figura 4) che fornisce allo spazio operativo una solida cornice di riferi­ mento grazie alla quale muoversi e orientarsi. Questi tre piani formano l’impalcatura che dà un ordi­ ne al groviglio, in continua trasformazione, dei diversi orientamenti e delle direzioni che può assumere il nostro corpo. È merito di Cyon aver messo in relazione la tridimen­ sionalità dello spazio umano con un organo sensoriale situato all’interno del nostro orecchio - i cosiddetti canali

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59 semicircolari (figura j) -, la cui struttura corrisponde all’incirca ai tre piani dello spazio operativo"'. L’esistenza di questo rapporto è stata dimostrata da numerosi esperimenti con tale chiarezza che possiamo for­ mulare la seguente affermazione: tutti gli animali che pos­ siedono i tre canali semicircolari dispongono di uno spazio operativo tridimensionale. Nella figura 6 sono illustrati i canali semicircolari dei pesci. È evidente che, per questi animali, hanno una grande importanza. A dimostrarlo è la struttura interna dei canali: un sistema idraulico nel quale, sotto il controllo di alcuni ner­ vi, un liquido è libero di muoversi in tutte e tre le dimensio­ ni spaziali. I movimenti del liquido rispecchiano fedelmente il movimento dell’intero corpo. Questo indica che i canali semicircolari, oltre a organizzare tridimensionalmente lo spa­ zio operativo, svolgono anche un’altra funzione molto signi­ ficativa, simile a quella di una bussola.* I . L O S P A Z IO E L’A M B IE N T E

6. 1 canali semicircolari dei pesci.

5 .1 canali semicircolari dell’essere umano.

* [Elie von Cyon (1842-1912), fisiologo russo, è stato il successo­ re di Secenov alla cattedra di fisiologia all’università di San Pietrobur­ go. I. Pavlov è stato uno dei suoi allievi].



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Mentre però la bussola segna sempre il Nord, i canali semicircolari indicano la «porta di casa». Quando tutti i movimenti del corpo sono stati scomposti e identificati secondo le tre dimensioni nei canali semicircolari, per ritro­ varsi al punto di partenza l’animale non dovrà fare altro che procedere a ritroso fino a che non avrà riportato a zero la codificazione nervosa dell’andata. Senza dubbio, una bussola in grado di indicare «la por­ ta di casa» costituisce uno strumento indispensabile per tutti gli animali stanziali che hanno un nido o un luogo di approvvigionamento fisso. Nella maggior parte dei casi, i segni ottici che organizzano lo spazio visivo non sono suf­ ficienti per ritrovare «la porta di casa», perché l’aspetto visi­ vo di quel che li circonda cambia rapidamente. La capacità di ritrovare l’orientamento nello spazio opera­ tivo può essere riscontrata anche tra gli insetti e i molluschi, sebbene questi animali siano privi di canali semicircolari. A tal proposito, l’esperimento che segue è molto indica­ tivo (figura 7). Quando la maggior parte delle api è assen-

te, lo sperimentatore sposta l’alveare di un paio di metri. Al loro ritorno, le api si riuniscono nel punto in cui avrebbe dovuto trovarsi il nido, cioè di fronte alla loro «porta di casa». Ma, dopo circa cinque minuti, ecco che le api cam­ biano direzione e volano verso l’alveare. Questo esperimento è stato ripetuto ed è stato dimo­ strato che le api alle quali erano state amputate le antenne si dirigevano immediatamente verso l’alveare, anche quando era stato spostato. Ciò significa che le api si orientano all’interno dello spazio operativo solo fino a quando sono in possesso delle antenne. Private di queste, invece, si orien­ tano facendo affidamento sulle impressioni visive. In altri termini, per le api le antenne assumono il ruolo di una bus­ sola che indica la strada per trovare la porta di casa, una bussola che segnala questo percorso con maggior sicurez­ za rispetto a quanto potrebbe fare la vista. Ancora più sorprendente è il ritorno verso il nido, che in inglese viene chiamato homing, delle patelle di mare (figura 8). La patella vive su scogli esposti all’alta e alla bassa marea.

7. Lo spazio operativo delle api.

8. Il ritorno della patella di mare verso il nido.

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Grazie al duro guscio, le patelle più grandi costruiscono nel­ la roccia una specie di letto nel quale trovare riparo. Quan­ do il livello del mare torna ad alzarsi, le patelle cominciano a muoversi e cercano il loro nutrimento tra gli scogli dei dintorni. Se la marea comincia a scendere, le patelle ritorna­ no nel loro letto senza seguire per forza il percorso intra­ preso all’andata. Gli occhi delle patelle sono talmente pri­ mitivi che per questo animale sarebbe impossibile ritrovare la strada di casa solo con la vista. Allo stesso tempo, è improbabile che esista una marca olfattiva grazie alla quale ritrovare la via. Anche se non riusciamo a immaginarcela, non ci resta che ipotizzare l’esistenza, perfino nella patella, di una bussola in grado di orientare il suo spazio operativo.

b) Lo spazio tattile L’elemento costitutivo dello spazio tattile non è una grandezza motoria, come il passo d’orientamento, ma una unità statica, il luogo. Anche il luogo deve la sua esistenza a un segno percettivo del soggetto e non è un oggetto legato alla struttura fisica delle cose che circondano l’animale, cioè ai suoi dintorni. Weber lo ha dimostrato (figura 9) ponen­ do sul collo di una persona un compasso in modo tale che le due punte fossero distanti tra loro più di un centimetro. In questo caso, i due stimoli sono avvertiti distintamente: ciascuno di essi occupa un luogo diverso da quello occu­ pato dall’altro. Se, però, si fa scendere il compasso verso la schiena, anche se la distanza tra le punte rimane la stessa, il soggetto ha la sensazione che i due stimoli si avvicinino sempre di più fino a occupare la stessa posizione all’inter­ no dello spazio tattile.

9. L’esperimento del compasso di Weber.

Ciò vuol dire che, al di là dei segni percettivi propri del­ la sensazione tattile, siamo sensibili anche a segni percetti­ vi che si riferiscono al luogo e che potremmo chiamare segni locali. Ciascuno di essi produce un luogo nello spazio tattile, proiettandolo all’esterno. Le aree della pelle che, toccate, emettono sempre lo stesso segno variano conside­ revolmente a seconda dell’importanza tattile della regione che prendiamo in considerazione. Per quel che riguarda il corpo umano, le aree più piccole, cioè quelle che consen­ tono di differenziare tra loro il maggior numero di luoghi, sono la punta della lingua e delle dita. Con la punta della lingua esploriamo la cavità boccale; con l’aiuto delle dita esploriamo gli oggetti, attribuendo alla loro superficie un complesso mosaico di luoghi. Questo mosaico è una specie

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di regalo, sia tattile che visivo, che il soggetto dona al pro­ prio ambiente, perché nei dintorni dell’animale una struttu­ ra del genere non esiste. Affinché al tatto emerga la forma di un oggetto, è ne­ cessario che i luoghi vengano collegati tra loro dai passi d’orientamento prodotti dalle dita o dalla mano. Per molti animali, il senso del tatto gioca un ruolo mol­ to importante. Anche se privati della vista, i ratti e i gatti non incontrano ostacoli nei movimenti grazie ai loro «baf­ fi», cioè alle vibrisse. Tutti gli animali notturni e quelli che abitano buche o tane vivono soprattutto all’interno dello spazio tattile nel quale i luoghi si fondono con i passi d’orientamento.

c) Lo spazio visivo Gli animali privi di occhi, che come la zecca possiedono una pelle sensibile alla luce, dispongono di una regione cutanea che produce segni locali tanto in risposta agli sti­ moli luminosi quanto agli stimoli tattili. Nel loro ambien­ te, il luogo visivo coincide con il luogo tattile. Lo spazio tattile e lo spazio visivo si presentano separa­ ti solo negli animali dotati di occhi. Nella retina esistono minuscole aree elementari - gli elementi ottici - vicinissi­ me tra loro. A ciascuno di questi elementi corrisponde un luogo nell’ambiente, poiché è risultato che a ognuno di essi corrisponde un segno locale. La figura io rappresenta lo spazio visivo di un insetto volante. È facile notare che, a causa della struttura sferica dei suoi occhi, la porzione di mondo esterno che corrispon-

de a un elemento visivo s’ingrandisce quanto più questo è distante. Mano a mano che ci si allontana, porzioni del mondo sempre più estese tendono a convergere in un luogo solo. In conseguenza di ciò, gli oggetti che si allontanano dagli occhi diventano sempre più piccoli fino a scomparire. Il luogo rappresenta l’unità spaziale minima al di sotto del­ la quale il soggetto non è in grado di fare alcuna distinzione. Nello spazio tattile, invece, questo rimpicciolimento degli oggetti non si verifica ed è proprio qui che i due spa­ zi, tattile e visivo, entrano in conflitto. Quando si afferra una tazza stendendo il braccio e portandola alla bocca, suc­ cede che all’interno dello spazio visivo questa si ingrandisce mentre le sue dimensioni tattili rimangono inalterate. In una situazione del genere, è il tatto ad avere il sopravvento, perché solitamente nello spazio visivo nessuno nota alcun cambiamento.

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In modo simile a quel che avviene per la mano, anche l’occhio percepisce tutti gli oggetti delPambiente come un mosaico formato da tessere elementari, i luoghi. Il grado di risoluzione dei dettagli dipende dal numero di elementi ottici di cui si compone una singola porzione dei dintorni. Il mosaico alla base dell’ambiente di una specie animale presenta la stessa straordinaria variabilità che contraddi­ stingue il numero di elementi ottici in cui si articola l’ap­ parato oculare dei diversi animali. Più grossolano è il mosaico, più i dettagli degli oggetti diventano sfuggenti: il mondo visto con l’occhio della mosca è considerevolmen­ te meno ricco del mondo percepito dall’occhio umano. Abbiamo a disposizione un metodo che ci offre la pos­ sibilità di rappresentare le diverse configurazioni che può assumere questo mosaico a seconda della specie che si pren­ de in considerazione: è possibile, infatti, trasformare qua­ lunque immagine sovrapponendovi un reticolo che la scom­ ponga nei suoi elementi costitutivi, in quello che abbiamo chiamato un mosaico di luoghi. È sufficiente rimpicciolire sempre di più l’immagine, fotografarla ogni volta utilizzando il reticolo e poi ingran­ dire di nuovo l’immagine facendola tornare alle dimensio­ ni originali: in questo modo il mosaico che la compone diventa sempre più grossolano, cioè meno dettagliato. Poi­ ché il reticolo con il quale abbiamo fatto le fotografie pro­ duceva un effetto di disturbo, abbiamo preferito rappre­ sentare i mosaici meno definiti per mezzo di acquarelli. Le immagini i ia-d sono state fatte con il reticolo. Gra­ zie a questo sistema, se si sa di quanti elementi ottici è costi­ tuito l’occhio di un animale, è anche possibile intuire in che modo esso percepisca il suo ambiente. L’immagine i ic cor­ risponde, più o meno, a quel che vede l’occhio della mosca.

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Si può facilmente constatare che, all’interno di un mondo visivo così poco particolareggiato, è impossibile percepire i filamenti di cui si compone la ragnatela. Per la mosca, la tela del ragno è una struttura letteralmente invisibile. L’immagine i id corrisponde, invece, a quel che percepi­ sce, all’incirca, l’occhio di un mollusco. In questo caso, lo spazio visivo di una lumaca o di una cozza si riduce a un certo numero di macchie, più o meno scure5. Come nello spazio tattile anche nello spazio visivo le relazioni tra un luogo e un altro sono formate da passi d’orientamento. Quando lavoriamo al microscopio, la cui lente d’ingrandimento ci consente di avere accesso a un gran numero di luoghi che compongono una superficie di dimensioni ridottissime, è facile constatare che sia l’occhio poggiato sulla lente sia la mano che sta lavorando al prepa­ rato si muovono con passi d’orientamento molto più bre­ vi che corrispondono a luoghi vicinissimi tra loro.

5 L’illustrazione indica semplicemente la direzione per una prima comprensione delle differenze nella sensibilità visiva. Chi volesse farsi un’immagine più precisa di come, ad esempio, vedono gli insetti, trove­ rà un’introduzione al problema nel libro di K. von Frisch, Aus dem Leben der Bienen [(1927), trad, it., N el mondo delle api, Edagricole, Bologna 1984].

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I

ia. Fotografia della strada di u n villaggio.

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I

ic. La stessa strada percepita dall’occhio della mosca.

ÜB

I ib.

La stessa fotografia riprodotta attraverso un reticolo.

I

id. La stessa strada percepita dall’occhio del mollusco.

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i 2.

l ’o r i z z o n t e

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2. L’orizzonte

Al contrario di quel che avviene nello spazio operativo e in quello tattile, lo spazio visivo è stretto da una muraglia impenetrabile che potremmo chiamare l’orizzonte di un ambiente. Il sole, la luna e le stelle si muovono nel cielo senza che sia possibile scorgere alcuna differenza tra la lontananza che c’è tra questi corpi celesti e la terra: tutto è sullo stesso piano. Ciò non vuol dire però che questo asse di orienta­ mento sia immutabile. Quando, dopo un lungo periodo di degenza a causa del tifo, finalmente uscii di casa, mi accor­ si che il mio orizzonte si era ristretto: arrivava fino a venti metri circa. L’orizzonte mi sembrava un tappeto multicolo­ re sul quale erano raffigurati tutti gli oggetti visibili. Oltre i venti metri, gli oggetti non erano vicini o lontani, ma solo piccoli o grandi. Anche le automobili che mi superavano non mi sembrava che si allontanassero, ma semplicemente che si rimpicciolissero. Nel nostro occhio il cristallino svolge la stessa funzione della lente di una macchina fotografica: fissa sulla retina che corrisponde alla lastra fotosensibile - gli oggetti che si trovano di fronte all’obiettivo. Il cristallino dell’occhio umano è elastico, può curvarsi grazie ad alcuni muscoli specifici e comportarsi come lo zoom di un obiettivo.

12. L’orizzonte per un adulto (in basso) e per un bambino (in alto).

Quando i muscoli che controllano il cristallino si con­ traggono compaiono dei segni d’orientamento dall’indietro in avanti. Quando invece i muscoli si rilassano, si pro­ ducono segni d’orientamento nella direzione opposta. Se i muscoli sono completamente rilassati, l’occhio mette a fuo-

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co gli oggetti più lontani, dai dieci metri di distanza fino aU’infinito. Al di sotto dei dieci metri, percepiamo gli oggetti del nostro ambiente come lontani o vicini grazie ai movimen­ ti dei muscoli che agiscono sul cristallino. Per il neonato, al di fuori di questo range esistono solo oggetti che s’in­ grandiscono e rimpiccioliscono. Lo spazio visivo del neo­ nato, infatti, è ancora limitato. E con il tempo che appren­ diamo, grazie ai segni di allontanamento, a spostare l’oriz­ zonte sempre più lontano fino a una distanza che, da adul­ ti, arriva fino ai 6-8 chilometri. Un aneddoto riportato da Helmholtz* illustra bene la differenza che esiste tra lo spazio visivo del bambino e quello dell’adulto (figura 12). Il fisiologo tedesco racconta che, da bambino, un giorno passò nei pressi della chiesa della guarnigione di Postdam. Sulla loggia notò degli operai e domandò a sua madre se, grazie alle sue lunghe braccia, potesse prendere qualcuna di quelle piccole bambole. La chiesa e gli operai si trovavano già sulla linea del suo orizzonte e, per questo, sembravano al bambino delle figure piccole e non delle figure lontane. In questo senso Helmholtz aveva ragione a ritenere che la madre potesse, allungando le braccia, afferrare qualcuno di quei minuscoli oggetti. Il bambino non sapeva che, nel­ l’ambiente della madre, la chiesa aveva dimensioni del tutto diverse e che, a trovarsi sulla loggia, non erano delle bambo­ le ma persone molto distanti. E difficile stabilire dove cada l’orizzonte in un ambiente animale perché, nella maggior * [Hermann von Helmholtz (1821-1894), scienziato poliedrico, ha condotto ricerche sulla fermentazione, sulla conservazione dell’energia nei corpi, sulla fisiologia degli organi di senso, sulla struttura matemati­ ca degli armonici e dei timbri musicali. È considerato tra i fondatori del­ l’idrodinamica e della meteorologia].

2.

l ’o r i z z o n t e

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13. Struttura dell’occhio della mosca (figura schematica), a Occhio inte­ ro, a destra una parte vista in sezione, b gli Ommatidi. Cor Cornea chitinosa. C C r Cellula del cono cristallino. Cr Cono cristallino. Cp Cellu­ la pigmentosa. C v Cellula visiva. Fn Fibra nervosa. N Nucleo. P Pigmen­ to. R Rabdoma. R eti Retinula.

parte dei casi, non è facile constatare sperimentalmente quan­ do un oggetto che nei dintorni si avvicina al soggetto diven­ ti nel suo ambiente non solo più grande ma anche più vicino. Se si cerca di catturare una mosca, l’insetto non prova a scappare finché la mano non arriva a mezzo metro di distan­ za. E lecito supporre che il suo orizzonte si trovi proprio a questa distanza. Altre osservazioni circa il comportamento delle mosche suggeriscono che nel loro ambiente l’orizzonte abbia caratte­ ristiche davvero diverse dalle nostre. E noto, ad esempio, che le mosche non si limitano a volare intorno a un lampadario o a una lampada, ma seguono traiettorie a scatti che le riavvici­ nano all’oggetto se si allontanano da questo per più di mezzo metro. Si comportano come un marinaio che, durante il suo viaggio, si tiene sotto costa per non perdere di vista l’isola. Nell’occhio della mosca (figura 13) gli elementi ottici (rabdomi) sono formati da strutture nervose allungate con

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le quali viene raccolta Fimmagine, che giunge dai cristalli­ ni a una profondità variabile, corrispondente alla distanza alla quale si trova l’oggetto. Exner::' ha ipotizzato che potrebbe trattarsi dell’equivalente dell’apparato muscolare del cristallino umano. L’apparato ottico costituito dal rabdoma funziona come le lenti aggiuntive usate dai fotografi: ciò significa che, oltre i 50 cm di distanza, per la mosca il lampadario sparisce. A tal proposito, si possono mettere a confronto le figure 14 e 15, nelle quali il lampadario è fotografato con e senza len­ te aggiuntiva. Che sia questa o un’altra la maniera in cui l’orizzonte delimita lo spazio visivo, l’essenziale è che esso è comunque sempre presente. Per questo motivo, possiamo rappresentarci tutti gli ani­ mali che vivono intorno a noi (coleotteri, farfalle, mosche, zanzare e libellule) come chiusi dentro una bolla di sapone che circoscrive il loro spazio visivo e che contiene tutto quel­ lo che per loro è visibile. Ogni bolla ospita gli assi dimensio­ nali dello spazio operativo e quelli che abbiamo chiamato «luoghi», grazie ai quali lo spazio di ciascun animale man­ tiene la solidità della sua struttura. Gli uccelli che ci volano intorno, gli scoiattoli che saltano da un ramo all’altro o le mucche che pascolano nei prati sono animali circondati da una bolla translucida che segna i limiti del loro spazio. Attraverso questa immagine possiamo comprendere meglio un’altra cosa: anche ciascuno di noi vive chiuso den­ tro il suo mondo, cioè dentro la sua bolla. Tutti i nostri simili* * [Sigmund Exner (1846-1926) è stato professore all’Istituto di fisio­ logia di Vienna a partire dal 1875. Ha lavorato sulla fisiologia comparata della vista e dell’olfatto, ma anche sul funzionamento delle reti neurali del cervello].

2. l ’ o r i z z o n t e

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14. Un lampadario visto dall’uomo.

15. Lo stesso lampadario visto dalla mosca.

sono circondati da bolle trasparenti che si intersecano senza attrito perché formate solo da segni percettivi soggettivi. Non esiste uno spazio indipendente dai soggetti. Se continuiamo ancora ad attenerci alla finzione secondo la quale esisterebbe uno spazio universale è soltanto per utilizzare una convenzio­ ne che ci consente di esprimerci in modo comprensibile.

3.

3- Il tempo percettivo

A Karl Ernst von Baer* va attribuito il merito di aver mostrato con chiarezza che il tempo è un prodotto del soggetto. Il tempo considerato come successione di istan­ ti cambia da un ambiente all’altro secondo il numero di istanti che i soggetti vivono durante lo stesso lasso tempo­ rale. Gli istanti sono unità temporali minime e indivisibili perché espressione di sensazioni elementari che chiamere­ mo segno-istante (Momentzeichen). Come abbiamo visto, per gli umani la durata di un istante corrisponde a un diciottesimo di secondo: è lo stesso per tutte le modalità sensoriali, perché tutte le sensazioni sono accompagnate dallo stesso segno-istante. Il nostro orecchio non riesce a distinguere tra loro diciotto vibrazioni poiché le percepi­ sce come un singolo suono. È stato dimostrato che l’esse­ re umano percepisce 18 stimolazioni cutanee come una pressione unica. Il cinema ci offre la possibilità di proietta­ re sullo schermo immagini alla velocità per noi più con­ sueta: le immagini si succedono attraverso brevi scatti, pari a un diciottesimo di secondo.* * [Karl Ernst von Baer (1792-1876) è considerato uno dei fondatori della embriologia moderna. Uexkiill si considerava un prosecutore delle sue ricerche circa la soggettività del tempo animale].

IL T E M P O

Se poi desideriamo seguire con lo sguardo immagini in movimento che scorrono a una velocità troppo elevata per i nostri occhi, è necessario proiettarle al rallentatore. Si tratta di un processo che consiste nel registrare un gran numero di immagini in un intervallo temporale pari a un secondo e nel proiettarle a un ritmo per noi normale. In questo modo il movimento viene dilatato in un lasso di tempo più lungo e così si ha la possibilità di rendere visi­ bili movimenti parziali altrimenti troppo rapidi per l’oc­ chio umano (cioè con una velocità maggiore di 18 immagi­ ni al secondo), come il battito d’ala di un uccello o di un insetto. Naturalmente, è possibile non solo rallentare il flusso di immagini ma anche accelerarlo. Se registriamo un certo processo naturale per ore e poi lo proiettiamo al rit­ mo di 18 immagini al secondo, lo comprimiamo in modo tale che diventi possibile osservare fenomeni, ad esempio lo sbocciare di un fiore, che altrimenti sarebbero troppo lenti per essere percepiti. Ci si può chiedere, allora, se esistano animali i cui tem­ pi percettivi siano organizzati sulla base di istanti più lun­ ghi (o più brevi) del nostro e nei cui rispettivi ambienti, di conseguenza, il movimento scorra più lentamente o più velocemente che nel nostro. Il primo a fare esperimenti in questo campo è stato un giovane ricercatore tedesco. In seguito, grazie alla collaborazione di un altro ricercatore, ha studiato in particolar modo la reazione di un pesce combattente di fronte alla propria immagine riflessa. Il pesce non riesce a riconoscer­ la se gliela si mostra a una velocità di 18 immagini al secon­ do: deve essere presentata a una velocità di almeno 30 immagini al secondo.

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Un terzo ricercatore6 ha addestrato alcuni pesci com­ battenti a prendere il cibo quando si trovavano davanti a un disco grigio in rotazione. Se invece si faceva girare len­ tamente un disco bianco e nero, questo agiva da «segnale di pericolo», perché quando i pesci si avvicinavano al cibo ricevevano una leggera scossa elettrica. Se però il disco cominciava a girare più velocemente, le reazioni dei pesci diventavano più incerte fino a invertirsi: nel momento in cui i settori neri ruotavano alla velocità di un cinquantesi­ mo di secondo gli animali tornavano ad avvicinarsi perché per loro il disco bianco e nero si era trasformato in grigio e, dunque, il segnale di pericolo era scomparso. Da ciò si può concludere con sicurezza che nell’ambien­ te dei pesci che si nutrono di prede veloci tutti i movimenti appaiono rallentati. La figura 16, che si basa sugli esperimenti condotti da Brecher (ai quali abbiamo già fatto riferimento), fornisce un esempio di una simile contrazione temporale. Una lumaca è posta su una ruota galleggiante di gomma in grado di ruota­ re senza alcun attrito. Il guscio della lumaca è mantenuto stabile per mezzo di una pinza. In questo modo, la lumaca può muoversi indisturbata pur strisciando sul posto. Se le si avvicina una bacchetta, la lumaca comincia a muoversi verso di essa. A questo punto, se si colpisce l’ani­ male con una lenta serie di colpi, fino a tre al secondo, la lumaca si ritira nel proprio guscio. Se, però, si ripete l’espe6 Cfr. M. Beniuc, Bewegungssehen, Verschmelzung und Moment bei Kampffischen [Percezione visiva del movimento, fusione temporale e istante nel pesce combattente]; G.A. Brecher, D ie Entstehung und biolo­ gische Bedeutung der subjektiven Zeiteinheit - des Momentes [Formazio­ ne e significato biologico della temporalità - degli istanti]; H.W. Lissmann, Die Umwelt des Kampffisches [L’ambiente del pesce combattente].

3 . IL T E M P O P E R C E T T IV O

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16. L’istante della lumaca ( 5 Bacchetta. E Eccentrico"'. L Lumaca. R Ruota).

rimento aumentando la velocità dei colpi, almeno quattro al secondo, la lumaca riprende a salire sulla bacchetta. Nel suo ambiente, un corpo che compie quattro oscillazioni al secondo corrisponde a un corpo che non si muove. Possia­ mo dunque concludere che il tempo percettivo della luma­ ca scorre al ritmo di tre o quattro istanti al secondo. In que­ sto ambiente tutti i movimenti sembrano molto più veloci di come appaiono nel nostro, mentre dal punto di vista della lumaca i suoi movimenti non sono più lenti di quanto i nostri sembrino a noi.

[Gli eccentrici, o camme, sono elementi meccanici di forma circo­ lare con un asse spostato rispetto all’asse rotatorio del corpo. General­ mente vengono utilizzati per trasformare il moto rotatorio continuo in moto alternato (ad esempio nei motori a scoppio) o per generare un movimento vibratorio].

4 . G L I A M B IE N T I S E M P L IC I

4- Gli ambienti semplici

Spazio e tempo non hanno una utilità immediata per il soggetto. Diventano significativi quando occorre stabilire differenze tra numerose caratteristiche percettive che, sen­ za l’impalcatura spazio-temporale garantita dall’ambiente, si confonderebbero tra loro. Una struttura del genere non è necessaria per ambienti molto semplici formati da una sola marca percettiva. La figura 17 mostra uno accanto all’altro i dintorni e l’ambiente del paramecio. È un organismo coperto da fol­ te ciglia che gli consentono di muoversi rapidamente nel­ l’acqua, ruotando continuamente intorno al proprio asse. Di tutti gli oggetti che si trovano nei suoi dintorni, l’am­ biente del paramecio ammette sempre e solo la stessa mar­ ca percettiva, che provoca nel paramecio una reazione di fuga ovunque e in qualunque modo ne venga stimolato. Questa marca percettiva produce sempre lo stesso movi­ mento. Quando incontra un ostacolo, il paramecio compie un movimento all’indietro accompagnato da una deviazio­ ne su uno dei due lati rispetto alla sua direzione di marcia, dopo di che ricomincia a nuotare in linea retta. In questo modo l’ostacolo è evitato. Si può dire che in casi del gene­ re la marca percettiva è disattivata sempre dalla stessa mar­ ca operativa. Il paramecio si ferma unicamente quando si

17. Dintorni e ambiente del paramecio.

imbatte nella sua preda, il batterio della decomposizione, il solo oggetto del suo ambiente a non produrre alcuno sti­ molo. Un esempio del genere mostra il modo sistematico in cui la natura, anche attraverso un solo circuito funzio­ nale, struttura gli esseri viventi. Esistono anche animali pluricellulari, come il polmone di mare (una medusa: il rizostoma), in grado di sopravvi-

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18. Medusa (gli organi percettivi sono rappresentati col simbolo della campana).

4. G L I A M B IE N vere grazie a un unico circuito funzionale. Tutto Porganismo consiste in una pompa che, mentre nuota, assorbe l’acqua di mare ricca di plancton e poi, una volta filtrata, la sputa via. L’unica manifestazione vitale della medusa con­ siste nel sollevamento e abbassamento ritmico dell’om­ brello elastico e gelatinoso che ne costituisce la superficie esterna. Grazie a un movimento sempre uguale a se stesso, l’animale può rimanere costantemente vicino alla superfi­ cie. Nello stesso tempo, le pareti del suo stomaco si con­ traggono e si dilatano aspirando e gettando fuori l’acqua di mare attraverso pori sottili. Il contenuto liquido dello stomaco è drenato da tubi digestivi molto ramificati le cui pareti catturano nutrimento e ossigeno. La medusa nuota, si nutre e respira grazie alla contrazione ritmica dei musco­ li che si trovano nel suo ombrello gelatinoso. Per muover­ si senza problemi e con la sicurezza necessaria, otto orga­ ni a forma di campana sono appesi al bordo dell’ombrello (cfr. figura 18); a ogni pulsazione della medusa, questa spe­ cie di campana colpisce un cuscinetto nervoso che a sua volta produce la pulsazione successiva. La medusa attiva da sé la propria marca operativa che, a sua volta, produce la marca percettiva in grado di rimettere in moto il circui­ to all’infinito. Nell’ambiente della medusa rintocca sempre il suono di una sola campana, il cui ritmo governa la sua vita. Tutti gli altri stimoli sono oscuri. Nei casi in cui esiste un unico circuito funzionale, come nel polmone di mare, si può parlare di «animali riflesso»: ad agire è sempre lo stesso riflesso, dagli organi a forma di campana fino ai muscoli situati sull’ombrello della medusa. Si può continuare a parlare di animale rifles­ so anche quando gli archi riflessi presenti sono più di uno.

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Esistono delle meduse, infatti, che possiedono dei fila­ menti pescatori ognuno dei quali è gestito da un arco riflesso. Molte meduse possiedono braccia orali (prolun­ gamenti del tubo buccale) dotate di muscolatura autono­ ma e legate ai ricettori periferici dell’ombrello. Gli archi riflessi lavorano in modo indipendente e non sono diret­ ti da alcun centro di controllo. Se un organo esterno contiene un arco riflesso completo, a tal proposito si parla, a buon diritto, di «riflesso-persona». Il riccio di mare possiede un gran numero di riflessi di que­ sto tipo, che agiscono ognuno per conto proprio senza alcu­ na guida centrale. Per illustrare la differenza che esiste tra animali del genere e ammali più complessi potremmo dire: quando un cane corre, è l’animale a muovere le zampe; quando un riccio di mare si muove, sono le zampe a spo­ stare l’animale. I ricci di mare, così come quelli di terra, hanno un gran numero di aculei, ciascuno dei quali rappresenta un rifles­ so-persona indipendente. II riccio di mare non possiede solo punte aguzze e dure, quella specie di foresta di lance - attaccate alla conchiglia calcarea grazie a snodi sferici - che si oppone a qualunque oggetto si avvicini. Questi animali si contraddistinguono anche per le ventose lunghe e molli, i cosiddetti pedicelli ambulacrali, dotate di muscoli indispensabili per la loco­ mozione. Alcune specie di riccio possiedono quattro pic­ cole strutture a forma di tenaglia, le pedicellarie (per puli­ re, colpire, afferrare e imprigionare le prede), distribuite su tutta la superficie. Sebbene numerosi riflessi-persona agiscano insieme, ognuno lavora indipendentemente dagli altri. Stimolati da una sostanza chimica rilasciata dal nemico naturale del ric-

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ciò, la stella marina, gli aculei si ritraggono, mentre si fan­ no avanti le pedicellarie velenose, in grado di mordere i peduncoli e le ventose dell’avversario. Si può parlare di una «repubblica di riflessi», nella qua­ le, malgrado la completa indipendenza di ciascun riflessopersona, regna la pace civile. N on succede mai, infatti, che le ventose della stella marina vengano attaccate dalle pedi­ cellarie prensili, che pure afferrano qualunque oggetto capi­ ti loro a tiro. Questa pace civile non è imposta da una struttura cen­ trale come succede, invece, nella nostra specie: i denti costi­ tuiscono un pericolo costante per la lingua e questo incon­ tro è evitato grazie alla comparsa, nell’organo centrale, del segnale percettivo «dolore» che inibisce i comportamenti a rischio. Poiché in quella repubblica di riflessi che è il riccio non esiste alcun centro superiore, la pace civile deve essere tute­ lata in un altro modo. Questo accade grazie a una sostanza, l’autodermina, che paralizza i ricettori dei riflessi-persona. È talmente diluita su tutta la pelle dell’animale che non pro­ voca alcun effetto inibitorio se un oggetto esterno ne tocca la superficie. Al contrario, nel caso in cui due punti della pelle entrino in contatto, la quantità doppia di autodermina agisce impedendo che si inneschi una reazione aggressiva. Una repubblica di riflessi può accogliere nel proprio ambiente molte marche percettive, se è composta da rifles­ si-persona altrettanto numerosi, ma queste marche devono restare totalmente isolate, dato che ciascun circuito funzio­ nale opera in completa autonomia. Anche la zecca, le cui manifestazioni vitali, l’abbiamo visto, sono costituite da tre riflessi, rappresenta un anima­ le di tipo superiore, perché i circuiti funzionali non si ser-

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vono di archi riflessi isolati, ma possiedono un organo per­ cettivo comune. Esiste dunque la possibilità che nell’ambiente della zecca la preda venga percepita come un’unità, pur essendo rappresentata solo mediante lo stimolo chimi­ co dell’acido butirrico, lo stimolo tattile e quello termico. Per il riccio di mare non esiste una possibilità del gene­ re: le marche percettive, gradi diversi di pressione e di sti­ molazione chimica, sono unità sensoriali completamente isolate le une dalle altre. Certi ricci rispondono all’oscuramento dell’orizzonte con un movimento degli aculei che, come mostrano le figu­ re 19a e 19b, è sempre lo stesso: sia che si tratti di una nave, di una nuvola oppure di un nemico effettivo come il pesce.

19a. I dintorni del riccio di mare.

4. G L I A M B IE N T I Questa rappresentazione dell’ambiente del riccio non è ancora sufficientemente semplice. La marca percettiva che abbiamo chiamato «ombra» non può far parte in alcun modo dello spazio del riccio, perché quest’animale non possiede alcuno spazio visivo. Sulla sua pelle fotosensibile, l’ombra produce un effetto simile a quello provocato da un batuffolo di cotone che ne sfiori la superficie. Ma è chiaro che sarebbe tecnicamente impossibile riprodurre graficamente una sensazione del genere.

19b. L’a m b ie n te d el ric c io di m are.

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5. Forma e movimento come marche percettive

Un ambiente semplice è privo di marche percettive che riguardano la forma e il movimento, poiché queste presup­ pongono che tra i diversi luoghi ci sia una qualche connes­ sione. Se anche supponessimo che nell’ambiente del riccio di mare tutte le marche percettive delle varie persone-rifles­ so siano dotate di segno locale (e che, di conseguenza, cia­ scuna di esse si trovi in un luogo diverso), il riccio non sarebbe in grado di collegare questi luoghi tra loro. Forma e movimento entrano in scena solo in mondi percettivi superiori. Noi umani siamo abituati a pensare, visto il tipo di esperienza che facciamo nel nostro ambien­ te, che la forma di un oggetto sia la marca percettiva pri­ maria e che il movimento, invece, costituisca un fenomeno secondario che si aggiunge al primo solo occasionalmente. In numerosi ambienti animali, però, questo non è vero. In molti di essi, infatti, non solo la forma immobile e la for­ ma in movimento rappresentano due marche percettive indipendenti, ma il movimento senza forma può ugual­ mente presentarsi come marca percettiva autonoma. Nella figura 20 una taccola è a caccia di cavallette. Se la cavalletta resta immobile la taccola non riesce a vederla e cerca di acchiapparla solo se comincia a saltare. Si può esse­ re tentati di supporre che la taccola sia in grado di ricono­ scere la forma della cavalletta da ferma ma che non riesca a

20. La taccola e la cavalletta.

cogliere la struttura unitaria perché nascosta dall’accavallarsi degli steli di erba, come può succedere anche a noi quando, impegnati a risolvere un gioco enigmistico, ci tro­ viamo alle prese con una immagine difficile da individua­ re. Secondo questa ipotesi, solo nel momento in cui la cavalletta spiccasse il salto la forma si libererebbe degli ele­ menti di disturbo che ne impediscono l’identificazione. Ma se si prendono in considerazione anche altri dati, occorre formulare un’ipotesi diversa: la taccola non è in gra­ do di distinguere la forma della cavalletta quando è ferma perché è sintonizzata solo sulla forma della preda in movi­ mento. Questo spiega perché molti insetti, se si trovano in pericolo, «fanno il morto». Se restando immobili la loro for­ ma non esiste, quando fanno il morto escono sicuramente dal mondo percettivo del loro predatore e, in questo modo, non rischiano di essere individuati e scoperti. Per verificare questa idea, ho costruito un’esca per mosche, formata da un bastoncino alla cui estremità è appeso, legato a un filo sottile, un pisello ricoperto di colla moschicida.

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Se si lascia oscillare l’esca davanti alla mensola di una finestra illuminata dal sole sulla quale si trovano delle mosche, molte di queste si precipiteranno sull’oggetto restandovi incollate. Ma a cadere nella trappola saranno solo mosche di sesso maschile: abbiamo provocato un volo nuziale molto sfortunato. Le mosche che volano intorno al lampadario sono maschi pronti a intercettare le femmine che capitano a tiro. Il pisello che oscilla riproduce la marca percettiva della femmina in volo, mentre quand’è fermo non viene mai scambiato dalle mosche per un’esponente della propria spe­ cie. Da ciò si può concludere che la femmina immobile e la femmina in volo siano due differenti marche percettive. Ma facciamo un altro esempio di una situazione nella quale il movimento senza forma costituisce una marca per­ cettiva. La figura 21 mette a confronto i dintorni e l’am­ biente della capasanta. Nei dintorni della capasanta si trova il suo nemico più pericoloso, la stella marina, in una posizione che sarebbe ben visibile ai numerosi occhi (un centinaio) del mollusco. Finché la stella marina resta immobile, però, non produce alcuna reazione nella capasanta. Per quest’ultima, infatti, la sua caratteristica forma a cinque punte non costituisce una marca percettiva. Quando, invece, la stella si mette in movi­ mento, la capasanta per tutta risposta estende i tentacoli che le servono da organo olfattivo. A questo punto prima si avvicina al suo nemico e, una volta percepito il nuovo sti­ molo, si allontana nuotando via. Diversi esperimenti hanno dimostrato che nell’ambien­ te del mollusco la forma e il colore di un oggetto in movi­ mento sono del tutto irrilevanti. U n oggetto rappresenta per l’animale una marca percettiva solo se si muove con la

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2 1. Dintorni e ambiente della capasanta.

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stessa lentezza della stella marina. Gli occhi della capasanta non sono sintonizzati sulla forma o sul colore ma solo su un certo ritmo dinamico che corrisponde esattamente ai movimenti del suo nemico naturale. In questo modo, però, la stella marina non è ancora messa a fuoco: è necessaria una seconda marca percettiva, di tipo olfattivo, perché entri in gioco un secondo circuito funzionale che consenta al mollusco di fuggire via. E proprio questa marca operativa, la fuga, a disattivare la marca percettiva costituita dalla vici­ nanza del nemico. Per lungo tempo si è pensato che nell’ambiente del lom­ brico esistesse una marca percettiva della forma. Già Dar­ win sottolineava che questo animale si comporta con le foglie e gli aghi di pino in modo diverso (figura 22). Il lom­ brico afferra le foglie e gli aghi portandoli in stretti cunico­ li, per poi utilizzarli come nutrimento e riparo. Nella mag­ gior parte dei casi, se le foglie sono prese per il gambo oppongono una certa resistenza quando si cerca di portarle dentro cavità tanto anguste; se invece le si afferra per la pun­ ta si arrotolano facilmente e non creano alcun problema. Al contrario, è più facile tirare dentro gli aghi di pino (che cado­ no dall’albero sempre a coppie) prendendoli non per una delle punte ma per la base. Partendo dal fatto che il lombri­ co si comporta ogni volta in modo adeguato, sia con le foglie che con gli aghi, si è pensato che la forma di oggetti che svol­ gono un ruolo importante nel mondo operativo dell’anima­ le avesse assunto il ruolo di marca percettiva. Questa supposizione si è rivelata falsa. È stato dimostra­ to che il lombrico tira dentro il suo cunicolo dei bastonci­ ni, tra loro di forma identica e precedentemente ricoperti di gelatina, indifferentemente per l’una o per l’altra estre­ mità. Ma se si cosparge una delle estremità con polvere pro-

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22. Il lombrico mentre assapora le foglie.

veniente dalla punta di una foglia secca di ciliegio e l’altra con polvere proveniente dal gambo, il lombrico comincia a comportarsi con le estremità del bastoncino come se la pri­ ma fosse la punta e la seconda il gambo. Anche se il lombrico si comporta con le foglie in modo adeguato rispetto alla forma della foglia, quel che guida il suo comportamento è il sapore. Evidentemente, il lombri­ co ha adottato questo sistema perché i suoi organi senso­ riali hanno una struttura troppo semplice per elaborare le marche percettive che riguardano la forma. Un esempio del genere mostra come la natura riesca ad aggirare difficoltà che, a prima vista, appaiono insormontabili. Riassumendo, il lombrico non è in grado di percepire la forma. A questo punto si fece sempre più pressante l’inter­ rogativo: in quale ambiente animale la forma diventa una

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marca percettiva? La domanda trovò in seguito la sua risposta. Si vide che le api preferiscono posarsi su sagome a strut­ tura aperta, a forma di stella o di croce, mentre evitano oggetti di forma chiusa, come quadrati o cerchi. La figura 23 mostra la contrapposizione tra i dintorni e l’ambiente dell’ape. I suoi dintorni sono formati da prati nei quali si alternano boccioli e fiori già dischiusi. Se ora si guarda cosa succede nel suo ambiente, ci accorgiamo che è popolato da sagome che assomigliano a croci o stelle e da sagome chiu­ se e circolari. N on è necessario insistere sul significato biologico, sco­ perto di recente, di questa caratteristica delle api: per loro sono i fiori, e non certo i boccioli, ad avere un significato. Le relazioni di significato rappresentano l’unica guida affi­ dabile, come abbiamo già visto con la zecca, per studiare gli ambienti animali: capire se le forme aperte hanno sulle api un maggiore effetto fisiologico rispetto alle forme chiu­ se è una faccenda del tutto secondaria. Questi studi hanno ricondotto, dunque, il problema del­ la forma a una formula estremamente semplice. Basta sup­ porre che le cellule che nell’organo sensoriale percepiscono i segni locali siano articolate in due gruppi: uno per lo sche­ ma «aperto», l’altro per lo schema «chiuso». N on esistono altre distinzioni. Se si traspone lo schema all’esterno, quel che viene fuori sono «immagini percettive» (Merkbilder) assolutamente generali che, come mostrano alcuni studi recenti e molto belli, per le api sono legate alla individua­ zione di colori e odori. Né il lombrico né la capasanta né la zecca possiedono invece schemi del genere. Il loro ambiente manca di qualunque immagine percettiva. 2 3 .1 dintorni e l’ambiente dell’ape.

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6. Obiettivo e piano

Noi umani siamo abituati a condurre la nostra esisten­ za passando con fatica da un obiettivo a un altro; per que­ sta ragione siamo convinti che anche gli animali facciano la stessa cosa. Si tratta di un errore di fondo che continua a indirizzare la ricerca su binari sbagliati. Certo, nessuno attribuirà scopi od obiettivi al riccio di mare o al lombrico. Ma già quando abbiamo descritto la vita della zecca, abbiamo detto che «aspetta la sua preda». Seppur in modo involontario, con questa espressione ab­ biamo immesso di contrabbando nella vita dell’animale le nostre preoccupazioni quotidiane. La zecca, in realtà, è governata da un preciso piano naturale. Quando descriviamo gli ambienti animali, la nostra pri­ ma preoccupazione sarà quella di evitare qualunque richia­ mo alla nozione di finalità. Ma possiamo fare una cosa del genere solo se consideriamo le manifestazioni vitali degli ani­ mali organizzate secondo un piano naturale. Forse alcuni comportamenti dei mammiferi superiori si riveleranno come azioni dirette verso un obiettivo, ma anche queste sono azio­ ni subordinate a un piano generale stabilito dalla natura. I comportamenti di tutti gli altri animali non sono in alcun modo finalizzati. Sarà utile, innanzitutto, dare al let­ tore un’idea di quegli ambienti per i quali è indubbia la vali­ dità di questa affermazione. Prendiamo ad esempio le

24. L’effetto di un suono acuto sulle falene.

informazioni che mi sono state gentilmente fornite sulla percezione del suono da parte delle falene (figura 24). Secondo queste ricerche, è del tutto irrilevante che il suono sul quale sono sintonizzate le falene sia prodotto da un pipistrello o dallo sfregamento di un tappo di vetro su una bottiglia: l’effetto è sempre lo stesso. Le falene di colore chiaro, e per questo facilmente visibili, si levano in volo mentre le falene scure, protette da un colore che le mime­ tizza, in risposta allo stesso suono atterrano. La stessa mar­ ca percettiva produce comportamenti opposti. Salta agli occhi il piano naturale che è alla base di una simile diffe­ renza: sicuramente questa non dipende da una diversità d’obiettivi, per il semplice fatto che la falena non può vede­ re il colore delle proprie ali. Ma l’ammirazione suscitata dal

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piano naturale aumenta ancor di più quando si apprende che le raffinatissime strutture microscopiche che compon­ gono l’organo acustico della falena sono tarate esclusivamente sul suono prodotto dal pipistrello. Per il resto, l’ani­ male è completamente sordo. La differenza tra piano naturale e obiettivo soggettivo già emerge con chiarezza da un bell’esperimento condotto da Fabre*. Una pavonia femmina veniva poggiata per qual­ che secondo su un foglio di carta bianca, sul quale la farfal­ la notturna cominciava a sfregare l’addome. Poi la pavonia veniva messa sotto una campana di vetro, accanto al foglio :·' Qean-Henri Casimir Fabre (1823-1915), fisico e botanico, è oggi considerato uno dei fondatori dell’entomologia].

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di carta. Durante la notte intere frotte di maschi, apparte­ nenti a questa specie molto rara, entravano dalla finestra posandosi sul foglio. Nessuno di loro prestava attenzione alla femmina che si trovava lì accanto, sotto la campana di vetro. Fabre non è riuscito a indicare quale agente chimico o fisico facesse da richiamo. Da questo punto di vista, gli esperimenti sulle cavallet­ te e i grilli sono ancora più istruttivi (cfr. figura 25). In una stanza, si pone una femmina di grillo davanti a un microfo­ no. Mentre questa frinisce, nella stanza accanto i maschi si riuniscono davanti all’amplificatore senza curarsi minima­ mente di un’altra femmina che si trova lì vicino ma sotto una campana di vetro che ne isola il richiamo. N on le si avvicina nessuna cavalletta perché su di loro l’immagine ottica non ha alcun effetto. Entrambi gli esperimenti dimostrano la stessa cosa: in nessuno dei due casi si assiste al perseguimento di un obiet­ tivo. Il comportamento apparentemente bizzarro della caval­ letta maschio è facilmente spiegabile se si cerca di compren­ dere il modo in cui è conforme al piano naturale che ne è alla base. In tutti e due i casi, un circuito funzionale è attivato da una marca percettiva che, una volta eliminato l’oggetto che normalmente la produce, non riesce più a produrre la marca operativa indispensabile per disattivarla e chiudere così il cir­ cuito. Normalmente, dovrebbe esserci una seconda marca percettiva in grado di far scattare il circuito operativo suc­ cessivo. Bisogna capire, dunque, quale essa sia. Si tratta,, infatti, di un elemento indispensabile per la catena che forma il circuito funzionale legato all’accoppiamento. Si dirà: nel caso degli insetti non possiamo parlare di comportamento finalizzato. Sono guidati direttamente dal piano naturale. In casi del genere, è il piano naturale che

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indica a quali marche percettive essere sensibili, come abbiamo già visto con la zecca. E si potrebbe aggiungere: chiunque, però, abbia avuto modo di osservare delle galli­ ne razzolare nell’aia e abbia visto come la chioccia si preci­ piti in soccorso dei pulcini, non potrebbe certo dubitare che si tratti di un comportamento finalizzato. Proprio su questo tipo di comportamento si sono con­ centrati alcuni esperimenti molto ben congegnati, che han­ no fornito risultati assolutamente certi. La figura 26 illustra esattamente quel che accade. Se si tiene legato un pulcino per una zampa, il suo pigolio spinge la chioccia a seguire il richiamo e a rizzare le piume anche quando il pulcino è nascosto da uno steccato. Quando la gallina vede il pulcino, comincia ad aggredire un avversario immaginario con furiosi colpi di becco. Ma se il pulcino, sempre legato per una zampa, viene messo sotto una campana di vetro, in modo tale che la gal­ lina possa vederlo ma non sentire i suoi lamenti, la chioccia non è affatto turbata da quel che vede. Anche in questo caso, non abbiamo a che fare con un comportamento finalizzato, bensì con un circuito funzio­ nale interrotto. Di norma la marca percettiva del pigolio è provocata, seppur indirettamente, da un predatore che sta attaccando un pulcino. Secondo il piano naturale, questa marca percettiva viene fatta scomparire dalla marca opera­ tiva perché i colpi di becco di solito riescono a scacciare il nemico. Il pulcino che si dibatte ma non pigola non costi­ tuisce per la gallina una marca percettiva in grado di pro­ durre una risposta particolare: d’altra parte, se così non fos­ se, la gallina si troverebbe in una situazione ingestibile, dato che non avrebbe certo la possibilità di sciogliere il nodo che tiene legato il suo piccolo.

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26. La chioccia e il pulcino.

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7. Immagine percettiva e immagine operativa

27. La chioccia e il pulcino nero.

Ancora più strano e non finalizzato è il comportamen­ to di un’altra gallina (figura 27), dal piumaggio scuro, a cui sia stata fatta covare una delle sue uova in mezzo ad altre, appartenenti però a una specie diversa, dal piumaggio bian­ co. Nei confronti del pulcino di colore nero, l’unico a esse­ re sangue del suo sangue, la gallina agisce in modo appa­ rentemente insensato. Sentendo il suo pigolio, l’animale si precipita da lui ma, vedendolo tra i fratelli di colore bianco, lo attacca a colpi di becco. Le marche percettive acustiche e visive, che apparterrebbero allo stesso oggetto, attivano cir­ cuiti operativi contraddittori. Non c’è dubbio che, nell’am­ biente della gallina, le due marche percettive che contraddi­ stinguono i pulcini non riescono a fondersi in una singola unità sensoriale.

L’opposizione tra obiettivo del soggetto e piano della natura ci dispensa dall’interrogarci sulla questione del­ l’istinto, sulla quale non è possibile dire nulla di preciso. Una ghianda, ad esempio, ha bisogno di un istinto per diventare una quercia? Oppure, per formare l’osso, le cel­ lule del tessuto osseo hanno bisogno di seguire l’istinto? Se si risponde a questa domanda in modo negativo e si sostituisce questa nozione con quella di piano naturale inteso come un fattore d’ordine, si riconoscerà anche nel­ la ragnatela o nei nidi d’uccello la manifestazione di piani naturali sovraindividuali, poiché in entrambi i casi non abbiamo a che fare con la realizzazione di un obiettivo individuale. La nozione di istinto è utile solo a indicare il nostro imbarazzo: vi si ricorre solo se si decide di negare la pre­ senza di piani naturali sovraindividuali. Il problema è farsi una idea precisa di cosa sia un piano naturale, poiché non è né una sostanza né una forza. A tal fine, è utile fare riferimento a un esempio concreto. Per piantare un chiodo nel muro, non basta avere un ottimo piano d’azione se non si ha a disposizione un martello. Allo stesso modo, il miglior martello del mondo non è sufficien­ te se non si ha un progetto e si cerca il piantare il chiodo

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come capita. Quel che succede nel secondo caso è molto semplice: ci si dà una martellata sulle dita. Senza un piano, cioè senza le condizioni regolatrici del­ la natura che governano qualsiasi cosa, non avremmo una natura ordinata ma solo caos. I cristalli sono il prodotto di un piano naturale, e quando il fisico descrive la struttura delFatomo ricorrendo ai modelli di Bohr non fa altro che rendere manifesto l’oggetto della sua ricerca: i piani che regolano la natura minerale. Quando si passa a studiare gli ambienti animali emerge con particolare chiarezza l’importanza dei piani naturali che riguardano gli esseri viventi. Esplorare questo aspetto del problema rappresenta una delle sfide più affascinanti. Proprio per questo, non ci faremo distrarre e continueremo la nostra passeggiata alla scoperta degli ambienti animali. La figura 28 illustra i risultati ottenuti studiando un picco­ lo crostaceo, il paguro eremita. E stato dimostrato che il paguro utilizza, come immagine percettiva, uno schema spa­ ziale estremamente semplice. Tutti gli oggetti di una certa grandezza che possiedano forma cilindrica o conica possono assumere un significato biologico. Come mostra il disegno, lo stesso oggetto di forma cilindrica, in questo caso l’anemone di mare, può assume­ re significati diversi nell’ambiente del paguro, a seconda della tonalità emotiva (Stimmung) esibita dall’animale in quel momento. Le sei scene che compongono la figura ritraggono sem­ pre lo stesso paguro e lo stesso anemone di mare. Nella pri­ ma scena, al paguro sono stati tolti gli anemoni che di solito si trovano sul suo guscio; nella seconda gli è stata tolta pure la protezione fornitagli dalla conchiglia; nella terza, invece, il paguro è mantenuto a digiuno per parecchio tempo. Tutto

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ciò basta a provocare neH’animale tre tonalità emotive dif­ ferenti: in relazione a esse, il significato biologico dell’ane­ mone si trasforma. Nel primo caso, quando il guscio del paguro è privo degli anemoni che utilizza come difesa con­ tro l’attacco delle seppie, l’immagine percettiva dell’anemo­ ne assume una «tonalità difensiva» che emerge dalla sequen­ za di movimenti con la quale il paguro colloca l’anemone sulla sua conchiglia. Nel secondo caso, invece, per il paguro privo di conchiglia l’anemone assume una «tonalità abitati­ va» che si manifesta nei tentativi, vani, del piccolo crostaceo di entrarvi dentro. Nel terzo caso, infine, l’immagine per­ cettiva dell’anemone assume una «tonalità nutritiva»: il paguro comincia a mangiarlo. Tutto questo è particolarmente significativo perché di­ mostra che, già nell’ambiente degli artropodi, una «immagi­ ne operativa» può integrare e trasformare l’immagine per­ cettiva a seconda dell’azione in cui la si inserisce. Alcuni esperimenti con i cani chiariscono ancora meglio il punto. Il compito da svolgere era molto semplice e le rispo­ ste comportamentali fornite dai cani sono state inequivoche. Un cane è addestrato a saltare a comando: quando sente la parola «sedia», deve accucciarsi su una sedia posta davanti a lui. In un secondo tempo, la sedia viene tolta e il comando ripetuto. Il cane comincia, allora, a utilizzare come sedie tut­ ti gli oggetti sui quali riesce a salire. Quel che ne emerge è che un cospicuo numero di oggetti possiede la «tonalità di sedu­ ta»: casse, scaffali, addirittura uno sgabello rovesciato. Que­ sti oggetti possiedono tonalità di seduta per un cane, non cer­ to per un essere umano. Allo stesso modo, «tavolo» e «cesto» sono termini che per un cane assumono una tonalità particolare che dipende dal modo in cui può usare questi oggetti.

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30. La stanza per il cane. 28. L’anemone e il paguro.

29. La stanza per l’essere umano. 31. La stanza per la mosca.

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Ma il problema può essere sviscerato in tutti i suoi aspet­ ti solo se si prende in considerazione cosa accade con gli esse­ ri umani. Come facciamo a vedere in una sedia il sedersi, in una tazza il bere o in una scala il salire, cose che in nessun caso sono fornite dai sensi? In tutti gli oggetti di cui abbiamo imparato l’impiego vediamo le modalità d’uso con la stessa sicurezza con la quale ne identifichiamo il colore o la forma. Una volta portai con me un giovane uomo di colore, molto abile e intelligente, dall’Africa centrale fino a Dar es Salaam*. A fargli difetto era solo la conoscenza degli uten­ sili usati dagli europei. Dopo averlo portato di fronte a una scala, gli chiesi di salirci. Lui, per tutta risposta, mi disse: «Come si fa? N on vedo altro che bastoni e buchi». Solo dopo che un’altra persona fu salita, capì come bisognava fare. Da quel momento in poi, «i bastoni e i buchi» prese­ ro la «tonalità della salita» e furono riconosciuti come una scala. Il immagine percettiva dei «bastoni e buchi» è stata completata attraverso un’immagine operativa: è stato acquisito un nuovo significato che si manifesta come una nuova proprietà, cioè come una nuova «tonalità operativa», come una nuova «tonalità d’uso» (Leistungton). La reazione dell’uomo di colore ci insegna che, ogni qual volta facciamo uso di un oggetto del nostro ambien­ te, elaboriamo un’immagine operativa che fa parte in modo così intimo dell’immagine percettiva corrisponden­ te che gli oggetti finiscono con l’assumere proprietà nuo* [Fino al 1966 Dar es Salaam è stata la capitale della Tanzania. Anco­ ra oggi rappresenta la città più importante e il principale polo economi­ co del Paese. N ell’inverno del 1900, Uexkiill si reca a Dar es Salaam pres­ so un ricercatore tedesco, il professor Stuhlmann. Lì costruisce un picco­ lo acquario e si appassiona allo studio dei ricci di mare e dei problemi legati alle loro modalità di comportamento (Gudrun Uexkiill, Jakob von Uexkiill. Seine Welt und seine Umwelt, cit., pp. 47-50)].

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ve in grado di svelarne il significato. D ’ora in poi chiame­ remo queste proprietà «tonalità operative» (Wirkton). Nel caso in cui serva a compiere più di un’azione, lo stesso oggetto può possedere più immagini operative che, di volta in volta, daranno una tonalità diversa all’immagine percettiva. Una sedia può essere impiegata, all’occasione, come arma; in questo caso conterrà un’immagine operativa che si manifesterà nella tonalità della «percossa». Non solo in questo caso, tipicamente umano, ma anche nel caso del paguro, la tonalità emotiva del soggetto è determinante per la scelta dell’immagine operativa che, di volta in volta, con­ ferirà all’immagine percettiva la sua tonalità specifica. È ragionevole ipotizzare che le immagini operative si formino negli organi operativi centrali che governano il comportamento dell’animale. Nel caso in cui l’animale agisca solo mediante riflessi, come ad esempio il riccio, non ci saranno immagini opera­ tive. In linea di principio però è possibile riscontrarne la presenza anche in forme primitive del regno animale, come mostra l’esempio del paguro eremita. Se vogliamo utilizzare le immagini operative per com­ prendere meglio gli animali che vivono in ambienti molto diversi dal nostro, dobbiamo sempre tener presente che le immagini operative non sono altro che i comportamenti degli animali proiettati nel loro ambiente. Il modo in cui agisce l’animale dà significato alle immagini percettive gra­ zie alla tonalità operativa che queste assumono. Per comprendere il significato degli oggetti che hanno un’importanza vitale nell’ambiente di un animale, dobbia­ mo dunque dotare le loro immagini percettive di una tona­ lità operativa. Anche quando, come nel caso della zecca, non si può ancora parlare di un’immagine percettiva spa-

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zialmente strutturata, potremmo dire che i tre stimoli che per la zecca significano «preda» assumono il loro significa­ to grazie alle tonalità operative del «lasciarsi cadere», dell1«esplorare» e del «perforare». Di certo, i ricettori, che selezionano le vie d’accesso agli stimoli, svolgono un ruo­ lo importante; ma è solo il tono operativo a conferire al comportamento animale una sicurezza infallibile. Poiché dalle attività facilmente osservabili di un anima­ le è possibile dedurre le immagini operative corrisponden­ ti, non è difficile farsi una idea precisa anche degli oggetti che popolano l’ambiente di un organismo a noi sconosciu­ to. Quando una libellula vola verso un ramo per posarvisi, in quell’ambiente il ramo non rappresenta solo una marca percettiva, ma si contraddistingue per la tonalità operativa del «posarsi». Se teniamo conto della tonalità operativa, capiamo in che modo ciascun ambiente garantisca agli animali quella sicu­ rezza di comportamento che tanto ci sorprende. Potremmo dire che un animale nel suo ambiente può distinguere tanti oggetti quante sono le attività che è in grado di compiere. Dire che un animale possiede poche immagini operative per svolgere uno scarso numero di attività significa dire che il suo ambiente è formato da pochi oggetti. In questo caso, l’ambiente è più povero ma è anche più sicuro, poiché con pochi oggetti è più facile orientarsi. Se il paramecio possedesse un’immagine operativa delle proprie attività, il suo ambiente sarebbe composto da ogget­ ti tutti dello stesso tipo, caratterizzati dalla tonalità operati­ va dell’ostacolo. Non c’è dubbio che un ambiente del gene­ re darebbe tutta la sicurezza che si possa mai desiderare. Per un animale la quantità di oggetti che popolano il suo ambiente cresce proporzionalmente al numero di attività

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che è in grado di compiere. Questo numero aumenta nel corso della vita individuale di tutti gli animali capaci di fare esperienza. Ogni esperienza produce un adattamento in grado di far fronte a nuove impressioni: genera, così, nuo­ ve tonalità e immagini operative. Tutto ciò emerge con chiarezza se si pensa a cosa suc­ cede a un cane quando vive in un ambiente costellato di oggetti d’uso umani: impara a farli propri utilizzandoli a modo suo, anche se il numero di oggetti che impiega resta inferiore al nostro. E quel che cercano di mostrare le figu­ re 29-31. Queste immagini riproducono sempre la stessa stanza ma secondo punti di vista differenti: gli oggetti che la ammobiliano sono di colori diversi; ciascun colore indi­ ca le tonalità operative che assumono per l’essere umano, il cane e la mosca. Per quel che riguarda il nostro ambiente, le tonalità ope­ rative sono rappresentate in arancione per la sedia (tonalità di seduta), in rosa per il tavolo (tonalità del nutrimento) e in giallo e rosso per piatti e bicchieri (tonalità del bere e del mangiare). Il pavimento è grigio perché ha una tonalità motoria, mentre i libri e lo scrittoio sono lilla per ribadire che hanno un impiego specifico (la lettura e la scrittura). Anche la parete e il lampadario sono rappresentati con un colore diverso: la prima ha una tonalità operativa d’ostacolo (in verde), il secondo d’illuminazione (in bianco). Nell’ambiente del cane, i colori indicano le stesse tona­ lità operative che abbiamo visto valere per gli esseri umani. A cambiare sono la loro varietà e la loro estensione. Ci sono solo alcune tonalità (di seduta, di nutrimento, motoria e di illuminazione) tutto il resto assume la tonalità di ostacolo. Per il cane anche lo sgabello girevole non può assumere una tonalità di seduta, perché troppo liscio.

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cibo, cioè nei pressi della caffettiera, senza prestare la mini­ ma attenzione a tutto il resto. Qui risulta particolarmente facile distinguere l’ambiente della mosca dai suoi dintorni.

32. Gli oggetti nell’ambiente della mosca.

Infine, si vedrà che per la mosca il quadro cambia anco­ ra: tutta la stanza assume una tonalità motoria, eccezion fat­ ta per il lampadario (abbiamo già spiegato quale sia in que­ sto caso il suo significato) e per le stoviglie che si trovano sopra il tavolo. La figura 32 mostra bene la sicurezza con la quale la mosca, in un ambiente tanto semplice, si orienta nella stan­ za. Basta poggiare sul tavolo una caffettiera ancora bollente per far avvicinare le mosche. Queste, attirate dal calore, camminano sul tavolo, oggetto che per loro ha una tonalità operativa puramente motoria, del tutto diversa dalla nostra. Poiché le zampe di questi insetti sono dotate di ricettori gustativi la cui stimolazione provoca l’estroflessione della proboscide, le mosche tendono a rimanere lì dove trovano

8.

8. Percorsi conosciuti

Il modo più semplice per convincerci della diversità degli ambienti umani è farsi guidare in una zona scono­ sciuta da qualcuno pratico del posto. La guida segue con sicurezza un percorso che noi non riusciamo neanche a vedere. Nei dintorni è possibile individuare una moltitudi­ ne di piante e rocce, ma nell’ambiente della guida ce ne sono alcune che si distinguono da tutte le altre come fos­ sero degli indicatori stradali, sebbene su di esse non ci sia alcun segno per noi riconoscibile. Il sentiero ci sembra invisibile perché dipende intera­ mente dal singolo soggetto: è per questo motivo che una situazione del genere costituisce un problema tipicamente ambientale. Quello dei percorsi conosciuti è un problema spaziale che riguarda tanto lo spazio visivo quanto lo spa­ zio operativo. Questo dato emerge immediatamente dal modo in cui, per esempio, li descriviamo: gira a destra dopo la casa rossa, poi vai sempre dritto per un centinaio di passi e prosegui a sinistra. Per descrivere il percorso uti­ lizziamo tre tipi di marche percettive: i. marche visive; 2. assi del sistema di coordinate; 3. passi d’orientamento. In questo caso, non utilizziamo forme d’orientamento minime, cioè le unità di movimento più piccole a nostra disposizione, ma quell’insieme di impulsi motori elemen-

PERCO RSI CO N

tari che sono necessari per fare un passo. Quando cammi­ niamo, il nostro passo ha più o meno sempre la stessa estensione, tanto che fino a non troppo tempo fa era impiegato come unità di misura. Se, ad esempio, ordino a qualcuno di fare un centinaio di passi, intendo che egli debba imprimere alle proprie gambe per cento volte la stessa spinta, con il risultato che la distanza percorsa sarà più o meno la stessa a prescindere da chi la compie. Quando percorriamo più volte una certa distanza, uti­ lizziamo come segno d’orientamento la spinta costante che diamo al nostro corpo durante il cammino: è così che pos­ siamo fermarci tutti nello stesso posto anche senza aver prestato attenzione alle marche visive che abbiamo intor­ no. Quando seguiamo un percorso conosciuto, a noi noto ma invisibile per gli altri, sono proprio i segni direzionali a svolgere un ruolo particolarmente importante. Sarebbe molto interessante osservare il modo in cui il problema dei percorsi conosciuti si presenta nei vari am­ bienti animali. In molti casi, indubbiamente, questi per­ corsi dipendono per lo più da marche percettive di tipo olfattivo e tattile. Sono decine di anni che numerosi ricercatori america­ ni cercano di stabilire il tempo necessario a un animale per apprendere un percorso, osservando in quanto tempo le specie più diverse riescono a orientarsi in un labirinto. Purtroppo, però, è sfuggita loro la questione dei percorsi conosciuti: non hanno cercato di capire quali siano i siste­ mi di coordinate e le marche percettive (visive, tattili e olfattive) impiegate dagli animali per ritrovare la strada. Il fatto che siano le nozioni stesse di destra e sinistra a costi­ tuire un problema non li ha neanche sfiorati. N on si sono nemmeno posti il problema del numero di passi compiuti

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8 . P E R C O R S I C O N O S C IU T I

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34. Il percorso conosciuto delle taccole.

33.II cieco con il cane guida.

da ogni singolo animale per orientarsi, perché non si sono resi conto che anche per l’animale il passo può servire da unità di misura. Insomma, questo problema dovrà essere affrontato ripartendo da zero, malgrado l’enorme mole di materiale empirico che ormai si è accumulata. La scoperta dell’esistenza di percorsi conosciuti nel­ l’ambiente del cane ha, oltre che un interesse teorico, una grande importanza pratica, qualora ci si occupi, ad esem­ pio, del lavoro che deve svolgere un cane per ciechi.

La figura 33 mostra un cieco che cammina con il suo cane guida. Il cieco vive in un ambiente molto ristretto: non conosce la strada che deve percorrere se non procedendo a tastoni con il piede o con il bastone. La strada che egli attra­ versa è avvolta nella più completa oscurità. Il cane guida lo riporta a casa seguendo un percorso preciso. La difficoltà nell’addestrare il cane consiste nel fatto che occorre far entrare nel suo ambiente alcune marche percettive che sono importanti per il cieco ma non per l’animale. Il cane dovrà, ad esempio, aggirare ostacoli contro i quali il cieco potreb­ be andare a sbattere. E particolarmente difficile insegnare al cane marche percettive come la cassetta delle lettere o una finestra, oggetti che questo animale normalmente non prende neanche in considerazione. Come marca percettiva è difficile introdurre nel suo ambiente anche il marciapiede,

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contro il quale il cieco può inciampare, poiché il cane, quando corre libero, non vi fa caso. La figura 34 illustra un comportamento tipico delle gio­ vani taccole. Come si vede, gli uccelli volano intorno alla casa seguendo traiettorie a semicerchio: riescono a tornare al punto di partenza solo invertendo la rotta, cioè seguen­ do il percorso che già hanno conosciuto all’andata. Se, inve­ ce, giungono nel luogo dal quale hanno spiccato il volo dopo aver fatto tutto il giro della casa non sono in grado di riconoscerlo. Recentemente, è stato scoperto che i ratti seguono per lungo tempo i percorsi ai quali sono abituati, anche se per arrivare a destinazione potrebbero prendere una strada più breve e diretta. Il problema è stato studiato nei pesci combattenti: innanzitutto si è constatato che in questi animali tutto quel che è sconosciuto viene affrontato con un certo grado di repulsione. In un acquario, è stata posta una lastra di vetro con due fori nei quali i pesci potevano infilarsi facilmente. Se si collocava del cibo dietro uno dei fori, prima che il pesce, superata l’esitazione, vi si infilasse, passava un po’ di tem­ po. Se si collocava il cibo in una posizione leggermente diversa, non dietro ma accanto al primo foro, l’animale andava subito a mangiarlo. Ma se il cibo veniva spostato die­ tro al secondo buco, il pesce continuava a passare dentro il primo evitando di infilarsi in una cavità per lui sconosciuta. Come mostra la figura 35, in un altro acquario è stata costruita una parete divisoria oltre la quale si trovava del cibo, in modo che il pesce fosse costretto a spingersi dal­ l’altra parte della parete. Se il cibo veniva collocato al di là del divisorio, il pesce seguiva sempre lo stesso percorso anche quando la parete era disposta in modo tale che il

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35. Il percorso conosciuto del pesce combattente.

pesce avrebbe potuto raggiungere il cibo in modo più faci­ le e veloce, per via diretta. In questo caso il percorso cono­ sciuto è determinato da marche ottiche e direzionali, forse anche da quelli che prima abbiamo chiamato passi d’orien­ tamento. Tirando le somme, possiamo dire che i percorsi cono­ sciuti favoriscono la vita deU’animale: sono come piste flui­ de che facilitano il cammino di un corpo all’interno di una massa vischiosa che oppone continuamente resistenza.

IH D IM O R A E T E R R

9.

9- Dimora e territorio

Esiste una stretta relazione tra i percorsi conosciuti e il problema della dimora (Heim) e del territorio (Heimat). Come punto di partenza, la cosa migliore è prendere in esa­ me alcune ricerche sugli spinarelli maschi. L’ingresso del loro nido è contrassegnato da un filo colorato (forse si trat­ ta di una marca visiva per indicare la strada ai piccoli). All’in­ terno del nido, i piccoli crescono protetti dal padre: è questa la loro dimora (Heim). Occorre precisare, però, che la dimo­ ra non coincide con il territorio, con quel luogo sicuro che potremmo definire la patria (Heimat) dell’animale. Due spi­ narelli hanno costruito il proprio nido negli angoli opposti di un acquario, dividendolo in due mediante una frontiera invisibile (figura 36). L’area che appartiene al nido è il terri-

36. Dimora e territorio dello spinarello.

torio dello spinarello che, per questa ragione, lo difende con energia e con successo anche se si tratta di combattere con­ tro conspecifici di taglia più grande. All’interno del proprio territorio lo spinarello è sempre vittorioso. Quello del territorio è un tipico problema ambientale, perché rappresenta una creazione puramente soggettiva: neanche la descrizione più precisa dei dintorni di un ani­ male fornirebbe indicazioni molto utili per sapere in cosa consista. Quali animali hanno un loro territorio e quali no? Una mosca che va e viene intorno a un lampadario, ad esempio, non ne possiede nessuno. Al contrario, un ragno che tesse la sua tela possiede una dimora che rappresenta, allo stesso tempo, il suo territorio. ,—

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37. Dimora e territorio della talpa.

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Si può dire lo stesso per la talpa (figura 37). Anch’essa costruisce una dimora che al tempo stesso è il suo territo­ rio, un sistema regolare di gallerie che si estende sottoterra come la tela di un ragno. Il suo territorio non è però costi­ tuito solo dalle gallerie, ma anche dalle porzioni di terra che vi si trovano comprese. Abbiamo potuto accertare che, gra­ zie a un olfatto molto acuto, questo animale non trova cibo solo all’interno dei tunnel, ma riesce a individuare la sua preda anche nei terrapieni circostanti, fino a 5 o 6 centime­ tri di profondità rispetto alla zona che ha già scavato. Poiché in cattività il sistema di tunnel diventa molto fitto, la talpa controlla praticamente tutto lo spazio compreso tra una gal­ leria e l’altra; se invece lo osserviamo all’aperto, dove c’è più spazio, questo piccolo roditore controlla olfattivamente solo le porzioni di terreno più vicine alle gallerie. E, come un ragno, percorre più volte questa rete andando a caccia di tutte le prede che vi si smarriscono. Al centro del labirinto, la talpa costruisce con foglie sec­ che il proprio nido: è questa la sua dimora, nella quale tro­ va riparo quando dorme. Per il piccolo roditore, i corridoi costituiscono dei percorsi conosciuti che possono essere attraversati avanti e indietro con facilità e rapidità. Le gal­ lerie rappresentano non solo un terreno di caccia, ma anche il territorio da difendere a costo della vita contro le incur­ sioni dei confinanti. In un elemento, dal nostro punto di vista, del tutto uni­ forme, è sorprendente che la talpa, animale completamente cieco, sia in grado di orientarsi senza commettere errori e con un’abilità stupefacente. Se lo si addestra a raggiungere un luo­ go dove c’è del cibo, questo animale è in grado di giungere di nuovo a destinazione anche se si fanno crollare tutti i tunnel d’accesso. Ciò dimostra che non è possibile che la talpa sia

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guidata da marche olfattive: il suo è un puro spazio operativo. È necessario ipotizzare che la talpa sia capace di ritrovare un percorso già noto per mezzo dei passi d’orientamento. Le marche tattili legate ai passi d’orientamento sono importanti per la talpa come per qualsiasi altro animale privo di organi visivi. È lecito pensare che le marche percettive direzionali e i passi d’orientamento si uniscano tra loro per formare uno schema spaziale. Se i tunnel vengono distrutti, completamen­ te o in parte, la talpa è capace di costruire una nuova rete di gallerie simile alla precedente, una nuova esteriorizzazione del suo schema spaziale. Anche le api costruiscono la loro dimora, ma la zona che circonda l’alveare e nella quale si trova il loro nutri­ mento costituisce per questi insetti solo un terreno di cac­ cia e non il loro territorio, da difendere contro le incursio­ ni nemiche. Per contro, nel caso delle gazze si può parlare di dimora e territorio, perché questi uccelli costruiscono il loro nido all’interno di uno spazio nel quale non è tollera­ ta la presenza di nessun conspecifico. Probabilmente moltissimi animali difendono il loro ter­ reno di caccia contro i propri conspecifici facendolo diven­ tare il loro territorio. Se si facesse il conto di quanti sono i territori individuali in una data regione per una data spe­ cie, si otterrebbe una carta politica le cui zone di confine sarebbero determinate da conflitti incessanti. Si vedrebbe, inoltre, che nella maggior parte dei casi non rimane alcuno spazio libero e che ogni territorio confina con un altro. E curioso notare come per molti uccelli rapaci esista una zona neutra tra il nido e la zona di caccia nella quale non attaccano la preda. Gli ornitologi suppongono, giustamen­ te, che questa differenziazione dell’ambiente sia imposta dalla natura per impedire agli uccelli predatori di attaccare

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38. Cartina del giardino zoologico di Amburgo.

le loro stesse nidiate. Altrimenti, le prime volte in cui un piccolo lascia il proprio nido, spicca il volo e passa le gior­ nate a saltare da un ramo a un altro nelle vicinanze corre­ rebbe il rischio di cadere vittima dei suoi stessi genitori. I piccoli, invece, vivono senza pericolo nella zona neutra nei pressi del nido. La zona protetta è usata da molti uccelli canterini come luogo di nidificazione e covata: lì possono crescere i loro piccoli senza pericolo, sotto la protezione dei loro vicini predatori. Il modo in cui i cani marcano il loro territorio merita particolare attenzione. La figura 38 mostra la cartina del giardino zoologico di Amburgo, sulla quale sono stati segnati i luoghi in cui due cani maschi hanno l’abitudine di urinare nel corso della loro uscita quotidiana.

Per lasciare la loro marca olfattiva, scelgono luoghi facil­ mente riconoscibili anche per l’occhio umano. Se poi si porta­ no a spasso due esemplari contemporaneamente, i cani comin­ ciano a fare a gara a chi riesce a marcare per primo il territorio.

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Un cane dal temperamento vivace ha la tendenza, nel momento in cui ne incontra un secondo che non conosce, a lasciare subito il proprio biglietto da visita urinando sul primo oggetto che gli capita a tiro. Nello stesso modo, quando si trova in un territorio marcato dall’odore di un altro cane, ispeziona con cura tutte le marche olfattive e le copre con la propria urina. Al contrario, un esemplare con un carattere più remissivo scivola via timoroso lungo le tracce odorose del suo conspecifico, senza lasciare alcun segno del proprio passaggio. Anche i grandi orsi dell’America del N ord marcano il territorio. Come si vede nella figura 39, l’orso si alza in posi­ zione eretta e si strofina con la schiena e il muso contro un pino visibile da lontano, fino a staccarne la corteccia. In questo modo segnala agli altri orsi di girare al largo ed evi­ tare le zone che fanno parte del territorio di un esemplare tanto imponente.

io. Compagni di vita

È vivida nella mia memoria l’immagine di un povero anatroccolo che era stato covato da un tacchino. Si era tal­ mente adattato alla sua famiglia adottiva che non entrava mai nell’acqua ed evitava accuratamente qualunque contat­ to con gli anatroccoli che ne uscivano tutti puliti. Poco dopo, mi era stata portata una giovane anatra selva­ tica che cominciò a seguirmi. Se mi sedevo, questa posava la sua testa sui miei piedi. Avevo l’impressione che fossero i miei stivali ad attrarla, finché cominciò a seguire anche il mio cane, un bassotto nero. Arrivai alla conclusione che fos­ se sufficiente un oggetto nero in movimento per suscitare nell’anatra l’immagine della madre e per farla rimanere lì vicino, finalmente ricongiunta alla sua famiglia. Oggi dubito che le cose stessero in quel modo. Successi­ vamente ho saputo che appena i pulcini dell’oca grigia vengo­ no tolti dall’incubatrice devono essere messi in una borsa e depositati vicino a un gruppo di oche affinché possano legar­ si ai conspecifici. Se invece li si lascia per più tempo con gli esseri umani, i pulcini si rifiutano di stare con i propri simili. Si tratta di un errore che riguarda le immagini percettive, molto frequente tra gli uccelli. Ne sappiamo, però, ancora troppo poco perché si possa giungere a delle conclusioni certe.

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In precedenza (figura 20) abbiamo visto cosa succede quando una taccola è a caccia di cavallette: se la preda resta immobile, l’uccello non possiede alcuna immagine percet­ tiva adatta a una situazione del genere. In questo caso la cavalletta scompare daH’ambiente delle taccole. Le figure 40a e 40b propongono una situazione simile: se si trova di fronte a un gatto che tiene un suo simile tra i denti, la taccola assume una postura d’attacco. Al contra­ rio, il volatile non aggredisce mai un gatto che non ha nien­ te in bocca. A prima vista, sembra proprio che ci troviamo di fronte a un comportamento mirato: la taccola diventa aggressiva solo se il gatto tiene in bocca qualcosa che gli impedisce di morderla. In verità si tratta solo di una reazio­ ne conforme a un piano naturale, del tutto indipendente da una qualunque forma di comprensione di quel che accade. È stato constatato, infatti, che le taccole assumono la stes­ sa posizione di attacco anche se si trovano di fronte a un costume da bagno nero. Al contrario, se il gatto tiene in bocca una taccola bianca non subisce alcun attacco. A sca­ tenare la reazione aggressiva è dunque un’immagine per­ cettiva ben precisa, quella prodotta da un «oggetto nero portato». U n’immagine percettiva così generica può produrre facilmente confusione, come abbiamo visto anche nel caso del riccio: nel suo ambiente nuvole e barche sono continuamente scambiate per l’unico vero nemico, il pesce. Il riccio, infatti, risponde sempre allo stesso modo a qualunque cosa oscuri il suo orizzonte. Nel caso degli uccelli, però, una spiegazione tanto ele­ mentare non è sufficiente. Per i volatili che vivono in gruppo, esiste una serie di situazioni contraddittorie che mostrano la confusione pro­

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40a. La taccola pronta ad attaccare un gatto.

40b. La taccola pronta ad attaccare un costume da bagno.

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dotta da un’immagine percettiva sbagliata. Abbiamo com­ preso come inquadrare il problema solo di recente grazie a una taccola addomesticata di nome «Cioc»*. Le taccole si legano per tutta la vita a un «compagno» {Kumpan), un conspecifico insieme al quale svolgono le attività più diverse. Se si alleva una taccola, questa non rinuncia affatto ad avere un compagno ma, se non ne trova uno che appartenga alla propria specie, adotta di volta di volta un sostituto con il quale intraprendere nuove attività. Konrad Lorenz** è stato così gentile da inviarci le figure 4ia-4id, nelle quali si può vedere questo aspetto del com­ portamento delle taccole. Da piccola, Cioc aveva eletto a compagno materno Lorenz, il suo addestratore. Lo seguiva dappertutto e, se aveva fame, indirizzava verso di lui il suo richiamo (figura 41a). Quando imparò a trovarsi il cibo da sola, elesse a

* [Come racconta Lorenz in uno dei suoi libri più celebri, L’anello del Re Salomone (Adelphi, Milano 1989, p. 53; ed. or. Er redete mit dem Vieh, den Vögeln und den Fischen, Wien 1949) il nome dell’animale non costituisce altro che la traslitterazione onomatopeica del verso emesso dal volatile per richiamare l’etologo, il suo fedele compagno sostitutivo]. ** [Konrad Lorenz (1903-1989) è considerato il fondatore dell’etolo­ gia contemporanea. N ell’estate del 1933, Uexkùll tiene a Vienna alcune conferenze. In questo periodo, fa visita a Lorenz nella sua residenza di Altenberg (Richard Burckhardt, Patterns o f Behaviour: Konrad Lorenz, N ikko Tinbergen and the Founding o f Ethology, University of Chicago Press, Chicago, 2005). Negli anni Trenta, Lorenz ricambia la visita recan­ dosi all’Istituto di ricerca ambientale di Amburgo (cfr. Torsten Rüting, H istory and significance o f Jakob von Uexküll and o f his Institute in Hamburg, «Sign Systems Studies», 32, 2004, p. 38). Lorenz dedica lo S tu ­ dio a cui si fa qui riferimento, un testo particolarmente importante per­ ché in esso compare per la prima volta il concetto di imprinting, proprio a Uexküll (D er Kumpan in der U m welt des Vogels, «Journal für Orni­ thologie», 83, 193J, pp. i37"2I3» 289-413)].

4ia-d. La taccola Cioc e i suoi quattro compagni.

compagna sessuale la domestica, per la quale eseguiva le danze nuziali caratteristiche della specie (figura 41b). Tem­ po dopo, trovò una giovane taccola che divenne il suo com­ pagno filiale adottivo e cominciò a nutrirla (figura 41c). Quando era in procinto di partire per voli più lunghi cerca­ va di insegnare a Lorenz a prendere il volo. Poiché i suoi sforzi rimanevano infruttuosi, trovò un’altra taccola e ne fece la sua compagna di volo (figura 4id). Come abbiamo visto, nell’ambiente della taccola non esiste un’immagine

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percettiva unica per caratterizzare il compagno, e d’altron­ de non sarebbe possibile, poiché il ruolo del compagno cambia spesso. Nella maggior parte dei casi, l’immagine percettiva del compagno con funzione materna non sem­ bra fissata sin dalla nascita, sia per quel che riguarda la for­ ma sia il colore. Per contro, questa immagine è determina­ ta spesso da un fattore acustico, cioè dalla sua voce. «Bisognerebbe», scrive Lorenz, «studiare un caso speci­ fico di compagno con funzione materna per capire quali, tra i segni identificativi della madre, siano innati e quali acquisiti. La cosa inquietante è che se portiamo via i cuc­ cioli dalla madre qualche giorno o addirittura alcune ore dopo la schiusa (nelle oche grigie, cfr. Heinroth), si potreb­ be giurare che questi segni siano innati». Lo stesso accade con il compagno sessuale. Anche in questo caso, l’incontro con un compagno sostitutivo si inscrive così profondamente nell’animale da formare una immagine percettiva inalterabile, con il risultato che, a quel punto, vengono rifiutati come partner sessuali anche mem­ bri della propria specie. Un esempio divertente può chiarire questo punto. Allo zoo di Amsterdam si trovava una giovane coppia di tara­ busi’'". Il maschio si era «invaghito» del direttore dello zoo. Per questo motivo, il direttore decise di non farsi vedere per un lungo periodo di tempo per abituare il maschio alla com­ pagnia della femmina che viveva nella sua stessa gabbia. Alla fine, i due uccelli si accoppiarono, e quando la femmina sta­ va covando le uova, il direttore andò a vedere come anda-* * [Il tarabuso è un uccello solitario che vive nelle paludi e nei canne­ ti. Ha un’apertura alare di circa un metro e una lunghezza media di 7 5 centimetri. Poco diffuso in Italia, oggi è possibile avvistarlo nel Parco regionale di Colfiorito in Umbria].

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vano le cose. Cosa accadde? Quando il maschio riconobbe il suo vecchio partner sessuale, scacciò la femmina dal nido e cominciò a fare una specie di inchino verso il direttore, cercando poi di spingerlo verso le uova per fargli prosegui­ re la cova. L’immagine percettiva del compagno con funzione filia­ le sembra, in genere, definita in modo più preciso. Verosi­ milmente, a giocare un ruolo determinante è la bocca aper­ ta del piccolo. Ma anche in questo caso occorre osservare che alcune specie di polli, come gli Opington::', possono confondere i piccoli della specie con cuccioli di gatto o di coniglio. Anche il compagno sostitutivo scelto per il volo è iden­ tificato in modo poco preciso. Torniamo alla taccola alle­ vata da Lorenz. Abbiamo visto che per Cioc anche un costume da bagno nero può trasformarsi in un nemico, cioè possedere quella specifica tonalità operativa in grado di suscitare nella taccola una reazione aggressiva. Siamo final­ mente in grado di dire con precisione cosa succede: in situazioni del genere abbiamo a che fare con un nemico sostitutivo. Dato che l’ambiente della taccola è popolato da parecchi nemici, l’incontro con un nemico sostitutivo non incide sul riconoscimento dei veri nemici dell’animale, soprattutto se questo incontro avviene solo una volta. Caso diverso, invece, è quello del compagno: l’individuazione di un compagno sostitutivo rende impossibile l’incontro con il compagno vero e proprio perché per l’ambiente della tac­ cola costituisce un unicum. Una volta che l’immagine per­ cettiva della domestica ha assunto la tonalità operativa * [È una specie originariamente inglese, nativa del piccolo borgo del Kent dal quale prende il nome. Sono polli dalla grossa corporatura e dal piumaggio folto e soffice].

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esclusiva delP«amore», tutte le altre immagini percettive diventano inefficaci. Nell’ambiente della taccola (in un modo che non è pri­ vo di analogie con quel che accade nelle popolazioni pri­ mitive) gli esseri viventi, cioè gli oggetti in movimento, si distinguono in due classi: da un lato le taccole, dall’altro le non-taccole. Ma è l’esperienza individuale di ciascun mem­ bro della specie a stabilire dove cada il confine tra i due gruppi: è per questa ragione che possono verificarsi errori grotteschi di identificazione come quelli che abbiamo visto sopra. Per le taccole, a determinare se si abbia a che fare con un conspecifico non è solo l’immagine percettiva ma anche l’immagine operativa corrispondente, prodotta dagli incon­ tri che si susseguono nella vita di ogni singolo esemplare. È questo a determinare quale immagine percettiva assume­ rà la tonalità di «compagno».

11. Immagine e tonalità di ricerca

Riprenderei il nostro discorso partendo da due esem­ pi, tratti dalla mia esperienza personale, in grado di mostrare con chiarezza in cosa consista l’immagine di ricerca, un fattore che incide profondamente su gran par­ te degli ambienti. Già da parecchio tempo ero ospite di un amico: quando mangiavamo, trovavo sempre davanti a me una brocca di terracotta. U n giorno il domestico la ruppe e la sostituì con una caraffa di vetro. Durante il pasto, cer­ cai la brocca senza trovarla. Lo scintillio dei piatti e delle posate si ricompose nella forma di una caraffa solo quan­ do il mio amico mi assicurò che l’acqua si trovava lì, allo stesso posto di sempre. U n caso del genere (figura 42) sug­ gerisce che l’immagine di ricerca è in grado di disattivare l’immagine percettiva. Ma analizziamo il secondo esempio. U n giorno entro in un negozio perché devo saldare un grosso conto e, per que­ sto, tiro fuori una banconota da 100 marchi. Deposito sul bancone la banconota che però, essendo nuova, è rigida e rimane dritta sul lato. Quando chiedo alla commessa di darmi il resto, questa mi risponde dicendomi che non ho ancora pagato. Invano cerco di persuaderla che il denaro si trova proprio sotto il suo naso. La commessa finisce con l’arrabbiarsi, perché esige che io paghi senza farle perdere

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I I . IM M A G IN E E T O N A L IT À D I R IC E R C A

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Organo percettivo

4 3 .1 meccanismi percettivi.

42. L’immagine di ricerca si sovrappone all’immagine percettiva.

altro tempo. A quel punto, sfioro la banconota con l’indi­ ce girandola in modo da farla cadere sul bancone. Alla ragazza sfugge un gridolino, prende il biglietto e comincia a toccarlo con apprensione come temendo che possa dis­ solversi di nuovo nell’aria. Pure in questo caso l’immagine di ricerca disattiva l’immagine percettiva: senza dubbio, anche il lettore avrà fatto delle esperienze simili, nelle qua­ li si ha la sensazione di essere vittima di una stregoneria. La figura 43, già pubblicata nella mia Biologia, ha il pre­ gio di mettere in evidenza i meccanismi che, se innescati, producono nell’uomo i vari processi percettivi. Mettiamo

una campana davanti a una persona e cominciamo a farla risuonare. Nei suoi dintorni la campana assume il ruolo di una fonte stimolativa che, attraverso le onde sonore, arriva fino all’orecchio (processo fisico). Nell’orecchio, le onde sono trasformate in eccitazioni nervose che giungono fino all’organo percettivo presente nel cervello (processo fisio­ logico). Le cellule percettive e i loro segnali percettivi entra­ no allora in gioco e proiettano nell’ambiente un carattere percettivo (processo psicoidale). Se le onde sonore arrivano all’orecchio quando le onde luminose colpiscono l’occhio, i rispettivi segni percettivi, suoni e colori, si unificano grazie a uno schema che, traspo­ sto nell’ambiente, diventa un’immagine percettiva. A tal proposito, possiamo utilizzare la figura 43 anche per chiarire il funzionamento delle immagini che guidano i

13 B

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processi di ricerca. In questo caso, la campana deve essere collocata al di fuori del campo visivo. I segnali sonori sono trasposti spontaneamente nell’ambiente circostante. A essi è legata un’immagine ottica che svolge la funzione di imma­ gine di ricerca. Se, in seguito, la campana entra nel campo visivo, l’immagine percettiva che si forma in quel momen­ to si trova a coincidere con l’immagine di ricerca. Ma se le due differiscono troppo l’una dall’altra, può accadere che l’immagine di ricerca disattivi l’immagine percettiva, come negli esempi visti prima. Di sicuro, nell’ambiente del cane esistono immagini di ricerca. Quando il padrone lancia un bastone per farselo riportare, il cane possiede un’immagine ben precisa dell’og­ getto (figura 44a-b). U n caso del genere offre la possibilità di studiare in che misura l’immagine di ricerca corrisponda all’immagine percettiva. Quando, dopo un lungo digiuno, il rospo mangia un lombrico, è facile che poi si precipiti anche su un fiammi­ fero, poiché ne ricorda la forma. Come suggerisce la figu­ ra 45, per l’anfibio il lombrico ha svolto la funzione di immagine di ricerca. Per contro, se il rospo ha placato la propria fame mangiando un ragno, sarà guidato da un’im­ magine diversa: cercherà di addentare del muschio oppure qualche formica, cosa che però gli farà molto male. N on sempre cerchiamo un oggetto solo per mezzo di un’immagine percettiva: molto spesso ci serviamo anche di un’immagine operativa. Di solito non cerchiamo una sedia in particolare, ma qualcosa su cui sederci, cioè un oggetto con una determinata tonalità d’uso. In questo caso, non si può parlare di immagine, bensì di tonalità di ricerca. L’importanza del ruolo svolto dalla tonalità di ricerca negli ambienti animali emerge con nettezza dagli esempi,

1 1 . IM M A G IN E E T O N A L IT À D I R IC E R C A

44a-b. Immagine di ricerca del cane.

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12. Gli ambienti magici

45. Immagine di ricerca del rospo.

già visti, che riguardano il paguro e Fanemone di mare. Ora possiamo definire con maggiore precisione quel che abbia­ mo chiamato «tonalità emotiva» (Stimmung) del paguro: si tratta di tonalità di ricerca che variano a seconda che il cro­ staceo attribuisca all’immagine percettiva una tonalità pro­ tettiva, nutritiva o abitativa. Il rospo affamato comincia a cercare del cibo mediante una tonalità di ricerca molto generica: entra in possesso di un’immagine di ricerca ben determinata solo nel momento in cui mangia un lombrico o un ragno.

Senza dubbio esiste una differenza di fondo tra i dintor­ ni che noi esseri umani vediamo estendersi intorno agli ani­ mali e l’ambiente che questi hanno costruito, pieno di ogget­ ti percettivi. Finora gli ambienti sono stati considerati, come regola generale, il prodotto dei segni percettivi attivati da sti­ moli esterni. Tuttavia l’immagine di ricerca, le tracce che segnano i percorsi conosciuti e la delimitazione del territo­ rio rappresentano eccezioni alla regola: non è possibile ricondurli ad alcuno stimolo esterno, perché costituiscono libere elaborazioni soggettive. Queste elaborazioni si sono formate nel corso di esperienze individuali ripetute. Se ora facciamo un passo avanti, possiamo entrare in ambienti nei quali si verificano fenomeni impressionanti, percepiti solo dal soggetto che li abita e che si riferiscono non a un fatto ma a un’esperienza soggettiva eccezionale. Definiremo questi ambienti magici. Prendiamo in esame un caso in grado di mostrare l’in­ tensità con la quale i bambini, ad esempio, vivono in ambienti magici. Nel libro Padeuma, Frobenius* parla di una bambina che gioca tranquillamente con una scatola di fiammiferi che utilizza per raccontarsi la favola di Hänsel e * [Leo Frobenius (1873-1938), etnologo e studioso delle civiltà afri­ cane].

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Gretel: la scatola è usata al posto della casa di panpepato, i due bambini e la strega cattiva sono impersonati da tre fiammiferi. All’improvviso la bambina grida: «Portate via la strega, non posso più guardare quella faccia cattiva!». In questa esperienza tipicamente magica (si veda la figura 46), la strega esiste realmente nell’ambiente della bambina. Diversi ricercatori hanno spesso riscontrato sul campo il verificarsi di esperienze del genere presso le popolazioni pri­ mitive. Si ritiene che queste popolazioni vivano in un mondo magico nel quale le apparizioni fantastiche si mescolano con gli oggetti percepiti attraverso i sensi. Persino chi non pre­ stasse troppa attenzione a fenomeni del genere, non potreb­ be fare a meno di accorgersi che esperienze dello stesso tipo si verificano anche in alcuni ambienti della civile Europa. Il nostro problema è comprendere se anche gli animali vivano in ambienti che sarebbe lecito definire magici. A proposito dei cani, esistono diversi aneddoti che occorre­ rebbe, però, sottoporre a vaglio critico. In linea generale, si può convenire sul fatto che il modo in cui il cane lega tra

47. Lo storno e la mosca immaginaria.

46. L’apparizione magica della strega.

loro le sue esperienze è di tipo magico, più che logico. In tal senso, il ruolo assunto dal padrone nell’ambiente del cane è sicuramente concepito in termini magici e non è cer­ to scomposto in relazioni di causa ed effetto. Un mio amico ricercatore ha potuto osservare un feno­ meno senza dubbio magico in un giovane storno che non aveva mai avuto occasione né di vedere né di dar la caccia a una mosca perché era stato allevato al chiuso, dentro una stanza allestita per quello scopo (cfr. figura 47). A volte, lo storno sembrava comportarsi in modo piuttosto strano: si precipitava su un oggetto invisibile, poi cercava di affer­ rarlo, lo portava dove aveva costruito il proprio nido e poi si metteva a colpirlo con il becco, esattamente come fanno

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48. Il percorso magico seguito dalla larva del bruco.

gli storni con le mosche che sono riusciti a catturare. Dopo di che, inghiottiva la sua preda invisibile. N on ci sono dubbi: lo storno vede una mosca immaginaria. Il suo ambiente si è caricato così tanto della tonalità «cibo» che, anche senza la presenza di uno stimolo sensoriale, l’immagine operativa della cattura attiva l’immagine percettiva corrispondente e, di conseguenza, tutta la serie di movi­ menti ora descritta. Questa osservazione fornisce un indizio che ci consen­ te di interpretare come magici molti comportamenti ani­ mali altrimenti incomprensibili. La figura 48 mostra il percorso seguito dalla larva del bruco, studiato da Fahre. La larva scava un canale all’inter­ no dei piselli quando questi sono ancora teneri, fino a rag-

1 2 . G L I A M B IE N T I M A G IC I

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giungerne la superficie. Una volta divenuto adulto, il coleot­ tero usa il canale per uscire dal pisello, che nel frattempo si è fatto meno tenero. È chiaro che si tratta di un comporta­ mento che obbedisce a un piano naturale, ma totalmente privo di senso dal punto di vista della larva, poiché questa potrà ricevere lo stimolo sensoriale che porterà l’animale a uscire dal suo nido solo quando si sarà trasformata in co­ leottero. Nessun segno percettivo indica alla larva la strada da seguire, una via che non ha mai battuto e che deve per­ correre se non vuole fare una brutta fine, una volta subita la metamorfosi. Il percorso si dispiega davanti a lei con l’in­ tensità tipica di un’apparizione magica. Invece che con un percorso conosciuto per mezzo dell’esperienza, qui abbia­ mo a che fare con un percorso innato. Le figure 49 e 50 mostrano altri due esempi di percorsi innati. La femmina del punteruolo* taglia le foglie delle betulle (che forse riconosce dal sapore) tracciando una linea ondulata sempre della stessa forma. Il taglio le consente di arrotolare la foglia fino a farne un cartoccio per poi depor­ vi le uova. Anche se il punteruolo non ha mai fatto quel percorso e nonostante la foglia non abbia in sé nulla che ne indichi la traiettoria, per il coleottero la strada da seguire è resa evidente dall’intensità di un’apparizione magica. Lo stesso discorso vale per gli uccelli migratori: un per­ corso innato li guida attraverso i continenti lungo traietto­ rie che solo loro sono in grado di vedere. Ciò vale sicura­ mente per i giovani uccelli che si mettono in viaggio senza i genitori, mentre per gli altri non è possibile escludere un processo di apprendimento. Come nel caso dei percorsi conosciuti dei quali abbiamo parlato finora, anche i percor* [Coleottero infestante dannoso per l’agricoltura].

A M B IE N T I A N IM A L I E A M B IE N T I U M A N I

49. Il percorso magico seguito dal punteruolo.

50. Il percorso magico seguito dagli uccelli migratori.

12. G L I A M B IE N T I M A G IC I I4 7 si innati riguardano tanto lo spazio visivo quanto quello operativo. L’unica differenza che esiste tra i due tipi di percorso è che mentre nel percorso conosciuto l’esperienza fa sì che una serie di segni percettivi e una serie di segni operativi si leghino tra loro, nel percorso innato la stessa serie di segni si produce in modo immediato, per mezzo di un’apparizio­ ne magica. Per un osservatore esterno all’ambiente, il percorso co­ nosciuto è invisibile tanto quanto quello innato. Se si am­ mette che per l’animale il percorso conosciuto costituisca un elemento reale del proprio ambiente, cosa della quale non abbiamo modo di dubitare, non c’è motivo di conte­ stare l’esistenza di percorsi innati che siano formati sempre dagli stessi elementi, segni percettivi e operativi esterioriz­ zati. In un caso questi segni sono attivati da uno stimolo sensoriale, nell’altro si succedono secondo una specie di melodia innata. La somiglianza strutturale tra percorsi innati e percorsi acquisiti è dimostrata dal fatto che se un essere umano seguisse un percorso perché innato, noi lo descriveremmo esattamente nello stesso modo nel quale descriviamo quel che abbiamo chiamato un percorso conosciuto: cento pas­ si fino alla casa rossa, poi girare a destra ecc. Se decidessimo di considerare significativa per il sogget­ to animale solo l’esperienza sensoriale, è chiaro che risulte­ rebbero significativi solo i percorsi conosciuti e non quelli innati. Ma anche così rimarebbe il fatto che sono al massimo grado conformi al piano naturale. Un caso curioso, riportato di recente da un ricercatore, fornisce la prova che nel mondo animale i fenomeni magi­ ci svolgono un ruolo più importante di quanto si potrebbe

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A M B IE N T I A N IM A L I E A M B IE N T I U M A N I

credere. Il ricercatore aveva dato da mangiare a una gallina e aveva fatto entrare nel pollaio un porcellino d’india men­ tre quella era intenta a becchettare il cibo. Presa dal panico, la gallina cominciò a svolazzare intorno all’intruso. Da quel momento in poi, non fu più possibile dar da mangiare alla gallina dentro il pollaio. Anche mettendole davanti il grano più bello e attraente, se fosse rimasto lì dentro, il pennuto sarebbe morto di fame. L’apparizione del porcellino d’india attraversava il pollaio come un’ombra magica. N on è assur­ do, dunque, supporre che quando una gallina si precipita verso un pulcino che pigola e comincia a beccare nemici immaginari, sia apparsa nel suo ambiente una presenza magica. Più ci addentriamo negli ambienti animali, più ci convinciamo che su di essi agiscono fattori ai quali non si può attribuire alcuna realtà oggettiva, a cominciare da quel

51. L’ombra magica.

1 2 . G L I A M B IE N T I M A G IC I

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mosaico di luoghi che l’occhio sovrappone agli oggetti e dagli assi direzionali che organizzano lo spazio ambienta­ le. In entrambi i casi, si tratta di strutture che, di per sé, non sono presenti nei dintorni dell’animale. Tanto meno è possibile trovare in quel che abbiamo chiamato i dintorni di un animale qualcosa che corrisponda al percorso conosciuto oppure alla distinzione tra territorio e zona di caccia. N on è possibile trovare alcun segno nem­ meno di quel che abbiamo chiamato tonalità di ricerca, oppure dei fenomeni magici che riguardano i percorsi inna­ ti e che, pur agendo regolarmente sull’ambiente dell’anima­ le, sfuggono a una descrizione oggettiva. Negli ambienti, dunque, esiste una realtà puramente sog­ gettiva. Le realtà oggettive dei dintorni non fanno parte come tali dell’ambiente: sono costantemente trasformate in marche e immagini percettive dotate di una tonalità opera­ tiva che le trasforma in oggetti effettivi'“', anche se è impos­ sibile ritrovare questa tonalità negli stimoli in quanto tali. Infine, anche il circuito funzionale più semplice ci inse­ gna che le proprietà degli oggetti entrano all’interno del cir­ cuito solo come strutture di supporto per le esteriorizzazio­ ni del soggetto, cioè per le marche percettive e operative. [Uexkiill si giova di un’ambiguità semantica che in italiano rischia di andare perduta. Come è noto, in tedesco l’aggettivo wirklich corri­ sponde in linea di massima all’italiano «reale». L’aggettivo, però, è costruito sul verbo wirken che significa «agire», «operare», lo stesso dal quale Uexkiill ha ricavato i termini tecnici Wirkton (tonalità operativa), Wirkmal (marca operativa) e Wirkzeichen (segno operativo). Afferman­ do che un animale ha a che fare con oggetti effettivi (wirklichen Gegestanden), si vuole sottolineare che gli oggetti sono tali non perché ogget­ tivi (cioè individuabili da un occhio disincarnato), ma perché costitui­ scono entità reali (prima accezione di wirklich) in quanto entità effetti­ ve (seconda accezione) che operano in quello specifico ambiente].

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Dobbiamo dunque concludere che ogni soggetto vive in un mondo nel quale esistono solo realtà soggettive: gli stes­ si ambienti non rappresentano altro che realtà soggettive. Chiunque ne contesti l’esistenza dimostra di non cono­ scere quelle che sono le fondamenta del suo stesso ambiente.

13. Gli ambienti: soggetto e oggetto

I capitoli precedenti descrivevano altrettante incursioni, in diverse direzioni, nella terra sconosciuta degli ambienti animali. Abbiamo proceduto per problemi, dedicando a cia­ scuno di essi un capitolo specifico, con l’obiettivo però di tratteggiare un quadro teorico unitario in grado di spiega­ re in cosa consista un ambiente animale. Anche se abbiamo affrontato alcuni problemi fondamentali, non abbiamo potuto, né voluto, essere completi o esaustivi. Molti pro­ blemi aspettano un chiarimento concettuale, altri invece si trovano in uno stadio interlocutorio nel quale si cerca ancora di elaborare la giusta formulazione di alcuni interro­ gativi di fondo. Non sappiamo, ad esempio, quale porzio­ ne del proprio corpo il soggetto faccia entrare nell’ambien­ te, così come non è stato studiato in modo sperimentale il significato che il soggetto conferisce alla propria ombra nel­ lo spazio visivo. Seppur importante, l’esame dei problemi che riguarda­ no lo studio degli ambienti animali non è sufficiente per fornire una visione d ’insieme dei rapporti che legano gli ambienti tra loro. Tuttavia, si può giungere a una visione d’insieme a pro­ posito di un punto particolare e limitato, se ci si pone il seguente interrogativo: in che modo lo stesso soggetto si

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presenta come oggetto dei diversi ambienti nei quali assu­ me, di volta in volta, un certo ruolo? Prendiamo ad esempio una quercia, abitata da numero­ si animali e chiamata, dunque, a svolgere ruoli differenti a seconda dell’ambiente che si prende in considerazione. Poi­ ché, d’altro canto, la quercia entra a far parte di diversi ambienti umani, cominceremo proprio da questi. Le figure 52653 riproducono due disegni per i quali ringraziamo il pittore Franz Huths. Nell’ambiente del tutto razionale del vecchio guarda­ boschi (figura 52), che ha il compito di scegliere quali albe­ ri convenga abbattere, la quercia, le cui dimensioni devono essere misurate in modo preciso, non rappresenta altro che una catasta di legna da tagliare a colpi d’ascia. Il guardabo­ schi non presterà attenzione al volto umano che sembra emergere dalle protuberanze della corteccia. Come mostra l’immagine 53, queste ultime, al contrario, avranno un ruo­ lo fondamentale nell’ambiente magico di una bambina, per la quale il bosco è ancora pieno di gnomi e folletti. La bim­ ba fuggirà terrorizzata da una quercia che la osserva con sguardo malefico: è l’albero nel suo complesso a trasfor­ marsi in un demone minaccioso. Nel parco di un castello di proprietà di un mio cugino, in Estonia, c’è un albero di mele. Su uno dei suoi rami era spuntato un fungo la cui forma ricordava, seppur vaga­ mente, un clown, cosa che fino a quel giorno nessuno ave­ va notato. Un giorno mio cugino chiamò a lavorare una dozzina di stagionali di origine russa i quali, scoperto l’al­ bero, cominciarono a radunarvisi di fronte ogni giorno, pregando sottovoce e facendosi il segno della croce. Il fun­ go doveva essere un’immagine miracolosa, spiegarono, perché non poteva essere opera dell’uomo. A loro sembra-

13.

g l i a m b ie n t i: s o g g e t t o e o g g e t t o

52. Il guardaboschi e la quercia.

53. La bambina e la quercia.

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1 3 . G L I A M B IE N T I: S O G G E T T O E O G G E T T O

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va del tutto normale che nella natura esistessero fenomeni magici. Ma ritorniamo alla nostra quercia e ai suoi abitanti. Per la volpe (figura 54) che ha costruito la sua tana tra le radici dell’albero, la quercia si è trasformata in un tetto solido che protegge dalle intemperie lei e i suoi piccoli. In questo caso, l’albero non possiede né la tonalità di utilità che ha per il guardaboschi né quella di pericolo che emerge nell’ambien­ te della bambina. Ha solo una tonalità protettiva: nell’am­ biente della volpe, infatti, come sia fatto il tronco non ha alcuna importanza. Anche per la civetta la quercia offre una tonalità pro­ tettiva (figura 55). Ora però sono i rami a fungere da scu­ do difensivo, mentre le radici sono del tutto estranee all’ambiente del volatile.

55. La civetta e la quercia.

54. La volpe e la quercia.

Per lo scoiattolo la quercia assume una forte tonalità di salto perché l’albero, grazie alle folte ramificazioni, offre numerosi trampolini di lancio grazie ai quali saltare da una parte all’altra. Per gli uccelli, invece, l’albero mostra una tonalità ancora diversa, di sostegno, perché favorisce la costruzione di nidi sui rami più alti. In base alle diverse tonalità operative, le immagini per­ cettive dei numerosi abitanti della quercia saranno strut­ turate in modo differente. Ogni ambiente ritaglia una zona dell’albero le cui proprietà sono adatte a farsi por­ tatrici delle marche percettive e operative dei vari circuiti funzionali. La formica (figura 56), ad esempio, non considera la quercia nella sua totalità perché quel che conta per essa è

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solo la corteccia, che costituisce un ottimo terreno di cac­ cia, grazie alla sua struttura ricca di avvallamenti e asperi­ tà rugose. Il cerambice della quercia (figura 57) cerca il proprio nutrimento sotto la corteccia dell’albero nel quale deposita le uova. Le larve crescono dentro questa specie di tunnel e vi si nutrono al riparo dai pericoli che potrebbero giungere dall’esterno. Tuttavia le larve non sono del tutto al sicuro.

13.

g l i a m b ie n t i: s o g g e t t o e o g g e t t o

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57. Il cerambice e la quercia.

A costituire una minaccia non è solo il picchio, che colpisce la corteccia con il becco: la vespa del legno* fende la cortec­ cia con il suo affilato ovopositore in grado di tagliare il * [La Rhyssapersuasoria è una specie di imenotteri].

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A M B IE N T I A N IM A L I E A M B IE N T I U M A N I

14. Conclusione

58. La vespa del legno e la quercia.

legno (duro in tutti gli altri ambienti) come fosse burro (figura 58). Annienta le larve del cerambice inserendovi den­ tro le proprie uova. Una volta schiuse, i piccoli della vespa potranno cibarsi del corpo dell’ospite. Nelle centinaia di ambienti che offre ai suoi abitanti, la quercia gioca ruoli molto diversi, con l’una o l’altra delle sue parti. La stessa parte può essere in un caso grande e in un altro piccola. Il legno della quercia può essere sia duro (per il cerambice) sia morbido (per la vespa del legno) per­ ché può servire sia a proteggere sia ad aggredire. Se si volessero mettere insieme tutte le proprietà con­ traddittorie che offre la quercia in quanto oggetto, si otter­ rebbe una sola cosa: il caos. Nonostante ciò, queste pro­ prietà compongono un unico soggetto, strutturato solida­ mente, che racchiude in sé e si fa portatore di tutti gli ambienti, senza per questo essere riconosciuto né ricono­ scibile dai soggetti di questi ambienti.

Quel che in piccolo abbiamo osservato nel caso della quercia lo si ritrova in grande in quello che potremmo chia­ mare l’albero della natura. Tra i milioni di ambienti la cui varietà non può che diso­ rientare, vorremmo concludere prendendo in esame quelli di chi si dedica allo studio della natura. La figura 59 mostra l’ambiente dell’astronomo, uno dei più facili da rappresentare. In cima a una gigantesca torre, il più possibile distante dalla terra, è seduto un essere umano che ha modificato i propri occhi attraverso enormi stru­ menti in modo da renderli adatti a spingersi fino alle stel­ le più lontane. Nel suo ambiente, soli e pianeti seguono maestosamente le proprie orbite. Nonostante ciò, anche questo ambiente costituisce solo una parte infima della natura, selezionata dalle facoltà del soggetto umano. È possibile, con qualche aggiustamento, utilizzare l’im­ magine che raffigura l’astronomo e la sua torre d’osserva­ zione per farsi un’idea dell’ambiente di chi esplora i fonda­ li marini. Intorno al suo osservatorio non gravitano costel­ lazioni, bensì gli abitanti delle profondità dell’oceano, pesci dalle forme straordinarie con le loro bocche spaventose, le lunghe antenne e gli organi luminescenti. Anche in questo

1 6θ

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59. L’ambiente dell’astronomo.

caso abbiamo a che fare con un vero e proprio mondo che ci restituisce solo una piccola porzione della natura. L’ambiente del chimico sarebbe ben più difficile da rap­ presentare per mezzo di un’immagine, dato che utilizza la tavola degli elementi come fosse un alfabeto di 92 lettere

1 4 . C O N C L U S IO N E

lè i

per decifrare e descrivere le misteriose relazioni che esisto­ no tra i corpi naturali. Sarebbe più semplice raffigurare l’ambiente dello stu­ dioso di fisica atomica: intorno a lui gravitano gli elettroni così come le costellazioni ruotano intorno all’astronomo, anche se qui non regna alcuna calma cosmica, visto che il fisico, per studiare e isolare le particelle, le bombarda con microscopici proiettili. Il fisico che studia le onde, invece, ricorre a strumenti diversi, in grado di fornire un’immagine del suo oggetto di studio: constata che le onde luminose che colpiscono i nostri occhi sono associate ad altre onde, senza che queste presentino la minima differenza quanto alla loro natura. Sono onde, nient’altro che onde. Le onde luminose, però, svolgono un ruolo del tutto diverso nell’ambiente del fisiologo che studia gli organi di senso. In questo caso si trasformano in colori, entità che seguono leggi specifiche. Il rosso e il verde si fondono fino a dare il bianco, mentre le ombre proiettate su un fondo giallo diventano azzurre. Si tratta di entità incredibili, se le si considera come semplici emissioni d’onda, ma non per questo meno reali. Una contrapposizione del genere emerge anche se si prendono in esame l’ambiente studiato dal fisico e quello studiato dal musicologo. Nel primo non ci sono che onde; nel secondo ci sono solo suoni. I due fenomeni, però, sono del tutto reali: ognuno di essi appartiene a un dominio spe­ cifico. Nell’ambiente del comportamentista il corpo pro­ duce la mente, mentre nel mondo dello psicologo la mente contribuisce a costruire il corpo. Il ruolo che svolge la natura nei diversi ambienti è forte­ mente contraddittorio. Se si decidesse di mettere insieme

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tutto le varie proprietà oggettive che emergono a contatto con le varie realtà ambientali, non si avrebbe che caos. Nonostante ciò, un Uno si prende cura e si fa portatore di tutti gli ambienti: questo rimarrà eternamente inaccessibile. Dietro tutti i mondi cui ha dato origine si nasconde, infatti, un soggetto eternamente inconoscibile, la natura.

N o ta al testo

A m b ien ti anim ali e am bien ti umani. Una passeggiata in m ondi sconosciuti e in visibili traduce con qualche libertà il titolo originale Streifzüge durch die U m w elten von Tieren und Menschen. Ein Bil­ derbuch unsichtbarer Welten (letteralmente: «Incursioni tra gli ambienti animali e umani. U n libro illustrato su mondi invisibili»). Le due edizioni italiane precedenti, pur avvalendosi entrambe della tradu­ zione di Paola Manfredi, si erano discostate ancora di più dal titolo tedesco, fino a non conservarne alcuna traccia: nel 1936 si era optato per I m ondi invisibili (Mondadori), nel 1967 per A m biente e compor­ tam ento (Il Saggiatore). N onostante la traduzione fosse scrupolosa, presentava formule linguistiche ormai desuete ed era afflitta da una instabilità term inologica tale da rendere la com prensione del testo complicata, a volte quasi im possibile. Alcune scelte terminologiche sembravano risentire dell’ideologia degli anni Trenta: il K um pan di Lorenz (il compagno che le taccole scelgono come partner: cap. io) diventa il «camerata»; la talpa in cattività è definita «in schiavitù» (cap. 9); l’animale fecondato è trasformato nella femmina «dopo le nozze». Q ui di seguito compare una tabella nella quale sono messe a confron­ to le traduzioni di otto termini chiave del testo di Uexkùll: le due ita­ liane (la nostra e la versione di Paola Manfredi), quella francese (a cura di Philippe Muller, M ondes anim aux et m onde humain, Éditions D enöel, Paris 1965, pp. 9-90) e inglese (a cura di Claire H . Schiller, A stroll through the worlds o f animals an d men: A picture book o f invi­ sibile worlds, in Instinctive Behavior: the developm ent o f a modern concept, Methuen, London 1957, pp. 5-80, riedita sulla rivista «Semio­ tica», 89, 1992, pp. 319-391). Per la traduzione e le immagini è stata impiegata l’edizione del testo tedesco del 1973 (Fischer Verlag, Frankfurt am Main). Il cura-

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N O T A AL TESTO

tore desidera ringraziare M assimo de Carolis per aver dedicato uno dei suoi pomeriggi a discutere le scelte term inologiche più adatte, e Kalevi Kull per la spedizione di Theoretische Biologie.

Quadro sinottico

TEDESCO

ITALIANO

ITALIANO

(2010)

(1936)

FRANCESE

INGLESE

Merkmal

marca percettiva

carattere percepito

caractère perceptif

receptor, perceptual cue

Merkzeichen

segno percettivo

segno di percezione

caractère/ signal perceptif

perceptual sign

Stimmung

tonalità emotiva

disposizione, stato d’animo

Umgebung

dintorni

ambiente, ciò che circonda, ambito

entourage

environment

Umwelt

ambiente

mondo soggettivo, mondo, sfera, universo individuale, mondo

milieu

Umwelt

Welt

mondo

mondo, mondo soggettivo

monde

world

Wirkmal

marca operativa

carattere effettuale, impronta

caractère actif

effector cue

Wirkzeichen

segno operativo

segno di caractère effettuazione, actif contrassegno di effettuazione

mood

effector sign

(m .

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Finito di stampare nel febbraio 2010 dalla Litografica Com di Capodarco di Fermo (FM)

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U ex k ü ll fra i grandi sp inozisti della m oder­ nità, caratteristica che im plica l’arte di aste­ nersi dal definire alcunché seco n d o la sua form a, o in base ai su o i organi e alle sue fu n zio n i, o in quanto sostanza o soggetto. Le dom ande saranno tu tt’altre. «A d esem ­ p io - egli scrive - , dato un certo anim ale, a ch e co sa tale anim ale è in d ifferen te nel m o n d o im m en so, a che cosa reagisce p o si­ tivam en te o negativam ente, quali so n o i su o i alim enti, quali i su o i velen i, che cosa “p ren d e” dal suo m ondo?»

Jakob v o n U ex k ü ll è il fondatore d ell’e to ­ log ia con tem poranea. N a sc e nel 1864 in E ston ia e conduce le proprie ricerche tra la Germ ania e l’Italia. Studia le caratteristiche e la varietà degli am bienti anim ali in num e­ rose op ere tradotte n elle principali lingue eu rop ee. N e l 1944 m u ore a C apri, d ove trascorre gli ultim i anni della vita. Presso la nostra casa editrice è in preparazione la tra­ d u z io n e italiana di T h eoretisch e B iologie (1920), l’altra sua opera principale.