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Italian Pages 205 [224] Year 2008
Alice Guy Memorie di una pioniera del cinema
Questo libro viene pubblicato con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Direzione Generale per il Cinema nell’ambito del progetto Non solo dive. Pioniere del cinema italiano
promosso da Associazione Orlando Dipartimento Musica e Spettacolo - Università di Bologna Cineteca di Bologna
con il patrocinio di Provincia di Bologna Regione Emilia-Romagna
in collaborazione con Centro di documentazione, ricerca e iniziativa delle donne della città di Bologna Circola Alice Guy AIRSC – Associazione Italiana per le Ricerche di Storia del Cinema
Titolo originale La Fée aux choux. Autobiographie d’une pionnière du cinéma, Denoël-Gonthier, Paris 1976 Traduzione dal francese: Paola Cristalli e Sandro Toni Grafica e impaginazione: Caterina Martinelli Grafica copertina: D-sign
© 2008 Edizioni Cineteca di Bologna
via Riva di Reno 72 - 40122 Bologna www.cinetecadibologna.it
Alice Guy Memorie di una pioniera del cinema a cura di Monica Dall’Asta
Indice
Alice al di là dello specchio di Monica Dall’Asta
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Prologo
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Parte prima
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Parte seconda
69
Parte terza
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Epilogo
161
Appendice
165
Elenco dei film attribuiti e censiti
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Alice al di là dello specchio di Monica Dall’Asta
Dove e come ebbe inizio la storia Tra i libri di memorie scritti dai grandi protagonisti della storia del cinema, quello di Alice Guy occupa una posizione in tutto e per tutto particolare, semplicemente unica. La ragione non sta solo nella singolarità dell’autrice – la prima donna che abbia avuto la capacità di affermarsi professionalmente come regista e produttrice – ma anche e soprattutto nell’effetto deflagrante che queste pagine hanno avuto sulla storiografia cinematografica fin dal momento della loro pubblicazione, avvenuta postuma, dopo una lunga serie di traversie, nel 19761. Di quante autobiografie, infatti, si può dire che siano riuscite a cambiare la storia? Mai come in questo caso, un libro di memorie si è inserito nella narrazione canonica della storia del cinema come una forza rivoluzionaria, in grado di demolire un’immagine lungamente consolidata e di innescare un processo a lungo termine di recupero e riscoperta – o piuttosto di produzione – di tutta una memoria del cinema declinata al femminile. In effetti, tra le mosse decisive compiute da Alice Guy in queste pagine vi è quella di fornire una nuova versione degli inizi del cinema. Sulla scena, rigorosamente celibe, delle origini, fin qui abitata esclusivamente da uomini, inventori geniali e illuminati imprenditori, fa all’improvviso la sua comparsa una figura così comune da risultare aliena: niente meno che una donna. All’ombra di tanti giganti (i Lumière, Demenÿ, Gaumont, e poi Emile Zola, Gustave Eiffel...), la figura di Alice colpisce per la sua normalità, per la sua ordinarietà: una piccola dattilografa poco più che ventenne, che come tante sue coetanee deve lavorare per guadagnarsi la vita e che
per puro caso ha la ventura d’essere assunta, come semplice segretaria, in una delle prime imprese del settore cinematografico, nel 1894 o 1895. Certo Alice è dotata di grande carattere, di un’intelligenza e un’ironia che si rivelano decisive anche solo per ottenere questa piccola opportunità, come dimostra la prontezza con cui risponde all’obiezione avanzata da Léon Gaumont circa la sua giovane età durante il colloquio di selezione, ribattendogli: “Signore, mi passerà...” Ma certamente né Gaumont né Alice potevano immaginare che questo modesto impiego avrebbe inaugurato una delle più straordinarie carriere cinematografiche di tutti i tempi, una produzione insieme ricchissima (in termini e quantitativi e qualitativi) e avventurosa, divisa tra Francia e Stati Uniti, tra lavoro creativo, sperimentazione linguistica e tecnologica, attivismo imprenditoriale. Tutto ciò che, in questa fase, Alice Guy comprende è solo di avere la possibilità d’essere la testimone privilegiata del lavoro di grandi inventori, dei pionieri dell’immagine in movimento. Ma proprio di qui prende le mosse quella che appare come un’operazione del tutto deliberata di inclusione del femminile nella scena originaria del cinema. Alice, infatti, non esita ad affermare di avere “aiutato a venire al mondo [questo nostro] grande amico, il cinema”2. Come ha notato Amelie Hastie, l’adozione della metafora della nascita è senz’altro significativa in questo contesto, ma lo è soprattutto nella misura in cui non viene impiegata dall’autrice al fine di ritagliare per sé il ruolo della madre3. Al tempo stesso, non si può dire nemmeno che Alice Guy si rappresenti come semplice testimone o spettatrice, dal momento che la sua posizione è piuttosto quella di qualcuna che partecipa in maniera attiva all’evento della nascita, al modo, insomma, di una levatrice. In pratica, ci troviamo di fronte a un doppio rovesciamento: se da un lato viene chiaramente smentita la tradizionale descrizione della scena originaria come scena omosociale, dalla quale le donne sono escluse, dall’altro la funzione che in essa viene a svolgere il soggetto femminile non è unicamente di tipo, per così dire, riproduttivo, poiché il suo ruolo non consiste e non si esaurisce nel fatto di “far venire al mondo”, ma si afferma a lato di questo evento inaugurale, sviluppandosi come lavoro professionale oltre e al di là della sfera della nascita4. L’attitudine apparentemente modesta che Alice Guy manifesta nelle pagine della sua autobiografia nasconde dunque una volontà del tutto consape-
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Introduzione
vole di riscrittura della storia del cinema e un’altrettanto ferma aspirazione al riconoscimento personale. Fin dagli anni Trenta, quando la sua attività di regista e produttrice si era già da lungo tempo interrotta, Alice Guy tentò ostinatamente e in vari modi di rimediare a quel processo inesorabile di rimozione che rischiava di cancellare per sempre dalla memoria del cinema ogni traccia del suo lavoro. Nel 1933, chiese e ottenne che il quotidiano “Le Temps” pubblicasse una rettifica a un articolo, nel quale Germaine Dulac era stata presentata come la prima donna regista del cinema francese. In una “lunga lettera”, solo parzialmente citata in un trafiletto pubblicato nel numero del 30 settembre, Alice precisava che dal 1897 al 1907 – epoca in cui “la definizione di ‘regista’ non era ancora entrata nell’uso” – aveva occupato la posizione di “direttore della produzione presso gli studi Gaumont, avendo sotto la mia responsabilità artisti di talento come Feuillade, Jasset ecc.”5. L’importanza che la cineasta attribuiva al riconoscimento del proprio lavoro appare ben chiara nella frase conclusiva della lettera, non riportata dal giornale: “Mi si permetta di rivendicare questo titolo di prima donna regista di cui sono fiera e che attualmente costituisce la mia sola fortuna”6. Nonostante i suoi sforzi, Alice Guy dovette attendere lunghi anni prima di ricevere i primi, quanto mai tardivi, riconoscimenti del suo contributo alla storia del cinema. Per esempio, l’intenso carteggio scambiato, nel corso degli anni Trenta, con Léon Gaumont, in vista di una pubblicazione sulla storia della Casa che avrebbe dovuto restituirle il ruolo che le spettava nella produzione del primo decennio, rimase lettera morta e la filmografia da lei faticosamente ricostruita non vide mai la luce (la pubblicazione fu ripetutamente rimandata e infine cancellata in seguito alla morte di Gaumont, avvenuta nel 1946). Anche l’uscita, nel 1947, del secondo volume della Storia generale del cinema di Georges Sadoul, quello dedicato alle ‘origini’ e ai ‘pionieri’, fu per Alice motivo di delusione. Pur riconoscendole il ruolo di iniziatrice della produzione a soggetto della Gaumont, il testo pullulava di errori di attribuzione. Accreditata per film che non aveva mai realizzato, “Mlle Alice” si vedeva oltre tutto espropriata di alcuni dei titoli più importanti della sua filmografia, tra cui La Esmeralda (1905) e La Naissance, la Vie et la Passion de Jesus Christ (1906), attribuiti al suo assistente Victorin Jasset, e perfino
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di La Fée aux choux (1896?, 1900?), attribuito a un semplice millantatore come Henri Gallet, che in realtà aveva lavorato alla Gaumont solo per pochi mesi, come assistente o forse come comparsa...7 Ancora una volta Alice, come lei stessa ricorda in queste pagine, si provò a correggere. Scrisse a Sadoul, fornendogli varie informazioni circa il primo periodo della sua attività e ottenne che alcune correzioni fossero incluse nella seconda edizione del testo. Ma ancora nelle Memorie era costretta a rilevare come non tutti i punti da lei segnalati fossero stati effettivamente rivisti ed emendati8. Fu così che Alice Guy si decise a porre mano alla sua autobiografia. Il primo nucleo del manoscritto prese forma a Ginevra, durante il periodo che la cineasta vi trascorse, insieme alla figlia Simone Blaché, tra il 1941 e il 19479. Qui, verso la fine del suo soggiorno, ebbe occasione di tenere alcuni incontri pubblici presso una scuola superiore e in un circolo femminile. Gli appunti presi per queste conferenze, raccolti sotto il titolo Anectdotes et souvenirs sur le cinéma en France et aux Etats-Units de 1896 à 1924, servirono da base per la stesura del suo libro di memorie, che qui presentiamo in una nuova edizione italiana10. Non è chiaro perché il testo abbia dovuto attendere così a lungo prima d’esser dato alle stampe. Sembra incredibile che non abbia incontrato alcun editore interessato a pubblicarlo prima del 1976, ovvero otto anni dopo la morte dell’autrice. Nella prefazione all’edizione francese, Nicole-Lise Bernheim afferma che nell’ultima parte della sua vita Alice Guy tentò invano di farlo pubblicare11, informazione che trova conferma in una testimonianza della nuora della regista, Roberta Blaché, contenuta nel documentario di Marquise Lepage, Le Jardin oublié. La vie et l’oeuvre d’Alice Guy-Blaché (1995). Ma né Victor Bachy, né Alison McMahan – i due studiosi che negli ultimi quindici anni hanno più contribuito alla riscoperta della vicenda biografica e professionale dell’autrice – sembrano aver trovato traccia di questi tentativi12. Può darsi che il testo abbia richiesto molto tempo per essere completato. Oppure che Alice, più che cercare un editore, contasse per riuscire a pubblicarlo sull’aiuto di Louis Gaumont (figlio di Léon) e dei giovani storici – da René Jeanne e Francis Lacassin allo stesso Bachy – che dalla fine degli anni Cinquanta avevano cominciato a interessarsi a lei, sollecitandola a rilasciare interviste e a ricostruire la propria filmografia. L’impegno di questi autori fu fondamentale per spezzare la cortina che
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Introduzione
aveva fino a questo momento avvolto il suo lavoro pionieristico di regista e produttrice, nonché per promuovere i primi riconoscimenti alla sua persona, ma non riuscì a permetterle di vedere l’uscita delle sue Memorie. Il lento percorso di uscita dall’oblio ebbe inizio nel dicembre del 1954, quando Louis Gaumont, con il quale Alice si era mantenuta in corrispondenza fin dalla morte del padre, rese omaggio al suo “nome ingiustamente dimenticato” in un discorso ampiamente basato su informazioni da lei stessa fornite13. Ma né questa iniziativa, né il successivo omaggio organizzato dalla Cinémathèque française nel 1957, né il conferimento della Légion d’honneur nel 195814 ottennero l’attenzione che meritavano sulla stampa specializzata. Al momento della sua morte, avvenuta nel 1968, gli articoli retrospettivi sull’attività cinematografica di Alice Guy si contavano sulle dita di una mano15. Infine, nel 1973, Anthony Slide, allora archivista presso l’American Film Institute, ricevette il manoscritto dalle mani della figlia di Alice, Simone Blaché, da tempo residente negli Stati Uniti16. Slide si mise in contatto con un’associazione femminista francese che si era da poco formata con l’obiettivo di preservare la memoria del lavoro cinematografico delle donne. L’Association Musidora (dal nome di un’altra mitica cineasta, piombata, come Alice Guy, nell’oblio e nella povertà dopo anni di folgorante successo17) dimostrò di sapere tener fede ai suoi propositi e fu così che finalmente, nel 1976, gli sforzi di un gruppo di donne permisero al testo di vedere la luce. Il 1976 può dunque effettivamente essere considerato una data simbolica nella storia del cinema, ovvero, più precisamente, la data di nascita della storiografia cinematografica delle donne. Lentamente, faticosamente, a partire dalla scoperta, fatta su queste pagine, che fin dall’inizio il cinema è stato pure cosa di donne, un numero sempre crescente di studiose e studiosi ha prodotto tutto un nuovo patrimonio di conoscenze, che oggi mostra inequivocabilmente come in realtà Alice Guy non sia mai stata sola, come sia solo la punta visibile (peraltro divenuta visibile) di un iceberg immenso, che si è appena iniziato a sondare nelle sue reali proporzioni. Pionieristica anche in questo, Alice Guy ha avuto per prima la capacità di sfondare il muro di rimozioni che da sempre la memoria egemone non fa che erigere intorno all’esperienza delle donne, cancellando le tracce, pol-
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verizzando i documenti, riducendo al silenzio le tante voci femminili di cui la scena culturale non ha mai potuto fare a meno. Seguendola sulla via che lei stessa aveva aperto pretendendo ostinatamente di essere ricompresa nella storia del cinema, il lavoro degli ultimi anni ha reso possibile l’avvio di una riflessione metastorica, che ha permesso di individuare con una certa esattezza il punto nel quale la storia delle donne è stata precipitata, per un lungo periodo, fuori della storia. Infatti ciò che tante ricerche indicano con grande evidenza è che i primi trent’anni del cinema sono stati attraversati dall’iniziativa femminile in una proporzione che quantitativamente (in termini di figure coinvolte e di film realizzati) risulta largamente superiore a quella riscontrabile nei quaranta, forse perfino cinquant’anni successivi18. Elvira Notari, Lois Weber, Mabel Normand, Nell Shipman, Diana Karenne, Musidora, Germaine Dulac sono solo i nomi più noti tra le centinaia di altri nomi di donne oggi dimenticate che furono attive come registe, sceneggiatrici, produttrici nell’industria cinematografica del periodo muto e sulle quali la ricerca attuale sta cominciando a far luce19. Non diversamente da Alice Guy, espulsa dal sistema produttivo alla fine degli anni Dieci, anche queste donne sperimentarono grosso modo nello stesso periodo una progressiva chiusura degli spazi di agibilità, trovandosi a un certo punto, inesorabilmente, nell’impossibilità di lavorare. Studiando il fenomeno all’interno del cinema americano, Karen Ward Mahar non ha esitato a parlare di una vera e propria “maschilizzazione della sfera cinematografica”20, espressione che sembra ben adeguata a descrivere una situazione che di fatto nel corso degli anni Venti è riscontrabile un po’ ovunque nei paesi allora attivi nella produzione cinematografica. Il numero delle donne impegnate in ruoli direttivi, tecnici e creativi sui set cinematografici diminuisce drasticamente e progressivamente, cosicché una Dorothy Arzner negli anni Trenta o una Ida Lupino negli anni Cinquanta possono ancora sperimentare la stessa condizione storiografica di ‘mosca bianca’, di ‘unica donna regista’ e di ‘pioniera’ del cinema al femminile che Alice Guy aveva per prima conosciuto21. Non è questa la sede per tentare un’interpretazione complessiva di questo fenomeno, che andrebbe collocato sullo sfondo delle vicissitudini del movimento femminista e nel contesto delle grandi trasformazioni sociali (per esempio il ritorno di tanti uomini dal fronte dopo la Prima guerra mondiale),
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Introduzione
politiche (per esempio, in Europa, l’avvento del fascismo), economiche (la formazione delle grandi industrie culturali, con l’accentramento e la gerarchizzazione delle strutture di potere). Quello che importa è sottolineare come sia in questo contesto che Alice Guy, dopo essere stata espulsa come tante altre dal sistema produttivo, scopre di essere già stata cancellata anche dalla storia, rimossa e dimenticata come un dettaglio privo di valore. Ciò che, come si diceva, ha l’effetto di costringere tutte le altre a ricominciare da capo. Perciò questo libro è così importante, perché ha permesso veramente di cominciare a cambiare la storia, ponendo le basi non solo o non tanto di una storiografia parallela (operazione in fin dei conti marginale, se non addirittura pericolosa), ma piuttosto di un mutamento strategico del concetto stesso di storia, mostrando come tutto il pieno del discorso storiografico tradizionale, zeppo di informazioni, notizie e dettagli più o meno eruditi, sia in realtà raddoppiato e attraversato da parte a parte da un vuoto immenso, incommensurabile: anzi, da tutti i vuoti di tutte le storie che non sono mai state raccontate, che forse non potranno più esserlo, che forse potranno solo essere evocate, ipotizzate, immaginate... Così, per esempio, traendo le necessarie conseguenze dalla rivoluzione storiografica aperta da queste Memorie – dalla lezione più importante che ci hanno dato: che dove c’è una donna devono per forza essercene altre – Jane Gaines ha invitato a portare lo sguardo sulla giovane donna visibile-invisibile che compare nel mitico La Fée aux choux, il film che secondo Alice Guy rappresentò la sua prima regia22. Basato sul ben noto motivo popolare secondo cui i cavoli sarebbero in grado di produrre bambini, questo breve film di pochi secondi mostra una fanciulla vestita di bianco che si muove saltellando all’interno di un campo di cavoli finti: per tre volte si china sugli ortaggi e per tre volte ne estrae dei bebé che allegramente esibisce in direzione del pubblico. Rifatto nel 1902 in una versione più elaborata (dal titolo Sage-femme de première classe), La Fée aux choux ha come unica protagonista Yvonne Mugnier-Serrand, amica e futura segretaria di Alice Guy. Visibile-invisibile, che altro è Yvonne, per noi, se non un’assenza, un vuoto, che non sapremmo in nessun modo colmare di storia? Eppure, osserva Jane Gaines, come escludere che sia stata proprio lei, Yvonne, a suggerire ad Alice la fantasia dei bambini trovati nell’orto23? Tanto è ciò che siamo invitate, addirittura costrette a immaginare dalla peculiare rarefazione che caratterizza la storia
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delle donne, se è vero che perfino qualcuna come Alice Guy, produttrice di oltre mille film e regista di una buona parte di questi, solo per un soffio ha potuto evitare d’esser messa fuori dalla storia. Questo vuoto che pervade e raddoppia in assenza tutto ciò che si sa, che si offre nella certezza del dato, riguarda in primo luogo la stessa storia di Alice. Nonostante gli sforzi da lei compiuti per restituire il tracciato del proprio percorso biografico e professionale, sono tanti gli aspetti che ancora permangono problematici e oscuri. Nemmeno l’imponente lavoro di ricerca svolto con rara tenacia da Victor Bachy e Alison McMahan, autori di due esemplari monografie che hanno risvegliato in tutto il mondo l’interesse per la sua figura, ha potuto sciogliere tutti i dubbi. A cominciare dalle date: per esempio, fu nel 1894 o nel 1895 che Alice fu assunta come segretaria da Léon Gaumont? E La Fée aux choux, da lei sistematicamente indicato come il suo primo film, fu realmente girato nel 1896? O è vero piuttosto, come sostiene Francis Lacassin, che non poté essere realizzato prima del 190024? E perché tra i vari titoli citati nelle Memorie ve ne sono certi che non compaiono nei cataloghi Gaumont? Ancora, come spiegare l’improvviso rovescio che nella seconda metà degli anni Dieci travolse inesorabilmente, una dopo l’altra, le varie Case di produzione da lei create negli Stati Uniti con il marito Herbert Blaché? Fu davvero Blaché il responsabile del disastro? E fu davvero per invidia di lei e dei suoi successi professionali che finì per gettarsi in imprese incerte e rischiose? A queste e altre domande sono state date risposte diverse e a volte contrastanti, che hanno offerto un’immagine tutt’altro che univoca, bensì complessa e sfaccettata, che comunque non può, né intende darsi come la verità definitiva su Alice Guy. Ma certo, tutto questo lavoro di scavo e di interpretazione, di analisi e di ricerca, è servito a dare uno spessore nuovo a questa figura, a renderla, pur con tutti i suoi enigmi e le contraddizioni, una figura viva, piena di carattere, dotata di desideri e ambizioni: una donna, insomma. Soprattutto, il lavoro degli studiosi ha stimolato un importante processo di censimento filmografico all’interno degli archivi, che ha permesso di ritrovare e identificare un gran numero di film di cui fino a poco fa non si sospettava nemmeno l’esistenza. Cosicché, per quanto incredibile possa sembrare, si può dire che una parte significativa del lavoro di Alice Guy sia venuta alla luce solo alla fine del secolo scorso25. Per esempio, fu
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solo tra il 1993 e il 1995 che i ventuno titoli che il catalogo del National Film and Television Archive di Londra attualmente attribuisce ad Alice Guy poterono essere, finalmente, correttamente identificati. Diversi di questi film attendevano da lungo tempo di essere riconosciuti; altri erano stati acquisiti solo di recente. Il caso più eclatante è quello del lungometraggio The Great Adventure, penultima regia di Alice Guy, diretto nel 1918 negli Stati Uniti: acquisito nel 1995 in una copia 28mm, il film fu reso visibile solo nel 1997, dopo la produzione di una copia da proiezione 35mm. Altri nove, rarissimi film, furono ritrovati nel 1996 presso lo Svenska Filminstitutet di Stoccolma: tra questi una copia di La Fée aux choux, presumibilmente realizzato tra il 1897 e il 1900. Ancora nel 1999, altre quindici pellicole appartenenti al primissimo periodo di attività della regista (danze serpentine, in preziose copie colorate a mano, e film a trucchi alla maniera di Méliès) furono scoperte nella cantina di una casa nei dintorni di La Rochelle. Dunque, al di là di tutte le lacune che permangono nella ricostruzione della vicenda professionale di Alice Guy, il suo contributo alla storia del cinema è oggi apprezzabile in modo assai più ampio e articolato che in passato, in primo luogo proprio attraverso la conoscenza diretta dei suoi film. Oggi una parte significativa della sua filmografia è accessibile non solo negli archivi, ma perfino in versione home video: ai titoli già disponibili negli Stati Uniti, si è aggiunto di recente il prezioso cofanetto nel quale la Gaumont ha raccolto sessantacinque film appartenenti al primo periodo della sua attività26. Inoltre, mentre scriviamo, un grosso lavoro è in corso negli Stati Uniti in vista della realizzazione di una grande retrospettiva che sarà ospitata dal Whitney Museum di New York, a cura di Joan Simon. Oltre mezzo secolo è passato da quando, agli inizi degli anni Cinquanta, Alice Guy tentò invano di ritrovare qualche copia dei suoi film nelle cineteche americane27. Non ci riuscì: ma per fortuna, come si è visto, la sua storia nel tempo a venire era appena cominciata28. La Fée aux choux: il primo film a soggetto? Uno dei punti più controversi di tutto il dibattito storiografico intorno ad Alice Guy riguarda la datazione del film che, nelle Memorie, la cineasta dichiara essere stata la sua prima regia: La Fée aux choux, diretto, stando
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alla sua ricostruzione, nel 1896. Il titolo è stato recentemente attribuito con certezza a uno dei film ritrovati presso lo Svenska Filminstitutet, ma la stessa autrice dell’identificazione, Alison McMahan, si dichiara dubbiosa circa il fatto che si tratti dello stesso film di cui parla Alice Guy29. Prima di questo ritrovamento, La Fée aux choux era stato spesso confuso con un film di soggetto analogo, ma sicuramente posteriore: Sage-femme de première classe, che i cataloghi Gaumont indicano in distribuzione dal 1901. Per esempio, nell’edizione originale delle Memorie una foto di scena relativa a Sage-femme viene erroneamente attribuita a La Fée aux choux (la riproduciamo, con corretta attribuzione, nell’inserto fotografico). Alla base della confusione vi è il fatto che entrambi i film sono basati sullo stesso soggetto: in pratica la pellicola del 1902, più elaborata dal punto di vista sia della narrazione sia della messa in scena, non è che una nuova versione, ovvero un remake, di La Fée aux choux. Com’è noto, la pratica del rifacimento era ampiamente sfruttata nei primi anni del cinema. La vorticosa trasformazione del formato e insieme del linguaggio narrativo dei film, come pure la domanda crescente di nuovi prodotti, spingeva i registi a riproporre al pubblico, in versioni più lunghe e più curate, le storie di maggiore successo. Diversamente da La Fée aux choux, composto di un’unica inquadratura e interpretato da un’unica attrice, Sage-femme de première classe presenta tre personaggi, uno dei quali impersonato dalla stessa Alice Guy, ed è formato da due inquadrature. In costume maschile, nella parte del ‘marito’, Alice accompagna la ‘moglie’ (Germaine MugnierSerrand) a una sorta di bottega, dove una fatina (Yvonne) ha messo in vendita diversi “modelli” di bebé. Vedendo che si tratta solo di bambole, la sposina è delusa, ma la fata le riserva una sorpresa: un intero campo di cavoli, ognuno dei quali nasconde un vero bambino. Il fatto che si tratti di un rifacimento prova che il modello originale era stato abbastanza apprezzato da giustificare la riproposizione dello stesso soggetto in una nuova versione. In effetti, il catalogo del 1901 nel quale La Fée aux choux compare per la prima volta lo descrive come un “tres gros succes” (in caratteri maiuscoli), lasciando dunque intendere che il film, lungi dall’essere una novità, fosse già da parecchio tempo in circolazione. Tuttavia, nessuno dei cataloghi precedentemente pubblicati dalla Gaumont reca traccia del titolo.
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Ora, se la datazione di La Fée aux choux ha occupato un posto così importante negli interessi degli storici è perché dalla risposta a questo quesito discendono conseguenze di tutto rilievo per la cronologia del primo cinema. Se infatti si potesse confermare che la sua realizzazione risalga, come sostiene Alice Guy, al 1896, allora La Fée aux choux potrebbe essere uno dei primissimi film di finzione mai realizzati, forse addirittura in anticipo sulle prime messe in scena di Georges Méliès30. Ma purtroppo, nessuna ricerca è stata finora in grado di sciogliere questo nodo storiografico. Nel 1964, Francis Lacassin accoglie la datazione dell’autrice e fissa La Fée aux choux al 189631. Ma solo pochi anni più tardi, a seguito di una più attenta valutazione dei dati desumibili dal catalogo Gaumont del 1901, si corregge, affermando che il film fu con ogni probabilità realizzato nel corso del 190032. La sua argomentazione si basa sulla datazione di un certo numero di film presenti nello stesso catalogo. Elencato al n. 379, La Fée aux choux figura in effetti tra una serie di vedute girate nel corso dell’Esposizione universale di Parigi del 1900 e le registrazioni effettute in occasione di una cerimonia ufficiale svoltasi il 22 settembre 1900 alla presenza del Presidente Loubet (n. 392, Banquet des maires). Perciò, conclude Lacassin, tutto spinge a ritenere che anche La Fée aux choux sia stato realizzato nello stesso periodo. A prima vista il discorso di Lacassin appare convincente. Nondimeno, sembra abbastanza strano che Alice Guy abbia potuto confondersi proprio a proposito del suo primo film. Essendo stata incaricata da Gaumont della direzione dell’intera produzione a soggetto fin dal 1897, nel 1901 aveva già certamente realizzato un gran numero di film. Inoltre, in una nota contenuta nell’edizione americana delle Memorie, Anthony Slide riferisce come Simone Blaché avesse confermato con assoluta certezza “che La Fée aux choux fosse il primo film realizzato da sua madre, prodotto nel 1896”, aggiungendo che a suo avviso “i numeri adottati nei cataloghi Gaumont non significano nulla”33. In effetti, diversi studiosi hanno osservato come la numerazione dei primi cataloghi si sia rivelata non di rado inaffidabile ai fini della datazione34. Tutto ciò dimostra nel modo più evidente come nel caso di Alice Guy i dati e le informazioni disponibili siano spesso insufficienti a ricostruire con certezza i fatti, creando una situazione nella quale il discorso storiografico è costretto ad adottare una modalità ipotetica, congetturale. Un approccio
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di questo tipo è esemplicato nel ragionamento che Victor Bachy sviluppa intorno alla possibilità che La Fée aux choux sia stato realizzato in pellicola 60mm, ovvero qualche mese prima che la Gaumont pubblicasse, nel maggio 1897, il suo primo catalogo dei film disponibili in 35mm35. In effetti, tutti i film Gaumont realizzati nel 1896 furono girati con la macchina da presa progettata da Georges Demenÿ, la quale utilizzava una pellicola di 60mm di larghezza, ovvero un formato quasi doppio rispetto al 35mm del cinématographe Lumière. Ora, la cosa interessante di questa primissima produzione è che diversi film girati in quel formato furono in seguito riproposti in 35mm, dopo che Gaumont si convinse che la battaglia commerciale sul formato era ormai stata vinta dai Lumière, decidendo di mettere a sua volta in produzione una nuova macchina 35mm. Di conseguenza, una parte dei film inizialmente girati in 60mm furono ristampati o rifatti nel nuovo formato. Secondo Bachy è del tutto probabile che Alice Guy abbia girato i suoi primi film con la 60mm di Demenÿ. Ciò che lo convince in tal senso è che diversi titoli realizzati in quel formato possono essere con certezza identificati come film di finzione e che alcuni di questi (La Leçon de bicyclette, Une Nuit agitée, Transformation d’un chapeau e Chez le barbier) ritornano nel primo catalogo dei film 35mm del maggio 1897, quando non solo Alice Guy aveva senza dubbio già inaugurato la sua attività di regista, ma era la sola responsabile di tutta la produzione a soggetto della Gaumont. Ciò ovviamente non prova ancora che La Fée aux choux (che non figura in nessuno dei tre cataloghi dedicati ai film 60mm) sia stato effettivamente realizzato nel 1896, prima che Méliès desse inizio alla sua produzione, ma suggerisce con forza che Alice Guy abbia diretto i suoi primi film proprio in quell’anno, in pellicola 60mm36. Abbiamo voluto ricostruire la controversia intorno alla datazione di La Fée aux choux, malgrado i tanti faticosi dettagli che comporta, perché ha senz’altro un valore emblematico all’interno del dibattito storiografico su Alice Guy. Del resto stabilire la data e la primogenitura non sembra poi così decisivo. Se anche Alice Guy non fu la prima regista di film a soggetto, fu però di sicuro tra i primi e il valore della sua opera cinematografica è facilmente apprezzabile nei film che ci sono pervenuti. Per esempio, se i generi rappresentati nella prima parte della sua produzione non si discostano da quelli praticati dagli altri registi di questo
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Introduzione
periodo, non di rado i suoi film colpiscono per l’ingegnosità dei soggetti e delle situazioni. Ci sono per esempio i film ‘a trucchi’, le brevi scene ‘a trasformazione’ basate sul procedimento dell’ ‘arresto e sostituzione’, che permette di far sparire o apparire all’improvviso nell’inquadratura oggetti o personaggi, come per effetto di una magia. Introdotto da Méliès, questo genere comporta infatti la presenza di una figura di mago o prestidigitatore che, rivolgendosi al pubblico, gli presenta di volta in volta una serie di sorprendenti metamorfosi. Certo in questo genere di sortilegi ottici Méliès è insuperabile, ma che di dire di un film come La Petite magicienne (1900), in cui la maga è una bambina? Oppure c’è il burlesque, la farsa caotica e sfrenata, pervasa di doppi sensi, allusioni sessuali, esplosiva fisicità. In questo Alice Guy è una vera maestra. Si veda per esempio Madame a des envies (1906), uno dei suoi capolavori: una giovane donna incinta è a passeggio col marito (decisamente più basso di lei), quando all’improvviso è colta da una serie di ‘voglie’ irresistibili. Il marito assiste con orrore alla foga con cui si impossessa, in successione, del lecca-lecca di un bambino, della bevanda ordinata da un signore in un caffè, dell’aringa di un vagabondo e perfino della pipa di un venditore ambulante. Ogni volta uno stacco sul primo piano del suo volto estatico non lascia dubbi circa il piacere lascivo che la donna ricava nel succhiare avidamente tutti questi oggetti, di forma inequivocabilmente fallica. Come osserva Alison McMahan, se lo sfruttamento del primo piano per suggerire un doppio senso erotico fa parte del repertorio di tante altre comiche del periodo, il fatto che qui la protagonista sia incinta introduce un elemento anomalo, che le conferisce una soggettività inedita37. Inoltre mentre i film strutturati intorno al potere ‘attrattivo’ del primo piano non presentano in genere uno sviluppo narrativo, limitandosi a proporre pretesti per offrire ingrandimenti dall’effetto insolito, il film di Alice Guy si muove in crescendo verso il climax finale: nel quale la donna, presa improvvisamente, dopo le voglie, dalle doglie, dà alla luce un bambino... in un campo di cavoli! Tanti altri sono i titoli che potrebbero essere citati a testimonianza del sottile sarcasmo che pervade i film comici di Alice Guy, da La Hiérarchie dans l’amour, dove dei militari di grado sempre più elevato ottengono e uno dopo l’altro perdono i favori di una servetta a mano mano che vengono allontanati dai loro superiori, a La Glu, che rielabora il tradizionale motivo della colla
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adesiva, con un marmocchio che dopo aver causato l’adesione indelebile di due donne a una panchina, finisce vittima della sua stessa burla, fino all’irresistibile Le Matelas alcoolique, dove un ubriaco, avendo trovato il suo giaciglio in un materasso in corso di riparazione, vi finisce cucito dentro, provocando i più strani sussulti all’anziana coppia di sposi cui viene consegnato... Per non parlare di Les Résultats du féminisme, realizzato, come tutti i precendenti, nel 1906. La scena è situata in un ipotetico futuro dove i ruoli si sono invertiti: mentre le donne lavorano fuori casa, gli uomini si arrabattono nelle faccende domestiche. In fondo tutto funziona allo stesso modo di sempre, ma al contrario: indifferenti alla fatica degli uomini, le donne passano tutto il loro tempo libero al bar e bevono, fumano, importunano i bei ragazzi... A un certo punto, stanchi di essere lasciati soli a occuparsi di nidiate di bambini e della casa, i mariti si ribellano. Si precipitano al bar e, dopo aver scacciato le donne, celebrano con un brindisi il loro successo. Rifatto negli Stati Uniti nel 1912 sotto il titolo In the Year 2000 (film oggi perduto), Les Résultats du féminisme conduce il comico direttamente nel terreno della satira sociale. A una lettura superficiale, il film potrebbe essere letto come un’avvertimento reazionario circa le probabili, nefaste conseguenze del femminismo. Ma a ben vedere, lo schema del rovesciamento finisce per capovolgere lo stesso messaggio apparente del film: infatti, se nel mondo rovesciato della finzione il comportamento delle donne è tale da motivare e giustificare la ribellione degli uomini, perché mai lo stesso ragionamento non dovrebbe applicarsi alle donne, che nel mondo reale subiscono il medesimo tipo di trattamento? Quello che a un primo livello di lettura potrebbe apparire come un messaggio reazionario, si offre a un secondo livello come una vera e propria incitazione alla rivolta femminile. Capace di passare con agilità dalla féerie (Pierrot assassin, 1901) al melodramma (La Marâtre, 1906), al film storico (Sur la barricade, 1906), al film religioso (La Naissance, la Vie et la Passion de Jesus Christ, 1906), Alice Guy fu anche una pioniera del cinema sonoro. È questo uno degli aspetti più singolari della sua attività, che testimonia delle sue straordinarie doti nel campo della sperimentazione tecnica. Il brevetto del chronophone, un dispositivo di sincronizzazione che permetteva di collegare una macchina da presa a un fonografo, fu depositato da Léon Gaumont nel 1901. Con questa macchina, Alice Guy realizzò, tra il 1902 e il 1906, quasi duecento
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phonoscènes: canzoni, arie d’opera, danze e balletti interpretati da celebri artisti, alcuni dei quali tuttora visibili. Oltre a questi materiali, la cineteca Gaumont (oggi Gaumont-Pathé Archives) conserva un eccezionale documento che mostra Alice Guy durante le riprese di uno di questi film, presso gli studi del chronophone Gaumont, nel 190538. Il metodo di lavorazione delle phonoscènes prefigurava per certi aspetti la televisione. Di fatto, suono e immagine venivano ripresi separatamente. In un primo tempo si registrava la parte sonora, la quale veniva poi usata come base per le riprese della parte visiva, come nel moderno playback. Alice Guy dirigeva pazientemente gli interpreti durante le prove, aiutandoli a calibrare la cadenza dei movimenti e delle espressioni nel modo più esatto possibile. Una volta raggiunto il risultato desiderato si girava, effettuando le riprese in sincronia con il disco. Furono così registrate numerose arie d’opera (per esempio dalla Carmen di Bizet, dal Faust di Gounod, dalla Manon di Massenet) e d’operetta (Véronique di Messager, Mam’zelle Nitouche di Hervé, La Périchole di Offenbach ecc.), canzoni e danze popolari (su motivi italiani, spagnoli, bretoni e perfino afro-americani, come nel caso del cakewalk) e una quantità di canzoni rese celebri dai più acclamati interpreti del café concert (come Polin, Dranem, Mayol, Charlus). E fu solo per un soffio che Alice Guy mancò di filmare il mitico Caruso39. Furono anche fatti alcuni esperimenti di registrazione fuori dagli studi. Nel novembre 1905, Alice viaggiò a lungo in Spagna con il suo operatore di fiducia Anatole Thiberville, filmando soggetti di vario genere, sia muti che sonori. Nella primavera del 1906 una nuova spedizione fu organizzata in Camargue, per ambientare certe scene dell’opera di Gounod Mireille, tratta da un poema di Mistral, nei luoghi stessi in cui si svolge la vicenda. Fu proprio nel corso di questo viaggio che ebbe inizio la relazione di Alice Guy con Herbert Blaché. Se fu un fallimento, oppure un successo Alice e Herbert si erano conosciuti poco tempo prima, all’inizio del 1906. Blaché, di nove anni più giovane di Alice, era stato chiamato a Parigi – dalla succursale londinese della Gaumont presso cui era impiegato – da
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Léon Gaumont, che intendeva affidargli il compito di occuparsi della commercializzazione del chronophone all’estero. Di origini franco-britanniche, Blaché era infatti fluente in varie lingue e Gaumont riteneva che avesse il profilo idoneo per rappresentarlo in terra straniera. Ma poiché quando giunse a Parigi non aveva ancora mai visto il chronophone (né peraltro aveva mai avuto esperienze di regia), Gaumont pensò che fosse una buona idea mandarlo in Camargue come assistente di Alice Guy, perché si familiarizzasse con l’apparecchiatura. Fu in questa occasione che Blaché girò i suoi primi metri di pellicola, con risultati non proprio brillanti (parte del materiale risultò irrimediabilmente sovraesposto; ma è possibile che la causa risiedesse in un difetto tecnico del chronophone, perché lo stesso Thiberville aveva avuto problemi analoghi durante le riprese effettuate in Spagna)40. Al rientro dalla Camargue, Alice fu invitata da Gaumont a recarsi in Germania, dove certi esercenti interessati al chronophone erano in attesa di ricevere chiarimenti sul suo funzionamento. Alice era senza dubbio la persona più indicata per quell’incarico, ma non sapeva il tedesco. Così per la seconda volta Blaché fu nominato suo assistente, con il compito di farle da interprete. Il viaggio durò diverse settimane, durante le quali i due cineasti visitarono vari clienti di Gaumont in varie città tedesche. Poco dopo il loro rientro a Parigi, Alice Guy e Blaché annunciarono il loro fidanzamento. Si arriva così al 1907. Dopo la Germania, Gaumont puntava a inserirsi col cinema sonoro nel mercato americano. Il brevetto del chronophone aveva trovato degli acquirenti a Cleveland (Ohio) e Gaumont propose a Blaché di recarsi negli Stati Uniti come suo rappresentante. Di conseguenza furono affrettati i preparativi per il matrimonio e alla fine di febbraio la coppia si imbarcò alla volta del Nuovo Mondo. Ma a Cleveland le trattative non andarono nel modo sperato. Dopo alcuni mesi di inutili tentativi di trovare dei finanziatori, con Alice in attesa di un figlio, Blaché chiese a Gaumont di affidargli la direzione dei nuovi studi del chronophone a Flushing, nello Stato di New York. Fu in questi studi che Blaché iniziò la sua attività di regista e direttore di produzione, dedicandosi alla realizzazione di phonoscènes in lingua inglese (evidentemente, uno dei problemi della commercializzazione del chronophone all’estero era che non poteva prescindere da un’offerta di prodotti
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specifici per ogni diverso paese). Tra gli interpreti scritturati da Blaché in questo periodo, è importante ricordare Lois Weber, una giovane cantante e attrice che stava per diventare una tra le più prolifiche registe e sceneggiatrici di tutti i tempi. Secondo McMahan, sarebbe stata anzi proprio una phonoscène a dare a Lois Weber (e al marito Phillip Smalley) la prima occasione di dirigere un film. “Anche se con ogni probabilità Guy non ebbe alcuna voce in capitolo nella decisione di scritturare Weber, è ragionevole pensare che il precedente da lei stabilito presso la Gaumont e con il marito abbia agevolato Weber, facendo sì che potesse avere la sua occasione”41. Gaumont abbandonò la produzione americana di phonoscènes nel 1910. Blaché continuò a lavorare per lui fino al 1913, ma solo in qualità di agente commerciale. Di conseguenza gli studi di Flushing erano inutilizzati e Alice fu tentata di rimettersi al lavoro. Insieme al marito noleggiò da Gaumont gli spazi e l’attrezzatura e alla fine del 1910 mise in distribuzione i suoi primi film americani. Nacque così, sotto la presidenza di Alice Guy, la Solax, casa di produzione in cui Blaché figurava unicamente nel ruolo amministrativo di business manager. Naturalmente è verosimile che Blaché abbia coadiuviato la moglie nella direzione artistica degli studi fin dall’inizio, ma a parte gli impegni che doveva onorare con Gaumont, svariati documenti d’epoca evidenziano chiaramente come le redini della produzione fossero saldamente nelle mani di Alice Guy. Tra il 1911 e il 1914 diversi giornalisti ebbero l’occasione di visitare gli studi Solax e le loro testimonianze uscirono in forma di reportage su quotidiani e riviste specializzate. Una selezione di questi articoli è pubblicata in appendice al presente volume, ma è interessante qui riportarne alcuni stralci. Poco dopo Madame fu di nuovo interrotta. Questa volta qualcuno le chiedeva di essere ricevuto. Voleva proporsi per un posto di regista. Lei gli parlò di film e di produzione cinematografica, del gusto del pubblico e delle richieste degli esercenti. Il visitatore era dell’opinione che il pubblico sarebbe pronto ad accettare qualsiasi cosa gli venisse proposta nella forma di un film. Si sbagliava. Madame parlò con lui quel tanto che serviva, senza essere scortese. Gli aveva “preso le misure” e dunque si alzò e mise fine all’intervista, decidendo tra sé e sé che il candidato “non avrebbe funzionato”.
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Il telefono squillò prima che fosse riuscita a riprendere il lavoro e una voce dall’altra parte del filo la informò che la sua presenza era assolutamente necessaria in officina. Prima che avesse avuto il tempo di lasciare l’ufficio, la testa di uno dei registi spuntò dalla porta, chiedendo se “Madame potrebbe gentilmente venire in studio, per darci la sua opinione su una scena che stiamo girando”. Siccome non era possibile fare le due cose insieme, Madame si limitò ad annuire e, procedendo in modo sistematico, andò prima a risolvere il problema in officina e poi a dare all’incerto regista il beneficio dei suoi consigli e della sua lunga esperienza. Incidenti come questi accadono di continuo nella sua giornata di lavoro. È l’atmosfera nella quale lavora tutto il giorno. Una volta, in un momento di sfinimento, esclamò sorridendo: “Se potessi dividermi in dieci non sarebbe ancora abbastaza. Madame serve qui e serve là. Tutti la vogliono dappertutto”. Dalle nove di mattina alle sei o alle sette di sera madame Blaché è sempre al lavoro. [...] Madame Blaché è un esempio sorprendente di donna moderna che si mette in affari e che lavora come un uomo. Riesce a realizzare ciò che tanti uomini tentano; ad avere successo in un settore nel quale centinaia di uomini hanno fallito42. Nove anni fa madame Blaché venne in questo paese come moglie e consigliera di Herbert Blaché, il rappresentante americano della Gaumont. Non parlava una sola parola di inglese e i suoi amici si contavano sulle dita di una mano. Oggi è divenuta la figura dominante di un’impresa e di uno studio cinematografico, da lei stessa organizzato e costruito, dai quali ricava un profitto di circa cinquanta o sessanta mila dollari all’anno. [...] La Dama Fortuna ha ben poco a che fare con la carriera di madame Blaché. Ciò che è riuscita a realizzare è solo il risultato dei suoi sforzi personali e del pensiero e delle qualità di cui è dotata. Il progetto è stato pensato, studiato e lanciato nel modo più attento, senza lasciar nulla al capriccio del caso. [...] Un giorno si scriverà una biografia di madame Blaché, perché tutti possano conoscere i dettagli della sua vita semplice e fortunata, ed
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ecco alcuni dei fatti che conterrà. Fu con il suo denaro (non molto) che fece nascere la Solax; costruì uno stabilimento su un lotto di terreno confinante con gli studi Gaumont a Flushing e, con un occhio alla possibilità di riuscire a fare qualcosa di valore, assunse la presidenza della compagnia e raccolse attorno a sé i talenti necessari, supervisionando e controllando ogni dettaglio43. Se venite trattati con cortesia e considerazione fin dall’inizio, come lo fui io in occasione della mia visita agli studi Solax di Flushing, potete scommettere sul fatto che a dirigere gli affari vi sia qualche sorta di illuminazione o di superiore educazione. In questo caso, la testa dell’impresa, l’inizatrice, la capitalista, la direttrice artistica, la caporegista è una raffinata donna francese, madame Alice Blaché. [...] Ebbi l’occasione di apprezzare la sua efficienza in una molteplicità di ruoli prima che la giornata volgesse al termine, specialmente nel vederla dirigere l’azione di una scena particolarmente complessa. [...] Madame Blaché dà i suoi segnali con tanta calma e compostezza che si direbbe che ci sia già stato un mese di prove in costume. Non è mai inquieta, mai agitata; mai irritata dagli sforzi invadenti di un interprete di secondo piano per farsi notare. Con poche, semplici istruzioni, pronunciate senza alcuna emozione apparente, dirige l’intreccio dei movimenti sulla scena come un capo militare dirigerebbe le manovre di un esercito44. Ecco un punto interessante che piacerà alle industriose donne americane. Madame Blaché si decise a fondare la Solax perché odia lo spreco. Aveva tempo. Aveva le capacità. Le piaceva lavorare nel cinema. E voleva far uso di queste doti. [...] Tutto ciò mi fu dimostrato, se dimostrazione fosse stata necessaria, mentre sedevo nel grande studio, osservandola durante la regia di uno dei suoi film. Quando fu terminata la preparazione delle scene, gli attori furono pronti e l’operatore in posizione, madame Blaché si infilò il cappotto di pelliccia (fuori tirava un brutto vento e anche il grande studio era gelido), avanzò verso la macchina da presa e strizzò l’occhio nell’obiettivo.
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Gli attori cominciarono a recitare, la macchina a ronzare e Madame a dirigere, con voce piacevole e cangiante. “Oh, così non va”, esclamò toccando il braccio dell’operatore e muovendosi in direzione degli attori. “Bisogna mettere più sentimento. Così”, disse, mentre collocava il braccio della giovane attrice nella posizione desiderata e sottolineava il ‘punto’ della scena e le varie battute. “Bene. E adesso riproviamo”. Ecco dunque come Madame produce i suoi film. Ogni cosa è condotta con gentilezza e delicatezza. Madame Blaché ama i suoi collaboratori e cerca di aiutarli come aiuta se stessa45.
Queste testimonianze danno chiaramente l’idea della posizione occupata da Alice Guy (ora madame Blaché) all’interno della Solax. Cuore pulsante di tutta l’attività, era produttrice e regista al tempo stesso. Come alla Gaumont, dove nell’ultimo periodo era stata alla testa di una squadra di almeno cinque tra sceneggiatori e metteurs en scène (Victorin Jasset, Louis Feuillade, Romeo Bosetti, Etienne Arnaud, Emile Cohl), anche alla Solax Alice supervisionava il lavoro di vari registi, come Edgar Lewis, Edward Warren, Wilbert Melville e ovviamente lo stesso Blaché. In tal modo, riuscì fin dall’inizio a stabilire un ritmo di produzione elevatissimo, pari a circa tre nuovi film alla settimana. Nondimeno, in aggiunta a questa infaticabile attività come produttrice, trovava il tempo di dirigere personalmente numerosi film. Addirittura, secondo McMahan, la maggior parte degli oltre trecento one-reelers (film in un rullo, corrispondenti a una durata di circa quindici minuti) prodotti alla Solax tra il 1910 e il 1914 sarebbero da attribuirsi a lei46. Ancora una volta è impossibile dire la parola definitiva sulla maternità (o, alternativamente, la paternità) di questi film. Come alla Gaumont, anche alla Solax i registi non venivano accreditati nei titoli di testa e solo raramente venivano menzionati nei comunicati stampa. Tutto ciò che sappiamo è che Alice Guy Blaché si trovava a capo dell’intera produzione della Solax e che vi diresse dei film. Tra l’altro, mentre era impegnata in tutto questo affannoso lavoro, riuscì anche a occuparsi della costruzione di un nuovo stabilimento a Fort Lee, nel New Jersey, dove la produzione fu trasferita nell’estate del 1912. I nuovi studi, più grandi e meglio attrezzati di quelli
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di Flushing, interamente finanziati dai coniugi Blaché, costarono 100.000 dollari; Alice vi investì tutto il ricavato della vendita delle azioni Gaumont di cui era entrata in possesso nel corso degli anni47. Senza dubbio, avendo dato alla luce il secondogenito Reginald nel corso della stessa estate 1912, non fu in grado di occuparsi del trasferimento, ma c’è da scommettere che non rimase a lungo inattiva. A Fort Lee i Blaché avevano preso casa proprio di fronte al nuovo studio, con ogni probabilità per permettere ad Alice di gestire più agevolmente gli impegni familiari e quelli di lavoro. Anche se in molti casi l’attribuzione dei film realizzati alla Solax resta un grande punto interrogativo, è appassionante ritrovare in una produzione per tanti altri aspetti convenzionale una serie di anomalie abbastanza sorprendenti. La Solax produceva melodrammi, western, film di ambientazione militare (specialità di Wilbert Melville, ex ufficiale dell’esercito americano), commedie. La maggior parte di questi non si distingue in modo significativo dal cinema corrente, ma ci sono eccezioni. Per esempio, A Fool and His Money (1912) è uno dei primi film all-black della storia del cinema, interamente interpretato da attori di colore. Qui, invece di una facile comicità basata sullo sfruttamento dei soliti stereotipi, la regia mette in scena una commedia romantica parzialmente ambientata in un contesto borghese, ciò che suggerisce che il film fosse destinato a un pubblico di colore: come sembra intendere il “Moving Picture World” definendolo “una storia d’amore con un tocco di commedia nera, fresca e umana [...] che pensiamo piacerà ovunque sia accettato un film con attori di colore”48. Non meno particolare è il caso di Algie the Miner (1912), che McMahan attribuisce con certezza ad Alice Guy in base alla presenza, in forma addirittura estremizzata, del motivo del “travestitismo comportamentale”49, che a suo avviso va ritenuto uno dei tratti distintivi della sua produzione. Con questa espressione l’autrice si riferisce alla messa in scena di personaggi femminili che assumono comportamenti tipicamente maschili, o viceversa. Un esempio tipico è Two Little Rangers (1912), un western che prende le mosse dal salvataggio da parte di una famiglia di coloni di una donna brutalizzata dal marito. Furioso, il marito si vendica e fa precipitare il capofamiglia da un cornicione di roccia. L’uomo riesce a salvarsi grazie all’intervento della figlia maggiore, che con grande abilità si serve di un lazo per aiutarlo a risalire. Ma la vera eroina del film è la figlia minore, una
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bambina di soli dieci anni: dopo aver messo in fuga il cattivo puntandogli contro una pistola, aiuta la sorella a incendiargli la casa e, quando l’uomo si allontana per sfuggire alle fiamme, lo costringe sul bordo di un burrone agitando minacciosamente la pistola. Una bambina coraggiosa compare già in un film Gaumont del 1906 (Une Héroine de quatre ans) e il tema della donna intraprendente che si difende da sola con un’arma in pugno è presente in altri film della Solax, come per esempio Greater Love Hath No Man (1911), in cui la protagonista respinge le avances indesiderate di un personaggio maschile minacciandolo con una rivoltella. Ma in termini di “travestitismo comportamentale”, la trama e la messa in scena di Algie the Miner si spingono ben oltre, producendo quello che si può senz’altro ritenere uno dei primi film queer della storia del cinema. Algie, un giovane piuttosto lezioso, ha trovato una ragazza che lo ama e vorrebbe sposarlo, ma il padre di lei reagisce inorridito non appena lo vede, scioccato dal suo aspetto e dai suoi modi effemminati. Siccome la figlia insiste, il padre detta le sue condizioni: il matrimonio si farà solo se Algie saprà dimostrare di essere un uomo trascorrendo un anno nel West. Allegro come un fringuello, il ragazzo fa le valigie e si mette in viaggio. Quando smonta dal treno, si rivolge a due omaccioni per ottenere informazioni e, non appena le riceve, salta al collo di uno di loro, baciandolo in segno di gratitudine. Furente, l’uomo estrae immediatamente la pistola ed è sul punto di sparargli quando il suo compagno, impietosito dalle suppliche di Algie, lo convince a lasciar perdere: sollevato, il ragazzo bacia anche lui... Sconcertati, ma anche evidentemente inteneriti da un tale comportamento, i due decidono di prendere Algie con loro per insegnargli a essere un uomo. La sua educazione è affidata a Big Jim, che lo porta a lavorare nella sua miniera, dove spera di trovare l’oro. Così avviene infatti, ma proprio quando insieme hanno appena trovato alcune grosse pepite, arrivano dei banditi che aggrediscono Big Jim. La situazione si risolve per il meglio grazie ad Algie, che impugna la pistola e costringe i banditi alla resa. L’anno è passato e Algie chiede a Big Jim di accompagnarlo dalla sua fidanzata. Alla fine, piuttosto colpito dalla stazza e dalle armi dell’uomo, il padre di lei dà il suo consenso alle nozze. Se questa chiusura sembra riportare il racconto entro binari conformi alla norma eterosessuale, in diversi momenti del film la messa in scena inserisce elementi che possono favorire una lettura
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trasgressiva, come quando Algie, preparandosi a partire, infila in valigia un centrino di pizzo, appena prima di sistemare una piccola rivoltella da donna nella cintura della sua giacca da damerino, puntata in direzione dei suoi genitali. Non meno ambigua e divertente è la scena in cui Big Jim, stanco dei capricci di Algie, lo getta su un letto della loro baracca. Il travestitismo in senso proprio, con donne che si camuffano da uomini e viceversa, è presente in diversi altri film, tra cui Cupid and the Comet (1911), in cui una figlia rinchiusa in casa dal padre gli ruba gli abiti prima di fuggire, costringendolo a inseguirla vestito da donna, e What Happened to Officer Henderson (1911), gustosa commedia degli equivoci in cui la moglie di un poliziotto si convince che il marito abbia un’amante quando trova nell’armadio gli indumenti femminili di cui l’uomo si serve per mimetizzarsi tra le clienti dei negozi e individuare le borseggiatrici, pratica che svolge con un evidente piacere... Altre commedie, come A House Divided, Matrimony’s Speed Limit e Burstop Holme’s Murder Case (tutti del 1913) affrontano con sottile ironia il tema del matrimonio e degli equilibri di potere all’interno della coppia. Ciò che è notevole in questi film è la vivacità e la decisa soggettività di cui sono dotati i personaggi femminili, sempre presentati come pari ai loro partner in termini di responsabilità e capacità decisionali. Nelle Memorie, Alice Guy sottolinea il suo interesse nei confronti di questo tema, ricordando come proprio la sua esperienza di collaborazione professionale con il marito sia alla base del soggetto di uno dei suoi ultimi film, House of Cards (1917)50. Purtroppo, questo ideale di armonia matrimoniale e professionale era destinato a infrangersi nel giro di pochi anni. Nel giugno del 1913 Herbert Blaché, scaduto il contratto che lo legava a Gaumont, assunse la presidenza della Solax. Molti studiosi hanno interpretato la rinuncia di Alice Guy a proseguire nella direzione della casa come una delega d’autorità, presentandola come l’origine di tutti i suoi guai successivi51. In effetti da questo momento la figura di Herbert Blaché acquisisce un’importanza sempre maggiore nelle scelte produttive, a partire dalla creazione, nel corso dello stesso anno 1913, di un nuovo marchio a lui intestato, la Blaché American Features, seguita dal lancio di altri marchi come la Popular Plays and Players e la U.S. Amusement Corporation52. L’esasperato attivismo di Blaché sul piano commerciale può effettivamente indurre il sospetto di
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una gestione amministrativa non proprio brillante, ma bisogna ammettere che il contesto economico in cui furono prese queste iniziative era particolarmente intricato e complesso. Del resto, nelle Memorie, Alice Guy non avanza alcuna recriminazione nei confronti del marito, lasciando intendere di aver condiviso e approvato tutti i passaggi di un percorso che sarebbe presto sfociato nella fine della sua attività professionale53. Gli anni in questione rappresentano un periodo di grandi trasformazioni per l’industria cinematografica americana. Da un lato, il successo dei primi lungometraggi spingeva i produttori a rivedere radicalmente le modalità di realizzazione dei loro film e a investire più denaro in un numero inferiore di titoli, con un conseguente incremento del fattore di rischio. Dall’altro, il consolidamento delle società di distribuzione indipendenti che si contrapponevano agli interessi del trust di Edison e soci – un’organizzazione che aveva avuto fino a questo momento un controllo quasi totale sul mercato – stava innescando un grosso processo di ristrutturazione industriale, che destabilizzava alla radice il quadro commerciale. Sostenuti da cordate di esercenti stanchi di subire le prepotenze del trust, questi distributori (i primi nuclei di quelle che sarebbero divenute le majors di Hollywood) divennero presto in grado di anticipare le somme necessarie per girare i grandi film che il mercato richiedeva e, di conseguenza, anche di dettare le proprie condizioni ai produttori. All’inizio, i film della Solax erano distribuiti dalla Sales Company, una delle società indipendenti che si contrapponevano al trust. Spinto senza dubbio dalla volontà di difendere l’autonomia della Solax, nel 1913 Herbert Blaché diede vita a una propria casa di distribuzione, la Film Supply Company. Non molto tempo dopo, la Sales Co. propose ai Blaché di rilevare gli studi e il marchio Solax, offrendo loro 200.000 dollari e la possibilità di continuare a lavorare come registi a contratto per un salario di 600.000 dollari l’anno54. Gelosi della propria autonomia, i Blaché rifiutarono; ma fu uno sbaglio. Nel giro di pochi mesi si trovarono costretti ad accettare le condizioni di altri distributori per finanziare i loro lungometraggi e, pur continuando ad avere la proprietà degli studi di Fort Lee, a lavorare in pratica sotto contratto. Nell’autobiografia, Alice Guy riconosce l’errore, ricordando come altri produttori che avevano accettato le condizioni della Sales Co. avessero visto in breve tempo moltiplicato il valore delle loro azioni55. Già nel breve periodo felice della Solax, Alice Guy iniziò a sperimentarsi in
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formati più impegnativi del classico one-reeler. Tra il 1912 e il 1914 la Solax mise in distribuzione un certo numero di film in tre rulli che ponevano le basi per la transizione al lungometraggio, definitivamente sancita con la formazione della Blaché Features. Tra questi, vale la pena di ricordare: Fra Diavolo (1912), ispirato alla storia di un celebre bandito calabrese, già protagonista di un’opera lirica di D’Aubert; Beasts of the Jungle (1912), un film avventuroso di ambientazione esotica, che sfruttava l’attrattiva delle belve feroci; Dick Whittington and His Cat (1912), adattamento di una fiaba tradizionale inglese, nonché, a detta di molti, una delle migliori regie di Alice Guy; The Pit and the Pendulum (1913), dal racconto omonimo di Edgar Allan Poe. Poi, nel corso del 1914, la crisi precipitò. La Solax e la Blaché Features furono liquidate e al loro posto fu introdotta la Popular Plays and Players. Lo spostamento degli equilibri di potere a favore dei distributori è testimoniata dal fatto che da questo momento Alice Guy non ebbe più la possibilità di scegliere liberamente né i soggetti né gli attori dei suoi film, dovendo sottostare alle imposizioni dei finanziatori. Malgrado ciò, sembra fosse riuscita a stabilire un buon rapporto con la prima ‘diva’ che ebbe l’occasione di dirigere, Olga Petrova, un’attrice di origine gallese che aveva ottenuto una certa notorietà sulle scene facendosi passare per russa e che ora mirava a imporre il suo personaggio di vamp conturbante e fatale anche sugli schermi. Con lei Alice Guy girò cinque film: The Tigress (1914), The Heart of a Painted Woman (1915), The Vampire (1915), My Madonna (1915), What Will People Say? (1916). Anche se finora aveva privilegiato personaggi femminili di un tipo ben diverso, sembra che Alice fosse riuscita ad affrontare la figura della ‘donna perduta’ con un approccio relativamente originale. Il modo ipotetico è d’obbligo, dal momento che nessuno di questi film è sopravvissuto. Secondo McMahan, sia The Tigress che The Vampire sembrerebbero ricollegarsi a certi melodrammi del primo periodo della Solax, definiti forgiveness films, basati sull’idea che “il sistema sociale fosse congegnato in modo da penalizzare le giovani donne che non potevano contare sulla protezione sociale e finanziaria di un uomo”56. Inoltre, in queste storie, le donne perdute interpretate da Petrova agivano in un contesto carico d’azione e di intrighi internazionali a sfondo spionistico, nel quale potevano dar prova delle loro capacità di iniziativa e in tal modo redimersi dal loro oscuro passato.
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Anche The Ocean Waif (1916), uno dei due lungometraggi di Alice Guy tutt’ora visibili, dimostra la particolare sensibilità della regista nei confronti dei personaggi femminili. Qui una giovane orfana (Doris Kenyon) cerca rifugio in un’antica villa abbandonata per sfuggire ai maltrattamenti e alle molestie del padre adottivo. La casa è affacciata sul mare e la ragazza si diverte a fingere d’esserne la padrona. Uno scrittore di successo (Carlyle Blackwell) che sta cercando un luogo tranquillo dove lavorare al suo nuovo libro vede la villa dal suo yacht e decide di prenderla in affitto. Ne nasce una storia d’amore che ha il suo fulcro di interesse nella differenza di classe tra i due personaggi e che, dopo una serie di drammatiche complicazioni, finisce per risolversi felicemente nel matrimonio. Al di là del convenzionale romanticismo della sceneggiatura (firmata da Frederick Chapin), il film è interessante perché mostra come per questa data la regista “avesse ormai perfettamente acquisito l’uso delle riprese in soggettiva e del montaggio parallelo divulgato da Griffith. Ciò che è notevole (se non addirittura unico) in questa storia d’amore è il modo in cui essa assegna eguale importanza ai punti di vista dei due protagonisti, riservando pochissimo spazio al punto di vista del narratore onnisciente”57. I Blaché continuarono a dirigere e a produrre film presso gli studi Solax fino alla metà del 1917, ma la loro capacità di controllo sulle scelte produttive divenne sempre più labile. Nel suo libro Bachy sostiene a un certo punto che Blaché avrebbe perso somme considerevoli al gioco, ma non fornisce elementi a supporto di questa affermazione58. Nel testo che pubblichiamo in appendice, Simone Blaché parla invece di perdite in Borsa conseguenti a una serie di operazioni finanziarie sbagliate (del resto ci si può chiedere se l’informazione non sia riferibile, piuttosto che a vere e proprie speculazioni di Borsa, al crollo delle azioni delle sue società, sempre più strozzate tra i giganti che avevano ormai assunto il controllo del mercato). Quello che è certo è che nel 1917 il trentacinquenne Blaché si lasciò irretire dal fascino di un’attrice, Catherine Calvert, che era venuta a lavorare alla Solax dietro raccomandazione dei finanziatori, e fuggì con lei a Hollywood, lasciando Alice a gestire da sola una situazione ormai insanabile. Nonostante i problemi, in questo periodo Alice riuscì a ancora a girare un film vivacissimo, pieno di humor e di trovate. Interpretato dalla briosa Bessie Love, affiancata in una splendida coppia comica dall’attrice caratterista
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Flora Finch nel ruolo di sua zia, The Great Adventure è la storia di una ragazza di provincia amante del teatro, che parte per cercare il successo nella grande città. Riesce a ottenere una parte in un musical, ma deve subire le attenzioni indesiderate dell’attore protagonista, un vanaglorioso dongiovanni che le promette grandi cose. Con tutta la sua ingenuità e la sua inesperienza, la ragazza sembrerebbe una preda ideale, ma si rivela più furba di lui. Fingendo di stare al gioco, accetta il suo invito a cena, chiedendogli come unica condizione di portarla prima allo zoo. Qui, con la scusa di dargli l’occasione di dimostrare le mille abilità di cui si vanta, lo sottopone a una tale serie di tiri mancini, che il malcapitato corteggiatore preferisce darsela a gambe, lasciando la giovane libera di convolare felicemente a nozze con il suo innamorato. Distribuito nel 1918 dalla Pathé, The Great Adventure fu l’ultimo film girato da Alice Guy a Fort Lee, anche se la maggior parte degli esterni furono realizzati in Florida. In seguito, Alice cercò inutilmente di inserirsi nell’ambiente di Hollywood, fungendo da aiuto regista in alcuni film diretti dal marito, uno dei quali si intitolava, ironicamente, The Divorcée (1919)59. Nel 1920 andò in soccorso del connazionale Léonce Perret, aiutandolo a onorare un contratto con la Pathé per un film di cui egli non riusciva a venire a capo, Tarnished Reputations; fu questa la sua ultima regia. Dopo il divorzio da Blaché, avvenuto nel 1922, non le restò che occuparsi della liquidazione degli studi di Fort Lee, che il marito aveva abbandonato al loro destino. Nel 1924 tornò in Francia insieme ai suoi figli. Qui cercò ancora di trovare lavoro come regista, produttrice, sceneggiatrice, ma tutti i suoi sforzi risultarono vani. Si dedicò ai suoi figli, cercando di garantire loro, come ricorda Simone Blaché nella sua testimonianza, un’esistenza il più possibile dignitosa, nonostante le condizioni economiche precarie in cui versava la famiglia (sembra che Blaché non pagasse gli alimenti). Nelle ultime righe delle Memorie, Alice Guy si chiede: è stato un fallimento, oppure un successo? Ancora una volta, nel lasciare la risposta in sospeso, trova il modo migliore per dire quella che è stata l’esperienza di tante, se non di tutte le donne che, come lei, hanno voluto passare attraverso lo specchio, vedere con i propri occhi, contribuire a creare la realtà di quel mondo non proprio incantato che è il cinema. Nella storia del cinema delle donne non ci sono figure che abbiano conosciuto un successo pieno, du-
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revole, costante. Come ha scritto Annette Förster, le loro sono tutte storie “di fama e di fallimento”60, nelle quali i due termini non si elidono l’uno con l’altro, ma coincidono in un modo particolarmente pregnante. Al di là degli esiti più o meno fortunati, il più grande successo di Alice Guy e di tutte le altre che l’hanno seguita è stato proprio quello di aver tentato, pure in un contesto sociale e culturale largamente sfavorevole, di imporre uno sguardo, una progettualità, un’iniziativa femminile autonoma e autorevole. Da questo punto di vista, si può dire certamente che non sia stata lei, ma il cinema a fallire questa grande prova, a chiudersi di fronte alla novità e alla creatività di un desiderio femminile che tentava di renderlo migliore di quello che era. In questo senso paradigmatica, la storia di Alice è qui a ricordarci che la lotta per l’emancipazione non è mai vinta una volta per tutte e che ci sono fallimenti che valgono più di tanti successi, perché indicano in anticipo la via del cambiamento. Come disse una volta Mary Pickford, “per noi fallire non significa cadere, ma non provare ad alzarsi”. Ringraziamenti La preparazione di questa edizione ha potuto avvalersi dell’aiuto e dei consigli di molte persone. Occorre innanzitutto citare Pia Brancadori, che per prima ha concepito il progetto, inseguendolo tenacemente malgrado le numerose difficoltà iniziali, e Giovanna Grignaffini, che lo ha subito incoraggiato e sostenuto con grande convinzione. Jane Gaines non ha fatto mancare i suoi consigli e una serie di preziose informazioni, in particolare fornendo i contatti con i principali studiosi americani di Alice Guy. Grazie alla disponibilità di Alison McMahan e Anthony Slide è stato possibile raggiungere l’erede della regista, Adrienne Channing, che ha generosamente concesso i diritti di pubblicazione del testo. A Slide si deve un particolare, ulteriore ringraziamento per aver messo a disposizione i testi raccolti nell’Appendice, quasi tutti già pubblicati in The Memoirs of Alice Guy Blaché, edizione americana delle memorie dell’autrice da lui curata nel 1979 (Lanham, Md. and The Scarecrow Press, London, pp. 113-142). Carla Petrotta, curatrice della pri-
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ma edizione italiana (La fata dei cavoli. Autobiografia di una pioniera del cinema, Roma, Lestoille, 1979), ha offerto il suo partecipato sostegno in una serie di appassionate discussioni. Annamaria Tagliavini e Fernanda Minuz hanno creato le condizioni indispensabili per trasformare i desideri in realtà, accogliendo la pubblicazione del testo all’interno del progetto Non solo dive. Pioniere del cinema, che ha poi ricevuto il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività culturali. L’intelligente disponibilità di Gianluca Farinelli ha permesso di inaugurare la fase operativa. George R. Willeman, Kim Tomadjoglou e Mariann Lewinsky sono stati di utilità strategica nel reperimento delle immagini e Azzurra Celli ha coordinato alla perfezione gli aspetti organizzativi del progetto. Un ringraziamento è dovuto anche a Sandro Toni e Angelita Fiore, che hanno collaborato alla traduzione. Infine, Paola Cristalli ha fornito una cura editoriale come sempre impeccabile, che ha trasformato il lavoro in un vero piacere.
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Alice Guy, La Fée aux choux. Autobiographie d’une pionnière du cinéma, a cura di Claire Clouzot, Denoël-Gonthier, Paris 1976. Cfr. infra, p. 55. Amelie Hastie, Circuits of Memory and History: The Memoirs of Alice Guy-Blaché, in A Feminist Reader in Early Cinema, a cura di Jennifer M. Bean e Diane Negra, Duke University Press, Durham and London 2002, pp. 38-39. Secondo Hastie (op. cit., p. 56, n. 35), “concepire Alice Guy come madre del cinema o anche come madre o progenitrice della teoria e della storia femminista del cinema pone potenzialmente delle limitazioni al nostro di percepire la sua posizione nella storia. [...] Definire qualsiasi donna come madre di un’istituzione comporta il rischio di ridurre la considerazione che si può avere della sua importanza continuativa in quel campo, nella misura in cui tende a presentarla come la progenitrice il cui compito è già stato assolto. Nel caso di Alice Guy, altre connessioni tra il suo ruolo materno e il suo lavoro nel cinema hanno prodotto concezioni stimolanti, ma a volte riduttive, della sua figura. Per esempio, diversi autori collegano la nascita del suo secondo figlio al completamento degli studi Solax [a Fort Lee]. Anche se questa connessione può stimolare una lettura di come la sfera pubblica possa strutturarsi nei termini di uno spazio femminile (cioè a dire come una famiglia o come una
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casa), potrebbe anche produrre un’interpretazione del suo lavoro come unicamente legato alla vita privata e familiare”. Les Femmes metteurs en scène, “Le Temps”, 30 septembre 1933, p. 6. La notizia è riferita da Victor Bachy (Alice Guy-Blaché. La première femme cineaste du monde, Institut Jean Vigo, Perpignan, 1993, p. 320), il quale ebbe modo di vedere una copia originale della lettera conservata dalla cineasta. Secondo l’autore, la lettera (oggi presumibilmente presso il fondo donato dalla nuora della cineasta, Roberta Blaché, al Museum of Modern Arts di New York) conteneva tra l’altro una serie di informazioni “sui rapporti, brevi ma importanti, [di Alice Guy] con Germaine Dulac”. Henri Gallet aveva cominciato come imbonitore ed esercente prima di lavorare per qualche mese alla Gaumont, probabilmente nel 1904, in un ruolo imprecisato, ma certamente di secondo piano. Negli anni Quaranta, quando Alice Guy viveva in Svizzera, fu intervistato da Georges Sadoul e dichiarò di essere il regista di una quarantina di film, tra cui La Fée aux choux, da lui fatto risalire al 1904. Sadoul prese per buone le sue affermazioni e nella prima edizione della Histoire générale du cinéma (vol. 2: Les Pionniers du cinéma de Méliès à Pathé, 1897-1909, Denoël, Paris 1947, pp. 380-381) scrisse che la Gaumont aveva editato “una quarantina di suoi film, scene comiche o di magia, quasi tutti girati in esterni o davanti a scenografie rudimentali”. In realtà, secondo Bachy (op. cit., p. 105), Gallet poté lavorare negli studi Gaumont al massimo come assistente e fu licenziato dopo essere stato accusato di vendere informazioni sui film in lavorazione alla Pathé (benché la versione da lui fornita a Sadoul fosse che era stato invece il capo-regista della Pathé, Ferdinand Zecca, a copiare i suoi film). In ogni caso, dopo aver lasciato la Gaumont, uscì definitivamente dal mondo della produzione e tornò a dirigere un cinema, il Cosmorama. Cfr. infra, p. 86. Alice Guy visse con Simone fino alla morte, seguendola in tutti gli spostamenti legati alla sua carriera diplomatica, iniziata presso l’Ambasciata statunitense a Parigi nel 1940. Fu quindi a Ginevra dal 1941 al 1947, a Washington D.C. dal 1947 al 1952, a Bruxelles dal 1958 al 1965 e infine nel New Jersey, dove morì nel 1968. La prima edizione italiana, La fata dei cavoli. Autobiografia di una pioniera del cinema, fu pubblicata nel 1978 a cura di Carla Petrotta, presso l’editore Lestoille. Cfr. Alice Guy, La Fée aux choux, cit., p. 9. Cfr. Bachy, op. cit., e Alison McMahan, Alice Guy-Blaché: Lost Visionary of the Cinema, Continuum, New York and London 2003. Il discorso fu pubblicato in “Bullettin de l’Association française des ingénieurs et techniciens du cinéma”, numéro hors série, 1955, sotto il titolo Quelques souvenirs sur madame Alice Guy-Blaché, la première femme “metteur en scène”. Secondo la data fornita da Alice Guy; la figlia Simone indica il 1955 (cfr. infra, p. 163). Cfr. René Jeanne, Soixante ans après ses debuts, la doyenne des auteurs de films évoque la prehistoire du cinéma, “Les Nouvelles littéraires”, 24 janvier, 1957; Charles Ford, The First Female Film Producer, “Films in Review”, n. 3, 1964, pp.
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129-145; Frank Leon Smith, Alice Guy-Blaché, “Films in Review”, n. 4, 1964, pp. 224-265. Tra i lavori usciti successivamente ricordiamo Francis Lacassin, La première femme réalisatrice du monde, “Cinéma 71”, n. 152, 1971, pp. 47-56 (riedito in Pour une contre-histoire du cinéma, UGE, Paris 1972, pp. 10-22); Charles Ford, Alice Guy, pionnier authentique, in Femmes cinéastes, ou le triomphe de la volonté, Denoël/Gonthier, Paris 1972; Gerald Peary, Czarina of the Silent Screen: Solax’s Alice Blaché, “Velvet Light Trap”, n. 6, 1972 (riedito nel n. 6, 1977); Anthony Slide, Early Women Directors, A. S. Barnes, New York 1977, pp. 15-33; Victor Bachy, Alice Guy, les raisons d’un effacement, in Les Premières années du cinéma français, a cura di Pierre Guibbert, Institut Jean Vigo, Perpignan 1985, pp. 27-30 (seguito da un’intervista alla regista, pp. 31-42). 16 Le vicissitudini del manoscritto sono riferite dallo stesso Slide nell’introduzione all’edizione americana del testo, The Memoirs of Alice Guy Blaché, a cura di Anthony Slide, Lanham, Md., and The Scarecrow Press, London 1979. 17 Su Musidora, stella dei teatri parigini e indimenticabile interprete dei serial di Louis Feuillade (Les Vampires, 1915-16 e Judex, 1917), ma anche regista di una serie di film realizzati nel corso degli anni Venti, si vedano Patrick Cazals, Musidora, la dixième Muse, Henri Veyrier, Paris 1978, e Annette Förster, Histories of Fame and Failure. Adriënne Solser, Musidora, Nell Shipman, Doctoral dissertation, Universiteit Utrecht, 2005. 18 Tra i primi ad affermare che “prima del 1920 le donne impiegate nell’industria cinematografica americana erano molte di più di quante ve ne siano state in qualsiasi altro periodo della storia del cinema” fu proprio Anthony Slide, nel suo pionieristico lavoro Early Women Directors (cit., p. 9), pubblicato poco dopo il ritrovamento del manoscritto di Alice Guy. Più di recente la stessa tesi è stata sostenuta con forza da Karen Ward Mahar in Women Filmmakers in Early Hollywood, Johns Hopkins University Press, Baltimore 2007. In generale, la ricerca sul contributo femminile all’industria cinematografica durante il periodo muto è stata eccezionalmente stimolata dall’avvio, nel 1996, del progetto internazionale Women Film Pioneers, coordinato da Jane Gaines presso la Duke University, che coinvolge numerose decine di ricercatrici e ricercatori in tutto il mondo e che sfocerà nella pubblicazione di un grande repertorio biografico in due volumi presso la University of Illinois Press. Parallelamente ha preso il via un appuntamento convegnistico dal titolo Women and the Silent Screen, giunto alla IV edizione (Utrecht 1999, Santa Cruz 2001, Montreal 2004, Guadalajara 2006), che ha alimentato una serie di pubblicazioni: oltre al già citato A Feminist Reader in Early Cinema, vanno ricordati i numeri monografici di “Framework” (n. 1, 2005, Cinephilia and Women’s Cinema in the 1920s, a cura di Rosanna Maule e Catherine Russell), “Cinémas” (n. 1, 2005, Femmes et cinéma muet, a cura di Rosanna Maule), “Film History” (n. 2, 2006, Women and the Silent Screen, a cura di Amelie Hastie e Shelley Stamp). Si veda inoltre il volume Non solo dive. Pioniere del cinema italiano, a cura di Monica Dall’Asta, Edizioni Cineteca di Bologna, in corso di pubblicazione.
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Su Elvira Notari, oltre al pionieristico studio di Enza Troianelli, Elvira Notari pioniera del cinema napoletano, 1875-1946, Euroma 1989, si veda Giuliana Bruno, Rovine con vista. Alla ricerca del cinema perduto, di Elvira Notari, La Tartaruga, Milano 1995 (ed. or. Streetwaking on a Ruined Map: Cultural Theory and the City Films of Elvira Notari, Princeton University Press, Princeton 1993). Su Lois Weber si vedano, di Anthony Slide, Lois Weber: The Director Who Lost Her Way in History, Greenwood Press, Westport, CT 1996; e di Shelley Stamp, Lois Weber, Progressive Cinema and the Fate of “Our Work-A-Day Girls” in Shoes, “Camera Obscura”, n. 56, 2004, pp. 140-69, e Lois Weber and the Celebrity of Matronly Respectability, in Looking Past the Screen: Case Studies in American Film History and Method, a cura di Jon Lewis and Eric Smoodin, Duke University Press, Raleigh, NC 2007, pp. 89-116. Su Mabel Normand: Christina Mugno, The Cinema of Mabel Normand, Ph. D. dissertation, Wayne University Press, 1998. Su Nell Shipman: Kay Armatage, The Girl from God’s Country: Nell Shipman and the Silent Cinema, University of Toronto Press, Toronto 2003, e Förster, op. cit. Su Diana Karenne si veda lo studio di Cristina Jandelli, Diana Karenne, la diva autrice, in Le dive del cinema muto italiano, L’Epos, Palermo 2006. Su Musidora, vedi nota 17. Su Germaine Dulac, si veda la rivista 1895, hors série, juin 2006, Germaine Dulac, au-delà des impressions, a cura di Tami Williams e Laurent Varey. 20 Mahar, op. cit., p. 133 e sgg. 21 Su Dorothy Arzner e Ida Lupino si vedano Judith Mayne, Directed by Dorothy Arzner, Indiana University Press, Bloomington 1994, e Queen of the ‘B’s: Ida Lupino Behind the Camera, a cura di Annette Kuhn, Greenwood Press, Westport, CT 1995. 22 Gaines, Of Cabbages and Authors, in A Feminist Reader in Early Cinema, cit., pp. 88-118. 23 Gaines, op.cit., p. 109. 24 Lacassin, Pour un contre-histoire du cinéma, cit., p. 13. 25 Si vedano le notizie fornite da McMahan, op. cit., pp. 19-22, e da Sabine Lenk e Graham Melville negli articoli pubblicati in appendice allo stesso volume, pp. 277-287. 26 Le Cinéma premier, 1897-1913, Gaumont Video, 2008: in sette DVD, pari a circa sette ore di durata, il cofanetto contiene sessantaquattro cortometraggi e un mediometraggio attribuiti ad Alice Guy, nonché un documentario sulla vita dell’autrice, oltre a un’ampia selezione di film di Louis Feuillade e Léonce Perret. Negli Stati Uniti sono disponibili: The Making of an American Citizen (Solax, 1913), in The Movies Begin. A Treasury of Early Cinema (Vol. 5: Comedy, Spectacle and New Horizons), Kino International, 2002; Matrimony Speed Limit (Solax 1913) e A House Divided (Solax, 1913), in Origins of Film (Vol. 3: First Women Filmmakers, Alice Guy Blaché and Lois Weber), Image Entertainment, 2001; The Ocean Waif (U. S. Amusement Corporation, 1916), Kino International, 2008. 27 In realtà, il primo tentativo in questo senso risale al 1927, quando Alice Guy si recò alla Library of Congress di Washington D.C. per rinvenire copie dei suoi film da 19
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utilizzare per cercare lavoro. Un secondo tentativo ebbe luogo tra il 1947 e il 1952, periodo durante il quale la cineasta visse con la figlia nella stessa città (vedi nota 10). Per alcuni recenti contributi sul cinema di Alice Guy, si vedano: Michelle Millar, Alice Guy: A Life in Motion, “French Cultural Studies” n. 7, 1996, pp. 229-245; Gwendolyn Audrey, Performativity and Gender in Alice Guy’s La Vie du Christ, “Film Criticism”, 1998, pp. 6-17; Barbara McBane, Imagining Sound in the Solax Films of Alice Guy Blache: Canned Harmony (1912) and Burstop Holmes’ Murder Case (1913), “Film History”, n. 2, 2006, pp. 185-195. Più esattamente, McMahan (op. cit., pp 13-16), sulla scorta di Bachy (Alice Guy, cit., pp. 32-36), non esclude che siano esistite due versioni, o due copie, del film: una realizzata nel 1896 in 60mm, l’altra prodotta, tramite ristampa o rifacimento, nel 1900. Nella prefazione all’edizione francese (op. cit,, p. 14), la curatrice Claire Clouzot si spinge fino ad avanzare l’ipotesi, senza dubbio provocatoria, che La Fée aux choux sia il primo film di finzione (“primo film a soggetto? Per noi: sì. Per gli storici: no”). Ma si noti che il confronto riguarda qui in primo luogo Méliès (“Osservo gli inizi di Méliès. Gira scene comiche, film a trasfomazione, numeri di café-concert, danze serpentine al modo di Loïe Fuller. Nello stesso momento, Alice Guy riprende una Danse fleur de lotus. È uguale. Nel 1896: Méliès uguale Alice Guy”). Ma come osserva McMahan (op. cit., p. 13), dal momento che il primo programma presentato dai Lumière presso il Café des Capucines (28 dicembre 1895) comprendeva già una scena comica (il celebre L’Arroseur arrosé), evidentemente “il dibattito circa chi, tra Méliès e Alice Guy, debba essere considerato il primo regista di film a soggetto è irrilevante”. Del resto, il fatto che lo stesso Bachy (Alice Guy, cit., p. 26), ovvero colui che ha più risolutamente sostenuto l’attendibilità della datazione proposta dall’autrice, abbia situato la realizzazione del film tra l’agosto e il settembre del 1896 pone una conclusione definitiva alla querelle, dal momento che Méliès iniziò la sua attività nel maggio o nel giugno dello stesso anno. Tra coloro che più decisamente si sono schierati contro l’attribuzione del primato ad Alice Guy, vale la pena di ricordare Jacques Deslandes, Sur Alice Guy: polemique, “Ecran”, n. 50, 1976, p. 6. “Per creare nel pubblico il bisogno di usare i suoi proiettori e per dimostrare l’eccellenza dei suoi prodotti, Gaumont comprese che era necessario ‘fabbricare’ dei film. Incaricò la sua segretaria, Mlle Alice, di occuparsi della cosa nel modo migliore. Con l’aiuto di alcuni colleghi, nel cortile dello stabilimento e nel vicino giardino di casa sua, Alice Guy girò alcune brevi scene sviluppando qualche idea che aveva avuto e che, a poco a poco, si trasformarono in canovacci più elaborati. Il suo primo lavoro, La Fée aux choux (1896), è di qualche mese anteriore all’attività di Méliès”. Francis Lacassin, Louis Feuillade, Seghers, Paris 1964, pp. 26-27. Lacassin, Pour un contre-histoire du cinéma, cit., p. 13. Slide, The Memoirs of Alice Guy Blaché, cit., p. 148. Cfr. Bachy, Alice Guy Blaché, cit., p. 34.
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Bachy, Alice Guy Blaché, cit. pp. 32-36. L’ipotesi è che La Fée aux choux sia stato “realizzato in 60mm nell’agosto-settembre 1896. Per Gaumont si trattava, in questo momento, di una cosa senza importanza, di un capriccio di ragazza. Del resto, aveva autorizzato la sua segretaria a fare le riprese, espressamente alla condizione che queste non interferissero con la sua presenza in ufficio! Girato il film, Alice lo mostra a qualche potenziale cliente e il direttore, con suo grande stupore, si accorge che la cosa funziona. Così, tramite un passaparola – forse un volantino? – il film viene messo in vendita, proprio nel momento in cui si decide di sospendere la fabbricazione degli apparecchi 60mm e di passare al 35mm [fine 1896]. Alice Guy trova i soggetti per qualche scena comica, qualche danza, prepara l’Esposizione Universale... Il servizio vendite si sviluppa. Perché non ristampare in 35mm i film che hanno ottenuto maggiore successo? È deciso. Ma a questo punto il catalogo dei film 35mm è già compilato. Siamo in pieno 1900, la casa ha fatto un grosso sforzo per l’Esposizione. Nessun problema, le ristampe vengono aggiunte all’elenco esistente, seguendo la numerazione: La Fée aux choux porterà il n. 379”. Bachy, Alice Guy Blaché, cit., p. 36. 37 Cfr. McMahan, op. cit., p. 38. 38 Alice Guy tourne une phonoscène dans les studios de Buttes-Chaumont (Gaumont, 1905). Durata: 1’40’’. Una delle maggiori sorprese che la visione di queste immagini riserva è la presenza, accanto ad Alice Guy, di un’altra donna, con tutta evidenza incaricata di assistere la regista nelle riprese della parte sonora. 39 Cfr. infra, p. 96. 40 Cfr. McMahan, op. cit., p. 65. 41 McMahan, op. cit., p. 71. 42 H. Z. Levine, Madame Alice Blaché, “Photoplay”, n. 2, 1912, pp. 37-38. Il pubblicista H. Z. Levine era stato assunto come addetto stampa della Solax nel corso del 1911. Il fatto che uno dei suoi primi articoli sia interamente dedicato ad Alice Guy è sintomatico del ruolo giocato dalla cineasta nel determinare le strategie promozionali della Casa. 43 Harvey H. Gates, Alice Blaché, a Dominant Figure in Pictures, “The New York Dramatic Mirror”, n. 1768, 1912, p. 28. 44 Louis Reeves Harrison, Studio Saunterings, “The Moving Picture World”, n. 11, 1912, pp. 1007-1011. 45 Gertrud Price, Charming Little Woman Runs Movie Business by Herself, and Makes Big Success, “The De Moines News”, 8 February 1913, p. 2. La giornalista Gertrud Price si occupava regolarmente di cinema sulle pagine del “De Moines News”, con un taglio particolarmente attento agli interessi del pubblico femminile. Cfr. lo studio, interamente a lei dedicato, di Richard Abel, Fan Discourse in the Heartland: The Early 1910s, “Film History”, n. 2, 2006, pp. 140-153. 46 McMahan, op. cit., p. xxvii. 47 McMahan, op. cit., pp. 75-76. 48 Citato in McMahan, op. cit., p.151. 35 36
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McMahan, op. cit., pp. 216-225. Cfr. infra, p. 126. 51 Per esempio Bachy (Alice Guy Blaché, cit., p. 275) osserva come “l’indipendenza di Alice Guy e della Solax stava subendo una progressiva erosione da parte di Herbert, senza che Alice facesse nulla per evitarlo”. Più di recente McMahan (op. cit., p. 110; 165-173) ha contestato l’idea che la causa del fallimento della Solax sia da ricercare “nello spirito di competizione di Herbert Blaché nei confronti della moglie e nel suo desiderio di autopromozione”. A suo avviso, tutte le iniziative di Blaché avrebbero avuto unicamente lo scopo di difendere l’attività della Solax in un momento di grande trasformazione del mercato cinematografico, soprattutto a livello della distribuzione. 52 La Blaché Features chiuse i battenti, dopo aver prodotto una ventina di lungometraggi, tutti diretti personalmente dai Blaché, già nell’agosto 1914. In settembre Herbert diede vita alla U.S. Amusement Corporation, con un capitale sociale di 500.000 dollari, tramite la quale produsse e diresse i suoi due film successivi The Chimes e The Temptations of Satan. Ma non passò molto tempo perché “la debolezza della nuova società sul piano industriale e soprattutto sul piano della distribuzione” divenisse palese. “È il periodo dei raggruppamenti, degli accorpamenti, delle fusioni. Con l’assenso di Alice, Blaché decide – in novembre ? – di unirsi a una più grossa società di produzione appena nata, la Popular Plays and Players, dove è bene accolto. [...] La U.S. Amusement Corporation sospende momentaneamente le sue attività.” Bachy, Alice Guy Blaché, cit., p. 282. Ma anche il rapporto con la Popular Plays and Players avrebbe avuto vita breve. Verso la metà del 1916 i Blaché decisero di tornare alla produzione indipendente e rimisero in attività la U.S. Amusement, tramite la quale realizzarono i loro ultimi lungometraggi a Fort Lee. 53 Cfr. infra, p. 135 e segg. 54 McMahan, op. cit., p. 172. 55 Cfr. infra, p. 135. 56 McMahan, op. cit., pp. 184-185. 57 McMahan, op. cit., p. 188. 58 Bachy, op. cit., p. 345. 59 La carriera cinematografica di Blaché a Hollywood si segnala solo per un piccolo numero di titoli. Oltre a La Divorcée, con Ethel Barrymore, si possono ricordare i due film girati con Alla Nazimova, The Brat (1919) e Stronger Than Death (1920), ai quali Alice Guy collaborò come assistente alla regia. Ebbe anche l’occasione di dirigere Buster Keaton in The Saphead (1920) e Mary Astor nei suoi primi due film, The Beggar Maid (1921) e The Young Painter (1922). Tra il 1923 e il 1926 fu assunto alla Universal, dove non riuscì mai a ottenere regie di rilievo. L’avvento del sonoro mise fine alla sua carriera di regista. Morì a Santa Monica, in California, nel 1953. 60 Förster, Histories of Fame and Failure, cit. 49 50
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Prologo
Prima di passare al racconto di alcuni episodi della mia vita di regista, permettetemi di presentarvi colui che l’ha dominata tutt’intera – il mio personale principe azzurro – il cinematografo. Come vedrete, è un vecchio signore. Se però le questioni tecniche dovessero annoiarvi, siete padroni di girare alla svelta le poche pagine che ad esse dedicherò1. A me sembra che l’inventore del cinematografo sia stato il primo bambino che ebbe l’idea di muovere le dita delle mani davanti a una fonte luminosa, per vedere la loro ombra ingigantita danzare sulle pareti d’una grotta o su un muro. Secondo l’opinione corrente, tuttavia, il cinema è figlio della lanterna magica, della fotografia e dell’elettricità. Molte tappe sono state percorse prima d’arrivare al cinematografo così come lo conoscete. I precursori furono coloro che studiarono la sintesi del movimento vuoi per fini scientifici, vuoi per costruire giocattoli, prima che la fotografia venisse inventata. Plateau, un fisico belga, viene considerato il grande antenato. Nel 1829 inventò il fenachistiscopio2, un cilindro nel quale vengono ritagliate una ventina di piccole finestre a mo’ di feritoia e in cui viene collocato un secondo cilindro, decorato con altrettante figurine disegnate che compongono l’esercizio d’un ballerino o d’un clown, con un gioco di specchi. Se avvicinate l’occhio al cilindro, all’altezza delle finestrelle, la rapida rotazione trasforma le venti aperture in una sola, circolare, attraverso la quale si vedono riflesse nello specchio venti figure danzanti, perfettamente simili, e impegnate a eseguire gli stessi movimenti con fantastica precisione3. Plateau divenne cieco, dice Kimpflin che scriveva di questo argomento il
19 aprile 18924. Non poté conoscere l’arte della presa istantanea delle immagini, poiché fu solo dieci anni più tardi che Nicéphore Niepce e Daguerre (due francesi) inventarono la fotografia. Non vedeva più le immagini, ma nella sua mente privata della luce, senza più finestra sul mondo visibile, l’idea rimasta intatta continuava il suo cammino. La domanda sorge immediata. Perché non adattare alle lanterne da proiezione il fenachistiscopio di Plateau? La soluzione venne trovata da Molteni (francese nato a Parigi nel 1837), il quale costruì a questo scopo un piccolo apparecchio ingegnoso, che permetteva di proiettare le immagini zootropiche e di ottenere la sensazione perfetta del movimento. In seguito Molteni perfezionò questo apparecchio e inventò il coreutoscopio rotante5, che presentava già quasi tutti i componenti dell’attuale proiettore a Croce di Malta. All’epoca Molteni non conosceva ancora la fotografia, che avrebbe visto nascere: fu infatti negli stabilimenti fondati nel 1782 da suo padre e suo zio, in rue Coq-Saint-André, che nel 1839 vennero costruiti i primi apparecchi di Niepce e Daguerre. Nel 1851 il francese Jules Duboscq, rinomato costruttore di strumenti ottici e di precisione, studiando la sintesi del movimento ebbe per primo l’idea di sostituire immagini fotografiche ai disegni fatti a mano. Il suo apparecchio prese il nome di stereofantascopio o bioscopio6. Quello stesso anno Claudet7, artista francese che utilizzava il procedimento Daguerre in Inghilterra, riuscì a mostrare nel fenachistiscopio fotografie animate di personaggi in movimento. Nei suoi Cahiers del 1845, Champfleury scriveva queste righe profetiche: “Quale delirio ed esaltazione ci prenderebbe, se potessimo vedere i progressi che la dagherrotipia avrà realizzato di qui a cent’anni; quando non sarà più una sola particella di vita che si potrà afferrare, ma la vita tutt’intera che si animerà, che scorrerà sotto gli occhi pieni di meraviglia dei nostri discendenti”. Nel 1860 Pierre-Hubert Desvignes8 realizzò, con uno zootropio, la ripresa di una macchina a vapore in una serie di lastre. Le ‘vedute’ in sequenza erano illuminate tramite elettricità. Contemporaneamente Desvignes consegnava a un brevetto datato 27 febbraio 18609 l’idea del ‘nastro senza fine’. Per questo, si è potuto sostenere che trent’anni dopo, per costruire
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il suo kinetoscopio, Edison non abbia fatto altro che riprendere il brevetto di Desvignes. Nel 1861 il dottor [Charles] Coleman Sellers – reputato in America un importante precursore – utilizzò a sua volta la fotografia per studiare la sintesi del movimento e inventò il kinematoscopio. Infine, nel 1864, Ducos du Hauron10 fece brevettare un apparecchio destinato a riprodurre fotograficamente una scena con tutte le trasformazioni che essa subisce in un dato lasso di tempo, e “un apparecchio capace di proiettare queste fotografie su una tela, e di offrire a un’intera assemblea lo spettacolo festoso e praticamente inedito della riproduzione del movimento attraverso l’immagine”. È impossibile citare tutti gli esperimenti fatti, tutti gli inventori che si lanciarono su questa strada: furono legioni. Nello sviluppo del cinema, la fotografia ha avuto un ruolo enorme. A ciascun progresso in fotografia corrispondeva un progresso nello studio e nella riproduzione dei movimenti. A partire dalle scoperte di Niepce e Daguerre, le ricerche si moltiplicarono. Nel 1834 Fox Talbot, un inglese, riuscì a ottenere un negativo a partire da un positivo11. Nel 1841 Claudet, rappresentante di Daguerre in Inghilterra, scoprì le sostanze acceleranti e nacquero le scatole allo iodio. Ai cloruri di iodio si aggiunsero presto i cloruri d’oro. Quindi il fisico Fizeau12 stabilì la formula del fissaggio. Nel 1847 Abel Niepce, cugino di Nicephore, ricoprì una lastra di vetro con albumina impregnata d’argento, prima realizzazione del procedimento attuale (gelatina a parte). Intorno al 1878, il capitano [William de W.] Abney offrì le indicazioni pratiche per la preparazione di lastre secche in gelatina-bromuro d’argento, e arrivò infine nel 1886, con Balagny13, la lastra flessibile, prodotta dalle officine Lumière, quindi il rullo di carta che sarebbe servito ai primi esperimenti di cronofotografia. La cronofotografia poteva disporre ormai degli elementi necessari alla ripresa sufficientemente rapida delle immagini in successione d’una scena animata. Si dice che fu l’astronomo [Jules] Janssen il primo a pensare, con finalità scientifiche, di riprendere automaticamente una serie di immagini fotografiche per rappresentare le fasi successive d’un fenomeno. A lui dunque l’onore di avere immaginato quel che oggi chiamiamo la cronofotografia a lastre mobili. Nel 1874 Janssen ideò il revolver fotografico.
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Arrivò quindi il dottor Eadweard James Muybridge14, responsabile del servizio fotografico pubblico della costa del Pacifico, a San Francisco. Il suo procedimento consisteva nel far passare un animale (un cavallo, un uccello, etc) davanti a una trentina di macchine fotografiche sistemate in serie. Gli otturatori di ciascun apparecchio, tenuti chiusi da un elettromagnete, si aprivano automaticamente al passaggio dell’animale, la cui silhouette si stagliava contro un fondale a contrasto. Si otteneva in questo modo una serie di fotografie che restituivano l’analisi perfetta dei movimenti. Muybridge perfezionò le proprie invenzioni per poter studiare gli esseri umani. Gli americani lo considerano l’inventore della cronofotografia. Gli inglesi hanno reclamato il titolo per Friese-Greene15. Allievo di Fox, che gli aveva insegnato la fotografia, Friese-Greene registrò nel 1889, insieme all’ingegnere Mortimer Evans, un brevetto per una macchina destinata alla ripresa di immagini fotografiche in successione temporale, per registrare i movimenti di animali, insetti o oggetti comuni. Nel 1893 William Friese-Greene registrò un nuovo brevetto, per una “macchina destinata alla proiezione di immagini su nastro continuo”. Nel 1885, il fisiologo Etienne Jules Marey16 cominciò, con i suoi esperimenti, ad attrarre l’attenzione del mondo scientifico: con il suo metodo grafico, semplici disegni che rappresentavano i gesti in successione, studiava i movimenti degli uomini e degli animali. Con il sostegno dello Stato, Marey fondò il centro di fisiologia del parco dei Principi. Ispirato dal revolver di Janssen, mise a punto il fucile fotografico, con il quale studiava il volo degli uccelli. Con le fotografie così ottenute, confezionava dischi zootropici che già offrivano la sintesi del colpo d’ala e la perfetta illusione del movimento. In questo periodo, Demenÿ era assistente di Marey e lo aiutava nel suo lavoro. Grazie alla comparsa sul mercato della pellicola sensibile, Marey poté costruire un suo apparecchio (il cronofotografo Marey) e ottenere risultati notevoli. Nelle Origines du cinématographe, Georges Demenÿ 17 racconta quale sconcerto le fotografie ottenute da Marey provocassero tra gli artisti, ai quali si mostrava come i pittori non avessero, sino a quel momento, rappresentato la verità, e come i cavalli di Raffaello, non diversamente da quelli di Delacroix o Gericault, non fossero affatto la riproduzione esatta della natura18. [Jean-Louis-Ernest] Meissonier19 veniva talvolta al nostro laboratorio, scrive Demenÿ, s’interessava all’andatura dei cavalli. Davanti alle
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prime analisi fotografiche, accusò l’apparecchio di vedere il falso. “Quando mi farete vedere un cavallo che galoppa come questo”, aggiungeva facendoci uno schizzo “allora sarò soddisfatto della vostra invenzione”. Ma tutti gli apparecchi finora citati erano solo cronografi: ovvero fotografavano serie d’immagini, ma non ne permettevano la proiezione. E inoltre, questi erano solo studi scientifici che contenevano in germe il cinematografo, ma non lasciavano presagire nulla di concreto né agli scienziati né ai curiosi. Nella fotografia del movimento si vedeva un mezzo per sezionare il tempo, nient’altro. Aggiungerò che erano ben pochi gli scienziati che attribuivano grande importanza a tali studi. Con la cronofotografia, Marey aveva trovato il mezzo per prendere l’immagine negativa; chi fu a trovare il modo di restituire agli spettatori le immagini positive, in modo che si succedessero abbastanza rapidamente da produrre l’illusione del movimento? Detto altrimenti, chi è l’inventore del cinematografo? È questa la disputa che, fin dal 1895, contrappone i sostenitori di Lumière a quelli di Demenÿ 20. Se spettasse a me il giudizio, direi che un’invenzione mi sembra il punto d’arrivo, la sintesi degli innumerevoli lavori e scoperte che l’hanno preceduta. Ma tutto quel che posso dire è che proprio in quel periodo, poiché ero segretaria del Comptoir général de Photographie, vi incontrai per la prima volta Georges Demenÿ, allora assistente di Marey, che era venuto a presentare un apparecchio: il fonoscopio. L’apparecchio consisteva in una scatola di legno che conteneva due dischi: uno, in vetro, recava delle immagini incise, l’altro, in cartone, delle finestre ritagliate e serviva da otturatore. Ho realizzato, disse Demenÿ, uno strumento specialmente destinato a produrre l’illusione dei movimenti indotti dalla parola e delle varie mimiche facciali. L’ho chiamato fonoscopio, neologismo che spero mi si perdonerà, comprendendo la mia intenzione di evidenziare la sua parentela con il fonografo: uno fa sentire la voce, l’altro la fa vedere sulle labbra. L’apparecchio ha la qualità d’essere illuminato in trasparenza e di lasciar vedere ogni immagine per un intervallo così breve che la sfocatura dovuta alla velocità risulta impercettibile. Georges Demenÿ s’era molto occupato di educazione fisica in senso scientifico. Fu per dedicarsi soprattutto allo studio del moto animale e umano
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che si associò a Marey. Quando inventò il fonoscopio, che permetteva di leggere una frase sulle labbra d’una persona fotografata, la sua invenzione suscitò vivo interesse in H. Marichelle, allora professore all’istituto nazionale dei sordomuti; ricordo perfettamente che costui portò al Comptoir alcuni dei suoi allievi, i quali non ebbero alcuna difficoltà a ricostruire le frasi cronofotografate. Demenÿ aveva registrato un numero considerevole di brevetti, e di relativi attestati completivi. Nel 1865 secondo alcuni, nel 1869 secondo altri, i fratelli [John Wesley e Isaiah] Hyatt, del New Jersey, scoprirono la celluloide. Nel 1876 vennero aperte a Stains, non lontano da Parigi, le officine della Compagnie française de Celluloïd. Base della celluloide è la nitro-cellulosa, sostanza simile al fulmicotone e come questo infiammabile e pericolosa. Strebine studiò i procedimenti per ottenere gelatina per pellicola; nel 1879 Ferrier li mise in pratica. Nel 1885, i brevetti di Jounrod permisero di fabbricare strisce pellicolari di grande lunghezza, sulle quali poteva essere registrato un alto numero di immagini. Nel 1889, Jamin e Lamy produssero rulli di celluloide di fabbricazione eccellente. Nel 1887 Graff e Jougla aprirono una fabbrica di pellicole in celluloide a Le Perreux22. Si ritiene che soltanto nel 1888 la compagnia Blair abbia avviato la produzione delle prime pellicole che fornì a Edison. Nel 1889 la compagnia Eastman-Kodak, che fabbricava pellicola trasparente per la fotografia, fu in grado di fornire pellicola negativa e positiva. In breve tempo, il numero di persone impiegate esclusivamente nella fabbricazione di pellicola cinematografica arrivò a 375. Nel 1894, i fratelli Lumière invitarono Planchon23, che aveva aperto una fabbrica per la produzione di pellicola sensibile a Boulogne-sur-Seine, a stabilirsi a Lione e a studiare i metodi di produzione di pellicole di grande lunghezza, utilizzabili per il cinematografo. Venne così fondata l’industria delle pellicole francesi che, fin dal 1896, fu in grado di fornire pellicole negative e positive prima di 17 e poi di 50 metri. Nel 1912, la produzione ammontava a 50.000 metri. Oggi esistono nel mondo tre grandi produttori di pellicola cinematografica: la Eastman-Kodak (a Rochester, negli Stati Uniti), che da sola, grazie alla
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qualità impeccabile della sua produzione, copre i due terzi del consumo mondiale; l’Agfa (a Chemnitz, in Germania); e la Pathé-Cinéma, la cui produzione, nel 1935, superava la cifra di 300.000 metri al giorno24.
Note Le pagine che seguono offrono una sintetica ricostruzione del complesso processo che portò all’invenzione del cinema e forniscono una limpida dimostrazione della viva curiosità di Alice Guy per gli aspetti più propriamente tecnici del cinema. Tuttavia, il testo contiene alcune imprecisioni. Infatti, il principale riferimento bibliografico su cui si basa il capitolo, più volte citato dall’A., è il libro di Georges-Michel Coissac, Histoire du cinématographe, des origines aux nos jours (Delagrave, Paris 1925), opera non sempre attendibile e soprattutto tendenziosa, tesa dimostrare la primogenitura francese nell’invenzione delle immagini in movimento. Nondimeno, il capitolo riesce a restituire vividamente, dal punto di vista di una testimone privilegiata, quello che resta uno dei più appassionanti percorsi di scoperta collettiva dell’intera storia tecnologica. 2 Phénakistiscope (da phenax, ingannare, e scopein, guardare) è il nome con cui si diffuse, sotto forma di giocattolo ottico, il phantascope ideato da Joseph Plateau nel 1828. Si trattava di un semplice disco munito di fessure, tra le quali erano disegnate le diverse posizioni assunte da un medesimo soggetto nel corso di un movimento. Fatto ruotare di fronte a uno specchio, l’apparecchio produceva, per l’osservatore che osservava attraverso le fessure, l’illusione del movimento. Il “cilindro” di cui parla l’A. è invece riferibile allo zootrope messo a punto dall’inglese William George Horner nel 1834, basato su un principio analogo, ma indipendente dall’uso di specchi (le figure venivano disegnate su una striscia di carta, che veniva in seguito sistemata in una sorta di tamburo, e osservate attraverso le fessure ricavate nel cilindro). Di veri e propri “giochi di specchi” si può parlare solo nel caso del praxinoscope di Emile Reynaud, il quale, combinando insieme zootropio e lanterna magica riuscì per primo, nel 1877, a proiettare immagini in movimento su uno schermo. 3 Nota dell’A.: “Baudelaire, l’arte romantica”. In effetti il testo di Baudelaire La Morale du joujou (1853) contiene la descrizione di un fenachistiscopio. 4 Plateau perse la vista nel 1842, per aver fissato troppo a lungo il sole nel corso di un esperimento. 5 In realtà il choreutoscope fu costruito dall’americano Lionel S. Beale nel 1866. Fu però Alfred Molteni, uno specialista di lanterne magiche, a perfezionare l’apparecchio, aggiungendovi la Croce di Malta (fondamentale dispositivo di tutti i proiettori cinematografici, deputato al trascinamento della pellicola). 1
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Lo stéreofantascope o bioscope di Jules Duboscq, brevettato nel 1852, combinava il principio della stereoscopia con quello della persistenza retinica (fenachistiscopio o zootropio), utilizzando immagini fotografiche. Ma gli esperimenti di Duboscq nel campo della proiezione si basavano, in sostanza, sugli studi dell’austriaco Franz von Uchatius. Antoine Claudet, fotografo francese ma attivo in Inghilterra, fu indotto a interessarsi alla riproduzione del movimento dagli esperimenti di Duboscq, proseguendo sulla stessa linea di ricerca. Pierre-Hubert Desvignes brevettò nel 1860 un apparecchio per “vedere le immagini” (regarder les vues). Si tratta di uno dei numerosi ricercatori che si dedicarono a perfezionare il metodo Duboscq. Il manoscritto originale reca qui una nota dell’A., con un rimando al libro di Coissac (vedi nota 1). La macchina di Louis Ducos de Hauron, pioniere della fotografia a colori, utilizzava fino a 580 lenti e fu tra i primi dispositivi in grado di riprodurre il movimento. Si tratta del procedimento di sviluppo noto sotto il nome di calotipia, con il quale Talbot riuscì per primo a ottenere stampe identiche da un unico negativo. Fino a questa scoperta, il procedimento permetteva di ottenere unicamente dei positivi non riproducibili. Nel 1840-41 Louis Armand Hippolyte Fizeau introdusse un metodo di fissaggio in grado di migliorare la stabilità delle immagini dagherrotipe per mezzo di un bagno a base di cloruri d’oro. Charles Balagny inventò la pellicola su carta, poi impiegata da Etienne-Jules Marey per il suo ‘fucile fotografico’ nell’ambito dei primi esperimenti di cronofotografia. Di origine britannica, Muybridge fu assunto dal governo americano durante il suo secondo, lungo periodo di lavoro negli Stati Uniti, negli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento, per realizzare diversi servizi fotografici nella città di San Francisco, nel parco Yosemite, in Alaska, e durante la guerra degli indiani Modoc. Nel 1878 realizzò il suo famoso esperimento di registrazione del trotto di un cavallo, presso quella che è oggi la Stanford University. William Friese-Greene brevettò la sua macchina cronofotografica, in grado di registrare fino a dieci immagini al secondo su un nastro di celluloide, nel 1889. Etienne-Jules Marey costruì il suo ‘fucile fotografico’, in grado di impressionare dieci fotografie al secondo, nel 1882, ispirandosi al ‘revolver fotografico’ di Janssen. Georges-Michel Demenÿ fu uno dei principali collaboratori di Marey. Nel 1891 depositò a proprio nome il brevetto del phonoscope, un apparecchio che consentiva la proiezione di immagini cronofotografiche stampate su dischi di vetro. Tale dispositivo fu il punto di partenza per lo sviluppo, nel corso del 1895, del chronophotographe, una macchina da ripresa e proiezione per pellicola 60mm, che Léon Gaumont tentò di commercializzare all’inizio del 1896 con l’obiettivo di contrastare il cinematographe Lumière. Fu con ogni probabilità con questa macchina che Alice Guy realizzò i suoi primi film.
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G.-M. Demenÿ, Les Origines du cinématographe, Henry Pailin, Paris 1909. Jean-Louis Ernest Meissonier fu un pittore e illustratore appartenente alla corrente detta ‘accademica’ o pompier, noto per le sue grandi tele di genere militare ispirate alle imprese napoleoniche. Morto nel 1891, poté essere in contatto con Demenÿ solo in un periodo precedente l’ingresso di Alice Guy al Comptoir di Félix-Max Richard. 20 In verità non vi è mai stata alcuna “disputa tra i sostenitori di Lumière a quelli di Demenÿ” in merito all’invenzione del cinema. Piuttosto è vero che la macchina di Demenÿ per pellicola 60mm, con cui furono realizzati i primi film Gaumont (tra cui forse La Fée aux choux di Alice Guy), permetteva di ottenere immagini di qualità assai superiore rispetto alla pellicola 35mm impiegata dai Lumière. Ma la battaglia commerciale sul formato non proseguì a lungo, dal momento che già all’inizio del 1897 lo stesso Gaumont intraprese la commercializzazione di un nuovo modello 35mm della macchina di Demenÿ. 21 Vedi Parte seconda, nota 2. 22 A eccezione di [Claude-Marie ?] Ferrier, che fu tra gli iniziatori delle ricerche sulla pellicola fotografica, e di Graff e Jougla, tra i primi, ma non gli unici, fabbricanti francesi di pellicola in celluloide, gli altri nomi di questo e del precedente capoverso non sono stati identificati. 23 Victor Planchon fu finanziato dai fratelli Lumière per installare a Lione una fabbrica di pellicole trasparenti per uso fotografico e cinematografico (la Société Anonyme de Pellicules Françaises, creata nel 1896). 24 Nota dell’A.: “Tutte queste informazioni sono tratte dall’Histoire du cinéma di Michel Coissac”. 18 19
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Parte prima
In un’epoca nella quale le retrospettive sono di moda, forse le memorie della decana tra le donne registe incontreranno qualche favore presso il pubblico. Non ho la pretesa di fare della letteratura, ma semplicemente di divertire, di interessare i lettori attraverso aneddoti e ricordi personali sul loro grande amico, il cinema, che io aiutai a venire al mondo. Spesso mi è stato chiesto perché abbia scelto una carriera così poco femminile. Ma non sono io ad averla scelta. Il mio destino era probabilmente tracciato fin da prima che nascessi, e non ho fatto altro che seguire una volontà di cui ignoro il nome. Uno strano destino, che ora mi proverò a raccontarvi. Sono venuta al mondo il primo luglio 1873, a Saint-Mandé, a due passi dal bois de Vincennes. Perché almeno uno dei suoi figli fosse francese (i miei numerosi fratelli e sorelle erano tutti nati in Cile), mia madre aveva coraggiosamente affrontato una traversata di sette settimane. Anch’io, dunque, avevo già compiuto il mio primo viaggio: Valparaiso-Parigi. Non sarebbe stato l’ultimo. All’epoca, un viaggio del genere era un’avventura. Sette settimane di traversata, a bordo di un bastimento che non offriva alcuna comodità! Quale motivo aveva obbligato i miei genitori a un simile esilio? Nel 1847 o 1848, una zia e uno zio di mia madre erano emigrati in America del Sud, per cercare di ricostruire una fortuna assai compromessa dalla Rivoluzione. Le cose erano andate bene al di là delle aspettative, e a quel punto avevano sentito il desiderio di rivedere la loro famiglia e il loro paese. Conobbero così mia madre, loro nipote, educanda al convento della Visitazione, e conquistati dalla sua bellezza, ricchi, senza figli, insistettero
con i miei nonni affinché venisse loro affidata. Speravano di farla sposare a uno dei loro compatrioti e amici, Emile Guy, proveniente da una buona famiglia della Franca Contea (mia nonna paterna era la zia di Etienne Lamy), fondatore delle prime librerie di Valparaiso e Santiago. Mi hanno detto che, ancora oggi, esiste a Santiago una libreria Emile Guy. Tre mesi dopo il matrimonio veniva celebrato a Parigi, nella chiesa della Madeleine. Non so dire se l’amore facesse parte del contratto. A quei tempi, era la famiglia a decidere il futuro delle ragazze. Alla Visitazione, convento austero, si insisteva soprattutto sul compimento dei doveri cristiani. Una donna ben educata doveva obbedire al proprio marito, saper tenere una casa, occuparsi dei bambini. La cultura era considerata secondaria, se non addirittura inopportuna. Qualche giorno più tardi il mio prozio e sua moglie riprendevano la via del Cile insieme ai novelli sposi. Il viaggio dovette essere una dura prova per la mia povera mamma: lasciava il suo paese e i suoi amati genitori per una terra lontana di cui ignorava la lingua, in compagnia di un marito e di parenti che fino a poche settimane prima le erano sconosciuti, ed era, per soprammercato, tormentata dal mal di mare. Ma era anche forte e coraggiosa. Al suo arrivo a Valparaiso, l’intera colonia francese volle avere l’onore di esserle presentata, e il prozio, come regalo di nozze, le consegnò le chiavi d’una bella casa, arredata con tutto il lusso consentito dalle risorse del paese. Mia madre si ripromise di fare il possibile per corrispondere a tante dimostrazioni di’interesse, imparò in fretta lo spagnolo e si offrì di aiutare mio padre nel lavoro. Lui le affidò alcuni libri che riceveva dalla Francia, pregandola di fargliene un resoconto critico. Lei se la cavò assai bene. La sua ospitalità squisita, il suo prodigarsi per i malati ne fecero ben presto la beniamina della colonia. Le sue avventure con gli Indios ancora indomiti, temuti da tutti gli europei e che invece adoravano mia madre per la sua bontà, sarebbero da soli materia d’un interessante racconto. Aveva ventisei anni quando decise che il suo quinto figlio sarebbe stato un francese di Francia.
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Parte prima
Non appena erano stati in età di viaggiare, i miei fratelli e sorelle erano stati spediti in Francia dai gesuiti, per ricevervi la sola educazione che all’epoca venisse reputata conveniente. Mio padre, che aveva accompagnato la moglie, ripartì poco dopo la mia nascita. Mia madre lo raggiunse qualche mese più tardi, e io venni affidata alla nonna materna. Non soffrii affatto di quell’abbandono: la nonna mi adorava e mi viziava. Abitava a Carouge, un sobborgo di Ginevra caro agli artisti, in un piccolo appartamento la cui terrazza s’affacciava su uno di quei giardini costeggiati dal Rodano, disordinati e carichi di profumi. Qui mio fratello maggiore e le mie tre sorelle si rifugiavano durante le vacanze, o quand’erano malati. La nonna non era ricca, eppure nella sua piccola casa ciascuno di noi, nonostante le differenza d’età, trovava la sua gioia. Riuniti intorno alla tavola sulla quale la zuppa di ciliegie spandeva il suo profumo di vino caldo e cannella, o il formaggio bianco fatto in casa si scioglieva nella grande ciotola, la nonna ci raccontava le storie della sua terra bernese e ci cantava con la sua bellissima voce, risonante di giovinezza, la sua canzone preferita, Beau ciel de Pau quand donc te reverrai-je. Fu una separazione straziante quando tre anni dopo mia madre, che avevo dimenticata, venne a trovarci e decise di portarmi con sé a Valparaiso. Alla stazione la povera vecchia nonna piangeva. Io gridavo e strepitavo, ma il segnale di partenza affrettò l’addio. Ubriaca di lacrime, finii per addormentarmi. Avevamo posti riservati su un cargo inglese; non so se partissimo da Le Havre o da Bordeaux, ma la novità dell’insieme, il viavai dei viaggiatori, dei facchini, dei marinai, la vista della grande nave sulla quale avremmo viaggiato, già facevano scivolare nel passato il viso della nonna. A quei tempi, occorreva portare con sé tutte le cose necessarie a due mesi di vita sulla nave. Il ponte di poppa era stipato e schiamazzante come un pollaio, mentre una gru trasportava nelle stiva sacchi e barili. Tutti i viaggiatori s’erano muniti di chaise-longue, coperte e plaid, e mia madre, che già si sentiva male, mi aveva subito affidato all’unica cameriera. Sola bambina a bordo, divenni rapidamente la cocca dei passeggeri e dell’equipaggio. Mia madre restava distesa sulla sua sedia a sdraio, abbandonandomi volentieri alle cure degli altri passeggeri con i quali, nonostante le differenze di lingua, m’intendevo benissimo. Forse usavo già la pantomima!
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Di quel viaggio, serbo solo pochi ricordi. Il lungo nastro d’oro che la luna srotolava fino all’orizzonte. Il mare fosforescente, i pesci volanti, il mio battesimo mentre la nave attraversava l’equatore. A Saint-Vincent, nelle Bahamas, dove la rada brulicava di squali, i passeggeri gettavano in mare monete d’argento, per vedere i ragazzini negri che si tuffavano a raccoglierle. Ero troppo piccola per capire la crudeltà di quel gioco. Per fortuna gli squali erano lenti a girarsi su se stessi e i piccoli negri, rapidi ed esperti, per quella volta se la cavarono senza danni. A Rio de Janeiro e a Buenos Aires ci fermammo qualche giorno, per rinnovare le provviste e far riposare i passeggeri. Il canale di Panama non esisteva, e valicare la cordigliera delle Ande era impensabile per una donna e una bambina. Costeggiammo dunque la Patagonia e ricordo che salì sul ponte un abitante della Terra del Fuoco, quasi nudo ma con la testa adorna d’un superbo gibus. Infine, entrammo nello stretto di Magellano, e per me cominciò la favola. La nave avanzava lentamente e con prudenza tra due muri di ghiaccio. Il sole sprigionava scintille iridate da ogni crepaccio, e la mia immaginazione infantile popolava di fate e di strani animali ogni caverna, ogni cascata pietrificata. Ero sicura d’aver visto orsi bianchi che la sera, al chiaro di luna, venivano a sorvegliare il nostro passaggio. Mia madre m’ha poi detto che non c’era nessun orso e nessuna fata. Ancor oggi non ne sono sicura: li ho rivisti così spesso, in sogno... Infine la nave sboccò nel Pacifico e ci dirigemmo verso Nord, costeggiando il Cile fino a Valparaiso, dove mio padre ci attendeva. Lo sbarco fu per me assai interessante. Poiché il porto di Valparaiso non permetteva l’attracco di grandi navi, ci vennero incontro numerose barche, condotte dagli Indios a colpi di pagaia. Perlopiù recavano fiori e frutti locali, manghi e cheremoyes, che offrivano ai passeggeri dentro piccole ceste fissate alla sommità d’una pertica. Furono installate delle gru per sollevare e deporre nelle imbarcazioni passeggeri, animali e bagagli. Per seguire meglio lo spettacolo, m’ero sistemata a cavalcioni sulla ruota di prua. Il mozzo, spedito sulle mie tracce, mi tolse da quella posizione pericolosa e mi ricondusse da mia madre. Con mio profondo stupore, la trovai tra le braccia d’un uomo alto che non smetteva di baciarla, per poi
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esaminarla attentamente: “Il viaggio ti ha affaticato, mia povera Marie” diceva. “Non hai un bell’aspetto”. “Non c’è da stupirsi, monsieur Guy” disse il capitano avvicinandosi. “Missia Mariquita è coraggiosa, ma sette settimane di mal di mare non sono uno scherzo. Ho temuto di doverla lasciare a Rio. Per contro” aggiunse attirandomi a sé “ecco una bambina che non ha paura del rollio. È un vero lupo di mare!” Mio padre – perché quel signore con i baffi alla gaulois era mio padre – sembrò che mi vedesse per la prima volta. Mi avvicinò a sé e mi guardò a lungo: “Ti somiglia, Marie” disse infine, e mi baciò. “È vero, Missia Mariquita” disse il capitano. “Speriamo che sarà bella e buona quanto voi. Voi non siete andato in Europa quest’anno, don Emilio?” “No. Ho appena aperto un’altra libreria a Santiago, e avviarla ha richiesto tutto il mio tempo”. Dopo qualche parola di ringraziamento e di congedo, anche noi venimmo fatti salire sulla barca. Sulla banchina i servitori ci attendevano. Avevano la pelle color cuoio, capelli neri, lisci e lucidi, occhi a fessura che brillavano di gioia e dalle loro bocche dai denti scintillanti uscivano strane parole: “Buenos dies, Missia Mariquita: Como està? Que bonita la ninita!” Ci fecero accomodare in un calesse tirato da due piccoli cavalli. Mio padre afferrò le redini e partimmo a tutta velocità, percorrendo strade ombreggiate, incrociando Indios vestiti di ponchos e belle cilene in mantiglia. Presto la carrozza si fermò davanti a una grande hacienda. Mio padre gettò le redini a un domestico subito accorso e, più che condurla, trasportò mia madre fino a un ampio porticato, che stuoie di giunchi intrecciati proteggevano dal sole. Accanto a una chaise-longue, sulla quale mia madre s’adagiò con gran sollievo, erano state allestite bevande fresche. Las ciata a me stessa, un poco smarrita, mi risolsi ad andare alla scoperta di quel nuovo mondo e m’infilai coraggiosamente in un corridoio, dal fondo del quale mi arrivavano risa e rumore di voci. Il corridoio conduceva a una veranda affacciata su una grande corte, dove i domestici stavano scaricando i bagagli. Si accorsero di me e mi vennero incontro. Una delle donne Indio fece per prendermi; terrorizzata, fuggii gridando e andai a sbattere contro mia madre, che era accorsa temendo un incidente. Lei capì subito che cosa era successo e, prendendomi in braccio, fece segno alla donna sconcertata di avvicinarsi.
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“Non aver paura, piccola mia” mi disse la mamma. “Conchita è dolce e buona, è lei che si occuperà di te. Dalle la mano”. Obbedii. Conchita prese teneramente la mia mano e la baciò. Rincuorata, la guardai e subito le tesi le braccia. Da quel momento non ci lasciammo più. Fu lei che, quella sera, mi mise a dormire nella grande cesta di vimini che mi faceva da culla, dopo avermi fatto dire una preghiera. Lei che cantò, per farmi prender sonno, una ninnananna indiana. M’abituai assai in fretta alla mia nuova vita. Vedevo poco i miei genitori. Mio padre era assorbito dai suoi affari, mia madre occupata dai suoi obblighi mondani e caritatevoli. Passavo gran parte del tempo nella grande lavanderia dove Conchita si ritrovava con le compagne, dopo essersi occupata della mia toilette mattutina e avermi fatto fare una passeggiata. In Cile, almeno a quel tempo, ogni casa aveva la sua lavanderia privata. In un paese dove il caldo è così intenso, e piove raramente, occorre cambiare la biancheria tutti i giorni, e le donne portano vestiti dai colori chiari. Le nostre domestiche erano giovani e allegre, cantavano da mattina a sera. Una grande damigiana, piena di vino locale, serviva a dar loro qualche refrigerio. Un giorno, approfittando d’un attimo di distrazione di Conchita, lo assaggiai anch’io e lo trovai così buono che ben presto barcollavo sulle mie gambette. Conchita si accorse del mio stato, senza tuttavia spiegarsene la ragione. Molto preoccupata, mi portò da mia madre. A quanto pare, spargevo intorno a me un odore che fece presto capire alla mamma la causa del mio malessere. Ci rimproverò severamente, Conchita per la sua mancata sorveglianza, e me per la mia débauche. Ma la mia abituale timidezza s’era come diluita nell’alcol; andavo e venivo sulle mie gambe malferme, alzando le braccia al cielo ed esclamando: “Quante storie per un piccolo bicchiere di vino!” Mi misero a letto e m’addormentai di colpo. Ma quando tornai alla lavanderia, avevano messo la damigiana fuori dalla mia portata. Mi piacevano molto le domeniche. Alla messa c’erano sempre grandi ceste piene di brioches benedette. Mi piaceva guardare le belle cilene inginocchiate sul tappetino che avevano steso direttamente sul suolo, talora con le braccia incrociate sul petto, perdute in un’adorazione profonda. Il pomerig-
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gio mi arrampicavo con Conchita tra le scogliere a picco sulla baia. Lassù, vecchie donne Indio frantumavano, servendosi di grosse pietre rotonde, il mais raccolto in un incavo della roccia; con quella farina preparavano le succulente impanades, una sorta di calzoni ripieni di carne, peperoni piccanti e uva passa. Vendevano pani di zucchero d’acero ed enormi arance; avevano abiti variopinti e lingue svelte. Tornavamo a casa sul fare della notte. Ero in ottimi rapporti con il vigilante che mi aveva speventata la prima notte, quando avevo sentito la sua voce gridare le ore, e che poi era accorso in nostro aiuto il giorno in cui una scossa di terremoto (fenomeno purtroppo frequente in Cile) aveva prodotto un radicale sovvertimento nella disposizione del mobilio. Avevo conosciuto Quatrocentimos, l’eroico cane dei pompieri, la loro mascotte, che afferrava con la bocca i tubi bucati e li reggeva saldamente fintanto che gli uomini non avevano finito il lavoro. Questa bestia straordinaria andava ad elemosinare di porta in porta, e accettava solo monete. Quando ne aveva quattro, si recava dal macellaio o dal fornaio, e sapeva indicare molto bene il pezzo di cui aveva voglia. Da qui il nome Quatrocentimos (Quattrosoldi). Qualche volta faceva visita anche a noi. Se ero nel patio, si accovacciava e potevo stendermi tra le sue zampe, a mio piacimento, finché il suo dovere non lo reclamava altrove. Come me, Quatrocentimos amava il patio dove crescevano fiori strani di cui non conosco il nome, ma dei quali talvolta, nel corso dei miei viaggi, ho riconosciuto il profumo penetrante, che ogni volta ha risvegliato in me il ricordo del Cile. Dopo due anni di questa vita felice, piena di gioia e di sole, ero diventata una negretta e parlavo solo spagnolo. Che cosa accadde allora? Quale dramma toccò la nostra vita? Ancora lo ignoro. Una mattina Conchita venne a svegliarmi piangendo, e fui vestita con abiti più caldi del solito. Intanto sulla veranda si ammucchiavano i bagagli. Mia madre mi strinse tra le braccia, mi baciò più e più volte. Mio padre aveva già preso posto nel calesse che, due anni prima, ci aveva portati in quella casa, e fu con lui solo che feci il triste viaggio di ritorno. Attraversammo in direzione opposta lo stretto di Magellano. La mia meraviglia non aveva più la stessa freschezza, mi mancavano la mamma e
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Conchita. Mio padre, molto cupo, parlava poco. E tuttavia, ancora una volta, poco a poco la vita di bordo mi fece dimenticare la mia pena. Il bastimento trasportava animali per un giardino zoologico: due leoncini e uno splendido condor al quale volli offrire delle fragole, e che per poco non mi strappò una mano. Infine arrivammo a Bordeaux. Non dimenticherò mai la sera che passammo all’hotel. Mio padre s’era fatto portare un caffè allungato. Fissava senza vederla la bevanda dorata e grosse lacrime scivolavano tra i suoi baffi. Seduta su uno sgabello accanto alla sua poltrona, guardavo, col cuore pesante, la sua mano abbandonata sulla quale, nonostante lo desiderassi tanto, non avevo il coraggio appoggiare la guancia. Qualche giorno più tardi, entravo come interna al convento del Sacro Cuore di Viry, sulla frontiera svizzera. Avevo sei anni. Dopo due anni di sole e di felicità, mi sembrò di entrare nel nido di un uccello notturno. Il conte di Viry aveva prestato il suo castello a un gruppo di suore cacciate dalla Francia. La religiosa vestita di nero che mi accolse mi fece salire e scendere gradini, attraversare lunghi corridoi disadorni e bui. Il silenzio era assoluto, il freddo penetrante. Nel grande dormitorio parsimoniosamente illuminato nel quale entrammo, bambine vestite di lunghe camicie da notte e inginocchiate davanti ai loro letti rispondevano al rosario che una sorvegliante sgranava con voce monotona. Una ragazzina che portava sull’uniforme blu scuro – sarebbe diventata anche la mia – il nastro azzurro e la medaglia d’argento delle Figlie di Maria mi prese per mano, mi condusse verso un lettino vuoto, mi svestì e mi mise a letto, dove, singhiozzando, finii comunque per addormentarmi. Alla prima messa delle sei ritrovai le mie tre sorelle, e mi sentii meno abbandonata. Si faceva colazione nel refettorio, dove erano stati apparecchiati lunghi tavoli. Le suore passavano dietro di noi, distribuendo il pane e il caffellatte. Mangiavamo in silenzio, mentre una delle ragazze più grandi leggeva a voce alta qualche testo edificante. Reimparai il francese, e subii la dura trasformazione da bambina libera e allegra in ragazzina timida e assennata. I metodi usati non erano teneri. Per le minime mancanze, lunghe ore passate in ginocchio, con le braccia incrociate, in un gelido corridoio. Per i peccati gravi, l’isolamento in cella a pane secco e acqua. Tuttavia le suore non erano cattive. La Regola era
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severa anche per loro. La superiora, una gran signora, voleva fare di noi delle donne forti, mature, capaci di conservare saldamente la posizione che ci spettava nei vari ranghi della società. Impiegava, a tal fine, i mezzi dell’epoca. I miei soli giorni veramente felici erano quelli in cui ero malata. Soffrivo di angine e le suore, forse temendo il contagio, chiedevano a mia nonna di venirmi a prendere. Era una settimana di beatitudine, durante la quale potevo godermi di nuovo la sua tenerezza. Eppure le mie sorelle e io eravamo in un certo senso privilegiate: quattro protette di monsignor Merlinod, allora vescovo di Ginevra e amico della nostra famiglia. In quella tetra dimora passai sei anni. Ogni giovedì facevamo una passeggiata nella campagna circostante, peraltro assai bella. Camminavamo in fila per due, sotto la sorveglianza d’una conversa. Il divertimento preferito da alcune mie compagne, che mi faceva gelare il sangue per l’orrore, era la caccia alle rane: le spellavano e le rigettavano vive nello stagno, gioco che la sorvegliante osservava con indifferenza. Il 14 luglio era un giorno cupo. A ogni petardo che scoppiava in paese, dovevamo gettarci in ginocchio e pregare per l’anima di Luigi XVI. Quando le grandi partivano per le vacanze, venivano avvertite del fatto che, se avessero baciato un ragazzo, si sarebbero viste spuntare dei rigogliosi baffi. Negli Stati Uniti ho ritrovato una succursale del mio convento. Tutto è cambiato. Oggi sono le suore stesse che preparano le allieve per i loro appuntamenti, e insegnano loro i passi di danza. Una serie di catastrofi mise fine alla nostra prigionia. Violenti terremoti, incendi e furti rovinarono i miei genitori. Mio padre tornò da solo in Francia. Chiamò con sé mio fratello e le mie due sorelle maggiori, mentre la sorella più piccola e io venimmo affidate a un istituto religioso meno costoso, a Ferney, in quello che era stato il castello di Voltaire, debitamente esorcizzato. Chissà che la sua ombra non vagasse qualche volta per il giardino o nelle aule, ascoltando ironicamente le lezioni che ci venivano impartite... La morte di mio fratello, stroncato a diciassette anni da una crisi di reuma cardiaco, ricondusse mia madre in Francia e ci riunì tutti a Parigi, in condizioni di vita ben diverse da quelle che avevamo conosciuto. Mia sorella
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maggiore entrò all’Ecole normale, le altre due si sposarono molto presto. Io stavo terminando i miei studi in una piccola scuola privata di rue Cardinet quando mio padre morì, a cinquantuno anni, minato dai dispiaceri più ancora che dalla malattia. Restai sola con mia madre, che fino a quel momento non aveva mai dovuto preoccuparsi degli aspetti concreti della vita. Avevamo però conservato qualche amico. Grazie a loro mia madre fu nominata direttrice della Mutualité maternelle, società creata dai sindacati del settore tessile per aiutare le operaie bisognose durante la gravidanza: all’epoca, la previdenza sociale non esisteva. L’esperienza maturata negli ospedali cileni, ai quali aveva dedicato generosamente tutto il tempo di cui disponeva, costituiva un’eccellente preparazione al compito che le era stato affidato. Mia madre vi si dedicò con tutta l’anima. Pensando che un contatto con la vera povertà non poteva che essermi salutare, mi prese con sé perché l’aiutassi nel suo compito. Gli inizi furono difficili. Ero la classica ochetta di quei tempi, piuttosto snob, e convinta che la gente delle periferie fosse di un’altra razza. Poche visite bastarono a risvegliare la mia simpatia, la mia compassione, spesso la mia ammirazione. Quando portavo al professor Dehenne, nella sua clinica oculistica di rue Monsieur-le-Prince, qualche neonato affetto da oftalmia purulenta, che un’attesa di poche ore poteva rendere cieco, non era senza orgoglio che lo sentivo dire: “Ah! Ecco mademoiselle Alice e i suoi bambini...” Dopo aver curato i piccoli, si occupava di me e mi inondava gli occhi di argyrol. “Attenzione, bambina mia” diceva “questa sporcizia è terribilmente contagiosa, non bisogna davvero rovinare questi begli occhi”. Qualche mese dopo, a seguito d’un diverbio con la direzione, mia madre diede le dimissioni e di nuovo ci trovammo in una situazione difficile. Ma avevamo un nuovo amico: il segretario generale del Sindacato, nipote della fondatrice del convento nel quale eravamo state educate. All’epoca P.B. doveva avere settant’anni. Io ne avevo diciassette, ma ero letteralmente innamorata di lui. Tutti i giovedì sera per me erano una festa. Li passavamo a casa di P.B., insieme alle sue due figlie. Mi sedevo vicina a lui, la mia mano nella sua,
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mentre le figlie servivano il tè o facevano della musica, e mia madre ricamava o lavorava a maglia. Fu lui che consigliò a mia madre di farmi seguire un corso di stenodattilografia, scienza allora del tutto nuova. Il direttore del corso era un eccellente stenografo giudiziario e della Camera dei deputati, dove qualche volta mi portava con sé, come anche alla Sorbona, perché mi esercitassi a stenografare rapidamente. Avendo notato i miei progressi piuttosto rapidi, decise di darmi delle lezioni private e presto mi giudicò in grado di occupare il posto di segretaria in una piccola fabbrica del Marais “per fare un po’ di rodaggio” mi disse. “Quando avrò un posto migliore, vi avvertirò”. Questo primo lavoro di segretaria, in rue de Quatre Fils, presso dei fabbricanti di vernice, fu certo un rodaggio... I miei padroni occupavano un ufficio separato dalla grande stanza in cui stavamo il caporeparto, i contabili e io. Dopo aver distribuito la posta (le missive erano talvolta decisamente originali, al limite dell’intellegibilità), il caporeparto andava a consegnare le ordinazioni ai laboratori. Restavo sola in mezzo a una dozzina di uomini. Uno arrivava direttamente dalle guerre africane, ma posso assicurarvi che non era né bello né biondo... e che il sole non gli accarezzava la fronte, al mon legionnaire! Aveva una gran bocca piena di denti neri dalla quale uscivano, come da una fogna, tutte le battute salaci del repertorio, ovviamente indirizzate a me. Quel che ne capivo bastò a farmi piombare un giorno, esasperata, nel suo ufficio, dove sbattendo i pugni sul tavolo con tutta la mia forza gli gridai in faccia: “Rimangiatevi la vostra spazzatura, tacete e lasciatemi lavorare in pace, altrimenti riferirò a chi di dovere”. Scattò in piedi come un diavolo a molla: “M... eccola che mi urla contro! Bisognerà darle una lezione, alla marmocchia!” L’arrivo del caporeparto interruppe il dialogo. Ritornai al mio posto, ancora tremante e con le lacrime agli occhi. Contrariamente a quanto mi aspettavo, all’uscita non lo vidi, ma il giorno dopo fui convocata nell’ufficio del padrone, che mi disse severamente: “Signorina, siete qui come segretaria. Il vostro compito non è quello di rivolgere osservazioni al personale, come sembra abbiate fatto ieri. Fate in modo che non si ripeta più”.
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“Scusate, signore, ma le mie osservazioni non riguardavano il lavoro”. “No? E che cosa riguardavano, allora?” A malincuore, gli raccontai la scena del giorno prima. “Ora capisco meglio, ma perché non ne avete parlato al vostro capo o direttamente a me?” mi chiese. Chiamò il caporeparto: “Fate venire qui Untel”. Dopo pochi istanti fece la sua apparizione mon legionnaire, molto meno tracotante. “La signorina mi ha appena dato una versione molto diversa dalla vostra sui fatti di ieri”, gli disse il padrone. “Se desiderate conservare il vostro impiego, fate in modo che non abbia più motivo di lagnarsi. Potete andare.” Senza rispondere, ma rivolgendomi uno sguardo tutt’altro che tenero, girò sui tacchi. Ringraziai e anch’io riguadagnai il mio posto. Non tutti gli impiegati della fabbrica erano così volgari. Uno dei giovani contabili mi aiutava volentieri, quando il lavoro d’archivio era eccessivo. Approfittò del primo momento favorevole per dirmi sottovoce: “Lasciate che vi accompagni a casa stasera. Ha minacciato di farvela pagare, e vi assicuro che è davvero cattivo”. “Grazie, siete gentile ma alle sette le strade non sono deserte. Non potrà mica mangiarmi”. Eravamo in inverno, uno dei più freddi che abbia conosciuti. All’uscita dall’ufficio era buio pesto e quando sentii dietro di me un passo pesante, non fu soltanto l’aria gelida a darmi un brivido. Ma per nulla al mondo avrei affrettato il passo. In breve mi raggiunse, e attaccò discorso con la sua voce più urbana: “Vi disturba se vi cammino accanto?” “Il marciapiede è di tutti”. “Così avete parlato...” “Siete stato voi a parlare troppo. E adesso subite le conseguenze di quel che avete fatto. Peggio per voi.” “Senza scherzi... non sarete mica andata a lamentarvi?” “Neanche per sogno. Penso di sapermi difendere da sola dai vostri insulti. Non è affatto bello quel che fate.” Non avevo più paura e di nuovo mi stava montando la collera. Gli dissi tutto quello che avevo sullo stomaco. Mi ascoltava con aria mogia, scrol-
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lando le spalle di tanto in tanto come un cane bagnato. Poi si fermò e: “Va be’, può essere che abbiate ragione. Avete l’aria d’una brava ragazza, se volete potremmo essere amici... e se qualcuno vi darà fastidio, dovrà vedersela con me”. Mi tese la sua grossa zampa... e io gli diedi la mia. Certo con grande sorpresa del mio amico contabile, che ci seguiva a distanza. Mantenne la sua parola e io finii il mio apprendistato in pace.
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Parte seconda
Nel marzo del 19851, se i miei ricordi sono esatti, una nota del mio professore di stenografia mi informava che il Comptoir général de Photographie2 cercava una segretaria. Il biglietto era accompagnato da una calorosa raccomandazione. Era quella l’occasione che avevo tanto a lungo atteso? Così, con un certo batticuore e qualche speranza facevo il mio ingresso nello stabile che tuttora occupa l’angolo tra rue Saint-Roch e avenue de l’Opéra, nascondendo come potevo la tasca un po’ logora del mio cappotto invernale. Prima delusione: l’impiegato al quale mi rivolsi mi disse che il direttore, monsieur Richard, era assente. Poi, vedendo la mia aria abbattuta: “Forse potreste incontrare il suo procuratore, monsieur Gaumont. Vado a vedere se può ricevervi”. Dopo qualche istante, mi faceva entrare in un’ampia stanza vetrata. Dietro una grande scrivania, un uomo ancora giovane, dalla figura energica, stava scrivendo. Non ebbi il minimo dubbio: lo conoscevo già, da molto tempo. In realtà, quando seguivo i miei corsi di stenodattilo, avevamo preso in affitto un piccolo appartamento in rue de Tournon. In un palazzo poco lontano, vedevo spesso una finestra illuminata per buona parte della notte. Era, così pareva, quella d’uno studente che terminava i suoi studi di ingegneria lavorando nel frattempo, credo, da [Jules] Carpentier. Lo incontravo ogni giorno, andando al Luxembourg o scendendo lungo boulevard SaintMichel per andare a lezione. L’appartamento che occupavamo si trovava sopra quello della celebre chiaroveggente mademoiselle Lenormand. Se allora l’avessi consultata,
mi avrebbe probabilmente predetto che quel giovane uomo, d’una decina d’anni più grande di me, che incontravo ogni giorno avrebbe avuto un ruolo importante nella mia esistenza. Credo fosse a quest’epoca, o forse qualche mese più tardi, che Léon Gaumont incontrò mademoiselle X [Camille Maillard], figlia d’un agiato proprietario di Belleville, che avrebbe poi sposato e che gli avrebbe portato in dote i grandi terreni su cui, qualche anno dopo, sarebbero sorti gli studi che videro nascere il cinema. “Che cosa desiderate, signorina?” mi chiese, alzando gli occhi. Timidamente gli porsi la mia lettera di presentazione. La lesse, mi esaminò in silenzio e infine disse: “La raccomandazione è ottima, ma si tratta d’un posto di rilievo. Temo che siate troppo giovane, signorina.” Tutte le mie speranze crollavano. “Signore”, dissi supplichevole “mi passerà”. M’esaminò di nuovo, divertito. “Purtroppo è vero” concordò “vi passerà... E va bene! Proviamo”. Mi porse un bloc-notes e una matita, mi indicò una sedia davanti alla sua scrivania e mi dettò rapidamente due o tre pagine. Nonostante le mani mi tremassero, me la cavai senza problemi. “Bene” disse “tornate questo pomeriggio. Se monsieur Richard è d’accordo, comincerete domani. Lo stipendio iniziale è di centocinquanta franchi. Vi sta bene?” Mi stava benissimo, visto che il mio salario precedente era stato di venticinque franchi al mese... certo, è vero, erano franchi-oro. “Quando potreste cominciare?” “Questo pomeriggio, signore, se lo desiderate”. “Siamo intesi, vi presenterò a Richard che deciderà”. Quando feci ritorno al nostro piccolo alloggio, camminavo a un metro dal suolo. Saltai al collo di mia madre e le comunicai la lieta notizia. E quanto lieta, in realtà. Ignoravo l’avvenire che quell’inizio mi dischiudeva. Se l’avessi immaginato, sarei forse indietreggiata di fronte alle difficoltà dell’impresa. Richard non fece alcuna obiezione alla decisione del suo procuratore, e ben presto ebbi modo di rendermi conto della pesantezza e complessità del mio incarico.
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Parte seconda
Una macchina da scrivere venne collocata su un piccolo tavolo, davanti a una delle finestre che guardavano su avenue de l’Opéra. Un paravento mi separava dal resto della stanza. Un campanello elettrico mi collegava con l’ufficio dei direttori e, dalle otto di mattina alle otto di sera, per sei giorni la settimana, dovevo rispondere agli imperiosi squilli dirigenziali. La fotografia allora regnava sovrana. Tutta l’aristocrazia, il mondo scientifico, gli artisti (scrittori, pittori, scultori), il mondo diplomatico e persino gli ambienti equivoci... tutti facevano della fotografia. Era la Belle Epoque. Le mostre di chi si dilettava di fotografia erano sempre frequentate, le fotografie più notevoli apparivano sui grandi giornali e sulle riviste; alcune erano vere opere d’arte. Di quest’arte ignoravo quasi tutto. Dovetti prendere dimestichezza con le dimensioni delle lastre, i diversi tipi di carta e di prodotti chimici, i nomi dei vari apparecchi e le loro qualità, le focali degli obiettivi, gli otturatori e così via. Per mia fortuna, imparai in fretta. Ben presto i miei capi trovarono che perdevo troppo tempo andando avanti e indietro, e mi sistemarono nel loro ufficio, cosa che mi permise di essere al corrente di tutto ciò che accadeva nella maison e di conoscerne i principali clienti. Incontrai numerosi scienziati: il fisico Eleuthère Mascart (l’elettrodo atmosferico e il magnetismo terrestre) che, con grande sorpresa di Gaumont, lo attese per più di mezz’ora nel suo ufficio, semplicemente chiacchierando con me; il dottor Pierre-Emile Roux, discepolo e successore di Pasteur, che aveva scoperto il vaccino per la difterite; il figlio di Gyp3, Thierry de Martel, famoso chirurgo che curò sia me che mia figlia, dimostrando la sua grande bontà, e di cui venimmo a sapere, con molto dolore, che s’era suicidato quando i tedeschi entrarono a Parigi; il fisico Louis-Paul Cailletet, scopritore della liquefazione del gas, dell’aria, dell’ossigeno; Arsène d’Arsonval che applicò le correnti ad alta frequenza in medicina, creando il fenomeno detto darsonvalizzazione; l’astronomo e geografo Joseph Vallot, che aveva installato il suo osservatorio sulla cima del Monte Bianco (m’invitò a salirvi, offrendo di mettermi a disposizione delle guide, ma purtroppo il matrimonio m’impedì di accogliere il suo invito); Jean-Baptiste Charcot, celebre esploratore che perì sul Pourquoi pas?; [Salomon-Auguste] Andrée, che partì in mongolfiera per il Polo Nord e che, fino ad anni recenti, è stato creduto disperso senza lasciare nessuna traccia (ho appena letto in un libro di W. Cross e Th. Hellbroom, un cui condensato è stato pubblicato su Lectu-
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res pour tous, che i resti di Andrée e dei suoi compagni sono stati ritrovati e che si è scoperto che erano morti di trichinosi dopo aver mangiato la carne di un orso affetto da questa malattia, senza averla fatta cuocere a sufficienza); Gaston Bonnier, botanico che si dedicava all’allevamento delle api nei giardini del Luxembourg (lo sentii parlare, ben prima che apparisse il libro di Maeterlinck4, dell’intelligenza e dell’operosità delle sue amiche); il dottor Alexandre Yersin, microbiologo (che io stessa fornii di un cinématographe quando partì per Hong Kong, dove scoprì il bacillo della peste), semplice e simpatico come un liceale; Gustave Eiffel5, ingegnere costruttore di numerosi ponti e della torre Eiffel, e che ha avviato la costruzione del canale di Panama (conservo di lui il più caro ricordo, per via degli incoraggiamenti di cui è sempre stato prodigo); il dottor Charles-A. François-Franck, direttore dell’Istituto, che ho spesso aiutato a riprendere immagini di atassie, di respirazioni di animali, di cuori messi a nudo, di rane cui applicavo una bandierina bianca per registrare i loro palpiti, che è sempre stato molto caro con me e mi ha fatto ottenere la mia prima decorazione, quella di Chevalier d’Académie6. E ancora, Louis e Auguste Lumière, universalmente noti, di cui non c’è bisogno che io tessa le lodi, e che mi fecero dono d’un ritratto a colori di mia madre, realizzato con il procedimento Lippmann7, da me religiosamente conservato. Alberto Santos-Dumont, aviatore brasiliano di cui abbiamo filmato il primo volo – credo un centinaio di metri – nello stesso periodo in cui i fratelli Wright effettuavano a loro volta il primo volo: e forse non avrebbero potuto decollare senza l’aiuto apportato dal motore di Dion-Bouton, messo a loro disposizione dallo stesso inventore. Conobbi scrittori come Emile Zola, che incontrai al tempo in cui difendeva Dreyfus, poco prima della sua morte. Lui e sua moglie formavano una coppia singolare. All’epoca sono state pubblicate cose sulla vita di Zola, che non potrei né smentire né confermare. Octave Mirbeau collaborava al giornale “Le Temps”; aveva provocato uno scandalo pubblicando Le Journal d’une Femme de Chambre8 (che probabilmente sembrerebbe oggi opera del tutto innocua). Fu lui a far uscire Maeterlinck dall’ombra, scrivendo un articolo assai più elogiativo a proposito di una delle sue poesie, che gli era stata inviata dal suo amico Paul Hervieux. [Emmanuel de] Las Cases, figlio dello storico di Napoleone all’isola d’Elba, spesso ci intratteneva con i ricordi che suo padre gli aveva lasciato in eredità. La principessa Bibesco9,
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dell’omonima famiglia degli ospodari di Valacchia, era una donna un poco mascolina, molto bruna, dagli occhi magnifici e dal labbro superiore lievemente ombreggiato. Non ho mai letto nessuno dei suoi libri. Conobbi anche uomini di Stato: [René] Waldeck-Rousseau, primo ministro, che avevo soprannominato ‘il gufo’ tanto era simpatico, e sua moglie più sboccata d’una lavandaia. Una volta, entrando in una delle sale d’attesa del Comptoir, gridò: “Ma quanto puzza questo posto!”. René Viviani10, genero di Eiffel. Venne in America nel periodo in cui anch’io ero là. Ero conosciuta da tutta la famiglia Eiffel, poiché li avevo spesso accolti nello studio e avevo organizzato per loro dei piccoli ricevimenti. Durante una delle sue visiste al Comptoir, Viviani mi chiese: “Allora, mademoiselle Alice, quando vi sposate?” “Credo di amare troppo il mio mestiere” risposi. “Se un giorno mi deciderò, sarà solo per avere dei bambini”. Viviani mi guardò con un sorriso malizioso: “Potrei darvi una mano”. Quando René Viviani venne negli Stati Uniti, facevo parte del Circolo franco-belga. Tutte le signore del Circolo, ansiose di essergli presentate, mi spinsero energicamente indietro. Tuttavia, per incontrarlo, sarebbe bastato solo che gli avessi fatto arrivare il mio biglietto da visita, chiedendogli di farmi l’onore di una visita al mio studio. Non lo feci. Avrò avuto torto o ragione? Devo citare anche Louis Renault, che conobbi quand’era un semplice meccanico; uno dei suoi fratelli, Marcel, restò ucciso nel corso della prima corsa automobilistica Parigi-Marsiglia. Il nome Renault è oggi conosciuto in tutto il mondo. E poi [Marcel] Jambon, il celebre scenografo dei grandi teatri parigini (Opéra, Théâtre Français...), che decorò le strade di Parigi in occasione dell’Esposizione del 1900, e al quale mi legò una sincera amicizia (parlerò ancora di lui, nel corso di queste memorie); [Pierre o Pedro] Gailhard, direttore dell’Opéra, di cui pure si parla più avanti e che aveva settantadue anni quando lo incontrai per la prima volta; Charles-Edouard Guillaume, direttore dell’Ufficio Internazionale dei Pesi e delle Misure; i fratelli Falize11, due magnifici ragazzi dai capelli completamente bianchi che insistevano, dopo ognuna delle loro ‘omeriche’ corse in bicicletta, a farmi constatare lo sviluppo dei loro muscoli. Al ritorno dagli Stati Uniti ho rivisto con piacere il loro splendido negozio in rue de la Paix. C’erano la Duchessa d’Uzès12, della quale filmavamo le partite di caccia e che avevo già incontrato quando aiutavo mia madre alla Mutualité mater-
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nelle, e l’imperatrice Eugénie-Marie de Montijo. Conservo tra le mie cose care un ombrello che aveva offerto a mia madre, in occasione di un ricevimento a Corte. Dopo la morte di suo figlio, ucciso in un’imboscata degli Zulu, ci fece visita al Comptoir, ed era così triste, così consumata dal dolore, che non osai parlarle dei ricordi che mi legavano a lei. C’era Ranavalo, la regina detronizzata del Madagascar, molto dignitosa e triste. Un giorno, mentre l’accompagnavo alla sua automobile, un ragazzotto parigino che passava si mise a cantare: “Oh la la! C’te gueule, c’te binette, oh! La la c’te gueule qu’elle a (Oh la là! Che faccia, che muso, che muso che ha!)”. Spero che la regina non abbia capito lo scherno di quelle parole. Del marchese e della marchesa di Baroncelli-Javon parlerò più avanti. Li conobbi a Saintes-Maries-de-la-Mer e suscitai in loro grande stupore quando dissi che in Cile i miei genitori erano amici di un Baroncelli, console francese. Il marchese alzò le braccia in segno di sorpresa: “Mio zio! ha conosciuto mio zio!”. “Non io, i miei genitori”, risposi. “In Cile i francesi si ritrovavano tra loro, c’era Adelina Patti e altri di cui ora non ricordo il nome”. Il marchese s’interessava ai cow-boy e dagli Stati Uniti gli spedii qualche cartolina, sperando di fargli cosa gradita. Conobbi D’Alsace, presidente del centro israelita di beneficenza, uomo conosciuto per la sua grande umanità. E Claude Bromhead13, direttore e quindi proprietario della succursale Gaumont a Londra, che con Les Braconiers realizzò quel che è, a mia conoscenza, il primo film a inseguimento; Monsieur e Madame Dieulafoy, archeologi e fini letterati, che diffusero in Francia il gusto della letteratura spagnola (lei fu la prima donna che vidi in pantaloni); Fréderic Dillaye, consulente tecnico delle attività fotografiche Gaumont, impiegato in un ministero. Quest’ultimo scrisse numerosi libri di fotografia14 e fu mio benevolo professore, soprattutto quando cominciai a girare i miei film. La sua vita familiare fu sconvolta dal terribile incendio del Bazar de la Charité15. La famiglia Dillaye abitava in una bella villa nei dintorni di Parigi. Quel giorno madame Dillaye arrivò un poco in ritardo al treno che doveva condurla al Bazar de la Charité, dove aveva un suo stand. Il capostazione, che la conosceva, corse insieme a lei per aprirle la porta di un vagone, e aiutarla a salire. Frédéric Dillaye era con noi nell’ufficio della Gaumont e parlavamo tranquillamente quando un impiegato, turbato e pallidissimo, venne ad avvisare Gaumont del disastro provocato dalla proiezione cine-
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matografica. Frédéric Dillaye sentì parte della conversazione. Lui, Gaumont e io prendemmo un’auto e ci precipitammo sul luogo del terribile incendio. La gente era come impazzita e correva in tutte le direzioni. Infine i pompieri riuscirono a spegnere le fiamme e Dillaye si trovò per caso davanti una delle sue figlie che, terrorizzata, era appena uscita dal Bazar. Gli raccontò che, nel momento in cui era riuscita a scappare, teneva sua madre per mano; poi il vortice della folla le aveva separate, e non sapeva che cosa fosse stato di lei. È inutile dire che ore terribili passammo, fino al momento in cui, a notte tarda, i presenti furono chiamati a cercare di identificare quel che restava delle vittime. Io non fui autorizzata ad accompagnare Gaumont e Dillaye, né, d’altra parte, ne avrei avuto il coraggio. Fu dopo molte ricerche, e solo grazie a un paio d’orecchini, che Frédéric Dillaye riconobbe il corpo di sua moglie. Diciassette persone di questa famiglia, che non aveva mai conosciuto veri dolori, perirono in quella orribile catastrofe. Un anno dopo, anche la figlia maggiore di Dillaye, quella che era stata separata dalla madre, morì per una sorta di consunzione. Dillaye ci mise molto tempo prima di poter tornare alle sue occupazioni abituali. Di qualcuno non ricordo più il nome, come per esempio il direttore delle fabbriche di soda di La Madeleine. Quando gli veniva chiesto dove avesse fatto i suoi studi, rispondeva, con tono pieno d’intenzione: “Alle scuole laiche”. Il costruttore delle ferrovie di La Mure, quanto a lui, mi diceva di non essere mai riuscito a prendere la maturità... E la Bella Otero... e Cléo de Merode16 che era stata soprannominata “pancia vuota”, perché portava sempre larghe fasce che le coprivano le orecchie, così illustrando il proverbio “pancia vuota non sente ragioni”. Tre mesi dopo il mio arrivo, Léon Gaumont desiderava vivamente accompagnare non so più quale viaggio presidenziale in Algeria. Chiese il permesso a Max Richard, che dapprima glielo rifiutò, poiché, disse, gli affari in corso richiedevano la sua presenza. La sua delusione fu così cocente che, armandomi di coraggio, dissi a Richard: “Signore, credo di avere ormai acquisito le informazioni necessarie a sbrigare la corrispondenza ordinaria per qualche giorno. Se si presentassero delle difficoltà, potrei sempre sottoporvele quando passerete in ufficio”. Léon Gaumont afferrò la palla al balzo.
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“Sono certa che mademoiselle Alice se la caverà benissimo” affermò. “Del resto, sarò assente al massimo per una settimana”. “E sia”, disse Richard, “speriamo che tutto vada bene”. Gaumont partì, felice come uno scolaro in vacanza. Ebbi la fortuna di non commettere alcun errore importante, nel tempo che durò il suo viaggio. Da quel giorno mi guadagnai la sua completa fiducia, e forse un po’ di stima da parte di Richard. La mia retribuzione aumentò. Purtroppo, anche le mie responsabilità. Poco a poco, le redini dell’intera gestione pratica finirono nelle mie mani: apertura dello studio, controllo degli appuntamenti, distribuzione della posta, verifica degli imballaggi e delle spedizioni, rifornimento degli stock. In caso di assenza dei capi, tenevo i contatti con i clienti importanti. Infine, la corrispondenza. A volte mi sentivo prendere dallo sgomento. Non appena arrivavo a portare a termine un compito, se ne presentava uno nuovo. Ma lo sgomento durava poco. Avevamo trovato, nel sottotetto d’un antico palazzo di quai Malaquais, proprio di fronte alla statua di Voltaire (ancora lui), un delizioso, davvero luminoso piccolo appartamento. Dalle nostre finestre, leggermente mansardate, godevamo d’una vista fantastica: a est il profilo di Notre-Dame, davanti Saint-Germain l’Auxerrois, il Louvre e le Tuileries, a ovest, in lontananza, Sèvres e Saint-Cloud. Sotto di noi, tutta la vita e le attività della Senna, le chiatte e gli svariati mestieri del lungofiume, i tosatori di cani e i castratori di gatti, le bancarelle dei librai e i portatori d’acqua. Tutto era allegro e vivo. Mi trattenevo a stento dalle risate quando incontravo sulle scale il conte di R. de S. che faceva bruciare dello zucchero su una paletta rovente, cercando di coprire, prima dell’arrivo dei suoi invitati, l’odore di trippa alla cipolla che la portinaia cucinava a fuoco lento. Rientrando a casa, mi concedevo qualche piccolo vagabondaggio. Una passeggiata attraverso il giardino delle Tuileries, pieno di fiori, di balie infiocchettate, di bambini, il ponte Saintes-Pères, gli scherzi degli studenti (la scuola di Belle Arti non era lontana) mi facevano in parte dimenticare la stanchezza. Mi arrampicavo allegramente fino alla nostra piccionaia e vi trovavo mia madre che, libera da preoccupazioni, si adoperava a rendere la nostra casa gaia e confortevole. Aveva utilizzato al meglio i pochi bei mobili e
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oggetti che ci restavano, vestigia di tempi più felici. Vecchie ricette le consentivano di preparare pranzi eccellenti, che l’appetito dei miei vent’anni rendeva ancora più saporiti. La vita mi sembrava bella. La mattina, preparandomi per uscire, cantavo a piena voce. Ma una grossa nuvola nera si profilava all’orizzonte. Jules Richard, l’inventore del barometro registratore e dello stereoscopio che porta il suo nome, intentò un processo contro suo fratello Max, il nostro direttore, per impedirgli la fabbricazione degli apparecchi fotografici. Vinse la causa e il nostro padrone fu costretto a ritirarsi. Ciò significava, a breve termine, la chiusura dei negozi e il licenziamento degli impiegati. L’inquietudine di Léon Gaumont, sposato con tre figli, era grande; la mia, la potete immaginare. Ma Léon Gaumont, allievo del prestigioso collegio di Saint-Barbe, lavoratore indefesso, aveva fatto la sua gavetta d’ingegnere presso Carpentier, il famoso costruttore di apparecchi scientifici e in particolare del binocolo, il cui sfruttamento economico aveva affidato allo stesso Gaumont. Avevo spesso notato la stima che i nostri principali clienti dimostravano a Gaumont. “Perché” gli dissi “non vi rivolgete a loro, per formare una società che vi permetta di continuare?” “Ci ho pensato”, rispose Gaumont. “Ne ho parlato con qualcuno, e sembrano interessati”. Da uomo d’azione qual era, mise energicamente in pratica il suo progetto. Qualche settimana dopo nasceva la Société des Etablissements Gaumont17, con un consiglio d’amministrazione in cui sedevano Eiffel, Vallot, Viviani e altri nomi importanti (tra questi il console del Belgio, di cui mi sfugge il nome); e gli affari ripresero a marciare. Sui terreni che la moglie possedeva a Belleville, Gaumont allestì dei laboratori modello per la costruzione di apparecchi di sua invenzione (come lo spido e lo stero-spido18), oltre a un laboratorio riservato allo sviluppo e alla stampa dei materiali fotografici, il cui numero aumentava di giorno in giorno. Nel corso dello stesso anno, ricevemmo la visita di un giovane e assai simpatico scienziato, Georges Demenÿ, nervoso, elegante; le sue conoscenze parevano illimitate: musica, alta matematica, meccanica, fisica, anatomia, e inoltre era professore d’educazione fisica alla scuola d’Arti e Mestieri. Aveva sperimentato di tutto; infine s’era associato al fisiologo Marey e insie-
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me avevano creato un laboratorio specializzato nello studio del movimento umano e animale, e soprattutto del volo degli uccelli. L’aviazione era agli inizi. A questo scopo aveva inventato un apparecchio che aveva chiamato fonoscopio, e che permetteva di registrare su un disco di vetro emulsionato una serie di immagini che, proiettate, davano l’illusione del movimento, della mimica fisiognomica. Era l’apparecchio di cui venne a proporre la produzione a Léon Gaumont. Io ero presente al loro incontro. L’invenzione suscitò vivo interesse in Gaumont. Venne quindi fondata una società, che avrebbe messo allo studio i diversi brevetti di Georges Demenÿ19. Il fonoscopio aveva già subito varie trasformazioni, mirate a farne uno strumento capace sia di registrare sia di proiettare immagini animate, quando Gaumont ricevette la visita di due amici di lunga data, Auguste e Louis Lumière. Erano venuti per invitarlo ad assistere a una serata organizzata presso la Société d’Encouragement à l’Industrie Nationale, dove i due fratelli avrebbero presentato un nuovo apparecchio di loro invenzione20. Assistetti al colloquio e fui a mia volta invitata, ma i due rifiutarono di fornirci altre informazioni sull’apparecchio. “Vedrete” dissero “sarà una sorpresa”. La nostra curiosità era stata sollecitata e ci guardammo bene dal mancare l’appuntamento. Al nostro arrivo, vedemmo che un telo bianco era stato teso contro uno dei muri della sala; all’altra estremità, uno dei fratelli Lumière maneggiava un apparecchio simile a una lanterna magica. Si fece buio e vedemmo apparire, su quello schermo di fortuna, l’officina Lumière. Le porte si aprirono e la folla degli operai uscì, gesticolando, ridendo, dirigendosi verso la mensa o verso il proprio alloggio. Poi ci furono, uno dopo l’altro, i film diventati dei classici: l’arrivo del treno in stazione, l’annaffiatore annaffiato, e così via. Semplicemente, avevamo assistito alla nascita del cinema. Qualche giorno più tardi, il cinématographe Lumière offriva le sue prime proiezioni pubbliche, nella sala sotterranea del Gran Café, al 14 di Boulevard des Capucines21. Si scatenò una bella gara tra i costruttori. Gaumont, le cui ricerche erano già molto avanzate, arrivò buon secondo con il cronofotografo. Sfortunata-
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mente, ritenne opportuno utilizzare pellicola da 60 millimetri22, cosa che lo costrinse a fare alcune modifiche e appesantì un po’ la partenza. Ma Gaumont, come Lumière, s’interessava soprattutto alla realizzazione di progetti meccanici. Si trattava, per lui, di un apparecchio in più da mettere a disposizione della clientela. La novità rappresentata dalle riprese come strumento d’educazione o di svago non sembrava aver colpito la sua attenzione. Tuttavia, nel vicolo delle Sonneries, era stato aperto un piccolo laboratorio per lo sviluppo e la stampa dei cortometraggi: sfilate di truppe o marciapiedi di stazione, ripresi dal personale del laboratorio, che servivano come dimostrazione e venivano proiettati a scorrimento continuo. Figlia di un editore, avevo letto molto, e qualcosa avevo ritenuto. Avevo fatto un po’ di teatro amatoriale, e pensavo che si potesse produrre qualcosa di meglio. Armandomi di coraggio, proposi a Gaumont di scrivere un paio di scenette, e di farle interpretare a degli amici. Se fosse stato possibile prevedere la piega che avrebbero preso gli eventi, non avrei mai ottenuto il suo consenso. La mia giovane età, la mia inesperienza, il mio sesso, tutto cospirava contro di me. E invece l’ottenni, alla precisa condizione che tutto ciò non intralciasse i miei compiti di segretaria. Dovevo essere in ufficio alle otto, aprire, prendere gli appuntamenti, distribuire la posta. Poi mi era permesso prendere l’omnibus a quattro cavalli che, attraverso rue La Fayette, s’arrampicava fino alle Buttes Chaumont, e impiegare al meglio il tempo che mi era concesso. Alle quattro e mezzo dovevo essere di ritorno in rue Saint-Roch, per occuparmi della corrispondenza, delle firme e quant’altro. Spesso non finivo prima delle dieci o undici di sera. A quel punto avevo la libertà di rientrare a rue Malaquais, per qualche ora d’un riposo che potevo considerare ben meritato. Fu a quell’epoca che Léon Gaumont, trovando che perdevo troppo tempo a spostarmi tra casa e lavoro, mi propose di risistemare un piccolo padiglione che possedeva in fondo a vicolo delle Sonneries, dietro il laboratorio fotografico, a pochi metri dalla piattaforma asfaltata, e di affittarmelo per una cifra modica (che corrispondeva comunque a ottocento franchi l’anno). Vedendo la mia esitazione, mi promise di farvi installare un bagno e di far dissodare il giardino da un giardiniere delle Buttes Chaumont. Finii per cedere. Ero già posseduta dal demone del cinema.
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Non fu senza rimpianto che lasciammo la piccionaia di rue Malaquais. Un muro basso separava la nostra nuova casa da un isolato abitato da lavoratori dei mattatoi della Villette. Poco tempo dopo il nostro trasloco, urla strazianti mi attirarono alla finestra. Uno dei nostri amabili vicini, al ritorno dal lavoro, aveva trovato moglie e figlia impietrite davanti a un litro di vino a lui destinato, che la bambina aveva lasciato cadere. Folle di rabbia, l’uomo aveva afferrato i capelli della moglie, se li era avvolti intorno al pugno e, con tutte le sue forze, le sbatteva la testa contro il muro del loro alloggio. Rifiutai di sopportare oltre una simile situazione. Del resto questo tipo di vicinato inquietava anche Gaumont, che fece alzare il muro e, più tardi, comprò tutto l’isolato. Così feci conoscenza con il mio nuovo territorio. Fu nel giardino di quella casa che installammo, Anatole23 e io, la nostra prima macchina da presa. Nel 1896, i sindacati non esistevano ancora. La settimana era di sei giorni, talora di sette; le ore di lavoro... illimitate. Ricordo una domenica mattina in cui Gaumont venne a pregarmi di correre tutt’intorno al mio giardino, per misurare la velocità della corsa con uno strumento di sua invenzione. Ecco quella che oggi chiamiamo ‘la Belle Epoque’. A Belleville, accanto ai laboratori di stampa fotografica, mi venne concessa una terrazza in disuso, pavimentata d’asfalto (cosa che rendeva impossibile l’ancoraggio di una vera scenografia), coperta da una vetrata traballante e aperta su un terreno abbandonato. In questo palazzo mossi i miei primi passi. Un lenzuolo dipinto da un pittore di ventagli (nonché attore fantasista) del quartiere, una scenografia a dir poco approssimativa, file di cavoli ritagliati nel legno da falegnami, costumi noleggiati qua e là nei mercati intorno a porte Saint-Martin. Come attori: alcuni amici, un neonato frignante, una madre inquieta che entrava continuamente in campo: e il mio primo film, La Fée aux choux, vide la luce24. Oggi è un classico del quale la Cinémathèque française conserva il negativo. Esagererei se dicessi che si trattava d’un capolavoro. Ma il pubblico allora non era schizzinoso, gli interpreti erano giovani e carini, e il film ottenne abbastanza successo da permettermi di riprovarci. Così, grazie alla buona volontà della mia piccola squadra, ai consigli e alle lezioni di Frédéric Dillaye (consulente tecnico degli stabilimenti Gaumont,
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e autore di libri eccellenti sulla fotografia artistica), all’esperienza acquisita giorno dopo giorno, al caso e alle coincidenze fortunate, scoprimmo cento piccoli trucchi: i film proiettati all’incontrario, che permettevano di mostrare una casa che crolla e poi si ricostruisce da sé, come per incanto; un personaggio che cade da un tetto e immediatamente vi risale; un cliente goloso che, trovando il conto del pasticciere troppo salato, restituisce intatti i dolci che ha appena inghiottito; il rallentamento e l’accelerazione del giro di manovella, che trasformavano tranquilli passanti in creature frenetiche o, al contrario, in sonnambuli; l’arresto e sostituzione, con cui era possibile spostare un oggetto che, durante la proiezione, sembrava animato di vita soprannaturale, lasciando di stucco un archeologo la cui preziosa mummia giocava ai quattro cantoni nel suo laboratorio (il film in questione è La Momie)25; le riprese a distanze diverse, che rendevano possibile la compresenza nella stessa immagine di pigmei e giganti, come in Lilliput e Gulliver, L’Ogre et le petit poucet, Le Cake-walk de la pendule; le sovrimpressioni; le dissolvenze, utilizzate per le visioni e i sogni. Facevamo anche qualche film en plein air. Avendo scoperto, durante una passeggiata a Barbizon, una vecchia berlina, decisi di servirmene per mettere in scena la storia del Courrier de Lyon 26. Una troupe teatrale sarebbe stata troppo costosa, ma riuscii a convincere il mio personale abituale. Riforniti d’un abbondante lunch fatto in casa, dei costumi e degli accessori necessari, muniti quasi tutti di bicicletta, prendemmo in treno fino a Melun... Alla stazione, due o tre carrozze i cui conducenti pretendevano di essere guide della foresta di Fontainebleau, caricarono le ragazze meno sportive e i bagagli, mentre noi pedalammo fino a Barbizon dove ci aspettava la diligenza. Quindi le guide ci portarono in un posto che giudicavano appropriato. Qui, dopo aver allegramente divorato il pic-nic, passammo alla distribuzione dei costumi. Le donne si nascosero alla meglio dietro i cespugli; gli uomini, meno pudibondi, si vestirono dove capitava. Fortunatamente nel bosco non c’era anima viva, perché dovevamo offire uno spettacolo piuttosto bizzarro... Nonostante il clima già fresco dell’autunno, la spedizione andò benissimo, all’insegna dell’allegria e del buon umore, e ci ripromettemmo di ripetere l’esperienza.
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In Cinéma total27, René Barjavel scrive: “Il cinema muto era bello come un bambino che gioca al sole, ma [...] quando i giovani, in qualche retrospettiva, scopriranno un film di quei tempi, lo troveranno piuttosto grottesco, e si stupiranno della malinconia dei loro antenati”. La mia impressione è diversa. Avevamo scoperto una fonte fresca, limpida, che rifletteva serenamente le graminacee, il crescione e i salici che crescevano ai suoi bordi, dovevamo solo immergervi le labbra per estinguere la nostra sete. Il suo gorgoglio ci mormorava cose, forse puerili, e ci spingeva a raccontarle a nostra volta, primo messaggio a coloro che a quella fonte non potevano personalmente attingere e rinfrescarsi. La nostra fonte ha seguito il suo corso, si è accresciuta dell’acqua di affluenti meno puri. È diventata ruscello, poi fiume, ha attraversato grandi città che l’hanno sporcata con le loro fogne. Da ogni angolo del mondo sono arrivati cercatori d’oro. Hanno rimestato questa melma, e ora ne respiriamo i miasmi. Hanno sparso semi i cui fiori velenosi ornano adesso tutti gli altari. Dio voglia che la scienza, oggi così potente, arrivi a purificare tale stato di cose! Ma non stupiamoci della malinconia dei più giovani. Basta con il romanticismo, ritorniamo al nostro discorso. Non credo mi farebbe piacere rivedere oggi uno dei miei primi film. I miei lettori, se mai ne avrò, devono rendersi conto delle condizioni in cui lavoravamo. Le prime macchine da presa, con i loro caricatori esterni e mal adattati, e i precari meccanismi di avanzamento della pellicola; i treppiedi, gli stessi utilizzati per la fotografia, che affondavano nella terra soffice del giardino in cui giravamo e non assicuravano certo alle macchine grande stabilità. Potevamo disporre di un solo obiettivo, la trazione della pellicola dipendeva da una manovella esterna. Il telaietto, listato di velluto, tratteneva polveri che rigavano l’emulsione. Il mio fedele operatore Anatole Thiberville (che, se la memoria non m’inganna, prima di diventare cineasta allevava polli nel Bresse), mi aiutava con pazienza e buona volontà inesauribili. Conservo di lui un ottimo ricordo. Le case concorrenti spuntavano come funghi e s’appropriavano delle nostre scoperte un attimo dopo che le avevamo messe a punto. Zecca, il solo collaboratore che restò con me circa due settimane prima di raggiungere Pathé, girò Les Méfaits d’une tête de veau (film che mi è stato poi erroneamente attribuito)28. Un film interessante, perché illustrava il metodo
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dell’arresto e sostituzione che permette di far muovere gli oggetti, come in La Momie. Mi raccontò che prima di arrivare da noi, vendeva saponi porta a porta e li inumidiva per aumentarne il peso. Quando si proiettavano i film in rue Saint-Roch, le reazioni di certi clienti erano davvero divertenti. Ho visto gente che, sospettando il trucco, scivolava dietro lo schermo per vedere se non ci fossero dei complici che mimavano la scena. Fu ancora su quella piccola terrazza che facemmo le prime prove di sonoro, con il cronophone29. Le canzoni e la musica venivano registrate in laboratorio, su un cilindro di cera. Filmai così il direttore dell’Opéra, Gailhard, che venne da me con la prima ballerina e un gruppo di ballo cui lui stesso tenne una lezione di triplo battito di piedi (credo sia questo il termine). Aveva allora più di settant’anni. Registrare sul cilindro di cera era un’operazione facile. Questa facilità mi causò uno dei momenti più imbarazzanti della mia vita. Una volta la settimana andavamo, mia madre e io, a passare la serata da certi amici del faubourg Saint-Germain, ambiente assai gradevole ma anche alquanto formale. Sapendo che facevo delle registrazioni, gli amici mi chiesero di portare un apparecchio e qualche rullo, tra i quali l’Ave Maria30 di Gounod. La prima parte della serata fu senza storia e l’Ave Maria risuonò nel raccoglimento generale, con tutti i difetti di quei primi tentativi. La musica finì e stavo per sollevare la puntina dall’ultimo solco, quando qualcuno mi fermò: “Aspettate, c’è ancora qualcosa”. Purtroppo obbedii e, nel più grande silenzio, s’alzò una voce maschile che proferiva le seguenti parole: “Quello zotico! ha davvero un gran c...”. Un silenzio ancor più tombale accolse queste ultime parole e mi sentii prima impallidire e poi avvampare. Ma quando alzai gli occhi, le facce costernate dell’uditorio mi provocarono un riso irrefrenabile, che finì col contagiare i presenti. Mi ripromisi, per il futuro, di esaminare sempre accuratamente i rulli prima di un’esibizione in pubblico. Avrete riconosciuto in questo episodio, immagino, lo spirito dell’operaio parigino... In capo a un anno e mezzo o forse due, il successo si rivelò tale, i profitti furono così notevoli, che il consiglio d’amministrazione decise di far costruire un vero studio cinematografico31.
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Per me fu un periodo difficile. Avevano lasciato che me la sbrogliassi da sola nelle difficoltà degli inizi, ma ora che l’affare diventava interessante, e probabilmente remunerativo, me ne veniva aspramente contestata la direzione. Però ero combattiva e grazie al presidente Eiffel, che continuava a incoraggiarmi generosamente, il consiglio, riconoscendo i miei sforzi, decise di lasciarmi a capo del dipartimento. Non ebbero a pentirsene, evidentemente, perché malgrado la guerra sorda che mi fece il direttore dei laboratori di fabbricazione32, malgrado l’astio che lo spinse a commettere ogni sorta di piccole meschinità – non solo contro di me, ma anche contro gli impiegati che lavoravano per me – riuscii a mantenere il mio posto fino al 1907, ovvero per undici anni33. Fortunatamente, non tutti gli ingegneri mi erano così ostili. Non potevo che essere contenta dei miei rapporti con Frely, che si occupava del sonoro; con Laudet, che regolava l’amplificazione del suono; con Santou, che inventò lo sviluppo automatico. Non mi rifiutarono mai un consiglio, e facevano del loro meglio per aiutarmi ogni volta che un dettaglio tecnico mi metteva in difficoltà. Per ritornare allo studio, poiché la Gaumont & Cie non faceva le cose a metà, si decise di prendere a modello il palcoscenico dell’Opéra, con i suoi sottopalco, i ponti mobili, le botole, le guide di scorrimento dei fondali e i pavimenti inclinati, tutte cose non soltanto inutili, ma dannose. Un’attigua, enorme gabbia di vetro, gelida d’inverno e rovente d’estate, completava il nostro nuovo regno. Per rimediare all’assenza troppo frequente del sole, erano stati costruiti due pesanti telai che reggevano ventiquattro lampade da 30 ampère, causa di forti insolazioni elettriche. Quante sere trascorsi semiaccecata, con gli occhi che mi lacrimavano, senza nemmeno riuscire a leggere. Numerosi attori subirono la stessa sorte e fecero causa alla compagnia, obbligandola a porre rimedio all’inconveniente. Personalmente mi è rimasta una stenosi retinica, a volte davvero fastidiosa. Infine, una ciminiera gettava ombra sulle scenografie per tutta la mattinata. Il pubblico che ride dei nostri primi film, i registi che oggi traggono vantaggio da tutti i progressi basati sui nostri sforzi e le nostre ricerche, non sanno certo immaginare tutte le difficoltà che allora dovevamo affrontare. I nostri piccoli film prima di 17, poi di 25 metri, venivano sviluppati, fissati e asciugati a mano. Arrotolati su telai di legno, venivano deposti in vasche
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verticali contenenti i bagni di idrochinone, metolo etc., che un impiegato era incaricato di agitare costantemente, per evitare che i sali, depositandosi, creassero zone di luminosità irregolare. Un bagno troppo caldo, e la pellicola era crivellata di piccoli buchi. Spesso la pellicola si staccava dal supporto come una buccia di cipolla, vanificando il lavoro di un’intera giornata. Bisognava aver pazianza, ricominciare, perseverare. Ma lo spirito di squadra era alto, e come ho detto si faceva tutto con gioia. Molti dei nostri film erano colorati. Due operaie, al lavoro su tavoli simili a quelli che oggi si usano per il montaggio, con una lente da orologiaio sull’occhio, dipingevano usando pennelli sottilissimi e colori trasparenti immagini dalle figure lillipuziane. Si provi a immaginare la cura e la pazienza necessarie a questo lavoro, considerando l’ingrandimento che quelle immagini dovevano subire al momento della proiezione. A tale metodo si sostituì poi quello del découpage, che prevedeva un lavoro di ritaglio su tre strisce di pellicola, destinate a servire da stampo (pochoir) per la colorazione meccanica. Il découpage si eseguiva con un pennino tagliente, lo stedik, e richiedeva le stesse cure e la stessa mano leggera del metodo precedente. Mi dispiace di non ricordare il nome di quelle operaie: meriterebbero certamente di essere citate tra i miei primi e principali collaboratori. Le riprese in esterni, nelle strade di Parigi, ci misero seriamente alla prova. Non disponevamo, come oggi, di automobili appositamente attrezzate. Una o due carrozze portavano le mie comparse, Anatole e me sui luoghi stabiliti. Avevamo a malapena sistemato la cinepresa e dato qualche indicazione agli attori, che già i perdigiorno ci circondavano. La macchina da presa suscitava molto interesse e spesso Anatole, mentre sotto il suo panno nero cercava di regolare la messa a fuoco, si trovava faccia a faccia con un curioso o con una megera che andando al mercato passava davanti all’obiettivo, domandando a gran voce chi fossero i saltimbanchi che ingombravano la via. Era quindi la volta dei vigili urbani, che arrivavano con la mantellina svolazzante gridando il loro “circolare, circolare”. Fortunatamente il prefetto di polizia dell’epoca, monsieur Lépine, al quale raccontavo le mie avventure, mi fornì di un permesso che ordinava non soltanto di lasciarmi lavorare in pace, ma finanche di agevolarmi quanto possibile. Terminata la costruzione dello studio, ne presi possesso e abbandonai senza rimpianti la mia terrazza di bitume. Il primo film che vi realizzai, La
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Esmeralda34, fu l’ultimo fuoco d’artificio del mio pittore di ventagli. Arrivando sul praticabile, rimasi perplessa: il fondale rappresentava bene un angolo della vecchia Parigi, ma il mio pittore era certamente un futurista. Le case sghembe, dai contorni elicoidali, sembravano letteralmente avvitarsi sotto i loro tetti a punta. La capra che per circa una settimana avevo cercato di addomesticare ora mi seguiva fedelmente, rifiutando la compagnia di Esmeralda. Issato sul suo strumento di tortura, il povero Quasimodo cercava di tenere al loro posto le gobbe di cotone che si era infilato sotto il costume per maggior realismo, e che ora sfuggivano da ogni parte, trasformando il dramma in farsa... e a quel punto ero io sotto tortura. Di ricominciare da capo non si parlava neanche, le spese crescevano a tutt’andare e, quando il costo complessivo d’un film superava gli ottocento-mille franchi, venivo convocata dal consiglio d’amministrazione che mi chiedeva se avessi intenzione di mandare in rovina la casa!... Voi conoscete il costo d’una produzione attuale: ma ancora una volta, certo, si trattava di franchi-oro. Monsieur Sadoul, autore d’una storia del cinema dei tempi eroici – il quale, male informato e probabilmente in buona fede (ammette lui stesso di non saper nulla di quell’epoca, e di parlare solo per sentito dire), aveva attribuito i miei primi film a persone che alla Gaumont hanno forse fatto solo i figuranti, e di cui non conosco nemmeno i nomi35 – mi ha involontariamente fatto grandi complimenti a proposito dell’Esmeralda36. Avevamo comprato qualche vecchia tenda al teatro di Belleville o a porta Saint-Martin. Dietro uno dei portici ritagliati del fondale, avevo fatto scendere una di queste tende, il cui disegno raffigurava una città in lontananza. L’effetto fu piuttosto bello, e Sadoul ha scritto che si trattò d’una novità assai originale e felice. Ho avuto occasione di incontrare Sadoul, e di mostrargli i documenti che l’hanno convinto che i film in questione sono opera mia. Mi ha promesso allora di correggere questa parte della sua storia del cinema nelle successive edizioni, cosa che onestamente ha fatto, anche se il suo elenco contiene ancora alcuni errori37. La Fée aux choux è del 1896; seguono, nel 1897-98, Les Petits Coupeurs de bois vert, Déménagement à la cloche de bois, Volée par les bohémiens, Le Matelas38. La lista esatta e le date sono confermate da cartoline stampate all’epoca dalla compagnia Gaumont.
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Fino a quel momento, avevo lavorato da sola. Dopo un paio di mesi mi assegnarono due assistenti, uno dei quali, Feuillade39, brilla giustamente nel novero dei primi registi; una segretaria, Yvonne Serand, che compariva nella Fée aux choux e diventò poi la moglie di Arnaud, regista di qualche film comico; e infine Menessier, pittore e scenografo, la cui collaborazione fu per me preziosa e che mi avrebbe raggiunto, anni dopo, negli Stati Uniti40. Tutti i lunedì discutevamo insieme il lavoro della settimana. Lo studio diventava un attivissimo alveare. Realizzammo tutta una serie di film comici, inseguimenti, cadute, scontri e acrobazie, tutto ciò che veniva chiamato slapstick. Gli interpreti erano, il più delle volte, personale dei laboratori. Avevamo tuttavia ingaggiato un capocomparse, [Vincent] Denizot. Il primo contatto con il mondo che costui introdusse nello studio mi fece capire fino a che punto conoscessi poco certi tipi umani. Un giorno Denizot portò dei figuranti che dovevano comparire in calzamaglia in una qualche féerie. Sul praticabile, Gaumont discuteva con gli ingegneri di un dettaglio tecnico, e mi chiamarono per mettermi al corrente della questione. In quel momento una delle donne uscì dal camerino, praticamente nuda... con la sua calzamaglia sul braccio: “Mi dispiace tanto, Mam’zelle” disse. “Ho le mie cose e ho macchiato il vostro costume”. Mi sentii arrossire. Gli uomini si erano discretamente girati, probabilmente sorridendo del mio imbarazzo. Dovetti farci rapidamente il callo. Nel frattempo s’erano formate altre compagnie, e alcune comparse dall’impiego saltuario vennero a offrirci i loro servigi. Ne ingaggiammo alcune che, naturalmente, s’affrettarono a informare la concorrenza sulle nostre attività41. Fu così che La Guérite [titolo alternativo Douaniers et contrabandiers, 1905] comparve contemporaneamente nei cataloghi Gaumont e Pathé. Quando andai a protestare alla Pathé, mi fu risposto che si trattava di concorrenza legittima e che stava solo a noi fare altrettanto. Datano a quest’epoca Le Chapeau42, credo di Arnaud, dove un cappello volava su un tetto, rotolava lungo strade in discesa, cadeva in una gru girevole e veniva trascinato fin dentro una carbonaia, sempre inseguito dal suo sfortunato proprietario; Le Thé chez la concierge [1906]; C’est Papa qui prend la purge [1906], e alcuni altri.
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Più o meno nello stesso periodo, assunsi una troupe di acrobati inglesi, gli O’Mer, insieme ai quali lavorai con il più grande piacere. Giovani, dinamici, pieni d’allegria e di coraggio, accettavano i ruoli più ingrati. Facemmo insieme, tra gli altri: Une Noce à Robinson43, dov’erano impegnati in acrobazie sugli asini e tra gli alberi; A la recherche d’un apartement [1906], dove il pavimento crollava e il lampadario cadeva sulle loro teste; Le Départ pour les vacances [1904] con valigie impossibili, il fondo della carrozza sfondato e un conducente irascibile; Le Déménagement à la cloche de bois [1906], sulle astuzie per depistare una portiera e con i mobili in equilibrio instabile. Infine, La Mariée du lac Saint-Fargeau [Une Noce au Lac Saint-Fargeau, 1906], film ispirato a un racconto di Paul de Kock. Non so se quel lago esista ancora. Non lontano dallo studio, proprio in cima a rue de Belleville, c’erano i resti d’una splendida proprietà appartenuta a Michel Le Peletier, signore di Saint-Fargeau, che vi aveva fatto costruire un castello. Sotto Luigi XVI la proprietà appartenne, sembra, a Madame de Pompadour. Boschetti di lillà circondavano un laghetto, testimonianza di quei passati splendori. Un oste aveva sistemato qualche tavolo intorno allo specchio d’acqua, per i pic-nic domenicali. Un cartello diceva che era possibile “portarsi il proprio cibo”, ma il proprietario serviva anche cozze e patate fritte, piatto in auge nei dintorni di ogni porta parigina. Proprio a lui chiesi di prepararci il pranzo. Al nostro arrivo trovammo una lunga tavola sistemata tra il lago e un’altalena sospesa a un piccolo portico nascosto tra i lillà. Uno scenografo non avrebbe potuto fare di meglio. Arrivò il corteo nuziale: suocera bisbetica, suocero già un po’ bevuto, invitati eccentrici preceduti da una sposa smorfiosetta e dallo sposo. Tutti presero posto, ben decisi ad approfittare dell’occasione. Ma la sposa (la più giovane degli O’Mer) aveva intravisto l’altalena e volle a ogni costo provarla. Il testimone credette suo dovere accontentarla e, fiero dei suoi muscoli, diede all’altalena una tale spinta che la ragazza, sfuggita al suo sedile, descrisse una parabola al di sopra del tavolo e precipitò nel laghetto. Tutto il corteo si lanciò al suo soccorso, ma quando l’attrice uscì da quella cloaca, io fui presa dall’orrore e dai rimorsi: era coperta fino alla cima dei capelli da una fanghiglia fetida, nerastra, brulicante di larve. Chissà da
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quanto tempo quel lago non era stato ripulito! Eppure, una volta rimediato il disastro, non sentii né lamentele né rimproveri, e tutti ripresero il lavoro con lo stesso slancio. Quando mi lasciarono, per una tournée intorno al mondo, gli O’Mer continuarono a mandarmi per lungo tempo cartoline con i loro saluti. Mentre cercavo un esterno per La Pègre de Paris [1906], avevo costeggiato una parte delle fortificazioni ancora esistenti. Lassù una materassaia aveva sistemato il suo telaio, con la tela tesa: stava finendo di riempirla con la lana che aveva appena cardato. Per non so quale ragione s’allontanò per qualche istante; quasi subito arrivò un vagabondo, si arrampicò sul poggio e restò lì, in contemplazione davanti al materasso semilavorato. Questa scenetta mi suggerì l’idea per un film che ebbe un enorme successo. Riporto di seguito il soggetto. “Qualche giorno prima del suo matrimonio, un giovane affida il proprio materasso a una materassaia, che promette di riconsegnarglielo come nuovo la sera prima delle nozze”. A questo punto riscostruivo la scena a cui avevo assistito ma, nella mia storia, “il vagabondo avvinazzato si corica tranquillamente nella lana e vi affonda completamente. La materassaia, senza nulla sospettare, torna e finisce il suo lavoro. Arriva un facchino che, caricato il materasso sul suo carretto, parte spedito. Il vagabondo, in stato di dormiveglia, si agita compromettendo l’equilibrio del carretto e segue una serie di cadute lungo le strade di Montmartre, attraverso un ponticello, vicino a un lavatoio, dentro un vespasiano, col materasso sempre inseguito dal disgraziato facchino. La giovane coppia attende con impazienza il materasso, che finalmente arriva. Il facchino, allo stremo delle forze, lo getta sul letto, intasca la sua mancia e se la fila. I giovani sposi fanno in fretta il letto e si dispongono a passare una piacevole notte. Il vagabondo, disturbato nel suo riposo, comincia allora una serie di sobbalzi. I giovani sposi, spaventati, chiedono aiuto a gran voce. Gli agenti accorrono e portano al posto di polizia gli innamorati e il materasso. Alla fine tutto si chiarisce e il vagabondo va a concludere il suo sonno in cella”. I nostri primi clienti, i Grenier, una famiglia di artisti girovaghi, mi invitarono a Rouen, ad assistere nel loro teatro alla proiezione del Matelas alcoolique che, come vi ho appena raccontato, avevo personalmente messo in scena. Quello fu per me un giorno di festa. Non conoscevo la vita dei girovaghi. I
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Grenier vennero a prendermi alla stazione con una delle prime automobili, dipinta di rosso con il loro nome scritto a lettere d’oro. Avevano una decina di roulotte, pulite e confortevoli quanto il miglior trailer americano. Tutti, in questa famiglia con sette o otto figli, avevano il proprio incarico: il padre e il figlio maggiore si occupavano delle proiezioni, la madre stava alla cassa, le bambine recitavano un intermezzo, e così via. Le proiezioni avevano luogo in una grande sala coperta da un tendone, come un circo. Presi posto tra il pubblico e assistetti a un’esplosione d’ilarità raramente superata a Cluny o a Palais Royal. Davanti a me, una ragazza si contorceva sulla panca e tra una risata e l’altra supplicava: “Basta, basta, mi faccio la pipì addosso!” Dopo la proiezione, i Grenier mi presentarono al loro pubblico e mi offrirono un superbo fascio di rose e un bel cane di razza. Fu il mio primo incontro con la Celebrità. Spero che qualcuno di quella famiglia legga queste righe, e vi trovi il mio grato ricordo. A quei tempi non ci preoccupavamo dei diritti d’autore, e cercavamo ispirazione un po’ dovunque. Personalmente m’ispirai a spettacoli del GrandGuignol per L’Asile de nuit, Le Paralytique, Lui, Au téléphone; ai disegni di Guillaume44 per Amoureux transis, Professeur de langues vivantes (film a proposito del quale Gaumont severamente mi chiese come facessi a conoscere quell’ambiente), La Fève enchantée; a testi teatrali, leggende e romanzi per Lèvres closes, La Légende de Saint-Nicolas, Conscience de prêtre45. Le tecniche intanto si perfezionavano di giorno in giorno. Le pellicole, grazie a Planchon, un collaboratore di Lumière, erano molto più lunghe e di qualità assai migliore. Uno dei nostri ingegneri, Santou, creò il primo sistema di sviluppo automatico che eliminava gli inconvenienti dello sviluppo manuale, e permetteva di sviluppare, fissare, asciugare film di lunghezza illimitata. La macchina da presa diventò più stabile, più stagna. Cominciò la serie dei lungometraggi, e dei grandi documentari. Gaumont stesso accompagnò i presidenti Félix Faure e Louis Loubet nei loro viaggi, rispettivamente in Russia [1897] e in Africa [1903]. Non amava che gli venisse ricordato, considerando peccati di gioventù questi brevi periodi della sua vita nei quali aveva personalmente portato la macchina da presa sulla spalla.
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Grazie allo sviluppo automatico messo a punto da Santou, vennero filmati dai nostri operatori Le Delhi Durbar [1903], Le Premier vol de SantosDumont [1906] e La première course Paris-Marseille [1903](nella quale trovò la morte uno dei fratelli Renault), e vennero proiettati ventiquattro o quarantotto ore dopo le riprese. All’Esposizione del 1900, la proiezione dei nostri film costituì una delle attrazioni principali. La Compagnie des Wagons-Lits aveva chiesto alla Gaumont di mandare i suoi operatori a bordo della Transiberiana, per documentare le contrade, le foreste, le isbe che si trovavano lungo il percorso del treno. Il film venne proiettato dallo scenografo Jambon nella ‘via di Parigi’ costruita, su suo disegno, appositamente per l’Esposizione. Ricordo il mio incontro con Jambon, a quest’epoca celebre scenografo dei principali allestimenti parigini. Gaumont era assente, io lo ricevetti e mi misi naturalmente a sua piena disposizione per tutte le informazioni di cui aveva bisogno; me ne fu riconoscente e diventammo amici. Quando andai a trovarlo nel vasto atelier che possedeva alle Buttes Chaumont, per ordinargli alcune tende di scena, una ventina di pittori lavoravano su tele stese a terra. Jambon lanciò questo bislacco ordine, che mise non poco alla prova la mia timidezza: “Presentat’arm, signori, ecco la Principessa!”, e tutti quei giovani imbrattatele si affrettarono a portare alla spalla i loro lunghi pennelli. La scienza non era assente dalle nostre attività. Ho spesso personalmente aiutato il dottor François-Franck dell’Istituto di medicina quando, con l’ausilio del cinema, studiava la respirazione comparata di uomini e animali, il battiti del cuore di un cane durante la dissezione, l’andatura degli atassici, le diverse espressioni del viso dei matti. Mademoiselle J. Chevreton, che divenne sua moglie, già faceva della microcinematografia. In rue Saint-Roch, il pubblico si affollava per vedere le riprese dei primi esperimenti con i raggi X (filmati, credo, da Carpentier), che permetteva di vedere lo scheletro attraverso la carne e ai quali prestai spesso le mie mani, senza avere idea del pericolo che correvo; mi resta tuttora la leggera cicatrice d’una bruciatura. La società Gaumont filmò anche gli esperimenti di Cailletet (aria compressa), di Monnier (studio delle api), del principe di Monaco (il suo museo oceanografico) e di tanti altri che ho già citato.
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Ancora allo studio era il film a colori, secondo i metodi Ducos du Hauron e Lippmann; fu realizzato nel 1912 e presentato al Gaumont Théâtre di Boulevard Poissonnière46. Nel frattempo si continuava a colorare la pellicola con il procedimento del pochoir, come ho già detto, e anche a tingerla di blu notte o giallo sole, a seconda dell’atmosfera desiderata. Il ruolo del regista era complesso: sceneggiatura, scelta degli attori, accordi con gli scenografi, i costumisti, gli arredatori. Poi le prove, la regia, le luci. A film terminato, c’erano la verifica, il montaggio, i titoli. Ero fortunatamente aiutata dagli eccellenti assistenti dei quali ho già parlato e infine, nel 1905 (due anni prima della mia partenza per l’America) da Victorin Jasset, un artista che aveva allestito le grandi sfilate della Jeanne d’Arc e del Vercingetorix all’Hippodrome, prima che l’enorme sala diventasse il Gaumont Palace47. Non tutto filava sempre liscio. Avevo sorpreso il capo delle comparse, Vincent Denizot, a trattare brutalmente uno dei suoi uomini, e l’avevo minacciato di licenziamento se la cosa si fosse ripetuta. Preso coraggio, uno di quei poveri diavoli venne da me e mi confidò che, sul loro magro salario (nello specifico, da 3 a 5 franchi), quell’individuo tratteneva mezzo franco, e se qualcuno di loro cercava di protestare, passava alle vie di fatto. Per metter fine a quell’abuso, mi risolsi a pagarli direttamente io stessa. La cosa andò contro gli interessi di Denizot, che me lo fece chiaramente capire. Avendo saputo che un gruppo di zingari si era accampato dalle parti delle vecchie fortificazioni, decisi di approfittarne per girare una delle mie sceneggiature, Volée par les bohémiens. Al momento di cominciare, trovai sulla mia scrivania un biglietto anonimo dove mi si avvertiva “che mi avrebbero fatto passare la voglia di mischiarmi in affari che non mi riguardavano”. Non ne rimasi troppo turbata: avevo con me il mio operatore, i miei attori e il domatore Juliano, che aveva addomesticato un orso e che, pur avendo un braccio solo, era decisamente un pezzo d’uomo. La scena che mi si presentò corrispondeva alle mie aspettative: roulottes, uomini e donne dal colorito scuro, vestiti di stracci sporchi ma colorati, una cucina all’aperto, un branco di marmocchi che giocavano con le capre e i polli. Juliano aveva legato il suo orso sotto una roulotte; l’animale, tirando la catena, arrivò a sfiorare i tacchi della primattrice che si era seduta sui
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gradini e che, al contatto di quel muso d’animale, fuggì urlando. L’orso Martin, eccitato dall’atmosfera, riuscì a liberarsi e piombò su una capra. Ci fu un gran trambusto: gli zingari accorsero e tirarono la loro capra, mentre Juliano tirava via l’orso. L’orso cedette, ma così bruscamente che Juliano finì gambe all’aria. Prima che riuscisse a rimettersi in piedi, Martin era già saltato su uno sfortunato asinello che terrorizzato si mise a correre verso le fortificazioni. Ne risultò un magnifico inseguimento, che Anatole ebbe il sangue freddo di riprendere e che contribuì notevolmente all’interesse del film. La giornata si concluse senza incidenti. Il capo degli zingari mi invitò ad andare sola nella sua roulotte per il pagamento, io declinai l’invito e lui, vedendo i miei uomini che si avvicinavano, non insistette. Era stato pagato per spaventarmi? È più che possibile. Per mettere in scena un dramma minerario, ispirato a un romanzo di Zola48, il mio assistente Jasset mi aveva suggerito Fumay, piccola città delle Ardenne che si riflette triste e nera nella Meuse. La condotta principale era dichiaratamente in cattivo stato; con gran divertimento del personale della miniera, dovetti indossare la tuta dei minatori e stendermi su un vagone per scendere a cinque o seicento metri sotto terra, attraverso lo stretto cunicolo che serviva da pozzo. Le gallerie basse, puntellate da strutture in legno che mi sembravano insufficienti, le esplosioni che staccavano grosse lastre d’ardesia, delle quali gli ingegneri sorvegliavano attentamente lo scivolamento agevolato da cera sciolta, tutto mi sembrava pittosto minaccioso. Confesso che provai un certo sollievo nel ritrovarmi all’aria aperta, felice però di questa nuova esperienza che certo mi aveva arricchito. Furono poi i calessi tirati da cani e adibiti al trasporto delle bottiglie di latte, gli abitanti nei costumi tradizionali, i doganieri belgi a fornirci dell’eccellente materiale. Purtroppo dovemmo lamentare due incidenti piuttosto gravi: un bambino fu travolto dai cani, una delle comparse fece una brutta caduta. I miei attori, superstiziosi come tutta le gente di teatro, attribuirono gli incidenti a una povera salamandra trovata nel bosco, che avevo intenzione di portare al dottor François-Franck per i suoi studi. Per colmo di sfortuna, quella stessa notte la bestiola mise al mondo sette piccole salamandre. Al momento di riprendere il treno, mentre tenevo la preziosa salamandra e i suoi piccoli, venni urtata, il vaso mi sfuggì di mano e rotolò sotto il convoglio ormai in partenza. Tutti tirarono un respiro di sollievo.
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Molti che non hanno mai messo piede in uno studio cinematografico prima del 1930... e probabilmente nemmeno dopo, pretendono di affermare che noi lavorassimo senza scenaggiatura! Niente di più falso. Fatta eccezione per i primissimi film, di 20 o 25 metri, tutto era preparato in anticipo: la storia era scritta con cura, l’elenco degli attori, delle scenografie, dei costumi era stilato con molta precisione e distribuito a ogni settore. Diversamente, come sarebbe stato possibile non piombare nel disordine totale? Tanto più che non avevamo script-girl... La concorrenza era dura e non c’era nessuna legge a tutelarci. Le comparse, ingaggiate da tutti gli studi, servivano come spie, cosa che ci obbligava a gare di velocità per arrivare primi. Da tempo nutrivo il desiderio di portare sullo schermo il grande dramma della Passione di Cristo49. In occasione dell’Esposizione del 1900, [James] Tissot aveva pubblicato una bellissima Bibbia illustrata, risultato degli studi che aveva condotto in Terra Santa, documentazione fantastica di ambienti, costumi e usanze. Acquistai quella Bibbia, che ancor oggi possiedo. Assistita da Jasset, che mi fu utile soprattutto per gli esterni e per la gestione di trecento comparse, partii con la messa in opera del mio progetto. Menessier, di cui già ho parlato, e [Robert-Jules] Garnier, figlio del costruttore dell’Opéra e anche lui eccellente scenografo, costruirono venticinque vere scenografie, non semplici fondali, una cifra enorme per l’epoca. Per il direttore dei laboratori D.50 fu l’occasione di dimostrare, una volta di più, quale fosse il suo desiderio di collaborare al nostro successo. L’inverno era molto freddo e temendo, ci disse, che le tubature scoppiassero, pensò bene di impadronirsi, durante la notte, dei telai già costruiti dai laboratori di scena e di farli segare per rivestirne i tubi. La cosa ci causò un ritardo di appena una decina di giorni solo perché il personale, disgustato da quel gesto, si mise d’impegno a porvi riparo. Gli attori furono scelti con cura. Poi dovemmo occuparci dei costumi. Due gesuiti, padre Chevalier e padre X., di ritorno dalla Palestina, assistettero alle riprese e ci aiutarono con i loro consigli. Alcune scene necessitavano di molte comparse, fino a duecentocinquanta o trecento, cifra davvero notevole per l’epoca. Gli esterni furono girati nella foresta di Fontainebleau, malgrado non ci fossero olivi: ma cominciavamo a saper approfittare di un bel paesaggio, di un
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controluce, di un raggio di sole che filtrava tra gli alberi. Le scene dell’Angelo che porge l’amaro calice, la salita al Calvario, la deposizione nella tomba riuscirono benissimo; Gesù che esce dal sepolcro, una delle nostre più belle sovrimpressioni. Fu uno dei primi grandi spettacoli cinematografici ed ebbi l’onore, assolutamente raro a quei tempi, di esserne indicata come l’autore quando il film fu presentato alla Société de photographie di Parigi, come dimostra il programma di sala di quella serata: fortunatamente per me, poiché numerose persone cercarono di attribuirsi il merito dell’opera. Gli autori di alcune opere sulle origini del cinema affermano che giravamo solo cortometraggi. La Passion, girata nei primi mesi del 1906, misurava 600 metri e utilizzava ben venticinque scenografie di solida costruzione, nonché da due a trecento comparse i cui costumi erano stati realizzati dal mio assistente Jasset e da me secondo la documentazione di Tissot. Grazie a Planchon, il collaboratore di Lumière che per primo trovò il modo di fabbricare grandi fogli di celluloide, e a Santou che inventò la macchina automatica per lo sviluppo, il fissaggio e l’asciugatura della pellicola, già a quell’epoca fu possibile realizzare film di metraggio interessante. Nelle sue memorie51, Léon Gaumont dice che fin dalla realizzazione del primo film, era stato abitato dal desiderio di dare alle immagini il suono, il colore, il rilievo. Il cronophone, invenzione francese, fu la prima macchina per ottenere il sonoro52. Grazie agli ingegneri di cui già ho fatto il nome, il primo film parlato, su disco, venne realizzato nel 1900. Non si trattava del sonoro come oggi lo conoscete; la voce dell’attore (cantante o dicitore) e la musica da ballo venivano registrate nei laboratori, poi gli artisti passavano allo studio, dove provavano le loro battute e canzoni fino a ottenere un sincronismo perfetto con la registrazione del cronophone. A quel punto si riprendeva la scena con la macchina da presa. I due apparecchi (fono e cine) erano collegati da un dispositivo elettrico che ne garantiva il sincronismo. Ebbi l’incarico di occuparmi della parte cinematografica di queste produzioni, e presi così le sorelle Mante, ballerine molto conosciute all’epoca, Rose Caron dell’Opéra e la sua classe di canto. Con Madame MathieuLuce e Marguerite Care dell’Opéra Comique, Noté dell’Opéra, mademoiselle Bourgeois e altri, registrammo Faust, Mignon, Carmen, Les Dragons
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de Villars, Mireille e molte altre opere. Anche il Café-Concert diede il suo contributo, con Mayol, Dranem, Polin, Fragson e tanti altri. Il coraggio degli artisti e la loro lealtà professionale hanno più volte suscitato la mia ammirazione. Ecco due aneddoti che vi faranno apprezzare tali qualità. Madame Mathieu-Luce cantava l’aria di Mignon: “Conosci tu il paese...” Arrivò fino alla fine senza smettere di sorridere, ma non appena la macchina da presa si fermò, svenne. Aveva messo il piede su un carbone ardente caduto da una lampada ad arco e, pur di non interrompere la ripresa, aveva sopportato il dolore. Mi era già capitato qualcosa di simile con gli O’Mer, la compagnia di saltimbanchi inglesi di cui ho già parlato: saltando attraverso una finestra truccata, il loro capo si strappò le unghie d’una mano, e non si fermò per così poco... Gli artisti celebri, quelli che all’epoca erano chiamati grandi artisti, non sempre mi hanno ispirato la stessa stima. Oggi, poter apparire su uno schermo è per loro già un successo. Autori conosciuti, che in passato hanno vituperato il cinema, sono oggi ben soddisfatti di ricavarne apprezzabili profitti. Ma all’epoca di cui sto parlando, trattavano quest’arte, della quale non avevano capito nulla, con disprezzo e leggerezza estrema. Camille Blanc, direttore del casinò di Montecarlo, ingaggiava spesso un celebre tenore italiano - Caruso, tanto per non far nomi - e ci propose di registrare con lui qualche scena al cronophone. Prendemmo un appuntamento con l’artista, e l’accordo fu che avrebbe cantato per noi alcuni dei suoi successi, dei quali ci fornì i titoli. La data fu stabilita. Discutemmo delle scenografie e del numero delle comparse. Per rendere omaggio al tenore, affidai le scene (uno sfondo di dieci tende) a uno scenografo di chiara fama, quello Jambon che ho già citato a proposito del grande documentario girato dalla Gaumont in Russia per la Compagnie des Wagons-Lits. Il giorno convenuto mandai uno dei miei assistenti a prendere la grande vedette con una delle prime automobili (una Panhard et Levassor), ma Caruso fece rispondere che aveva riflettuto, e che non poteva ragionevolmente compromettere il suo nome, abbassandosi a tal punto. Prova del fatto che una buona voce non è sempre indice d’una buona educazione. Eppure, quanti artisti hanno tratto vantaggio dal potersi rivedere su uno schermo! Quante volte ho sentito questa frase: “Sono proprio io? Ho fatto
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questo? Ma sono un disastro, vi prego, rifacciamo la scena”. L’obiettivo è spietato, svela ogni traccia di manierismo, sottolinea ogni mancanza di naturalezza. Se il teatro moderno si è evoluto in direzione d’una maggioire sobrietà e verità, sono convinta che ciò si debba in gran parte al cinema. Nel mio studio americano, un po’ dovunque avevo fatto appendere dei cartelli: “Siate naturali”. Durante una visita Paul Capellani53, membro della Comédie Française, notò i cartelli e mi rivolse un sorriso ironico. “I vostri attori si attengono al vostro desiderio?” “Certamente”. “Siete fortunata; personalmente, ci ho messo undici anni per arrivarci”. “La nostra tecnica è diversa...loro si vedono sullo schermo, si giudicano e, se sono intelligenti, approfittano della lezione, alla quale aggiungo qualche mio commento”. Il cronophone mi offrì l’occasione di un indimenticabile viaggio in Spagna54. Fu il mio nemico, il direttore dei laboratori, che senza volere mi procurò questa gioia. Costui chiese con insistenza a Gaumont di curare lui stesso le riprese cinematografiche per una una serie di dischi. Gaumont cedette e, per meglio lasciargli la mano libera, mi propose di andare con il mio operatore (sempre Anatole) a fare qualche ripresa sonora in Spagna, dove avevamo una filiale e numerosi clienti. Accettai con gioia. Il direttore della filiale di Barcellona aveva una moglie, donna di gran fascino, che mi ospitò a casa sua per alcuni giorni. Uno dei nostri clienti, ‘Napoléon’, che avevo incontrato a Parigi dove veniva spesso a farci visita, mi preparò un’accoglienza trionfale. Grazie a lui fui ricevuta a bordo d’una cannoniera dove gli ufficiali, dopo avermi offerto pane e sale, mi fecero visitare la nave e mi invitarono alla loro tavola, dove m’attendeva un magnifico mazzo di camelie. Dopo una visita della città, molto bella ma in fondo banale con le sue case troppo moderne e troppo ricche, i suoi viali rettilinei ombreggiati da alberi ancora troppo giovani, partimmo per il famoso pellegrinaggio a Montserrat. Una gran quantità di pellegrini spagnoli percorrono in ginocchio il sentiero montuoso, segnato dalle stazioni del Calvario, che conduce al monastero benedettino in cui si trova la Vergine miracolosa dei nuevos, i novelli sposi. Pare che dopo il matrimonio di Isabella la Cattolica con Ferdinando d’Aragona ogni sovrano spagnolo abbia preteso l’onore di vestire sontuosamente
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questa Vergine. Il giorno della nostra visita sfoggiava un diadema d’oro scintillante di pietre preziose, una mantello intessuto di perle vere e un fazzoletto di vero merletto. Il luogo era molto bello, e Anatole fece numerose riprese. Partimmo quindi per Saragozza, dove gli uomini portano un costume pressoché identico a quello dei cow-boy. Durante la nostra troppo breve permanenza, una mattina di buon’ora andai ad appostarmi all’estremità del ponte sull’Ebro per veder passare le donne nei loro costumi colorati, appollaiate su piccoli asini dai cui fianchi pendevano due enormi bidoni di latte da portare al mercato. Gli uomini le seguivano vestiti di pantaloni di cuoio con le frange, cinture decorate con grosse borchie di metallo e cappelli a larghe tese, riproduzioni viventi degli eroi del West. Gli abitanti di Saragozza hanno conservato un sincero odio per i francesi, ricordo delle guerre napoleoniche; una profonda venerazione per la Vergine del Pilar (la statua che la rappresenta è circondata da ex-voto di cera colorata, così realistici da essere talvolta impressionanti); e un amore per la danza che fu causa di uno dei rari malumori del mio buon Anatole quando, una sera, insistetti per entrare in un cabaret riservato agli uomini. Passando, avevo intravvisto un piccolo palcoscenico con sei suonatori di chitarra. La tentazione era troppo forte. Mentre scendevamo i tre gradini che davano accesso alla sala, neri sguardi mi spiavano da sotto i sombreri. Il fumo dei sigari sembrò alzarsi a intervalli più rapidi, ma questo fu tutto. Ben presto le chitarre cominciarono a suonare e la ballerina, nacchere alle mani, si lanciò nella danza. Non mi pentii della mia decisione: il suo talento, la sua grazia e la sua bellezza avrebbero subito conquistato Parigi. Poi fu la volta di Madrid, giustamente detta Puerta del sol. I suoi toreador insolenti con la piccola treccia annodata sulla nuca, che lanciano sguardi alle señoritas gonfiando il petto o, la domenica, caracollando per l’arena prima della gara. Il bel museo del Prado, dove l’Infante e l’Infanta di Velasquez, paralizzati dall’etichetta, contrastano con i voluttuosi Rubens e i diabolici Goya. Ero stata raccomandata al Maestro di cappella della Regina. Lui non parlava che poche parole di francese, io avevo pressoché dimenticato il mio spagnolo. Nondimeno accettò di farmi da cicerone, e di introdurmi in ambienti solitamente preclusi agli stranieri. Mi fece visitare la cappella della regina,
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dove la sovrana assisteva alle funzioni in una loggia chiusa da una vetrata. L’Oratorio era buio, lugubre. La sera mi condusse in una scuola di danza dove, disse, avremmo trovato le ballerine per i nostri film sonori. Arrivammo piuttosto tardi, e la prima impressione fu curiosa. Il Maestro, un piccolo andaluso, ci fece entrare in un salone dai muri completamente rivestiti di specchi. Le sedie erano ricoperte di velluto rosso capitonné. Sulla tavola, adorna d’una bella tovaglia, restavano alcuni gusci di gamberi. Il Maestro ci fece sedere, ci mise in mano degli strani bicchieri che il fondo arrotondato impediva di appoggiare, e li riempì fino all’orlo di xeres. “Scusate” ci disse “È un po’ tardi, le mie ballerine si sono già ritirate. Ma ora vado a chiamarvene una”. Aprì una porta e chiamò più volte. Dopo una lunga attesa, la ‘ballerina’ fece il suo ingresso. Era una ragazzina di forse dodici anni, che si sfregava energicamente le palpebre per scacciare il sonno e sbadigliava in modo inquietante. Il Maestro si agitava, guardava sotto i mobili mormorando “Donde esta mi sombrero?”. Le ricerche furono vane, e allora afferrò un cuscino. “Bah! Faremo con questo”. Mise un ginocchio a terra e cominciò a cantare un bolero, quindi, lanciando il cuscino verso la ragazzina, prese a battere le mani ritmicamente, mentre la povera piccola si contorceva alla meglio. Mettemmo rapidamente fine al suo supplizio. Restammo intesi che il nostro ospite ci avrebbe aspettati l’indomani in una certa hacienda, una piccola balera sulle rive del Manzanarre, con una dozzina dei suoi migliori elementi. Mantenne la parola. Il giorno dopo, molto presto, ci recammo all’appuntamento, e ci trovammo ad assistere a un bel match di pugilato. Mancava uno dei grandi scialli ricamati a fiori con cui le spagnole amano agghindarsi. Due delle ballerine s’erano afferrate per i capelli e, sfoderate le unghie, si disputavano l’ultimo rimasto. Interruppi il combattimento mandando qualcuno a cercare un altro scialle, e facendo servire, nell’attesa, il denso cioccolato alla cannella per il quale gli spagnoli vanno matti. Presto tornò il buonumore e tutte le ragazze, la maggior parte delle quali erano graziose e gentili, fecero del loro meglio per accontentarci. Cosa che che ci permise di girare qualche film interessante. Il giorno seguente, dopo mille ringraziamenti e una discreta mancia al Maestro di cappella, riprendemmo il treno diretti a Cordoba. Che città deliziosa con le sue stradine strette, le volute di ferro battuto alle
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finestre, i patio ornati da aranci in fiore. Non si può fare a meno di cercarvi con lo sguardo i suonatori di serenate. Non ho trovato, invece, nessuna traccia del famoso cuoio di Cordoba. Anatole non condivideva il mio entusiasmo. La sera, mentre passeggiavamo lungo il Guadalquivir sulle cui acque si rifletteva uno splendido tramonto, arrivati di fronte al vecchio ponte romano, accanto al quale sorge la celebre Moschea delle cento colonne, esclamai: “Mio Dio, Anatole, com’è bello!” Sollevò appena lo sguardo dalla sigaretta che si stava rollando con cura e, con calma vagamente sdegnosa, disse: “Per me, quel che so è che qui pago il giornale tre soldi!” L’avrei picchiato. Ma mi sentivo un po’ in colpa: il nostro soggiorno a Cordoba non era incluso nel viaggio, era per mio personale piacere che avevo aggiunto quelle poche ore al suo esilio. Capivo il suo malumore. Aveva delle difficoltà con gli apparecchi, la cui regolazione era delicata e piuttosto imperfetta, cosa che forse non dipendeva dai laboratori parigini: il più delle volte Anatole doveva trasportarli da solo. Era stanco della cucina un po’ monotona... riso al pollo, riso al pesce, riso ai gamberi. Gli hotel in cui scendevamo non erano di pulizia impeccabile, i vicoli dove le donne spidocchiavano e pettinavano davanti alla porta di casa le loro magnifiche chiome e dove i bambini dormivano seminudi sulla soglia, gli occhi frangiati di mosche, sapevano troppo d’olio fruttato... e ci si stanca presto dei ceci e del torrone. Così la sera stessa partimmo per Siviglia, dove speravamo di trovare la nostra Carmen ideale. Le sigaraie che incontrammo avevano però senza dubbio ereditato il carattere focoso dell’eroina, ma non la sua carica seduttiva. Dovemmo accontentarci di girare qualche documentario: la celebre Giralda, la casa di Adamo, il giardino della sultana con la fontana della quale, malgrado i miei incoraggiamenti, Anatole rifiutò ostinatamente di assaggiare l’acqua. E poi ci fu Granada, dal nome che evoca un frutto maturo. Granada dalle case chiare che s’arrampicano lungo l’Albacete, dai vicoli stretti e silenziosi all’ora della siesta, ma, al risveglio, risonanti del rumore degli zoccoli di cento asini infiocchettati con i colori dell’arcobaleno. Non vi descriverò l’Alhambra (ci ha pensato Chateaubriand) né i magnifici giardini e specchi d’acqua del Generalife: le immagini fotografiche, il
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cinema, i romanzi e forse i viaggi vi hanno già reso familiari gli splendori dell’Andalusia. Fu nella regione dell’ Albacete che, grazie a una guida raccomandata dal nostro hotel, incontrammo il re dei gitani. Alto, magro, non più giovane ma di bel portamento, era assai fotogenico nel suo pittoresco costume: alti gambali con borchie d’oro, pantaloni, bolero e gran cappello messicano ornati di nastri multicolori e ponpon, esattamente come gli asini. La guida ci fece da interprete e il re, in cambio di moneta sonante, acconsentì a presentarci al suo popolo e a organizzare delle danze sulla base musicale dei dischi registrati nei laboratori di Belleville. Ci condusse a Calle de Jesús dove la sua tribù che, a quanto pareva, aveva conservato una completa autonomia, viveva in abitazioni primitive, scavate nei contrafforti della Sierra Nevada in mezzo a foreste di cactus, e di cui ci sorprese la perfetta pulizia. Avevano conservato i loro riti e le loro tradizioni, si sposavano tra loro, i loro costumi erano molto diversi da quelli degli spagnoli e somigliavano stranamente a quelli degli indiani della Florida. Quasi tutti i giovani gitani erano belli, d’una bellezza a un tempo dura e lasciva. La dolcezza degli occhi scuri, velati da lunghe ciglia, era smentita dalla crudeltà d’un sorriso che scopriva denti da carnivoro. Le loro danze, la cui audacia farebbe oggi sorridere chi pratica le danze moderne, a me però causarono un certo disagio. I loro figli, bambini adorabili, ci offrirono di ballare per noi, in cambio di qualche soldo, le danze dei genitori. Declinai l’offerta, ma dovetti accettare quella d’una vecchia strega sdentata che volle a ogni costo predirmi il futuro, spingendomi verso un cactus dalle spine minacciose. Le misi una moneta tra le grinfie, lei biascicò qualche frase di cui non capii nulla, ma che doveva essere di malaugurio, visto che uno sfasamento tra i dischi e la macchina da presa rese inutilizzabili molti dei nostri film. Tuttavia fu questo l’episodio di maggior rilievo del nostro viaggio, e alcune di queste danze furono proiettate all’Hippodrome come prime dimostrazioni del sonoro55, quando questa grande sala già aveva preso il nome di Gaumont Palace. Terminammo il nostro viaggio con una visita ad Algeciras, dove si era svolta la famosa conferenza. Non è esattamente il posto dove vorrei finire i miei giorni. Alla trattoria, il proprietario fu molto stupito dal mio rifiuto di dividere
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la stanza con Anatole. “Ma ci sono tre letti nella stanza”, insisteva. Ottenni infine la stanza a tre letti ma, purtroppo, con un solo lenzuolo, mentre Anatole se ne andò a dormire altrove. La mattina dopo ci servirono, su una tovaglia macchiata di vino, un café con leche e burro insaporito da una lisca di pesce. Fummo felici di lasciare questo paese pur magnifico, e di ritrovarci per qualche ora a Gibilterra. Potemmo ammirare, sulla piccola spiaggia, gli sceicchi marocchini che avevano attraversato lo stretto per portare agli infedeli i prodotti dei loro frutteti, ammucchiati ai loro piedi in piramidi dai colori sgargianti. Ci arrampicammo sulla rocca, disturbando le piccole scimmie che vi abitano. Comprammo qualche gioiello in filigrana, pranzammo in un ristorante di pulizia immacolata e arrivammo alla caserma dove due soldati vestiti di rosso incrociarono sorridendo le baionette, per impedirmi di entrare. Poi il ritorno a casa, non senza rimpianti. Al mio arrivo agli studi, conobbi Herbert Blaché56, appena arrivato dall’Inghilterra (collaborava con Bromhead, il direttore dell’agenzia di Londra). Doveva fare uno stage nei laboratori e negli studi di Belleville, per approfondire la parte tecnica prima di raggiungere Berlino, dov’era stato nominato vicedirettore. Avevo progettato con Feuillade, che era un appassionato della regione e la conosceva bene, di andare a girare Mireille a Saintes-Maries-de-laMer57. Poiché Anatole era stanco e sofferente, Gaumont decise che Herbert Blaché avrebbe preso il suo posto, cosa che gli avrebbe permesso di familiarizzare con il funzionamento della macchina da presa. Accettò senza entusiasmo. Mi confessò più tardi che non aveva mai conosciuto una donna dall’approccio freddo e distante quanto il mio. Probabilmente aveva ragione. Ancora giovane, impegnata in un lavoro nel quale dovevo dar prova d’autorità, non davo confidenza a nessuno. Solo con i miei amici personali (tra questi Feuillade, per il quale avevo grande simpatia) ritrovavo la mia vera personalità. Allora la mia giovinezza e la mia allegria prendevano rapidamente il sopravvento. Facemmo il nostro debutto a Nîmes. Avevo preso in affitto l’arena per un pomeriggio da Olivier, che allora ne era il direttore. Il matador più famoso
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dell’epoca era Machaquido, idolo che anch’io desideravo conoscere. Olivier mi fece visitare ogni spazio dell’arena, comnpresi la cappella, l’ospedale e la morgue, perché il combattimento si conclude talora tragicamente. Feci conoscenza con i picadors, gli sfortunati cavalli prossimi alla loro ultima ora. Le gradinate erano ancora vuote, ma già si sentiva provenire dall’esterno il brusio della folla impaziente. Olivier mi segnalò l’arrivo di Machaquito dalla porta riservata al personale, un grande arco inondato di luce. Era un giovane uomo non troppo alto, minuscolo, muscoloso, quasi troppo aggraziato. Il suo costume, d’un rosa pallido interamente ricamato d’oro, risplendeva sotto il sole. Venne verso di noi, Olivier fece le presentazioni, Machaquito fece un semplice inchino e si diresse ai suoi appartamenti. Mi aveva fatto una buona impressione; raggiunsi i miei compagni in un palco riservato, a destra del palco del presidente delle arene. Si aprirono le porte al pubblico: le gradinate si riempirono fino a scoppiare, il brusio poco a poco si attenuò e Machaquito, alla testa della quadriglia e accompagnato dalla musica tradizionale, fece il suo ingresso nell’arena accolto da un’indescrivibile ovazione. Si fermò davanti al palco del presidente, che gli gettò la chiave del toril, poi, voltandosi verso il palco dove sedevamo noi, ci lanciò il cappello, così dedicandoci il combattimento... tra le battute e le prese in giro dei miei compagni. Come si saranno poi procurati le banderillas insanguinate con cui riempirono le mie valige? Non vi descriverò la corrida, durante la quale furono uccisi sei tori. Nonostante la crudeltà dello spettacolo, il coraggio del matador mi lasciò più d’una volta senza fiato. Quando tutto fu finito, Olivier sembrava divertito della mia emozione. “Poiché vedo che Machaquito vi ha conquistata” disse “e poiché devo andare a pagarlo al suo hotel, volete accompagnarmi?” Accettai. Machaquito si riposava nel patio dell’hotel. Vestito d’una vecchia veste da camera, in pantofole, fumava un enorme sigaro (solo in Spagna ne ho visti di simili). Ricevette il denaro e le nostre congratulazioni senza batter ciglio, e certo ci guardò partire senza troppi rimpianti. Il giorno dopo lasciammo Nîmes per raggiungere Saintes-Maries-de-la-Mer. Non conoscevo la Provenza. La allée des Alyscamps, fiancheggiata da
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tombe gallo-romane e da una splendida vegetazione, fu una rivelazione. A Saintes-Maries-de-la-Mer fummo accolti da un gruppo di guardians a cavallo, armati del loro tridente. Uno di loro scese e venne a inchinarsi davanti a me, quasi spazzando il suolo con il suo largo cappello. Lo stupore causato da queste maniere da gran signore svanì quando Feuillade me lo presentò: era il marchese de Baroncelli-Javon, grande amico di Mistral. Perfetto esempio di scrittore provenzale, si era dedicato all’allevamento dei tori da combattimento e dei piccoli cavalli bianchi della Camargue, nati, diceva, dalla schiuma di un’onda che Afrodite depositò sulla riva. La marchesa ci ricevette in costume arlesiano, in un mas dagli arredi puramente provenzali. Fu dunque questa Crau semideserta, il cielo solcato dal volo dei fenicotteri rosa, solo qualche gelso a offrire un poco d’ombra, l’aria vibrante di profumi e di luce, la chiesetta del X secolo e il campanile aperto nel quale Mireille venne a morire - fu questo luogo che ci servì da scenario. Vi facemmo rivivere la corrida di paese, alla quale i guardians si recano portando sulle spalle le belle ragazze di Arles, e dove Mireille incontra il suo innamorato; la raccolta delle more; i grandi tori che si lasciano docilmente condurre dai cavalli bianchi; i guardians sempre presenti e attenti, grazie a Dio, perché senza di loro l’enorme toro Provence, un killer che aveva già tre vittime al suo attivo, ci avrebbe sicuramente incornati. Infine, la visione di tutto il branco che attraversava il piccolo Rodano al chiar di luna, concluse la nostra gita. Lasciai questo paese così bello con una stretta al cuore. Avevamo passato serate deliziose sotto i tamarindi, ascoltando Feuillade che recitava qualche verso di Mistral, aspettando il miraggio che, quasi ogni sera, faceva scaturire dalle acque una città sommersa. Volemmo vedere un’ultima volta l’arena di Nîmes. Lo scenario era molto romantico, e quella sera ci fece pensare con rimpianto alla nostra prossima separazione. Non speravo di rivedere Herbert Blaché, che, di ritorno a Parigi, raggiunse immediatamente il suo nuovo incarico in Germania. Ma siamo solo marionette nelle mani del destino. Erano passate poche settimane, che molti dei nostri clienti tedeschi cominciarono a lamentare le difficoltà che incontravano nel tarare il delicato funzionamento dei due elementi del cronophone, e nell’ottenere un sincronismo perfetto.
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Gaumont, trattenuto a Parigi da importanti affari, parlò di mandarmi a Berlino in vece sua. Obiettai che non conoscevo né il paese né la lingua. “E allora? Non conoscete Blaché? Vi accompagnerà lui e vi farà da interprete”. Così fu, e fu in compagnia di Herbert Blaché che scoprii la Germania58. Berlino e i suoi attraenti dintorni: Unterdenlinden, frequentato da studenti tedeschi dal portamento militare, il volto segnato da cicatrici sotto il piccolo cappello da polo, occupati a tracannare champagne in compagnia di grosse ragazze biondastre, che certo poco prefiguravano le sottili e atletiche tedesche di oggi. Herbert Blaché mi fece visitare il castello di Sans-Soucis, dove Voltaire fu umiliato e il mugnaio premiato. E ancora con Herbert Blaché, visitando i nostri clienti, scoprii Dresda, Norimberga (splendida città rinascimentale, culla dei Maestri cantori, patria di Bach e di Dürer; non potevo certo immaginare, quando l’ammiravo, che sarebbe stata la sede del tribunale incaricato di processare i grandi criminali di guerra), e Francoforte, Colonia, le rive del Reno... I nostri clienti erano amabili, la loro galanteria forse un po’ pesante, ma ascoltavano con intelligenza e attenzione le spiegazioni che Herbert Blaché traduceva per loro. Portai a termine il mio compito senza troppe difficoltà. Avevo fatto un bel viaggio. La storia d’amore sbocciata a Nîmes aveva seguito il suo corso. Decidemmo che se i nostri sentimenti non fossero cambiati, a Natale avremmo annunciato il nostro fidanzamento. Qualche giorno prima delle feste, Herbert Blaché arrivò a Parigi, rinnovò la sua domanda e m’informò che suo padre ci avrebbe presto raggiunti per la domanda ufficiale. Ma Léon Gaumont ci stava preparando un’altra sorpresa. Ci comunicò che aveva ceduto i diritti di sfruttamento dei brevetti del cronophone a due americani di Cleveland, aveva promesso di mandar loro uno specialista per aiutarli a impostare l’attività e, in virtù della sua conoscenza della lingua, aveva scelto Herbert Blaché. Due mesi dopo, sposata da tre giorni, lasciavo con il cuore pesante la mia famiglia e il mio paese, convinta di aver abbandonato per sempre il mio bel mestiere.
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Note La curatrice dell’edizione francese, Claire Clouzot (Alice Guy, La Fée aux choux, Denoel-Gonthier, Paris 1976, p. 45) introduce in questo punto una nota nella quale retrodata l’episodio (e dunque l’ingresso di Alice Guy al Comptoir général de Photographie) al marzo 1894, senza fornire ulteriori spiegazioni. La ragione può risiedere nel fatto che alcune pagine più oltre (cfr. p. 75) l’A. riferisce della prima visita di Demenÿ al Comptoir facendo intendere di avervi assistito di persona. Dal momento che tale episodio può essere fatto risalire al gennaio 1895 (cfr. McMahan, op. cit., p. 9) è in effetti possibile che l’assunzione di Alice Guy sia avvenuta qualche mese prima, nel 1894. Ma non abbiamo trovato indicazioni che permettano di anticipare la data addirittura al marzo di quell’anno. 2 Il Comptoir général de Photographie era stato creato da Félix-Max Richard nel 1891, dopo la dissoluzione della precedente società di fabbricazione di apparecchi fotografici creata nel 1877 con il fratello Jules. “Il 29 novembre del 1891 i fratelli Richard decisero di interrompere la loro collaborazione. Félix cedette al fratello i suoi diritti [sui brevetti] per 300.000 franchi, con la clausola di rinunciare a costituire alcuna altra impresa concorrente. Ma Félix prese il denaro e acquistò la ditta di apparecchi fotografici di Périchon e dei fratelli Picard, iniziando subito a commercializzare la photo-jumelle inventata da [Jules] Carpentier, l’ingegnere che avrebbe in seguito creato il cinématographe per i Lumière. Il 5 ottobre del 1893 il Tribunale di Parigi condannò Félix Richard, trovandolo colpevole di aver rotto l’accordo di non competizione, e gli intimò di interrompere le attività del suo negozio fotografico, nonché la commercializzazione della photo-jumelle. Léon Gaumont, che aveva cominciato come impiegato nel laboratorio di Carpentier, andò a lavorare per Félix Richard nel 1893. Félix Richard fece ricorso, ma il 28 maggio 1895 la sentenza fu confermata. Preso atto di doversi ritirare, Richard riuscì a convincere il suo vice a rilevare l’attività per 50.000 franchi. Gaumont non pensava che la ditta valesse tanto, ma Richard lo persuase che avrebbe avuto l’esclusiva sulla photo-jumelle (ciò che poi si rivelò falso). Gaumont acquisì l’attività il 6 luglio 1895. La L. Gaumont et Cie. fu creata il 10 agosto. Secondo Alice Guy [cfr. p. 75], il passaggio di proprietà ebbe luogo pochi mesi dopo l’inizio del suo lavoro come segretaria”. McMahan, op. cit., p. XLI. 3 Pseudonimo di Sibylle Aimée Marie Antoinette Gabrielle Riquetti de Mirabeau, poi contessa de Martel. Prolifica scrittrice del tardo Ottocento francese, pubblicò oltre centoventi volumi di racconti e romanzi. 4 Maurice Maeterlinck, La Vie des abeilles, E. Fasquelle, Paris 1901. 5 Alexandre Gustave Eiffel, il celebre ingegnere autore del progetto della Torre Eiffel, eretta in occasione dell’Esposizione Universale del 1889, fu tra i soci fondatori della L. Gaumont et Cie. 6 L’A. si riferisce a un premio conferitole dall’Accademia di Medicina, diretta in quegli anni dal dottor François-Franck. 7 Gabriel Lippmann fu il primo che riuscì a fissare i colori sulla pellicola cinematogra1
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fica, nel 1891. Fu basandosi sul suo metodo che i Lumière svilupparono il procedimento dell’autochrome, brevettato nel 1903. Il riferimento è al grosso scandalo che il romanzo di Octave Mirbeau aveva suscitato all’epoca della sua prima pubblicazione a puntate su “L’Echo de Paris”, nell’inverno 1891-92. Marthe Lucie Lahovary, figlia d’un importante uomo politico rumeno e divenuta principessa Bibesco dopo il matrimonio, fu una scrittrice di talento, apprezzata anche da Proust, cui la legava una profonda amicizia. La sua copiosa produzione letteraria, inizialmente firmata con lo pseudonimo di Lucile Decaux, ebbe inizio nel 1911, con Les Huit Paradis e proseguì ininterrottamente fino alla morte, avvenuta nel 1973. Nel 1968 pubblicò una trilogia su Proust (Au jardin de Marcel Proust, La Duchesse de Guermande, Au bal avec Marcel Proust). Prima di divenire uno dei principali uomini politici francesi (occupò tra l’altro la carica di primo ministro nel 1914-15), René Viviani fu membro del consiglio d’amministrazione della prima società creata da Lous Gaumont nel 1895. Due dei tre fratelli Falize: André, Jean e Pierre, rinomati gioiellieri della Belle Epoque. Anne de Mortemart-Rochechouart, duchessa di Uzès, fu una delle più singolari figure della Belle Epoque: appassionata di caccia, sostenitrice della causa femminista, fu la prima donna francese a ottenere, nel 1898, la patente di guida. Alfred Claude Bromhead assunse la direzione della filiale britannica della Gaumont (la Gaumont Limited) nel 1898. Il titolo Le Braconnier figura al numero 723 del Catalogo Gaumont dell’estate 1903. Se, come indica l’A., la sua realizzazione è dovuta a Bromhead, è possibile che le riprese siano state effettuate in Inghilterra. Cfr. per esempio La Théorie, la pratique et l’art en photographie, avec le procédé au gélatino-bromure d’argent, Libraire illustrée, Paris 1891; Principes et pratiques d’art en photographie. Le Paysage, Gauthier-Villars, Paris 1899; Considérations générales sur le portrait en photographie, Gauthier-Villars, Paris 1899. Lo spaventoso incendio del Bazar de la Charité, sede della Fiera di beneficenza di Parigi, avvenuto il 4 maggio 1897, è ricordato come uno dei più terribili disastri mai provocati dalle pellicole infiammabili. Le fiamme si propagarono dalla cabina di proiezione della sala cinematografica collocata al centro della struttura, provocando oltre centoquaranta morti, tra cui molti esponenti del bel mondo parigino. L’incidente suscitò numerose polemiche, minacciando di danneggiare seriamente la nascente industria del cinema. Celebre ballerina della Belle Epoque, Cléo de Mérode è ricordata tra l’altro per aver lanciato una particolare acconciatura, formata da due bande di capelli appiattite sulle orecchie e raccolte sulla nuca. In realtà, come si è visto (cfr. nota 2), la prima denominazione della società creata nel 1895 fu L. Gaumont et Cie., trasformata in Société des Etablissements Gaumont nel 1906, in coincidenza con l’apertura degli studi di Buttes Chaumonts. Sono le sigle con cui vennero commercializzati alcuni apparecchi fotografici di produzione Gaumont: per esempio spido 9 x 19 e stéreospido 6 x 13 e 8 x 16. Vedi Prologo, nota 17. Léon Gaumont acquistò da Demenÿ i diritti sui suoi brevetti e
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nel 1895 collaborò con lui alla costruzione del chronophotographe (già phonoscope) 60mm, poi riconvertito al formato 35mm nel 1897, sotto il nome di nouveau chrono Demenÿ-Gaumont. La prima dimostrazione del cinématographe Lumière avvenne a porte chiuse, presso la sede della Société d’Encouragement à l’Industrie Nationale, il 22 marzo 1895. In realtà la prima presentazione pubblica a pagamento del cinématographe avvenne il 28 dicembre 1895, ovvero alcuni mesi dopo la data della prima dimostrazione scientifica (22 marzo). Peraltro, in questo lasso di tempo, i Lumière presentarono la loro invenzione in diverse altre sedi, tra cui la Sorbona (17 aprile) e il Congresso delle Società francesi di fotografia (10 giugno), dove è verosimile ritenere che anche Alice Guy fosse presente. Vedi Prologo, nota 17. L’A. si riferisce ad Anatole Thiberville, detto “le père Anatole”, suo operatore di fiducia per tutto il periodo della sua permanenza alla Gaumont. In realtà, come dimostra Alison McMahan (op. cit., pp. 19-22), il film che fino a pochi anni fa veniva identificato con il titolo La Fée aux choux sarebbe in realtà Sage Femme de première classe, del 1902. L’identificazione è stata resa possibile dal ritrovamento, nel 1996, presso l’archivio dello Svenska Filminstitutet (fondo Sieurin), di un film basato su un soggetto analogo, ma certamente realizzato in un periodo precedente (databile tra il 1897 e il 1900), che McMahan identifica appunto come La Femme aux choux. Sulla complessa questione della datazione di La Fée aux choux, si veda Introduzione, pp. 15 e segg. Film non identificato. Nemmeno gli altri titoli citati nelle righe seguenti, Lilliput et Gulliver, L’Ogre et Petit Poucet, sono reperibili nei cataloghi Gaumont. Si tratta con ogni probabilità di L’Assassin du courrier de Lyon, uno dei primi film di genere storico e uno dei primi a superare la lunghezza di 100 metri, realizzato nell’aprile del 1904. René Barjavel, Cinéma total: Essai sur les formes futures du cinéma, Denoël, Paris 1944. Les Méfaits d’une tete de veau, che Sadoul, nel primo volume della sua Histoire générale du cinéma, attribuisce ad Alice Guy, facendolo risalire al 1899, fu invece con ogni probabilità realizzato da Ferdinand Zecca nel 1904, nel breve periodo in cui egli lavorò alla Gaumont. Il titolo è tra quelli che hanno posto maggiori problemi agli storici in termini di identificazione e attribuzione; si veda per ulteriori dettagli McMahan, op. cit., pp. 90-91. Alice Guy fu certamente tra i primi registi al mondo a girare dei film sonori, per mezzo del chronophone, macchina brevettata da Léon Gaumont nel 1901. Su questa parte della sua attività si veda anche infra, pp.. Il titolo Ave Maria compare al n. 2 del catalogo delle phonoscènes Gaumont e fu perciò con ogni probabilità uno dei primi film sonori realizzati da Alice Guy, forse già nel 1902. Gli studi delle Buttes Chaumonts (nell’area di Ménilmontant, a Parigi), considerati
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fino al 1914 il più grandi e i più attrezzati al mondo, furono fatti edificare da Léon Gaumont nell’estate 1905, in sostituzione degli impianti di fortuna (situati nella non distante località di Belleville), fino allora utilizzati per le riprese. L’A. allude a René Decaux, direttore dei laboratori di fabbricazione e delle officine meccaniche della Gaumont. Forse ritenendola responsabile di ostacolarlo nel suo desiderio di passare alla regia (cfr. McMahan, op. cit., p. ), Decaux aveva sviluppato un’attitudine quanto mai negativa nei confronti di Alice Guy, come l’A. osserva in più punti del testo. Entrata al Comptoir général de Photographie come segretaria, nel 1896 Alice Guy assunse la direzione del Service des théâtres des prises de vue della Gaumont, ruolo che mantenne fino al 1907. In altri termini, oltre a dirigere i suoi film, ebbe in carico la supervisione di tutti i reparti della produzione, che comprendevano: un comitato di selezione delle sceneggiature, un ufficio amministrativo preposto agli ingaggi degli interpreti, un laboratorio scenografico per la realizzazione dei fondali dipinti, una falegnameria per la costruzione dei mobili, ecc. Quando la produzione raggiunse un ritmo così elevato da renderle impossibile dirigere da sola tutti i film, si assicurò la collaborazione di altri registi come Ferdinand Zecca, Etienne Arnaud, Romeo Bosetti, Louis Feuillade, Victorin Jasset, Emile Cohl, ma continuò a supervisionare i film da loro realizzati. Con i suoi 290 metri di lunghezza, La Esmeralda fu una delle più ambiziose produzioni del 1905, ispirata al romanzo di Victor Hugo Notre Dame de Paris. L’A. si riferisce ai numerosi titoli della sua filmografia che Sadoul, nella prima edizione della sua Histoire générale du cinéma (1946), attribuisce a Henri Gallet. “Sadoul intervistò Gallet negli anni Quaranta, nel periodo in cui Alice Guy risiedeva all’estero [in Svizzera]. Gallet affermò di aver diretto diversi film che Guy si attribuisce nelle sue Memorie, tra cui La Fée aux choux, risalente a suo dire al 1904, accusando inoltre Zecca di aver plagiato alcuni dei suoi film. Ma in quel periodo fu Gallet a essere accusato da Gaumont di essere una spia di Pathé. Fu licenziato da Gaumont nel 1905 e divenne direttore di un cinema. [Nell’intervista con Bachy] Guy fu risoluta nel negare che Gallet avesse mai diretto dei film alla Gaumont e dichiarò di non ricordarsi affatto di lui, pur senza escludere la possibilità che avesse lavorato per lei come comparsa. Il fatto che Gallet abbia lasciato la Gaumont in circostanze difficili e non abbia mai girato altri film, e la facilità con la quale tante delle sue affermazioni sono state confutate, getta dei dubbi su tutte le sue dichiarazioni”. McMahan, op. cit., p. 91. Cfr. anche Bachy, Entretiens avec Alice Guy, in Les Premières années du cinéma français, Institut Jean Vigo, Perpignan 1985, pp. 31-42. Sempre nella prima edizione, Sadoul attribuisce la regia del film a Victorin Jasset, con l’assistenza di Georges Hatot. Nelle edizioni successive della sua opera, in effetti Sadoul corregge parzialmente il passaggio in questione, accreditando la regia di questo e altri film ad Alice Guy. La datazione di questi film fornita da Alice Guy non corrisponde a quella desumibile dai cataloghi Gaumont, da cui risultano le seguenti date di distribuzione: maggio
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1904 per Les Petits Coupeurs de bois vert; ottobre 1904 per Volée par les bohemiens; settembre 1906 per Démenagement à la cloche de bois e Le Matelas alcolique. Cfr. Bachy, Alice Guy Blaché, cit. Per la Fée aux choux si veda l’Introduzione al presente testo, pp. 15 e segg. Louis Feuillade entrò alla Gaumont come sceneggiatore e assistente di Alice Guy nel dicembre 1905. Dal primo aprile 1907 la sostituì nel ruolo di direttore artistico. A lui si devono alcuni dei più memorabili film seriali degli anni Dieci: da Fantômas (1913-14) a Les Vampires (1915-15), a Judex (1916). Yvonne Munier-Serand, amica di Alice Guy, sposò Etienne Arnaud nel 1907. Henri Menessier ricoprì per alcuni anni il ruolo di capo scenografo alla Gaumont, prima di seguire Alice Guy negli Stati Uniti. Dopo la partenza, fu sostituito da Robert-Jules Garnier. Possibile allusione a Henri Gallet, cfr. nota 35. L’A. si riferisce probabilmente a Attrappez mon chapeau o Le Coup de vent, prima sceneggiatura di Feuillade e prima regia di Etienne Arnaud, uscito nel gennaio 1906. Arnaud lavorò come regista alla Gaumont fino al gennaio 1911, prima di assumere la direzione degli studi Eclair negli Stati Uniti, fino al 1914. Film non identificato. Albert Guillaume fu uno dei più rinomati caricaturisti della Belle Epoque, autore di numerosissimi manifesti pubblicitari e collaboratore di varie riviste satiriche come “Gil Blas”, “Le Rire”, “Le Figaro illustré”. Di tutti i titoli citati in questo capoverso solo i seguenti figurano nei cataloghi Gaumont: Conscience de prêtre, La Fève enchantée, Lèvres closes, La Légende de Saint-Nicolas, tutti distribuiti nel 1906. L’A. si riferisce alla presentazione del chronochrome Gaumont, sistema per la riproduzione di immagini a colore brevettato da Louis Gaumont nel 1912. Il gigantesco teatro dell’Hippodrome, costruito alla fine dell’Ottocento in Place de Clichy e in grado di contenere fino a 8.000 spettatori, fu inaugurato nel 1900 con lo spettacolo Vercingetorix, imponente ricostruzione storica diretta da Victorin Jasset. Nel 1911 l’edificio fu acquistato da Léon Gaumont e trasformato nella più grande sala cinematografica del mondo (3.400 posti a sedere). Secondo Bachy (Alice Guy Blaché, cit., pp. 86-87), avrebbe dovuto trattarsi di un adattamento dell’Assommoir di Zola, che però alla fine non fu realizzato. Del resto, la ricerca di un’ambientazione tipicamente mineraria (individuata nel villaggio di Fumay, nelle Ardenne, su suggerimento di Jasset, che vi era nato), lascia pensare che il soggetto del film fosse ispirato a un altro libro di Zola, Germinal. Fu probabilmente nel corso del suo viaggio a Fumay che Alice Guy registrò i materiali poi confluiti in L’Explosion de grisou (aprile 1904), una ‘attualità ricostruita’ che metteva in scena un’esplosione in miniera e l’organizzazione dei soccorsi alle vittime. Nella prima edizione della sua storia del cinema Sadoul attribuisce erroneamente il film – noto sotto vari titoli alternativi (La Vie du Christ, La Passion, La Vie de Jesus, La Passion de Christ) – a “Jasset... con l’assistenza di Georges Hatot”. Composto
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di venticinque quadri (per una lunghezza complessiva di 675 m.) e realizzato nel corso di due mesi, tra il dicembre 1905 e il gennaio 1906, il film costituisce invece una delle più impegnative imprese del periodo francese di Alice Guy. La confusione di Sadoul si spiega forse con il fatto che Hatot aveva effettivamente diretto una Passione (la prima mai realizzata) per i fratelli Lumière nel 1898 e che lo stesso Jasset collaborò al film di Alice Guy in qualità di direttore delle scene di massa. (cfr. Bachy, Alice Guy Blaché, cit., p. 129; McMahan, op.cit., p. 28). Diciassette dei venticinque “quadri originali” sono conservati presso il National Film and Television Archive di Londra. Allusione ironica a René Decaux, cfr. nota 32. L’A. si riferisce forse al testo Historique: Notice sur les Etablissements Gaumont, in Les Etablissements Gaumont (1895-1929), Paris, 1924, in cui lo stesso Léon Gaumont ricostruisce le principali tappe della storia della sua compagnia. Al 1900 risalgono i primi esperimenti di sincronizzazione effettuati presso i laboratori Gaumont, che seguono quelli di William K. Dickson alla Edison (1894). Il primo modello di chronophone Gaumont fu brevettato nel 1901 e dall’anno successivo Alice Guy fu impegnata nella sperimentazione dell’apparecchio, arrivando a realizzare nel giro di pochi anni oltre cento phonoscènes. Tra il 1908 e il 1930 Paul Capellani recitò in un centinaio di film, molti dei quali realizzati dal fratello Albert Capellani, in Francia e negli Stati Uniti. Il viaggio in Spagna di Alice Guy e Anatole Thiberville ebbe luogo dalla metà di ottobre alla fine di novembre 1905. Insieme realizzarono numerosi film, sia muti (vedute di Madrid, Siviglia, Cordova, Granada e una serie di “danze gitane”) che sonori. Al loro rientro molti dei film sonori si rivelarono inutilizzabili a causa di un difetto del dispositivo di ripresa, ma quelli che risultarono proiettabili furono inseriti nel Catalogo delle phonoscènes in locazione del gennaio 1908 (nn. 340-352; cfr. Bachy, Alice Guy Blaché, cit., pp. 112-113, 150). A partire dal 30 settembre 1911. L’incontro con Herbert Blaché risale senz’altro al 1906. Fu infatti nel corso di quell’anno che Gaumont “lanciò sul mercato una combinazione di fonografo e proiettore finalmente soddisfacente” (Bachy, Alice Guy Blaché, cit., p. 135) chiamando a Parigi, dalla succursale inglese presso cui era impiegato, il giovane Blaché (allora appena ventiquattrenne), con l’intenzione di incaricarlo della commercializzazione del chronophone in Germania. Blaché, di origini franco-britanniche, era infatti dotato di un inglese fluente. Louis Feuillade, originario di Lunel, nel sud della Francia, era un grande aficionado di corride. All’epoca collaborava regolarmente con il settimanale “Le Torero”, con articoli sulla tauromachia. L’idea di recarsi in Camargue per le riprese di Mireille fu motivata dalla volontà di introdurre elementi di colore locale (e scene di corrida) nella messa in scena del film, tratto da un’opera di Charles Gounod (1864) ispirata a un poema di Frédéric Mistral. Il viaggio ebbe dunque luogo durante la stagione delle tauromachie, ovvero tra il marzo e l’agosto del 1906. Le riprese in Camargue non
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diedero però i risultati sperati: forse per inesperienza di Blaché (ma lo stesso Thiberville aveva avuto problemi analoghi nel precedente viaggio in Spagna, cfr. nota 54), gran parte del girato risultò irrimediabilmente sovraesposto. Le tre registrazioni che compaiono sotto il titolo Mireille nel Catalogo delle phonoscènes si riferiscono a riprese in studio (cfr. McMahan, op. cit., pp. 65-66). 58 Bachy (Alice Guy Blaché, cit., p. 156) fa risalire la missione di Blaché e Alice Guy in Germania alla metà del 1906, collocando in questo periodo la promozione di Louis Feuillade a direttore artistico della Gaumont.
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Appendici
La Fée aux choux, 1896? 1900? (Collection Musée Gaumont)
Les Cambrioleurs de Paris, 1898 (Collection Musée Gaumont) Au Bal de Flore, 1900 (Collection Musée Gaumont)
Appendici
Alice Guy (al centro) con Yvonne e Germaine Munier-Serand in una foto di scena di Sage-femme de première classe, 1902
Le Boléro, phonoscène, 1905 (Collection Musée Gaumont) Une Héroine de quatre ans, 1906 (Collection Musée Gaumont)
Appendici
I teatri di posa Gaumont nel 1906 (Collection Musée Gaumont) Madame a des envies, 1906 (Collection Musée Gaumont)
Alice Guy gira una phonoscène, 1905 (Collection Musée Gaumont)
Appendici
Due cartoline con immagini da La Naissance, la Vie et la Passion de Jésus Christ, 1906
(Collection Musée Gaumont)
Appendici
Manifesto per il film Sur la barricade, 1906 (Collection Musée Gaumont)
Locandine dei film Casimir fait la bombe, 1906, e L’Orpheline, 1906 (Collection Musée Gaumont)
Appendici
Alice Guy a Fort Lee, davanti agli studi Solax in costruzione
Alice Guy in automobile, a Flushing, NY, nel 1908
The Detective and His Dog, 1912 (Library of Congress)
A Fool and His Money, 1912 (Library of Congress)
Appendici
Algie the Miner, 1912 (Library of Congress)
The Girl in the Armchair, 1912 (Library of Congress)
Dick Whittington and His Cat, 1913 (Cinémathèque Suisse)
Appendici
Alice Guy sul set di My Madonna, 1915
My Madonna, immagine pubblicitaria (Library of Congress) Olga Petrova
Alice Guy (Collection Musée Gaumont)
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La traversata fu lugubre. Eppure, grazie a mio cognato che lavorava in un’agenzia di viaggi, avevo la cabina più bella del ponte e un posto alla tavola del comandante. Un invincibile mal di mare, ahimé, rovinò la traversata, che risultò assai penosa sia per me che per mio marito. L’arrivo a New York alle quattro del mattino1, la vista della Libertà che illuminava il mondo, i grattacieli nella bruma, non riuscirono a cancellare la mia tristezza. Vedevo tutto attraverso le lacrime che invano cercavo di trattenere. Attorno a me udivo esclamazioni di entusiasmo, in una lingua di cui non capivo una parola. La dogana, la polizia, la guardia sanitaria, erano arrivate sui piccoli rimorchiatori che avevano il compito di trainare il transatlantico nella sua postazione. Mio marito si era allontanato per radunare i nostri bagagli e far vistare i passaporti. Gli emigranti, raggruppati attorno alle loro guide, le donne cariche di pacchi, una marea di bambini attaccati alle loro gonne; gli uomini, le mani in tasca, mozzicone di sigaretta alle labbra, aspettavano ansiosamente che si decidesse della loro sorte. Quelli con le carte non in regola, o la cui salute non appariva buona, erano mandati in quarantena a Ellis Island; poi sarebbero stati accolti o respinti al loro paese. I più fortunati, quelli che erano stati preceduti da parenti, o erano specializzati in mestieri per i quali si richiedeva mano d’opera, ricevevano il ‘lasciapassare’. Ricevettero anche la prima lezione di cortesia americana verso la donna: un poliziotto alto, probabilmente irlandese (lo sono tutti), fermò una coppia con un imperioso: “Not here” (non qui). Prese i bagagli dalle braccia della donna e li trasferì
in quelle dell’uomo, che rimase sbalordito, accarezzò le gote di un grosso moccioso e incoraggiò la madre con una pacca amichevole e un sorriso. Poliziotti e doganieri furono gentili con noi. Avevamo riempito il lungo questionario in maniera soddisfacente, avevamo assicurato che la nostra fedina penale era immacolata, che non eravamo bigami, che possedevamo i cinquanta dollari richiesti, che eravamo stati vaccinati, ecc. Insomma, eravamo giovani sposi e portavamo con noi un non trascurabile corredo e mobilio. Non saremmo stati un peso per il paese. Fummo esonerati perfino dai diritti doganali. Pochi istanti dopo giravamo per la Bowery, losco quartiere di New York frequentato da tutti gli indesiderabili. Nella folla di un grande porto, operai e impiegati invadevano vecchi vagoni trasformati in ‘snack bar’ alla ricerca di un hot dog (salsicce alla griglia) e di un caffè. C’era ancora la metropolitana sopraelevata e faceva un rumore come quello di un tuono. I tramways, alcuni dei quali erano ancora trainati dai cavalli, si incrociavano in tutte le direzioni. Io camminavo a fatica, perché risentivo ancora degli effetti del rullìo. Alla fine un vecchio vetturino acconsentì a condurci all’hotel Lafayette. Potevamo passare solo poco tempo a New York. Dopo un breve riposo mio marito mi propose una passeggiata di perlustrazione. Dovevano essere circa le diciassette quando arrivammo a Broadway. Credetti di essere capitata in mezzo a una rivoluzione. Ogni cancello vomitava centinaia di esseri umani, che agitavano gomiti e pugni, urlavano, imprecavano e si apostrofavano tra loro. Sbigottita, spintonata, mi attaccavo al braccio di mio marito che sembrava invece divertirsi molto. “È semplicemente l’ora dell’uscita degli impiegati, che hanno fretta di tornare dalle loro famiglie e di trovare un po’ di calma e di aria fresca nel Bronx, a Manhattan, a Brooklyn o altrove”. Passavano tramways con grappoli umani sospesi alle piattaforme, code interminabili scalpitavano impazienti vicino agli imbarcaderi dei traghetti sull’Hudson. C’era calca anche agli ingressi della metropolitana. “Fra poco sarà tutto tranquillo” disse Herbert. Infatti un’ora dopo la città aveva ritrovato la calma abituale. Rientrammo al Lafayette sfiniti, felici di trovarvi il comfort americano e un’eccellente cucina francese, alla quale potei infine fare onore.
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Il maître d’hotel, a cui raccontammo la nostra prima passeggiata, ci consigliò di andare a vedere la minuscola chiesa e il cimitero dei primi pionieri, e di visitare, sulla Battery, l’acquario, uno dei più ricchi di specie del mondo (ma oggi scomparso), di dare un’occhiata a quella strana Borsa all’aria aperta dove gli agenti di cambio, a cavalcioni sulla balaustra delle finestre, lanciavano ordini ai loro impiegati che aspettavano in strada col naso per aria e che poi di corsa andavano a riferirli. Ci consigliò di vedere la città cinese – la fossa nera – sulla Bowery. Cose che oggi tutti conoscono grazie al cinema, alla radio e alla TV, ma che per noi erano veramente un nuovo mondo. Presto fummo costretti a lasciare tutto questo per raggiungere Cleveland, dove eravamo attesi. Fin dal nostro arrivo alla Central Station, da cui dovevamo partire, la malinconia che mi aveva un po’ lasciato in pace mi tornò addosso. Era marzo. Dal cielo già nero cadeva un sottile nevischio aggressivo che si accaniva a pungerci e si infilava anche nei colletti più impenetrabili. Il lungo vagone su cui eravamo saliti era tutto buio; le cuccette sovrapposte erano chiuse da pesanti tende di cuoio; perfino l’impiegato che si impadronì del mio cappello per infilarlo in una borsa e che piazzò i biglietti nel nastro del cappello di mio marito, era un negro. Sistemò le nostre borse nelle numerose reti attorno alle cuccette e le valigie sotto le cuccette, poi ci indicò le toilette e il salottino e quindi ci lasciò per dedicarsi ai nuovi arrivi. Il treno si era messo in marcia. “Sei stanca” mi disse mio marito “vai a prepararti e mettiti a letto, domani andrà meglio”. Docilmente mi diressi verso le toilette, dove trovai una ventina di donne intente a prepararsi per la notte. La discrezione e il pudore latini sembravano decisamente fuori luogo. Nei W.C. spalancati una signora grassoccia era in animata conversazione con un’altra donna occupata a mettersi nei capelli una serie di bigodini. Accortasi della mia esitazione, una di loro mi disse: “Here, dear, is a free place. Oh! I see, you are not yankee... Franchie I guess?” (Qui, mia cara, c’è un posto libero. Oh, capisco, non siete americana... francese, suppongo?). Da quel momento entrambe si fecero un punto d’onore di farmi apprezzare le invenzioni americane: asciugamani di carta, asciugacapelli meccanico, coprisedile di protezione, ecc. A ognuna
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sorridevo come meglio potevo, ma fui contenta di tornare da mio marito che mi aspettava paziente accanto alla scaletta che doveva consentirgli l’accesso al piano superiore. Feci molta fatica a prendere sonno. Mi svegliai che stavamo arrivando a Chicago. Dei boys salirono sul vagone offrendo caffè, cioccolata, panini e brioches. Il boy ci pregò di fare un giro in un saletta d’aspetto. Pochi istanti dopo i letti erano scomparsi, sostituiti da confortevoli panchine. Ma il cielo era nero, il nevischio continuava a cadere. Il paesaggio delle grandi pianure (così belle d’estate, coperte di grano) era lugubre. Col suono di una campana il treno annunciava l’arrivo in un paesino che sembrava uguale a tutti gli altri. Una grande drogheria, dei bar, un hotel nella cui ampia veranda degli uomini si dondolavano sulle rocking-chairs, coi piedi in alto appoggiati su una sbarra di ottone. Qualche fattoria e poi ricominciava lo stesso paesaggio. I nativi di Chicago adorano questa città. Io l’ho visitata più volte. Nonostante il lago e le belle case che vi si riflettono, mi è sempre parsa ostile. La città industriale, interessante sotto molti aspetti, mi sembra un’enorme piovra i cui lunghi tentacoli distesi affondano le loro ventose nei tuguri dei lontani sobborghi, per trascinare in mare gli esseri umani la cui resistenza è stata vinta dalla fame. Alla fine arrivammo a Cleveland, di cui mi avevano detto un gran bene. La sua principale attrazione era un lago di 80 km. Purtroppo però il lago non era visibile, poiché il treno si fermò proprio davanti a una montagna di rifiuti. Ma almeno i compratori dei brevetti del chronophone erano venuti a prenderci alla stazione. Ci portarono in un hotel, assai fastoso, in cui avevano prenotato per noi una camera per la notte. Ed ecco un’altra sorpresa. La stanza e il bagno sembravano puliti e confortevoli, ma il letto mancava. Lo feci notare a mio marito. Il fattorino, interrogato, spinse un bottone sul muro: un pannello si abbassò mostrando un magnifico letto a due piazze dove mi distesi felice. Il giorno dopo, mio marito si mise in contatto con i suoi nuovi capi e mi mise sulla piattaforma di un autobus che faceva il giro della città. Ripetei il percorso per tre volte, un po’ in ansia, prima di ritrovare il punto di partenza in cui mi aspettava Herbert per condurmi alla boarding house (pensione familiare) dove aveva appena fissato una camera.
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Boarding house piuttosto singolare, visto che il padre era pastore (celebrava i matrimoni in salotto), la madre ostessa, il figlio giocava a baseball e la figlia faceva l’infermiera. C’era anche una cuoca negra che, innamoratasi di uno degli ospiti, era stata sposata in salotto dal pastore e fu ammessa alla nostra tavola pochi giorni dopo il nostro arrivo. Avrei preferito che fosse rimasta in cucina, poiché faceva delle torte squisite. Ebbi diverse altre sorprese a Cleveland. Abitavamo in Euclid Avenue, la principale arteria della città, tutta un susseguirsi di magnifiche dimore appartenenti (tranne alcune eccezioni, come la nostra boarding house) al mondo diplomatico passato, presente e futuro. Uno dei R. abitava proprio di fronte. Tutte le mattine, accompagnato dal nipotino, esaminava il recinto del suo giardino e il suo erede guadagnava un soldo ogni volta che scopriva un’asticella da sostituire... Il povero R., a dispetto di tutta la sua fortuna, non poteva nutrirsi che di latte e di pane abbrustolito. Fece numerose donazioni alle biblioteche del mondo intero, pare, ma ogni volta aumentava la benzina di un soldo al litro. Euclid Avenue era percorsa da numerose vetturette elettriche, molto simili a una poltrona, guidate per lo più da donne. Potevano fare solo 80 km., poi bisognava ricaricare le batterie. Tutte queste spiegazioni mi furono fornite da una deliziosa ed eccentrica vecchia signora norvegese, miss Andrupt, che apparteneva a una famiglia di esploratori e abitava la nostra boarding. Parlava discretamente il francese e si era preso l’incarico di farmi da guida e di insegnarmi l’inglese. Fu senza dubbio opera sua se venni segnalata all’ Alliance française, che mi invitò cortesemente e di cui feci parte per i mesi del nostro soggiorno a Cleveland. Feci parecchie buone amicizie e cominciai a scoprire gli usi e i costumi della mia nuova patria. Scoprii per esempio che non dovevo formalizzarmi se la figlia dei nostri ospiti mostrava un’attenzione un po’ troppo vivace per mio marito, né stupirmi se mio marito, il giorno dopo il nostro arrivo, mi affidava al figlio della famiglia per andare a vedere il gioco del rugby (credo). Per qualche ora ebbi l’impressione di vivere in una banda di matti. Il vero problema fu il mio guardaroba. Avevo un così bel corredo, opera di mia madre e delle mie sorelle, che tutte le donne volevano vederlo.
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Ma i miei vestiti, confezionati dalle prime sarte delle grandi case di moda, avevano tutti lo strascico, mentre le americane avevano già adottato l’abito corto. La prima volta che indossai il mio vestito più semplice, mi chiesero se stavo per andare a cavallo. Il mio cappello (di chez Reboux, per favore) era molto carino, ma le donne non portavano quasi mai il cappello. Quando Herbert mi condusse a teatro a vedere John e Lionel Barrymore, fu una piccola rivoluzione. Il mio dispiacere fu pari al mio rimpianto di non capire niente di ciò che dicevano quegli eccellenti attori. Per fortuna in seguito ebbi modo di rifarmi. Ma il tempo passava. Gli acquirenti dei brevetti non sembravano fare grandi sforzi per lanciare il chronophone. Avevano affittato una saletta a Detroit, che non era ancora il regno di Ford: l’illuminazione era scarsa, l’operatore infame. Non era stata fatta alcuna pubblicità. Eravamo a Cleveland da più di nove mesi e non avevamo ricevuto nemmeno un soldo di paga. Lanciammo un S.O.S. a Gaumont. Léon Gaumont aveva appena messo in piedi a Flushing, Long Island, una fabbrica per lo sviluppo e la stampa dei suoi film negli Stati Uniti. Aveva fatto costruire un piccolo studio per le riprese del chronophone. Ci richiamò e affidò la direzione di questo gruppo a mio marito. Negli Stati Uniti il cinema era ancora di là da venire, e gli americani giocano con le parole quando attribuiscono a Thomas Alva Edison il merito di avere inventato il cinematografo2. I kinetoscope parlors fiorivano in tutto il paese, è vero, però non si trattava affatto di proiezioni, ma di apparecchi simili a quelli che a Parigi si erano diffusi sui boulevards, cioè di scatole in cui passava all’infinito lo stesso film, illuminato da una forte lampada elettrica e visibile da una sola persona attraverso una lente d’ingrandimento. Contrariamente a quello che si è detto, i Lumière erano convinti che lo sfruttamento del cinema potesse essere interessante. Quasi subito avevano stipulato un contratto con [Alexandre] Promio perché questi facesse il giro del mondo raccogliendo il maggior numero possibile di documentari, allo scopo di rispondere alla domanda crescente dei loro clienti. Nella Histoire du cinématographe di Michel Coissac lo stesso Promio racconta di quel viaggio e dell’accoglienza che ricevette negli Stati Uniti quando vi tenne le prime proiezioni3.
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Non ho la pretesa di raccontare la storia del cinema negli Stati Uniti, mi limito a riportare ciò che ho visto e sentito. Griffith, che fu, penso, il più grande regista americano del cinema muto, aveva realizzato dei film per il kinetoscope di Edison: nel 1903 The Great Train Robbery e, nel 1907, Rescued from an Eagle’s Nest [1908]4. L’entusiastica accoglienza fatta a Promio, la curiosità del pubblico per i pochi film che cominciavano ad arrivare dall’Europa, gli avevano instillato il desiderio di volare con le proprie ali. Si associò a un regista abbastanza noto, Harry Salta5, per fondare, in una vecchia casa di Brooklyn (11 East 14th Street), la casa di produzione Biograph, presso cui e interpretò i suoi primi film insieme alla moglie Linda Arvidson. Guadagnava quindici dollari alla settimana e, all’attività di attore, doveva affiancare quelle di carpentiere, spazzino, ecc. Come in Europa, il nome degli attori non era noto. Ma una delle attrici della Vitagraph, che dall’età di quattro anni faceva delle tournées teatrali, aveva acquisito grande popolarità con il nome di Vitagraph Girl. Anche lei guadagnava quindici dollari alla settimana. Griffith gliene fece offrire venticinque. Lei accettò e da allora divenne la Biograph Girl. Si chiamava Florence Lawrence. Fu lei che, con il suo coraggio e il suo talento, permise agli attori di uscire dall’anonimato e ottenere un salario che consentisse loro di vivere. Così la settima arte cominciò negli Stati Uniti quella rapida ascesa che da allora non si è più interrotta. Le stelle che si accesero nel cielo del cinema muto furono sempre più numerose, e alcune di loro sono ancora celebri. Nel New Jersey, tra il 1908 e il 1909, i Thanhauser realizzarono alcuni cortometraggi utilizzando i racconti di Dickens come soggetto, ma ben presto cedettero l’attività6. Griffith produsse con Marion Leonard per la Biograph At the Crossroad of Life [1908]. Nel 1909, sotto la sua direzione, Florence Lawrence ottenne il ruolo principale in Resurrection, tratto da Tolstoj (un rullo). [Mary] Pickford, figlia d’arte, e probabilmente con lei tutta la famiglia, poiché sua madre amava sfruttare le occasioni, fece il suo esordio cinematografico in The Violin Maker of Cremona [1909], e lavorò poi al fianco di Billy Quirk (che in seguito entrò a far parte della nostra compagnia) in una serie di commedie che ottennero un discreto successo. La Biograph aveva grandi ambizioni e si assicurò la collaborazione di diver-
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si artisti che divennero celebri approfittando della lezione di Griffith, come Alice Joyce, Maurice Costello, Mabel Normand, ecc.7 Lo studio Gaumont non era in funzione tutti i giorni. La tentazione era troppo forte, così decisi di prenderlo in affitto e di provare a girarvi qualche film8. Avevo assunto, come assistente, un vecchio ufficiale, Melville9, che, come molti americani, aveva fatto un po’ di tutto. La mia conoscenza ancora imperfetta dell’inglese ne fece un assistente prezioso. Ormai si era creata un’organizzazione che raggruppava le case di produzione esistenti, la Essanay, la Vitagraph, la Biograph, in un unico catalogo che veniva distribuito agli esercenti delle sale, già numerose nel paese10. Per farne parte, cosa indispensabile, bisognava versare una somma abbastanza consistente. Lo facemmo, e la nostra compagnia, la Solax, finì in tal modo per legarsi a questo gruppo. Debuttammo con una serie di film di cow-boys (genere W. S. Hart), con tutto ciò che questo comporta e che avete visto mille volte. Questi rustici personaggi, buoni e e onesti, che coi loro cavallini testardi misero più di una volta a dura prova il mio modesto talento di cavallerizza, mi erano simpatici. Mi insegnarono perfino a lanciare il lazo. Insieme a loro riuscimmo a fare un buon lavoro e presto la nostra ditta fu conosciuta e apprezzata. Fu poi la volta dei film militari. A Washington il 15° artiglieria ci ricevette con molti riguardi. Raffinata colazione alla mensa militare, partita di polo organizzata in nostro onore, carica di cavalleria che ci investì tanto che credetti fosse arrivata la mia ultima ora: anche se non fui nemmeno sfiorata, le gambe mi tremarono per qualche minuto. Grazie a tutte queste collaborazioni, riuscimmo a realizzare dei film interessanti: reminiscenze delle guerre americane di liberazione e della guerra di Secessione. Anche la Marina ci accolse benissimo. Il comandante di un dreadnought (grande nave da guerra americana) mi fece gli onori della sua corazzata. Insieme a lui passai in rivista gli uomini schierati sul ponte. Quegli uomini apparvero poi nel film e ne furono incantati come dei bambini. La nostra compagnia prosperava, produceva profitti apprezzabili, e poiché lo studio Gaumont cominciava a rivelarsi insufficiente, decidemmo di costruire un nostro studio a Fort Lee, nel New Jersey11, che era allora la città del cinema.
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Dal momento che mio marito era legato dal suo contratto con Gaumont, per molto tempo dovetti pensare io stessa a far funzionare lo studio. Ma avevo già dei buoni collaboratori: Melville, che ho già menzionato, e Bauries [Joseph Borries], un francese di Terranova che mi fu, letteralmente, devoto fino alla morte. Un ingegnere elettrotecnico, Max Meyer (il cui nome è ingiustamente dimenticato, dal momento che fu la vittima volontaria dei primi esperimenti coi raggi Roentgen), dotò lo studio di un’installazione unica per l’epoca: plafoniera completamente mobile, autentica sorgente di luce, spot light, ecc. Le nostre apparecchiature per le riprese, le proiezioni, la stampa e la perforazione, erano delle Bell Howell, marchio la cui reputazione è ben nota. E il nostro fornitore di pellicola, Kodak, era arrivato a un grado di perfezione ineguagliato. Non avemmo difficoltà a trovare dei costruttori, degli elettricisti specializzati, dal momento che gli studi americani, da questo punto di vista, erano già meglio attrezzati dei nostri. Tuttavia non finivo di stupirmi per l’ignoranza di certi procedimenti. La prima volta che chiesi al mio cameraman di ottenere determinati effetti (nel caso particolare un uomo che cammina sull’acqua), mi rispose che era impossibile. Dovetti insistere e guidarlo passo passo per ottenere un risultato che lo riempì d’ammirazione e mi valse il suo rispetto. Un film, in cui avevo utilizzato un sistema di mascherini che permettevano di impressionare sulla stessa immagine due riprese diverse e di ottenere un effetto di sdoppiamento, suscitò tanta meraviglia che gli operatori mi pregarono di spiegare il procedimento che mi aveva permesso di ottenere quel risultato. La cura che mettevo nella scelta dell’angolo di ripresa per fotografare un bel paesaggio, con un bell’effetto di luce, un controluce, fu notata e mi valse eccellenti critiche. Gli americani, in seguito, grazie al loro odio per la routine, all’amore per il rischio, ai capitali facili e a diverse altre loro qualità, si rimisero in pari abbastanza presto, e poiché la prima guerra mondiale paralizzava l’industria europea, presero su di noi un vantaggio che in seguito non hanno più perso. Per fortuna, i brevetti Lumière, Demenÿ, Gaumont e altri erano difesi da bravi avvocati. Case come la Lubin di Filadelfia non si facevano scrupolo di stampare controtipi dei nostri film, peraltro con pessimi risultati12.
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Incontrai [Siegmund] Lubin e gli domandai se voleva continuare con quei suoi bassi traffici. “Non ne vale più la pena” mi rispose semplicemente. L’America, tuttavia, a quell’epoca si riconosceva tributaria dell’ Europa. Spesso, nelle grandi città, venivano organizzate esposizioni chiamate pageants in cui belle ragazze (ce ne sono a legioni, negli Stati Uniti) presentavano artisticamente i prodotti stranieri: bei velluti di Genova, gioielli, quadri, argenterie, ecc. Un gruppo importante di nuove società era stato costituito sia a New York sia nel New Jersey. Gli artisti teatrali accettavano sempre più volentieri di tentare la fortuna nella nuova arte. Si formarono dei club, si organizzarono feste, fra le quali un gran ballo annuale al Waldorf Astoria. Era l’epoca dei melodrammi. I film raggiungevano già la lunghezza di 1000 metri per ciascuno dei tre o sei rulli di cui si componevano; il pubblico richiedeva un punch, la famosa suspense di oggi (ricordate Pearl White?). Eugène Sue mi fu allora di grande aiuto13. The Shadow of the Moulin Rouge, A Terrible Night, The Rogues of Paris [tutti distribuiti nel 1913] e molti altri rientravano in questo stesso genere. Rapimento di ricche ereditiere (sempre giovani e belle), inseguimento da parte dell’innamorato o del detective, trappola: battello truccato, segrete inondate, sabbie mobili, ecc. Tutto era ammesso, purché ci fosse un lieto fine... L’arte e la realtà non ci guadagnavano certo, e non sempre i critici erano tenerissimi. Ahimé! “Quelli che danno consigli non sono gli stessi che pagano”. Il mio miglior critico era il pubblico, al quale mi mescolavo in incognito per ascoltarne i giudizi imparziali e a volte ingannevoli, poiché lo stesso film, accolto freddamente nella 45a Strada, scatenava l’entusiasmo nella 125a e viceversa. Questo genere di film mi mise in rapporto con i daredevils (i cascatori) la cui specialità era quella di sostituire le star nelle situazioni pericolose. Certe volte erano loro stessi che si proponevano per saltare da un ponte su un treno in corsa, lasciarsi legare sui binari, affrontare belve feroci, attraversare un incendio, ecc. Non sempre gli uomini avevano il monopolio del coraggio. Uno di loro si era proposto per un salto di venti metri a cavallo in un fiume gelato, con
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una donna sulla sella. Nel momento critico chiese un secchio di whisky per trovare il coraggio di spronare il cavallo a saltare. Bevve il whisky ma fu la donna a dare eroicamente il colpo di sperone decisivo. Spesso dei giornalisti assistevano alle riprese. Quale non fu il mio stupore nel constatare l’interesse che il pubblico e la stampa avevano per la mia modesta persona. Raramente passava una settimana senza che fossi intervistata. Se non mi era possibile ricevere il giornalista, l’articolo veniva scritto ugualmente, e allora scoprivo dei dettagli assolutamente insospettati sui miei inizi, sulla mia famiglia, sui miei antenati. Dopo la messa al bando che la gente di cinema aveva subito in Francia, nell’epoca cosiddetta eroica, avevo il diritto di essere sorpresa. È vero che passavo per essere un fenomeno, visto che per diciassette anni ero stata la sola donna regista al mondo. A volte lo studio si presentava come un serraglio, dal momento che gli animali feroci ci fornivano eccellenti soggetti. Il domatore [Paul] Bourgeois un giorno mi portò una magnifica tigre14, che pesava seicento libbre. Il domatore mi assicurò che era la dolcezza fatta persona e mi pregò di accarezzarla attraverso le sbarre per incoraggiare gli artisti. Confesso che non ero del tutto convinta, ma un regista non può essere un gattino spaurito, così mi decisi e Princesse gradì moltissimo le mie carezze, facendo le fusa e strusciandosi contro le sbarre come un gattone. Vinnie Burns, una giovane attrice di diciotto anni, che io avevo formato, fu la prima a entrare nella gabbia. Tuttavia un giorno Princesse mi fece provare una terribile emozione. Non lontano dal nostro studio si trovava una vecchia cava di pietra. Decidemmo di girare una scena in esterni con Princesse. Fortunatamente avevo piazzato sul muro degli uomini armati di tridente, benché Bourgeois mi avesse assicurato che l’animale non sarebbe scappato. Appena aperta la gabbia, Princesse raggiunse in due salti la cima del muro e sembrava che volesse entrare nel bosco. Ora, ad appena cinquecento metri, si trovavano i cancelli di un convento (quello dove mia figlia andava a scuola). Immaginavo il terrore dei bambini di fronte a quella belva. La sola emozione avrebbe potuto essere fatale a chi soffriva di cuore. Anch’io presi una picca e alla fine Princesse tornò da dove era partita, e la rinchiudemmo con un gran sospiro di sollievo.
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Malgrado questa esperienza, un giorno la portammo in auto fino al parco del Bronx, lo zoo di New York, i cui guardiani mi dissero che il nostro non era affatto un caso raro. Ma Princesse era... anormale. Fu uccisa qualche mese dopo da una tigre maschio a cui aveva rifiutato i suoi favori. I leoni, le pantere, si mostrarono meno dolci e ci procurarono non poche emozioni. In una scena indù che rappresentava un tempio dei serpenti, dovetti di nuovo dare l’esempio, e, malgrado la mia repulsione, fui costretta ad arrotolarmi attorno al collo un serpente, del resto totalmente inoffensivo, perché il gran sacerdote aveva accettato di farlo solo a questa condizione. Due giorni dopo tutto lo studio faceva altrettanto. The Pit and the Pendulum [1913] da Edgar Allan Poe fu una dura prova per Darwin Karr, il mio primo attor giovane. Avevamo immaginato di affidare il compito di liberarlo dalle corde – mentre sul cavalletto della tortura aspettava il colpo fatale – a dei topi di fogna. Le corde erano state abbondantemente spalmate di alimenti che avrebbero dovuto attirarli. I topi svolsero il loro compito a meraviglia, anche se alcuni di loro, preferendo evidentemente la carne fresca, andarono ad annusare il naso dell’artista e altri si insinuarono perfino nelle gambe dei pantaloni. Quando finalmente i legacci cedettero, Karr balzò in piedi e giurò che non l’avrebbe fatto mai più. Affrontammo difficoltà inaudite per impedire che i topi invadessero lo studio. Avevamo circondato la scena con piastre di metallo che, lisce com’erano, impedivano agli animali di uscire. Bisognava distruggerli sul posto. Inizialmente gettammo in mezzo ai topi un enorme gatto che, terrorizzato, superò la barriera con un gran salto. Poi fu la volta del mio bull, ottimo cacciatore di topi: la sventurata bestia fu subito immobilizzata da una ventina di topi che gli si attaccarono addosso dappertutto, e toccò a noi salvarlo da quella misera situazione. Alla fine tutto il personale si armò di manganelli e di randelli e finimmo, non senza fatica, per avere ragione di quelle bestie. Il film ebbe un enorme successo. Assistetti in incognito alla proiezione e trassi il più grande piacere nel percepire i brividi e i sospiri d’angoscia del pubblico. Contrariamente a quello che si pensa, le riprese presentano spesso dei pericoli reali. Non sono rari gli incidenti mortali. Fortunatamente a noi non
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accadde mai nulla di grave, perché abbiamo sempre creduto che nemmeno il film più bello possa valere la vita di un uomo. Mio marito non disdegnava di prendersi dei rischi personali. Nel mio film Dick Whittington and His Cat [1913], per mettere in scena il naufragio di una nave corsara, avevamo trasformato un grande veliero in disuso in una magnifica caravella. La polvere e il cordone Bickford necessari a provocare l’esplosione erano pronti, e mio marito, pensando che le donne mancassero di sangue freddo, insisté per occuparsi di persona dell’esplosione. Ma poiché il vento per tre volte aveva spento la miccia, perse la pazienza e gettò direttamente il fiammifero sulla polvere. La deflagrazione fu terrificante. Io ero sulla riva opposta con il cameraman e alcuni giornalisti, che trovavano divertente la mia inquietudine. Finalmente lo vidi tornare a riva nella barchetta sulla quale era fortunatamente ricaduto. Malgrado tutto preoccupata, pregai il mio assistente di andare a vedere. Mio marito si era rifugiato in un bar dove aveva perso conoscenza a causa delle gravi bruciature al viso e alle mani. Ci mise delle settimane a venirne fuori. Il film presentava molti effetti inediti che ottennero un grande successo. Non bisogna credere che trascurassimo il lato artistico delle riprese. Gli Stati Uniti offrono luoghi di una bellezza incomparabile: cascate imponenti, foreste di alberi giganti, flora e fauna magnifiche. Cercavamo di sfruttare questi elementi nel miglior modo possibile: l’ora più favorevole per la luce, il sole al tramonto che allunga le ombre, un riflesso su uno stagno appena increspato, il vento che fa ondeggiare un campo di grano. Tutto era studiato e messo a frutto. Si comincia ora a rendersi conto come il sonoro, arrestando lo sviluppo così incoraggiante, promettente, del cinema muto, abbia privato il cinema di molta poesia. Come dice Gilbert Cohen-Séat nei suo saggio sui principi di una filosofia del cinema: “La natura svolge un ruolo più importante dell’uomo. A teatro il dramma si limitava al mondo degli uomini. Con il cinema è la vita cosmica che si offre come spettacolo, e trasmette all’anima un fremito immenso”.15 Ora, il cinema sonoro di oggi, lo sapete bene, non è altro che teatro filmato. Ecco un aneddoto che illustra bene l’interesse del pubblico americano per
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le donne che fanno carriera e per le difficoltà che si incontrano nell’accontentare “tutti e il proprio padre”. Spesso io e mio marito passavamo le nostre serate a preparare le sceneggiature che mettevamo in scena a turno. Ci completavamo bene. Io ero forse più fantasiosa, ma lui aveva uno spirito più critico, più realista. Avevamo scelto come tema per uno dei nostri film (House of Cards) le possibilità di intesa e di felicità di una coppia in cui entrambi i coniugi facessero lo stesso lavoro, soggetto che conoscevamo bene. “Il tema è buono”, mi disse Herbert, “ma trattato troppo seriamente. Non ci rivolgiamo solo a un pubblico di intellettuali ma anche ai contadini, ai minatori, ai cow-boy. Bisogna renderlo più leggero con qualche scena emozionante”. Dal punto di vista commerciale l’osservazione era giusta. A quell’epoca il pubblico si interessava molto alla questione del lavoro minorile nelle fabbriche. I bambini potevano cominciare ad appena otto o dieci anni. Fu questo il soggetto che scelsi. Riccioli d’oro, la figlioletta della coppia, faceva conoscenza attraverso il cancello del parco con un piccolo Piccaninny (un negro) e si confidava con lui. Lui nutriva per lei un affetto profondo e giurava di liberarla. Il ragazzino faceva del suo meglio, ed era tutta una serie di rapimenti, di notti passate in case in costruzione, di rubacchiamenti dagli scaffali dei droghieri, e, per finire, eccoli impiegati in una fabbrica, nella quale i genitori e la polizia, dopo giorni d’angoscia, li ritrovano. Frattanto i professori della Columbia University mi fecero il grande onore di chiedermi di tenere una conferenza sul cinema per i loro allievi. Rifiutai, perché il mio inglese era imperfetto e poi non ero una conferenziera. Ma mio marito, essendo inglese, parlava benissimo la lingua, conosceva la materia quanto me, e sarebbe stato felice di accontentarli. “No, per favore, vogliamo voi”. “Perché?” “Perché siete una donna”. Finii per cedere, con un’apprensione ben comprensibile. Al mio arrivo mi trovai in un’aula piena di studenti e studentesse, qualcuno seduto per terra. Montai su una specie di pedana che avevano preparato apposta per me. Ci misi qualche secondo per ritrovare la voce. Alla fine mi armai di coraggio, decisi di scegliere un viso simpatico e di rivolgermi a lui. Gli rac-
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contai, come meglio potevo, gli inizi difficili, la nostra gioia a ogni scoperta, la speranza che riponevamo nelle giovani generazioni, ciò che avrebbero potuto trarre di positivo dalle nostre scoperte. Li invitai a venire a vedere lo studio. Insomma, tutto andò per il meglio. Mi si chiese di fissare una data per un altro incontro, accompagnato questa volta dalla proiezione di uno dei miei film, da tenere nella grande sala delle conferenze che conteneva 3000 persone... Per fortuna il tempo fu pessimo e il pubblico poco numeroso. Per accompagnare il mio discorso scelsi il film di cui ho appena parlato. Terminata la conferenza, tutti mi circondarono, mi fecero i più vivi complimenti, ma diversi professori mi chiesero perché, visto che il soggetto era così interessante, avevo giudicato necessario renderlo più fiacco con l’inserimento di episodi infantili. Here you are! Ero rimasta in eccellenti rapporti con i professori dell’Università e la figura del Pentagono mi aveva dato l’idea di creare una piccola università cinematografica che avrebbe avuto la stessa forma e in cui ogni spicchio sarebbe stato riservato a una diversa materia. L’idea era parsa interessante ai professori, e se il mio soggiorno negli Stati Uniti si fosse prolungato, avremmo certamente tentato l’esperimento, dal momento che la Columbia University pareva disposta a sostenerne le spese. Sfortunatamente, come molti altri progetti, anche questo morì sul nascere. Il mestiere di cineasta non è sempre allegro. Lo scrupolo della verità fa sì che ci si debba documentare su fonti spesso tragiche. Per mettere in scena una fumeria d’oppio, per esempio, visitai il quartiere cinese accompagnata da due detective; l’accesso non era consentito ovunque. Non era bello, vi assicuro. In cuccette sovrapposte, dei poveri esseri esangui, uomini e donne, aspettavano ansiosamente la pipa che un boy cinese preparava per loro. Ho visitato di nuovo il quartiere cinese quando, una volta presa familiarità con il modo di vita americano, capii che potevo andarci senza troppi pericoli. Negli Stati Uniti i cinesi erano più apprezzati dei giapponesi. Parecchi di loro erano alti, belli, e molto cortesi. I loro negozi rigurgitavano di belle cose: le porcellane cinesi sono quotate, i vasi cloisonnés, le giade, i ventagli, i kimono, e mille altre cose preziose, solleticavano il desiderio dei visitatori. I cinesi erano particolarmente riconoscenti. Ho assistito a una festa che
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avevano organizzato per un’istitutrice che si era molto adoperata per insegnare l’inglese ai bambini e familiarizzarli con la vita americana. Avevano trovato mille oggettini deliziosi e scelto i piatti che potevano piacerle. Solo il loro teatro meriterebbe un racconto dettagliato. Gli stranieri erano accettati ma venivano collocati in una tribunetta completamente separata dal resto del pubblico. Nessun ruolo femminile, oppure personaggi di donne interpretati da uomini travestiti, che parlavano con voci acute. Niente scene. L’azione si svolgeva in una foresta? Si portavano in scena alcuni rami piantati in una botte. Il pubblico sembrava o pazzamente divertito o terribilmente emozionato. Ho rivisto un teatro cinese a San Francisco. Era stato americanizzato e aveva perduto molto del suo interesse. Tutti i mesi i trovatelli venivano riuniti per essere presentati alle coppie che desideravano adottarne uno o due. Lo Stato aveva esaminato ogni caso con cura, verificando la qualità morale dei richiedenti, le loro risorse, la loro salute. Del resto fino ai diciotto anni il minore restava sotto il controllo dell’assistenza. Per quella circostanza i ragazzi venivano vestiti bene e pettinati. Alcuni erano allegri, altri, i più grandi, quelli che non avevano ancora trovato una famiglia adottiva, più sospettosi e inquieti. Visitai uno di questi asili con Olga Petrova, una delle mie attrici più belle, che sosteneva di non poter soffrire i bambini. Tutto quel piccolo mondo che tanto desiderava essere adottato e uscire da quel luogo, accorreva da lei e le si attaccava, osservava la sua pelliccia, i suoi gioielli, le accarezzava le mani. A un tratto la mia accompagnatrice scomparve. Al momento di lasciare l’asilo, la cercai e la trovai in singhiozzi in fondo a un corridoio. Ce ne andammo senza scambiare una parola. Poi fu la volta dell’ospizio degli incurabili. Qui la società americana faceva del suo meglio per alleviare la sofferenza. Giochi, libri, e i fonografi di allora erano a disposizione dei bambini che erano in grado di servirsene. Numerose infermiere passavano in silenzio, sempre pronte a consolare, a dare sollievo. C’erano soprattutto bambini colpiti dalla poliomielite. Le infermiere, con una devozione esemplare, passavano ore intere a far fare degli esercizi che, speravano, avrebbero reso elastiche quelle povere membra atrofizzate. Nessuno di quei bambini sembrava veramente infelice.
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Su una delle isole dell’East River, andai a visitare i matti. Incontrammo alcune donne che passeggiavano, un triste spettacolo, poco edificante. Una delle sorveglianti insisté per farmi conoscere la sua favorita. Isolata, continuamente in lacrime, capelli magnifici sparsi sulle spalle, ricamava dei graziosi centrini. Ne comprai alcuni, augurandomi di tutto cuore che potesse guarire. La visita nel reparto uomini fu breve. Vedendomi, uno di loro si liberò dei suoi sorveglianti e si precipitò ai miei piedi, prendendomi per la Vergine Maria. Lusingata ma piuttosto impaurita, fui salvata bruscamente dai due sorveglianti che portarono via di forza il povero diavolo. Mi assicurarono che nell’istituto non esisteva alcuna cella con i muri imbottiti. Forse quel vecchio ospizio è stato demolito da molto tempo. Ho assistito a una sessione del tribunale di Mezzanotte, da cui uscii in lacrime. Vi si giudicava una bambina di quattordici anni colta in flagrante delitto di adescamento sulla pubblica via. Alle domande del Presidente, lei rispondeva con voce stanca. “Non avete famiglia?” “No, signor Presidente”. “Amici?” “No, signor Presidente”. “Sono obbligato a mandarvi in casa di correzione. Siete malata e pericolosa. Cercate di guarire e di ravvedervi. Noi vi aiuteremo”. “Grazie, signor Presidente”. Una carceriera venne a prenderla. Lei la seguì docilmente. Qualcuno, al mio fianco, mormorò: “What about the men? ” Un’altra giovane donna cullava un bambino fra le braccia. Era colpita da una malattia venerea acuta. Fu condannata a sei mesi di detenzione, ma quando le portarono via il bambino dalle braccia lanciò delle grida strazianti: “Lasciatemi il mio bambino, vi prego, lasciatemi il bambino!” Dalle Tombs, il servizio antropometrico, ebbi occasione di accompagnare un povero idiota che, una domenica – circostanza aggravante – aveva cercato, pare, di baciare una donna senza il suo consenso. Passò per tutti i servizi antropometrici, fino all’incarcerazione a Sing Sing, sinistra prigione dalle mura fradice.
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Qui incontrai in un corridoio una cinquantina di prigionieri che stavano andando al refettorio sorvegliati da guardie armate. Rasati, col tipico vestito a righe dei forzati, portavano la loro pagnotta sotto il braccio. Mi squadrarono torvi. Mi fecero poi visitare le celle dei condannati a morte. Questi erano una quindicina, rinchiusi in strette celle con le sbarre, nascosti e al buio. Infine vidi la famosa sedia elettrica. Il direttore spinse la sua cortesia fino a invitarmi a sedermici sopra, cosa che feci. Mi misero le manette e il direttore disse: “Adesso non resta che stabilire il contatto”. Domandai se la morte fosse istantanea: “Circa undici secondi, rispose, alcuni resistono più a lungo”. Mi invitò addirittura ad assistere a una esecuzione che doveva aver luogo il giorno successivo. Rifiutai. Ho conservato una fotografia che non guardo mai senza un brivido. Mio marito, il cui contratto con Gaumont era scaduto, aveva assunto la presidenza della Solax16. Gli avevo lasciato volentieri le redini della ditta. Non assistevo a nessuna delle riunioni di consiglio in cui la Sales Co.17 decideva i programmi. Herbert diceva che avrei disturbato gli uomini che desideravano fumare i loro sigari in pace e sputare a piacere discutendo d’affari. Herbert Blaché aveva diretto, nel piccolo studio Gaumont, una cantante, Lois Weber, che registrò alcune canzoni per il cronofono. Mi aveva visto dirigere i primi cortometraggi e pensò senza dubbio che non era difficile. Riuscì a ottenere una regia, e certi americani hanno sostenuto che sia siata lei la prima donna regista18. Il mio primo film, di cui parlo nella prima parte di queste memorie, data al 1896. In inverno la baia di Fort Lee sembra un paesaggio polare. Un impostore, di cui non ricordo il nome, pretendendo di avere scoperto il polo Nord, chiese l’autorizzazione di ricostruire il suo rifugio, di portare le sue slitte e i suoi cani e di filmare la sua avventura19. Qualche settimana dopo arrivò Peary a smascherarlo. A New York esistevano due club per soli uomini. Solo una volta l’anno accoglievano anche le signore. Io fui invitata agli Elks, se ricordo bene. C’era sempre un’attrazione, e quella volta l’attrazione era rappresentata da un giovanotto bruno, dal tipo latino pronunciato, magro, distinto, estremamente timido: Charlie Chaplin, la cui gloria dura ancora. Certo, l’avevo
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già visto nelle comiche Keystone e di Mack Sennett, in cui il suo compito principale consisteva nel tirare o nel prendere torte in faccia, e confesso che non ne ero stata particolarmente colpita. In seguito, durante il mio ultimo stage in California, imparai a conoscerlo meglio. Andai a trovarlo per proporgli Le chapeau de paille d’Italie20, che avevo fatto del mio meglio per americanizzare. Lui stava lavorando al suo film con Jackie Coogan, The Kid [1921]. “No”, mi rispose. “Voglio fare film sentimentali. E poi non lavoro mai su una sceneggiatura. Prendo un oggetto qualunque e mi chiedo: che cosa potrei inventare con questo?” Il suo ufficio era buio, i muri dipinti di un color sangue rappreso. Me li indicò con un gesto circolare. “Ecco”, disse, “la tana di un artista comico.” A poco a poco le sale di quartiere venivano abbandonate e si aprivano magnifiche sale a Broadway. Anche [William] Fox aveva un cinema sulla Grande Strada. Chaplin mi invitò ad assistere alla proiezione di uno dei miei film. Ebbi così, per la prima volta, la sorpresa di vedermi presentata al pubblico. Le luci della sala si spensero, quella del proiettore inondò il mio palco. Lo speaker mi presentò come l’autrice del film che era appena stato proiettato. Dovetti alzarmi e dire qualche parola di ringraziamento. Fu il mio primo contatto diretto con il pubblico. Furono molti gli artisti di successo che fecero parte della nostra Stock Cie e recitarono nei nostri film, per esempio Flora Finch, un’eccellente attrice inglese, che ebbe un ruolo di primo piano in Spring of Life21 (con Bessie Love, Carlyle Blackwell, Wallace Reid, Allan Dwan), o Warren Kerrigan. Nel 1912, Sarah Bernhardt, già malata, e credo già amputata, venne a New York e recitò Madame X22, se ho buona memoria, con un attor giovane che somigliava un po’ a John Barrymore, ma che era uno strazio. Anche Réjane affrontò il pubblico americano in Madame sans Gêne23. Credo che sia stato Zukor24, un emigrato ungherese, il primo ad aver l’idea di fare interpretare testi di grande successo a star di prima grandezza. Nel 1913 l’Italia cominciava a stupire il pubblico con le sue scenografie naturali. Quo vadis [1913] è ancora nella memoria di tutti. Fu a quell’epoca, penso, che Griffith abbandonò la Biograph per prendere la direzione della
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Famous Players25 dove diresse James O’Neill e Mary Pickford, che, dopo una breve parentesi teatrale, ritornava al cinema. Ho parlato del ballo annuale del Waldorf Astoria. Al primo piano si aprivano dei palchi che davano sulla grande sala da ballo. Ognuno portava il nome di una società: Vitagraph, Biograph, Essanay, Fox, Solax, ecc. I dirigenti vi prendevano posto. La grande porta in fondo si apriva e, quattro alla volta, sotto luci studiate apposta per mettere in risalto le loro splendide toilette, star, starlette, eroi ed eroine dell’epoca entravano accompagnati dall’orchestra, venivano a salutare, si mettevano in coppia e il ballo cominciava. Nei corridoi, dietro i palchi, venivano sistemate tavole piene di bicchieri di champagne e di biscotti a disposizione dei ballerini. Fu in questa occasione che feci la conoscenza di un ottimo attore, John Bunny26, che si era già fatto notare in un film tratto da un racconto di Dickens, The Pickwick Papers [1913]. Soffriva di una strana malattia che lo aiutava parecchio, credo, nei ruoli comici: era coperto di enormi verruche... Si era già bevuto parecchio champagne. Avevo voglia di muovermi un po’ e scesi nella sala da ballo. Qui fui attratta da un gruppo di persone che ridevano a crepapelle. Mi avvicinai e fui spinta nel cerchio che si era formato intorno a Bunny. Il povero Bunny cercava di resistere con tutte le sue forze ad alcune giovani donne eccitate che volevano spogliarlo a ogni costo per vedere se aveva le verruche anche in altre parti del corpo. Non so se Bunny riuscì a resistere. Un amico che mi aveva vista in difficoltà mi invitò a ballare e mi aiutò a uscire dall’assembramento. Non mi facevo mancare i giornali francesi, che trasmettevano una inquietudine crescente, una minaccia di guerra, che tuttavia io non immaginavo certo così vicina. Mi sembrava impossibile, lontana. Eppure il disprezzo e l’insolenza dei pochi prussiani che conoscevo avrebbero dovuto aprirmi gli occhi. Quando ci raggiunse la notizia dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando ad opera di un serbo, con tutto quel che seguiva, rimanemmo sbigottiti. Il povero Belgio, anche se neutrale, fu invaso dai tedeschi, poi fu la volta del nord della Francia e della Polonia.
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Io sono molto sciovinista, lo confesso, e ogni brutta notizia mi gettava in uno stato di nervosa inquietudine. Ero stata sul punto di attaccar briga con un prussiano che, davanti alla sede del Times, urlava: “I francesi sono dei bevitori di assenzio e dei donnaioli, bisogna spazzarli via dalla faccia della terra!” Stavo per lanciarmi su di lui ma mio marito mi trattenne: “Non vorrai mica litigare con quel matto?”. Non ne ebbi l’occasione, poiché arrivò un gruppo di americani che gettarono a terra l’oratore e gli impartirono una solenne lezione, mentre mio marito mi spingeva dentro l’automobile. I miei due bambini27 erano appena stati colpiti da un grave morbillo. Herbert ci portò nel nord della Carolina, a Waverville, ad aspettare la fine delle ostilità. Fu un periodo agrodolce. Immediatamente venne a trovarmi un comitato franco-americano e mi invitò a prendere parte alle sue attività. Io accettai molto volentieri. Si trattava di arrotolare bende per gli ospedali della Croce Rossa, di fabbricare candele con carta arrotolata e sego per illuminare le trincee, cose così... C’era gente che andava in giro a tenere comizi per incoraggiare gli arruolamenti. Uno di questi conferenzieri ambulanti, vedendomi in prima fila e riconoscendo la mia nazionalità, prese mio figlio in braccio e lo mostrò agli ascoltatori, dicendo: “È per questi bambini che combatteremo”. Subito dopo fece partire una colletta in cui non mancarono biglietti di grosso taglio. Lo vedo ancora, un vecchio contadino (un vero yankee, con la barbetta), dire: “I have not much (non ho molto), ma prendete il mio raccolto di patate, vendetelo e mandate i soldi laggiù”. Poiché non volevo che l’istruzione dei miei figli subisse un’interruzione completa, mi fu indicata un’istitutrice volontaria. Era la vedova di un pastore. Per portare la buona parola erano venuti insieme a piedi dalla California, con un asino su cui viaggiavano la loro bimbetta e i bagagli. Il pastore era morto di fatica. La donna si affezionò ai miei bambini, e un giorno ci portò in gita a una fattoria chiamata ‘fattoria delle fragole’, ai piedi del Monte Doro, una fattoria così isolata, così arretrata che i contadini si facevano ancora le candele da soli. Ci alloggiarono in un vecchio chalet semidistrutto, avvertendoci: “Non andate a cercare della legna nella catasta, ieri ci abbiamo trovato sei
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serpenti a sonagli”. Gettarono qualche vecchio materasso e delle coperte nell’atrio. “Non abbiate paura, disse la padrona di casa, i serpenti non salgono gli scalini”. Tutto ciò sembra una favola, ma io vi garantisco che è l’esatta verità. Queste brave persone una mattina avevano trovato davanti alla porta un bel bebé, ben vestito. Lo avevano adottato, cresciuto e fatto di lui un bel cow-boy. Ce lo assegnarono come guida per la salita, molto dura; i miei figli stavano sul cavallo che lui conduceva tenendolo per le briglie. Lungo la salita ci mostrò dei ruscelli d’acqua limpida. Ci fece passare attraverso una miniera di rubini; il capocantiere ce ne offrì un esemplare, una pietra tonda che spezzò sotto gli occhi dei bambini stupiti e che si rivelò simile a una melagrana, piena di cristalli rossi che venivano ridotti in polvere per farne carta smeriglia, mentre i cristalli più belli venivano riservati alla gioielleria. Finalmente arrivammo in cima. Il nostro cow-boy ci condusse a una fresca fonte nascosta fra rami di rododendri e ortensie di tutti i colori, un vero Eden... Il mio bambino di quattro anni disse all’improvviso: “Mamy, il cow -boy non potrebbe venire con noi a New York per farmi da balia?” La frase provocò un forte imbarazzo alla nostra guida, ma anche lui si era ormai affezionato al bambino e, al momento dell’addio, si scambiarono un bacio molto amichevole. Potrei scrivere pagine e pagine su questo viaggio in Carolina. A Hot Spring c’era un campo di prigionia in cui erano stati rinchiusi certi tedeschi troppo attivi. Erano là, all’aria buona, ben trattati, grassi e arroganti come sempre. Ma non era possibile interrompere troppo a lungo le nostre attività, così mio marito mi richiamò e io tornai a occuparmi dello studio. Il ritorno non fu privo di avventure. Il nostro treno trasportava truppe americane che dovevano imbarcarsi a New York. A una cinquantina di chilometri da Washington, un treno merci che veniva in senso contrario deragliò e i suoi ultimi vagoni finirono sui binari dell’espresso. Erano circa le dieci o le undici di sera. Ci fu uno scontro violento e tutte le valigie caddero sul mio letto. I bambini si svegliarono terrorizzati. Indossai alla svelta una vestaglia e uscii sulla piattaforma.
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“Cos’è successo? chiesi a un impiegato che correva con una lanterna in mano”. “Niente, signora, rientrate nel vagone”. “Oh, scusate, qualcosa è successo, voglio saperlo”. Saltai sulla massicciata e quasi subito scorsi la locomotiva rovesciata di traverso sui binari, lo sventurato macchinista e il suo aiutante schiacciati dal peso. I soccorsi arrivarono rapidamente, ma i poveretti erano morti. Restammo dieci ore sui binari. I soldati si mostrarono pieni di attenzioni nei miei confronti e fecero del loro meglio per aiutarmi. Alla fine arrivò a prenderci un altro treno, che ci portò a Washington. Dopo alcune ore di riposo, riprendemmo il treno e arrivammo a New York, poi a Fort Lee, dove dovetti immediatamente riprendere in mano le mie attività. Quando i brevetti Lumière e Gaumont divennero di dominio pubblico l’industria si trasformò. La Sales Co. riunì i suoi partecipanti allo scopo di formare un trust, anche se ciò era contro la legge28. La nostra ditta era abbastanza importante perché il nuovo gruppo si offrisse di acquistarla a un buon prezzo, duecentomila dollari (pagabili in azioni), proponendoci un contratto di cinque anni in una delle loro compagnie con uno stipendio cumulativo di milleseicento dollari. Declinammo l’offerta indispettiti e impressionati dal modo di fare di questa gente (gettavano i registri della società dalla finestra e... parlava la pistola). Tuttavia un anno dopo, le azioni avevano quintuplicato il loro valore. Bisognava accettare di figurare nei loro programmi... o scomparire. La Solax si trasformò di nuovo e divenne, per più di diciotto mesi, con il nome di Popular Plays and Players29, il fornitore della Universal, della World, della Metro, della Pathé e altre ancora. Ci avevano chiamato giustamente succers, pesci che inghiottono non solo l’esca ma anche l’amo. Mio marito ci aveva associato senza contratto a un direttore teatrale, Weber30, il cui ruolo si limitava a procurarci le star, i libri, le pièces in voga, che bisognava adattare e pagare molto care. Un aneddoto farà capire meglio lo sforzo che richiedeva la natura di questo accordo. Avevo appena terminato la regia di The Tigress. Tutti gli attori del mio stock, cioè gli artisti regolarmente dipendenti della nostra compagnia, erano disoccupati.
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Dimenticavo di dire che monsieur H.31 si era riservato il diritto di firmare le sceneggiature scritte da me e che mi diceva, candidamente: “Non vi affaticate tanto a pensare, da dieci anni gli servo la stessa cosa, e nessuno se ne accorge.” Per tornare a noi, mi fecero avere, come soggetto, dieci righe esatte di una poesia di R. W. Service, My Madonna, da cui bisognava tirar fuori tremila piedi di pellicola. Io persi la pazienza e mi arrabbiai. “Andiamo, madame Blaché,” mi disse Weber, “ve la caverete benissimo. Qui c’è un ufficio libero; vi do una segretaria e da adesso a domattina avrete scritto un capolavoro...” Non avevo scelta. Immobilizzare lo studio e lo stock (grossa perdita) o inghiottire l’amaro boccone. Mi rassegnai. Fui letteralmente imprigionata. Devo dire che non mancavo né di birra né di sandwich, e che la segretaria era diligente. A mezzanotte avevo terminato la sceneggiatura. Non giurerei sul mio onore che le situazioni fossero nuove, che non plagiai nessuno. Monsieur H. non aveva completamente torto. La sceneggiatura fu giudicata eccellente, la stampa fu molto elogiativa e Olga Petrova ricevette una quantità di lettere come questa: “Olga Petrova, my Madonna, life is richer thanks to you. All should pay you royal homage, My Madonna, and they do”. (Olga Petrova, mia Madonna, la vita è più ricca grazie a te. Tutti dovrebbero renderti gli omaggi dovuti a una regina, e così fanno.) Olga Petrova32 era già conosciuta e amata dal pubblico, ma era difficile da dirigere. Un giorno volli farle girare una scena di gelosia: “No” mi disse “quando il giacinto è appassito, sono io che lo getto...” Tuttavia con lei feci diversi film di successo: The Tigress [1914]: sceneggiatura e regia di A. Guy Blaché, con Olga Petrova e Reginald Barker33; The Heart of a Painted Woman [1915], adattamento e regia di A. Guy Blaché, con Olga Petrova e Eugene O’Brian; The Vampire [1915], adattamento e regia di A. Guy Blaché, con Olga Petrova e Reginald Barker34; What Will People Say? [1916], adattamento e regia di A. Guy Blaché, con Olga Petrova e Fritz de Lint; My Madonna [1915], adattamento e regia di A. Guy Blaché, con Olga Petrova e Guy Coombs. Sempre con [Lawrence] Weber, alle stesse condizioni, realizzammo: The Girl with the Green Eyes [1916], con Florence Reed35; The Empress [1917], con Holbrook Blyn e Doris Kenyon; The Ocean Waif [1916], con
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Doris Kenyon e Carlyle Blackwell; House of Cards [1917], con Catherine Calvert e Frank Mills; Behind the Mask [1917], con Catherine Calvert e Fritz de Lint; Tarnished Reputations [1920], sceneggiatura e regia di A. Guy Blaché, con Dolores Cassinelli, Albert Roscoe, Lucia Moore e Georges Deneubourg (del Teatro Sarah Bernhardt); The Great Adventure [1920], regia di A. Guy Blaché, con Bessie Love e e Charles Barnett; The Adventurer [1917], adattamento e regia di A. Guy Blaché, con Marian Swayne e Pell Trenton. Catherine Calvert non faceva parte degli artisti che ci procurava Weber, ma ci era stata presentata dai banchieri Seligmann a cui, sventuratamente, avevamo dovuto ricorrere e che ci avevano comprato la metà delle nostre azioni più una, in modo da avere così la maggioranza. La Calvert era una loro protetta ed era difficile non impiegarla, anche se zoppicava vistosamente. Ecco due aneddoti che faranno apprezzare il modo in cui mi provò la sua riconoscenza. La moglie di un regista negli Stati Uniti deve dotarsi di una notevole corazza di indifferenza. Molte attrici sono disposte a tutto... Dunque, come dicevo poco fa, avevo assunto, benché fosse zoppa, una bella ragazza che mi era stata raccomandata dai nostri sponsor, i quali un giorno mi chiesero di portarla con noi non lontano da New York, dove Selznick36 dava una party per presentare una delle sorelle Talmadge che voleva lanciare. Per strada, Catherine Calvert disse all’improvviso a mio marito: “Monsieur Blaché, per un regista che facesse di me una star, non ci sarebbero limiti alla ricompensa”. “Bisognerebbe forse passare su qualche cadavere”, rispose Herbert. “Oh, questo non mi disturba!” Uno dei miei assistenti mi aveva avvisato del fatto che quella ragazza aveva mandato in pezzi più di un matrimonio. Arrivando, trovammo una superba tavola imbandita per il pranzo organizzato da Selznick. Selznick non era certo la personificazione della bellezza, proprio no... “Perché non propone l’affare a Selznick?” chiesi alla nostra compagna. “Che orrore!” rispose lei disgustata. E aggiunse, con gli occhi socchiusi: “Ma monsieur Blaché è così romantico!”
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Ebbi un’altra piccola avventura con la stessa persona. Io e mio marito eravamo andati in città per fare gli acquisti di Natale. “Ma guarda! Siamo nel quartiere dove abita Miss Calvert, avrei da discutere alcuni dettagli sul film che cominciamo domani” mi disse Herbert “Quasi quasi vado da lei, così ci portiamo avanti col lavoro”. “Eccellente idea, ti accompagno”. Herbert non disse niente, ma di pensieri doveva averne un sacco. In quelle residenze un po’ speciali del New Jersey, bisogna, prima di prendere l’ascensore, farsi annunciare dal portiere-guardiano dell’immobile, che telefona a chi di dovere per sapere se il visitatore può essere ammesso. Precedendo Herbert parlai per prima col portiere: “Annunciate monsieur Blaché”, gli dissi facendogli scivolare nella mano un biglietto di banca. Sembrò capire (la signorina Calvert era poco carina con i servitori). Rispose con una strizzata d’occhio ed eseguì. Quando l’ascensore si fermò al piano indicato, la porta si aprì appena e Miss Calvert apparve nel più seducente e rivelatore dei déshabillé. Aveva del fegato... Il sorriso di benvenuto fu appena meno caloroso. Ci ricevette entrambi molto cordialmente. Ho avuto molte noie negli Stati Uniti nel periodo in cui lavorai per una casa francese37. Quando Marcus Loew38 (credo) si decise a mettere in cantiere qualche superproduzione e mi mise in contatto con Bessie Love e sua madre per la realizzazione del film Spring of Life39, avvertii immediatamente una certa reticenza fra il personale. Mi fecero chiamare davanti agli autori o adattatori della sceneggiatura. “La sceneggiatura è già stata studiata, madame Blaché, non dovrete far altro che seguire alla lettera le nostre indicazioni”. “Bene”. “Le scene si svolgono in Florida. Dei grossi proprietari del Sud che coltivano agrumi e sono alla ricerca di un po’ di pubblicità, si metteranno a vostra disposizione per farvi visitare le Everglades. Lasciamo a voi la scelta dei paesaggi, ecc”. Ci mettemmo così in viaggio con Bessie Love, sua madre, Chester Barnett, il primo attor giovane, sua zia Miss Flora Finch, un’impagabile attrice in-
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glese. Le cose andarono a meraviglia. Bel tempo, paesaggi magnifici, gli indiani Seminoles, i coccodrilli, le foreste galleggianti sulla grande isola di corallo. Mi ricordavo delle raccomandazioni del comitato ed evitavo di allontanarmi troppo dal sentiero tracciato. Al ritorno, quando proiettammo le prime riprese, mi si rimproverò di mancare di fantasia. Ma il viaggio sarebbe bastato da solo a ricompensarmi delle mie pene. La maggior parte dei viaggiatori si ferma a Miami. Se discendessero fino a Key West, scoprirebbero le foreste di alberi morti, annegati nelle paludi, con i rami coperti dal muschio spagnolo, fiancheggiati da uno stretto sentiero incatramato. Una lunga scorza che pare caduta da questi tronchi imputriditi naviga in superficie. Guardatela con attenzione, vedrete due occhi che vi seguono sotto pesanti palpebre, delle fauci armate di denti a uncino che non lasciano mai la preda, una coda terribile che, con un sol colpo, potrebbe spezzarvi le gambe. Non esitate. Fuggite. Più lontano, se vi sorprende la notte, dei grossi ranocchi pustolosi vi salteranno alle ginocchia. Non sono pericolosi, ma che disgusto! Prima di giungere alla riva del mare, passerete sotto le palme da cocco. Vi auguro di non ricevere una noce sulla testa... Il greto è orlato di alberelli morti e le onde lasciano sulla sabbia archi di minuscoli pesci morti sui quali si gettano le albanelle, sorta di voraci uccelli da preda. È la baia del Messico. In Florida si trovano tutti i più grandi hotel in cui le più ricche famiglie di Washington, di New York e di altre grandi città passano l’inverno, dove le belle ragazze yankee fanno lo sci d’acqua. Da parte mia, mi accontentai di andare a vedere i fondali del golfo. Per farlo, bisognava mettersi d’accordo con un bagnino e affittare un’imbarcazione leggera, una specie di zattera composta da due lunghi galleggianti tenuti insieme da plance di legno. Seduti su una di queste panche, muniti di un secchiello il cui fondo era costituito da uno specchio a facce parallele, bisognava attraversare la barriera, arrivare nelle acque calme e posarci sopra il secchiello per vedere i fondali. Il golfo possiede i più bei giardini sottomarini che abbia mai visto: madrepore, pesci di tutte le dimensioni e di tutti i colori, stelle di mare, coralli, polipi, abaloni. Solo il tramonto potè ricondurmi a terra. Ho visto anche i giardini sottomarini della California. Non ne sono che una pallida copia. Sulla spiaggia, le mummies, antiche schiave, cucinavano pasti eccellenti:
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astici allo spiedo, polli alla moda del paese, che per noi erano una delizia. Là ho mangiato uova di tartaruga, un po’ grosse ma non sgradevoli, del mais grigliato nelle sue foglie, che viene chiamato gentleman farmer, e tante altre cose eccellenti. Prendemmo foto che farebbero conoscere meglio il tipo di indiani che incontrammo. I loro costumi variopinti, le loro case montate su palafitte, i piccoli coccodrilli che acquistammo da loro e che facevano parte dell’ultimo nido che avevano scoperto, contenente una settantina di piccoli... I proprietari delle fattorie di agrumi mi consigliarono insistentemente di comprare uno dei loro terreni, offrendosi di aiutarmi a coltivarlo per un periodo di tre anni. Qualche volta ho rimpianto di non aver accettato l’offerta. La parte ‘studio’ mi riservava parecchie delusioni. Durante la mia assenza un eccellente scenografo, che sostituiva per me Menessier, era stato liquidato perché considerato troppo esoso. Infine una mattina fui chiamata da Loew. Quando arrivai nel suo ufficio mi accolse piuttosto freddamente. “Venite”, mi disse precedendomi verso la sala di proiezione. Il proiettore era già pronto. Davanti ai miei occhi si sgranava un terrificante pezzo di film in cui alcuni esseri pallidi passavano davanti a un cielo livido. “Che cosa ne pensate?” mi chiese. “Orrendo”, risposi. “Allora perché l’avete fatto?...” “Ma non è il mio film”, dissi stupita. Credo che Loew abbia capito. Ma non è tutto. Con molta fatica avevo ottenuto che le ragazze delle Ziegfeld Follies recitassero una scena in cui Bessie doveva comparire in mezzo a loro, una domenica mattina. Si fissò la data e diedi l’ordine di predisporre per tempo la scena e i camerini. Quando alle otto arrivai tutto era pronto, ma nel bel mezzo della scena, proprio al centro dell’inquadratura, si elevava una monumentale colonna. Si dovette attendere che gli operai demolissero l’ostacolo. Mi controllai a stento, lo confesso. Alcuni giorni fui chiamata dal direttore di produzione: “La direzione trova che il film comincia a costare troppo. Desidera che lo studio sia liberato entro una settimana.”
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Mio marito stava dirigendo un film per lo stesso gruppo. Aveva visto i miei sforzi, le prime proiezioni, e mi incoraggiava moltissimo. Io non ero molto sicura di me, la commedia è molto più difficile del dramma. Eppure, qualche settimana dopo, il direttore degli stabilimenti Pathé (il cui nome mi sfugge) mi disse che il film aveva avuto successo. Bessie e sua madre erano contente e mi scrissero delle parole gentili, ma la Pathé abbandonò le superproduzioni e Mr. Wels scomparve. Ho girato anche The Lure [1914], celebre pièce della tournée Shubert40, con Lucia Moore, per la World. A proposito di questo film, voglio raccontarvi alcuni dei problemi che ebbi con la censura e con la casa distributrice. Le società si riservavano di accettare o rifiutare le produzioni di cui noi dovevamo assumere ogni rischio. Mr. Brady, il rappresentate della Shubert Features, mi domandò se avrei accettato di adattare e di dirigere The Lure, avvertendomi che diversi registi avevano rifiutato, in quanto il progetto sembrava troppo delicato. Si trattava della tratta delle bianche. Avevo assistito a una rappresentazione, e sia la pièce che gli artisti, fra cui Lucia Moore, mi piacevano. Avevo una certa conoscenza di questo soggetto molto popolare tra il pubblico, avendo incontrato un giovane avvocato che se ne era occupato da vicino e che mi aveva fornito dei dettagli curiosi sui maneggi dei cadetti (i gangsters). Così accettai, a condizione di avere gli attori che avevano recitato nella pièce teatrale. Stabilimmo che se il film fosse passato in censura, i costi delle riprese sarebbero stati divisi a metà, e così anche gli incassi. Terminato il film, fu dunque necessario sottoporlo al giudizio della censura. Il comitato, composto quel giorno da due anziane signorine e un ecclesiastico, lo rifiutò. Feci ricorso, sostenendo che per essere valida la una decisione doveva essere presa da un comitato di almeno nove persone. Nuova convocazione. Questa volta il comitato era al gran completo, c’erano da venti a venticinque persone. Il presidente mi pregò di difendere il mio film. Io risposi che non conoscevo le obiezioni della giuria. Il presidente domandò allora che qualcuno prendesse la parola. Una giovane donna si alzò: “Il soggetto è scabroso” disse “credo che solo una donna avrebbe potuto trattarlo con tanta delicatezza. Penso che madame Blaché se la sia cavata molto bene.” E il film passò all’unanimità.
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Ma le mie pene non erano finite. Bisognava ora farlo accettare alla società distributrice. Mi recai quindi a sottoporre il film a Mr. B. Durante la proiezione, il direttore fu chiamato venti volte al telefono (mentre una proiezione dovrebbe essere una cosa sacra). Si scusò e mi pregò di lasciargli il film, lo avrebbe visto con più tranquillità e mi avrebbe dato una risposta. Il giorno dopo fece chiamare mio marito: “Madame Blaché”, gli disse, “questa volta non è stata all’altezza della sua fama. Il film è mediocre. Ma lasciamo stare. Vi offro il rimborso delle spese più diecimila dollari (secondo i patti, i ricavi dovevano essere divisi a metà). A queste condizioni ci assumiamo i rischi del lancio.” Un marito dubita facilmente del talento della moglie. Monsieur Blaché accettò la proposta. Quando lo seppi fui presa da una rabbia furibonda. Avevo capito in quale vespaio era caduto. Due mesi dopo incontrai il personaggio in questione. “Ho una buona notizia per voi”, mi disse. “Mi stupirebbe”. “Giudicate voi: The Lure è uno dei nostri migliori money-getter, in due mesi ha fatto trecentomila dollari di entrate...” In questo mestiere bisogna saper incassare. Ma la lezione non fu vana e mi tornò utile quando diressi The Empress [1917], un film con Holbrook Blyn e Doris Kenyon che realizzai per la Pathé. La stessa compagnia aveva ingaggiato Holbrook Blyn (che era stato regista del Princess Theater ed era un attore rinomato) ma per vari motivi si trovava nell’impossibilità di servirsene e mi fece chiedere se non fossi disposta a farmi carico del contratto, e della sceneggiatura, alle solite condizioni. Tentata dalla fama dell’artista, accettai. La sceneggiatura si intitolava The Empress. La protagonista femminile era Doris Kenyon. Holbrook Blyn si dimostrò perfetto, disponibile a essere diretto come l’ultima delle comparse, e quando gli dicevo che, conoscendo il suo valore, avrei volentieri accettato i suoi suggerimenti, mi rispose: “La sceneggiatura non è granché. Mi stupisco di ciò che riuscite a ricavarne.” Accettò di rileggerla con me. Apportammo qualche cambiamento. In seguito divenne un buonissimo amico. Alla presentazione, volevano rifare il colpo di The Lure. Io, senza dire niente, mi ripresi il mio film e andai a proporlo direttamente alla Pathé, che
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l’accettò subito a un prezzo superiore a quello che mi aspettavo. Avevo il sorriso sulle labbra mentre annunciavo questa buona nuova al cinico ‘Monsieur’. Parecchie società erano emigrate in California, attirate dalla clientela e dalla bellezza dei luoghi. Gli abitanti erano diffidenti e su molte porte si poteva leggere questa scritta poco lusinghiera: “Né cani né cineasti”. Un gruppo di registi francesi era entrato nella World Film Corporation: Albert Capellani, Emile Chautard, Maurice Tourneur41, ecc. Questa compagnia non aveva disertato Fort Lee. Siccome avevo avuto l’occasione di fare qualche piccolo favore a Capellani e a Chautard, diventammo amici. Nel mio studio dirigevo, per la World, The Lure, di cui ho già raccontato la storia. Frattanto, Griffith, Thomas Ince e Mack Sennett si erano associati per dar vita alla Triangle Film Corporation. Griffith aveva lanciato Dorothy e Lillian Gish nel grande film che lo rese famoso, Birth of a Nation [1915]. Intolerance [1916], il film seguente, ebbe una stampa meno buona. Geraldine Farrar, cantante rinomata, interpretò i suoi primi film al fianco di Wallace Reid, che lavorò in parecchi nostri film. Fece anche il ruolo di Giovanna d’Arco in Joan the Woman [1917]. Pauline Frederick, che arrivò a essere famosa in tutto il mondo, ebbe diversi ruoli importanti con la Famous Players Pictures, come anche Mary Pickford. Sarebbe vano tentare di descrivere la situazione del cinema americano durante la guerra. Era un continuo intrecciarsi di compagnie che si associavano fra loro e si annettevano i nuovi arrivati, se questi avevano un qualche valore. Un emigrante ungherese, Adolphe Zukor, fu particolarmente attivo nella gestione del mercato. Aveva cominciato come spazzino in un negozio di pellicce, di cui più tardi divenne proprietario. Dotato di un’intelligenza non comune, capì immediatamente l’importanza del cinema. Divenne il tesoriere di Marcus Loew che controllava cinema e vaudevilles. Distribuì negli Stati Uniti alcune grandi produzioni straniere: i film di Sarah Bernhardt,
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Réjane, Lucien Muratore e di Lina Cavalieri, guadagnando al cinema degli attori già famosi sulla scena. Impossibile citare tutti quelli favoriti dalla fortuna... Fu a quest’epoca, mi pare, che Lewis J. Selznick divenne il padrone di Hollywood. La gloria di Charlie Chaplin continuava a crescere, e anche i suoi guadagni. Nel 1917 Zukor (ancora lui) firmava con Chaplin un contratto per otto film da due rulli per più di un milione di dollari42. Chaplin incontrò Edna Purviance di cui si innamorò e che sposò. Desiderava andare in California, come molti altri, attirato dalla luce e dal clima. È qui che l’ho incontrato ed è qui che realizzò i suoi film migliori tra cui The Gold Rush, pieno di trovate, come il valzer dei panini, i lacci delle scarpe mangiati golosamente, ecc., e Modern Times... Fra il 1914 e il 1917 si girarono ben pochi film di guerra. Gli americani, come ho detto, simpatizzavano molto, senza però mostrarlo, salvo forse Nazimova, che, sulla scena, recitava War Brides43. Tutto cambiò quando gli americani decisero di entrare in ballo. Le star più in vista fecero propaganda per l’arruolamento. Lo stesso Chaplin girò Shoulder Arms [1918]. Harold Lloyd, quel sorridente scavezzacollo, faceva un po’ di concorrenza a Douglas Fairbanks la cui storia con Mary Pickford cominciava a far parlare tutti gli studi. Francis Bushman, di cui non ho mai potuto capire il successo e che fu, a mio parere, il peggior Romeo [Romeo and Juliet, 1916], era all’apice della gloria. I Barrymore erano stupefacenti. Chi non ricorda John Barrymore in Doctor Jeckyll and Mr Hyde [1920], The Mad Genius [1931], Don Juan [1926]? E non ho mai dimenticato Lionel Barrymore in On Borrowed Time e tanti altri. Uno dei professori della Columbia University col quale avevo mantenuto un rapporto d’amicizia, mi consigliò di andare a trovare una docente di sociologia, Rose Pastor Stock, che riempiva la cronaca scandalistica. Perché? “Andate a trovarla, è una sostenitrice del birth control”. La professoressa Rose Pastor Stock abitava in un piccolissimo bungalow
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nel New England. Vestita di una salopette, in sandali e coi capelli al vento, lavorava nel giardino. “In effetti”, mi disse, “io incoraggio il controllo delle nascite. Mi sono fatta assumere in una fabbrica per stare insieme alle operaie. Ho sollecitato le loro confidenze. Avete visitato qualche catapecchia di Brooklyn, nella quale diverse famiglie vivono in una sola stanza? In cui la donna, sempre incinta, cade in depressione e va a cercare aiuto da una levatrice senza scrupoli che la lascia invalida per tutta la vita, se non addirittura moribonda? Quello che mi auguro è che, grazie a qualche precauzione, una giovane coppia che si ama non debba temere di unirsi, che possa aver figli quando lo desidera, e prendersi cura di loro ed educarli in modo sano. Ho ricevuto l’incoraggiamento anche di membri della Chiesa.” La professoressa Pastor Stock era la moglie del proprietario di uno dei più grandi hotel di New York. Frequentava poco il bel mondo ed era sempre pronta a soccorrere i casi più disgraziati. A casa sua teneva a pensione un negro cieco che nutriva con le sue mani. E aveva dato asilo, pare, a Gorkij. Fu condannata a dieci anni di prigione, che tuttavia riuscì a non fare. Proposi a Selznick di fare un film di propaganda con lei. Mi rise in faccia. Mi aveva regalato uno dei suoi libri, che devo avere perso in uno dei miei viaggi, cosa che mi rattrista. Il tanto atteso armistizio finalmente arrivò. Sulla Quinta Avenue ho assistito a incredibili manifestazioni di gioia, come possono esservene solo in America. Mio marito, preso dalle smanie, era partito per la California con la sua primattrice. Avevo dovuto mettere i bambini in collegio e affittare un appartamentino a Bretton Hall. Non sapevo bene cosa fare quando Chautard consigliò a Perret, occupato in un’altra produzione, di affidarmi la regia di un film con Dolores Cassinelli che lui non poteva fare. Il salario era modesto, duemila dollari, sei settimane di lavoro, pubblicità a mio carico, ma era meglio di niente e potevo rimettermi in sella. Accettai. Le Cassinelli, madre e figlia, erano deliziose. “Se il film è buono” mi dissero “faremo mettere una grande insegna luminosa a Broadway, con il vostro nome come regista.” Accettai. “Vi darò la sceneggiatura poco alla volta”, mi diceva Perret, “intanto riempitele di fiori e nastri, li adorano...”
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Ma la sceneggiatura tardava ad arrivare. In più dovevo aspettare che il personale di studio avesse terminato gli impegni con Perret per occuparsi di me. Osso, il suo capo della pubblicità, più furbo che onesto, mi fece firmare un contratto da cento dollari alla settimana per una pubblicità che non ho mai visto. Una sera, vinto dalla mia insistenza, Perret mi disse: “Va bene, questa sera vado a cena con Osso e la sua amichetta, e voi sarete dei nostri. Poi andremo a lavorare a casa mia”. La sera ci portò in non so più quale hotel. A tavola si inteneriva guardando la coppia: “Non è bello vedere una donna felice?” All’improvviso lo vidi spingere via il piatto con una smorfia di disgusto. “Che orrore!”, sussurrò. Io lo guardavo sorpresa. Lui si chinò verso di me. “Non vedete? Lei mangia formaggio... del formaggio su quelle labbra rosa.” La cena finì e finalmente ci incamminammo verso la strada per l’hotel in cui abitavano i Perret. Ci mettemmo nel salotto. Avevamo appena preparato fogli e matite quando madame Perret44 ci raggiunse. “Vi faccio chiamare un taxi”, disse. “Ma madame, stiamo per iniziare!” Lei mi guardò appena. La sentimmo parlare al telefono, e il taxi arrivò quasi subito. E Perret, drammatico, passandosi le dita fra i capelli: “Ecco la mia vita, madame Blaché.” Finii la sceneggiatura a modo mio. Le Cassinelli furono contente e ordinarono la famosa insegna luminosa. Ma Perret si arrabbiò: “È una cosa che non posso tollerare, sono io il produttore.” Anch’io mi arrabbiai: “È il solo vantaggio che avrò da questo sventurato affare, e non cederò.” Eppure fu proprio Valentine Perret a sacrificarsi per me. Era l’epoca della famosa influenza virale. Bisognava terminare il film, montarlo, stamparlo; Perret mi telegrafò che mi aspettava a casa sua. Io, addolorata e febbricitante, cercavo di resistere. Valentine venne a prendermi in auto all’hotel: “Su, venite, non fate il pulcino bagnato. Un’ammalata ha bisogno di cure.” Dovetti cedere. Appena arrivata persi consocenza. I Perret, inquieti, chiamarono un dottore, che arrivò in serata. La sua diagnosi fu immediata: influenza spagnola.
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“Bisogna farla portare all’ospedale”, disse bruscamente Perret. “Impossibile, non c’è più un letto”. “Ebbene, la cureremo qui”, disse Valentine. Con l’aiuto del dottore, mi trasportano nel granaio, sistemarono un letto, montarono delle tende scure e tutti i giorni, alle ore prescritte, Valentine, vestita da infermiera, veniva a somministrarmi le cure necessarie. L’influenza fu veramente terribile. Cinque membri della mia compagnia ne furono colpiti, quattro morirono. Non so se Valentine viva ancora, ma spero che abbia avuto la sua ricompensa45. Mio marito, di passaggio a New York, venne a trovarmi. Credo che la mia povera faccia lo abbia commosso. Mi chiese di raggiungerlo non appena possibile. Sei settimane dopo prendevamo, io e i bambini, la strada per la California. Facemmo di notte il viaggio New York-Chicago. Quando arrivammo in questa città dove avremmo dovuto passare alcune ore in attesa della coincidenza, era notte fonda e i bagliori degli altiforni tramutavano Chicago in un vero inferno. Il viaggio continuò in modo normale: fermata per il rifornimento d’acqua, praterie di salvia, un cow-boy che si mise a fare la gara di velocità col treno. Poi ci fu una fermata nella riserva degli indiani Navajos. Alcuni vennero fino al treno a offrire vasellame fragile, collane di rame. “C’è abbastanza tempo per visitare il villaggio” ci annunciò il capotreno. Nelle loro capanne gli indiani battevano il rame che usavano per fare piatti e brocche. Le donne filavano la lana e tessevano, con ottimo gusto, coperte e tappeti conosciuti in tutti gli Stati Uniti. Le donne portavano i bambini sull’anca; a volte li facevano sedere su due rami attaccati ad angolo, trainati dolcemente da un cavallo. Questo villaggio, chiamato Albuquerque, è frequentato da numerosi artisti. Gli indiani Navajos sono fieri, tristi e belli. Nelle colline circostanti si possono scorgere tende isolate. Entrammo nel gran deserto del Colorado di notte. Un altro incanto. Fino al mattino restammo con la fronte incollata ai vetri: sabbia, immense lastre di pietra, cactus giganti con fiori e frutta, enormi stelle così vicine da sembrare a portata di mano, e, in ogni angolo dei blocchi di pietra, senza dubbio umidi di rugiada, un minuscolo arcobaleno. Come orchestra, l’ululato dei coyote.
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Finalmente arrivammo alle Montagne Rocciose: dei picchi enormi, begli alberi, cascate, tunnel. Nessun animale in vista, senza dubbio per paura del treno. Mio marito ci aspettava a Los Angeles; ci condusse a Hollywood. Aveva prenotato un appartamento in un gradevole hotel situato sul Sunset Boulevard, ai piedi di una collina adorna fino in cima di un giardino giapponese. Anche l’hotel aveva un bel giardino di alberi esotici sui quali a volte si fermava il volo di piccole cocorite e in cui vidi, e sentii, per la prima volta, una puzzola. Qui ritrovai la maggior parte degli artisti che conoscevo. Il Sunset Boulevard era sempre animato, gli artisti passeggiavano senza problemi in costume di scena alla ricerca di un pasto, di un drink, di sigarette. Ben presto anch’io fui riconosciuta e invitata. A Hollywood non c’erano solo bei giardini. Il petrolio rivestiva ancora un ruolo importante: i derrick si alzavano ovunque, centinaia di operai erano impiegati nelle trivellazioni. Molte abitazioni erano illuminate e riscaldate col gas naturale. Insieme al petrolio si recuperavano teste di tigre e denti di elefante. Dai pozzi ho visto estrarre dei piccoli granchi rossi, riproduzione perfetta di una maschera giapponese; insomma, c’era di che attirare l’attenzione della scienza. Hollywood, a seconda della direzione del vento, profumava di eucalipto o di petrolio. Gli studi si sviluppavano sempre più lontano dai derricks. È qui che feci a Chaplin la visita di cui ho parlato... L’hotel di Hollywood era molto allegro, c’era un ballo almeno una volta la settimana, spesso interrotto dal numero improvvisato di qualche ospite: Jim Corbett46 (‘Gentleman Jim’) organizzò un incontro con Milton Sills. Io non ero particolarmente allegra e mi rifugiavo spesso nella sala del biliardo: ai miei figli piaceva molto e il più piccolo, a quattro zampe sul tavolo, cercava anche lui di metter mano alla stecca che pesava più di lui. Prima di lasciare Hollywood volli portare i bambini a vedere Catalina Island, che è piuttosto una penisola, e che gli americani vogliono conservare allo stato selvaggio. Era frequentata da aquile dalla testa bianca, uniche, si diceva, e da capre selvatiche. Le piccole baie in cui i giovani e le ragazze facevano il bagno erano spesso visitate da foche che sembravano compiacersi nel seminare il panico fra i bagnanti.
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Si pescava il barracuda, che è, credo, un pescecane piccolo. La spiaggia era fatta di minuscoli ciottoli fra i quali a volte si trovavano delle pietre lunari. La sera, i pesci volanti attraversavano coi loro balzi il tragitto dei canotti illuminati da una lanterna. Come in Florida, c’erano giardini sottomarini che si potevano osservare grazie a battelli col fondo trasparente, ma erano assai meno belli di quelli della Florida. Desideravo davvero molto scendere fino al Messico. Sfortunatamente fui vittima di una rapina, la mia auto ne fu seriamente danneggiata e mia figlia rimase ferita. La tragedia avrebbe potuto essere completa se un gruppo di cinque auto non fosse arrivato sul posto mettendo in fuga i gangsters. Un medico che faceva parte del gruppo bendò mia figlia e poi tutti insieme ci accompagnarono fino alla prima città dove la bambina poté essere medicata. Fui costretta a lasciare la macchina alla compagnia di assicurazioni e rientrammo a Los Angeles in treno. Due settimane più tardi tornai a prendere l’auto e rientrai da sola, costeggiando la strada panoramica fra il Pacifico e la Sierra Madre. Ci vorrebbe un lungo capitolo per decrivere le bellezze che si incontrano su quella strada... Herbert Blaché dirigeva The Brat e Stronger than Death, con la Nazimova. Io gli facevo un po’ da assistente, ma avevo dei lunghi periodi di inattività. Con un gruppo di bambini avevo già esplorato la giungla dei dintorni. Decisi di scoprire la vita intima di questo paese per me nuovo. Spuntavano continuamente nuove religioni: teosofia, nuova scienza, christian science. Visitai i loro centri, fui sommersa da un’abbondante letteratura, e alla fine fui invitata dai Christian Scientists ad andarli a trovare per discutere con loro un progetto per un film di propaganda. Nel giorno stabilito mi presentai all’appuntamento e mi furono consegnati alcuni fogli che mi misi subito a leggere. Fui scioccata nel vedere il modo in cui veniva trattata la religione cristiana, e i suoi sacerdoti accusati di tutti i peccati di Israele. “Capisco” dissi “che voi amiate il vostro credo, ma è veramente necessario, per farlo, trascinare nel fango tutti gli altri?” La... pretessa mi interruppe con decisione. “Ah!”, disse, “siete cattolica? Inutile continuare, non potete lavorare per noi”.
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Stanca della vita di albergo e anche per ragioni private, avevo deciso di affittare un piccolo bungalow. La Nazimova, che si era affezionata ai bambini, venne a trovarci diverse volte. Risiedeva in una bellissima casa sul Sunset Boulevard, dove ci invitò spesso. Mentre i bambini giocavano in giardino, mi interrogava sulla letteratura e sulla musica francesi. Io facevo del mio meglio per soddisfare le sue curiosità, felice che il mio paese fosse così amato. Le canticchiavo Les Chansons tristes di Duparc, che lei adorava. Durante una di queste visite apprendemmo che la legge sulla proibizione degli alcolici, votata dal Congresso nel 1917, sarebbe stata applicata entro otto giorni. Nazimova prese il telefono e invitò tutti i suoi amici per un cocktail da lei l’indomani. C’eravamo anche noi, io e Herbert. Eravamo molto felici quando, verso mezzanotte, prendemmo la strada del ritorno. A Venice, una spiaggia alla moda, non lontano da Hollywood, una vecchia barca che stava per imputridire era stata intelligentemente trasformata da un restauratore in un bar, ristorante, sala per feste specialmente riservata. Fu qui che decidemmo di passare l’ultima notte di libere libagioni. All’alba ero la sola, credo, ad aver conservato l’uso della ragione, non per virtù, ma per gusto. Io detesto l’alcol, a eccezione di un cocktail che preparo io... Un aneddoto tra mille. Una coppia, presa da un amore folgorante, andò di corsa a svegliare il coroner, firmò tutte le carte necessarie, trovò un vicario qualunque pronto a benedirla. La mattina dopo, al risveglio, recuperata la propria lucidità, sia l’uomo che la donna si ricordarono d’esser già sposati e che non avevano altra scelta se non correre a Reno per divorziare. La legge non scherza con la bigamia... Fu l’epoca d’oro degli alambicchi, dei bicchieri di whisky travestiti da bicchieri di latte, dell’alcol adulterato che causò tanti guai ai gangsters e ai contrabbandieri. Lo Stato si rese rapidamente conto che il rimedio era peggio del male. Nel momento di terminare la descrizione di questo bel paese, sono assalita da una folla di ricordi, ma non voglio annoiare il lettore. Fu a questo punto che ricevetti un messaggio del mio avvocato e una lettera di Bauries47, i quali mi pregavano di fare almeno una visita a Fort Lee.
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Presi i miei figli e partii. Ci eravamo appena sistemati che la poliomielite colpì Lemoine Avenue in maniera devastante: in una notte morirono tre bambini. Il mio maschietto presentava alcuni sintomi e il medico mi consigliò vivamente di trasferirmi in una regione meno pericolosa. Telefonai ai Capellani che avevano già deciso di partire coi loro tre figli per il Canada. Cosa che anche noi facemmo immediatamente. A Montreal ci consigliarono un hotel completamente isolato ma molto confortevole, tenuto dai signori Cochon e Pitois, nelle Laurenziane, a venti chilometri da ogni altro agglomerato. Qui prendemmo un appartamento. Vicino all’hotel, frequentato assiduamente dai pescatori di trote, un rosario di laghetti si sgranava fra i canneti. Alcuni kayak indiani si cullavano dolcemente e Paul Capellani, un giorno che ci era venuto a trovare, proprio in uno di questi kayak ci recitò dei bellissimi versi. Il terreno in cui si trovava l’hotel separava questa corolla di piccoli laghi da altri stagni, che bisognava attraversare per scoprire un altro lago più grande e ancor più pescoso. Le trote affamate saltavano sugli ami prima che questi toccassero l’acqua. Per raggiungere questo lago bisognava indossare stivali da fognaioli e sguazzare nel fango. Durante una visita di mio marito ci risolvemmo all’impresa. Tutto andò bene e la nostra pesca quella sera nutrì abbondantemente la nostra tavolata. Ma, a diverse riprese, ci era capitato di sentire un odore di bestie selvatiche. “Orsi, senza dubbio”, ci disse il padrone dell’hotel, “riceviamo spesso le loro visite, e quelle dei cinghiali e dei cinghialetti.” Aveva appena terminato che uno degli ospiti dell’hotel rientrò, un po’ pallido, con il retino vuoto. “Avevo preso la regina delle trote”, ci disse, “di un peso straordinario, e una quantità di altri pesci, quando mi sono accorto di essere seguito: era un’orsa con il suo piccolo. Sono riuscito a sbarazzarmene solo seminando i pesci a uno a uno”. I bambini avevano ritrovato il loro bell’aspetto. Si doveva riprendere la strada del ritorno. I canadesi sono molto simpatici, ne abbiamo incontrato qualcuno. “Oh!”, dicevano, “se foste venuti in inverno, non avreste avuto bisogno dell’auto per fare le salite e le discese. In inverno è tutto piatto, con le racchette da neve si arriva dappertutto in pochi minuti”.
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Da questo bel paese perduto, dove tutte le sere scorgevamo i bagliori dell’aurora boreale, ci allontanammo a malincuore. A Fort Lee ritrovai il mio bravo Bauries, fedele al suo posto, contento di rivedermi ma molto cambiato. “Ah! Madame”, mi disse, “tornate, difendetevi. Non vi lasceranno che gli occhi per piangere”. Mi raccontò come mr. S., il rappresentante dei banchieri, stava facendo man bassa di tutti i mobili interessanti (ne avevamo di molto belli, comprati alla casa delle aste, fra cui due splendide sedie elisabettiane che diversi mobilieri mi avevano chiesto in prestito per farne delle copie, tutto un mobilio Impero, ecc.). “Monsieur Blanché si disinteressa di tutto”, mi disse. “Ha rifiutato un affitto modesto, ma che vi avrebbe permesso di pagare le tasse. I laboratori fotografici sono stati messi a fuoco dalle due piccole società a cui li aveva subaffittati, e la compagnia di assicurazione rifiuta di pagare interamente i danni”. In breve, tutto andava di male in peggio. Fu allora che un produttore mi fece una curiosa proposta. “Mettete cinquantamila dollari nell’affare e noi vi affidiamo la regia di Tarzan of the Apes”. Al pensiero di dover dirigere le acrobazie di quel colosso mi si gelava il sangue nelle vene. Fortunatamente il problema non si poneva: non avevo i cinquantamila dollari. L’America, si dice, si riprende sempre quello che ha dato. Completamente scoraggiata, decisi di rientrare in Francia con i miei figli. Dopo alcune settimane di riposo, lasciati i bambini dalla nonna, andai a bussare alla porta di alcuni studi che, beninteso, mi chiusero la porta in faccia. Andai allora a Nizza, dove alcuni amici banchieri avevano degli interessi negli studi della Victorine48. Mi chiesero il mio parere sulle istallazioni. Trovai l’impianto di illuminazione mediocre, il magazzino era lontano e si sprecava troppo tempo per il trasporto delle scene e infine i clienti disertavano la Costa Azzurra per gli studi tedeschi, malgrado i vantaggi del mare vicino e del buon clima, perché?...
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Mi domandarono di fare un viaggio in Inghilterra, visto che conoscevo la lingua, e di cercare di scoprire la causa di tale defezione. Accettai. A Londra incontrai alcuni americani che conoscevo e che vi si erano stabiliti. Mi fu fatto presente che alla Victorine non si poteva avere un fiacre, un sandwich o una birra senza dover pagare un surplus a un intermediario. Le scene non erano mai pronte per quando servivano. Spesso le comparse erano esigenti. Tra queste c’erano molti russi bianchi che avevano ancora un guardaroba decente, ma che esigevano grandi attenzioni. Al mio ritorno mi fu offerta la direzione degli studi, a patto che versassi una somma importante. Ahimé, non avevo più niente... Oppure la direzione delle comparse a ottocento franchi al mese. Rifiutai. Grazie a un’amica, riuscii a collaborare a una rivista femminile. Scrissi diversi romanzetti, racconti per bambini49, feci delle traduzioni, e così via. Dopo la morte del padre, Raymond e Louis Gaumont trovarono fra le sue carte il rapporto che egli mi aveva chiesto di redigere50, promettendomi di pubblicarlo nella prevista riedizione della storia degli stabilimenti Gaumont, che mi avrebbe riservato, mi disse, il posto che mi spettava. La morte, purtroppo, glielo impedì. Louis Gaumont mi domandò l’autorizzazione di servirsi di queste note per un discorso che contava di fare presso la Société de photographie51. Fui lieta di accettare. Grazie a lui e a questa conferenza presso quest’istituzione che ho già menzionato a più riprese, si tornò a parlare di me. René Jeanne52, che ha pubblicato tanti studi interessanti, venne a trovarmi; si convinse e da allora non ha più cessato di prodigarmi mille prove di affetto. È stato un fallimento, oppure un successo? Non so. Ho vissuto ventotto anni di una vita intensa e interessante. Se i miei ricordi mi danno a volte un po’ di malinconia, ripenso alle parole di Roosevelt: “Fallire è duro, peggio non aver mai tentato.”
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Note Di un giorno di marzo del 1907 (cfr. Bachy, Alice Guy Blaché, cit., p. 178). Edison inventò il Kinetoscope nel 1894, risolvendo così il problema della riproduzione del movimento in anticipo di qualche mese sui fratelli Lumière. Ma il suo apparecchio consentiva la visione a un unico spettatore per volta (peep show). Presto nelle città si diffusero dei locali, detti penny arcades, in cui vari kinetoscopi erano messi a disposizione del pubblico, che poteva azionarli a pagamento, inserendo una monetina. Lo spettacolo cinematografico vero e proprio, inteso come proiezione di immagini in movimento su un grande schermo, fu inaugurato dai fratelli Lumière nel 1895. 3 Alexandre Promio, Carnet de route, in Coissac, op. cit., p. 197. 4 Questo e i seguenti capoversi dedicati alla ricostruzione delle origini del cinema americano contengono diverse inesattezze, a cominciare dall’attribuzione dei film qui citati. Non solo non risulta che David W. Griffith abbia mai girato dei film per il kinetoscopio di Edison, ma The Great Film Robbery e Rescued from an Eagle’s Nest furono realizzati alla American Mutoscope and Biograph Company rispettivamente da Edwin Porter e J. Searle Dawley. Nel secondo di questi film Griffith ebbe una parte come attore. 5 È possibile che l’A. si riferisca a Harry Solter, regista presso la American Mutoscope and Biograph Company fondata da 1895 da William K. Dickson allo scopo di competere con la American Mutoscope Company di Edison. Griffith vi entrò come attore e sceneggiatore nel 1908. Entro pochi mesi fu promosso a regista dal direttore dello studio Harry Marvin. Continuò ancora, per un breve periodo, a recitare nei propri film, in alcuni casi al fianco della moglie Linda Arvidson. 6 Dickens fu oggetto di adattamenti fin dai primordi del cinema, tra l’altro anche da parte di Griffith (The Cricket on the Earth, 1909). Ma non risulta che la Thanhauser, creata nel 1909, ne abbia mai realizzati, durante tutto il periodo in cui fu attiva (fino al 1917). 7 Tanto Alice Joyce che Maurice Costello erano in realtà attori di punta della Vitagraph. L’unica dei tre che lavorò per un certo periodo alla Biograph è Mabel Normand, che vi esordì nel 1910. È comunque interessante notare, in questo e altri passi del libro, la speciale attenzione che l’A. riserva a un particolare tipo di attrici, la cui filmografia comprende anche un certo numero di film realizzati come registe, sceneggiatrici o produttrici. È questo appunto il caso di Alice Joyce e Mabel Normand, ma anche di Florence Lawrence, Mary Pickford, Lois Weber e Olga Petrova. 8 I primi film americani di Alice Guy furono realizzati nel 1910 presso gli studi Gaumont di Fort Lee (New York). La Solax, fondata e presieduta da Alice Guy, nacque il 7 aprile di quell’anno. Il primo film uscito sotto questo marchio, A Child’s Sacrifice, fu distribuito il 21 ottobre 1910. 9 Wilbert Melville, ex capitano dell’esercito americano, entrò a far parte dello staff della Solax fin dall’inizio, con l’incarico di managing director. Nel giugno 1911, il 1 2
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“Moving Picture News” lo accredita come regista e sceneggiatore dei tanti film di ambientazione militare che, come si legge nelle pagine seguenti, costituivano una delle specialità della Solax (cfr. McMahan, op. cit., pp. 110-111). L’A. si riferisce alla Motion Picture Patents Company (MPPC, anche nota come il “trust di Edison”), cartello formato dalle prime compagnie cinematografiche americane (Edison, Biograph, Vitagraph, Essanay, Selig, Lubin, Kalem, American Star, American Pathé, più il distributore George Kleine e il principale produttore di pellicola, la Eastman Kodak) allo scopo di assicurarsi il controllo del mercato tramite il monopolio sui brevetti. La Solax trasferì la produzione a Fort Lee (New Jersey) nel 1912, in un nuovo studio più modernamente attrezzato, la cui costruzione fu finanziata con la vendita delle azioni Gaumont che Alice Guy aveva acquisito nel suo periodo francese. I cosiddetti dupes, controtipi ricavati da copie positive dei film della concorrenza, costituivano una parte consistente dei titoli commercializzati dalla compagnia di Siegmund Lubin nel primo scorcio del Novecento. L’allusione a Eugene Sue, autore-simbolo del roman-feuilleton francese dell’Ottocento, è una chiara e un po’ ironica indicazione degli sforzi consapevolmente compiuti da Alice Guy per inserire la propria produzione nel filone del melodramma sensazionale, genere che trovò la sua forma più emblematica nei serial interpretati da Pearl White a partire dal 1914. L’episodio si riferisce con ogni probabilità alle riprese del lungometraggio Beasts of the Jungle (1913), uno dei film interpretati da Vinnie Burns nel ruolo principale. Gilbert Cohen-Seat, Essai sur les principes d’une philosophie du cinéma, Presses Universitaires de France, Paris 1946. Herbert Blaché assunse la presidenza della Solax nel giugno 1913, ma già nell’agosto di quell’anno veniva annunciata alla stampa la formazione della Blaché American Features, con un vasto programma imperniato sulla produzione di film di lungometraggio. In un comunicato di quel periodo, Blaché dichiarava che il programma della nuova compagnia sarebbe consistito nella produzione “di adattamenti di opere classiche, nonché di soggetti moderni di genere melodrammatico e sensazionale, in tre, quattro e cinque rulli”. Nello stesso tempo, proseguiva il comunicato, “la Solax continuerà a produrre i suoi film sotto la direzione e la supervisione di madame Blaché”; cfr. McMahan, op. cit., pp. 170-171. In altri termini i coniugi Blaché furono alla testa per un breve periodo non di una, ma di due società, entrambe molto attive (dieci lungometraggi e una ventina di cortometraggi nell’arco di nove mesi). Ma la gestione di Blaché non diede i risultati sperati e nell’estate 1914 entrambe le case furono travolte dalla crisi finanziaria. La Motion Picture Distributing and Sales Company era la più importante delle case di distribuzione create per contrastare il monipolio della MPPC (cfr. nota 10), che garantiva la diffusione dei film delle società indipendenti, tra cui la Solax. Lois Weber fu pianista, cantante e attrice teatrale prima di essere ingaggiata da Herbert Blaché nel 1908, per interpretare alcune phonoscènes presso gli studi
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Gaumont a Fort Lee. Realizzò i suoi primi film come regista nel 1911, per la Rex di Edwin S. Porter, dando subito inizio a una copiosa produzione (oltre cento titoli nel corso degli anni Dieci). Nel 1917 diede vita, insieme al marito Wendell Phillips Smalley, co-regista di molti suoi film, a una propria casa, la Lois Weber Productions. Dal 1921, dopo il divorzio da Smalley, e l’esaurimento nervoso che ne conseguì, la sua attività si ridusse considerevolmente, fino in pratica a cessare all’avvento del sonoro (con l’unica eccezione di un film realizzato nel 1934). La sua produzione è caratterizzata da una singolare attenzione a temi di forte impatto sociale, con film dedicati a questioni controverse come l’aborto e il controllo delle nascite (Where Are my Children?, 1916), la pena capitale (The People vs. John Doe, 1916), il conflitto generazionale (Discontent, 1916), l’alcolismo e la tossicodipendenza (Hop - The Devil’s Brew, 1916). L’A. si riferisce a Frederick A. Cook, l’esploratore che nel 1909 rivendicò la conquista del Polo Nord, affermando di averlo raggiunto nel 1908, con un anno di anticipo sul suo concorrente Robert E. Peary. Nonostante gli sforzi compiuti da Cook per dimostrare l’autenticità delle proprie affermazioni, Peary riuscì a screditare totalmente l’avversario presso l’opinione pubblica, bollandolo come un semplice impostore. The Truth about the Pole, sorta di docu-drama prodotto da Cook nel 1912 e tuttora visibile, fu realizzato allo scopo di smontare la campagna diffamatoria organizzata da Peary e a quanto pare fu girato nei dintorni degli studi Gaumont, presso Fort Lee. Malgrado la durezza con la quale l’A. si riferisce a Cook, definendolo “un impostore”, studi recenti hanno parzialmente riabilitato la sua figura. Sembra infatti che, a causa di errori di calcolo, in realtà il Polo geografico non sia stato raggiunto da nessuna delle due spedizioni. Celebre commedia in cinque atti di Eugène Labiche, portata per la prima volta sulle scene nel 1851. Titolo alternativo del film The Great Adventure (1918) con Bessie Love e Flora Finch, che però in nessuna fonte risulta interpretato dagli altri attori qui elencati. La compagnia di repertorio della Solax comprendeva attori come Blanche Cornwell, Darwin Karr, Billy Quirk, Vinnie Burns, la piccola Magda Foy, Claire Whitney, Lee Beggs, Fraunie Fraunholtz, Marian Swayne, James O’Neill, ecc. Tra le star, ebbero occasione di lavorare con Alice Guy la già citata Bessie Love, Olga Petrova (The Tigress, 1914; The Heart of a Painted Woman, The Vampire, My Madonna, 1915; What Will People Say?, 1916), Carlyle Blackwell (The Ocean Waif, 1916), Doris Kenyon (The Ocean Waif, 1916; The Empress, 1917), Dolores Cassinelli (Tarnished Reputations, 1920). Nell’ultima fase della sua carriera, come assistente di Blaché a Hollywood, Alice Guy poté inoltre dirigere Alla Nazimova, eccentrica diva e produttrice, in The Brat (1919) e Stronger than Death (1919) e Ethel Barrymore in The Divorcee (1919). La rappresentazione ebbe luogo in realtà il 19 giugno 1911, presso il Globe Theatre. Nel 1911 la famosa Gabrielle Réjane, diva del teatro francese, comparve in un film che la immortalava nella sua celebrata interpretazione di Madame Sans Gêne
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di Victorien Sardou, il ruolo che l’aveva portata al successo nel 1893 e nel quale aveva recitato anche a New York nel 1895. Già proprietario di numerose sale cinematografiche, Adolph Zukor – uno dei titani di Hollywood – si inserì nei settori della distribuzione e della produzione nel 1912, con la creazione della Famous Players Film Company, compagnia specializzata nella presentazione di classici interpretati da grandi stelle del teatro. Dopo il successo di Queen Elizabeth (1912), un film francese con Sarah Bernhardt, da lui distribuito negli Stati Uniti, aprì un proprio studio, dapprima sulla costa orientale e poi a Hollywood. Qui, nel 1916, si associò al produttore Jasse L. Lasky, dando vita alla Famous Players-Lasky, che in breve acquisì il controllo della Paramount. David W. Griffith entrò alla Artcraft di Zukor (distribuita dalla Famous Players-Lasky) solo nel 1917, quando Mary Pickford aveva già lasciato la Famous Players per fondare una propria casa di produzione. Del resto nessuno dei suoi film fu mai interpretato da Mary Pickford (o James O’Neill). John Bunny fu uno dei primi grandi comici americani. Attivo alla Vitagraph, recitò nel lungometraggio The Pickwick Papers nel 1913. Tra l’altro ebbe come partner in diversi film l’attrice inglese Flora Finch, di cui l’A. parla quache riga più sopra. La morte prematura, avvenuta nel 1915, gli impedì di esprimere appieno le sue potenzialità. Alice Guy e Blaché ebbero due figli: Simone e Reginald, nati rispettivamente nel 1908 e nel 1912. L’A. allude forse alla neonata Universal? Alla fine del 1912, infatti, la Sales Company (cfr. nota 10) avviò un importante processo di acquisizione industriale, incorporando molte Case produttrici che fino a quel momento si era limitata a distribuire. Dall’operazione nacque uno dei primi giganti di Hollywood, la Universal Film Manufacturing Company, presieduta da Carl Laemmle. Avendo declinato la proposta della Sales Co., i coniugi Blaché si trovarono all’improvviso nella necessità di trovare un altro distributore, quindi in condizioni non ottimali per trattare. La Popular Plays and Players fu creata da Herbert Blaché nel 1914, accorpando sotto un unico marchio la Solax e la Blaché Features. Da questo momento, pur essendo tuttora proprietari del loro studio, Guy e Blaché si trovarono di fatto a lavorare come registi salariati, sottoposti alle condizioni sempre più onerose imposte dai distributori (in particolare Alco, World, Metro e Pathé Exchange). Lawrence Weber, già direttore di un teatro, era il presidente della Popular Plays and Players. Herbert Blaché aveva il ruolo di direttore di produzione. Non può trattarsi che di Aaron Hoffman, accreditato alla sceneggiatura di The Tigress, The Heart of a Painted Woman e My Madonna. Olga Petrova (al secolo Muriel Harding), di origine gallese, aveva assunto un nome e un falso accento russo in ossequio al gusto esotico dell’epoca, conquistando una certa notorietà come attrice teatrale. Nel 1914 si trasferì negli Stati Uniti e dopo qualche breve apparizione sulle scene tentò di affermarsi come diva del cinema. Alice Guy la diresse nei suoi primi cinque film, cercando di interpretare in modo non
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troppo scontato il suo personaggio di vamp affascinante e fatale, in film come The Tigress e The Vampire. In seguito girò alcuni film per la Metro, prima di fondare una propria casa di produzione nel 1917, senza tuttavia riuscire a sfondare. Nessuna altra fonte conferma che Reginald Barker abbia preso parte a questo film. Nessuna altra fonte conferma la partecipazione di Reginald Barker. Gli altri interpreti accreditati sono Vernon Steel, William A. Morse, Wallace Scott, Lawrence Grattan, Albert Hoeson, Mary Martin. L’attribuzione di questo film è controversa. “Lacassin accetta l’attribuzione, indicando nel cast Kaelred, L’Estrange e Lyle. Slide esita e non riporta nessun attore. Su ‘Variety’, il critico Fred cita lo stesso cast di Lacassin e attribuisce esplicitamente la regia a Herbert Blaché. Anche il Catalogo dell’American Film Institute concorda e accredita Blaché. Nessuno cita Florence Reed.” Bachy, Alice Guy Blaché, cit., p. 297. Lewis J. Selznick – padre di David O. Selznick, il celebre produttore di Gone with the Wind (1939) – fu con Jules Brulatour uno dei principali finanziatori della World, la compagnia tramite cui fu distribuito The Lure, uno dei film realizzati da Alice Guy nel 1914. Nel 1916, dopo aver lasciato la World insieme a una delle sue star più popolari, Clara Kimball Young, Selznick creò una casa di produzione a lei intitolata (la Clara Kimball Young Film Corp.), che operò per un periodo presso gli studi Solax di Alice Guy e Herbert Blaché. L’ultimo marchio da lui fondato, la Lewis J. Selznick Productions, Inc., andò incontro al fallimento nel 1923. Si tratta senza dubbio della Pathé Players, la casa che insieme a Marcus Loew finanziò la produzione di The Great Adventure (1918). Marcus Loew stava per diventare uno degli uomini più importanti di Hollywood. Proprietario di una delle più grosse catene di sale del Paese, era a capo della Loew Inc., la potente organizzazione che, in seguito all’acquisizione della Metro di Louis B. Mayer, e alla fusione con la società di Samuel Goldwyn, si sarebbe trasformata nel 1924 nella Metro-Goldwyn-Mayer. Titolo alternativo di The Great Adventure. William Brady e i fratelli Shubert, importanti impresari di Broadway, diedero vita nel 1914 alla Shubert Feature Film Corp., una Casa di produzione, distribuita dalla World, che aveva l’obiettivo di portare sullo schermo i successi di Broadway. Emile Chautard, Albert Capellani, Maurice Tourneur e Léonce Perret erano già affermati registi del cinema francese quando, allo scoppio della guerra, si trasferirono negli Stati Uniti, dove lavorarono per un periodo più o meno lungo a seconda dei casi. Chautard vi rimase fino alla morte (avvenuta nel 1934), anche se la sua carriera di regista si interruppe già nel 1924. Maurice Tourneur, tra tutti senza dubbio il più fortunato, vi lavorò con buoni riscontri di pubblico e di critica fino all’avvento del sonoro; in seguito fece ritorno in Francia, dove realizzò ancora una ventina di film fino al 1948. Capellani e Perret si fermarono per un periodo più breve, tra il 1916 e il 1921. Entrambi diedero vita a una propria casa di produzione e realizzarono diversi
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film di buon successo. Il rientro in patria coincise per Capellani con la fine della carriera, mentre Perret riuscì a reinserirsi con facilità, firmando ancora una dozzina di titoli. 42 In realtà, per una volta, Zukor non c’entra: il celebre contratto da 1.250.000 dollari cui si riferisce l’A. fu firmato da Chaplin con la First National, proprio nel 1917 e proprio per la realizzazione di otto film in due rulli. 43 War Brides è il titolo di un atto unico di ispirazione pacifista che Nazimova interpretò sui palcoscenici americani nel corso del 1915. L’esordio cinematografico della diva avvenne l’anno successivo in un film dallo stesso titolo (diretto da Herbert Brenon), accolto da un clamoroso successo di pubblico. 44 Valentine Petit sposò Léonce Perret dopo essere stata sua partner in una serie di comiche assai popolari prodotte dalla Gaumont prima del 1914. Aveva la reputazione di essere assai gelosa. 45 Valentine Perret morì nel 1950. 46 Il famoso pugile James J. Corbett ebbe anche un’interessante carriera cinematografica, fin da quando fu filmato per la prima volta, durante un incontro con Peter Courtney, con il kinetoscopio di Edison, nel 1894. In seguito apparve in alcuni lungometraggi: fu forse durante la lavorazione di uno di questi (per esempio The Prince of Avenue A, John Ford, 1920) che avvenne l’incontro amichevole di cui parla l’A. con il celebre attore teatrale Milton Sills, star emergente di Hollywood. 47 Si tratta con ogni probabilità di Joseph Borries, un “francese di Terranova” come lo definisce l’A. (cfr. p. 119) che fu vicino ad Alice Guy in tutto il suo periodo americano. Secondo Claire Clouzot (p. 155 dell’ed. or., nota 1), Borries faceva parte a questo punto del consiglio d’amministrazione della U.S. Amusements, marchio creato da Herbert Blaché nel 1914, nel tentativo di sottrarsi alla crisi incombente. La U.S. Amusements produsse gli ultimi film di Alice Guy realizzati a Fort Lee: The Adventurer, A Man and a Woman, House of Cards, When You and I Were Young e Behind the Mask, tutti usciti nel 1917. 48 Gli studi della Victorine furono edificati a Nizza da Louis Nalpas e Serge Sandberg nel 1919, con l’obiettivo di farne un grosso centro di produzione. Ma la collaborazione tra Sandberg e Nalpas durò pochi mesi e gli studi della Victorine entrarono in un lungo periodo di crisi. È a questo punto che si situa il tentativo di Alice Guy di occuparsi del rilancio degli impianti, intorno al 1922, anno in cui fece ritorno in Francia. 49 Questa parte dell’attività di Alice Guy resta ancora da esplorare. Stando a quanto riferito da Bachy (Alice Guy Blaché, cit., p. 319), suoi racconti furono pubblicati sulla rivista femminile “Fillette” e in seguito raccolti nel volume Contes et nouvelles, Paris, Offenstadt, 1936 (di cui non si trova traccia nei cataloghi della Bibliothèque Nationale). Altre pubblicazioni comprenderebbero una serie di novellizzazioni (“film raccontati”) apparse sulla rivista “Le Film complet”, sotto lo pseudonimo “Guy Alix”. Un racconto inedito dal titolo Ruse de guerre è pubblicato in appendice al presente volume.
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Si tratta della copia del testo pubblicato da Léon Gaumont nel 1924 in Notice sur les Etablissements Gaumont, cit., sulla quale Alice Guy aveva apportato numerose correzioni autografe. Discorso pronunciato da Louis Gaumont l’8 dicembre 1954, di fronte ai membri della Association Française des Ingénieurs et Techniciens du Cinéma. René Jeanne fu il primo storico del cinema francese che si interessò alla figura di Alice Guy. Insieme a Charles Ford entrò in contatto con lei nel 1956, aprendo la strada al lavoro successivo di Francis Lacassin e Victor Bachy, che pure ebbero la fortuna di incontrarla e intervistarla. Cfr. R. Jeanne, Il y a soixante ans, le cinéma comptait déjà une femme metteur-en-scène, “La Presse”, 11 juin 1957; Ch. Ford, The First Female Producer, in “Films in Review”, March 1964, pp. 129-145; F. Lacassin, Alice Guy, la première femme réalisatrice au monde, “Cinéma”, n. 152, 1971; V. Bachy, Entretiens avec Alice Guy, cit.
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Epilogo
Questo epilogo riproduce una lettera indirizzata dalla figlia di Alice Guy, Simone Blaché-Bolton, a Claire Clouzot, curatrice della prima edizione dell’autobiografia. Simone ricostruisce la vita della madre dal 1922, data del suo ritorno in Francia, fino alla morte, sopravvenuta negli Stati Uniti nel 1968. 29 aprile 1975 Cara signora, Anthony Slide dell’American Film Institute di Washington mi scrive che vi farebbe piacere sapere qualcosa di più sulla vita di mia madre, Alice GuyBlaché, dopo il suo ritorno in Francia nel 1922. Cercherò di accontentarvi, e vogliate perdonare la mia incerta dattilografia. Nel 1922, dunque, profondamente scoraggiata dal fallimento della sua casa cinematografica, seguito alle pesanti perdite in Borsa che mio padre subì nel 1918, e dopo un divorzio che fu per lei una crudele delusione, pensò che la cosa più naturale fosse tornare in Francia, dalla sua famiglia. Il divorzio le aveva assicurato la custodia dei figli e gli alimenti. Una delle sue sorelle viveva a Nizza, e ci invitò a stare per un po’ da lei. Mia madre accettò, e la città ci piacque talmente che ci restammo dieci anni, durante i quali mia madre tentò in due occasioni di reinserirsi nell’ambiente cinematografico dell’epoca. La prima volta fu quando a Nizza si progettò la ricostruzione degli studi della Victorine. Il progetto allora non andò in porto; fu ripreso, con successo, più tardi. Il suo secondo tentativo, che ugualmente fallì, fu legato al progetto di un centro cinematografico a Londra, progetto al quale s’interessava Lord Beaverbrook, con il quale mia madre ebbe un incontro (non ricordo più la data esatta, doveva essere il 1926 o 1927). Scrisse diverse sceneggiature in quel periodo, tra le quali un adattamento di Eugénie
Grandet, e cercò senza riuscirvi di ottenere i finanziamenti per avviarne la produzione. In quegli anni l’economia internazionale era prossima a una crisi molto grave, e il finanziamento di un film praticamente impossibile. Eravamo diventati poveri. Per andare avanti, mia madre aveva poco a poco venduto tutti i suoi beni – libri, quadri, gioielli, pellicce. Mio padre ci mandava, sempre più raramente, una sola parte degli alimenti dovuti, e al cambio il valore del dollaro diminuiva giorno per giorno. Dedicandosi completamente a noi, trasformandosi in cuoca, sarta e governante, mia madre è comunque riuscita nell’impresa di farci crescere quasi senza privazioni, fino al momento in cui abbiamo potuto cominciare a guadagnarci da vivere. Nel 1932, constatata la stagnazione degli affari a Nizza, ci risolvemmo ad andare a Parigi. Lasciai il mio posto di segretaria in una banca e partimmo. Mia madre aveva ancora qualche amico nel mondo del cinema, e grazie all’aiuto di uno di loro trovai un posto in una casa di distribuzione di film americani. Ero americana e parlavo correntemente inglese, cosa che facilitò la mia assunzione. Durante gli otto anni nei quali ho lavorato per due diverse case di distribuzione, mia madre, per integrare il mio modesto salario, scrisse alcuni racconti brevi, storie per bambini e i sottotitoli per qualche film. Nel 1936 trovò un editore, Offenstadt, che pubblicò i suoi racconti e anche alcuni riassunti di film in una rivista di cui ho dimenticato il nome, sul genere di Cinémonde. Poi, nel 1939, la dichiarazione di guerra e l’invasione tedesca. Nel maggio 1940, la casa per la quale lavoravo decise di ridurre il personale e trasferire la propria sede a Bordeaux, e io mi ritrovai senza lavoro. Un amico di mio fratello all’ambasciata degli Stati Uniti mi trovò un impiego temporaneo in una rivista americana, che dopo poco fu chiusa dalle autorità tedesche. Qualche giorno prima, però, ricevetti un messaggio dall’amico di mio fratello, che mi informava di un posto all’Ambasciata. Mi precipitai, e fu l’inizio di ventitré anni trascorsi nel servizio diplomatico americano. Nel 1941 venni trasferita a Vichy insieme a mia madre e, alla fine del 1941, nuovo trasferimento in Svizzera, dove passammo i cinque anni di guerra. Fu in questo periodo che mia madre cominciò a scrivere le sue memorie. Dalla Svizzera, sempre insieme a mia madre, fui trasferita a Parigi nel
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Parte terza
1947, a Washington nel 1952, di nuovo a Parigi nel 1955. Durante il nostro soggiorno a Washington, mia madre cercò, senza successo, di ritrovare negli archivi qualcuno dei suoi numerosi film. A Parigi, nel 1955, grazie all’interessamento di amici come René Jeanne, Louis Gaumont, credo Henri Langlois, e della Cinémathèque Française, mia madre fu decorata con la Legion d’onore per il suo ruolo di pioniera del cinema, onorificenza alla quale fu particolarmente sensibile. Nel 1958 mi seguì nel mio trasferimento a Bruxelles, e lì trascorremmo sei anni molto felici. Il suo nome era infine riconosciuto e, grazie ai suoi sforzi, sottratto a un oblio quasi certo. In quegli anni le venivano continuamente chieste interviste da parte di storici del cinema e giornalisti; apparve alla televisione belga e francese. La sua attività è proseguita ininterrotta fino al 1964, quando, all’età di novant’anni, venne colpita da un primo ictus. Ne uscì senza conseguenze apparenti, ma il dottore mi avvertì che erano probabili nuovi attacchi. Decisi allora di andare in pensione per potermi dedicare completamente a lei, e di ritornare negli Stati Uniti da mio fratello, cosa che feci alla fine di giugno del 1964. Mia madre sembrava perfettamente ristabilita, ma poco dopo il nostro arrivo una brutta caduta provocò un nuovo ictus, e da quel momento la sua salute e le sue facoltà mentali deperirono rapidamente. Dopo aver resistito per oltre due anni ai consigli dei medici, mi risolsi finalmente a farla ricoverare in una clinica, dove è morta il 24 marzo 1968. Poiché ho vissuto tutta la vita con lei, vorrei aggiungere una nota personale. Mamma era una natura ardente e generosa, dotata di un’energia e di una giovinezza eccezionali. Uno spirito aperto, sempre curioso delle novità scientifiche e letterarie. Il suo amore profondo per la natura, il suo entusiasmo per la vita erano contagiosi. Per me è stata più un’amica che una madre, e devo a lei la maggior parte della felicità che mi resta. Spero che queste note vi siano utili per completare il lavoro sulle sue memorie. Se volete sapere dell’altro, non esitate a scrivermi. Risponderò come meglio posso. Ringraziandovi di cuore per l’impresa cui vi state dedicando, vi saluto, cara signora, con la più viva cordialità. Simone Blaché-Bolton
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Appendice
Pubblichiamo in questa appendice alcuni rari documenti inerenti l’attività di Alice Guy, in particolare durante il suo periodo americano. Si tratta per lo più di articoli giornalistici, testimonianze di cronisti che ebbero l’occasione di visitare gli studi Solax e di incontrare l’autrice. Nulla di simile è disponibile per il periodo che Alice Guy trascorse alla Gaumont, quando la figura del regista non aveva ancora acquisito uno statuto autoriale e le riviste cinematografiche servivano essenzialmente a promuovere le ultime produzioni presso i gestori delle sale. Il primo testo è un breve ricordo di una delle attrici di Alice Guy, Olga Petrova, che lavorò con lei in cinque film realizzati tra il 1914 e il 1915. È tratto da una lettera non datata, ma risalente ai primi anni Settanta, indirizzata a Anthony Slide, all’epoca impegnato nella ricerca che l’avrebbe poi condotto alla pubblicazione dell’edizione americana delle Memorie. Siamo riconoscenti a Slide per averci consentito di pubblicarlo in traduzione italiana. Madame Alice Blaché, pubblicato in “Photoplay”, rappresenta una sorta di pubblicità redazionale ante litteram, giacché il suo autore, H. Z. Levine, era all’epoca impiegato presso la Solax in qualità di addetto stampa. Malgrado l’opinione non proprio lusinghiera che Alice Guy avrebbe in seguito sviluppato nei suoi confronti (come riferito da Bachy, op. cit., p. 257), il lavoro di Levine si dimostrò inizialmente assai efficace, perché nei mesi successivi alla sua assunzione uscirono numerosi articoli che celebravano la novità senza precedenti rappresentata dalla fenomenale “madame Blaché”, unica donna regista e produttrice del cinema americano. Una visita agli studi Solax, firmato da un critico già affermato come Louis Reeves Harrison, apparve sulla più prestigiosa rivista cinematografica dell’epoca, il “Moving Picture World”. Altri articoli qui riportati sono tratti da “Motography”, “The New York Dramatic Mirror”, “The De Moines News” (intervista a cura di Gertrude Price, che fu tra le prime giornaliste americane specializzate nella cronaca cinematografica) e ancora da “The Moving Picture World”. Il ruolo della donna nella produzione cinematografica è l’unico testo pubblicato da Alice Guy nel periodo della sua piena attività. Apparso nel 1914, espone a chiare lettere la tesi secondo la quale la regia cinematografica sarebbe un’attività assai più consona alle
donne che non agli uomini, in ragione della loro superiore sensibilità per i dettagli visivi e delle loro peculiari doti di empatia nella comunicazione interpersonale. Astuzia di guerra è un esempio dei piccoli testi narrativi che Alice Guy si divertiva a scrivere negli anni del suo esilio dal cinema, alcuni dei quali furono pubblicati, nei primi anni Quaranta, su riviste a grande circolazione, come “Fillette”. Non datato, apparso postumo nel 1976 nell’edizione francese delle Memorie, ha l’andamento asciutto di una sceneggiatura cinematografica e contiene lo stesso guizzo sarcastico – la stessa satira, insieme delicata e feroce, dei rapporti tra i sessi – che caratterizza tanti film dell’autrice. Le traduzioni di questa sezione sono di Angelita Fiore.
Olga Petrova Un ricordo Alice Guy Blaché fu la mia prima regista nel primo film in cui ho lavorato sotto contratto per la Popular Plays and Players, compagnia presieduta da Lawrence Weber. Credo che il titolo fosse The Tigress. La sceneggiatura era di Aaron Hoffman. Era il 1915 [in realtà il 1914, ndc]. La conobbi assieme al marito, Herbert Blaché, nell’ufficio di Weber. Mi piacquero entrambi, ma istintivamente fui attratta da lei. Se mi si fosse chiesto “perché?”, la risposta sarebbe stata un semplice e diretto “perché no?” Non avendo la minima idea dei metodi di realizzazione di un film, inclusa la regia, non mi ponevo alcun problema sul sesso del regista. Se ci avessi riflettuto, avrei potuto rendermi conto che un astuto uomo d’affari come Weber non avrebbe rischiato i profitti consistenti che contava di ricavare grazie a me, una neofita, se non avesse riconosciuto in madame Blaché una regista affidabile e competente, perfettamente in grado di salvaguardare i suoi interessi. Ad ogni modo, le chiesi se avrebbe potuto dirigermi e lei mi rispose che sarebbe stata ben lieta di farlo. Poiché abitavo a Long Island, piuttosto lontano da Fort Lee (New Jersey) – ciò che comportava dover traghettare me stessa, l’automobile e l’autista attraverso il fiume Hudson –, l’orario del mio arrivo sul set fu fissato alle 8.30, nei giorni che Lee Shubert, con il quale avevo un contratto, avrebbe stabilito.
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Un paio di settimane dopo, alle 8.30 in punto, mi presentai a Fort Lee, pronta a essere iniziata alla Magia, ai Misteri e alle Arti del cinema. Madame Blaché mi ricevette calorosamente, presentandomi personalmente ai miei colleghi di quella giornata e all’operatore di macchina. Mi accompagnò nel mio camerino dove trovai ad accogliermi un bellissimo mazzo di fiori. Mi chiese se avrei desiderato mangiare lì, le mie preferenze riguardo al menu e così via. Nei giorni successivi, capitò di tanto in tanto che mi venisse a trovare a fine pranzo per bere insieme una buona tazza di caffè nero e intrattenermi con la sua piacevole, interessante conversazione. Si interessava agli abiti che avevo portato. All’epoca, infatti, erano gli attori che fornivano il guardaroba, non la produzione. Si trattava di una spesa considerevole, dal momento che gli abiti non potevano essere riutilizzati nei film successivi. Una volta definiti i dettagli, Madame mi accompagnò sul set. Dopo aver letto la sceneggiatura, avevo espresso la mia sorpresa per l’assenza di dialoghi e azioni, ma Weber mi aveva rassicurata dicendo che tutti questi aspetti sarebbero stati meticolosamente predisposti in seguito. Ma ciò che seguì si rivelò alquanto diverso da tutto ciò che avrei potuto immaginare. Infatti Madame era solita spiegare il contenuto di ogni episodio ad alta voce, con parole e azioni, con la pantomima più appropriata alla situazione. Naturalmente recitare a teatro davanti a un pubblico di individui che vi possono guardare e ascoltare dalle loro varie posizioni è una cosa, ma recitare davanti al singolo, impassibile occhio della macchina da presa è tutta un’altra storia. Questo mi sconcertò. Notai immediatamente che i miei colleghi avevano un trucco molto più marcato del mio - un beige scuro - mentre io utilizzavo il classico Leichner 1-1/2 chiaro. Questo mi sconcertò ulteriormente, ma poiché Madame non fece commenti, non ne feci neppure io. Mi fu mostrata la macchina, o piuttosto le macchine da presa. In passato ero già stata fotografata in studio da alcuni fotografi professionisti, ma queste macchine mi procurarono un vero terrore. Mi sembravano molto più alte, enormi. Avevo l’impressione di trovarmi di fronte a orribili mostri alieni. Ciò nonostante... Iniziarono le prove. Nella prima scena, come pure in quelle successive, madame Blaché spiegò il contenuto di ogni episodio con parole e azioni
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appropriate alla situazione. Se la prima o la seconda prova era di suo gradimento, anche quando le sue indicazioni non erano state, a volte intenzionalmente, rispettate appieno dagli attori, purché la cosa non danneggiasse la scena, Madame dava la sua approvazione. In caso contrario, faceva provare e riprovare prima di dire: “Azione!”. Quando doveva correggere un attore, lo faceva con gentilezza e nel mio caso – come accadeva anche troppo spesso – ricorreva non di rado alla sua lingua madre. Questo gesto gentile mi toccava profondamente, mitigando l’imbarazzo che avrei potuto altrimenti provare. Dopo aver girato le scene previste per la giornata, si passava ai primi piani, che trovavo particolarmente ardui. Il calore delle potenti lampade Klieg faceva lacrimare gli occhi, bruciare la pelle e increspare i capelli. Ma anche questo faceva parte del lavoro. Terminati i primi piani Madame appariva stanca, e lo era davvero, ma durante le prove non perdeva mai né il contegno, né la disinvoltura. Usava un guanto di velluto, ma sarebbe stata in grado di usare il pugno di ferro se lo avesse ritenuto necessario. Comunque ciò non accadde mai durante il periodo in cui lavorai con lei, né il primo giorno, né in quelli che seguirono. Non urlava mai nel megafono come mi si diceva erano soliti fare tanti altri registi. Otteneva i suoi risultati guadagnandosi il rispetto e l’obbedienza dei suoi interpreti e i suoi metodi rimasero gli stessi in tutti i quattro film che seguirono. Purtroppo non ebbi mai l’occasione di incontrare Madame o i colleghi al di fuori degli studi. Terminato il lavoro, mi affrettavo verso casa per raggiungere il più velocemente possibile mio marito, le mie abitudini e i miei affetti e, poco dopo, il letto. Immagino che il pubblico abbia apprezzato The Tigress e che anche Weber e la Popular Plays and Players ne siano rimasti soddisfatti, perché mi offrirono subito un contratto triennale con un compenso più alto, sempre in accordo con i piani che il signor Shubert aveva in mente per me. Madame Blaché mi diresse nei successivi quattro film che furono prodotti dalla Popular Plays and Players. Furono, se ben ricordo, The Heart of a Painted Woman, My Madonna, What Will People Say? e un soggetto di cui non ricordo il titolo, ma che fu ribattezzato The Vampire in occasione dell’uscita nelle sale. Sono quasi certa che se mi fosse stato proposto con questo titolo non sarei stata così presuntuosa da accettare di interpretarlo. Infatti
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il personaggio della vamp era stato creato e sovranamente posseduto da Theda Bara e io non mi sentivo certo all’altezza di emularla, né in questo ruolo né in quello di Ophelia. A eccezione di What Will People Say?, tratto da un dramma di Rupert Hughes, i soggetti di tutti questi film erano di Aaron Hoffman, che del resto firmò anche l’adattamento di What Will People Say? Non so per quale motivo non fui più diretta da madame Blaché dopo questi quattro film, so però che mi mancò terribilmente. Spero solo abbia avuto migliore fortuna. È probabile che sia così. Guardando indietro, provo ancora nei suoi confronti la stessa stima e lo stesso rispetto di tanti anni fa. [Da una lettera non datata, risalente ai primi anni Settanta, di Olga Petrova ad Anthony Slide, pubblicata in The Memoirs of Alice Guy Blaché, Lanham, Md., and The Scarecrow Press, London 1979, pp.107-110].
H. Z. Levine Madame Alice Blaché La piccola Magda Foy, nota come la Solax Kid, un giorno arrivò correndo nell’ufficio di madame Blaché e, con voce singhiozzante e concitata, esclamò: “Oh, Madame, li faccia smettere, per favore! Non voglio che mi chiamino Billy, ma loro continuano a farlo. La prego, può dirgli di smettere?”. Madame alzò lo sguardo dallo sceneggiatura che stava scrivendo, si girò sulla sedia per guardare la piccola Magda e, sorridendo dolcemente, le chiese: “Chi ti sta prendendo in giro?” “Tu-tu-tti! Il signor [Billy] Quirk, il signor [Darwin] Karr, il signor [Lee] Beggs e tutti gli altri. Non lo sopporto.” E batté il piede in segno di protesta, al modo di una ragazzona ostinata. Madame sistemò un fiocco che si era allentato nei capelli di Magda, le mise in ordine i riccioli con dolcezza e disse alla ‘bambina’ di dire ai suoi scocciatori che avrebbero presto ricevuto una bella tirata d’orecchi. Magda uscì danzando gioiosamente dall’ufficio, dopo aver abbracciato la sua soccorritrice. Con un guizzo divertito negli occhi, Madame si rimise a preparare il manoscritto per il prossimo film in produzione.
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Poco dopo Madame fu di nuovo interrotta. Questa volta qualcuno le chiedeva di essere ricevuto. Voleva proporsi per un posto di regista. Lei gli parlò di film e di produzione cinematografica, del gusto del pubblico e delle richieste degli esercenti. Il visitatore era dell’opinione che il pubblico sarebbe pronto ad accettare qualsiasi cosa gli venisse proposta nella forma di un film. Si sbagliava. Madame parlò con lui quel tanto che serviva, senza essere scortese. Gli aveva “preso le misure” e dunque si alzò e mise fine all’intervista, decidendo tra sé e sé che il candidato “non avrebbe funzionato”. Il telefono squillò prima che fosse riuscita a riprendere il lavoro e una voce dall’altra parte del filo la informò che la sua presenza era assolutamente necessaria in officina. Prima che avesse avuto il tempo di lasciare l’ufficio, la testa di uno dei registi spuntò dalla porta, chiedendo se “Madame potrebbe gentilmente venire in studio, per darci la sua opinione su una scena che stiamo girando”. Siccome non era possibile fare le due cose insieme, Madame si limitò ad annuire e, procedendo in modo sistematico, andò prima a risolvere il problema in officina e poi a dare all’incerto regista il beneficio dei suoi consigli e della sua lunga esperienza. Incidenti come questi accadono di continuo nella sua giornata di lavoro. È l’atmosfera nella quale lavora tutto il giorno. Una volta, in un momento di sfinimento, esclamò sorridendo: “Se potessi dividermi in dieci non sarebbe ancora abbastaza. Madame serve qui e serve là. Tutti la vogliono dappertutto”. Dalle nove di mattina alle sei o alle sette di sera madame Blaché è sempre al lavoro. Silenziosamente, quasi senza darlo a vedere, modesta ma piena di energia, si muove di continuo su e giù per gli studi. Ha un’aria di raffinatezza e di cultura e i suoi vestiti scuri e poco appariscenti rivelano e al tempo stesso sottolineano la sua dignità. Questa dignità, comunque, non sconfina mai nell’impassibilità. Sorride in modo confortante a ogni persona che incontra. I suoi ordini vengono immediatamente e coscienziosamente eseguiti alla lettera non perché la si tema, ma perché la si ama. Sebbene Madame abbia idee ben precise e sia a volte molto risoluta nel pretendere che vengano realizzate, è sempre fin troppo disponibile a ricevere suggerimenti. Non è una donna facile alle lusinghe. Diversamente da altre donne in affari, è in grado di vedere per prima i propri errori e spesso di riconoscere, senza risentimento, la fondatezza della critica.
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Madame Blaché è un esempio sorprendente di donna moderna che si mette in affari e che lavora come un uomo. Riesce a realizzare ciò che tanti uomini tentano; ad avere successo in un settore nel quale centinaia di uomini hanno fallito. Provate a rivolgerle quella domanda che i giornalisti sono capaci di ripetere fino alla morte: “A che cosa attribuisce il suo successo, signora?”. Madame vi guarderà direttamente (come fa sempre) con quei suoi occhi del color dell’ardesia, rispondendovi unicamente con la tipica alzata di spalle che la caratterizza e con uno sguardo scintillante, a significare che non ha mai analizzato il suo successo. Possedendo integralmente i segreti dell’arte, essendo nata e cresciuta in un ambiente artistico, madame Blaché pretende sempre un livello molto alto ai suoi registi e ai suoi attori. Talvolta, ciò che a Parigi sarebbe considerato arte classica, viene giudicato opinabile dalla censura nostrana. Madame fatica a conciliare la sua formazione parigina con il puritanesimo americano. A questo proposito dichiarò un giorno con veemenza: “In Francia tutti gli artisti aspirano a raggiungere il massimo grado di realismo. Più si avvicinano alla realtà della vita, più le loro creazioni soddisfano il pubblico e più trionfale è il loro successo sul piano dell’arte. Qui, contrariamente ad ogni precedente artistico consolidato, ci troviamo di fronte a condizioni tali per cui mostrare un revolver o una rapina è considerato opinabile. Questo è un modo arretrato di vedere le cose. Come altri, ritengo che l’ostentazione flagrante del crimine e la glorificazione del vizio siano una minaccia per la società; ma la rappresentazione del male per trarne una lezione morale – al fine di ottenere un più forte effetto drammatico o di ritrarre in modo più verosimile un periodo nello sviluppo di un personaggio – dovrebbe essere permessa. La pantomima è la più difficile di tutte le forme d’espressione e limitarla alla rappresentazione di marionette patetiche e di soggetti all’acqua di rose, impedisce le sue possibilità di sviluppo in questo paese.” Durante la sua giornata di lavoro, madame Blaché affronta direttamente tutte le difficoltà che si presentano nello stabilimento. È strettamente a contatto con ogni aspetto degli affari della sua impresa ed è, senza ombra di dubbio, il fulcro da cui si irradiano tutte le attività della Solax. [H. Z. Levine, Madame Alice Blaché, “Photoplay”, n. 2, March 1912, pp. 37-38].
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Louis Reeves Harrison Una visita agli studi Solax Visitando uno studio o un ufficio, può capitare di imbattersi subito in certi bei tipi; in questo caso c’è da scommettere che presto ben altri campioni di varia umanità spunteranno all’orizzonte. Ma è vero anche il contrario. Se si è trattati con cortesia e considerazione fin dall’inizio, come lo fui io durante la mia visita agli studi Solax di Flushing, si può essere certi che alla testa degli affari vi sia una sorta di illuminazione o di superiore educazione. In questo caso, la testa dell’impresa, l’inizatrice, la capitalista, la direttrice artistica, la capo-regista è una raffinata signora francese, madame Alice Blaché. Questa è l’era delle donne e madame Blaché si sta prodigando a dimostrarlo senza tanta confusione. È favorevole al suffragio universale nella misura in cui le donne siano in grado di dimostrare di essere pronte per questo passo. Madame è così modesta riguardo alla sua attività alla Gaumont e alla Solax, che ho dovuto chiedere ad altri per ottenere i dettagli della sua straordinaria carriera nella produzione cinematografica. La modestia è la più dolce qualità che una donna possa possedere dal punto di vista dell’uomo, il quale si caratterizza essenzialmente per il suo egotismo; ma in aggiunta a questo il capo della Solax dimostra una deliziosa compostezza di maniere in ogni circostanza, anche la più difficile. L’uomo d’affari medio crede di poter accrescere la propria importanza mostrandosi contrario alle buone maniere, andando sempre di fretta, come se la tremenda responsabilità di guadagnarsi da vivere lo ponesse costantemente sotto pressione. Ho visitato svariati studi che certo non difettavano di consapevolezza circa l’importanza della pubblicità, ma i cui capi ostentavano quella certa vecchia aria da mi-deve-scusare-ma, come se la loro momentanea distrazione rischiasse da un momento all’altro di far crollare l’intera struttura commerciale. E questi uomini così incapaci di affrontare le contingenze sono poi gli stessi che si lamentano di non riuscire a ottenere un’attenzione adeguata. Fui personalmente guidato nella mia visita alla Solax dal gentilissimo Levine, redattore di “The Magnet”, e fui trattato così bene fin dal principio che il mio lavoro si trasformò in un piacere. Levine si rese conto che non mi ero recato lì a titolo individuale, ma in qualità di rappresentante dell’unico periodico
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nazionale che rappresenti un’autorità consolidata nel campo della produzione cinematografica. Levine è veramente una persona piena di vitalità. Appresi da lui e da altri che madame Alice Blaché entrò alla Gaumont molto presto, quando [Léon] Gaumont era ancora completamente assorbito negli aspetti scientifici della produzione o interessato unicamente alla fotografia di soggetti in movimento. Madame Blaché inaugurò la produzione di piccole scene cinematografiche presso la Gaumont circa sedici o diciassette anni fa, filmando lei stessa, scrivendo o curando gli adattamenti dei soggetti, preparando le scene e dirigendo gli attori. Ebbi l’occasione di apprezzare la sua efficienza in una molteplicità di ruoli prima che la giornata volgesse al termine, specialmente nel vederla dirigere l’azione di una scena particolarmente complessa. Madame giunse in questo Paese nel 1907 – suo marito all’epoca era il general manager della Gaumont in America – e costituì una società completamente indipendente, che non aveva nessuna relazione con la precedente e che lanciò con successo sotto il nome di Solax. Quando raggiunsi lo studio attualmente in uso – un altro è in corso di costruzione sull’altra riva dell’Hudson, nel New Jersey – madame Blaché e un cospicuo numero di attori e attrici si erano recati nei boschi di Long Island per girarvi con la luce del sole varie scene di Fra Diavolo, un lungometraggio tratto dall’opera omonima di Auber. Raggiunsi immediatamente il campo base della produzione in automobile, assieme a Levine, e mi trovai davanti un set all’aperto perfettamente attrezzato, con madame Blaché che dirigeva le prove da una pedana sopraelevata. La scena vista da sud rappresentava l’interno di un albergo, presumibilmente l’Hotellerie de Terracine, ma l’allestimento era duplice, dal momento che il lato nord ricreava l’ingresso dell’albergo. Dall’interno si poteva guardar fuori verso lo spazio aperto e osservare l’arrivo a cavallo del famoso bandito calabrese (interpretato da Billy Quirk), mentre la sua azione presso l’ingresso poteva essere ripresa, grazie all’ingegnosa disposizione dell’intera struttura, sia dall’interno che dall’esterno. In quel momento in scena c’era il gioviale George Paxton nel ruolo di un certo Richard, un pomposo e ricco gentiluomo, accanto alla seducente Miss Simpson, nel ruolo della sua attraente giovane moglie, e agli ospiti della locanda, tutti seduti intorno ai tavoli, mentre camerieri e cameriere
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dall’aspetto pittoresco, che sembravano appena usciti dalla rappresentazione dell’opera lirica, ravvivavano l’effetto con i loro costumi sgargianti. L’intero gruppo sembrava una tavolozza di colori luminosi, una teoria di costumi dai toni chiari e caldi che si stagliava contro un fondale interessante, con un focolare minuziosamente ricostruito che fungeva da punto d’attrazione visivo. Ma ciò che più colpiva era lo scorcio di natura che si intravvedeva dalla porta della locanda, un effetto calcolato per far dimenticare il teatro. La scena abbonda di movimento e l’azione si intensifica quando Foy, il locandiere, annuncia ai suoi inservienti che è in arrivo un altro viaggiatore. Ed ecco naturalmente il protagonista, Billy Quirk, che giunge a cavallo verso l’ingresso. Il suo arrivo provoca scompiglio; la giovane moglie nota l’avvenente straniero; l’anziano marito lo accoglie con aria sospettosa. Fra Diavolo ordina da bere e l’azione diviene estremamente complessa, specialmente nello spazio ridotto del piano ravvicinato in cui sono radunati gli attori principali. È ovvio aspettarsi che Fannie Simpson, Billy Quirk e George Paxton sappiano portare avanti i loro ruoli con intelligenza e armonia, ma c’è almeno un’altra mezza dozzina di personaggi da dirigere, cercando di evitare che intralcino la scena; gli occhi della regista devono essere ovunque. Madame Blaché dà i suoi segnali con tanta calma e compostezza che si direbbe che ci sia già stato un mese di prove in costume. Non è mai inquieta, mai agitata; mai irritata dagli sforzi invadenti di un interprete di secondo piano per farsi notare. Con poche, semplici istruzioni, pronunciate senza alcuna emozione apparente, dirige l’intreccio dei movimenti sulla scena come un capo militare dirigerebbe le manovre di un esercito. “Amo gli attori e le attrici americane”, dice con gioia; “sono così entusiasti di eseguire i loro compiti e dimostrano il più grande interesse in tutto quello che fanno”. Fui sorpreso di sentirla pronunciare quelle parole: si direbbe infatti che in Francia perfino i bambini possiedano un istinto teatrale. “Ma sono bravi quanto i francesi?”, domandai. “Quasi”, mi rassicurò, “e decisamente molto più malleabili. È un piacere dirigerli.” Il segreto sta nella dolcezza dei suoi modi e nella sua inesauribile pazienza. Al suo posto, avrei sbraitato una quantità di epiteti dei più coloriti in direzione di un cameriere che continuava a intromettersi nell’azione principale. Ma la regista possiede la quintessenza della gentilezza e un cuore d’oro. Ottiene con cortesia quello che un uomo tenterebbe di strappare con un sarcasmo pungente. In
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quell’occasione non potei fare a meno di ricordare ciò che disse una volta il fine statista, oratore e scrittore inglese Edmund Burke: “Le buone maniere sono più importanti delle leggi. Possono vessare o lenire, renderci volgari o raffinati, attraverso la costante, insensibile azione dell’aria che respiriamo. Danno forma e colore alle nostre vite”. Le prove delle scene in interni si erano concluse. Sulla piattaforma sopraelevata, madame Blaché, il cineoperatore e io ci stavamo chiedendo se fosse il caso di interrompere per la pausa pranzo, quando una scena pazzesca si produsse davanti ai nostri occhi, a pochi metri dalla scena predisposta per le riprese. Alcuni cavalli che erano stati legati a un vecchio palco esposto al sole, senza nessuno che si prendesse cura di loro, improvvisamente si spaventarono e sfrecciarono dritti verso il set, il teatro delle malefatte di Fra Diavolo. Si scagliarono al galoppo contro un altro gruppo di cavalli slegati, dando inizio a un folle scontro. Gli aiutanti di scena e gli attori in costume si tuffarono in questa rischiosa situazione e apparve subito chiara la gravità dei danni che ne sarebbero conseguiti. Con tutto quello che stava succedendo, l’operatore rimase immobile, laddove un reporter avrebbe scaricato tutti i rullini della sua macchina fotografica. Forse aveva paura di usare una cinepresa non sua, ma di sicuro nessuna messa in scena potrebbe mai ricostruire una situazione più animata di quella. Alla fine un gruppo di cavalli uscì dalla mischia e si diresse a gran velocità verso il punto in cui diversi attori, tra cui la piccola Magda [Foy] e sua madre, stavano attendendo il loro turno o assistendo alle prove, sterzando poco prima dell’impatto per poi procedere in direzione di Flushing. La vita di un attore non è sempre rose e fiori. La compagnia cercò un anfratto ombroso e io chiesi all’intraprendente operatore di poter rubare un’immagine del pittoresco gruppo che si era radunato sotto gli alberi, per placare il proprio immancabile appetito professionale. Ebbi così l’opportunità di rinnovare la mia amicizia con la più piccola delle tre attrici che sono apparse in The Little Major. La piccola Magda è talmente migliorata dalla sua prima apparizione – all’epoca riusciva appena a gattonare – al fianco di Helen Anderson in The Little Major da essere ormai divenuta una vera e propria attrice. All’epoca era solo un buffo bebé, che, per quanto carino, non mostrava certo di pos-
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sedere particolari capacità istrioniche; tutt’al più si riusciva a farle tenere gli occhi chiusi quando la sua parte prevedeva che dormisse. Quindi sono rimasto molto colpito poche settimane fa nel vederla recitare in un film Solax con un’intelligenza e un sentimento che mi sono apparsi straordinari, considerando la sua tenera età. Questo notevole miglioramento è probabilmente dovuto al particolare ambiente nel quale è cresciuta, dal momento che entrambi i suoi genitori sono attori di cinema. I suoi genitori la mantengono forte e sana – fuori scena, Magda non è altro che una bambina robusta e vivace –, evitando di disperdere la sua energia al chiuso in una scuola. Nondimeno è più brillante della maggior parte dei ragazzi della sua età e sta acquisendo una forza fisica che le sarà molto utile negli anni a venire. Ha una dote che spesso manca negli adulti: è in grado di concentrare la propria attenzione sull’azione che interpreta mentre viene ripresa, riesce a focalizzarsi sul suo personaggio meglio di tante donne adulte e sembra riuscire a dare il meglio di sé anche nelle situazioni più difficili, sempliemente seguendo il proprio istinto. Il lavoro d’attrice non l’ha viziata. Magda non è altro che una bambina felice dal cuore tenero e piena di affetti spontanei, più simile a ragazzino energico e vigoroso che a una fanciulla repressa e il suo atteggiamento è quello spontaneo di chi non ha ancora mai recitato in ruoli da protagonista. È semplicemente come dovrebbe essere una bambina. Dopo la colazione nel bosco si passò alle riprese vere e proprie, di una scena di Fra Diavolo quale apparirà effettivamente sullo schermo. Sono sempre sulle spine, come durante un match di boxe o un gioco di squadra concitato, quando osservo gli attori in azione mentre girano una scena. Il più piccolo errore, infatti, può significare dover rifare da capo l’intera scena e si crea un senso di suspense da melodramma vecchio stile, quando sembra che l’eroina sia lì lì per esser decapitata ed è con sollievo che si scopre che tutto finisce per il meglio. Per placare la mia agitazione mi concentrai su una collana d’aglio che era stata appesa nella locanda per conferirle una certa atmosfera italiana, e attesi. Ci fu solo un errore: lo stesso cameriere di prima sbucò dove non era richiesta la sua presenza e fu necessario rifare da capo la scena. Fui lieto di vedere che madame Blaché dava molta importanza alle buone maniere tra i membri della troupe, perché gli attori non brillano certo in materia di educazione; lo faceva con fermezza, benché i suoi metodi siano
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delicatissimi. Recentemente un impresario molto in vista di New York ha dichiarato che non vi è un solo attore in quella città che sappia comportarsi bene sul set, o addirittura che sia in grado di attraversare la scena al modo di un gentiluomo qualsiasi. Gli istrioni sono sempre degli attaccabrighe e i divi fanno fatica a lasciare a casa la tuba di seta anche se fanno una scampagnata fuori porta. Tra gli attori di cinema c’è una tendenza a giocare con la cinepresa che riduce inevitabilmente l’intensità della loro prestazione. In un film ad alto contenuto emotivo mi piacerebbe vedere degli interpreti capaci di entrare in profondità nello spirito della storia, di esprimere le vessazioni e le piccole ansie dell’esistenza quotidiana in modo più convincente di quanto in genere facciano. Ciò avrebbe un effetto ben superiore di tanti sguardi assassini lanciati con gli occhi storti o di tanti pianti irrefrenabili nei momenti drammatici. Migliaia di persone dimostrano forza d’animo nelle circostanze più difficili; nondimeno, i loro volti lasciano trasparire i segni caratteristici delle emozioni represse. L’idea guida è che i pensieri che attraversano la mente in questi momenti così intensi siano rappresentati chiaramente, ma al tempo stesso delicatamente, ciò che si può ottenere al meglio immedesimandosi nel personaggio. Mi piacerebbe anche che una donna dotata di gusto squisito come la presidente della Solax utilizzasse come teatro di posa, per gli interni e per gli esterni, certe nostre belle case di campagna, al posto delle pietose ambientazioni che ci vengono propinate. Negli ultimi dieci o quindici anni, il gusto estetico delle donne americane si è molto elevato grazie allo splendido lavoro di riviste come “Country Life”, dedicate all’illustrazione di case eleganti e di esempi corretti di arredamento. Ma i nostri film non mostrano nulla di tutto ciò, a eccezione di alcuni di quelli girati a Los Angeles, ma anche lì la selezione sembra essere condotta a caso. Un francese sarà facilmente in grado di ricreare un interno francese – si tratterà essenzialmente di tener conto del periodo – e lo stesso si può dire di un regista inglese di buona cultura. Il nostro pubblico invece è costretto a sorbirsi dei veri e propri obbrobri in fatto di scene, le quali in genere sembrano prelevate da negozi di seconda mano o dalle botteghe dei rigattieri. Tutto questo è così offensivo che gran parte del pubblico migliore si tiene a distanza dai cinema a causa degli spaventosi e repellenti drappeggi delle scene in interni. Una corretta scenografia, rappresentativa dell’America nel senso
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migliore del termine, migliorerebbe enormemente qualsiasi produzione cinematografica, da noi come all’estero. Occorre sempre ricordare che l’attrattiva visiva è fondamentale: dopo tutto si tratta di immagini e perché possano risultare efficaci, bisogna che siano coerenti. L’arredamento finto coloniale è stato sfruttato fino alla nausea e poiché non è possibile entrare nelle case autentiche dove vengono date cene e feste da ballo in un’atmosfera sociale brillante, la guida più sicura per ricostruire questo genere di interni si trova nelle riviste illustrate dedicate alle delizie della interior life americana. La bellezza fresca e originale di queste case potrebbe contribuire in maniera determinante al fascino dei nostri film e il primo produttore che se ne servirà potrà godere di una sorta di marchio Tiffany sia qui che all’estero. Fui molto dispiaciuto di dover lasciare madame Blaché e la sua gioiosa famiglia di uomini coraggiosi e donne adorabili, ma il sole calante mi ricordò che mi aspettava un lungo viaggio e a noi poveri scribacchini tocca di fare il nostro lavoro a qualsiasi ora, così mi accomiatai rassegnato. Sulla via di ritorno fui salutato dalle ultime parole della piccola, dolcissima Magda: “quando tornerai?” [Louis Reeves Harrison, Studio Saunterings, “The Moving Picture World”, n. 11, 15 June 1912, pp. 1007-1011].
Fatti e fantasticherie su una donna che vale la pena conoscere I lettori che cercano fedelmente, numero dopo numero, la copertina gialla della nostra rivista, che hanno avuto il privilegio di conoscere tanti aspetti del mondo del cinema, saranno sorpresi di scoprire che in questo universo agisce una donna, una donna vera, reale. Avendo osato seguire la propria passione fino ad entrare nel misterioso regno della fotografia in movimento, questa donna suscita un interesse anche più grande delle sue sorelle che si limitano semplicemente a contribuire alla realizzazione dei film. Madame Alice Blaché, presidente e direttore generale, regista e produttrice, fa film. Capito? Li fa. Non esiste alcun aspetto del meccanismo cinematografico
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che le sfugga. Dunque, benché abbia iniziato presto, non si vanta dicendo di essere “l’uomo più vecchio del mestiere!” Nella prefazione a Un padre prodigo, Alexandre Dumas figlio scrive: “Tra tutte le molteplici forme del pensiero il palco è quello che più si avvicina alle arti plastiche, nel senso che vi si può lavorare a meno di conoscere i suoi processi materiali; ma con una differenza: mentre nelle altre arti questi processi si possono apprendere, nella scrittura drammatica occorre intuirli o, per essere più precisi, è necessario averli dentro fin dal principio.” Peccato che Dumas non si riferisse al cinema, ma al talento di suo padre. In ogni caso aggiunge: “Si può diventare pittori, scultori e musicisti anche solo attraverso lo studio, ma non si può diventare drammaturghi allo stesso modo. Un capriccio della natura fa sì che il tuo occhio ti faccia vedere le cose sotto una luce particolare, non del tutto corretta, ma che in ogni caso apparirà a chiunque tu voglia l’unico punto di vista plausibile.” Qui troviamo un’affermazione assolutamente pertinente alla produzione filmica. Non c’è personaggio più affascinante del regista, nella grande recita del cinema: il giudice ultimo della sceneggiatura; lo scienziato delle ottiche. I suoi silenzi, i suoi gesti, divengono combinazioni atmosferiche di un carattere quasi estatico: realizzatori di film moderni “si nasce e si diventa”, su questo non ci può essere alcun dubbio. Un giorno si scriverà una biografia di madame Alice Blaché. La si potrebbe riassumere in poche righe, tanto semplice e tranquilla e fortunata, per quanto ci è dato di sapere, è stata la sua vita. Madame Blaché è nata in Francia e ha ereditato la sua eleganza dai genitori, che furono sufficientemente lungimiranti da assicurarle un’ottima educazione. Ebbe la fortuna di crescere in un ambiente di qualità, che le assicurò una buona cultura e sane distrazioni. Può dunque vantare tutto ciò che serve per essere una donna brillante, piena di arguzia e di umorismo. Che possieda anche i requisiti di una donna d’affari è ben dimostrato dalla posizione dominante – del tutto straordinaria per una donna – che occupa nella sua impresa, che la vede impegnata in attività di alta responsabilità. Tra le altre notevoli attrattive di questa donna eccezionale occorre menzionare il suo grande equilibrio e il suo buon senso. Benché abbia un carattere molto forte, non perde mai il controllo. La carriera cinematografica di madame Blaché ebbe inizio a Parigi, presso la Gaumont. L’abilità dimostrata in tanti anni di attività in tutti i diversi comparti
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del grande stabilimento le fece conquistare la piena fiducia dei dirigenti. Dopo il matrimonio con Herbert Blaché, il rappresentante di Gaumont negli Stati Uniti, lo seguì in questo paese nel ruolo di moglie premurosa e insieme di consigliera. Intuì rapidamente le potenzialità che avrebbe potuto avere una casa di produzione indipendente e, con i propri risparmi, diede vita alla Solax; fece costruire lo stabilimento su un terreno adiacente agli studi Gaumont di Flushing, Long Island; assunse la presidenza della compagnia e si assicurò i talenti necessari, supervisionando e controllando ogni dettaglio. Solo di recente la Solax ha abbandonato la vecchia sede per trasferirsi nella nuova struttura, più grande e più moderna, appena costruita Fort Lee, nel New Jersey. Tutti coloro che lavorano nel cinema conoscono bene il marchio Solax. La distribuzione dei suoi prodotti è assicurata dalla Film Supply Company; questa combinazione, in aggiunta alle moderne attrezzature disponibili nel nuovo stabilimente e alle qualità di madame Blaché, garantisce un’assoluta qualità alla produzione. Non è necessario rivelare l’età della signora: questa non è una biografia. La genealogia della famiglia ha le sue radici oltreoceano, ma ricorderete che, l’estate scorsa, un piccolo Blaché si trasferì a Flushing e non è difficile immaginare che, con il babbo presidente della Film Supply e la mamma presidente della Solax, il piccolinio crescerà e non mancherà di presentare la sua candidatura alla Patents Company. Madame Blaché non ha pazienza con la censura cinematografica. È una francese e crede nel realismo. Sostiene che l’unico giudice debba essere il pubblico. E nessuno sa meglio di lei che la pantomima deve sempre affrontare mille problemi e che la censura delle scene realistiche è un ulteriore fardello per il produttore. In una certa occasione, la sua formazione straniera e la sua conoscenza di quello che può ‘funzionare’ all’estero è stata all’origine di qualche guaio, unicamente motivato dal suo desiderio di offrire al pubblico una potente lezione morale. Ciò nonostante, la sua intelligenza e la sua capacità di affrontare qualsiasi situazione l’hanno resa grande e, nel trambusto del lavoro, il fatto che la timoniera della Solax sia una donna sembra essere passato in secondo piano. [Facts and Fancies About a Woman You Know Or Ought To Know, “Motography”, n. 8, 12 October, 1912, pp. 293-294].
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Harvey H. Gates
Alice Blaché, una figura dominante nel cinema In quel momento madame Alice Blaché era occupata. Avrei potuto aspettare, o altrimenti, mi avrebbe fatto piacere salire nello studio dove Madame era impegnata a supervisionare la realizzazione di alcune scene di un film comico di prossima uscita? Era proprio l’opportunità che speravo di avere, poter vedere questa donna eccezionale al lavoro. Risposi di sì e subito fui condotto attraverso un corridoio e su, per una scala, dove respirai un odore pungente di pittura fresca. Calorosamente accolto, fui collocato su una sedia all’ombra, appena al riparo dalle accecanti luci al tungsteno, e abbandonato a me stesso, potei formarmi la mia prima impressione di Madame, che in seguito sarebbe stata confermata e ampliata nel corso di una più riservata conversazione a quattr’occhi. Capita spesso di sentire storie di magnifici traguardi raggiunti da ragazzi di campagna arrivati nelle grandi metropoli in cerca di fortuna, ma è raro che tra le righe della Storia faccia capolino una vicenda professionale così straordinaria come quella della donna che mi trovavo ad osservare. Nove anni fa madame Blaché venne in questo paese come moglie e consigliera di Herbert Blaché, il rappresentante americano della Gaumont. Non parlava una sola parola di inglese e i suoi amici si contavano sulle dita di una mano. Oggi è divenuta la figura dominante di un’impresa e di uno studio cinematografico, da lei stessa organizzato e costruito, dai quali ricava un profitto di circa cinquanta o sessantamila dollari l’anno. E quanto agli amici, si sa che il successo ne produce in quantità straordinaria! “Sì”, mi disse più tardi, “è curioso che mi trovi oggi impegnata nella produzione cinematografica. Ma nello stesso tempo, non c’è nulla di strano. Quando arrivai in questo paese non avevo certo in mente di dirigere una casa di produzione, anche se avevo lavorato con Gaumont fin dall’inizio della sua attività. Ma non conoscendo né la lingua, né i costumi, né la cultura di questo paese, mi ci volle una lunga riflessione prima di iniziare quest’avventura.” La Dama Fortuna ha ben poco a che fare con la carriera di madame Blaché. Ciò che è riuscita a realizzare è solo il risultato dei suoi sforzi personali e del pensiero e delle qualità di cui è dotata. Il progetto è stato pensato,
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studiato e lanciato nel modo più attento, senza lasciar nulla al capriccio del caso. A questo proposito, madame Blaché dice: “Spreco è sempre stato per me una parola odiosa. Credo che sia uno dei crimini peggiori in qualsiasi sua forma: lo aborro nella mia vita e in quella degli altri e penso sia stata questa la prima molla che mi ha spinta all’azione. Avevo esperienza nel mondo del cinema, lo conoscevo a fondo e mi sembrava un peccato non mettere a frutto le mie conoscenze in una situazione così favorevole. Mio marito era con me anima e corpo e se non fosse stato per l’impegno che lo legava alla Gaumont avremmo gestito l’impresa insieme. Non mi ha mai lasciata senza i suoi consigli e il suo supporto e ho potuto contare sull’aiuto di tanti amici. “Probabilmente non sarei mai stata in grado di raggiungere gli stessi obiettivi in un altro paese, in particolare in Francia.” Quest’ultimo commento mi lasciò perplesso e la mia richiesta di spiegazioni la condusse a una riflessione sulle condizioni di vita e sulla cultura di questo paese e a un confronto con il suo paese d’origine. Le sue opinioni sono interessanti. “Sono una donna, capisce?” In realtà lo capivo solo vagamente, dato che non conoscevo molto della condizione delle donne nel resto d’Europa. Rimasi, quindi, insoddisfatto della risposta finché il concetto non fu approfondito. “Qui, in generale, la lotta e la vittoria appartengono ai forti, indipendentemente dal sesso. Non è così nel luogo da cui provengo. In Francia le donne sono solo donne, trattate con la dovuta deferenza dagli uomini di buona educazione, coccolate e riempite d’attenzione. Le donne occupano una posizione inferiore e raramente esprimono libermente la propria opinione. L’arte, in alcune sue forme, è in pratica l’unico campo accessibile alle donne. Naturalmente ci sono eccezioni, ma sono rare. “Qui è così diverso e infatti non ho mai rimpianto di aver seguito mio marito, di poter vivere e crescere tra persone così interessanti e cosmopolite. Si parla della cavalleria francese: esiste, certo, ma è un fatto per lo più superficiale. Finché una donna rimane in quello che si suole definire come il suo posto, non soffrirà che di piccole vessazioni. Ma qualora le sia concesso di assumere le prerogative normalmente accordate ai suoi fratelli, sarà malvista. In America, l’atteggiamento verso le donne è completamente diverso.
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“Nella mia prima esperienza con attori americani non mi ero ancora pienamente resa conto di questo e misi in pratica delle tattiche sbagliate. Dirigevo con il pugno di ferro. Ma compresi presto il mio errore e da allora ho fatto grandi progressi. Un gentiluomo americano che viene a lavorare da noi presume che io sappia quello che sto facendo e che abbia tutti i diritti di essere dove sono. Per contro in Francia se una donna tenta di dirigere e supervisionare il lavoro di un uomo va incontro a un conflitto permanente. Agli uomini francesi questo non piace e non esitano a dimostrarlo.” Non è necessario aggiungere che madame Blaché ha avuto numerose occasioni di osservare e studiare l’arte della recitazione cinematografica – qui da noi e nel suo paese d’origine – e che di conseguenza è giunta a una serie di conclusioni in materia. A suo avviso la recitazione è per lo più una questione legata all’individuo. Tecnicamente, una buona recitazione non dipende né dal carattere, né dalla razza. La sua forza è innata e scaturisce dal desiderio di ottenere l’approvazione del pubblico. Madame ritiene inoltre che attori di uguale capacità siano spesso assai diversi per natura e facoltà mentali. “Nel mio studio”, riprese, “mi rivolgo ai miei attori dicendo: ‘questo è il tuo ruolo’. L’attore o l’attrice prende la sceneggiatura, la legge e la studia trovando la propria personale interpretazione. Il metodo americano di recitazione prevede che l’attore filtri e regoli la recitazione attraverso la propria mente e di conseguenza il regista, comparativamente parlando, ha meno problemi. Se le idee dell’attore, in certi punti, sono sbagliate, in genere il regista le può correggere, facendo appello alla ragione. Ma per il francese medio questa non è recitazione. Attenzione, voglio dire per la maggioranza. Io, per esempio, la penso diversamente. Che differenza fa se si ottiene lo stesso risultato per altre vie? Se, come ritengono i francesi, l’interpretazione viene spontaneamente dal cuore, forse può essere resa anche più efficace se viene corretta. A volte infatti è sbagliata e allora il regista arriva allo stremo nel tentativo di far capire all’attore i suoi errori. ‘Mi viene dal cuore’ è la tipica espressione che l’attore contrappone alle argomentazioni del regista. Per questo trovo molto più difficile lavorare con i miei connazionali che con gli americani.” Mentre descriveva il suo lavoro di regista e presidente della Solax, madame Blaché lasciò cadere un’osservazione circa il fatto che, non molto tempo prima, aveva avuto difficoltà a trovare un candidato idoneo per un posto di
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regista rimasto vacante per alcuni mesi. “È dunque così difficile trovare un buon regista?”, le chiesi, e la risposta che segui portò la conversazione sul tema delle persone “in gamba, pessime o indifferenti” attualmente impiegate nel mondo del cinema. “Trovo molto difficile” disse “trovare dei buoni registi e mi rifiuto di farmi carico di chi non sia all’altezza. Il posto è rimasto vacante per questo motivo. Sa bene che ci sono troppe persone che dichiarano di conoscere l’arte della regia. Sinceramente preferisco che siano altri produttori a metterli alla prova. Forse è un po’ egoistico da parte mia, perché qualcuno deve pure insegnare loro il mestiere. Ma ci sono tante compagnie che sono pronte a farlo senza rendersene conto, ritenendo di aver fatto un ottimo affare.” “Questo risponde per caso alla domanda circa il motivo per il quale esistano così tanti incompetenti in questo mestiere?”, azzardai, e Madame annuì. “Veda”, continuò, “non siamo ancora arrivati al punto di apprezzare il valore. E il risultato è che ci vengono rifilati i novellini. Ma non tanto nel ramo attoriale, dal momento che, se il regista sa fare il proprio lavoro, è difficile che possa cadere in quest’errore. Del resto non è passato troppo tempo da quando avevamo a che fare con pessimi attori. Ma non dipendeva da noi. Il lavoro nel cinema non veniva preso seriamente e tutto ciò che potevamo fare era cercare di tamponare i difetti ricorrendo a tutte le nostre capacità. Attualmente non è più concepibile proporre sullo schermo un attore poco bravo.” Un giorno si scriverà una biografia di madame Blaché, perché tutti possano conoscere i dettagli della sua vita semplice e fortunata, ed ecco alcuni dei fatti che conterrà. Fu con il suo denaro (non molto) che fece nascere la Solax; costruì uno stabilimento su un lotto di terreno confinante con gli studi Gaumont a Flushing e, con un occhio alla possibilità di riuscire a fare qualcosa di valore, assunse la presidenza della compagnia e raccolse attorno a sé i talenti necessari, supervisionando e controllando ogni dettaglio. Più tardi l’impresa fu trasferita in una struttura più grande e moderna costruita a Fort Lee, nel New Jersey. Ma nel ricordare tutto questo, Madame fu insistente circa il fatto di non aver mai trascurato i suoi doveri di moglie e di madre. “Sono fatta così”, spiegò. “Anche se amo raggiungere grandi traguardi, ritengo che il mio primo dovere sia verso i miei cari.” Madame ha due figli: Simone, una precoce bambina di cinque anni e un bambino che ha aperto gli occhi sul mondo appena qualche mese fa.
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Simone passa parecchio tempo con sua madre. Lo studio è il suo parco dei divertimenti e gli attori una sorta di famiglia allargata, i suoi compagni di gioco. Proprio sua figlia, i suoi capricci e il suo chiacchiericcio follemente saggio sono il soggetto sul quale sua madre ama intrattenersi più che su qualsiasi altra cosa. “Questa bambina”, disse sorridendo “riesce a essere così divertente. La sua influenza e il suo spirito positivo aiutano, in larga misura, a mantenere allegre e soddisfatte le persone che lavorano con me. Raramente qualcuno va via. Nessuno è stato con me per meno di un anno. L’altra notte Simone stava osservando la scena di un film nel quale l’eroe doveva morire. ‘Mamma’, mi disse, ‘perché il signor [Darwin] Karr – che è il mio primo attore – deve morire?’. ‘Perché è povero, non ha soldi’, le risposi. La sera dopo, rientrando a casa, rimestando nella sua borsettina tirò fuori quindici centesimi che le avevo dato qualche giorno prima. ‘Mamma, dalli al signor Karr, così forse non dovrà morire’ ”. Madame Blaché non pretende di sapere quello che faranno i suoi figli quando cresceranno. Cercherà di dirigerli e plasmarli al meglio delle sue possibilità, ma lasciando loro la possibilità di scegliere. A suo avviso, è questa la prerogativa di tutti i bambini. [Harvey H. Gates, Alice Blaché, a Dominant Figure in Pictures, “The New York Dramatic Mirror”, n. 1768, 6 November 1912, p. 28].
Gertrud Price Una giovane donna alla testa di un’impresa cinematografica “Venga, venga pure.” Il fatto che il pavimento non fosse rivestito, che l’arredamento fosse di un tipo semplice da ufficio e che il luogo in cui mi trovavo fosse uno stabilimento cinematografico mi scivolò via dalla mente non appena Alice Blaché, la sola donna proprietaria, presidente, direttrice e produttrice di un’azienda cinematografica in questo paese, mi invitò a entrare. Madame Blaché, la fondatrice degli studi Solax a Fort Lee, nel New Jersey,
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è una gentildonna con una personalità da salotto e un cervello da uomo per gli affari. “Sono arrivata in questo paese per seguire mio marito”, mi disse quando le chiesi di parlarmi del suo lavoro. E con quel suo simpatico accento, che si fa sentire quanto basta per darle un tocco intrigante, mi raccontò come avesse cominciato, “oh, tanti anni fa”, come segretaria privata di Gaumont, il produttore cinematografico francese. Gli aspetti tecnici e artistici dell’attività l’affascinavano. Così si mise a studiarla e si impadronì di tutte le sue sfaccettature. Cupido si incaricò di farle conoscere Herbert Blaché, allora occupato presso la filiale londinese della Gaumont. Si sposarono. Blaché fu trasferito negli Stati Uniti in qualità di rappresentante americano della compagnia. “Ed ecco il motivo per cui mi trovo qui”, dichiarò sorridendo la mia ospite. Ecco un punto interessante che piacerà alle industriose donne americane. Madame Blaché si decise a fondare la Solax perché odia lo spreco. Aveva tempo. Aveva le capacità. Le piaceva lavorare nel cinema. E voleva far uso di queste doti. “Mio marito era occupato. Perché non avrei dovuto provare?”, mi chiese, sollevando appena le sopracciglia e alzando le spalle, sempre in quel suo modo solo accennato. L’ingegnosità del suo piano appare evidente nelle dimensioni, nell’attrezzatura e nelle produzioni della Solax, che, tra parentesi, è situata su una collinetta che si staglia sul pittoresco sfondo boscoso del Jersey. Sul luogo aleggia tutta un’atmosfera raffinata e soave che non si fatica a ricondurre alla sua direttrice. Ma quel che si può dire della presidente della Solax non finisce qui. Ella conosce ogni aspetto della manifattura e della produzione cinematografica, dalla A alla Z. Ciò mi fu dimostrato, se dimostrazione fosse stata necessaria, mentre sedevo nel grande studio, osservandola mentre dirigeva un suo film. Quando fu terminata la preparazione delle scene, gli attori furono pronti e l’operatore in posizione, madame Blaché si infilò il cappotto di pelliccia (fuori tirava un brutto vento e anche il grande studio era gelido), avanzò verso la macchina da presa e strizzò l’occhio nell’obiettivo.
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Gli attori cominciarono a recitare, la macchina a ronzare e Madame a dirigere, con voce piacevole e cangiante. “Oh, così non va”, esclamò toccando il braccio dell’operatore e muovendosi in direzione degli attori. “Bisogna mettere più sentimento. Così”, disse, mentre collocava il braccio della giovane attrice nella posizione desiderata e sottolineava il ‘punto’ della scena e le varie battute. “Bene. E adesso riproviamo”. Ecco dunque come Madame produce i suoi film. Ogni cosa è condotta con gentilezza e delicatezza. Madame Blaché ama i suoi collaboratori e cerca di aiutarli come aiuta se stessa. Gli attori del suo studio formano una specie di famiglia da cui il conflitto è bandito. Tre dei più recenti soggetti di madame Blaché sono Flesh and Hood, The Unknown Heart e The Face in the Window. [Gertrud Price, Charming Little Woman Runs Movie Business by Herself, and Makes Big Success, “The De Moines News”, 8 February 1913, p. 2].
Come si produce un lungometraggio È stata una gran fortuna questa settimana passare dallo studio Solax di Fort Lee. L’edificio vivace e soleggiato e la sua atmosfera di gioia e armonia tra le persone, cui anche il meno importante degli impiegati sembra prendere parte, uniti alla cortesia di madame Blaché, lasciano sempre nella mente del visitatore un ricordo piacevole. Chiunque esca da Fort Lee ritorna pieno di entusiasmo e ammirazione. Non è solo l’amenità del luogo e delle persone che vi si incontrano a farsi notare, ma anche l’ordine e la linearità con cui viene svolto il lavoro. È tutto molto lindo e tranquillo; è il posto ideale per lavorare bene, soprattutto per quegli animi sensibili che riescono a tessere una storia a partire da piccole suggestioni e a prefigurare un’opera appassionante partendo da una o due scene complete: un luogo pieno d’una poesia d’altri tempi. Qui madame Blaché sta lavorando alla realizzazione di un film che racconterà la celebre, antica storia di Dick Whittington e del
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suo gatto. Fummo portati a vedere le campane – di notevoli dimensioni – che suoneranno il loro incoraggiamento per il giovanotto dai piedi stanchi: “gira ancora Whittington, signor Sindaco di Londra”. E tanti altri dettagli si aggiunsero ad accrescere la nostra curiosità di vedere sullo schermo il film finito, completo in tutti suoi tre rulli. Secondo madame Blaché, sarà un prodotto anche migliore di Fra Diavolo. E se le sue previsioni sono giuste, sarà davvero qualcosa di molto bello. A giudicare da ciò che abbiamo visto, due scene in corso di realizzazione, un rullo già filmato, la scenografia e gli arredamenti accuratamente predisposti per altre riprese, non dubitiamo che il lavoro farà scalpore per i suoi meriti artistici. Di sicuro non è stato un film facile da preparare, perché l’epoca di Dick è svanita nella notte dei tempi e tutte le scene principali hanno dovuto essere minuziosamente ricostruite. Madame Blaché non è tipo da accontentarsi nella produzione di un film, non le basta che la scenografia si limiti a riprodurre gli ambienti in cui ha vissuto l’eroe di ogni ragazzino inglese, ma esige la più perfetta illusione di realtà e salta agli occhi che per raggiungere il suo obiettivo non ha risparmiato né mezzi né denaro. Nelle riprese già effettuate questo risultato è stato raggiunto in modo esemplare. Abbiamo visto una scena ambientata nell’enorme cucina della casa del mercante inglese presso cui Dick ottiene un lavoro come sguattero. Sperava di trovare l’oro e di diventare un grande mercante, ma almeno ha trovato una casa, anche se deve sgobbare, soffiare sul fuoco col mantice, lucidare l’ottone e tutte le pentole, di fattura simile alle antiche, di cui la cucina è piena. La suggestione creata da questa scena è ben sostenuta dalla recitazione e ha tutto il fascino di una stampa antica. Si ha l’impressione di trovarsi davvero in quella cucina e di sapere che tutto è come dovrebbe essere. Alcune scene dovranno essere ambientate a bordo di una nave, l’antico veliero inglese su cui Dick compie il suo lungo viaggio insieme al gatto che farà la sua fortuna. Il veliero è stato così ben ricostruito che è un vero piacere osservarlo in tutti i suoi dettagli; sembra davvero autentico e il suo effetto sullo schermo sarà magnifico. Poi c’è la ripresa in cui Dick arriva alle porte della città e viene fermato dalle guardie. Il pubblico si chiederà meravigliato dove sia stata girata, perché la ricostruzione è stata fatta in modo così accurato che la porta sembra essere di pietra massiccia. La realizzazione
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di queste scene ha richiesto molto studio e ricerche. Prima di iniziare le riprese, madame Blaché ha trascorso un lungo periodo esaminando vecchie stampe e documentandosi sul periodo in questione. Avendo un’idea precisa di ciò che serviva, ha fatto di tutto per ottenerlo senza badare a spese. Perciò il film non sarà soltanto divertente, ma anche valido da un punto di vista storico. Un film dotato di splendide scenografie ma mal realizzato, sarebbe come un prezioso bicchiere per un viaggiatore assetato. Potrebbe suscitare la sua ammirazione, ma senza acqua per dissetarlo, sarebbe per lui pressoché privo di interesse. Al contrario, questo film sarà pieno della più vera umanità, limpido come acqua di fonte. Gli attori che abbiamo visto al lavoro recitavano in modo assolutamente sincero e naturale. Guardando madame Blaché all’opera sul set, si comprende tutta la cura e l’attenzione che sono necessarie anche per i più piccoli dettagli in ogni istante delle riprese, condizioni indispensabili per ottenere un prodotto di qualità. Osservando questa talentuosa produttrice mentre dirige con calma i suoi attori, si riceve una vivida impressione di ciò che la sua mente sta creando con l’immaginazione. L’empatia che si stabilisce tra lei e l’attore che in quel momento, anche solo per un breve istante, è al centro della storia sembra opera di magia ed è meraviglioso constatare con quanta facilità Madame sappia ottenere l’effetto desiderato. È il potere d’una regia gentile che sa ottenere i propri scopi. Il fatto che questa influenza sia percepibile a chiunque la osservi nel suo lavoro, dimostra quanto sia nitida la capacità di visualizzazione della regista e l’assoluta precisione delle sue idee. Durante le riprese lo studio è tranquillo come uno stagno al tramonto, ma se accade qualcosa di divertente madame Blaché è la prima che se ne accorge e che scoppia ridere. Quando si verifica qualche incidente che rovina la scena, ciò che può sempre accadere su qualsiasi set, è subito in grado di coglierne il lato ironico. Una simile attitudine nei confronti della vita fa risparmiare tantissimo stress emotivo e logorio nervoso. Non abbiamo notato alcun segno di nervosismo negli studi Solax, ma abbiamo visto tanta allegria disciplinata e tante risate, che però non interferivano con il lavoro. L’ammirazione e la sincera lealtà di tutto il personale nei confronti di madame Blaché sono evidenti ovunque. L’allegria non viene repressa e il lavoro prospera ordinatamente. In una scena si doveva filmare un carretto
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trainato da un mulo. Era un mulo come tanti, di quelli che sanno stare in equilibrio sulle zampe anteriori mentre scalciano con quelle posteriori con la forza d’una molla d’acciaio. Uno degli attori voleva farselo amico e tentò di grattargli la schiena. Fu come se la lama d’un coltello a serramanico si fosse aperta di scatto e per tutto ringraziamento l’uomo ottenne la sua battuta d’uscita senza alcun bisogno di recitare. Non è ancora possibile prevedere con esattezza ciò che gli attori saranno in grado di darci. Il cast è molto ampio e noi abbiamo potuto incontrare solo alcuni degli interpreti; ma quei pochi hanno tutta la nostra ammirazione. Il ruolo di Dick dal momento in cui arriva a Londra è affidato a Vinnie Burns e le scene in cui l’abbiamo vista recitare non ci permettono di dubitare che otterrà anche stavolta il successo che ha sempre meritato. Il lavoro della signora Hurley è fin troppo noto perché ci sia bisogno di aggiungere che si dimostra all’altezza delle sue migliori prestazioni. Tutto ciò la dice lunga sulla qualità del film. Gli interpreti che più ci hanno colpiti davano l’impressione d’essere calati con tutti i loro sensi nell’atmosfera romantica della storia e la loro prestazione ha raggiunto la perfezione, o almeno vi è andata molto vicino. [The Making of a Feature, “The Moving Picture World”, n. 9, 1 March, 1913, pp. 873-874].
Alice Guy Il ruolo della donna nella produzione cinematografica Per me è sempre stato motivo di stupore constatare come le donne abbiamo colto finora solo in minima parte la magnifica opportunità che l’arte cinematografica offre loro di raggiungere la fama e la fortuna come produttrici di film. Di tutte le arti, infatti, questa è probabilmente quella in cui le donne possono esprimere nel modo più splendido talenti, che sono per loro tanto più naturali di quanto non lo siano per gli uomini e di cui il cinema ha assolutamente bisogno per giungere alla sua perfezione.
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Indubbiamente in molti settori il successo delle donne è tuttora ostacolato dal forte pregiudizio che circonda qualsiasi persona di sesso femminile che intraprenda un’attività che per centinaia di anni è stata svolta unicamente da uomini. Naturalmente questo pregiudizio sta rapidamente svanendo ed esistono molti ambiti espressivi nei quali non è mai stato presente. Nell’arte della recitazione, nella musica, nella pittura e nella letteratura le donne hanno ottenuto grandi successi anche in passato e dunque, considerando il ruolo vitale che tutte queste arti svolgono nella produzione cinematografica, è naturale chiedersi come mai tra i registi di maggior successo i nomi femminili non si contino a dozzine. Non solo le capacità delle donne nell’ambito della messa in scena sono pari a quelle degli uomini, ma si rivelano per molti aspetti vantaggiose, in quanto gran parte delle competenze necessarie per narrare una storia e creare le scene rientrano assolutamente nelle propensioni del gentil sesso. La donna è un’autorità indiscussa in materia di sentimento. Per secoli ha espresso liberamente le sue emozioni, mentre l’uomo si è esercitato a controllarle accuratamente. Protetta dal mondo dai suoi compagni maschi, ha coltivato per generazioni i propri sentimenti più delicati e ha sviluppato un forte istinto religioso. La sua superiorità nelle questioni di cuore è ampiamente riconosciuta; il suo profondo intuito e la sensibilità per tutto ciò che concerne le trame di Cupido le danno un eccezionale vantaggio nella creazione degli intrecci sentimentali, che giocano un ruolo fondamentale in quasi tutti i soggetti realizzati per lo schermo. Tutte le qualità distintive di cui è dotata entrano direttamente in gioco nella direzione degli attori, permettendole di guidarli nella costruzione del personaggio e nella ricerca di tutte le diverse emozioni che la storia richiede. Perché infatti, immaginare e sentire le situazioni descritte nella sceneggiatura è il vero segreto di una buona recitazione e la sensibilità per questo genere di emozioni è il requisito essenziale di un regista di successo. Anche la pazienza e la gentilezza, altre qualità tipicamente femminili, sono di inestimabile valore nella direzione di un film. Il temperamento artistico è un aspetto da tenere nel dovuto conto quando si dirigono gli attori e a dispetto di come la cosa viene rappresentata nelle vignette dei giornali umoristici, un regista che non alza la voce sarà senz’altro più efficace e
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otterà dall’interprete un risultato migliore di quanto potrebbe mai fare un cerbero rumoroso e privo di tatto. Accanto al trattamento del soggetto in vista delle riprese e alla selezione e direzione degli attori, una parte non secondaria del lavoro del regista è rappresentata dalla scelta dei luoghi in cui ambientare gli esterni, nonché dalla supervisione del lavoro di preparazione delle scene in studio, dell’arredamento, dei costumi ecc. Anche in questo caso, mi pare che le donne siano particolarmente qualificate per ottenere i migliori risultati, dal momento che questo tipo di attività costituisce quasi per loro una seconda natura. L’occhio femminile è abituato a esaminare ogni figura umana, ogni costume, ogni luogo e ogni elemento d’arredo con i quali venga in contatto, cosìcché rimane altrettanto impressionato dalla bellezza di un panorama come di un singolo fiore. La padronanza estensiva e puntuale di tutti questi aspetti è d’importanza capitale nella direzione di un film. Il tocco magico di una donna risulta subito evidente in una casa. Perché mai non dovrebbe essere altrettanto evidente nella casa di un personaggio cinematografico? Che le donne abbiano un ruolo fondamentale dal punto di vista degli incassi è un dato assodato. Gli esercenti sanno bene che, se vogliono avere successo, devono riuscire a interessare in primo luogo il pubblico femminile e tutti i loro sforzi sono naturalmente rivolti in questa direzione. Di conseguenza, quale rara opportunità si offre alle donne, usare la loro innata conoscenza di ciò che le attrae per realizzare dei film dotati di quel quid inesplicabile che fa il successo di un’opera teatrale e cinematografica! Non c’è nulla che abbia a che fare con il cinema che una donna non possa fare altrettanto bene di un uomo e non vi è alcun motivo per pensare che le donne non possano padroneggiare completamente tutti gli aspetti tecnici di quest’arte. La tecnica drammaturgica è divenuta patrimonio di un così vasto numero di donne che in campo teatrale è ormai considerata di pertinenza di entrambi i sessi e non vi è ragione perché il suo adattamento all’ambito cinematografico non dovrebbe procedere sulle stesse linee. La tecnica cinematografica non è meno adatta alle donne di quanto non sia quella teatrale. Per esempio, mi è difficile immaginare come avrei potuto acquisire le mie conoscenze fotografiche senza i mesi di studio spesi nei laboratori Gaumont di Parigi, ai tempi in cui la fotografia animata era ancora in fase di
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sperimentazione, e senza le ulteriori ricerche che ebbi occasione di fare, una volta venuta in America, nel mio laboratorio personale, presso gli studi Solax. Ma è anche necessario studiare la regia nella pratica concreta, nel vivo del lavoro, e tenere accesa la lampada fino a notte fonda sulle pagine dei libri ed entrambe queste cose sono altrettanto appropriate, affascinanti e remunerative per le donne di quanto lo siano per gli uomini. [Alice Blaché, Woman’s Place in Photoplay Production, “The Moving Picture World”, n. 2, 11 July 1914, p. 195].
Alice Guy Astuzia di guerra Il sole inondava di luce il piccolo terrazzo del mio appartamento di rue Raynouard, che sovrasta la Senna, e io mi crogiolavo nel calore dei raggi aranciati, filtrati da un tendone. Mi sentivo bene, la mia cara Parigi si stendeva ai miei piedi, velata dalla bruma leggera che sa rivestirla di tanta delicatezza. Il fiume aveva l’aria d’un grosso boa assopito, dalle scaglie a tratti scintillanti. Il mio grand’Uomo era uscito per una delle sue prove del mattino e io passavo al vaglio la sua posta, un volume notevole; mio marito riceveva ogni giorno centinaia di lettere di donne. Era un tenore assai amato dal pubblico. La sua voce carezzevole, piena di sfumature, calda, faceva battere tanti cuori femminili e lui, sotto il mantello di Faust o l’armatura di Siegfried, era davvero irresistibile. Anch’io l’avevo creduto un tempo e sorridevo, un po’ ironicamente, aprendo le buste allungate, discretamente profumate, pensando alla gelosia che la lettura di quelle stesse lettere mi aveva suscitato dieci anni primi. Perché erano proprio le stesse: “Caro Maestro, la Sua voce meravigliosa mi procura ogni volta un brivido delizioso…” “Come invidio Giulietta, caro Maestro, quando Lei l’abbraccia…”
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“Quale compagna, mio caro grande artista, potrebbe essere degna d’una sensibilità come la Sua… ecc., ecc.” Passo sotto silenzio le lettere di tante isteriche e nevrotiche, povere folli che vengono al celebre artista come la falena alla fiamma e si bruciano il cuore e il cervello. Adesso leggevo questo eterno omaggio priva di passione, sgranavo tranquilla per lui i grani d’incenso di questo rosario. Ero io che aprivo e annotavo tutti questi brucianti messaggi, che dettavo alla segretaria le risposte da scrivere, che apponevo le dediche e parafrasavo la fotografia sollecitata, che inviavo il biglietto agognato. Mettevo da parte l’invito interessante, la lettera del critico influente, che mio marito leggeva e firmava di gran fretta tra una prova e un concerto, o una rappresentazione operistica. Certo erano state molte le donne che erano riuscite a piacere al mio don Giovanni, facendomi crudelmente soffrire per alcuni anni, ma avevo accuratamente nascosto la mia gelosia e siccome ogni scappatella, piuttosto breve in verità, me lo restituiva più tenero, avevo finito per rassegnarmi e attendere la fine della crisi. “Un giovanotto domanda se la Signora lo può ricevere”. “Oh, Jeanne! Sa bene che non ricevo mai al mattino. Chi mi vuole?” “Non so signora, ma ha così insistito, e poi è tanto gentile, sembra agitato”. Ebbi uno scatto nervoso. “Va bene, vado”. Rassegnata mi diressi verso il salone. Al mio ingresso, un ragazzone biondo, molto giovane e simpatico, si levò di colpo. “Come posso ringraziarla per avermi ricevuto, signora, e come potrò scusarmi per la mia insistenza? Ma sono così infelice e solo lei può venirmi in aiuto”. “Io?”, domandai stupita. “Di che si tratta?” “Della mia fidanzata. L’amo fin dall’infanzia. Tutti i miei sforzi sono unicamente rivolti a condurla all’altare, a fare di me un uomo capace di darle una casa che sia degna di lei. Credevo che anche lei mi amasse, ma adesso…” “Adesso?” Fece uno sforzo terrible per controllare le sue emozioni. Il mento cominciò a tremargli, le sue labbra si strinsero.
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“Ebbene!”, esclamai, “Mi dica. Che posso fare per esserle utile in questa circostanza? Non capisco!...” Estrasse dalla tasca una lettera e me la tese. “Legga”, disse. “Comprenderà ogni cosa”. In effetti, la lettera era esplicita. Maurice, diceva, mio amico di sempre, bisogna che tu comprenda e che mi perdoni. Non posso dar seguito ai nostri progetti. Un fatto casuale ha sconvolto la mia vita. Ho incontrato un grande, un meraviglioso artista e ho preso ad amarlo a tal punto che ormai non vi è più altro al mondo che conti per me. Dobbiamo partire per un lungo viaggio. È sposato, ma mi ha promesso che riprenderà la sua libertà e mi sposerà. Conto sul tuo affetto per consolare mio padre e mia madre. Quando tornerò, sarò la felice e orgogliosa sposa di … (seguiva il nome di mio marito). Mi perdoneranno. Non ti dimenticherò mai, perché ti ho molto amato, e ti bacio per l’ultima volta, teneramente. Mary-Anne Fissai lungamente la lettera che tremava leggermente tra le mie dita. Maurice non osava parlare. “È graziosa?”, domandai. Per tutta risposta, prese il portafoglio e ne estrasse una foto. Che viso adorabile! l’ovale ancora infantile, due occhioni candidi, e tuttavia profondi, il naso, la bocca che parevano dipinti da un Greuze. Era questa la rivale che mi stava definitivamente strappando il mio tanto amato compagno? Avevo sperato di poter godere del suo autunno. Lo credevo arrivato alla saggezza! “Quanti anni ha la fanciulla?” domandai. “Diciassette”. Diciassette anni! e mio marito si avvicinava alla cinquantina; ma lei lo vedeva con l’aureola del genio. No, non era possibile. Dovevo difendere quel che restava della mia felicità e salvare questa bambina abbagliata da un raggio di gloria, ma come? Riflettevo senza parlare.
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Maurice mi si accostò e mi disse dolcemente: “Mi perdoni, signora, sono un bruto! Anche lei deve soffrire atrocemente”. “Oh, io!”, dissi. “Ci sono abituata. Le mogli degli artisti devono pagar caro il loro trionfo”. Seguì un momento di silenzio e all’improvviso fui attraversata da un’idea. “Ha fatto bene a venire a cercarmi, dissi. Credo di aver trovato la maniera di guarire Mary-Anne e di conservare mio marito”. “Che cosa conta di fare?” “Oh! non posso garantire che funzionerà, ma possiamo almeno provare. Mi lasci fare. Se ne torni a casa, pazienti un giorno o due, si faccia coraggio e aspetti. Mi dia l’indirizzo di Mary-Anne, vuole?” “Non penserà?...” “No, stia tranquillo, non ci sarà nessun dramma. Forse una piccola commedia!” Mi prese la mano, la baciò con fervore. “Ho fiducia in lei”, disse, “e non la dimenticherò mai”. Quando fu ripartito, un po’ sollevato, tornai sul terrazzo e riflettei un istante. Il rimedio che stavo considerando era piuttosto crudele, perciò esitavo. Occorreva tuttavia dare il colpo di spillo che avrebbe sgonfiato quell’entusiasmo giovanile. Mi decisi e, risoluta, mi misi a scrivere: Signorina, ho appreso (gli artisti sono così distratti e disordinati) che lei e mio marito vi state disponendo a partire insieme per un viaggio. Stia tranquilla, non le farò una scena di gelosia. Un artista è, per sua natura, impulsivo e passionale. La sua compagna deve chiudere gli occhi sulle sue scappatelle sentimentali. È ormai da lungo tempo che mi sono rassegnata. Ma il mio caro marito non è più giovanissimo. Quando rientra da uno di questi suoi viaggi nel paese di Tenerezza, lo ritrovo in genere piuttosto mal ridotto. Il suo carattere ne risente, la sua arte pure. È per questo che, per quanto estraneo ciò possa apparire a ogni regola condivisa, mi sono decisa a scriverle. Poiché mi sostituirà momentaneamente presso di lui, mi permetta di farle qualche raccomandazione – ahimé! – un po’ terra terra. Raphaël si spende molto durante le recite; quando esce di scena è in un
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bagno di sudore; ho l’abitudine, quando torna in camerino, di frizionarlo vigorosamente con una lozione alla lavanda e di fargli mettere un gilet di flanella, così da evitargli quelle orrende raucedini che sono il terrore di tutti i grandi cantanti. Mio marito ha un debole per i piatti abbondanti. Ama soprattutto l’insalata di patate abbondantemente condita; la prego di vegliare che non ne mangi prima delle recite perché la sua partner non lo sopporta e lui stesso poi si sente male. Ultimamente, per colpa di un’indigestione, ha dovuto essere sostituito da un collega in una replica della Traviata. Mi raccomando soprattutto che non si dimentichi di prendere la sua tisana, tutte le sere prima di coricarsi. È assai delicato di fegato. Infine, quando si toglie il parrucchino, perché purtroppo ha ormai perduto i suoi splendidi capelli, per evitare che si buschi un reumatismo, è importante che si avvolga la testa con il suo fazzoletto di seta. Credo di avergli messo in valigia tutto il necessario: il colluttorio per i gargarismi, le calze di lana; va soggetto ai reumatismi e può ben immaginare l’effetto che farebbe in scena un Lohengrin claudicante. Adesso, cara signorina, sono più tranquilla, lo confesso. Sono certa che il nostro grande artista potrà contare sulle attenzioni filiali che lei avrà cura di assicurargli. La ricompenserà, ne sono certa, con un bel ricordo. Voglia accettare, signorina… L’indomani, quando fece ritorno a casa, il mio povero Raphaël era invecchiato, stanco, disincantato. Mi domandai, con un po’ d’inquietudine, se non avessi calcato un po’ troppo la mano, perché non volevo arrivare alla morte del colpevole. Per fargli dimenticare il disappunto, lo circondai di attenzioni ancor più tenere e affettuose che di consueto. “Ah!”, esclamò sospirando, “mia cara moglie, non ci sei che tu che mi ami veramente”. Due o tre giorni dopo, ricevetti uno splendido cesto d’orchidee. Il biglietto che l’accompagnava diceva semplicemente: Non lo dimenticherò mai. Grazie. Maurice. [Alice Guy, Ruse de guerre, in La Fée aux choux. Autobiographie d’une pionnière du cinéma, Denoël-Gonthier, Paris 1976, pp. 205-210].
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Elenco dei film attribuiti e censiti
Il presente elenco non è una filmografia di Alice Guy. La compilazione di una filmografia completa non potrebbe prescindere da uno studio minuzioso, una ricerca specifica che esula dagli scopi di questa pubblicazione. Occorrerebbe procedere al confronto puntuale delle tre filmografie compilate da Francis Lacassin, Victor Bachy e Alison McMahan (le quali presentano differenze non trascurabili a livello sia delle attribuzioni che delle datazioni), allo spoglio dei cataloghi e di altre fonti d’archivio, all’esame di tutte le pellicole tuttora disponibili che nel corso degli anni sono state variamente attribuite ad Alice Guy. Nell’impossibilità di svolgere un lavoro così impegnativo (si tenga conto che si tratta complessivamente di un migliaio di titoli), abbiamo preferito limitarci a fornire un censimento dei film che formano la parte oggi visibile della produzione dell’autrice (o, più esattamente, della produzione a lei attribuita), sperando di offrire in tal modo uno strumento utile per ulteriori ricerche. Per informazioni più complete, rimandiamo quindi il lettore alle filmografie già esistenti e in particolare a quelle di Bachy (che contiene tra l’altro le trame di numerosi film) e di McMahan (certamente la più completa e attendibile dal punto di vista filologico). Le stesse informazioni qui raccolte sono tratte in larga parte dal censimento filmografico a suo tempo effettuato da McMahan (pubblicato in appendice al suo libro, pp. 288-295), integrate con ulteriori dati divenuti disponibili più di recente. Alice Guy ha avuto senza dubbio una parte importante di responsabilità nella realizzazione di tutti i film qui elencati, anche se non sempre è possibile dimostrare che ne abbia curato la regia. Anche nei casi in cui (vedi periodo Solax) la regia è attribuita ad altri, la produzione è sempre da attribuire ad Alice Guy. La datazione dei film del periodo francese è in molti casi incerta. (m.d.)
Abbreviazioni BF: Bundesarchiv – Filmarchiv, Berlino CNC: Archives Nationales du Film, Parigi CRB: Cinémathéque Royale du Belgique, Bruxelles EFL: Emgee Film Library, Reseda, Canada FC: Filmoteca de Catalunya, Barcellona FM: Filmoteca de Madrid, Madrid FMS: Filmmüseum/Münchner Stadtmuseum, Monaco GEH: George Eastman House, Rochester, NY GP: Gaumont Pathé Archives, Parigi LOC: Library of Congress, Washington DC MoMA: Museum of Modern Arts, New York NFTVA: National Film and Television Archive, Londra LF: Lobster Films, Parigi SFA: Svenska Filminstitutet, Stoccolma NZFA: New Zealand Film Archive/Nga Kaitiaki O Nga Taonga Whitiahua, Wellington, NZ
Film Gaumont (1896-1906) 1897 Ballet Libella, LF Baignade dans le torrent, LF Le Pecheur dans le torrent, LF Nocturne, GP Danse des papillons o Danse du papillon, LF Danse espagnole, GP Danse fleur de Lotus, LF 1898 Les Cambrioleurs, CRB; LF Chez le magnétiseur, LF Scène d’escamotage, LF Surprise d’une maison au petit jour, NZ; CRB L’Utilité des rayons X, LF
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Elenco dei film attribuiti e censiti
1899 Au cabaret, SFA L’Aveugle fin de siècle, SFA La Bonne Absinthe (1900?), SFA Chez le photographe, SFA Danse serpentine par Mme Bob Walter (1900?), LF Retour des champs (1900?), GP 1900 Au Bal de Flore. Valse directoire, FC Avenue de l’Opéra, SFA Chirurgie fin de siècle, LF Les Fredaines de Pierrette, FC Guillaume Tell, LF Les Joueurs de cartes, SFA La Petite magicienne, LF 1901 Chapellerie et charcuterie mécaniques, SFA Chez le maréchal-ferrant, SFA La Concierge, SFA La Fée aux choux ou la Naissance des enfants (1896? 1900?), SFA Danse des saisons. L’Hiver, danse de la neige, SFA 1902 Les Chiens savants, LF Lina Esbrard, danse serpentine, GP Intervention maléncontreuse, LF Les Malabars, LF Sage-femme de première classe, GP 1903 Comment Monsieur prend son bain, LF Faust et Méphistophèles, LF
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1904 Pierrot assassin, NFTVA [Father Buys a Moke; frammento]; EFL (frammento) 1905 La Charité du prestidigitateur, FM Chien jouant à la balle, FM Les Maçons, CRB, NZ La Statue, CRB, NZ 1906 L’Ane récalcitrant, NFTVA La Course à la saucisse, CF; CRB Une course d’obstacles, CNC Effets de mer, GP Espagne. Danses gitanes, GP Espagne. Grenade, GP Espagne. Madrid, GP Espagne. Monastère de Montserrat, GP Espagne. Seville, GP La Femme collante, CNC La Fille du volontaire, NFTVA [The Hand of the Enemy] Le Fils du garde-chasse, CRB, NZ Le Frotteur, SDK [Die fleissige Oskar], NFTVA [The Inlaid Floor Polisher] La Glu, NFTVA [Tommy and the Gluepot, Stickpaste]; LOC Une Héroine de quatre ans, CNC La Hiérarchie dans l’amour, NFTVA [The Maid and the Officers] Une Histoire roulante, LF Le Jaloux puni, SDK [Bestrafte Heifersucht] Le Lit à roulettes, GP La Marâtre, CNC; SDK [Die Stiefmutter]; NFTVA [The Stepmother] Madame a des envies, GP; NFTVA [Madame in Nöten] Le Matelas alcoolique, GP [Le Matelas épileptique]; NFTVA (frammento); GEH Le Noël de Monsieur le curé, CRB, NZ Le Piano irrésistible, CNC Les Resultats du féminisme, GP
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Elenco dei film attribuiti e censiti
Un Soulier pour un jambon, NFTVA [Too Many Cooks] Sur la barricade, GP; SDK [Der Heldenmut eines Jungener] La Vérité sur l’homme-singe, CNC La Naissance, la vie et la mort du Christ 1. Arrivée à Bethléem, GP; FMS; NFTVA
2. La Nativité, GP; FMS; NFTVA 3. Le Sommeil de Jesus, GP; CRB; FMS; NFTVA 4. La Samaritaine, GP; FMS; NFTVA 5. Miracle de la fille de Jaïre, GP; FMS; NFTVA 6. Marie Magdaleine, GP; FMS; NFTVA 7. Les Rameaux, GP; CRB; FMS; NFTVA 8. La Cène, GP; FMS; NFTVA 9. Au jardin des oliviers, GP; FMS; NFTVA 10. La Veillée, GP; FMS; NFTVA 11. La Trahison et l’arrestation, GP; FMS; NFTVA 12. Le Reniement de Saint Pierre, GP; FMS; NFTVA 13. Jesus devant Pilate, GP; NFTVA 14. La Flagellation, GP; NFTVA 15. Ecce Homo, GP; NFTVA 16. Chargement de la croix, GP; NFTVA 18. Sainte Véronique, GP; SDK 19. La Montée au Golgotha, GP 20. La Crucifixion, GP 21. L’Agonie, GP 22. Descente de croix, GP 23. La Mise au tombeau, GP 24. La Résurrection, GP
Phonoscènes Gaumont (1902-1906) A la cabane bambou, GP L’Amant de la lune, GP L’Anatomie du conscrit, GP Anna, qu’est-ce que tu attends?, GP La Balance automatique, GP Il Bacio, GP Le Bolero, GP
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Bonsoir M’sieurs, Dames, GP Le Cake-walk du Nouveau Cirque, GP C’est une ingénue, GP Chemineau, chemine!, GP Dame de pique, je vous aime, GP Eugène, où êtes,vous parti?, GP Five o’Clock Tea, GP Le Frottin de la colonnelle, GP Le Jeune homme et le trottin, GP Le Jour et la nuit, GP Lilas blancs, GP La Matchiche, GP La Pampolaise, GP Le Pepin de la dame, GP La Polka des trottins, GP Questions indiscrètes, GP Si ça t’va, GP Viens, GP Le Vrai Ju Jitsu, GP
Film Solax (1910-1913) 1911 Across the Mexican Line, NFTVA Cupid and the Comet, FMS His Mother’s Hymn, UCLA Outwitted by Horse and Lariat, BF [Cowboystreiche] When Marion was Little, LOC 1912 Algie the Miner (regia di Edward Warren e Harry Shenk), LOC A Comedy of Errors, NFTVA The Detective and His Dog, LOC Falling Leaves, LOC A Fool and His Money, LOC
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Elenco dei film attribuiti e censiti
For the Love of the Flag, LOC The High Cost of Living (regia di Edward Warren), UCLA The Little Rangers, NFM; NFTVA [Two Little Rangers] The Making of an American Citizen, UCLA; LF [versione francese] A Man’s a Man, GEH Old Love and New, LOC The Sewer (regia di Henri Menessier), LOC Someone’s Luck Society, MoMA 1913 Beasts od the Jungle, GEH Brennan of the Moor (regia di Edward Warren), LOC; NFM [Brennan de Straatover; tre rulli] Burstop Holme’s Murder Case, EFL Canned Harmony, LOC; EFL Dick Whittington and His Cat, NFTVA [tre rulli] The Girl in the Armchair, LOC; EFL His Double, EFL A House Divided, LOC; MoMA; EFL Greater Love Hath No Man, LOC Matrimony’s Speed Limits, LOC; EFL Napoleon, LOC The Pit and the Pendulum, LOC; NAC; MoMA [incompleto] The Roads that Lead Home, LOC The Thief, NFTVA What Happened to Officer Henderson, EFL [Officer Henderson]
Lungometraggi (1914-1920) 1916 The Ocean’s Waif (prod. US Amusement Corporation), LOC 1918 The Great Adventure (prod. Pathé), NFTVA [sette rulli]
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Alice Guy Memorie di una pioniera del cinema
Questo volume è stato stampato nel mese di giugno dell’anno 2008 presso Tipografia Moderna Bologna