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Italian Pages 216 [34] Year 2022
Premessa
Ristabilire i fatti Dice un proverbio: "Con i se e con i ma la storia non si fa". Ma questo saggio, dal forte taglio narrativo, dedicato a Filoteo Alberini cerca almeno di ristabilire la verità. Prima dell'invenzione passata alla Storia come dei fratelli Lumière, precisamente nel 1894, Alberini scopre a Firenze un Kinetoscopio
Edison. Si tratta di una specie di grande scatola in legno dotata di un foro sulla sommità per poter guardare all'interno: immagini in movimento attivate manualmente con una manovella. Una sorta di "cinema" individuale che diventerà spettacolo collettivo l'anno seguente grazie ai fratelli francesi. Alberini studia il macchinario, animato da un'intuizione precisa: -«Non sarebbe forse meraviglioso poter far vedere quella fotografia animata a centinaia di persone col mezzo della proiezione luminosa sul tipo della vecchia lanterna magica? Da quel giorno incomincia la mia vita cinematografica». E così, dopo mesi di impegno, realizza un marchingegno - il
kinetografo - in grado di imprimere su pellicola 1.000 fotogrammi al minuto (che poi significa 16 fotogrammi al secondo), permettendo di proiettare le riprese contemporaneamente ad un vasto pubblico.
È la nascita del cinema. Ma Alberini commette alcuni passi falsi. Parte col piede giusto, richiedendo il deposito del brevetto, ma allo stesso tempo incontra a Lione Auguste e Louis Lumière, che si occupano di fotografia e stanno a loro volta lavorando ad un brevetto che è il preludio alla pellicola cinematografica. Si ignora il motivo del fallimento di tale incontro, del fatto che non nasca una collaborazione, ma sta di fatto che i due francesi brevettano uno strumento molto simile a quello di Alberini presentandolo al mondo il 28 dicembre
1895 nella famosa proiezione cinematografica parigina de L'arriveé d'un train en gare de La Ciotat al Grand Cafè di Boulevard de Capucines. La nascita del cinema è francese. Uno smacco che è anche la testimonianza dell'elefantiaca burocrazia italiota: il Ministero dell'Industria e Commercio si prende oltre un anno dalla presentazione per rilasciare il brevetto. Quando avviene nel dicembre 1895 è troppo tardi, i Lumière hanno già resa pubblica la loro invenzione. Alberini, e lo leggiamo in queste pagine, non si perde d'animo e avvia la sua mirabolante carriera di esercente cinematografico, produttore e regista. Certo, incappa sempre in qualche ingenuità: come quando inventa la ripresa panoramica - elogiata da David W. Griffith - per cederla subito alla Fox (Natural Vision) che, non c'è da stupirsi, se ne intesta la paternità. Ma la pubblicazione di questo saggio a lui dedicato assolve anche alla funzione di un risarcimento a posteriori, molto a posteriori. Perché per molti anni la sua storia è stata singolarmente dimenticata dall'Italia. Deceduto sotto ai ferri, nel 1937, Alberini viene pressoché ignorato dalla stampa del tempo (si rammenta giusto un "coccodrillo" pubblicato dalla rivista Cinema, diretta da Luciano De Feo). Sembra quasi un mistero. Così come il fatto che viene dimenticato anche dagli addetti ai lavori. Sostanzialmente non lo cita nessuno fino all'apparizione di un saggio di Roberto Chiti (Contributi alla storia
del cinema muto italiano: FiloteoAlberini, Bianco e nero; quaderni mensili del Centro sperimentale di cinematografia, A. 24/1963), che incomincia ad inquadrarne l'importanza. Chissà, forse il passato come disegnatore dell'Istituto Geografico
Militare (per il quale, del resto, mette a punto un processo fotolitografico per la stampa diretta su lastra di zinco, che anticipava il sistema Polaroid, eliminando la negativa fotografica e quindi permettendo un risparmio del 90%, e una riduzione della tempistica) non creava le condizioni per "promuovere", nel pensiero comune e a tutti gli effetti, Filoteo Alberini al ruolo di "artista". Eppure, in fatto di creatività il nostro non difettava come attesta questa sua testimonianza apparsa sul quotidiano La Tribuna del 1° febbraio 1923: «Fin dalla mia fanciullezza sono stato un tipo alquanto bizzarro,
e vi dirò subito che, mentre ero poco inclinato allo studio, avevo invece uno sfrenato desiderio di conoscere ed imparare tutte le arti e tutti i mestieri, desiderio questo da me raggiunto nel volgere degli anni. Non credo sia sfacciataggine la mia se vi dico che oggi io sarei disposto a darvene prova col fare, per esempio, un lavoro da falegname, un lavoro da fabbro, un lavoro da stagnino, saprei tagliare e cucire un vestito, fare un paio di scarpe, dipingere un quadro ad olio o a tempera, fare un ritratto a carboncino, fare un lavoro d'arte muraria e ... potrei ancora seguitare a citare altre di queste stramberie. Cosa volete, la mia natura era così, ma riflettendo bene pensai che a seguitare di quel passo nulla di buono e di concreto nella vita avrei concluso, e mi fermai. Contribuì a questo una nuova arte che per puro caso mi si presentò: la fotografia! Rammento allorché per la prima volta vidi riprodurre nel vetro smerigliato della macchina fotografica le immagini capovolte e a colori, non vi saprei descrivere ciò che io provassi in quel momento!». Sfogliando questo libro si ha modo di scoprire un personaggio poliedrico, inventore, imprenditore, infine artista.
Massimo Moscati
Prefazione
La verità sta in molti sogni n y a tant de choses sur la Terre que nous ne comprenons pas, et tant de choses incroyables qui sont vraies. (François Truffaut)
Ricostruire vita e carriera di Filoteo Alberini (classe 1867), originario di un'umile famiglia di Orte da lui lasciata diciassettenne perché «sente che la vita si trova altrove», significa ripercorrere tutta l'epopea del cinema delle origini, descriverne la progenitura, il concepimento e l'infanzia; l'età dei miti e l'inizio dell'avventurosa storia del cinematografo inteso come laico rito collettivo, ma non solo: significa anche raccontare l'avvio dell'industria cinematografica in Italia; la nascita della Cines; la rivoluzione, oltreoceano, del cinema sonoro. Sì, perché Alberini, sebbene in gran parte dei casi i suoi meriti non siano riconosciuti, è sempre dietro le quinte. Spesso artefice di invenzioni che, quando gliene viene riconosciuta la paternità, sono o leggermente in ritardo sui tempi o decisamente troppo in anticipo. Ma chi è Filotea Alberini? È lo stagista ventenne che, mentre lavora all'Istituto Geografico Militare di Firenze, inventa un sistema di riproduzione fotografica che permette di abbattere i costi del 90%; è l'uomo che il 21 dicembre 1895 brevetta il kinetografo, poco meno d'un anno più tardi rispetto al brevetto del cinématographe da parte dei Lumière; è l'esercente che nel 1899, spostando i luoghi deputati al cinema dai tendoni periferici degli ambulanti al centro città, inaugura a Firenze una delle prime sale cinematografiche stabili sul territorio nazionale; è il fondatore della prima casa di produzione italiana nonché, nel 1905, il regista del primo film a soggetto della storia del cinema italiano, ossia La presa di Roma; è l'inventore della pulitrice meccanica per pellicole (nel 1907), del cineorologio (nel 1911), della cinepanoramica (nel 1914 ca.), della prima avveniristica multisala (nel 1920), di una macchina adibita alla riproduzione di foto rapide e di un dispositivo ottico, brevettato tre mesi prima di morire (nel 1937), per la visione binoculare in 3D. È tutto questo e molto altro: è una figura affascinante di ambizioso
homo novus che abbandona la provincia alla conquista di Roma e poi di Firenze e infine dell'America; è un inventore geniale al servizio dei propri sogni; è un pioniere proteiforme che cade e si rialza migliaia di volte, che non si ferma e non si arrende mai, che trascorre l'esistenza incalzato dalla passione per la manualità e per i mestieri del cinema Oui regista, lui operatore, lui produttore, lui esercente... ), oltre che dalla necessità di inseguire il futuro, di precorrerlo, di oltrepassarlo. Con impianto narrativo che ricorda quello della Storia morantiana,
il libro di Lestini propone la storia del suo protagonista, rocambolesca e non abbastanza nota (si ricorda solo una monografia a lui dedicata, uscita di recente e firmata da Giovanna Lombardi), alternata a spassionate parentesi su alcuni aspetti della Storia del cinema. In tal modo risalta con evidenza ancora maggiore come Alberini sia un protagonista di assoluto rilievo della Storia del cinema con la S maiuscola, tanto da muoverla, determinarla, cambiarla. Pagina dopo pagina, la parabola umana di quest'uomo, che, fra brevetti e regie, fra successi e fallimenti, fra debiti e partenze, è talmente straordinaria da risultare quasi inverosimile, cattura e seduce il lettore, che si ritrova immerso nella storia come dentro a un film di Steven Spielberg. Fra i personaggi d'eccezione che popolano questo grande affresco di un'epoca che va dalla Belle Époque fino alla metà degli anni Trenta, troviamo Edison col suo kinetoscopio, i fratelli Lumière e i fratelli Skladanowsky, colui che la leggenda vuole inventore del montaggio (Méliès) e il produttore Charles Pathé, oltre a Leopoldo Fregoli e a Dante Santoni, con cui Alberini fonda la sua casa di produzione Oa Alberini&Santoni, appunto). I luoghi nei quali la vicenda di Alberini si dipana? Dal piccolo natio borgo selvaggio nel viterbese alla Roma «decadente e melmosa» di fine Ottocento, dalla Firenze che «vive l'onda lunga della vivacità dell'Ottocento leopoldino» alla luminosa Livorno settembrina dove, il 16 settembre 1905, avviene l'anteprima della Presa di Roma. Col piglio del romanziere smali:ciato ma al contempo del saggista che mira alla precisione e all'essenzialità, Riccardo Lestini cattura con affabulatoria levità alcune vividissime istantanee di una vita favolosa e, intorno a un personaggio principale che è fatto della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, tratteggia un mondo del cinema che, nella patria della grande Commedia dell'Arte vale a dire della spettacolarità itinerante, è più che mai legato alla realtà, così suggestiva e cara a Fellini, delle fiere di paese e dei circhi, delle arti di strada, delle attrazioni popolari da baraccone di periferia.
C'era una volta ... un ragazzo che, senza un soldo ma con la passione per la fotografia, partì da Orte nel 1884 e che, nel 1895, in ritardo di una manciata di mesi su due fratelli francesi che erano gli «eredi illustri di una fabbrica leader mondiale nel settore fotografico con oltre trecento operai a libro paga», brevettò una macchina del tutto simile alla loro e poi, una decina di anni e di avventure dopo, inventò il cinema italiano ...
Giulia Tellini
Prologo
È il 16 settembre del 1905 e a Livorno è ancora estate. I turisti continuano ad affollare le spiagge e le vie del centro, le giornate sono lunghe, il clima è ideale e la sera, anche nei giorni lavorativi, si esce volentieri. Per molti, livornesi e villeggianti, tappa centrale di quelle serate, tra una sosta al caffè e due passi sul lungomare, è via Vittorio Emanuele II (oggi via Grande), una lunga strada che dalla centralissima piazza Carlo Alberto (oggi piazza della Repubblica) caracolla dritta fino alla darsena, dove al civico 47, appena tre mesi prima, ha aperto i battenti il Cinematografo Artistico. Una sala all'avanguardia, la prima in città esclusivamente dedicata alle proiezioni e nata con l'intenzione di stare aperta tutto l'anno. Eppure, per quanto una realtà commerciale come l'Artistico sia del tutto nuova, a Livorno il cinematografo, già nel 1905, è tutt'altro che una novità. Da queste parti infatti,. la diavoleria inventata dai fratelli Lumière dieci anni prima e destinata a scaraventare l'umanità intera nel Novecento, ha conosciuto una fortuna clamorosa e immediata. Da quando, fresco di brevetto e poco più che un gingillo, aveva varcato le Alpi tra fuochi d'artificio e baracconi come le pozioni miracolose delle carovane zingaresche, il cinematografo si era subito imposto come il passatempo ideale della borghesia in villeggiatura sul litorale. Dall'estate del 1896, quando al parco di divertimenti Eden
Montagne Russe era stato montato il primo tendone per le proiezioni, fino all'apertura dell'Artistico, un pubblico straordinariamente eterogeneo composto da vacanzieri di ogni nazionalità e da una vivacissima cittadinanza, era cresciuto con il cinematografo, ne aveva seguito le evoluzioni e i progressi, era passato dai tendoni alle sale in muratura, dallo stupore per le vedute panoramiche all'attenzione per i primi esperimenti narrativi. Si era fatto critico, esperto ed esigente, creando una domanda altissima e innescando, almeno nella stagione estiva, una competizione già spietata tra diversi esercenti. L'intenso via vai internazionale ehe elettrizzava quelle lunghe estati di fine secolo, aveva spinto i Lumière, nella loro strategia commerciale di esportazione, a investire su Livorno al pari delle grandi città italiane come Roma, Napoli e Milano. Un azzardo azzeccatissimo e uno sforzo ripagato in pieno. Quel 16 settembre del 1905, nel fitto brulicare del tardo pomeriggio, confuso tra villeggianti che tornano dall'ultimo bagno e residenti appena usciti dal lavoro, un uomo si aggira inquieto. Per lui non è un giorno di vacanza, l'odore del mare gli entra nelle narici, lo solletica ma non lo pacifica. È arrivato a Livorno con in tasca l'ennesima scommessa di una vita passata a giocare a dadi con il destino e che, a trentotto anni, ha già cambiato forma e sostanza infinite volte. Gira per le vie del centro, ma in particolare passa e ripassa davanti al 47 di via Vittorio Emanuele II. Il cinematografo lo conosce molto bene. È la sua passione e la sua eterna scommessa. Ne ha studiato la tecnica, intuito le potenzialità e compreso le regole commerciali. Non può contare su un colosso industriale come quello dei Lumière, ma è intelligente, caparbio, vulcanico, spericolato e folle quanto basta. Per questo ha scelto Livorno e la sala dell'Artistico per l'anteprima nazionale del suo film, che si intitola La presa di Roma e che per forma, durata e struttura non ha precedenti nelle produzioni italiane del decennio appena trascorso. È quasi sera a Livorno, il 16 settembre del 1905, e quell'uomo, che si chiama Filoteo Alberini, sta per inventare il cinema italiano. È, manco a dirlo, il momento più importante della sua incredibile carriera. Talmente incredibile che vale la pena raccontarla dall'inizio.
Il mondo prima del cinema
A noi che viviamo in una società liquida dove immagine e movimento sono la quintessenza del linguaggio quotidiano può sembrare impossibile, eppure un mondo senza cinema, in un passato nemmeno troppo remoto, è esistito davvero. Addirittura, l'umanità ne ha fatto tranquillamente a meno per gran parte della sua storia. Ma si tratta di una privazione soltanto apparente. Per quanto invenzione recentissima, il cinema, almeno come utopia o fantasma da inseguire (e da temere), accompagna l'uomo da sempre. L'atto di catturare e restituire il movimento per imitare o reinventare la realtà è un'esigenza antichissima, e testimonianze di tentativi di ripresa e
proiezione - i due aspetti che costituiscono la base tecnica del cinema - si perdono nella notte dei tempi.
La descrizione più antica della camera oscura risale all'XI secolo, ma il principio era noto sin dai tempi dei faraoni. Anche il celebre mito della caverna di Platone, raccontato dal filosofo ne La
Repubblica all'inizio del N secolo a.C., fa probabilmente riferimento a uno spettacolo d'ombre normalmente rappresentato nell'Atene del tempo. L'uso della lanterna magica, una piccola scatola dotata di un obiettivo, è assai diffuso almeno dalla metà del Seicento, quando numerosi lanternai ambulanti affollano le piazze di tutta Europa regalando la magia di ombre proiettate su parete che, a seconda delle esigenze, terrori2zano, seducono o educano. È tuttavia solo nel diciannovesimo secolo che l'idea della ripresa e della proiezione del movimento, saldandosi con la fascinazione dello studio scientifico, diventa smania, urgenza, priorità. Non certo per caso. Secolo che attraverso la rivoluzione industriale vede la genesi della società borghese e di massa, l'Ottocento, specie nella sua seconda metà, è percorso da uno sviluppo rapidissimo e vertiginoso. La fiducia positivista nel progresso e nella scienza si traduce in ottimismo febbrile e diffuso. In un tempo divenuto di colpo brevissimo e fuggevole, le case borghesi vengono dotate di acqua corrente e servizi igienici, i palazzi signon1i dei primi ascensori, le strade delle grandi metropoli vengono illuminate con i lampioni elettrici, la lampadina e il cherosene portano luce e calore nelle stanze domestiche, il motore, la rete ferroviaria e il telegrafo rendono il mondo più piccolo e ogni distanza percorribile. Non si intravedono limiti alla crescita, non esiste traguardo che appaia irraggiungibile. Ovunque e in continuazione, anche nella maniera più ingenua, improvvisata e picaresca, si tentano esperimenti e invenzioni, ci si getta entusiasti nella elettrizzante corsa al brevetto, accecati dal miraggio di un arricchimento e di un posto d'onore in un mondo diventato rapidissimo e variopinto come un eterno carnevale. L'invenzione del cinematografo è figlia e simbolo di questo clima, delle ambizioni e delle tensioni di un'epoca eccitata ed eccitante. Il mito delle scienze che contradldistingue la fine dell'Ottocento, lontano anni luce da quel rigore con cui identifichiamo oggi la ricerca scientifica, trova nella magia della dimensione fantastica e immaginifica propria delle arti, una delle sue principali ragioni d'essere. In questo senso il cinema, massimo punto di equilibrio tra scientificità della tecnica e imprevedibilità dell'arte, è lo specchio più fedele dell'epoca, se non addirittura il suo punto di arrivo e di sintesi. Non solo. Quello ottocentesco è uno scientismo che trova la sua piena reali=zione non solo nel risultato della ricerca, ma anche (soprattutto?) nella sua messa in vebina, nella sua trasfigurazione spettacolare. Al pari di quella borghesia che la genera e la esalta, la scienza del secolo decimonono per esistere deve guardarsi allo specchio e vedersi rappresentata. Sono infatti le Grandi Esposizioni, a partire da quella di Londra del 1851, i momenti culminanti di questo clima elettrico in cui scienza e spettacolo si fondono annullando i reciproci confini.
È in particolare la città di Parigi, nella seconda metà del secolo, a incarnare tutto questo trasformandosi a poco a poco in un gigantesco e incessante spettacolo a cielo aperto. Tra gallerie, salotti aperti, giochi di luci a mescolarsi con le architetture secolari, specchi a non finire che riempiono i caffè e gli altri locali pubblici, nella Vt1le
Lumière è tutto un moltiplicarsi di sguardi, prospettive e palcoscenici dove ognuno è al tempo stesso attore e spettatore. Non era certo scontato che il cinematografo vedesse la luce proprio in Francia, ma lì si trovava senza dubbio il terreno più fertile affinché questo accadesse. Ancor prima che le frenesie scientifiche e industriali di fine secolo la trasformassero nella vetrina del progresso mondiale, la Francia, attraverso il ricercatore Joseph Nicéphore Niépce, aveva già dato i natali alla fotografia, mentre a metà secolo era stata la patria elettiva della fortuna e della diffusione del fenachistoscopio, una sorta di giocattolo ottico da salotto ideato dal fisico Joseph Plateau che, attraverso la prima sintesi artificiale del movimento, consentiva l'animazione di immagini disegnate. Tra i fruitori più entusiasti dell'invenzione di Plateau troviamo Charles Baudelaire, che della trasformazione del ventre di Parigi in seducente e morbosa fiera dell'apparenza è stato, nel pieno dell'Otto~nto, il cantore più disperato e autentico. La sua celebre descrizione delfliineur, il vagabondo borghese immerso nella metropoli industriale, sembra in più di un passaggio anticipare il cinema, o quanto meno la sua urgenza: Per U fl.ineur perfutto, per l'osservatore appassionato, è un immenso piacere fissare la propria dimora nel cuore della moltitudine, in mezzo al flusso e riflusso del movimento, nel bai meuo del fuggiti\/(> e dell'infinito. Essere lontano da casa e ancora sentirsi a casa ovunque,
VOO.eni il mondo, essere al centro del mondo e rimanere nascosto al mondo; questi sono alcnni dei più piccoli piaceri di quelle menti indipendenti, passionali, imparziali, clie il linguaggio non può che goffamente definire. L'osservatore è un principe che gioisce di tutto il suo incognito"'·
Nell'ultimo ventennio del secolo, tutte queste tensioni e suggestioni raggiungono il loro culmine. La fiducia cieca nel progresso, il voyeurismo esasperato e lo sfacciato edonismo della Belle Époque, sono i tasselli decisivi e definitivi per l'approdo al cinematografo.
La sempre crescente fortuna popolare degli spettacoli di lanterna magie.a, il Tbéitre Optique con le prime proiezioni animate - le cosiddette pantomime - rese posSlbili da una fortunata invenzione di Émile Reynaud, danno la misura di come il cinema sia ormai imminente. Gli studi sulla scomposizione del movimento fatti oltreoceano da Eadweard Muybridge e ancora in Francia dal fisiologo Étienne-Jules Marey, completano il quadro. Il cinema è a un passo, e attorno al 1890 un numero difficilmente stimabile di inventori, ricercatori e avventurieri, compie studi simili, coincidenti e sovrapponibili. Con il più tipico copione del mondo industriale, nella guerra dei brevetti che in quegli anni si fa spietata come non mai, la differenza finisce per farla, più che l'estro e la genialità, la potenza economica e la conoscenza dell'ambiente. Così il primo scatto decisivo è quello di Thomas Alva Edison, titolare di oltre mille brevetti, già inventore del fonografo e della lampadina elettrica. Precursore assoluto nel campo dell'imprenditoria, tra i primi al mondo ad applicare alle proprie invenzioni i principi della produzione di massa, quando decide di dedicarsi agli studi sul movimento Edison dispone di mezzi, laboratori, collaboratori e credibilità. Questo gli permette nel 1891, dopo appena due anni di studi ed esperimenti condotti assieme a WiJliam Dickson, suo collaboratore esperto di fotografia, di bruciare la concorrenza mettendo a punto due invenzioni rivoluzionarie: il kinetografo, un apparecchio per la registrazione delle immagini e il kinetoscopio, che ne consente la riproduzione. Quest'ultima in particolare -
Ullta
cassa di legno che attraverso un
oculare, girando contemporaneamente una manovella, consente di vedere brevissime scenette animate alla velocità di 48 fotogrammi al secondo - al momento della sua presentazione e commercializzazione ha un successo clamoroso ed immediato. Diffuso rapidamente in tutto il mondo, il kinetoscopio di Edison si impone nelle fiere e nelle piazze, dove dentro i tendoni o in stanzoni deputati è possibile vedere, uno spettatore per volta e pagando un biglietto a prezzi popolari, il miracolo della riproduzione del movimento. Secondo alcuni è questa la vera origine del cinema ed è a Edison e al suo kinetoscopio che ne spetta la paternità. È una lettura tutt'altro che strampalata, dal momento che nel meccanismo e nelle modalità di commercializzazione della macchina brevettata da Edison vi sono tutti gli elementi base del cinema come lo intendiamo oggi. Anzitutto è il primo strumento che consente, a tutti gli effetti, la riproduzione di
immagini in movimento. In secondo luogo, il kinetoscopio viene immesso nel mercato non come oggetto casalingo né come marchingegno di laboratorio, ma con la funzione di spettacolo pubblico fruibile a pagamento. Consentendo però la visione del film a uno spettatore per volta, manca un aspetto fondamentale: il rito collettivo, la visione comunitaria. La possibilità che un numero imprecisato di spettatori possa vedere la stessa sequenza di immagini insieme e nello stesso momento. Il che, se dal punto di vista prettamente scientifico degli studi sulla riproduzione del movimento può essere ritenuto un aspetto secondario, non lo è affatto dal punto di vista sociale e antropologico. Se il kinetoscopio fosse stato l'ultimo atto di questa ricerca, il cinema
non sarebbe maj diventato il figlio prediletto della nascente società di massa, o quanto meno uno dei suoi tratti più distintivi e rappresentativi. Non sarebbe mai stato nemmeno qualcosa di lontanamente somigliante a come lo conosciamo e lo intendiamo oggi. E probabilmente, dopo un periodo più o meno breve di fortuna come moda e novità del momento, sarebbe stato archiviato nel dimenticatoio della storia come uno dei tanti fenomeni da baraccone sensazionali e fuggevoli a cavallo tra due secoli.
È solo grazie alla sua trasformazione, attraverso il cinematografo Lumière, in proiezione condivisa e collettiva, se la settima arte si impone in tutto il mondo con una rapidità e una semplicità di lettura e fruizione sbalorditive. Questo perché il cinema, in sostanza, è una meraviglia tecnica mai vista prima, ma che parla una lingua antichissima ed elementare, il cui lessico, per essere compreso, non ha bisogno di alcun processo di alfabetizzazione. È il terminale ultimo, il punto d'arrivo definitivo di un processo di evoluzione dei mestieri dello spettacolo. La saldatura con una tradizione di piazza dove saltimbanchi, cantastorie, zanni, acrobati, marionettisti, giocolieri, maghi e lanternai hanno creato lingue franche, costruito grammatiche esclusivamente visive che non avevano bisogno della parola. Il cinema riassume in sé tutte queste istanze, ripropone la sintassi della visione popolare intrecciata a quell'idea di trasgressione e proibito, mistero ed estraneità, di cui i pubblici spettacoli sono sempre stati portatori irresistibili e luciferini. Il tutto, con la vertiginosa rapidità dei mezzi che la scienza di fine Ottocento mette finalmente a disposizione. Il kinetoscopio Edison è perciò destinato, sin dalla sua nascita, a essere superato, e subito dopo la sua commercializzazione, tra il 1893 e il 1894, la corsa all'invenzione si fa ancora più urgente. A cere.are di trasformare la riproduzione del movimento in spettacolo di massa sono in molti, alcuni spinti dall'interesse puramente scientifico della scomposizione del movimento, altri dal sogno faustiano di sconfiggere la morte imprigionando l'inafferrabilità di una realtà in perenne divenire. Altri ancora da una pulsione misteriosa cui loro per primi non sanno dare nome. Un esercito composito ed eterogeneo che va dai colossi dell'industria come lo stesso Edison o i fratelli Lumière, sino ai più avventurosi e artigianali pionieri, come i fratelli Skladano,1TSky. O come l'italiano Filoteo Alberini. (t) Chades Baude\aire, Opere, a eura di G. Raboni e G. Montesano, introdnzione di G. Macclrla, Milano, Mondadori, 1996, p. 1282. (2) Ovviamente ~ la storiografia cinematografica statunitense a sposare, in maniera
esplicita o meno, l'idea di Edison eome vero padre del cinema. In una bibliografia a dir poco oceanica, si rimanda a Ray Phillips, Edison's Kinetosccpe and Its Films, Westport, Greem1--ood, 2021.
Fare cinema priina del cinema
Dalla camera oscura al kinetoscopio La camera obscura è nota sin dalla notte dei tempi. Ne fa cenno già
Aristotele nel IV secolo a.e., mentre la prima descrizione giunta sino a noi è quella fatta all'inizio dell'XI secolo dall'ottico arabo Alhazen. Il principio di funzionamento è assai semplice. Sulla faccia di una scatola chiusa viene praticato un piccolo foro detto stenopeico, da cui possa entrare la luce. Questa luce proietta, sulla faccia opposta alfinterno della camera oscura, l'immagine capovolta e rovesciata, tanto più nitida quanto più è piccolo il foro stenopeico. In una fase iniziale, tanto ai tempi di Aristotele quanto a quelli di Alhazen, il principio era sfruttato soprattutto per gli spettacoli di ombre, con il foro praticato su una parete mentre gli attori o i danzatori agivano fuori dalla stanza. È durante il Rinascimento che viene perfezionata trasformandosi in una
piccola scatola dotata, sulla parete del minuscolo foro, di una lente convessa per migliorarne la lwninosità. È Leonardo Da Vmci a metterla a punto in questa forma, mentre il nome Camera Obscura si deve a Keplero, che la definì in questo modo nel suo trattato di ottica Ad Vztellionem paralipomena (1604). Per tutta l'età moderna lo strumento viene utilizzato soprattutto dai pittori. Un aiuto straordinario nello studio della prospettiva e, in particolar modo, consentendo agli artisti di rivedere i tratti del soggetto da dipingere, nell'impostazione dei ritratti. Ed è proprio apportando alcune leggere modifiche alla camera oscura che, tra il 1822 e il 1824, Joseph Nicéphore Niépce riesce a fissare quelle prime immagini cui storicamente si fa risalire l'origine della fotografia. Ancora più importante, in quanto gli spettacoli realizzati attraverso di essa sono universalmente riconosciuti come i più diretti antenati delle proiezioni cinematografiche, è la Lanterna Magica. Si tratta di uno strumento in grado d:i proiettare immagini dipinte su una parete (o su altra superficie) in una stanza buia, con un procedimento del tutto analogo a quello di un moderno proiettore di diapositive. Ovvero, all'interno di una scatola chiusa si trova una candela la cui luce filtra da un piccolo foro dotato di lente. Diffusa in Europa almeno dalla metà del XVII secolo (ma le sue origini risalgono senz'altro a epoche assai più arcaiche), viene da subito utilizzata tanto per scopi prettamente didattico-scientifici quanto come puro intrattenimento fantastico. Contiene cioè quella duplicità di intenti, quella "doppia anima", tecnica e artistica, dcumentaristica e narrativa, proprie del cinema. Tra i primi prodotti dell'ottocento industriale, nonché tra i più notevoli risultati del precinema, c'è senza dubbio il fenachistoscopio, un oggetto a uso domestico inventato dal fisico belga Joseph Plateau nel 1832 e nel quale assistiamo alla prima sintesi artificiale del movimento. Sulla superficie di un disco fissato su un manico e che ruota rapidamente sul suo asse, sono praticate una serie di aperture a intervalli regolari, mentre sul lato interno vengono applicati dei disegni che si riflettono in uno specchio. Guardando attraverso le aperture, il fenomeno della persistenza dell'immagine sulla retina (ancora oggi la base della visione cinematografica) combinato con le dimensioni ridotte delle aperture, viene creata l'illusione del movimento. Altro passo fondamentale verso il cinematografo è il prassinoscopio, inventato dal fisico Émile Reynaud nel 1887. Inizialmente era un piccolo giocattolo da salotto assai simile a quello di Plateau, ma due anni più tardi lo stesso Raynaud lo trasfonna dando vita al prassinoscopio-teatro, il primo apparecchio in grado di effettuare proiezioni animate luminose. D suo Théatre Optique, precursore del cartone animato, è il primo spettacolo di immagini in movimento proiettate in pubblico, grazie a una primith>a perforazione della striscia di carta in grado di legare i disegni stampati sui vetrini e consentirne così lo scorrimento. Altrettanto importanti sono gli studi sulla scomposizione del movimento effettuati dal fotografo inglese Eadweard Muybridge, che nel 1878 riesce a registrare un cavallo al galoppo attraverso dodici macchine fotografiche azionate dal cavallo stesso strappando dei fili di lana stesi lungo la pista e attaccati alle apparecchiature. Questo sistema viene perfezionato quattro anni più tardi dal fisiologo Étienne-Jules Marey, che con la sua invenzione, il fucile fotografico, riesce a registrare dodici immagini al secondo su una lastra rotonda. Lo stesso Marey perfeziona ulteriormente il meccanismo attraverso il cronofotografo, brevettato nel 1888, il quale, mantenendo la velocità di dodici fotografie al secondo, utilizza un nastro mobile di pellicola. Tutte queste invenzioni, a loro modo geniali e senz'altro importantissime, lamentano tuttavia la medesima mancanza: non sono in grado di proiettare il movimento. In questo senso è assolutamente decisiva l'invenzione del fotografo statunitense George Eastman, ovvero la perforazione della pellicola di celluloide, che con sedici fotogrammi al secondo su una striscia di 3smm consente di non dover cambiare lastra tra una posa e l'altra. È la base per il kinetoscopio, la grandiosa invenzione di Edison brevettata nel 1891. Si tratta della prima macchina in grado di consentire la riproduzione di immagini in movimento, ovvero veri e propri film, pensata con la funzione di pubblico spettacolo. Costituito da una grande cassa, il kin.etoscopio permette la visione del film poggiando l'occhio su un oculare posto in cima e muovendo contemporaneamente una manovella a lato. Di fatto, è già cinema. Ma mancando l'elemento fondamentale della proiezione pubblica e condivisa, pur se in un certo senso e sotto molteplici aspetti conclusivo e definitivo, il suo kinetoscopio resta confinato, a ragione, nell'universo preistorico del precinema.
Ritratto dell'inventore da • giovane
Alberini è dunque uno dei tanti avventurieri che, spregiudicati e sognatori, si gettano con tutte le scarpe nell'ebbrezza caotica di quei tempi di euforie e batticuori cercando in qualche modo, nella materia di un'invenzione e nella concretezza di un brevetto, di afferrare l'immateriale dell'infinito. Negli anni in cui il kinetoscopio Edison inizia a spopolare nelle fiere e nelle piazze e, nei medesimi spazi, abili imbonitori incantano grandi e piccini con le fantasmagoriche pantomime del Thé8.tre Optique, Filoteo Alberini, non ancora trentenne, è a Firenze, dove lavora come
tecnico all'Istituto Geografico Militare. Non è un predestinato. A metterlo sulla strada del cinema non è la storia della sua famiglia, l'eredità di un impero industriale o
semplicemente di un mestiere come accade ai Lumière e agli Skladanowsky. Ci arriva più o meno per caso, spinto da un'indole curiosa, un desiderio congenito e quasi famelico di conoscere e imparare, continuamente alimentato e assecondato dallo spirito dei tempi. Ma andiamo con ordine. Filoteo Alberini nasce, terzo di sei fratelli, il 14 marzo del 1867, a Orte, un piccolo borgo del viterbese di origine etrusca, all'epoca ancora appartenente allo Stato Pontificio, arroccato su un colle in mezzo alla valle del Tevere. Appena un anno prima era stata inaugurata la Strada Ferrata "Pio
Centrale", ovvero la linea ferroviaria Roma-Ancona che avrebbe dovuto riconoscere a Orte, che nel percorso figurava come «Stazione di Prima Classe», il ruolo di nodo strategico nell'intera rete di trasporti della penisola, e aprire di conseguenza enormi prospettive di crescita e sviluppo per tutta la cittadina. Non andrà affatto così, almeno nell'immediato. Concepito quando ancora la curia romana si apriva a istanze riformiste coltivando il sogno neoguelfo di diventare il governo centrale di una futura Italia federata, l'importante progetto ferroviario era rimasto stritolato nel brusco dietrofront papale seguito ai moti del 1848, allorché le convergenze tra i liberali sabaudi e i democratici mazziniani avevano iniziato a delineare un prossimo Regno d'Italia pericolosamente laicista. All'indomani dell'Unità nazionale, da cui Roma e il circostante laziale, Orte compresa, erano rimasti esclusi, la costruzione della rete ferroviaria era diventata terreno di tensioni e scontri tra due stati con pessimi rapporti diplomatici. A inaugurarla (e a finanziarla) era stato
il Regno d'Italia, ma per due tratti e un totale di oltre cinquanta chilometri, i binari correvano sul suolo dello Stato Pontificio. Il che aveva reso particolarmente complesso il suo funzionamento e, di conseguenza, il suo sviluppoW. Restando così il progresso ferroviario soltanto un miraggio, alla nascita di Alberini Orte continuava a essere un piccolo borgo periferico, abitato da poco più di tremila anime, in mezzo allo stato culturalmente più arretrato della penisola. Un ritardo destinato a rimanere immutato anche negli anni successivi, quando di ll a poco, appena tre anni dopo, nel 1870, la breccia aperta dai bersaglieri a Porta Pia avrebbe decretato la fine dello Stato Pontificio e
l'annessione di tutti i territori papali al Regno d'Italia. La famiglia Alberini è numerosa e modesta, il nome Filotea (letteralmente "amico di Dio") racconta una profonda devozione religiosa tutt'altro che inconsueta nella provincia dell'epoca. La madre, Candida, è dedita a tempo pieno alla casa e alla famiglia, mentre il padre, Raffaele, è indicato nei documenti del tempo genericamente come «industriante». Quale fosse la mansione specifica o il settore di impiego, non è dato saperlo (il termine, al centro sud, è stato usato a lungo anche per qualificare i mezzadri), ma la famiglia, che vive con i genitori di Candida in un quartiere tutt'altro che signorile (contrada di San Giovenale), non sguazza certo nell'agiatezza. Ma Raffaele Alberini è un uomo scaltro e intraprendente, e nonostante le ristrettezze economiche e una posizione sociale non di prim'ordine, riesce comunque a far sentire la sua voce e a ritagliarsi un ruolo di tutto rispetto nella comunità. Al momento della nascita di Filotea ricopre la carica di consigliere comunale e fa di tutto, nel corso degli anni, affinché i suoi figli, almeno quelli maschi, abbiano la migliore istruzione possibile. Gli sforzi sembrano ripagati in pieno, visto che il primogenito, Ermete, diventa maestro elementare in una scuola di Viterbo, mentre una delle femmine, probabilmente proprio sfruttando la rete di conoscenze illustri allestita dalla caparbietà del padre, sposa un uomo molto ricco e molto in vista a Orte, tale Paolo Sconocchia, così da garantire un importante scatto sociale a tutta la famiglia, che al gran completo si trasferisce in una grande e lussuosa residenza in pieno centro storico. Quanto a Filoteo, nel 1878 l'instancabile padre cerca di farlo entrare in seminario scrivendo di suo pugno una lettera di presentazione, dove elogia la sua predisposizione allo studio e i risultati eccellenti conseguiti alle scuole elementari. Tuttavia, le lodi profuse da Raffaele non trovano riscontro nei ricordi del figlio. Che anzi, in un discorso pronunciato nel 1923 in occasione dei festeggiamenti in suo onore indetti dall'Associazione Cinematografica Romana, poi riportato integralmente in un articolo de «La Rivista Cinematografica», racconta:
Fin dalla mia fanciullezza sono stato un tipo alquanto bizzarro, e vi dirò subito che, mentre ero poco inclinato allo studio, avevo invece uno sfrenato desiderio di conoscere ed imparare tutte le arti e tutti i
A conferma di ciò, non solo la piega che avrebbe preso la vita di Filotea Alberini negli anni a venire, ma anche la risposta del seminario, che respinge la sua domanda di ammissione senza troppi complimenti, non prendendo nemmeno in considerazione i numerosi ricorsi presentati in seguito dal padreW. Non abbiamo notizie sufficienti per ricostruire gli anni immediatamente successivi, ma da quel poco che sappiamo possiamo immaginare che durante le scuole medie, frequentate a Viterbo, i suoi risultati fossero discontinui e altalenanti. Di sicuro, in questo stesso periodo, ha modo di approcciarsi alla musica dedicandosi allo studio di uno strumento. Credenziali che gli permettono, a diciott'anni, di entrare nella Società del Concerto di Orte. È il primo interesse, la prima passione a essere praticata con una
certa continuità. E che, nella sua futura carriera cinematografica, tornerà più volte alla ribalta. Ma il vero colpo di fulmine, l'incontro fatale dell'adolescenza di questo ragazzo così poco interessato alla teoria e così tanto appassionato alla pratica, è quello con la fotografia. Racconta lo stesso Alberini: Avevo allora quindici anni. Capitò al mio paese un fotografo ambulante. Curioso anche in questo caso di ficcarvi il naso, feci di hltto per accattivanni la simpatia del fotografo è subito divènni il suo servitorello [...] Allorché la prima volta vidi riprodurre nel vetro smerigliato della mael• .All'inizio il programma del Moderno è tutto d'oltralpe, con una spiccata predilezione per i fihn di George M~iès e per quelli di Leonard Zecca, che con le sue pellicole a soggetto stava contnbuendo ai primi grandi snccessi internazionali del marchio Pathé.. Oltre i film d'importazione (scelta obbligata, visto che una produzione italiana ancora non c'è), Alberini, come il suo collega e rivale Remondini, inizia a proporre pellicole girate da lui stesso. Si tratta di riprese di eventi mondani o fatti semplicemente curiosi della città di Roma, abilmente pubblicizzati per solleticare la curiosità del pnbblico nel vedere sullo schermo la propria città o addirittura il proprio qnartiere. Con lo stesso obiettivo Alberini effettua alcune riprese all'Interno del Modemo con il pubhlico In sala, cosi da Indurlo a ritornare giorni dopo per rivedersi sullo schermo, soddisfacendo quel bisogno di autorappresentazione che era stata una delle basi del primo successo del cinematografo. L'importan>.a di questi filmati va decisamente oltre la programmazione del Moderno. Tolte infatti le prove perdute effettuate con Il kinetografo e altri due film a lui attribuiti, è in questo frangente che inizia a tutti gli effetti la produzione filmica di Alberini, di cui parleremo diffusamente nel capitolo successivo. È senza dubbio il suo periodo più intenso e fortunato. Le sue prove
registiche vengono unanimemente apprezzate, il Modemo va a gonfie vele ricevendo riconoscimenti prestigiosi e permettendo al suo animatore di aprire, sempre con la misteriosa «Compagnia Americana», altre sale, Un vero e proprio circuito che, oltre alla capitale, dove Alberini apre altri spari oltre al Moderno, vede esercizi analoghi a Napoli, Orte, Ferrara e, più avanti, a Bari e a Messina. Un momento talmente propizio da convincere l'inarrestabile .Alberini a tentare l'ennesima incredibile avventura: creare la prima casa di produzione cinematografica sul territorio nazionale. (29) fattiamn qui rifurim•nto in partioola"" agli sOl'Ìtti di Aldo Bemardini. Su tutti: Cinema muto italiane, 3 voi]~ Roma-Bari, latorza, 19So.19S.; O'nema italiano delle origini. Gli ambulanti, G@mona, Cinet.m del Friuli, 2001; Cirwrw. rm,tr, italitmo, Ifibn
"dal vero• 1895-1914, Gemona, Cinet•m del Friul~ 2002. (3o) Oltr.. agli stwli di Bernardinl, sugli ambul,nti ,i veda Gian Pioro Brun-, Cen!'aMi di cintma italiano, 2 voll., Roma·Dari, later.a, 1995, I, p, 15-19. (31) lui, p. 16. (3,>) Si -1a ivi, p. "-"· ls3) SuAlberini goston, di saka Fi,..,_ si veda Livio Luppl, I pionieri e /e occa,;/oni rnamlintervento del potentissimo Carlo Pouchain, padre di Adolfo, che grazie a un imponente prestito del Banco di Roma (che già ave\'cl finanziato }>acquisto da Alberini e Santoni) e all'ipoteca sulla casa, rilmia le azioni della società. n respiro dato dai nuovi innesti di capitali è tuttavia di brevissima durata. Dopo appena un anno, nel 1909, Adolfo Pouchain è di nuovo sull'orlo della bancarotta. In maniera del tutto improvvisata e dilettantesca, senza un programma a lungo termine e senza una reale analisi del mercato cinematografico del tempo, ha costruito nuovi teatri di posa, ha aperto stabilimenti, ha acquistato oltralpe brevetti dai Lwnière. Vassenza di una vera e propria direzione artistica e commerciale nella scelta e nel lancio delle pellicole, unita alla sempre più sfrenata concorrenza delle case torinesi, più competenti e preparate, mettono la Cines all>angolo. A intervenire questa volta è direttam~nte il presidente, Ernesto Pacelli. Fin qui mera figura di garanzia, entra nella produzione orientandola in maniera decisa verso i film a soggetto. Non basta tuttavia a sanare i debiti. t necessario l'intervento del barone Alberto Fassini che, allontanato definitivamente Pouchain dalla società, risana e riorganizza la Cines, ottenendone di fatto il comando artistico e . finanziano. È }>inizio del periodo d>oro. Tra il 1911. e il 1912 la Cines produce oltre trecento film, di cui quasi un terzo vengono venduti e proiettati con successo negli Stati Uniti. Le pellicole di maggior successo, nel solco del gusto dell'epoca, sono di argomento storico e biblico, kolossal imponenti di ampio respiro. I più fortunati sono quelli diretti dal regista Enrico Guazzoni, che aveva esordito anni prima proprio con Alberini, in qualità di decoratore del cinema Moderno. n capolavoro di Guazzoni, che segna anche il momento più fortunato della Cines sotto la gestione del barone Fassini, è il kolossal storico Quo vadis? del 1913, che con i suoi duemila metri di pellicola inaugura la stagione del lungometraggio. Come Pintera produzione nazionale, .anche la Cines conosce una pesante crisi negli anni della guerra. Per questo al termine del conflitto, nel 1919, il barone Fassini e il produttore Giuseppe Barattolo della Caesar Film, insieme ad altri soci, fondano la Società Anonima Unione Cinematografica Italiana, identificata con l'acronimo UCI. L'obiettivo è quello di unire le forze per evitare una concorrenza nazionale che, in un periodo così complicato, potrebbe rivelarsi disastrosa per tutti. E, al contempo, reggere l'azione sempre più invasiva delle produzioni straniere, in particolare quelle statunitensi. La Cines, come società di produzione autonoma, cessa quindi di esistere. Ma l>t.JCI ha vita assai breve. La crisi generale italiana, il momento particolarmente turbolento in cui il consorzio si trova a operare (il biennio rosso, la crisi sociale, la marcia su Roma e Pawento del regime fascista), la qualità non eccellente di pellicole e
macchinari, una diffusa crisi creativa che pare colpire J>intera cinematografia nazionale, fanno sì che PUCI chiuda i battenti già nel 1926. La nuova resurrezione della Cines si deve all'azione di Stefano Pittaluga, produttore che nello stesso 1926 rileva gli stabilimenti dell,UCI dopo la sua liquidazione. Nel 1929, dopo il successo de n cantante di Jazz, primo film sonoro della storia, con fidea di rilanciare il cinema italiano sulla scia di questa grandiosa innovazione, Pittaluga acquista il marchio Cinese l'anno successivo ne inaugura i nuovi stabilimenti. Sin da subito, sull'attività della Cines si allunga }>ombra dell>ingerenza fascista, che tuttavia garantisce l'afflusso di finanziamenti. n che consente un generale rilancio tecnico della cinematografia nazionale, che tanto nel campo del documentario quanto in quello del cinema a soggetto ritorna a produrre con continuità e lancia giovani promettenti registi, tra cui spicca il genio del grande Alessandro Blasetti. Dopo la morte di Pittaluga (1931), la direzione è affidata allo scrittore Emilio Cecchi, che fa della Cines una stimolante officina di idee, punto di convergenza tra alcuni dei più interessanti intellettuali dell,epoca. Un fermento non troppo apprezzato dal regime fascista, che nel 1934, al fine di controllare direttamente la produzione nazionale, crea la Direzione Generale per la Cinematografia, diretta da Luigi Freddi. Contestualmente, nel 1935, la Cines viene ceduta alla SAISC, società delfingegner Carlo Roncoroni, titolare di un'altra casa di produzione, la ICAR. Un incendio stranamente tempestivo, a voler essere cattivi decisamente provvidenziale, in quello stesso 1935 distrugge gli stabilimenti della Cines. ndisastro risolve di colpo il problema della doppia proprietà di Roncoroni e di una casa, la Cines, eccesshiamente svincolata dal volere del regime. Gli studi della Cines non vengono rioostruiti, e anche il suo marchio finisce nella soffitta di Roncoroni. Che, acquistati seicentomila metri quadri lungo la Tuscolana, costruisce un nuovo complesso composto da settantatré edifici, tra cui ventuno teatri di posa. È la nuova città del cinema, Cinecittà, inaugurata in pompa magna dopo solo quindici mesi di lavoro il 28 aprile 1937.
Tra documento e racconto
La nascita e lo sviluppo del cinema su due modalità di
rappresentazione, una scientifica e documentaristica, l'altra artistica e narrativa, è un fatto indiscutibile. Se infatti, come già sottolineato, nei primi anni pionieristici le differenze, pur esistenti, sono tutt'altro che nette e la classificazione risponde a una certa necessaria forzatura storiografica, è indubbio che negli anni immediatamente successivi, con la nascita del mercato cinematografico, tutte le principali
produzioni hanno nel loro catalogo, ben distinte, sia la sezione documentaria sia quella dei film a soggetto.
n che signuica che se una certa idea del cinema al servizio esclusivo del progresso scientifico segna ben presto la sua inefficacia (e la sua totale mancanza di prospettiva di guadagni), il documentario inteso come lo intendiamo noi oggi, ovvero non come studio sul movimento ma come racconto della realtà, rappresenta un punto imprescindibile del mercato delle origini, accanto - in alcuni casi in posizione prioritaria - alle pellicole narrative. Filoteo Alberini, per quanto continuamente pronto a mutare pelle e raggio d'azione, per quanto personaggio sui generis, viene comunque dal mondo sperimentale dei pionieri, dello studio tecnico della riproduzione fotografica, del cinema come invenzione. E di quel mondo ne condivide istanze, ambizioni e impostazioni. È perciò inevitabile che, nell'approcciarsi alla realizzazione di film suoi, Alberini batta la strada delle riprese dal vero di impronta documentaristica. Ricostruire la sua attività di regista, per quanto fondamentale ricordiamo ancora una volta che è un suo film, La presa di Roma, a essere universalmente riconosciuto come l'atto di nascita del cinema italiano - è impresa generalmente ardua e a tratti impossibile. Buona parte della filmografia è andata perduta, di molti film restano soltanto i titoli, in alcuni casi l'attribuzione risulta incerta e di diverse pellicole (compresa La presa. di Roma) sono sopravvissuti soltanto frammenti. Occorre quindi in questo caso fare lo sforzo, enorme ma assai frequente nella storia dello spettacolo, di ricostruire l'evanescenza, restaurare un momento che non c'è.
Prendiamo come punto di partenza il colpo d'occhio generale.
Il catalogo di Alberini regista, tra ipotesi probabili e certezze, conta oltre ottanta film, tutti cortometraggL Ciò che colpisce, ed è il primo dato su cui riflettere, è la cronologia delle pellicole. La loro produzione infatti, tolte alcune eccezioni, è tutta concentrata tra il 1904 e il 1907. Il che ci porta già a una prima conclusione, se pur parziale e provvisoria. Ovvero che anche se parliamo del primo regista in senso stretto del cinema italiano, per Alberini la regia è stata, al pari di tutte le altre attività intraprese nella vita, un momento, una fase transitoria. È fuor di dubbio, nonostante non ne resti alcuna traccia, che i primi film girati daAlberini risalgano al 1895, e che si tratti per lo più di prove tecniche fatte per testare il funzionamento del kinetografo. Pur non possedendo nemmeno i titoli- ma c'è da supporre che, in quanto prove, i titoli non ci fossero nemmeno - possiamo tuttavia facilmente immaginare che si trattasse di vedute dal vero, nel più classico stile Lumière. Sia per quanto riguarda i soggetti filmati, sia per l'impostazione registica, vale a dire inquadratura unica, profondità di campo e molteplicità dei centri visivi di attenzione. Come già accennato, esiste però, datato 1895, un breve filmato che documenta la visita del principe di Napoli e della principessa Elena, ovvero i futuri reali, al Battistero di San Giovanni a Firenze.
Lo storico Aldo Bernardini, oltre a parlarne come del primo documentario del cinema italiano, lo attribuisce a Filoteo AlberiniC.,l_ La congettura è plausibile e convincente. A quell'altezza cronologica, specie a Firenze, non c'è traccia di altro italiano al di fuori diAlberini in possesso di una macchina da presa. Ma a proposito di questo primo misterioso documentario, il cui soggetto attesta ulteriormente la propensione di Alberini per la ~cattura" della realtà, c'è dell'altro. L'evento storico documentato non lascia dubbi circa la sua datazione, vale a dire che è stato girato per forza nel dicembre del 1895. Cioè prima che Alberini riceva il brevetto per la sua invenzione, ma anche prima che i Lumière presentino per la prima volta al pubblico il loro cinematografo. Ergo, se dietro la macchina da presa a riprendere gli eredi al trono del Regno d'Italia c'è il nostro Filoteo Alberini, allora questo breve filmato è stato necessariamente girato con il kinetografo. Con le ipotesi non è proprio possibile spingersi oltre. Anche perché dopo questa prima (probabile) prova segue un lungo silenzio. Per ritrovare un film firmato da Alberini occorre aspettare nove anni, esattamente 1'8 luglio del 1904, quando al Moderno viene proiettato il breve documentario n banchettiss-imo dei Giornalisti, che inaugura un biennio di intense produzioni. Dietro questo consistente intervallo, con ogni probabilità non vi è alcun mistero né alcuna pellicola perduta. Più semplicemente, e più banalmente, dobbiamo pensare a una inattività volontaria, i cui motivi, seguendo il filo di quanto scritto fin qui, sono assai facili da individuare e comprendere. Smettere di girare film risponde a quel generale abbandono delle attività cinematografiche che segue, nel 1896, il successo internazionale dei Lumière. Quando poi, nel 1899, Alberini ritorna nel mondo delle immagini in movimento in qualità di esercente, è probabile che in un primo momento, coincidente con gli anni fiorentini, non prenda in considerazione di rimettersi dietro la macchina da presa sia per mancanza di tempo (egli è ancora e prima di tutto un impiegato del catasto) sia per mancanza di risorse. Torna infatti alla regia nel 1904, a Roma, quando il successo del
Moderno, e la tranquillità economica garantita dai soci, gli permette di lanciarsi in questa nuova avventura. Che all'inizio, più che a una necessità specificatamente artistica, risponde a una strategia economica per rendere più appetibili gli spettacoli offerti nella sua sala.
Stando alle fonti, i film girati da Alberini nel 1904 sono almeno quindici, tutti proiettati per la prima volta al Mochrno di piazza Esedra e tutti documentari. Anche se non ci è dato vederli perché perduti, i titoli non lasciano spazio al dubbio circa la loro natura. Si tratta di riprese di feste religiose o civili, come Pesta del Divino
Amore, Festa del I e II reggimento granatieri, di grandi eventi pubblici della capitale, come La commemorazione del XX settembre a
Porta Pia e Inaugurazione del monumento a Goethe; di eventi altrettanto importanti fuori dal territorio romano, come Palio di Siena e Il varo della "Regina Elena" alla Spezia; oppure riprese "in diretta~ di incidenti e disastri, come Un incendio fuori. porta San Sebastiano e Il disastro di Mari.no nei suoi dettagli. Di alcuni, possediamo preziosi resoconti che ci aiutano a fare ulteriore chiarezza. Ad esempio, de Il disastro di Mari.no nei suoi dettagli, proiettato per la prima volta al Moderno il 3 ottobre, si scrive: Al Cinematografo Moderno è riprodotto il disastro ferroviario sulla linea di Marino. Vi si vede il faticoso lavoro degli operai per effettuare lo sgombero dei rottami del treno. ll pubblico, sceltissimo, accorre numeroso""'.
Il successo di pubblico, e la sua meraviglia per le riprese della catastrofe, non lasciano tuttavia spazio ad alcune considerazioni tecniche, né a qualsiasi accenno alla struttura del film. In questo senso, decisamente più interessante è il racconto della prima proiezione di Un incendio fuori. porta SanSebastia.rw, del 5 luglio:
È pure riprodotta la partenza dei vigili da via Genova al luogo dell'incendio[...] Giunti i vigili sul luogo dell'incendio, fanno il salvataggio di una donna dal primo piano di una casa, di un wcchlo quasi asfissiato, di un asino da una stalla. Le diverse manovre sono state riprese dettagliatamente, dalle alzate delle scale a quella della
La descrizione ci fa capire, senza ombra di dubbio, come il film di Alberini preveda il montaggio di più sequenze. CQn tutta probabilità non c'è accenno a un montaggio "interno" alle singole scene, ma la giustapposizione di più sequenze per la creazione di un racconto complesso e articolato, attestano come in Alberini, già nel 1904, ci sia piena maturità e consapevolezza nell'utilizzo della grammatica filmica. Che gli consente anche di variare stile a seconda del soggetto ripreso. Se infatti l'incendio dà origine a un film montato, ne Il varo della "Regina Elena" alla Spezia Albe rin i pare tornare a un'inquadratura unica e multiprospettica:
Chi eooguì fu un vero artista, de meritare ogni migliore eloquio, egli seppe scegliere il momento culminante, il punto di luce giusto da eliminare le moleste ombre, che intercettano la visuale allo spettatore
ed alìre$i il luogo più opportuno per offrire, oltreché lo spettaC-Olo del varo, anche il panorama dell'incantevole rade gremita di pubblico esultante'..'.
L'entusiasmo del pubblico, l'unanime consenso riconosciuto alle sue capacità tecniche, come sappiamo, è il "la" alla fondazione, all'inizio del 1905, della Alberini&Santoni. Le cui produzioni, aU'inizio, ricalcano le prove registiche dell'anno precedente. Troviamo quindi documentari di argomento militare, come
L'accampamento dei bersaglieri a Bracciano, di cui resta un elenco dei quadri che certifica la sua struttura a montaggio, le feste religiose e riprese dal vero di grandi eventi, come L'arrivo dell'imperatore di
Germania o Commemorazione di Garibaldi al Granicolo, di cui non possediamo descrizioni ma che probabilmente vengono realizzate con la stessa tecnica dell'inquadratura unica utilizzata per n varo. Si aggiungono al catalogo gli eventi sportivi. Entrambi della primavera del 1905, a firma Filoteo Alberini, abbiamo Coppa del Re e
Corsa alle Capannelle col Derby Reale. È possibile, vista la natura degli eventi, che Alberini abbia sperimentato per l'occasione akuni minimi movimenti di macchina. Di sicuro, sia per la natura del personaggio sia per la varietà dei soggetti filmati, convivono nella filmografia di Alberini differenti modalità di ripresa e sperimentazioni continue.
È possibile, se non direttamente probabile, che già all'atto di fondazione della A1berini&Santoni, il nostro abbia in mente un salto di qualità ben più importante della variazione delle tecniche di riprese. Ovvero, che abbia già in predicato il passaggio dal documentario basato sulla ripresa dal vero a un genere di film più complesso. Del resto, per la creazione della casa di produzione, Alberini ha viaggiato in Europa alla scoperta delle principali manifatture cinematografiche. E così come ha toccato con mano le tecniche più innovative e i meccanismi di produzione e promozione più all'avanguardia, ha avuto senz'altro modo di conoscere i sistemi di realizzazione dei film dei generi più disparati. Se quindi un film di ben più ampio respiro è già nei suoi progetti all'inizio del 1905, la varietà dei soggetti documentaristici realizzati a inizio anno può essere intesa come una fase preparatoria al grande salto. Che entra nella sua fase decisiva tra la fine della primavera e l'inizio dell'estate di quell'anno, quando tutti gli sforzi economici, tecnici e creativi di Alberini, e della sua casa di produzione, si concentrano nella preparazione e nella realizzazione de La.presa di
Roma -
20 settembre 1870,
il primo film a soggetto della storia del
cinema italiano.
(49) Cfr. Aldo Bernardini, Cinema muto italiano. I.film "dal veron. J895•l9l4, cit.,
p. 31. (5Q) S.a., in «Il Messaggero&, 3 ottobre 1904. (51) S.a., in «Il Messaggero&, 6 luglio 1904. (52) S.a., in «La Nazione», 30 giugno 1904.
"La presa di Roma"
Come per l'industria cinematografi.ca, anche nel caso del cinema narrativo, la nascita ritardata finisce per essere un vantaggio per il cinema italiano.
Aver saltato a piè pari il periodo di sperimentazioni, tentativi e aggiustamenti, fa sl che sia possfb11e pensare da subito in grande. Ed essendo AlberiDi per indole abituato a pensare in grande, tutto ciò che riguarda La presa di Roma è effettivamente grandioso(s.s).
Basta guardare l'opuscolo pubblicitario preparato per il lancio del film, dove si annuncia la presem;a di «grandi artisti~ e «ricchezza di scen11ri, di costumi, di afuezzi»(o.,l. Ma è proprio II monte, nella
preparazione del film, che non c'è traccia della più classica improvvisazione pionieristica. Al contrario la Alberini&Santoni, la manifattora dove il progetto viene concepito e prende forma, ha strutture, laboratori e macchinari all'avanguardi1.1, ha llSllunto te6J, Anche il solito opuscolo, non mtonca di sottolineare l'avanguardia tecnica della produzione, ricordando che lo stabilimento: ~
stato costruito conforme le più recenti Mig"n"" della teonica, fornito
di ogni comodità ed accesoorio e non si badò • .. crifici pur di renderlo superiore ad ogni simile stabilimento ost&r'"'·
Se tuttavia in quanto a tecnica e disponibilità di mezzi la
Alberlni&Santo11i pare non avere nulla da invidiare a colossi stranieri come la Pathé, sull'aspetto puramente estetico, stilistico e narrativo il discorso è radicalmente diverso. Nel senso che tra Alberini e gli autori coevi del cinema francese e americano, la differenza è oggettivamente notevole. Anche in questo caso, come già nell'attestare la precedenza del cinematografo sul kinetografo, non si tratta di ridimensionare il personaggio né di darne un giudizio negativo. Tutt'altro. Lo sforzo profuso nel mettere in pochissimo tempo l'Italia al passo con le altre cinematografie nazionali per mezzi e potenzialità produttive, è comunque clamoroso e sbalorditivo. Il fatto che poi alla maestria tecnica non si accompagni un linguaggio artistico parimenti innovativo, è semplicemente inevitabile.
Purtroppo, dei duecentocinquanta metri originali del film ne restano soltanto settantacinque, poco più di quattro minuti. Due dei sette quadri mancano completamente, di nno conserviamo un solo fotogramma, mentre i quattro superstiti sono frammentari. Perciò, anche e soprattutto in questo caso, occorre restaurare un monumento almeno in parte inesistente e ricreare un qualcosa di evanescente. A quanto pare, di Alberini sono anche il soggetto, la sceneggiatura e
i testi delle didascalie. Nonostante le lacune, conosciamo nel dettaglio la trama e le sequenze del film grazie alla minu.iiooa descrizione dei sette quadri riportata nella preziosissima, e più volte citata, brochure della .Alberlni&Santoni dedicata al lancio de La presa di Roma. Ma non solo l'intreccio. La sinossi estremamente particolareggiata è integrata, quadro per quadro, da informazioni storiche per meglio inquadrare la vicenda, denunciando un chiaro intento divulgativo, se non direttamente didascalico e didattico, assai ricorrente in molte pubblicazioni dell'epoca. Non c'è da stupirsi. Ancora, nel 1905, una vera coscienza patria è tutta in costruzione, e la divulgazione della storia italiana, specie quella risorglmentale, pur tra mille storture ed esagerazioni retoriche, è un intento perseguito con forza da più p,.,.rti.
Il libretto, prima della descrizione dei quadri, riporta l'antefatto, che forse costituiva la didascalia introduttiva del film: Decisa l'occupazione di Roma, l'esercito italiano al comru,do del maggiore pnèI'ale Raffa&!& Gadoma si riuni a Terni donde, alle 6 del mattino del 10 settembre >870, mosse per diverse otrade all'occupa>ione del territorio pontificio'"'·
Le altre didascalie presenti nel film probabilmente coincidono con i
titoli dei sette quadri. Il primo è Il Parlamentario Generole Carchidio a Ponte Milvio:
Il generale Gadorna il 17 sotten,bre posa il quartier generale aila Storta. La ,era d&! 18 settembre inviò agli avamposti, a ponte Milvio, il generale Garchidio conte di Malavolta per chiedere la ...,.. di Roma senza una inutile effusione di sangue. Il Carchidio trovò ad attenderlo l'Ufficiale di staro n,aggiore pontificio cario Bartolini • il tenente dei dragoni Cesare Visoonti •, oome il suo pred&e .. so ... , il eolonnollo Caccialupi, Vb.. staia eo.,a vana e danno.,a prolungare la resistenza, diede ordine al generale Kanzler di far issare bandiera bianca, ooguacolo di resa e pegno di paoe, sulla crooe della cupola di S. Pietro. Roma era oonquistata all'ltalial".,·
All'impossibilità di sapere se girato in esterno o in interno, si aggiunge il dubbio sul taglio dato alla sequenza, se realistico o allegorico. Visto che già il settimo e ultimo quadro è un'allegoria, e visto il solito piglio storiografico presente nella sinossi, si può ipotizzare che ancora per il penultimo atto il racconto resti sul plano della ricostruzione realistie11. Il quadro finale è Apoteosi:
Il segno di Cavour, di Vittorio Emanuele Il, di Garibaldi e di Mazzini ri
è finalmente avverato. La fulgida stella sabauda irradia il Campidoglio e il Quirinale e l'ltalia, una, libera e indipendente, tributa ai suoi grandi fattori la palma della vittoria e il plauso del popolo cui la
gloriosa data del 20 settembre ha schiuso una novella era di prosperità, di pace, di amore.'"'·
Per la sua conclusione, il film smette gli abiti della fedele ricostruzione storica e si abbandona a una celebrazione dai toni a dir poco agiogrefici. I padri della Patria citati nella sintesi sono immobili, sospesi tra le nuvole in una specie di laico paradiso patriottico, in lllla posa di austera solennità e lo sguardo in direzione del pubblico. h1 mezzo a loro svetta la personificazione della Patria, una fanciulla con la classica corona turrita, anch'essa in una posa sacrale a metà strada tra l'iconografia pagana e quella cristiana, la palma simbolo di vittoria in una mano e il tricolore nell'altra. Nel fondale dipinte> che campeggia alle loro spalle, sono visibili i palaazi del Campidoglio e del Quirinale, sopi:a cui brilla una stella, simbolo al tempo stesso laico, rivoluzionario e massonico. Una sorta di rappresentazione medievale che, per simboli, racchiude e sintetizza il senso universale dell'intera vicenda. Più che un quadro, una sorta di fermo immagine che, mettendo da parte le retorie11 risorgimentale e concentraudosi sull'estetie11, più che il cinema narrativo ricorda i fantasiosi e immaginifici esperime11ti di Méliès e di altri pionieri.
La scelta, da parte di Alberini, di un simile soggetto per il primo
film importante della sua casa di produzione, in cui quindi si gioca la credibilità e buona parte del futuro, pu~ essere letta e interpretata nelle maniere più disparate.
La conquista di Roma è infatti l'episodio per eccellenza su cui si costruisce la mitc>grafia del Risorgimento. L'episodio della breccia di porta Pia e gli annessi e connessi di quei giorni convulsi, nel trentennio conclusivo del diciannovesimo secolo vengono raccontati ed esaltati in una quantità imprecisata di novelle, romanzi, opere poetiche, dipinti, sculture.
È quindi senz'altro un azzardo. L'immaginario collettivo degli italiani è stato così sollecitato e stimolato sull'argomento che il rischio di lasciarlo indifferente, o addirittura di annoiarlo, è più che concreto. Ma al tempo stesso, è il classico soggetto giusto al momento giusto. Dopo un decennio di tensioni che hanno finito per mettere sul banco degli imputati la stessa opportunità dell'unità d'Italia, la diatensione giolittiana, oltre a fiducia e ottimismo, ha riportato agli italiani il più sano e unificatore dei patriottismi. C'è quindi piena predisposillione a rivivere, con tutta la retorica del caso, i fasti risorgimentali. E pex quanto l'annessione di Roma sia soggetto sovrasfruttato e ripetuto in ogni salsa, solo il cinema con la sua nuova grammatica e la sua nuova funzione di spettacolo popolare può trasformarlo in emozione, riviviscenza e rituale collettivi. E quindi, del tutto nuo,ri. Nella costruzione del racconto e della sequenza dei quadri, fatta eccezione per l'Apoteosi finale, la preoccupazione principale di Alberini sembra essere quella della fedeltà storica. Lo testimoniano la dovizia di particolari delle descrizioni dei
quadri, l'utilizzo delle foto dal vero da riprodurre poi in scala e in maniera del tutto identica all'originale, l'uso meticoloso di oggetti e abiti sceuici emblematici. E le ricerche storiche effettuate direttamente sui giornali dell'epoca:
Per "-"'guire questa importante dnematografia si I, fatto tesoro dei più minuti particolari storici desumendoli dai giornali e dalle cronache del
tempo'''"·
Tuttavia, il film di genexe storico solitamente non riproduce la storia, ma la interpreta. Senza alternarne le dinamiche di causa ed effetto, la comprime, la dilata e la pospone per esigenze di copione, la romanza e a volte pure la inventa. Di tutto questo ne Lo presa di Roma non c'è traccia. Al contrario, l'attenzione qnasl esclusiva di Alberini nel riprodurre il più fedelmente possibile foto e documenti d'epoca, rientrano nelle sue classiche prerogative di appassionato documentarista. Come giustamente evidenziato da Giovanni Lasi, autore di un importante saggio interamente dedicato al film di Alberini, La presa
di Roma non sembra rientrare tanto nel genere storico quanto in quello delle «attualità ricostruite», una sorta, per intenderci, di docufiction ante litteram("7J_ Owero, ricostruzioni in forma narrativa - allestite e girate negli interni dei teatri di posa - di fatti realmente accaduti, eventi di un certo rilievo e di una certa risonanza, casi di cronaca particolarmente eclatanti. Anche la struttura per quadri, più che a una modalità puramente narrativa rimanda alla pubblicistica del tempo, dove i principali avvenimenti erano riferiti attraver,,o una serie di disegni accompagnati da didascalie esplicative il cui stile ricorda molto le sinossi pubblicate nell'opuscolo della Alberini&santoni. Si pensi al caso di cronaca più sconvolgente di inizio secolo, ovvero
l'assassinio di re Umberto I per mano dell'anarchico Bresci, raccontato dai giornali proprio da una serie di quadri disegnati, ognuno dei quali accompagnato da una sinossi approfondita.
E non è certo un caso che oltralpe, dove il genere era già diffuso da tempo con discreta fortuna, uno dei principali autori di attualità ricostruite sia proprio George Méliès, ulteriore conferma del legame di questa tipologia di film con il cinema dei pionieri. Infine, è proprio l'approccio ideologico di Alberini verso l'episodio narrato a collocare il film al di fuori del genere storico. Vale a dire che l'epopea dells conquista della futura capitale, al pari dell'intera parabola risorgimentale, non è intesa come celebrazione del passato, bensì come insieme di glorie e valori su cui fondare il presente, nonché paradigma pex un radioso futuro della nazione. L'Italia giolittiana del 1905 sembra infatti il compimento definiti,ro e felice del progetto risorgimentale, condiviso tanto dal conservatorl5mo e11,rouriano quanto dal repubblica11e.simo mazziniano, di uno stato indipendente e laico. Già osteggiata dagli ambienti ecclesiastici nella sua progettazione e apertamente ripudiata l'indomani dell'unità d'Italia nel 1861, la presa di Roma aveva sancito il definitivo strappo della Santa Sede con il Regno d'Italia. L'intransigenza di Pio IX, concretizzatasi in documenti clamorosi come il Non expedit dove lo stato italiano veniva disconosciuto e i cattolici esortati a non partecipe rea alla vita pubblica pena la scomunie11, aveva trovato terreno straordinariamente fertile nella generale e pericolosa instabilità del paese l'indomani dell'unità nazionale. Facendo leva su una popolazio11e in grande maggioranza sinceramente cattolica e decisamente timorata, aveva destabilizzato cittadini già confusi e minato la neonata Italia alle fondamenta facendola vacillare. Lo stato tuttavia., si era rivelato capace prima di affermare
progressivamente la propria autorità e poi, ritrovata nel nuovo secolo la sua stabilità interna, di passare al contrattacco facendo del Risorgimento una sorta di religione laica in cui gli italiani potessero rivexsare il loro bisogno di sacro e di misticismo. Il film di Alberini, che pur non essendo apertamente anticlericale nel quadro perduto della resa mostra, con l'immagine della bandiera bUlnca sventolante su San Pietro, la ,rittoria dello stato laico sul potere temporale della Chiesa, è accolto con pieno appoggio e fa,rore da parte delle istituzioni. Nonché della Massoneria, che sin dai primi moti carbonari ha giocato un ruolo a dir poco decisivo in tutto il processo unitario e che tra i propri principi fondanti annovera, per l'appunto, la difesa della laicità dello stato. E non a caso è infatti presente in maniera diffusa in tutto ciò che si muove attorno alla prima proiezione romana del film, quella del 20 settembre del 1905 realixzata all'intexno dei festeggiamenti pex il trentacinquesimo anniversario della presa di porta PiaC681.
Si può dunque concludere come La presa di Roma non rappresenti
affatto il distacco di Alberini dal genere documentaristico, ma la sua naturale evoluzione, il suo culmine. Il quadro finale, cosi distante da qualsiasi parvenza di realismo, non contraddice tutto questo. Al contrario lo conferma, ponendosi come sintesi in forma di epilogo simbolico, trasfigurazione, allegorica del messaggio veicolato dalla ricostruzione della realtà.
Se quindi La presa di Roma è anche - e lo è i11discuhOilmente e oltre ogni ragionevole dubbio - un film a soggetto nonché genesi del cinema narrativo italiano, questo accade (quasi) per caso, indipendentemente dalla ,rolontà dell'autore, che nel pexseguire la fedele riproduzione della realtà con il piglio e la pignoleria propri del documentarista navigato, finisce per trovare soluzioni tecniche e rappresentative che spalancano la strada alla grammatica e alle consuetudini della più pura narrazione per immagini.
(53) l'.sisté in particolare un ottimo saggio dedicato specifioatamenh! ed eselusiYamente a questo film: Giovanni !..asi, La presa di Rema. :,o settembre,870.
(Fi/oteAlborini, ,90S). La nascita di Wta nazione, Milauo·Udine, Mimesis, 2015. lnteMSSante è anche Micltale Canosa (a cura di), ,905. La presa di Rltl,1, RéOOO (GE), Le Mani, 2006. Mari vedano anche, a proposito del film, le pagine illwoinanti scritte da Giau Piero Brunetta, Cont'aw,i di cinema ,"taliano, cii., 1, p. C54) Si tr- del Bollettino n. , dellaAlberini&Santoni, opuscolo pubblicitario stampato nel 1905 e costituito da pagine non numerate.
,-2.
(55) Ibidem. (56)A parlare MpMSSamente di film •a oolori~ è ~I.a Tl'lbuna» del""- ..itemhre del 1905. (57) Bollollino n.1 dellaAlberini&Santoni, cit. (58) Ibidem.
(59).lbidem. (6o)lbidem. (61) Ibidem.
(&)Ibidem. (63) Ibidem.
(4)Ibidem. (65).lbidem. (66) Ibidem. (67) Giovanni I.asi, La presa di Roma. 20 settembre 1870. (TùotwA1berin4 1905). La nascita di una nazione, cit., p. 5o•S7. Cfr. anche Michele C..nosa, Una breccia nello ""11enru>, in Micllele canosa (a cura di), ,905. La pr&m di Roma. Alk migin;del
cinema italiano, cit, p. 9. (68) Cfr. ivi, p. 68--79.
Il successo
Ed eccoci tornati al punto di partenza.
Per l'esattezza alla sera del 16 settembre del 1905, quando a Livorno, al Cinematografo Artistico in corso Vittorio Emanuele II al
civico 47, La presa di Roma -
20 settembre 1870 viene proiettato
in
anteprima assoluta.
La scelta di Livorno, come già evidenziato in apertura, come strategia commerciale e promozionale è generalmente indiscutibi1e_ Alla metà di settembre l'estate livornese è tutt'altro che conclusa, le
spiagge sono ancora affollate, i turisti sciamano numerosi per le vie del centro e le serate sono lunghe e intense. La città è per il cinema garanzia di un pubblico colto, preparato e predisposto a occupare il proprio tempo libero con le ultime novità del grande schermo. Resta comunque da capire il perché di un'anteprima assoluta ad appena quattro giorni dalla grande proiezione romana, quella del 20
settembre, nel giorno del trentacinquesimo anniversario della breccia di porta Pia. Se infatti è chiaro perché Livorno sia un'imprescindibile piazza commerciale, i motivi di questa première restano avvolti nel dubbio e nel mistero. Probabilmente la proiezione anticipata risponde esclusivamente all'esigenza di testare il film prima del grande appuntamento romano. Oppure, potrebbe trattarsi di uno scambio di favori tra Alberini e Achille Mauri, proprietario del Cinematografo Artistico e di numerose altre sale a Roma. Ancora Giovanni Lasi ipotizza una antica frequentazione tra i due che esula da motivi strettamente legati alla gestione delle sale cinematografiche, ma è indubbio che la condotta disinvolta di Velle sia uno dei motivi principali del bilancio fallimentare della Cines nel suo primo anno di vita, che la vedrà, già all'inizio del 1908, a un passo dal fallimento. Plagiati o meno, a quanto pare Alberini viene comunque coinvolto in tutti i film realizzati in Italia da Velle. Non ha più alcun potere decisionale sui soggetti, ma non viene nemmeno relegato alle scartoffie degli uffici come Santoni. Quasi tutti gli studi che affrontano direttamente la vicenda di Alberini o la lambiscono soltanto, indicano la sua presenza nel cast di queste pellicole in qualità di «direttore della fotografia». Ma l'informazione, per quanto sostanzialmente veritiera, è fuorviante e rischia di generare equivoci e ricostruzioni del tutto errate. A quest'altezza cronologica infatti, non solo la dicitura «direttore della fotografia» è ancora sconosciuta al linguaggio cinematografico, ma è la mansione in sé a non essere proprio contemplata nella ripartizione dei ruoli dell'epoca. Oggi il direttore della fotografia ha un'importanza enorme all'interno di una troupe, dirige l'intero reparto - dagli elethicisti agli operatori - adibito alla creazione dell'immagine e, soprattutto, della sua illuminazione. Quasi sempre, è la figura più importante dopo
quella del regista. Ma nel 1906 il cinema si è appena affrancato dalla concezione del
one man made - di cui proprio Alberini è tra gli esponenti più illustri - e la divisione dei ruoli è ai suoi primordi. Soprattutto, la fotografia è ancora troppo fragile, la ricerca illuminotecnica si limita a ottenere la visibilità dell'inquadratura. Che, visti i limiti tecnici del tempo, è già un risultato importante e tutt'altro che scontato. All'epoca troviamo l'operatore, ovvero colui che materialmente effettua le riprese, è responsabile della macchina da presa ed è a tutti gli effetti l'antenato del direttore della fotografia, ma non ha quell'importanza riconosciutagli oggi e da lui non dipende alcuna ricerca espressiva autonoma. Quindi, anche se gli studi moderni preferiscono la dicitura altisonante di «direttore della fotografia», è nelle più contenute vesti di operatore che troviamo Alberini all'interno della Cines. Il che è perfettamente in linea con quel generale demansionamento subito sia da lui sia dal vecchio socio Santoni. Come per la maggior parte del cinema dell'epoca, anche di questi primi film targati Cines sappiamo pochissimo. Spesso, non resta altro che il titolo e la solita sinossi del catalogo. Di Alberini, nessuna menzione. Eppure, frugando tra i pochi reperti sopravvissuti, riusciamo a trovare lo stesso traccia della sua bravura, anche in un ruolo del tutto marginale. A proposito di Otello ad esempio, riduzione cinematografica della tragedia shakespeariana prodotta dalla Cines e diretta a quattro mani da Gaston Velie e Mario Caserini, scrive «La Gazzetta di Messina e
delle Calabria»: La cinematografia Otello è di assoluta perfezione, nonché di altissimo
interesse per la drammaticità dei quadri, di cui si compone. Senza oscillazioni e incertezze di luce, piena di effetto è ammirata dal
pubblico, che ne rimane seriamente appagato1fl71•
L'altissima qualità dell'illuminazione, e quindi della nitidezza delle immagini, è messa in risalto più di ogni altro aspetto, come elemento chiave per il successo del film. Non è una novità. La maestria tecnica di Alberini in campo fotografico è certificata dalle splendide immagini de La presa di
Roma, la sua abilità nel manovrare la cinepresa è indubbia sin dai tempi del kinetografo.
Ma sono risultati che non bastano ad appagarlo. Il ruolo di mero esecutore di idee altrui, per lui abituato a trovare nell'invenzione la propria dimensione e linfa vitale, è quanto mai frustrante. Nonostante possegga ancora delle quote societarie, non è coinvolto in nessun aspetto della produzione. Tutto questo, unito alla cattiva gestione di Pouchain, lo convincono, dopo appena un anno, nella primavera del 1907, a rassegnare le dimissioni. La Cines risponde:
Nell'atto ch'Ella lascia la Direzione Tecnica dello Stabilimento S. Giovanni, è grato a questa Società di riconoscere la Sua indiscussa competenza[...] Perciò questa Società mentre si lusingava di poterla conservare alla Direzione tecnica dello Stabilimento S. Giovanni, è dolente dover rinunciare all'opera Sua, non aven-dola potuta far recedere dalla
decisione di abbandonare detto Ufficio, inquantoché le incompatibilità personali che hanno causato tale abbandono escludevano una via di accomodamento18R>.
È una formula di congedo assai rituale. Quale che siano «le incompatibilità personali» addotte da Alberini - problemi con Pouchain o con Velie, richiesta di maggior spazio o che altro - è certo che la Cines non si strappa i capelli per trattenerlo. Lascia con ali'attivo come operatore almeno otto film, ma probabilmente il numero è maggiore, mentre non risulta alcun suo contributo come produttore. Un ruolo che tuttavia si ritaglia in piena autonomia, negli stessi mesi trascorsi alla Cines, al di fuori della casa di produzione. Produce i cortometraggi da lui stesso diretti, tornando come già sottolineato a quella formula utilizzata per i suoi esordi nel cinema romano. Vale a dire corti di taglio documentaristico proiettati nella sua sala di piazza Esedra. Solo tre di questi film dal vero girati tra il 1906 e il 1907, risultano prodotti dalla Cines. Uno in particolare, Visita dei Reali di Grecia a
Roma, viene lodato dalla stampa, anche se gli encomi sono più in generale per la Cines che specificatamente per Alberini: è una pellicola riuscitissima, che si ottenne con una straordinaria rapidità. Ne va data lode ai solerti direttori e operatori della società1"11l,
Lui ad ogni modo crede molto nei suoi progetti in proprio, e l'addio alla Cines è lo stimolo per riprenderli e rilanciarli a pieno ritmo. Il Cinematografo Moderno, di cui non ha mai abbandonato la direzione, diventa il suo nuovo centro operativo. Per prima cosa, rileva altri locali sotto i portici di piazza Esedra. L'obiettivo è una seconda sala, che aprirà effettivamente i battenti nel dicembre del 1907. Prima però, vi costruisce un piccolo teatro di posa «corredato da scenario, da mobilio e da costumi d'ogni epoca», proprio per soddisfare le sue ambizioni registiche così tanto frustrate dopo il successo de La presa di Roma. All'inaugurazione della nuova sala, presenta un'ulteriore novità ben più che avveniristica, così raccontata da «Il Giornale d'Italia»:
Una geniale invenzione [...] una scena cantata con PAutocinefonio, una concordanza perfetta tra il canto e la mimica.
A quanto pare, si tratterebbe del cinemofono Pagliej, un apparecchio mai brevettato in grado, per quanto ancora lontano anni luce dal vero e proprio cinema sonoro, di sincronizzare l'immagine e
la musica.
È una strada che interessa e appassiona molto Alberini, che di musica si era dilettato in giovane età. Inizia così una collaborazione con i fratelli Pineschi, inventori del cosiddetto fonoteatro. Con la loro casa di produzione, realizzano infatti film sperimentali in cui cercano di applicare il fonografo al cinematografo. Il loro primo esperimento è con Il Trovatore di Giuseppe Verdi, presentato nel 1908 proprio in un cinema di Alberini, il Lumière, con sede sempre a Roma. Il sodalizio va avanti per tre anni, nel corso dei quali sembra che Alberini abbia condotto - senza successo - specifici esperimenti per applicare il sonoro alle pellicole. Interrotti bruscamente nel 1911, quando la casa discografica Ricordi proibisce questi intrattenimenti per violazione dei diritti d'autoreioni [ ... ] La Pariola; denominazione gentile di un v,,ro ed enorme parco che conterrà due teatri; l'uno s,:operto e l'altro cliins, saloni per the e concerti, ristorante, birreria, sale di pattinaggio, ecc., ecc. I teatri saranno grandi come il nostro Costanzi; potranno contenere fino a 6000
persone ciascuno, ed avranno dei palcoscenici cosi
spaziosi e cosl moderni da soddisfare a tutte le esigenze, Vi saranno palchi, con salotti, gallerie con annessi foyers e, particolare di una
certa importanza, gli ingressi sararino carrozzabili''""·
È a dir poco stupefacente. Con un anticipo sui tempi ancora più
sbalorditivo del solito, Alberini progetta un immenso centro culturale polivalente, capace di contenere l'intera offerta per il tempo libero della medio e alta borghesia. Ane-0ra più incredibile è che il progetto, almeno in parte, venga realizzato in tempi straordinariamente brevi. Quella stessa estate, nel luglio del 1920, appena sei mesi dopo l'intervista, La Pariola viene inaugurata in pompa magna. Cosi la race-0nta e la descrive «H Messaggero»:
La Pariola rapprMonta il trionfo di una volontà individuale che
lottando contro tutti gli ostacoli e le asperità di questi giorni ha vinto. Questa volontà individuale dopo aver compreso, dirò eosl la bontà della propria causa, si è messa all'opera. I prezzi
•= alti, fantastici,
b mano d'opera rara e introvabile e gli scio~ri ad intermittenza. b sottraevano anche al più lauto pagatore. Ma Filoteo Alberini non si è smarrito davanti a tutte queste difficoltà; se tutti gli uomini e gli industriali fossero come lui coraggiosi e tenaci, oh! Siate sicuri che la crisi edilizia, b fame di case che ci strazia sarebbero se non tolte, certo grandiasimamente attenuate. Tale è .tata la foraa nella fede di Filoteo Alberini, fede alimentata e nutrita in lui dalla coscienza, dalla pèl'Suaaion~ che uno sto.bilinu,nto ,come )11 Pariola fosse n~Ci!SSàrio che quattro sen, su quattro ne hanno decretato il successo, che è stato
strepitoso''"''·
n tono epie-0 e retorico con cui si celebrano l'impresa e il suo artefice può suonare esagerato, ma la grandiosità del progetto finisce per giustificarlo. È senza dubbio l'invenzione più grande e clamorosa di Alberini,
assurdamente e inspiegabilmente dimenticata. E anche quella, come già sottolineato, più visionaria e più in anticipo sui tempi. Ma questa volta non si tratta semplicemente di aver preceduto di qualche anno, o qualche decennio, il cinema del futuro. Se si pensa che i Village Cinemas, le multisale dotate di punti ristoro, esercizi commerciali e altri intrattenimenti, prenderanno piede soltanto a fine secolo, con La Pari-Ola Alberini oltrepassa generazioni ed epoche. Legittimo chiedersi come sia stato possibile realizzarla in un momento così critico per l'intero paese, i cui molteplici problemi sono ribaditi anche dal giornalista entusiasta. Non pare possibile che i soldi possano essere arrivati dal compenso per un progetto modesto come Mal"Cl.
Più logie-0 pensare al movimento dietro le quinte di qualcuna delle amicizie illustri che Alberini coltiva sin dai tempi dell'apertura del Moderno a inizio secolo. Gli stes,i! che a suo tempo spinsero in maniera decisiva per la realizzazione de La presa di Roma. L'euforia ha comunque breve durata. Lo strepitoso successo di cui parla l'artie-0lista de «Il Messaggero» è limitato alle quattro aerate inaugurali. In seguito, più passa il tempo più il pubblico inizia a scarseggiare. E non poteva essere altrimenti, in un periodo drammatico e di recessione come quello. Fatto sta che il maestoso teatro de La Pario/a, dopo appena pochi mesi di vita, visti i costi ingestibili e insostenibHi, è costretto a chiudere mestamente i battenti. Mentre il resto del progetto non verrà mai realizzato. Per l'ennesima volta la genialità di Alberini viene messa all'angolo da tempi che non gli appartengono. Per l'ennesima volta soprattutto, l'inventore di Orte deve fare i conti con un clamoroso fallimento, dettato dall'eccessiva lungimiranza del suo pensiero.
li tonfo de La Pariola, in tennini economici, costa carissimo e nel 1923 Filoteo Alberini si ritrova senza un soldo e assediato dai debiti. Il tributo che quello stesso anno gli riconosce l' «Associazione cinematografica romana», è solo una magra consolazione. Ma anche dal punto di vista morale risulta molto gravoso. La chiusura de La Pariola infatti non è semplicemente l'ultima di tante delusioni, ma quella che in qualche modo le racchiude e le sintetizza tutte. Che si tratti di troppo anticipo, di troppo ritardo o di entrambe le cose, non importa. In un caso o nell'altro, Alberini prende definitivamente atto di non essere in grado di stare al passo con il suo presente. E, soprattutto, di come nel mondo del cinema non ci sia più posto per lui. Ma l'indole avventuriera del pioniere di raZM, anche II cinquantasei anni suonati, è dura da sopire, pur nella consapevolezza di essere in totale distonia con il proprio tempo. Cosi, in quello stesso 1923, un Hqualcuno" non meglio precisato lo
convince a tentare l'avventura oltreoceano, negli Stati Uniti. In fondo è lì, negli States, che si sta inventando il cinema del futuro, è quello il cinema che sta fagocitando il mercato internaziona1e, è lì che si pensa in grande. Ed è li che i suoi progetti più ambiziosi, la cinepanoramica e il parco polivalente, possono forse trovare terreno fertile e una concreta possibilità di realizzazione. Il problema è che Alberini è in bolletta, e per un viaggio in America è necessario molto denaro. Come è nella sua indole, onnai deciso della necessità della partenza, è disposto a tutto pur di andare. E infatti, per mettere insieme i soldi necessari, non esita a vendere la sua casa di Orte, tra l'altro già ipotecata per sostenere parte delle spese de La Pario/a. A quanto si racconta('°5l, Alberini tace sull'ipoteca. n compratore, tale Amilcare Cacciatori, se ne acoorge soltanto a vendita conclusa, ma si reca lo stesso da Alberini, infuriato, pretendendo indietro i suoi soldi e minacciando azioni legali. Ma a questo punto Alberini tira fuori dal cilindro il più clamoroso .dei colpi di scena: estrae una pistola e se la punta alla tempia, minacciando di uccidersi pervia dei debiti e parlando degli Stati Uniti come la sua unica e ultima speranza. Cacciatori, impressionato, ritira le sue richieste. L'affare si e-0nclude definitivamente e nel 1924 Alberini parte alla volta dell'America. È fiducioso, certo di piazzare il suo brevetto e trovare finalmente il
meritato riscatto. Ma ancora una volta, come una maledizione infinita, Alberini manca il presente, arrivando come sempre un po' dopo e un po' prima.
Arriva un po' dopo come migrante, quando il mito di un paese che accoglie tutti a braccia aperte e a tutti offre le stesse immense possibilità di scalata al successo e realiziazione, è ormai finito. Al sogno americano è subentrato un paese dove malgradQ lo sfarzQ scintillante degli anni ruggenti le ombl1! superan() di gran lunga le luci, spaventatQ e ripiegatQ su sé steSS