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Italian Pages 128/127 [127] Year 2014
FRANCO CIARLEGLIO
ADAGI MA NON TROPPO ETIMOLOGIE,
ORIGINI E SIGNIFICATI DI ADAGI, MODI DI DIRE, AFORISMI, CURIOSITÀ, BATTUTE, MASSIME E BURLE RECUPERATI ALL’INTERNO
(E ANCHE UN PO’ ALL’ESTERNO) DELLA CERCHIA DI MURA FIORENTINE
Illustrazioni di Cesare Serni
www.sarnus.it © 2014 EDIZIONI POLISTAMPA Via Livorno, 8/32 - 50142 Firenze Tel. 055 737871 (15 linee) [email protected] - www.leonardolibri.com ISBN 978-88-563-0164-9
INTRODUZIONE
hi si somiglia si piglia”, dice un vecchio adagio. E allora ‘pigliamoci’ con l’autore di questo Adagi ma non troppo, perché ci somigliamo davvero. Quando l’editore Antonio Pagliai mi ha chiesto una breve presentazione all’ultimo lavoro di Franco Ciarleglio, sono andata a nozze! Leggo e ci trovo Firenze, quella vera che anche io amo, i luoghi più nascosti della mia città, quell’umorismo in presa diretta che esce vivo, umanamente saggio, sottilmente becero a volte, mai volgare, con il quale i fiorentini nei secoli sono riusciti a sdrammatizzare anche spinose situazioni, a concentrare in un motto breve un grosso concetto e tramandarlo ai posteri. Chi ha fortuna, qualcuna di queste espressioni la può sentire ancora dalla voce di due fiorentini che “ragionano” sull’angolo di qualche quartiere popolare: Santa Croce, San Frediano, San Niccolò. Ascolterà un parlare che va da Dante a Pratolini, e mettiamoci anche Panariello. Chi tale fortuna non ce l’ha, si tuffi in questa brillante raccolta, frutto dell’amorosa ricerca di uno scrittore, una vera passione. Sono centoquaranta “adagi”, ermetici per i più, ma l’autore spiega con competenza storica e illuminante l’origine di ogni antica sentenza. La vivacità del testo ha suscitato alla matita di Cesare Serni alcuni gustosi disegni che lo arricchiscono. L’editore ce li offre in una grafica magistrale.
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Miriam Serni Casalini
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ADAGI
MA NON TROPPO
Uscio e bottega
USCIO
E BOTTEGA
e antiche botteghe fiorentine si ispiravano a quelle della Roma classica: sotto una grande arcata nella parete dell’edificio si affacciava il “bancone”, dove veniva venduta la merce e dove si effettuavano le trattative di compravendita. La merce si trovava abitualmente all’interno del locale, insieme al venditore, mentre il cliente si trovava al di là del bancone; dunque era proprio il “banco” che separava e univa nel contempo mercante e compratore nel corso della contrattazione. Accanto al bancone c’era l’entrata del negozio, ma questa corrispondeva anche all’ingresso dell’abitazione del bottegaio, in quanto la casa si trovava quasi sempre sul retro della bottega e si affacciava sulle strade laterali. Quindi l’uscio di casa corrispondeva all’ingresso della bottega, da cui è nato il detto “uscio e bottega” per significare qualcosa che è un tutt’uno.
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SAN GIOVANNI
NON VUOLE INGANNI
Arte del Cambio era una delle sette Arti Maggiori a Firenze. Il lavoro dei Mercanti del Cambio, gli attuali banchieri, si divideva in due attività: il “cambio” e il “presto”. Il Presto consisteva nel prestito di somme di denaro da restituire in un tempo determinato con aggiunta di interessi preventivamente concordati. Il Cambio consisteva invece nella trasformazione delle varie monete “straniere” in quella fiorentina, vale a dire il fiorino; durante questa operazione i banchieri battevano le monete sopra un tavolo di marmo per poterne sentire il suono e quindi per valutarne l’autenticità. L’unica moneta che non veniva mai battuta era proprio il fiorino poiché non ce n’era alcun bisogno: la moneta era talmente solida e affidabile che rappresentava il principale strumento di scambio in tutta Europa. Il fiorino aveva riprodotta su un lato l’immagine del giglio fiorentino e sull’altro la figura di San Giovanni, protettore della città: per questo motivo è nato il detto “San Giovanni non vuole inganni”!
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San Giovanni non vuole inganni
Imbroccare
IMBROCCARE
esercito della Repubblica Lucchese era famoso per avere un validissimo reparto di balestrieri: del resto la tradizione della balestra a Lucca risaliva sino al Duecento, durante la guerra con Pisa. Per tenere in costante allenamento i balestrieri venivano organizzate gare di abilità nelle piazze della città, nelle quali i migliori tiratori si esibivano in tiri particolarmente impegnativi; queste competizioni vennero alla fine disciplinate con un editto e un regolamento che culminò con la creazione del “Palio di San Paolino”. Suddivisi nei tre Terzieri della città, i balestrieri lucchesi si ritrovavano nel giorno del patrono San Paolino in piazza San Martino, proprio di fronte al Duomo, davanti alle massime autorità politiche, religiose e a tutto il popolo lucchese. L’oggetto da colpire all’incredibile distanza di centoventi passi, quasi novanta metri odierni, era una piccola brocca di terracotta: la difficoltà per i balestrieri era dunque quella di “imbroccare” il bersaglio, cioè di colpire e rompere la brocca. Proprio da questo particolare storico deriva il termine moderno di “imbroccare”, nel significato di cogliere nel segno, colpire il bersaglio, indovinare, azzeccare.
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IL BRINDELLONE
el gergo fiorentino moderno, con il termine “brindellone” si intende il “Carro del Fuoco” che celebra l’antica cerimonia dello “scoppio del carro” ogni anno a Firenze nel giorno di Pasqua. In realtà il Brindellone rappresentava in origine un alto carro di fieno che faceva il giro della città partendo dalla Torre della Zecca e che trainava un eremita vestito di cenci (da cui “brindellone”) durante la festa di San Giovanni. In tempi più moderni, nel Rinascimento, il Brindellone ha assunto l’attuale funzione del grande carro trionfale a tre piani che, posizionato tra il Duomo e il Battistero, viene incendiato dal volo propiziatorio della colombina. Dall’esito delle numerose e colorate esplosioni pirotecniche, che simboleggiano la distribuzione del fuoco benedetto a tutta la città, si valutavano gli auspici per un buon raccolto.
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Il Brindellone
La Rificolona
LA RIFICOLONA
a festa della Rificolona ricorre il 7 settembre e rappresenta uno dei più importanti eventi storici e folcloristici del popolo fiorentino. I bambini portano in giro dei lampioncini di carta colorata, illuminati all’interno da una candelina e appesi a una canna. La festa ripropone la tradizione tardorinascimentale nella quale i contadini scendevano di notte in città in devoto pellegrinaggio per festeggiare la natività della Madonna nella Basilica della Santissima Annunziata e per partecipare alla fierucola nella quale vendevano i prodotti della campagna. Questo singolare nome deriva dalle salaci e ironiche canzonature tipiche dei giovani fiorentini che schernivano i grandi sederi delle contadine (culone) abbinandoli alla fierucola, da cui “Fieruculone”, nomignolo poi ingentilitosi nel tempo in Rificolona.
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IL
PARTITO POLITICO
ostruito intorno al 1300, il Palagio di Parte Guelfa è stato la sede storica del partito politico dei Guelfi fiorentini sia durante la guerra contro i Ghibellini sia in epoca successiva e proprio per questo motivo ne ha conservato il nome. A Firenze si usa abitualmente il termine parte per indicare una fazione, un gruppo, un movimento, una corrente popolare. Si dice comunemente: “la parte guelfa” o “la parte ghibellina”, oppure “guelfi di parte bianca” o “di parte nera” e ancora, nel Calcio Storico, “calcianti di parte rossa” o “di parte azzurra” o ancor più genericamente “la parte avversaria”. Il motivo deriva dal verbo “partire” che in Toscana ha anche il significato di tagliare o separare. Nella Firenze antica, ma anche nelle campagne toscane del nostro tempo, si possono ascoltare frasi del tipo: “ho da partire i’ pane”, oppure “partimi du’ fette di presciutto”. Quando perciò si parla di “Parte Guelfa” si vuol significare quella fetta di popolo che si identifica con i Guelfi come se idealmente si tagliasse e si separasse una parte di persone dal resto della popolazione. Da questa usanza e forse proprio dal Palagio di Parte Guelfa ha preso origine il termine moderno di “partito politico”, oggi comunemente diffuso.
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CIAO
l termine “ciao”, il saluto amichevole che usiamo abitualmente ogni giorno e che ormai è diffuso in tutto il mondo, è una parola tipicamente italiana. Trae origine dal dialetto veneto e precisamente dall’espressione ossequiosa, già in uso nel Medioevo, “sciao vostro” (schiavo vostro, servo vostro), poi contratto in sciao e quindi in ciao. A Firenze il saluto “ciao” si è diffuso grazie ai soldati veneziani che, al comando di Carlo Cappello, erano venuti a difendere la Repubblica Fiorentina durante l’assedio degli imperiali nel 1530.
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IL
CAPODANNO FIORENTINO
l 25 marzo si festeggiava l’inizio dell’anno civile nella Repubblica Fiorentina nel giorno della festa dell’Annunciazione (25 marzo: nono mese antecedente la nascita di Gesù), a conferma del profondo culto della città per la Madonna. La festa è stata celebrata senza interruzioni fino al 1750 in quanto, nonostante l’avvento del Calendario Gregoriano che aveva fissato l’inizio dell’anno il 1° gennaio, i fiorentini continuavano a considerare il 25 marzo come il loro capodanno. Il Granduca Francesco III di Lorena dovette emettere un apposito decreto che fissava definitivamente anche per Firenze il 1° gennaio come data d’inizio del nuovo anno.
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TROPPA
GRAZIA
SANT’ANTONIO!
ntonio Pierozzi divenne vescovo di Firenze intorno alla metà del XV secolo e fu il fondatore, tra l’altro, del Convento di San Marco e dei Buonomini di San Martino. Quando era libero dagli innumerevoli impegni vescovili, era solito ricevere “in privato” nella propria abitazione in via dello Studio la moltitudine di fedeli che si rivolgevano a lui per richiedere protezioni spirituali, benedizioni, aiuti e consigli, tanto che in città veniva già chiamato “Sant’Antonino”. Dante Pitti e sua moglie Marietta erano sposati da diversi anni ma non avevano ancora avuto bambini e si struggevano dal desiderio di averne almeno uno. Si recarono più volte da Antonino con le suppliche e la speranza che le preghiere del vescovo potessero intercedere per loro, così da realizzare il grande sogno di avere un bambino. Dopo qualche tempo Marietta si accorse di essere incinta e finalmente nacque un bel bambino che venne chiamato Guido. Appena fu possibile la famigliola si recò presso la casa del vescovo per dirgli: “Grazie Sant’Antonio, hai fatto la grazia! ”. La notizia aveva nel frattempo fatto il giro della città provocando grande emozione e coinvolgimento popolare. Pochi mesi dopo Marietta si accorse di essere nuovamente incinta e questa volta nacque una bambina. La famiglia si recò ancora presso la casa del vescovo per dirgli di persona: “Grazie Sant’Antonio, hai fatto di nuovo la grazia! ”. Anche questa volta la voce si sparse in tutta la città suscitando profonda felicità e commozione. Ma in seguito Dante e Marietta ebbero ancora un terzo figlio, poi un quarto, un quinto e infine un sesto. Fu allora che in città venne coniato dal popolo, sconcertato e sbalordito per l’accaduto, il celebre detto: “Troppa grazia Sant’Antonio! ”.
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Troppa grazia Sant’Antonio!
Il gol della bandiera
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GOL DELLA BANDIERA
n piazza Santa Croce, accanto al campo del Calcio Storico che era preparato ogni anno nella ricorrenza di carnevale e di San Giovanni, venivano issate due alte pertiche sulle quali sventolavano delle piccole bandiere con i colori delle squadre in campo. Lo scopo di questi drappi era quello di segnalare i punti realizzati nel corso del gioco: bandiera quadrata per segnalare la caccia, bandiera triangolare per la mezza caccia. Tutti i presenti quindi, calcianti e pubblico, potevano facilmente calcolare il punteggio della partita in tempo reale. Il problema sorgeva quando, verso la fine dell’incontro, una delle due aste rimaneva drammaticamente vuota: nessun punto era stato ancora realizzato da quel Quartiere! In questo caso, per evitare una situazione avvilente e con sicuri risvolti disonorevoli, i calcianti della squadra che stava ormai perdendo davano il massimo per riuscire a fare alzare almeno una delle bandiere con il proprio colore su quella maledetta asta. Se ci riuscivano perlomeno l’onore era salvo e quel drappo dipinto con la propria insegna veniva chiamato “il punto della bandiera”, poi trasformato nel calcio moderno nel “gol della bandiera”.
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LA
DIVISA
on il termine “divisa” si intende comunemente un abito di foggia e colore particolari che viene indossato dagli appartenenti a una determinata categoria, perché siano facilmente distinguibili e riconoscibili. Esistono così divise militari, sportive, da lavoro, studentesche, carcerarie, diplomatiche e altre ancora. L’origine etimologica della parola “divisa” deriva da un modo particolare di vestire che venne in uso nella Toscana del XIV secolo, in particolare a Firenze e Siena: le calzamaglie, i farsetti e i giubbetti dei messeri venivano materialmente divisi con i colori delle rispettive casate e delle compagnie militari o religiose di appartenenza. Proprio per questo motivo quegli abiti presero il nome di “divisa”.
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UN
BRUTTO CEFFO
l termine “ceffo” viene comunemente usato in araldica per indicare la figura di un animale o di un uomo che si trova “in maestà”, cioè con il corpo o la testa rappresentati di faccia e non di profilo, come nella prassi. In questo caso il muso dell’animale (leone, cervo, cinghiale, toro e altri ancora) assume un aspetto piuttosto aggressivo e inquietante. Per questo motivo il Dizionario Italiano definisce il termine ceffo come “viso di persona malvagia o poco raccomandabile”. Per analogia il termine “ceffone” indica uno schiaffo o una sberla diretti sul ceffo, cioè sul volto di una persona.
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TAGLIARE
I PONTI
e case-torri sono cresciute a Firenze e nel resto della penisola intorno al Duecento e hanno avuto la duplice funzione di abitazione e di fortificazione per difesa. In quel periodo erano infatti frequenti episodi di violenza e di giustizia sommaria tra famiglie rivali. In caso di bisogno ogni famiglia poteva costruire delle passerelle intorno alla propria torre o, all’occorrenza, collegarsi con le vicine torri delle famiglie alleate tramite dei veri e propri ponti in legno sostenuti da lunghi pali conficcati nelle “buche pontaie” che si aprivano lungo i muri. Ma quando l’amicizia tra le due famiglie terminava… “si tagliavano i ponti”!
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Tagliare i ponti
INDORARE
LA PILLOLA
li Speziali fiorentini, antesignani dei moderni farmacisti, preparavano le loro pozioni lavorando sapientemente le varie erbe, spezie e radici medicamentose che venivano pestate in un mortaio e poi essiccate e fatte distillare nelle proprie botteghe, chiamate “Spezierie”, per curare malattie e ferite. Il risultato era spesso efficace, ma il gusto del prodotto era quasi sempre assai amaro e sgradevole. Per ovviare a questo spiacevole inconveniente le pasticche degli Speziali venivano ricoperte da una polverina a base di liquerizia, zucchero o miele dal tipico colore dorato. Da questo procedimento deriva il detto “indorare la pillola”, usato quando si cerca di addolcire una situazione difficile o amara.
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LA
LEGGENDA DEL CAFFÈ
econdo la leggenda il caffè è nato in Etiopia e più precisamente nella regione di “Kaffa” da cui ha preso il nome. Alcuni monaci pastori notarono che quando le capre mangiavano bacche e foglie di una certa pianta la notte non dormivano, ma acquistavano incredibile energia e vivacità. Macinarono i semi della pianta, ne fecero un infuso e ottennero il caffè. Questo si diffuse poi in Arabia e in tutto il Medio Oriente fino in Turchia. Il caffè arrivò in Europa solo nel Cinquecento e Venezia, grazie ai suoi rapporti commerciali, fu la prima a farne uso di bevanda. Le prime botteghe del caffè o “caffetterie” proliferarono in Europa e nelle Americhe intorno al 1650. A Firenze il primo locale, documentato nel 1733, fu il “Caffè Gilli” che ebbe la sede originale in via Calzaiuoli, spostandosi poi in via degli Speziali e infine in piazza del Mercato Vecchio (attuale piazza della Repubblica).
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LA
BANCAROTTA
in dalla sua costruzione intorno al 1550, la Loggia del Mercato Nuovo, meglio conosciuta come “Loggia del Porcellino” per via della famosa fontana in bronzo di Pietro Tacca che raffigura un cinghiale (ma per i fiorentini restò sempre un porcellino!), venne adibita a mercato e quindi sempre affollata di venditori e di clienti. I mercanti che subivano una condanna di insolvenza dal Tribunale del Bargello e che pertanto venivano dichiarati “falliti” venivano tra-
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dotti in catene all’interno della Loggia nell’ora di maggiore affluenza di pubblico. I soldati provvedevano pubblicamente e materialmente a “rompere il banco” sul quale il condannato abitualmente svolgeva il suo lavoro. Questa operazione veniva chiamata “bancarotta” e serviva appunto a sancire in maniera definitiva che il condannato, in quanto ormai “fallito”, non aveva più alcun diritto di trattare alcuna attività commerciale in città.
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PIETRA DELLO SCANDALO
ul pavimento del Mercato Nuovo, proprio al centro della Loggia del Porcellino fatta costruire dal Buontalenti, si trova un disco di marmo bianco e verde che riproduce a grandezza naturale una ruota dell’antico “Carroccio” della Repubblica Fiorentina. Nel Medioevo in quel luogo sostava appunto il Carroccio, simbolo della Repubblica e della libertà del popolo fiorentino. Intorno a quel carro, tutto ricoperto di rosso e trainato da una pariglia di buoi, si riunivano le truppe prima della battaglia al suono della “Martinella”, la piccola campana che chiamava in adunanza i soldati sotto lo stendardo gigliato di bianco e di rosso della città. In quel luogo, così caro ai fiorentini e così ricco di significati storici, veniva eseguita una delle più umilianti e infamanti pene che i giudici del Bargello potessero comminare: la famigerata “acculata”. Dopo aver subito l’umiliazione della “bancarotta”, il condannato dichiarato “fallito” veniva tradotto al centro della loggia dove, dopo essere stato denudato nel fondoschiena, veniva sollevato per le braccia
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e le gambe e “ostentando pubenda et percutiendo lapidem culo nudo” veniva fatto cadere battendo il sedere nudo su quella pietra che, proprio per questo motivo, veniva chiamata “la pietra dello scandalo”. Tutta la scena si svolgeva ovviamente tra la curiosità, lo scherno e la derisione di mercanti, venditori, clienti e curiosi. Grandi dovevano essere l’umiliazione e la vergogna per il condannato, al punto che spesso il poveretto era costretto a cambiare mestiere, traslocare in un altro quartiere o addirittura lasciare la città.
ESSERE
RIDOTTI SUL LASTRICO
na conseguenza diretta della condanna dell’acculata era il fatto che il fallito doveva toccare con il nudo sedere la lastra di pietra che riproduceva la ruota dell’antico Carroccio, simbolo della Repubblica Fiorentina. Da questa azione deriva appunto il detto “essere ridotti sul lastrico” per indicare che si è ridotti in miseria.
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AVERE
IL CULO PER TERRA
Firenze la frase “essere ridotti sul lastrico” assume una valenza tipica della malizia e del buonumore delle terre di Toscana e si trasforma in un ironico “essere ridotti col culo per terra”!
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AVERE
CULO O SCULO
n ulteriore effetto della condanna dell’acculata del Mercato Vecchio si ha nella definizione tipicamente toscana del termine “sculo”. In questo caso la “s” è privativa e sta a significare “senza culo”, nel senso metaforico di “aver perduto il sedere sulla nuda pietra” a causa della condanna. L’espressione sculo assume quindi l’accezione di “sfortuna”. Per lo stesso motivo il termine “culo” assume in contrapposizione il significato di “fortuna”.
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FARE
LE BIZZE
e Pinzochere in origine erano delle laiche appartenenti all’Ordine Terziario Francescano che provvedevano alle pulizie all’interno della basilica di Santa Croce a Firenze. Avevano fatto voto di castità e di povertà e perciò si vestivano in maniera umile e dimessa: portavano un semplice saio di colore “bigio”, un grigio cenere spento e anonimo, e per questo motivo in città venivano chiamate le “suore bigie”. Queste donne, che per propria scelta non erano ancora delle vere suore ma che non potevano neanche diventare mogli e madri, avevano la fama in città di possedere un caratterino asociale, bisbetico e lunatico. A Firenze nacque in quel periodo il detto “fare le bizze”, proprio in riferimento al comportamento scontroso, irritabile e scorbutico delle Pinzochere.
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Fare le bizze
SCHERZI
DA PRETE
rlotto Mainardi, meglio conosciuto come “Pievano Arlotto” (o Piovano), era un sacerdote fiorentino vissuto verso la metà del Quattrocento. Fu pievano della piccola chiesa di San Cresci a Macioli, nei pressi di Pratolino, e divenne celebre in tutta la Toscana per le sue proverbiali burle, le goliardate a volte boccaccesche e l’irriverente spirito scherzoso, tanto da farlo ritenere uno degli esponenti di spicco della letteratura contadina e popolare del Rinascimento. Fu molto amato dal popolo e le sue storielle vennero raccolte nel volumetto Motti e facezie del Pievano Arlotto. Famosa la sua burla all’Arcivescovo di Firenze che, per allontanarlo dalle osterie e per riavvicinarlo spiritualmente ai fedeli, lo invitò a pranzo alla propria mensa: Arlotto si presentò con una decina dei suoi poveri e affamati fedeli. Oppure quando si fermò a una locanda alla Consuma in una notte di pioggia e freddo. Non trovando posto per mangiare e dormire raccontò di aver perso poco prima la sua borsa carica di fiorini; ben presto i commensali uscirono uno alla volta per andare a cercare il tesoro e il locale si svuotò, al punto che Arlotto poté mangiare vicino al fuoco e dormire all’asciutto. Ormai vecchio e giunto alla fine dei suoi giorni escogitò la sua ultima diabolica burla: decise di far collocare la sua tomba proprio sulla soglia dell’Oratorio di Gesù Pellegrino a Firenze, detto “dei Pretoni”, tanto che la si doveva calpestare per entrare all’interno della chiesa. Decise anche il testo dell’epigrafe: “Questa sepoltura il Pievano Arlotto la fece fare per sé e per chi ci vuole entrare”! È proprio grazie a lui che è stato coniato il detto “scherzi da prete”.
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BALLOTTAGGIO
ella bellissima Torre della Castagna, di epoca duecentesca, erano soliti riunirsi i Priori delle Arti, i magistrati e le massime autorità politiche fiorentine per deliberare e decidere sui casi più delicati e difficili che riguardavano i destini della città e delle rispettive Corporazioni. Si chiudevano all’interno “cum clave”, sottochiave anche per intere giornate, per evitare intrusioni o pressioni troppo interessate da parte di politici, banchieri o facoltosi commercianti. Votavano inserendo o meno delle castagne in un sacchetto e confrontando poi il numero dei marroni introdotti in rapporto al numero dei votanti; questa operazione aveva appunto conferito quel singolare nome alla torre. Ma in fiorentino le castagne vengono comunemente chiamate “ballotte” e per questo motivo quel tipo di votazione prese il nome di “ballottaggio”, termine ancora oggi molto diffuso in tutto il mondo per indicare la designazione tra due candidati o tra due mozioni.
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RIDOTTI
AL LUMICINO
ccanto alla porta dell’Oratorio di San Martino, nell’omonima piazzetta fiorentina, è visibile una cassetta in pietra serena, proprio sotto il tabernacolo, dove venivano raccolte le “limosine per i poveri vergognosi”. I poveri vergognosi erano tutti quelli che, per vari motivi, non volevano far conoscere la propria situazione di indigenza e che si vergognavano a dover elemosinare per le strade o davanti alle chiese. Si trattava in genere di vedove, nobili decaduti, politici in disgrazia o comunque di persone anziane che non riuscivano a sopravvivere solo con i propri mezzi di sostentamento. La “Compagnia dei Buonomini”, composta da dodici membri e fondata da Sant’Antonino Pierozzi vescovo di Firenze, provvedeva nel massimo riserbo alla raccolta delle offerte e alla suddivisione tra tutti i poveri vergognosi. Ma quando la cassetta delle “limosine” restava vuota, i Buonomini avevano escogitato un singolare segnale per avvertire la popolazione che c’era bisogno di versare nuove offerte: accendevano un cero davanti all’immagine di San Martino. Proprio da questa operazione deriva il modo di dire “essere ridotti al lumicino” per indicare una situazione di estrema indigenza.
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Ridotti al lumicino
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BISCHERI
a famiglia dei Bischèri (questa era in origine l’esatta pronuncia del nome) aveva le proprie case e le proprie botteghe nella zona alle spalle dell’antica cattedrale di Santa Reparata. Quando fu deciso di costruire la nuova basilica di Santa Maria del Fiore, che era quattro volte più grande della vecchia, fu deliberato l’abbattimento di tutti gli edifici pubblici e privati che si trovavano entro un adeguato raggio intorno a Santa Reparata. Vennero offerti “congrui indennizzi” a tutte le famiglie interessate allo sgombero affinché potessero ricostruire le proprie case e botteghe in un’altra parte della città senza subire alcun danno economico. Tutti accettarono di buon grado tranne i Bischèri che, adducendo futili scuse, si rifiutarono di muoversi dalle loro proprietà. Intanto i lavori per la costruzione della nuova cattedrale furono avviati. Inutile risultò poco tempo dopo un secondo tentativo di farli sgombrare, anche se l’offerta era stata maggiorata rispetto alla prima. Appariva ormai evidente che i Bischèri cercavano di speculare sulla situazione che si stava creando: più il tempo passava, più le loro case ostacolavano i lavori e maggiore sarebbe stata l’offerta che avrebbero ricevuto! La situazione nel frattempo non sembrava trovare soluzione e i lavori di scavo delle fondamenta della nuova cattedrale non potevano proseguire in quella zona: i fabbricati dei Bischèri intralciavano ormai ogni attività. Venne infine proposta alla famiglia una terza “offerta”, ancora più vantaggiosa delle precedenti, ma anche questa volta, dopo una lunga riunione domestica, anche questa venne rifiutata perché giudicata “ancora troppo inadeguata”! Ma una notte la città venne improvvisamente svegliata dal suono concitato delle campane che suonavano il segnale d’allarme: sinistri
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bagliori, lunghe lingue di fuoco e un fumo denso e scuro si levavano dalla zona dell’Opera del Duomo. Le case e le botteghe dei Bischèri stavano andando a fuoco tutte insieme e tutte nello stesso momento (guarda caso!): la famiglia perse in pochi minuti i propri beni, le abitazioni, i mobili e i magazzini con tutte le mercanzie! Per loro fu un totale tracollo economico e morale. Da quel momento a Firenze i Bischèri diventarono “Bìscheri” e per tutti i fiorentini questa parola assunse un significato dispregiativo ancora oggi molto in uso.
I bischeri 39
I grulli
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GRULLI
el giorno di Pasqua, per la cerimonia dello Scoppio del Carro, a Firenze erano due le famiglie che da tempo immemorabile avevano il privilegio di gestire la manifestazione: – i Pazzi, che avevano la prerogativa di conservare le pietre focaie che appiccavano il fuoco prima alla colombina e poi al carro; – i Dal Borgo che avevano l’onere e l’onore di far trainare il “brindellone”, il carroccio nel gergo popolare, da due coppie di buoi rigorosamente di razza chianina. I buoi venivano guidati da due contadini provenienti dalle terre dei Dal Borgo che proprio per questo compito assumevano l’appellativo di “grulli”, termine che veniva dato a tutti coloro che in genere accudivano e accompagnavano i bovini. Nel giorno dello Scoppio del Carro, a Pasqua, il corteo con le massime autorità cittadine si snodava per tutta la città tra due ali di folla plaudente: tamburi, chiarine, bandiere, abiti e armature sfarzosi, elmi e cappelli con pennacchi colorati al vento, i volti fieri, gli sguardi altezzosi e severi, le barbe e i capelli ben curati. Ma poi arrivavano i grulli con i buoi e il carroccio… e qui l’immagine cambiava completamente! Quei poveri contadini, scaraventati dalla campagna in quel contesto così elegante, raffinato e così diverso dal loro, vestiti in maniera dimessa, con i volti abbronzati e scavati dal duro lavoro e quell’espressione di sorpresa, quasi persa nel vuoto, così lontani da tutto il resto del corteo… Venivano impietosamente e crudelmente derisi e scherniti dal popolo fiorentino con espressioni taglienti tipo: “ecco i grulli! ”, “arrivano i grulli! ” Da questo deriva l’origine del termine “grullo”, comunemente usato per significare una persona sempliciotta, sciocca, stolta e ingenua.
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LE
PORTE COI SASSI
e grandi porte della cinta muraria fiorentina, per motivi di sicurezza, venivano aperte all’alba e richiuse al tramonto, lasciando fuori per tutta la notte chi fosse arrivato in ritardo. Mentre i singoli pedoni, una volta identificati dalle sentinelle di sorveglianza, potevano entrare o uscire dai portoncini che erano compresi nei grandi portali ormai chiusi, i mercanti con i propri carri e tutte le mercanzie a bordo non avevano il diritto di varcare la soglia della città al di fuori degli orari canonici. Per questo motivo, quando i soldati di guardia al calare del sole chiudevano dall’interno i pesanti portoni, gli ultimi ritardatari attiravano la loro attenzione lanciando sassi contro le porte per rallentarne di qualche istante la chiusura e permettere loro di entrare in città. Da questa vicenda deriva il detto “essere alle porte coi sassi” nel significato di arrivare all’ultimo momento o non c’è più tempo da perdere.
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CULO E LE QUARANT ’ORE
e quarant’ore erano una pratica religiosa che rievocava il periodo intercorso tra la morte e la resurrezione di Gesù. Si svolgevano quindi tra il Venerdì Santo e la Pasqua e consistevano nell’esposizione del Santissimo Sacramento a turno in ogni chiesa fiorentina per quaranta ore consecutive. La devozione del popolo a questo evento era particolarmente sentita e le chiese che esponevano il Sacramento erano letteralmente prese d’assalto dai fedeli. La calca della folla si faceva a volte soffocante, soprattutto all’interno di quelle più piccole. La leggenda narra che nella chiesa dei Santi Apostoli, in piazza del
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Limbo, il popolo dei fedeli era stipato come non mai, anche per la ristrettezza del luogo. Si sentivano solo la litania del parroco e il mormorio dei fedeli che gli rispondevano in preghiera. All’improvviso quella solenne atmosfera venne rotta dallo schioccante rumore di un sonoro ceffone! Tutti si voltarono e notarono un messere, alto e benvestito, paonazzo in volto e con l’impronta ben visibile di una manata sulla guancia. Proprio davanti all’uomo e quasi appiccicata a lui per via della ressa, una giovane popolana si era voltata e lo stava fulminando con uno sguardo di fuoco. Il pover’uomo cercò di giustificarsi dando la colpa alla ressa e balbettò qualche parola di scusa: “… è per via delle quarant’ore”; e la donna gli rispose stizzita: “Ma che c’entra il mio culo con le quarant’ore? ”. La notizia fece il giro della città e fu presto sulla bocca di tutti. Da allora il detto “c’entra come il culo e le quarant’ore” a Firenze sta ad indicare una cosa o una situazione che non ha assolutamente niente a che vedere con un’altra, la stessa che nel resto d’Italia viene conosciuta come “ci sta come il cavolo a merenda”!
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GOLIARDI
ia dello Studio conserva il nome dell’antica università fiorentina, Florentina Studiorum Universitas, chiamata comunemente “lo Studio”, una delle più antiche al mondo, fondata intorno al 1350, che svolgeva in quella zona le principali attività didattiche. La leggenda vuole che gli studenti avessero scelto come loro protettore il gigante Golia, forte e prepotente proprio come loro, al quale si ispiravano per le giovanili bravate ricche di donne, vino, vita spensierata e pochi soldi. Per questo motivo i fiorentini e in particolar modo i mercanti, piuttosto attenti ai guadagni e al valore del denaro, un po’ per rabbia e un po’ per scherno, li definirono con il termine “Goliardi”, cioè figli di Golia.
V
PER
FILO E PER SEGNO
uando nell’antichità i mastri carpentieri e i legnaioli dovevano “marcare” sui muri o sui tronchi le linee lungo le quali avrebbero dovuto eseguire lavori o tagli di estrema precisione, usavano “battere la corda” impregnata di gesso o di vernice sulle pareti o sui legni. Il filo veniva teso e poi lasciato di colpo, in modo da imprimere sulla superficie di lavoro una linea diritta e ben definita, seguendo il cui tracciato si poteva lavorare o segare senza margine di errore. Ancora oggi con il termine “per filo e per segno” si indica qualcosa di estremamente dettagliato, molto ordinato o narrato senza che sia stato tralasciato il minimo particolare.
Q
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Per filo e per segno
A
OCCHIO E CROCE
gli antichi tessitori fiorentini capitava a volte durante la tessitura che l’ordito disegnato si rompesse. In questo caso si doveva ricorrere ad un espediente per recuperare il tracciato originario del tessuto. Venivano ripresi “ad occhio” i fili spezzati per rimetterli poi tesi “a croce” sulle apposite barre del telaio. Da allora il detto “a occhio e croce” ha assunto il significato di qualcosa di approssimativo e corrisponde ai termini “all’incirca”, “pressappoco” e “su per giù”.
A
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REGGERE
IL MOCCOLO
allis Mala” era una delle strade più importanti del castrum romano che formava la prima cerchia di mura fiorentina ed è rimasta importante anche nei secoli successivi, con il nome di “Calimala”, in quanto rappresentava la principale via di uscita della città verso Ponte Vecchio e quindi verso Siena e Roma. Per questo motivo era un’arteria molto trafficata: una moltitudine di carri la percorreva ogni giorno con vari generi di mercanzia e molti commercianti, contadini e pellegrini entravano e uscivano dalla città attraverso l’attigua Porta di Santa Maria. Il nome Callis Mala, “brutta strada”, era motivato dal fatto che era frequentata anche da persone poco raccomandabili a causa del continuo passaggio di commercianti e uomini d’affari; la via brulicava quindi di ladruncoli, giocatori d’azzardo, scommettitori e fannulloni, mentre la sera era frequentata da prostitute. Le donne di malaffare prendevano posto nei punti più isolati della via, vicino alla Porta, anche nel tratto verso l’Arno subito fuori le mura. All’imbrunire le anziane tenutarie dei bordelli provvedevano a illuminare le proprie ragazze con grandi torce per mostrare al meglio tutte le qualità del prodotto ai numerosi e possibili clienti di passaggio. Questo gesto, abituale di notte in Calimala, ha dato origine al detto “reggere il moccolo”.
“C
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Reggere il moccolo
AMBARADAN
urante la guerra d’Etiopia venne combattuta nel 1936 un’importante battaglia presso il massiccio montuoso dell’Amba Aradam (Amba significa appunto altopiano dalla cima piatta) a sud di Macallè, tra l’esercito italiano e quello abissino composto da una serie di tribù locali che non erano in buoni rapporti tra loro. Accadde infatti che durante la battaglia alcuni reparti abissini si allearono con gli italiani fronteggiando gli odiati rivali, salvo poi schierarsi nuovamente con il nemico creando una totale confusione tra i combattenti. La battaglia venne vinta, ma i soldati italiani quando ritornarono in patria coniarono il termine “ambaradan” (libera contrazione di Amba Aradam) per indicare una situazione confusa, caotica e disordinata, in altre parole: un grande casino!
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TRIVIALE
olto spesso appena si usciva dalle porte della città ci si imbatteva in un “bivium” oppure in un “trivium”. La strada principale si divideva in due o anche tre percorsi che prendevano altrettante direzioni differenti tra loro. Il bivio di due strade fuori porta rappresentava un luogo di intenso passaggio di mercanti, ma anche un punto di incontro tra piccoli truffatori, perdigiorno, prostitute e imbroglioni, dove spesso si faceva turpiloquio e si tenevano atteggiamenti poco edificanti.
M
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Quando poi le strade erano tre e formavano un trivio, proprio per quella particolare conformazione, la presenza di tutti quei personaggi riprovevoli aumentava e i loro linguaggi scurrili, le oscenità e le volgarità venivano amplificati al punto da raggiungere i limiti della decenza. Per questo motivo il termine “triviale” viene usato ancora oggi per indicare qualcosa di rozzo, volgare o villano, proprio come doveva apparire in quei tempi un trivio.
Triviale 49
BATTERE
MONETA
ell’accezione moderna il termine “battere moneta” ha assunto un significato chiaro e preciso: corrisponde al diritto conferito ad uno Stato di coniare e stampare una propria valuta. In realtà la vera origine storica di questo modo di dire risale al Rinascimento, quando i banchieri fiorentini eseguivano l’operazione del “cambio”, trasformando le monete straniere in quella fiorentina: il fiorino. Per accertarsi dell’autenticità delle monete d’oro i banchieri le “battevano” materialmente sul “banco” di marmo per poterne sentire il suono e per verificarne la genuinità. Da questa particolare operazione sono derivati due termini divenuti poi famosi e utilizzati in tutto il mondo: “battere moneta” e “banca”. L’unica moneta che non veniva mai “battuta sul banco” era il fiorino di Firenze, col giglio su di una faccia e San Giovanni sull’altra (vedi “San Giovanni non vuole inganni”).
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A
IOSA
ella lingua italiana questo termine assume il significato di “abbondante, in gran copia, in grande quantità”, ma l’origine è prettamente toscana e deriva dall’alterazione dialettale del termine “chiosa”. Con questo vocabolo venivano indicate le monete fasulle comunemente usate dai bambini per giocare e per imitare quelle degli adulti. I dischetti erano solitamente di legno o di piombo e riproduceva-
N
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no in modo grossolano le monete autentiche. Dato il loro valore praticamente nullo se ne poteva trovare una grande quantità e proprio per questo motivo è nata l’espressione “a chiosa”, poi ritoccata in dialetto toscano “a ’iosa”.
A iosa 51
PARLARE
A VANVERA
l fiorentino Benedetto Varchi fu il primo a usare questa espressione in un testo del 1565. Se il significato della frase appare piuttosto chiaro e preciso, “dire cose senza senso, a casaccio, fuori luogo e senza riflettere”, la provenienza si presenta invece assai incerta e difficile. Sembra che l’origine di questa allocuzione derivi dagli antichi modi di dire toscani “a bambera”, nel senso di “perdere tempo inutilmente”, oppure “a fanfera”, nel significato di “roba da nulla”.
I
AVERE
LA CODA DI PAGLIA
n una favola di Esopo si narra di una volpe che aveva una bellissima coda rossa di cui andava fiera e orgogliosa. Ma un giorno la povera volpe rimase impigliata in una tagliola che le tranciò di netto la coda. La sventurata bestia si vergognava a farsi vedere con quel moncherino e allora gli altri animali del bosco, mossi da compassione, decisero di realizzare per lei una nuova coda di paglia. La volpe ritrovò così il coraggio di uscire e di riprendere la vita di sempre. Tutti gli animali mantennero il segreto, eccetto un galletto che divulgò senza alcun ritegno la notizia agli altri pollastri. La voce giunse alle orecchie dei proprietari dei pollai, i quali si organizzarono di conseguenza e accesero dei piccoli fuochi davanti alle loro gabbie. Da allora la volpe non si avvicinò più alle stie per paura di bruciarsi la coda. Ancora oggi si dice “avere la coda di paglia” quando qualcuno non ha la coscienza a posto o ha commesso qualcosa per cui ha paura di essere scoperto.
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Avere la coda di paglia
FARE
MELINA
embra che l’espressione derivi da un antico passatempo goliardico diffuso a Bologna e Firenze che consisteva nel lanciarsi tra amici un cappello facendolo passare sopra la testa del proprietario senza farglielo prendere. Questo gioco si chiamava appunto “fare melina” (volgarmente alla lettera “prendere per le mele”) ed in seguito ha assunto un significato prettamente sportivo, prima nella pallacanestro, poi nel calcio e nelle altre discipline a quadre. Lo scopo è quello di trattenere il più a lungo possibile la palla con passaggi continui per guadagnare tempo, senza che l’avversario la possa afferrare. Nel linguaggio comune l’espressione ha assunto il significato di perdere tempo intenzionalmente, tirare più a lungo possibile una situazione, tenere in sospeso una circostanza per un proprio tornaconto.
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IL
BOCCONE DEL PRETE
la parte più prelibata del pollo e corrisponde al cosiddetto “sottocoda”. Fin dal Medioevo, come anche in tempi recenti, era consuetudine delle famiglie più facoltose invitare a pranzo la domenica il parroco del paese, al quale veniva offerta in segno di riguardo la porzione più gustosa e succulenta del pollo. Proprio per questo motivo quella parte del pollo ha preso il nome di “boccone del prete”, mentre in senso figurato ha assunto il significato di cosa gustosa, allettante, invitante.
È
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NON
STARE PIÙ NELLA PELLE
elle sue Satire il poeta romano Orazio cita una delle favole di Fedro, nella quale una rana si era messa in testa di diventare grossa come un bue. Cominciò così a gonfiarsi d’aria e, incoraggiata dai primi consistenti risultati, si gonfiò sempre più, sempre più… finché alla fine scoppiò! Prendendo dunque spunto dalla favola della rana di Fedro, Orazio ci spiega come l’attesa esagerata di qualcosa di troppo desiderato ci possa portare a irrimediabili conseguenze. Al giorno d’oggi invece la frase “non stare più nella pelle” assume piuttosto il significato di attendere qualcosa di estremamente piacevole oppure non riuscire a contenere la gioia o l’impazienza al punto di schizzare fuori dalla pelle.
N
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IN
BOCCA AL LUPO
elle campagne toscane, come del resto anche in tutta Italia, il lupo è stato considerato come la personificazione del male. Feroce, insaziabile, astuto, il lupo ha sempre rappresentato per contadini, cacciatori e pastori di greggi un pericolo reale e sempre presente, seminando morte e terrore tra gli abitanti di vallate e montagne. Non a caso, infatti, nelle favole e nelle leggende il lupo rappresenta di solito “il cattivo”, come ad esempio in Cappuccetto Rosso, Pierino e il lupo, I tre porcellini e San Francesco e il lupo, e come tale va eliminato o redento. L’espressione “in bocca al lupo” acquista così un significato scaramantico, un augurio che possa allontanare un evento dannoso e indesiderato. È una metafora nella quale si augura infatti a qualcuno di andare direttamente a cacciarsi in mezzo ai guai, tanto è vero che come scongiuro si risponde: “crepi il lupo”!
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AVERE
IL DENTE AVVELENATO
embra che questo modo di dire faccia esplicito riferimento al veleno dei serpenti che lo utilizzano tramite i propri denti per paralizzare la preda e per neutralizzarne la resistenza. Dopo il morso letale infatti i serpenti attendono pazientemente, ma anche implacabilmente, che il veleno faccia effetto, per poter poi saziarsi di animali spesso più grandi e più forti di loro. Per assonanza l’espressione “avere il dente avvelenato” assume il significato di essere pieno di astio o di rancore, essere in collera, non perdere occasione per criticare, dimostrare apertamente la propria avversione.
S
GRATTARE
l fiorino d’oro era la valuta più preziosa in circolazione nell’Europa rinascimentale, ma spesso usciva dalla zecca fiorentina con delle piccole ma preziose imperfezioni. Il bordo infatti non era completamente liscio come quello delle monete odierne, ma presentava delle minuscole scaglie d’oro che restavano attaccate al contorno del disco. Per questo motivo i fiorentini che avevano la fortuna di entrare in possesso di un fiorino d’oro “grattavano” queste piccole lamine per impossessarsi delle minuscole particelle del prezioso metallo. Da questo procedimento deriva il verbo “grattare” nel senso di rubacchiare, sottrarre, impossessarsi con astuzia o dolo.
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A
UFO
urante la costruzione di Santa Maria del Fiore, la nuova cattedrale di Firenze che andava a rimpiazzare Santa Reparata, tutto il materiale che proveniva da ogni parte della Toscana e che serviva per la edificazione e la realizzazione del nuovo Duomo giungeva in città dentro grandi casse di legno sulle quali venivano impresse quattro lettere bene in vista: “A.U.F.O.”. Si trattava della sigla abbreviata della frase latina “Ad Usum Florentinae Operae” e garantiva al materiale in questione la totale esenzione da tasse o imposte di qualunque tipo. Ancora oggi il termine “a ufo” assume normalmente il significato di senza pagare, gratis o a sbafo.
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IL
PALO DEL BARBIERE
uesta antichissima insegna era posta sull’uscio delle botteghe dei “cerusici” fin dal tardo Duecento. A Roma il “tonsor” era un professionista molto pagato e apprezzato grazie alla particolare cura che i romani dedicavano a viso, barba e capelli. Nel Medioevo i barbieri ebbero altre importanti mansioni, come quelle di estrarre i denti, ricomporre fratture e altre piccole operazioni che non erano di competenza di medici e chirurghi. Ma l’attività più importante era certamente quella del “salasso” e il bastone ne rappresentava appunto le varie fasi: il palo bianco raffigurava il bastone che il paziente stringeva durante il salasso, le strisce rosse erano le bande insanguinate che venivano appese ad asciugare, mentre il pomello di bronzo ritraeva il vaso in cui si raccoglieva il sangue. Fu un ingegnoso modo per i cerusici di pubblicizzare la propria attività.
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CALZARE
A PENNELLO
ell’antichità non erano molte le persone che si potevano permettere un bel paio di scarpe nuove o di stivaletti ai piedi. I lavori artigianali dei mastri calzaiuoli erano pressoché perfetti, ma al tempo stesso risultavano cari e alla portata solo delle persone benestanti. Per questo motivo i poveri e i meno abbienti dovettero escogitare delle soluzioni alternative ma al tempo stesso geniali: si dipingevano le scarpe ai piedi! Forse non rimediavano all’aspetto essenziale del problema, ma quanto meno risolvevano almeno apparentemente quello esteriore. Da questa singolare operazione deriva l’espressione “calzare a pennello” per indicare qualcosa talmente perfetta che… sembra quasi dipinta addosso!
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LE
NOTE MUSICALI
uido d’Arezzo era un monaco benedettino vissuto a cavallo dell’anno Mille e divenuto maestro di canto della Cattedrale aretina. Questo religioso ha avuto il merito di inventare un metodo pedagogico del tutto personale: per aiutare i coristi a ricordare i suoni e le pause che formano la scala musicale, fece ricavare il nome delle note dalla prima sillaba dei versi di un inno a San Giovanni Battista. Le parole dell’inno recitano: “UT queant laxis, REsonare fibris, MIra gestorum, FAmuli tuorum, SOLve polluti, LAbii reatum, Sancte Iohannes”. La prima nota “UT” venne in seguito modificata in “DO” per ragioni armoniche da Giovanni Doni, che scelse le prime due lettere del suo cognome, e da quel momento la scala musicale “suona” (è proprio il caso di dire) così: DO, RE, MI, FA, SOL, LA, SI.
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Lo strozzino
LO
STROZZINO
a famiglia Strozzi è stata una delle più importanti e influenti nella storia della Repubblica Fiorentina. Abilissimi banchieri, furono ai vertici dell’attività finanziaria italiana ed europea attraverso una fitta rete di filiali sparse in tutto il continente e dirette in prima persona da propri familiari. Il lavoro dei banchieri a Firenze si divideva principalmente in due attività: il cambio e il presto. Mentre il primo consisteva nel negoziare e trasformare le monete straniere nel fiorino, indiscussa moneta regina della borsa internazionale, il presto riguardava invece il prestito di denaro a terzi vincolato a un interesse concordato al momento della restituzione dell’importo. Sembra che gli Strozzi fossero particolarmente abili in questa seconda attività e pare anche che il tasso degli interessi pretesi fosse piuttosto alto, al punto che il popolo fiorentino, giocando sul nome della famiglia e sugli interessi che strozzavano i poveri debitori, aveva coniato il termine “strozzino” per indicare tutti coloro che prestavano denaro a interessi eccessivi o addirittura esosi approfittando dello stato di necessità del debitore.
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IL VINSANTO
tando a quanto tramandato dalla leggenda, sembra che il termine “Vin Santo” fu pronunciato la prima volta durante il Concilio Ecumenico che si svolse a Firenze nel 1439: esso ancora oggi indica un vino fatto prevalentemente con uve bianche e invecchiato per almeno tre anni in botti di quercia. Si narra che durante uno dei banchetti il cardinale Bessarione assaggiò questo vino ed esclamò: “Ma questo è XANTOS”, riferendosi a un prodotto molto simile, tipico dell’omonima isola greca. I commensali, forse non tanto perspicaci e anche piuttosto alticci, fraintesero la parola del cardinale pensando che questo intendesse dire che quel vino poteva essere chiamato “santo” per la sua prelibatezza. Da allora quel nome è rimasto ed il ”Vinsanto” è giunto fino ai nostri giorni.
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CAFONE
origine di questo termine è incerta e piuttosto controversa, unica cosa assodata è la provenienza napoletana o quanto meno delimitata alla regione campana. Se si vuole però seguire la tradizione popolare, con il termine “cafoni” venivano chiamati i contadini, spesso rozzi e ignoranti, che scendevano in città dalle zone collinari e montane circostanti nei giorni di mercato o della fiera degli animali. Questi uomini portavano delle grandi funi arrotolate intorno alle spalle o alla vita che dovevano servire per l’acquisto di animali, ma spes-
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so, a causa della grande calca e relativa confusione che si creava al mercato, per non perdersi si legavano tra di loro con la fune formando un improbabile e ridicolo serpentone. Gli abitanti della città ovviamente li individuavano e li schernivano, deridendoli e apostrofandoli in dialetto: “chilli c’a fune”, quelli con la fune. Da qui il termine “cafone”.
Il Vinsanto 63
CAPITARE
A FAGIOLO
e frasi del tipo “capitare a fagiolo”, “andare a fagiolo” o “cascare a fagiolo” hanno tutte come comune denominatore il termine “fagiolo” che in questi casi assume i significati di: a proposito, al momento giusto, nel punto esatto. Queste espressioni trovano la loro origine nella Toscana del XV secolo e vengono interpretate facendo un chiaro riferimento al fatto che i fiorentini amavano molto mangiare i fagioli. Pertanto il fagiolo era visto sulle tavole fiorentine come il cibo sempre pronto, assai gradito e presente al momento giusto, anche perché era un ingrediente povero e di facile conservazione. In altre parole, quando si tornava dal lavoro spesso ci si sedeva a una tavola imbandita con i fagioli già nel piatto… quindi il commensale “capitava a fagiolo” e confermava in pieno la nomea dei “fiorentini mangiafagioli”.
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ANDARE
IN MALORA
a “mala hora” era considerata dai romani l’ora più brutta e pericolosa della giornata. Era compresa tra le 2 e le 4 della notte, nel pieno delle tenebre e nel momento che sicuramente suscitava in maggior misura angoscia, ansia e paura. Nei secoli successivi si riscontrò, statistiche alla mano, che era anche l’ora nella quale si segnalava il maggior numero di decessi tra vecchi e malati negli Spedali. Come diretta conseguenza, “mandare qualcuno in malora” ha assunto il significato di cacciare in malo modo, augurare disgrazia, mandare al diavolo, mentre “andare in malora” vuol dire andare in rovina, cadere in disgrazia.
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FARE
IL NESCI
eriva direttamente dal verbo latino “nescire” che vuol dire non sapere. Si usa quindi per indicare qualcuno che non conosce o ancor meglio che non vuole conoscere o che finge di ignorare o di non capire facendo il “finto tonto”.
D
FARE
LO GNORRI
sinonimo di “fare il nesci”, ma l’origine del termine deriva dall’antico aggettivo toscano “gnoro”, nel senso di ignorante, contrazione di “ignoro”, prima persona dell’indicativo presente del verbo ignorare. Anche in questo caso il senso della frase è quello di fingere di non sapere, non capire o disinteressarsi di qualcosa.
È
GLI
SPICCIOLI
li spiccioli rappresentavano nell’antichità le monete di taglio più basso e quindi con meno valore e venivano chiamate “picciòli”, nel senso di più piccoli, in seguito modificato in “spiccioli”. Il termine è comunemente adoperato anche quando si vuole cambiare una banconota in monete di taglio inferiore (spicciolare). In senso più esteso il termine viene anche usato per indicare persone semplici, comuni, ordinarie, “dai modi spiccioli”.
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ESSERE
AL VERDE
in dal Medioevo le candele e i ceri erano avvolti alla base con un cartone incerato di colore verde che permetteva una maggiore aderenza al candelabro. Quando la candela veniva utilizzata fino alla base, prima di spegnersi la fiammella lambiva la base verde che segnava quindi la sua fine. Per questo motivo il detto “essere al verde” veniva usato nel senso di essere alla fine, e per analogia restare senza un soldo. Questo significato veniva confermato dall’usanza, nelle aste pubbliche del Tribunale del Bargello a Firenze, di utilizzare lunghe candele affilate di sego, anch’esse con la base dipinta di verde, che “scandivano il tempo dell’asta”. Quando la candela arrivava al verde, l’asta era dichiarata chiusa. Per analogia venne creato il detto “la candela è al verde” per indicare che il tempo era finito, ma che erano finiti anche i denari.
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IL
BECCO D’UN QUATTRINO
n numismatica, con il termine “becco” si intendeva la bordatura rialzata della moneta, mentre nel gergo toscano si indicava anche una semplice scheggiatura della moneta, quindi una parte minima della stessa. Il “quattrino” invece era un’antica moneta di poco pregio che aveva il valore di quattro soldi ed era in uso nella Firenze del XIV e XV secolo. L’espressione “non avere il becco di un quattrino” significa dunque non avere neanche una piccola moneta in tasca, non avere neanche un soldo.
I
METTERE
LA PULCE NELL’ORECCHIO
ei tempi passati l’igiene del corpo e la pulizia degli ambienti domestici non erano certamente molto curate e poteva capitare di ritrovarsi a contatto diretto con pulci e pidocchi. Quando una pulce entrava nel padiglione auricolare era poi molto difficile riuscire a tirarla fuori e il fastidioso prurito che ne derivava diventava quasi insopportabile. Per deduzione logica la frase “mettere una pulce nell’orecchio” vuol significare insinuare un dubbio, un sospetto o mettere sull’avviso, continuando a disturbare e a rodere come un tarlo la tranquillità di una persona, quasi come se gli fosse realmente entrato un insetto nell’orecchio.
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Mettere la pulce nell’orecchio
GUFARE
ell’antica Roma il gufo rappresentava l’uccello del malaugurio poiché era un rapace notturno che vedeva nell’oscurità e viveva di notte, quindi si credeva che dovesse necessariamente avere un rapporto diretto con il buio eterno della morte. Nel Medioevo si pensava che il gufo fosse addirittura un travestimento del demonio, perciò quando di notte si sentiva o si vedeva un gufo, si aveva paura e si temeva il peggio. Per tutti questi motivi, ancora oggi il termine “gufare” prende il significato di fare l’uccello del malaugurio, portare sfortuna, augurare l’insuccesso altrui.
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A
BISCHERO SCIOLTO
a frase contiene due termini ben distinti: “bischero” nel senso dispregiativo precedentemente descritto di stupido, scemo, ingenuo, e “sciolto” che in questo caso deve intendersi come non vincolato, non trattenuto da legami, senza freno. L’espressione “a bischero sciolto” deve dunque essere interpretata come comportarsi in modo stupido e senza riuscire a trattenersi o comportarsi e parlare in maniera sguaiata e compiacersene, oppure fare le cose a caso.
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Gufare
FARE
CHIASSO
ella Firenze medievale il “chiasso”, dal latino clausum (chiuso), era un piccolo vicolo stretto e lungo senza via d’uscita, quindi con una sola entrata, dentro al quale si affacciavano abitazioni e botteghe. Gli abitanti del chiasso formavano dunque una comunità, detta popolo, che spesso divideva in comune problemi, preoccupazioni e gioie. All’interno del chiasso si nasceva, si lavorava, si moriva, si trascorreva un’intera esistenza. All’interno del chiasso risuonavano le grida festose dei bambini, le voci delle donne, i richiami dei venditori, quindi… “si faceva chiasso”! Solo dopo la trasformazione urbanistica avvenuta a Firenze durante il Rinascimento, i chiassi vennero aperti e diventarono dei comuni vicoli.
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BECCO
E BASTONATO
embra che sia stato proprio Giovanni Boccaccio ad aver usato per primo questa colorita espressione nel suo Decamerone. Il “becco” rappresenta l’uomo tradito dalla moglie e l’immagine che lo raffigura nel modo più efficace è quella del caprone con le grandi corna ricurve, che in fiorentino si chiama appunto “becco”. Pensiamo per esempio allo stemma dell’Arte e Corporazione dei “beccai”, gli antichi macellai, che riproduceva un montone nero rampante in campo dorato. Il termine “bastonato” in questo caso ha il significato di mortificato o umiliato, per cui l’intera frase “becco e bastonato” si deve intendere come avere il danno e la beffa o subire un’offesa ed essere ricoperto di ridicolo.
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Fare chiasso
ATTACCARE
BOTTONE
inopportuno o il seccatore era colui che prendeva di mira l’interlocutore e gli si incollava accanto parlando a lungo di cose e argomenti del tutto privi di interesse. Quando il riluttante malcapitato cercava di allontanarsi, lo scocciatore lo afferrava materialmente per la giacca “attaccandosi ai bottoni”, nel tentativo di trattenerlo e coinvolgerlo ancora in quella sterile e inutile conversazione. Per questo motivo con “attaccare bottone” si intende trattenere qualcuno con un colloquio lungo e noioso o annoiare con discorsi privi di interesse. La frase viene però anche usata nel senso di tentare un approccio.
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USCIRE
DAI GANGHERI
“gangheri” erano i cardini fissati al muro sui quali si agganciavano e ruotavano i battenti di porte e finestre. La parola deriva dal greco “kanchalos” che vuol dire appunto cardine. Quindi “uscire dai gangheri” significa perdere il naturale equilibrio e dunque arrabbiarsi, non avere più il controllo, perdere la pazienza. Da questo vocabolo deriva anche il termine “sgangherato” nel senso di rotto, sfasciato, malandato.
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Per il rotto della cuffia
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IL ROTTO DELLA CUFFIA
elle antiche armature, era chiamata “cuffia” quella parte della cotta di maglia che veniva indossata sotto l’elmo. Era un copricapo di cuoio o di pelle imbottito che veniva portato sotto la celata per proteggere la testa da eventuali fendenti al capo. Nella Giostra del Saracino ad Arezzo, i cavalieri indossano in testa proprio una “cuffia” con i colori del proprio quartiere, poi a turno si lanciano al galoppo per colpire lo scudo del “buratto”. Non appena la lancia tocca lo scudo, una molla scatta e fa girare su se stesso il buratto che tiene nel braccio il “mazzafrusto”, composto da tre palle di cuoio debitamente ricoperte di polvere di gesso che lasciano un segno tangibile quando colpiscono il cavaliere troppo lento. Ma in questo caso il mazzafrusto percuote con forza e spesso rompe la cuffia del cavaliere il quale, se non viene disarcionato, “esce per il rotto della cuffia”, cioè riesce a stare in sella nonostante il micidiale colpo che gli ha spaccato la cuffia. Dunque “farcela per il rotto della cuffia” ha preso in seguito il significato di cavarsela, passare a malapena, superare una situazione difficile, salvarsi all’ultimo momento.
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A
BOCCE FERME
el gioco delle bocce, le antiche “pallottole” fiorentine, quando si deve valutare la distanza dal pallino con una precisa misurazione per poi poter assegnare i relativi punti, è necessario agire “a bocce ferme”, cioè occorre attendere che queste siano del tutto immobili. Così, in certe situazioni della vita è conveniente attendere che gli eventi in corso siano conclusi o si siano calmati per poter procedere ad una valutazione imparziale e obiettiva. “A bocce ferme” assume quindi il significato di situazione chiara e definita, da valutare a mente fredda, con calma, serenamente.
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VECCHIO
COME IL CUCCO
l profeta Abacuc o Abacucco è vissuto attorno al VII secolo avanti Cristo ed è venerato dalla chiesa cattolica come autore dell’opera profetica Il libro di Abacuc. Ma in verità Abacucco è più conosciuto in quanto nella comune raffigurazione iconografica viene rappresentato come un vecchio sempre assorto nei suoi pensieri e con una lunga e folta barba bianca. Proprio per questo motivo nel Medioevo è nata l’espressione “vecchio come il cucco” che faceva diretto riferimento al nome del profeta d’Israele. Dalla stessa etimologia è derivato anche il termine “bacucco”.
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Vecchio come il cucco
Mangiare la foglia
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BABBO MORTO
uesta tipica e antica frase toscana trae le sue origini dalla consuetudine di pagare i propri debiti con grande ritardo e con onerosi tassi di interesse. In altre parole, gli usurai prestavano grandi quantità di denaro a persone, in prevalenza giovani, pur sapendo che questi importi sarebbero stati restituiti, insieme ai gravosi interessi, in tempi lunghissimi, cioè solo dopo che i debitori avessero incassato l’eredità del padre: “a babbo morto” appunto! Si trattava quindi di debiti che sarebbero stati saldati solo dopo la morte del padre, ereditando i suoi beni. I creditori avrebbero compensato la lunga attesa della restituzione del credito grazie alla certezza del futuro lascito e agli altissimi interessi che questa attesa assicurava. Oggi la frase “a babbo morto” viene ancora usata per indicare il provento di un credito con molto ritardo o anche senza che ci sia una scadenza prestabilita.
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MANGIARE
LA FOGLIA
a spiegazione di questo comune modo di dire sembra derivare direttamente dal mondo dell’agricoltura, che per sua natura è già ricolmo di foglie e fogliami. Osservando il comportamento del mondo animale, infatti, si può notare che il baco da seta assaggia la foglia per accertarne la commestibilità prima di mangiarla e di formare il bozzolo. Le mucche sono in grado di distinguere le piante da pascolo buone da quelle velenose attraverso la semplice degustazione di una foglia. Dunque “mangiare la foglia” acquista il significato di capire al volo, intuire in anticipo, leggere fra le righe, afferrare il senso del discorso.
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FARE
ORECCHIE DA MERCANTE
in dai tempi antichi, nelle affollate e rumorose fiere, i mercanti erano famosi per “non udire se non le cose che fanno per loro”, vale a dire che erano abilissimi nell’ignorare le offerte di acquisto o di vendita dei potenziali clienti per poi alzare o abbassare il prezzo a seconda del proprio tornaconto. L’espressione “fare orecchie da mercante” viene quindi usata per significare far finta di non sentire quello che dicono gli altri, far finta di non capire, non prestare volutamente attenzione.
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INGOIARE
IL ROSPO
l rospo è un animale per sua natura particolarmente brutto, viscido e anche piuttosto schifoso. Quindi la sola idea di dover ingoiare un rospo è una delle cose più disgustose e ripugnanti che possono capitare, ma l’esempio rende perfettamente il senso della frase. “Ingoiare il rospo” si usa quando si deve sopportare una situazione sgradevole e umiliante, accettare controvoglia un fatto spiacevole o subire un sopruso. Esiste anche il modo di dire contrario: “sputare il rospo”, nel senso di esternare una preoccupazione da lungo tempo repressa.
I
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SCENDERE
A PATTI
l “patto” è l’accordo o la convenzione tra due o più parti con cui le stesse regolano questioni di comune interesse. Una volta raggiunto l’accordo, le parti devono mantenere comportamenti coerenti con gli impegni assunti. In altre parole, quando i contraenti “scendono a patti” rinunciano a parte delle rispettive pretese con il fine ultimo di trovare un accordo comune. Quindi il senso della frase “scendere a patti” è quello di accettare un accordo, arrivare a un compromesso, adattarsi a una situazione di intesa, piegarsi a più miti consigli.
I
PIANGERE
A DIROTTO
l termine latino “diruptus”, participio passato del verbo dirumpere, viene tradotto in “rotto in più parti” o “in più posti”. Se pensiamo all’argine di un fiume che viene eroso e poi cede in diversi punti, possiamo immaginare una notevole quantità di acqua che straripa, uscendo dall’alveo in maniera abbondante, impetuosa e senza più controllo. Per analogia la frase “piangere a dirotto” vuol dire scoppiare in un pianto violento, continuo, irrefrenabile, disperato, senza controllo e senza ritegno.
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ROMPERE
GLI INDUGI
l verbo “indugiare” deriva dal latino “indutiare” che vuol dire fare una tregua, prendere tempo, attendere il momento giusto, quindi si deve interpretare l’indugio come quel momento di attesa nel quale le attività di guerra venivano temporaneamente sospese per soccorrere i feriti, seppellire i caduti e riorganizzare i vertici militari per eventuali future trattative. Per contrapposizione, si può facilmente capire come “rompere gli indugi” corrisponda invece a smettere di esitare o indugiare, e quindi decidersi a fare qualcosa, non perdere più tempo, passare all’azione.
I
TAGLIARE
LA CORDA
el gergo marinaro l’espressione “levare l’ancora” corrisponde a mollare gli ormeggi, quindi a salpare. Tutta questa operazione avviene normalmente con grande attenzione e concentrazione per assicurare la massima incolumità per l’imbarcazione e per l’equipaggio. Ma nell’antichità, quando questa manovra doveva essere effettuata in gran furia per un’impellente necessità o in caso di pericolo, veniva direttamente “tagliata la corda” con un colpo secco e la nave prendeva il largo con la massima rapidità. Da qui il significato della frase “tagliare la corda” nel senso di allontanarsi frettolosamente di fronte a una minaccia, abbandonare di nascosto un luogo non gradito o anche più semplicemente fuggire, scappare, andarsene in gran fretta.
N
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AVERE
CARTA BIANCA
l termine di una battaglia o di una guerra, il comandante dell’esercito soccombente, dopo essersi ufficialmente arreso, consegnava di solito al vincitore un foglio di carta completamente in bianco che recava la propria firma. Si trattava di un gesto simbolico di capitolazione con il quale il comandante dell’esercito vincitore poteva liberamente imporre le condizioni della resa. Ancora oggi “avere carta bianca” vuol dire godere di pieni poteri, ampia libertà di azione o avere la possibilità di agire senza limiti e condizioni. Resta comunque sottinteso che, se non sussistono gravi situazioni di necessità, colui che concede carta bianca di solito ha un discreto rapporto di fiducia nei confronti di chi la riceve.
A
FAR
SALTARE LA MOSCA AL NASO
robabilmente non c’è niente di più fastidioso di una mosca che comincia a ronzare intorno al nostro viso per poi posarsi ripetutamente sul naso, per di più quando è completamente indifferente ai nostri disperati tentativi di allontanarla! Per “far saltare la mosca al naso” si intende appunto una situazione che provoca irritazione, esasperazione, che dà fastidio e che fa perdere la pazienza.
P
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FARE
I FICHI
spressione originaria delle campagne toscane, nella quale si faceva un esplicito riferimento al fico e al suo elevato livello di succosità e dolcezza. Per conseguenza “fare i fichi” vuol dire fare lo sdolcinato, lo schizzinoso, essere troppo cerimoniosi, fingere di non voler fare o di rifiutare qualcosa tanto per essere pregati.
E
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FARE
I SALAMELECCHI
ella lingua araba è molto diffuso il saluto augurale della religione islamica “Assalam aleike”, che vuol dire all’incirca “la pace sia con te”, frase che in passato è divenuta abbastanza comune anche in Italia per via dei frequenti contatti commerciali che le nostre potenze marinare avevano con i paesi del Medio Oriente. Questo saluto veniva effettuato dagli arabi in un modo molto ossequioso, seguendo un rigoroso e antico cerimoniale che però agli occhi della nostra cultura occidentale appariva troppo eccessivo e lezioso. La frase è stata poi storpiata nella lingua italiana e ribattezzata in “fare i salamelecchi” che ha preso il significato di approccio eccessivamente sdolcinato, rivolgere complimenti e adulazioni esagerate, gentilezze smisurate.
N
ANDARE
A RAMENGO
are che questo modo di dire derivi da “Aramengo”, un antico borgo piemontese del basso Monferrato che nel Medioevo si trovava agli estremi confini del Ducato di Asti. Forse il nome trae origine dal latino “ramingum”, cioè solitario o lontano, visto che il villaggio si trovava completamente sperduto sopra un colle. Questa località, proprio a causa del suo isolamento, era tristemente famosa anche perché era stata dotata di un carcere dove venivano confinati i condannati per reati contro il patrimonio, in particolare i falliti. Dunque la frase “andare a ramengo” viene usata con il significato di fallire, fare una brutta fine, andare in rovina, vagare senza meta.
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FARE
MOINE
spressione tipica toscana del XV secolo che sembra derivare da una forma gergale francese “mine” che descrive i movimenti del volto, i gesti e le sembianze del viso e, come conseguenza, tutte le espressioni che la faccia umana può assumere. Per questo motivo l’espressione “fare moine” viene comunemente usata quando si indicano sdolcinature, smancerie, modi di atteggiarsi spesso non sinceri, gesti affettuosi e leziosi fatti per convincere qualcuno, o anche atteggiamenti melensi e adulatori per ottenere qualcosa.
E
ANDARSENE
ALLA CHETICHELLA
a frase deriva dal termine tardorinascimentale toscano “cheto”, cioè quieto, calmo, tranquillo. Per questo motivo “andarsene alla chetichella” ha sempre avuto il significato di allontanarsi senza farsene accorgere, di nascosto, senza dare nell’occhio, di soppiatto.
L
CERCARE
IL PELO NELL’UOVO
uovo, proprio per la sua conformazione, è, com’è noto, assolutamente privo di peli. Pertanto andare a “cercare il pelo nell’uovo” significa cercare a tutti i costi difetti o imperfezioni che in realtà non esistono, cercare qualcosa con
L’
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grande minuziosità, in altre parole essere estremamente fiscali, pignoli, cavillosi e meticolosi. In taluni casi può essere anche inteso come cercare accuratamente una scusa o un pretesto per annullare un progetto.
MENARE
IL CAN PER L’AIA
ei tempi antichi “menare il cane per l’aia” – che tradotto alla lettera varrebbe: “portare a spasso il cane da caccia nel cortile del casolare” – sarebbe stato assurdo e anche piuttosto ridicolo: l’aia di un cascinale è troppo piccola per un esuberante e inarrestabile segugio! Ancora oggi nel dire “menare il can per l’aia” si intende continuare a parlare di un argomento senza mai arrivare al dunque, allungare il brodo, prendere le cose alla lontana, fare giri di parole senza affrontare il nocciolo del discorso.
N
AVERE
LA LUNA DI TRAVERSO
ei tempi antichi si credeva che le fasi lunari potessero influenzare negativamente lo stato mentale e l’umore delle persone, nello stesso modo in cui incidevano sulle pratiche dell’agricoltura e nella vita degli animali. Per questo motivo con il detto “avere la luna di traverso” si volevano indicare quelle persone che erano particolarmente intrattabili, irritabili, di pessimo umore o che avevano i nervi a fior di pelle.
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CERCARE L’AGO
NEL PAGLIAIO
un’antica metafora che viene usata ancora oggi quando si vuole trovare un oggetto o un dettaglio tra una gran quantità di elementi e in condizioni ambientali difficili da dipanare. In effetti cercare un piccolo ago in quell’enorme cumulo di paglia appare come un’impresa assai ardua se non del tutto irrealizzabile. “Cercare un ago in un pagliaio” significa appunto iniziare un’impresa impossibile o molto difficile, cercare una cosa difficilissima da trovare oppure cercare una cosa troppo piccola in un contesto troppo grande.
È
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GETTARE
LA SPUGNA
ato nell’antica Grecia e perfezionato nella Roma imperiale, il pugilato (dal latino “pugilatus”) acquisisce in Inghilterra le sue regole moderne solo a partire dal XVIII secolo. L’espressione “gettare la spugna” deriva appunto dal mondo della boxe dove, in caso di difficoltà del proprio atleta durante un incontro, l’allenatore lanciava al centro del ring la spugna che abitualmente veniva usata per mitigare le ferite o detergere il sudore. Era il segnale per chiedere all’arbitro l’immediata conclusione dell’incontro e per evitare danni maggiori al proprio pugile. Oggi al posto dell’ormai desueta spugna si getta un asciugamano. “Gettare la spugna” si usa dunque quando si vuole uscire da una situazione, tirarsi fuori da un contesto, arrendersi, lasciare perdere, ritirarsi o rinunciare a qualcosa.
N
AVERE
LA FACCIA COME IL CULO
uesto allegorico, irriverente e coloratissimo modo di dire del contado toscano trae origine dall’usanza di paragonare le diverse e molteplici espressioni del viso a quella totalmente inespressiva del culo ogniqualvolta ci si trovava in presenza di persone che avevano la faccia tosta di negare l’evidenza dei fatti. La frase “avere la faccia come il culo” si usa comunemente nel senso di non vergognarsi, non avere remore, essere sfrontato, spudorato, impertinente.
Q
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SALVARSI
PER UN PELO
l pelo viene considerato come una delle parti più piccole, sottili e filiformi del corpo umano, quindi “salvarsi per un pelo” equivale a dire salvarsi per un niente, per una porzione minima di tempo o di spazio. La frase viene comunemente usata con il significato di salvarsi all’ultimo minuto, appena in tempo, in extremis.
I
NON
VEDERE L’ORA
spressione di origine fiorentina che si incontra per la prima volta in pieno Rinascimento nella commedia in vernacolo Il servigiale di Giovanni Maria Cecchi. L’interpretazione di questa frase si potrebbe riassumere nel fatto che l’attesa della cosa tanto desiderata è talmente lunga da non vederne la fine, cioè non riuscire a poter materialmente vedere l’ora in cui l’attesa terminerà. “Non vedere l’ora” è dunque un modo di dire che esprime entusiasmo ma che significa al tempo stesso essere impaziente, desiderare ardentemente di fare qualcosa, aspettare con grande apprensione un avvenimento.
E
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AVERE
LE TRAVEGGOLE
l termine “traveggole” deriva dal verbo arcaico “travedere”, nel senso di guardare al di là, vedere confusamente, percepire immagini non esatte. Per analogia la frase “avere le traveggole” assume il significato di capire in modo sbagliato, prendere una cosa per un’altra, valutare male una situazione, prendere un abbaglio.
I
RESTARE
DI SASSO
uesta espressione trova le sue origini in quei personaggi leggendari che, per varie cause o malefici, tramutavano o venivano trasformati in statue di pietra. È il caso della povera Medusa che, a causa del sortilegio di Atena (la Minerva dei romani), si ritrovò con un nido di serpenti in testa al posto dei capelli e con due occhi che avrebbero pietrificato chiunque li avesse guardati. O anche dell’incantesimo capitato alla moglie di Lot che, mentre era in fuga con tutta la famiglia da Gomorra, disobbedì all’ordine divino di non voltarsi a guardare la città che veniva distrutta e si trasformò in una statua di sale. Del resto appare del tutto plausibile il comportamento di una persona che, quando viene a conoscenza di una notizia sconcertante e inaspettata, rimane all’istante impietrita come una statua prima di riuscire ad avere una minima reazione. Dunque la frase “restare di sasso” viene usata nel senso di allibire, meravigliarsi, stupirsi, rimanere sbalorditi, senza parole, sorpresi, restare annichiliti.
Q
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NON
PIANGERE SUL LATTE VERSATO
origine molto remota di questo adagio si perde nella notte dei tempi, quando il latte rappresentava per le antiche popolazioni una delle fonti primarie per l’alimentazione e il suo sacrale colore bianco lo rendeva quasi divino. Quindi lo sperpero del latte o la sua perdita erano visti come affronti e offese verso le divinità e creavano un profondo senso di rammarico e dispiacere. Oggi l’espressione “non piangere sul latte versato” equivale a dire che è troppo tardi per rimediare ad un errore, che è inutile rimuginare su cose perdute o pentirsi dopo aver commesso uno sbaglio.
L’
AVERE
LE PIGNE IN TESTA
a pigna, dal toscano “pina”, è il frutto del pino. È legnosa, ha una forma conica, è ricoperta di squame e contiene i pinoli, ma la sua caratteristica principale è quella di essere particolarmente “dura”! Si dice infatti “essere duro come una pigna” quando si vuole indicare una persona particolarmente testarda oppure poco intelligente o stupida. Per connessione dire “avere le pigne in testa” vuol dire avere delle idee strane, bizzarre, stravaganti, oppure essere insensati e sciocchi.
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DORMIRE
SUGLI ALLORI
alloro (Laurus nobilis) è da sempre considerato una pianta sacra e simboleggia la sapienza e la gloria. Per questo motivo nell’antica Grecia con le fronde di alloro si premiavano i vincitori delle gare di Olimpia e i grandi poeti, a Roma si incoronavano i condottieri vittoriosi, mentre nel Medioevo si cingevano con la corona di bacche e alloro (“bacca laureus”) tutti coloro che raggiungevano i massimi livelli nello studio: i laureati. “Dormire sugli allori” assume quindi il significato di vivere di rendita dei successi passati, adagiarsi e restare inoperoso dopo le affermazioni, accontentarsi del primo successo senza cercare ulteriori miglioramenti.
L’
ANDARE
A ZONZO
tando alla consuetudine dei nostri antichi contadini toscani, questa frase ha un’origine onomatopeica, deriva cioè dal ronzio che emettono zanzare, vespe e mosche durante il loro volo irregolare e imprevedibile. Pertanto “andare a zonzo” equivale a girare senza meta, vagare in qua e in là senza sapere dove andare, girovagare, camminare oziosamente.
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SALVARE
CAPRE E CAVOLI
econdo un antico e celebre gioco d’intelligenza, un barcaiolo deve trasbordare oltre il fiume un lupo, una capra e dei cavoli. La barca però non può trasportare più di una cosa per volta, per cui il pover’uomo deve ingegnarsi per evitare che, una volta rimasti soli sull’altra sponda, il lupo non mangi la capra e la capra non mangi i cavoli! Il senso della frase “salvare capra e cavoli” è dunque quello di salvaguardare due obiettivi apparentemente inconciliabili, risolvere un difficile problema senza danno per nessuno, uscire da una situazione spiacevole conciliando esigenze diverse.
S
SALTARE
DI PALO IN FRASCA
l “palo” era un simbolo araldico e veniva comunemente impiegato nella rappresentazione degli stemmi. Nel contesto di questa frase il palo rappresenta l’aspetto più nobile e impegnato della conversazione. La “frasca” raffigurava invece l’immagine dell’osteria e spesso ne abbelliva l’ingresso. In questo contesto la frasca rappresenta il lato più popolare del colloquio. Quindi l’espressione “saltare di palo in frasca” aveva assunto in un remoto passato il significato di avvicendare durante la conversazione argomenti impegnati ad altri più semplici e banali. Al giorno d’oggi il senso della frase ha modificato il suo concetto in: passare da un argomento all’altro senza un nesso logico e facendo una gran confusione, cambiare repentinamente discorso apparentemente senza un legame o un ordine.
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SPEZZARE
UNA LANCIA
el Medioevo, durante i tornei cavallereschi, quando uno dei partecipanti spezzava la lancia voleva dire che era pronto al combattimento. La prima parte della Giostra infatti consisteva in un combattimento con lance di legno. Per analogia l’espressione “spezzare una lancia in favore di qualcuno” significa prendere le difese di una persona, perorare una causa, proteggere qualcuno quando viene insultato o maltrattato.
N
ESSERE
UN VOLTAGABBANA
a gabbana era un’antica veste di stoffa lunga, pesante e impermeabile, spesso con il cappuccio e talvolta anche foderata di pelliccia. Veniva in prevalenza utilizzata dai militari, ma per la sua praticità era anche usata da contadini e operai. La sua caratteristica principale era quella di poter essere rivoltata, cioè indossata alla rovescia, da cui il detto “rivoltare la gabbana” quando si faceva riferimento ai soldati che disertavano l’esercito o che fuggivano allo sbando dopo una disfatta per non essere riconosciuti dai nemici. “Essere un voltagabbana” vuol dire cambiare idea con sfrontatezza, abbandonare la propria ideologia politica per quella avversaria, cambiare opinione per opportunismo o tornaconto.
L
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DI
PUNTO IN BIANCO
uesta espressione ha una chiara origine militare e più precisamente è tratta dall’antico linguaggio dell’artiglieria. Infatti, quando il cannone sparava con “alzo zero”, vale a dire con la canna in posizione orizzontale parallela al suolo o ad altezza d’uomo, il congegno di puntamento non segnava alcun valore ma semplicemente un punto su un bersaglio bianco. Le conseguenze sul nemico erano devastanti: il colpo veniva tirato infatti all’improvviso, da breve distanza, producendo un effetto a sorpresa senza dare il tempo di rendersi conto di quello che stava succedendo e, di conseguenza, senza dare la possibilità di reagire. Proprio da questa particolare operazione balistica deriva il detto “di punto in bianco” che ha assunto il significato di azione improvvisa, svolta di sorpresa, senza preparazione.
Q
DARE
FILO DA TORCERE
li antichi tessitori iscritti nella Corporazione dell’Arte della Lana sapevano bene che l’operazione della “torcitura del filo” era piuttosto delicata e difficile. Al filamento di lana infatti doveva essere applicata una torsione per dare al prodotto una maggiore resistenza e coesione. Questa operazione veniva effettuata fin dall’alto Medioevo direttamente a mano con il solo ausilio di rocca e fuso. Solo in seguito la lavorazione venne meccanizzata con la realizzazione in Toscana di appositi tiratoi che ne facilitavano l’esecuzione.
G
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Di punto in bianco
Ma ottenere un filo ritorto che fosse uniforme e lineare era pur sempre una cosa estremamente difficile, proprio a causa della irregolarità dei filati stessi, ed è stata proprio la complessità di questa lavorazione che ha dato origine a questo modo di dire. Oggi “dare del filo da torcere” equivale a ostacolare e intralciare deliberatamente, creare difficoltà, rendere la vita difficile, non dare pace, procurare noie.
ESSERE
POVERO IN CANNA
l povero, anzi in questo caso il “poverissimo”, nell’antichità non possedeva nulla all’infuori di un semplice fardello di tela con dentro le sue misere cose, legato ad una modesta e umile “canna” che portava in spalla o che, all’occasione, poteva servire anche da bastone. Il concetto di canna e di povero sono divenuti nel tempo indissolubili, quasi in simbiosi tra loro, al punto che l’espressione “povero in canna” ha assunto fin dai tempi più remoti il significato di essere senza soldi, poverissimo, vivere nella miseria, trovarsi in uno stato di estremo disagio.
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PER
UN PUNTO
MARTIN
PERSE LA CAPPA
el XVI secolo Martino era l’Abate del monastero di Asello in Toscana ed esibiva con orgoglio la “cappa”, il mantello che gli conferiva quella prestigiosa carica. Volendo abbellire la sua Abbazia, decise di apporre un’insegna di benvenuto sul portone principale. Scelse personalmente con la massi-
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ma cura una scritta che esaltasse la carità cristiana: “PORTA PATENS EST. NULLI CLAUDATUR HONESTO” (La porta rimanga aperta. Non venga chiusa per nessun uomo onesto). Ma l’artigiano che realizzò il lavoro sbagliò la collocazione del punto e la nuova frase stravolse completamente il senso del messaggio originale: “PORTA PATENS EST NULLI. CLAUDATUR HONESTO” (La porta non resti aperta per nessuno. Resti chiusa per l’uomo onesto)! Questo errore fu fatale a Martino e mandò su tutte le furie le alte cariche ecclesiastiche, tanto che il Vescovo decise di punire il povero Abate sollevandolo dall’incarico e togliendogli l’autorevole “cappa”! Fu così che “per un punto Martin perse la cappa” e ancora oggi questa espressione viene usata quando si vuol dire che a volte un errore apparentemente di scarsa importanza può portare a delle conseguenze disastrose.
AVERE L’ARGENTO
VIVO
l nome latino del mercurio era “hidrargyrium”, cioè “argento liquido”, in quanto molto simile all’argento ma di consistenza liquida al punto da disperdersi in una miriade di piccole entità. Per questo motivo il mercurio veniva comunemente chiamato “argento vivo” proprio perché non si riusciva a contenerlo in una sola e unica massa, ma continuava a suddividersi in una quantità numerosa di piccole gocce che si muovevano autonomamente e simultaneamente. Per analogia la frase “avere l’argento vivo addosso” equivale a non riuscire a stare fermo, essere particolarmente vivace, essere notevolmente esuberante e irrequieto.
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TENERE
A STECCHETTO
uando gli uccellini cadono dal nido oppure sono allevati in gabbia, si provvede a nutrirli con briciole di cibo poste su degli stecchini appuntiti mediante i quali i piccoli vengono “imbeccati”. Il procedimento è piuttosto lento e la quantità di cibo ingerita a ogni imbeccata è assai ridotta. Per analogia con il termine “tenere a stecchetto” si intende essere in regime di economia, in ristrettezze, a corto di cibo o denaro o anche limitarsi nel mangiare per tenersi a dieta.
Q
IN
CONCLAVE
uando i Priori delle Arti si rinchiudevano insieme alle massime autorità fiorentine all’interno dell’antica Torre della Castagna per deliberare e decidere sui casi più difficili che riguardavano i destini della città e delle rispettive Corporazioni, lo facevano “cum clave”, in conclave, cioè chiusi sotto chiave. Era un modo estremamente pratico per evitare intromissioni o pressioni troppo interessate da parte di politici, facoltosi banchieri e commercianti. La stessa cosa avveniva nella Roma medievale al momento dell’elezione del nuovo Pontefice, quando i cardinali riuniti in un apposito salone si chiudevano “cum clave” fino a che non si fossero trovati d’accordo sul nome del nuovo Papa. Quella sala, per tradizione, prese il nome di Sala del Conclave. A partire dal 1492 il Conclave si è sempre svolto nella Cappella Sistina. Ancora oggi il termine “chiusi in conclave” viene spesso allusivamente riferito a importanti riunioni collegiali o di lavoro nelle quali i membri devono prendere importanti decisioni senza venire disturbati.
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VANESIO
ermine tipicamente fiorentino che indica una persona sciocca, vanitosa e vuota che si compiace di se stessa senza motivo o che ostenta in maniera ridicola le proprie presunte qualità fisiche e intellettuali. “Vanesio” è infatti il nome del protagonista della commedia Ciò che pare non è, scritta dal fiorentino Giovanni Battista Fagiuoli nel 1724, nella quale si parla di un fatuo e vanitoso “cicisbeo sconsolato” che si pavoneggia e fa sfoggio della propria stupidità nei confronti delle numerose dame che frequenta.
T
ARRIVARE
DOPO I FÒCHI
ella storia di Firenze la data del 24 giugno rappresenta sicuramente l’evento più importante dell’anno: è il giorno dedicato a San Giovanni Battista, il patrono della città. In passato, come del resto anche oggi, in questa data si celebravano le grandi fiere, le liturgie religiose e si disputavano anche i tornei più importanti, come il Palio alla Lunga, il Palio dei Cocchi e il Calcio Storico Fiorentino. Giunta la sera, i festeggiamenti si concludevano con il grandioso e bellissimo spettacolo pirotecnico dei “Fòchi di San Giovanni” che rappresentava l’epilogo della giornata, dopo il quale tutti tornavano a casa e la festa era finita. “Arrivare dopo i fòchi” vuol dire appunto presentarsi dopo la conclusione di un evento, quando la festa è già finita o arrivare troppo tardi.
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FARE
FORCA
n tutta la Toscana e in particolare a Firenze la frase “fare forca” ha il significato di non andare a scuola di proposito, di nascosto e senza il dovuto permesso. Sembra che l’origine di questa espressione si debba ricollegare alla particolare forma della forca, lo strumento agricolo usato dai contadini per sollevare il fieno. Le antiche forche avevano infatti solo due denti, o rebbi, che idealmente rappresentavano due possibili strade: andare a scuola o “fare forca”!
I
GANZO
origine di questa parola prettamente fiorentina sembra derivare dal termine latino tardomedievale “ganea”, taverna, da cui deriva “gangia”, meretrice o abituale frequentatrice delle taverne. In seguito e per analogia, la frase “avere la ganza” o “il ganzo” ha assunto il significato di avere l’amante e da quel momento il vocabolo è stato usato prevalentemente come termine dispregiativo. Solo in un momento successivo il concetto di “ganzo” si è modificato nell’accezione di persona furba, scaltra, brava, in gamba, che suscita ammirazione e simpatia.
L’
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STO
CO’ FRATI E ZAPPO L’ORTO
a vita monacale dei Certosini era piuttosto rigida: imponeva il silenzio, lo studio e il pesante lavoro negli orti. Nella Firenze medicea e in seguito anche in quella granducale, ai cittadini dissidenti e a tutti coloro che non potevano esprimere un parere contrario a quello dei governanti, era consigliabile esprimere il proprio dissenso mugugnando e beffeggiando, ma senza mai protestare, proprio come fanno i frati che devono rispettare le regole inflessibili. Con questo comportamento, infatti, i dissidenti esprimevano la loro sottomissione, ma non certo l’accettazione, svolgendo in silenzio il proprio lavoro e il proprio dovere con dignità e rassegnazione, esattamente come i frati in convento. Da allora il detto “sto co’ frati e zappo l’orto” ha così preso il significato di adeguarsi alle regole, fare quello che si deve fare, rispettare le norme anche di malavoglia, rimettersi alle decisioni altrui.
L
ANDARE
IN CIAMPANELLE
uesto modo di dire affonda le sue radici nell’antico mondo delle campagne toscane e più precisamente prende spunto da un verbo ormai desueto, “ciampicare”, che voleva dire inciampare, camminare con fatica. I nostri progenitori contadini avevano quindi coniato il detto “andare in ciampanelle”, quando volevano intendere vaneggiare, rincretinire, dire o fare cose strane o assurde, uscire di senno, comportarsi in modo stravagante, perdere la lucidità della mente.
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A
BIZZEFFE
ono due le probabili origini che hanno fatto nascere questo modo di dire. La prima è quella più classica, seguita da studiosi e ricercatori del lessico: il termine “bizzeffe” sarebbe derivato dal latino “bis effe”, due volte effe, rifacendosi ai magistrati romani che conferivano ai supplicanti la “gratia plena”, approvata senza riserve e con il parere unanime, apponendo la sigla FF (fiat fiat, cioè che sia che sia) sul fascicolo, per distinguerla da quella parziale siglata con una sola F. La seconda teoria, quella più recente, fa discendere il vocabolo direttamente dalla parola araba “bizzef” che vuol dire “molto”. Sta di fatto che oggi con il termine “a bizzeffe” si intende una grande quantità, in abbondanza, in gran copia.
S
DARE
I NUMERI
a Smorfia è il libro che viene usato per interpretare i sogni e per trarne i “numeri” corrispondenti da giocare al Lotto. Legata indissolubilmente alla città di Napoli, la Smorfia ne rappresenta un profondo retaggio storico e culturale. Nel sogno, ogni personaggio, oggetto o avvenimento viene trasformato in uno dei novanta numeri previsti, che può anche variare a secondo del contesto nel quale ci si trovi. In questo modo la realtà e la fantasia si confondono, si mescolano e si sovrappongono creando un mondo del tutto particolare e singolare. Facendo quindi un diretto riferimento alla Smorfia, la frase “dare i numeri” prende il significato di parlare a casaccio, dire frasi senza senso, vaneggiare, farneticare.
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STARE
IN CAMPANA
a tempo immemorabile il suono a distesa delle campane era un segnale di allarme e di pericolo per borghi e città e comunque il suono delle campane scandiva e regolava ogni momento della vita quotidiana. La Montanina era la campana del Bargello e suonava nelle circostanze più tragiche (esecuzioni, chiamata alle armi, coprifuoco notturno); la Martinella in origine era montata sul Carroccio e accompagnava i fiorentini durante la battaglia, adesso è sulla Torre di Arnolfo e richiama i fiorentini all’adunanza; la Piagnona era la campana della chiesa di San Marco, mentre la Marzocco o Campana del Leone suona i rintocchi delle ore sulla cima della Torre di Arnolfo. Per analogia, ancora oggi con la frase “stare in campana” si intende stare in guardia, essere vigile e pronto quando ci si trova in una situazione delicata o pericolosa, stare all’erta per qualunque evenienza.
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SBARCARE
IL LUNARIO
l “Lunario” era un almanacco popolare che riportava i giorni e i mesi dell’anno facendo un preciso riferimento alle fasi lunari, importantissime per l’economia agricola e sulle quali si basava la vita rurale di una volta. L’annuario riportava, oltre alle fasi lunari, anche le previsioni meteorologiche e astrologiche, consigli per la semina, i Santi, ricette di cucina, proverbi, feste, mercati, fiere e tutta una serie di suggerimenti e aneddoti popolari.
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In pratica era l’antesignano del moderno calendario e come quest’ultimo durava per l’appunto un anno. Con il termine “sbarcare” si intendeva invece arrivare in porto e toccare terra dopo un viaggio in mare, quindi in senso figurato si poteva interpretare come arrivare indenni alla fine dell’anno. “Sbarcare il lunario” assumeva dunque il significato di riuscire ad arrivare alla fine dell’anno o del mese, vivere stentatamente, sopravvivere alle necessità quotidiane, vivere alla meglio, tirare avanti alla meno peggio.
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RIFFA O DI RAFFA
a “riffa” in origine era una lotteria privata che aveva per premio un oggetto di valore. Il suo nome derivava dallo spagnolo “rifa” che vuol dire appunto lotteria, ma con il passare del tempo, nella Toscana rinascimentale, il termine riffa ha preso il significato di contesa, lotta, violenza e prepotenza. A Firenze esiste tutt’ora Via del Ponte alle Riffe, nella zona delle Cure, dove nell’antichità i funaioli mettevano a stendere sull’argine del Mugnone le trecce di canapa che servivano per creare spaghi, corde e funi. La zona era famosa per essere particolarmente “calda”: si passava cioè con estrema facilità dalla battuta, allo scherzo, al litigio per poi arrivare alla rissa, ovvero alla “riffa”. La “raffa” deriva invece direttamente dal verbo “arraffare”, cioè afferrare, strappare con violenza, rubare con destrezza. Quindi “di riffa o di raffa” vuol dire a tutti i costi, per forza o per amore, con le buone o con le cattive.
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BANDO
ALLE CIANCE
el vernacolo toscano le “ciance” sono le chiacchere banali e inconsistenti, le stupide frottole che si raccontano tanto per passare il tempo, mentre “bando” deriva dal verbo bandire, nel senso di vietare, cacciare, allontanare. Con l’espressione “bando alle ciance” si vuole quindi esprimere il concetto di farla finita con le parole inutili e di passare ai fatti.
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È
UN BAILAME
l termine “bailame” deriva dalla parola turca “Bayram” che indica la più grande festa religiosa musulmana che giunge al termine del Ramadan. Per la sua importanza il Bayram prevede una grande affluenza corale di persone che festeggiano l’evento in modo chiassoso e allegro con musiche, balli e banchetti, creando spesso una situazione di grande e gioiosa confusione. Proprio per questo motivo in Toscana l’espressione “l’è un gran bailame! ” indica una situazione di estremo disordine, caos, o un gran baccano causato dalla folla.
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CHI
NON HA TESTA ABBIA GAMBE
n questo adagio, per “avere testa” si intende essere provvisto di memoria, avere accortezza, fare attenzione. Si usa quando non si vuole affrontare una situazione in maniera diretta e concreta oppure quando non siamo stati sufficientemente saggi e abbiamo commesso degli errori. In tutti questi casi, per rimediare dobbiamo “avere gambe”, cioè rimboccarci le maniche e cercare di riparare in qualche modo il malfatto. Quindi la frase “chi non ha testa abbia gambe” si riferisce a chi non mette la testa nelle cose che fa e spesso deve ritornare sui propri passi per aggiustare una situazione sfavorevole.
I
FARE
LA GATTA MORTA
a “gatta morta” è una persona che, dietro un apparente aspetto inoffensivo, tranquillo e mansueto, nasconde invece un carattere sostanzialmente diverso, più subdolo e aggressivo. I gatti infatti fanno finta di essere morti per poter sorprendere la preda nel modo più efficace: allo stesso modo le “gatte morte” fingono di essere dolci, timide e innocue per poi ingannare il prossimo e raggiungere i propri scopi e interessi. Il termine può essere anche usato per descrivere una persona che, dietro un aspetto irreprensibile, in realtà cela un modo di vita per nulla integerrimo.
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ESSERE
IN BOLLETTA
a “bolletta” era la polizza del Monte di Pietà, vale a dire la ricevuta dell’oggetto dato in pegno in cambio di una corrispondente cifra di denaro. Ma anticamente la “bolletta” era anche la lista dei nomi di coloro che erano falliti e per usanza veniva esposta nella pubblica piazza. In entrambi i casi coloro che “erano in bolletta” non se la dovevano comunque passare troppo bene finanziariamente! Quindi con l’espressione “essere in bolletta” ancora oggi si intende versare in precarie condizioni economiche, non avere più soldi, essere in situazioni disagiate.
L
MANFANO
ermine prettamente toscano con il quale si vuole indicare una persona particolarmente maleducata, furbacchiona, dai modi rudi. Il termine deriva dal latino “manphur” che si riferisce a un attrezzo del tornio ma che nel vernacolo toscano ha in seguito rappresentato il foro e il tappo della botte. Ma sono proprio l’apertura e il tappo della botte che risentono maggiormente del vino che custodiscono, a volte acido, a volte inconsistente, altre volte asprigno. Per questo motivo e come nesso logico, i nostri antichi contadini hanno chiamato con il termine “manfano” tutte quelle persone che, nel vestire e nel contegno, si presentavano in maniera particolarmente volgare, grossolana o villana.
T
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FAR
VENIRE IL LATTE ALLE GINOCCHIA
n tempo l’antica pratica della mungitura veniva effettuata manualmente. Il mungitore si sedeva su uno sgabello al fianco della mucca, posizionava il secchio in mezzo alle ginocchia e, armato di grande pazienza, iniziava l’operazione che richiedeva molto tempo e terminava solo quando il livello del latte nel secchio gli arrivava “all’altezza delle ginocchia”. L’azione del mungitore si ripeteva con calma, mucca dopo mucca, e certamente determinava in lui un grande affaticamento alla fine del lavoro. Questo modo di dire sarebbe nato proprio per questo motivo. “Far venire il latte alle ginocchia” indica dunque una situazione nella quale una cosa o una persona è terribilmente noiosa, stancante o insopportabile oltre misura.
U
BASTIAN
CONTRARIO
hi sia stato in realtà il “bastian contrario” che ha dato origine a questa espressione idiomatica non è molto chiaro. È esistito un certo Bastiano Contrari, feroce brigante sabaudo morto impiccato, o anche il Duca Carlo Emanuele di Savoia, divenuto famoso per aver disobbedito all’ordine di ritirarsi e aver invece contrattaccato con i suoi granatieri, procurando forti perdite all’esercito franco-spagnolo. Ma anche nella nostra Toscana abbiamo avuto un “bastian contrario”: Bastiano da Sangallo. Pittore, architetto e scenografo rinascimentale, nonché nipote del celebre Giuliano da Sangallo, Bastiano divenne famoso anche per il suo carattere burbero e per il contegno contrario e antitetico ai canoni comportamentali dell’epoca, al punto da essere soprannominato “Aristotele” per la sua indole seria e pensierosa.
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Oggi viene chiamato “bastian contrario” colui che, per partito preso, assume atteggiamenti e opinioni contrari a quelli della maggioranza.
ROBA
DA CHIODI
ell’antichità i mastri ferrai, o fabbri, adoperavano materiale di scarto e avanzi di ferro per produrre i chiodi, che venivano lavorati a mano uno alla volta. Quindi il “chiodo” è stato da sempre considerato come un oggetto scadente e di pessima qualità, come un arnese riconvertito. Per questi motivi il significato della locuzione “roba da chiodi” può esprimere cose di pessima qualità, o azioni indegne da disapprovare o anche esposizione di strane argomentazioni mai ascoltate prima, di cose o fatti estremamente stupidi.
N
TRA
IL LUSCO E IL BRUSCO
usco” deriva dal latino “luscus” che significa guercio, cieco a un occhio o che comunque ha difficoltà nel vedere; “brusco” invece indica quella situazione di luce fioca e incerta tipica dell’imbrunire. Nel dialetto della Garfagnana e nel pistoiese in generale si trova comunemente anche il termine “bilusco” (bis luscus) per dire strabico. L’espressione “tra il lusco e il brusco” viene usata in senso figurato per indicare una situazione vaga, confusa, di difficile valutazione oppure un’espressione del viso tra il benevolo e il severo.
“L
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ECCOCI
ALL’ACQUA!
fiorentini hanno sempre avuto un rapporto di amore e odio con l’acqua, in particolare con quella d’Arno, un rapporto a volte difficile e drammatico. Per secoli il fiume ha attraversato Firenze senza che fosse stata costruita la minima protezione, senza paratie, senza argini di difesa; era sufficiente anche una modesta piena per causare uno straripamento delle acque e il conseguente allagamento di una parte o dell’intera città. Drammaticamente celebre fu l’alluvione del 4 novembre 1333 che fece crollare quasi tutti i ponti e gli edifici adiacenti, causando un gran numero di vittime. Ma con il passare del tempo e delle generazioni, i cittadini si erano ormai assuefatti a questa situazione e si erano abituati a convivere con essa. Perciò quando l’Arno dava i primi segnali di una possibile esondazione veniva fuori il fiero spirito sarcastico fiorentino e si diceva: “rieccoci all’acqua”! Oggi l’espressione “eccoci all’acqua” viene usata nel senso di: adesso viene il bello, veniamo al dunque, ora ci siamo!
I
TANTO
TUONÒ CHE PIOVVE
a leggenda narra che Socrate abbia commentato con un sarcastico “tanto tuonò che piovve! ” il fatto che sua moglie Santippe gli avesse rovesciato addosso dalla finestra una secchiata di acqua fredda al culmine di un furioso litigio.
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Socrate non aveva perso la sua proverbiale calma neanche in presenza del furore e della rabbia della consorte in quanto, da buon filosofo, aveva già calcolato in anticipo quella che sarebbe stata la reazione stizzita della donna. Infatti il modo di dire “tanto tuonò che piovve” viene usato quando ci si riferisce all’inevitabile verificarsi di un evento che è già stato previsto da tempo.
QUATTO
QUATTO
ia il Boccaccio che Dante Alighieri hanno citato questa locuzione nelle loro opere. Il termine “quatto” deriva dal latino “coactus” (raccolto, accucciato, costretto) e di norma viene ripetuto due volte per ribadirne il concetto. Dunque la locuzione “quatto quatto” assume il significato di accucciato in silenzio per non farsi vedere e sentire, rannicchiato a terra, appartato, muto, silenzioso.
S
LEMME
LEMME
al latino “sollemne”, che richiama un’andatura lenta, a passi ritmati, proprio come quella delle cerimonie solenni. Anche in questo caso abitualmente il termine “lemme” viene ripetuto due volte per rafforzarne il significato. Con l’espressione “lemme lemme” si vuole esprimere il concetto di piano piano, con molta calma e flemma, con lentezza e circospezione.
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PRENDERE
IN CASTAGNA
uesto modo di dire sembra abbia avuto origine dal termine tardolatino “marro, marronis” che significa errore. Il termine “smarronare” deriva proprio da questa radice. Ma nel vernacolo toscano il marrone è anche la castagna e perciò nei secoli successivi i nostri contadini hanno prima associato e poi sostituito equivocando il termine “marrone” (errore) con “castagna”. Da questa errata interpretazione è nato appunto il detto “prendere in castagna” che ancora oggi ha il significato di sorprendere qualcuno in errore, mentre commette un reato o fa qualcosa che non dovrebbe fare.
Q
FARE
IL DIAVOLO A QUATTRO
elle rappresentazioni sacre del Medioevo, il diavolo era uno dei personaggi principali, accanto a Dio, alla Madonna e ai Santi. Ma mentre questi ultimi venivano impersonati da un solo attore, il diavolo aveva bisogno di più interpreti poiché doveva cambiare ripetutamente e repentinamente le proprie sembianze. Abitualmente erano quattro gli attori che lo interpretavano, ognuno vestito e truccato in modo diverso e ognuno con un testo differente sulla base della tentazione o della cattiveria che si doveva rappresentare. Questa cosa ovviamente creava una grande confusione sul palco e dietro le quinte del teatro. Da qui il detto “fare il diavolo a quattro” che significa agitarsi moltissimo per ottenere qualcosa, oppure fare gran baccano o confusione, lasciarsi andare a scenate di rabbia, fare di tutto per raggiungere lo scopo.
N
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IL
GIOCO NON VALE LA CANDELA
espressione trae origine dal Medioevo quando, giunta la sera, si doveva provvedere all’illuminazione delle case con candele, torce o lampade a olio. Il costo della cera per candele era piuttosto alto ed era abituale, per i giocatori di carte che facevano le ore piccole nelle taverne, lasciare una somma all’oste come rimborso per la spesa delle candele. Quando però la posta in gioco era troppo bassa e l’eventuale vincita poco remunerativa, cioè più bassa del costo della candela che illuminava i giocatori, allora si decideva che non valeva la pena sprecarla e si interrompeva la partita, quindi “il gioco non valeva la candela”. Questo modo di dire si usa ancora oggi quando si vuole esprimere che si è contrari a compiere un’azione che non porta conseguenze utili, o che non conviene intraprendere qualcosa di poco vantaggioso, o anche che non vale la pena compiere un sacrificio senza trarne i dovuti benefici.
L’
BUCAIOLI C’È
LE PASTE
“renaioli”, con le loro caratteristiche barche dal fondo piatto, raccoglievano la “rena” dal greto dell’Arno. Questa particolare terra sabbiosa era un elemento prezioso e indispensabile per la costruzione degli edifici dell’epoca e veniva raccolta tramite una lunga pala di legno con la quale si producendo delle vere e proprie “buche” nell’alveo del fiume, da cui il soprannome di “bucaioli”.
I
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All’ora del pranzo, verso mezzogiorno, le mogli dei renaioli si affacciavano sull’argine dell’Arno con un pentolone ripieno di pasta appena cotta e ancora fumante e richiamavano l’attenzione dei loro mariti al grido di: “Bucaioli c’è le paste! ”. Secondo un’altra versione il termine “bucaioli ” si riferisce invece ai bottegai delle “buche” del mercato di San Lorenzo, i tipici negozi posti al di sotto del livello stradale. Anche in questo caso, verso l’ora del desinare, i venditori ambulanti che provvedevano a ristorare i commercianti di tutto il mercato si affacciavano alle buche per essere uditi meglio e gridavano: “Bucaioli c’è le paste! ”.
SENZA
LILLERI NON SI LALLERA
l termine “lillero” è onomatopeico e rappresenta una deformazione, secondo la tipica consuetudine fiorentina, della parola “lire”. Il verbo “lallera” è invece un divertente nuovo costrutto per creare una sonorità che faccia assonanza con lillero. La frase completa, “senza lilleri ’un si lallera”, vuol dire semplicemente che senza soldi non si fa nulla e non si può andare troppo lontano.
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DULCIS
IN FUNDO
spressione di derivazione medievale in un latino ormai non più rigorosamente classico, ma con una forte influenza dell’italiano arcaico, “dulcis in fundo” significa alla lettera “il dolce viene in fondo, alla fine del pasto”, in quanto le pietanze consumate dopo un piatto particolarmente dolce vengono a perdere le loro caratteristiche gustative. Il modo di dire “dulcis in fundo” viene comunemente usato per determinare un avvenimento a lieto fine, con un finale a sorpresa, o per dire che il bello viene da ultimo. Ma può essere usato anche in senso ironico nel senso di notizie spiacevoli lasciate alla fine del racconto. Non a caso questa frase è stata collocata al termine della nostra raccolta di adagi: è infatti l’ultimo modo di dire. Quindi: dulcis in fundo!
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INDICE
INTRODUZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . di Miriam Serni Casalini
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ADAGI MA NON TROPPO Uscio e bottega . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . San Giovanni non vuole inganni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Imbroccare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Brindellone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La Rificolona . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il partito politico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ciao . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il capodanno fiorentino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Troppa grazia Sant’Antonio! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il gol della bandiera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La divisa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Un brutto ceffo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tagliare i ponti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Indorare la pillola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La leggenda del caffè . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La bancarotta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La pietra dello scandalo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Essere ridotti sul lastrico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Avere il culo per terra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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9 10 13 14 17 18 19 19 20 23 24 25 26 28 29 29 30 31 32
Avere culo o sculo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fare le bizze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Scherzi da prete . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il ballottaggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ridotti al lumicino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I bischeri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I grulli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le porte coi sassi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il culo e le quarant’ore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I goliardi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Per filo e per segno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A occhio e croce . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Reggere il moccolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ambaradan . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Triviale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Battere moneta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A iosa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Parlare a vanvera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Avere la coda di paglia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fare melina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il boccone del prete . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Non stare più nella pelle . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . In bocca al lupo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Avere il dente avvelenato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Grattare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A ufo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il palo del barbiere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Calzare a pennello . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le note musicali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Lo strozzino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Vinsanto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cafone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 122
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Capitare a fagiolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Andare in malora . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fare il nesci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fare lo gnorri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Gli spiccioli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Essere al verde . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il becco d’un quattrino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Mettere la pulce nell’orecchio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Gufare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A bischero sciolto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fare chiasso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Becco e bastonato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Attaccare bottone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Uscire dai gangheri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Per il rotto della cuffia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A bocce ferme . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Vecchio come il cucco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A babbo morto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Mangiare la foglia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fare orecchie da mercante . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ingoiare il rospo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Scendere a patti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Piangere a dirotto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Rompere gli indugi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tagliare la corda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Avere carta bianca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Far saltare la mosca al naso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fare i fichi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fare i salamelecchi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Andare a ramengo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fare moine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Andarsene alla chetichella . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 123
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Cercare il pelo nell’uovo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Menare il can per l’aia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Avere la luna di traverso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cercare l’ago nel pagliaio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Gettare la spugna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Avere la faccia come il culo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Salvarsi per un pelo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Non vedere l’ora . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Avere le traveggole . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Restare di sasso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Non piangere sul latte versato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Avere le pigne in testa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Dormire sugli allori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Andare a zonzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Salvare capre e cavoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Saltare di palo in frasca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Spezzare una lancia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Essere un voltagabbana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Di punto in bianco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Dare filo da torcere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Essere povero in canna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Per un punto Martin perse la cappa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Avere l’argento vivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tenere a stecchetto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . In conclave . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Vanesio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Arrivare dopo i fòchi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fare forca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ganzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sto co’ frati e zappo l’orto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Andare in ciampanelle . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A bizzeffe . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 124
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Dare i numeri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Stare in campana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sbarcare il lunario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Di riffa o di raffa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bando alle ciance . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . È un bailame . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Chi non ha testa abbia gambe . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fare la gatta morta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Essere in bolletta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Manfano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Far venire il latte alle ginocchia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bastian contrario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Roba da chiodi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tra il lusco e il brusco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Eccoci all’acqua! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tanto tuonò che piovve . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Quatto quatto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Lemme lemme . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Prendere in castagna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fare il diavolo a quattro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il gioco non vale la candela . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bucaioli c’è le paste! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Senza lilleri non si lallera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Dulcis in fundo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Finito di stampare in Firenze presso la tipografia editrice Polistampa settembre 2014