Accadde all'Idroscalo. L'ultima notte di Pier Paolo Pasolini 8866523607, 9788866523604

C'erano i cani che abbaiavano, c'era gente che menava forte, c'era un poeta che cadeva, c'era un

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Italian Pages 312/314 [314] Year 2016

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Accadde all'Idroscalo. L'ultima notte di Pier Paolo Pasolini
 8866523607, 9788866523604

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INCHIESTE

Fabio Sanvitale – Armando Palmegiani

Accadde all’Idroscalo L’ultima notte di Pier Paolo Pasolini

© 2016 SOVERA MULTIMEDIA s.r.l. Via Leon Pancaldo, 26 - 00147 Roma Tel. (06) 5585265 - 5562429 www.soveraedizioni.it e-mail: [email protected] I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i paesi.

Non abbiamo la pretesa di aver trovato la verità assoluta sul caso Pasolini, perché la verità assoluta non esiste. Ma pensiamo di aver rimesso a posto molte tessere fuori fuoco, ignorate, travisate, di questa storia. Lo abbiamo fatto seguendo la logica investigativa, l’esperienza, la criminalistica. E ricordandoci sempre quello che ci ha insegnato la pratica dell’indagine: Pluralitas non est ponenda sine necessitate, come diceva Guglielmo da Ockam. Alla buona: inutile formulare troppe ipotesi, quando quelle esistenti sono sufficienti. È la base del pensiero scientifico moderno. Una regola che evita di avventurarsi in teorie troppo costruite, che fanno perdere di vista la realtà delle cose e che invita anche, contemporaneamente, a non essere nemmeno troppo semplicistici, perché altrimenti la conclusione poggerà su basi troppo fragili. Per questo dobbiamo ringraziare tutti quelli che ci hanno aiutato a scavare, a cercare, a capire. Lorena Piras per il supporto continuo e le ricerche bibliografiche. Renzo Sansone (e Stefania Angelini Sansone) per i ricordi fondamentali, il dottor Giorgio Bolino dell’Istituto di Medicina Legale di Roma, Silvio Parrello, gli avvocati Pier Giorgio Manca e Guido Calvi, il personale del Tribunale dei Minorenni di Roma e il giudice Maria Agrimi per la disponibilità, Giuseppina Sardegna, il segretario della Fondazione Pasolini di Casarsa del Friuli Marco Salvadori, i giornalisti Claudio Marincola e Lucia Visca per il prezioso materiale, la grafologa Sara Cordella; e Roberto Chiesi, direttore del “Centro Studi - Archivio Pier Paolo Pasolini” della Fondazione Cineteca di Bologna, Ferdinando Imposimato, Nino Mancini.

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PREFAZIONE

Bologna 1922 – Ostia 1975. Ma come è morto Pasolini? Cos’è successo a Ostia quella notte? È ancora un punto interrogativo, un’inchiesta mai conclusa, perché la via giudiziaria ha lasciato tanti dubbi e poche certezze. È da qui che parte questo libro; Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani vivisezionano quei momenti, con l’occhio non del giornalista o dello storico, ma del tecnico, con l’occhio e l’esperienza di chi ha maneggiato e maneggia le scene del crimine. È possibile che sia riaperta nuovamente l’inchiesta sulla morte di Pier Paolo Pasolini? O è solo una speranza di chi non vuole arrendersi alla sua morte? Lo leggeremo tra queste righe, che partono da un dato di fatto, quello che ha marchiato fin da subito l’intellettuale Pasolini. Comunista e omosessuale, Sanvitale e Palmegiani lo scrivono subito, nella prima pagina. Ed è giusto ricordarlo, perché anche questo ha contributo a viziare la scena del crimine, e poi l’inchiesta, e poi il dopo. Pasolini viene da una buona famiglia, figlio di un ufficiale, si sposta dove si sposta il padre. Si laurea a Bologna e insegna a Casarsa, in Friuli. È qui che ha a che fare con la giustizia per la prima volta. È il 1949, Pasolini ha 27 anni, viene processato per omosessualità. I carabinieri dicono che si è appartato vicino a casa sua con dei ragazzini, e dunque viene accusato di corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico. Considerate che sono anni difficili: se una donna viene violentata questo non è un vero e proprio reato, contro di lei, la donna. Viene solo turbata la pubblica morale, tutto qui. Per gli omosessuali invece è dura, ogni approccio punito. Tanto che Pasolini lascia il suo Friuli, si porta via solo l’accento del nord, e prova a vivere a Roma, nella capitale. Ma ha a che fare di nuovo con un tribunale: viene rinviato a giudizio per rapina nei confronti di un benzinaio. Una storia alquanto strana. Il

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benzinaio sostiene che un uomo sconosciuto con una Giulietta lo ha minacciato con una pistola e poi rapinato del suo incasso giornaliero. È lui, è Pasolini: dice convinto a chi lo ascolta. Eccolo di nuovo nei guai, questa volta per rapina. E nessuno gli fa sconti, a destra. Durante il processo il criminologo Semerari (quello ritrovato nella sua auto, la testa nell’abitacolo, e il resto del corpo nel portabagagli) lo definisce un “coprolalico”. Pasolini è un omosessuale esibizionista, sostiene Semerari: “ci è noto attraverso le sue opere letterarie e i suoi lavori cinematografici: l’analisi psicopatologica della sua produzione ci potrebbe portare all’affermazione di una tendenza coprolalica, e qualora volessimo ispirarci alle teorie psicodinamiche non sarebbe difficile dimostrare che la coprolalia è un comportamento neurotico e intravedere in tale comportamento la risultante di un’infermità”. Omosessuale, comunista, e infermo dunque! Nonché coprolalico. Ma Pasolini è robusto, o almeno appare tale. Va avanti a scrivere, a fare film, e sembra più a suo agio tra la gente di borgata che tra l’alta borghesia da cui invece proviene. Fino al giorno in cui rimane lì, disteso, in uno squallido posto vicino al mare di Ostia, a pochi chilometri dalla capitale. Ci è arrivato con la sua GT. E proprio quest’automobile potrebbe dirci tante cose, eppure anche l’alfetta metallizzata rimane tra i misteri di questa storia italiana: restituita così tardi alla famiglia che non ci si può più trovare nulla di certo. Era scomodo Pasolini? Meglio toglierlo di mezzo? Oppure è solo una squallida storia… così come ci hanno voluto far credere fin da subito? Federica Sciarelli

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Capitolo 1

Idroscalo

Sono due, quelli che stanno in auto su questa strada vuota. Uno che ama molto la vita, al punto di rischiarla. Un testimone del suo tempo. Un’ala destra veloce, a pallone: c’è stato un tempo in cui lo chiamavano “Stukas” perché sembrava Biavati del grande Bologna. Un intellettuale che usa il suo corpo, lo gioca, lo esibisce come nessun altro ha fatto mai. Uno che osa dire di essere comunista e omosessuale, insieme. Uno che guarda l’Italia da dietro quegli occhiali scuriti e vede cose che noi non vediamo. E dice cose enormi e profonde e apocalittiche, con quella vocina là, poi. Uno che provoca, ma che è spesso silenzioso nei salotti buoni. Uno che non sa farsi nemmeno un uovo al tegamino. Uno che poi esce e va a cercare i marchettari più cattivi. Questo è l’uomo alla guida, mentre sfilano i lampioni gialli di una strada che porta verso l’odore del mare. Uno che apre la porta, esce e non sa quando rientrerà. Uno che vorrebbe sentirsi più forte e invece no. Uno che ha già imparato che la prima regola è fottere gli altri. Uno che con la chitarra suona più i “lenti” che gli “svelti”. Uno che abita in un palazzo che sta in una strada che sta al limite del nulla. Uno che ha fatto fino alla seconda media, e poi vediamo. Uno che ha fame. Uno che frequenta certa gente e sa come si ruba una macchina. Questo è il ragazzo infagottato che siede al posto del passeggero, mentre i coni d’ombra tra i lampioni si incastrano l’uno nell’altro. Vicino al vano portaoggetti, davanti a lui, c’è attaccato un adesivo ovale, con lo stemma del Bologna Football Club. L’uomo che guida è un tifoso, di quelli accesi. Quando l’auto argentata abbandona il conforto dell’ultimo lampione, rallenta. Sulla sinistra si apre una strada sterrata. Rallenta ancora. Ancora. Procede piano. I fari illuminano terra

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e buche e fango. A sinistra la luce sfiora paletti di cemento e ciuffi d’erba secca, qualche bagliore sorprende una porta di legno chiusa, l’auto sobbalza, il terreno si fa più duro, forse quelle in lontananza, oltre la rete, sono case, forse capannoni, vallo a sape’. Il vento ha impiccato qualche foglio di plastica nelle recinzioni. C’è da aggrapparsi al volante e allo sportello. Un piccolo lampo bianco e poi più nulla. Ecco, la strada si restringe un po’, subito si lascia le costruzioni a destra per entrare in uno spazio vuoto, totalmente vuoto, l’anticamera del nulla. Potrebbe esserci qualsiasi cosa, oltre. Qualsiasi. Il ragazzo non lo sa, ma c’è il mare. Il mare e la storia di una squadriglia di idrovolanti da record che atterrò qui, dall’altra parte dell’immenso oceano, in un giorno di gloria del 1933. Anzi, proprio ora dove si sono fermati, 42 anni prima, c’era il “Recinto E” e migliaia di persone guardavano per aria, aspettando in un trionfo di camicie nere. Ma di questo al ragazzo non gliene può fregare di meno. Sono storie vecchie, roba da nonni, e il presente è tutto quello che conta. Quanto a quello che c’è davanti, che non lo vedi? È una rete. Più in là non si può andare. Roma è un gigante di marmo e tapparelle abbassate; troppo lontana per proteggerli. Roma è un ricordo, una promessa in bianco e nero, una madre che ti mena e ti accarezza i capelli, l’ultima serranda dell’osteria che sta scendendo in una cascata di ferro, un semaforo che dà l’arancione a un incrocio ormai silenzioso, un passato incomprensibile, fiumi di scarpe che hanno occupato le strade e ora riposano sotto il letto, un muro scrostato che ha già visto tutto e che non s’impressiona più di niente. È piena di storie di santi e di puttane. È la vita. Ma è lontana, la vita. Troppo lontana per proteggerli. E poi, il presente è qui dentro, tra il sedile, il volante e il parabrezza; sono ventimila lire. Ecco, l’auto si ferma con una curva a sinistra sotto quei tre tubi Innocenti che disegnano una specie di porta da calcio: che si tiene in piedi per grazia e virtù dello Spirito Santo. I fari si spengono, l’auto affonda nel nero. È l’ora giusta, occhio e croce manca poco a mezzanotte e mezza. Manca ancora, per l’appuntamento. L’uomo si toglie gli occhiali, una mano corre sui pantaloni del ragazzo.

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Ma nemmeno questo ha molta più importanza. Ora che sono più intimi, possono dimenticare tutto: almeno per un attimo. Nessuno potrà ferire nessuno, in questo momento perfetto e disperato. Questi sono i loro aliti, e chissà cosa ha in testa l’uno e cosa l’altro. Tutto è fermo e silenzioso. Forse è uno dei mille modi che l’uomo conosce per cercare amore, forse è solo desiderio. Ma chi siamo noi per dirlo? Non conta più: perché due fari gialli irrompono nello specchietto retrovisore, separano i due corpi. Non hanno il tempo di pensare. Quelli sono già qui. Dentro l’auto qualcuno è sorpreso. Eppure non li hanno sentiti arrivare, non hanno schiacciato nessuna pozzanghera, quelli. Sono qui, e basta. Come se ci fossero sempre stati. E ora bisogna trovare, molto rapidamente, un modo per uscirne fuori; perché due mani hanno già aperto la portiera dell’auto e due bestemmie stanno già tirando fuori l’uomo, così come sta. Che il buio abbia inizio.

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Capitolo 2

Tiburtina

I problemi cominciano subito. Basta leggere i verbali del 3 dicembre 1975 per accorgersene. Giuseppe Guglielmi, nato a Capoliveri il 1.1.1944, carabiniere. “Non fummo costretti a colluttare col Pelosi per arrestarlo, anche se nell’avvinghiarlo fummo piuttosto energici; per mettergli le manette e spegnere ogni conato di resistenza dovemmo anche torcergli il braccio sinistro dietro la spalla. Il Pelosi disse di averla rubata poco prima sulla Tiburtina. Non ricordo dove fosse il pullover verde in sequestro, però mi pare di averlo visto adagiato sul sedile posteriore”. Pelosi. La Tiburtina. Il pullover. Teneteli a mente. Cuzzupè Antonino, nato a Pace del Mena il 15.4.1932, appuntato. “Fu qualche minuto dopo l’arrivo alla rimessa che io perquisii l’interno della macchina, per identificare il proprietario e verificare l’eventuale presenza di armi e notai allora anche la presenza del pullover verde sul sedile posteriore. Non sono in grado di dire l’esatta posizione1”. “Perquisii anche il Pelosi e ricordo che non aveva denaro, aveva un orologio e non ricordo se avesse anche un anello a sigillo e un mazzo di chiavi. Fu quando stavamo per portare il Pelosi dalla nostra Stazione al Carcere di 1

Francesco Campea e Sergio Guidotto sono i carabinieri che fanno i rilievi fotografici, la mattina dopo dicono, invece, che il pullover verde stava nel bagagliaio. Scegliamo la versione di Cuzzupè e Guglielmi perché furono i primi a vedere il pullover nell’abitacolo. Forse fu poi messo nel portabagagli per non sporcarlo o per non disperderlo, allora poteva capitare, la scena del crimine aveva un altro trattamento.

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Casal del Marmo, e cioè oltre tre ore dopo l’arresto, che il Pelosi ci pregò di ricercare il suo anello, l’accendino e le sigarette ”. Il pullover – ancora – e poi l’anello, l’accendino e le sigarette. Le chiavi. Tenete tutto a mente2. È solo l’una e mezza di notte del 2 novembre. È solo una notte d’inverno, una delle tante, in cui stringersi nella divisa nera, tanto c’è poco da fare, chi vuoi che vada in giro in una notte come questa, che ti svegli domani e ti vesti per andare al cimitero. La Gazzella nera dei Carabinieri (nome in codice “Gazza 2”) sta “espletando regolare servizio di vigilanza”. Lungomare Duilio di Ostia, direzione nord. Di colpo, Cuzzupè e Guglielmi vedono a qualche centinaio di metri da loro due fari gialli bruciare la strada. Stessa corsia. Dio santo, un frontale! Ma che fa quello! Non fanno in tempo a pensare, che i due fari sterzano e si rimettono nella corsia a fianco, continuando ad andare dritti. L’auto li sorpassa come un bolide. La vedono bene, è un’Alfa Romeo GT argento metalizzato e corre verso sud, verso piazzale Cristoforo Colombo, verso Roma, verso la salvezza. Frenano, sgommano, fanno inversione in mezzo alla strada e gli si piazzano alle costole, Alfa contro Alfa, a 160 km sul lungomare, ingoiando uno per uno tutti i coni di luce dei lampioni. Siamo più o meno all’altezza dello stabilimento Marechiaro, quello basso, rosso scuro. Siamo tra le due e mezza e le tre di notte3, di quelle ore di 2

Anche il vice brigadiere Luigi Vitale ricorda che Pelosi era in possesso di alcune chiavi e conferma che parlò dell’anello solo alla fine. E che fu molto insistente a rivolere le sue cose, che non trovava. 3

Nella sua prima deposizione Ninetto Davolio riferì che Graziella Chiarcossi, la cugina dell'uomo alla guida, gli aveva detto che i carabinieri erano passati da lei all’una e mezza per dirle che l'auto dell'uomo era stata rubata e ritrovata. L’orario, chiaramente incompatibile con la realtà (è la stessa ora in cui il ragazzo viene fermato!), nasce da quanto afferma Davoli e non da una deposizione di lei, a cui nessuno chiese mai nulla in Istruttoria: e perché chiederglielo? O Ninetto s’era sbagliato o Graziella non aveva visto bene che ora fosse. Doveva essere, invece, non prima delle 2.30, ora in cui si chiuse il verbale dell’arresto del ragazzo a Ostia e potè partire la telefonata ai colleghi dell’Eur che poi andarono da lei.

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Ognissanti, quando dei carabinieri citofonano al 9 di via Eufrate, all’Eur: e nel silenzio si fanno aprire. Sono della Compagnia di Roma Eur e vogliono solo dire che l’auto di Pasolini Pier Paolo è stata rubata quella notte, ma anche ritrovata sulla Tiburtina4. Un’assonnata Graziella – sua cugina, appunto – risponde qualcosa, la faccenda deve sembrarle strana. L’ultima cosa che sa di Pier Paolo è che è uscito verso le 21 per una cena con Ninetto Davoli, la moglie Patrizia e i loro due figli. Per quanto le risulta, Pier Paolo può anche essere già rientrato senza che il suo orecchio se ne sia accorto: in genere, nell’ora più alta della notte, è sempre a casa. I tempi delle scorribande notturne a caccia di maschi e pericoli si sono molto ridotti con l’età. Avrà aperto la porta della stanza di Pier Paolo, Graziella? Immaginiamo di sì. E siamo invece certi che sia rimasta stupita nel vedere il letto rifatto, con la coperta tirata, nell’aria immobile della stanza. E torna a letto, ma senza più la serenità del primo sonno, che cede alla stanchezza. Mezz’ora più tardi, altri carabinieri buttano giù dal letto una coppia, Antonio e Maria, per dire che loro figlio è stato fermato per il solito furto d’auto. “Da dove cominciamo, Fà?” dice Armando. “Eh, dall’inizio”. Stiamo percorrendo la Tiburtina sull’Alfa di Armando, quasi una nostra seconda casa (non tanto quanto la Vespa, che però oggi è dal meccanico). Il cielo grigio di un inverno senza speranza ci sovrasta. Scorre l’incrocio di Portonaccio. Scorre il cinema Ulisse e le facce degli uomini che entrano a cercare un orgasmo. Il traffico ci asfissia. “E allora riepiloghiamo. Mettiti comodo, che qui prima di un’ora non arriviamo. Nella notte del 2 novembre 1975 un’Alfa Romeo argento metallizzato appare come un bolide, a 160 km l’ora, sul lungomare Duilio, a Ostia. Maledetta sfortuna, c’è una Gazzella dei Carabinieri che le viene incontro. L’inseguimento comincia. Tieni conto – fa Armando – che il 4

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Vedremo dopo come nacque l’equivoco della Tiburtina.

lungomare del ’75 non è quello di oggi, non aveva lo spartitraffico al centro: i carabinieri avevano più spazio di manovra e la GT già da lontano si trova sulla corsia di sinistra, quindi praticamente viaggiava contromano. I carabinieri sventolano la paletta dell’alt, il GT rallenta progressivamente per fermarsi all’altezza dello stabilimento Tibidabo5, ma mentre Cuzzupè scende, quello riparte di botto. Il carabiniere risale in auto, l’inseguimento riprende: le due Alfa viaggiano affiancate per circa 200 metri e poi la Gazzella taglia la strada. I militari sventolano il mitra e la stringono contro il marciapiede, 700-800 metri dopo. La corsa finisce all’altezza di dov’è adesso il Mamaflò. In tutto, da quando le due auto e i due destini si sono incrociati, è durata al massimo tre chilometri. Ecco, per tre chilometri il guidatore ha pensato di farcela e forse quando si fionda fuori, lasciando lo sportello aperto, per un secondo ci crede ancora. Ci deve credere. Ma ‘Gazza 2’ l’ha quasi speronato per farlo accostare e si ritrova subito una divisa nera a mezzo metro. È finita. Viene bloccato subito contro l’auto. È solo a quel punto che i due carabinieri si rendono conto che quello che guidava come un pazzo è un ragazzino di 17 anni. Lo accusano di furto d’auto. Lo portano in caserma, a via dei Fabbri Navali. Si chiama Pelosi Giuseppe e abita a Setteville, una borgata alla periferia della periferia della capitale. Nessuno sa da dove arrivi. Lui dice che l’auto l’ha rubata sulla Tiburtina, davanti al cinema Argo. Pelosi piange e singhiozza ‘mamma, ti chiedo perdono per quello che ho fatto’, ma non dice cosa ha fatto. Nessuno sa cosa c’è a tre km dal punto in cui ‘Gazza 2’ l’ha avvistato. C’è qualcosa, nascosto dal buio della notte. Il ragazzino ha del sangue sulla fronte e lo accompagnano in bagno a lavarsi, ma non dice nemmeno come si è ferito. Va interrogato, ma quello che ora sta seduto davanti alla scrivania già ha tutta la malizia necessaria per starci”. “Che vuoi dire?”. “Eh, che voglio dire. Senti qua: denunciato per furto plu5

Che oggi si chiama Tibidabo Beach.

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riaggravato di auto e possesso ingiustificato di attrezzi atti allo scasso, il 6 novembre ’74; arrestato il 9 novembre ’74, per furto in flagranza; il 16 novembre successivo ancora un arresto: tentato furto di una Mini Minor (non imputabile per immaturità). Passiamo all’anno dopo: denunciato per furto d’auto il 22 aprile ’75, il 22 maggio, il 23 luglio. Arrestato l’11 settembre ’75 per tentato furto di un mangianastri su un pullman. Al momento dell’arresto a Ostia è in libertà provvisoria. Pelosi è agli inizi di quella che sarà la sua carriera criminale, ma ha perfettamente idea di cosa sia un interrogatorio, le manette, un giudice. Ah, per finire il discorso… il verbale lo chiudono alle 2.30 di notte. Prima di essere accompagnato in carcere i militari lo portano al CTO di via San Nemesio per fargli medicare il taglio alla testa, ricordi? Il referto parla – attenzione – solo di una ferita lacero-contusa del cuoio capelluto di lieve entità, niente naso gonfio o che6. Ai sanitari Pelosi ripete quello che ha già detto ai militari: di aver sbattuto, al momento dell’arresto, al volante. Il referto è delle 3.40. Fatto questo, la Gazzella riparte e lo porta al carcere di Casal del Marmo, dove arrivano verso le 4.30. Come mai così tanto tempo? Perché hanno fatto una sosta il lungomare Duilio. Al momento di uscire dalla caserma, infatti, Pelosi ha detto che ha perso l’accendino e le sigarette. E l’anello. Un anello di oro giallo sormontato da una pietra rossa ‘e a comprova di ciò mostrava il dito della mano sul quale si evidenziava tale traccia’. Guglielmi: ‘Noi non credevamo che avesse perso l’anello e allora Pelosi ci mostrò il dito, era tutto rosso, come se l’anello glielo avessero strappato’. Finisce che i carabinieri, siccome sono di strada, si fermano sul lungomare Duilio e alla luce dei fari cercano l’anello, senza trovarlo”. “E poi arrivano in carcere7”. 6

L’esame radiologico dell’11 febbraio 76 riferirà di una frattura incompleta dell’osso nasale a destra, in riparazione, senza spostamento dei frammenti, risalente a circa 3 mesi prima. Ma Pelosi non ha il naso gonfio o dolorante, quella notte, quindi non è all’Idroscalo che se l’è rotto. 7

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All’atto dell’ingresso a Casal del Marmo Pelosi ha un portachiavi con 3

“Ed è qui che il compagno di cella gli fa la classica domanda: «Che hai fatto?» E lui: «Ho ammazzato uno famoso, Pasolini. Ma tanto lo scoprono, mica sono deficienti, quelli». E allora perché non l’ha detto subito? Che senso ha dirlo qualche ora dopo?”. “Aspetta, adesso ti dico io qualcos’altro di Pelosi. Che vita fa? Mentre la sera ghiaccia le ringhiere di Roma e Pino sta su una sedia di legno della caserma di Ostia, c’è qualcuno che l’aspetta a casa. È la sua famiglia: padre (Antonio, classe 1931, commesso, arrotonda come materassaio: uno che si spacca di lavoro), madre (Maria, classe 1935, fa le pulizie, ‘donna a ore’, come si diceva), sorella (Anna, 19 anni: commessa in una macelleria, sogna di fare la hostess); sono arrivati da poco in via Fusinato 5, Setteville di Guidonia, appunto. Ho faticato a trovarla sulla cartina. Stanno lì, in una strada non asfaltata ma piena di buche, come l’Idroscalo. Hanno provato a fargli fare il cascherino8, ma’ ‘voja de lavorà saltame addosso’, come si dice. Poi ha fatto l’elettromeccanico apprendista alla Orem, in via Tiburtina, per quattro mesi. Adesso Pino è a spasso da un anno, i genitori gli passano la paghetta9 e frequenta due bar: in via Lanciani e in piazza Massa Carrara, quelli dove andava una volta, quando abitava in via Diego Angeli, al Tiburtino III10. Il lunedì successivo doveva cominciare a faticare in una fabbrica di salumi. Al proprietario del primo bar dice, qualche giorno prima, che non ha voglia di lavorare ma nemmeno di continuare a scippi e furtarelli. Diciamo che non ha le idee chiare. Al bar lui e i suoi amici sentono dischi, giocano al flipper, cazzeggiano. La nonna dirà qualche giorno dopo, a quelli de ‘L’Unità’, chiavi, un orologio e un anello in bronzo. 8

“Cascherino”: in romanesco, chi portava in bicicletta la merce da un negozio all’altro. Pino l’aveva fatto dallo zio fornaio, prima di fare l’aiuto carrozziere. Era durato due mesi. 9

“Io e la madre gli davamo 1000 lire al giorno e un pacchetto di sigarette” metterà a verbale il padre. Anche le nonne e gli zii gli davano denaro. 10

Siamo di fianco alla Nomentana. I due bar erano vicini tra loro, stesso quartiere, stessa zona. Quello di via Lanciani 23 c’è ancora.

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che i genitori sapevano che frequentava cattive compagnie: loro ovviamente negheranno. Ha una ragazza, Luana. Di solito rincasa verso le 23, anche prima, e lo aspettano. Ma è una sera in cui ha voglia di fare come gli pare e poi prendersi la solita sberla. Ah, a casa e con gli amici non ha mai nominato Pasolini”. “Parliamo un attimo dell’auto su cui si muoveva in genere Pelosi?”. “Ecco, a proposito: spiegami come faceva ad avere un’auto intestata, a 17 anni…”. “Ci sono gli atti che dimostrano il regolare acquisto della Fiat 850 bianca, di non so più quale mano. Il padre sapeva e non credeva che l’avesse comprata regolarmente, ma incredibilmente non aveva fatto nulla”. “E io che pensavo che l’avesse rubata”. “Permettimi la risposta criptica ‘ni’, nel senso che Pelosi dichiarerà che l’auto era rubata ma di averle messo una targa regolarmente acquistata. Certo regolarmente è un parolone, non è una cosa possibile; ed avrebbe comportato anche la complicità di un notaio. Però diciamo che l’auto era regolare. Non ti dimenticare che non esistevano sistemi informatici e che quando la Polizia Scientifica effettua il 13 novembre di quell’anno il sopralluogo sull’autovettura la targa corrisponde, ma di certo non può fare un controllo in tempo reale del numero del telaio. Comunque l’auto targata Roma 880837, quando viene effettuato il sopralluogo, rileva non dico delle sorprese ma qualche particolarità sì. Nel portabagagli c’è di tutto, da ben cinque girabacchini, possiamo supporre utili qualora si debbano togliere più di una ruota da un auto? A un paio di scarpini da calcio numero 43; ma giocava Pelosi? Inoltre molte chiavi inglesi e ben cinque chiavi per candele”. “Comunque, fin qui i carabinieri sanno che Pelosi è il solito ladro d’auto da portare al minorile. Avvisano il magistrato e lo chiudono a Casal del Marmo. È la mattina dopo, sul presto, mentre Pelosi dorme in cella, che succede tutto il resto”. I palazzi anonimi scorrono: è come se dietro ogni finestra ci fosse sempre la stessa persona. La Tiburtina non è mai stata

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così lontana da San Lorenzo, dove c’è stata la cena con Ninetto. In uno spazio così familiarmente breve s’è perso Pier Paolo, ma chi può dire, in quella infinita notte, se si è perso davvero o se non sia invece con qualcuno? Oppure è rimasto a piedi per il furto, magari anche rapinato (non sarebbe la prima volta), magari ha passato la notte a camminare verso l’Eur, magari non ha trovato un taxi per tornare (era pur sempre notte, era pur sempre la notte di Ognissanti). Non pensa, Graziella, che ormai si è già entrati nel Giorno dei Morti. Non coglie quel segno sottile del calendario, del tempo che scorre. Quel piccolo, impercettibile presagio a cui non può né vuole dare valore. Il Giorno dei Morti. Intanto, alle 6,30, mentre la luce rivela la città, un’auto imbocca una strada sterrata vicino al mare, in un posto a 30 km che Graziella non sa nemmeno esistere. Intorno, il silenzio più totale. Nessuno in giro, nessun suono che porti la vita. Una distesa di baracche, edifici a volte colorati di celeste, a volte di bianco o di grigio, a volte coi tetti in eternit, lamiere per recinzione, porte prese o rubate chissà dove, staccionate fatte con pali sghembi, vialetti contorti, casette tirate su nel fine settimana con quel che c’è, anche col tufo, anche col legno, anche senza finestre. E poi, tetti di lamiera che s’infuoca l’estate, allacci abusivi dell’elettricità, casette quadrate, senza fantasie, a volte ancora coi forati per muri e chi s’è visto s’è visto11. Un’aria di provvisorio che la metà basta. Come qualcosa che il vento porterà via, che verrà sciacquato dalla prossima pioggia. Ne scende una famiglia che in romanesco si dà le prime istruzioni. C’è da scaricare roba dall’auto. Padre, Principessa 11

Tutta la zona è stata abbattuta nei primi anni Ottanta. Nacque nel primo dopoguerra, quando c’erano solo i cartelli “zona minata”, fino al ’50, più o meno. Cigni, cormorani, anatre, erano padroni dell’area. Fino a che arrivò della gente di Testaccio, sarà stato nel ’50. C’era Zì Gaetano, c’era Lupetto, c’era Luciano. Erano in cinque. Volevano solo fare i fine settimana laggiù, come una volta. Trovarono un tramonto da favola e cinque casematte dei tedeschi. Ognuno se ne prese una e quello fu il primo insediamento. C’era chi pescava al bilancino, chi faceva il bagno al fiume, le tavolate stavano in mezzo alla strada. Erano gruppi di famiglie, che la domenica portavano la pasta al forno; poi mano mano cominciarono a portare i mattoni e a costruire. Qualcuno ci andò proprio a vivere.

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Alfredo, di anni 49, carpentiere, robusto, capelli tutti bianchi; madre Lollobrigida Maria Teresa, casalinga, di anni 47; e numero tre figli, Gianfranco di anni 27, Mimma di anni 23, Rino di anni 8. Mentre gli altri s’affaccendano, appena scesa, l’occhio da casalinga di Maria Teresa si appizza subito su quel mucchio di monnezza che addirittura hanno buttato in mezzo alla strada sterrata. Ci sono giusto una decina di metri tra lei e quella robaccia. E lei, spazzatura davanti la sua baracca non ne vuole. Non che fosse la prima volta, che ne trova. Non li fa neanche tutti quei metri, Lollobrigida Maria Teresa. Non è monnezza, è ‘n morto. La domenica della famiglia Principessa finisce qua: Gianfranco viene spedito in auto a chiamare il 113. Gli altri quattro restano lì, muti, agghiacciati, a chiedersi chi sia quel tizio in canottiera verde, con la testa affondata nella ghiaia e il corpo coperto di sangue. A desiderare che i dieci metri diventino mille. “Dando per scontato che la versione della Lollobrigida e di Principessa sia vera, cioè che loro se ne siano accorti mentre arrivavano a Ostia…”. “Perché, hai qualche dubbio?”. “Sì, mi vengono dei dubbi. È una giornata fredda, sicuramente non da mare, la famiglia decide di andare nella sua casetta di Ostia e cosa succede, in un fredda giornata invernale? Si svegliano molto prima dell’alba e verso le 5.30 circa escono da casa al Prenestino, dalla parte opposta di Roma, per raggiungere l’Idroscalo. Cosa dovevano fare, così presto? Ma ti sembra logico? Ma siamo sicuri che non avessero dormito lì quella notte o addirittura anche la notte precedente? Il figlio Gianfranco arriva a dire che dopo aver portato la polizia all’Idroscalo ebbe il permesso di andare a lavorare nel cantiere dell’Eur dove stava. Il 2 novembre? Siamo sicuri che la versione che loro danno non sia per evitare la logica domanda: avete sentito nulla?”. “Armà, non hai tutti i torti effettivamente, ma poi che succede?”. “Venti minuti più tardi, minuto più minuto meno, quasi le 7, il commissario Gianfranco Marieni, 33 anni, del commissariato di Ostia, è il primo ufficiale ad arrivare sul posto – fa

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Armando mentre davanti a noi c’è un’estenuante fila di stop accesi –. Ci stanno una decina di persone che si guardano intorno e lo guardano, aspettandosi che lui faccia qualcosa, che risolva il mistero. I Principessa e i primi curiosi, che da qualche baracca devono pure essere usciti. Muovendosi sulla terra, tra ghiaia e pozzanghere, segue le tracce degli pneumatici. Ora si trova là, dove la strada sterrata sbocca in quello che potremmo definire, con una certa fantasia, un campo di calcio. Le porte sono fatte coi tubi, si gioca senza erba e se si cade, il sangue è assicurato. Ma per l’Idroscalo è un lusso e quel terreno per i ragazzini è ambitissimo. Seguendo le tracce parallele delle ruote, finisce la strada e si sbuca sul lato lungo del ‘campo rudimentale’ (come lo ribattezzerà la Scientifica). Prima della porta, tra l’erba che non ti aspetti più, ormai, di vedere, sta della spazzatura, aridaje. Un po’ prima della porta, Marieni vede qualcosa. È una camicia colorata, che sta lì, a mucchio, come si leggerà sul verbale. La prende con le mani, la solleva, cerca di capire se gli serve o no. C’è molto, ma molto sangue sopra. E la lascia cadere a terra: sì, sarà roba che interesserà la Scientifica, riflette”. “Ah, dunque la camicia stava a mucchio! E poi? Che altro trova?” chiedo io. “Vede impronte di pneumatici, Marieni. Si vedono e non si vedono, su quel terreno di buche e sprazzi d’erba infame. Ma una cosa è certa, partono dal campo di calcio e puntano sul cadavere. A non molti metri dalla camicia c’è una tavoletta di legno spaccata in due per lungo: sopra c’è scritto “Buttinelli A., via dell’Idroscalo 93 e risulterà schiodata da una delle case che danno sulla strada sterrata. Sopra, tracce di sangue e capelli attaccati12”. Fino a prima delle 7, fino alla prima luce del giorno, l’attesa di Graziella è consistita in due occhi aperti nel buio, aspettando che una chiave faccia il suo dovere nella serratura. Che 12

Angela Buttinelli era la moglie di Vincenzo Sabatini. Insieme avevano una baracca sulla strada sterrata, 35 metri quadri, dai primi anni ’70. Dopo il delitto non ci andarono più.

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dei passi nel corridoio addormentino l’ansia. Poi, si alza, si veste di paura e apre la porta, cercando di fare meno rumore possibile. Susanna, la madre di Pier Paolo, dorme piano. Esce come una ladra. E non ha molto tempo. Le strade del 2 novembre sono silenziose e fresche, poche macchine in giro, forse nessuna nella piazza davanti l’immensa ombra della chiesa di San Pietro e Paolo. Non come in questo inferno di lamiera dove siamo noi. Nello stesso momento, il cavo telefonico che unisce il commissariato di Ostia con casa Visca butta giù dal letto una ragazza, Lucia, di 22 anni, che già da 5 anni si fa le ossa come corrispondente di ‘Paese Sera’. Da una parte uno sbadiglio, dall’altra un brigadiere la informa che c’è un cadavere all’Idroscalo. Di chi, non si sa. Ma torniamo a quello che stava dicendo Armando. “Sono gli stessi minuti in cui una telefonata sveglia un uomo in una casa di Roma. Quell’uomo è abituato a essere svegliato a qualsiasi ora. Si chiama Fernando Masone e fa il capo della Squadra Mobile dal 1973. Dall’altra parte del filo c’è la Sala Operativa: un cadavere è stato rinvenuto all’Idroscalo di Ostia, con la testa fracassata. Masone ci manda il commissario capo Iovinella, dirigente della Omicidi, e comincia a vestirsi. Si sa chi è il morto? No, dottore, non sappiamo. Non ha documenti. La Scientifica è già per strada. Le lancette della sveglia fanno le 7,15”, spiega Armando, frenando. E poi la larga scalinata che dalla chiesa plana sui negozi eleganti di viale Europa e poi andare dritti, col cuore in bocca, fino all’incrocio con viale Beethoven; e poi girare all’altezza delle Poste, in un mondo di uffici chiusi, nel silenzio dei tuoi soli passi, svoltare in viale Asia fino al grande edificio dove abita la verità, dove scoprire che in fondo non è successo nulla, che Pier Paolo sta in qualche ospedale, magari l’hanno aggredito, magari c’è stato un incidente quando gli hanno rubato l’auto. Sono i venti minuti più lunghi della vita di Graziella. Ma i carabinieri ne sanno quanto poche ore prima; e allora, lei chiede di fare una telefonata. Compone un numero nel rotore

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del telefono, cifra dopo cifra. Un numero amico. 14 km più in là, dalle parti di Cinecittà, risponde la voce carica di sonno di Ninetto. È lo stesso momento in cui i brigadieri Ciro e Romeo, con la guardia scelta Leonello, agli ordini del maresciallo Antonino, iniziano a guardarsi intorno in quella terra di nessuno; e a fare i primi rilievi. Sono loro, la Scientifica. “Allora la Scientifica era un’altra cosa, Fà. Il punto di forza di un accertamento era la parte descrittiva e fotografica. Non esistendo il DNA, si basava tutto sulle tracce visibili, quindi impronte digitali ma anche tracce di pneumatici e scarpe. Se ci pensi, in un sopralluogo all’aperto come nel nostro, poco si poteva fare. Si cercava di fare una parte descrittiva della scena, scrivendola direttamente sul posto, in brutta, visto che regnava sempre il pericolo che la pellicola, per un qualche guasto tecnico, si bruciasse. Poi, rientrando in ufficio, si consegnava il tutto ad alcuni impiegati che provvedevano a trascrivere il testo scritto a penna battendolo a macchina, ovviamente con la carta carbone, per fare più copie. Era, quindi, fondamentale per l’operatore non prendere appunti ma scriverlo su carta, il sopralluogo. Ciro Solimene era una colonna della Scientifica e lo è stato per molti anni, ricordiamoci anche il primo sopralluogo a via Poma, un sopralluogo molto criticato, ma di certo non per colpa sua”. “Ma non è il sopralluogo meno completo mai fatto?”. “Forse sì, a livello di fotografie scattate, ma la parte che fece Ciro in quel sopralluogo, cioè quella descrittiva, è impeccabile. Voglio farti notare che al momento di dare inizio al sopralluogo dell’Idroscalo ancora non si conosceva l’identità della vittima e quindi tutte le immagini effettuate, che possiamo dire buone per l’epoca, non vengono scattate perché la vittima è illustre: ma perché la tecnica era quella, uguale chiunque sia la vittima. Ok, ti ho interrotto, per farmi perdonare ti offro un supplì alla prima occasione. Continua da dove ti ho lasciato”. No, Ninetto non ha notizie di Pier Paolo. Certo, sono stati a cena a San Lorenzo, al “Pommidoro”, vatti a ricordare

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che via era, massì era andato tutto bene, avevano parlato di questo film da fare, Pasolini aveva offerto a tutti pagando, come spesso faceva, con un assegno il conto di 11.000 lire, s’erano salutati nell’umidità della sera verso le 22.30 e, per quanto ne sapesse lui, Pier Paolo gli aveva detto che andava a casa. Ma a casa non c’è mai venuto, risponde Graziella. E non c’è più molto tempo. Graziella deve rientrare, farsi trovare al risveglio di Susanna, inventarsi che Pier Paolo non c’è perché ha passato la notte con Ninetto. Una bugia, per non farla preoccupare. Deve esserci una spiegazione, la troveremo, vero? Sì, deve esserci una spiegazione banale a tutto questo. Le grandi domande hanno spesso piccole risposte. Sono le 7,40, ora. Alla fine, Ninetto si veste, si infila l’impermeabile chiaro sopra il primo maglione a losanghe che trova e accende il motore: direzione, via Eufrate. La macchina si muove da sola. La testa è lontana. “Aspetta, ti interrompo – dico io, scacciando inquadrature di quella mattina del ’75, mentre alla sinistra sfila via la sagoma dei vecchi stabilimenti cinematografici De Paolis, chissà se Pasolini ci ha mai lavorato – nel frattempo la ragazza di Ostia, Lucia Visca, piomba all’Idroscalo e scopre di essere la prima giornalista ad arrivare sul posto. E va a sbattere subito nella Lollobrigida: «Fijetta mia, che te devo di’? Ho visto ‘n fagotto, pensavo monnezza. Era quer poveraccio. Ma te che fai qua? Nun te fa impressione, vattene a casa, cocca». Evidentemente, non la prende molto sul serio. Tanto ha sbiancato quando ha visto il corpo, la Lollobrigida, tanto s’è calmata adesso. E a ogni taccuino e microfono ripeterà con padronanza sempre la stessa storia. Ma dopo un po’ succede una cosa. Un agente raccoglie la camicia: usa un bastone, questa volta, per sollevarla. La guardano e riguardano in due, finchè gli occhi non cadono su una di quelle striscioline di carta, mezza ingombra di sangue, dove le lavanderie scrivono con quell’inchiostro indistruttibile il nome del proprietario… ‘63 Padolini’? Al dottor De Sabato, del commissariato di Ostia, gli sembra di leggere Pandini. A

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Ciro il cognome sembra Posdini. O è Pasolini? E tanto basta per far scendere Lucia nel fondo del fondo del centro della terra. Mio Dio”. “Ma allora i semafori verdi esistono ancora! – Grida Armando – Ok, tranquillo, adesso continuo io. Ti dico che succede. Masone arriva in via dell’Idroscalo. Sono circa le 8 quando calpesta la ghiaia mista a sabbia, avvicinandosi a quel grumo umano. Intorno, degli uomini in divisa blu gli fanno il saluto. C’è già una piccola folla all’Idroscalo. Necrofori, poliziotti, curiosi, abitanti. L’anello, quell’anello, lo trova un brigadiere, poggiato sulla terra, a qualche metro dal corpo: lo dà a Masone, che lo mette in un fazzoletto e se lo infila in tasca. «Dottore, il morto potrebbe essere Pasolini, guardi qui». Masone guarda per terra e vede che le tracce degli pneumatici si vedono e non si vedono; dipende dal terreno, più o meno compatto, più o meno fangoso. Ordina a quelli della Scientifica (niente tutine bianche, siamo nel 1975: uomini in giacca e cravatta, qualcuno fuma nell’aria fresca del primo mattino) di sbrigarsi. Si sta sollevando un po’ di vento e l’aria si sta riscaldando: la sua esperienza gli dice che se non si danno una mossa le tracce delle ruote si asciugheranno e cambieranno forma, restringendosi. E spedisce Iovinella a vedere se quelli delle baracche hanno visto qualcosa o no. Ah, e poi ci vuole qualcuno che identifichi il corpo”. “Ma lo sai che c’è qui dietro, no? Alla tua destra, dietro quei palazzi, ci sono via dei Crispolti, via Diego Angeli…”. “Non mi interrompere. Volevo dirti perché il calco delle impronte degli pneumatici non venne fatto… forse perché era troppo umido il terreno o forse perché in quel momento mancava il materiale per farlo, non lo potremo sapere più. Il fatto è che vennero fatte poche fotografie di quelle tracce, per esempio quelle che attraversano la porta di calcio del campo rudimentale, non vennero riprese fotograficamente ma vennero classificate sul descrittivo come: non definibili”. Mi sembra di vederli. Negli stessi momenti, Graziella sente il colpo di clacson e scende. Ninetto è arrivato. Dentro l’auto, sotto casa, cercano di capire dove ancora può essere cercato Pier Paolo: che posti frequenta? E perché diavolo non ha tele-

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fonato per avvisare né lui né lei che avrebbe fatto tardi, come fa sempre? Ma ora Graziella deve rientrare, sennò come spiegare l’inspiegabile a Susanna, che già pantofola per casa? Ninetto resta solo, seduto al volante. La strada vuota. I pensieri lasciano la bianca scia di un’elica. Ci sono i carabinieri lì, a un metro, vediamo se sanno qualcosa. E allora, pochi minuti ed ecco che stavolta è lui a chiedere notizie in viale Asia. Ormai sono le 8.30. Ma non c’è niente di nuovo. “Della partita ne vogliamo parlare? Ah, – fa Armando – più o meno alla stessa ora13, dei ragazzini iniziano a giocare – con tanto di arbitro – a pallone nell’altro campo di calcio, quello regolamentare, che sta parallelo a quello in cui ci stanno le tracce, la camicia e compagnia cantando. Tra le due aree, una recinzione. Un po’ come tra la vita e la morte che come sempre, anche quella mattina, si fanno compagnia, tra le grida che rincorrono un pallone e un cadavere a faccia in terra. Ce lo ha confermato Lucia Visca, ricordi? Non era lo stesso ‘campo rudimentale’ in cui aveva parcheggiato Pasolini. Era il campo Morandi14, credo fosse dell’Aics. Uno di quei campi dove giocavano tipo gli Esordienti, la Promozione, così ce lo ha descritto; solo che la palla usciva ogni tanto fuori e quindi la polizia la rimandava indietro, come verrà riportato sui giornali”. Ninetto sta quasi un’ora in caserma, disperato, a chiedere, a fare congetture con i militari. Finché una comunicazione della Centrale Operativa dice che è stato trovato un cadavere a Ostia, all’Idroscalo e forse dovrebbe andare a vederlo. Sono le 9 passate, adesso. Evidentemente carabinieri e polizia si sono parlati. Un cadavere. A Ostia. Il Giorno dei Morti. Intanto, i telefo13

Stabilire l’ora esatta dell’inizio dell’incontro è impossibile. Iovinella dice prima delle 8.45, Masone ricorda alle 9. Lucia Visca alle 9.30. 14

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Altri lo chiamavano “Primo Maggio”. Era lì dal 1968-69.

ni degli amici di Pasolini cominciano a squillarsi l’un l’altro, senza che nessun telegiornale abbia dato la notizia. Ninetto parte, la sua auto sull’Ostiense viaggia insieme a una Gazzella dei Carabinieri. Non è un buon segno. Sa di destino. Armando continua. “All’Idroscalo s’è ammassata altra gente, intanto. Gente che arriva dalle case vicine, attratta dal casino. La Scientifica ha finito e se ne va. Tutti camminano dappertutto, ci sono ragazzini a un metro dal cadavere, che lo studiano come a dire ‘ahò, questo è n’morto!’. Nessuno può sapere cos’ha dentro Ninetto mentre la sua auto mangia la strada per Ostia. Sarà andato piano per ritardare, avrà corso nella speranza di vedere un volto sconosciuto? La strada la sa, ci sono stati insieme a giocare a pallone anni prima e anche pochi mesi prima, in quello stesso campo, insieme ai tecnici di una casa di produzione. Lo stesso campo. Sembra una faccenda di un’ironia terribile. Poi, via dell’Idroscalo. Poi, l’imbocco della strada sterrata. Le auto della polizia e dei carabinieri. Qualcuno che chiede chi è, qualcuno che risponde lasciatelo passare. Un lenzuolo macchiato di rosso che si solleva. Il dramma si compie. Sono le 10.30. Ninetto si porta le mani al volto. Sì, è lui. Pier Paolo Domenico Giulio Pasolini, nato a Bologna in via Borgonuovo 4, alle 6.30 del mattino del 5 marzo 1922. E qui comincia tutto”. “Mamma mia. Dev’essere stato allucinante. I singhiozzi di Ninetto mischiati con le grida di altri ragazzini in tuta, che un quarto d’ora prima hanno avuto da Masone il permesso di giocare a pallone nella metà campo non interessata ai rilievi”. “Esatto, e questa è la partita numero due. Tanto, la Scientifica ha finito. Sotto il cadavere e intorno la sua testa hanno trovato un mare di schegge di legno. Vengono da un paletto – cui manca un pezzo – che si è frantumato lì. Oh, ma una partita di pallone, ci pensi? Un’altra ironia aspra, per uno che in quella come in qualsiasi partita, voleva sempre esserci e ci giocava l’anima e la vita”.

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“Mi spieghi come si giustifica tutto questo?”. “Non c’è una vera giustificazione, sicuramente sono altri tempi, con un numero di omicidi diverso, più alto di adesso. La linea che si seguiva allora era di finire i rilievi e, fammi passare il termine, togliere il disturbo. Non esisteva, come abbiamo detto più volte, il DNA, quindi una volta completati i rilievi descrittivi non c’era nessun motivo di presidiare la zona, di salvaguardarla da successivi accessi o sopralluoghi. Si finiva il sopralluogo e si andava addirittura via prima che la mortuaria rimuovesse il corpo. Altri tempi. È facile pensare oggi che questo modo di gestire la scena del crimine fosse dovuto ad incompetenza, lassismo o pigrizia. Ma allora tutti gli omicidi, chiunque fosse la vittima, si trattavano così15”. “Intanto, il vento si fa sempre più forte. Smuove la polvere secca delle impronte dell’auto, le confonde, le modifica. Le porta via, chissà dove. Le porta via insieme alle grida dei ragazzini, forse verso il mare”. “Sì, ma adesso lascia stare la letteratura, che poi dicono ‘attenzione ai colpi di sonno quando si guida’; e torniamo al delitto”. “Ok, va bene. Allora, questo è un momento di snodo di tutta la storia. I carabinieri informano la polizia che, se quello è Pasolini, beh, l’auto dello scrittore ce l’hanno loro a pochi chilometri, nel cortile della caserma di via dei Fabbri Navali. Ce l’hanno e hanno fermato pure quello che la guidava: un diciassettenne, Pelosi Giuseppe. Pasolini, ragazzino, Idroscalo. È fatta. Tutto chiaro. Non resta che fargli confessare quello che è successo, quel massacro che ha combinato. Chissà per cosa, poi. Però, certo: Pasolini, ragazzino, Idroscalo. Ma che vuoi che sia successo, scusa? Masone si allontana col colonnello Vitali dei carabinieri per andare a riferire al giudice e per andare, tutti quanti, a interrogare subito questo Pelosi, che sta dormendo a Casal del Marmo, in cella”. 15

Se rivedete le scene del crimine di tutti i delitti del Mostro di Firenze, tanto per dirne uno, vi accorgerete che, fino a quello del 1984, su ognuna pascolavano tranquillamente tutti. Proprio come all’Idroscalo.

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“E la faccenda dell’auto? Quando succede?”. Chiede Armando cercando di ricordare qualcosa che non ricorda più. “Oh, non ci dimentichiamo dei soldi trovati in auto: due libretti di assegni, lo 037 con 4 cedole e lo 055 con 6 cedole. Poi 51.000 lire, di cui 16.000 nel giaccone grigio di Pasolini, 30.000 sotto il tappetino del posto di guida (in biglietti da 10.000: due spuntano un po’ e sono asciutti, il terzo umido e sporco di terriccio è proprio sotto il tappetino) e altre banconote semicoperte dal tappetino del posto del passeggero: 5.000 lire (in biglietti da 1.000 lire). Buffo anche questo”. “Inconsueto, come minimo. Ma troverà una spiegazione. Nelle stesse ore raggiunge l’Idroscalo anche un altro giornalista. Si chiama Furio Colombo, arriva col regista Michelangelo Antonioni e scrive per ‘La Stampa’. Il suo articolo uscirà il 4 novembre, ma contiene una bomba di cui la polizia non si accorge nemmeno: o meglio, cui non dà la minima importanza. Il giornalista ha parlato con uno di quelli che s’è trovato davanti, un certo Salvetti16: sopracciglia spesse, baffi, capelli bianchi all’indietro con l’onda, un tipo robusto, collo largo, che dice di abitare lì e di aver sentito come abbaiavano i cani e che erano in tanti. «Io vivo qui. Sono pratico della vita qui dentro. Ho visto com’era, al mattino». In tanti? Come sarebbe a dire, in tanti? Ma, quando Moreno Marcucci de ‘Il Messaggero’ va dal teste, due giorni dopo, si sente dire: «No, io non ho sentito nulla; d’altra parte uscii di casa alle 22 e tornai alle 2.30 di notte per andare a pescare col bilancino, alla foce del Tevere. Proprio non posso dire niente». Salvitti, insomma, non vuole mettersi nei guai per nessun motivo al mondo. Ha moglie e figli, altro che”. Il cielo è cupo, la Tiburtina si restringe. La caserma Ruffo. Via dei Carri Armati, chissà chi ci abita. “Dicevo? Ah, sì, intanto Cuzzupè, al bar, si sbottona con la Visca, che ha già scoperto che l’auto nel cortile della ca16

Colombo lo indicò come “Salvetti” nel suo pezzo, ma aveva capito male. Il cognome esatto era Salvitti, come vedremo dopo…

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serma è ‘di un certo Pasolini’, come ha detto il piantone, senza sapere di chi sta parlando. Cuzzupè: «Stanotte, abbiamo preso un ladro d’auto. Non stava fermo. Si chiama Pelosi Giuseppe, è minorenne, sta già a Casal del Marmo». Auto. Ladro d’auto. Cadavere. Ma allora è lui che… e per la prima volta il nome di Pelosi esce dalla penna di un giornalista”. Cadavere. E adesso, il problema è come dirlo a Susanna, la madre di Pier Paolo. In qualche modo ha capito, perché Graziella, la trentaduenne cugina del poeta, che vive con loro dal 196217, è sconvolta. E cos’è tutta quella gente che piange e si abbraccia, quel campanello che suona e suona e suona, come una campana che ha perso la sua voce sacra? E chi glielo dice? Chi avrà il coraggio di dire a Susanna che, 30 anni dopo la morte di Guido18, il primo figlio, ora anche Pier Paolo, l’amatissimo figlio, il dolcissimo figlio, a cui tutto perdonare e da cui tutto farsi perdonare, è corso ad abbracciare la nera signora? È Laura Betti a prendersi la vita tra le mani e dirglielo. Lei, che è così fragile e così forte. Quando firma la delega a rappresentarla all’avvocato Nino Marazzita, Susanna piange. Quella firma è per accettazione della morte dell’unico figlio rimastole. Il resto, tutto il resto della vita da vivere – se vita potrà essere chiamata – sarà solo la lunga attesa di una nuova morte: un rifugio nella follia e nel passato. È Armando a richiamarmi ancora alla realtà. “Mi rileggi la prima deposizione di Pelosi?”. “Ah, sì, certo, eccola qua, aspetta un attimo. Sono le 12.40 del 2 novembre, e mentre Maria Teresa Lollobrigida offre gnocchi e vino bianco ai giornalisti che stanno ancora davanti casa sua, inizia l’interrogatorio di Pelosi Giuseppe a Casal

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Cioè da quando era venuta a Roma per fare l’università.

Guido Pasolini muore nel febbraio 1945 durante l’eccidio di Porzus: partigiani contro partigiani.

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del Marmo (1975/1)19. «Mi trovavo con gli amici Salvatore, Claudio e Adolfo detto ‘Lo Sburacchione’20, perché ha il viso pieno di foruncoli, di cui non conosco i cognomi e che però sono in grado di rintracciare, alla Stazione Termini verso le ore 22; ci si è avvicinato un signore con gli occhiali sui 35-50 anni, col volto magro, di media statura, a bordo di un’autovettura. Il signore era a bordo dell’auto ‘Alfa Romeo GT’ sulla quale sono stato poi trovato e arrestato questa mattina. Sceso dall’auto venne incontro a un mio amico. In particolare quel signore ha parlato con l’amico Adolfo e ho sentito che gli diceva: ‘Ci facciamo un giro’21. Il mio amico rideva e io ho capito che quel signore era un ‘frocio’. Io mi sono allontanato e sono andato al chiosco-bar di piazza dei Cinquecento all’angolo con piazza Esedra. Dopo pochi minuti quel signore è arrivato in macchina davanti al bar, è sceso dall’auto e mi è venuto incontro. Io mi trovavo sulla porta. Ha fatto anche a me la proposta di fare un giro in macchina dicendo che mi avrebbe fatto un bel regalo. Non mi ha fatto proposte concrete anche se io avevo più o meno capito che cosa volesse da me. Mi ha portato in una trattoria vicino alla Basilica di San Paolo, e precisamente sul raccordo che conduce sul viale Marconi e sullo svincolo per Ostia Lido. Mi ha detto che era un cliente della trattoria, infatti lì lo salutavano tutti (…). Nell’osteria non mi ha fatto proposte, ma mi ha parlato amichevolmente, ha voluto sapere del mio lavoro. Siamo stati insieme dalle ore 23 alle 23.20 nella trattoria, poi siamo risaliti in macchina. Il signore ha fatto benzina presso un SelfServ e poi ha preso una strada, anzi precisamente l’Ostiense, e cioè quella alberata e con reticolati. 19

Le classificazioni tra parentesi, da qui in poi, riferite alle deposizioni, le ritroveremo nei capitoli successivi. Ci serviranno per confrontare le deposizioni tra loro. 20

Sono Salvatore Deidda, Claudio De Stefanis e Adolfo Seminara. Li conosceremo meglio. 21

Qui Pelosi sta avvalorando l’idea dell’incontro occasionale tra Pasolini e i ragazzi.

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Strada facendo mi ha detto che mi avrebbe portato in un campetto isolato, che mi avrebbe fatto qualcosa e che mi avrebbe dato lire 20.00022. Nel dire questo mi toccava le gambe (…). Il luogo è quello descritto, e preciserò meglio quello che ivi è accaduto. Ricordo infatti che il Paolo23 lasciò la strada asfaltata e si addentrò in un viottolo a terra battuta, e si è fermato con l’auto vicino alla porta da calcio. Ricordo che in vicinanza c’erano delle baracche in muratura. Inizialmente, in macchina, il Paolo mi ha preso il pene in bocca per un minuto circa ma non ha completato il ‘bocchino’, dicendo di uscire fuori dall’auto. Mi ha fatto poggiare a una rete metallica di recinzione e mi è venuto dietro premendosi a me da dietro e cercando di abbassarmi i pantaloni. Io gli ho detto che la smettesse e lui invece ha raccolto un paletto del tipo di quelli che recingono i giardini e voleva infilarmelo nel sedere, o perlomeno me lo ha appoggiato contro il sedere senza nemmeno abbassarmi i pantaloni. Io ho afferrato un pezzo di legno, mi sono girato e gli ho detto: ‘Ma che ti sei impazzito’. Il Paolo si era tolto gli occhiali che aveva lasciato in macchina, e nel vederlo in viso mi è sembrato con una faccia da matto tanto che ne ho avuto proprio paura. Io sono scappato in direzione della strada asfaltata sul terreno fangoso mentre il Paolo mi inseguiva. Siccome portavo ai piedi le stesse scarpe con i tacchi alti che ho in questo momento, ho inciampato e sono caduto. A questo punto mi sono sentito addosso il Paolo che si agitava alle mie spalle, io ho capito che voleva ricominciare e mi sono rigirato divincolandomi, e allora il Paolo mi ha colpito alla testa col bastone proprio nel punto dove ho il cerotto e dove mi è stato dato un punto di sutura al Pronto soccorso 24. 22

Nel giro si sapeva benissimo che il sesso orale veniva pagato 2.000 o 3.000 lire. 23

Da notare che quello che all’inizio del verbale era uno sconosciuto adesso viene chiamato familiarmente per nome. 24

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Evidentemente, arrivato in cella, Pelosi si rende conto che questo sangue

Io a mia volta, dopo avere ricevuto il colpo, ho afferrato il bastone con le due mani e sono riuscito a scaraventare lontano da me il Paolo. Sono nuovamente fuggito e sono stato nuovamente raggiunto; il Paolo mi ha colpito col bastone, ora ricordo. Era un paletto verde, e mi ha colpito alla tempia, alla testa e in varie parti del corpo. Io ho visto per terra la tavola con la scritta di cui ha detto prima il dottor Masone e gliela ho rotta in testa, ma questo non è servito a farlo smettere. Sembrava che non avesse sentito niente e sembrò non sentire nemmeno due calci nelle palle. Allora gli ho afferrato i capelli, gli ho abbassato la faccia e gli ho dato due calci in faccia. Il Paolo barcollava, ma ha trovato ancora la forza di darmi una bastonata sul naso. Allora non ci ho visto più e con uno dei due pezzi della tavola di cui ho detto prima l’ho colpito di taglio più volte finché non l’ho sentito cadere a terra e rantolare. Allora sono scappato in direzione della macchina, portando con me i due pezzi di tavola che ho buttato e anche il paletto verde che ho pure buttato vicino alla rete e vicino alla macchina. Subito dopo sono salito in macchina e sono fuggito con quella. Ero stravolto e ho impiegato del tempo per metterla in moto e per accendere le luci. Nel fuggire non so se sono passato o meno con l’auto sul corpo del Paolo. Descrivo le manovre che ho fatto con l’auto. L’auto era col muso rivolto alla rete di recinzione e con il ‘culo’ alla porta di calcio. Ho ingranato la retromarcia e sono passato sotto la porta, e poi ho fatto la conversione curvando a sinistra. Ripeto che nel guidare non ho fatto caso a nulla: la macchina sobbalzava perché il terreno era pieno di buche». (…) «Io non ho investito volontariamente il corpo del Paolo e nemmeno ricordo di esserci passato sopra con l’auto inavvertitamente. Ero sotto shock e non capivo niente. Ricordo solo che sulla strada alla prima fontanella mi sono fermato per lavarmi e togliermi le macchie di sangue che avevo indosso». Il colonnello Vitali riferisce, per quanto appreso a sua volta può servire. Così, quando vede il giudice Tranfo, lascia perdere di aver picchiato contro il volante al momento dell’arresto, come ha detto ai Carabinieri, e dice che è stato Pasolini.

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dal personale operante, Carabinieri di Ostia, che subito dopo l’arresto il Pelosi chiese di cercare in macchina un anello, e che un anello fu poi rinvenuto vicino al cadavere. Contestata la circostanza, il Pelosi risponde: «Io cercavo le sigarette, l’accendino e un anello mio: si tratta di un anello d’oro con pietra rossa, a fianco della pietra ci stavano due aquile e tutt’intorno la scritta ‘United States of America’». (…) «L’anello è mio, l’ho comprato da uno ‘stuart’ che lo ha portato dall’America25. Ripeto che i fatti sono quelli da me narrati e che ho agito per difendermi e che ho colpito duramente quando ho avuto l’impressione che il Paolo mi volesse proprio ammazzare per come si stava comportando. Durante i fatti che ho descritto ero solo, anzi siamo stati sempre solo io e il Paolo dal momento in cui abbiamo lasciato l’osteria fino a quando è successo quello che è successo»”. “E tutto questo lo dice al giudice ordinario, giusto?”. “Chi ascolta questa deposizione è Luigi Tranfo, magistrato ordinario e non dei minori26: resiste ancora il dubbio che l’omicidio sia stato compiuto dal minore Pelosi insieme a sconosciuti maggiorenni; e in quel caso, addio Minori. Pelosi sarebbe finito in Corte d’Assise. Roba tosta. Ma Tranfo, dopo questo interrogatorio, si convince subito che il ragazzino abbia fatto tutto da solo e passa la palla ai Minori. Una valutazione che negli anni a venire si dimostrerà tragicamente sbagliata. E che mostrava tutti i suoi limiti già in quelle prime ventiquattr’ore. A ben vedere”. “Comunque Tranfo ordina l’isolamento di Pelosi. Che a Casal del Marmo non si può fare. E allora portano il ragazzino a Regina Coeli. Però adesso parliamo dell’anello, mi interessa: martedì 11 novembre gli inquirenti glielo faranno mettere e poi vedono se si sfila. Non si sfila, è impossibile. A maggior ragione in una colluttazione, perché i pugni li tieni 25

Lo steward è un suo ex vicino di casa di via Diego Angeli 6, Aldo Chiovoloni, 27 anni, che non è però certo che l’anello sia quello. Diversi giornalisti hanno ipotizzato che l’anello gli fosse stato dato da Johnny Mastini, un suo amico di cui parleremo dopo, ma non esiste prova di questo. 26

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Un magistrato stimato, che ha concluso la sua carriera in Cassazione.

chiusi… Ma non è l’unica cosa che appare e scompare dalla terra e dalla ghiaia dell’Idroscalo, no? Nell’auto, sotto il sedile del passeggero, viene trovato un plantare per scarpa destra e un maglione verde sul sedile posteriore”. “Oddio, maglione è una parola grossa. È difficile immaginare che qualcuno possa aver indossato una roba del genere, così rovinata, smagliata. Così sporca di grasso sul sedile posteriore che fa pensare ad un’officina, che so, un meccanico, un carrozziere, un operaio. Però non dobbiamo vedere questa faccenda con gli occhi di oggi: nessun ragazzo lo indosserebbe. Allora tutta ‘sta cosa della moda non c’era. Di Pelosi comunque non è; e d’altronde era già imbottito come l’omino Michelin, quella sera, che con un altro maglione addosso non ce l’avrebbe fatta a muoversi. E allora di chi è? Chi si è tolto un maglione e peggio ancora, un plantare – un plantare! – in una fredda notte di novembre?”. “Se lo sapessi avrei vinto il Nobel. Ma questi dubbi erano di poca gente, in fondo. All’ora di pranzo, sulla Rai, il caso è già stato risolto e viene servito tra il primo e il contorno, in un tintinnare di posate e di gente che si pulisce col tovagliolo. L’ingessatissimo telegiornale fa apparire nel bianco e nero d’ordinanza la figura occhialuta di Luigi Vannucchi, che legge agli italiani come sono andati i fatti. Alle 20.30 Marco Raviart dà invece la versione di Pelosi, subito presa per buona e mischiata con l’onnipresente Lollobrigida. Si dirà: succede anche oggi. E certo, ma è di questo delitto che parliamo e qui nessun investigatore aveva ancora scambiato mezza parola con Deidda, con De Stefanis, con Seminara! Se per caso qualcuno di loro voleva adeguarsi alla versione ufficiale, il piatto era servito. A Marazzita non sarebbe restato, il giorno dopo, che inviare un telegramma per protestare contro questo danno irreversibile, quando era palese che solo dalla Procura stessa poteva essere uscita la versione di Pelosi, parola per parola, colpo per colpo, sangue su sangue”. “A proposito di sangue. Sono le 15,30 del giorno dopo, quando all’Obitorio di Roma un cadavere viene estratto dalla cella frigorifera. È martoriato. C’è il giudice Giunta, c’è l’avvocato Manca per Pelosi, ci sono i periti del PM, due do-

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centi di chiara fama, come si dice: Giancarlo Umani Ronchi e Silvio Merli; e uno specialista in medicina legale, Enrico Ronchetti. È un’autopsia importante. Il corpo lo riconoscono Nico Naldini (il cugino di Pasolini) e Umberto Angelucci (l’aiuto regista). Poi, inizia una delle autopsie che faranno la Storia Nera del Novecento italiano”. In quelle prime ore l’opinione di molti è chiarissima: sono stati i fascisti. D’altronde, loro con Pasolini avevano un conto aperto da anni: 22.09.62, aggressione da parte di Serafino di Luia. Pasolini prima querela, poi lascia perdere. 13.02.64, aggressione da parte di Paolo Pecoriello, Flavio Campo e Adriano Romualdi. Pasolini non sporge querela. 11.11.64, aggressione da parte di ignoti al circolo culturale ‘Francesco De Sanctis’. Pasolini non sporge querela. E ancora nel 1969, a Zafferana Etnea (Catania). “Passiamo adesso al secondo interrogatorio, quello del 5 novembre 1975 (1975/2). «Mi trovavo in compagnia dei miei amici Claudio Seminara, Adolfo De Stefanis, e di tale Salvatore di cui non conosco il cognome e che la S.V. mi dice chiamarsi Deidda27, anche se io non ho mai sentito chiamarlo con tale cognome. Sono stato in compagnia degli stessi la mattina in via Lanciani a conversare del ballo che doveva aver luogo nel pomeriggio verso le 15.30 o le 16 in casa di un nostro amico di nome Sergio – di cui non ricordo il cognome28 – annesso al quale vi è il forno gestito dallo zio di tale Sergio. Infatti verso le ore 15 ci siamo incontrati in via Lanciani e siamo andati a ballare in detto locale. (…) Siamo rimasti nel locale da ballo fino alle 19 o alle 19.30. Quindi a bordo della mia Fiat 850, pilotata da Seminara Claudio, in possesso di patente, abbiamo accompagnato alcuni amici al cinema, o meglio abbiamo seguito alcuni amici che si recavano a piedi al cinema Bologna, dove era programmato il film ‘A tutte le 27

Ovviamente Pelosi sa benissimo il cognome dei suoi amici, ma finge di cadere dalle nuvole per non coinvolgerli. 28

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Si tratta di Sergio Frontoni.

auto della polizia’. Quindi abbiamo proseguito, sempre in macchina, avviandoci verso il centro e precisamente in piazza Esedra, dove al cinema Moderno, o Modernetta, se ben ricordo, veniva programmato lo stesso film». A domanda risponde: «Non abbiamo visto il film al cinema Bologna perché volevamo portarci verso il centro per aver modo di circolare un poco sulla macchina. Era appena incominciato il 2° tempo del film quando siamo entrati nel cinema tutti e quattro, e potevano essere circa le ore 20.10-20.15. In verità non posso dire, perché la memoria non mi aiuta, se è stato quella sera che siamo andati al cinema Modernetta o Moderno a vedere ‘A tutte le auto della polizia’, ovvero ci siamo recati in quel cinema la sera prima29. Forse la sera del delitto, arrivati in piazza dei Cinquecento siamo andati in giro a piedi per la piazza a passeggiare dopo aver parcheggiato la macchina al marciapiedi antistante al bar sito all’angolo di via Einaudi, o meglio, poiché non ricordo il nome di detta via, si tratta di un bar-tabacchi che sta proprio all’angolo dove la strada gira per piazza Esedra30. Faccio presente che i miei ricordi sono molto confusi dato che sono ancora scosso per l’accaduto e sogno ancora quello lì tutte le notti. Mi ricordo però esattamente di essere entrato nel bar insieme a uno dei tre amici, che non so individuare, dato il ricordo confuso che ho della circostanza, e lì ho consumato una tazza di tè. Uscito dal bar, per dieci minuti mi son messo a conversare con Claudio Seminara, e mentre conversavo ho notato un gruppo di tre o quattro ragazzi, tra cui vi era anche uno dei miei tre amici, e del quale non so specificare l’identità, che parlavano con un uomo che se ne stava dentro un’autovettura di colore metallizzato. Non ricordo precisamente l’ora in cui ho notato il gruppo di persone conversare con lo sconosciuto che se ne stava dentro la macchina e col quale conversava anche il mio amico. Sono rientrato di nuovo nel bar, da solo, per consumare un altro tè, e quando sono uscito sul marciapiedi ho notato 29

E per fortuna sta parlando di fatti avvenuti quattro giorni prima!

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È il bar “Dei”, oggi solo tabaccheria. Meglio noto come “Gambrinus”.

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che l’autovettura metallizzata con l’uomo al posto di guida, che avevo visto prima, rasentando il marciapiedi si avvicinava verso di me. Quindi, facendomi un gesto con la mano per farmi avvicinare, mi diceva le testuali parole: ‘Vuoi venire con me a fare un giro che poi ti faccio un regalo’? Io, aderendo all’invito, sono entrato in macchina mettendomi a sedere al suo fianco. L’uomo mi ha chiesto: ‘Dove vogliamo andare’? Io gli ho risposto: ‘Dove vuoi’. Infatti la macchina si è avviata in direzione di via Nazionale. Lungo il percorso mi ha interpellato dicendomi: ‘Che cosa vogliamo fare? Che programmi hai’? Io risposi che avevo fame e volevo mangiare. Al che lui replicò che conosceva una trattoria: anche se era tardi, lui era cliente, e si poteva andare a mangiare anche a quell’ora. Ho proposto all’uomo di ritornare al bar per prendere le chiavi31 di casa e della mia macchina che avevo affidate al mio amico Claudio. Lui è rimasto contrariato dalla mia richiesta, dato che eravamo un poco distanti dalla Stazione e dovevamo tornare indietro fino al bar. L’ho convinto però, e siamo ritornati al bar. Ho chiesto allora le chiavi di casa e dell’auto al Seminara, dicendogli che andavo in compagnia dell’uomo con la macchina metallizzata, senza dirgli dove andavo e aggiungendo altresì che se avessi fatto tardi poteva prendere la macchina, dato che aveva altre chiavi, e che poteva lasciarla sotto casa sua dove io l’avrei presa. Ho sentito una persona che ad alta voce mi avvertiva di non andare con l’uomo della macchina. Dal timbro della voce però non si trattava di uno dei miei tre amici, che mi dava l’avvertimento. Intanto l’uomo dall’interno dell’autovettura, che si trovava distante dai miei amici circa una quindicina di metri, mi faceva segno con la mano di affrettarmi». A domanda risponde: «(…) L’uomo mi ha portato in una trattoria sita nei pressi della Basilica di San Paolo e dove non ero mai stato prima di allora, né la conoscevo per sentito dire. Ricordo che l’uomo, mentre si avviava con la macchina 31

Il vicebrigadiere Vitale ricorda che Pelosi al momento dell’arresto aveva 3-4 chiavi. Non ricorda se fossero per auto o per casa e che portachiavi avessero.

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verso la trattoria32, mi ha detto che era un po’ tardino, dato che erano le 23. Non ricordo però se nell’indicare l’ora ha guardato l’orologio. Durante il percorso dalla Stazione alla trattoria l’individuo mi ha chiesto se lavoravo e che genere di lavoro facessi. Alla mia risposta che dovevo andare a lavorare il prossimo lunedì in una salumeria, che dovevo alzarmi presto per raggiungere il posto di lavoro da ‘Setteville’ alla ‘Storta’ l’uomo ha ammesso che si trattava di un lavoro faticoso, date le ore scomode di partenza e di arrivo e la distanza da percorrere. Contemporaneamente mi toccava con la mano destra i genitali, e poiché io gli resistevo, respingendo la mano, egli insisteva dicendomi: ‘Dai, stacci che poi ti darò 20.000 lire, e adesso ti porto anche a mangiare’. Io mi trovavo senza una lira e l’ho lasciato fare. Entrati in trattoria mi sono accorto che l’uomo era un buon cliente dato che era ossequiato e salutato dal padrone e dai camerieri e che, anche se era tardi e la trattoria era senza clienti, il gestore si premurò subito a ordinare la mia richiesta di un piatto di spaghetti all’olio e peperoncini e il petto di pollo con una birra. L’uomo non cenò, dicendo che aveva già mangiato e si limitò a bere un bicchiere di birra. Alla fine del pasto l’uomo tirò fuori una banconota da 10.000, che io notai distintamente, però non posso precisare a quanto ammontasse il conto. Dopo di che siamo risaliti in macchina, dirigendoci sulla via vecchia di Ostia e dopo circa un chilometro ci siamo fermati a un distributore automatico, e precisamente vicino all’Alfa Romeo di San Paolo33. Sono sceso anch’io aiutandolo a far benzina, e mentre lui teneva in mano la pompa, io infilavo 4.000 lire nella cassetta della colonnina, che lui mi aveva consegnato. Mentre la macchina si avviava sulla vecchia strada di Ostia, l’uomo mi ha fatto presente che si dirigeva verso Ostia 32

È il “Biondo Tevere”, in via Ostiense.

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Nel 1975 era una pompa della Mobil, oggi è un Q8; sempre in via Ostiense 397, a circa un chilometro e mezzo dal ristorante.

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dicendomi che conosceva un posticino dietro un campetto di calcio. Infatti la macchina scantonava per una traversa dirigendosi verso un campetto e poi proseguiva per una stradetta e quindi camminando ancora un poco per un prato si è fermata vicino a una rete di recinzione, con la parte anteriore verso la rete metallica. La zona era completamente al buio e a me era perfettamente sconosciuta34». “Da qui in poi il racconto dell’aggressione è lo stesso di tre giorni prima. «Mi sono fermato a una fontanella sita alla fine della strada per lavarmi il viso che era tutto insanguinato come pure le mani che erano coperte di sangue. Poi sono giunto sul lungomare di Ostia dove sono stato fermato dai carabinieri». E conclude dicendo che non sapeva che fosse Pasolini, né che lui gli ha detto il suo cognome. Solo il nome: Pier Paolo. Lo stesso giorno Merli, Ronchetti e Umani Ronchi visitano Pelosi: è alto 171 cm e pesa 59 kg, prova dolore se gli toccano il naso (non si capisce bene in che punto). Segue un elenco dei posti che, dopo l’immane lotta per la vita con Pasolini, gli fanno male: qualche piccola escoriazione alle mani, qualche ecchimosi all’avambraccio destro. Una crosticina sopra il sopracciglio sinistro. Coscia destra, piccola ecchimosi e tre escoriazioni. Una piccola escoriazione a un dito della mano sinistra. Tutto a posto, allora? Manco per niente. Anche perché lo stesso giorno l’Agi anticipa l’articolo che tra quarantotto ore farà il botto”. “Quale articolo?”. “Ma come, quale articolo? Hai la memoria di un pesce rosso. L’articolo che commentavamo ieri, quello della Fallaci, una cura di fosforo proprio no?”.

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Oddio, un dubbio c’è. Come fa giustamente rilevare Marco Tullio Giordana, quando viene arrestato il 6.11.74 per furto, Pelosi è tra gli altri insieme a un Antonio Marenghi, classe 1957. È parente di quel Claudio Marenghi, classe 1941, che dormiva nella sua baracca all’Idroscalo, quella notte? La risposta la sappiamo solo oggi: sì, era lo zio. All’epoca, nessun poliziotto ha approfondito.

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Il giorno dopo – è il 6 novembre, adesso – Pier Paolo Pasolini, incurante e lontano da tutto il bordello che sta succedendo, ritorna a Casarsa, in Friuli. Un ritorno definitivo. Novembre è lo stesso, quasi le nubi e l’azzurro abbiano voluto accompagnarlo da Roma. Sono le otto del mattino. Ci sono soldati delle caserme, militanti in tuta blu, il gonfalone del Comune, un bambino portato in spalla dal padre, facce di campagna. Ci sono migliaia e migliaia di persone, perché il mondo s’è fermato. Ecco, questo sorprende di quel giorno. Fu l’altro lato della cerimonia degli addii: a casa sua c’è la gente comune. La gente buona e semplice. Gli amici come Bertolucci, Moravia e gli altri l’hanno già salutato nella cerimonia di Campo de’ Fiori, il giorno prima35. Qui si capovolge tutto. Sotto lo stesso cielo, ma con mani callose e nodose, abituate a lavare panni, ad arrivare a sera per sentirsi stanche, senza avere nemmeno il tempo di pensare troppo a che senso abbia questo vivere. Altre mani, altre genti ma tutte toccate da qualche parte, in qualche vena invisibile, da quelle parole, da quei versi, dalla voce puerile di un poeta. L’immensità del dramma è abbagliante. Pochi piangono, tutto è un silenzio pesante, solo i passi sulla ghiaia di migliaia di storie. Ci sono amici del passato e gente sconosciuta, fotografi e cineoperatori36. E folla, una massa di gente che a un certo punto prende a correre dai campi che ancor oggi sono di fronte al piccolo cimitero, perché è urgente esserci. Nel casino, si riconoscono, ci stanno Sergio Citti, Ninetto Davoli, Laura Betti, Susanna, Graziella e un frate senza cappello, David Maria Turoldo (poeta e di quelli bravi) che leggerà l’orazione funebre. Il sindaco di Casarsa, con la faccia ingrugnata e i baffoni. E Susanna; devono tenerla per il braccio. Susanna, con la testa piegata, col velo nero. La porta Laura Betti, lo sguardo dietro occhialoni neri. La vedi subito, con quel poncho chiaro sulle spalle e lo sforzo di essere forte. 35

La camera ardente era stata invece allestita nella Casa della Cultura del Pci di Largo Arenula. 36

Tra loro anche un barbuto Miran Hrovatin, che non sapeva ancora che, per fare il suo lavoro, sarebbe stato ucciso con Ilaria Alpi in Somalia nel 1994.

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Perché il cimitero, per Susanna, è lo stesso in cui era entrata con lo stesso vestito nero. Era, allora, un giorno di giugno del 1945. Il corteo era piccolo, mesto, la bara coperta dalla bandiera tricolore che si riserva ai caduti. Dicono sia l’estremo saluto, ma si smette mai di salutare chi ci ha lasciati? Pier Paolo vestito con l’abito chiaro, che sorreggeva la madre, tenendo gli occhi fissi sulla bara color noce. E ora un altro prete da seguire, un’altra bara da seguire, anche stavolta color noce, i fratelli si sono dati il cambio, ma la bara è la stessa, per Susanna, quella della terza morte, ma non è Pier Paolo, a tenerla. Non c’è molto da dire. Padre Turoldo ha dei fogli in mano e una voce profonda. Davanti a lui un microfono e la bara – sopra ci hanno messo la maglia numero 11 della Nazionale Italiana Spettacolo, in cui Pier Paolo giocava da ala e la corona di fiori con scritto “la mamma”. La folla è ovunque. “Cercherò di dirvi quello che posso e come posso. (…) Mamma, è a te che scrivo con tono sommesso e senza rancore. Potrei lasciare libero sfogo all’odio e alla maledizione, ma a che serve? (…) C’è troppa violenza su Roma. Non c’è più un fiore che sbocci in questa periferia romana e non un alito di vento che ne spanda il profumo; non un fanciullo con la faccia pura; non un prete che preghi… E le messe a piazza San Pietro servono a poco, né convincono molti a credere che sia questo davvero un anno santo, e che Roma è la città di Dio… c’è solo gente ingrumata e torva, gente che urla dalle baracche, oppure gioventù che pensa a strappare e uccidere, caricando la ragazza morta nel bagagliaio37e l’altra viva appena, per poter raccontare come ‘finalmente ce l’hanno fatta’ ad ammazzare. Mamma, ti parlo per lui che ora ha la bocca piena di sabbia e di polvere, che non ti può più chiamare: ma ha tanto bisogno di te, mamma; come l’ha sempre avuto lungo tutta la sua martoriata vita. 37

Padre Turoldo si riferisce al massacro del Circeo, quando alla fine di settembre dello stesso anno, tre ragazzi (Ghira, Izzo e Guida) avevano picchiato e abusato per 24 ore di due ragazze (Colasanti e Lopez), ferendo gravemente la prima e uccidendo la seconda. Poi avevano i corpi nel bagagliaio dell’auto e se ne erano andati a mangiare, stanchi, in pizzeria, finchè i lamenti della Colasanti avevano attratto l’attenzione della polizia.

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(…) Ed era così bisognoso di amicizia, come appunto è il mio Friuli, così solo. E gridava ai quattro venti le sue contraddizioni e i suoi peccati (…). Così, avendo finito il tuo compito di angelo protettore di un figlio tanto fortunato e sfortunato insieme; un figlio divorato dalla stessa vita che gli hai dato. (…)”. Il Friuli che crede nel destino, il Friuli che non ti disturba ma è accanto, sta tutto in quel piccolo cimitero di paese. In quel novembre che ancora non si fa inverno. I bambini sono stati portati al cimitero, anche se non hanno ben capito perché. Alcuni fanno capolino da sotto le corone di fiori, che sono un’infilata bella lunga. E poi le macchine fotografiche che scattano, le cineprese che ronzano. Tutto quel bordello, così inopportuno, così necessario. E poi la gente, la gente, la gente, la gente. Coi pantaloni a zampa d’elefante, coi maglioni a collo alto, coi giacconi corti, col grande colletto della camicia fuori dalla maglia. Facce e anime in bianco e nero. Vincenzo Cerami che guarda in basso, gente sotto, intorno, fino a che il muro del cimitero non dice basta. La gente. Poi arriva il momento. Quello in cui la bara va infilata nel loculo38. I necrofori spingono, i parenti sollevano, la bara comincia a entrare. Laura Betti si piega sulle ginocchia, le macchine fotografiche si abbassano per un attimo. Susanna si piega, porta il fazzoletto al viso, fissa la bara come fosse un punto lontanissimo. È in quel momento che Ninetto non ce la fa più, scoppia a piangere, si avvicina, come se tutto solo allora gli diventasse reale. Come un appuntamento rimandato. Si toglie l’impermeabile chiaro di colpo, lo getta sulla bara. “A Pierpà, c’hai freddo? Pierpà! Pierpà!”. Com’è lontano quel mondo di magneti, di miracoli, di sassi sulle rive del grande fiume, di piccole creature invisibili, di amici intorno e notti di meraviglia, quando c’era un senso supremo e anche tu lo sapevi spiegare. Un attimo. L’ambra degli anni lontani è sparita. Ora i tuoi occhi vedono il buio del coperchio di noce. 38

Era una sistemazione provvisoria, oggi la sepoltura è a terra.

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“Ti ricordi ora l’articolo? Quello scritto dai colleghi dell’Europeo, guidati da Oriana Fallaci, che di Pasolini era molto amica. Il 7 novembre esce in edicola L’Europeo, e per sole lire 350 chiunque può leggere una ricostruzione dei fatti del tutto diversa dalla versione di Pelosi. Il pezzo è di quelli che assestano all’immaginario collettivo un gancio sinistro così ben centrato al mento che le gengive scricchiolano ancor oggi. Titolo: “Ucciso da due motociclisti?”. Contenuto: “Esiste un’altra versione della morte di Pasolini: una versione di cui, probabilmente, la polizia è già a conoscenza ma di cui non parla per poter condurre più comodamente le indagini. Essa si basa sulle testimonianze che hanno da offrire alcuni abitanti o frequentatori delle baracche che sorgono intorno allo spiazzato dove Pier Paolo Pasolini venne ucciso. In particolare, si basa su ciò che venne visto e udito per circa mezz’ora da un romano che si trovava in una di quelle baracche per un convegno amoroso con una donna che non è sua moglie. Ecco ciò che egli non dice, almeno per ora, ma che avrebbe da dire. Pasolini non venne aggredito e ucciso soltanto da Giuseppe Pelosi, ma da lui e da altri due teppisti, che sembrano assai conosciuti nel mondo della droga. I due teppisti erano giunti a bordo di una motocicletta dopo mezzanotte, ed erano entrati insieme a Pasolini e al Pelosi in una baracca che lo scrittore era solito affittare per centomila lire ogni volta che vi si recava. Infatti non si tratta di baracche miserande come appare all’esterno: le assi esterne di legno fasciano villette vere e proprie, munite all’interno dei normali servizi igienici, di acqua corrente, a volte ben arredate e perfino con moquette. Le urla di un alterco violento cominciarono dopo qualche tempo che i quattro si trovavano dentro la baracca. A gridare: «Porco, brutto porco» non era Pasolini ma erano i tre ragazzi. A un certo punto la porta della baracca si spalancò e Pasolini uscì correndo verso la sua automobile. Riuscì a raggiungerla e si apprestava a salirci quando i due giovanotti della motocicletta lo agguantarono e lo tirarono fuori. Pasolini si divincolò e riprese a fuggire. Ma i tre gli furono di nuovo addosso e continuarono a colpirlo.

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Stavolta con le tavolette di legno e anche con le catene. Ciascuno di loro aveva in mano una tavoletta e i due teppisti più grossi avevano in mano anche le catene. Il testimone che, terrorizzato, si rifiuta di raccontare la storia alla polizia, dice anche che, a un certo punto, vide i tre giovanotti in faccia. Erano circa le una del mattino e le urla dell’alterco continuarono, udite da tutti, per quasi o circa mezz’ora. Vide anche che Pasolini cercava di difendersi. Quando Pasolini si abbatté esanime, i due ragazzi corsero verso la sua automobile, vi salirono sopra, e passarono due volte sopra il corpo dello scrittore, mentre Giuseppe Pelosi rimaneva a guardare. Poi i due scesero dall’automobile, salirono sulla motocicletta, partirono mentre Giuseppe Pelosi gridava: «Mo’ me lasciate solo, mo’ me lasciate qui». Continuò a gridare in quel modo anche dopo che i due si furono allontanati. Allora si diresse a sua volta verso l’automobile di Pasolini, vi salì e scappò (…)39”. Il botto si sente fino alla Questura di Roma. Due motociclisti, una baracca, una lite, un testimone. Se le poche, incidentali righe di Colombo in cui parlava il pescatore Salvetti erano state di fatto ignorate, era molto più difficile farlo con gli interi articoli dell’Europeo…”. “Ah, ecco, adesso ricollego tutto! Il giorno dopo, l’8 – deo gratias – qualcuno si ricorda infatti che magari fare una perquisizione a casa di Pasolini sarebbe una buona idea. So che ti stai chiedendo perché c’è voluta una settimana per farlo, ma è tutto molto semplice. C’è in carcere un minorenne che ha confessato: tutto e subito. Il suo racconto è stato preso per buono. Quindi, che motivo c’è di andare a cercare a casa Pasolini? Nessuno. Se l’assassino fosse stato ancora sconosciuto, ovvio che ci sarebbero andati il giorno dopo. Ce lo spiega meglio Marazzita, che assiste a tutta la perquisizione insieme a Graziella, aiutando gli investigatori a districarsi tra le carte e le agende di Pasolini. Vado a memoria. ‘Passai una giorna39

L’articolo conteneva di sicuro delle imprecisioni. Nessuna baracca aveva moquette e acqua corrente e centomila lire era praticamente uno stipendio, all’epoca.

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ta intera con Masone40 a casa di Pasolini a cercare le prove di un incontro precedente tra lui e Pelosi e non le trovammo’. Ecco, Fabio, evidentemente su questo punto la Mobile non è convinta, ma da quel rovistare non salta fuori un pezzetto di carta che dimostri il contrario. Dal verbale risulta che a operare furono il commissario Jovinella e il maresciallo Bertolini, dalle 15.30 alle 18.30. Dallo studio di Pasolini portano via due ritagli di giornale e una ricevuta. Da un cassetto della consolle dell’ingresso prelevano altri fogli con dei numeri di telefono. È la stessa Chiarcossi a sceglierli, in quanto le sono ignoti quei nomi. Trovano anche 4 agende del ’72, ’73,’74, ’75, una rubrica telefonica e un block notes e copiano solo i numeri che sono sconosciuti alla Chiarcossi. E fin qui, la perquisizione. Non trovando niente a via Eufrate 941 la settima sezione della Mobile, nella notte del 10 novembre, verso le 21, fa un bel pattuglione a Termini, ferma e interroga 40 persone, alla caccia di qualcuno che dica di aver già visto da quelle parti Pelosi e i suoi amici. In realtà le prostitute sono lasciate in pace, quella notte. I fermati sono tutti uomini. Gli agenti entrano anche da Nori, da Dei, da Giuliani, al Niagara e all’Impero: i bar e ristoranti che danno su Piazza dei Cinquecento. Lo stesso giorno – potenza della stampa – parte una serie di accertamenti congiunti, effettuati da polizia e Guardia di Finanza: è la prima volta che si cerca di capire chi abita davvero e chi no laggiù, all’Idroscalo. Viene prodotta una piantina dell’area, con la disposizione delle baracche. E vengono interrogati quelli che ci abitano. Ma anche questa indagine ha tutta l’aria di esser stata fatta così, alla buona, per completezza di un dato investigativo assodato, giusto per dire ‘abbiamo fatto tutto il necessario, visto?’”42. 40

Anni dopo Masone diventerà Capo della Polizia.

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È a questo indirizzo dell’Eur che abitava lo scrittore.

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Queste le famiglie che risulteranno aver dormito all’Idroscalo. Famiglia Tomasi: Vito, la moglie Giuseppa Ricca, i figli Daniela, Donatella, Maurizio, Franco, Maria Rita, suo marito Claudio Fierro. Si trovavano all’estremità opposta del campo rudimentale, va detto: molto lontani. Famiglia Di Benedetto:

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“Infatti non tutti quelli che vengono identificati verranno poi interrogati. E – esattamente come si diceva in Sicilia – dicono che, se c’erano, dormivano. Qualcuno dei proprietari non verrà mai nemmeno cercato. Tra cui il pescatore Salvitti. Questo ci dice tre cose. La prima è la cultura dell’Idroscalo, che appare subito quella dell’omertà. Gli abitanti sono gente semplice, che mette insieme il pranzo con la cena; ma lasciamo perdere l’immagine romantica della povertà. Quella che c’era lì era anche una cultura del silenzio, del famose i fatti nostri, del nun te impiccià, una cultura feroce, primitiva. E poi, già erano tutti abusivi: ci mancava pure che questo era venuto a morire qua, così ora tutti sanno che esiste l’Idroscalo! Timore non esagerato: il Comune di Roma si accorgerà del degrado della zona solo con l’omicidio e l’area verrà rasa al suolo nei primi anni ’80. La terza è il perché nessuno cerchi Salvitti. Ascolta. Due giornalisti hanno parlato con lui, ma la Guardia di Finanza non lo inserisce nell’elenco dei proprietari dei lotti abusivi, la polizia non lo va a cercare, il Tribunale non lo sente. Per la legge, Salvitti non solo non ha detto nulla, ma non esiste proprio. Anche questo, per me, va nella logica di quei giorni di novembre. Anzi, di quel 1975. Anzi, della presenza stessa di Pasolini in Italia. Non fare quella faccia stranita, che poi ti spiego”. “Vabbè. Intanto, la mattina dell’11 novembre, una macchina da scrivere ticchetta il risultato del pattuglione. Vado a memoria, anche qua, fidati: «I predetti, interpellati, hanno tutti riferito di non aver mai notato Pelosi Giuseppe e gli altri amici di quest’ultimo frequentare la zona di Piazza dei Cinquecento». Il che vuol dire che Pelosi (e Deidda, Seminara, De Stefanis; formavano un blocco unico il sabato sera) non Gaetano, la moglie Maria Stilo, i loro bambini Marco e Sante, il cognato Rocco Stilo, sua moglie Maria Teresa Mantelli e loro figlio Sandro di 7 anni. Anche loro erano all’estremità opposta del campo da calcio, molti metri dietro la porta. Poi c’è chi negherà di esserci stato: Claudio Marenghi, con la moglie Anna D’Amato e il suocero Luigi D’Amato. Gli altri però l’hanno visto. La loro baracca si trovava nel punto d’angolo in cui la strada sterrata sboccava nel campo rudimentale.

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erano frequentatori assidui di Termini di notte, cioè quando c’era prostituzione maschile; il che non escludeva tuttavia che il ragazzino e l’intellettuale si fossero già visti prima. Altrove”. “Ed allora, eccoci al terzo interrogatorio: è il 13 novembre 1975 (1975/3) e c’è ancora qualche punto da chiarire. A domanda Pelosi risponde: «Quella sera siamo andati in piazza dei Cinquecento per fare una passeggiata. Io avevo in tasca la somma di 11-12 mila lire, se ben ricordo. Tale somma però non mi bastava per fare le riparazioni alla mia Fiat 850 Coupé. Se mi capitava di fare quattrini in piazza dei Cinquecento con i ‘Frosci’ – come in effetti mi è capitato43 – io intendevo non rinunziare alle possibili occasioni. Io non ci volevo andare ed era la seconda volta che andavo in piazza dei Cinquecento44. La prima volta, due giorni prima, ero andato con la mia macchina e i miei amici in piazza dei Cinquecento e mentre dormivo in macchina, dopo essere uscito dal cinema, un ‘froscio’45mi ha toccato di sfuggita i genitali. La circostanza mi è stata narrata dai miei amici il giorno dopo. Io ricordo di aver avvertito, durante il sonno, qualcuno che mi sfiorava i genitali e aprendo gli occhi ho detto: andatevene che ci ho sonno». A domanda risponde: «Mentre mi trovavo al bar e prendevo il tè, la sera del fatto – come ho in precedenza dichiarato alla S.V. è venuto dentro al bar uno dei miei tre amici – non so però chi fosse – mi pare Salvatore Deidda, se ben ricordo – a dirmi che uno degli amici, cioè uno degli altri due, era stato invitato dall’uomo che si trovava sulla macchina a fare un giro, 43

Da questa frase sembrerebbe che non era la prima volta per Pelosi. Il suo enorme problema era prendere le distanze da ciò che aveva fatto: andare con un uomo. La cultura del 1975 non prevedeva il Gay Pride e suo padre aveva un concetto di totale repulsione degli omosessuali, per cui cercò di far apparire casuale la sua presenza in piazza dei Cinquecento e di dire che l’iniziativa l’aveva presa Pasolini, come se con il corruttore non ci fosse stato un minorenne ben disposto a essere corrotto. 44

Si sente, che questa risposta viene da una domanda conseguente alla

retata. 45

Il tentativo di rendere il romanesco di Pelosi nel “questurese” del verbale è delizioso.

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ma lo stesso uomo ci aveva ripensato, dicendogli che non se ne poteva fare niente perché aveva già un appuntamento». (…) A domanda risponde: «Dopo il coito orale avvenuto in macchina io non ritenni di chiedergli le 20.000 lire perché pensavo che dovevo chiederle quando avevamo finito tutto e quando mi riportava verso casa. Comunque non ho ricevuto le 20.000 lire. (…)». (…) «Non posso precisare come ho smarrito l’anello d’oro laminato. Può darsi mentre colluttavo col Pasolini, può darsi mentre scappavo. Se sapevo dove mi era caduto non l’avrei chiesto ai carabinieri». A domanda risponde: «Io portavo due anelli ognuno al dito mignolo delle mani. Non ricordo in quale dito mignolo io portavo l’anello d’oro che ho perduto e che ho cercato in caserma. (…) Non ricordo nemmeno il dito in cui portavo l’anello che ho qui in carcere. A volte questo lo spostavo da un mignolo all’altro perché mi stava stretto e mi dava fastidio». “Certo che Pelosi anche in questa deposizione non sa nulla: non sa se Pasolini è venuto o no, non ricorda a che mignolo portasse l’anello, non ricorda se la camicia se l’è tolta Pasolini da solo o gliel’ha strappata via lui (e come? E quando?)”. “Dice che non gli ha chiesto i soldi perché pensava che doveva chiederli quando avevano finito tutto, dando a intendere la sua disponibilità ad andare oltre il rapporto orale. Che sarebbe un dettaglio banalmente morboso, se non ci dicesse qualcosa sulla psicologia di Pelosi, che cerca continuamente di non fare troppo la figura del ‘frocio’”. “Beh, era la morale maschile dell’epoca: vacce se ti servono du sordi, ma fai l’omo e resti omo”. “Oh, intanto che succede? L’Europeo insiste. Il 14 novembre rincara la dose e tira fuori un testimone misterioso, di cui celerà sempre l’identità, perché esiste una cosa che si chiama segreto professionale46. So che lo sai, ma rileggiamolo, ok? 46

Sentita a verbale il 2 dicembre successivo, la Fallaci non volle dare né un nome né un cognome a questa fonte; anzi, nemmeno un sesso. Il nome del ragazzo-che-sa resterà sempre un mistero.

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«Questa è, parola per parola, la ricostruzione del dialogo avvenuto a più riprese tra il nostro collaboratore Mauro Volterra e il ragazzo che sa come morì Pasolini, o meglio chi (oltre al Pelosi) uccise Pasolini», comincia la Fallaci. L’articolo di Volterra è in realtà un inseguimento. Il giornalista ha scovato dalle parti di Termini un ragazzo, un marchettaro che si muove tra Termini e Colosseo47, che un po’ dice e un po’ non dice cosa sa. Parla per mezze frasi, per allusioni, smozzica, scappa, sbotta, parla e poi corre via. Allora, come ricorderai abbiamo trovato il numero originale del settimanale e il succo è questo: «Te ne devi annà, capito? Te ne devi annà! Io so’ riuscito a uscinne da questa storia, ne so’ uscito fori. Perché me voj rimette in mezzo ar casino? Perché me voj rovinà? Va via, va via!» (…) « Tu con questa storia ce fai carriera. Ma io me becco na pistolettata in bocca, capito? La pelle è mia, mica è tua, capito?». (…) Sulla moto: «Vuoi dire la Gilera 124? Quella ce l’ha il Roscio». Il ragazzo-che-sa, come lo chiamerà la Fallaci, conferma insomma la tesi dell’articolo dei due motociclisti. Eccolo che parla: «Quella sera… Guarda, quella sera… Ecco: Pasolini, è arrivato con er ‘GT’. È arrivato lì, ai giardinetti davanti al bar. È arrivato e ha fatto montà subito uno che nun era il Pelosi. Ed è partito con lui e hanno fatto un giro. Un giretto de cinque minuti, diciamo, una cosa così. Poi è tornato e il ragazzo che aveva fatto montà è sceso. Il ragazzo è sceso, è andato verso il Pelosi e l’ha preso da parte e se so’ parlati. Allora Pelosi è montato lui sulla macchina de Pasolini. E sono andati via ma dopo un poco sono tornati. Robba de poco tempo. E Pelosi è sceso. È venuto verso de noi. S’è messo a parlà con noi. Sì, c’ero pure io. Vabbé, c’ero pure io. (…) E la verità è che quando il Pelosi è risalito de novo sulla ‘GT’ de Pasolini… E Pasolini s’è allontanato de novo con lui a bordo… ecco… l’hanno seguito. Dietro ce se so messe una Mini 47

I luoghi della prostituzione maschile a Roma a metà degli anni Settanta: Piazza dei Cinquecento, Piazza della Repubblica, Monte Caprino, i giardinetti intorno al Colosseo, Circo Massimo, alcuni tratti del Lungotevere, Piazza Mazzini, la scalinata di Architettura a Valle Giulia, via Veneto. Tra queste strade correva la notte il GT argentato di Pasolini.

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e una moto» (…). «Bé… L’hanno seguito. L’hanno seguito prima al ristorante. E qui l’hanno aspettato e…»”. “E perché è morto Pasolini? Che dice il testimone?”. “Dice così: “Non è che volevamo… Gli volevamo solà er portafoglio e…». Il movente è dunque il furto”. “E il barista? Nun c’era anche un barista, da qualche parte?”. “C’era, c’era. Nelle stesse pagine il settimanale scova la testimonianza del 28enne barista Gianfranco Sotgiu: «Fu giovedì pomeriggio, verso le quattro o le quattro e mezzo. Giovedì 30 ottobre. Fu al bar Grande Italia, in piazza Esedra48. Nel bar ci sono due telefoni a gettone, uno per le chiamate urbane e uno per le chiamate interurbane. Io ero entrato per cercare un numero nelle Pagine gialle. Il numero era di un campo sportivo a Trastevere, diretto da un prete. Volevo telefonare al prete e chiedergli se il campo era disponibile per una partita. Le Pagine Gialle stavano sotto l’apparecchio delle interurbane, quel ragazzo stava telefonando dall’apparecchio accanto. Non mi ricordo tutto ciò che diceva ma ricordo queste parole: ‘Va bene, mi faccio portare al posto dove sono già stato. Se è solo da menargli ci sto, sennò lasciamo perde’. E dopo un po’ disse: ‘Aò, me raccomando. Solo pe’ un po’ de botte e basta’. E poi disse: ‘Ah, senti. Me servirebbe un po’ de soldi’. E poi disse: ‘Eh, no, che faccio. Aspetto fino a sabato pe’ un po’ de soldi?’. E poi: ‘Vabbe’, t’aspetto qui sotto i portici, se puoi venire in piazza Esedra sotto il cinema Moderno’. Attaccò il ricevitore, uscì, e quasi subito tornò. Dico quasi subito perché io stavo ancora lì a cercare il numero del campo sportivo in Trastevere. E questa telefonata la sentii tutta, insomma la ricordo tutta. Io mi girai quando sentii che faceva il numero, mi venne spontaneo. Fu una telefonata breve. Disse: ‘Pronto, me chiami Franz’. Poi disse, e non so se lo disse a Franz: ‘Senti, ci ho ripensato. Vorrei andare al cinema e se è possibile ti aspetto alle otto, otto e mezzo. Se vieni a quell’ora’. E l’ultima parola 48

Il Grande Italia si trovava dove attualmente c’è Eataly a Piazza Esedra.

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che disse prima di riattaccare fu: ‘Ahò, me raccomando. Porta il dollaro’. E uscì. Io questo ragazzo non lo avevo mai visto. E in faccia non lo vidi neanche tutto, all›inizio, perché alla prima telefonata non faceva che soffiarsi il naso. Alla seconda mi voltava un poco le spalle, ma era più visibile. E appena ho visto le fotografie del Pelosi sul giornale ho pensato: io questo l’ho visto, lo conosco. Ho riconosciuto bene la parte superiore della faccia, il naso, le sopracciglia, gli occhi. E gli zigomi pieni. Era un ragazzo alto all’incirca come me ma più robusto di me, soprattutto alle spalle. Più che guardo le sue fotografie più che lo riconosco. E fu riconoscendolo nelle fotografie che mi scattò il ricordo. Mi scattò con la frase: ‘Aspetto fino a sabato pe’ un po’ de soldi’»”49.

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Tra le cose ridicole che avvennero in quei giorni, successe che la polizia non riuscì a identificare Sotgiu e quindi a farlo deporre davanti al Giudice Istruttore. Magari sarebbe bastata una telefonata alla redazione dell’Europeo.

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Capitolo 3

San Basilio

Siamo arrivati alla pizzeria “Il fico d’India”, a via del Casale di San Basilio. La conosciamo bene, questa strada. In Corte d’Assise, che si trova proprio qui dietro, ormai siamo di casa, quando andiamo a consultare gli atti delle nostre ricerche. San Basilio è una zona periferica, formata in gran parte da una distesa di case popolari. Nella fantasia del Duce la zona avrebbe dovuto essere in parte assorbita dalla “Grande città carceraria” di cui il carcere di Rebibbia, oggi, occupa solo un terzo del grande progetto di allora. In questo dedalo di case tutte uguali i pini sono alti e altissimi murales colorano le facciate di alcuni palazzi, ma te lo devi immaginare a metà degli anni Settanta, questo posto. Palazzine di quattro piani con le lenzuola stese fuori, tra un blocco di muri e l’altro, larghi campi vuoti; dove il terreno si infossava i ragazzini si sedevano a cazzeggiare guardando le enormi pozzanghere. Non era un bell’affare, venire da qui: ci venivano solo “comunisti e ladri” e quando dicevi che eri del posto, il lavoro che prima c’era, dopo non c’era più. Nell’attesa delle Margherite stiamo mangiucchiando un supplì, non male effettivamente. “Fabio, stavi dicendomi dell’articolo? Cosa mi accennavi quando cercavo disperatamente parcheggio?”. “Dicevo che, sempre nell’Europeo del 14 novembre, un’altra bordata la spara Gian Carlo Mazzini quando dice che «Una serie di errori ha intralciato il normale svolgimento delle indagini sulla morte di Pasolini, nelle prime quarantott’ore dopo il delitto. (…) Almeno sei errori costellano le prime indagini. 1. Trovano una piccola folla intorno al corpo, che non pensano minimamente d’allontanare. Tantomeno circondano la zona per bloccare il passaggio. Alle 9

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ti nel rudimentale campo di calcio50, a pochi metri dal cadavere di Pasolini, almeno una ventina di ragazzi in magliette e pantaloncini sono impegnati in una partita di pallone che ogni tanto esce dal rettangolo di gioco e che viene rimandato a calcioni dagli stessi agenti. (…) Tutte le altre eventuali tracce sono andate perdute dal passaggio di macchine e pedoni diretti o alle altre baracche o al campo di gioco, oppure da curiosi. È stato impossibile fare i calchi dei copertoni della macchina di Pasolini e ricostruire l’itinerario. Come non si è potuta accertare la presenza di altre macchine o motociclette. 2. Nessuno ha pensato di tracciare sul foglio quadrettato a disposizione degli inquirenti i punti esatti dei vari ritrovamenti, che di solito vengono contraddistinti da lettere dell’alfabeto. 3. Fino a giovedì, la macchina di Pasolini era sotto una tettoia nel cortile di un garage dove i carabinieri di solito ricoverano le macchine sequestrate, aperta e senza sorveglianza. Del resto era solo la macchina rubata da un ladro. Chiunque avrebbe potuto mettere o levare indizi, lasciare o cancellare impronte. Alla squadra scientifica è arrivata solo giovedì.51 4. Sul luogo del delitto, la polizia è ritornata solo nella tarda mattinata di lunedì 3 per tentare una ricostruzione del caso, ma senza nessuna misura precisa, con le tracce ormai inesistenti, e ha tentato di ricostruire sia l’investimento mortale di Pasolini che la fuga di Pelosi non con l’Alfa GT del morto ma con una normale Giulia. Ora, la strada dov’è stato ritrovato il corpo di Pasolini è percorsa longitudinalmente da profondissime buche, che, a detta di esperti, è quasi impossibile superare con una GT notevolmente bassa senza toccare il terreno almeno con la coppa dell’olio. 50 51

In realtà la partita era nel campo regolamentare, l’altro campo.

Per giovedì si intende il 6 novembre, mentre il delitto era avvenuto dopo la mezzanotte tra 1 e 2 novembre, cioè tra sabato e domenica.

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5. Solo da giovedì gli investigatori hanno cominciato a interrogare gli abitanti delle baracche e i frequentatori della Stazione Termini. Perché? Avevano archiviato tutto? Consideravano chiuso il caso? Non li interessava andare più a fondo nelle indagini? 6. Sul luogo del delitto non è mai stato chiamato il medico legale. È chiaro che polizia e carabinieri, certi di trovarsi di fronte a un normale caso di omicidio a sfondo sessuale, con l’assassino già in carcere, hanno ritenuto superfluo ogni accertamento sul cadavere che poteva invece servire per le successive indagini». Armando, che ne pensi? Queste erano le prime impressioni di parte della stampa, e durano tutt’oggi”. “In parte erano appunti anche sensati, tutto sommato. Per quanto riguarda i ragazzi che giocavano durante il sopralluogo, a parte il segnale pessimo di natura morale che si fornisce, e ripetuto che all’epoca – una volta fatti i rilievi – non si usava lasciare isolata la scena del crimine, di certo sarebbe da capire come quei ragazzi abbiano danneggiato le indagini. Ti ricordo che, quando si mettono a giocare, la Scientifica aveva già finito. Il punto due non l’ho capito, il famoso foglio quadrettato non lo conosco: le poche repertazioni effettuate sono state tutte abbastanza correttamente misurate e la Scientifica ha fatto anche una planimetria di grande dimensione. Il punto tre è senza commenti, l’autovettura magari era stata tenuta sotto la tettoia, vedremo che la realtà è sicuramente più drammatica, però pensare che qualcuno possa accedervi per cancellare le impronte mi sembra eccessivo. È molto da grande complotto, non ti sembra? Arrivo direttamente al punto relativo al medico legale. L’unica informazione che avrebbe in quel momento fornito in più era quella della temperatura corporea, dato non di secondo piano, sicuramente”. “Dove siamo arrivati? Il giorno dopo, nel quarto interrogatorio, il 15 novembre, l’imputato non aggiunge niente di nuovo. Intanto, in quei giorni, vengono sentite molte persone: è l’effetto-Fallaci. Non ci esce niente di clamoroso, secondo la polizia. Ma della roba interessante sì, a leggere tra le

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ghe, ti ricordi che avevamo detto? Una serie di testi, infatti, confermano che Pasolini prendeva appuntamenti con i ragazzi: come Alfredo Camporesi, Valerio Alì Sbal, Agostino Appierto. A tutti Pasolini ha dato un passaggio, loro gli lasciano il numero, mai richiamati”. “Dunque Pasolini non faceva sesso con nessuno la prima volta, ma prima lo conosceva un po’ e, se scattava qualcosa, ci prendeva appuntamento. Quindi la versione di Pelosi è insostenibile: almeno un altro appuntamento c’è stato” dice Armando. “Anche la Fallaci, in quelle ore, la pensa allo stesso modo.“I suoi amici più intimi, come Ninetto Davoli, ammettono che di solito Pasolini non improvvisava le sue avventure. «Prendeva l’appuntamento anche con due o tre giorni di anticipo. Infatti, di solito, me lo diceva. Era raro che l’avventura la decidesse lì per lì. Perché era prudente». Solo che nessuno ha voglia di ricollegare tutto questo e di fare due domande ben fatte a Pelosi”. “E c’è un altro effetto-Fallaci, aspetta. Ti sei scordato? La sostituzione del Pm. Il 21 novembre la Procura Generale avoca a sé l’inchiesta e la assegna al dottor Guasco, che prende il posto di Giunta. In effetti, è a questo punto e solo a questo punto che la magistratura comincia a darsi da fare, seppure con un ritardo di tre settimane. Guasco il 28 novembre ordina una perizia sull’auto con cui girava Pelosi quella sera, quella che era stata documentata il 13 novembre, come abbiamo visto, interroga la Fallaci, sente altri testimoni, interroga nuovamente Pelosi. E qui il verbale ce l’hai te”. “Ce l’ho, ce l’ho. È quello del 9 dicembre 1975 (1975/5)”. « (…) Nel tragitto non urtai, né strusciai con la macchina da alcuna parte. Il corpo di Pasolini era a terra e rimase a terra quando partii con la macchina. Io comunque non lo vidi allorché con la macchina giunsi all’altezza di quel punto che d’altronde neppure ricordavo con esattezza. Non lo vidi, altrimenti non sarei stato così matto da montargli addosso. Pensai solo di andarmene: non pensavo che fosse morto, ma in quel momento, poiché il motivo preminente era quello di andare a riprendere la mia macchina, non mi interessava la

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tà che a seguito delle ferite il Pasolini, abbandonato, potesse morire». A domanda risponde: «Quando Pasolini cadde a terra, io non lo toccai più. Quando sono entrato in carcere avevo con me 10.000 lire, come la S.V. ha controllato presso l’Ufficio matricola, che erano di mia appartenenza. Sono alto m. 1.71 e peso circa 58-60 chili». A domanda risponde: «È vero che in carcere dissi d’aver ammazzato Pasolini. Ribadisco che dissi di aver ammazzato Pasolini poiché i carabinieri, prima di tradurmi al carcere, mi avevano detto che avevano identificato nel Pasolini il proprietario dell’auto. Ciò dissi verso le ore 11 a un mio vicino di cella, che poi è uscito. Dalle ore 5, allorché i carabinieri mi portarono a Casal dei Marmo, fino alle 11 io dormii in cella». A ulteriore domanda dell’avv. Mangia52, risponde: «In macchina io accesi il motore, armeggiai per conoscere i comandi, accesi i fari, mi raccolsi per qualche secondo, poi misi la retromarcia, e in quel momento i fari si spensero e io tentai e riuscii a riaccenderli. Quando poi proseguii in avanti i fari erano accesi, ma non ricordo quale tipo di luci. Ricordo che non erano sempre visibili le buche, anche per l’erba che talora le occultava. Non vedevo l’ora di andarmene». A domanda risponde: «La frase circa il fatto che avevo ammazzato Pasolini la dissi al mio vicino di cella allorché egli mi chiese per quale ragione fossi stato portato in carcere. Prima gli risposi che era un furto d’auto, poi soggiunsi: è perché ho ammazzato un uomo, e precisamente Pasolini: tanto tra poco lo vengono a sapere; mica sono deficienti, quelli». A domanda della parte civile avv. Marazzita, l’imputato risponde: «Dissi di aver ammazzato Pasolini perché pensavo che per tutte le botte che gli avevo dato, e perché era rimasto lì, fosse morto, o potesse essere morto.» Capisci, adesso? È in mezzo a tutte queste parole che la morte di Pier Paolo Pasolini resta un delitto di ‘froci’. È bastata la prima deposizione di Pelosi per farcelo diventare: mi sono difeso da una violenza carnale e c’è scappato il morto. 52

È l’avvocato che difende Pelosi.

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Non vedete, c’è il mio anello a pochi metri? Il resto l’hanno fatto polizia e carabinieri, di più la prima, che è quella che ha trovato il cadavere e di fatto guida l’inchiesta”. “Com’è potuto succedere? Eppure alla guida della Mobile in quei giorni di novembre c’era un big del calibro di Fernando Masone – don Fernando, per la sua spagnolesca gentilezza – uno che sarebbe diventato Capo della Polizia. Questore di Roma era Ugo Macera, un altro grandissimo poliziotto italiano. Le professionalità c’erano, ai più alti livelli: gente che aveva già risolto casi complicati, mica due scalzacani”. “Il fatto è che alcune volte si deve fare una scelta, magari pressati dalle circostanze. Continuare ad indagare con dispendio di tempo e di uomini o ‘accontentarsi’ di un colpevole dichiarato? Come abbiamo altre volte avuto occasione di dire, gli omicidi erano allora molti di più di adesso, anche se il continuo parlarne della stampa, oggi, ci dà un’immagine apparente ben maggiore; il personale in Polizia scarseggiava. In quegli anni, sembra strano dirlo, si entrava per domanda, senza concorso, e addirittura veniva dato un premio in denaro per chi si arruolava, ti rendi conto? Si fermarono alla superficie e non c’è dubbio che furono il nome e cognome del morto, di fatto, a orientare le indagini, prima ancora che le circostanze della morte stessa. Prima di pensare a interventi dall’alto, a manovre occulte o che, ti leggo questo elenco che ho preparato. 1. Denuncia, per corruzione di minorenne, a un maestro di un paese del Friuli. 2. Citazione in giudizio dalla Presidenza del Consiglio dei ministri a uno scrittore per il contenuto osceno di un romanzo. 3. Querela del sindaco di un paese in provincia di Catanzaro per diffamazione a mezzo stampa, all’autore di un articolo che non gli era piaciuto. 4. Il Procuratore della Repubblica di Milano ritiene che un libro sia immorale e chiede parere ad un critico. Forse il primo caso di perizia letteraria in un’aula di tribunale italiana.

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5. Due giornalisti, Alfredo e Costanzo, pagano due ragazzi di Anzio per dire che un regista ha fatto loro allusioni oscene. Ne nasce una querela. 6. Un uomo che passa in auto per portar via un ragazzo da una rissa viene accusato di averlo aiutato a compiere un furto dopo che si scopre che a casa del ragazzo c’è roba rubata durante la rissa, avvenuta a Roma. 7. Un barista di San Felice Circeo, che si chiama Bernardino, racconta che uno sconosciuto, con guanti neri, dopo aver inserito in una pistola un proiettile d’oro, avrebbe cercato di rapinarlo. Il giorno dopo un uomo si ferma a mettere benzina: è lui! Lo riconosco! L’uomo viene denunciato. 8. Un maestro elementare di Avellino denuncia uno scrittore per averlo portato in campagna, minacciato, malmenato e derubato di un capitolo di un suo romanzo. Passano quarantott’ore e confessa di essersi inventato tutto. 9. Un ex deputato democristiano denuncia un regista perché il personaggio di un suo film ha il suo stesso cognome. 10. Un tenente colonnello, Giulio, denuncia alla procura della Repubblica di Venezia l’autore di un film, per offesa al comune senso della morale e per contenuto osceno. 11. Il solito Bernardino (punto 7) querela l’uomo di cui sopra, che successivamente l’ha definito ‘pazzo’, per diffamazione. 12. Un regista è denunciato per offesa al comune senso del pudore. Il film è sequestrato. 13. Il proprietario di un’auto la presta a un amico, che a sua volta la presta a un suo amico che a sua volta la fa guidare a un tizio, Carmelo, che la patente non ce l’ha. Il proprietario va a processo per incauto affidamento. 14. Un gruppo di intellettuali va a processo per “invasione di edificio” in occasione di un festival di cinema. 15. Un allevatore di ovini di Nicolosi (Catania) denuncia

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un regista perché dei cani – usati per le riprese di un film – gli hanno fatto fuori cinquanta pecore. 16. Il direttore di un periodico viene denunciato a Torino per aver svolto propaganda antinazionale e per aver sovvertito gli ordinamenti economici e sociali dello Stato. 17. Il regista di alcuni film viene denunciato più e più volte per oscenità a Venezia, Trento, Roma, Verona, Taranto, Milano, Napoli, Genova, Bari, Ancona, Sulmona, Benevento, Lucera, Sesto San Giovanni, Cesano Maderno, Teramo, Catania… A Milano viene denunciato prima ancora che il film esca in sala. 18. Dopo la morte del suo sceneggiatore e regista, un film viene censurato e se ne vieta la distribuzione. Un gesuita imbratta i manifesti funebri del regista con insulti”. “Dai, non mi dire che…”. “Esatto. Il maestro, lo scrittore, il giornalista, lo sceneggiatore, il regista, l’automobilista, il proprietario dell’auto, l’intellettuale, il direttore del periodico, l’uomo che passa in auto. È sempre lui, Pasolini. Quando lo Stato ti processa/querela 30-40 volte, dando credito alle denunce di qualsiasi imbecille che passa, non puoi pensare che non creda che – su, andiamo! – qualcosa pure dovrai aver commesso alla fin fine, anche se non t’hanno mai condannato: non siamo noi sempre i primi a pensare ‘beh, se l’hanno arrestato un motivo ci dev’essere’?”. “E certo. Se c’è fumo, c’è fuoco, anzi vista l’ora diciamo l’arrosto”. “Ho il sospetto che vuoi lanciarmi un messaggio subliminale, ma non ci casco. E poi, stavo dicendo, non puoi pensare che lo Stato ti difenderà, se non hai fatto niente per nascondere che sei omosessuale (nell’Italia di quarant’anni fa) e ti imboschi di notte con un minorenne. Se sei contro e al di là della morale corrente. Non puoi pensarlo proprio. Certo che fu sbagliato minimizzare quel delitto, trascurarlo, indagare male, ma per come aveva vissuto Pasolini, per la vita che aveva avuto e che gli era stata fatta vivere, per tutto quello che era successo, Pasolini era uno che parte d’Italia – quella più

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conservatrice, certo – aveva già condannato ogni volta che apriva il giornale e scopriva una nuova picconata alla morale corrente. Ogni volta che qualcuna mostrava le tette, ogni volta che si buttava un re giù dal piedistallo, che si inneggiava alla fine del servizio militare obbligatorio, che si insultava la Chiesa, ogni volta che un pezzo di quelle certezze dell’Italia anni ’60 veniva giù, beh, tutto quello che era nuovo veniva odiato di più. Lui era uno che tutti i giorni ricordava, con la sua sola presenza, con la sua ‘voce puerile’, con l’implacabile logica della sua gentilezza, che indietro non si sarebbe tornati e che lui era lì a sfidarli, a invocare un nuovo mondo nel mondo, a diventare il bersaglio cosciente dell’odio. Non è stato il solo, ma sulla sua morte non hanno indagato anche per questo. Non è che non erano capaci: è che non gli interessava farlo. Un pregiudizio culturale impediva l’uso della logica investigativa, che avrebbe detto ben altro, se solo avesse potuto parlare senza mordersi le labbra”. “Ecco perché l’articolo di Colombo l’avevano sicuramente letto in Questura, ma nessuno aveva cercato Salvitti… Marazzita questa cosa la spiega bene: «Era un uomo fuori margine, non era amato dalla Dc e dal Pci, non era amato sostanzialmente da nessuno. La Procura Generale si rese interprete e contribuì a questo isolamento, perché le Procure sono sempre state sensibili a quello che era il desiderio dei partiti di maggioranza, che avevano poteri forti. D’altronde, lo stesso Guasco diceva che Pasolini era troppo noto come omosessuale, che aveva assorbito la violenza delle borgate. Era un vortice di luoghi comuni e mezze verità sullo scrittore, dalle quali non poteva nascere una ricerca oggettiva sui fatti. Il resto fu un seguito di sciocchezze logiche: che la tavoletta lasciava una certa distanza tra vittima e assassino e quindi Pelosi poteva benissimo non essersi sporcato affatto; che il sangue di Pasolini non sgorgava a spruzzo. Insomma, un solo assassino»”. “Adesso ti racconto invece tutta la faccenda degli avvocati di Pelosi, perché se ne è molto parlato. È passato un mese dal delitto e Pelosi, intanto, ha fatto le capriole con gli avvocati. Ne ha cambiati cinque. Il primo si chiama Pier Giorgio

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Manca, è quello che gli danno d’ufficio. Lo chiamano perché abitava vicino Casal del Marmo. E fin qui. Manca dura ventiquattr’ore, fa in tempo a vedere due volte Pelosi. Poi arriva un telegramma a Regina Coeli53. È per Pelosi, sono 16 parole, scritte il 2 novembre alle 22.35 e firmate da un enigmatico ‘Giuseppe’54, dice: «nomina immediatamente tuo difensore avvocato Vincenzo Spaltro. Saluti». Pelosi non sa assolutamente chi sia questo Giuseppe. In realtà il telegramma lo hanno spedito gli stessi Spaltro, per entrare nel processo e ricavarne pubblicità. Pelosi pensa che a scrivere sia un suo parente, boh, e per non sapere né leggere né scrivere, il giorno dopo nomina gli Spaltro ma di testa sua anche l’avvocato Traldi, perché qualcuno in carcere glielo ha suggerito55. I due avvocati il 4 novembre insistono, perché vogliono stare senza Traldi: «revoca nomina fatta avvocato Traldi et nomina avvocati Vincenzo et Tommaso Spaltro». Sempre firmato «Giuseppe». Ma il loro trucco dura poco. Ed è un peccato, perché anche se truffaldini56, gli Spaltro una cosa l’avevano azzeccata: volevano dimostrare che Pelosi non poteva aver agito da solo, ma con dei maggiorenni. Un’intuizione che oggi sappiamo quant’è vera. Ma che non ebbero il tempo di sviluppare”. “Sarebbe stato un altro processo, ci pensi? Qui si innesta un’altra storia, aspetta. Fino a quel momento Pelosi non ha ancora visto i suoi genitori, che nel frattempo sono stati avvicinati da un cronista di nera de ‘Il Tempo’, Franco Salomone. I genitori non sanno nulla del cambio di avvocato e voglio53

Pelosi nel frattempo era stato temporaneamente trasferito qui, da Casal del Marmo, perché il giudice lo voleva in isolamento e al minorile non c’era modo di metterlo da solo. 54

Molti riportano che il telegramma fosse firmato “zio Giuseppe”, perché così riporta Pelosi nel suo libro del 2011. In realtà lo zio non c’è e Pelosi ricorda male. 55

Qualcuno del personale del carcere (succede). Pelosi era infatti in isolamento. 56

L’Ordine degli Avvocati avvierà successivamente un procedimento disciplinare contro di loro, che si concluderà con una censura.

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no trovarne uno per Pino: Salomone suggerisce loro Rocco Mangia, che va forte e li difenderebbe. Loro accettano. Non potendo incontrare il figlio, il 3 novembre gli mandano un telegramma pure loro (che arriva lo stesso giorno del secondo del finto Giuseppe), dicendo di nominare Mangia. Pelosi, tirato per la giacchetta da tutte le parti, due giorni dopo finisce col nominare tutti insieme: gli Spaltro e Mangia. Toglie Traldi. Alla fine resterà solo Mangia57. Che adotterà una tattica opposta: dimostrare, piuttosto, che Pelosi aveva agito da solo, che era stata legittima difesa, che era immaturo e non andava punito. In questa strategia apparentemente suicida, molti hanno visto e vedono il segno del complotto. Mangia doveva stare dentro per imboccare Pelosi”. “Già. Ma chi è Mangia? Un avvocato noto. Viene58 da Taurisano, in provincia di Lecce, è democristiano a tutto tondo, non un fascista come potrebbe sembrare. È vero che ha difeso personaggi ‘mooolto’ a destra, come Sandro Saccucci e che in quelle settimane è impegnatissimo col processo per i fatti del Circeo (difende uno degli imputati, Guido), ma è anche stato il legale dell’ex sindaco di Roma, Gianni Petrucci, uomo della Dc. A me questa storia, che se un avvocato difende un massacratore diventa una bestia anche lui, non mi va giù. Se Izzo lo avesse difeso Marazzita, che diremmo?”. “Però, scusami Fà, faccio l’avvocato del diavolo. In molti hanno giustamente notato che Mangia, per difendere Pelosi, chiama come consulente psichiatra un piduista (Ferracuti, tessera 849) e che lo stesso Salomone lo era (tessera 67859), mentre hanno attribuito iscrizione certa anche a Semerari, altro consulente psichiatra, per quanto questa non lo sia affatto (negli elenchi della P2 sequestrati a Gelli il nome dello psichiatra non c’è, anche se è ragionevole pensare che fosse 57

Il quale, da signore, offrirà a Manca di fare la difesa insieme.

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È morto nell’ottobre 2000.

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Non sappiamo perché venga spesso indicato come suo numero di tessera il 1911, quando agli atti della relazione finale della Commissione Parlamentare d’inchiesta Anselmi figura in realtà il 678.

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collegato con la massoneria). Ma tutto questo non c’entra. Il punto è un altro. La domanda è: la massoneria c’entra qualcosa col delitto Pasolini? La presenza di due massoni e un presunto tale in questa faccenda significano qualcosa? La strategia di Mangia dimostra che Pelosi fu eterodiretto? Rileggimi gli appunti che avevamo scritto”. “Subito, eccoli qua. – Il fatto che due piduisti sicuri siano entrati nella vicenda non significa automaticamente che la P2 sia coinvolta. Il fatto che un carabiniere sia presente ad una rapina in banca non vuol dire che faccia parte della banda. Il fatto che un funzionario pubblico sia nella stessa stanza di un collega che ruba non implica che debba sapere per forza cosa fa, né che l’altro gliel’abbia detto. Queste cose vanno provate. – Mangia aveva tutto l’interesse, con la massoneria e senza, a prendere un caso del genere, che gli avrebbe garantito notorietà supplementare. E i casi si prendono quando ci sono, quando succedono. Il fatto che Pelosi fosse nullatenente non significa un beneamato nulla. Gli avvocati, celebri e non, assumono casi famosi per rilanciarsi e avere visibilità, anche senza prendere una lira. Sono investimenti; succedeva ieri, per avere pubblicità sui quotidiani. E succede oggi, per andare in tv. Il fatto che l’avvocato si sia proposto non è la prova che ci fosse una cabina di regia esterna. Che c’è di strano? – La strategia di Mangia è invece perfetta dal punto di vista legale – e priva di retroscena – se pensiamo che, accollandosi il delitto solo Pelosi, sarebbe rimasto imputato del Tribunale dei Minori, dove avrebbe avuto una pena ridotta rispetto a quella che avrebbe potuto rifilargli una Corte d’Assise, dove si sarebbe presentato se ci fossero stati con lui degli adulti. Perché l’avvocato avrebbe dovuto far rischiare al suo assistito una condanna al doppio della pena? – La strategia di Mangia di puntare sulla non imputabilità per immaturità fu corretta; l’unica, visto che il suo

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assistito aveva già confessato nei dettagli. E stava quasi per andargli bene, tra l’altro: quindi tanto sbagliata non era! Una delle cose che hanno creato sospetti è l’allusiva frase (detta da Salomone ai genitori di Pelosi) per la quale a pagare l’avvocato ‘ci avrebbe pensato qualcuno molto in alto’. Ma chi è che la riferisce? Pelosi, nel suo libro del 2011, ‘Io so… come hanno ucciso Pasolini’. Quando abbiamo deciso di lavorare su questo caso avevamo molti dubbi ma una certezza sì, quella di non credere a una sola parola di quello che Pelosi ha detto e stradetto in questi 40 anni. Troppe, le balle e le dichiarazioni di comodo. Questa affermazione, del tutto isolata, è suggestiva, ma viene da un personaggio troppo spesso inattendibile come lui, a cui non è che possiamo credere solo quando dimostra la nostra tesi. E poi, sarà stata gente semplice, ma i genitori di Pelosi non pensate che due domande se le sarebbero fatte se Salomone se ne fosse uscito con una frase del genere? E anche se fosse vero, al giornalista non sarebbe convenuto dire, semplicemente, per glissare, che Mangia veniva gratis, invece di seminare futuri indizi di complotto alludendo ad altra gente? Ferracuti e Semerari facevano spesso perizie insieme, che c’è di strano? Trovarli insieme non significa che c’era un piano, significa che erano tra i più noti criminologi e lavoravano insieme da tempo. Semerari lavorava per il Sismi. Bene, e con questo? Anche Ferracuti, e con questo? Non vuol dire automaticamente che ogni cosa che facevano, ogni perizia, ogni deposizione, ogni lezione universitaria fosse pilotata dal Sismi. O dalla massoneria. E che direbbe chi crede nel complotto se raccontassimo chi era l’avvocato aggiunto di testa sua da Pelosi, Andrea Traldi, quello che durò lo spazio di un battito di ciglia? All’inizio del 1971 un latitante rientra in Italia senza farsi notare. Si tratta di Stefano Delle Chiaie, viene dalla Spagna ed è un neofascista. Si deve incontrare

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con Almirante per realizzare una convergenza politica alle prossime elezioni, e dove lo incontra? A casa di Traldi, in corso Francia. Ora, chiediamo: se Traldi poteva ospitare latitanti neofascisti, allora perché è stato sostituito? Non andava già bene lui, ideologicamente, per difendere Pelosi? Per stare nel complotto? Se la sola presenza di Mangia è per qualcuno la prova del fatto che Pelosi fosse diretto come un burattino, allora perché lo stesso ragazzino che nomina lo sconosciuto (per lui) avvocato Mangia, non si tiene l’altro sconosciuto (per lui) avvocato Traldi? Destra per destra, andavano bene tutti e due per imboccarlo, no? La verità è che la nomina casuale di Traldi sta insieme all’altrettanto casuale ingresso di Mangia nel processo”. “Perfetto, è tutto chiaro. Allora piantiamola con Mangia e andiamo avanti”. “E qui siamo al processo”. “Come, al processo? Siamo arrivati all’avocazione, ricordi?”. “Porca miseria, me l’ero dimenticata!”. “Poi sono io che non mi ricordo le cose… vabbè, lasciamo perdere… L’istruttoria riguardante un reato minorile, scontava un peccato originale: per legge, aveva 40 giorni di tempo per compiersi60. Né uno di più, né uno di meno. Troppo pochi, per capire cos’era davvero successo. Pochissimi, se l’inchiesta era partita col freno a mano tirato. I primi giorni se n’era occupato il giudice Tranfo, l’abbiamo visto. Già il 5 novembre però l’affare Pasolini era passato a un giudice minorile, Giunta, essendo stata esclusa la presenza di adulti nella notte dell’Idroscalo. Ad un certo punto la Procura Generale capì che si doveva cambiare marcia e avocò a sé l’inchiesta, che passò da Giunta al giudice Guasco: era il 21 novembre. Guasco fece quello che fino ad allora non era stato fatto. Ma i giorni a disposizione erano maledettamente pochi, tre settimane: il giudice doveva correre alle conclusioni. I mille dub60

Si trattava di evitare troppo carcere preventivo e favorire il reinserimento. Se non si finiva in 40 giorni, il minore andava scarcerato.

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bi, le cose che non tornavano nella versione di Pelosi non potevano essere più approfonditi. Era una corsa contro il tempo in cui, va detto onestamente, Guasco fece molte cose che non erano state nemmeno pensate dal suo collega. Tuttavia si sarebbe dovuto, di fatto, aspettare il processo per cercare di capire cos’era successo”. “Eppure, che Pelosi Giuseppe avesse mentito in abbondanza era sotto gli occhi di tutti! Il punto è: chi era disposto a vederlo? Diciamolo: anche non entrando nel merito dell’inchiesta e fermandosi alla superficie sono talmente chiari e lampanti i motivi per cui la versione di Pelosi è falsa che non ci sarebbe nemmeno bisogno di riassumerli. Aspetta che tiro fuori l’elenco che facemmo proprio all’inizio della nostra indagine, ricordiamoci di ampliarlo. Certo che, anche così, è incredibile (a proposito, tra un po’ dobbiamo scegliere il dolce e su questo argomento non si scherza). Ma continuiamo con gli appunti. – La totale sproporzione tra le ferite riportate dalla vittima Pasolini (che sarebbe stato l’aggressore e invece è ridotto a un grumo) e la quasi totale assenza di sangue, terra e fango sull’aggressore Pelosi (che dice di esserne stato la vittima). – L’assurdità del movente per l’aggressione di Pasolini, persona mite e lontana da qualsiasi forma di violenza fisica o ideologica. – L’impossibilità che in una lotta Pelosi potesse prevalere così nettamente su Pasolini, che per quanto avesse 53 anni era asciutto, tonico e muscoloso. – La presenza sul sedile posteriore del GT di un maglioncino verde che non è della vittima e nemmeno dell’assassino, così come la presenza di un plantare destro. – L’incomprensibilità della presenza dell’anello di Pelosi sulla scena del crimine e la sospetta insistenza di quest’ultimo nel volerlo ritrovare, di fatto incastrandosi da solo. – l’esistenza, per logica, di almeno un altro appuntamento precedente tra vittima e assassino, che avrebbe dovuto far balenare subito un sospetto di premeditazione.

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– L’assurdità del voler sostenere di non essersi reso conto di essere passato sopra Pasolini61 e l’altrettanto assurda affermazione di non averlo fatto, comunque, volontariamente – quando tra il cadavere e il margine libero della strada sterrata c’erano molti metri per passare. – La descrizione dettagliata di tutto l’accaduto, incluso il colore delle tavolette di legno usate per uccidere, quando era buio pesto, la zona non era illuminata e non c’era la luna62”. Risaliamo in auto, dopo che la dura scelta del dolce è immancabilmente e inesorabilmente caduta sul tiramisù; ora Armando guida in silenzio. Anche io sto zitto. È una storia di quarant’anni fa, ma per molti è ancora viva perché è Pasolini a non essere mai morto. Forse stiamo pensando alla stessa cosa. Non ci accorgiamo che alla nostra destra sfila la sagoma serrata e polverosa dell’ex stabilimento della Technicolor, ormai abbandonato dalla fine del 2014. Quando la clessidra ebbe esaurita la sua nera polvere, Pelosi restò l’unico imputato: di omicidio volontario. E venne il tempo del processo. Tribunale dei Minorenni di Roma63. In un tempo lontanissimo da oggi. Il processo fu a porte chiuse. La Corte decideva il destino di Pelosi, l’opinione pubblica avrebbe deliberato su quello di Pasolini. Il presidente della Corte era Alfredo Carlo Moro, fratello di Aldo, ma soprattutto un giudice che tutti rimpiangono. Il suo ufficio aveva pesanti tendaggi scuri e un divano verde sfondato, simboli visibili dell’importanza centrale della giustizia minorile nell’Italia del 1975. Il palazzo, oggi, è una vecchia signora arancione stinto, dietro le cui sbarre del primo piano passava Pelosi in giacca nei giorni del processo. 61

Come dirà giustamente Dacia Maraini, Pasolini non era un tappeto.

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La notte dopo sarebbe stata di Luna Nuova, quindi assenza di luna. Già il 2, quindi, non si vedeva nulla. 63

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All’epoca il Tribunale si trovava nel palazzo di via delle Zoccolette.

Il Pubblico Ministero era Giuseppe Santarsiero. Il dibattimento cominciò il 2 febbraio 1976 e fu inusualmente lungo per un processo minorile: Moro aveva capito che sarebbe toccato a lui colmare i buchi dell’inchiesta. Lo stesso giorno, da Casal del Marmo evasero cinque ragazzi: tra cui Mastini64 Giuseppe detto Johnny e Giorgio Mauro. Si consegnarono dopo pochi giorni; li ritroveremo più in là, nel corso di questa storia. Durò 15 udienze, il processo, fino a quando, il 24 aprile, non fu pronunciata l’ultima parola dell’ultima arringa. Nel frattempo, erano successe cose che ancor oggi si ricordano. Come il fatto che per la prima volta si verificò che il plantare non entrava né nelle scarpe di Pelosi né di Pasolini. O come quello che accadde il 16 febbraio, quando il tenente colonnello dei carabinieri Vitali, deponendo, informò la Corte che c’erano novità investigative. Sbigottimento generale. Che altro era mai successo? Il processo fu sospeso, in attesa di sapere se fosse roba seria oppure no. Non si rivelò esserlo e la faccenda finì lì. Ma noi ne parleremo per bene al momento giusto, perché quello fu il momento in cui entrarono in questa storia i nomi dei fratelli Borsellino65. Nomi che non ne sono più usciti. Il medico legale Faustino Durante (consulente per Calvi e Marazzita) aveva presentato la sua relazione in cui dimostrava, con una chiarezza inoppugnabile, che Pelosi aveva raccontato un mucchio di balle. Durante, a differenza dei suoi tre colleghi, la scena del crimine se l’era studiata bene. Sembrava aver visto cose che gli altri non avevano visto. Eppure, erano lì. La sua deposizione fu un botto epocale. Costrinse i tre periti del Pm (Umani Ronchi, Merli e Ronchetti) a rivedere il loro lavoro. Ma questo lo vedremo dopo. Il 5 aprile 1976 i tre firmarono l’integrazione alla loro perizia: Pasolini morì perché la sua Alfa GT, gli passò sopra. Vedremo poi in che modo. 64

Che abitava in una roulotte messa su un prato di piazza Crivelli, alla fine di via Diego Angeli: una traversa parallela della Tiburtina.. 65

Che abitavano in via dei Crispolti, sempre accanto alla Tiburtina.

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Mangia sosteneva che Pasolini fosse un violento e un osceno. Non era il solo. La pensava allo stesso modo parte della stampa: lo scrittore se l’era cercata. Se fosse stato eterosessuale, sposato e con figli – come tutti – non avrebbe corso alcun rischio e sarebbe rimasto tutto intero, non in una cella frigorifera. Mangia cercava di sostenere che chi aveva diretto un film come “Salò” poteva aver aggredito Pelosi, dimenticando o non sapendo che Pasolini aveva sì fatto un film che parlava anche di sadismo, ma da masochista puro. Per lui, quindi, Pelosi aveva ucciso senza volerlo e altrettanto senza volerlo era passato sullo scrittore ancora vivo. Omicidio colposo, insomma: e peraltro con l’attenuante della provocazione. E soprattutto per legittima difesa. Condanna massima, 5 anni66. Il 9 marzo la Corte vide i luoghi del delitto, all’Idroscalo. E ci furono le perizie. Quando l’imputato è minorenne, sono necessarie per stabilire il suo grado di maturità e la faccenda fa una certa differenza a processo, perché va a determinare la capacità di intendere e di volere dell’imputato, condizionando la pena. Di più: se poi fosse risultata una totale incapacità di intendere e di volere, questo avrebbe escluso qualsiasi forma di pena verso Pelosi, che se ne sarebbe uscito dal carcere. Un rischio enorme per la parte civile, l’unica possibilità di scappatoia per Rocco Mangia. E qui se ne confrontarono tre, di perizie: quella del Pm, quella della difesa e quella della parte civile Pasolini (i cui avvocati, abbiamo visto, erano due big: Nino Marazzita e Guido Calvi). Vediamo che scrissero. • Perizia psicologica dei periti del Pm, Claudio Busnelli e Alberto Giordano. Pelosi esprime un senso di povertà culturale, superficialità affettiva, vive il personaggio che la vicenda gli ha attribuito. Non sembra avere le strutture del “ragazzo di vita”, ma quelle di chi ha un grado di ma66

Da quel momento, comunque, Mangia divenne l’avvocato di Pelosi anche per gli anni e i processi a venire.

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turità inferiore alla sua età. Ha ripetuto la prima media e ha lasciato quando doveva ripetere anche la seconda: lo studio lo avverte come superiore alle sue possibilità. È primitivo, è totalmente incapace di intendere e di volere per immaturità. Perizia firmata il 9 febbraio 1976. • Perizia psicologica dei consulenti della difesa, Franco Ferracuti, Aldo Semerari67 e Fiorella Carrara. Sono perfettamente d’accordo (e ci mancherebbe altro) con l’immaturità di Pelosi, il che significa che, per loro, l’imputato non è imputabile. Il ragazzo è un ingenuo, ha un livello intellettuale debole. E aggiungono: “ben difficile è accettare l’ipotesi di trame elaborate da molti autori come in una cospirazione contro la vittima, nelle quali poi si finirebbe per servirsi di Pelosi, manifestamente immaturo e ‘semplice’, quale capro espiatorio di una diabolica, complessa e difficilmente occultabile macchinazione”. Perché i tre consulenti scrivono questo, che non c’entra nulla con la perizia? Perché la Fallaci l’hanno letta anche loro. Perché non hanno nessuna utilità a mettere altri in mezzo, non perché sappiano altre verità (questo, anche volendo, era e resta indimostrabile), ma perché dal punto di vista processuale una trama complessa potrebbe portare anche all’aggravante della premeditazione. Pelosi deve rimanere, per strategia di difesa, l’unico responsabile, solo questo gli ridurrebbe la pena; e può salvarsi grazie all’incapacità di intendere e volere, solo questo lo farebbe uscire. Semerari e Ferracuti erano due criminologi di primissimo piano; e stupisce che la loro perizia sia così superficiale, al punto da scrivere “nel triste mondo degli omosessuali e dei loro partner occasionali tali eventi sono frequenti e sfuggono all’indagine giudi67

Semerari era chiaramente prevenuto contro Pasolini. All’epoca dei fatti di San Felice Circeo aveva diffuso una sua perizia psichiatrica (fatta senza aver mai incontrato lo scrittore) in cui arrivava a definirlo “coprolalico, psicopatico, anomalo sessuale, esibizionista, skeptofilo, soggetto dagli istinti profondamente tarati”. Un vero professionista.

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ziaria. (…) L’omosessuale (…) sa cosa rischia (…). A volte, ciononostante, trova l’aggressione e la morte ”. Come a dire: sono cose che succedono, prima o poi ci scappa il morto e amen. Era un modo di pensare (e non un parere scientifico) comune a moltissimi italiani, all’epoca68. La conseguenza finiva con l’essere che Pelosi era anch’esso vittima: quello che serviva a Mangia. Semerari e Ferracuti, due uomini di destra, arrivavano a depotenziare l’assassino, quasi fornendogli una giustificazione per l’omicidio, anche se non arrivavano a dirlo a parole, per decenza o vigliaccheria. La loro perizia fu firmata il 12 aprile 1976. • Perizia psicologica del consulente di parte civile, Luigi Cancrini. Pelosi ha un ricordo emotivamente modesto del delitto. “Ne parla come di un fatto che riguarda altre persone e non sembra rendersi conto – a nessun livello – della sua gravità”. Tende alla negazione come meccanismo di difesa, un meccanismo primitivo che rende assai difficile un contatto concreto con la realtà dei fatti. Per spiegare questo, dice Cancrini, guardiamo al gruppo famiglia. Il padre è teso e rabbioso, attacca subito Pasolini durante il colloquio col consulente, è compiaciuto dei messaggi di solidarietà che ha ricevuto da tutto il mondo, teme solo che lui e il figlio possano avere delle seccature da parte dell’opinione pubblica. Implicitamente dice, quindi, davanti al figlio, che uccidere omosessuali va bene e il figlio abbozza, non critica. Anche la madre è d’accordo. Il padre non fa nessuna riflessione sulla condotta omosessuale del figlio. Nessuno di loro pensa che il prostituirsi sia accaduto per bisogno di denaro. Né il padre né il figlio. Ma allora è stato per una tendenza personale importante: però nessuno è disposto ad ammetterlo in famiglia. Nessuno se ne preoccupa: il comportamento 68

Tanto che non ebbero alcuna difficoltà a scrivere che Pasolini era un deviante “sociale e sessuale”. All’epoca era pure vero.

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del ragazzo viene definito occasionale. Nessuno, in famiglia, si è nemmeno preoccupato che abbandonasse la scuola. Pelosi nel colloquio dà risposte pronte e automatiche, minimizza l’accaduto, è compiaciuto della sua popolarità. Non si preoccupa di aver ammazzato qualcuno, ma del giudizio della gente perché la sua famiglia è stata rovinata da uno come Pasolini69, dal fatto che non è vero che il suo soprannome è “la Rana”70. Non c’è alcun realismo nell’affrontare l’accaduto. Il giudizio finale, per Cancrini, è di incapacità per immaturità. Immaturità come risultato del gruppo famiglia, della sua antisocialità verso i diversi, delle sue tensioni interne. È questa l’ulteriore bomba del processo: che la stessa parte civile dica che l’imputato è immaturo non s’era mai sentito! È un assist a Mangia! Che ci sia stata una grande onestà intellettuale da parte di Cancrini va detto e ripetuto, perché una volta su dieci capita che il consulente non sia d’accordo con la tesi dell’avvocato che lo paga. Questa fu una di quelle volte. A Marazzita e Calvi avrebbe fatto molto più comodo che Cancrini arrivasse a un’altra conclusione, cioè la piena capacità di intendere e di volere, perché solo questa avrebbe aperto le porte ad una condanna al massimo della pena. E invece… certo, gli avvocati avrebbero potuto non presentare una perizia scomoda come quella, ma non sarebbe stato un tradimento del lascito, del pensiero, del parlare aperto, della vita stessa di Pasolini? Onesti anche loro fino in fondo, decidono di presentarla anche se non sono affatto d’accordo, anche se non fa loro gioco. La perizia Cancrini viene così depositata all’udienza dell’11 marzo 1976. 69

Sempre la solita noiosa vecchia storia, è la vittima che ha rovinato l’assassino, costringendolo ad uccidere. Il classico ribaltamento per cui l’assassino diventa la vittima, come se non avesse scelto lui di ammazzare l’altro, comunque. 70

In effetti il suo soprannome era “Pelosino”, “la rana” lo inventarono i giornalisti.

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Ma i colpi di scena non era finiti, neanche un po’. Era stato un processo straordinariamente lungo per essere minorile. Arrivò il giorno delle arringhe finali. Il 22 aprile 1976. E qui, la parte civile ritirò la sua costituzione: non s’era mai visto prima. Con un’arringa memorabile, l’avvocato Calvi aveva spiegato i motivi di quel gesto. Avevano dimostrato che Pelosi non poteva essere da solo, la responsabilità dell’imputato e degli altri. Il loro compito era dunque concluso. Fu una scelta enorme: da quel momento in poi, la voce della famiglia non avrebbe più avuto alcun diritto di parola, in nessuna aula di giustizia. Alla fine del suo lungo discorso, Calvi citò quell’articolo di Pasolini, “Il romanzo delle stragi”, quello ormai arcinoto che inizia con “Io so”71. È un passaggio sotteso e importante del processo, perché quell’articolo da allora è diventato lo sfondo di tutto il delitto. Ma non è ancora tempo di vederlo. Non aveva le prove per dire che fosse un delitto fascista, Calvi. “Solo qualche indizio”, concluse. E lasciò la Corte con la sua coscienza. 24 aprile 1976. Tre perizie che dicono che sei immaturo. Certo, quel maledetto Durante aveva assestato un colpo pesante alla difesa, ma Mangia dev’essere stato contento come una Pasqua. Erano un colpo di fortuna insperato, quelle perizie. E lui si giocava tutto su quelle, che potevano azzerare ogni ricostruzione della parte civile e del suo medico legale. Aveva presentato Pelosi come uno che era stato costretto a difendersi, certo; che non s’era nemmeno accorto di aver ucciso. E che altro doveva dire? C’era da aspettarsi l’incapacità di intendere e di volere per Pelosi; e anche il ragazzino se l’aspettava72. Questa fu la richiesta di Mangia, a conclusione della sua arringa. Venne il giorno del giudizio. 71

L’articolo era stato pubblicato sul Corriere della Sera il 14 novembre

1974. 72

D’altronde, ne conosceva già il significato: per il tentato furto del 16.11.74 era stato assolto proprio per immaturità.

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26 aprile 1976. Ma Pelosi non era più imputato di omicidio volontario. La Corte aveva cambiato capo d’imputazione. Omicidio volontario in concorso con ignoti. Hai detto niente. Disastro. E se ne era infischiata delle tre perizie. Non ci aveva creduto, non era stata d’accordo. La Corte lo aveva trovato maturo proprio per come aveva saputo gestire il processo. Pelosi era pienamente capace di intendere e di volere. Risultato: 9 anni, 7 mesi e 10 giorni di galera. E tanti saluti. Ancor oggi, Pino Pelosi non riesce a darsi pace che con tre perizie a favore si sia beccato lo stesso 9 anni e rotti; e lo dice insinuando un’aria di sospetto, di stranezza, di incastriamoil-ragazzetto. Il punto è che la Corte non fu d’accordo con nessuna perizia; e si sa, il giudice è peritus peritorum. Dopo tanti anni di galera, dovrebbe saperlo che il giudice con tre perizie convergenti può farci quello che gli pare, anche rigirarle e usarle dietro per risolvere il sudoku. È successo a lui, è successo a tanti altri. Nessun giudice è tenuto a seguirle, decide di testa sua. Dopo la sentenza, all’uscita di Pino dal palazzo, lo zio fornaio si lanciò contro i fotografi urlando che era colpa loro. La stessa lunghezza d’onda del padre, che urlava che se non fosse morto uno famoso come quel porco di Pasolini non avrebbero condannato il figlio, che s’era solo difeso. La colpa è della vittima, si sa. Piuttosto, la cosa sconcertante non fu questa. Fu un’altra. La Corte aveva chiaramente detto una cosa nuova di zecca: “con ignoti”. Fu qui che avvenne l’impensabile. Ma siamo arrivati. Via Fusinato 5. Pelosi abitava qui. Non c’è niente da vedere, ma volevamo vedere lo stesso. Il palazzo è quello, ha un’aria povera anche adesso, figurati allora. Il classico palazzo romano a cortina, coi mattoncini rossi, eterni. “Come te lo spieghi il ricorso della Procura contro la sentenza?” fa Armando, dopo aver spento il motore, nel silenzio della strada e della periferia. “Marazzita dice così: «Mai visto che una Procura Generale impugni una sentenza per ridurre una condanna, in genere è per aumentare. Avevano l’obbligo giuridico di indagare sugli ignoti, non di sminuire

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la sentenza il giorno dopo. Fu una prevaricazione grossolana e volgare»”. Ci appoggiamo coi gomiti al tettuccio dell’Alfa. Il palazzo è qui, davanti a noi. Poco prima c’è una rotonda e un campo coltivato: di fronte un terreno vuoto, ancor oggi. “Armà, io ho notato questo: quel ricorso era firmato da Guasco, ma ovviamente in accordo con il capo della Procura, Walter Del Giudice, cioè lo stesso magistrato che aveva appunto sostituito Giunta con Guasco, per vederci chiaro. A meno di essere dotato di doppia personalità, il gesto di Del Giudice resta incomprensibile, se non se ne capisce – come dico sempre – il retroterra culturale. Non c’è dubbio: un ricorso ci poteva stare, ma ce lo si aspettava sull’immaturità, non sugli ignoti! Sai come la penso. Quando si sottolinea la follia di quel ricorso, si punta ancora al complotto. Ma era la stessa Procura che era stata favorevolissima a indagare pure cento mesi sul delitto, a cambiare Pm! Come si tengono le due cose, allora? Si tengono solo se la Procura riusciva a vederlo esclusivamente come il delitto di un singolo e l’ipotesi che ci fosse qualcun'altro le era inconcepibile. Basta scorrere le cinque pagine del ricorso per capirlo; quando parlano di ‘ipotesi fumosa’, ‘elementi indiziari labili’, ‘superficialità’. Per loro era già tutto chiaro, e cambiare le carte in tavola avrebbe significato trasformare un caso trasparente in un ‘torbido assassinio, dal quale non si può escludere la premeditazione, né l’abiezione dei motivi e la crudeltà dell’esecuzione, né soprattutto la diversità delle modalità originariamente addebitate, giacchè mutando lo schema in maniera totale, non può non cambiare il ruolo dei singoli protagonisti”. “Ma è di un profetico pazzesco! Guasco scriveva esattamente quello che sarebbe successo molti anni dopo! Il caso Pasolini si sarebbe rivelato proprio quello che né lui né la Procura volevano vedere: un delitto ‘torbido, abietto, crudele, totalmente diverso’, in cui il ruolo di Pelosi sarebbe cambiato totalmente!”. “È questo il punto: doveva rimanere quello che da subito era. Un delitto di ‘froci’. E anche in questo c’era un disprezzo

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della vittima, un disvalore, l’inutilità di indagare: tanto con uno così cosa vuoi che sia? Un delitto di ‘froci’, appunto”. “D’altronde, se la Procura Generale avesse fatto parte di un complotto avrebbe lasciato lavorare tranquillamente Giunta, il primo Pm, che non stava facendo nulla. No?”. “Capisci? Nessun mistero su quel ricorso, per me. Solo il prolungarsi di un giudizio morale sulla vittima, che finiva – ancora – per non darle pace. Lo stesso giudizio morale di quei processi assurdi, inutili, persecutori”. “Lo stesso sistema giudiziario. Lo stesso Governo che non aveva mandato nemmeno un telegramma di condoglianze. Mal digerito, a Pasolini un colpevole andava dato per obbligo di legge, ma non per convinzione vera. Andava dato ma col motore al minimo, burocraticamente, senza sforzo, per evadere la pratica. Pasolini stava sulle balle ai cattolici perché non era cattolico e ne metteva in discussione i punti fermi; a parte della sinistra, perché non era troppo organico; ai fascisti perché era antifascista. A tutti, perché era omosessuale dichiarato”. “I giudici, alla fine, rispecchiavano questa società”. “Volevano confinarlo, da morto, in un delitto omosessuale, inscatolandolo – quasi una vendetta, certo una forma di disprezzo – nell’immagine definitiva di ‘culattone’ solitario e disperato… Era la vendetta finale del mondo borghese; e quindi delle Istituzioni, di cui anche la Magistratura faceva parte al cento per cento. Fabio, nemmeno da morto Pasolini era al sicuro da ciò che aveva combattuto in vita”. 4 dicembre 1976, processo d’Appello: tutto in un solo giorno. Pena confermata, niente ignoti. Via. 26 aprile 1979, la Cassazione conferma. 8 febbraio 1985, tutti gli scatoloni con i corpi di reato giungono al Museo Criminologico di Roma. Saliamo in auto, ripartiamo. Nel palazzo alcune finestre sono gialle di luce. Ripenso alle parole di Nico Naldini: “Dopo la morte di Pasolini sua madre Susanna fu riportata a Casarsa a vivere nella casa paterna assieme alle sue due sorelle. Invece di

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dersi nella demenza, aveva trovato in quella casa una sorta di complicità per retrodatare la sua vita in un’epoca indefinibile della sua giovinezza, precedente comunque al matrimonio e alla nascita dei suoi due figli, morti entrambi tragicamente. Le tre sorelle chiacchieravano per ore dei loro antichi spasimanti, citando a memoria brani di lettere. Anche Casarsa era tornata ai loro occhi quella di un tempo. Quando Susanna fu trasferita in una clinica di Udine, il suo stato peggiorò rapidamente. Negli ultimi mesi ha tenuto gli occhi sempre chiusi, le palpebre contratte nello sforzo di mai più riaprirle”. E poi la morte, il primo giorno di febbraio del 1981. La morte, ancora. Di colpo, la voce di Armando mi riporta nel mondo dei vivi. “Sembrava tutto finito, eh? E invece…”.

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Capitolo 4

Testaccio

Ora invece siamo a Piazza Testaccio, un quadrato di marmo bianco. Intorno a noi, i battiti di uno dei cuori della città. A qualche centinaio di metri, vicino il vecchio mattatoio, lavora nelle cucine uno degli ex membri della Banda della Magliana. La casa dove è nata Gabriella Ferri sta qui dietro. Il cimitero acattolico, con Shelley, Gadda e silenziosi gatti, pure. E Gramsci: ecco, quel bianco e nero di Pasolini in piedi, nel suo impermabile elegante, davanti alle ceneri di Gramsci, cinque anni prima di morire. E poi, chilometri e chilometri sconfinati dentro i quali si impastano il cemento, l’asfalto e i tre milioni di storie e alito di questa città. E certo, non ci siamo fermati qui per caso. Fa un freddo che la metà basta. Forse non è nemmeno la giornata più gelata dell’anno nuovo, forse siamo noi, che il ghiaccio ce l’abbiamo dentro. Poggiamo i fogli di fianco, sulla panchina. Guardiamo la porta di “Zì Elena”, uno dei bar storici della piazza e del quartiere. Sì, quello che fa il disinvolto dentro e fuori, che sorride e scherza, è lui, Pelosi Giuseppe, nato a Roma il 28 giugno 1958. Ci lavora. L’abbiamo cercato in lungo e in largo e poi alla fine, come nel finale a sorpresa di un giallo, abbiamo scoperto che stava qui, dietro casa, in piazza. Che era già lì da un pezzo. E ci siamo seduti su questa panchina di ferro, solo per accorgerci che non abbiamo niente da dirgli, niente da ascoltare. Ci ritroviamo tra le foglie ingiallite che il vento muove davanti a noi, a fissare un bar. Tra poco l’insegna al neon farà la sua figura, sul muro. Tra poco scenderà la sera. Se quell’uomo è l’unico testimone certo di quella notte, se ha visto, se sa, allora rimettiamo in fila tutto quello che ha detto da quando è uscito, rientrato, riuscito, rientrato in carcere.

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Prendo un foglio e leggo. “Semilibero dal 1982, in libertà condizionata dal 1983, fino al 2005 Pelosi viene arrestato per diversi motivi: rapina a un furgone postale (verrà assolto), furto in un appartamento (6 mesi di carcere), rapina a una gioielleria (3 anni e 6 mesi), e poi tentato furto d’auto (4 mesi) e poi altre accuse per ricettazione, truffa, droga, semilibertà e via dicendo73. Ah, c’è anche una perizia psichiatrica del 28 ottobre 1986 in cui diceva di soffrire di allucinazioni, di vedere il fantasma di Pasolini”. Guardo Armando. Che dice: “L'impressione è che sia inattendibile, ma dobbiamo capire ancora se possiamo fidarci delle sue parole, se sono un punto di partenza o no. È una storia di parole, questa, che si mischia con la storia di silenzi delle riaperture e richiusure dell’inchiesta”. “E allora, qui ci tocca mettere in fila la maggior parte delle deposizioni, interviste e dichiarazioni rilasciate da Pelosi da allora a oggi. Poi, se il lettore vuole saltare direttamente alle nostre conclusioni, basta che salti alla fine del capitolo, dove metteremo tutte le cose che non funzionano in quello che dice”. “Mi sembra una giusta avvertenza per chi ci leggerà, ricordiamoci di scriverlo sul libro”. “È l’11 aprile 1987: prima istanza di Marazzita per la riapertura dell’inchiesta – comincio io, aiutandomi con le carte, mentre il vento graffia i fogli – su cosa si basa? Sulle modalità dell’uccisione di Pasolini e sulla presenza del sangue sul tettuccio. C’è un motivo molto semplice per questa richiesta a sorpresa dell’avvocato: sono i giorni di Johnny Mastini, te lo ricordi?, il ragazzino evaso durante il processo”. “Mi ricordo! Il 27 marzo dello stesso 1987 è stato arrestato per una sequenza infinita di crimini: decine di rapine, due omicidi, la città nel terrore, la caccia all’uomo scatenata dalla polizia, l’arresto nelle campagne di Sacrofano”. 73

Mentre, con tutto il ritardo del caso, verrà assolto per quel furto sul pullman proprio per immaturità, quando invece era maturo per uccidere Pasolini. Assurdo, eh?

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“Esatto. Il 16 aprile il sostituto Procuratore Generale della Corte di Appello, Antonio Listro riapre le indagini sull’omicidio Pasolini, inviando una comunicazione giudiziaria a Mastini. Si sa, infatti, che lui e Pelosi si conoscevano, frequentavano gli stessi posti; c’è dunque il sospetto che uno violento come Johnny possa aver partecipato al delitto, soprattutto per via del plantare ritrovato nel GT: tutti dicono, infatti, che Mastini zoppica. Lui negherà, ovviamente. E l’inchiesta, come s’era riaperta, verrà chiusa”. “Ok, qui arriva la prima apparizione pubblica di Pelosi. Se la ricordano in pochi: è il 23 ottobre 1994 a ‘Storie maledette’ della Leosini (1994). Dice che prima di quella sera non conosceva Pasolini e che ha reagito alla sua violenza: ‘… l’ho colpito, l’ho colpito ai genitali, l’ho lasciato là che ancora era vivo, rantolante. Poi è morto per schiacciamento dell’automobile, io manco c’arrivavo, manco vedevo davanti, era tutta bassa, c’avevo 17 anni, lui è morto per quello non per la conseguenza delle botte’”. “L’anno dopo – sono passati già vent’anni, è il 1995 – esce ‘Pasolini. Un delitto italiano’ di Marco Tullio Giordana. Negli stessi giorni in cui il film viene presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, Marazzita fa una seconda istanza per la riapertura, il 2 settembre. Senti cosa dice: «Dopo questo film (e anche dopo che nel marzo precedente era uscita, su ‘Oggi’, un’intervista a Renzo Sansone, in cui si parlava del caso – chi sia Sansone ve lo spieghiamo dopo, N.d.A.) chiesi la riapertura del caso perché la pellicola poteva riproporre degli elementi che il regista aveva selezionato con accuratezza e che la Procura non aveva mai preso in considerazione. Fu aperto un fascicolo che poi fu chiuso». E siamo a due. Lo stesso anno, Pelosi scrive un libro: ‘Io, angelo nero’ (1995/1). È ancora la versione classica, quella in cui lo scrittore ha cercato di violentarlo, lui ha reagito e l’ha ammazzato. Era da solo, nessuno li seguiva. La racconta così: il 1° novembre, dice, era al bar di via Lanciani e è stato invitato alla festa. Finita la quale con i suoi amici vanno

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a Termini a vedere ‘Maria Trastevere’ al Moderno74. È già iniziato, quindi per passare il tempo vanno al chiosco. Lui sta bevendo il tè, si ferma un’auto e il tizio lo chiama per chiedergli una strada. Siccome non ha capito bene l’indicazione, gli chiede di andare con lui per accompagnarlo. Pelosi dice agli amici che sarebbe tornato entro dieci minuti. Il resto lo sappiamo: Pasolini, qui, diventa ‘quella bestia, quell’animale’. Ribadisce di essere stato da solo, quella notte, anche al Tg1 del 10 settembre 1995 (1995/2)”. “Oh, e qui succede il botto. Passano dieci anni e il 7 maggio 2005 (2005), Pelosi torna dalla Leosini, stavolta a ‘Ombre sul giallo’, e rilascia un’intervista ormai famosa75, in cui ribalta il caso e soprattutto la sua versione dei fatti. Ecco il succo di quel filmato: «Sono innocente. Io ho vissuto trent’anni nel terrore. Sono stato minacciato. Io, mio padre, mia madre. (…). Queste persone ora o saranno morte o saranno anziane, i miei sono morti, quindi ora non ho più paura. (…). Queste persone erano già grandi allora. Pasolini mi disse quella sera: dai andiamo, mangiamo insieme, facciamo una toccatina. Ventimila lire, aveva detto. Si comportò da perfetto gentiluomo, era rispettoso. All’Idroscalo abbiamo fatto un rapporto orale, lui a me, si è tolto gli occhiali, poi sono sceso perché dovevo urinare, mi sono avvicinato alla rete e mentre urinavo sono spuntate tre persone. Una è venuta da me, due da lui. Io sono stato minacciato, picchiato, due punti in testa e una frattura al naso. Era scuro, non ci si vedeva tanto, aveva la barba. Pasolini è stato tirato fuori e hanno cominciato a picchiarlo, non so con cosa. Hanno iniziato lì e poi c’è stato trambusto. Io ho cercato di reagire e ho preso una bastonata al naso. Lui urlava, poi da lontano non si vedeva più nulla. Uno aveva un accento del sud, gli gridavano ‘sporco comunista’, ‘arruso’, ‘fetuso’, ‘frocio’. 74

Pelosi confonde i film in programmazione quella sera nei due cinema: “A tutte le auto della polizia” al Moderno, “Maria R. e gli angeli di Trastevere” al Modernetta. Entrambi, comunque, vietati ai minori di 18 anni. 75

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Per la sua presenza Pelosi percepisce un compenso di 8.000 euro lordi.

Non credo che Pasolini li conoscesse. Pasolini non reagiva, lo stavano a massacrare. Io ho provato anche a fuggire, niente. L’impronta sarà stata di Pasolini, si sarà aggrappato76, avrà tentato di fare qualcosa certamente. Io non conoscevo Pasolini come persona e tantomeno conoscevo l’Idroscalo. Io ho visto andar via dopo un 1300-1500 Fiat, erano queste le auto che andavano allora. Non lo so, poi disse il benzinaio che era targata Catania, non lo so. Prima hanno cominciato da dentro e poi tirato fuori. C’è stata una difesa sua e poi una colluttazione. Sull’auto di Pasolini sono salito io, poi non lo so cosa è successo, io non vedevo nulla, era tutta acqua, io non l’ho ucciso volontariamente. Io non l’ho visto quando si è sfilato la camicia, poi sentivo urla sempre più lontane. L’ho rivisto quando se ne sono andati via. Mi hanno detto: ora prendi la macchina e te ne vai, scordati di noi. Avevano 45-46 anni, li vedevo come uomini grandi, c’avevo 17 anni, non so quanto sia durato questo pestaggio, il tempo s’era dilatato. Hanno minacciato a me, ai miei genitori non dissi nulla, né a mia madre né a mio padre. L’anello è il mio. Io sono andato vicino al corpo per vedere come stava quel poveraccio. Lui ha fatto quel rantolio e io ho sbiellato. Non lo so come c’è finito l’anello vicino al corpo, so’ tante le cose misteriose di questa storia. Ho preso e so’ partito, non mi sono accorto di esserci passato sopra. In carcere dissi che avevo ucciso Pasolini perché l’ho visto mezzo morto e quindi ero convinto che ormai era morto. Ma che ne so del golf e del plantare?»”. Riesco per un secondo a fermare la cascata di parole di Armando: “Alla trasmissione sono presenti Calvi e Marazzita. Pelosi, insomma, che dice? Da una parte che furono altri ad aggredirlo, dall’altra di essere comunque passato lui sopra Pasolini vivo, però involontariamente. E qui si passa al 2008”. “Aspetta, Fà, ce sta un’altra riapertura di mezzo… Dopo aver inizialmente negato che le dichiarazioni di Pelosi sarebbero servite mai a qualcosa, il 9 maggio 2005 la Procura cambia idea e apre la terza inchiesta. 76

Si riferisce alla macchia di sangue rinvenuta sul tettuccio dell’auto, lato passeggero, di cui abbiamo parlato prima.

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E qui succede qualcosa. L’avvocato Calvi sale in auto e si reca a Ostia, a casa dei fratelli Citti77. Ti ricordi? Sergio è molto malato, ma ha qualcosa da raccontare. Sarà una testimonianza filmata, in cui esce fuori qualcosa di inedito. Ne parleremo in un altro momento: comunque, è roba che verrà acclusa all’inchiesta, come formale atto di indagini difensive. Lo stesso Citti viene sentito dai giudici, vedremo dopo cosa dice. Nell’inchiesta viene coinvolto di nuovo Johnny Mastini, perché due detenuti, Walter Carapacchi e Pasquale Mercurio, dicono ai giudici che ‘lo zingaro’ ha confidato loro di aver ammazzato Pasolini. Si presenta anche un terzo detenuto, Damiano Fiori, che dice di aver ricevuto analoga confidenza dallo zio di Johnny. Mastini viene sentito l’11 luglio, dice che Pelosi lo conosceva di vista e nega il resto. Il 15 settembre dello stesso anno la Procura chiede l’archiviazione: per i giudici resta il delitto di un solo uomo, lui. Pelosi fece tutto da solo perchè colpì di sorpresa Pasolini; la Chiarcossi potrebbe aver fatto una pulizia solo sommaria del GT e maglione-plantare potrebbero essere lì dal giorno prima; le indicazioni sui Borsellino non hanno senso in quanto deceduti; le dichiarazioni di Fiori-Carapacchi-Mercurio sono state smentite da Pelosi e Mastini e non coincidono i tempi di carcerazione; non c’erano tracce di altre auto né moto; le dichiarazioni di Pelosi sono verso persone ignote e non si può avere paura delle minacce di gente sconosciuta; Citti è stato sentito dai Pm con esito deludente; Naldini78 ha sconfessato la pista Citti. Un mese più tardi, l’11 ottobre, alle 6 di mattina, muore Sergio Citti”. “Citti è fondamentale, hai ragione. Adesso saltiamo di tre 77

Franco e Sergio Citti sono stati collaboratori storici di Pasolini al cinema. Attore dei suoi film il primo, sceneggiatore, aiuto-regista e curatore dei dialoghi il secondo. 78

Cugino diretto di Pasolini, suo biografo, Naldini conosceva Pasolini fin dall’infanzia e aveva lavorato nell'ufficio stampa della casa di produzione di “Salò”.

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anni. Pelosi ripropone lo stesso racconto, con varianti e nuovi particolari, a Claudio Marincola de ‘Il Messaggero’. È il 23 luglio 2008 (2008/1). «La prima volta che lo vidi fu al chiosco di Piazza dei Cinquecento. Fu lui ad avvicinarmi, io non sapevo chi fosse. Scese dalla macchina, entrò nel bar, mi offrì qualcosa da bere. Che si trattava di Pasolini me lo dissero soltanto dopo gli amici che stavano fuori e ci videro parlare. Ma lo sai che quello è uno famoso – mi dissero – lo sai che con quello se possono fa’ ’n sacco de soldi?» Poi: «Con Pasolini ci dovevamo vedere già la sera prima ma lui passò in Piazza dei Cinquecento, abbassò il finestrino e mi disse che non poteva, che ci saremmo visti il giorno dopo»”. “Che poi Marincola voleva scrivere un libro con Pelosi, l’intenzione sicuramente c’è stata, ma con il passare dei giorni ha capito che poco avrebbe fatto con lui”. “Sì, immagino, aspetta, ecco qua… Lo stesso anno esce il documentario di Roberta Torre, ‘La notte quando è morto Pasolini’ (2008/2). Ti ricordi? Pelosi, tra le righe, ripete che non era la prima volta che incontrava il poeta. Dice che ha visto spesso quel gesto di togliersi gli occhiali, che Pasolini gli aveva regalato un libro, la chiama ‘l’ultima cena’. Sugli assassini: «Ero terrorizzato da queste persone, mò sono passati 30 anni e rotti, o sò morti, sò morti, perciò va bene, nun ponno pagà niente perché sò morti, o saranno morti, c’avranno settant’anni… io nun li conosco, non so nome e cognome, perciò non c’è problema…». La Torre gli chiede se ha mai raccontato a qualcuno la verità: «L’avvocato Rocco Mangia sapeva tutta la verità». Gli chiede se c’è ancora qualche pezzo di verità da dire. E lui: «Mah, non credo…». E sorride in camera”. “A settembre, sempre del 2008 (2008/3), per il loro libro ‘Profondo nero’, Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza intervistano Pelosi: il testo uscirà nel 2009. Estraiamone solo le parti che dicono qualcosa di nuovo. «È vero. Quella sera io e Pasolini avevamo un appuntamento al chiosco della stazione. L’avevamo fissato una settimana prima, questo appuntamento, quando c’eravamo visti per la prima volta, io e lui, proprio a quel cacchio di chiosco di piazza dei

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to. Io ci andavo spesso in quel bar, ci andavo con gli amici, avevamo diciassette anni, giravamo sempre per strada, ma non per fare marchette, noi andavamo spesso al cinema. Ce n’erano un paio, di cinema: il Moderno e il Modernetta, nei pressi della stazione. (…) Una sera mi è capitato di conoscere Pasolini in quel chiosco. Lui è sceso dalla sua bella macchina, è entrato al bar, abbiamo scambiato quattro chiacchiere. Lui mi ha chiesto: ‘Tu vieni spesso?’. E io ho risposto: ‘Sì, passo di qui la sera, quando vado al cinema’. Poi mi ha offerto da bere. Prima di quella sera non l’avevo mai visto. E non sapevo nemmeno chi fosse. Che si trattava di Pasolini me lo dissero gli amici che stavano fuori e ci videro parlare. ‘Ma lo sai che quello è uno famoso? – mi dissero – lo sai che con quello se possono fa’ ‘n sacco de soldi?’». «Ma vi siete dati un appuntamento»? «Ah sì. Un appuntamento per il sabato successivo, a una settimana di distanza. Per rivederci sempre al chiosco. Quella sera c’erano pure Franco e Giuseppe Borsellino con me e gli altri amici davanti al chiosco di piazza dei Cinquecento. E quei due stavano tramando qualcosa, qualcosa di brutto, me ne sono accorto subito, e perciò gli ho detto chiaro che io non volevo partecipare, non ne volevo sapere nulla. Poi arrivò Pasolini, con la sua bella macchina, e io me ne andai con lui». «Quando la macchina e la moto hanno cominciato a seguirvi, lei si è accorto di questi movimenti»? «No, assolutamente. Non ho visto nulla, con Pasolini stavamo dentro la macchina, a parlare, non guardavo fuori». «E all’Idroscalo, cos’è successo?» «La macchina di Pasolini è entrata da quell’apertura, ed è arrivata fino a quel punto, dove c’era la porta di un campetto di pallone. Pasolini ha parcheggiato proprio lì. Era buio, sembrava deserto. Stavamo lì, dentro l’auto, abbiamo fatto quello che ho raccontato più volte, quella cosa lì… Poi io sono uscito dalla macchina, sono andato a urinare vicino alla rete… E in quel momento è spuntata una macchina scura, non so se un 1300 o un 1500, e una moto. Sono arrivate in tutto cinque persone. A me m’ha bloccato subito uno con la barba, sulla quarantina, m’ha detto: ‘Fatti i cazzi tua,

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rasta’ ho preso una bastonata e un cazzotto. Ho visto che trascinavano Pasolini fuori dalla macchina, e lo riempivano di pugni e calci, picchiavano forte. Gridavano, ho sentito le urla, gli dicevano: ‘Sporco comunista, frocio, carogna’. Ho avuto paura, mi sono allontanato nel buio. Sono tornato quando tutto è finito. Due li conoscevo. Erano Franco e Giuseppe Borsellino. Poi c’era questo che mi ha colpito, questo con la barba: non lo conoscevo, ma l’ho visto da vicino che aveva una quarantina d’anni. Gli altri due non so proprio chi fossero». «Durante il pestaggio di Pasolini, lei cosa faceva»? «Io mi sono allontanato, ho preso quel cazzotto, ero terrorizzato, e mi sono nascosto nel buio, sono tornato indietro solo quando quelli se ne sono andati via. Pasolini stava per terra. Ho visto il corpo immobile. Mi sono spaventato, ho preso la sua auto e sono fuggito. Ho visto che non c’era più niente da fare e sono scappato. Sono andato alla fontanella, mi sono sciacquato e sono scappato con la macchina sua. Ho fatto un pezzo contromano e i carabinieri mi hanno fermato. Mi hanno arrestato per furto d’auto». «Lei ricorda di essere passato, fuggendo con l’auto, sul corpo di Pasolini»? «Non ricordo… quella notte era tutto fango. La macchina sobbalzava, io avevo diciassette anni, ero piccoletto ed essendo una macchina bassa, un GT, io praticamente non vedevo nulla, solo un pezzetto del vetro. Ancora oggi non so nemmeno se sono stato io a schiacciarlo sotto le ruote, o se l’avevano schiacciato prima quegli altri con la loro macchina. La zona era piena di buche, con acqua e fango, e poi ero confuso, non capivo niente, ricordo solo che scappavo su quell’Alfetta, col sedile basso, che neppure arrivavo a vedere attraverso il parabrezza, non vedevo niente, correvo e pensavo solo a scappare». (…) «L’anello è mio. Me l’ha dato uno steward dell’Alitalia che abitava nel mio cortile. Era un amico mio, ci giocavo a pallone… Lui portava questi anelli americani, glieli pagavo 25.000 lire e li rivendevo a 50.000. Era un business. Quell’anello mi piaceva e l’avevo tenuto per me. Lo portavo al dito pure quella sera e deve essermi caduto…». «Perché ha aspettato tanto per fare queste rivelazioni»?

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«Ho ricevuto tante minacce, una montagna di minacce. In tutti questi anni ho pensato alla mia sicurezza, alla sicurezza dei miei genitori. Ora mio padre e mia madre sono morti. Non ho più nessuno (…)». «Perché lei si è accollato tutto»? «Me l’ha consigliato il mio avvocato, Rocco Mangia. Mi ha detto: fai così, esci presto, sei minorenne. Mi sono chiesto il perché, in questi mesi, più volte. (…) Bon voyage! Io la galera me la sono fatta tutta. Otto anni mi sono fatto». “Dunque, fammi capire: la bomba di questa intervista è nel dare dei nomi ad alcune delle ombre dell’Idroscalo: Franco e Giuseppe Borsellino. E chi sono? Sono vecchi amici di Pelosi, dai tempi in cui abitava al Tiburtino III. I due fratelli sono molto più criminali di lui, nonostante l’età: nel ’75 Giuseppe ha 15 anni, Franco 13. Ma sanno già cosa sono i commissariati, le Gazzelle dei carabinieri, le armi. La loro strada l’hanno già scelta e gli piace pure. Che altro c’è da dire? Ah, che al momento di queste dichiarazioni, sono già morti da parecchi anni. La bomba del libro, invece, è nell’ipotizzare un collegamento tra la morte dello scrittore, il libro che stava scrivendo in quei mesi, ‘Petrolio’, e la morte di Enrico Mattei, presidente dell’Eni, avvenuta nel 1962 a causa di un attentato. Pasolini sapeva troppo? Stava per scriverlo? E se Pelosi fosse stato messo in mezzo dagli esecutori di un omicidio di Stato?”. “Eh, saperlo. Passiamo al 2009. Qui ci sono le dichiarazioni al blog di Beppe Grillo (2009/1). Ti leggo il succo. «Quello che immaginai io è che ci seguivano da Roma. Vidi a Ostia i Borsellino con questa moto e una 1500 da cui scesero tre persone, io presi le sue difese ed ebbi una botta al naso e tre punti in testa. (…) Ritornando ai Borsellino e a questa sezione Msi, penso che volessero dare una lezione non so se al comunista o al gay. Io non ero immaturo, ero proprio un bambino. (…) Ho preso una mazzata in testa e una botta al naso. (…) Seppi dopo che Pasolini aveva tre-quattro milioni in macchina». L’elemento nuovo è la presenza dei soldi in

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auto, di cui però Pelosi non spiega da chi ne ha saputo. Implicitamente, se fosse vero, sta ammettendo di conoscere gli assassini… non trovi?». “Testimonianze progressive, mi ha sempre incuriosito questo. Ogni volta che ha rilasciato una dichiarazione lo ha fatto per interesse e sempre, palesemente, con la speranza che qualcuno gli possa offrire una ricompensa per quello che racconterà. Una sensazione molto forte. Comunque, qui arriviamo al 27 marzo 2009, accade qualcosa di importante: una nuova istanza di riapertura, stavolta presentata dall’avvocato Stefano Maccioni e dalla criminologa Simona Ruffini, che conosco e stimo molto da tantissimi anni. Che propone una nuova idea. La Ruffini sta scavando da mesi nella vicenda Pasolini, quando esce ‘Profondo nero’; e si accorge che lei e Lo Bianco-Rizza la pensano allo stesso modo. La sua proposta è semplice: approfondire la pista di ‘Petrolio’ e fare, ora che è possibile, gli esami del dna sui reperti della notte dell’Idroscalo. Si potrebbe anche fare la Bpa: cioè esaminare gli schizzi di sangue sui vestiti di Pelosi e capirci qualcosa di più su come andarono le cose. Le posizioni reciproche, le armi usate. È una richiesta legittima, ma non sarà appoggiata da Graziella Chiarcossi; piuttosto da Guido Mazzon, cugino dello scrittore. Comunque sia, la richiesta viene accolta e l’inchiesta numero quattro parte”. Lo stesso anno, Pelosi viene intervistato in diretta da RadioRadio (2009/2). Conferma che erano in cinque. «Sono stato minacciato sia in carcere sia fuori. Poi sono uscito. (…) La mia colpa è stata quella di trovarmi al posto sbagliato nel momento sbagliato. La mia famiglia è stata minacciata tramite lettere. Io non so chi sono questi altri». E poi arriva il suo secondo libro, quello più importante”. “Nel frattempo, succedono cose. A Pelosi ruba, facendo credergli che non registrerà quello che gli sta confidando, un’intervista Valter Rizzo di ‘Chi l’ha visto?’, nell’aprile 2010 (2010/1). Questo è quello che riesce a strappargli: che quello con la barba l’ha visto benissimo e potrebbe descriverlo, che la nomina di Mangia non è stata una sua idea: «E chi

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lo conosceva?». A ‘Complotti’, la trasmissione de La7, Pelosi dichiara che aveva conosciuto lo scrittore una settimana prima, al chiosco” (2010/2). “Ed eccoci al libro di Pelosi. Infatti, ci interessa un sacco, ‘sto libro. Dunque, si chiama ‘Io so… come hanno ucciso Pasolini’ ed esce a settembre 2011 (2011/1): la prima novità è nell’affermare ciò che molti pensavano, e cioè che vittima e assassino si conoscessero da tempo. Pelosi colloca il primo incontro con lo scrittore nella prima settimana di luglio del 1975, alla Stazione Tiburtina, la sera. Lo scrittore accosta, lui sta lì a non far nulla, lo porta a mangiare da ‘Spaghetti House’ in via Cremona. Poi si fanno un giro e gli fa guidare l’auto dalle parti di Colle Oppio. Lo riporta a casa alle 2 di notte. Al momento dei saluti Pelosi gli indica due posti abituali dove potrà ritrovarlo: al bar ‘Mary’ di piazza Massa Carrara e al chiosco di Piazza dei Cinquecento. Seguono altri incontri, tra cui uno nella seconda metà di luglio, in cui i due vanno a una marana, chiamata ‘l’Incastro’, dalle parti di Tor Sapienza. Qui si divertono a scavalcare un muretto e rubare insieme patatine da un deposito. Giocano a pallone a Villa Ada, passeggiano di notte al Pigneto. Prima settimana di ottobre, escono da un ristorante di Ponte Mammolo e sotto la pioggia vengono aggrediti da dei ragazzi dopo aver forato. Pelosi scivola per reagire, mentre Pasolini aggredisce due ragazzi del branco, mettendoli in fuga. Tra un racconto e l’altro, Pelosi fornisce un nuovo movente per la morte di Pasolini; e questa è la seconda cosa importante, la più importante del libro. È la storia delle bobine rubate dell’ultimo film di Pasolini, ‘Salò’, come movente dell’appuntamento all’Idroscalo o esca per l’omicidio. Per il momento la teniamo da parte, eh? Un primo appuntamento per la restituzione delle famose bobine, in cambio di soldi, era saltato nella seconda settimana di ottobre. Lui e Pasolini avevano aspettato invano il contatto nel buio di via Gaeta79, una stradina a pochi metri 79

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Pelosi scrive via Goito, ma non può essere altri che via Gaeta.

dal chiosco di Termini, il Bar Dei, che ormai conosciamo a memoria. Poi, spazientito, Pelosi aveva chiamato i suoi amici, i fratelli Borsellino, che erano implicati nel furto, verso le 2-3 di notte, per scoprire che era tutto saltato. Il nuovo appuntamento è fissato all’una e mezza della notte tra 1 e 2 novembre, all’Idroscalo. Quello tra lui e lo scrittore invece è fissato alle 22.30 a Termini. La mattina del 1 novembre, da Termini, Pelosi chiama i Borsellino per l’ultima conferma. Poi passa il pomeriggio con gli amici, nella cantina di Sergio Frontoni. Guarda, te lo riassumo senza commentarlo minimamente, eh? Lo scrittore arriva al chiosco e gli chiede se ha fame, così si allontanano per cenare. Però si fermano a parlare a Porta Portese. Pasolini vuole regalargli un premio ricevuto, una statuetta, che ha nel cruscotto. A quel punto Pelosi si rende conto che s’è tenuto le chiavi della 850, cui sono legate anche le sue chiavi di casa. Tornano indietro alla stazione, apre l'auto, prende le chiavi di casa. Cerca i suoi amici davanti al chiosco, non li trova, ‘nel frattempo s’erano già spostati a piedi davanti al cinema’. Prende le chiavi di casa e lascia quelle dell’auto a Seminara, dicendogli di lasciare poi le chiavi sotto il sedile. Ripartono e alle 23.30 sono al ‘Biondo Tevere’. Ha la sensazione angosciosa che una moto li stia seguendo. Durante la cena lo scrittore gli mostra il telegramma ricevuto mesi prima dal Presidente dell’Anica e relativo al furto delle bobine. Escono a mezzanotte. Anche andando a Ostia ha la stessa sensazione: sono seguiti. Arrivano all’Idroscalo all’una. E qui ti leggo testualmente: «Dal buio assoluto, quasi irreale, vidi spuntare i fari di due autovetture, davanti a una di loro una moto. Le macchine si fermarono a raggiera puntando entrambe gli abbaglianti verso la GT, come fosse la scena di un film. Non capivo cosa stesse succedendo. I fari delle auto si incrociarono, riconobbi immediatamente la Gilera dei Borsellino. Franco era alla guida, Giuseppe dietro di lui. Riuscii a riconoscere le due auto: una FIAT 1500 scura e una GT identica a quella di Pier Paolo. Dalla GT non scese nessuno mentre dalla FIAT uscirono tre uomini. Uno, alto,

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grosso e con la barba folta venne dritto verso di me. Mi afferrò per il giubbetto e mi sbatté con violenza addosso alla rete. ‘Adesso fatti i cazzi tua. Statte fermo qui e non te move’. Gli altri due si diressero verso la macchina di Pier Paolo, il quale non era riuscito neppure a rendersi conto di quello che stava accadendo. Non fece neppure in tempo a rimettersi gli occhiali e a percepire il pericolo. Avrebbe potuto rimettere in moto e scappare, ma i due furono così veloci che aprirono di scatto la portiera, lo afferrarono per il collo della camicia e lo tirarono violentemente fuori dalla macchina. Per evitare qualsiasi reazione lo colpirono immediatamente alla testa e al volto con delle mazze di ferro. Pier Paolo cominciò a urlare, si mise una mano in testa e si accorse che sanguinava, provò a divincolarsi cercando di rientrare in macchina per tentare disperatamente la fuga. Poggiò le mani sul tetto dell’auto, ma venne trascinato via e gettato a terra. Io cercai di reagire, di liberarmi per andare a soccorrerlo. Strillai per richiamare l’attenzione di qualcuno, urlando: ‘Ma che cazzo state a fa’, lasciatelo stare!’. Il tipo che mi teneva fermo mi diede prima un pugno sul naso poi, siccome insistevo, mi colpì in testa con un corpo contundente. Stordito dalla botta, fui costretto a desistere. La mia reazione distolse l’attenzione dei malfattori, permettendo a Pier Paolo di scappare verso il buio, nella direzione della moto dei Borsellino. La seconda GT si avviò; fece marcia indietro per tentare di fermarlo. Gli girò intorno, ma la strada era troppo sconnessa per riuscire a prenderlo. Pier Paolo riuscì ad allontanarsi ma le sue urla intervallate da ripetuti colpi di legno che si rompeva non lasciavano adito a una possibile fuga. Io ormai non lo vedevo più ma immaginavo dove fosse dalle urla sue e dei suoi aggressori che provenivano dal buio. Mi colpì specialmente quando disse: ‘Aiutami mamma’ che ripeté urlando più volte, fino a spegnersi del tutto. Erano delle urla tremende, disumane, come di un animale ferito a morte. Poi il silenzio». (…) «Non sapevo neppure da che parte andare, scorsi una fontanella su una piazzetta. Lasciai la macchina in moto ancora tremante e mi sciacquai il viso e le mani. Mi tolsi il fango dalle scarpe, mi asciugai le mani sui pantaloni e

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lii a bordo dell’auto. Senza accorgermene imboccai una rotatoria contromano. Fu proprio in quell’istante che una Giulia dei Carabinieri che proveniva in senso contrario si accorse dell’infrazione e mi venne dietro». Pelosi afferma qui, per la prima volta, che non è stato lui a montare sul corpo del poeta. Ma aggiunge che in carcere, a Rebibbia, un detenuto di cui non riuscirà a scoprire il nome gli dirà, tempo dopo: ‘Pino continua così, stai andando bene, non te lo dimenticare mai’. Lo trasferiscono a Civitavecchia e qui, in carcere, riceve una lettera anonima battuta a macchina: ‘L’appello è vicino. Comportati bene. Ricordati che qui fuori ci sono mamma e papà. Bruciala’. Insomma, i segni di una pressione costante che gli assassini facevano su di lui perché non parlasse. Mai. Pelosi scrive anche una cosa grave: che Mangia gli disse che c’erano alcune foto fatte dalla Scientifica relative al sormontamento del corpo da far sparire, ma che a questo ci avrebbe pensato qualcun altro. Io lo so, perché fai quella faccia”. “E certo, quindi mi vuoi dire che vengono effettuate delle fotografie e poi la Scientifica solo vedendole al volo capisce che potrebbero far cadere il grande complotto. Quindi prende le fotografie e le distrugge, dopo di che, non so assolutamente come, ricrea la striscia di negativi coi numeri sequenzialmente corretti ed infine costringe 4-5 operatori a tacere e di conseguenza anche tutti i poliziotti accorsi. Interessante questa cosa, mi permetti di non crederci?”. “Permesso concesso. Da notare che l’affermazione che ci fosse una seconda auto uguale al GT sembra una novità assoluta, ma in realtà è successiva a quella, ampiamente pubblicizzata, fatta un anno prima da Silvio Parrello, detto ‘er Pecetto’80.” “E siamo a quel 20 dicembre 2011, ti ricordi?, quando c’è la presentazione del libro, ormai pronto, di Simona Ruffini, Stefano Maccioni e Valter Domenico Rizzo, ‘Nessuna pietà per Pasolini’ (2011/2). Modera Walter Veltroni. Siamo alla 80

Lo incontreremo nel prossimo capitolo.

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Mondadori di via Piave a Roma e tra la folla, in fondo, si vede a sorpresa la faccia di Pelosi, che a un certo punto interviene e si mette a parlare col politico: ho miscelato le parole di ‘Repubblica’ e le immagini di Rai Uno che raccontano quel pomeriggio: «Pino, anche se non ci conosciamo ti chiedo una cosa. Sono stato amico di Pier Paolo e non ho mai creduto alla tua versione dei fatti. Hai mentito per paura, perché eri minacciato. Ora dicci cos’è successo». Pelosi, aggressivo: «Voi m’avete definito un Giuda a me, ma voi che avete fatto? Io mi sono messo in mezzo e ho preso pure le botte». Veltroni, con calma: «Hai parlato di tanta gente coinvolta nell’omicidio, tutti morti. Anche l’assassino è morto? O vive e non ha mai pagato?». Pelosi: «Sì, è ancora vivo». (…) «Chi ti minacciava?», chiede Veltroni. «I fratelli Borsellino», risponde lui. «Dicci di quella sera». «Pasolini mi ha fatto salire in macchina a Termini. Siamo andati a cena al ‘Biondo Tevere’ e abbiamo mangiato sopra»81. Gli chiedono se c’erano i camerieri, quella sera. «Non mi ricordo, penso di no. Non so perché l’ho detto allora, non me lo ricordo». «Poi siamo andati all’Idroscalo (…). In seguito ho ricordato che ci seguivano dalla stazione. (…) Io presumo che c’hanno seguito dalla stazione, forse solo con una moto e basta. Escludo Johnny Mastini. (…) Uno di loro è venuto da me, me le avevano già date, e mi ha detto ‘inventati qualcosa, se dici qualcosa famo fuori te e tutta la famiglia tua’. E pure in galera me lo ricordavano, erano detenuti questi, quando mentivo mi dicevano ‘bene così’. Non mi hanno mai mollato». Sull’anello: «Ce l’hanno buttato loro per incastrami, fu quello alto con la barba. Fu lui a dirmi di inventarmi questa storia. (…) Io i nomi che potevo fare li ho fatti, già li ho fatti». Veltroni gli chiede se ha ancora paura, visto che fa solo i nomi di chi è morto: «Può essere». «C’è altra gente, allora, 81

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Il ristorante è su due livelli.

che potrebbe prendersela con te?». «Nì» è la risposta, mischiata a un sorriso enigmatico. E il desiderio di verità resta sospeso a mezz’aria”. “Fà, ma come mai in ogni deposizione ci tiene a sottolineare che non c’era Johnny Mastini?”. “L’ho notato pure io, effettivamente ottiene l’effetto opposto, fa sospettare qualcosa. E adesso siamo al 2013. Nel documentario per la televisione ‘Ho ucciso Pasolini’ (2013/1) Pelosi modifica un particolare: «Non ci accorgemmo che ci seguivano, ce ne accorgemmo quando arrivammo là». E vabbè. Poi, il 6 dicembre, Martina Di Matteo e Simona Zecchi pubblicano sul Manifesto un’intervista a lui (2013/2). Rispetto alle precedenti affermazioni, queste le novità. Nota come Pelosi, che all’epoca fu ribattezzato ‘la rana’ dai tuoi colleghi, andrebbe oggi soprannominato ‘l’anguilla’… Prima domanda: «L’uomo con la barba è vivo?» Lui ride. «Gli altri due, sono morti»? «I due picchiatori? Non li ho visti bene ma erano più giovani del ‘barbone’ che all’epoca aveva 40 anni. Quell’uomo era più importante dei picchiatori, gestiva tutto. Lui mi ha gettato via l’anello. Certo potrebbe appartenere all’altro livello». «Non lo conosci o hai paura»? «Non so nulla. Però mi chiedo perché non interrogano anche tra le passate conoscenze dello scrittore, Ninetto Davoli: perché ha fatto rottamare la macchina che Pasolini gli aveva lasciato? Perché non glielo chiedono? La macchina di Pasolini poteva essere ulteriormente analizzata». «Se, come hai detto, il sangue sul tettuccio della macchina, sangue lavato via dalla pioggia, era di Pasolini, cos’altro potevano trovare in quella macchina, oltre ai reperti rinvenuti e oggi sotto esame»? «Sotto il sedile». «Cosa poteva esserci sotto il sedile»? «Non lo so. Sotto il sedile… niente…». «Cosa c’era»? «Ma l’accendino mio l’hanno trovato?» «È importante questo accendino»? «Può essere importante come l’anello. Dov’è, chi l’ha preso? È sparito» (…). «Vincenzo Panzironi, proprietario de ‘Il Biondo Tevere’,

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fece una tua descrizione che però non sembra corrisponderti (biondo, con i capelli lunghi fino al collo)…» «Può darsi che Panzironi abbia fatto confusione con i giorni: il giorno prima Pasolini era in compagnia di un biondo» (…)82. Sui Borsellino: «Non li vedevo perché erano lontani, non so nemmeno se hanno partecipato anche loro al pestaggio. Ma sono arrivati dopo, con la moto». «Dici di non conoscere i due picchiatori ma hai fatto i nomi dei fratelli Borsellino quando erano già morti, sarà così anche per i due picchiatori»? «Non dirò mai nulla» (…)”. “Ormai siamo quasi ai giorni nostri. Il 29 marzo 2014 (2014/1) Pelosi rilascia un’intervista ad Augusto Parboni de ‘Il Tempo’. Ripete per l’ennesima volta di non aver detto tutto: «La verità non la conoscerà mai nessuno, solo io la so, per l’85 per cento, esclusivamente io potrei dire chi ha ucciso Pier Paolo Pasolini». (…) E perché ancora oggi, dopo anni di carcere, continua a non parlare? «Se parlo rischio grosso, il pericolo è dietro l’angolo per me». Ma ancora non ha rivelato alcun nome però, nessun elemento per le indagini. «Io non so se chi è coinvolto nel delitto di Pasolini è ancora in vita o se è morto. Se sono in vita avranno tra i 70 e gli 80 anni. Quindi non posso rischiare di parlare neanche adesso». Il 19 ottobre 2014 Pelosi rilascia un’intervista alla Leosini, la terza, per ‘Storie Maledette’ (2014/2). La conduttrice, se ci fai caso, appare molto risentita nei suoi confronti, dopo le 82

In effetti Panzironi descrisse un ragazzo coi capelli biondi. Pelosi li aveva neri. L’avvocato Maccioni sostiene allora che lui debba aver riconosciuto un’altra foto, cioè quella di un biondo. Il fatto, poi, che nessuna foto sia allegata al verbale di riconoscimento, come la prassi impone, gli mette il dubbio che Pelosi non fosse al Biondo Tevere, quella sera. E che ci fosse un altro ragazzo. Noi ci chiediamo: se la Questura ha mostrato, che so, la foto di Mastini a Panzironi, per poi sostituirla con quella di Pelosi (allo scopo di coprire Mastini e incastrare Pelosi), non ha forse corso un enorme rischio? Panzironi (o la moglie) poteva smentire la Questura in qualsiasi momento, con i giornalisti oppure al processo, successivamente. Non era un gioco troppo articolato e rischioso?

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ultime dichiarazioni di Pelosi stesso che smentiscono completamente quanto lui le aveva detto in passato; e gliene chiede conto. «È vero che io ho modificato le mie versioni dopo il 2005. A distanza di 5-6 anni da quelle dichiarazioni io dovevo fare il mio secondo libro ed è venuto da me Federico Bruno83 col mio avvocato. Loro sono riusciti ad estrapolarmi cose che non avevo mai detto, sempre perché io avevo paura, sono stato minacciato di morte». La Leosini gli contesta che lui ha parlato dopo che i Borsellino e Citti erano già morti. E lui: «È ovvio». Poi: “Dopo cena ci siamo avviati verso Ostia ma io ad un certo punto dovevo fare pipì e ci siamo fermati ad Acilia. Sono sceso, sono risalito in macchina e siamo ripartiti. Secondo me lì c’è stata la macchina che ci seguiva (…)». E siamo al 1 dicembre 2014 (2014/3). Dichiarazioni di Pelosi al Pm per la quarta inchiesta. Uno dei momenti più divertenti di quel verbale è quando Pelosi conta e dice che c’erano «uno, due, cinque, sei persone», davanti al giudice. Dice che vide i Borsellino a Termini, li rivide dal benzinaio ma non sapeva che volessero. Però sapeva che avevano fatto il furto delle bobine, perché s’era rifiutato di farlo con loro, sapeva che la serata era per le bobine. Salta Acilia e il Pm glielo fa notare. Allora lui la rimette dentro: due soste per urinare, Acilia e Idroscalo. La restituzione era gratis, ma Pasolini aveva dei soldi sotto il tappetino. Prima nega di aver fatto da mediatore, poi dice che non era stata una mediazione vera, poi «eh, non me ricordo bene, mo’… che avevo detto? Manco mi ricordo io»”. “Ed eccoci belli belli al 2015. Il 25 maggio la quarta inchiesta si conclude – era ora – ma con un’altra archiviazione. Vero, sono stati individuati diversi profili genetici sui reperti di quella notte, ma non è stato possibile datarli (non lo è mai, col dna): quindi potrebbero essere anche successivi al delitto, quando tutti toccavano tutto con le mani. O precedenti. Siamo di nuovo al palo. La delusione è forte. 83

Regista cinematografico.

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Adesso ti dico, invece, cosa dice lui nell’intervista rilasciata nel novembre successivo a Martina Di Matteo per ‘Futuro Quotidiano’ (2015/1). Il punto che viene affrontato è la discrepanza tra l’affermazione dei Carabinieri che vanno a casa Pasolini, quella notte, a dire che l’auto dello scrittore è stata rubata ma ritrovata sulla Tiburtina e il fatto che invece tutto sia avvenuto, secondo il verbale di Cuzzupè e Guglielmi, a Ostia. Il che porta la giornalista a sostenere che evidentemente, se l’auto dello scrittore non è stata ritrovata dove sembrava, nemmeno l’arresto è andato come sembrava. E che c’erano, evidentemente, due auto uguali quella notte all’Idroscalo: l’Alfa Romeo GT 2000 di Pasolini e un’altra GT uguale, solo di colore diverso, introdotta come sappiamo da Silvio Parrello. La seconda avrebbe investito e ucciso lo scrittore. «Erano uguali» dice Pelosi «e non mi sono fermato a guardare i documenti, i carabinieri li hanno visti. Io sono stato arrestato a bordo di un’Alfa GT 2000, non so se era quella di Pasolini. (…) Te lo ripeto un’altra volta, era un’Alfa GT ma non è che stavo a guardare la targa, non guardavo ‘ste cose ma non so se era la stessa o era quella ritrovata a via Tiburtina, io non lo so. Poi mi hanno arrestato, non so se c’è stato qualche scambio». Il fatto reale è uno: la macchina su cui ti hanno arrestato l’avete vista solo tu, Cuzzupè e Guglielmi. Solo tu puoi dire che macchina era84. 84

Non esiste alcuna prova documentale che l’auto di Pasolini sia stata ritrovata effettivamente sulla Tiburtina. Il fatto che un’altra Compagnia se ne sia occupata spiega agevolmente l’equivoco. Sarebbe bastato sapere come funziona in questi casi. La Compagnia di Ostia, causa un guasto telefonico nella zona Eur, non riesce a chiamare casa Pasolini e informa i colleghi dell’Eur, che mandano una pattuglia. Tre passaggi di notizie. Sufficienti, con un po’ di distrazione, a far diventare la Tiburtina da luogo del furto a luogo del ritrovamento. Anche perché la Compagnia dell’Eur non era tenuta a spiegare alla sua pattuglia che la chiamata arrivava da Ostia: e che glielo diceva a fare? Gli avranno detto: andate lì e riferite questo. Stop. Perché dare credito al ricordo orale di Davoli, che riferisce a sua volta cose apprese dalla Chiarcossi, e non al verbale dei due Carabinieri di Ostia? Poi, costruire un universo su questo per inventare la conferma alle proprie tesi è un altro discorso. Che Pelosi

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«Oggi comincio pure io a masticare amaro. Ma ho preso la macchina di Pasolini o…? Non lo so che hanno fatto dopo. È importante la storia della seconda macchina perché conferma che non ero da solo, che sono innocente. Non sono passato io sul corpo di Pasolini. (…) Io ho confermato delle due macchine uguali e nessuno ci credeva. Ho detto la verità. Poi c’era la Fiat 1300 o 1500 e poi la moto, quella dei Borsellino, ma non li ho visti in faccia e non credo che gli hanno menato»”. E chiudiamo con le dichiarazioni di Pelosi all’Unint – c’eravamo anche noi, no? – il 16 dicembre 2015 (2015/2). Di interessante ha detto solo questo: «Io mi avvicino alla rete per fare pipì e uno con la barba mi afferra e mi tira un cazzotto qua, frattura del naso in ospedale. Due punti in testa e frattura al naso, che poi questa lastra era sparita. Difendo Pasolini, prendo le botte. Mi dicono: butta l’anello qua, non dire niente, minacciano la famiglia, m’hanno dato ‘sta versione che ho portato avanti fino al 2005. (…) Quello che ho detto è l’85% della verità, il famoso 15% quando sto a Santo Domingo – parato – lo dirò. Lui aveva 3-4 milioni sotto al tappetino, è sparito l’accendino mio d’oro. (…) I Borsellino non hanno picchiato Pasolini. L’ho conosciuto alla Stazione Tiburtina, ma è una cosa che tengo per me, non mi va di parlarne». Alziamo gli occhi. L’insegna si è accesa. I bambini col loro pallone sono svaniti nella sera. Qualcuno esce dal supermercato con le buste della spesa, guardandosi intorno. Due ragazzi sfidano l’inverno fumando piano su una panchina. Passa un cane. Passano i giorni. Altri giorni. L’eco degli organi Hammond, la maggiore età che scende a 18 anni, Bill Gates che crea la Microsoft, e poi i guantoni di Cassius Clay, Pannella che fuma hashish in pubblico, Fellini che vince l’Oscar. E poi l’attentato a Charlie Hebdo, il volo della Germanwings che si schianta da solo, i matrimoni gay che diventano diritto costitumi, non dimostra nulla. Pelosi conferma qualsiasi cosa a chiunque, a seconda di quello che l’intervistatore vuole sentirsi dire. Più che aspettare una verifica della propria tesi, bisognerebbe provare a metterla in dubbio, a falsificarla, per vedere se regge o no.

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zionale negli Stati Uniti, la fine dell’embargo a Cuba, l’acqua su Marte. Abbiamo riletto tutto. Ogni parola, ogni mezza parola, ogni non detto. Ed ora ecco l’elenco delle 39 tra contraddizioni, falsità, incongruenze, ambiguità e inverosimiglianze di Giuseppe Pelosi rispetto a tutte le dichiarazioni che avete letto finora, dal 1975 al 2015. 1. Contraddizione tra quando dice che il chiosco di Piazza dei Cinquecento85 era uno dei posti che frequentava di più (2008/3, 2011/1) e quando, una volta arrestato, afferma che era lì casualmente, che non frequentava la stazione (1975/3). 2. Falsità sull’episodio dell’aggressione di Ponte Mammolo: andò molto diversamente (2011/1). Pelosi ha evidentemente letto male la storia di altre aggressioni. «Pasolini voleva farsi un sandwich con due del Colosseo e, anziché in un prato, quelli l’hanno portato su un ponte. Qui, minacciandolo di buttarlo sotto, nel Tevere, gli hanno fatto firmare un assegno da 250 mila lire» (Fallaci, 1975). Marazzita: «Un gruppo di fascisti lo voleva buttare giù da Ponte Garibaldi, ma un’auto si fermò e alcuni stranieri corsero in suo aiuto». Altri, non Pelosi. 3. L’inverosimiglianza di Pelosi che alle 2-3 di notte (!) telefona ad un bar di periferia, la notte di via Gaeta (2011/1). 4. Contraddizione tra il collocare il primo avvistamento di Pasolini sul GT sotto i portici della piazza, lato via Giolitti (1975/1) e poi invece dalla parte opposta dei giardinetti (1975/2), quando i suoi amici lo collocano invece subito lì. 5. Ambiguità nel non spiegare cosa ci facesse a Piazza dei Cinquecento quando telefona a Franco Borsellino la mattina del 1 novembre. I suoi amici dicono che andò a prenderli alle 12.30 (2011/1). 85

Che ha un nome, Gambrinus, ma era noto anche come Bar Dei, dal nome del proprietario.

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6. Inverosimiglianza e falsità nel dire che, dopo essere partiti da Termini, lui e Pasolini si fermarono a parlare a Porta Portese. Che senso aveva, se era già tardi e stavano andando a cena insieme? (2011/1) 7. Inverosimiglianza del tentato dono della statuetta a Pelosi (2011/1). 8. Inverosimiglianza del mostrargli il telegramma al Biondo Tevere, che fu comunque ritrovato nel cruscotto dell’auto (2011/1). 9. Contraddizione sulle chiavi. 1975/2: dice che torna indietro a riprendere le chiavi dell’auto e di casa da Seminara, gli lascia il doppione dell’auto e se ne va con Pasolini (versione confermata da Seminara, Deidda e De Stefanis – gli ultimi due parlano solo di chiavi di casa, Seminara aggiunge che era un mazzo unico e Pelosi si tenne anche il doppione dell’auto). 2011/1: ora la novità è che le aveva lasciate tutte nell’auto, tranne il doppione dell’auto stessa. Perciò prima di tornare da Seminara al chiosco lui e Pasolini dovettero andare all’850 di Pelosi. 10. Contraddizioni sul presunto inseguimento. Pelosi nega dapprima che li abbiano seguiti (1995/1), poi immagina li abbiano seguiti da Roma (2009/1), poi (2011/1) dice che ebbe la sensazione angosciosa che una moto li stesse seguendo sia mentre andavano al ristorante che dopo. Poi invece afferma (2011/2), contemporaneamente, che presume che li avessero seguiti e che in seguito ha ricordato che li seguivano. Successivamente afferma (2013/1) che non si accorsero di essere stati seguiti. 11. Contraddizioni e falsità sui testimoni. Pelosi dice dapprima (1995/1) che il gestore della pompa e il titolare del ‘Biondo Tevere’ videro bene che nessuno li seguiva (non è vero, dissero che non ci avevano fatto proprio caso); poi che il gestore della pompa, in chiusura, vide un’auto che li seguiva (2011/1), targata Catania (2005): ma il testimone della pompa di benzina non era il gestore, l’impianto era già bello che chiuso e il teste, appunto, non aveva prestato attenzione ad altre auto né tantomeno alla targa.

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12. Falsità sui tempi. Pelosi dice che arrivarono all’Idroscalo all’una, il che vorrebbe dire che dal ristorante ci hanno messo un’ora! (2011/1) 13. Contraddizioni sulla conoscenza degli assassini. Dal 2005 al 2010 dice che gli assassini sono o saranno tutti morti, di non sapere chi siano (tranne i fratelli Borsellino). Però poi, nel 2011 (2011/2) rivela che uno è ancora vivo, quindi di sapere benissimo chi è. Nel 2009 (2009/2) e 2013 (2013/2) invece dice di non sapere nulla o non voler dire nulla. Nel 2014 (2014/1) sostiene che anche se hanno 70/80 anni potrebbero essere vivi: teme, in pratica, che degli anziani possano ammazzarlo… 14. Contraddizioni sui genitori. Dice sempre che non sapevano nulla dei retroscena di quella notte, ma nel suo libro li ringrazia per aver sempre taciuto al fine di proteggerlo (2011/1). In altre occasioni dice invece che i suoi furono minacciati ma che lui non disse loro nulla (2005). 15. Contraddizione sull’inizio dell’aggressione. Afferma che iniziò dentro l’auto (2005), circostanza mai più affermata. 16. Contraddizione sulla reazione di Pasolini. Nella stessa intervista prima dice che non si difendeva, poi che lo faceva (2005). 17. Falsità sull’aver difeso Pasolini. Pelosi afferma di essere stato colpito al naso e alla testa (2005, 2008/3, 2009/1, 2011/1) tanto da riportare la frattura del naso (2015/2), ma questo non risulta dal verbale dei carabinieri, né tanto meno da quello dell’Ospedale, che lo visita la notte stessa. Le foto segnaletiche scattategli a Regina Coeli il 2 novembre ne mostrano il viso totalmente senza tumefazioni, ecchimosi, lividi. Ha in testa il cerotto della botta data al parasole del GT e basta. Nonostante ciò Pelosi ripete la sua solfa, giocando sulla presunta sparizione delle radiografie fattegli la notte dell’arresto e sulla presenza, invece, di altre fatte mesi dopo, da cui risulta una frattura composta del naso, risalente più o meno al periodo del delitto… ma sicuramente ben precedente la

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notte del 1° novembre, altrimenti il naso gonfio, sanguinante e tumefatto di Pelosi sarebbe stato registrato da tutti, quella notte, soprattutto dai carabinieri, che avevano tutto l’interesse a evitare una possibile denuncia. Non sa, Pelosi, che le prime radiografie, quelle dell’Ospedale di Ostia, non sono mai sparite: noi le abbiamo viste. E che esistono le foto della matricola di Regina Coeli. Quindi, non ha mai difeso Pasolini al punto di prenderle ‘da quello con la barba’. Contraddizioni sull’anello: non so come è finito lì l’anello, forse mentre colluttavo o scappavo (1975/3, 2005), mi hanno tolto e gettato l’anello (2011/2, 2013/2), mi hanno detto di buttare lì l’anello (2015/2), deve essermi caduto l’anello (2008/3). Contraddizioni sulla versione ufficiale: dice che fu l’uomo con la barba a imbeccarlo (2014/1, 2015/2), mentre precedentemente aveva affermato che gli aveva detto solo di inventarsi qualcosa (2011/2, 2013/2). Falsità nell’affermare che non si è accorto di aver sormontato Pasolini (1975/1/2/3/5, ma ancora nel 2005/1, 2008/3), cosa impossibile come dimostrato in dibattimento e dal buon senso. Contraddizione e incongruenza nell’affermare che non vedeva nulla a guidare perché il sedile era basso, mentre però andava contromano a 160 km/h (1994, 2008/3). Falsità nell’affermare che con Pasolini doveva vedersi già la sera prima, ma lui passò a Piazza dei Cinquecento e gli disse che non poteva (2008/1): la sera del 31 ottobre Pasolini non uscì di casa. Contraddizioni nella definizione dell’appuntamento. Fu stabilito la sera prima (2008/1), una settimana prima (2008/3), nell’arco dei 15 giorni precedenti (2011/1). Falsità e inverosimiglianza nel dire che la sera prima Pasolini era stato a cena con un ‘biondo’ al ‘Biondo Tevere’ (2013/2). Premesso che i gestori del ristorante lo negano, se nel ‘biondo’ poi vogliamo allusivamente vedere Giuseppe Mastini dobbiamo considerare due cose: la prima è che Mastini non è mai stato biondo, ma

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castano. La seconda è che la sera prima era uscito di galera da poche ore e possiamo credere a tutto tranne che Pasolini (che peraltro restò a casa sua: testimonianza della cugina Graziella Chiarcossi), incurante di aver fatto Stoccolma-Parigi-Roma in dodici ore, non avesse altro da fare che correre a offrire una pizza a un pregiudicato86. Contraddizioni sul ruolo del cinema di Piazza Esedra. All’inizio non lo nomina affatto (1975/1), poi dice che, arrivati in zona Termini, si sono recati subito al cinema, dove hanno visto solo un pezzo del primo tempo (ma nessuno dei suoi amici conferma) per poi andare al chiosco e rientrare dopo (1975/2), ma che non ricorda se fu quella sera o un’altra. Eppure sono passati appena tre giorni. Quindi, afferma che erano andati a Termini solo per una passeggiata (1975/3). Nel 1995 torna alla versione per cui il film era iniziato e così se ne andarono al chiosco (1995/1). Poi il cinema sparisce, fino al 2011 (2011/1), ma stavolta ci sono andati solo i suoi tre amici. Ambiguità sul parcheggio. Dice che parcheggiarono davanti al chiosco (1975/2), ma i suoi amici collocano invece l’auto dalle parti di piazza Indipendenza. Falsità sulla presenza dei camerieri. Dice che il padrone e i camerieri del ‘Biondo Tevere’ ossequiarono Pasolini all’ingresso al ristorante, ma quella serata era fiacca e i camerieri erano già andati via (1975/1). Contraddizione e falsità sulla visibilità. Ripete costantemente che non ci si vedeva a due-tre metri e che quindi lui non ha visto cos’è successo dopo la primissima fase dell’aggressione, però descrive l’utilizzo dei paletti, il fatto che uno dei due s’è rotto, che uno fosse verde, il fatto che sono stati buttati vicino la rete e il calcio ai testicoli (1975/1/2). Falsità sull’anello. Dice che porta due anelli ai mignoli e non sa quale ha perso all’Idroscalo, come se non

Qualcuno ritiene che quello del biondino fosse un sopralluogo prima del delitto, come se i sopralluoghi si facessero insieme alla vittima.

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potesse procedere per esclusione. I mignoli sono solo due… (1975/3). Falsità sull’accensione dei fari. Dice che è ripartito coi fari accesi (1975/1), poi che non lo sa (1975/5) ma, se fosse ripartito a fari spenti, si sarebbe chiaramente schiantato prima di tornare sulla via dell'Idroscalo, vista la sagoma irregolare della strada sterrata. Contraddizioni sul luogo del primo incontro con Pasolini. Dice che lo ha conosciuto a Stazione Tiburtina (2011/1, 2015/2), oppure al chiosco (2008/1/3, 2010/2). Ambiguità. Colloca i Borsellino al chiosco, quella sera (2008/3), poi questo particolare sparisce. Poi li colloca sia a Termini che anche dal benzinaio (2014/3). Contraddizione sulla conoscenza del piano. Nega di essere stato a parte del piano contro Pasolini (2008/3), poi lo afferma (2011/1), poi che sapeva che andavano lì per le bobine (2014/3). Contraddizione sui suoi movimenti dopo l’aggressione. Dice di essersi allontanato, cioè fuggito dopo avercele prese (2008/3) per ritornare a cose finite, poi però dirà sempre di averci solo provato e di non essere riuscito a muoversi di un passo. Contraddizione sui soldi. Dice di aver appreso solo dopo (e da chi?) che ci fossero 3-4 milioni in auto (2009/1), poi afferma che lo sapeva (2011/1, 2014/3), poi fa un’allusione chiara a qualcosa che stava sotto il sedile (2013/2). Contraddizione e ambiguità sulla fontanella. Afferma che era quella di Piazza Scipione L’Africano (2013/1). Poi dice invece che era situata in Piazza Gasparri (2013/2). In ogni caso sembra strano che quella notte sia riuscito a trovare una fontanella senza conoscere Ostia. Ambiguità sul secondo GT. Il discorso che ci fosse lo aggiunge nel 2011/1 e cioè solo dopo la testimonianza di Silvio Parrello del 2010 (lo ripeterà in 2015/1). Falsità e ambiguità sul colore dell’auto. Dice che non si accorse, al momento della fuga, se era salito sul GT di Pasolini (argentato) o sul presunto GT numero due

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(amaranto) (2015/1). Ma questa evidentissima differenza di colore l’ avrebbe notata anche un cieco: quando scese e risalì, alla fontanella, o quando fu fermato dai carabinieri, Pelosi non vide di che colore era l’auto che stava guidando? 39. Contraddizioni e ambiguità sul ruolo dei Borsellino. Nel 2008 (2008/3) dice che c'erano e parteciparono al pestaggio. Poi che non lo sa (2013/2). Poi (2015/1) che ha riconosciuto solo la moto ma non le facce dei due fratelli, comunque non pensa che abbiano menato. Poi che non parteciparono (2015/2). Si resta sempre sconcertati da personaggi come Giuseppe Pelosi. Dovremmo esserci abituati. Ma no. “Ci siamo rivoltati sotto e sopra quelle parole, Fà. Lo sapevamo, ma volevamo vederlo per esteso” dice Armando, quando ci incontriamo di nuovo in piazza, una settimana dopo. “Sono quei tipi che ti raccontano tutto e il contrario di tutto. Creano loro per primi una confusione pazzesca, ma sempre continuando a urlare come gli unici che sanno la verità, gli unici che la cercano! Chiunque sia loro di fronte è prezzolato, non capisce, e ovviamente non ne sa quanto loro. Loro sono degli incompresi. Ne abbiamo incontrati, nelle nostre indagini. Alcuni sono mitomani totali, altri creano parzialmente una verità, mischiando – come nel caso di Pelosi – verità e menzogna”. “Sì, ma anche questo bisogna saperlo fare, ci vuole raffinatezza. Se ti contraddici e sei incongruente, ambiguo e falso per 39 volte, che credibilità puoi avere? Pelosi ha progressivamente detto sempre più la verità, certo, ma mischiandola a elementi letti sui libri o creati al volo. Solo che non sa mentire. Lo fa in maniera spudorata, con un eccesso di sicurezza che diventa sfrontatezza, su gentile richiesta del duemiolionesimo giornalista che cerca di capire come andarono le cose, adeguandosi a quello che vuole sentirsi dire”. “Il bello sai qual è? Che a molti sta simpatico, appare come uno che è stato messo in mezzo, che ha pagato per altri. Ci sta. Ma è anche vero che una delle ragioni principali per

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cui oggi stiamo ancora a cercare la verità sull’Idroscalo è che – a parte le indagini fatte male – il contributo di Pelosi fino ad oggi è stato contemporaneamente veritiero, lacunoso, opportunistico e menzognero. Pelosi non è un assassino, ma nemmeno un innocente. Che sarebbe stato Pelosi Giuseppe senza Pasolini? Uno qualsiasi. Ha perso 8 anni di vita per quella notte, ma adesso è una star che parla in tv. Forse pensa che la sua storia glielo debba, perché non gliene è mai andata una giusta. Ma gli piace. Dio, se gli piace”. “Non ci resta che fare una cosa sola”. Nell’impossibilità di distinguere con chiarezza il falso dal vero in ciò che afferma, prendiamo una decisione: azzerare la testimonianza Pelosi. Qualsiasi cosa abbia detto. Ripartire da zero, come se non avesse detto nulla. Né il vero, né il falso. Se il disprezzo degli altri è stato uno dei pugni dati a Pasolini quella notte, non possiamo che cercare la verità, ancora una volta.

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Capitolo 5

Monteverde

È mattina quando saliamo su a Monteverde. Abbiamo appuntamento con il “Pecetto”, al secolo Silvio Parrello. Silvio della morte di Pasolini ha scritto e detto, è stato lui a tirare fuori la storia della seconda Alfa Romeo GT; e non solo. Succedeva nel 2010. Vogliamo farcela raccontare bene e vogliamo capire cosa pensa del delitto, perché ne ha conosciuto tanti protagonisti. A partire da Pasolini, che lo ha reso eterno mettendolo dentro “Ragazzi di vita”, che è nato qui87, è stato scritto qui, parla di queste strade, facce, muri. Era il 1955. Noi non eravamo ancora nati, non so se mi spiego. E un ragazzo di vita non l’abbiamo mai conosciuto. E no, non si può parlare della morte di Pasolini senza conoscerne la vita. Siamo sul marciapiede di via Ozanam, ma la bottega di Silvio la riconosciamo subito. Lo vedi da fuori, che dentro ci sta un poeta e un pittore. I manifesti con le facce di Pasolini, della Betti, l’opera di Ernest Pignon (una potente Pietà laica: Pasolini vivo tiene in braccio Pasolini massacrato), lampi che si allungano fin dove finisce il muro. Lo spazio del ricordo non basta mai, conquista mattonelle su mattonelle, cerca ostinatamente di restare, di resistere alla crudeltà del sole e delle stagioni. E anche Silvio sembra uscito dal passato. Il suo vestito d’ordinanza è la salopette jeans che portavamo da bambini. Capello bianco corto, fisico asciutto, romanesco come t’aspetti che sia, cordiale. In realtà, Silvio è un puro. Che veglia sulla memoria di Pasolini. 87

Pasolini aveva abitato nel quartiere: dal 1954 al 1959 in via Fonteiana 86 (Monteverde Nuovo), dal 1959 al 1963 in via Giacinto Carini 45 (Monteverde Vecchio).

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La sua bottega ha fogli e fogli di giornale attaccati sulla porta: parlano tutti di lui. Perché Pasolini qui ci ha abitato. Era un altro quartiere. A Monteverde Vecchio, elegante, abitavano i borghesi; a Monteverde Nuovo, quelli che nun c’avevano ‘na lira. C’erano i palazzi di edilizia popolare fatti fare dal fascismo; qui correva il confine della città. Oltre, i prati. In mezzo ai due quartieri stava il fosso di via di Donna Olimpia, con la sua marana. La Ferrobeton di “Ragazzi di vita” non te la immagini nemmeno più, se passi da Piazzale Dunant; e al posto del Monte di Splendore – dove Pasolini e i regazzini giocavano a pallone – ci sta una scuola. Ci sediamo in questa stanza vista strada, piena dei quadri di Silvio e della poesia di Pasolini. I libri poggiati sullo scrittoio, pennelli, barattoli, bombolette, acquaragia. Se non ci fosse stato lui, forse Silvio non sarebbe mai diventato un artista. Quante vite cambiate. Quante. C’è una vecchia foto in bianco e nero, scattata dietro le case di Donna Olimpia, dove dalle finestre sporgono i panni stesi sui fili, dove sopra a un montarozzo di pietre, erba secca e scarti edilizi c’è un bambino in calzoncini corti, un altro in calzoni lunghi e un signore che osserva divertito, vicino a loro. Ecco, il signore è Pasolini e quello coi calzoni corti è il Pecetto. Com’era, Silvio? “Pasolini era forte, quando faceva la lotta con noi ci volevano quattro ragazzini per tenerlo fermo. Per questo io non c’ho mai creduto a Pelosi da solo che lo uccide”. Allora, tu hai introdotto in questa storia una figura, quella di Antonio Pinna. Chi era? Che faceva? “Nel quartiere si diceva che Pinna lavorasse coi marsigliesi88, perché girava con troppi soldi. Io lo conoscevo da piccolo. Faceva lo spione già a scuola. Sembra gli abbiano tagliato la falange dell’anulare per una soffiata. O almeno così si diceva… comunque, tre persone del quartiere, amiche intime del Pinna, mi dissero che lui 88

La Banda dei Marsigliesi, fortissima, che all’epoca dettava legge criminale in città.

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frequentava Pasolini. Questo succedeva 2-5 settimane prima del delitto, perché ricordo bene che il 30 settembre1975 finivo la stagione da bagnino e istruttore e, quando me lo vennero a dire, non l’avevo finita da molto. Ma fu lui stesso, pochi giorni prima del delitto, che mi disse che con Pasolini si conoscevano e si frequentavano. Alcuni vorrebbero incolpare Pinna dell’omicidio, ma non ci credo, non avrebbe mai fatto una cosa del genere”. Silvio si alza e tira fuori un supplemento dell’Ora, una vecchia intervista in cui Gianni Borgna89 racconta di quella sera in cui vide una cosa che lo colpì. Erano gli ultimi giorni di settembre del ’75 e al Pincio c’era la festa della FGCI90. L’incontro con Pasolini slittò a oltre mezzanotte, ma 5.000 ragazzi restarono lì, per ascoltarlo. Finito il dibattito, verso le due di notte, Borgna, che lo conosceva già da un anno, era tra quelli che accompagnarono all’auto lo scrittore: “Con noi era un tipo che non avevo mai visto con lui, uno basso e tarchiato, sulla quarantina”. “Sembra proprio il Pinna”, dice. Allora, Silvio, tu come l’hai ricostruita questa storia? “Nell’agosto del 1975 erano stati rubati, lo sapete, alla Technicolor, i negativi del film ‘Salò o le 120 giornate di Sodoma’, prodotto dalla PEA di Alberto Grimaldi. Film di Pasolini. Io credo che siano stati i due fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, amici di Pino Pelosi. Lo fecero per conto di un delinquente comune, ma altri dicono che il vero mandante del furto fosse un amico di Pasolini, indebitato per droga. A questo punto i ladri chiedono un riscatto a Grimaldi, partono da 600 milioni di lire per poi scendere a 50. Sergio Citti viene coinvolto come mediatore tra i ladri e Grimaldi. A un certo punto decidono di restituire i negativi, perché Grimaldi aveva pagato, e qui entra in gioco Pelosi, che da qualche mese frequentava Pasolini. Il 1° novembre 1975 il ragazzo doveva accompagnarlo a Ostia per recuperare le bobine rubate nell’agosto precedente. Arriva89

Critico musicale, saggista, politico dai tempi del Pci, Borgna conobbe Pasolini negli anni Settanta. È morto nel 2014. 90

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Federazione Giovanile Comunista Italiana

no all’Idroscalo, ma non sanno che già sulla strada verso Ostia li seguono i fratelli Borsellino, in sella a una Gilera 125 rubata. C’era anche una Fiat 1500, con tre balordi; e una Alfa Romeo simile a quella di Pasolini, guidata da Antonio Pinna91, che allora c’aveva 33 anni92. Con lui c’era un ragazzino quindicenne. Furono i tre balordi che massacrarono il poeta, mentre i Borsellino minacciarono Pelosi. Il quindicenne che viaggiava con il Pinna, sulla seconda Alfa, passò su Pasolini. Poi il ragazzino e Pelosi presero la macchina del poeta per fuggire, ma fatti alcuni metri Pelosi si sentì male e vomitò. L’altro se ne andò e lasciò l’Alfa di Pasolini sulla Tiburtina. Un plantare e un maglione verde, suoi, restarono sull’auto. Pelosi, appiedato, fu fermato a Ostia, in Piazza Gasparri, dai carabinieri. Cuzzupè e Guglielmi non facevano pattuglie ma stavano alla Difesa, quindi non l’hanno fermato loro. Alle tre del mattino le forze dell’ordine comunicarono alla cugina Graziella Chiarcossi che la macchina di Pasolini era stata trovata abbandonata sulla via Tiburtina. Il giorno dopo il delitto, l’automobile Alfa Romeo, simile a quella del poeta, fu portata da Antonio Pinna in riparazione presso una carrozzeria al Portuense. Il carrozziere, Marcello Sperati, detto ‘Scannella’, viste le condizioni dell’auto, si rifiutò di eseguire il lavoro, mentre un secondo carrozziere, Luciano Ciancabilla, la riparò. Era urtata, insanguinata e infangata. Urtata perché aveva tirato giù uno dei paletti di cemento della strada sterrata, insanguinata perché aveva investito Pasolini, infangata perché veniva dall’Idroscalo”. Armando approfitta di un momento in cui “er Pecetto” si allontana per andare al bagno: “Ma ti convince?”. “A parte un’analisi generale su Pinna che magari affron91

L’Alfa Romeo 1750 di Pinna era molto simile ma diversa da quella 2000 GT di Pasolini. Se lo scopo era usare due auto uguali, allora non lo erano nel radiatore, nella forma dello stemma, nella disposizione delle luci di posizione anteriori e nella forma del paraurti. E soprattutto nel colore, amaranto quella di Pinna e argentata quella di Pasolini. 92

Antonio Pinna era nato il 29 gennaio 1942.

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tiamo dopo, mi sembra veramente irreale la sua ricostruzione. Facendo un rapido calcolo abbiamo almeno sei persone complici del complotto, dal carabiniere Cuzzupè alla Chiarcossi. Per poi non parlare del meccanico che sposta l’auto di Pasolini la mattina dopo, ovviamente in questo caso anche lui è colluso e quindi ‘non distrugge’ in fase di manovra errata l’auto, ma volutamente. Poi ci sono i carabinieri del corpo di guardia, quelli che avvertono la polizia accorsa all’Idroscalo di avere loro l’auto in sequestro di Pasolini. Un’associazione a delinquere degna di una cosca mafiosa, altro che…”. Effettivamente, Silvio ha rimesso insieme alcune delle principali versioni: le dichiarazioni di Citti, quelle di Pelosi sul furto delle bobine, la teoria dello scambio dell’auto. E ha aggiunto un elemento nuovo, che ha scoperto lui nel 2010: Antonio Pinna. Che è sparito da Roma e dalla faccia della terra nel 1976, quando furono arrestati i Borsellino, a febbraio. E da allora, tanti saluti. “Volete vedere dove abitava? Ve ce porto”. Riscendiamo di un poco via Ozanam. Siamo noi e Silvio. Torniamo allo slargo, giriamo a sinistra. Gli alberi sono immensi, arrivano fino al quarto piano, il cielo nemmeno si vede, il cielo non c’è. Ti lascia senza, questa strada, vuole che guardi solo il marciapiede. Se chiudiamo gli occhi e torniamo indietro di qualche anno, mettiamo qualche scarpata, ecco, se in quello spazio vuoto ci mettiamo un prato spelacchiato e agro; se poi aggiungiamo decine di ragazzini in pantaloncini corti che corrono appresso a una palla, roba rara, e chi ce l’ha i soldi per comprarla? Allora, beh, vi sembrerà di sfogliare ‘Ragazzi di vita’. E poi uno più grande, che si toglie il cappotto e la giacca e giù a correre e sudare con la stessa palla sgraffiata, pure lui. Che ha un accento strano e tutti gli chiedono ma te di dove sei? E forse qui si placa, solo per un po’, quella ricerca di un bagliore antico, di purezza, che lo fa correre per le strade della grande città. Fino a che quella stessa città un giorno non l’ha portato al mare, per ucciderlo. Perché Roma è fatta così. Via di Donna Olimpia; ed eccoli. Sono quattro grossi complessi di case popolari, costruiti in camicia nera, tra il 1932 e il 1939. Li chiamavano i grattacieli e chi ha i capelli bianchi, qui,

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sa benissimo che, se li guardi dal cielo, compongono la scritta DUX. Grattacieli, sì, ma dovete pensare a una cosa popolare, verticale, in parte d’un giallo riverniciato, in parte d’un rosso sbiadito e spennellato di sole, scrostato, di quel color Roma che trovi anche in centro, ma in palazzi col portiere panciuto. Qui invece ci stanno i giardinetti che ti mettono voglia di potarli tu, gli alberi occasionali, gente che entra, gente che esce, sempre, gente che si saluta, altri che vanno per i fatti loro, che è difficile pensare che i fatti di uno non siano i fatti di tutti, qua. Un mondo di finestre che guardano. Arcate che si aprono su cortili di motorini e smartphone, portici rettangolari, che decidono loro dov’è l’ombra e dove no, finestre delle scale fatte apposta senza infisso, per far entrare la luce grondante. E le persiane chiuse, che ti chiedi che vita c’è dietro; se valga la pena di essere vissuta; o no. Cominciamo a girare, dentro edifici circolari, come torri, con le porte che si aprono in cerchio. Nove piani: i “grattacieli”. Ci sta. “Pinna stava là, a quer portone”, indica Silvio. È il 14 febbraio 1976, quando i carabinieri fermano i fratelli Borsellino. La notizia appare sulla stampa il 17 febbraio: infatti è il 16 quando il colonnello Vitali dei Carabinieri comunica, in sede di dibattimento, che ci sono novità. Il processo è sospeso per dieci giorni. Il giorno di questo colpo di scena, cioè il 16, scompare Pinna. La moglie denuncia la sua scomparsa ventiquattr’ore dopo. La sua auto verrà ritrovata nel parcheggio dell’Aeroporto di Fiumicino. “Ma tu come ti sei ritrovato in questa storia?”. “Ve lo dico: era il venerdì di Pasqua del 2006 quando venne a trovarmi nel mio studio Gianni Santoro, il nipote di Pinna, con un suo sedicente figlio, Massimo Boscato, di cui nessuno conosceva l’esistenza, neanche i parenti più stretti. Io stavo a dipingere. Mi disse che era nato da una relazione del Pinna con una donna del Nord Italia. Vabbè. Ovviamente era alla ricerca del padre e aveva chiesto aiuto a un suo amico che prestava servizio alla DIGOS: questo aveva scoperto che Antonio Pinna risultava fermato a Roma nel 1979, alla guida di un’auto: aveva la patente scaduta, e che queste in-

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formazioni erano in un fascicolo con la scritta ‘top secret’. Io allora cominciai a fare due ricerche nel quartiere. Giravano voci. A Walter Remondino il carrozziere Ciancabilla aveva detto che era stato Pinna a uccidere Pasolini, e anche Sperati lo pensava. Io me sò fatto quest’idea: che i Servizi Segreti approfittarono dell’occasione del furto per attirare in trappola Pasolini. Le bobine, come i soldi, erano già state sistemate, quindi lui voleva dare 2.500.000 ai ragazzi come mancetta, perché gliele avevano fatte riavere, solo che i Borsellino furono pagati dai Servizi, erano manovalanza di destra”. Questo è il racconto di Silvio, che ci interessa perché condiviso da molti. Si tratta di capire se contiene elementi reali oppure no. Quanto è dimostrabile e quanto no? Quanto è supposizione e quanto dato di fatto? Dunque, abbiamo: un piano elaborato dai Servizi o a partire o non a partire dal furto delle bobine; i Borsellino esecutori materiali del delitto (nella versione di Pelosi no); gli assassini che seguono la vittima a partire da Termini, Pelosi che fa parte del piano come esca inconsapevole, Pasolini che porta con sé dei soldi per darli come ringraziamento, un totale di 7 persone coinvolte nell’omicidio (Borsellino, i tre sull’auto, Pinna e il quindicenne, dietro il quale si vede chiaramente Johnny Mastini). E un uomo che il giorno dopo l’Idroscalo porta a riparare un’auto sospetta e poi sparisce. “Ma che sappiamo di questa storia?”, dice Armando. Silvio ci saluta dai suoi amici del “Lorena Bar”, quasi di fronte ai palazzoni. Il bancone in stile anni Settanta, con l’acciaio a vista. Pavimento a quadratoni di marmo economico. Vecchia Romagna Etichetta Nera e J&B, come nei polizieschi di una volta. Ci sistemiamo sulle sedie rosse della Coca-Cola, e ci guardiamo intorno. Questo posto è un salto nel tempo. Altro che bar alla moda: se saltassero fuori i Cofanetti Sperlari non ce ne meraviglieremmo. Ma va bene così. “Qualcosa sappiamo” e tiro fuori l’inseparabile Moleskine. “Allora: Antonio Pinna, detto ‘Nino er meccanico’, 33 anni al momento della scomparsa, abitava con la moglie Emilia Cherchi in via di Donna Olimpia 30. Aveva la sua

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na in via Casal Fiorani 1, una traversa stretta e corta poco distante da qui. Gran guidatore di auto, andava in giro con troppi soldi93, nel quartiere si diceva che fosse legato ai primi sequestri del Clan dei Marsigliesi. Vedremo dopo chi sono. Pregiudicato per reati contro il patrimonio e detenzione di armi, ha realmente un’Alfa Romeo 1750 di colore amaranto, diciamo bordeaux94, targata ROMA P30249”. “Ecco, la scomparsa di Pinna avviene 4 giorni dopo il sequestro di Marina D’Alessio, no? Che è del 12 febbraio, se non ricordo male, ed è roba del Clan”. “Sì, esatto. Il 16 febbraio 197695 Nino esce in tenuta da lavoro alle 8.30 di mattina, bello fresco, sale sulla sua Alfa Romeo e si fa di nebbia. Ecco, è in questi 2 km e mezzo, in questi dieci minuti scarsi di auto che diventa uno scomparso. All’officina proprio non arriva, resta la gente fuori ad aspettarlo. La moglie ne denuncia la sparizione il giorno dopo”. “Mi avevi detto di un biglietto o sbaglio?”. “Eccome no! Passano 6 giorni e il 23 febbraio un amico di Pinna trova un biglietto dentro un’auto dell’officina: “L’anonima sequestri non sarà più tale se sapete seguire con discrezione Fausto Pellegrinetti96, fratelli ed amici stretti, con la boutique Manuela in via Angelo Emo97. Se farete tutto con intelligenza arriverete all’ultimo sequestrato (D’Alessio) e risolverete il resto dei rapimenti avvenuti a Roma negli ultimi 93

Aveva una villetta a Fiumicino acquistata per 30 milioni nel novembre precedente, una barca da pesca da 2 milioni in comproprietà, una roulotte da 2 milioni, due Alfa Romeo (una 1750 e una 2000) e una 500, oltre a un paio di moto. 94

Alcuni riportano che fosse celeste, ma il colore esatto agli atti è bordeaux, amaranto. 95

Diverse fonti riportano il 14, ma la data esatta agli atti è il 16 febbraio.

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Pellegrinetti all’epoca stava col Clan, tanto che verrà arrestato il 2 marzo 1977. 35 anni, molte rapine nel curriculum, era sua la voce che chiamava le famiglie dei rapiti e trattava. Successivamente è entrato e uscito di galera: a 74 anni lo vanno cercando ancor oggi. Dal 2003 c’è l’ennesimo mandato di cattura per lui: ricettazione e droga. 97

All’88 di via Emo c’era effettivamente una boutique con quel nome.

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due anni. Anche le mogli e le fidanzate sono al corrente. Agite con intelligenza datosi che sono molto scaltri. Sono molti, non fate sapere nulla di questo scritto. Se lo fate sapere non verrete più informati in futuro. E verranno informati i soli carabinieri”. Il biglietto viene portato al commissariato Monteverde. Fanno una perizia, la grafia è di Pinna. E già solo questo biglietto sarai d’accordo che cambia completamente il contesto della sua sparizione…”. “Pellegrinetti ce l’ho presente. Stava coinvolto col Clan: Pinna scriveva il vero. E quella boutique era cogestita da Fausto Pellegrinetti. All’epoca la Mobile dimostrò che da lì erano partite molte telefonate in cui si parlava di riscatti”. “E questo è importante. Sulle prime la polizia non ha ricollegato la sparizione di Nino er meccanico coi Marsigliesi ma, quando il biglietto viene ritrovato, cambia idea. Così, nel corso di una conferenza stampa, il dirigente dell’antisequestri Elio Cioppa – che era anche il numero 2 della Mobile – afferma che una telefonata anonima li ha informati che un certo Pinna sarebbe stato ucciso perché dopo aver partecipato all’organizzazione del sequestro s’era tirato indietro. Le riunioni per il sequestro D’Alessio si sarebbero svolte nella sua officina, ma a un certo punto lui avrebbe detto stop perché ormai i soldi li aveva fatti. Come fa a dirlo, Cioppa? Perché l’uomo che ha trovato il biglietto ha detto una cosa grossa, e cioè che il giorno dopo la scomparsa di Pinna aveva sentito Mario D’Amico detto ‘er secco’ dire a Maurizio Mirabelli, tutti e due del giro, che la sparizione del meccanico era stata decisa perché Pinna non voleva far parte del sequestro D’Alessio. Sequestro in cui era coinvolto tanto che, qualche giorno prima, Felicia Cuozzo, che era la compagna di Bergamelli, uno dei boss del clan, aveva affidato una roulotte a Pinna. Ma i fatti che riportano la scomparsa di Pinna al Clan sono anche altri. Il sequestro D’Alessio finisce il 13 marzo e dopo un po’ l’avvocato Paolo Vitale, che difende Bergamelli, se ne esce con una cosa assai interessante. Dice infatti che, secondo lui – che è come dire secondo

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Bergamelli – Pinna è sparito coi soldi del Clan, che faceva il loro cassiere ed era finito in Sudamerica, che aveva preso l’aereo e ciao. È la stessa tesi che sosterrà Nicolò Amato, Pm al processo ai Marsigliesi del 1978. Vitale lo dice a un giornalista, che va a Fiumicino e trova l’auto. È il 14 aprile ’76. Alle 11, regolarmente chiusa, la polizia la trova davanti alle partenze internazionali, in via De Bernardi. L’auto presenta tracce di terriccio sulle gomme, è impolverata e ha il segno delle piogge dei giorni precedenti. Insomma, è lì da un tot”. “Pinna non s’è più trovato. Nel 1984, intanto, è diventata definitiva una condanna a 8 anni e 9 mesi per associazione a delinquere, concorso in tentata rapina ed altro. Quello che ha detto Pecetto però è vero: esiste davvero un provvedimento di sospensione della patente, in data 18 febbraio 1978, emesso dalla Prefettura di Roma. Quindi vuol dire che Pinna non è stato fatto fuori: s’è dato. È rimasto a Roma ancora per un pezzo, ma s’è dato”. “Lo credo anch’io. Però adesso è venuto il momento di fare le presentazioni. C’era una volta la malavita romana, fino ai primi anni Settanta. E poi erano arrivati loro, preceduti dalla fama98. Il Clan dei Marsigliesi, guidati dalle 3B: Albert ‘Bocca piena’ Bergamelli, Maffeo ‘Lino’ Bellicini, Jacques ‘Jacki’ Berenguer. Specialità della casa: sequestri di persona, rapine e droga raffinata a Marsiglia99, come se non ci fosse un domani. Alcuni capirono in fretta che allearsi coi francesi era la cosa giusta, come fece Laudovino De Sanctis, un tipo feroce detto ‘Lallo lo zoppo’, uno che prima ti sparava in faccia e poi ti chiedeva come ti chiamavi. O un certo Danilo Abbruciati, che poi sarebbe stato tra i padri fondatori della Banda della Magliana. I francesi andarono all’assalto della città con metodi nuovi. Erano eleganti, avevano un alto tenore di vita, erano violenti: importarono il modello a cui in parte si rifecero quelli 98

Si sapeva che Berenguer, quando faceva il protettore, aveva ucciso una prostituta che aveva parlato troppo, a Genova. Gente dal grilletto facile. 99

Roba ottima, che stava già invadendo gli Stati Uniti, dove la polizia era assolutamente in allarme: era la “French Connection”.

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della Magliana. I malavitosi romani, prima di loro, erano altra roba: preferivano ancora il ‘saccagno’100 al ‘cacafoco’101, per risolvere i casini. Col clan arrivò un clima pesante, in città. Molto pesante. Molto. Ecco, il 1975 è l’anno in cui i Marsigliesi sequestrano Bulgari (il re dei gioielli, a marzo)102, Ortolani (a giugno, era Presidente della Voxon) e Danesi (il re del caffè, a ottobre); sommati con gli altri sequestri dell’anno prima. Quindi a Roma sono loro il punto di riferimento, non altri. È anche l’anno in cui fanno la rapina di piazza dei Caprettari. Ecco, se volessimo attribuire la manovalanza del delitto Pasolini a qualcuno, allora, dovremmo parlare dei Marsigliesi come autori materiali; e non come al solito della Banda, cui si attribuisce tutto e il contrario di tutto. La Banda nasce infatti nel 1978, prima c’erano batterie separate che facevano solo rapine. Invece nel 1975 il Clan dei Marsigliesi metteva proprio paura. Non era gente da mettersi contro”. “A proposito, ma lo sai chi era il giudice che aveva l’indagine su Pinna? Imposimato”. “Ma dai. Lo chiamiamo?”. Dopo un giro di mail e altro, qualche giorno dopo, dall’altra parte del telefono c’è l’ex magistrato, col suo inconfondibile accento. Noi ci siamo rifugiati dal freddo nella saletta del bar di Maurizio, a Testaccio. Cosa ricorda di quella lontana inchiesta? “Ricordo che Pinna era stato ricollegato ai Marsigliesi già da prima della sua scomparsa. Avevamo indicazioni contrastanti. Alcune dicevano che se ne fosse andato da solo, altre che fosse stato ucciso da loro. Non ho creduto, all’epoca, alla scomparsa volontaria, anche se altri erano scomparsi in quel periodo. Ad esempio, una donna che faceva parte del Clan, Maria Rossi103, e 100

Coltello.

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Pistola.

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A dire il vero è un sequestro attribuito loro. La prova provata che fossero stati quelli del Clan non è mai stata trovata. 103

La Rossi si occupava dei rifugi della Banda. All’arresto di Bergamelli la polizia arrivò proprio seguendo lei.

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che era legata a Bellicini, processata, scomparve nello stesso periodo, nel senso che se ne andò via da Roma. Le dichiarazioni di Vitale io le interpretavo in senso contrario perché non aveva interesse a far scoprire la verità, diceva che era scappato, per non dire il contrario”. E infatti sembra un apparente autogol, quello di Vitale, perché invece di spiegare la sparizione del meccanico ha l’effetto di riportare l’attenzione sul Clan! E allora lei fece arrestare l’avvocato, a dicembre ’76, per favoreggiamento in omicidio di Pinna Antonio… “Far arrestare Vitale fu una scelta mia temeraria, non avevo molti elementi”. E poi? “Poi ho capito che le cose dovevano essere andate in un altro modo. Pinna poteva benissimo essersene andato davvero in Sudamerica, perché i Marsigliesi erano molto sbrigativi a risolvere le loro cose, se l’avessero fatto loro l’avrebbero fatto ritrovare cadavere senza problemi. E poi, nessuno ha mai visto sequestrare Pinna”. Che tipi erano, quelli del Clan? “Erano collegati con la destra di Concutelli, avevano una doppia attività perché facevano delitti e poi davano una mano alla destra neofascista: comunque non facevano nulla senza tornaconto. La vedo difficile, che abbiano partecipato al delitto Pasolini. Certo, un pezzo dei loro proventi li reinvestivano nella destra eversiva, ma la loro attività concreta erano sequestri e rapine”. Mentre Maurizio si materializza con un assortimento di pizzette romane imbottite di cose che vanno al di là della fantasia degli umani, noi ci mettiamo a riordinare i pensieri; per quanto questo ben di Dio lo consenta, s’intende. “… Insomma, non capisco ’na cosa, no?” è Armando ad aprire le ostilità. “Perché in tanti si sono fossilizzati solo sulla cosa più suggestiva – la coincidenza tra la sparizione di Pinna e l’arresto dei Borsellino – e hanno sottovalutato quale fosse il suo ruolo nel Clan e soprattutto la coincidenza col sequestro D’Alessio? No, dico: poi, se c’è un complotto dietro la morte di Pasolini e sono i suoi manovratori che hanno fatto sparire – o aiutato a evaporare – Pinna, com’è allora che gli stessi manovratori hanno consentito che i carabinieri

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sero ai Borsellino – presunta manovalanza del complotto – e non li hanno stoppati prima? Sono dei manovratori doubleface: fanno sparire l’autista, usano due auto, coinvolgono chiunque e poi cascano sui due regazzetti che sono l’anello debole della catena…”. “Ti dirò di più (passami la birra)! E se la sparizione di Pinna è collegata all’arresto dei Borsellino, perché lui se la sarebbe data a gambe quando ancora la notizia del loro arresto non era finita sui giornali? Non torna. E poi, il Clan non era dedito né a sporcarsi con i pestaggi né con le esecuzioni su commissione (di chi? Comandavano loro), ma a rapine e sequestri. Lo dice la sua storia. Stiamo ai fatti, no? C’è il biglietto di Pinna – circostanziato e preciso – a collegarne la fuga col sequestro D’Alessio, l’auto è all’aeroporto e Nino se l’è cantata per davvero, scrivendo quel biglietto… proprio come raccontò Vitale”. “Appunto. I Marsigliesi non avrebbero perso tempo a elaborare piani complicati, se avessero voluto far sparire l’uomo. Fuggito o sotto terra, l’epilogo di Antonio Pinna è legato al Clan; e non altro”. “Ma certo, i Marsigliesi se avessero voluto far fuori Pinna non sarebbero stati tanto sofisticati. Senti qua. Il colpo alle Poste di Piazza dei Caprettari del 21 febbraio ’75 è stato uno dei più famosi del Clan. Lo fecero insieme a Lallo lo Zoppo e quando l’agente Giuseppe Marchisella si parò davanti lo mandarono al camposanto in mezzo secondo. E questo per fare una rapina da 300.000 lire. Ora, sappiamo che le auto dei banditi erano state rubate da Claudio Tigani, detto Topolino. Aveva 17 anni, era un tossico. Fu ritrovato con qualche etto di piombo in corpo, testa e torace, in una Fiat 132 data alle fiamme sulla Portuense, altezza Ponte Galeria, in via Tenuta della Pisana. Era il 24 febbraio 1975, verso le ore 20. In quei tre giorni il ragazzetto aveva avuto un atteggiamento ricattatorio, voleva stare in mezzo e poi non dava proprio garanzie bancarie sul fatto di mantenere la bocca sigillata. Così Lallo, Berenguer e qualcun altro s’erano incaricati di sbrigare la faccenda. Questi erano i Marsigliesi. Quindi, se vuoi sapere come la penso, questi se dovevano far fuori Pinna non

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perdevano tempo. Due colpi alla testa e via, altro che l’auto di qua, il cadavere chissà dove, tutta una messa in scena. Era gente brutale e diretta”. “E lo stesso discorso vale per chi vuole mettere di mezzo la Banda. Scusa, ma facciamolo questo discorso. Allora: nel 1975 la Banda non esisteva ancora”. “E certo. All’epoca sulla costa laziale, tra Pomezia e Ostia, c’era il regno di Frank Coppola, detto ‘Tre dita’, grande boss della mafia italoamericana, che spacciava. C’erano bande di cassettari104, usurai; c’erano bande come quella di Tiberio Cason a Centocelle, appunto, quella del Tufello con Edoardo Toscano e i suoi, i testaccini di De Pedis, quelli del Trullo di Abbatino e Giuseppucci; mentre a Ostia sgomitava Nicolino Selis. Qualche colpo sparato in aria, scazzottate, qualcuno che veniva azzoppato. Questo era il livello. Già dal 1972, però, l’aria era più tesa, in città. Sergio Maccarelli, Carlo Faiella, Ettore Tabarrani e Umberto Cappellari, tutti boss romani, erano finiti all’alberi pizzuti105 per una serie di regolamenti di conti incrociati. Che l’aria cominciasse ad avere il sapore del piombo era un dato di fatto. Bergamelli sarebbe stato arrestato a marzo 1976, Bellicini lo era già dal 1974, Berenguer lo sarebbe stato nel 1980. Ma nel 1975 il Clan era in piena forma”. “Esatto, il Clan, non la Banda! Nel 1975, proprio nei giorni dell’Idroscalo, un uomo è in carcere a Regina Coeli. Si chiama Nicolino Selis e ha avuto un’idea: evadere”. “Beh, non è proprio l’Oscar dell’originalità”. “Ovvio che no. Mentre ci pensa e si organizza con gli amici, scopre di ammirare molto l’organizzazione dei camorristi cutoliani che ha conosciuto in galera106 e insieme ad Antonio Mancini107 pensa già da maggio che anche a Roma si dovrebbe fare qualcosa del genere. L’evasione riesce il 10 novembre 104

Quelli che ripulivano le cassette di sicurezza, passando dalle fogne, dei veri artisti della lancia termica. 105

Al cimitero, sarebbe a dire.

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La Nuova Camorra Organizzata.

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Che diventerà uno dei principali esponenti della Banda.

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successivo e con lui se la danno a gambe alcuni che ritroveremo nella Banda, tra cui Edoardo Toscano e Giuseppe Magliolo108 ma anche, dulcis in fundo, Lallo lo Zoppo. Qualcuno dice che questa era già la Banda della Magliana, ma non ci siamo. Erano ancora gruppi separati di rapinatori109. Ma succede che uno degli evasi è della batteria della Magliana e verrà aiutato, nella latitanza, dalla batteria del Trullo: cioè Colafigli, Abbatino, Giuseppucci e soci. E parlando di qua, parlando di là, tra loro esce fuori l’idea di Selis e Mancini e scoprono che non è male. Ma non è ancora nata la Banda, perché quando nel 1977 c’è il sequestro Grazioli, ideazione ed esecuzione del sequestro saranno della batteria del Trullo, senza quelli della Magliana, di Ostia, dell’Alberone, di Testaccio (come confermato dai collaboratori di giustizia Abbatino e Mancini). Ripeto: dire il gruppo del Trullo non significava dire tutta la Banda. Solo quando i tanti gruppi si uniranno (cosa che succederà man mano, non tutti insieme stile ‘Romanzo Criminale’) nascerà la Banda. Ma questa è un’altra storia110”. “Anche perché, voglio dire, se tu fossi, che so, i Servizi, la lunga mano dello Stato e dovessi fare fuori Pasolini per la vicenda Cefis, per ‘Petrolio’, perché sa qualcosa, a chi affideresti la manovalanza? Ai ragazzi del Trullo, rapinatori come tanti, o ai Marsigliesi, già assassini senza pietà? Ecco, i francesi – e non solo loro – a Pasolini l’avrebbero parcheggiato 108

Ironia della sorte, una volta evaso dove si nasconde Magliolo? In una delle baracche dell’Idroscalo, dove la Polizia lo arresterà il 3 aprile 1976. Come dicevamo, molte costruzioni erano vuote, d’inverno. 109

Tra il 1972 e il 1975 l’attività di Mancini e De Pedis era quella delle rapine e della droga, terreno comune su cui s’erano incontrati prima che Selis avesse l’idea geniale. Gioiellerie, furgoni postali, spaccio; questo facevano. 110

A un certo punto a fare confusione ci si è messo anche Aldo Colonna del Manifesto, che ha creduto di vedere, nelle foto scattate quella mattina all’Idroscalo, due facce “pesanti”: quella di Maurizio Abbatino e quella di Nicolino Selis, soci fondatori della futura Banda. Da qui l’equazione: sono stati loro, vedete? Premesso che Selis quel giorno stava da Mamma Regina (Coeli), Abbatino sembra davvero lui, ma anche se fosse? E cosa ci andava a fare lì, il giorno dopo? A farsi riconoscere? A controllare che le macchie di sangue erano della grandezza giusta? Lasciamo stare. Solo nei gialli si torna sul luogo del delitto.

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in tutt’altro modo: due colpi alla testa, sotto casa, quando rientrava la notte, e via. Ma sì, quando scendeva dall’auto per aprire con le chiavi il cancello del garage condominiale. Un’occasione perfetta, a notte alta, in una strada silenziosa e appartata come via Eufrate. Devo aggiungere altro?”. “No, anche perché se al posto del Clan ci metti la Banda, invertendo gli addendi la somma non cambia. Scusa, ma perché non lo chiediamo ad Antonio Mancini?111”. Compongo il numero e un potentissimo “pronto!” mi rimbomba nelle orecchie. Spiego a Nino di cosa ci stiamo occupando e gli chiedo cosa ne pensa. “Voi sapè che ne penso? Ti rispondo da criminale: se avessimo utilizzato un diciassettenne per partecipare come esca, ma te pare che l’avremmo fatto rientrare a casa? Gli avremmo dato due colpi in testa appena finito, no? Ma che, te metti a lascia’ testimoni? Soprattutto un marchettaro di 17 anni. Non uso un minorenne per portare a dama Pasolini e poi lo lascio a casa. Questo non lo avrebbe fatto né il Clan, né la Banda né nessuna organizzazione di livello”. “Dicono che fosse tutto per fare un depistaggio”. “Ma nessuna organizzazione seria per fare un depistaggio usa un ragazzino. Ti ricordi la storia di Topolino?”. “Guarda, ne parlavamo proprio poco fa…”. “Appunto, no? Se uno non lascia in giro chi ha procurato la macchina, figurati chi ha fatto da esca! E poi, credimi, ma ti pare che se Abbatino stava là quella notte non me l’avrebbe raccontato prima o poi? E poi, che ce stava a fa’? A coordinare, dice qualcuno. Ma che devi coordina’… ma nemmeno nei film de Bombolo! Se c’andavamo noi ci mettevamo cinque minuti, mica mezz’ora, no? a uccidere Pasolini”. E questo è quello che ci dice Mancini. “In questa storia di confusione ne è stata fatta parecchia, Armà. Come quell’altra vecchia storia, quella dell’inseguimento. Te la ricordi quella dell’inseguimento di Alberto Moravia e Renzo Paris? I due intellettuali accorrono quella mat111

Antonio Mancini è stato uno dei principali esponenti della Banda della Magliana.

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tina all’Idroscalo e c’è chi si è meravigliato che nessuno li abbia mai interrogati, dopo che Paris aveva riferito alla polizia che la loro auto, quella mattina, era stata seguita da una moto con sopra due tipi112, dopo che avevano chiesto un’informazione in un bar. Chi li controllava? Anche questo è un indizio del complotto?”. “Ma davvero hanno detto questo? Scusa, ma dov’è la sorpresa? Due signori di città con la loro automobile si avventurano in territorio ostile e vanno in giro a chiedere informazioni… avranno voluto rapinarli, no? L’avessero seguiti da casa, ma dal bar…”. “Appunto, andiamo avanti. E ripassami la birra”. “Senti, ci siamo distratti parecchio, andiamo a chiudere. E quindi, che ne pensi di questa storia di Pinna?”. “Innanzitutto penso che Silvio ha fatto benissimo a tirarla fuori, perché non andava trascurata. Però non credo che Pinna c’entri qualcosa. La dinamica stessa del sormontamento porta a escludere che l’auto, portata dal carrozziere il giorno dopo, abbia a che fare col delitto. Perché l’auto che uccide non resta né insanguinata né urtata. Mi spiego: se il primo carrozziere, Marcello Sperati detto Scannella, si rifiuta di riparare l’auto, vuol dire che il sangue era a vista, giusto? Il carrozziere non è il meccanico, che lavora anche sotto. E proprio la presenza di sangue a vista dimostra che non era di Pasolini, perché lui può aver schizzato l’auto solo sul sottoscocca, cioè proprio sotto: l’unico momento in cui l’auto poteva ferirlo è mentre gli stava sopra. E Sperati non vide il sottoscocca dell’auto di Pinna…”. “E invece è proprio lì che troviamo tracce ematiche di Pasolini stesso. La sua auto gli è certamente passata sopra: e le tracce sono tutte e solo sotto l’autovettura. Se c’è un’auto che è responsabile dell’omicidio, questa è proprio quella della vittima!”. “E ancora. Che Pinna frequentasse Pasolini non dimostra affatto che gli avesse rivelato chissà quale segreto sui rap112

C’è chi li descrive in tuta blu, ma Paris nel suo libro li ha invece descritti con giubbotti di pelle nera, che è diverso.

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porti tra il Clan, i Massoni e i poteri deviati. Premesso che se avessero avuto dei rapporti con la Massoneria i Marsigliesi non avrebbero sequestrato il figlio del braccio destro di Gelli (Ortolani), qualcuno ci spieghi che cosa poteva mai sapere di questo eventuale altissimo livello uno come Pinna, che non era né Berenguer, né Bergamelli, né Bellicini. E perché mai, se anche l’avesse saputo, doveva cantarsela con uno fuori del giro, simpatico ma troppo curioso, uno scrittore, uno come Pasolini?”. “E non dimentichiamo che Pinna non era un assassino a sangue freddo. Certo, era un criminale: e allora, proprio per questo, suona moooolto strano che il giorno dopo aver ammazzato uno famoso abbia portato tranquillamente in giro un’auto insanguinata, nel quartiere, senza averla prima pulita! Anzi, proprio perché l’ha fatto con questa tranquillità vuol dire che non c’entra col delitto. Come poteva essere sicuro che non sarebbe successo nulla? Che non sarebbe saltato fuori un ‘Pecetto’, uno ‘Scannella’ a raccontare la faccenda? Potrebbe aver investito un cane, no? Il fatto che fosse un criminale e conoscesse Pasolini non vuol dire che sia coinvolto con la sua morte: e sai quanti balordi conosceva! L’unico nesso è l’auto, ma abbiamo appena detto che non prova nulla”. Pinna Antonio, dichiarazione di morte presunta a Roma, in data 16 febbraio 1976113. Selis Nicolino, assassinato a Roma, in data 3 febbraio 1981. Abbatino Maurizio, condannato in via definitiva a 22 anni di galera. Dal 22 marzo 2016 non è più nel programma di protezione. Berenguer Jacques, assassinato nel carcere di Nizza nel 1990. De Sanctis Laudovino, dopo 19 anni di carcere e un linfoma, viene nuovamente arrestato per armi e droga nel 2004. Muore nel carcere di Torino in data 20 giugno 2004. Bellicini Maffeo, condannato all’ergastolo. Viene nuovamente arrestato nel 2006, per droga. 113

Nel 1988 gli eredi di Pinna l’hanno ottenuta in Tribunale.

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Bergamelli Albert, assassinato nel carcere di Ascoli Piceno in data 31 agosto 1982. E Pasolini Pier Paolo, assassinato a Ostia in data 2 novembre 1975. E Parrello Silvio, sempre di guardia in via Ozanam. Roma è questa. Ti dà la vita, ti prende la vita. Ti fa re per una notte o per un anno; e poi ti toglie la corona e te ne lascia una di latta. Forse è di questo che non riusciamo a liberarci. Di questo rischio da cui ognuno si sente immune. Non sai mai quando farà nevicare oro su di te, né quando ti affogherà nel fango. E ora vattene, se ci riesci. Prima che sia troppo tardi. Prima che sia troppo presto per vivere ancora. Arrivederci, Roma!

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Capitolo 6

San Lorenzo

Essere incolonnati sulla Cristoforo Colombo è un’esperienza mistica che prima o poi nella vita deve succedere. Generalmente la fai modello Formula Uno, ma stasera c’è andata male. Stiamo ripercorrendo il percorso compiuto da Pasolini nella sua ultima notte, ci sono un po’ di cose da controllare. “Quando era tornato?”, mi chiede Armando. “Il 31 ottobre, il giorno prima. L’ultima settimana di vita di Pier Paolo Pasolini inizia lunedì 27 ottobre 1975, quando decolla per Stoccolma. Il volo dura tre ore e all’aeroporto è ricevuto con tutti gli onori: in fondo, è lui l’ospite importante”. “Era lì per Gramsci, no?”. “Sì, gli avevano tradotto ‘Le ceneri di Gramsci’, il suo libro di poesie del 1957”. “Senti, ma di che umore è a Stoccolma, è un particolare che ci può aiutare?”. “Mah. Come sempre, è gentile con tutti: parla mitemente ma con chiarezza, presenzia ad una serata di poesia e a due proiezioni, c’è molta curiosità intorno a lui. Non sorride mai, e dorme nell’Istituto Italiano di Cultura solo la prima notte. La seconda chiede già di essere trasferito in albergo: lo mettono nell’elegante Hotel Diplomat, camera 301. Dalle finestre vede il piano d’acqua di Nybroviken, le luci della città, anche quelle più lontane, forse cerca con gli occhi un’altra periferia, oltre le nuvole, gli alberi e le cupole del centro. Un’altra vita”. “Un’altra vita”, ripete Armando. Erano felici gli svedesi? C’era violenza a Stoccolma, nel 1975? Non sappiamo. Sappiamo che tra Val Melaina e il Tufello, prima che il Raccordo diventasse la barriera delle ultime speranze di chi non poteva andar via, c’era l’occhio pe’

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occhio, dente pe’ dente; ma non solo nella periferia, in certi vicoli di Campo de’ Fiori le madri dicevano ai figli di non passare. Eppure, era lì che, irrimediabilmente, Pasolini sarebbe tornato. Se il suo sguardo avesse potuto trapassare gli occhiali dalla nera montatura, le verdi foreste di Svezia, le rive dell’Elba, se avesse viaggiato oltre le case dai tetti spioventi dei Monti Metalliferi, se fosse andato sempre dritto per dritto, oltre la tristezza della Germania Est, oltre la neve sulle Alpi, oltre Bologna, dove in via Zamboni passavano i “Ciao”, e i ragazzi con l’eskimo verde prendevano un freddo boia discutendo sotto i portici, sarebbe andato a sbattere, dritto per dritto, duemila km più in là, a Setteville di Guidonia, a un citofono con scritto Pelosi, senza sapere che quello era il suo destino. Ci riprendiamo. “Succede una cosa curiosa. Mercoledì 29 ottobre 1975, proiezione di ‘Uccellacci e uccellini’ e di ‘Edipo Re’ con l’Associazione dei Critici Svedesi. Durante il dibattito successivo Pasolini, rispondendo ad un’innocua domanda sulle reazioni nate dai suoi articoli sull’aborto, la scuola e la televisione dice – quasi en passant, senza dargli importanza, come fosse un giudizio sul tempo – che si aspetta di essere assassinato, prima o poi. Dopo altri incontri con gli studenti, interviste, cene ufficiali, venerdì 31 ottobre, alle 8.55 del mattino ora locale, Pasolini decolla col volo Sas 561 per Paris Le Bourget, mentre Ninetto se ne torna a Roma. A Parigi è ospite del programma ‘Dix de Der’, trasmesso dalla Tv francese Antenne 2: parla della versione francese di ‘Salò’. Mentre il cugino si muove tra telecamere, cavi e inquadrature, Graziella scende nel garage condominiale, prende il GT e lo porta a lavare, dopo aver riordinato l’interno e il bagagliaio. Non nota nessuno straccio o maglione verde e fa pulire dappertutto, sedili, tappetini”. “Quindi torna da Fiumicino in taxi?” chiede Armando. “Evidentemente sì. Il GT resta, immacolato, nel garage”. Il traffico si apre, riprendiamo ad avvicinarci al centro. “Oh, qui c’è la faccenda della Fallaci” – fa Armando.

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“Nel pomeriggio del 31, infatti, lei e il suo compagno Alekos Panagulis provano a telefonargli, ma una voce automatica risponde: «Attenzione. A causa del sabotaggio avvenuto nei giorni scorsi alla centrale dell’Eur, il servizio dei numeri che incominciano con il 59 è temporaneamente sospeso». Tanto è vero che, quando sabato 1 novembre Pasolini riprende in mano la sua agenda, a Roma, telefona verso mezzogiorno all’‘Europeo’, che l’aveva cercato per un’intervista, e usa un numero provvisorio. Lo scrittore si scusa: stavano freschi a trovarlo! Da quando a metà ottobre c’è stato un attentato alla centrale Sip dell’Eur tutta la zona è isolata, nessuno riesce a ricevere o a chiamare114. Nemmeno lui, che ha il numero riservato. Ecco perché non riuscivano a trovarlo, al punto che avevano dovuto scrivergli! Il suo 5914602115 è ancora fuori uso, anche se per lui è una tale liberazione… Dice che si vedranno mercoledì, che ha da fare, appunti da scrivere e un paio di appuntamenti da sbrigare. Poi, lunedì e martedì vuole fare un salto al congresso dei radicali, a Firenze. Chiama anche Norberto Valentini della Domenica del Corriere: «So che mi avete cercato. Vi chiamo io adesso perché il mio telefono non funziona. Il mio apparecchio è tra quelli messi fuori uso dall’attentato alla centralina dell’Eur tre settimane fa. Per ora la Sip mi ha dato un numero volante e mi arrangio». E lo chiama Sergio Citti: «La mattina del primo novembre 1975 io lo contattai per incontrarlo, ma lui mi disse che quella sera non potevamo vederci perché lui doveva incontrare la persona o le persone che dovevano riconsegnargli il film». Nello stesso momento, nella zona di via Diego Angeli, al Tiburtino, Pelosi citofona a Claudio Seminara116, 19 anni, luci114

Le utenze verranno gradualmente riattivate dal 3 novembre.

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Pasolini aveva questo numero da pochi mesi. Ines Pellegrini, che aveva recitato ne Il fiore delle Mille e una notte, dice che precedentemente aveva cambiato numero perché riceveva minacce. Davoli: “Spesso Pasolini riceveva telefonate anonime di minaccia e periodicamente era costretto a cambiare numero di telefono”. 116

Al momento, Seminara era stato denunciato in stato di libertà per furto aggravato di automobile a maggio ’74.

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datore, suo amico d’infanzia. La Fiat 850 di Pelosi ha l’ennesimo problema, il manicotto dell’acqua; e l’amico lo ripara. Si mettono d’accordo per andare a ballare nel pomeriggio, come sempre, da Sergio – se vedemo dopo, a Pì! – e Pelosi se ne va due traverse più in là, a via Cesana, a citofonare all’altro amico, Adolfo De Stefanis117, 19 anni, operaio alla Breda BHB, sulla Colombo, prima di andare a pranzo dalla nonna. Ora sono le 15.30 e quattro ragazzi si incontrano a Piazza Winckelmann. Tre di loro sono amici d’infanzia – Claudio, Pino, e Adolfo, appunto. Poi c’è anche Salvatore Deidda, 19 anni, ferraiolo, l’unico a non avere precedenti penali e che conosce Pelosi da un anno e mezzo. Verso le 16 suona il citofono in via Eufrate: è Furio Colombo de ‘La Stampa’118, per un’intervista già concordata. Da qui in poi i tempi diventano fondamentali. Mentre lo scrittore apre la porta, i quattro ragazzi fermano l’auto in via Monti di Pietralata 224, a un chilometro dalla Piazza. È un villino a un piano, oggi tutto ridipinto di un bel giallo, col giardinetto davanti, in una strada tranquilla. Qui abita l’amico Sergio Frontoni. È già da mesi che il suo garage s’è trasformato nella cantina dove si ritrovano lui e gli amici per ballare il sabato pomeriggio, grosso modo dalle 15 alle 20. Basta mettere il giradischi, invitare qualche ragazza ed è fatta. C’è Roberto Montano, 15 anni, apprendista tappezziere; c’è Sergio, ovviamente, 17 anni, garzone di macelleria. Qualcun altro arriverà dopo. Ora sono le 18, già da mezz’ora si allarga il buio su Roma; Pasolini non ha voluto accendere la luce e quindi l’intervista si interrompe. Doveva riprendere il giorno dopo. Il titolo, intanto, lo suggerisce lui stesso, è a effetto e dichiara un’involontaria profezia: «Perché siamo tutti in pericolo»”. 117

Pregiudicato per: furto aggravato, associazione a delinquere, contraffazione di targa, ricettazione, danneggiamento, possesso ingiustificato di arnesi atti allo scasso. In quei giorni aveva un polso ingessato per un incidente in moto del 25 ottobre precedente. 118

Gelida ironia della sorte, Colombo è lo stesso che si imbatterà, la mattina successiva, nel pescatore Salvetti, all’Idroscalo.

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“E qui c’è un movimento dell’orologio che ci interessa. Nell’arco delle tre ore successive Pasolini è a casa, ma il quadrante di quell’ultimo pomeriggio segna uno spazio bianco. È di circa mezz’ora-un’ora e si apre non appena Colombo se ne va, quando dice a Graziella che va a farsi un giro in auto”. “Fabio, ti ricordi che dobbiamo ancora capire come siano entrati nella sua auto il plantare ed il maglione?”. “E chi se lo scorda. Ecco perché parlavo di quest’ora di buco…”. “Non escludiamolo. Se facciamo un’analisi accurata sono possibilità che non possiamo escludere. Un’ora non è poco. Ma potrebbe anche essere che dopo l’intervista si sia sentito stanco. Pasolini non era uno che si risparmiava, aver parlato per tutto quel tempo poi…”. “Esatto. D’altronde, anche Pasolini ha il diritto di essere stanco”. “Già, ma dov’è andato, comunque, tra le 18 e le 19? Dopo, rientra a via Eufrate e riesce nuovamente verso le 20.30. Scende dal primo piano al garage condominiale, prende l’Alfa GT e parte: destinazione, al ‘Pommidoro’ a piazza dei Sanniti, quartiere San Lorenzo”. “Dove noi siamo quasi arrivati”. “Negli stessi minuti un ragazzo di 19 anni che fa il meccanico, Antonio Vicalvi, arriva alla cantina di via Monti di Pietralata; appena in tempo per sentir discutere i suoi amici, visto che qualcuno vuole andare al cinema e altri in centro, a farsi un giro. I gruppi e i destini si dividono qui. Le gomme dell’Alfa Romeo argentata di Pier Paolo Pasolini si trovano intanto sulla Cristoforo Colombo, quel lunghissimo rettilineo che corre dalla nuova Roma alla vecchia Roma. Nel frattempo, sul marciapiede di via Monti di Pietralata si sono decisi: Frontoni, Montano e Giovanni Nespeca, 19 anni, barista, andranno al cinema ‘Bologna’119, a via Stamira, a vedere ‘A tutte le auto della Polizia’. Pelosi e i suoi amici, no. «L’ho visto ieri», dice lui. E poi non vogliono stare ancora 119

Il vero nome della sala era “Academy Hall”, ma tutti lo chiamavano col nome precedente, “Bologna”.

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al chiuso: andiamo in centro, facciamoci un giro, abbiamo la macchina! Salgono in auto e partono. Cioè, vorrebbero partire. Ma la 850, parcheggiata sul piazzale del campo sportivo antistante, non vuole saperne di muoversi. Per fortuna che basta una riparazione fatta al volo. Sì, ma dove andiamo? A regà, ma voi nun c’avete fame? Certo che ce l’hanno, ma nessuno sa che fare e così cominciano a girare per le strade mezze vuote della città, mentre negli appartamenti le mamme gridano «è pronto!» verso il tinello e televisori in bianco e nero. Ci siamo Fà, siamo arrivati”. Piazza dei Sanniti, Roma. Nel cuore della città bombardata, della città popolare, della città comunista, della città alla buona, delle case di ringhiera. Quando i fascisti inseguivano i rossi dopo gli scontri di piazza all’Università, correre tra queste strade faceva sentire a casa. Erano gli anni ’70. Accostiamo. Tocca a me. “Ecco, verso le 21 Pasolini parcheggia e si avvia lì, verso la porta di legno del ‘Pommidoro’. Il titolare, Aldo Bravi, quella sera non c’è. C’è la moglie, Anna, e suo fratello Giuseppe Bravi. Solo che è un mortorio! E hanno già deciso che alle 22 chiuderanno baracca e burattini, il tempo di lasciar finire chi sta già mangiando, cioè Aggeo Savioli (prima firma dell’Unità per il teatro) e sua moglie Mirella, anche lei giornalista del quotidiano. Sono i soli clienti di quella sera. Infatti, da poco Giuseppe ha già abbassato mezza serranda ed è questo che si trova davanti Pasolini quando arriva. Prenotare, non ha prenotato. Dovrà aspettare Ninetto e cambiare ristorante. Uff. Pensa questo, mentre vede passare un ragazzo alto quasi quanto lui, col volto affilato; e ci si mette a parlare”. “E poi?”, chiede Armando, mentre qualcuno entra frettoloso oltre la porta di legno, lasciandosi l’inverno alle spalle. “E poi Giuseppe Bravi getta uno sguardo da sotto la saracinesca. Ma quello è Pasolini! Al ristorante lo conoscono bene: è una consuetudine che, una volta alla settimana, Pasolini e Ninetto si incontrino qua. «C’è Pasolini fuori», fa ad Anna. I ricordi a caldo di Anna sono questi: «Ha chiesto se poteva mangiare, ha aggiunto che non voleva disturbare e che, se era tardi, poteva andare a cenare altrove. Colpita

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da quel riserbo, da quella timidezza che tante volte avevo notato negli incontri avuti con lui in occasione di conferenze stampa e di interviste, ho rotto il ghiaccio. Se si fosse accontentato d’una bistecca, di qualche salsiccia, d’altronde ottime, poteva accomodarsi». «Va benissimo, ma non voglio dar fastidio». Ha un’aria pensierosa e nervosa, lo scrittore. Dentro il locale, con le mattonelle, piccole, quadrate, coi tavoli di legno alla buona e le tovaglie a quadrettoni rossi e bianchi, la moglie di Savioli attacca bottone con lui, parlando di cani e gatti. Pasolini esce fuori ad aspettare Ninetto e lei lo vede chiamare un ragazzo che passava e mettercisi a parlare”. “E di questo ragazzo non sappiamo nulla, vero?120”. “Magari. Non è chiaro se fosse arrivato lì per un appuntamento o perché chiamato dallo scrittore, che d’altronde attaccava bottone coi ragazzi senza nessun problema. Dopo un po’ il tipo se ne va121. Dopo un altro po’ Ninetto parcheggia ed entra nel locale, con moglie e figli. Sono circa le 21.30. Cenano. Pasolini mangia bistecca e patate, per la cronaca”. “Ti ringrazio di questo dettaglio di cui non potevo fare a meno. Comunque, non credo se ne sarebbe cavato di più nemmeno interrogando i testi. Guarda l’illuminazione, solo lampade sospese nel perimetro della piazza. Non ci sono lampioni, c’è molto chiaroscuro, quarant’anni fa come stanotte”. “E c’era anche un cinema aperto. Vedi quel palazzone a sinistra del ‘Pommidoro’? Lì sotto c’era il Cinema Palazzo: facevano un film con la Deneuve, a quell’ora. Mi sa che c’erano quattro gatti, visto come buttava la serata”. “Torniamo a noi. Cosa fanno intanto i quattro ragazzi, tra le 21 e le 22.30? Non lo sa nessuno. Vivono il loro tempo, un tempo elastico, gonfio, largo, di cui ce n’è in abbondanza per fare nulla. Con chi parlano? Su che asfalto si trovano? Dove vanno? Cosa commentano in romanesco?”. 120

Non è chiaro se fosse uno o più ragazzi, i testi sono discordi.

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Sarebbe stato utile sapere qualcosa di più sui ragazzi visti dai testimoni parlare con Pasolini? E certo. Ma a nessun investigatore venne in mente di interrogare né i Savioli, né i Bravi.

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“Questo non lo sa nessuno. Sappiamo che intanto, lì al ‘Pommidoro’, c’è un tavolo con una donna, due bambini e due facce note del cinema. Parlano del ‘Porno-theo-kolossal’, il film con Eduardo De Filippo in cui Davoli avrebbe recitato. Davoli dice: «Ci ha parlato anche di questa violenza che ci circonda. Mi diceva che la vita delle borgate non era più quella di una volta, quei giovani si erano trasformati, erano stati afferrati dal turbine del capitalismo». Pasolini dice loro: «è odiosa la gente, venendo al ristorante ho sempre camminato a testa bassa, non volevo vedere in faccia nessuno»’. E qui arriviamo ad uno snodo importante, che nel 1975 nessun poliziotto o giudice colse”. “L’orario. Ci pensi, se qualcuno ci avesse riflettuto su? Era un dettaglio insignificante, ma rivelatore. Alle 22.20 Pasolini dà un’occhiata all’orologio sulla parete del ristorante e chiede il conto122, dicendo ad Anna che sennò avrebbe fatto tardi. Ma tardi per cosa? È un modo per liberarsi della compagnia? Evidentemente no. Come non pensare che abbia un appuntamento, allora? Come non pensare – a posteriori – che il luogo dell’appuntamento l’abbia deciso lui, alla Stazione, proprio per non fare tardi, visto che aveva la cena lì? E così sono le 22.30 quando Pasolini, dopo aver pagato con un assegno123, saluta i Davoli vicino alla sua auto coperta di brina. Dice che andrà a casa, a leggersi la sceneggiatura di cui ha parlato a cena con Ninetto: lui gliel’ha già data e aspetta un parere per il giorno dopo. Pochi minuti dopo, invece, l’Alfa Romeo è in piazza dei Cinquecento”, conclude Armando accendendo il motore. 122

Non portava l’orologio, se non per andare nella casa di Chia o in quella di Sabaudia. Due posti fuori dal tempo. 123

Un anno prima, pistole alla mano, lo avevano rapinato, costringendolo a lasciare auto e libretti degli assegni, ma l’abitudine di usarli al posto del contante era precedente. Pasolini usciva con pochi soldi e cercava di pagare il più possibile con gli assegni. Se era rimasto con pochi contanti allora faceva l’assegno più alto e si faceva dare la differenza, anche perché spesso nei ristoranti i proprietari lo conoscevano bene. L’assegno, comunque, 42 anni dopo, è ancora lì, al ‘Pommidoro’: Bravi non l’ha mai incassato e lo tiene ancora, come un cimelio.

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Ci muoviamo, ora. Nella mia tasca c’è un foglio uscito dalla stampante. Claudio: “Non avevamo intenzione di andare a Termini, volevamo prendere le sigarette e qualcosa al bar, un cappuccino. E poi volevamo farci due risate con i froci”. Salvatore: “Eravamo andati a farci due risate coi froci, con il loro modo di parlare, a scroccare qualche consumazione, ma l’idea ci venne mentre eravamo per strada. Non andammo apposta, facemmo un giro e ci trovammo là”. Adolfo: “Casualmente, ci ritrovammo a Piazza dei Cinquecento. Arrivati, comprammo le sigarette e andammo a passeggiare ai giardinetti”. Pino, prima versione: “Siamo andati per vedere il film, ma quando siamo arrivati era già iniziato il secondo tempo. Parcheggiammo davanti al chiosco e ci facemmo un giro per la piazza. Ma forse andammo al cinema la sera prima e mi confondo”. Pino, seconda versione: “Siamo andati per fare una passeggiata”. “Fabio, scusa: ti interrompo un attimo, quando si tratta di omicidi credo nella casualità ma non nelle coincidenze. Non fare quella faccia perplessa, ora mi spiego. Il caso interviene quando Giuseppe si gira casualmente e vede sotto la saracinesca Pasolini, la coincidenza a cui non credo è quando un gruppo di quattro ragazzi non segue parte della comitiva che si porta al cinema. Si reca invece a Piazza dei Cinquecento e poco dopo, sincronia, uno di loro incontra Pasolini. Ecco, l’unica cosa di cui ho il dubbio è che solo Pelosi avesse ben chiaro l’orario dell’appuntamento. A priori mi sembra strano che un solo ragazzo, che non mi risulta particolarmente leader del gruppo, sia riuscito a veicolarne altri tre. Siamo sicuri che non li aveva resi partecipi dell’appuntamento? Continua pure con le versioni di Pelosi”. Pino, terza versione: “Siamo andati per vedere il film. Quando arrivammo però mancava mezz’ora all’inizio124”. 124

Versione ridicola: se volevano vedere il film, sarebbero restati al “Bologna” con gli amici.

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Negli stessi minuti in cui Pasolini accende il motore, i quattro ragazzi chiudono le portiere bianche della Fiat 850 in Piazza dei Cinquecento. Giriamo in via Tiburtina. Vecchi mattoni che hanno visto di tutto. Parco Caduti del 19 luglio 1943: i rami vengono a sbattere sul marciapiede. In fondo, la torre idrica della Stazione, a forma di fascio littorio. I sanpietrini sotto le nostre ruote sono gli stessi di quarant’anni fa: loro sanno tutto. Via di Porta San Lorenzo. Il percorso che faceva, quella notte, l’auto argentata. Una 500 bianca che ci sorpassa. La vecchia porta romana. Il semaforo. I manifesti: “Sciopero internazionale dei lavoratori del pneumatico”, “Manifestazione per l’aborto libero e gratuito”, “Tesseramento 1975 Federazione Giovanile Comunista Italiana”. I barboni, ombre nel buio. Gente che stende un cartone. Via Marsala. Passi lenti, gente in attesa, gli ultimi viaggiatori dei treni notte, degli ultimi “rapidi” in partenza. Un’auto verde della polizia. Il portone della mensa del Don Bosco, dove venivano a scroccare un pasto i “ragazzi di vita” del libro. Chissà se ci ha pensato, Pasolini. Ma forse no. Fa freddo ma non troppo – ci sono 15 gradi – dietro il buio c’è un cielo nuvoloso e senza luna, ma soprattutto è molto, molto umido. “I ragazzetti camminano parlando, adesso. Li vedi, Armando? Stanno là, lungo il lato della Piazza dove ci sono i giardinetti, quello che va dalla scritta al neon verde ‘S/a U. Giuliani Caffè’ fino all’insegna gialla del chiosco ‘Gambrinus bar tabacchi’, a sinistra. L’inizio di via De Nicola, insomma”. Armando accosta. Indica col dito. “Sì, li vedo, eccoli. Dall’altra parte, oltre gli alberi. Quelle dietro sono le mura delle Terme di Diocleziano, che qualcuno scambia per un pisciatoio, nonostante sia illuminato125. Quei 260 metri sono il punto di ritrovo dei militari delle caserme di Castro Pretorio e di uomini che cercano uomini. E di gentaglia di bassa tacca. Certe notti scoppiano risse, davanti 125

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La cancellata che c’è oggi, nel 1975 non c’era. È stata messa nel 1991.

al ‘Gambrinus’, sotto i portici di ‘Nori’, ma anche davanti all’altro chiosco di fronte al Planetario”. “Eh. Su quel marciapiede, tra le sedie del “Gambrinus”, tra gli alberi dei giardinetti, tutti pensano che si possa andare coi froci senza esserlo, solo per guadagnare qualcosa. Quei ragazzi, quegli uomini non si sentono menomati nella loro virilità, anzi. Se lo danno sì, ma se si tratta di prenderlo no. Io sono l’uomo, sono io che ti permetto di farmi il servizio. Regola priva di senso, ma utile a salvare l’orgoglio e la faccia in una società maschilista al cento per mille, in cui l’attrazione per il corpo maschio c’è tutta, eccome. Ma non va detta”. “E certo. Turbamenti da incasellare a forza tra gli esperimenti, di cui dichiararsi ovviamente subito schifati al punto giusto, da giustificare solo col bisogno, da esorcizzare in uno sghignazzo forte, in una presa per il culo più sguaiata possibile. Un marciapiede di santarelli”. “Eccoli, ora si vedono bene! Pelosi e Seminara davanti, De Stefanis e Deidda dietro”. “Guarda! Eccola!” fa Armando. “È l’Alfa GT argentata. Guarda come li segue lenta, segue i quattro ragazzetti. Quello alla guida sporge la testa verso destra, come per guardarli meglio. Seminara dice a Pelosi: ahò, c’è un’auto che ci segue”. “Adesso li ha superati, si ferma.” “I ragazzi però camminano ancora, indolenti la oltrepassano. Stanno arrivando al ‘Gambrinus’, eccoli sotto gli alberi”. “Eh, quel posto è un’istituzione dell’angolo tra via De Nicola e viale Einaudi126. Il signor Dei ci sta dentro dal 1951. Spostiamoci, così vediamo meglio”. Armando riparte, svolta a sinistra e supera il GT di Pasolini. Lui è dentro, immobile. Da qui vediamo bene il “Gambrinus”. I quattro stanno comprando le sigarette. Attaccano bottone con qualche uomo che li ha guardati, da furbi, per 126

Chi penserebbe che è stata una birreria in cui si è esibito anche Petrolini, nel punto dove c’era il cambio dei tram a cavallo? Adesso non è più bar: troppi albanesi e troppi ubriachi, troppe risse.

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scroccare un cappuccino. Pelosi chiede un tè, Deidda – da qui non vediamo benissimo – un caffè. Una voce effeminata dice: “Ahò, ce sta Pasolini!”. Ha la vista lunga, il tipo: in effetti, l’auto argentata si trova alcune decine di metri indietro. È Seminara a entrare nel bar e da come gesticola sembra che sta ribadendo la notiziona agli amici. Il GT intanto ci supera: è lentamente avanzato davanti al bar. De Stefanis e Deidda si avvicinano, con la curiosità e la strafottenza di chi vede quello famoso e vuole sapere se è uguale a lui: si è proprio Pasolini, quello che hanno visto in tv, e chi non lo conosce? Vanno per stringergli la mano ma lui abbassa solo il finestrino di quel tanto che basta per far passare la mano dei ragazzi. E mette anche la sicura. Nonostante questo, De Stefanis si allarga, con quel modo romano di dare del tu a tutti, tranquillamente invadente. Da qui si sente bene, traffico ne passa poco. Gli sta chiedendo di fargli fare una parte: “Sì, ti faccio fare un poliziesco, con quella faccia da ladro che hai”, risponde Pasolini. Il ragazzo ci resta male, ma questo chi si crede di essere? Prende e se ne va. Deidda se ne frega e pensa a quel bel macchinone. “Ahò, che me fai fà un giro in piazza?”. Ma l’uomo con gli occhiali dice no, ho un appuntamento, aspetto un amico. “Hai sentito anche tu? Ha detto così?” faccio io. “Sì, proprio così. È la seconda volta in un quarto d’ora, che lo dice”. Ma è un attimo; e anche Deidda se ne va. La sua piccola curiosità da rotocalco se l’è tolta. “Un attimo, ma Seminara e Pelosi? Dove sono?” fa Armando, di colpo, voltandosi verso di me. C’è un attimo di silenzio, gli occhi cercano tra il buio degli alberi e la luce che viene dal bar. “Seminara è lì, eccolo” faccio io “mentre Pelosi dev’essere ancora dentro, al bancone”. L’amico di Pelosi si è messo a parlare fuori con cinquesei tizi che stanno là sotto all’alberi, non sa chi sono, facce mai viste, maschi che bivaccano intorno al “Gambrinus”, tra il buio del marciapiede e la luce del lampione che filtra tra i rami.

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“Ecco, adesso!” fa Armando, che ha visto qualcosa. “Dove?”. “Là” e indica. Tra una schiena, una spalla, le auto parcheggiate e le ombre, Pino sta appoggiato al GT, e parla con Pasolini, per pochi minuti. Poi non riusciamo più a vedere, c’è gente che si mette di mezzo. Lo perdiamo di vista, lui e l’auto. Forse Deidda li vede, s’è girato. Armando mi tira una gomitata.“Oh, ma io non vedo più né l’auto né Pelosi”. “Nemmeno io”. “Ma dai, scusa. Per salutare Deidda e De Stefanis ha aperto uno spiraglio di finestrino per quanto è prudente. E poi? Ma allora lo conosceva già!”. “Gli altri due no e poi fa salire lo sconosciuto Pelosi al volo, mi spieghi la logica?”. Passa qualche minuto e Seminara entra dentro: l’amico non c’è. “Ahò, ma ‘ndo è annato Pino?”. “Co’ quello der gittì!”, gli risponde qualcuno che non vediamo. Vorremmo muoverci, seguire il GT, ma non l’abbiamo nemmeno visto partire. E adesso? Li abbiamo persi. Che sta pensando l’uomo con gli occhiali? Forse che cercare i ragazzini lo mantiene in vita, che è quello che sa fare, che è la ricerca della parte autentica, è la vita, è l’amore o l’illusione dell’amore. Ignoranti, furbetti, non omologati, ruvidi. Quelli che per gli altri sono delinquenti, per lui diventano portatori di bellezza e verità. Il legame erotico con le borgate è sempre stato impastato di amore per il popolo, per la gente, per la verità di quelle facce e quei calli, ma ora tutto sta cambiando. Si può ancora amare un’adolescenza che sfugge, cambia, si vende, vuole tutto e subito, rinnega la sua anima antica? È la fine dell’ispirazione? Dovrà scrivere d’altro, cambiare sapendo che è impossibile essere un altro? A cinquantatrè anni Pasolini non può cambiare, non più. Loro corrono e lui li insegue a piedi, sperando non siano già contaminati dagli anni Settanta. È la sua vita a chiederglielo, la sua ricerca di verità; e di congiunzione carnale con la verità stessa.

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Ma passano dieci minuti ed ecco arrivare Pelosi127, correndo, a piedi. Non ci possiamo credere. Ma da dove è sbucato? “Claudio! A’ Cla’!”. Seminara si gira, mentre l’amico viene verso di lui, a tutta fretta. Va de prescia. L’auto argentata adesso sta su via De Nicola, sì, ma sul lato opposto al nostro, col motore acceso, è chiaramente tornata indietro. Si è fermata all’altezza della cabina telefonica più vicina al Gambrinus, ma sul lato dei capolinea. Con gli occhi ci alterniamo a seguire le due scene. Pelosi e Seminara si isolano un attimo, ma la scena è sotto gli occhi di tutti. “Ma ‘ndo cazzo sei annato, a Pi’?”. “So’ annato co’ quello, semo stati sur Lungotevere”. Per quel che capiamo, è tornato per riprendere le chiavi di casa: ha i jeans senza tasche, il suo giubbottino rosso ha tasche talmente piccole ed inclinate che passa il tempo a chinarsi a riprendere le cose che gli cadono, quindi va in giro con la roba in mano: accendino, sigarette. Si vede bene, che ha tutto in mano. Le aveva mollate a Seminara: le due copie di quella dell’auto e le chiavi di casa, legate a quel piccolo portachiavi a ferro di cavallo. Adesso le stanno sciogliendo. “Armà, scusa ma che sta a fare?”. “Ti ricordi cosa dirà nella seconda deposizione? Di essere tornato indietro a riprendere le chiavi di casa da Seminara, lasciandogli invece quelle dell’auto. E infatti, guarda! Vedi? Pelosi se ne sta tenendo due, una di casa e l’altra dev’essere il doppione dell’auto”. “Mi sa anche a me, certo che lui su quelle chiavi ha fatto un casino, nelle deposizioni. Nel 2011 il Pelosi ci ripenserà, parlando di mazzo unico. Solo che stavolta dirà che le aveva lasciate in auto e che quindi passò, con Pasolini, prima dall’auto, poi prese le chiavi e portò il doppione a Seminara. Però adesso silenzio, continuiamo a guardare.” “Vado co’ quello, poi me riporta a casa lui. L’auto tieni127

A leggere le deposizioni dei quattro ragazzi Pelosi sarebbe tornato dopo 30-45 minuti al “Gambrinus”, ma sbagliano tutti. Se così fosse, come avrebbero fatto Pasolini e Pelosi a entrare al “Biondo Tevere” alle 23.15?

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tela tu, poi me la lasci sotto casa de nonna”, gli dice Pelosi. “Ahò, sta attento!”. “Macchè, no, s’è comportato da persona per bene”. È nel momento in cui Pelosi sta per attraversare la strada verso il GT che una voce sotto gli alberi dice forte: “Diteje de sta’ attento, che quello se lo incula!”. Il GT riparte, ma stavolta ci siamo dietro anche noi. È la notte del 1 novembre 1975; e l’ossessione di vita di Pasolini sta per farsi il suo opposto. Come una luminosa parabola che perde riflesso mentre cerca la terra appena smossa, quell’arco di luce che ha sostenuto la sua vita, dai campi di Casarsa, sta per toccare il suolo. Lo sportello destro della Giulietta 2000 GT si chiude e inizia l’ultimo viaggio di Pier Paolo Pasolini. Gli fa compagnia un ragazzino di 17 anni con un sacco di capelli ricci. Verso il mare, verso un silenzio di fango e cani.

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Capitolo 7

Via Ostiense

“Qui si beve e si porta via vino di Zagarolo produzione propria”. Come allora, questo posto è rimasto come allora. Entriamo quarant’anni dopo, ci lasciamo alle spalle il traffico di via Ostiense per entrare in una Roma degli anni Settanta. Anzi, di ancora prima. La scritta è verniciata a caratteri cubitali su una parete del cortiletto all’ingresso. Come allora ci si accede da un cancello e sopra il neon in stampatello “Al Biondo Tevere”: è la stessa di quella sera del 1975. A destra e sinistra tutta edera. Da questo cortile si può accedere a destra nella trattoria “vecchia” dove ci sono anche le cucine e davanti, salendo qualche gradino, al locale “nuovo” con la veranda. “Certo, Fabio, che fa strano trovare un locale anni ’70 tra un pub irlandese e un ristorante cinese”. “Vero, uno degli ultimi angoli tipici di Roma”. E subito oltre la veranda, il Tevere. Che poi con Fabio lo conosciamo bene, da anni ormai quando facciamo la prima presentazione di ogni nostro libro, a dicembre, veniamo a cena qui. Questa volta scegliamo la parte vicina alle cucine e, dopo aver ordinato intanto due supplì e da bere, iniziamo a tirar fuori il materiale. Il tavolo si riempie di carte, dell’inseparabile Moleskine di Fabio e i camerieri ci guardano perplessi. “Qui, in questa sala, Pasolini venne con Pelosi. Il proprietario del ristorante era Vincenzo Panzironi, classe 1927. Era di Zagarolo e quindi ecco la ‘produzione propria’ del vino che leggevamo prima. Fu lui ad accogliere Pasolini e il suo amico; ma leggiamo il verbale d’interrogatorio che rilasciò proprio quel pomeriggio del 2 novembre, dopo aver sentito in televisione la notizia:

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«Da circa 23 anni sono titolare della licenza di trattoria e pizzeria sita in viale Ostiense, nr. 178. Tra i miei clienti da circa quindici anni vi era il noto regista PIER PAOLO PASOLINI. Egli anche ieri sera e precisamente alle ore 23.15 circa è venuto nel locale per consumare la cena, unitamente a un giovane, preciso che il Pasolini non ha consumato la cena mentre il suo accompagnatore l’ha consumata. Il giovane che accompagnava il Pasolini corrisponde ai seguenti connotati: età al di sotto dei vent’anni, alto mt. 1,70 e forse più, di corporatura normale, capelli biondi mossi lunghi fino al collo e pettinati all’indietro. Vestiva un maglione così mi pare e un pantalone, non ricordo il colore di detti indumenti. Il Pasolini e il predetto giovane hanno lasciato il mio locale tutti e due insieme alle ore 00.05 circa e si sono allontanati dal locale a bordo di una macchina che causa l’oscurità non ho potuto distinguere il tipo né il colore. Non ho visto neanche la direzione dove la macchina si è diretta. ADR. Il giovane che ho su descritto, che nella tarda serata di ieri era in compagnia di Pier Paolo Pasolini, è proprio quello che mi mostrate in fotografia e che mi dite chiamarsi PELOSI Giuseppe. Controfirmo per avvenuto riconoscimento la stessa fotografia. ADR. (…) Il giovane Pelosi Giuseppe era la prima volta che lo vedevo in compagnia del Pasolini». “E a queste dichiarazioni non ci saranno grosse aggiunte, Armà: il conto era di 4.000 lire, Pasolini pagò in contanti, dalla volta precedente che Panzironi lo aveva visto erano passati 7-8 giorni e mentre entrò con il ragazzo, visto che stavano per chiudere e non c’erano più clienti, l'oste e sua moglie erano intenti a mangiare un bel piatto di spaghetti aglio e olio. Armà, ma questa cosa del ragazzo che ricorda biondo, coi capelli lunghi e mossi, ma che poi riconosce in foto per Pelosi? Pelosi era tutto meno che biondo, come la spieghiamo questa?”. “Come diciamo sempre: quando si scrive di cronaca nera bisogna rivivere sempre i luoghi dove si sono svolti i fatti, è ormai una regola fondamentale. Di cosa ci siamo accorti

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bito, entrando qui? Che il posto è rimasto lontano nel tempo, ma non solo per i tavolini o le mura, anche l’illuminazione… non ti accorgi che a parte quella zona lì, vicino all’entrata, dove le lampadine, a basso consumo, con la loro luce fredda hanno, giustamente, preso piede, il resto ha una illuminazione abbastanza bassa, con una forte dominante? Non ti voglio annoiare, ma ti ricordo che il ‘colore’ di un oggetto è dato dalla luce che l’oggetto stesso non assorbe e che riflette. Mi spiego meglio, se vediamo un oggetto colorato di verde significa che, illuminandolo, lui riesce ad assorbire tutte le frequenze di luce tranne quella verde, che rimbalzando torna ai nostri occhi, semplice no? Praticamente questo oggetto è ‘tutto’ meno che verde, sembra assurdo ma è così. Se noi illuminassimo lo stesso oggetto con una luce senza la componente verde quest’oggetto apparirebbe addirittura nero, non avrebbe nulla da riflettere ai nostri occhi. Usiamo le luci forensi, oltre che per la ricerca di tracce in generale, anche per la ricerca di tracce ematiche: il sangue ovviamente è di colore rosso, quindi cattura tutti i colori meno che il rosso che riflette e arriva ai nostri occhi. Ma se illuminiamo del sangue con una luce forense (e per luce forense si intende una luce che possiamo modulare ad una precisa lunghezza d’onda) di colore rosso a 415 nanometri, lui assorbirà il fascio luminoso completamente e la traccia apparirà nera. Detto questo, è chiaro, quindi, che non è soltanto come è composta la superficie dell’oggetto che contribuisce al suo colore, ma anche la frequenza della luce che lo colpisce. Una zona del locale con la luce che ha una dominante gialla, beh, questo può modificare di molto il colore percepito. Facile pensare che una tonalità di capelli non proprio neri, illuminati con una luce giallina li faccia sembrare castano chiari, nulla di strano. Leggiamo bene il verbale, Panzironi dimostra una buona memoria sui particolari, tipo il maglione, l’orario… è un testimone decisamente attendibile”. Mangiamo una pizza decisamente buona e dopo non aver disdegnato il tiramisù della casa chiediamo di Giuseppina Sardegna. L’avevamo contattata per telefono qualche giorno prima. Oggi è la vedova di Panzironi.

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La signora Sardegna è gentile e si siede con noi. Parla piano, in un locale pieno di gente e forchette. Guarda verso la porticina che dà sul cortile: lo vede ancora, Pasolini. “È uscito di là”; ed è ancora un commiato. “Eh, non ce ne stanno più di persone come lui, adesso”, dice, col rimpianto che sempre hanno gli anziani per le cose passate, che non torneranno più. Un giorno l’avremo anche noi. Ha la “parannanza” davanti, e le mani di chi ha passato una vita a lavorare. Le domandiamo di quella sera e lei, come ha già fatto mille volte in questi ultimi quarant’anni, ci inizia a raccontare: “Entra verso le 23.30, «Vincenzo mi fai uno spaghetto aglio e olio?» Mio marito, pensate, lì per lì non lo riconosce e mi dice: «ma che, è il giorno dei morti e ancora mangia, la gente?» Lo guardo e gli dico «oh, ma è Pasolini». A lui non potevamo dirgli di no. Poco dopo mio marito gli porta lo spaghetto e Pasolini dice: «non è per me, è per il ragazzo. Che vuoi di secondo?» Il ragazzo dice di volere un petto di pollo”. La storia la conosciamo bene ormai, pagine e pagine di verbali, di carte ingiallite dal tempo: eppure ha un altro sapore quando a raccontarcela è chi in quel posto c’era, chi ha cucinato quel piatto di spaghetti. Giuseppina continua: “Che ancora oggi il petto di pollo lo tratto poco, facciamo il pollo alla diavola, alla cacciatora, questa è una trattoria così”. Questa cosa ancora dopo quarant’anni non gli va giù, il Biondo Tevere non è una trattoria per fighetti, di rappresentanza, ci si viene per mangiare. I piatti non sono moltissimi, ma sono fatti con passione, aver scelto un semplice petto di pollo invece di un pollo alla diavola di certo equivale ad un affronto… “Pasolini si prende una birra ed una banana, intanto ricordo che Giuseppe va a chiudere le due porte d’ingresso alla sala, quelle sopra le scale, dicendo che lo faceva per il freddo. Appena mangiato Pasolini si alza subito. In quel periodo c’era il referendum sull’aborto e quindi lui ogni volta ci dava spiegazioni su tutto, parlando parlando. Quando si alza non c’è più nessuno, sono andati via anche il pizzettaro ed il cameriere, mio marito l’accompagna: «A presto, professò»”. “Ma dove era seduto?”.

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“Lì, vedete? Il tavolo è quello, il terzo con la tovaglia rossa; e quella è la sedia dove era seduto, non la dò a nessuno, su quella mi ci siedo io, quando voglio riposarmi un attimo”. Si vede subito, che è una sedia diversa da tutte le altre. Di quelle di una volta, di legno, con l’appoggio arcuato per la schiena. È incredibile. “Prima stavamo parlando, con Armando, del fatto che suo marito ricordava il ragazzo con i capelli biondi”. “Pelosi non era biondo, ma di sicuro non era moro128 e poi la carnagione era chiara. I capelli erano più chiari”. Ci guardiamo con Fabio, Pelosi ce lo ricordiamo tutti dalle foto in bianco e nero dell’epoca, le foto che rendono i capelli da castani, neri. La teoria delle luci che abbiamo accennato prima è ancora più valida. “Come ha pagato? Quella sera ha pagato in contanti: erano 4.000 lire, più o meno. Se veniva con tanti ragazzi li lasciavo mangiare sopra (cioè in veranda, N.d.A.), dove c’erano le panche. In quei casi pagava con l’assegno, ma se era un conto piccolo pagava in contanti, come quella sera. Pensate che sopra era ancora più grezzo. Il tetto era di paglia, la USL ci fece modificare tutto proprio nel 1975. Mi ricordo che quando venne Moravia, dopo i lavori, si arrabbiò tantissimo, da allora non ho toccato più nulla. Le tovaglie sono ancora in carta, qui vengono ancora scrittori e gli piace scrivere sulle tovaglie”. Ormai il passato ha preso il sopravvento. “Pasolini veniva spesso con Dario Bellezza, poi è stato tanto male, era una persona tanto brava, poi è morto così, anni dopo. Mi ricordo che era il periodo pasquale: prese degli spaghetti con le vongole e poi mi chiamò: «Guarda che mani bianche che ho, non campo tanto». Dario e Pasolini portavano i ragazzi che volevano imparare a scrivere, erano bravi e disponibili. Sono andata ai funerali. Moravia era diverso, mangiavano tutti insieme, poi pagava il conto suo e se ne andava con l’auto, la sua Appia e via129”. 128 129

Agli atti risulta che avesse i capelli castano scuri.

La Lancia Appia, un’auto di altri tempi come questa storia, non venne prodotta in molti esemplari e la sua produzione cessò nel 1963.

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Sono ricordi privati, affettuosi, di gente che ha conosciuto e di cui parla senza boria, senza vantarsene, con ammirazione per la loro intelligenza ma anche con semplicità, perché anche chi entrava qui si comportava in modo semplice, sceglieva “Il biondo Tevere”, in fondo, per sentirsi come uno che mangia nella cucina di casa sua. “Lo conoscevate da tanto Pasolini?”. “Mi ricordo che Pasolini venne la prima volta qui con la Lambretta, quando abitava ancora alle Capannelle, era innamorato del Tevere, di questo posto”. La signora Giuseppina continua con un entusiasmo unico: “Qui, ai primi del Novecento, c´era un fienile. Era l´ultima costruzione prima della campagna. Poi, negli anni ’50, cominciammo a servire qualcosa da mangiare agli operai della zona. C´erano una conceria, una vetreria, da queste parti. Venivano gli operai edili che lavoravano alla Garbatella, con il loro fagotto di cibo. Noi davamo il vino. A settembre sono sessant’anni che sono qui. Abito ancora vicino, non si può abitare lontano. Ma dico sempre anche a mio figlio, quando sei qui e non c’è nessuno sei in paradiso, hai tutte le cose tue. In questo locale, che porta questo nome, dobbiamo trattare bene la gente, mio marito se sapesse che trattiamo qualcuno male ci ammazzerebbe”. “Il locale praticamente è come quella sera…”. “Certo, non cambieremmo nulla”. Si volta, indicandoci un grosso frigorifero bianco, che viene da un’altra epoca. Ha gli sportelli col riquadro a vetri, se ne sta enorme all’ingresso della cucina. “Quello che vedi è del ’56, sì. È un mobile frigo, un poco rovinato, ma funziona benissimo”. Gesù. C’è poco da fare, questo posto non cambierà mai. E forse ci piace proprio per questo. Perché anche noi vorremmo che le cose passate, gli sguardi passati, le voci passate, le presenze passate non ci abbandonassero più. Usciamo dal locale ancora affascinati dall’ambiente: ma bastano due colpi di clacson di un burino che ha fretta – di andare poi dove – a farci tornare ai giorni nostri.

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“Ci pensi che Vincenzo e la moglie, a parte chi partecipò al delitto, furono gli ultimi a parlare con Pasolini?”. “Sì, ma non furono gli ultimi a vederlo. Ricordi? Pochi minuti dopo, verso mezzanotte ed un quarto, Pasolini e un ragazzo vengono visti mentre stanno facendo benzina ad un distributore self service della Mobil poco più avanti, in via Ostiense 401”. “Il barista Ubaldo De Angelis, se non sbaglio, no?”. “Sì, il teste è lui. In molti libri viene addirittura riportato che era un benzinaio, invece no, era un barista che verso mezzanotte chiude il suo bar a via Chiabrera 124 e mentre sta andando a casa fa rifornimento”. “Via Chiabrera? Fabio mi ricorda qualcosa…”. “Esatto, proprio lì. Dove si troverà uno dei ritrovi storici della Banda della Magliana. È lo stesso bar. Comunque, tornando a noi, De Angelis arriva al distributore e si accoda, pensa un po’? All’Alfa GT, e il giorno dopo, saputo del delitto dalla tv, telefona anche lui alla Polizia, per fare una dichiarazione. Gli agenti si precipitano da lui alle 14.30: «Mi sono portato a bordo della mia autovettura presso il distributore ‘Self Service’ Mobil sito in via Ostiense n° 401 per fare rifornimento. Ivi giunto, potevano essere le ore 00.15, ho dovuto attendere qualche minuto in quanto stava facendo benzina una Alfa Romeo GT targata Roma K6… Fuori dall’auto vi erano due persone. Uno era il regista cinematografico Pier Paolo Pasolini mentre era con lui un giovane di circa 17 anni, alto m. 1,70-1,75, corporatura snella, capelli ricci e indossava un paio di pantaloni attillati. Ho notato che i due stavano parlando tra loro ma non ho udito cosa dicessero. Fatto rifornimento sono risaliti in macchina e preciso, Pasolini al posto di guida ed il giovane al suo fianco. Non ho fatto caso in quale direzione si fossero allontanati»”. “De Angelis non poteva proprio dirlo. Subito dopo la partenza dell’Alfa dal distributore stava inserendo le 1.000 lire e dava le spalle alla strada. Comunque, riconosce Pelosi130”. 130

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Sul riconoscimento di Pelosi da parte di De Angelis sono stati avanzati

“Fabio, andiamo a vedere il distributore?”. “Stavo pensando la stessa cosa”. E non sappiamo più se è per l’indagine o perché non sappiamo più allontanarci dal passato. Eccolo, dopo pochi minuti è davanti a noi. Adesso ha cambiato compagnia: è Q8. “Vedi, allora uscendo dalla trattoria si poteva andare direttamente su via Ostiense, costeggiando la basilica; ora è invece senso unico a rientrare.” “Bene, sappiamo che dal Biondo Tevere Pasolini si è portato qui a fare benzina a mezzanotte ed un quarto e poi? Che strada fece per andare ad Ostia?”. “Allora: se lo domandò anche la Corte, ma curiosamente non gli investigatori all’inizio. Venne incaricato il maresciallo Giordano Antonino, della Polizia Scientifica, di misurare la distanza dal ristorante all’Idroscalo. Il maresciallo provò 4 itinerari, due percorrendo la via Ostiense, con diverse diramazioni quando arriva ad Ostia; e due percorrendo via Cristoforo Colombo. Risultato: distanza minima 28 km e 900 metri e distanza massima, seguendo la Colombo, 31 km e 600 metri”.

dei dubbi. Come ha fatto il barista a riconoscerlo in foto già alle 14.30, se non c’era ancora alcuna foto segnaletica di Pelosi da mostrargli? Ricordiamo che Pelosi era fino ad allora transitato sempre per il carcere minorile, dove i ragazzi per prassi non erano fotosegnalati. La risposta è comunque semplice: la Questura la foto di Pelosi ce l’aveva. Era quella che aveva preso all’Anagrafe, tanto che la foto che verrà diffusa alla stampa, quel giorno, è la stessa che si trovava sul documento di Pelosi.

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L’Alfa 147 corre nella notte, sull’Ostiense che si lascia sempre più indietro la città. Andiamo sempre dritti, fino a che troviamo il mare a fermare il nostro cammino. E poi a destra sullo stesso Lungomare Duilio. Poca gente in giro. Un vento freddo arriva dal buio del Tirreno. E poi tra palazzi in costruzione e poi andare là, dove marciapiedi aggiustati di pacca lasciano il posto a reti sbrecciate e pacchetti di patatine vuoti che le auto hanno spinto ai margini dell’asfalto. E poi vecchi lampioni, fabbriche chiuse e un cancello oltre il quale non vediamo più nulla. La strada sterrata, la notte del 2 novembre 1975, iniziava qui.

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Capitolo 8

Ponte Sant'Angelo

Avvocato, perché le indagini furono fatte così male? La domanda sembra banale, in effetti. Ma una spiegazione la cerchiamo ancora. Siamo nello studio di Guido Calvi, uno dei due avvocati della parte civile Pasolini, al processo del 1976. L’uomo che ci risponde è in giacca e cravatta e non dimostra i suoi 75 anni. Senatore, membro del CSM, docente universitario, protagonista di processi importanti. Siamo a Prati. Le stampe alle pareti sono ottocentesche vedute della città e documenti antichi. Abbiamo un’ora per parlarci, poi sarà impossibile riacchiapparlo. “È mancata la professionalità, anche se Masone era un grandissimo. Non fu bloccata la scena del crimine, come fu fatto invece per Feltrinelli. Io mi sono battuto fin dall’inizio per l’omicidio in concorso con ignoti, sapete?”. “E poi hanno condannato solo Pelosi…”, fa Armando sorridendo. “La condanna a Pelosi era quella massima per un minorenne. Ma avete mai visto un ricorso della Procura Generale contro una condanna alla pena massima? Credo sia un caso unico in Italia: e in Appello, che fanno? Mettono in discussione solo la parte degli ignoti, mica il resto. Assurdo. Ora, con l’ultima inchiesta, siamo ritornati alla certezza della presenza degli ignoti. Ma pensare che oggi si possano trovare è impossibile”. “Avvocato, che ne pensa di Pelosi?”, dico io. “Pelosi… è del tutto inattendibile. Lui a questo punto non fa altro che, quando comincia a modificare la versione originaria, prendere pezzi delle sentenze e crea, inventa. Ma una cosa di questo genere, un omicidio come quello, non si poteva fare senza che lui sapesse non tutto, ma almeno un

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pezzetto della storia, come sempre accade in questi casi. Se avesse avuto un avvocato serio, Pelosi sarebbe uscito tranquillamente dal processo, perché lì c’era solo la sua confessione”. “Siamo d’accordo, avvocato. È per questo che la continua confusione creata da Pelosi fa venire ancora di più il nervoso. Ma lei come valuta la testimonianza Citti, che lei stesso raccolse?”, chiede Armando. “Il mio interrogatorio a Citti è un atto giudiziario, è indagine difensiva”. “Sì, ma c’è una cosa che vorremmo capire: Citti, prima della morte, aveva chiesto di essere sentito?”. “Mi sembra di sì. Io ho presentato tre volte la richiesta di riapertura delle indagini e per due volte fu chiusa; la prima volta subito, anche perché Citti fu subito smentito da Naldini, che depose come le bobine rubate non erano indispensabili per finire ‘Salò’. E fu subito conclusa l’indagine…”. “Che tipo era, Sergio Citti? Ci colpisce che abbia impiegato così tanti anni a parlare”, chiedo incuriosito. “Citti non fu ambiguo, era legatissimo a Pasolini, avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui. Si ritrovò contro anche la famiglia dello scrittore: non volevano assolutamente che si riaprissero le indagini, tanto che la cugina non mi autorizzò a richiederlo. Io ci riuscii perché Veltroni mi nominò come legale del Comune di Roma, che si costituì parte civile”. “E della tesi ‘Petrolio’ che idea s’è fatto131?”. “Eh. Come si fa a sapere quanto sarebbe stato incisivo quel capitolo di ‘Petrolio’, in quel libro poi così magmatico? Io credo che Dell’Utri abbia lanciato un messaggio a chi sapeva lui”. Usciamo perplessi al freddo di febbraio. Sergio Citti. Che racconta la verità 35 anni dopo, dopo averne anticipato dei 131

Ne parleremo più avanti. In breve, è l’ipotesi per la quale la supposta assenza di un capitolo del romanzo che Pasolini stava scrivendo in quel momento, “Petrolio”, sarebbe legata al suo omicidio, in quanto il capitolo avrebbe contenuto rivelazioni su segreti di stato e trame occulte. Molti anni dopo, Marcello Dell’Utri affermò (e poi fece marcia indietro) di possedere le pagine mancanti.

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pezzetti nel tempo; e comunque anche quando parla, nel 2010, lascia sempre dei vuoti. Dobbiamo farci i conti. Risaliamo in Vespa. Torniamo verso Portuense, verso Testaccio, quando a un certo punto il Lungotevere ci fa vedere la sagoma inconfondibile di Ponte Sant’Angelo. Ci fermiamo. È questo il posto per parlare. Primo pomeriggio, nemmeno troppa gente in giro. Poi, è il ponte sul quale fa la sua scommessa Accattone: “Vojo morì co’ tutto l’oro addosso, come un faraone!”. “La prima cosa è rimettere in fila tutto quello che Citti ha detto finora”, fa Armando. “Giusto, sì. Citti racconta la sua storia per intero a maggio 2005. L’8 in un’intervista al Corriere della Sera e a Repubblica, il 30 sia alla Polizia che all’avvocato Calvi nell’ambito delle indagini difensive della parte civile (il Comune di Roma, in questo caso). Prima ne aveva anticipato dei frammenti, in interviste del 1976 e 1992 e, durante gli anni, ne aveva parlato più volte con David Grieco, che riporta queste confidenze nel suo libro132. Il 14 luglio 2005 la testimonianza di Citti all’avvocato Calvi viene ripetuta, ma stavolta non solo di fronte a lui. C’è anche il regista Mario Martone: ne nasce un documento filmato che incrocia le parole di Citti con un filmato di circa venti minuti, da lui girato all’Idroscalo nel novembre di quel 1975; e di cui, fino ad allora, non se ne sapeva nulla. Prima di quelle immagini a colori l’Idroscalo era una manciata di minuti di lattiginoso bianco e nero Rai. Successivamente, prima di morire, parla anche coi giudici”. “Un filmato del tutto fondamentale per capire la dinamica del delitto. Ci troviamo nel 1975 e quella zona di circa 11.000 ettari è praticamente una terra di nessuno di proprietà del demanio. Ognuno si sente libero di costruire la propria casetta, anche se non era ben chiaro come facevano ad avere l’elettricità; comunque tutte abusive. Ogni tanto il Comune cercava di fare censimenti e planimetrie precise per quanto riguarda le strade, ma generiche quando riguarda le costruzioni. Una cosa è certa: di mappe precise o fotografie della zona non 132

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“La macchinazione”, Rizzoli, 2015.

ce n’erano. Il filmato di Citti è l’unica documentazione, non effettuata dalla Polizia, di come fosse la zona dell’Idroscalo in quel periodo”. “Ora, condensiamo tutto. La storia di Sergio Citti è questa. Tutto comincia nell’agosto del 1975, precisamente tra il 14 ed 25 agosto. Siamo sulla Tiburtina, dove al civico 1138 ci sono gli stabilimenti di sviluppo e stampa della Technicolor, un’azienda leader del settore. Ed è qui, mentre lo stabilimento è chiuso per ferie, che avviene un furto stranissimo. Vengono rubate una settantina di ‘pizze’133, quei contenitori circolari di metallo che contengono i negativi dei film. Se ne stanno lì, dietro una porta di ferro con due ampie vetrate nella parte superiore, custodite a temperatura e umidità protetta: si vede subito cosa c’è in quello stanzone. La porta è stata divelta con violenza, mentre quella esterna, dello stabilimento, con cura. A chi verrebbe in mente di rubare delle pellicole? E invece. E invece nemmeno i guardiani si sono accorti di nulla, il che non è strano: è stranissimo. Comunque sia, non le hanno prese tutte: delle centinaia e centinaia presenti, solo una parte di quelle degli ultimi film di Fellini (Casanova), Pasolini (Salò) e Damiani (Un genio, due compari e un pollo). Un furto davvero stranissimo, perché il valore commerciale è zero. Il valore artistico invece è alto: il danno, insomma, è più per il regista che per il produttore. Del furto se ne accorgono solo il 27, quando lo stabilimento riapre. In realtà, sembra che i soli giorni in cui veramente nessuno è stato nello stabilimento siano quelli a cavallo di Ferragosto, dal 14 al 16; ma comunque, dopo il 14, nessuno è entrato nella parte dei cellari e quindi nessuno si è accorto del furto”. “Intendiamoci, Fà. 74 pizze pesano come una montagna: sono diversi quintali. I ladri si sono attrezzati: dovevano avere per forza un camioncino e poi hanno perso tempo dentro lo stabilimento. Non hanno preso negativi a casaccio, hanno scelto. E questo fa pensare. Nel frattempo, lasciano un po’ di 133

Il critico cinematografico Tullio Kezich, nella sua biografia su Federico Fellini, riporta che erano 74 in totale.

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impronte digitali che non saranno utili alla polizia134 e si sono fumati delle sigarette, tanto che un pacchetto viene ritrovato vuoto. Oggi avremmo fatto il dna dei mozziconi, ma nel ’75… Una delle cose particolari è che i ladri hanno fatto una cosa scomoda: si sono portati via le pellicole, ma hanno lasciato le scatole di metallo vuote e al loro posto, a ritardare la scoperta del furto”. “Dei tre film il più colpito sembra essere subito quello di Pasolini. Delle 150 pizze complessive di ‘Salò’ ne mancano almeno una dozzina; e dentro questa dozzina c’è forse – non s’è mai capito davvero – una scena che il regista vuole montare proprio nel finale del film. Anche il film di Damiani, come quello di Pasolini, era quasi finito di montare; mentre Fellini stava ancora girando. Ti aspetti una telefonata dei ladri, una richiesta di riscatto. E invece niente. Alla Technicolor non chiama nessuno, alle case di produzione nemmeno”. “E il riscatto, scusa? I ladri sono afoni?”. “Le telefonate arriveranno dopo, e solo al produttore dei film di Pasolini e Fellini: le Produzioni Europee Associate, la Pea dell’avvocato Alberto Grimaldi. È nella sede della società, in via Oceano Pacifico 46, all’Eur, che il film è stato montato: alla Technicolor venivano custoditi i negativi e fatti sviluppo e stampa”. “Non è mai stato chiaro quanto chiedessero i ladri e l’oscillazione di cifre che vengono riportate, tra due miliardi e cento milioni, che troviamo nelle fonti, mi fa credere che si sia partiti da una cifra spropositata per arrivare nelle settimane a una più accettabile, perché Grimaldi non aveva nessuna intenzione di pagare certe cifre o non aveva proprio intenzione di pagare (ha sempre dichiarato di non averlo fatto). Farlo avrebbe costituito un precedente disastroso”. “Ma nel frattempo naturalmente era stato valutato il danno” dice Armando. Pausa. “Di ogni sequenza montata esistono sempre, infatti, i cosiddetti ‘doppi di scarto’, le sequenze scar134

Il che non vuol dire che non fossero dei pregiudicati, ma che le impronte potevano essere parziali e quindi inutili per l’identificazione.

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tate, quelle uguali a quella montata, sì, ma scartate dal regista. Era possibile risolvere con quelle? Per Damiani sì e infatti il film uscì regolarmente il 19 dicembre 1975, se non sbaglio. Fellini uscirà con un enorme ritardo, a 1976 molto inoltrato, ritardo dovuto però più che altro al suo proverbiale sforamento del budget (e relativa polemica con Grimaldi). E Pasolini?”. “Ecco ho verificato che proprio mentre il regista è a Stoccolma, il 31 ottobre, una copia finita del film viene depositata in Commissione di Censura, per avere il visto necessario alla proiezione. Il che vuol dire che a quella data (e anche un po’ prima) il film era bello che finito. Ma finito come? Quanto grave era il danno? Grimaldi e il suo avvocato Gianni Massaro dichiararono in quei mesi che il film era uscito «in una versione che risentiva della mancanza del materiale negativo rubato da ignoti». Insomma, il danno era serio, se è vero che Ugo De Rossi, si chiama così, no?, assistente montatore del film di Pasolini (ma anche di ‘Casanova’, entrambi prodotti dalla Pea), sentito dall’avvocato Stefano Maccioni135 a giugno del 2010, in fase di investigazioni difensive, sostiene che all’epoca del furto non era stata effettuata ancora una copia del negativo, che di solito veniva fatta. De Rossi si ricorda perfettamente di aver dovuto rimontare ‘Salò o le 120 giornate di Sodoma’ con i ‘doppi di scarto’, ottenendo così un risultato diverso dal montato originale”. “Il film fu comunque finito e, a quanto dice De Rossi, Pasolini ne era anche contento. Ma, a differenza di Damiani e Fellini, lui conosceva anche in ambienti di malavita, andava girando ovunque, non aveva paura di sporcarsi le mani. Ovvio, quindi, che sia andato in giro a muovere le sue conoscenze e vedere se qualcuno sapeva qualcosa e poteva comunque aiutarlo a riavere gli originali. Simona Zecchi, nel suo libro, incontra un testimone che chiama Piero e sta a Tiburtino III. Che racconta un incontro di poche ore avvenuto un giorno, per caso, mentre era col suo amico Sergio Piazza, er Riccetto. Pasolini si era accostato loro con l’auto e aveva chiesto all’a135

Legale di Guido Mazzon, cugino di Pasolini, nell’ambito dell’ultima inchiesta.

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mico di salire: stava cercando le pizze del film. Anche questo dimostra che lui le cercava”. “Esatto. E qui entra in scena Citti. Ti leggo. «Per Pasolini, a quel tempo, ero come un figlio» dice lui. «Questo si sapeva in giro, e lo sapeva pure un certo Sergio Placidi136, uno che gestiva un traffico di prostitute, avrà avuto l’età mia, sui quarant’ anni e un giorno me lo ritrovo davanti, che scende dalla sua Mercedes, e mi fa: ‘Ce l’ abbiamo noi la pellicola originale del film Salò o le 120 giornate di Sodoma… Al tuo amico devi dire che se le rivuole, deve sganciare due miliardi di lire’. Io andai dal produttore del film, Alberto Grimaldi. Lui volle una conferma del fatto che queste persone avevano la pellicola, tanto è vero che dopo qualche giorno fecero ritrovare un pezzo della pellicola in un posto concordato. Ma quello mi rispose che più di 50 milioni non era disposto a tirare fuori. Placidi mi lasciò il numero di telefono di un bar, che si trovava in via Lanciani137, dove però non lo trovai»138”. “Il numero di un bar? Scusa, Citti ha detto ‘via Lanciani’?”. “Sì. La coincidenza col bar frequentato da Pelosi è pazzesca! Però è evidente che solo da un numero di telefono Citti non poteva sapere dove si trovasse il bar. E infatti, intervista dopo intervista, Citti specifica di aver incontrato un paio di volte Placidi: «E una volta, in moto, mi portò davanti a un bar che poi riconobbi in certe immagini televisive successive al delitto: era il bar frequentato da Pelosi…139». È solo dopo il delitto che ricollega le cose, quindi”. 136

Per la cronaca, abbiamo chiesto a Nino Mancini se Placidi avesse mai fatto parte della Banda, visto che spesso il suo nome è accostato a lei: “Assolutamente no, mai sentito nominare”, è stata la risposta. 137

Sempre per la cronaca, il numero di telefono del bar era 835803.

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Sostiene Marco Tullio Giordana che poi Grimaldi avrebbe anche denunciato l’estorsione al commisariato San Basilio. A Citti furono mostrate segnaletiche tra le quali non trovò la faccia del tizio (e ti credo, avrebbe dovuto denunciare uno che conosceva bene…). Si pensò allora ad una banda di dilettanti. 139

Cioè quello di via Lanciani 23, a un metro da Piazza Winckelmann, il “Bar Tazza d’Oro”, confidenzialmente “bar della signora”.

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“Sicuro che non fosse un segnale?”. “Un segnale?”. “Sì, nell’ambito dei 10.000 bar romani viene indicato l’unico frequentato da Pelosi: qui ritorniamo a un discorso già fatto, relativo alle coincidenze, a cui credo poco. La domanda è: Citti parla del bar a Pasolini? Potrebbe averlo fatto, per fargli capire da chi doveva stare attento. Magari perché sa per certo che viene frequentato dall’amico stretto di Pasolini, Pelosi. O altrimenti non sa veramente nulla ed è in buona fede; e scopre dopo il collegamento con Pelosi”. “Passa un mese ed evidentemente l’uomo che, stando a Citti, potrebbe essere Placidi, cambia canale: Grimaldi non ha abboccato, con Citti non s’è quagliato e allora trova direttamente il modo di contattare Pasolini. E infatti, durante una cena a Ostia, Pasolini dice a Citti «che aveva trovato da solo un contatto per riavere le pellicole del film». E spiega che gli avevano telefonato per riconsegnargli le pizze di ‘Salò’, senza voler alcun riscatto: s’erano sbagliati e volevano ridargliele. La restituzione era stata fissata ad Acilia, al suo ritorno da Stoccolma. Citti: «No, non era preoccupato. Anzi ricordo che mi disse: ‘Hai visto che me lo restituiscono’, con una certa soddisfazione». La cena, evidentemente, si svolge a ottobre, per forza entro il 26. Come ha fatto l’uomo a contattare Pasolini direttamente per telefono? Deve aver avvicinato qualcuno che gli è vicino e gli ha dato il numero. Il numero? Un momento. Se il ladro aveva il telefono del regista, nonostante l’attentato alla Sip e il numero provvisorio, allora doveva avere un contatto con qualcuno di molto vicino a lui. Il 1° novembre mattina, a telefono, Pasolini infatti conferma a Sergio Citti che quella sera vedrà qualcuno ad Acilia: per le bobine”. “Acilia non è Ostia, sicuramente”. “Forse sì, c’è qualcosa che non torna: da Acilia all’Idroscalo sono più di 13 chilometri, diciamo che se fosse vero dobbiamo trovare una logica spiegazione. Bisogna capire come c’è finito poi all’Idroscalo”. “Ma, a questo punto, comunque sia, sarai d’accordo che il valore delle pizze di ‘Salò’ è sceso, sia perché a Pasolini interessa solo la sua parte e non quella di Fellini, sia perché

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comunque, in qualche modo, ha già rimediato. Il film è alla Censura. Sinceramente, sembra assurdo quello che dice Citti, che gliele avrebbero restituite gratis, per due motivi: uno perché non s’è mai sentito dire che uno ruba qualcosa e poi la riporta indietro perché ama il cinema; e due, perché allora la restituzione sarebbe avvenuta in un altro modo, gliele avrebbero fatte ritrovare in un posto qualunque, senza farsi vedere, senza esporsi, senza metterci la faccia e farsi riconoscere. Se ne deduce che Pasolini ha mentito a Citti forse per tranquillizzarlo, come d’altronde aveva mentito a Davoli dicendogli che stava andando a casa. Pasolini quindi ha con sé dei soldi, quella notte. Forse è un riscatto, forse – come dice il Pecetto – è una specie di mancia per quelli che gli stanno riportando le bobine. Comunque, ne ha: e questo ci interessa. È importantissimo”. “Proseguiamo col racconto di Citti. Eccoci alla sera del 1 novembre: Pasolini ha appuntamento con Pelosi, a Termini (questa è una deduzione di Citti, attento). Qual è il ruolo del ragazzino? Certo che, in un contesto del genere, uno la domanda se la fa. Citti dice che è un’esca, ma non è possibile. Non aveva bisogno della motivazione sessuale, Pasolini, per riprendersi il suo film. Non è che uno non va a recuperare le pizze se non c’è del sesso da fare. L’unico logico motivo per portarselo dietro è che il ragazzetto faccia parte del gioco, perché ha fatto da tramite, in qualche modo, perché conosce quelli che arriveranno”. “E d’altronde non è certo andato fin laggiù, al contrario, solo per fare sesso. Qui ha ragione Citti: «Se Pier Paolo avesse davvero rimorchiato Pelosi, se lo sarebbe portato lì vicino… sui prati della Tiburtina, ai Monti del Pecoraro… non sarebbe certo arrivato fino a Ostia»”. “Non fa una piega: se poi i patti erano anche di riaccompagnarlo a casa, il percorso Eur-San Lorenzo-Termini-OstiaSetteville-Eur fa 130 km e quasi tre ore di macchina: assurdo, per fare un po’ di sesso. Pelosi è dunque lì per altri motivi. Fin qui quello che Citti sa: il resto sono sue supposizioni e cioè che Pasolini sia stato sequestrato ad Acilia e condotto a forza all’Idroscalo”.

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“Ora, il problema di quello che dice Citti è che mischia elementi reali e credibili con altri che o sono sue supposizioni pure o non sono minimamente credibili. Delle prime non parliamo nemmeno. Delle seconde: ad esempio, Acilia non ha alcun senso; così come è evidente che il contatto tra Pasolini e Placidi, se è avvenuto, l’ha creato Citti. Sa dove trovare Placidi, ha un numero di telefono e poi la cosa cade nel vuoto e Placidi, da solo, trova Pasolini (e perché non l’aveva trovato prima, allora, invece di ricorrere a Citti?). Diciamo che non vuole esser messo in mezzo, poi vedremo perché. O vuole starci fino a un certo punto. Tant’è vero che quando parla con la Polizia, il 30 maggio 2005, dichiara di non aver mai saputo chi aveva ucciso Pasolini e che non ricordava nemmeno il nome del pescatore. Sentito dai Pm, delusione: ripete che non sa chi ha ucciso Pasolini, le quattro persone con cui aveva appuntamento quella sera e di cui aveva parlato in un’intervista precedente diventano una di fronte ai giudici. A proposito, ti ricordi del pescatore, vero?”. “Esatto, e qui c’è il filmato”. “Certo. Il 14 novembre 1975, quindi una dozzina di giorni dopo il delitto, Sergio Citti prende la sua auto e l’operatore Renato Tafuri e va all’Idroscalo di Ostia. Ha piovuto nei giorni scorsi, è pieno di fango, ora è davvero novembre. Ha con sé una cinepresa 16 mm140 e vuole girare, vuole raccontare quello che è successo con le armi che conosce: fa cinema, usa il cinema. Ricostruisce come sono andate le cose, ma lo fa perché nei giorni precedenti è già stato là, ha cominciato a fare domande, ha parlato con qualcuno, qualcuno di cui non fa il nome, che indica genericamente come un pescatore. Citti cerca la verità e trova un testimone che parla con lui ma non vuole parlare con nessun altro: non vuole problemi, non vuole casini, ha paura. Con lui parla perché lo sente che è come loro, che viene dallo stesso ambiente. Il testimone, nelle immagini girate successivamente, non si mostra, non c’è. C’è l’Idroscalo ed è a lui che 140

Il filmato è muto perché il 16 mm è un formato che non prevede la pista sonora. Queste immagini eccezionali appaiono per la prima volta solo quando Calvi e Martone vanno a prendere la testimonianza di Citti, ormai malato, a casa sua nel 2005.

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tocca raccontare il delitto: al terreno, alla rete, alla strada sterrata. Solo che Citti si tiene tutto per sé: filmato e testimonianza. Vedremo dopo che farà solo qualche accenno, nel tempo. Il pescatore – ma questo lo dirà solo 35 anni dopo – gli ha detto che le auto degli aggressori erano due e colloca l’auto di Pasolini. A proposito, tu hai capito dove, dal filmato?”. “Senza punti di riferimento non è facile, poi ti faccio vedere bene quando andremo a vedere le immagini sul fascicolo. Pensa alla stradina sterrata dove è rinvenuto il corpo, il suo proseguimento porta all’altezza dell’area di rigore (ovviamente immaginaria) di un campo di calcio rudimentale, così verrà denominato dalla Polizia Scientifica. Citti colloca l’auto dalla parte opposta del campo, diciamo nel corner opposto. Come vedremo in seguito, te lo anticipo solamente, in quel punto giungeva una stradina molto interessante per la sua riservatezza e per il fatto che, percorrendo via dell’Idroscalo e provenendo da Ostia centro, si incontrava prima della stradina sterrata”. “Magari la conoscevano solamente quelli del posto”. “Ipotesi in questo caso azzeccata: abbiamo infatti una dichiarazione per la quale, almeno due anni prima, Pasolini era stato visto giocare da Mario Bassu, un fabbro della zona, proprio nel campo regolamentare che dava con il lato lungo su via dell’Idroscalo e con uno di quelli corti proprio su questa stradina. Difficile pensare che non l’avesse vista per niente…” “Questa ci mancava, continuiamo a vedere le immagini sfuocate di quel vecchio 16 mm. È tutto molto diverso da oggi: al posto di quell’area c’è un’oasi naturalistica della Lipu. Gli aggressori piombano, stando al racconto fatto a Citti, sul GT con un’auto. Niente motociclette. Il pescatore vede due auto in tutto: una è quella di Pasolini, l’altra quella degli aggressori. Lo scrittore viene picchiato inizialmente da 3-4 persone nei pressi dell’auto e della porta. La loro auto tiene i fari accesi durante il pestaggio. Lo scrittore finisce contro la recinzione, che infatti presenta un avvallamento, come di una persona che ci è caduta sopra. Il tutto si svolge dietro la porta del campo di calcio rudimentale, Pasolini a un certo punto si divincola, tenta la fuga, ma viene raggiunto nel punto dove sarà trovata la camicia. È picchiato ancora; poi, si finge svenuto.

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Mentre l’aggressore torna indietro per riprendere contatto coi suoi complici e decidere il da farsi, si rialza, si pulisce il sangue in faccia e sulla testa con la camicia, finendo così per dare nell’occhio. A quel punto l’auto lo punta, lo illumina coi fari, parte; Pasolini vede che quelli tornano, ma stavolta con l’auto per investirlo, si alza e fugge, l’auto inchioda nel punto in cui era caduto, scendono, lo riprendono per i capelli, nuove botte, nuovo tentativo di fuga. Oltre il pescatore, da dove si trova, non può vedere”. “Quando viene investito, l’auto va oltre e tira giù uno dei paletti di cemento che tengono la recinzione141 lo dice Citti. Tutto il resto delle dichiarazioni di Citti, da qui in poi sono sue osservazioni personali e non dati di fatto, quindi per me non dobbiamo tenerne conto”. “Sono d’accordo”. “Durante il processo Citti rilascia però un’intervista142 che oggi possiamo vedere con altro sguardo: «Certa gente mi ha rivelato cose. Ci siamo parlati francamente. ‘Tu sei un ragazzo di vita. A te lo diciamo. Ma qui lo diciamo, qui lo neghiamo’. Cose strane che se confrontate sono risultate vere. Già lo sapevo per esempio che avrebbero arrestato quei due143. Quanti erano quella notte io non lo so. Ma so com’è andata. Come tutto è stato organizzato bene. Sì, conosco la verità che non posso dire. La dirò quando sortirà quel ragazzo». E allora sa molto, Citti. Ha scoperto davvero molte cose. Ma non parla, né lo ha fatto quando finalmente Polizia e Pm gliene hanno dato la possibilità; e dobbiamo chiederci perchè”. “Fabio, probabilmente davvero non gli avrebbero creduto. Non la magistratura, non dopo il processo. Ma forse in quel momento sì, ancora sì. Il Presidente del Tribunale, Moro, sta davvero cercando la verità in quelle settimane. Sta di fatto che Citti non viene ascoltato. Marazzita: «Per tre volte ho 141

Abbiamo già visto che l’auto non prese affatto il paletto di cemento. La storia di Citti cade nella parte in cui il pescatore non ha potuto più vedere, perché a quel punto lascia il passo alle imprecise supposizioni di Citti stesso. 142

Al Corriere della Sera, il 10 aprile 1976.

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Si riferisce ai fratelli Borsellino, che conosceremo meglio in seguito.

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chiesto alla Procura di ascoltare Citti e ho avuto tre no». Citti, comunque, continuerà a insistere col pescatore fino alla fine degli anni Settanta, ma quello non volle mai saperne di testimoniare. Scusa ma il furto come va a finire?”. “La faccenda del furto si risolverà tre settimane dopo la sentenza, il 2 maggio del 1976, a notte fonda quando, dopo aver ricevuto una informazione anonima, i carabinieri si precipitano al Teatro 15 di Cinecittà, dove ritrovano 24 pizze (non è proprio chiarissimo se solo 24 o tutte). Sono le tre di notte. Anche questo conferma che Grimaldi non ha pagato nulla: altrimenti le bobine non sarebbero state ritrovate con una soffiata, ma scambiate regolarmente (bobine contro lire)”. “Guarda cosa ho trovato. Le testimonianze di Citti e del pescatore si incrociano con una importante conferma. Quella di Gianni Borgna (che sarà critico musicale e assessore alla cultura del Comune di Roma per tredici anni, te lo ricordi Borgna?): «Alla fine di ottobre 1975 Pasolini mi chiamò per dirmi che sarebbe andato per pochi giorni a Stoccolma e che, rientrato a Roma via Parigi, mi avrebbe subito telefonato (stavano concordando l’intervento dello scrittore al congresso della Fgci a Roma, N.d.A.). Poi, con aria molto soddisfatta, mi fece sapere di aver trovato un contatto almeno all’apparenza utile per riavere indietro le bobine rubate del film. Ma ne avremmo parlato meglio al suo ritorno». È la conferma che Citti non s’è inventato la storia e che Pasolini stava conducendo una trattativa personalmente, proprio in quei giorni di ottobre”. “Questo è importante! Però ho trovato anch’io una cosa: se confrontiamo questa storia con quella che Citti invece racconta a Grieco, che conosce da una vita, diversi passaggi sono del tutto differenti. Ad esempio, a lui dice che Placidi era andato a trovarlo davanti all’ufficio di un produttore, se l’era ritrovato davanti: l’aveva preso sulla sua moto e l’aveva portato dalla Banda della Magliana, a San Basilio. Il furto era avvenuto da pochi giorni, quindi non a ottobre. Poi c’è la richiesta dei 2 miliardi, Grimaldi risponde che avrebbe dato 50 milioni e Citti che dice a quelli della Banda ‘vi siete sbagliati’. Allora quelli gli rispondono che avrebbero restituito le

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pizze, perché di 50 milioni non sapevano che farsene. E di dire a Pasolini di combinare l’appuntamento. Citti va da Pasolini, ma lui è molto spaventato, la faccenda di Ponte Mammolo è recente e non ha voglia di rischiare. Anzi è proprio spaventato e non vuole saperne niente. Poi ci si mette di mezzo Pelosi a fargli cambiare idea. Anche perché lo scrittore si convince che rifiutare il gesto riparatore sarebbe una mancanza di rispetto che non vuole avere. Quindi, va. Fabio, non c’è bisogno di fare l’esegesi del testo per capire che questa versione non si regge in piedi da sola: sembra quasi che Citti abbia voluto prendere in giro Grieco, raccontandogli una serie di particolari sballati, illogici, inverosimili: – Placidi che va a trovarlo davanti l’ufficio del produttore, come se già sapesse dove trovarlo. – Placidi che lo porta dalla Banda, che nel 1975 non esisteva nemmeno. – Citti che risponde loro ‘vi siete sbagliati’ ed esce pure vivo da una risposta del genere. – La Banda o chi per lei che risponde ‘ah, vabbè, di 50 milioni non sappiamo che farcene, le restituiamo’, come se con quella somma nel 1975 non ci si comprasse un appartamento. – Pasolini che è troppo spaventato per andare, quando appare del tutto soddisfatto – e deciso a concludere – a Borgna e allo stesso Citti, a cena a Ostia. Guarda, non so perché Citti abbia rifilato questa patacca a Grieco, ansioso anche lui di scoprire la verità sulla fine di Pasolini. Ma sappiamo che l’ha fatto. È una versione così inverosimile che non ne terremo conto, che ne pensi?”. “Che quando due registi si mettono a parlare tra di loro vengono fuori delle ‘licenze poetiche’ da entrambi e queste ‘licenze’ rimbalzano da uno all’altro senza fine ed ingigantendosi. Citti quando racconta la storia subisce l’influenza nefasta della Banda della Magliana che, come hai giustamente detto, all’epoca nemmeno esisteva. Ma non c’è secondo me la volontà di mentire a tutti i costi, c’è quella di ingigantire, di infiocchettarla, tutto qui”.

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Ci fermiamo a pensare, mentre l’acqua scorre sotto di noi. Passano gli anni. Citti resta in silenzio fino al 2005, l’abbiamo detto: quando parla, ormai in punto di morte. Dicendo e non dicendo le cose che abbiamo scritto sopra. Ma anche stavolta l’ipotesi del furto delle pellicole risulta poco credibile per i giudici, perché Nico Naldini testimonia che il danno era risultato minimo in quanto erano stati rubati dei positivi. Naldini s’era sbagliato o si ricordava male, nessuno pensò di chiedere ai montatori (gli unici che avevano davvero sotto mano la situazione del film, in quella fase) e tanti saluti. Pelosi, intanto, tace. Fino al 2011 ed al suo secondo libro: “Io so… come hanno ucciso Pasolini”. “Armà, mi ricordi che dice?”. “Ecco come la racconta, ti sintetizzo nel migliore dei modi: – I Borsellino gli dicono se vuole prender parte al furto delle bobine. Pelosi rifiuta perché non vuole fare un furto sotto casa sua. Gli dicono che dietro c’è un certo Sergio Placidi. – Qualche giorno dopo il furto aggiungono che Placidi sta in società nel furto con Sergio Citti, che ha con lui un debito per droga e forniture di sesso. – Di mezzo c’era anche un Mauro G., che disse a Franco Borsellino di aspettare. Questo tizio, ben vestito, fece in modo che ‘il capo della sezione politica’ (??!!) parlasse con Placidi. – Da quel momento, tutto cambiò. Non so cosa fosse successo, né il perché, fatto sta che da quel momento Placidi non chiese più nulla e comunicò a Pier Paolo, tramite Citti, la volontà di restituirgli gratuitamente le bobine offrendo come motivazione il fatto che il regista avesse dedicato la sua vita alle borgate e alle gente meno fortunata e che per questo non poteva essere ricattato. L’unica certezza in quella storia furono le imprecazioni dei Borsellino che sarebbero rimasti a bocca asciutta di fronte alle promesse ricevute da Placidi.

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– Seconda settimana di ottobre, Franco Borsellino va da Pelosi e gli dice di portare Pasolini all’incontro per la restituzione delle bobine. In cambio, 500.000 lire per lui, mentre Pasolini avrebbe dato 3.000.000 ai ragazzi per ringraziarli. Credo di non dover commentare”. “Guarda il cielo, sta per piovere. Esaminiamo il furto, dai. Prima che quelle nuvole coprano noi e la nostra storia. Gli elementi certi sono questi: – il furto delle bobine è su commissione, come ogni furto di opere d’arte. Un ladro normale non dà nessun valore a dei pezzi di pellicola, perché non può portarla da un ricettatore. È un cosa speciale, che solo l’amatore capisce; – bisogna conoscere il ruolo del produttore nel cinema e sapere che bisogna trattare con lui; – bisogna conoscere i giorni in cui lo stabilimento sarà vuoto (la Technicolor, come ogni stabilimento di sviluppo e stampa, è sempre aperto 24 ore su 24, festivi inclusi); – bisogna avere la piantina dello stabilimento per sapere dove sono le celle frigorifere; – bisogna sapere che del film di Pasolini non esiste ancora una copia del negativo e quindi il furto è ‘pesante’. Se ne deduce che per il furto occorreva un basista: e l’unico basista che poteva sapere tutte queste cose insieme era qualcuno della troupe stessa del film”. “Sono d’accordo. Le bobine, abbiamo visto, riappaiono al teatro 15, a riprova ulteriore della presenza di un basista nel furto, uno che può entrare e uscire da Cinecittà: perché ci lavora. È un furto che nasce nel mondo del cinema. Anche il fatto che vengano fatte ritrovare con una soffiata depone in questo senso: qualunque altro ladro le avrebbe buttate alla spazzatura, visto che non ne aveva ricavato nulla, solo chi lavora nel cinema può conoscere il valore altissimo delle bobine e pensare, visto che la richiesta di riscatto è fallita, di farle ritrovare”. “Quindi alla fin fine la storia delle bobine tiene, ma non si capisce che bisogno c’era di finire a 30 km da Roma per

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consegnare i soldi. Di nuovo: perché l’Idroscalo? Le bobine potevano essere consegnate in una qualsiasi altra strada di Roma. I Borsellino erano della Tiburtina, Pelosi di Setteville… Ostia era dalla parte opposta, era scomoda per tutti. Bastava un posto qualsiasi di Roma di notte. Certo, l’Idroscalo aveva il vantaggio di essere fuori mano e di avere diverse uscite e entrate, da cui controllare bene l’area e l’eventuale arrivo della polizia. Forse ha un senso”. “Altro elemento di certezza è il valore dei soldi che Pasolini aveva con sé: per capire l’enormità di quei milioni di lire, qualsiasi somma fosse, basti dire che nel 1975 un operaio arrivava a circa 155 mila lire al mese di stipendio. Il giornale stava a 150 lire, il biglietto del tram a 100 e una tazzina di caffè costava 120 lire. Un chilo di pane più o meno 450 lire, un chilo di pasta circa 480, la carne stava a 4.500 al chilo, mentre la benzina a 305 al litro. Se i Borsellino erano lì, quello per loro era l’Eldorado e Pasolini un tizio ricco cui svuotare il portafoglio. Ci sta”. I primi tuoni. “Abbiamo dimenticato Sergio Placidi. Chi è?”. “Sbrigati, lo senti il cielo? Placidi… sì, dai, è quello che, finalmente interrogato nell’ultima inchiesta, dapprima depone, il 4 aprile del 2011, di aver innocentemente conosciuto entrambi i fratelli Citti nei lontani anni Sessanta: roba da bar. Risentito il 25 giugno successivo, ritrova un pezzo di memoria: «Non vi ho detto che effettivamente Sergio Citti, ora non ricordo se qualche giorno prima dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini o nei giorni seguenti, ebbe a dirmi che ignoti avevano rubato le pizze del film ‘Salò’ di Pasolini […] chiedendomi se potevo interessarmi al recupero delle predette pellicole. Preciso che l’incontro avvenne occasionalmente alla darsena di Fiumicino […]. Io non mi sono mai interessato alla ricerca delle predette pellicole, tantomeno ho appreso notizie sugli autori del furto. […] Da allora non ho più parlato con Sergio Citti del furto delle pellicole». C’è una certa differenza tra la prima versione e la seconda, no? Dunque, Citti aveva ragione, ma chi ha aperto bocca per primo? È Citti che ha cercato Placidi o il contrario? Differenza ne fa, eccome. Se

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partiamo dal presupposto che ha più motivi Placidi per mentire di quanti ne avesse Citti di dire la verità, allora crediamo al secondo. Dunque, Placidi. Cosa c’entra con questa storia?”. Il racconto di Citti ci porta all’agguato, ci dice che le bobine sono state il motivo per andare all’Idroscalo. A Pelosi, tramite consapevole (di cosa? Dello scambio? Del pestaggio?). Ma perché la restituzione delle bobine è finita con un omicidio? Sergio Citti muore l’11 ottobre del 2005, a Ostia. Non c’è più tempo, solo quello di rimetterci i caschi. E ripartiamo, lasciandoci alle spalle i fotogrammi di un volo nel Tevere di oltre mezzo secolo fa.

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Capitolo 9

Pigneto

“Comunque, se ci ripenso, ancora mi viene da ridere”. Stiamo seduti ad un tavolino di Necci a gustarci una delle sue fantastiche torte e ripensiamo a qualche giorno prima quando, passando davanti all’Istituto di Medicina Legale, per i romani l’obitorio, avevamo chiamato il nostro amico, nonché uno dei medici legali di maggior esperienza della Sapienza, Giorgio Bolino, dicendogli se aveva voglia di raggiungerci per un caffè. Il caffè, inesorabilmente, era diventato un cappuccino e cornetto. È allora che era successo l’inesorabile: “Allora ragazzi, il prossimo libro di cosa ci delizierà?”. “Deliziare, visto l’argomento, Giorgio, è una parola grossa. Comunque, questa volta la vediamo dura: l’omicidio Pasolini.” “Veramente molto interessante, complimenti, hanno scritto almeno venti libri sull’argomento”, ci dice Giorgio sorridendo. “Non ricordo se ve l’ho mai detto, però mio zio lavorava all’epoca in Istituto e il giorno che andò in pensione tornò a casa con un faldone con su scritto ‘Pasolini’. Sono certo che, da qualche parte in garage, dovrei ancora averlo. Tutto quello che non sanno dove mettere alla fine, non so perché, arriva nel mio garage”. Io sgrano gli occhi incredulo, mentre sento provenire dalla mia sinistra un suono indefinibile di tosse e lamenti di soffocamento. Mi giro di scatto e vedo Fabio paonazzo. La notizia del materiale “interessante” di Giorgio è stata devastante, inaspettata, il cornetto gli è andato di traverso e rischia di trasformarsi in un ospite delle celle frigorifere di Giorgio. “Fabio, Fabio, come ti senti?”, Giorgio cerca di tirarlo

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su raddrizzandolo, mentre Fabio, continuando a tossire ci fa segno con la mano che non è nulla di grave…“Oh, ti senti meglio?”. Cerco anch’io di aiutare: “Fabio. stai meglio? Vuoi che chiamiamo qualcuno? Ti portiamo qui davanti in istituto? Sì, lo so che è un obitorio, però meglio che niente. Non fare lo schizzinoso”. Mentre ci pensiamo ci viene ancora da ridere. Giorgio fu, ovviamente, di parola e dopo pochi giorni ci chiamò per andare a ritirare da lui un faldone zeppo di carte. Ed eccoci qui, nel ristorante Necci. “Luogo storico, o sbaglio?”. “Più storico di così. All’inizio era un bar, ma oggi Necci è la storia del Pigneto. E poi venne il 1960. Pier Paolo Pasolini che gira ‘Accattone’ qua dietro, in via Fanfulla da Lodi e mostra al mondo la faccia della borgata, le facce della borgata. Sai che il casting lo fece tra questi tavolini? La sua anima è ancora qui, tra queste strade, nei murales, tra queste casette basse dove ti scordi che sei a Roma e ti sembra di stare in paese”. Stiamo sfogliando il faldone pieno di copie degli atti dell'epoca e le mani si ricoprono di una polvere grigia, che viene da lontano. “Che abbiamo? Ecco questo è interessante, le perizie medico legali. Vediamole un attimo”. Vengono incaricati di svolgere la perizia medico legale addirittura tre esperti, guarda: Merli, Umani Ronchi e Ronchetti. L’incarico affidato è, come avviene nei casi di omicidio, quello di… leggo qui… determinare l’epoca della morte, la causa e i mezzi che l’hanno prodotta. Però, con delle aggiunte: se la causa, in particolare, sia da attribuirsi ai colpi inferti al capo, nuca o volto; se la compressione e schiacciamento del capo e del torace siano stati causati dal passaggio sul corpo della ruota di un veicolo e se questo abbia avuto efficienza nella produzione dell’evento morte; se il sangue presente sul paletto sia appartenuto alla vittima o all’imputato e se il sangue e i capelli rinvenuti sull’autovettura appartengano alla vittima”.

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“Incarico abbastanza preciso, mi sembra?”. “Sì, anche se, come sappiamo, l’esame del DNA ai fini forensi nel 1975 non si faceva, quindi l’ultima parte dell’incarico la vedo difficile…”. Leggiamo insieme il verbale di autopsia, ognuno in silenzio, ed ancora una volta, come nelle altre nostre indagini, immaginiamo un corpo rigido e inerte sul freddo metallo dell’Istituto di Medicina legale. Questa volta, però, è Pier Paolo Pasolini: “Il cadavere pesa kg. 59, la sua statura è di cm 167”. “Come 167 cm? Quindi non era molto alto, eppure ce lo descrivono tutti robusto, specialmente quando giocava con i ragazzi. Spesso lo circondavano, per scherzo, e lui riusciva sempre a divincolarsi e letteralmente alzarne più di uno insieme, ti ricordi? Ce lo disse Pecetto”. “C’è poco da fare: era la sua personalità a farlo apparire più alto di quanto fosse. Continuiamo: rigidità cadaverica presente, generalizzata assai intensa, alle grandi e piccole articolazioni degli arti superiori ed inferiori. Ipostasi scarne di colorito rosso-vinoso alle regioni declivi del dorso, immodificabilità alla pressione. Macchia verde putrefattiva iniziale alla fossa ileo-cecale”. “Il resto dell’autopsia, Fabio, è molto particolareggiato, ma… guarda qui”. “Cosa?”. Prendo freneticamente a sfogliare le pagine, se Fabio sta dicendo qualcosa nemmeno lo ascolto. “Qui! Guarda qui! I medici legali quando affrontano l’argomento ‘tempo di morte’ indicano, dal loro esame esterno: «un periodo trascorso dalle 36 alle 48 ore più prossimo al primo». Ma, incredibilmente… ecco, qua… dichiarano tranquillamente che per determinare il tempo trascorso si sono avvalsi della descrizione cadaverica effettuata dalla Polizia Scientifica e, sempre più incredibile, nessun medico legale andò all’Idroscalo quella mattina e quindi non venne presa la temperatura corporea”. “Dimmi che non è vero”.

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“Ti direi una bugia… e ora vediamo il resto: vengono contate 40 zone escoriative, ferite e fratture. Tra le più significative ci sono: lo scollamento del padiglione auricolare sinistro, una zona ecchimotica molto significativa nello scroto, parte destra, ed escoriazione nel terzo medio del pene; una decina di costole fratturate con i monconi infiltrati, la frattura del naso. E fratture da difesa alle falangi della mano sinistra”. “Significa?”. “Che dal momento della frattura a quello della morte è passato un tempo sufficiente per cui la circolazione sanguinea, ancora presente, ‘infiltra’ queste parti. Per intenderci, le ferite costali non hanno coinciso temporalmente con la sua morte. Poi la mandibola, nel emivolto sinistro, ha ben due fratture e due lacerazioni del fegato, di 7 e 15 centimetri. Infine una lesione traumatica del cuore di 1 circa un centimetro, il cuore è scoppiato. Leggiamo come concludono i periti: «… dall’esame esterno, ivi compreso l’esame delle vesti, e dall’esame anatomo-patologico, non sono emersi elementi obiettivi che debbano far ritenere che la compressione medesima possa essere attribuita al passaggio sul corpo della ruota di un veicolo. In realtà che il corpo del Pasolini – certamente a terra – sia venuto a contatto con le struttura inferiori dell’autovettura di sua proprietà, in giudiziale sequestro, non può essere oggetto di dubbio alcuno». Quindi il GT è passato sul corpo ma non è la causa di morte”. “È il casino che successe al processo, quando i tre periti dissero che non era stato il passaggio dell’auto a uccidere Pasolini e Durante gli fece fare una brutta figura…”. “Esatto, e riferendosi alle tracce biologiche riscontrate sotto l’autovettura: «… assumendo caratteri morfologici (con speciale riferimento agli schizzi di sangue) che inducevano ad ammettere una loro dinamica di produzione in rapporto ad un’unica direzione di marcia dell’autovettura, cioè verso l’avanti»”. “Quindi l’auto gli è passata sopra solo una volta”. “Sì, certo. Riguardo la dinamica dell’investimento i periti traggono delle conclusioni molto particolari”.

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“Aspetta: ma nel fascicolo presso il Tribunale dei Minorenni l’esame del materiale biologico repertato sotto la scocca del GT non c'è”. “No, hai ragione. Ce n’eravamo accorti, che c’era l’invio del materiale in Istituto ma non la risposta. Possibile che non sta nemmeno qui?… Torniamo alle conclusioni dei periti: «… ci inducono a ritenere che al momento del passaggio il corpo del Pasolini fosse orientato secondo un’asse più o meno parallelo rispetto a quello della direzione di marcia dell’autovettura e quindi delle sue strutture inferiori. Ricordiamo in particolare, a conferma del nostro convincimento, la relativa modestia del quadro fratturativo costale, l’irregolare distribuzione dei punti di frattura, la presenza soprattutto di una rottura del cuore senza lacerazione del pericardio. Tutto ciò fa assai più pensare a un’azione compressiva rapida esercitata da strutture inferiori dell’autovettura che ad un’azione vera e propria di sormontamento che avrebbe inevitabilmente dovuto comportare, visto anche il peso dell’autovettura stessa: kg 1,040, un franamento del torace e ben più gravi lesioni da scoppio dei visceri interni». Curiosa dinamica, perché l’auto non è abbastanza bassa da far passare un corpo sotto senza trascinarlo per metri, questa loro spiegazione è sicuramente da rivedere bene… però continuiamo. Infine concludono che, relativamente ai colpi inflitti in particolar modo alla testa, con bastoni e una tavoletta in legno, rinvenuta spezzata in due parti nel senso di lunghezza, poco possono dire. Però fanno una precisazione: la tavoletta dapprima è stata usata per colpire di piatto e, successivamente, quando si è rotta in due, per colpire di taglio”. “Sai cosa mi sto chiedendo? Ma secondo te, con i calci al ventre che aveva preso e il fegato tagliato, poteva correre per scappare? Cioè, tu che dici, queste lesioni sono arrivate alla fine, nel punto in cui è stato ritrovato?”. “Non necessariamente. A parte la lesione al fegato che, come sappiamo, è asintomatica e quindi non genera alcun dolore, le altre comunque sono state ricevute in un momento di panico e fortemente adrenalinico. Come sottolinearono i

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medici legali, la tumefazione ai testicoli aveva generato sicuramente un dolore lancinante, ma chiunque ci fosse stato al posto di Pasolini, in quel momento di terrore l’attenzione si sarebbe chiusa a tunnel, con l’unico intento di sopravvivere”. “… E questo, cos’è? La copia di una lettera scritta da Giuseppe Borsellino, uno degli amici storici di Pelosi, quando quest’ultimo era in carcere”. “Questa è proprio interessante, non credo di aver mai visto qualcosa del genere. Ma se la diamo a Sara Cordella, la nostra amica grafologa? Di Borsellino si sa veramente poco, magari ci aiuta a capire qualcosa di più”. “Ottima idea. Gliela invio per mail”. Sfogliamo ancora. “Questa cartella cos’è?” “Interessante, alcuni stampi delle gomme dell’auto di Pasolini e 5 fotografie del luogo dove venne rinvenuto il corpo”. “Stampi?”. “Sì, sono a grandezza reale, credo abbiano passato dell’inchiostro sul copertone e poi gli hanno premuto sopra un foglio, interessante. Anche queste non c’erano, in Tribunale. Un metodo ottimo. Visto? Le gomme sono differenti, ma ne parleremo in seguito. Le fotografie sono interessanti, sono state sicuramente scattate dopo il rinvenimento, pochi giorni dopo. Guarda. Non so chi lo fece, ma venne subito fatta una cosa strana: nel punto in cui venne rinvenuto il corpo furono posati dei blocchetti di cemento, creando una specie di cerchio, penso sia stato di circa due metri di diametro. Una sorta di monumento popolare, dove si andavano a portare i fiori. Le immagini sono proprio interessanti e uniche, molto utili per capire com’era la zona”. Continuiamo a sfogliare documenti: relazione sull’autovettura e le sue caratteristiche tecniche, ce l’abbiamo; sentenza di Appello, sì ovviamente; motivazioni del ricorso del difensore Mangia, sì, c’era già nei nostri atti. “Ma questo cos’è?” esclama Fabio con gli occhi che gli brillano, “Indagini di laboratorio sui reperti relativi alla morte di Pasolini Pier Paolo! La perizia mancante!”.

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Persa in chissà quale spostamento del fascicolo, quell’indagine riemerge ora. Scorro le righe, le pagine. Dopo quarant’anni. “I reperti oggetto d’indagini di laboratorio sono stati prelevati in parte dalla Questura di Roma e in parte dalla Legione Carabinieri di Roma. Dalla Squadra Mobile, il giorno dopo del sopralluogo, giunse: una camicia di maglia a strisce colorate marca Missoni, un pezzo di stoffa color celeste, un pezzo di legno con la scritta ‘via Idroscalo 93’, un pezzo di legno con la scritta ‘Buttinelli A.’, un pezzo di legno più corto degli altri due. E, consegnati direttamente da un funzionario della Squadra Mobile, un pacco contenente due bastoni di legno e numerosi frammenti di legno. Dai Carabinieri, qualche giorno dopo, giunsero: una provetta contenente capelli insanguinati prelevati dal luogo dove è stato rinvenuto il cadavere di Pier Paolo Pasolini, una provetta contenente terriccio prelevato nello stesso luogo, una provetta contenente capelli insanguinati prelevati sotto l’autovettura Alfa Romeo G.T. 2000 targata Roma K69996, una quarta provetta contenente terriccio prelevato dal parabrezza dell’autovettura; e poi un pezzo di garza, contenente capelli prelevati presso il pronto soccorso dell’Ospedale Civile di Ostia e appartenenti a Pelosi Giuseppe. In un secondo pacco, sempre da parte dei Carabinieri, giunsero i vestiti di Pelosi. Qualche giorno dopo, il 15, giunsero i reperti prelevati dai Carabinieri dall’autovettura: un fazzoletto color bianco bordato di righe celesti e marroni, un pullover color grigio, un pullover verde, una giacca sportiva da uomo color marrone a fantasia. I periti, inoltre, presero, in presenza del dr. Salvatore Giunta, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale dei Minori, alcuni frammenti del rivestimento di sinistra della portiera dell’auto di Pasolini ed alcune incrostazioni di materiale rossastro presenti sotto l’autovettura e sul tettuccio”. Sfogliamo insieme le carte. Ecco, qui. “I periti numerano i reperti progressivamente e ne danno una precisa descrizione, guarda Fabio come descrivono

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la tavoletta: 4) Una tavoletta di legno recante la dicitura Buttinelli A. verniciata in verde chiaro, di forma irregolarmente rettangolare con lato maggiore lungo cm 79 e lato minore cm 8,5, circa, spessore di cm 1,8 circa, peso gr. 700. Il margine inferiore (per chi guarda la scritta) è interrotto a sinistra da una incisione lunga cm 28, profonda cm 4 circa, in corrispondenza della quale il legno si assottiglia essendo spezzato e sghembo in modo assai irregolare. Detta incisura è imbrattata di materiale rossastro incrostato commisto a formazioni filamentose brunastre. La parte superiore del margine superiore, per una estensione di cm 25 circa, è imbrattata di materiale rossastro commisto a formazioni filamentose brunastre; anche la parte destra presenta tracce rossastre sfumate, estese per circa cm 6 circa. La superficie anteriore, nel terzo esterno sinistro, presenta una macchia rossastra sfumata estesa per cm 30 circa, nel contesto della quale si osservano numerose incrostazioni brunastre, rotondeggianti, dalle dimensioni di una capocchia di spillo e un diametro di cm 0,5 circa. Lieve soffusione rossastra anche nella porzione più a destra, estesa cm 15 circa, con rare incrostazioni di aspetto simile a quelle già descritte. I margini destro e sinistro non presentano tracce di materiale di sospetta natura organica. La faccia posteriore dimostra, nella metà sinistra, alcune macchie incrostate di colore rossobrunastro, di forma irregolare, dalle dimensioni di cm 1-3. Si dà atto che nella parte centrale della tavoletta sono infissi tre chiodi diretti dalla faccia anteriore a la posteriore dalla quale sporgono per cm 4 circa. Vengono prelevati mediante raschiamento alcuni frammenti di tutte le tracce descritte e repertate le formazioni pilifere”. “Qui c’è dell’altro, Armando. Vennero prelevati anche dei capelli, come precisano i periti, dal cadavere di Pasolini e da Pelosi e un campione di sangue di entrambi. Venne effettuato un esame spettroscopico per cercare, in tutti i campioni che presentavano macchie bruno-rossastre, il tipico spettro di assorbimento del sangue. Tutti risultarono positivi tranne lo straccio celeste, il maglioncino appartenente a Pelosi, il fazzoletto e il maglioncino verde rinvenuti nell’auto di Pasolini

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e alcune macchie presenti sulla portiera sinistra. Ma era un esame attendibile? Mai sentito”. “In realtà non era un esame attendibile analizzare con luci forensi delle tracce al fine di determinare se le stesse reagiscono nelle due lunghezze d’onda, quelle comprese tra i 567 e 589 nano micron e tra i 525 e 553 nano micron. È un esame che è efficace per quantità di sangue cospicuo. Qualora si illumina la traccia, con quella lunghezza d’onda, il sangue presente lo assorbe completamente e quindi l’emissione è nera, molto semplice. Però… a patto che la quantità di sangue presente sia copiosa. Con il luminol sarebbe stata un’altra cosa. Le successive analisi chimiche vennero effettuate esclusivamente sui reperti che risultavano positivi al primo screening”. “Ma scusa, se l’analisi del DNA come la intendiamo ora nemmeno la si immaginava, allora il confronto tra il sangue rinvenuto sui reperti come l’hanno fatto? Solo con il gruppo sanguigno?”. “Ottima domanda, no anzi. Già in quegli anni c’erano tecniche analitiche che permettevano di essere più precisi: le analisi ‘gruppo specifiche’. Praticamente, visto che non si poteva analizzare direttamente la sequenza del DNA, si vedeva la sua ‘conseguenza’ sul ‘polimorfismo’ proteico che si trovava sulla membrana cellulare, enzimi, ecc. Non era, ovviamente, discriminante nemmeno lontanamente dalle analisi odierne, ma i dati ottenuti potevano essere sufficienti in caso di comparazione tra una traccia e una stretta cerchia di sospettati. Per esempio, Pasolini aveva il gruppo sanguigno AB ed un fenotipo MNss, mentre Pelosi aveva come gruppo sanguigno O ed il fenotipo corrispondente Mss. La comparazione tra le tracce di sangue presenti con i due permise di determinare che erano quasi tutte appartenenti a Pasolini tranne quelle dei reperti: 14, la canottiera a mezze maniche, di colore bianco, con etichetta recante la scritta ‘supermalo 4’, sequestrata a Pelosi; 22, una traccia presente in parte del rivestimento della portiera anteriore sinistra; 23, una traccia presente nella tappezzeria sopra il parasole sinistro; 24, una traccia presente sul tettuccio nell’angolo

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riore sinistro e 25, una traccia presente nella parte superiore dello sportello sinistro”. “Poi leggo qui che invece la ricerca di tracce seminali ha dato esito negativo”. “Sì, esatto; e poi per concludere hanno analizzato le formazioni pilifere, i capelli, che risultarono tutte provenienti da Pasolini. Il confronto con i campioni di riferimento presi dal Pelosi e dal cadavere del Pasolini era stato abbastanza semplice. I capelli del Pelosi hanno un diametro tra gli 80 ed i 100 micron, mentre quelli di Pasolini avevano un diametro compreso tra i 50 ed i 70 micron. Inoltre quelli dello scrittore si presentavano così: colore bruno-rossiccio diffuso e bianco alla radice, ma soprattutto era l’entità dei granuli di pigmento che risultava finissima, scarsamente rappresentata e addirittura assente verso l’estremità prossimale”. Ancora altre pagine, forse intorno c’è gente. Ma ormai non la sentiamo più. “Vediamo cos’altro c’è, ecco la relazione sull’autovettura, interessante”. “Sì, vero. La prima parte è formata dalla scheda tecnica presa dal costruttore, cosa c’è di interessante?”. “Che l’autovettura era bassa, i punti più bassi in particolare sono: l’appoggio dei molloni anteriori che è alto da terra 180 millimetri e il tubo di scappamento, 120 millimetri. Era abbastanza nuova, immatricolata 3 anni prima, eppure aveva già percorso 76.119 chilometri, non pochi. Le gomme erano in ottimo stato, ad eccezione di quella posteriore sinistra più consumata. Vediamo i danneggiamenti che aveva: ‘il parafango destro risulta notevolmente deformato e la lamiera accartocciata; il corrispondente fanale abbagliante è enucleato dalla sua sede a seguito dell’urto, con le carenature contorte e il cristallo in frantumi. La plastica del fanalino di posizione destra è infranta; ed anche il paraurti anteriore, lato destro, ha subito una notevole deformazione’. Il fianco sinistro poi risulta praticamente tutto deformato fino al paraurti posteriore. È il danno fatto da Luciano Mezzana la mattina dopo il delitto. Incaricato di spostare il GT nella rimessa di via Fabbri Navali, dove c’è la caserma dei carabinieri, fa una

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vra allucinante. Riesce a massacrare tutta la fiancata destra dell’auto144”.

“Ma… non la stava spostando perché pioveva?”. “Si dice fosse perché pioveva e bisognava spostarla urgentemente, ma a riguardare le foto e i filmati Rai di quella mattina, scattate e girate in quelle ore, l’asfalto a Ostia è asciutto. No, la pioggia non c’entra. In verità, Mezzana spostò l’auto per consentire ai colleghi di fotografarla e documentarne lo stato alla luce di un pallido sole… Subito dopo questo bel capolavoro, furono scattati i primi rilievi fotografici dell’auto del delitto. Ed è solo allora che compaiono i danni, peraltro annotati subito nel verbale dei Carabinieri di quel giorno”. “Ma dai… tutti scrivono che fu per la pioggia e invece…”. “Buffo, eh? Continuiamo a leggere, interessanti sono le tracce di colore azzurro sulle parti scrostate, che i periti riconducono a un ostacolo che ha urtato, però se fossero sempre dovute al grande Mezzana? Anche la fiancata sinistra risulta ammaccata per tutta la lunghezza ma in maniera meno 144

I rilievi fotografici dei Carabinieri si svolgono tra le 11 e le 12 ma, quando iniziano, i danni sono già visibili.

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marcata. Anche il paraurti, lato sinistro, ha una forte ammaccatura”. “Quest’auto ha urtato ostacoli sia a sinistra che a destra…”. “Dici? Leggi qui cosa dice il perito: «… nulla può dire il sottoscritto, in quanto i danni maggiori sono stati provocati all’atto del ricovero dell’autovettura in autorimessa»”. “Insomma, i danni maggiori li hanno fatti i carabinieri…” .

“Sì, esatto. Poi, descrive l’interno e infine le strutture inferiori che risultano tra le più significative. Vengono rinvenuti terriccio e pietre di varia natura nella parte sottostante. Sangue e ammaccature, in particolare nella metà sinistra, formazioni pilifere, che poi come abbiamo visto risulteranno simili ai capelli di Pasolini, e in particolare nella zona dei tubi di scarico: ricordiamoci che era anche la parte più bassa dell’autovettura. Ecco lo schema riassuntivo, molto interessante”. “Questo invece già lo avevamo visto, è il verbale di ispezione dell’autovettura fatto quella mattina alle ore 11 presso il cortile della stazione dei Carabinieri di Ostia Lido, vediamo cosa trovano all’interno dell’autovettura: «nel cofanetto del cruscotto, la relativa carta di circolazione; nel portaoggetti,

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quello istallato vicino alla leva del cambio, un paio di occhiali con le lenti scure e una scatola di profilattici ‘777’; sul sedile posteriore rinveniamo due giacconi in lana uno di colore nero e l’altro di colore avana. Nel cofano rinveniamo un maglione di color verde in lana145»”. “Solo questo? Ma non c’era altro?”. “Sì che c’era, soltanto che in quel momento si incrociano due verbali, quello fatto dal Nucleo Investigativo dei Carabinieri, accorso da Roma, di cui ti ho appena parlato e quello invece fatto dal personale della Stazione Lido che lo redige proprio la notte stessa, verso le ore 2, prima di rinvenire il corpo. Dato che Pelosi dichiarava di aver rubato l’auto di Pasolini, fanno una accurata descrizione di cosa trovano all’interno dell’automobile: carta di circolazione; la tessera dell’ordine dei Giornalisti di Roma n. 12838 intestata a Pier Paolo Pasolini; 3 fototessere raffiguranti Pasolini; copia del contratto d’assicurazione dell’autovettura; un secondo contratto di assicurazione; una copia della denuncia di furto rilasciata in data 21.10.1974 dai Carabinieri di Roma-Giardinetti; un libretto di servizio dell’Alfa Romeo; il foglio complementare dell’autovettura; una statuetta in pietra lucida con la scritta ‘Città di Nettuno’; un mazzo formato da 7 chiavi e un’altra singola; un mazzo di 3 chiavi dell’autovettura; 2 pettini; una scatola di ‘Saridon’ contenente 8 pastiglie”.

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Ricordate? Cuzzupè e Guglielmi lo collocano, nell’immediatezza dell’arresto, sul sedile posteriore dell’auto. I colleghi che fotografano l’auto la mattina dopo, nel cofano. A noi, come già detto, pare più credibile la collocazione dei primi, in quanto fatta subito, la notte del delitto.

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“Che se non sbaglio era un antidolorifico molto generico, mio padre lo usava per il mal di testa. Senti, ma scusa, in anni in cui l’assicurazione auto non era nemmeno obbligatoria, Pasolini aveva assicurato la sua auto due volte? Ci teneva, alla sua sicurezza”. “Esatto, e poi: una cartina automobilistica Esso, allora nelle automobili non mancavano mai; lire 30.000 in biglietti da 10.000 rinvenute presso il posto di guida, lato destro, (2

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banconote) seminascoste dal tappetino (asciutte e in buono stato) e l’altra al centro dello stesso posto sotto il tappetino (bagnata e sporca di terriccio); lire 5.000 in banconote da lire 1.000 rinvenute nel posto attiguo a quello di guida, lato sinistro seminascoste dal tappetino (si presentano spiegazzate e asciutte); un bottone color bianco; un plantare per scarpa destra, rinvenuto sotto il sedile del posto di guida; un fazzoletto; una scatola completa di tre profilattici marca ‘777’; un tesserino regali della Mobil; una copia fotostatica di un telegramma inviato da Carmine Cianfarani e relativo proprio al furto delle bobine; due libri, ‘Sull’avvenire delle nostre scuole’ e ‘1943 Lettere di Marx giovane ai suoi amici’. E poi viene rinvenuto un pullover color verdino, occhiali da vista color scuro, un pullover grigio scuro con nelle tasche 16000 lire, una giacca sportiva da uomo di color marrone”.

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Capitolo 10

Ostia

“Fabio, quando poco e quando troppo”, siamo praticamente stesi sul tavolino di un bar al nuovo porto di Ostia, con il materiale sparso su una piantina che copre tutto il tavolino e oltre. “Per il nostro libro precedente siamo partiti che non avevamo praticamente nulla. Dal Vaticano era trapelata solo una planimetria dell’appartamento, per questo invece abbiamo l’imbarazzo della scelta”. “E che, ti lamenti? Facciamo, piuttosto, il punto della situazione: non credo che tutto ciò che abbiamo ci sarà utile”. “Abbiamo, abbiamo…: una planimetria formato A0, sì, Fabio, non è una tovaglia è proprio la planimetria fatta all’epoca dalla Polizia Scientifica; il fascicolo di sopralluogo con più di 130 foto, non male, con alcune fotografie a colori, forse le prime che venivano scattate dalla Scientifica; le fotografie trovate nel faldone del dottor Bolino che, anche se scattate nei giorni successivi, ci fanno capire molto della zona. Effettivamente non male come materiale”. “Ti dimentichi però un altro pezzo forte, il filmato di Citti. Rivediamolo. In particolare, visto che l’originale lo abbiamo visionato alla cineteca di Bologna, abbiamo questo video che sta su YouTube e che tutto sommato ci permette di rivederlo ad una decente qualità. Guardiamolo un attimo, questo è l’avvocato Calvi che intervista Sergio Citti seduto su un sedia a rotelle, era il 14 luglio 2005; dietro c’è il fratello Franco, che ricordiamo tutti in ‘Accattone’ e in tanti film di Pasolini, oltre che nel ‘Padrino’, e viene inquadrato steso su un letto. Sergio morirà qualche mese dopo. L’intervista si svolge mostrando il filmato girato dallo stesso Sergio all’Idroscalo una decina di giorni dopo l’omicidio – ricordi? – a seguito delle rivelazioni di un pescatore della zona, che sarebbe stato testimone oculare”.

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“Siamo passati prima su quella che fu la scena del crimine: e abbiamo trovato, lo sapevamo, una zona diversa”. “Cominciamo. L’omicidio avviene in un’area allora cosparsa di casette abusive e zone recintate, praticamente circoscritte da via dell’Idroscalo, una strada allora sterrata ma con massicciata, che in quel punto aveva il percorso simile ad una grande ‘U’. Il cadavere venne rinvenuto su una stradina, anch’essa sterrata, che partiva da via dell’Idroscalo. Questa stradina sterrata non aveva una sua denominazione topografica, la zona era tutta abusiva. Attualmente, se vedi la zona tramite ‘Google Maps’, via dell’Idroscalo percorre all’incirca lo stesso percorso anche se segue un andamento un poco più spigoloso a forma di un trapezio. All’interno, attualmente, c’è il parco ‘Pier Paolo Pasolini’, con una serie di laghetti, gestito come oasi dalla Lipu però, come hai notato, per salvaguardare la fauna presente, sono state create delle dune che ormai non lasciano trapelare nulla dalla strada. Guardando la zona con le spalle al mare, nell’angolo superiore sinistro di questo trapezio, c’è il monumento a Pasolini. Al posto di questo laghetto c’era veramente di tutto nel 1975, intendo campi di calcio, baracche, casette in muratura etc… Ma ritorniamo indietro a quel 2 novembre quando viene scoperto il corpo di Pasolini partendo dal sopralluogo fatto dalla Polizia Scientifica: «L’anno millenovencentosettantacinque, addì 2 del mese di novembre, alle ore 7.30, in Ostia Lido (Roma). Noi sottoscritti M/llo di P.S. GIORDANO Antonino, Brig. di P.S. SOLIMENE Ciro, Brig. MIOTTI Romeo e Grd.Sc. di P.S. ROSCETTI Leonello, fotosegnalatori, addetti al Gabinetto Regionale di Polizia Scientifica della Questura di Roma, su richiesta della locale Squadra Mobile e per disposizione superiore ci siamo recati all’ex Idroscalo di Ostia, per eseguire rilievi tecnici relativi all’omicidio in persona di un uomo sconosciuto, dall’apparente età di anni 50-55, successivamente identificato per PASOLINI PIER PAOLO. Sono presenti al sopralluogo il Vice Questore Dr.

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dinando MASONE dirigente della Squadra Mobile, il Vice Questore Dr. Domenico DE SABATO dirigente del Commissariato di P.S. Lido di Roma, il Commissario Capo di P.S. Dr. Carlo IOVINELLA della Sezione Omicidi. Il Commissario Capo di P.S. Dr. Ernesto VISCIONE della stessa Squadra Mobile. Il Commissario di P.S. Dr. Gianfranco MARIENI del predetto Commissariato ed altri elementi degli Uffici sopraindicati. La vasta zona litoranea, ove un tempo sorgeva l’idroscalo di Ostia, si trova ad Ovest della città e ci si arriva da via dell’Idroscalo e da Via del Mare. Percorrendo la citata Via dell’Idroscalo, provenienti dal centro cittadino di Ostia, a circa 325 metri dopo il primo incrocio con Via degli Atlantici e a 124 metri prima del secondo incrocio con la stessa via, sul lato sinistro della carreggiata, si nota una strada laterale di penetrazione, a fondo in terra battuta, che permette l’accesso ad un grande spiazzo, una parte del quale è adibito a campo di calcio rudimentale». Regola numero uno di un buon sopralluogo: iniziare a collocare nella maniera migliore il luogo dove avviene il fatto. In questo caso sono stati utilizzati gli incroci: via degli Atlantici è una strada che parte e termina, dopo aver formato una ‘U’, in via dell’Idroscalo. Anche se attualmente, per un breve tratto, proprio quello utilizzato per la prima misurazione relativa ai 325 metri, si chiama via Acqua Rossa. Ho rifatto di nuovo la misurazione e i 325 metri, attualmente, coincidono con il cancello che permette l’accesso al parco, proprio dove si trova il monumento, ulteriore riprova che il monumento è stato posto proprio dove era stato a suo tempo rinvenuto il corpo. Continuiamo a leggere il sopralluogo: «Lo spiazzo è in gran parte delimitato da piccole costruzioni alcune in muratura e altre in legno, che si ergono su di una vasta zona di litorale, abusivamente lottizzata. Allo stesso spiazzo confluiscono altre piccole strade, a fondo naturale, che, svolgendosi fra i lotti della zona, conducono sulla spiaggia.

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Il fondo dello spiazzo, ad eccezione del rettangolo di gioco del campo, si presenta erboso e, in alcuni punti, interessato da ammassi di immondizie. La strada che porta dalla Via dell’Idroscalo allo spiazzo innanzi descritto è delimitata, per tutta la sua lunghezza, da recinti di rete metallica, filo spinato e fil di ferro, che separano il fondo stradale dal terreno lottizzato. La stessa strada, nel primo tratto, a causa di un leggero rialzo della parte centrale del terreno, si biforca in due stradette che, dopo circa 21 metri, si riuniscono, formando un tratto rettilineo e pianeggiante, della larghezza di metri 12,60, che si estende fino all’imbocco dello spiazzo. In questo punto, la strada subisce altra biforcazione in due stradette: quella di destra che conduce sulla spiaggia; l’altra si snoda a sinistra e s’inoltra verso il centro dello spiazzo». Qui il sopralluogo nel descrivere questa strada la fa un po’ complicata, non è che la strada in questione si divide, si riunisce e si ridivide, è sempre la stessa, molto larga, che nella sua parte centrale risulta un poco rialzata e quindi le autovetture che la percorrevano sceglievano di passare a destra o sinistra di tali rialzi generando quasi due specie di stradine, nulla di più. «Sul tratto di strada rettilineo e pianeggiante, a metri 51 circa dal lato sinistro della carreggiata di via dell’Idroscalo, a metri 4,10 dal recinto destro ed a metri 8,50 dal recinto sinistro, si rinviene il cadavere». La strada, se così possiamo definirla, era quindi larga più di 12 metri. Il cadavere viene collocato in maniera generica, dall’inizio della strada e dalla distanza con i due cancelli. Sarebbe stato meglio procedere con la triangolazione da uno dei due. A proposito, il recinto di destra è quello relativo all’abitazione Buttinelli”. “Ecco, a questo proposito, ieri ho telefonato a Lucia Visca. Le ho chiesto com’era l’Idroscalo allora. Le ho chiesto: quanta gente abitava all’Idroscalo d’inverno? «Quella

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na c’erano una ventina di persone oltre i Lollobrigida, e furono tutti costoro che uscirono dalle baracche. La maggior parte di quelle baracche erano per l’estate, di gente che stava a Roma: la chiamavano la casa al mare. Invece permanentemente ci abitavano pochissime persone, 4-5 famiglie. Era sempre stata una zona di malavita, quella dell’Idroscalo, già dal dopoguerra. Prima ci facevano il contrabbando di benzina. Poi è stata zona della Banda, ma dopo il ’75, poi dei Fasciani oggi; è sempre stata una zona storica di malavita», così mi ha detto. Ah, e ha aggiunto anche che la notte prima146 era piovuto e il terreno dell’idroscalo, già sabbioso, di una sabbia ferrosa, era diventato durissimo, come sempre quando pioveva”. “Ottimo, quindi ora sappiamo quanta gente c’era stata lì intorno, quella notte. Torno al sopralluogo, ok? Dopo aver descritto la postura del corpo rinvenuto, che ti risparmio, inizia con il descriverne le ferite visibili. «Sulla testa del cadavere si rilevano alcune ferite, prodotte presumibilmente da corpo contundente, dalle quali è fuoriuscito copiosamente sangue, che, seguendo la linea di gravità, è terminato sul terreno sottostante la testa, formando una vasta chiazza in parte già coagulata. La testa, la parte anteriore del collo e gli arti superiori sono intrisi di sangue. Sulle facce esterne degli arti superiori sono appiccicati dei frammenti di legno e due pezzi di tavola che presentano un lato verniciato in verde. Sul pezzo di tavoletta poggiato sull’avambraccio sinistro sono appiccicati dei capelli». Si passa poi al vestiario. «Il cadavere indossa una canottiera di stoffa color verde scuro, un paio di pantaloni bleu-jeans ed uno slip bianco; calza scarpe nere e stivaletto e calze mattone. La canottiera, marca ‘LOIS’, si rinviene sfilata dalla cintura dei pantaloni e la parte posteriore sollevata fino all’altezza 146

Era piovuto prima dell’omicidio.

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delle regioni scapolari, lasciando scoperta la metà inferiore del tronco. La parte anteriore della stessa canottiera è intrisa di sangue, mentre la parte posteriore presenta delle macchie di colore scuro ed una lacerazione. I pantaloni, con cerniera lampo sul davanti, sono sorretti da una cintura di cuoio marrone con fibbia ovale in metallo. La cintura si rinviene sfibbiata e sfilata dai primi due passanti dal lato destro della vita dell’indumento, che è assicurata con un solo bottone metallico. La chiusura lampo sul davanti si rinviene in posizione di ‘aperto’, cioè abbassata. Le estremità inferiori delle gambe dei pantaloni si presentano sporche di fango. Le scarpe, munite di fibbia e cerniera lampo laterale, presentano le suole e la punta delle tomaie sporche di fango»”. “I vestiti sono importantissimi Armando, Pasolini era in canottierina e sappiamo che dopo verrà trovata la sua camicia. E poi i pantaloni, con la cintura lampo abbassata, guarda anche la cintura. È tolta dai due passanti di destra, con la fibbia a ridosso del passante di sinistra, come se Pasolini avesse cercato velocemente di togliersi la cinta, però sbagliando la parte da dove avrebbe dovuto sfilarla. Magari voleva usarla per difesa, non credo proprio che qualcuno possa aver cercato di togliergliela…”. “Vero, sono d’accordo. Ora il sopralluogo entra nel merito delle tracce trovate, in generale possiamo identificare due aree di concentrazione delle tracce, una in prossimità del corpo di Pasolini e l’altra nello spiazzo del campo di calcio rudimentale. Iniziamo a vedere quella in prossimità della vittima”. «Sul terreno sottostante il tronco del cadavere e nelle immediate vicinanze dello stesso, si notano numerosi frammenti di legno intrisi di sangue (indicati dai numeri 3 e 4). Sul tratto di strada compreso tra la prima biforcazione ed il cadavere, ad una distanza di circa 7 metri dalla testa dello stesso, si notano tre piccole macchie e vari schizzi di sostanza rossastra, presumibilmente sangue.

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Sul lato sinistro della stessa strada, rispetto a chi osserva da via dell’Idroscalo, all’altezza e ad una distanza di metri 4,60 dal cadavere, si rinviene un anello di metallo giallo con incastonata una pietra di colore rosso, sfaccettata. Intorno al castone dell’anello, impressa la scritta ‘UNITED STATES ARMY’. Sulla parte interna del cerchietto dello stesso anello si legge la scritta ‘KARATELAD 18 FT.H.G.L.’. Sempre sul lato sinistro della strada, a metri 6,20 più avanti del punto di rinvenimento dell’anello e ad una distanza di metri 8,20 dal cadavere, si rinviene una ciocca di capelli»”. “Stop. L’anello è a una distanza, come scritto, di 4,6 metri. Per essere più chiari immagina di entrare da via dell’Idroscalo, percorsi una cinquantina di metri c’è il corpo di Pasolini con la testa nella tua direzione. Il corpo dista dalla rete di recinzione della proprietà Buttinelli circa 4 metri; e 4 metri e 60 centimetri dista, a sinistra per te che vedi la scena arrivando da via dell’Idroscalo, l’anello. La ciocca di capelli appartenente a Pasolini la trovi percorrendo altri 8 metri sempre sulla sinistra, quasi in linea con l’anello. Ora portiamoci più avanti ed andiamo a vedere la seconda area, quella nell’ampio spiazzo dove c’è il campo di calcio rudimentale. La prima cosa in cui ci imbattiamo è un paletto in legno. «Lungo la stradetta di sinistra che si inoltra verso il centro dello spiazzo, a circa 56 metri dal cadavere, si rinviene un pezzo di paletto di legno della lunghezza di cm. 50». È il primo paletto, proseguiamo che adesso ci sono i reperti più importanti. Però intanto la strada, proprio all’altezza di questo paletto, prosegue a destra, costeggiando altre recinzioni di baracche, non potendo più proseguire anteriormente dato che c’è, nel suo lato lungo, il campo di calcio rudimentale. Praticamente la stradina sterrata sbuca nei pressi dell’area di rigore. La zona è abbastanza pianeggiante, a parte i dossi nella strada sterrata appena detti. Il campo di calcio rudimentale è tutto sommato praticabile, come si direbbe in

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gergo calcistico, e la porta, posta in corrispondenza della stradina, era fatta in tubi metallici e aveva, anche se mezza pericolante, anche la traversa”. “Sulla sinistra, dietro la porta, c’è una zona a forma di triangolo il cui vertice è pressappoco dove sei arrivato. Il lato sinistro, sempre per te che osservi, in questo triangolo che abbiamo creato è l’ipotenusa, ed è separato da una rete di recinzione metallica dal campo di calcio regolamentare che dicevo prima. Proprio in questo triangolo, quindi tra la rete di recinzione a sinistra e la linea di fondo del campo di calcio rudimentale a destra, verranno ritrovati due reperti che potremmo definire storici: la tavola ‘Buttinelli’, spezzata in due parti, e la camicia di Pasolini. Però, prima di parlarne, voglio descriverti meglio questa parte, perché nella futura ricostruzione degli avvenimenti risulta fondamentale. Ripartiamo da via dell’Idroscalo, quando si entra nella stradina sterrata ci sono: sulla destra alcune recinzioni di baracche tra cui quella di Buttinelli e sulla sinistra la recinzione di due aree dove erano presenti due piccole baracche. Dopo di queste, quindi alle loro spalle, c’è il campo di calcio regolamentare che si estende fino allo slargo. Si vede benissimo, nel filmato di Citti. Un tratto di questo documento importantissimo fa vedere delle riprese effettuate a bordo di un’autovettura. In queste riprese la cinepresa, allora si usava la pellicola, è posta su un’auto che percorre via dell’Idroscalo in direzione centro città. Sulla destra le riprese fanno vedere, senza però entrarvi, l’ingresso della, ormai nota, strada sterrata dove avevano trovato Pasolini. L’automobile prosegue su via dell’Idroscalo e inizia a costeggiare il campo di calcio regolamentare, da prima nel suo lato lungo che era limitrofo alla strada. Ma poi fa un’altra cosa. Gira a destra e lascia via dell’Idroscalo, passando su un terreno erboso; costeggia il lato corto del campo rudimentale, fino a giungere al suo lato lungo, cioè opposto a quello dove ci eramo trovati giungendo dalla strada sterrata”. “Ora, Fabio, queste riprese ci confermano che al campo

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di calcio rudimentale ci si poteva arrivare, o andarsene, in più modi. E quest’ultima strada che ha percorso l’autovettura di Citti, era sicuramente la più riservata, perché non passava vicino alle abitazioni”. “Che nella zona si poteva arrivare da molte stradine, sì, mi era chiaro: ti ricordi che avevamo visto che la strada sterrata proseguiva, una volta arrivata al campo di calcio rudimentale, sulla destra? Da questa partivano, una volta giunta in fondo al campo rudimentale, varie stradine non asfaltate che, passando attraverso baracche e casette, giungevano al proseguimento di via dell’Idroscalo. Ma questa strada che gira da fuori proprio non l’avevo vista. Eppure eravamo insieme, alla cineteca di Bologna… Oddio, certo lui conosceva molto bene la zona. All’idroscalo andava a giocare a pallone già anni prima e Ninetto se lo ricorda. Ci aveva anche girato una delle scene del ‘Fiore delle Mille e una notte’, nel 1973”. “Quindi, ricapitolando, nel luogo dell’omicidio ci si arrivava: per la strada sterrata, larga, percorribile ma circondata da abitazioni, che parte da via dell’Idroscalo; per un passaggio che costeggiava il campo di calcio regolamentare, più irregolare ma indubbiamente più riservato, non passando vicino ad alcuna abitazione; e da molte stradine e viottoli che passavano attraverso baracche e casette dell’area, comunque con percorsi non agevoli e che partivano da via dell’Idroscalo, nel suo tratto più distante del centro di Ostia. Adesso torniamo al verbale di sopralluogo ed a quei reperti trovati dietro la porta del campo di calcio”. «Sul tratto di terreno erboso retrostante la porta sinistra del campo di calcio, ad una distanza di circa 90 metri dal cadavere, si rinvengono due pezzi di tavola ed una camicia. La camicia di lana, a strisce orizzontali di vari colori, poggia avvoltolata sull’erba e dista metri 8,30 dal palo verticale destro della porta e metri 8,50 dal palo verticale sinistro. L’indumento, intriso totalmente di sangue, presenta la manica sinistra rovesciata. Sulla parte interna dello stesso indumento sono fissati l’etichetta di fabbrica con la dicitura ‘MISSONI

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MADE IN ITALY’ ed un talloncino di carta con la scritta ‘PASOLINI N°63’. I pezzi di tavola, verniciati in verde, distano metri 13,50 dal più vicino palo verticale destro della porta e metri 15,70 dal palo sinistro. Su di un lato dei pezzi di tavola, che in origine componevano un solo pezzo di tavola, è stilata con vernice rossa la scritta ‘BUTTINELLI A. – VIA IDROSCALO 93’. Sui descritti pezzi di tavola si notano conficcati alcuni chiodi e delle macchie di sostanza rossastra, presumibilmente sangue».

Ci siamo, questi sono i reperti importanti del caso. Nella riapertura del 2010, come abbiamo visto, sono stati analizzati con risultati non proprio positivi. Ne parliamo tra un attimo? Vediamoci, intanto, l’allegato fotografico del fascicolo di sopralluogo”. Fabio inizia a sfogliare le fotografie, sembra di vedere un vecchio film in bianco e nero: solo poche foto della

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na del crimine, specialmente quelle relative al corpo, sono state effettuate a colori. Il costo di quelle pellicole fotografiche, all’epoca, e ancor di più il loro sviluppo era alto. Si cercava di dosare ogni singolo scatto con parsimonia. Lo fermo. “Vedi questa foto Fabio, il corpo è disteso con la testa in direzione di via dell’Idroscalo, alla sua destra, sempre per noi che osserviamo con le spalle alla via, c’è una recinzione fatta da paletti e fili metallici ed un cancello in legno: è quello della baracca di Sabatini Vincenzo e della moglie Buttinelli Angela. Da uno dei due montanti del cancello venne staccata la tavola che ritroviamo nella seconda area di concentrazione delle tracce, quella dietro la porta del campo di calcio rudimentale. Il particolare di dove è stata staccata la tavola è ripreso da vicino nel film di Citti, ricordi? Era inchiodata nel montante di destra. L’immagine del corpo di Pasolini, la prima a colori, la numero 16 del fascicolo, fa vedere un volto sfigurato, una quantità di sangue impressionante, nei pressi del volto molte schegge di legno e sullo sfondo, vedi quanto risulta vicina?, c’è una baracca in costruzione che è vicino a quella dei Sabatini, le due avevano in comune, probabilmente, lo stesso cancello d’entrata. Ma lo sai in quale fotografia vediamo di nuovo la baracca in costruzione? Vedi la numero 55 del fascicolo di sopralluogo? Impressionante, vero?”. Fabio non riesce a crederci, come non ci sono riuscito io la prima volta che la vidi. “La camicia di Pasolini, quella che viene rinvenuta nella seconda area, quella di Missoni, viene, durante il sopralluogo della Polizia Scientifica, stesa su dei fili metallici della recinzione Sabatini/Buttinelli per essere fotografata. Viene stesa, ti rendi conto? Si vede nella foto 58. E poi andiamo a cercare il DNA dopo quarant’anni. Il fatto che poi viene ‘stesa’ a circa 70 metri di distanza da dove viene rinvenuta… domandiamoci a questo punto anche come sia stata trasportata fin lì”. “Beh, però scusa, anche se all’epoca non era possibile effettuare l’esame del DNA come lo intendiamo ora, magari i reperti sono stati toccati con i guanti e la camicia, magari,

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era stata inserita in una busta, non dico asettica ma sufficientemente ‘pulita’. Magari non c’è stato inquinamento. Il dato ottenibile da una analisi biologica fatta nei nostri giorni potrebbe essere sempre utile, non credi?”. “Il ragionamento fila, ma purtroppo non è stato così, vedi la fotografia numero 108? Riassume perfettamente il modo in cui venivano trattati i reperti e probabilmente la scena del crimine, quando dell’analisi del DNA forense non si ipotizzava nemmeno lontanamente l’esistenza. Nella fotografia che ti dico le tracce di sangue presenti sulla camicia vengono evidenziate a mani nude, un operatore indica l’etichetta della camicia poggiando il dito, senza guanto, proprio sull’etichetta. Vedi invece le fotografie numero 101 e 102? La tavola ‘Buttinelli’ è appoggiata tranquillamente sulla pavimentazione dell’Istituto di Medicina Legale, un pavimento che dire ‘sporco’ era un complimento. In quest’altra immagine la tavola, finalmente, viene messa su una stoffa bianca ma, ovviamente, al momento di fare la fotografia viene tenuta a mani nude da un operatore… Qui, Fabio, abbiamo il problema che si ripresenta ogni volta che si affronta un cold case: riteniamo sempre che le nuove tecniche ci permetteranno di scoprire elementi e di svelare il mistero. Siamo convinti che le tecniche moderne, e soprattutto l’analisi forense del DNA, possano farci ottenere un miracolo. Un miracolo che dovrebbe uscire da reperti contenuti per decine di anni in scatole impolverate. Questo, in alcuni casi, può anche essere vero ma ci sono delle volte, come per esempio nel nostro caso, in cui il modo in cui è stato repertato il materiale, la sua conservazione, la gestione dello stesso nel corso degli anni, non permettono di ottenere dati scientifici utilizzabili. Ma lo sai che Giordana, il regista, per il suo film, si recò al Museo Criminologico e ottenne di poter fotografare tutti i reperti che avevano? Per essere più precisi, come ci racconta lui in un suo bellissimo libro, gli venne dato uno scatolone con tutti i reperti all’interno e lui potè tranquillamente prenderli e fotografarli senza usare alcun accorgimento per prevenire un inquinamento…”.

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“Ma quella notte cosa è successo, secondo te?”. “Forse ci possono aiutare le tracce di pneumatici. Hai letto quella parte del sopralluogo in cui si parla delle tracce di pneumatico? «Dal tratto iniziale della stessa stradetta si dipartono due tracce continue e parallele di pneumatici di autovettura che si sviluppano in modo rettilineo verso il punto in cui giace il cadavere. Una di esse, cioè quella sinistra, rispetto a chi osserva dal campo sportivo, all’altezza della coscia destra del cadavere, si interrompe. Dette tracce inizialmente presentano qualche dettaglio del battistrada del pneumatico147, in quanto interessano un tratto di terreno allentato e fanghiglioso, ma, poi, a causa della solidità del secondo tratto di terreno, vanno via via diminuendo di accentuazione fino a rendersi quasi invisibili»”. “Quindi l’automobile o le automobili, partono dal campo di calcio rudimentale? Io vedo le tracce partire dalla porta e finire oltre il cadavere in modo evidente”. “Tracce che confermano la nostra supposizione che l’aggressione sia iniziata in prossimità della porta del campo da calcio rudimentale. E infatti il passaggio dietro il campo da calcio regolamentare conduceva al luogo, dietro la porta, dove troviamo i reperti maggiori; e quello è già un elemento che dobbiamo tenere in considerazione. Però, specialmente nel buio della notte, per fare quella strada bisognava essere sicuramente pratici della zona. Ma, a parte questo, possiamo supporre a ragione che tutto inizia dove vengono rinvenuti i reperti principali, nella ‘seconda area dei reperti’, come l’abbiamo denominata prima. E infatti, per quanto concerne l’area dietro la porta, il fascicolo di sopralluogo scrive: «Sul terreno dell’area di rigore della porta sinistra dello stesso campo si notano delle tracce di pneumatici di autovettura che seguono direzioni diverse. Alcune di esse, e precisamente quelle che s’inoltrano verso la zona erbosa retrostante la porta, hanno uno sviluppo curvilineo e sono state, presumibilmente lasciate da un’autovettura che ha invertito il senso di marcia. Dette tracce sono prive – lo abbiamo detto prima – di dettagli utili 147

Sono i rilevi 53 e 54 del fascicolo di sopralluogo.

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per i confronti». Purtroppo, come vedi, non possiamo essere certi che si tratti di tracce riconducibili all’evento. E non sappiamo, non essendoci immagini particolareggiate, se erano magari sovrapposte o per esempio prive di un evidente battistrada. Guarda la foto 11 e 12 del sopralluogo, secondo me sono tra le più interessanti”. “Vero, si vedono le tracce di un’auto, sulla stradina, che dirigono verso il corpo. È quello che notavo prima”. “Certo e non solo, guarda meglio, non ti concentrare solo sul corpo… mettiti in linea con le tracce, dopo cosa vedi?”. “In linea oltre il cadavere? Beh, c’è la parte terminale della recinzione di Sabatini. Citti ricostruisce i fatti facendoci vedere che il paletto finale della recinzione viene abbattuto, ma questo non viene evidenziato nel fascicolo di sopralluogo. L’avevo notato”. “Il punto è tutto qui. Che un auto sia passata sopra il corpo, è un dato certo, come abbiamo visto nella prima perizia medico legale, che sia stato Pelosi a guidarla è da verificare. Pelosi dice che se è passato sul corpo ormai a terra, di sicuro non se ne è accorto e lo avrebbe fatto involontariamente fuggendo dopo l’aggressione. Ci dice, inoltre, che vista la strada e gli avvallamenti non si è di certo accorto del corpo riverso a terra. Premesso che nel punto dove viene rinvenuto il corpo, il terreno è particolarmente pianeggiante e che quindi Pasolini era ben visibile, la traiettoria che si evidenzia dalle fotografie 11 e 12 è anomala. Punta direttamente al palo, l’ultimo della recinzione, che l’autovettura poi avrebbe abbattuto. Possiamo spiegare questa traiettoria illogica solo ipotizzando che la concentrazione del guidatore era attratta esclusivamente dal corpo a terra e che, quindi, non si sia reso conto che, se avesse investito il corpo, l’automobile, successivamente, avrebbe potuto colpire il palo della recinzione, così come viene detto nel filmato di Citti”. “Che poi Armà siamo sicuri che quel paletto è stato colpito? Alla fine è Citti a dirlo e il pescatore non ha visto questa parte della scena. Le impronte sembrano sterzare appena superato il corpo. E poi Angela Buttinelli ci dice pure che il marito, cioè Sabatini, la mattina accorre all’Idroscalo e le fa

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sapere della tavoletta divelta… ma non le accenna proprio nulla sulla loro recinzione”. E poi il primo fascicolo fotografico viene effettuato da parte dei Carabinieri proprio il giorno del ritrovamento del corpo, probabilmente presso il garage della Stazione, dopo che il meccanico della zona, come abbiamo visto, l’aveva addirittura danneggiata, per non dire distrutta. A parte quindi la fiancata destra, si vede bene un’ammaccatura nello spigolo anteriore sinistro dell’automobile che potrebbe ricondurre all’urto addosso al palo di recinzione della baracca”. “Di cui siamo sempre meno convinti visto che, rivedendo le immagini del sopralluogo, non si vede nessun paletto abbattuto. Immagini che vennero scattate poche ore dopo, non come il filmato di Citti”. “Esatto, concordo: inoltre le immagini, che non sono molte, evidenziano il particolare del ‘giunto cardanico’ vicino alla marmitta, quindi nella parte sottostante posteriore sinistra dell’autovettura, che presenta abbondanti tracce ematiche. Lo schema delle tracce rinvenute nella parte inferiore dell’autovettura lo abbiamo già visto. Poi nel fascicolo processuale c’è una scatola con delle fotografie sciolte, che ritraggono l’autovettura al centro di uno spiazzo, senza un riferimento di data”. “Mi ricordo, le abbiamo esaminate una per una”. “Ecco. Una cosa singolare ed importante ai nostri fini è che l’autovettura montava gomme diverse, con battistrada diversi, il disegno di pneumatico rinvenuto sulla maglia di Pasolini nella fotografia nr. 31 del fascicolo di sopralluogo è chiaro ed è facilmente riconducibile alla ruota posteriore sinistra dell’Alfa GT”. “Quindi l’auto è passata sul corpo di Pasolini con le ruote? Ma non avevamo letto il contrario?”. “A questo punto dobbiamo leggere anche la deposizione data in sede dibattimentale dei tre illustri medici legali: Giancarlo Umani Ronchi, Silvio Merli ed Enrico Ronchetti. La loro relazione peritale, come abbiamo letto, analizza il quadro lesivo come appariva in sede autoptica indicando quale causa

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di morte il passaggio dell’autovettura sul corpo. Le ferite che riscontrarono, causate da corpi contundenti, in particolare sul volto, non erano sufficienti a causarne la morte. Su questo punto, durante l’udienza, concordarono tutti i consulenti tecnici delle parti fin da subito. Ma c’è un particolare che non torna, i periti parlano non di sormontamento ma di schiacciamento. Le ruote, secondo la loro perizia, non erano passate sul corpo di Pasolini altrimenti il quadro lesivo, secondo loro, sarebbe stato più grave. L’autopsia rivela un cuore, come riportato, ‘scoppiato’ ed un quadro lesivo generale che secondo i periti è inferiore a quello che si sarebbe riscontrato se le ruote fossero passate sul corpo. Come fu fatto notare in dibattimento, la differenza, tra sormontamento e schiacciamento, era importante anche dal punto di vista della ricostruzione e della volontà di uccidere da parte dell’investitore. Il sormontamento, nella mentalità delle parti processuali di allora, è come se il guidatore avesse voluto puntare la vittima passandogli sopra con l’intenzione di ucciderlo, ‘tagliarlo’. Inoltre il guidatore, quando sormonta una persona, quindi passa sopra ad un ostacolo di circa 20 cm di altezza, si deve necessariamente accorgere di quello che ha fatto, l’ostacolo è troppo grande. Gli avvocati della difesa, invece, puntavano all’ipotesi dello schiacciamento che avrebbe potuto far pensare a un accidentale ed involontario passaggio del loro assistito sul corpo stesso che avrebbe, secondo le prime dichiarazioni del Pelosi, non accorgersene”. “Non capisco, Armà… schiacciamento?”. Da come stringe le sopracciglia, capisco che Fabio non riesce a seguirmi. O meglio, a seguire Merli, Ronchetti e Umani Ronchi. “È nell’udienza dell’11 marzo del 1975, quando i periti vanno a deporre del loro lavoro – riferendo dell’ipotesi dello schiacciamento – che avviene il bello. Prende la parola il consulente della parte civile, l’anatomopatologo Faustino Durante, che fa una semplice domanda: i periti hanno tenuto conto delle fotografie del fascicolo redatto dalla Polizia Scientifica? Quelle immagini che ritraggono le tracce di

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pneumatico che si interrompono quando arrivano all’altezza del corpo, ma ancor di più l’evidentissima traccia sulla maglietta di Pasolini? Momento d’imbarazzo, i periti nonostante nella relazione avessero addirittura riportato un virgolettato relativo al fascicolo di sopralluogo dove si descriveva il cadavere e avessero scritto di aver consultato il fascicolo stesso, non si erano accorti di quelle fotografie. Non le avevano viste con la cura necessaria e non avevano visto la evidentissima traccia di copertone sulla canottiera di Pasolini! Durante invece, già il 5 novembre, era andato a vedere l’Idroscalo. Un altro approccio, diciamo simile al nostro?”. “Certo che sì! Ma dove vuoi arrivare?”. “Ma ti rendi conto? Venne fatta una perizia medico legale, per definire le traumaticità e la dinamica della morte chiamando tre illustri medici legali e loro non si curano di vedere le fotografie del corpo così come rinvenuto sulla scena del crimine. Ecco perché, non vedendo i netti segni di sormontamento dei pneumatici, i periti ripiegarono sull’ipotesi di schiacciamento, cioè che l’autovettura era passata sul corpo ma non con le ruote”. “Cioè scusa, io continuo a non capire. Come si fa a passare su un corpo senza toccarlo con le ruote? Volando e planandogli sopra?”. “Più o meno, visto lo spazio che intercorre tra il terreno e la scocca dell’autovettura… che nel punto minimo è di 12 centimetri. È evidente che un corpo di uomo adulto ha uno spessore maggiore… se la loro teoria fosse stata giusta il corpo di Pasolini sarebbe stato trascinato per molti metri e se ne sarebbero visti pienamente gli effetti, sia su di lui che sul terreno. A quel punto i periti, mestamente, tornano al lavoro per fare un supplemento di perizia. La Corte ricorda loro, questa volta, di effettuare i nuovi accertamenti alla presenza dei consulenti tecnici di parte”. “Ammazza quanto si fidava, la Corte…”. “E vorrei vedere. Passa un mese e cambia, ovviamente grazie alle fotografie della Polizia Scientifica, la loro risposta:

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«In definitiva, alla luce dei nuovi elementi di giudizio che ci sono stati sottoposti, ferme restando le considerazioni da noi in precedenza svolte sotto il profilo strettamente anatomo-patologico, le conclusioni in merito alla dinamica dell’investimento vanno integrate nel senso che nella loro compressione mortale del torace debbono essere intervenute le due ruote di sinistra; ipotesi di passaggio non in contrasto con la unicità della impronta (posteriore sinistra), anche se successivamente non più evidenziata, e con tutte le circostanze ambientali»”. “Traduciamo: i periti, ovviamente, non dicono di essersi sbagliati nella loro prima stesura. Aggiungono che il passaggio sul corpo di Pasolini è avvenuto con entrambe le ruote di sinistra dell’Alfa GT. La cosa è strana perché, come ti ho detto, la fotografia nr. 31 del fascicolo di sopralluogo fa vedere una figura netta e ben definita, l’impronta del pneumatico posteriore sinistro sulla canottiera di colore verde scuro. Non si vede però nessuna traccia riconducibile al pneumatico anteriore sinistro. I periti, sempre nel corpo della nuova relazione, si rifanno ad uno studio del Chavigny, che sinceramente non sono riuscito a trovare, riportando che: «l’impronta del pneumatico posteriore cancella quella del pneumatico anteriore e si sostituisce alla medesima nel momento dell’improvvisa modificazione di velocità, sia nel senso dell’accelerazione, sia nel caso di brusca frenata»”. “Mi sembra un po’ esagerato. Che vuol dire sostituisce? Semmai si sovrappone”. “Sono d’accordo, vedi bene la figura sulla maglia, è troppo definita. In quel punto è passata solo la ruota posteriore sinistra. Se la maglia era già sporcata dalla traccia della ruota anteriore come è possibile che non sia rimasta alcuna traccia?”. “Scusa, ma allora… dove è passata l’anteriore sinistra?”. “Un’ipotesi potrebbe essere che la ruota anteriore sinistra passi alla destra della testa e poi l’auto, proprio all’altezza del cadavere, sterzi bruscamente a sinistra. Questa ipotesi però non sembra possibile, la scocca

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ra era bassa e quindi il corpo sarebbe stato colpito dal lato dell’autovettura. Per forza di cose rimane l’ipotesi che la prima ruota sia transitata sul corpo un poco più in basso di dove si trovava la canottiera, penso tra i pantaloni e l’addome, sui jeans insomma, e abbia seguito una traiettoria inclinata, non lasciando evidenti segni esterni impressi sul corpo. Come d’altronde non ha lasciato segni sul corpo la ruota posteriore sinistra. Quindi, se le due ruote non erano in asse e la ruota posteriore passa quasi sulla spalla sinistra potremmo dedurre che l’auto, nel momento che investe Pasolini, non seguisse una traiettoria rettilinea ma che al momento del sormontamento da parte della ruota anteriore sinistra l’auto sterzi leggermente verso destra. Che ne pensi, voleva alla fine evitarlo?”. “L’ipotesi c’è anche se il disassamento delle due ruote sarebbe troppo piccolo. Chi guidava ha puntato il corpo e solo all’ultimo momento, mentre con le ruote anteriori lo aveva superato, ha sterzato e probabilmente ha pure leggermente frenato presumibilmente per evitare il paletto, che era a quattro metri da lui, vicinissimo”. “Sì, una frenata avrebbe contribuito a lasciare le impronte di pneumatico più definite sulla maglia, così come poi le abbiamo trovate”. “Se ne è accorto quindi, di essere passato sopra Pasolini…”. “Su questo non mi sembra ci sia dubbio. Vediamo un altro particolare sempre legato alle tracce di pneumatico?”. “Sì, allora riprendiamo le immagini del fascicolo fotografico, ti ricordi della ciocca di capelli rinvenuta ad una distanza di 8 metri e 20 dal cadavere? Aspetta… prendo la foto. Eccola, è la numero 52, la ciocca viene contrassegnata con la lettera ‘N’, anche se poi nella parte descrittiva la lettera non viene riportata. Vediamo il rilievo fotografico successivo, il numero 53, qui vengono fotografate delle tracce di pneumatico sempre con la lettera ‘N’ vicino. Ovviamente non abbiamo la certezza che le due fotografie ritraggano la stessa zona, l’inquadratura è troppo stretta. Magari la lettera N non è stata messa per contrassegnarle, per dargli

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‘un nome’, ma solamente perché nella parte bassa della lettera c’è un riferimento metrico, di pochi centimetri, e quindi al momento di scattare la fotografia si voleva dare una dimensione a quello che veniva inquadrato. A proposito, la ruota che ha lasciato questa impronta è sicuramente quella posteriore destra dell’Alfa GT, si vede benissimo. Le ho confrontate”. “Aspetta, ti ricordi che abbiamo scansionato l’immagine numero 6 del sopralluogo, che ritrae delle panoramiche generali? Aspetta che la ingrandisco. Ecco! Si vede, è proprio li, la traccia di pneumatico del rilievo numero 53 è in corrispondenza della ciocca di capelli!”. “Quindi? Cos’è successo? Non ti seguo”. “È presto per dire cosa sia successo quella notte, però intanto possiamo dire cosa è successo negli ultimi secondi di vita dello scrittore: il corpo di Pasolini era a terra, all’incirca dove è stato rinvenuto, quando la sua autovettura l’Alfa GT che si trova sulla stradina sterrata in direzione di via dell’Idroscalo, si dirige proprio verso di lui. In una strada in quel tratto, larga circa 12 metri e con la posizione iniziale quasi a ridosso della rete di destra (sempre in direzione di via dell’Idroscalo), l’auto, invece di andare dritta verso la via di fuga più logica, effettua una traiettoria in diagonale verso sinistra passando sopra il corpo di Pasolini, che si trova a circa 4 metri dalla rete di sinistra. Al momento di passargli sopra c’è una leggera sterzata verso destra, che disassa i segni dei pneumatici, e forse una frenata. Poi l’auto sterza a destra e finalmente può andarsene”. “Ma da dove partiva l’auto? Dal campo rudimentale, dalla porta, no?”. “L’Alfa GT proveniva, ma ne parliamo in seguito, dal campo rudimentale, certo, ma in questa ultima fase partiva da un’altra posizione, Armà: da più vicino al corpo”. “Cosa? Non ha preso la rincorsa dalla porta?”. “Pensaci un attimo, ti sembra possibile che un’auto che parte dal campo di calcio rudimentale, quindi a circa 60 metri dal corpo, segue una traiettoria passando ‘casualmente’ sopra una ciocca di capelli che aveva perso precedentemente

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Pasolini? Quante probabilità ci sono che, su una strada larga 12 metri, metta una ruota proprio su quella ciocca? L’auto Alfa GT ha avuto un attimo di sosta nel percorso dalla porta al corpo, e sai dove? Nel punto in cui vengono rinvenuti i segni delle ruote, vicino ai capelli… per poi ripartire quando Pasolini era ormai esanime a terra, 8 metri e diversi minuti dopo. Nel punto dove ha sostato, forse per pochi istanti, Pasolini è stato picchiato selvaggiamente. A raccontarcelo è un oggetto muto: la ciocca di capelli”.

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Capitolo 11

Pietralata

“Eppure la immaginavo più grande”. Siamo sul marciapiede, in via dei Monti di Pietralata 12148, stretti nei nostri cappotti e Fabio guarda attonito lì dove una volta c’era la famosa “bisca”, uno dei luoghi di questo mistero. Ora c’è una pizzeria e si fa fatica a mettere al posto di una bella margherita dei tavoli e dei biliardini; dei muri scrostati; a immaginare che si vendeva in maniera, non proprio lecita, qualche alcolico a dei ragazzini; il tutto sotto il nome altisonante di “Circolo monarchico”. Questa benedetta bisca ritorna sempre, in questa storia: è l’inizio di un altro mistero. La “signora della bisca” si chiamava Angelina, era analfabeta, aveva 52 anni e sapeva perfettamente che il suo era un ritrovo di sbandati. Che spesso facevano casino fuori dal locale. “Era così, siamo nel 1976, la monarchia aveva perso il referendum esattamente 30 anni prima; in questi trent’anni i circoli monarchici erano passati dalla fase di attivismo politico alla fase ‘dopolavoro’, ormai in decadenza come la monarchia in Italia”. “Però a guardarlo bene, sembra grande, ma quello che c’era al posto della pizzeria, nel 1976, effettivamente, era proprio un locale piccolo. A proposito, stiamo facendo tardi, andiamo”. Immaginarsi un posto e poi vederlo fa sempre strano, ma non c’è tempo per pensare. Saliamo al volo sull’Alfa 147 e partiamo per una nuova intervista, sempre alla ricerca del ‘capo’ che ci permetterà di dipanare questo gomitolo di misteri. Questa volta la direzione è la Palombarese, una strada non 148

Circola sempre via Donati come bisca frequentata dai ragazzi, ma quella dei Borsellino era questa.

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molto conosciuta che magicamente parte da San Basilio per arrivare in località Palombara Sabina: sgommiamo a nord-est dell’hinterland romano. “Approfittiamo di questo tempo per fare il punto della situazione?”. Fabio inizia a tirare fuori le copie del fascicolo processuale di quel 1976: “Ci sei o ti distraggo troppo?”, gli dico senza aspettare una risposta che poteva anche essere “mi distrai eccessivamente”. E lui inizia: “Allora, la parte che stiamo trattando ora, risale al febbraio del 1976, fammi vedere, sì ecco, precisamente il 14 febbraio, quando il capitano della Compagnia dei Carabinieri di Monterotondo Giuseppe Genna scrive alla Procura della Repubblica presso il Tribunale dei Minorenni, comunicando di avere effettuato delle indagini relative ad una informazione data da fonte anonima una decina di giorni prima”. “Un’informazione non da poco e a processo in corso…”. “Assolutamente, tanto che secondo la fonte: «l’omicidio Pasolini non era stato opera del solo Pelosi Giuseppe ma anche di tre suoi amici: due fratelli di 14 e 16 anni di età, Giuseppe detto ‘Braciola’ e Franco detto ‘Labbrone’, abitanti a Tiburtino III ed un loro amico detto ‘il Biondino’ di anni 16, abitante in località Villa Gordiani. Lo stesso precisava che i tre avevano concordato con il Pelosi di rapinare il Pasolini e che per questo si erano recati sul luogo del delitto a bordo di una moto Benelli 125»”. “Aspetta… una moto Benelli 125 l’ho già sentita, ma non ne aveva parlato anche la Fallaci?”. “Esatto, tanto che il pezzo si intitolava ‘Ucciso da due motociclisti?’. Dai, adesso fammi continuare. Il capitano fa infiltrare uno dei suoi che, insieme alla fonte anonima, si porta presso la bisca, dove ci trovavamo prima no?, frequentata da due dei tre minorenni, e i ragazzi raccontano anche a lui di aver ucciso Pasolini”. “I due fratelli minorenni, che avevano già un bel curriculum malavitoso, ed erano: Borsellino Giuseppe nato a Roma il 28.8.1960 e Borsellino Franco nato a Roma l’11.1.1962. Entrambi residenti con la madre a via dei Crispolti 29,

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lazzina 12, interno 10. Hanno 15 anni il primo, 13 il secondo. Giuseppe ha 2 procedimenti pendenti tra ’74 e ’75 e due già fatti per direttissima. Franco, due pendenti nello stesso periodo. Dopo aver raccontato anche al carabiniere infiltrato dell’omicidio e dopo alcune altre verifiche i due vengono fermati e portati alla stazione dei Carabinieri per essere interrogati. E non è tutto: presso la loro abitazione viene effettuata una perquisizione domiciliare”. “Una perquisizione che dà i suoi frutti”, dice Fabio approfittando del fatto che ogni tanto devo pur respirare, “vengono trovate, senti qua: 3 pistole lanciarazzi, 144 cassette stereo 8, 78 cassette stereo 7, 19 torce, autoradio, coltelli, occhiali da sole, e tantissimo altro materiale riconducibile a furti o ricettazione, oltre a 3 milioni in contanti. Poi troviamo tre cose interessanti: una pistola Flobert, un ordine di comparizione presso il Tribunale dei Minori per i due fratelli, unitamente a Pelosi e Angelica Massimo e una lettera scritta dal carcere da Pelosi. L’ordine di comparizione è interessante, ha il numero di protocollo 2120/75 e ovviamente si riferisce a qualche evento pregresso all’omicidio. A proposito… trovano anche alcuni giornali riguardanti l’omicidio Pasolini”. Intanto che Fabio cerca nelle carte che avevamo classificato come “Borsellino” imbocchiamo, finalmente (visto il traffico), la Palombarese. La città è sempre più lontana e Fabio si guarda intorno: è un panorama nuovo. L’appuntamento è al chilometro 29. “Armando guida e non ti distrarre; però intanto guarda qui, attenzione, ci sono i lavori in corso! Non quelli, guarda, anzi no, te lo racconto io, è più sicuro… dove eravamo rimasti? Sì, alla perquisizione. Il capitano Genna convoca i due fratelli e notifica un fermo, quale indiziato di reato, a Giuseppe, il più grande, rilasciando invece Franco che, all’epoca dell’omicidio, non aveva ancora compiuto 14 anni e quindi era non imputabile. Il magistrato, che non partecipa all’interrogatorio ma viene sentito per telefono, dispone che Giuseppe venga portato a Regina Coeli”. “Che poi nell’interrogatorio presso la stazione dei

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binieri, se non ricordo male il verbale di quel giorno, negano tutto”. “Negano, negano, negano. Non conoscono il biondino, non avevano una moto Benelli e riguardo l’omicidio raccontano di essersi accorti subito che il carabiniere infiltrato era uno ‘sbirro’ e che quindi avevano deciso di prenderlo in giro dall’inizio. Però magari su questo punto ci torniamo dopo. Scusa, ma quella più avanti non ti sembra una trattoria?”. “Fabio, a parte che non abbiamo tempo, ti rendi conto che sono ancora le cinque del pomeriggio?”. “Eccome, ma quando poi finiamo, da qualche parte dovremo mangiare, no? Aspetta, ho ritrovato il verbale d’interrogatorio che fecero quel 14 febbraio alle ore 13.15, senti che dice Giuseppe, il fratello più grande, quando gli contestano di aver detto al carabiniere di aver partecipato all’omicidio con un tal biondino: «La circostanza è vera. In particolare ricordo che qualche giorno fa, abbiamo conosciuto, io e mio fratello Franco, un tizio che si accompagnava con una ragazza. Questi aveva detto di chiamarsi Pino ed era stato da noi conosciuto come uno della ‘Mala’. In effetti ci eravamo subito resi conto che si trattava di qualcuno della polizia. Egli, infatti, aveva le mani pulite e ben curate anche se vestiva a mo’ di ‘hippy’. Proprio perché ci eravamo resi conto trattarsi di un agente, ci siamo divertiti a raccontargli che noi due, unitamente ad un biondino, avevamo partecipato col Pelosi all’omicidio di Pasolini». E continua «abbiamo parlato molto poco di questo fatto, anche se abbiamo citato qualche particolare, ad esempio la questione inerente il viaggio da noi fatto in tre su una moto, seguendo l’auto del Pasolini sino ad Ostia. Preciso, comunque che il tutto è stato preso a mo’ di presa in giro». Poi a domanda risponde che: «Il Biondino è una persona inesistente. La sera dei fatti, dopo aver lasciato il posto di lavoro, mi sono recato a casa di mia zia (la moglie del fratello di mio padre) a nome Borsellino, che mi sembra che abiti in via di Pietralata. Ivi mi sono fermato sino alle ore 22,30 circa. Quindi sono rientrato a casa. Quando sono rientrato a casa mio fratello dormiva già e mia madre era in casa e mi ha visto rincasare. All’epoca dei fatti mio zio mi aveva trovato lavoro per cui io ero solito

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mi a casa sua alla fine dell’orario di lavoro. Questo è durato per circa due mesi ed esattamente per il periodo in cui ho lavorato. In quell’arco di tempo non uscivo mai di sera insieme a mio fratello proprio perché mi recavo da mia zia»”. Aspetto un attimo prima di reagire, c’è qualcosa che non torna. “Fabio un attimo, fammi capire, il ragazzo viene sentito a distanza di quasi cinque mesi e si ricorda perfettamente questi particolari? Il fratello che dormiva, la mamma che lo vede rientrare, l’orario preciso di quando è rientrato a casa. Ma ovviamente, la sua memoria infallibile non gli fa ricordare dove abita la zia, una casa in cui si recava quotidianamente dopo il lavoro in quel periodo… Ma ti dirò di più. La zia non abitava in uno sperduto vicolo o una strada di campagna dove si può avere qualche dubbio addirittura se esiste un nome toponomastico, ma abitava in via di Pietralata, cioè la via principale che dà anche il nome anche alla zona. Come faceva a non ricordarselo? Proseguiamo nella lettura”. “L’interrogatorio lo porta avanti direttamente il capitano insieme al Maresciallo Amedeo Rillo del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Roma e tra le varie domande gli chiedono anche se conosce o ha un amico di nome Claudio. Ti dice qualcosa questo nome?”. “Non ne ho la più pallida idea, continuiamo a leggere. A proposito, tra qualche chilometro arriviamo”. “Comunque riguardo questo Claudio, Borsellino risponde: «Sì. Conosco un certo Claudio Seminara che abita nella stessa via ove abito io. Con lui sono stato sorpreso a bordo di una auto rubata». I due incalzano: «Ha qualche amico di nome Claudio che abita in via Frino Acciaresi?». «Sì, ma si tratta di un ragazzo di sette-otto anni del quale in realtà non sono amico come potrei esserlo con uno della mia età; lo conosco di vista e ci salutiamo quando ci incontriamo». Ma il nome Claudio esce più avanti nell’interrogatorio. Senti che cosa curiosa. Gli chiedono: «Il Claudio, detto ‘Lo Sceriffo’ che le ha indirizzato la lettera al carcere minorile di Casal del Marmo si identifica nel Claudio di sette-otto anni?». «Sì, proprio lui», risponde Borsellino”.

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“Ovviamente non ci meravigliamo che Borsellino dia la responsabilità ad un bambino di sette, otto anni di aver scritto una lettera a un carcerato…”. “Effettivamente non ci meravigliamo più di nulla, in questo caso. E alla fine, dopo qualche giorno, rilasciarono Borsellino e conclusero che davvero s’era trattato d’uno scherzo”. “Però adesso rinfrescami la memoria su un altro soggetto di cui abbiamo parlato e riparleremo sicuramente tra poco, Johnny lo Zingaro”. “Eh. Mastini. Questo nome, che ritorna sempre e sembra davvero il nome del destino. Giuseppe Mastini: ma tutti se lo ricordano come Johnny Lo Zingaro. L’essenza pura del criminale. Senza capi, senza rimorsi, senza pietà. Nasce nel 1960 a Bergamo, da una famiglia di giostrai sinti. All’età di 10 anni si trasferisce a Roma, dove vive all’interno di una roulotte. Il padre dice che per fare quel lavoro ci vuole passione e suo figlio non ce l’ha. A forza di spostarsi da una città all’altra, un mese qui, uno lì, è analfabeta. Nell’infinito mondo della capitale Johnny non perde tempo: a otto anni già guida come un dannato. A 13 anni ha già all’attivo un furto d’auto, con relativo inseguimento e sparatoria con la polizia: rimane ferito alla coscia sinistra. Da allora zoppica leggermente. Passano due anni: esce di casa e non rientra più. Nessuno se ne preoccupa, non è la prima volta che lo fa. Si mette a rapinare tassisti, insieme al coetaneo Mauro Giorgio. Usa una violenza esagerata e insieme il 31 dicembre 1975, rapinano un operaio dell’Atac, Vittorio Bigi. Qualcosa però va storto, Bigi tenta la fuga e uno di loro spara: risultato, un bottino di 10.000 lire e un morto. Johnny si costituisce il 16 gennaio 1976. Per raccontare la sua storia, i giornalisti scoprono che lui e Pelosi erano stati vicini di casa e frequentavano la stessa bisca, quella di via Donati. Il 2 febbraio successivo Johnny e altri quattro ragazzini detenuti, tra cui Giorgio, evadono da Casal Del Marmo. Morti di fame e di freddo, si costituiscono quasi subito. Pianificazione, zero. Aggressivo al massimo, senza interessi, bestemmiatore per nulla. Per l’omicidio Bigi prende 11 anni di carcere. Maggiorenne, Johnny viene trasferito al carcere dell’Isola di Pia-

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nosa. Da qui, nel 1981, fugge ancora, ma questa volta senza fare ritorno. Prende a fare rapine, nel 1983 lo arrestano dopo un inseguimento da film tra il casello autostradale di Roma Nord e il grande raccordo anulare. Altre carceri: Volterra, Rebibbia. Sembra cambiato, gli danno a febbraio 1987 una licenza di otto giorni per ‘buona condotta’. Non rientra e riprendono le rapine. L’8 marzo 1987 Johnny Lo Zingaro si introduce nella villa dei coniugi Duratti a Sacrofano, nei pressi di Roma. Ancor oggi non si sa perché abbia ucciso lui e ferito gravemente lei. Inizia l’epilogo. Rare scintille di gloria, di coraggio, di audacia. Sono le 2 di notte del 24 marzo 1987. Sequestra una ragazza, la prima che vede. Scontro a fuoco con una Volante, lungo la circonvallazione Tuscolana. Un agente, Michele Giraldi, viene ucciso come un cane. Cambiano auto, altri scontri a fuoco, fughe. Ormai è caccia all’uomo. 500 tra poliziotti e carabinieri, i cani. Elicotteri sopra la città. Mitra spianati. La ragazza fugge. La zona tra Settebagni e Settecamini è completamente sotto assedio. Johnny è circondato, si arrende. Sarà ergastolo”. “Ok, grazie. Ma la domanda è: Mastini e Pelosi si conoscono? Da quando? Una volta dentro, Pelosi scrive a Giuseppe Borsellino in una cartolina: «vai da Johnny lo zingaro che sta a casa alle giostre digli di scrivermi lui lo sa». Successivamente Borsellino rispondeva: «… sono andato all’Ina casa però Johnny non c’era. Vorrà dire che glielo dirò appena lo vedrò che deve scriverti…». Pelosi entra a Casal del Marmo prima dell’omicidio Pasolini, per ben tre volte, dal novembre 1974 al 13 settembre 1975. Giuseppe Mastini si trova a Casal del Marmo dall’11 settembre al 31 ottobre del 1975. Giudici distratti scriveranno, tra un’archiviazione e l’altra, che i due non si conoscevano, prima del 2 novembre 1975. E che dicono Pelosi e Mastini? Tralasciando quello che dice Pelosi per via della sua contraddittorietà reiterata nel tempo, Johnny dice che conosceva di vista Pelosi, dato che faceva il giostraio in zona, ma che non avrebbe mai pensato ‘che facesse il ragazzo di vita’ e di averlo poi conosciuto bene a Casal del Marmo”. “Aspetta, ecco: siamo arrivati al parcheggio del 29esimo chilometro, lui ci raggiungerà tra pochi minuti”.

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“Se non riesce bene lui, a farci capire come si è svolta la vicenda, non ci riesce nessuno”. Passano pochi minuti e un uomo arriva con la sua auto. Ci salutiamo, ci dice di seguirlo. È un uomo alto, con la camicia celeste e i baffi. Stradina dopo stradina ci indica di parcheggiare sotto un pergolato, siamo sul retro di una abitazione. Scendiamo e ad accoglierci, con un grosso sorriso, c’è sua moglie, Stefania, che ci fa strada nella loro casa-museo. Cerchiamo di raggiungere il salotto, al primo piano, con grosse difficoltà: visto che a ogni centimetro ci fermiamo, sorpresi di vedere miniature, statuette, modellini, case di bambola. Stefania ci racconta della loro passione: raccogliere tutti questi testimoni del passato che, ogni tanto, vendono nei mercatini. Ma in realtà si vede benissimo che non lo fanno per lavoro, è per passione. Mi immagino con quale dispiacere si separino da ogni singolo oggetto quando concludono una vendita. Raggiungiamo infine il salotto e subito ci accomodiamo tra poltrone e divani. Fuori è inverno. Accendiamo il registratore e lui, sedendosi sulla poltrona, inizia il suo racconto: “Sono Renzo Sansone, sono io il carabiniere infiltrato”. Renzo se ne sta seduto in poltrona, quasi incurante di essere uno snodo centrale di questa storia maledetta. Parla con calma e tranquillità, con voce profonda, ma anche con la consapevolezza di aver fatto il suo dovere in quel lontano inverno. Ha un lieve accento toscano e si mette comodo. Socchiudendo gli occhi possiamo vederlo: bluejeans, barba incolta, capello lungo e giacca di pelle. Partiamo a fargli le domande che avevamo preparato, con la consapevolezza che per ogni risposta che ci darà ne avremo altre dieci da tirare fuori. “Quanti anni avevi quando hai fatto l’infiltrato?”, comincio a chiedergli io. “Ero giovane, 26 anni”. “Ma perché lo diedero proprio a te, quest’incarico?” “L’hanno dato a me perché il confidente lo conoscevo bene, era un boscaiolo sardo che viveva a Santa Lucia a Fontenuova e frequentava quell’ambiente, la bisca. Una sera ci incontriamo nel bar vicino alla caserma di Monterotondo;

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ciao, come stai, come non stai, ci andiamo a prendere il caffè e mi dice: «Sai io frequento questo ambiente e ci sono due fratelli, una sera che erano un poco fatti mi hanno confidato che insieme a Pelosi hanno ammazzato Pasolini». Io chiaramente entro in caserma, vado dal mio capo e glielo dico. Siccome io e il boscaiolo ci incontravamo spesso e in precedenza mi aveva dato altre dritte che si erano rivelate valide, mandarono me”. Io e Fabio ci guardiamo attoniti… ma allora la famosa “soffiata” non l’ha avuta il capitano, come ha dichiarato negli atti, ma direttamente Sansone! Ecco perché poi seguì lui tutto il caso e venne scelto per fare l’infiltrato! “Come ti sei introdotto nell’ambiente?” chiede Fabio, che quando ha davanti qualcuno da intervistare si dimentica perfino che ore sono. “Mi accompagnai con quel personaggio (il boscaiolo, N.d.A.) che comunque non era pregiudicato, anche se frequentava quegli ambienti. La prima volta che siamo andati sul posto disse che ero un amico”. “Che poi non venne mai detto il vero nome dell’informatore, nemmeno durante il processo, se non ricordo male”, intervengo. “No, non mi risulta, questi atti” – mentre parla ci fa vedere la copia della sua dichiarazione e di altri documenti relativi al suo lavoro del ’76 – “li mandammo al Procuratore della Repubblica durante il processo, sapete che il Presidente era il fratello di Moro, beh, questi atti sono rimasti come color che son sospesi, nessuno ne ha tenuto conto in quel processo, e io non venni nemmeno chiamato a testimoniare149”. “Non ti ha mai sentito nessuno… hanno pensato che davvero Braciola ti avesse preso in giro e tanti saluti…” dice Fabio, pensieroso. “Si ricordarono di me solo vent’anni dopo nel 1995, durante le riprese del film ‘Pasolini, un delitto italiano’ di Marco Tullio Giordana, quello dove Amendola fa il carabiniere infiltrato (che nel film diventa un poliziotto). Ci siamo conosciuti 149

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Sansone fu sentito solo dal Pubblico Ministero Santarsiero.

con Giordana, durante le fasi del doppiaggio a Roma e mi ha fatto vedere la parte che mi riguardava. Lì vedo la scena dove Amendola dice ai fratelli Borsellino: «Voi siete due pischelli, ma come faccio a fidarmi di voi». E il più grande: «Oh, noi semo quelli che avemo ammazzato Pasolini». Nel film arriva un’auto delle nostre, dei Carabinieri, che se li carica e se li porta via. Gli dissi che i fatti non andarono così e Giordana ci rimase molto male. Era rammaricato: mi disse di avermi cercato disperatamente e voleva girare di nuovo la scena con le mie indicazioni, fui proprio io a dirgli di lasciar perdere. Sì, ricordo pure che Amendola faceva la parte del poliziotto e a un certo punto diceva all’altro suo collega: «I carubba ci hanno fregato»”. “Ma il boscaiolo chi era?”. “Intanto diciamo che era una persona attendibile, vi do un esempio. Un altro giorno viene da me e mentre parliamo davanti la caserma notiamo una Giulia 1300 parcheggiata. Lui mi dice: quella macchina ha un motore rubato, sotto è di una 1600, ancora mi ricordo la targa della Giulia, 963058. A quel punto mi dice di salire sulla sua auto e mentre mi porta in giro per la zona, mi fa vedere proprio la villetta dove abita la persona proprietaria dell'auto, appena fuori Monterotondo. Una sera verso le sette e mezza, otto meno un quarto, uscito dalla caserma, sto scendendo le scalette con il mio capitano quando sopraggiunge di corsa una persona, è il benzinaio dell’Agip di Monterotondo che grida che lo hanno rapinato. Una volta tranquillizzato ci dice di aver memorizzato il numero di targa: 963058. Gli occupanti di quell’automobile lo hanno fatto accostare, appena fuori il paese, in via delle Fornaci, e gli hanno rotto il finestrino con un crick, portandogli via una borsa con circa due milioni di lire. Quell’auto risulta intestata ad una signora che abita a Tivoli, i colleghi di Tivoli vanno a cercarla ma è un indirizzo falso, la signora non risulta residente lì. Però quella targa mi è rimasta impressa, mi sono ricordato di quel giro fatto tempo prima ed ho incominciato a percorrere Monterotondo in lungo e largo con il pulmino nostro, un Fiat. Dopo un’oretta sono riuscito a ritrovare la villetta che mi aveva indicato l’informatore, suono al campa-

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nello, mi risponde la signora proprietaria dell’auto, che mi dice che l’aveva il marito Gianfranco. L’auto non la troviamo più, ma in compenso a casa della donna troviamo 7-8 milioni in vestiti rubati, sottratti poco tempo prima in un negozio d’abbigliamento di Monterotondo. Per cui, vi posso dire, il boscaiolo era una persona molto attendibile come fonte; non ebbi alcun dubbio quando mi parlò della bisca e poi ho avuto le conferme andando sul posto”. “Ci puoi descrivere com’era fatta la bisca?”, chiede Fabio. “Mah, c’era un biliardino, una macchinetta per il caffè, qualche tavolo dove si giocava a carte, ma nulla di che. Era grande non più della metà di questa stanza”. “Quindi era veramente piccolina, ti ricordi qualcosa? Che ne so, un odore?”. Sansone ci guarda piegando un poco la testa verso destra e ci dice: “Di gente che non si lavava. Pure io alla fine mi dovevo adeguare, andavo sempre con le mani sporche, prima di andare lì mi fermavo sulla Nomentana, aprivo il cofano della mia 500 e mi sporcavo le mani prima passandole sul motore e poi mettendole sotto l’acqua. Tempo prima avevo letto un libro di Pasolini, ironia della sorte, ‘Ragazzi di vita’ e quando arrivai lì, ecco, mi sembrava di stare dentro quel libro, una sensazione indescrivibile ”. Con Fabio ci guardiamo sorridendo: e pensiamo, senza dircelo, alle parole verbalizzate di Giuseppe Borsellino, quando dichiarò che si erano accorti subito che era uno sbirro, dato che

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aveva le mani sempre curate. Che poi, non poteva avere le mani ben curate: soffrendo di dermatite allergica, le aveva rovinate specie d’inverno. Sansone prende una foto di com’era da ragazzo e ce la mostra: impressionante, sembra tratta dal film “Serpico”, è uguale ad Al Pacino. Pochi secondi di pausa e riprende: “Il modo in cui poi sono entrato immediatamente nelle loro grazie la prima volta che siamo andati con il boscaiolo? È stato perché a Monterotondo c’era un amico. Amico perché lo avevo arrestato 4-5 volte e uscito dal carcere aveva il foglio di scarcerazione di Regina Coeli. Me lo feci dare, gli feci una fotocopia e poi cancellai il nome originale con la scolorina (altri tempi, N.d.A.), gli misi il nome e cognome mio, ovviamente uno falso, Tonino. Sul foglio c’era scritto che avevo scontato 4 anni per rapina. Misi il foglio nella tasca posteriore dei pantaloni. Quando ci trovammo seduti al tavolino, con i Borsellino, mentre parlavamo, misi la mano in tasca e feci cadere il portafoglio a terra. Il fratello più piccolo lo prese in mano e mi domandò cosa fosse quel foglio e io, tranquillamente, gli dissi che era il foglio di scarcerazione e lui vide dei 4 anni scontati. Rimase, come avevo immaginato, molto colpito”. “Ma a parte la prima volta che sei entrato nella bisca con il boscaiolo, poi in seguito com’è andata, andavi sempre con lui?”. “No, solo le prime volte, poi successivamente andavo con una ragazzetta di Monterotondo, una bella ragazza, a cui domandavo di accompagnarmi. Le dicevo ‘statti zitta e dì che non mi conosci, almeno dal punto di vista del mio lavoro’. Lo facevo sempre per accreditarmi”. Non c’è dubbio, Sansone ha fatto davvero un buon lavoro: ha pensato a tutto. “Che tipi erano i Borsellino?”. “Mah, erano due ragazzi di borgata, il padre si era suicidato poco prima impiccandosi in carcere150, la madre 150

In realtà era successo nel bagno di casa, il 31 luglio 1975. Il padre era alcolizzato e aveva alle spalle ricoveri in manicomio a Roma e Aversa.

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andava a servizio. Vivevano d’espedienti, andavano a via Tiburtina a vendere il ferro, insomma non dei bei tipi. Pensate che in quel periodo avevo la mia Fiat 500, ero abbastanza tranquillo a presentarmi con la mia auto, anche perché nel libretto era riportato un vecchio indirizzo di Fiano Romano. Siccome avevo le gomme consumate, mi dicevano sempre che ci avrebbero pensato loro a cambiarmi le gomme, immaginate come ci avrebbero pensato. Dovevo tenerli a freno per non farglielo fare151. Se gli mettevi un coltello in mano e gli dicevi ‘spanzami a quello’ non ci avrebbero pensato due volte, erano cattivi d’animo, non si facevano scrupoli”. Continua: “Giuseppe sembrava più grande della sua età, ma il più piccolo, Franco, era proprio un pischelletto. Non li ho mai visti fare uso di droghe, forse se non ricordo male qualche spinello, però su quello ero chiaro, quando uscivano con me gli dicevo subito di non fare cavolate che avrei rischiato di ‘finire al gabbio’ alla prima occasione”. Tiriamo fuori le loro schede. Borsellino Giuseppe, nato a Roma nel 1960, morto il 24 gennaio 1992. Pregiudicato per rapina, tentato furto, detenzione di armi, oltraggio, resistenza e lesioni a Pubblico ufficiale, guida senza patente e altro. Borsellino Franco, nato a Roma nel 1962, morto il 26 febbraio 1990. Pregiudicato per estorsione, rapina, tentato omicidio, armi, ricettazione e altro. “Ma era la prima volta che facevi un lavoro sotto copertura?”. “No, una volta mi sono fatto due mesi a San Basilio, ma poi sono dovuto sparire dalla zona. Mi colpì molto una grandissima solidarietà tra quella gente. Mi ricordo che dopo due mesi che frequentavo l’ambiente dissi che dovevo fare un ‘lavoretto’ e loro mi portano, in regalo, senza che gli avessi chiesto nulla, ‘la Chiacchierona’, una radio con due 151

In un’intervista a un quotidiano ha dichiarato Sansone: “Un giorno per regalarmi due gomme nuove per la mia ‘500’ a momenti accoltellavano un tizio. Ho dovuto fermarli con una scusa sennò lo uccidevano”.

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interruttori: uno per sentire Doppia Vela152 e l’altro per sentire le radio mobili nostre. Una tecnologia impensabile per l’epoca, avevano dei tecnici all’avanguardia. Ritornando sul discorso della fiducia che avevano i Borsellino nei miei confronti, ricordo che ogni tanto gli facevo vedere qualche pistola mia, denunciata prima del 1975 quando ancora era possibile: ne avevo 6-7, tra cui una Luger del 1917 bellissima”. “E loro avevano pistole?”. “Non so, non mi fecero mai vedere armi rubate. Mi dissero sempre che avevano a casa un sacco di roba e che avevano paura di una eventuale perquisizione”. “Quante volte vi siete incontrati? Loro parlano di 3-4 volte in tutto”. “Ma no, di più, se non ricordo male 10-12, non saprei di preciso. Io addirittura andavo non dico tutti i giorni, ma quasi. La sera non rientravo neanche nella caserma a Monterotondo, dove vivevo, ma alla caserma di Settecamini, che dipendeva dalla mia. All’epoca c’erano le stalle, entravo direttamente con l’auto e la inguattavo; e la mattina uscivo, per evitare che qualcuno potesse vedermi”. “Con che mezzi si muovevano?”. “Io li ho sempre visti arrivare a piedi, anche perché abitavano a due passi. Poi me li portavo in giro in macchina, un caffè, le chiacchiere mentre si guidava, anche perché dentro la bisca si evitava comunque di parlare di certi argomenti, ovviamente. Della Benelli 125 me lo dissero loro due quando mi raccontarono dell’omicidio. La sera quando andarono all’Idroscalo, andarono in tre, con il biondino, Johnny lo Zingaro. Era un giostraio, doveva essere fidanzato con una mezza parente loro”. “Ma loro ti dissero proprio il nome, Johnny lo Zingaro?”. “Era lui, era un giostraio, senza dubbio, frequentava la zona. Stavamo dicendo, loro con la Benelli andarono all’Idroscalo in tre”.

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La frequenza radio della Polizia.

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Si sta parlando di Mastini Giuseppe, lo conosciamo bene, pluripregiudicato già a quell’età. Era uscito di prigione proprio il giorno prima dell’omicidio. Intanto fa ingresso nella stanza Merlino, un bellissimo gatto bianco. “Arriviamo al fatto, come te la raccontarono allora?”. “Intanto mi dissero che erano a conoscenza che Pino aveva un appuntamento con Pasolini quella sera…”. Un’epoca diversa, un’epoca senza telefoni cellulare e con una buona metà delle case di Roma senza telefono fisso153. Gli appuntamenti si prendevano al momento di lasciarsi dall’appuntamento precedente, epoca che sembra lontana anni luce. Il nostro uomo sotto copertura continua: “Dicevamo dell’appuntamento, i Borsellino erano proprio partiti che dovevano fare una rapina, mi dissero che avevano seguito Pelosi addirittura dall’appuntamento di piazza dei Cinquecento fino all’Idroscalo, per farla. Visto che lo seguivano in tre su una moto 125 dissero a Pelosi di dire a Pasolini di andare piano. Così fece Pelosi, dicendo al suo amico che aveva paura e di non correre. Poi all’epoca non c’era il traffico di adesso e quindi quando avevi visto dove andava l’auto anche da lontano era facile seguirla”. Ci ricordiamo quel verbale. Giuseppe aveva confidato a Sansone che Pelosi aveva appuntamento quella sera a Termini con Pasolini e aveva concordato la rapina con loro due e col biondino (uno che aveva tatuaggi in varie parti del corpo tra cui un “amo mamma” sul polso). I tre s’erano nascosti dietro una baracca. Pelosi e Pasolini avevano fatto sesso, poi avevano avuto una lite per il rifiuto di Pelosi a fare la donna. Allora erano usciti dall’ombra e avevano aggredito Pasolini. Poi erano scappati senza prendere i soldi. Franco aveva aggiunto che Pelosi e lo scrittore si conoscevano già. “Ma è possibile che avrebbero fatto tutto questo per prendergli 50 mila lire? Che era quello che avrebbe dovuto avere Pasolini nel portafoglio?”, chiede Fabio perplesso. 153

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Seminara, Deidda e De Stefanis il telefono ce l’avevano. Pelosi invece no.

“Sì, conoscendoli sì, quella sera dovevano togliergli i soldi, qualunque fosse l’entità. Quella sera, secondo quanto mi dissero, ma è quello che gli aveva riferito dopo Pino, c’era stato un problema durante la prestazione sessuale. Pelosi e Pasolini erano usciti fuori dall’auto e avevano iniziato a litigare, i tre quando avevano visto la litigata erano accorsi e vedendo che Pelosi se la stava passando male assalirono Pasolini. A terra infatti sono state trovate quattro tavolette, che significa? Non è che uno ne prende un pezzo lo usa e poi ne prende un altro, è una tavola per ognuno dei presenti. Poi non dimentichiamoci il plantare trovato in auto. Guarda caso Johnny, se non ricordo male, era stato ferito a un piede”. “Sì quello è vero, stiamo verificando questo particolare, dai primi riscontri sembrerebbe che fosse stato ferito ad una coscia, proprio in questi giorni stiamo cercando la documentazione”. “I Borsellino non hanno mai detto che il biondino era Johnny, Johnny lo Zingaro?”. “Loro parlarono sempre del ‘biondino’, però se non ricordo male dissero varie volte ‘Johnny il biondino’. Lì nell’ambiente di biondino c’era solo lui”. “Ma non è stato riportato negli atti?”. “Non ricordo precisamente, ricordo però che loro parlavano sempre di questo Biondino e quando gli chiesi chi fosse mi risposero: è Johnny, un nostro amico”. Ci viene in mente che comunque Sansone non avrebbe potuto incontrarlo nemmeno volendo, Johnny: in quei giorni era in carcere per l'omicidio Bigi. “Ma come mai non avete proceduto anche per il biondino, cioè Mastini?”. “Cosa posso dirvi, quando questi atti vanno in mano alla Procura decidono loro. Se avessero voluto un supplemento d’indagine ce lo avrebbero chiesto. Non lo fecero”. “Con chi erano amici i Borsellino?”. “Salutavano tutti ma non vedevo grandi contatti con chi frequentava la bisca. Oltre i saluti o una partita a biliardino non vedevo un grosso affiatamento. Poi, per essere precisi non vedevo che si giocava d’azzardo a soldi, era chiamata

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bisca, sì, ma era più che altro un circolo. Non si parlava di politica, anche se era un circolo monarchico”. “Ma cosa ne pensi della teoria di Citti che ci racconta del furto delle bobine e del tentativo di Pasolini di recuperarle?”. “Non ci credo proprio, ma guardate che sia Citti che Ninetto Davoli hanno detto un sacco di cavolate, anche perché Pelosi erano mesi e mesi che conosceva Pasolini. Questa conoscenza la teneva nascosta anche ai due fratelli Borsellino, perché lo sapeva che gli avrebbero rotto le scatole. La storia delle bobine non mi convince, troppe ipotesi, da Petrolio, alle bobine, alle auto uguali sul posto. Se ne sono sentite troppe”. Entrano in scena, nel salotto, i quattro cani, bellissimi, vivaci, di Renzo e sua moglie. Ugo decide di prendere d’assalto Fabio che, con un filo di voce, riesce pure a fare una domanda: “Hai avuto la sensazione che alcune parti del racconto te le tenessero nascoste, i due fratelli?”. “La sensazione no, intanto posso dirvi che ogni tanto gli davo cinquemila lire, gli facevo vedere una manciata d’oro che avevamo sequestrato a qualcuno, dicendogli che mi era andata bene. Addirittura, che stavo organizzando un sequestro di persona154. Non credo insomma che ci fosse qualcosa che non mi hanno detto. Avevano così tanta fiducia in me che mi dicevano tutto. Addirittura li mettevo alla prova facendogli più volte una domanda in giorni diversi, le risposte erano sempre uguali, con me erano sinceri”. “E poi dovesti svelare il tuo gioco…”. “La mattina della perquisizione a casa loro erano in caserma e mi videro. All’inizio non avevano capito se mi trovassi lì perché ero un delinquente, ma poi realizzarono veramente chi fossi, rimasero sbalestrati. Fu il giorno della perquisizione che uscii di scena, il mio ruolo finì quando tutto passò in mano al giudice”. 154

Sansone disse loro che voleva sequestrare la figlia di Gianni Morandi e li portò alla Bufalotta a vedere la villa dove il presunto Morandi abitava. Per entrare nella banda il più piccolo, Franco, tirò fuori allora che avevano ucciso Pasolini. Giuseppe allora aggiunse che non avrebbe voluto arrivare a tanto, ma Pasolini si era difeso. Avevano gli incubi, dissero: tutte le notti si sognavano lo scrittore che urlava.

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Il resto della storia la sappiamo. Alla sesta udienza del processo il tenente colonnello Giuseppe Vitali, comandante del nucleo investigativo dei Carabinieri di Roma, dice che ha avuto informazioni nuove sulla morte di Pasolini e le ha girate alla Procura. Moro sospende il processo in attesa di notizie. Vitali torna il 26 febbraio a spiegare che il carabiniere Sansone era stato infiltrato e racconta la storia, che nel frattempo è stata sgonfiata dalla Procura. «La confidenza fatta dai fratelli Borsellino al carabiniere Sansone Renzo in ordine alla loro pretesa partecipazione al delitto, peraltro dai medesimi negata davanti al magistrato, è da ritenersi inattendibile e completamente infondata, in mancanza di riscontri obiettivi nelle risultanze processuali; (…) si è trattato di una vanteria del tutto gratuita, anche se rischiosa, per darsi importanza e acquistare peso e notorietà nell’ambiente di pregiudicati da essi frequentato», così scrisse il giudice. Risaliamo in auto e riprendiamo la Palombarese, per fortuna questa volta senza traffico: “Cosa ne pensi?”, mi dice Fabio mentre cerco di trovare l’uscita giusta alla trecentesima rotatoria. “Non so cosa dirti, Renzo è un tipo sveglio, attivo, non ce lo vedo proprio a farsi prendere in giro da due ragazzini che poi dicono di aver capito subito chi fosse”. “Che poi”, continua Fabio, “una volta che hanno capito che Sansone era uno ‘sbirro’ come mai gli dicono di avere casa piena di refurtiva, che effettivamente poi sarà ritrovata? Come mai gli confessano un omicidio, col rischio che quello sbirro poi ci credesse davvero? E la sorpresa di fronte al vederlo in caserma?”. “Comunque non mi tornano un paio di cose che ha detto Renzo. La prima è la lite Pasolini-Pelosi, che fa scattare la rapina. Come se non potesse scattare prima, in qualsiasi momento. La seconda è che se i fratelli avessero detto chiaramente che Johnny e il Biondino erano la stessa persona, beh, allora Renzo l’avrebbe messo nella sua relazione di servizio e lui sarebbe stato fermato con i Borsellino, no? Quindi questo

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particolare è una sua ricostruzione successiva, uno di quegli scherzi che la memoria fa a tutti noi”. “Sono d’accordo ma… aspetta”, continua Fabio illuminandosi “mi sono ricordato di una cosa”– e ritira fuori tutti i documenti. “Eccolo qui, è il verbale di interrogatorio di Franco Borsellino, il più piccolo. Mi ricordavo che c’era qualcosa che non quadrava: guarda, lui parla di essere rincasato, insieme al fratello, alle 20 e che fino a quell’ora erano stati insieme”. “Ma questo va contro la testimonianza di Giuseppe, che riferisce di aver lavorato e di essere andato a trovare la zia fino alle ore 22.30!” faccio io “e nessuno se ne è accorto!”. “Comunque è uno dei verbali di interrogatorio più singolari che abbia mai letto, senti questa parte: «rubavo di giorno perché la notte mi piace dormire»… beh, il ragionamento fila, mi pare. Ah, e invece senti Franco nell’interrogatorio del 17 febbraio: «… io lo avevo capito subito che era un carabiniere dall’aspetto, dalla voce e da tutto il suo atteggiamento. Io li conosco subito i carabinieri, anche se in borghese. Ricordo che lo stesso ci rivelò che voleva fare un colpo grosso, intendo rapire la figlia di Gianni Morandi, però non si fidava di noi perché eravamo dei ragazzini». In questo interrogatorio, al contrario del precedente, Franco dice di non sapere dove si trovasse il fratello durante la serata. Altra contraddizione”. “Parliamo della moto”, interrompo Fabio minacciandolo di buttare dal finestrino i verbali che tiene gelosamente in mano: “Seminara, l’amico di Pelosi che era con lui a Termini, esclude di aver visto una moto con a bordo i Borsellino. Tra l’altro li conosceva, abitandogli vicino, sapeva che si frequentavano con Pelosi ma non gli stavano molto simpatici. Altra cosa: Seminara, su domanda specifica, dice che c’era un biondino (che lui vede e ricorda con i capelli tra il biondo ed il rosso) che frequentava Pelosi. Una volta, dice, gli aveva dato un passaggio in auto ma non lo vedeva da circa un anno. Qui, Fabio, l’unico biondino che gira in questa storia è sempre più identificabile con Johnny lo Zingaro; però proseguiamo, vado a memoria ma c’è la testimonianza del De Stefanis, che anche lui non vede i ‘Braciola’ a Piazza dei Cinquecento,

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eppure li conosceva. Il giro era quello. In ‘Io, angelo nero’ Pelosi dice di aver conosciuto Mastini solo dopo il delitto e ha sempre negato che ci fosse anche lui, quella notte”. “Vediamo meglio i loro alibi, scusa. Giuseppe dice di essere stato a casa dello zio. Qui abbiamo delle testimonianze contrastanti. Si percepisce dal verbale d’interrogatorio come lo zio Antonio sia veramente una brava persona che ha provato nel tempo ad aiutare il nipote, fornendogli anche un lavoro. Non ricorda, con grande onestà, a che ora uscì Giuseppe da casa. Dà un orario generico, ricordandosi che generalmente andava via tra le 23 e le 23.30. La moglie dà un orario diverso, dalle 22.30 alle 23. Il figlio, anch’esso di nome Giuseppe, un orario oscillante dalle 22 alle 23. Ma la testimonianza più singolare è quella della figlia, Francesca Borsellino, che all’inizio dà come fascia oraria quella dalle 23.30 alle 24, ma successivamente ricorda che sul diario aveva segnato proprio che il cugino era stato a casa loro quella sera, strano vero? Se Giuseppe ogni sera si recava lì, come mai la cugina lo ritiene un evento talmente importante da annotarlo sul diario?”. “Comunque la fascia oraria varia dalle 22 alle 24, non mi sembrano molto d’accordo in famiglia”. “No, effettivamente… Torniamo un attimo sulla storia dell’inseguimento, non mi sembra logico programmare un pedinamento con una moto 125, quindi meno potente dell’auto di Pasolini, con sopra tre persone, nemmeno nell’eventualità che Pelosi, che era complice, dicesse a Pasolini di non correre”. “Ma certo, Pelosi conosceva Pasolini da mesi e sapeva che aveva il ‘piedino pesante’, non avrebbe nemmeno osato chiederglielo. L’auto sarà andata almeno a 120-130 all’ora; non c’era, come adesso, l’autovelox”. “Era notte, era festa, era tardi, traffico quasi zero, e l’Ostiense è tutta dritta”. “Lo vieni a dire a me, oggi è arrivata la multa presa da Alessandro, mio figlio, proprio per la velocità… Aveva superato i 70 km del limite”. Mentre viaggiamo nella notte squilla un cellulare: è Sara Cordella, la nostra amica grafologa: “Disturbo? Quando

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lete ho analizzato la scrittura ‘der Braciola’, come dite voi romani”. Le avevamo posto alcuni quesiti, forse troppi e troppo generici quando le inviammo la lettera trovata nel faldone di Bolino, della serie: la scrittura era di una persona violenta? Era un pianificatore? Era un mitomane? Da una scrittura palesemente infantile è più facile o più difficile determinare le caratteristiche di chi scrive? Era un leader? Poteva avere una posizione di predominanza con il fratello? “Sara, ma ci stai spiando? Siamo usciti in questo istante proprio da casa del carabiniere che li conobbe, metto il cellulare in viva voce che sto guidando”. “Ragazzi, la grafia del Braciola ha pochi segni di base che ne raccontano l’essenza e che ne delineano il personaggio”. Sara, insieme a Bolino, sono gli unici che quando parlano con noi iniziano con il termine “ragazzi”; chissà quanto continuerà questo privilegio. Sara continua: “Anche se il documento è in fotocopia si nota che la pressione che esercita sul foglio è corposa a volte perfino ‘sporca’, ovvero ci sono più ripassi sulle stesse lettere. La pressione, in grafologia, ve lo ricordo, rappresenta l’energia vitale, che passa dalla forza fisica a quella interiore. Una pressione ‘grossa’ in qualche modo non coglie le sfumature nelle cose, non differenzia il bianco dal nero, vede la quantità e non la qualità. Questo si vede dagli istinti di base, il mangiare molto, soprattutto cibi dal gusto intenso, fino all’assenza di qualsiasi delicatezza, anche nella mano pesante. Una pressione così

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vive poco di sentimenti e molto di fisicità, questo anche nelle reazioni che possono anche diventare violente, perché ‘tirare una pizza’ (si dice così?) è il suo modo migliore di esprimere disappunto”. Siamo stupefatti, Sara è unica ed irripetibile in queste considerazioni, riesce a farci cogliere sfumature di cui non pensavamo nemmeno l’esistenza. “Allo stesso tempo parliamo di una persona verace, priva di capacità tattiche, per rispondere alla vostra domanda. Il suo pensiero non può subire percorsi complessi. Quella che sembra una grafia infantile è in realtà una grafia che fa fatica a staccarsi dal modello scolastico, pur avendo le sue personalizzazioni. Quindi da una parte abbiamo una persona con dei limiti oggettivi di apprendimento, dovuti soprattutto alla totale mancanza di intuito. E dall’altra abbiamo una persona con difficoltà di approfondire il pensiero. Questo ne limita anche l’immaginazione e la forza evocativa. Quando ricorda, e comunque è una persona con buona memoria, fa fatica a metterci del suo in toto. Ovvero, può amplificare un accadimento (cosa che succede nel Calibro Grande che lui ha ed è il segno tipico della teatralità), ma non crearlo ex novo. Sono grafie di esagerazione ma non di menzogna totale”. Questa è la parte interessante, ci ripetiamo con Fabio appena sussurrando “grafia di esagerazione ma non di menzogna totale”. “Non ho mica finito. Un’altra cosa importante da rilevare e particolare, sono quelle ‘p’ che si inclinano a destra improvvisamente. In grafologia, tutto ciò che va verso destra, rappresenta l’altro. Un movimento così improvviso indica imprevedibilità anche nell’aggressività ed essendo un gesto anche rigido, indica anche l’assenza di rimorsi. La grafia, infatti, dopo il gesto repentino, che può essere l’atto di violenza, ritorna uguale a sè stessa, come non fosse successo niente. L’altra vostra domanda: essere forte e prestante in qualche modo lo rende leader, in quanto dominante fisicamente. Un capo, però, non di natura carismatica, ma che prevarica solo con la forza. Gli altri perciò, e questo vale anche per il rapporto con il fratello, o possono essere sottomessi a lui e

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nibili a subire angherie, o devono utilizzare le stesse formule comunicative del Braciola per sopravvivere”. Il Braciola sta prendendo forma. Adesso sì, adesso lo vediamo. Dopo aver salutato Sara, stiamo per iniziare a commentare il suo profilo, quando il cellulare, questa volta di Fabio, si mette a squillare. Dopo aver risposto lo vedo cambiare colore, si gira verso di me: “Era Sansone. S’è ricordato il nome, quello dell’informatore. Il boscaiolo sardo si chiamava Michele Manca”. Un altro tassello di questo enorme puzzle è tornato a posto.

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Capitolo 12

Eur

Abbiamo parcheggiato in via Eufrate, di fronte a una delle sette palazzine che ci stanno guardando. Sono le prime ore di un pomeriggio d’inverno quando camminiamo sul marciapiede, cercando il civico 9. Lo riconosciamo subito. E dunque: è dietro quelle finestre con la grata che ticchettava la macchina da scrivere di Pasolini, mentre scriveva le sue ultime pagine. Chissà se chi ci abita adesso conosce la storia di quelle stanze, di quelle facce. Nel novembre del 1975 furono il centro di tutto. E lo sono anche oggi pomeriggio, perché c’è tanta gente che è convinta che la pista di “Petrolio” sia importantissima. Siamo alle battute finali del nostro libro e stiamo indagando proprio su quelle pagine. Cos’è “Petrolio”? È il romanzo che Pasolini sta scrivendo al momento della sua morte; e che aveva iniziato nel 1972. Un testo che si annuncia come enorme, forse di duemila pagine, sicuramente come una summa di tutte le sue esperienze. Di “Petrolio” ci resta oggi il manoscritto, un lavoro magmatico: facciamo fatica a capire che libro sarebbe diventato da grande, quindi quelli che si entusiasmano per la lettura ci sembrano un po’ strani. “Petrolio” è letterariamente ingiudicabile perché incompiuto: ma non è questo il punto. Qui non facciamo critica letteraria. Lo scrittore Paolo Volponi, parlando nel 1976 dell’ultimo colloquio avuto con Pier Paolo Pasolini, suo amico: “Una volta mi ha detto, e lo ripeto cercando nel ricordo le sue parole: «Mah, io adesso, finito Salò, non farò più cinema, almeno per molti anni. Voglio rimettermi a scrivere. Anzi, ho ricominciato a scrivere. Sto lavorando a un romanzo. Deve essere un lungo romanzo, di almeno duemila pagine. S’intitolerà ‘Petrolio’. Ci sono tutti i problemi di questi venti anni della nostra vita italiana politica, amministrativa, della crisi

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della nostra repubblica: con il ‘Petrolio’ sullo sfondo come grande protagonista della divisione internazionale del lavoro, del mondo del capitale che è quello che determina poi questa crisi, le nostre sofferenze, le nostre immaturità, le nostre debolezze, e insieme le condizioni di sudditanza della nostra borghesia, del nostro presuntuoso neocapitalismo. Ci sarà dentro tutto, e ci saranno vari protagonisti. Ma il protagonista principale sarà un dirigente industriale in crisi»”. Siamo in piedi davanti al cancello chiuso e lo guardiamo come se aspettassimo da lui una soluzione. “Tutte le edizioni di ‘Petrolio’ contengono un capitolo formato da un titolo e una pagina bianca. Il titolo è ‘Appunto 21. Lampi sull’Eni’. E poi il vuoto”, dice Armando. “Sì. Dobbiamo capire se manca davvero un pezzo del romanzo e se questo può essere stato un movente per il delitto. Il manoscritto, che è una vera e propria bozza, è diviso non in capitoli ma in appunti: Pasolini li ha chiamati così. Ora, molti sostengono la mancanza dell’Appunto 21 e che questo Appunto avrebbe contenuto materiali esplosivi. Che sarebbero il movente stesso del delitto e che sarebbero stati rubati da casa Pasolini da… dai Servizi?”. C’è molta roba da capire. Abbiamo passato le ultime settimane a leggerlo e dissezionarlo. Non da letterati ma da investigatori. Armando attraversa la strada. Poi, si volta di colpo. “Cominciamo dall’inizio: il romanzo viene pubblicato postumo nel 1992, allo stato in cui si trova. Un insieme di idee, in parte scritte e in gran parte solo abbozzate o solo col titolo, pieno di ripetizioni, cancellazioni, intenzioni, schizzi. Lo spaccato di uno scrittore al lavoro. A parlare per primo del furto è Guido Mazzon, cugino dello scrittore, nel 2005. Ho compulsato qui tutte le sue dichiarazioni”. Tira fuori dalla tasca un foglio e comincia a leggere. «Mia cugina Graziella mi telefonò due volte. Il giorno del delitto: ‘I fascisti hanno ucciso Pier Paolo’ – e qualche tempo dopo, un mese, non ricordo bene. Mi ricordo bene quello che mi disse: ‘Sono venuti i ladri in casa, hanno rubato della roba, gioielli e carte di Pier Paolo’. Non era tanto preoccupata per i gioielli, ma per le carte. Quando mia madre me lo

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riferì, pensai: ‘Accidenti, con quel che è capitato ci mancava pure questa’. E pensai anche: ‘Strano però, che senso ha andare a trafugare le carte di un poeta?’. Il mio stato d’animo sul momento fu proprio quello. Avevo 29 anni e ricordo bene la sensazione che ebbi. Poi il particolare del furto mi tornò alla mente leggendo ‘Petrolio’ e venendo a sapere della parti scomparse. Non riesco a capire come mai mia cugina continui a negare quel fatto. Dopo l’annuncio del ritrovamento, l’ho cercata al telefono, ma senza successo: vorrei chiarire, cercare di ricomporre il ricordo». Risponde la Chiarcossi: «Dal 1962 al 1975 ho vissuto in casa di Pier Paolo e della mamma Susanna e sono testimone della loro vita quotidiana. I manoscritti e i dattiloscritti su cui Pier Paolo stava lavorando nel 1975 erano sopra la scrivania, vicino alla macchina da scrivere e nessun estraneo li ha toccati. Posso affermare con certezza che il fantomatico capitolo non esiste. (…) Prima del novembre del 1975 ci sono stati due furti nella casa di via Eufrate, dove abitavamo. Penso che si siano intrufolati sempre gli stessi ladri perché la prima volta Susanna e io eravamo in casa, sono entrati dal giardino e hanno fatto tutto in fretta portando via i pochi gioielli che avevamo la zia e io e i soldi della sua pensione. La seconda volta rientrando (Pier Paolo, Susanna, i miei genitori ed io) abbiamo trovato la serratura manomessa. I ladri hanno avuto più tempo a disposizione e hanno portato via il denaro che stava nel cassetto della scrivania di Pier Paolo e altri oggetti più o meno preziosi (compresa la Grolla d’oro, premio attribuito a Pier Paolo a Saint-Vincent) sottratti da un secrétaire in salotto». Annuisco.“Il vuoto di quella pagina, dell'Appunto 21 è, per alcuni, pieno di significati. Gianni D’Elia scrittore dà il furto per certo e Carla Benedetti docente universitaria di letteratura, scrittrice scrive che «chi si impossessò di quelle carte doveva essere a conoscenza del loro contenuto. Sapeva che vi si parlava dell’omicidio di Mattei e che si faceva anche il nome del mandante, Eugenio Cefis. Succede perché c’è stato un magistrato, a Pavia che, anche su ‘Petrolio’, ha fondato un’inchiesta, quella per la morte del Presidente dell’Eni, Enrico Mattei, avvenuta nel 1962 in un incidente aereo. Si

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chiama Vincenzo Calia e ha riaperto quella vecchia indagine: voleva capire se fu un omicidio o no. Archiviandola, il 20 febbraio 2003, dichiarò di aver attinto anche a ciò che quelle pagine contengono155. E che secondo lui c’era Cefis dietro l’omicidio Mattei»”. “Ricordami chi è Cefis” mi dice Armando. Ci appoggiamo al parapetto, mentre lontano, silenzioso, sotto la scarpata verde, scorre il traffico di viale Egeo. “Eugenio Cefis, manager dell’Eni dal 1957, era già fuori dalla potentissima azienda petrolchimica di Stato quando Mattei morì. Ci tornò poco dopo l’attentato come vicepresidente e ne divenne, nel luglio 1967, Presidente. Nel 1971 lasciò l’Eni per diventare Presidente di Montedison. Nell’inchiesta di Calia confluisce la testimonianza di Angelo Mattei (nipote di Enrico). Che dichiara – senti qua – che suo zio «si era accorto che qualcuno metteva le mani nella sua cassaforte personale che aveva dietro un quadro in una stanza a sua esclusiva disposizione all’Eni di Roma. Mattei si rivolse quindi ad uno dei suoi più stretti collaboratori […] dicendogli di diffondere la voce che sarebbe partito e si sarebbe assentato per due o tre giorni. Invece di partire si nascose in uno stanzino comunicante con la stanza ove era la cassaforte. Dopo pochi minuti entrò Cefis e mio zio lo colse con le mani nella cassaforte, da dove aveva preso e stava leggendo alcuni documenti che concernevano finanziamenti a partiti o personaggi politici. A questo punto mio zio pose a Cefis l’alternativa di dare le dimissioni o di essere cacciato via: Cefis preferì dare le dimissioni, motivandole ufficialmente ancora oggi - con il fatto che egli non condivideva la politica economica dell’Eni»”. “Ma Calia come mette in collegamento Cefis e Mattei con Pasolini? È la storia del libro, no?”. “Esatto”. “Ok, vediamo se è tutto chiaro. Calia scopre che una fonte di ‘Petrolio’ è ‘Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente’, libro scritto da un misterioso Giorgio Steimetz. Esce nell’aprile 1972 edito dalla romana (a parte il nome) 155

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Calia aveva riaperto l’inchiesta il 20 settembre 1994.

Agenzia Milano Informazioni (Ami) e riunisce una serie di servizi lanciati tra il 25 aprile e il 18 dicembre del 1971 dalla stessa Ami. 1971: un mese dopo che Cefis aveva assunto la presidenza della Montedison partono gli articoli, che poi diventeranno il libro. Libro che sparisce subito dalla circolazione: essendo ben documentato (anche se molto farraginoso da leggere), non stupisce che non si trovi nemmeno nelle Biblioteca Nazionale di Roma, come da prassi. C’è da immaginare che Steimetz abbia ricevuto una minaccia di querela grossa come un grattacielo…”. “L’ho letto anch’io e il testo è assolutamente contro Cefis; chiaramente scritto da qualcuno che conosce bene l’Eni e le sue dinamiche dall’interno”. “Anche se non del tutto, Fà. Parla della vita, del carattere, delle abitudini, delle amicizie di Cefis, delle società di comodo, degli sprechi: è molto informato, ma non del tutto informato. Chi passa le informazioni all’Ami, infatti, della Montedison non sa nulla, come nulla sa della politica estera dell’Eni”. “Esatto. Ora, se uno legge il brogliaccio di ‘Petrolio’e legge ‘Questo è Cefis’, è evidente che Pasolini ha letto il libro e anche che ne fa la parafrasi molto apertamente, in alcune parti. Questo dice Calia e su questo non c’è dubbio. Pasolini quindi, per costruire la biografia di uno dei suoi personaggi, prende spunto da un libro ben documentato come quello di Steimetz. Di più: si documenta precisamente su Cefis. Una lettera del – ah, ecco, l’aveva scritto qui – 20 settembre 1974 dello psicanalista Elvio Fachinelli ci dice che fu quest’ultimo a fornirgli le fotocopie del libro, all’epoca introvabile; e nell’archivio del Gabinetto Vieusseux di Firenze (dove la Chiarcossi ha depositato il manoscritto di ‘Petrolio’), nella stessa cartella delle fotocopie, ci stanno degli articoli su Cefis pubblicati dalla rivista di Fachinelli, ‘L’erba voglio’; un «Discorso commentato di Eugenio Cefis all’Accademia militare di Modena», del 23 febbraio 1972; i ciclostilati di altre conferenze, addirittura l’originale di un discorso preparato e mai tenuto presso la Scuola di cultura cattolica di Vicenza, con note a margine (dello stesso Cefis). E diversi ritagli di giornale sui «segreti dell’Eni». Bene: Pasolini, dunque, da

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scrittore si stava documentando su ciò di cui voleva scrivere, come d’altronde fa chiunque faccia seriamente questo lavoro. Ho detto tutto?”. “Pure troppo! Manca una cosa: chi è Steimetz? Con certezza, non lo sa nessuno. Sappiamo che il titolare della Milano Informazioni era Corrado Ragozzino. Suo nipote, Guglielmo, lo descrive così…”. “Cercavi questo?”. Un Armando molto sornione mi porge un foglio, dalla sua tasca. “Eh. Sì. Proprio questo. Dunque, dicevo: un factotum. «Oltre a cercare le notizie e i clienti-lettori, scriveva gran parte dei testi, e poi (quando l’impiegata non c’era o non era stata pagata) girava il ciclostile per portare infine alla Posta centrale di San Silvestro il pacco delle agenzie da spedire. L’agenzia era quotidiana. Servizi lunghi come quelli firmati da Steimetz erano molto insoliti; l’agenzia trasmetteva una serie di informazioni che provenivano dai pochi clienti, qualche scarsa indiscrezione preceduta da un paio di note politiche, democristiane di destra, come impostazione e geografia politica. Gli spunti per le note politiche venivano a mio zio soprattutto dalla lettura dei giornali. Ami rilanciava qualche tema rimasto in ombra, raccoglieva dichiarazioni di chi aveva commenti da fare e così via, sempre nella speranza che qualche giornale importante le desse spazio. Chi fosse Giorgio Steimetz, l’ho chiesto allo zio, tanto ai tempi dei servizi nel 1971 che vent’anni dopo, quando mi ha regalato il volume che avevo scorto tra i suoi libri. Alle mie domande non ha mai voluto rispondere». Beh, il sospetto che Steimetz e Ragozzino siano la stessa persona ce l’hanno in molti…”. “Ma chi finanziava un’agenzia non di serie A come la Milano? Si è sempre detto che dietro ci fosse quello lì, come si chiama, Graziano Verzotto, già capo delle pubbliche relazioni dell’Eni in Sicilia, matteiano di ferro, segretario regionale della Dc. Questo tornerebbe col fatto che il libro sia anti-Cefis, anche perché, ad un certo punto, Cefis era stato cacciato dall’Eni da Mattei, per ritornarci dopo la sua morte”. “E fin qui. Ora, chi sostiene che l’Appunto 21 sia il movente dell’omicidio Pasolini fa questo ragionamento: in ‘Petrolio’

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il personaggio di Troya è Cefis, mentre Bonocore è Mattei: e questo è pacifico. Ma Pasolini scrive chiaramente che «Troya sta per essere fatto presidente dell’Eni: e ciò implica la soppressione del suo predecessore». Dunque, Pasolini suppone che il mandante dell’omicidio di Mattei sia Cefis… Un’intuizione che arriva con trent’anni di anticipo prima delle stesse conclusioni cui, più o meno, è giunto il giudice Calia. E sappiamo che, quando Pasolini scrive questo, sta dicendo una cosa diversa da quello che si pensava all’epoca, e cioè che a fare fuori Mattei erano stati i petrolieri americani, o quelli francesi. Questa intuizione è il movente? Bella domanda”. “Fabio, vuoi sapere che penso?”. “Magari”. “Che non si può nemmeno ipotizzare che Pasolini sia stato ucciso per aver avuto solo un sospetto, un’intuizione: non era un magistrato o un poliziotto. Se si fosse limitato a dire quello che pensava non avrebbe fatto danno così tanto a Cefis, semmai avrebbe preso l’ennesima querela. Sarebbe stato davvero pericoloso se avesse avuto qualche prova. Allora sì. Già, ma ce l’aveva?”. “È la domanda delle domande. Si potrebbe fare il conto delle pagine. D’altronde, stiamo indagando su un libro. Aurelio Roncaglia, il filologo che cura l’edizione del romanzo, nota che Pasolini, in due interviste rilasciate a cavallo della fine del ’74, parla di una stesura arrivata a 600 pagine, mentre alla sua morte sono 522: 492 dattiloscritte, le altre a mano. 600-522 fa 80 pagine mancanti. L’Appunto 21 è tra queste? Angela Molteni curatrice, dal 1977, di www.pasolini. net, ricchissimo sito d'informazioni e studi Pasoliniani osserva che complessivamente, ‘i conti’ comunque non tornano e rimane inspiegato e inspiegabile il fatto che i fogli fossero 600 nelle affermazioni di Pasolini dell’ottobre ’74, e 522 a distanza di un anno esatto, dopo l’assassinio dello scrittore. Un anno in cui Pasolini oltretutto aveva indubbiamente lavorato sodo, com’era suo solito, alla scrittura del suo romanzo”. “Poi, un altro indizio del fatto che Pasolini sapesse più di quanto diceva viene spesso ritrovato nel famoso ‘Io so…’ che tutti ripetono a dismisura in ogni occasione, come fosse

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la chiave di ogni verità. Il testo156 inizia in modo chiaro: “Io so. «Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato ‘golpe’ (e che in realtà è una serie di ‘golpe’ istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del ‘vertice’ che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di ‘golpe’, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli ‘ignoti’ autori materiali delle stragi più recenti. Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del ‘referendum’. (…)Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli. Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli». È un atto d’accusa forte. Mettiamolo da parte”. “Anche perché dobbiamo valutare l’uscita di Dell’Utri. È il 2 marzo 2010 quando sui giornali appare una notizia: dell’Appunto 21 ne parla, di colpo, Marcello Dell’Utri157. 156

“Cos’è questo golpe? Io so”, è un articolo di Pasolini pubblicato sul Corriere della Sera del 14 novembre 1974. 157

Con Berlusconi fin dagli anni Settanta, socio in Publitalia e dirigente Fininvest, è tra i fondatori di Forza Italia. È stato condannato in via definitiva

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Così, dal nulla, dice che ha letto quelle pagine! Ma come sarebbe a dire? Gliele avrebbe mostrate un misterioso signore, un intermediario che si sarebbe manifestato al politico al termine di una conferenza stampa, proponendogliene l’acquisto. La faccenda è subito stranissima, confusa, nebulosa, sospetta. Aggiunge che le esporrà il 12 successivo alla XXI Mostra del Libro Antico di Milano. Dice: «L’ho letto, è inquietante, parla di temi e problemi dell’Eni, parla di Cefis, di Mattei e si lega alla storia del nostro Paese». Poi si corregge: «In realtà non l’ho letto… me ne hanno riferito un sunto… sembra che in quelle pagine Pasolini parli… parli dell’Eni… di Cefis… di Mattei…». Tutto succede durante una mostra in via Senato a Milano, con trecento, quattrocento persone che lo pressano per una stretta di mano, dirgli qualcosa. Si presenta uno sconosciuto, sussurrandogli: ‘Io ho un inedito’. A Paolo Di Stefano del Corriere della Sera dice: «Le ho avute tra le mani per qualche minuto, sperando di poterle leggere con calma dopo. 78 veline dattiloscritte con qualche appunto a mano». Alessandro Noceti (collaboratore di Dell’Utri) specifica che quelle pagine «erano all’interno di una cassa. La cassa apparteneva ad un Istituto che ne è anche proprietario». Succede un bordello. Anche perché poi Dell’Utri non esporrà più nulla. E anche perché, che sia un falso o che sia autentico, quel capitolo configurerebbe un reato: Dell’Utri avrebbe dovuto chiamare i carabinieri, non fare un comunicato stampa”. “In realtà al G.I.P. il 22 aprile 2010 dirà una versione leggermente differente. «Il giorno 1 marzo 2010, nel corso dell’inaugurazione (…) mi si è avvicinata una persona di circa 60 anni che io non conoscevo, dicendomi di essere in possesso di importanti documenti relativi a Pier Paolo Pasolini. In particolare mi mostrò un dattiloscritto (con apposite correzioni a penna o matita) dicendomi che si trattava del capitolo di ‘Petrolio’ che era stato trafugato, e dunque mai pubblicato. Io ho preso in mano il testo formato da fogli ingialliti di carta nel 2014 a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, pena che sta scontando nel carcere di Rebibbia.

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velina senza avere il tempo di leggerne il contenuto. E infatti la persona lo riprese, dicendomi che mi avrebbe contattato lui per consegnarmelo. In quella stessa occasione mi consegnò due libri, uno dal titolo ‘Questo è Cefis’ (pubblicato nel 1972 e fatto immediatamente ritirare dal mercato dallo stesso Cefis) e l’altro dal titolo ‘Uragano Cefis’ mai pubblicato e scritto nel 1975. L’ignoto mi disse che quello che era scritto sul dattiloscritto in gran parte compare nei libri che mi ha consegnato. Io gli chiesi di darmi un recapito per poterlo contattare, ma questa persona mi disse che mi avrebbe contattato lui (e infatti gli ho dato il mio numero di telefono). Tuttavia in quella data non si è fatto sentire». Sai che ti dico? Vista la situazione penso che Dell’Utri, se quel capitolo lo aveva davvero in mano, non l’avrebbe mai mollato. Nessuno che ne conosca l’importanza, avendolo in mano, lo avrebbe restituito”. “Vuoi sapere che penso, Armà? Chi porta l’Appunto 21 a Dell’Utri? Di certo chi lo possiede. Cioè chi lo ha rubato. Cioè il ladro. Quindi questo vorrebbe dire che chi rubò il documento non lo distrusse subito – come logica vorrebbe – ma lo conservò (non si sa perché, visto il rischio che implicava tenere in vita quelle carte) al punto da averlo ancora nella sua disponibilità oltre 30 anni dopo, fino addirittura a rischiare di mostrarlo – con una disinvoltura che non ha niente dei Servizi, se sono stati loro – pubblicamente e nel caos di una conferenza, allo scopo di? Venderlo? Ma scherziamo? Anche ammesso che l’Appunto sia stato mostrato a Dell’Utri in circostanze più credibili e discrete di quelle riferite e che questa sia solo una farsa per coprire il proprietario, resta il fatto che un ex membro dei Servizi o un suo parente o comunque il ladro non avrebbe mai conservato e tirato fuori dopo una trentina d’anni la prova del suo diretto e possibile coinvolgimento in un omicidio. Nemmeno il fatto che Dell’Utri abbia parlato di fogli di carta velina e Pasolini usasse battere a macchina su carta velina è una prova: le abitudini di lavoro di uno scrittore possono essere ben sconosciute ai suoi lettori, ma ben conosciute da chi colleziona libri da una vita, come nel caso di Dell’Utri”. “Conclusione: Dell’Utri stava facendo pubblicità alla sua Mostra o stava lanciando un messaggio a qualcuno. Non si

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sa. Ok, mettiamo da parte Dell’Utri e i suoi giochetti e torniamo all’Appunto. Rubato o no? Innanzitutto, non è vero che lo sapessero in pochi, di ‘Petrolio’. Su questo, la Chiarcossi sbaglia. Pasolini parlava del libro, aveva rilasciato interviste e addirittura un anno e passa prima di morire ne aveva parlato con Borgna e i suoi amici, che erano andati a trovarlo per un’intervista. Il manoscritto, i fogli di carta velina, erano lì, accanto a loro. Insomma, che esistesse quel libro non era certo un segreto. Poi, i discorsi più approfonditi li faceva con Moravia, con Siciliano, con Volponi, con quelli cui chiedeva consigli veri, certo”. “È poi anche vero che c’è un fatto sospetto: nell’Appunto 22a, Pasolini cita il 21 come cosa già scritta. Il che fa pensare. «Per quanto riguarda le imprese antifasciste, ineccepibili e rispettabili, malgrado il misto, della formazione partigiana guidata da Bonocore, ne ho già fatto cenno nel paragrafo intitolato Lampi sull’Eni, e ad esso rimando chi volesse rinfrescarsi la memoria». Ma l’avrà scritto? D’Elia considera il rimando la prova di un possibile furto di pagine dal manoscritto di ‘Petrolio’ , poiché «non si può ‘rimandare’ che a ciò che si è già scritto»”. “Riassumiamo, Fà. Nell’ultimo romanzo, incompiuto, di Pier Paolo Pasolini, c’è un Appunto vuoto, il 21: dal titolo sappiamo che parlerà dell’Eni. Sappiamo che Pasolini si è documentato molto su Cefis e che sospetta sia il mandante dell’omicidio di Enrico Mattei, un’intuizione che nessuno ha ancora avuto. Sappiamo che anche il giudice Calia ha lo stesso sospetto e da ‘Cos’è questo golpe?’ leggiamo che Pasolini dice di conoscere i segreti delle stragi e di aver fatto dei collegamenti nuovi e importanti. Dalla testimonianza di Mazzon sappiamo che un furto potrebbe essere avvenuto, ma che la Chiarcossi lo nega. Altri hanno parlato della perquisizione effettuata a casa Pasolini dalla polizia dopo la morte, durante la quale furono sequestrate carte dello scrittore, come momento del possibile trafugamento. Sappiamo che Pasolini nove mesi prima di morire dichiarava che il manoscritto era di 600 pagine circa, mentre il manoscritto pubblicato nel 1992 è più breve. E ora, indaghiamo”.

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“Sì. È giunto il momento di sottrarre la ricerca sul furto agli scrittori, ai biografi e agli studiosi e lasciarla a chi investiga per mestiere”. La strada è silenziosa, mentre le ombre degli alberi dalle rosse foglie si allungano fino a toccare il buio. Il cancello si apre per un momento, lasciandoci intravedere il garage condominiale, là in fondo. Per un attimo speriamo di veder spuntare ancora il GT argentato. Ma nessuna cosa si muove; e come si era aperto, così il cancello si richiude, senza che nessun uomo si mostri. “Pensi che Pasolini avesse scoperto qualcosa di pericoloso?”, chiedo ad Armando. “Penso che non esiste alcuna prova certa, diretta, chiara, di questo. Certo che frequentava le persone più disparate, dagli intellettuali ai criminali, era curioso come il mestiere di un vero scrittore impone. Ma non esiste alcuna prova che da questi abbia tratto informazioni pericolose per la sua incolumità”. “Però, aspetta. Giovanni Pellegrino, che è stato l’illuminato Presidente della ‘Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi’, ha detto delle cose che ci interessano. Ti ricordi ‘Che cos’è questo golpe’? Ti è sfuggito un passaggio. Pasolini scrive che, se le stragi del 1969158 erano state anticomuniste, quelle del 1974159 erano antifasciste. In base a cosa diceva, anche qui, una cosa su cui nessuno aveva riflettuto, in quegli anni? Pellegrino spiega cosa volesse dire: «L’obiettivo della manovalanza neofascista era quello di provocare allarme, paura, disagio sociale; e quindi di fare in modo che, al dilagare della protesta studentesca e operaia, si reagisse con una risposta d’ordine. Quindi le loro azioni erano funzionali al progetto di un vero e proprio colpo di Stato. A livello politico, sia interno sia, soprattutto, 158 159

Cioè quella di Piazza Fontana, a Milano.

Cioè quella di Piazza della Loggia, a Brescia, e quella del treno Italicus, l’espresso Roma-Brennero.

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internazionale si capì però che l’Italia non era la Grecia, che da noi non era importabile il regime dei colonnelli, perché sarebbe scoppiata la guerra civile: un prezzo troppo alto da pagare. Dunque, da quel momento ha inizio una nuova fase, sia pure ovviamente non lineare: quella dello sganciamento dalla manovalanza neofascista. Lentamente, gli uomini della destra radicale sono richiamati all’ordine, si comincia a instillare loro l’idea che un piano golpista non può essere attuato fino in fondo, che è necessario fare un passo indietro. E loro reagiscono. Con una serie di attentati in qualche modo di ritorsione che segneranno la loro fine: li lasceranno fare, probabilmente proprio per poterli liquidare». Pasolini aveva capito questo, dice Pellegrino ed era arrivato quasi in tempo reale laddove la Commissione è arrivata vent’anni dopo, con anni e anni di ricerche”. “Cioè… mi stai dicendo che lui aveva avuto, nel 1974, un’intuizione folgorante e anticipatoria, una lettura, un’analisi innovativa, cui nessuno era ancora arrivato. Che fosse andato oltre, che sapesse i nomi, ripeto, ne dubito: perché non esiste alcuna prova di questo, ad oggi…”. “Ma, guarda, che fosse solo un’intuizione (di alto livello, s’intende) lo scrive lo stesso Pasolini, perché quando si cita l’‘Io so’ ci si scorda sempre di riportare quello che c’è dopo. E non è una dimenticanza a caso, perché quello che segue, nello stesso articolo, dà una luce del tutto diversa all’esordio folgorante dello stesso. Senti qua: «Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio ‘progetto di romanzo’, sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e

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romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ’68 non è poi così difficile. (…) Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi. Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi – proprio per il modo in cui è fatto – dalla possibilità di avere prove e indizi». Ecco, qui il discorso si fa chiaro: Pasolini ha fatto dei collegamenti, ha rimesso insieme fatti e logiche. Ma un conto è esser intimamente certi di una ricostruzione, un conto è averne le prove”. “Eh sì. Dire, come fanno alcuni, che stesse dicendo le stesse cose che tutti pensavano, certo, è riduttivo. L’abbiamo appena visto. In parte sì, ma quella luminosa rilettura del senso degli attentati del 1974 va molto oltre. ‘Io so’, comunque, è in realtà non una dichiarazione di forza, ma di impotenza”. “Sì, ma si può morire per un’intuizione? Certo, è vero che si può rischiare di morire per un romanzo; ad esempio si può essere minacciati, come Saviano. Quindi certo, anche uno scrittore può essere pericoloso. Ma qui è diverso: il romanzo di Pasolini non c’è, Fabio. Dovremmo allora presumere che a qualcuno fosse giunta voce che Pasolini sapeva troppo. Ma nessuno sa dirci cosa sapesse; è un discorso che sta a zero, è solo una supposizione, uno scenario, una suggestione. Non la prova che sapesse un segreto, una prova buona per un processo, voglio dire”. “Alla fine del libro160 Pasolini spiega che nell’estate o primavera ’72 ha elaborato di getto la trama del libro. In questo primo abbozzo – se ci fai caso – non si parla di Cefis, dell’Eni, di segreti da svelare. Solo un anno prima di morire, più o meno, riceve da Fachinelli quei materiali. Questi sono dati oggettivi. Se lo scrittore ha appreso un segreto, questo si è costruito verosimilmente nel suo ultimo anno di vita, perché è lì che riceve quei materiali che gli consentono di essere 160

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Abbiamo utilizzato l’edizione Oscar Mondadori pubblicata nel 2005.

documentato sul suo bersaglio. Anche perchè sappiamo che nel settembre ’74 Pasolini chiede alla cugina di fotocopiargli il manoscritto, per evitare di non averne più copia, nel caso lo perdesse. Queste fotocopie sono state utilizzate durante la pubblicazione di ‘Petrolio’ per verificare l’ordine degli appunti. Se al momento della pubblicazione, nel 1992, l’Appunto 21 è solo un titolo vuol dire, quindi, che l’eventuale testo sparito non era nemmeno nelle fotocopie, quindi è stato scritto dopo settembre ’74”. “Ma avrà avuto un segreto? Centinaia di siti, su Internet, riportano la storia dell’Appunto 21 e del misterioso Steimetz. Centinaia. Che l’Appunto sia sparito è dato come un dogma e questo deriva da due fatti: uno è che questa asserzione è stata ripetuta centinaia di volte, da molti studiosi e appassionati di gialli e di Pasolini. Due, che pochissimi si sono avventurati nella lettura di ‘Petrolio’ e di ‘Questo è Cefis’ (per quanto ora sia tornato disponibile in cartaceo e si trovi anche sul web). Lo si capisce da come ne scrivono, da cosa ne scrivono. E non si sono accorti di molte cose”. “Ecco! La prima cosa che ho notato è la quantità di doppioni!”. “Sì, ce li eravamo segnati. Dunque: ci sono due appunti 41 e il secondo è posto dopo il 43 ed è datato 30 ottobre 1974. Ci sono anche due appunti 42: il primo ha solo il titolo (‘La storia di xxx e xxx e dei loro tre figli xxx’) ma è vuoto, il secondo si chiama ‘Precisazione’ ed è scritto. Ci sono anche due appunti 43 ed il secondo si chiama ‘Lampi sul linkskommunismus’. C’è subito dopo un ‘Appunto xxx’, senza numero. Gli appunti 60, 61, 62, 63, 65, 70, 100, 102, 103 sono doppioni, di 64 ce ne sono addirittura tre”. “La seconda cosa sono le parti mancanti. Tra gli appunti 43a e 50 non c’è nulla, nemmeno fogli bianchi. Mancano del tutto – nel senso che non ci sono nemmeno dei fogli col solo titolo – gli appunti 35, 38, 39, 53, quelli da 56 a 59, il 68, il 69 (al loro posto nei fogli ci sono il 58 e 59), l’83, quelli da 85 a 96, il 108, il 109. Ma soprattutto tra 12 e 16 non c’è nulla, eppure nell’Appunto 43a Pasolini fa riferimento proprio agli appunti 7-17, che non ci sono… Ma qui nessuno grida al

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complotto. Come mai? Perché non c’è una parola suggestiva come ‘Eni’?”. “Che stai dicendo? Che esiste un’altra parte in cui rimanda a qualcosa che non c’è?”. Armando ha la faccia più sbigottita dell’universo mondo. “Sì, rimanda ad un intero gruppo di appunti: che non ci sono. O si sono rubati anche quelli o non esiste alcun furto”. “Non ci posso credere… Aspetta. Io ho trovato questo. Mi aveva colpito che si ripetesse la faccenda di capitoli senza titolo…”. “… E?”. “Beh, non c’è solo il 21. Ci sono gli appunti 34 ter, 42, 52, 52a, 52b, 100, 106b, 107. L’appunto 33, addirittura, non ha nemmeno il titolo, c’è scritto solo ‘Appunto 33’ e poi segue una pagina bianca. Perché allora ci siamo fissati col solo 21? Perché contiene la parola ‘Eni’. Ma allora perché non abbiamo trovato sospetto anche un altro appunto vuoto, il 52b, che si chiama ‘Il Negro e il Roscio’? Il primo era il soprannome di Franco Giuseppucci e il secondo quello di Giovanni Girlando, due esponenti della Banda della Magliana. Ma Roscio si chiamava anche, negli articoli della Fallaci, il tizio che avrebbe dato la Gilera ai Borsellino, che Simona Zecchi identifica in Mimmo D’Innocenzo. Morale della favola: non è anche quello un capitolo sospetto? E invece no. Solo il 21”. “Già. E c’è di più: se facciamo una ricerca per vocabolo, le parole ‘Eni’ o, peggio ancora, ‘Cefis’, non si trovano solo nel 21. Senti qui. Nell’Appunto 20-30, scritto il 16 ottobre 1974, Pasolini scrive la trama degli appunti che andranno da 20 a 30. Bene, sai che c’è scritto? Chiama Cefis per nome tre volte, si segna che scriverà che è collegato con la strategia della tensione e lo mette in aperta relazione con l’attentato a Mattei. Roba pesante. Di quegli appunti troviamo solo il 20 e il 22, che va da a ad f. E gli altri? Per lo stesso ragionamento, se mancanza=furto, allora dovrebbero essere stati rubati anche loro. Ma allora il ladro avrebbe dovuto sottrarli tutti, da 20 a 30. Invece no. Lascia il 20, lascia i 22, lascia la pericolosissima traccia generale 20-30 (cosa gravissima perché è

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anche in base a quella traccia che ancora stiamo qui a parlare della faccenda). E non è finita, il ladro lascia l’Appunto 97, nel quale Cefis è chiamato per nome numero 3 volte”. “Assurdo! Senti, se il furto è stato compiuto da agenti dei Servizi, questi agenti non sono chirurgici, sono dei disastri, degli approssimativi, sono da licenziare. Ma come, non ci stanno ripetendo da anni che dietro tutta questa storia ci sono strategie raffinate tra strutture dello Stato e privati come l’Eni, connessioni delicatissime e profonde, reti oscure di professionisti che tramano con perfezione nell’ombra? E poi mandano due imbecilli in via Eufrate…”. “Eh”. “Più che un furto hanno fatto un casino. A parte quello di cui stavi dicendo, prendiamo quei materiali su Cefis, i discorsi, le carte inviate da Fachinelli, la fotocopia stessa del libro di Steimetz, insomma: non noti nulla?”. “Cosa dovrei notare?”. “Che tutto viene ritrovato in una bella cartelletta, che però i ladri notturni o diurni non prendono affatto, anche se parla di Cefis, anche se contiene il libro che lui ha fatto sparire dalla circolazione. Ladri che, per non sapere leggere e scrivere, avrebbero dovuto, tanto per iniziare, prendere come minimo tutto il manoscritto di ‘Petrolio’, non potendo escludere che Cefis fosse, sotto altro pseudonimo o, peggio, senza, in altre parti del manoscritto stesso; e poi far sparire anche le carte collegate, le fotocopie, le cose date da Fachinelli. Per il semplice motivo che avrebbero costituito un indizio pesante di ciò che mancava…”. “E invece portano via solo l’Appunto 21. Però, io ho pensato una cosa. Anche per sottrarre solo e soltanto l’Appunto 21 ci voleva un basista. A questo nessuno ha pensato. Ci voleva qualcuno che dicesse a chi di dovere che la parte pericolosa, in quel mare di carte, era quella al numero 21. Ma qui si apre un mondo. Di chi sospettiamo? Di Siciliano, di Volponi, di Bellezza, della Chiarcossi? Non so, dite voi. Chi poteva aver letto in anteprima quel materiale da poter dire all’esterno cosa c’era dentro? Qualcuno ha il coraggio di fare questo nome?”.

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“E allora, niente basista” conclude Armando. “Bene. Anzi, peggio. In questo caso i ladri non hanno altra possibilità che sciropparsi lunghe ore tra le carte di Pasolini, per trovare quello che cercano. Le veline di ‘Petrolio’ non erano difficili da trovare. Stavano lì, sulla scrivania, accanto alla macchina da scrivere di Pasolini, una lettera 22 Olivetti celeste. Immaginiamo un sottufficiale del Sid161 del 1975 che fruga tra le carte grezze del libro, che sono circa 500 pagine; Pasolini è per lui solo un omosessuale importante, che dice cose incomprensibili. Secondo te quel militare ha una preparazione in letteratura italiana tale da muoversi in un mondo a lui sconosciuto? Quanto tempo avrà impiegato per scoprire dove si parla di Eni? Frugare tra appunti grezzi e incomprensibili è difficilissimo. E quanto ci sono stati a frugare per prendere solo quell’Appunto, tutta la notte? Con che rischio? E perché, di nuovo, non hanno preso tutto?”. “Pensa e ripensa, c’è poi un elemento decisivo, secondo me, sul quale nessun complottista ha mai detto nulla…”. “… Cioè?”. “E cioè che noi oggi abbiamo, al Viesseux, un foglio con scritto ‘Appunto 21. Lampi sull’Eni’. E poi sotto la pagina è bianca. Ma scusa, cosa dobbiamo pensare, che hanno lasciato il titolo e cancellato il testo con la scolorina? Ma che furto è? Avremmo dovuto saltare dall’Appunto 20 al 22, piuttosto. Non trovarlo per nulla! Quello, era un furto. Un furto è quando manca qualcosa!”. “Santa Gallina, hai ragione! Ma sai qual è una parte di certe ricostruzioni che trovo assai ingenua? Quando si sospetta che la sottrazione delle carte sia avvenuta durante la perquisizione dell’8 novembre 1975, operata da personale della Polizia di cui sappiamo nome e cognome. Secondo Simona Zecchi, «la particolarità del verbale sta proprio nella differenza con cui si indicano dettagliatamente alcuni documenti rinvenuti, i numeri di telefono e gli oggetti sequestrati, 161

Il Servizio che si occupava di affari sia interni che esterni, all’epoca; e che era in stretto contatto con Cefis. Era costituito esclusivamente da militari ed operava alle dipendenze del Ministero della Difesa.

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che contrasta con il riferimento, al contrario molto vago, alle carte in questione»”. “Guarda, i verbali di Polizia Giudiziaria seguono delle regole ferree pena la nullità. Tipo, è obligatoria la data, l’ora, il luogo, dati fondamentali. Ma anche la forma segue regole ferree, tipo che non si possono saltare righe. Però quando si descrive un ‘qualcosa’ ricordiamoci che in teoria non c’è una codifica riguardante il livello di accuratezza. Ti faccio un esempio. Si sequestra una autovettura: magari si mette il numero di chilometri che ha percorso, cosa si rinviene dentro e i danni visibili. Certo però non se ne descrivono il tipo di sedile o di cambio. Ma se poi, teoricamente, nel luogo dove viene tenuta vengono sostituiti dolosamente i sedili, magari per evitare accertamenti scientifici? O la manopola del cambio, per evitare una ricerca del dna del guidatore? Quanto deve essere accurato un verbale? Ecco, possiamo dire che gli operatori di Polizia sono tenuti quotidianamente a fare delle valutazioni, nei sequestri che operano, su quello che deve essere descritto accuratamente e quello che invece può essere riportato sommariamente. In casa di uno scrittore deve essere dettagliato il numero di pagine o il contenuto di un pacco di fogli messo su un tavolo?”. “Ricordiamoci anche che il furto non può essere avvenuto quel giorno, perché Marazzita e la Chiarcossi seguivano passo passo i poliziotti per orientarli tra le carte e le agende; e perché, lo abbiamo appena detto, quei poliziotti avrebbero dovuto portar via molto, molto di più di qualche foglio di carta velina, se avessero voluto far bene il lavoretto. O si sarebbero dovuti mettere a passare la scolorina – o la bacchetta magica – sotto il naso dell’avvocato Marazzita. Un rischio enorme, enorme, enorme”. “Che poi, c’è una cosa che non capisco: perché il segreto per il quale uccidere Pasolini doveva stare per forza in quell’Appunto così esplicito e riguardare per forza l’Eni? Altri due appunti presentano titoli altrettanto suggestivi e sono altrettante pagine bianche: penso al 108, ‘La bomba’, e al 109, ‘Visione della strage’. Perché non credere che fossero loro il bersaglio dei Servizi, i depositari dei segreti?

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Ma ancora: perché solo loro tre? Perché ci sono le parole Eni, bomba, strage. Solo per questo. Sono titoli suggestivi. E la suggestione funziona se ragioniamo per euristiche, cioè probabilisticamente: se c’è quella parola, vorrà dire che è quello! Ma è solo una probabilità, una cosa vaga, un sospetto. E se invece l’immane segreto fosse nell’Appunto ‘Storia di quattro pittori e quattro critici’? Se fosse stato nascosto sotto un titolo così innocuo? Supposizione per supposizione, l’una vale l’altra”. “Ma sai che tutti gli esperti che hanno disquisito sulle pagine di ‘Petrolio’ mi sorprendono molto? Oltre la questione del titolo suggestivo, c’è una banale questione di pagine. Ripetiamo. A settembre ’74, si sa, Pasolini chiede alla cugina di fare una fotocopia dell’esistente: non si sa mai lo perdesse! Le pagine fotocopiate dalla Chiarcossi sono 337. Tra dicembre ’74 e gennaio ’75 Pasolini ripete in varie interviste che sono 600. Dopo la sua morte ne vengono trovate 522. E quindi in queste 78 pagine ci sarebbe il segreto. E come si fa a dirlo? Come si fa a fare la sottrazione e dedurne, così semplicemente, che manca qualcosa? È evidente che uno che non stava mai fermo come Pasolini avrà scritto, in quei dieci mesi. Pasolini, allora, ha avuto una paralisi creativa? Ma non ne sa nulla nessuno degli amici di Pasolini! E allora, se troviamo meno pagine di quelle che annunciava di aver scritto dieci mesi prima, perché pensare alla cosa più complicata (un furto) e non pensare alla più semplice, e cioè che di roba ne ha buttata più di quanta ne abbia scritta? Nico Naldini Cugino diretto di Pasolini, suo biografo, Naldini conosceva Pasolini fin dall’infanzia, in una intervista di Daniela Pasti di ‘Repubblica’ (27 ottobre 1992) dice che Pasolini riscriveva moltissime volte, che quello era il suo modo di scrivere”. “Guarda, sono basito anche io. Dire che la differenza è dovuta esclusivamente al furto significa non sapere come lavora uno scrittore. Il capitolo che stiamo scrivendo, quello su ‘Petrolio’, se ti ricordi bene aveva, prima di cominciare, una lunghezza di 52 pagine in Word. Sarà ultimato, versione dopo versione, più o meno in una lunghezza di 11 pagine. Armando, se avessimo rilasciato un’intervista per dire che

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avevamo 52 pagine e poi ci avessero assassinati e la casa editrice avesse trovato un definitivo di 11 pagine, cosa ne avrebbero dedotto i nostri lettori, che un ladro aveva rubato la differenza o che, semplicemente, il testo, durante la fase di scrittura, era mutato nel tempo, era stato rimaneggiato, perché questo è il lavoro dello scrittore? Mancano pagine di ‘Petrolio’? Ma è una bozza, non è un libro! Certo che ne mancano! Potevano essere 200 in più, o 231 in meno se è per questo! Beato D’Elia, che ha la sicurezza che il rimando dell’Appunto 22 al 21 significa che il 21 esiste! In un testo che era tutta una bozza e che per l’80% era ancora nella testa di Pasolini!”. “E c’è dell’altro, Fà. Se è vero che Pasolini lavorava in doppia copia, una a via Eufrate e una a Chia162, i ladri dovrebbero essere entrati anche a Chia, quanto meno per controllare, no? Ma non abbiamo notizia che ci sia stata un’effrazione, che qualcuno sia entrato…”. “E qui torniamo al furto: solo che questo è un vero rebus. Perché abbiamo due versioni totalmente opposte, Mazzon dice che è avvenuto163 e la Chiarcossi lo nega. Sembra che nessuno si sia accorto di una cosa, però: il fatto che le carte sparite siano quelle di ‘Petrolio’ è un’inferenza di Mazzon, perché né la madre né la Chiarcossi dicono comunque che si tratti di quel libro, di quel romanzo, di quelle carte! Attento, questo è uno snodo fondamentale: se qualcuno non avesse cominciato a dire che mancava l’Appunto 21, Mazzon non avrebbe mai potuto dare un nome a quelle pagine mancanti, perché né la Chiarcossi aveva specificato che carte fossero, né sua madre lo aveva detto a lui. Ma se noi abbiamo appena dimostrato che l’Appunto 21 non è stato rubato, i casi sono due. Premesso che la buona fede 162

Lo scrittore aveva acquistato nell’autunno del 1970 il castello di Chia, nel viterbese, l'aveva adibito ad abitazione e ci andava a lavorare. 163

Tecnicamente, da un punto di vista investigativo, la sua è, non dimentichiamolo, una testimonianza de relato, in quanto è ciò che sua zia riferisce a sua madre che riferisce a lui. Va dunque presa con le dovute cautele, come si farebbe nei processi veri quando ci sono troppi passaggi di memoria.

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di Guido Mazzon è indubbia, o quello che riferisce è falso, nel senso che sua madre ha capito male; o a essere sparite erano altre carte”. “Aspetta, aspetta, abbiamo lavorato fino a ora su cento testimoni, ma ricordati che ne avremmo potuti citare altri mille. Purtroppo una regola fondamentale che ci siamo dati è: sentire i testimoni diretti. Non possiamo, per quanto stimabile, prendere eccessivamente in considerazione un testimone secondario, cioè uno che riferisce un’informazione a lui riportata. Poi tra l’altro stiamo parlando di nulla veramente, tutte persone altamente stimabili e quindi l’errore, in buona fede, per correttezza dobbiamo necessariamente attribuirlo alla testimonianza indiretta”. “Insomma, non siamo d’accordo con Carla Benedetti”. “Perché? Che ha detto?”. “Ha detto: «Nessuno può dire che Pasolini sapeva quello che tutti sapevano, per la semplice ragione che non si sa cosa sapesse, e cosa avesse ancora intenzione di scrivere. E se non si sa, non si può dire che era già noto. Non si può ragionare solo su ciò che Pasolini ha scritto, perché qui entra in campo anche ciò che Pasolini non ha fatto in tempo a scrivere, essendo stato ucciso». No. Questo è il discorso della studiosa. Rispettabile, ma la logica investigativa è diversa: si muove solo sul terreno di ciò che è documentabile, non fa ipotesi dichiaratamente su qualcosa che non c’è, per riempire un vuoto”. “Ho capito cosa vuoi dire. Certo. Noi non possiamo ragionare su ciò che forse Pasolini sapeva, su ciò che non sappiamo sapeva, su ciò che non ha scritto ma avrebbe potuto. Non è il nostro mestiere scambiare le supposizioni per prove. Un’investigazione segue necessariamente un’altra logica. Dobbiamo collegare dati logici e fattuali a ciò che sappiamo”. “E allora, riassumiamo i risultati della nostra indagine. Possiamo dimostrare che: – Pasolini aveva senz’altro avuto delle intuizioni profonde, ma non c’è alcuna evidenza documentale che avesse anche delle prove di qualsiasi genere e non lo si può

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dare per certo solo perché è logico, suona bene, è suggestivo o funzionale a una certa spiegazione. Il testo di ‘Cos’è questo golpe’ non contiene prove ma dimostra semmai che non ne aveva. ‘Petrolio’ è pieno di doppioni, parti mancanti, salti temporali. Trovare un ordine in questo materiale embrionale è una forzatura. L’Appunto 21 non è il solo cui Pasolini, nel romanzo, fa riferimento senza averlo scritto. L’Appunto 21 non è il solo di cui abbiamo solo il numero, il titolo e una pagina bianca. Altre parti del manoscritto, in cui è esplicitamente citato Cefis, non sono state sottratte. La documentazione fornita da Fachinelli non è stata sottratta. Un furto così chirurgico avrebbe necessitato di un basista tra gli amici intimi di Pasolini. Un furto così chirurgico è incompatibile con la preparazione media di un militare del Sid. Un furto così chirurgico sarebbe stato troppo rischioso se operato in presenza della Chiarcossi e di Marazzita. La cosa più sensata sarebbe stato sottrarre tutto il manoscritto. La pura differenza di pagine tra quelle dichiarate mesi prima e quelle ritrovate non prova il furto, visto che si tratta di scrivere un romanzo, non di costruire un muro coi mattoni. La presenza, nell’Appunto 21, di un titolo e un numero indica che era da scrivere perché altrimenti il ladro è il Mago Silvan che ha fatto sparire solo il testo e lasciato il titolo. Non esiste notizia di un’effrazione o dell’ingresso di ignoti nella casa di Chia. La Chiarcossi, nelle stesse dichiarazioni di Mazzon, non dice che hanno rubato le carte di ‘Petrolio’, ma delle carte in generale. Che si tratti di ‘Petrolio’ è un’inferenza di Mazzon”.

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Ormai è tardi. Impossibile distinguere le sagome degli alberi rossi dalla notte. Ci voltiamo verso la casa. Le luci del primo piano sono spente. È ora di andare. È successo qualcosa: stanno per arrivare dei documenti importanti. L’indagine prosegue domani: in Tribunale.

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Capitolo 13

Borgata Petrelli

E poi ci ritroviamo qui. Siamo arrivati da dieci minuti, ma ci sembra che lo sappiano già tutti. La sensazione è un po’ quella del Pigneto: eccoci, siamo in paese. Lo senti dalle case, da certe porte provvisorie, dalla freccia per una trattoria, dalle facce di campagna che ti guardano dalla soglia d’una casa, dal fatto che il Palazzo della Civiltà del Lavoro (e dai, si chiama “er colosseo quadrato”, no?) spunta fuori solo ogni tanto, laggiù, dietro certi spiazzi d’erba. E perché, qui dove stiamo? Come dove stiamo, a Borgata Petrelli stiamo. Non credete che è Roma, solo sulla carta? Bene: traffico non ce n’è. Giusto le auto di quelli che ci abitano già. Siamo in una terra di nessuno compresa tra largo La Loggia, zona bene della “nuova Roma” e la Magliana, un piccolo spazio compreso tra il Tevere e la ferrovia. Sembra un altro mondo. Lo è. Un mondo nel mondo. “Io non ho capito perché m’hai portato qui. Non volevamo vedere la strada dove Pasolini ha girato uno degli ultimi film di Totò, scusa?” chiede sbuffando Armando, mentre parcheggia la Vespa. “E certo, sta qui dietro. Ma apprezza questo borgo abruzzese. Fino al 1915 era un gruppo di casette diroccate, poi dopo il terremoto della Marsica ci vennero quelli di Rendinara, che appunto è nella Marsica, provincia de L’Aquila, e decisero che avrebbero rifatto uguale qui il loro paese, che era stato piallato dal terremoto, appunto. Se non c’eravamo noi abruzzesi, non ci sarebbe stata nemmeno la Borgata, il cui nome è quello di una delle famiglie che ci si insediò: Petrelli. O forse si chiamavano tutti così, in paese. Pensa che fino al 1978 nessun romano de Roma ha messo piede tra queste strade. Poi siete arrivati voi e avete fatto i palazzoni”. “Stai a vedere che è colpa mia, ci sarà pure un motivo se

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nessun romano de Roma ci ha mai messo piede… Ma cos’ha girato qui?”. “‘Uccellacci e uccellini’, nel 1966. Il primo film in cui ha recitato Ninetto”. Abbiamo passato tre giorni sigillati in Tribunale: ci era arrivato il permesso di consultazione delle carte del Giudice per le Indagini Preliminari. Sono quelle dell’ultima inchiesta, quella del 2010-2015. Cosa speravamo di trovarci dentro? Non lo sapevamo neanche noi. Tre giorni per leggere un malloppo di faldoni, farsene un’idea e ordinare le copie. E una settimana, ognuno chiuso in casa sua, a leggere più di un migliaio di pagine. Ma adesso ci siamo, è il momento di confrontarci su quello che abbiamo trovato. “Sai che ti dico? Non c’è questo granchè in più rispetto a quello che sapevamo già”, commenta Armando. “Hai ragione, alla fine me ne sono convinto anch’io. Certo che una cosa va detta però: i Carabinieri hanno fatto davvero un’indagine minuziosa, ricontrollando tutto. E alla fine qualcosa che non si sapeva è saltato fuori”. “Giusto. Allora, adesso ti elenco le cose più grosse che stanno nelle carte del Gip. E sono queste, in sintesi: • Sentono Dell’Utri il 22 aprile 2010: conferma la sua versione, per quanto inverosimile164. • Il 9 aprile 2010 si presenta spontaneamente Silvio Parrello. Che racconta tutta la storia che sappiamo, aggiungendo che Sperati era stato socio di Pinna. • Viene ritrovato il famoso barista Sotgiu, quello che 40 anni prima non s’era trovato: conferma quello che disse alla Fallaci, dice che il telefonista era alto quanto lui165 e che era in compagnia di altri due ragazzi. Non è tuttavia in grado di identificarlo con precisione in Pelosi, a distanza di anni166. 164

Ricordate? L’abbiamo raccontata nel capitolo precedente.

165

Cioè 177 cm. Pelosi era più basso ma non dimentichiamoci che la notte dell’Idroscalo portava tacchi da 6 cm. 166

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Dopo 40 anni è comprensibile. Va ricordato che Sotgiu nel 1975

• Identificano il famoso Sergio Placidi e lo sentono: il 4 aprile 2011 nega tutto, il 25 giugno 2011 invece, risentito, ritrova la memoria e dice che nel 1975 commerciava in preziosi e gestiva con la madre un bar in via Quintino Sella167. Che conobbe i Citti alla Taverna Margutta, e poi ci aveva fatto qualche partita a biliardo a Centocelle o li aveva incontrati così, alla Darsena di Fiumicino. Qui Citti si era rivolto a lui per riavere le bobine, sì, ma poi non si era più interessato della vicenda. Un teste, Massimo Angelica, detto ‘Celentano’, 17enne all’epoca, dice che i Borsellino e Placidi frequentavano il bar di via Lanciani, dove venivano presi accordi per ricettare. Magari i Carabinieri interrogandolo speravano in una piena confessione, una cosa difficile. • Scoprono che Carapacchi 168 e Mastini erano stati davvero insieme a Rebibbia nel 1979 e che Pelosi e Mastini si conoscevano davvero da prima del delitto. • Identificano invece il biondino di cui parlavano i Borsellino in Stefano Carapelli, all’epoca di anni 19: aveva i capelli castano chiari, ma si sa che quelli così possono diventare ‘biondini’. Tra l’altro Sansone, all’epoca, verbalizzò che i Borsellino gli avevano detto che il biondino aveva un tatuaggio con la scritta ‘amo mamma’ su un polso, oltre a molti altri. E i Carabinieri scoprono che Carapelli aveva proprio un tatuaggio con quella scritta. Di famiglia benestante, amico di Pelosi e dei Borsellino, segnalato già dal 1973, è morto più o meno nel 2005 per droga. • L’assistente montatore di ‘Salò’, Ugo De Rossi, sentito a giugno 2010 dall’avvocato Maccioni e poi dal giudice il 22 dicembre 2011, dice al primo che non ricorda nobbe subito Pelosi, dopo averlo visto sui giornali. 167

All’epoca aveva 34 anni.

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Vi abbiamo raccontato come le indagini furono riaperte alla fine del 1995 anche a seguito delle dichiarazioni di Pasquale Mercurio, Walter Carapacchi, Damiano Fiori tre detenuti che sostenevano di aver raccolto le confidenze di Mastini e dello zio circa il suo coinvolgimento nel delitto.

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come reagì Pasolini al furto delle bobine, ma che alla fine era abbastanza soddisfatto del risultato, anzi che lo trovava migliore del primo montaggio. Al secondo, invece, precisa che reagì sdrammatizzando. Conosceva il regista dai tempi del ‘Decameron’, quindi dal 1971. In due interviste del 10 luglio 2010 De Rossi specifica – al Corriere della Sera – che per Pasolini quel furto fu ‘una pena, ma alla fine se ne fece una ragione’ e – a Repubblica – che il regista ci teneva eccome, a quelle pizze. • I Carabinieri, poi, fanno quello che non era stato fatto se non superficialmente nel 1975: scovano quasi tutti quelli che avevano una baracca all’Idroscalo. Che sono una trentina. O i figli, i nipoti. Uno di loro, Vittorio Storcè, prende la piantina e aggiunge case che quarant’anni prima nessuno aveva disegnato. • Risentono Pelosi, che non aggiunge niente di nuovo, tranne contraddirsi sul suo ruolo: prima dice e poi nega di essere stato mediatore tra i ladri e Pasolini 169. • Trovano cinque tracce di dna sui reperti, in particolare: una mista del profilo di Pasolini più quello di uno sconosciuto, che sta nella parte interna dei pantaloni jeans che indossava Pasolini (denominata: 1 soggetto ignoto); due dal maglione di lana a maniche lunghe che indossava Pelosi quando fu fermato (denominate: 2 e 3 soggetto ignoto); un quarto profilo estrapolato dal famoso plantare (denominato: 4 soggetto ignoto) e un quinto da una lettera anonima che arrivò all’epoca (denominata: 5 soggetto ignoto). In particolare la traccia denominata ‘2 soggetto ignoto’ ha un profilo che viene trovato anche su altri reperti: un fazzoletto, gli slip neri di Pelosi e la maglietta a maniche corte di Pelosi. Inoltre, un profilo incompleto, quindi non utilizzabile ai fini giudiziari, però con le parti di dna riscontrate riconducibili a quelle di ‘2 soggetto ignoto’ è presente su altri reperti come il giubbotto indossato da Pelosi, ecc”.

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L’interrogatorio di Pelosi lo abbiamo riassunto già nel capitolo 3.

“Queste sono quasi tutte le cose più interessanti che hanno trovato, ma alla fine non sono state sufficienti per giungere ad un nuovo processo ed a nuovi imputati?”. “Un processo penale ha bisogno di fonti di prova concrete, qualcosa che in dibattimento possa tenere contro ogni ragionevole dubbio, in questo caso il Gip Maria Agrimi, alla fine, concorda col Pm e conclude dicendo che è molto probabile che ci fossero altre persone quella notte, ma che non si può stabilire chi fossero”. “E quindi? Storia chiusa?”. “A livello giudiziario, per ora; lo sai bene Fa’, molto spesso ci sono indizi che possono non tenere, giustamente, un processo e ancor meno una condanna. Ma quegli stessi indizi possono aiutarci per capire come si siano svolti i fatti, ad avere una ‘forte verità’, una verità storica, ecco, che purtroppo può non coincidere con quella processuale. È quella che stiamo cercando”. “Giusto, proseguiamo: e poi ci sono quelle due-tre cosette che nemmeno abbiamo elencato, però, e tuttavia sono proprio interessanti…”. “Io lo so a cosa ti riferisci. Una è il fatto che alla fine si scopre chi era il famoso pescatore di Furio Colombo”. “Quello che trova nell’immediatezza il giornalista, quello che vede tutta l’aggressione”. “Sì, io credevo che il pescatore gli avesse sparato un nome a caso e invece Salvitti esisteva davvero, Colombo lo riportò erroneamente come Salvetti, ma esisteva e i carabinieri, dopo tanti anni, trovano i figli. Riepiloghiamo?”. “Sì, allora… La testimonianza è quella di Anna Salvitti, che quella notte aveva 24 anni. Suo padre, Ennio, era nato nel 1925 e morirà nel 1989 senza che nessuno lo abbia mai interrogato: all’epoca era pensionato. La famiglia Salvitti era composta da: Ennio, Maria (moglie, casalinga), i figli Anna, Silvana, Domenico. Abitavano a San Basilio. Con loro abitava anche il figlio di Silvana, Olimpio Marocchi. Nel 1975 occupavano abusivamente una casetta all’Idroscalo, dove andarono ad abitare stabilmente i genitori, con Domenico e Olimpio. «Quella notte in casa c’erano mio padre, mia

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dre, mia sorella Silvana coi figli Olimpio di 3-4 anni, Monica di 2-3, Katiuscia di 1», dice Anna. Verso le 21.30-22 il padre andò a pesca al bilancino e gli altri a dormire. I ragazzi dormivano in salone, le cui finestre davano sull’ingresso. «Quella notte le condizioni atmosferiche erano pessime e tirava un forte vento. Ero coricata sul letto a parlare con mia sorella, saranno state le 00.30, quando ho udito un’auto sopraggiungere a forte velocità nella zona dove era posizionato un campetto dove i ragazzi giocavano a pallone, auto che frenava bruscamente170. Subito dopo udivo la voce di più persone discutere animatamente, senza capire cosa dicevano. La discussione tra queste persone, sicuramente più di due, durava circa 10 minuti e in questo lasso di tempo la stessa era sempre animata. A un certo punto udivo la partenza di un’autovettura che accelerava bruscamente e subito dopo andava a urtare contro un ostacolo facendo un forte tonfo. Immediatamente dopo udivo la voce di una persona invocare aiuto, aiuto… Subito dopo udivo un’altra accelerazione di una macchina, che andava nuovamente a urtare contro un ostacolo facendo un forte tonfo. A questo punto non ho più sentito nulla tranne il lamento continuo di una persona che chiedeva, manifestando sofferenza, aiuto aiuto. Questo lamento è durato circa 20-30 minuti, dopodichè non ho più sentito nulla. Ricordo che ciò avveniva verso le 01.00 perché guardai l’orologio di casa. Mio padre non era ancora rincasato e lo faceva verso le ore 5-6 di mattina. Verso le ore 8-9 del 2 novembre venne un poliziotto in borghese chiedendoci se avevamo sentito/visto qualcosa. Io raccontavo al poliziotto quello che avevo visto e sentito». Nessun verbale viene redatto”. “La cosa divertente è che Domenico Salvitti, 22 anni quella notte, il fratello di Anna, racconta invece proprio un’altra storia. A lui, un mese dopo il delitto, il padre racconta di essere stato svegliato da forti rumori e grida, di essere uscito e aver visto 2-3 auto e 3-4 persone che litigavano. Era durato tutto circa 20-30 minuti e poi era rientrato. Anche il tizio del170

Purtroppo Silvana Salvitti è morta e non può confermare la testimonianza della sorella.

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la baracca accanto, un sardo, che forse si chiamava Cossu, aveva assistito alla scena. Al mattino dopo aveva raccontato ai poliziotti quello che aveva visto. Anche il sardo aveva confermato a Domenico di aver assistito e che le persone erano per lui 6-7”. “Come spieghi due deposizioni così contraddittorie? A me vengono in mente due cose: che Anna racconta quello che ha visto direttamente, mentre Domenico quello che gli racconta il padre. E che sia tra i Salvitti che tra i Principessa c’erano pregiudicati, il che spiega la loro omertà. Certo che tra Anna e Domenico uno dei due o mente o ha costruito il ricordo…”. “Più o meno… io prendo per buona la testimonianza di Anna, che mi sembra abbastanza precisa. Però ritorna il solito problema che troviamo quando a distanza di anni si risentono, in questo caso ‘sentono’, i testimoni. La memoria di ognuno di noi è una materia in continua trasformazione, una persona non ricorda realmente il rumore del ‘tonfo’ come lo ha sentito, ma lo ricostruisce, a distanza di anni, a partire dalla sensazione che gli diede allora. Però anche così, riflettiamo: entrambi dicono che c’era più di una persona (il padre parla di 3-4 e il sardo di 6-7, ma dipendeva ovviamente da dove si trovavano in quel momento, allora venne fatto un accertamento e la visibilità era bassissima); tutti parlano di più di un’auto; il momento più ‘rumoroso’ dell’aggressione viene da Anna considerato della durata di 10 minuti e dal padre (lo sappiamo tramite il fratello) di 20-30, quindi un tempo, quest’ultimo, indefinito; solo Anna sente il tonfo, vero, ma dipende da cosa intende, forse uno dei due è relativo all’arrivo di un’auto. La cosa che mi lascia perplesso è che nessuno, allora, ha tenuto conto di queste testimonianze. Loro saranno stati omertosi, ma nemmeno tanto se vogliamo: Anna con la polizia ci ha parlato, il nome del padre era su ‘La Stampa’, ma nessuno diede loro importanza. Il colpevole c’era già. Vogliamo poi parlare del figlio di Silvana, Olimpio Marocchi? Anche lui un ragazzo con qualche disagio, che lo porta a compiere furti, altri reati contro il patrimonio e legati alla droga. Ascolta. Da quella notte passano molti anni, è il 21 luglio del 2010 e quel ragazzo, ormai uomo, va un giorno a

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Fiumicino con un amico. Anche lui con una vita particolare. Si siedono a un ristorante e pranzano a ostriche e champagne, bevono del vino, forse troppo. Sulla strada di ritorno, guida l’amico, hanno un incidente e Olimpio muore. Erano brilli tutti e due. Beh, l’amico che guidava indovina chi è? Pelosi. Si erano conosciuti, secondo quanto dice lui, qualche tempo prima mentre lavoravano presso un concessionario sulla Colombo, da ex detenuti. Questa la mettiamo nelle casualità o nelle coincidenze? Ricordati che parliamo di omicidi e che il 30 marzo del 2010 era stata riaperta l’inchiesta su Pasolini”. “Eh. Sarebbe stato bello leggere l’interrogatorio del Pm a Marocchi, qualcosa da dire ce l’avrebbe avuto. Specie visto che qualche mese prima di morire aveva rilasciato un’intervista a Claudio Marincola de ‘Il Messaggero’171; e aveva detto cose molto interessanti. Guarda, te le rileggo pari pari, perché ci aiutano a capire. A parlare sono lui e uno dei tre figli di Ennio Salvitti, di cui il giornalista non dice il nome ma che può essere solo Domenico Salvitti. Allora, Olimpio dice così: «Ero piccolo ma l’ho sempre saputo. Se ne parlava in casa. So come si svolsero i fatti anche se all’epoca ero solo un bambino. Alfredo e Maria (qui parla dei Principessa, che trovarono il corpo, N.d.A.) quella notte avevano dormito all’Idroscalo. Sentirono Pasolini invocare aiuto e uscirono per vedere cosa stava accadendo. Temevano che fosse mio padre Sergio che non era ancora rientrato. In quel periodo i miei si stavano separando. Mia madre aveva un altro uomo, si erano picchiati. Quando videro che non si trattava di mio padre ma di Pasolini tornarono a farsi gli affari loro». Poi, Domenico. «(…) Quella notte ci fu una caciara infernale. Non potevano non sentire. Pasolini affittava una casetta per portarci i ragazzi. Mio padre mi ha sempre detto di aver raccontato anche questo. Sono cose che qui tutti sapevano»”. “Eh, e che dire dei Principessa, allora? Ne vogliamo parlare? Alfredo, 49 anni, è il marito di Teresa Lollobrigida, 47 anni. La loro casa l’hanno tirata su tra la fine del 1974 e l’inizio del 1975, quella è stata la prima estate all’Idrosca171

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L’articolo esce il 31 maggio 2010.

lo. Gianfranco, loro figlio, 27 anni quel giorno, racconta ai Carabinieri: «Quella mattina arrivammo a Ostia con la mia auto, una Citroen GS 1200 celeste. C’erano anche i miei fratelli Rino di quasi 9 anni e Mimma di quasi 24. Partimmo alle 5.30, perché io li accompagnavo solo e poi dovevo andare a lavorare, anche se era festivo, in un cantiere dell’Eur». Ma ti sembra possibile? In un giorno festivo, in cui finalmente si può dormire, tutti insieme fanno una levataccia alle 5 di mattina per andare al mare e Gianfranco va addirittura a lavorare? E poi ho controllato: all’epoca la Lollobrigida disse che stavano lì per festeggiare un compleanno, ma non è vero. Di tutta la famiglia nessuno lo faceva in quel periodo… L’ultima parte dell’aggressione gli è successa davanti casa: hanno visto e sentito, come no”. “Alcune cose le abbiamo scoperte: erano tutte case abusive, più o meno belle, edificate su un terreno demaniale; c’era in quasi ogni nucleo familiare un pregiudicato, non significa nulla non mi fraintendere, però diciamo che statisticamente hanno più difficoltà a collaborare con le forze dell’ordine; la casa di Teresa e Alfredo era la più vicina al luogo dove si rinviene il corpo di Pasolini e, se prendiamo per buona la testimonianza di Anna, e credo vada presa per buona, di rumori se ne sono sentiti, oltre il fatto che davanti al loro cancello Pasolini è stato ad agonizzare per diverso tempo. Conclusione? Più facile dire che quella notte non c’erano, che si erano alzati alle ore 5.30 di un freddo giorno di novembre, molto più facile”. “Sì! Sai anche cos’altro mi ci ha fatto pensare? La testimonianza di Sergio Leoni, che dal 1970 aveva rilevato dai genitori la gestione dello storico ristorante ‘da Nando’ a Ostia. Quella mattina viene avvisato del ritrovamento di un corpo da Renzo Pascolini, un pescatore che stava andando a consegnargli il pesce sulla sua Renault 4 e che mentre andava da lui era stato fermato dai Principessa che gli avevano chiesto di chiamare la polizia. I due si recano all’Idroscalo insieme. La polizia non è ancora arrivata. Qui Leoni nota che la Lollobrigida porta le ciabatte e una sottoveste. Ha la netta sensazione che abbiano dormito sul posto, per la loro aria

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trasandata: l’uomo ha una maglietta bianca a maniche corte. Insomma, sentirono e si fecero i fatti loro: fino a oggi. Senti, è possibile secondo te che nelle altre baracche abitate non abbiano sentito nulla? Penso ai Di Benedetto, ai Tomasi, ai Marenghi…”. “No, niente. Mi è sempre sembrato strano, incredibile. Eppure una spiegazione c’è. Pensa alla 19enne Maria Rita Tomasi, che una spiegazione la dà: non ha sentito niente, dice lei, perché c’era un forte vento. Suo marito, Claudio Fierro, conferma ai Carabinieri, sempre nell’inchiesta del 20102015, che andarono a dormire alle 22.30 e aggiunge che il giorno dopo la polizia fece delle prove e verificò che dalla loro abitazione non si sentiva nulla. Non è inutile come sembra, ricontrollare queste vecchie testimonianze, perché ci serve a capire se c’erano altri testimoni dell’omicidio, oltre i Salvitti e i Principessa. Bene, non c’erano. Come ci ha detto Lucia Visca, all’Idroscalo abitavano quattro-cinque famiglie e dalle baracche spuntarono, prima dell’arrivo dei curiosi, una ventina di persone. Dalle deposizioni del 1975 sappiamo che andarono quasi tutti a dormire verso le 22.30, quindi all’ora del delitto erano nel sonno più profondo. Quelli che erano più vicini furono svegliati dalle strilla o erano ancora in piedi per caso, ma gli altri erano così distanti che per loro lo strazio di Pasolini era solo un suono attutito, portato via dal vento”. “Poi c’è la questione del GT, che possiamo risolvere definitivamente”. “Ah, e sarebbe?”. “Leggendo le indagini dei Carabinieri nell’ultima inchiesta è chiara una cosa. L’auto dopo la sentenza di Cassazione è libera da vincoli e pronta, come vuole la legge, alla restituzione. Ma la ridanno alla famiglia solo nel 1981. Perché? Perché avrebbero dovuto restituirla a Susanna, la madre di Pasolini, che però ormai non era più in grado di badare a se stessa ed era in clinica a Udine. La Chiarcossi è cugina di secondo grado dello scrittore. Solo alla morte di Susanna, nel 1981, diventa erede unica dei beni di Pasolini ed è per questo che solo a quella data viene restituita l’auto. Al

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momento di riprenderla, giustamente, incarica Davoli (è una cosa da uomini, no?), che contatta Agostino Rozzi, suo vicino di casa e amico. Insieme vanno dove si trovava in sequestro giudiziale l’Alfa, cioè alla caserma dei Vigili del Fuoco delle Capannelle”. “Qui Fa’ c’è che Ninetto ritira l’automobile e la porta direttamente a demolire. È un particolare che nel corso degli anni ha destato molto interesse al punto che Pelosi, nell’ultimissimo interrogatorio, ha detto al Pubblico Ministero di indagare proprio su questo fatto curioso, insinuando apertamente – l’ha detto anche davanti a noi, ricordi? – che Davoli avesse appositamente portato il GT allo ‘sfascio’ per non fargli fare ‘il radiale’ dalla Scientifica di oggi. Ti traduco, per radiale Pelosi, intende il confronto tra i pneumatici dell’auto e le impronte di pneumatici fotografate all’epoca. Pelosi non sa, perché non è presente nel fascicolo del 1975, che il confronto fu fatto, la minuta l’abbiamo trovata da Bolino, ricordi? E questo confronto è positivo: sì, possiamo dirlo. Le impronte che convergono sul cadavere e riprendono subito dopo, quelle dell’auto che uccide Pasolini, sono quelle dei copertoni dell’auto del poeta stesso. Pelosi – e non solo lui – continua a dire anche che è ben strana quella demolizione, perché se Davoli avesse davvero tenuto a Pasolini l’auto l’avrebbe conservata, oggi sarebbe stata utilissima per nuovi esami scientifici. Ma sono osservazioni assurde. In quel momento, era il 1981, l’inchiesta era chiusa, e non se ne sarebbe riparlato fino al 1995. Dovevano conservarla per quindici anni? Sinceramente avrei voluto vedere in che stato Davoli trovò l’auto al momento del dissequestro, così, dopo tanto tempo. Ricordiamoci che le carrozzerie d’auto di allora, sembra strano, erano peggiori di quelle di oggi per quanto riguarda ruggine e tenuta, essendo tutte in lamiera e senza parti in plastica. Sì, sinceramente io non l’avrei demolita quell’auto, ma forse si tratta, per quanto riguarda Davoli, solo di una leggerezza per togliere un problema alla Chiarcossi, tutto qui”. “E comunque parliamo di un’auto ferma da 6 anni, seriamente incidentata e che aveva ucciso il suo migliore amico e

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maestro. Io non me la sento di prendermela né con Davoli, né d’altronde con la Chiarcossi”. Ma adesso è quasi l’una e s’è fatta ‘na certa. La dritta è stata chiara: andate dalla signora Marinella, che la verdura la coglie dall’orto di fianco. Le uova sono delle galline sue. Beh, tutto vero. Per fortuna che sapevamo già che stava in via Bolgheri, perché nessuno sa come esattamente si chiami il posto. La freccia “trattoria” (il nome non serve: ce n’è solo una, a Borgata Petrelli) ha fatto il resto. Le pareti sono ricoperte con le mezze assi di legno chiaro, com’era anche il Pommidoro, sì, ma quarant’anni fa. Qui il tempo non è passato, anzi è passato, ma evidentemente da un’altra parte. I piatti fissati alle pareti. Una testa di cinghiale che ci fissa con un certo interesse. Coi gomiti appoggiati sulle tovaglie di carta a quadrettoni rossi, guardiamo un menù scritto a penna: ci lanciamo su due amatriciane su cui nevicherà – statene certi – quel mezzo chilo di parmigiano. È Armando a interrompere il nostro idillio col sugo. “Parliamo dell’auto di Pelosi?”. “Già, c’è quella storia strana del colore…”. “Eh. Riepiloghiamo: viene sequestrata solo l’11 novembre 1975. L’auto, targata ROMA 880837, era rubata: ce lo conferma pure Seminara”. “Questo però mi sembra che l’abbiamo chiarito, l’auto era rubata ma le targhe no, simpatico, vero?”. “Vero per quanto riguarda le targhe, ma per quanto riguarda il colore c’è da dire che l’auto è bianco latte, tuttavia i Carabinieri nell'ultima inchiesta rimangono colpiti da certe discrepanze nelle testimonianze: risalendo indietro, trovano tutti i precedenti proprietari (legittimi) dell’auto, acquistata il 25 luglio ’75 e scoprono che era, invece azzurro acceso. Interrogato, Claudio Seminara dice che a settembre/ottobre successivo Pelosi aveva passato le targhe dell’auto azzurra su una uguale, ma bianca. Dopo il delitto aveva continuato ad andare in giro con la macchina di Pelosi, fino a che non l’aveva parcheggiata sotto casa, in via Crispolti, lasciando le chiavi d’accensione sotto il tappetino e la portiera aperta

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dato che, sempre a quanto dichiarato da Seminara, comunque non si chiudevano più172”. “Il punto è che, all’epoca, la Mobile verificò che il precedente proprietario avesse venduto regolarmente l’auto a Pelosi e amen. Ma nessuno aveva fatto caso al colore che, d’altronde, negli atti del PRA e del notaio, non viene mai indicato. A confermare che la pista è giusta ci si mette Massimo Angelica: dice che le auto di Pelosi erano sempre acquistate a società da loro due insieme e che a sua memoria quella del 2 novembre era blu (se lo ricorda bene, fino a due settimane prima del 2 novembre aveva dormito in quella macchina). Entrambe avevano targhe e documenti regolari, le auto rubate”.

“E quindi i Carabinieri fanno due più due e dicono: se quella che fu fatta ritrovare era l’auto bianca, ma lui in quel periodo girava con un’altra auto, uguale ma blu, allora voleva dire che quella blu era stata coinvolta nel delitto. E si insospettiscono ancora di più quando Seminara dichiara che dall’auto bianca, sempre aperta, erano stati rubati, dopo il 2 novembre, 172

Lo dissero fin dalle prime deposizioni, che non si chiudeva.

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la carta di circolazione, il mangianastri e alcune audiocassette perché le portiere, appunto, non si chiudevano”. “Gli altri testimoni, i ragazzi del 1975, non aiutano, com’era facile immaginare. Chi se la ricorda bianca, chi blu173, l’auto di Pelosi nei giorni dell’omicidio… Certo che i colori riportati dai testi sono solo questi, però: nessuno ne cita altri. Quindi viene proprio da pensare che Pelosi, in quei mesi, girasse prima con un’auto e poi con un’altra, ovviamente rubate visto che faceva il ladro d’auto”. “La conclusione è molto forte: il rapporto dei Carabinieri sospetta apertamente che Seminara, Deidda e De Stefanis abbiano seguito Pasolini, dopo un accordo con Pelosi. E che siano loro, di fatto, gli assassini di Pasolini. Tra l’altro, in una intercettazione ambientale percepiscono anche una frase molto dubbia, sicuramente fa capire che non l’hanno raccontata tutta… ma da lì ad avere una parte attiva nell’omicidio, ce ne vuole”. “Tu vuoi dire lo scambio di frasi tra Deidda e Seminara…174”. “Esatto. Poi per quanto riguarda le auto, al massimo possiamo pensare che Pelosi avesse la disponibilità, in un certo momento, di due auto entrambe rubate ed entrambe con una targa regolare. Se veniva fermato poteva sperare di passarla liscia facendo vedere di aver dimenticato la patente a casa e dicendo di essere maggiorenne. Però era importante che a un controllo in Centrale quella targa fosse abbinata a una Fiat 850. Questo lo ‘costringeva’ a rubare solo quel tipo di auto. Per quanto sia, lui stesso non ne ricorda il colore e dice di averne avute diverse”. 173 174

Montano, Frontoni, Angelica, Valentini, Morzani.

Questo: Seminara: “…(incomp)… c’hanno dei mezzi più sofisticati… (si sovrappongono le voci)…po cazzi loro…(incomp)…mejo…(incomp)… na volta…?”. Deidda: “…pe… (incomp)… devono…(incomp)… solo dentro a machina…”. Seminara: “dove?!”. Deidda: “a machina..ah?!” Seminara: “ma io non ce so entrato…”. Deidda: “come semo arrivati a Termini?”. Seminara: “ma, a nostra dici…”. Deidda: “eh!…eee.eee (ridacchia)”… Seminara: “no, io dico quella de… loro”. Deidda: “ehe… eeh”. Seminara: “a nostra sì!”.

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“Sì, il ragionamento tiene e poi i tre non ce li vedo come assassini. Non ne avevano il curriculum criminale, erano ladri più che altro (Deidda era anche incensurato)”. “Ma c’è una questione temporale, che vale sia se l’auto invece che bianca fosse stata blu, sia se in quel periodo Pelosi avesse avuto a disposizione due auto, una bianca e una blu. Questa: se fosse vero che i tre amici facevano parte del piano criminale, intendo dell’azione omicidiaria, scusa ma non mi sembra che avessero pianificato tutto con cura. C’è una contraddizione pratica imponente, qui. Pensa, Pelosi se ne va da Termini con le chiavi dell’auto con cui dovevano seguirlo? Che fosse bianca o blu, era quella l’auto! Poi ci ripensa e dopo un po’ torna indietro per portarle ai complici? Ma ti sembra possibile?!”. “Hai ragione! Ora mettiamo un attimo da parte la questione, abbiamo assolutamente bisogno di mettere a fuoco la dinamica dell’aggressione: c’è una serie di cose che non tornano”. “Vai” risponde Armando, completando la “scarpetta” d’ordinanza. Poi vede che apro il Moleskine e sulla sua faccia compare una ruga di preoccupazione. Ha capito che seguiranno cento domande, ma ormai è troppo tardi. “Prima domanda. Chiariamoci definitivamente: io credo che il corpo sia stato sormontato una volta sola”. “Senza ombra di dubbio, più passaggi avrebbero causato sia dei danni più profondi che delle tracce sui vestiti molto più confuse. Abbiamo invece dei danni interni che addirittura fanno pensare, nella prima perizia, ad uno ‘schiacciamento’, ricordi? E per quanto riguarda la canottiera addirittura nemmeno entrambe le ruote gli passano sopra, il disegno è quasi perfetto. Segno che l’auto è passata una volta sola, perché più sormontamenti non avrebbero mai potuto ricalcare la stessa impronta… ovvio. Ti dirò di più, possiamo escludere pure un lungo trascinamento del corpo: avrebbe lasciato tracce decisamente più marcate sul corpo stesso”. “Le tracce di DNA, Armà. Le tracce di DNA. Torniamoci un attimo, scusa. Ok, ma ‘sti cinque profili alla fine ci dicono qualcosa?”.

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“Prima di dirti cosa ci dicono ti elenco le persone a cui hanno fatto il prelievo per confrontarlo, subisciti l’elenco senza addormentarti: Mastini Giuseppe; Borsellino Monica (i fratelli, lo sappiamo, non sono più in vita); Pinna Tiziana ed il fratello Fabrizio (i fratelli di Antonio), i tre amici Seminara, Deidda e De Stefanis; D’Amico Mario; Mirabella Maurizio; Placidi Sergio e poi una serie di nomi che a qualunque titolo entrarono nella vicenda o furano a contatto con i reperti. Ho deciso, te li risparmio gli altri, ma sai chi non è nell’elenco?” “Non ho idea ma sono certo che me lo dirai”. “Pelosi”. “Pelosi?! Come non è nell’elenco?”. La forchetta si blocca a mezz’aria. “No, non gli è stato prelevato nessun campione del Dna. Se ti ricordi la collocazione dei cinque profili, a questo punto, possiamo pensare che la traccia nr. 2 che, insieme a quella di Pasolini è pressoché ovunque, sia proprio la sua”. “Beh, logico: viene trovata anche sul giaccone e le mutande dello stesso Pelosi”. “Esatto”. “Detto questo, nessuna traccia è riconducibile alle persone dell’elenco, nemmeno quella estratta dal plantare”. “Rimarrà sempre il dubbio di chi possano essere, anche se, come ti ho fatto vedere prima, possono essere veramente di chiunque. Quest’analisi avrebbe avuto senso solamente se fosse risultata positiva con qualcuno di inaspettato. Allora sì, avrebbe cambiato questa storia”. “Passiamo all’aggressione vera e propria: perché non troviamo sangue a terra, vicino dov’era l’auto e nei metri circostanti? Eppure dovrebbe esserci…”. “Vegetazione sostanzialmente alta (c’erano diversi centimetri d’erba nell’area dietro la porta), brina mattutina, ricerca non accurata, camicia utilizzata dallo stesso Pasolini per tamponarsi le ferite. Visto che ti piacciono tanto gli elenchi puntati sono stato sintetico. A parte gli scherzi, se ci pensi bene la somma di questi motivi ci fa capire come mai non ci sono tracce di sostanza ematica. Ricordiamoci poi che l’analisi del DNA era ben lungi dal venire e quindi la ricerca di

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tracce ematiche non è che venisse effettuata accuratamente: il sangue non era ancora così importante”. “Tutti immaginano l’aggressione con catene e mazze: ma non ci sono loro segni o fratture sulla scatola cranica…”. “È più forte di noi, quando pensiamo ad un pestaggio anni ’70 pensiamo a spranghe e catene, che erano, passami la battuta, argomenti di conversazione comuni negli scontri di piazza. Vediamo i fatti e le ferite. Pasolini muore per il sormontamento dell’auto: su questo non c’è dubbio. Se fossero state utilizzate catene, o addirittura spranghe, ci sarebbero stati segni lesivi esterni ben più marcati. È stato picchiato selvaggiamente utilizzando quello che era presente, mani, piedi, bastoni rimediati e tavoletta ‘Buttinelli’. Su quest’ultima i periti sono chiari, viene utilizzata da prima di ‘piatto’ e solo successivamente, dopo che si è spezzata in due parti, viene data di taglio, cosa ti fa pensare questo? No, non me lo dire, ne riparliamo dopo, quando tireremo le somme”. “A proposito, una curiosità: ma è la prima volta che si usava la fotografia a colori nei sopralluoghi?”. “No, ma sicuramente tra le prime volte… pensa che nella serie di omicidi riconducibili al Mostro di Firenze venne usata solamente dal 1981, omicidio Foggi-De Nucci, nemmeno per il sopralluogo ma per l’esame autoptico, e così anche per il duplice omicidio Baldi-Cambi. Allora non venivano date pellicole a colori ai sopralluoghisti, la loro stampa veniva effettuata esternamente e, come ti ho detto, costava molto. Il nostro stesso sopralluogo dell’Idroscalo ne ha una sola parte: iniziato in bianco e nero, vedi le foto panoramiche?, viene completato a colori. Mi fa pensare che solo dopo aver capito chi fosse la vittima si sia deciso di utilizzare le pellicole a colori”. “Sicuramente il passaggio da bianco-nero a colori ha portato grandi benefici, no?”. “Sì, a patto che quando rivediamo le foto, a distanza di anni, non ci facciamo ingannare. Se per esempio riguardi delle tue fotografie a colori, magari di quand’eri piccolo, ti accorgerai che tendono tutte al rosso, virano con il passare del tempo. Per esempio, nel nostro caso, il virare di una foto ha

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causato un vistoso errore. Un libro che tratta l’omicidio Pasolini mette una fotografia dei pantaloni di Pelosi: la guardi e sono totalmente intrisi di sangue, fino al cavallo. Ecco, in questo caso è stata vista la foto del fascicolo processuale. Guarda quest’altro scatto, invece… una copia meglio conservata, non trovi una differenza?”. “Diamine. Vero, sono perfettamente asciutti. Ed è la stessa foto”. “Esatto, a distanza di quarant’anni la foto del fascicolo processuale è diventata più rossa e trae in inganno, semplice vero?”. “Ascolta. Una cosa che non mi torna. Perché la coppa dell’olio non s’è fatta nulla, viste anche le buche sul terreno e il sormontamento? Insomma, a che velocità andava ‘sta macchina?”. “Non andava veloce e poi l’abbiamo già chiarito questo punto. Ma scusa: passandogli sopra con solo le due ruote di sinistra dove avrebbe dovuto sbattere, la coppa dell’olio? Magari non teneva come discorso se il corpo fosse stato schiacciato e non sormontato, come nella prima versione che diedero i periti. Ma oggi che sappiamo che sul corpo passarono solo le due ruote di sinistra, è chiaro che la coppa non fu danneggiata”. “Voglio farti vedere una cosa. Questa foto. Rilievo 42. C’è sangue sia sugli slip che nell’ interno jeans di Pasolini. Sembra sia più imbrattamento che gocciolamento, ma dì tu. Per stare lì del sangue, ne deduco che c’è stata una fase dell’aggressione in cui i pantaloni erano abbassati, che ne pensi?”. “Aspetta. Vediamo il corpo, nelle foto, dopo che è stato girato e dopo che un’autovettura gli è passata sopra. Non me la sento di dare un parere decisivo, possiamo comunque anche pensare che le tracce che abbiamo notato siano legate ad una prima fase dell’aggressione, quando magari Pasolini aveva i pantaloni leggermente calati; e che poi li abbia tirati su quando ha cercato di fuggire”. “No, non abbiamo finito. Quasi. Pensavi di cavartela così? Rilievo 09. Non mi hai ancora spiegato le impronte parallele di pneumatici sotto la porta da calcio. Sono diciotto volte che

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te lo chiedo! È sempre l’auto di Pasolini che entra e esce? È un’altra auto che si affianca?”. “Per la diciannovesima volta… Vedile bene, non sono tracce parallele. Non fare quella faccia attonita e osservale. Le tracce che attraversano la porta, e vanno dallo spazio oltre la porta in retromarcia verso la destra, sono quattro e anche se potrebbero far pensare a due autovetture che attraversano quello spazio appaiate, non è così. È solo un’autovettura che va in retromarcia, uscendo dalla porta, verso destra per chi osserva la fotografia. Poi riparte verso sinistra in direzione del corpo. Quale auto ha lasciato quelle tracce è difficile dirlo con certezza ma certo, visto che poi troviamo le impronte dei pneumatici dell’auto di Pasolini sul corpo… Possiamo però fare due considerazioni: se era l’auto di Pasolini il terreno duro del campo da gioco non ha permesso di confrontare il solco dei pneumatici, come fecero per le altre fotografie; l’auto era entrata, in quel triangolo sul retro della porta da gioco, da un’altra parte, altrimenti avremmo avuto anche ulteriori tracce in entrata e come vedi non c’è nessun segno oltre quelli che abbiamo visto”. “E l’anello? Perché lasciarlo? Certo, per incastrare Pelosi, ma… Se Pelosi non fosse stato catturato subito, come potevano esser certi che dall’anello si sarebbe risaliti univocamente a lui?”. “Sono d’accordo, non ha senso. A meno che Pelosi, comunque sarebbe andata, sarebbe stato incolpato lo stesso… Capisci cosa voglio dire?”. “… Cioè, tu stai dicendo che…”. “Ipotizza che Pelosi non avesse incontrato la pattuglia dei Carabinieri sul lungomare e fosse arrivato a casa. Il giorno dopo, saputo dell’omicidio, qualcuno avrebbe raccontato qualcosa sicuramente. Ci sono almeno 6 persone che lo avevano visto insieme a Pasolini, l’ultima sera. 6 testimoni oculari. Sto dicendo questo: che prendere l’anello a Pelosi e buttarlo sulla sabbia dell’Idroscalo non era e non poteva essere la garanzia che Pelosi sarebbe stato incolpato al posto di qualcun altro. Bisognava ricollegare l’anello a lui, no? Mica c’era il suo nome, sull’anello…”.

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“Aspetta, ora che mi ci fai pensare. L’assassino non poteva nemmeno esser certo che Pelosi avrebbe richiesto l’anello ai Carabinieri, che avrebbe rispettato le istruzioni di incolparsi… è questo che vuoi dire?”. “Esatto. Ma lui doveva essere sicuro di farla franca e di farla franca tramite l’anello. E questo mi fa pensare che la persona che toglie l’anello dal dito del Pelosi e lo getta vicino al cadavere era a conoscenza di due cose: primo, che l’anello era un qualcosa che poteva accusare Pelosi (perché lo aveva da tempo e perché diverse persone glielo avevano visto indossare) e, secondo, era a conoscenza del fatto che diversi testimoni, comunque, lo avevano visto con Pasolini poche ore prima. Capisci che significa?”. Armando, dopo questo ultimo sforzo, sta quasi per accasciarsi sul tavolo a quadrettoni rossi e bianchi. “Signora, ci porta il caffè?”, chiedo. Chiudo il Moleskine. E la signora arriva: due tazzine così e la moka bollente. Ci guardiamo senza dire niente, sorridendo. A Pasolini sarebbe piaciuto, sì. Ma è ora di andare; e di tornare all’Idroscalo. È da poco passata la mezzanotte del 2 novembre 1975 e noi siamo finalmente pronti a ricostruire cosa accadde nel buio.

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Capitolo 14

Campo de’ Fiori

Un attimo di silenzio, mentre scende la sera. “Ti piace?”. “Sì, un po’ strano però… originale, no? Poi, che tecnica. La genialità di levare invece che mettere, creare una figura partendo dallo smog, ti pare facile solo pensarlo?”. Siamo alla fine del nostro viaggio, appoggiati al parapetto di Ponte Sisto. Stiamo vedendo l’opera di William Kentridge, che si estende sul muraglione del Tevere, tra ponte Sisto e ponte Mazzini. L’artista sudafricano ha applicato grandi stencil ai muraglioni, alti fino a 10 metri, e poi ha pulito la parte rimanente. Le figure che vediamo sono nere, di fuliggine, di smog, sullo sfondo chiaro del marmo pulito. Fanno vedere qualcosa che era lì, ma nessuno vedeva. “Stavo pensando, Fabio, che la nostra indagine questa volta è stata un po’ come queste immagini. Anche noi avevamo tutto a disposizione, dovevamo solo togliere il superfluo. Ma hai detto niente… per vedere abbiamo dovuto scavare, o pulire, non poco”. Fabio mi guarda e sorride, il “non poco” questa volta è stato moltissimo. Ci incamminiamo verso il rione Regola prendendo via dei Pettinari. Via delle Zoccolette, dove fu celebrato il processo, è qui: prima traversa a destra. “Vedi il civico 75? Pensa che lì al secondo piano ci lavorava mia madre, Maria, nel laboratorio di pellicceria di mia zia Giulia. Stavo sempre qui da ragazzino, indovina chi abitava al piano di sopra?”. “Non ne ho la più pallida idea, però tanto stai per dirlo…”. “Te lo dico, te lo dico, ci abitava Dario Bellezza, che conoscevamo benissimo: una persona eccezionale, grande amico – ma anche segretario – di Pasolini”.

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Pasolini. Questo nome, che gira nelle nostre teste da mesi e mesi e mesi. Quasi un’ossessione, ormai. Ci sembra di vedere continuamente i suoi zigomi, di sentire il suo accento. Ma è ora di fermarci, di costruire una casa per i ricordi, un posto dove possano stare i tanti frammenti di carta di una notte all’Idroscalo. Roma. Sono i primi minuti del 2 novembre 1975. Ma questo Pasolini non lo sa: non porta l’orologio. Divora troppo veloce il suo tempo, per stargli dietro con delle lancette. Neanche Pino lo sa: vive un tempo sfaccendato ed elastico che gli cade dalle spalle. Nessuno sa che è l’ultima ora, nessuno vede l’ostacolo all’uscita della galleria. Ma l’auto dell’uomo con gli occhiali è nata per correre e il buio sembra perfetto, rotondo. Le strade sono silenziose e vuote, il ragazzo che è con lui ci sta e nel nulla dove vanno concluderà un buon affare. È notte ed è festa, di semafori ce ne sono pochi. Chissà, forse quell’appuntamento gli sciacquerà via l’oscurità dal volto – la maschera di fango con cui è arrivato alla cena con Ninetto, tre ore prima. Quell’ombra densa di malumore, che l’aveva fatto camminare faccia a terra. Ma non c’è più tempo: le lancette che Pasolini non ha girano gli ultimi minuti della loro corsa. Qualche minuto dopo mezzanotte e mezza, l’auto imbocca via dell’Idroscalo. Nessuno in senso contrario. Dalla sinistra arrivano i lenti bagliori lontani di otto file di palazzoni abitati e, più vicine, le lucine esterne di qualche capannone a bordo strada, sulla destra. Il cielo è coperto, il vento getta forte da sud, la vecchia torre d’avvistamento è lì da secoli. Ma Pasolini non entra dalla strada sterrata. Sa benissimo che quella zona è abitata anche d’inverno e preferisce essere discreto. D’altronde, in quei campi da calcio infami c’è già stato molte volte, a giocare a pallone. I viottoli, i sentieri senza nome, li sa. Rallenta, ben prima della strada sterrata esce e curva a sinistra su un prato, rallenta ancora e costeggia un campo da calcio recintato. Un campo regolamentare. E sbuca nell’altro campo, quello rudimentale. In pratica,

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fa il giro da dietro. Sbuca da un’apertura che sta all’angolo del campo, sul triangolo di erba bruta che s’è impiantato là. Le ruote fermano il giro dietro tre tubi Innocenti fissati con lo sputo e il fil di ferro: la chiamano porta. Più in là c’è la sabbia ferrosa dell’Idroscalo, sabbia che ha dimenticato cosa sia il mare; e poi un tormento di fango, avvallamenti e pianeggiamenti improvvisi. Un buon posto, pensa. Appartato. Forse chiede a Pino che ore sono. Hanno appuntamento con quelli delle bobine tra almeno un’ora, c’è tempo per fare sesso. Una mezz’ora sicura ce l’hanno. Si toglie gli occhiali, prende dal cruscotto i preservativi e mette tutto nel vano prima del cambio. Gesti automatici, ma senza ritorno. Pasolini si toglie maglione e giaccone, Pino il giubbino; e li lanciano sul sedile posteriore. Sono soli nel silenzio della notte. Sono soli. Non si sente niente. Mentre scorrono i minuti, un’auto e una moto percorrono, in lontananza, via dell’Idroscalo. Nel bagagliaio, una dozzina di pellicole arrotolate. Parcheggiano sulla via. Scendono tre minorenni e un adulto175. Buio è buio, ma il riverbero lontano dei palazzoni lo rende meno oscuro. Da vicino, almeno. D’altronde, non esiste il buio totale. Specialmente quando ci si trova nelle zone limitrofe di un grande centro abitato. Entrano dalla strada sterrata, a piedi. Sanno che Pasolini e il loro amico devono essere lì da qualche parte. Mentre Pasolini e Pino fanno sesso rapidamente, a decine di metri da loro dei ragazzini e un uomo stanno vomitando Madonne sulla strada infangata. Raccolgono un bastone trovato tra terra e recinzioni. Arrivati all’altezza di casa Sabatini, strappano dal palo esagonale la tavola che ci sta sopra, quella con scritto ‘Buttinelli A. Via Idroscalo 93’. Verdina. “Pijiamo sto cazzo de tavola, dai, tira!”. Già sono incazzati di loro, quando sbucano alla fine della strada sterrata. “E mò? ‘Ndo sta quello? Guarda là!”. Pino è uscito dall’auto, così come si trova, deve pisciare. La luce dell’abitacolo, per un paio di secondi, ha svelato la 175

Non possiamo sapere quanti fossero gli adulti: almeno uno sì.

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posizione dell’auto. I quattro puntano e corrono, nel silenzio. Il loro fiato leggero non basta ad avvisare. Pasolini è seduto alla guida: ha la chiusura lampo abbassata, i jeans sbottonati, la cinta sfilata, la camicia sbottonata. Di colpo. Lo sportello si spalanca, due mani di ragazzi lo sbattono fuori. Fa fatica a reggersi in piedi. Coi pantaloni abbassati è dura. Non li ha sentiti arrivare. Sono lì, e basta. Non fa in tempo a chiedersi cos’è che già arriva la prima botta in faccia. Come se tutto l’odio del mondo fosse andato a cercarlo. Le prende. E perde il senso dello spazio, della direzione, e si ritrova lanciato nel buio e prende mazzate, legno in testa, e intanto i tori urlano e tu sai che sei solo. Urlano che lui i soldi se l’è fatti dando il culo, e che ci fa con quei soldi? Ci va coi ragazzini, perché lui fa schifo e invece a loro gli ha portato solo una miseria, quella notte, per riavere le bobine. “Te sembra bello, eh Pasolì? Te sembra bello? Tu fai er frocio coi soldi e a noi gnente, ce dai ‘du lire, eh?”. Vorrebbe avere dignità, ma non c’è tempo di tirare su i jeans che sente già in bocca l’odore del sangue. Cosa fa? Urla, chiama Pino? Chiede perché? Dice: prendete i soldi, sono là, ne volete di più? Ma stavolta è diverso: non sono lì solo per quelli. Almeno è una pausa. Si passa la manica in faccia, cazzo quanto sangue, ma almeno può capire che sta succedendo. Non sono amici di Pino? È in quel momento che Anna e Silvana, nella loro baracca, smettono di parlare e si mettono ad ascoltare cosa succede. Il vento freddo fa arrivare le grida rauche di una lite che non capiscono. È in quel momento che Alfredo e Maria Teresa si svegliano impastati chiedendosi “Che d’è? Hai sentito?”. Come si trovano, una in vestaglia e uno in canottiera, si affacciano sulla strada sterrata e vedono che c’è una rissa verso la porta da calcio, in fondo a sinistra. Vagamente, si intravedono, a decine di metri più giù, più persone, qualcuno che grida, suoni confusi che il vento porta via; e della luce, che illumina un po’ la scena. Non si capisce quanti sono, però le voci non le conoscono.

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“Ambè, ma allora nun so’ i Marocchi! Quelli stanno da n’artra parte! Tornamosene a dormì”. “Ma chi so, Alfrè?”. “Ma che ne so’, nun te impiccià”. È in quel momento che un pescatore si affaccia e si mette a guardare. È, forse, quello più vicino di tutti. Quando l’hanno tirato fuori lo sportello è rimasto aperto e la luce dell’abitacolo fa capire a Pasolini che ha di fronte gente mai vista, capelli lunghi, faccia incazzata. Pino non lo aiuta. È in un posto isolato, nessuno arriverà a salvarlo. Quelli ripartono con la tavoletta, la tirano di piatto. Sulla testa. Un cazzotto lo fa cadere all’indietro, e con i pantaloni calati finisce addosso alla rete. Il sangue schizza sulle mani e sui vestiti dei ragazzi. La sua abitudine al dolore non lo aiuta più, questo è oltre quello che il suo corpo ha conosciuto mille volte. Questa punizione non l’ha cercata lui176. Poi, in un secondo di vuoto, col sangue sugli occhi, Pasolini, ha quello spazio che cerca come un disperato. Pino non arriva a salvarlo, quelli non ragionano. È un attimo. Tira una pigna in faccia a quello più vicino, quello urla, il sangue gli esce dal naso. Sarà scrittore, ma l’ha menato con una forza che loro non conoscono. Si tira su i jeans, le mani abbottonano automaticamente, una frazione di millesimo e già corre via verso la strada sterrata. Entra nel buio. Gli altri se lo perdono. Non ci vede, per il sangue sugli occhi. Si passa ancora le maniche della camicia in faccia. Non vede che poco, senza occhiali le forme sono confuse, approssimative, ingannevoli, deludenti. Sente il sapore del sangue in bocca, il cuore pompa a diecimila, la strada sterrata dev’essere da quella parte, più 176 Nico Naldini, “Come non ci si difende dai ricordi”: “Da tempo Pasolini aveva adottato il sadomasochismo anche con rituali feticistici: le corde per farsi legare e così immobilizzato in una sorta di scena sacrificale farsi percuotere fino allo svenimento. Non ne aveva mai fatto mistero, sia nelle ultime poesie, sia in quelle giovanili dove si era raffigurato come Cristo-giovinetta nel martirio della Croce”. Dario Bellezza, “Il poeta assassinato”: “Quando lo vedo compunto a casa delle Madame Verdurin romane e poi lo confronto con l’omosessuale in azione, mi confondo e penso che sono due persone diverse, diversissime. La madre non dorme più, tutte le mattine lo aspetta, guardando se ha i segni delle botte sul corpo, le macchie di sangue sulla camicia”.

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o meno, le case pure. I cani abbaiano, quelli dietro gridano, il cielo è oscuro, mai ha avuto così tanta paura nella sua vita, mai. E c’è ancora da vivere, c’è così tanto. Qualcuno gli corre dietro, ma è come a moscacieca. Vedono una sagoma che prende metri, inseguono due spalle impaurite. Ma fa pochi metri, non arriva nemmeno all’inizio della strada sterrata. S’è sbagliato, davanti c’è ancora la recinzione. Sente la mano della morte che gli prende la camicia da dietro, sente che si strappa, ma la camica è aperta, si gioca tutto, continua a correre, tiene lo slancio. Se si arrende, quelli ricominciano. “E viè quà, ‘ndo cori?”. Pasolini sente che il braccio sinistro tira e allora lo gira indietro, la manica si sfila a rovescio, si trova rigirato di fronte al ragazzino, indietreggia, esce anche l’altra, si gira su sé stesso, ma per farlo rallenta, riesce a fare solo un metro e un altro ha il tempo di pestargli la tavoletta in testa. Quello invece che è rimasto con la camicia in mano la getta alla sua destra, sull’erba, e correndo li raggiunge. Calci, si mette male, Pasolini chiama la mamma, cade, poi la fortuna: la tavoletta si schianta in due. Uno dei due ragazzini rimane senza arma, getta via i due legni spezzati. Pasolini si rialza e corre via, trafitto da dolori alle mani, alle spalle, con la testa che esplode. Sono tutti lontani dalla luce dell’abitacolo, ora. Imbocca neanche-lui-sa-come la strada sterrata, sa che porta a via dell’Idroscalo, forse qualche auto che passa, forse la salvezza. Ansima, sbanda, urta la recinzione, corre, le gambe sono l’unica parte che non gli fa male. Prima di sparire nel buio l’altro ragazzo da dietro riesce a tirargli una bastonata, urlo, dolore, un frammento vola e ricade tra erba e terra177. Pasolini continua a correre, ha fatto una trentina di metri. Nessun posto dove nascondersi. Nessuno che esce dalle case. Possibile che nessuno sente? Gli altri gridano, li sente dietro. Anche Pino è rimasto vicino l’auto. Se lo sono perso, non lo vedono, non così lontano. Quel bagliore dei palazzi non riesce a far vedere dov’è finito. 177

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È nelle foto 1, 2, 55 dei rilievi della Scientifica.

Rischia di sfuggirli via. E questo li fa incazzare ancora di più, si sentono presi in giro, sfottuti da un frocio. Forse è l’adulto che ha l’idea. Lui e un altro salgono sull’auto e il passeggero lascia una manata di sangue di Pasolini sul tettuccio. “Annamolo a pijà, quer frocio der cazzo! Corrije dietro!”. Il GT fa retromarcia sgommando sulla terra bagnata e di colpo irrompono due fasci di luce gialla a illuminare. Pasolini è quella figurina piegata in due, laggiù, in canottiera, sporco di sangue, che prende metri, sullo sfondo di un capannone e di pali della luce. “Ecco, ‘sto stronzo!”, dice quello in macchina. E partono, vanno a riprenderselo. I due in auto dietro, gli altri due a piedi, che corrono nella luce gialla dei fari, Pino li segue. Su quel terreno infame di buche improvvise, incespicando. Pasolini è contorto come un ulivo, è un foglio accartocciato e uno di loro gli arriva da dietro, ce l’ha a portata di braccio, lo allunga e gli afferra i capelli. Forse ci si mette anche il terreno, che proprio lì è una fottuta pozza di fango scivoloso. Sono stati 50 metri di speranza178. Urlo di Pasolini, un mazzetto di capelli si strappa netto e cade nel fango. Il dolore lo fa contrarre. L’altro lo colpisce da dietro, Pasolini si ferma per la botta, è in ginocchio. “A’ frocio, ma ‘ndo cazzo vai, eh?”. L’auto parte e lo punta, i ragazzi si scansano perché non capiscono, poi sì invece, l’auto forse urta Pasolini, lo fa cadere. Anna sente un tonfo. L’auto fa una leggera retromarcia, per tenerlo bene nei fari, altre botte, Pasolini continua a chiamare la mamma. Ma Susanna è all’Eur; e non lo sente. Altro sangue. Pelosi è lì, si avvicina, forse qualcuno lo tiene a bada. Forse scivola e cade. Ma perché lo stanno a ridurre così? Pasolini capisce che la sua fuga li ha resi solo più cattivi, più duri, che sono ancora più incazzati perché lui non è stato lì buono a prendersele. Ora sarà peggio. Continua a lamentarsi per il dolore, a gridare aiuto. Per minuti. E minuti. E minuti. I ragazzini ansimano. “Li mortacci sua, 178

Dalla bastonata alla ciocca sono esattamente 56 metri.

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quanto core questo, ahò”. Gli altri scendono dall’auto e non sanno che fare. C’è quello a terra, mezzo morto. Scorrono dieci minuti: non si muove più, non si lamenta. Ha smesso di chiamare. Litigano con Pino: dice che dovevano “solo daje ‘npò de botte. E mò? Lo state a massacrà! E mò che famo?”179. Pasolini è un blocco di dolore, e cerca di usare la testa che gli scoppia. I ragazzi pensano d’averlo ammazzato. “Ahò, nun se move più”. “E mò che famo?”. Ma vuole vivere. Ha sentito che quelli si sono un po’ allontanati, che sono un po’ incerti. Intanto si sono presi i soldi. Aspetta un attimo e si gioca il tutto per tutto. Si rialza in ginocchio, poi si mette in piedi e si allontana di nuovo strascinandosi per la strada sterrata. Quella ghiaietta infame fa rumore. Una mano accende il quadro del GT e riaccende i fari. Lo vedono. “Anvedì sto stronzo, nun era morto! Ma allora c’hai voja de morì pe’ davero, eh?”180. E ripartono a prenderselo. Pasolini è troppo lento, fa solo altri 8-10 metri, roba di poco181. Solo l’illusione della vita, di tornare alle cene con gli amici, alle corse notturne, alla sua Lettera 22 smalto celeste, alla casa di Chia che guarda la vallata. Stavolta sono ancora più incazzati, perché quando ti ribelli al destino è allora che il destino si accanisce. Perché non puoi sfidare la periferia a quel modo, non puoi, tu scrittore inutile, metterti a fare quello svelto con noi, perché ti purghiamo se ci provi, tu ci sfidi sul nostro terreno e questo no, nun ce provà. Devo vincere io, i ruoli vanno rispettati. Ora basta. “Ma chi te credi d’esse? Eh?”. Ormai siamo tornati dove tutto è cominciato: davanti casa Sabatini. Sono tutti lì, c’è anche Pino. Tutti. È la fine. Due lo tengono, gli altri due menano. Le urla strazianti. Il pestaggio, il calcio tra le gambe perché “così la 179

Ricordate la telefonata ascoltata involontariamente dal barista Sotgiu?

180

È la testimonianza del pescatore a raccontare questa dinamica.

181

Precisamente, la distanza della ciocca dal corpo è di 8,20 metri.

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finisci de fa er cojone cò noi, de nun sta’ ai patti”, ora il cuore pompa, ora il sangue schizza sulle scarpe e sulle facce, lui è un peso morto, il bastone pesta così forte che perde mille pezzi sulla sua testa, lo lasciano cadere a faccia avanti, sui frammenti di legno. I ragazzi ansimano. Non c’è più niente con cui picchiare. Ma Pier Paolo Pasolini non c’è più. Il suo cervello ha deciso di allagarsi di sangue e di non vedere più. Di non sentire più le urla di quelli. Respira ancora. Chi l’avrebbe detto, che sarebbe finita così? I Principessa sono di nuovo alla finestra, ne hanno una proprio sul fronte sterrato e un’altra di lato. Alla luce dei fari gialli hanno visto, con gli occhi allagati d’orrore, una violenza cui non hanno saputo e voluto opporsi. Qualcuno risale in auto: e parte. “È ora di finirla co’ ‘sta tarantella, me so’ rotto er cazzo”. Lentamente. Punta il corpo di Pasolini, sulla sinistra, che ormai non ha più nessuna coscienza. In prima, poi in seconda. Sono dieci metri, non di più, quando l’auto gli passa sopra con lentezza. E si ferma subito dopo. Come il cuore. Pino è lì. Non doveva andare così. Dovevano essere “solo ‘npò de botte”. Pasolini, quello che gli ha regalato la sua amicizia negli ultimi mesi, non si muove più, non respira più, non si riconosce più nemmeno. È sformato. Che ore sono? Dev’essere passata l’una da non molto. I ragazzi glielo dicono. “Tocca a tè, a’ Pelosì”. Quello non ci sta, ci prova. Ma discutici tu, con tre belve coperte di sangue. Qualcuno glielo spiega meglio, è andata male, se vai dentro tu ti prendi poco, “nun rompe er cazzo”. E poi se ci tieni alla famiglia sai che non devi fare l’infame, gli ricorda l’adulto. Gli sfilano l’anello a forza e lo buttano là, per terra. Poi lo lasciano lì e se ne vanno a darsi una lavata e a dormire, sparando maledizioni a quello stronzo, per colpa sua sono ridotti così. Sanno che Pino farà la sua parte. Nel buio.

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Con un cadavere. Tra case silenziose, che potrebbe esserci chiunque. O nessuno. Nemmeno la luna. I cani abbaiano, ancora. Pino sale in auto e corre terrorizzato. Cerca la via di casa. All’Idroscalo cala il silenzio sul fango e sul sangue. I cani tornano ad accucciarsi. Dopo un po’, i Principessa escono fuori. Si guardano intorno e a 30 metri sulla sinistra trovano un cadavere. Si portano le mani in faccia. “E mò? Che famo, Alfrè? Quest’è morto. Davanti a casa nostra!”. Hanno un po’ di ore per non prendere più sonno e decidere in famiglia la versione da dare, quella che fa fare meno domande alla Polizia. Alla prima luce vanno a chiamarla, dicendo di essere appena arrivati. L’erbaccia se ne sta ai bordi della strada di terra, le pozzanghere pure, il cielo è grigio scuro, le sagome dei capannoni brulli sullo sfondo, due Volanti ferme. Il resto lo sappiamo182. “Fabio, ora rimettiamo in fila tutti gli elementi che dimostrano questa tesi. Ok? Il nostro punto di partenza è che riteniamo vera la versione raccontata dai Borsellino a Sansone: ma ripetiamo perché. Uno, se volevano prenderlo in giro perché si sono imbarcati in una storia così costruita, autoaccusandosi di un omicidio col rischio che quello li prendesse sul serio, come infatti fece? E perché tra tutti i delitti di Roma si vantarono proprio di Pasolini? Con la certezza che ci sarebbero stati accertamenti, se davvero avevano capito che Sansone era una guardia? Io credo che gli abbiano detto la verità, anche perché la loro responsabilità l’avevano già anticipata a Michele Manca, il boscaiolo sardo da cui parte tutto. Ma con entrambi centrano la storia su loro stessi, cioè togliendo di mezzo le altre persone presenti, sia perché volevano mettersi in mostra solo loro, sia perché ci sarebbe stato da raccontare un altro livello della storia (furto bobine, ricatto, riscatto, appuntamento, coinvolgendo l’adulto; e non 182

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I dialoghi riportati in questo capitolo sono opera di fantasia.

volevano fare la spia), e soprattutto la premeditazione. Ecco perché il loro racconto è la versione semplificata di quella notte. E non è nemmeno pensabile che i Borsellino siano arrivati all’Idroscalo senza che Pelosi lo sapesse, perché non è immaginabile una coincidenza simile: guarda te che sorpresa, Pelosi e i Borsellino nello stesso posto! Alla stessa ora!”. “A proposito, quello a cui Pasolini non pensò è che, quando c’è uno scambio, un riscatto, una cosa del genere, i delinquenti arrivano sempre prima; è normale. Va bene il posto isolato, va bene che è tardi, ma vuoi farmi controllare che nun m’hai fatto qualche scherzo, che nun ce stanno gli sbirri? A questo punto diamo anche per scontato che, per riportare le pizze, doveva esserci un adulto, perché nessuno avrebbe mandato due ragazzini da soli a concludere la storia. Potrebbe essere Sergio Placidi, dicevamo: è Citti che lo coinvolge. Sono arrivati prima per controllare e appostarsi e hanno visto che Pasolini era già lì”. “Secondo te, perché Pelosi non disse allora e continua a non dire oggi che i fratelli Borsellino parteciparono al pestaggio?”. “All’inizio per omertà di quartiere e perché erano amici suoi. Venivano prima di Pasolini, erano come lui, no? Pasolini era solo uno che gli regalava soldi e cene. E poi, gli avevano detto che se la sarebbe cavata con poco. Anche quando ciò non avvenne, restavano le minacce, la paura che facessero qualcosa ai suoi e d’altronde a lui che sarebbe cambiato? Aveva sangue sui vestiti, era sulla macchina della vittima, l’avevano visti insieme, aveva confessato. Era spacciato. Chi gli avrebbe creduto, se pure avesse cambiato versione? Oggi come oggi ha certo raccontato di più, ma lascia il mistero sul ruolo dei Borsellino per continuare a vendere la storia a noi giornalisti”. “E allora torniamo all’Idroscalo. Il campo rudimentale è il cuore di un’area vasta undicimila metri quadrati, fitta di casette abusive, molte, molte di più delle poche disegnate dalla Scientifica, cui interessavano le sole in cui si collocavano i testimoni individuati. Il campo rudimentale aveva quattro

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vie d’accesso e di fuga, una per ogni angolo183. Ma nella zona immediatamente intorno alla porta le uniche tracce di ruote sono quelle dell’auto di Pasolini184. Nessun’altra auto, nessun’altra moto è entrata all’Idroscalo. Di loro non abbiamo nessuna impronta sul terreno fangoso. Voglio essere ancora più chiaro: le uniche impronte continue e parallele sono quelle del GT. Sulla strada sterrata e sul campo rudimentale si vedono altre impronte, sì, ma parziali e singole, niente che disegni una linea parallela chiara. Niente di prolungato e coerente, niente che indichi l’ingresso o l’uscita di un’auto o di una moto. Questo ci fa capire che gli assassini sono arrivati a piedi, in silenzio, dal buio. D’altronde, se fossero arrivati in auto dalla strada sterrata, sarebbero stati notati non appena ne avessero superato la metà185: i loro fari ballonzollanti sul terreno li avrebbero annunciati in anticipo, molto in anticipo; ancor di più se avessero seguito lo stesso percorso dello scrittore. Pasolini si sarebbe ricomposto in fretta. L’unica, perciò, è un avvicinamento a piedi. Alla bruta”. “E tu dici che tutto avvenne senza fari accesi?”. “Per quanto sembri sorprendente, tutta la prima parte dell’aggressione s’è svolta senza fari a illuminare: perché il buio totale non esiste. C’era il riverbero lontano dei palazzi ad attutirlo”. “C’è imbrattamento ematico, ma anche gocciolamento, nella parte interna dei jeans di Pasolini, all’altezza degli slip 183

Gli stessi Principessa deposero che erano entrati all’Idroscalo da una via diversa dalla strada sterrata, ma questo all’epoca non mise a nessuno la proverbiale pulce nell’orecchio. 184

Le uniche tracce coerenti sono quelle del rilievo 09 della Scientifica: si vedono due curve appaiate di pneumatici d’auto sotto la porta. È la retromarcia del GT di Pasolini. Siccome non vediamo l’entrata dell’auto, allora vuol dire che non è arrivata dalla strada sterrata. Il racconto di Pelosi ha tratto tutti in inganno. D’altronde, se è vero che è andato a urinare sulla rete significa che la rete era molto vicina, altrimenti l’avrebbe fatta direttamente sul prato, no? Perché allontanarsi di più, se era molto buio? Se ha detto il vero, questo significa che l’auto non era parcheggiata nel campo, ma nel triangolo d’erba dietro la porta. 185

metà.

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La strada sterrata non era proprio dritta, faceva una specie di curva sulla

e sugli slip stessi dello scrittore. Questo ci conferma che, nella primissima parte dell’aggressione, Pasolini aveva i jeans calati, magari non del tutto. Ne avevamo parlato. Non c’è stata nessuna discussione che poi è trascesa: l’hanno tirato fuori e iniziato a menare subito, senza fare discorsi o dare i biglietti da visita”. “Sono d’accordo, anche questo ci fa ricostruire la dinamica. Ma senza volerlo ammazzare. No. Altrimenti avrebbero usato subito le tavolette di taglio. Essere andati senza nessuna arma portata da casa, averle usate dapprima di piatto, aver usato le mani, tutto rappresenta una criminodinamica chiara: si trattava di dargli una lezione. Non c’erano spranghe: l’abbiamo detto186”. “Perché Pasolini non si è fermato per tamponarsi il sangue, come si era sempre pensato finora?”. “Per tre motivi: uno è che in quei momenti tutto pensi eccetto che perdere minuti preziosi a tamponarti. Due, perché non ha senso fermarsi vicino gli aggressori. Tre, perché la camicia è strappata dietro; dunque è stata tirata con forza da chi lo inseguiva, eppure non risultano asole rotte e bottoni mancanti… l’unica spiegazione, allora, è che fosse già aperta e poi si sia sfilata nella colluttazione, quando gliel’hanno tirata. La camicia d’altronde ha forte imbibizione sulla parte posteriore, ma anche sulle maniche: appunto, perché era aperta e si è pulito con le maniche soltanto”. “E poi c’è il punto N…”. “Pasolini cade a terra nel punto dove si trovano sia la ciocca che la traccia di auto, quello classificato come ‘N’ nei rilievi della Scientifica. Siccome è troppo incredibile che la traccia d’auto passi proprio sopra la ciocca, vuol dire che in 186

Questo ci porta ad allungare l’elenco delle bugie, inverosimiglianze, ecc., di Pelosi, in questo modo: 40) falsità nell’affermare che gli aggressori avessero delle spranghe di ferro. È ampiamente smentito da quattro medici legali (2011/1). 41) falsità nell’affermare che la sera del delitto non poteva tenere le chiavi in tasca e che per questo era dovuto tornare indietro al Gambrinus: le tasche del suo giubbino erano profonde 11 cm (1975). Anche questi particolari insignificanti mostrano come Pelosi menta per definizione, su qualsiasi cosa.

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quel punto sono successe due cose: uno, che è stato preso per i capelli e due, c’è quella che sembra una frenata, un segno molto marcato. L’auto frena presumibilmente sui piedi; qui infatti fa una leggera retromarcia187”. “Sormontamento. Mi sembra che siamo d’accordo. L’assassino guida lentamente, a causa del fatto che parte da vicino il corpo: da circa 8 metri, che è la distanza dalla ciocca al cadavere. Lo sormonta quindi a bassa velocità, 10/15 km orari, come dice la perizia meccanica sullo stato dell’auto. La bassa velocità evita all’auto danni alla coppa dell’olio, inoltre. L’esame del telaio non dimostra infatti danni particolari o riconducibili al sormontamento, proprio perché è avvenuto piano. Ne abbiamo parlato lo scorso capitolo. A quella velocità, poi, il corpo non viene spostato, resta inerte”. “Esatto! E non esiste nessuna traccia fisica del doppio sormontamento di cui qualcuno parla: insomma, l’auto non è passata due volte sul corpo dello scrittore. Un doppio sormontamento per cancellare le tracce di altri veicoli presenti e a confondere l’intera dinamica dei fatti: ma chi ne parla non ha mai interpellato un medico legale. E s’è dimenticato i rapporti dell’Istituto di Medicina Legale di Roma dell’epoca, le osservazioni dei Carabinieri e del Comandante dei Vigili del Fuoco. Premesso che la struttura fisica di Pasolini, ossea e interna, già compromessa dal primo passaggio della sua auto, sarebbe collassata sotto passaggi ripetuti, premesso che due passaggi non avrebbero lasciato mai i segni di due ruote sovrapposte (esiste una probabilità su un miliardo che si sarebbero sovrapposte perfettamente), premesso che sulla schiena dello scrittore c’è il segno di una ruota e non di due, la presenza del suo sangue sotto la sua auto ci conferma che l’unica auto che gli è passata sopra, una volta sola, è la sua e non quella di chissà chi”. “Guarda i vestiti di Pelosi. C’è poco sangue di Pasolini188. Tutto questo ci dice che lui, contrariamente a quan187

Il doppio segno è visibile nell’immagine 53 del fascicolo di sopralluo-

go. 188

Sui pantaloni, sulla maglietta intima, sulla seconda maglietta intima di lana, sul maglione rosso. Sono poche macchie.

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to dice, si è trovato abbastanza vicino all’azione da essere schizzato del sangue dello scrittore, ma non da aver partecipato…”. “Abbastanza vicino da descrivere quasi correttamente la successione delle azioni, ma… Mi colpisce che in nessuna sua deposizione parli di Pasolini che si sfila la camicia. Sai perché? Perché non l’ha proprio visto! È successo in quell’attimo in cui è fuggito nel buio e l’auto non aveva ancora fatto retromarcia, illuminandolo. Ecco perché, dicendo di averlo ucciso lui, non raccontava mai della camicia…”. “Resta il mistero del maglione verde e del plantare trovati nel GT. Non c’è nessun motivo per qualcuno degli aggressori si sarebbe dovuto togliere una scarpa o il maglione in pieno novembre”. “Questo è proprio un mistero, sì”. “Una cosa però possiamo dirla. Quel maglione verde non ha nessuna traccia di sangue. Se fosse stato indossato durante l'aggressione, l'avrebbe. Io proprio sicuro che si ricolleghi al delitto non sono”.

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“Interessante, mi hai dato la risposta a una serie di cosette… ma sai cosa manca, vero?”. “Il movente”. “Eh sì. Se non c’entra Petrolio, se non c’entrano la Banda della Magliana o i Servizi, qual è la spiegazione? Io dico: partiamo dal dato certo, il furto delle bobine. Citti ci dice che lui andava all’Idroscalo per quello, Borgna lo conferma. Il furto parte dal gruppo degli amici. I Borsellino abitavano in zona, conoscevano tutto. Forse nel furto c’è anche Stefano Carapelli, probabilmente Pelosi non partecipa al furto ma sapeva. Ora ti dico come ricostruisco la cosa. Dopo aver avuto le pellicole in mano, i ragazzi fanno il ricatto, pensando di ricavare una grossa somma. Questo lo deduco da come venne condotta la richiesta di riscatto, alla carlona, da inesperti, senza ottenere nulla. Sono dei pischelletti, non sanno nemmeno loro come funzionano queste cose. Chiedono a Grimaldi una cifra esagerata e prendono il rimpallo. Al film di Damiani gli fanno un baffo, le trattative vanno per le lunghe, anche Pasolini completa il film. La trattativa ristagna, le pellicole hanno ormai perso valore. I Borsellino cercano allora l’aiuto di un adulto, forse il Sergio Placidi di cui parla Citti. Placidi contatta Citti, che già conosce189. Per i ragazzotti Borsellino, Placidi era il ‘criminale’ quello che poteva gestire una situazione del genere per loro”. “Ok. Citti fa da tramite tra Pasolini e Placidi, e d’altronde ci voleva un amico intimo di Pasolini per dare a Placidi il telefono dello scrittore che, da metà ottobre, non avrebbe più avuto attivo il numero di casa. Pasolini presumibilmente chiama direttamente Placidi, tornato da Stoccolma. I selettori telefonici, all’epoca, erano elettromeccanici: non tenevano memoria delle chiamate effettuate. Pasolini dice, quel 1 novembre, a Citti, che non poteva incontrarlo, la sera, perché doveva andare a recuperare le pizze del film. Va con Pelosi perché anche lui ha contribuito a fare da intermedia189

Secondo quanto dichiarato da David Grieco, in base a quanto gli disse Citti, questo contatto avvenne alla fine di settembre 1975.

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rio: altrimenti non si spiegherebbe la sua presenza all’Idroscalo”. “Esatto. All’appuntamento vanno i Borsellino: il più piccolo era a casa, il più grande esce da casa dello zio e va a prenderlo. Ma, se erano in moto, non c’era più posto per una terza persona: già ti fermavano in due all’epoca, figurati in tre. Quindi Carapelli era con l’altra persona, perché qui un adulto ci doveva andare: Placidi? Non sappiamo.Tutti parcheggiano su via dell’Idroscalo, per aumentare l’effetto sorpresa su Pasolini. Arrivano ben prima dell’appuntamento, per controllare la zona ma anche perché è un agguato. Ed eccoci al movente. Nessuno fa un furto per niente. I Borsellino non avrebbero mai ridato le bobine gratis a Pasolini solo perché aveva cantato le borgate. Ma vuoi sapere quanto gliene poteva fregare ai Borsellino di Pasolini? Zero. Quindi, ovvio che Pasolini gli avrebbe portato dei soldi. Ma non dimenticarti che ‘Salò’ a quel punto era montato e finito, anche con soddisfazione, quindi le bobine non erano più così importanti per il regista come due mesi prima. Io dico che gli avrà promesso dei soldi, ma molto meno di quelli che pensavano di fare quando avevano fatto il colpo. Una specie di mancia, insomma, come la chiama il Pecetto”. “Quindi, forse, ed è una supposizione, è proprio questo che ha fatto imbestialire i Borsellino, stai dicendo? Sentirsi presi in giro da un frocio, da uno che gli voleva dare giusto due lire. E così hanno pensato di prendersi i soldi, sì, ma di dargli una lezione?”. “Erano dei violenti, ti ricordi come li ha descritti Sansone? Pensi che per loro fosse un problema usare Pasolini come un sacco da allenamento? Poi, la reazione di Pasolini. Poi, la paura di essere riconosciuti. Poi, non sapersi controllare. Poi, il piacere di pestare. Poi, la situazione che sfugge di mano. Alla fine, gli resta un cadavere nel buio: si prendono i soldi190 e incastrano un Pelosi terrorizzato dopo quello che 190

Quando i Carabinieri perquisiscono casa Borsellino, trovano 3 milioni in contanti, una somma bella grossa per due ragazzini. Erano quelli che Pasolini aveva con sé all’Idroscalo, la famosa mancia?

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aveva visto. Era il danno minore: evitava all’adulto la galera e se ci andava uno solo non c’era associazione a delinquere. Con un po’ di fortuna, se ci cascavano, poteva fare la vittima e cavarsela con poco”. “Sai cosa c’è? Questo è stato un delitto casuale, nessun dubbio. E non ce lo dicono solo le armi usate. D’altronde, un omicidio motivato da ‘Petrolio’, un omicidio programmato da agosto, costruito sull’esca del furto, sarebbe stato troppo complicato. Avrebbe comportato troppe variabili: e se nel frattempo i carabinieri scoprivano i ladri? Ah già, ma i carabinieri erano sotto i Servizi e non l’avrebbero scoperto. E se invece il produttore Grimaldi avesse accettato di pagare a uno dei ribassi? E se Pasolini avesse detto ‘beh, non mi servono quei pezzi, in fondo l’ho rimontato?’. E se Pelosi, un ragazzino, fosse stato torchiato a sberle dai Carabinieri, quella notte, e avesse parlato? No, qui ha ragione Mancini: in un omicidio pianificato Pelosi avrebbe preso due proiettili in testa”. “Non solo. E se tutto il piano dei pezzi grossi andava a monte perché uno degli altri ragazzini parlava, come infatti fecero i Borsellino da scemi, più volte?”. “Appunto”. “Troppi se, per un piano così importante, troppa gente messa in mezzo, troppi a sapere. Le indagini di Sansone dimostrano quanto sarebbe stato facile arrestare tutti, quanto questo presunto piano di Stato fosse fatto di cartone ammollato. Ma come si può concepire un piano laddove, per nascondere le responsabilità di apparati dello Stato, tutto si sarebbe dovuto reggere su dei pischelletti? Scherziamo?”. “Ma è quello che dico io! Allora Pasolini era più semplice sprangarlo a morte, di notte, in via Eufrate, e poi dare un bel messaggio di rivendicazione con una sigla fascista. Non era questo, in fondo, quello che tutti si aspettavano? Non fu la prima cosa che tutti gli amici di Pasolini pensarono, quando seppero della sua morte? Sarebbe stato così semplice depistare, altro che… Piuttosto, invece di virare su trame oscure, sai cosa trovo? Se la stessa Squadra Mobile che avrebbe sgominato i Marsigliesi non riusciva a capire che all’Idroscalo c’erano più assassini, quello era un fatto culturale. Lo ripeto,

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se i magistrati non vedevano quello che era sotto i loro occhi, quello era un fatto culturale. Se parte della stampa archiviò subito il delitto come opera di un assassino solitario, quello era un fatto culturale. Un omicidio non è solo la scena del crimine, l’interrogatorio con la lampada accesa, le sirene e le Volanti, l’arresto spettacolare: è, prima di tutto, un fatto culturale. Se non si inquadra così il caso Pasolini non si va da nessuna parte. O si va da quella sbagliata191”. “Come ad esempio il movente fascista. Pasolini era all’epoca l’omosessuale più famoso ed esposto d’Italia. E il clima era quello: il sequestro e lo stupro di Franca Rame sono del 9 marzo 1973. Non si può non notare che tutti i delitti politici di qualsiasi matrice, dell’epoca, erano rapidi: coltello, pistola, spranga, bastava eliminare quelli che erano simboli e non persone. Qui invece c’è l’accanimento per mezz’ora, per decine di metri. Inoltre, i delitti politici erano azioni semplici, dirette, senza depistaggi e sovra-costruzioni tipo l’anello192”. “Anche il movente della rapina non regge. Gli assegni che Pasolini aveva con sè non li prendono, le 51.000 lire totali, tra tappetini e giaccone, nemmeno. È una pista debole, che non giustifica la violenza dell’aggressione, il suo crescendo. Se fosse stata una rapina, Pasolini avrebbe dato subito i soldi perché faceva così di solito, per evitare guai. Se lo seguivano per rapinarlo, potevano agire all’uscita del ristorante: buio, ora tarda, poca gente in giro, ristorante vuoto. Anche perché poi poteva benissimo non andare all’Idroscalo, ma portare Pelosi a una festa in mezzo a mille persone. Nessun rapinatore ha mai fatto 30 km per aspettare il momento giusto”. “Che possiamo dire di Johnny lo Zingaro?”. “Eh. Mastini conosceva Pelosi. Era uscito dal carcere il giorno prima. Era stato ferito anni prima ma alla coscia sinistra, 191

Pasolini era un intellettuale non allineato di giorno e un cacciatore di ragazzini di notte: motivi per non sopportarlo ce n’erano. 192

Sergio Ramelli, 29 marzo 1975, ucciso a sprangate; Alceste Campanile, 12 giugno 1975, colpo d’arma da fuoco; Mario Zicchieri, 29 ottobre 1975, fucile a pompa; Walter Rossi, 30 settembre 1978, colpo d’arma da fuoco; Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni, 7 gennaio 1978, colpi d’arma da fuoco. Abbiamo volutamente mischiato vittime di sinistra e di destra.

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non alla caviglia destra. Davvero zoppicava da aver bisogno del plantare? A ogni buon conto, analizzare il plantare e trovare un profilo genetico differente dopo che è stato manipolato a mani nude per trent’anni non mi sembra molto attendibile”. “E Citti? Come te lo spieghi? Perché guarda che limpido non è…. Alla fine delle sue dichiarazioni abbiamo usato ben poco”. “Pensa, se Citti avesse parlato subito, se avesse detto che aveva fatto da tramite, sarebbero successe diverse cose: la prima è che non sarebbe stato creduto perché ormai un colpevole e una versione ufficiale c’erano. Due, sarebbe stato passibile di denuncia come minimo per ricettazione, ma anche per concorso in omicidio, avendo alla fine portato Pasolini dagli assassini. Tre, Citti era pregiudicato e amico di Pasolini e come tali ha ragionato. Quattro, forse temeva di fare la fine di Pasolini. Così, da una parte è andato a fare il filmato per cercare la verità, è andato a cercare il pescatore; dall’altra parte non c’è dubbio che non si è mai esposto pubblicamente, per quarant’anni. Il filmato se l’è tenuto. Poteva andare dai suoi amici giornalisti, poteva diffonderlo se voleva. Quando Grieco l’ha tampinato l’ha sviato raccontandogli una versione parzialmente falsa, mettendo di mezzo la Banda della Magliana che non esisteva nel 1975. Tanto è vero che a Calvi ne darà una parzialmente diversa. Quando è andato dal giudice ha fatto scena muta. Il tutto quando ormai sapeva di stare per morire, ma sempre contraddittoriamente, come abbiamo già raccontato”. A forza di camminare siamo sbucati a Campo de’ Fiori. S’è fatto tardi. Se chiudiamo gli occhi ci sembra di vedere un pomeriggio di novembre ’75. La folla senza parole. Il saluto comunista. Il discorso di Borgna dal palco, quello di Moravia in mezzo alla gente. Qui Roma ha visto Pasolini per l’ultima volta. È sempre deludente quando la morte di qualcuno non è all’altezza del mito della sua vita. Ma abbiamo davvero idea che sia andata così. Fabio rompe il silenzio. “Scusa, c’è solo una cosa che non riesco a spiegarmi… ma come mai un gruppo di ragazzi come i Borsellino e Carapelli, che hanno sempre compiuto furtarelli di poco conto sulla

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Tiburtina, si butta sul grande colpo delle bobine da film? Ma come hanno potuto pensarlo? Sì, lo so, sono mesi che stiamo dicendo che doveva esserci un basista…”. “Dimenticavo una cosa, guarda questo verbale qui…”. Mi tolgo una fotocopia di tasca. “Aspetta, le sommarie informazioni di De Stefanis ai carabinieri?”. “Sì, leggile”. Fabio legge. Poi smette di respirare per un attimo. Mi guarda. “De Rossi… il montatore di ‘Salò’, è il cugino di De Stefanis? No…”. “E invece sì, ti piace come coincidenza?”. “Gesù, ma allora…”. Sfogliamo di nuovo i verbali dell’ultima inchiesta. Adolfo De Stefanis, uno dei ragazzi che stava con Pelosi al “Gambrinus”, quella notte, è cugino di primo grado di Ugo De Rossi. Frequentava il bar di via Lanciani e lì aveva conosciuto Pelosi. Conosceva i Borsellino (lo conferma lui stesso), mentre Mastini l’ha invece conosciuto nel 1980 a Rebibbia, dove stava per uno scippo. Aveva già precedenti penali al momento dell’Idroscalo. De Rossi dichiara di non aver mai avuto stretti rapporti col cugino, che si vedevano poco anche all’epoca e che mai gli ha parlato del furto delle pizze, né sapeva all’epoca che conoscesse Pelosi. Va bene, ma il dubbio ci viene: e se De Rossi parlando così, del più e del meno, gli avesse detto quanto valeva un film, dove si tenevano le bobine? E se De Stefanis se ne fosse uscito dicendo queste cose ai Borsellino o anche solo a Pelosi? Se l’idea del furto fosse nata così? Non lo sapremo mai.

Su www.accaddeallidroscalo.com troverete altri materiali inediti dell'inchiesta di Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani e gli aggiornamenti in tempo reale delle loro indagini su caso Pasolini.

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BIBLIOGRAFIA

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VIDEOGRAFIA “Chi l’ha visto?”, servizi di Valter Domenico Rizzo, in onda su Rai 3 il 19 e 26 aprile 2010 “Complotti”, di Giuseppe Cruciani, in onda su La7 il 20 luglio 2010 “Dietro il processo” di Franco Biancacci, in onda su Rai 2 il 7 ottobre 1980 “Filmcronaca”, condotto da Enrico Mentana, in onda su La7 il 10 luglio 2012 “Il clan dei Marsigliesi” di Alessandro Chiappetta, in onda su Rai Storia il 18 maggio 2016 “La notte quando è morto Pasolini”, di Roberta Torre, 2008

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“La storia siamo noi. Roma in cronaca nera 1945-1975”, di Michele Buono e Piero Riccardi, in onda su Rai 3 “Nero petrolio”, di Roberto Olla, in onda su Rai 1 il 21 settembre 2012 “Ombre sul giallo. Pasolini, l’ultima verità” di Franca Leosini, in onda su Rai 3 il 7 maggio 2005 “Pasolini, maestro corsaro” di Emanuela Audisio, 2015 “Pino Pelosi, la sua verità sulla morte di Pasolini”, online su www.beppegrillo.it, 2009 “Primo piano”, servizio di Roberto Scardova in onda su Rai 3 il 10 maggio 2005 “Segreti, bugie e omicidi. Ho ucciso Pasolini”, condotto da Massimo Picozzi, in onda su Crime+Investigation nel 2013 “Speciale Chi l’ha visto?”, servizio di Pino Rinaldi e Dean Buletti, in onda su Rai 3 il 13 luglio 2016 “Storie maledette. Ho ucciso Pasolini”, di Franca Leosini, in onda su Rai 3 il 23 ottobre 1994 “Storie maledette. Pasolini, quel corpo senza pace”, di Franca Leosini, in onda su Rai 3 il 19 ottobre 2014. “Tempi dispari”, in onda su Rai News nel 2010 “Un uomo fioriva” di Enzo Lavagnini, 1993 “Vita di ragazzi” di Claudia Borzi e Cecilia Ricchi, 2012 Intervista di Luca Ajroldi a Nino Marazzita, in onda nel Tg2 del 2 novembre 1976 Intervista di Piero Marrazzo a Giuseppe Santarsiero, in onda sulla Rai il 26 aprile 1976 Radio Radio Tv, intervista a Pino Pelosi e Roberta Torre, 2009 “Testimonianza di Sergio Citti”, di Mario Martone, 2005 Tg 1 del 5 novembre 1975 e del 4 dicembre 1976 Tg 1 e Tg 2 del 3 novembre 1975 Tg 1 Storia del 19 dicembre 2011 Tg 2 del 2 novembre 1975, del 1 dicembre 1976, del 4 dicembre 1976

297

ARCHIVI Centro Studi-Archivio P.P. Pasolini della Fondazione Cineteca di Bologna Istituto di Medicina Legale, Roma Museo Criminologico, Roma Rai Teche Tribunale dei Minorenni di Roma, atti dell’istruttoria e del dibattimento Tribunale Ordinario di Roma, atti dell’inchiesta del 2010-15 e delle precedenti inchieste

PERIODICI E QUOTIDIANI Cinecittà Newspaper, novembre 2005 I Quaderni de L’Ora, n°8, articolo di Gianni Borgna; del 3 dicembre 2014, articolo di Sara Pizzei Il Corriere della Sera del 10 e 29 marzo 2012, articoli di Paolo Brogi; del 7 agosto 2005, 6 febbraio 2013, 8 novembre 2010 di Paolo Di Stefano; 8 maggio 2005, di Dino Martirano ; 6 dicembre 2011, di Felice Cavallaro; 7 gennaio 1973 e 25 marzo 1975, di Pier Paolo Pasolini Il Fatto Quotidiano del 19 ottobre 2015, articolo di Antonio Padellaro; del 6 ottobre 2010, articolo di Massimo Fini Il Giornale del 17 ottobre 2010, articolo di Gian Paolo Serino; del 3 luglio 2011, di Aurelio Picca Il Giorno del 13 marzo 2010, articolo di Mariella Radaelli Il Manifesto del 10 novembre 2005, articolo di Guglielmo Ragozzino; del 6 dicembre 2013, articolo di Simona Zecchi e Martina Di Matteo Il Messaggero, articoli di Claudio Marincola del 23 luglio 2008, 13 aprile 2010, 18 aprile 2010, 5 aprile 2009, 19 novembre 2014, 31 maggio 2010, 30 ottobre 2015 Il Sole-24 ore del 15 maggio 2014, articolo di Graziella Chiarcossi Il Tempo del 29 marzo 2014, articolo di Augusto Parboni Il Venerdì di Repubblica, articolo di Paola Zanuttini, maggio 2008

298

L’Espresso del 9 novembre 1975, articolo di Giovanni Testori; del 31 marzo 2010, di Carla Benedetti; del 18 febbraio 2011, di Walter Veltroni e Gianni Borgna L’Europeo, numeri del 14 e 21 novembre 1975 L’Unità, numeri dal 3 novembre 1975 ad aprile 1980; del 10 maggio 2005; La Stampa, numeri dal 3 al 10 novembre 1975; del 2 dicembre 2014 Micro/Mega, 3/2009, articolo di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza; 6/2005, articolo di Gianni Borgna e Carlo Lucarelli Nuovi argomenti, ottobre-dicembre 2005, articolo di Franco Buffoni Oggi del 29 marzo 1995, articolo di Gianni De Paoli Polizia e Democrazia, marzo 2005 Repubblica del 28 febbraio 2009; del 30 dicembre 2005; del 10 luglio 2010; del 21 dicembre 2011

SITOGRAFIA pasolinipuntonet.blogspot.it sconfinamento.wordpress.com/category/pier-paolo-pasolini/ www.3soldi.rai.it, Grand Hotel Tevere, radiodocumentario di Alessandro Serranò e Antonella De Biasi www.adnkronos.com www.agi.it www.ansa.it brogliacciosalentino.blogspot.it/2010/05/pasolini-il-dubbioe-la-verita.html distribuzione.ilcinemaritrovato.it/per-conoscere-i-film/saloo-le-centoventi-giornate-di-sodoma/ enricogiammarco.com/2014/09/12/pasolini-monteverde/ www.articolo21.org/2014/10/indagine-sul-delitto-di-pp-pasolini/ www.articolo21.org/2015/11/arrivai-allidroscalo-di-ostia-alle-715-del-2-novembre/ www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/ www.doppiozero.com/materiali/interviste/arbasino-parla-dipasolini

299

www.futuroquotidiano.com/pasolini-pelosi-futuro-quotidiano www.ilprimoamore.com, articoli di Carla Benedetti e Gianni Giovannetti www.iltempo.it/cronache/2014/05/23/bergamelli-il-re-deimarsigliesi-tra-sequestri-e-donne-da-sogno-lupacchini-ela-magliana-1-1.1252943 www.italiataglia.it www.nazioneindiana.com/2010/04/09/omicidio-pasolinimartone-vs-belpoliti/ www.nazioneindiana.com/2015/11/13/pasolini-ragazzo-avita/ www.ninomancini.com www.pasolini.net www.pierpaolopasolini.eu www.poesia2punto0.com/2010/05/26/morte-di-pasolini-sergio-falcone-intervista-dario-bellezza/ www.storie.it/numero/il-calcio-di-pasolini/ www.succedeoggi.it/2013/09/indagine-su-pasolini/ www.tusciaweb.eu/2015/10/gli-amici-chiani-passeggio-pasolini/ www.vice.com/it/read/pasolini-ossessione-basta-956 www.youtube.com/watch?v=Jx9-STFok8w

FILMOGRAFIA “Brutti, sporchi e cattivi”, regia di Ettore Scola, 1976.

300

INDICE

Prefazione

7

Capitolo 1 Idroscalo

9

Capitolo 2 Tiburtina

12

Capitolo 3 San Basilio

53

Capitolo 4 Testaccio

79

Capitolo 5 Monteverde

108

Capitolo 6 San Lorenzo

127

Capitolo 7 Via Ostiense

142

Capitolo 8 Ponte Sant'Angelo

152

Capitolo 9 Pigneto

170 301

Capitolo 10 Ostia

185

Capitolo 11 Pietralata

206

Capitolo 12 Eur

229

Capitolo 13 Borgata Petrelli

253

Capitolo 14 Campo de’ Fiori

273

Bibliografia Videografia Archivi Periodici e quotidiani Sitografia Filmografia Immagini

295 296 298 298 299 300 303

302

Immagini

I fratelli Borsellino: a sinistra Franco e a destra Giuseppe (immagini tratte dal fascicolo processuale);

Una foto inedita dei Borsellino scattata nei pressi della bisca di via Monti di Pietralata;

303

Foto inedita (tratta dall'archivio personale del dottor Bolino) scattata dal campo di calcio verso la strada sterrata. La freccia il luogo del ritrovamento del cadavere;

Il corpo di Pasolini come venne rinvenuto. Si vedono nitidamente le tracce di pneumatico in direzione del corpo;

304

Dettaglio della spalla del cadavere: si vede nitidamente la traccia del pneumatico;

Le 3 immagini del fascicolo processuale che mostrano i pantaloni di Pelosi;

305

La zona della porta del campo di calcio dove avvennero le prime fasi dell'aggressione;

Il corpo di Pasolini. La recinzione visibile è palesemente intatta;

306

Il corpo di Pasolini ripreso in direzione di via dell'Idroscalo. La freccia indica dove venne rinvenuto l'anello;

La metà inferiore del cadavere di Pasolini;

307

La camicia di Pasolini "stesa" per essere fotografata. Si vede una delle maniche rigirata;

La "famosa" tavola Buttinelli e il bastone, entrambi poggiati sulla pavimentazione dell'Istituto di Medicina Legale;

308

L'etichetta della camicia di Pasolini evidenziata da un ignoto operatore senza indossare guanti;

Le scarpe sequestrate a Pelosi;

309

La traccia di pneumatici con il particolare della ciocca di capelli;

L'incontro con Renzo Sansone e la moglie Stefania Angelini;

310

Finito di stampare