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Italian Pages [112] Year 2016
Orso blu 68
Serge Tisseron
3 - 6 - 9 - 12 Diventare grandi all’epoca degli schermi digitali A cura di Pier Cesare Rivoltella
Titolo originale: 3-6-9-12 Apprivoiser les écrans et grandir, di Serge Tisseron © Éditions érès, Toulouse (France) 2013 Traduzione e cura di Pier Cesare Rivoltella
In copertina: immagine da Archivi ICPonline
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm), sono riservati per tutti i Paesi. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana n. 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org © Copyright by Editrice La Scuola, 2016 Stampa Vincenzo Bona 1777 S.p.A. ISBN 978 - 88 - 350 - 4390 - 4 eBook by ePubMATIC.com
Sommario
Presentazione Crescere nella società multischermo 1. 2. 3. 4.
La solita formuletta? Screen Education Le 3 A da ricordare sempre Tre cose per concludere
Serge Tisseron 3 - 6 - 9 - 12 Diventare grandi all’epoca degli schermi digitali Introduzione Capitolo primo Perché le campagne contro i rischi legati agli schermi sono inefficaci? 1. 2. 3. 4.
Troppo consumo di schermi o troppa sofferenza da dimenticare? Incoraggiare le buone pratiche Quel che gli schermi non fanno Trasformeremo le nostre relazioni con gli schermi solo tutti insieme
Capitolo secondo “3-6-9-12”, lo stato delle nostre conoscenze 1. Prima dei tre anni: il bambino ha bisogno di costruire i suoi punti fermi spaziali e temporali 2. Tra i 3 e i 6 anni: il bambino ha bisogno di scoprire le sue possibilità e di confrontare la sua comprensione del mondo con quella degli adulti 3. Tra i 6 e i 9 anni: il bambino ha bisogno di scoprire le regole del gioco sociale
4. Tra i 9 e i 12 anni: il bambino ha bisogno di eplorare la complessità del mondo 5. Dopo i 12 anni: il bambino si affranca dai riferimenti familiari
Capitolo terzo “3-6-9-12”, un percorso per tutte le età 1. 2. 3. 4. 5.
Prima dei tre anni Tra i 3 e i 6 anni Tra i 6 e i 9 anni Tra i 9 e i 12 anni Dopo i 12 anni
Capitolo quarto Facebook: quando i genitori non ne sanno (quasi) nulla 1. “Per i giovani, Facebook sostituisce il mondo reale” 2. “Mettono in piazza la loro intimità senza riflettere” 3. “Sono straordinariamente creativi in Internet” 4. “Sanno fare tutto senza bisogno di imparare” 5. “Chi usa il social network ha meno relazioni nella realtà” 6. “Le relazioni in rete sono meno autentiche di quelle reali” 7. “Facebook rende meno esigenti sulla qualità delle relazioni nella vita reale” 8. “Chi ci passa molto tempo diventa stupido o si deprime 9. “Su Facebook si perde l’autostima” 10. “Facebook ti fa ammalare”
Capitolo quinto Del buon uso della Rete 1. 2. 3. 4.
La messinscena del sé in Internet Perché aspettare la scuola media Usare i social network nelle istituzioni educative Un’educazione indiretta ai social network
Capitolo sesto Le quattro rivoluzioni delle tecnologie digitali 1. 2. 3. 4.
Una rivoluzione nella relazione con i saperi Una rivoluzione in relazione agli apprendimenti Una rivoluzione psicologica Una rivoluzione dei legami e della sociabilità
Capitolo settimo “3-6-9-12”, la scuola, gli enti pubblici e il mondo delle associazioni 1. 2. 3. 4. 5. 6.
Dai 3 ai 6 anni: imparare a “far finta di” Dai 6 ai 9 anni: la logica degli schermi, effetti e trappole Tra i 9 e i 12 anni: considerare le trasformazioni degli studenti Dopo i 12 anni: incoraggiare e valorizzare le pratiche di produzione Proposte per tutte le età Dieci giorni per addomesticare gli schermi
Conclusione In sintesi Schede Bibliografia
Presentazione
Crescere nella società multischermo
Ho conosciuto Serge Tisseron nel 1998, a Caen, in Normandia. Eravamo ospiti entrambi di Jacques Gonnet, professore di pedagogia alla Sorbonne, fondatore e direttore del CLEMI. Il CLEMI (Centre de Liaison de l’Enseignement et des Médias d’Information) ha rappresentato a livello internazionale una delle esperienze più interessanti e produttive di Media Education grazie al lavoro di un’équipe di ricercatori e insegnanti nella storica sede centrale di Rue de Vaugirard a Parigi e di una rete di referenti distribuiti capillarmente in tutta la Francia. Oltre a organizzare tutti gli anni La Semaine de la Presse dans l’Ecole, a tenere un prezioso e aggiornatissimo archivio di tutti i giornali scolastici pubblicati in Francia, a sviluppare pubblicazioni e ricerche a servizio degli insegnanti, il CLEMI ha per anni organizzato delle scuole estive a tema per l’aggiornamento professionale di educatori e insegnanti. Quell’anno, a Caen, il tema della scuola estiva era “Televisione e violenza”1. Gonnet sapeva che due anni prima avevo curato un numero monografico della rivista «Comunicazioni Sociali» sull’argomento (Rivoltella - Ottaviano, 1996) e mi invitò. Tisseron tenne la relazione introduttiva, che mi catturò immediatamente. In estrema sintesi vi sosteneva che a lui non interessava tanto cosa facessero i media ai bambini o, al contrario, cosa facessero i bambini con i media, ma cosa succedesse “lì in mezzo”. Erano gli usi, le transazioni, gli investimenti simbolici, le specificità che sempre l’incontro dei media con i suoi destinatari presenta, quello che secondo Tisseron era interessante. Mi catturò e mi convinse questo approccio, perché rifuggiva dalla tentazione della semplificazione, si manteneva equidistante tanto dalla demonizzazione che dalla sottovalutazione, invitava l’educatore a conoscere i media, discutere con il bambino, distinguere volta per volta contesti e
situazioni. È lo stesso approccio che sta alla base di questo libro che ho il piacere di mettere a disposizione dei lettori di lingua italiana.
1. La solita formuletta? A prima vista il titolo potrebbe suggerire che Tisseron vada alla ricerca di quello che sempre i genitori e gli insegnanti chiedono, soprattutto su un tema come quello dei media digitali rispetto al quale si sentono particolarmente a disagio: una soluzione chiara, sufficientemente sintetica, che senza richiedere molte riflessioni possa essere applicata con la garanzia di una certa efficacia. “3-6-9-12” sembrerebbe operare così: – individua delle “età critiche”, quelle indicate nella “formula” (3 anni, 6 anni, 9 anni, 12 anni); – spiega al genitore (all’educatore, all’insegnante) cosa è meglio che il bambino non faccia; – contemporaneamente gli indica cosa invece potrebbe (dovrebbe) fare. La lettura sgombera il campo da qualsiasi dubbio. L’approccio di Tisseron alla questione è problematico. Infatti, se da una parte sono chiaramente indicati i pericoli (le cose da non fare) alle diverse età, dall’altra questi pericoli vengono sempre bilanciati dall’indicazione delle opportunità che i media possono dischiudere al bambino. Non solo. Se da una parte le affermazioni sono sempre sostenute dalle evidenze della ricerca, dall’altra le indicazioni operative sono poi ricondotte ai singoli contesti e ai singoli bambini, necessariamente tutti diversi. Il risultato è esattamente il contrario di quel che l’adulto ricercherebbe. Tisseron non dice al genitore cosa deve fare, non gli consente di sentirsi tranquillo solo perché applica una ricetta. Lo invita a mobilitarsi, a leggere, capire, stare con suo figlio, osservarlo, comprendere i suoi bisogni e le sue paure. La regola del “3-6-9-12” lo aiuta, certo, ma non si sostituisce alla sua responsabilità genitoriale. Vale lo stesso per gli educatori e per gli insegnanti, cui il libro pure si rivolge. Quel che Tisseron auspica è una presa in carico da parte della società civile e delle istituzioni: il problema dei media digitali si risolve insieme, non da soli.
2. Screen Education Gli schermi digitali sono oggi i principali protagonisti della socializzazione come del tempo libero, dell’attività lavorativa e dei nostri spazi urbani. Gli schermi sono nelle nostre case, negli atrii delle stazioni e degli aeroporti, alla fermata della metropolitana; viaggiano con noi ed escono dalle nostre borse non appena percepiamo di avere qualche minuto libero da occupare; ci stanno in tasca, passiamo l’intera giornata telefonandoci, giocandoci, leggendovi un libro o rispondendovi alla posta elettronica. È una deriva che già nel 2006 (Rivoltella, 2006) segnalavo in chiusura di una importante ricerca internazionale sugli usi e le appropriazioni dei media digitali parlando di una “società multischermo”. A distanza di dieci anni quella tendenza è confermata, anzi conclamata. Parlare di una educazione agli schermi, oggi, significa parlare di un’attenzione educativa che: – non riguarda solo la scuola, ma anche la famiglia e i contesti dell’educazione informale e non formale; – contiene sia la preoccupazione classica della Media Education, ovvero di sviluppare l’empowerment del soggetto perché sappia rapportarsi criticamente con i media (Media Awareness), sia quella dell’ Education Technology che mira invece a sfruttare al massimo i dispositivi digitali come opportunità di apprendimento e di sviluppo cognitivo; – raccoglie le diverse “educazioni mediali” – stampa, cinema, videogiochi, televisione, computer, mobile devices, primo fra tutti il telefonino – trovando nello schermo digitale l’interfaccia capace di affermare oggi la loro compiuta convergenza (Jenkins, 2006). Mi pare una bella ipotesi metodologica.
3. Le 3 A da ricordare sempre A monte di questa ipotesi, o meglio al suo interno, si possono individuare quelle che si possono considerare le tre attenzioni-chiave della Screen Education. Cominciano tutte e tre per A:
– Autoregolazione. Come Tisseron dice esplicitamente nel libro, il problema dell’educazione non consiste nel proteggere il proprio figlio in modo tale da evitargli quanto più possibile di correre dei rischi; consiste piuttosto nel fornirgli quel che gli serve per poter scegliere da solo in maniera equilibrata. Questo comporta di dargli fiducia e, proprio perché si è fatta questa opzione, di accettare di correre gli inevitabili rischi cui l’esercizio della sua responsabilità lo esporrà. – Alternanza. La logica che deve guidare la dieta mediale dei bambini e dei ragazzi (e anche le attività di accompagnamento che gli adulti svolgono nei loro confronti) non è mai quella dell’aut-aut, ma sempre quella dell’et-et. I videogiochi non sostituiscono i giochi tradizionali, il tablet non toglie di mezzo il libro cartaceo. È sciocco sia arroccarsi nella difesa del vecchio, decretando l’ostracismo a tutti i media digitali, sia fare i nuovisti a oltranza che dichiarano che ormai tutto è digitale o nulla. Occorrono delle mediazioni, occorre una dieta equilibrata. – Accompagnamento. La terza A chiama in causa l’adulto. Il problema degli schermi – come qualsiasi problema educativo – non si risolve una volta per tutte, adottando filtri di navigazione o decidendo di non acquistare il cellulare al proprio figlio. Serve tempo, pazienza, capacità di lettura dei fenomeni, disponibilità ad affiancare il bambino crescendo insieme a lui.
4. Tre cose per concludere Prima di lasciarvi alla lettura del libro faccio ancora tre rapide considerazioni. La prima. Nel libro con frequenza si torna a contrapporre il mondo “concreto”, “reale”, “di tutti i giorni”, al mondo “virtuale”, “digitale”. È una contrapposizione funzionale alla spiegazione, ma occorre tenere ben presente che proprio Serge Tisseron ha contribuito con i suoi scritti a spiegare perché questo schema di lettura non funzioni. La realtà del digitale è altrettanto reale di quella delle mie esperienze materiali. Quel che voglio dire è che, se perdo dei soldi al videopoker, li ho persi davvero; se flirto con una persona incontrata in un sito di dating, posso poi finire per incontrarla per davvero. Allo stesso modo, quando nella fase di innamoramento sono mano nella mano al parco con la mia ragazza, il fatto di essere “realmente” con lei non impedisce alla mia immaginazione di idealizzarla, così che poi magari
quando me la sarò sposata finirò, solo allora, per conoscerla per davvero. Seconda considerazione. Il lavoro dell’educatore – sia esso il genitore in famiglia o l’insegnante a scuola – non sempre si esplica in maniera diretta quando si parla di educazione agli schermi. Tisseron lo spiega molto bene. Spesso, invece, quel che succede è che l’educazione sia indiretta, una sorta di effetto collaterale. È quello che molte volte mi è capitato di spiegare incontrando i genitori sui temi dei media digitali e del social network. Come al tempo della televisione, l’intervento più efficace è quello indiretto, quello che si esprime mediante quelle che si possono chiamare “glosse mediali”. Il glossatore, nel Medioevo, scriveva le sue annotazioni nei margini dei libri che intendeva commentare. Oggi, l’educatore è chiamato a fare altrettanto nei margini delle vite dei suoi ragazzi: una battuta, un commento, un suggerimento, un SMS, un commento in Facebook… Infine, come si sarà capito, i destinatari del libro sono genitori, insegnanti, educatori. Non solo del libro, ma del programma di cui esso fa parte, insieme a un sito, a un manifesto scaricabile, a degli incontri e dei laboratori con gli educatori e i bambini. Nel curarne la traduzione italiana abbiamo voluto mantenere questa impostazione rendendola disponibile anche per gli educatori del nostro Paese. Così il libro trova nel sito dell’Editrice (in Internet, URL: http://www.lascuola.it) il suo prolungamento on line. Dal sito sarà possibile scaricare il manifesto in digitale in modo da poterlo diffondere e/o stampare. E sempre sul sito sarà possibile trovare materiali e indicazioni relativi ai workshop2 per educatori, ragazzi e bambini che sono parte integrante della proposta di “3-6-9-12”. Cinque schedeesempio3 di questi workshop concludono questo libro. Pier Cesare Rivoltella
Serge Tisseron 3 - 6 - 9 - 12 Diventare grandi all’epoca degli schermi digitali
Introduzione
L’espressione “3-6-9-12” evoca, come si può intuire, quattro tappe fondamentali della vita del bambino: 3 anni, l’entrata nella scuola dell’infanzia; 6 anni, la prima elementare; 9 anni, l’avvenuto incontro con la lettoscrittura; 11-12 anni, il passaggio alla scuola media. Ma queste stesse tappe rappresentano anche un valido spunto per capire a che età e con quali modalità introdurre gli schermi nella vita dei nostri bambini. Di fatto, come esistono regole per introdurre nella dieta del bambino latticini, verdure e carne, allo stesso modo è possibile immaginare una dietetica degli schermi per imparare a usarli correttamente, né più né meno di quando si apprende a nutrirsi in modo sano. In ogni caso occorre rinunciare a due tentazioni: idealizzare queste tecnologie e demonizzarle. Attendersi dei miracoli dalle tecnologie sarebbe altrettanto sterile che non volere averci a che fare. Non sono che degli strumenti. Impariamo a non chiedere a essi quello che non possono dare e invece a chiedere quello che possono offrirci! E tanto per incominciare, introduciamoli nei tempi e nei luoghi più opportuni. Così riconosciamo che stabilire un itinerario di viaggio tra gli schermi appropriato alle diverse età è tutt’altro che facile. Tutto dipende dalla maturità del bambino, dalle relazioni che intrattiene con i suoi genitori, dalle pratiche che sviluppa a casa, a scuola, con i suoi coetanei. L’idea mi è venuta nel 2007, quando ho lanciato una petizione per impedire alle televisioni di destinare la loro programmazione a un pubblico sotto i tre anni. È allora che ho immaginato la formula “3-6-9-12” come un modo facile da ricordare per rispondere alle principali preoccupazioni dei genitori in tema di media. Quattro attenzioni: 3, mai mettere un bambino di meno di tre anni davanti al televisore; 6, non fargli usare una console videogiochi prima dei 6 anni; 9, accompagnarlo alla scoperta di internet tra i 9 e i 12 anni; 12, non lasciarlo navigare in maniera illimitata una volta che abbia raggiunto l’età per poterlo fare da solo. La soluzione di tutti i problemi si trova dunque in questi semplici consigli?
Evidentemente no! Tutti sappiamo bene che le campagne di sensibilizzazione basate su formule di questo tipo non hanno ottenuto grandi risultati e questo perché gli schermi sono utilizzati dagli adulti stessi per dimenticare i problemi che essi incontrano nella vita di tutti i giorni. Gli usi eccessivi e problematici degli schermi non sono solo una causa di possibili problemi, sono anche la conseguenza delle sofferenze cui quotidianamente ci tocca far fronte. Ecco perché campagne che invitino a fare un uso corretto degli schermi sono assolutamente necessarie, ma non sufficienti. Non serve a nulla denunciare i rischi che gli schermi ci fanno correre se non si riflette allo stesso tempo sulle ragioni che portano i genitori a lasciare i loro figli da soli davanti alla televisione e all’estrema solitudine in cui vengono lasciati riguardo a questi problemi. E allora vedremo che le possibilità aperte dallo sviluppo rapidissimo dei media digitali ci faranno considerare i bambini e i ragazzi allo stesso titolo dei loro genitori, come attori e partner del cambiamento. L’incoraggiamento nei confronti delle loro pratiche creative si dimostra spesso più efficace di qualsiasi invito a consumare di meno. Scrive Hannah Arendt ne La crisi della cultura: «L’educazione è lo spazio in cui si decide se amiamo abbastanza il mondo da diventarne responsabili, di più, se lo amiamo abbastanza per salvarlo dalla rovina in cui cadrà certamente senza questo rinnovamento, senza questo arrivo di giovani e nuovi venuti. È sempre grazie all’educazione che noi decidiamo se amiamo abbastanza i nostri bambini da rifiutare di escluderli dal nostro mondo, di abbandonarli a loro stessi, di sottrarre loro le opportunità di fare qualcosa di nuovo, qualcosa che noi non avevamo previsto, ma li prepareremo a rinnovare il mondo che condividiamo con loro».
Questo dovrebbe essere oggi il nostro programma: dare ai nostri figli la possibilità di fare qualcosa di nuovo che noi non avevamo previsto, e prepararli al compito di rinnovare il mondo. In questa prospettiva ci accorgeremo allora che il problema degli schermi non si pone solo a livello individuale o familiare. È un problema sociale. Il problema dell’eccesso di schermi non si risolve con la denuncia o colpevolizzando gli utenti, ma con la riscoperta di molteplici forme di legami sociali e con la nostra capacità di associarli ai nostri bambini in progetti creativi e socializzanti. È la condizione per fare in modo che possano apprendere cose nuove e che – perché no – anche noi possiamo apprendere da loro. In sintesi, noi non cambieremo il nostro rapporto con gli schermi se non tutti insieme. Ecco perché la regola “3-6-9-12” non riguarda solo la famiglia ma anche la scuola, la sanità, i poteri pubblici. Essa è una componente essenziale di quel vasto cantiere che è l’appropriazione degli schermi ma, come vedremo, non è l’unica.
Capitolo primo
Perché le campagne contro i rischi legati agli schermi sono inefficaci?
Non passa mese che non compaia un nuovo studio che lanci l’allarme sui pericoli degli schermi. E non è un fenomeno recente. I primi studi di questo tipo risalgono agli anni ’90: essi riguardavano i danni della televisione sui più piccoli e i rischi di un consumo eccessivo a tutte le età. E preciso “eccessivo”, con tutta l’approssimazione che l’aggettivo comporta, proprio perché la comunità scientifica non è mai giunta a precisare meglio a partire da quante ore quotidiane la nostra relazione con gli schermi divenga una vera e propria malattia. E forse è meglio così, dato che il problema più che di durata è di età e di uso. Occorre che ci convinciamo che non si può misurare con una bilancia quel che separa un uso virtuoso dalla malattia. L’Accademia Americana di Pediatria che dal 1999 è tra le organizzazioni più preoccupate di voler misurare a quante ore ammonti un consumo di schermi sostenibile, ha determinato che esso dovrebbe essere compreso tra una e due ore al giorno tra gli otto e i diciotto anni, ed è chiaro che due ore è il doppio di una sola! Ma siccome il consumo effettivo è ben più consistente, nell’ordine delle sette ore e mezza al giorno negli Stati Uniti e delle quattro ore e mezza in Francia [o in Italia, n.d.t.], il problema principale è lanciare l’allarme piuttosto che fissare una cifra ideale. Purtroppo le voci preoccupate dei professionisti rimangono senza seguito. Solo alcune famiglie agiate che hanno la possibilità di offrire ai figli attività diversificate e ben contestualizzate sembrano ascoltarle. Nel complesso il consumo di schermi non smette di aumentare. Quel che è peggio, questo consumo sembra diventare sempre più solitario. Ecco perché riteniamo di dover porre la questione in termini diversi. L’abuso degli schermi, giustamente indicato come la causa di numerosi problemi, è allo stesso tempo la conseguenza di una situazione che abbiamo la necessità
di comprendere se intendiamo fare qualcosa al riguardo.
1. Troppo consumo di schermi o troppa sofferenza da dimenticare? Se la cattiva informazione di chi li utilizza è stata finora la ragione dell’abuso di schermi, la sottolineatura circostanziata e vigorosa dei rischi che essi comportano dovrebbe essere sufficiente a ridurne il consumo. Ora, è facile constatare che le cose stanno diversamente. E due ne sono le principali ragioni. Anzitutto si tratta di uno spazio commerciale al centro di forti interessi che si appoggiano su una comunicazione pubblicitaria aggressiva e ingannevole. È quanto ha dimostrato in Francia [ma anche in Italia] il lancio di canali televisivi dedicati alla prima infanzia (0-3 anni) ed è quanto dimostra oggi la pubblicità dei tablet per i bambini molto piccoli. La seconda ragione ci riguarda più o meno tutti: infatti gli schermi digitali rappresentano in qualche modo una via di fuga dai problemi e dalle sofferenze che contraddistinguono la nostra vita quotidiana. La società attuale ci impone, infatti, di sentirci responsabili delle nostre azioni. Nel campo professionale questo fatto si traduce nella richiesta al lavoratore di dare prova di avere iniziativa. «Siamo passati dal lavoratore qualificato che deve seguire le istruzioni e obbedire ai compiti, al lavoratore competente che deve essere in grado di scegliere la propria condotta e di dimostrare l’efficacia di questa scelta» scrive Alain Ehrenberg. I lavoratori sono costretti ad adattarsi continuamente a esigenze sempre nuove e a trovare gli strumenti che stimano possano servire a raggiungere gli obiettivi che sono stati loro assegnati, e questo è motivo di notevole stress. Tutto ciò che produce effetti sul cervello torna naturalmente utile per rendere sopportabili queste tensioni: l’alcol, le droghe, le sostanze psicotrope, ma anche… gli schermi! Da questo punto di vista i videogiochi non sono diversi dalla televisione. Ed è chiaro che, se degli adulti si trovano in una simile situazione, le conseguenze sui più piccoli non potranno essere di poco conto. Al cospetto di adulti che cercano di sublimare sullo schermo i loro problemi sociali o professionali, saranno evidentemente tentati di fare altrettanto. Uno studio del decennio scorso aveva già dimostrato che i bambini che guardano di più la televisione sono quelli i cui genitori guardano la televisione. Questa è la ragione per cui gli allarmi sul consumo eccessivo di schermi sono senza efficacia: semplicemente perché molti genitori si sentono superati, e non solo dagli schermi. A questo riguardo è interessante notare che la
maggior parte degli studi nordamericani sui pericoli connessi al consumo di schermi, più che delle relazioni causali ha dimostrato delle correlazioni. Ad esempio, esiste una correlazione (ovvero una relazione statisticamente significativa) tra il consumo eccessivo di televisione, l’obesità e le difficoltà a scuola. Ma la relazione di causa ed effetto è molto più difficile da dimostrare. Ad esempio è possibile che il fatto di guardare molta televisione sia la causa dell’obesità e delle difficoltà a scuola, ma può anche darsi che il consumo eccessivo di televisione, l’obesità e le difficoltà scolastiche abbiano una stessa causa. Vi sono infatti genitori che in questo ambito rinunciano a qualsiasi autorità: lasciano che i loro figli guardino e mangino quello che vogliono senza dimostrare di avere un qualche progetto sul loro futuro. Come si capisce, in questo caso il consumo eccessivo di televisione e i disordini alimentari hanno la stessa spiegazione: la rinuncia dei genitori a educare. Ancora, molti di noi sanno bene che non è più possibile lasciare che le nostre vite siano condizionate dagli schermi, tuttavia non sappiamo come potrebbe essere altrimenti. Ed è normale che sia così dal momento che la violenza maggiore che gli schermi ci fanno consiste proprio nel farci rinunciare all’idea che vi siano soluzioni collettive ai problemi. Tanto nelle serie televisive che nei programmi dell’infanzia, dappertutto si assiste al trionfo degli eroi solitari. Si attiva così un circolo vizioso: le configurazioni familiari e sociali che mettono di fronte gli uomini del nostro tempo a una solitudine crescente fanno sì che si rifugino negli schermi, ma questo finisce per accrescere la loro solitudine. Così gli appelli degli esperti a ridurre il nostro consumo eccessivo di schermi producono l’effetto di accrescere ancor di più in noi l’angoscia di dover risolvere da soli dei problemi che riteniamo oltrepassino le nostre forze. Le esortazioni degli apocalittici si aggiungono a quelle dei manager e vanno a incrementare la serie dei compiti irrealizzabili e deprimenti. Ma allora, se sappiamo che lamentarsi dei danni degli schermi non serve a modificare le pratiche, perché tanti si ostinano a farlo? Perché questo atteggiamento è diventato un modo facile per distogliere l’attenzione da quel che lo potrebbe spiegare. Quelli che denunciano con maggior vigore i pericoli che derivano dal consumo di schermi sono quelli che meno riflettono e fanno riflettere su quello che provoca questo consumo: l’indebolirsi dei legami di coppia, la sofferenza al lavoro e in famiglia e, per i bambini, una scuola che vivono come molto lontana da quella cultura digitale nella quale essi cominciano a muoversi sempre più presto. In estrema sintesi, la denuncia
degli schermi senza incertezze e senza sfumature è diventato un argomento demagogico, cioè populista. Proprio per questo occorre che impariamo a non darvi peso.
2. Incoraggiare le buone pratiche Di fronte a una simile situazione, il problema è di proporre pratiche virtuose piuttosto che di continuare a denunciarne i pericoli. È quanto ha voluto fare in Francia l’Accademia delle Scienze. L’Appello che essa ha promulgato nel gennaio del 2013 (Bach - Oudé Lena - Tisseron, 2013) cerca di tenere in considerazione la complessità delle nostre relazioni con gli schermi, e proprio per questo non si pronuncia né a favore né contro di essi. Le tecnologie digitali vengono ricollocate nel solco della storia delle grandi invenzioni dell’uomo, e il loro valore viene stimato sulla base dell’uso che ne viene fatto. Ma allo stesso tempo vi viene continuamente ricordato che abbandonare un bambino davanti a uno schermo è un assoluto disastro educativo. Si tratta dunque più di una guida agli usi corretti che non di una denuncia degli usi scorretti. In sostanza, le indicazioni fornite vanno in tre direzioni: – apprendere l’autoregolazione. Questo comporta che si fissino per i più piccoli delle fasce orarie in cui vedere la televisione o un DVD e che invece si facciano dei contratti con i più grandi; – la pratica dell’alternanza. Essa si basa sulla diversificazione degli stimoli e l’incoraggiamento del bambino a sviluppare attività che servano a mobilitare i suoi cinque sensi e le sue dieci dita; – l’accompagnamento. Consiste nel far raccontare al bambino le sue esperienze con gli schermi in modo tale che possa utilizzare alternativamente la sua intelligenza spaziale e la sua intelligenza narrativa. Di fatto, se aiutato dall’adulto, il bambino impara a costruire il racconto di quanto ha visto e passa dal pensiero spazializzato tipico degli schermi al pensiero lineare del linguaggio parlato e scritto. Gli schermi, il cui senso è spesso confuso, diventano in questo modo per lui degli spazi di significazione. Era stata già la tesi del mio primo lavoro sui media audiovisivi pubblicato nel 1998 e intitolato: C’è un pilota dentro alle immagini? La risposta era evidentemente che non c’è che un unico pilota: lo spettatore stesso, a condizione che venga
educato a farlo.
3. Quel che gli schermi non fanno In realtà, l’educazione agli schermi non inizia con gli schermi ma molto prima, fin dal momento in cui il bambino costruisce i suoi primi punti di riferimento spaziali e temporali. Quest’ultimi il bambino li costruisce all’interno della sua relazione con un ambiente stabile e ricorsivo. La regolarità degli orari del pasto, della nanna, i rituali legati al bagnetto, al lavarsi i denti…, tutto ciò gli permette di costruire un rapporto con la durata che sia allo stesso tempo strutturato e strutturante. Purtroppo in molte famiglie i pasti non sono più ritualizzati, gli adulti mangiano in piedi o sul divano della sala, nel frattempo parlano al telefono o guardano la televisione. Per permettere al bambino di interiorizzare i suoi punti di riferimento temporali è allo stesso modo preferibile non lasciarlo davanti a uno schermo, ma davanti a un programma di cui si conosca di preferenza la durata in modo da potergliela comunicare in anticipo. Questo lo inviterà a cominciare a orientarsi. Purtroppo, molti genitori lasciano che il loro bambino si sieda davanti alla televisione, poi, dopo un po’ di tempo, gli dicono: “Adesso basta, l’hai guardata abbastanza!”. Questo è il contrario dell’apprendimento dell’autoregolazione. Occorrebbe invece dire: “Hai diritto a una mezz’ora o a un’ora di schermo, preferisci guardarlo adesso o più tardi?”, stimolando il bambino a esercitare la sua capacità di scelta, dunque la sua libertà. Alcuni genitori mi domandano a cosa serva parlare in questo modo a un bambino di tre anni, dal momento che, tutto sommato, non possiede ancora la nozione delle ore e dei minuti. Rispondo loro che una mamma dice a suo figlio quello che gli fa mangiare – purè, pesce, ecc. – anche se lui non capisce di cosa si tratti. Glielo dice per avviarlo alla comprensione del significato della nutrizione. Per quanto riguarda l’apprendimento del tempo è esattamente la stessa cosa. Ed è una buona ragione per lasciare il bambino davanti a un DVD piuttosto che a un flusso ininterrotto di programmi televisivi. Inoltre, dopo che il bambino avrà imparato a parlare, sarà bene invitarlo a raccontare quello che ha visto sullo schermo, come lo si invita a raccontare cosa gli è successo nella sua giornata, dato che gli schermi ne fanno parte. Aiutato dall’adulto, apprenderà allora a costruire il racconto di quello che ha
visto, con un prima, un durante e un poi, e registrerà questi punti di riferimento in modo che questo gli possa permettere, più tardi, di diventare il narratore della sua stessa esistenza. Il problema è che più i genitori sono preoccupati per le difficoltà della loro vita professionale, affettiva, sociale, e anche per le loro attività in Internet, e meno sono disponibili a trasmettere questi semplici punti di riferimento ai loro figli. E così diventa molto complicato per loro apprendere a leggere e scrivere dal momento che questa attività suppone giustamente la presenza di un pensiero organizzato attorno all’esistenza di un prima, di un durante e di un poi. Occorre dunque immaginare degli spazi che permettano a questi bambini di costruire quel che è mancato loro nel contesto familiare. La scuola è evidentemente uno spazio privilegiato per questo tipo di lavoro. I bambini dovrebbero essere incoraggiati alla costruzione narrativa, soprattutto a partire dalle immagini che vedono. È infatti essenziale mostrare loro fin da piccoli che gli schermi cui stanno davanti acquistano senso a partire dal momento in cui loro gliene danno. Per la stessa ragione, l’espressione orale dovrebbe essere maggiormente sollecitata già dalla scuola dell’infanzia. È inutile voler insegnare a leggere a bambini che nella maggior parte dei casi non hanno ancora costruito e interiorizzato dei punti di riferimento temporali affidabili e sicuri. È dunque attorno a questi punti di riferimento che la scuola dell’infanzia dovrebbe lavorare, integrandovi la dimensione degli schermi, che sono sempre presenti all’interno della vita familiare, anche se questo non vuole necessariamente dire che allora debbano essere introdotti gli schermi nella scuola.
4. Trasformeremo le nostre relazioni con gli schermi solo tutti insieme Vediamo un po’ meglio perché le campagne contro i pericoli degli schermi sono senza effetti. È perché si rivolgono agli utenti singolarmente presi che, gli adulti come i bambini, si sentono spesso soverchiati dai problemi su cui queste campagne pretendono giustamente di responsabilizzarli, quando non di colpevolizzarli. Ecco l’errore, mentre la soluzione è di fissare dei punti fermi e degli obiettivi attorno ai quali le strutture pedagogiche, educative, medico-educative e mediche possano misurarsi sugli stessi discorsi e lavorare insieme. È proprio questo l’obiettivo
di “3-6-9-12”. Non vuol dire che si debba rinunciare a coinvolgere i genitori, ma che occorre farlo in maniera diversa, in modo da dare loro la sensazione allo stesso tempo di impegnarsi per una causa importante e di essere accompagnati dall’insieme delle istituzioni che vi prendono parte. Torneremo naturalmente sullo spazio della scuola e sul ruolo che vi gioca la regola del “3-6-9-12” in vista di azioni che riguardino i bambini, i loro educatori e i loro genitori. Ma vedremo che non è l’unica struttura a poter essere coinvolta in questa impresa. Tutti i genitori che si sentono impotenti a risolvere da soli il problema che gli schermi pongono loro, tanto nella loro vita personale che in quella familiare, dovrebbero lasciarsi coinvolgere in un progetto puntuale, mirato e collaborativo. Pertanto è proprio dall’applicazione di “3-6-9-12” in famiglia che cominceremo, dal momento che si tratta della prima istituzione educativa che qualsiasi società si è sempre data.
Capitolo secondo
“3-6-9-12”, lo stato delle nostre conoscenze
In pochi anni le tecnologie digitali hanno trasformato la nostra vita pubblica, le nostre abitudini familiari e la nostra stessa intimità. I bambini più piccoli, grazie ai tablet, acquistano velocemente un’abilità che lascia stupefatti gli adulti, i più grandi sono incollati a giochi di cui i loro genitori non capiscono nulla e gli adolescenti sembrano gestire la loro intera esistenza attraverso il loro smartphone. Oltre tutto una cosa è certa: siamo solo all’inizio, come dimostra il fatto che si cominci a frequentare Facebook sempre più precocemente1.
1. Prima dei 3 anni: il bambino ha bisogno di costruire i suoi punti fermi spaziali e temporali 1.1. I vantaggi degli schermi Fin dalla sua nascita, il bambino inizia a sviluppare la sua conoscenza del mondo e di se stesso, ovvero una coscienza specifica e differenziata del proprio corpo, grazie alle sue interazioni con l’ambiente. I nuovi oggetti digitali, come i tablet, possono entrare a far parte di questi apprendimenti, tanto all’interno dell’ambiente familiare che al nido. Purtroppo la strategia commerciale che incoraggia i genitori a mettere davanti a un tablet il loro bambino, quando è ancora molto piccolo, per favorire la sua riuscita futura, ricorda molto quella già utilizzata dai produttori di televisione prima che diversi studi dimostrassero l’infondatezza di questo tipo di argomento. Certo, gli schermi interattivi offrono altre possibilità rispetto agli schermi non
interattivi: allo stato attuale delle ricerche, pare che essi ben si adattino alle forme sensorio-motorie dell’intelligenza infantile. Ma mancano studi in grado di misurarne le conseguenze a lungo termine. Nel frattempo, i giochi tradizionali manipolati nello spazio tridimensionale sembrano i più adatti allo sviluppo dei bambini. In effetti, un bambino ha bisogno di costruire i suoi punti di riferimento corporei e sensorio-motori. E per far questo deve poter annusare, toccare, portare alla bocca i suoi oggetti preferiti, scuoterli per vedere se fanno rumore, lanciarli in aria per guardarli cadere, rincorrerli… Il bambino che viene lasciato libero di svolgere queste attività costruisce i suoi riferimenti spaziali, scopre le possibilità del suo corpo e impara a orientarsi nello spazio. Dopo i riferimenti sensorio-motori, i riferimenti temporali sono sicuramente quelli più importanti per il bambino piccolo. Nulla gli consente di vivere con se stesso meglio che crescere in un mondo in cui i suoi ritmi siano regolari – quanto meno quelli della veglia e dei pasti – e dove adulti attenti ricordino al loro figlio gli eventi che ha vissuto in passato e diano un nome alle attività di cui sarà protagonista in futuro. Certo, contribuisce a questo anche il raccontargli una storia o lo sfogliare insieme le pagine di un libro di immagini. La cultura del libro è inseparabile dalla costruzione narrativa: c’è un prima, un durante e un dopo. Ma la cosa ancora più importante è che la capacità di costruire i propri riferimenti temporali è la condizione per percepirsi come soggetti della propria storia. È raccontandosi che si costruisce la propria identità. Il bambino che cresce avendo definito presto e in maniera solida i suoi riferimenti temporali si saprà collocare e orientare rispetto al mondo degli schermi digitali molto meglio di quello che non l’ha fatto.
1.2. I pericoli degli schermi Numerosi lavori dimostrano che il bambino a meno di tre anni non trae nessun vantaggio dall’uso di schermi non interattivi, ovvero la televisione e i lettori di DVD. I primi studi di questo tipo hanno riguardato l’aumento di peso, poi il linguaggio (Dennison et al., 2002). Questi lavori sono risultati tanto più importanti nella misura in cui molti DVD sono esplicitamente consigliati ai genitori per potenziare l’apprendimento linguistico dei loro bambini. Grazie a questi studi oggi sappiamo che si tratta di pubblicità ingannevoli. Non solo i DVD non accrescono l’intelligenza linguistica dei bambini che li guardano, ma
al contrario ne rallentano l’apprendimento. La ricerca più nota a tale riguardo è consistita in interviste a genitori di bambini di età compresa tra 8 e 16 mesi per invitarli a rilevare le parole utilizzate abitualmente dai loro figli in un elenco di 90. Quest’elenco includeva per esempio parole come “mamy” o “naso”. I genitori dei bambini di età compresa tra 17 e 24 mesi sono stati sollecitati in modo analogo a lavorare su un elenco di parole più impegnative. In questo secondo gruppo d’età le parole tipo erano ad esempio “pallone”, “camion” o “torta”. Il risultato è che per ogni ora al giorno che un bambino piccolo guarda dei DVD o dei video, i suoi apprendimenti di vocabolario diminuiscono da sei a otto parole rispetto ai bambini che non li guardano. Nel caso dei bambini di età compresa tra 17 e 24 mesi, questi stessi DVD non producono effetti né negativi né positivi sul loro vocabolario. La quantità di tempo spesa a guardare questi programmi è dunque direttamente correlata con il rallentamento degli apprendimenti. Questo studio è tanto più importante nella misura in cui i ricercatori hanno mostrato che il 40% dei bambini di tre mesi negli Stati Uniti guarda regolarmente la televisione e che questa percentuale sale al 90% a partire dall’età di due anni. In breve, non solo mettere un bambino davanti al televisore non comporta vantaggi, ma al contrario, comporta dei rischi. Una seconda domanda cui i ricercatori hanno cercato di rispondere è relativa alla differenza tra bambini che guardano tipi diversi di programmi. Ne hanno individuati di quattro categorie: i DVD e i programmi specificamente indirizzati ai bambini (come capita per i programmi delle reti tematiche per l’infanzia); i programmi che hanno un esplicito obiettivo educativo; quelli che non hanno obiettivi educativi e la cui unica finalità è il divertimento (come SpongeBob o Toy Story); infine i programmi della televisione degli adulti. Contrariamente alle idee diffuse, questi programmi così diversi non producono effetti diversi. In altri termini, per un bambino di meno di 24 mesi è impossibile parlare di programmi “adatti”. L’unica cosa che conta è il tempo passato davanti al televisore. Il fatto che i programmi ritenuti “adatti” non producano più effetti positivi degli altri in materia di acquisizione del linguaggio si spiega con la presenza di una colonna sonora incapace di adattare la sua intonazione allo stato psicologico del bambino. Altre ricerche hanno di fatto mostrato che quel che più conta è la capacità dell’adulto di modulare la sua voce in funzione dei propri stati emotivi e in armonia con quelli del bambino. I genitori aggiustano la loro intonazione, il loro sguardo e il loro atteggiamento in modo tale che le acquisizioni
linguistiche dei bambini siano supportate non solo dalle parole che sono in grado di comprendere, ma anche dagli sguardi che si scambiano reciprocamente e dalle posture corporee degli uni e degli altri. È questa la ragione per cui il fatto di leggere o di raccontare ogni giorno una storia a un bambino è correlato con una abilità linguistica importante. Non è così sorprendente nella misura in cui queste attività non incoraggiano nel bambino solo la comprensione, ma anche la ripetizione delle parole del vocabolario. I genitori che leggono spesso libri insieme ai loro bambini, o che raccontano loro regolarmente delle storie, rafforzano in maniera considerevole le loro capacità linguistiche. Chiaramente servono altre ricerche per esaminare gli effetti a lungo termine dei DVD e dei video destinati ai più piccoli sul loro sviluppo cognitivo. Ma il modo migliore di comportarsi sembra essere quello di preservare il più possibile i bambini molto piccoli dalla televisione. E gli specialisti della prima infanzia hanno un ruolo maggiore da giocare in questo senso, ripetendo che il “bagno linguistico” nel reale, con i suoi dispositivi emotivi di comunicazione, è senza alcun dubbio più ricco che l’esposizione a uno schermo. I pericoli della televisione sono stati allo stesso modo dimostrati per i bambini che giocano in uno spazio in cui la televisione è accesa senza che loro la guardino, vale a dire è un rumore di fondo (Schmidt et al., 2008). Il bambino che gioca in una simile situazione si comporta in effetti in modo molto particolare, anche se apparentemente si disinteressa dello schermo. Per comprenderlo, dei ricercatori hanno osservato per un’ora cinquanta bambini di 12, 24 e 36 mesi mentre giocavano nello stesso spazio in cui si trovavano i loro genitori. Quest’ultimi avevano la consegna di ignorare i loro figli salvo che fossero loro a richiederne l’attenzione. La qualità e la quantità dei giochi spontanei sono stati comparati nel tempo in cui la televisione è rimasta accesa e in quello in cui invece era spenta. I bambini non passavano più del 5% del loro tempo a guardare la televisione, ma i loro giochi sono stati nettamente differenti nel caso in cui fosse accesa o spenta. Quando era accesa, i loro giochi sono stati più corti in media di trenta secondi. Inoltre passavano meno tempo a concentrarsi su di essi. I loro momenti di attenzione intensa erano più corti del 25% e cioè di circa cinque secondi. Altre ricerche hanno dimostrato che la capacità di concentrarsi su un’attività è un importante fattore predittivo dello sviluppo futuro. Gli autori di questa ricerca concludono che la televisione è nociva per lo sviluppo dei bambini anche se è presente solo come rumore di fondo e che è preferibile che i genitori la
spengano quando i bambini sono in giro. Ma questi effetti sono duraturi? Fino a pochi anni orsono molti ricercatori ritenevano che gli effetti negativi dell’esposizione precoce alla televisione sparissero con il tempo. Ora, uno studio recente mette in discussione quest’illusione. Dei ricercatori canadesi e americani hanno in effetti dimostrato che un’esposizione precoce dei bambini alla televisione, compresi i programmi che pretendono di essere stati pensati per loro, li priva di apprendimenti fondamentali e ha un’incidenza diretta sul tipo di alunni che diventeranno. L’osservazione di 1314 piccoli canadesi, a 2 anni e mezzo, 4 anni e mezzo e a 10 anni, ha permesso di quantificare questa perdita. Lo studio conferma anzitutto quel che altre ricerche avevano dimostrato e cioè che la forma fisica ne risulta influenzata a lungo termine. Dopo le due ore al giorno, ogni ora in più passata davanti a un televisore si traduce di fatto, all’età di dieci anni, in una diminuzione del 9% dell’attività fisica generale, in un aumento del 10% dello sgranocchiare fuori pasto e del 5% dell’indice di massa corporea (IMC) che misura l’obesità. I bambini più esposti alla televisione divengono così “dei bambini meno autonomi, meno costanti e meno a loro agio nelle relazioni sociali”. Più precisamente, per ciascuna ora supplementare passata davanti al piccolo schermo da parte di un bambino piccolo, si sono notati una diminuzione del 7% dell’interesse in classe all’età di dieci anni, e del 6% delle abilità matematiche. Nessun impatto invece si nota sulle abilità della lettura. Ma la cosa più impressionante è l’influenza del consumo televisivo precoce sulla sociabilità. Ogni ora in più si è tradotta più tardi in un aumento del 10% del rischio di diventare una vittima o il capro espiatorio per i compagni di classe. Quest’ultimo risultato si può spiegare con il fatto che la frequentazione della televisione invita il bambino a diventare spettatore del mondo piuttosto che esserne attore. Infine, davanti a uno schermo non interattivo, il bambino non solo è passivo, ma sottoposto a dei colori e a dei suoni di un’intensità di gran lunga superiore a quella delle stimolazioni sensoriali abituali della sua vita quotidiana. Nulla ha senso per lui e il rischio è che rinunci a cercarlo.
2. Tra i 3 e i 6 anni: il bambino ha bisogno di scoprire le sue possibilità e di confrontare la sua comprensione del mondo con quella degli adulti
2.1. I vantaggi degli schermi Gli schermi interattivi fanno lavorare due tipi di intelligenza: quella intuitiva e quella ipotetico-deduttiva. Da una parte incoraggiano la soluzione intuitiva dei compiti e l’apprendimento per prova ed errore. Questo modello di apprendimento si definisce per due caratteristiche: non si tratta di comprendere per agire, ma di agire per comprendere, e l’errore non viene mai punito. D’altra parte, gli schermi interattivi sollecitano anche il pensiero ipoteticodeduttivo, come è noto sollecitando la capacità di anticipazione e il ritorno d’esperienza. L’utilizzatore mette in fila in questo modo i quattro momenti successivi definiti nel metodo di Claude Bernard2: l’osservazione, l’ipotesi, la manipolazione del reale, di nuovo l’osservazione. È il caso di numerosi giochi di strategia e di avventura. La sollecitazione di queste due forme di intelligenza dipende dal tipo di gioco, ma anche dalla personalità del giocatore, dalle sue scelte del momento e dai partner eventuali con cui si trova a interagire.
2.2. I pericoli degli schermi Se si parla di televisione, l’80% dei programmi che i bambini tra i 3 e i 12 anni guardano non sono destinati specificamente a loro3. Il carattere traumatico degli schermi a quest’età è legato a tre cause spesso associate: anzitutto la loro forte carica emozionale che investe il bambino di sensazioni che non hanno nulla a che fare con quelle con cui è chiamato a confrontarsi nella sua vita di tutti i giorni; poi l’impossibilità di dare loro un senso, dato che il bambino si trova il più delle volte solo davanti allo schermo, oppure in compagnia di fratellini e sorelline in ogni caso senza difese come lui; infine l’incapacità di gestire questa situazione potenzialmente traumatica attraverso il gioco. Nei bambni più piccoli, questa insicurezza generata dagli schermi si accompagna con un’attesa di rassicurazione che non arriva mai, con il rischio di provocare delle crisi di rabbia e/o di disperazione non appena lo schermo si spegne. Per comprendere quest’impatto è essenziale sapere che la relazione del bambino con i suoi giochi è multisensoriale, associa la vista, l’udito, il tatto e l’odorato. È in questo intreccio permanente che si tesse la sua immagine cosciente del corpo e che si stabilisce il suo sentimento di essere allo stesso
tempo “in un corpo” e “al mondo”. Peter Winterstein, pediatra tedesco, ha mostrato, utilizzando il disegno infantile, che questa prima funzione è compromessa nei bambini che sono forti consumatori di televisione. La consegna “disegnami un tuo compagno”, proposta nelle stesse condizioni a tutti i bambini che ha visitato in trentacinque anni, nel caso dei consumatori di televisione produce rappresentazioni di corpi deformati, amputati, e nel caso dei consumatori più forti, completamente aberranti (Winterstein Jungwirth, 2006). Quanto al sentimento di “sentirsi al mondo” – vale a dire, per il bambino piccolo, “in famiglia” – sembra a sua volta condizionato, come indica un altro studio realizzato su un campione di 55.000 bambini che guardavano la televisione tra i 71 e i 108 minuti al giorno. Questo studio ha dimostrato che più la guardano e meno si sentono parte della loro famiglia. Gli autori, d’altra parte, non ci dicono se i bambini si sentano parte della famiglia virtuale costituita dai personaggi delle loro serie preferite, ma certo non ci sarebbe da stupirsene. Nel caso dei videogiochi il problema è lo stesso: è molto importante che il bambino sia impegnato in attività che coinvolgano le sue dieci dita, per sviluppare l’abilità motoria, ma soprattutto per permettere la maturazione delle regioni cerebrali coinvolte. I videogiochi non possono dunque sostituire le attività tradizionali. Il problema è che non appena vengono introdotti nella vita del bambino, finiscono per catturare interamente la sua attenzione. E fanno problema soprattutto se vengono utilizzati per fuggire dal mondo concreto. Questo pericolo è meno legato al gioco in sé che alla scelta di un certo tipo di gioco. In effetti, qualsiasi giocatore è libero di scegliere. Si possono privilegiare le interazioni sensoriali e motorie (in questo caso si è portati a tenere d’occhio la comparsa di alcuni oggetti sullo schermo per farli scomparire, per impossessarsene o per classificarli); ma si possono privilegiare, al contrario, le interazioni emozionali e narrative attraverso le quali si racconta una storia sul modello dei “libri in cui tu sei l’eroe”. Un equilibrio tra queste due forme di interazione (sensorio-motorie e narrative) corrisponde a un gioco socializzante che accresca in parallelo le capacità mentali legate alla cultura spazializzata e quelle che sono legate alla cultura narrativa. Al contrario, il fatto di privilegiare esclusivamente le interazioni sensoriomotorie corrisponde a un gioco impoverente e costituisce nella maggior parte dei casi una forma di fuga davanti alla realtà e la ricerca di un rifugio.
3. Tra i 6 e i 9 anni: il bambino ha bisogno di scoprire le regole del gioco sociale 3.1. I vantaggi degli schermi Le diverse forme di intelligenza continuano a essere portate in gioco e gli schermi possono contribuirvi. Le strategie che il giocatore è invogliato ad attivare possono stimolare l’apprendimento di determinate competenze, ad esempio la capacità di innovazione. Gli schermi preparano così il bambino a una società dell’informazione in cui la riflessione strategica, la creatività e la cooperazione sono delle facoltà essenziali.
3.2. I pericoli degli schermi Tenuto conto della violenza presente su numerosi schermi, è preferibile rispettare le età raccomandate per la fruizione dei programmi televisivi e dei videogiochi. Allo stesso tempo, il dialogo in famiglia che permette al bambino di dare un senso a quello che ha visto e provato è indispensabile, come anche la valorizzazione della compassione e della solidarietà. Il telegiornale deve essere evitato prima dei sei anni e dev’essere subito associato a un accompagnamento da parte dei genitori. Per quel che riguarda Internet, il suo uso a quest’età rischia di indebolire due tipi di riferimento che il bambino in questi anni sta costruendo e che gli sono indispensabili: la distinzione tra spazio intimo e spazio pubblico da una parte, e la nozione di punto di vista dall’altra. La prima non si acquisisce che attorno ai sette o agli otto anni ed è essenziale per relativizzare i documenti trovati in Internet o per decidere che cosa poter mostrare agli altri di se stesso. Quanto alla nozione di punto di vista, essa permette di comprendere che più persone possono avere punti di vista diversi sullo stesso argomento. E ancora, questa nozione è indispensabile per entrare in Internet senza pericoli. Prima di poter navigare, il bambino dovrebbe assimilarla per evitare le trappole del Web.
4. Tra i 9 e i 12 anni: il bambino ha bisogno di esplorare la complessità del mondo 4.1. I vantaggi degli schermi
È questa l’età del cellulare e della scoperta dei videogiochi on line. Sarebbe meglio evitare i giochi con cui si gioca da soli e preferire i giochi multiutente, di preferenza in contatto di prossimità, vale a dire il caso in cui i giocatori sono presenti insieme nello stesso luogo. A quest’età si possono sviluppare molte attività creative che potranno orientare in maniera duratura il modo di usare gli schermi più tardi, in adolescenza.
4.2. I pericoli degli schermi Anzitutto, è chiaro, vi è il pericolo di dedicarvi troppo tempo. La presenza della violenza sugli schermi fa allo stesso modo problema. L’osservazione della condotta altrui, sia essa nella realtà o nella messinscena, è in effetti un fattore che favorisce lo scoppio o l’inibizione delle condotte aggressive. Questo fattore è comunque un elemento tra molti altri che ne aggravano o ne minimizzano i pericoli.
5. Dopo i 12 anni: il bambino si affranca dai riferimenti familiari 5.1. I vantaggi degli schermi Questà è, anzitutto, l’età dei social network. Essi favoriscono la familiarizzazione dei minori con i mondi digitali, ma costituiscono anche un nuovo spazio di sperimentazione sociale che permette loro di definirsi e di definire il mondo che li circonda. L’adolescente che frequenta i social network rinforza in ogni caso tanto più le sue competenze sociali quanto più va e viene tra le relazioni reali quotidiane e le relazioni reali mediate dalle tecnologie digitali. Quanto ai videogiochi, soprattutto quelli on line, ne sono stati scoperti alcuni vantaggi. Il principale è che svilupperebbero l’attitudine a lavorare in équipe e la curiosità nei confronti dello sguardo degli altri (Minotte, 2010), in termini di competenza e di conoscenza. Essi indurrebbero ogni giocatore di una squadra a porsi questa domanda: “Tra i miei contatti, chi sa fare cosa? Chi conosce cosa?”. Questa attitudine, una volta acquisita, può essere molto utile nella vita personale e professionale. Due comportamenti sono ugualmente molto diffusi: l’altruismo, ovvero l’atteggiamento che ha per fine ultimo il benessere degli altri; la reciprocità sociale, e cioè la capacità di un soggetto di interagire e di mantenere degli scambi sociali reciproci, ad
esempio rispondendo a un’azione positiva con un’altra azione positiva (Wang - Wang, 2008). Molti studi hanno dimostrato analogamente che i giochi che valorizzano l’aiuto reciproco e la cooperazione hanno il potere, in certe condizioni, di sviluppare questi comportamenti nella vita reale. Allo stesso tempo, gli utilizzatori hanno sempre di più la possibilità di partecipare a dei forum di discussione, sia in forma scritta che verbale, e a delle comunità integrate nel gioco stesso. Infine, se si parla di sparatutto in prima persona (in inglese identificati con l’acronimo FPS, First Person Shooter), il problema è più complesso: è stato dimostrato che nel caso di giocatori adulti, questi giochi sviluppano le prestazioni di attenzione al compito e la rapidità percettiva. Inoltre, in entrambi i casi, è documentabile il trasferimento di quanto viene appreso ai diversi ambiti della vita quotidiana. Il problema è che si tratta di studi condotti su adulti dal momento che i giochi del tipo FPS sono generalmente vietati ai minori di 18 anni (Bavelier, 2007). Ma, soprattutto, il tempo dedicato al gioco è spesso eccessivo e alcune capacità non sono state ancora studiate: la cognizione sociale, la comprensione degli altri, la lettura.
5.2. I pericoli degli schermi Il primo problema che viene evidenziato a questa età è quello dell’influenza delle immagini violente. Si può manifestare nella forma di un contributo all’inibizione delle condotte cooperative nelle relazioni sociali e alcuni autori hanno anche evidenziato il rischio di un passaggio alla condotta aggressiva. Ma, come nel caso dei bambini più piccoli, quest’influenza è legata a molti altri fattori associati alle condizioni di vita e all’educazione. Il secondo problema dell’esposizione agli schermi a quest’età (per molti genitori il principale) è il loro uso eccessivo, anche se la parola “dipendenza”, spesso utilizzata a questo riguardo, sembra assolutamente inadatta a definirlo. In effetti, a tutt’oggi nessuno studio scientifico consente di affermare che esisterebbe una “dipendenza” da videogiochi o da Internet che sia comparabile a quel che la stessa parola designa quando viene impiegata per il consumo di sostanze stupefacenti. Inoltre, trattandosi di adolescenti, si sa che lo sviluppo del loro cervello non è ancora compiuto e che la loro capacità di controllare gli impulsi potrebbe non essere ancora del tutto presente: le parole “dipendenza” o “assuefazione” che definiscono, in termini generali, la perdita del controllo degli impulsi da parte di un adulto che ne sia soggetto, sono
dunque inadatte a descrivere questa situazione nel caso dell’adolescente. Gli usi problematici dei videogiochi sono essenzialmente un indizio di problemi soggiacenti: depressione, mancanza di autostima, ansia sociale, ma anche violenze scolastiche, divorzi, lutti. Quanto ai social network, il problema è lo stesso. Un sentimento importante di solitudine legato a una bassa autostima può innescare il loro uso problematico. Ma il pericolo principale che essi comportano è di rendere pubbliche troppe informazioni personali, e/o di passarci troppo tempo. Un’educazione ai media, in questi casi, è indispensabile per mettere in guardia i giovani contro l’uso dei loro dati personali a loro insaputa e il pericolo che proviene dalla pubblicazione di fotografie che possono avere degli effetti negativi a lungo termine, ad esempio nella ricerca di un nuovo lavoro. Infine facciamo presente che l’espressione “pratiche eccessive” (spesso usata al posto di “dipendenza”) è ambigua. Un uso intensivo degli schermi giudicato come eccessivo rispetto alla media non necessariamente si configura come un comportamento patologico, anzi puà rappresentare un supporto per l’attività creativa, la socializzazione, l’arricchimento personale. Conviene dunque distinguere sempre tra usi animati dalla passione, che rappresentano un’opportunità di arricchimento personale, e usi patologici che invece costituiscono un impoverimento.
Capitolo terzo
“3-6-9-12”, un percorso per tutte le età
L’educazione non consiste nel proteggere e controllare un bambino, ma nell’insegnargli, progressivamente, a difendersi e orientarsi da sé. Per ottenere questo risultato il comportamento dei genitori si deve adattare alle diverse età del bambino. Quando è più piccolo ha bisogno di essere protetto, quindi occorre allontanare da lui i pericoli, mentre invece la capacità di assumersi dei rischi è essenziale quando diventa adolescente affinché possa sviluppare autonomia. Allora, il dialogo familiare diviene la cosa più importante. Forse alcuni genitori troveranno le indicazioni contenute in questo capitolo troppo dure, altri troppo permissive. Gli uni e gli altri avranno tutto il loro interesse a parlarne con i vicini e con gli amici che abbiano bambini della stessa età dei loro. Non ci poniamo qui nessun altro obiettivo che di gettare le basi per un dibattito pubblico che riteniamo indispensabile sul ruolo degli schermi all’interno della famiglia. Però a mo’ di prologo ricordiamoci che ben prima degli schermi sono stati i libri a rappresentare la vera e propria bestia nera dei genitori e degli educatori. Nel 1821, il pastore Heinrich Zschokke otteneva grande seguito presso di loro scrivendo: «La febbre della lettura è una curiosità senza misura che mira a soddisfare il suo spirito momentaneamente inattivo attraverso il parto dell’immaginazione o le rappresentazioni cui altri autori hanno dato corpo nelle loro opere. Non si legge per arricchire le proprie conoscenze, si legge il vero e il falso senza distinzione, senza cercare di sapere, solo per curiosità. […] Ci si compiace in quest’ozio dello spirito, allo stesso tempo gradevole e indaffarato, vissuto come un sogno». Lo schermo è percepito oggi come una macchina infernale che manda in cortocircuito l’influenza parentale esattamente come il libro lo è stato un
tempo. Ma questa famosa “influenza parentale” è mai esistita in forme così forti come a qualcuno piace immaginarsela? Non dimentichiamo che prima degli anni ’60 regnava quella che potremmo chiamare “la cultura del deserto”. I lettori nati dopo quegli anni, che sono la grande maggioranza dei genitori di oggi, sono troppo giovani per ricordarsene. Ma ne possono avere un’idea chiedendo ai loro genitori o, in alternativa, rileggendo La guerra dei bottoni, o andando a vedere qualcuno dei film che sono stati tratti dal romanzo. Vi scopriranno dei bambini che diventano grandi da soli insieme ai loro coetanei, i più piccoli rincorrendo i più grandi nel tentativo di imitare più spesso le loro bravate che le loro buone azioni; e dei genitori condannati a non sapere nulla della vita dei loro figli e a predicare consigli che hanno meno possibilità di essere ascoltati che se si applicassero a loro stessi. Il romanzo è ambientato in tempo di guerra, ma le cose non erano affatto diverse negli anni ’50 ed è probabile che questa sia sempre stata la situazione da quegli anni in poi. Dal 1970 al 2000, gli anni che hanno conosciuto allo stesso tempo la diffusione della contraccezione e il boom del settore immobiliare, fanno capolino tra i genitori due nuovi desideri: programmare la nascita dei figli e proteggerli da tutti i pericoli del mondo. Per raggiungere l’obiettivo hanno inventato la “cameretta dei bambini”, con l’idea di tenerci rinchiusi i figli il più possibile. Ma l’invenzione di Internet ha messo fine a questo sogno permettendo agli adolescenti di evadere senza abbandonare la loro camera. Perché l’uso di Internet – e in modo particolare dei social network come Facebook – vive di questo paradosso: essere allo stesso tempo dentro e fuori, insieme e da soli. Dopo la cultura del deserto, dopo quella della cameretta chiusa, si afferma quella che possiamo chiamare “la cultura della camera aperta sul mondo intero”. Tutte le tecnologie possono essere collocate nella camera dei bambini, è vero, e a volte sono loro a chiederlo. Ma vedremo che questa non è una ragione valida per accettare.
1. Prima dei tre anni Evitate il più possibile la televisione e i lettori di DVD e cercate di guardare, mentre i bambini sono presenti, solo i programmi a cui tenete veramente. Chiaramente bisogna evitare di piazzare il televisore nella loro camera. Ricordatevi che la prevenzione degli usi eccessivi di schermi in adolescenza inizia alla scuola dell’infanzia: quello che avrete ottenuto da
vostro figlio a quell’età sarà pertanto tutto guadagnato nella prospettiva di quando si tratterà di controllare il tempo che passerà più tardi davanti al computer. Non dimenticatevi mai che il bambino, fin dalla nascita, è sensibile ai modelli da imitare. Se vi vede fare il giocoliere con tre mele, tenterà presto di fare altrettanto. Se vi vede guardare la televisione, vorrà guardarla anche lui. E se vi vede smanettare sul vostro smartphone, farà lo stesso. Per questo motivo, se ne avete uno, cercate di tenerlo lontano da lui come si fa con molti altri oggetti in casa. Certo, a volte potete giocare con lui utilizzandolo. Se preferite il tablet, scegliete una pagina di accesso che sia adatta al vostro bambino. In entrambi i casi cercate di rispettare alcune regole di comportamento: 1) Rimanete con vostro figlio quando lo utilizza, e accompagnatelo; imparerete a conoscerlo meglio e proverà tanta più soddisfazione a interagire con quell’oggetto quanto più voi vi dimostrerete soddisfatti per quello che sarà capace di fare. 2) Riducete questi momenti di gioco con i dispositivi digitali a brevi periodi nella giornata e non vi dimenticate di cimentarvi insieme a lui con dei giochi tradizionali, poiché l’interesse del bambino per un’attività è spesso legato all’atteggiamento dei genitori verso di essa. 3) Non cercate di fargli “apprendere” chissà cosa, giocate con lui e basta. 4) Informatevi dell’esistenza di programmi adatti alle sue capacità, perché certamente non tutti lo sono! E dal momento che non esiste a tutt’oggi nessuno che vi possa aiutare nella scelta e che sia veramente privo di secondi fini, non abbiate fretta. I bambini che non hanno un tablet a disposizione non sviluppano alcun ritardo. Se ne utilizzano uno insieme a voi, questi momenti non devono incidere sulla loro possibilità di svolgere delle attività – che sono le più importanti alla loro età – in cui viene richiesto loro di usare tutti e cinque i sensi. Alcuni genitori rimangono estasiati davanti alla capacità del loro bambino di mettere in fila dei cubi sul loro telefonino, anche se poi non riesce ad assemblare quelli veri, fatti di legno.
2. Tra i 3 e i 6 anni Continuate evidentemente a non sistemare la televisione nella camera dei bambini e controllate il tempo che trascorrono davanti allo schermo: una mezz’ora al giorno è sufficiente. Non esitate a spiegare le vostre scelte alla baby-sitter o ai nonni, affinché possano ispirarsi alle stesse regole e cosicché
vostro figlio si trovi di fronte agli stessi divieti e agli stessi permessi da parte di ciascuna delle persone con cui si trova a passare una parte della giornata. Se i vostri genitori decidono di applicare altre regole quando i vostri figli sono da loro, è un loro diritto, ma è preferibile che questa scelta venga esplicitata. Non fate lo struzzo! Vostro figlio avrebbe l’impressione di trasgredire le vostre regole con i nonni sentendosi autorizzato a mantenere con loro questo segreto. Quanto ai nonni, sarebbe meglio che non dicessero ai bambini: “Ti lascio guardare la televisione più del dovuto, ma non dire niente a papà e mamma!”. Il bambino avrebbe l’impressione di poter provocare un grave conflitto tra i genitori e i nonni se viene meno a questa consegna. Il bambino per la sua intera esistenza dovrà invece continuare a capire che le regole possono essere diverse a secondo dei luoghi. Non è mai troppo tardi per spiegarglielo. Così fate molta attenzione a rispettare le età indicate per i film e i programmi che i vostri figli guardano. Prendete informazioni su queste indicazioni e leggete le recensioni dei film prima di lasciarli vedere ai vostri figli; questo vi permetterà, se li guarderanno senza di voi, di poterne poi facilmente parlare con loro in seguito. Se guardate un programma insieme a vostro figlio, è importante che lo facciate attivamente. Potete dare il vostro giudizio sulle immagini e invitare vostro figlio a fare lo stesso, in modo tale che il momento del consumo divenga un’occasione di scambio e non un’esperienza di fascinazione. Siamo convinti che quando c’è uno schermo acceso vicino a noi occorra solo guardarlo. È un errore. Abituiamoci all’idea che sia lì per suscitare i nostri commenti, esattamente come capita con un libro illustrato. Quando un genitore apre un libro illustrato insieme a suo figlio, non lo fa per limitarsi a guardare le immagini in silenzio. Mia figlia, quando giravo le pagine con lei, mi diceva sempre: “Papà, racconta!”. I piccoli si aspettano dal genitore che aggiunga delle parole alle immagini guardate insieme, delle parole che siano in grado di comprendere e che li introducano all’idea che lo schermo sia un supporto di relazioni arricchenti e non di isolamento. Questa è la ragione che spiega perché noi dobbiamo imparare a guardare gli schermi che ci circondano come se sfogliassimo un libro illustrato o come se stessimo visitando una mostra con degli amici, e cioè come un supporto di scambi. Per alcuni l’importante è guardare meno la televisione; di fatto, quale che sia il tempo che vi passiamo davanti, quel che è più importante è guardarla diversamente. Quanto ai videogiochi, se ci giocate in famiglia, preferite sempre quelli cui
si gioca in molti. I computer e la play-station possono essere un supporto occasionale di gioco in famiglia, o di apprendimento accompagnato, ma a quest’età giocare da soli su un dispositivo personale diventa rapidamente qualcosa di stereotipato e compulsivo. Il bambino da solo alle prese con il suo videogioco privilegia l’intelligenza operatoria su quella simbolica: non cerca di capire, ma di vincere, e la maggior parte dei videogiochi purtroppo gli consentono di attenersi a questo modo di fare. Infine, non dimenticate che allo stato attuale di sviluppo della tecnologia, le console di videogiochi comportano l’uso solo di qualche dito rispetto alle dieci di cui siamo dotati, e che il bambino sviluppa la sua immaginazione creando con le proprie mani. Gli automatismi del videogioco non sviluppano né la sua motricità fine né la sua creatività. Meglio, per stimolarlo, le numerose attività tradizionali, come disegnare, modellare, piegare, colorare, ritagliare, oltre al bricolage o al giardinaggio.
3. Tra i 6 e i 9 anni Continuate a non mettere la televisione nella camera dei bambini, e nemmeno il computer. Allo stesso tempo, continuate a stabilire delle regole chiare sui tempi di gioco e più in generale sui tempi che ciascuno dei vostri figli può passare davanti a uno schermo. Si tratta come si capisce di un contratto individuale che deve tenere conto di due cose: il bambino può gestire il suo tempo-schermo come più gli piace scegliendo tra i differenti dispositivi cui ha accesso, ma allo stesso tempo deve dedicare del tempo ad altre attività che coinvolgano il suo corpo e le sue relazioni con i coetanei. Se vostro figlio gioca con i videogiochi, è meglio che rispetti le indicazioni riportate sulla confezione, e cioè le norme PEGI (acronimo di Pan European Game Information)1 che definiscono un’età preferenziale per ciascun gioco. Ma tenete presente che vostro figlio può accedere a Internet o a videogiochi che non sono fatti per la sua età, magari attraverso i fratelli più grandi, o gli amici. È dunque essenziale stabilire per ciascun tipo di schermo delle regole che siano esplicite all’interno della famiglia, e prendersi del tempo per parlare insieme sul da farsi. La miglior prevenzione consiste in un’educazione che metta l’accento sull’importanza dell’aiuto reciproco, della compassione e della solidarietà. Parallelamente familiarizzatevi con i videogiochi, i film e i fumetti che i
vostri figli potrebbero guardare. Non si tratta solo di controllare che la loro età corrisponda alle indicazioni dei produttori, ma di disporre di elementi per poter parlare con loro di quel che vedono. Quando il bambino cresce, il comportamento protettivo del genitore si deve accompagnare a un discorso che non si limiti a invitarlo a non fare certe cose, ma che espliciti le ragioni per cui deve imparare a proteggersene da solo. Quando lo si protegge ci si deve guardare molto bene dal non contrapporre la sua debolezza all’ipotetica forza dell’adulto. È meglio non dire mai al bambino che alcuni programmi gli sono vietati “perché è ancora piccolo” e che sono “riservati ai soli adulti”. Si otterrà l’effetto opposto. Nel suo desiderio di “essere grande”, il bambino si affretterà a guardare quello che gli è stato proibito per provare a se stesso che non è così piccolo come l’adulto sembra credere! Create un profilo per il vostro bambino sul computer di famiglia in modo tale che abbia accesso a un proprio spazio personale e impostate le opzioni di gioco della play-station. Per quel che concerne Internet, andarci prima dei 9 anni presenta poco di interessante e molti pericoli. D’altra parte non si aspetta che un bambino vada per strada e abbia un incidente per spiegargli il significato dei semafori. Così è un’ottima prevenzione introdurre vostro figlio al diritto alla privacy e all’immagine, poiché sono problemi che si presentano continuamente quando si naviga in Internet. Per questo motivo fatelo prendere parte alla scelta di fotografie di famiglia. Quali si decide di non pubblicare? Certamente non tutte, occorre scegliere… I genitori possono domandare ai bambini di indicare quali conservare e di quali invece sbarazzarsi. Si tratta di un’attività familiare condivisa, orientata a un obiettivo concreto. E che presenta un importante beneficio complementare: grazie a quest’attività apparentemente banale, il bambino interiorizza il suo diritto sulle immagini in cui lui viene rappresentato. La sua immagine ha un senso, essa gli appartiene. Incoraggiate vostro figlio a fare delle fotografie. Se cambiate macchina fotografica, dategli quella vecchia, o comprategliene una. Potrà fare tutte le fotografie che vuole grazie al digitale. Ma occorrerà che pensi a ricaricare la batteria e a trasferire le immagini nel computer di famiglia quando la memoria sarà piena. Discutendo con lui dei suoi scatti, aiutatelo a riappropriarsi della sua immagine e a rispettare quella degli altri. Intanto continuerete a sensibilizzarlo sul diritto di ciascuno a essere proprietario della sua immagine. Non esitate a dirgli che la tal fotografia che ha scattato vi disturba e domandategli di cancellarla. Allo stesso modo, quando lo
fotografate, chiedetegli se vuole conservare la fotografia che gli avete fatto. Il bambino cui non si riconosce il diritto alla sua immagine, farà gli stessi errori nel gestire la sua… o la vostra. Al contrario, se gli si riconosce questo diritto, avrà meno la tendenza a pubblicare qualsiasi cosa su Internet. Rifletterà sulle immagini che lo ritraggono e sarà più incline a chiedere il permesso degli interessati per le fotografie in cui compaiono i suoi amici o i genitori. Infine, non dimenticate che non è mai troppo presto per parlare del potere della pubblicità su di noi, degli effetti delle immagini sulle nostre scelte e dei modelli economici che stanno dietro a tutto quello che ci si presenta come “gratuito”, sia nella vita di tutti i giorni che sugli schermi.
4. Tra i 9 e i 12 anni Determinate anzitutto a quale età vostro figlio potrà avere il suo telefono cellulare. E siate consapevoli del fatto che non appena lo avrà si allontanerà un po’ più velocemente da voi! Fissate in anticipo anche delle regole d’uso che valgano per tutti i componenti della famiglia, soprattutto durante la cena: mentre si è a tavola, nessuno risponde al telefono, nemmeno i genitori! È il miglior modo di far capire ai bambini, attraverso l’esempio e non a parole, che c’è un momento adatto per ogni cosa e che se si vuole vivere bene insieme certe regole devono essere rispettate e condivise. E una volta che il telefono è stato acquistato, accertatevi che lo custodisca ben nascosto quando è in giro, come gli altri strumenti tecnologici, così da ridurre il rischio che glielo rubino. Potete dargli del denaro che può scegliere di usare per dei videogiochi, ma a condizione che questo sia sempre in accordo con le regole che avete fissato. Se conoscete i suoi giochi, vi accorgerete presto che le età indicate dal codice PEGI riportate sulla confezione sono spesso un po’ esagerate: un gioco “12+” può spesso essere giocato a 10 anni. Se non avete familiarità con il mondo dei videogiochi, entrate in Internet per verificare per quale età siano raccomandati, oppure informatevi su dei siti specializzati2. Se non ne avete voglia o tempo, allora fate rispettare le norme PEGI. Continuate a limitare il consumo di schermi lasciando che vostro figlio distribuisca come vuole il suo tempo-schermo tra televisione, playstation e computer, se ne ha uno. Ma prendetevi del tempo ogni giorno per parlare con lui di quel che ha visto, di quello che i suoi amici guardano e di quel che
condivide con loro. Non vi dimenticate che parlare degli schermi costringe ad attivare forme di pensiero che non sono messe in moto da essi: il bambino che racconta quel che ha visto su uno schermo passa da una forma di pensiero più spazializzato e atemporale a una costruzione narrativa. Impara così a far funzionare delle capacità mentali poco sollecitate dagli schermi. Il momento della cena è perfetto per questo tipo di esercizio… a condizione, ancora una volta, che trascorra senza televisione e senza telefono. Quest’età è anche quella in cui i ragazzi sono ansiosi allo stesso tempo di esaltare la loro originalità e di far parte di un gruppo. Discutete con vostro figlio di quel che trova su Internet e insistete sul diritto di ciascuno all’immagine e all’intimità. In pratica questo vuol dire che non si possono pubblicare commenti, foto o video riguardo a terzi senza il loro consenso. Ricordategli anche che non dovrà mai scrivere cose a qualcuno che non potrebbe dirgli in faccia e chiedetegli di non attivare mai la webcam. Se alcuni genitori hanno deciso di introdurre i loro figli a Internet prima dei 9 anni, occorre naturalmente continuare ad accompagnarli anche dopo. Ad esempio ripetendo loro con regolarità le tre specificità della rete cui occorre attenersi: 1) tutto quello che vi si pubblica può diventare di dominio pubblico; 2) tutto quello che vi si pubblica resterà in rete per sempre; 3) tutto quello che vi si trova chiede prudenza poiché alcuni dati sono veri, altri falsi. A questo scopo potete proporgli tre esercizi: – proponetegli di costruire un falso profilo personale in Internet e invitatelo a mostrarlo durante la ricreazione o ai giardini pubblici, oppure di farne un cartellone e di appenderlo in casa. È probabile che lui si lamenti: “Ma è impossibile, quel che ho scritto sono cose mie!”. Sarà allora facile fargli notare che, pubblicando in Internet queste informazioni, avrebbe preso in considerazione senza reticenza alcuna di renderle accessibili all’intero pianeta. E comprenderà meglio che pubblicare informazioni in Internet corrisponde ad essere sotto gli occhi di tutti; – per sensibilizzarlo al fatto che tutto rimane per sempre in Internet, mostrategli dei disegni e dei testi che ha realizzato in passato. Proponetegli di creare una pagina in Internet in cui inserire queste informazioni. Risponderà che lui vuole una pagina che rifletta quello che lui è oggi perché quello che faceva due anni prima è “deludente”, anzi “ridicolo”. Rispondetegli allora che tutto ciò che pubblica oggi sarà ancora lì dopo tre anni! In tal modo potrete dissuaderlo dal pubblicare dati personali di cui potrebbe vergognarsi in
futuro; – infine, spiegategli che in Internet molti esagerano la portata di quel che succede loro solo per mettersi in evidenza. Ditegli: “In Internet, tu dici sempre la verità? No? Beh, pensa che gli altri fanno altrettanto!”. Imparerà così a non fidarsi di chi non conosce e anche a relativizzare il modo in cui i suoi amici si presentano sul Web. Forse eviterà un giorno di deprimersi vedendo quel che gli altri raccontano di loro stessi in Facebook. Infatti è stato dimostrato che nei social network tutti si presentano in una luce così favorevole che ciascuno ha l’impressione che tutti gli altri abbiano una vita più divertente! E questo può generare depressione…
5. Dopo i 12 anni L’adolescente comincia a navigare da solo in Internet. In pratica spesso lo fa già da prima. All’inizio della prima media essere iniziati a Facebook è un elemento ineludibile della socializzazione. Infatti più di tre quarti dei ragazzi di età compresa tra 11 e 13 anni possiedono già un telefono, quasi sempre connesso a Internet. È importante non rinunciare a fissare delle regole d’uso. Definite insieme degli orari di navigazione e non lasciate che vostro figlio disponga di una connessione notturna illimitata in camera sua. Se vi chiede di sospendere qualsiasi forma di controllo su quel che fa, pensate a quel che potrebbe trovare in Internet prima di accettare. Non pensate che sia troppo tardi per ribadire le limitazioni o per insegnare a vostro figlio delle cose in materia di tecnologie digitali. Anche se davanti a voi si preoccupa di farvi vedere che lui sa già tutto e non ha bisogno di consigli, ricordatevi che i ragazzi apprezzano il fatto che i genitori si preoccupino per loro: anche se vostro figlio sembra rifiutare i vostri consigli, è colpito dal fatto che voi glieli diate. Sfruttate allora tutte le occasioni per parlare con lui di quel che trova in Internet, soprattutto a proposito della sua sicurezza e dell’immagine che ha di sé. L’adolescenza, infatti, è un’età in cui il ragazzo è troppo preoccupato della rappresentazione di sé che lui fornisce agli altri ed è anche un’età in cui è particolarmente vulnerabile ai cattivi consigli. Discutete con lui dello scaricamento dei files e del plagio fino a quando non avrà compreso quel che è legale e quel che non lo è e che la legge comune si applica anche a Internet. Discutete con lui anche di come si debba
comportare riguardo alle informazioni di contenuto problematico e alle conversazioni non attendibili che può trovare in Internet: non esitate a parlare con lui della pornografia e delle molestie on line. Parlate con lui anche dei limiti che avete fissato per essere certi che abbia capito bene. Stabilite un contratto (a voce) riguardo ai suoi impegni e in merito alle vostre aspettative in tema di risultati scolastici: un peggioramento sensibile dei voti è un indicatore che dev’essere preso molto sul serio. Se trovate che vostro figlio passi troppo tempo a videogiocare o in Internet nonostante i suoi voti siano buoni, potreste cercare di capire meglio quello che sta facendo ponendogli tre domande. 1) Chiedetegli se ha mai pensato di fare dei videogiochi la sua professione. Se la risposta fosse sì, sarebbe un buon segno, occorrerebbe aiutarlo a realizzare i suoi propositi. 2) Chiedetegli se gli capiti di costruire delle immagini o dei film mentre gioca. Se la risposta fosse affermativa ci sarebbero poche possibilità che finisca per chiudersi in un’attività senso-motoria stereotipata e compulsiva. Chi costruisce dei video, generalmente lo fa in collaborazione con altri, si tratta di una pratica socializzante. Se invece lo fa da solo, proponetegli di farlo con i suoi amici, o con voi se vi interessa! 3) Infine, chiedetegli se gioca da solo o con altri. Il caso di chi gioca da solo, soprattutto on line, è il più problematico. Di solito questo tipo di ragazzo è solo nel suo ambiente reale, soprattutto scolastico. Chi invece dichiara di giocare insieme ad altri solleva un altro problema: conosce i suoi compagni di gioco? Se risponde che non li conosce, c’è qualche motivo di preoccupazione: chi preferisce giocare con degli sconosciuti ha spesso delle difficoltà relazionali nella vita concreta. Occorre allora incoraggiarlo a incontrare per davvero gli altri videogiocatori che fanno squadra insieme a lui nel gioco. Ho conosciuto un adolescente che apparteneva a una coorte in World of Warcraft. Ha insistito perché i componenti della sua coorte si incontrassero nella realtà, cosa che finalmente accadde. Tutti i giocatori scoprirono così che il loro capo era un giovane disoccupato, che viveva con sua madre e passava la giornata intera a fumare hashish: la coorte si è sciolta all’istante! Le esperienze positive possono rivelarsi tali anche dopo che ci si è incontrati: si può scoprire che il capo della coorte è un personaggio brillante o che un personaggio secondario è invece
un adulto capace di aiutare i giocatori più giovani nel loro percorso professionale. In tutti questi casi la prova di realtà è salutare. E se il ragazzo risponde che gioca con dei compagni che conosce, gli si può domandare se li conosce perché li ha incontrati una volta o perché si ritrovano con regolarità. Il caso di un adolescente che gioca con dei compagni con cui si incontra durante il giorno è chiaramente il meno problematico: basta aiutarlo ad alternare gli incontri nel mondo fisico e quelli nel mondo digitale. In generale questi ragazzi crescono con il loro gruppo d’età e abbandonano i videogiochi quando i loro amici se ne allontanano, più spesso per cominciare a sviluppare interessi sessuali.
Capitolo quarto
Facebook: quando i genitori non ne sanno (quasi) nulla
“Mia figlia di 12 anni ha aperto un profilo in Facebook e si rifuta di darmi il suo codice di accesso”, mi dice una mamma. Quindi ci sono degli adolescenti che interagiscono con i genitori grazie ai social network. Ma è vero che spesso i discorsi che gli adulti fanno al riguardo possono dissuaderli dal farlo. Per capirlo basta passare in rassegna i dieci luoghi comuni che più di frequente si ascoltano in giro sul tema. Al di là dei pericoli che sono reali e che spesso vengono denunciati, Facebook è diventato per i ragazzi uno strumento formidabile al servizio della costruzione della loro individualità e della loro scoperta delle regole del gioco sociale. Ma certo è anche uno strumento di cui fanno conoscenza da soli, a loro rischio e pericolo.
1. “Per i giovani, Facebook sostituisce il mondo reale” Di fatto, non è vero per niente. Questo spazio rappresenta piuttosto per loro un modo comodo e diverso di passare il loro tempo quando hanno qualche ora libera, un po’ come la televisione lo è stata per la generazione precedente. In effetti, se i social network sono molto importanti per loro, il contatto con gli amici nel “mondo reale” lo è ancora di più. Certo, c’è una nuova regola che sembra vada rispettata. In Francia, come in Italia, la media è di circa 350 “amici”: chi ne ha di più rischia di passare per un esibizionista e di mettersi in ridicolo; chi ne ha di meno è uno “sfigato”. Ma tutti sono consapevoli del fatto che un “amico su Facebook” non è necessariamente un “amico vero”. Per loro Facebook è un po’ come il cortile della ricreazione, dove ciascuno si tiene al corrente delle novità, si confronta con quel che
pensano quelli che appartengono al suo gruppo dei pari, dimostra la sua prontezza di spirito, dice delle cose che non oserebbe dire a tu per tu al suo interlocutore, finge… Facebook è uno spazio ludico e divertente, e non ti obbliga a nulla. “Le ragazze postano delle foto con dei tramonti bellissimi”, dicono i ragazzi con tono di presa in giro. “I ragazzi discutono dei loro stupidi giochi di guerra”, si vendicano le ragazze (Minotte, 2010). In ogni caso nessuno pretende di tenere delle conversazioni su dei temi seri. È chiaro che le discussioni approfondite non sono la ragion d’essere di Facebook mentre il flirt, divertente e moderato, è una delle sue principali funzioni. Insomma, questo mondo virtuale non sta affatto per raggiungere quello reale. Può tutt’al più rimpiazzarlo quando non è possibile uscire e vedersi di persona.
2. “Mettono in piazza la loro intimità senza riflettere” È vero. Molti ragazzi entrano nei social network senza avere consapevolezza del grandissimo numero di persone che può avere accesso ai loro dati personali. Quelli che hanno una scarsa autostima possono essere tentati di mostrare la loro intimità per catturare l’attenzione del maggior numero di interlocutori possibile. Ma più i ragazzi capiscono quali sono i pericoli di Internet, e più prendono sul serio la protezione dei loro dati personali e della loro sfera privata. Di qui l’importanza di spiegarglieli, fin dalla scuola primaria, prima che possano esporsi in modo pericoloso. Dopo che hanno capito, si dimostrano molto meno ingenui di quanto spesso gli adulti si lamentino, anche se sembrano più superficiali di quanto i loro genitori vorrebbero. Sono attenti a non divulgare troppo le loro informazioni personali e hanno imparato a rispondere alle domande indiscrete con delle informazioni di fantasia: si inventano false identità e delle false caselle di posta elettronica per depistare le aziende che vogliono accapparrarsi i loro indirizzi. Messi di fronte, come gli anziani, a molto pagine da riempire ogni volta che cercano un’informazione in Internet, sanno, meglio di loro, che non devono compilare che i campi obbligatori. Ma allo stesso tempo non sembrano particolarmente preoccupati del fatto che tutto quello che mettono in Internet possa divenire di dominio pubblico e rimanere in Internet per sempre. I più minimizzano anche il rischio che delle fotografie e dei dati personali possano essere messi in rete da terzi senza il loro consenso. E la società della sorveglianza generalizzata sembra preoccuparli meno di quanto
non preoccupi i loro vecchi. Cambieranno invecchiando? O è un cambiamento della società quello che si annuncia?
3. “Sono straordinariamente creativi in Internet” No, non si deve mitizzare l’attività creativa dei ragazzi in Internet. Se si considera l’insieme delle loro attività, il loro attegiamento nei confronti della rete è più passivo che partecipativo. Un’indagine condotta nella Svizzera di lingua francese nel 2011 mostra che non sono che un 7,3% quelli che aggiornano regolarmente il loro blog, twittano o mantengono un sito Web; il 25% lo fa occasionalmente e il 68,3% non lo fa mai. È anche molto raro che dei ragazzi prendano parte a dei forum di discussione e pochi di loro ne sanno abbastanza da comprendere che cosa succeda dietro all’“interfaccia utente”: quelli che si autoproclamano pirati informatici o gli appassionati di informatica che vengono consultati dai loro compagni di classe rappresentano un’eccezione. Uno studio inglese (JISC, 2007) giunge a un’analoga conclusione: un’estensione dell’accesso dal punto di vista tecnico non ha migliorato la capacità generale degli adolescenti di trovare, classificare e comprendere informazioni in Internet. Per la maggior parte di loro, il Web interattivo non è un Web partecipativo. E quel che è peggio, la maggior parte di loro ignora purtroppo la natura del contratto che di solito firmano senza leggerlo. Un contratto che stabilisce che ciascun utente concede a Facebook «una licenza irrevocabile, perpetua, non esclusiva, trasferibile ovunque senza costi (compreso il diritto a concedere delle sub-licenze) a utilizzare, copiare, rappresentare, diffondere, riformattare, tradurre, estarre (tutto o in parte) e distribuire questo contenuto».
4. “Sanno fare tutto senza bisogno di imparare” Esiste un’altra versione dello stesso errore. Negli anni 2000 Marc Prensky ha conosciuto una notorietà incredibile per aver sostenuto che le tecnologie digitali non avrebbero nessun segreto per i giovani dal momento che loro “ci sono nati” (Prensky, 2001). Essi sarebbero dei nativi digitali. Quanto agli altri, quelli che erano cresciuti prima della comparsa di queste tecnologie, sarebbero stati condannati a rimanere degli immigranti digitali: incapaci di imparare bene un linguaggio con cui non erano cresciuti, sarebbero stati
condannati a chiedere ai loro figli di spiegarglielo. Tutte le ricerche condotte su quest’ipotesi hanno alla fine concluso che è sbagliata. Anche se nati nella società digitale, gli adolescenti non per questo sono dei prodigi del digitale. Conoscono meglio i servizi e le interfacce utente, sono spesso in grado di proteggere meglio la loro vita privata. Ma l’idea di una generazione-internet che maneggia il digitale a occhi chiusi è un mito. La maggior parte degli adolescenti non conosce gli argomenti che fanno litigare i sostenitori e i detrattori di Internet. La loro familiarità con lo strumento dipende dal tempo che ci passano e che i loro genitori non ci passano. Per forza! Mica devono fare le corse, pensare alla cucina e ai lavori di casa, e nemmeno guadagnarsi da vivere od occuparsi della loro vita di coppia. Ma allora che cosa manca agli adulti perché le loro competenze in materia di Internet possano rivaleggiare con quelle dei loro figli? La curiosità senza preoccupazioni che i ragazzi mettono in tutte le cose! Curiosi e senza preoccupazioni, i figli dell’epoca digitale hanno fatto quello che i giovani che hanno provato tutto fanno da sempre: si appropriano dei nuovi strumenti che sono messi a loro dispozione più in fretta di chi è maggiore di età. Non è una questione di competenza, ma di desiderio.
5. “Chi usa il social network ha meno relazioni nella realtà” Falso, è piuttosto vero il contrario: non solo le reti digitali non isolano i loro utilizzatori dalla cerchia dei loro amici, ma rinforzano le relazioni sociali in presenza e permettono loro di stabilirne di nuove (Hampton, 2007). Detto altrimenti, chi ha delle relazioni nel mondo virtuale non cerca di saperne di meno di quel che succede nel mondo reale, ma aggiunge a questa preoccupazione quella per quanto succede nel mondo virtuale. I processi di interazione prendono avvio in chat, per posta elettronica o nel social network, allo stesso modo che nelle relazioni faccia a faccia. Ma dato che queste relazioni si sviluppano il più delle volte tra pari, i genitori tendono a pensare che i loro figli finiscano per avere sempre meno relazioni. Con loro, certo, è vero. Ma non in senso assoluto. Internet favorirebbe allo stesso modo il ripristino delle relazioni con persone che si sarebbero completamente perse di vista a causa dei vincoli rappresentati dagli studi, dal lavoro e dagli impegni familiari. Infine, Internet potrebbe favorire le relazioni tra gruppi sociali nella misura in cui le norme sono meno stringenti nell’ambiente virtuale che in
quello reale. Le relazioni tra uomini e donne, ad esempio, potrebbero uscirne semplificate. In effetti in Internet c’è meno controllo sociale e questo porta le persone a interagire su temi di cui non discutono abitualmente. Anche in questo caso, Internet non si sostituisce alle comunicazioni nell’ambiente fisico, ma si aggiunge a esse.
6. “Le relazioni in rete sono meno autentiche di quelle reali” Ancora una volta la risposta è no. Certo, il modello di comunicazione faccia a faccia è più ricco dal punto di vista sociale e psicologico rispetto a quello che tutti i mezzi di comunicazione a distanza possono garantire. L’interazione diretta permette di individuare meglio quel che sente e pensa l’interlocutore e dunque di comprendere meglio la sua personalità e le sue aspettative. Ma gli strumenti di comunicazione a distanza rispondono a delle necessità psicologiche che non sono della stessa natura. È per questo che il caro vecchio telefono fisso, anche lui accusato di impoverire le relazioni, ha vissuto a suo tempo uno sviluppo impressionante. Di fatto, se le relazioni faccia a faccia chiamano in gioco più canali di comunicazione, questo non significa che quindi la comunicazione sia più autentica. Al contrario, il venir meno in Internet di alcune inibizioni che caratterizzano la vita sociale può favorire l’autenticità, come anche il fatto di incontrare degli interlocutori con cui si condividono degli interessi forti e che può proprio per questo farceli sentire come particolarmente vicini.
7. “Facebook rende meno esigenti sulla qualità delle relazioni nella vita reale” Ancora una critica non motivata. Non solo nulla prova che le relazioni in Internet siano meno autentiche che nella vita reale, peggio, nulla prova che chi se le concede non accetti piuttosto delle relazioni più superficiali nella sua vita quotidiana. È proprio il contrario quello che sembra succedere. Di fatto, nella vita reale, le nostre relazioni si organizzano per prossimità fisica, come capita a scuola, al lavoro, con i vicini. Al contrario, le relazioni in Internet si organizzano a partire da centri di interesse condivisi. Si entra in contatto con persone che si giudicano vicine perché hanno gli stessi interessi, ad esempio gli stessi gusti musicali. Nella vita reale, questi riscontri sono più aleatori. I
social network come Facebook aumentano dunque le nostre possibilità di organizzare delle relazioni più forti e più durature. Infatti, Internet permette esattamente lo stesso tipo di relazione che nella vita reale, ma gli incontri e i livelli relazionali si organizzano in modo differente. Nella vita reale le persone che hanno deciso di avvicinarsi cominciano di solito con il raccontarsi delle banalità. Poi possono scambiarsi informazioni più personali, ad esempio sui loro figli, sul perché si trovano lì, sul loro lavoro. È solo in una terza fase che possono decidere di parlare dei loro interessi e delle loro passioni, finendo a volte per scambiarsi dei buoni indirizzi, dei film o dei pezzi musicali. La relazione in Internet si sviluppa esattamente in senso inverso: si comincia con il rendere pubblici i propri interessi, così da favorire degli scambi di informazioni con gli altri interlocutori. Solo in un secondo momento, se inizia a profilarsi una relazione di simpatia reciproca, si comincia a parlare di sé per poi, se è il caso, in un terzo momento, incontrarsi per davvero.
8. “Chi ci passa molto tempo diventa stupido o si deprime” Forse perché Facebook è lo spazio della chiacchiera e degli scherzi goliardici, appare a volte come un’incitazione a essere stupidi. Ma Facebook non ha generato questo bisogno di divertimento, di comunicazione e di amicizia, permette soltanto di soddisfarlo più facilmente. Da questo punto di vista, Internet in generale e Facebook in particolare, non conducono a un mondo artificiale, ma permettono di arricchire il mondo reale. I giovani ci perdono il loro tempo? Né più né meno che i loro genitori quando restavano sdraiati davanti alla televisione o ascoltavano per ore sempre lo stesso disco. Per quanto riguarda la depressione è vero che gli utilizzatori di entrambi i sessi ne presentano più spesso i sintomi. Se si parla di utilizzatori regolari, il rischio aumenta del 36% per i ragazzi e dell’86% per le ragazze. I social network accelerano la spirale depressiva degli adolescenti che presentano questa tendenza. Sono degli acceleratori di depressione, più che delle vere e proprie cause. E ancora, sembra che i ragazzi che navigano con frequenza siano più spesso in sovrappeso e che le ragazze soffrano di insonnia (Belanger et al., 2011). Ma i ricercatori si sono sorpresi nel constatare che gli adolescenti che non navigano mai in Internet presentano anch’essi un rischio accresciuto di depressione (31% in più per i ragazzi, 46% in più per le ragazze). La ragione si potrebbe trovare nel fatto che i ragazzi senza Internet
sono tagliati fuori dall’ambiente culturale dei loro amici. Quanto ai sintomi di depressione presenti nei forti utilizzatori di Facebook, tanto adolescenti che adulti, hanno ottenuto di recente una spiegazione. Dipenderebbero dallo sguardo che sviluppano su loro stessi in relazione a quello che invece sviluppano verso gli altri (Grace Chou - Edge, 2013). In pratica, nei social network tutti si presentano nel modo migliore possibile. Così ciascuno ha l’impressione che gli altri abbiano una vita decisamente migliore, e questo causerebbe la depressione. Una simile spiegazione regge se si suppone che i frequentatori di Facebook non sappiano che le persone tendono a gestire la propria identità in questo modo idealizzante. Ma c’è da sperare che questo sia sempre meno vero. Di fatto sempre più giovani hanno ormai degli amici che li invitano a mettere a punto al meglio il loro profilo e a non essere ingenui nei confronti dei profili idealizzati presentati dagli altri.
9. “Su Facebook si perde l’autostima” Facebook ha l’ambizione di procurare a ciascuno dei suoi adepti un “capitale sociale” che consiste nella conoscenza di persone in vista che siano in grado di far ottenere loro delle opportunità d’impiego, dei buoni stages o dei viaggi. La misura di questo capitale ha dimostrato che non si trattava di una mitologia, e tuttavia la sua realtà è ben diversa dalle pretese ostentate. Il capitale sociale di chi è iscritto in Facebook esiste, ma degli studi hanno dimostrato che chi ha un migliore capitale sociale nella realtà, ad esempio per ragioni di appartenenza familiare, ottiene maggiori benefici anche in Facebook. In altri termini, il fatto di possedere un certo potere nella vita reale permette di usare la Rete in modo più efficace e di ottenere inviti a feste, contatti per uno stage, un impiego… Al contrario, il fatto di non avere che uno scarso potere nella vita reale, rende difficile la costituzione di una rete sociale virtuale efficace. Ancora una volta, l’una non rimpiazza l’altra, ma vi si aggiunge. L’interesse di Facebook non si limita tuttavia alla costituzione di questo capitale sociale, anche se più fantasmatico che reale. È stato dimostrato che il fatto di visitare regolarmente le pagine dei propri amici aumenta l’autostima. I giovani iscritti in Facebook presenterebbero un livello di autostima superiore a quello dei loro coetanei che non sono in Facebook (Steinfeld et al., 2008). Questo livello di stima riguarda allo stesso tempo quel che
chiamiamo la stima del sé privato, e cioè quel che ciascuno pensa di se stesso, e la stima del sé pubblico, ovvero quel che ciascuno pensa di quel che gli altri pensano di lui. La stima di sé è un elemento determinante per la riuscita di molti progetti personali come gli studi, le relazioni sentimentali, la ricerca di un lavoro. Il fatto di frequentare la propria pagina di amici potrebbe quindi contribuire indirettamente ad aumentare il proprio tasso di riuscita, anche se l’esistenza del capitale sociale, come capita nel film The social Network, merita di essere relativizzata.
10. “Facebook ti fa ammalare” Non solo non sembra che le cose stiano così, ma, al contrario, gli scambi mediati in Internet presenterebbero una funzione quasi terapeutica dal momento che permettono a delle persone che hanno delle difficoltà relazionali nelle situazioni reali di interagire più facilmente grazie alla Rete. Esse migliorerebbero le loro attitudini sociali e potrebbero aumentare la loro fiducia persino nelle interazioni faccia a faccia. È questo chiaramente il caso degli adolescenti introversi. Coloro che dichiarano di sentirsi a disagio nelle interazioni sociali faccia a faccia, ovvero che stanno male se devono entrare in contatto con delle persone fisiche perché si sentono facilmente intimiditi, sembrano fare un uso più marcato dei social network e sviluppare con il tempo una maggiore dimestichezza nelle relazioni della vita quotidiana. Sembra che questo sia anche il caso di coloro che si sentono poco attraenti fisicamente e temono di scoraggiare i loro interlocutori per via del loro aspetto. Costoro possono prendere fiducia in se stessi grazie alle relazioni sociali in Rete prima di affrontare la realtà. È noto infatti che l’aspetto fisico è un fattore importante della riuscita nelle relazioni sociali: i belli si fanno degli amici con maggiore facilità, vengono invitati più spesso, ottengono più facilmente un lavoro. Quelli che hanno o pensano di avere un difetto fisico temono le relazioni faccia a faccia per questo motivo. Ma la comunicazione in Internet consente loro di mettere in evidenza altre qualità e di incontrare i loro interlocutori nella realtà quando la relazione è già stata attivata, così da evitare l’impatto dissuasivo del loro aspetto. È quel che gli internauti sintetizzano quando dicono: “In Internet nessuno sa che hai un cane!”. In conclusione, e contrariamente a quel che i più sono tentati di pensare, i social network presentano dei vantaggi per gli adolescenti in termini di relazioni sociali, se non di beneficio psicologico.
Ma l’adolescente che frequenta i social network non consolida le sue competenze sociali se non si sforza di mantenere un vai-e-vieni tra le relazioni reali e quelle digitalmente mediate. In tutte e due le direzioni. Uno scambio in Facebook può essere ripreso in cortile il giorno dopo, così come una relazione di amicizia o un conflitto nati all’uscita di scuola possono essere ripresi più tardi, la sera, in Facebook. Per i genitori non ha dunque senso preoccuparsi oltre misura se i loro figli adolescenti passano molte ore in Internet o sul cellulare, a condizione che possano comunque ritrovare i loro amici in relazioni concrete quotidiane. Ma molte ore alla settimana non significa molte ore al giorno… E questo non deve far dimenticare ai genitori e agli educatori le indispenabili attenzioni da tenere verso l’incremento di esibizionismo o di violenza. Le aggressioni su Facebook non sono più accettabili che nella realtà e comunque gli eccessi perpetrati nell’anonimato digitale spesso si accompagnano alle aggressioni dirette contro le stesse vittime. Sottostimare l’impatto degli insulti in Internet, della creazione di falsi profili e di foto truccate, rischierebbe di provocare un catastrofico effetto boomerang: la libertà di parola coltivata su Facebook senza ritegno né attenzione alcuna finirebbe presto o tardi per trasferirsi sul piano dello scambio fisico. Fortunatamente sempre più capi di istituto sono consapevoli della porosità del confine tra mondo digitale e mondo fisico, e si attivano per mettere in atto le adeguate misure di prevenzione.
Capitolo quinto
Del buon uso della Rete
L’intimità è essenziale per l’essere umano, ma Internet ne ha trasformato le regole aprendo delle nuove possibilità. Per comprenderne i meccanismi, nel 2001 ho proposto di considerare l’esistenza di un “desiderio di estimità” che ho definito come il fatto di rendere pubblici alcuni elementi della propria vita intima al fine di valorizzarli grazie ai commenti di coloro che abbiamo scelto per esserne testimoni. È un comportamento diverso sia dall’esibizionismo che dal conformismo, e contribuisce allo stesso tempo alla costruzione dell’autostima e alla creazione dei legami. Da questo punto di vista, le relazioni interpersonali in Internet si organizzano esattamente come nella vita reale. Sono un processo di conoscenza reciproca che si sviluppa da un’intimità non condivisa verso un’intimità che viene condivisa in modo sempre maggiore. Allo stesso tempo, dato che la rivelazione di una parte della propria intimità comporta dei rischi, ad esempio la derisione o la manipolazione, il desiderio di estimità si manifesta piuttosto nei confronti di persone che ci siamo scelte. Ma l’estimità, proprio come l’intimità, non viene gestita allo stesso modo nelle diverse età. Ecco perché cercheremo di comprendere in questo capitolo cosa Internet abbia cambiato nei nostri modi di esprimere il nostro sé, le ragioni del perché occorra attendere la scuola media prima di lasciar entrare i propri figli nei social network, infine quel che queste tecnologie offrono dal punto di vista didattico ed educativo. Invece di accontentarsi di rilevarne criticamente i pericoli, è molto meglio investire per farne degli spazi di scambio e di educazione tutte le volte che vi siano dei giovani di mezzo.
1. La messinscena del sé in Internet
Il desiderio di mostrarsi in Internet presenta diverse caratteristiche che è importante che i genitori e gli educatori conoscano.
1.1. Una domanda inevasa e un pubblico sempre ignorato In Internet, la particolarità del desiderio di estimità è di poter essere indirizzato non a una persona precisa, ma a una folla di sconosciuti. Il risultato è che finisce per assumere determinate caratteristiche. Infatti la presenza, reale o immaginaria, di un pubblico preciso influenza il processo di presentazione di sé nel senso di una conformità in relazione alle attese (Zajonc, 1965). Da questo punto di vista si può dire che Internet definisca una situazione nuova in cui la presenza del pubblico è certo reale, ma allo stesso tempo può essere completamente ignorata. Nei mondi digitali, infatti, la persona con cui entriamo in contatto non è né fisicamente presente come in una relazione reale, né del tutto assente come nelle relazioni immaginarie. Essa è presente attraverso un’immagine, figurativa o simbolica, con cui è possibile stabilire sia una relazione identica a quella che di solito si stabilisce con un oggetto reale, sia una relazione identica a quella che si stabilsce con un oggetto immaginario. Certo, è sempre possibile stabilire una relazione con un oggetto reale che privilegi il polo immaginario della relazione: succede quando continuiamo a non voler vedere quest’oggetto o questa persona reale secondo l’idea che ne abbiamo. Per questo, il fatto che l’oggetto sia reale fa sì che la scelta di considerarlo secondo l’immagine che ne abbiamo non possa essere mantenuta a lungo. Ma nelle relazioni mediate da uno schermo è più facile ignorare la realtà del proprio interlocutore anche sui tempi lunghi. La mediazione dello schermo accresce indiscutibilmente il rischio che la relazione ne esca falsata. Allo stesso tempo, il rischio legato alla presentazione di sé può essere anch’esso ignorato in un modo che apre la strada a tutti gli eccessi. La tendenza a volersi rendere visibili a tutti i costi, soprattutto in adolescenza, può condurre a scelte eccessive fatte solo per ottenere il maggior numero di “clic”, sul modello del sistema di Google in cui le informazioni che compaiono per prime sono quelle che vengono più consultate. Abbiamo battezzato questo processo “googlizzazione dell’autostima” (Tisseron, 2008).
1.2. Le virtù dell’invisibilità La possibilità di camuffarsi in Internet è spesso utilizzata dagli adolescenti
per costruirsi un’identità fittizia e per esplorare, con la garanzia dell’anonimato, nuovi modi per entrare in contatto, sedurre, avviare delle relazioni. Molte piattaforme consentono di fatto di “sperimentarsi” in diverse identità per vedere che effetti questo produca. Ma non sempre succede. Di fatto i siti si dividono in due categorie opposte: da una parte, vi sono quelli che al momento della registrazione richiedono il nome, lo stato civile e l’indirizzo e-mail degli utenti così da non lasciare alcuno spazio alla simulazione; dall’altra, vi sono quelli che impongono l’anonimato e l’uso di un nickname. È tra questi due estremi che si trova l’essenziale di tutto quel che succede in Internet. In altre parole quelli che vogliono mostrarsi lo possono fare e quelli che vogliono nascondersi possono fare altrettanto. Ma se il nickname permette occasionalmente la simulazione, in altri casi funziona come una maschera grazie alla quale fare esperienza di una forma di autenticità. È in particolare il caso di social network specializzati in conversazioni intime. Queste comunità offrono spunto a domande e risposte sulla qualità dei piaceri, le possibili forme di incontro, la bisessualità, i doveri coniugali, il desiderio di avere figli, la prevenzione dell’AIDS, le difficoltà sul lavoro, i lutti, i problemi di salute. Gli scambi sono a volte vivaci, spesso infiammati, ma sempre rispettosi (Welzer-Lang, 2009).
1.3. Un’intimità-ambiente In opposizione all’intimità condivisa con qualcuno, l’intimità condivisa con un gran numero di persone è stata definita intimità light. La sua funzione è di mantenere un legame sociale leggero, suscettibile di essere attivato in qualsiasi momento. È qualcosa di molto simile ai tradizionali “cocktail mondani” che permettono alla borghesia bene di riattivare una volta all’anno dei legami giudicati potenzialmente utili evitando di creare una prossimità troppo marcata che del resto nessuno desidera. Leisa Reichelt (2007) parla al riguardo di “intimità-ambiente” e ne sottolinea gli aspetti positivi. Questa nuova situazione ci permette di stare vicini a delle persone che attirano la nostra attenzione anche se non abbiamo la possibilità di prendere parte alla loro vita così come lo desidereremmo. Se se ne presenterà l’occasione, questo ci consentirà di risparmiare tempo quando le incontreremo nella vita reale, ma non è questo l’obiettivo. Si tratta piuttosto di scoprire delle persone che, senza il social network, sarebbero rimaste delle semplici conoscenze e di mantenere il contatto con loro a un livello di regolarità e di prossimità che
non è quello dell’intimità, senza per questo che si sia estranei. La confidenza di sé in Internet porta così lontano che uno studio recente ha dimostrato che l’analisi del profilo di un utente di Facebook potrebbe permettere di fare il punto sulla sua salute mentale e anche di ricavare alcuni sintomi della sua patologia in modo altrettanto efficace che attraverso una serie prolungata di interviste con lui (Martin, 2013). Nella peggiore delle ipotesi, i terapeuti potrebbero utilizzare il social network per completare la cartella clinica di un paziente. Sono pronto a scommettere che leggendo queste pagine alcuni si sentiranno autorizzati a impegnarsi nello studio del profilo del loro amico/a, del loro capo o del vicino di casa, alla ricerca del loro “io nascosto”. Ma non si creda che sia così facile. Poiché evidentemente ciascuno è tentato di leggere il profilo degli altri alla luce della sua nevrosi: la sua lettura rischia di non fargli imparare nulla, eccetto che su se stesso. A ogni buon conto ci si può domandare se l’uso di Facebook non abbia già sostituito per alcuni il ricorso allo psicologo! Potremmo trovarci benissimo oggi, in relazione allo sviluppo del social network, in una situazione analoga a quella evocata da Monsignor Di Falco1 negli anni ’70 a proposito dell’invasione delle case da parte della televisione. Allo stesso modo in cui il prelato la indicava come la principale responsabile della disaffezione alle chiese, il social network potrebbe essere benissimo il principale responsabile della disaffezione che colpisce oggi gli studi degli psicologi. Non sarebbe la prima volta nella storia che si opererebbe un cambiamento di tale natura. Non dimentichiamo che lo psicologo spesso non ha fatto altro che prendere il posto del prete, fino al punto di svuotare i confessionali! Dopo tutto, perché Facebook non potrebbe prendere il posto degli psicologi? Ma questa apparente continuità non ci deve nascondere le trasformazioni profonde che le stanno dietro. Chi va alla ricerca di un prete lo fa per mettersi in pace con Dio, e questo lo costringe a raccontare i suoi peccati perché gli possano essere perdonati. Chi va alla ricerca di uno psicologo, al contrario, vuole riconciliarsi con i suoi desideri. E così, per lui, si tratta meno di confessare i suoi “peccati” che di tentare di liberarsi di ciò che gli potrebbe impedire di commeterli! Nel caso di Facebook, infine, si tratta di mettersi in pace non più con Dio, né con se stessi, ma con una comunità virtuale idealizzata. E la regola del gioco per riuscirci è di raccontarsi senza che nessuno si impegni mai per cambiare qualcosa, qualsiasi sia la cosa di cui ci si potrebbe liberare. Ecco perché mettere in guardia contro il pericolo di affidare troppe
informazioni personali alla Rete non impedirà mai a qualcuno di farlo, perché costui potrebbe ritenere che il beneficio che ne potrà trarre sarà sicuramente maggiore dei pericoli che potrebbero derivarne. Non incontrerà di sicuro un interlocutore così attento come potrebbe esserlo uno psicologo, ma troverà una comunità da cui si sentirà valorizzato e con cui potrà condividere alcuni momenti particolarmente difficili della sua vita. E in un tempo in cui la maggior parte delle richieste di psicoterapia sono legate a un difetto di autostima e/o alla difficoltà a superare un trauma, è chiaramente forte la tentazione di pensare che nel social network si possa trovare un aiuto.
1.4. Intimità, interiorità ed estimità Il modo in cui ci si racconta in Internet minaccia l’intimità? A mio avviso i timori a questo riguardo si spiegano con la mancata distinzione di due forme di intimità. Non dimentichiamo che la parola copre tradizionalmente due significati ben distinti: quel che qualcuno decide di non condividere che “nell’intimità”, precisamente l’intimità sessuale; e quello che qualcuno decide di non condividere con nessuno, e cioè quello che lui stesso probabilmente ignora di sé. Quindi, anche se si riconosce che si condivide dell’intimità in Internet, non per questo siamo convinti che coloro con cui la condividiamo ci siano per ciò stesso “intimi”. La parola “intimo” evoca una grande prossimità che la parola “intimità” non evoca. È la stessa differenza che distingue tradizionalmente il “privato” e lo “strettamente riservato”. In Internet tutti condividono una parte più o meno grande della propria intimità, ma mai quello che per loro è intimo: sia perché questo richiederebbe una prossimità fisica che Internet non garantisce, sia perché sono cose che ci riguardano che non riusciamo facilmente a formulare. L’intimo è uno spazio di creazione e di invenzione di sé, al riparo dagli sguardi e dalle regole del vivere sociale, in attesa di rappresentazioni che lo sostengano; mentre l’intimità è quel che uno conosce di sé e che decide di condividere in uno spazio sociale più o meno largo, sostenuto da un movimento di estimizzazione. Il processo di estimità, dunque, non ha a che fare con l’intimo, ma solo con l’intimità.
1.5. L’impossibilità di farsi dimenticare In Rete tutto si diffonde a gran velocità e le informazioni fornite a un solo amico possono piano piano arrivare a persone che ne potrebbero fare un
cattivo uso. Di conseguenza, capita che le informazioni disponibili su ciascuno di noi siano rese disponibili a nostra insaputa dai motori di ricerca. Ecco perché è essenziale che ogni utilizzatore rifletta bene su quali delle sue informazioni personali intenda rendere disponibili e quali no. Inoltre, a forza di abituarsi al fatto di essere sorvegliati, alcuni finiscono per sentirsi autorizzati a sorvegliare i loro amici. Il problema di Internet e delle nuove tecnologie non è solo di sapere fino a che punto le giovani generazioni accetteranno di buon grado di mostrarvi una parte crescente della loro intimità contribuendo allo stesso tempo a “desacralizzarla”, ma di sapere fino a che punto si attribuiranno il diritto di controllare l’intimità altrui: sorveglianza dei bambini da parte dei loro genitori, degli impiegati da parte dei loro capi, dei mariti o delle mogli sospettati di infedeltà da parte dei loro parenti, ecc. Lo sviluppo di questa seconda tendenza potrebbe in effetti condurre a rimettere in discussione la prima. Non dimentichiamo che la soddisfazione del desiderio di estimità suppone che il desiderio di intimità sia soddisfatto. Se si verificasse che i nuovi social network minacciassero l’intimità, sarebbero pochi quelli che rischierebbero di affidare a essi alcuni aspetti delle loro vite. Perché la gente abbia voglia di mostrarsi, occorre che possa nascondersi con la stessa facilità.
1.6. La forza dei legami deboli Sul Web non si deve aver paura di riprendere i contatti con una persona con cui non si hanno più rapporti da anni, sebbene questo tipo di comportamento sia stato da sempre considerato fuori luogo, addirittura irrispettoso, nella cultura tradizionale. L’importante è che l’interlocutore reagisca, ovvero si mostri “attivabile”. E non sempre le cose vanno in questo modo! Ecco perché i giovani aumentano considerevolmente il numero dei loro contatti in Internet durante gli anni dell’adolescenza. A quell’età non hanno da fare particolari richieste ai loro “amici”, salvo il condividere fotografie, brani musicali, qualche scherzo. Ma non appena si servono dei loro contatti perché, ad esempio, li aiutino a trovare un lavoro stagionale, o una camera in affitto, si accorgono che pochissimi di questi contatti si attivano. E sono quelli che finiscono per conservare. Passano allora dai cinquecento “amici” cui non chiedono mai nulla, tra i 14 e i 18 anni, a una cinquantina all’età di 25 anni. Tra prima e dopo è successo che si siano messi ad attivare i loro contatti. Questa attivazione per uno scopo preciso
rappresenta la prova di realtà che segna la transizione da un’adolescenza che moltiplica i contatti all’età adulta che invece li seleziona. Ma dato che nessuno può sapere quali dei suoi contatti si riveleranno attivabili, è comprensibile che i giovani cerchino di averne il più possibile in un’età in cui il loro status di adolescenti alloggiati, nutriti e vestiti dai genitori non richiede loro di chiamarli in causa con particolari richieste.
2. Perché aspettare la scuola media Il fatto che Internet sia uno spazio di condivisione permette di comprendere che andarci avendo qualcosa da condividere è meglio. L’adolescente appassionato di un gruppo musicale, di un autore di fumetti o di una squadra di calcio, facilmente scambierà informazioni su questi temi. Ma in preadolescenza sono spesso le abitudini alimentari o le vacanze a essere messe in condivisione. Molti genitori sarebbero sorpresi di scoprire che sono su Facebook senza esserci mai entrati, semplicemente perché il figlio ci ha pubblicato una loro fotografia, e non necessariamente quella che loro avrebbero scelto: “Mia mamma in costume da bagno”, “Mia nonna che si lancia sulla sua torta”, “Mio padre che fa ginnastica”. Il ragazzo che è stato molto fotografato nei suoi primi anni di vita, spesso contro la sua volontà, trova in questo modo la sua rivincita. Non lo si può condannare… senza ricordare ai genitori che non dovrebbero mettere in Internet l’immagine del loro figlio senza avergli chiesto il permesso.
2.1. Due problemi prima dei 10 anni Il bambino che non ha ancora 10/11 anni va incontro a due difficoltà supplementari in Internet. Anzitutto, prima di quest’età, è ancora immerso dentro situazioni immediate e ha difficoltà a identificare due emozioni diverse che prova nello stesso istante. Per esempio, a un adulto può piacere un’immagine o un’informazione e allo stesso tempo sentirsene turbato, ma il bambino di meno di 10 anni no. Allo stesso modo gli è difficile rendersi conto che può provare dell’aggressività e insieme affetto nei confronti di un compagno. Nei due casi, il bambino è interamente calato nell’una o nell’altra emozione. Ora, molte informazioni in Internet attivamo emozioni contraddittorie e quindi la presenza di un adulto è essenziale per permettere al bambino di districarle.
L’altro problema ha a che fare con il rapporto tra quel che il bambino osserva e le spiegazioni che gliene vengono fornite. Prima dei 10 anni può avere difficoltà a comprendere che i suoi sentimenti negativi, o quelli delle persone che lo circondano, non sono per forza legati agli avvenimenti presenti. Un bambino di meno di 10 anni può avere la tendenza a pensare che un’emozione che vuole esprimere sia necessariamente legata alla giustificazione che viene portata in gioco per spiegarla. Per esempio, un ragazzo che arriva a scuola in lacrime dicendo che i genitori a colazione non gli hanno dato la sua marmellata preferita può suscitare allo stesso tempo la solidarietà dei compagni per questa sua tristezza e la loro fiducia nel fatto che la spiegazione che ha fornito corrisponda ai fatti. L’adulto, invece, crederà alla tristezza del bambino, ma sospetterà che vi sia un’altra ragione dietro alla giustificazione da lui portata in gioco. Ancora una volta il bambino ha bisogno di essere aiutato da un adulto.
2.2. Rinunciare a sorvegliare Fino a quando vostro figlio adolescente sarà iscritto a un social network evitate di spiare quello che sta facendo. E questo vale per tutto quello che fa in Internet. È stato dimostrato che i giovani a cui è successo se ne sono accorti quasi subito e hanno sviluppato strategie di depistaggio: si servono di più indirizzi di posta elettronica, dispongono di più profili che utilizzano in funzione delle diverse situazioni e a volte prendono a prestito l’identità dei loro genitori. In più le loro interazioni sono di breve durata e senza futuro. Tutto nel loro operato risponde al desiderio di sfuggire al controllo parentale (Gallez - Lobet-Maris, 2011).
2.3. Si può essere suoi amici in Facebook? Spesso gli adolescenti non lo desiderano e, se dicono di desiderarlo, è per fare piacere ai genitori. Inoltre un adolescente amico dei suoi genitori in Facebook rischia di dover fare i conti con un problema quasi privo di soluzione. Tradizionalmente, un bambino che uscisse per vedere un film o per incontrare i suoi amici si sentiva obbligato a informare i genitori, o in ogni caso gli potevano intimare di farlo se non voleva andare incontro a castighi. Ma con Facebook l’adolescente che esce di casa senza averlo programmato non si sente più obbligato a informarne i genitori dal momento che loro sono suoi “amici” in Facebook. Si comporta così come se i suoi
genitori fossero stati informati dell’uscita esattamente come lo è stato lui, dal momento che condividono la stessa rete sociale. Ma il genitore visita il suo profilo meno di frequente del figlio e non è evidentemente al corrente di tutto quello che gli amici del figlio possono proporgli di fare servendosi di Facebook come canale di comunicazione. Essere “amico” del proprio figlio diviene presto una considerevole fonte di problemi. Senza contare che finireste poco a poco per avere accesso a informazioni sulla sua vita intima alle quali avreste preferito non avere accesso. D’altra parte, in presenza di un quadro chiaro che miri a evitare le ambiguità e le trappole, la connessione di genitori e figli nel social network può rivelarsi positiva. Gli adolescenti si sentono più vicini ai loro genitori e sviluppano più comportamenti prosociali. I legami familiari ne escono rafforzati (Coyne et al., 2013). Ma questo richiede che i genitori abbiano pratica di social network e rinuncino a utilizzarli per sorvegliare i loro figli.
3. Usare i social network nelle istituzioni educative 3.1. Una fortissima attesa In quasi tutte le scuole esiste un sito Internet, spesso costruito da qualche insegnante o dal personale amministrativo e aggiornato con la collaborazione degli studenti; esso fornisce di solito informazioni sulla vita della scuola. Ma non è sufficiente. I giovani chiedono di poter disporre anche a scuola dei social network che sono per loro familiari e che fanno ormai parte della loro vita. Ma come promuovere un tale uso condiviso all’interno di un’istituzione scolastica o educativa rispettandone la natura? Precisiamo subito che se, per un genitore, essere “amico su Facebook” dei suoi figli è caldamente sconsigliato, salvo stabilire delle regole precise, lo è ancora di più per un insegnante o un educatore con i suoi allievi. Pertanto, Facebook può diventare occasione di scambi, di riflessioni e di informazioni sui suoi vantaggi e sui suoi pericoli. A condizione di utilizzarlo per quanto può recare di postivo e sviluppando una riflessione critica al riguardo. Di fatto sempre più giovani interagiscono e interpellano gli adulti sulla loro vita di adolescenti passando per Internet. Si tratta di ragazzi sia della scuola secondaria che di realtà socio-educative. Le loro domande passano da Facebook ma anche dai blog e dagli spazi dedicati in cui raccontano ad esempio le loro esperienze di videogiocatori. Questo è possibile anche perché
sempre più gli operatori riflettono sull’allestimento di spazi che i giovani possano utilizzare a loro piacimento e in cui possano dire le cose che vivono, raccontarsi e interagire e che siano allo stesso tempo un supporto per la relazione educativa. Questi spazi dovrebbero essere pensati allo stesso tempo come degli strumenti grazie ai quali gli educatori possano andare incontro ai giovani e realizzare delle attività partendo dalle loro proposte. Il problema è allora quello della piattaforma da poter utilizzare a questo scopo. Può trattarsi di un blog di scuola, o di una pagina Facebook. I criteri di amministrazione di Facebook oggi permettono di fatto di costruire delle comunità in cui l’identità dei membri sia segreta e nelle quali gli scambi siano inaccessibili a chi non ne fa parte. Una volta presa questa precauzione, l’uso di Facebook come piattaforma di scambio si può dimostrare assolutamente vantaggioso per un’istituzione educativa.
3.2. Facebook in ambiente educativo Le équipes di educatori di strada si stanno interessando sempre più ai social network. Il loro obiettivo consiste di fatto nel lavorare negli ambienti di vita dei giovani, quali che siano, e nel rispondere alle loro attese. Agli inizi, gli educatori di strada sono quindi andati là dove si trovavano i giovani, anche se si trattava di luoghi malfamati. Oggi i social network costituiscono un nuovo spazio in cui gli adolescenti “fanno tirocinio”, si incontrano, si scambiano esperienze e mentre fanno questo socializzano. È quindi logico che le équipes di educatori di strada si interroghino sull’opportunità di essere presenti nel social network, tanto più che sono chiamati a confrontarsi con situazioni sempre più difficili. La precarietà crescente e la fragilità familiare si accompagnano alla descolarizzazione di molti giovani, con problematiche di vagabondaggio e rischio di delinquenza. Nel Belgio francofono è stato creato un collettivo per riflettere sul problema2. Esso ha elaborato, con la collaborazione dei giovani, alcuni principi di lavoro che hanno chiamato “tag”. Il tag si può definire come un dispositivo che serve a marcare la possibilità di un rischio o la traccia di una via più sicura. Questo collettivo ha redatto una carta che contiene elementi proposti dagli educatori e altri dai giovani stessi. Per esempio, gli educatori hanno introdotto dei principi sul diritto all’immagine, la necessità di un quadro deontologico, la libertà di espressione o ancora il rispetto dovuto a ciascuno. I giovani hanno insistito, da parte loro, sulla necessità di conoscere
quelli che vogliono entrare nel gruppo, soprattutto per verificare la loro identità a prescindere dai loro interventi. In partenza sono state prese in considerazione tutte le piattaforme disponibili in Internet, in particolare i blog e i forum di discussione. Ma la scelta alla fine è caduta su Facebook perché combina i vantaggi di tutte le piattaforme in una sola. Inoltre si è ben presto capito che questa scelta rispondeva alle attese di molti giovani e questo ha consentito la creazione di uno spazio accogliente che dava loro la sensazione di possedere un punto di ancoraggio. Il che era perfettamente rispondente al progetto degli educatori, per i quali Facebook non rappresentava un fine in sé, ma un terreno su cui far nascere delle iniziative e creare dei legami. Affinché le identità personali dei giovani partecipanti non fossero rese pubbliche, il gruppo è stato creato in modalità “segreta”. Questa scelta è stata possibile grazie alle conoscenze condivise tra i giovani e gli operatori. I primi hanno fornito i supporti utilizzati, le loro aspettative e le loro esperienze, mentre i secondi si sono fatti portatori di informazioni sulle regole da far rispettare e il quadro deontologico del servizio. Gli educatori sono di fatto in ogni momento garanti degli interessi del gruppo; sono altresì attenti ai parametri di sicurezza e vigilano sul rispetto delle regole: quelle fornite in partenza e quelle che il gruppo si è dato. Si tratta in particolare di assicurarsi sempre che il consenso dei giovani sia libero e dichiarato. Da un lato la libertà di espressione dei giovani viene incoraggiata, dentro una visione educativa e nel rispetto della legge, soprattutto in relazione a diffamazione e molestie on line. Ma allo stesso tempo, anche se un giovane ha già accettato più volte in precedenza di intervenire nel gruppo, si ritiene che rifiuti il quadro di regole condivise se non le accetta esplicitamente di nuovo ogni volta3.
4. Un’educazione indiretta ai social network Quanto alla Media Education, possiamo dire che in Rete la si faccia durante gli scambi stessi. Di fatto, Internet è diventata per gli adolescenti uno spazio così familiare che corrono il rischio di utilizzarla in modo troppo ingenuo: un terzo degli adolescenti americani che usano Internet, ad esempio, hanno già condiviso almeno una volta la loro password con un amico o un conoscente. Ecco perché, quando dei ragazzi raccontano quel che fanno in
Rete, gli intervistatori insistono sull’immagine che resterà di loro e vogliono sapere come si immaginano, tra qualche anno, con queste immagini che circoleranno su di loro e le eventuali conseguenze che potranno avere sul loro lavoro. Il problema del diritto all’immagine riguarda evidentemente anche quello dell’altro, soprattutto nel caso di fotografie di gruppo sulla cui pubblicazione non tutti potrebbero essere d’accordo. Inoltre molti giovani non immaginano che Internet sia un mercato molto ambito in cui ogni utente rappresenta una fonte di guadagno. Infatti i media digitali, sempre più rapidi e onnipresenti, raccolgono e diffondono tutte le tracce che noi ci lasciamo dietro a nostra insaputa o che sono messe a loro disposizione da terzi. Nella maggior parte dei gruppi di giovani le discussioni su questo punto non suscitano nessun interesse: “La pubblicità sarebbe fatta su misura per me? Non me ne sono mai accorto” è la reazione tipica; e ancora: “Se Bill Gates si arricchisce ogni volta che io clicco su qualche cosa che cosa ci posso fare?”. Capiamo bene allora che l’educazione a un uso regolato degli schermi già a partire dalla scuola primaria non è un’esagerazione. A condizione che quest’educazione mostri che il rischio di Internet non deriva soltanto, a prescindere da essa, da quel che uno decide di mostrare di sé, e che dietro ai media sociali come Facebook si nascondono dei modelli di business spietati. Infine, l’allestimento di una rete di giovani in Facebook è anche l’occasione per lavorare con i genitori, ad esempio se si rifiutano di lasciare che i figli aprano un profilo in Facebook. Gli educatori possono allora parlarne con loro per capire meglio le ragioni del no e far scoprire loro i vantaggi al netto dei rischi. Si tratta di un effetto educativo collaterale, ma tutt’altro che trascurabile.
Capitolo sesto
Le quattro rivoluzioni delle tecnologie digitali
È giunto il momento di collocare le trasformazioni che abbiamo evocato in un quadro più ampio. Questo ci permetterà sicuramente di affrontare la questione delle forme di apprendimento legate agli schermi e di vedere come la regola “3-6-9-12” si possa applicare anche alla scuola. L’affermazione scondo la quale noi saremmo “entrati nel mondo degli schermi” alimenta in effetti un inutile dibattito che pretende di contrapporre la creazione digitale al libro e alla scrittura. La realtà è più complessa, ma anche ben più esaltante. La scrittura ha perso il suo primato come vettore principale del pensiero e della comunicazione, dal momento che un altro vettore si è imposto, quello degli schermi. L’importanza della cultura del libro non ne esce minimizzata, ma solo relativizzata. Il rapporto ai testi e alle immagini di fatto attiva funzioni cognitive e psicologiche diverse, ma l’invenzione della stampa ha conferito al libro e ai processi mentali a esso legati un’importanza smisurata. A tal punto che le prime invenzioni che hanno avuto a che fare con gli schermi, come il cinema, si sono organizzate attorno agli elementi distintivi del libro portando in primo piano l’importanza del racconto. Ma l’invenzione del digitale ha messo in evidenza altri elementi, in modo tale che è oggi possibile contrapporre due modi di pensare: l’uno organizzato secondo la logica lineare del testo parlato o scritto; l’altra che utilizza tutte le possibilità della costruzione spaziale e dell’interattività. Nelle prossime pagine parleremo di “cultura del libro” e di cultura “degli schermi” per indicare le pratiche e il funzionamento cognitivo e psichico che a esse sono legati. Queste espressioni non dovrebbero farci sottovalutare il fatto che queste logiche esistono nell’animo umano a prescindere dal libro e
dagli schermi. L’uomo ha inventato il linguaggio, poi la scrittura e il libro come un mezzo per oggettivare e amplificare alcune capacità del suo spirito e quindi aumentarle. Ma l’uomo ha anche inventato le immagini, gli schermi e i mondi digitali cosiddetti “virtuali”, come un mezzo per esplorare e acquisire dimestichezza con altre capacità psichiche di cui il linguaggo non gli avrebbe permesso di rendersi conto. Quando parliamo di cultura del libro e di cultura degli schermi, si tratta quindi di modelli (o se si preferisce di paradigmi) e non di supporti. Prima dell’invenzione del libro, la cultura orale lasciava coesistere in parti uguali pensiero lineare e pensiero spazializzato. Gli sciamani si basavano su immagini per raccontare le loro storie, cosicché il racconto cambiava ogni volta e solo alcuni punti fermi restavano uguali. La ripetizione ha così contribuito a valorizzare alcuni nessi consequenziali rispetto ad altri. I frammenti si sono progressivamente assemblati in racconti coerenti, poi la scrittura ha fissato una delle possibili versioni privilegiando la coerenza narrativa che è propria del passaggio allo scritto. Per quanto riguarda gli schermi, le cose sono altrettanto complesse. Il cinema da molto tempo ha adottato il modello della cultura del libro, raccontandoci prima delle storie mute, poi parlate. Tutti i grandi registi, dalla nascita del cinema agli anni 2000, hanno costruito dei racconti lineari. E le grandi produzioni hollywoodiane spesso sono ancora costruite sullo stesso modello: una sceneggiatura, il più delle volte ripresa da un romanzo, su cui imbastire una storia. In maniera diversa, molti scrittori si sono dedicati alla costruzione narrativa (Marcel Proust e Victor Hugo ne sono due celebri esempi), altri invece hanno tentato di smarcarsene. Basti citare il caso di Mallarmé e di Rimbaud in poesia, di James Joyce per il romanzo o ancora di Derrida in filosofia. Questi scrittori hanno tentato di uscire dalla logica lineare tradizionale della scrittura per costruire i loro testi secondo un pensiero circolare, in cui gli accostamenti avvengono più per continguità fonetica che secondo una logica narrativa. Pertanto, è facile verificare che la cultura del libro e quella degli schermi si contrappongono praticamente su tutti i punti. La rottura tra le due riguarda allo stesso tempo la relazione ai saperi e agli apprendimenti, il funzionamento psichico e la creazione di legami.
1. Una rivoluzione nella relazione con i saperi Come il suo nome indica, la cultura del libro è una cultura del singolare, in
altre parole dell’uno. Al contrario, la cultura degli schermi è una cultura del molteplice. Cominciamo dalla cultura del libro. Un lettore è solo davanti a un solo libro scritto da un autore solo. Si tratta di una cultura dominata da una concezione veriticale del sapere: chi conosce una cosa scrive un libro per chi non la sa. Il libro inoltre è composto una volta per tutte e per sempre, protetto dalla sua rilegatura di cuoio e con la sua doratura sul dorso. Ecco perché è associato all’idea di farne un solo esemplare alla volta e di farlo nel miglior modo possibile dalla prima all’ultima pagina. Il libro impone l’ideale di un lavoro artigianale suscettibile di perfezione. Al contrario la cultura degli schermi vive nel segno del molteplice: più persone sono riunite davanti a più schermi (o un solo schermo è diviso in molti frame) i cui contenuti sono stati creati da équipes. E anche quando qualcuno sia isolato davanti a uno schermo, questa tecnologia finisce per riunire spesso i suoi utilizzatori: sia in forma immaginaria, come nelle grandi “messe mediali televisive” (Dayan - Katz, 1992), sia realmente soprattutto nei videogiochi multiutente online. Questa cultura vive chiaramente nel segno di una relazione orizzontale al sapere: il suo modello è Wikipedia. Si tratta di una cultura del molteplice, del meticciato e del multiculturalismo. È anche una cultura mulitasking in cui ciascuno è pensato in termini provvisori.
2. Una rivoluzione in relazione agli apprendimenti 2.1. Pensiero cronologico e pensiero spazializzato La cultura del libro trova la sua organizzazione nella successione delle parole, delle righe di testo, dei paragrafi e delle pagine. Essa adotta un modello lineare, costruito sulle relazioni di temporalità e di causalità. Il linguaggio corrisponde alle domande: “Dove? Quando? Come? Perché?” e risponde utilizzando le congiunzioni: “ma, dove, e, dunque, o, né, poiché”. Grazie a queste domande e a queste congiunzioni, tutta la storia si organizza attorno a un prima, un durante e un poi. Le pagine di un libro permettono di visualizzare questa successione: a sinistra ci sono le pagine già lette, a destra quelle ancora da leggere. Questo incoraggia la memoria evenemenziale e l’ancoraggio al tempo. Per la stessa ragione, esclude i contrari: è un pensiero dell’“aut aut”, da cui segue il modello filosofico “tesi-antitesi-sintesi”1. Infine essa valorizza le abitudini e gli automatismi e incoraggia la ricerca delle analogie: riconoscere stili, scuole, riferimenti letterari, ecc.
Al contrario, la cultura degli schermi favorisce il pensiero non lineare, in rete o circolare. Questa forma di pensiero non ha mai cessato di manifestarsi anche nella scrittura, ma è con il digitale che si impone con più forza. Gli spazi in cui il navigatore può delocalizzarsi sono solo indicati e lui organizza le sue navigazioni come più gli piace. I contrari coesistono. Infine, il pensiero non lineare incoraggia l’innovazione obbligando a rompere gli schemi mentali, come nei videogiochi, dove il giocatore non può uscire da nessun nuovo livello di gioco se non è capace di dimenticare le strategie vincenti che ha impiegato nel livello precedente.
2.2. Memoria evenemenziale e memoria di lavoro La cultura del libro favorisce la memoria evenemenziale. In questa cultura, sapere significa ricordarsi di quel che si è appreso: il libro è naturalmente un supporto di apprendimento mnemonico. Più in generale, è impossibile leggere un libro, un romanzo o un saggio, senza conservare una memoria precisa di quel che si è letto, a meno che non si sia capito nulla di quel che si aveva davanti. Al contrario gli schermi mettono di fronte alla necessità di lavorare con fonti diverse, di incrociarle, di farle concordare, di metterle a confronto, di ricavarne informazioni per un uso specifico. Questo è quel che si chiama memoria di lavoro: conservare e manipolare informazioni e istruzioni, nel caso appoggiandosi a documenti che abbiamo davanti, ma più frequentemente esercitando queste operazioni mentalmente. Gli schermi interattivi favoriscono questa memoria di lavoro, permettendo di coltivarla fin dall’infanzia e di renderla più efficiente.
3. Una rivoluzione psicologica Riguarda tre ambiti: il rapporto del singolo con la sua identità, il meccanismo difensivo prevalente e la valorizzazione delle forme non verbali di rappresentazione del mondo.
3.1. Dall’identità unica all’identità multipla La cultura del libro valorizza l’identità unica che si stabilisce essere proprietà privata di un individuo. Una volta costituita, è definitiva.
Al contrario, con gli schermi, l’identità si moltiplica. Il Sé non è più la proprietà privata di un individuo, ma una finzione che risulta dalle interazioni delle persone in un gruppo e dunque ogni volta differente (Brissent - Edgley, 1990). Ciascuno sviluppa un’identità multipla. Avere più identità non significa però avere più personalità. Ciascuno non è che se stesso, ma è condannato a ignorarlo. Si tratta di una specie di “casa virtuale” (LevyStrauss, 1996) che le identità multiple consentono di esplorare e di identificare, ma mai di conoscere del tutto. A ogni istante queste identità si comportano come i vestiti nel nostro armadio. Li proviamo alla ricerca della nostra personalità decisamente inaccessibile. La patologia non comincia che quando qualcuno si vede sfuggire le sue identità e diviene incapace di distinguere il dentro dal fuori, l’interiorità dall’esteriorità.
3.2. Dalla rimozione allo spostamento È la seconda grande trasformazione psichica accompagnata e accentuata da Internet. Nella cultura del libro, il meccanismo di difesa privilegiato è la rimozione, e cioè un processo che si iscrive nella durata. Come avviene? Originariamente c’è il desiderio, soprattutto quello sessuale o aggressivo, la cui soddisfazione è proibita. Le rappresentazioni mentali corrispondenti a questo desiderio vengono spostate in uno spazio psichico inaccessibile che Freud chiama “l’inconscio”. Nulla sarà più come prima. Ma in Internet, chiunque può vedere la messa in scena di qualsiasi desiderio, sia di quelli a sfondo sessuale che aggressivi. Tutti sono accessibili istantaneamente grazie all’apertura di una “finestra”: è il sistema Windows. Questa logica corrisponde esattamente a quel che accade quando, nello spostamento psichico, noi siamo in grado di pensare a una cosa e subito dopo di dimenticarla come se non fosse mai esistita. Improvvisamente possono coesistere dei pensieri contrapposti senza che si escludano a vicenda ed è in funzione del tipo di contesto che l’uno o l’altro di questi può essere attualizzato, trasformato in evento. La stessa persona può in questo modo rendersi protagonista di comportamenti molto diversi. Cosa impossibile per qualcuno che sia dominato dalla rimozione.
3.3. La valorizzazione delle immagini La cultura digitale innalza le immagini, fisse o animate, al rango di mezzi di simbolizzazione e di comunicazione a tutto tondo e gli adolescenti sono i
primi a tirarne le coseguenze. Con il cellulare le immagini si prendono ormai in mano, tra le dita; la videocamera è veramente divenuta “digitale” nel senso proprio del termine. Permettendo di moltiplicare gratuitamente il numero degli scatti, il digitale ha così aperto la via al “prova e riprova” e al piacere della sperimentazione. Rendendo visibile immediatamente i risultati in Internet, ha fatto allo stesso tempo della fotografia un’arte conviviale, già a partire dal momento in cui si sceglie il punto di vista su qualcosa. Infine, ha rovesciato il rapporto della tecnica con l’atto percettivo: non si fotografa più quel che si vuole, si fotografa per vedere, come testimoniano in occasione di ogni grande evento le migliaia di mani alzate che brandiscono un cellulare nella speranza di catturare l’immagine di ciò che rimane nascosto agli occhi dei loro proprietari.
4. Una rivoluzione dei legami e della sociabilità Vi sono ancora alcune grandi differenze che oppongono la cultura del libro alla cultura digitale: la definizione dei legami, il ruolo e i mezzi dell’autorità, l’articolazione tra discorso su di sé e integrazione gruppale.
4.1. Dalla prossimità fisica alla condivisione Nella cultura del libro, i legami privilegiati sono essenzialmente di prossimità fisica. Con questo ci si riferisce a persone che vivono sotto lo stesso tetto e, di prossimità in prossimità, i diversi membri familiari che si possono ritrovare per un’occasione come una nascita, un battesimo, un matrimonio, un funerale… Questi legami sono considerati forti mentre quelli che implicano una minore prossimità fisica sono considerati deboli. Ma nel caso di trasformazioni familiari che necessitano di un aiuto esterno, i legami forti non sono necessariamente i più utili (Granovetter, 1973). Per esempio, se la ragazza che si occupa di vostro figlio decide da un giorno all’altro di partire per l’estero insieme alla famiglia, i membri della vostra famiglia vi saranno di sicuro meno utili per trovarne un’altra che i commercianti del quartiere con cui avete dei legami deboli, come anche amici di amici che conoscete appena. È il fenomeno che si suole definire “la forza dei legami deboli”. Nella cultura digitale, questi legami giocano un ruolo importantissimo. In effetti, la sociabilità in Internet consiste nel condividere un interesse comune,
anche molto limitato, a patto che sia percepito come importante. Improvvisamente, un interlcutore che abita un altro paese può far parte della mia rete esattamente allo stesso modo di un altro che abita a due isolati da me. Non faccio alcuna differenza tra i due, appartengono entrambi allo stesso modo alla mia rete.
4.2. Autorità e regolazione Nella cultura del libro, l’autorità viene assicurata dal riconoscimento che garantiscono i diplomi, anch’essi rilasciati da un potere riconosciuto. I diversi progetti che possono essere portati in gioco sono sottoposti all’obbligo di riferirsi a questa autorità. Al contrario, nella cutura digitale, l’autorità è fondata sul riconoscimento che proviene dai pari. I progetti, quando vengono presentati, non hanno bisogno di riferirsi a nessuna autorità. Questa viene loro riconosciuta a posteriori dall’interesse e dalla valutazione dei pari. Ne proviene un cambiamento ancora più grande nel modo di regolare i gruppi. Nella cultura del libro, esso si basa sulla colpevolezza e la punizione. Questa cultura ha prodotto sia le Tavole della Legge di cui Mosè nella Bibbia è depositario che il Codice Penale che è una raccolta voluminosa di articoli che mettono in relazione le possibili infrazioni con le pene in cui possono far incorrere i loro responsabili. Al contrario, nella cultura digitale, la regolazione si basa sui partecipanti. Il suo strumento è la vergogna che distrugge la e-reputation.
4.3. Discorso intimo e integrazione gruppale Nella cultura del libro che valorizza gli incontri reali, l’espressione delle esperienze intime si oppone all’appartenenza a un gruppo. In pratica, vuol dire che chi è riuscito a farsi integrare in una comunità esita a esporvi la sua vita privata poiché ha paura che questo faccia diminuire il gradimento che gli altri esprimono nei suoi confronti e possa far sì che lo respingano. L’adesione a un gruppo e la confidenza degli aspetti più personali che riguardano la propria vita entrano in competizione. Al contrario, nella cultura digitale, ciascuno desidera non solo di entrare in contatto con più gruppi, ma anche di trovare il gruppo, anche molto ristretto – necessariamente molto ristretto – di coloro con i quali poter condividere il maggior numero di cose. L’esposizione del sé è dunque uno strumento al servizio dell’integrazione.
4.4. L’indispensabile complementarità Vediamo bene che la cultura degli schermi non è una “sub-cultura”, ma una cultura diversa, con dei vantaggi suoi propri. La cultura del libro incoraggia la costruzione narrativa, su cui riposa la possibilità per ciascuno di appropriarsi della sua storia e di farsene narratore. Allo stesso modo, sul versante degli schermi interattivi, sono la spazializzazione dei dati e la loro visualizzazione che ne rappresentano il punto forte, piuttosto che il fatto che stimolino l’interattività e l’innovazione. Ciascuna delle due si richiama a un funzionamento cerebrale e psichico differente, in modo tale che l’essere umano va più veloce se le usa tutte e due, esattamente come si muove più rapidamente se utilizza tutte e due le gambe di cui è dotato. Ma una seconda ragione per far valere la complementarità di queste due culture è che ciascuna delle due, se non viene equilibrata dall’altra, comporta dei pericoli significativi… Cominciamo da quelli della cultura digitale. In relazione al sapere, si tratta del venir meno dell’attenzione e del “pensiero-zapping”. Nel campo degli apprendimenti, il rischio è analogamente di sviluppare una forma di intelligenza che permetta di riuscire senza necessariamente comprendere. Nel campo della psicologia, il rischio è una personalità immersa in ciascuna nuova situazione senza pause né sul piano cognitivo né su quello temporale, e quindi senza consapevolezza di sé. Infine, nel campo dei legami, il pericolo della cultura digitale è di privilegiare le relazioni virtuali e di fuggire la realtà. Anche la cultura del libro presenta dei pericoli. In relazione al sapere, il pericolo principale è l’ultraspecializzazione. Ne abbiamo già visto le devastazioni lungo tutto il ventesimo secolo: intere generazioni di artigiani e di piccoli imprenditori sono stati rovinati dalla loro incapacità di far fronte alle trasformazioni tecnologiche. Nel campo degli apprendimenti, il rischio è la riduzione delle competenze ad apprendimenti mnemonici che contribuisce a inibire la creatività, ma anche ad aumentare considerevolmente l’importanza dell’obbedienza. Nel campo della psicologia, la cultura del libro, con le certezze che porta con sé, sviluppa personalità rigide e poco disposte al cambiamento. Infine, nel campo della sociabilità, privilegia le relazioni di prossimità psichica e produce al limite empatia riservata a quelli che sono più vicini. Oggi, molti ragazzi si vivono come cittadini del mondo, e questo in gran parte grazie a Internet!
Capitolo settimo
“3-6-9-12”, la scuola, gli enti pubblici e il mondo delle associazioni
Cerchiamo di non sognare a occhi aperti. La regola “3-6-9-12”, per quanto possa essere utile, rischia di interessare soprattutto i genitori che già sono sensibili alla questione degli schermi. Ecco perché è essenziale che le istituzioni scolastiche e il mondo delle associazioni si facciano carico dell’educazione alle tecnologie digitali e più ancora di accettare la sfida che proviene dalle trasformazioni culturali che ne derivano. In questo caso le indicazioni che “3-6-9-12” contiene potranno dimostrarsi utili. Anzitutto occorre introdurre la dimensione del virtuale già alla scuola dell’infanzia, nella forma dell’apprendimento per simulazione che manca del tutto ai bambini, preoccupandosi allo stesso tempo degli effetti della violenza degli schermi a quest’età. Poi, alla scuola primaria, è essenziale informare i bambini sulla cultura digitale e sui pericoli e i benefici degli schermi. In terzo luogo è indispensabile far leva sulle nuove pratiche sviluppate grazie al digitale per ripensare la pedagogia senza per questo necessariamente introdurre le tecnologie digitali alla primaria: l’importante è di familiarizzare il bambino, a partire da questa età, alle attitudini relazionali e cooperative che sarà invitato a sviluppare più tardi nel suo uso degli schermi, soprattutto nel lavoro in Rete. Infine, gli insegnanti dovrebbero essere formati a usare questi nuovi strumenti così da sviluppare con essi tutto quello che la cultura del libro trascura e impegnarsi a valorizzare e incoraggiare le creazioni digitali, in particolare in età adolescenziale. Quanto al mondo delle associazioni, anch’esso può giocare un ruolo essenziale per proporre delle alternative agli schermi e accompagnare le pratiche di creazione a tutte le età.
1. Dai 3 ai 6 anni: imparare a “far finta di” È importante, a partire da quest’età, garantire al bambino uno spazio in cui governare l’impatto che le immagini hanno su di lui e sensibilizzarlo a “far finta di”, cosa che sta alla base dell’uso ludico dei mondi digitali. Il gioco delle tre figure può venire in aiuto (Tisseron, 2011). Si chiama così per via dei tre personaggi che si ritrovano nella maggior parte dei programmi televisivi e dei giochi per bambini: l’aggressore, la vittima e il salvatore/giustiziere. Il gioco è un intreccio di prove fisiche e di elaborazione verbale e riserva un ruolo importante alle emozioni. Pertanto non si tratta di un’attività “espressiva” e ancor meno di uno psicodramma. Il suo modello è piuttosto quello del teatro, nella misura in cui le repliche di ciascun bambino sono accuratamente fissate. La sua messa in pratica risponde a quattro obiettivi su cinque di quelli che si prevede si debbano raggiungere alla scuola dell’infanzia: appropriarsi della lingua; imparare le regole della socializzazione e del vivere insieme; agire ed esprimersi con il proprio corpo; valorizzare il riferimento allo scritto. Ma soddisfa anche tre funzioni essenziali che nessun’altra attività oggi si propone di sviluppare alla scuola dell’infanzia. 1. Anzitutto permette ai bambini di fare un passo indietro in relazione alle immagini che vedono, in particolare in televisione, e costituisce dunque una forma di pre-educazione agli schermi. Raggiunge questo risultato favorendo la costruzione narrativa da parte dei bambini, più che il loro desiderio di raccontare le loro esperienze con le immagini, e poi li invita a costruire insieme una piccola storia. Stimola così a conciliare due forme di pensiero che le ricerche più recenti ci informano essere complementari: da una parte, il pensiero spazializzato, o fluido, che setaccia l’ambiente alla ricerca di quel che lo stimola; dall’altra, l’intelligenza lineare e cristallizzata del pensiero parlato o scritto, in cui l’espressione si organizza come su un piccolo nastro che si srotoli davanti ai nostri occhi. Il gioco delle tre figure aiuta in questo modo indirettamente i bambini ad appropriarsi delle esperienze in cui sono immersi, che prevedano o meno delle immagini. Realizza questo obiettivo invitandoli a distinguere tra il presente, il passato e il condizionale e a utilizzare le sette congiunzioni che organizzano i legami tra le preposizioni: “ma, dove, e, quindi, o, né, perché”. È stato inoltre dimostrato che facilita l’apprendimento della lingua materna da parte di allievi che parlano altre
lingue. 2. In secondo luogo, il gioco delle tre figure riduce la violenza tra gli studenti e aumenta la loro capacità empatica. Lo fa invitando i bambini a immaginarsi in ciascuno dei ruoli coinvolti in una situazione aggressiva. Nel ruolo di vittime potenziali favorisce una migliore autostima dei bambini invitandoli a non lasciarsi mai aggredire in nessun modo senza protestare, innanzitutto contro l’aggressore, poi con un rappresentante dell’autorità. Suggerisce a tutti gli studenti parole e comportamenti che permettono loro di farlo. 3. Infine, insegna a “far finta di” e stimola i bambini, nei loro giochi, a “imitare per finta” più che “per davvero”. Per questo motivo rappresenta un’eccellente preparazione alla frequentazione di mondi virtuali. Alcuni insegnanti, nella realizzazione del gioco, materializzano la separazione tra lo spazio del gioco e quello degli spettatori grazie a una corda posata per terra. I bambini si abituano così all’idea di essere nella realtà da una parte della corda, mentre quando si trovano dall’altra parte sono in uno spazio in cui tutto quel che fanno o dicono si ispira alle convenzioni teatrali. La familiarità con questa distinzione li prepara a comprendere meglio la natura degli spazi virtuali. Basta proporre loro di immaginare di sostituire la corda con uno schermo. Da una parte ci sono quelli che sono davanti allo schermo in carne e ossa, nella realtà del loro ambiente e delle loro relazioni quotidiane, ma nello schermo, è evidentemente con l’immagine delle persone e dei luoghi che noi abbiamo a che fare e queste immagini possono non corrispondere che solo lontanamente alla realtà. Così un gran numero di utilizzatori di Internet non investono in questo spazio che per costruirci un’immagine di loro stessi diversa da quella della loro realtà quotidiana. Il gioco delle tre figure viene insegnato e praticato in Francia, in Belgio e in Svizzera.
2. Dai 6 ai 9 anni: la logica degli schermi, effetti e trappole Molti bambini oggi incominciano a essere presenti sui social network a 9 anni. Si può lamentarsene, ma non è una ragione sufficiente per ignorarlo. Occorre quindi preparare i bambini in anticipo e la cosa migliore è iniziare dai primi anni della scuola primaria. Tanto più che a quest’età il bambino manifesta una curiosità eccezionale per il mondo che lo circonda. Questo
periodo sarà dunque messo a profitto per avviare il bambino alla comprensione dei pericoli e dei benefici degli schermi, e la scuola può giocare un ruolo ancora maggiore fornendo al bambino delle risorse allo stesso tempo teoriche e pratiche.
2.1. Il cervello, con e senza lo schermo Anzitutto i bambini avranno tutto da guadagnare a essere sensibilizzati all’influenza degli schermi. Per contribuire al raggiungimento di questo obiettivo l’Accademia delle scienze, in Francia, ha messo a punto un modulo pedagogico destinato agli insegnanti delle classi comprese tra l’ultimo anno di Scuola dell’Infanzia e la Prima Media (Pasquinelli et al., 2013). L’Accademia definisce il suo obiettivo nel modo seguente: «Questo modulo permette di introdurre i bambini alle funzioni del cervello – soprattutto quelle chiamate in gioco durante la sua interazione con gli schermi – e di guidarli verso un uso intelligente del mondo digitale. La struttura e gli obiettivi del modulo sono stati fissati secondo un duplice approccio: di educazione scientifica e di educazione alla salute. […]. Il modulo è stato previsto su un periodo di due mesi con sessioni di lavoro di un’ora e mezza alla settimana». Questo modulo è allo stesso tempo un’occasione per i bambini di scoprire le astuzie e le trappole della pubblicità che è onnipresente sugli schermi.
2.2. Diritti e doveri in Internet L’educazione a Internet riguarda allo stesso tempo doveri e diritti, anzitutto il diritto all’immagine e il diritto all’intimità, con la differenza tra spazio intimo e spazio pubblico. La scuola deve introdurre i bambini alle tre caratteristiche specifiche di Internet: tutto quello che ci si mette può diventare di dominio pubblico; tutto quello che ci si mette ci resterà per sempre; tutto quello che ci si trova richiede attenzione e non deve essere creduto prima di essere stato messo a confronto con altre fonti.
2.3. I modelli informatici ed economici della Rete L’insegnamento dell’informatica può avere inizio a quest’età (Lena, 2012): storia delle macchine, cominciando dalla macchina calcolatrice di Pascal; spiegazione degli algoritmi; formazione al linguaggio di programmazione, a cominciare da Scratch, che è disponibile gratuitamente in
Internet1. È altrettanto importante, a partire dai sette anni, spiegare i modelli economici e di marketing di Internet: videogiochi, Facebook, Google, Skype, Youtube, ecc. Sarebbe infatti molto rischioso lasciar credere ai bambini che i servizi che queste aziende ci mettono a disposizione siano senza contropartita, vale a dire “gratuiti”. Troppi adolescenti ignorano le ripercussioni possibili della pubblicazione di fotografie in funzione della ricerca di un lavoro futuro. Occorre sviluppare un’attenzione specifica a quella che si definisce identità digitale.
2.4. L’identità digitale: una patente per Internet? C’è un enorme bisogno di educazione e d’informazione del cittadino riguardo all’impatto di ciò che facciamo in Internet. Quest’educazione dovrebbe iniziare alla Scuola Primaria. Infatti la maggior parte dei navigatori ignorano che la loro identità digitale dipende allo stesso tempo da ciò che ciascuno dice e fa in Internet e da ciò che gli altri dicono e fanno. In pratica, essa si costruisce nella zona di convergenza di quattro tipi di tracce: la nostra identità connessa, le nostre tracce volontarie, quelle involontarie e quelle ereditate. Anzitutto, non appena ci connettiamo a Internet, iniziamo a lasciarvi delle tracce. L’indirizzo IP identifica qualsiasi computer e fornisce informazioni sul luogo in cui ci troviamo, il tempo che restiamo connessi e i siti che visitiamo. Il secondo tipo di traccia che lasciamo in Internet consiste in quello che ci lasciamo volontariamente. Si può trattare di richieste on line che recano informazioni sul nostro sesso, la nostra età, la nostra zona di residenza, la nostra professione, ecc. Ogni volta che scriviamo un commento su un blog o in un forum, che pubblichiamo un testo, una foto, o che mettiamo in Internet dei nostri lavori, noi forniamo anche delle indicazioni sulla nostra identità. Il terzo tipo di tracce che noi lasciamo in Internet consiste nell’insieme delle nostre scelte di navigazione. A ogni istante dei cookies provenienti dai diversi siti che visitiamo si annidano nel nostro computer, per costruire un’immagine la più precisa possibile delle nostre letture preferite, delle nostre preferenze artistiche, delle nostre abitudini alimentari (soprattutto se facciamo la spesa in Internet), delle destinazioni delle nostre vacanze, dei mezzi di trasporto che usiamo, dei forum di discussione che visitiamo, ecc.
Queste tracce vengono poi vendute a delle imprse che le utilizzano a fini commerciali. L’efficacia di questa sorveglianza permanente è dimostrata dalle pubblicità che compaiono sulla home page della nostra casella di posta elettronica: esse riprendono sistematicamente le pagine dei siti che abbiamo visitato di recente o di altri siti simili. Ma queste pubblicità mirate non sono che la parte visibile dell’immenso iceberg costituito dai dati che ci vengono sottratti a nostra insaputa, di cui un’altra parte è costituita dalla vendita all’asta annuale di dati a delle imprese, soprattutto da parte di Google e Facebook che hanno sviluppato un software molto potente per raccoglierli e trattarli. Infine, un’ultima fonte della nostra identità on line è costituita da tutte le informazioni che gli altri pubblicano su di noi senza che lo sappiamo. Fotografie scattate da amici in vacanza o dai colleghi durante qualche occasione professionale, commenti dei nostri figli ai loro amici, informazioni che possono fornire, senza pensare alle conseguenze, sul periodo delle nostre vacanze, su cosa contiene il nostro appartamento, sui nostri codici di accesso… Molti di coloro che non entrano spesso in Internet rimarrebbero scioccati se scoprissero quanto vi sono presenti! Sono quelle che chiamo le “tracce ereditate”. Questi quattro elementi che vanno a comporre l’identità digitale sono così importanti che le istituzioni scolastiche saluterebbero con piacere la creazione di una “patente per Internet”, così come esiste una “patente per i pedoni”, cosicché i bambini si possano familiarizzare precocemente con la Rete. Avrebbero bisogno di servirsene per tutta la vita.
3. Tra i 9 e i 12 anni: considerare le trasformazioni degli studenti Se è importante spiegare precocemente ai bambini come si usa Internet, è altrettanto importante adattare l’insegnamento alle trasformazioni degli studenti. La pratica sempre più precoce degli strumenti digitali, in particolare dei videgiochi, produce di fatto quattro principali cambiamenti che possono diventare altrettante leve per motivare gli studenti: i bambini apprendono sempre più presto a giocare con identità multiple; si impegnano in parallelo nella soluzione collettiva di compiti e nella valorizzazione delle loro esperienze personali; alternano apprendimenti intuitivi e ragionamento;
stabiliscono una relazione sempre più intima con le macchine. Vediamo come ciascuno di questi cambiamenti possa essere promosso dall’istituzione scolastica.
3.1. Giocare con le identità multiple La cultura degli schermi è portatrice del desiderio di affermazione di sé. I metodi pedagogici dovrebbero tenerne conto per valorizzare in ogni occasione il dibattito e la controversia. Infatti i bambini si abituano sempre più a usare dei nickname e delle identità fittizie in Internet e nei videogiochi. È con molta naturalezza, quindi, che accettano di assumere certe identità per difendere delle posizioni. È importantissimo incoraggiare i giochi verbali e i dibattiti in cui due studenti – o due gruppi – argomentano i propri punti di vista opposti. Questi dibattiti contribuiscono ad alimentare il gusto per la discussione e il rispetto dell’altro. Hanno un valore allo stesso tempo di cittadinanza e scientifico.
3.2. Valorizzare il lavoro collettivo e il pensiero collaborativo La cultura degli schermi è portatrice del desiderio di condividere e allo stesso tempo dell’affermazione di sé. È la cultura del lavoro in rete e dell’intelligenza collettiva. Ecco perché sarebbe assurdo voler introdurre uno schermo per ogni bambino. Gli schermi dovrebbero essere anzitutto uno spazio di riflessione condivisa e di cocostruzione in uno sforzo di ascoltarsi e di comprendersi mutualmente, l’alternativa è di vederli trasformarsi presto in strumenti per ritirarsi dal mondo. Nella scuola primaria e all’inizio della scuola media, la regola dovrebbe essere di avere uno schermo ogni tre o quattro studenti, mai uno per ciascuno. È grazie a un’attività condotta in piccolo gruppo davanti a un solo schermo che i bambini interiorizzano le regole del lavoro in rete. E queste sarebbero essenziali per loro anche se si trovassero da soli davanti a uno schermo, per evitare che esso divenga uno spazio di isolamento. È evidente, allo stesso tempo, che i compiti assegnati al lavoro collettivo non dovrebbero mai poter essere realizzati da un solo studente. Ad esempio, non si tratta di proporre di scrivere una pagina sul funzionamento dell’esercito romano, i funghi coltivati o la macchina a vapore, ma di invitare gli studenti a mettersi insieme per costruire una pagina
multimediale che integri una ricerca di informazioni e una presentazione che associ immagini e testi, con la possibilità di utilizzare i diversi font di carattere disponibili. In breve, si tratta di mostrare agli studenti che ciascuno di loro ha delle competenze e delle attività in cui è particolarmente portato, e che è grazie alla messa in comune di tutto questo che possono riuscire. Questo lavoro di gruppo non rimpiazza evidentemente il lavoro individuale, ma gli contrappone un principio di alternanza. A una tradizione che privilegia unicamente il “lavoro personale”, occorre sostituire la complementarità di esercizi realizzati da soli e di quelli che sono invece realizzati in gruppo. Lo schermo non dovrebbe essere percepito come uno spazio individuale allo stesso titolo del quaderno, ma come un supporto attorno al quale, e attraverso il quale, sviluppare scambi, confronti e collaborazioni generative.
3.3. Passare dagli apprendimenti intuitivi alla loro esplicitazione: valorizzare il tutorato Per le stesse ragioni, è essenziale sviluppare il tutorato reciproco tra gli studenti. Ancora una volta il modello dei videogiochi indica la strada: i “personaggi non giocabili”, quelli generati dal computer, propongono dei problemi che spesso i giocatori non possono risolvere se non collaborando con altri giocatori e rispetto ai quali il mutuo aiuto svolge un ruolo essenziale. I giovani non scoprono nei giochi multiutente on line solo le virtù della soluzione collettiva dei compiti, ma ci praticano anche il tutorato (un giocatore forte che viene in aiuto a un giocatore debole) e l’assistenza reciproca: chi aiuta un altro giocatore in un caso, può avere bisogno di aiuto in un altro. Questa nuova cultura dovrebbe essere incentivata dalle istituzioni pedagogiche favorendo l’alternanza dei lavori personali e dei momenti in cui chi riesce meglio porta il suo aiuto agli altri. Tanto più che sono altrettanto utili per chi dà spiegazioni e per chi le riceve. Nella misura in cui la cultura digitale privilegia la riuscita rispetto alla comprensione, questo momento di spiegazione obbliga, chi riesce, a costruire una cronologia esplicita laddove spesso si era accontentato di mettere in fila delle azioni. È così obbligato a passare dalla cultuta intuitiva degli schermi a quella esplicita del libro.
3.4. Avere una relazione intima con le macchine I giovani personalizzano i loro dispositivi digitali in molti modi, al punto di sviluppare una relazione intima con essi. Perché allora non usare questi
dispositivi, come il loro iPod, il cellulare, la play-station, per farli lavorare? Eviterebbe senz’altro di acquistare materiale che finirebbe inevitabilmente per essere superato, come le LIM, le “Lavagne Interattive Multimediali”, poi ribattezzate “Lavagne Inutili Multimediali”2 dal momento che pochi insegnanti se ne sanno servire. L’uso di materiale portato in classe dagli studenti pone come si capisce il problema della disuguaglianza tra chi possiede a casa tecnologia e chi no. Ma si tratta di una difficoltà che esiste solo se si rimane nello schema “un bambino, uno schermo”. Dal momento in cui i bambini sono invitati a lavorare sullo stesso schermo, più studenti possono utilizzare insieme lo stesso dispositivo scegliendo, tra quelli che posseggono, il più aggiornato.
4. Dopo i 12 anni: incoraggiare e valorizzare le pratiche di produzione Tutti i punti evidenziati per la fascia d’età 9-12 rimangono validi. Tuttavia, diviene possibile pensare a un nuovo asse di intervento circa le tecnologie digitali; si tratta della promozione delle pratiche di creazione, a partire da quelle in cui i ragazzi sono più bravi, cioè proprio quelle digitali.
4.1. Una nuova cultura dell’immagine on line L’essere umano ha sempre utilizzato la fotografia per trasformare la sua relazione con gli altri oltre che per produrre delle immagini. Ma la rivoluzione principale in cui il digitale ha coinvolto la fotografia è Internet. Con la comparsa della Rete, il fare fotografie è divenuto inseparabile dal condividerle, non solo con coloro che sono fisicamente presenti accanto a noi, ma anche con degli sconosciuti. “Fotografare” è diventato inseparabile da “condividere”. Ed è una condivisione sia di immagini che di testo: il cellulare più modesto permette oggi di accompagnare ogni nostro SMS con un’immagine, o di fare il contrario. La carne delle immagini non è più separata dal corpo del testo. Le conseguenze sono solo agli inizi. Anzitutto la relazione che ciascuno di noi ha con la sua intimità ne esce trasformata, si tratti della propria o di quella altrui. Il desiderio di estimità trova con la fotografia digitale dei nuovi prolungamenti. L’ultima novità dei siti di appuntamenti si chiama Snapchat. Questa applicazione permette di spedire una fotografia (o un testo) che si autodistrugge dopo pochi secondi.
Grazie agli adolescenti che ne fanno un forte utilizzo, Snapchat figura tra le 10 applicazioni per smartphone più scaricate. L’immagine inviata non lascia traccia, all’infuori del ricordo che ciascuno ne conserva e di cui potrà finire per dubitare dal momento che la foto gli è apparsa per pochissimo tempo. È come uno spettacolo istantaneo che sfugge a qualsiasi impronta digitale e che non si può catturare che con gli occhi.
4.2. Delle immagini per costruirsi All’improvviso, con il digitale, la fotografia diventa sempre meno un supporto della memoria e sempre più un supporto per la costruzione identitaria e del legame sociale. Quella che era stata una funzione secondaria al tempo della pellicola, diviene la sua funzione principale, tanto più che quella che era la funzione principale tende a sfocarsi. Per lungo tempo, è quasi solo in relazione alla memoria che la fotografia si è definita. In ogni famiglia la fotografia è sempre stata utilizzata per “immortalare” i grandi momenti, o per creare una mitologia in grado di far dimenticare la realtà. Così si possono trovare fianco a fianco negli album delle immagini destinate a ricordare un avvenimento e altre che servono invece a far dimenticare un episodio doloroso che tutti vorrebbero cancellare. Nel primo caso la fotografia, ad esempio, ritrae una festa ben riusicta e permette a chiunque di ricordarsene. Nel secondo caso associa a una certa data dei volti seri dal momento che quel periodo potrebbe essere stato agitato da qualcosa di grave, come una lite familiare, la scoperta di una malattia o una separazione. Queste pratiche non sono scomparse, ma ne sono comparse di nuove che le hanno relegate sullo sfondo. Con il digitale ciascuno si mette in scena, meno per esibirsi come lamentano alcuni adulti, che per creare dei legami e più ancora per simbolizzare delle relazioni di fiducia attraverso gesti concreti, come condividere con qualcuno il proprio codice di accesso a Facebook. A ben vedere niente di così nuovo. Già Doisneau, il grande fotografo francese, diceva: “Non si fanno fotografie che per mostrarle agli amici”, in altre parole per condividere con loro un legame privilegiato. Ma l’innovazione digitale consente di soddisfare questo desiderio su larga scala. Mentre la fotografia su pellicola era per il fotografo soprattutto un modo per simbolizzare il suo rapporto personale con il mondo regalandosene un’immagine, la fotografia digitale, e più ancora l’uso che ne fanno i giovani d’oggi, aggiunge la possibilità di simbolizzare il legame e la qualità della relazione con gli altri.
Ben lungi dall’essere testimonianza di un “deficit di simbolizzazione”, come reclamano alcuni psicanalisti che confondono ancora simbolizzazione e linguaggio parlato/scritto, queste nuove pratiche degli adolescenti sono l’occasione per esplorarne di nuove, organizzate attorno all’immagine e al gesto. Anche questa rivoluzione non è che agli inizi.
4.3. Organizzare dei festival della produzione digitale Alcune città e collettività hanno già lanciato dei festival dedicati alla produzione digitale dei giovani3. Oltre che di fotografie, si tratta di piccole sequenze di immagini realizzate con un cellulare (vengono definite Pocket Films, o Camera Mobile) e di quelle produzioni che vengono chiamate Machinima, filmate dentro un videogioco o un universo virtuale4. Si potrebbe aggiungere la produzione di fotoromanzi, o di videogiochi. Le strutture educative dovrebbero valorizzare anch’esse queste produzioni di immagini giovanili, coordinarle proponendo dei temi di concorso e facilitare gli scambi attorno a esse favorendo la loro visibilità. In questo modo incoraggerebbero la nuova economia del desiderio di realizzare immagini e la metterebbero al servizio di un dialogo intergenerazionale. Speriamo che i dirigenti scolastici sappiano fare propria l’idea e che i siti Web delle scuole possano funzionare come vetrine per le produzioni digitali degli studenti.
5. Proposte per tutte le età A differenza delle proposte fatte finora, relative a delle età specifiche, ve ne sono alcune che possono essere valide per tutti i livelli dell’istruzione.
5.1. Costruire i corsi come una successione di momenti Per quanto gli adolescenti d’oggi abbiano difficoltà di concentrazione, non è certo che queste siano maggiori di quelle degli adolescenti di ieri. Ricordiamoci di Rabelais quando descrive Gargantua con «gli occhi fissi sul suo libro». Non si può trovare un’immagine più eloquente del “fantasticare”: lo studente ha interrotto la comunicazione con l’insegnante e la sua mente vaga libera anche se il suo sguardo è “fisso” sul libro. Gli studenti che “non seguono”, o che si assentano mentalmente di tanto in tanto, sono sempre esistiti. Quando ero bambino, i miei insegnanti lo chiamavano “sbadigliare ai
corvi”, o “guardare le mosche volare”. La differenza è che oggi gli studenti rifutano di annoiarsi… e si mettono visibilmente a fare altro. I cali d’attenzione non sono necessariamente più gravi o più numerosi, ma sono diventati visbili. Così gli insegnanti dovrebbero imparare a riattivare senza sosta l’attenzione dei loro studenti. Lo possono fare costruendo i loro corsi in modo non lineare, come una successione di momenti. Per esempio, verificando rapidamente lo stato delle conoscenze dei loro allievi su un tema, chiedendo a coloro che lo conoscono meglio di spiegarlo alla classe, utilizzando una sequenza di videogioco o di programma televisivo, o invitando due studenti che sembrano avere punti di vista differenti a difenderli5.
5.2. Programmi capaci di rimotivare gli studenti I videogiochi sono stati a lungo accusati di tutti i mali, finché non si è incominciato a interessarsi non solo dei pericoli che essi possono comportare, ma anche delle formidabili possibilità educative che possono garantire. Che non sono poche. Abbiamo visto che essi potrebbero sviluppare l’attitudine a lavorare in gruppo e la curiosità verso gli altri, e migliorare le performances in caso di compiti che richiedano attenzione e rapidità percettiva. È qui che nasce l’idea di creare videogiochi educativi, i cosiddetti serious games, o di utilizzare i giochi esistenti per lo stesso motivo: è quel che si chiama serious gaming. Ma è nella personalizzazione che le tecnologie digitali potrebbero dimostrarsi più interessanti ancora. 1. Anzitutto, lo studente può lavorare secondo il suo ritmo di lavoro, nei momenti e nei luoghi che preferisce, trovando in ogni materia un livello di difficoltà adatto alle sue capacità. Inoltre, se lo desidera, può avvalersi di un tutor virtuale che può interpellare in ogni momento. 2. Inoltre, i software creano uno spazio di sicurezza per chi apprende. Per avventurarsi tra nuove nozioni, certo serve sentirsi rassicurati. Ora, i software non giudicano, non bocciano, e permettono a chi apprende di crearsi un “itinerario di viaggio” grazie al quale può visualizzare i suoi progressi a ogni tappa. Una visualizzazione che riguarda tutte le operazioni che corrispondono alla costruzione e all’esecuzione di un programma: competenze in entrata, loro sviluppo, diversità di strategie impiegate e lo spazio per il confronto con i pari e con le basi di dati per raggiungere l’obiettivo.
3. Infine, favoriscono l’innovazione. Chiunque ottiene maggior soddisfazione nell’esecuzione di un compito di cui ha costruito da solo il percorso e questo è possibile grazie alle tecnologie digitali. Ma certo questo non è realizzabile senza degli interlocutori che accompagnino i giovani: genitori, educatori, insegnanti.
6. Dieci giorni per addomesticare gli schermi Questo progetto si ispira al programma SMART (Student Media Awareness to Reduce Television), sperimentato nel 1996-97 in due scuole primarie di San Josè, in California, dall’équipe di Thomas Robinson, professore all’Università di Stanford. Il programma ha dato lo spunto in Canada alla “sfida senza schermi”, lanciata nel 2003 in collaborazione con l’Associazione dei genitori delle regioni del Québec e di Chaudière-Appalaches. In Francia, la prima esperienza di questo tipo è stata condotta nel maggio del 2008 da Serge Hygen, alla scuola di Ziegelwasse a Strasburgo, con il titolo “La sfida di dieci giorni per imparare a vedere in modo diverso”. I media l’hanno infelicemente ribattezzata: “La sfida dei dieci giorni senza schermi”. Di fatto, non si tratta di impedire ai bambini di guardare la televisione o di usare i videogiochi, ma di invitarli a scegliere i programmi e i giochi cui tengono veramente. Parallelamente, i genitori e gli educatori propongono loro attività che sono liberi di fare oppure no. È un modo di restituire ai bambini il desiderio e la libertà di essere spettatori attivi invitandoli in ogni istante a scegliere quello che hanno deciso di fare e di guardare. Un modo per arrivarci è di sviluppare altre attività completamente differenti, ma anche di incoraggiare tutte quelle attività che permettono di fare un passo indietro rispetto all’uso degli schermi, come invitare i bambini a realizzare le loro immagini, le loro fotografie e i loro video in modo tale da aiutarli a diventare i creatori del loro immaginario. Guardare meno la televisione non è utile che se la si guarda diversamente, e produrre delle immagini può essere d’aiuto. Senza contare che condividere i saperi e la passione per le immagini è allo stesso tempo un modo per creare dei legami! Per vedere il mondo diversamente, abbiamo di fatto bisogno di sperimentare delle solidarietà concrete attorno a degli obiettivi precisi, e i “Dieci giorni” ne sono l’occasione. Non è un’iniziativa fatta per convincerci a eliminare gli schermi dalle nostre vite, ma per imparare a non lasciarci più tirannizzare da essi. “Imparare a vedere diversamente”, significa allo stesso
tempo guardare gli schermi in modo diverso e riflettere sul loro spazio nella nostra vita. Anzitutto e soprattutto sono dieci giorni che servono per imparare di nuovo a vivere insieme. I bambini di oggi sono gli adulti di domani e alleveranno i loro figli insegnando loro il discernimento in relazione agli schermi tanto più quanto più loro stessi saranno stati aiutati a riflettere sul problema.
Conclusione
Come le nuovi fonti energetiche sono state introdotte nella storia dell’umanità senza far scomparire quelle preesistenti, così le tecnologie digitali dovrebbero essere considerate come dei nuovi strumenti che ampliano la gamma delle nostre possibilità. Con gli schermi interattivi, l’essere umano possiede, per la prima volta, un supporto per la sua intelligenza spazializzata, tanto importante quanto la scrittua e il libro lo sono per l’intelligenza narrativa. A condizione tuttavia di non dimenticare che i loro benefici sono più facilmente accessibili a coloro che hanno già in precedenza imparato a gestire il pensiero lineare e l’intelligenza narrativa. Ma non appena abbiamo iniziato a comprendere i meccanismi degli schermi, ecco che un nuovo cambiamento si sta verificando sotto i nostri occhi. Consentendo di mischiare testi e immagini, le tecnologie digitali contribuiscono in effetti a incrociare i due modelli di pensiero corrispondenti molto meglio che le tecnologie precedenti. Due innovazioni recenti lo dimostrano. La prima riguarda i tablet: le loro più recenti versioni integrano una visualizazione delle pagine ancora da leggere per permettere al lettore di misurare con un solo colpo d’occhio il suo percorso, esattamente come accade quando si legge un libro tradizionale su supporto cartaceo. La seconda innovazione è ancora più spettacolare. Prima del 2012 tutti i documenti depositati giorno per giorno in Facebook si accatastavano in uno spazio comparabile alla scatola per le scarpe in cui spesso si conservavano le fotografie di famiglia nel secolo scorso. Era veramente molto difficile ritrovare qualcosa che si cercava! Ma nel 2012, Facebook ha introdotto la Timeline, prima opzionale, poi obbligatoria. In pratica vuol dire che i documenti pubblicati su una pagina vengono archiviati in ordine cronologico così da formare una biografia individuale consultabile con un semplice clic. La pubblicità che ha accompagnato questa novità è stata degna di nota: mentre la Rete viene tradizionalmente presentata come uno spazio che valorizza l’orizzontalizzazione, la pubblicità della Timeline è stata
interamente costruita su un modello verticale! Ma tutto è così veloce in tema di tecnologie digitali che questa rivoluzione potrebbe essere presto minacciata a sua volta dall’importanza del corpo e del movimento nelle interfacce. La sensorialità e la motricità potrebbero allora assumere un’importanza di cui oggi non abbiamo idea. Ma dato che questo libro si propone di guidare i lettori verso un uso intelligente degli schermi, terminiamo con due consigli. Anzitutto, non dimentichiamo che il libro è stato conosciuto dall’uomo prima degli schermi e questa anteriorità dovrebbe guidare l’educazione dei bambini. Chi non ha integrato riferimenti spaziali e temporali corre un rischio molto forte di perdersi negli schermi. I bambini che sanno utilizzare dei cubi veri può darsi che possano sviluppare ulteriormente le loro capacità impilando dei cubi virtuali su uno schermo, ma se non hanno mai giocato con dei cubi veri è probabile che non trarranno giovamento dall’uso dei cubi virtuali, anzi rischieranno di perdere del tempo prezioso per sviluppare apprendimenti relativi al corpo e ai sensi. Il nostro secondo consiglio riguarda le formidabili potenzialità della produzione digitale. Sappiamo tutti che i bambini, se incoraggiati e ben guidati, sono incredibilmente creativi. Sta a noi renderci disponibili a questa scoperta. L’incoraggiamento di buone pratiche – e in particolare di pratiche condivise e/o creatrici – è in effetti il modo migliore per opporsi a quelle che favoriscono l’isolamento e la desocializzazione. Da ultimo, la regola “3-6-9-12”, per quanto importante possa essere, non è che un elemento di questo dispositivo, come il “gioco delle tre figure”, il modulo pedagogico proposto dall’Accademia delle Scienze, il programma “Mani in pasta”1, i “Dieci giorni per addomesticare gli schermi” o, ancora, i festival dedicati alle produzioni creative degli adolescenti. Sta a noi imparare a metterli sempre in pratica. Poiché il tempo stringe. Sarebbe inaccettabile che i bambini che oggi hanno tre anni dovessero imparare da soli ad appropriarsi degli schermi, esattamente come ha fatto la maggior parte degli adolescenti di oggi, a loro rischio e pericolo.
In sintesi
Prima dei 3 anni Il bambino ha bisogno di costruirsi i propri riferimenti temporali e spaziali. Evitate la televisione e i lettori di DVD, di cui sono stati dimostrati gli effetti negativi. I tablet non sono una priorità: possono essere utilizzati a complemento dei giochi tradizionali, ma sempre con l’accompagnamento di un adulto, senz’altro fine che di giocare insieme, di preferenza con gli applicativi adatti.
Tra i 3 e i 6 anni Il bambino ha bisogno di scoprire tutte le sue possibilità sensoriali e manuali. Evitate di mettere il televisione o il computer nella sua cameretta. Stabilite delle regole chiare riguardo ai tempi del consumo e rispettate l’età indicata per l’uso degli applicativi. Preferite videogiochi cui si possa giocare in molti rispetto a quelli cui si gioca da soli: i computer e la play-station possono essere un supporto occasionale del gioco in famiglia e anche dell’apprendimento accompagnato dall’adulto. Non comprate mai a vostro figlio una play portable o un game-boy: a quest’età, giocare da soli diventa rapidamente qualcosa di stereotipato e compulsivo.
Tra i 6 e i 9 anni Il bambino ha bisogno di scoprire le regole del gioco sociale. Evitate di mettere il televisore o il computer nella sua cameretta. Stabilite delle regole chiare riguardo ai tempi del consumo e rispettate l’età indicata per l’uso degli applicativi. Settate il profilo d’uso della Play-station. A partire dagli 8 anni, spiegategli il diritto all’immagine e all’intimità.
Tra i 9 e i 12 anni Il bambino ha bisogno di esplorare la complessità del mondo. Continuate a stabilire regole chiare riguardo ai tempi del consumo. Determinate insieme a lui l’età a partire dalla quale potrà avere il suo cellulare. Ricordategli regolarmente le tre specificità di Internet: 1. Tutto quello che ci metti può diventare di dominio pubblico. 2. Tutto quello che ci metti resterà lì per sempre. 3. Tutto quello che ci trovi richiede prudenza: alcuni dati sono veri, altri falsi.
Dopo i 12 anni Il bambino inizia ad affrancarsi dai riferimenti familiari. Vostro figlio “naviga” in Rete, ma concordate degli orari da rispettare. Evitate di lasciargli una connessione notturna illimitata in camera sua. Discutete con lui del download di file, del plagio, della pornografia e delle molestie on line. Rifiutate di essere suo “amico” in Facebook.
A tutte le età Limitiamo gli schermi, scegliamo i programmi, invitiamo il bambino a parlare di quel che ha visto, incoraggiamo le pratiche creative.
Schede a cura di Laura Comaschi
SCHEDA 1 Prima dei 3 anni Titolo
Realtà e schermi: a quale gioco giochiamo?
Tema
Costruzione di riferimenti spazio-temporali nella realtà e sullo schermo interattivo
Parole-chiave
Spazio-tempo, orientamento, narrazione
Destinatari
Età: da 1 a 2 anni
Tempo previsto
3 ore circa Abilità:
Obiettivi
- familiarizzare con due “tipologie” di gioco: quello reale e quello virtuale; - sviluppare riferimenti spazio-temporali attraverso attività “reali” e “virtuali”; - sviluppare il ricordo e la rielaborazione di un’esperienza; - sviluppare la costruzione narrativa (libro: racconto cronologico; ipertesto: racconto spazializzato). - Ai bambini viene chiesto di svolgere alcune attività legate alla manipolazione, alla costruzione, alla percezione dello spazio e del tempo (ad esempio, il bambino deve realizzare una torre con dei cubi in legno, oppure deve inserire della pasta in una bottiglia di plastica). Durante le attività vengono scattate delle fotografie al fine di documentare il lavoro. - In un secondo momento viene chiesto ai bambini di svolgere le stesse attività sullo schermo di un tablet o di una LIM (preferibilmente touch). Anche in
Attività
Prodotto
questo caso vengono scattate delle foto. - Una volta sperimentate entrambe le tipologie di gioco (realtà e schermo) si chiede a ogni bambino di scegliere l’attività che preferisce sperimentare: quella sullo schermo o quella “reale”? È interessante capire se la preferenza del gioco cambi ogni volta che lo si propone oppure rimanga costante in occasioni differenti. - Con le fotografie scattate durante le attività si realizzano due strumenti da utilizzare in sezione: un libro cartaceo (da disporre poi nell’angolo morbido dedicato alla lettura) e un ipertesto digitale. Insieme ai bambini si “leggono” le immagini (libro: pensiero lineare; schermo: pensiero circolare) e si ricorda e si racconta l’esperienza vissuta. LIBRO CARTACEO e IPERTESTO
SCHEDA 2 Prima dei 3 anni Titolo
Il gioco delle regole
Tema
Realtà e rappresentazione: gli aspetti che regolano la produzione e la fruizione di un filmato
Parolechiave
Simulazione, realtà/rappresentazione, regole
Destinatari
Età: dai 3 ai 5 anni
Tempo previsto
6 ore circa
Conoscenze:
- conoscere alcuni meccanismi di trasmissione comunicazione televisiva; - sensibilizzare a una lettura attiva dei filmati.
e
Abilità: Obiettivi
- saper distinguere la realtà dalla rappresentazione sullo schermo; - saper riconoscere e contestualizzare i propri vissuti sviluppando una fruizione più critica della televisione; - sviluppare la consapevolezza dell’importanza di una lettura “attiva e sociale” dei filmati. - Ai bambini vengono proposti alcuni giochi con la telecamera al fine di conoscere alcuni effetti che possono essere trasmessi sullo schermo. Gli alunni dovranno immedesimarsi in maghi, giganti, marinai… Insieme ai bambini si riflette sull’esperienza vissuta mettendola a confronto con la rappresentazione mostrata successivamente sullo schermo.
Attività
Prodotto
- In un secondo incontro vengono mostrati ai bambini dei filmati. Insieme a loro si commenta ciò che hanno visto e si riflette su come sia importante “leggere attivamente” un video in compagnia di qualcuno (adulto e/o pari). Il confronto porta i bambini a una comprensione più approfondita del testo e a una rielaborazione di sé e della propria quotidianità attraverso le situazioni/racconti narrati nei filmati proposti. - In base a quanto emerso dal confronto, insieme agli alunni si individuano alcune “regole” fondamentali da tener presenti durante la visualizzazione di un filmato. Questi aspetti verranno poi rappresentati dai bambini attraverso alcune immagini che saranno incollate su una cartolina. Gli alunni consegneranno la cartolina ai loro genitori al fine di condividere e mettere in pratica anche a casa le “regole” individuate in classe. CARTOLINA DELLE REGOLE DEL CONSUMO FAMILIARE
SCHEDA 3 Prima dei 9 anni Titolo
Diritto alla propria immagine
Tema
Responsabilità e rispetto della propria immagine… e di quella altrui
Parolechiave
Rappresentazione di sé e degli altri, intimità, rispetto
Destinatari
Età: dai 6 agli 8 anni
Tempo previsto
5 ore circa
Conoscenze:
- conoscere diritti e doveri, pericoli e benefici nel pubblicare le immagini in Internet. Abilità: Obiettivi
- saper distinguere ciò che caratterizza lo spazio intimo e lo spazio privato; - sapersi rappresentare attraverso diversi linguaggi; - sensibilizzare al rispetto della propria immagine e di quella altrui; - saper rappresentare i concetti acquisiti attraverso il linguaggio del poster/manifesto. - Ogni bambino si rappresenta su un foglio attraverso diversi linguaggi (disegno, parole). - La classe viene suddivisa in coppie. Ogni alunno compila un profilo del compagno che gli è stato affidato e poi scatta una foto. Una volta terminato il lavoro i bambini si confrontano, in coppia, in merito ai profili realizzati (Ti piace il profilo che ho creato? Sei d’accordo con quanto scritto e fotografato? Quali aspetti sono comuni e quali sono
Attività
Prodotto
differenti rispetto alla rappresentazione che ti eri fatto inizialmente di te? Vorresti mostrare (“pubblicare”) il profilo che ho creato a tutta la classe?). - Successivamente si chiede ai bambini cosa abbiano imparato da questa attività al fine di predisporre un vademecum con alcuni aspetti e comportamenti da attuare per un utilizzo responsabile dell’immagine. - Verranno realizzati uno o più poster con gli aspetti individuati nel vademecum. Questi manifesti verranno poi esposti e pubblicati nell’ambiente della scuola con lo scopo di rendere consapevoli e responsabili all’utilizzo della propria immagine anche altri bambini e ragazzi. VADEMECUM, POSTER / MANIFESTI
SCHEDA 4 Prima dei 12 anni Titolo
Navigare in Internet sicuri
Tema
Consapevolezza e responsabilità nell’utilizzo di Internet
Parolechiave
Responsabilità, Internet, pubblicità
Destinatari
Ragazzi: dai 9 agli 11 anni
Tempo previsto
10 ore circa
Conoscenze:
- conoscere diritti e doveri, opportunità e pericoli della Rete; - conoscere le tre specificità di Internet; - conoscere gli elementi principali che caratterizzano una pubblicità. Abilità: Obiettivi
- saper riconoscere e contestualizzare i propri consumi della Rete; - sviluppare sempre più consapevolezza che “conoscenza” e “responsabilità” garantiscono un corretto utilizzo della Rete; - saper sostenere le proprie idee all’interno di un dibattito; - saper progettare e produrre uno spot. - A ogni ragazzo si chiede di rispondere alle seguenti domande: “Cos’è per me Internet?” e “Cosa faccio quando accedo a Internet?”. Successivamente si divide la classe in piccoli gruppi. Ogni gruppo deve individuare analogie e differenze in merito a quanto è stato indicato dai componenti. In seguito i diversi gruppi si confrontano.
Attività
- Attraverso il “gioco di posizioni” i ragazzi devono esprimere la propria opinione in merito alle tre specificità della rete: 1) Tutto quello che posti in Internet può diventare di dominio pubblico. 2) Tutto quello che posti in Internet resterà lì per sempre. 3) Tutto quello che ci trovi richiede prudenza: alcuni dati sono veri, altri falsi. - Le opinioni dei ragazzi vengono rappresentate su una mappa al fine di fissare i punti fondamentali e iniziare un vero e proprio dibattito. - In base alle tematiche emerse nel confronto, insieme ai ragazzi si progetta e si realizza uno spot volto a sensibilizzare a un utilizzo sicuro della Rete.
Prodotto
SPOT
SCHEDA 5 Dopo i 12 anni Titolo
Vivere nei social da cittadini modello
Tema
Consapevolezza e responsabilità nell’utilizzo dei social network
Parolechiave
Identità/rappresentazione, profili social, comunicazione on line
Destinatari
Età: dai 12 anni in poi
Tempo previsto
10 ore circa
Conoscenze:
- conoscere diritti e doveri, opportunità e pericoli nell’utilizzo dei social network; - conoscere gli elementi principali che caratterizzano un blog; - conoscere le logiche che regolano un blog. Abilità: Obiettivi
- saper riflettere sulla rappresentazione della propria identità; - saper riconoscere e contestualizzare i propri consumi della Rete; - individuare le caratteristiche che contraddistinguono la comunicazione nei social e la comunicazione face to face; - saper progettare e produrre un blog; - saper collaborare e cooperare in un gruppo (redazione blog). - Ogni ragazzo deve rappresentarsi attraverso un collage e poi compilare una scheda che simula il suo profilo social (ad esempio di Facebook). Una volta svolte queste due attività si chiede agli studenti di confrontare le due rappresentazioni. La riflessione poi si sposta sulla differenza che c’è tra la loro “identità” e la sua
“rappresentazione”. Attività
- Ai ragazzi viene chiesto di compilare una griglia che li porti a riflettere sul proprio consumo mediale e sulle caratteristiche della comunicazione on line (in particolare nei social) e face to face. Le schede vengono poi messe a confronto. - Infine verrà realizzato un BLOG tematico con lo scopo di fissare e approfondire gli argomenti trattati in classe (e non solo), portando la discussione fuori dall’aula. Al fine di garantire un aggiornamento sistematico del blog è necessario definire nel gruppo classe una piccola redazione.
Prodotto
BLOG
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Nella stessa collana 1. Franco Loi, Educare la parola, a cura di Giuseppe Mari 2. Enrico Berti, Invito alla filosofia, II edizione 3. Lorenzo Montanari, Pronto soccorso dell’italiano. Ortografia, punteggiatura, congiuntivo 4. Antonio Paolucci, Arte e bellezza, a cura di Carolina Drago, II edizione 5. Stefano Semplici, Invito alla bioetica, a cura di Mirko Di Bernardo 6. Joan Domènech Francesch, Elogio dell’educazione lenta 7. Bruno Forte, Una teologia per la vita. Fedele al cielo e alla terra, a cura di Marco Roncalli 8. Giovanni Reale, Invito al pensiero antico, a cura di Vincenzo Cicero, II edizione 9. Camille Landais - Thomas Piketty - Emmanuel Saez, Per una rivoluzione fiscale. Un’imposta sul reddito per il XXI secolo, a cura di Massimo Bordignon e Enrico Minelli 10. Aldo Grasso, Invito alla televisione, a cura di Cecilia Penati 11. Giacomo Canobbio (ed.), Dio, l’anima, la morte. Percorsi per far pensare 12. Rabindranath Tagore, La saggezza del pappagallo, a cura di Alberto Pelissero 13. Edward Evan Evans-Pritchard, Invito all’antropologia sociale 14. Alberto Quadrio Curzio, Economia oltre la crisi. Riflessioni sul liberismo sociale, a cura di Stefano Natoli, II edizione 15. Michael Heller, La scienza e Dio, a cura di Giulio Brotti 16. Emanuele Severino, Educare al pensiero, a cura di Sara Bignotti 17. Georges Cottier, Ateismi di ieri e di oggi, a cura di Giuseppe Mari 18. Massimo Baldini, Virtù dell’errore. Fra epistemologia e pedagogia 19. Giacomo Canobbio, Il Concilio Vaticano II tra speranza e realtà, a cura di Annachiara Valle 20. Luigi Alici, I cattolici e il paese. Provocazioni per la politica 21. Giovanni Reale, Salvare la scuola nell’era digitale
22. Dario Antiseri, Dalla parte degli insegnanti 23. Stephen Gilligan, La coscienza creativa. Psicoterapia, trasformazione personale e azione sociale, a cura di Anna Pensante 24. Benjamin Murmelstein, Terezin. Il ghetto-modello di Eichmann, II edizione 25. Robert Spaemann, Essere persone, a cura di Giulio Brotti 26. Carlo Lottieri, Liberali e non. Percorsi di storia del pensiero politico 27. Papa Francesco, Lumen fidei. L’Enciclica della fede, III edizione 28. Massimo Giuliani (ed.), Conoscere la Shoah. Storia, letteratura, filosofia, arte 29. Luisa Muraro, Non si può insegnare tutto, a cura di Riccardo Fanciullacci, II edizione 30. Roberto Tottoli (ed.), L’autunno delle primavere arabe. Religioni e politica nel Mediterraneo islamico 31. Stefano Semplici (ed.), Italia no, Italia forse. Perché i talenti fuggono. E qualche volte ritornano 32. Domenico Barrilà, Bambini. Perché siamo come siamo 33. Kahlil Gibran, Il profeta e il bambino, a cura di Francesco Medici 34. Pietro Barcellona, Modernità come sfida, a cura di Giuseppe Mari 35. Salvatore Natoli, Antropologia politica degli italiani 36. Luca Alici (ed.), Il paradosso dell’educatore. Tre testi di Paul Ricœur 37. Arnoldo Mosca Mondadori - Alfonso Cacciatore - Alessandro Triulzi (eds.), Bibbia e Corano a Lampedusa. Il lamento e la lode. Liturgie migranti, III edizione 38. Fouad Twal, Gerusalemme capitale dell’umanità, a cura di Nicola Scopelliti, II edizione 39. Papa Francesco, La mia scuola, a cura di Fulvio De Giorgi 40. Gianfranco Ravasi, Di generazione in generazione 41. Roberto Gatti, Il popolo dei moderni. Breve saggio su una finzione 42. François Jullien, Cinque concetti proposti alla psicoanalisi 43. Renato Pettoello - Nadia Moro, Dizionarietto di tedesco per filosofi 44. Pier Cesare Rivoltella, La previsione. Neuroscienze, apprendimento, didattica 45. Simone Attilio Bellezza, Ucraina. Insorgere per la democrazia, III edizione
46. Giuseppe Riconda, Filosofia della famiglia 47. Mario Falanga - Fabio Pruneri - Pier Cesare Rivoltella - Milena Santerini, Renzi e la scuola. L’ultima occasione? 48. Tiziano Terzani, Le parole ritrovate. Nel mondo, dentro l’anima. Testi inediti a cura di Mario Bertini, V edizione 49. Papa Francesco, Buon pranzo! Il cibo per l’anima 50. Carlo Maria Martini, Figli di Abramo. Noi e l’Islam. Introduzione di Massimo Cacciari 51. Rémi Brague, Dove va la storia?, a cura di Giulio Brotti 52. Marco Impagliazzo, Il martirio degli armeni. Un genocidio nascosto, II edizione 53. Bruno Forte (ed.), La Chiesa di Papa Francesco e la famiglia. Con i testi del Sinodo 54. Gian Carlo Perego, Uomini e donne come noi. I migranti, l’Europa, la Chiesa, II edizione 55. Vilfredo Pareto, La prima guerra mondiale. Le cause, le conseguenze 56. Marco Boato, Alexander Langer. Costruttore di ponti, III edizione 57. Emiliano Rinaldini, Il sigillo del sangue 58. Papa Francesco, Laudato si’. Sulla cura della casa comune, III edizione 59. Luciano Pazzaglia (ed.), Crescere insieme. Scritti di Sergio Mattarella 60. Massimo Camisasca, Il carisma dell’arte. La svolta di Paolo VI 61. Luciano Monari, Parole dell’umanesimo cristiano, II edizione 62. Mino Martinazzoli, Mosè, Nicodemo e la Colonna infame, II edizione 63. Fulvio De Giorgi, Più coraggio! Chiesa, famiglie, sessualità 64. Ruggero Eugeni, La condizione postmediale. Media, linguaggi e narrazioni 65. Karol Wojtyła, Amore e desiderio, a cura di Giuseppe Mari 66. Salvatore Natoli, I nodi della vita, II edizione 67. Marco Roncalli, Giubileo d’autore. Da Dante a Pasolini: gli Anni Santi degli scrittori, II edizione 68. Serge Tisseron, 3 - 6 - 9 - 12. Diventare grandi all’epoca degli schermi digitali, a cura di Pier Cesare Rivoltella 69. Massimo Campanini, Quale Islam? Jihadismo, radicalismo, riformismo, II edizione 70. Gianfranco Miglio, Guerra, pace, diritto. Con un saggio di Massimo
Cacciari, La nuova guerra
Note
Presentazione 1
Gli atti di quella scuola estiva, compresi gli interventi mio e di Tisseron, sono pubblicati in Fremont - Bevort, 2001. 2
I workshop sono erogati dagli esperti del CREMIT (Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media, all’Informazione e alla Tecnologia) con la mia direzione scientifica. 3 Curate da Laura Comaschi (che ringrazio per il contributo).
Capitolo secondo “3-6-9-12”, lo stato delle nostre conoscenze 1
Cfr. il Report Cittadini e nuove tecnologie, ISTAT, 2014. In Internet, URL: http://www.istat.it/files/2014/12/cittadini. 2 Tisseron fa riferimento al noto fisiologo francese dell’Ottocento, unanimemente ritenuto uno dei padri del metodo scientifico cui si riferiscono i quattro momenti di cui si parla nel testo (n.d.t.). 3
Il dato fa riferimento http://www.mediametrie.fr.
a
un’indagine
di
Mediametrie
del
2012.
Cfr.
URL:
Capitolo terzo “3-6-9-12”, un percorso per tutte le età 1
Il sistema PEGI, introdotto e promosso dall’ISFE (Interactive Software Federation of Europe), viene gestito da un’organizzazione non profit che porta lo stesso nome. L’ISFE, fondata nel 1998 dai produttori per interagire con le organizzazioni europee competenti, ha la sua sede a Bruxelles. 2
È il caso, in Francia, del sito Pedagojuex, in Internet, URL: http://www.pedagogjeux,fr. In Italia, indicazioni utili possono essere reperite, ad esempio, sul sito dell’Istituto degli Innocenti di Firenze (in Internet, URL: http://www.istitutodegliinnocenti.it), o di Save the Children (in Internet, URL: http://www.-savethechildren.it). Una bella analisi del rapporto tra videogiochi ed educazione si trova nel volume di J.P. Gee, Come un videogioco, Raffaello Cortina, Milano 2013.
Capitolo quinto Del buon uso della Rete 1
Jean-Michel Di Falco, vescovo ausiliario di Parigi dal 1997 al 2003, è stato portavoce della
Conferenza Episcopale francese e fondatore della rete televisiva cattolica KTO. In Francia è stato famoso per il suo lavoro di corrispondente nella carta stampata e nei media radio-televisivi (n.d.t.). 2
Cfr. in Internet, URL: http://www.amonet.com. Anche in Italia, negli ultimi anni, educatori e operatori della prevenzione si sono messi a riflettere seriamente su come essere efficaci all’interno dei nuovi ambienti di socializzazione giovanile, come appunto i social network. Tra le tante esperienze interessanti, meritano di essere ricordate quella sulla Peer&Media Education, condotta dal “Gruppo di Verbania” e dal CREMIT dell’Università Cattolica e confluita nel volume Il tunnel e il kayak (Ottolini - Rivoltella, 2014) e l’esperienza di Youngle – Zona di sopravvivenza Under 20 (in Internet, URL: http://www.youngle.it). 3
Capitolo sesto Le quattro rivoluzioni delle tecnologie digitali 1
Qui l’esempio di Tisseron funziona se si intende la dialettica hegeliana (cui lo schema tesiantitesi-sintesi allude) come inserita dentro la logica sequenziale della temporalità. Non funziona se invece si pensa a come essa superi la logica aristotelica del terzo escluso e quindi non escluda i contrari ma ne faccia i suoi momenti costitutivi (n.d.c.).
Capitolo settimo “3-6-9-12”, la scuola, gli enti pubblici e il mondo delle associazioni 1
Negli ultimi tempi, in Italia, è stata data nuova spinta al valore di questo tipo di insegnamento dalla promozione del Coding nelle scuole. L’obiettivo non è di sviluppare competenze informatiche precoci nei bambini, ma di avviarli al pensiero computazionale (n.d.t.). 2
In francese le LIM sono indicate dall’acronimo TBI, Tableaux Blancs Interactifs, che viene facilmente modificato in: Tableaux Blancs Inutiles. Abbiamo provato a rendere in italiano il gioco linguistico (n.d.t.). ternet. 3 Ricordiamo le città di Rennes e di Valenza, che conosciamo per avervi partecipato e, a livello nazionale, il festival Infilmementpetit (URL: http://www.infilmementpetit.com). In Italia merita di essere ricordato il Sottodiciotto Filmfestival di Torino (in Internet, URL: http://www.sottodiciottofilmfestival.it), giunto alla sedicesima edizione (n.d.t.). 4
Crasi di Machine e Cinema, un Machinima è una tecnica di produzione filmica e al contempo un genere cinematografico la cui specificità consiste nell’utilizzare real time strumenti e risorse dei videogiochi per realizzare un nuovo prodotto di animazione. 5 Il riferimento di Tisseron alla necessità di segmentare l’azione didattica in fasi temporalmente concentrate e al rovesciamento della lezione (non è l’insegnante che spiega, ma sono gli studenti a essere richiesti di lavorare sulle loro conoscenze) sembra essere coerente con alcuni recenti orientamenti della ricerca didattica, dal fliepped learning agli EAS (Rivoltella, 2013; 2015) [n.d.t.].
Conclusione 1
Si chiama così, in Francia, una Fondazione di cooperazione scientifica per l’educazione alla scienza che ogni anno lancia per le scuole francesi un concorso per il miglior progetto scientifico da esse realizzato (URL: http://www.fondation-lamap.org) (n.d.t.).