Dio e la libertà 888101565X, 9788881015658

Gli argomenti trattati sono molti e spaziano dalle riflessioni filosofiche e teologiche alle argomentazioni scientifiche

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Dio e la libertà
 888101565X, 9788881015658

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FRANCESCO VALENTE

DIO E LA LIBERTÀ PREFAZIONE DI

BEATRICE VALENTE LEONETTI

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Proprietà letteraria riservata © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

Stampato in Italia nel mese di febbraio 2009 da Pellegrini Editore Via De Rada, 67/c - 87100 Cosenza - Tel. 0984 795065 - Fax 0984 792672 Sito internet: www.pellegrinieditore.it E-mail: [email protected]

I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

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Alla piccola Silia, incantevole creatura, acerbo e tenero fiore, ombrosa e scintillante, sintesi del nostro passato, respiro lieve del presente, energia luminosa del futuro.

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“OMNIS QUI SE DUBITANTEM INTELLIGIT VERUM INTELLIGIT ET DE HAC RE QUAM INTELLIGIT CERTUS EST…”

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PREFAZIONE

È il terzo volume di una trilogia che ha preso in esame l’evoluzione, il linguaggio e la libertà. Il primo e il secondo dei tre, vagamente polemici, esprimono idee personali intese a confutare le tesi di chi vorrebbe far passare per scoperte scientifiche ipotesi prive di qualsiasi riscontro sperimentale. L’evoluzione ha un anello mancante, quello che dovrebbe far ricadere gli ominidi nel genere “homo” e togliere il sacro dalle certezze umane. Il linguaggio è fuori dalle possibilità di una comprensione accessibile, esso ripropone il problema più antico delle essenze e degli universali. Ancora non conosciamo profondamente schemi o supporti organici, tali da spiegare tutte le articolazioni cui la fenomenologia espressiva mirabilmente si adatta, ma possiamo riferire solo all’essere pensante la capacità di piegarla al proprio sentire. Il terzo volume raccoglie una serie di articoli pubblicati sul mensile “Presila 80” (Direttore Anselmo Fata) nell’arco di un decennio; gli argomenti trattati sono molti, ma in ognuno di essi si riconosce un unico filo conduttore: la ricerca perseverante della verità sostenuta senza condizioni dall’affermazione della libertà. 9

La ricerca della verità, come esigenza imperiosa dell’anima è un percorso tortuoso e aspro, ma è l’unico percorribile. Non ci sono indicazioni assolute, né distanze da colmare, ma scelte difficili e coraggiose e delusioni profonde. E si è sempre soli. È Agostino d’Ippona, con la sua tormentata ricerca di assoluto, che ispira questi articoli. E ancora Tommaso D’Aquino, il misticismo di Edith Stein, il coraggio di Teresa d’Avila e paradossalmente anche le argomentazioni sottili e inconfutabili dei più grandi scienziati della fisica teorica: Bohr, Heisenberg, Einstein. L’esegesi accurata dei più importanti contrasti storici, l’analisi profonda e solerte del pensiero universale, scevra da facili interferenze e preconcetti, insieme alla fiducia incondizionata nelle capacità della scienza e dell’uomo, sono i tratti più significativi e rilevanti che caratterizzano e legano al primo impatto questi “capitoli” di elevato spessore intellettuale. Tuttavia questa fiducia nelle capacità che l’intelletto umano può raggiungere attraverso la ragione, sfuma in una sorta di incredula e devastante impotenza che cede alla resa quando, di fronte ai grandi temi universali, la ragione e la spiritualità diventano antitetiche l’una all’altra. La libertà nasce nel linguaggio, “progetto intelligente”, come elaborazione soggettiva delle proprie esperienze e delle suggestioni della ragione, ma viene convalidata solo dalle insinuazioni del dubbio. “Dio ha lasciato abbastanza luce per chi vuole credere, ma anche abbastanza ombre per chi non vuole credere”. (B. Pascal) Beatrice Valente leonetti 10

EDITH STEIN, “FILOSOFA CROCIFISSA”

Avrebbe lasciato una traccia ben più profonda nella storia della filosofia se non fosse stata prelevata dai nazisti dal convento delle carmelitane scalze di Echt in Olanda e trasferita nel tenebroso campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. Destino tragico! Pari nella violenza alla grandezza morale e intellettuale di un personaggio ricco di bellezza e di fascino. Era nata Edith Stein a Breslavia, in quella parte della Slesia oggi appartenente alla Polonia, nel 1891. Figlia di Israele riuniva in sé il carattere forte e accattivante di un popolo in cammino, l’intelligenza dei cercatori di verità e il misticismo estatico dei consegnati alla purezza. La solida preparazione culturale che comprendeva studi di storia, di filosofia, di germanistica, la portarono in breve tempo a stabilire una forma di collaborazione permanente con Husserl, il quale a Gottinga occupava una delle più famose cattedre di filosofia. Ritengo, senza alcuna arroganza, che la vicinanza al grande maestro abbia favorito una svolta culturale decisiva e preparato, nel contempo, il suo spirito alla conversione. Ma già l’abitudine a pensare secondo la logica pura che alimentava gli interessi per la scuola di Gottinga, aveva contribuito a tirarla fuori da quell’atteggiamento agnostico che una 11

natura fortemente critica le aveva assegnato come inclinazione culturale. Edith Stein era infatti una ebrea praticante, con la riserva mentale di chi rispetta la tradizione ma non riesce a decifrare il messaggio ultimativo e profetico della propria fede. Il modello psicologico al quale si ispirava consisteva in un distacco dal mondo e dalle cose, che del resto la scuola di Husserl invitava a praticare e a vivere anche come momento religioso. Sarà questo il motivo della conversione tardiva al cattolicesimo e al protestantesimo del maestro e dei suoi allievi. In pochi filosofi si ritrova l’audacia del pensiero di Husserl, se non si risale agli antichi scettici. Il mentalismo husserliano consisteva in una sospensione del giudizio sulla realtà e in un cambiamento di atteggiamento di fronte alla conoscenza, per fare in modo che ogni rappresentazione diventasse un puro fenomeno della coscienza. Husserl si proponeva, agendo su un Io scisso e sublimato, di entrare in una zona del pensiero il più lontano possibile dalla realtà, chiudendo il mondo in parentesi senza tuttavia dissolverlo o dimenticarlo. Era una filosofia che riduceva gli oggetti a fatti estranei alla coscienza e questa a pura intenzionalità. Da tale sito accademico che nella storia della filosofia costituirà la “fenomenologia”, Edith Stein successivamente si distaccherà, senza però nulla abbandonare e tanto meno ripudiare. Il giorno in cui all’interno della biblioteca di una casa amica si trovò davanti alla “Vita di S. Teresa d’Avila”, libro che lesse di un fiato in una sola notte, il suo orientamento e la successiva conversione al cattolicesimo furono definitivamente segnati. Che ci sia un correlazione tra temperamento e vita contemplativa è un problema il quale può interessare gli 12

logi, però bisogna convenire che la imitazione di un modello, di un biotipo perfetto irradiante quella “luce oscura” che tiene in penombra la Verità, possa finire per indirizzare qualcuno verso la santità. Nel caso di Edith Stein si è trattato di in percorso di fede vissuto in sintonia con la sua natura mistica, ma anche di un’abitudine ascetica acquisita attraverso una rigida educazione religiosa. L’avvento al potere dei nazisti e le annunciate leggi razziali non la colgono di sorpresa, ma la privano della cattedra di filosofia e della vicinanza al maestro, il quale si è trasferito nel frattempo a Friburgo, succedendo a Heinrich Rickert. Nel totale isolamento in cui è costretta a vivere per essere una ebrea convertita, la conforta l’amicizia di Jacques e Raïssa Maritain e del più autorevole rappresentante dell’esistenzialismo moderno: Martin Heidegger. Il prestigio di cui gode per l’interesse suscitato dalle sue pubblicazioni, non la tengono tuttavia al riparo da intenti persecutori, ma non per questo affretta l’ingresso nel monastero di clausura di Colonia, dove il 14 Ottobre 1933 pronuncia i primi voti. Fatto straordinario mai verificatosi all’interno di un convento, il giorno della vestizione riceve, nell’abito bianco delle suore di S. Teresa, la visita dei personaggi più illustri della cultura tedesca e degli studiosi più rappresentativi del pensiero europeo contemporaneo. Edith Stein era infatti molto nota in Germania – anche se lo era meno in Francia e in Italia – al punto che la fama di studiosa, l’intenso lavoro svolto e i cicli di conferenze tenuti in tutta Europa le avevano creato intorno un alone da leggenda. Sarà questa notorietà a farla considerare una ricercata importante dalla polizia nazista. La mattina del 2 Agosto 1942 due ufficiali tedeschi 13

bussano alla porta del monastero di Echt, chiedendo di Edith e di Rosa Stein – nella fuga verso l’Olanda si era accompagnata alla sorella, anch’essa carmelitana –. Di fronte alle rimostranza della madre superiora che pone il veto alla richiesta, invocando la rigidità della regola conventuale, uno degli ufficiali ordina che le religiose escano dalla clausura entro cinque minuti. Le due sorelle, avvertite ma non sorprese, lasciano la casa qualche istante dopo e prendono posto su una macchina della polizia scortate da un nugolo di agenti. La strada da percorrere è piena di gente che manifesta il proprio dissenso rumorosamente, ma invano. Il 7 Agosto vengono fatte salire su un treno che le porta verso l’Est. Verso l’Est. Ad Auschwitz, dove saranno eliminate nella camera a gas due giorni dopo. Esistono numerose biografie di Edith Stein sia in tedesco che in francese. Esistono anche in italiano saggi e scritti vari. Ma la sua opera completa non è stata ancora pubblicata. Nel 1962 il cardinale Höffner, arcivescovo di Colonia, ha introdotto la causa di beatificazione, ma il lungo processo della canonizzazione si è concluso soltanto il 12 Ottobre di quest’anno. Quel giorno in piazza S. Pietro, illuminata dal sole di un autunno nitido, una folla immensa solennizzava con un festoso applauso l’intenso momento celebrativo: il papa stava per proclamare santa la mite carmelitana. Nello stesso istante un drappo rosso, disteso dalla loggia centrale della grande basilica, mostrava al mondo il volto bellissimo della più grande mistica del ventesimo secolo. Edith trasferisce angoscia a chi le si avvicina perché invita alla riflessione silenziosa, alla 14

ne profonda sulla vita, sul dolore, ma soprattutto sul male. Allora ci si domanda: come è avvenuto che una creatura così pura e così debole abbia subito il martirio, senza nemmeno la parvenza di un barbaro rito sacrificale? Ci si chiede: dove sta la motivazione per un sacrificio affidato alle belve, senza la presenza sadica di spettatori come in uno spettacolo circense? Forse non è una strada praticabile per le nostre intelligenze quella del martirio. Ma Edith Stein ci fornisce una risposta. L’accesso alla Verità non è facile e non è impresa razionale. La scienza e la filosofia non ci danno certezze; addirittura, dopo un percorso millenario, scoprono il Nulla. Allora bisogna veramente mettere il mondo – e con esso la società – entro parentesi, senza tuttavia dimenticarlo. Edith Stein aveva scoperto, nella clausura, la presenza dell’Altro e all’interno di se stessa la debole fiammella della Verità. Ma in essa aveva intravisto la tragedia di un popolo e, attraverso il proprio coraggio, un destino di santità.

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L’ETÀ DELLO SPIRITO

Il millennio trascorso appare come un segmento di linea compreso tra due punti di uno spazio reale che appartiene alla storia. Ci può essere chi pragmaticamente tende ad estendere tale dimensione, collocando in essa avvenimenti veramente accaduti e vissuti e chi invece tende a ignorare il valore del tempo, inserendo quegli stessi avvenimenti in un contesto universale che li polverizza e li annulla. In questo modo lo storico si illude di rappresentare l’eterno, mentre lo scettico sospende il giudizio e nega la durata dei fatti. Se tutto ciò che è avvenuto in questo secolo si affidasse unicamente alla memoria, la storia, diventata leggenda, si confonderebbe col mito. Se si affidasse ai soli documenti, il tempo ne farebbe strame riducendoli in polvere. Poiché non possiamo supporre di estinguere il male né di negare al bene il suo eterno significato, dobbiamo ammettere l’esistenza di un “GRANDE ATTRATTORE”, il quale archivia i misfatti (schiavitù, persecuzioni, lager, gulag), registrandoli in un videogame allo scopo di evocare col gioco la pietà dei nipoti. Abbiamo intanto il dovere morale di pensare che le generazioni future, se non verseranno lacrime – e non lo faranno – per i campi di sterminio nazisti o per le isole del freddo staliniste, non avranno 17

meno la tentazione di esaltare la tirannide né di rifondare ideologie: le une e le altre presaghe di immani tragedie e di grandi calamità sociali. Probabilmente i giovani coglieranno delle somiglianze nella fine dei millenni: dal rifiorire di una cultura laico-cristiana che fatica da sempre a liberarsi dalle incrostazioni ateomaterialistiche, al rifiuto della idea altrettanto nefasta di una palingenesi sociale, che non è mai appartenuta alla storia. L’inizio dell’anno mille fu contrassegnato, esso pure, da una rinascita demografica ed economica che diede inizio a un aumento notevole della popolazione e a una modifica del territorio, da sempre inquinato e deturpato dalle scorrerie dei barbari, ma provocò soprattutto un risveglio che indusse schiere di pellegrini a raggiungere la Terrasanta, la Spagna (S. Giacomo di Compostela) e Roma. L’anno mille segnò ancora il logoramento della società feudale e la fine di un sistema di rendite e di dipendenze che costituivano quel piccolo mondo contadino e plebeo rappresentato e regolato dalla cosiddetta “economia curtense”. Va osservato dunque che un rinnovamento non solo religioso ma anche morale e materiale sembra caratterizzare l’inizio di un nuovo secolo soprattutto quello di un altro millennio. Non vi sono però in questo momento né grandi riformatori né grandi fondatori di ordini monastici o di monasteri, come si era visto all’inizio del secondo millennio a Cluny in Francia e a Vallombrosa e a Camaldoli in Italia; né si prefigurano nuovi indirizzi speculativi o grandi dispute teologiche. La presenza oggi di personaggi della statura di Anselmo d’Aosta o di Bernardo di Chiaravalle, vissuti intorno all’anno mille, porterebbe di attualità anche 18

la “disputa sugli Universali”. Ma così non è, anche perché accanto a quella che sembra una auspicabile rinascita, vive un tipo di paura di per sé indefinibile. Una paura che viene dalla profondità della materia organica ed è avvertita come inevitabile ritorno a una terra madre, tormentata dalle inondazioni, dal soffio dei vulcani e dai terremoti. Pensare che il nuovo che ci aspetta potrebbe non diventare novità ma una ripetizione di ciò che il bene non è stato, ci porta ad essere prudenti, avendo ancora vivo il ricordo delle stragi e degli olocausti del secolo trascorso. Ma bisogna essere ottimisti, anche se il destino nasconde sotto un tenue velo di pudore il meglio delle cose e gli uomini vivono di memorie epiche ed esaltano volentieri le proprie vicende eroiche. Ricordo di aver visto a Vienna la lapide dei soldati caduti sul fronte italo-austriaco durante la guerra 1915-18: soldati che avevano combattuto sul Carso, sul Montello, sul Grappa. Ricordo di avere sentito la stessa pietà di quella avvertita a Redipuglia. In ogni caso, sepolte le memorie, è possibile soltanto compiere un volo pindarico sul millennio che abbiamo alle spalle, quando le vicende si confondono e si fondono come un impasto di colori sopra uno sfondo terribilmente grigio e malinconico. È una ragione in più per fermare l’attenzione su pochi grandi periodi della nostra storia millenaria. Penso al Rinascimento e ai sommi artisti che lo hanno rappresentato, anche se la riflessione ritorna all’ultimo secolo come attratta da uno strano maleficio. Suppongo però di essere noi stessi in grado di evitare il baratro, semplicemente portando l’attenzione sulle conquiste della scienza; dalla medicina alla biologia, dalla fisica alla astronomia. Un solo grande nome: quello di 19

Francis Crick e una sola grande scoperta: la doppia elica del D.N.A. Questa scoperta, insieme a tutto ciò che la mente dell’uomo può avere intuito di profondo e di universale, non rappresenta una sorta di compenso alle tragedie che hanno sconvolto tutto il Novecento. Basti pensare alla ferocia del nazismo, alla guerra imposta del fascismo, alla intransigenza criminale del comunismo, per non tagliare e disperdere le radici profonde della libertà, della democrazia e della verità. Sono valori trasmessi dai padri attraverso un messaggio in codice consegnato al primo uomo. Vorrei dire ai giovani, senza attribuirmi atteggiamenti che non ho, ma con la saggezza che deriva dalla esperienza, che è falso e non vero il primato della politica. “Alle soglie del terzo millennio gli scienziati rivendicano il loro diritto a intervenire in un settore ritenuto in passato di esclusiva competenza dei filosofi e dei religiosi: quello dei valori”. Aggiungerei che gli uomini di scienza, detentori di una capacità di pensiero che esprime il massimo della prudenza e della saggezza, hanno più numeri per intervenire su scelte che coinvolgono l’umanità. La favola del primato della politica affidato a professionisti, ha concluso con l’ultimo secolo un ciclo storico nefasto. Secondo Gioacchino da Fiore questa del terzo millennio dovrebbe essere l’età dello Spirito, cioè dell’Amore. Non so se sia vero, ma una cosa mi sembra certa: non esistono e non possono esistere ideologie e sistemi politici e filosofici che possano coinvolgere tutto l’uomo, né esaurire le sue capacità di pensare e di amare. Le strade della vita sono infinite come quelle del Signore; ognuno ha la possibilità di trovare da sé, senza ricorrere a cattivi maestri, quella che conduce alla libertà e alla verità. 20

STANCO VERSO IL 2000

“Sono nato nel primo anno del XX secolo. Poiché ho raggiunto ormai l’età in cui i ricordi si staccano dal tempo personale per prendere posto nelle grandi correnti storiche, sento di avere attraversato un secolo che non ha equivalenti nella storia della specie pensante su questo pianeta: un secolo di rotture irreversibili, di rinnovamenti imprevedibili”. Parafrasando le parole di questo grande pensatore francese entrato nel ristretto numero degli “Immortali”, dirò che anch’io ho attraversato questo secolo. Sono nato col fascismo e cresciuto insieme a ragazzi con la divisa che giocavano a fare la guerra. Giovane tra giovani ho sfiorato di comportarmi come un oplita in difesa di chissà quali Termopili. Era dentro di me, come nel cuore di tutti gli adolescenti, quello spirito di leggenda che aveva animato i littori romani nella conquista della Britannia. Più tardi ho assistito al crollo degli entusiasmi, alle fughe disordinate e alle lacerazioni delle divise. Qualche amico, che aveva superato l’infanzia a piedi nudi e guardato i propri simili dall’alto degli alberi da frutta, non era riuscito ad attraversare la steppa russa gelata e desolata ed era caduto sul Don. Quando soffia tra le nostre case calde e ovattate il vento gelido del Nord, avverto un senso 21

di colpa e insieme una voce lontana che parla di pace, ma è fredda come il perdono. Altri ragazzi giacciono tra le dune di El Alamein arse dal sole e affidano al vento parole di sabbia che una pioggia rugginosa sbatte con rabbia, contro di noi. Ciò non toglie però che quando sul piccolo schermo appare la figura del “duce” un brivido mi scorre per la pelle. È il condensato di bene e di male, il cristallo impuro che la luce non attraversa, a creare distorsioni tra me e la storia. Non riesco ad immaginare altro che misfatti. Ancora dopo, senza che me ne avvedessi, la marea comunista mi ha travolto come un fuscello; ho scambiato il marxismo per una esigenza di giustizialismo. Così non ho fatto caso alla eliminazione, in nome della dittatura del proletariato, di uomini come Bukarin, Kamenev, Zinovjiev; né ho capito i motivi per i quali sono stati condotti al patibolo Slanskj e Clementis. Però non mi sono sentito disposto ad accettare l’assassinio di Trotskij e la strage di Ekaterinburg secondo un rituale ideologico che aveva il sapore della vendetta decabrista. Il grande rivoluzionario, cui era estraneo il principio della lotta di classe, ed erano altrettanto indifferenti le cosiddette “scadenze dialettiche” auspicate da Marx, rivendicava una grande svolta storica imposta, nel nome del socialismo, dalla necessità, e una totale liberazione dell’uomo ad opera della volontà. Sta di fatto che nel naufragio delle coscienze e delle intelligenze riuscire a raggiungere un granello di verità era impresa disperata. La tristezza dei tempi poi, la depressione, la perdita del senso dell’esistenza non aiutavano certo a ritrovare una coscienza critica. Tuttavia bisognava vincere l’angoscia, ma per venirne fuori non era sufficiente ignorare i contrasti, 22

va risolverli, e per risolverli era opportuno ignorarli. Qualcuno però, un secolo prima, aveva trovato nella storia umana dei passaggi dialettici e, interpretando in chiave materialistica l’evoluzione e la vita, si era sentito in diritto di fornire la soluzione di tutti i problemi. Ecco in breve il grandioso pensiero racchiuso in un pugno, il punto di svolta che conviene seguire perché rappresenta il carrefour dell’opera immensa. I1 resto è merce, per definizione stessa dell’autore. Ma cosa occorre per strutturare il pensiero, per attualizzare la coscienza? Occorre, secondo Marx, fare riacquistare all’uomo la sua natura autentica, risolvere perciò il contrasto tra soggetto e oggetto, tra uomo e natura, tra spirito e materia. Il dualismo metafisico, banco di prova di tutte le filosofie, trova la sua risoluzione nell’attività pratica dell’uomo, nella filosofia della prassi. La natura in Marx non è elemento estraneo, è materia sulla quale si esplicitano la vita e l’intelletto, è materia di conoscenza; la natura è la vita stessa dell’uomo e perciò il suo cervello, il suo pensiero e la sua coscienza. È un naturalismo compiuto che diventa umanismo, e per converso è un umanismo compiuto che diventa naturalismo. Marx dunque ravvisa nei termini uomo-natura la sintesi di tutti gli opposti, la risoluzione di tutti i contrasti. Nel binomio uomo-natura i termini sono così essenziali l’uno all’altro che eliminando il primo si elimina anche il secondo. Io non posso pensare all’uomo senza pensare alla natura e viceversa. Cade ogni discorso sulla priorità della natura sull’uomo e dell’uomo sulla natura; non si può supporre una natura senza l’uomo e un uomo senza la natura. Non vi è alcun senso. Ma non vi è senso nemmeno a supporre un essere trascendente fuori del tempo e della storia. 23

Manca, come si vede, una visione trascendente e provvidenziale delle vicende umane; inoltre il centro della riflessione viene spostato, da Marx, fuori della realtà consapevole ed eterna di ogni coscienza. I1 centro della riflessione, dicevo, che è poi il punto di incontro tra anima e corpo, tra spirito e materia, tra teoresi e prassi, viene trasferito, quasi stabilizzato, sull’oggetto della produzione, dove attività mentali e forza lavoro si incontrano. Il discorso sarebbe lungo ma la supina accettazione del pensiero di Marx implica una coerenza insospettata, che pochi hanno scoperto e capito di possedere. E questi pochi meritano rispetto. Per quanto mi riguarda non trovo punti di incontro tra spiritualità cristiana, che afferma l’esistenza di un Essere trascendente e creatore, e materialismo marxiano, che nega al singolo soggettività, libertà e volontà e considera l’uomo un prodotto di forze naturali e vitali, sul quale operano i freddi rapporti della produzione e i ritmi meccanici dell’economia. Comunque il pensiero di Marx ha rappresentato un’epopea culturale non virtuale e insieme una vicenda lirica cantata e ballata, esaltata da rivoluzionari, guerriglieri, avventurieri, uomini politici. Alla fine però la storia non vi si è identificata e il marxismo si è ritrovato svuotato, come una clamide logora, senza umanità e senz’anima. Al di là del duemila “L’ideologia tedesca” sarà considerata solo una satira truce, non più una polemica acerba contro Bruno Bauer e Max Stirner e “Il Capitale” non sarà più un portatore di virus per l’astenia mentale, né un mezzo per veicolare l’angoscia. La caduta dei grandi sistemi e il crollo delle ideologie negli ultimi anni del secolo che volge al tramonto, trova gli uomini della mia generazione stanchi, così come io sono, ma non 24

del tutto privi di punti di riferimento. La mia generazione è stata testimone di grandi tensioni, di stragi, di scontri etnici, di nuove epidemie. Nel secolo che volge al tramonto sono stati allestiti campi di concentramento, camere a gas, confezionati con razionalità lager e olocausti, trucidati bambini. Come le foglie anche gli uomini cadono, rinnovano la terra e forniscono linfa agli alberi che crescono. Ma la nostra ansia di infinito non sarà mai soddisfatta. Potremmo soltanto opporre al male le virtù essenziali e chiedere di essere perdonati per la nostra acquiescenza. Potremmo anche fare con ferocia un bilancio orripilante, ma sarebbe un supplemento di belluina animalità. Penso tuttavia a personaggi che hanno interpretato quelle virtù e illustrato questo secolo: a Maria Curie, ad Albert Sabin e a Karol Wojtyla. Essi si staccano come fiaccole intorno al feretro di questa società; non la riscaldano ma illuminano la strada alle nuove generazioni.

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“LA PARTICELLA DI DIO”

Il premio Nobel concesso a tre fisici insigni per gli studi teorici sulla composizione della materia, conferma quello che a metà degli anni sessanta aveva intuito Higgs, un fisico scozzese: la presenza di una particella, considerata come parte indivisibile di una realtà prefigurata agli estremi confini della materia. Questa partitella, il bosone, darebbe massa a tutte le altre e colmerebbe quel modello standard da cui prende origine l’universo. A chi non è un fisico, come me, queste scoperte destano grande curiosità e indefinibile angoscia; forse per la incapacità della ragione di spiegare l’origine della vita, la vita stessa e il destino ultimo delle cose. A chi ha fede, la certezza che il pensiero e il comportamento non debbono nulla all’evoluzione, fa dono di una volontà libera, la quale non sorge e non si estingue nel turbinio delle particelle che ondeggiano indeterminate tra materia e conoscenza. Il fascino della fisica moderna sta proprio in questa avventura intellettuale, che non è solo quella di capire i molti livelli di infinito o di scoprire le tracce ultime della realtà, ma anche quella di tentare l’impresa non impossibile di unificare le quattro forze fondamentali: gravitazione, elettromagnetismo, forza 27

nucleare forte e forza nucleare debole. Però da quando Planck ha fatto riferimento a una costante come limite ultimo di divisione e ha posto una barriera invalicabile alla distensione del tempo, la fisica quantistica, che da lui ha preso inizio, si è trovata dinnazi a un orizzonte metafisico, non condiviso dalla maggior parte dei fisici classici. Non era, come si poteva immaginare, l’atteso trionfo di un pensatore greco del IV secolo a.C., che Dante mette allo inferno, e nemmeno un ritorno al materialismo cosmologico di Democrito. Era il cruccio di chi non poteva più sostenere una dottrina che escludeva, per via cosiddetta razionale, la presenza di una causa prima. I fisici moderni infatti, con l’eccezione di una sparuta minoranza, confermano che anche il vuoto, di là dalla barriera di Planck, non può avere principio in se stesso. La conclusione di tutto ciò è che le particelle non rappresentano la realtà nel modo in cui siamo abituati a pensarla, ma il linguaggio, l’informazione, sulla quale interviene l’intelligenza dell’osservatore. Il giorno prima che il premio venisse assegnato ai tre fisici, hanno ricevuto il Nobel per la medicina Arvid Carlsson – svedese – Paul Greengard e Eric Kandel – americani –. Più che un premio per nuove scoperte si è trattato di un riconoscimento alla carriera di tre pionieri della sinaptologia, la scienza che studia il trasferimento di impulsi chimici ed elettrici da una cellula nervosa all’altra. Essendo cento miliardi il numero dei neuroni, la possibilità di effettuare collegamenti attraverso la divisione dei loro terminali, raggiungerebbe cifre sbalorditive, addirittura supererebbe il numero di atomi dell’intero universo. Può essere un paradosso, non lo so! Certo si è che la nostra mente trascende una rete 28

di cellule e collegamenti estesa all’infinito, intessuta all’interno di una scatola cranica di ridotte dimensioni. Mi domando allora quale rapporto interviene tra universo fisico e mentale, poiché anche qui un identico “muro di Planck” non consente di esplorare realtà diverse da quelle oggettuali. Personalmente avverto, impegnando intuizione e fantasia, che di là da tutte le dimensioni fisiche e le determinazioni spirituali, ci sia un immenso laboratorio, dove un Grande Artefice produce particelle subatomiche: “le particelle di Dio” – secondo la definizione di alcuni grandi fisici – per riempire il vuoto che Egli stesso ha creato, ma anche per dare rivelazione di Se alle intelligenze più aperte. Esistono tuttavia studiosi che non accettano questi punti di vista, perché non riconoscono la validità dell’intuizione e l’ambiguità delle osservazioni, soprattutto perché ritengono le esplorazioni scientifiche che sopravanzano i fatti, arbitrarie e non vere. Sono coloro che definiscono mistico il nuovo atteggiamento dei fisici e dei neurobiologi; ma sono anche coloro i quali vorrebbero far prevalere una sottocultura scientifica a orientamento post-marxista. Se poi una donna di grande intelligenza e di vasta preparazione culturale, come Rita Levi Montalcini, dichiara di essere sul punto di sapere che cosa sia la coscienza, non mi nascondo di avvertire un senso di fastidio e nel contempo una grande cocente delusione. Penso che venticinque secoli di filosofia, di arte e di scienza siano trascorsi invano. Quanta parte vi abbia avuto e vi abbia tuttora un materialismo edonistico e rozzo è dimostrato dalla sprezzante certezza di giungere alla verità solo contando sui fatti. Di sicuro non siamo ai tempi di Bruno e di Galilei e i reati di opinione non sono perseguibili, ma questo non ha nulla a che fare col tentativo – o la 29

rivalsa – di ridurre tutto a funzione: la coscienza, il pensiero, la morale. Dimentichi che esiste un giudice interno che non consente alcuna deroga ai principi dell’etica, si fa appello a panteisti transfughi ed eretici per evocare risentimento e sdegno verso una Grande Istituzione, la quale alcuni tristi episodi ha già condannato. Non saprei dire di più, ma non sarà Rita Levi Montalcini – né autori del livello di Merlin Donald e di Richard Restak – a convincere molti e me stesso che la coscienza sia una funzione. Non sarà nemmeno la fisica quantistica a violare il segreto della vita e il mistero dell’essere; la scienza può osservare soltanto e indagare, indagare umilmente. Solo Dio dà massa e carica a particelle che costituiscono una interfaccia inviolabile sulla quale noi stessi troviamo sempre un valido punto d’appoggio, non solo, ma anche il campo di volo dell’anima per chi sa quali più esaltanti avventure. Se non avessi l’età che non so, potrei confortarmi col gioco della “pillola del giorno dopo”, eludendo, come obiettivo, qualcuno di quelli che, secondo Marino Moretti, fanno un uomo: mettere al mondo un figlio, piantare un albero, scrivere un libro. Non avendo a disposizione cellule aploidi e nemmeno un vivaio di piantine, potrei redigere qualcosa che somigli a un libro. Ma se entro in una libreria o in una biblioteca sono colto dal panico: come potrebbe un pensiero, un’idea qualsiasi farsi strada in una giungla di volumi e arrivare al lettore, se, come diceva lo stesso Moretti: “Scrivere un libro è poco più di niente, se il libro fatto non rifà la gente”? A parte l’ironia, che ha la pretesa di attingere alla saggezza, non ho la presunzione di saperne di più rispetto a un uomo politico, specialmente da quando una commissione europea ha stabilito che la 30

danza comincia nel momento in cui l’ovulo fecondato si annida nell’utero materno. Questa affermazione comporta che la gravidanza sia qualcosa di diverso dalla fecondazione. Una tale diversità giustifica l’utilizzo di una compressa per agire sulla fecondazione, non sulla gravidanza. È anche questo il motivo della indifferenza morale di ricercatori che lavorano indisturbati sulla fecondazione in vitro e su essa soltanto; anche se chiamano embrione la fusione di due gameti, che non depongono nell’utero, ma in cella frigorifera e in azoto liquido. Se poi gli uomini politici ci fanno sapere, per legge, quando inizia la vita e quando termina (con l’eutanasia), se tentano di bloccare, sempre per legge, il miracolo della fecondazione e di fermare il cammino di una cellula portatrice “consapevole” di cromosomi altrui, che nel frattempo si sdoppiano, si polverizzano, si ricompongono per riprodurre il numero che si era dimezzato, se discettano sul modo, sul tempo e sul luogo di chi deve venire all’esistenza e utilizzano la “pillola” per impedirlo, se si fanno forti del fatto che l’embrione non ha dignità e la coscienza, nell’uomo, è solo funzione, significa che un certo Langman – e altri pure –, professore di Anatomia e di Embriologia presso le università di Montreal e della Virginia, non ha più ragione quando dice che “lo sviluppo di un nuovo individuo ha inizio con la fecondazione”. Perché è sempre la legge come il lavoro che rendono liberi, ad Auschwitz. Ma tu… …sogna, sogna, mia cara anima! Tutto, tutto sarà come al tempo lontano. Io metterò nella tua pura mano tutto il mio cuore. Nulla è ancor distrutto. (da “Consolazione” di G. d’Annunzio)

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“DEUS CARITAS EST”

È un’enciclica di grande respiro perché riprende un dialogo antico, quello che i primi cristiani svolgevano alla luce di deboli torce nell’interno delle catacombe. Il tempo e la degradazione dei costumi, in una con la ricerca epicurea della felicità da tradurre in piacere immediato, attesa la precarietà dell’esistenza, ha prodotto una modificazione del gusto e una esaltazione orgiastica dell’eros pagano. In tempi a noi più vicini la liberazione sessuale, annunciata da predicatori malinconici allo scopo di guarire dalla nevrosi e di assolvere dal peccato, ha avuto risultati negativi. Non si è incontrato l’eros, ma si è addirittura travalicato il campo semantico della parola “amore”. La colpa per la perdita di significato viene fatta ricadere da Nietzsche sul Cristianesimo, il quale avrebbe dato del veleno all’eros che “pur non morendone, ne avrebbe tratto la spinta a degenerare in vizio”. Il filosofo accusava la chiesa di avere impedito l’espansione dei sensi, allo scopo di evitare di pregustare la gioia della cosa più bella della vita, la quale tuttavia avrebbe distratto i credenti dall’accedere alla nobile realtà del Divino. Forse c’è un fondo di verità in tutto questo, ma non era la Chiesa a sconvolgere l’ordine naturale, erano le generazioni disattente che 33

gemevano nei bassifondi della noia e del degrado. Separato l’eros dalla possibilità di creare una realtà conviviale, rimaneva la superstizione e il ritorno al culto pagano della fertilità. Da ciò il distacco e l’incapacità di trovare fiducia e di conseguenza il ricorso all’aiuto di un numero discreto di divinità, ma anche desiderio profondo di rinvenire la sorgente dell’amore, della creazione e della libertà. Sono i primi cristiani ad incontrarsi e a fondersi nel “convito”, che è l’agape preparata per portare gli uomini alla salvezza, attraverso la novità assoluta della predicazione cristiana. Dunque volontà di unirsi e di confrontarsi, ma anche sollecitudine a risolvere antichi tabù, che nelle intenzioni dei moderni Pontefici non sono più da considerare come sotterranee proibizioni. A differenza della separazione che gli antichi dei avevano stabilito con gli uomini, a causa di una reciproca infedeltà, l’eros del Dio cristiano è insieme totalmente agape; non solo perché viene dato gratuitamente, ma anche perché è amore che perdona. In questo modo la proibizione non viene più vista come connessa al castigo da infliggere a chi infrange le norme, ma come ricerca della causa all’interno del Logos, la ragione primordiale, la quale nobilita l’amore e lo rende degno di fondersi con l’altro. Si fa dono all’uomo, afflitto dalla solitudine per essere creatura unica in mezzo a tutte le altre cui è stato dato un nome, dell’aiuto divino di cui ha bisogno. Ora Adamo può dire: “Questa volta essa è carne della mia carne e osso delle mie ossa”. È possibile vedere sullo sfondo di questo racconto “concezioni quali appaiono, per esempio, anche nel mito riferito da Platone, secondo cui l’uomo originariamente era sferico perché completo in se stesso ed autosufficiente”. Ma venne 34

dimezzato da Zeus a causa della sua superbia, così che ora anela all’altra metà e va alla ricerca della sua interezza. In questo senso l’eros è come radicato nella natura stessa dell’uomo, incompleto e solitario, che abbandona tutto, persino il padre e la madre e cerca l’altro se stesso, per unirsi e completarsi in una unione passionale e mistica, monogamica ad immagine del Dio monoteistico. La seconda parte dell’enciclica è dedicata alla presenza della Chiesa nella società moderna. Una visione che deve trovare approfondimento nella reciproca connessione di fede e ragione. Ma la fede non può essere imposta, essa deve essere garantita nella sua libertà, così che una distinzione tra Chiesa e stato venga considerata in ambito diverso ma in relazione reciproca. La società moderna ha creduto di trovare nella giustizia la propria essenza e la condizione per sopravvivere, ma ha preteso di potere fare a meno della fede. Una separazione laicistica che tende a rinchiudere il sentimento religioso, di cui la prevalenza dei personalismi tende a liberarsi, nel ridotto di esigue capacità culturali. Un intento laicistico che tende altresì allo svuotamento del residuo di fede, dando per scontata l’assenza di fedeli nei luoghi di culto, non solo, ma che crede di distrarre i giovani impegnandoli in attività pragmatiche e ludiche, per lunghissimi periodi di tempo. La fede, diceva Pascal, trae alimento da se stessa e non può non coinvolgere tutto l’uomo, compreso il politico e l’operatore, nel rispetto di valori che sono comuni. Inoltre la separazione fittizia tra stato e Chiesa, che non voleva essere così radicale nelle intenzioni della cultura tomistico-medievale, ha trovato nei rivoluzionari post-illuministi e marxisti il motivo di 35

fondo per liberarsi, una volta per tutte, dalle supposte ipoteche della religione. Ma così non è e così non è stato, perché in una situazione in cui la solidarietà espressa dalla società civile ha avuto animazione cristiana, la fedeltà al dovere di testimoniare l’amore non ha mancato di giovare da una parte e dall’altra alla efficacia del servizio caritativo. Carità dunque che consente di vivere secondo comandamenti che sono comuni. Pretendere di spezzarne l’unità è come pretendere di innalzare templi e simulacri agli antichi dei. L’intelligenza, la memoria e l’amore rendono unico il concetto di uomo e di divinità e questo non è divisibile tra stato e Chiesa.

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LA SCIENZA E LA FEDE

Che circa cento giovani imberbi e scalmanati occupino una sala del rettorato dell’Università “La Sapienza” di Roma e mostrino di impedire con la prepotenza acquisita nei centri sociali, la cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico, è un fatto grave ma non sconvolgente. Può essere considerato come esagerazione goliardica, una trovata della stupidità residua che impedisce ad alcuni, anche se sono cento, di ascendere di un solo gradino verso il piano della ragionevolezza. Ma che sessantasette docenti di fisica esprimano per iscritto, in una lettera indirizzata al Rettore, la loro volontà di non incontrare il Pontefice, mette il colto e l’incolto nella stessa condizione di spiegarne le ragioni. Non si tratta di tirare a indovinare. L’incolto crede nella pura laicità dello stato; come se esistesse al mondo un governo democratico che non sia anche l’espressione di una qualche compromissione religiosa. L’incolto è figlio dell’Illuminismo, l’inconsapevole periodo che ha generato, dopo lunghi secoli di gestazione, le voluzioni, i1 marxismo e il nazismo. Accogliendo in grembo l’embrione della ragione non ne ha determinato l’accrescimento, poiché non ha accettato, rifiutandola, nessuna assistenza di nessuna 37

fede. Non dico che quei fisici sono solo degli incolti, nel senso che ho sopra riprodotto, sono anche gli eredi di una cultura moderna e attuale che ha seminato tra i sassi dello scientismo e ha raccolto i frutti acerbi della presunzione relativistica. Ho una sacra venerazione per la scienza, quella che ha smesso di indirizzarsi solo alla materia, per non finire di sfociare in una specie di ateismo virtuale, incapace di cogliere il dubbio e l’incertezza. Quella che ammette che lo spazio e il tempo sono delle illusioni, che una stessa particella può essere individuata in due posti diversi nello stesso istante, quella che afferma che la realtà fondamentale non è conoscibile. Quella stessa realtà, posta al di là di ciò che i fisici chiamano “Muro di Planck” e i filosofi indiani “Velo Di Maya”, ha incominciato a interessare i grandi scienziati, i quali hanno finito col dichiarare che non esiste il grande vuoto ma un vasto pensiero, che da senso all’universo e nello stesso tempo lo costituisce. Certo tutto questo disorienta gli studiosi, molti dei quali fanno appello a nozioni di ordine metafisico, presupponendo che esista “qualche cosa” che ha preceduto la creazione del Tutto. Nessun fisico accetta l’esistenza del Vuoto – o la illusione del Niente – ma quasi tutti concordano nell’ammettere in esso la presenza di atomi vaganti e di particelle elementari come reali tendenze ad esistere. Al di qua del famoso Velo di Maya, che qualcuno tenta sempre di lacerare, sono state individuate circa quindici costanti, le quali non solo reggono il cosmo, ma determinano quel “principio antropico” che dava a Brandon Carter, nel 1974, la possibilità di affermare che: “l’universo possiede esattamente quelle proprietà che sono necessarie a generare un essere capace di coscienza e di intelligenza”. 38

Ma dove sta la risposta al quesito ultimo che ci viene posto quando ci troviamo di fronte al fondo delle cose, all’ultimo frammento di realtà, all’introvabile? Non possiamo che scavalcare i muri, i tempi e le ere per essere catapultati in ciò che non ha più sostanza, in quell’insieme di effetti che i grandi fisici chiamano “campo” e i filosofi Spirito. “Quello che viene chiamato “campo” non è altro che una finestra che si apre su uno sfondo ancora più profondo, il Divino, forse”. È lo spettacolo dell’assenza del reale, la certezza di una superiore Intelligenza che crea o, se si vuole, genera l’universo e la coscienza. Non ci si solleva dall’angoscia quando ci viene fatto sapere che la materia scolastica più bella: la fisica matematica è stata degradata. Non si può rimanere che sconcertati di fronte al fatto che alcuni fisici non siano stati invasi dallo stupore nell’apprendere che la terza tappa del pensiero astratto sarà quello della “fisica semantica” o dei significati. Ma più stupiti si rimane quando non si è capito che al di là di quella frontiera che è la realtà osservabile, la fisica e la filosofia si incontrano per servire la teologia. I sessantasette fisici di una università famosa, peraltro fondata da un Pontefice, non sono stati in grado, per dirla con Charles Peirce, di sognare che “lo spirito umano riflette l’universo che a sua volta riflette lo spirito umano”. Ma non sono stati capaci di capire nemmeno lo stacco metafisico che si opera nella memoria, nella morale e nel pensiero. Sono ritornati a un materialismo matematico dove l’indipendenza dello Spirito non ha senso e la coscienza è strettamente legata alla realtà sociale. Il tempo di Platone non è finito, anzi si esprime 39

nella fisica contemporanea, la quale contempla l’universo che Qualcuno crea, come noi, osservandolo. Il mondo delle Idee viene rivisitato da filosofi e da grandi scienziati, gli stessi che hanno il privilegio di scoprire che ciò che vi si rivela ha il sembiante della Fede.

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“SPE SALVI”

È la seconda enciclica, dopo quella sulla carità, rivolta ai vescovi, ai presbiteri, ai diaconi e a tutti i fedeli consacrati e laici. Probabilmente il Pontefice si è proposto di richiamare l’attenzione di un mondo disattento sull’alto valore morale e religioso delle tre virtù teologali. Siamo sicuri che la terza nuova enciclica sarà sulla fede. Il precedente richiamo alla carità è servito a ricordare che non si costruisce una società sulla violenza, comunque mascherata: da lotta di classe, da rivoluzione, da ideologia totalitaria. Il vincolo spontaneo dell’amore, sorto nell’antica forma dell’agape cristiana, costituisce un modello da riportare in una società senza più fede. Nella mitologia greca, più esattamente nella “Teogonia” riferita ad Esiodo, la speranza resta all’interno del vaso di Pandora, la fanciulla cui era stato affidato dagli dei il compito di tenere chiusi in un’anfora sigillata tutti i mali che affliggono i mortali. Ma la figlia di Efesto non aveva tenuto fede alla promessa; rompendo i sigilli aveva creduto di agire per conto di una sua presunta libertà, dando così inconsapevole senso alla rapida ed esplosiva diversità del male. Solo la speranza era rimasta nel fondo del vaso scoperchiato da Pandora. La speranza! Forse in previsione 41

bile affaticamento cui sarebbe andata incontro. Fatica utile allo scopo nobile di tenere fermi gli uomini stanchi nella fede in se stessi. L’antico mito, venuto dalla Grecia, riproduceva come sempre la verità, ma non veniva svelato da chi fosse stato costruito. Diversamente dalla leggenda che amplifica e fluidifica la storia senza modificarla, il mito è un fatto idealizzato col duplice intento di esemplificare dei procedimenti che attengono alla logica, nel tentativo di raggiungere ciò che non è diversamente raggiungibile. Può essere considerato valido anche se poi non trova riscontro nell’attualità. Ma il mito, che dianzi abbiamo ricordato, può essere ripreso e ricostruito perché facile da accostare ad alcune realtà, se pure in maniera diversa o addirittura capovolta. Dal vaso di Pandora non vengono fatti uscire solo i mali, si asporta anche la speranza; si può dire in altro modo che sia proprio la speranza ad essere straziata, per il bisogno di convincersi che in fondo i mali non ci siano. Forse sono così ignorati gli antichi comandamenti e presenti i vizi capitali che la stessa realtà sembra esserne occupata nella sua totalità. Il secolo ventesimo ha operato la rottura più atroce che si potesse immaginare e ha eseguito lo sgombero del bene, senza lasciare un residuo di speranza, quello rappresentato da elementi primordiali, essenziali e pluripotenti. Dal moderno vaso di Pandora infatti, conservati in quel piccolo agglomerato cellulare elementare definito “blastocisti“, sono stati asportati gli elementi capostipiti delle discendenze, nella convinzione falsa, perché politica, che il liquido gelatinoso ivi contenuto non costituisse la “speme”, ma la “libertà staminale”, utile appena per combattere il male come sostanziale incapacità di amare e di sperare. 42

Oggi la lettera enciclica di Benedetto XVI ci vuole dire qualcosa della realtà presente, come prova delle cose che non si vedono, ma anche per impedire alla speranza di fuggire e per attirare dentro il presente il futuro, così che quest’ultimo non sia più il puro “non ancora”. Lungi dall’essere un insolito individualismo, la vita vera verso la quale sempre cerchiamo di protenderci, presuppone l’esodo dalla prigionia del proprio “io”. In questo spostamento interiore, al servizio della riflessione sulla virtù dell’amore, noi ci rappresentiamo come soggetti universali, capaci di amare, ma soprattutto di sperare.

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L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

I fautori dell’intelligenza artificiale sono convinti di essere vicini alla costruzione di un supercomputer che sarà in grado di possedere una coscienza. Essi considerano i complessi meccanismi che consentono al nostro cervello di funzionare, come regolati da organizzazioni materiali, sottratte, con puntuale determinismo, all’influenza di qualsiasi mente autocosciente. Poiché viene negata l’assoluta indipendenza, se non addirittura l’esistenza, degli stati mentali, il ruolo ad essi attribuito è passivo e trascurabile, anche rispetto alle esperienze personali ed “illusorie” del cosiddetto senso comune. Si ritiene perfino che nella conquista del nostro universo intellettuale, non esistono confini invalicabili, se non quelli che deve superare lo stesso costruttore quando si trova, impotente e disarmato, di fronte ai problemi che la macchina gli pone. La tartaruga di Grey Walter è stata uno dei primi meccanismi al quale si è potuto attribuire una “vita propria”. Con essa l’autore, un biofisico, si proponeva il fine lontanissimo di tentare una simulazione se non anche una comprensione dell’Io umano. L’originalità della tartaruga consisteva nella possibilità di tenere un tipo di comportamento diverso per ogni circostanza, e nella singolare capacità di andare alla ricerca di 45

condizioni di vita favorevoli. Ma quello che spinge gli autori o costruttori dei servomeccanismi a concepire una “macchina pensante”, è soprattutto la tendenza a tradurre in pratica i1 principio secondo il quale tutte le azioni umane possono essere trasferite o rimpiazzate dai cosiddetti “animali sintetici”. Senza peraltro dimenticare che questi “animali” dovranno essere dotati di organi di senso capaci di stabilire un contatto diretto col mondo circostante, i loro costruttori dovranno anche fornire le “nuove creature” di sistemi o apparati in grado di formulare concetti che abbiano preciso riferimento alla realtà esterna effettuale. Io non so se questi traguardi fantascientifici potranno essere raggiunti, ma so di certo che non sarà mai possibile dotare gli “animali sintetici” di propriocettività e di linguaggio. La propriocettività è una forma di sensibilità che non è stolto considerare come sesto senso. Essa consente di “sentire” le diverse parti del corpo e di avere la esatta nozione della loro collocazione nello spazio. L’atleta e la ballerina – come tutti del resto – hanno il controllo continuo dei movimenti volontari e automatici, pur se velocissimi; ma percepiscono, all’interno di un sistema di sensibilità profonda, la minima modificazione dei capi articolari. La più piccola contrazione o la sola tensione viene segnalata, a livello centrale, da piccolissimi sensori, finalisticamente collocati su ogni fibra muscolare e su tutte le capsule articolari. Queste centinaia di migliaia di segnalatori danno informazioni estremamente sottili e sofisticate, le quali, a loro volta, vengono decodificate, analizzate e sistemate entro quel grandioso e immenso affresco corticale che è lo “schema corporeo”. È solo all’interno di questo “schema” che possono essere 46

ti i movimenti e articolate e “comprese” le parole. Mi chiedo pertanto se sia possibile trasferire a una macchina, altamente evoluta e sofisticata, la capacità di elaborare un suo piano di assemblaggio delle sensibilità, e di attualizzare il senso di possesso delle proprie componenti funzionali. Mi chiedo anche se sia possibile costituire un locus interno da cui derivare il concetto astratto della completa e soggettiva immagine di “Se”. I miei riferimenti sono ovviamente limitati alla sola forma di sensibiltà profonda, anche se io stesso mi propongo di supporre le difficoltà iniziali cui andrebbe incontro il più eminente esperto di robotica. Infatti non penso minimamente alla possibilità che un computer possa compiere operazioni mentali del tipo di quelle che svolgono i due lobi frontali. La mirabile divisione di compiti che essi hanno raggiunto, è ricca di suggestione e di fascino. Descrivere la loro attività operativa, almeno entro i limiti che questo breve scritto si propone, è un motivo di più per contemplarne l’ineffabile mistero. Il lobo frontale sinistro esprime uno stato di “coscienza verbalizzata”, in quanto capacità di riconoscere il significato di espressioni verbali e gestuali, di effettuare altissime operazioni di calcolo mentale e scritto, di predisporre iniziative di carattere motorio, sociale e intellettuale, di compiere astrazioni filosofiche, di concepire sistemi economici e politici e di afferire al senso della religiosità e del divino. Il lobo frontale destro, d’altra parte, pare sia il centro della creatività artistica, del senso musicale, del disegno prospettico, ma soprattutto della creatività per immagini, delle intuizioni. Avendo limitato perciò il discorso alla sola propriocettività e al linguaggio, ho evitato di entrare in quel labirinto metafisico dal quale, in assenza di un filo di Arianna, non sono mai 47

riusciti ad uscire tutti coloro che, scienziati o filosofi, vi si sono avventurati. Esiste però il presupposto, ma anche il rischio, che studiosi moderni, ripetendo le vicende degli antichi nominalisti medievali, tentino di identificare il linguaggio con il Pensiero, attribuendo alla Parola una funzione complessa anche se solo muscolare, articolare e sensitiva. Senza convenire con questa identificazione e senza rincorrere la curiosità e l’interesse per le strutture linguistiche di De Saussure o per l’astrusa semiologia di Chomsky, ritengo che il linguaggio, sia esso esterno o articolato, sia esso interno o immaginato, non può essere confuso con il Pensiero. L’attualità degli studi sulla Mente comincia a definire l’oggetto della nascente neurofilosofia. Se dunque la propriocettività, fornita da organi fono-articolatori come la lingua, la glottide, i piccoli muscoli dell’orecchio e della laringe, consente a un soggetto di “sentire” i propri apparati all’interno dello “schema corporeo”, vuol dire che esiste un antefatto e che l’Io, o la Psiche o la Coscienza lo rappresenta. Per concludere ritengo che l’intelligenza sia un carattere particolare, distintivo dell’Uomo, ed è vano ricercarla o conferirla ad altri animali veri o sintetici. Un computer non potrà mai possedere una coscienza! Oltretutto essa ha bisogno di una infrastruttura universale, quale quella fornita da cento miliardi di neuroni e da un numero infinito di sinapsi. (I contatti – appunto le sinapsi – che i neuroni stabiliscono tra loro sono rappresentati da un numero con tanti zeri quanti ne occorrerebbero per coprire la distanza dalla terra alla luna). Il giorno in cui un gruppo di scienziati dell’intelligenza artificiale si riunì alla presenza di Paolo VI, i 48

loro discorsi turbarono il pontefice. Egli viveva la sua esperienza di sacerdote e di Papa in maniera drammatica, tormentato dalla presenza di ideologie materialistiche, ultime eredi di quel positivismo logico che tentava di minare alla base la cittadella della Fede. In quella occasione fu notato il suo turbamento da un fraticello del seguito, il quale gli si avvicinò discreto: “Non si turbi, Santità, non hanno ancora trovato l’anima” gli disse. Il Papa lo guardò con un sorriso. “E non la troveranno!”. Proseguì il fraticello.

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LE ASIMMETRIE

L’abitudine a riflettere su fatti e circostanze che costituiscono un insieme di avvenimenti diversi, ci porta a fermare l’attenzione su luoghi veri o immaginari, ove si sono esperite e tuttora convergono le nostre esperienze personali. Questi punti di convergenza possono essere il mondo esterno, noi stessi o tratti interni, concreti o meno concreti, del nostro carattere. Rappresentano comunque delle asimmetrie nello spazio delle nostre esperienze. L’asimmetria è una mancanza di corrispondenza concettuale o materiale tra due parti che costituiscono un sistema completo. Asimmetriche, come è risaputo, sono le due metà del corpo umano. Un soggetto non è mai completamente simmetrico, perché mostra, oltre ogni dubbio, una linea mediana e due parti laterali diverse. Asimmetriche sono le due metà di una mela. Asimmetrica è una piazza rispetto alla forma e alla posizione degli edifici. Riflettendo sempre sulla asimmetria del corpo umano si nota che le due metà sono immagini speculari l’una dell’altra. Si pensi alle mani e ai piedi, alla metà destra e sinistra del volto, del torace, alla presenza di organi pari, alla diversità di funzioni. Sono ancora asimmetrici il Nord e il Sud del globo, le fasi lunari, il discorso tra avversari, ma non il principio di contraddizione. Vi 51

è poi una asimmetria per eccellenza, quella che riguarda la parte più elevata dell’essere umano: il suo cervello. Qui il concetto di asimmetria assume un significato più ampio, una valenza più moderna e universale. Per questa ragione bisogna cercare di entrare nell’argomento in maniera felpata, sia per non turbare il procedere mentale del gentile lettore, sia per tentare un approccio elegante e reverenziale verso l’organo più nobile dell’universo conosciuto. Gli evoluzionisti si muovono dal presupposto che si siano elaborati programmi più complessi nell’Homo Sapiens rispetto agli ominidi. Trovano che l’Homo Sapiens ha mostrato fin dalla nascita una certa propensione per alcune importanti funzioni e non ha avvertito la necessità di tendere verso una duplicazione. Negli ominidi di qualche milione di anni fa la duplicazione delle funzioni ha avuto il senso di unificare le attività più importanti, a causa delle esigenze primarie di renderle agili e spedite in un cervello più semplice e meno organizzato. Non sto dicendo che non vi fosse asimmetria nel corpo e nel cervello degli ominidi; sto invece sostenendo che mancavano, in quegli esseri primitivi, dei sistemi unici di comunicazione e di elaborazione mentale, attraverso i quali esprimere la capacità di volere e di agire in piena libertà. I cosiddetti ominidi non possedevano il linguaggio, ma potevano comunicare mediante l’uso e la ripetizione stentorea di gesti ed urla limitatamente significativi. La loro vita associata era assicurata dal predominio del più forte e dalla paura di essere sopraffatti. L’uomo le cui funzioni più importanti non si sono duplicate e sono quelle che riguardano le relazioni con gli altri, ha avuto il privilegio di potere associare stimoli di origine diversa e di elaborarli in piena autonomia. L’unificazione di impulsi, provenienti da fonti lontane, ha reso possibile la rielaborazione dei 52

contenuti, i quali sono stati poi circoscritti e racchiusi in una forma concettuale che ci è sconosciuta. Le due metà del cervello effettuano dunque operazioni mentali che superano le qualifiche funzionali per cui sono state costruite. In una di queste, la sinistra, si attualizza la sintesi di procedimenti temporali, con una scelta di luoghi prossimi alla sede virtuale del linguaggio. Nella metà destra sono operativi circuiti complessi, i quali vengono considerati come substrato di funzioni matematiche, del senso musicale, della visuo-costruttività e della spazialità. In sostanza all’emisfero destro viene attribuita la possibilità di comporre e assemblare parti diverse per la costruzione di un sistema unificato di componenti logiche. Come tutto questo possa avvenire non è dato sapere. Possiamo solo dire che ogni metà del cervello è in grado di scegliere e di eseguire un certo insieme di compiti cognitivi. Da quanto detto si evince che l’asimmetria è la mancanza di corrispondenza tra le parti asimmetriche di un sistema armonico e non altro. Per questo il breve preambolo serve come introduzione a un discorso più ampio, il quale tuttavia non può andare di là da qualche fuggevole considerazione. Serve però a portare l’attenzione su tutto ciò che di asimmetrico manca nella società civile, nella vita politica e nel costume. Oggi si direbbe che rende un servizio alla santità colui che non solo porta rispetto agli antichi precetti, ma compie qualcosa di più, attraverso la disponibilità e il sacrificio di sé. In una società, ove pochi si oppongono allo sfascio della convivenza, non è difficile osservare il tentativo di promuovere un progresso, che se non ha sullo sfondo la fisionomia del nazismo, ne ripete alcuni tratti. Ma non sono questi che possono essere considerati asim53

metrici. Asimmetrico è il tentativo di attribuire alla scienza valore assoluto e di impedire alla ricerca di svelare la bellezza che è nelle cose. Dunque l’asimmetria non è un fatto di per sé negativo, non è il male assoluto. Essa consente la composizione di parti diverse, attraverso il ponte virtuale del senso comune. Non vi è asimmetria nell’ordine morale, quando viene permessa la manipolazione delle cellule fecondate, l’escissione impropria delle cellule staminali o la fecondazione assistita mediante embrioni congelati. Allo stesso modo non può essere considerato asimmetrico il matrimonio tra omosessuali – pur nel rispetto della loro tendenza naturale e delle loro scelte – per la mancanza di una discendenza, come legame immortale che unisce per sempre una coppia dispari naturale. Si direbbe che ci sia una parvenza di contraddizione in quello che stiamo dicendo e in effetti è così, ma questo dimostra che è asimmetrico il nostro stesso discorso. Uno degli esempi più clamorosi di mancanza di asimmetria si trova poi nella vita politica e parlamentare. Non abbiamo allo stato attuale delle cose un parlamento simmetrico – la dittatura che non consente opposizione – e nemmeno un parlamento asimmetrico, il quale prevede la presenza di una sana opposizione. Si tratta, nel nostro caso, di un luogo rappresentativo e simbolico ove si concepiscono sistemi filosofici e religiosi inconciliabili e opposti, un luogo ove non è possibile alcun travaso di idee, ove i termini di riferimento morali, sociali e personali sono antitetici. L’idea di un parlamento e di una vita politica diversa deve attualizzare la costruzione di un ponte che colleghi le due parti, come avviene puntualmente nel cervello asimmetrico. 54

IL MODERNO LAICISMO

Una legge morale che prescrive di porgere l’altra guancia, a chi ci percuote, di cedere col mantello anche la tunica, a chi ce lo chiede, e di tentare una riconciliazione prima di adire le vie legali, è facile da accettare ma difficile da osservare. Il rifiuto di porgere l’altra guancia, di dare col mantello anche la tunica, di tentare una riconciliazione, non è immorale ma è più agevole che si verifichi. In questa capacità di porgere o di non porgere, di cedere o di non cedere, di opporre o meno un rifiuto, sta la differenza tra morale cattolica e morale laica. Nel primo caso si raggiungerebbe la perfezione, se non la santità etica, nell’altro si sarebbe portati a seguire un comportamento più istintivo che razionale. In tempi come quelli che viviamo, nei quali ognuno di noi è stimolato a seguire, in piena libertà si intende, le svolte laceranti della tecnologia o le luminose vie della scienza, un discorso sull’etica non può insistere più di tanto sulla necessità di raggiungere il sublime; ma non è detto che se ne debba completamente discostare. Non esistono leggi esterne o norme costituzionali che abbiano un valore assoluto o si impongano per se stesse in ogni tempo e in ogni luogo. Esiste bensì un apparato razionale, un impero della ragione, 55

il quale guida il comportamento secondo le leggi che operano in tutto l’universo. Tutto questo non vuole essere un omaggio a quelle correnti di pensiero che in passato sono confluite verso un grande movimento culturale definito Illuminismo. È invece un modo di rapportarsi alla ragione che giustifica la sintesi di categorie mentali entro la quale sistemare la libertà, la volontà, la universalità. Ma la possibilità di seguire il flusso dei sentimenti fino alla bassezza dei sensi, l’ansia di ottenere tutto e subito, la moda di universalizzare ciò che è costretto nei confini di spazio e di tempo, rappresentano presupposti ignobili ignorati dalla ragione. Allora in che cosa consiste l’azione morale? Nel dovere di dare alle nostre azioni il carattere della universalità. Ridotta alle sue estreme conseguenze la rivoluzione morale copernicana (operata da Kant) giudica la santità una perfetta adeguazione alla legge e, di conseguenza, le azioni legate alle pulsioni istintive la rivelazione della nostra animalità. Il comportamento umano deve allora ispirarsi a quelle norme che incontrano prima di tutto il consenso della volontà e della libertà e si ritrovano infine con estremo rigore logico nella fisica e come certezze deducibili nella metafisica. Se non è possibile dunque raggiungere la santità, non è lecito nemmeno consegnarsi alla bassezza degli istinti. Riguardato perciò dal punto di vista della morale kantiana l’aborto è immorale perché nega l’“a priori” che è dentro di noi, di cui l’embrione è sicuramente substrato e portatore. Visto secondo l’etica della santità è peccato e reato perché impedisce alla vita di esprimersi e di svilupparsi e alla coscienza di manifestarsi; soprattutto perché contribuisce a vanificare 56

un disegno divino che non ci è dato conoscere. Visto infine dal punto di vista delle leggi della fisica, l’aborto è immorale perché sconvolge lo sviluppo di entità molecolari, che tendono a costruire un misterioso organismo dotato di intelligenza, anticipazione irrinunciabile della libertà. La morale laica che si è sempre appellata alla ragione ed ha avuto dell’istinto lo stesso concetto che la morale cattolica ha avuto della santità, non ha impedito che si legalizzasse l’aborto, né ha impedito che si applicasse l’eutanasia. Se si scende così alla radice di questa etica si scopre prima di tutto una eclisse del senso comune e poi la conseguente attribuzione di valore assoluto alla scienza e la totale indifferenza verso la sacralità della persona. Ne sono prova l’escissione delle cellule staminali e il congelamento degli embrioni. Questo spiega come sia possibile che grandi scienziati possano pensare di svelare il segreto della vita attraverso la sola ricerca empirica, ma spiega anche come sia vero che medici illustri propongano l’eutanasia, riferendo casi di esecuzioni pietose, decretate in via del tutto personale. Perché di esecuzioni si tratta, almeno quando qualcuno si arroga il diritto di disporre della vita altrui o quando effettua sperimentazioni che fanno deviare il corso legale e naturale degli avvenimenti. Sostituire il nucleo di una cellula, privarla di parti del proprio patrimonio genetico o dei suoi mitocondri, può estinguere la sete di stravaganze tecnologiche, ma non può illudere nessuno sulla utilità per la scienza di operare bene seguendo un fine perverso. Si ritiene che inserendo una cellula staminale in quella zona dell’encefalo definita “Sostanza Nera”, serva per produrre elementi capaci di fabbricare dopamina. È anche la tesi di chi definisce “modulare” il nostro cervello. A nessuno però è dato 57

conoscere in anticipo la reazione delle altre cellule, le quali saranno costrette, depauperandosi, a fornire al nuovo elemento un grosso volume di informazioni, che esse stesse ricevono da moltissime altre fonti. Non credo personalmente a un cervello “modulare” costituito da pezzi separati facili da sostituire; perché la grandiosità del sistema sta appunto nell’insieme ultrafunzionale delle microstrutture. L’entusiasmo per le cellule staminali porta a dimenticare che esistono molte altre teorie a proposito della malattia di Alzheimer, oltre lo squilibrio genetico: quella dei radicali liberi, dei legami incrociati, della proteina A68, la teoria autoimmune, la teoria delle ridondanze, degli errori, delle mutazioni somatiche. Preferisco citarle perché il gentile lettore non si faccia illusioni sui miracoli delle cellule staminali. Potrebbe addirittura ricomparire la feroce proteina A68, capace di distruggere neuroni o precursori di neuroni. Va comunque ribadito, con vigore, che la via per fare progredire la ricerca scientifica passa attraverso il rigore di una severa disciplina morale. Un fine diverso, in perfetta sintonia con un moderno laicismo etico in ascesa, è quello che permette di praticare l’aborto con lo scopo elevato di farlo diminuire; è quello che lascia gli embrioni nei congelatori e aiuta il prossimo a morire, cioè a liberare i parenti dal peso dei poveri malati. Dopo tutto Semiramide poteva anche non finire all’inferno e Mengele essere lasciato in pace. In fondo la regina assira anticipava i tempi e il criminale nazista “studiava” la trasparenza della cute costruendo paralumi con la pelle degli Ebrei. È anche questo un modo per dimenticare Kant e i suoi discorsi scomodi sulla impossibile etica della santità. 58

LA SINDROME DI STENDHAL

Bisognerebbe sempre privilegiare nella propria attività professionale, e non solo in essa, l’aspetto normale e trasparente delle cose, servendosi magari di uno stabilizzatore mentale orientato ad un fine. Quando poi si fa riferimento ad una sofferta vicenda professionale diventa naturale la ricerca primaria della normalità fisiologica. Per quanto mi riguarda non so se ci sia addirittura ripugnanza nel considerare l’aspetto patologico delle strutture, ma mi sembra certamente offensivo che qualcuno o qualcosa introduca un elemento di disturbo all’interno di un capolavoro della natura. È un fatto però che la Verità, per concedere agli uomini una comprensione dei fini e una giustificazione delle norme, si serve a volte di percorsi tortuosi e di canali sotterranei; quasi che noi dovessimo sempre cercare di capire la regolarità di una funzione anche attraverso le possibili alterazioni. Se pertanto la “sindrome” in generale può essere considerata un insieme di sintomi caratteristici di una certa patologia, essa è sempre e comunque una devianza, o se si vuole, una privazione, che non consente in nessun caso di adire i supremi concetti di bene e di bello. La “sindrome di Stendhal” costituisce però una notevole eccezione. Essa non solo non contiene alcun 59

elemento di obiettività, ma soprattutto non provoca disturbi nel sistema di relazione o disagi, che non siano quelli dovuti a singole attività vegetative. Ho letto quasi tutto di Stendhal in un tempo lontano, quando le emozioni venivano superficializzate e cronicizzate da motivi gravi ed eccezionali come le guerre. Ricordo ancora che nella prefazione del 1956 si parlava di “emozione stendhaliana” irriducibile ed eterna, identica a quella che si prova “dinanzi a un quadro di Andrea del Sarto o leggendo i canti di Erminia nella Gerusalemme liberata”. Quella lettura mi teneva sulla corda tesa di un equilibrio emotivo precario, all’interno di una solitudine intellettuale che mi faceva preferire il più ardente, intelligente e umano dei classici francesi e la passione anticonformistica e libertaria del suo pensiero. Non erano né il romanzo di “Armance”, né la “Certosa di Parma” che scatenavano il tumulto dei sentimenti. Era “Il Rosso e il Nero” il grande documentario, il tenebroso libro della caduta depressiva e dell’angoscia irrisolvibile. Quello che mi sembrava un superbo “tondo” di bellezza, di passione, di vanità e di drammaticità – “Il Rosso e il Nero” appunto – si presentava poi come un’immagine sospesa a un filo invisibile contro un cielo oscuro, al di sopra di un oceano di magma vulcanico senza linea d’orizzonte. La sindrome descritta da Graziella Magherini, psichiatrapsicalinista fiorentina, prende nome dallo scrittore francese e non poteva essere altrimenti, dal momento che lo stesso Stendhal ne fece purtroppo personale esperienza. La prima grande emozione estetica che sconvolse il turista eccezionale e lo precipitò in una sorta di turbine estatico, entro il quale meraviglia e attrazione si confondevano, avvenne nella chiesa di 60

Santa Croce in Firenze, di fronte alle Sibille del Volterrano – così come è stata descritta nel suo “viaggio in Italia da Milano a Reggio Calabria” –. Bisogna ricordare che i grandi capolavori hanno sempre attivato sottili meccanismi di emotività, di creatività e di sogno. Ma quando questi meccanismi provocano la produzione di sostanze nocive capaci di esaltare le tendenze psicotiche dei soggetti e di mediare all’interno di delicati equilibri nervosi, la sindrome che prende nome da Stendhal non può riconoscere come causa scatenante soltanto la loro contemplazione. Pertanto distinguerei tra un atteggiamento contemplativo ed assorto del visitatore di fronte all’opera d’arte, cui allude la sindrome di Stendhal, da un altro più maniacale, destinato a sconfinare nella psicosi. Quest’ultimo, di per sé ancorato a una problematica distimica intesa come grave decadenza affettiva, non può di fatto rientrare in una esaltazione di tipo nevrotico, certamente più lieve ed oscillante. Se ci riportiamo al nostro Rinascimento ci troviamo di fronte a un pontefice come Giulio II che, per eternare lo stupore emotivo davanti a un affresco di Raffaello, si fa rappresentare, da esterno, nella scena bramantesca della cacciata di Eliodoro dal tempio. In uno stesso affresco, il pittore raffigura il grande papa mentre osserva, teso e controllato, due angeli fustigatori senza ali, che irrompono da un vuoto surreale in anticipo sull’assenza di gravità. Oggi Stendhal non potrebbe sopravvivere allo spettacolo indegno del deposito di smog sulle tombe dei grandi italiani o sul bianco cenotafio di Dante. Le sue esperienze di visitatore solitario dovrebbero costituire, in ogni caso, un punto di riferimento per la interpretazione moderna di una sindrome particolare, relativamente più antica. 61

Dunque una personale riflessione, ma soprattutto una distinzione, su un fascio eterogeneo di sensazioni raccolte da un soggetto normale, rispetto a una sindrome allarmante descritta, in psicolabili, dalla psichiatra fiorentina. Penso al turista colto, in contemplazione davanti alla Nike di Samotracia o davanti al busto di Bruto scolpito da Michelangelo. Penso ancora al visitatore stanco ma sorpreso per la presenza del S. Sebastiano del Mantegna nel Kunsthistorisches Museum. La sottile veste adesa al bellissimo corpo della Nike, la levità, le ali tese verso la libertà, danno sempre un brivido inatteso; quando non anche un rialzo termico e pressorio o una tachicardia o un lavaggio muscolare, che attenua di fatto la stanchezza ma può anche scaricarsi in un collasso. Non riesco a considerare così grave – ma è una considerazione del tutto personale – la sindrome di Stendhal, da rendere quasi improponibile una ripetizione degli stessi avvenimenti. La società moderna tende a dissacrare l’arte, togliendola dal suo empireo metafisico. Da questo empireo la distolse Caravaggio; più di recente la eradicarono gli impressionisti. Essi intesero l’arte come “liberazione della propria personalità nella profondità della natura e della vita”. L’uomo d’oggi, lontano suo malgrado dalla politica, riscopre la propria anima e torna a meditare su se stesso. Il restauro dei grandi capolavori e il ritorno del sacro gli restituiranno, insieme alla dignità, anche i valori che sono andati perduti.

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IL FASCINO DEL DUBBIO

Qualche anno fa in una rubrica del giornale “La Stampa” intitolata “Cattivi pensieri” un professore universitario torinese, esperto di letteratura italiana, ironizzava sulle “donnette” che si recano in chiesa a pregare una divinità di cui non sanno dare ragione. Il dotto professore evitava l’irrisione ma si lasciava andare a una considerazione semplicistica: “le donnette” non sanno nulla o per lo meno non conoscono nulla del Dio cui rivolgono la loro supplica. Un residuo di illuminismo gli impediva di prendere atto della indipendenza di un rapporto diretto con la Divinità e di interrogarsi sull’esistenza e consistenza di una intuizione. Il titolare di quella rubrica era convinto che la preghiera dei semplici mette in rilievo il vuoto di razionalità e, di conseguenza, crea seri dubbi sull’autenticità della fede. Bisognerebbe allora che ognuno di noi si chiedesse su cosa fondano i puri e i semplici di cuore l’esigenza di andare verso l’Assoluto. Ma bisognerebbe anche che ognuno di noi si chiedesse dove l’innatismo, l’a priori e le categorie hanno le loro riserve spirituali e come costituiscono la naturalità della ragione, le cui radici ci sono altrettanto ignote. È ben vero che Mosé ricevette sul Sinai le tavole della legge da un Dio che non conosciamo; ma 63

è anche vero che l’imperativo categorico, formulato da Kanty, è solo un’astrazione di ordine morale. Una ragione limitata, la cui forma originaria non avrebbe nulla a che fare con l’universalità, la necessità o la libertà, considerate come gli estremi attributi della Verità, non può non accedere a una fede se vuole dare un giudizio di valore. Per tale motivo ritengo non possa cambiare il senso della ricerca se il rapporto con Dio venga stabilito direttamente dalla “Rivelazione” o istituito mediante il ricorso alla ragione. Voglio ricordare brevemente che S. Anselmo d’Aosta considerava la fede il punto di partenza della ricerca filosofica e riteneva che tra ragione e fede vi fosse un rapporto intrinseco, naturale ed essenziale. Lo stesso S. Tommaso d’Aquino nel momento in cui indicava nella “Rivelazione” l’automanifestarsi di Dio nella storia, rivendicando la necessità salvifica e redentrice dell’“Incarnazione”, annunciava la sua grande fiducia nella ragione. Era un modo naturale di pensare la religione all’interno della sfera della razionalità, partendo dalla fede: “credo ut intelligam” (S. Anselmo), oppure affidando alla ragione il compito di rinvenire le vie che conducono verso la Verità (S. Tommaso). Non è un caso perciò che le grandi controversie religiose, antiche quanto il Cristianesimo, si siano attenuate proprio nei periodi di più intensa riflessione mistico-conventuale. Ma non è nemmeno un caso che, a distanza di tanti secoli, la cultura contemporanea europea abbia trovato, dopo un lungo esercizio intellettuale e una navigazione travagliata entro il grande mare dell’essere, nientemeno che il “Nulla”, ossia la fine paradossale del divenire. Da Feuerbach in poi è il concetto di alienazione che anticipa il “Nulla” e occupa la mente dei filosofi, ora 64

come proiezione verso un universo fantasmatico (Hegel), ora come aberrazione di un sistema di produzione che consente la espropriazione illecita del prodotto del lavoro (Marx). Ma è soprattutto il piccolo cabotaggio sopra le acque stagnanti della sociologia, della psicologia, dell’economia e della politica, che toglie flessibilità e slancio al pensiero moderno. La scelta obbligata, spacciata come libertà, tra l’essere e il “Niente” porta a concepire l’esistenza come un segmento, che inizia dal “Nulla” e finisce nel “Nulla”; donde l’angoscia, lo scacco e la mancanza di fede. In questo contesto avvilente, che anticiperebbe la fine della filosofia se questa non dovesse utilizzare a fondo i risultati della scienza, si collocano le considerazioni sul Cristianesimo di Emanuele Severino, professore di filosofia teoretica presso l’Università di Venezia. Le considerazioni di Severino, che egli chiama pensieri, servono all’autore per compiere il tentativo di stravolgere il senso comune e di utilizzare la libertà per mantenersi all’interno del paradosso. Sono un esempio brillante della schiavitù della logica. Si tratta, per dirla con tutta franchezza, di un attacco frontale alla religione cristiana, con l’intento manifesto di negare la fede e di vivere da protagonista una pretesa e inverosimile vicenda finale del Cristianesimo. Ma è il protagonismo che dimostra l’incapacità del filosofo di accettare la temporalità e svela l’esigenza inconscia di aspirare a un solo istante di eternità. Egli si serve del dubbio per effettuare il rigetto totale della fede e, per dimostrarne la inautenticità, la non verità e la violenza, fa ricorso a quei principi matematici considerati autentici e veri. Ma se è un fatto incontrovertibile ed universale che due più due fa quattro, si può obiettare che non è più 65

vero che un oggetto non si possa trovare in due posti contemporaneamente. I “pensieri” proposti da Severino sono tali e tanti che non è possibile intervenire su tutti, in un breve articolo; anche se nessuno si presenta sotto la specie di una autentica filosofia. Si tratta di una violenza discorsiva che manifesta il carattere disforico dell’autore, più incline all’euforia che alla convinzione. Trovo infine che non sia la maniera di pensare di un filosofo teoretico quella di dare soluzione definitiva e apodittica a tutti i problemi. Un esempio vistoso è quello di rendere Dio unico responsabile del dolore umano, sottraendo il dramma e la tragedia anche alla libertà. Pochi anni prima Camus, che aveva vissuto l’esperienza della seconda guerra mondiale, affermava che l’esistenza di Dio non si concilia con la sofferenza, con le camere a gas, col nazismo e col dolore dei bambini. Ma mentre Albert Camus non rinunciava alla lotta e non si rassegnava all’immortalità del virus della pestilenza, Emanuele Severino fa una scelta definitiva e assoluta: Dio non esiste perché esiste il dolore. Da Aristotele in poi l’uomo è considerato un animale politico, senza che nessuno abbia mai detto perché. Che sia proprio il dolore la mano invisibile di Dio, che unisce le creature in un vincolo di universale fratellanza e le rende uniche nella sofferenza e nel dolore? Da cosa gli uomini deriverebbero altrimenti la loro singolarità e come si giustificherebbe la libertà? Ma è il discorso sul dubbio, fatto con eccessiva spregiudicatezza, quello sul quale vorrei ottenere l’attenzione del gentile lettore. L’affermazione che il dubbio è la sospensione equilibrata di un giudizio, non deve far dimenticare che esso fornisce altresì un criterio di verità, almeno intorno a se stesso. 66

L’Io cartesiano fonda sul dubbio metodico, la sua certezza, ma la fede attinge le sue ultime verità dall’Io medesimo. Secondo Severino occorre invece che all’interno del dubbio avvenga qualcosa: un lampo improvviso, un flash che illumini e dia alla fede un minimum di certezza. E questo è impossibile. Vorrei pertanto ricordare, a questo punto, i flash dei grandi mistici nella solitudine dei loro eremitaggi, le estasi dei santi, la cadenza epocale delle profezie, l’autoascolto delle Sibille. Né va dimenticato, per restare nell’attualità, l’episodio di A. Frossard, figlio dell’allora segretario del partito comunista francese. Un giorno l’ateo Frossard è costretto ad aspettare un amico sul sagrato di una chiesa della periferia parigina. La curiosità lo spinge ad entrare nel luogo sacro. La penombra, i1 silenzio, la preghiera, l’altare illuminato da una candela che una fiammella fioca consuma poco a poco, provocano nel giovane una “silenziosa folgorazione” e lacerano il velo pedagogico dell’ateismo. Vi sono poi tempi e luoghi della terra dove questi flash sono possibili: la grotta di Massabielle, gli ulivi di Fatima, le chiese dove i monaci intonano, nel coro mattutino, le “lamentationes Ieremiae prophetae”. Ritengo, diversamente da Severino, che il dubbio sia lontano dal negare la fede. Il suo fascino consiste nella mobilità intellettuale e nell’altissima tensione spirituale che lo mette in essere e lo fa esaurire. Il filosofo che non riesce ad avvertirne le astuzie si serve di oscure verità e di tautologie, per costruire una antiverità e una contro-idea. Il “Nulla” è il “Nulla”; non genera e non ha l’esistenza. Ma Dio sì e noi pure. È la Verità cui è pervenuto anche André Frossard.

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RECENTI ACQUISIZIONI IN TEMA DI COSCIENZA

Se è vero che la realtà sociale, in una fase storica seguita a millenni di miseria e di angoscia, ha coinvolto le persone fino a porre d’assedio le loro intelligenze, non trovo giusto che non ci sia un momento di ritiro all’interno della propria spiritualità. Se è vero ancora che un primato è stato attributo alla politica, col fine non dichiarato di farci dimenticare che esiste anche un problema etico e un problema morale non trovo nemmeno giusto che non ci sia più tempo da dedicare alla riflessione. Entrando con determinazione nell’argomento, vorrei avvertire il gentile lettore che sono libero da preoccupazioni moralistiche, anche se ognuno di noi ha sempre il dovere di rilevare le deviazioni prodotte dagli errori nostri e degli altri. In perfetta analogia con questo breve discorso di apertura, ritengo non sia un errore invece quello di pensare che la nostra epoca, nel momento in cui la fisica moderna fatica a presentare una teoria plausibile del mondo reale, proponga, con residua arroganza, una specie di risucchio fisiologico della psicologia. Poiché non è possibile spiegare, con l’ausilio della scienza e in particolare con la fisica classica, il mondo inaccessibile della coscienza e giustificare “grandezze” come la memoria e il pensiero, alcuni fisici teorici, tra i 69

quali l’americano Evan Walker, hanno compiuto il lodevole tentativo di ricorrere alla fisica quantistica. Walker infatti afferma: “la coscienza può essere associata a tutti i fenomeni quantistici… dal momento che ogni evento è in ultima analisi il prodotto di uno o più eventi quantistici”. Questo discorso, anche se discutibile, evita di fatto la terminologia tradizionale e nega il concetto di “funzione” riservato alla coscienza da molti ricercatori, ma fa scattare, in altri studiosi, notevoli resistenze mentali. L’osservazione, si dice, non può turbare il “sistema” coscienza, come avviene, per numerosi eventi, nel campo della fisica quantistica. L’osservazione, che rende probabile la scienza e con essa l’universo, non costituisce essa stessa un “sistema” che può mutare a seconda del punto di vista dell’osservatore. Da ciò derivano almeno due importanti considerazioni. La prima afferma che l’osservazione e l’osservatore sono una medesima e unica cosa. La seconda ribadisce la impossibilità di distinguere, come invece fa Husserl, tra l’aver coscienza e ciò di cui si ha coscienza. (Tra noesi e noema). Dunque possiamo dire che “la coscienza è un’entità psichica estremamente comprensiva, conosciuta da tutti per propria esperienza, più facilmente intuibile che definibile, nella quale si compendia ogni avvenimento psichico soggettivo, cioè tutto ciò che viene soggettivamente vissuto e saputo in un dato momento”. Va sottolineato tuttavia che affiora, in ogni definizione, se non in questo caso, quel dualismo razionalistico che si vorrebbe ad ogni costo evitare; anche se c’è sempre qualcuno che cerca quell’unità sostanziale che non sarà mai possibile ricompattare. Ritengo perciò che la coscienza utilizzi la risultante del sincretismo organico, messo in atto da strutture assiali cerebrali a sede 70

centrale. Ma ritengo soprattutto che la coscienza sia una “presenza-essenza” in grado di “sentire” il fluire degli impulsi dell’attività organica entro l’immenso numero dei circuiti cerebrali, da cui astrae i concetti e sublima i contenuti. Su queste definizioni di carattere necessariamente approssimativo e francamente intuitivo, sono intervenuti di recente alcuni fisici teorici e alcuni astrofisici. È uscito da qualche anno in Francia un libro di Jean Guitton, accademico e grande allievo di Bergson, dal titolo originale “Dieu et la science. Vers le métaréalisme”. In prima pagina un aforisma di Louis Pasteur: “un po’ di scienza allontana da Dio ma molta riconduce a Lui”. La prefazione alla edizione italiana, da poco nelle librerie, è di Giulio Giorello un noncredente, che tuttavia mostra di apprezzare moltissimo la testimonianza di Guitton. Questo libro si propone di sapere: “cosa è la realtà? da dove proviene? c’è un ordine, una intelligenza soggiacente?”. L’itinerario discorsivo si svolge questa volta utilizzando la relatività generale e la meccanica quantistica. Ciò porta gli interlocutori – il libro si presenta sotto forma di un dialogo tra Guitton e due fisici della Sorbona, i fratelli Bogdanov: astrofisico lui, Igor; fisico-teorico lei, Grichka – a risalire fino alle origini del cosmo, quando l’universo era più piccolo di molti miliardi della testina di uno spillo e il tempo era ancora allo zero assoluto. In conseguenza di queste considerazioni teoriche, gli astrofisici sono portati a stabilire, con molta verosimiglianza, che l’universo sia nato da una immensa esplosione; sono anche in grado di definire i tempi del dopo esplosione, ma non di risalire al prima dell’enorme condensato di energia. Si scontrano di fatto in quello che viene definito il “muro di Planck”, 71

al di là del quale si nasconde il grande mistero dell’inconoscibile. I due fisici teorici, sopra citati, suppongono che nel mistero retrostante a quel “muro“ si celi “una energia primordiale di potenza illimitata”, mentre Guitton pensa a una Totalità di conoscenza pura, a un Essere infinito che dà origine all’universo e nello stesso tempo lo costituisce. All’interno di questo discorso, niente affatto concluso perché mai iniziato, il grande fisico americano Heinz Pagels ritiene, da parte sua, che l’universo rappresenti un messaggio formulato in codice segreto e che l’uomo di scienza abbia il compito di decifrare questo messaggio. Senza portare l’attenzione al di là di questo codice cosmico, si presume che esso vada riletto, in ogni caso, secondo l’antico metodo induttivo, risalendo cioè dalla materia all’energia e infine all’informazione. Quanto detto non mi sembra possa rappresentare soltanto un modo di pensare pallido dei fisici, perché trovo interessante che essi tentino di proporre soprattutto riflessioni di ordine metafisico. Dal momento che le particelle, generate nei campi quantistici, vengono considerate come semplici astrazioni e non possiedono realtà in senso stretto, ritengo sia razionalmente corretto convenire con essi che la realtà è determinata da un atto di coscienza, non solo, ma è legata anche al punto di vista dell’osservatore. Questo conferma, secondo Guitton, che l’ordine dello spirito e l’ordine della materia non sono incompatibili, ma formano un’unica realtà. (Metarealismo). Conferma inoltre l’esistenza di un campo di informazione soggiacente, che svolge un ruolo determinante “nel dare origine non solo ai processi quantistici ma anche alle stesse particelle”. Quali le deduzioni? La prima è che esiste un Essere trascendente 72

so dell’informazione; la seconda ipotizza l’esistenza di un continuum tra coscienza e campo quantistico. Dobbiamo allora ammettere, in qualche modo, che la coscienza, come il pensiero e la memoria, possano avere una “funzione d’onda”, che è poi una composizione di posizione e di velocità? Se così fosse mostrerebbero sempre di possedere la stessa ambiguità in cui ricade la fisica quantistica: quella di energia ondulatoria elettromagnetica o quella probabilistica della natura delle particelle. Poiché è sempre l’osservatore che risolve l’ambiguità all’interno e mediante l’osservazione, questo equivale a sostenere che la coscienza partecipa della trascendenza ma è fuori della relatività e della quantistica. Ci troviamo perciò di fronte anche qui al cosiddetto “muro di Planck” che è poi “l’istante originario in cui il tempo era allo zero assoluto e nulla era ancora avvenuto”. I fisici, moderni filosofi, pensano dunque che l’universo, come la coscienza e il pensiero, provengano da una fonte eternamente creatrice, situata al di là dello spazio e del tempo.

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JEAN GUITTON: IL LAICISMO E LA FEDE

Forse abbiamo devastato, insieme a tutto ciò che lo spirito umano aveva creato nel corso di diversi millenni, anche il significato delle parole, dimenticando che occorrono molti secoli per costruire e pochi anni per distruggere. Tra le macerie ancora fumanti e i sinistri bagliori che illuminano le ultime notti di questo millennio, qualcosa rimane: le lacrime dei bambini, il pianto delle donne, l’angoscia nascosta dei vecchi. Ma non è solo questo; siamo tuttora convinti che l’afflizione esprime qualcosa di positivo e il dolore si stratifica fertilizzando il pensiero. Perciò possiamo continuare a seminare la terra di bombe e fecondarla col sangue degli innocenti; ma è lì che alla fine dobbiamo tornare, è con quell’humus che sarà fabbricato l’ultimo essere vivente, lo stesso che la retorica di una evoluzione forzata definisce “homo sapiens sapiens”. Usando una metafora tragica, Camus sosteneva che il germe della peste (il nazismo) non muore, vive annidato nella buona terra, incapsulato nel corpo e nella mente degli uomini. Nessuno però ci ha fatto dono del potere di distruggere il significato delle cose, di violare la logica e i sentimenti; nessuno ci ha concesso di profanare le credenze, dissipare la creazione, sopprimere il genio. Era al fratello Tieste che Atréo 75

dava in pasto il corpo e l’anima dei figli, per interpretare e ripetere la tragedia paterna con protagonisti veri allo stesso modo di sempre, fino a noi. Continueremo tuttavia a rincorrere il bene e a convivere col male, senza potere mai raggiungere il fondo delle cose, né capire il mistero della vita. Sono state queste le contraddizioni che hanno animato la fede di Jean Guitton, da sempre alla ricerca di una riconciliazione e di un fine ultimo impossibile: avere l’Infinito nel palmo della mano. Nato a SaintEtienne (Loire) nel 1901 ha attraversato tutto il secolo da viandante, senza stupirsi e senza farsi coinvolgere, se non da avvenimenti che vivificassero l’amore e alitassero tra le pieghe di una spiritualità senza confine. Profeta solitario non si è mai nascosto, né è stato visto passeggiare per i Campi Elisi con gli ultimi agitatori esistenzialisti, ignorando ed essendo ignorato dai firmatari di manifesti e dai promotori di adunate pacifiste. Meditava tra i corridoi della Sorbona ove insegnava filosofia o dialogava, alla maniera di Platone, con interlocutori portati ad indagare tra i paradossi della fisica moderna, affascinato dalle idee derivate dalla relatività generale, dalla meccanica quantistica e dallo studio del “Caos deterministico”. Ma chi era veramente Jean Guitton? Non credo si possa dare un giudizio senza aver fatto ricerche sulla vita del personaggio e sulle manifestazioni del suo pensiero. Certo è Colui che la tradizione filosofica considera come l’ultimo grande pensatore cristiano. Non solo l’ultimo, direi l’unico che si è posto, in maniera originale e diversa, i1 problema dei rapporti tra cattolicesimo e pensiero moderno. È a tutti noto che la marea materialistica ha sconvolto le vecchie abitudini e obbligato a pensare 76

condo modelli mentali mutuati dallo scientismo. Insigni pensatori hanno finito per accettare la perdita di forza della Verità filosofica e per supporre nientemeno che la realtà e l’universo fossero conoscibili. Alla fine del secondo millennio si annunzia però il crollo delle antiche certezze, e il cedimento delle passioni; motivo lecito per cui Jean Guitton può fare questa affermazione: “L’universo che ci circonda diventa sempre meno materiale: non più paragonabile a una immensa macchina ma piuttosto a un vasto pensiero”. Religione e filosofia, emarginate dalla scienza, stanno per risvegliarsi e per venire a ricordarci che il mondo che ci circonda è privo di consistenza e che la realtà esterna non si risolve attraverso procedimenti logici o matematici, ma per mezzo dell’osservazione, che la fa essere o non essere a seconda di ciò che fluttua nella coscienza. Il pensiero laicistico di Jean Guitton, nonostante l’apparente contraddizione, utilizza la fisica moderna, la scienza cioè, non per sfuggire al dogmatismo che giustifica il vigore della fede, ma per cercare nella scienza stessa i presupposti di un’altra metafisica. Laicismo, dicevo, inteso nel senso moderno, non radicale, più duttile e meno ideologico, se è vero che in questi ultimi tempi il termine ha assunto un carattere di estrema conformità alla ragione, di veste ideologica antireligiosa, antiromantica, larvatamente antipopolare. In questo senso, solo in questo senso, quello di Jean Guitton si è espresso in maniera stupenda, quasi spettacolare quando, da laico appunto, fu invitato da Giovanni XXIII ad assistere alla prima sessione del Concilio nel 1962, e a partecipare come uditore alle altre sessioni. Alla chiusura della Assemblea Conciliare, il grande saggio ricevette, dalle mani di Paolo VI, il messaggio della 77

Chiesa agli intellettuali di tutto il mondo. Vorrei ricordare che fu proprio monsignor Montini, allora collaboratore di Pio XII, a “salvarlo dal rogo”, quando il filosofo rischiò di vedere messa all’indice dei libri proibiti una sua pubblicazione. A quell’episodio risaliva l’amicizia con Paolo VI. L’illuminato pontefice lo considerava il più attuale interprete del pensiero cristiano, Colui che aveva portato di attualità e messo a confronto con autori contemporanei, come Freud e Proust, quegli antichi Padri che avevano affrontato, molti secoli prima, le problematiche della irriducibile angoscia dell’uomo moderno. Ma chi si fa interprete del suo pensiero scopre quella intensità di fede che vive solo nei grandi mistici, anche se percorre sentieri diversi. Non è all’interno di se stesso, dove pure si sprofonda, che cerca risposte ai dubbi che sfidano la ragione. Esiste, secondo Jean Guitton, una simmetria infranta che crea continuità tra noi e il mondo esterno; tale simmetria giustifica quell’apparato concettuale espanso che egli definisce “Metarealismo”. In altre parole l’universo che la fisica contemporanea individua in una vasta rete di informazione, è costituito da cariche e da campi interagenti. Queste cariche, che non hanno né massa né realtà, vivono come astrazioni nella coscienza, la quale le mette in essere ora come onde, ore come particelle. I procedimenti matematici non hanno un motivo sufficiente per fondare la realtà che noi percepiamo, perché non sono in grado di andare oltre il principio di indeterminazione. Questo universo fisico Jean Guitton lo ha fatto diventare a volte un sentiero mistico, a volte un grande itinerario di fede. Si possono muovere delle critiche, si può non condividere un azzardo teorico che impegna le nostre 78

sibilità intellettuali, però la tendenza verso l’Assoluto impone di liberarci di ciò che di negativo e di contingente hanno presentato le tragiche ideologie di questo secolo. In un giorno di primavera di quest’anno, all’età di novantotto anni, desideroso forse di vedere l’alba del terzo millennio e la fine del secondo, Colui che era stato il decano dell’Accademia di Francia per diversi lustri, si è spento sorretto da una grande fede, lieto di avere attraversato il secolo e di essere stato il soggetto di un sogno: avere avuto, per un istante, l’Infinito nel palmo della mano.

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DALLA PARTE DELLA VERITÀ

Ho provato pietà per la signora Anne Van Lancker, l’eurodeputata che ha proposto la legge sull’aborto e ne ha ottenuto l’approvazione, con duecento ottanta voti contro duecento quaranta contrari. Per lei e per gli altri parlamentari, i quali hanno votato a favore, si è trattato di una legge di libertà. La pietà, a mio avviso, si fa strada nel momento in cui non si è disposti a rimettere la colpa a chi pretende di deliberare su materie di cui non ha nessuna conoscenza. Tuttavia la signora Van Lancker era felice all’interno dell’eurobanco; agitava le braccia, salutava e dispensava sorrisi ai deputati presenti e agli amici vicini e lontani. Forse credeva di avere infranto un tabù e di essersi liberata da un legame con la vita: quello che, secondo lei, rende schiave le altre e se stessa della fatale condizione di essere donne. Ora bisogna chiedersi dove abbia la sua dimora la verità. Per questa ragione seguire in un rapido, brevissimo excursus l’impervio sentiero dell’embriologia, ha senso per quanto ci farà notare di invadenza e dello stupefacente carattere fragile della non-verità. Bisogna intanto partire da un dato di fatto che tutti ormai conoscono: le cellule del nostro organismo sono cellule “diploidi”, hanno cioè quarantasei cromosomi 81

disposti in ventitré coppie, donde il nome. Esiste solo un momento in cui il numero delle componenti cellulari si dimezza; come nel caso unico della cellulaovo e dello spermatozoo. Questo avviene mirabilmente lungo il processo di maturazione dei due gameti maschile e femminile, per fare in modo che riunendosi successivamente nel concepimento, ricompongano il numero quarantasei. Non è vero, non è per niente vero, che la fecondazione avviene quando l’uovo – già fecondato – si annida nell’utero materno. Alcune affermazioni di Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la medicina (quando ancora non era politicizzato), donna di grande cultura e di rara intelligenza, sono a dir poco sorprendenti, per nulla in consonanza con la nuda verità scientifica, anche se espresse da chi, come lei, ha il privilegio di godere di autorevolezza e di prestigio nazionale e internazionale. Richiesta di rispondere se l’embrione può considerarsi o no una persona umana, ha risposto seccamente: “No, assolutamente no” e chiarisce: “L’embrione non è una persona umana, è un ammasso di cellule indifferenziate per cui parlare di persona bisogna, quanto meno, che sia avvenuta la differenziazione”. “Si può iniziare a parlare di persona umana dopo il quattordicesimo giorno, anche se c’è bisogno ancora di molto tempo per la formazione completa e il funzionamento del sistema nervoso centrale”. “È sbagliato porre l’inizio della vita umana al concepimento, sarebbe un colpo alla legge sull’aborto e alla stessa scienza” (Corriere della Sera del 12-6-2002). Negare, nel senso di rendere privo di rilievo e di significato, quello che Rita Levi Montalcini chiama ammasso di cellule, cioè l’embrione come persona, significa intanto intervenire sulla discendenza, recidere le linee 82

filogenetiche del divenire e dell’essere e vanificare e dissolvere tutto l’edificio della sapienza cristiana e occidentale: quella che si ritrova nel concetto di atto e di potenza, di essenza e di esistenza, di forma e di materia. E allora mi chiedo: se l’impianto dello zigote – la cellula che proviene dalla fusione dei due elementi maschile e femminile – nell’utero avviene al sesto giorno della fecondazione e non ne rappresenta l’inizio; se già al quarto giorno è possibile definire, per alcune regioni del suo citoplasma, il destino organogenetico, che senso ha parlare di persona solo dal quattordicesimo giorno, quando l’embrione è costituito semplicemente da due sottili laminette tra loro prospicienti? Se poi si tratta di evitare, come è stato detto, un colpo alla legge sull’aborto, è evidente che non c’è altra strada che quella di considerare l’embrione un semplice ammasso di cellule indifferenziate, perché questo salva etica, estetica e intelligenza. Se infine qualcuno di noi considera, come io considero, la cellula umana fecondata una persona, allora qualunque azione o manipolazione diventa un atto moralmente illecito. Bisogna però tener presente che i grandi scienziati ricorrono spesso ai paradossi per esprimere i loro giudizi o stupiscono per le facili contraddizioni. Come è il caso di Rita Levi Montalcini, che ha ricevuto il premio Nobel nel 1986 per la scoperta di una sostanza particolare, considerata come fattore di accrescimento di alcuni tipi di cellule nervose. Dico fattore di accrescimento: il Nerve Growth Factor (N.G.F.) e dico anche di non potere evitare di rilevare, come rilevo, la incredibile contraddizione. Meno semplicisticamente il problema vero, nel nostro tempo, è rappresentato dall’essere o non-essere dell’embrione, espressione abusata 83

di derivazione greca, che significa appunto neonato o feto. Peraltro la signora Montalcini, che cita spesso Spinoza, ma non cita Tommaso d’Aquino, non parlerebbe di essere o di non-essere, rilevandone il dubbio, meno che mai di “essenza”, perché non affiderebbe a un ammasso di cellule indifferenziate appunto la “essenza” di qualcosa: della persona e della sua esistenza individuale, in questo caso. Il mio discorso comunque non tende a mettere in evidenza tracce di umanità consapevole nell’embrione, perché nessuno è in grado di provare in quale momento della vita compare la coscienza. Ma ciò non elimina che i presupposti vi siano già. E i presupposti sono rappresentati da una forma o modello generazionale, cui è stato affidato il compito di trasmettere, da un esemplare umano all’altro, il rigore della logica e i precetti dell’etica. Sì, perché è proprio da alcuni insiemi inconsistenti e fuggevoli, come il simbolismo del linguaggio, la realtà del sogno e l’innatismo della ragione, che siamo messi di fronte a un processo naturale, e non solo, il quale si serve di una coppia di elementi altamente differenziati, per estendere la nozione di “genere” e la coscienza di “specie” a una persona indifesa, singola ed essenziale. Se così non fosse non potremmo giustificare la nostra presenza di creature consapevoli sulla terra e nella storia, né considerare tutti gli embrioni come larve o crisalidi, in attesa di volare, ad ali spiegate, nei cieli alti della libertà. Donde l’ammonimento biblico e ippocratico di evitare di turbare il dispositivo messo in atto dalla natura (o da chi Altri), anche solo dissacrandolo. L’argomento di per sé interessante non può essere esaurito in uno scritto così breve, però alcune utili considerazioni è possibile fare. 84

La prima evoca un’antica disputa: quella che vede tuttora schierati da una parte agnostici e nominalisti; gli stessi che difendono, in assenza di motivazioni ideologiche, la superiorità della scienza e la fede nella ragione attraverso la militanza politica. La seconda privilegia coloro che non sono disposti a concedere il requisito di libertà all’arbitrio e quello di norma morale a comportamenti indegni: come la pratica dell’aborto e il congelamento degli embrioni. A questo punto il più grande omaggio che si può fare alla scienza (chiamata in causa da chi la rappresenta degnamente) è il riconoscimento di avere esteso le conoscenze, ma non l’attribuzione di un giudizio di valore, dal momento che è risaputo empiricamente che tutti gli uomini, da Socrate a Rita Levi Montalcini, hanno attraversato la fase misteriosa e materna dell’embriogenesi. Per quanto mi riguarda ritengo sia cosa dolce e decorosa ricordare che in diverse occasioni ho operato in difesa di quello che viene definito “ammasso di cellule indifferenziate” – con successo –. La verità sta dunque dalla parte dei giovani, i quali non hanno il dovere di ringraziare nessuno per essere nati. Ragazzi e ragazze che ci passano davanti inconsapevoli…. …E hanno sul volto un rapido sorriso.

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DALLA GENETICA ALLA LIBERTÀ

Così dice l’insipiente: “Si tratta solo di un ammasso di cellule indifferenziate”. Così dice ancora l’insipiente: “È solo un riccio di materia”. Ma il fondo dell’insipienza viene toccato quando un giovane radicale mostra cento volte ingrandita la punta di un ago, alla cui sommità sta “un ammasso di cellule indifferenziate” o solo un banale, inerte “riccio di materia”. Le ossa di Oscar Hertwig debbono essersi sgretolate nella tomba e la sua anima turbata; egli che nel 1875, mercé diretta osservazione microscopica, aveva notato l’ingresso degli “spermatozoi” nelle uova di riccio di mare e il processo di fusione dei due gameti maschile e femminile. Nessuno ricorda più il giovane medico di Leida, Hamm, che aveva per primo ritrovato gli “ANIMALCULI SPERMATICI”, dando la possibilità a Federico Wolff di instaurare definitivamente più tardi la cosiddetta “Era dell’epigenesi”. Si rivolta nella tomba il mitico professore Lambertini, allievo ideale di Marcello Malpighi e di G.B. Morgagni, grandi pionieri della anatomia patologica. Mostrava agli studenti l’ovulo fecondato il cattolico Lambertini e intanto badava a coprire, con umiltà e delicatezza, la testa del cadavere 87

mentre preparava la lezione di anatomia. Nella disputa sulla fecondazione assistita sono stati ignorati medici e biologi, però si è fatto ricorso a politici e filosofi, com’era nella natura delle cose. Chi difende il primato della politica trova naturale discettare e decidere su tutto, anche – eventualità non remota – sul cosiddetto tabù dell’incesto. Di per sé l’incesto è un divieto arcaico, sacrale presso alcune popolazioni primitive, perciò rientra nella sfera delle più antiche proibizioni. Ma chi lo proibisce e perché? Freud ha cercato di dare una spiegazione plausibile di quest’ultimo tabù, badando a considerarlo come un divieto esclusivo, inteso a proteggere le femmine di uno stesso clan dall’impeto di maschi giovani e prepotenti. Solo egli, il padre-padrone, poteva imporre delle norme, farle rispettare e disporre delle donne e di ogni altra cosa a suo piacimento. Si spiegherebbe così l’odio tribale e il conseguente torbido parricidio. Ma il chiarimento di Freud si incentra su un divieto che conflige con la libertà, donde la negazione del tabù in chiave psicanalitica di alcuni studiosi, i quali, molto più tardi, hanno parlato più semplicemente e più biologicamente di una “natura-cultura”. Mi piacerebbe sapere come la pensano Giulio Giorello, filosofo della scienza, ed Emanuele Severino, filosofo teoretico. Il primo, con grande supponenza e obliquità, come tutti coloro che conferiscono alla scienza valore assoluto e alla ricerca il compito di uno svelamento della totalità, ha parlato di libertà, negando competenza specifica al comitato di bioetica, privilegiando l’ateismo contro le supposte interferenze della Chiesa militante, difendendo alla fine la libertà d dere su tutto. È il preteso declino della filosofia 88

ca, che fa emergere in questi filosofi la falsa categoria della certezza e li mette in attesa di fondare una “gaia scienza”, mediante la quale proclamare la morte di tutto: del pensiero astratto, della nozione di trascendenza e della essenzialità della mente. Non oso pensare che il loro concetto di libertà, quanto a liceità sull’interruzione della linea generazionale di quella catena cellulare che va da una sola cellula – l’ovulo fecondato – fino a mille miliardi nella sola corteccia cerebrale, possa raggiungere anche il tabù dell’incesto. Non sarebbe soltanto la fine della civiltà cristiana e occidentale, piuttosto la fine dell’Homo sapiens. Ma non è questo il quesito da risolvere. Il vero problema, ancora nel terzo millennio, è il conflitto irrisolto tra ragione e fede, almeno per chi non accetta la logica dei grandi mistici medievali, per i quali l’idea di un Essere Trascendente è presente in tutti gli uomini, prima e al di sopra di ogni dispositivo razionale. Dall’interno di questo antico conflitto, il prof. Severino considera la religione rivelata “in se contingente” ed “extraessenziale”, che c’è, ma potrebbe anche non esserci. Una logica diversa la sua, che possiamo definire della “essenzialità”; attraverso la quale il filosofo, come il laico, apprende ciò che ragionevolmente deve fatto o non fatto. In ordine appunto a queste considerazioni, si può affermare che la ragione soltanto può dirci se la fecondazione assistita, il prelevamento delle cellule staminali e il congelamento degli embrioni, sono leciti in ogni caso. Nelle lunghe e profonde riflessioni dei filosofi della scienza, come in quelle di Severino, non mancano però le assurdità e le contraddizioni, perché resta sempre in ombra il grande mistero della vita, dal 89

mento che nessuno è in grado di sapere dove la ragione, unica di fronte a se stessa, invocata come causa ed effetto dell’intelligenza e dell’etica, affonda le sue radici. Mentre sappiamo tutti che da centomila anni vengono trasmesse le stesse sequenze genetico-generazionali, gli stessi messaggi che servono a costruire il grande edificio della sapienza. Non c’è alcun dubbio che le cellule embrionali trasmettono le informazioni necessarie ed essenziali per essere classificate come messaggeri della ragione. Distruggerle è come fare esplodere l’aereo nel quale viaggiamo. Ma c’è un’altra considerazione da fare: essenziali e necessari, come direbbe Severino, ma ultimi nel tempo come noi siamo, non possiamo non considerare altro che come messaggero degli dei chi ci trasmette la coscienza, l’intelligenza e la libertà, o ce ne fa dono. Estremizzando, la ragione non può distruggere se stessa e la libertà non può essere estesa fino a sfiorare il preteso tabù dell’incesto, meno che mai può giustificare il delitto. Per concludere non si può fare a meno di notare che un libero parlamento, composto da uomini liberi, ha legiferato su una materia che metteva tutti di fronte alle proprie responsabilità, ma anche lungo un percorso di grande solitudine. Un uomo solo è un uomo libero, inserito in un gruppo o in un sodalizio lo è di meno. Credenti o non credenti i grandi saggi hanno sospeso la litigiosità e ascoltato la voce della coscienza. Una voce che emerge dal profondo; un messaggio al microscopio che arriva fino all’Io. Qualcuno fuori del tempo invia questo messaggio; qualche altro lo riceve e lo eternizza attraverso la fecondazione. Non possiamo distruggere la creazione e nemmeno negare il frammento di eternità che è dentro di noi. 90

SULLE RIVE DEL GAVE

Nessuno può avere la pretesa di spiegare razionalmente quello che altri chiudono in uno spazio mentale che definiscono mistero: l’esercizio della ragione conduce spesso tra le sabbie mobili dell’angoscia e della depressione. Di là dalla logica, la quale sprofonda e si perde nei labirinti della tecnologia, esiste l’itinerario del cosiddetto “sapere infuso” che non procede per via di concetti, affermativi o negativi, né viene comunicato attraverso lo studio o l’insegnamento. Si tratta al contrario di una conoscenza interiore, intima, libera da ogni relazione col mondo esterno, che preferisce le zone d’ombra e di silenzio perché dispongono alla contemplazione. I cognitivisti, attenti all’automazione e ai processi di intelligenza artificiale, la definiscono come “sintesi di configurazioni complesse” le quali mettono in atto sottili attività che inesplicabilmente preannunciano, ma non sono ancora, la consapevolezza. I razionalisti parlano di innatismo e i contemplativi di mistica. Con molta prudenza, nella considerazione che da nord a sud, da est ad ovest, all’esterno e all’interno, siamo avvolti da un alone arcano che impedisce qualunque conoscenza di noi stessi e del mondo, preferisco il fascino del mistero e lo spazio ristretto lasciato alla intuizione. 91

Liberi di capire e di non capire, di agire e di non agire, di amare e di non amare, ciò che vincola la ragione è appunto la necessità di un significato e l’obbligo teorico di una sintassi e ancora, lo si voglia o no, il bisogno di una norma che altra non è se non una “diminutio libertatis”. Erano figli dell’immaginazione e della fede i pellegrini che si recavano al S. Sepolcro in cerca di avventure e di spazi senza tempo; come erano figli dell’entusiasmo e di una fede nella libertà i navigatori solitari e gli escursionisti che affrontavano l’oceano o la montagna senza farsi sopraffare dalla paura dell’ignoto. Ma nessuno era più libero di un greco che dall’Attica e dal Peloponneso si recava a Delo o a Delfi per interrogare la divinità e bere, per purificarsi, alla fonte Castalia, sacra al dio Apollo. Egli, l’antico figlio di Grecia, avvertiva il bisogno intimo di disfarsi della logica di Aristotele e dimenticare per un giorno i suoi discussi sillogismi. Oggi, come allora, ma in maniera più autentica e profonda, il pellegrino che si reca a Fatima, a Lourdes o a S. Giovanni Rotondo, segue il cammino della libertà, non solo perché assiste alla resa della ragione ma anche perché può capire le esigenze di S. Teresa Benedetta Stein, la convertita dei campi di concentramento finita nella camera a gas, o il sacrificio di padre Massimiliano Kolbe, innocente, ucciso dai nazisti. Il fatto è che i fermenti di una vita e di una conoscenza interiore sono depositati all’interno di ognuno di noi e rappresentano un dono, o una grazia, che è in nostro potere di accettare o di respingere. Una sorta di altra e diversa sensibilità che riceve l’input da energie trascendenti, le quali mettono in tensione e superano le nostre strutture antropologiche. In un tempo come l’attuale non sono possibili le 92

lunghe soste e non è nemmeno necessario l’incedere lento, per pensare di vivere la religiosità dei Santi e capire la mistica dei Padri. Bastano i santuari per chi ha bisogno di raccoglimento o un itinerario della mente verso Dio per vedere – per speculum – l’immagine o le norme che le cose hanno dell’essere e della bontà del Creatore. Il santuario non è solo luogo di preghiera, è anche edificio dello Spirito, dove attraverso la lacerazione dei vincoli di una natura decaduta, la nuova legge viene assunta come libera volontà di esprimere una perfezione morale. Il pellegrino o il turista che arriva a Lourdes ha l’impressione di avere raggiunto la “Città fraterna”, come è nella espressione dei depliant che gli vengono forniti, e di essersi liberato dalle fatiche di un viaggio assai lungo. Il santuario più famoso del mondo, adagiato lungo una valle ampia al fondo della quale scorre un fiume verde, fa parte di un complesso urbano che appartiene al Dipartimento degli Alti-Pirenei. Il viaggio è quello che ogni cristiano o cittadino occidentale dovrebbe compiere almeno una volta nella vita. Per quelli come me che lo hanno fatto più volte è soprattutto un percorso di fede e di riflessione. Di fede perché puoi cogliere la riconferma della discesa dello Spirito nell’uomo e nella storia in maniera immediata, come l’acqua nel cavo della mano. Di riflessione perché avverti le identità della sofferenza nelle immagini e nelle situazioni che ti vengono offerte. Sofferenza silenziosa e sublime, soprattutto sacra, come tutto ciò che è avvolto dal sottile velo della speranza. Ma il santuario di Lourdes è qualcosa di più. È la rappresentazione simbolica, non solo allegorica, delle due città: la “Città terrena” e la “Città celeste”. La prima esterna, quasi divisa e mercantile, anche se gaia, occupata 93

gli interessi per il corpo, limitata inoltre da una barriera che sta ad indicare il confine reale che il potere civile e politico non possono superare: l’uno e l’altro intesi come “prodotti dell’asservimento dell’uomo al male o come momenti della lacerazione che segue al tentativo di ricavare il meglio da istituzioni di per sé dubbie”. La seconda è il preannuncio della città perfetta; al momento abitata da uomini veri e concreti, i quali si muovono lenti ma lieti, guidati dalla inquietante scomodità di un appello evangelico. È la città in cui vivendo la fede, gli eletti compiono il loro pellegrinaggio terreno tra gli empi e i malvagi. Nella realtà questo angolo della “Città di Dio” è costituito da una grande basilica, costruita su una roccia bruna dai riflessi azzurrini, le cui guglie altissime si elevano al cielo. Più in là il Gave. Il grande fiume silenzioso scivola lento, quasi a scandire il tempo e lo scorrere monotono dell’esistenza. Ma è la grotta, scavata in quella roccia, il punto fermo eternizzato da Bernadette, dove le preghiere si uniscono, le mani si intrecciano, il dogma si svela. Perché è proprio lì che una Signora vestita di bianco apparve a una umile pastorella dal nome bello e delicato. Il miracolo, poiché di miracolo si parla, sta nel fatto che non si è trattato di una proiezione fisiologica o patologica – cioè di una visione – provocata da stimolazioni interne o esterne in un soggetto concentrato. Il nome aveva il suo riferimento in una mente libera da categorie e in un corpo sede della purezza; in questo senso Bernadette, vivente e oltremodo cosciente, fù chiamata dall’esterno, vide e fu sollevata nella percezione del divino, ma non fu creduta fino a quando non parlò della “Immacolata Concezione”, il dogma che ancora non era entrato in discussione in Vaticano. E fu Santa. 94

RADICI CRISTIANE E CONVENZIONE EUROPEA

Nessuna valutazione di ordine politico sopra una bozza di convenzione europea redatta da illustri personaggi. Però l’avere proposto a due laici di elevata capacità razionale, e solo di quella, la prima stesura di un documento da presentare all’Europa dei popoli, non è stato un fatto straordinario commisurato alla eccezionale circostanza. Si direbbe che il dotto illuminista e il sottile postmarxista si siano impegnati a risolvere le loro contraddizioni, mediante l’esaltazione della ragione e della libertà, ritornando all’arrogante e tracotante secolo dei Lumi. Coloro che hanno il culto del “Libero Pensiero” e spingono entro il circuito della ragione anche quello di cui non si dà una dimostrazione razionale, rifuggono dai miti e dalle superstizioni, dall’autorità e dal dogma, soprattutto dalla religione; ignorando del pari che il mito è la favola bella che piace ascoltare e proiettare oltre il cosiddetto senso comune; la superstizione, come ogni impulso di coazione, ha significato in quanto libera dall’angoscia e dalla paura dell’ignoto; l’autorità esprime dignità e volontà contro licenza e arbitrio. Infine il dogma è lo sforamento della trama della ragione, a volte concettualmente lacera, quasi sempre non finita e contraddittoria. Penso, d’altra parte, che questo preciso richiamo all’Illuminismo possa 95

que decretare la fine delle pratiche rivoluzionarie presso i popoli dell’Occidente, ammesso che questo grande movimento non sia servito, in passato, a preparare gli animi alle inutili brutalità e alla barbarie della rivoluzione francese. Quando un filosofo come Kant, secondando il grande entusiasmo del suo tempo, parlò dell’Illuminismo, spiegò che si trattava del raggiungimento dell’età adulta dell’uomo, il quale si lasciava alle spalle la propria infanzia e con essa la incapacità di usare la luce della conoscenza – la ragione – per illuminare la mente e la coscienza di tutti gli uomini. Successivamente lo stesso filosofo, nelle sue “Critiche”, si oppose a questo razionalismo radicale, nemico della religione, e stabilì con quella che venne definita la “Filosofia del Limite”, i1 limite della ragione; certo non per negare la ricerca della perfezione, di là dalla sensibilità e dalla stessa realtà empirica: il “Summum Bonum”. Mi scuso col gentile lettore di questa divagazione o piccolo sfogo personale, del quale non potevo fare a meno senza lasciare sospeso un giudizio minimo sull’Illuminismo e senza fare cenno alla continuità di questo avvenimento particolare col Rinascimento italiano. Il genio creativo e la capacità di dare una svolta alla storia dell’arte, della scienza e della filosofia, appartiene al nostro Rinascimento e non all’Illuminismo. Esaltare poi, in un momento di grande ritorno allo spiritualismo cristiano e alla sua dimensione universale, il primato della ragione è una rivendicazione postuma, non necessaria, da parte di chi non riesce a ripulire dalle scorie del materialismo marxista, l’ambiente culturale europeo, responsabile di avere relegato il più grande pensatore dei nostri tempi, Cartesio, nella palude dei personaggi da dimenticare. Oggi si ritorna per fort al suo dualismo e si rivaluta il ruolo dell’epifisi 96

tesiana come luogo metaforico di eventi straordinari, che la filosofia ha il compito di ipotizzare e la scienza quello di dimostrare. Inoltre nel clima sconvolto di questo inizio di millennio ci viene ricordato, mediante una convenzione, che sono esistiti un mondo greco e un mondo romano; perché non si può fare a meno di attirare l’attenzione su ciò che di grande ha rappresentato una civiltà fiorita tra il mare Ionio e l’Egeo. Sta di fatto però che non viene fatta nessuna menzione dell’editto di un illustre ateniese, il quale già nel V secolo a.C. aveva anticipato quei principi che saranno poi divulgati e fatti passare per originali dalle sanguinose rivoluzioni europee. Allo stesso modo, la mancanza di un richiamo alle radici cristiane dell’Occidente, nel suo lungo percorso comunitario, non è soltanto insolita, è soprattutto rappresentativa di una cultura incapace di costituire un filtro alla falsa mitologia dello scientismo e alle infamie dell’aborto, della clonazione e del congelamento degli embrioni. Donde l’affanno di un grande Pontefice e il suo appello alla necessità di affermare che ogni grande conquista della regione comincia con un atto di fede. Le radici cristiane, cui si fa riferimento quando si tratta di aderire a una verità trascendente, testimoniata dall’alto e riconosciuta come valore assoluto, mirabilmente espresse nella lettera di S. Paolo ai Romani, (Conoscibilità naturale di Dio, quindi riduzione a colpa della ignoranza o misconoscenza di Lui) sono quelle che spingono alla ricerca delle ragioni del nostro vivere e al bisogno urgente di capire donde ci raggiunge l’ordine morale che è dentro di noi. Nessun riferimento invece alla politica nel messaggio cristiano, dal momento che si tratta di affermare una realtà invisibile e interiore dell’uomo, la quale può essere vissuta con letizia o sofferenza, con santità o 97

martirio. La profondità e lo spirito di questo messaggio spiegano la ragione del distacco dei politici da questi grandi valori; presi come sono dall’ebbrezza del potere, facili all’odio e al disprezzo, adusi alla corruzione. C’è da sottolineare infine l’indifferenza che emerge dall’arroganza e dalla esaltazione di se stessi, quando si attribuisce ad alcuni termini, come a quello moderno di “laico”, una completezza assoluta di significato e si afferma l’indipendenza di principio da ogni discorso soprarazionale. Ma non è solo a questo modo di essere e di pensare, o soltanto ad esso, che va incontro questo breve scritto. Piuttosto, in un tempo come il nostro, esiste l’esigenza intima di mostrare uomini e cose che hanno contribuito a tenere vive quelle antiche radici. Basterebbe perciò guardare in alto per vedere campanili svettare in tutti i cieli d’Europa e del mondo; per ammirare chiesette di campagna e grandi basiliche. Penso perciò alla cattedrale di Reims, dove venivano incoronati i re di Francia, alla chiesa incompleta di Notre Dame, davanti alla quale gruppi di giovani pattinatori si esibiscono in salti acrobatici. Penso alla bellissima cattedrale gotica di S. Stefano a Vienna, a quella di S. Patrizio a New York, alla chiesa di S. Sabina e a tutte le chiese paleocristiane di Roma antica. Penso al duomo di Lisbona dove è sepolto Vasco de Gama. Alle cupole di S. Basilio a Mosca, a Santacroce. Penso alla abbazia di Westminster dove riposano Newton e Darwin. Alla piccola chiesa di Aden, sull’oceano indiano, dalle finestre chiuse e dalle porte murate. Ma è l’incontro col genio che dimostra la nostra discendenza e mantiene accesa la fiamma della fede. È il genio – nella cappella Sistina o nel museo del Louvre – la linfa delle radici cristiane, che non possono essere recise senza negare l’anima all’Europa.

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“LA VIA DEL RIFUGIO”

“Nessun altro artista di questo secolo è stato una divinità”. Lo afferma solo di Amedeo Modigliani un critico di notevole lucidità divinatoria. Ma se sfoglio un catalogo di storia dell’arte non trovo il pittore livornese inserito in nessuna corrente artistica. Secondo alcuni sarebbe un rappresentante oscuro del Fauvismo, quel tipo di pittura che esprime, attraverso un giuoco di linee e di colori, una rabbiosa reazione all’Illuminismo. Inoltre lo stesso critico dichiara che Modigliani “avrebbe cercato di ricreare il mondo e di interrompere lo sviluppo di una civiltà che andava alla ricerca della perfezione”. Infatti si cercherà di disegnare in pittura i sentimenti interiori, fino a creare forme indipendenti dalla realtà esterna e a dissolvere le tre dimensioni attraverso l’abolizione della prospettiva. Un cammino a ritroso piuttosto agevole, una frenata evolutiva quasi sdegnosa; in contrasto con una pseudoscienza che ha già deciso circa l’origine dell’uomo e descritto, con la pretesa di esserci riuscita, il suo percorso storico e preistorico. Illustri evoluzionisti però hanno stabilito che se una specie dovesse andare verso la sua estinzione, altre potrebbero regredire fino a raggiungere l’antenato comune, da cui ripartire per evolvere nuovamente verso un destino non diverso dal modello scomparso. 99

Ma l’arte non segue un percorso ascensionale o il paradosso della regressione e molti critici rifiutano il preconcetto della decadenza; non vi sarebbero in altri termini artisti primitivi e artisti classici o maturi e poi artisti decadenti. Nessuno può decretare la fine dell’arte e nemmeno un suo ritorno a forme primitive. Da qui la contraddizione e la mancanza di senso della storia. L’arte, secondo alcuni, non progredisce e non regredisce; secondo altri invece – e sono la maggioranza – segue il destino comune dei cosiddetti corsi e ricorsi e opera, prima o poi, un ritorno a modelli che da tempo non le appartengono più. Questo ritorno a forme primitive spiega l’entusiasmo moderno verso una conoscenza più dettagliata della scultura greca arcaica e di quella negra o kmer in particolare e insieme la presunzione di alcuni artisti di dare anima a un naturalismo ingenuo, il quale costituisce un espediente anacronistico per nascondere la mancanza di creatività. Non è un caso che le teste scolpite da Modigliani ripetano il profilo e l’aspetto, essendone la copia, del Kouros del Dipylon (VII secolo a.C., conservato nel Museo Nazionale di Atene). Non è nemmeno un caso che Kandisnky affermi che in pittura una macchia rotonda può essere più significativa di una figura umana. In questo senso il Fauvismo può esaltare l’equilibrio armonico del colore puro e il Cubismo risolvere l’oggetto scomponendone il volume su una superficie piana, con lo scopo di rappresentarcelo non come appare, ma come noi lo pensiamo. Ma chi ha mai pensato il “Ritratto Femminile” di Picasso alla maniera del suo autore? L’errore consiste nella pretesa assurda di ricreare il mondo e nella presunzione di interrompere lo sviluppo di una grande civiltà: la nostra, quella occidentale. Che esistano artisti illustri non è possibile 100

negare, ma che tra post-impressionisti, provenzali, futuristi, cubisti, fauvisti, astrattisti, surrealisti, ci siano dei mistificatori è terribilmente vero. In un trattato su “L’elemento spirituale dell’arte”, all’alba di un secolo, il Novecento, che si avvia verso il trionfo della Materialità – cui perverse idelogie forniscono massima energia – qualcuno afferma che “siamo sulla soglia di una delle più grandi epoche che l’umanità abbia mai vissuto, l’epoca della Grande Spiritualità”. Il padre dell’Astrattismo crede di raggiungere questo ideale indefinito, proponendo delle opere prive di titolo, per evitare, come egli stesso dice, ogni riferimento a qualsiasi oggetto reale, ad ogni ente materiale. Infatti se si guardano alcuni acquerelli di Kandisnky, o le composizioni che trattano triangoli e cerchi, o solo triangoli, o solo cerchi, si resta perplessi e presi, questo sì, da una sublime indifferenza: barriera non ultima, l’indifferenza, verso l’inesplorato universo dello Spirito. Esistono poi diversi modi di esprimere il pensiero senza tuttavia profanare il linguaggio, ma provare a renderlo visibile sopra una tela con lo scopo non espresso di creare il caos, proponendo solo frammenti di realtà e cercando comprensione per avere distrutte l’etimologia, la logica e la semantica, significa solo accomunare l’arte con la demenza. Dimostrazione evidente di non sapere quale inclinazione o cammino, nel mare delle ricerche e delle soluzioni, abbiano intrapreso le arti figurative, oltre quello di ricreare il mondo e di interrompere lo sviluppo della civiltà. Perché se Modigliani è considerato una divinità, solo per avere dato inizio a una operazione di rottura e di disfacimento, bisogna ricordare che ci sono stati dei precedenti meno catastrofici e più illustri, rappresentati dalle celebri opere del Parmigianino e del Greco; pittore 101

matico quest’ultimo, famoso per aver dipinto figure umane lunghe, lanciate verso l’alto. Va osservato infine che nel percorso travagliato della storia, quale è quello contemporaneo, nessuna definizione accettabile dell’arte può essere formulata. Però quando qualcuno chiede a uno stilista come Ferré che cosa rappresenti la moda per lui e sente rispondere bellezza e perfezione, allora capisce che l’arte non è finita, si è rifugiata altrove, certamente al riparo dalle mistificazioni e dalle false celebrazioni. Stupende creature, in abiti trasparenti, ci fanno riscoprire il sublime nell’essere vivente; sono esse stesse i capolavori che includono il concetto di sacralità. L’arte contemporanea, immersa nelle insane ideologie del Novecento, ha preteso di esibire il suo carattere schizoide presentandosi come avanguardia rivoluzionaria. Ma i fallimenti morali, sociali e storici hanno messo allo scoperto il profilo degradato di un’arte e di una cultura povere e subalterne. In Italia per vari motivi, davanti a un quadro attribuito a Leonardo – la Madonna di Litta – esposto al Quirinale in occasione della sua visita, Putin ha detto: “Andavo a vedere questo quadro quando abitavo a San Pietroburgo. Davanti ad esso mi fermavo a riflettere e pensare”. È lo stesso Putin che bacia l’icona bizantina offertagli dal Pontefice. La Madonna di Leonardo appartiene al Museo dell’Ermitage; una mano che non fosse guidata dall’Alto e non avesse cercato, chissà dove, i simboli di una superiore umanità, non avrebbe potuto rendere più manifesti i lineamenti eterni della bellezza. È un dipinto davanti al quale si quietano le angosce e il dubbio si confronta e si risolve nella Verità. Le grandi opere d’arte fanno riflettere e pensare: riflettere sulla grandezza dell’uomo, pensare che la sua creatività rimanda ad Altro. 102

CATTIVI MAESTRI

Avrei lasciato correre senza più tornare su certi argomenti se non mi fosse capitato tra le mani un libro-intervista a Enzo Bettiza del giornalista Dario Pertilio, dove si tratta di cattivi maestri. L’intervistato, dalmata di origine ma italiano a tutti gli effetti, anche se conserva nella verve latina un certo rigore teutonico, mostra la passione e l’impazienza di colui che da sempre desidera dar luogo, a un urlo liberatorio. È la stanchezza lucida di chi ha attraversato un mare in tempesta, lo sfogo dell’intellettuale, stupito che è emerso dalla corrente pseudoculturale che lo ha trascinato. Non credo che Bettiza mostrerebbe docilità verso il tiranno, ma il destino degli intellettuali è quello di mettersi proni di fronte al potere. Bisognerebbe leggere la dedica di Racine a Luigi XIV in occasione della presentazione al sovrano della tragedia “Alessandro Magno”, per rendersi conto di quale servilismo ipocrita siano capaci i cosiddetti intellettuali. Eppure Racine è autore di ben dodici tragedie, tutte ambientate nel mondo greco-orientale o ispirate alle sacre scritture. Ma nelle modifiche che l’autore apporta ai suoi drammi vi è la volontà, se non l’ebbrezza, di compiacere ad altri oltre che a se stesso. Vinto 103

dal fascino della potenza e del lusso, Racine non si fa scrupolo nel definirsi, in ogni occasione, “umilissimo, obbedientissimo e fedelissimo servo e suddito di Vostra Maestà”. Non è questo il caso dei più illustri poeti latini, epici ed elegiaci, se addirittura qualcuno di loro osa sfidare l’autorità dell’imperatore, con la conseguenza di finire in esilio sulle rive del Mar Nero. La differenza tra gli scrittori dell’antichità e il cosiddetto intellettuale organico moderno, che si definisce servo umile e obbediente, sta nella totale incapacità di quest’ultimo di influenzare il potere e nella cura che mette nel decretarne il trionfo e nel subirlo di fatto. In tempi a noi più vicini vi è stato una specie di incontro affettivo tra politici di mestiere ed intellettuali ed è sembrato che non solo vi fosse simpatia, ma addirittura una comunicazione empatica tra loro, senza bisogno di linguaggio. Non perché non sapessero dialogare, ma perché il linguaggio avrebbe trasformato gli intellettuali in interlocutori. Così, senza togliere a certa terminologia l’ambiguità originaria che le appartiene: quella di nascondere la verità o di velarla di mistero, per fare in modo che le parole dei politici di professione venissero assunte sotto l’aspetto della eternità, i cosiddetti intellettuali organici si sono prostrati, alla maniera di Racine, davanti al potere. È questa una delle ragioni per la quale non si può dire che abbiano vissuto la “caduta del muro” con espressione sconvolta, né che la sconfitta li abbia trasformati in eroi da tragedia. Sono invece ritornati a una specie di universo concentrazionario con la speranza di vedere rinascere l’utopia, convinti come sono che se non è possibile una sua identificazione con la profezia, possa essere almeno considerata come la prefigurazione lontana di una società ritenuta disponibile 104

per essere egualitaria, anche a spese della libertà. La storia ha invece dimostrato, e la scienza ne ha preso atto, che l’utopia è un coagulo informe di idee deliranti. Se qualcuno ne ha decretato la fine non è stato perché considerata un prodotto dell’alienazione, ma perché inverata in una società collettivistica, successivamente crollata. Naturalmente non si tratta sempre di intelligenze sprecate, né di coscienze incapaci di produrre turbamenti, si tratta a volte di veri maître-a-penser e di intellettuali raffinati. Una parabola autentica che parte da Rousseau e si conclude enfaticamente con Sartre; un corso storico che consente di concedere la buona fede delle speranze irrealizzabili al primo e di fare intravedere nel secondo “la malafede pianificata che si propone come virtù suprema”. Presunto maestro di Pol Pot, i1 dittatore cambogiano responsabile di due milioni di morti in un paese di quattro milioni di abitanti, Sartre stringerà successivamente la mano ad Aron, riconoscendo alla fine di avere avuto torto. Il fatto più straordinario, di cui molti non sembrano rendersi conto, è che la storia non può tirarsi fuori dal tracciato che fede, scienza e ragione segnano di epoca in epoca. Il percorso solitario della ragione infatti conduce verso un mondo materializzato, dove ha senso quello che si produce e consuma e dove la scienza pretende di svincolarsi dalle esigenze della morale. Allo stesso modo il delirio religioso o la sola certezza scientifica ottengono di costituire uno spazio virtuale per fanatici radicali, i quali impongono un credo che non trova credenti. Nel secolo che sta alle nostre spalle la determinazione a seguire come somma delle virtù una ideologia, ha conquistato e mobilitato intellettuali organici e filosofi impegnati, con lo 105

scopo di dissolvere le due più importanti tradizioni culturali; la cristiana e la liberal-democratica. Maestri di questo dissolvimento sono stati Marx e Freud, per tutto il Novecento. “Non solo ma quasi nulla di ciò che (Marx) ha profetizzato si è realizzato, peggio ancora si è rovesciato nel suo contrario”. L’impoverimento progressivo del proletariato non si è verificato, i1 capitalismo ha tradotto in realtà il naturalismo economico modellato in Occidente e il marxismo non è riuscito a convincere la classe operaia più avanzata del XIX secolo: quella inglese. Aggiungo che la impresa psicanalitica non ha avuto con Freud nulla dell’epopea culturale; se mai ha prodotto lacerazioni ed angoscie nella psiche collettiva e individuale. La incapacità di sottrarre gli isterici e gli psicotici alla truffa terapeutica e pedagogica di una creatura mostruosa investita di ambiguità lessicale e di negatività, ha fatto la fortuna degli agitatori dell’inconscio. Molto è stato detto e scritto su questi due pensatori che sembra quasi blasfemo fare emergere il sottofondo laido della loro cultura proterva. Ma presentare Antonio Gramsci come liberale moderno solo perché dichiaratamente antistalinista anche se impregnato di classicismo leninista, dimostra l’arroganza tipica della sottocultura marxista, se non la serena ebetudine di “intellettuali finlandizzati”. La dottrina totalitaria di questo falso maestro è più subdola, più tentacolare e avvolgente di quanto possa servire per una società da inquinare. Per questo motivo diventano insostituibili gli intellettuali impegnati, come lo furono i marinai e i soldati del 1917 per dare l’assalto al Palazzo d’Inverno. Secondo il laico Nicola Chiaromonte (cit. da Bettiza) Gramsci non esprime nessuna originalità filosofica; è solo un eclettico marxista, per di più 106

sponsabile di avere “insegnato a scrivere male ad almeno due generazioni di intellettuali”. Al cosiddetto “Principe Comunista” egli applica tutte le sue risorse teoriche, sforzandosi oltre ogni limite di farlo apparire come soggetto ultimo di tutta la storia recente dell’Italia repubblicana. Va osservato però che ogni volta che si parla di Gramsci ci si sente coinvolti in un sentimento di umana pietà, ma questo non esime alcuno dal dare un giudizio il più equanime e obiettivo possibile sul suo pensiero. Se non fossimo stati presenti allo spettacolo di un secolo impietoso, che ha avuto peraltro grandiosi sussulti scientifici, avremmo detto di non aver mai vissuto il tempo dell’Anticristo. In un’epoca come la nostra, la cui attualità e da sempre raffigurata in uno stupendo affresco di Luca Signorelli nella cappella Brizio del Duomo di Orvieto, siamo stati tenuti soggiogati dalla follia ciclica dei Nietzsche e dalla presunzione vuota degli Heidegger. A parte lo stile del primo che ne autentica la demenza, la perversione del secondo ne fa un compagno di strada del nazionalsocialismo, ma anche un distruttore del libero arbitrio e dell’Essere nella storia. Tuttavia molta responsabilità va attribuita a romanzieri, scrittori, artisti d’avanguardia, registi e politici del compromesso. Se il povero di spirito non è soltanto il diseredato e a lui va rivolto il Discorso della Montagna, bisogna comprendere che per parlare alle moltitudini occorre prima di tutto capirne le esigenze spirituali. l’intervista a Bettiza segna una battuta d’arresto e un momento di riflessione, ma vuole anche essere una reprimenda verso coloro che hanno manipolato le coscienze e mancato di rendere un servizio alla Verità. 107

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TABÙ E TOTEM

Secondo quanto riferiscono alcuni ottimi vocabolari della lingua italiana, tabù è una parola di incerta etimologia, la cui radice grammaticale non esiste: è un fonema, cioè un semplice suono articolatorio e null’altro. Gli etnologi non solo ne hanno scoperto il valore allusivo ma sono riusciti a farlo accettare come nome comune, utilizzando il significato che aveva nell’antica lingua polinesiana dalla quale probabilmente deriva. Per le tribù che abitavano le regioni centrali dell’Australia o le zone occidentali del Canada, la parola esprimeva essenzialmente un divieto. Era in pratica un insieme di norme inscritte da sempre nel codice genetico di quelle popolazioni; la dura legge che impediva ai membri di uno stesso clan di praticare l’endogamia e di recare offesa al capo, al sacerdote e alle donne. La trasgressione comportava l’espiazione di una pena di grande incidenza emotiva. Uno dei più illustri autori del Novecento, Sigmund Freud, pur non avendo superato nelle sue peregrinazioni il triangolo Londra-Roma-Vienna, né trascorso mai le sue vacanze fuori della Bosnia-Erzegovina, aveva dato al termine ampia diffusione, convinto com’era di essere riuscito a dimostrare in un libro famoso: “Totem e Tabù”, la causa delle nevrosi, 109

le fobie e delle coazioni ossessive. Freud non aveva nessuna conoscenza diretta di popoli primitivi né dei loro costumi, ma riteneva sufficienti i racconti dei grandi viaggiatori e degli illustri antropologi suoi contemporanei. Era anche convinto che tutti i conflitti intrapsichici fossero dovuti a prescrizioni e divieti o a rimozioni e se l’orrore verso il delitto non facesse parte della ragione naturale e della conoscenza, la sua interpretazione simbolico-convenzionale dell’incesto avrebbe tuttora nella letteratura, non solo scientifica, la rilevanza di una assurda rivoluzione culturale. Tuttavia il grande alienista è arrivato a fare accettare le parole chiave di tutto il sapere psicanalitico a educatori, sociologi, psicologi e politici di ogni latitudine. Da Freud in poi il termine ha subito una autentica conversione semantica e come tutte le parole che sono prive di un sicuro riferimento etimologico, ha acquisito il significato univoco di proibizione irrazionale. In ragione di ciò la società contemporanea è riuscita a rimuovere interdizioni e tabù e a liberarsi dal totem: feticcio primitivo della superstizione, identificato con l’uragano, col terremoto e con la malattia. Staccata perciò dal divieto e lacerato il “velo candidissimo” che l’adornava, un’attività invereconda senza finalità procreativa, ha fatto riemergere il totem e scosso legioni di virus HIV dalla latenza. Su questa stessa linea di totale indifferenza e di false verità, che ha coinvolto finanche il rimorso e il senso di colpa, scienziati privi di remore morali e politici, i quali non sanno nulla di fecondazione – figuriamoci di genetica! – affermano: i primi che la scienza è norma a se stessa, i secondi che l’embrione è un cumulo di cellule prive di importanza e di diversità. Ma diecimila miliardi di uova, comunque 110

ste, non hanno nessuna possibilità che diventino un uomo. Solo le cellule fecondate “sanno” di vivere in uno spazio che “riconoscono” come il virtuale regno dei fini. Questa breve riflessione serve a richiamare l’attenzione sul fatto che i geni, diversamente da quello che si crede, sono soltanto produttori di catene di aminoacidi e di proteine, ma non danno nessuna informazione circa l’intero sviluppo dell’embrione. Così non è dato sapere quali sono i procedimenti che “convincono” una cellula a occupare un posto piuttosto che un altro. Esiste bensì un ordine severo di crescita e di morfogenesi, il quale fa pensare non solo a un destino formale ma anche a un progetto spaziale. Secondo uno dei migliori genetisti italiani, Edoardo Boncinelli, “ciascuna cellula sa quello che deve fare e lo fa, consultando le istruzioni del proprio patrimonio genetico e calibrandone volta per volta la realizzazione sulla base dei segnali, che giungono dalle altre cellule”. Queste le parole di un serio ricercatore, il quale ipotizza la presenza di una sorta di “armonia prestabilita” e ricorda che un grande matematico e filosofo del Seicento, Wilheln Leibniz, sosteneva la possibilità di un ordine generale privo di rigidezza, includente una enorme eventualità di scelta tra vari equilibri possibili. La libertà, regolata dal cosiddetto “principio del meglio”, operava, secondo Leibniz, all’interno di una costituzione di leggi universali stabilite sui ritmi della coerenza. Da ciò la convinzione di chi sostiene che lo sviluppo armonico dell’embrione non è riducibile alla genetica. Il genoma umano, dice un altro grande genetista – Alberts – è come un dizionario dove sono depositate tutte le parole che servono a costruire il dizionario, 111

ma non servono a costruire la “Divina Commedia”. Il gamete fecondato sia che si annidi nel grembo materno, sia che venga refrigerato come i frutti di mare, produce una serie di divisioni in progressione geometrica: prima due, poi quattro, poi otto; alla trentesima divisione sono in atto un miliardo di cellule. Tutto questo non ha nessuna importanza; serve alla fabbricazione di cellule staminali con le quali politici e premi Nobel (non tutti per fortuna) cureranno il morbo di Parkinson e la malattia di Alzheimer, beninteso tra mille anni. Non solo, ma stabiliranno una “etica della scienza” sulle macerie di un secolo che ha già subito, attraverso i regimi più oppressivi della storia, questa subdola violenza. Purtroppo per giustificare sperimentazioni ignobili, motivi pseudoscientifici vengono invocati tutti i giorni da ricercatori senza scrupoli, dimentichi che la morale implica una partecipazione interiore, consapevoli però di includere nella ricerca forme esterne di autocompiacimento, allo scopo altrettanto ignobile di raggiungere applausi e consensi. Proprio quello che alcuni si attendono quando vanno all’attacco di un piccolo cumulo di cellule fecondate, in attesa di annidarsi nell’utero materno. Sono le cellule del terzo giorno, le quali si campattano per difendersi e per inviare messaggi diretti a rinvenire un nido dove crescere e moltiplicarsi. È lo stadio della “morula”, cosiddetta per la somiglianza a quei piccoli frutti che crescono tra i rovi, lungo le strade isolate delle nostre campagne abbandonate. In verità non si tratta di uno stadio di transizione e nemmeno di una fase evolutiva; è un momento di crescita e di sviluppo nel corso del meraviglioso processo dell’ontogenesi. Questa distinzione non appare di poco conto se si fa riferimento a due fatti 112

tanti. Primo: l’accrescimento dell’embrione umano è finalistico, multidirezionale e non somiglia a quello di nessun altro essere del mondo animale. Secondo: dalla divisione della prima cellula fecondata vengono trasmessi segnali significativi per una prima struttura essenziale, necessaria a costruire un organismo inteso a trasformare un sistema funzionale in una mente computazionale – secondo una terminologia imperante in certi settori della comunicazione –. Aggredirla è un atto di empietà e di barbarie che non ci distingue dagli animali; impedirlo serve a ricordare una semplice verità: attraverso la “morula” sono transitati i più grandi geni dell’umanità e i più grandi criminali. Ciò sta a dimostrare che questo piccolo agglomerato di cellule, disperso all’interno di ognuno di noi, è latore di un messaggio, il quale prescrive di elevare a legge l’esistenza stessa di una legge; l’imperativo categorico cui Kant assegnava il valore di norma morale assoluta, valida per tutti e per sempre. Infrangerla significa provocare l’ira del totem, terribile nella vendetta e implacabile nella punizione. Ma significa anche tagliare le funi di un ponte tibetano mentre transitano bambini innocenti di tutte le razze e di tutti i continenti.

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DIVAGAZIONI SULLA LIBERTÀ

Il gentile lettore si tranquillizzi, non è un discorso sulla libertà secondo i modelli esistenti, anche se persuasivi e faticanti, e neppure un intervento generico e inopportuno; sarebbe come portare vasi a Samo e dopotutto in giro non ci sono molti vasai. È invece una sortita estemporanea, un commento “in libertà” affidato al coraggio di spostarsi su posizioni decisamente individuali, evitando, ove possibile, il confronto esasperante con la politica e con la società. Secondo i meccanismi dell’evoluzione solo la lotta per la sopravvivenza indicherebbe i mezzi per aspirare al diritto naturale di essere liberi. Ma va osservato che gli inevitabili atti di violenza, che in molti casi si richiamano al principio di necessità, entrerebbero di fatto in un circuito perverso, dove la libertà conserverebbe i connotati della individualità ma perderebbe ogni dimensione etica ed estetica. Sarebbe una legge del più forte, o per lo meno del più dotato, ma non una regola di condotta obbligante per tutti i membri di una comunità. Per contro in una società come la nostra, a lungo considerata organica per il fatto che evita lo sfruttamento e non vive di sovrastrutture, la libertà viene riflessa. Conserva cioè molti dei suoi connotati, tra cui il principio della “superiorità delle 115

ni” o quello del “primato delle masse”, ma sacrifica tutte le esigenze individuali che vivono nel particolare. In questo modo l’impedimento all’esercizio effettivo della libertà, intesa come totale espressione di autonomia personale o come approdo a zone comuni di felicità, diventa accadimento sociale di quotidiana osservazione. Ed è proprio questo che cerca di dimostrare, con forti argomentazioni, in un piccolo libro di recente pubblicazione dal titolo “La Libertà”, Ludovico Geymonat, insigne filosofo della scienza. Però le conclusioni cui l’autore perviene non sono persuasive: in primo luogo perché gli orientamenti politici e gli interessi culturali, che egli mostra di condividere, sono tuttora in decadenza, e poi perché manca a Geymonat, come a tutti i filosofi contemporanei, un batiscafo da immersione, capace di raggiungere profondità abissali impossibili da esplorare con i comuni mezzi di superficie. Esiste comunque, al di là delle osservazioni di Geymonat, una linea di pensiero che parte da lontano, forse da Spinoza, certamente da Democrito, e trova un punto di arrivo nelle conclusioni del grande biologo francese Jacques Monod, premio Nobel 1965. Chi ha avuto occasione di leggere “Il caso e la necessità” sarà rimasto sorpreso dal vastissimo dibattito che si è svolto nel mondo scientifico e filosofico in seguito alla pubblicazione di questo libro. Ma cosa c’entra Monod con la libertà, dal momento che egli possiede le prove biologiche del principio di casualità e si assume la responsabilità delle generalizzazioni ideologiche che si possono dedurre dallo “stato di necessità”? Infatti Monod persegue due fini: il primo è quello di porre la conoscenza come valore primitivo e di proporre un’etica che definisce appunto “etica 116

la conoscenza”. Il secondo, più sotterraneo, è quello di evitare di rilevare la contraddizione tra libertà e necessità, tra autocoscienza e casualità. Può darsi che fino ai vertebrati superiori – esseri viventi come le scimmie senza morale e senza libertà – la vita sia stata condizionata, ab initio, da un incontro casuale tra alcuni aminoacidi o tra alcune proteine. Ma dalle scimmie in poi nemmeno l’evoluzione, come la intende Monod, può giustificare quell’atto esclusivo e finale dell’intelligenza che è la libertà. Di conseguenza non è certamente edificante che personaggi illustri o eminenti filosofi della scienza, non abbiano ritenuto conveniente di esaltare la libertà come valore ultimo ed assoluto. È ancora il caso di Pavlov, lo scienziato cui si deve la teoria dei riflessi condizionati, l’oppositore strenuo di quella presunta “alienazione occidentale” che è il soggettivismo psicologico. Pavlov considerò la libertà come un riflesso, niente altro che un riflesso condizionato, dovuto a una serie di stimoli o eccitamenti provenienti dall’ambiente circostante. Così che non gli parve difficile assimilare al “riflesso di fuga” il cosiddetto “riflesso di libertà”. In ogni caso a Pavlov va il merito di avere tentato di spiegare le attività nervose superiori dell’uomo: il pensiero, il linguaggio, persino la libertà, mediante digressioni fisiologiche operate nel vasto campo della psicologia e della psichiatria. Queste divagazioni non avrebbero senso se non inducessero qualcuno a considerare le cose da un punto di vista diverso. Le affermazioni di una scuola di grande prestigio internazionale: la scuola viennese di economia, offre, a questo proposito, dei contributi importanti sia alla nostra riflessione che alla comune esigenza di un cerca di diversità. A parte la giustificazione della 117

prietà privata e della libertà in economia, intesa come presupposto di quella parte di sapere e di capacità che è in possesso di ognuno di noi, essa, la suddetta scuola, è portata a considerare le grandi istituzioni – stato, parlamento, tribunali, esercito, la stessa società – come pure astrazioni, prive di concretezza e di realtà. Poiché nessuno ha mai incontrato la società o lo stato, diventa impossibile attribuire ad essi i mali che affliggono l’uomo, compresi i limiti necessariamente imposti alla libertà personale o la maggiore incidenza dei disturbi mentali. “Sono gli uomini che esistono, ma ciò che non esiste è la società”. Autori come von Mises, von Hayek, Popper rinnegano “le moltitudini” e liquidano “le masse”, perché ritengono siano sempre le persone singole a prendere le grandi decisioni, a fare progredire la scienza, a scrivere la storia. Direi inoltre, aderendo a questo atteso ritorno di personalismo, che la possibilità di trasferire, attraverso il linguaggio e la gestualità, le potenzialità intellettuali e comportamentali dell’uomo, supera gli imprevisti ed esprime un momento di massima libertà. Comunicare emozioni, sentimenti, idee, ritorni di memoria, significa entrare nel flusso perenne di una scienza totale difficile da rincorrere e facile da immaginare. Ciò che non può essere trasferito, ma soltanto comunicato, accettato, sublimato è purtroppo il dolore; in ogni caso sopportato. È il dolore che sostanzia la sofferenza e introduce nel Mistero. Contemplarlo da epicurei significa negarlo, considerarlo come componente ineluttabile dell’esistenza significa capire della vita la essenzialità, la spiritualità, la libertà.

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QUALI VALORI?

Non è possibile stabilire se sia stata soltanto una eclissi o addirittura un tramonto dei valori tradizionali, come molti sostengono, a modificare il comportamento e le abitudini degli uomini del nostro tempo. In linea generale possiamo dire di avere superato, almeno concettualmente, gli stadi di popolazione e di specie e di essere entrati in un eco-sistema a dimensione decisamente universale. Come nelle antiche profezie le montagne si sono abbassate, i deserti sono fioriti, il pianeta Terra ha ritrovato la sua primordiale dimensione atmosferica e scoperto, a sorpresa, delle diverse geometrie. Inoltre l’accrescimento fisico delle nuove generazioni, dovuto all’introduzione di alimenti ad altissimo contenuto calorico-energetico, ha dato grande vitalità ai giovani, i quali hanno esaltato l’utilità della scienza e dello sport e distolto il loro interesse da quella cultura crepuscolare e decadente che aveva travolto i loro genitori. Alcune espressioni culturali hanno infatti chiuso da tempo il loro ciclo storico. Si pensi all’arte in generale e a quelle figurative in particolare. Si pensi ancora alla poesia. Per rendersene conto basta entrare in un museo d’arte moderna o aprire un volume di versi. Nell’un caso e nell’altro il disinteresse sconfina nella noia e l’assenza di 119

ficati ci fà convinti che ci troviamo di fronte, con le dovute eccezioni, a una miscellanea di pensieri e di immagini in libertà, dove logica e semantica sfiorano la stravaganza schizofrenica. Per questo motivo le arti figurative si sono rifugiate nella moda e la poesia ha trovato accoglimento nella canzone. Ciò significa che alla stanchezza culturale e morale di fine millennio gli uomini del nostro tempo oppongono lo spettacolo di giullari improvvisati che cantano o mimano le gesta di piccoli eroi della vita quotidiana. Se è vero ancora che il percorso dell’umanità non procede in linea retta, ma configura a volte delle spirali, più spesso delle sinusoidi, allora bisogna ritenere che la curva alta dell’onda disegnata dalla storia appartiene, in questo momento, alla scienza e alla tecnica. La nostra è un’età conclusiva, anche se non è annunciata la fine del mondo e il giudizio universale è di là da venire. I posteri comunque esprimeranno un giudizio negativo e ritorneranno a indicare come “Media Tempestas”, secondo la dizione che i dotti del Rinascimento riservavano al Medioevo, il secolo che rimane alle nostre spalle. Come nel Medioevo non ci siamo trovati in un’epoca oscura totalmente degna di disprezzo, però non sembra siano state espresse, nel nostro secolo, forme originali di civiltà. Ciò malgrado lo storico dell’avvenire scoprirà aspetti positivi ma indicherà, anche egli, come “età barbarica” quella che ci è stata data di vivere. Scrutando, attraverso la propria tragica esperienza, il grande libro della storia, anticipando ciò che ancora deve accadere, concluderà che l’Occidente europeo, dopo essersi liberato dalla presenza oppressiva dei grandi dittatori, riprenderà il suo ruolo culturale e politico e “una diversa Europa consentirà ancora di creare i presupposti di una rinascita 120

sale che giustifichi una gerarchia di valori senza carattere costrittivo”. Di solito i grandi valori non vengono indicati esplicitamente, perché si presume siano inscritti nella natura stessa dell’uomo e facciano parte di tutte le culture. Un quesito però occorre formulare: “che cosa ha di speciale questo bipede arrogante che gli altri primati o vertebrati o mammiferi non hanno?”. La risposta è contenuta nella domanda. Chiedere significa ottenere, significa anche coinvolgere gli altri in un discorso coerente. Rivolgersi a qualcuno sapendo che è in grado di formulare una risposta o interrogare se stessi o infine cercare sempre un dialogo che sappiamo possibile ottenere, crea comunque un equilibrio; in questo equilibrio, mediato dal linguaggio, prende forma e sostanza il più alto dei valori: la conoscenza, che altro non è se non il riconoscimento di noi stessi e degli altri come persone. All’interno di un universo fisico che disegna il ruolo di ciascuno di noi secondo uno schema estensivo racchiudente tipi diversi e particolari (Spranger), meritano dignità e rispetto, perché portatori di valori, l’uomo teorico, estraneo ad interessi materiali, ma preso dalla ricerca della verità più sul piano concettuale che su quello esistenziale; l’uomo estetico, proteso verso un ideale di bellezza, ma non per questo sprezzante degli interessi materiali; l’uomo economico, freddo e calcolatore; l’uomo sociale, interessato al bene comune, ottimista e riformatore; l’uomo politico, trascinatore di masse cui sà imporre la propria volontà; l’uomo religioso, che pone il suo interesse al di là delle contingenze mondane, mistico ed ascetico. Sono queste note distintive del carattere, questi attributi della personalità che racchiudono un nucleo astratto inteso come valore e tracciano percorsi ideali 121

diretti dal rigore di una volontà insopprimibile. Credo pertanto di potere indicare nella persona il valore primo, non contingente, perciò eterno e nella volontà la forza per trarre fuori dal ridotto della contingenza e della necessità, la sacra idea della libertà. Credo altresì che tali valori non siano mai tramontati, forse solo eclissati dietro nuvole oscure, presaghe di grandi uragani e di tempeste. Il tentativo di distruggere l’insieme delle qualità intellettuai e morali individuali e fondere o confondere all’interno della razza o della massa questo nucleo di rappresentazioni, ha avuto nel nostro secolo azione dirompente sul piano dei rapporti umani e sociali, ma non è servito. Dolorante o disperso, condannato o esiliato, prigioniero o schiavo, emarginato, l’uomo è sempre riuscito a dominare gli eventi e a individuare le gravi colpe e le reponsabilità. È la dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, dell’assenza di un “conflitto dei valori”, secondo una espressione cara a Weber, il quale scorgeva nella lotta politica un contrasto ineliminabile di intenzioni. Tuttavia egli si riferiva a fatti oggettivi, isolati in un campo specifico di ricerca. Riguardato pertanto senza obliquità, vale a dire fuori dalle distorsioni che rimandano all’etica della pura intenzione e della pura responsabilità, il conflitto è stato superato, alla fine di questo secolo, con un giudizio di responsabilità (si pensi all’ultima guerra), senza per questo inseguire fantasmi o isolare intenzioni. In altre parole il valore della persona, dell’intelligenza e della volontà, che non ha riscontro in altri esseri e non si ripete fuori dal nostro ambiente gravitazionale, non entra in conflitto con le intenzioni, riconducibili a loro volta a mere produzioni interne e perciò eliminabili come artefatti 122

della nostra sensibilità. Ciò detto è possibile credere ancora in una caduta di elementi estrinseci alla personalità e di conseguenza in una rivalutazione, se non in una riscoperta, di più valide relazioni interpersonali. La difficoltà consiste nel fatto che, essendo cessato il risalto dovuto all’uomo singolo in quanto tale, dal momento che si è privilegiato il non-essere della società, è stata costruita una scala di valori ai primi gradini della quale sono stati posti gli istinti. Rimuoverli è ancora possibile, anche perché il ritorno annunciato di principi validi, il ripensamento, il maggiore impegno a considerare che nei problemi dell’uomo sono utilizzate l’intelligenza, la volontà e la libertà, fanno pensare a un nuovo più esaltante Rinascimento, dopo il 2000.

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LE DUE CULTURE

Nel mondo moderno, che poi è il nostro mondo, esistono e qualche volta entrano in conflitto diversi tipi di culture. Non si tratta di civiltà diverse, dal momento che solo le culture riflettono l’anima dei singoli mentre le civiltà o la civiltà, secondo una espressione cara a Weber, e una specie di “gabbia di ferro” artificialmente imposta dall’esterno. Se questa affermazione non è valida perché artificiosa e antistorica, tuttavia definisce la circostanza che soltanto le culture hanno bisogno di un leader carismatico cui vanno riservati onore e venerazione, come a chi rappresenta una sorgente inesauribile di forze universali. Un cultore di psicologia individuale o un adulatore di Nietzsche sarebbero d’accordo nel riconoscere la validità delle facoltà creative solo all’interno degli uomini migliori, anche se poi le azioni umane mirano a fare acquisire al singolo “un’immortalità simbolica o una preminenza autocreativa con lo scopo di esaltare il dominio sui molti da parte dei pochi” o di uno solo. Questa presenza di un leader che impone il suo dominio sulla cultura o la inventa egli stesso, ponendosi fuori o contro la società nella quale vive, è alla radice delle insane ideologie che hanno dominato e sconvolto il secolo ventesimo. Se fosse vera l’ipotesi di Weber 125

non si spiegherebbe come mai una civiltà possa durare duemila anni, mentre è vero che la personalità di un leader e il suo carisma falliscono quando non fanno riferimento a modelli storici autentici e a individui reali, senza bisogno di ricorrere ad archetipi nebulosi di derivazione junghiana. In sostanza concediamo a molti un personale carisma: termine che in passato era considerato una grazia santificante ma evitiamo di considerare noi stessi alla stregua di grandi o piccoli leader in pectore. Le società moderne hanno bisogno caso mai di uomini eccezionali, che abbiano prima di tutto rigore morale e un alto quoziente intellettivo, oltre che una visione meno egocentrica del mondo. I dittatori del Novecento avrebbero dovuto insegnarci molte cose intorno al cosiddetto carisma e alla presunta capacità di introdurre elementi di novità nel seno della nostra civiltà. È un discorso generale che vuole porre in evidenza una vocazione diffusa – la leadership – tanto nell’attività politica che in quella professionale, allo scopo di affrontare una vicenda che ha tenuto desta l’attenzione delle persone su un dibattito destinato a mettere a nudo le diversità culturali; forse a ridefinire il concetto di civiltà occidentale. Se la ipotesi di Weber non può essere accettata perché falsa e crudele, per lo meno ha il merito di descrivere con rigore la maniera di essere di una società, la quale fonda la sua sacralità sul concetto non solo laico di libertà. Il giorno in cui si diffonde la notizia, ormai dimenticata, che due sorelline siamesi sono venute in Italia per essere separate, mi trovo seduto su una panchina della riva sinistra del Gave davanti alla Grotta di Massabielle. Il fiume scende tumultuoso da forre e gole profonde degli alti Pirenei ma quando arriva a poca 126

distanza dalla celebre Grotta diventa tranquillo, quasi volesse evitare di turbare il silenzio del luogo, dove tutto scorre lento e perfino il male di vivere diventa sereno. Dalla riva destra, attraverso un agile ponte, si muove verso la spianata una lunga fila di lettighe e di sedie a rotelle spinte da volontari. Tutti hanno sul volto il sorriso mesto di chi vive la sofferenza o vi partecipa. Non avrei mai immaginato che ci fossero al mondo tante persone disposte a soccorrere il prossimo e a prendere su se stesse il dolore degli altri. Per associazione o per contrasto mi vengono in mente i derelitti dei campi di concentramento sacrificati alla furia dionisiaca della purezza della razza o al piacere sadico della violenza immotivata. Sono sensazioni e idee diverse che mi liberano dalla stanchezza, ma non dalle riflessioni, anche perché resto concentrato sulle problematiche angoscianti dell’esistenza e sul suo mistero. Penso alla povertà mentale di quanti ritengono il silenzio del fiume un fatto naturale, senza riuscire ad entrare nel tumulto dei sentimenti. Penso alla miseria morale e alla incapacità di capire l’ampiezza della libertà intellettuale: quella che, attraverso il grande fiume, ricorda a tutti l’impossibilità di bagnarsi due volte nella stessa acqua e ammonisce altresì che il silenzio e le parole non sono portati via dalla corrente. È un atteggiamento meditativo il quale si sofferma a considerare le rare occasioni che superficializzano alcuni modelli di comportamento e provocano letture diverse degli avvenimenti. Stati d’animo in fondo che ci scoprono inclini a ricuperare la visione perduta di noi stessi e del mondo. Penso sia il caso perciò di fissare alcuni momenti nel circuito dell’attenzione, come la trasmissione televisiva che si occupa della possibilità di 127

separare le due sorelline siamesi mediante un difficilissimo intervento operatorio. Qualcuno però rifiuta di partecipare. È un giovane medico proveniente dagli Stati Uniti, professionalmente dotato ma fermo nelle sue convinzioni morali e religiose. Egli non considera eticamente corretto il sacrificio di una vita a favore di un’altra. Un rifiuto netto davanti a un personaggio di alto profilo professionale, il quale, convinto delle sue capacità tecniche e confortato dall’assenso di un comitato bioetico che ha approvato, con l’imprimatur di alcuni monsignori, la decisione, si prepara ad intervenire sulle bambine per separarle. Il discorso del celebre chirurgo verte sulla convinzione – errata – che la più piccola delle due si comporti da “parassita” nei riguardi dell’altra e tende a convincere anche il pubblico della liceità di eliminare le appendici non utili dall’organismo più dotato. Questo paradosso mi ricorda che nell’antica Sparta i bambini deformi: gli idrocefalici, i paraplegici, i postencefalitici, i lussati dell’anca, venivano gettati da una rupe. Erano bambini come quelli che transitano sui ponti del Gave, ai quali il fiume rende l’omaggio di un rispettoso silenzio. Si avverte intanto nel confronto serrato, al di là delle convinzioni personali anche morali, uno scontro tra due culture diverse e incociliabili, come nelle antiche dispute medievali. Figlia l’una del primo esistenzialismo che considera la vita una malattia, serva di un logicismo spacciato per logica e di un razionalismo illuministico e laico che pone tutto all’interno del caos e insegue il disordine originario attraverso l’aborto e l’eutanasia; depositaria l’altra di una soprarazionale verità astratta, che i metafisici chiamano “anima” e gli psicanalisti “pofondo”, mediatrice tra i dubbi e le certezze nella convinzione che 128

un grande deposito di norme morali sia stato costituito all’interno dell’uomo. Entro questa distanza culturale si sfiorano i lineamenti di un autentico dramma; il giovane medico fà appello alla propria coscienza, alle ragioni del cuore, al principio di individuazione: ciò che DIO ha creato l’uomo non può distruggere. L’anziano chirurgo si richiama alla scienza, al pensiero laico e considera tutti gli esseri viventi, uomo compreso, afflitti dalla lotta per la sopravvivenza e soggetti a selezione. Nel caso delle sorelline siamesi la selezione opererebbe sulla meno dotata per mano di un abile tecnico, facendo in modo che l’evoluzione e il suo mostro, malgrado tutto, continuino a tessere la trama della vita attraverso l’empietà. Va dato atto al giovane medico di fornire delle risposte precise. “Non possumus” alla fine è il responso dell’uomo saggio di fronte a un atto moralmente illecito. Oggi quel “giovane medico” si è assunta la responsabilità di agire e operare diversamente.

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L’ATTESA E IL RITORNO

Il vecchio convento è adagiato su un colle che declina lentamente a valle e questa, a sua volta, si apre verso il mare attraverso il corso di un lento fiume sassoso. Non conosco le vicissitudini del monastero né le vicende che ne hanno segnato la storia; solo ricordo una struttura bianca e bassa, quasi acquattata su un poggio. Da lontano un piccolo campanile non segna il tempo, ma segnala il luogo dove accanto alla piccola chiesa è annesso il convento. Amavo tirare la piccola corda che faceva suonare il campanello, per sentire aprire la porta e vedere arrivare un converso che chiedeva che cosa volessi. “Un po’ di pane benedetto” rispondevo; e la richiesta era subito soddisfatta. In quel piccolo tozzo di pane nero era inserito un messaggio, che la mia fantasia di ragazzo cercava di decifrare. In fondo lo trattavo con cautela e vi portavo attenzione anche quando alla fine lo mettevo in bocca. Credevo e credo tuttora che il piccolo tozzo di pane nero, offertomi dal converso, fosse espressione di sacralità e contenesse un piccolo richiamo all’eternità; credevo e credo tuttora vi fosse insita una richiesta di maggiore attenzione per il perdono, un invito a conservare la fede e ad investire nella carità. Col tempo il convento 131

si è trasformato; è stato ristrutturato e sopraelevato, ma ha perduto un po’ del suo fancino. A me piaceva basso, quasi nascosto, con un chiostro più aperto e luminoso e qualche filo d’erba d’intorno. Si pensava, da parte dei nuovi costruttori, a una folla di frati e a un maggiore afflusso di pellegrini. Ma così non è stato. Nonostante la maggiore disponibilità di spazi e di celle i monaci non ci sono più. Se ne sono andati. Sono rimasti in pochi, solo due, a pregare, a tenere aperta la chiesa e a dire messa. Mi veniva sempre da pensare alla fila allineata di fratini; erano quasi un cinquantina quelli che una volta passeggiavano lungo la rotabile che dal convento si inoltra fino al fondo della valle. Che malinconia! Nel vecchio convento non c’è più nessuno. Pensavo alla fatalità dell’abbandono, alle mura diroccate, all’erbacce. Ma da un pò di tempo le cose sembrano cambiare. Sono arrivati finalmente due frati francescani a prendere possesso della ristrutturata casa conventuale e a portare una rinnovata proposta di fede e di carità all’interno di una più ampia e moderna disponibilità culturale. E sono francescani quelli ai quali l’abito tradizionale, il saio, conferisce l’autorità sacerdotale che è richiesta per rendere ragione di un comportamento di grande cristiana umanità. Di recente, accompagnato da un mio fratello che lo frequenta, ho visitato il convento fino al refettorio, dove sono stato ricevuto da un giovanissimo sacerdote. Il tratto gentile e garbato, la disponibilità, anche nell’urgenza di attendere alle imminenti funzioni, non ha evitato al giovane religioso di fare un breve discorso su alcuni personaggi che la chiesa ha elevato agli onori degli altari. Ha parlato di 132

Edith Stein, la suora carmelitana di origine ebraica, che la furia nazista ha sacrificato nel campo di concentramento di Auschwitz. Ne conoscevo la storia: la conversione al cattolicesimo, la grande formazione culturale, l’amicizia con Husserl e il suo martirio. Un personaggio particolare Santa Teresa Benedetta della Croce, a1 secolo Edith Stein di cui esistono numerose biografie sia in tedesco che in francese, qualcuna anche in italiano. Ma la sua opera completa di filosofa non è stata ancora pubblicata. Mi è gradito il ricordo e la rievocazione, anche perché il martirio della santa ha assunto il carattere assurdo di un barbaro rito sacrificale. Nel 1962 il cardinale Hoffner, vescovo di Colonia, ha introdotto la causa di beatificazione, ma il lungo processo della canonizzazione si è concluso soltanto il 12 Ottobre 1998. Quel giorno in Piazza S. Pietro, illuminata dal sole di un autunno nitido, una folla immensa solennizzava con un festoso applauso l’intenso momento celebrativo: il Papa stava per proclamare santa la mite carmelitana. Nello stesso istante un drappo rosso, disteso dalla loggia centrale della grande basilica, mostrava al mondo il volto bellissimo della più grande mistica del ventesimo secolo. Ma al di là di questo momento di intensa emozione, grande è stata la mia sorpresa quando ho potuto osservare, attaccato alla parete del refettorio, un poster di notevoli dimensioni, raffigurante un’immagine con in calce una scritta: “Beato Duns Scoto”. Conoscevo il filosofo e il mistico, ma non sapevo che era stato fatto beato ed elevato agli onori degli altari nel 1905. Il mio dotto interlocutore mi ha così informato che lo scotismo era diventato dottrina dell’ordine francescano fin dalle sue origini, anche se la nascita della scuola filosofica si è avuta soltanto con il decre133

to di Toledo del 1633. Con esso si imponeva ai lettori di teologia dell’Ordine di attenersi alle sue dottrine. Sapevo delle controversie culturali tra francescani e domenicani e sapevo anche che Giovanni Duns Scoto era tenuto in grande considerazione nell’Ordine di S. Francesco. Ma non ero a conoscenza della sua beatificazione. Generalmente si riteneva che gli interessi degli scrittori cristiani fossero apologetici e non essenzialmente filosofici. Essi, gli scrittori, erano preoccupati di dimostrare il carattere razionale della religione cristiana e si servivano della ragione per provare l’esistenza di un Dio unico. In questo senso il fine apologetico doveva servirsi della ragione per prestare attenzione a temi considerati appartenenti al campo filosofico. In ogni caso il pensatore cristiano è prima di tutto un teologo, perché i suoi principi sono rivelati; egli tratta dell’ordine soprannaturale. Il filosofo muove dalle creature; i principi del filosofo sono quelli che la luce naturale della ragione è capace di scorgere. Ma è evidente che una distinzione netta non è possibile, perché ambedue, filosofi e teologi, tendono a penetrare il mistero ineffabile della esistenza di Dio. L’indagine sottile di Duns Scoto è portata alle estreme conseguenze nel cercare di costituire una doppia identità intramentale ed extramentale dell’essere, in quanto unificato nella sostanza. E questo lo salva dall’accusa di panteismo. La sua teologia negativa e la incapacità di dimostrare l’immortalità della anima, gli apre gli orizzonti della Fede e la necessità della Rivelazione. Ciò che lo distingue da S. Tommaso e dall’Ordine Domenicano è l’affermazione dell’univocità dell’essere. Noi non siamo diversi, come creature, da Dio; se lo fossimo, cioè se non si ammettesse un significato dell’essere 134

comune a Dio e alle creature, sarebbe impossibile conoscere le ragioni dell’esistenza di Dio. La diversità da S. Tommaso è avvertita nella volontà di negare le vie attraverso le quali l’uomo può giungere a una dimostrazione dell’esistenza di un Essere eterno e infinito. L’impossibilità di un potere astratto dell’uomo di attribuire a Dio qualità come causa prima, motore immobile e fine ultimo, urta contro una volontà assolutamente libera di Dio. Giovanni Duns Scoto non razionalizza la Fede, la considera una attività pratica di cui non si può fare a meno. Questa impossibilità di fare a meno della Fede trae il suo fondamento dalle costruzioni razionali dell’uomo: il suo corso esistenziale e il suo destino. Il relativismo moderno ha creduto di penetrare la realtà mediante la scienza, ma ha scoperto le costanti che regolano il cosmo e l’impossibilità di negare, attraverso un percorso matematico, la perfezione dell’universo e la presenza di Dio creatore.

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ABELARDO ED ELOISA

La constatazione che esiste un gran numero di persone che affronta argomenti di non facile soluzione e perviene a risultati convincenti dal punto di vista della ragione, rappresenta una notevole sorpresa, almeno per chi quei problemi li ha sempre affronati dal punto di vista della fede. Ancora una volta diventa difficile stabilire il punto di partenza: se occorre andare avanti tenendo fermi i presupposti della convinzione religiosa e sottoporli dopo al vaglio dell’indagine razionale; oppure se sia più esaltante entrare subito nell’ambito del sublime e disvelare la rivelazione. Abelardo fù un gigante del pensiero che operò, anche in questa occasione, una opportuna conciliazione, ma il dramma che ne attraversò la vita fù pari alla sua dignità intellettuale. Spirito ardente, intollerante di freni, Abelardo cercò di imporre a una società medioevale un progetto di vita, che oggi definiremmo libertario ed aperto, non certo licenzioso e blasfemo. I tempi però non gli furono favorevoli perché religiosi e laici non sopportavano la modifica del costume e non intervenivano a frenare l’ipocrisia, generoso alimento alla deriva morale. Nato nei pressi di Nantes, nella Bretagna minore, 137

di famiglia nobile e numerosa, decise di abbandonare, in giovanissima età, la corte di Marte, ossia la ricerca di onori e di notorietà attraverso la pratica delle armi, per essere educato in seno a Minerva. L’amore per la filosofia, per l’arte, per i libri, lo portò a compiere una scelta che ritenne essere in consonanza con il desiderio del padre, il quale non solo gli aveva insegnato le regole e l’onore del combattimento, ma ne aveva assecondato altresì l’entusiasmo per la conoscenza. Del resto fù uno studente modello, veloce nell’apprendere, curioso e pronto, appassionato soprattutto della lettura. Visse in un’epoca in cui grandi polemiche e dispute offrivano a laici e religiosi l’occasione per esprimere punti di vista tendenti a spingere il discorso in sede teologica. In breve veniva affrontato dalle persone colte del tempo, l’eterno problema degli “Universali”, col quale si dichiaravano realisti coloro che indicavano l’umanità come una realtà e nominalisti quelli che invece sostenevano che di reale ci sono solo gli uomini. Il discorso sugli “Universali” non si è esaurito, se mai è scomparso nella disputa, ma viene considerato come problema attuale ancora oggi almeno nel confronto tra realisti e strumentalisti. Abelardo nella controversia assunse una posizione intermedia, attraversata da rilievi e osservazioni su dogmi religiosi che gli valsero una condanna per eresia, anche se un eretico non era. Se mai si trovò di fronte a un custode della fede come Bernardo di Clairvaux, il quale gli impose di rivedere il suo atteggiamento disinvolto sul problema della Trinità, se voleva che la nomina ad abate gli venisse conferita. Ma la vicenda clamorosa che sconvolse la vita di Abelardo fù l’incontro con Eloisa. Incontro che non si svolse alla luce del sole, come tra due amanti che non 138

intendono nascondersi. Fù l’amore di una donna giovane, bellissima e colta, verso un uomo maturo, che divampò e divenne lussuria. Il filosofo ne fù sconvolto, ma non si adoperò perché il sentimento diventasse passione vera, vincolata alle esigenze della ragione. Di solito la posizione sociale delle persone condiziona le loro avventure e la cautela tende a coprire la volontà disordinata di fusione dei pensieri e dei sensi. Dalla loro relazione nacque un figlio cui fù imposto il nome di Astrolabio, che vuol dire colui che guarda le stelle. Perché nell’animo dei due amanti in fondo la ricerca di una ragione profonda, anche nelle espressioni più vigorose della carnalità, non era venuta meno. E fù una grande lotta quella che si svolse nell’animo dei protagonisti, determinata soprattutto dalla loro condizione di religiosi, perché i due amanti, anche se non erano vincolati strettamente a una regola monastica, avevano l’obbligo di tenersi lontani da abitudini lussuriose. Queste contraddizioni esplosero dando luogo a invidie e vendette. Invidie per la posizione scolastica raggiunta da Abelardo, il quale veniva considerato il pensatore più illustre del suo tempo; vendette trasversali alimentate da persone vicine al suo ambiente familiare e religioso. Da qui la violenza, consumata nel silenzio di un chiostro, e la fine di un percorso d’amore che aveva superato in qualche modo le residue cautele della passione e della ragione. Quando il fragore dei sensi si placò Abelardo si chiuse in un vecchio monastero e vi rimase a scrivere e meditare, solitario e pensoso. Scrisse la “Teologia del Sommo Bene” e lunghe lettere ad Eloisa, non prive di affettuosa tenerezza. Spiritualmente lontano dalla comunità si adoperò affinché i conventi non di139

ventassero luoghi di vizio e di abitudini lussuriose. Finì i suoi giorni nel monastero di Cluny, confortato dalla fraterna carità riservata ai figli della chiesa e dalla benedizione apostolica, concessa dal Pontefice con particolare sollecitudine e intenzione. Eloisa gli sopravvisse per altri vent’anni, ma prima di morire aveva dato disposizioni perché fosse seppellita accanto al suo amante. Abelardo ed Eloisa riposano oggi nel cimitero parigino di Pére-Lachaise. Insieme e per sempre.

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LE ORME DI LAETÓLI

Non vorrei tediare il gentile lettore con un discorso quasi metafisico, ma trovo difficoltà a dare, in poco spazio, il senso di una conferenza che ho avuto l’onore di tenere presso l’Accademia Cosentina. Prendendo spunto da quanto affermano alcuni critici materialistici, secondo i quali è impossibile sostenere che eventi mentali astratti come il pensiero possano agire in qualche modo su strutture materiali ultrafunzionali, ho voluto porre in evidenza quanto la fisica moderna sia interessata a penetrare il mistero della coscienza e del pensiero, senza correre il rischio di mettere in crisi i propri modelli interpretativi. L’interesse e l’inquietudine dei fisici in questo momento è anche quello di stabilire un nesso tra la coscienza e i cosiddetti campi quantistici; ammessa la difficoltà anche per loro di definire che cosa sia un campo. È risaputo infatti che occorre essere così preparati in certi settori della matematica da transitare con disinvoltura dall’astratto al concreto, utilizzando soltanto la facoltà di osservare. Inoltre la definizione di campo è possibile solo se non si fa riferimento alle cause, ma agli effetti che si producono in circostanze estreme, perché tanto le onde di probabilità, quanto le particelle ultime non si danno esistenti per se stesse, 141

ma soltanto attraverso gli effetti che creano. Questo insieme di effetti si chiama campo. È un discorso introduttivo e necessariamente riduttivo, il quale può essere riferito soltanto a chi, come l’uomo, ha la capacità di codificare e di trasformare in simboli le sensazioni che provengono dal mondo esterno. Ma la cosa più straordinaria è che alcuni scienziati tentino di estendere le conoscenze di là da un modo estremamente rigido di confrontarsi con l’esperienza e questo non impedisce loro di intuire che le cose osservate costituiscono una memoria logica rappresentativa di un mondo a sua volta liberamente creato. Gli antropologi e gli animalisti incapaci, perché aridi, di capire le diversità naturali tra animali e uomini, dimentichi delle disuguaglianze di fatto e di diritto, hanno stabilito di fare rientrare nel “genere Homo” anche i gorilla e gli scimpanzé (Homo Gorilla e Homo Scimpanzé); convinti come sono che un pensiero e un linguaggio rudimentali possano consentire a queste creature di accedere al rango di soggetti, cui concedere un minimo di diritti e di doveri. Si ritengono gli eredi dell’illustrissimo cardinale de Polignac, di cui si racconta che in presenza di una scimmia ammaestrata avrebbe esclamato con stupore: “Parla e ti battezzo”. Espressione superata che in maniera diversa ricorrerebbe ancora in certi rappresentanti della cultura moderna – capaci di attribuire emozioni, sentimenti e abilità mentali alle scimmie – se non ci fosse un impedimento abissale costituito proprio dal linguaggio. Quello stesso impedimento che non poteva consentire all’eminentissimo cardinale di procedere a una funzione sacra, mediante aspersione, per mancanza del presupposto biblico: il peccato originale. Senza perdere di vista un argomento che andrebbe 142

oltremodo approfondito per capire funzioni complesse, ho voluto ricordare che nel 1981, all’interno di una valle che attraversa l’Etiopia, il Kenia e la Tanzania, la Great Rift Valley, oggi nota come una delle sedi di quattro località più ricche di fossili del pianeta, Richard Leakey, figlio di due dei più grandi antropologi, in una località situata nella Tanzania del Nord, Laetóli, trovò alcune impronte di individui preumani bipedi, risalenti circa a quattro milioni di anni fà. Non viene messa in dubbio la serietà del ricercatore e di sua moglie, esperta studiosa al suo fianco (Meave Leakey, scopritrice di un ominide di transizione: il Keniantropus Platyops o “Faccia Piatta”), ma che la impronta di un piede possa rimanere inalterata per milioni d’anni e aspettare intanto i Leakey per essere scoperta, mi sembra eccessivo, anche se non mancano ipotesi plausibili circa i tempi di formazione e la possibilità di conservazione. La più accreditata di queste ipotesi è quella che prende in considerazione la presenza, nelle vicinanze di Laetóli, di un vulcano attivo, il quale, in seguito a una eruzione di ceneri su una grande pianura bagnata da piogge recenti, avrebbe esteso sul luogo una specie di tappeto molle, sul quale tre piccoli ominidi si sarebbero poi lentamente incamminati. Le loro impronte, simili in tutto a quelle di piedi umani dall’alluce lungo e dal calcagno sporgente, potrebbero essersi solidificate per effetto di una lunga esposizione alle radiazioni solari e trasformate nel tempo in durissima roccia vulcanica. Una successiva eruzione, secondo esperti antropologi, avrebbe in seguito ricoperto di finissima polvere quelle antiche tracce e fatto in modo che arrivassero intatte e tutelate fino a noi. Comunque le “Orme di Laetóli” sono 143

entrate nella storia dell’antropologia e dell’archeologia in maniera esaltante, soprattutto perché si è potuto dimostrare che quelle impronte stabiliscono con certezza l’acquisizione di un’andatura umana bipede e l’esistenza di un rapporto di tipo squisitamente affettivo, negli ominidi ancestrali. Osservando però le foto pubblicate da alcune riviste specializzate, mi sono reso conto di almeno due cose: 1º) L’orma di un piede umano, poiché di questo si tratta, è singolare ed esclusiva, funzionale a un’area precisa della corteccia cerebrale. Gli ominidi non potevano segnare un territorio in quel modo: il loro cervello era diverso e così anche le strutture periferiche connesse. 2º) Un rapporto di tipo affettivo, quasi umano, è possibile in moltissime specie, dagli uccelli ai vertebrati superiori. Da ciò la convinzione che la Tanzania del Nord era abitata da uomini veri e consapevoli; con un cervello – e un piede – che né gli Australopithechi, né l’homo abilis, né l’homo erectus potevano avere: la loro scatola cranica essendo di piccole dimensioni. L’impressione vera però che ricorre più facilmente e che ci troviamo davanti, è quella di un cervello umano di tale complessità da farci convincere che nessuna selezione di tipo darwiniano poteva consentire di raggiungere. In ogni caso non è ammissibile e non è dato sapere donde proviene una forza evolutiva così potente nell’uomo, così veloce che ignora le strutture preesistenti, una forza evolutiva capace, in ipotesi, di sorvolare un black out fossile di cinque milioni d’anni, durante i quali si sarebbero verificate quelle trasformazioni degli esseri ominoidei da animali arboricoli 144

in terricoli bipedi. Mentre l’uomo era intento alla costruzione del proprio Io, attraverso sensazioni nuove, immagini interne, concetti astratti, nell’ammirazione di se stesso e del mondo che lo circondava. Parafrasando insigni pensatori si può essere certi che gli ominidi, dall’Australopithecus fino all’uomo di Neandertal, non potevano servire da soggetti a se stessi, non potevano cioè introspettarsi, né possedere un soggettivismo gnoseologico per il quale ogni oggetto appreso è creato, costruito da colui che apprende o ricordato. I fisici teorici, ai quali ho fatto riferimento, hanno compiuto il tentativo, peraltro non esaurito né esauribile, di proporre un “Metarealismo”, che in sé porta, a mio avviso, una contraddizione: da una parte afferma la continuità tra campi quantistici e attività mentali, dall’altra, suo malgrado, è costretta a negarla, perché concettualmente improponibile all’interno del puro dato dell’osservazione scientifica. Da ciò discende che non è possibile accettare che l’estremo segno della soggettività, l’orma del piede umano, rappresenti l’effetto di una lunga e misteriosa trasformazione evolutiva, perché non è in nostro potere supporre che la Mente e il nostro aspetto fisico si siano evoluti poco alla volta.

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L’ANELLO MANCANTE

Il sogno dei paleontologi e dei paleoantropologi di ogni tempo è quello di scoprire il cosiddetto anello mancante: il fossile di transizione, che dovrebbe congiungere i primati a noi più vicini – Gorilla, Scimpanzé, Bonobo – con l’Homo Sapiens Sapiens. Piace agli studiosi di cui sopra risalire a epoche remote, fino al periodo di mezzo tra venti e dodici milioni di anni fà o fino a una più vicina “Era Quaternaria”, con lo scopo di portare alla luce un esemplare scimmiesco da esibire come nostro congiunto, secondo le previsioni e le convinzioni dei guru dell’evoluzione. L’anello mancante darebbe senso a un percorso storico durato due secoli e chiuderebbe, in via definitiva, il discorso sull’evoluzione; privilegiando l’azione del caso e della necessità sull’idea astratta di libertà e di creazione. Darebbe ragione inoltre ai filosofi della scienza, i quali attendono di abbattere l’ultimo tentativo di costruzione intellettuale del pensiero contemporaneo: lo “Spiritualismo” e di elevare a profeta del nuovo millennio il cantore ultracelebrato dell’evoluzionismo moderno: il grande, vecchio Darwin. È questa la ragione che spinge i cercatori di fossili a scavare profondi strati geologici e a ricostruire strutture ossee erose dai millenni, avendo come fine 147

ultimo quello di proporre una classifica nuova di generi e di specie e di coinvolgere l’uomo entro un diverso concetto di animalità. La notizia di alcuni importanti ritrovamenti, apparsa in questi giorni, ha destato grande interesse e insieme insolita esultanza, in tutti i settori della paleoantropologia, al punto che gli ultimi escavatori hanno avuto l’impressione di essere arrivati alla fine di un percorso segnato dalla certezza. Nel giro di un mese sono stati scoperti, in posti diversi, due esemplari di ominidi tuttaltro che simili: con caratteri tali da farli sembrare l’uno il rovescio dell’altro. Una prima comunicazione, data dal “Sole Ventiquattrore” il 28 Ottobre 2004, annunciava che nell’isola di Flores, in Indonesia, era stato portato alla luce da un paleontologo australiano, una specie di Homo completamente nuova, vissuta circa diciottomila anni fà: l’Homo Floresiensis. Alto meno di un metro, con un cranio piccolo, del volume di 380 c.c., “piuttosto intelligente”, il suddetto ominide avrebbe avuto, secondo alcuni antropologi nostrani, la capacità di produrre manufatti e forse “anche quella di pensare e di comunicare in maniera articolata”. A questo punto due brevi considerazioni. La prima ci porta ad escludere che, vi sia relazione di continuità e di somiglianza tra l’Homo Floresiensis e l’Homo moderno; esseri coevi e dissimili, appartenenti a specie diverse, non possono essere nostri antenati o progenitori per un motivo molto semplice: vivevano insieme. La seconda tiene presente che un anatomico o un fisiologo, soprattutto un neurologo, non hanno difficoltà ad escludere categoricamente la possibilità che, con un cervello di ridotte dimensioni (380 c.c.), una 148

creatura vivente possa manifestare un pensiero rudimentale o una qualche manifestazione gestuale motivata e razionale. Trovo poi patetica questa esigenza di attribuire ad esseri, che non hanno nulla in comune con noi, la capacità di comunicare o di costruire qualcosa in piena libertà e in maniera creativa. Il secondo ritrovamento è stato effettuato in Spagna da Salvador Moyà Solà, dell’Istituto di Paleontologia di Barcellona, che ne ha ricostruito l’identikit. Si tratta di un quadrumane dalle piccole dita, di peso notevole, vissuto circa tredici milioni di anni fà, durante il Miocene: era cenozoica recente, meno glaciale e molto più vicina a noi. Secondo alcuni paleontologi, l’ominide ritrovato, soprannominato PAU, sarebbe l’anello mancante, la forma finale di una giunzione evolutiva universale. Quest’ultimo ritrovamento è considerato importante anche da studiosi di antropologia dell’Università di Firenze, “perché dimostra la continuità nell’evoluzione che ha portato all’uomo” e alla sua discendenza. Ma il benvenuto, nel nome di Charles Darwin, è stato dato al PAU, il piccolo esemplare eretto, dal volto “di profilo più scimmia ma di fronte già uomo”, da un giornalista del Corriere della Sera (20 Novembre 2004), il quale non ha nascosto il suo atteggiamento trionfale e la sua accigliata superiorità culturale. Purtroppo in questo scorrere di notizie facili e di entusiasmi non repressi, si ha l’impressione che, mentre gli organi di informazione parlano di ritrovamento straordinario, le riviste scientifiche più accreditate, come “Nature”, si mostrano molto prudenti sopratutto nell’esprimere opinioni che potrebbero dimostrarsi infondate. 149

Per quanto mi riguarda credo di essere in linea con quanti affermano che l’anello mancante non è stato ritrovato e mai lo sarà, perché figlio illegittimo di una cultura ateistica e anticreazionistica e di una fantasia evoluzionistica che produce solo mostri. Credo anche che si faccia torto alla scienza quando si battono strade impervie con false vie d’uscita, come quella che si vorrebbe conducesse al nuovo pianeta delle scimmie, dove fare abitare e convivere, in condizioni di parità, l’Homo Sapiens con l’Homo Gorilla e l’Homo Scimpanzé. Inoltre considerare preconcetto o ignoranza e pregiudizio l’affermazione che fa di noi stessi il limite di là dal quale l’umanità non si estende, è un banale errore intellettuale oltre che un’esclusione mentale. Superare quei limiti significa violare le esigenze della ragione, per entrare, nel dominio del caso e della necessità, negando la libertà. L’evoluzione è figlia dell’intelligenza, ma l’intelligenza non è figlia dell’evoluzione. Questo non significa che va rifiutata. Parafrasando Tolstoj vorrei ripetere che la mia dignità di uomo non mi consente di ritenermi discendente di un gorilla o di un australopiteco. Ciò che impedisce a noi tutti di considerarci eredi di ominidi o di ominini ancestrali è la nostra istintiva riluttanza e la certezza di sapere che non siamo totalmente coinvolti nel genere e nella specie. Ne restiamo fuori perché abitiamo all’interno di noi stessi. Il dolore e la gioia, il linguaggio, il tempo e lo spazio sono soltanto nostri.

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SOGNI IN FUGA DA NEANDERTHAL

I sostenitori della cosiddetta “cronologia lunga” fanno risalire a circa due milioni di anni fà i primi oggetti di pietra lavorata scoperti in Europa. Insediamenti umani invece potrebbero essere avvenuti un milione di anni dopo. Questa discordanza temporale fà supporre che quelle pietre non fossero dei semilavorati ma semplici sassi senza forma rintracciabili con poca fatica dappertutto. Lasciando da parte i numerosi ritrovamenti in manufatti esibiti da paleoantropologi improvvisati, si può sostenere che gli ominidi di Neanderthal provenissero dall’Oriente europeo. Così come dallo stesso lontano Oriente era giunta una razza coeva definita di Cro-Magnon, dal nome del luogo di un piccolo riparo sottoroccia sventrato durante il lavoro di costruzione di una ferrovia tra Agen e Les Eyzies, in Francia. (J.J. Hublin “Le Scienze” quaderni n. 113). Non si è mai saputo quale relazione vi fosse tra l’ominide di Neanderthal e l’uomo di Cro-Magnon. Erano due stirpi, due razze diverse o i rappresentanti di un’unica linea evolutiva di cui non si sono mai conosciuti gli antenati? Neander è una valle della Renania situata nei pressi di Düsseldorf. In questa località, esattamente nel giacimento di Feldhofer, alcuni operai scoprirono per 151

caso, durante un lavoro di scavo, dei resti fossili che sembravano appartenere a un tipo di uomo primitivo. Correva l’anno 1856. Qualche tempo prima anche in Belgio e a Gibilterra altri resti venivano a documentare ciò che si pensava fosse l’anello mancante nella catena dell’evoluzione, dagli ominidi all’uomo moderno. Poiché non è possibile provare in maniera galileana, cioè riproducibile, la verità dell’evoluzione biologica, dal momento che quest’ultima si è verificata una volta soltanto, non sono da escludere ammissioni e contestazioni, le quali riflettono posizioni culturali e pregiudizi scientifici fortemente radicati. Sono stati molti a credere che l’ominide di Neanderthal fosse l’immediato antenato dell’homo sapiens, e non pochi a negarlo. Inoltre la tesi di chi sostiene la presenza in Europa di esseri molto simili a noi, porta ad ammettere che la colonizzazione del vecchio continente possa essere avvenuta circa 40.000 anni fà. Trattandosi di tempi geologici la datazione è piuttosto recente. Dai reperti fossili ritrovati in moltissime regioni si è sviluppata del pari la convinzione che l’ominide di Neanderthal avesse i suoi progenitori in creature primitive, le cui caratteristiche antropologiche ricordano quelle di alcune popolazioni africane vissute milioni di anni prima: gli Australopitechi. Erano costoro abitatori di regioni a clima caldo, di cui si conoscono almeno sette specie, tutte con livelli poverissimi di intelligenza. Sostenere che gli Australopitechi fossero i precursori di quello che si definisce “l’uomo di Neanderthal” può essere anche vero, a patto che si provino i collegamenti diretti (come qualunque grandezza geometrica su assi ortogonali cartesiani) tra una specie e l’altra. Piuttosto è possibile fare un confronto libero tra quest’ultimo e “l’homo sapiens sapiens”. In 152

questo modo emergono però numerosi quesiti cui non è possibile dare una risposta, anche perché non è facile evitare il problema della scomparsa degli ominidi di Neanderthal. Alcuni ritengono che i nostri presunti predecessori si siano estinti per effetto di incroci e di ibridazioni, altri che siano stati deliberatamente eliminati. Un mistero ancora più profondo, perché più lontano nel tempo, di quello che avvolge la scomparsa dei Numidi, dei Fenici o degli stessi Longobardi. Quanto agli oggetti che sono stati rinvenuti nei siti probabilmente occupati dai neanderthaliani, c’è chi pensa a una loro vita comunitaria con relativi rituali e sacrifici umani e chi ammette la comparsa di una forma elementare di spiritualità. Non è difficile obiettare però che gli stessi siti potrebbero aver dato rifugio a uomini veri dal cervello evoluto, la cui espansione in termini di massa cerebrale non può essere il risultato di modificazioni genetiche cosiddette “saltazionali”, come sostenuto da alcuni paleontologi. Ma allora chi erano costoro? Ho preferito il termine ominide, come il gentile lettore avrà notato, per liquidare in libertà come anticipato, una classificazione impossibile, la quale non consente di chiudere, perché attraversata da una serie enorme di anelli mancanti, la catena della evoluzione. Le serie mancanti non danno diritto di stabilire una discendenza né una cronologia, dal momento che il limite più breve tra una generazione e l’altra è di almeno 500.000 anni. Quelli di Neanderthal sono in realtà gli ultimi ominidi cui è pervenuta la selezione naturale, la stessa che non è riuscita e spiegare gli intervalli e le cadute selettive né a darsi una ragione dell’arresto dell’evoluzione umana a 40.000 anni fà. Ma la domanda di sempre, la più elementare e spontanea, è quella di sapere che cosa sepa153

ra “l’homo sapiens sapiens” dagli esseri primitivi che gli somigliano. Non è un attributo pleonastico e non è nemmeno una ripetizione; essa fa riferimento a una duplicazione della corteccia cerebrale, la cosiddetta “neocorteccia”, la quale si sarebbe sovrapposta a una corteccia più antica che appartiene a tutto il mondo animale, la “paleocorteccia”. Ebbene è proprio l’aggiunta di questa sottile lamina grigia di pochi millimetri di spessore, altrimente detta “pallio”, che viene considerata come l’esempio più esaltante di selezione naturale. La stessa corteccia che fornisce la stranezza della ragione e sfugge al rigore dell’evoluzione, anche perché “l’homo sapiens sapiens” appare dopo una pausa di oltre un milione di anni sotto forma di uomo di Cro-Magnon. A differenza dell’ominide di Neanderthal, questi ha un bel viso, un profilo regolare, una fronte ampia e piana, barba e capelli fluenti. Si pretende discenda da un ramo collaterale degli Australopitechi Africani, i Ramapitechi, ma è difficile accettare una simile ipotesi per spiegare la provenienza di chi ha percorso l’itinerario degli antichi patriarchi, prima di stabilirsi in Europa. “L’uomo di Neanderthal” ha caratteristiche somatiche che lo distinguono nettamente dall’uomo moderno. La fronte sfuggente e l’ampiezza enorme dei seni paranasali, con conseguenze sulla struttura della base cranica, farebbero pensare a una riduzione anche notevole dei lobi frontali e parietali, ma anche a un aumento volumetrico dei lobi occipitali. Sarebbe questa una condizione negativa per affermare la presenza del pensiero astratto e la possibilità di una verbalizzazione fluida e finemente articolata. Sarebbe ancora una condizione negativa per ipotizzare un comportamento ispirato a principi etici ed estetici. 154

Di recente è apparso sulla rivista “Nature” – Marzo 2000 – un articolo in lingua inglese col quale si mette in evidenza la distanza genetica e la diversità di Neanderthal dagli uomini moderni. Tale distanza è stata dimostrata dalla difformità del DNA su due campioni di fossili delle zone di Feldhofer e del Caucaso. “L’uomo di Neanderthal esce così di scena e non appare più sul nostro album di famiglia”. L’interesse per il problema dell’evoluzione ha il fascino dei dubbi che attraversano tutta la nostra esistenza, al punto che se non compaiono fatti nuovi, la sensazione più ricorrente è quella di trovarsi da sempre in mezzo a un guado. Neanderthal infatti è un fiume. Dalle opposte rive due viventi si sono incontrati e probabilmente non si sono parlati; solo uno dei due avrebbe avuto il dono della parola. Molti non lo ammetteranno, ma Darwin viene smentito dal progredire delle conoscenze.

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IL GRANDE VUOTO

L’avventura umana comincia in Africa centocinquantamila anni fà, quando da un ramo dell’Homo Erectus si sarebbe separato l’uomo attuale. Ma l’evoluzione culturale inizia col Paleolitico superiore (10.000 a.C.) in alcune regioni del continente europeo: Francia Cantabrica, Urali, Spagna, dove sono state rinvenute pitture rupestri, sculture di animali, statuette femminili: tipiche espressioni di un’arte squisitamente primitiva. Con l’età del bronzo si chiude l’epoca della preistoria e si apre quella della storia. Tuttavia per il nostro interesse le civiltà fiorite in Mesopotamia, Egitto, Micene e Asia Minore fanno parte a pieno titolo di quella avventura umana che indichiamo di solito col termine di evoluzione culturale. La stranezza di questo processo, che mancherebbe di continuità se fosse veramente evolutivo, sta nell’intervallo vuoto che divide la fase di maturazione intellettiva da quella irrazionale, in un essere dotato di uno strumento straordinario, il pensiero, che lo pone all’apice della piramide zoologica. Separare poi l’evoluzione biologica da quella culturale significa anche stabilire la data di inizio delle facoltà razionali dell’uomo, in coincidenza, lo si voglia o no, con l’atto biblico della creazione. Ciò viene in aiuto 157

di coloro che credono in una evoluzione iniziata in un tempo relativamente recente e avviata verso quel punto “Omega” di cui parla Teilhard de Chardin. Proposte in ogni senso tentano di colmare quel vuoto, ma vengono smentite quando lo sforzo di fare accettare l’evoluzionismo si serve anche di stranezze antropologiche e di reperti fossili costruiti ad arte. Possiamo allora cercare di capire perché è mancata all’uomo primitivo la capacità di mettere in atto la sua intelligenza. Non si tratta beninteso di eludere il problema della nostra discendenza dalle scimmie, da molti data per certa; piuttosto di stabilire, in alternativa, se la nostra comparsa sia stata improvvisa e mediata da una Volontà Superiore; perché la conclusione alla quale perveniamo si presenta sempre contraddittoria: in perfetto stile Kantiano. Anche Platone dialogava sull’esistenza dell’anima, ma sosteneva un dibattito privo di soluzione, definendo come “aporia” l’incertezza che si involge in una contraddizione. Dunque problemi determinati dall’incertezza; anche perché l’impianto logico di cui disponiamo non è adatto a individuare il ruolo che ci è stato dato di rappresentare e gli strumenti che possediamo, per quanto sofisticati, non sono in grado di misurare ciò che avviene in natura e fuori di essa, tutto essendo soggetto alla legge di indeterminazione. Da ciò discende che la cultura può essere concepita come tensione a svelare i segreti dell’Io e a conoscere il nesso tra gli oggetti esterni e il simbolismo mentale che li rappresenta, senza pretendere di raggiungere obiettivi impossibili, situati di là dalla linea di comprensione razionale. Sono occorsi centinaia di migliaia di anni prima che gli uomini si rendessero consapevoli della esistenza di un nucleo di rappresentazioni formali, trascendenti 158

l’ordine naturale delle cose. I vincoli derivanti dalla sua condizione di animale randagio, l’azione tenacemente coattiva di un territorio impervio, così come i pericoli di una fauna esuberante, avrebbero allungato indefinitamente i tempi dell’emancipazione sociale e impedito il suo distacco dall’ambiente naturale. Per millenni l’uomo si sarebbe raffigurato il mondo in maniera diversa e questo non avrebbe lasciato spazio per un ripiegamento riflessivo su se stesso e sulla sua condizione. Mi domando allora se è concepibile un vuoto di centocinquantamila anni, senza che si siano manifestati i segni di una cultura magica o di qualche prestazione artigianale in forma primitiva. È evidente che questi segni compaiono quando l’uomo sente di possedere sistemi complessi con funzioni organiche e attività cognitive come quelle attuali. Tali sistemi hanno dimostrato la loro perfezione, sul versante culturale, solo diecimila anni fà; se è vero che l’evoluzione della cultura è cominciata solo allora. Ma per giustificare l’assenza di idee e di manufatti, alcuni paleontologi hanno ipotizzato un temporaneo isolamento di alcune parti del cervello destinate a funzioni diverse, anche se legate tra loro da linee associative. Altri hanno definito “ERA LIMBICA” questo lungo periodo di vuoto antropologico, facendo riferimento a una specie di anticamera dantesca entro la quale molte facoltà sarebbero rimaste sopite. La definizione è quanto mai significativa, ma non può essere attribuita a ignavia dei nostri progenitori. Si dà invece il caso che vi sia una parte nascosta del nostro cervello che viene chiamata “lobo limbico”; una struttura molto complessa situata all’interno dell’encefalo: specie di anello incompleto aperto in avanti, al quale viene attribuita una quantità di funzioni discrete: dal senso 159

dell’olfatto, all’emotività fino alla memoria recente. Se poi consideriamo che l’età media dell’uomo adulto non superava, all’epoca, i venticinque anni, ci si convincerà che un’attenzione allungata sulla vita e sul mondo non poteva essere ottenuta. Del resto i legami affettivi, dominati da rigida osservanza tribale, erano fattori connessi alla via emotiva, la quale impediva che spazi per la riflessione sistematica e per la contemplazione estetica potessero esistere. L’ERA LIMBICA riportata nella breve storia dell’uomo, definisce l’età delle prime esperienze, quella dominata dall’assestamento ormonale e dalle forti correnti emotive. Trasferita nella lontana preistoria occupa un periodo lunghissimo, del quale nulla è dato sapere. Il grande vuoto si conclude con quella che possiamo indicare come “ERA FRONTALE”, periodo che chiude, mediante una luminosa esplosione culturale, la interminabile tenebra. Queste brevi riflessioni servono a ricordare che esistono tuttora personaggi ambigui, i quali vorrebbero esercitare una azione soporifera sulla ragione. Ma la funesta lezione del novecento tiene svegli gli intelletti più critici, i soli capaci di reggere l’impeto delle emozioni. L’azione violenta, esercitata dalle insane ideologie del secolo scorso, oggi viene trasformata in blanda demagogia e in cauto sociologismo, con lo scopo di dirigere la emotività del singolo sul versante delle cattive intenzioni, al fine di raggiungere l’unanimità e il consenso. Abolita la linea di confine che definisce i concetti di Bene e di Male, secondo regole naziste di un moderno “Mein Kampf”, si assolvono assassini giudicati incolpevoli e ci si muove a pietà per i massacratori di parenti, dimenticando le povere 160

vittime, soprattutto vanificando la Giustizia. Poiché in questo momento importa l’ambiguità non la verità, si lascia ondeggiare il pensiero, il quale finisce per accettare per vero ciò che è falso. Non è vero che sia un bene la clonazione, perché è vero, terribilmente vero, il sacrificio degli embrioni. La nostra è l’ERA FRONTALE segnata dalla ragione, la quale distingue gli uomini dagli animali, anche solo per l’ampiezza della fronte.

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LA SCOMPARSA DELLE LUCCIOLE

Qualcuno ha lamentato in passato la scomparsa delle lucciole. Se non vado errato credo si tratti di un poeta. Del resto chi altri poteva richiamare l’attenzione su un ricordo perduto tra i sogni della fanciullezza e le lusinghe della giovinezza? O chi altri poteva avvertire l’emozione per un delicato fenomeno della natura o il tormento per un pezzo di cielo stellato caduto sulle valli o nelle forre? Ma le lucciole non sono scomparse. Vivono come le blatte da cinquecento milioni di anni nel putridume e nel pattume. Come le blatte hanno attraversato intere ere geologiche e resistito alle turbolenze del clima, alle glaciazioni e alle eruzioni con una indifferenza che mette in crisi i sostenitori dell’evoluzione a tutti i costi. Si tratta di un coleottero alato con organelli luminosi situati nella parte posteriore dell’addome, i quali non servono a mostrare la strada a ladri e viandanti, ma a emettere segnali sessuali. Da ciò la traslazione del termine verso le sfortunate ragazze che sono costrette, di notte, a battere il marciapiede. Sono quegli stessi coleotteri che in passato hanno rappresentato un grosso problema per i naturalisti, perché nessuno riusciva a dare una spiegazione della luminescenza e della regolare intermittenza. Dopo lunghe e 163

nate ricerche un grande biologo napoletano stabilì che si trattava di una sostanza fosforescente, la luciferina, prodotta da un catalizzatore chimico su un precursore privo di luminosità. Le lucciole non sono scomparse. Si sono soltanto rifiutate di deporre le uova nel brago fumante e ributtante delle moderne discariche. Il fenomeno però non ci lascia indifferenti. Dal momento che gli insetti fanno parte di un ordine naturale che essi stessi contribuiscono a mantenere allo stesso modo di tutte le altre costanti del mondo fisico, la loro definitiva scomparsa non è ritenuta possibile. Dipende da questo il motivo che ci induce a pensare a una semplice migrazione e non altro, verso valli lontane dove ci sia bisogno di più luce. Del resto come farebbero a sintetizzare qui da noi le sostanze di cui hanno bisogno se abbiamo allontanato l’odore degli stabbi e disperso il profumo delle caprifoglie? Nel mondo in cui viviamo non c’è posto nemmeno per la poesia, tanto che la mia generazione è costretta a collocare i ricordi entro le definizioni dissacranti che ci propone il mondo moderno post-industriale. Perciò si parla, senza dissimulare l’ironia, di “poesia crepuscolare”. Ma chi da un aereo osserva di notte le luci della baia di Rio de Janeiro o quelle del golfo di Napoli, soffre il momento romantico dei poeti di tutti i tempi. Così lo spettacolo stupendo che offrono le verdi colline della Presila, quando nelle notti illuni qualcuno guarda il mare di luci della valle del Crati, viene trasfigurato in una realtà senza contorni, dove i colori si fondono nell’aria libera, non più rifratta dalla iridescenza magica del tramonto. La poesia non è scomparsa. Rivive da qualche parte in un ipotetico “Universo parallelo” alla cui diversità gli uomini non possono accedere, anche perché il protervo 164

mento nel contingente e nel mondano impedisce loro di gettare uno sguardo di là dal famoso velo di Maya e di scoprire, una volta per tutte, le ragioni della irrazionalità e della violenza. Qualcuno ha definito la politica una “disgregazione dello Spirito”, giustificando il contenuto della frase con la impossibilità di fare coincidere quella nobile attività con l’ordine naturale delle cose. Una politica della disgregazione non avrebbe infatti il compito di illuminare, come le lucciole; non quello di trasformare, come le blatte; non avrebbe infine il compito di liberare, come l’arte o la poesia. Se per poco volgiamo lo sguardo al secolo che sta per finire, intuiamo, senza sforzo, che il crimine si afferma come struttura portante delle ideologie: la lotta di classe e l’annientamento dell’altro nel comunismo, la superiorità della razza e le camere a gas nel nazismo, il nazionalismo sciovinista e l’esaltazione della guerra nel fascismo. Vien fatto di concludere perciò che il millennio termina in maniera diversa da come era cominciato. Allora i barbari, che non avevano programmato i massacri né teorizzato sull’utilità dei fini, erano stati assorbiti nella rinascita delle città e della vita religiosa e culturale di tutto il continente europeo. Oggi la guerra ha termine con l’ultimo giorno del secondo millennio cristiano e la politica svanisce nel paradosso di un primato che non esiste, come tutto ciò che si fonda sul terreno falso del compromesso, della vanità e del potere. Saranno ancora le grandi personalità, le sole capaci di determinare il senso della civiltà e di segnare i momenti più importanti della storia intellettuale dell’Occidente, a dovere costituire, per i cosiddetti reggitori della cosa pubblica, le tavole di riferimento. 165

È opportuno a questo punto ricordare alcune grandi figure del passato; Socrate, che proponeva la virtù come scienza e rifiutava di prendere parte attiva alla vita politica; Francesco d’Assisi, messaggero di pace presso il Sultano; Lorenzo de’ Medici, personaggio singolare capace di offrire riconciliazione e amicizia al re di Napoli, suo nemico. Non può pertanto destare meraviglia se L. Tolstoj considerava grandi criminali gli imperatori che si coprivano di gloria sui campi di battaglia. Ma una “disgregazione dello Spirito” non appare tuttavia possibile, nemmeno in riferimento alla politica. La definione essendo non solo eccessiva ma forte. Nella sua natura olistica lo Spirito non può essere coinvolto e disciolto nelle onde che si frangono in schiuma sugli aridi scogli delle attività umane e non può discendere in lingue di fuoco su coloro che non fanno della politica un apostolato, perché la politica può anche essere un apostolato. Basterebbe ripercorrere il cammino che da Ur, città della Mesopotamia, conduce al monte Sinai, per ricomporre gli innumerevoli frammenti di una legge tuttora spezzata. Nel mondo moderno non tutto è destinato alla estinzione; si estinguono le specie, ma non si estinguono i generi e l’azione politica rimane una delle attività del genere per eccellenza. Essa può scomparire, come scompare, per eccesso di partecipazione, per scoppio di passioni, per liberazione di istinti. Ma non può essere giammai considerata una “disgregazione dello Spirito”. Peraltro la scomparsa delle lucciole – che non è solo una metafora – dovuta alla scarsità di ossigeno, alla riduzione degli spazi di silenzio ma anche alla assenza di atti responsabili, acquista in questo modo un grande significato simbolico; può rappresentare una eclisse 166

di valori, se si pensa alla notevole caduta di tensione morale, alla mancata difesa dell’unità della famiglia, soprattutto se ci si sofferma sulla indifferenza di fronte al genocidio embriologico. Come i tempi incerti della politica, le lucciole vivono nascoste nello strato di terreno infimo delle blatte; ma si spera che un giorno ritorneranno. Ritorneranno la prima notte del duemila per fare luce sul nuovo millennio. Bisogna veramente sperare che ciò avvenga. È importante la Speranza.

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LE ILLUSIONI DEL DOTT. WHITE

La strana circostanza che qualcuno, approfittando di una stagione favorevole al progresso scientifico, stia cercando di strappare i fili sottili che legano alla vita la realtà profonda dei pensieri e dei sentimenti, appare come il tentativo spregiudicato di una impresa da pionieri senza scrupoli. Si tratterebbe, se questo si realizzasse, di un taglio irrazionale delle radici della conoscenza. Il fatto stesso che nessuno, in secoli di storia, sia riuscito a definire il modo di essere della nostra condotta morale e a giustificare l’origine e il destino di una realtà spirituale che ci appartiene, non significa che dobbiamo distruggere il complicato dispositivo neurale, solo perché non siamo riusciti a capirlo e a decifrarlo con immediata chiarezza. Si tratta, nel nostro caso, di uno di quegli “equilibri discontinui” della evoluzione culturale, caratterizzati da lunghi periodi di stasi, durante i quali la riflessione, non la rinuncia, tende a farci ritrovare la fiducia e ad infonderci l’amore per la ricerca. In una scena di un vecchio film “Shinue l’egiziano”, ispirato a un racconto storico-fantastico del tempo dei faraoni, un venerando cerusico era intento a trapanare il cranio di un paziente, probabilmente affetto da un grosso ematoma post-traumatico. Senza avere 169

conoscenze di anatomia e di fisiologia, tanto meno di neurochirurgia, i “vecchi saputi” del tempo intuivano sempre la presenza di un processo patologico disturbante lo svolgimento delle attività fisiologiche naturali. Nella stessa sequenza, a un certo punto, appariva un giovane assistente interessato allo scenario operatorio: “Ma cosa c’è qui dentro?”, chiese incuriosito e spaventato ad un tratto. “Questo nessuno lo sa” rispose solenne il vecchio chirurgo. Dopo seimila anni abbiamo scoperto soltanto che nel nostro cervello vivono piccoli organismi cellulari, i quali si danno la mano e costituiscono una catena umana da qui all’infinito. Sono gli ineffabili neuroni cerebrali che popolano la cosiddetta neo-corteccia, di cui sappiamo molto e molto poco ad un tempo. Insigni studiosi come Flourens, Broca, Wernicke hanno tentato di capire alcune funzioni e cercato altresì di localizzarle in centri o zone circoscritte che portano il loro nome. Ma le moderne ricerche considerano reliquati storici queste antiche tendenze localizzatorie. Oggi si parla di “CERVELLO MODULARE”, volendo significare che ogni circuito cerebrale ha una sua naturale capacità conoscitiva. Questi circuiti, secondo molti ricercatori, possono essere sostituiti con altri aventi la medesima funzione ma anche la stessa disponibilità di riserve cognitive. Per ora nessuno azzarda l’ipotesi che in avvenire esperti operatori di informatica possano effettuare un inserimento dall’esterno di microcircuiti artificiali. Se ciò avveniese, un maggiore impegno interpretativo ci porterebbe a dare alle nostre operazioni intellettive una definizione più fisiologica e razionale. È quanto auspicano psicologi e neurofisiologi evoluzionisti, arroccati da sempre su posizioni cosiddette “progressiste”, 170

di dell’illuminismo e del positivismo logico dell’età contemporanea. Ma non sarà così. La stessa signora Rita Levi Montalcini, laica e atea per sua definizione, ha finito per ammettere, in un libro dal titolo significativo “La galassia mente”, l’impossibilità di capire dove risiedono e come si svolgono le nostre attività mentali. Di fronte a questa verità, espressa sottovoce da una donna di grande intelligenza e di intensa preparazione culturale, esistono, a mio avviso, due sole strade: quella della scienza e quella della fede, di là dalle quali non resta che ritirarci nel ridotto dell’Io e condividere in pieno lo slogan di un recente meeting: “L’Ignoto fà paura, ma il Mistero è pieno di fascino”. Senza condividere l’ipotesi di un “cervello modulare”, il fascino del mistero che aleggia sull’organo più complesso dell’universo, mi fà sentire anche l’umiltà del dono ricevuto e riflettere sulla magnificenza dello scrigno calcifico che lo contiene. In esso, come nella cella di un tempio, Qualcuno ha posto un atomo di luce affinché, per infinite strade, tutti lo cercassero, per essere illuminati senza essere abbagliati. Vorrei ricordare a proposito una vecchia leggenda indiana quanto mai significativa. Gli dei riuniti in consesso volevano decidere di celare all’uomo la verità su se stesso e sul suo universo. Ma dove nasconderla? Qualcuno indicò la montagna più alta (l’Everest?), ma gli fu subito risposto che gli uomini l’avrebbero raggiunta. Altri pensarono alla profondità dell’oceano (la fossa delle Marianne?), ma si capì che ci sarebbe stato un uomo coraggioso (Piccard) che prima o poi l’avrebbe intravista. Fu l’intervento del padre degli dei a stabilire che la verità doveva essere nascosta all’interno dell’uomo. Da quindici anni o quasi il dott. White, un neuro171

chirurgo americano, tenta, non si sa con quanto successo, il trapianto della testa, ovviamente servendosi di animali anestetizzati e decapitati. Qualcosa pare sia riuscito a fare collegando arterie e vene e qualche filuzzo nervoso di non secondaria importanza. Probabilmente lo stesso dott. White si propone di dimostrare che in fondo la testa, e per essa il cervello, è un organo come tutti gli altri, con la stessa disponibilità naturale ad essere trapiantata. Avrà anche inventato un collante il dott. White, capace di stabilire, come per il legno, una continuità tra le nobili e delicate strutture nervose. È evidente che non si preoccupa affatto di quell’enigma interno, nella profondità del quale gli dei avevano deciso di nascondere la verità. Non se ne preoccupa perché considera il cervello un sistema funzionale alla stregua del cuore, a sua volta degradato a pompa aspirante e premente, non più considerato come sede degli affetti e delle emozioni. Ma questo è un altro discorso. Non si tratta di sapere dove il dott. White troverebbe una testa da trapiantare, dal momento che a Piazza della Concordia ci sono soltanto roulotte in sosta, né di convincerlo a chiedere perdono per tutti i decapitati, realisti e rivoluzionari compresi, ma di sapere se effettuerebbe una “decorticazione”, una “decerebrazione” o una vera e propria “decapitazione”. In tutti i casi, di là dalla spontanea ironia, come farebbe a trasferire le sensazioni del tatto, del dolore, del freddo e del caldo, della localizzazione dei visceri e degli arti, le cosiddette sensibilità profonde? Come farebbe a mantenere la rappresentanza in sede corticale di ciò che è posto in periferia? E ancora come potrebbe ristabilire l’omologia tra cervello e soma e l’analogia tra strutture centrali e periferiche? 172

Ci si domanda quale sarebbe il destino del linguaggio, una volta separato dal suo sofisticato comparto articolatorio e fonematico. Ammessa la possibilità dei collegamenti – impossibili in eterno – la trascrizione sulla superficie o nella profondità dell’encefalo della infinita serie di impulsi provenienti da tutto l’organismo, non sarebbe possibile su un cervello diverso. La diversità, ove fosse effettuata, darebbe luogo a un disordine completo all’interno di ciò che approssimativamente possiamo definire, con la voce di Kant, come schemi e, con la fantasia di Restak, come moduli. Moduli e schemi che si sono costituiti nel tempo, sulla base di giunzioni irripetibili sia con l’ambiente interno somatico che col mondo esterno. Non sarebbe comunque un ritorno nel caos e nemmeno un trionfo dell’entropia. La personale convinzione della supremazia di un principio antropico, mi fà concludere che l’uomo non può essere disfatto e la mente non può essere negata. Chi lo impedisce, di là dalle personali convinzioni, sono i custodi di leggi eterne, esploratori dello spazio e del tempo: i pochi scienziati più vicini alle barriere della fisica, meno lontani dai confini della metafisica.

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I DUE FANCIULLI

Nel libro che mi trovo tra le mani c’è una poesia di Pascoli che mi è cara: “I due fanciulli” (oltre l’Aquilone e il X Agosto s’intende). È una delle più vere, semplice e bella nella prima e nella seconda parte. La conoscevo da ragazzo e l’ammiravo, anche se poi mi procurava un certo sgomento, risolto alla fine da una conclusione non triste che mi rasserenava. L’età della mia fanciullezza – acerba fanciullezza – quella che non mi faceva capire due cose: la prima era la costanza e l’impegno di mio padre nel sostenermi negli studi – lui non li aveva potuti continuare – e la seconda era l’acquiescenza ad una tirannide edulcorata, accettata con l’entusiasmo di chi si contenta di possedere una divisa. Ed io l’avevo una divisa; era quella che mi faceva sentire diverso, perché vestito con una certa sobria eleganza e dotato di una piccola serena avvenenza. Ero un avanguardista della più indulgente vanità, molto diverso da quelli che verranno dopo, di cui si è perduta la traccia, esperti d’arte, di sociologia, di politica. La diversità mi fà tuttora detestare queste avanguardie, perché non riesco a cogliere il nesso con una divisa (non ce l’hanno), ma sopratutto perché il nuovo che esprimerebbero o che avrebbero voluto esprimere è rappresentato da una non qualità 175

e da una non quantità: il Niente, moderna versione della vacuità intellettuale e morale. Non si possono fare al Niente concessioni – politiche, amministrative, governative, filosofiche – perché non è soggetto né predicato, possiede le qualità dell’immaginario paranoico in pensatori del Nulla che non concretizzano e non costruiscono. Una breve riflessione. Se il Nulla è alla fine del processo evolutivo il mio sforzo di capirlo e di interpretarlo sarà stato vano; se è all’inizio l’evoluzione non avrebbe potuto avere corso. Dunque il Nulla è alla fine del processo evolutivo. Faremo un giorno tutti naufragio nell’infinito mare del Non-Essere. Avverto la ripugnanza. Avverto il bisogno di continuare il sogno e di colloquiare con il Tutto. Ma di perdono, di libertà, di pace. Se così non fosse, se accettassimo la più barbara delle negazioni, finiremmo con l’infrangere la logica del Creato e col consentire all’autore più celebrato del Nichilismo moderno di gridare alla Luna e di chiedere a se stesso, incredulo: “Ed io chi sono?” Porsi la domanda e già sapere di essere. Il Nichilismo, suo malgrado, annega nell’universo della soggettività. In fondo nella poesia di Pascoli i due fanciulli costituiscono la ovvietà soggettiva, la verità di un realismo bifronte: pace e guerra. In ognuno di noi vive alternativamente uno dei due fanciulli, con “in cuore un’acre bramosia di sangue”. Però facciamo presto a trovare in altri colpe che non hanno, a scrollarci di dosso la nequizia, la sporcizia, a scaricare, oltre l’ignavia del prossimo, la causa della strage degli innocenti. Sono l’odio e la protervia che sconvolgono il giuoco e mettono di fronte due piccole esistenze, divise più che mai da propositi violenti. Non è solo una considerazione priva di consistenza, una 176

statazione basata sulla conoscenza della natura umana. Tutto nell’uomo concorre a costruire una singolarità, cui forniscono continuità sensazioni, percezioni e infinite altre stimolazioni; tutto alla fine concorre all’edificazione di un organismo avaro di significato. È l’esistenza stessa del singolo e della società che impone, quando lo impone, il problema della sopraffazione e dell’offesa. Da qui la lite e la contesa. C’è chi considera la guerra un riflesso condizionato, da uno stimolo esterno assoluto. Basterebbe però ridurre alcuni impulsi eccitanti per spegnere definitivamente la risposta. C’è chi la considera un tabù, ma la presenza di figure carismatiche potrebbe segnare la fine di ogni crudeltà. Infine ci sono quelli che dissertano di psicanalisi e parlano di complessi: di sopraffazione, di prevaricazione, di conquista. Anche in questo caso la ragione mostrerebbe la strada per moderare le asprezze e neutralizzare la belluinità. Che ci sia un gene della guerra che contribuisce a modellare le persone e a definire il carattere dei popoli? Non è possibile saperlo e non mi sembra che non ci sia un controgene come quello che non codifica per le proteine. (Una serie di “non” che non è possibile evitare). Secondo Milan Kundera “l’uomo è per sua natura aggressivo… la guerra è il suo destino… e il progresso tecnico la renderà sempre più terribile”. In fondo è un problema di libertà, con in più la stravaganza della guerra giusta. Essa segna il confine tra bene e male. Esistono personalità eccezionali, come nel caso dei due fanciulli: la Madre, capaci di rifondare la storia e di farci continuare ad amare. L’uomo ha bisogno di sognare, che la guerra non ci sia; ha bisogno di qualcuno che accenda un lume e lo protegga con la mano. 177

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NOI E GLI ALTRI

“Se non avessimo parlato con gli altri e gli altri con noi, non potremmo mai parlare a noi stessi e con noi stessi”. È un’espressione apodittica, ma è l’espressione di chi si è interessato di linguaggio e di estetica come Dewey. Secondo questo autore una volta che ricevono un nome gli eventi conducono un’esistenza indipendente e doppia. È già tanto che un autore come Dewey attribuisce agli eventi una doppia esistenza. Notiamo che le due proposizioni sembrano tra loro indipendenti ma il legame è costituito appunto dalla esistenza doppia degli eventi. In fondo è una risoluzione diversa del problema che aveva tenuto desta la mente di Russel, quando affermava che ogni atto mentale, così come ogni evento o fatto, per giungere al significato deve essere ridotto a puro oggetto fisico. A questo punto sono due le osservazioni che si possono fare: 1) Per condurre una esistenza propria, oggettuale e indipendente, gli eventi devono ricevere un nome. Ma gli eventi, come gli oggetti, non si danno un nome da se stessi, non si attribuiscono un nome. Occorre che qualcuno li giustifichi e li faccia rientrare nelle categorie ristrette di cui la nostra mente dispone. 179

2) Noi possiamo parlare con noi stessi solo dopo che abbiamo parlato con gli altri. È un discorso lungo che ci porta lontano e ci pone alle dipendenze dirette, ma estranee, di una classe o di una entità sociale, se è vero che il linguaggio dà a ciascuno di noi la rivelazione di Se nel rapporto reciproco con l’altro. Che gli altri abbiano importanza per noi e per la nostra esistenza è un fatto innegabile, avendo essi, gli altri, maggiore validità dello stesso ambiente naturale, circostante e neutro, nel quale siamo immersi. Il fatto è che non sono le forze sociali a costituirsi primitivamente come persone, né a dare consistenza alla coscienza e alla ragione. È il nostro essere sociale che subentra all’essere primordiale di cui siamo espressione. Da ciò non deriva che il linguaggio si costituisca in direzione del rapporto con gli altri. I linguisti moderni rifiutano di considerare il linguaggio come qualcosa di assolutamente autonomo, ma accettano di farlo rientrare nell’ambito della esperienza comportamentale, o per lo meno di dargli come base o senso il comportamento. È un richiamo alla teoria dei riflessi condizionati, i quali se hanno validità per i cani di Pavlov, non ne hanno invece per un essere consapevole come l’uomo. Entro questa prospettiva non si può considerare il linguaggio “come un prodotto profano della mente umana, le cui origini vanno ricercate nel mondo pratico e sociale”. Esso entra nella costituzione personale come elemento non limitante, veicolato da strutture fisiche che fanno integralmente parte di quella stessa costituzione. Sul piano degli eventi che prendono forma all’interno delle attività cerebrali, bisogna ricordare che l’elaborazione sintattica, cioè la posizione della 180

la nella frase, si verifica a livello tempero-frontale sinistro, mentre la comprensione del significato di ogni parola è rappresentata nelle regioni temporo-parietali dello stesso emisfero. Vi è, come si vede, una zona di collegamento: il lobo temporale sinistro, che introduce al significato, dopo avere collocato le parole in un contesto sintattico e logico, frontale. Da ciò si deduce che il contesto sintattico precede il significato delle parole. Nella perseverazione, come nel delirio, il linguaggio non riesce a correggere le distorsioni, proprio perché è venuta meno la possibilità di collegare le attività dei diversi lobi tra loro. Sappiamo del resto che il lobo temporale è la zona uditiva per eccellenza, dove l’ascolto produce la logica, di competenza del lobo frontale e il signifcato, di competenza del lobo parietale. Noi riteniamo altresì che ogni conoscenza sia archiviata sotto forma di unità, che non possa essere disgregata senza il venir meno della sintassi e della semantica. Una patologia minimale non altera il senso comune delle frasi e i concetti astratti, che hanno un loro substrato, vengono destrutturati solo per patologie più importanti. L’astrazione viene raggiunta ed emerge dal numero infinito di microstrutture, che si organizzano e operano su realtà universali, questa volta rappresentate da quel “triangolo semantico” di cui avevano parlato gli antichi stoici. Il significato era per loro la realtà universale e lo è ancora oggi, dopo secoli di ricerca. “La parola manifesta l’essere del mondo, l’essere dell’uomo e l’essere del pensiero e il linguaggio è il punto di incontro del reale e del vero nella coscienza dell’uomo”.

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LA PERDITA DELLA MEMORIA

Leggo sul “Corriere della Sera” del 1º Agosto 2005, un articolo dal titolo significativo: “La perdita della memoria e il disastro di una civiltà”. L’autore, illustre sociologo, mette in evidenza le mutazioni psicologiche e comportamentali che conseguono alla incapacità di esprimere la realtà storica servendosi di quella facoltà, la memoria, che consente agli uomini di essere illuminati dalle esperienze del passato. Il fatto che in occasione di un esame di recitazione presso il centro sperimentale di cinematografia, gli aspiranti attori non sapessero recitare nulla a memoria, nemmeno “La vispa Teresa”, ha sorpreso il sociologo e l’uomo di cultura. Ma così è. Se riflettiamo che in passato era di moda parlare male del “nozionismo”, espressione di significato negativo entrata nei dizionari per sbaragliare i1 termine memoria, non ci si deve sorprendere più di tanto. Forse i moderni pedagogisti, nella loro foga innovativa, hanno ritenuto fosse un lavoro stupido quello di mandare a memoria brani di lettura o versi di poeti illustri, dal momento che poteva essere svolta dal computer una fatica considerata inutile da professori e alunni. Sta di fatto però che gli aspiranti attori, secondo quanto riferisce l’Autore, impazziscono 183

do debbono imparare un copione teatrale, magari in inglese. Hanno fatto cadere nell’oblio, gli illustri pedagogisti, nientemeno che la memoria, creando confini artificiali alle manifestazioni della vita affettiva ed emotiva. Rientra perciò nel deposito degli eventi dimenticati la data dell’11 Settembre 1684 quando “l’armata guidata da Giovanni Sobiesky, innalzando lo stendardo della Madonna di Czestochowa, ha annientato l’esercito di 300 mila turchi che stava per conquistare Vienna”. Qualcuno però, dice sempre il sociologo, ha ricordato quella data e ha giurato di vendicarsi. Ma che cosa è o cosa rappresenta una facoltà che fonda il ritrovarsi della coscienza, la quale non può verificarsi senza il ricordarsi? Si può rispondere semplicemente ritenendo che la memoria sia “una struttura psichica che organizza l’aspetto temporale del comportamento, che determina i legami per cui un evento attuale dipende da uno accaduto in precedenza”. D’altra parte gli autori i quali hanno dedicato la vita allo studio della memoria (Lashley) affermano che, relativamente alla organizzazione dei nostri sistemi biologici, l’apprendimento non è in alcun modo possibile; eppure, contrariamente a ogni aspettativa, l’apprendimento si verifica. Questo modo di esprimersi è realistico proprio perché non è possibile sapere dove il cervello immagazina i ricordi. Una diversa ipotesi, anch’essa suggestiva, per quanto riguarda l’archiviazione dei ricordi, è quella che considera la memoria un processo di ricostruzione mediante l’assemblaggio di elementi mnesici sparpagliati e dispersi. Questo però non ci esime da una valutazione più scientifica, anzi ci fà trasferire le cose sul terreno del sistema nervoso e ci fà pensare alla presenza di 184

iti, a schemi dinamici combinati o anche scombinati e ricombinati dal tempo, ma soprattutto a una localizzazione dei ricordi, oltre che nel tempo anche nello spazio. I ricercatori della Stanford University infatti parlano di microstrutture o codici capaci di organizzare un ordito a livello di cellule contigue, in grado di stabilizzare la loro conformazione con la ripetizione e di interferire solo lateralmente con altre microstrutture affini. Ogni anno negli Stati Uniti parecchie migliaia di persone vanno incontro a perdita di memoria, consistente da principio in piccole amnesie, come ricordarsi di chiudere la porta di casa o di fare una commissione anche importante. Si tratta di persone al di là dei 55 anni di età, le quali perdono neuroni, specialmente in zone deputate ad attività di cognizione e di memoria, anche se questa perdita rientra in un normale processo di atrofia di elementi nobili del cervello. Senza dimenticare che la malattia di Alzheimer è in notevole aumento negli Stati Uniti – sembra che lo sia anche da noi – se è vero che in passato era poco nota e come tale abbastanza rara. Tutto questo deve far riflettere coloro i quali sono preposti alla definizione di programmi scolastici e alla formazione culturale dei giovani, per fare in modo che le nuove generazioni stabiliscano rapporti sociali meno aridi ed evitino di lasciare in abbandono la loro piccola e grande storia. In una rivista di qualche anno fa: “Gnosis”, alcuni studiosi di psico-neurologia pubblicavano un articolo dal titolo suggestivo: “La inutile ricerca delle traccie della memoria”. Lo scritto, di contenuto molto elevato, sosteneva che non sarebbe stato mai possibile rinvenire un centro della memoria, o tracce di essa, su 185

una superficie cerebrale corticale che ripete nelle sue strutture le dimensioni della galassia. Allora se la memoria non ha una sede e non appare come una trama dentro l’universo neuronale, come va considerata? Ritengo, senza dare per disciolti i soliti dubbi, che essa sia una facoltà della mente che interagisce con quei mondi cui Popper ha attribuito dei numeri: dell’istinto Nº 1; della coscienza Nº 2; dell’intelligenza, della morale e del linguaggio Nº 3. Ma non è solo questo. Considerata negletta e obsoleta ha avuto in passato il significato di mettere in atto un rifiuto delle esigenze che stanno alla base dell’apprendimento e fondano la capacità di espansione della conoscenza. Ma se per altre attitudini fisiche è necessario l’esercizio, anche per la memoria l’efficienza sta nel suo quotidiano allenamento. Dunque va esercitata. Trascurarla, come da programma, è detestabile colpa; creare confusione, come è stato fatto, è un grave errore, per essere benevoli.

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IL FUOCO GRECO

Non ricordo di avere mai visto un così grande numero di incendi devastare la penisola greca, né di essere stato testimone di un fronte di fuoco così lungo come quello che ha bruciato il Peloponneso, in particolare l’Elide, dove si trova, alla confluenza dei fiumi Alfeo e Cladeo, Olimpia e il suo celebre santuario. Nell’antica città si svolgevano, ogni quattro anni, le gare ginnico-sportive panelleniche, con afflusso di pellegrini da tutta la Grecia e la sospensione, per quella occasione, di ogni contesa politica e militare. Chi compie da turista il giro classico della Grecia si trova a fronteggiare una serie di emozioni, che solo un paese come quello può essere nella condizione di provocare. Da Patrasso a Delfi, il golfo di Corinto e il “Mare degli Ulivi” offrono uno spettacolo di acque azzurre e di alberi sempreverdi che si estendono per chilometri. Se penso che il fuoco possa avere lambito il “Mare degli Ulivi” e raggiunto Delfi, sono preso dal panico, perché mi rappresento la perdita di un patrimonio naturale e di bellezze artistiche che appartiene alla umanità. Ma un greco, un vero greco non può dare fuoco alle sue città; non ci sarebbe stata Maratona se la virtù greca e l’ira non avessero prevalso e non prevalessero ancora. Da Delfi, attraverso una 187

nuova autostrada, si raggiunge Atene in poche ore, e qui, in questa città, il turista ha voglia di fermarsi diversi giorni, per visitare musei e luoghi dove sono conservate le memorie e i ricordi della più illustre città del mondo. Sull’Acropoli di Atene risplendono gli antichi monumenti di marmo bianco di Paro: il Partenone e l’Eretteo e il piccolo tempio ionico (rimosso e ricostruito) di Athena Nike. L’impressione che tra queste colonne aleggi lo spirito immortale di Fidia e che tra le cariatidi dell’Eretteo si aggiri l’anima erratica di Kallicrate, procura al visitatore un certo trasalimento. Ritengo che chi ha dato fuoco al parco nazionale che circonda da Nord la periferia di Atene, non può essere stato un greco. Il ricordo di Salamina non può dirsi spento e l’esempio di grandi uomini come Temistocle avrebbe rimosso i propositi incendiari. Il periplo della Grecia classica si svolge ancora lungo un itinerario che include l’Argolide fino a Nauplia, attraverso antiche città come Corinto, Micene e Argo. Ma quando il turista si trova di fronte alla “Porta dei Leoni”, ultimo esempio di arte cretese-micenea, ha l’impressione che il tempo si sia fermato e che la leggenda e il mito siano entrati con lui nell’attualità e nella storia. Dunque è un periplo che si conclude ad Olimpia, la cittadina del Peloponneso situata su un tratto di pianura che consente il riposo e apre alla riflessione. Nel piccolo museo le metope e i frontoni del grande tempio di Giove, innalzato da Fidia, hanno sfidato le ire degli uomini e i grandi incendi. Quello odierno ha lambito il museo senza toccarlo. Sono sempre lì ad aspettare il visitatore e il turista le metope di Alkamenes: Atlante e la sposa rapita e i frontoni che raffigurano la lotta dei Centauri e dei Lapiti, la gara di Pelope per il 188

possesso di Ippodamia e ancora le metope che rappresentano Ercole e le sue fatiche. A Olimpia l’arte classica oltrepassa la soglia del tardo arcaismo e si apre a una nuova chiarezza plastica. L’Ermes di Prassitele esprime ancora un sentimento di assorta malinconia, ma la figura si anima di una trasfigurata morbidezza e il capolavoro appare profondamente impregnato del valore eterno dell’ethos. Gli incendiari che hanno dato fuoco alla Grecia volevano la vendetta; ma i giorni nefasti di Troia sono troppo lontani, anche se il pianto di Ecuba non ha avuto mai termine. I prenci argivi hanno da secoli riscattato l’incendio e l’offesa attraverso la poesia, l’arte e la filosofia, ma le anime dei grandi eroi troiani non sono state placate.

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ELOGIO DELLA NEVROSI

Siamo certamente lontani dal pretendere di sferzare la morale del nostro tempo attraverso atteggiamenti che non ci riconosciamo e dall’irridere con una condotta irresponsabile istituzioni e sistema, ci troviamo invece nella posizione di chi gode di un’altitudine scientifica e di un contatto umano che per ragioni di luogo e di tempo non poteva pretendere di possedere il grande umanista di Rotterdam. È un giudizio personale intorno a un problema esistenziale che coinvolge gli uomini del nostro tempo ma che rifiutiamo di considerare entro schemi caratterologici estremamente rigidi, i quali escludono, per vizio di struttura, esperienze e vissuti. Gli uomini di cultura che hanno a che fare con nevrotici non sono soltanto medici e psicoanalisti ma anche filosofi, psicologi e sacerdoti, se non addirittura cultori di parapsicologia, di scienze occulte e di magia. E questo dà un significato alla affermazione secondo la quale la nevrosi non è una malattia – almeno da un punto di vista anatomopatologico – anche perché l’altissima percentuale di casi, il novanta per cento circa degli esseri viventi di tutto l’Occidente, rappresenta da sola una ragione valida di non morbilità, ammesso che l’esistenza di individui sani 191

sia una entità realmente classificabile. Le eventuali obiezioni che si rifanno alla caratterologia, alla tipologia per affermare cose contrarie a quello che stiamo dicendo, non trovano fondamento alcuno per motivi diversi: in primo luogo perché la nebulosità del confine impedisce una demarcazione precisa tra malato e sano, e poi perché l’incastrarsi di infinite combinazioni all’interno del tipo umano non consente, in via di principio, di parlare di soggetto sano e di soggetto malato. La nevrosi è un modo di essere del biotipo e non un semplice fenomeno culturale o un pattern di cultura alimentato sociologicamente. Se dessimo credito ai fenomeni della repressione sociale, della rimozione individuale o alle teorie del condizionamento, seguendo l’indirizzo storico impresso da gran tempo al pensiero scientifico, dovremmo aspettarci di assistere alla costruzione, da parte di politici, psicologi e sociologi, di un Io impersonale decorticato che si colloca magnificamente nella dimensione zoologica della colonia, ma non certo nella visione escatologica di attesa di un giudizio finale. L’impegno politico infatti, auspicabile e fecondo, si propone, quasi sempre, il fine di raggiungere singole posizioni di prestigio e di autorità e di trasferire la coscienza degli atti che l’uomo viene compiendo, come la consapevolezza dei suoi comportamenti, all’interno di una realtà sociale dove purtroppo i concetti di libertà, di singolarità e di solidarietà non sono più espressioni viventi e felicemente operanti. L’illusione poi che distruggendo il sistema ci si libera da insicurezze e da angoscie alimenta la vana speranza della eliminazione dei sussulti nevrotici collettivi. Così che in quelle società dove le condotte sono 192

te e gli atti umani culturalmente sintonizzati, non solo non si è eliminata la nevrosi, ma si è piuttosto inclini a giudicare e classificare in termini tragici di psicosi. Che lo sviluppo della personalità sia legato a variabili sociali e ambientali i cui stimoli e interscambi sono infinitamente vari e modificanti, è un fatto sul quale non discutiamo, ma non bisogna dimenticare il criterio soggettivante della nevrosi, che include nel temperamento gli aspetti psicologici dello slancio vitale e della lotta esistenziale. Il nevrotico sia che rimanga ancorato alle sue fobie dalle quali si difende con rituale stereotipato e penoso, sia che cerchi di richiamare su di sé l’attenzione degli altri attraverso atteggiamenti isterici discutibili, sia che sprofondi nell’angoscia più nera che toglie flessibilità alle sue preferenze affettive, resta nondimeno legato a radici vitali ove non giunge che il lontano timbro del registro sociale e l’eco confusa delle voci ambientali. È tutta la serie di domande sepolte sotto le incrostazioni delle culture che vengono superficializzate e analizzate. La precarietà dell’esistenza, la oscurità del destino – non dimentichiamo che il Fato è una creazione nevrotica – la delusione storicistica, la irriducibilità del rigore scientifico, le esigenze logiche della ragione, le divagazioni sulla libertà, l’attitudine all’immaginazione e alla fantasia, rappresentano serie di interrogazioni o zone di esplorazione dove il nevrotico si avventura sintomatizzando la lotta e trasferendosi sul piano informale catartico dell’angoscia. All’interno di questa sfera emotiva egli vive una sofferenza indefinibile e feconda, a volte somatizzante, che affiora dal profondo e si colloca sullo sfondo di una personalità tuttaltro che alienata. Poiché il sistematizzarsi dell’angoscia può avere anche un epilogo 193

infelice, il nevrotico reagisce sempre, liberando nelle forme sublimi dell’arte le sue tensioni spirituali, oppure illuminando di ragione filosofica il suo dramma o, infine, elevandosi alla intuizione mistica della Verità.

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SULL’EUTANASIA

Ragioni non politiche e nemmeno sociali ci impedirono molti anni fà di essere favorevoli al divorzio. Nel rispetto delle opinioni degli altri le nostre erano piuttosto ragioni religiose e antropologiche insieme. Da un punto di vista religioso ci era impedito di infrangere la sacralità del matrimonio e di venir meno a un giuramento prestato durante un rito sacerdotale che elevava ed eleva la fedeltà e l’unione a dignità di sacramento. Da un punto di vista antropologico eravamo convinti e siamo tuttora convinti del fatto che esistono nel mondo tanti uomini quante donne e che, pertanto, un solo uomo ha diritto a una sola donna. Basterebbe questo, ci dicevamo, per giustificare di per sé la monogamia, anche se poi le eccezioni e le combinazioni sono moltissime. All’interno del matrimonio monogamico infatti, tipico di popolazioni primitive che abitano regioni a clima non temperato, il rito matrimoniale assume tuttora un carattere unificante, che contribuisce a rinsaldare i vincoli tra le persone di uno stesso clan. Non solo, ma si ritiene, presso quelle popolazioni, che la stabilità del matrimonio favorisca la prestanza fisica e impedisca, all’interno del guscio parentale, il diffondersi dei contagi e delle malattie. Che ci fosse una immunità umorale e 195

te cellulare acquisita attraverso costanti antigeniche, era ed è tuttora una nostra opinione. Ma era anche l’opinione – almeno così ci sembrava – del più illustre esponente della scuola etnologica francese: Claude Lévi Strauss. Che esistesse inoltre la possibilità che la monogamia producesse, attraverso la stabilità, mediatori chimici capaci di interferire positivamente su strutture nervose che controllano l’equilibrio riflesso e il comportamento, era ed è tuttora una nostra precisa convinzione. L’argomento di per se interessante non è più attuale, come non è più attuale quello sull’aborto. Ma la tendenza odierna a considerare come atto di pietà l’eutanasia non ci impedisce di tornare sull’argomento; ci impedisce invece di ottemperare a quelle leggi che contrastano con la nostra formazione religiosa e morale oltre che col diritto naturale. Da ciò discende che la pretesa di una libertà che possa anche solo interferire su un processo ontogenetico in atto, non può essere condivisa. Così come non si può consentire di deliberare sulla interruzione dell’esistenza in vita di chi decide di non affrontare più un grande volume di dolore. In ogni caso una volontà esterna, cui non può dare leggittimazione l’interesse privato o la pietà popolare, agirebbe in violazione sia della legge naturale che di quella sopranaturale. La violazione, a nostro avviso, è messa in essere dalla carenza di consapevolezza e dalla turba mentale di un soggetto che vive nella penombra della sua coscienza. Volendo esplicitare meglio il nostro pensiero e senza ricorrere a inutili perifrasi, noi sosteniamo che l’eutanasia non è una libera scelta, ma una decisione intrapresa secondo automatismi svincolati da condizionamenti morali e 196

intellettuali, davanti a una catastrofe sintomatologica che coinvolge tutti i settori di un circuito vitale che va dalla vita di relazione a quella vegetativa, da quella emotiva a quella intellettiva. Va ancora sottolineato che al di là dei motivi di ordine bio-etico, che sono i più importanti, ve ne sono altri di carattere tecnico che debbono essere valutati, almeno da parte di chi si dispone, non legittimato, ad emettere un giudizio e ad eseguire una sentenza. I recenti progressi in anestesiologia, così come la conoscenza dei meccanismi di ricezione e di trasmissione di impulsi che raggiungono zone elevate di percezione del dolore, alimentano la speranza di un controllo notevole di questa forma di sensibilità. Al di fuori dei normali ranges terapeutici nessuna sostanza, in ogni caso, è lecito impiegare. Sta scritto da millenni. Se il dramma personale dunque ha una valenza esasperante, sono i rivolgimenti sociali di grande potenza tellurica che creano scompensi morali capaci di dar luogo a nuovi pregiudizi e tabù. Correnti di pensiero pseudoscientifiche, come l’evoluzionismo e la psicanalisi, e pseudofilosofiche, come il materialismo ateo, hanno disattivato i meccanismi della ragione determinando nell’uomo moderno il disagio o il declino della libertà. Impossibile oggi il grande slancio artistico, impossibile segnalare le diversità, ma possibili l’aborto e l’eutanasia. Una delle nuove porte della Basilica di S. Pietro è stata fusa da Giacomo Manzù, bergamasco come il Papa che aveva ordinato quella porta. In essa lo scultore ha profuso, nel bronzo dorato, il meglio di se stesso. In uno stile che ricorda lo schiacciato rinascimentale, più che il realismo delle porte dei grandi Battisteri o l’arcaismo gotico di quella del Filarete, 197

l’artista ha descritto, com’era nei desideri del Pontefice, i vari tipi di morte, compresi quelli per impiccagione e per annegamento. Ma non c’è, tra le splendide formelle, quella che ricorda la morte per eutanasia.

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FEED-BACK E DIALETTICA

I meccanismi di regolazione che si rendono evidenti ogni volta che si affrontano problemi di natura biologica e tecnologica o di carattere sociale e perfino di ordine morale, lasciano quasi sempre indecisi sulle prospettive reali di classificazione. Non si è sicuri se si tratta di meccanismi di autoregolazione o di automeccanismi di regolazione. È probabile però che si tratti di meccanismi di autoregolazione, dal momento che nessuno è arrivato a progettare una macchina che riproduca per intero se stessa. Per capire il funzionamento della regolazione automatica, ma sopratutto per costruire modelli di autoregolazione, si sono dovute concepire combinazioni che sono niente altro che la ripetizione di complesse relazioni psicologiche. Non si è trattato soltanto di costruire delle macchine, ma di costruire macchine capaci di controllare se stesse. Macchine in grado di correggere le deviazioni da esse stesse prodotte e di porre l’errore al punto di svolta di un procedimento che potrebbe definirsi come “logica dell’errore”. L’errore in questi congegni diventa l’avvenimento centrale, l’avvenimento costruttivo che fa “retroagire un effetto su una delle sue cause, permettendo così all’effetto di raggiungere il suo scopo”. Il sillogismo aristotelico sembrerebbe addirittura 199

capovolto poiché la conclusione che è l’effetto delle premesse ed è contenuta in esse, è causa, essa stessa, di un effetto che non era nelle premesse. Si pensi al regolatore centrifugo con cui Watt ha regolato la sua macchina a vapore. Il regolatore ha infatti una posizione, diciamo pure, extrasillogistica poiché mira a fare ottenere l’effetto che la macchina non prevede: regolare la velocità attraverso gli eccessi o i difetti della stessa. È la logica di quel procedimento retroattivo che gli specialisti dei servomeccanismi chiamano feedback. Abbiamo citato il regolatore centrifugo di Watt ma avremmo potuto portare come esempio brillante di regolatore naturale la cellula di Rensaw, inserita, come si sa, su un circuito diastaltico semplicissimo che è la ripetizione in chiave meccanicistica di una combinazione logica di tipo non aristotelico. Ma non è necessario considerare questi dispositivi come oggetti di riflessione per accorgersi come il feed-back metta in crisi i principi stessi di quell’annuncio messianico collocato a mezza strada tra scienza e filosafia, pseudoscientifico e pseudofilosofico, che è il materialismo dialettico. Come non è necessario ribadire il superamento, per negazione dialettica, delle prospettive sociali del marxismo o il riconoscimento di un impulso etico al di sopra della prassi economico-sociale, perché se ne rilevino le contraddizioni. La presenza del feed-back a qualunque livello, da quello associazionistico psicologico a quello biologico, da quello fisiologico a quello cosmologico, è la dimostrazione che la natura e la storia non procedono in modo dialettico, e che le leggi engelsiane sono inattivate da un fattore retroagente che blocca proprio al limite del capovolgimento della prassi la lotta delle 200

tensioni immanenti a ogni livello di sviluppo. Non si richiede perciò uno sforzo di intelligenza per capire l’interesse verso l’ecologia, ma si richiede una buona dose di anticonformismo per rifiutare il principio della necessità e della bontà della lotta di classe. Si direbbe, parafrasando Claude Bernard, che è la fissità dell’ambiente interno, la condizione fissa della libertà, a creare ostacoli nella direzione del progresso. Così noi ci troviamo storicamente collocati all’apice di un bivio: o continuare a modificare l’ambiente interno fino alla negazione dell’elemento originario che è punto fisso della nozione di coscienza, oppure impedire questo salto dialettico. Il primo corno del dilemma ci trova spostati progressivamente all’ingiù, verso il termine della condizione umana. Il secondo ci riporta, con movimento circolare, all’inizio della tesi primissima della logica. Il feed-back non solo opera un raddrizzamento della dialettica ma mette un grave ostacolo al verificarsi della stessa, e inoltre rende conto delle resistenze sorte da gran tempo verso l’evoluzionismo darwiniano. È infatti l’abitudine alla cosiddetta logica degli effetti che ci fa considerare ogni effetto, naturale o artificiale, come una entità chiusa simbolizzata da una circonferenza. La contingenza, ossia le influenze esterne, non hanno la possibilità di modificare niente all’interno dell’effettore, ed ogni effetto resta definito dai fattori che vi concorrono e dai legami che li uniscono. Se ora assumiamo come riferimento il fatto che singoli effettori possono avere anche funzione di prefattori nella determinazione di effetti più generali a carattere sociale, nessun grande effettore, compreso quello sociale, può generare effetti diversi da quelli possibili entro la trama dei suoi fattori. È quindi sullo scarto, che è la distanza dal valore teorico dell’effetto, 201

che agiscono le componenti non effettuali a carattere rivoluzionario. Ma è anche sullo scarto che lavora il feed-back. In conclusione, mentre il progredire della scienza smentisce una ad una le previsioni di Carlo Marx, si afferma decisivamente la irriducibilità della coscienza a elemento del grande meccanismo sociale. Ciò ha un notevole valore epistemologico, ma ha sopratutto un grande valore pedagogico, poiché al di là del ritorno alla indeterminatezza hegeliana, le acute osservazioni di quanti ritengono non utile, né immediatamente decisiva – per essere parecchio indulgenti – la palingenesi rivoluzionaria, ci sembrano confermate.

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“IL PASSATO DI UN’ILLUSIONE”

È il titolo di un libro pubblicato da Mondadori, il cui autore François Furet, storico di fama internazionale, ha tentato, riuscendovi, di elaborare una sintesi di tutti gli avvenimenti del novecento, con i suoi miti, i suoi entusiasmi e le sue tragedie. Si tratta di un grosso volume di oltre cinquecento pagine che nessun lettore disattento può accogliere con piacere, però quando qualcuno trova la forza intima di intraprenderne la lettura, subisce il fascino discreto della continuità e l’impazienza dell’epilogo. Ritengo sia da considerare un best-seller che molti leggono di soppiatto, forse per non arrossire di fronte ad uno specchio grandioso e nitido che riflette fedelmente immagini non chiare, non facili, né comprensibili. L’autore, scomparso di recente, si è sempre scoperto critico di ogni rivoluzione e il suo intento, che ha cercato di velare in un andante malinconico, è stato costantemente quello di suggerire ai propi simili percorsi più razionali, per raggiungere col benessere anche il momento della verità. Vorrei consigliarlo ai nostri giovani – tuttora compresi da un primitivo male di vivere – sopratutto perché il testo, di per se eccessivo e consistente, si presenta diviso in capitoli che possono essere letti separatamente. 203

Non è un caso che tale volume venga pubblicato in Francia, dove intellettuali del calibro di Sartre, Gide, Malraux, Aragon e Romain Rolland esaltavano l’Unione Sovietica come un grande cantiere dell’avvenire e scoprivano nel comunismo una continuità dialettica con la rivoluzione francese del 1789. Ma non è nemmeno un caso che a distanza di qualche anno, nella stessa Francia, si dia seguito alla pubblicazione del “Libro nero del comunismo”. Nello spazio di duecento anni gli intellettuali francesi non hanno avuto altri motivi di indagine se non quelli offerti da una società aristocratica, torbida e mobile ad un tempo. Avendo trascurato del tutto i problemi individuali questi intellettuali credevano di sollevarsi al di sopra della categoria del singolo, più complicata e perturbante, e guardavano, con interesse e da lontano, il Grande Fratello che, in nome di una ideologia totalizzante, si era attribuito il titolo di dominio assoluto su ogni cittadino. Se in Francia il marxismo è stato accolto nella sua versione originale di testo sacro, con le varianti insulse e prive di significato di un Althusser e quelle parallele di un Erich Fromm, in Italia si è tentato un sincretismo impossibile, allo scopo di guadagnare la benevolenza di una classe operaia intimamente cattolica. La svolta operata qui da noi, dopo la caduta del muro di Berlino, è degna della interpretazione di uno psicoanalista, perché sfugge il motivo per il quale milioni di persone, certamente mosse da istinto fortemente gregario, si siano spostate da est a ovest, da un meridiano all’altro senza opporre resistenza, con la sola eccezione di Rifondazione comunista. Non così si comportarono i musulmani di fronte a Carlo Magno: nessuna abiura e quattro mila decapitati. Ma non 204

è la stessa cosa. Di fronte al sacro romano imperatore i seguaci di Maometto offrirono la loro fede ardente e si immolarono, individuo dopo individuo, uomo dopo uomo; i seguaci di Marx, senza volto, si sono semplicemente spostati in massa, al seguito di un tribuno ormai senza più fede. Se non si fosse trattato di un banale istinto gregario avrei parlato di trionfo dello Spirito, di risalita della Ragione, di necessità del Bene. In Inghilterra, sostiene ancora Furet, le ragioni sovietiche del proletariato mondiale venivano sostenute da piccole aristocrazie di studenti che proliferavano a Cambridge. Le loro convinzioni erano profonde, anche se essi stessi si professavano credenti e non invocavano la fine di quella tradizione che aveva portato i loro genitori ad amare e servire l’Inghilterra. Detestavano i borghesi come tutti gli intellettuali europei, convinti come erano dell’imminente crollo del decrepito mondo capitalistico, ma sorretti sopratutto da una incrollabile fede nella vittoria del comunismo. Una delle università europee di grandissimo prestigio avrebbe fornito così all’Unione Sovietica uomini del tipo Philby, Mac Lean, Burgess: spie al posto di idee, traditori al posto di ricercatori. Ritengo, dopo una pacata riflessione sulle finalità di questa notevole pubblicazione, che Furet si sia lasciata sfuggire l’occasione per affrontare e illustrare le discutibili manovre pseudoscientifiche della scuola di Francoforte. Avrebbe messo in evidenza le responsabilità e l’influenza che hanno avuto i “manifesti filosofici della nuova sinistra” sulle masse studentesche dei campus americani e la profonda impressione suscitata in Europa e nel mondo dal Maggio francese, dalla rivoluzione culturale cinese e dal guevarismo. “Simboli questi di un periodo in cui la trasformazione 205

rivoluzionaria della società sembrava all’ordine del giorno”. Credo che i più grandi rappresentanti di questa scuola, Horkheimer, Fromm e altri, non siano più in vita. Altrimenti assisterebbero al crollo delle loro passioni ideologiche, sopratutto vivrebbero l’angoscia senile di Marcuse, per la caduta delle sue speranze di ricostruire un “marxismo critico” in grado di conciliare materialismo e idealismo. Riconsidererebbero, se in vita, da una parte l’utilità della perenne negletta filosofia e dall’altra la inutilità della loro proposta sociale di risolvere i problemi dell’uomo e della ragione attraverso l’economia. Crollato come scienza, come fede e come filosofia, il comunismo non aveva la consistenza di una scienza, non aveva la spiritualità di una fede, non aveva nemmeno la forza speculativa di una filosofia. Per essere una scienza avrebbe dovuto contenere un principio di causalità; le esigenze rivoluzionarie hanno dimostrato il fallimento di esperienze incompatibili con la morale naturale. Per essere una fede occorreva un maggiore ripiegamento verso l’uomo e una valutazione profonda della sua autonomia. Per essere una filosofia non poteva ignorare secoli di pensiero costruttivo anche se contraddittorio, né pensare di costituirsi come modello di perfezione, tanto meno poteva considerarsi pervaso da una “energia totalistica” in grado di investire tutti i settori dello scibile. Unico esempio storico di esaltazione del “negativo” come fattore e motore di processo e progresso della realtà, ha avuto il nefasto privilegio di rovesciare tutto e di decretare la fine della storia, dell’arte e della filosofia. Ed è proprio guardando al passato di questa illusione che bisognerebbe smettere di usurpare metodi e primati che la ragione non concede e di considerare la politica una categoria 206

a se stante. Nel mondo moderno solo la scienza e la creatività possono garantire agli uomini benessere e libertà, al di là del piacere sanguinario delle deprecabili rivoluzioni. Nel comunismo vi sono stati anche eroi puri inconsapevoli; se ad essi vanno concesse delle attenuanti non significa che si possono proporre come modelli. Gli ottantacinque milioni di vittime del comunismo in tutto il mondo non lo consentono.

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“IL SECOLO DELLE IDEE ASSASSINE”

È il titolo di un libro di un autore inglese, lo storico Robert Conquest, il quale cerca di capire i motivi che hanno reso possibile la trasformazione di una società schiavistica e feudale – ma ancora capace di produrre il pensiero e perciò la rassegnazione – in un immenso formicaio. Una costruzione titanica fondata su una serie infinita di riflessi condizionati, utilizzati all’interno di una elaborata quanto diabolica sovrastruttura ideologica. Si pensa debba esistere un divario tra la costanza assoluta dei riflessi e la maniera di essere della ideologia. Ma non è così, perché il padre della reflessologia, Pavlov, considerava tanto il pensiero, quanto l’autocoscienza e la libertà, come riflessi condizionati, acquisiti nel corso di un lungo processo evolutivo. Infatti, per rimanere in argomento, egli riteneva la libertà come un “riflesso di fuga” rispetto ai poli opposti di una coppia: eccitazione-inibizione, dovuta a stimolazioni diverse provenienti dal mondo esterno, o interno. Sarebbe lungo argomentare alla maniera di Pavlov sulla libertà e sull’autocoscienza, mi limiterò a ricordare il rifiuto dello scienziato di fronte alla pretesa di utilizzare le sue ricerche per fini politici. Consapevoli del fatto che il potere totale e 209

logia totale si sostengono reciprocamente, gli epigoni del pensiero ottocentesco erano nella condizione migliore per entrare in possesso di un corpo dottrinario che desse legittimità a una società totalitaria. Tale corpo dottrinario, elaborato successivamente con spregiudicatezza e impegno pseudoculturale in settori del mondo accademico cosiddetti avanzati, in fondo esprimeva l’idea che tutto si riduce a una lotta per il potere. Infatti non sfuggiva a taluni e non era considerato marginale il principio che la lotta per il potere fosse la condizione necessaria per agire sull’economia, sulla morale e soprattutto sulla libertà individuale. Del resto qualcuno già in passato si era appellato alla cosiddetta “volontà generale” per dare inizio, attraverso un processo pedagogico-culturale, al superamento del concetto di singolarità e al disfacimento totale dell’uomo all’interno della società e della storia. Tra le cause che avrebbero contribuito a coprire di fascino ideologie perverse, ci sarebbe stato, secondo lo storico inglese, l’uso e l’abuso del suffismo “ismo”, da applicare e applicato alle opinioni, soprattutto alle idee, per fare in modo che tutti ne subissero il fascino e ognuno convenisse sulla loro validità. È una considerazione squisitamente psicanilitica che spiega la celebrità conferita a personaggi mediocri, ma soprattutto chiarisce l’inganno e la menzogna del comunismo, del fascismo e del nazismo. Tuttora si cercano nel “Femminismo” e nello “Ambientalismo” radici etiche, estetiche e culturali – si fa per dire – appunto per sovracaricare di valori inventati quelle realtà che in fondo appartengono a noi stessi. Nel secolo XX il marxismo rivoluzionario è stato l’unica ideologia ad avvelenare le menti, nel senso che veniva considerato una teoria perfetta, l’estremo 210

razionalismo; senza badare che l’assegnamento totale sulla ragione è in se irrazionale, perché trascura gli altri elementi che fanno dell’essere umano una persona completa. Fascismo e nazismo, allo stesso modo, hanno mirato alla identificazione dell’individuo con la nazione e con lo stato; una identificazione quasi mistica, trascendente, squallidamente triadica, meno che mai etica e filosofica, nonostante gli sforzi compiuti da pensatori ragguardevoli e meno ragguardevoli. Capisco che gli accostamenti tra insane ideologie non interessano più di tanto, anche perché il loro fallimento è avvenuto in maniera del tutto diversa, peraltro senza un totale sradicamento per quanto riguarda il marxismo. Se non si può più inverare nella storia, avendone l’umanità fatto tragica esperienza, non lo si può eliminare dai testi, come non si possono eliminare Feuerbach, Nietzsche e Freud, autori celebrati ma intelligenze parziali, malate non per l’azione destruente del genio, ma per la mancanza di autentici orizzonti di libertà e per atrofia dei legami con il loro universo spirituale. Marx rimarrà nei libri di testo per una totale diversità di concezione dell’essere e per la negazione dialettica di se stesso e del male. Questo quanto sostenuto non solo da Robert Conquest, ma anche da altri storici inglesi, i quali alla fine non riescono a trovare una spiegazione plausibile della diffusione e del trionfo quasi planetario del comunismo. Una ricerca impossibile come tante altre, sulle quali si sono cimentate le migliori intelligenze senza risultati. È come volersi dare ragione della guerra, della malattia e del dolore. Esistono e basta. Come esistono i sette vizi capitali. Bisognerebbe chiedere a coloro che predicano la pace totale e l’immoralità del211

la guerra dall’alto di cattedre universitarie e medioscolastiche, se si sono disfatti di almeno due di quei piccoli vizi: l’invidia e l’accidia e se hanno operato secondo una sola delle tre virtù teologali: la carità. Nel corso di duemila anni di predicazione evangelica poche persone hanno vissuto al riparo totale dei vizi capitali e nella assoluta fedeltà alle virtù: Francesco d’Assisi, il Mahatma Gandhi e Madre Teresa; nonostante l’attualità del Sommo Pontefice che richiama ai precetti dell’amore e della tolleranza ancora al giorno d’oggi. Questa solitaria riflessione, fondata sulla convinzione che la realtà con la quale dobbiamo confrontarci a ogni svolta dell’esistenza non cade sempre sull’onda alta del bene, del bello e del razionale, mi porta a concludere circa la necessità di offrire al gentile lettore una chiave di lettura del comunismo che tenga conto della verità, della chiarezza e della brevità. La scuola filosofica fondata da Marx e da Engels, sviluppata da molti pensatori successivi senza grandi innovazioni, riteneva che “la materia, la natura, il mondo osservabile, è considerato senza riserve come reale, e la sua realtà non deriva da qualche fonte soprannaturale o trascendentale, né dipende per la sua esistenza dalla mente umana”. “Si considera scientificamente evidente che la materia è anteriore allo spirito… nel senso che lo spirito non sembra essere altro che un prodotto della materia. …Spazio e tempo sono concepiti come forme dell’esistenza della materia”. Questo materialismo deviante e perverso, attualmente ripudiato dalla fisica moderna e dalle scienze umane, esprime una dinamica connessione delle cose e nello stesso tempo un processo continuo di autotrasformazione. Il termine dialettico sta ad indicare dunque 212

l’universalità del mutamento e il suo carattere radicale, sopratutto la sua applicazione alla società, la stessa dalla quale è stato suggerito. La teoria definita “materialismo storico” rappresenta appunto l’applicazione dei principi del materialismo dialettico all’intera società. Il meccanicismo, inteso come materialismo non dialettico, così come la metafisica, che ha per obiettivo la dimostrazione di un Ente Trascendente, sono ripudiati. Rientra in questo squallore conoscitivo la conseguente affermazione che “non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, a1 contrario, i1 loro essere sociale che determina la loro coscienza” (Prefazione alla “Critica della economia politica”). Ciò significa che il singolo non è più la categoria attraverso la quale debbono passare la soggettività, il linguaggio, la pietas e il dolore. Inoltre la violenza rivoluzionaria, convertita in lotta di classe nel vocabolario comunista – ma utilizzata per giustificare la vendetta leninista contro l’assolutismo zarista, responsabile dell’impiccagione di Alessandro Ul’janov – produce, come ha prodotto, terrorismo e violenza; il collettivismo non si identifica, come non si è identificato, con l’uguaglianza e la proposta di una società giusta finisce, come ha finito, per distruggere antiche istituzioni e primordiali convivenze. Ancora oggi quello che si impone, più di prima, è una scelta, altrettanto culturale quanto morale: libera soltanto se si mantengono separati idee e concetti sistemati al polo opposto del materialismo marxista. Lungo la linea dello spiritualismo cristiano che pone la Parola, cioè lo Spirito, come principio delle cose, nessuna confusione è possibile e il sincretismo d’altri tempi 213

proposto da laici e religiosi è soltanto un paradosso di ignoranza e di imbecillità. Il lettore colto può scoprire se stesso e il proprio pensiero prima di ogni altro accadimento e interrogarsi su ciò che è scritto: “In principio era il Verbo”, nel Vangelo di Giovanni.

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II COMUNISMO E LA LIBERTÀ

Non c’è bisogno di coraggio né di grande intelligenza per difendere, oggi “dopo la caduta”, il valore supremo della libertà .Va preso atto però che si tratta di una precisazione dovuta: decretare ufficialmente, come del resto i tedeschi a Karlvivary (cito a memoria), la fine di una fase storica tragicamente e imprevedibilmente involutiva. Mi chiedo pertanto se sia possibile contemplare nelle vicende umane, determinate da innumeri volontà e da oscure resistenze, la eventualità di una regressione. Secondo i fautori più accesi dell’evoluzionismo una specie può regredire a forme primitive quando vi è pericolo di estinzione. Allo scopo di evitare una tale infausta discesa zoologica gli “ingegneri del potere” e gli “scienziati dello spirito” si sono adoperati in modo da impedire che l’alienazione e lo sfruttamento facessero ritornare l’uomo all’epoca delle palafitte. Così compresi e intrisi del dogma marxista hanno cominciato a rifondare la storia, quella vera, dove fosse abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione e chiusa l’era della divisione del lavoro, presupposti necessari per programmare la fine dello stato. In settant’anni si è conclusa così una avventura umana lunga e massacrante, quella che avrebbe dovuto porre 215

termine all’era cupa della preistoria, dotare di verità la conoscenza e dare sostanza e consistenza alla democrazia e alla libertà. Può essere di conforto il fatto che l’estremo sacrificio mette sempre capo a una autentica rinascita! C’è comunque una linea diretta, sorretta dal destino, che sfora tutte le tragedie; quella comunista parte da Epicuro, una quasi divinità, fondatore di una scuola che doveva avere valore liberatorio: liberare gli uomini dal timore degli dei e dalla paura della morte, dimostrare la facilità del raggiungimento del piacere e agire nella convinzione della provvisorietà del male. Un’arroganza morale arrivata fino a noi, definita quasi trionfalmente “etica epicurea” ma aspramente avversata dal pensiero cristiano medievale. Il concetto di alienazione, anche se appena adombrato, muove proprio dal filosofo greco e trova riconoscimento in pensatori del secolo scorso, secondo una direttrice: Epicuro, Feuerbach, Hegel, Marx. Si è trattato di una fuorviante speculazione che ha trovato in seguito la sua sede naturale nella psichiatria. Del resto prima di Feuerbach altri, in termini diversi, avevano parlato di alienazione come trasferimento necessario della libertà del singolo ad una “volontà generale” considerata come volontà di tutti (Rousseau), subordinando il libero arbitrio del soggetto pensante a una collettività spesso alienante e dispotica. Sarà proprio questo dibattito che preparerà i regimi della rivoluzione fallita e la dittatura del proletariato. Ma non solo questo. Oggi, come ieri, l’interesse dello studioso si sofferma soprattutto sulla collocazione dell’uomo all’interno di un sistema assoluto, che pretende di restituire ad ognuno, mediante l’abolizione delle classi e la dissoluzione dei modelli di 216

ne, il diritto all’eguaglianza e con esso una dignità umana, prima mortificata. Non si tratta soltanto di una diversa interpretazione economica e nemmeno di una ritrovata dimensione antropologica e filosofica, dal momento che tende a superare le correnti ideologiche del suo tempo: Illuminismo, Positivismo, Evoluzionismo e a porsi come “analisi globale della società e della storia”, il marxismo va più in là, offre una nuova visione del mondo se non addirittura una sua trasformazione. Trasformare dialetticamente, inventando degli antagonismi dove non esistono ed esasperando quelli esistenti; pretendere di collocarsi come sorgente inesauribile dello scibile, fonte suprema ed eterna della sapienza! Penso sia stato questo il motivo dell’impatto emozionale sulle generazioni di questo secolo, e ancora questo il motivo del consenso incondizionato offerto dal proletariato, dalla stessa classe borghese e dagli intellettuali di tutto il mondo. Gli operai hanno intravisto nel comunismo l’affermazione di un principio di giustizia, i borghesi la fine della scissione dualistica della società e la composizione dialettica degli antagonismi, infine gli intellettuali il superamento dell’idealismo e dello spiritualismo; tutti hanno plaudito al trionfo della ragione come giustificazione dei diritti della colletività. Se non è facile dare una risposta alla invadenza culturale di un ordine totalitario che pretende di misurarsi con le stesse strutture dell’esistente; vale almeno tentare una riflessione. Il marxismo offre alla cultura umanistica, con l’intento di mortificarne le energie intellettuali e morali, le soluzioni delle sue stesse contraddizioni. Pone l’accento sulla eternità della Natura – termine ambiguo sostitutivo di universo e di cosmo – in dispregio della creazione. Scopre nella cosiddetta uma217

nizzazione della forza-lavoro il punto di incontro tra teoresi e prassi, esaltando il significato sacro e unificante dell’oggetto. Considera il pensiero un prodotto sottile di una materia – il cervello – altamente organizzata e declassa la coscienza a entità biologica, per caso e per evoluzione più fine di quella degli animali. E, fatto tragicamente mistificante, risolve il problema eterno della autocoscienza e della libertà. Bisogna convenire che non è facile trarre delle conclusioni o esercitarsi nell’astrarre dei concetti dall’opera immensa del filosofo di Treviri; occorre molta disponibilità per compiere uno slalom intellettuale all’interno del quale il pensiero rimanga appagato e l’intero corpo dottrinale accettato o rifiutato. Non esiste nel marxismo una via di mezzo. Credo infatti che alcuni, uomini politici o di cultura, siano rimasti impelagati in una visione parziale e abbiano cercato impossibili combinazioni o trasposizioni su progetti e programmi eterogenei, trasformando in vaghi riferimenti il malessere delle certezze; altri hanno cercato di applicare il rigore dialettico dei principi alla immensa compagine sociale, facendo, là dove sono riusciti, una lettura del marxismo irriducibilmente paranoica. Ma la Storia li ha rifiutati. Il rifiuto è stato determinato dalla caduta dell’essere umano da animale privilegiato ad appendice di una società collettiva, considerata capace di fare maturare una coscienza di gruppo, in cui il criterio di consapevolezza e l’idea di libertà fossero posseduti dalla società nel suo insieme. In questo stravolgimento, tuttora operante, delle teorie morali, delle convinzioni religiose e filosofiche e delle istituzioni giuridico-politiche, un notevole aiuto arriva dalla psicanalisi, nata non per caso in questo secolo con l’intento di mettere a nudo la bestialità e 218

di porvi rimedio con terapie discutibili di durata interminabile. Il suo fondatore, Freud, si propone di negare la coscienza, con lo scopo di fare emergere dal profondo caveau dell’inconscio, il cosiddetto “rimosso”. Credo non valga la pena di approfondire, vorrei soltanto evidenziare la volontà del freudismo di operare un ripudio dell’autocoscienza e di ricusare i presupposti spirituali della libertà. Ognuno di noi, meno distratto dalle angustie della vita quotidiana, può dare tutte le definizioni che vuole e che sente, quando si tratta di applicare un linguaggio sensato alle tendenze intimistiche della propria esistenza. Questa possibilità dipende anche dalla nostra incapacità di affrontare delle tematiche che non sono risolvibili sul piano razionale mediante una dimostrazione. Ecco perché Gabriel Marcel, l’autore di “Homo viator”, considera l’essere dell’Io e l’essere di Dio non come un problema ma come un ineffabile mistero. Egli così si esprime: “Un mistero è un problema che usurpa i propri dati, che li invade e perciò li supera come problema”. Bisogna ricordare peraltro che alcuni seguaci di Marx non solo eludono deliberatamente il mistero, ma accettano l’affermazione che la coscienza sia un riflesso pallido dell’essere materiale e sociale; altri si attengono invece alla definizione di “momento costitutivo della realtà”. Queste definizioni approssimative, come sono tutte quelle che sfuggono al rigore della conoscenza fisica, hanno in comune il rispetto delle certezze marxiste: alla fine collassate, perché false, nel materialismo entro cui dialetticamente sono state costruite. Crolla il mito della rivoluzione permanente, il mito del collettivismo, della dittatura del proletariato, il mito della fine dello stato, ma termina anche il secolo peggiore di un millennio di violenza. Il gentile 219

lettore vorrà scusare queste riflessioni, anche se non gli risparmio qualche breve divagazione sul tema, che l’età e l’esperienza rendono affettive. La coscienza è la certezza (cartesiana) della finitudine organica e insieme la certezza di una speranza di vita di là dal tempo fisico. La libertà è la scelta della solitudine della legge morale (kantiana), la scelta singola della purezza, dell’amore ma anche dell’ascesi mistica. Il nuovo millennio, sono convinto, segnerà il trionfo della libertà, la stessa che ciascuno di noi porta da sempre nel suo DNA; divina molecola che Qualcuno, nel bene e nel male, lascia liberamente organizzare dentro di noi. AUGURI!

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IL COMUNISMO E LA LINGUISTICA

Sono poche le persone che a tuttoggi si occupano di linguistica, mentre sono molti gli studiosi della psicologia del linguaggio o del linguaggio in rapporto ad altre discipline. Vi sono però linguisti molto attenti al significato delle parole nella formulazione di schemi generali descrittivi e alla analisi di nozioni cruciali del tipo: “simbolo”, “grammatica”, “forma”, “convenzione”, “metafore” ecc. Ma di là da tutto questo a noi serve una definizione significativa e autentica di ciò che si deve intendere per linguaggio. Questa definizione è quella brevemente riportata nel dizionario di D’Agobert D. Runes: “Per linguaggio bisogna intendere un sistema di segni (tanto parole che ideogrammi) usati in modi regolari di combinazioni, secondo regole convenzionalmente stabilite, allo scopo di comunicare”. In questo modo noi diamo per scontati sia la competenza dei soggetti che parlano, sia il sentimento linguistico e la volontà di esprimersi dei parlanti. Vorrei aggiungere che non esistono strutture del linguaggio precostituite, ma solo elementi liberi da associare, i quali attingono a siti del cervello aventi già una forma e operanti attivamente in funzioni delicate di senso e di moto. E questo spiega il ritardo nell’apprendimento e nello sviluppo di facoltà di tipo 221

fasico-espressivo. Quale considerazione si debba poi avere del linguaggio ce lo dice Husserl quando afferma: “La scienza, come la filosofia, non sarebbe altro che il movimento storico – attraverso il linguaggio – della rivelazione della Ragione Universale innata, nella storia dell’umanità”. Va ancora osservato che la distinzione tra pensiero e linguaggio non è affatto arbitraria e nemmeno oziosa. Tale distinzione da sempre ha tenuto diviso le menti e stimolato più volte la ricerca scientifica, ma non ha mai spinto a stabilire, e non poteva, facili compromessi. Infatti una separazione di principio non è accettata da funzionalisti alla ricerca di una copertura razionale, ma non è accettata nemmeno da filosofi della scienza, che tuttora sperano nella rifondazione di ideologie decadenti, ormai prive di vitalità. In definitiva si tratta della distinzione derivante da una cultura più fine, non popolare e dal rifiuto dialettico di un certo tipo di società. Non insisto più di tanto sull’argomento, però mi preme ricordare che la lingua non è un’istituzione uguale a tutte le altre istituzioni e che i simboli da cui risulta formata sono incorporei, non costituiti cioè da sostanza materiale, isolati dalle differenze che separano le sue immagini acustiche da tutte le altre. Queste immagini possono avere, come hanno, un aspetto individuale e uno sociale; ma è l’aspetto sociale che interessa, almeno per capire alcuni particolari meno noti del comunismo o più esattamente del marxismo. Era da prevedere che il grande corsaro della filosofia tenesse occupate, per oltre un secolo, le regioni aride dell’economia e della politica, o che facesse delle scorrerie nello spazio alato della religione e della scienza. Ma questo non portava a pensare a un interesse particolare per lo studio della linguistica, 222

anche se lo scopo non dichiarato era quello di lasciare in eredità ai suoi epigoni il desiderio potente di fare delle incursioni peeudointellettuali all’interno di tutte le sedi razionali del sapere. Per meglio chiarire i particolari di questa discussione bisogna partire dal concetto di “lotta di classe” e dal significato impietoso che ha avuto nella cultura marxista. La sua estremizzazione ha fatto in modo che venisse elevato a categoria un “valore” transeunte, per giustificare, addirittura plaudire al grande massacro perpetrato dallo stalinismo. Con la scusante della rivolta proletaria il sistema sovietico non solo ha disperso le classi con violenza inaudita, ma ha bollato anche come servo dell’imperialismo ogni moderato riformista. In questo modo ha ottenuto due risultati importanti: da una parte la scomparsa di tendenze idealistiche e di figure romantiche nella cultura e nell’arte; dall’altra la negazione di sentimenti personali e di libertà individuali. Fatto ancora più edificante: un’avanguardia vigile, il partito, con la pretesa di esprimere – o conculcare – la totalità delle esigenze del proletariato, ha sopraffatto con estrema durezza l’intero corpo sociale. Tra queste esigenze quella di considerare la lingua di Puskin, nella quale avevano pensato e parlato Tolstoj e Dostoevskij, una lingua di classe, un idioma decadente. Per tale motivo e per fare in modo che ai nuovi semidei venisse reso un culto personale con linguaggio aulico e con parole diverse, bisognava inventare una lingua nuova e, di conseguenza, negare essenza e completezza al significante linguistico della lingua dei padri. Questa insipienza di fondo era il limite vero del marxismo e del suo sistema di pensiero. Anche perché il richiamo a Marx non portava a decidere se considerare la lingua 223

una struttura, una sovrastruttura o qualcosa di intermedio; quando si pensi che un “Corso di linguistica generale” era noto agli intellettuali di mezza Europa. Da ciò i rabbuffi e le polemiche seguite a un grande dibattito avvenuto in occasione di un congresso di linguisti tenutosi a Mosca nel 1950. In quella occasione un pesante articolo-intervista apparso sulla Pravda (2 Agosto dello stesso anno) metteva a tacere le polemiche. Non era vero, come in quel congresso si sosteneva, che la lingua dovesse essere considerata una struttura. La parola, si affermava nell’intervista, non ha nessuna valenza economica e non è adatta a sostenere l’edificio sapienziale delle cosiddette sovrastrutture. Se è esatto affermare che il modo di produzione crea “artefatti” come l’arte, la religione e la tradizione, la lingua è comunque estranea al modello economico; di conseguenza non può essere considerata nemmeno una sovrastruttura. Va riconosciuta bensì la sua equivalenza col mezzo di produzione; esso stesso indifferente e invariante rispetto ai servizi resi o da rendere alla deprecata borghesia o all’emergente proletariato. La lingua abbandona i suoni desueti e, attraverso il tempo, le parole marginali – come il mezzo di produzione i propri meccanismi di confine – ma le radici lessicali e l’impalcatura grammaticale rimangono le stesse. In quella intervista veniva tuttavia consigliato, in modo piuttosto sbrigativo, di non confondere i normali avvenimenti fisiologici con immagini false, derivate da un mondo mentale ritenuto inesistente e bugiardo. L’incapacità oltre che la perduta abitudine a esplorare il proprio universo interiore non consentiva venisse sostenuta l’esistenza del cosiddetto “pensiero nudo”, distinto dalla parola, primitivo ed astratto, quando già un grande linguista 224

ginevrino aveva rappresentato la lingua con i due semicerchi di un circolo, raffiguranti rispettivamente il concetto e l’immagine acustica. Questa breve analisi di una ormai lontana filosofia è servita per comprendere quanto estensiva ed invasiva sia stata una cultura che ha depredato l’economia e manovrato la psichiatria. Ancorata al darwinismo ha confuso l’evoluzione, affidata a lente ere geologiche, col materialismo storico, il solo capace di spiegare, secondo i canoni ufficiali, mutazioni genetiche e cambiamenti sociali. Ma si è imbattuto nella linguistica, dove la parola ha ricevuto la giusta collocazione. Quella che Marx considerava la struttura dell’esistente, l’economia, aveva impedito alla libertà di porsi come prima ed ultima caratterizzazione dell’essere umano. Ed era crollata. La lingua, l’arte, la religione dei grandi popoli, come delle piccole tribù, sono rimaste, a dimostrazione stupenda del loro eterno pensare.

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IL COMUNISMO PRIMA E DOPO

Guardando con un certo distacco gli avvenimenti che hanno sconvolto l’ultimo secolo del millennio che sta per finire, è possibile trarre delle conclusioni che possono essere presentate come utili argomenti di riflessione. Distaccarsi dagli avvenimenti in ogni caso non significa evitare di viverli, vuol dire leggere la realtà da testimoni e capire anche il suo dispiegarsi e manifestarsi nel tempo relativo e nella storia. I fatti accaduti obbligano però a una lettura prudente per un giudizio sereno, almeno intorno a quelle vicende che hanno definitivamente abbattuto gli ideali irrealizzabili delle utopie. Il dramma come sempre appartiene al linguaggio e al suo significato, perché la lettura dei testi e dei fatti, svolta dalle presenti generazioni, non è stata all’altezza delle loro intelligenze. Direi che molti hanno letto, ma non hanno capito; altri hanno creduto di capire, ma non hanno letto; altri infine non hanno né letto né capito. Così – ed entro subito in argomento – coloro che hanno letto qualcosa di Marx non possono averlo capito, per il fatto stesso che espongono l’ideologia del pensatore in termini di democrazia e di libertà. Coloro invece che non lo hanno letto e dicono di averlo capito confondono la giustizia, cui fanno appello di continuo, col suo 227

scio, che non è l’ingiustizia, ma il nulla della giustizia. Infine coloro che non lo hanno né letto né capito ignorano la verità, perché non la inseguono e non ne sono illuminati. A conferma di quanto sto dicendo vorrei ricordare la frase attribuita a Francesco Saverio Nitti, saggio presidente del consiglio prima dell’avvento del fascismo, il quale sosteneva: “Tre persone hanno capito Marx; una sono io, un’altra è F.S. Nitti e una terza è colui che per modestia non intendo nominare”. Ovviamente è una frase riportata dai giornali del tempo, ma ignorata da Giorgio Amendola nel suo libro “Una scelta di vita”, in cui peraltro si parla del vecchio uomo politico lucano con grande devozione e rispetto, ma soprattutto con ammirazione. Tuttavia bisogna rendere omaggio alla verità allorché ci si ricorda di quegli uomini che hanno legato al comunismo, o anche al socialismo, la speranza di realizzare la giustizia nel mondo e di collocare un uomo nuovo, completamente rifatto, in una società da loro ritenuta perfetta. Questa illusione ha avuto la sua giustificazione nel tentativo non riuscito di operare un taglio estetico nel “corpus” titanico e infome del marxismo, extrapolando una visione politico-economica di sapore vagamente romantico. La caduta rovinosa della grande costruzione ha trascinato con sé, come all’interno di un buco nero, quello stesso materialismo dialettico della cui forza implosiva Marx non aveva il più lontano sospetto. D’altra parte il filosofo tedesco non poteva nemmeno intuire la presenza in natura di una “regolazione automatica retroattiva” che agisce a qualunque livello: da quello psicologico a quello biologico, da quello fisiologico a quello cosmologico, dando la dimostrazione che la natura e la storia non procedono in 228

niera dialettica e che le leggi engelsiane sono inattivate da un fattore retroagente, che blocca al limite del capovolgimento della prassi la lotta delle tensioni immanenti a ogni processo di sviluppo. Voglio dire, per evitare di tediare il gentile lettore, che le leggi dialettiche messe in essere da Marx e da Engels in seguito a un loro autentico plagio, non sono vere. La dimostrazione è data dalla fine del mito dell’Unione Sovietica e dal ritorno alle radici della vecchia nobile Russia, prebolscevica e nostalgica. Poiché non è facile discutere in uno scritto troppo breve i passi più importanti della “Dialettica della Natura”, debbo mettere in evidenza che la mia affermazione è più fisiologica che filosofica e, pertanto, non applicabile a proposizioni astratte, tra loro in netta contraddizione. Mi limiterò a sostenere, per quanto possibile, che non c’era nel comunismo e non c’è nel marxismo né democrazia né libertà. Già Platone nel V secolo a.C. contemplava la necessità di una società comunitaria, la quale avesse il compito di distribuire, con giustizia, una eventuale accumulazione di ricchezza e di beni. Ma non si limitava solo ai prodotti del lavoro o ai beni ereditati, Platone pretendeva anche la disponibilità delle persone fisiche. A parte il fallimento del suo sistema politico e il rischio di essere venduto come schiavo, egli poteva non rendere conto dell’errore perché credeva in un mondo separato, ideale e reale, privo di concretezza: il mondo delle Idee. L’universo marxiano invece è infinito, senza limiti di spazio e di tempo, non creato. Il suo è un ordine necessario, non legiferato. Eterna e incorruttibile è la materia che lo costituisce. Partendo da questa convinzione, peraltro in contraddizione con gli stessi principi della fisica moderna, Marx ha potuto collocare il suo pensiero 229

all’interno di tutti “i comparti tradizionali del sistema delle scienze borghesi”: dalla sociologia all’economia, dalla filosofia alla storia. Questa collocazione intrinsecamente necessaria come dimostra l’esperienza storica, ha tolto dignità all’eguaglianza – il collettivismo non è uguaglianza – ha distrutto l’economia, ha negato finalità alla filosofia, ha fermato la storia. Inoltre il suo materialismo totalistico e “dialettico” e perciò anche evoluzionistico, si presenta come autenticamente rivoluzionario, perché considera tutti i grandi avvenimenti, in specie quelli che tendono a costituire una società capace di riprodurre l’ordine dell’universo, ancora e sempre come necessari capovolgimenti. Quello che colpisce infatti nella vicenda rivoluzionaria, e non solo in quella, è il rigore e l’elogio della Necessità. Ma è proprio in questo rigore che il marxismo rimane impigliato, perché prevede la ineluttabile realtà del comunismo, ma non prevede e non accetta il suo rovescio: la categoria della possibilità. Chiuso nel suo universo improbabile, stretto e costretto in un mondo fossile e mineralizzato, Marx ha potuto nello stesso tempo negare la libertà individuale e la prorietà privata e, di conseguenza, consegnare l’uomo e la sua coscienza morale a una società mostruosa e padrona, considerata depositaria dei bisogni e dei sogni, fabbrica unica della sensibilità e del pensiero. Altro è la libertà, in cui Kierkegaard credeva e che definiva come punto zero, come indecisione permanente e ancora come equilibrio instabile tra le alternattve opposte che si aprono di fronte a qualsiasi possibilità. Altro è la democrazia, intesa come scelta libera che non può coinvolgere tutto l’uomo, né tutta la sua esistenza, peraltro giammai totalmente assorbibili nel labirinto delle istituzioni e della burocrazia. 230

Una gran parte degli intellettuali di questo secolo si è ispirata al marxismo, senza meditare sull’ateismo, sulla irreligiosità, sulla responsabilità morale e individuale, privilegiando il termine “antifascismo” perché considerato, a torto come spiega Furet, sinonimo di democrazia e di libertà. Tutti o quasi tutti questi intellettuali hanno accettato le tesi del marxismo: la dittatura del proletariato, la fine della proprietà privata, la collettivizzazione dei mezzi di produzione, l’assassinio sistematico dei nemici di classe, la strage dei Kulaki, subendo il fascino perverso che ogni grande tragedia trascina dietro di sé. È stata la ricerca di una falsa identità a far credere che idee parassite e devianti potessero legare il destino degli uomini alla produttività, e a fare emergere dalle profondità dell’incosciente oscuri stati coattivi e deliranti. Di fronte a un orizzonte ancora nebuloso, dopo tutti i fallimenti rivoluzionari, all’alba di un millennio che promette il trionfo della scienza e della tecnologia, c’è ancora chi pensa di costituire un “blocco storico” di forze progressiste. Non solo, c’è ancora qualcuno che vorrebbe imporre l’egemonia di una classe impaziente e aspirante ad essere un partito rivoluzionario, travestito da “Moderno Principe”. Per concludere credo sia meglio non violare la pace di chi, sia pure nella solitudine e nella sofferenza, ha avuto in passato tali discutibili shock ideologici. Credo altresì che solo agli uomini di grande fede e di buona volontà venga risparmiato di assistere alla perdita irreparabile delle loro illusioni.

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LA ZATTERA DELLA MEDUSA

È un capolavoro della pittura francese eseguito da un artista che non afferma ideali astratti; dimostra invece una accentuata tendenza al realismo in opere crude e spietate. Un artista, dicevo, che trae ispirazione da tragici fatti di cronaca, per mettere in evidenza delle scene di folgorante tensione drammatica. Ho avuto spesso occasione di ammirare il quadro di Théodore Géricault – esposto al Louvre – e ogni volta ho riportato l’emozione di chi si trova di fronte all’opera di un pittore dal temperamento appassionato, dominato da una insaziabile sete di conoscenza. Non sono molte le opere di Géricault, morto appena all’età di trentatre anni, ma sono così inquietanti da farlo considerare come uno dei grandi rappresentanti di quel realismo romantico caratteristico della prima metà dell’Ottocento. Si dice che non ci fosse intenzione allegorica nella stesura del dipinto, anche se gli storici della rivoluzione videro in esso un’allegoria della Francia alla deriva, dopo il crollo di Napoleone. Ai nostri giorni si possono esprimere su “La zattera della Medusa” diverse opinioni ed emettere vari giudizi, ma è certo che alcuni vedono nella debole luce che illumina i corpi dei naufraghi, una continuità col cupo fulgore di Caravaggio; altri ammirano nella 233

sione e nello spessore delle possenti masse muscolari, la superba bellezza degli Ignudi di Michelangelo e infine vi è chi giudica il quadro come un’anticipazione rovesciata della pittura moderna, più impressionistica che realistica, più retorica che allegorica. È uno degli ultimi dipinti davanti al quale il visitatore si sofferma a lungo ammirato, quasi rapito; lo stesso visitatore che più tardi passerà stressato e incuriosito davanti alle celeberrime distorsioni di Picasso, agli interni molli e viscerali di Dalì, ai sacchi vuoti e laceri di Burri, ai tagli senza senso di Fontana, alle mattonelle di Mondrian, ai collage di Matisse. Tedio non simulato di un visitatore distratto, al quale sarà svelato, come compenso al disgusto, lo strano mondo degli astrattisti, degli informali, dei surrealisti, nella illusione che una sequenza di “pensieri visibili” rappresentati sopra una tela o la forma di un oggetto annientata e vanificata, possa convertirlo al disordine del caos. Il cosiddetto genio del Novecento, incarnato da Picasso, ha distrutto le immagini classiche, nella mancanza assoluta di conoscenze dell’anatomia, nella totale ignoranza della psichiatria, con lo scopo inutile, perché impossibile, di costruire una figura priva di dimensioni, appiattita e senza contorni, come tutto ciò che geme, represso, all’interno di una costruzione deforme, collettivistica, impersonale e caotica. Artisti come guastatori, utilizzati per dare l’assalto alla civiltà del “Canone”, quella che rappresenta il punto di riferimento della cultura di tutto il mondo occidentale. Perché il fine dell’arte moderna è quello di rompere con una tradizione antica di venticinque secoli e di utilizzare le nuove tecnologie per una ricerca inutile: la ricerca del nulla. Artisti come avanguardie di un mondo privo di 234

cralità, cui apportare soltanto un contributo di arroganza, nella speranza che alla fine una zattera, gettata per salvare dal naufragio le poche autentiche cose, venga a ripescarli. Erano uomini disperati quelli che in un giorno del 1816 salirono su una nave, la “Medusa”, per raggiungere il Senegal, allora colonia francese. Si trattava di una fregata consunta da servire per una navigazione di piccolo cabotaggio, ma che nell’occasione era stata utilizzata per affrontare la sfida dell’oceano Atlantico. Un ammutinamento, l’imperizia del capitano, sopratutto una tempesta improvvisa fecero affondare la nave e molti passeggeri andarono alla deriva. Si salvarono solo in quindici, dopo una lunga odissea vissuta sopra una zattera, spinta da forti ondate e da un vento contrario, sulla quale si verificarono casi di cannibalismo ed episodi di acuta violenza. Alla fine furono avvistati e salvati da una nave di passaggio, apparsa loro all’orizzonte. “Quella che viene sconvolta da un fato avverso, da un evento più forte di lei, piombato in quel mare in tempesta, è ancora una umanità grandiosa, storica, ideale: perciò è più tragica la sua sconfitta”. Géricault non ha inteso anticipare i tempi e non ha descritto soltanto un evento tragico come memoria recente per illustrare la perdita dell’ideale e le svolte negative della storia. Ha voluto mostrare magistralmente ne “La zattera della Medusa”, qualcosa di più: il confine tra verità e menzogna. In questo senso ha adoperato un linguaggio allegorico, per parlare alla coscienza di chi è messo di fronte a se stesso e al suo destino; dopo di lui la capacità di fermare il tempo e di trascrivere i sentimenti in una realtà stazionaria, la si ritroverà in pochissimi artisti del Novecento. Questa rottura, quasi 235

moderna avversione verso il concetto astratto di Bello e la tendenza a distruggere per rinnovare e ricostruire altrimenti, non è stato un fatto originale e primitivo dell’arte, rispetto a ciò che ha rappresentato la cultura dei nostri tempi, però ha dato una manifestazione visibile, quasi fotografica, dell’ignavia e dell’esistenza moralmente povera delle presenti generazioni. E sono queste che subiscono tuttora l’impatto di masse in agitazione, che si nutrono, oltre che di beni di consumo, anche di malerbe e di droghe. In passato erano personaggi singoli che portavano la responsabilità di eventi catastrofici, come le avventure rivoluzionarie e le guerre; oggi sono coorti di intellettuali i quali riversano sui singoli l’odio per la perduta identità. Naufraghi dell’intelligenza rifusa che si sono ammutinati e hanno smarrito la rotta, ma sono sicuri di navigare, senza pilota, sopra un mare in tempesta. Che sia la “dotta ignoranza” a farli convinti che la mancanza di fede li porterà lontano? Oppure è la rivalsa impossibile, la tracotanza plebea, immaginate per far rivivere e credere ancora nel fossile del socialismo reale? È paradossale che mentre i mentori della politica agiscono con maggiore cautela e con distacco, rispetto ai crolli ideologici e alle tragedie del passato, gli intellettuali moderni, abbandonato il feticcio della lotta di classe, i1 concetto di lavoro come riscatto, il moloc del collettivismo, si concentrino nel cosiddetto “Pensiero Debole” o nella vaga scienza dei segni, che non sono né branche della filosofia, né rami della psicologia. Ricordo, con una certa malinconia, che gli intellettuali di qualche decennio fà avevano la onestà mentale di affermare la purezza dei loro principi e di viverli come virtù morali, non importa se 236

sciute attraverso la metafora delle utopie. Oggi sono giornalisti e registi stanchi, artisti non più impegnati, i quali vagano tra le nebbie delle capitali europee alla ricerca di mondi perduti e di ideali residui e alla fine si ritrovano e si riconoscono alla “Fiera del Libro”, per ricevere da un ministro francese di origine italiana, l’imprimatur alla cultura dell’odio. Intellettuali alla deriva, come i naufraghi della “Medusa”, che utilizzano una piccola zattera per tenersi a galla. Intellettuali con poche isole di neuroni, incapaci di estendere le conoscenze oltre l’intervista o l’articolo di giornale. Fermi da sempre alla superficie delle cose, inadatti ad esplorare i fondali della scienza e della filosofia, inconsapevoli ancora delle ragioni del cuore, attendono che una grande nave appaia all’orizzonte. Ma non sarà quella che, mettendoli in salvo, attraccherà ai porti dell’odio.

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“L’ANIMA E IL SUO DESTINO”

L’autore del libro che porta questo titolo è un teologo dell’Università S. Raffaele di Milano; a lui va la mia simpatia per un cognome che mi è caro. Se il libro fosse stato scritto nei primi secoli del Cristianesimo avrebbe ottenuto il consenso del monaco Pelagio e del vescovo Donato, fieri avversari di S. Agostino. Oggi trova solo l’adesione spregiudicata e convinta di filosofi come Umberto Galimberti e Giulio Giorello. Avverto anzitutto un rientro felpato nel marxismo e un riferimento lontano, non esplicitamente accennato, alle fantasie di Nietzsche e alle nevrosi irrisolte dell’immarcescibile Freud. Se il teologo avesse avuto una maggiore conoscenza dello psicanalista viennese, si sarebbe espresso con maggiore cautela sul peccato originale, che ha cercato di negare. Avrebbe appreso che il “traducianesimo” è affermato da Freud come espressione di un divieto da tramandare alle generazioni future, allo scopo di impedire alcune gravi violazioni e l’incesto. Nessuno sa dare una spiegazione plausibile del duro divieto ancestrale; si fa riferimento solo al tipo di cultura dominante, di impronta paternale. Ma gli studi più recenti si esprimono in termini di cultura-natura: ciò che è originario è la libertà e con essa la nudità e il peccato. Sarei più cauto se non 239

ci fosse lo sbugiardamento del dogma, la sua ridicolizzazione e la convinzione di una materializzazione dello Spirito, considerato come forma o discontinuità di una presunta energia cosmica. Solo chi non ha il culto sublime della libertà e ne banalizza il contenuto può limitare l’ampiezza e il significato delle parole. Dunque negazione del peccato originale. I nostri antichi progenitori, i quali secondo il racconto della Bibbia si sarebbero trovati accanto nudi e inconsapevoli, non avrebbero avuto l’occasione e la volontà di peccare se non vi fossero stati indotti da un astuto rettile strisciante. Anche secondo il racconto che ne fa Kierkegaard, l’uomo e la donna non erano affatto liberi nell’Eden, scoprono di esserlo appena dopo il peccato. Ma vi è una incongruenza. Se non fossero stati liberi anche prima di infrangere il divieto, perché avrebbero commesso una così grave disubbidienza? Dio li creò liberi e innocenti in un luogo di stupefatta meraviglia, ma li animò della volontà di vivere o di morire. La loro fu una scelta consapevole, come dimostra il grave senso di colpa e l’incomprensibile sentimento del pudore. Il moderno teologo non si sofferma su queste circostanze. Egli non nega il peccato originale, ma le conseguenze della trasmissione della colpa alle future generazioni. Azzardo un’ipotesi che si richiama alla moderna biologia. Il peccato iniziale operò una mutazione rapida all’interno di una costellazione di geni, favorendo la presenza di quei gruppi molecolari che generano il senso di colpa e la disarmonia del carattere. Non è spiegabile altrimenti il pianto e l’angoscia degli uomini al momento della nascita e il senso di colpa per il solo fatto di essere nati. 240

Non mi soffermo sul rito della purificazione, perché troppo sentito e osservato, intendo dare una spiegazione plausibile, anche se breve, del sentimento antico del pudore. Mi chiedo allora perché mai le persone, uomini e donne, coprono parti del corpo – come gli organi della riproduzione per intenderci – che potrebbero essere esposte senza vergogna spontaneamente. Osservo però che nessuno mette in evidenza organi o strumenti con i quali è stato commesso il peccato o il reato. Affermare con insolenza che il peccato originale è una invenzione di S. Agostino è una pura pseudologia, fantastica e decostruttiva. In alcune pagine delle trecento che compongono questo volume l’autore si domanda da dove venga il sentimento del dovere che l’uomo avverte, inserito com’è in un ordine naturale che tende alla vita, all’intelligenza e allo Spirito. Il dovere morale scaturisce da una informazione che ha la sua origine nella profondità dell’essere, presupposto come sorgente della divinità, secondo una spiegazione coerente con la più indefettibile visione naturalistica, anche se notevoli interpreti di Kant scrivono che “il dovere esprime una specie di necessità che non ricorre nella natura” e se lo stesso Kant pensava che il dovere morale non avesse nulla a che fare col determinismo naturale e che “tra l’uomo in quanto natura e l’uomo in quanto essere morale vi sia una perfetta soluzione di continuità”. Il grande filosofo aveva da sempre affermato l’impossibilità per la ragione di raggiungere la nuda verità, ma aveva concesso a se stesso di credere in Dio, principio e fine di ogni imperativo etico ed esigenziale. La discontinuità di cui parla l’autore esprime in ogni caso questa ansia di trascendenza, ma non opera un distac241

co dalle cose; riduce solo l’ambito dell’umana libertà. Certo bisogna argomentare che questo libro, tutto intero, segue una sua logica, che se non è perversa non è certamente scientifica. Infatti tende ad escludere il mistero, perciò si accontenta di svelare l’universo e di compiere il rigetto del dogma, organizzando una cosmologia che si pone in antitesi con l’opera di Dio. La materia non è più una creazione, ma l’estensione di se stessa come altra eternità, messa a disposizione di un Principio Ordinatore, che agisce entro un caos energetico, cui detta le sue leggi e promuove la vita, la coscienza e il pensiero. Il teologo a questo punto confonde l’energia con la libertà, in ragione del fatto che opera una discontinuità arbitraria, ossia un salto quantitativo dalla materia-energia allo Spirito-Logos. Naturalmente fuori da quell’universo informativo che i grandi fisici chiamano campo e i filosofi pensiero. Entro i limiti poi concessi al corso dei sentimenti e delle passioni il Mancuso costruisce anche l’inferno, un luogo estremamente ridotto e rimpicciolito, fuori dello spazio e del tempo, o vuoto per assenza di trapassati. Dimenticando che l’eternità dell’inferno non è un capriccio del Creatore o una limitazione del suo amore; essa discende da una estensione totale di possibilità che sono offerte all’uomo. La libertà ha radici nell’eterno, entro cui sprofonda anche l’inferno. È certo però che a tutti è concesso il perdono ed elargita la grazia e questo forse, ammesso che esista, come esiste, rende vuoto l’inferno. È emblematico infine che il libro porti d’attualità S. Agostino, ma in maniera sbrigativa e negativa, dimenticando che il grande pensatore ha esercitato una enorme influenza sullo spiritualismo cristiano 242

moderno e sull’esistenzialismo religioso; mentre la sua filosofia si esprime in due direzioni e sono queste appunto che esaltano la svolta psicologica operata dal solitario pensatore. Si pensi alla psicanalisi, la quale aveva collocato nella discarica dell’inconscio tutte le pulsioni provenienti dal mondo interno ed esterno e riservato alla coscienza un posto minore, privo di dignità e di valore. La contrapposizione tra “coscienza agostiniana” e “inconscio freudiano” rimarcherà ancora di più il significato della riflessione di S. Agostino e la sua intuizione. La verità abita dentro di noi. La lectio di un personaggio così carico di suggestione e di fascino ha sempre avuto, nel tempo, il tono di un invito a una disciplina interiore ma anche il carattere di una esortazione: riconoscere nell’oratio la propria natura spirituale e aprirsi all’autoconfessione. Ecco perché le grandi figure, che hanno vissuto le avventure più straordinarie all’interno e all’esterno della propria individualità fisica e spirituale, costituiscono da sempre, o dovrebbero costituire, i nostri punti di riferimento. Tra queste quella che copre il tempo e ne ha il solitario dominio è appunto la figura di Aurelio Agostino: immagine di mediazione tra la coscienza e l’incosciente, tra il contingente e l’eterno. Oggi il grande mistico è solo a combattere contro l’arroganza consapevole della pretesa libertà degli istinti e contro le correnti nuove di un ritrovato manicheismo. Il fascino e l’attualità di S. Agostino si fondano però su un messaggio di altissimo contenuto intellettuale e morale e su una profonda indagine psicologica. Infatti lo scopo della sua ricerca fu di penetrare il più profondamente possibile all’interno dell’Io per esplorare la profondità della coscienza e intuirne la risultante spirituale. 243

Cercò, senza soste, la sorgente della vita affettiva e della conoscenza intellettiva, utilizzando la lente focale della riflessione, fino a provocare l’accensione di un quadro di illuminazione che gli consentì di esplorare tutto il mondo interiore. Trovò i fondali della memoria, la linea del tempo, i sacri recinti delle idee. E stabilì che quella illuminazione, quel “dono di luce” provenivano, come il sole, da profondità che trascendono l’immaginazione. Quelle che sono definite, a dir poco, “mostruosità” avrebbero la funzione e lo scopo di esaltare la controversa figura di un personaggio condannato come eretico nel quinto concilio ecumenico del 553: Origene. Lo stesso che aveva creato confusione tra il Vangelo eterno e quello storico; lo stesso che non aveva saputo cogliere il rapporto generazionale tra il Padre e il Figlio. Concludendo, il termine “massa dannata” attribuita a S. Agostino che non piace all’autore, è una definizione coerente con la storia. Lo erano i Vandali di Genserico che occupavano Ippona e i razzisti e gli invasori che hanno insanguinato tutto il secolo ventesimo.

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INDICE

PREFAZIONE ....................................................... pag. 9 EDITH STEIN, “FILOSOFA CROCIFISSA” ....... L’ETÀ DELLO SPIRITO ...................................... STANCO VERSO IL 2000 .................................... “LA PARTICELLA DI DIO” ................................. “DEUS CARITAS EST”........................................ LA SCIENZA E LA FEDE .................................... “SPE SALVI” ......................................................... L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE ...................... LE ASIMMETRIE ................................................. IL MODERNO LAICISMO .................................. LA SINDROME DI STENDHAL ......................... IL FASCINO DEL DUBBIO ................................. RECENTI ACQUISIZIONI IN TEMA DI COSCIENZA.............................. JEAN GUITTON: IL LAICISMO E LA FEDE .... DALLA PARTE DELLA VERITÀ ........................ DALLA GENETICA ALLA LIBERTÀ................. SULLE RIVE DEL GAVE..................................... RADICI CRISTIANE E CONVENZIONE EUROPEA ....................... “LA VIA DEL RIFUGIO” ..................................... CATTIVI MAESTRI .............................................

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TABÙ E TOTEM ................................................... DIVAGAZIONI SULLA LIBERTÀ ...................... QUALI VALORI? .................................................. LE DUE CULTURE .............................................. L’ATTESA E IL RITORNO ................................... ABELARDO ED ELOISA .................................... LE ORME DI LAETÓLI ....................................... L’ANELLO MANCANTE .................................... SOGNI IN FUGA DA NEANDERTHAL ............. IL GRANDE VUOTO ........................................... LA SCOMPARSA DELLE LUCCIOLE ............... LE ILLUSIONI DEL DOTT. WHITE ................... I DUE FANCIULLI ............................................... NOI E GLI ALTRI ................................................. LA PERDITA DELLA MEMORIA ....................... IL FUOCO GRECO ............................................... ELOGIO DELLA NEVROSI ................................ SULL’EUTANASIA .............................................. FEED-BACK E DIALETTICA ............................. “IL PASSATO DI UN’ILLUSIONE” .................... “IL SECOLO DELLE IDEE ASSASSINE” .......... II COMUNISMO E LA LIBERTÀ ........................ IL COMUNISMO E LA LINGUISTICA .............. IL COMUNISMO PRIMA E DOPO ..................... LA ZATTERA DELLA MEDUSA ........................ “L’ANIMA E IL SUO DESTINO” ........................

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Stampato da Pellegrini Editore Cosenza

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