Dasein: da-sein. Tradurre la parola del pensiero

Dasein inteso come Da-sein è, in Heidegger, il segno dell'affrancamento dalla metafisica. La parola pensa dunque in

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heideggeriana

Collana a cura di Ivo De Gennaro e Gino Zaccaria

Ivo De Gennaro

Gino Zaccaria

Dasein : Da-sein Tradurre la parola del pensiero

© 2007 Christian Marinotti Edizioni s.r.l. Milano I diritti di traduzione, di adattamento totale o parziale, di riproduzione con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm, i film, le fotocopie), nonché di memorizzazione elettronica, sono riservati per tutti i Paesi.

Christian Marinotti Edizioni s.r.l. Via Alberto da Giussano, 8 - 20145 Milano Tel. 02 481.34.34 - Fax 02 481.33.10 www.marinotti.com; e-mail: [email protected]

Ai pensanti in lingua madre

PREMESSA

Cum multae res in philosophia nequaquam satis adhuc explicatae sint, tum perdifficilis, Brute, quod tu minime ignoras… (Cicerone, De natura deorum, I, 1)

Il seguente saggio costituisce una delucidazione del Dasein nel Denkweg di Martin Heidegger: esso fonda la corretta intesa della parola affinché possa coniarsi, in lingua madre, una sua consona traduzione – e di qui generarsi il suo chiaro sentimento. Il saggio nasce dalle analisi e dai pensieri tentati in un seminario biennale dedicato allo studio del corso universitario heideggeriano Einleitung in die Philosophie (1928-1929) – il quale, affidato alle cure di Maurizio Borghi, vede ora la luce in italiano, per i tipi di Christian Marinotti Edizioni, con il titolo di Avviamento alla filosofia. Il seminario stesso e la stesura del saggio rientrano in un più ampio progetto di «Ricerca di base» svoltosi presso l’Università Bocconi di Milano. «Ciò che noi designiamo con la dizione Dasein non è mai emerso nella genitura della filosofia». Così Heidegger nel suo Nietzsche (N I, p.278). La delucidazione tentata nel saggio tocca inevitabilmente una lunga consuetudine di lettura e di interpretazione. Infatti, la nuova luce in cui va lentamente stagliandosi il senso della dizione Dasein, non poteva crescere liberamente senza passare attraverso un costruttivo confronto – per ora solo avviato – con i modi in cui, a partire dalla pubblicazione di Sein und Zeit, quel «mai emerso» fenomeno è stato via via reso e compreso in italiano. Mentre tutto, qui, deve necessariamente restare provvisorio, un punto ci pare di aver colto con ormai sufficiente nettezza: se il Dasein è già lì dove deve essere, ovvero lontanissimo dall’uomo, l’uomo è ancora troppo vicino al Dasein. Così, proprio l’indole Dasein, se solo iniziamo a renderle il suo, può aiutarci a ritrovare quell’ingenuità d’ascolto che l’inaudito – incurante delle nostre intrusive sordità – non smette di chiederci. La delucidazione del Dasein si articola in passi, e trova il suo esito in un chiarimento della Seinsfrage. Ogni passo e la sua stesura, così come il suddetto esito, sono divenuti via via attendibili grazie al lavoro comune dei due Autori. Qui, l’aggettivo «comune» non vuol dire “collettivo” o “d’équipe”, ma piuttosto «progettato e compiuto in coalescenza», ossia secondo una ripartizione degli apporti e dei compiti dettata unicamente dalla delucidanda indole nel suo perenne tradursi in Gespräch, in colloquio pensante. In particolare – e limitandosi ai passi più ardui e decisivi – si

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devono a Ivo De Gennaro la partizione II del Primo capitolo e la Ripresa, mentre si devono a Gino Zaccaria le partizioni III e IV del Primo capitolo e il Secondo capitolo. * Le opere citate nel saggio sono accompagnate dall’abbreviatura del corrispondente riferimento bibliografico. La bibliografia si trova alla fine del volume. Le note al testo della Prima parte sono di due specie: le annotazioni a piè di pagina (contrassegnate da lettere) e le Osservazioni integrative («o.i.» – contrassegnate da numeri progressivi e raccolte in una sezione che precede la Seconda parte). La lettura di tali Osservazioni, al termine dello studio della Prima parte, permetterà di ritornare al cammino e di ripercorrerlo in alcuni suoi passaggi salienti. Gli Autori ringraziano Maurizio Borghi, che ha letto il dattiloscritto del saggio ed è stato prodigo di suggerimenti e consigli. Siamo altresì grati a Patrizia Fiorini che ha composto il testo per la stampa. Milano, Gennaio 2007 Ivo De Gennaro e Gino Zaccaria

PRIMA PARTE

Il Dasein

Diese Mißdeutungen sind die natürliche Rückdeutung des Gelesenen oder nur Nachgemeinten in das, was man vor dem Lesen schon zu wissen meint. Sie zeigen alle denselben Bau und denselben Grund. (M. Heidegger, Brief über den Humanismus, ÜH, p. 36) Questi fraintendimenti [quelli cui si espone Sein und Zeit] sono il naturale riportare il senso di ciò che si è letto, o solo opinato per imitazione, a ciò che si crede di sapere già prima della lettura. Essi mostrano, tutti, lo stesso costrutto e lo stesso fondamento.

Der »andere Anfang« ist nicht ein zweiter, sondern der erste und einzige, in anderer Weise. (H. Arendt – M. Heidegger, Briefe 1925-1975, p. 234) L’ «altro inizio» non è un secondo inizio, ma il primo e unico, in un’altra tonalità.

PROLOGO

Sein : Seyn In questo scritto, la dizione Seyn – antica grafia per Sein – è tradotta con il conio grafico «essære». In sintonia con Seyn (parola che non è un espediente grafico arcaizzante, ma un segno per ricordare l’addolcimento – y – del tratto metafisico dell’essere, cioè della rigidità dell’oujsiva, in direzione del suo fondo nascosto nuovamente tentato e pensato, cioè della ajlhvqeia liberata dal dominio della fuvsi~ e tradotta, mediante il Da-sein, in Lichtung), in sintonia con Seyn, dunque, la dizione «essære» suona esattamente come «essere», proprio mentre, grazie alla legatura «æ» che ricorda in grafia la lettera x, indica quell’indole che per prima resta preda dell’oblio: la Kreuzung, l’incrocio o l’incrociarsi [æ : x], di contrasto (uomo-Dio) e contesa (terra-mondo), ossia l’Er-eignis – che rendiamo con le forme «dicevolezza d’origine» o «originaria dicevolezza», e «accortezza». Così l’essære parla già la lingua del Geviert, della quadrifuga spaziosità per la terra e il cielo, i mortali e i divini. Si veda ad esempio la partizione 21 di Besinnung (nell’eco della partizione 8): Das Seyn als Er-eignis des ab-gründigen Austrags der Kreuzung von Entgegnung und Streit ist weder vom Seienden her als dessen Abhub und Nachtrag, noch auf das Seiende zu als dessen Ursache und Bedingung er-dacht. (GA Bd 66, p. 89) (Il Seyn, in quanto originaria dicevolezza [accortezza] dell’ad-scensiva disferenza dell’incrociarsi di contrasto e contesa, non è originato, nel pensare, né muovendo dall’essente, quale emanazione o traslato suppletivo di quest’ultimo, né muovendo a supporto dell’essente, nel senso di una causa prima o condizione dell’ente stesso.)

Chiameremo allora la y del Seyn «y di dicevolezza», e la «æ» dell’essære «æ di contrasto e contesa». Il parlare della rigidità dell’oujsiva potrebbe far erroneamente ritenere che ci si appoggi implicitamente a quell’opinione secondo cui Heidegger, nella “sua filosofia”, avrebbe opposto alla c.d. “astratta staticità” dell’essere “in senso metafisico” un “nuovo” (e “suo”) “concetto di essere”, quello dell’essere come “accadere” e come “evento”, ossia come un “produrre storia”. Precisiamo allora che nella dizione «rigidità» qui non pensiamo un’avulsa stabilità contrapposta alla diveniente motilità del mondo, ma – balzando su un piano più originario rispetto a quello della coppia essere-divenire, con la quale si è usi cogliere le posizioni metafisiche occidentali – piuttosto questo: lo stato di irrigidimento dell’indole ‘essere’ nella forma di ‘essere dell’ente’, forma in cui si nasconde, per effetto del celato urto della contingenza sull’uomo pensante, l’originario stagliarsi dell’essere quale scissura o scisma dall’ente.

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Un essere in tal modo costruito sul sostrutto dell’ente (cioè in quanto sua emanazione e traslato suppletivo) può (da allora) dirsi irrigidito poiché non si lascerà mai (più) stagliare sullo sfondo nascosto della sua indolica e scismatica libertà geniturale (Ab-grund, fondo d’ascendenza)a; deprivato di una tale ascensiva stagliatura, resterà visibile e pensabile solo quale (trascendente) fondo di donazione e di riserva (oujsiva), dissimulando così il suo controverso tratto d’origine – quello dell’incrocio di contrasto e contesa – in un’appianata compattezza, ossia nella semprerigida contrazione dell’acuto impatto del contingente (fuvsi~). L’addolcimento della rigidità dell’essere-ousia è allora la mitigazione dell’acuità della contingenza – mitigazione che, lungi dal generarsi in virtù di forze organiche e ordinatrici applicate alle sue potenze, si lascia addire all’essere solo grazie all’istantaneo flagrare, nella contingenza ormai crollata, della (disarmante dispotenziante alleviante fugata flagrante) mite indole: Seyn – Er-eignis – essære – originaria dicevolezza, accortezza.b Un chiarimento del Seyn – e quindi della Seinsfrage – sarà tentato nella Ripresa (infra p. 145).

a Le dizioni «fondo d’ascendenza/fondo ascensivo» e «ad-scensivo/ascensivo» in quanto traduzioni, rispettivamente, di Ab-grund/Abgrund e ab-gründig/abgründig, saranno chiarite infra, nella nota 9 della Ripresa. La ragione di tale rinvio risiede nella legge di costruzione del cammino qui di seguito tentato. b La contingenza – in quanto impatto e contrazione, devastazione di ogni origine e innesco di ogni potenza, annientamento di ogni finitezza e principio di ogni brama di sé, quindi disgregazione di ogni integrità – si stanzia come nascosta infirmazione della geniturale, libera controversia insita nell’incrocio di contrasto e contesa. Un’ulteriore delucidazione delle traduzioni qui proposte sarà fornita al momento della pubblicazione della traduzione del trattato Besinnung (a cura di I. De Gennaro e G. Zaccaria, per i tipi di Christian Marinotti Edizioni). Si vedano in ogni caso già ZACCARIA, IGP, p. 316-317, e HTP, pp. 161-164; si veda anche infra p. 82.

INTRODUZIONE

Intendere e tradurre la dizione pensante La parola del pensiero, la dizione pensante. Pronunciamo sempre ancora spensieratamente queste formule. Conosciamo ancora poco o nulla dell’indole del pensare; poco o nulla dell’indole cui ab origine il pensiero si dedica, quell’indole ‘essere’ acclarata nel Denkweg di Martin Heidegger, ma sempre fraintesa come la più irritante astrazione; poco o nulla dei modi in cui si genera nello stanziarsi dell’uomo questo pensiero dedicato all’essere, e poco o nulla della genuina dedicazione. Che cosa sia la parola, quando un pensare la assuma come dizione, resta allora necessariamente non deciso, e quindi a lungo misconosciuto. Così l’indole già pensante della lingua madre s’infrange sulla nostra mancanza di pensiero, per poi inabissarsi nell’apparire della lingua stessa come linguaggio, come regolato sistema di segni o codice: null’altro che un dispositivo di forme e contenuti capace di divenire via via un invalso veicolo di espressione mirante all’informazione. La parola, priva adesso del suo tratto d’origine, degradata a marcatore esterno (informativo) di un significato interno (cognitivo), a sua volta immaginato come afferente a una struttura, storicamente e culturalmente cangiante, di concetti e nozioni (“soggettivi”, “oggettivi”, “convenzionali”, “psicologici”, “conversativi”), la parola, dunque, deprivata della sua genitura di senso, cioè priva di patria e di mondo, e quindi avulsa dalla propria lingua madre, assume le esiziali sembianze del vocabolo, del termine: ora può essere fissata e schedata in repertori lessicali, terminologie e vocabolari, in glossari e prontuari, e usata come moneta nel mercato delle idee. Ma come si genera tutto questo – la rovina della lingua, e dunque della parola e della dizione? La rovina del dire non dipende da un errore umano in materia di “filosofia del linguaggio”, ma dal più profondo e nascosto mandato dell’epoca: sottrarre allo stanziarsi dell’uomo la vicinanza dell’essære, ossia dispiegare il nichilismo, giocare il gioco del Ge-stell, della formatazionea, il cui compiuto insediamento planetario esige appunto che la lingua si deformi in codice. Tale deformazione non si lascia dunque correggere da nessuna “riforma filosofica”; anzi: tutti gli sforzi in questo senso – ciechi rispetto alla destinale intimazione della Seinsfrage, o accecati dalla luce dei suoi fatali molteplici fraintendimenti, quindi ignari dello stanziarsi della formatazione –, non solo restano impoa Per una corretta intesa della dizione, come traduzione del Ge-stell, si veda HEIDEGGER, OA, p. 145; si veda anche infra la nota 15 della Ripresa. «Essære in quanto formatazione» vuol dire: regime dell’incondizionato format, ovvero della forma passata a ordigno d’implementazione (della potenza) – regime della verità (dell’essære) deformata in performatività (dell’ente).

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tenti rispetto alla rovina del dire, ma, senza poterlo mai neppure sospettare, sono già sempre arruolati dalla formatazione stessa per contribuire a procurare lo spazio necessario alla sua violenta implementazione (devastazione). La deformazione (in codice) della lingua madre è (sostenta) la formatazione stessa, nel senso che ne costituisce il più stabile piedistallo. Si può infatti far vedere che, se il parlare si attesta come uno strumento d’informazione, l’avere, fra esseri umani, una lingua comune – lungi dal mostrarsi come la chiara sfera in cui l’essære possa splendere in parola, e restare così l’extraneum nell’intimità della voce e dell’idioma – assumerà l’aspetto del possesso di un utensile per comunicare (“conversare”), cioè per tenersi l’un l’altro al corrente sul già (sempre più) noto, vale a dire: per mandare-ricevere degli Erlebnisse, dei vissuti d’impatto (emettere-trasmettere-immettere l’impatto). Ora, questi ultimi sono esattamente quei costitutivi tratti d’essere che la formatazione istituisce come i sensi-base dell’uomo e del suo mondo: essi, lasciati al loro svincolato stanziarsi, si compattano in substrato vitale dell’ente, per affermarsi così – in questa compattezza autoassicurata e autoavvalorata – come la fonte di ogni sua verità: il substrato ‘Erlebnis’ è adesso quell’unico senso in cui ogni segno d’essere va riportato; esso ormai chiede senza sosta la parola, e, ottenendola via via – ovvero riportandola in suo potere (riporto d’impatto) –, stanzia l’intera lingua come una sua caratteristica espressione: conferimento dei “significati basilari”, manifestazione “cognitiva” della vita e dell’ “esperienza”, “linguaggio”, “pratica linguistica”, “pratica comunicativa”. Così, nelle tenaglie dell’Erlebnis – vale a dire: sotto il giogo della formatazione, che, avvalorando l’Erlebnis quale unica primaria verità dell’ente, impone il riporto d’impatto –, è la lingua madre stessa che, in un nascosto contrasto indolico – cioè appunto ora in sembianza di “linguaggio” –, concede la più potente assicurazione contro la vicinanza dell’essære. Il contrasto indolico in cui si stanzia la lingua madre fa di essa, come ricorda Hölderlin, il «più tentante dei beni». In un abbozzo del 1800, in cui il poeta traccia la differenza fra l’uomo e gli altri esseri viventi, leggiamo: … und darum ist der Güter Gefährlichstes, die Sprache dem Menschen gegeben, (...) damit er zeuge, was er sei … (… e per questo è offerto all’uomo il più tentante dei beni, la lingua madre, […] affinché egli sia convocato a dire ciò che egli è… )

Heidegger, nella conferenza «Hölderlin und das Wesen der Dichtung», a tale proposito (fra altri chiarimenti che, per brevità, omettiamo) dice: … Ma in che senso la lingua madre è il «bene più tentante»? È la tentazione di ogni tentazione poiché essa soltanto procura l’attendibilità di una tentazione. La tentazione consiste nel pericolo che, mediante l’ente, grava sull’essere e così lo minaccia (…) Solo la lingua procura la chiarezza in cui può palesarsi il pericolo

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dell’essere e l’erramento, e, in tal modo, l’attendibilità dello smarrimento dell’essere – il che vuol dire: tentazione. Ma la lingua madre non è solo la tentazione della tentazione; essa reconde, d’indole propria per la propria indole, una persistente tentazione. (…) Nella lingua possono giungere a parlare il più puro e il più nascosto, ma anche l’opaco, il confuso e il comune. (…) Così la lingua madre deve costantemente presentarsi in un’apparenza che, in quanto generata nel suo proprio stanziarsi, attenta a ciò che più le si addice: il dire genuino. (GA Bd 4, pp. 36-37).

La formatazione della lingua madre in linguaggio (il circuito chiuso del riporto d’impatto) è allora il campo di gioco del reciproco alimentarsi fra la tentazione che grava nell’indole ‘essere’ (l’invisibile pericolo del primato dell’ente) e la tentazione in cui versa il dire genuino (il persistente pericolo della parola apparente). Il modo caratteristico in cui si attua il contrasto indolico della lingua madre – in forza del quale viene garantita la formatante “distanza di sicurezza” dalla vicinanza dell’essære – è l’attendibilità dell’avulsione della parola della lingua dalla lingua stessa, cioè appunto la sua frammentazione in vocaboli o termini. I termini si mostrano come autonome unità per grafia, forma grammaticale, uso e significato (“idea”, “concetto”, rinvio alla “cosa”, alla “realtà”); «autonoma unità» qui vuol dire: ciò che trova in sé l’essere-uno, l’essere quella certa forma che significa quella certa data cosa. Quot significatus, tot vocabula, e ciò in modo tale che quot vocabula, tot significatus: ora la lingua cresce, quanto a “potenziale semantico”, in funzione del numero dei suoi termini: ogni lingua è la sua terminologia, il suo lessico e modo di esprimersi, ovvero è totaliter il sempre diveniente insieme dei termini (vocabolario). Così la lingua madre si prospetta come un aggregato segnico mediante il quale si articolerebbe il “linguaggio”. Ogni riferimento all’origine del significare e del dire è allora coperto e ostacolato: nessuno parlerà alla mite luce dell’origine, ma solo nel buio del senso già costituito, ovvero acquisito via via da una certa “comunità di parlanti” quale proprio “patrimonio culturale-linguistico”. La frammentazione in termini, dunque, in quanto frazionamento dell’infrazionabile, è la frattura della semplicità della lingua madre: del suo avere voce e parola in ogni dizione – dizione che potremmo pure intendere come vocabolo se però, con questo nome, non pensassimo più il termine in quanto terminale del senso dato, ma il medium, l’inizio mediale, con cui la lingua, avendo già convocato l’indole ‘uomo’, chiama (vox vocat) alla luce (elegge, disasconde) l’ente nella tempra dell’indole ‘essere’.1 Intendere e tradurre la dizione pensante: la formatazione fa sì che ci avviciniamo sempre spensieratamente a questo compito. Infatti il tradurre il a Per un’intesa del tradurre libera da tale concezione della lingua, si veda il saggio di François Fédier «Traduire les Beiträge zur Philosophie» (TB).

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Denkweg di Heidegger, governati dall’idea che le lingue madri siano linguaggio, sarà sempre, che lo si voglia o no, un tradurre che tradisce.a Esso, nell’insulso intento di importare il tentativo pensante, cioè di acquisirlo per via storico-terminologica – facendo quindi economia del salto senza nomi nell’indole pensata, e della conseguente attesa della dizione –, finirà necessariamente col traslarlo in una speciosa pensosità. Pertanto le c.d. “soluzioni traduttive” via via trovate, nel loro verso nascosto, saranno sempre delle contraffazioni dell’indole pensataa, mentre, nel loro verso manifesto, contribuiranno a consegnare il tentativo pensante al fondo comune delle “risorse culturali”, ove esso viene ridotto a stimolante del pubblico atteggiarsi filosofico – e ciò vuol dire: usato per (r)aggirare ad libitum il suo stesso pensum e dunque per rifiutare l’occasione di un pensiero dell’essere in lingua madre. Il principio del tradurre che tradisce, della prassi traslativa reclutata dalla formatazione, suona allora: nolite velle experiri, non vogliate (mai, in nessuna lingua, il) voler esperire, cioè il voler tentare (l’essere).2 Occupata con termini e modi di dire, ossia con utensili per sagomare e atteggiare “significati” e “idee”, la prassi traslativa non potrà dunque mai cogliere i sensi e i modi in cui la parola diviene dizione pensante, la dizione cui ci si affida in un Denkweg (la dizione-scisma, come si vedrà). Così, per i traslatori, il pensatore rimarrà un produttore di un “universo concettuale”, che avrebbe il compito o il fine di “rappresentare la realtà” in vista di una spiegazione risolutiva del Tutto (indicazione delle verità ultime, o del fondamento universale), mentre nel pensare essi vedranno solo un escogitare concetti esplicativi (chiamati anche impropriamente “categorie”) che alimenterebbero un “vocabolario filosofico” articolato in una “terminologia tecnica”. Nella prassi traslativa, si parlerà allora di termini e stilemi della “lingua del pensatore” – laddove, con quest’ultima espressione, si intenderà l’evento storico di una particolare codificazione all’interno di una certa lingua. «Lingua del pensatore» significherà ora, per la prassi traslativa, «uso singolare della corrente lingua comune», ossia: modo particolare di esprimersi e dunque di informare il mercato delle idee circa il “problema in sé” del fondamento universale.3 Da tempo noi tentiamo un’altra via, che segue le indicazioni suggerite dallo stesso Heidegger. In realtà – e con buona pace degli onniscienti di professione4 – finora non pare che, per orientarsi nel Denkweg, vi sia una guida più attendibile di Heidegger medesimo. In un protocollo inedito di un colloquio a margine del congresso del 1955 di Cérisy-la-Salle (Normandia), ove il pensatore tenne la conferenza Was ist das – die Philosophie?, si legge:

a Ovvero: traslazioni dell’indole nel circuito dell’Erlebnis – ove ogni indolica forza geniturale è annientata.

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Insofern […] die Sprache jedem Denken vordenkt, wird die Überlieferung der Philosophie notwendigerweise Übersetzung. Wenn es sich darum handelt, meine Schriften zu übersetzen, möchte ich dabei ein Urteil abgeben, das ein Prinzip äussert: Man soll ein primäres, möglichst genuines Verständnis der Sache geben: ob es mit Gebrauchswörtern oder in einer gelehrten Sprache geschieht, ist sekundär, und es ist vielmehr wesentlich, daß das Gedachte in eine andere Sprache produktiv übersetzt wird, z.B. das Wort “gewesen” als Unterschied zum “Vergangenen”. Es ist gleichgültig, welches französische Wort – sogleich oder in 10 Jahren – für die Übersetzung gewählt wird, sondern es kommt darauf an, das Wort der Sprache anzumessen, damit man den Unterschied gleich versteht, und daß dieser Unterschied möglichst als Samenkorn aufgeht und eine kleine Pflanze daraus aufwächst.a

Traduciamo: Nella misura in cui la lingua madre precorre, in pensiero, ogni pensare, la tradizione della filosofia assume necessariamente la forma della traduzione. Perciò, quanto alla traduzione dei miei scritti, vorrei dare un giudizio, che suona come un principio: nel tradurre, è necessario suscitare un’intesa elementare, il più possibile genuina, dell’indole; che ciò accada mediante parole correnti o con dizioni prese dalla lingua erudita, è secondario; essenziale è invece che l’indole pensata sia resa, in un’altra lingua, in modo produttivo – per esempio, la dizione gewesen in quanto scissura o, meglio, scisma rispetto a das Vergangene. È indifferente quale dizione francese – adesso o fra dieci anni – sia scelta per la traduzione; piuttosto il punto decisivo è il seguente: rinvenire una dizione che sia intonata alla misura con cui la lingua ha già colto lo scisma, quella dizione dunque che consente una sua istantanea intesa così che proprio tale scisma possa germogliare come un seme e dal seme possa crescere una piccola pianta.

«… [L]a lingua madre precorre, in pensiero, ogni pensare» – che vuol dire questa proposizione? Essa risulta incomprensibile, se non assurda, finché pensiamo che la lingua sia un linguaggio, un fondo disponibile di termini, a cui, quando si voglia manifestare un senso, peraltro già (come si dice) pre-linguisticamente costituito, si possa attingere, attenendosi a determinate regole di articolazione. Ora, diversamente dal linguaggio (che – è vero – non pensa), la lingua madre è, dice Heidegger, la traccia già pensante di ogni pensare, mentre quest’ultimo pensa nella misura in cui è capace di tradursi, in un assecondante dar forma, nel pensare della lingua. Che la lingua parlante precorra ogni pensare vuol dire: essa ha ab origine alleggiato – secondo il peso di un senso, ovvero di staglio soppesato secondo l’indole, e, in tal senso, già pensato – tutto ciò che è.b Traducendosi nella lingua già pensante, ovvero parlandola, il a Si veda, anche per un’analisi puntuale dell’intero passo, DE GENNARO, GuH (il passo citato si trova alle pp. 482-483). b Alleggiare: alleviare, mitigare, temprare, sgravare, fugare: estollere alla contrazione del nascondimento. Peso (pensare): misura di stagliatura e nascondimento.

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pensare asseconda lo stagliarsi dell’indole nella (forma-)parola, nella dizione. Ora, il parlare della lingua madre nelle dizioni pensanti è eterogeneo rispetto all’indole via via essente: tale parlare si ritrae, è trattenuto, per così dire, in uno scisma, è nascostamente scisso rispetto all’essente – ma non, appunto, in virtù di una scissura (differenza) fra indoli congeneri (“parola” da un lato, “cosa” dall’altro), bensì costituendosi quale staglio e fermo scisma per lo stanziarsi dell’indole ‘essente’. Le dizioni genituralmente critiche di un pensiero non solo pensano lo scisma per dare la parola all’indole, ma, prima ancora, dicono lo scisma stesso nella sua propria parola; possiamo perciò chiamarle «dizioni-scissura», «dizioni-scisma» o «dizioni scismatiche»a. Ecco perché, recando l’esempio di una simile dizione scismatica, Heidegger dice: «(…) la dizione gewesen in quanto scisma rispetto a das Vergangene»: lo scisma, infatti, non è qui il constatabile risultato della comparazione di due termini dal diverso contenuto semantico; piuttosto, la prima dizione istituisce e afferma lo scisma, e ciò in modo che, nel suo chiaro tratto, possa apparire come das Vergangene indichi, invece, – sul nascosto sfondo dello scisma stesso, e in forma avulsa da esso – l’indole ‘essente’ che si stanzia nella forma di ciò che solo “tange” e viene meno, di ciò che passa e cade, ossia del passato in caducità, in contingenza. Nel tradurre, cioè nel presagire la parola in un’altra lingua, si tratta perciò, innanzitutto, di «rinvenire una dizione che sia intonata alla misura con cui la lingua ha già colto lo scisma», in modo da «suscitare un’intesa elementare, il più possibile genuina, dell’indole», e dunque un’intendere che – “indole chiama indole” – generi solo ancora un intendere, così che l’indole si raffermi come l’unica “cosa” davvero attendibile, e quindi traducibile. Tale è il tratto seminale delle dizioni-scisma, delle parole scismatiche. Tradurre è allora la geniturale rottura del terreno parlante, dal quale può spuntare e «crescere una piccola pianta»: una pianta dello scisma, la quale, crescendo, attempra il dire all’indole della lingua madre. Nel Denkweg, il primo seme delle attendibili piante dello scisma – chiamiamolo «seme scismatico» – è la dizione Dasein. Come vedremo, in relazione all’indole da indicare e pensare, non si sarebbe potuto coniare nome più appropriato. Per Dasein può valere il motto che Benedetto Croce riserva al termine guida della sua Logica (la denominazione «concetto puro»): … come non essere d’avviso che la scelta è ben fatta se, ai giorni nostri, questa denominazione (…) piace ai pochi, ma spaventa i molti e irrita i moltissimi, peggio del panno rosso agitato sugli occhi del toro; cioè, se essa, come ogni medicina efficace, suscita reazione nell’organismo dell’infermo? (Logica, Laterza, Bari 1947, p. 25).

Ma – restando nel parallelo – di che cosa si prende cura la dizione Dasein? Meglio: per che cosa essa “è in pensiero”? Vale a dire: chi è l’infermo? a

Nel nostro discorso, «scissura» e «scisma» sono sinonimi fenomenologici.

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L’infermo è l’uomo odierno – l’ultimogenito di una genitura, su cui grava la nascosta tentazione (il minaccioso pericolo) del nichilismo e del suo pieno dispiegamento, ossia, come si è accennato, della formatazione. Dasein, dunque, è in pensiero per il nichilismo. Sicché, nell’intendere e quindi nel tradurre la dizione, è necessario che restiamo realmente in pensiero con essa, ovvero che la accogliamo come seme scismatico, dissodando la lingua madre per mantenere il suo germe fertile e ben stagliato, invece di renderlo infecondo, come accade, ad esempio, quando, ignari della necessità dello scisma, diamo per assodato che il “concetto” del Dasein sia rettamente espresso – in “linguaggio filosofico” – dal noto «esserci». Nelle pagine seguenti, tracceremo un cammino d’intesa e di traduzione del Dasein sul terreno della lingua madre esplicitamente tentata come parola dello scisma. Sia l’intesa, cui è dedicato il Primo capitolo, sia la traduzione, trattata nel Secondo capitolo, dovranno allora dispiegarsi in espresso riferimento alla loro sempre disdetta comune origine, e quindi al loro costituente reciproco presupporsi. Che l’intesa presupponga il tradurre, e che la traduzione presupponga l’intendere, non è un circolo vizioso, né un gioco speculativo, ma lo stanziarsi stesso del pensiero geniturale. Il cammino non sta nell’avanzare, ma nell’imparare a ergersi entro l’indole scismatica della lingua madre al fine di erigervi, unicamente mediante la silente dizione di quell’indole, una ben stagliata dimora per il nostro interrogare e pensare secondo il Da-sein – dimora che, come vedremo, troverà nella Ripresa una sua peculiare saldezza. Da tutto ciò discende un’importante indicazione per la lettura. Per poter davvero leggere questo scritto – e quindi intenderlo fino al coalescente interrogare, e oltre –, dovremo già subito disporci a sentire e a pensare le parole che incontreremo, e dunque a lasciare che l’udente vedere si muova liberamente in esse e con esse. Solo così, infatti, sapremo fermarle nel colpo d’occhio fenomenologico – capacità che tutti noi, come esseri destinati al pensiero, necessariamente possediamo, e che dobbiamo solo imparare ogni volta a risvegliare. Tale capacità – preservandoci dall’intemperanza del valutare le parole, ossia dall’impulso a considerarle come segni di valori spendibili in un qualche calcolo – ci libera dalla schiavitù della lettura “a prima vista” e “a primo udito” come ciò che decide di ogni attendibile senso, e ci attempra alla lettura senziente.a

a

Per il senso della dizione «coalescenza», quale intesa del Da-sein in quanto Mitsein, si veda HEIDEGp. 363 (nota a p. 85 del testo).

GER, AF,

PRIMO CAPITOLO

Intendere il Da-sein Avvio Nella vasta letteratura di studi italiani sul pensiero di Heidegger, non vi è traccia, per quanto ne sappiamo, di chiarimenti e delucidazioni in merito alla consonanza fenomenologica fra l’«esserci» e il Dasein. Essa è ovunque ricevuta come ovvia, così che, spesso, si elogi la parola «esserci» per le sue credute virtù traduttive. Ma, come si vedrà, in tale genere di questioni, ogni dare per scontato – ogni supposizione di ovvietà – contribuisce solo all’oscuramento dell’essenziale, perpetuando così l’inesperienza, in lingua madre, del fenomeno. Accenniamo ai cinque esempi più indicativi, tratti appunto dalla suddetta letteratura. Primo. Nel glossario apposto alla traduzione di Sein und Zeit curata da Pietro Chiodi (Longanesi, Milano 1970), al quale si deve appunto l’introduzione del vocabolo «esserci» (sebbene la parola si incontri già, come resa del Dasein hegeliano, negli studi di Bertrando Spaventa sulla Wissenschaft der Logik), si legge: ESSERCI (Dasein). È il termine scelto da Heidegger per designare la realtà umana. L’essere dell’Esserci è l’esistenza…

– mentre, nell’Introduzione (p. X), si afferma che l’analisi dell’“in-essere come tale” è guidata dalla chiarificazione del carattere ex-sistenziale di questo “in”. Da-sein, Esser-ci, significa un essere che “ci” è, che è qui. L’“in” dell’in-essere è il “ci” esistenziale dell’Esser-ci, la sua apertura, la sua autoilluminazione.

Altrove, in un volume antologico intitolato L’esistenzialismo (Loescher, Torino 1964), Chiodi, nella nota di traduzione e commento del luogo di Sein und Zeit (§ 2) in cui Heidegger introduce il Dasein come dizione guida della Frage nach dem Sein, scrive: Vogliamo cercare l’essere. (…) A quale ente dobbiamo rivolgerci per interrogarlo intorno all’essere? (…) Un ente siffatto c’è ed è l’uomo. Heidegger non dice “uomo” perché questa parola potrebbe far cadere in mille equivoci. Dice Dasein che significa, in prima approssimazione, l’uomo in quanto ciè, ossia esiste in un modo tutto suo particolare che l’indagine andrà via via chiarendo. (p. 45)

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Secondo. Tutto ciò dato per acquisito ([Dasein = esserci] = essere-qui ex-sistenzialmente = “realtà o vita umana”), Franco Volpi, curatore della prima nuova edizione italiana di Essere e tempo (condotta sull’antica versione, ancora per Longanesi, Milano 2005), nella sua Avvertenza, può scrivere: … La terminologia da lui [Chiodi] fissata per un’opera che giganteggia come uno dei grandi testi del pensiero contemporaneo è ormai entrata nel linguaggio filosofico italiano. Valga per tutti l’esempio di “Esserci”, che rende Dasein – termine in altre lingue ancora privo di una soluzione soddisfacente – nella maniera più felice, semplice ed efficace possibile.

Così, alla fine della nota alla voce Dasein del Glossario – dopo aver ricordato che H. utilizza Dasein esclusivamente per indicare la costituzione ontologica della vita umana in quanto essa è un “poter essere”…

– il Curatore osserva: … Va ricordato, infine, che Heidegger ricorre alla grafia Da-sein (“Esserci”) quando intende mettere in evidenza l’apertura costitutiva dell’Esserci in quanto “essere-nel-mondo”, quel “Ci” che non va confuso con un “qui” o un “là” meramente locali (…), e che negli anni successivi sarà definito in termini di Lichtung (…), la “radura” dell’essere (…) (p. 586)

Terzo. Nella seconda nuova edizione italiana di Sein und Zeit – curata da Alfredo Marini per Mondadori (Milano 2006)a – il Curatore, nella sua Introduzione, riferendosi al § 8 dell’opera (in cui si espone l’Aufriß della trattazione), scrive: Il piano di Essere e tempo è articolato in due parti: la prima Parte consiste nell’interpretare l’essere dell’esserci (cioè dell’ente prescelto per l’analisi) in base alla temporalità, e poi nel mostrare che la temporalità è l’orizzonte trascendentale per la domanda sull’essere in quanto tale. (…) Ma poiché l’esserci è storico, la seconda Parte consisterà nella decostruzione fenomenologica della storia dell’interpretazione del senso dell’essere (…) / La prima Parte del piano è divisa in tre Sezioni (…) / Il primo punto (prima Sezione) descrive in termini preparatori la struttura dell’ente esemplare (l’uomo, anzi il suo esserci). Questa struttura, cioè l’essere di quell’ente che è l’esserci, è la cura, e

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Nel seguito indicata come «Edizione Marini».

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l’ontologia che la descrive è fondamentale (…) In questo quadro, dunque, tutto il sapere del mondo va ricondotto al sapere di sé dell’uomo, e ogni scienza a un’analitica dell’esserci che proprio per questo si può chiamare “ontologia fondamentale”.a (…) / L’uomo è l’ente al quale, nel suo essere, importa del proprio essere.b (pp. XII-XIII)

E ancora, nella Postfazione (che reca il titolo generale «Tradurre “Sein und Zeit”»), alla parte IV (intitolata «Esistenza, esserci, esser-sottomano [Existenz, Dasein, Vorhandenheit]»), nel paragrafo 15 (intitolato «Esserci o non esserci?») – paragrafo che inizia con la frase: Come è noto, Essere e tempo è un’analitica dell’esistenza. …

– leggiamo: … [I]n tedesco (…) accanto a Existenz abbiamo Dasein, termini che corrispondono rispettivamente a quelli italiani “esistenza” ed “esserci”, i quali traducono a loro volta esattamente tutte le differenze, e anche le ambiguità heideggeriane, tra Existenz e Dasein.

E nel successivo paragrafo 16 (intitolato «Semplicità e proporzioni»), ove si discutono i rapporti fra essentia ed existentia, si legge: Existentia e Dasein significavano la stessa cosa in latino e in tedesco.c Non appena sorge la domanda sul senso dell’essere, essi hanno bensì lo stesso significato (uomo) ma il loro senso è ora mutato: mentre prima l’uomo era un ente speciale nel mondo degli enti, ora gli enti sono momenti particolari nel mondo dell’uomo. / L’interesse per il proprio essere ha capovolto il senso dell’essere. Nell’uomo e nel suo mondo – in quanto l’uomo è essere-nel-mondo – l’existentia non si può più separare (…) dall’essentia, ed è ora questo nuovo nesso tra Existentia e Dasein a chiamarsi “cura”. (…) Fin dai corsi friburghesi (…) Heidegger cerca di definire una concezione della “vita umana” – un’antropologia – sufficientemente “fondamentale” da raccogliere in sé tutte le possibili ontologie regionali (…) Nell’ordine di questa istanza antropologica (ottimamente risultante nel termine italiano di “esser-ci”), per Heidegger preliminare alla domanda circa il senso dell’essere come tale, emerge il concetto di “cura” come essere dell’esserci. (pp. 1312-1313)

Si veda, a tale proposito, DAVID, OnF. Ci si riferisce a un passo del § 9 (di Sein und Zeit) nel quale non compare la parola «uomo» ma solo la dizione Dasein. c Quale sia questa “cosa” resta qui non precisato. a

b

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Così, nella sezione intitolata «Lessico di “Essere e tempo”», alla voce «Esserci / Essere-nel-mondo», il Curatore può annotare: Il termine [Dasein], il più importante e riassuntivo di tutta l’opera, viene in molti casi mantenuto in tedesco nelle traduzioni;a noi seguiamo la scelta di Chiodi – divenuta tradizionale – anche perché particolarmente opportuna e funzionale nella nostra traduzione (infatti traduciamo anche il Da con «ci» e il Sein con «essere»).

Quarto. Nel suo testo Introduzione a Heidegger (Laterza, Roma-Bari 19812005), Gianni Vattimo, al fine di avviare il lettore alla tematica di Essere e tempo – dopo aver precisato che … il termine esistenza, per l’uomo, va inteso nel senso etimologico di ex-sistere, star fuori, oltrepassare la realtà semplicemente-presente in direzione della possibilità (p. 21)

– presenta la parola Dasein nel modo seguente: Il termine tedesco per ‘esistenza’ è Dasein, alla lettera ‘esser-ci’. Esso esprime bene il fatto che l’esistenza non si definisce solo come oltrepassamento, che trascende la realtà data in direzione della possibilità, ma che questo oltrepassamento è sempre oltrepassamento di qualcosa, è sempre, cioè, concretamente situato, ci è. Esistenza, esserci, essere-nel-mondo sono dunque sinonimi. Tutti e tre i concetti indicano il fatto che l’uomo è “situato” in maniera dinamica, che cioè è nel modo del poter essere o anche (…) nella forma del “progetto”. Conformemente all’uso introdotto da Heidegger in Essere e tempo, anche nella nostra esposizione chiameremo l’uomo semplicemente l’esserci, intendendo questo termine nel senso di esistenza (trascendenza) situata (nel mondo), senso che del resto si verrà ora ulteriormente precisando e approfondendo. (p. 22)

Quinto. Infine, la breve nota che L’Enciclopedia Garzanti di Filosofia (Milano 2004, p. 194) riserva a Dasein compendia efficacemente la posizione vigente nella vulgata degli studi heideggeriani: DASEIN , termine tedesco (significa “esistenza, esistere”) usato da M. Heidegger per indicare il modo di essere proprio dell’uomo. Accentuando il senso letterale della parola, Heidegger dice che il Da-sein, l’esser-ci, è

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Come ad esempio nell’edizione francese curata da François Vezin.

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costitutivo dell’uomo perché egli è soltanto in quanto ha un ci, un orizzonte in virtù del quale si rapporta agli altri enti. In questo senso, per Heidegger “l’essenza del Dasein consiste nella sua esistenza” (Essere e tempo, par. 9), cioè nel suo trascendersi rapportandosi agli enti e comprendendosi nel proprio essere.

Nelle citazioni, abbiamo evidenziato i passaggi propriamente rivelatori, per noi, della criticità della questione. Rileggiamoli, senza più distinguerne la fonte, nella forma seguente: (Dasein). … scelto … per designare la realtà umana. … … Da-sein, Esser-ci, significa un essere che “ci” è, che è qui … … il “ci” esistenziale dell’Esser-ci, la sua apertura, la sua autoilluminazione … … vogliamo cercare l’essere … … Un ente siffatto c’è ed è l’uomo … … Dasein significa … l’uomo in quanto ci-è … … “Esserci”, che rende Dasein … nella maniera più felice, semplice ed efficace possibile … … per indicare la costituzione ontologica della vita umana … … ricorre alla grafia Da-sein (“Esser-ci”) quando intende mettere in evidenza l’apertura costitutiva dell’Esserci … … quel “Ci” che non va confuso con un “qui” o un “là” meramente locali (…), e che … sarà definito in termini di Lichtung … la “radura” dell’essere … … la struttura dell’ente esemplare (l’uomo, anzi il suo esser-ci) … … tutto il sapere del mondo va ricondotto al sapere di sé dell’uomo … … L’uomo è l’ente al quale, nel suo essere, importa del proprio essere … … Essere e tempo è un’analitica dell’esistenza. … … Existenz… Dasein, termini che corrispondono rispettivamente a quelli italiani “esistenza” ed “esserci”… … hanno bensì lo stesso significato (uomo) ma il loro senso è ora mutato: … ora gli enti sono momenti particolari nel mondo dell’uomo … … istanza antropologica (ottimamente risultante nel termine italiano di “esser-ci”) … … noi seguiamo la scelta di Chiodi – divenuta tradizionale – … infatti traduciamo anche il Da con «ci» e il Sein con «essere» … … ex-sistere, star fuori, oltrepassare la realtà semplicemente-presente in direzione della possibilità … … Dasein, alla lettera ‘esser-ci’. … è sempre oltrepassamento di qualcosa, è sempre, cioè, concretamente situato, ci è. Esistenza, esserci, essere-nel-mondo sono dunque sinonimi. Tutti e tre i concetti indicano il fatto che l’uomo è “situato” in maniera dinamica … … chiameremo l’uomo semplicemente l’esserci … … esistenza (trascendenza) situata (nel mondo) … ESSERCI

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il modo di essere proprio dell’uomo … … Accentuando il senso letterale della parola… [ci si riferisce al trattino in Da-sein] … il Da-sein, l’esser-ci, è costitutivo dell’uomo perché egli è soltanto in quanto ha un ci, un orizzonte in virtù del quale si rapporta agli altri enti …

Non è difficile accorgersi come questi passaggi si sostengano su taciti presupposti che hanno il tono di note contingenti, cioè di impatti. Se ora riordiniamo sinteticamente i passaggi in base a tali impatti, la criticità della questione ci apparirà in tutta la sua ampiezza e portata. In verità, il fatto 1. che vi sia un ente esemplare da interrogare per “cercare l’essere” o per porre “la domanda sull’essere in quanto tale”, e che questo ente sia (già sempre) l’uomo (il rinvio è al § 2 di Sein und Zeit) – tanto che Sein und Zeit sia mosso da una “istanza antropologica”; e quindi che il termine Dasein esprima un concetto tecnico-filosofico adottato da Heidegger per designare, nel suo proprio modo d’essere, tale ente-uomo, a sua volta inteso come “realtà umana” o “vita umana”, ovvero come ente “interessato all’essere”; e – al tempo stesso – 2. che la scrittura con il trattino Da-sein indichi senz’altro l’indole designata dalla sagoma grafica «esser-ci», e che quest’ultima (quale ovvio segno della suddetta “istanza antropologica”) abbia un contenuto fenomenologico, così come il Da sia senz’altro il «ci» e viceversa; e – al tempo stesso – 3. che sia attendibile, nella lingua italiana, un (modo di udire il) «ci» capace di designare «quel “Ci” che non va confuso con un “qui” o un “là” meramente locali», dunque un «ci» in grado di sostenere, contemporaneamente, sia il tratto dell’«apertura costitutiva» sia quello dell’«orizzonte», un «ci», diciamo, ad “apertura d’orizzonte” di ogni essere-qui ed essere-là, di ogni essere-situato; e – al tempo stesso – 4. che il suddetto «ci» sia omologo all’indole ‘Lichtung’, e che l’indole ‘Lichtung’ sia senz’altro pensabile nei vocaboli-immagine «radura» oppure «slargo» (secondo l’indicazione di G. Vattimo); ebbene: questo quadruplice fatto è presentato come un coerente insieme di assunti auto-evidenti, ovvero in sé non bisognosi di alcuna puntualizzazione fenomenologica; tale fatto, insomma, dovrebbe lasciarsi accettare come un’indiscutibile contingenza nell’ovvia evoluzione di un pensiero già sempre spiegabile nei termini di una dinamica storico-culturale dei “concetti” e delle “parole”. È invece possibile mostrare come non uno dei precedenti quattro assunti sia fondato o fondabile nel senso dell’indole Dasein. Piuttosto le pretese indiscutibilità e ovvietà della loro coerenza storica, avvalendosi del nascosto assenso già sempre concesso al rifiuto dell’urto d’essere, si basano sulla sordità nei confronti della Seinsfrage – il che vuol dire: sul rigetto del Da-sein come risveglio dell’interrogare costitutivo, attemprato al fondo

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d’ascendenza dell’essærea. Null’altro dunque sostiene tali assunti simultanei se non la resa incondizionata al nichilismo, la quale impone una vista corta e un pensiero privo di respiro, ossia, qui, un vedere e un pensare tacitamente determinati dagli impatti dell’uomo (1) e del trattino enfaticob (2), dell’apertura d’orizzonte (3) e della radura (4).c Discuteremo i quattro assunti in una trattazione divisa in altrettante partizioni: conseguiremo così l’intesa del Dasein, e, simultaneamente, metteremo via via a fuoco ciò che, alla fine del capitolo, chiameremo «l’infirmazione italiana del Denkweg».

I. Dasein, uomo, vita (al primo assunto: l’impatto dell’uomo) Nel § 2 di Sein und Zeit, e a dire il vero fin dall’attacco dell’opera, Heidegger non presenta affatto la Frage nach dem Sein come un “voler cercare l’essere” il quale trovi infine nell’uomo tout-court quella constatabile comprensione d’essere già capace, grazie a un’opportuna analisi, di offrire o fornire il senso voluto. Così come l’essere non è nulla di voluto in un domandante cercare – quasi si trattasse del contenuto di una possibile scoperta –, ma semmai un’indole richiesta in un Suchen, in un presagire (sagire, seguire una traccia, assecondarla)5, così l’elemento che guida la Frage non è l’uomo, né tanto meno la sua “realtà” o “condizione” o addirittura il suo “vivere” e “agire”, o la sua “situazione dinamica”, o la sua c.d. “storicità”, o la sua supposta “inconscia” tensione a “chiedersi chi o cosa egli sia”, o «l’interesse per il proprio essere», e neppure l’essere-uomo. Ciò che, destato e intimato da un’interpellanza dell’indole ‘essere’, guida la Frage è invece una singolare (ancora inaudita) fermezza, già stanziata (recondita) nell’umano stanziarsi geniturale (cui appartiene la genitura metafisica della filosofia, con le sue rare posizioni via via assunte). La Frage è infatti Frage nach dem Sein, è il Nach-dem-Sein-

a La dizione Seinsfrage – che indica, al tempo stesso, il problema d’essere, ossia l’erompere dell’enigma, e la conseguente interrogazione secondo ‘essere’, ovvero la richiesta del suo stagliarsi – sarà d’ora in avanti resa con la forma «interroganza d’essere» (da udire in senso verbale). Essa indica l’attendibile dimensione per l’insistente divenire interroganti in un’opera della parola: «inter-roganti», ovvero: di getto nell’essere (inter-) roganti l’indole ‘essere’, dunque già liberi dall’arroganza d’essere del contingente. L’interroganza d’essere restituisce alla Seinsfrage ciò che la sua traslazione in una generica “questione dell’essere” le sottrae, oggettivandolo per il calcolo storico – quel rogare, appunto, quale contegno da assumere esistendo in lingua madre, e quindi nell’Er-eignis. b …ossia inteso come mero espediente grafico di enfatizzazione o di accentuazione del già dato senso del Dasein (il c.d. “senso letterale”). c Prima abbiamo riletto i passaggi rivelatori senza più citarne le fonti, giacché, qui, la vera fonte è il nascosto vigore dell’onniraccogliente nichilismo. Il nichilismo stesso è ora lasciato libero di dispiegarsi proprio nella tempra di quel pensiero che lo ha diagnosticato genituralmente, ossia che ha tracciato in esso una via di fuga per la genitura dell’essære. Un tale dispiegamento si stanzia, come vedremo, secondo una “logica” singolarmente stringente.

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fragen, un interrogare mosso sì all’essere (dem Sein), ma già d’origine nella sua prossimità, o nel suo avvento, ossia secondo (nach) l’indole ‘essere’: un domandare dell’essere per la sua indole, un richiedere il suo stagliarsi, avendo ab imis interrotto ogni richiamo alla contingenza del già costituito ente, vale a dire: ogni adduzione dell’essente come inconcusso fondamento, e quindi ogni appello al già costituito adducente “uomo” – sia che lo si configuri come psyché, sia che lo si determini come animal rationale nel senso della moderna soggettività (ratio e ragione, Geist, volontà, essere vivente: homo animalis, persona, “ente pratico”). Ora, questa interrogante fermezza d’essere – questo attenersi via via all’essere assecondandolo in quella sua recondita indole già sempre libera dalla congiuntura del contingente – è appunto il Da-sein. Infatti il «noi» del citato § 2 non designa ciò che l’occhio storico crede di sapere già (si veda infra la o.i. 4), ossia «noi uomini» nel senso di: noi, i già costituiti (esseri)-viventi-(umani), noi, la vita, la realtà, il mondo umani, “esistenzialmente” bisognosi di un’adeguata fondazione ontologica. Quel «noi» indica innanzitutto i Fragenden: noi, gli interroganti l’essere, coloro che, fra (noi) mortali, si ergono nel loro stanziarsi per offrire tale stanziarsi quale medium del tratto ascensivo dell’indole ‘essere’ e quindi per elaborare e preparare, da quell’offerto stanziarsi e solo da quello, la sua interroganza. «Noi, gli interroganti» sono – siamo –, proprio in quanto interroganti addetti dall’indole ‘essere’, non un mero collettivo di “vite” impegnate nella ricerca di un senso, o nella sua produzione, ma d’origine, ogni volta, un medesimo (e dunque non uguale) umano essente, in cui ognuno, stanziandosi per indole propria, è un irripetibile, non sommabile «chi», e perciò mai un’isolata sostanza vitale (un «che») o un avulso “io” – in breve, un essente nel senso di una coalescenza d’interrogazionea: quel Da-sein il cui essere è ex-sistenzab – essere che ogni interrogante non può non assumere e soffrire. A p. 7 di Sein und Zeit, Heidegger scrive: Se il compito consiste nel dare espressa forma all’interrogazione secondo l’essere e di compiere quest’ultima, d’un solo tratto, in piena trasparenza della sua indole, allora (…) un’elaborazione di tale interrogazione richiede i. l’esplicazione sia del genere di fermezza in cui consiste il guardare all’indole ‘essere’, sia dell’intenderne e del concettuale afferrarne il senso; ii. la preparazione dell’attendibilità della retta elezione dell’ente esemplare; e infine iii. l’acclarante elaborazione del genuino modo di accesso a tale essente. “Guardare a…”, “intendere…”, “concepire…”, “eleggere…”, “accedere a…” sono contegni costitutivi dell’interrogare e, in tale

a Per il tratto della coalescenza (Mitsein), come si è già detto, si veda HEIDEGGER, AF, cap. IV (§§ 18-20 e annessa ndt). Si veda infra anche la o.i. 13. b «Ex-sistenza» è da udire in senso fenomenologico e non enfatico; essa ha nulla da spartire dunque con un oltrepassamento della «realtà semplicemente-presente in direzione della possibilità», eccetera. Si veda infra la o.i. 24.

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maniera, per indole, modia d’essere di un ben intonato ente – di quell’essente che noi, gli interroganti, ogni volta, d’indole, siamo. Di conseguenza, «elaborazione dell’interroganza d’essere» vuol dire: rendere trasparente un essente – l’essente che interroga – secondo il suo essere. L’interrogare di tale interroganza, in quanto modus d’essere di un ente, è, per indole, di getto intonato da ciò secondo cui è condotto – ossia dall’essere. Questo ente – ente che, ogni volta, d’indole, noi [gli interroganti] siamo, e che possiede, quale suo distintivo attendibile essere, la capacità d’interrogare – lo cogliamo mediante la dizione Dasein. L’espressa e trasparente messa in forma dell’interrogazione secondo il senso d’essere, richiede una preliminare esplicazione di un ente (il Dasein) secondo la misura del suo essere.b 6

Così, cinque pagine oltre, nel § 4, si dice: [Prima traduzione]: L’indole ‘essere’, rispetto alla quale il Dasein può assumere questo o quel contegno, e con la quale, in un modo o nell’altro, sempre si mantiene in relazione, noi la chiamiamo Exsistenz, «esistenza». Ora, giacché la costitutiva intonazione di questo essente non può compiersi attribuendogli l’estrinseco carattere dell’essere un “che” (un qualcosa), poiché il suo stanziarsi riposa piuttosto nell’aver ogni volta da essere il proprio essere quale indole che lo concerne in modo via via sempre unico – per la stagliante designazione di tale essente è scelta la denominazione Dasein in quanto schietta dicitura d’essere. [Seconda traduzione]: L’indole ‘essere’, rispetto alla quale il Dasein può tenersi ora in questo modo ora in quello, e con la quale sempre si mantiene in una determinata relazione, noi la chiamiamo «esistenza». E la scelta della dizione Dasein, come stagliante designazione di tale essente, si deve al fatto che è una schietta dicitura d’essere; infatti la costitutiva intonazione di questo essente non può compiersi attribuendogli l’estrinseco carattere dell’essere un “che” (un qualcosa), poiché il suo stanziarsi consiste piuttosto nell’aver ogni volta da essere il proprio essere quale indole che lo concerne in un modo via via sempre unico.c

Vediamo dunque come il modo in cui pensiamo il contratto fra l’uomo e il Dasein riesca decisivo per una retta intesa di Sein un Zeit e dunque del Modi: qui plurale del latino modus. Note a margine sulla copia personale di Heidegger (d’ora in avanti indicate con la sigla n.m.): 1. Alla parola «essere» (al punto «ossia dall’essere») → «Da-sein: als Hineingehaltenheit in das Nichts von Seyn, als Verhältnis gehalten» : «Da-sein: in quanto tenore dell’intima attempratura al nulla d’essære, sostenuto quale tono conferente»; 2. Alla parola «essere» (al punto «misura del suo essere») → «Aber nicht wird an diesem Seienden der Sinn von Sein abgelesen» : «Però non è che il senso d’essere venga derivato leggendolo su questo ente». c Quale più semplice determinazione dell’essere pensante come risveglio del carattere geniturale dell’uomo già d’indole affrancato dal mero vivente e dalla contingenza, e quindi dalla storicità? Il Dasein indica così il fondo nascosto dello zw`/on lovgon e[con, da pensare però non come animal rationale, ma alla luce del tratto greco originario del levgein, cioè del raccogliere e dello stagliare: l’essere intimo al mondo secondo l’indole del logos, della stagliante raccolta. – L’originale suona: «Das Sein selbst, zu dem das a

b

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Denkweg. Lo stesso nostro cammino di delucidazione si addice tanto più al suo compito quanto più sa insistere nel chiaro sentimento di quel contratto.a D’altronde, come si può parlare del Dasein in termini di costituzione ontologica o modo d’essere della vita umana, se già qualcosa come la “vita umana” è, nel senso del Denkweg, una distorsione dell’essere-uomo, ed anzi proprio ormai quel titolo che contribuisce alla copertura (tecnica, formatante) del Da-sein stesso nel suo rigenerante addirsi all’essere-uomo? Se l’uomo “fosse” innanzitutto vita, non potrebbe aver luogo nessun “essere” e dunque nessun ente, né, tanto meno, una “costituzione ontologica”, né quindi una filosofia, né un’arte, né, a fortiori, un pensiero, e soprattutto non si stanzierebbe nessuna indole ‘essere’ nella forma dell’originaria attendibilità per l’umano abitare – quindi: nessun Dasein. In un passaggio ancora iniziale del secondo corso su Nietzsche (dedicato alla Ewige Wiederkehr des Gleichen), ove Heidegger delucida brevemente le parole-chiave del suo chiarire i «pensieri» del Filosofo, leggiamo: … Dasein ha per Nietzsche lo stesso significato di Welt (mondo); e al posto di Dasein, egli dice anche Leben (vita, vivere), intendendo con ciò non solo l’umano Leben e l’umano Dasein. Noi invece adoperiamo la dizione «vita» unicamente quale denominazione dell’ente vegetale e animale, e scindiamo da essa l’essere-uomo, che è qualcosa di più, oltre che di altra indole, rispetto alla mera “vita”. Infine è soprattutto necessario osservare che la dizione Dasein denomina per noi [gli interroganti] un’indole che non coincide affatto con l’essere-uomo e che è interamente scissa da ciò che Nietzsche e la tradizione a lui precedente intendono con questo termine. Ciò che noi designiamo con la dizione Dasein non è mai emerso nella genitura della filosofia. Tale scissione nell’uso della parola non riposa sulla gratuita decisione terminologica di un singolo. Al fondo di tale scissione vi sono delle costitutive necessità geniturali. Tuttavia questo genere di scissure o di scismi della lingua madre non sono padroneggiabili grazie al fatto che ci si addestri a usarle a memoria; dobbiamo innalzarci alla tempra della dizione adulta muovendo dall’Auseinandersetzung, dal regolamento scismatico, con la Sache selbst 7. (N, I, p. 278; c.n.)

Dasein sich so oder so verhalten kann und immer irgendwie verhält, nennen wir Existenz. Und weil die Wesensbestimmung dieses Seienden nicht durch Angabe eines sachhaltigen Was vollzogen werden kann, sein Wesen vielmehr darin liegt, daß es je sein Sein als seiniges zu sein hat, ist der Titel Dasein als reiner Seinsausdruck zur Bezeichnung dieses Seienden gewählt.» [N.m. 1. Alla parola Das (al punto Das Sein selbst) → «Dasjenige» : «Quell’ »; 2. Alla parola dem (al punto zu dem das Dasein) → «als seinem eigenen » : «in quanto sua propria ». Heidegger puntualizza così che si sta parlando di quell’indole ‘essere’ che è riferita al Dasein e non dell’indole ‘essere’ che – mediante il Da-sein – è riferita al fenomeno ‘ente in quanto essente nella propria sfera di integrità’, ossia non dell’essære (custodito, recondito nel Da)]. Sul senso del concernere riferito all’indole si veda infra la o.i. 23. a Sul chiarimento del contratto fra Dasein e uomo, si veda anche BORGHI, DeT, pp. 498 e sgg.

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Il pensiero dell’inaudito Dasein non è dunque un concepire la «costituzione ontologica della vita umana in quanto essa è un “poter essere”», né un’antropologia ermeneutica basata sul «fatto che l’uomo [sia] “situato” in maniera dinamica», cioè sull’uomo come «esistenza (trascendenza) situata (nel mondo)», o come ente determinato dall’«interesse per il proprio essere», ma, lontano da tutto questo, l’inizio di un altro pensare – altro rispetto alla metafisica, e dunque al Gestell, alla formatazione, innanzitutto perché è altro per costituzione: un pensare che impara a custodire in parola l’indole originariamente altra dall’ente. … Oltre l’ente, ma non via dall’ente, bensì prima e verso di esso si genera un’indole altra. Nel fulcro dell’ente, colto nella sua sfera d’integrità, si stanzia una già flagrata fermezza. Una Lichtung, una stagliatura è. Pensata muovendo dall’ente, la stagliatura è più essente dell’ente. Tale flagrante fulcro non è, quindi, racchiuso all’interno dell’ente: piuttosto, proprio lo stagliante fulcro – come il nulla, che a mala pena conosciamo – libera ogni essente entro i propri confini .

Così Heidegger, nell’Origine dell’opera d’arte.a Invero, come vedremo più analiticamente nella partizione II, il Da del Dasein non è mai il “ci” dell’uomo, ma appunto “solo” la stagliatura – cui l’essere dell’uomo è addetto – per l’ente nella sua sfera d’integrità, mentre il suo Sein non è mai l’umano ritrovarsi al mondo, ma il soffrire – cui l’essere dell’uomo si offre e si presta – quella stagliatura. Resta in ogni caso il fatto che in Sein und Zeit – così come lungo l’intero Denkweg – incontriamo l’umano e le sue consuete parole, Mensch e Leben, «uomo» e «vita». Ma allora: come devono intendersi queste dizioni? E, soprattutto, in che modo si rapportano al Dasein? Il seguente passo, che puntualizza il senso dell’interrogare filosofico nella tempra dell’interroganza d’essere, indica il piano sul quale possa conseguirsi un orientamento rispetto a tali questioni: Filosofia è ontologia fenomenologica universale; quest’ultima prende le mosse dall’ermeneutica del Dasein, la quale, in quanto analitica dell’esistenza, ha fissato il punto estremo del filo conduttore di ogni interrogare filosofico da cui tale interrogare esordisce e nel quale ritorna. (SuZ, p. 38)

Ci accorgiamo così che l’interrogare non solo non inizia da qualcosa come “vita” o “uomo”, ma, mentre asseconda l’elemento destinale della propria ascensiva provenienza, non tocca mai né la “vita” né l’“uomo” (né dunque il suo c.d. “interesse per il proprio essere”). In altre parole: l’interrogare tocca, sì, l’uomo e il suo essere, ma sempre, per così dire, con “mano scismatica”, ovvero con a

Si veda OA, pp. 78-81; trad. qui modificata.

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il tatto dello scisma – il che vuol dire: in modo che non si generi mai una metabasi dall’interrogare verso la contingenza della vita umana. Stagliando l’indole ‘vita’ e l’indole ‘uomo’, l’interroganza resta un interrogare del Dasein e per l’indole ‘essere’, ovvero per lo scisma che ogni volta genera, per il proprio compiuto stanziarsi, il Dasein di quell’attendibile interrogare. Là dove guardi all’uomo, il Dasein dell’interroganza resta quindi congenere a quel filo conduttore interamente attemprato alla problematicità dell’indole ‘essere’, all’irruzione del suo enigma («Wir wissen nicht, was “Sein” besagt», «Non sappiamo che cosa voglia dire “essere”»; SuZ, p. 5), e, in questo senso, osserva l’uomo da lontano, rimanendo cioè integralmente ritratto in una Vorbereitung, in una sfera preparatoria – quella dell’«a priori per l’interroganza che chiede “che cosa sia l’uomo”» (ibid., p. 45). Il costante sforzo di Sein und Zeit – sforzo sostenuto da una raggiunta libertà dalla presa della contingenza sull’indole – è la vigilanza rispetto alla «tentazione ontologica» (ibid., p. 116) costituita dalla spontaneità ontica con cui è constatabile il fatto che il Dasein sia «ogni volta mio»: tale circostanza (il Dasein è singolarmente mio, ossia: il Dasein concerne ogni volta me – ma me coalescente –, si genera come compito a cui proprio io – ma io coalescente – sono chiamato a offrire il mio essere-uomo), tale circostanza, dicevamo, può facilmente indurre al fatale errore di porre il mio – ma avulso – essere, la contingenza della mia – ma avulsa – vita o realtà, insomma proprio ME così come “sono” e come “mi sento”, quale riferimento per il Dasein, quel Dasein che, in tal modo, decade a connotazione ontologica di un io (l’io del Man-selbst e dell’Erlebnis) che, d’impatto, ridimensiona il mondo fino a ridurlo alla meschinità del «ci».8 Ecco perché in Sein und Zeit si avverte che l’“io”, quale costitutiva intonazione del Dasein, debba essere interpretato secondo il tratto dell’esistenza (si veda ibid., p. 117).9 Ed ecco perché, ancora, la dizione Mensch è talora posta tra parentesi (ibid., p. 11) o tra virgolette (ibid., p. 196), che ne sospendono il senso ontico-naturale, mentre il pensiero è impegnato a costruire un’altra dimensione per l’uomo. Sicché, anche lì dove manchino parentesi e virgolette, deve comunque considerarsi sospeso (ossia posto in epoché) quel senso d’impatto che, per sua stessa costituzione, distrugge la differenza indolica (lo scisma), e, con essa, l’attendibilità del pensiero-Dasein. L’uomo e il suo essere (per non parlare della sua – «ontologicamente indeterminata», vita – ibid. p. 50) restano formalmente indicati entro la lontananza d’origine che si genera non appena l’indole ‘essere’ dia avvio all’interrogare. Finché tale lontananza è sostenuta nel pensare interrogante, quest’ultimo è salvo dall’intrusione della contingenza, vale a dire dal fatto che il Dasein sia «dedotto» da una qualche «idea dell’uomo» (ibid., p. 182) espressamente o tacitamente fondante in senso ontico. Di conseguenza, quando in Sein und Zeit leggiamo la locuzione «essere dell’uomo» («Sein des Menschen», p. 171), oppure la frase «il Dasein, ossia l’essere dell’uomo» («[d]as Dasein, d. h. das Sein des Menschen», p. 25.), è essenziale che il pensiero (l’essere in pensiero per l’uomo) non si lasci tentare dalla facile e rassicurante constatazione che, parlando del Dasein, “Heidegger” stia ridefi-

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nendo la costituzione ontologica di un ente che, per quanto degno di riflessioni svelanti in senso ontico e, appunto, ontologico, è però, sostanzialmente, già stabilito in virtù del fatto che si tratta pur sempre dell’ente (l’uomo) da noi (uomini) “avuto per identità”. (Si veda ibid. il §5; in particolare, a p. 14, il riferimento al Dasein come ontologisch das Fernste, l’indole ontologicamente più lontana.) L’analitica del Dasein non parla né di noi né dell’uomo, ma dall’indole ‘essere’: vom Sein. L’interroganza d’essere si genera però, dall’inizio (e ancor più) alla fine di Sein und Zeit, nel segno del detto «Noi non sappiamo che cosa voglia dire “essere”». E se questo è il primo detto del Denkweg, il secondo deve senz’altro suonare: Wir wissen nicht, wer der “Mensch” ist, noch ob “wir” sind. (si veda SuZ, §§ 25-27) (Noi non sappiamo chi sia l’ “uomo”, e neppure se “noi” siamo.)

In tal modo, la rotta è già indicata e chiede “solo” di essere assecondata: più si chiarirà, nel corso del Denkweg, la peculiare originarietà dell’interroganza d’essere, tanto più diverrà necessario non solo imparare a distinguere fra il Dasein e l’uomo, come già appunto avviene in Sein und Zeit, ma a pensare, nel Da-sein e in quanto Da-sein, null’altro che l’attendibile dimensione della Entmenschung des Menschen, e questo nel più schietto contrasto con la sua Vermenschung – dizione che intendiamo mediante la parola «ominazione», posto che se ne lasci cadere l’invalso significato tecnico-antropologicoa, oltre che ogni allusione o rinvio, per un verso, all’“umanizzazione”b e all’“umanamento”c e, per l’altro, all’antropomorfismod. In «ominazione»

a «Ominazione» è parola attestata, in italiano, come concetto operativo delle teorie evoluzionistiche in antropologia. b «Umanizzazione», nel senso del conferimento dell’umano al non umano, al disumano e inumano, o al non ancora umano (senso che richiama la Vermenschlichung tedesca: il condurre “a forma d’uomo”, il porre in “forma-uomo”). c Questa dizione può tradurre piuttosto la Vermenschung nietzscheana, a sua volta da non confondere con l’uso che il pensatore fa del verbo vermenschlichen (si veda N I, pp. 653-54). d È opportuno aggiungere tale caveat giacché spesso si accosta erroneamente la Vermenschung nietzscheana (e il Bedenken a essa riferito; N I, pp. 356-365) agli innocui concetti dell’antropomorfismo e della c.d. “antropomorfizzazione” (privi in sé di ogni originaria tonalità metafisica). Se già in riferimento alla filosofia di Nietzsche tale accostamento riesce stonato e non privo di un’involontaria comicità, nell’Auseinandersetzung heideggeriana esso risulta gravemente fuorviante. – Riassuntivamente, la traduzione senziente deve distinguere le seguenti dizioni-indole: a. la Vermenschung (e la Entmenschung adoperata da Heidegger come necessario complemento a questa Vermenschung) in quanto dizione metafisico-diagnostica di Nietzsche (in tale Vermenschung rientrano anche quelli che Nietzsche chiama Anthropomorphismen); b. la “Vermenschlichung” (ovvero il “Vermenschlichen”) in quanto dizione metafisico-terapeutica dello stesso Nietzsche; c. la Vermenschung, e la corrispondente Entmenschung, in quanto dizioni diagnosticogeniturali di Heidegger; d. la Vermenschlichung ovvero l’Anthropomorphie in quanto, anch’esse, dizioni diagnostico-geniturali sempre di Heidegger. Nel Nietzsche, Heidegger non usa la dizione Vermenschung nel

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dobbiamo invece udire l’infirmazione dell’indole in forza del crollo dell’essere-uomo nell’essere-vivente, cioè nell’animal rationale formatato in historisches Tier – l’«animale storico».10 Nel trattato Besinnung – ove la Vermenschung è una dizione guida in quanto parola dell’Auseinandersetzung (ovvero, come si è già detto, del «regolamento scismatico»a) con Nietzsche (si veda anche N, I, pp. 350 sgg. e GA Bd 65, p. 510) –, leggiamo infatti: Was das seynsgeschichtliche Denken er-denkt, ist zuerst das Da-sein, sofern solches Denken für den Abgrund des Seyns einen Grund zu gründen bestimmt ist. Das Da-sein jedoch ist nicht der Mensch, sondern Jenes, wodurch die Entmenschung des Menschen (die Überwindung des historischen Tieres) ermöglicht wird, da es der Ausgesetztheit des Menschen in das Seiende zuvor erst die Stätte bietet. (GA Bd 66, p. 210) (L’indole che il pensare geniturale d’essære origina è in prima istanza il Dasein; infatti tale pensare ottiene il proprio tono nel fondare il suolo per il fondo ascensivo dell’essæreb. Ma il Da-sein non è l’uomo, bensì quell’indole per entro la quale diviene attendibile la dis-ominazione dell’uomoc– lo scismatico affrancamento dall’animale storico –, poiché Dasein vuol dire: scismatica prima offerta del sito di stanziazione alla gettata estraneità dell’uomo nella tempra dell’ente.)

senso diagnostico che essa assume invece nei Beiträge e in Besinnung, e ciò presumibilmente proprio per evitare la confusione con la Vermenschung nietzscheana. Ora, sia la Vermenschung sia la Vermenschlichung in senso heideggeriano sono dizioni scismatiche che stagliano e la (diagnostica) Vermenschung e la (terapeutica) Vermenschlichung di Nietzsche in quanto forme, appunto, della genitura della Vermenschung, ovvero dello Humanismus, a sua volta inteso nel senso geniturale del Brief. Resta inteso che i due sensi (quello nietzscheano e quello heideggeriano) di tali dizioni-indole non devono essere desunti dai significati – tanto vari quanto invariabilmente ontici – che le parole Vermenschung, Entmenschung, Vermenschlichung e Anthropomorphie sono andate via via assumendo nel parlare formatato (un trattamento a parte meriterebbe l’uso metafisico, ad esempio, della dizione Entmenschung in Kant o in Eugen Fink). In particolare, come si è detto, esse (dizioni-indole) non devono in nessun caso essere intese nel senso dell’Anthropomorphismus, dizione che parla prettamente nel dominio dell’opinare storico e delle sue istanze valutative (si veda N II, p. 127). a La traduzione di Auseinandersetzung con «regolamento scismatico» può essere intesa grazie a una traduzione esplicitante del seguente passo, tratto proprio dal Nietzsche: «Es kommt nicht zu einer Auseinander-setzung, zur Gründung einer Grundstellung, die aus der anfänglichen heraustritt, so zwar, daß sie diese nicht wegwirft, sondern sie erst in ihrer Einzigkeit und Bündigkeit erstehen läßt, um an ihr sich aufzurichten» : «Non si genera [scil. nella Umkehrung nietzscheana] un regolamento scismatico, ossia non si genera la fondazione di una fermezza di fondo, la quale si estolla scismaticamente da quella iniziale – estollimento che non consiste, però, nel gettare via tale fermezza iniziale, bensì nel lasciare che essa si erga scismaticamente nella sua unica e compatta indole, affinché la nuova fermezza possa adergersi per entro lo scisma della sua (della fermezza iniziale) regola» (N I, p. 605). b Ossia: il fondo ascensivo in cui consiste l’essære. c La dis-ominazione dell’uomo è la liberazione dell’homo humanus rigenerato nel e dal Da-sein; è l’ominalità fondata indolicamente in Da-sein.

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E ancora, a p. 245, il Da-sein – ovvero, qui, l’Er-fragen des Seyns, l’originante interrogare l’essære, cioè l’interroganza d’essære che origina l’essære – viene indicato come quel Grund, aus dem (…) der Anfang der jeweiligen Wesenswürde des Menschen stammt, kraft deren er die Vermenschung als die schärfste Wesensgefahr überwindet

– ossia come quel fondamento dal quale si genera l’inizio della sostantea dignità di stanziazione dell’uomo, in forza della quale egli si affranca scismaticamente dall’ominazione, che costituisce la più acuta tentazione dello stanziarsi [ossia: la più “acuminata” costitutiva tentazione già ab origine insita nell’essære].

Ora, proprio tale rotta – seguita rigorosamente, nel Denkweg, dopo l’avviante tentativo di Sein und Zeitb (1927) – è ripresa, ridisegnata, ripercorsa e nuovamente chiarita in uno fra i documenti heideggeriani più citati e noti e, al tempo stesso, più inascoltati e fraintesi, e ormai storicizzati e passati in giudicato, il Brief über den Humanismus (1946).11 Leggiamo e traduciamo qui di seguito – a suggello di questa prima partizione del nostro cammino, ma anche come passaggio verso la seconda – alcuni brani del Brief che indicano chiaramente la dimensione e il senso in cui deve intendersi, nel Denkweg, il contratto fra il Dasein e l’uomo. … Sind wir überhaupt auf dem rechten Wege zum Wesen des Menschen, wenn wir den Menschen und solange wir den Menschen als ein Lebewesen unter anderen gegen Pflanze, Tier und Gott abgrenzen? Man kann so vorgehen, man kann in solcher Weise den Menschen innerhalb des Seienden als ein Seiendes unter anderen ansetzen. Man wird dabei stets Richtiges über den Menschen aussagen können. Aber man muß sich auch darüber klar sein, daß der Mensch dadurch endgültig in den Wesensbereich der Animalitas verstoßen bleibt, auch dann, wenn man ihn nicht dem Tier gleichsetzt, sondern ihm eine spezifische Differenz zuspricht. Man denkt im Prinzip stets den homo animalis, selbst wenn anima als animus sive mens und diese später als Subjekt, als Person, als Geist gesetzt werden. Solches Setzen ist die Art der Metaphysik. Aber dadurch wird das Wesen des Menschen zu gering geachtet und nicht in seiner Herkunft gedacht, welche Wesensherkunft für das geschichtliche Menschentum stets die Wesenszukunft bleibt. Die Metaphysik denkt den Menschen von der animalitas her und denkt nicht zu seiner humanitas hin.

a «Sostare» vuol dire fermarsi per via, stare (ergersi) di volta in volta in una fermezza del dispensato spazio-tempo, je weilen. b «Avviante tentativo di Sein und Zeit» vuol dire: lasciar esordire la Seinsfrage in un pensare mosso dalla Grunderfahrung der Seinsvergessenheit, cioè dalla accorgimento fondamentale della sfuggevolezza d’essere (in quanto geniturale, metafisicamente invisibile fondo d’ascendenza della metafisica).

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Die Metaphysik verschließt sich dem einfachen Wesensbestand, daß der Mensch nur in seinem Wesen west, in dem er vom Sein angesprochen wird. Nur aus diesem Anspruch »hat« er das gefunden, worin sein Wesen wohnt. Nur aus diesem Wohnen »hat« er »Sprache« als die Behausung, die seinem Wesen das Ekstatische wahrt. Das Stehen in der Lichtung des Seins nenne ich die Ek-sistenz des Menschen. Nur dem Menschen eignet diese Art zu sein. (ÜH, p. 15; GA Bd 9, pp. 323-324) (Ma siamo sul retto cammino verso il costitutivo stanziarsi dell’uomo, se e finché distinguiamo l’uomo, inteso come un essere vivente fra gli altri, rispetto alla pianta, all’animale e a Dio? Si può certo procedere così, si può in questa guisa collocare l’uomo nel mezzo dell’essente e definirlo come un ente fra altri enti. Si potranno sempre formulare in tal modo degli asserti corretti sull’uomo. Ma si deve anche essere consapevoli che così l’uomo è definitivamente ricacciato nell’ambito costitutivo dell’animalitas, anche quando non lo si consideri come un animale tout-court, e gli si riconosca una differenza specifica. In senso principiale, si pensa sempre l’homo animalis sia quando si pone l’anima come animus sive mens sia quando, più tardi, si porranno l’anima e l’animus come soggetto, come persona, come spirito e genio. Un simile porre è la maniera della metafisica. Ma tale maniera porta a considerare lo stanziarsi dell’uomo come troppo poca cosa e a non pensarlo nella sua provenienza; tale stanziativa provenienza resta però sempre, per l’ominalità genituralea, lo stanziativo avvenire . La metafisica pensa l’uomo muovendo dalla animalitas e così non destina il proprio pensare alla sua humanitas. / La metafisica si contrae di fronte alla seguente semplice costitutiva circostanza: che l’uomo si stanzia solo in quella tempra del proprio stanziarsi nella quale è chiamato, meglio: è convocato in parola, dall’essere. Solo perché mosso da tale convocazione-in-parola, egli “ha” trovato la sede in cui abita il suo stanziarsi. Solo perché mosso da tale abitare, egli “ha” una “lingua madre”, ossia la dimora [habitus] che tutela e custodisce quell’indole estatica indispensabile al suo stanziarsi. L’ergersi nella stagliatura dell’essere – questo è ciò che io chiamo l’exsistenza dell’uomo. Solo all’uomo si addice tale forma [ars] d’essere.)

*

… Der Satz: »Der Mensch ek-sistiert«, antwortet nicht auf die Frage, ob der Mensch wirklich sei oder nicht, sondern antwortet auf die Frage nach dem »Wesen« des Menschen. Diese Frage pflegen wir gleich ungemäß zu stellen, ob wir fragen, was der Mensch sei, oder ob wir fragen, wer der Mensch sei. Denn im Wer? oder Was? halten wir schon nach einem Personhaften oder nach einem Gegenstand Ausschau. Allein das Personhafte verfehlt und verbaut zugleich das Wesende der seinsgeschichtlichen Eksistenz nicht weniger als das Gegenständliche. … (ÜH, p. 18; GA Bd 9, pp. 326-327)

a

Per il senso della dizione «ominalità», si veda infra la o.i. 10.

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(La frase «l’uomo ex-siste» non risponde alla questione se l’uomo esista o meno, ma corrisponde all’interroganza secondo il “Wesen” dell’uomo. Tale interroganza è interpretata in un modo inadeguato sia quando divenga la domanda «che cos’è l’uomo?» sia quando assuma la forma dell’interrogativo «chi è l’uomo?». Infatti nel «chi?» e nel «che cosa?» siamo già alla ricerca di un indole ‘persona’ o di un oggetto. Solo che l’indole ‘persona’ manca e, al tempo stesso, infirma l’indole di stanziazione della ex-sistenza geniturale d’essere non meno di quanto accada con l’indole oggettuale. …)

*

… der Satz »die „Substanz“ des Menschen ist die Ek-sistenz« [sagt] nichts anderes als: die Weise, wie der Mensch in seinem eigenen Wesen zum Sein anwest, ist das ekstatische Innestehen in der Wahrheit des Seins. Durch diese Wesensbestimmung des Menschen werden die humanistischen Auslegungen des Menschen als animal rationale, als »Person«, als geistig-seelisch-leibliches Wesen nicht für falsch erklärt und nicht verworfen. Vielmehr ist der einzige Gedanke der, daß die höchsten humanistischen Bestimmungen des Wesens des Menschen die eigentlichea Würde des Menschen noch nicht erfahren. Insofern ist das Denken in »Sein und Zeit« gegen den Humanismus. Aber dieser Gegensatz bedeutet nicht, daß sich solches Denken auf die Gegenseite des Humanen schlüge und das Inhumane befürworte, die Unmenschlichkeit verteidige und die Würde des Menschen herabsetze. Gegen den Humanismus wird gedacht, weil er die Humanitas des Menschen nicht hoch genug ansetzt. Freilich beruht die Wesenshoheit des Menschen nicht darin, daß er die Substanz des Seienden als dessen »Subjekt« ist, um als der Machthaber des Seins das Seiendsein des Seienden in der allzu laut gerühmten »Objektivität« zergehen zu lassen. Der Mensch ist vielmehr vom Sein selbst in die Wahrheit des Seins »geworfen«, daß er, dergestalt ek-sistierend, die Wahrheit des Seins hüte, damit im Lichte des Seins das Seiende als das Seiende, das es ist, erscheine. Ob es und wie es erscheint, ob und wie der Gott und die Götter, die Geschichte und die Natur in die Lichtung des Seins hereinkommen, an- und abwesen, entscheidet nicht der Mensch. Die Ankunft des Seienden beruht im Geschick des Seins. Für den Menschen aber bleibt die Frage, ob er das Schickliche seines Wesens findet, das diesem Geschick entspricht. Denn diesem gemäß hat er als der ek-sistierende die Wahrheit des Seins zu hüten. Der Mensch ist der Hirt des Seins. … (ÜH, pp. 21-22; GA Bd 9, 330-331) (La frase «la “sostanza” dell’uomo è l’ex-sistenza» non dice altro che questo: la fermezza in cui l’uomo, nel suo indolico stanziarsi, si adstanzia “all’”essere, è l’estatico intimo ergersi nella verità dell’essere. Mediante tale costitutiva intonazione dell’uomo, non si dichiara che le sue interpretazioni umanistiche – l’animal rationale, la “persona”, l’ente dotato di corpo, anima, mente e spirito – siano false, né dunque

a N.m. «Die ihm eigene, d.h. zu-geeignete, er-eignete Würde: Eignung und Ereignis» : «La dignità a lui ingenita, ovvero dedicata, d’origine addetta: in-genuità e dicevolezza (accortezza)».

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le si rifiuta. Piuttosto l’unico pensiero è il seguente: le più alte determinazioni umanistiche dello stanziarsi dell’uomo non ne tentano ancora l’indolica dignità [l’indole ominale]. In questo senso, il pensiero, in Sein und Zeit, è contro l’umanismo. Tuttavia, tale contrapposizione non significa che un siffatto pensare passi dalla parte che si oppone all’umano e quindi si dichiari a favore dell’inumano, giustifichi la disumanità e degradi la dignità dell’uomo. Si pensa contro l’umanismo poiché quest’ultimo non pone sufficientemente in alto la humanitas dell’uomo . Tuttavia la costitutiva altezza dell’uomo, cioè la sua maestà, non riposa nel fatto che egli sia la sostanza dell’essente in quanto suo «soggetto», e dunque detentore del potere sull’essere sì da lasciar dissolvere l’essere-essente dell’ente nella fin troppo esaltata oggettività. / È l’uomo piuttosto che è il «gettato»: è gettato dall’indole ‘essere’ nella tempra della verità dell’essere affinché egli, ex-sistendo in tale fermezza, custodisca la verità dell’essere, perché, nel chiaro staglio dell’essere, l’ente appaia per quell’essente che è. Se e come esso appaia, se e come il Dio e gli Dei, la genitura e la natura si attemprino alla stagliatura dell’essere – se e come tutto questo si ad-stanzi o si dis-stanzi non dipende da una forza scismatica dell’uomo. L’avvento dell’essente riposa nella destinale dispensazione geniturale dell’essere. All’uomo resta però il compito di trovare la genuina indole del suo stanziarsi, ossia quell’indole che si addice a tale dispensazione. Infatti, proprio conformemente a quest’ultima egli, in quanto ex-sistente, ha da custodire la verità dell’essere. L’uomo è l’attento custodea dell’essere.)

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Das Einzige, was das Denken, das sich in »S. u. Z.« zum erstenmal auszusprechen versucht, erlangen möchte, ist etwas Einfaches. Als dieses bleibt das Sein geheimnisvoll, die schlichte Näheb eines unaufdringlichen Waltens. Diese Nähe west als die Sprache selbst. Allein die Sprache ist nicht bloß Sprache, insofern wir diese, wenn es hochkommt, als die Einheit von Lautgestalt (Schriftbild), Melodie und Rhythmus und Bedeutung (Sinn) vorstellen. Wir denken Lautgestalt und Schriftbild als den Wortleib, Melodie und Rhythmus als die Seele und das Bedeutungsmäßige als den Geist der Sprache. Wir denken die Sprache gewöhnlich aus der Entsprechung zum Wesen des Menschen, insofern dieses als animal rationale, das heißt als die Einheit von Leib-Seele-Geist vorgestellt wird. Doch wie in der humanitas des homo animalis die Ek-sistenz und durch diese der Bezug der Wahrheit des Seins zum Menschen verhüllt bleibt, so verdeckt die metaphysisch-animalische Auslegung der Sprache deren seynsgeschichtliches Wesen. Diesem gemäß ist die Sprache das vom Sein ereignete und aus ihm durchfügte

Der Hirt corrisponde all’italiano «pastore». Ma qui la dizione riprende il tratto dello Hüten riferito a quell’intero – l’essere – che è ogni volta da custodire e osservare (serbare). Hirt è colui che sa riconoscere l’origine del rigenerarsi dell’integro: nulla da spartire dunque, qui, con il pascere e i pascoli. b N.m. «im Sinne der Nahnis: lichtend bereithalten, halten als hüten» : «nel senso dell’indole avvicinante: stagliando, tenere erto, tenere in quanto custodire». a

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Haus des Seins. Daher gilt es, das Wesen der Sprache aus der Entsprechung zum Sein, und zwar als diese Entsprechung, das ist als Behausung des Menschenwesens zu denken. Der Mensch aber ist nicht nur ein Lebewesen, das neben anderen Fähigkeiten auch die Sprache besitzt. Vielmehr ist die Sprache das Haus des Seins, darin wohnend der Mensch eksistiert, indem er der Wahrheit des Seins, sie hütend, gehört. So kommt es denn bei der Bestimmung der Menschlichkeit des Menschen als der Ek-sistenz darauf an, daß nicht der Mensch das Wesentliche ist, sondern das Sein als die Dimension des Ekstatischen der Ek-sistenz. Die Dimension jedoch ist nicht das bekannte Räumlichea. Vielmehr west alles Räumliche und aller ZeitRaum im Dimensionalen, als welches das Sein selbst ist. Das Denken achtet auf diese einfachen Bezüge. Ihnen sucht es das gemäße Wort inmitten der langher überlieferten Sprache der Metaphysik und ihrer Grammatik. Ob dieses Denken, gesetzt daß an einem Titel überhaupt etwas liegt, sich noch als Humanismus bezeichnen läßt? Gewiß nicht, insofern der Humanismus metaphysisch denkt. Gewiß nicht, wenn er Existentialismus ist und den Satz vertritt, den Sartre ausspricht: précisément nous sommes sur un plan où il y a seulement des hommes (...). Statt dessen wäre, von „S. u. Z.“ her gedacht, zu sagen: précisément nous sommes sur un plan où il y a principalement l’Être. Woher aber kommt und was ist le plan? L’Être et le plan sind dasselbe... (ÜH, p. 25; GA Bd 9, pp. 333-334) (Quell’indole unica, che il pensiero – che in SuZ tenta per la prima volta di darsi parola – vorrebbe attingere, è qualcosa di semplice. Giacché è semplice, l’essere resta interamente recondito, la sobria vicinanza di un ritratto vigore. Tale vicinanza si stanzia come indole ‘lingua madre’. Solo che, colta appunto in indole, la lingua madre non è il (mero) linguaggio, ossia – se ci riferiamo al modo più compiuto in cui, sempre muovendo dai suoi tratti esteriori, caratterizziamo la lingua – l’unità di forma sonora (scrittura), melodia, ritmo e significato (senso). Noi pensiamo la forma sonora e la scrittura (il segno scritto) come il corpo vivente della singola parola o dizione, la melodia e il ritmo come l’anima, e la modulazione del significato come il Geist, il genio o lo spirito della lingua. Siamo avvezzi a pensare la lingua madre in modo che essa risulti conforme a quell’essenza dell’uomo che si caratterizza come sostanza vivente animata e dotata di ragione (animal rationale), cioè come unità di corpo, anima e spirito. Ma proprio come nella humanitas dell’homo animalis resta celata l’ex-sistenza, mediante cui si cela anche il contratto della verità dell’essere con l’uomo, così l’interpretazione animale, in senso metafisico, della lingua madre occulta lo stanziarsi geniturale d’essere di quest’ultima. In conformità a tale stanziarsi, la lingua madre è la temprata reconsioneb che l’essere

N.m. «Raum weder neben Zeit, noch in Zeit aufgelöst, noch aus Zeit deduziert» : «Spazio né accanto a tempo, né dissolto in quest’ultimo, né da esso dedotto» b Reconsione come tratto guida di Haus (nel senso di bedecken, umhüllen; cf. reconditorium, Scheune). a

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(si) addice e (d’indole propria) interamente impronta [ossia fugaa]: è la casa madre dell’essere. Perciò si tratta di pensare lo stanziarsi della lingua madre mossi dalla sua parlante sintonia con l’essere, e più precisamente intendendolo (quello stanziarsi) come consistente in tale parlante sintonia, ossia come dimora (habitus) dello stanziarsi dell’uomo. / Ma l’uomo non è solo un essere vivente che possieda la lingua madre in aggiunta ad altre facoltà. Piuttosto la lingua è la casa madre dell’essere, in cui l’uomo abita e così esiste, e questo proprio mentre appartiene – custodendola – alla verità dell’essere.b / Nell’intonazione dell’umanità dell’uomo come ex-sistenza, il punto decisivo è che l’essenziale non è l’uomo ma l’essere inteso come la dimensione dell’indole estatica dell’ex-sistenza. Tuttavia la dimensione non è ciò che è noto come spazialità. Piuttosto ogni spazialità e ogni spazio-tempo si stanziano nell’indole dimensionante , consistendo nella quale l’indole ‘essere’ si stanzia. / Il pensare presta attenzione a tali semplici contratti – a favore dei quali presagisce l’intonata dizione nell’intatta memoria della lingua della metafisica e della sua grammatica. Forse che questo pensiero – posto che i titoli abbiano una qualche rilevanza – si lascia caratterizzare come umanismo? Certamente no, nella misura in cui l’umanismo pensa metafisicamente. Certamente no, se l’umanismo assume la forma dell’esistenzialismo e sostiene la tesi che Sartre esprime così: précisément nous sommes sur un plan où il y a seulement des hommes (...). Invece di questo, pensando a partire da S.u.Z, si dovrebbe piuttosto dire: précisément nous sommes sur un plan où il y a principalement l’Être. Ma donde viene e che cos’è le plan? L’Être et le plan sono il medesimo.12) [c.n.]

II. Il Da-sein e l’esser-ci (al secondo assunto: l’impatto del trattino enfatico) Se Dasein è inteso come «esserci», il Da-sein sarà traslato (copiato) in «esser-ci». In tal modo, dimentichi del fenomeno, e dunque della singolare maniera in cui Da-sein è una dicitura d’essere – che, come si è mostrato, «osserva l’uomo da lontano» in vista della sua originaria dignità, cioè a Nel verbo «fugare», pensiamo l’istantaneo ritratto compaginare, il rattenuto dare tempra d’interezza nel reconsivo colpo d’occhio: liberare l’intero, alleviare l’integro, salutare il salubre. (Tommaseo: «tessere la composizione a modo di fuga»). Ora, che l’essere, d’indole propria, fughi la lingua vuol dire: l’essere libera la lingua come quell’intero per entro cui esso troverà ogni volta le sue vie di fuga, le sue rotte indoliche, la sua costitutiva fugacità – ovvero: quell’integro per entro cui esso ottiene lo staglio e la fuga che gli si addicono, la sua addetta flagranza, così che la lingua sia, “da allora”, madre, e, per essa, un mondo si stagli. (Si pensi a espressioni come «fuga di stanze» o «fuga di valli»: in tal modo si dice che ciò che appare – stanze o valli – si stanzia nell’invisibile intero del suo già compaginato aver-luogo. La fuga è la compagine – l’integro – in flagranza d’essære.) b «La lingua madre, colta nel suo costitutivo stanziarsi, non è l’esternazione di un organismo, né tanto meno è l’espressione di un essere vivente. Pertanto essa non può mai essere pensata, in un modo consono al suo stanziarsi, in base al carattere di segno significante, e forse neanche a partire dal tratto della significazione. lingua madre è stagliante-nascondente avvento dell’indole ‘essere’» (ibid., p. 18).

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dell’attenta custodia d’essære – ebbene, in questo “esser-ci” che trasla il Da-sein, non resta altro che udire formalmente un’enfasi o un’accentuazione di quel senso d’esserci che ognuno sa già sempre attribuire a sé e agli altri, ossia: il senso, anzi la sensazione dell’uomo come ente concreto, esistente in carne e ossa, come soggetto pratico storicamente situato, e mai appunto (solo) come essere, come “essenza” o “sostanza” nel senso della “tradizione metafisica”, oppure, nel senso delle mere cose, come una c.d. “semplice-presenza” o come un c.d. “ente alla mano” (o “sotto mano” che dir si voglia). Ciò che ognuno “vede” non è appunto questo: che l’essenza di noi uomini sta nell’esistere, nel fatto che non “siamo”, ma che, piuttosto, ci siamo, stiamo al mondo, siamo qui come persone agenti, concrete, in rapporto innanzitutto con noi stessi, e poi con gli altri, e con gli oggetti d’uso, e quindi con la natura e la cultura, con il tempo e lo spazio, con Dio, e, in generale, con il “senso delle cose”? Sarà pure così. O forse no.13 Tuttavia la questione è un’altra: donde ci giunge l’idea che ciò che ognuno può rilevare per forza di contingenza – chiamiamolo l’«esistere d’impatto» – sia proprio ciò che sa e sente la dizione pensante? Da null’altro se non – sempre ancora – dalla non interrogata presunta consonanza fra il Dasein e l’esserci, dunque da quell’ermetico circuito traslativo in cui il costante rinvio all’esistere d’impatto, nell’oscurare, com’è nella sua essenza, ogni genuino contenuto fenomenologico, travisa ogni passo dell’analitica esistenziale, e dunque, in generale, ostacola via via la preparazione dell’interroganza d’essere, fino a isterilirla e neutralizzarla.14 Ma consideriamo più dappresso tutto questo chiarendo nuovamente e in modo rigoroso il senso heideggeriano del Dasein. Nello studiare l’analisi seguente, è necessario non dimenticare l’essenziale già scorto, e cioè che «l’analitica del Dasein non parla né di noi uomini né dell’uomo, ma dall’indole ‘essere’: vom Sein», ossia: che il Dasein è la dimensione della dis-ominazione (la libertà dall’impatto dell’uomo, l’«affrancamento dall’animale storico») a favore dell’indolica tempratura dell’ominalità per entro il fondo d’ascendenza dell’essære. In un luogo del seminario su Eraclito condotto da Eugen Fink, in cui si discute il senso della dizione Dasein in Sein und Zeit, Heidegger avverte: In »Sein und Zeit« wird Dasein wie folgt geschrieben: Da-sein. (H, p. 202) (In Sein und Zeit, Dasein è scritto come segue:a Da-sein.)

Dobbiamo dunque chiederci A. che cosa intenda questo avvertimento di Heidegger, e B. se la scrittura «esser-ci» ne rispetti, a suo modo, il senso.

a

«… è scritto come segue… » vuol dire «… (lo) si deve sempre intendere scritto come segue… ».

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A. Come si noterà infra nella o.i. 2, il dire indolico del Denkweg è ovunque e sempre traducente. Come potrebbe, infatti, proprio questo dire restare estraneo a ciò che Heidegger enuncia a Cérisy? – Nella misura in cui la lingua madre precorre, in pensiero, ogni pensare, la tradizione della filosofia assume necessariamente la forma della traduzione… (supra p. 17)

– Ora, il dire del Denkweg, in quanto tradizione (tradere) della genitura filosofica, conosce tale forma in modo peculiare: la peculiarità della tradizione che si genera nel Denkweg risiede nel fatto che essa inaugura un’altra genitura (rispetto a quella filosofica), e ciò mediante un’altra forma del tradurre in lingua madre.a Tradizione è sempre – dunque anche nella tradizione metafisica – un trans-dare (überliefern, délivrer, dice Heidegger a Cérisy), un liberare l’intero dell’ente nel nascosto scisma trasformante (ossia, ogni volta, un implicito progettare quello scisma in cui si tempra una determinata posizione metafisica, un determinato senso d’essere). Tuttavia, nel Denkweg si trasforma il senso stesso della tradizione. Infatti, il suo tradurre scismatico libera il dire e il pensare in una loro capacità “fin lì” celata e dunque mai ancora dispiegata: la capacità di assecondare esplicitamente lo scisma, raffermandolo quale pensum del pensiero, e dunque la capacità di tradurre via via scismaticamente il concreto (cioè il reso-concreto, il concretato) in indole. Poiché il tradurre che asseconda il pensum è un tradurre scismatico, il dire di tale forma traduttiva deve ogni volta presagire e rinvenire una dizione che sia intonata alla misura con cui la lingua ha già colto lo scisma, quella dizione dunque che consente una sua istantanea intesa, così che proprio tale scisma possa germogliare come un seme e dal seme possa crescere una piccola pianta. (Ibid.)

Nell’istante in cui il Denkweg elegge, in particolare, tra le dizioni «intonate alla misura con cui la lingua ha già colto lo scisma», le sue dizioni guida, accade necessariamente che, nel Denkweg, l’intesa di tali dizioni muti rispetto a quella abituale. Il modo in cui «la lingua ha già colto lo scisma» non può infatti essere colto e inteso lì dove il pensiero non sia intonato all’accorgimento di tale fenomeno, e lo scisma resti, di conseguenza, non detto in quanto tale.b Ricordiamo solo alcune fra le dizioni che il Denkweg sente altrimenti, ovvero secondo quell’indole altra (dall’ente) in cui consiste lo scisma. Esso sente non più Wesen (che, in un italiano, per così dire, pre-scismatico o a-

Si veda ZACCARIA, IGP, pp. 282-287. Si configura così un fenomeno di “falsi amici” all’interno della stessa lingua madre tedesca – fenomeno che, sia detto per inciso, mentre costituisce la più libera e genituralmente attendibile forma di attempramento all’altro inizio, dà luogo al più tentante medium di storicizzazione del Denkweg. a

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scismatico, si è usi tradurre e pensare come «essenza»), ma Wesen (che, in un italiano secondo scisma, possiamo tentare di indicare e pensare nel verbo «stanziarsi», quale originaria dizione della spaziosità); non più Geschichte (che, nell’italiano pre-scismatico, si è usi tradurre e pensare come «storia»), ma Geschichte (che, in quell’altro italiano, possiamo tentare di indicare e pensare come «genitura» e «genitura dispensale»)a; non più selbst (che, sottratto allo scisma, è necessariamente compreso nel senso di una «stessità» o «identità» a rafforzamento della contingenza), ma selbst (che, restituito al suo indicare scismatico, stratta dal contingente e traspone nell’alterità dell’indole); non più Möglichkeit (che, nell’ignoranza dello scisma, si continua a tradurre con «possibilità»), ma Möglichkeit (che, nell’altra intesa, possiamo indicare e pensare come «attendibilità»)15; non più das Seiende im Ganzen (che, nel mai scismatico “linguaggio filosofico”, rendiamo con «l’ente nel suo insieme» o «la totalità dell’ente», o «l’essente in totalità», eccetera), ma das Seiende im Ganzen (che, quale dizione della scismatica interezza dell’essere-ente, suona piuttosto come «l’essente nella sua sfera d’integrità»); non Sprache (che, lo abbiamo già visto, nell’italiano incurante del suo proprio contrasto indolico e quindi in un dire sordo allo scisma, intendiamo come «linguaggio»), ma Sprache (che, nella sua già pensante e scismatica indole, si addice come «lingua madre»)b; non più Dichtung (che, nella sfera del dire inteso come espressione, è “poesia”) ma Dichtung (che, tentata nella sua propria intimità con la lingua madre, è piuttosto «dettatura»); non Lichtung (che, nell’italiano delle immagini e delle metafore prive di scisma, intendiamo alla lettera come – “aperta” e non ancora illuminata – «radura»), ma Lichtung (che, in un italiano scismaticamente privo di figure, pensiamo nella dizione «stagliatura»); non das Offene né die Offenheit (che, nell’italiano deprivato dell’indole scismatica della lingua madre, sono intese nel senso dell’espansione di una data contingenza, cioè come «l’Aperto» e «l’apertura»), ma das Offene e die Offenheit (che trovano, in lingua madre, rispettivamente le dizioni «l’(indole di) flagrante estensione» o «il flagro», e «l’intensità» o «la flagranza», ovvero «l’intensa flagranza», in consonanza con la levità e la fugacità della Lichtung-stagliatura); non più Ereignis (che, lì dove non si colga, in italiano, il già colto scisma, si è usi tradurre e concepire come «evento»), ma Ereignis (che – udito, assecondando l’indole scismatica, nel senso di Er-eignis – è attendibile indicare e pensare, ad esempio, come «dicevolezza d’origine»c o come «accortezza»); non più Abgrund (che d’impatto traduciamo con «abisso» o «fondo abissale»), ma Abgrund (che, scismaticamente lontano dall’uomo, nel senso di Ab-grund, flagra nel detto «fondo ascensivo»); non più das Heilige (che, nella lingua

Si veda DE GENNARO, GuH. Si veda infra la o.i. 1. c «Dicevolezza» viene da decere (decus, decentia) e non da dicere (come alcuni nostri critici hanno erroneamente creduto). (Si veda infra la nota 53 della Ripresa.) a

b

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non scismatica della tradizione ecclesiale, e senza alcun riguardo al Gespräch fra il Dichten e il Denken, rendiamo con «il sacro»a), ma das Heilige (che la lingua madre già intende dettaticamente nella dizione-scisma «il salubre»b); non più Ding (che abitualmente si traduce e si pensa come «cosa»), ma Ding (che, presagendo lo scisma, possiamo provare a indicare e a pensare nella parola latina res, oppure nell’aggettivo sostantivato «tensile», se lo si mantiene, come è necessario, in riferimento all’intensa flagranza d’essære)c; non più Ursache (che, senza scisma, suona come «causa»), ma Ursache (che, scismaticamente intesa come Ur-sache, è l’originaria concernente indoled); non più Wahrheit (che, ignari dello scisma, intendiamo come quella «verità» in cui l’indole reconsiva del verum resta contratta nella rectitudo ontico-ontologica), ma Wahrheit (che, intesa nel senso della scismatica Wahrnis, pensiamo come inveramento dell’essære e dunque come reconsione della sfera d’integrità dell’ente); non più Satz vom Grund (che, dove il Grund è l’ascismatico fondamento in senso metafisico, si è usi tradurre e pensare come «principio di ragione»), ma Satz vom Grund – e così via per ogni singola dizione o dicitura del Denkweg. In molti casi, la traduzione fa apparire una differenza fra dizioni che, nella vacanza di un pensiero secondo scisma (scisma transitoriamente denominato, nella temperie di Sein und Zeit, ontologische Differenz), hanno, in tedesco, un senso affine, se non coincidente (sicché tali dizioni restano, nell’uso corrente, interscambiabili): Geschichte versus Historie; Gewesenes versus Vergangenes; Dichtung versus Poesie; Wesen versus Essenz, e così di seguito. Ora, è arduo sostenere che, nei suoi scritti, Heidegger sia avaro nel fornire “note di traduzione”, ovvero indicazioni in grado di guidare sia il sentire altrimenti in tedesco (contro l’uso, ma secondo il modo in cui «la lingua ha già colto lo scisma»), sia, di conseguenza, il «produttivo» tradurre in un’altra lingua (tradurre a sua volta necessariamente fondato su un altro, indolico sentire in lingua madre): in realtà, l’intera Gesamtausgabe è un’unica (intra-tedesca) traduzione commentata (la quale, a volte, prende la via della traduzione dal greco o dal latino, dal francese o dall’inglese, dall’italiano o dal cinese). In alcuni casi, la scrittura di tale traduzione trova un sostegno in opportune segnature dell’indole altra. Questi segni di alterazione possono dunque indirizzare e pre-formare l’ascolto nel senso dell’altra intesa. È questo il caso, come si è accennato nel Prologo, della «y di dicevolezza»: non più (solo) «Sein», ma (innanzitutto) «Seyn»; non più «Freiheit», ma «Freyheit», e così via. Ma è il caso, soprattutto, dei famosi trattini, così spesso citati e ana A volte, nella prassi traslativa, il termine reca l’iniziale maiuscola – che è il segno di un vuoto fenomenologico colmato dall’impatto vissuto religioso. b Ciò che saluta e, salutando, salva. Si vedano «Heimkunft/ An die Verwandten» e «Wie wenn am Feiertage… » in GA Bd 4; pp. 18-19 e pp. 56 e sgg. c Si veda infra la nota 6 della Ripresa, p. 149 d Si veda infra la o.i. 23.

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cor più spesso ascismaticamente imitati: si pensi ai già menzionati Er-eignis, Ab-grund e Ur-sache, e poi anche ad An-fang, Bei-spiel, Ent-bergung, Verzichtung, e a molti altri ancora. Ora, tra queste dizioni scritte con il trattino, ovvero capaci di accogliere graficamente lo scisma, occupa, appunto, un ruolo eminente la forma «Da-sein». Dobbiamo allora chiedere: qual è, nel caso di Dasein, il senso della prima intesa? E quale quello dell’altra? In che senso il trattino contrassegna quest’ultima? In che senso, insomma, si deve pensare e dire, in tedesco (e in vista di una commisurata traduzione italiana), non Dasein, ma Da-sein? L’intesa – prima chiamata prescismatica o ascismatica – della dizione Dasein è indicata da Heidegger in una partizione dei Beiträge zur Philosophie (si veda infra p. 106): si tratta del Dasein inteso come Wirklichkeit – non, però, come Wirklichkeit tout court, bensì come Vorhandenheit, ossia non del Dasein in quanto “esistenza” nel senso della c.d. “semplice presenza” o dell’essere “sottomano” (Edizione Marini), ma, parlando un italiano fenomenologicamente più rigoroso, del Dasein inteso, sì, come concretezza, ma nell’aspetto modale della contingenza (tangibile-admovente sussistenza). Come illustra la suddetta partizione dei Beiträge, questa intesa di Dasein (Dasein = Vorhandenheit) coglie il senso della concretezza che domina l’intera genitura filosofica (metafisica). Ora, ciò che è in gioco nell’altra intesa della dizione Dasein, ovvero nella sua scismaticamente «produttiva» traduzione tedesca, è proprio la liberazione della concretezza, vale a dire dell’ente nella sua sfera d’integrità, dalla totalizzante contro-indolica presa dell’aspetto modale della contingenza – contro-indolica, poiché, nella contingenza, lo scisma stesso resta infirmato, celato e, di conseguenza, sterile nel suo geniturale-genitivo ritrarsi. Più precisamente: la dizione Dasein, tradotta nell’intesa «intonata alla misura con cui la lingua ha già colto lo scisma», diviene l’attendibile fondo per un’intesa della Wirklichkeit (concretezza) non più contratta e appiattita sulla Vorhandenheit (sull’effettività nel senso della contingenza). Tuttavia, in base a che cosa è lecito affermare che la dizione Dasein sia – come si è detto – un «frutto maturo» della genitura dell’essære, che attenda ormai di essere colto per dar parola allo scisma? Se osserviamo il significato del Dasein nella lingua madre tedesca, ci accorgiamo che tale dizione, pur essendo un conio relativamente recente, parla in modo molto ricco – più ricco, cioè, di quanto sembra voler indicare la suggerita equiparazione alla Vorhandenheit (contingenza o sussistenza).a In altre parole: Dasein assume via via i significati che, in italiano, possiamo indicare con le dizioni «presenza», «vita», «esistenza», «realtà», ma, appunto, in un senso, o con un’intonazione, affatto peculiari. Per illustrare tale intonazione, citiamo brevemente tre esempi.

a Nel ’600/’700 Dasein era sinonimo di Anwesenheit (noi diciamo: adstanzietà e adstanzialità); nel ’700 fu introdotto nella lingua filosofica per sostituire Existenz.

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Quando Goethe – che, come dicono i fratelli Grimm, amava particolarmente questa dizione – scrive (Italienische Reise – Roma, 9 novembre 1786): Sehr gerne blicke ich nach Venedig zurück, auf jenes große Dasein, dem Schoße des Meeres (…) entsprossen (…) (Amo molto ricordare il colpo d’occhio su Venezia, quel grande Dasein, spuntato dal grembo del mare […]),

ebbene, ciò che si staglia in un fondoa di nettezza (ciò che flagra) è l’indole Venezia, ossia: è Venezia nella sferica integrità del suo stanziarsi, e non nella sua mera sussistenza, nel suo esserci o espandersi spazio-temporale (Venezia non è poi così «grande»). La frase dice che la città si staglia proprio mentre la stessa fugace stagliatura, la flagranza, è sorretta nell’indolico colpo d’occhio. Qui Dasein parla non solo in un senso interamente consonante con quello dell’oujsiva e del kei`sqai greci (l’assorto, flagrante giacere; entsprießen – nascere, spuntare – fuvein), ma, grazie all’indolico reciproco richiamarsi della flagranza e del colpo d’occhio, sembra presagire il fondo nascosto delle stesse oujsiva e fuvsi~ (la – grecamente tentata ma mai pensata – ajlhvqeia). Eppure, sotto l’angolo visuale della traduzione nell’altra genitura del pensare, tale ricchezza di tratti resta a sua volta fondata sul tratto guida della Vorhandenheit, mentre lo scisma rimane non detto, non sorretto in parola, e dunque incapace di fondare, in modo esplicito, il dire, sicché la pianta dello scisma non può germogliare. La stessa attendibilità della ricchezza indicativa della dizione Dasein – l’attendibilità del suo dire indolico – resta, in un modo quasi impercettibile, contratta. La medesima ricchezza risuona, e in modo forse ancora più netto, lì dove Dasein indichi l’essere dell’uomo. Ancora Goethe, in un verso del Faust: Dasein ist Pflicht, und wär’s ein Augenblick. (Dasein è un dovere, fosse anche un unico istante.)b

Dasein ha qui il senso di un compito (un dover essere) che l’uomo è chiamato a sostenere, rompendo gli indugi, nell’istantaneo avvento del Geschick. Tale com-

a Le dizioni tedesche groß (grande) e Grund (fondo, fondamento, terreno, terra) appartengono alla stessa radice. b Vale la pena di citare l’intero passo, davvero istruttivo per intendere il senso indolico del Dasein: «[Helena] Ich fühle mich so fern und doch so nah, / Und sage nur zu gern: Da bin ich! Da! / [Faust] Ich atme kaum, mir zittert, stockt das Wort; / Es ist ein Traum, verschwunden Tag und Ort. / [Helena] Ich scheine mir verlebt und doch so neu, / In dich verwebt, dem Unbekannten treu. / [Faust] Durchgrüble nicht das einzigste Geschick! / Dasein ist Pflicht, und wär’s ein Augenblick» («[Helena] Mi sento così lontana, eppure così vicina, / E con somma gioia dico: Eccomi! Ecco! / [Faust] Mi manca il respiro, mi trema, è rotta la parola; / È un sogno, svaniti giorno e luogo. / [Helena] Mi sento consunta dalla vita eppure così nuova, / In te intessuta, fedele all’ignoto. / [Faust] Non fermarti a scrutare il nascosto unico destino! / Dasein è un dovere, fosse anche un unico istante»).

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pito non sembrerebbe tuttavia consistere nel conseguimento della mera sussistenza, dell’effettiva occupazione – “anche solo per un istante” – di un punto dello spazio-tempo. Piuttosto, Dasein indica una forma d’essere compiutamente umana (nel Faust: lo stanziarsi nella fedeltà all’ignoto, in una lontananza che è simultaneamente prossimità), un essere dell’uomo secondo la più genuina attendibilità del suo esistere indolico – un esistere che, appunto, asseconda il Geschick. In un passo di Adalbert Stifter – tratto da una pagina del racconto Der Hagestolz interamente dedicata al chiarimento del Dasein quale compiuto essere dell’uomo – riecheggiano quei versi goethiani: Jeder ist um seiner selbst willen da, aber nicht jeder kann es machen, daß er da ist (…) Jeder ist um sein selbst willen da, aber nur dann ist er da, wenn alle Kräfte, die ihm beschieden worden sind, in Arbeit und Tätigkeit gesetzt werden – denn das ist Leben und Genuß – und wenn er daher dieses Leben ausschöpft bis zum Grunde. ([Traduciamo lasciando naturalmente non tradotto il «da»]: Ogni uomo è …da… per amore dell’indole propria, ma non ogni uomo è capace di essere …da… (…) Ogni uomo è …da… per amore dell’indole propria; tuttavia, egli è …da… soltanto se tutte le forze che gli sono donate vengano messe all’opera in un dar forma – questo, infatti, significa vita e gioia –, e se quindi egli tenti interamente questa vita fino a toccarne il fondo [cioè, diciamo, «viva secondo un agire e operare olistici»]).

Da questo passo emerge ancora più chiaramente come il mero sussistere o essere in vita, l’occupare per contingenza un punto dello spazio-tempo, non colgano il senso pieno del Dasein – tanto che, di un uomo il cui contegno non si innalzi all’attendibilità dell’indole propria, non è lecito dire, secondo l’intesa stifteriana del Dasein, che egli sia …da… . Dunque, anche e in modo particolare quando intoni l’essere dell’uomo, la dizione Dasein – se Goethe e Stifter sono testimoni attendibili – indica un senso d’essere irriducibile alla mera Vorhandenheit. Eppure, ancora una volta, dal punto di vista della traduzione nell’altra genitura, anche tale comprensione del Dasein si basa su un “di più” rispetto alla contingenza, ossia su un trascendimento dell’inconcusso fondo di quest’ultima: ogni volta, la compiutezza si genera in forza di un tratto (ora il fermo esporsi al Geschick, ora l’operare olistico) che – per quanto distinto – è solo aggiunto, per innalzamento, all’admovente sussistenza, restando però fondato su di essa; si tratta insomma di un suo supplemento, ovvero, più rigorosamente, di un traslato suppletivo del contingente. Sicché il Dasein non è fondamentalmente altro rispetto alla Vorhandenheit. Di conseguenza, giacché esso resta di indole pre-scismatica, lo scisma è ancora infirmato, e non ha – ossia non è in modo fermo ed esplicito – la parola, la dizione fondante. Indipendentemente dal fatto che Dasein si dica dell’essere di una res o, invece, dell’essere dell’uomo, e nonostante il fatto che la dizione lasci, in un caso e nell’altro, presagire un senso diverso da quello dell’admovente sussistenza, il

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regime prescismatico non è scosso finché resti intatto il fondo di contingenza che si oppone al generarsi dell’indole presagita. Di quale tratto implicito dobbiamo dunque accorgerci affinché quest’ultima risulti, infine, attendibile in senso scismaticamente fondante? Risposta: ciò che, per così dire, stenta a risuonare per indole propria nel Dasein come großes Dasein e nel Dasein come umano dover essere, fino a sparire nel Dasein come Vorhandenheit, è proprio ciò che indica la scrittura Da-sein, ovvero, innanzitutto, il Da. Come parla quest’ultima dizione nella lingua tedesca? Il da (che, a differenza dell’omografa preposizione italiana, possiede una «a» lunga: dâ) è, per eccellenza, la dizione della claritas, della chiarità (Klarheit) – che intendiamo qui come il nome della triade «schiarita, rischiaramento e acclaramento». E questo significa: daa segna l’istantanea irruzione di quella claritas che, ritratta dall’ente, sebbene dall’essente mai avulsa, reconde, per quest’ultimo e con l’abitare dell’uomo, l’acclararsi d’indole. La chiarità è irrompente (flagrante) non perché squarci all’improvviso una tenebra, ma perché è in sé già “rotta a…”, ossia ab origine incline, addetta a… la schiettezza del senso, la nettezza dell’apparizione, l’asprezza della sparizione, e così già temprata per l’inesauribile contrasto tra il fermo e l’infirmato (potremmo dire che essa “conflagri” in questi tratti). Se ora indichiamo con la parola «temperanza» quell’originario stanziarsi in grazia del quale schiettezza, nettezza e asprezza restano capaci della chiarità ogni volta loro addetta, in modo che pensiamo quest’ultima semplicemente come chiarità già ab imis rotta alla temperanza e, unicamente in quanto tale, già rotta all’essere dell’ente (così che «essente» sia adesso riferito solo a ciò che si stanzi per stagliaturab), possiamo più esplicitamente dire: nella dizione da, l’irrotta chiarità di-rompe l’essere – attemprandolo – al via via essente, meglio: di-rompe l’indole in modo che essa, stanziandosi d’integrità, dia all’ente tempra di luogo e tempo, quindi: di-rompe, simultaneamente, spazio e tempo per il temprato originarsi dell’essente nella sua sfera d’integrità (lascia con-flagrare lo spazio-tempo per l’ente). Il da parla allora come spaziosità d’origine, e dunque come originante rottura di spazio-tempo, vale a dire come irrompente-dirompente originaria rottura alla temperanza in quanto chiarità in cui si acclara l’indole: come temperie di ogni indole – l’indolica temperie, la chiara tempra.c Diciamo, dunque, in breve formula: da, quale

a Scriviamo «da» con l’iniziale minuscola poiché è qui tematica innanzitutto la dizione in quanto tale. Resta inteso che queste osservazioni sono da udirsi come già riferite all’ancora implicita dimensione che le rende attendibili, ovvero al Da in quanto intensa flagranza per l’ente nella sua sfera d’integrità – come sarà fra poco precisato. b «Per stagliatura» vuol dire: in base al costitutivo contrasto fra lo stagliarsi e il nascondersi, dunque: per nascondimento stagliante, ossia per schiarante-rischiarante-acclarante ascosità. c In «spaziosità» dobbiamo udire lo spatiosum come indole che con-tiene lo spazio e il tempo, ossia che tiene spazio e tempo nella loro originaria riunione (spatium temporis). In tal modo, «spaziosità» indica il dono ascensivo della flagranza ‘spazio-tempo’ («originante rottura di spazio-tempo»). (Si vedano infra i punti 1. e 2. della o.i. 28, e infra la nota 9 della Ripresa, p. 150).

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parola di una tale indolica temperie, indica sempre le flagranti rotte dell’indole, ovvero: fa risuonare, all’unisono con il più silente tono della lingua madre, l’unica ascensiva chiara tempra della rotta indolica. Così la concretezza trova il suo Ort, il suo temprato punto ortivo o sito: esattamente e unicamente da, ossia lungo la risonante-silente rotta indolica (cioè “in flagranza d’indole”) – e non, per esempio, qui, ammutolita nella contingenza e nell’esserci, o lassù, esiliata in un ente supremo o in una causa prima, o laggiù, contratta in una qualche “profondità” o “infinità”, oppure ovunque, priva di tono in un indeterminabile “principio cosmico”, o “energia vitale”, e cosi via. Proprio la dizione «da» è l’indetta stanziantesi flagrante concretezza.a Essa dice ogni volta l’avveniente chiarità indolicamente rotta all’attendibilità di un senso, allo stanziarsi di un senso schietto e concreto per l’essente: così da staglia ex abrupto, ma sempre temperanter, come nel semplice da bin ich! («eccomi!»), oppure staglia il già costituito ente ritemprandolo, ma sempre abrupte, alla sua indolica concretezza, come in da fing alles an! («ecco dove tutto è iniziato», «a quel punto tutto ebbe inizio»), detto, ad esempio, di un luogo o di un tempo o di una circostanza che improvvisamente si mostrano (o sono indicati) nella loro inizialità.b Nella chiara tempra di fondo della rotta indolica, sono d’origine fugati i numerosi usi e significati del da registrati dalla grammatica: da come avverbio di luogo («lì», «ecco lì», «ci») e di tempo («allora»); come deittico (das da, «quello lì», «questo qua»); come indicatore di un riguardo («in questo caso», «a questo proposito»); come congiunzione con valore conclusivo («dunque», «quindi»); come locuzione avverbiale di attacco del discorso o di tematizzazione («a proposito,…»); come congiunzione causale («poiché») e temporale («allorché»); infine, con da si formano numerosi verbi (dableiben, dahaben, daliegen, darbieten, darlegen, darstellen, eccetera) e avverbi (dabei, dafür, dagegen, daheim, damit, danach, darauf, dazu, dazwischen, eccetera), i quali, a loro volta, si congiungono con gli stessi o con altri verbi ancora. In tutti questi usi, da indice uno spatium temporis ad res conferendas – non, però, un ambito per possibili connessioni entro il già costituito spazio-tempo, cioè entro la contingenza della situazione locale, bensì, come si è visto, originando (la) temperie (rottura o flagranza di spazio-tempo, spaziosità) per l’avvento dell’indole, cioè (l’) indolica temperie, (la) chiara tempra. Non resta altro allora che denominare tale originamento di chiara tempra (ex abrupto conferente) – ossia (ripetiamolo) tale irrompente dirompente chiarità-spaziosità in quanto “terra madre” della rotta indolica, e quindi fondo di attendibilità dell’indire della dizione da – mediante il titolo das Da, il Da. a L’essere in chiara tempra d’essære, e non più in “contratta tempra” d’essente – ovvero: lo stanziarsi “in flagrante essære”, e non più “sul fatto dell’ente”. b Il nascosto temprarsi dell’ascensiva rotta indolica a fermo punto ortivo per l’integra concretezza – e dunque per l’ente in quanto essente nella sua sfera d’integrità – può dirsi, in tedesco, mediante le dizioni allda («all-da»; dizione oggi desueta) o daselbst («da-selbst»): «Allda/Daselbst das Seiende als solches im Ganzen!» : «Ecco – chiarotemprato in fondo d’ascendenza – l’ente in quanto essente nella sua sfera d’integrità!»

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Il titolo das Da parla tedesco, ma scismaticamente, ossia parla l’altro tedesco (quello addetto all’indizione dello scisma)a. Possiamo dunque ormai dire, restando nel tedesco scismatico – cioè non più nella lingua di Goethe e di Stifter –: lungo le flagranti rotte del Da, quale sfera di lontananza-e-prossimità (prossimità per lontananza, ossia d’estraneità; lontananza per prossimità, ossia di intima scissura), sono di volta in volta attendibili indoliche relazioni di adiacenza e di distanza, di provenienza e di destino, di quiete e di moto, di tensione e di distensione, e così via. Ogni volta, però, è innanzitutto costituita l’intatta (kecwrismevnh, direbbe Eraclito) integrità di tale sfera – il Da, appunto –, ab imis rotta, d’estraneità, secondo l’unica (conferente) chiara tempra. Proprio di tale estraneità (ovvero dello scisma, dell’ascensiva genituralità) si alimenta la temperanza della chiarità, e dunque la chiara tempra dell’indole; solo in virtù di tale estraneità si genera ascensivamente, per la sfera delle res in cui abita l’uomo, quindi per un mondo sulla terra, l’attendibile salubrità – quell’illume insonora interezza che, pre-stagliando ogni volta l’essere nel suo pristino integro istante, staglia via via l’ente di un tale istante: l’essere-ente (in quanto alleggiato e mitigato, cioè fugato) nella propria integra flagranza, ovvero: l’essente (in quanto raccolto e alleviato) nella flagrante sua sfera d’integrità.b Così il Da può essere eletto come il primo suono del tedesco dello scisma,c e dunque come dizione guida dell’altro pensiero: esso può indicare, secondo scissura, il puro sferico «che» dell’indole: la Offenheit nel suo tratto di reconsiva temperante chiarità (schiettezza, nettezza, asprezza), ossia nel suo carattere di temperie di ogni indole, di chiara tempra, di fuga delle rotte indoliche: la flagranza dell’indole ‘essere’, la flagranza dell’ente in quanto essente nella sua sfera d’integrità. La scrittura Da-sein, dunque, innanzitutto staglia il Da – la grecamente non pensata alêtheia sul tono della Offenheit. Tuttavia, simultaneo e anzi intimo all’ascensivo stanziarsi del Da, è il generarsi di una carenza: il Da (diversamente dall’ejovn parmenideo)d è carente – nella sua intatta estraneità e per il suo fermo stanziarsi – di una sofferevole (sostenente, adergente) indole. Tale ascensiva carenza è il pre-pensato e presagito germe di quell’indole ‘essere’, prestandosi alla quale diviene attendibile un essente che, nella misura del suo prestarsi come sostegno, chiamiamo «uomo». Tuttavia, il Da è già sempre – prima cioè che “un uomo” si presti a

In alcuni luoghi Heidegger indica tale alterità mediante il comparativo deutscher. Il Da(-sein) mantiene l’uomo a una salubre distanza dall’indole, dettandogli il tatto e la misura necessari, ossia il tono assecondante. c «Primo suono» qui vuol dire: originaria rottura della silente fermezza in cui si stanzia la lingua madre. Il primo suono è la pura flagrante risonanza della dis-detta indole di quest’ultima, l’unisono con il suo più silente tono. In esso – in quanto rotta fermezza – si raccoglie l’intera capacità indicente dell’idioma, la sua attitudine a recondere l’indole. Possiamo allora dire, con una formula, che il tedesco scismatico è la lingua madre del Da, la lingua della (ritratta, asconsiva-reconsiva) Offenheit, l’idioma della flagranza. d La sfericità dell’ejovn di Parmenide flagra infatti in uno staglio della (mai ancora pensata) intensità d’essære, ossia in una fuga dell’impensata flagranza. a

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insistere, soffrendola, nella sua carenza – la flagranza dell’indole ‘essere’ per fruizione dell’indole ‘uomo’, dell’indole ominale, e, proprio in quanto carenza temprante, è l’ascensiva attendibilità di tale indole. Chiamando a suo transitivo sostegno l’essere in cui si tempra l’indolico essere umano (das Selbstsein des Menschen), il Da presta all’uomo, ossia gli concede per ritratta sorgente, il suo (solo adesso) umano attendibile stanziarsi, la sua compiuta ominalità. Abbiamo così assistito a una seconda mutazione di senso, simultaneamente conseguente alla prima: non appena sia stato esplicitamente pensato (e quindi graficamente stagliato) il Da-, il -sein parla altrimenti; esso indica ora non più una forma d’essere incardinata sulla contingenza – e dunque, riferendoci ad esempio alle parole di Goethe prima citate, né l’assorgente stanziarsi dell’ente «Venezia», né il genuino stanziarsi dell’ente «uomo» –, bensì quell’essere la cui sorreggente indole è attemprata alla carenza del Da.a Ecco perché, a fortiori, Da-sein non è mai – se non, occasionalmente, in un dire tanto provvisorio quanto già fermo nel presagio dell’estraneità dell’indole ‘essære’ – un modo di indicare l’essere dell’uomo. Il Sein del Da-sein è l’essere a cui l’uomo, nel suo dover essere, è libero di attemprarsi. Da-sein è ora, invece, il nome dell’essente attendibilità della concretezza scardinata e strattata dalla contingenza. L’elemento di concrezione e di raffermatura della concretezza è ormai indolico, ovvero: si genera nella nascosta stagliatura sofferta nell’indole ominale che asseconda la carenza. (Quell’essente attendibilità è allora sì un umano stanziarsi, ma ab origine rigenerato nella stagliatura dell’altro inizio, e dunque sempre ancora in attesa di un abitare terrestre.) Nella misura in cui, come si è accennato, la dizione Dasein, intesa come Vorhandenheit, colga l’intera genitura filosofica, la sua (di Dasein) traduzione scismatica (Da-sein) è la traduzione della tradizione metafisica in un’altra genitura. Il Dasein indolico, che già parla nel detto della poesia (della Dichtung, della dettatura), è ora restituito a un’altra attendibilità: tradotto nell’elemento Da-sein, tale detto è altrimenti fondante (ossia: conferente fermezza alla crescita della pianta dello scisma), senza che ciò, peraltro, richieda, o anche solo renda attendibile, che il Da-sein debba essere esplicitamente assunto nel dire dettatico: il Dasein, pensato e scritto come Da-sein, resta – rispetto al dire, a suo modo indolico, della poesia – sempre scismaticamente ritratto nel ritrarsi del carente scisma. Il fatto che, «[i]n Sein und Zeit, Dasein [sia] scritto come segue: Da-sein» ha ora assunto un significato più definito: la scrittura con il trattino esplicita l’altra intesa di Dasein, l’intonazione di fondo che è necessario sentire nel modo in cui tale dizione parla – scismaticamente – in quel libro. Essa non costituisce dunque mai una variante “su base Dasein”, dove quest’ultimo sia ancora inteso in senso pre-scismatico. Il trattino è il segno dello scisma quale

a Il flagrante (l’istantaneo dis-ascondersi) è già sempre carente poiché – d’indole, e dunque liberamente – reclama una risposta, un assecondamento, un addicimento. La flagranza “è” carenza poiché si stanzia come con-clamazione di addicimento, come chiamata all’accortezza. Si veda infra p. 65 la nota a.

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fugante origine del Da – nella cui carenza parla l’essære – e del Sein attemprato a tale carenza. Esplicitiamo più chiaramente il senso dello scisma, ricordando la sintetica caratterizzazione già proposta nella partizione I (supra p. 31): «il Da (…) è (…) la stagliatura – cui l’essere dell’uomo è addetto – per l’ente nella sua sfera d’integrità, mentre il suo Sein non è mai l’umano ritrovarsi al mondo, ma il soffrire – cui l’essere dell’uomo si offre e si presta – quella stagliatura». Nel dispiegare la dizione scritta Da-sein, l’esplicitazione guarda innanzitutto al suo Bindestrich (« - »), al suo trattinoa: « - »: lo scisma, ovvero (ora): il tratto scissile, quale ascensivo temperante-attemprante tratto di genesi del flagrare – secondo il nascosto tono dello scisma (essære) – del «DA-»: l’originaria rottura di spazio-tempo, ossia: l’intensa flagranza dell’indole ‘essere’ – l’intensa flagranza dell’ente in quanto essente nella sua sfera d’integrità – – (la) stagliatura – nella cui scismatica temperanza (stanziarsi dell’indole ‘essere’, verità dell’essære) si ingenera l’attendibile ergersi di un «-SEIN»: un sostenente, sorreggente soffrire, secondo il suo tenore, l’intensa flagranza stessa, la stagliatura – soffrire a cui ogni volta è prestata e offerta l’ex-sistente assecondante indole ‘uomo’ (che attende all’essære), l’indole ominale Ovvero (concisamente): Da-sein = («-») scissile tratto di genesi di una stagliatura d’essære (Da-) per entro la quale si erge un ex-sistente assecondante soffrirla (-sein), cui è ab origine offerta l’indole ominale

a Tale esplicitazione apparirà “ridondante” a chi non abbia compiuto da sé l’intera serie di passi della precedente delucidazione – o a chi non abbia ancora scorto chiaramente quale sia il tema discusso. Il fatto che qui possa prendere il sopravvento una tale apparenza, dipende dall’indigenza in cui versa la nostra parola

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La scrittura Da-sein indica allora un unico simultaneo colpo di genesi: il primordiale tratto scissile quale genesi di uno scismatico Da, per l’attemprarsi di un Sein che, proprio soffrendo il Da, resta ab imis addetto allo stanziarsi dell’essære. Di conseguenza, il trattino nella scrittura «Da-sein» non è né un trait d’union né un “trattino enfatico” (operatore di enfatizzazione, distanziatore di sillabe), ma il silente segno dell’unico tratto scissile per il reciproco addirsi del Da e del Sein, quale originario addicimento dell’indole ‘uomo’ all’essære. In altre parole: il trattino segna l’Ereignis del Da sofferto nel Sein, o ancora: Da-sein è Er-eignis, originaria dicevolezza (e, come vedremo nel Secondo capitolo, accortezza). Il trattino, in quanto tratto scissile, è l’unico (scissuralmente unitivo) tratto di dicevolezza (o d’accortezza). Tale tratto istituisce, per entro la simultanea genesi dell’unico Ereignis, una “primogenitura” del Da rispetto alla “secondogenitura” o secondità del Sein. Quest’ultima non consiste però in un mero “venir dopo” (“per secondo”) del Sein, ma in un assecondamento: soffrendo la prima genesi d’essære (il Da, appunto), il “secondogenito” asseconda fermamente l’essære stesso per il suo (dell’essære) stanziarsi.a La forma Da-sein – vale a dire ora: Da ‹tratto scissile› sein – indica dunque lo stanziarsi dell’essære per l’abitare dell’uomo (secondo il tratto di dicevolezza della sua indole propria) per entro la flagranza dell’ente nella propria sfera d’integrità. Ecco, in una prima illustrazione, il senso in cui, come si è detto (supra p. 18), la dizione Dasein costituisce «il primo seme delle attendibili piante dello scisma», «il seme scismatico» del Denkweg. Quale intesa risulterebbe, invece, da una mera enfatizzazione della componente da del Dasein, udito nel senso corrente (o “letterale” che dir si voglia)? Fermo restando tale senso, l’enfasi del da può solo aggiungere un tratto locale – “situativo-situazionale” – alla contingenza (Vorhandensein). Dasein significherebbe allora: (sempre ancora) dasein, ovvero vorhandensein, ma – attenzione! – da!, cioè “in un Da”. Lo staccare la dizione da inviterebbe insomma a sentire più chiaramente, nel Dasein, un da!-dasein, da!-vorhandensein a esso intrinseco, vale a dire: l’essere contingente, la contingenza

quando debba divenire davvero fenomenologica, indigenza che a sua volta dipende dall’inesperienza del costitutivo carattere di ascensiva ridondanza dell’indole ‘essere’ e quindi della sua lingua. L’essere è, d’indole, il puro redundans, la pura sovrabbondanza, la ricchezza indolica (red-unda, red-undare) – l’emphasis originaria. La parola che gli si addice non può che assecondarlo in questo suo tratto. Nella ridondanza dell’essere, «sobrietà del dire» significa allora: capacità di muoversi liberamente nella ridondanza della lingua madre per poter infine dare forma alla dizione del fenomeno, alla dizione pensante. a Alla pagina 42 di Sein und Zeit, Heidegger scrive: «Das “Wesen” des Daseins liegt in seiner Existenz (…) Alles Sosein dieses Seienden ist primär Sein. Daher drückt der Titel “Dasein”, mit dem wir dieses Seiende bezeichnen, nicht sein Was aus, wie Tisch, Haus, Baum, sondern das Sein» («L’“essenza” del Dasein consiste nella sua esistenza (…) Ogni fermezza d’essere di tale essente è primariamente un essere. Ecco perché il titolo Dasein, con il quale designiamo tale essente, non indica un “che cosa”, come nel caso delle dizioni “tavolo”, “casa”, “albero”, ma l’essere»). In una n.m. riferita all’ultima parola di questo passo

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(non tout court, bensì appunto) in un Da. Ma in tal modo, come dirà ancora Heidegger nel citato seminario di Fink, «tutto quello che, in Sein und Zeit, era stato guadagnato come nuova posizione è irrimediabilmente perso». B. Ora – e passando così alla seconda questione (supra p. 41) –, la scrittura «esser-ci» non può che operare per l’appunto una simile enfatizzazione (del «ci») sull’immutata base di un «essere» inteso come esistenza d’impatto, come contingenza vitale. Staccare il «ci» vuol dire: far spiccare il tratto situativo od orizzontale già significato nella dizione «esserci» quale assunta traduzione di Dasein – e null’altro. Mai potrà, invece, il «ci», per così dire, “retro-intonare” l’essere in un senso diverso da quello del situato esistere già espresso dall’«esserci» di partenza. In altre parole, non vi è modo di udire, in «esser-ci», il nascosto tono di fondo e lo stanziarsi dell’«esserci», il quale, in seguito alla rottura e originaria intonazione dell’essere, suonerebbe ora come un «soffrire l’ascensivo “ci”». La scrittura deittica «esser-ci» suona piuttosto come una temporanea licenza concessa al «ci», il quale, in virtù di tale “libertà provvisoria”, fa brevemente capolino, mostrandosi esplicitamente per quello che è: il punto situativo del quale l’esserci, già sempre inteso come esistenza d’impatto, si circonda. «Esser-ci» dice: «essere contingenti» («sussistere») in un «ci» quale sorretta e sostenuta emanazione della stessa contingenza vitale.a (Le osservazioni appena svolte non intendono mostrare come la scrittura «esser-ci» non riesca a “replicare” un “effetto grafico-semantico”, che, invece, la scrittura Da-sein sarebbe in grado di produrre. Nessun espediente grafico può suscitare l’intesa di un senso. Piuttosto, la scrittura mette in luce la dizione sonante – in questo caso, appunto, quel risonante fugare la cui lucente traccia è: Da-sein. Heidegger dice: «Senti Dasein come Da-sein – e sentirai l’inaudito: d’ora in poi splenderà la ferma luce del Da-sein». Al contrario, «esser-ci» – a meno di una nostra pervicace sordità – non fa che ripetere il senso dell’«esserci», sottintendendo inoltre che niente possa aver luogo al di fuori dell’onnicomprensiva contingenza vitale dell’esistenza d’impatto: «“ci” – non sarai mai nulla al di fuori dell’esserci».)16 Leggiamo e traduciamo in chiusura ancora un passo tratto dal Brief – le cui puntualizzazioni ci giungono ora come particolarmente chiarificatrici, posto però appunto di non intendere nel Da il nostro “ci”.

(«Sein»), leggiamo: «das Seyn >des< Da, >des ad-cum-regere), ossia: lo stanziarsi, nella rettitudine del fondo d’ascendenza, dell’ergersi di essære e indole ominale: l’ascensivo co-ergersi dei due nell’avvedutezza del reciproco attendibile addicimento: l’originario colpo d’occhio in cui essære e indole ominale – abbandonando ogni metafisica “proprietà” – si colgono in mutua flagranza d’indole, si scorgono nel loro rispettivo stanziarsi per stagliarsi in quanto vicendevole concernersi e riguardarsi, avvedersi e avvertirsi in parola: Er-eignis, dicevolezza e addicimento d’origine, ossia appunto accortezza. Nella conferenza «Der Satz der Identität», Heidegger spiega: Si tratta di tentare e avvertire in modo schietto questo Eignen, questo accorto addire/addirsi, per entro cui uomo ed essere sono reciprocamente addetti, ossia: si tratta di tornare a casa nell’indole che chiamiamo Ereignis. La dizione Ereignis è prelevata dalla lingua adulta . Er-eignen originariamente [scismaticamente] vuol dire: er-äugen, ossia er-blicken, accorgersi, scorgere nell’accorto colpo d’occhio, scorgere in flagranza, im Blicken zu sich rufen, aneignen, reclamare o ad-dire nel ritratto, scorgente colpo d’occhio, conclamare in flagranza. La dizione Ereignis, pensata a partire dall’indole indicata, deve ora essere parlata come dizione guida al servizio del pensiero. (…) L’Er-eignis è l’avvertente intranea spaziosità – l’accortezza – per entro la quale uomo ed essere sono d’indole toccati d’un simultaneo accorgersi (l’uno dell’altro); in tal modo essi ottengono la loro stanzietà, proprio mentre perdono quelle intonazioni che la metafisica ha prestato loro . [«Avvertente spaziosità» (in sich schwingender Bereich) vuol qui dire: attendibilità del ritorno in cui si attemprano, l’uno per e con l’altro, l’avvertire di carenza (essære) e l’avvertisi di appartenenza (uomo); tale appartenenza, o attinenza, corrisponde alla Zugehörigkeit (zum Seyn), all’insistente indole ingenita, alla congenialità o intraneità o ingenuità (all’essære).] Pensare l’Ereignis come Er-eiginis vuol dire lavorare alla costruzione di tale avvertente spaziosità. Gli elementi che servono a

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questa costruzione, erta in fondo ascensivo, sono offerti al pensiero dalla lingua madre. Infatti quest’ultima è la più tenera, ma anche la più fragile, onnitrattenente avvertenza che vige nel fondo ascensivo dell’erta costruzione dell’Ereignis. Nella misura in cui il nostro essere è transaddetto nella tempra della lingua madre, noi dimoriamo nell’Eregnis. (ID, pp. 23-25; GA Bd 11, pp. 45-47a)

L’accortezza – che è stata ora pensata nella sua scismatica semplicità – è ciò che ci ha guidato nella messa a fuoco del modo in cui l’adergere traduce l’Ausstehen di Lichtung e Offenheit. È l’accortezza, infatti, la ritratta spaziosità della direzione primigenia e della scorta, e dunque dell’ertezza per l’ad-ertezza (l’accorgimento dell’essære in quanto scorgimento dell’indole sofferevole-adergente) – il che vuol dire: proprio nell’accortezza si stanzia la regola d’ecceità quale vigore della lingua madre. L’accortezza è la silente fuga per entro cui essære, indole ominale e lingua madre si addicono e si attemprano in quel gioco di reciproche costruenti flagranze grazie al quale – dal nulla del fondo d’ascendenza e così già ricca di rotte terrestri e celesti – si stanzia infine la stagliatura per l’erigersi di un mondo. Ricapitoliamo l’intera puntualizzazione nel modo seguente: Nell’istante in cui viene eletta come primo suono dell’italiano scismatico, nel senso del tono d’accortezza ab origine accordato al tono d’ecceità, la dizione «a/ ad» lascia risuonare in lingua madre ciò che nel tedesco dell’altro inizio suona das Da. Il rango di primo suono, nel senso dell’accortezza che intende Er-eignis, libera l’a/ad per la Offenheit – l’intensa flagranza – del Da. La dizione «a/ad» traduce il Da nella tempra dell’ascensiva accortezza. Nel suono «a/ad» impariamo a udire l’accortezza come tono di fondo della lingua madre italiana.

Così, se prima abbiamo determinato il tedesco dell’altro inizio come la lingua madre del Da, nel senso della Offenheit des Seyns, possiamo ora deter-

a Il testo reca numerose n.m. Traduciamo qui di seguito solo quelle che riteniamo significative dal punto di vista della presente delucidazione. 1. Alla parola «tentare e avvertire» [erfahren] → «also kein Sprung»; 2. alla parola «tornare a casa» [einzukehren] → a) «Einkehr nur aus der Verwendung in die Vereignung – Verwendung nur aus Brauch.» : «il tornare a casa solo in quanto mosso dalla destinazione alla tempra del transaddicimento – destinazione solo in quanto mossa dalla fruizione per carenza», b) «entwachen» : «destarsi (dal sonno)»; 3. al punto «nell’indole» [in das] → «genauer: (ins) Ereignis einkehren / in Es»; 4. alla parola «colpo d’occhio» [Blicken] → «Ereignis und Blick»; 5. alla parola «ad-dire» [an-eignen] → «in die Lichtung» : «in tempra di stagliatura»; 6. alla parola «avvertente intranea» [in sich schwingend] → «schwingen und schweben – noch ungemäß – » : «schwingen e schweben – non ancora commisurato – »; 6. alla parola «spaziosità» [Bereich] → «dafür kein ontisches Beispiel / so wie schon “Sein” einzig – im Es gibt» : «per questa indole, nessun esempio ontico / così come già “essere” indole unica – per entro il “ecco l’indole”»; alla parola «d’indole» [im Wesen] → «Mensch als die Sterblichen – gebraucht im

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minare l’italiano dello scisma come la lingua dell’accortezza, vale a dire – con una formula che ripensa quei versi dell’Inferno in cui l’Italia è detta il bel paese là dove ’l sì suona

– come la lingua dove l’a/ad suona.

Una pausa per chiarire, in un excursus, il rinvio a Dante. La lingua madre ci apparirà adesso nello stagliarsi della sua più attendibile rotta – la più attendibile fra le sempre inattese rotte del necessario, geniturale addirsi all’accortezza.

II. “Lingua di sì”, lingua dell’a/ad: “vulgare illustre”, lingua prefulgente Il rinvio è ai noti versi 79-80 del XXXIII canto dell’Inferno: Ahi Pisa, vituperio de le genti del bel paese là dove ’l sì suona,

Solo apparentemente la nostra formula («la lingua dove l’a/ad suona») ne è una parafrasi. Piuttosto, giacché il poeta in questi versi si richiama al presagio del vulgare illustre – e dunque all’attesa poetica della lingua madre –, nella formula pensiamo l’origine, ancora ritratta, di un tale presagio. I versi rimandano sia al Convivio sia alla Vita Nuova (ove l’italiano è indicato rispettivamente come il «volgare di sì» e la «lingua di sì»), ma innanzitutto al De vulgari eloquentia: qui le così dette «lingua di sì», «lingua d’oc» e «lingua d’oïl» si vedono raccolte in una famiglia che il poeta chiama ydioma tripharium (I, VIII, 5). Comunemente si ritiene che la designazione dantesca delle lingue alla luce dell’avverbio affermativo («oc», «oïl» e «sì») dipenda dal primato che il poeta, mosso dalla logica aristotelica, attribuisce all’affirmatio. Ma una tale spiegazione rimane vuota, se non addirittura sviante, finché si pensi questa affirmatio alla luce dell’asserto positivo, a sua volta

Ereignis / Sein als Austrag –: Lichtung des Sichverbergens – (Wesen der Wahrheit) / Ereignis» : «uomo in quanto coalescenza fra mortali – per carenza fruito nella dicevolezza, nell’accortezza / essere in quanto disferenza –: stagliatura del nascondersi – (stanziarsi della verità) / dicevolezza»; 7. alla parola «toccati d’un simultaneo accorgersi (l’uno dell’altro)» [einander … erreichen] → «schon je – aber noch nicht entborgen – sich erreicht haben – einander gereicht bleiben.» : «di volta in volta, già – ma non ancora disascosti – essersi toccati d’un simultaneo accorgersi – restare l’uno d’accortezza toccato dall’altro»; 8. alla parola «lingua madre» [Sprache] → «die Sage des Eigentums / | vgl. Unterwegs zur Sprache»; 9. alla parola «ma» [aber] → «und daher auch» : «e quindi anche»; 10. alla parola «onnitrattenente» [alles verhaltende] → «an sich haltend / unter-haltend / aushaltend».

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inteso come l’opposto del negativo, e si valuti la logica aristotelica come una mera forma mentis. Se è genituralmente vero che la prospettiva metafisica in cui si muove Dante è determinata dall’interpretazione aristotelica del dire apofantico in quanto logos per eccellenza, è altrettanto vero (sempre in senso geniturale) che egli, proprio mentre, nelle dizioni «sì», «oc» e «oïl», intende l’affirmatio, in quest’ultima, da poeta del presagio della lingua illustre, non può che udire – sebbene non possa avvertirlo e pensarlo come tale – il tono del sì originante, il fermo suono – lontano ed estraneo e tuttavia sempre vicino e intimo – dell’ascensiva contesa con il no d’origine: il sì del tacito assecondare il risplendere del salubre, il secondevole sì offerto alla salubrità dell’essære, il sì temprato d’accortezza – ovvero: il dare figura, in forma di parola, alle flagranze dell’essære, alle intensità del suo ‘sic est’. Se dunque il poeta staglia la lingua madre sul tono dell’affermante sì, ciò non si deve a un generico (“aristotelico”) primato concesso all’affermazione, ma unicamente all’orecchio e all’occhio ab origine intonati al (mai ancora pensato) risonante splendore dell’accortezza, cioè al suo fulgore. Solo il sì d’accortezza, infatti, benché inavvertito, permette di cogliere le tre lingue, al tempo stesso, sia come dissonanti sia come consonanti: là dove esse dissuonano nella fermezza con cui affermano, proprio là consuonano nella fermezza con cui indicono i costitutivi tratti d’essære. Sicché ydioma tripharium – diciamo: «la madrelingua dalle tre attendibilità del dire» – significa: coalescenza idiomatica fondata sulla ‘dissonanza (nel trifario affermare) per consonanza (nell’unica accortezza)’. Se traduciamo in modo esplicitante il su menzionato passo del De vulgari, cogliamo tali essenziali riferimentia: [Si stanzia un altro] idioma, che ora si mostra trifario : infatti, quando affermano, alcuni dicono oc, altri oïl, altri ancora sì, come, rispettivamente, gli Yspani, i Franci e i Latini. Ma salta all’occhio e all’orecchio (in promptu est) il segno che i vulgaria, le lingue madri, di queste tre progenie si co-generino e con-crescano (progrediantur) da un unico e medesimo idioma [coalescenza idiomatica]; e il segno [indice della consonanza nell’unica accortezza] è questo: essi denominano molti tratti mediante le medesime parole, quali “Deus”, “caelum”, “amor”, “mare”, “terra”, “est”, “vivit”, “moritur”, “amat”…

Come si vede, ognuna di queste dizioni staglia a suo modo l’essære, mentre esse, udite nella loro interezza, anche in forza dell’ordine in cui sono citate, costituiscono una sfera d’integrità, una flagranza – Dio, cielo, amore, mare,

a

Le traduzioni qui proposte si basano sul testo stabilito in ALIGHIERI, VEM.

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terra, È, vive, muore, ama – che, eretta sull’ascensivo fulcro dello ›È‹a, staglia l’essere nell’unico geniturale senso (verso e tono) dell’ancora impensato incrocio di contrasto e contesa. Dizioni, dunque, come dettatici suoni d’essere per l’essære: dizioni d’accortezza (già flagranti per la futura accortezza). Ora, se riposa qui – nel ritratto fulgore d’accortezza – la nascosta origine dell’indizione dantesca dell’ydioma tripharium quale dimensione geniturale del presagio e dell’attesa di un vulgare illustre (in quanto latium illustre), ebbene, resta da acclarare l’indole ‘lingua madre’ in cui – nello staglio dell’accortezza – deve fondarsi questa caratterizzazione. Ma un tale chiarimento sarà attendibile solo se prima intendiamo il senso in cui il presagito vulgare è, per Dante, «illustre» – tratto che, come egli spiega, ne sostiene altri tre: il cardinale, l’aulicum e il curiale. Il poeta destina la fine del primo libro del De vulgari (dal par. XVII in poi) alla puntualizzazione di tali originarie determinazioni; traduciamone qui solo l’inizio, che è appunto dedicato all’illustre (I, XVII, 2-7): Ma ora è necessario esporre ciò che rende attendibile (quare) il nostro chiamare , mediante i tratti dell’illustre, del cardinale, dell’aulico e del curiale, ciò che è stato trovato [il vulgare]: con tale esposizione lasciamo che se ne mostri, nel modo più chiaro, l’indole propria (clarius ipsum quod ipsum est faciamus patere). In primo luogo, dunque, palesiamo sia ciò che intendiamo quando apponiamo il tratto dell’illustre sia l’attendibilità a cui ci appelliamo per dir «illustre». In verità, quando diciamo “illustre”, intelligimus quid illuminans et illuminatum prefulgens – ovvero la nostra intelligenza vede questo: l’indole in-luminante, ossia che in-lumina , e che, in-luminata , pre-fulge, sfolgora ogni volta in anticipo e su ogni cosa, : e proprio in tale guisa chiamiamo «illustri» alcuni uomini, o perché, quando siano in-luminati di sovranità , in-luminano gli altri di giustizia e carità – come Numa Pompilio –, o perché, quando, già erti, siano assorti al magistero, al magistero lasciano che altri assorgano e si ergano – come Seneca. E il volgare, di cui parliamo, proprio mentre si erge di magistero e sovranità (sublimatum est magistratu et potestate), lascia che i suoi si ergano d’onore e gloria. Che si erga nell’assorgenza al magistero è chiaro, giacché lo vediamo strattato via e libero (electum) da tanti rozzi (informi) vocaboli degli Italiani, da tanti intricati (contratti) costrutti, da tante difettose articolazioni, da tanti goffi (malcerti) accenti

a

Il senso di tale ›È‹ è chiarito nella Ripresa (infra p. 167).

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; lo vediamo infatti così singolare e raro, così dispiegato (dis-contratto), così ben temprato e disinvolto (…). Che stia poi in alto per sovranità è altrettanto chiaro. E quale maggior segno di sovranità di quella sua capacità di avvertire e convertire i cuori umani, sì da rendere volente il nolente , e nolente il volente – così come fece e ancora fa? [vale a dire, con una formula ulteriormente esplicativa: … sì da rendere, in forza del lumen, colui che non vuole l’essere dell’essente capace di volerlo, e colui che vuole solo l’essente capace di non volerlo più… ] Che anche aderga d’onore , salta all’occhio e all’orecchio. Coloro che lo abitano servendolo non superano forse per fama i re, i marchesi, i conti e altri uomini eminenti? Tutto ciò è evidente. E quanto esso renda colmi di gloria coloro che lo abitano e lo servono – noi lo sappiamo per indole, noi che, per la dolcezza di tale gloria [fama], posterghiamo il nostro esilio. Ecco allora l’attendibilità cui a ragione ci appelliamo per cogliere la flagranza dell’essere illustre .

Tale puntualizzazione può essere così riassunta: il presagito vulgare è detto illustre poiché esso – in conformità all’originario senso della dizione: indole che si stanzia come tempestiva e reconsiva trasparenza o chiarolucenza per il già rilucente lumen – reconde, lasciandoli ogni volta trasparire in indole, sia il lumen del magistero (il vulgare si stratta dalla stonata contrazione della contingenza) sia il lumen della sovranità (parla all’indole ‘uomo’, nel senso che attempra l’umano volere all’essere dell’ente) sia, infine, il lumen dell’onore e della gloria (aderge i suoi servitori nella fama). Si può insomma determinare il vulgare come illustre poiché esso è la trasparenza e la chiarolucenza stesse (la Helle, la ejnavrgeia) di quel già rilucente lumen che – in quanto stagliato dalla «divina luce»a – si stanzia via via come magistero e sovranità, onore e gloria. La caratterizzazione dantesca – che, lo vediamo, si fonda sul factum che il rilucente lumen preceda, d’indole, ogni stanziazione – contempla così due articoli essenziali: 1. la lingua madre costituisce la prima fra le umane fermezze («reggimenti») in cui il lumen può trasparire nel suo rilucere; e – giacché il vulgare si leva come pura risonanza della terra («lo dolce suon») – 2. la tempra, la “fibra”, della chiarolucenza del lumen è costituita dall’indolico suono della parola. Vulgare illustre vuol dire allora: sonante parola che, quale risonanza della terra, è offerta come temprata chiarolucenza del lumen. Sono qui dunque all’opera, per geniturale necessità, sia la conoscenza poetico-dettatica della nitida endiadi (il lumen si stanzia in tempra di suono) sia la misconoscenza metafisica del suo avvento, ossia della stagliatura (il lumen a Si vedano: De vulgari, I, XVIII, 5 (rinvio al gratiosum lumen rationis: «…et sicut membra illius uno Principe uniuntur, sic membra huius gratioso lumine rationis unita sunt. … ») e Conv., III, VII, 8 («… quelle operazioni che sono proprie dell’anima razionale, dove la divina luce più espeditamente raggia; cioè nel parlare e ne li atti che reggimenti e portamenti sogliono essere chiamati… ».)

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di «divina luce» è l’origine costante di ogni “essere”). Si acclara in tal modo l’indole ‘lingua madre’ in cui, nello staglio d’accortezza, deve fondarsi il vulgare (nel suo essere) illustre. Tale indole si chiama lingua pre-fulgente – e questo proprio nel senso (ecco il sorprendente) del su citato quid illuminans et illuminatum prefulgens, inteso però adesso secondo il tono scismatico, ossia come ciò che stanzia il farsi luce (la schiarita) mediante il suono (il rischiaramento per acclaramento), dunque: ciò che libera la flagrante endiadi, ciò che staglia d’origine, ossia: ciò che, stanziato d’essære nella luce in temprata forma di suono, è prefulgente, è rifulgente già sempre tempestivamente, è flagranza d’origine, intensa flagranza per l’ente in quanto essente nella propria sfera d’integrità.a

La dizione «lingua prefulgente» è allora il nome per indicare il costitutivo stanziarsi dell’italiano in quanto conclamata lingua madre, ossia in quanto esplicito vigore della regola d’ecceità. Appare così il senso geniturale della formula che questo excursus doveva chiarire: «là dove il sì suona», là dove parla il presagio del vulgare illustre – proprio là parlò già sempre, come ritratta origine, la lingua prefulgente, per entro la quale si erge ora l’attesa della nostra lingua scismatica, la «lingua dove l’a/ad suona», la parola della flagrante accortezza. (Anche la lingua prefulgente, come il vulgare illustre, si stanzia di sovranità, ma nell’altro senso. La sovranità non è più qui lo stare in alto intonato all’essere dell’ente, e al suo «sublime» volere, ma l’ad-ertezza dello stanziarsi nello scisma a favore dell’essære, al di là di ogni potenza e impotenza: «La violenza, sprigionata dalla fattuazione – scrive Heidegger in Besinnung (part. 9) –, pone come base sempre solo della potenza, e non fonda mai la sovranità; tant’è che “fattuazione” vuol dire: far sì che il fattibile abbia luogo all’insegna dell’impedimento e infine della destituzione di ogni scissura. La sovranità, invece, origina dalla fondante potestà di scissura. La sovranità non possiede solo dignità; essa è la libera potestà capace dell’originario dare decoro non a un ente, ma all’indole ‘essære’. La sovranità è la dignità dell’essære nel suo costituire proprio l’essære. Ogni sovranità è iniziale e appartiene all’inizio» (GA Bd 66, pp. 17-18). Giungiamo allora nell’attendibilità dell’inizio di un pensiero italiano dell’essære solo se innanzitutto impariamo a conoscere la presagita illustre «lingua di sì» per entro la futura lingua prefulgente, già addetta ab imis allo scisma, e così alla lingua scismatica dell’accortivo a/ad.)

a Nell’o.i. 28, al punto 1., si dirà: «La Lichtung – in quanto ritratto gioco di schiarita e rischiaramento sul fondo d’acclaramento – è l’irruzione della nitida endiadi per entro il temperante levarsi [la mite flagranza] dell’indole ‘lingua madre’, quale vicinanza d’essære e fondamento del Da-sein».

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III. Il Da e l’a/ad: l’anello dello scisma Ritornando al cammino, vediamo dunque come il flagrante Da, da un lato, e l’accortivo «a/ad» con l’ostensivo «ecco», dall’altro, siano sinonimi in madrelingua (sinonimi geniturali). Le loro rispettive scismatiche differenti maniere di parlare sono capaci, ognuna nel proprio idioma, di offrire al nostro coalescente dire pensante – ora in tedesco, ora in italiano – la medesima indole. Nel suo modo di parlare, l’a/ad accortivo, analogamente al da, istituisce ogni volta uno spatium temporis ad res conferendas – ma non lo fa, come il da, lasciando irrompere la flagranza per l’ente, bensì liberando l’accortezza che fuga lo stanziarsi alla direzione primigenia, alla regola d’ecceità – ossia, ora, alla lingua prefulgente. La dimensione d’intesa fra il Da e l’a/ad è allora un circolo di ascensive sintonie fra geniture d’essære; circolo che, se lo pensiamo come la spaziosità del reciproco affidarsi in madrelingua a favore dell’indole, è piuttosto un anello – un anello geniturale in cui giocano, sempre ritratte dall’ente, da un lato, la claritas del da per la fuga ‘OffenheitLichtung-Ereignis’ del flagrante Da e, dall’altro, la regola d’ecceità della preposizione «a/ad» per la fuga ‘accortezza-addicimento’ dell’accortivo a/ ad, già intonata all’ostensione d’essere dell’avverbio «ecco» per la fuga ‘stagliatura-flagranza-ecceità’. Questo anello geniturale – che, d’indole, non ha nome, ma che chiameremo «anello dello scisma», per non dimenticare più che in esso l’italiano, quale lingua prefulgente, parla unicamente in quanto parola rotta alla fertilità del seme del Denkweg, ossia, secondo il motto di Heidegger, in quanto «onnitrattenente avvertenza che vige nel fondo ascensivo dell’erta costruzione dell’Ereignis» – può essere raffigurato come nella figura 1 (si veda la pagina seguente). Non è difficile comprendere come l’anello dello scisma costituisca il cammino stesso su cui – via via costruendolo – camminiamo. Esso custodisce per gli interroganti il tacito germinare (del primo seme) del Da-sein. Le piante dello scisma trovano qui la loro concreta attendibilità. Si chiarisce allora il secondo elemento cui mirava la puntualizzazione dell’originario adergere: il resistere nell’insonora parola dell’anello dello scisma e l’insistere nell’attesa delle sue sonanti dizioni costituiscono le due fermezze, quindi il carattere, del tradurre in italiano il pensiero del Da-sein, e dunque il Denkweg. Nell’anello dello scisma, l’essenziale non sta mai nel “cercare soluzioni linguistiche”, o nel “produrre adattamenti semantici”, o nel “riprodurre lo stile dell’originale”, e così via. L’anello chiede solo il genuino tacere – il quale giunge a costruire in lingua prefulgente le libere rotte dell’essære nella misura in cui sa offrirsi all’essære stesso perché se ne tracci ogni volta in madrelingua il puro presagio (l’allusiva illusione). Quanto più puramente è tracciato il presagio dell’essære, tanto più fermamente è forgiata la dizione della sua flagranza, e tanto più intensamente il pensiero si addice al suo stanziarsi.

ANELLO DELLO SCISMA32

figura 1

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Una traccia di quel presagio – la quale, oltre che riepilogare il cammino, ci pare fra le più capaci di generare rotte – può essere indicata mediante la seguente fuga di sintonie fra tratti d’origine: là dove nel Da risuona la Klarheit des Seyns, la Offenheit des Seyns, proprio là nell’a/ad risuona l’accortezza, e quindi l’intensa flagranza in quanto avvento d’essære; là dove il Da dice la Offenheit per il Seiendes im Ganzen, proprio là l’a/ad indica l’attempramento della rottura di spazio-tempo all’ente nella sua sfera d’integritàa; là dove il Da dice la costitutiva Erschlossenheit del Räumliches, proprio là l’a/ad indice la decontrazione dell’indole in-allogante nel senso dell’originaria ad-locazione; là dove il Da dice la Lichtung quale mite tempra dell’originaria Möglichkeit, proprio là l’a/ad indica la stagliatura nel senso dell’attendibilità della flagranza della spaziosità (attendibilità di ogni spazio-tempo, di ogni “aver-luogo”), e così indice l’avvento della flagrante endiadi – e dunque l’attesa d’essære; là dove il Da dice la Wahrheit des Seins in quanto die Nähe selbst, proprio là l’a/ad indice l’avvicinante spaziosità d’essere (l’inverante avverarsi dell’essære); là dove il Da dice l’Aus della Unverborgenheit, proprio là l’a/ad indice l’intraneo (avvicinante) carattere d’avvento (dell’ex-traneum) della disascosità; là dove il Da, in quanto carenza dell’ominalità, indica l’Aus dell’Ausstehen di Lichtung e Offenheit (la Inständigkeit), proprio là l’a/ad allude all’ertezza per l’ad-ertezza; là dove il Da reconde la flagranza dell’Ab-grund, proprio là l’a/ad regge l’accortezza del fondo d’ascendenza; là dove il Da indica das Ereignis der Lichtung, ossia lo stanziarsi della Welt (Geviert – Seyn), proprio là l’a/ad indice accortezza e addicimento di stagliatura: avvento della quadrifuga spaziosità di un mondo geniturale.

Ebbene, solo perché nella dizione «a/ad», in quanto primo suono dell’italiano scismatico, risuona l’accortezza, e dunque solo perché l’a/ad è la più originaria dizione della regola d’ecceità – la voce della lingua prefulgente, anzi la sua appena udibile vocale, che si accorda con lo scismatico tono dell’avverbio «ecco» –, solo dunque in virtù di tale fondo di indicente attendibilità, essa possiede quell’in sé fugata dovizia di indizioni spazio-temporalizzanti che possiamo riconoscere nel dire consueto.

a

Proprio in tale attempramento consiste la spaziosità d’origine.

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IV. Il suono «a/ad»: rinvio all’intesa del Tommaseo Che al suono «a/ad» appartenga proprio una dovizia siffatta – ovvero: non una contingente pluralità di avulsi valori caratteristici ma una ricchezza indolica –, è chiaramente mostrato nella trattazione dedicata alla voce «A, particella» del Dizionario della Lingua Italiana del Tommaseoa; per il quale, d’altronde, le particelle hanno, nel discorso, un ruolo essenziale, e ciò al punto che là dove venga meno la loro corretta intesa, nessun dire sarà un vero dire. Al capo XXXII della Prefazione al Dizionario dei Sinonimi – intitolato «Osservazioni generali sulle particelle» – leggiamo: (… ) questa delle particelle specialmente è materia importante perché il senso loro c’è più noto, più facilmente determinabile nel sentimento, se non in parole (…) Poi, lo studio delle particelle è studio insieme di lingua e stile; perché se vero è che ne’ modi, più che ne’ vocaboli, sta la ricchezza dei linguaggi, la potenza del dire; le particelle che tengono quasi il mezzo tra la voce ignuda e la frase, congiungendo le parole tra loro, o, congiunte ad una di quelle, dandole senso quasi d’una frase intera [ellissi]; le particelle, dico, sono come i muscoli e le giunture del discorso, il quale senz’esse è cadavere a cui la vita Omnibus e nervis atque ossibus exoluatur. Onde, se le particelle mal s’intendano o non bene s’adoprino, avremo facondia slogata e fiacca, o rigida e pigra.b (…) E qui noterò negligenza frequente ne’ grammatici e ne’ lessici, che le particelle trasmutano a mille significati diversi o contrari, quando potrebbero spiegare ogni cosa con uno o due sensi precipui, da’ quali dedurre gli altri mostrando il congegno delle idee che via via si son venute a quel suono come incorporando. (c.n.; DS, pp. XXXII-III)

Ora, alla menzionata voce «A, particella», ci è offerta esattamente una tale «spiegazione»: un unico «senso precipuo» dell’a – quello di «direzione» – si di-

a Il Dizionario della Lingua Italiana e il Dizionario dei Sinonimi – opere che non sembrano avere uguali in Europa – sono una fonte inesauribile di vedute essenziali sulla lingua madre. Nella sua prefazione al Dizionario della Lingua Italiana (19 Marzo 1879), l’allievo e continuatore Giuseppe Meini, parlando dello stile di lavoro del Maestro, scrive: «… il Tommaseo sapeva congiungere, nella compilazione del Dizionario, (…) la filologia alle ragioni e alle norme del bello, l’altezza dell’ingegno alla profondità del sentimento, l’abbondanza e la varietà all’ordine; sapeva da un vocabolo cavare insegnamenti non solo di grammatica, ma e di logica e di morale. E forse per questo alcuni lettori superficiali lo tacciarono talvolta di troppa sottigliezza. Ma i lettori attenti e spassionati hanno dovuto accorgersi, e sempre più si accorgeranno, che certe così dette sottigliezze sono pregi d’un ingegno acuto, ed avvezzo a investigare il vero nelle parti sue più recondite, a ricercare nelle parole le più leggiere differenze e le più piccole sfumature delle idee; nel che poi consiste la ultima perfezione dell’arte» (TOMMASEO, DLI, p. LI). – Si vedano anche TOMMASEO, MSL e BORGHI, PLM. b La prassi traslativa – che deve misconoscere il carattere fenomenologico-scismatico delle dizioniparticelle, in modo che nelle sue versioni domini, come si è visto, l’infirmante imitare – è un chiaro esempio di una tale «facondia».

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spiega via via, cioè origina ogni volta una determinata accezione, così che si stagli il «congegno delle idee»: la compagine dei tratti che si co-generano in tempra di un medesimo suono, la fuga del generarsi delle indizioni del, come dice ancora il Tommaseo, «più generale senso dell’a» – diciamo: la genitura dell’a/ad.a Tale genitura è «spiegata» lungo novantacinque paragrafi, che occupano circa ventinove colonne del Dizionario. Qui di seguito, dopo aver richiamato l’incipit della voce «A, lettera», citeremo in compendio quei paragrafi della voce «A, particella» che fungono da cardini e snodi della «spiegazione». Riporteremo per intero solo il paragrafo 5, ove s’introduce quest’ultima formulando appunto «il più generale senso dell’a», e la prima parte del paragrafo 74 (cui abbiamo già rinviato supra a p. 79), ove si chiarisce il rango dell’a/ad sia quando accompagni le altre particelle sia là dove entri «nella composizione d’altra parola»; aggiungeremo fra parentesi qui e là qualche esempio, sempre traendolo dalla copiosa messe di citazioni letterarie ripartita nelle varie rubriche della voce. [Dalla voce «A, lettera»:] La prima dell’alfabeto, giacché a proferirla basta aprire le labbra lasciando andare il fiato: onde esprime nelle esclamazioni e la gioja e il dolore. E le voci anima e alito e simili dicono che in lei è l’atto del respiro vitale e l’aspirazione dell’anima stessa. (DLI, p. 1) (…) [Dalla voce «A, particella»:] 5. II. Se l’a si fa, traducendo, corrispondere al caso dativo latino, non è già ch’ella lasci mai affatto l’originale natura di preposizione; poiché in certi luoghi, per meglio determinare, i Lat. stessi ponevano invece del dativo il quarto caso coll’ad; e questo nelle lingue moderne ha preso in tutto il luogo del dativo per la necessità che fu ad esse di più chiaramente determinare; necessità venuta dalla mistione di popoli di diverse lingue, non da maggior forza logica, perché la logica non consiste nell’analisi solo e nella lunghezza. Noi dunque non diremo che l’a sia segnacaso, sì perché l’italiano non ha casi, sì perché questo titolo toglierebbe alla particella il valore dell’idea, la farebbe cioè senza senso. E i significati distribuiremo secondo le idee, giacché il dire che l’a sta per in, sopra, sotto, e via via, è un non dichiarare nulla, e il valore di tutte le particelle confondere. Il più generale senso dell’a è di direzione, che comprende, fra tante altre idee, quella del caso dativo; giacché il dare e l’attribuire come che sia, richiede che s’indirizzi l’atto interno ed esterno all’oggetto. Naturalmente doveva questo suono esprimere direzione, come quello che mettesi col più facile movimento, e congiungendo l’aspirazione al respiro, denota l’unità della vita corporea e della spirituale, e comprova la distinzione del soggetto dall’oggetto, cioè la realtà del mondo esteriore, la dipendenza in cui l’uomo è dagli altri enti di fuori, e la necessità ch’egli ha de’ suoi simili.

a

Le espressioni «il più generale senso» e «senso precipuo» sono qui sinonimi.

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– 15. (…) l’a s’applica a idee d’azione (…) – 20. VI. Perché una delle azioni più notabili è quella del dare, anzi l’idea del dare è in ogni azione; e perché chi dà, indirizza all’oggetto l’intenzione, l’opera e la cosa da dare; perciò questa particella corrisponde spesso al dativo lat., che da tale idea prende il nome (…) – 23. Principio del dare è l’offrire; anzi può essere dono compiuto e il migliore; certo è una direzione e delle più intense (… Offrirsi a Dio … ) – 25. VII. La parola è sovente de’ doni il più prezioso o funesto, delle azioni più in bene o in male efficaci; e nel dirla o scriverla s’indirizza all’oggetto più intentamente talvolta che con l’opera, la persona e il pensiero e l’affetto. Onde il modo lat. dare per dire (… Grazia a sé nol chiama… ) – 35. All’idea di direzione, e del modo di muoversi e d’operare, riducesi quella di norma; giacché direzione e regola han la radice stessa: onde a ha senso affine a secondo (… Se guardiamo l’uomo non a comune opinione, ma a giudizio vero di sapienti… ) – 39. IX. L’idea di moto, dall’un lato congiunta a quella di direzione, dall’altro suppone quella di luogo, denotata sovente dall’a: come quando diciamo: mettere a luogo, stare al suo posto (…) – 42. Né solo l’idea di luogo dall’a è congiunta a quella di moto, ma di quiete altresì; e l’a pare tutt’uno con l’in, sebbene vi sia sempre un qualche divario (… Che novelle avete a città?... ) – 48. L’idea di tempo congiungesi con quella d’atto nei vari momenti dell’atto: né senza perché momento applicasi al tempo e al moto, all’azione e all’importanza di quella (… si consumò al consumar d’un tizzo…, … all’improvviso, a lungo andare… ) – 54. Le idee di tempo e di luogo si appuntano in quella del numero. – 57. Senza l’idea di misura, quella di quantità non sarebbe precisa (… Il sole è la maggior luce… e però tutte l’altre luci si misurano a quella luce… ) – 68. Ogni corrispondenza (… E moto a moto, e canto a canto colse… ) – 69. L’idea di corrispondenza conduce a quella di relazione ancora più generale. E in prima notisi della stessa generalità d’attinenza qualsiasi. (… La cognizione di Dio si ha alle cose, come la cognizione dell’arte alle cose artificiate… ) – 74. XIII. Le relazioni generalissime sono denotate nella forma più generale dalle particelle e da certi avverbi che con quelle commutansi: e agli uni e alle altre l’a si accompagna; e, siccome segno di direzione, ne indirizza e determina il senso. Talvolta la particella < a > entra nella composizione d’altra parola, e diventa al significato quel ch’è il timone alla nave. Può l’a stesso entrare in parte del vocabolo, e dover esser replicato fuori di quello: come Assistere alla preghiera; Aggiogato al carro. [Seguono vari esempi, ordinati dapprima secondo le particelle «in», «con», «circum», «ante», «præ», «sopra», «sub» e «sotto», in quanto prefissi di una certa parola («imporre a…», «concreare a…», «anteporre a…», ecc.), e poi secondo le particelle «dentro», «in mezzo», «dinanzi», «dopo», «dietro», «contro», «intorno», «presso», «sotto», «sopra», «oltre», in quanto, come dice il Tommaseo, «particelle da sé» («D’entro alle leggi trassi il troppo e il vano (tolsi le superfluità e gli eccessi)», «E fissi gli occhi al Sole oltre a nostr’uso»).] – 89. XVI. L’a pare talvolta semplice riempitivo; ma riempitivi inutili non ha la lingua, se certi scrittori ne hanno: e quello che appar tale, porta sempre una qualche gradazione d’idea o di sentimento. – 96. XVII. Quasi tutti quelli che pajono riempitivi, in verità sono ellissi. L’ellissi è natura e necessità del linguaggio; perché

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se s’avesse a dire tutto, non ci sarebbe da intendere nulla. Ellissi sono: (…) A sentir lui, ogni caduta è un volo, ogni giravolta progresso. (… Se tu segui tua stella [l’ispirazione che te ne viene], Non puoi fallire [di giungere] a glorïoso porto… … A che pro! A che [sottint. a che fine fare o dire cotesto?... ] A me la fatica, a lui il premio…) – 100. Ma le più usitate ellissi e più potenti son quelle dove un nome coll’a forma proposizione intera, e quasi esclamante. A proposito! comincia un nuovo discorso, che ha che fare con il precedente nostro o altrui. (…) È forma di affermazione, d’invocazione, o di giuro; giacché con la particella di direzione volgesi l’animo nostro e l’altrui all’ente invocato per testimone o per vindice… Ellissi… : Addio (…) Al fuoco! (…) All’erta! (…) All’opera! [Ricordiamo l’ellissi «Alla concernente indole!» nel senso del Zur Sache selbst! in quanto pensum del pensiero.] (DLI, pp. 2-11)

Ed è un compendio.a – L’intendimento, in senso fenomenologico, della genitura dell’a/ad messa in luce in queste pagine del Dizionario (l’intesa del modo in cui esse colgono l’a/ad come tono d’origine di una fuga d’indizioni spazio-temporalizzanti) richiede una loro lettura scismatica. Solo così, sotto l’apparenza dell’arido repertorio, folgorerebbe la lingua prefulgente, e, con essa, l’accortezza – ossia ciò che, nella lingua metafisica del Tommaseo, deve restare disdetto, e assumere l’aspetto della cura poetica sostenuta dallo zelo filologico. Ma una tale lettura non può essere qui compiuta. Essa esigerebbe infatti una preliminare puntualizzazione della generale posizione filosofica entro cui si muove il filologo – puntualizzazione che travalica i confini del presente lavoro. Dobbiamo allora limitarci ad alcuni cenni, peraltro proposti in forma di appunti privi di dimostrazione, e relativi unicamente ai precedenti paragrafi 5 e 74. I cenni ci additeranno nondimeno la via per portare a compimento il cammino. A. Per il paragrafo 5 («… Il più generale senso dell’a è di direzione, che comprende, fra tante altre idee, quella del caso dativo; giacché il dare e l’attribuire come che sia, richiede che s’indirizzi l’atto interno ed esterno all’oggetto. Naturalmente doveva questo suono esprimere direzione, come quello

a La genitura italiana dell’a/ad ci aiuta a scorgere la ricchezza indolica (secondo l’unico «precipuo senso» della «direzione») anche nella varietà delle indizioni spazio-temporalizzanti dell’ad latino. Parleremo allora di una genitura latina dell’ad. Citiamo solo alcuni semplici, esemplari usi. Il suono «ad» (sempre in riferimento implicito o esplicito all’ab) 1. in relazione alla schietta temporalità, può indicare il momento (per esempio, favorevole e opportuno, ad tempus, o attuale, ad praesens, ad ipsum tempus, o della giornata, ad vesperum, o solo effimero, ancora ad tempus), oppure far apparire la durata (ad senectutem), o indire l’avvenuto istante (ad lucem, ad extremum); 2. in relazione alla pura spazialità, può rompere un’estensione nel moto (ducere… ad hostem), o acclarare una vicinanza nella quiete (adesse ad portam); 3. in relazione allo stagliarsi di un abitare, può chiamare lo stanziarsi entro una sfera (ad tibiam canere), oppure in un fermo giacere (ad aedem), o può circoscrivere una tensione (cupiditas ad reditum), un riguardo (insignes ad laudem viri), un paragone, un grado e un rango (ad extremum), un concernere (quid ad rem?), una misura (ad plenum), e poi un’adiacenza, un superamento, una conseguenza, una finalità, ma anche una conformità, un assecondamento, un addicimento (agere ad praescriptum; ad tempus). La medesima dovizia caratterizza

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che mettesi [i.e. che si produce] col più facile movimento, e congiungendo l’aspirazione al respiro, denota l’unità della vita corporea e della spirituale, e comprova la distinzione del soggetto dall’oggetto, cioè la realtà del mondo esteriore, la dipendenza in cui l’uomo è dagli altri enti di fuori, e la necessità ch’egli ha de’ suoi simili… »): i. L’attitudine dell’a/ad a indicare ogni volta (la) direzione è acclarata come «naturale» capacità del «più facile movimento»a : l’umano «respiro» nel suo stagliarsi in tempra di primo suono. Ma: che cos’è il respiro temprato in suono se non l’indole ominale nel suo primario contendere alla contrazione della terra l’attendibilità della spaziosità d’origine di ogni spazio-tempo (mondo)? Nel suono-respiro «a/ad», l’indole ominale si stanzia come ascensiva prontezza per la scorta della flagranza d’essære. «Respiro» (inspirazione ed espirazione; pnéuma, spiritus) è uno dei nomi metafisici dell’ertezza. ii. Nella «direzione» intonata dal suono-respiro «a/ad», si nasconde dunque l’attendibilità della direzione primigenia. La «naturale direzione» del «respiro» non può che stagliarsi sulla (non ancora pensata) regola d’ecceità. iii. Il respiro – l’ertezza – è il raccogliersi dell’indole ominale in silente fermezza: è l’alito d’origine di ogni umana «aspirazione» (ad-spirare) allo stanziarsi in flagranza d’essære. «Aspirazione» – come le dizioni psyché, anima e Geist (flagrantissimum ingenium) – è un nome metafisico dell’adertezza (Inständigkeit). iv. Che il suono «a/ad» parli «congiungendo l’aspirazione al respiro» significa allora che esso reconde d’origine il vigore della lingua madre: la lingua prefulgente. (Si rilegga il precedente par. 25.) vi. «… e congiungendo l’aspirazione al respiro, [questo suono] denota l’unità della vita corporea e della spirituale» – ossia: è (come «alito» per l’«anima», «respiro» per l’«aspirazione», ertezza per l’ad-ertezza) l’indolica risonanza del Leib (dell’indole umano-fisica) nel suo essere già ab origine intesa d’essære – «… e comprova la distinzione del soggetto dall’oggetto, cioè la realtà del mondo esteriore» – ovvero: lascia risuonare il ritratto scisma d’essære, l’ascensiva concretezza della sua intranea estraneità – «[e simultaneamente comprova] la dipendenza in cui l’uomo è dagli altri enti di fuori, e la necessità ch’egli ha de’ suoi simili» – vale a dire: intona la dimora offerta alla gettata estraneità dell’uomo nella tempra dell’ente e alla coalescenza fra mortali.

poi l’ad quando entra in composizione con i sostantivi e gli aggettivi (in massima parte deverbali), oppure con gli avverbi, e infine con i verbi, fra i quali spicca per noi la dizione adesse, che, lo vedremo ora, si presta a essere intesa come una traduzione del Dasein in senso metafisico. – N.B. Pensiamo l’a/ab (greco apò, «da», «via da») come il recondito tratto contenzioso dell’a/ad, e questo in flagranza di contesa fra stagliatura e nascondimento. L’a/ab traduce il Weg del Weg-sein («Weg-sein ist der ursprünglichere Titel für die Uneigentlichkeit des Da-seins»; si veda GA Bd 65, partizioni 201-202. Si veda anche la voce AD in: A. Ernout, A. Meillet, Dictionnaire Étymologique de la langue latine, Klincksieck, Paris 1994; pp. 7-8.). a Tale attitudine non è dunque ricavata dalla contingenza (usi, modi di dire, ecc.).

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B. Per il paragrafo 74 («… Le relazioni generalissime sono denotate nella forma più generale dalle particelle e da certi avverbi che con quelle commutansi: e agli uni e alle altre l’a si accompagna; e, siccome segno di direzione, ne indirizza e determina il senso. …»): i. Le particelle, come dice Meini nella citata prefazione, sono «voci tutta grammatica», cioè paroline prive di un proprio inteso. Certo. Ma ciò non implica che siano insensate. Ogni particella, infatti, ha senso, «un senso precipuo» – prae-cipuus, letteralmente: “capito prima”, compreso già sempre per tempo, colto per dis-contingenza, ossia inteso di scisma per lo scisma. Ogni particella dunque ha un senso puramente scismatico, e lo ha perché, nel proprio dire, già sempre lo è: è (un) senso scismatico, ovvero: (ogni volta) regge in flagranza un senso dello spazio-tempo, lo indice in forma di scissura affinché uno stanziarsi possa stagliarsi e configurarsi e, come tale, risuonare in parola. Ogni particella “ha ed è” – indìce – il precipuo senso di un’attendibile flagranza d’essære per una fuga di essenti. Le particelle sono dunque pure dizioni dell’attendibilità dello stanziarsi della spaziosità in forma di mondo. A buon diritto si asserisce allora che «denotano» «nella forma più generale» le «relazioni generalissime», ossia gli originari toni conferenti, che ab imis flagrano per entro ogni rottura di spazio-tempo.a Esse – giacché ciascuna ha quello scismatico «senso precipuo» che è – possono essere pensate come indici scissili dello stanziarsi, indici di rotta indolica. Ad esempio, l’indole indicata dalla particella «in» si staglia – nell’irrotto spazio-tempo – secondo un molteplice ascensivo in-stanziarsi: ora è un «dentro» («stare in casa»), ora è un «contro» («inciampò in un sasso»), ora è un habitus («essere in errore», «essere nella verità»), ora è una durata («nel corso dell’anno»), e così via per ogni altra indizione spazio-temporalizzante dell’in; lo stesso vale per ogni indole indicata in ogni altra particella («con», «præ» e «sub», «sopra [a]» e «sotto [a]», «dentro [a]» e «contro [a]», «dinanzi [a]» e «intorno [a]», «presso [a]» e «oltre [a]», eccetera): ciò che di volta in volta è indetto è sempre un «senso precipuo» per la flagranza dell’indole. ii. Tutto questo ci mostra come l’indetto «senso precipuo» di una particella non sia altro che una raffermatura della direzione primigenia, una messa-in-forma della regola d’ecceità. Ma ciò vuol dire che nello scismatico senso precipuo – di ogni particella e degli «avverbi che con quelle commutansi» – è necessariamente presupposto e già intonato il precipuo senso del suono-respiro «a/ad» – ossia l’accortezza. Ecco perché «e agli uni e alle altre l’a si accompagna; e, siccome segno di direzione, ne indirizza e determina il senso».

a Spatium temporis ad res conferendas: ogni particella è, nel proprio precipuo senso, un irrotto cardine della flagrante contesa fra stagliatura e nascondimento.

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V. La dizione italiana I precedenti cenni all’intesa fenomenologica della genitura dell’a/ad, sebbene solo sfiorino la ricchezza metafisica delle pagine del Tommaseo, ci aiutano a mettere a fuoco compiutamente il singolare carattere del suono-particella. Si tratta di un passo decisivo, poiché, grazie a tale messa a fuoco, potremo coniare la dizione italiana del Da-sein. Innanzitutto, udiamo più intimamente il timbro scismatico dell’a/ad, nel senso che troviamo un movente interno della sua elezione al rango di primo suono – sul tono d’accortezza – del dire prefulgente: ci accorgiamo infatti come sia l’italiano stesso, per così dire, a “parlare” l’a/ad nel suo carattere di (dis)fondamento (ossia di fondo d’ascendenza),a temprandolo quale pristino segno di raccolta di ogni altro indice scissile, cioè quale suono d’origine di ogni indizione di rotta indolicab – e dunque quale precipuo tono di ogni attendibile spaziosità.c L’accennata fuga di sintonie fra tratti d’origine del Da e dell’a/ad diviene così in sé più fugante, e perciò più geniturale. In secondo luogo – ed è questo l’apporto più specifico offerto dai suddetti cenni –, acclariamo la tempra prescismatica, ovvero metafisica, dell’a/ad. Essa è visibile nel modo in cui la particella si attesta come «segno di direzione», ossia in quel «naturalmente» («… Naturalmente doveva questo suono esprimere direzione, come quello che mettesi col più facile movimento… ») che nasconde la direzione primigenia, e quindi l’accortezza. Si può infatti mostrare come, dal punto di vista geniturale, il fondo di indicente attendibilità del «naturalmente» sia lo staglio d’essere nel senso della fuvsi~, ossia: lo stagliarsi dell’essere sulla fuvsi~ oltre la fuvsi~, ma ogni volta per entro la sua temperie, cioè ‘secondo fuvsi~’ – in greco: meta; th`n fuvsin, ma sempre meta; fuvsew~. Il significato geniturale del «naturalmente» è allora: «metafisicamente». Così «direzione naturale» vuol dire «direzione meta-fisica»: lo stanziarsi del dirigere vigente nell’indole fuvsi~. Ora, fuvsi~ – secondo la sua intesa greca chiarita nel Denkweg – significa der Aufgang, la levata, l’assorgenza, das aufgehende Walten, l’assorgente (levante, sorgivo) vigore, ma nel senso della sich lichtende (entfaltende, öffnende) Anwesung, della stagliantesi (dispiegantesi, indolicamente flagrante) adstanziazione, che è poi das aufgehende Sichstellen in den Bestand, l’assorgente installarsi in

L’espressione «italiano stesso» serve a ricordarci che qui risuona la silente fermezza della madrelingua. L’a/ad ci era già apparso, infatti, come la «raccolta dell’intera capacità indicente della lingua». c Ora possiamo dire che l’a/ad ha, in lingua madre, quel senso che è – ovvero l’accortezza – in quanto precipuo senso del senso precipuo di ogni altra particella. La lingua prefulgente, nel primo suono «a/ad», lascia che il fondo d’ascendenza s’intoni d’accortezza, e così flagri in stagliatura di uno spazio-tempo – cioè in spaziosità – per entro cui un indice scissile può stanziare una fuga di essenti. (Sarebbe molto istruttivo qui mostrare la sintonia che vige fra il pensare nell’a/ad la raccolta degli indici scissili e il pensare nella Lichtung il gioco dei tre giochi; si veda il punto 2 dell’o.i. 28.) a

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fondo di costanza, che si compie nel beständiges In-sich-stehen als Entstehendes, cioè nel costante intraneo ergersi e così in-stanziarsi in quanto indole che si erge via (dal nascondimento).a La direzione meta-fisica, il dirigere vigente in physis, è allora la direzione d’assorgenza stagliata in disascosta costanza. Ecco dunque la tempra prescismatica dell’a/ad: la sua attendibilità di indice spazio-temporalizzante in quanto «segno (naturale) di direzione» riposa nel suo stanziarsi innanzitutto come segno d’assorgenza, ovvero – se pensiamo che quest’ultima, mediante la perenne pretesa dell’ente di valere quale unico metro dell’essære, cede all’adstanziazione, e questa all’adstanzietà, così che si affermi la costanza-fondo che, celando l’ascensivo fondo d’essære (lo scisma) e offuscando il fulgore del salubre (il Geviert), assicura il primato del contingente – come, appunto, segno di contingenza, e indittore della sua regola. L’a/ad prescismatico, l’a/ad d’assorgenza, è l’indittore metafisico di spazio-tempo, l’indice della costanza(-della-)contingenza nel suo assurgere di volta in volta a norma e misura della stanziazione.b Il carattere della dizione «a/ad» si è così ora interamente mostrato: essa, in un primo senso, come accento del fondo di costanza (accento constativo), intona l’assorgenza indicendone l’adstanzietà per la contingenza, mentre, nell’altro senso, come accento del fondo d’ascendenza (accento ascensivo), intona l’accortezza dello scisma d’essære entro la prefulgenza della lingua madre. Per ricordare che i due accenti, accordati nell’unico suono «a/ad», non sono di pari rango geniturale (l’accento constativo si staglia sul non ancora pensato accento ascensivo, coprendone la risonanza), chiameremo il primo «dis-tonico» e il secondo «tonico». Così nell’unico suono «a/ad», giacché esso è udibile genituralmente secondo i due suddetti accenti di senso, risuona un geniturale bisenso d’essære: ora (durante la genitura metafisica) l’essære in distonia d’assorgenza, ora (durante la genitura dell’altro inizio) l’essære in tonicità d’accortezza – l’uno e l’altro in un rotto accordo o, meglio, concento che, nel suo silente gioco, null’altro attesta e prova, per gli interroganti, se non l’inaudito vigore della pura indole ‘scisma’. Un riepilogo grafico può essere d’ausilio per fissare l’essenziale dell’esplicitazione; si veda la figura 2 nella pagina seguente (così come è stato definito «accortivo» l’a/ad tonico, definiremo «assortivo» l’a/ad distonico).

a Si veda la IV parte di Besinnung (GA Bd 66, pp. 83-103). All’inizio della partizione 17, leggiamo: «Dall’essere in quanto fuvsi~ (l’assorgente installarsi in tempra di fondo di costanza) origina l’imporsi della sfera d’offerta del presentaneo (dell’adstanzietà e dell’essere-costante); nascono così la brama di “conservazione” e di “mantenimento” e il desiderio di “eternità” nel senso del durare, la preferenza nei confronti dell’effettività e della “concretezza”, e quindi del suo primo servente: l’efficacia». b La «spiegazione» della genitura dell’a/ad come «segno di direzione», prima che una descrizione filologica o grammaticale, è una delucidazione metafisica.

figura 2

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Ebbene, il cammino indica chiaramente, seppure in modo implicito, tre punti essenziali: 1. Il Da, a differenza dell’a/ad, non è un bisenso geniturale.a 2. L’a/ad tonico-accortivo traduce d’indole non solo il Da, ma anche il Da-sein.b 3. L’a/ad distonico-assortivo traduce il senso metafisico del Dasein (la Wirklichkeit in quanto aspetto modale della Vorhandenheit), ma non d’indole, bensì innanzitutto mediante una parola che non si era mai fin qui attestata in italiano: la dizione latina adsum/adesse.c In «adesse», l’ad «indirizza e determina il senso» dell’ascensivo esse conferendogli il distonico-constativo accento del contingente. Assum è infatti la parola per eccellenza della concretezza contratta in contingenza: essa dice sempre l’adstanziarsi dell’ente nella forma dell’effettivo e del tangibile, ossia indice l’essente nel suo assumere l’aspetto reale, l’aspetto della res vera – posto di pensare in tale dizione non la mera cosa presente, ma ciò che, in questo o quel modo, tiene l’uomo entro la propria adstanzietà intonandone lo stanziarsi, cioè admuovendolo. L’adesse è dunque il verbo della realtà – dell’essære reale – in quanto adstanzietà concretata in admozione: udito sul tono di quest’ultima, tale verbo, nominalizzato, può allora compiutamente tradurre il Dasein nella sua accezione meta-fisica o prescismatica.d Ecco uno schema di tali contratti geniturali:

Ma se il Dasein metafisico suona ora adesse, il Da-sein – già inteso nell’a/ad tonico-accortivo – si lascia esplicitare nella scrittura ad-esse, ossia, riconiando in lingua prefulgente, nella dizione «ad-essere». Anche in ita-

Esso infatti resta in ogni genitura la dizione della flagranza d’essære. Se così non fosse, non avremmo mai potuto determinare la precedente fuga di sintonie fra tratti d’origine del Da e dell’a/ad. c Forse era necessario il pensiero del Da-sein perché ci accorgessimo di tale parola e la chiamassimo in italiano. Nella dizione «adesse», l’ad distonico-assortivo parla nella sua pienezza prescismatica; ciò significa che in ogni uso “naturale” dell’a/ad è udibile l’adesse. d La res è ciò che, per indole, adest; das Daseiende = quod adest quodque praesens est, quod adest praesens. Solo il tratto dell’ad-mozione (in quanto concretata adstanzietà) raccoglie i vari sensi dell’adesse latino: «essere qui» ed «essere là», «essere vicino», «apparire» e «mostrarsi», «prestare attenzione», «esa

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liano dunque il trattino è un segno dello scisma, pensato qui come fugante flagrare dell’a/ad – nella cui accortezza parla l’essære – e dell’essere come adergente attempramento a tale accortezza. Infatti, così come Da-sein è il suono tedesco dello («-») scissile tratto di genesi di una stagliatura d’essære (Da-) per entro la quale si erge un ex-sistente assecondante soffrirla (-sein), cui ab origine è offerta l’indole ominale

– la dizione «ad-essere» lascerà risuonare in italiano lo («-») scissile tratto di genesi dell’accortezza dell’avvento d’essære (a/ad-), per entro cui si stanzia un adergere tale avvento (-essere), al quale (adergere) è ab origine offerta l’indole ominale.

Con una formula che raccoglie l’intero cammino nell’intesa e nella traduzione del Da-sein quale fermezza d’essære, possiamo allora dire così: Da-sein: essere il flagrante Da (la Klarheit des Seyns, la Offenheit, la Lichtung, la carente Nähe des Seyns, la flagranza dell’Ab-grund), Er-eignis: offrirsi dell’indole ominale all’ecceità d’origine per stanziarsi nell’avvento d’essære, essere ab origine l’ostensivo ecco (l’originaria ecceità, la stagliatura in fondo d’ascendenza), essere d’ecceità, ergersi d’accortezza, ad-ergere l’essære in quanto accortezza, ad-ergersi, essere l’accortivo a/ad dell’originaria spaziosità per ogni spaziotempo nell’intimità al mondo: ad-essere.a

*** A suggello della rotta via via tracciata e seguita, leggiamo e traduciamo, in conclusione, sei brani del Denkweg. Il primo e il secondo sono tratti da Sein und Zeit e dalla Einleitung in die Philosophie; il terzo, il quarto e il quinto sono ripresi dai Beiträge zur Philosophie; il sesto proviene dal trattato Über den Anfang. sere pronto» ed «essere alla mano», «sovrastare» ed «essere imminente», «assistere» e «prendere parte», «sostenere» e «favorire», eccetera. Là dove l’essære non è che trascurata admozione («trascurata» poiché appunto non esplicitamente stagliata sull’essære), l’abitare dell’uomo può pensarsi mediante la parola «assidenza»: “risiedere” innanzitutto “presso” la contingenza delle res. L’assidenza rende attendibile l’uomo come animale storico, per il quale l’admozione si è invisibilmente già sempre raffermata in fondo di costanza. «Assidenza» vuol dire: contrazione di ogni (divenire) Da-sein: puro Weg-sein, puro ab-essere. – Si veda HEIDEGGER, OA, pp. 152-153. a Se è in forza dell’admozione che l’adesse traduce metafisicamente il Dasein, è in virtù dell’accortezza che l’ad-essere traduce, in senso geniturale d’essære, il Da-sein.

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La lettura di tali brani ci fa apparire, in un’unica, chiara fuga, i cardini del cammino in madrelingua; nella traduzione risuona, destatosi dal sonno della “storia dell’esserci”, il presagio di un futuro pensiero italiano del Da-sein, il pensiero dell’accortezza. Il terzo brano – la partizione 173 dei Beiträge, già menzionata supra a p. 45 – ha costituito il costante riferimento in ognuno dei passi compiuti. Da Sein un Zeit (§ 28; SuZ, pp. 132-33): Das Seiende, das wesenhaft durch das In-der-Welt-sein konstituiert wird, ist selbst je sein »Da«. Der vertrauten Wortbedeutung nach deutet das »Da« auf »hier« und »dort«. Das »Hier« eines »Ich-Hier« versteht sich immer aus einem zuhandenen »Dort« im Sinne des entfernend-ausrichtend-besorgenden Seins zu diesem. Die existenziale Räumlichkeit des Daseins, die ihm dergestalt seinen »Ort« bestimmt, gründet selbst auf dem In-der-Welt-sein. Das Dort ist die Bestimmtheit eines innerweltlich Begegnenden. »Hier« und »Dort« sind nur möglich in einem »Da«, das heißt wenn ein Seiendes ist, das als Sein des »Da« Räumlichkeit erschlossen hat. Dieses Seiende trägt in seinem eigensten Sein den Charakter der Unverschlossenheit. Der Ausdruck »Da« meint diese wesenhafte Erschlossenheit. Durch sie ist dieses Seiende (das Dasein) in eins mit dem Da-sein von Welt für es selbst »da«. Die ontische bildliche Rede vom lumen naturale im Menschen meint nichts anderes als die existenzial-ontologische Struktur dieses Seienden, daß es ist in der Weise, sein Da zu sein. Es ist »erleuchtet«, besagt: an ihm selbst als In-derWelt-sein gelichtet, nicht durch ein anderes Seiendes, sondern so, daß es selbst die Lichtung ist. Nur einem existenzial so gelichteten Seienden wird Vorhandenes im Licht zugänglich, im Dunkel verborgen. Das Dasein bringt sein Da von Hause aus mit, seiner entbehrend ist es nicht nur faktisch nicht, sondern überhaupt nicht das Seiende dieses Wesens. Das Dasein ist seine Erschlossenheit. … Quell’essente, che consiste nell’essere intimo al mondo, è d’indole, ogni volta, il proprio Da. Nella dizione da, il nostro orecchio abituale sente lo hier, il qui (ecco qui; ci), o il dort, il là (ecco là). Il qui di un io-qui, di un eccomiqui, si comprende sempre in quanto si è mossi da un là, da un ecco là, a portata di mano, nel senso del premuroso (dis-allontanante orientante) stanziarsi in rapporto a quest’ultimo. L’esistenziale indole in-allogante del Dasein, la quale, nel premuroso stanziarsi, intona per esso Dasein il “luogo”, si fonda a sua volta nell’essere intimo al mondo. Il là (ecco là) è la raggiunta intonazione e determinazione di ciò che viene incontro flagrando dall’intimità del mondo. Qui e là, ecco qui [ci] ed ecco là, sono attendibili solo nella sfera di un Da, solo nella sfera di un originario ecco, solo in una ecceità d’origine; il che vuol dire: ogni in-allogamento (qui, là, ecco qui, ecco là) è attendibile solo quando abbia luogo un essente che, avendo la forma dell’essere il Da, dell’essere l’ecceità d’origine – dell’essere l’a/ad dell’attendibilità di ogni “aver luogo” –, già sempre de-contrae (un’)indole in-allogante (indole di spaziosità). Questo essente reca, soffrendolo quale suo intimo essere, il segno della dis-contrattezza. Le diciture «Da», «ecco»,

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«ecceità» e «a/ad» intendono, ciascuna a modo proprio, esattamente tale costitutiva (originaria) decontrattezza. Proprio in forza di quest’ultima, tale essente (il Dasein) ha d’indole, in uno con l’originaria ecceità di un mondo, il luogo del proprio aver luogo (il qui e il là, l’eccomi-qui e l’eccomi-là del proprio stanziarsi). Quando, in senso ontico, mediante un’immagine, si parla del lumen naturale nell’uomo, non s’intende altro che la struttura ontologico-esistenziale di tale essentea, ossia il fatto che esso è (nella) fermezza d’essere il proprio Da, la propria ecceità, il proprio a/ad. Che esso sia “illuminato” vuol dire: stagliato, d’indole propria, in quanto essere intimo al mondo, non mediante un altro ente, ma in forza della propria indolica fermezza: essere la stagliatura. Solo per un essente esistenzialmente così stagliato, può offrirsi – ora accessibile nella luce, ora nascosta nell’oscuro – una contingenza. Il Dasein ha il proprio Da – la propria ecceità, il proprio a/ad – come dote nativa; se non l’avesse, non solo esso non sarebbe di fatto, ma, prima ancora, non sarebbe l’essente di un tale stanziarsi. Il Dasein – l’essere d’ecceità, l’adessere – è la propria decontrattezza.b

Dalla Einleitung in die Philosophie (AF, p. 11 e p. 17; trad. qui leggermente modificata): … Wir philosophieren nicht dann und wann, sondern ständig und notwendig, sofern wir als Menschen existieren. Als Mensch da sein, heißt philosophieren. Das Tier kann nicht philosophieren; Gott braucht nicht zu philosophieren. Ein Gott, der philosophierte, wäre kein Gott, weil das Wesen der Philosophie ist, eine endliche Möglichkeit eines endlichen Seienden zu sein. Menschsein heißt schon philosophieren. Das menschliche Dasein steht als solches schon, seinem Wesen nach, nicht gelegentlich oder gelegentlich nicht, in der Philosophie. (…) Wir sagten: Das Dasein steht nicht und nie außerhalb der Philosophie, sondern diese gehört zum Wesen der Existenz des Daseins. Also müssen wir sie im Dasein selbst in Gang bringen; also bedarf es eines Eingehens auf das Dasein, das wir jeweils selbst sind. So scheint es, als gerieten wir in eine psychologische Selbstbetrachtung, als käme das Philosophieren darauf hinaus, eine egoistische Beschäftigung mit sich selbst, eine Zergliederung des eigenen Seelenlebens zu werden. … dell’essente-uomo ormai dis-ominizzato, ovvero del Da-sein. Al punto «ist» della frase finale del brano (Das Dasein ist seine Erschlossenheit), Heidegger annota sulla sua copia di lavoro: «Dasein existiert und nur es; somit Existenz das Aus- und Hinaus-stehen in die Offenheit des Da: Ek-sistenz»; proponiamo tre traduzioni: (prima traduzione): «Il Dasein, e solo il Dasein, esiste; sicché esistenza lo stanziarsi ad-ergendo l’intensa flagranza in cui consiste il Da (l’ecceità d’origine, l’a/ad) ed ex-stanziarsi ad-ergendone la tempra: ex-sistenza»; (seconda traduzione): «L’essere d’ecceità, e solo l’essere d’ecceità, esiste; sicché esistenza lo stanziarsi ad-ergendo l’avvento in cui consiste l’ecceità, ed ex-stanziarsi ad-ergendone la tempra: ex-sistenza»; (terza traduzione): «L’adessere, e solo l’adessere, esiste; sicché esistenza lo stanziarsi ad-ergendo l’avvento in cui consiste l’a/ad ed ex-stanziarsi ad-ergendone la tempra: ex-sistenza». a

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Zunächst nur so viel negativ: Das Freimachen des Philosophierens im Dasein hat mit einer psychologischen und gar egoistischen Selbstbegaffung nichts zu tun. Aber ebensowenig ist das Freiwerdenlassen des Philosophierens in uns eine moralisch-erbauliche Betulichkeit um das eigene Ich. Mit all dem haben diese Überlegungen aber nichts zu tun. Weder um Psychologie noch um Moral handelt es sich. Wohl kommt das Dasein bei diesen Überlegungen in ein eigenes Zentrum, aber dieser sogennante anthropozentrische Standpunkt hat etwas Merkwürdiges. In dieser anthropozentrischen Betrachtung werden wir zur Einsicht kommen, daß dieses Wesen Mensch, das da angeblich in sich selbst verliebt im Zentrum steht, seinem Innersten nach ex-zentrisch ist, das heißt gerade dem Wesen seiner Existenz nach nie objectiv im Zentrum des Seienden stehen kann. Denn das wird gerade das Philosophieren offenbar machen, daß darin der Mensch aus sich selbst und über sich selbst hinausgeworfen wird und ganz und gar nicht Eigentum seiner selbst ist. Damit diese Einsicht, daß das Dasein sich nicht als Zentrum hat, wirklich gewonnen wird, muß es gerade in gewisser Weise ins Zentrum kommen. … Noi filosofiamo non saltuariamente, ma costantemente e necessariamente, nella misura in cui proprio come uomini esistiamo. Ecco: aver luogo come uomo, ossia come uomo ad-essere, vuol dire filosofare. L’animale non può filosofare; Dio non ha bisogno di filosofare. Un Dio che filosofasse non sarebbe affatto un Dio, poiché lo stanziarsi costitutivo della filosofia consiste nell’essere un’attendibilità finita di un ente finito. Essere uomo significa già filosofare. L’umano adessere (l’esistere) sta già, come tale, nella filosofia: non occasionalmente o di tanto in tanto, ma per proprio costitutivo stanziarsi. … (…) Abbiamo detto: l’adessere non sta mai fuori della filosofia, bensì la filosofia appartiene allo stanziarsi d’esistenza dell’adessere. Dobbiamo dunque far sì che essa abbia inizio nell’esistere stesso, nell’indole ‘adessere’; per questo motivo è necessario concentrare l’attenzione sull’adessere che di volta in volta indolicamente siamo. Sembra così di imbattersi in una sorta di autoanalisi psicologica, come se il filosofare si risolvesse in un egoistico occuparsi di “se stessi”, in una scomposizione della propria vita interiore. In via negativa diciamo per il momento soltanto questo: la liberazione del filosofare nell’adessere non ha nulla da spartire con un’auto-osservazione psicologica o addirittura egoistica. Ma il far sì che il filosofare si liberi nel nostro essere non è neppure una sollecitudine moralistico-edificante intorno al proprio ‘io’. Le nostre riflessioni non hanno nulla da fare con tutto questo. Non si tratta né di psicologia né di morale. Certo, nelle riflessioni che seguono, l’adessere assume una propria centralità; ma questo supposto punto d’osservazione antropocentrico ha qualcosa di singolare. Infatti, in tale considerazione “antropocentrica” giungeremo a discernere il fatto che questo essere che si stanzia come uomo – che si

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suppone se ne stia lì al centro, quasi innamorato di se stesso – è in realtà un che di intrinsecamente ex-centrico, e ciò significa che egli, per il modo stesso in cui si stanzia la sua esistenza, non può mai stare oggettivamente al centro dell’essente. Proprio il filosofare renderà palese come l’uomo, nel filosofare, sia costantemente tratto via dall’avulso sé e oltre l’avulso sé, e come egli non sia mai in alcun modo una proprietà di se stesso. Ma per riuscire a guadagnare realmente questo punto, ossia per vedere con chiarezza come l’adessere non si abbia come centro [vale a dire: non abbia se stesso quale centro radiale del mondo inteso come accentrata esteriorizzazione, e quindi non abbia l’uomo come un “esserci”], dobbiamo in un certo senso fargli prima acquistare una centralitàa.

Dai Beiträge zur Philosophie (partizioni 173, 175 e 176; GA Bd 65, pp. 295-301): [173. Das Da-sein] ist die Krisis zwischen dem ersten und dem anderen Anfang. Das will sagen: Dem Namen und der Sache nach bedeutet Dasein in der Geschichte des ersten Anfangs (d. h. in der gesamten Geschichte der Metaphysik) etwas wesentlich anderes als im anderen Anfang. In der Metaphysik ist »Dasein« der Name für die Art und Weise wie Seiendes wirklich seiend ist, und meint soviel wie Vorhandensein, um einen bestimmt gerichteten Schritt ursprünglicher ausgelegt: Anwesenheit. Diese Kennzeichnung des Seienden darf sogar auf die erstanfängliche Nennung zurückgedacht werden, auf die fuvsi~ und die sie bestimmende ajlhvqeia. So bekommt der Name Dasein vollends den echten erstanfänglichen Gehalt: von sich her aufgehend unverborgen (da) wesen. Durch die ganze Geschichte der Metaphysik zieht sich aber der nicht zufällige Brauch, den Namen für die Wirklichkeitsweise des Seienden auf dieses selbst zu übertragen und mit »Dasein« »das Dasein« zu meinen, das ganze wirklich vorhandene Seiende selbst. Dasein ist so nur die gute deutsche Übertragung von existentia, das Aussichhervortreten und -stehen des Seienden, von sich her anwesen (bei wachsendem Vergessen der ajlhvqeia). Durchgängig meint »Dasein« nichts anderes. Und man kann demgemäß vom dinglichen, tierischen, menschlichen, zeitlichen Dasein sprechen. Völlig verschieden davon ist Bedeutung und Sache des Wortes Da-sein im Denken des anderen Anfangs, so verschieden, daß es von jenem ersten Gebrauch zu diesem anderen keinen vermittelnden Übergang gibt. Das Da-sein ist nicht die Wirklichkeitsweise von jeglichem Seienden, sondern ist selbst das Sein des Da. Das Da aber ist die Offenheit des Seienden als solchen im Ganzen, der Grund der ursprünglicher gedachten ajlhvqeia. Das Da-sein ist eine Weise zu sein, die, indem sie das Da »ist« (activ-transitiv gleichsam), gemäß diesem ausgezeichneten Sein und als dieses Sein selbst ein einzigartiges Seiendes ist (das Wesende der Wesung des Seyns).

Risuonano qui come singolarmente sorde le parole della prassi traslativa: «… tutto il sapere del mondo va ricondotto al sapere di sé dell’uomo… » (Edizione Marini; supra pp. 23 e 25). a

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Das Da-sein ist der eigen sich gründende Grund der ajlhvqeia der fuvsi~, die Wesung jener Offenheit, die erst das Sichverbergen (das Wesen des Seyns) eröffnet und so die Wahrheit des Seyns selbst ist. Das Da-sein im Sinne des anderen Anfangs, der nach der Wahrheit des Seyns fragt, ist niemals anzutreffen als Charakter des begegnenden und vorhandenen Seienden; aber auch nicht als Charakter des Seienden, das solches Seiendes zum Gegenstand werden läßt und in Beziehungen zu ihm steht; das Da-sein ist auch kein Charakter des Menschen, als werde jetzt gleichsam nur der sonst bis dahin auf alles Seiende sich erstreckende Name eingeschränkt in die Bezeichnungsrolle für das Vorhandensein des Menschen. Gleichwohl stehen Da-sein und Mensch in einem wesentlichen Bezug, sofern das Da-sein den Grund der Möglichkeit des künftigen Menschseins bedeutet und der Mensch künftig ist, indem er das Da zu sein übernimmt, gesetzt, daß er sich als den Wächter der Wahrheit des Seyns begreift, welche Wächterschaft angezeigt ist als die »Sorge«. »Grund der Möglichkeit« ist noch metaphysisch gesprochen, aber aus der abgründig-inständigen Zugehörigkeit gedacht. Das Da-sein im Sinne des anderen Anfangs ist das uns noch ganz Befremdliche, das wir nie vorfinden, das wir allein erspringen im Einsprung in die Gründung der Offenheit des Sichverbergenden, jener Lichtung des Seyns, in die der künftige Mensch sich stellen muß, um sie offen zu halten. Aus dem Da-sein in diesem Sinne wird das Dasein als Anwesenheit des Vorhandenen erst »verständlich«, d. h. die Anwesenheit erweist sich als eine bestimmte Aneignung der Wahrheit des Seyns, wobei die Gegenwärtigkeit gegenüber der Gewesenheit und Künftigkeit eine bestimmt ausgedeutete Bevorzugung erfahren hat (verfestigt in die Gegenständlichkeit, Objektivität für das Subjekt). Das Da-sein als die Wesung der Lichtung des Sichverbergens gehört zu diesem Sichverbergen selbst, das als das Er-eignis west. Alle Bereiche und Hinsichten der Metaphysik versagen hier und müssen versagen, wenn das Da-sein denkerisch gefaßt werden soll, denn die »Metaphysik« fragt vom Seienden her (in der anfänglichen und d. h. endgültigen Auslegung der fuvsi~) nach der Seiendheit und läßt die Wahrheit dieser und d. h. die Wahrheit des Seyns notwendig ungefragt. ajlhvqeia selbst ist die erste Seiendheit des Seienden, und selbst diese bleibt unbegriffen. Im bisherigen und noch üblichen Gebrauch meint Dasein soviel wie hier und dort vorhanden sein, in einem Wo und Wann vorkommen. In der anderen künftigen Bedeutung meint das »sein« nicht vorkommen, sondern inständige Ertragsamkeit als Gründung des Da. Das Da bedeutet nicht ein irgendwie jeweils bestimmbares Hier und Dort, sondern meint die Lichtung des Seyns selbst, deren Offenheit erst den Raum einräumt für jedes mögliche Hier und Dort und die Einrichtung des Seienden in geschichtliches Werk und Tat und Opfer. Das Da-sein die inständige Ertragsamkeit der Lichtung, d. i. des Freien, Ungeschützten, Zugehörigen des Da, worin das Seyn sich verbirgt. Die inständige Ertragsamkeit der Lichtung des Sichverbergens wird übernom-

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men in der Sucherschaft, Wahrer- und Wächterschaft des Menschen, der sich dem Sein ereignet, dem Ereignis als der Wesung des Seyns zugehörig weiß. [173. Das Da-sein] è la crisi fra il primo e l’altro inizio. Questo vuol dire: sia per il modo in cui parla il nome sia per l’indole denominata, Dasein, nella genitura del primo inizio (ovvero nell’insieme della genitura metafisica), significa qualcosa di essenzialmente diverso rispetto al senso che assume nell’altro inizio. Dasein, nella lingua della metafisica, è la parola della concretezza: essa denomina il modale aspetto assunto da (o cui è informato) un ente concretamente, effettivamente essente. Il suo senso è quello del tedesco Vorhandensein, «essere contingente», «contingenza», «admovente sussistenza», «admozione» , ossia – se compiamo un passo in una direzione ben precisa, che ci consente una più originaria esplicitazione – Anwesenheit, adstanzietà [stanziale adstanziarsi, adstanzialità]. Ora, questo stagliarsi dell’ente in quanto Dasein, in quanto adesse, può addirittura essere pensato a ritroso come uno stagliarsi che è già orientante nella denominazione del primo inizio, cioè nella fuvsi~ e in quella ajlhvqeia che le dà il tono. Così la dizione Dasein acquista il suo pieno e genuino contenuto quale nome guida del primo inizio: von sich her aufgehend unverborgen (da) wesen – ossia (posto che Dasein sia fin qui da noi inteso come adesse): d’indole propria in luce assorgendo, disascostamente (ecco, ad) stanziarsi. Tuttavia l’intera genitura della metafisica è attraversata dalla non casuale consuetudine di trasferire all’indole ‘ente’ la dizione che denomina il senso di concretezza dell’essente, sicché la dizione Dasein intende ormai das Dasein, il tutto esistente, l’intero e concreto ente, l’indole ‘ente’ nella sua concreta contingenza . In tal modo Dasein non è che una buona traduzione tedesca di existentia: l’essente nel suo indolico estrovertersi in luce, e in luce, d’indole d’intero ergendosi, stare, ovvero: d’indole propria adstanziarsi in luce (e questo significato si genera mentre cresce la trascuranza dell’ajlhvqeia). Con la dizione Dasein, in metafisica, non si intende null’altro. E dunque si potrà parlare del Dasein di una cosa, del Dasein animale, umano, temporale . Interamente diversi da quelli appena indicati sono, nel pensiero dell’altro inizio, il senso della dizione Da-sein e l’indole cui essa si riferisce – talmente diversi che non vi è alcun passaggio che possa mediare da quel primo uso a quest’altro .

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Il Da-sein VEL l’ad-esserea non indica l’aspetto di concretezza di qualsivoglia essente, ma dice il Sein des Da, l’essere l’a/ad quale essere dell’a/ad. Ma il Da è la Offenheit, l’intensa flagranza dell’ente in quanto essente nella propria sfera d’integrità, così come l’a/ad è l’attempramento della rottura di spazio-tempo all’ente nella sua sfera d’integrità ; il Da VEL l’a/ad indica allora il fondo della ajlhvqeia, quando la si pensi più originariamente. Il Da-sein VEL l’ad-essere consiste in una fermezza nell’essere (forma d’essere, sapere d’essere), la quale, “essendo” (per così dire, in senso attivo e transitivo) il Da VEL l’a/ad, in conformità a tale insigne essere e proprio costituendosi come tale indole ‘essere’, è un essente unico nel suo genere: è la stanziantesi indole di stanziazione dell’essære. L’ad-essere è l’indolico fondo della ajlhvqeia della fuvsi~, e dunque la stanziazione di quell’attempramento – attempramento che lascia infine flagare d’origine, come già ogni volta primigenio, il nascondersi (lo stanziarsi dell’essære) e che, così, è la verità dell’indole ‘essære’. L’ad-essere nel senso dell’altro inizio – inizio che interroga secondo verità d’essære – non può mai rintracciarsi quale carattere dell’ente contingente; ma neppure quale carattere di quell’essente che lascia che un siffatto ente si costituisca in uno stare oggettuale (ob-stantia) per ergersi stabilmente in relazione (molteplice) a tale stare;b l’ad-essere non è neanche un carattere dell’uomoc come se, per così dire, quella denominazione, in altre circostanze fino ad allora estesa a tutto l’ente, fosse ora semplicemente confinata nel ruolo di designatore dell’essere contingente dell’uomo. Eppure ad-essere e uomo stanno tra loro in un contratto costitutivo, nel senso che l’ad-essere si acclara come fondamento dell’attendibilità del futuro essere uomo, e l’uomo è in futuro, nella misura in cui assuma d’elezione l’essere l’a/ad, posto che egli si comprenda come il desto attendente della verità dell’essære – laddove tale attendenza è indicata come «Sorge», «premura», «cura».d L’espressione «fondamento dell’attendibilità» parla ancora la lingua della metafisica, ma pensa muovendo dall’ascensiva insistente indole ingenita.e

a In questo VEL («ovvero», «ossia») parla la sinonimia in madrelingua, la sinonimia geniturale. Dobbiamo udirlo come il suono della scissura, che intona l’accordo delle lingue madri nell’anello dello scisma. È il VEL scismatico, che tempra nascostamente l’indole traduttiva di ogni lingua madre (si veda infra l’o.i. 2). b … come quando si dice: “per ogni oggetto c’è un soggetto”. c … ad esempio nel senso dell’esser-ci, quale indicatore del suo essere sempre situato. d Variando la più volte citata frase di Heidegger, potremmo dire così: tutto quello che, nel Denkweg – e per l’istanza della disominazione –, è stato guadagnato come nuova posizione è irrimediabilmente perso se manchiamo di osservare il fertile scisma che, in tempra di Selbst, separa, riunendoli in un reciproco permearsi, da un lato, l’essere l’a/ad, e, dall’altro, l’assunzione di tale essere da parte dell’ominale Chi (der Mensch im Da-sein : das Da-sein im Menschen; si veda infra la partizione 176). e Zugehörigkeit zum Seyn: la congenialità – l’intraneità, l’intimità, l’ingenuità – all’essære. (Si veda supra p. 82.)

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L’ad-essere VEL il Da-sein, nel senso dell’altro inizio, è un’indole per noi ancora interamente estraneante, in cui non potremo mai imbatterci; possiamo infatti solo farla esordire nel balzo d’esordio che si tempra in fondazione di quell’accortezza e avvento e intensa flagranza dell’indole asconsiva, di quella stagliatura d’essære, nella cui fermezza l’uomo futuro deve stanziarsi, per adergere in flagranza tale stagliatura. Solo muovendo dal Da-sein e dall’ad-essere così intesi divengono “comprensibili” sia il Dasein in quanto Anwesenheit del Vorhandenes sia l’adesse in quanto admozione concretata in adstanzietà del contingente; vale a dire: l’Anwesenheit VEL l’adstanzietà assume adesso il suo vero aspetto, che è quello di un determinato modo di addirsi la verità dell’essære, nel quale (modo) alla sfera d’offerta del presentaneo è stato accordato, rispetto alla sfera di ritraimento del già stato e alla sfera di diniego del futuro, un privilegio, e ciò secondo una determinata interpretazione (la quale ha poi assunto il senso di un irrigidimento della sfera d’offerta del presentaneo in stabilità obiettiva – oggettività – per il soggetto). L’ad-essere, quale stanziazione della stagliatura del nascondersi, è ingenito all’indole di tale nascondersi, il quale si stanzia come dicevolezza d’origine, come accortezza. Laddove si tratti di cogliere, da pensanti, l’ad-essere, tutte le spaziosità e le prospettive della metafisica si disdicono e devono disdirsi. Infatti la “metafisica” – nell’iniziale, e dunque definitiva, esplicitazione della fuvsi~ – interroga, sempre mossa dall’essente, secondo l’essentità, e lascia così necessariamente come non interrogata la verità di quest’ultima, vale a dire la verità dell’essære. L’indole ajlhvqeia è la pristina essentità dell’essente, e persino tale «essere un’essentità» resta non colto. Nell’uso passato e ancora invalso, Dasein significa: essere qui e là contingente, essere presente, trovarsi in un “dove” e in un “quando”, sussistere come admovente, adesse. Nell’altro, futuro senso, le componenti «essere» e sein delle dizioni «ad-essere» e Da-sein non significano «essere presente» o «trovarsi»a, ma indicano l’aderta indole sofferevole quale offerta del fondo all’a/ad e al Da. La componente Da non significa un ci in quanto qui o un ci in quanto là, di volta in volta in qualche modo determinabili, così come la componente «a/ad» non è un «segno (naturale) di direzione»; piuttosto il Da VEL l’a/ad intende la stagliatura dell’indole essære, la cui flagranza, in modo ogni volta primigenio, inalloga la località per ogni attendibile qui o là e per ogni inerigere l’ente in forma di opera, azione e offerta geniturali. L’ad-essere (tal quale) l’aderta sofferevole indole che soffre, adergendola, la stagliatura, ossia l’a/ad come indole libera, indole non protetta, indole ingenita – quell’a/ad in cui si nasconde l’essære. L’aderta indole sofferevole, che aderge la stagliatura del nascondersi, vie-

a

… né tanto meno «esserci».

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ne d’elezione assunta nella tempra di presagio, e nella tempra di tutela e desta attendenza di quell’uomo che si sappia addetto all’essere, che si sappia ingenito alla dicevolezza (accortezza) in quanto stanziazione d’essære.a

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[175. Das Da-sein und das Seiende im Ganzen] Der erste Hinweis auf das Dasein als Gründung der Wahrheit des Seyns ist vollzogen (»Sein und Zeit«) im Durchgang durch die Frage nach dem Menschen, sofern dieser als der Entwerfer des Seins begriffen und so aus jeder »Anthropologie« herausgenommen wird. Dieser Hinweis könnte die Irrmeinung erwecken und bestärken, das Da-sein sei nur in diesem Bezug zum Menschen zu fassen, wenn es wesentlich und voll begriffen werden soll. Allein, schon die Besinnung auf das Da als die Lichtung für das Sichverbergen (das Seyn) muß ahnen lassen, wie entscheidend der Bezug des Da-seins zum Seienden im Ganzen ist, weil das Da die Wahrheit des Seyns aushält. In dieser Richtung gedacht, rückt das Da-sein, selbst nirgendwo unterbringbar, weg vom Bezug zum Menschen und enthüllt sich als das »Zwischen«, das vom Seyn selbst entfaltet wird als der offene Hereinragungsbereich für das Seiende, in welchem Bereich dieses zumal sich auf sich selbst zurückstellt. Das Da ist ereignet vom Seyn selbst, und der Mensch ist als Wächter der Wahrheit des Seyns in der Folge ereignet und so zugehörig dem Da-sein in einer ausgezeichneten einzigen Weise. Sobald daher ein erster Hinweis auf das Da-sein gelungen ist, muß dem Wesentlichen Folge gegeben werden, was sich in diesem Hinweis ankündigt: daß das Da-sein vom Seyn ereignet ist und daß das Seyn als Ereignis selbst die Mitte alles Denkens bildet. Erst so kommt das Seyn als Ereignis voll ins Spiel und ist dabei doch nicht wie in der Metaphysik das »Höchste«, worauf nur unmittelbar zurückgegangen wird. Demgemäß muß nun auch vom Seienden her, gesetzt, daß es schon anfängt, seiender zu werden, das Da- in seiner gefügten Lichtungsmacht entfaltet werden. Das Da-sein selbst wird als er-eignetes sich eigener und der sich öffnende Grund des Selbst; und durch dieses bekommt erst die Wächterschaft des Menschen ihre Schärfe, Entschiedenheit und Innigkeit. Die Frage, wer der Mensch sei, hat jetzt erst das Aufgebrochene einer Bahn, die gleichwohl im Ungeschützten verläuft und so den Sturm des Seyns über sich kommen läßt. [175. Il Da-sein e l’essente nella propria sfera d’integrità] La prima indicazione per stagliare il Da-sein quale offerta del fondo alla verità dell’essære è compiuta («Sein und Zeit») mediante l’interrogazione secondo l’indole ‘uomo’, concepito quale progettante dell’essere, e in tal modo liberato da ogni “antropologia”. Tale indicazione potrebbe destare e rafforzare l’errato convincimento che il Da-sein VEL

a Il presagire corrisponde all’indole libera, il tutelare è memore dell’indole non protetta, il desto attendere corrisponde all’indole ingenita.

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l’ad-essere, per potersi concepire in modo pieno ed essenziale, debba farsi cogliere unicamente nel testé indicato contratto con l’uomo. Tuttavia già il sentimento del Da VEL a/ad in quanto stagliatura per il nascondersi (ossia per l’essære), deve lasciar presagire quanto sia decidente, secondo il tono dello scisma, il contratto dell’ad-essere con l’essente nella sua sfera d’integrità, visto che l’a/ad sorregge la verità dell’essære. Pensato secondo tale direzione, l’ad-essere, indole in nessun “dove” sistemabile, si stratta (si spicca) dal contratto con l’uomo, dis-celandosi così come medio duale o tramite, che viene dispiegato – dall’indole essære – quale flagrante spaziosità d’instanziazione per l’ente, spaziosità in cui, già all’istante (cioè: scismaticamente), quest’ultimo si retro-ferma in indole di essente . L’a/ad è addetto dall’indole essære, e in tale addicimento (accortezza) si genera l’uomo quale desto attendente della verità dell’essære – uomo che, in tal modo, è ingenito all’ad-essere secondo un’insigne e unica fermezza (forma, sapere). Ecco che, non appena si libra nel pensiero una prima indicazione che staglia l’ad-essere, deve venire a sua volta stagliato l’essenziale annunciato in tale indicazione, ossia: che l’ad-essere è addetto dall’essære e che l’essære, in quanto accortezza e dicevolezza, costituisce d’indole il fulcro di ogni pensare. Solo in tal modo l’essære, in quanto accortezza e dicevolezza, entra pienamente in gioco, ovvero gioca al proprio culmine, e tuttavia non è, come in metafisica, il mero “carattere sommo” o la “sommità”, a cui si risale in modo immediato. Ora però, posto che l’ente abbia iniziato a divenire più essente, anche muovendo da esso deve dispiegarsi l’a/ad nella propria fugata capacità di stagliatura. L’indole ad-essere, in quanto d’origine addetta, diviene più originariamente a sé dicevole, divenendo così anche il flagrante fondamento dell’indole propria; e solo mediante tale indole la desta attendenza dell’uomo ottiene i suoi tre tratti: l’acuta intensità, il tono dello scisma, il tenore dell’intimità (la tenerezza). Solo ora l’interrogazione «chi è l’uomo?» trova una chiara rotta, la quale tuttavia s’inoltra nel non protetto e così si lascia investire dall’assalto (tempesta) dell’essære.

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[176. Da-sein. Zur Erläuterung des Wortes] In der Bedeutung, die »Sein und Zeit« erstmals und wesentlich ansetzt, ist dies Wort nicht zu übersetzen, das heißt, es widersetzt sich den Hinsichten der bisherigen Denk- und Sagensweise der abendländischen Geschichte: das Da sein. In der gewöhnlichen Bedeutung jedoch meint es z. B.: der Stuhl »ist da«; der Onkel »ist da«, ist angekommen und anwesend; daher présence. Da-sein meint selbst ein »Seiendes«, nicht die Weise des Seins im obigen Sinne; und gleichwohl die Weise des Seins in der einzigartigen Auszeichnung, daß sie erst die Verfassung bestimmt, das Was-sein als Wer-sein, Selbstheit. »Das Seiende« aber ist nicht der »Mensch« und das Da-sein sein Wie zu sein (so noch leicht mißverständlich in »Sein und Zeit«), sondern das Seiende ist das

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Da-sein als Grund eines bestimmten, des künftigen Menschseins, nicht »des« Menschen an sich; auch hier nicht genügend Klarheit in »Sein und Zeit«. Die Rede vom »menschlichen Dasein« (in »Sein und Zeit«) ist insofern irreführend, als sie die Meinung nahelegt, es gäbe auch tierisches, pflanzliches »Dasein«. »Menschliches Dasein« – hier meint »menschlich« nicht die artmäßige Einschränkung und Besonderung von »Dasein« überhaupt (als Vorhandensein), sondern die Einzigkeit des Seienden, den Menschen, dem allein das Da-sein eignet. Aber wie? Da-sein – das den Menschen in seiner Möglichkeit auszeichnende Sein; also bedarf es dann des Zusatzes »menschlich« gar nicht mehr. In welcher Möglichkeit? In seiner höchsten, nämlich der Gründer und Wahrer der Wahrheit selbst zu sein. Da-sein – was den Menschen zugleich unter-gründet und überhöht. Daher die Rede vom Da-sein im Menschen als Geschehnis jener Gründung. Man könnte aber auch sagen: der Mensch im Da-sein. Das Da-sein »des« Menschen. Jede Rede ist hier mißdeutbar und ungeschützt, wenn ihr nicht die Gunst derer zufällt, die das Fragen eine wesentliche Strecke mit vollziehen und von da und nur von da das Gesagte verstehen und die mitgebrachten Vorstellungen darangeben (...). [176. Da-sein. Una delucidazione della dizione] In quel senso che è per la prima volta costitutivamente posto in Sein und Zeit, la dizione non è trasponibile, ovvero si oppone alle prospettive delle forme, finora invalse nella genitura esperide, del pensare e del dire; infatti tale senso suona: das Da sein, l’ad essere, essere il Da, essere l’a/ad. Nel senso abituale invece la dizione “da sein” si usa in locuzioni come, per esempio, der Stuhl “ist da”, «la sedia è lì», «la sedia è qui», «c’è la sedia»; der Onkel “ist da”, «c’è lo zio», ossia: è giunto o arrivato, dunque «lo zio è qui»; quindi présence. Da-sein VEL ad-essere intende un “essente”, non la forma dell’essere nel suddetto significato; e tuttavia di forma dell’essere si tratta, ma secondo una singolare traccia: essa è quella fermezza che intona l’umano carattere, ovvero che trasforma l’essere un “che” (“qualcosa”) nell’essere un Chi (“qualcuno”)a – sfera d’indole propria, sfera indolica. Ma questo“essente” non è l’“uomo”, e il Da-sein non è il suo modo d’essere (come invece è ancora facilmente fraintendibile in Sein und Zeit); piuttosto l’essente è l’ad-essere quale fondamento di un determinato tono dell’essere-uomo, il tono futuro, e non “dell’”uomo in sé (l’uomo intatto); anche in tal caso, non sufficiente chiarezza in Sein und Zeit.

a Ossia: ciò che rende attendibile rispondere alla domanda «che cos’è l’uomo?» con l’interrogazione «chi è l’uomo?».

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Il dire menschliches Dasein (come in Sein und Zeit) è fuorviante nella misura in cui così si suggerisce l’idea che esistano anche un Dasein animale e un Dasein vegetale. Menschliches Dasein – qui con l’aggettivo menschlich, «umano», non si intende circoscrivere e distinguere uno specifico Dasein rispetto al “Dasein” in generale (in quanto essere contingente); piuttosto «umano» indica l’unicità (il semplice genere) di quell’essente, indica l’uomo, al quale unicamente è addetto il Da-sein VEL l’ad-essere. Ma come? Ad-essere – quell’essere che insignisce l’uomo della sua attendibilità, ovvero che lo assegna alla traccia di quest’ultima; quindi non vi è alcun bisogno dell’aggiunta “menschlich”, “umano”. Ma di quale attendibilità si tratta? Della più alta: quella di essere il fondale dell’indole ‘verità’a, nonché il suo tutore. Ad-essere – l’indole che si stanzia all’uomo, in un sol tratto, quale ascensivo tramite e quale alma in-ertezza. In tal senso parliamo dell’ad-essere nell’uomo quale generarsi di quell’offerta di fondamento. Ma si potrebbe anche dire: l’uomo nell’ad-essere. L’ad-essere “dell’”uomo.b Ogni discorso qui è fraintendibile e privo di ogni protezione finché non gli giunga il favore di coloro che si addentrino, di coalescenza con esso, nella costitutiva profondità dell’interrogare e da lì e solo da lì intendano ciò che è detto, e rinuncino alle concezioni che essi recano con sé (…).

Da Über den Anfang (partizione 105; GA Bd 70, pp. 129-130): [105. Da-sein] west erst im anderen Anfang und bleibt mit Jeglichem unvergleichlich, was vordem in der Metaphysik als Wesensgefüge des Menschen erkannt und vollbracht worden (Seele, Geist, Bewußtsein, Selbstbewußtsein, Vernunft, Leben). Unvergleichlich damit nicht nur, weil etwa Da-sein eine andere Bestimmung des Menschen ist. Sie ist dies überhaupt nicht im eigentlichen Sinne, sondern erst in der Wesensfolge und dann nicht nur anderen Gehaltes (etwa statt Subjektität »das Dasein«), sondern in anderer Weise und anderen Wesens, d. h. zuvor anderen Anfangs ist Da-sein. Sein Wesen gehört ganz dem Seyn als Er-eignis, das der andere Anfang ist. »Da-sein« läßt sich auch durch keine Entsprechung erläutern und nirgendwo in geläufigem Rahmen unterbringen. Es bestimmt je selbst erst die Ortund Zeit-schaft der Gründung der Wahrheit des Seins in das Seiende. Die höchste Gewährung, die sich als Seyn ereignet, ist die des Da-seins. Das Da-sein, in dem ganz anderen Sinne von »Sein und Zeit« verstanden und noch anfänglicher gedacht als hier, ist die Wesung des Zeit-Raumes für alles Sein des Seienden. Was »Da-sein« genannt wird, bleibt befremdlich für alles metaphysische Denken, ist aber auch nicht unterzubringen in dem, was im ersten Anfang west.

a «Fondale» suona qui come «sodale»; il fondale è l’indole che, ascensivamente temprata, staglia il fondo, offre il fondamento. b «Da-sein VEL ad-essere» è il nome del “divieni ciò che sei!” pensato nell’altro inizio.

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Vor allem aber ist den Heutigen der Schein eines Zusammenhangs mit dem Menschen abzuwehren, welchem Schein in gewißer Hinsicht auch noch »Sein und Zeit« zum Opfer fiel, welcher Schein aber auch daran seinen Halt behält, daß das entsprechend gewandelte Wesen des geschichtlichen Menschen für das Da-sein vom Seyn in den Anspruch genommen wird. In der Verwindung des Seyns wird gerade das Da-sein in seine Anfänglichkeit entlassen und zu-gelassen. [105. Da-sein] si stanzia per la prima volta e solo nell’altro inizio e resta incomparabile con ciò che, in precedenza, nella metafisica, è stato scorto e configurato quale costitutiva complessione dell’uomo: Seele (yuchv, anima, soffio vitale), Geist (spirito, genio), Bewußtsein (coscienza, essere consapevole), Selbstbewußtsein (autocoscienza, coscienza di sé, essere d’indole consapevole), Vernunft (ragione), Leben (vita, vivere). L’incomparabilità non è dovuta al mero fatto che Dasein sia qualcosa come una diversa determinazione dell’uomo. Certo che Da-sein è tale, ma non in senso indolico, bensì solo in quanto conseguenza della propria indole, e anche in questo caso, non solo in base a un diverso contenuto (ad esempio: «il Dasein» in luogo dell’essere soggetto), ma in un’altra forma e in base a un altro stanziarsi – e tutto ciò vuol dire: Da-sein si genera innanzitutto in un altro inizio. Il suo stanziarsi appartiene interamente all’essære in quanto Er-eignis (dicevolezza d’origine e accortezza) il quale costituisce l’altro inizio. «Da-sein» non si lascia nemmeno delucidare mediante un’analogia, così come non può essere sistemato in un quadro di riferimenti correnti. Solo il flagrare dell’indole Da-sein intona ogni volta quella temperie locale-temporale [spatium temporis ad res conferendas] entro cui, nel bel mezzo dell’ente, la verità dell’essere viene fondata in tempra di essente. La più alta dispensazione – che si addice come essære – è la dispensazione del Da-sein VEL dell’ad-essere. Il Da-sein VEL l’ad-essere – inteso nel senso (interamente diverso) di Sein und Zeit e ancora più inizialmente pensato – è la stanziazione dello spazio-tempo per ogni essere dell’ente. Ciò che è colto con le denominazioni «Da-sein» e «ad-essere», resta estraneante per ogni pensare metafisico, ma non è neppure sistemabile nel tratto costitutivo del primo inizio. Innanzitutto però gli odierni devono essere difesi dall’apparenza che vi sia un nesso con l’uomo, apparenza di cui, per certi riguardi, fu ancora vittima persino Sein und Zeit, e che però ancora trova un appiglio nel fatto che al trans-addetto parlante stanziarsi dell’uomo geniturale viene ingiunto, in parola d’essære, di prestarsi all’ad-essere. Nella postergazione dell’essære, proprio l’ad-essere è rilasciato (liberato) per lasciarsi attemprare alla propria inizialità.33

OSSERVAZIONI INTEGRATIVE

(La lingua madre e lo scisma, il Dasein e la Lichtung) 1. La lingua madre [ supra p. 15] La lingua madre, che resta in sé, per ogni umanità, la custodente voce dell’indole ‘essere’, è ora solo la portavoce del linguaggio, a sua volta inteso come pura vocazione del “vivere” e dei suoi “valori” espressivo-cognitivi (comunicare, informare, conversare), ovvero come “pratica” (“cultura”, giochi linguistici, “pragmatica del linguaggio”, “gesto vocale”, “parola”, “silenzio”, eccetera). Ogni “filosofia del linguaggio” si alimenta di un abbaglio essenziale (di cui non sospetta nulla): l’interpretare il luogo in cui essa decade per aver trascurato il costitutivo stanziarsi della lingua madre, vale a dire il luogo del venir meno dell’intero senso, come il primario punto d’avvio del significare. Ora, il fatto che l’uomo possa “vedere” l’inizio del significato del suo dire e agire proprio lì dove il senso sia già crollato, che possa dunque trovare un “pensiero”, una “logica” e una “pratica” affrancati dal richiamo e dalla costitutiva prossimità della lingua madre, ebbene, questo fatto – che possiamo chiamare «lo sradicamento operativo di ogni significato dal senso» – è, al tempo stesso, la circostanza più nota (e voluta) nell’odierno sapere e il tratto più nascosto della formatazione. Sradicamento : riporto d’impatto ⇔ contrasto indolico ⇔ tentazione del dire : tentazione dell’essære – ecco uno dei modi in cui si staglia, per il pensiero senziente, la conformazione geniturale del nichilismo. Proponiamo qui di seguito un brano di Heidegger sulla lingua madre – tratto da Der Ursprung des Kunstwerkes – che è stato presupposto in ogni passo del cammino: ... bedarf es nur des rechten Begriffes von der Sprache. In der landläufigen Vorstellung gilt die Sprache als eine Art von Mitteilung. Sie dient zur Unterredung und Verabredung, allgemein zur Verständigung. Aber die Sprache ist nicht nur und nicht erstlich ein lautlicher und schriftlicher Ausdruck dessen, was mitgeteilt werden soll. Sie befördert das Offenbare und Verdeckte als so Gemeintes nicht nur erst in Wörtern und Sätzen weiter, sondern die Sprache bringt das Seiende als ein Seiendes allererst ins Offene. Wo keine Sprache west, wie im Sein von Stein, Pflanze und Tier, da ist auch keine Offenheit des Seienden und demzufolge auch keine solche des Nichtseienden und des Leeren. Indem die Sprache erstmals das Seiende nennt, bringt solches Nennen das Seiende erst zum Wort und zum Erscheinen. Dieses Nennen ernennt das Seiende zu seinem Sein aus diesem. Solches Sagen ist ein Entwerfen des Lichten, darin angesagt wird, als was das Seiende ins Offene kommt. Entwerfen ist das Auslösen eines Wurfes, als welcher die Unverborgenheit sich in das Seiende als solches schickt. Das entwerfende Ansagen wird sogleich zur Absage an alle dumpfe Wirrnis, in der sich das Seiende verhüllt und entzieht. (… è sufficiente un’appropriata concezione della lingua madre. Secondo la rappresentazione corrente, la parola è un mezzo di comunicazione. Essa serve a parlarsi e ad accordarsi, e, in generale, a spiegarsi e a intendersi. Ma la lingua

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madre non è soltanto, né in primo luogo, un’espressione sonora e scritta di ciò che deve essere comunicato. Essa non interviene semplicemente in un secondo momento, con vocaboli e frasi, per veicolare ciò che è flagrante o ciò che è coperto nel loro rispettivo essere intesi come tali; piuttosto, solo la lingua madre, e la lingua madre innanzitutto, fa sì che l’ente flagri in quanto essente [ovvero: conduce innanzitutto l’ente in qunto essente nella tempra della flagranza; ovvero ancora: lascia che l’ente si attempri, in quanto essente, all’intensa flagranza]. Là dove non si stanzia la lingua madre – come nell’essere della pietra, della pianta e dell’animale –, non può stanziarsi alcuna flagranza dell’ente e, di conseguenza, nemmeno del non-essente e del vuoto. / Nell’istante in cui la lingua madre elegge per la prima volta l’essente come un nominato , accade che tale eleggere de-nominante attempri l’essente, d’indole, alla dizione, e quindi lo conduca a mostrarsi. questo denominare de-nomina l’ente attemprandolo al suo essere a partire da quest’ultimo . Tale dire è un progettare quello staglio nella cui chiarità l’ente viene indetto nel suo giungere, in quanto è questo essente, alla tempra di flagranza. Pro-gettare è il dare via libera a un getto, il quale altro non è che il dispensarsi della disascosità in tempra di essente in quanto tale. Il progettante indire diviene, simultaneamente, il contraddittore di ogni sorda confusione in cui l’ente si cela e si ritrae.) (Si veda OA, pp. 122-23; traduzione qui modificata. Si veda anche infra la o.i. 20.) 2. L’indole traduttiva [ supra p. 16] Ciò che, nella traslazione del Denkweg, è innanzitutto tradito è proprio la sua indole traduttiva: il libero muoversi traduttivamente nella lingua madre – quel tradurre la genitura metafisica in genitura dell’essere e l’essere in indole e l’indole – l’essære – in Ereignis e l’Ereignis in unico istante geniturale in grazia del quale il pensiero scampa, sfugge alla formatazione –, ebbene tale libero muoversi è consegnato dalla prassi traslativa al gioco delle opzioni critico-ermeneutiche, in modo che, all’occorrenza, sia sempre possibile rifiutarlo come il mero frutto dell’arbitrio di “un filosofo”. (Osservata dall’istante-Ereignis, quell’“all’occorrenza” è il contro-istante del Gestell, lì dove l’arbitrio – quello della volontà per la volontà e della brama di sé – diviene davvero l’arbitro di ogni pensare e dire.) 3. Fedeltà e leggibilità [ supra p. 16] La prassi traslativa assume presto le sembianze di una specifica competenza professionale: si presenta al pubblico come capace di conseguire, nelle sue versioni, la massima fedeltà all’originale – ma a un originale che si sa già di aver tradito nel suo essere pensiero in opera, ossia uno scritto capace di risvegliare il vedere e il sentire fenomenologici, e dunque il vero istinto del tradurre. Una tale fedeltà avrà allora la funzione di rinforzarci nella nostra schiavitù di consumatori di filosofia, cioè di utenti finali della leggibilità dei testi filosofici (lettori d’impatto) – laddove «leggibile» vuol dire: scorrevole nello stile e arguto nell’argomento, ma in modo tale che sia smorzato e annientato ogni urto d’essere, e che siano di conseguenza garantite, per il piacere e gli usi della lettura d’impatto, l’oscurità, la stranezza e l’astrattezza dei “pensieri”.

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Sulla leggibilità così costruita si svilupperà una mentalità storico-critica (si veda la prossima o.i.), che, con il consenso generale, e mediante una copiosa letteratura, stenderà sui fenomeni una coltre di pseudo-interpretazioni e di falsi chiarimenti, rendendo infine irriconoscibile, o addirittura sterile, ogni tentativo di sguardo fenomenologico. Il piano della prassi traslativa è una contingenza per così dire alleggerita della sua asprezza e dalla sua forza d’urto. Ci si potrà in tal modo appellare – nella vacanza dei fenomeni e quindi nella latenza della verità e nell’avulsione dall’essære – all’“autonomia” e alla “libertà di giudizio” del “singolo” lettore in quanto “persona”. Nell’Edizione Marini (supra p. 22) troviamo perfino un atto di fede in una tale figura: «… ci riferiamo al lettore “singolo”, ingenuo o scafato che sia, perché per omnis scriptura crediamo nella fecondità del libero esame e nella sacralità del foro interno della persona, che è presidio drammatico di ogni libertà, sintesi suprema e fragile di bellezza e spiritualità, di equilibrio e di forma, unica fonte e dimensione di socialità e di universalità cosmica, come di autentica solitudine e differenza» (p. 1275). Ma come potranno mai stanziarsi una libertà e una fecondità, nel leggere e nel comprendere, e dunque, qui, nel pensare, se proprio la persona, in quanto odierna variante dell’homo animalis, è ormai solo la maschera del Man nel più desolato degli isolamenti? Si rilegga supra, a p. 36, la citazione, dalla p. 18 del Brief, sul Personhaftes. 4. L’onnisciente di professione [ supra p. 16] L’espressione «onnisciente di professione» non ha nulla di ironico, né si richiama al polymathês di Eraclito o di Platone. Ci riferiamo piuttosto a quel tipo di studioso che ha imparato ad accedere alla filosofia innanzitutto mediante l’occhio storico. Con «occhio storico» intendiamo la capacità di costruirsi un angolo visuale esterno alla filosofia, muovendo dal quale si è sempre in grado di assicurarsela come oggetto di studio e di erudizione. Chi giunga dinanzi alla filosofia ridotta a oggetto, e resista in tale posizione, ed anzi la assuma come sua stabile condotta, arriva presto a convincersi di essere capace di accerchiare la filosofia stessa fino a poterla osservare da ogni lato e ispezionarla in ogni suo tratto e dettaglio, e ciò al fine di venire a sapere metodicamente, e dunque professionalmente, ogni cosa in merito a essa e ai “filosofi” (compresa la loro c.d. “biografia”). L’onnisciente si muove a suo agio fra documenti e scritti della tradizione filosofica, trattandoli come reperti di un che di trascorso e quindi di ri-saputo, come momenti, insomma, di una storia già scritta o sempre scrivibile. A tal fine, egli si costruisce opportuni concetti operativi o format, che hanno i caratteri dell’immediata fruibilità e della divulgabilità, e i cui presupposti e assunti restano celati, oltre che chiusi a ogni interrogazione e dunque ostili a ogni genuino tradurre. Di qui la sua inclinazione al giornalismo, grazie al quale l’onnisciente è definitivamente consacrato come un esperto e un sapiente. (Le parole di Heidegger citate in epigrafe suonano ora forse più chiare: «… il naturale riportare il senso di ciò che si è letto, o solo opinato per imitazione, a ciò che si crede di sapere prima della lettura… » (c.n.): sta proprio in questo riportareal-credere-di-sapere, e dunque al già-altrimenti-noto, il tipico, tenace – accerchiante

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– movimento dell’occhio storico. Non è difficile accorgersi come il prezzo di una tale onniscienza professionale sia l’annientamento – invisibile ai più – del rapporto filosofico con il filosofare. Certamente difficile è invece comprendere come l’occhio storico sulla filosofia non guidi solo gli studi storiografici, ma regga anche – e con tutt’altro impatto – l’odierna “filosofia teoretica”.) 5. L’essere come indole incircoscrivibile [ supra p. 27] In «cercare» risuona quel circum da cui il b. lat. circare, andare attorno, in cerchio, qui e là, per trovare qualcosa, ossia un che di contingente (constatabile, effettivo). Giustamente dunque si parla di «ricerca scientifica» come ambito in cui degli uomini si dedicano alla trattazione e al trattamento tecnico di un certo oggetto; per questo coloro che circo-scrivono l’ente nel già stagliato essere, si chiamano «ricercatori». Così l’essere è l’indole in-circoscrivibile. Nessun cercare si addice perciò al contegno della sua (dell’essere) interroganza. Quando si attribuisce al Denkweg uno “spirito sperimentale”, ci si basa implicitamente sul «cercare» nel senso della “ricerca scientifica”. Pertanto anche la “sperimentazione” non ha nulla da spartire con la Seinsfrage né dunque con il Denkweg. 6. L’ente esemplare in quanto Dasein [ supra p. 29] L’ente esemplare, das exemplarische Seiende, non è l’uomo inteso come quell’“ente ontologico” da indagare per estrarne il generale senso dell’essere, ma ab initio già il Dasein in quanto, d’indole e via dall’uomo, unico exemplum d’essere – non nel senso di un constatabile modello o prova o campione “dell’”essere, ma in quello dell’esemplante, ossia (ex-emplum da ex-imere, levare, trarre, estollere, esimere) del traente in luce, dell’ad-gettante (dell’estollente). Il carattere esemplare-esemplante del Dasein è chiarito da Heidegger in una n.m. alla prima occorrenza dell’aggettivo exemplarisch ancora a p. 7 di Sein und Zeit: «Mißverständlich. Exemplarisch ist das Dasein, weil es das Bei-spiel, das überhaupt in seinem Wesen als Da-sein (Wahrheit des Seins wahrend) das Sein als solches zu- und bei-spielt – ins Spiel des Anklangs bringt». Das Exemplarische viene qui ricondotto al Beispiel, inteso però come Bei-spiel, ossia come Bei- und Zu-spiel, come Ins-Spiel-bringen. Lo Spiel rinvia al libero generarsi dell’indole ‘essere’ già affrancata dalla contingenza, e dunque risonante d’indole propria, già Anklang per la dizione, già risonanza che avviene “alla” lingua madre. La nostra interpretazione mantiene la dizione exemplum nel suddetto senso dell’esimere, dell’estollere e dell’alleviare (alleggiare, liberare), mentre coglie lo Spiel come ludo (salto, esultanza, balzo nella luce, leggerezza, staglio) e dunque lo Zu-und-bei-Spielen come l’illudere e l’alludere (in-ludere: condurre nel ludo, attemprare al ludo; ad-ludere: chiamare nel e al ludo). Ecco dunque la traduzione: «Fraintendibile. Esemplare è il Dasein, poiché esso è l’alludente esemplante, ovvero quell’essente che, per scismatica elezione (überhaupt), nel suo stanziarsi come Da-sein (ossia: come tutore della verità dell’essære) esime, d’illusione e allusione, l’essere in quanto tale [l’essære] – lo conduce nel ludo della risonanza ». Il Dasein, dunque, in quanto ab imis addetto a un siffatto illudere-alludere l’essære “alla” riso-

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nanza, è necessariamente esso stesso tale risonanza d’essære: Da-sein. (Tale traccia sarà seguita nella Ripresa; infra p. 145.) 7. Esserci e vita [ supra p. 30] 1. Alla voce Dasein del Glossario aggiunto all’edizione italiana del Nietzsche (curata da F. Volpi, Milano 1994), si rinvia al brano citato prestandogli, se abbiamo rettamente inteso, proprio quel senso da cui esso invece prende le distanze: «Dasein: “esserci”. Sul concetto heideggeriano di “esserci” come modo d’essere della vita umana cfr. I, 235. Prima di H. Dasein era invece usato come equivalente di Existenz, Wirchlichkeit o Vorhandensein». Anche qui sembra essere all’opera il potente automatismo Dasein = esserci = vita-umana. Il rinvio resterebbe peraltro fuorviante anche se si potesse intendere il Dasein di Heidegger come «esserci». 2. Nel «Lessico» dell’Edizione Marini, alla voce «Ci dell’esserci», leggiamo: «Traduciamo con “trovarsi”, “comprendere”, “parlare” le tre forme in cui l’esserci è, cioè “vive”, il proprio ci (Befindlichkeit, Verstehen, Rede). Così facendo adottiamo la forma dell’infinito per tutte e tre le funzioni esistenziali del ci (che sono capacità, facoltà, potenzialità), anche per ragioni di simmetria e di flessibilità nei contesti» (p. 1425). Limitiamoci a osservare che se è certo che l’esserci “viva” il proprio ci, è ontologicamente inattendibile che il Da-sein “viva” il proprio Da. D’altronde (e di nuovo) se l’uomo fosse solo un vivere, come potrebbero stanziarsi – nella dimensione del Da-sein – la Befindlichkeit, il Verstehen e la Rede? (L’incontestuale e dissimmetrico Da-sein non si flette nell’esserci.) 8. La meschinità del “ci” [ supra p. 32] La meschinità non è qui un carattere psicologico o morale, ma la limitatezza dell’ora-qui-ora-lì, dell’ora-c’è-questo-ora-c’è-quello: il sempre accerchiante circuito fattuativo dell’universale “ci”. In questo senso, la meschinità è l’occludente controfigura della limitatezza originaria, il dis-limitante limite dell’angustia e dell’angoscia, in cui si disasconde il Da come nulla d’essære – per l’ente nella sua sfera d’integrità. (Si pensi alla «piccolezza» in senso leopardiano: si veda lo Zibaldone di pensieri alla p. 3171.) 9. “J’est un autre” [ supra p. 32] Il noto e mai pensato j’est un autre di Rimbaud (nella Lettera del veggente) trova forse ora la sua attendibilità: io sono davvero io e non altro, solo quando nel mio proprio «io sono» si stanzi l’«è» di un altro – certo non di un altro «io» o di qualcos’altro in generale, ma l’originario «è» dell’indole altra: l’ascensivo e scismatico «è» della Lichtung, della stagliatura. 10. Vermenschung – Menschentum [ supra pp. 34 e 36] «Ominazione» e Vermenschung (nel senso di Heidegger) sono sinonimi senzienti di Erlebnis. L’ominazione è la riduzione dell’originaria ominalità (in quanto essere per entro l’essære) in animalità d’impatto (in quanto azione diretta dall’ente sull’ente); è il confinamento dell’indole ‘uomo’ nella sfera ontica dell’agire effettivo e performa-

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tivo dell’animale calcolante, dell’animal rationale (homo animalis). In altre parole: l’ominazione (Vermenschung) è la cattura dell’ominalità (Menschentum) – in quanto indole ab origine pronta genituralmente per l’offerta del Da-sein (la chiamiamo anche «indole ominale») – da parte dell’animalità già pre-esperita (dall’uomo stesso celatamente ominizzato) quale “base d’impatto” dell’essere-uomo. Ogni pragmatismo trova qui la sua scaturigine metafisica. (Nella dizione «ominalità» – attestata in Gioberti, e formata come «animale» e «animalità» su «anima» – dobbiamo udire il tono del vocativo “homine!”: «uomo» ma solo in quanto vocato, convocato, ex-clamato – chiamato d’estraneità – dall’essere, quell’essære a cui egli d’indole già sempre si richiama. L’homo animalis è l’infirmazione dell’indole ominale nella diade “anima-corpo”, in cui parla genituralmente la physis greca: anima hominem ex homine tollit.) 11. Sul Brief [ supra p. 35] Non prendiamoci in giro. Chi, oggi, fra i nostri studiosi può asserire di aver compreso il modo peculiare in cui il Brief riprende i capisaldi del Denkweg, sia nel senso dell’Auseinandersetzung con la metafisica sia in quello del Gespräch fra il Denken e il Dichten – e tutto ciò nel presagio dell’altro inizio del pensiero? In Italia, il concreto studio di questo documento non ha finora neppure compiuto i primi necessari passi. 12. La Vermenschung della Entmenschung [ supra p. 40] L’idea che il Dasein in Sein und Zeit sia tout court una designazione “ontologica” dell’uomo come “realtà” e “vita” non è dunque altro che un proiettare sul Denkweg la tesi capitale dell’esistenzialismo come umanismo (nel senso di Sartre), tesi fondata nell’ominazione. Come operi tale proiezione ominizzante (che è una Vermenschung della Entmenschung, un’ominazione della dis-ominazione immanente al Denkweg) lo si può comprendere nella maniera più netta dal modo in cui, ad esempio, nell’Edizione Marini (si rileggano ora i brani citati supra, alle pp. 22-24) è delineato l’intento dell’analitica del Dasein. Alla frase summenzionata (dall’Introduzione in riferimento, come si è detto, al § 9 di SuZ) – «l’uomo è l’ente al quale, nel suo essere, importa del proprio essere» (frase in cui, lo si è già segnalato, si scambia senz’altro il Dasein con “l’uomo”), – il Curatore aggiunge: «L’uomo non è ebreo o greco, razionale o irrazionale: “uomo” è colui che si chiede chi, che cosa e come egli stesso sia. In questa domanda (per lo più antepredicativa e inconscia, che si tratterà di portare nella spectio e di rendere perspicua in tutto il suo spessore), ma in questa sola domanda, sta e sorge tutta la dignità dell’uomo» (p. XIV). Ma la dignità dell’uomo – come appunto impariamo già da Sein und Zeit – non sta affatto nell’“uomo”, né, tanto meno, in un uomo che chieda a sé di sé stesso, come se potessero stanziarsi un “umano sé” e una “umana domanda” indipendentemente ed anzi “prima” dello stagliarsi dell’essere (nella sfera della Seinsfrage, qualcosa come una “domanda antepredicativa e inconscia” non è ricevibile). Quella dignità, semmai, riposa nell’ominalità quale fermezza della custodia dell’essære, nel senso del compito di presagire l’indole di addicimento alla verità dell’essære. La dignità umana tentata e pensata nel Denkweg è infatti una dignità indolica e geniturale – quindi: uno stanziarsi

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che non si lascia ridurre, pena la sua più subdola contraffazione, né a un contegno “storico” o “culturale”, né a un plesso di caratteri “vitali” o “naturali” (biologici o etnici), e neppure a una “pratica della domanda”. Solo nell’esplicita custodia dell’essære (mondo, terra e lingua madre), i mortali trovano la libera origine per fondare la loro genuina coalescenza, e così rimpatriare in quella patria dove hanno ciò che sono (dove possono dire: wir haben, was wir sind). (La storia e la cultura, la vita e la natura, laddove si stanziassero attemprandosi alla verità dell’essære, abbandonerebbero necessariamente il loro senso finora invalso: la storia diverrebbe il detto geniturale del costitutivo e delle sue rotte, la cultura sarebbe il premuroso lasciar crescere l’indole, la vita consisterebbe nell’ascensiva capacità di ergersi nella luce, la natura si mostrerebbe come la terra nella contesa con il mondo, e quindi come il risveglio dello Heilige, dell’indole salubre.) 15. Esserci e Dasein [ supra p. 41] Ancora nell’Edizione Marini, troviamo una notazione in cui ci si assicura circa l’ovvietà dei reciproci riferimenti fra “metafisica”, “vita”, “esistenza quotidiana”, “linguaggio comune” e Dasein: «Heidegger prende i suoi termini non solo dalla tradizione teologico-metafisica, ma anche dal linguaggio comune. E Dasein è anche il nostro esserci quotidiano, quello dell’inquietum cor meum di Agostino, e quello della vita quotidiana che si esprime nella formula positivista della “lotta per la vita” (Kampf ums Dasein, struggle for life)» (p. 1317). Tutto ciò potrà forse essere storicamente esatto, ma, in senso geniturale, è interamente non vero – e quindi sviante per il pensiero in lingua madre. 14. Il travisamento dell’analitica del Dasein [ supra p. 41] Due rilievi. 1. Se in Dasein leggiamo «esserci», Sein und Zeit ci apparirà come un complicatissimo filosofare sul più facile e ovvio dei sensi dell’uomo: l’esistenza d’impatto, appunto, come umana variante della generale contingenza. Si comprende allora perché l’occhio storico, nel considerare Sein und Zeit un testo “esistenzialista” (una filosofia dell’esserci), si arresti dinanzi alla sua lingua come a qualcosa di “impossibile” e di “intraducibile”, sebbene tenti poi magari di spiegarsela come il “linguaggio tecnico” di una “ontologizzazione” di quei c.d. “valori pratico-morali” dell’agire umano che sarebbero stati già variamente determinati e descritti dalla tradizione filosofica, da Aristotele fino a Kierkegaard e oltre. In tal modo, mentre si sottrae ogni forza al Denkweg, riducendolo a un esperimento “ontologico-gergale” (secondo l’espressione di alcuni), si fa passare l’idea che la filosofia sia poco più che una scienza dell’uomo, cioè un’antropologia. – N.B. L’occhio storico informato al concetto operativo di “ontologizzazione” calcola nel Denkweg due fasi: a. la fase fino a Sein und Zeit (incluso), in cui il Dasein sarebbe determinato e analizzato “in senso pratico” (l’esserci come “avere-da-essere”), e b. la fase posteriore a Sein und Zeit, in cui il Dasein sarebbe trasposto, in forza di una “ritrattazione”, nella c.d. “apertura dell’essere”, perdendo in tale guisa ogni carattere “pratico” (l’esserci come “stare-fuori” nell’“apertura dell’essere”). Non abbiamo lo spazio per mostrare compiutamente il genere di distorsione

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del Denkweg ottenuta mediante tale calcolo, che chiameremo «il calcolo dell’ontologizzazione». Basti solo osservare che 1. là dove il calcolo dell’ontologizzazione vede il fattuativo dover-essere “se stesso” dell’esserci, proprio là, invece, e in verità, Heidegger parla dello Zu-sein del Dasein (come nel citato § 4 di SuZ), intendendo sempre, e necessariamente, innanzitutto l’essere-il-Da quale dote nativa dell’intimità al mondo (come è chiarito nel fondamentale § 28; si veda supra pp. 103-104); e che 2. là dove il suddetto calcolo raccoglie prove di un’insistita ritrattazione e cancellazione del preteso iniziale “senso pratico” del Dasein, proprio là, invece, e in verità, Heidegger propone delucidazioni e chiarimenti del modo in cui il Dasein e l’Existenz debbano intendersi fin dal trattato del 1927. Il concetto operativo di ontologizzazione – come tutti i format impiegati dall’occhio storico – resiste all’interrogazione. Esso si salva proponendosi come una categoria interpretativa funzionale a un’analisi dispiegata mediante ipotesi, congetture e prove. Tuttavia non è difficile accorgersi della sua indole: esso non è altro che uno fra le possibili (e inattendibili) denominazioni con cui l’occhio storico registra, infirmandolo, il balzo scismatico della dis-ominazione. Studiare Sein und Zeit e il Denkweg alla luce del calcolo dell’ontologizzazione significa allora assicurarsi definitivamente contro l’angoscia di quel balzo. (Si veda il saggio di F. Volpi «Sono ancora possibili un’etica e una politica? Heidegger e la filosofia pratica», pubblicato in Heidegger e gli orizzonti della filosofia pratica, a cura di A. Ardovino, Guerini, Milano 2003, pp. 283-306). (Si veda anche infra la nota 7 della Ripresa.) 2. Sarebbe istruttivo vedere nel dettaglio come operi via via il su indicato travisamento dell’analitica. Solo due brevissimi accenni per saggiarne la natura. Nei §§ 25-27 di Sein und Zeit, è richiesto all’esserci di sostenere il riferimento al Chi dell’exsistenza, mentre, nei §§ 46-53, lo si pone dinanzi al Sein-zum-Tode. Ora, che ne è di quelle analisi, che cosa esse davvero mostrano, se le si studia guidati dall’esserci, visto che quest’ultimo, in quanto esistenza d’impatto, è il nascosto sosia dell’esserenessuno in cui si stanzia il Man, e dunque la vivente contraffazione di ogni morire, il non-mortale per eccellenza? Nel migliore dei casi, esse verranno intese come delle “complicazioni etiche” dell’abituale agire dell’uomo; nel peggiore, saranno una fenomenologia senza fenomeni, in vista di un’interroganza d’essere senza interroganti. In ogni caso, sulla base dell’esserci, è facile equivocare l’intera analitica nel senso di una filosofia dettata dalla volontà di condurre l’uomo alle “estreme frontiere dell’essere”, lì dove ogni cosa sarebbe ardua e severa. (Proprio questo è, ad esempio, il senso in cui può fraintendersi la splendida conferenza del 1929 «Was ist Metaphysik?».) 15. La Möglichkeit [ supra p. 43] Il fatto che, nella sfera d’elezione della fenomenologia ermeneutica, la Möglichkeit non guardi alla possibilitas in senso logico-contingente, è detto esplicitamente fin da Sein und Zeit: Das Möglichsein, das je das Dasein existenzial ist, unterscheidet sich ebensosehr von der leeren, logischen Möglichkeit wie von der Kontingenz eines Vorhandenen, sofern mit diesem das und jenes “passieren” kann. Als modale Kategorie

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der Vorhandenheit bedeutet Möglichkeit das noch nicht Wirkliche und das nicht jemals Notwendige. Sie charakterisiert das nur Mögliche. Sie ist ontologisch niedriger als Wirklichkeit und Notwendigkeit. Die Möglichkeit als Existenzial dagegen ist die ursprünglichste und letzte positive ontologische Bestimmtheit des Daseins (…) das Dasein ist ihm selbst überantwortetes Möglichsein, durch und durch geworfene Möglichkeit. Traduciamo: Il Möglichsein, che ogni volta il Dasein esistenzialmente è, resta scisso tanto dalla vuota, logica possibilità quanto dalla contingenza di un’indole contingente, nella misura in cui, a quest’ultima, possa “capitare” questo o quello. Quale categoria modale della contingenza, Möglichkeit indica l’indole non ancora effettiva e concreta e mai neppure una volta necessaria. la Möglichkeit caratterizza ciò che è soltanto possibile. Dal punto di vista ontologico, essa sta sotto l’effettiva concretezza e la necessità. Invece, la Möglichkeit in quanto esistenziale, è l’ultima e più originaria determinazione positiva del Dasein (…) il Dasein è consegnato all’indole propria in quanto Möglichsein; esso è – interamente e in tutto – gettata Möglichkeit. (SuZ, p. 143 sgg.) È chiaro che qui non si tratta di “rivalutare” la possibilità rispetto all’effettività e alla necessità, ovvero di anteporre, alla “rigida determinatezza” dell’effettivo-concreto e del necessario, la “policroma pluralità” di un “orizzonte di possibilità”; nella «Möglichkeit in quanto esistenziale» è in gioco unicamente lo scisma rispetto a ogni contingenza, e dunque anche rispetto alle infinite contingenze possibili. Posto dunque che la Möglichkeit indichi un piano più originario rispetto a quello dell’effettivo, del necessario e del possibile quali articolazioni modali della contingenza, resta da stabilire se le dizioni italiane «possibile» e «possibilità» (in cui risuona il verbo posse, da potis esse «essere in una posizione di potestà»), siano, a loro volta, capaci di indicare quell’indole ‘essere’, strattata dalla contingenza, in cui si trasformano, di conseguenza, anche il senso dell’effettivo-concreto e del necessario. Ora, la dizione «possibilità», così come è stata forgiata dalla lingua italiana, resta, nel fondo della sua capacità di indizione, ancorata alla già assicurata contingenza, di cui costituisce, ogni volta, una modulazione difettiva; di conseguenza, tale dizione non può tradurre la Möglichkeit del Denkweg, ossia la Möglichkeit già tradotta, in tedesco, nella più originaria capacità di dire che caratterizza la lingua dello scisma. La frase italiana «l’esserci è gettata possibilità» non sembra, insomma, poter assumere altro significato che questo: «l’esserci si ritrova in una situazione di ancora ineffettiva e non concreta – sebbene potenzialmente o eventualmente, mai però necessariamente, effettiva-concreta – contingenza» (caratterizzazione, questa, che si addice appunto all’esserci e non al Dasein). La dizione italiana «attendibilità», qui proposta quale traduzione della Möglichkeit pensata nel Denkweg, possiede un requisito fondamentale per potersi, perlomeno, candidare alla sufficienza traduttiva: il piano dell’attendibilità è indipendente (non è

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toccato) da quello della contingenza e delle sue modalità. Quando diciamo, ad esempio, che un certo atleta sia un attendibile vincitore della gara in programma, intendendo con ciò che egli abbia le capacità sufficienti per vincere, tale tratto di attendibilità vige quando l’atleta in questione sia ancora un vincitore solo possibile, ma anche quando si ritrovi, per l’emergere di un fatto contingente, nell’impossibilità di vincere, ma anche quando, essendosi ritirati tutti i concorrenti, ottenga fin da subito la certezza della vittoria, ma anche quando abbia tradotto la sua condizione di vincitore possibile in quella, concreta, di vincitore effettivo, ma anche quando non abbia, in effetti, vinto quella gara (che invece ha visto il trionfo di un atleta niente affatto attendibile come vincitore). L’attendibilità è toccata sempre “soltanto” dalla dis-attendibilità, ossia: si acclara ogni volta nella contesa con il suo dis-, contesa che, a sua volta, è la chiarità del dis- del dis-fondamento (ossia del chiaroritratto ascendere del fondo d’ascendenza) in cui si stanzia l’indole ‘essere’. In quanto tale, essa è la vera (indolica) capacità di stanziazione (Vermögen), che custodisce e mantiene (vermag) lo stanziarsi del concreto, prestandogli via via il tono di concretezza, mentre offre al pensiero la carente (ascensiva) indole a cui esso, accogliendola, attende e si attiene (mag); nella misura in cui l’uomo attenda, per indole, all’indole ‘essere’, egli diviene l’attendente della verità. L’indole ‘essere’, sempre futura nella fermezza del suo ritrarsi, già sempre avvenuta nell’attesa dei suoi attendenti, è, per scisma, l’unica indole attendibile. L’indole ‘essere’ è – scismaticamente – nell’indolica attesa d’essære. [Questa o.i. si trova anche in HEIDEGGER, AF, pp. 355-357] 16. Conii traslativi e conii fenomenologici [ supra p. 54] Ci accorgiamo così che il mantenere la vita quale primario riferimento dell’uomo, permette di sostenere il (contro)senso “esserci” rispetto al Dasein, così come il (contro)senso “esserci” permette di mantenere in vita l’uomo come essere-vivente, una vivente contingenza fra altri viventi, animali e piante, la quale però, a differenza di questi ultimi, avrebbe (chissà come e perché) la facoltà di “intendere” il proprio vivere come “possibilità” e come “esistenza” (cioè “dinamicamente”), o come “interesse per il proprio essere”. Come si è visto, l’esserci si stanzia nell’ominazione dell’ente – vale a dire: la traslazione del Da-sein in “esserci” appartiene all’ancora irremovibile fissazione dell’essere dell’uomo nel chiuso distretto (nell’eterno circuito) dell’ominazione, e ciò nella peculiare modalità, come si è detto, di un’ominazione della dis-ominazione (si veda supra la o.i 12). [N.B. La partizione potrà servire da guida anche per cogliere il grave fraintendimento in cui cade Alfredo Marini a proposito della scrittura Da-sein – e questo nell’intento di confutare la decisione di François Vezin di lasciare non tradotta la dizione Dasein nella sua edizione francese Être et Temps. Non vi è qui lo spazio per un’analisi dettagliata. Rinviamo pertanto il Lettore in particolare alle pp. 1310-1312 dell’Edizione Marini. A chi desideri giungere a un punto fermo su tali questioni, ricordiamo l’essenziale: il termine «esserci» è, in italiano, solo un conio traslativo (come lo è, in francese, l’espressione être-là), e non avrà mai la tempra geniturale che ha, in tedesco, la dizione Dasein. Dobbiamo sempre ancora imparare a distinguere, nel campo delle traduzioni filosofiche, fra un conio traslativo e un conio fenomenologico (senziente). Fra questo e quello

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corre un abisso – il medesimo che, in generale, separa, in ogni lingua madre, l’indizione dall’infirmazione.) (Si vedano infra le note 66 e 69 dell’Epilogo.) 17. L’abisso-Erlebnis [ supra p. 56] Il traslare la rottura di spazio-tempo – nel cui ascensivo avvento, quale spaziosità d’origine, si stanzia ogni volta una geniturale fuga di attendibili rotte di un mondo terrestre – in una “apertura” ha come invisibile conseguenza la destituzione, in lingua madre, della fondale originarietà del fondo d’ascendenza (Ab-grund). Nell’orizzonte dell’apertura, quest’ultimo apparirà infatti necessariamente come una mera conseguenza dell’aprirsi stesso, un “abisso”-Erlebnis (il baratro in cui precipita l’Abgrund). 18. Il «c’è» e l’ecceità [ supra p. 60] Il «c’è» coglie l’ecceità sempre alla luce di ciò che essa, ormai obliata, porge e lascia essere; così esso parla come contrazione dell’ascensivo “è”, l’immediato nascondimento del suo nulla-di-fondo, del suo No d’origine, a favore della contingenza nel suo impatto sull’“uomo”, e dell’“uomo” nel suo scontro con la contingenza – fenomeno che costituisce la scaturigine dell’ominazione dell’ente. Il «c’è» è il segno della riduzione dell’ecceità a mero carattere dell’ente; esso dis-dice l’ente, giacché lo abbandona al suo impatto-scontro con l’essære: annientamento dello scisma (del tratto scissile), ossia nichilismo dispiegato. 19. Il dolore dello scisma [ supra p. 61] La più profonda e nascosta intonazione del Da-sein è lo Schmerz dello scisma: il dolore, il tratto di dissidio con cui lo scisma d’essære si addice l’essere dell’uomo intimandogli – dal fondo d’ascendenza del dire, dal rigenerante tacere della lingua madre in madrelingua – di offrirsi e di prestarsi a favore della carenza dell’ecceità d’origine (die Da-heit), in modo che quest’ultima, già d’indole stagliante, trovi infine il suo temprato acclaramento nell’indizione pensante, e ottenga così la sua stagliatura in parola. Il dolore dello scisma è dunque un’intimazione, rivolta all’essere dell’uomo, nella quale l’uomo, liberandosi dal rigor dell’animal rationale, si lascia trans-stanziare in un indicente dell’ecceità – ossia in un suo indice o indittore, in un suo segno. L’indolico infirmarsi di questo dolore sembra risuonare nei seguenti versi di Hölderlin (Mnemosyne): Ein Zeichen sind wir, deutungslos Schmerzlos sind wir und haben fast Die Sprache in der Fremde verloren… (Un segno siamo noi, senza acclaramento Senza dolore siamo, e abbiamo quasi Perso la lingua madre nella terra aliena…) Là dove è «quasi pers[a] la lingua madre» – posto di coglierla, nel senso del poeta, come «il più tentante dei beni» –, devono già essere svaniti il pericolo della tentazione

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e il suo sentimento in qualunque lingua, e dunque ogni attendibilità del salubre, così che la contingenza – ormai formatata nella congiuntura dell’inarrestabile potenza –, ovunque estirpando il dolore scismatico dall’indole ‘uomo’, si stanzi come l’unica fonte d’“essere” e quindi come l’unica legge dell’ente. Le terre e i mondi – il multiforme unico scisma, le contese e i contrasti, le rotte indoliche e le geniture (custoditi e fondati nelle lingue madri, nei loro canti e pensieri), e dunque le già avvenute e avvenienti spaziosità dell’abitare terrestre celeste nella ricca singolarità del fondo d’ascendenza – si contraggono in un’unica «terra aliena», nell’odierna uniforme alienazione planetaria, che noi – gli uomini di oggi – scambiamo invece per la “nostra casa”, per un luogo e un tempo familiari e reali, e dunque vicini, e perciò anche “futuri”, se non eterni… noi oggi, i tentati e gli spericolati d’origine, gli indolenti della ricca carenza dell’ecceità – mai come ora dimentichi dell’intensa flagranza d’essære, cui pure siamo costantemente rivolti e da cui (essendole, come mortali, ab imis affidati) riceviamo, nella forma del dolore scismatico, l’intimazione all’acclaramento, l’ingiunzione a rigenerarci come un suo segno. «Ein Zeichen sind wir, deutungslos», «un segno siamo noi, senza acclaramento»: nell’istante in cui (ovvero là dove) siamo rivolti alla flagranza d’essære – e così la sentiamo indolicamente e siamo perciò già, sebbene ancora implicitamente, un suo segno – (proprio là) siamo già da essa distratti, tratti via dalla sua tempra acclarante, deprivati dunque dell’acclaramento, pur restando però «un segno», e così addolorati per l’infirmato dolore, e dolenti per la tentazione in cui versa la lingua madre. (Il senso in cui abbiamo fin qui pensato, nella Gefahr, la tentazione – tratto da tenere lontano dal consueto significato cristiano – sarà chiarito nella Ripresa; si veda infra, a p. 153, la nota 15.) (Eraclito aveva già visto la «terra aliena» e i suoi abitatori. Ad esempio, il fr. 72 (D-K) dice: «Quello verso cui, poiché da esso permeati e così condotti e guidati, sono soprattutto rivolti , il logos , è proprio quello da cui si separano; e così appare questo: ciò che essi incontrano quotidianamente resta loro alieno »). 20. Lichtung e lingua madre [ supra p. 61] L’interpretazione della Lichtung come stagliatura – anche in riferimento alle correnti traslazioni italiane («illuminazione», «slargo», «luco», e appunto «radura») – è discussa in ZACCARIA, IGP, in particolare ai §§ 50-53 (una rielaborazione del § 52 è apparsa in HTP, pp. 153-160). Si vedano anche HEIDEGGER, OA (in particolare le pp. 79-85 e 143-145) e AF. Si può mostrare come il sentimento della stagliatura indichi in che senso la Lichtung intimi al pensiero il balzo via dalla “luce naturale” verso la lingua madre – quale indole libera dal giogo della physis. La lingua madre è la più nascosta dis-ominazione dell’ente. (Nella dizione «lingua» ora non dobbiamo più pensare solo l’organo di fonazione, ma dobbiamo imparare a udire il lingere, cioè il lambire, il toccare con leggerezza, e quindi lo scismatico toccare stagliante. «Lingua madre»: scismatico tocco dell’essære. Si veda supra p. 40 la nota b.)

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21. Il tratto radiale [ supra p. 62] Il tratto radiale non è un carattere ricavato dalle immagini della “radura”, dello “slargo” e dell’“orizzonte” relativi all’“esserci”, e “applicato” alla metafisica. In esso noi pensiamo piuttosto ciò che – irrigidendosi in un formato fattuativo – guida genituralmente tali immagini nel loro coadiuvare la determinazione del senso d’esserci imposto al Da-sein nella prassi traslativa. Si può mostrare come il tratto radiale sia un carattere dell’intera genitura metafisica. Esso infatti origina dall’intesa greca dell’essere in quanto physis, nel senso dell’assorgenza mai esplicitamente fondata nella alêtheia – in quell’alêtheia (disascosità priva di scisma) che crollò in sé “prima” di mostrarsi nella sua indole ascensiva (nascondimento dis-ascondente: scisma). Il tratto radiale è l’in sé nascosta copertura del tratto scissile dello scisma d’essære: la rovina del fugace istante nell’attimo caduco, in forza dell’appianamento “spaziale” del fondo d’ascendenza e della conseguente devastazione dell’originaria spaziosità (puro spazio e tempo estatico). Il tratto radiale è pertanto un tratto costitutivo della formatazione – lì dove appunto diviene format radiale. Nell’esistenza quotidiana retta dal Man, il format radiale appare chiaramente, come guida del senso d’esserci, in vari modi di dire ritenuti “esistenziali”, come ad esempio: “osservare la realtà che ci circonda”, “l’uomo e il mondo circostante”, “il mondo gira attorno a noi”, “aprirsi alla realtà esterna”, “aprirsi a nuovi orizzonti” (o “fonderne” di diversi), “chiudersi nel proprio mondo”, “allargare la propria visuale”, “percepire i segnali del reale”, “essere aperti all’attimo”, “aprirsi al flusso della vita”, e così di seguito; ciò che è qui in causa è sempre l’impatto della contingenza (cioè dell’esserci) sullo stanziarsi dell’indole ominale. La via per cogliere il carattere geniturale del tratto radiale è indicata, ad esempio, nella sezione IV di Besinnung (in particolare si vedano le partizioni 17-19, 22-23, 31-32; GA Bd 66). Si noti che l’italiano «raggio» (radius, asta a punta, raggio della ruota) non deve confondersi con il tedesco Strahl: le due parole “tecnicamente” sono sinonimi, ma, in madrelingua, parlano diversamente. Lo Strahlendes, inteso scismaticamente, è l’indole gioiosa e salubre, e dunque istantaneamente avviante e instradante, ossia è lo spatiosum, ciò che dà e offre le rotte indoliche, la chiara tempra, la flagranza. La Lichtung non è in sé radiale né “radiosa”, ma ascensivamente strahlend (gioiosamente dirompente-instradante-avviante-flagrante, folgorante-tratteggiante, ascensivamente spaziosa). Con una formula: il raggio è rigido e presuppone un costituito spazio-tempo, lo Strahl è folgorante e libera il flagrare dello spazio-tempo. Lo Strahl della Lichtung non è il “raggio” della “radura”. 22. Ancora sul tratto radiale: “apertura”, “radura”, “esserci”, “essere fuori di sé” – “struttura aperturale dell’esserci” [ supra p. 63] Aggiungiamo tre ulteriori precisazioni. 1. Sotto il nascosto diktat del tratto radiale, la motilità ascensiva del Dasein (Offenheit ed Erschlossenheit, Lichtung e Gelichtetheit) è contratta nel moto ontico dell’“apri-e-chiudi”: la “radura (aperta)” – Lichtung – in quanto “spazio di tempo” in cui sussiste l’“essere aperto nella radura” – Gelichtetheit –, ovvero l’ “apertura” tout-court – Offenheit – in cui “c’è” l’“essere aperto” – Erschlossenheit – a “tutto ciò che è”, al

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“sé” e al “mondo”. Il carattere dell’apri-e-chiudi, in quanto effetto del format radiale, assicura contro lo stacco dalla contingenza: proprio mentre si legge Da-sein, s’intende ogni volta “realtà umana (vita) che d’impatto (esser-ci) si apre al mondo” – un essere vivente “aperto” (“esposto”, “posto fuori di sé”) che sarebbe però, in quanto “umano”, al tempo stesso, “aprente” il “mondo”, e dunque una “vivente apertura” (uno slargo vitale), e, in tal senso, un “essere-nel-mondo” (per il quale, come ci assicura il Man esistenzialista, “sempre, nella vita, una porta si apre, una porta si chiude”, ovvero, come anche si dice, “per una porta che si chiude, cento se ne aprono”). Proprio questo richiede il radiale Ci: l’accecante contrazione dell’ecceità d’origine – della stagliatura d’essære – nella «vacuità e aridità dell’apri-e-chiudi», nel deserto d’essære della radura. Si dispiegano così la formatazione della relazione metafisica soggetto-oggettomondo e la conseguente infirmazione dei fenomeni dell’Ek-sistenz e dell’In-der-Weltsein – e questo mentre ormai appare come ovvia “realtà fondamentale dell’uomo” la cosiddetta “struttura aperturale dell’esserci”. 2. Si pensi a quale grado di distorsione fenomenologica si può giungere quando ci si rappresenta la Lichtung des Seyns in base al format radiale, ovvero nei termini di una “radura dell’essere” e in base alla Offenheit traslata in “apertura”: l’“essere” diviene qui una contingente sostanza oltre-umana che, “aprendosi a slargo”, quindi irradiandosi “di sé”, e rendendosi così in qualche modo “trasparente” (“diradandosi”), farebbe largo all’esistere dell’uomo e alla sua “storia”… L’espressione «radura dell’essere» può invece divenire una dizione fenomenologico-diagnostica (in senso geniturale d’essære) se la si pensa come indicante la cattura e il crollo della Lichtung des Seyns nello spazio vitale (di un uomo il cui essere è) ormai addetto alla compiuta infirmante radiazione dell’essære: la radura dell’essere come “radiante rarefazione” dell’intensità d’essære… (una sorta di amnistia che cancella l’intensa flagranza d’essære; ajmnhstiva, oblio). Non è infatti l’indole ‘essere’ – nella formatazione – l’«ultimo alito di una svaporante realtà entro la sfera del “vivere”»? (Si veda GA Bd 66, p. 87.) 3. L’apertura d’orizzonte e la radura in quanto estensioni radiali – ovvero, in uno, il tratto radiale “in forma” di esserci come infirmazione del Da-sein – non sono che vuote immagini (o infirmanti sagome) dell’Existenz, meglio: del senso “Da-sein” dell’Existenz. Il nascosto vigere del tratto radiale, infatti, fa sì che il carattere estatico dell’Existenz sia sempre ricondotto all’idea-format dello “stare che s’irradia all’esterno”, in base al quale si parla del Dasein come di un (contingente) “essere fuori di sé”. Cogliamo il senso di questa osservazione, se ponderiamo la seguente delucidazione dell’Existenz che Heidegger tratteggia in Wegmarken: Was bedeutet „Existenz“ in S. u. Z.? Das Wort nennt eine Weise des Seins, und zwar das Sein desjenigen Seienden, das offen steht für die Offenheit des Seins, in der es steht, indem es sie aussteht. Dieses Ausstehen wird unter dem Namen „Sorge“ erfahren. Das ekstatische Wesen des Daseins ist von der Sorge her gedacht, so wie umgekehrt die Sorge nur in ihrem ekstatischen Wesen zureichend erfahren wird. Das so erfahrene Ausstehen ist das Wesen der hier zu denkenden Ekstasis. Das ekstatische Wesen der Existenz wird deshalb auch dann noch unzureichend verstanden, wenn man es nur als „Hinausstehen“ vorstellt und das „Hinaus“ als

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das „Weg von“ dem Innern einer Immanenz des Bewußtseins und des Geistes auffaßt; denn so verstanden, wäre die Existenz immer noch von der „Subjektivität“ und der „Substanz“ her vorgestellt, während doch das „Aus“ als das Auseinander der Offenheit des Seins selbst zu denken bleibt. Die Stasis des Ekstatischen beruht, so seltsam es klingen mag, auf dem Innestehen im „Aus“ und „Da“ der Unverborgenheit, als welche das Sein selbst west. Das, was im Namen „Existenz“ zu denken ist, wenn das Wort innerhalb des Denkens gebraucht wird, das auf die Wahrheit des Seins zu und aus ihr her denkt, könnte das Wort „Inständigkeit“ am schönsten nennen. Nur müssen wir dann zumal das Innestehen in der Offenheit des Seins, das Austragen des Innestehens (Sorge) und das Ausdauern im Äußersten (Sein zum Tode) zusammen und als das volle Wesen der Existenz denken. (GA Bd 9, p. 374) Traduciamo in modo esplicitante: Che vuol dire “esistenza” in S.u.Z? La dizione denomina una fermezza d’essere (forma, sapienza): l’essere di quell’essente che flagra estendendosi per l’intensa flagranza (l’adventus) dell’essere, in cui (esso essente) si erge, proprio mentre la aderge [in “ad-ergere” si odano lo ad-ex-regere e quindi il tratto ‘ad-ex’]. Tale (instanziantesi) adergere – l’ad-ex – è tentato e avvertito nella dizione “premura”(*). L’estatico stanziarsi del Dasein – il suo tratto exter – è pensato muovendo dalla premura, così come, viceversa, la premura è tentata in modo sufficiente solo nel suo estatico stanziarsi. L’instanziantesi adergere, così tentato, costituisce lo stanziarsi dell’ekstasis qui da pensare. L’estatico stanziarsi dell’esistenza è allora inteso in modo ancora insufficiente se lo si immagina semplicemente nella forma di uno stare che s’irradia all’esterno, ossia di un’accentrata esteriorizzazione, intendendo in tal modo lo exter come un ex rispetto a un ad centrum (internum), cioè come un “via da” l’interiorità di un’immanenza della coscienza e dello spirito [ecco il vigere del format radiale]; infatti, così intesa, l’esistenza sarebbe addotta muovendo dalla «soggettività» e dalla «sostanza», mentre il suo tratto exter è quell’ad-ex sempre ancora da pensare come ad-ventus dell’ex-traneum: l’avvento dell’indole estranea, la flagranza dell’indole ‘essere’. [Variante: L’estatico stanziarsi costitutivo dell’esistenza è allora inteso in modo ancora insufficiente se lo si immagina solo nella forma di uno stare che s’irradia all’esterno, ossia di un’accentrata esteriorizzazione, intendendo così lo exter come lo ex di un ad centrum (internum), ovvero come il “via da” l’interiorità di un’immanenza della coscienza e dello spirito – in tal caso, infatti, l’esistenza sarebbe addotta a partire dalla «soggettività» e dalla «sostanza» – invece di comprenderlo, piuttosto, come l’ad dello ex, quell’ad-ex sempre ancora da pensare come ad-ventus dell’ex-traneum, cioè come l’avvento dell’indole estranea, la flagranza dell’indole ‘essere’.] Il tratto stasis dell’estatico riposa, per quanto singolare ciò possa apparire, nell’ergersi (che è) intimo, intraneo all’estraneità e all’avvento della disascosità, in cui, per indole, consiste l’essere. [Ovvero: l’indole estatica è l’intimo, intraneo ergersi nel reggere, d’estraneità e

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d’avvento, la disascosità.] Ciò che nella denominazione «esistenza» deve essere pensato – quando la dizione sia impiegata nel pensiero attemprato alla verità dell’essere – potrebbe indicarsi, nel modo più bello, con la dizione «insistenza», intesa come l’insistente stare all’erta, il tenersi all’erta, l’ad-ertezza. [Ossia: «exsistenza» è da pensare come un tenersi all’erta intimo all’avvento dell’essere, alla sua intensa flagranza, un’intranea ad-ertezza nell’essære.] Solo che allora dobbiamo pensare come un unicum, e in quanto culminante stanziarsi dell’esistenza, l’intimo, intraneo ergersi per entro l’intensa flagranza (avvento) dell’essere, il reggere d’estraneità l’intimo, intraneo ergersi (premura), e il resistere d’estraneità nell’estremo (essere verso la morte). [(*)Premura (sinonimo di «ertezza»): cura, accuratezza, essere in pensiero; si ricordino le sue forme difettive o degeneri: noncuranza, curiosità, assicurazione, insicurezza, trascuranza, trascuratezza.] [N.m. 1. Alla dicitura Sein zum Tode → «Auf sich zu-kommen lassen den Tod, sich halten in der Ankunft des Todes als des Ge-Birgs des Seins» : «Lasciare, in indole propria, avvenire d’estraneità la morte, tenersi nell’avvento della morte quale roccaforte, reconsione, dell’essere [ergersi in flagranza di morte per l’essere] (5° ed. 1949)»; 2. Alla parola denken (al punto als das volle Wesen der Existenz denken) → «Wohnen, das >bauendeSeins