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Italian Pages 225 Year 2011
Gennaro Sasso
Dante, Guido e Francesca
viella
I libri di Viella 81
Gennaro Sasso
Dante, Guido e Francesca
viella
Copyright © 2008 - Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione (carta): novembre 2008 ISBN 978-88-8334-320-9 Prima edizione (ebook): febbraio 2011 ISBN 978-88-8334-575-3
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libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it
A Lucia e Daniele allegri gemelli
Indice
Prefazione
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1. Le idee di Francesca
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2. Donna me prega
43
3. Significati svolgimenti dissociazioni
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4. Intermezzo
127
5. Dante e Francesca. Spunti autobiografici
135
6. Dante contro Cavalcanti
141
7. Francesca da Rimini
173
Appendice. Sul sumbebekós
197
Indice dei nomi
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Prefazione
In questo saggio la presenza di Cavalcanti nella Commedia, della quale molto si è parlato e scritto anche negli anni più recenti, è studiata in concreto a sostegno della tesi secondo cui fu alla luce della dottrina dell’amore, ragionata in Donna me prega, e alle inquietanti conseguenze che ne aveva ricavate, che Dante costruì il personaggio del quinto canto dell’Inferno. Il che ha richiesto che di quell’ardua canzone si tentasse il puntuale commento e che, per meglio (si spera) comprenderne alcuni passaggi, anche ci si soffermasse su alcuni specifici punti di filosofia aristotelica, che vi sono riflessi. Se la «dimostrazione», nella quale mi sono impegnato, fosse riuscita persuasiva, dovrebbe allora anche accogliersi la ulteriore proposta che vi è delineata: quella, cioè, secondo cui la ragione per la quale Guido non poté essere con Dante nel viaggio ultraterreno sta bensì nel «disdegno» con il quale egli guardava a Virgilio, a Beatrice e, forse, addirittura a Dio e all’al di là cristiano. Ma, più in particolare, sta nel diverso modo in cui, rispetto a lui, aveva, in quella canzone, prospettata la questione dell’amore; sta nella conseguenza che scaturiva dall’avervi esposta una filosofia che gli avrebbe impedito di farsi giudice di coloro che la ragione avevano sottomessa al talento. Avevo pensato che, con altri miei saggi danteschi, composti negli ultimi anni, anche questo, consacrato alla figura di Francesca da Rimini, e a aspetti particolari del canto che narra di lei, avrebbe potuto trovar posto in un volume nel quale tutti fossero raccolti per comodità di chi li avesse ritenuti degni di essere letti e studiati. Ma il complicarsi della sua trama, e l’estensione che il saggio aveva finito col raggiungere, persuasero un giovane e bravissino dantista, Paolo Falzone, che da tempo mi gratifica con l’attenzione che dedica ai miei studi, a suggerirmi la diversa soluzione che ora si realizza in que-
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sto volume; che, invece che tutti i miei saggi, accoglie soltanto questo che, in effetti, qualunque cosa valga, è compiuto in sé stesso e può ben stare da sé. Nel ringraziarlo di cuore per la cura, competente e intelligente, con cui mi ha aiutato a mettere insieme questo volume che, con un altro che sta per uscire presso le Edizioni Bibliopolis di Napoli, è il terzo che dedico a Dante, sono indotto a ripensare alla vicenda, sul serio singolare, di questi miei studi che, come in un’altra circostanza ho avuto occasione di narrare, ebbero il loro sistematico inizio subito dopo che, si era nel marzo del 1958, ebbi pubblicato il mio Machiavelli. Qualcuno allora, e si trattava di un personaggio molto autorevole, avrebbe voluto che, almeno per qualche tempo, io lasciassi il gran segretario e la così detta storia delle idee per fare prova di me in un altro campo, nel quale avrei appunto dovuto dimostrare di essere sul serio, non un «filosofo» che aveva prestato sé stesso alla storiografia, ma uno storico, uno storico vero, uno di quelli che s’intendono di politica, di economia, di vita sociale, e magari aspirano, secondo l’ambizione che allora qualcuno coltivava, alla «storia integrale», all’histoire à part entiere, per usare l’espressione (alquanto enfatica, per la verità) di Lucien Febvre. Le cose non andarono secondo i pareri e consigli che allora mi venivano comunicati, e che, per quanto autorevoli, erano di quelli che tanto più si apprezzano quanto meno sia possibile accoglierli. Da qualche tempo, in effetti, ero immerso nello studio del pensiero di Dante; leggevo (ricordo) i commenti di Averroé al De anima, alla Fisica e alla Metafisica; e per quanto riguardava l’histoire à part entiere pensavo, non a torto credo, che dovesse cimentarvisi chi avesse posseduto il talento bastante a tanta impresa. La cosa singolare è, per altro, che lo studio di Dante per allora fallì. E la spiegazione che ne detti a me stesso fu che quello era un tale autore che pretendere di farlo coesistere con altri era follia; che o gli si dedicavano tutte le energie a disposizione e di nessun altro ci si occupava, o niente di buono poteva derivarne, e così via. Ero stato allevato al culto dello specialismo e della completezza bibliografica, della filologia e di quanto le si connette; e davanti agli occhi mi si delineavano, nelle loro figure grandi e incombenti, gli eroi del dantismo novecentesco, Parodi, Barbi, Rajna, Pietrobono, Nardi, ma anche Gilson, Pézard, Edward Moore: lontani nel tempo i primi due, che mai, naturalmente, al pari dei tre ultimi, avevo conosciuti di persona, essendo scomparsi quando io ero un bambino o un giovinetto; meno lontano il quarto, che avevo ascoltato, a Roma, leggere l’Inferno presso la Fondazione Besso, quando frequentavo il liceo; niente affatto lontano, anzi vicino, il
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quinto, che avevo assiduamente seguito da studente universitario, e che proprio per questo, forse, perché lo conoscevo bene, tendevo a trasferire idealmente, dalle aulee universitarie nelle quali lo avevo seguito e ascoltato, nella rocca inaccessibile della scienza dantesca, che ospitava anche i quattro predetti e nella quale tutti si muovevano con la sicurezza, persino minacciosa, dei padroni. E poi c’erano tutti gli altri studiosi, i conosciuti (Grabher, Sapegno, Pagliaro, Contini) e i non conosciuti, dei quali ritenevo che si dovesse o approfondire la conoscenza, o procurarsela per evitare che qualcuno dicesse: «ma come, non sapevi di quel libro? Te lo sei lasciato sfuggire?». Debbo riconoscere che la ragione che assegnavo al fallimento dello studio di Dante non era senza una qualche ragione. Dante è, sotto ogni riguardo, un autore difficile, inesauribile almeno quanto lo è la sterminata letteratura che i secoli hanno accumulata sopra di lui, e che non c’è giorno che non faccia registrare il suo aumento. Che perciò richieda una particolare dedizione è vero e ovvio. Ma in quella ragione c’era tuttavia qualcosa di insincero, e molto, anche, di pretestuoso. Dante è un autore difficile, che moltiplica le difficoltà a misura che vi si penetra dentro. Ma questa è, se mai, la ragione per cui, invece che rinunziare a studiarlo, è necessario dedicargli il tempo richiesto dalle questioni che si sia deciso di affrontare. Se, quindi, per allora il progetto fallì, le ragioni saranno da indicare non in quel che dicevo a me stesso, non nel timore che Dante mi incuteva (quel timore lo provo anche adesso, e ora, anzi, persino di più); ma in un interesse non vivo abbastanza da imporsi su altri che stavano emergendo e richiedevano spazio, nell’incertezza che il conflitto degli interessi, ciascuno dei quali non era forte abbastanza da prevalere sugli altri, allora determinava in me. La rinunzia a studiarlo avrà avuto anche a che fare con gli argomenti che ripetevo a me stesso nella speranza che me ne persuadessi. Ma anche in questo c’era dell’ambiguità o, quanto meno, un difetto di chiarezza. Le questioni dantesche erano rimaste vive dentro di me che, nei molti mesi passati nel loro studio, avevo anche riempito decine e decine di pagine di considerazioni, di analisi, di testi, di note bibliografiche; pagine alle quali talvolta ritornavo, con il rimpianto di averle lasciate a metà. Sta di fatto che non sempre il rimpianto è sterile. Durante i lunghi anni del mio insegnamento universitario, ai corsi monografici, sempre dedicati a classici (antichi e moderni) del pensiero filosofico, affiancavo esercitazioni per i laureandi su argomenti specifici, scelti di solito fra quelli che presentassero particolari difficoltà testuali e esegetiche, e, come scrisse scherzosamente Gilmo Arnaldi che, nel farmi dono, durante un seminario dantesco al quale
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anch’egli partecipava, di un’edizione della Monarchia e delle epistole politiche, per l’occasione si firmò Hieronymus de Vicetia, conducessero per asperrima et iniquissima loca. Dalla data apposta a quella dedica si deduce che già nell’anno accademico 1980/1981 presso la mia cattedra, che era allora di Storia della filosofia, e non ancora di Filosofia teoretica, si teneva un seminario dantesco, al quale partecipavano studenti, professori di varia età e esperienza, e anche alcuni esimi specialisti, che ho avuto occasione di ricordare nella Prefazione al mio Dante. L’Imperatore e Aristotele (2002); e ricordo che quel seminario si protrasse abbastanza a lungo nel tempo, per vari anni accademici, e che fu disputatissimo, perché le divergenze che insorgevano fra quanti in Dante cercavano sopra tutto la filosofia e gli altri, che gli si rivolgevano con attitudine essenzialmente filologica e storico/letteraria, inevitabilmente finivano per implicare la questione relativa al significato della sua cultura filosofica e al giudizio che dovesse darsene; e qui la questione era quella del suo aristotelismo e, magari, semiaverroismo, che alcuni affermavano con forza, mentre altri tendevano a farne una realtà, per così dire, marginale e minore. Venne poi il giorno in cui anche quel seminario dovette essere interrotto: non perché non ci fosse più materia per discussioni e esegesi, e l’interessse a parteciparvi fosse venuto meno, ma per le vicende dell’esistenza, che condussero alcuni dei partecipanti a doversi allontanare dall’Università e a non poter più garantire, con continuità, la loro presenza. Il ricordo di quel seminario rimase vivo, tuttavia, in alcuni; e il «Centro Bruno Nardi per gli studi danteschi», a cui abbiamo dato vita qualche anno fa con Gilmo Arnaldi, Ovidio Capitani, Giorgio Inglese e Achille Tartaro, e che ha la sua sede a Roma nell’Istituto storico italiano per il Medio Evo, si è posto in consapevole linea di continuità con quell’esperienza. Certo gli anni sono passati, e il loro peso si fa sentire su coloro che erano ancora abbastanza giovani quando, nella Facoltà di lettere e filosofia della Sapienza romana, discutevano di Dante. Ma siamo, tuttavia, ancora qui; e poi ci sono giovani e già provetti studiosi (Sonia Gentili e Paolo Falzone), ci sono i giovanissimi, ai quali le sorti del Centro sono affidate, e che non vorranno farlo morire quando noi non ci saremo più. L’accenno che qui su è stato fatto al mito della completezza bibliografica, e l’altro relativo ai grandi dantisti di ieri, mi inducono a proporre due brevi considerazioni; la prima delle quali riguarda quel mito, che è proprio un mito, ossia un ideale non raggiungibile quando si studiano i
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grandi autori, e, in modo particolare, come tutti sanno, Dante; la cui tradizione esegetica cominciò a formarsi, si può dire, all’indomani della sua morte, e sarebbe pura follia pretendere di poter conoscere in ogni sua parte. Il che naturalmene non toglie che ineliminabile sia il dubbio relativo alla possibile importanza di quel che, non appartenendo necessariamente al lontano passato, rimane al di là delle nostre conoscenze e potrebbe, infatti, nascondere in sé cose che di esser state conosciute avrebbero ben meritato. È un dubbio, questo, che, da quella dantesca, si estende ora alla bibliografia che riguarda Cavalcanti; che sta infatti assumendo anch’essa proporzioni ragguardevoli con i tanti studi che, in ogni parte del mondo, filologi e critici sono intenti a dedicargli. Tre convegni internazionali si sono tenuti, fra il 2001 e il 2004, rispettivamente a New York, a Barcellona e a Roma, per fare il punto sullo stato attuale della critica e per sollecitarla a nuovi sviluppi; così che, fra quello che si era fatto prima e quel che via via si sta compiendo, anche in questo campo la difficoltà di pervenire a una qualche completezza appare notevolmene accresciuta. Se, come non è improbabile, cose importanti mi sono sfuggite, ne chiedo naturalmente scusa al lettore. Debbo però avvertire che non di tutto quel che ho letto sulle questioni dantesche e cavalcantiane trattate in questo saggio ho tenuto conto, bensì soltanto di quel che incrociava la linea del mio discorso; e in questi casi ho citato e discusso con larghezza. Di qui la lunghezza di molte fra le note che, non potendo perciò essere contenute a piè di pagina, è stato, con l’eccezione delle poche apposte all’Appendice dedicata al concetto aristotelico del συμβεβηκός, inevitabile disporre tutte in fondo al testo. La seconda considerazione riguarda la letteratura dantesca di ieri e di oggi. Quando, tanti anni fa, intrapresi, e non condussi a ternine, questi studi, la situazione della critica dantesca era assai diversa da quella che oggi è sotto gli occhi. A prevalere e a tenere il centro del quadro erano, per chi allora si fosse rivolto a studiare il pensiero di Dante, e, oltre che alla Commedia, avesse perciò dedicata la sua attenzione al Convivio, alle epistole, alla Monarchia, questioni che, malgrado la loro non negata importanza, si sono oggi trasferite ai margini, e non sembrano destare più le passioni che allora accendevano in studiosi che, nel trattarle e soffrirle, vi avevano spesa la parte migliore della loro vita. A tenere il margine, anziché il centro, sono altresì oggi, per conseguenza, sia i grandi dantisti che allora le dibatterono, sia coloro che, a causa della difficoltà che incontrano a trovar posto nella «contemporaneità», seguitano, come lo scrivente, a considerarle es-
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senziali: anche se diverse da quelle indicate possano esserne, o apparirgli, le soluzioni. Di qui, appunto, l’acuto senso di disagio che, per esempio, non può non derivare a uno che, formatosi in tempi diversi dai presenti, si trovi dinanzi i risultati di certa storiografia dantesca, certamente agguerrita, e, dovendo cercare di tenerne conto, non riesce tuttavia a far concordare l’ammirazione che gli suscita con il consenso che, al di là naturalmente di punti specifici, anche importanti, non riesce a concederle. Di qui il senso di estraneità: simile a quello che si prova quando, entrando in una casa nella quale, accanto a molte cose belle, anche ve ne siano di discordanti dal gusto di colui che vi è accolto, ci si chieda come possano viverci quelli che tuttavia la abitano e danno netta l’impressione che non potrebbero mai averne una diversa. È difficile individuare il momento in cui sono incominciate ad accadere le cose che dal dantismo di ieri hanno condotto a quello, del resto non univoco, di oggi. È difficile perché, quello avvenuto negli studi danteschi, fu un passaggio che, non essendosi determinato in un giorno, e per un solo motivo, dev’essere messo in relazione con la crisi che, alla metà circa del secolo scorso, investì la storiografia letteraria, e non solo; e dovrebbe perciò essere studiato innanzi tutto, anche se non unicamente, nel quadro di quella. Non credo comunque di andare molto lontano dal vero se dico che, negli studi danteschi, il changement du climat si determinò, verso la metà dello scorso secolo, se non nel 1939, anno del commento di Contini alle Rime, sopra tutto con il saggio di quest’ultimo su Dante come personaggio-poeta della “Commedia” (1957) e ancor più con i due del 1965, Un’interpretazione di Dante e Filologia e esegesi dantesca, che possono essere considerati esemplari di quel clima che stava cambiando. Nella estrema ricchezza dei temi che vi s’intrecciavano, quei saggi erano innovativi nei confronti, non solo della critica di ascendenza crociana, ma anche dell’altra che, nel solco di una illustre tradizione, ancora e sempre si dedicava a perseguire l’idea dell’unità della Commedia e del suo intangibile valore. Di Croce, e di come Contini giudicasse il suo libro dantesco, dirò qui sotto, subito dopo aver concesso spazio a qualche preliminare chiarimento. Ma subito occorre dire che non era il «separatismo» crociano a costituire, per Contini, una seria ragione di dissenso. A costituirla, questa ragione, era, da una parte, la diversa attenzione che, sul fondamento di un uso rigoroso e raffinato sia della filologia sia dell’analisi linguistica, era riservata al testo e ai suoi problemi; da un’altra, l’atteggiameno tenuto nei confronti della poesia, che non costituiva più, come nella critica di
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orientamento crociano, l’oggetto di una diretta considerazione, perché alla sua presenza non si alludeva se non per il tramite, sapiente ma obliquo, delle analisi filologiche e linguistiche. L’intenzione non è certo di avviare, qui e ora, il discorso concernente questo mutamento (che, ripeto, non ha dato luogo a un risultato univoco) e le ragioni che lo determinarono; e tanto meno potrebbe esserlo da parte di uno che, al pari dei discorsi di metodo, detesta i consuntivi e i bilanci, per non parlare della così detta storia della critica che, se sul serio si volesse scriverla, e cioè non come una rassegna di giudizi, ma come una storia, dovrebbe allora farsene il capitolo di una assai più ampia, culturale e politica. A un’osservazione, forse maliziosa, non vorrei tuttavia rinunziare. Se a Contini debbono sopra tutto essere attribuiti la responsabilità e il merito di aver dato l’avvio a quel cambiamento, deve anche dirsi che quel che è avvenuto in seguito soltanto in parte ha conservato il suo segno, e per il resto ne ha rivelato, e ne sta rivelando, uno tutt’affatto diverso, non poco discordante dai suoi gusti e dal suo stile. La critica di Contini è troppo complessa perché si possa ridurla al solo profilo linguistico e stilistico: vi si muovono altri interessi, altre preoccupazioni, conoscenze e sensibilità nel campo della filosofia che appartenevano a lui, e non era facile riconoscere e acquisire, curiosità scientifiche che lasciavano intravvedere ulteriori interessi filosofici sorti dal contatto con la tradizione del pensiero analitico. Come che sia, è tuttavia indubbio che l’attenzione prestata alla lingua e allo stile sia andata di pari passo, in lui, con il rifiuto, non solo delle interpretazioni di gusto psicologico (e romantico), ma anche di quelle che oggi si è preso a definire «ideologiche». Non è il caso di prodursi in esempi, che riempirebbero allora molte pagine. Ma, per farne uno solo, conviene ricordare l’ironia con la quale, a proposito del Singleton, critico «ideologico», ma «serio», e della distinzione da lui proposta, in Dante, fra l’individuo storico che dice «io» e il rappresentante dell’umanità, che dice «noi», fra il poeta che, nel secondo verso della Commedia, dice «mi ritrovai» e quello stesso che, nel precedente verso, aveva definita «nostra», non «mia», la vita, Contini osservò che, in quel caso, la «pretesa» ideologica era giustificata da quella «spia linguistica» (Un’idea di Dante, Torino 1976, p. 118); e in modo, esplicito questa volta, lasciò intendere che in altri casi, se la «spia» non fosse stata altrettanto eloquente, da discorsi di quel genere sarebbe forse stato meglio astenersi. Ancora più notevole è che, pur nella diversa prospettiva che il critico stava delineando, il libro di Croce sulla poesia di Dante fosse assunto e giudicato come «il
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primo richiamo all’intelligenza moderna dell’opera, più pertinente, non esito a dirlo, di tutta la secolare ermeneutica messa assieme» (p. 71). Nell’anno, il 1965, in cui fu pronunziato, e cioè in un periodo di acceso, e persino furioso, anticrocianesimo, il giudizio, non solo sfidava con coraggio l’impopolartà, ma anche aveva dell’iperbolico; e la sua intonazione, che suonava volutamente provocatoria in partibus fidelium, ossia dei seguaci dei vecchi metodi, si giustificava a partire sia dalla drastica sdrammatizzazione che Croce aveva eseguita delle allegorie, degli enigmi e dei drammi biografici, sia dalla opposizione, ora netta ora strisciante che, appunto, al suo apparire e dopo, il suo libro aveva suscitato fra i non disposti a rinunziare ai riti unitari della vecchia critica. Insomma, prendere Croce e il suo piccolo libro a modello per un’«operazione» che, con modi diversi ma convergenti, sottolineava la necessità di una «riconsacrazione della casa» dantesca, non era da tutti in quel momento. Come ho detto, richiedeva coraggio, e «penne» che consentissero un adeguato volo. L’iperbole, dunque, nascondeva a stento l’istanza polemica dalla quale Contini era guidato; e, per converso, dava risalto al proposito di sgombrare il campo dai vari ideologismi, psicologismi e sociologismi, per non dire degli esoterismi, che seguitavano a prodursi e riprodursi nel campo della critica dantesca, ripetendo, con altri strumenti e con diversa sensibilità, quel che Croce aveva operato, con i suoi, nell’occasione solenne del sesto centenario della nascita di Dante. All’eccezionalità dei risultati conseguiti sul piano sia dell’esegesi diretta dei testi sia dei suggerimenti e delle proposte non fece tuttavia riscontro una pari efficacia nel rimuovere pregiudizi e nel «purificare» il campo nel segno della critica stilistica e del concetto rigoroso che egli ne aveva. E, per farla breve, il senso della maliziosa osservazione accennata qui su è che, malgrado l’omaggio che ancora gli viene rivolto e l’uso «vago e medio» che, con poche eccezioni, si seguita a fare dei suoi criteri, a prevalere è oggi una ricerca orientata a dar risalto sopra tutto alle forme retoriche e, nel quadro di quelle, a dibattere, con diversa sensibilità, l’eterno problema dei significati allegorici. Insomma, anche Contini è stato poco alla volta messo al margine. L’autore di questo libro non si sente a suo agio né con la critica di Contini, della quale apprezza per altro, senza alcuna riserva, i modi, le forme, l’intelligenza ermeneutica, la dottrina, né con quella che è venuta dopo di lui, e che pure raggiunge anch’essa, in molti casi, alti livelli di eccellenza.
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Ma questo non significa che egli ritenga di aver delineato un terzo modo, e di avere, in questo campo, offerto molto di più che alcune «interpretazioni» di testi appartenenti alla Commedia e alle così dette opere minori. Se si permette di mettere le sue «letture» a (parziale) contrasto con quelle di studiosi che ai temi danteschi ne hanno date di assai impegnative, è solo per ribadire che egli sente di appartenere a una tradizione di studi che risale addirittura alla prima metà dello scorso secolo: donde, per esempio, e quali che siano i risultati da lui raggiunti, l’interesse prestato al Convivio, alla Monarchia e, per quel che concerne la Commedia, al tema, fra gli altri, del «traviamento» che, si badi, non è un’invenzione dei critici, è un’«invenzione» di Dante, che egli ha cercato di ricostruire nel suo significato complesso nel libro, dedicato a Le autobiografie, che sta per vedere la luce. Se si permette di insistere su questa differenza, non è per indicarvi il segno di una qualche «novità» ma, se mai, per fornire le ragioni per le quali è più che probabile che quel che ha scritto non susciti l’interesse di coloro che, nello studio di Dante e del suo mondo, vanno per altre strade. Se poi, come in altre occasioni è accaduto, qualcuno mi obiettasse di avere, anche nell’interpretazione di Dante e, nel caso specifico trattato in questo libro, di Cavalcanti, accentuato la problematicità interna ai testi che esaminavo e di aver cercato di spingere al limite le difficoltà concettuali che mi sembrava di avervi individuate, considererei l’obiezione come un complimento, posto che quelle difficoltà le avessi individuate sul serio, e non me le fossi inventate. Per quale altra ragione, in effetti, si leggerebbe un testo se non per coglierne la storicità attraverso le questioni poste e risolte e quelle altresì subite e non risolte; e come ci si potrebbe contentare di esporre e di parafrasare testi che, per essere internamente conflittuali, a quella operazione non potrebbero sottostare mai senza che ne fossero banalizzati? Sono cose che dico e pratico, in vari campi, da decenni; e di praticarle non sono stanco, di dirle sì; e perciò chiudo qui il discorso, che inutilmente, in caso contrario, andrebbe per le lunghe. Questa breve rievocazione non aveva scopi autobiografici né, Dio scampi, metodologici. Non si proponeva se non di testimoniare il debito che, in questi studi, ho contratto, non solo con gli studiosi del passato, ma anche con quanti nel tempo hanno frequentato, prima il seminario universitario, poi il «Centro Bruno Nardi». Se non mi fosse stato dato di mettere alla prova di tante menti ben addestrate le idee che avevo cominciato a
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Dante, Guido e Francesca
elaborare mezzo secolo fa, dubito che avrei avuto il coraggio di scrivere. Qualcuno potrebbe dire che meglio sarebbe stato se quelle menti non le avessi incontrate, e, nei miei riguardi, fossero state meno indulgenti di quanto non furono e non sono. Ma sarebbe una battuta facile, e alquanto scontata. Fra il tentare un’impresa interpretativa e, pur con la consapevolezza della sua imperfezione, realizzarla, e la rinunzia a essa, la scelta non può dar luogo a dubbi. Meglio aver tentato, e tentare. Così, con i vari altri di argomento dantesco, che già hanno vista, o stanno per vedere, la luce, è nato anche questo saggio, che mi è costata non poca fatica, e del quale ho finito col dire anche troppo. Roma, gennaio 2008
g.s.
Nota Le opere di Dante sono citate dall’Edizione Nazionale a cura della Società dantesca italiana: La “Commedia” secondo l’antica vulgata, ed. critica a cura di Giorgio Petrocchi, Mondadori, Milano 1966-1967; Convivio, ed. critica a cura di Franca Brambilla Ageno, Le Lettere, Firenze 1995; Monarchia, a cura di Pier Giorgio Ricci, Mondadori, Milano 1965; La “Vita Nuova”, a cura di Michele Barbi, Società dantesca italiana editrice, Firenze 1907 (2a ed. Firenze 1932); Rime, ed. critica a cura di Domenico De Robertis, Sismel-Edizioni del Galluzzo, Firenze 2005.
1. Le idee di Francesca
Si prova1 ben più che qualche ritegno a intervenire sul quinto canto dell’Inferno, uno certamente fra i più studiati e commentati.2 E, senza difficoltà, ci si immagina il fastidio che la apparizione di un nuovo saggio che lo riguardi, e ne discuta, susciterà negli studiosi. Fastidio più che giustificato; e al quale si darebbe nuovo incremento se si obiettasse che la poesia è inesauribile e che cercare di scoprire le sue sempre nuove dimensioni è inevitabile. Scopo di queste pagine è di formulare un’ipotesi interpretativa, non sulla poesia che, in quanto tale, non richiede se non di essere, eventualmente, indicata, ma sui significati che s’intrecciano nella rappresentazione dantesca di Francesca da Rimini (o da Ravenna, come forse sarebbe più giusto dire), o che ne stanno alla radice. Sui significati, e cioè sulle idee, oppure, per dirla alla maniera di Francesco De Sanctis, sulle «intenzioni»: su quello, insomma, che nel canto richiede di essere capito, recato alla luce, interpretato. Converrà ricordare un dato di fatto; che è, o dovrebbe essere ovvio, e che, tuttavia, è necessario richiamare alla memoria del lettore che, o l’avesse dimenticato, o non lo tenesse nel debito conto. Della fosca tragedia che a Rimini, fra il 1283 e il 1285, aveva, per mano di Gianciotto Malatesta, travolti la di lui moglie Francesca da Polenta e il suo amante, nonché cognato, Paolo, come molti a Firenze, è più che probabile che anche Dante fosse bene informato.3 Paolo Malatesta era stato capitano del Popolo a Firenze nel 1282, poco prima, dunque, che il tragico fatto si producesse. E a Firenze, nel 1290, dal 1° luglio al 18 novembre, podestà era stato Guido da Polenta il vecchio, il padre, cioè, di Francesca. La notizia dell’eccidio doveva dunque esser stata presto ricevuta a Firenze, e essere ancora viva quando Dante era giovane e ragionava d’amore. Il che spiega perché,
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pervenuto di fronte ai lussuriosi puniti nel secondo cerchio infernale, egli mostrasse di aver subito riconosciuti nei due che «insieme» andavano «ne la schiera ov’è Dido» (v. 85), e sembravano «sì al vento esser leggeri» (v. 75), i tragici amanti di Rimini, o quanto meno di aver sospettato che di loro si trattasse. Può darsi per ovvio che, come fu notato da più di un commentatore antico,4 Dante fosse stato attratto dal procedere appaiati di quei due peccatori, e che, oltre che dalla leggerezza del loro volo, proprio da quella singolarità fosse stato colpito. Se la «leggerezza» può essere assunta come l’indizio, o piuttosto il simbolo, della facilità con la quale, in vita, erano stati travolti da una passione che era stata, in effetti, irresistibile, in quel loro procedere appaiati è plausibile che Dante intendesse indicare l’inscindibile reciprocità dell’amore, al quale insieme avevano ceduto: l’inscindibile reciprocità, della quale, di lì a poco, proprio Francesca avrebbe parlato. Probabile, altresì, e plausibile, che, presentandoli uniti in quel vincolo,5 il suo scopo fosse, non solo di preparare una scena drammatica di particolare intensità, dalla quale subito il lettore fosse attratto e conquistato, ma anche di stabilire, nei confronti della «leggerezza», e della violenza della bufera, una ferma alternativa: da una parte, appunto, la leggerezza del volo e la tempestosità del vento, ma, da un’altra, la resistenza opposta da quel loro vincolo a una potenza che con facilità, se meno fosse stato tenace, avrebbe potuto infrangerlo. In quel vincolo che, invece di scioglierlo, sembrava che la «bufera infernal che mai non resta» avesse reso, e rendesse, più saldo, non si errerebbe se perciò si cogliesse il simbolo dell’ananke, della necessità, alla quale i due amanti soggiacquero, e che Francesca avrebbe poi «teorizzata» nella celebre sequenza relativa all’amore. Di un vincolo che, similmente, unisca due peccatori, si danno soltanto due altri esempi nell’Inferno: quello di Ulisse e Diomede, che «insieme a la vendetta vanno come a l’ira» (XXVI 56-57), e l’altro del conte Ugolino e dell’arcivescovo Ruggieri, che Dante vide «ghiacciati in una buca,/ sì che l’un capo all’altro era cappello» (XXXII 125-126). Ma, in questo secondo caso, i due dannati erano visibili, anche se ancora sconosciuti: il ghiaccio non li nascondeva infatti se non in parte. Nel primo, invece, visibili non erano affatto, perché ad avvolgerli per intero, e a «involarli», era la «fiamma cornuta», che aveva attratta l’attenzione di Dante; e fu Virgilio a renderlo edotto («là dentro si martira/ Ulisse e Diomede») di quel che involgeva e nascondeva in sé.6 Qui, invece, il riconoscimento fu opera sua: il
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riconoscimento o, come si è detto, quanto meno il sospetto che quelle fossero le anime di Francesca e di Paolo. A Virgilio Dante aveva confidato che volentieri avrebbe parlato a «quei due che insieme vanno». E, nella risposta datagli dal «duca», era implicito che dell’identità di quei dannati egli si fosse reso certo: doveva infatti pregarli «per quello amor che ’i mena» (v. 78), e che, se non nell’attualità del sentimento, almeno nelle conseguenze tragiche a cui aveva dato luogo, ancora era vivo in loro. Sia o no così, è certo che l’«affettuoso grido» con cui, mostrando perciò di averli riconosciuti, Dante si era rivolto a loro, non si spiegherebbe se non fosse stato diretto a personaggi che gli erano noti, e da tempo abitavano la sua fantasia, tenendovi viva la memoria della tragedia che li aveva travolti. Non si spiegherebbe altrimenti la scena «cortese» che egli delineò con pochi tratti essenziali, idealmente traendo Francesca fuori del luogo infernale, nel quale era immersa, per trasferirla nella «corte» in cui aveva trascorsi i giorni della sua breve esistenza. La signora di Polenta era stata una gran dama, oltre che tanto «piacente» da accendere nel cognato un illecito amore. E anche lì, nel luogo della «miseria» e della pena, il suo eloquio si era subito rivelato pari a quello che era stato il suo nel «tempo felice» (v. 122). Viva, come allora era stata, ossia, di fine qualità, la civiltà che aveva mostrata nei confronti del personaggio che le si rivolgeva: una civiltà che, potrebbe dirsi, ancora era quella che, con rimpianto, sarebbe stata rievocata da Guido del Duca7 nel decimoquarto del Purgatorio («non ti maravigliar s’io piango, Tosco,/ quando rimembro con Guido da Prata/ Ugolin d’Azzo, che vivette nosco,/ Federico Tignoso e sua brigata,/ la casa Traversara e li Anastagi/ (e l’una gente e l’altra è diretata), le donne e’ cavalier, li affanni e li agi/ che ne ’nvogliava amore e cortesia/ là dove i cuor son fatti sì malvagi»).8 Di quella cultura e civiltà che, per altro, e proprio se si sta al discorso di Guido del Duca, doveva ormai, ai suoi tempi, essere cosa del passato, Francesca era tuttavia partecipe. E non perciò per pedanteria provinciale,9 ma perché, appunto, nel profondo ne partecipava, essa non poté dar corso al racconto della sua vita senza aver prima enunciati, nel suo linguaggio più autentico, i princìpi del suo mondo; che, certo, a lei, e al suo amante, avevano procurata la morte, ma non perciò avrebbero potuto essere dimenticati, o fatti oggetto di pentimento. Francesca è un creatura gentile. Ma è un’anima dell’Inferno; e la pena che vi pativa in eterno non prevedeva di essere elaborata in qualcosa che, nel ribadirla, anche tuttavia, per certi aspetti, la trascendesse nell’elaborazione della colpa e nel conse-
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guente pentimento. L’idea della condanna eterna escludeva drasticamente che il suo luogo potesse altresì essere quello del pentimento e del rimorso. Sebbene non possa esimersi, giunta che sia «davanti a la ruina», dal bestemmiare «la virtù divina», Francesca è tuttavia l’unica che, senza odio, indirizzi il suo pensiero a Dio;10 al quale, dice, se potesse, rivolgerebbe una preghiera, non per sé stessa, per altro, bensì per Dante, che le aveva mostrata pietà (vv. 91-93). Ma la dolorosa consapevolezza di essere esclusa dalla sua «amicizia» non implica che, nel segno del pentimento e del rimorso, il suo animo si sia disposto a riconsiderare la vicenda che l’aveva perduta. Con modi diversi, che vanno dalla ostentazione oltraggiosa di Capaneo11 e di Vanni Fucci12 alla malinconica rassegnazione di Guido da Montefeltro, nei dannati danteschi la consapevolezza del peccato non significa pentimento; e, per dir così, non implica una storia, uno svolgimento.13 Nella pena, che in eterno li affligge, essi sono immobili come nel peccato che la meritò. Ai princìpi del suo mondo, nel discorso che rivolse a Dante, Francesca non poteva perciò non dimostrarsi fedele, quale che ne fosse stato l’esito; e avvenne infatti che, addirittura, essa li idealizzasse. Notevole è perciò, non soltanto che, dopo aver accennato alla sua nascita e alla sua terra («siede la terra dove nata fui/ su la marina dove ’l Po discende/ per aver pace co’ seguaci sui» [vv. 97-99]), la gran dama scandisse con forza perentoria i momenti fondamentali di una «teoria» dell’amore, volta, in prima istanza, a «universalizzare» la sua individuale vicenda, e a sottrarla alla misura minore di una biografia. Notevole è non soltanto il suo immediato obiettivarvi in una «massima» che, non patendo di essere ridotta alla misura di un qualsiasi soggetto individuale, delineasse, invece, e fornisse un exemplum; che è proprio il contrario di quel che ci si aspetterebbe da lei se sul serio non fosse stata che l’intellettuale di provincia a cui, non senza snobistica ricercatezza, la si è voluta ridurre.14 Notevole è altresì che, dopo aver alluso, dolorosamente, ma nel segno di una complessa sobrietà, sia alla tragedia sanguinosa che l’aveva travolta, sia al «mal perverso» che aveva condiviso con il suo amante; dopo essersi mostrata ben consapevole del peccato commesso e dell’ostilità perciò suscitata nel «re dell’universo», il personaggio stilizzasse il dramma e, nel far ciò, tanto più lo intensificasse quanto più, appunto, lo detergeva dei suoi tratti più raccapriccianti, della sua contingente miseria. Alla «gentilezza», che è la cifra più autentica, anche se non esclusiva, della sua personalità, alla sobrietà e al buon gusto che ne discendono, Francesca aveva deciso, nel racconto
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che era sul punto di fare del suo dramma, di sacrificare ogni particolare che suonasse offensivo della civiltà sua, e del suo interlocutore. Non sorprende quindi, non solo che, nel rivolgere a Dante il suo saluto, si mostrasse sollecita della sua «pace», rammaricandosi di non potere, per questo, rivolgere a Dio la sua preghiera («se fosse amico il re de l’universo,/ noi pregheremmo lui de la tua pace/ poi c’hai pietà del nostro mal perverso» [vv. 91-93]), ma altresì che non dimenticasse Virgilio («e ciò sa ’l tuo dottore»),15 che evidentemente aveva riconosciuto, e al quale non poteva non indirizzare un cenno cortese. Mostrare conoscenza della sua opera non era esibita vanità di letterata dilettante, persino lì, nell’Inferno, desiderosa di riconoscimenti. Era proprio, al contrario, un gesto di cortesia e di consapevolezza.16 Francesca è una donna di animo «gentile»; ed è lei che si definisce così, perché è al suo «cor gentile» che, «ratto», l’amore si «apprese». Ma, come si è accennato, non è solo questo. È anche una donna forte, non priva di asprezza. Capace di restituire a Dante la «pietà» che questi le ha mostrata, ma anche di pronunziare lei, con voce vendicatrice, la sentenza che inesorabilmente colpirà chi «a vita» la «spense» (v. 107); e questo è, nel canto, un passaggio delicato, sul quale si dovrà tornare e discutere.17 Capace di confessare senza infingimenti quel che del resto era evidente, e cioè che anche lì, e questo è di nuovo un passaggio delicato, e problematico, nel luogo dell’eterna pena, bruciava in lei un fuoco analogo a quello che la perdé in vita.18 Ma anche, con inversa, se pur dolorosa freddezza, capace di scrutare le leggi obiettive sotto il cui segno la sua vicenda inesorabilmente si era compiuta. Come Ulisse, al quale per certi aspetti la sua figura è legata, anche Francesca è un’eroina, e perciò una vittima, come si è accennato, dell’ἀνάγκη.19 Come Ulisse teorizzerà il suo destino nell’«orazion picciola», che è come un’epigrafe idealmente posta sulla sua tomba marina, così anche Francesca teorizza il suo nella sequenza dedicata alle definizioni dell’amore. Ma con una differenza che, per comprendere i due personaggi, è essenziale. Ulisse è un antico eroe, assunto e condannato in un orizzonte cristiano nell’atto stesso in cui, per un altro verso, a questo si mantiene estraneo, ignorandolo. Le sue parole non contengono infatti alcun riferimento alla cultura del suo grande autore medievale; che poteva convenire con lui sull’«ardire», sul desiderio di conoscenza, persino sul senso dell’«oltre», che del resto al desiderio è intrinseco, e vi coincide, non però sull’infrazione di un divieto posto dal dio. Ulisse è, e resta, un perso-
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naggio mitico che, genialmente, Dante isolò in un tempo senza tempo, in un tempo, appunto, mitico, che non poteva essere il suo: ciò che costituisce la ragione del suo fascino, della sua ardua e impenetrabile grandezza. Francesca è invece un personaggio del mondo di Dante. L’orizzonte in cui trovò la sua dimensione più autentica è, non quello remoto del mito, che rende incommensurabili le distanze. È l’altro, mitico anch’esso nel contenuto, ma reso familiare e consueto dalla grande diffusione dei romanzi d’amore che lo ritraevano, e che a lei erano noti come a Dante: che perciò ve la incluse, come se, oltre che una lettrice, ne fosse stata un personaggio. Non è forse evidente che, nella tragedia d’amore condivisa con Paolo Malatesta, il libro era diventato qualcosa come una pagina della loro vera vita? Non è evidente che Francesca è Ginevra come Paolo è Lancillotto, mentre è il libro stesso, che a protagonisti ha quei personaggi, a farsi personaggio e a essere chiamato (da lei) con il nome di uno di questi? Non è forse evidente che, nell’atto in cui entrò a far parte del libro che leggeva, Francesca per un verso vi si storicizzò, rivelando la qualità della sua cultura e della sua anima, e, per un altro, vi si rese prigioniera? Oppure, e se si preferisce, vi si ambientò al punto da vivervi come un personaggio, e da non poter più distinguere la vita dalla letteratura; che la sostituì e, poiché quello era l’esito della storia che narrava, le impose le sue tragiche conclusioni? L’«oltre» di Ulisse è interno al suo desiderio che, in quanto tale, per definizione, guarda al di là, e perciò, senza coincidervi, ribadisce sé stesso rinviando a un ulteriore «oltre». L’«oltre» di Francesca è nella letteratura che va al di là della vita. È nella letteratura che la condusse al disastro. Di questi due diversi «oltre» entrambi, Ulisse e Francesca, furono gli eroi, come s’è detto; e le vittime. Quando, per Francesca, si è coniata la formula, destinata a più di una variazione, dell’intellettuale di provincia, non si è concessa sufficiente attenzione a una circostanza che avrebbe invece dovuto essere tenuta presente da quanti, provincia a parte, così la rappresentarono: come un’intellettuale, appunto, la cui tragedia non si direbbe in modo appropriato se la si facesse dipendere dai libri, ma che, certo, fra i libri era nata e fra questi, e per il loro tramite, si era consumata. La circostanza, a cui troppo poco si è badato, è che da nessuna fonte, che non sia quella dantesca, risulta che Francesca da Rimini fosse una letterata, così come solo dal quinto dell’Inferno deriva la conoscenza della fosca tragedia che, con quella di Paolo Malatesta, spezzò la sua vita.20 A differenza di Eloisa che, come è narrato nella Historia
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calamitatum, già prima che il dramma vissuto con Abelardo la rendesse famosa, «per habundantiam litterarum erat suprema»21 nell’intera Francia, la sua fama di letterata Francesca la ricevette, non da sé stessa, ma da Dante; che potrebbe infatti esser stato lui a inventarla, traendola dalla sua fantasia e combinando insieme notizie che, per sé stesse, non ci sono pervenute, ma anche potrebbe aver elaborato quel che, per lettura diretta o per sentito dire, gli era noto sia del celebre filosofo sia della vicenda che lo aveva legato alla sua giovane allieva, e aveva segnato il destino di entrambi. Si sa che il nome di Abelardo non ricorre mai nelle opere di Dante, in verso e in prosa. Ma, adducendo riscontri in alcuni casi persuasivi, A. Pézard22 ha notato la sua presenza in alcuni luoghi della Monarchia, del Purgatorio e del Paradiso, supponendo altresì che il suo nome e il suo pensiero potessero essergli noti sia per la fama delle condanne subite nel 1221 e nel 1240 e di quel che ne era nato, sia per la familiarità che egli aveva con gli scritti di due discepoli di Abelardo, John of Salisbury e Pietro Lombardo, sia, da ultimo, per «sa passion de connaissance» che potrebbe ritenersi si fosse estesa dai testi alla biografia.23 Ma, appunto, se dalla fama che largamente si era diffusa della vicenda in cui la passione d’amore aveva coinvolti insieme il già celebre maestro e la dotta allieva, Dante fu spinto a leggere il racconto che Abelardo ne aveva fatto nella Historia calamitatum, e qualcuna almeno delle lettere che i due amanti si scambiarono,24 non si stenta a credere che potesse esserne stato colpito: non soltanto per l’intreccio romanzesco, e per la qualche analogia che dovette riscontrarvi con la vicenda dei due amanti romagnoli, ma anche per la connessione fatale che poteva cogliervisi fra il libro e l’amore. Sia chiaro. Sarebbe assurdo, e si mostrerebbe di non conoscere il testo abelardiano, se si pretendesse che le due vicende fossero sovrapponibili. I personaggi dei due drammi sono simili, infatti, e diversi. Francesca era una signora sposata, Eloisa una giovanetta, una puella, che viveva nella casa, non di un marito, ma di un canonico, suo avunculus; e in comune con Paolo Malatatesta Abelardo non aveva se non la avvenenza fisica che, con compiaciuta generosità, aggiungendola alla fama che circondava il suo nome, riconosceva alla sua persona: «tanti quippe tunc noinis eram et juventutis et forme gratia preminebam, ut quemcunque feminarum nostro dignarer amore nullam vererer repulsam».25 Simili, ma diversi, i personaggi. Decisamente diverso lo svolgimento delle cose. Il dramma che coinvolse e travolse Paolo e Francesca è noto; e si concluse con la morte di entrambi per mano del marito tradito;
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il cui ruolo, e non certo allo stesso «modo», è interpretato, nella storia di Abelardo e Eloisa, dal canonico Fulbertus, l’avunculus, come si è detto, della puella, che alla vicenda impresse bensì una svolta decisiva, ma, a differenza di Gianciotto, non la suggellò con il sangue. Quello che coinvolse e travolse gli amanti romagnoli fu determinato da Amore, che della vicenda fu il vero protagonista, l’auctor incontrastato. L’altro che imprigionò Eloisa e Abelardo in un rapporto fatale, ebbe invece, e piuttosto, la sua prima radice nella incontinentia dell’uomo, deciso a piegare anche con la violenza («si neglegentem sentirem vehementer constrigerem»26) la giovane donna, che a quella passione non poteva perciò non acconsentire. Fra le due situazioni drammatiche notevole è, dunque, la differenza, che a nessun patto potrebbe perciò essere messa fra parentesi. Come mai allora dalla memoria di lontane letture è emersa questa storia, alla quale E. Gilson dedicò nel 1938 un libro discusso, e famoso?27 La risposta non è difficile se la ragione sia ricercata, non tanto nella trama delle rispettive vicende, e nelle analogie, non forti anche se non soltanto deboli, che possono ritrovarvisi, quanto piuttosto, come si è detto, nel nesso che vi si stabilì fra la cultura e l’amore, fra l’amore e il libro. A spingere Abelardo a conquistare le grazie di Eloisa fu certamente il suo desiderio, il suo ardore sensuale di «lupo», come si definì, «famelico»,28 la volontà di placarne l’impulso nel possesso della giovane donna; che, a sua volta, non poteva non aggiungere al fascino che proveniva dalla giovinezza, e dalla bella persona di colui che la desiderava, l’altro che emanava dal suo intelletto e dal suo sapere. Ma, anche qui, «galeotta» fu la cultura. L’inclinazione erotica era di per sé stessa fortissima. Ma a renderla irresistibile, e quindi a confermarla in questo carattere, fu l’atmosfera dotta in cui tutto si svolse: l’atmosfera della quale, a differenza di quel che accadde agli amanti romagnoli, entrambi oggetti e vittime della passione, Abelardo per altro si servì, facendone il consapevole strumento del suo desiderio. Lo disse, del resto, con estrema nettezza: «tanto autem facilius hanc mihi puellam consensuram credidi, quanto amplius eam litterarum scientiam et habere et diligere noveram». E, non senza crudezza, aggiunse: Quid plura? Primum domo una conjungimur, postmodum animo. Sub occasione itaque discipline, amori penitus vaccabamus, et secretus recessus, quos amor optabat, studium lectionis offerebat. Apertis itaque libris, plura de amore quam de lectione verba se ingerebant, plura erant oscula quam sententie; sepius ad sinus quam ad libros reducebantur manus, crebrius oculos amor in se reflectebat quam lectio in scripturam dirigebat. Quoque minus suspicionis
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haberemus, verbera quandoque dabat amor, non furor, non gratia, non ira, que omnium ungentorum suavitatem trascenderent. Quid denique? Nullus a cupidis intermissus est gradus amoris, et si quid insolitum amor excogitare potuit, est additum; et quo minus ista fueramus experti gaudia, ardentius illis insitebamus et minus in fastidium vertebantur.29
Subito dopo essersi realizzata, la convergenza della cultura e dell’amore si trasformava in divergenza. Era l’amore, infatti, che, nel caso di Abelardo e Eloisa, induceva a mettere da parte i libri per dare piena espressione a sé stesso e avere libero il campo. A differenza di quel che sarebbe accaduto a Paolo e a Francesca, non era il libro a suggerire e far nascere i tempi e i modi dell’amore; era l’amore che, mettendo al margine il libro dopo averlo usato, imponeva i comportamenti richiesi dalla sua natura. Che perciò ben presto i libri cedessero all’amore, sì che «plura erant oscula quam sententiae», nel caso di Abelardo e di Eloisa non può stupire. Per Francesca e per Paolo, il libro era stato un rivelatore dell’amore e, di questo, un simbolo. Per Abelardo, un’occasione, e uno strumento, di seduzione. E, con la differenza che rende manifesta, questa è una circostanza che non può essere trascurata.30 Se i versi del quinto canto fossero messi a confronto con queste descrizioni e considerazioni abelardiane, a prendere rilievo sarebbe, con qualche affinità («quoque minus suspicionis haberemus», «soli eravamo e sanza alcun sospetto» [v. 129]), la differenza che subito, fra gli uni e le altre, si noterebbe. In Dante la ricerca dell’essenziale, e, come esito di questa, il supremo controllo dei particolari, il bacio dei due amanti al v. 136, e, quindi, al v. 138, lo scultoreo: «quel giorno più non vi leggemmo avante», che allude bensì alla morte che per entrambi sta per sopraggiungere, ma, prima, all’amore che suggella in sé il senso della lettura e se la lascia alle spalle.31 In Abelardo, invece, e sia pure con moderazione, l’indugio su particolari realistici che, nell’atto in cui a essi si concedeva spazio, indicavano per un verso una tal quale disposizione al compiacimento morboso, per un altro la tendenza al pentimento e alla condanna moralistica. Sono differenze che si avrebbe torto se non le si sottolineasse. Ma, pur considerandole, si stenta tuttavia a credere che, se la ebbe sotto gli occhi, questa pagina abelardiana non abbia influito sulla fantasia di Dante. Il nesso stabilito fra la cultura e l’amore, e dall’ambiente monastico e intellettuale trasferito nella corte romagnola in cui Francesca leggeva romanzi e versi d’amore, potrebbe venire anche di lì. Derivò forse dall’aver conosciuta la dotta Eloisa se Dante rappresentò Francesca come un’intellettuale.
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Le differenze che, dopo aver notate le affinità, debbono cogliersi fra i due «episodi» si accentuano, non diminuiscono, se la vicenda di Eloisa sia seguita nella seconda parte del Roman de la Rose, e se di lei si legga la lettera che, messa in fondo alla Historia calamitatum, Jean de Meung tradusse in francese probabilmente negli ultimi anni del tredicesimo secolo.32 Nel Roman33 si legge che Eloise «requeroit que il [Abelardo] l’amast,/ mes que nul droit n’i reclamast,/ fors que de grace et de franchise», e quindi che non si vergognò («et n’en a pas honte») di scrivere, anche dopo che fu diventata badessa, queste irriverenti e quasi blasfeme parole: se li empereres de Rome,/ souz cui doivent estre tuit home,/ me daignet volair prendre a fame/ e fere moi du monde dame,/ si vodroie je mieuz, fet ele,/ et Dieu a tesmoign en apele,/ estre ta putain apelee/ que empereriz coronee.34
E nella lettera: Deum testem invoco, si me Augustus universo presidens mundo matrimonii honore dignaretur, totumque mihi orbem confirmaret in perpetuo possidendum, karius mihi et dignius videtur tua dici meretrix quam illius imperatrix.35
Ebbene, non solo in Francesca non c’è niente che consuoni con pensieri come questi, e invano nelle sue parole si cercherebbe anche soltanto una traccia dell’idea secondo cui, per usare le parole di un critico, «love outside marriage» è «a higher and nobler thing than any contract with its obligations», ma c’è, rispetto a quello esibito da Eloisa, un atteggiamento, in ogni senso diverso. Quello che in Eloisa è affermazione di spregiudicatezza e, con la critica rivolta a opposte convinzioni sociali, esibizione di radicalismo, in Francesca si presenta come la volontà che il discorso sia tenuto sul piano delle enunciazioni generali, quali discendono dalle tre anafore sull’amore, e al di sopra, quindi, di ogni provocazione. Con il triplice richiamo alla forza irresistibile dell’amore Francesca ha detto tutto. La premessa era infatti così limpida che ogni possibile conseguenza vi era leggibile senza necessità che fosse dichiarata e esibita. E qui sta il punto che più si vorrebbe riuscisse chiaro. Se, nell’ideare il suo personaggio, il pensiero di Dante andò al Roman de la Rose, alla Historia calamitatum, alla lettera di Eloisa che contiene le affermazioni che si sono lette, l’impressione è che sua cura fu, sopra tutto, di lavorare sulle differenze. L’amore da cui Paolo e Francesca furono vinti ha, nella sua irresistibilità, un tratto austero, che non gli consente di risolversi, e di essere rappresentato, nei particolari.
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Nessun dubbio, dunque, che Francesca sia un’intellettuale; che non ha però per patria la provincia. Se proprio si desiderasse aggiungere un aggettivo al sostantivo, si potrebbe definirla un’intellettuale coerente fino in fondo alla cultura della quale aveva fatto il suo emblema. Un’intellettuale che Dante delineò con incisiva potenza e dalla quale, mentre ne scolpiva il volto, prese le distanze. Se lo si considera dal punto di vista della «cosa» a cui mise capo, il racconto che Dante fece della sua vicenda costituisce infatti una sorta di implicita e non dichiarata autocritica che, attraverso le sue parole, i romanzi e le poesia d’amore compivano e conducevano al grado più alto.36 Della diffusione dei romanzi del ciclo arturiano, dei quali, da giovane, certamente era stato lettore, né lui né i suoi amici poeti avrebbero mai potuto esser detti, o dirsi, responsabili. Grande, tuttavia, come s’è detto, era stata la loro fortuna; né è facile capire che giudizio Dante ne avesse dato. Quel che si legge nel De vulgari eloquentia, I x 2, non dice niente sul loro contenuto: riguarda unicamente la lingua d’oil e il pregio che si riscontra in quel che le appartiene, («videlicet Biblia cum Troianorum Romanorumque gestibus compilata et Arturi regis ambages pulcerrime et quamplures alie ystorie ac doctrine»), mentre quel che nel Convivio, IV xxxiii 8-9, si trova asserito di Lancillotto, messo insieme, per questo riguardo, a Guido da Montefeltro, concerneva bensì il paragone con un personaggio che aveva calate «le vele delle mondane operazioni» nella sua «lunga etade», per rendersi «a religione», ma non implicava un giudizio necessariamente positivo sul romanzo nel quale furono narrate le sue imprese.37 Della poesia d’amore, ossia di averne scritte e di avere prodotto sul tema ben più di una variazione, Dante non poteva invece non sentirsi responsabile. Con Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia, e con altri di minor nome, era stato, nei recenti tempi, uno dei protagonisti della letteratura che allora si faceva a Firenze e in Toscana: forse, nella sua opinione, il protagonista. E a ravvivargliene la memoria, se pur fosse stato necessario, era ora, all’inizio del viaggio intrapreso nell’al di là, proprio Francesca che, dicendo «amor, ch’al cor gentile ratto s’apprende», era come se, con Guido Guinizzelli, anche lui citasse: lui, Dante, che aveva iniziato un celebre sonetto della Vita nuova, affermando che «amore e cor gentile sono una cosa». Responsabile, certo, Dante non si considerava nel senso che, mentre il poema procedeva e, nel procedere, consegnava al passato le poesie che a questo erano appartenute, nella sua letteratura di ieri, a sé stesso e agli
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altri, indicasse qualcosa di peccaminoso, o, quanto meno, di pericoloso. Se la si sostenesse nella forma che le si è data qui, questa sarebbe, non una tesi critica, ma una sciocchezza. Sarebbe una tesi non sorretta da alcun testo, e smentita da molti: si pensi agli incontri, nel Purgatorio, con Casella, con Bonagiunta, con Guido Guinizzelli.38 Non per questo, tuttavia, egli poteva ritenersi esente da ogni responsabilità. Nella letteratura d’amore della quale lui pure era stato autore, c’era infatti qualcosa, e per la verità più che qualcosa, che, al di là del topos, lasciava, quanto meno, intravvedere situazioni emotivamente insidiose. Situazioni che alludevano a idee disposte a essere svolte in teorizzazioni non lontane, per venire subito al punto, da quelle che Cavalcanti aveva puntigliosamente ragionate in Donna me prega: un componimento del quale poteva bensì, da parte sua, ammirarsi la sapienza tecnica, la ricercata raffinatezza della struttura, l’impegno filosofico; non però disconoscersi la pericolosità. Non erano infatti topoi, o soltanto topoi, quelli che quell’ardua canzone metteva in rilievo. Erano concetti tenuti insieme con il filo del «natural dimostramento», e svolti da un poeta al quale Dante era stato molto vicino, tanto che a lui aveva dedicata la Vita nuova. Era il poeta, anzi il grande poeta, il cui rapporto con l’autore della Commedia costituisce da decenni uno dei problemi più spinosi, ma anche più affascinanti e coinvolgenti, fra quanti se ne pongano per la comprensione dell’uno e dell’altro. Un problema sul quale molto è stato detto. Ma non tanto che qualcosa da dire ancora non resti. L’evocazione del nome e dell’opera di Guido Cavalcanti accade qui, non perché lo scopo sia di discutere e di decidere sul punto se la Vita nuova costituisca la risposta data da Dante alla grande canzone di quello che era, o era stato, il suo «primo amico», o se sia stata questa a esprimere il netto dissenso del suo autore nei confronti del «libello» scritto in lode di Beatrice.39 Accade, bensì, perché lo scopo è di argomentare a favore dell’ipotesi che, componendo il quinto canto dell’Inferno, e costruendo in quello il personaggio di Francesca, Dante vi rimeditasse il suo lungo percorso di poeta d’amore in relazione, non solo a quel che propriamente lo aveva via via costituito, ai temi di cui l’aveva intessuto, alle variazioni che vi aveva introdotte, ma anche e sopra tutto a Cavalcanti e alla sua cruda «filosofia»; che tanto più richiedeva di essere svelata nella sua pericolosità, quanto più, per un altro verso, e meglio lo si vedrà in seguito, dell’amore egli aveva fornita una rappresentazione che, in quanto questo fosse stato considerato in sé, e
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non idealizzato, poteva pur essere ritenuta inconfutabile.40 La situazione che verrebbe a determinarsi se a questa ipotesi si riconoscesse un minimo di plausibilità, e ci si disponesse perciò a seguire senza pregiudizi sfavorevoli gli argomenti con i quali sarà sostenuta, – questa situazione non è, d’altra parte, delle più semplici; e quando il momento sarà giunto, si comprenderà meglio perché, e in che senso, si dica così. Ma intanto si osservi che, se la si fosse giudicata con il criterio teorico cavalcantiano, che, non a caso, è in qualche modo riscontrabile negli argomenti che aveva presentati a Dante nel corso del suo colloquio con lui, Francesca non sarebbe stata né salvata né condannata. Non era infatti dinanzi a questa alternativa che Donna me prega conduceva. Se perciò cavalcantiano, nelle grandi linee e nelle implicazioni ultime, si rivelava il modo in cui Francesca aveva concepito l’amore, allora è evidente che condannarla non si sarebbe potuto se non criticando fin nella radice, e confutando, i concetti esposti nella grande canzone. Nel quinto canto la confutazione assunse la forma della condanna riservata a chi a concetti consimili aveva ispirato il suo comportamento. E si mantenne perciò sul piano, piuttosto del discorso morale, che non della dimostrazione del modo in cui l’amore dovesse essere inteso. Questa dimostrazione sarà data da Dante nei canti centrali del Purgatorio, nel decimosettimo e nel decimottavo; e, quando il momento sarà giunto, la si esaminerà per vedere come, a una concezione che aveva trovato in Cavalcanti un interprete, non solo di aspra e radicale coerenza, ma non disposto a riconoscere all’amore niente che appartenesse alle zone alte dello «spirito», e fosse da questo dominabile, egli ne opponesse una orientata proprio in questo senso, e l’amore finisse perciò per sacrificare alla moralità. Di tutto questo, e dell’esito paradossale a cui, senza volerlo, il «moralismo» di Dante per questa via andava incontro, quando il momento sia giunto, si discuterà. Per ora, è sull’ipotesi che è stata formulata che l’attenzione deve restare concentrata. E poiché è un’ipotesi, e con facilità potrebbe suscitare varia scontentezza, è evidente che, per difenderla e per offrire, al contempo, le ragioni della sua (eventuale) criticabilità, passare attraverso i versi di Donna me prega è inevitabile. Il passaggio costerà, senza dubbio, alquanta fatica. Ma, di sostenerne il peso, potrebbe valere pena.
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Note
1. Sulle principali interpretazioni a cui il quinto canto ha dato occasione, fino al 1968, cfr. A.E. Quaglio, Francesca, in Enciclopedia dantesca (d’ora in avanti ED), III, 1 b-13 a. Di altre, apparse in data posteriore, si dirà di volta in volta: cfr., per alcune indicazioni, G. Inglese, Francesca e le regine amorose. Per l’interpretazione di “Inferno” V 100-107, in «Cultura», 42 (2004), pp. 45-60. Di G. Inglese esce ora, mentre questo libro sta per essere licenziato per la stampa, il commento all’Inferno (Commedia, revisione del testo e commento di G. Inglese, Inferno, Roma 2007). Non sono riuscito a vedere il libro di H. Friedrich, Die Rechtsmetaphysik der Göttlichen Komödie: Francesca da Rimini, Frankfürt a. Main 1942, del quale ho notizia da P. Dronke, Francesca and Eloise (1975), in Id., The Medieval Poet and his World, Roma 1984, pp. 359-385, alle pp. 362-363, n. 6, che critica vivacemente la sua impostazione «antiromantica», e rileva nel suo argomento «fallacies that are essentially of the same type as the romantic ones he is combating» (p. 362). Mi dispiace di non essere fin qui riuscito a procurarmelo. Ma, come Dronke scrive, il libro è «a bibliographic rarity». 2. Inutile ricordare che il canto è stato studiato dai maggiori dantisti del secolo scorso, da Parodi a Barbi. 3. G. Petrocchi, Vita di Dante, Bari 1983, p. 30. Si sa che, come scrisse F. Torraca, Il canto V dell’Inferno (1902), in Id., Studi danteschi, Napoli 1912, p. 409, «nessuna cronaca contemporanea, nessun documento, ci ha conservato memoria» della tragedia; e che fu Dante, quindi, a tramandarla: per la discussione delle ricostruzioni dell’Ottimo e del Boccaccio, cfr. ibidem, pp. 409-420. Cfr. comunque, su Gianciotto e Paolo Malatesta, le «voci» di A. Vasina, ED, III, 783 a-b, 784 a-b. E ora anche Inglese, nel suo commento all’Inferno, p. 91. 4. Cfr., per esempio, C. Landino, Comento sopra la Comedia, a cura di P. Procaccioli, I, Roma 2001, p. 458, che collegò la leggerezza alla velocità, e questa all’essere i due dannati «più tirati dal vento», cioè all’avere «maggior pena, quale meritavano per essere cognati, et in grande stato, perché queste due circostanze aggravano el peccato». I versi di Giovenale, 8, 140-141 («omne animi vitium tanto conspectius in se/ crimen habet quanto maior qui peccat habetur») sono privi, mi sembra, delle implicazioni morali che vi colse il Landino, che li citò. È fortemente moralistico il commento delle Chiose filippine, a cura di A. Mazzucchi, I, Roma 2002, p. 204. Si noti, per altro, che dell’essere, Paolo e Francesca, «cognati», Dante non fece cenno nel quinto canto. Li chiamò così in Inf. VI 1-2: «al tornar de la mente, che si chiuse/ dinanzi a la pietà d’i due cognati…». 5. L’inscindibilità dei due personaggi è una modalità della punizione che essi patiscono nel secondo cerchio. E se non può essere interpretata alla maniera di F. De Sanctis, Lezioni e saggi su Dante, a cura di S. Romagnoli, Torino 1955, p. 646 («Francesca ha amato ed ama ed amerà, non può non amare […] Eternità d’amore, eternità di martirio. Il poeta ha voluto gittar nell’ombra il peccato!»), nemmeno però può esserlo secondo quella di M. Barbi, Francesca da Rimini (1932), in Id., Dante. Vita opere e fortuna, Firenze 1933, p. 172 (e anche in M. Barbi, Con Dante e coi suoi interpreti, Firenze 1941, pp. 119-120). Non, beninteso, perché, nel polemizzare con il Foscolo, egli non fosse nel giusto quando osservava
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che quello «stare insieme», in tanto si risolve «in un maggiore strazio dei due amanti», in quanto «rende più viva la memoria del peccato e più cocente il dolore, a vedere l’un nell’altro le gravi eterne conseguenze della colpa». Non per questo. Ma per la conseguenza che ne trasse, connettendo allo «stare insieme» il «maggiore strazio» e il «più cocente» dolore, e cedendo lui pure, per questa parte, alle suggestioni dell’interpretazione «romantica». Se questo fu il suo pensiero, allora, direi, certamente ebbe torto: per la ragione, specificamente «strutturale», che, Paolo e Francesca essendo gli unici a essere, fra quanti Dante ne vide nel secondo cerchio, «appaiati», la loro pena verrebbe a essere maggiore di quella degli altri. E questo, ovviamente, è impossibile. Dronke, Francesca and Eloise, p. 375, n. 29, ha osservato che «Francesca’s cherishing of her undividedness from Paolo does not necessarly imply that their suffering is eased by it». Verissmo; ma per la stessa ragione per la quale non è concepibile che sia, invece, reso maggiore. Anche Ulisse e Diomede sono posti insieme in un’unica fiamma. Ma non se ne deduce che perciò fossero puniti più, o meno, gravemente, e soffrissero più, o meno, di Guido di Montefeltro, che nella fiamma sta da solo. E lo stesso sarà da dire di Ugolino che, anche lui legato per l’eternità all’arcivescovo Ruggieri, non per questo soffre una pena maggiore, o minore, di quella che grava sui dannati che, nell’Inferno, condividono lo stesso luogo: frate Alberico, per esempio, o Branca Doria. Il che, deve aggiugersi, non ha a che fare con la questione del così detto ordinamento morale dell’Inferno, che Dante delineò nell’undecimo canto, e in particolare nei versi in cui trattò della distribuzione dei peccati nei vari gironi, distinguendo fra l’«incontinenza» che «men Dio offende» (v. 84) e gli altri, «malizia» e «matta bestialitade» (vv. 82-83), e collocando i peccati assumibili nel primo segno al di fuori, gli altri all’interno della città di Dite. Sulla questione del riferimento all’Etica nicomachea e delle aggiunte fatte da Dante a quanto di lì ricavava per la sua «classificazione» dei peccati, si soffermò, com’è noto, L. Pietrobono, Dal cerchio al centro. La struttura morale della Divina Commedia, Torino s.a., pp. 11-13, passim, per negare che, fra Aristotele e un cristiano la corrispondenza potesse essere perfetta, e anche per escludere che l’undecimo dell’Inferno contenga l’esauriente descrizione del suo ordinamento morale. La questione non può essere affrontata e decisa qui. Ma sull’undecimo canto, cfr. la «lectura» (1951) di B. Nardi, «Lecturae» e altri studi danteschi, a cura di R. Abardo, Firenze 1990, pp. 71-80, e ora le note di Inglese, nel commento all’Inferno, pp. 143-144. Ad alcune questioni concernenti il peccato della «superbia» ho dedicata qualche osservazione in un saggio, Dante, Ulisse, un’antilogia ovidiana e altre questioni, di prossima pubblicazione nella «Cultura». 6. Sulle affinità che possono notarsi tra Francesca e Ulisse, cfr. infra, p. 23. 7. Su Guido del Duca, cfr. E. Chiarini, ED, II, 324 a-325 a. Se, contro le riserve avanzate dal Torraca, Studi danteschi, pp. 137-185, e come sostenuto invece da P. Amaducci, “Sappi ch’io son Guido del Duca”, Forlì 1890, e, conclusivamente, Guido del Duca di Romagna, in «Atti e Memorie Deput. Storia patria Prov. Romagna», s. III, 23 (1905), pp. 538-587, nel personaggio dantesco fu identificato un figlio di Giovanni degli Onesti di Ravenna, e il suo ruolo fu, a Bertinoro fra il 1202 e il 1218, quello del giudice, in questi anni, e in quelli imediatamente successivi, dovrebbe all’incirca essere collocato il «tempo felice» rimpianto da Francesca nel discorso rivolto a Dante. Se è così, e perciò la sua breve vita si svolse in un tempo che non era già più quello rievocato da Guido del Duca, fra Inferno e Purgatorio si darebbe, per questa parte, nella valutazione della storia romagnola, una qualche sfasatura. Che, in ogni caso, Dante facesse parlare a Francesca il linguaggio
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di quella ormai trascorsa civiltà, mi sembra evidente; e vedo che così giudica anche I. Baldelli, Dante, i Guidi e i Malatesta, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», s. III, 18 (1988), pp. 1067-1070. Di lui si veda anche Dante e Francesca, Firenze 1999. Sulla rappresentazione dantesca della Romagna, cfr. osservazioni in A. Vasina, Romagna, ED, IV, 1818-1819, e G. Arnaldi, La Romagna di Dante fra presente e passato, prossimo e remoto, in «Cultura», 32 (1995), pp. 341-382. 8. Purg. XIV 102-111. 9. G. Contini, Dante come personaggio-poeta della Commedia (1957), in Id., Un’idea di Dante, Torino 1970, p. 42. E cfr. C. Garboli, Dante e Guido, in Id., Pianura proibita, Milano 2002, p. 153, che la definì (e perché mai?) «cattiva lettrice». Diversamente Garboli giudicava da giovane: si veda il suo saggio Struttura e poesia nella critica dantesca contemporanea, in «Società», 8 (1952), pp. 39-40, 41-42. Singolare, anche se in questa linea, ma francamente gratuito, il suggerimento di E. Sanguineti, Il realismo di Dante, Firenze 1966, pp. 24-25, secondo il quale Francesca è «una Bovary del Duecento, che sogna i baci di Lancillotto, e fruisce, in tragica riduzione, degli abbracciamenti del cognato». «Tragica riduzione» a parte, il paragone era già in R. Montano, Storia della poesia di Dante, I, Napoli 1962, p. 411. 10. Su questo punto, cfr. infra nel testo e n. 13. 11. Inf. XIV 43-66. 12. Inf. XXIV 121 ss., XXV 1 ss. Se, per altro, Capaneo è detto «grande» (ma sul senso che deve darsi a questo aggettivo, cfr. U. Bosco, Capaneo, ED, I, 814 b, che espone i risultati della critica più recente, alla quale aggiungerei J.A. Scott, Dante magnanimo. Studi sulla «Commedia», Firenze 1977, pp. 294-296, e per le differenze da Stazio, E. Paratore, Il canto XIV dell’“Inferno”, in Id., Tradizione e struttura in Dante, Firenze 1968, pp. 133134), Vanni Fucci si definisce «bestia» (v. 126) subito dopo aver asserito: «vita bestial mi piacque e non umana,/ sì come a mul ch’i’ fui» (vv. 124-125). 13. La questione meriterebbe di essere riesaminata bene al di là di questo magro accenno. Ma non in questa sede. Si osservi tuttavia che la distinzione avanzata nel testo fra la possibile consapevolezza del peccato e la «impossibile possibilità», per i dannati, del pentimento, deve essere tenuta ferma nella sua letteralità (si veda, per es., Thomae Aquin. Summa theol. III, Suppl., q. 4, 3, che chiarì benissimo la questione: «animae […] post hanc vitam, quae in patria sunt, contritionem habere non possunt, quia carent dolore propter gaudii plenitudinem. Illae vero quae sunt in inferno, carent costritione, quia etsi dolorem habeant, deficit tamen in eis gratia dolorem informans; sed illae quae in purgatorio sunt, habent dolorem de peccatis gratia informatum, sed non meritorium, quia non sunt in statu merendi»: ma si veda anche I, q. 64, aa. 1 e 2; II ii q. 13, a. 4: III, q. 86, a. 1; Suppl. q. 98, aa. 1 e 2; De malo, q. 16, a. 59); e che l’averla trascurta agì negativamente, in Paratore, Tradizione e struttura, pp. 228-229, nella discussione da lui eseguita in difesa della lezione «maturi», e contro l’altra, «marturi» (Inf. XIV 48) preferita da G. Petrocchi, Introduzione, a La Commedia secondo l’antica vulgata, Milano 1966, pp. 176-177. Ineccepibilmente, a mio parere, Petrocchi aveva osservato che, il verbo «maturare» significando «ammollire, rendere umile e mite», nel testo si sarebbe introdotta l’idea secondo la quale la pena avrebbe reso meno malvagio il peccatore che l’aveva meritata (nella fattispecie, la superbia di Capaneo, vinta, debellata e trasformata in mitezza). E a torto il Paratore gli obiettò che
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«vi sono dannati ai quali la pena dell’Inferno sembra aver dischiuso la piena coscienza della propria peccaminosità» (Paratore, Tradizione e struttura, p. 228); a torto perché, per i peccatori danteschi la questione non è se questa coscienza fosse o non fosse presente nella loro anima (questo può, a mio parere, essere senz’altro ammesso), ma se quella implicasse un travaglio, un tormento, un’angoscia, che, se mai fossero insorti in loro, li avrebbero connotati in termini etici, li avrebbero via via resi migliori. Il che è assurdo: come chiunque può comprendere considerando che, in questo caso, fra la pena comminata da Minosse e le anime si verrebbe a determinare nel tempo una discrasia, un difetto grave di reciproca congruenza. E ancora più assurdo in relazione al non essere tempo, ma eternità, quello in cui, per dir così, le anime sono immerse. (Nell’Inferno, il tempo è paradossalmente scandito dal cammino che, nel suo spazio, Dante e Virgilio vi percorrono; ma come questo si accordi con l’eternità, nella Commedia, salvo errore, non è spiegato). 14. Cfr. qui su, n. 9. 15. Inf. V 123. Sul significato di questa «consapevolezza» attribuita da Francesca a Virgilio, si è molto discusso, sia nell’antica sia nella moderna glossa: qualche esempio, in N. Sapegno, La Divina Commedia, I, Inferno, Firenze 19853, p. 64. Che qui, a differenza del Boccaccio (cfr. infra, cap. 7, n. 27), non possa intendersi che, attraverso Virgilio, Francesca alludesse, in modo specifico, al quarto dell’Eneide, mi sembra indubitabile: non c’è un solo momento, nel racconto virgiliano della sua tragedia, in cui Didone abbia, si direbbe, tempo e modo di rievocare, nella miseria, il tempo felice dell’amore che l’aveva stretta a Enea, perché, certo, tutt’altro è il significato di quel che si legge in 4, 307-308: «nec te noster amor nec te data dextera quondam/ nec moritura tenet crudeli funere Dido?» (e cfr. anche, 315-319); tutt’altro il significato di quel che si ricava da 4, 651-652. Non sarei inoltre sicuro che con quell’espressione di Francesca, Dante intendesse alludere al tempo felice di Virgilio, mettendolo in contrasto con la pena da lui sofferta nel Limbo. Il personaggio dantesco è avvolto nel manto di una tristezza tanto più profonda, nella sua sobrietà e assenza di enfasi, quanto più dal presente gli accadesse di andare indietro al passato, coinvolgendolo in sé: sì che attribuire proprio a lui un «tempo felice» significherebbe introdurre, nella sua musica, una nota non solo dissonante e stridente, ma, sopra tutto, falsa. Riterrei che il significato di quelle parole sia un altro: alla saggezza del «dottore», alla sua conoscenza profonda delle cose del mondo, non a sue passate esperienze di vita felice, Francesca alluse. A chi aveva cantata la tragedia della regina fenicia poteva ben attribuirsi la comprensione di quella di Francesca, della felicità del tempo in cui aveva vissuto il suo breve amore, e della sua presente, eterna «miseria». Contenutisticamente, la vicenda di Francesca non può essere assimilata a quella narrata nel quarto dell’Eneide; e questo è ovvio. Se non è senza un significato che, con Paolo, essa si trovi nella «schiera ov’è Dido» (v. 85), non arriverei per questo a parlare, con C. Villa, Tra affetto e pietà: per Inferno V, in «Lettere italiane», 41 (1999), pp. 534 e 538, del quinto canto come di «esercizio altissimo di translatio», in Francesca, di Didone (o della «serie Medea-Didone»). Ma il saggio della Villa è comunque notevole, ricco, sulla tonalità virgiliana del canto, di interessanti osservazioni. 16. Per i diversi significati che il termine «animale», con cui Francesca si rivolse a Dante (v. 88), assume nei vari contesti danteschi, può vedersi la «voce» di A. Adami, ED, I, 285-286. Ed è certamente vero quel che qui (p. 286) si sostiene, e cioè che, col definirlo così, l’intenzione di Francesca era di far intendere di aver bene capito che Dante stava visitando, da vivo, il regno che la accoglieva. Ma nella scelta di quel sostantivo credo che
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debba cogliersi un’intenzione dotta, una sfumatura di ricercatezza, come se, fin dall’inizio, alla gentilezza delle parole di Dante, Francesca avesse voluto rispondere, innanzi tutto, con gentilezza, ma anche in modi culturalmente adeguati a un personaggio che, per star compiendo un viaggio così eccezionale in compagnia di Virgilio, meritava che la parola gli fosse rivolta in quella forma. Farinata sarà, al riguardo, molto più sbrigativo. Lo chiamerà, avendo ascoltate le sue parole, «tosco», e quindi «vivo», perché come tale lo ha riconosciuto. E così, anche il Conte Ugolino: Inf. XXXIII 11-12: «… fiorentino/ mi sembri veramente quand’io t’odo». Che poi il dannato abbia riconosciuto in Dante un essere vivente, si deduce sia dai vv. 10-11 («io non so chi tu se’ né per che modo/ venuto se’ qua giù»), sia dall’esordio del suo discorso: «ma se le mie parole esser dien seme/ che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo» (vv. 7-8). Allo stesso modo, nel girone degli ipocriti dell’ottava bolgia, i due frati gaudenti, Catalano e Loderingo («o tosco, ch’al collego/ de l’ipocriti tristi se’ venuto…»). Cfr. anche F. D’Ovidio, Studii sulla Divina Commedia, Sandron, Palermo 1901, pp. 26, 561-562, 573-574. 17. Cfr. infra, cap. 7, n. 15. A proposito del v. 107, G. Gorni, Francesca e Paolo. La voce di lui, in «Intersezioni», 16 (1996), pp. 383-389, ha attribuita a Paolo la maledizione invocata sul capo di Gianciotto: come se alla sequenza tripartita sull’amore pronunziata da Francesca, la parola «morte» che la conclude lo avesse indotto a farsene lui autore. La proposta, che, come lo stesso Gorni ricorda (p. 386), riprende quella formulata da A. Rondani, Il marito di Francesca da Rimini, Parma 1890, che a sua volta la ricavava da altri, è suggestiva, e fu difesa da R. Renier nel «Giornale storico della letteratura italiana», 16 (1890), pp. 459-460. La proposta era, naturalmente, nota al Petrocchi, La “Commedia” secondo l’antica vulgata, II, Milano 1967, p. 90, che la respinse nettamente, e, a parer mio, a ragione. A favore della sua sostenibilità non è, infatti, se non il v. 108: «queste parole da lor ci fuor porte», che, interpretato alla lettera, lascerebbe infatti supporre che anche Paolo, e non solo Francesca, avesse rivolte a Dante le parole che fin lì si erano udite come risposta alla sua domanda: «o anime affannate,/ venite a noi parlar s’altri nol niega» (vv. 80-81). Gorni ritiene infatti che «dubbi in proposito» non dovrebbero esserci: «parlano tutti e due i cognati», dice infatti a p. 384; anche se, continuando, aggiunga che «nel corpo delle terzine la sola battuta che si addice a Paolo è», per l’appunto, quella concernente la Caina. Certo, sarebbe stato singolare che Paolo avesse parlato anche nelle terzine contenenti la triplice anafora sull’amore, e che quelle parole fossero state dette all’unisono. Ma ancor meno plausibile sarebbe stato che all’unisono con Francesca il personaggio avesse parlato dove, per esempio, costei narrava della sua nascita e della sua terra. In realtà, che il plurale del v. 108 stia a indicare, non già che anche Paolo parlasse, ma che il suo discorso era come contenuto in quello di Francesca, che parlava anche per lui, è provato, direi, dal contesto della risposta. In questa è Francesca il soggetto che parla e che dà informazioni sulla sua nascita e la sua terra («siede la terra dove nata fui»), mentre Paolo non è che l’oggetto della sua narrazione (vv. 100-101), nella quale non entra se non in riferimento a lei che parla e, della tragica vicenda, si pone come l’assoluta protagonista. Per rendere plausibile l’intervento di Paolo nel discorso, evitando le ovvie incongruenze che altrimenti insorgerebbero, si dovrebbe appunto potergli attribuire quelle sole parole minacciose di vendetta, come se a lui spettasse di concludere il discorso che Francesca, e lei soltanto, aveva condotto fin a quel punto. Che è impossibile, perché, ai vv. 139-140, è asserito con chiarezza che «mentre che l’uno spirto questo disse,/ l’altro piangea»; e perché così il personaggio è stato concepito, e
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questa è la sua coerenza. Attribuirgli la paternità di quell’aspra sentenza, e toglierla perciò a Francesca, significherebbe in realtà andare in senso inverso alla coerenza più profonda dei due personaggi. A quella di Paolo, che deve rimanere sullo sfondo, e quasi nell’ombra, perché della vicenda d’amore che lo coinvolse, protagonista in tutti sensi, non solo emotivo, ma anche culturale, è la donna, è Francesca. A quella di quest’ultima, perché l’idea che, nel fondo della sua passione, non si nasconda se non la «gentilezza» di una creatura fragile e indifesa, – questa idea è l’ultimo baluardo, e non il più pregevole, dell’interpretazione «romantica» della sua figura. Nella quale c’è la cortesia, c’è la gentilezza, c’è il desiderio di esercitare e di ricevere la pietà. Ma anche c’è, in non conciliabile contrasto con quelle qualità, la impossibiltà di pentirsi del «mal perverso» di cui si era resa protagonista nel mondo. Come essa stessa spiegava, l’amore che l’aveva travolta era una forza invincibile; e a una sola condizione Francesca avrebbe potuto pentirsene: se, contro la logica delle sue massime, sul «talento» avesse potuto e saputo innalzare la «ragione», cessando quindi (e questo sarebbe stato impossibile) di essere il personaggio dannato che invece è. Ci sono molte anime in Francesca; e questa è la sua ricchezza. Ma sono anime in contrasto, ferme in sé stesse, immobili l’una contro l’altra, incapaci di superamento e di vittoria. Vittima della violenza dell’amore, e del pugnale che «spense» la sua vita, – questa violenza è anche in lei che, come ogni altra anima «lussuriosa», essa pure bestemmia la «virtù divina»; e non fa meraviglia che alla violenza risponda con la violenza, e al suo uccisore preconizzi un atroce castigo infernale. Francesca ha poco a che vedere con i «fragili fiori a cui ogni leve soffio è mortale» dei quali, raffigurandovela, parlò De Sanctis, Lezioni e saggi su Dante, p. 639. 18. Dico analogo, e non senz’altro lo stesso, perché è difficile decidere se, nel luogo della pena, Francesca fosse ancora posseduta dall’amore che la vinse in vita; e se dunque, giù nell’Inferno, intrecciato al dolore, quel sentimento ancora sopravvivesse. Si sarebbe tentati di rispondere di sì, se, prescindendo per un momento dal v. 102 e dalle parole «e il modo ancor m’offende», che lo concludono, si desse questo significato al v. 105 («che, come vedi, ancor non m’abbandona»). Ma all’esegesi puntuale di questo difficile passaggio, ritengo che debba essere premessa una considerazione di carattere strutturale, che, orientata in senso contrario a quello presente nelle interpretazioni romantiche, o di gusto romantico, possa poi, in qualche modo, servire da guida. Per sostenere la tesi secondo cui, nell’Inferno, Francesca è ancora vittima dell’amore che le fu in vita cagione di morte, per sostenere questa tesi, che fu resa celebre da De Sanctis, e si trova, non solo in B. Croce, La poesia di Dante, Bari 19435, pp. 72-73, ma, a tacere di altri che stanno su questa medesima linea, anche è, per esempio, in A. Pagliaro, Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia, I, Messina-Firenze 1967, pp. 141 ss. (ma cfr. il precedente, “… e ’l modo ancor m’offende”, in Saggi di critica semantica, Messina-Firenze 1953 pp. 331-353), occorrerebbe poter superare l’obiezione secondo cui sarebbe tanto inammissibile che, nel luogo dell’eterna pena, l’amore si conservasse quale fu in vita, con il tormento intrinseco alla condizione sua di desiderio, ma anche con la gioia e il piacere che, a tratti, ne derivano, quanto in effetti lo sarebbe che, oltre il dolore, l’Inferno includesse in sé anche il piacere. Ma l’obiezione non sembra essere superabile (e mi par chiaro che nemmeno F. D’Ovidio ebbe a proporsela là dove, L’episodio di Ugolino, in Nuovi studi danteschi, I, Napoli l932 p. 4, dopo aver detto dell’indivisibile unione di Paolo e Francesca come del «suggello della colpa comune», in quello vide anche il segno del «mutuo amore pervicace, eterno, eternamente caro e doloroso a un tempo»). Se quindi, alla luce di questa considerazione, che non mi pare possa essere
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trascurata, si torna sui vv. 100-102, e, in particolare, sia su «e ’l modo ancor m’offende» (v. 102), sia su «ancor non m’abbandona» del v. 105, si ammetta pure che, nel primo, «offendere» significhi, o possa significare (come per primo notò Francesco da Buti nel suo Commento sopra la Divina Commedia di Dante, pubbl. per cura di C. Giannini, I, Pisa 1838), e come fu poi, ai giorni nostri, ribadito e argomentato da Pagliaro (e condiviso, per es., da Sapegno, I, p. 62), «vincere»; e si debba perciò riferirlo, non alla crudele uccisione che, con il suo amante, Francesca patì per mano del consorte tradito, ma all’amore. Resterebbe in ogni caso da decidere se, nel fare dell’amore il soggetto di «offendere», s’intenda che, nel secondo cerchio infernale, quello potesse essere lo stesso che in vita non andò disgiunto dal piacere; se «vinta» Francesca ne fosse ora allo stesso «modo» di allora, o, se, fermo restando il suo esserlo stata, il «modo» ora fosse diverso da come era stato al tempo «d’i dolci sospiri»: diverso perché, privato del «piacere», a caratterizzarlo non era rimasto se non il dolore. Che, di queste due alternative, sia la seconda a esser conforme alla «ragione strutturale», e altresì a quella poetica, mi sembra evidente. E, se è così, il v. 105 non potrà non essere ricondotto a questo significato fondamentale: e dovrà perciò essere inteso nel senso che, nell’Inferno, Francesca sta bensì sotto il segno dell’amore, ma dell’amore quale può essere avvertito in quello, che è il luogo dell’eterna pena, e, non si dimentici, della «miseria» (v. 123). Deve tuttavia, e per onestà, osservarsi che, mentre niente sembra ostare all’interpretazione che qui è stata proposta del v. 102, una seria questione si pone invece a proposito del v. 104: dal momento che, esplicitamente, Francesca parla del «costui piacer», e lo definisce «sì forte» che ancora non la abbandona. Poiché questi due versi dicono con chiarezza che dalla bellezza («piacer») di Paolo, Francesca è ancora vinta, nella coerenza strutturale dell’episodio si determina una sfasatura. Dalla quale non si potrebbe mai, comunque, risalire, rinverdendola, alla tesi del così detto contrasto, in Dante, della ragione teologica con quella dell’umanità e dell’arte (se ne veda una variante nel libro di M. Rossi, Gusto filologico e gusto poetico. Questioni di critica dantesca, Bari 1942, pp. 93-94): non fosse che per la semplice ragione che quel contrasto sarebbe, non una sfasatura, ma un autentico contrasto, se si supponesse che, condannata con le parole, Francesca fosse assolta dal sentimento profondo di Dante, campione di universale umanità, o, semplicemente, poeta. In realtà, che nella delineazione dantesca di Francesca il v. 105 introduca un elemento che la struttura non riesce a riassorbire, e faccia risuonare una nota che è come se stesse a sé producendo, nell’insieme, una dissonanza, è innegabile. Ma quella nota non sarebbe apprezzata nel suo significato qualora se ne facesse il testimonio del sentimento che si sottrae alla ragione, o altro del genere. La «pietà» che Dante prova nei confronti degli amanti romagnoli, come già prima per «le donne antiche e’ cavalieri» (v. 71), sarebbe gravemente equivocata se la si prendesse nel senso di «assoluzione». Non così potrebbe mai esser letto il quinto canto, dove «perverso» è definito il «male» compiuto dai «due cognati», che hanno perciò nemico il «re de l’universo»; e non quella, non l’assoluzione, vi si potrebbe mai trovare, a meno che non ci si volesse divertire ad assegnare alle parole di Dante un significato opposto a quello che pur hanno nel loro contesto. Se, per altro, il v. 105 introduce nella concezione la nota dissonante di cui si è detto, una conferma di questa potrebbe essere indicata nei vv. 77-78 «e tu allor li prega/ per quell’amor che i mena, ed ei verranno». Ma il significato di questi versi è incerto, o si restituisce, comunque, con fatica. L’identificazione che si è voluta vedervi dell’amore e della bufera che travolge in circolo le anime dei lussuriosi non può dar luogo alla dissociazione del momento strutturale da quello poetico; anzi al suo ribadimento: se
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c’è identità, i due dannati risponderanno all’appello di Dante in forza sia dell’amore sia della punizione che gli si infligge laggiù. (Vorrei aggiungere che il «mal perverso» di cui Dante ha provato «pietà» non può essere se non la passione d’amore da cui Francesca e Paolo furono travolti, e non la pena che quella ha meritata. Decretata da Dio, la pena non potrebbe in nessun caso esser detta «perversa», ossia deviante dall’«ordine», secondo il senso dato all’aggettivo in Conv. I vii 4: «perverso» potrà bensì essere definito l’amore, come in Così nel mio parlar vogli’esser aspro, vv. 40-41: «egli alza ad ora ad or la mano, e sfida/ la debole mia vita esto perverso». Ma non certo Dio, creatore di ogni ordine). Un netto rifiuto della interpretazione del Pagliaro fu espresso da G. Padoan, Fine di una (troppo) fine interpretazione. A proposito di Inf. V 102 (1983), in Id., Il lungo cammino del poema sacro, Firenze 1993, pp. 189-200, con argomenti diversi da quelli esposti qui su. A proposito della questione relativa all’attualità dell’amore nel luogo d’Inferno in cui Paolo e Francesca sono condannati, vorrei aggiungere che non so donde il Padoan traesse la convinzione che «il contatto di quei due corpi, che in vita diede piacere, ora, per lo sbattimento della bufera, reca dolore, reso più aspro dal ricordo del tempo felice» (p. 199). Forse dall’essere la «bufera infernal» l’allegorico contrappasso della passione d’amore, e che di quella i due corpi intrecciati di Paolo e Francesca non avrebbero potuto non risentire il violento e negativo contraccolpo? Sia pure, anche se vi sia della consequenzialità estrinseca, nell’osservazione del Padoan. 19. Cfr., per il primo, il mio L’ananke di Ulisse, in «Annali dell’Istituto italiano per gli studi storici», 18 (2001), pp. 47-123. 20. Torraca, Studi danteschi, p. 409. 21. Abelardi historia calamitatum, texte critique avec une Introduction publié par J. Monfrin, Paris 1959, p. 71. 22. A. Pézard, Le sceau d’or: Dante, Abélard, saint’Augustin, in «Studi danteschi», 40 (1960), pp. 29-93, e Id., «La rotta gonna». Gloses et corrections aux textes mineurs de Dante, II, Firenze-Paris 1969, pp. 96 ss. 23. Sulla tradizione manoscritta della Historia calamitatum, che è in realtà una Consolatoria, si veda l’Introduction di Monfrin all’ed. cit., pp. 9 ss. E cfr. infra, n. 24. 24. Sulla questione un cenno dubitativo nel saggio di Dronke, Francesca and Eloise, p. 382 e n. 43. Cfr., al riguardo, J. Dalarun, Nouveaux aperçus sur Abelard et Héloise et le Paraclet, estr. da «Francia. Forschungen zur Westeuropäischen Geschichte», 32/1 (2005), pp. 21 ss. Ma si veda anche, con valutazioni al riguardo diverse, quel che aveva scritto, in un saggio importante, F. Troncarelli, «Immoderatus amor». Abelardo, Eloisa e Andrea Cappellano, in «Quaderni medievali», 34 (1992), pp. 6-58. 25. Abelardi historia calamitatum, ed. cit., p. 71. 26. Ibidem, p. 72. 27. Sono tenuto, in questo punto, a una precisazione. Quando scrivevo queste pagine concernenti l’analogia sussistente fra la vicenda degli amanti romagnoli e quella di Eloisa e Abelardo, non conoscevo il saggio di Dronke, Francesca and Eloise, che mi fu segnalato da Paolo Falzone quando seppe che di quella (possibile) analogia mi stavo occupando nel presente scritto. Lo spunto a trattarne mi era venuto da ciò che, avendo ripreso in mano, dopo cinquantasette anni, il libro di Gilson, e avendovi ritrovate vecchie schede concernenti anche la Historia calamitatum, l’analogia con il caso di Francesca e Paolo mi era all’improvviso balzata agli occhi, e ne avevo fatto oggetto delle pagine che possono leggersi qui su. L’igno-
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ranza è comprensibile, ma non scusabile, nemmeno in cose che riguardino l’incontrollabile bibliografia dantesca: anche se, in questo caso, una circostanza attenuante stia forse nella relativa «rarità» del saggio di Dronke, che, malgrado la fama dell’autore, e le cose notevoli che vi sono dette, compare di rado nella letteratura concernente il quinto canto (se ne trova, per es., una menzione in Inglese, Francesca, p. 45, n. 1, che però non lo usa per il paragone, e forse per questo non fermò la mia attenzione e mi sfuggì), sia, per conseguenza, nell’assenza, in questa, di riferimenti al celebre «caso» di Abelardo e Eloisa. Con l’eccezione delle osservazioni concernenti il Roman de la rose, che sono state aggiunte dopo che ebbi letto il saggio di Dronke, e per le quali, anche se siano diversamente orientate, gli sono tributario, il resto è frutto di una spontanea concordanza: parziale, per altro, perché, come dico nel testo, posto che, quando componeva il quinto dell’Inferno, avesse in mente la Eloisa tratteggiata da Jean Clopinel de Meung, autore, fra il 1275 e il 1280, della seconda parte del Roman, nel delineare il personaggio di Francesca Dante se ne allontanò in modo tanto più netto quanto più, per la sua parte, ne facesse una vittima dell’amore. Ma di questo dico nel testo. 28. Abelardi historia calamitatum, ed. cit., p. 71. 29. Ibidem, pp. 72-73. L’interesse che Dante poté avere per la storia di Abelardo e Eloisa si ferma a questa sua prima fase. Il resto, il matrimonio segreto e quel che ne conseguì, cadeva comunque al di là, e, posto che l’avesse conosciuto, non aveva niente di comune con la vicenda degli amanti romagnoli. Sull’insieme dell’episodio, resta fondamentale il libro di E. Gilson, Eloisa e Abelardo, tr. it., Torino 1950. Mi sembra che l’essenziale, per l’interpretazione di quel complesso rapporto, sia nelle parole di Eloisa, Epist. VI, Patr. Lat. 178, 213 a: «Domino specialiter, sua singulariter», ossia di Dio in quanto monaca, di Abelardo in quanto donna. Cfr. Gilson, Eloisa e Abelardo, pp. 110-111. 30. Come è invece accaduto a Dronke, Francesca and Eloise, pp. 379-381, al quale è quindi sfuggita la cura con cui Dante essenzializzò la vicenda di Paolo e Francesca, depurandola, non solo dei particolari erotici che sono invece presenti in Abelardo, ma anche delle istanze «ideologiche» che vi compaiono. A parte il «bacio» del v. 136, il resto è rivelato, e celato, dal v. 138: «quel giorno più non vi leggemmo avante». 31. A ragione, con altri, U. Bosco e G. Reggio (La Divina Commedia, I, Inferno, Roma 2005, p. 148) escludono che, come altri intese, Francesca qui alludesse alla morte che a lei e a Paolo fu data da Gianciotto, e, con finezza, parlano dello «schermo del pudore» dietro il quale il personaggio nascose il suo cedimeno alla passione. Soltanto in parte così aveva giudicato De Sanctis, Lezioni e saggi su Dante, p. 644, il quale, infatti, preferiva che il significato del verso dovesse «rimaner vago e dubbio e indefinito», e si sdegnava quando vedeva «gente volgare, curiosa e pettegola gironzare intorno a così delicate concezioni». E solo in parte ebbe ragione perché, a parte lo sdegno nei confronti dei «pettegoli», il «denso velo» con cui Francesca coprì la scena del suo amore non è in sé né vago né dubbio né indefinito, e a quella si riferisce, non ad altro, la finezza del suo sentimento consistendo appunto nella barriera innalzata a protezione del suo pudore. In questo senso, già, per es., Landino, Comento sopra la Comedia, I, p. 466. 32. Dronke, Francesca and Eloise, p. 381. 33. Sulla presenza del Roman de la Rose nella Commedia, esempi in G. Contini, Il Fiore, ED, II, 900 b.: cfr. anche Id., La questione del “Fiore”, in «Cultura e scuola», 13-14 (1965), pp. 770-772, e, naturalmente, l’Introduzione alla sua edizione, Milano 1985.
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34. Roman de la Rose, ll. 8743 ss. (ed. F. Lecoy, II, Paris 1966, p. 18). 35. Abelardi historia calamitatum, ed. cit., p. 114. La traduzione in francese che di questo passo dette Jean de Meung, in Dronke, Francesca and Eloise, p. 381, n. 41. 36. Di una netta condanna di questa letteratura, ma anche del giovanile stilnovismo, che sarebbe implicita nella concezione dell’episodio di Francesca, parlò R. Montano, Il peccato di Dante, in Id., Suggerimenti per una lettura di Dante, Napoli 1956, pp. 181-185. Il quale distinse fra il poeta che rappresenta, giudica e condanna, e il pellegrino che, di volta in volta, si trova a essere ancora irretito nelle varie passioni mondane del suo passato, e che, giunto dinanzi a Francesca, prova «pietà», ne è travolto, e cade «come corpo morto cade», per poter risorgere a nuova vita. Il Montano è tornato sull’episodio nella sua Storia della poesia di Dante, I, pp. 398-413. Sulla questione dello stilnovismo, cfr., per esempio, quel che ne dissero G. Paparelli, Ethos e pathos nell’episodio di Francesca da Rimini, in Id., Questioni dantesche, Napoli 1967, pp. 133-179, e D. Mattalia, Moralità e dottrina nel canto V dell’Inferno, in «Filologia e letteratura», 8 (1962), pp. 4l-70 (ma cfr. anche il suo commento alla Commedia, I, Milano 2000, pp. 120-121). Qui, anche in relazione al Montano, basterà dire che se, all’interno dello «stile» poetico, condiviso e praticato in gioventù, nella Commedia Dante giungerà per vie interne, a criticarne alcuni aspetti, di altri invece si compiacerà di rivendicare il modo originale in cui li aveva trattati lui, che a questa consapevolezza darà espressione sopra tutto nel breve dialogo con Bonagiunta nel ventiquattresimo del Purgatorio (cfr., al riguardo, l’equilibrato commento di U. Bosco, Il nuovo stile della poesia dugentesca secondo Dante, ora in Id., Dante vicino. Contributi e letture, Caltanissetta-Roma 1966, pp. 44-54); e che, comunque, gioverà distinguere, nell’episodio di Francesca e poi nella trattazione dedicata all’amore nei canti decimosettimo e decimottavo del Purgatorio, la parte del Guinizzelli da quella del Cavalcanti, sopra tutto, di Donna me prega. Di quest’ultimo punto tratterò nei successivi capitoli. Ma, per quanto riguarda il Montano, vorrei dire che se, per certi riguardi, la distinzione da lui proposta fra il poeta e il pellegrino è plausibile, e argomentata non senza ingegnosità, si avrebbe torto se la si interpretasse come se, fra il poeta e il pellegrino, dovesse porsi uno scarto, e la «pietà» fosse assegnata alla sopravvivenza, nel primo, di un passato che non riusciva a «passare». Poiché quel «presente» e quel «passato» non potrebbero non esser comunque entrambi presenti nella realtà letteraria del canto, sottolinearne il divario ricondurrebbe, per una via specifica, proprio nel centro dell’interpretazione romantica (da una parte la struttura, da un’altra la pietà) che quel critico animosamente combatteva, tanto che a determinarsi sarebbe qualcosa come un singolare contrappasso all’aggressività ideologica che costituì una nota costante del suo atteggiamento critico. Una nota che si accentuò, se possibile, nel tempo: come può vedersi nei due volumi, Storia della poesia di Dante, qui sopra citati. Aggiungerò che non è necessario intendere l’ultimo verso del quinto canto come se Dante vi alludesse a un morire per rinascere. Questo è in genere vero, in senso generalissimo, per l’impianto complessivo della Commedia; ma in modo soltanto indiretto per il comportamento tenuto dinanzi a Francesca. 37. Sul passo del Convivio, cfr. il commento di C. Vasoli (in Opere minori, II/2, Milano-Napoli 1988, pp. 866-867). 38. Purg. II 76-116, dove, nella brusca interruzione che Catone farà dell’estatico concerto di Casella, intonante Amor che nella mente mi ragiona, e nel perentorio invito, o, piuttosto, comando, da lui rivolto alle anime perché si «spogliassero» lo «scoglio/ ch’esser non lascia a voi Dio manifesto» (vv. 122-123), non vorrà leggersi una critica dello stilnuo-
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vo, identificato in un ostacolo che impedisce la vista di Dio. Di Bonagiunta e del canto in cui compare, si è già detto. Per Guinizzelli, cfr. Purg. XXVI 91 ss. («… il padre/ mio e de li altri miei miglior che mai/ rime d’amor usar dolci e leggiadre»). 39. La questione è stata alcuni anni fa riesposta e studiata da E. Malato, Dante e Guido Cavalcanti. Il dissidio per la “Vita nuova” e il “disdegno” di Guido, Roma 1992, il quale ritenne che Donna me prega sia la risposta data da Cavalcanti al «libello» di Dante. Nello stesso senso, G. Tanturli, Guido Cavalcanti contro Dante, in Le tradizioni del testo. Studi di letteratura italiana offerti a Domenico de Robertis, a cura di F. Gavazzeni e G. Gorni, Milano-Napoli 1993, pp. 3-13. Un’indicazione in questo senso era già nel commento di De Robertis alle Rime di Cavalcanti (Torino 1986, p. 94). E cfr. anche C. Paolazzi, La maniera mutata. Il “dolce stil novo” tra Scrittura e “Ars poetica”, Milano 1998, pp. 270-283, e N. Pasero, Cavalcanti in Dante. Ancora sul rapporto tra “Vita nuova” e “Donna me prega”, in «Medioevo romanzo», 22 (1998), pp. 388-414. Contra, M. Marti, in «Giornale storico della letteratura italiana», 185 (1998), pp. 268-284, e F. Brugnolo, Cavalcanti cortese. Ancora su “Donna me prega”, vv. 57-62, in «Critica del testo», 4/1 (2001), pp. 166-167 e, in parte, G. Inglese, L’intelletto e l’amore. Studi sulla letteratura italiana del Due e Trecento, Firenze 2000, pp. 12 ss., 48-52. 40. Cfr. quel che in seguito si dirà nel commento dei canti diciassette e diciotto del Purgatorio.
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Poiché, sia pure in funzione d’altro, deve parlarsi di Donna me prega, è inevitabile ricorrere a Dante e a sé stessi confidare che «di nuova pena» convien «far versi». Quando la si legge per la prima volta, la grande canzone di Cavalcanti si ritrae come in uno scrigno chiuso da sette sigilli. E proprio non si riesce a penetrarvi dentro. Poi, le letture succedendosi alle letture, e con l’aiuto delle tante esegesi che a partire da quella di Dino del Garbo, le sono state dedicate fino a ieri, qualche sigillo comincia a disserrarsi, come la neve nel celebre paragone di Dante. Ma accade anche che, mentre alcuni sigilli si aprono, altri tornino a chiudersi, e quel che s’era creduto di aver capito si copra con il velo nero dell’incomprensibilità, finché, riapertisi quelli che di nuovo si erano chiusi e impedendo agli altri di richiudersi anch’essi, pur con qualche persistente dubbio possa confidarsi che, nelle grandi linee, la canzone sia stata decifrata, che il suo senso e il suo significato siano stati infine svelati. Proviamo dunque a far vedere quale sia stato il risultato della decifrazione, quale senso sia stato possibile trarre dalla canzone: e, anche, se si possa considerarla come un documento, coerente in ogni sua parte, di aristotelismo radicale, ossia, per chiamare le cose con il loro nome, di averroismo. Aristotelico, nelle grandi linee, ma (conviene dirlo subito) non senza anomalie, anche gravi, è il concetto di «accidente» che, fin dall’inizio, compare nella definizione dell’amore.1 Un concetto che, sia stato formulato prima, o dopo, è simile, ma non identico, a quello a cui anche Dante aveva accennato in un capitolo (XXV 1) della Vita nuova.2 Qui l’amore era stato velocemente definito come un «accidente in sostanzia»: in modo simile, dunque, ma, come si è detto, non identico a quello tenuto da Cavalcanti.
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Presso quest’ultimo, mancando un riferimento esplicito alla «sostanza», il cui posto fu in qualche modo tenuto dall’anima sensitiva nella quale «prende suo stato», l’«accidente» risultava connotato come «fero» e, in seconda battuta, come «altero» (vv. 2 e 3), non senza che, a queste connotazioni, tenesse dietro, nei versi successivi, un’impegnativa definizione filosofica, assai diversa da quella che Dante aveva accennata e condivisa nel «libello». E assai diversa, dovrà subito dirsi, anche da quella di Aristotele e dei suoi interpreti medievali; tanto che converrà perciò tenerla ferma nel suo carattere autentico. Lo si dica subito, in modo che, fin dall’inizio, il lettore abbia sotto gli occhi la tesi che a lungo, qui di seguito, sarà svolta. Senza che mostrasse di avvedersene, quello che l’autore di Donna me prega definiva come «accidente», e che, conforme alla definizione, non avrebbe dovuto e potuto essere preso come un «soggetto» di predicazioni, proprio così, invece, come un soggetto di predicazioni era assunto. Dalla «ferità» e dall’«alterezza» mostrava infatti di essere segnato come un soggetto, e dunque una sostanza, lo è dalle predicazioni che le si aggiungano e la determinano. E sia pure che, all’«accidente» chiamato «amore», quelle predicazioni fossero così intrinseche da non potersi concepire che quello «accadesse» senza queste. Sia pure che, non συμβεβηκώς gli appartenessero, ma ἐξ ἀνάγκης. Resta che, sia pure all’interno di questa necessità, altro è «ciò a cui» qualcosa appartiene, altro è quel che, appartenendogli, se ne distingue, e, nel distinguersene, mai potrebbe accoglierlo. Altro è l’accidente che, poiché si predica della «ferità» e dell’«alterezza», sta a sé, le precede, le riceve e si comporta, per questo riguardo, come una sostanza. Altro la «ferità» e l’«alterezza» che, senza quel soggetto, e comunque un soggetto, non potrebbero sussistere. Insomma, sono la «ferità» e l’«alterezza» ad appartenere, per lo più («sovente»), all’accidente; non è questo ad appartenere alla «ferità» e all’«alterezza». In breve, se non nella definizione, nel comportamento l’accidente tendeva, per alcuni suoi tratti, ad assumere il volto della sostanza. Che nei confronti di Aristotele, e dei suoi commentatori, questa fosse un’anomalia, è evidente. E quale che possa esserne stata la ragione (inavvertenza logica, influsso del topos, e via dicendo), resta che non si può non notarla nell’atto in cui alla definizione aristotelica si presti la dovuta attenzione. Posto dunque che «accidente» è detto quel che appartiene a una cosa e può essere affermato con verità, ma, tuttavia, né sempre, né «per lo più», di questa definizione aristotelica debbono essere considerate entrambe le
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parti che la costituiscono. E che sono sia il suo appartenere (ὑπάρχειν) alla sostanza, sia il suo appartenerle bensì, ma né per necessità (ἐξ ἀνάγκης), né, appunto, «per lo più» (ἐπὶ τὸ πολύ). A parziale differenza di quel che avveniva in Donna me prega, dove «sovente», ossia «per lo più», l’amore è «fero» e «altero», questo appartenerle è infatti «accidentale», è un «accidente»: che può perciò esserci o non esserci, in modo tale che non può asserirsi né che dal suo esserle accaduto la sostanza abbia ricevuto il suo proprio compimento (che già era intrinseco al suo essere), né che dal suo non esserlo sia stata, in quanto sostanza, in alcun modo menomata.3 Nel capitolo qui sopra ricordato della Vita nuova, Dante si era chiesto, acutamente, come fosse possibile che, posto che non era definibile come «sostanza», e meno che mai come sostanza «intelligente» o «corporale», dell’amore, che non era infatti se non «accidente», si parlasse tuttavia come se fosse o sostanza o uomo dotato di parola. E aveva risposto che questa «possibilità» era tale per i poeti, e per lui, Dante, in quanto fosse compreso nel loro numero: essendo invece escluso che allo stesso modo potesse parlarsene da parte dei filosofi.4 In forma sommaria, senza insistervi, ma mostrando tuttavia di aver colto con notevole acutezza il centro della questione, non solo, fra la sostanza e l’accidente teneva ferma la distinzione, ma lasciava intendere che, sia pure perché, non filosofi, ma poeti, questi ultimi prendevano questo, l’accidente, come se si fosse trattato di quella, della sostanza. Questo spunto non conobbe, nell’opera di Dante, né nel libello né altrove, lo svolgimento che pure era contenuto nella premessa. Se a quello avesse dato corso, Dante avrebbe dimostrata, anche nei riguardi della canzone cavalcantiana, la sua migliore intelligenza della questione.5 Se, dunque, era da Aristotele, o da chi a lui si fosse riferito o ispirato, che Dante e Cavalcanti assumevano il concetto dell’«accidente», assai diverso ne era, in quest’ultimo, lo svolgimento. Era diverso, non solo perché, con decisione, Cavalcanti lo collocasse, e lo vedesse insorgere, in «quella parte – dove sta memora» (v. 15): ossia, non nella memoria, ma là dove questa ha la sua sede, e cioè nell’anima sensitiva. Lo collocava, e lo vedeva insorgere, in quella «parte», non solo perché lo diceva «creato», cioè prodotto6 da «sensato», cioè da un’affezione sensibile, ed estraneo perciò al «possibile intelletto», di cui si fa menzione al v. 22; ma anche perché il suo insorgere era connesso all’influsso di Marte. Oltre che «fero» e «altero», esso era infatti segnato dalla «scuritate» che, proveniente da quel pianeta, lo segnava di sé: quasi che lo attraversasse (il paragone è, ovvia-
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mente, per opposizione) come la luce attraversa il diafano.7 E qui, poiché si è ricordato il «diafano» e la sua peculiarità che è di essere «ciò che è attraversato», qualche considerazione si rende necessaria. Per avvertire, innanzi tutto, che se è vero che fra l’«accidente» e il «diafano» Cavalcanti stabilì un paragone, e disse infatti che, come questo è attraversato dalla luce, così quello lo è dall’oscurità che viene da Marte, segno è che, per lui, e a ragione, l’uno non era l’altro, e che si sarebbe dato un sicuro contributo, non al chiarimento dei concetti, ma alla loro confusione, se, invece, li si fosse affermati identici.8 Non si sarebbe tenuto conto, in questo caso, di quello di cui Cavalcanti parve che ben si fosse avveduto quando, in luogo dell’identità, fra i due si era limitato a stabilire il paragone; e cioè che, se, come si leggeva nel De anima B 418 b 5 ss., il διαφανές può essere o in atto o in potenza, essendo nel primo modo quando sia attraversato dalla luce, e nell’altro quando, in assenza di questa, a segnarlo sia τὸ σκοτός, il buio, altrettanto non avrebbe potuto dirsi dell’accidente. Il quale, non solo non è di per sé stesso visibile se, appunto, la pretesa sia di affisarlo in quanto tale, e a prescindere, perciò, dalla sostanza alla quale inerisce o dalle conseguenze che, accidentalmente (συμβεβηκώς) ne sono prodotte. Ma, sopra tutto, è impensabile che, a differenza di quel che è detto del «diafano», sia o in potenza o in atto: dal momento che, in quanto si sia prodotto, l’accidente non è se non in atto, il suo prodursi non potendo essere contenuto in una δύναμις, che, potenzialmente, appunto, lo chiuda in sé. Ne deriva che, nei confronti del concetto e dei testi, Cavalcanti fu nel giusto quando, fra l’«accidente» e il «diafano», non pose se non un paragone, e quindi, se si vuol dire così, un’analogia, non un’identità. Non però quando immaginò che, come il «diafano» lo è dalla luce che trae in atto la sua potenza, così l’«accidente» fosse attraversato dall’oscurità proveniente da Marte, e che da questa traesse il colore. Non fu nel giusto perché all’argomento già considerato secondo cui, se l’accidente è accidente, e non sostanza, di avere predicazioni gli è vietato, deve aggiungersi quello in forza del quale si dice che, poiché è in atto, è impossibile che, nei confronti di altro che anch’esso sia in atto, si ponga come «potenza» (e l’oscurità di Marte sarebbe in atto, e l’accidente in potenza, se quella lo attraversasse). Ma, nell’aver posto, fra il diafano e l’accidente, un paragone, e dunque un’analogia, invece che un’identità, Cavalcanti ebbe ragione. E lo si comprende se il comportamento dell’uno e dell’altro sia studiato sotto il profilo della loro «visibilità». Dell’accidente, in Donna me prega, si chiedeva «… s’omo per veder
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lo pò mostrare» (v. 14): e la risposta fu netta: «non si pò conoscer per lo viso» (v. 63). In quanto tale, l’accidente chiamato amore non può esser visto con gli occhi, senza che, come avviene per il diafano, questa impossibilità risulti legata al suo essere in potenza anziché in atto. A differenza di quest’ultimo che, come fu indicato da Aristotele, è in potenza o in atto, essendo la assenza o la presenza della luce a determinare questi suoi modi di essere, e la conseguente sua invisibilità o visibilità, l’accidente, che è sempre, in quanto accidente, in atto, e in potenza è impensabile che sia, visibile non è mai. Non però perché sia immerso nella tenebra che proviene da Marte. Comunque, infatti, si debba poi interpretarla, una cosa è la tenebrosità che, connotando l’amore come oscuro, proprio per questo lo sottrae all’invisibilità, un’altra la invisibilità che Cavalcanti aveva la mente quando vi alludeva nei due versi, 14 e 63, citati qui su. E qui deve ribadirsi che l’accidente «amore» non è il diafano, né questo ha qualcosa da vedere con l’accidente. In relazione alla quaestio della visibilità, la differenza fra il diafano e l’accidente risiede, in primo luogo, e già lo si è visto, nell’essere, il primo, ora in potenza, ora in atto, mentre l’altro non potrebbe, nel suo accadere, non essere definito sempre in atto; e, in secondo luogo in ciò che, in ragione di questa differenza, mentre l’invisibilità senza eccezioni dell’accidente dipende dal suo avere l’essere non in sé, ma in altro, quella del diafano è tale quando questo si trovi a essere non toccato o penetrato dalla luce che lo altrimenti rende visibile. Se quindi, potrebbe dirsi con una formula riassuntiva, l’invisibilità di quest’ultimo ha a che fare con il suo essere in potenza, quella dell’accidente non dipende se non dal suo essere, in atto, l’accidente che è: con le due conseguenze che di qui discendono e che, riguardando l’una l’accidente, ma l’altra il diafano, richiedono di essere colte e poste in evidenza. Da una parte, a dover essere notata, in relazione a Aristotele, per altro, prima ancora che a Cavalcanti che ne riprese il concetto, è la singolarità, ma meglio si direbbe l’anomalia, che deve notarsi nell’accidente; del quale non può dubitarsi che, in quanto tale, cioè nel suo accadere, sia in atto senza esser mai stato in potenza, sebbene non poche difficoltà si intreccino nell’idea di un «qualcosa», che è qualcosa e ha, tuttavia, il suo essere in altro. Da un’altra, a richiedere attenzione è, quando si volesse intenderlo per sé stesso, il diafano; del quale l’«oscurità» si dice in due modi, che non debbono essere confusi. Il diafano è in atto sia se a trarvelo dalla potenza sia una luce che lo illumini del suo chiarore, sia se a compiere questa operazione sia una luce scura che lo renda
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visibile in questa tonalità, cupa bensì, ma pur sempre visibile dall’occhio che la percepisca. Chiarezza e oscurità appartengono, in questa accezione, all’ambito del visibile, anche se questo si presenti come un diverso visibile. Questa oscurità, per la quale, come dalla chiarezza, il diafano è tratto in atto, non ha invece a che fare, sebbene il nome possa essere lo stesso, con quella che può attribuirsi al diafano quando sia in potenza. Altro, infatti, l’oscurità, che, nell’atto in cui esclude dalla visibilità ogni colore, per sé stessa è visibile e, sotto questo specifico riguardo, può essere considerata anch’essa un colore, come l’acqua della palude stigia, che «era buia assai più che persa» e, in quanto tale, ben poteva essere oggetto di visione da parte dei poeti che l’avevano sotto gli occhi.9 Altro, insomma, l’oscurità che, essendo vista come colore, consente di dire che qualcosa è oscuro. Altro invece l’oscurità intesa come «privazione» della luce, ossia come quella che, a differenza dell’altra oscurità, non può, in quanto tale, essere vista. A questa avvertenza deve darsi spazio: sempre tuttavia tenendo ferma, e rispettando, l’altra secondo cui la coerenza cavalcantiana resta in pericolo riguardo al punto della non predicabilità dell’accidente; che non sarebbe, in effetti, salvata nel suo carattere di «cosa impossibile» nemmeno se il predicato «oscurità» fosse preso in senso, anziché fisico, morale, e in questo gli fosse attribuito. Se è così, il punto che innanzi tutto occorre ribadire, e mettere in rilievo è che al concetto di «accidente» Cavalcanti conferiva un carattere, rispetto a Aristotele e ai suoi commentatori (non solo a Tommaso d’Aquino, ma anche a Averroé), così anomalo, che non è inutile fermarvisi ancora attirandovi l’attenzione del lettore. Il quale potrà bensì, se questo avrà appreso dai suoi maestri, sostenere che, per la via che ora gli sarà indicata, si esce dal testo per entrare, senz’altra mediazione, nella filosofia. Ma, nel dire così, non potrebbe pretendere di aver ragione quando gli si facesse notare che, lungo la via seguìta da Cavalcanti, era l’accidente ad abbandonare la definizione che gli era, e avrebbe dovuto essergli, propria. Connesso, oltre che al «sensato», all’influsso di Marte, all’«accidente» non poteva infatti, quale ulteriore ma essenziale carattere, non derivare la necessità, non la «accidentalità»: la necessità, appunto, e non l’accidentalità, o casualità, di quella connessione. Insomma, per un verso, l’«accidente» era, nel contesto della canzone, e almeno (poiché lo si definiva così, con quel termine) nelle intenzioni, quello stesso che era stato per Aristotele, – qualcosa di casuale
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e, perciò di unico; qualcosa che in sé stesso si sottraeva alla necessità della ripetizione e si determinava nell’esistenza senza che questa fosse predisposta ad accoglierlo e lo richiedesse per il suo proprio compimento. Ma, per un altro verso, era, come si è detto, qualcosa di più e, rispetto alla sua definizione, di non coerente. Era infatti tale che, accadendo sempre secondo un’unica modalità causale, con quel segno e non altrimenti, si ripeteva secondo una regola e smentiva perciò il suo carattere, consistente nel non poterne avere alcuna al di fuori dell’assoluta sua accidentalità.10 Non si dimentichi che, ai vv. 11-12, Cavalcanti aveva dichiarato di voler indagare «qual sia sua vertute e sua potenza, l’essenza»; e si era perciò di nuovo riferito piuttosto a una «sostanza» che non a un «accidente». Il secondo carattere contrastava perciò fortemente con il primo. Vi entrava in conflitto. Come torna vedersi, e a comprendersi, se si considera che l’accidente, l’αὐτόματον, il συμβεβηκός, è tale, e corrisponde alla sua definizione, se a determinarne l’insorgere, sia, per così dire, l’accidente stesso, che non ha infatti causa che non sia la sua stessa accidentalità; e che questo carattere, che non è un carattere, non potrebbe invece essergli assegnato se a qualcosa di permanente (il «sensato», la «scuritate» di Marte) si attribuisse il suo essere così, e non altrimenti. Ogni accidente è infatti identico alla sua accidentalità che è, essa proprio, ciò che, nel renderlo identico, nel suo segno, a ogni altro, lo rivela sempre e soltanto come accidente, e come non connesso a una αἰτία, a una causa: tanto che, a rigore, non potrebbe dirsi che, in quanto si tratti di un «accidente», questo possa ripetersi accadendo e tornando ad accadere, con lo stesso carattere, nella realtà, e che se questo invece accadesse, quello non potrebbe, a rigore, esser detto accidente. Ne consegue che se, all’accidente chiamato «amore», si riconoscesse sempre il medesimo carattere e questo fosse individuabile in qualcosa di non incluso nell’accidentalità, se insomma, come Cavalcanti pretendeva, gli si fosse assegnata un’«essenza» (v. 12), si potrebbe bensì definirlo, sempre, «amore», ma, proprio per questo, non, invece, «accidente». Non è un sofisma, questo che si sta delineando e mettendo in luce. È bensì una conseguenza che non può sfuggire se, nella filigrana del concetto, e quindi nella canzone cavalcantiana, si guardi con qualche attenzione. E, perciò, deve insistersi. E considerare che altro è dire che l’amore, che di per sé è un essere, accade quando accade, restando, quando non accade, presso di sé. Altro è dire, aristotelicamente, che è, non un essere ma, appunto, un accidente, qualcosa che riceve l’essere dal «soggetto» al quale
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accade e da cui è accolto; e che, per questo, non può ricevere sempre, ma, a rigore, e, come qui si è accennato, una sola volta, la definizione di «amore». Occorre, in altri termini, distinguere fra ciò che ha un «in sé», non conferitogli dall’accadere, e ciò che accade e, solo in quanto accade, è. Distinguere, e non ripetere la confusione che, per questo aspetto, si trova invece in Cavalcanti. Il quale aristotelicamente, concepì bensì l’amore come «accidente», e non come «sostanza». Ma gli conferì tuttavia un carattere segnato dalla necessità e, contro le sue evidenti intenzioni, ne fece, come si è detto, piuttosto una sostanza che non un accidente. Il che, rispetto alla «fonte», importava una deviazione che non avrebbe potuto essere più netta. Quale che ne fosse la ragione, se lo proponesse oppure no, misurasse la distanza o non la misurasse, nel delineare la sua «filosofia» dell’amore, dell’«accidente» Cavalcanti fece qualcosa di irriducibile al concetto desumibile da Aristotele. «Se uno scava una fossa per piantarvi un albero e trova un tesoro», l’evento di questo ritrovamento è un συμβεβηκός, perché l’una cosa non deriva dall’altra: non è infatti né di necessità né ἐπὶ τὸ πολύ che scavare una fossa implichi θεσαυρὸν εὑρίσκειν. Deve quindi assumersi che, ne avesse o no avuta l’intenzione, Cavalcanti si fosse mosso su una strada non poco difforme da quella aristotelica. Aveva infatti ricondotto il συμβεβηκός a una «causa», privandolo perciò dell’unico carattere che sul serio gli appartenga: quello del non avere se non una causa che non è una causa, perché è piuttosto un τυχόν, sì che di lui deve dirsi che è un ἀόριστον, un indeterminato. Non, beninteso, che in Aristotele, la questione dell’accidente fili liscia, senza alcuna difficoltà. Ma certo è che quel che si dà a vedere nelle sue pagine è proprio il contrario, per questa parte, di quel che si legge in Cavalcanti. Lo scopo che egli assegnò alla sua canzone fu di dimostrare («provare»), non solo dove quell’accidente «posasse», ma che cosa lo ponesse in essere: addirittura lo «creasse» (v. 19). Fu, in altre parole, di indicare che cosa lo facesse essere, ossia, per dirla in breve, quale ne fosse la causa. È una differenza notevole: sostanziale, si potrebbe dire, e non accidentale. Una differenza sulla quale occorre riflettere. In forza e in ragione di essa, l’accidente veniva ad assumere, nella grande canzone, la fisionomia della sostanza, senza, d’altra parte, perdere (e qui stava la difficoltà) quella dell’accidente.11 Se è così, altro resta da osservare. In Aristotele, e questo è un punto fermo, l’«accidente» non è soggetto di predicazione.12 Se si dice che il musico è bianco, può ben intendersi che l’uno sia predicato dell’altro, ma solo
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in quanto e l’uno e l’altro lo sono innanzi tutto dell’uomo che, essendo «separabile» da essi, non è necessario che sia e musico e bianco. Che, a loro volta, possono bensì stare in quella connessione, ma non necessariamente; dal momento che è ben possibile che il musico sia nero, e che il nero appartenga, come predicato a un altro predicato (di un determinato soggetto). In Cavalcanti, non è così. Potrà ben dirsi, certamente, che l’amore sia accidente rispetto alla parte dell’anima sensitiva nella quale trova la sua sede; e, per questo verso, indubbia è la pertinenza aristotelica del concetto. Ma, insieme alla «scuritate» che gli proveniva da Marte, e che a quello era connessa di necessità, con pari necessità a lui appartenevano i caratteri della «alterezza» e della «ferità»: il primo con necessità assoluta, tant’è che è in forza di quel carattere che è «chiamato Amore» (v. 3), il secondo con necessità che potrebbe esser detta «relativa» se all’avverbio «sovente» che lo precede non convenisse assegnare anche il significato forte dell’ἐπὶ τὸ πολύ aristotelico (secundum magis, come ha la translatio vetus di Guglielmo di Moerbeke). «Fero» e «altero» sono dunque predicati che al soggetto «amore» si riferiscono di necessità. Il che richiede che, rispetto alla regola aristotelica, si ponga in rilievo, a questo punto, un’altra eccezione. Per un verso, di quei due predicati, l’amore è certamente il «soggetto»: in modo tale che, nei loro confronti, si pone come «sostanza», e di questa assume il significato e il carattere. Per un altro, per la forza necessaria del nesso che stabilisce con l’uno e con l’altro, esso perde quelli della «separabilità», che alla «sostanza» pertengono, in quanto la si consideri in sé, in modo essenziale. Ne consegue che, se lo si prende in relazione al concetto aristotelico, l’«accidente» cavalcantiano presenta due diversi caratteri, e subisce due diverse metamorfosi. Per un verso, rispetto alla «alterezza» e alla «ferità», si comporta come una sostanza. Ma in quanto, per un altro, da quei suoi predicati non è separabile, e costituisce una sorta di sinolo, rivela un carattere non diverso da quello che, in questo, assume la sostanza; la quale è discutibile, in termini aristotelici, se sia o no, in quanto forma, separabile dalla materia con la quale è congiunta in quel nesso, ma discutibile non è che, in questo, a essa spetti il carattere che in ogni caso si deve riconoscerle: quello per il quale essa, e essa soltanto, è il soggetto della predicazione. Sulla pertinenza aristotelica e, per estensione, averroistica di questo esordio (ma la questione si porrebbe allo stesso modo se tomistico fosse il testo di riferimento), sembra dunque lecito avanzare più di un dubbio.
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Non, beninteso, per negare che Cavalcanti si ponesse all’interno di un quadro (quello aristotelico) che, nelle grandi linee, e per aspetti sostanziali, assumeva come il suo. Ma per sottolineare differenze che non dovrebbero comunque essere trascurate: e per dare rilievo a una difficoltà che, d’altra parte, non sussisterebbe, e non sarebbe percepibile, se il quadro non fosse, appunto, stato quello che egli deduceva da Aristotele; se, come filosofo «naturale», non si fosse mosso, sia pure con libertà, all’interno del suo pensiero. Di questa «libertà», che ovviamente presuppone il quadro nei cui confronti si esercita e si realizza, occorre misurare l’ampiezza. Lo sapesse o no, all’inizio della canzone, Cavalcanti aveva infatti operata una contaminazione. Attribuendogli un carattere che, da varie parti e in vari modi, all’amore era stato riconosciuto da poeti e filosofi, di un concetto che, aristotelicamente, lo ritraeva alla stregua di un συμβεβηκός, non rese più forte e netto il carattere che, in sé stesso, restò quale era. Ma, in compenso, in quanto concetto, lo indebolì. Vi introdusse, se si vuol essere pedanti, una nota contraddittoria: della quale, tanto più occorre far conto, in quanto egli aveva pur detto che, «senza – natural dimostramento», non aveva «talento – di voler provare/ là dove posa e ch’i lo fa creare» (vv. 7 e 9-10).13 A conferma dell’intenzione, e dell’ambizione, filosofiche che lo muovevano, aveva aggiunto di voler indagare «qual sia sua vertute e sua potenza,/ l’essenza – poi e ciascun suo movimento,/ e ’l piacimento – che ’l fa dire amore,/ e s’omo per veder lo pò mostrare» (vv. 11-14). Come si vede, l’intenzione filosofica era stata dichiarata, non solo senza mezzi termini e con il tono di sfida intellettuale che, quale che ne fosse stata la contingente occasione, di Donna me prega costituisce il Grundakkord; ma, rendendo la sfida tanto più impegnativa per chi l’avesse raccolta, quanto più arduo, chiuso e, in certi passaggi, volutamente criptico,14 era il linguaggio in cui era formulata. Se, è soltanto un’ipotesi, anche se plausibile,15 fu al sonetto di Guido Orlandi, Onde si move, e donde nasce amore?, che Cavalcanti aveva risposto con Donna me prega, e non è vero il contrario, ossia che fu la canzone a venir prima del sonetto, basta il semplice confronto dei due testi a rendere evidente sia la distanza a cui il secondo si pone rispetto al primo sia, a parte la questione della precedenza, la connessione che comunque li lega. Chi, fra queste due ipotesi, e forse non a torto,16 desse la sua preferenza alla prima, dovrebbe pur sempre ammettere che la risposta data all’Orlandi va molto al di là della domanda che questi aveva proposta. Ma non per questo potrebbe dire che, sebbene avesse innalzata la discussione ad un grado dal quale, nel
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suo domandare, l’Orlandi era rimasto assai lontano, la prova imposta dal «natural dimostramento» fosse senz’altro stata vinta, e della sua difficoltà la grande canzone non avesse risentita in sé qualche non positiva conseguenza. Studiare la canzone cavalcantiana prospettandola in un quadro, il più che sia possibile rigoroso, di riferimenti filosofici, è il meno, perciò, che sia richiesto dalla sua importanza, e dall’impegno che il suo autore vi aveva profuso. È a questo tema che ci si deve ora dedicare. Non prima, per altro, di aver concesso breve spazio a due considerazioni. La prima è quasi ovvia. E non indegna, tuttavia, di essere almeno accennata nella forma che più le conviene, e che è quella, se così si può dire, del dubbio metodico relativo all’averroismo del primo amico di Dante: se, nell’affermarlo o nel negarlo, si debba, in entrambi i casi, intendere come un edificio compiuto in ogni sua parte quello che, ispirandovisi, egli costruì, o se non convenga piuttosto ridurlo a una serie di temi, desunti certo da quella filosofia, ma non tali da coincidere con la sua intera estensione.17 L’analisi che nelle precedenti pagine è stata avviata a proposito del tema dell’«accidente», e alle differenze che il concetto cavalcantiano fa registrare nei confronti di quello aristotelico, induce a condividere piuttosto la seconda che non la prima di queste due ipotesi: anche se, a questo punto dell’indagine, e mentre questa è ancora in corso, il giudizio debba, al riguardo, restare sospeso. Dopo che l’analisi avrà toccato il traguardo, si vedrà se, e in che senso, possa parlarsi, in senso stretto, di averroismo; sebbene fin d’ora possa escludersi l’ascendenza tomistica del suo pensiero. Meno ovvia, forse, la seconda considerazione; che riprende infatti il tema critico dell’«accidente» e della sua, in quanto accidente predicabile di «altro», obiettiva metamorfosi in qualcosa di necessariamente «causato», e perciò, in questo senso, di «sostanziale». Si è parlato qui su, non solo del suo essere il «soggetto» di due predicati, che lo definiscono infatti come «fero» e «altero», ma anche del carattere che, ancora una volta di necessità, gli proviene dall’influsso di Marte: ossia la «scuritate» che, di nuovo, al di là dell’intenzione, lo conferma come «soggetto». A questi rilievi deve, a rinforzo, aggiungersi l’altro che si formula osservando che, in realtà, il processo attraverso il quale l’«accidente» che ha nome «amore» si costituisce come tale nella sede che gli è propria, è più complesso, e implica più cose di quante fin qui non si siano rese evidenti nell’analisi. In realtà, l’accidente di cui si parla in Donna me prega non perviene alla parte
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dell’anima sensitiva che costituisce il suo luogo specifico se non dopo che la «veduta forma» sia stata «intesa» nel «possibile intelletto». Non sarebbe infatti possibile (ma proprio qui, come vedremo, sta la difficoltà più grande) che quello, l’accidente, vi pervenisse, e, non potendone più evadere, vi prendesse stanza, senza che nell’intelletto si fosse formata la condizione (la «veduta forma che s’intende»), alla quale si è alluso: il che significava, e implicava, la necessità che quel che all’intelletto possibile proveniva da un’impressione esterna fosse spogliato di ogni carattere immediatamente sensibile e si presentasse, appunto, come «forma». Se è così, era inevitabile, e, nello stesso tempo, problematico, che fra intelletto e anima sensitiva si desse un nesso, e dall’uno all’altra un passaggio. Cavalcanti, infatti, non ebbe, o non mostrò di avere, dubbi sul punto che, l’«accidente» chiamato «amore» venisse da «veduta forma». Ma, quanto era inevitabile, altrettanto ammetterlo era problematico: fino al limite, occorre aggiungere, dell’impossibilità. Fra intelletto e anima sensitiva passaggi non dovrebbero infatti essere ammessi, né in questa direzione, né nell’inversa. E, nell’attesa che venga il momento di una più compiuta spiegazione, si può cominciare a rilevarlo attraverso le parole stesse del poeta. Ai vv. 15-20, Cavalcanti aveva detto che l’accidente «prende suo stato» in quella «parte», dell’anima, «dove sta memora»; e cioè nell’anima sensitiva. Ma poi (vv. 21-23) aveva spiegato, precisato, o, quanto meno lasciato intendere, che, prima di pervenire in questa parte dell’anima, dove propriamente avrebbe trovato il suo luogo, quel medesimo accidente aveva avuto origine («vèn») dalla «veduta forma che s’intende» per prendere, «come in subietto», «loco e dimoranza» nel «possibile intelletto»; nel quale l’accidente «amore» non ha «possanza» (o «pesanza») perché quello, l’intelletto, «da qualitate non descende», e, essendo tutto risolto nel suo «perpetüal effetto», è scevro di elementi sensibili. Non ha infatti «diletto, ma «consideranza».18 Ebbene, fermo restando che altro è la «veduta forma» (che è bensì «veduta», ma è «forma», e, in quanto tale, è scevra degli elementi sensibili che non possono invece essere estranei al «vedere»19), altro l’accidente, potrà discutersi sul punto se i momenti siano due, e, sia il determinarsi dell’accidente, sia il suo trovar posto nella parte «dove sta memora», tengano dietro, magari per un attimo, alla «veduta forma» dalla quale esso «vène»; o siano invece a tal punto simultanei da non lasciare che, sia pure attimalmente, il tempo li distingua l’uno dall’altro. Resta, in ogni caso, che, se si trattasse di simultaneità, questa non potrebbe essere così pura da non ammettere, all’interno
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di sé stessa, che fosse l’accidente a essere simultaneo alla «veduta forma»; che quindi, all’interno della simultaneità, verrebbe a costituire il punto di riferimento, e perciò di precedenza, di ciò che le è simultaneo. La questione è infatti quella del passaggio dalla «veduta forma» che, comunque l’«intendere» sia interpretato, sta, in quanto tale, nell’intelletto, all’anima sensitiva; e riguarda, in primo luogo, la legittimità e la possibilità del suo esser stata posta, in termini di passaggio. Su questo tema cruciale, è necessario che ci si fermi. Lì, infatti, in quel tema, nelle sue implicazioni e nei suoi svolgimenti, sta il significato ultimo della canzone. E, per bene afferrarlo, deve innanzi tutto ribadirsi che, a differenza dell’accidente aristotelico, che accadeva dove e quando accadeva, e senza che niente, nella natura, fosse stato disposto, al suo evento; a differenza di questo che entrava perciò a far parte di un quadro che non ne prevedeva affatto l’insorgere, l’accidente che ha nome «amore» non si costituirebbe, e non avrebbe luogo, se, alla radice, non avesse una duplice causa (la «veduta forma» e l’influsso di Marte), e, dinanzi a sé, una mèta (l’anima sensitiva, e la parte di essa dove anche sta «memora»). Che l’accidente che ha nome «amore» venga «da veduta forma che s’intende/ che prende – nel possibile intelletto, come in subietto – loco e dimoranza» (vv. 21-23),20 è detto, come si vede, con accettabile chiarezza. E con chiarezza è detto quel che viene dopo: e cioè che nell’intelletto possibile, dove si assume che prenda il suo posto, la «veduta forma» sta appunto come «ciò che», veduto con gli occhi nella realtà esterna, ora non è se non una «forma», una pura e nuda forma. Con chiarezza, pur che si faccia attenzione al mutarsi e all’alternarsi dei soggetti, è detto che in quell’ambito intellettuale l’accidente che ha nome amore, e che, appunto. torna qui a essere soggetto, è privo di «peso», o di potenza sensibile (se al v. 24 si legge «possanza» invece di «pesanza»). Per come è inteso e presentato qui, a ragione dunque si dice che l’intelletto possibile non è affètto da qualità sensibili, e non ne discende: e che non può, in altri termini, accoglierle in sé. Come Aristotele aveva insegnato, questo intelletto è di per sé ἀπαθές, impassibile; ed è per intero risolto nella sua energia intellettuale, che è altresì il suo splendore («resplende – in sé perpetüal effetto»: v. 26). Non dà luogo a dilettazioni sensibili, ma a puri atti intellettuali («non ha diletto – ma consideranza»: v. 27); e poiché questa è la definizione che anche Cavalcanti ne dette, sembra giusto concluderne che, per lui, quello fosse eterno
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e, dunque, anche separato.21 Il momento dell’accidentalità non poteva per conseguenza determinarsi nell’intelletto che, come s’è visto, è per intero risolto nel suo «perpetüal effetto». Ma, come deve ripetersi, si determinava bensì nell’anima sensitiva e nella «perfezione» che le è propria: perfezione «non razionale», com’è detto esplicitamente al v. 30, ma, appunto, sensibile. Si determinava attraverso un processo del quale sarebbe arduo sostenere che fosse stato, in ogni sua parte o momento, delineato in modo perspicuo; e del quale, anzi, come si è detto, si sarebbe dovuto intendere che prospettarlo come un processo era impossibile. Posta la separazione in cui, l’una rispetto all’altra, le due anime, la razionale e la sensitiva, si trovano, e posto perciò l’intervallo che le divide, comprendere come, alla seconda, l’accidente che ha nome «amore» potesse giungere provenendo dalla prima che, di per sé, non ospita se non la «forma», la nuda forma, della persona che gli occhi hanno percepita, – comprendere questo era, ed è, a meno che non lo si ponga come un fatto anteriore a ogni «dimostramento», difficile; se, addirittura, non debba, appunto, dirsi che era, ed è, impossibile. Lo scoglio che al riguardo ci si para dinanzi e che deve, o dovrebbe, tuttavia, essere e poter essere superato, tanto poco in effetti lo era che, se ci si fa attenzione, nella canzone di Cavalcanti, quella dell’amore si poneva, non tanto come una doppia nascita, una duplice provenienza (nel qual caso, contro l’evidenza del testo, dovrebbe ammettersi che due siano gli amori, uno intellettuale e uno sensibile), ma come, piuttosto, una nascita preceduta da ciò che, senza tuttavia riuscire a renderla possibile, costituiva non di meno, e pur sempre, il suo primo atto: un atto che era perciò, al tempo stesso, necessario e impossibile che potesse proseguirvisi. Non è forse vero, e lo si è già detto, che al v. 21 l’amore era fatto provenire da una «veduta forma», costituitasi come pura forma, denudata da materia, nell’intelletto possibile, e che, esso era tuttavia un accidente ospitato, con la particolare oscurità derivantegli da Marte, nell’anima sensitiva, nell’anima «che sente»? Non è forse vero che il suo non essere «vertute» questo significa, e cioè che la sua genesi non è dall’intelletto, perché è invece dal sensibile, nel quale l’amore interamente si risolve? D’altra parte, non è anche vero che, fra la veduta «forma», che prende «loco e demoranza» nel «possibile intelletto», e l’accadere dell’accidente nell’anima sensitiva, il testo stabilisce de facto un nesso che, de iure, avrebbe invece dovuto essere giudicato impossibile, o apparire, quanto meno, fortemente problematico? Che, infatti, questo nesso sia tanto necessario, perché a porlo è il
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testo (dal quale, com’è ovvio, non si può prescindere), quanto impossibile, concettualmente impossibile, perché ad escluderlo dovrebbe essere, ed è, la logica che lo governa, – questo è il crudo paradosso dinanzi al quale ci si viene a trovare; e che come tale deve essere considerato, e accettato, nell’atto in cui, per un altro verso, se ne mette in luce l’incoerenza. Il nodo, in effetti, si sarebbe sciolto, o avrebbe almeno accennato a sciogliersi, se, in modo netto, dell’amore Cavalcanti avesse detto che, poiché è un accidente, accadeva senza che a questo accadere potesse attribuirsi una causa; e che, posto che la «veduta forma», che trova «loco e dimoranza» nell’intelletto possibile, costituisse qualcosa come una premessa, questa non era tuttavia una «causa», perché l’accidente si forma in quanto si forma e non ha causa al di fuori di sé stesso e della sua accidentalità: ossia, se si preferisce, del suo accidentale accadere. Ma Cavalcanti non svolgeva il discorso in questa direzione. La premessa, per lui, era assai più di una premessa. Era una causa. Attraverso una formale dimostrazione filosofica, attraverso «il natural dimostramento», egli intendeva infatti render chiaro a chi non fosse stato di «basso core», non solo dove l’amore «posasse», ma chi lo facesse insorgere («chi lo fa creare»).22 Donde appunto il carattere equivoco del concetto, che egli metteva in campo, dell’accidente; che per un verso era un accidente, ma per un altro non lo era, e, nel contesto concettuale di Donna me prega accidente, a rigore, non avrebbe potuto esser detto. Senza poterla avere, aveva infatti una causa che accennava a raddoppiarsi: la «veduta forma» e, sebbene su questo punto occorrano chiarimenti, l’influsso oscurante di Marte. Quella in cui incorreva era perciò un’inconseguenza. Un’inconseguenza, deve dirsi, che si aggiungeva all’altra che, anch’essa, rendeva problematica la definizione, come accidente, di un accidente che, contro la regola aristotelica, assumeva il carattere di «ciò che», potendo ricevere predicazioni (della «ferità», nel caso specifico, e dell’«alterezza»), era soggetto, sostanza, non accidente. Questo, dunque, lo scoglio, non evitabile, che il lettore si trova di fronte; e che torna infatti a profilarsi nell’atto stesso in cui si cerca di aggirarlo. Lo scoglio, in realtà, non era aggirabile perché era il risultato della separazione introdotta e mantenuta fra l’intelletto e l’amore. Del quale, a differenza di quel che altri ha ritenuto,23 non si può dire che, con il suo insorgere faccia sì che il processo conoscitivo si interrompa: quasi che, comunque la cosa si presentasse in Averroé e nell’averroismo latino, nella canzone
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Cavalcanti avesse mai detto e scritto che, non essendo e non potendo essere conoscenza, ossia pura contemplazione della forma, di quella, della conoscenza, l’amore interrompesse, appunto, il processo. Che il processo conoscitivo abbia il suo inizio dal «vedere», e quindi dal «sensato», non significa che di qui si svolga un percorso destinato a concludersi nello splendore dell’intelletto, che riuscirebbe offuscato, o, addirittura, non sarebbe conseguito, se quel processo non pervenisse al suo segno. L’intelletto non è il risultato di un processo. È l’intelletto. È realizzato nella sua propria perfezione. Ed è esso a astrarre dal «senso» la forma intelligibile: sì che dal sensibile all’intelligibile non ci sarebbe alcun processo se non fosse l’intelletto a renderlo possibile essenzializzandolo nella pura forma. Questa idea è perciò tanto meno concepibile in quanto il suo presupposto è che, per poter interrompere quello che qui è stato chiamato «processo conoscitivo», con questo, e quindi con l’intelletto, l’amore potesse avere un contatto. Il che, in termini espliciti, fu escluso da Cavalcanti, deciso nel negare («in quella parte mai non ha possanza») che l’accidente potesse trovar posto nell’intelletto, sconvolgendolo, alterandolo e impedendone il compimento. A giudicare dal modo concentratissimo in cui in questi versi si parla della «veduta forma», sembra debba dirsi che, per un verso, alla quaestio gnoseologica, di per sé presa, Cavalcanti non s’interessasse (o non tanto, comunque, da avvertire l’esigenza di rendere comprensibile, alludendovi, quel che al riguardo pensasse); e che, per un altro, per quel che gli premeva, avesse forse detto l’essenziale: ossia quanto, in quella sede, gli fosse importato di dire. E cioè che, innanzi di esser tale, la «forma» è «veduta». Ma, in quanto è «intesa», sta nell’intelletto,24 che, esplicitamente, Cavalcanti interpretò come al tutto scevro di elementi sensibili: «perpetüal effetto» «consideranza», non «diletto». Ed ecco perché, quel che ad altri sembrò ammissibile, non può qui essere concesso.25 A evitare equivoci che, compromettendone la comprensione, potrebbero ripresentarsi nell’analisi della canzone, deve dunque di nuovo osservarsi che, comunque dalla percezione visiva di una cosa si passi alla «forma» che questa riceve nell’intelletto, solo per equivoco si direbbe che a esservisi formato sia già l’amore, che dalla «forma» passerebbe poi nell’anima sensitiva, accidentalmente trasferendovisi, o decadendovi: quasi che fosse l’amore a subire l’accidente e, per accidens, appunto, a trasferirsi in quell’anima, e non fosse esso, invece, come da Cavalcanti è detto con chiarezza, la stessa cosa dell’accidente. La «veduta forma» non è amore (nemmeno nel momento, o
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nell’attimo, in cui il «vedere» preceda il suo formarsi nell’intelletto), ma è ciò da cui, problematicamente, come stiamo vedendo, l’amore «vène»: non è l’amore intellettuale che, in Cavalcanti non ha in effetti alcuno spazio, e soltanto per equivoco lo si assumerebbe come la stessa cosa della «consideranza». È, si potrebbe dire, soltanto la «condizione» del suo accadere e insorgere come «amore» nell’unico significato che Donna me prega preveda: e cioè come amore sensibile, con rigida esclusione di un «amore» che, avendo la sua sede nell’intelletto, ne sia costituito e connotato nell’atto, tuttavia, del suo porsi come l’oggetto della sua contemplazione. Non si dà dunque una discesa dell’amore dal piano intellettuale a quello sensibile (che sarebbe, come si è detto, una decadenza). Meno che mai, e per conseguenza, da questo si dà una risalita a quello (che sarebbe un’ascesa). La doppia nascita, della quale altri ha parlato, e di cui si indicò qui su entro quali limiti possa accogliersene l’idea, significa soltanto che l’amore sensibile, che è, per Cavalcanti, l’unico amore, presuppone, per nascere e nell’atto in cui accade, qualcosa che si sia formato altrove. Lo presuppone e, in questo senso, poiché lo presuppone, anche deve dirsi che ne nasce: sebbene a rigore non riesca a intendersi (e questo, si ribadisce, è il punto critico della questione) non solo come, se l’amore è accidente, possa nascerne, o, comunque, derivarne, ma anche come sia possibile che dalla sfera intellettuale, dove si dà, non «diletto, ma consideranza», quel che vi si sia formato con questo carattere possa penetrare nell’anima sensitiva e prendervi stanza. Se, nel suo non esserlo, questo è a sufficienza chiaro, la questione che altresì, in questo quadro, offre serie difficoltà, e non riesce a essere risolta in termini comprensibili, è come sia possibile che, nel suo essere separata dall’anima intellettiva, che non è esposta perciò ai suoi influssi perturbatori, la passione d’amore possa tuttavia tenere il giudizio «for di salute» (v. 32), ed entrare quindi, previamente, in contatto con la sua sfera. È una seria questione; che coinvolge l’altra relativa a ciò che, nella prospettiva cavalcantiana, deve intendersi per uomo, per quel problematico e incerto soggetto che, essendo la sede della separazione e del non contatto delle anime, si presenta come un’unità, perché, sebbene separato, l’intelletto è anche in lui, ma come, tuttavia, un’unità anomala, segnata dalla frattura che non può esserne superata e ricomposta. Se dal fondo del pensiero che, oscuramente, si riflette nella grande canzone, non si riuscisse a trarre alla luce questa ambigua figura, interpretarla, risolvendone i nodi, riuscirebbe, per questa parte, impossibile. Al momento opportuno, si dovrà riconsiderarla, e riflettervi su.
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Per intanto, se lungo la via segnata dall’analisi che si è svolta fin qui, si ritenesse, non a torto, di doversi spingere oltre, sarebbe inevitabile coinvolgersi in ulteriori problemi; e, deve dirsi, in ulteriori difficoltà. Segnato, e attraversato dalla «scuritate» che «véne» da Marte, ma non, quindi, costituito da lui, l’«accidente» prende il suo «stato» (habet esse,26 secondo la glossa di Dino del Garbo) «in quella parte – dove sta memora», ossia, si è visto, nell’anima sensitiva. Donde la prima questione che, a questo punto, si determina, e che in realtà concerne Cavalcanti non più di quanto, per questo aspetto, non riguardi anche Aristotele. È una questione che non si può non porre e discutere, anche se, nel trattarla, si sia costretti ad andare alquanto al di là del testo di Donna me prega (ma anche, se è per questo, della Metafisica e della Fisica aristoteliche). L’implicita, oscura, ma anche delicata questione, alla quale qui si allude, comincia, in effetti, a dar segno di sé quando ci si chieda: l’accidente che prende «stato» e «demora» nella parte dell’anima sensitiva dove anche si trova la memoria, era già tale, era già «accidente», nell’atto del suo nascere da «veduta forma», ossia dal modo in cui il contenuto della vista si era atteggiato, come «forma», nell’intelletto? Se si rispondesse di sì, e a riprova si adducesse che, se così non fosse, nel «venire» dalla «veduta forma» l’accidente mancherebbe di sé stesso, dovrebbe ammettersi che quella, la «veduta forma», lo contenesse in sé e ne costituisse ben più che la condizione. Ma questo è impossibile. Se così fosse, l’accidente nascerebbe con impresso su di sé il segno di una forma, intellettuale, o contenuta, comunque, nell’intelletto; e non sarebbe dato di comprendere come mai, e perché, per un’altra sua parte, a questa invece si sottrarrebbe, essendo, non forma, ma «accidente». In realtà, e occorre ribadirlo, se è «accidente», è come tale che esso nasce (o dovrebbe nascere). Da sé stesso, dunque: non da qualcosa che, sussistendo al di qua del suo essere l’accidente che sarà, costituisca la condizione del suo esserlo, o diventarlo. Il che è indubitabile, se alla particolare logica dell’accidente si tiene fermo (o lo sarebbe se a questa Cavalcanti avesse tenuto fermo). Per poter provenire, come accidente, dalla «veduta forma» che è nel «possibile intelletto», a questo, all’accidente, avrebbe dovuto riconoscersi la possibilità di esservisi costituito: e la forma avrebbe dunque dovuto essere qualcosa come la sua «potenza». Ma, al di là di già segnalate difficoltà, deve ribadirsi che l’intelletto possibile è assunto qui come il luogo delle forme, – delle forme «astratte» dalla materia, o, che si dica, dematerializzate; non come un luogo, e una «potenza», in cui, l’accidente chiamato «amore» potesse aver
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trovato qualcosa come la sua prima «demora». Rispondere di sì è quindi, o dovrebbe essere, impossibile. Nemmeno, d’altra parte, e sia detto fra parentesi in ripresa di una osservazione che già è stata in parte formulata, dalla difficoltà si uscirebbe se, al v. 21, fra «veduta» e «forma» («form’à») si interponesse un punto e virgola,27 e, anticipando l’atto del «vedere» a quello dell’«intendere», nel primo si indicasse l’insorgere dell’accidente che, nel secondo, non può entrare a far parte. Anche in questa ipotesi, infatti, all’accidente dovrebbe assegnarsi una causa. Se ne farebbe un effetto del vedere; senza capire che, il vedere non essendo di necessità e per sé causa dell’accidente, per spiegare la genesi di questo sarebbe pur sempre all’accidente stesso che dovrebbe risalirsi. All’accidente e al suo essere causa di sé stesso: questa, e non altra, essendo la spiegazione del luogo di Metaph. Δ 1025 a 24-25, nel quale lo αἴτιον ὡρισμένον è τὸ τυχόν. La distinzione fra «veduta» (con gli occhi del corpo) e «forma» (intellecta) non varrebbe, del resto, a spiegare in che modo, dopo essersi formato nel «vedere», l’accidente starebbe nell’intelletto possibile, dove la «veduta» dovrebbe comunque essere accolta per assumere il carattere (formale) di cui pure, in questo verso, si parla. Se l’accidente fosse intrinseco alla cosa «veduta», e, come che ciò fosse possibile, con quello questa fosse comunque stata accolta, come forma, nell’intelletto, anche l’accidente dovrebbe, almeno per un istante, trovarvi posto. E questo è impossibile. Ma forse che è possibile rispondere di no e, nello stesso tempo, tener fermo al punto cavalcantiano che l’«accidente» viene da «veduta forma», con quel che segue? Rispondere di no è, in realtà, altrettanto impossibile che rispondere di sì; e lo sarebbe anche se, tornando a ragionare sulla questione posta dalla doppia genesi dell’accidente chiamato «amore», si provasse a rispondere che, piaccia o no, è il testo a esigere, sia che l’accidente provenga dalla «veduta forma» e, pur senza trovarvi la sua prima dimora, con quella abbia quanto meno un contatto, sia che non stia se non nell’anima sensitiva, alla quale accade, e nella quale è accolto, con il colore scuro che gli viene da Marte. Non c’è in effetti bisogno di troppo acume per comprendere che il ricorso all’idea di una doppia nascita, o, se si preferisce, di una nascita preceduta da una condizione (diversa dalla pura accidentalità), per un verso ribadisce la difficoltà, ma, per un altro, addirittura la esaspera. Se le nascite fossero due, e l’accidente tuttavia restasse, fondamentalmente, uno, come sarebbe possibile che ciò che è «uno» nascesse due volte (e non
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è essenziale, qui, decidere se il «due» implichi o no il tempo): una volta da una «veduta forma» intellettuale, un’altra da qualcosa che con l’intelletto e con le forme non ha nulla, proprio nulla, a che vedere? È impossibile, infatti. Ma allora come si esce dalla difficoltà: che, non si dimentichi, è delineata non da un interprete in vena di sottigliezze, di complicazioni e di provocazioni esegetiche, ma dal modo in cui la sequenza è stata stabilita nella seconda e nella terza stanza della canzone? La risposta in realtà non si otterrebbe se della sequenza in questione si provasse a dare l’interpretazione che pur potrebbe essere definita come la più fedele alla parola cavalcantiana, e, descrittivamente, come la più semplice. La riposta non si otterrebbe se si dicesse che, percepita e contemplata da occhi sensibili, la figura di una donna viene ricevuta dall’intelletto che, nell’intenderla, la spoglia di ogni connotazione sensibile, facendone, appunto, una pura forma; e che da questa poi proceda, quando, appunto, gli accada di procedere, l’accidente che trova infine il suo posto in una parte dell’anima sensitiva, dove, rivelatosi come amore, svolge la sua specifica (e distruttiva) efficacia. Per questa via, nessuna risposta potrebbe in realtà essere data alla questione che qui su si è delineata: come subito si comprenderebbe se si considerasse che, nel tradurre in prosa i versi, uno studio speciale è stato messo nel presentare i luoghi critici, e le cruces che vi sono incluse, come se, in realtà, non fossero se non luoghi ameni, privi di ogni asperità e facilmente percorribili; come se bastasse aver detto «accidente», e aver considerato concettualmente possibile il percorso da esso compiuto dalla «veduta forma» all’anima sensitiva, per avere anche messa fuori questione la sua concepibilità; come se, infine, tornando su quei versi nel tentativo di stringerne ulteriormente il senso, non ci trovassimo di fronte a difficoltà, non risolte, ma inasprite. A difficoltà, dunque che, poiché insorgono comunque in un contesto segnato da concetti aristotelici, non potrebbero essere evitate con l’argomento secondo cui Cavalcanti era pur libero di deviare dal loro rigore, e di evadere dalla loro prigione. Libertà a parte, perché qui non è questione di libertà, è un fatto che dei concetti aristotelici Cavalcanti si servì bensì, ma senza assumerne per intero il rigore e valutarne le conseguenze; che debbono invece essere considerati per quel che sono se, per il tramite stesso delle deviazioni che fanno registrare, ci si voglia rendere conto del modo in cui egli fu aristotelico e, eventualmente, avverroista. Si rimanga, perciò sul terreno aristotelico; e si consideri quanto segue. Posto che, come τόδε τι […] καὶ χωριστόν, la forma è εἶδος di
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ciascuna cosa, lo sconvolgimento che l’assunto cavalcantiano produrrebbe in quel quadro (e in realtà in ogni altro che vi si ispirasse) non potrebbe essere più grande. A norma di Aristotele, non è infatti dalla «sostanza», e nemmeno dalla vista di una sostanza, che l’accidente viene, ossia trae origine. L’accidente, infatti, accade alla sostanza in quanto accade che le accada. Non le accade perché quella sia lì, sia vista, e, attraendolo a sé, non possa non accadere che quello, l’accidente, le accada.28 L’accidente accade alla sostanza; che lo accoglie bensì, ma senza aver fatto nulla perché vi accadesse. Si ricordi Aristotele, nel passo in cui leggemmo del συμβεβηκός, che non è αἴτιον, ma τυχόν; e anche si ricordi il luogo del De anima, dove è detto che noi percepiamo «il figlio di Cleone non perché è figlio di Cleone, ma perché è bianco, e al bianco accade (συμβέβηκεν) di esser figlio di Cleone». Infine, un esempio fra molti, si ricordi il De ente et uno di Tommaso d’Aquino, dove degli accidenti è preliminarmente messo in chiaro che «deffinitionem […] habent incompletam, quia non possunt deffiniri nisi ponatur subiectum in eorum definitione, et hoc ideo est quia non habent esse per se absolutum a subiecto» (6, 379-380). O la Summa theol. I, q. 77, 1 ad 2: «propria deffinitio accidentis, non est esse in subiecto, sed est esse rem cui debetur esse in subiecto». Se è così, una lettura rigorosamente aristotelica del testo importerebbe che «vèn da» fosse interpretato, non come «proviene», «si origina», ma come «accade che», fortuitamente, venga da, si origini, da una «veduta forma», a cui si neghi, nel concetto, il carattere di causa che l’espressione verbale le conferisce. È fuori di dubbio, quindi, che, nell’intelletto possibile, quel che nell’anima sensitiva è «accidente», è invece «forma». Fuori di dubbio è anche, o così sembra che debba intendersi, che nell’espressione «come in subietto» è concentrato e, fino a rendersi pressoché invisibile, è essenzializzato, il paragone, o, meglio, il problematico nesso, a cui si è accennato: quello, per esser chiari, che, senza riuscirci, Cavalcanti aveva stabilito fra l’accoglimento (smaterializzante) nell’intelletto della «veduta forma» e l’accoglimento dell’accidente chiamato «amore» nel «subietto», ossia nella sostanza che riceve la sua affezione nell’atto in cui gli conferisce il suo particolare esse. Il che, beninteso, non significa, e ribadirlo sembra sul serio necessario, che l’amore sorga, magari simultaneamente due volte: come contemplazione intellettuale di una pura forma, e, quindi, come oscura passione. Si deve ribadirlo. La «veduta forma» non è amore, anche se di lì, problematicamente, si determini l’accidente che, accolto
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nell’anima sensitiva, riceverà quel nome. A sua volta, l’amore non ha «forma», e «non si po’ conoscer per lo viso» (v. 63). Tale, e cioè «amore», è soltanto nell’anima sensitiva, di cui ha la natura («creato è da sensato» v. 19) e ripete in sé alcuni fondamentali caratteri: il primo dei quali è, come ben si sa, di non avere, nell’intelletto possibile, alcuna «possanza», proprio come questo non ne ha alcuna su di lui. Da escludere con nettezza, ancora una volta, è quindi che, nei termini di Donna me prega, l’atto intellettuale sia amore e che, per una sua parte e un suo aspetto, questo sia un atto intellettuale. Da escludersi altresì, ancora una volta, è che dal «perpetüal effetto» dell’intelletto possa decadersi al piano inferiore della sensibilità, e che di qui possa eventualmente risalirsi a quello. Nell’amore sensibile niente c’è di intellettuale, o che orienti verso quella dimensione.29 La quale, a sua volta, è chiusa in sé, e anche, per conseguenza, alla possibilità di offrire («largire») qualcosa di simile a quel che ha luogo nell’anima sensitiva (v. 28).30 In questa scissione, e conseguente incomunicabilità, può indicarsi il tratto più schiettamente averroistico di Donna me prega.31 Ma, su questo, dovrà ritornarsi. Dire così, infatti, non basta. Se è così, di fronte alla questione posta dai vv. 31 ss., occorre disporsi a considerare come entrambe problematiche le due interpretazioni che qui di seguito saranno delineate. Questi versi potrebbero in primo luogo, essere intesi come se Cavalcanti avesse lui pure ammonito circa i pericolosi effetti dell’amore; che, quando insorge, omnia vincit, a cominciare dalla «salute», ossia dalla sanità mentale e dall’equilibrio del giudizio,32 e a tal punto travolge le esistenze umane che, l’«intenzione» sostituendosi alla ragione, il discernimento si corrompe e, spesso, l’uomo perviene a morte. Che, letteralmente, questa interpretazione sia possibile, si può senz’altro concedere: a condizione che, per altro, si ammetta che, dal piano del rigore filosofico, il poeta sarebbe pervenuto, in questo caso, a quello, se non della banalità, della disposizione moralistica e parenetica. Se, tuttavia, ci si convincesse con buone ragioni che, banalizzando il testo, questa interpretazione non restituisce il pensiero che Cavalcanti aveva inteso comunicare, occorrerebbe passare all’altra. E dire che, se l’intelletto non ha vanto sull’amore, e questo non ne ha sull’intelletto, allora deve semplicemente ammettersi che all’inefficacia del secondo sul primo debba corrispondere l’eguale e contraria inefficacia di questo su quello; e dichiarare che sarebbe assurdo se all’amore si assegnasse un potere perverso e corruttorio sull’intelletto
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nell’atto in cui, con perfetta coerenza, si negasse che questo potesse averne uno benefico e risanatore su quello. Insomma, altro è dire che a offuscare la ragione, a renderla debole e incerta nell’esercizio del giudizio, è l’amore, che sconvolge e uccide. Altro è dire che nell’anima sensitiva, dove l’amore ha la sua dimora, non penetra luce intellettuale da cui quello possa essere dominato, «razionalizzato», e vinto. Nel primo caso, l’offuscamento della ragione è direttamente provocato dall’amore che, prendendo perciò contatto con essa, penetra nel suo sacrario e ne sconvolge le regole; e, se la cosa fosse possibile, si tratterebbe, propriamente, di un offuscamento. Nel secondo, l’offuscamento non è quel che questo sostantivo significa. Se nell’anima sensitiva non penetra la luce dell’intelletto, il buio che la caratterizza deriva dal suo, in quanto tale e überhaupt, non essere penetrabile da quella, non dall’amore; che, non avendo, in quanto tale, alcun potere sull’intelletto, non potrebbe, a rigore, essere imputato di impedire il retto uso della ragione e del giudizio. Se perciò s’interpretasse nel primo di questi due «modi», e s’intendesse che fosse quello il senso dei versi in questione, anche dovrebbe assumersi che il topos moralistico avesse, in quel caso, prevalso sul rigore filosofico, ossia sulla tesi che alla logica della canzone si era, per molti segni, rivelata intrinseca. Ma se s’interpretasse nel secondo, non per questo Cavalcanti verrebbe restituito alla coerenza. La separazione delle anime impedisce che quel che avviene nell’una possa avere influenza, benefica o malefica, sull’altra. E mai all’amore potrebbe esser fatto risalire l’offuscamento dell’intelletto. L’attenzione è rimasta fin qui concentrata sulla seconda e sulla terza stanza; non senza per altro che qualche accenno sia andato a versi della prima, e anche della quarta. Ma deve tuttavia riconoscersi che non tutto, sopra tutto per quanto attiene alla terza, è stato chiarito come sarebbe stato desiderabile. È perciò necessario che vi si torni su per cercare di renderne più perspicui alcuni passaggi interni. Deve innanzi tutto avvertirsi che, se molteplici, e tutti critici, sono stati, fin qui, i rilievi che, a proposito della coerenza aristotelica dell’impostazione data da Cavalcanti al problema dell’accidente chiamato «amore», sono stati proposti, schiettamente averroistica sembra che debba invece essere giudicata la tesi relativa all’anima sensitiva come forma del corpo. Non all’anima intellettiva si riconosce, infatti, questo carattere. Ma a quella, come si è detto, sensitiva. E questa è appunto tesi averroistica, come a suo tempo Nardi chiarì, e, anche di recente, è stato ribadito.33
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La questione più acuta che, per altro, di qui nascerebbe se con decisione, e pur sempre allo scopo di pervenire alla radice del testo, il discorso fosse proseguito sul piano della filosofia, è quella alla quale, a più riprese, ma in modo soltanto rapsodico, si è alluso nelle precedenti pagine. È la questione dell’intelletto; che Cavalcanti definì come «possibile», senza spiegare o lasciare intendere se, per lui, quell’aggettivo ne esaurisse l’ambito, e altro non occorresse, o se dipendesse dal poco spazio che la «forma» della canzone gli concedeva il fatto che dell’intelletto agente in essa non si facesse alcun cenno: come, del resto, di quello adeptus che, nel grande commento averroistico al De anima, è presentato come l’intellectus materialis che, in quanto sia stato copulatus secundum quod perficitur per intellectum agentem, fa sì che, a nostra volta, nos sumus copulati con questo, e così via per quante sono le specificazioni che questa complessa materia aveva ricevute in quel testo,34 e che certo non erano riassumibili nel quadro di una canzone. Si tratta di una questione che, nell’economia di questo discorso, non può ricevere l’attenzione che altrove richiederebbe. E dunque non vi si alluderà se non per dire che se, senza alcun dubbio, nei vv. 26-27, l’intelletto si presenta connotato in termini di «eternità» e come «separato», quindi, e «unico», le questioni che ulteriormente ne nascono vanno tuttavia assai al di là di quel che il testo di Donna me prega non consenta di comprendere. Se è vero che, nei vv. 26-27, l’intelletto si mostra con i caratteri dell’eternità e dell’esser quindi «separato» e «unico», non per questo saremmo autorizzati ad assegnare senz’altro, al contesto cavalcantiano, le conseguenze che pure in quel concetto sono implicite: anche perché, non necessariamente, quel che si trova nella «cosa» sta, allo stesso titolo e con lo stesso segno, nella soggettiva coscienza. Il rapporto che, sebbene sia separato unico e eterno, attraverso le sue determinazioni l’intelletto intrattiene con gli individui, si mostra subito nella sua complessità pur che si osservi che, posta la sua «unicità», questa dovrà comunque essere immanente negli individui, o come singoli o come «specie». E questo, se per un istante fosse lecito andare al di là della lettera della teoria e delle tante controversie a cui dette luogo, dovrebbe, in entrambi i casi, esser giudicato impossibile. Se infatti l’intelletto fosse immanente negli individui e, in questo atto, conservasse tuttavia la sua unicità, a delinearsi sarebbe la necessità della scelta che dovrebbe farsi fra l’uno e gli altri. Se lo si supponesse unico negli individui, questi sarebbero intelletto, e per la loro singolarità non ci sarebbe posto. Se, viceversa, restando individui, e consegnandosi perciò alla molteplicità e alla differenza, ciascuno, nella sua individualità e
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particolarità, includesse l’intelletto, questo non potrebbe più corrispondere alla sua definizione: a quella, si vuol dire, che lo ritrae come «unico». Nemmeno, del resto, la questione potrebbe considerarsi risolta se fosse posta in termini di «partecipazione». Se infatti s’intendesse che, restando quel che è, l’individuo partecipasse dell’intelletto, non potrebbe allora riceverne se non la parte che, in quanto individuo, fosse in grado di assumerne in sé; che se, per contro, non la parte ricevesse, ma il tutto, di nuovo sarebbe intelletto, e non individuo. La soluzione che, a questo riguardo, emergeva dai testi di Averroé, e che nella teoria dell’intelletto speculativo, e in quella dei fantasmi che sono nell’individuo, indicava il criterio atto a risolvere la quaestio della conoscenza individuale, non era a rigore una soluzione. Riproduceva in sé stessa la difficoltà che ha nome unità, congiunzione, possibilità dell’una e dell’altra: dal momento che, se, da individuo a individuo, i fantasmi non sono i medesimi fantasmi, unico è invece l’intelletto speculativo che si unisce a essi, dei quali condivide bensì il destino della mortalità, ma non senza esservisi unito nel segno della sua unicità e averla imposta alla loro particolarità. Che poi dai testi averroistici si deduca che, realizzatasi la connessione dell’intelletto speculativo con i fantasmi, l’intelletto possibile, o ilico (materialis), si unisce con quello agente nel segno dell’intellectus adeptus, che ne risulta, è altrettanto vero della difficoltà che s’incontra a pensare sia questo specifico rapporto, sia la presenza in esso dell’individuo che, in quel segno, dovrebbe aver conseguita la felicità intellettuale. Non è forse evidente che, pensata in termini di universalità, è proprio essa, la felicità intellettuale, a non poter essere compatibile con l’individualità che dovrebbe viverla?35 Questioni complesse, che qui non si sono se non accennate nel loro vario e problematico profilo. Non perché nella canzone di Cavalcanti ricevano un qualsiasi svolgimento, o vi siano, in quanto tali, per lo meno presenti. Ma, e questa è la ragione per cui si è dovuto, e si deve, accennarvi, perché vi sono tuttavia implicite e in qualche modo danno segno di sé attraverso la differenza che vi è posta fra la «perfezione» razionale e quella sensibile, che anch’essa è una perfezione; ed è, averroisticamente, forma del corpo. Vi sono implicite. E, occorrerà ribadirlo, si rendono percepibili nella difficoltà che si delinea là dove, cedendo forse alla convenzione, e senza, filosoficamente, averne il diritto, Cavalcanti (v. 34) parlò del «vizio» che opera sul «discernimento» e lo oscura; parlò (lo si è visto) della perdita della «salute»;36 parlò della morte come frequente esito della pas-
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sione d’amore, e quindi anche dell’ira e dell’inquietudine. Ma di questo, e cioè del prevalere dei topoi antierotici sulla stretta considerazione filosofica, si è già detto; e per ora non occorre aggiungere altro. Non tanto, tuttavia, se n’è detto che non debba prestarsi attenzione ai vv. 35-42, e, prima ancora, 32-34, nei quali la fenomenologia dell’amore che Cavalcanti era intento a descrivere incontrò uno dei grandi temi del suo pensiero, e della sua poesia, e il discorso toccò uno dei vertici della sua intensità: anche perché, converrà aggiungere, non si può, a proposito di questi versi, essere senz’altro sicuri della conclusione che è stata indicata quando, qui su, si disse della prevalenza del topos sul concetto. Si vada infatti al v. 32 («for di salute giudicar mantiene»): dove, se, a senso, il soggetto fosse assegnato all’amore,37 allora potrebbe intendersi che dovesse attribuirglisi la conseguenza del non retto «giudicare»,38 mentre se, come grammaticalmente il contesto sembra esigere, fosse invece individuato nella «perfezione» non razionale, e cioè nell’anima sensitiva, nella quale l’accidente chiamato amore ha la sua sede, ecco che (ma già fu notato) il senso del discorso si rivelerebbe un altro. E cioè che, in tanto questa «perfezione» ottiene quel risultato in quanto il retto giudicare sta fuori del suo confine: con la conseguenza che non è l’amore che ne impedisce l’esercizio, ma è l’estraneità strutturale di questo all’ambito del sensibile, al quale solo l’amore appartiene, e il giudizio no. Insomma, in un caso, al giudizio, e al suo esercizio, la via sarebbe sbarrata dall’amore che, intervenendo su di esso, lo ottenebrerebbe e lo farebbe deviare, dopo averlo contaminato. Nell’altro, sarebbe l’assoluta estraneità, l’una all’altra, di queste due anime, a far sì che l’una fosse abitata dal giudizio e non dall’amore, l’altra dall’amore e non dal giudizio, e che, dove ci fosse l’una, non potesse esserci l’altra. Come, del resto, si è già osservato, sarebbe questa assoluta estraneità a escludere addirittura che fosse l’amore il responsabile del non retto giudicare; che era la conclusione radicale che Cavalcanti non riuscì a raggiungere, dal momento che per lui, sebbene in sé stesso separato in quelle sue due anime, l’uomo non lo era tanto quanto la loro separazione avrebbe richiesto che si ammettesse, restando pur sempre il rappresentante di un’unità che, concettualmente, non avrebbe dovuto esser giudicata possibile. Se a questa seconda interpretazione si desse la preferenza, di concetto dovrebbe allora parlarsi, non di topos; ma di concetto, tuttavia, non adeguatamente dedotto nelle conseguenze intrinseche alla idea della «separa-
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zione» delle anime, sensitiva e intellettiva. Alla luce di questo concetto non rigoroso, la morte che consegue alla «potenza» dell’amore, è tanto quella spirituale e intellettuale, che verrebbe in tal modo a dipendere da ciò che sull’intelletto non dovrebbe avere alcun potere, quanto quella fisica, che «spesso» ne viene provocata. Ma è così? In effetti, se fosse stato fino in fondo coerente alla tesi della separazione, Cavalcanti avrebbe forse dovuto dire che la morte riguarda bensì l’individuo, ma non l’intelletto che, essendo separato, non partecipa del destino che colpisce ciò che appartiene al sensibile. Riguarda non l’intelletto, ma ciò che è mortale. Ed è perciò una morte, in ogni senso, fisica. Per una via assai diversa da questa che qui è stata tracciata e seguita, era stato questo, del resto, il risultato a cui era pervenuto, nel suo commento, Dino del Garbo, nel luogo di esso (§§ 55-56) in cui aveva spiegato che «adeo potest hec passio corpus alterare, quod multotiens inducit mortem, que est ultimum terribilium»: con piena ragione, dunque, da questo punto di vista, se si guarda al risultato comunque ottenuto. Se, infatti, per caso («forte») fosse stata impedita la «vertù», «la quale aita – la contraria vita», a seguirne sarebbe stata, appunto, la morte dell’individuo. Ed è questo quel che Dino considerò. Questa virtù è, infatti, non quella che rifulge nell’intelletto, che con l’amore né ha né può avere contatto. Ma è bensì la virtù vitale che, appunto, se non fosse impedita, aiuterebbe la «contraria via»: quella, s’intende, della vita, non della morte. A questo punto, con un passaggio rimasto soltanto implicito, dopo aver escluso che, a causa della morte che spesso consegue alla sua potenza, l’amore potesse perciò considerarsi cosa «oppost’a naturale» (v. 38), Cavalcanti tornò a riferirsi alla morte spirituale; che è infatti quella che si determina quando, insorgendo come accidente nell’anima sensitiva, l’amore abbia fatto il deserto in quella intellettiva e, appunto, per la sola «virtù» del suo accadere, l’abbia spenta. Ma è così? È possibile che sia così? C’è da dubitarne, come stiamo vedendo: se addirittura non sia necessario dire che così non è, che così è impossibile che sia. Per spiegare in termini razionali perché l’accidente chiamato «amore» uccida la vita intellettuale, occorrerebbe infatti ammettere che, provenendo dalla «veduta forma» e, avendo come mèta la parte dell’anima sensitiva dove sta la memoria, all’accidente fosse dato di percorrere l’intera estensione di quella intellettiva e, in questo atto, di inaridirla e spegnerla. Ma che, interpretando così, il testo riceva una sollecitazione eccessiva, e non orientata nel giusto senso, senza che, d’altra parte, in questo stesso atto lo si sottoponga con rigore alla prova della
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coerenza e del risultato al quale, nel nome di questa, dovrebbe pervenire, è innegabile. Innegabile è che di qui nascano problemi, che non è facile risolvere. Se si intendesse in quel modo, dovrebbe infatti ammettersi che, ferma restando la separazione, fra le anime sussistesse tuttavia una qualche forma di rapporto. Per spegnere occorre che si entri in rapporto con ciò che si spegne. E questo, come si sta vedendo, suscita problemi. A favore dell’interpretazione, che pur propone questi forti dubbi, sta tuttavia la circostanza che se, nella «vertù […] la quale aita la contraria via» s’indicasse non la virtù vitale,39 ma l’altra, intellettuale, nel testo si darebbe a vedere la grave incoerenza consistente nell’ammettere quel che mai si sarebbe dovuto e si dovrebbe. E cioè la possibilità che l’intelletto intervenisse, o, nel caso specifico, piuttosto non intervenisse, là dove, comunque, di intervenire avesse la capacità, e questa non gli fosse interdetta dalla situazione delle anime, ossia dal rapporto o, piuttosto, dal non rapporto che le caratterizza: la capacità di intervenire sulle passioni d’amore, di sottometterle alla sua regola, di disciplinarle, trattenendole al di qua del disastro al quale sarebbero, altrimenti, destinate. Che, d’altra parte, la «morte» adombrata in «non po’ dir om ch’aggia vita» (v. 40) sia, non, quella qui su interpretata come fisica, ma piuttosto l’altra, intellettuale, provocata dalla presenza della passione d’amore, è provato ad abundantiam dall’accenno alla non «stabilita signoria» che di quello è diretta conseguenza. Il riferimento era alla situazione che si verifica quando, «per sorte», a causa cioè del sopraggiungere dell’accidente chiamato «amore», l’uomo «tort’è», ossia è costretto a deviare dalla ricerca, o dal possesso, del «buon perfetto», della vera felicità: quella dell’intelletto, che consiste per altro, non nel «diletto», ma, com’è detto al v. 27, nella «consideranza». A deviare: o, come forse sarebbe meglio dire, a esser reso e tenuto prigioniero, dalla passione d’amore, nell’anima sensitiva, dove non filtra luce d’intelletto. I dubbi che resistono all’interpretazione, e che questa si mostra infatti non in grado di risolvere, non dipendono soltanto dalla sua scarsa virtù. Dipendono dall’intrinseca ambiguità di un testo che, per un verso, intesse la sua tela con il filo della più ferrea coerenza, e, per un altro, tende di tanto in tanto a smarrirlo per proseguire poi sulla via segnata da questo oblìo. Alla radice di questa situazione, e dell’ambiguità che la segna, è l’idea dell’uomo che, senza mai metterla a tema, Cavalcanti tacitamente presuppose. Prima che, come accidens, l’amore intervenga con i suoi cupi caratteri a ani-
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mare, drammatizzandola, la scena della grande canzone, i protagonisti del discorso sono la sensibilità, l’intelletto, la loro separazione; e, con questi, l’uomo. Il quale, se fosse stato pensato in modo conseguente all’idea della separazione delle anime che sono in lui, e si fosse perciò presentato come anch’esso una separazione e una scissione, non avrebbe dovuto, e potuto, essere pensato come anche un’unità, come un soggetto capace di risentire in sé di quel che, separatamente, accadeva nelle due anime che dividono e lacerano la sua unità. Ma Cavalcanti lo concepì così. O, meglio: a un pensiero che, se fino in fondo fosse stato coerente, avrebbe dovuto prendere la diversa via della scissione non ricomponibile in unità, ne sottese uno che, con la scissione, manteneva e cercava di far andare d’accordo l’unità. Con la conseguenza che nell’intelletto, da una parte, e nell’amore, da un’altra, ammise quel che non avrebbe dovuto, e che certo non avrebbe ammesso se non fosse stato per quell’idea, pur sempre unitaria, dell’uomo, nella quale era invece rimasto come impigliato. Le ambiguità che, per quel che attiene al rapporto dell’uomo con l’intelletto, o, se si preferisce, dell’intelletto con l’uomo, erano già nel De anima e in quel che (Averroé compreso) ne era derivato, anche in Cavalcanti lasciarono il loro segno. La «vertù», di cui è detto al v. 36, è dunque la virtù vitale. Per poter subire il dominio dell’amore, occorre essere vivi: vita dev’essere quella che dal suo potere è resa incerta, ondeggiante, priva di giusta direzione. Quando di questa situazione si sia stati resi prigionieri, e persino l’aspirazione alla luce ne sia stata impedita e resa impossibile, non si può dire che uno («om») abbia vita; perché di questa l’amore è la malattia, non la verità e l’essenza. Ma, se è così, che significa il v. 42: «a simil po’ valer quand’om l’oblia»? E qual è l’oggetto di «oblia», – è la «signoria», è il «buon perfetto», o eventualmente è, come a rigore non può escludersi, l’amore stesso? La prima ipotesi deve subito, com’evidente, essere esclusa. (1) Se oggetto dell’oblio fosse la «signoria», ossia la capacità di dominare le passioni che insorgono accidentalmente e prendono sede nell’anima sensitiva, parlando di un esito «simile» Cavalcanti si sarebbe espresso in modo improprio, privo di rigore. Avrebbe infatti dovuto parlare di un esito «identico», anche se a causare l’oblio della capacità di autodominio fosse stata una passione diversa da quella d’amore. (2) Se oggetto dell’oblio fosse invece stato il «buon perfetto», perché, ancora una volta, Cavalcanti avrebbe parlato di «similitudine» e non di «identità»? E, sopra tutto, perché sarebbe tornato
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ad alludere al «buon perfetto», dal quale aveva già detto che si è distolti quando, «per sorte», si sia stati vinti da amore? Perché infine, se avesse parlato della stessa cosa, si sarebbe servito del termine «simile»? Che vuol dire, dunque, «a simil po’ valer»? (3) Resta da esaminare la terza delle possibili interpretazioni delineate qui su, – che oggetto dell’oblio essendo l’amore, l’esito sia tuttavia, per quanto riguarda la signoria che si ha su sé stessi, «simile», analogo, a quello che si dà a vedere nel caso che, lungi dall’essere «obliato», sia l’amore a tener prigioniero chi ne senta il morso nella pura dimensione del sensibile. Alla luce dei versi che stiamo esaminando, non deve intendersi tuttavia che l’amore sia oggetto di oblio nel senso che lo si sia dimenticato e ora si proceda sul sentiero della guarigione. Che fu la spiegazione suggerita, com’è noto, da Dino del Garbo; che, essendo un medico, alla guarigione teneva, giustamente, in modo particolare. Egli scrisse che «eius sola “oblivio” valet ad curationem et remotionem impedimenti et mortis, sicut ista “passio” prima valet ad inducendum mortem» (§ 64). E in questa forma, lo si è detto, la sua spiegazione suscita perplessità; anzi forte perplessità. A non persuadere è che l’idea del poeta fosse stata che la liberazione, mediante l’oblio, dall’amore valesse il «simile» della situazione opposta, di quella cioè in cui, lungi dall’essere obliato, l’amore domina; e che, come questa era causa di schiavitù e di morte, questa lo fosse di vita e di libertà. E non tanto perché, in linea generale, non sia concepibile che la similitudo si stabilisse qui attraverso l’opposizione. In realtà, quel che nell’ipotesi di Dino non persuade è, si potrebbe dire, il «lieto fine», la proclamazione della vittoria che la oblivio ha ottenuta sulla morte a cui l’amore conduceva, o avrebbe condotto. Ma, in una cosa, tuttavia, egli non ebbe torto: nell’intendere che oggetto della «signoria» fosse, in quei versi, l’amore. Per il resto, ossia per intendere quel che vi è scritto, non è alla sua glossa che che ci si può rivolgere. Il significato di quei versi è infatti assai diverso da quello stabilito da Dino. E si veda perché. Se, come qui si suppone, e i commentatori sono invece concordi nell’escludere,40 oggetto dell’oblio fosse, non la «signoria», non il «buon perfetto», ma l’amore, il senso del discorso sarebbe allora che lo stato di «non stabilita signoria» indotto dall’oblio del suo potere presenterebbe analogie (similitudini) con quello in cui un’identica conseguenza era provocata dalla sua imperiosa presenza. Con invidiabile sottigliezza psicologica, in questo caso Cavalcanti avrebbe alluso allo stato di confusione e di incertezza esistenziale che lo spegnersi di una grande passione lascia in chi
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viva, o stia vivendo, questa esperienza. E, per questa via, di nuovo avrebbe riconosciuta all’amore la gran «possanza» che è la sua cifra più autentica, il carattere che esso dimostra di possedere persino quando, paradossalmente, il suo fuoco si stia spegnendo, si sia spento, e, pur convalescente, è come se ancora l’uomo fosse malato. È una spiegazione plausibile? O, al contrario, il suo limite sta nel suo indulgere a suggestioni psicologiche di gusto romantico? Ammettiamo di buon grado che spiegazioni di gusto romantico non siano le più idonee a restituire il senso che della vita, dell’amore e della morte, fu proprio di questo poeta, che a tali cose guardò, in ogni caso, con rara, e a volte persino sorprendente, intensità. Ma se non quello romantico, certo a lui appartenne in sommo grado il gusto che potrebbe esser definito della separazione del «sé» dagli strumenti della sua espressione esistenziale, linguistica e letteraria, fossero essi oggetti o, appunto, parole; il gusto, insomma, della dispersione e desolazione della personalità:41 e basti per questo il rinvio a Noi siàn le triste penne isbigottite, con quel che segue nel mirabile sonetto. Può ben darsi, dunque, che questa ipotesi debba cedere, quando si presenterà, a una migliore; che tale però occorrerebbe che fosse sul serio, perché quelle fin qui proposte hanno il difetto di non spiegare quel che dovrebbero: e cioè il significato di «a simil po’ valer» che del v. 42 costituisce il nerbo. Difficile è altresì il concetto dell’«oltra misura», della dismisura, dell’eccessività, con cui, al v. 44, Cavalcanti definì l’amore, e anche qui, ancora una volta, sembrò che avesse sottomesso al «talento» del topos la «ragione» della filosofia. Se l’amore è un accidente che, provenendo da «veduta forma», ha nell’anima sensitiva la sua sede, e in questa realizza la sua natura, rispetto a che cosa, ossia a quale «misura», e a quale «natura» andrebbe al di là, di quale limite oltrepasserebbe il segno? Non certo della sua che, sebbene consista in una sorta di oltranza passionale e desiderativa («l’essere è quando – lo volere è tanto/ ch’oltra misura – di natura – torna» [vv. 43-44]), e anzi proprio per questo, sarebbe impossibile ammettere che al di là di questa potesse mai andare. Se perciò dell’amore, e del suo «essere», si dice che eccede il limite della natura all’interno della quale accade che tuttavia trovi posto, l’unica spiegazione che, al riguardo, sembri plausibile è che, in tanto può dirsi che esso vada oltre, in quanto, nella sua accidentalità, si aggiunge a un situazione dell’anima che, per sé stessa, non ne è abitata sempre: sì che, entrandovi, esso ne altera il normale lineamento sensibile e passionale. Se è così, deve dirsi che, assai più che
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all’«immoderata cogitatio» del Cappellano,42 e ad altre consimili espressioni, Cavalcanti si riferì, in questo caso, proprio all’idea dell’accidente quale gli era offerta da Aristotele e dai suoi commentatori; e che a questa egli fu qui assai più fedele di quanto all’inizio della canzone, e poi variamente, nel corso di essa, non fosse stato. Sebbene, per definire l’amore, non avesse esitato a pronunziare il nome dell’«essere», fu alla sua accidentalità che, viceversa, egli tenne dritto lo sguardo; e il relativo concetto gli si configurò, per conseguenza, come quello di una «realtà» che «non sempre» né «per lo più» (per usare l’espressione aristotelica) appartiene alle cose, ma può accadere che vi intervenga e, in questo caso, che a esse si aggiunga nel segno della eccessività. In realtà, non sarebbe agevole, se si interpretasse altrimenti, restare nell’ambito della filosofia che, almeno nelle grandi linee, Cavalcanti condivideva; non sarebbe facile fornire, di questo «oltre», un’interpretazione che a quella filosofia fosse conforme.43 Se invece si interpreta come qui si suggerisce, la linea filosofica può essere seguita senza sostanziali difficoltà, e senza, dunque, che il topos letterario della follia d’amore conduca oltre la misura del concetto. Cedendo al fascino di una, se così la si potesse definire, fenomenologia realistica dell’amore, Cavalcanti si dette, tuttavia, subito dopo a svolgerla in termini che del topos sono invece tributari, e ne fornì una sorta di sintesi, o di sommario. L’amore non conosce riposo, fa sì che colui che ne è preda cambi di colore, rida e pianga, sia «stravolto» (come a ragione intese De Robertis)44 nella persona per la paura che quello gli comunica. Ancora. L’amore provoca sospiri e (ecco il verso giustamente considerato enigmatico) «vol ch’om miri – ’n non formato loco» (v. 51), con la conseguenza già vista dell’ira, che insorge infatti, o a causa degli ostacoli (tale, almeno, la spiegazione fornitane da Nardi)45 che impediscono al desiderio di realizzarsi nel compiuto possesso della donna amata, o, come è forse preferibile intendere, a causa dell’intrinseca mutevolezza e instabilità dell’oggetto che, posseduto, non lo è mai tanto quanto l’amante vorrebbe che fosse. Su quel verso che, senza dubbio, è alquanto criptico, e non poco sfuggente, occorrerà fermarsi: non prima, per altro, di aver notato che a un’altra costrizione l’amore lega chi ne subisca la passione. Esso infatti non consente alle sue vittime di «muoversi», ossia di liberarsi della sua signoria. Nel che potrà forse cogliersi una sottile contrapposizione: come se qui Cavalcanti avesse alluso al fatto che quel che per sé stesso è instabile, tanto più impone stabilità e fermezza da parte di chi ne sia stato reso
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vittima. Come che sia, sta di fatto che anche il v. 56, di per sé abbastanza trasparente, risulta tuttavia difficile a intendersi se lo si considera nella sua particolare connessione sintattica con quel che precede; laddove torna, forse, a rendersi perspicuo se lo si riferisce al «gioco» del v. 55, e questo, a sua volta, a «amore», che non consente il ricorso a piaceri che valgano a distrarre dal suo, così tirannico e doloroso; e tale che, come non consente che da lui ci si distragga in piaceri alternativi, così anche a un po’ di saggezza chiude il varco.46 E veniamo, finalmente, al v. 51, e alle diverse letture a cui, per la sua difficoltà, ha dato luogo: «’n non formato luogo»,47 «’n un formato loco»,48 e, infine (Nardi) «in un fermato loco»,49 dove, secondo l’ulteriore spiegazione di Inglese (che ne è stato attratto, senza tuttavia decidersi per essa), «fermato» varrebbe «proibito».50 Deve riconoscersi, e ribadirsi, che il significato di questo verso si ricostruisce e si raggiunge, se si raggiunge, con non poca difficoltà. E cioè in modo tale che da una lezione, e dall’interpretazione che ne è richiesta, si passa a un’altra, senza che il passaggio escluda la possibilità del ritorno. Se per «non formato loco» s’intende «non forma», e perciò, eventualmente, pura materia, hule, che per sé stessa sia agnostos, allora Inglese51 avrebbe ragione nell’escluderne la possibilità, perché, come si legge in Metaph. Z 1036 a 8-9, ἡ δ´ὕλη ἄγνοστος καθ’αὑτήν, la materia è di per sé inconoscibile. L’esclusione sarebbe per altro fondata su buoni motivi se «non formato loco» fosse, e potesse essere, assunto nel senso di hule, e questa, naturalmente, come ἄγνοστος καθ᾽αὑτήν. Ma non deve dimenticarsi che, sebbene «non formato», quello a cui l’amore «vol» che l’amante tenga fisso lo sguardo, è pur sempre un «loco» che, in quanto tale, non è, e non dovrebbe essere, suscettibile di essere assunto come, in sé stesso, «non formato», ossia come la famosa hule che, per sé stessa, poiché è informe, è agnostos. Se, predicandovisi, il «non formato» si riferisse a un «non loco», che non sarebbe perciò un «non loco», si avrebbe allora che il «non formato» sarebbe bensì una sua caratteristica, ma non quella che dovrebbe conseguire al suo essere preceduto dalla negazione «non». E «non formato» potrebbe allora alludere a qualcosa come un’interna instabilità, non solo dell’oggetto erotico e della passione da esso determinata nell’animo dell’amante, ma del «loco», appunto, in cui quell’accidente ha trovato posto, e che dovrebbe in questo caso coincidere con l’amore stesso. L’amore, insomma, e il luogo, in cui
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ha trovato posto, sono entrambi un accidens, un συμβεβηκός, che ha il suo «loco» nell’anima sensitiva. E il paradosso dell’amore starebbe allora nella volontà che, sospirando, l’uomo guardasse nella sua direzione: a un «loco», dunque, che, nell’esser tale, si sottrarrebbe tuttavia allo sguardo perché, in quanto puro accidente, e segnato per giunta dalla «scuritate» che viene da Marte, non avrebbe forma visibile. Pensata in questi termini, e se il discorso fosse tenuto entro i limiti dei vari topoi concernenti l’amore, questa sarebbe bensì una sottigliezza, un’artificiosa sottigliezza: una sottigliezza, e, deve aggiungersi, un paradosso; che perverrebbero al loro grado più alto, e lì mostrerebbero la loro maggiore fragilità, se, lasciando da un canto le eventuali intenzioni di Cavalcanti e guardando alla cosa stessa, si considerasse e ricordasse che quel che la canzone diceva dell’accidente è quel che non avrebbe dovuto se (la questione torna) l’assunto e la definizione aristotelici fossero stati rispettati e condivisi nel segno, non soltanto della fedeltà, ma del rigore. È vero, infatti, che, anche secondo Aristotele, in sé l’accidente non è visibile. Ma in un senso, tuttavia, specifico, e che occorre tener presente nel suo carattere proprio. L’accidente non è visibile se lo si assume nel senso per il quale non visibili sono le categorie che si predicano della «sostanza», quando siano considerate in sé e per sé stesse: come, per esempio, la qualità (τὸ ποιόν), la quantità (τὸ ποσόν) e le altre, e non in quanto ineriscano a «soggetti» determinati, nei quali non potrebbero, in effetti, esser altro che visibili (o almeno constatabili, misurabili, e così via). L’accidente non è visibile se, andando ancora più a fondo, lo si assumesse, non come «categoria» presa, o nella sua massima generalità, o nell’inerenza a un soggetto, ma come categoria considerata nell’accadere alla sostanza che la riceve: in un accadere, dunque, che, essendo proprio un συμβεβηκός, e un τυχόν, non ha altra αἰτία da quella per la quale si può dire che accada senza averne una. L’accidente, insomma, non è visibile quando, incorrendo per altro in difficoltà non lievi, lo si assuma al di qua del suo rendersi concreto in un soggetto, e perciò, si potrebbe dire, nel suo puro ἐξαίφνης. Con il che, certo, non potrebbe pretendersi che, aristotelicamente parlando, tutto qui fosse chiaro. Che l’accidente abbia il suo essere nella sostanza, e di per sé ne sia privo, è bensì, per esempio, schietta proposizione aristotelica; che potrebbe tuttavia essere contestata e messa in discussione quando si osservasse che, sia pure che fosse la sostanza a conferirgli la consistenza che in sé non avrebbe e non ha: salva però la fondamentale avvertenza che, se
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l’accidente non possedesse il «per sé» bastante a far sì che lo si assumesse, e si potesse assumerlo, come «ciò che» può essere predicato della sostanza, questa predicazione non avverrebbe mai e dalla sostanza esso non potrebbe ricevere la consistenza che per sé non ha. È, e proprio in termini aristotelici, una situazione paradossale, e imbarazzante: per poter ricevere dalla sostanza l’essere di cui lo si dice privo, privo di essere l’accidente non può essere. Da una parte, ὑποκείμενον, soggetto, è, in senso aristotelico, la οὐσία, la sostanza che, sottendendole, riceve le predicazioni; che, in quanto accada che ne siano accolte, può dirsi che, appunto, solo per accidens lo siano. Ma, da un’altra, un ὑποκείμενον, un subiectum, deve essere, logicamente, anche se non visivamente, individuato alla radice del συμβεβηκός, dell’accidens; che, se non possedesse il «sé» in ragione del quale lo si definisce così, come potrebbe dirsi che è accolto dalla sostanza? Forse che non è vero che, accogliendolo, la sostanza accoglie qualcosa, e non niente? Delle questioni sollevate qui su converrebbe discutere in una sede diversa,52 dove a ciascuna potesse darsi l’adeguato sviluppo. Ma, in quella nella quale ci troviamo, si può comunque e si deve aggiungere che, nei confronti del concetto che Aristotele ne delineò, fra le altre sue irregolarità l’accidente cavalcantiano presenta anche quella (e qui sta il nodo) che si rende evidente quando si consideri che, per un verso, esso non sta a sé, ma inerisce a un soggetto che, tuttavia, per un altro, soltanto in senso del tutto particolare, e anomalo, è, a rigore, definibile come sostanza. Il soggetto al quale l’accidente inerisce è, non una sostanza sensibile, ma l’anima sensitiva; che sostanza (οὐσία) può certamente esser detta, a norma di Aristotele, De an. B 412 b 10-11,53 se la si prende come «forma» di un corpo; restando per altro fuori questione che, poiché di per sé essa è invisibile, è il corpo che, in quanto visibile, rende testimonianza del suo esserci. Ma in Cavalcanti le cose vanno in modo assai diverso. Se l’anima sensitiva, nella quale l’accidente trova il suo stato e produce gli effetti propri dell’amore, è di per sé certamente non visibile, altrettanto lo è quello, l’accidente, che soltanto in modo «equivoco» potrebbe esser detto visibile per quei tali suoi effetti. È ovvio, infatti, che se dell’accidente si dice che è visibile negli effetti che produce in chi ne subisce la potenza, proprio per questo deve assumersi che in sé non lo sia. Ne consegue che, invisibile in sé, perché addirittura non ha un «in sé», e questo carattere non dovrebbe perciò essergli riconosciuto, l’accidente detto «amore» non può non esserlo anche nell’anima
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che lo accoglie: nell’anima che essa pure è visibile, non in sé, ma solo in quanto se ne induca la presenza dal corpo nel quale si trova e del quale costituisce l’essenza, o la forma. Ma che significa allora «non formato loco»? E, ai fini della comprensione di questo sintagma, che vantaggio si è ottenuto con le considerazioni svolte fin qui? Tornando per l’ennesima volta su queste due parole (« non formato» e «loco»), forse che potremmo considerarci e dichiararci soddisfatti da quel che si disse quando si notò che, non visibile in sé, l’accidente non lo è nemmeno nel «loco» che lo comprende, e che è infatti l’anima sensitiva presa nella parte in cui anche si trova la memoria? Deve rispondersi di no, senza alcuna esitazione. E la ragione sta in ciò che, sia pure che l’accidente sia invisibile, nel suo «in sé», che non è a rigore un «in sé», come nell’anima che lo accoglie, e che anch’essa non è visibile. Ma forse che potrebbe mai dirsi che, sebbene invisibile, l’anima sensitiva non è forma? Come si potrebbe sostenerlo se, per Averroè e per i suoi seguaci latini, dai quali senza dubbio Cavalcanti fu influenzato, l’anima sensitiva era essa «forma» del corpo? Come si sarebbe potuto definire «non formato» un «loco» del quale non si metteva tuttavia in dubbio che fosse un «loco» e che avesse una «forma»? Uscire da questo groviglio esegetico, che tanto più si infittisce quanto più si cerchi di procedere con rigore, è sul serio difficile. Non si riuscirebbe, d’altra parte, a uscirne nemmeno se, scartata come non pertinente al contesto, e non persuasiva, la lezione «fermato» (nel senso di «proibito»), si proponesse che l’espressione «non formato loco» sia fortemente contratta, e a esservi chiamato in causa sia non il «loco», ma l’accidente che, appunto, lo occupa e vi ha luogo. A tal punto, infatti, questa interpretazione sforza la sintassi che nessuno potrebbe onestamente accoglierla: anche perché, se «forma» è il «loco» che lo accoglie, soltanto se si astraesse da questa e l’accidente fosse contemplabile in un suo (assai problematico) «in sé», soltanto in questo caso si potrebbe definirlo «non formato». Ma, nella definizione che lo ritrae, e al di qua dell’aporia che, come si è visto, lo insidia, l’accidente non possiede un «in sé». E dunque? Dunque, chi abbia responsabilità esegetica si terrà lontano da queste, che sono, non interpretazioni, ma stravaganze, e resterà in attesa che un’idea migliore gli passi per il capo. Mentre l’attesa dura, può intanto tentarsi di abbreviare i tempi dell’analisi: e poiché il contesto sembra richiederlo, chiamare in causa i
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vv. 63-70, con i quali la canzone si chiude (dopo non c’è che il «congedo»), Certo, far questo significa interpretare difficile per difficilius o per difficiliora. Ma, nell’intrinseco, il v. 51 rinvia a questi altri che ora si sono indicati: donde l’inevitabilità del confronto a cui dovrà darsi seguito; non senza, per altro, aver prima dedicata qualche attenzione ai vv. 57-62: «de simil tragge – complessione sguardo/ che fa parere – lo piacere – certo:/ non pò coverto – star, quand’è sì giunto./ Non già selvagge – le bieltà son dardo,/ ché tal volere – per temere – è sperto:/ consiegue merto – spirito ch’è punto». Il senso,54 che in questi versi si presenta in forma duramente contratta, sembra essere che, essendone il sottinteso soggetto, «amore» trae da due individui, un uomo e una donna, di simile «complessione», uno sguardo che, andando dall’uno all’altra, e viceversa, a entrambi fa parer certo il piacere. Impossibile è infatti che quel che in tal modo si manifesta resti nascosto.55 E, sia detto fra parentesi, se è così, è improbabile, anzi, addirittura impensabile, che Dante non si fosse ricordato di questi versi, e a questi non avesse alluso, là dove, nel quinto dell’Inferno, fece dire a Francesca: «per più fïate li occhi ci sospinse/ quella lettura, e scolorocci il viso,/ ma solo un punto fu quel che ci vinse» (vv. 131-132). Di questo, per altro, in seguito, perché qui deve piuttosto decidersi se Contini avesse ragione quando, subito dopo aver restituito, in forma essa stessa alquanto contratta, il significato che ritrovava in questa sequenza, osservò che Cavalcanti vi aveva richiamato un verso (13 «e ’l piacimento – che ’l fa dire amare»), dal quale poteva dedursi che il verbo «amare» era probabilmente usato secondo un’etimologia di «amore» attestata da Andrea Cappellano:56 «l’amore è detto da uno verbo, lo quale si chiama amo, lo quale significa “prendere” overo “esser preso”: colui che ama dalli uncini della concupiscenza è preso e desidera di prendere l’altro nel suo “amo”» (e nel testo latino, in miglior forma:«dicitur autem amor ab amo verbo, quod significat capere vel capi. Nam qui amat, captus et cupidinis vinculis aliumque desiderat suo capere hamo»).57 L’osservazione è assai acuta, e anche ingegnosa. Ma forse si attaglia meglio ai versi cavalcantiani, ai quali del resto fu diretta, che non alla loro possibile fonte che, al riguardo, non difetta di prudenza. Il Cappellano scrisse infatti, non che, infallibilmente, l’amato è preso dagli «uncini della concupiscenza», ma che colui che ne è vittima desidera prendere l’altro col suo «amo», in modo che si determini una corrispondenza che, in quanto tale, non sta nelle cose stesse dell’amore e non appartiene a esse. Il che, sia detto fra parentesi (e in attesa che la questio-
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ne possa ricevere, al momento opportuno, il suo adeguato svolgimento), riveste qualche importanza per l’interpretazione di una delle «degnità» esposte, in tema d’amore, da Francesca da Rimini: «degnità» che deriverebbe, anche questa, da Cavalcanti più che da Andrea, o da quello non più, comunque, che da questo.58 Se questa è la più plausibile esegesi dei vv. 57-59, problematica, e aperta perciò a due possibili interpretazioni, si presenta invece l’idea esposta ai vv. 60-63: che richiedono anch’essi di essere chiariti nelle ragioni da cui quelle due diverse interpretazioni sono, salvo errore, sottese e sostenute. La prima esclude che le «bieltà» che «son dardo», ossia che feriscono e, nel ferire, accendono la passione, siano e possano essere dette «selvagge» nel senso di «inesperte» delle, e nelle, cose d’amore, ossia tali da non salire al grado alto dell’amore. Non lo sono infatti, e così non potrebbero esser dette, perché il desiderio d’amore («tal volere»), del quale sono lo strumento, è messo alla prova dal, e si sperimenta (se, a differenza di quanto suggerito da Contini, «sperto» non è da spergere, ma da expertus)59 attraverso il «timore»60 che esso suscita nell’animo. Strumento di amore, le «bieltà» in questione sono dunque le altre, le non selvagge, quelle il cui cuore non sia «basso» (v. 6). E in tanto lo spirito che ne sia stato «punto» consegue «merto», in quanto, appunto, sia stato in grado di ricevere la ferita e (sembrerebbe) di aver saputo essere all’altezza della prova. Se, viceversa, ecco l’altra possibilità, s’intendesse che a ferire siano tutte le «beltà», e le «selvagge», dunque, non meno che le esperte, ci si troverebbe in difficoltà quando, interpretando «sperto» come expertus, si dovesse poi dar ragione del «temere» (anzi del «per temere»). A meno che l’espressione non fosse presa nel senso di «attraverso il temere»: come se, in altri termini, Cavalcanti avesse voluto dire che è col passare, appunto, attraverso il «temere», e il dolore che ne consegue, che il desiderio d’amore sperimenta sé stesso e di sé dà prova. Il significato del v. 62 resterebbe dunque, nelle due interpretazioni, lo stesso. Ma, a seconda che l’espressione «non già selvagge» s’intendesse in un modo o in un altro, assegnando a queste, o negando, la capacità di scagliare il «dardo», l’interpretazione dei tre versi cambierebbe. E quale delle due sia preferibile, è difficile dire.61 Siamo pervenuti, finalmente, ai vv. 63-70, i più tormentosi, secondo l’opinione dei più, e, per conseguenza, anche i più tormentati, dell’inte-
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ra canzone.62 Che, innanzi tutto, l’amore non possa, in quanto accidente, essere oggetto di visione (più semplicemente: non possa essere visto), è stato già detto. Ma, al già detto e spiegato qualcosa c’è da aggiungere; che riguarda innanzi tutto il significato di «compriso» (v. 64) e la posizione sintattica che, stando al senso, gli si deve assegnare. La gran parte degli editori (Contini, Favati, De Robertis, Savona, Inglese) è per i due punti dopo «viso». Altro, quindi, sarebbe la visione conoscitiva («conoscer per lo viso»), che di esso, tuttavia, in quanto è accidente, non si può avere. Altro la sua comprensione da parte della (ma sarebbe meglio dire nella) anima sensitiva. Soltanto Fenzi, salvo errore, pone i due punti dopo «compriso».63 I due atti sarebbero quindi connessi, ma divisi, oppure, divisi, se si preferisce, ma connessi: in modo tale che, unito a «viso», «compriso» sarebbe un atto di comprensione fondato sulla visione.64 Il che, sia detto subito, pone due difficoltà. La prima, che l’aggiunta di «compriso» a «conoscer per lo viso» si rivela superflua se si considera che questo, ossia il «conoscer per lo viso», indica già un atto di comprensione fondato sulla vista. La seconda, ed è la più seria, che non è vero che l’atto di comprensione sia fondato sulla vista. Il comprendere passa infatti per (attraverso) la vista, che ne è perciò piuttosto il tramite che non il fondamento. Sull’interpunzione proposta da Fenzi, e su ciò che ne consegue, si dovrà tornare. Ma ora deve farsi conto della difficoltà che, essendo dell’interprete non meno che del testo, non è toccata dall’interpunzione di Fenzi più di quanto non lo sia da quella degli altri interpreti. È la difficoltà che più volte è stata segnalata come intrinseca alla impostazione stessa del discorso cavalcantiano; e che consiste nella ragione, che non si riesce ad addurre, per la quale, dalla «veduta forma», che ha la sua sede nell’intelletto, dove, per esser tale, è stata denudata di ogni elemento sensibile, «vèn», proviene, l’accidente che, come «amore», ha il suo luogo dove sta «memoria», e cioè nell’anima sensitiva. Questa difficoltà, che concerne il percorso compiuto dall’accidente per pervenire, attraverso il luogo delle forme, all’anima sensitiva, permane intatta, infatti, sia se si legge secondo l’interpunzione di Fenzi, sia se, diversamente da lui, s’interpunge alla maniera dei più: salvo che, in entrambi i casi, deve cercarsi di spiegare il significato dei versi che vengono dopo. Ebbene, se ci si fa attenzione, è facile vedere che, pur diversamente interpunto, il testo richiede la stessa interpretazione. La questione alla quale questi versi danno risposta è quella della «non visibilità» dell’amore, che è accidente e, in quanto tale, non è un oggetto
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che possa esser visto con gli occhi.65 Per questo, Cavalcanti disse che in lui, nell’accidente, il «bianco», ossia il colore che, per la sua assoluta semplicità, è sinonimo di tutto ciò che più è visibile,66 «cade», cioè si perde e viene meno:67 con la conseguenza che l’accidente chiamato «amore» non può, appunto, esser visto. Se è così, nella sua parte essenziale, l’interpretazione non muta. Sia che lo si connetta a «per lo viso», sia che non lo si connetta, il senso è che l’accidente non è visibile perché in lui il «bianco» cade. Che cada non significa, per altro, che, da luminoso e «bianco» che era nell’intelletto, l’amore perda la sua luminosità, conquistato e quasi sequestrato dalla «scuritate» che viene da Marte. Lo studioso che interpretasse così cadrebbe lui in un luogo senza luce: non avendo badato a quel che Cavalcanti ha pur detto in modo perspicuo e avendo, per contro, supposto che l’accidente perda di visibilità una volta che sia stato accolto («compriso») nell’anima sensitiva. «Chi ben aude», cioè chi intende per il giusto verso quel che a lungo ormai, nella canzone, è stato discusso e interpretato, sa che «forma non si vede»: che non è, per altro, espressione che, per la sua comprensibilità, stia al di qua di ogni dubbio. Cavalcanti ha voluto dire che nell’accidente non si vede «forma» perché, in quanto tale, esso ne è, appunto, privo; e tanto più quanto più, «procedendo» da una «veduta forma», se ne allontana con il suo accadere? L’interpretazione è forse plausibile. Ma non soddisfacente; anche perché questa idea dell’esser meno (o del «tanto meno dunque lui», secondo la parafrasi di De Robertis68) implica pur sempre un paragone, e perciò un contatto ideale, con la forma, che, a rigore, non dovrebbe, stante la separazione dell’intelletto, poter essere ammesso. Nemmeno la «forma», d’altra parte, è visibile; o lo è soltanto se il videre sia interpretato come intelligere, che è in effetti il videre proprio dell’intelletto. Sulla questione ci si deve, comunque, fermare ancora. Tanto più ci deve fermare quanto più salda si abbia nella mente l’altra, se Donna me prega sia un documento di compiuto pensiero averroistico e il suo tessuto concettuale richieda perciò, innanzi tutto, di essere esaminato in relazione ai concetti della tradizione aristotelica: come qui, non senza fatica, si sta cercando di fare. Di nuovo, perciò, deve chiedersi che cosa significhi che nell’«obietto», ossia nell’accidente, il bianco «cada», venga meno (che fu la spiegazione proposta da Contini69). Che, innanzi tutto, il «cadere», il venir meno, del «bianco» non sia la conseguenza del «decadere» dalla pienezza di sé, che avrebbe caratterizzata la forma assunta
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nell’intelletto possibile, in un luogo di minore dignità ontologia, è stato già detto; e dovrebbe essere pacifico presso quanti si facciano a considerare quel che, in questo contesto, non potrebbe non esserlo. L’anima intellettiva è il vertice della perfezione di ciò che, appunto, prende il nome di «anima». Ma, nella concezione che, almeno nelle grandi linee, Cavalcanti mostrò di condividere, quello non è un vertice al quale possa pervenirsi e dal quale, per paradossale che possa sembrare, per difficile, addirittura, che sia ad intendere, sia dato di decadere. Perché questo fosse possibile, sarebbe stato necessario che, nella pura luce dell’intelletto possibile, quale Cavalcanti lo intese, si fosse insinuato un elemento sensibile, dal quale la decadenza avesse tratto il suo inizio. Ma questo era impossibile, perché dal sensibile l’intelletto è inattaccabile. E perciò, niente ascesa. Niente, del pari, decadenza: questo essendo quel che, in primo luogo, l’esser separato dell’intelletto importa come conseguenza. Ma, sopra tutto, niente che, nella sfera dell’intelletto, possa essere pensato, o anche simboleggiato, in relazione al colore. Se, per contro, «bianco» è il colore più e meglio di ogni altro visibile; se, per conseguenza, lo si può intendere come il sinonimo della «bianchezza», presa a sua volta nel senso della massima visibilità, come si potrebbe pretendere di collocarlo nella parte dell’anima che, essendo per intero risolta nel suo atto intellettuale, nel suo «perpetüal effetto», è scevra di ogni elemento qualitativo (come, si ricorderà, Cavalcanti si era premurato di avvertire ai vv. 25-28)? La forma, la pura forma intellettuale, non ha, si ripete, colore che la renda visibile. Evocando il «bianco», è probabile (e, in termini concettuali, la cosa si spiegherebbe senza particolari difficoltà) che Cavalcanti intendesse dire che, poiché l’accidente non è visibile in sé, la sua invisibilità può e deve essere interpretata come il puro contrario della visibilità, e cioè del «bianco» che ne rappresenta il simbolo. Può e deve essere interpretata così, aggiungendo che il «cadere», ossia il venir meno, del «bianco» descrive, in termini non perfettamente adeguati al concetto, e come se fosse un processo discendente, quello che meglio, alla maniera di Aristotele, si definirebbe come una στέρησις del colore. Una στέρησις non intervenuta nel tempo, e sia pure in un tempo soltanto logico, ma come da sempre caratterizzante il συμβεβηκός chiamato «amore». Insomma, il «cadere» del bianco dev’essere inteso, non come se prima si fosse dato il colore «bianco» e poi si desse il suo non esserci. Dev’essere inteso come determinato dalla sua «privazione»; che risulta così definitoria dell’invisibilità dell’accidente.
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Il v. 66: «dunq’elli è meno, che da lui procede» richiede anch’esso nuova attenzione, Se, letteralmente, significasse che, in quanto procede da una («veduta») forma, l’accidente chiamato «amore» è perciò stesso («dunque»), meno di quella, ossia di minor pregio ontologico, e che per questo non vi si vede «forma», al discorso di Cavalcanti potrebbe allora riconoscersi la coerenza che, qualora lo si prospettasse in puri termini aristotelici, dovrebbe invece essergli negata. L’accidente (fin dall’inizio lo si è notato, e circolarmente il discorso torna su quel punto) «nasce» infatti, in Aristotele, non da qualcosa che ne sia la «causa», e tanto meno da una «veduta forma», anche se in tale sintagma il «vedere» sia interpretato come antecedente. Ma nasce bensì da sé stesso, κατὰ τὸ τυχόν, dal caso, insomma, e dalla sua specifica, ossia casuale, «causalità». Con la forma, e con la sostanza in quanto forma, esso non intrattiene alcun rapporto di dipendenza; e come, nascendo da sé stesso, non le è pari, così, e non è un paradosso, a rigore non le è inferiore. Semplicemente, deve dirsi che tale è la natura della forma, e tale quella dell’accidente, che, come qui si accennava, nessun paragone può istituirsi fra questo e quello. Il paragone implica infatti la relazione, ossia quel che qui non può darsi e non si dà. E l’interpretazione letterale che se ne offre, e non potrebbe non offrirsene, è dunque, se si abbia l’occhio al quadro aristotelico/averroistico, al quale la canzone nell’insieme appartiene, inadeguata al concetto. Per non riuscire inferiori alla «cripticità» che è della gran parte dei suoi versi, anche i quattro che precedono il «congedo», presentano acute difficoltà: sia di decifrazione letterale, sia di interpretazione filosofica di quel che ne emerge e, in genere, della «filosofia» che sottende l’intero discorso. Il «fero» e «altero» accidente che ha nome «amore» è «for di colore»; e, chi abbia letto fin qui, questo lo sa bene. Già si è visto, infatti, come e perché sia privo del «bianco» che, se gli appartenesse, e potesse appartenergli, lo renderebbe visibile. Fin qui, dunque, niente di nuovo. Ma è la spiegazione che ora ne viene proposta a ingenerare, con i forti dubbi che suscita, nuove questioni. Alla domanda, sottintesa ma operante, relativa al perché l’accidente sia «for di colore», la risposta che il testo fornisce è che l’esserlo dipende da ciò che, collocato, situato, «a mezzo oscuro», esso «luce rade», esclude la luce.70 Si potrebbe perciò chiedere, quale luce l’accidente escluda; e che cosa sia il «mezzo oscuro», o l’«oscuro» in mezzo al quale si trova e in forza del quale, parrebbe, esclude la luce. La questione
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è in realtà, e salvo errore, meno semplice di quanto, non sia apparsa agli agguerriti commentatori e esegeti di questa canzone. L’oscurità, il luogo oscuro, di cui qui si parla, non possono non esser quelli che all’accidente provengono da Marte: com’è detto al v. 18. Sono questa oscurità; che, come già si ebbe a notare, per un verso, e in modo anomalo rispetto a Aristotele, è un predicato dell’accidente, ma, per un altro, ne è anche la dimora (v. 18), o, come qui si dice, il «mezzo oscuro» (v. 68) nel quale l’accidente trova il suo luogo. Se è così, e senza insistere sull’anomalia aristotelica, deve tuttavia tornarsi a chiedere: quale luce l’accidente esclude? La sua propria, no, perché, in quanto accidente, ne è privo; e non è l’oscurità della quale, per un verso, si predica, e che, per un altro, lo avvolge, a determinare la sua non luminosità. L’accidente non è luminoso in quanto è invisibile, ed è invisibile in quanto non è luminoso. Ma quel che invisibile è per sé, come potrebbe dirsi che derivi questo carattere dall’oscurità che lo circonda: e dunque, non da sé, ma da altro? E qui torna a emergere un carattere che già venne in primo piano quando, a proposito dell’accidente che, nella canzone, si comporta come un «soggetto» di predicazioni, e perciò, senza che il poeta lo volesse, come una sostanza, si dovette tuttavia avvertire che a questa sua eccezione aristotelica se ne aggiungeva un’altra, operante a sua volta sulla prima. «Fero» e «altero» sono predicati dell’accidente «amore»; e lo sono, si badi bene, e non si dimentichi, perché, lungi dal replicarne il nome, a esso aggiungono qualcosa che, in quanto tale, nella sua pura accidentalità, l’accidente non possiede. L’oscurità non è, per altro, predicabile di quel soggetto allo stesso modo e allo stesso titolo degli altri due; che a quel soggetto appartengono non accidentalmente, perché sempre (o «sovente», ma in senso forte) l’amore è «fero» e «altero», laddove l’essere scuro gli appartiene bensì anch’esso, sempre, ma nel senso che, piuttosto che esserne un’affezione e una determinazione, ne costituisce l’ambito, il luogo che lo accoglie e lo circonda. È come se, provenendo da Marte, la «scuritate» avvolgesse, appunto, l’accidente, e anche, per conseguenza, i due attributi predicativi della sua essenza; alla quale, del resto, anche in questo caso contravvenendo alla regola aristotelica, Cavalcanti attribuì, oltre alla «ferità» e all’«alterezza», «vertute», «potenza», «piacimento», «movimento». Con una conseguenza, tuttavia, e a rigor di logica, singolare. Mentre, infatti, «ferità» e «alterezza» appaiono come predicati che sempre, o «sovente», appartengono all’amore, ma in modo tale che questo ne è affètto senza esserne però incluso come in un ambito, proprio questo è invece il
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carattere che si riscontra nel predicato «scuritate». O meglio, anche il primo vi si riscontra, tant’è che dell’amore può, nel senso che s’è visto, dirsi che è oscuro. Ma non soltanto quello, perché la «scuritate» che all’amore viene da Marte è proprio anche un ambito che l’avvolge e, per questo riguardo, con il suo segno, indica il luogo nel quale, potrebbe dirsi, si cela la sua «invisibilità». L’amore è dunque, per questo verso, incluso in ciò che, per un altro, ne è incluso. Il che è segno, non solo di ribadita anomalia concettuale, ma, se di nuovo l’occhio torni a osservare la questione della «luce» che l’accidente «rade», ossia esclude e respinge via da sé, anche di altro. È segno, infatti, di difficoltà che si aggiunge a difficoltà: dal momento che, per poter «radere» la luce, di tale esclusione l’accidente dovrebbe essere il soggetto, e la luce dovrebbe quindi appartenergli e avvolgerlo tanto quanto a lui bastasse per respingerla via da sé. Se ne dovrebbe perciò concludere che l’accidente si fosse fatto «scuro» dopo esser stato luminoso, e che l’influsso di Marte fosse perciò sopraggiunto dopo il suo essere altrimenti accaduto; si fosse fatto invisibile dopo essere stato, almeno per un attimo, visibile. Oppure, ed è l’ipotesi che, essendo la più aderente al testo, non perciò è la più conforme alla logica dell’accidente, occorrerà pensare che, secondo Cavalcanti, a rendere invisibile, «for di colore», questo particolare accidente che è l’amore sia l’oscurità che gli proviene da Marte. Ma si è a più riprese visto quali difficoltà questa idea introducesse nell’ordine dei concetti cavalcantiani; fino a che punto ne incrinasse la coerenza. Al v. 67, l’accidente è anche «d’esser diviso». Che cosa significa? Secondo Contini, che non è sostanza;71 secondo altri, che ne è privo; «variante in chiasmo di “for di …” ecc. in quanto accidente, non sostanza», secondo De Robertis.72 E così via, con sostanziale concordia, gli interpreti moderni. In modo, forse più aderente al testo, che è tuttavia, nella sua estrema concisione, ambiguo, potrà intendersi che, appunto, l’accidente è, in quanto tale, separato dall’essere e dalla sostanza. E, certo, intendere così è necessario, se, come pur si deve, si sta alla lettera; che in sé tuttavia racchiude la difficoltà che a più riprese, infatti, è tornata a emergere nel corso dell’indagine, e ora di nuovo si mostra in primo piano. Se, tenendo fermo alla definizione aristotelica, del συμβεβηκός si facesse il soggetto di una privazione, la scorrettezza del procedimento subito verrebbe in luce, e si imporrebbe. Basterebbe considerare infatti che, come non può dirsi che sia la sostanza a esser priva dell’accidente che, in quanto le appartenga, non appar-
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tiene infatti alla sua essenza, ed è, rispetto a questa, soltanto un τυχόν; così, per la stessa ragione, e a fortiori, mai potrebbe dirsi che della sostanza sia privo l’accidente, che dovrebbe essere sostanza per poter essere privo della sostanza (ossia, in questo caso, di una parte della sostanza). La privazione, la στέρησις, riguarda infatti la sostanza, che solo di una parte di sé può esser priva (o privata accidentalmente: un braccio, una testa, un piede, che l’azione inclemente del tempo abbia sottratti all’interezza di un’antica statua). Non può mai, in nessun caso, riguardare l’accidente. Gli ultimi due versi della quinta stanza indicano, e, sintetizzandolo, propongono il senso e il significato della canzone, non solo filosofico, ma polemico. L’intento, che Cavalcanti vi perseguì, fu infatti che dell’amore si parlasse «for d’ogni frode», con la obiettiva crudezza, dovrà intendersi, che, quando si procede secondo logica e ragione, non può e non deve ricevere attenuazioni. All’inizio della canzone, come si ricorderà, l’intento era stato enunciato con chiarezza e nettezza. Cavalcanti aveva dichiarato di essere in cerca di un «conoscente», ossia di uno che, in una questione così delicata, fosse stato in grado di trattare e, in questo caso, di seguire da competente l’altrui trattazione. Aveva richiesto, non un retore, esperto dei consueti topoi e di nient’altro, ma un filosofo, o uno almeno che fosse stato addestrato nell’arte del «natural dimostramento»: un filosofo naturale, dunque, non un teologo, o un filosofo disposto a farsi rapire dalla teologia.73 Ne aveva concluso che «solo di costui», ossia dall’amore in quanto fosse stato pensato e rappresentato secondo la sua autentica natura e verità, nasceva la «mercede»; che, dunque, non potendo essere se non quella che ne era consentita, solo in relazione a tale natura e verità doveva essere considerata e valutata, non ad altro. Insomma, piacesse o no, quello era l’amore, quella era la mercede che poteva attendersene. A ogni altra possibilità, con perentoria durezza, e con un gesto di aristocratica intransigenza, escludendo la gente «vile» e non «conoscente», Cavalcanti chiudeva il varco. Chi avesse pensato in modo diverso si sarebbe ingannato; e altri avrebbe tratti in inganno.
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Note
1. Per un esame più ravvicinato e puntuale del concetto aristotelico dell’«accidente», rinvio all’Appendice posta alla fine di questo volume. 2. Vita nuova, XXV 1-2. Avverto che le citazioni da quest’opera sono secondo l’edizione critica curata da M. Barbi, Società dantesca italiana, Firenze 1907 (2a ed. 1932), sostanzialmente seguìta dal De Robertis nella sua (in Opere minori, I/1, a cura di D. De Robertis e G. Contini, Milano-Napoli 1984). Per la divisione in paragrafi, cfr. l’Introduzione del Barbi, pp. cclxxv-xxxvi. Non discuto comunque la diversa soluzione data al problema da G. Gorni, nella sua edizione (Torino 1996), che ha suscitato varie riserve: cfr., per es., P. Trovato, Il testo della “Vita nuova” e altra filologia dantesca, Roma 2000, pp. 50-82. – Alla considerazione di quel che si legge nel § 2, si aggiunga quella del § 10: «però che grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta in guisa che avessero verace intendimento. E questo mio primo amico e io ne sapemo bene di quelli che così rimano stoltamente». Il «primo amico» è naturalmente Cavalcanti, con il quale, dunque, Dante si schierò. Deve però notarsi che, a parte la durezza e la scarsa perspicuità del testo (al quale dedicò attenzione il Barbi, Vita Nuova, ed. cit., pp. lxviii-lxxi), induce a qualche perplessità la perentoria affermazione del De Robertis (Opere minori, I/l, p. 172), secondo cui in «uno accidente in sustanzia» sarebbe «richiamata evidentemente, in una pagina che a Cavalcanti guarda come a autorità, oltre che a sodale, la definizione iniziale della canzone d’amore di lui: “un accidente che sovente è fero”». A parte la questione della priorità, che, su fondamenti come questi, non può essere decisa, la definizione di Dante deriva, non da Cavalcanti, presso il quale il nesso con la sostanza è, con le peculiarità che si sono messe in luce nel testo, presupposto, e non, tuttavia, dichiarato, ma, con ogni probabilità, da Tommaso d’Aquino (De ente et essentia, 6; e cfr. Summa theol. I, q. 28, a. 2 r). Si potrebbe supporre, ma con cautela, che, poiché in Dante l’accidente è soltanto predicato, laddove in Cavalcanti è, in re, anche soggetto, la definizione dantesca intendesse correggere, nel caso che l’avesse conosciuta e tenuta presente, quella del «primo amico». E si avrebbe, in questo caso, una prova dell’anteriorità di Donna me prega. Ma da un indizio così fragile, e comunque problematico, non mi sentirei autorizzato a trarre conclusioni; e, per giunta, così impegnative. – Vedo che, a giudizio di M.L. Ardizzone, Guido Cavalcanti. L’altro Medioevo, Fiesole 2006, p. 65, che, senza porsi la questione se la Vita nuova sia anteriore o posteriore a Donna me prega, la risolve di fatto a favore della posteriorità, il cap. XXV del libello, dove l’amore è definito un «accidente in sustanzia», conterrebbe «la confutazione dell’idea d’amore come accidente in termini cavalcantiani»: quasi che anche nella grande canzone, essendo «accidente», l’amore non avesse il suo luogo nell’anima sensitiva, che vale, concettualmente, come la «sustanzia» di Dante, e l’accidente potesse stare di per sé. 3. Su questo punto, per il quale potrebbe parlarsi di «casualità, o accidentalità, dell’accidente», si deve esercitare l’attenzione. Non direi, per esempio, alla maniera di De Robertis, nel commento al Cavalcanti, Rime, Torino 1986 (d’ora in avanti: De Robertis, Rime di Cavalcanti), p. 99, che, in tanto l’accidente è «creato», in quanto, per accidens appunto,
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riceve l’essere da altro. Qui infatti non si distingue fra il ricevere l’essere (da ciò a cui l’accidente accade) e l’essere «creato», o causato; che, se fossero la stessa cosa, allora verrebbe a esser vero quel che aristotelicamente è impensabile, e cioè che «causa» dell’accidente fosse, o potesse essere, la sostanza! (Si consideri comunque che anche l’ignoto autore delle Quaestiones supra Aristotelis librum de anima pubblicate da B. Bazán, in M. Giele, F. van Steenberghen, B. Bazan, Trois commentaires anonymes sur le Traité de l’âme d’Aristote, Louvain-Paris 1971, pp. 425-426, pur non escludendo, per parte sua, che l’accidente potesse precedere la sostanza, riteneva tuttavia che, «in littera», il «filosofo» avesse posta la sostanza innanzi all’accidente, che ne era perciò causato. Che, tuttavia nel dire così, egli non considerasse in modo adeguato la sottile, e problematica, indagine che Aristotele dedicò alla «accidentalità» dell’accidente, è palese: tanto che, salvo errore, il suo commento potrebbe, per questa parte, essere assunto come il documento di una tal quale tendenza alla banalizzazione del concetto). È impossibile dire che, accidentalmente, l’accidente riceva l’essere da «altro» (se l’«altro» dall’accidente non può essere se non la sostanza). Sarebbe infatti come dire che la causa (si badi, la causa) agisce casualmente. Del pari, non può dirsi che, poiché «accidentis esse est inesse», quello, l’accidente, «derivi» dalla sostanza (come si legge, per esempio, in E. Savona, Per un commento a “Donna me prega”, Roma 1989, p. 17). È necessario tuttavia riconoscere che proprio in Aristotele questi (possibili) fraintendimenti hanno la loro radice; e cioè nel disguido per il quale, dell’accidente che, in quanto sopraggiunge alla sostanza, non può non essere l’accidente che è, si lascia, appunto, ambiguamente intendere che «è» in quanto sia condotto all’essere dalla sostanza. 4. Vita nuova, xxv 2 ss. Il concetto è ribadito ibidem, 8: «dunque, se noi vedemo che li poete hanno parlato a le cose inanimate, sì come se avessero senso e ragione, e fattele parlare insieme; e non solamente cose vere, ma cose non vere, cioè che detto hanno, di cose le quali non sono, che parlano, e detto che molti accidei parlano, sì come se fossero sustanzie e uomini…» 5. Cfr. comunque Mon. III iv 13: «… cum huiusmodi regiminis sint accidentia quedam ipisius hominis, videretur Deus usus fuisse ordine perverso accidentia prius producendo quam proprium subiectum: quod est absurdum dicere de Deo»: dove la precedenza della sostanza è ribadita con energia. 6. Donna me prega, vv. 15-18. 7. Quale che sia la «fonte» da cui Cavalcanti trasse l’idea della connessione di Marte con l’amore (cfr. le indicazioni di E. Fenzi, La canzone d’amore di Guido Cavalcanti e i suoi commentatori, Genova 1999, pp. 146-147, che si fonda a sua volta su B. Nardi, Noterella polemica sull’averroismo di Guido Cavalcanti, in «Rassegna di filosofia», 3, 1954, p. 61). E si veda M. Corti, La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, Torino 1983, pp. 21-22; Inglese, L’intelletto e l’amore, p. 18, nn. 14, 15, 16. Ma cfr. L. Thorndike, A History of magic and experimental Science, III, New York 1941, pp. 431, 518; R. Klibansky, F. Saxl, E. Panofsky, Saturn and Melancholy. Studies in the History of natural Philosophy Religion and Art, Cambridge 1964, pp. 127-128; e anche J. Seznec, La sopravvivenza degli antichi dei. Saggio sul ruolo della tradizione mitologica nella cultura e nell’arte rinascimentali, tr. it., Torino 1992, pp. 39, l92 ss.), occorre comunque escludere che qui abbia luogo quella che potrebbe definirsi come la doppia causalità dell’amore. Il quale deriva, non da un influsso causale riconducibile a Marte, ma da una sensazione («è da sensato», v. 19), anche se la sua prima origine sia da una «veduta forma» che, «intesa»,
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prende «loco e dimoranza» nel «possibile intelletto». Il rapporto che lega la «forma» intelletto e la sensazione non è chiaro; e potrebbe dar luogo a discussioni. Chiaro però è che non è in Marte che, in quanto tale, può indicarsi la causa dell’insorgere dell’amore (sì che al v. 19 è preferibile leggere non «e llì», ma «elli»): l’influsso che questo pianeta esercita sull’accidente «amore» non è coincidente con l’accadere di questo, o con questo in quanto accade. Dovrà insomma intendersi che, all’atto del suo accidentale accadere, da questo pianeta l’amore riceva la «scuritate» che è propria di quello. E a dimostrarlo è proprio il «paragone (come nel testo lo si è definito) per contrasto» che Cavalcanti istituì fra il «diafano» e la luce che, nell’attraversarlo, lo illumina, rendendolo visibile, con l’oscurità dell’accidente «amore». Sulla questione del διαφανές in Aristotele, cfr. De an. B 418 b 1-5, e il commento di Averroè, Commentarium magnum in Aristotelis de anima libros, ed. F. Stuart Crawford, Cambridge (Ma) 1953, pp. 230-234, nonché, per es., quello dell’Anonimo autore delle Quaestiones supra Aristotelis librum de anima, ed. cit., q. 36, p. 275: un paragone chiarissimo nel contrasto che appunto stabilisce fra la luce che attraversa il «diafano», e la «scuritate» che, traversando l’accidente/amore, lo rende, appunto, scuro; e che, ciò non ostante, ha dato luogo a non pochi fraintendimenti (come quello, per esempio, di L. Russo, Lo stilnovo, in «Belfagor», 9 (1954), p. 131: «per Guido poi l’amore non è buio, ma diffuso chiarore, luce diafana» (così anche in Storia della letteratura italiana, I, Da Francesco d’Assisi a Girolamo Savonarola, Firenze 1957, p. 157). Se la recta interpretatio è quella data qui su, allora è evidente che l’influsso di Marte non è, propriamente, una causa. Ma è bensì qualcosa che si aggiunge a quel che prende il suo stato nell’anima sensitiva, e che, sia pure in modo impercettibile, precede quindi l’influsso oscurante del pianeta, così come il diafano sta innanzi alla luce che lo attraversa e lo illumina. Che tra l’effetto che si consegue, o si sta conseguendo, nell’anima sensitiva e la ricezione dell’oscurità, vi sia, e debba mantenersi, un divario, sia pure, come s’è detto, attimale, è provato dunque dal paragone della luce con l’oscurità, del diafano con l’accidente «amore». E la conseguenza è che la dottrina della doppia causalità, richiamata da Nardi, Noterella polemica, pp. 60-62, e quindi da Savona, Per un commento, p. 26 (e cfr. anche G. Favati, Inchiesta sul dolce stil nuovo, Firenze 1975, p. 214), ossia quella che, per esempio, nella generazione dell’amore, distinguesse la causa «univoca» o «sinonima» (un precedente uomo nella generazione dell’uomo) da quella «equivoca» o «omonima» (il sole: cfr. Arist. Phys. B 194 b 13: ἄνθρωπος γὰρ ἄνθρωπον γεννᾷ καὶ ἥλιος; o Metaph. Λ 1071 a 1417, dove, oltre il sole, e naturalmente il padre, sono citati τὰ τε στοιχεῖα, πῦρ καὶ γῆ ὡς ὕλη καὶ τὸ ἴδιον εἶδος), qui, a rigore, non ha luogo. Helios è, infatti, un’aitia concorrente con quella che, in primo luogo, sovraintende alla generazione dell’uomo, e cioè l’uomo stesso; laddove l’oscurità che viene da Marte sopraggiunge (problematicamente, come si è visto nel testo) a colorare di sé, ma non a determinare, l’accidente che sta accadendo. La differenza è sottile; ed è possibile che sfugga. Tanto più, perciò, richiede di essere colta con nettezza. Se i testi aristotelici che qui sono stati addotti fossero interpretati a norma di questi versi cavalcantiani, occorrerebbe dire, non che il sole è, con l’uomo, causa dell’uomo, ma che, nell’atto in cui viene al mondo, l’uomo riceve la luce del sole. Il che naturalmente è vero. Ma non è questo quel che, nel caso in questione, Aristotele intendeva; dal momento che, per lui, il sole entrava, come causa, nel sistema causante l’uomo. (Resterebbe, naturalmente, da capire perché un attimo dopo che l’accidente si sia accidentalmente prodotto, anche gli accada di ricevere l’oscurità di Marte, e di esser quindi lui la «causa» del suo riceverla. Ma una discussione di questo punto temo che complicherebbe senza utilità la questione che ci sta di fronte). Il Fenzi, La canzone d’amore, p. 170, ebbe perciò ragione nel sostenere che la causa è una. Ma,
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proprio per questo, avrebbe dovuto superare l’incertezza per la quale, sebbene, da una parte, a ragione osservasse che, proponendo la dottrina della doppia causalità, Nardi e Savona forzarono «indebitamene il testo», per un altro riconobbe che Cavalcanti suggeriva «una simile apertura interpretativa, certo in sé non errata». Ritengo che siano invece da condividere le sue osservazioni, Fenzi, La canzone d’amore, pp. 169-170, sul § 20 della Glossa di Dino del Garbo: la si veda in appendice a G. Cavalcanti, Rime, a cura di G. Favati, Milano-Napoli 1952, pp. 359-378 (363); ma cito da Fenzi, La canzone d’amore, pp. 86-133 (93-94), che ha, per comodità, numerati i capoversi. La migliore esegesi del paragone è, per quel che so, quella di G. Frachetta La sposizione di G.F. sopra la Canzone di Guido Cavalcanti “Donna me prega”, Giolito, Venezia 1585, p. 19. Aggiungo che è vero, bensì, che in Marte è notoriamente indicata «la scaturigine della virtus irascibilis», come in Venere quella «della virtus concupiscibilis», sì che l’amore di cui si dice in questi versi sarà «caratterizzato dall’insorgere della virtù irascibile contro ogni ostacolo che alla soddisfazione del desiderio erotico si frapponga» (Inglese, L’intelletto e l’amore, pp. 17-18). Resta però a parte naturalmente la quaestio della causazione, che di «ira», in questi versi, non si parla; e dovrà attendersi il v. 52 per vederla entrare nel discorso. Il che tanto più, mi pare, richiede di essere ribadito in quanto è stato sostenuto che, chiamando in causa, a proposito dell’amore, Marte e la sua «scurità», e non Venere (cfr. soprattutto Savona, Per un commento, pp. 28-33, e in parte, anche F. Pappalardo, Per una rilettura della canzone d’amore del Cavalcanti, in «Studi e problemi di critica testuale»,13, 1976 pp. 55 ss., ma anche Favati, Inchiesta, pp. 216-217), Cavalcanti intendesse suggerire che il suo influsso si determinava nel segno, non tanto e non solo della vis concupiscibilis, quanto piuttosto di quella irascibilis, rivolta perciò al conseguimento, non del «buono», ma, per riprendere la terminologia tomistica, dell’arduum (Summa theol. I, q. 81, a. 19). Il che, per Favati, Inchiesta, pp. 216-217, e per Savona, Per un commento, p. 31, implicherebbe che, per Cavalcanti, l’amore fosse da intendere come, non lussuria, non «banale soddisfacimento dei sensi», non una «facile e superficiale avventura», ma, si dica così, una seria passione umana, per la quale, ed ecco la vis irascibilis, è necessario combattere. Ma, a parte che, e già è stato notato, queste sono deduzioni da concetti, che, in Donna me prega non essendocene, in forma esplicita, e nemmeno implicita, la premessa, non c’è ragione di considerare legittimamene eseguite; a parte che sembra difficile ammettere che possa darsi una seria battaglia all’interno di un quadro qual è quello segnato da un «accidente» che produce nell’anima gli effetti descritti ai vv. 43-56 (mutamento del «colore», riso, pianto, paura che stravolge la persona, instabilità, e così via), resta che l’uso che qui si fa del testo tomistico non è adeguato a quel che vi è scritto. La distinzione che lì è introdotta fra la vis concupiscibilis e la vis irascibilis non importa infatti che questa sia superiore a quella, che può esserne infatti l’oggetto. Non si dimentichi, inoltre, che ai vv. 32-34, «amore» è tale che «for di salute – giudicar mantene, ché la ’ntenzione – per ragione – vale: discerne male – in cui è vizio amico». Che dunque l’amore non sia senz’altro riducibile a lussuria, può concedersi. Ma solo perché è una passione che in modo assai più profondo coinvolge chi ne sia vittima. Della qual cosa sembra del reso convinto anche il Savona, Per un commento, p. 31 (e cfr. altresì Pappalardo, Per una rilettura, p. 58). Può forse valere la pena di ricordare che la citazione cavalcantiana di Marte fu addotta da Dino del Garbo, Glossa, § 26, come prova dell’avere Guido concepito l’amore proprio come lussuria: «quando in nativitate alicuius Venus participat cum Marte, dat innamoramentum, fornicationem, luxuriam et talia similia, que omnia pertinent ad passionem amoris de quo loquitur auctor in hac cantilena»; e fu invece considerata non pertinente da Cecco d’Ascoli ne L’Acerba, III 1, l9.
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8. Non è condivisibile l’interpretazione proposta dalla Ardizzone, Guido Cavalcanti, la quale, dopo avere, «sull’evidenza delle fonti che Cavalcanti stesso utilizza e esibisce (?)», asserito che, «oscuro per l’uomo, l’amore è tuttavia in sé diafano», e che il chiarimento di questo concetto recherebbe «la prima conferma dell’averroismo o aristotelismo radicale» della canzone, ha poi argomentato questa sua idea osservando che, come Dino del Garbo avrebbe ben spiegato, i due termini «diafano» e «oscuro» non debbono essere separati, posti in contrasto, perché, in quanto non visibile per sé, il diafano è anche oscuro. Ma, come De an. B 418 b 4 ss., che la Ardizzone cita a p. 74, dimostra, del diafano Aristotele disse, non che per sé stesso è oscuro, ma che per sé stesso non è visibile; e con questo intese avvertire che, altro è l’oscurità che impedisce di vedere le cose, ma non sé stessa, altro il «non visibile», che non è oscuro ma, appunto, non visibile. Che quindi, l’affermazione della Ardizzone, secondo cui nel diafano c’è sia luce sia oscurità, e che duplice è perciò la natura di «amore», luminoso per l’intelletto, a cui l’uomo non perviene, oscuro per la passione della quale è prigioniero, nasca dal mancato avvertimento della differenza che passa fra oscurità e non visibilità, sembra indiscutibile; e non è vero che il sostegno a questa interpretazione si trovi in Dino del Garbo. Basta leggere con attenzione il § 19, e subito si vedrà che, il concetto aristotelico essendovi stato esposto con sostanziale accuratezza, la radice del fraintendimento indotto in altri sta forse nella linea in cui Dino disse dell’aria, «quae est corpus dyaphanum quod de se lucem non habet, et inde ratione huius dicitur corpus obscurum», e definì l’aria oscura, non perché tale apparisse all’occho, ma in ragione («ratione huius») del non avere di per sé luce. Non avrebbe dovuto sfuggire che, se si definisce obscurum ciò che «de se lucem non habet», l’oscurità è detta, in relazione a questo argomento, in due sensi, che occorre distinguere e non confondere: anche perché, se il «diafano» è luminoso in atto a causa della luce che lo attraversa, come potrebbe di per sé essere non solo luminoso, ma anche oscuro? Forse che la luce che lo attraversa recherebbe all’atto la luce che già possiede passando altresì attraverso l’oscurità che pure è in lui? 9. Inf. VII 103. E si ricordi, ibidem V 88-89, l’«aere perso» nominato da Francesca (e la definizione di «perso» nel famoso passo del Convivio, IV xx 9: «lo perso è uno colore misto di purpureo e di nero, ma vince lo nero, e da lui si dinomina», come può vedersi dall’uso di «perso» in Tre donne intorno al cor, vv. 77-79: «che se giudicio o forza di destino/ vuol pur che ’l mondo versi/ li bianchi fiori in persi…»). 10. Arist. Metaph. E 1027 a 13-14: ὥστε ἡ ὕλη ἔσται αἰτία ἡ ἐνδεχομένη παρὰ τὸ ὡς ἐπὶ τὸ πολύ ἄλλως τοῦ συμβεβηκότος. E cfr. a 7-8: τῶν γὰρ κατὰ συμβεβηκὸς ὄντων ἢ γιγνομένων καὶ τὸ αἴτιόν ἐστι κατὰ συμβεβηκός.
11. Per una più compiuta discussione rinvio all’Appendice. 12. Cfr., per esempio, Anal. post. I 22, 83 a-83 b 1 ss. E Metaph. Δ 1025 a 14-15, 24-25. 13. «Talento» è un gallicismo (G. Favati, ED, V, 512 a-b), ed è inteso, per lo più, anche in questo contesto, come «voglia», desiderio. De Robertis, Rime di Cavalcanti, p. 97, lo interpreta come «intenzione, intendimento». Ma non darei torto a Savona, Per un commento, pp. 9-10, il quale vi colse la sfumatura della «capacità» e della «possibilità»; e gli darei anzi piena ragione se il suo pensiero fosse che, con questa battuta, Cavalcanti avesse inteso dire che, se non gli fosse stato consentito di parlare da filosofo, non sarebbe stato in grado di spiegare la natura dell’amore. La sua sarebbe dunque da interpretare come una battuta sprezzane rivolta contro chi, nel trattare della questione, non si fosse contentato
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che di topoi. Non escluderei dunque che, nel rilievo dato al «natural dimostramento», possa rinvenirsi un tratto di orgogliosità averroistica (cfr., per es., Averroè, L’incoerenza dell’incoerenza dei filosofi, a cura di M. Campanini, Torino 1997, pp. 25, 235). 14. Così criptico che P. Cherchi, Cavalcanti e la rappresentazione, in «Critica del testo», 4/1 (2001), p. 47, dopo aver definita «mostruosa» la canzone, vi ha sospettato addirittura un intento «parodico». 15. A mettere in dubbio, anzi a negare, l’anteriorità del sonetto, fu, fra i critici antichi, F. Paolo del Rosso, Comento sopra la canzone di Guido Cavalcanti “Donna me prega”, Firenze 1568, p. 166, e, fra i moderni e recenti, Favati, Inchiesta, pp. 101-102, G. Gorni, Lettera nome numero. L’ordine delle cose in Dante, Bologna 1990, p. 31, e quindi Fenzi, La canzone d’amore, pp. 139-140, che, per altro, discusse la questione con molto equilibrio, e a sostegno della tesi relativa alla posteriorità del sonetto addusse l’argomento che mai, in precedenti composizioni, l’Orlandi si era servito di un lessico altrettanto preciso e concettualmente elaborato: che è vero, anche se la distanza da Cavalcanti resti comunque notevole. A favore dell’anteriorità del sonetto, B. Nardi, La filosofia dell’amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante, in Dante e la cultura medievale, Bari 19833, pp. 33-34, M. Marti, Storia dello Stilnovo, II, Lecce 1973, p. 388, che la ritiene «verosimile», e del De Robertis, Introduzione alle Rime di Cavalcanti, p. xviii. Personalmente, come anche si evince dal testo, propendo per l’anteriorità, anche se l’ipotesi contraria trovi il suo sostegno nella corrispondenza che può notarsi fra le domande dell’Orlandi, ritenuto incapace di formularle per suo conto, e le tesi di Cavalcanti (ma al riguardo mi sembra estremamente pertinente l’osservazione di De Robertis, Rime di Cavalcanti, p. 90, secondo cui «non si vede perché la quinta rima sia irrelata, con la ricca gamma […] che il modello proponeva, né perché il centonamento non sia stato eseguito con maggiore aderenza»). Come dico qui sotto, n. 34, è il v. 13 del sonetto a rendere preferibile l’ipotesi dell’anteriorità. Aggiungo che, per un verso, non c’è ragione di supporre che, per formulare quei suoi quesiti innanzi di averne ricevuta risposta da parte di Cavalcanti, l’Orlandi dovesse essere in possesso di particolare cultura filosofica (nel sonetto, in effetti, egli elenca termini e quesiti senza dare a essi la minima elaborazione), mentre, per un altro, non si riesce a capire perché mai avrebbe dovuto ripeterli in quella forma se la risposta già gli fosse stata data. Forse che dovrebbe supporsi che la lettura di Donna me prega non avesse soddisfatte le sue esigenze concettuali? 16. Il sonetto dell’Orlandi, Onde si move, e donde nasce Amore? si svolge tutto per domande (una «raffica di quesiti», lo ha definito De Robertis, Rime di Cavalcanti, p. 90); e il v. 13 «io domando voi, Guido, di lui» è così esplicito che, sulla precedenza del sonetto rispetto alla canzone sembrerebbe che non dovessero cadere dubbi: a meno che, ma è ipotesi assai debole, e anzi, rispetto al grado conseguito dai ragionamenti di Cavalcanti, francamente assurda, le risposte di quest’ultimo alle domande poste non fossero state giudicate soddisfacenti dall’Orlandi, che tornava perciò a proporle. 17. La fama che già in vita, o comunque molto per tempo, Cavalcanti ebbe di «filosofo», non può far dimenticare che l’unico documento che la comprovi sul piano delle concrete capacità logiche è la canzone che stiamo cercando di interpretare, e che da questa è impossibile ricavare quel che nemmeno da notizie esterne risulta: ossia da quali letture in questo campo egli fosse stato nutrito, quali ambienti avesse frequentati, se li avesse frequentati, e così via. Il rapporto intrattenuto con Jacopo da Pistoia, che Kristeller (cfr. cap. 3, n. 22) documentò e illustrò vari decenni or sono, ha accentuato, più di quanto non l’abbia
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soddisfatto, il bisogno di conoscenze in questo campo (cfr. A. Maierù, La logica nell’età di Cavalcanti, in Guido Cavalcanti e i suoi lettori, pp. 27-28), mentre non escono dall’ambito congetturale i rapporti con testi dell’aristotelismo radicale, Sigieri, Boezio di Dacia, l’Anonimo Giele, indicati dalla Corti, La felicità mentale, pp. 11-12. 18. È essenziale non lasciarsi sfuggire che qui ci troviamo dinanzi a un nodo critico di particolare difficoltà che, nell’atto in cui lo enuncia, il testo rende infatti pressoché indecifrabile e incomprensibile. Per un verso, l’amore viene da una «veduta forma», con la quale non coincide, perché quella è comunque una «forma» che, in quanto tale, ha «luogo e dimoranza» nell’intelletto possibile, dove, invece, a non poter essere ospitato è proprio l’amore, che appartiene tutto all’anima sensitiva. Come ho cercato di argomentare nel testo, se fra «amore» e «veduta forma» deve mantenersi la distinzione richiesta dall’impossibilità che quello sia incluso nel luogo che accoglie la prima (l’accidente chiamato amore, si ripete, sta nell’anima sensitiva, dalla quale quella intellettiva è separata), la questione, che il testo racchiude in sé senza offrire elementi espliciti per la sua soluzione concerne il passaggio dalla «veduta forma che s’intende» all’accidente e al suo accadere, determinandosi, nell’anima sensitiva. E l’unico modo di intenderlo è di assumerlo come, non necessario, ma, appunto, accidentale, ossia tale che si determina se e quando si determina. Fermo deve altresì rimanere che, se l’amore viene dalla «veduta forma», questa, tuttavia, non è quello, che non è «amore» quello che, dalla «veduta forma», perviene all’intelletto possibile, dove starebbe per altro come «fantasma», o idea, e, ciò non ostante, provocando disastri (così mi pare che intenda il Cherchi, Cavalcanti e la rappresentazione, pp. 47 e 49-50). L’amore, comunque, e su questo non possono cader dubbi, è un «accidente»; e il testo impone di escludere in modo reciso che possa trovar posto nell’intelletto possibile. Deve anche tenersi a mente che, mentre è ovviamente la «veduta forma» quella che prende «loco e dimoranza» nel «possibile intelletto», e di questa operazione è il soggetto, sia logico sia grammaticale, al contrario non è essa, ma l’amore, a costituire il soggetto del non avervi «possanza». Il soggetto cambia di nuovo ai vv. 26-28. È l’intelletto, infatti che, come di «resplende», così è il soggetto dei verbi che a quello tengono dietro nei vv. 26-28: cfr. G. Contini, Poeti del Duecento, II/2, Milano 1995, p. 525, che, a ragione, segue Nardi contro Favati; e si veda altresì De Robertis, Rime di Cavalcanti, p. 100. – A proposito della teoria dei «fantasmi», che il Cherchi ha ripresa dal suggestivo libro di G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino 1977 (ma per l’estrema varietà dei significati in cui il termine appare nella tradizione filosofica occidentale, si vedano i contributi raccolti in Phantasia/imaginatio. Atti del V colloquio internazionale del Lessico intellettuale europeo, Roma 1988, in particolare quelli di G. Camassa, “Phantasia” da Platone ai neoplatonici, pp. 23-55, e di J. Hamesse, “Imaginatio” et “phantasia” chez les auteurs philosophiques du XII et XIII siècle, pp. 153-84), vorrei, rinviando ad altra, eventuale occasione, un meno rapsodico discorso, proporre qualche avvertimento. 1) Sebbene possa e debba ammettersi che faccia, per così dire, parte delle premesse non dichiarate e esplicate, nel testo della canzone mancano, salvo errore, accenni specifici a questa teoria, tanto che, per avvertirne la presenza, occorre scavare dentro il senso del participio passato «veduta», premesso a «forma», e intendere che, come quella nasce dal senso della vista, così questa non può non essersi formata se non mediante l’atto di astrazione dai sensi delle forme, o specie, intelligibili, compiuto dall’intelletto. La fonte essenziale della teoria è, come ben si sa, aristotelica: cfr. De an. Γ 431 a 16-17 διὸ οὐδεποτε νοεῖ ἄνευ φαντάσματος ἡ ψυχή; ma cfr. in particolar
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modo 427 b 14-16 φαντασία […] ἕτερον καὶ αἰσθήσεως καἰ διανοίας, αὕτη τε οὐ γίγνεται ἄνευ αἰσθήσεως, καὶ ἄνευ ταύτης οὐκ ἔστιν ὑπόληψις: dove, come si vede, è detto con chia-
rezza che, diverse fra loro, la fantasia e la sensazione, sono entrambe diverse dalla dianoia, che, per il suo atto, non può comunque prescinderne. Com’è ribadito a 431 b 29, dove Aristotele osservò che οὐ ὁ λίθος ἐν τῇ ψυχῃ, ἀλλὰ τὸ εἶδος, e quindi tornò a dire che τὰ […] φαντάσματα ῶσπερ αἰσθήματά ἐστι, πλὴν ἄνευ ὕλης, aggiungendo che la fantasia è ἕτερον φάσεως καὶ ἀποφάσεως, è diversa dalla affermazione e dalla negazione, per concludere problematicamente con la domanda: τὰ δὲ πρότα νοήματα τί διοίσει τοῦ μὴ φαντάσματα εἶναι? Poiché non è il caso qui di moltiplicare le citazioni, rinvio, per Tommaso, al De unitate intellectus, IV 92, e, per Averroè, a De an. III 5 (Commentarium magnum, ed. cit., pp. 411-412); cfr anche le Quaestiones in tertium de anima, q. 15 (a cura di A. Petagine, Milano 2007, p. 204: e cfr. pp. 194-210), di Sigieri, nel punto in cui asserì che il diverso intelligere in diversis hominibus dipende dalla diversitas intellectorum, ossia dalle diverse immagini della fantasia che sono in ciascuno (cfr. B. Nardi, nella sua edizione dell’opuscolo di Tommaso d’Aquino, Trattato sull’unità dell’intelletto contro gli averroisti, Firenze 1938, p. 162); e mi limito a osservare che, anche ammesso che «forma» valga qui come «immagine» sensibile, e che l’intelletto debba perciò ricavarne in atto le species intelligibiles, resta che quella dei phantasmata è questione che interessa bensì l’intendere individuale una volta posto che l’intelletto sia separato e unico, ma non, in senso specifico, l’amore e il suo insorgere. 2) Non è infatti accettabile, quel che si legge in Agamben, Stanze, pp. 125-126. Convinto che si dia una «doppia genesi dell’amore», e che questa sia suggerita dai vv. 16-18 e 21-23, nei quali, «all’aspetto pneumatico-astrale» corrisponderebbe e farebbe riscontro quello «fantasmatico-psicologico» (p. 125), egli ebbe bensì ragione nell’escludere che in Donna me prega vi siano due amori, «l’amore-contemplazione e l’amore concupiscenza». Ma non ne ebbe altrettanta quando sostenne che vi è «un’unica esperienza amorosa, che è, insieme, contemplazione (in quanto ossessiva cogitatio del fantasma interiore) e concupiscenza (in quanto il desiderio ha come origine e oggetto immediato il fantasma…)». Non mi soffermerò sull’«unica esperienza amorosa» e sulla sua, tuttavia,«doppia genesi», e nemmeno sull’«insieme» che, se ospita cogitatio, sia pure ossessiva, e concupiscenza, non può non tener separate in sé stesso queste due dimensioni e, invece che unificarle, esserne esso, piuttosto, diviso. Osserverò che, per intendere tutto questo senza contraddizione non basterebbe supporre che quel che deriva da Marte e quel che «vèn da veduta forma che s’intende» si producano in simultaneità, dal momento che, nella simultaneità, dovrebbe pur sempre ammettersi la differenza della concupiscenza dalla cogitatio, e in questa la non unicità dell’esperienza amorosa, che si vorrebbe che invece fosse un’unica esperienza. Osserverò anche che, mentre la «veduta forma che s’intende» non è l’amore, che infatti, se, sia pure problematicamente, ne deriva, comunque non vi si identifica, amore non è nemmeno, in quanto tale, il fantasma; che dell’amore può ammettersi (ma non in Cavalcanti, dove di questo non c’è riscontro), che sia, l’oggetto, non però l’origine. Se s’intendesse rimanere entro i termini della tesi che si sta discutendo, e cercare di metterla d’accordo con quella dell’amore-accidente, a sua volta rigorizzata in senso aristotelico, dovrebbe dirsi che è l’accidente chiamato amore, e non il fantasma, a far sì che il fantasma sia l’origine dell’amore; e che insomma, se è un accidente, è l’amore a costituire l’origine dell’amore. Meglio, comunque, stare al testo, dove di queste cose non è traccia; e tenendo fermo al punto che l’amore è «accidente», non intenderlo né come contemplazione, sia pure ossessiva, del fantasma, e neppure come desiderio, nato dal fantasma, del fantasma.
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19. Intenderei che «veduta forma» costituisca un nesso, nel quale sia tuttavia distinguibile il momento del «vedere» da quello del costituirsi della «forma» che, in quanto tale ha il suo «loco» nell’intelletto: un nesso, quindi, che, quanto più è contratto, di altrettanto richiede questa differenza di momenti. Non credo perciò necessario leggere, secondo la proposta, per altro molto acuta, di G. Inglese, Dubbi d’amore, in «Critica del testo», 4/1 (2001), p. 153, «vèn da veduta; form’à, che s’intende»: basta che fra «veduta» e «forma», che perciò non richiede di essere risolta in «form’à», si interponga mentalmente lo spazio concettuale che le differenzia. 20. Dalla sequenza dei vv. 21-28 emerge che, venendo da una «veduta forma» che, in quanto «veduta» rinvia al senso, e, in quanto «forma che s’intende», all’intelletto possibile, l’amore non ha su questo «possanza». Il che non significa che qui si stia facendo questione della conoscenza e che questa sia interrotta dall’amore. Cavalcanti dice soltanto che sulla forma in quanto «intelletta», e perciò accolta, con questo suo carattere, nell’intelletto, l’amore non ha alcun potere, perché, in quanto tale, resta chiuso «in quella parte – dove sta memora» (v. 15), cioè nell’anima sensitiva. Non direi quindi, con De Robertis, Rime di Cavalcanti, p. 100, che, sebbene per sé non sia «conoscenza», l’amore nasca «dall’inizio stesso della conoscenza, ossia dalla percezione sensibile». E nemmeno, come sostenuto da Tanturli (citato con consenso da De Robertis), che qui si dia un’«interruzione» del «processo conoscitivo: come già è stato osservato. Ma sulla questione torno, comunque, nel testo. 21. B. Nardi, L’averroismo del “primo” amico di Dante (1940), in Dante e la cultura medievale, pp. 96-97. 22. È possibile che su questo punto Cavalcanti fosse stato condizionato dal modo in cui gli era stata posta la domanda concernente la genesi e la natura dell’amore, e, poiché, per esempio, dall’Orlandi gli si chiedeva della causa («donde nasce amore»), egli non sapesse dire chiaro e netto che, essendo accidente, l’amore non era inscrivibile in una determinata serie causale. È possibile, se è così, che per questa parte, il topos prendesse il sopravvento sul rigore filosofico, e che la domanda (impropria) condizionasse la risposta. 23. Che da Donna me prega sia impossibile ricavare una gnoseologia, è evidente; e altrettanto evidente ne è la ragione. La questione del conoscere è estranea infatti al suo orizzonte, nel quale non è presente se non per indizi. Per questo, non credo sia possibile decidere fino a che punto, per questa parte, Cavalcanti seguisse Averroè, e se, per qualche tratto, consapevolmente se ne allontanasse. E qui valga questa considerazione concernente l’atto dell’apprendere. Assumendo come testo di riferimento il grande commento di Averroè al De anima, si consideri che, sebbene l’intelletto fosse da lui concepito come separato e unico per tutta la specie umana, l’atto dell’intendere era invece, o così almeno si pretendeva, individuale. Se infatti non fosse stato così, sarebbe avvenuto che «res intellecta apud me et apud te fuerit una omnibus modis, continget quod, cum ego scirem aliquod intellectum, ut tu scires etiam ipsum, et alia multa impossibilia» (Commentarium magnum, ed. cit., p. 411: che è, sia detto per incidens, un argomento analogo a quello che, proprio contro gli averroisti, fu messo in campo da Tommaso nel De unitate intellectus, IV 89 ss.). Che, d’altra parte, e lasciando ora da parte le critiche tomiste, la questione presentasse punti di particolarissima difficoltà, è ben noto. E non gioverebbe insistervi se qui non convenisse almeno accennare a quella che si rende evidente nella concezione aristotelica dell’intelletto come un puro δυνατόν, o, se si preferisce, come un puro γραμματεῖον (De an. Γ 430 a 1): come qualcosa, dunque, che, essendo, in primo luogo, in potenza (429 a 20-22), richiede, per passare all’atto, di essere sottoposto a un altro intel-
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letto, che Aristotele definì αἴτιον καὶ ποιητικόν, ossia come un intelletto che, essendo sempre in atto, attrae a sé la potenza di quello. Il luogo del De an. Γ 430 a 10-26, è, come si sa, dei più tormentati e controversi dell’intera storia del pensiero occidentale: e non desta meraviglia che di lì siano partite linee concettuali divergenti e inconciliabili. Ma la questione decisiva riguarda la possibilità che questi intelletti siano divisi l’uno dall’altro in forza della potenza che essa sola, con l’esclusione dell’atto, appartiene all’uno, mentre all’altro appartiene l’atto con l’esclusione della potenza. E la risposta è che questa possibilità comunque non si dà. Se, essendo sempre in atto, l’intelletto fosse esterno a quello che si dice δυνατός, se fra i due non vi fosse contatto, sarebbe impossibile che la potenza dell’uno fosse mai tratta all’atto dall’atto dell’altro; e l’uno sarebbe sempre in potenza, l’altro sarebbe sempre in atto, ma per sé stesso e senza poter svolgere alcuna funzione attualizzante. Se, invece, gli fosse interno, allora a non potersi dare sarebbe l’intelletto che si dice in potenza. Un intelletto in potenza che contenesse in sé l’intelletto in atto, non potrebbe, per poterlo contenere, non essere in atto; e, di nuovo, se fosse in atto, se tale fosse di per sé anche senza dover ricevere l’atto dall’atto che gli stesse dentro, ebbene, anche in questo caso, come sarebbe possibile definirlo δυνατός? Allo stesso modo, non potrebbe assumersi che, sebbene per sé stesso fosse soltanto «in potenza», tanto poco questo intelletto fosse conforme alla sua definizione da essere per sé stesso in grado di passare all’atto. Sono, quelle qui accennate, questioni spinose; che, in varie formulazioni, sono rinvenibili in tutta la tradizione dell’aristotelismo latino, nelle sue varie forme. Ma dirne di più, in questa sede, non sarebbe possibile. 24. Cfr., per questo, la precedente nota. 25. Cfr. n. 28. 26. Dino del Garbo, Glossa, § 18. 27. Secondo la lezione messa a testo da Inglese, Dubbi d’amore, p. 153. Ma cfr. già il suo L’intelletto e l’amore, p. 35. Cfr. n. 19. 28. E questa è, naturalmente, anche dottrina averroistica: cfr. Commentarium magnum, ed. cit., pp. 5, l5, 130, 133-134, etc. E cfr. L’incoerenza dell’incoerenza dei filosofi, pp. 156, 296, 302, 305. 29. Proprio per questo non parlerei, con E. Fenzi, Interpretazioni cavalcantiane, in Guido Cavalcanti laico e le origini della poesia europea nel 7° centenario della morte. Poesia, filosofia, scienza e ricezione, Atti del Convegno internazionale di Barcellona, 1620 ottobre 2001, a cura di Rossend Arqués, Alessandria 2004, p. 131, dell’amore come di una «pulsione irrazionale che precipita l’uomo nel buio dell’inconoscibile, sotto gli occhi impotenti e impassibili di un intelletto separato che s’incarica dell’intelligenza della specie e non delle follie dell’individuo, e che non conosce le passioni perché non può, naturalmente, patirle». Per parlare di «inconoscibile» e di inconoscibilità, occorrerebbe che fosse chiamata in causa, e dichiarata impotente, un’istanza conoscitiva, che qui, invece, non è presente: come Fenzi facilmente riconoscerebbe se considerasse che altro è l’impotenza (degli occhi), altro l’impassibilità, e che solo nel primo caso, che palesemente non è quello contemplato in Donna me prega, potrebbe parlarsi di un difetto intrinseco allo strumento preposto all’operazione gnoseologica. Aggiungerei che in un solo significato l’amore potrebbe esser detto «inconoscibile»; e cioè se la sua inconoscibilità fosse ricondotta al suo carattere di «accidente»: che è inconoscibile non perché non sia chiara la sua accidentalità, ma perché non la si può, e proprio in quanto se ne colga quella che potrebbe esser detta la sua ἄτοπος φύσις, ordinare in un sistema connesso di cause.
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30. Non direi quindi, con R. Pinto, La “simiglianza” come decostruzione/ricostruzione espressiva nel dialogo intertestuale fra Guido e Dante, in Guido Cavalcanti laico, pp. 38-46, che, turbato dalla passione d’amore e «prigioniero della pura materialità della passione», l’io sia incapace di «operare il salto ideale dal concreto all’astratto che l’analogia, nelle normali condizioni di conoscenza, consente» (p. 33). Non è infatti l’io a non saper operare analogie (a «largire»«simiglianze»). È l’intelletto che, chiuso nella sua perfezione, non può «largirle». 31. Non credo però che, per spiegare questo punto della canzone sia necessario ricorrere alle forme le più estreme dell’averroismo latino, quali s’incontrano, per esempio, nel commento al De anima dell’Anonimo Giele (in Trois commentaires anonymes), come proposto dalla Corti, La felicità mentale, pp. 11, 21-22, passim. Non c’è, nella canzone di Cavalcanti, niente che possa far pensare a un suo consenso con la tesi dell’Anonimo, secondo cui «homo non intelligit» (Quaestiones in Aristotelis librum de anima I et II, II 4, ed. cit., pp. 74-75), condannata a Parigi nel 1277 (cfr. R. Hissette, Enquête sur les 219 articles condamnés à Paris le 7 mars 1277, Paris-Louvain 1977, pp. 184-186; non perché debba pensarsi che Cavalcanti fosse estraneo a quello che A. De Libera, Introduction, a Thomas d’Aquin, Contre Averroès, Paris 1994, p. 63, ha suggestivamente definita, per l’Anonimo Giele, «une sorte d’ivresse de la transgression», e Z. Kuksewicz, De Siger de Brabant à Jacques de Plaisance. La thèorie de l’intellect chez les averroistes latins des XIII et XIV siècles, Institut de philosophie et de sociologie de l’Academie polonaise des sciences, Wroclaw-Varsovie-Cracovie 1968, p. 66, «averroisme de gauche», ma semplicemente perché non era questo il problema che egli dibatteva. Come ho detto nel testo, da quel che nella canzone si asserisce dell’intelletto può desumersi bensì la tonalità averroistica, non però lo specifico lineamento che egli gli conferì, se glielo conferì. Aggiungerei che occorrerebbe evitare l’equivoco in cui si cadrebbe, e si cade, mettendo in relazione di dipendenza la definizione cavalcantiana dell’amore con il carattere che all’intelletto si attribuisce nel caso in cui, come appunto accadde all’Anonimo Giele, se ne accentui il carattere di passività, in modo tale che alla fine, anziché esser lui a pensare, il «soggetto» si trovi a essere piuttosto pensato dall’intelletto che, dal di fuori, lo assume come oggetto. A parte le questioni a cui questa tesi, che fu quella contro cui più Tommaso polemizzò nel De unitate intellectus, darebbe luogo se la si discutesse in sé stessa e nelle sue connessioni con il De anima, altro resta da dire. E cioè che se dell’amore si tiene fermo con coerenza il carattere di «accidente», porlo in quella, come in qualsiasi altra, relazione, significherebbe stravolgere il significato in cui Cavalcanti lo assunse, suggerendo che, poiché dall’averroismo «di sinistra» egli ricavava che il soggetto umano fosse, non soggetto, ma semplice oggetto di pensiero, per questo dell’amore poteva dire quel che ne diceva. Quale che sia stata la «libertà» che, nell’assumere il concetto dell’accidente Cavalcanti si prese nei confronti della sua idea rigorosa, è un fatto che come accidente egli intese assumerlo; e che, se non riuscì a tenerne fermo in ogni senso il carattere, certo non fece mai che potesse essere la conseguenza dell’essere l’uomo, non il soggetto, ma l’oggetto del pensiero. 32. De Robertis, Rime di Cavalcanti, p. 101, Savona, Per un commento, pp. 48-50. Per quanto invece riguarda i vv. 29-31: «non è vertute, – ma da quella vène/ ch’è perfezione – (ché si pone – tale),/ non razionale, – ma che sente, dico», mi sembra che l’unica interpretazione possibile sia quella di Nardi, L’averroismo, pp. 99-100, e Noterella polemica, pp. 67-70, condivisa anche da De Robertis, Rime di Cavalcanti, p. 101; e da Inglese, L’intelletto e l’amore, pp. 35-36, che, al Tanturli, il quale aveva parlato di derivazione dell’amore da
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«quella facoltà che è perfezione dell’anima sensitiva» (Guido Cavalcanti contro Dante p. 6), ha opposto che «l’anima sensitiva è la “perfezione” dell’individuo umano – e qui sta il punto, perché affermare ciò significa che, di là dell’anima sensitiva non c’è individuo, e quindi l’intelletto non è individuale, ma unico per tutto il genere umano». (Osserverei che, in quel che dice, Inglese ha certamente ragione, anche se, al Tanturli, si sarebbe piuttosto dovuto obiettare che l’amore non deriva dalla perfezione dell’anima sensitiva, ma che, essendo accidente, in quella prende il suo posto; e aggiungerei che, in modo tuttavia estremamente problematico, sul quale non è qui il caso di soffermarsi, l’individuo è pur sempre quel determinato individuo in quanto l’intelletto operi sui fantasmi che sono in lui e ne astragga le forme intelligibili). Si veda anche Savona, Per un commento, pp. 49-50. Non riesco a capire come, per mantenere il punto che lo opponeva a Nardi, il Favati, Inchiesta, pp. 209-213, potesse proporre che al v. 30, «che si pone – tale», «tale» significasse «posto, dato, e non concesso» (che quella sensitiva fosse vera «perfezione», e che vera perfezione fosse solo la razionale o intellettiva, per la cui virtù l’uomo possiede individualmente l’intelletto possibile, ed è «soggetto» di amore, non solo sensibile, ma intellettuale). In realtà, escludendo che l’amore fosse «vertute», e collocandolo in una «perfezione» che, sebbene non razionale, perfezione era tuttavia anch’essa, Cavalcanti intendeva togliere di mezzo il disagio che avrebbe potuto insorgere in chi avesse trovato singolare che predicati opposti (razionale, non razionale) fossero riferiti allo stesso soggetto (la perfezione). Ne conseguiva che, anche quella sensibile essendo per lui perfezione, e a questa l’amore provenendo κατὰ συμβεβηκός, era in quella che, in quanto amante, il soggetto realizzava il suo atto, la sua ἐντελέχεια: laddove proprio perché con l’intelletto non contemplava che «forme», e questa contemplazione era necessaria, e non accidentale, quello, l’intelletto, non poteva essere, sebbene si unisse all’individuo, se non unico per tutta la specie. Ne conseguiva altresì che, se si fosse definito amor intellectualis l’atto del puro intendere, la definizione non avrebbe avuto valore, o significato, se non equivoco: questo essendo un amore comune alla specie, e quello all’individuo. 33. Cfr., per i rinvii, n. 21. 34. Cfr. Commentarium magnum, ed. cit., pp. 384-385, 399-404, passim. Una sintesi veloce, che molte cose, necessariamente, lascia fuori del quadro, in E. Gilson, La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, tr. it., Firenze 1973, pp. 442-443; e cfr. ora A. De Libera, Storia della filosofia medievale, tr. it., Jaca Book, Como 1999, pp. 162-167. Ma si veda l’ampia e già citata Introduzione di Nardi a Tommaso d’Aquino, Trattato sull’unità dell’intelletto, pp. 39 ss. 35. Le questioni, qui su appena accennate, richiederebbero di essere seguite sul testo del Commentarium magnum, dove si presentano nel segno di non poche difficoltà. Per dirla in una parola, la questione che nel commento al De anima, e altrove, resta irrisolta, è quella della distinzione e quindi della connessione degli intelletti, della distinzione e quindi della connessione di questi con l’individuo. Non è quindi riducibile nella forma che a essa è stata data da De Libera, Storia della filosofia medievale, p. 172, secondo il quale «costantemente» ci si deve chiedere, «leggendo Ibn Rushd, se per lui è l’intelletto che conosce tramite l’uomo oppure se è l’uomo che conosce tramite l’intelletto, od entrambe le cose, l’una non potendo sussistere senza l’altra». La questione è, per dire così, più originaria. È infatti la possibilità della relazione che dovrebbe, e non riesce, a essere provata. Per le forme dell’intelletto, agente, possibile (materiale), speculativo, adepto, cfr. Commentarium magnum, ed. cit., pp. 389-390, 439, 484, 380-436, 438, 481-485.
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36. In un saggio ricco di dottrina e di interessanti osservazioni, N. Tonelli, Fisiologia dell’amore doloroso in Cavalcanti e in Dante, in Cavalcanti laico, p. 81, ha ricondotto questi termini all’ambito della scienza medica, osservando fra l’altro che, per es., il termine «vizio» non ha «nessuna connotazione morale, bensì tutt’affatto medica» (p. 81, n. 33). E si veda il suo saggio, “De Guidone de Cavalcantibus physico” (con una noterella su Giacomo da Lentini ottico), in Per Domenico De Robertis. Studi offerti dagli allievi fiorentini, Firenze 2000, pp. 459-508. È tuttavia pur sempre al quadro «filosofico», e alla sua problematica coerenza, che anche queste nozioni richiedono di essere riferite. Il che vale anche per l’importante saggio B. Nardi, L’amore e i medici medievali (1959), in Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966, pp. 238-267, nel quale, alle pp. 242-248, è contenuta una puntuale analisi del De felicitate di Jacopo da Pistoia. 37. Come intendono, per quel che so, tutti gli interpreti. Cfr. G. Contini, Poeti del Duecento, II/2, Milano-Napoli 1994, p. 526; De Robertis, Rime di Cavalcanti, p. 100; Savona, Per un commento, pp. 48-49. E già Dino del Garbo, Glossa, § 55. 38. La «glossa» di Dino è giudicata «deviante» da Inglese, L’intelletto e l’amore, p. 37. 39. Dino del Garbo, Glossa, § 55. In questo stesso senso, a ragione, Pappalardo, Per una rilettura, pp. 65-66. 40. Contini, Poeti del Duecento, II/2, p. 526; De Robertis, Rime di Cavalcanti, p. 103. 41. Osservazioni, su questo punto, anche se in una diversa prospettiva interpretativa, in C. Calenda, Tra blocco della teoria e frantumazione dell’esperienza, in Guido Cavalcanti laico, pp. 233-234. 42. Andrea Cappellano, Trattato d’amore, a cura di S. Battaglia, Napoli 1946, p. 6. 43. Non mi pare che questo punto, relativo all’uso, in questo caso rigoroso, del concetto dell’«accidente» sia stato colto. Generico, per es., Contini, Poeti del Duecento, II/2, pp. 526527. Cfr. anche De Robertis, Rime di Cavalcanti, p. 102, e Inglese, L’intelletto e l’amore, p. 41. Fenzi, La canzone d’amore, p. 158, parlò della «perfezione» dell’amore come «eccesso» e «dismisura», sottolineandone, per conseguenza, l’«innaturalità», ossia la difformità o la deviazione rispetto allo scopo primario della natura. Ma non mi sembra che così si colga il punto autentico della questione. Più di recente, nelle Interpretazioni cavalcantiane, p. 130, Fenzi ha parlato dell’amore come di qualcosa che «non trova una sorta di adeguato e automatico corrispettivo nei disegni della natura, perché sfugge ai suoi condizionamenti e si autopone come puro volere»: donde, per conseguenza, la ripresa della definizione di esso come «il libero arbitrio del desiderio». Ma l’amore è un «accidente»; il cui accadere non ha niente a che vedere con la libertà del volere o, che si dica, «libero arbitrio». Che l’«accidente» sfugga alla necessità della natura, è indubitabile, se è un accidente, un αὐτόματον, un συμβεβηκός. Ma dovrebbe esser chiaro che, se sfugge alla necessità delle cause naturali, l’accidente sottostà alla sua e, rispetto a questa, non è libero. L’amore non si sceglie, infatti: si subisce. 44. E cfr. De Robertis, Rime di Cavalcanti, p. 104. Ma già Contini, Poeti del Duecento, II/2, p. 527. 45. Nardi, L’averroismo, pp. 105-106. 46. Cfr. i vv. 46 ss. 47. Le interpretazioni che si sono date di questi versi sono elencate e delineate in Savona, Per un commento, pp. 82-84.
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48. Contini, Poeti del Duecento, II/2, p. 527; De Robertis, Rime di Cavalcanti, p. 104; Fenzi, La canzone d’amore, p. 82. 49. Nardi, La filosofia dell’amore, p. 33. 50. Inglese, L’intelletto e l’amore, p. 42. 51. Ibidem. 52. Ossia in sede aristotelica. 53. Per qualche approfondimento rinvio all’Appendice. 54. A questi versi un articolo è stato dedicato da F. Brugnolo, Cavalcanti cortese. Ancora su “Donna me prega”, vv. 57-62, in «Critica del testo», 4/1 (2001), pp. 155-171, che (156-159) offre un utile elenco delle principali esegesi, da quella di M. Casella, La canzone d’amore di Guido Cavalcanti, in «Studi di filologia italiana» 1944, pp. 97-116 (duramente criticato da Nardi, Dante e la cultura medievale, pp. 109-124) all’altra della Tonelli, “De Guidone de Cavalcantibus physico”, pp. 459-508. 55. Contini, Poeti del Duecento, II/2, p. 528. 56. Ibidem, p. 524. 57. Andrea Cappellano, Trattato d’amore, p. 33. 58. Su questo, cfr. infra. 59. Contini, Poeti del Duecento, II/2, p. 528. Ma cfr. già C. Calcaterra, “Donna me prega” di Guido Cavalcanti, in Nuove indagini, Bologna 1946, p. 99. 60. Brugnolo, Cavalcanti cortese, p. 162, ha osservato che, come quello cavalcantiano non è altro che «la fin’amors della secolare tradizione cortese, quello, per intenderci, che i Minnesänger chiamano Minne (anzi hohe Minne)» (p. 160), così il timore, «lungi dall’essere la paura paralizzante o il timore di fallire, di essere respinto, ecc., è ancora e sempre – a maggior ragione dato il contesto “altero” in cui ci troviamo, il sublime timor amantis della tradizione trobadorica, un’altra delle componenti essenziali e distintive, nella sua complessità, della fin’amors». Giustamente, dunque, la conclusione è che «dardo sono le bellezze, ma non certo quelle “selvagge”» (p. 163). Riterrei comunque che se, come qui si dice, il «contesto» è «altero», l’altro carattere dell’amore è definito dalla «ferità» e dall’oscurità che viene da Marte. 61. Per una rassegna delle interpretazioni, Savona, Per un commento, pp. 89-90. 62. Cfr., qui su, n. 56. 63. Fenzi, La canzone d’amore, pp. 163-164. L’interpunzione proposta da Fenzi comporta, mi sembra, anche una difficoltà grammaticale. In quanto connesso al «conoscer per lo viso», «compriso» assume presso questo critico valore attivo; ed egli infatti parafrasa con «conosciuto mediante un atto di comprensione fondato sulla vista» (p. 85). Ma Cavalcanti usò il participio passato. Si aggiunga che, a rigore, la parafrasi di Fenzi, non solo duplica il conoscere nell’atto di comprensione che gli tiene dietro. Ma, come nel testo ho già osservato, fa della «vista» il suo fondamento. Vedo che l’interpunzione di Fenzi è accolta ora anche da Inglese, Dubbi d’amore, p. 154. 64. Ritengo fondata, per questa parte, l’interpretazione della Corti, La felicità mentale, p. 35, che intende «compriso» come comprehensus dall’anima sensitiva. Direi però, meglio che «dalla», «nell’anima sensitiva», conferendo per conseguenza a «compriso» il significa-
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to di «incluso»; e escludendo, come un grave fraintendimento, che l’amore sia «in sé bianco, luminoso perché generato dalla forma intellecta». Ferma restando la riserva di carattere generale e strutturale relativa alla possibilità che, in termini aristotelici (e averroistici), possa dirsi che sia la «forma» a generare l’amore, dovrà intendersi, e ribadirsi, che nella forma intellecta c’è la forma, non però l’amore, che né può derivarne come un effetto dalla sua causa, né, se mai invece ne derivasse, potrebbe assumersi che la sua destinazione fosse bene indicata quando, come è detto al v. 15, la si individuasse nell’anima sensitiva e nella parte di questa «dove sta memora». Al verbo «creare» occorre perciò attribuire qui un significato che sottolinei la sua indipendenza dal «subietto» in cui l’accidente «amore» trova «loco e dimoranza»; nel senso, direi, che mentre il «subietto» è lì, sempre, l’amore, invece, accade (quando accade), e c’è (quando c’è). Nel v. 21 «vèn da veduta forma che s’intende», il senso di «vène» resta, per le ragioni addotte e discusse nel testo, problematico: a meno che, come dirò in seguito, non lo si intenda come «accade che», e non si specifichi che, mentre, veduta, la forma è tale nel possibile intelletto, di là, dalla visione, si origina l’accidente che viene accolto nell’anima sensitiva. Si darebbe perciò il doppio, e separato, percorso di qualcosa di sensibile che, partendo dal vedere, si costituirebbe come forma nell’intelletto, e come accidente/amore nell’anima sensitiva. L’obiezione che a questa esegesi, senza dubbio rischiosa, ma coerente tuttavia con l’impianto dualistico della concezione esposta in Donna me prega, si rivolgesse dicendo che il processo risulta simultaneo nell’interpretazione, ma non nel testo, dove il formarsi dell’accidente e il suo accoglimento nell’anima sensitiva sono descritti ai vv. 15-19, mentre il costituirsi della «forma» nell’intelletto è delineato nei vv. 21 ss., sarebbe tanto estrinseca quanto sofistica. Che Cavalcanti abbia posto in materiale successione i due processi, descrivendo prima quello relativo all’accidente, e poi l’altro, relativo alla forma, non toglie nulla alla perfetta loro simultaneità; che si produce per altro in quanto si produca, e non perché il suo prodursi sia necessario, quasi che ogni donna che entrasse nel campo visivo di un soggetto dovesse dar luogo al prodursi dell’accidente chiamato «amore». Vedo ora, a lavoro ormai sostanzialmente compiuto, che, in un libro appena uscito, dallo «scarto ineliminabile sussistente fra passione amorosa e istanza intellettiva», oscura la prima, luminosa la seconda, M. Mocan, La trasparenza e il riflesso. Sull’“alta fantasia” in Dante e nel pensiero medievale, Milano 2007, p. 25, ha tratta la conseguenza sia della «costitutiva insufficienza della mente umana a comprendere e a trasformare in conoscenza l’abbagliante splendore della bellezza femminile, percepita sensibilmente», sia della non conoscibilità e inconcepibilità, «dal punto di vista soggettivo di un io lirico costantemente sospeso sul bordo di un’ineffabilità irrisarcibile», della passione amorosa (p. 27). Il che, riferito a Donna me prega, e al «natural dimostramento» che ne costituisce il soggetto, suona quanto meno sorprendente. Di una «costitutiva insufficienza della mente» a comprendere la natura di amore nella canzone non si parla affatto; e la mente infatti «resplende – in sé perpetüal effetto», sì che l’unica definizione che le convenga è quella della «perfezione», alla quale, com’è ovvio, nessuna insufficienza può essere imputata. Che, essendo un «accidente», l’amore non appartenga alla natura dell’intelletto, e dunque alla sua perfezione, significa forse che sia questa a mancare di qualcosa, e non piuttosto che sia l’amore a restare fuori del suo ambito? Aggiungerei la non pertinenza delle osservazioni (pp. 28-30) relative al sonetto Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira (De Robertis, Rime di Cavalcanti, pp. 17-19). Che qui, ai vv. 12-14 («non fu sì alta già la mente nostra/ e non si pose ’n noi tanta salute,/ che propiamente n’aviàn canoscenza») si parli di insufficienza
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della «mente nostra», è tanto indiscutibile quanto lo è che se ne parla al di fuori del quadro in cui la questione fu formalizzata e rigorizzata in Donna me prega. E a questa differenza, quindi, occorre tener fissa la mente evitando di ricercare e di ritrovare nell’«io lirico» cavalcantiano il punto d’incontro delle due situazioni. Insomma, un conto è dire che l’amore è inconoscibile. Un altro è teorizzare la sua estraneità all’ambito strutturale dell’intelletto, sul quale non ha «possanza». 65. Non però, come invece intese Dino del Garbo, Glossa, § 99, perché «circa tale obiectum cadit potentia visiva, scilicet circa colorem». 66. Dino del Garbo, Glossa, § 99, colse invece bene il senso di questo «cadere» del bianco quando osservò che Cavalcanti volle mettere in chiaro che «amor non est res que possit cognosci per visum quemadmodum cognoscitur color albus vel alius color». E cfr. Contini, Poeti del Duecento, II/2, p. 528. Non direi però che qui il «bianco» abbia a che fare con il pallore che appare sul volto di chi ama, come in Inf. V 130-131 («per più fiate li occhi ci sospinse/ quella lettura, e scolorocci il viso»). La citazione del «bianco» ha qui significato tecnico. Il «bianco» è il colore per eccellenza visibile in quanto è il contrario del «nero» che ne è la privazione. Ma, pur senza entrare nella questione che si aprirebbe se, assumendo il «bianco» come il colore stesso, si chiedesse se di esso possa dirsi che è potenza di entrambi i contrari, o, com’è delle δυνάμεις ἄλογοι, di uno solo, almeno un punto deve essere messo in chiaro in questa che non è una questione semplice. Un conto, infatti, è parlare del «bianco» come coestensivo del colore e come identico, perciò, a questo nel segno della massima visibilità. Un altro è parlarne come di quello che, essendo uno dei due limiti estremi del genere «colore», e non coincidendo perciò con l’intera sua estensione, è privativo del «nero», come questo è privativo di lui. Ne consegue che, se fosse inteso come tutto intero il colore, il «bianco» sarebbe δύναμις τῶν ἐναντιῶν, potenza di entrambi i contrari: ossia del bianco e del nero; che, invece, in quanto si contrappongono nel genere, sono ciascuno il semplice contrario dell’altro. Per essere, ciascuno, δύναμις τῶν ἐναντιῶν, oltre che dell’altro ciascuno dovrebbe essere anche il contrario di sé stesso. Il che, com’è evidente, è impossibile. Ho detto che la questione non è semplice; e perché non lo sia, può comprendersi se, appunto, la si studia in relazione al tema, a cui qui accennavo, delle potenze razionali e di quelle irrazionali (cfr. Metaph. Θ 1046 a 36-1046 b 3-23). Per quel che interessa la questione cavalcantiana, quanto è stato detto qui, può, tuttavia, bastare. 67. Contini, Poeti del Duecento, II/2, p. 528, che ricorda Inf. VIII 118 «li occhi a la terra e le ciglia aveva rase». 68. De Robertis, Rime di Cavalcanti, p. 106. 69. Contini, Poeti del Duecento, II /2, p. 528. 70. Ibidem. 71. Ibidem. 72. De Robertis, Rime di Cavalcanti, p. 106. 73. E, naturalmente, non un uomo volgare. Sull’atteggiamento aristocratico di Guido, si è scritto moltissimo. L’essenziale, con fini osservazioni, può trovarsi in Inglese, L’intelletto e l’amore, pp. 199-225, che studia la questione in relazione alla famosa novella del Boccaccio (Decameron, VI 9 [ed. Branca, Torino 1980, pp. 753-758]); e cfr. le note del Branca, pp. 753 e 755.
3. Significati svolgimenti dissociazioni
Donna me prega presenta tre diversi livelli, non necessariamente connessi, ma tutti, in ogni caso, meritevoli della più attenta considerazione. Non necessariamente connessi, non coerenti l’uno all’altro, proprio per questo, forse, essi agiscono l’uno sull’altro, e all’interprete offrono un quadro complesso, ricco di complicazioni e di scarti: un quadro del quale sarebbe assurdo se, prigionieri dell’idea che la sua fosse una «filosofia» dell’amore costruita nel segno della più grande coerenza (Cavalcanti, si sa, aveva fama di logico sottile,1 e di questa seguitò e seguita a godere presso i suoi interpreti) di quelle complicazioni e di quegli scarti non tenessimo conto. Il primo livello è costituito dal modo in cui Cavalcanti si riferì a Aristotele, al suo testo, e a quello dei suoi seguaci e interpreti. E non essendo dato di sapere quale quel testo fosse, con l’aiuto di quali commenti ne avesse affrontata la lettura, a quale grado s’innalzasse la sua conoscenza dell’averroismo latino e, in genere, della filosofia, cercare tuttavia di ricavarne le forme e la qualità dalla canzone stessa dedicata al «concetto» dell’amore, è tanto rischioso quanto inevitabile. Inevitabile è ribadire che, lo sapesse o no, nei confronti di alcuni concetti aristotelici, e in particolare di quello dell’accidente, Cavalcanti procedette con una libertà che li condusse fino al limite della deformazione.2 Lo si è visto; e ripetere il già detto non gioverebbe. Ma, perché l’osservazione potrà, a tempo debito, riuscire utile al chiarimento di ulteriori significati, è necessario tuttavia aggiungere che la trasformazione/ deformazione del concetto dell’accidente, e il nesso in cui Cavalcanti lo pose con le «forme» ritenute nella parte intellettuale dell’anima, richiedono di essere attentamente tenuti presenti, perché è di lì, dalla considerazione dell’un punto e dell’altro, che, come si è visto, può svolgersi la interpretazione complessiva della «tesi» filosofica esposta in Donna me prega.
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Il secondo livello è costituito dall’accoglimento, nel quadro di una tesi ispirata al modello filosofico aristotelico, di concetti, o si dica piuttosto di topoi, che non potevano, e non avrebbero dovuto, per ragioni di coerenza, esservi accolti. In realtà, accanto a tesi filosofiche, presentate in forme orgogliosamente «chiuse» e tali da non poter essere comprese da ciascuno, la canzone dette spazio a non poche «personalizzazioni». Da concetto, o idea, l’amore vi fu talora trasformato in una potenza autonoma, titolare di una specifica volontà e consapevolezza, fornite entrambe di strumenti atti a produrre sofferenza e morte. Le sue conseguenze, e, in primo luogo, la morte, non avrebbero mai potuto essere ascritte al suo potere, se questo non si fosse appunto specificato nei termini, non dell’accidente aristotelico, ma di una umanizzata coscienza e volontà, quali, per esempio, sono quelle dell’«arcier presto soriano» che compare in due sonetti e, come si dice in uno dei due, è «acconcio sol per uccidere altrui»,3 sì che al suo seguito al poeta «aparve» «di sicur la Morte/ accompagnata di quelli martiri/ che soglion consumare altru’ piangendo». Personificato è altresì, nel secondo sonetto, il «pauroso spirito d’amore/ lo qual sòl apparir quand’om si more/ e ’n altra guisa non si vede mai».4 L’esemplificazione potrebbe senza difficoltà continuare a lungo perché, ed è ben noto, della poesia di Cavalcanti, quello dell’amore e della morte è, in una ricca gamma di variazioni, il tema fondamentale, il Grundakkord a cui ogni altro si richiama.5 Ma poiché è necessario porle un limite, e non superarlo, si ricordi soltanto la ballata (di eccezionale, come De Robertis la definì, drammaticità)6 Quando di morte mi conven trar vita, con quelle pesanti cadenze finali («i’ mi posso blasmar di gran pesanza/ più che nessun giammai:/ ché Morte d’entro ’l cor me tragge un core/ che va parlando di crudele umanza,/ che ne’ miei forti guai/ m’affanna là ond’i’ prendo ogni valore./ Quel punto maladetto sia, ch’Amore/ nacque di tal manera/ che la mia fera/ li fue, di tal piacere, a lui gradita»); e si consideri come, per un verso, questi sentimenti siano presenti, sebbene in forma come raggelata, anche in Donna me prega, e come vi producano scompensi. La personificazione, che vi avviene dei concetti, li indebolisce infatti, li fa deviare dalla direzione che altrimenti sarebbe stata la loro. Furono, insomma, topoi e, comunque, movenze liriche altrove operanti, a far sì che nella canzone la linea concettuale si piegasse in vari modi e formasse figure, suggestive ma, a rigore, improprie. Alla forza della tradizione e, si potrebbe dire, della convenzione, fanno riscontro, in Donna me prega, le allusioni alle conseguenze considerate proprie dell’amore; che è un accidente, e quelle
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conseguenze non avrebbero dovuto essergli attribuite perché, come più volte si è dovuto ripetere, se è un accidente, come non ha causa che non sia il suo stesso accadere, così nemmeno lo è di qualcosa che ne derivi e abbia in lui il suo principio esplicativo. Se all’accidente competesse di costituire la ragione necessaria di quel che ne derivasse, e fosse esso a far sì che il colore del volto si mutasse come il riso si muta in pianto mentre, per la paura, l’aspetto della persona subisce una sorta di stravolgimento (vv. 46-48);7 se, ancora, di esso fosse proprio l’esser mutevole, nonché il manifestarsi «’n gente di valore» (v. 49), a conseguirne sarebbe il suo essere, non accidente, ma causa (e, per un altro verso, effetto). E a torto, quindi, gli sarebbe stato assegnato quel nome. In realtà, persino la mutevolezza che pure, con pieno diritto parrebbe che potesse essergli attribuita, contraddice alla sua natura; che è di essere, non mutevole, ma ferma, invece, nell’esser pari alla sua accidentalità, e insuscettibile perciò di una predicazione che comunque conducesse oltre questo limite e gli aggiungesse qualcosa. Il terzo livello, che non potrebbe in ogni caso essere attinto e apprezzato senza che il primo fosse stato individuato nelle sue fondamentali caratteristiche, nella sua coerenza, dunque, non meno che nelle sue incoerenze e anomalie, − questo terzo livello è quello in cui si raccoglie il significato ultimo della canzone, e si decide del suo aristotelismo e, quindi, averroismo. Che sono, per certi tratti, indubitabili: anche se, e questo è il punto delicato, intorno al quale gli interpreti sono chiamati a discutere, le allusioni o, se si preferisce, i riferimenti alle tesi filosofiche di Aristotele e di Averroè siano, in Cavalcanti, così concisi che, al di là della fedeltà e dell’infedeltà, è difficile, e forse addirittura impossibile, dedurne la linea complessiva di un pensiero in ogni suo aspetto definito.8 A parte quel che nel commento della canzone fu detto nelle precedenti pagine, due, in sostanza, sono i concetti che Cavalcanti mise al centro di essa. In primo luogo, quello dell’intelletto possibile, nel quale l’accidente non ha «possanza» (e nemmeno «pesanza»), perché, come si è detto e ridetto, non è se non il luogo delle forme denudate di materia. In secondo luogo, l’anima sensitiva, nella quale soltanto l’accidente chiamato «amore» ha la sua sede. Ma né sul primo, né sul secondo punto, egli disse di più. Per quanto concerne l’intelletto, Cavalcanti non asserì infatti, e in modo soltanto indiretto, se non che è il luogo delle forme denudate, come si è detto, di materia, ossia di elementi sensibili: non, nella fattispecie, una donna
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reale, ma la sua forma. E non aggiunse altro. Che, trattandosi di una questione di particolare difficoltà, egli non potesse se non alludervi, è evidente: la sua era una canzone, non un trattato. Ma proprio perché, in forma perentoria, per altro, si riferiva a un luogo concettuale di alta problematicità, era inevitabile che da questa proprio la sua perentorietà fosse segnata e, dall’estrema concisione, resa, in più di un caso, problematica, se non addirittura elusiva. E questo è uno dei tratti caratteristici, e paradossali, di Donna me prega. Se, per esempio è inevitabile che, in sede d’interpretazione, non gli si potesse, e non gli si possa, attribuire se non pensieri analoghi a quelli di Aristotele e dei suoi commentatori, e in particolare, quello secondo cui i «fantasmi», che sono «in noi», sono resi intelligibili in atto dall’intelletto, che perciò, nell’elaborarli, li spoglia di quel loro carattere e ne estrae le forme;9 se inevitabile è aggiungere che, in quanto intelligibili, queste non sono, appunto, se non forme, remote cioè da quel che l’occhio aveva percepito come cosa sensibile, è anche vero che a queste «deduzioni» il testo offre un fondamento non più che implicito. Troppo poco, in effetti. Quello del modo relativo alla congiunzione dell’individuo con l’intelligibile in atto,10 aveva costituito l’argomento principale, o almeno uno dei principali argomenti affrontati nella grande contesa che, insorta fra averroisti e non averroisti, aveva avuti a protagonisti, a Parigi, Tommaso d’Aquino e Sigieri di Brabante.11 Una contesa aspra, e di così essenziale rilievo filosofico, che nessuno avrebbe potuto pretendere che in poche parole se ne fosse indicato e e esaurito il senso; e il testo cavalcantiano è, al riguardo, così contratto che non può darsi risposta positiva al dubbio se e come, la quaestio di quella congiunzione gli stesse in mente. Che il pensiero presente in Donna me prega sia spiegabile mettendogli accanto un passo di Averroè, di Sigieri o dell’Anonimo Giele, e ponendolo in diretto contatto con questi, è un’illusione. Non perché non sia ammissibile che a qualcuno di quei testi Cavalcanti avesse potuto accedere, e se ne fosse servito. Ma perché dall’utilizzazione che eventualmente ne fece per delineare la sua teoria dell’amore è impossibile risalire a quelli; che parlano di intelletto, infatti, non di amore, e a questioni fanno spazio che nella canzone cavalcantiana non vengono in nessun modo in luce. L’incertezza e l’indecisione, o come altrimenti voglia dirsi, perciò permangono. Il nesso, per esempio, che, per chiarire cosa sia in sé stesso l’atto dell’intendere, e come questo possa essere individuale se l’intelletto è separato e unico per l’intero genere umano, Averroè aveva appunto cercato di istituire fra l’intelletto e l’individuo, era stato posto e illustrato, nel gran-
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de commento del De anima e altrove, attraverso discorsi di tale complessità, sottigliezza e anche, a volte, oscurità, che nemmeno un’idea remota potrebbe farsene chi, per questo, si fosse affidato, o si affidasse, ai versi di Cavalcanti.; nei quali, come si è detto, quelle questioni stanno nel fondo, ma come propriamente vi stiano è impossibile capire. Nemmeno, d’altra parte, e lo si ribadisca, se, invertendo il versus e partendo dagli argomenti averroistici, ci si avvicinasse al testo cavalcantiano per penetrarne il senso, − nemmeno in questo caso si potrebbe essere sicuri che, a quelli proprio, questo fosse stato ispirato: tale è la cripticità, tale la concisione. Quel che da Cavalcanti si deduce è che nell’intelletto possibile la cosa «veduta» sta come forma, e che niente che sia sensibile vi è accolto: che l’intelletto è eterno, chiuso nel suo «perpetüal effetto»; e che perciò è separato. Anzi, ma questo torna a rivelarsi come un punto problematico, così separato e, rispetto alle anime che gli stanno sotto, così indipendente, che era impensabile, non solo che da quelle si salisse a questo, ma anche che avvenisse il contrario, e fosse l’intelletto a orientare il suo raggio nella direzione dell’anima sensitiva in modo che le passioni ne fossero depurate e trascese. Se si sta al testo, e, innanzi tutto, alla sua lettera, sembra sul serio inevitabile che a esser tratta sia questa conclusione, che è anche la più paradossale: la conclusione cioè secondo cui, come l’intelletto possibile è, nella sua eternità, del tutto chiuso a ogni influsso che possa provenirgli dalle passioni, così queste lo sono nei confronti di ogni influsso che possa provenire da quello. Che è, come qui su si è notato, il punto in cui, conseguita per un verso, la coerenza tende, per un altro, a flettersi nell’incoerenza. Il contatto che infatti qui si stabilisce fra zone alte e zone basse dell’anima, e del quale il testo sembra riconoscere la realtà là dove, per esempio, allude all’«’ntenzione» che vale «per ragione» e, sopra tutto, al «vizio» che conduce al mal «discernere»,12 è proprio quello del quale, in sede logica, non si riesce ad assegnare e a determinare la ragione. Non si vede infatti, e già lo si è notato, come sia possibile che la pura forma intellettuale possa subire l’influsso di un accidente qual è quello che si chiama «amore». Per il modo in cui il testo è congegnato, e a causa anche della difficoltà che di nuovo è stata segnalata, la conseguenza che da tutto questo dovrebbe trarsi, riguarda dunque la contrapposizione assoluta dell’intelletto e dell’amore. La contrapposizione, e, meglio si direbbe, la scissione; così radicale, così originaria, che, quando sia nel primo, è impossibile che l’individuo sia nel secondo, e quando è in questo, è impossibile che il raggio dell’intelletto
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penetri nella «scuritate» che lo avvolge, e la rischiari. Poiché fra questi due diversi «quando» era impossibile che se ne desse un terzo, nel quale quelli entrassero in contatto e all’altro ciascuno comunicasse quel che più propriamente è suo, a dominare, in questo quadro, era un tempo che, senza perché, a un «quando» sostituiva l’altro e a ogni istanza di unità chiudeva il varco. Tempo vale qui lo stesso che scissione. E questa era così radicale che si avrebbe sul serio torto se la si intendesse come tale che, per quanto separati e lontani, i termini attraverso i quali la si nomina fossero interpretati come delimitanti un ambito, e come quindi, in qualche modo, ricompresi in esso. Non è così, infatti. E sebbene il pensiero incontri molte difficoltà a esprimere in parole adeguate il concetto che, tuttavia, esprime in parole, deve pur dirsi che quella che, forse, Cavalcanti aveva in mente era una relazione senza relazione, una pura, se questo termine aiuti a far intendere il concetto, «irrelazione», o, come forse è meglio dire, «irrelatività» delle anime. La differenza che, stando al testo e cercando tuttavia di intenderlo in modo conforme a quel che discende dalla sua logica intrinseca, sussiste fra le due anime e, nel differenziarle, le pone in un’anomala relazione, è sul serio quella che, consapevoli del difetto dell’espressione, pur dovrebbe definirsi una differenza assoluta: quella per la quale, mentre l’anima intellettiva sussiste per sé e, come segnata dall’intelletto, non conosce la morte, l’altra, e cioè la sensitiva, può venir meno anche a causa delle conseguenze che a lei derivano dalla passione d’amore, quando questa si renda così travolgente e irresistibile che a morte, appunto, pervenga colui che la patisce (o a questa perverrebbe «se forte − la vertù fosse impedita/ la quale aita – la contraria via» [vv. 36-37], ossia se fosse colpita l’energia vitale che mantiene l’uomo sulla via opposta a quella della morte). Se è così, ed è attraverso questo ambiguo concetto della differenza assoluta che l’uomo, quale Cavalcanti sembrò concepirlo in Donna me prega, mostra il suo volto problematico, la conseguenza che già qui su fu tratta, e di nuovo, per la sua importanza, deve essere ribadita, è paradossale, ma necessaria; e si deve metterla bene in luce anche se nel testo non s’incontri la parola che la esprima. La tesi della separazione delle anime avrebbe dovuto, a rigore, escludere che, per effetto dell’amore che vi si fosse determinato, quel che avveniva nell’anima sensitiva potesse ripercuotersi negativamente su quella intellettiva fino a impedirne, o renderne incerta, l’operazione. E avrebbe altresì dovuto far intendere, a quanti a questa idea si sono invece attenuti, che non è l’amore a impedire che la luce dell’intelletto penetri nella sua tenebra e la rischiari, ma è bensì la sua perfezione, è la per-
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fezione dell’intelletto che, essendo per intero risolto in sé stessa, da sé non può uscire e di penetrare in altro gli è impedito. Gli è impedito, dunque, dalla sua stessa perfezione, e dalla separazione che, di questa, esprime, se così potesse dirsi, l’essenza. Nella sua paradossalità, era questo il concetto che, con chiarezza, Cavalcanti aveva affermato là dove dell’amore aveva detto che sull’intelletto possibile «mai non ha possanza». Era il concetto in ragione del quale, se lo avesse pensato fino in fondo e di ogni sua conseguenza avesse tenuto tenuto conto, anche dell’amore avrebbe finito per sottolineare la «perfezione» conseguente a quel che lo teneva al di qua, o al di là, dell’intelletto. Ma a questo estremo risultato della coerenza, Cavalcanti invece non giunse. Non riuscì a tenere la teoria del tutto al riparo del topos, e dal rischio della banalità a cui questo la esponeva. Scrisse infatti quel che si legge ai vv. 29-34. E ammise quel che aveva escluso. Ammise che, ospitato e chiuso nell’anima sensitiva, l’amore in qualche modo ne uscisse e, conservando il suo carattere, agisse negativamente sull’intelletto: «for di salute – giudicar mantene,/ ché la ’ntenzione − per ragione – vale:/ discerne male – in cui il vizio è amico».13 Nei confronti della tesi teorica che sembrava aver condivisa, era sul serio un’inconseguenza questa nella quale incorse. E il suo concetto fu perciò segnato da un’interna oscillazione. Che, con l’ambiguità che ne risultava, questa derivasse anche da oscillazioni e ambiguità presenti, a proposito della sensibilità e dell’intelletto, già nella fonte originaria di questi pensieri, e cioè nella psicologia aristotelica,14 è probabile. Resta comunque che, nella canzone di Cavalcanti, per un verso si dava una scissione, una differenza assoluta, delle parti; sì che a rigore, e paradossalmente, quel che avveniva in un’anima non avrebbe dovuto avere nessun riscontro nell’altra, e dell’individo umano, se si fosse preteso di esibire l’unità, si sarebbe, per coerenza, dovuto dire che, appunto, questa non era se non un’unità di parti scisse. Ma, per un altro, la scissione era un’idea alla quale, quasi che non riuscisse a sopportare il peso della sua interna rigorosità, accadeva di banalizzarsi e di essere ricompresa nella unità, più che dubbia se si fosse stato al concetto, di quel che si dice «uomo», contraddittoriamente assunto come il soggetto, non solo di quel che gli apparteneva (l’anima sensitiva), ma anche di quello (l’intelletto) che era in lui senza essere in lui perché da lui, per essenza, era separato. Quel che era stato escluso veniva perciò riammesso: con un procedimento che, se fosse stato formalizzato e rigorizzato, non avrebbe tardato a rilevare la sua intrinseca contraddittorietà. Se infatti nell’unità «uomo» le due anime avessero trovato un punto
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d’incontro, e l’una avesse potuto esercitare la sua influenza sull’altra, l’intellettiva non sarebbe stata conforme al modo in cui Cavalcanti la rappresentava, e così del pari la sensitiva. La separazione delle anime avrebbe ceduto all’unità «uomo», che, per conseguenza, non sarebbe stata l’unità di quella separazione. Nel profondo, tuttavia, nel luogo in cui la logica imponeva i suoi diritti alle parole della convenzione, il discorso riacquistava il suo senso autentico. Poiché esso esigeva che, nell’unità «uomo», entrambe le anime conservassero la natura che in Donna me prega Cavalcanti aveva assegnata a esse, la separazione aveva ragione dell’unità; che perciò si scindeva in due, riconducendo la questione al punto di partenza. In luogo dell’unità della separazione, si aveva la separazione dell’unità; che tendeva tuttavia a riacquisire l’altro carattere, e a ricomprendere in sé, ambiguamente, la persistente separazione, quando e in quanto dell’individuo e dell’inseparabilità in lui delle anime non si riusciva a eseguire fino in fondo la critica che pure era richiesta dalla teoria. Qualcosa di certo in quel che fin qui siamo venuti argomentando sembra esserci; e cioè che i «concetti» operanti nella canzone appartengono bensì all’area dell’aristotelismo nella sua versione averroistica, ma con il segno di non poche «licenze» e irregolarità. Sebbene su questo punto la canzone non rivelasse tutte le sue premesse e, anche per questo aspetto, cedesse al gusto decisamente provocatorio del trobar clus concettuale, dubbi non possono aversi sul punto che l’intelletto fosse, per Cavalcanti, una sostanza eterna; e che, separato dagli individui, fosse però in qualche modo disposto a entrarvi in contatto, comunicando a essi che, a loro volta, non avrebbero potuto essere refrattari a riceverla, la sua luce. Donde, dalla consapevolezza del problema che giaceva nel fondo, la teoria della continuatio et copulatio intellectus:15 ossia il riconoscimento della necessità che, senza perdere il suo carattere, l’intelletto uscisse in qualche modo da sé e, appunto, si «continuasse» negli individui per congiungersi ai «fantasmi», presenti in essi, astrarne gli intellegibili e delineare le forme. Che quindi l’atto dell’intendere fosse riconosciuto all’individuo in quanto individuo, e lo rendesse perciò partecipe dell’intelletto, è, al di là di ogni altra, anche grave, complicazione che di qui potesse nascere, tesi che, leggendo fra le linee, non si saprebbe negare all’autore di Donna me prega. E di qui derivavano due conseguenze che, al pari delle premesse da cui discendevano, debbono, sebbene Cavalcanti non le dichiarasse, essere rese esplicite. Se le si tiene presenti, per il tramite della
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prima si arriva infatti, e salvo errore, a meglio intendere, anche se in termini generalissimi, quel che Cavalcanti intendeva per «intelletto»; per il tramite della seconda, a fornire un possibile chiarimento alla questione relativa all’offuscamento del giudizio a opera dell’amore e al modo in cui non è impossibile che Cavalcanti vi abbia alluso. La prima è di natura più generale; e assume che la presenza dell’intelletto nell’individuo sia potenzialmente non intermittente (l’intelletto infatti è l’intelletto e, in sé, non conosce discontinuità), anche se non continuo, a causa dell’esserci o non esserci sempre dei fantasmi, potesse essere l’atto della continuatio e della copulatio. Non si può, su questo punto, andar oltre quello che si è detto; salvo che, per renderlo più e meglio determinato, deve sottolinearsi che, là dove Cavalcanti parlava dell’intelletto in termini di «consideranza» e di «perpetüal effetto» in sé risplendente, è difficile decidere se la sua attenzione andasse all’intelletto come è in sé stesso, ossia nella sua immodificabile natura, o se, ferma restando questa sua rappresentazione, non lo vedesse anche nell’atto del suo congiungersi con gli individui. Si direbbe che, fra queste due possibili rappresentazioni del medesimo intelletto, fosse la prima a essergli presente. Ma il testo è, al riguardo, così scarno, che dire di più è impossibile. − La seconda, che è non meno delicata e problematica, ma è più specifica, consente forse di spiegare in che senso, senza ricorrere all’idea, pur sempre facilior del topos, l’accidente chiamato amore intervenga nella sfera intellettuale, alterando il retto giudicare. Si può far congettura che, sebbene l’intelletto sia separato, eterno e tale che di per sé è necessariamente immune di passioni, può tuttavia accadere che gli atti che esso compie nel congiungersi con l’individuo siano sospesi e interrotti dalla presenza di qualcosa che, in astratto, e a rigore, non dovrebbe produrre questa conseguenza, e tuttavia la produce: facendo sì che l’individuo esca dalla chiara luce della ragione. La quale resta sé stessa, e la sua sospensione, tuttavia, ha luogo. Resta impassibile, perché questa è la sua natura: e non di meno riceve un impedimento, che, senza poterla toccare, la tocca e ne interrompe la continuità (che non è, beninteso, come qui su si è argomentato, la continuità del processo conoscitivo). E questo è un puro paradosso, che deve essere fatto emergere dal fondo del pensiero cavalcantiano, dalla sua parte più oscura, o a sé stessa meno trasparente, dove è possibile che anche possa trovarsi la chiave atta ad aprire lo scrigno delle difficoltà. Ad agire su ciò che non può ricevere influssi e a subire modificazioni, potrebbe intendersi che fosse l’accidente chiamato «amore». Non nel senso, alquanto banale, per la verità, e comunque escluso dalla teoria, che fosse esso a diret-
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tamente offuscarne lo splendore; ma nell’altro, che l’insorgere accidentale dell’amore producesse tali e così negative conseguenze nella stessa anima sensitiva, che i fantasmi, che anch’essi vi avevano luogo, ne risultassero o sconvolti o disordinati tanto da sottrarsi all’azione dell’intelletto; che, senza perciò che il suo terso cristallo ne fosse appannato e offuscato, era tuttavia sospeso nella sua azione, restava chiuso in sé stesso Se questo è il pensiero che agiva nel fondo, e, per vari motivi, non riusciva a trovare la via dell’esplicita espressione; se questo, come anche si potrebbe dire, era il pensiero del pensiero di Cavalcanti, sarebbe perfettamente inutile che gli amici, come potrebbe dirsi alla maniera platonica, delle parole, obiettassero che quelli delineati qui su non sono concetti che in Donna me prega abbiano trovato posto. Certo che non vi hanno trovato posto. E esplicitamente lo si è notato. Manca, nella canzone, la parola che li definisca. Manca l’intenzione. Il che non significa che, in qualche modo, indiretto e implicito, non vi siano presenti. Cosciente o no che Cavalcanti fosse stato della loro sotterranea presenza, è necessario raggiungerli, quei pensieri, là dove tuttavia si nascondono, per cercarvi la chiave atta a dischiudere il senso di paradossi destinati altrimenti a restare senza spiegazione; e tanto più in quanto a più riprese, nel corso dell’analisi a cui la canzone è stata fin qui sottoposta, quei pensieri sono emersi e si è dovuto discuterne. Si trattava di spiegare come fosse possibile che, senza poterla ricevere ed esserne modificato, l’impassibile intelletto fosse tuttavia messo fuori gioco da una passione: come fosse possibile che impassibilità e passione potessero coesistere, ἄνευ, per dirla alla greca, ἀντιφάσεως, all’interno del medesimo contesto. La spiegazione è stata trovata lungo una via non poco accidentata. Chi ne conosca una migliore, la indichi. Felici, la percorreremo insieme. Se questa linea interpretativa è stata tracciata in modo non erroneo, il pessimismo dolente e aspro che, anche in Donna me prega ha lasciato il suo segno profondo, non è tuttavia quello di un moralista. Non che, a causa dei limiti filosofici che si sono messi in rilievo, tratti moralistici non siano presenti nella canzone: non che, soggettivamente, la materia non vi avesse ricevuto quel segno. Nel suo più schietto e profondo movimento concettuale, al di là dei topoi, ossia della concessione a temi che la teoria avrebbe dovuto non accogliere nel suo quadro, in Donna me prega si dava tuttavia qualcosa che al moralismo sbarrava la via. Per come, nel suo momento filosoficamente
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più puro e rigoroso, Cavalcanti la concepiva, per un verso l’intelletto non era vulnerabile dall’amore, che infatti, nel suo ambito, non poteva essere accolto e trovare posto. Ma, per un altro, e a causa proprio della sua purezza, non dunque di un limite che fosse attribuibile alla sua potenza,16 non poteva sottometterlo alla sua legge, giudicarlo e controllarlo. Poiché, e occorre ribadirlo nel suo «perpetüal effetto», era, non «diletto», ma «consideranza», come non poteva subire influenze, così non poteva esercitarne; e per questa duplice ragione, era estraneo all’amore come questo gli era estraneo. Da questa idea, per conseguenza, il moralismo era colpito nel suo cuore più segreto. Nel quadro scientifico, o, per dir meglio, «dimostrativo», nel quale Cavalcanti aveva prospettata la sua questione, la sua presenza sarebbe stata inconcepibile. Il punto culminante, il punto concettualmente più forte, era perciò anche il più polemico. E riguardava l’ineluttabilità che, in quanto accidente, l’amore rivelava; l’ineluttabilità, che non era quella dell’ananke, di ciò che è necessario che avvenga e non può non avvenire, ma quella invece che, senza determinarlo ἀνανχαίως, si rivelava tuttavia interna al συμβεβηκός; che, una volta apparso sull’orizzonte dell’accadere, era irresistibile, e non c’era riparo che bastasse a proteggerne e a mettere in salvo chi si fosse trovato a essere esposto al suo micidiale potere. Se ora alla luce di quanto si è detto, si chiedesse perché mai Cavalcanti s’impegnasse nell’ardua scrittura di questa canzone e a essa conferisse un così difficile, e aristocratico, contenuto filosofico, la risposta più ovvia sarebbe che di scriverla era stato richiesto, anzi «pregato»; e che, accogliendo l’invito, l’aveva scritta come si sentiva e sapeva. L’aveva scritta in quella forma filosofica, e non senza corredarla di forti accenti polemici, non solo per segnare netta la distanza esistente fra la qualità della domanda17 che gli era stata rivolta e la risposta che egli dava a essa, ma anche perché era forse sua opinione che in quella materia troppo la «convenzione» fosse andata innanzi al «natural dimostramento» e che la questione dovesse perciò essere ricondotta alle regole di questo. E ci sarà stato anche dell’altro.18 Ma se questa fu la ragione essenziale, non si vede proprio perché dichiararla e riconoscerla significherebbe sottrarre la canzone a, come è stato detto, una «sincera istanza di pensiero».19 Proprio il contrario, in realtà, sembrerebbe di dover dire; senza nemmeno escludere che Cavalcanti scrivesse la sua canzone per offrire al lettore degli altri suoi versi, che tutti, ma al di fuori del «natural dimostramento», riguardavano quel tema, una sorta di chiave
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filosofica, e insomma un criterio che consentisse di penetrare più a fondo nel loro significato e di indicarne il carattere peculiare, tenendolo appunto distinto da quello che avesse potuto trarsi dai componimenti di altri poeti. La scrisse anche per reagire all’indirizzo che Dante aveva impresso, o stava imprimendo, al suo pensiero, del quale egli poteva ben conoscere la natura anche nel caso che la Vita nuova ancora non fosse stata composta, e non gli fosse perciò stata nota per diretta lettura? Data la vicinanza dei due amici, questa ipotesi non può essere esclusa, essendo d’altra parte assai meno impegnativa dell’altra, che concerne la questione della precedenza del libello dantesco alla canzone, o di questa, invece, rispetto a quello. Ed è un fatto, comunque, che, quando, prescindendo dalle date, le si osservi nel loro insieme, le tesi che Cavalcanti e Dante esposero sull’amore costituiscono il documento delle divergenti vie sulle quali essi procedettero, in consapevole, ben presto, opposizione. A qualunque data appartengano, è un fatto che, se le si paragona l’una all’altra, la Vita nuova dice il contrario di Donna me prega, e questa il contrario della Vita nuova.20 È un fatto che la distanza che le separa, e, obiettivamente, le contrappone, salta agli occhi, e non potrebbe da nessuno essere negata. È la distanza, e la contrapposizione, che Dante poi registrò, in sede teorica, nei canti centrali del Purgatorio, il decimosettimo e il decimottavo; che, letti con l’occhio rivolto al decimo dell’Inferno, conferiscono un significato più profondo al famoso dialogo intrecciato con Cavalcante de’ Cavalcanti, il padre di Guido. Detto questo, e ribadito il fatto, ovvio, della differenza e dell’opposizione, non sarebbe perciò legittimo ridurre la concezione che Cavalcanti ebbe dell’amore a una sorta di naturalismo «tecnico/medico»,21 dal quale quella emergerebbe con il carattere di un deciso irrazionalismo, presente in ogni aspetto della vita. Malgrado la crudezza, a tratti persino compiaciuta, della rappresentazione che in Donna me prega Cavalcanti dette dell’amore; malgrado i toni scuri e tetri con cui, per questa parte, la canzone descrive l’esistenza umana, non deve dimenticarsi che se essa è, come per certi tratti certamente è, un documento di pensiero averroistico, allora escludere dalla prospettiva che vi è delineata l’intelletto, sarebbe assurdo. Se lo si escludesse, e il suo essere separato e eterno fosse fatto coincidere con il suo «non esserci» nella trama dell’esistenza: se perciò, alla radice, altresì si escludesse il suo «continuarvisi», alla coerenza strutturale del quadro si infliggerebbe un colpo mortale. E proprio il punto critico e problematico
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della dottrina ci si lascerebbe sfuggire. È ben vero infatti, e deve tenervisi fermo, che dall’amore all’intelletto non si dà possibilità di passaggio, e che esclusa è perciò la possibilità che la canzone riceva interpretazioni neoplatonicamente atteggiate. Ma non meno vero è che, se l’amore è un accidente, la sua è pur sempre una presenza saltuaria, che non costituisce perciò l’unica tonalità dell’esistenza. Ancora. È vero che se l’amore non è onnipresente nella trama dell’esistenza, nemmeno lo è l’intelletto, che non in modo continuo trae gli intelligibili dai fantasmi che sono negli individui. Ma, appunto, alla discontinuità dell’amore e dell’intelletto occorre concedere identico spazio: pena, altrimenti l’incomprensione, o, addirittura, il fraintendimento della natura aristotelico/averroistica del pensiero esposto nella canzone, delle sue intrinseche, obiettive, difficoltà. Se è così, deve dunque considerarsi che, per ciò stesso che la concezione svolta e esposta in Donna me prega rinvia a un quadro nel quale anche l’intelletto è, nel modo che s’è visto, implicato e considerato presente, fare dell’amore il signore esclusivo e tirannico dell’esistenza sarebbe, in primo luogo, una banalità; o, quanto meno, una semplificazione, se, come già si è notato, quella concezione fosse ridotta alla descrizione di una patologia prospettata nei termini della relativa scienza, assunta, d’altra parte, come criterio universale per la comprensione dell’esistenza umana. Non è forse vero che, se l’amore è un accidente, di esso non può esserci, aristotelicamente parlando, episteme? E che, se in questa direzione si procedesse, proprio in senso contrario alla logica della dottrina si procederebbe? Insomma, altro è dire che, per la cruda visione che Cavalcanti ne ebbe, l’amore è una sorta di malattia (e incurabile, occorre aggiungere, una volta che si sia comunque manifestata). Altro è estendere tale patologia all’intera realtà sensibile che (e a questo non sempre si è badato), se a questo carattere, che pure è presente nel testo, fosse richiamata e ridotta, sarebbe essa, allora, assurdamente, l’accidente, e l’amore non avrebbe alcuna possibilità di distinguersene, e distinguervisi, in virtù di un suo tratto specifico. Del che, tanto più e tanto meglio conviene che ci si renda conto, in quanto alla ragione per la quale l’accidente cavalcantiano non riesce a essere conforme alla norma aristotelica, non è proprio il caso di aggiungerne un’altra, che presente nel testo non è, e non nasce se non dal suo fraintendimento. Occorre quindi fare attenzione a non confondere la parte con il tutto, e a non elevare quel che vale per la parte al grado di un’onnicomprensiva
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filosofia o ideologia. Occorre fare attenzione a non lasciarsi sfuggire una movenza interna di questa canzone, che, se fosse colta, forse ne rivelerebbe il significato ultimo. Questo significato comincia a emergere se si riflette sul punto che, proprio perché era un averroista, o un aristotelico non estraneo a suggestioni derivanti da quella tradizione di pensiero, non poteva accadere che Cavalcanti non facesse conto della «felicità», e, interpretandola come coincidente con l’atto dell’intendere intellettuale, assumesse come possibile la sua negazione. Se è così, è forse giunto il momento di dire qualcosa della Quaestio disputata de felicitate che Jacopo da Pistoia22 compose e dedicò all’autore di Donna me prega, del quale, con buoni argomenti, P. O. Kristeller suggerì e ritenne che fosse amico.23 Di questo personaggio che, come si deduce dalla lettura del testo, certamente era un averroista, si sa soltanto che, oltre che autore di questo trattatello, fu forse magister artium a Bologna e che lì, forse, la sua Quaestio fu discussa. Non si sa di più; neppure se la sua operetta avesse preceduta o seguìta la composizione di Donna me prega, se ne avesse condizionata la concezione o fosse stata scritta per esprimere il consenso che la lettura che Jacopo ne aveva fatta aveva suscitato in lui. Ebbene, se si legge il suo testo, subito s’incontra il concetto secondo cui la felicità, quella vera e autentica, non può consistere in una qualsiasi delle dilettazioni sensibili: non, per esempio, «in usu venereorum nec in usu cibi at potus»,24 e, meno che mai, nell’amore, quia felicitas totaliter quietat appetitum. Sed amare, nisi habeatur res amata, non totaliter quietat appetitus, et eciam res amata videtur esse magis desiderata quam ipsum amare, et per consequens amare non est ultimus finis. Manifestum est igitur quod felicitas non consistit in ipso amare.25
La felicità, la vera felicità, nient’altro era per lui «quam continue sicut possibile est homini intelligere substantias separatas et precipue ipsum Deum».26 Laddove, per Cavalcanti, sarà consistita nell’esercizio che l’inteletto faceva di sé stesso; perché, certo, in Donna me prega, egli non accennò in nessun modo all’intelligere substantias separatas et precipue Deum, sia perché la specificità del tema non gli avrebbe comunque consentito questo impegnativo svolgimento, sia perché, se si deve credere alla voce del suo ateismo, non era Dio, per lui, l’oggetto precipuo dell’intendere. Ragionando tuttavia lui pure da averroista, anche su altro, forse, avrebbe dissentito dal magister autore di quel trattatello: e cioè sul tempo e sulla durata concessi all’uomo nella e per la contemplazione del divino, la cui
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continuità poteva, come Dante avrebbe poi detto in Paradiso XXIX 79, essere, a differenza di quel che accadeva per gli angeli, interrotta dall’«intercessione» di «novo obietto», e, a giudizio di lui, Cavalcanti, forse dallo sconvolgimento arrecato dall’accidente chiamato «amore» nei «fantasmi» che l’intelletto non riusciva a incontrare e a trarne gli intelligibili. La questione che la canzone dibatteva, senza che, come si è visto, per questa parte Cavalcanti riuscisse a mantenersi sul piano della coerenza, era quella dello spazio che l’amore concedeva, o piuttosto non concedeva, all’attività intellettuale, alla pura contemplazione delle forme. Ma anche era, come si è detto e si deve ripetere, quella relativa all’impossibilità che dall’amore, e perciò dalla sua accidentalità, si salisse alla superiore sfera dell’intelletto. Che non era, naturalmente, negata nella sua realtà, sebbene, con altrettanta nettezza, lo sarebbe stata quando la si fosse prospettata come un ideale e una mèta conseguibili da ciò che si trovava involto nella parte inferiore dell’anima, − nell’anima sensitiva. A tornare in campo era quindi la questione che qui è stata ritratta come quella concernente la scissione che rende incomunicanti le parti dell’anima, − le parti che pure, per un altro verso, proprio in quanto tali, richiamavano e presupponevano l’unità che, in questo atto, rendevano vana. E questo, si deve ribadirlo, è il punto sul quale l’attenzione deve, in particolare, tornare a concentrarsi. Non solo perché, attraverso sé stesso, sia rivelativo della crisi alla quale, anche in questo contesto aristotelico/averroistico, si trovava a essere esposta l’istanza metafisica della relazione che, nel segno dell’unità, dovrebbe stringere, l’uno all’altro, il piano delle forme e quello delle cose sensibili. Ma anche perché è come se la crisi che in tal modo si determinava nella ricercata, e non trovata, unità, fosse polemicamente rivendicata da Cavalcanti come il punto forte della teoria che, sdegnando le facili consolazioni, aveva opposta a quanti parlavano dell’amore senza ben sapere che cosa fosse. Marsilio Ficino ebbe pertanto, e anche non ebbe, torto, quando, discutendo nel De amore, ossia nel commento che dedicò al Simposio platonico, la canzone di Cavalcanti, scrisse che sicut ex phantasie imagine a corpore sumpta, in appetitu sensus corporis dedito, amor ad sensum proclivis exoritur, ita ex hac mentis specie rationeque comuni, tamquam a corpore remotissima, amor alius in voluntate nascitur a commercio corporis alienissimus. Illum in voluptate, hunc in contemplatione locavit. Illum circa particolarem corporis unius formam revolvi putat, hunc circa universalem totius humani generis pulchritudinem.27
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E aggiunse che «hos utique amores sibi ipsis in homine repugnare et illum deorsum ad ferinam et voluptuosam depellere, hunc sursum ad angelicam vitam contemplativamque attolere».28 A parte il tono edificante, che a una canzone come questa non avrebbe potuto convenire di meno, deve riconoscersi che Ficino non ebbe torto là dove di un amore rivolto a celebrare universalem totius humani generis pulchritudinem fece l’opposto di quello risolvente sé stesso nelle cose del corpo. Non ebbe torto se, posta la contrapposizione, il suo intento fu di mettere in chiaro che l’amore di cui Cavalcanti trattava nella canzone era quest’ultimo, non il primo, del quale non trattava affatto. Ebbe torto, invece, quando lasciò intendere che, non solo dall’amore carnale delineato nella canzone potesse salirsi a quello spirituale consistente nella contemplazione della vita angelica, ma che, per Cavalcanti, quest’ultimo potesse esser detto «amore», e con questo termine potesse essere ritratto l’intelletto, così austeramente risolto nella «consideranza» e nel suo «perpetüal effetto». Tornò tuttavia a non aver torto quando, sia pure per questa via obliqua e sul filo del fraintendimento, determinato da evidenti preoccupazioni religiose, richiamò l’attenzione sull’intelletto e sulla sua centralità per la comprensione autentica dell’«intero»; che tuttavia gli sfuggì, perché i pregiudizi tornarono a fargli velo, e, invece di far battere l’accento sulla scissione, che rendeva impossibile l’alternativa dei due amori, e il passaggio dall’uno all’altro, lo fece cadere su quella che, a suo parere, con la connessa libertà di scelta, essi presentavano, l’uno rispetto all’altro, in modo netto. Amorem preterea geminum illum celestem scilicet et vulgarem quis in eius verbis non videat? Originem quin etiam illius primam in divinorum, secundam in corpore collocat pulhritudine. Solem namque Dei lucem, radium corporum formam intelligit. Finem postremo suum vult eiusdem principiis respondere, dum alios usque ad formam corporis, alios usque ad dei spetiem, amoris provehit instigatio.29
Dell’intelletto, in altri termini, Ficino, per un verso, comprese l’importanza, per un altro fraintese il significato. Parlò di due amori. E il suo discorso finì col metter capo alla banalità della loro contrapposizione assiologia.30 Allo stesso modo, ma per diverse ragioni, non riuscì a scendere verso il fondo della questione, Giovanni Pico nel commento che dedicò alla canzone scritta da Girolamo Benivieni secondo la «mente e opinione dei platonici».31 Nelle linee dedicate a Cavalcanti, fin dall’inizio Pico chia-
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rì che, come quella del Benivieni riguardava l’amore «celeste», di quello volgare trattava invece Donna me prega; sì che le due canzoni erano agli antipodi, e impossibile era un’interpretazione della seconda nei termini della prima. Che in questo assunto Pico avesse ragione, è evidente. Ebbe ragione nel vietare che, alla maniera del Ficino, si ritenesse che a porre l’alternativa dei due amori fosse stato, in Donna me prega, colui che l’aveva scritta. Ebbe ragione nell’impedire che la sua intenzione fosse in tal modo per intero stravolta. Ma non ne ebbe affatto quando l’alternativa che Ficino aveva cercato di ricondurre all’interno della canzone cavalcantiana, stabilì fra questa, riguardante l’amore «volgare», e quella del Benivieni, platonicamente diretta a descrivere l’amore «celeste». Non ebbe ragione, in questo caso, perché, dopo aver escluso che in Donna me prega si desse uno spazio nel quale, accanto all’amore «volgare» potesse trovar posto quello «celeste», non si accorse che, così argomentando, proprio di ciò che escludeva faceva il fondamento di ciò che escludeva: dal momento che, ed è evidente, se l’amore «volgare» era inteso da lui come il contrario di quello «celeste», quest’ultimo non poteva non esser presente nel quadro in cui di continuo, per esserne escluso, doveva, sia pure in modo implicito, essere richiamato. Insomma, e per farla breve, Pico non s’avvide che l’amore di cui Cavalcanti aveva trattato nella sua ardua canzone, era, non l’amore volgare, ma, semplicemente l’amore. Non è questa, certo, la sede nella quale sia possibile seguire, nelle sue varie evoluzioni, il discorso di Pico; per non parlare, naturalmente, di quello di Ficino. Documento, l’uno e l’altro, e sia pure in modo diverso, di moralistica incomprensione; che sarebbe tuttavia, anche se con segno mutato, ribadita, se, capovolgendo l’interpretazione spiritualistica e platonizzante, nel poeta di Donna me prega si indicasse il rivendicatore del senso e, perciò, il materialistico testimone di un pensiero rivoluzionario. In realtà, non è certo per indulgenza nei confronti delle interpretazioni spiritualistiche, che questa tesi non può essere accolta.32 Chi, in un modo o in un altro, teorizzi o, comunque, assuma un atteggiamento rivoluzionario, non può non presupporre che il realizzarsi di ciò che è da lui auspicato significhi, sia pure in ambiti definiti, la fine della schiavitù e l’inizio della liberazione umana. Cavalcanti riteneva che dalla prigione cieca dell’amore, una volta che, per accidens, vi si fosse entrati, uscire, ed evadere verso la luce fosse, strutturalmente, impossibile.
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Note
1. Cfr., per questo, Inglese, L’intelletto e l’amore, pp. 199-225, a cui rinvio di nuovo, anche per le ricche indicazioni bibliografiche. A riscontro della consapevolezza logico/filosofica di Cavalcanti, rivendicata contro Guittone (Ibidem, pp. 4-5) e la sua presuntuosa imperizia, vorrei, in particolar modo, ribadire l’importanza del sonetto (diretto, appunto, contro di lui) Da più a uno face sollegismo, che, come De Robertis, Rime di Cavalcanti, p. 184, ha ben notato, si riferisce alla canzone Poi male tutto è nulla (la si veda in Guittone d’Arezzo, Rime, a cura di F. Egidi, Bari 1940, pp. 80-83), criticandola, si potrebbe dire, per avere, nella questione concernente Dio e la vita dopo la morte, anteposta l’auctoritas al «natural dimostramento». Ma si vedano ora i saggi di Z.G. Barański, Guido Cavalcanti and his first Readers, in Guido Cavalcanti. Acts of the international Symposium for the seventh Centennial of his Death, a cura di M.L. Ardizzone, Fiesole 2003, pp. 149-175, e quindi Guido Cavalcanti auctoritas, in Guido Cavalcanti laico, pp. 163-180. Non deve credersi, per altro, che la grande canzone meritasse al suo autore soltanto la fama di cui si dice qui. Altri la considerarono con minore benevolenza, anche se non tutti con la malevolenza di N. Tommaseo, La Commedia di Dante Alighieri col commento di N.Tommaseo, Stabil. Tipografico di G. Cioffi, Napoli s.a., p. 125, che la definì «guazzabuglio peggio che prosaico» (vero è che, a parer suo, Cavalcanti non aveva curato «l’eleganza dello stile e lo studio degli antichi […] sebbene in alcune ballate il dire sia di tutta freschezza». 2. Sono queste, direi, le cautele da imporre alla recisa affermazione che, dell’averroismo di Guido, fece il Nardi. Ne deriva la necessità, non certo del rifiuto della tesi, o, peggio dell’accettazione dell’altra, relativa al tomismo, sostenuta da uno studioso comunque benemerito, e rispettabile, come il Favati, quanto piuttosto della sua più specifica determinazione nel quadro di un pensiero che non fu, in alcuni passaggi e nell’uso di alcuni concetti, rigoroso e coerente. Sulla polemica che divise i due studiosi mi sembra perciò generico il giudizio di G. Petrocchi, La Toscana nel Duecento, in Letteratura italiana. Storia e geografia, I, L’età medievale, Torino 1987, p. 210, che non riuscì infatti ad ammorbidire sul serio le rispettive «rigidezze», e finì per inclinare, del resto a ragione, piuttosto verso Nardi che non verso Favati. 3. In O donna mia, non vedestù colui (in De Robertis, Rime di Cavalcanti, pp. 69-70). 4. In Veder poteste, quando v’incontrai (in De Robertis, Rime di Cavalcanti, p. 71) 5. Cfr., da ultimo, R. Mercuri, Il poeta della morte, in «Critica del testo», 4/1 (2001), pp. 173-197, che attribuisce a Contini la definizione senza, per altro, fornire il riscontro. Si veda comunque Contini, Un’idea di Dante, pp. 144, 152. 6. De Robertis, Rime di Cavalcanti, p. 124. 7. Rinvio, per le interpretazioni, a Savona, Per un commento, pp. 71-76, che, per suo conto, propone che, per «gente di valor» (v. 49) debba intendersi «quelli che non rifuggono per temere dalle grandi imprese [….], ciè i magnanimi e i megalopsichoi»; e rende plausibile un’interpretazione che altrimenti non lo sarebbe, aggiungendo e ribadendo che «Guido […] non approva l’amante, e la sua concezione dell’amore è una concezione negativa».
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8. Non però per la ragione addotta da Marti, Storia dello Stilnovo, II, p. 387, non perché, sebbene ordinata, la esposizione dei concetti sia, in Donna me prega, condotta e quasi sospesa «fra letteratura e filosofia, ma più con animo di letterato, che con intenzioni e propositi di filosofo», e,«malgrado l’impegno dimostrativo», essa resti «sempre la canzone di un poeta». Non si tratta di «sospensione», e dell’attenuazione dei concetti che ne consegue. Il punto è se i concetti che Cavalcanti espose fossero, nella sua mente, in sé stessi coerenti, cioè assunti nel loro necessario rigore, o se, per non esser tali, la letteratura e i topoi avessero, in modo non positivo, agito su di essi. 9. Per la teoria dei «fantasmi», o «intentiones imaginatae», come Sigieri, per esempio, le chiamava, cfr. qui su, cap. 2, n. 18. 10. Sulla questione, in Averroè, cfr. da ultimo, M. Geoffroy, Averroès sur l’intellect comme cause agente et cause formelle, et la questione de la “jonction”, in Averroès et les Averroïsmes juif et latin, Actes de Colloque international, Paris, 16-18 juin 2005, Turnhout 2007, pp. 77-110. 11. Sulla disputa, basti il rinvio a F. van Steenberghen, La filosofia nel XIII secolo, tr. it., Milano 1972, pp. 386-411, e, per le proposizioni condannate, Hissette, Enquête sur les 219 articles, pp. 30-32. È recentissimo il libro di S. Landucci, La doppia verità. Conflitti di ragione e fede tra Medioevo e prima modernità, Milano 2006. 12. Donna me prega, 32-34. 13. A proposito di «for di salute – giudicar mantene/ ché la ’ntenzione – per ragione vale» (vv. 32-33), potrebbe forse intendersi, non senza qualche difficoltà, non che l’amore impedisca il «giudicare», intervenendo negativamente su questa facoltà e, appunto, facendosi il soggetto di questo impedimento, non che l’amore offuschi il giudizio, ma che, nella passione d’amore, chi la subisce si mantenga, sia, «fuori» del giudicare, che resta invece intatto presso di sé. Questa interpretazione, che tende a salvare la coerenza della tesi relativa alla separazione delle anime, e l’intangibilità dell’intelletto da parte dell’amore, affermata con forza aivv. 24-28, è, d’altra parte, messa in difficoltà dal v. 34: «discene male –in cu è vizio amico», nel quale il topos dell’amore che offusca e intorbida l’intelletto s’impone nettamente sulla teoria. Non è perciò condivisibile quel che si legge in Fenzi, La canzone d’amore, pp. 49-50, dove si parla dell’amore che «impedisce che quella capacità insita nell’anima sensitiva si congiunga a ciò che propriamente la “salva”, il che non pare possa esser altro che l’intelletto possibile considerato in chiave averroistica». Molto meglio, ibidem, p. 51. 14. La questione alla quale accenno qui su è estremamente complessa, e richiederebbe l’analisi puntuale di questo che è fra i testi più controversi della filosofia occidentale. Ma poiché si è accennato alle sue ambiguità, si veda, per es., A 4, 408 b 18-29, dove Aristotele cominciò dicendo che ὁ […] νοῦς ἔοικεν ἐγγίνεσθαι οὐσία τις οὖσα, καὶ οὐ φθείρεσθαι, che l’intelletto sopraggiunge come una qualche sostanza, e che non si corrompe. Ma poi soggiunse che la sua corruzione potrebbe avvenire a causa dell’indebolimento prodotto dalla vecchiaia, se non si vedesse che a questa si giunge per effetto del corpo, non dell’anima. Dopo di che, in un periodo per certi aspetti enigmatico, egli aggiunse: καὶ τὸ νοεῖν δὴ καὶ τὸ θεωρεῖν μαραίνεται ἄλλου τινὸς ἔσω φθειρομένου, αὐτὸ δὲ ἀπαθές ἐστιν. E osservò che pensare (τὸ διανοεῖσθαι) amare (φιλεῖν) odiare (μισεῖν) sono proprietà (πάθη) non dell’intelletto, ma del soggetto che lo posside in quanto lo possiede (τοῦ ἔχοντος ἐκεῖνο, ᾗ ἐκεῖνο ἐχει): con la conseguenza che quando quel soggetto si corrompe, l’intelletto non ricorda e
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non ama, perché queste erano affezioni del composto (τοῦ κοινοῦ) che si è dissolto. ὁ δὲ νοῦς ἵσως θειότερόν τι καὶ ἀπαθές ἐστιν. «L’intelletto per contro è forse qualcosa di più
divino ed è impassibile». È notevole che Aristotele neghi all’intelletto che sta nel composto che si è dissolto la capacità di ricordare e di amare; ma sul pensare taccia. 15. Cfr., al riguardo, Averrois Commentarium magnum, ed. cit., pp. 404-405, 500-502, passim. 16. Quella relativa all’«impotenza» della ragione è idea che ricorre spesso, e in varie forme, nella critica concernente Donna me prega; e se n’è dato qualche saggio: cfr., per un esempio, T. Barolini, Il miglior fabbro. Dante e i poeti della Commedia, tr. it., Torino 1993, pp. 119-120, che parla dell’amore che «ottenebra la ragione» (p. 120), senza porsi le questioni che l’impianto della canzone avrebbe richiesto che fossero trattate. 17. Cfr. cap. 2. n. 16. L’atteggiamento, non solo aristocratico, ma sprezzante, dell’esordio («ed a presente – conoscente – chero,/ perch’io non spero – ch’om di basso core/ a tal ragione porti canoscenza»), sarebbe tanto più degno di nota se fosse incontrovertibilmente provato che l’oggetto polemico era qui costituito dalla Vita nuova. 18. Brugnolo, Cavalcanti “cortese”, p. 166, ha osservato che Donna me prega sarebbe stata scritta in ogni caso, perché era tutta la produzione lirica di Cavalcanti che convergeva in «quella direzione»; e a p. 165 aveva rilevato che interpretarla alla luce di quella è «assolutamente indispensabile», dal momento che ne costituisce la «sintesi e il coronamento, talora, in parte, la palinodia». In linea generale, concordo: anche se non riesco bene a capire come la sintesi e il coronamento possano, sia pure in parte, contenere, una palinodia: a meno che egli non intendesse che in Donna me prega Cavalcanti avesse «rigorizzato» quanto di «convenzionale» si trovasse negli altri suoi componimenti, trasferendolo, appunto, nella dimensione del «natural dimostramento». Ma su questo occorrerebbe discutere a parte. 19. Contini, Poeti del Duecento, II/2, p. 522. 20. Per quest’ultima questione, che di gran lunga è la più importante, non trovo che vi siano elementi di fatto che valgano a deciderla in un senso o nell’altro. 21. Fenzi, La canzone d’amore, p. 51. 22. Il testo fu segnalato da M. Grabmann, Der lateinische Αverroismus des 13. Jahrhunderts und seine Stellung zur christlichen Weltanschauung. Mitteilungen aus ungedruckten Ethikkomentaren, in «Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissenschaften. Philosophisch-Historische Abteilung», 2 (1931), p. 55. Il testo fu pubblicato da P.O. Kristeller, A philosophical Treatise from Bologna dedicated to Guido Cavalcanti. Magister Jacobus de Pistorio and his “Quaestio de felicitate”, in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, I, Firenze 1955, pp. 442-463. Se ne veda la riedizione critica in E. Zavattero, La «quaestio de felicitate» di Giacomo da Pistoia. Un tentativo di interpretazione alla luce di una nuova edizione critica del testo, in Le felicità nel Medioevo, Atti del Convegno della Società italiana per lo studio del pensiero medievale, Milano, 12-13 settembre 2003, Louvain-La Neuve 2005, pp. 395-409. 23. Kristeller, A philosophical Treatise, p. 429. E cfr. Nardi, L’amore e i medici medievali, p. 242. 24. Kristeller, A philosophical Treatise, p. 447. 25. Ibidem, p. 449.
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26. Ibidem, p. 452. 27. Cfr. M. Ficino, El libro dell’amore, a cura di S. Niccoli, Firenze l997, p. 178. 28. Ibidem. 29. Ibidem, p. 179. 30. Sulla filosofia ficiniana dell’amore, la cui analisi esula dai limiti di questa ricerca, cfr. P.O. Kristeller, Il pensiero filosofico di Marsilio Ficino, Firenze 1953, pp. 308 ss. 31. Cito il testo da G. Pico della Mirandola, De hominis dignitate, Heptaplus, de ente et uno, e scritti vari, ed. Garin, Firenze 1942, pp. 535-538. 32. La critica delle interpretazioni spiritualistiche e misticizzanti (Salvadori, Casella) in Nardi, Dante e la cultura medievale, pp. 83-87, 111-124.
4. Intermezzo
Se lo si studia sui testi, il rapporto che Dante intrattenne con Cavalcanti si rivela ricco di implicazioni, suggestioni, sfumature. E una cosa, almeno, appare chiara: che non fu un rapporto facile. Profonda certamente, si può ben dirlo, dovette essere l’impressione che, quando la lesse e poi via via che tornava a leggerla, Donna me prega suscitò nel suo animo; nel quale scavò ben più a fondo di quanto non possa risultare dall’accenno, puramente tecnico, che a questa canzone egli dedicò nel De vulgari eloquentia, II xii 8.1 In realtà, com’è stato ben detto, quello che Dante aveva stabilito con Cavalcanti e la sua opera fu un rapporto durato tutta la vita; e, nella sostanza, non poco conflittuale. A Cavalcanti cominciò infatti presto a contrapporsi; e, nel contrapporglisi, rese testimonianza di quanto forte fosse stato, e fosse, l’influsso che aveva ricevuto da lui.2 Gli fu vicino non solo in certe movenze del suo poetare giovanile. Ma anche nelle liriche, nelle quali con più forza fu messa in scena la tragedia dell’amore. Non solo, e non tanto, nella così detta «montanina», che, per sé stessa e per la lettera indirizzata a Moroello Malaspina che l’accompagna, richiede un discorso a parte.3 Ma, per esempio, a cominciare da Così nel mio parlar vogl’esser aspro, da Io son venuto al punto della rota4 e dalle altre rime «petrose», per continuare con I’mi son pargoletta e Io sento sì d’amor la gran possanza, nelle canzoni nelle quali la rappresentazione dell’amore assunse i toni e i caratteri della più esplicita drammaticità. Drammaticissimo, per esempio, è il conflitto descritto nel primo dei testi citati qui su: una canzone nella quale a ragione altri ha indicato «un cambio più generale di materia e di stile»,5 che conduce alle soglie della Commedia. Drammaticissimo, per la violenza delle passioni che vi sono rappresentate, per gli «atti» di quella «bella pietra/ la qual ognora impietra/ maggior durezza e più natura cruda,/
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e veste sua persona d’un diaspro/ tal che per lui, o perch’ella s’arretra,/ non esce di faretra/ saetta che già mai la colga ignuda» (vv. 2-8), – drammaticissimo è l’esordio della canzone. Drammaticissima la rappresentazione dell’«angosciosa e dispietata lima/ che sordamente la mia vita scema», con quella domanda: «perché non ti ritemi/ sì di rodermi il cuore a scorza a scorza/ com’io di dire altrui chi ti dà forza?» (vv. 22-26). Drammaticissima la rappresentazione della «Morte, ch’ogni senso/ co· li denti d’Amor già mi manduca;/ ciò è che ’l pensier bruca/ la lor vertù, sì che n’allenta l’opra./ E’ m’ha percosso in terra e stammi sopra/ con quella spada ond’elli uccise Dido/ Amore, a cu’ io grido/ “merzè!”, chiamando, e umilmente il priego/ ed e’ d’ogni merzé par messo al niego» (vv. 31-39). Deve però anche dirsi, perché non troppo incompleto risulti il quadro che stiamo tracciando, che la «distruzione» dell’amante, intrapresa dalla donna «pietra» non va senza che a insorgere di lì sia talvolta un vero e proprio contrasto; senza che dal cuore del vinto non si venga svolgendo il tema antagonistico della ribellione e della vendetta. Un tema che risuona infatti con forza quasi stridente nella canzone: «così vedess’io lui fender per mezzo/ il cuore a la crudele che ’l mio squatra,/ poi non mi sarebbe atra/ la morte, ov’io per sua bellezza corro; ché tanto dà nel sol quanto nel rezzo/ questa scherana micidiale e latra» (vv. 53-58). Un tema che appartiene a Dante ben più che a Cavalcanti, e lo pone, per questa parte, in contrasto con lui. Contrasto parziale, per altro, e che talvolta sembra addirittura risolversi in concordanza tematica: come nel finale di Io son venuo al punto della rota, vv. 71-72: «saranne quello ch’è d’un uom di marmo,/ se ’n pargoletta fia per cuore un marmo» che richiama Cavalcanti, Tu m’hai sì piena di dolor la mente, vv. 9-11: «i’ vo come colui ch’è fuor di vita/ che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia/ fatto di rame o di pietra o di legno».6 Se perciò, per un verso, la materia si atteggiava qui in modi non lontani da quelli cavalcantiani della cupa necessità dell’amore, per un altro, a causa del violento spirito di competizione e di vendetta che anima il testo dantesco, quella subiva in sé un’alterazione profonda. E la cosa va sottolineata. Non perché si abbia la pretesa di arrecare un qualsiasi contributo all’idea di Dante come «torre ferma che non crolla/ già mai la cima per soffiar di venti»,7 – non per questo si dà rilievo al carattere «dialettico» e antagonistico di questa sua rappresentazione dell’amore. Ma perché tale carattere esiste, e si avrebbe torto perciò se non lo si notasse solo perché, in certi casi, lo spirito antagonistico sembri soccombere di fronte a
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una maggior forza. L’amore era qui concepito come una forza distruttiva che, mentre la si subisce, anche, tuttavia, dev’essere contrastata; come una forza che, malgrado tutto quel che era inevitabile riconoscerle, non era, a differenza di quel che di frequente, o sempre, accadeva in Cavalcanti, tale che la personalità che la pativa si disintegrasse, si dividesse nelle sue parti e, derelitte, queste se ne andassero per il mondo. Non che il sonetto delle «tristi penne isbigottite», Dante non avrebbe mai potuto scrivere la canzone Io non pensava che lo cor giammai, dove a predominare è il tema degli «spiriti fuggiti del mio core» (v. 48), «che vanno soli, senza compagnia,/ e son pien’ di paura» e «in figura/ d’un che si more sbigottitamente» (vv. 5152, 55-56). E nemmeno forse avrebbe potuto scrivere, in A me stesso di me pietate viene, versi come «tutto mi struggo, perch’io sento bene/ che d’ogni angoscia la mia vita è peggio» (vv. 5-6). Non suo, ma, in sommo grado, cavalcantiano, fu il tema della disgregazione dell’io, della separazione del sé da sé, della «figura» che, come nel sonetto Voi che per li occhi mi passaste ’l core, resta come una morta spoglia «en signoria» di Amore, dopo che, per l’assalto di quest’ultimo, i «deboletti spiriti van via», e soltanto si sente «voce alquanta, che parla dolore». Non suo, quanto invece fu proprio di Cavalcanti, il tema dolente delle parole «disfatte e paurose» di colui che rimane «in tant’aversitate/ che, qual mira de fòre, vede la Morte sotto» il suo «colore»; o quello che sta al centro della celebre ballata Perch’i’ no spero di tornar giammai8 e che culmina nei versi famosi: «tu senti, ballatella, che la morte/ mi stringe sì che vita m’abbandona;/ e senti come ’l cor si sbatte forte/ per quel che ciascun spirito ragiona./ Tanto è distrutta già la mia persona,/ ch’i’ non posso soffrire:/ se tu mi vuoi servire,/ mena l’anima teco (molto di ciò ti preco)/ quando uscirà dal core» (vv. 16-26), e in questi altri: «deh, ballatella, dille sospirando,/ quando le se’ presente: ‘questa vostra servente/ vien per istar con voi,/ partita da colui/ che fu servo d’Amore’» (31-36). In realtà, per quante assonanze possano rinvenirsi fra i modi danteschi e quelli cavalcantiani, resta che nei primi può trovarsi bensì disperazione, non però desolazione: e altro è il farsi «pietra» dell’anima che, nel segno della più cruda sofferenza, ripete in sé i modi crudeli della donna, altro il disfarsi cavalcantiano della persona. Notevole è, al riguardo, la dialettica sentimentale che caratterizza la prima e, poi, la seconda parte di Amor, tu vedi ben che questa donna. È discutibile se su tutto spazi «un Amore astratto, fatto dio, quasi un dio filosofico da inno neoplatonico».9 Ma certo è che se il primo tema è quello del «pietrificarsi» dell’amante di
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fronte alla crudeltà della donna («e io, che son costante più che pietra/ in ubidirti per bieltà di donna,/ porto nascosto il colpo della pietra,/ con la qual tu mi desti come a pietra/ che t’avesse noiato lungo tempo,/ tal che m’andò al cuore, ov’io son pietra» [vv. 13-18]), e della estrema difficoltà di averne ragione «sì ch’ella non mi meni col suo freddo/ colà dov’io sarò di morte freddo» (vv. 23-24), il secondo lo rovescia perché lo contrasta; e il poeta desidera vivere, non morire: «degli occhi suoi mi vien la dolce luce/ che mi fa caler d’ogni altra donna: così foss’ella più pietosa donna/ ver’ me, che chiamo di notte e di luce, solo per lei servire, e luogo e tempo./ Né per altro disio di viver bramo» (vv. 43-48). Notevoli sono i vv. 49-60, e sopra tutto quelli che all’inizio definiscono la «virtù», cioè Amore, come tale che è «prima che tempo,/ prima che moto o che sensibil luce», sì che rivolgervisi per la propria salvezza è come chiedere l’intervento di Dio che, inaspettatamente irrompe in un «ragionamento d’amore» concernente cose umane, non divine. Eppure, l’evocazione di un inizio che sta innanzi a ogni inizio non è senza connessione con il singolare richiamo del giudizio universale, e quindi della resurrezione dei corpi, che al poeta consentirà di vedere «se mai fu bella donna/ nel mondo come questa acerba donna» (vv. 59-60); nel che deve osservarsi, non una «bizzarria»,10 ma, pur nell’iperbole, una tale dilatazione cosmologica della vicenda amorosa che, per la natura assegnata all’Amore,11 questa viene a includersi fra un inizio senza inizio e una fine senza fine, tanto da rendere comprensibile nel poeta amante la «baldanza, ond’ogni uom» gli «par freddo» ed egli ardisce «a far per questo freddo/ la novità che per tua forma luce,/ che non fu mai pensata in alcun tempo» (vv. 64-66). Che è, parrebbe, un’iperbole che, evocando addirittura quel che era prima della creazione e a questo assegnando la bellezza della donna, conferisce al discorso una dimensione che, a parte la ricercatezza tecnica spinta fino al limite dell’artificio, in Cavalcanti non avrebbe potuto trovarsi mai.12 Nei limiti in cui gli furono presenti, i «modi» cavalcantiani non costituirono comunque mai, per Dante, qualcosa come una suggestione teorica. Il che significa che se, negli altri componimenti dell’amico, era a un diverso stato dell’animo, a una non affine disposizione interiore, che talvolta veniva a trovarsi di fronte, nei confronti di Donna me prega l’ammirazione che provava per la sua sapienza poetica non passò mai in consenso intellettuale. Nella questione dell’intelletto, e del suo rapporto con l’amore, la distanza da Cavalcanti, in quanto fosse l’autore di quella canzone, si
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mantenne netta. La condivisione, da parte sua, di una tesi averroistica concernente l’intelletto ebbe luogo in un contesto particolare, e assai diverso da quello che ora ci sta sotto gli occhi. Ebbe luogo nella discussione che, quando con ogni probabilità già era impegnato nella composizione del Paradiso, egli intraprese, nella Monarchia, sull’Impero universale e la sua intrinseca necessità. In un contesto, dunque, di estrema importanza, e nel quale Dante giunse a conseguenze che, per nessuna ragione, potrebbero essere svalutate: anche se sarebbe palesemente assurdo pensare che, nell’elaborazione di quella sua idea, egli avesse subìta, da parte di Cavalcanti, una qualsiasi influenza. L’averroismo, o il semiaverroismo, di Monarchia, I iii 8-9, vale insomma per il luogo in cui si manifestò, e come sostegno offerto alla teoria separatistica elaborata, in quel trattato, in tema di Impero e Papato, filosofia e teologia. Vale in relazione a questo oggetto specifico, e ai concetti mediante i quali Dante lo elaborò. Non però alla teoria dell’amore, e a quella «generale» dell’intelletto: nei cui confronti quella tesi costituisce una sorta di ἄπαξ, o, se si preferisce, di grandiosa eccezione.13
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Note
1. Ma cfr. De vulg. eloq. II xii 3, dove la canzone del Cavalcanti è messa in relazione a Donne ch’avete intelletto d’amore. P.V. Mengaldo, nel suo commento al De vulgari (in Opere minori, II, Milano-Napoli 1979, p. 219), ha ritenuto che che l’«accoppiamento alla magna canzone» suoni «implicito riconoscimento del valore di modello di quest’ultima per Donne ch’avete […] e in genere per le canzoni dantesche, specie della Vita nuova e contigue»: di modello e, quindi, di anteriorità anche rispetto al libello. Alla questione dell’anteriorità o della posteriorità di Donna me prega rispetto alla Vita nuova e a Donne ch’avete, ho già fatto riferimento nei capp. 1, n. 39, e 3, n. 20. Ribadisco che tengo presente la questione, ma che non sono in grado di risolverla. 2. Contini, Cavalcanti in Dante, in Un’idea di Dante, pp. 143-157. 3. Sulla «montanina», e la lettera a Moroello Malaspina, che si datano al 1307, cfr. da ultimo, E. Pasquini, Vita di Dante. I giorni e le opere, Milano 2006, pp. 53-61. La canzone e l’epistola a Moroello Malaspina sono state recentemente riedite e commentate in Dante Alighieri, La canzone “montanina”, a cura di P. Allegretti con una prefazione di G. Gorni, Verbania 2001, a cui rinvio per ulteriore bibliografia. 4. Cfr. su questa canzone, e per l’identificazione della donna pietra, Contini, nella sua edizione delle Rime, Torino 19462, p. 148, dove perentoriamente si esclude che il problema abbia «ragione di porsi, perché la donna Pietra è semplicemente il legame che unisce le rime più tecnicistiche di Dante, nelle quali l’energia lessicale e la rarità dei ritmi si trasformano, a norma di “contenuto”, nel tema della donna aspra, dell’amore difficile». 5. D. De Robertis, Introduzione, a Dante, Rime, Edizioni del Galluzzo, Firenze 2005 (d’ora in avanti: De Robertis, Rime di Dante), p. xix. E cfr. Fenzi, La canzone d’amore, pp. 60-70. 6. De Robertis, Rime di Dante, p. 130. 7. Purg. V 14-15. 8. Sulle questioni biografiche (esilio sarzanese, viaggio a Santiago di Compostella), cfr. De Robertis, Rime di Dante, p. 135. Sulla ballata, in generale, molte considerazioni in C. Calenda, Per altezza d’ingegno. Saggio su Guido Cavalcanti, Napoli 1976, pp. 33-53. 9. Dante, Rime, ed. Contini, p. 158. 10. Ibidem, p. 161: «bizzarro momento di poesia escatologica». 11. A proposito di questa definizione di «amore», credo non accettabile l’interpretazione di Contini che, a proposito della «vertù» del v. 49, intese che, in quanto così definito, l’amore non fosse «propriamente una sostanza» (ibidem, p. 160), e giudicò che in questo luogo Dante fosse «d’accordo» con la definizione data dell’amore, nella Vita nuova, XXV 1, come di «uno accidente in sustanzia» (ibidem, p. 161). Che qui l’amore non fosse stato concepito, e sul serio non fosse concepibile, come un «accidente», è dimostrato da ciò che la «vertù», della quale Dante fece un sinonimo di «amore», è anteriore al tempo e alle altre cose create, ed è perciò la stessa cosa di Dio, con il quale sarebbe impensabile che fosse identificato l’accidente che appartiene alla dimensione temporale, nel cui ambito il suo
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accadere ha luogo. Non pertinente mi sembra altresì il richiamo del sonetto (di autenticità tuttora dubbia: De Robertis, Rime di Dante, p. 556) Molti, volendo dir che fosse amore: dove, si badi, di questo si esclude bensì che sia «sustanza» (v. 9) e si afferma che non è «cosa corporal ch’abbia figura» (v. 10), ma non perciò, definendolo «passione in disianza» e «piacer di forma dato per natura», si dice anche che sia «accidente»; che se invece, poiché si asserisce che non è sostanza, si concludesse che, perciò, necessariamente l’amore dev’essere preso come accidente, la distanza del sonetto dalla canzone aumenterebbe, non diminuirebbe, dal momento che quanto è stato osservato qui su è più che sufficiente a escludere la possibilità che ciò che precede il tempo sia identificato con quel che lo presuppone e vi accade. – Non mi pare, d’altra parte, che riesca persuasivo De Robertis, Rime di Dante, p. 117, quando, in margine a «vertù» del v. 49, osserva che il suo essere anteriore al tempo esclude «la questione di Amore “accidente” piuttosto che “sostanza”». Se «vertù» vale qui sapienza divina, e perciò Dio, è certamente da escludere che potesse farsene un accidente; non però che li si interpretasse come la sostanza soprasensibile di cui Dante poteva aver letto in Metaph. Λ 1071 b 12-22, e nel commento di Tommaso In duodecim libros Metaphysicarum Aristotelis, §§ 2492-2495 (a cura di M.R. Cathala e R.M. Spiazzi, Torino 1950, p. 583). In ogni caso, «vertù» non potendo significare «accidente», resta che la tesi della Vita nuova qui è abbandonata. 12. Il senso di questi versi, che andranno comunque letti a partire dall’inizio del congedo (61 ss.), mi pare a sufficienza chiaro: «non ostante che gli sia “pietra”, la donna gli sta a tal segno “nella mente” che gli dà una “baldanza”, e quindi un calore, tali che al confronto ogni altro uomo gli sembra freddo; sì che, per (“attraverso”) questo freddo, egli ardisce fare una cosa, scrivere una canzone, la cui novità, che “luce”, riluce per la sua forma, è tale che così “non fu mai pensata in alcun tempo”». Non credo che sia da accogliere la proposta, per altro formulata con somma discrezione da De Robertis, Rime di Dante, p. 119, secondo cui «forma» potrebbe, «latinamente», significare «bellezza». Che qui con «forma» Dante certamente alludesse alla tessitura tecnica della composizione, risulta da De vulg. eloq. II, xiii 13, dove è condannato l’eccessivo tecnicismo, «nimia scilicet eiusdem rithimi repercussio», a meno che («nisi») «forte novum aliquid atque intentatum artis hoc sibi preroget». È questo infatti il caso, qui citato da Dante, di Amor, tu vedi ben che questa donna, che non rientra dunque, come intese V. Pernicone, ED, I, 238 a, fra quelli condannati, ma se ne esclude: novum aliquid atque intentatum artis corrisponde alla «novità» del v. 65. 13. Per il modo in cui questo spunto richiede di essere interpretato, e per le conseguenze che debbono trarsene, cfr. il mio Dante. L’Imperatore e Aristotele, Roma 2002, pp. 183-251.
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Che, nella riflessione che Dante dedicò al caso infelice dei due amanti romagnoli, molte cose s’intrecciassero è, fra l’altro, dimostrato dal modo, che non ha riscontri nell’Inferno, del suo personale coinvolgimento. Sarebbe stato sorprendente, in effetti, che la semplice «nominazione», e la sommaria rievocazione fatta da Virgilio, delle «donne antiche e’ cavalieri» (v. 71), avesse provocato in lui «pietà» e «smarrimento», se a suscitare la prima, e a determinare il secondo, non fosse stato qualcosa di profondo, che lo predisponeva a subire quei sentimenti. Può darsi che il peccato che ha nome «lussuria» richiamasse a lui, che ora lo contemplava nella punizione che subiva nell’al di là, episodi della sua vita: la donna «pietra», la montanina, le pargolette, o, come castamente suggeriva il Barbi,1 l’amore eccessivo dei beni mondani (fra i quali, perché non sarebbero comprese anche quelle creature femminili?). Ma certo è che alla sua mente quel peccato richiamava un mondo di pensieri, di fantasie, di immagini legate al tema dell’amore, al quale variamente aveva prestato ascolto e dato forma, e che ora, forse, lo induceva a pensare che sottile era il filo che lo separa dalla lussuria, o, se non da questa, dall’eccessività esistenziale che, tanto spesso, l’eros determina nei mortali. Al «ragionar d’amore», sul quale, del resto, assai presto si era trovato in dissidio con il suo «primo amico», era pressoché inevitabile che, posto di fronte allo spettacolo dei «lussuriosi» travolti dalla «bufera infernal, che mai non resta» (v. 31), a questo Dante aggiungesse, o, piuttosto, legasse la considerazione del problema sollevato da quel filo sottile; e, per aver tanto scritto sull’argomento, chiamasse in causa, in primo luogo, sé stesso. Dopo tutto, come di lì a poco avrebbe dovuto constatare ascoltando le sue parole, Francesca poteva ben essere considerata come un’allieva dei poeti e degli scrittori d’amore; non solo
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di questi ultimi, ma anche dei primi. E perché no, allora, anche di Cavalcanti e sua? Non era soltanto il finale cedimento provocato in Dante dal racconto con il quale la signora di Rimini aveva rievocata la cupa tragedia che l’aveva travolta e condotta a morte, – non era soltanto il suo «cadere» come «corpo morto cade» (v. 148) a fermare l’attenzione del lettore e a richiedere questa interpretazione «autobiografica». Ma era bensì l’accenno alla morte2 che, in un modo o in un altro, finiva per rivelarsi intrinseco all’amore: all’amore che, in quel suo esito fatale, era stato non solo tante volte cantato, ma anche teorizzato, da Cavalcanti, e qualche volta anche da lui che, pure, come si è detto, dal teorizzarlo in quella forma estrema si era astenuto perché profondamente ne dissentiva. Della tragedia di Francesca Dante poteva perciò, e, per la parte che lui pure aveva avuta nella letteratura di cui quella si era nutrita, anche doveva, sentirsi responsabile. Tanto che della responsabilità che, nella costruzione drammatica che faceva del suo proprio personaggio, sentiva gravarsi sulla coscienza, avvertiva di dover rendere conto; come, del resto, già da tempo, e al di fuori, allora, di questa drammatizzazione, aveva cominciato a fare sia nelle grandi canzoni dottrinali commentate nel Convivio, sia nella prosa dei quattro trattati che, dei quattordici che avrebbero dovuto costituire quell’opera, era riuscito a scrivere. Sia ben chiaro. Prima che il tempo della Commedia venisse, e in questo si concludesse l’altro che potrebbe esser definito della sua non breve giovinezza poetica e intellettuale, Dante aveva cantato l’amore per Beatrice, e quindi quello per la «donna gentile», che, nel Convivio aveva assunte le esplicite sembianze della filosofia. Diversi l’uno dall’altro, questi due amori erano stati entrambi, alla loro volta, diversissimi da quello che, per Cavalcanti, era l’amore.In modi diversi, ma convergenti, quelle due donne avevano indicata, a Dante, la direzione del cielo e della verità. E, entrambe, erano state oggetto di un amore che, non nell’anima sensitiva, aveva la sua sede; e nella parte di questa «dove sta memora». Poi, come di sopra si è detto, e tutti sanno, nella vita che Dante aveva vissuta e, sopra tutto, letterariamente trasfigurata, c’erano state altre donne, fatte, o rappresentate come, di assai più terrestre sostanza, dalla quale, anche l’amore che vi si dirigeva, aveva tratta la sua. E nel suo poetare erano entrati toni e accenti che, sia pure che debbano in primo luogo essere valutati sul piano stilistico,3 ma non fino al punto che di quel che chiudessero in sé di cupo e di angoscioso non si debba fare nessun conto. È vero, in realtà, proprio il contrario. Il «dramma spirituale» del «traviamen-
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to» non è, in questo caso, un’invenzione della malfamata critica romantica, incline a psicologizzare quel che è soltanto «formale». Fu bensì un’invenzione di Dante; che come «personaggio», oltre che come auctor, già si era rappresentato nella Vita nuova, e, come personaggio, tornò a rappresentarsi di fronte a Francesca, fortemente partecipando (questo nessuno potrà negarlo) dei suoi «martiri» e della sua «pietà».4 Del turbamento di Dante, del suo coinvolgimento emotivo nella sua tragedia, Francesca non tardò ad accorgersi. Non tanto per l’aggettivo «affannate» con il quale, con la sua, era stata da lui definita l’anima di Paolo. Ma, piuttosto, per l’«affettuoso grido» con il quale si era rivolto ai due peccatori, per quella diretta, esplicita, manifestazione di non consueto interesse. Di fronte a Francesca, che fortemente egli desiderava che uscisse «de la schiera ov’è Dido» (v. 85) e si fermasse a parlare con lui della sanguinosa tragedia che aveva messo fine alla sua vita, il comportamento di Dante non fu, per intensità e, quasi si direbbe, complicità, diverso da quello che poi avrebbe manifestato nei confronti di Ulisse,5 – e questo è di nuovo, fra i due personaggi, un tratto comune. Ma, a differenza di Ulisse che, per il suo interlocutore, Virgilio, non mostrò il minimo interesse, e, senza altresì far conto del discepolo, a lui non si rivolse se non con l’obiettivo racconto del suo viaggio fatale, di Dante Francesca fu ben in grado di accorgersi. Di lui, come di quello che gli faceva da guida; che, come già si ebbe occasione di notare, essa subito riconobbe nella sua vera identità, attraverso questa, intuendo che non doveva essere se non un personaggio di eccezione, e, comunque, di molto riguardo, quello che ne era accompagnato, e che a lei aveva rivolto quel «grido» affettuoso. Di qui il doppio registro del quinto canto. Da un lato, la passionalità, simboleggiata dal turbinio delle anime nel vento tempestoso che «mugghia come fa mar per tempesta,/ se da contrari venti è combattuto» (vv. 29-30) e «mena li spirti con la sua rapina:/ voltando e percotendo li molesta» (vv. 32-33). Da un altro, come già si osservò, la stilizzazione culturale; delineata attraverso la caratterizzazione dell’atteggiamento di Francesca, della sua volontà, non di apparire colta agli occhi di visitatori che sapeva (se in uno addirittura aveva riconosciuto Virgilio) e sospettava illustri, ma, per il tramite, appunto, della cultura e della civiltà, di allontanare da sé, almeno per un istante, l’urgenza della tragedia e del castigo, proprio come all’esterno avveniva con il vento che, non si sa come e perché,6 ma non senza forse un oscuro riscontro con quel che avveniva in lei, «come fa ci tace[va]» (v. 96).
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Insomma, le passioni di Francesca e la sua cultura, la sua disposizione a farsi travolgere da quelle, e quindi a ripensarle, filtrandole attraverso il sistema culturale che pure aveva fatalmente concorso a determinarle e a potenziarle: questo doppio registro che, piaccia o non piaccia, è quello che di lei fa uno dei grandi personaggi della Commedia e ha il suo obiettivo riscontro nell’atteggiamento stesso di Dante. Di Dante che, come si è detto, qui più che mai, qui più che dinanzi a Filippo Argenti, a Bocca degli Abati, e persino a Brunetto Latini, è lo stesso personaggio del dramma che ha messo in atto come autore. È il personaggio che soffre quella passione nel momento in cui, attraverso il giudizio, se ne distanzia e, nel fondo, senza dirlo e con grande finezza, lascia intendere che le teorie dell’amore enunciate da Francesca, se mai lo furono, ora non sono più le sue. Quali, in quel momento della sua vita, le sue fossero, quale forma teorica l’amore avesse assunta nella sua mente, qui non è dichiarato. Troppo grande, infatti, era il senso che Dante possedeva dell’arte; che se non impediva la nettezza del giudizio e della condanna, vietava però l’ingresso al moralismo, e, non meno, a enunciazioni dottrinali polemicamente contrapposte a quelle di cui Francesca si era fatta, o stava per farsi, autrice. Quel che allora Dante pensava dell’amore deve perciò essere ricercato, non nel quinto canto dell’Inferno, ma in altri luoghi: dove, se l’ipotesi non è errata, potrà cogliersene la dimensione anticavalcantiana. L’ipotesi della quale si parla è, per altro, non che le teorie dantesche dell’amore siano diverse da quelle di Cavalcanti; perché questa non è un’ipotesi, è un fatto, che nessuno potrebbe contestare. È bensì che, ci fosse del Cavalcanti nelle definizioni dell’amore esposte dalla signora di Ravenna e di Rimini: sopra tutto nella terza, che lo stringe in un nesso con la morte. Ci fosse del Cavalcanti; sia che esplicitamente, e con intenzione, Dante avesse attribuita al suo personaggio quel che sull’argomento era stato sostenuto dal suo amico di gioventù, sia che l’attribuzione fosse avvenuta senza l’intervento dell’intenzione e della volontà, perché apparteneva alla cosa stessa, tanto che, se Francesca avesse dovuto, e potuto, svolgere in modo compiuto la sua idea della passione d’amore, avrebbe indicato in Donna me prega il suo testo d’elezione. L’ipotesi è dunque che, in un modo o in un altro, ci fosse del Cavalcanti nel suo «teorizzare». Se possa farsene una «tesi», o l’ipotesi debba essere respinta come una qualsiasi, soggettiva, impressione, vedranno i lettori; che giudicheranno.
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Note
1. M. Barbi, Razionalismo e misticismo in Dante (1933), in Id., Problemi di critica dantesca, II, Firenze 1941, pp. 50-51; e cfr. anche l’Appendice (1937) a questo articolo, ibidem, pp. 76 ss. Si veda anche nella recensione della Vita di Dante di T. Gallarati Scotti, che ora può leggersi in Dante. Vita opere fortuna, Firenze 1933, pp. 154 ss. (anche se deve dirsi che nella polemica svolta contro questo autore, Barbi aveva, in generale, piena ragione). 2. Inf. V 106. 3. Giuste riserve su questo punto in Fenzi, La canzone d’amore, pp. 63-64. 4. Varrà la pena di avvertire che fra il «noi» del v. 90 e il «noi» del v. 92, fra «noi che tignemmo il mondo di sanguigno» e «noi pregheremmo lui de la tua pace», non può esserci piena identità. Il primo «noi» suona, in effetti, e significa diversamente dal secondo. Come, fra i commentatori antichi, fu rilevato, per esempio, da A. Vellutello in La “Comedia” di Dante Alighieri con la nuova esposizione di A.Vellutello, a cura di D. Pirovano, I, Roma 2006, p. 288, e fra i moderni, da Sapegno, I, p. 61 (che, per altro, sembra restringere l’osservazione al solo v. 90, e indirettamente escludendo il v. 92, per il quale cita parole desanctisiane sicuramente riferite a Francesca), il primo «noi» riguarda l’intera schiera dei peccatori puniti nel secondo «cerchio». E questo sembra indiscutibile. Ma, con un passaggio di grande finezza psicologica, Dante fece che, pronunziando il secondo «noi», Francesca alludesse, non alla vicenda dei personaggi condannati con lei in quel luogo dell’Inferno, ma alla sua: come, del resto, finezza psicologica a parte, si comprende se si considera che non avrebbe avuto senso se, della preghiera che, con Paolo, avrebbe rivolta a Dio se questi le fosse stato «amico», avesse inteso rendere partecipi, da Semiramide a Didone, da Cleopatra a Tristano, tutte le anime condannate con lei. 5. Sul paragone di Francesca con Ulisse, e sull’atteggiamento di Dante nei confronti di questi due dannati, cfr. capp. I e VI. Si ricordi, per il bruciante interesse di Dante per la vicenda di Ulisse, Inf. XXVI 64-69. 6. Che il v. 96 ponga delicati problemi teologici, che non sono stati forse discussi come si sarebbe dovuto, e potuto è, credo, evidente nei commenti. A essere posta e dibattuta è stata la questione se preferibile fosse la lectio difficilior «ci tace», scelta da Petrocchi, II, pp. 8889, o l’altra, «si tace», difesa da Pagliaro, Ulisse, I, p. 134, n. 19, e conservata, per esempio, da Sapegno. Ma, comunque al v. 96 si legga, certo è che si dà un luogo, nel secondo cerchio, nel quale la «bufera infernal che mai non resta» (v. 31) non penetra, un luogo che ne è difeso e che è quello in cui Dante e Virgilio si trovano. Che quel luogo fosse stato reso immune dalla bufera per consentire a Dante e a Virgilio di osservare il suo spettacolo standone al di fuori, e quindi di parlare con i due peccatori che «insieme vanno», fu sostenuto da A.M. Chiavacci Leonardi, nel suo commento alla Commedia, I, Milano 1991, p. 155; e non so se la proposta sia da condividere. Tutto, direi, dipende dal significato che si attribuisce a «si (ci) tace»; che potrebbe indicare o quel che sempre avviene in quel luogo, o quel che vi avviene nel caso eccezionale, voluto dall’«altri» del v. 81, cioè da Dio, per render possibile sia che le anime di Paolo e Francesca sostassero e parlassero con quell’uomo che, vivo, visitava il regno delle ombre, sia che quest’ultimo colloquiasse con loro; e la «eccezione»
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fosse consentita a lui in quanto autore e narratore di un viaggio eccezionale. Il problema, del resto, era stato bene, anche se in modo più che veloce, accennato da Dante, al v. 81 («venite a noi parlar, s’altri nol niega!») che, più di quanto non si sia fatto, deve perciò essere messo in relazione a quello di cui stiamo trattando; e discusso nel contesto che forma con questo. Che, al pari dell’«altrui» di Inf. XXVI 141, «altri» sia Dio, e che a lui, quindi, si faccia risalire la possibilità di sospendere per un istante le leggi di bronzo che regolano il mondo al di là, e di rendere perciò reversibile l’irreversibile, è evidente: si ricordino del resto, in questo stesso canto, le parole rivolte da Virgilio a Minosse (vv. 21-24). Ma anche lo è che, meglio che ai suoi critici, a Dante fu chiaro che, ponendo un’eccezione alla, per dir così, lex theologica, era proprio quest’ultima che, nel concedere la possibilità che Dio la sospendesse, si ribadiva nella sua necessità. Detto questo, sarebbe assurdo pretendere che la «ragione» dell’arte rendesse Dante libero dal «giogo» teologico, se è vero che a richiamarlo e a porlo in rilievo, era, nel caso specifico, proprio quella ragione. Dopo di che, debbo ammettere di non sapere se, nel delineare per sé stesso e per i due peccatori del secondo cerchio, l’eccezione di cui s’è detto, Dante avesse fatto ricorso a «luoghi» specifici. – Singolare la glossa del Landino, Comento sopra la Commedia, I, p. 460, il quale, dopo aver notato che il v. 96 «pare contrario a quel che dixe “la bufera infernal che mai non resta”», e aver giudicato che il suo «posarsi», cioè arrestarsi, accadesse «in beneficio di Danthe, quanto a questi due», passando all’interpretazione allegorica, osservò che il suo significato stava in ciò, che «benché l’amore sia in continuo moto, nientidimeno a chi fuori d’amore lo considera in altri non ha alcun furore chome l’avaritia, la quale è considerata da chi investiga la natura de’ vitii sanza alcuna cupidità». L’interpretazione è ingegnosa. Ma, se la si prendesse alla lettera, sarebbe l’intelligenza del coinvolgimento di Dante nell’episodio ad andare perduta.
6. Dante contro Cavalcanti
La differenza che, al di là delle già viste concordanze e convergenze, non solo retoriche, ma anche psicologiche, si era stabilita fra le concezioni di Dante e di Cavalcanti, è documentata da molti luoghi; e, in ultima analisi, dall’impianto stesso delle dottrine. Già nella Vita nuova la differenza era risultata netta; sì che non si avrebbe torto se, al di là, o al di qua, della questione della data, e della dedica, il «libello» fosse considerato come una presa di posizione anticavalcantiana. Deve, per altro, avvertirsi che tale differenza andrà ricercata, e definita, non solo nelle poesie dottrinali scritte prima della Commedia e in alcune pagine del Convivio, ma anche nel poema, dove forse è meno facile individuarla e definirla. Di grandissimo interesse sotto molti riguardi, e, innanzi tutto, per chi faccia storia del pensiero di Dante, la questione se Donna me prega preceda, oppure segua, Donne ch’avete intelletto d’amore, non lo è altrettanto di quella che ci occupa qui.1 Precedano, oppure seguano, è un fatto che le due canzoni dicono cose diverse, e, al di fuori del rapporto cronologico, sono, in re, l’una confutativa dell’altra. Sono anzi, addirittura, opposte: a prescindere, si ripete, dal fatto che l’una delle due sia stata, o no, scritta contro l’altra. Agli antipodi di quella di Cavalcanti è da considerarsi, del resto, anche la grande canzone Amor che ne la mente mi ragiona, che Dante collocò, per commentarvela, all’inizio del terzo trattato del Convivio. E forse un riferimento a Donna me prega, 59: «non pò coperto star, quand’è sì giunto», si trova nel commento, nel luogo in cui egli scrisse che «sì come lo moltiplicato incendio pur vuole di fuori mostrarsi, ché stare nascosto è impossibile, voluntade mi giunse di parlare [d’] amore».2 Lo si trova forse in questo passo, che Busnelli e Vandelli confrontarono con Prov. 6, 27:
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«numquid potest homo abscondere ignem in sinu suo ut vestimenta illius non ardeant».3 Lo si trova in questo passo nel quale l’immagine, tuttavia, e l’intenzione significativa sono profondamente diversi. E forse proprio per questo, per far risaltare le differenze, Dante vi si riferì (se vi si riferì). Per lui, non meno che per Cavalcanti, era impossibile che l’amore restasse coperto, nascosto; che non si rivelasse attraverso gli occhi e il comportamento delle persone coinvolte. Nell’autore di Donna me prega,4 si traeva fuori del suo nascondiglio perché era impossibile che gli amanti non lo leggessero l’uno negli occhi dell’altro (come poi Dante disse che accadde a Paolo e a Francesca: «più fiate li occhi ci sospinse/ quella lettura, e scolorocci il viso»). In Dante, perché tale era il desiderio che Amore gli accendeva dentro di poter vedere e contemplare la «donna gentile», ossia, in quel caso, la filosofia, che egli ne era spinto a renderlo manifesto (una situazione, si noti fra parentesi, uguale e contraria a quella delineata nella Vita nuova, IV 1-2, dove, per non rivelare quello che, poiché gli si dipingeva sul viso, intendeva «del tutto celare ad altri», il rimedio fu trovato [V 3] nella «donna schermo della veritade»). Fra l’amore, che Cavalcanti aveva teorizzato come un «accidente», «fero» e «altero», che, avendo subito l’influsso di Marte e della sua «scuritate», prendeva posto nell’anima sensitiva ed era impossibile che si purificasse nell’intelletto, e quello che Dante aveva presentato come strumento di superiore beatitudine spirituale, la differenza non avrebbe, dunque, potuto essere più grande. Si ricordi Amor che nella mente mi ragiona, 55-72: Cose appariscon nello suo aspetto che mostran de’ piacer di paradiso, dico negli occhi e nel suo dolce riso, che le vi reca Amor com’a suo loco. Elle soverchian lo nostro intelletto come raggio di sole un frale viso; e perch’io non lo posso mirar fiso, mi convien contentar di dirne poco. Sua biltà piove fiammelle di foco, animate d’un spirito gentile ch’è creatore d’ogni penser bono; e rompon come trono gl’innati vizii che fanno altrui vile. Però qual donna sente sua biltate biasmar per non parer queta e umile,
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miri costei ch’è essemplo d’umiltate. Quest’è colei che umilia ogni perverso; costei pensò Chi mosse l’universo.
Può darsi, ma non se ne può esser certi, che in «tu sai che ’l ciel sempr’è lucente e chiaro,/ e quanto in sé non si turba già mai;/ ma li occhi nostri per cagioni assai/ chiaman la stella talor tenebrosa» (vv. 77-80), allusione a Cavalcanti («d’una scuritate/ la qual da Marte – véne, e da demora» vv. 77-80) non vi fosse. Ma che non vi fosse nei versi citati qui su, è difficile da credersi, tanto forte è, in re, la contrapposizione, a quella di Cavalcanti, della sua idea dell’amore. Dell’amore che, come suona la celebre definizione del Convivio, III ii 3-4, «veramente pigliando e sottilmente considerando, non è altro che unimento spirituale dell’anima e della cosa amata: nel quale unimento spirituale di propria natura l’anima corre tosto e tardi secondo che è libera o impedita»; dell’amore che, nella sua più compiuta natura (umana, o meglio angelica, cioè razionale), è indirizzato alla «veritade e vertude» in modo che a nascerne sia «la vera e perfetta amistà» (III iii 11): «onde, acciò che questa natura si chiama mente, come di sopra è mostrato, dissi “Amore ragionare nella mente”, per dare ad intendere che questo amore era quello che in quella nobilissima natura nasce, cioè di veritade e di vertude, e per ischiudere ogni falsa oppinione da me, per la quale fosse sospicato lo mio amore essere per sensibile dilettazione» (III iii 12). «Per ischiudere ogni falsa oppinione da me»: queste sono parole delle quali, siano dirette contro Cavalcanti, o non lo siano, dubbia non è l’intenzione. L’anima della quale qui si parla è la suprema delle anime. È quella intellettiva, non l’altra, sensitiva; e in modo perfettamente opposto a quello cavalcantiano, l’amore è non «dilettazione»,5 ma, invece, «consideranza». Che del resto dell’anima intellettiva qui si trattasse, si vede con chiarezza nel passo che (III ii 5), chiamando in causa Alpetragio,6 e intrecciando le considerazioni di quest’ultimo con quel che trovava scritto in Aristotele e nel Liber de causis, Dante dedicò all’ulteriore chiarimento della questione. Così, fra le altre cose, ebbe a notare che, «quanto la forma è più nobile, tanto più» tiene della natura divina, «onde l’anima umana, che è forma nobilissima di queste che sotto lo cielo sono generate, più riceve dalla natura divina che alcun’altra».7 L’amore perciò, è desiderio. Ma non per questo ha somiglianza con quello descritto da Cavalcanti. Il desiderio, che, per Dante, si esprime attraverso l’amore, e ne costituisce l’essenziale carattere, è desiderio «naturalissimo» di essere in Dio.
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Si legge subito dopo: E però che naturalissimo è in Dio volere essere – però che, sì come nello allegato libro si legge, «prima cosa è l’essere, e anzi a quello nulla è» – l’anima umana essere vuole naturalmente con tutto desiderio; e però che ’l suo essere dipende da Dio e per quello si conserva, naturalmente disia e vuole a Dio essere unita per lo suo essere fortificare. E però che nelle bontadi della natura [e] della ragione si mostra la divina, vène che naturalmente l’anima umana con quelle per via spirituale sé unisce, tanto più tosto e più forte quanto quelle più appaiono perfette: lo quale apparimento è fatto secondo che la conoscenza dell’anima è chiara o impedita. E questo unire è quello che noi diciamo amore, per lo quale si può conoscere quale è dentro l’anima, veggendo di fori quelli che ama.8
Nettissima già in questo passo, la distanza da Cavalcanti si rivelò incolmabile in quello in cui, poche linee dopo queste che si sono lette, Dante illustrò la tripartizione aristotelica dell’anima: Dico adunque che lo Filosofo nel secondo dell’Anima, partendo le potenze di quella, dice che l’anima principalmente hae tre potenze, cioè vivere, sentire e ragionare; e dice anche muovere; ma questa si può col sentire fare una, però che ogni anima che sente, o con tutti i sensi o con alcuno solo, si muove; sì che muovere è una potenza congiunta col sentire. / E secondo che esso dice, è manifestissimo che queste potenze sono infra sé per modo che l’una è fondamento dell’altra; e quella che è fondamento puote per sé stessa essere partita, ma l’altra, che si fonda sopra essa, non può da quella essere partita. Onde la potenza vegetativa, per la quale si vive, è fondamento sopra ’l quale si sente, cioè vede, ode, gusta, odora e tocca; e questa vegetativa potenza per sé puote essere anima, sì come vedemo nelle piante tutte. La sensitiva sanza quella essere non puote, [e] non si truova in alcuna cosa che non viva; e questa sensitiva potenza è fondamento della intellettiva, cioè della ragione: e però nelle cose animate mortali la ragionativa potenza sanza la sensitiva non si truova, ma la sensitiva si truova sanza questa, sì come nelle bestie, nelli uccelli, ne’ pesci e in ogni animale bruto vedemo. E quella anima che tutte queste potenze comprende, [ed] è perfettissima di tutte l’altre, è l’anima umana, la quale colla nobilitade della potenza ultima, cioè ragione, participa della divina natura a guisa di sempiterna Intelligenza: però che l’anima è tanto in quella sovrana potenza nobilitata e denudata da materia, che la divina luce, come in angelo, raggia in quella: e però è l’uomo divino animale dalli filosofi chiamato.9
Di questa tripartizione Dante parlò anche nel De vulgari eloquentia II ii 6, in un passo, meno articolato, ma di grande efficacia stilistica, nel quale, dopo aver ribadito che il volgare che prende il nome di «illustre» è optimum aliorum vulgarium, sì che è in quello che i più alti argomenti
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richiedono di essere trattati, scrisse così: «sciendum est quod sicut homo tripliciter spiritatus est, videlicet vegetabili, animali et rationali, triplex iter perambulat. Nam secundum quod vegetabile quid est, utile querit, in quo cum plantis comunicat; secundum quod animale, delectabile, in quo cum brutis; secundum quod rationale, honestum querit, in quo solus est, vel angelice sociatur nature. Propter hec tria quicquid agimus agere videmur».10 Il triplex iter lungo il quale l’uomo perambulat e conduce la sua esistenza è un iter unitario; che non oppone le sue differenze, ma, facendo che dall’una si passi all’altra, ignora le scissioni cavalcantiane. La distanza da Cavalcanti si confermò netta, del resto, nel passo del Convivio che tiene dietro a quello citato qui su: In questa nobilissima parte dell’anima sono più vertudi, sì come dice lo Filosofo massimamente nel sesto de l’Etica, dove dice che in essa è una vertù che si chiama scientifica, e una che si chiama ragionativa o vero consigliativa; e con queste sono certe vertudi – sì come in questo medesimo loco Aristotele dice – sì come la vertù inventiva e [la] giudicativa. E tutte queste sono nobilissime vertudi, e l’altre che sono in quella eccellenti[ssim]a potenzia, si chiama insieme con questo vocabulo, del quale si volea sapere che fosse, cioè mente. Perché è manifesto che per mente s’intende questa ultima e nobilissima parte dell’anima.11
Per la scissione cavalcantiana qui, come si vede, non si dava alcuna possibilità. E su questo deve insistersi. Se non può dirsi che esplicito intento di Dante fosse di contrastarla, di confutarla e di contrapporle, polemicamente, l’idea sua dell’organica connessione e integrazione delle anime in un «intero», è però indubitabile che, nel fatto, la contrapposizione si dette, e che, sempre nel fatto, la polemica le fu intrinseca. La tesi di Dante era infatti che il «per sé» dell’anima, sia vegetativa sia sensitiva, era presente nelle piante tutte e, quindi, per la seconda, nelle cose viventi. Ma quella che dell’uomo era propria, e che «tutte queste potenze» comprendeva, di tutte essendo la «perfettissima», di questo integrato e connesso sistema costituiva il vertice (III ii 14): con quel che segue nel testo qui sopra citato: «onde si puote omai vedere che è mente: che è quella fine e preziosissima parte dell’anima che è deitate. E questo è il luogo dove dico che Amore mi ragiona della mi donna» (III ii 19). Se perciò, come pur si può e, forse, si deve, questa pagina fosse letta a riscontro di Donna me prega, si vedrebbe che all’estremismo di Cavalcanti Dante aveva risposto con l’estremismo, all’idea della scissione con l’opposta idea di una connessione così netta-
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mente orientata nel senso dell’anima intellettiva e del suo primato, che, identificato con la perfezione di questa, l’amore assumeva un carattere in forza del quale intelletto e divinità venivano a coincidervi. A Cavalcanti, e a quanti comunque avessero concepito l’amore alla sua maniera, Dante contrapponeva la tesi secondo cui, lungi dall’essere improseguibile nell’intelletto, quel che apparteneva al regno dei sensi proprio a quello, proprio all’intelletto, era invece destinato. In un contesto diversamente orientato, alla tesi di Cavalcanti ne contrapponeva una segnata da altrettanta, e opposta, drasticità; e che, nel segno di un analogo estremismo, soltanto nella Monarchia, e in particolare nel primo libro,12 si può dire che poi si sarebbe trovata. Nel terzo trattato del Convivio, il massimo rilievo fu assunto dall’affermazione del carattere «divino» della mente, che soltanto «dell’uomo e della divina sostanza» si predica, «sì come per Boezio si puote apertamente vedere».13 Se questa ne fosse la sede, sul terzo trattato del Convivio, e sull’amore che ne costituisce uno dei temi dominanti, potrebbe indugiarsi ancora. Ma la netta alternativa che, fosse questa la sua intenzione o no, tale tesi delineava rispetto a quella cavalcantiana, è risultata fin qui, salvo errore, con sufficiente chiarezza. E indugiarvi non avrebbe perciò alcuna particolare utilità. Più invece, andando oltre lo stesso quinto canto dell’Inferno, converrà, in questa sede, intrattenersi sul decimottavo del Purgatorio (vv. 1-34, e poi, 40-75); non senza aver prima dedicata attenzione a quel che già, sulla questione dell’amore, Dante aveva detto nel canto precedente (vv. 78-138). La distanza cronologica sussistente fra il terzo trattato del Convivio, il quinto dell’Inferno e questi due canti del Purgatorio, non è grande, in termini di anni.14 Ma se, invece che agli anni, si guardasse al pensiero, non potrebbe essere trascurata e svalutata nemmeno da chi non fosse persuaso che l’eccezionalità della Commedia avesse recate con sé, e implicate, le contrapposizioni catastrofiche e, comunque, nette, che furono un tempo immaginate da critici anche illustri;15 e che interpretarla, quell’opera, come una sorta di grandiosa autocritica di posizioni condivise in gioventù significherebbe, non solo innalzare uno dei temi con i quali Dante costruì il suo dramma a unico e universale criterio di interpretazione, ma assegnare a quello una consistenza «biografica» che quel che si sa della sua vita non consentirebbe comunque di rendere certa. Questo, beninteso, non toglie che differenze vi siano; né implica in alcun modo che, nel «parlare d’amore», Dante non si
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affidasse, nella Commedia, se non ai temi, e ai concetti, che erano risuonati e si erano uditi nel Convivio; e che ad altro non desse spazio. Una breve analisi di questi due canti, nelle parti concernenti l’amore, è perciò necessaria. E tanto più, si direbbe, in quanto, al di là delle differenze, la linea teorica che vi è tracciata è, nell’intrinseco, non meno anticavalcantiana16 di quanto non fosse quella presente nel trattato; sì che, per intendere il canto di Francesca, che, cronologicamente, sta nel mezzo, seguirne il proseguimento nel Purgatorio è non meno necessario di quanto non sia stato l’aver cominciato a percorrerla partendo dalle pagine del Convivio. Il punto che occorre tener presente, e non perdere di vista, sta nella differenza radicale che, per quel che concerne l’imputabilità morale della passione d’amore si era stabilita fra i due poeti. Non giudicabile, questa passione, in termini morali, per Cavalcanti. Giudicabile, in quei termini, per Dante. Fortemente unitaria, e non distinguibile, perciò, in forme e gradi, per il primo. Distinguibile e graduabile, per il secondo. Il che importava, com’è ovvio, la diversa idea che alla passione d’amore si potesse, o non si potesse, resistere; che la ragione fosse in grado di prevalere sul «talento», o a questo, sempre e necessariamente, dovesse soccombere. E, come conseguenza, importava altresì che, se mai avesse aderito al punto di vista che Cavalcanti aveva delineato nella sua grande canzone, Dante per certo non avrebbe potuto scrivere, e non avrebbe scritta, la Commedia; o, quanto meno, non avrebbe potuto sottoporre a giudizio, e condannare, i lussuriosi del secondo cerchio. Il che, fra le altre cose, meglio, forse, di quanto non sia stato detto fin qui, spiega perché nel «poema sacro» Cavalcanti non sia presente se non attraverso il suo non poterlo essere. E, sopra tutto, spiega, non solo perché, da Cavalcante de’ Cavalcanti, Dante si facesse chiedere per quale ragione Guido non fosse con lui nel viaggio ultramondano; ma anche perché, all’ansiosa domanda, egli rispondesse nel modo che a tutti è noto per la sua voluta cripticità.17 «Né creator né creatura mai», dirà Virgilio in Purgatorio, XVII 91-93, «fu sanza amore,/ o naturale o d’animo: e tu ’l sai». Ma per Dante l’amore poteva errare o non errare. Per Cavalcanti, non poteva essere se non quello che era, l’accidente «fero» e «altero», dal quale «spesso» proviene «morte». Forte di un simile convincimento teorico, come avrebbe potuto condividere l’idea e, quindi, l’attuazione di un viaggio che lo avrebbe messo a contatto con giudizi pronunziati in nome di Dio, e in forza dei quali anche la sua dottrina sarebbe stata oggetto di condanna?18
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E veniamo al commento dei versi del canto decimosettimo. Il discorso che, richiestone da Dante («dolce mio padre, dì, quale offensione/ si purga qui nel giro dove semo?/ Se i pie’ si stanno, non stea tuo sermone» [vv. 8284]), Virgilio svolse nella parte dedicata all’esposizione della teoria concernente l’amore, ebbe luogo nel momento in cui i due stavano per passare dal girone degli iracondi a quello degli accidiosi. In quello che si accingeva a lasciarsi alle spalle, Dante aveva incontrata la grande anima di Marco Lombardo. Da lui aveva ascoltata la dura deplorazione del presente stato del mondo e, a contrasto con questa, il ricordo del «buon tempo» antico, quando Roma «due soli» soleva avere, così diverso da quello in cui la «chiesa di Roma,/ per confondere in sé due reggimenti,/ cade nel fango e sé brutta e la soma» (XVI 127-129). Nel nuovo girone, che è il quarto, in attesa di incontrare gli accidiosi che lo occupano, la solitudine in cui per qualche istante si era trovato con il suo maestro lo aveva indotto a formulare la domanda sull’amore e ad ascoltarne la risposta. L’empito poetico che aveva animato i discorsi di Guido del Duca,19 e poi di Marco Lombardo, si era attenuato. Il momento della passionalità era trascorso. Si poteva perciò lasciare spazio a una quaestio filosofica che, concernendo l’amore, non si sarebbe esaurita in questo canto, ma avrebbe avuto il suo seguito nel successivo; e, per quanto concerne la Commedia, ne avrebbe definito in forma compiuta il lineamento. Il discorso ebbe inizio dalla distinzione che subito Virgilio aveva proposta fra l’amore naturale, che «è sempre sanza errore» (v. 94), e l’altro, definito come «d’animo».20 E proseguì con l’ulteriore proposta di una bipartizione di quest’ultimo che, invece, «puote errar per malo obietto/ o per troppo o per poco di vigore» (vv. 94-96); non solo, dunque, per questo, ma a causa, anche, dell’attrazione esercitata sull’anima da un oggetto non buono. La questione posta dall’essere, l’amore naturale, scevro di «errore» non sarebbe andata senza complicazioni se si fosse chiesto, non solo quale fosse la relazione comunque sussistente fra i due «amori», che, nella differenza che li separa, sono pur sempre entrambi «amore»,21 ma anche in forza di che, nel secondo, si determinasse l’insorgere della potenza per la quale quello si rivolge al male e opera contro Dio: «ma quando al mal si torce, o con più cura/ o con men che non dee corre nel bene,/ contro ’l Fattore adovra sua fattura» (vv. 100-102). Non potrebbe dirsi infatti che quella tratta e indicata da Virgilio («quinci comprender puoi ch’esser convene/ amor sementa in voi d’ogne vertute/ e d’ogni operazion che merta pena» [vv. 103-105]), fosse sul serio stata una conclusione. E che avesse
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risolto il problema. Non soltanto, infatti, appariva forzato l’avvicinamento dell’amore che decisamente si volge al male, e che da questo si lascia perciò per intero compenetrare, a quello che, con più o meno «cura» che non debba, «corre nel bene».22 Ma, sopra tutto, e si deve ribadirlo, a non risultare perspicua era la ragione per la quale era sembrato che Virgilio avesse dato per ovvio che, invece che dirigersi al «primo ben», cioè a Dio, e usare con moderazione delle cose di questo mondo, l’amore potesse volgersi al male. Questa sua inclinazione, questo suo«torcersi» verso il male, furono presentati come un fatto, del quale s’indicava il tempo («quando») in cui si determinava. E il fatto non era, né poteva essere, la ragione del fatto. Queste incertezze, non solo argomentative, ma concettuali, risulterebbero in effetti con piena evidenza se, nell’interpretazione di questi versi, si adducessero alcune delle tesi che, come si è visto, Dante aveva a suo tempo ragionate nel Convivio. Potrebbe così chiedersi fino a che punto, mentre scriveva i canti centrali23 del Purgatorio, quelle tesi fossero attuali nell’orizzonte del suo pensiero. Il primato dell’anima, che nel trattato egli aveva definita «divina», e cioè razionale, sulle altre che le sottostavano, – questo primato, e la decisa assegnazione dell’amore alla «fine e preziosissima parte» di quella «che è deitate» (III ii 19), non consentivano che la via che conduceva al male fosse, nel quadro, legittimamente segnata come una reale e percorribile via. Da che cosa infatti avrebbe potuto derivare che la «signoria» esercitata sulle altre da questa «fine e preziosissima parte» fosse usurpata da quelle che ne erano in effetti dominate? A rigore, la possibilità che quella via negativa (del bene) fosse percorsa avrebbe dovuto essere esclusa dal numero delle cose legittime, ossia legittimamente pensabili nel quadro dei concetti che Dante esponeva come suoi: con quale diritto, altrimenti, si sarebbe parlato di primato e di signoria di quest’anima sulle altre? È vero, senza dubbio, che, a differenza di quello caratterizzante le sostanze separate, l’atto intellettuale era concepito, nell’uomo, come, non continuo, ma interrotto, reso discontinuo, appunto, dall’«intercisione»24 dell’oggetto sensibile: sì che in questi intervalli prodottisi nella visione intellettuale poteva pensarsi che avessero luogo la deviazione dal bene e l’insorgenza del male. Il che, se anche fosse pensabile, era lungi, tuttavia, da rendere più lieve la difficoltà; che ne era infatti confermata e, addirittura, esasperata perché, in realtà, ne rivelava un’altra. Se così fatta era la natura dell’anima che, dopo essere stata superata, la parte sensibile poteva riprendersi il primato che quella superiore aveva a giusto titolo, se era superiore, consegui-
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to su di lei, la conseguenza da trarsi era che il «libero arbitrio» incontrava nella «natura» stessa dell’anima, e nell’instabile signoria che l’intellettiva esercitava su quella che le era sottoposta, il suo limite invalicabile; e che, nei confronti di questa spiegazione onnicomprensiva, quasi avrebbe perso di interesse la questione, che pure si sarebbe potuta porre, se, oltre quella, per dir così, «generica», l’interruzione dell’atto intellettuale ne avesse una specifica. La questione perciò restava aperta. La difficoltà alla quale si sta alludendo non risulta, del resto, soltanto dal confronto che si intraprenda con quel che Dante aveva scritto nel Convivio. Risulta infatti anche dallo svolgimento del discorso che costituisce l’oggetto di questi versi. Al v. 102 (di questo canto decimosettimo) Dante aveva parlato della creatura che opera contro il suo creatore; e, anche in questo, non spiegabili in termini razionali restavano le cause; che, infatti, da che cosa, a loro volta, erano prodotte, da che cosa nascevano?25 Perché si determinavano e producevano conseguenze? La questione era seria, e non se ne stava inerte al fondo del pensiero di Dante. Vi agiva, al contrario; e al suo discorso comunicava una forte vibrazione, non soltanto etica, ma anche intellettuale. Ai vv. 103-114, egli aveva detto infatti qualcosa alla cui luce il v. 102 («contra ’l Fattor adovra sua fattura») sarebbe comunque risultato inconcepibile: Quinci comprender puoi ch’esser convene amor sementa in voi d’ogne virtute e d’ogne operazion che merta pena. Or, perché mai non può da la salute Amor del suo subietto volger viso, da l’odio proprio son le cose tute; e perché intender non si può diviso, e per sé stante, alcun esser dal primo, da quello odiare ogne effetto è deciso. Resta, se dividendo bene stimo, che ’l mal che s’ama è del prossimo, ed amore in tre modi nasce in vostro limo.
A volerli intendere in riferimento, non tanto a quel che, verbis, Dante vi asseriva, quanto piuttosto al diritto che egli aveva di sostenervi quel che vi sostenne, questi versi porrebbero, infatti, ben più che un problema. Se si fosse tenuto fermo al punto che «nessun essere» può concepirsi «diviso» dal «primo», ossia da Dio, dal quale infatti riceve il suo, a essere in primo
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luogo chiamata in causa come problematica, e più che problematica, avrebbe dovuto essere, se non la distinzione introdotta fra «amore naturale» e «amore d’animo», quella bensì dell’odio dall’odio: dell’odio, che non può esser diretto dall’individuo contro sé stesso, da quello che deve avere per oggetto il prossimo, e solo gli altri, infatti, può riguardare. Insomma, che, in termini rigorosi, la distinzione dell’odio in «diretto contro sé stessi» e «diretto contro altri», impossibile il primo, possibile il secondo, fosse essa proprio, più ancora che problematica, impossibile e impensabile, è evidente. Se «intender non si può diviso,/ e per sé stante, alcun esser dal primo»; se, in altri termini, ogni creatura è unita al creatore in modo che impossibile le sia rivolgerglisi con odio, mentre è ben possibile che questo sia diretto contro altri, la conseguenza da trarsi avrebbe dovuto essere che quello che avesse avuto a oggetto il prossimo non avrebbe potuto non esser diretto contro Dio; e dunque anche contro sé stessi, e contro, altresì, il vincolo da cui ciascuno è legato al «Fattore».26 In altri termini, se, come Dante pur lasciava intendere, fosse stato vero amore quello che, coabitando nell’individuo con l’odio rivolto agli altri, era invece riservato a Dio, quell’altro odio non avrebbe potuto sussistere. Sarebbe stato cancellato dall’amore rivolto a Dio, se, come qui si supponeva, questo fosse stato autentico amore. E se invece sussisteva, e si specificava nella descrizione fornita del «triforme amore» (v. 124) punito nei primi tre gironi del Purgatorio, la ragione sarà da ricercare nell’ammissione di quel che, in forza della premessa (l’amore diretto al creatore), invece che ammesso, avrebbe dovuto essere escluso: e cioè che il vero amore onde l’uomo è congiunto a Dio potesse non implicare, di necessità, l’amore del prossimo.27 Si dirà che la questione accennata in queste linee va al di là del pensiero di Dante; o, se si preferisce, che lo include nell’atto, tuttavia, in cui, da una parte, coinvolge l’idea cristiana della caduta e della corruzione dell’uomo, del «limo»28 in cui la sua esistenza si svolge, e, da un’altra, il suo contraddittorio coesistere con la redenzione simboleggiata dalla croce di Cristo. Ma che la contraddizione in cui Dante incorse fosse, nella sua radice, la stessa che attraversa il cristianesimo, non toglie nulla al suo essere quale qui la si definisce; e cioè la contraddizione che si rende evidente in ciò, che se l’uomo è corrotto, tale, e perciò non vero amore, dovrà essere quello da lui nutrito per Dio, che, se invece fosse autentico e puro amore, come potrebbe appartenere alla sua corrotta natura? Nell’indagare e cercar di definire la physis dell’amore, Dante si era imbattuto nella questione dell’odio, e quindi del male. Una questione cru-
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ciale, com’è ovvio: nell’affrontare la quale, interrogandosi sulla genesi e sul perché dell’uno (l’amore) e dell’altro (odio e male), certo non si poteva pretendere che la descrizione potesse tenere il posto della spiegazione. Salvo a dovervi poi ritornare, può passarsi, a questo punto, dal canto decimosettimo al decimottavo;29 e all’analisi, in particolare, dei vv. 1-75. Non sono versi facili. Le questioni vi furono introdotte, e quindi intrecciate, con modi talmente rapidi e concisi, che occorre esercitare la virtù della pazienza, e dell’attenzione, perché i passaggi non si confondano e restino, invece, distinti. I vv. 19-21 («l’animo, ch’è creato ad amar presto,/ ad ogne cosa è mobile che piace,/ tosto che dal piacere in atto è desto») ribadiscono il concetto secondo cui, avendo ricevuto dal creatore la disposizione ad amare, ed essendo perciò l’animo prontamente incline (così sarà da intendere il «mobile» del v. 20) «ad ogne cosa» che «piace», da questa sua «mobilità (potenzialità, o disposizione che voglia dirsi), esso è richiamato all’atto «tosto che» sia avvenuto l’incontro con cosa che gli sia piaciuta (dove è chiaro, salvo errore, che l’«atto» qui fu da Dante riferito sia al «piacere», sia all’«animo», senza, si direbbe, che fra i due momenti potesse stabilirsi una differenza che dell’uno facesse la causa dell’altro). La terzina in questione pone la tesi nei suoi termini generalissimi; e resterebbe perciò da capire se la disposizione dell’animo all’amore, e al «piacere», fosse in ogni senso la stessa che, indicata nel canto precedente come «amore naturale» (v. 94), qui ricevette comunque la specificazione in termini di potenza e di atto. Le due terzine (vv. 22-27) che tengono dietro a questa, furono scritte, non tanto, o non soltanto, per conferire al concetto il suo necessario svolgimento, e indicarne le conseguenze, quanto piuttosto per illustrare, dal di dentro, cogliendone la genesi, la formazione del sentimento che ha nome «amore». Che fu infatti delineata facendo sì che il discorso retrocedesse di un passo: quasi che Dante avesse avvertita la necessità di spiegare che, come la facoltà apprensiva trae da «esser verace», ossia dalle forme che stanno, in re, fuori dell’anima, l’«intenzione», e cioè l’immagine (la species cognoscibilis),30 e come tale facoltà la «dispiega» nell’anima, subito questa si volge a considerarla.31 L’intenzione, ossia la forma, che, avendola tratta da «esser verace», le sta dentro, e anche tuttavia di fronte, in modo che le sia possibile contemplarla, è un potenziale oggetto d’amore; che può diventare, e diventa, attuale oggetto se e quando l’esserglisi «rivolto» si trasformi nel «piegarsi» verso di esso. Dante lo disse con chiarezza: «e se, rivolto, inver
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di lei si piega,/ quel piegare è amor». Dove il «se» dev’essere sottolineato, perché indica, appunto, una possibilità, non una necessità: una possibilità, o potenzialità, della quale si sarebbe dovuto dire quale fosse la ragione che la recava all’atto. Poiché questa ragione era individuata nell’amore che, facendo sì che il «volgersi» si potenziasse nel «piegarsi» verso ciò da cui la facolta «apprensiva» era stata sollecitata e messa in moto, l’amore veniva, in questo quadro, a essere la spiegazione di sé stesso. Fra il «volgersi» e il «piegarsi» non si dava infatti qualcosa che spiegasse perché dal primo atto si passasse al secondo; e la ricerca che se ne intraprendesse sarebbe condotta invano se non ci si avvedesse che, appunto, fra quei due atti non se ne dava uno intermedio che, del passaggio dall’uno all’altro, fornisse la ragione. La quale stava infatti nel secondo, ossia nell’amore, ossia nel «piacere» che lo determinava e veniva così, si ripete, a essere come la causa di sé stesso. Che in questo punto specifico, concernente l’insorgenza dell’amore, e la ragione di questa insorgenza, si fosse delineato un problema, è evidente. La questione riguardava la genesi dell’amore: donde, come e perché nascesse e si affermasse nell’animo umano. E la difficoltà a cui dava luogo era tanto più acuta quanto meno, pur subendola, Dante fosse riuscito a prospettarla in un modo che di quell’insorgere indicasse la ragione senza restringersi a constatarla come soltanto un «fatto». Con la difficoltà che ne veniva di conseguenza, era una questione che, rimanendo implicita, e, non giungendo perciò alla sua migliore chiarezza, non poteva non rendere incerta la linea dell’argomentazione. E negarlo è difficile. Se, nel ragionamento svolto da Dante si cerca di spingere a fondo lo sguardo, la conseguenza che già è stata tratta non può non essere confermata. Capire come e perché dal «volgersi» si passasse al «piegarsi», e perciò all’amore che, con quel «piegarsi» faceva tutt’uno, era, nei termini in cui la questione era stata posta da Dante, impossibile. E quel che, al di là della sua intenzione e della sua consapevolezza, ne emergeva, era che soltanto al caso, e quindi alla sua pura accidentalità, il sorgere dell’amore poteva essere ricondotto. Il passaggio dal «volgersi» al «piegarsi» avveniva in quanto avveniva, senza una necessità che non fosse quella del suo puro determinarsi, e consentisse perciò, oltre che di descrivere e constatare, di spiegare. Se questo è vero, altro però resta da chiarire: a conferma, come si vedrà, di quel che s’è appena detto. Resta da chiarire il senso del paragone che, ai vv. 28-33, Dante istituì fra il sorgere dell’amore e il fuoco: «poi come ’l foco movesi in altura,/ per la sua forma ch’è nata a salire/ là dove più in sua matera
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dura,/ così l’animo preso entra in desire,/ ch’è moto spiritale, e mai non posa/ fin che la cosa amata il fa gioire». Se infatti lo si considera nelle due situazioni che vi furono messe a confronto, subito deve notarsi che la convergenza, a cui ci si viene a trovare di fronte, ribadisce che l’accendersi dell’amore è altrettanto «casuale», e non necessario, di quello del fuoco; e che l’unica differenza che, a voler essere pedanti, sussista fra le due situazioni sta in ciò, che, in questa concezione, l’amore si presenta nella forma che potrebbe esser detta della causa sui, laddove il fuoco non brucerebbe se ad accenderlo non fosse, o non fosse stata, o una mano guidata da una specifica volontà, o una qualsiasi «causa» naturale, dalla quale il suo insorgere fosse stato provocato. Che poi, una volta che l’animo ne fosse stato «preso», al pari del fuoco, il «desire» anch’esso si spingesse in alto, e, perdurando «fin che la cosa amata il fa gioire», rivelasse una caratteristica in ogni senso analoga alla natura di quello, è evidente; né qui occorre notare che, se il declino e lo spegnersi dell’amore sono anch’essi analoghi, nel comportamento, al declino e allo spegnersi del fuoco, non rappresentabile allo stesso modo è invece la causa di questi due eventi. La «materia» che, nell’estinguersi, estingue il fuoco, non è la stessa che, quale che sia, produce questa conseguenza nell’amore e nel «desire»; che durano infatti «fin che la cosa amata» li tiene vivi, con la conseguenza che la «materia» che, nell’estingursi, li estingue, non è rappresentabile se non in quel «fin che», che non è in effetti spiegato se non da sé stesso. Dopo di che, non resta, forse, che da richiamare l’attenzione sul «poi», con cui il v. 28 ha inizio, e che, collocato in quella posizione, indica lo stacco che deve porsi fra l’insorgere dell’amore e la sua soddisfazione, fra il suo possedersi come amore e la natura di questo possesso che, in sé stesso, coincide con il suo proprio andar oltre («mai non posa») per realizzarsi, e poi ancora realizzarsi, nel possesso della cosa amata. Ma questo non toglie che, come il fuoco, anche l’amore sia destinato a estinguersi, dopo che soltanto per accidens si sarebbe potuto spiegare il suo insorgere, o essere insorto. Ancora una considerazione dev’essere dedicata a questo inizio del canto decimottavo; e non è, forse, la meno importante. Ai vv. 34-39, dopo aver esposte le sue ragioni, Virgilio raccolse il senso di quanto fin lì aveva argomentato, e disse quanto fosse «nascosta/ la veritate a la gente ch’avvera/ ciascun amore in sé laudabil cosa». Quale che fosse il loro volto, costoro infatti non si avvedevano che se la «matera» sempre era buona, «non ciascun segno/ è buono, ancor che buona sia la cera». Virgilio ripendeva
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così, e concludeva, la polemica che, all’inizio del canto, aveva avviata contro «l’error de’ ciechi che si fanno duci» (v. 18).32 Ma si può dire che avesse dimostrato quel che si era proposto, e che la confutazione dei duci ciechi fosse stata eseguita nel modo che la ragione avrebbe richiesto? In realtà, non solo, nei versi che si sono letti fin qui, nella questione relativa alla genesi dell’amore Virgilio non era riuscito ad andar oltre la semplice descrizione del suo insorgere, ma nemmeno aveva fornito il criterio in forza del quale potesse spiegarsi perché, invece che su quella del bene, tanto spesso esso s’indirizzasse sulla via del male, e quello degli uomini fosse perciò un «limo», un mondo fangoso. Della difficoltà che fin lì Virgilio aveva incontrata a spiegare, piuttosto che a descrivere, Dante si era reso conto. E non aveva mancato di avvertirne il maestro: «“le tue parole e ’l mio seguace ingegno/ […] m’hanno amor discoverto,/ ma ciò m’ha fatto di dubbiar più pregno;/ ché s’amore è di fuori a noi offerto, / e l’anima non va con altro piede,/ se dritta o torta va, non è suo merto”» (vv. 40-45). Il dubbio che gli si era formato nella testa era tanto più grave quanto più, in questo punto dell’argomento che aveva affidato a Virgilio, egli avvertisse la segreta presenza del «nemico» al quale stava dirigendo la sua polemica, del pensatore che, appunto, aveva visto l’amore insorgere dal «di fuori», di lì indirizzando i suoi colpi su chi non poteva perciò difendersene. Se era Cavalcanti il pensatore che egli intendeva debellare contrapponendogli i suoi diversi argomenti, era come se, all’improvviso, si fosse accorto che proprio alle sue tesi egli aveva dato spazio in una delle pieghe del suo ragionamento; e precisamente nel punto in cui, avendo assunto che «di fuori» l’amore fosse «a noi offerto», non solo aveva rimesso in gioco la sua accidentalità, ma, in ragione di questa, aveva dubitato che appartenesse al «merito» di questo o di quello il suo essere un buono o un cattivo amore. Insomma, la polemica era giunta a una «foce stretta»; e, nella sua acutezza, Dante se n’era accorto. Donde il ritorno sulla questione, e il complicarsi degli argomenti; che non furono però tali da superare la difficoltà nella quale si era impigliato. Solo in apparenza trasformato, un argomento cavalcantiano, quello dell’accidentalità dell’amore, era venuto a far parte dei suoi. Avvedersene era tuttavia più facile che confutarlo ed espellerlo dal suo cosmo. E anche dopo averlo individuato, Dante, infatti, non vi riuscì. Se, nelle grandi linee, questo è il significato dei versi che fin qui sono stati passati in rassegnati e analizzati, se quelle che si sono indicate sono
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le questioni che non riuscivano a emergere con chiarezza e vi rimanevano perciò tanto presenti, nel fondo, quanto irrisolte, qualcosa tuttavia resta da dirne innanzi di passare a considerare l’altra, riguardante il libero arbitrio, che esplicitamente Dante pose nei vv. 40-75. Poiché quella concernente la genesi dell’amore era una questione tanto più importante quanto meno a lui riuscisse di fermarla e definirla nei suoi caratteri propri, è necessario insistervi; non solo perché, come si è visto, a darne conto nel canto decimosettimo Dante non era pervenuto, ma anche perché sarebbe stato impossibile, dopo che una tesi di Donna me prega si era obliquamente resa presente nel suo argomento, che egli tornasse alla conclusione raggiunta nella Vita nuova XXV 1, dove l’amore era stato definito un «accidente in sustanzia»: in modo analogo, per questo aspetto, a quello tenuto da Cavalcanti, anche se non analogo, e anzi difforme, nello svolgimento. Al concetto dell’accidente, poiché, appunto, più alta era, ora, la sua ambizione, ed egli non poteva permettere che, nei confronti della ragione, quello ne avesse una sua da far valere e prevalere – a quel concetto, anche se di nuovo gli si fosse presentato nella forma che aveva assunto nella Vita nuova, non poteva non vietarsi di far ricorso. E non lo riprendeva infatti. Ne taceva, non lo confutava in parole. Tacendone, tuttavia, non parlandone, era come se in qualche modo, ossia in forma obliqua, a quella tesi, e alla sua presenza, implicita ma indubitabile, egli fosse, suo malgrado, costretto a rendere omaggio, e a riconoscerne la validità. Era come se, suo malgrado appunto, senza dichiararlo, egli tuttavia riconoscesse che, se l’accidente era tale che nel fatto si presentava come alternativo alla spiegazione, se era tale che, nel ricorrervi, si sarebbe arrecato un grave vulnus alle ambizioni razionalistiche, anche il ragionamento che, in alternativa, egli aveva svolto nella parte finale del canto decimosettimo del Purgatorio, non solo pativa dello stesso difetto e metteva capo a una non spiegazione, ma addirittura la riprendeva, quell’idea dell’accidente. Implicitamente, come si è visto, la riprendeva, e comunque la subiva, nel punto in cui aveva ammesso che l’amore venisse «di fuori», con la sua bontà o con la sua cattiveria, che s’imponevano perciò per sé stesse, senza che a determinarle in quel carattere fosse un qualsiasi merito, o demerito, umano. È difficile dire se, ignorando la tesi accennata nel giovanile libello, Dante avesse altresì inteso non dare risalto a quella, ben altrimenti impegnativa, e «pericolosa», della canzone cavalcantiana. Fondata com’è sul silenzio mantenuto sull’accidente, questa osservazione apparirà certamente arbitraria a quanti, non a torto, chiedessero fatti: non
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assenze, ma presenze. E si riconosca il buon diritto degli obiettanti: sebbene sia da considerare come un fatto, e non come un’astratta ipotesi, che Virgilio non era riuscito a spiegare in termini razionali la genesi dell’amore, – perché nascesse, come nascesse, perché prendesse posto nella realtà: con la conseguenza che, come deve ripetersi, dal difetto, e quindi dal fallimento, della sua spiegazione, la tesi dell’accidentalità dell’amore era stata, implicitamente e, certo, contro le intenzioni, rimessa in gioco. Perché, d’altra parte, quella fornita da Virgilio non fosse riuscita a essere una spiegazione, si capisce con facilità, ed è stato già detto. Per sforzi che si compiano, non è, francamente, dato di intendere perché, dal «volgersi» dell’«apprensiva» all’«esser verace» si passasse al «piegarsi» verso di esso e, quindi, all’amore; che, se non fosse stato anticipato a ciò da cui avrebbe dovuto derivare, e non avesse perciò avuta la sua causa nel suo stesso accadere, il processo non si sarebbe avviato e non avrebbe avuto spiegazione. Alla questione che, essendo presente nel fondo del suo pensiero, non era riuscita a emergerne, era inevitabile che Dante non avesse dato risposta. Sebbene il suo sforzo fosse stato diretto a dar conto della genesi dell’amore all’interno di un sistema in cui ogni passaggio avesse la sua razionale spiegazione, il risultato non aveva corrisposto all’intento. Da non confondere con questo, diverso da questo, era infatti il problema che, proseguendo nell’analisi, egli pose a sé stesso e affidò a Virgilio perché lo risolvesse per lui. Dopo aver conclusa, attraverso il paragone con il fuoco che sale «in altura», la sua descrizione dell’amore, che è un «desire», un «moto spiritale», che «mai non posa/ fin che la cosa amata il fa gioire», Dante scrisse i versi che si sono commentati qui su; e alla questione impresse un ulteriore svolgimento. Con quello della genesi, e facendo tutt’uno con esso, il problema che gli stava in mente riguardava infatti la «bontà» o la non bontà dell’amore che si sceglieva di coltivare. Riguardava la scelta che si faceva dell’uno o dell’altro: la scelta e, perciò, il libero arbitrio. E, invece di avviarsi verso una positiva conclusione, si complicava. Se, «forse» (e occorrerebbe poter spiegare perché Dante usasse questo avverbio) la materia appariva «sempre esser buona», e tale dunque che la sua «cera» era in sé stessa disposta a ricevere segni di diversa natura morale, è evidente che, piuttosto che esserne risolta, da questa battuta la questione era resa più complessa. Posto che «materia» e «cera» stessero qui a significare l’amore, non nella sua attualità, ma nella sua disposizione a esser reso attuale come
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amore, ancora una volta il discorso riconduceva a lui come causa, o atto, di sé stesso, a partire da quella condizione o disposizione: sì che si avrebbe torto, e ci si lascerebbe sfuggire il punto centrale della questione, se, saltando un passaggio, non si considerasse che è l’amore in atto, l’amore che si possiede nella sua esplicita physis di amore, e che, modellando la sua «cera», ha dato forma alla sua «materia», quello che, a seconda della buona o non buona volontà morale di chi lo viva, riceve il carattere della bontà o della cattiveria, della «laudabil cosa» o del suo contrario. È l’amore come forma; non l’amore come «materia», che amore, nel senso autentico della parola, non è. E qui, se questa distinzione è chiara, deve farsi attenzione. La questione che a questo punto si delineava era infatti ben più radicale di quella che, dichiarandosi insoddisfatto di quanto fin lì gli era stato spiegato, Dante poneva a Virgilio; che, per un verso la accoglieva e, per un altro, la rinviava alla divina sapienza di Beatrice. E importava infatti che del merito o del demerito che, rispettivamente, si sarebbero acquisiti se l’amore fosse stato indirizzato sulla «dritta o torta» via, si trattasse dopo che si fosse affrontata l’altra che, in primo luogo, concerneva la natura dell’amore; che doveva ben possedere un «in sé», e una ben riconoscibile physis, se si pensava di poterne fare il soggetto di opposte predicazioni morali. Se, per altro, così stavano le cose, se, avendo un «in sé», dell’amore era perciò ben possibile che si parlasse con riguardo a questa sua natura specifica, è un fatto che di questa Dante non parlò, che questo punto gli sfuggì, e che, saltando un passaggio cruciale, dall’amore passò alla libertà di usarlo in un modo o in un altro, di usarlo bene o di usarlo male: senza dunque aver detto che cosa, in sé, fosse, e senza essersi accorto che, per poter essere usato in un senso o in un altro, quello doveva di necessità possedere una natura: che fosse atto, quindi, e non solo potenza. Si cadrebbe infatti in un grave equivoco se si pensasse che l’amore non coincidesse con la forma imposta dal suo atto alla sua materia, alla sua «cera»; e se per conseguenza ci si lasciasse sfuggire il tratto peculiare che il ragionamento dantesco dovette assumere, e che può essere indicato nella duplicazione dell’atto che in esso ha luogo. Non è forse evidente, in questo ragionamento, che l’amore era, per un verso, atto della sua materia, forma impressa alla sua «cera», e che, per un altro, restando atto, si poneva tuttavia come la materia della diversa elaborazione che poi subiva per effetto della volontà buona o di quella cattiva? Si apriva qui, ben al di là dei termini in cui la questione era stata racchiusa da Dante, una questione assai pungente; che riguardava il carattere dell’«in sé» che l’amore aveva mostrato di non
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poter non possedere. Di che natura era, se, per un verso, era forma della sua materia, e, per un altro, materia, o comunque «soggetto», della volontà che lo qualificava come diretto al bene o al male? In quanto forma della sua materia, stava al di qua degli esiti, buoni o cattivi, che la volontà avrebbe determinati. Non era perciò né buono né cattivo. E tale, ossia né buono né cattivo, doveva essere considerato in quanto lo si fosse definito come il soggetto di quelle due possibili, opposte predicazioni. A rendere esplicita questa conseguenza Dante, certo, in questo canto del Purgatorio, non giungeva. Ma la conseguenza vi era implicita, e ben visibile. Se non la si cogliesse, ci si lascerebbe sfuggire quanto di conflittuale, e di non risolto, si agitava nel fondo del suo pensiero. Il richiamo che, a questo punto, Dante faceva della libertà e della moralità era infatti tanto più drammatico in quanto, illuminando di luce diretta e violenta il campo sul quale la discussione relativa all’amore si era svolta fin lì, rendeva ancor più evidente che del suo insorgere e, quindi, della sua physis, non era stata fornita la spiegazione razionale che egli riteneva invece di aver offerta al lettore. Dovrà perciò, a questo punto, aggiungersi l’osservazione decisiva: quella secondo cui, poiché la moralità è moralità, e non è amore, e alla natura di questo ci si doveva tuttavia richiamare perché il carattere della bontà gli fosse assegnato, e fosse vero amore, alla moralità, come del resto al suo opposto, sarebbe stato impossibile condurlo, se quella natura non fosse prima stata affisata in sé, ossia nel suo essere anteriore al bene o al male. La conclusione era perciò, nelle cose, e al di qua delle parole che non la coglievano per quel che era, altamente paradossale. Andava al di là di quanto fin qui si è detto. Era infatti che se, per essere buono, l’amore richiedeva l’intervento della moralità, segno era che, senza perciò essere cattivo, in sé non lo era; che in sé era proprio quale Cavalcanti lo aveva definito in Donna me prega, o, se non identico, assai simile a quello che era stato descritto nella grande canzone. Che, mentre componeva questi versi, Dante l’avesse in mente per confutarla, è certo; come anche lo è che, nel momento in cui, per un verso, conduceva al più alto grado la polemica diretta contro la dottrina che vi era sostenuta, per un altro la convalidava con quella sua idea che, in quanto tale, l’amore non potesse non stare al di qua del controllo che la moralità era tenuta a esercitare sulla sua «possanza». Insomma, e su questo occorre insistere, nel momento in cui assumeva che, per essere buono, l’amore dovesse essere etico, e cessare quindi di essere, in senso proprio, amore, Dante avrebbe
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dovuto, a rigore, riconoscere che, in sé stesso, l’amore non era cosa diversa da quella che Cavalcanti aveva affisata: in questo atto, e in forza di questa metabasis, restituendo autorevolezza e «verità» a ciò a cui le toglieva. Era, dunque, un esito moralistico quello a cui la discussione aveva messo, o stava mettendo, capo. Ma anche era tale che, all’improvviso, al di qua della sua risoluzione etica, nell’amore rivelava una potenza ambigua e pericolosa, ambigua e temibile, che, lasciata a sé stessa, e osservata iuxta propria principia, delineava la conseguenza paradossale, che qui su è stata indicata. Considerato nel suo «isolamento», l’amore era assai più simile a quello teorizzato da Cavalcanti che non all’altro che lui, Dante, aveva cantato in lode di Beatrice. Era più simile a quello che lo aveva ispirato quando altre donne erano entrate nel cerchio della sua fantasia, e, nei sentimenti che gli suscitavano dentro, egli le aveva ritratte e cantate con modi non troppo dissimili, talvolta, da quelli tenuti, nelle sue poesie, dal suo «primo amico». Non che, nella prospettiva teorica delineata in questi canti del Purgatorio, a questi, in termini espliciti, egli avesse concesso qualcosa. È vero il contrario; e si deve ribadirlo perché, altrimenti, non si comprenderebbe che fu proprio la forte istanza etica che lo aveva indotto a sottomettere l’amore alla regola inflessibile della «ragione», e a farne, in ultima analisi, qualcosa di diverso, a lasciare libero il campo al suo autentico «sé stesso», e, in forme oblique, a riconoscere la sua autonomia nei confronti della forza a cui era pur necessario che lo si assoggettasse. Ebbene, se a queste conseguenze, implicite ma nette, si tiene fermo lo sguardo, deve ribadirsi che era con il vecchio avversario cavalcantiano che, dopo averlo trasferito in sé, o in una parte di sé, Dante stava combattendo per debellarlo. Ma la battaglia, che in tal modo egli conduceva, aveva essa distribuite le parti, rendendole, in qualche modo, insuperabili entrambe. Senza che se lo fosse proposto, l’amore era stato assegnato tutto alla parte di Cavalcanti. A lui, Dante, ne era stata assegnata un’altra: quella di chi all’amore, a quel che in sé l’amore era, metteva fine, nel nome della libertà e della moralità, che al loro dominio avevano il compito di assoggettarlo. Mai, forse, come in questi versi del decimottavo del Purgatorio, i due amici di un tempo erano tornati a essere vicini. Mai, per le ragioni che si sono addotte, erano stati altrettanto lontani.32 Dell’intero canto decimottavo, il passaggio più drammatico è quello che può essere osservato nei vv. 70-72: «onde, poniam che di necessitate/
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surga ogne amor che dentro a voi s’accende,/ di ritenerlo è in voi la protestate». Alla «necessità» cavalcantiana dell’amore Dante contrapponeva la libertà di «ritenerlo» o di non ritenerlo, di soggiacervi o di far trionfare sul suo l’opposto potere della libertà, appunto, e della moralità. Che era un paradosso, se quella dell’amore era rappresentata come una «necessità». Il paradosso stava infatti nell’assumere che, insolubile per un verso, la questione relativa al superamento dell’amore, che, se è una necessità, è irresistibile e ha già perciò conseguita la sua vittoria, potesse essere risolta introducendo nel gioco l’idea di una virtù innata, definita come intelletto delle prime notizie e dei primi appetibili (vv. 55-57). Era una tesi debole; che, mentre indicava la via della soluzione, ne mostrava, nell’intrinseco, l’impercorribilità. E forse non è un caso che, consapevole di tutto questo, Dante affidasse la sua soluzione, non a Virgilio, ma a Beatrice, qualora fosse capitato che questa avesse avuta, in seguito, l’occasione di parlarne. Non dunque alla filosofia, ma alla teologia, e, in ultima analisi, alla fede. Era, in effetti, una questione assai ardua quella nella quale Dante si era involto. E alla difficoltà aggiungeva difficoltà. Pensata come a lui accadeva di pensarla, la libertà, nella quale indicava la sostanza della vita morale, era, nella sua radice ultima, non libertà, ma dono del cielo, una virtù discesa ab extra nell’anima dell’uomo perché ne fosse esercitata: essendo quello, tuttavia, nei suoi confronti, necessitato e non libero, e non in grado, sopra tutto, di spiegare, a sé stesso e agli altri, in quali modi, e per quali vie, potesse darsi ragione di questo arduo, e sfuggente, concetto. L’amore teorizzato da Cavalcanti aveva i caratteri che a lungo sono stati analizzati in queste pagine; e non occorre perciò dire di nuovo perché con la libertà quello non fosse compatibile. Ma, nell’accezione in cui Dante la prendeva, la libertà presentava un volto ambiguo. In sé stessa mostrava di essere il contrario di sé stessa. Mostrava il volto, non della libertà, ma del suo contrario/ opposto, il volto della necessità. E di questo dovrebbe tener conto chi ritenesse che bastasse aver detto e letto «libertà» perché, alle parole ispirate, tenessero dietro i concetti rigorosi. Non è così, infatti. E sarebbe indizio di animo bigotto ritenere, o cercar di persuadersi, che lo sia. Non perché, nella sede in cui ci troviamo, sia strettamente necessario e il contesto lo richieda, ma per l’obiettiva importanza della questione che, connettendola con quella dell’amore, Dante aveva ripresa nei vv. 70-75 del diciottesimo del Purgatorio, non sarà inopportuno dedicare al tema del
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libero arbitrio qualche ulteriore considerazione. A parte il breve cenno, puramente descrittivo, che si trova nel quinto del Paradiso, ai vv. 19-24 («lo maggior don che Dio per sua larghezza/ fesse creando e a la sua bontate/ più conformato e quel ch’e’ più apprezza, fu de la volontà la libertate;/ di che le creature intelligenti,/ e tutte e sole, fuoro e son dotate»), è nella seconda cantica che quel tema fu in particolar modo trattato. Già nel sedicesimo canto, Marco Lombardo aveva attribuita alla cecità degli uomini, ignari perciò del loro «libero arbitrio», l’idea che «tutto/ movesse seco di necessitate» (vv. 68-69): un’idea perversa, aveva spiegato, perché, se così fosse stato, e al libero arbitrio non si fosse riconosciuta l’adeguata importanza, non ci sarebbe stata «giustizia/ per ben letizia e per male aver lutto» (vv. 70-71). Ma, al di là di questa implicazione etica, per la quale può forse proporsi il rinvio al De unitate intellectus, III 81, di Tommaso d’Aquino, in quel canto Dante non era andato; come non sarebbe andato oltre la sua semplice citazione alla fine del ventesimosettimo, nelle ultime parole fatte pronunziare a Virgilio: «non aspettar mio dir più né mio cenno: libero, dritto e sano è tuo arbitrio,/ e fallo fora non fare a suo senno:/ per ch’io te sovra te corono e mitrio» (vv. 139-142). La trattazione meno sommaria è perciò quella che già si è incontrata nel canto decimottavo; dove, sia pure in modo molto conciso, egli fece che Virgilio non solo proponesse la connessione fra il libero arbitrio, fonte e ragion d’essere della moralità («color che ragionando andaro al fondo,/ s’accorser d’esta innata libertate;/ però moralità lasciaro al mondo», e «lo ’ntelletto/ de le prime notizie» (vv. 5556), entrambi, dunque, innati nell’uomo e non suscettibili di ricevere una spiegazione ulteriore a quella che li assegnava alla creazione divina, ma, sia pure in un breve accenno, toccasse tuttavia un punto essenziale. Egli rinviò infatti al principio «là onde si piglia/ ragion di meritare in voi, secondo/ che buoni e rei amori accoglie e viglia» (vv. 64-66); e, alludendo, in modo esplicito, del resto, al «libero arbitrio», avvertì il discepolo di farne giusta considerazione, perché, per Beatrice quello non era se non la stessa cosa della ragione («la nobile virtù»). Il punto che, chiarite le cose in questi termini, qui, per altro, sopra tutto interessa mettere in rilievo, riguarda, non tanto il trasferimento che, nel nome di Beatrice, Dante eseguiva della questione del libero arbitrio dall’ambito filosofico a quello teologico, quanto piuttosto il modo tenuto nel trattarla. E che non potrebbe, almeno sotto due riguardi, non essere definito ambiguo, o, se si debba preferire una più decisa espressione, aporetico. La libertà non poteva infatti (e già lo notammo)
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non essere messa fortemente in dubbio dove, come qui avveniva, la si fosse fatta dipendere da una scelta che per intero fosse stata affidata alla ragione che «accoglie e viglia», cioè discrimina, gli amori in «buoni e rei»; dove, perciò, se ne fosse fatta una conseguenza di quel previo atto intellettuale. E c’era, se lo sguardo fosse stato spinto più a fondo, di più. L’intelletto delle «prime notizie» essendo un intelletto innato, e cioè immesso nell’uomo dalla mano stessa di Dio, era impossibile che, come intelletto, non fosse la stessa cosa di quel «vigliare» il bene dal male, e i corrispettivi amori, che impropriamente, perciò, si sarebbe affidato al libero arbitrio, intervenuto, dopo quell’atto discriminativo, a scegliere fra le cose discriminate, ossia fra il bene e il male. Non solo, infatti, se così si fosse ragionato, l’atto discriminativo si sarebbe raddoppiato, essendo eseguito sia dall’intelletto sia dal libero arbitrio. Ma a questo inconveniente se ne sarebbe aggiunto un altro, non meno e, anzi, persino più grave; che sarebbe venuto in piena luce se, in luogo di considerare l’atto assegnato al libero arbitrio come soltanto ripetitivo dell’altro e come, quindi, non essenzialmente distinguibile da quello, lo si fosse distinto, invece, col riconoscergli la possibilità di operare, fra bene e male, una scelta difforme da quella eseguita dalla ragione. Con una conseguenza grave. Che può e deve farsi consistere non soltanto nella ontologizzazione del male che, opposto come «reale» al bene, è altrettanto reale e, a rigore, non può distinguersene. Ma altresì nella grave difficoltà che si dà a vedere nello stesso libero arbitrio; che, in quanto sia il soggetto della scelta o del bene o del male, se sceglie il primo si rivela conforme alla ragione, ma se sceglie il secondo, ne diverge invece, e, restando tuttavia sé stesso, si connota in termini negativi. Che infatti la ragione non si divida riproducendo in sé stessa le alternative a cui dà luogo; che, per sé stessa, sia il bene ed è perciò come se assolutizzasse il termine positivo dell’antitesi, è evidente. E dovrebbe facilmente essere ammesso. La questione, del resto, si presentò negli stessi termini in Monarchia I xii 3-5, anche se alquanto più ampia ne fosse, in quel luogo, la trattazione. Con nettezza, Dante vi distinse tre momenti: dell’apprensione, del giudizio, dell’appetito. E scrisse così: Et ideo dico quod iudicium medium est apprehensionis et appetitus: nam primo res apprehenditur, deinde apprehensa bona vel mala iudicatur, et ultimo iudicans prosequitur sive fugit. Si ergo iudicium moveat omnino appetitum et nullo modo preveniatur ab eo, liberum est; si vero ab appetitu quocunque
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modo preveniente iudicium moveatur, liberum esse non potest, quia non a se, sed ab alio captivum trahitur.
Ebbene, non è forse evidente, anche qui, una difficoltà analoga, anche se connotata in termini di maggiore complessità, a quella che fu notata nell’impostazione che al problema Dante aveva data nel decimottavo del Purgatorio? In quanto, seguendo all’atto apprensivo e, quindi, al giudizio che nella res apprehensa coglie o il bene o il male, l’appetitus ne sia volto al bene, il libero arbitrio sarà tutt’uno con il giudizio, e questo con lui: con la conseguenza, per altro, che, in questa visione, ci sarà bensì spazio per l’atto intellettaule del giudicare, ma non per quello del volere, che ne è infatti per intero assorbito. Insomma, il giudizio sarà bensì libero dall’appetitus, che non lo precede, infatti, perché gli tiene dietro. Ma sarà tuttavia giudizio, non volontà: quella volontà che, nella sua radice, è volontà, e non giudizio, se è vero che, nella quaestio stessa che lo concerne, non senza sostanziale ambiguità, il libero arbitrio si definiva, nelle parole di Dante, come liberum de voluntate iudicium (I xii 2). In quanto, viceversa, sia il giudizio a essere condizionato dall’appetitus, e, potrà intendersi, il volere se ne sia reso indipendente, alla non libertà del primo corrisponderebbe la libertà del volere se, avendolo inteso alla stregua di un puro appetito, Dante non l’avesse considerato come, rispetto al giudizio, di non pari dignità assiologica, e anzi, almeno in questo caso, come un’energia cieca che, con decisione ineluttabile, si volge a male. Il che non sorprenderà chi ricordi che in Monarchia I xi 6, esplicitamente Dante aveva parlato della voluntas che, ubi […] ab omni cupiditate sincera non est, sebbene vi sia in essa della giustizia («etsi assit iustitia»), fa sì che questa ne sia appannata in fulgore sue puritatis: proprio, si direbbe, come accadeva al iudicium nel caso in cui fosse stato preceduto, e non seguìto, dall’appetitus. Ne conseguiva insomma che tanto più la libertas arbitrii si sarebbe realizzata nella sua purezza, quanto più la voluntas fosse stata tenuta a freno, o, meglio ancora, compenetrata dal iudicium, e a questo resa o dimostrata identica: come non dovrebbe sfuggire a chi, con la dovuta attenzione, considerasse quel che, a conclusione del ragionamento, Dante disse dei «bruti» che iudicium liberum habere non possunt, quia eorum iudicia semper ab appetitu preveniuntur, e, al polo opposto, delle substantie intellectuales […] necnon anime separate bene hinc abeuntes (I xii 5), le cui volontà sono immutabili perché scevre di ogni appetito che non sia per intero soddisfatto dalla perenne contemplazione di Dio.
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Note
1. Cfr. cap. 1, n. 39. 2. Convivio, III i 3-4. 3. Nella loro edizione del Convivio (I, Firenze 19542, p. 257). 4. Donna me prega, v. 59. 5. O «diletto» (Donna me prega, v. 27). 6. Per questa citazione dantesca, cfr. B. Nardi, Dante e Alpetragio (1924), in Id., Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967, pp. 161-166. 7. Convivio, III ii 6-7. 8. Ibidem, 7-9. 9. Ibidem, 11-14. 10. La cronologia del De vulgari eloquentia non è chiarita, se mai è resa più incerta dal passo del Convivio, I v 9, in cui Dante annunziò il proposito di tornare sulla questione da lui trattata in quel capitolo (e cfr. infatti De vulgari, I ix 7). Non può escludersi infatti che il proposito fosse in via di attuazione. Cfr. comunque. P.V. Mengaldo, ED, II, 401 a-402 b; e anche infra, n. 14. 11. Convivio, III ii 15-16. 12. Cfr., per questo, il mio Dante. L’Imperatore e Aristotele, pp. 183-252. 13. Il passo prosegue dicendo che, come questa mente prima si «predica delli uomini, ove dice alla Filosofia: “Tu e Dio, che nella mente [te] delli uomini mise”», poi di «Dio, quando dice a Dio: “tutte le cose produci dallo superno essemplo, tu, bellissimo, bello mondo nella mente portante”», così, e per contro, non «mai di animale bruto predicata fue, anzi di molti uomini, che della parte perfettissima paiono defettivi, non pare potersi né doversi predicare: e però quelli cotali sono chiamati nella grammatica amenti e dementi, cioè sanza mente» (III ii 17-18). Il passo di Boezio è Cons. phil. I iv 8, e il carme 9 del terzo libro (La consolazione della filosofia, ed. C. Moreschini, Torino 1994, pp. 98 e 212): cfr. la nota del Vasoli nella sua ed. del Convivio (in Opere minori, I/2, Milano-Napoli 1988, p. 313). 14. Cfr. la datazione proposta, per la Commedia (1304-1321), per il De vulgari (13031304), per il Convivio (1304-1307) da G. Petrocchi, Itinerari danteschi, Adriatica, Bari 1969, p. 85, e Vita di Dante, Bari 1983, p. 102. Ma cfr. anche Inglese, L’intelletto e l’amore, pp. 57-60. 15. Penso, naturalmente, a tesi come quelle di Pietrobono e, in parte, di Nardi. Per quest’ultimo, gioverà tener presente anche l’antologia commentata che egli fece dei testi concernenti La filosofia di Dante, in Grande Antologia filosofica, diretta da U.A. Padovani, coordinata da A.M. Moschetti, Milano 1956, pp. 1150-1253. 16. Spetta a E. Malato, Amor cortese e amor cristiano, in Id., Lo fedele consiglio de la ragione, Roma 1989, pp. 126-228 (ma 207-214), che ha ripreso questa tesi nel suo recentissimo Cavalcanti nella “Commedia”. Il “dialogo” ininterrotto fra Dante e Guido, in «Rivista di studi danteschi», 6 (2007), pp. 217-240 (ma 23-40), il merito di aver colto,
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nei canti decimosettimo e decimottavo del Purgatorio, la implicita, ma netta, polemica anticavalcantiana. Chi porrà a confronto la sua esegesi e la mia noterà le differenze che qui sarebbe pedanteria segnalare in modo puntuale. 17. Varrà, anche in questa sede, la pena di osservare che la risposta data da Dante (Inf. X 61-63) alla domanda, anzi alle (due) domande rivoltegli da Cavalcante (vv. 58-60, e 67-69), fu di proposito ispirata a quello «stile», fatto insieme di allusività e di reticenza. A rigore, infatti, soltanto alla seconda delle due Dante rispose, affidando per altro a Farinata sia il compito di riferire a Cavalcante, caduto «supino» giù nel sepolcro infuocato, che il figlio era in realtà ancora vivo, sia la ragione dell’equivoco che aveva provocato il suo smarrimento e, appunto, la sua caduta. Quando a Cavalcante dette quella risposta, Dante non sapeva quel di cui fu poi reso edotto da Farinata, e cioè che i dannati vedono bensì le cose lontane, ma non quelle vicine («quando s’appressano o son, tutto è vano/ nostro intelletto; e s’altri non ci apporta, nulla sapem di vostro stato umano» [vv. 103-105]). Non sapeva dunque che quel padre ignorasse che Guido non era morto; e di questo e cioè del suo essere vivo, volle che Farinata lo informasse (vv. 109-110). Alla cripticità della sua prima risposta, che, a causa del verbo coniugato al passato («ebbe»), aveva provocato lo smarrimento e, quindi, la «caduta» di Cavalcante, ma anche alludeva a gravi questioni, Dante non si curò invece di aggiungere una chiosa che chiarisse il senso del «disdegno» che, a Guido, aveva vietato di essere con lui nel viaggio che, con la guida di Virgilio, aveva intrapreso nell’al di là. Della natura del «disdegno» non fece parola; e così, implicitamente, suggerì e lasciò intendere che, se di quell’argomento avesse dovuto parlare, si sarebbe trovato nella necessità di alludere, ma con parole chiare, al forte contrasto che, si fosse trattato di Virgilio, di Beatrice o, magari, addirittura di Dio (cfr., in proposito, il mio saggio, Sul “disdegno di Guido”, in Studi sulle società e le culture del Medioevo. Per Girolamo Arnaldi, a cura di L. Gatto e P. Supino Martini, II, Roma 2002, pp. 581-610), lo aveva diviso dal suo «primo amico». Se è così, nell’ambiguità e nella parzialità della risposta di Dante deve cogliersi la riprova della gravità, appunto, di quel contrasto e delle conseguenze a cui aveva aperta la via: prima fra tutte, direi, l’impossibilità, per l’autore di Donna me prega, di farsi, a causa della concezione dell’amore che vi era delineata, giudice, con Dante, dei peccati umani (quello dei lussuriosi, in particolare), accompagnandolo perciò nel viaggio ultraterreno. Ma anche, direi, deve vedervisi l’intenzione di «drammatizzarlo», quel contrasto, e di intensificarne la gravità, esprimendolo con parole oscure, e allusive a non facilmente sondabili profondità. Si aggiunga che risponde a questa esigenza di drammatizzazione l’idea di «rappresentare» quel contrasto dinanzi agli occhi di un padre pateticamente sollecito della sorte del figlio e della sua fama letteraria. E tanto più, direi, in quanto, non essendoci prova che Dante avesse stretto amicizia con Guido prima del 1283 (cfr. M. Marti, Guido Cavalcanti, ED, I, 891 a) quando, appena diciottenne, gli inviò il sonetto A ciascun’alma presa e gentil core (che compare come il primo della Vita nuova, e al quale quello rispose con Vedeste, al mio parere, onne valore), non appare probabile che la sua persona fosse nota a Cavalcante, la cui vita non andò, parrebbe, oltre il 1280. Facendo che questi lo riconoscesse alla voce durante il concitato suo dialogo con Farinata, e forzando perciò i tempi, Dante fornì all’evento della sua rottura con Guido uno sfondo familiare, che tanto più ne intensificava la drammaticità. Deve anche aggiungersi che l’allusione di Cavalcante alla «altezza d’ingegno» di Dante non implica di necessità che positivamente gli sapesse dei suoi meriti intellettuali, e che piuttosto li deducesse dal suo essere, vivo, in viaggio nell’al di là. (Poiché qui su mi
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è accaduto di citare il saggio che anni fa scrissi sul «disdegno» di Guido, e che è stato ora rielaborato in vista di una sua possibile ripubblicazione, vorrei precisare che allora non mi era chiaro quel che adesso mi appare evidente: e cioè non solo che la ragione profonda della differenza che si era stabilita fra i due poeti «amici» stava non solo nella diversa dottrina dell’amore che l’uno professava in contrasto con l’altro, ma nella non imputabilità morale dell’amore implicita nella concezione che Cavalcanti ne aveva delineata: sì che è nel canto quinto dell’Inferno che deve trovarsi la ragione di quel che, cripticità a parte, avverrà, di fronte agli «eretici» Cavalcante e Farinata, nel decimo. [Di alcune interpretazioni recenti del «disdegno di Guido» mi propongo di render conto nell’eventuale riedizione di quel mio saggio: cfr, per alcune indicazioni, A. Gessani, Dante, Guido Cavalcanti e l’”amoroso regno”, Macerata 2004, pp. 203-243]). 18. Sull’impossibilità che, assumendo come criterio quel che è detto in Donna me prega si potesse viaggiare nell’al di là cristiano, pronunziando giudizi conformi al modo in cui cui Dante l’aveva ordinato, occorre insistere. Malato, Dante e Guido Cavalcanti, pp. 103-104, ebbe certamente ragione nell’asserire che quelli che egli definisce come il «pessimismo», l’«incredulità» nella possibilità redentrice dell’uomo e il conseguente dispregio del cristiano «al di là», impedirono a Guido di essere con Dante nel viaggio della salvezza. Ma non direi però che quella cavalcantiana fosse, in Donna me prega, una «teorica contestativa della ragione» (p. 103), anche se non professata «in modo continuativo, o almeno iterato». Non era l’impotenza della ragione che Cavalcanti dichiarava in quella sua canzone: quasi che, a suo parere, essa fallisse in un compito che, non sentendolo come estraneo, non fosse tuttavia capace di eseguire e condurre a buon fine. Era bensì il suo essere «separata» nella sua perfezione, nel suo «perpetüal effetto»: in modo tale che, se questi suoi caratteri fossero interpretati come altrettanti documenti di impotenza redentrice, palesemente si uscirebbe fuori del cerchio logico della sua considerazione, che, lungi dal «contestare» la ragione, la poneva, al contrario, così in alto da non concederle il contatto con quel che, a opera dell’«accidente» chiamato amore, avveniva nell’anima sensitiva, «perfezione» bensì anch’essa, ma del corpo, non della mente. Come poi, posta e tenuta ferma la separazione, potesse accadere che, nell’individuo colpito dal «dardo» delle «bieltà», o da queste che, esse stesse, sono «dardo», si producesse «per sorte», ossia per accidens, συμβεβηκώς, una sofferenza tale da non potersi dire che si avesse «vita» (v. 40), tanto che il suo esito era, «spesso», la morte, – questo, come si è visto nel testo, è un non facile problema della psicologia averroistica, che coinvolge in sé la definizione di che cosa sia, in essa, l’uomo; un problema che, fatta la sua parte al topos, deve il più che sia possibile essere mantenuto entro i limiti di quella, e della conseguente spiegazione filosofica. Che poi questa «separazione» potesse, e dovesse, apparire a Dante, che non ne condivideva il tema teoretico, come una paradossale e inaccettabile rinunzia al giudizio etico da esercitare sulla passione d’amore, è quel che risulta dal suo diverso pensiero; che va naturalmente apprezzato per quel che è, senza incorrere tuttavia nel rischio che non potrebbe essere evitato qualora, assumendo come «ragione» soltanto quella teorizzata da lui, se ne deducesse che non era ragione quella che Cavalcanti aveva delineata in Donna me prega. E invece lo era, al massimo grado: anche se frutto di una diversa interpretazione del testo di Aristotele. – Malato è ritornato sulla questione nella seconda edizione del suo libro (Roma 2004, pp. 193-194), ribadendo in sostanza la sua tesi: a rinforzo della quale, L. Azzetta, “Fervore aguto”, “buon volere” e “giusto amor”. Lettura di Purgatorio XVIII, in «Rivista di studi danteschi», 6 (2006),
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p. 250 n. 22 ha notato che, «unico tra gli antichi commentatori» di Dante, Andrea Lancia aveva esplicitamente legato a Donna me prega il «disdegno di Guido». Gli era sembrato infatti che la risposta data a Cavalcante fosse «chiara», poiché in essa si mostrava che «l’uomo per sé senza fornimento di naturale scienza, non è soficiente ad investigare le cose segrete della natura, e appresso che Guido non seguitòe la vertù del suo ingegno nello studio naturale avegna ch’egli n’avesse il nome per quella canzone che fece, che comincia “Donna me prega”» (il testo si può leggere anche in L. Azzetta, Le chiose alla “Commedia” di Andrea Lancia, l’“Epistola a Cangrande” e altre questioni dantesche, in «L’Alighieri», n.s., 21 (2003), p. 60. In effetti, se la connessione con il «disdegno» è, senza dubbio molto sagace, non altrettanto potrebbe dirsi per l’intelligenza della canzone, interpretata come il documento dell’incapacità mostrata da Guido di «investigare le cose segrete della natura» e contrapposta perciò alla diversa attitudine dantesca. 19. Purg. XV 77-126. 20. Per questa distinzione, da vari commentatori (cfr., per tutti, Sapegno, II, p. 189) fu addotto Thomae Aquin. Summa theol. I, q. 40, a. 1. Ma, proponendo l’incidentale distinzione dell’amore naturale da quello intellettuale, mi sembra che il passo non sia citato a proposito; non è questa, infatti, la distinzione che Dante aveva in mente. Ricordo che P. Rajna, Il canto XVII del Purgatorio, in Letture dantesche, II, Purgatorio, a cura di G. Getto, Firenze 1958, pp. 341-347, dopo aver osservato, ed era, sulla sua bocca, asserzione quanto meno singolare, che «le indagini mettono sempre più in evidenza che fonte precipua del pensiero di Dante è la mente sua propria» (p. 3441), per suo conto indicò Summa theol. I/2, q. xxix, a. 1. Ma, anche in questo caso, senza vera necessità. 21. In un bel saggio, ricco di dottrina e di preziosi suggerimenti, P. Falzone, Psicologia dell’atto umano in Dante. Problemi di lessico e di dottrina, in Filosofia in volgare nel Medioevo, a cura di N. Bray e L. Sturlese, Louvain-La-Neuve 2003, pp. 341-342, n. 33, ha osservato che, come meglio si sarebbe visto in Purg. XVIII 19-39, la «lezione» di Virgilio è fondata sulla «distinzione di apprensione desiderativa e appetito deliberato», e che «il movimento che suscita nell’animo un oggetto sensibile non è qualificabile come amore; esso è semplicemente un’inclinazione, non suscettibile di valutazione morale, che affetta l’animo, il quale è disposto, per natura, a volgersi a tutto ciò che in qualunque modo partecipi dell’idea del bene. Ma quell’inclinazione non è ancora un piegare, non è ancora, cioè, volontà deliberata. Questa sopravviene all’animo soltanto dopo che la ragione ha vagliato la natura dell’apprensione desiderativa». L’osservazione è giusta, in relazione a quel che si legge in Purg. XVIII 19 ss. Ma sulla distinzione posta fra il «volgersi» e il «piegarsi», si veda comunque nel testo, dove ho provato a far vedere come, in forza di questa impostazione, Dante giungesse, per un verso, a risolvere l’amore in moralità dissolvendolo in questa, e, per un altro, proprio per questo, a restituirlo, praeter intentionem, a una cruda fisionomia cavalcantiana. 22. L’espressione «o con più cura/ o con men che non dee corre nel bene» (Purg. XVII 100) è fortemente contratta, e deve, se la si vuole intendere, essere scissa nelle due alternativa che vi compaiono. L’amore, che «con men [cura] che non dee» corre nel bene, è bensì «male», anche se non si direbbe che coincida, senz’altro, con quello a cui l’animo «si torce»: se quest’ultimo è, propriamente, il male, l’altro sarebbe da intendere piuttosto come «non bene». L’amore che «con più cura» si volge al «bene», e vi si dirige, in tanto non è autentico amore, in quanto per «bene» qui deve intendersi, non Dio, ma il «bene» mondano. «Bene»,
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dunque, sta qui a significare due cose diverse: Dio e le cose del mondo. La distinzione dei due diversi significati presenti nello stesso termine «bene» adoperato da Dante dev’essere perciò ricavata dalla contrapposizione della «minore» alla «maggior» cura, del «troppo» al «poco» vigore (v. 96); e anche deve aggiungersi che la «minor cura» con cui ci si volge al (vero) «bene» sembra implicare la differenza fra ciò che propriamente è «male» (v. 100) e ciò che, piuttosto che male, è «non bene» (una differenza sulla quale non occorre che, per altro, ci si soffermi e si discuta qui). C. Grabher, La Divina commedia, II, Purgatorio, Firenze 19403, p. 203 e Sapegno, II, p. 189, hanno ben restituito il senso complessivo del passo (mentre mi sembra assai confusa la glossa di M. Porena, La Divina Commedia, II, Bologna 1957, pp. 164-165): senza rilevare, per altro, il duplice e diverso significato che il termine «bene» assume in questi versi, e i vari fraintendimenti di cui sono stati oggetto. Da parte, per esempio, del Pietrobono, La Divina Commedia, II, Purgatorio, Torino-Milano 1935, p. 228, il quale ritenne che le cose, come le definiva, «buone», non fossero amate in modo giusto sia che le si amasse troppo, sia che le si amasse poco, e si lasciò sfuggire per intero il senso del passo; o della Chiavacci Leonardi, II, p. 508, la quale parlò di un andare «verso il bene con maggiore o minor sollecitudine (cura) di quel che non dovrebbe», senza evidentemente chiedersi come sia passibile di censura chi con «troppo» vigore lo ami e lo persegua. 23. Definisco «centrali» questi canti del Purgatorio solo perché stanno al centro della cantica, senza discutere intorno alle conseguenze numerologiche che ne trasse Ch.S. Singleton, La poesia della Divina Commedia, tr. it., Bologna 1988, pp. 451-462. 24. Par. XXIX 79. 25. Sulla questione dell’odio, cfr. le considerazioni di Rajna, Il canto XVII del Purgatorio, pp. 344-345, interessanti, ma non decisive. 26. Una lucida parafrasi di questi versi in Falzone, Psicologia dell’atto umano, pp. 341-343. 27. Purg. XVII 112-126. 28. Purg. XVII 114. «Limo»: «idest in vobis hominibus; quia primus homo factus est de limo terrae, et ab ipso contraxit omnem amorem mali» (così Benvenuto da Imola, Comentum super D. Alagherii Comoediam, a cura di G.F. Lacaita, III, Firenze 1887, p. 469, indicato da Sapegno, II, p. 190, che aggiunse la citazione di Gen. 2, 7, e, indirettamente, ripreso dalla Chiavacci Leonardi, II, p. 509). Ma si ricordi il Landino, Comento sopra la Comedia, III, p. 1316: «in vostro loto, quasi non per ragione, la quale è divina parte nell’anima, ma per sensualità, che procede dalla contagione del corpo chosa terrestre». 29. Queste pagine erano già state scritte, e il libro era da tempo arrivato alla sua conclusione, quando ho potuto prendere visione della «lettura» di Azzetta, “Fervore aguto”, pp. 241-279: un saggio ricco di spunti interessanti, al quale rinvio anche per le indicazioni bibliografiche (p. 241, n. 1). 30. Cfr., al riguardo, Nardi, Dante e la cultura medievale, p. 138. 31. Purg. XVIII 22-27. Prima F. Torraca, La Divina Commedia (1905), Milano 1992, p. 469, quindi, indipendentemente (parrebbe) da lui, Nardi, La filosofia di Dante, p. 1199, n. 3, hanno, a proposito di questi versi, posto problemi. Di natura in primo luogo testuale quelli sollevati dal Torraca; che, ai vv. 22-27, propose di leggere: «vostra apprensiva, da essa, verace/ tragge intenzione, e dentro a voi, la spiega/ sì, che l’animo, ad essa, volger face;/ e se, rivolto, in ver di lei, si piega/ quel piegare è amor; quell’è natura,/ che, per piacer,
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di novo, in voi, si lega». La correzione è ingegnosa (e audace): «da esser verace» fu letto come «da essa», sembrando al Torraca che un «essere», qual era apparso a lui, universale, e indeterminato, in questo contesto non potesse aver luogo, e che occoresse perciò trovare un raccordo con «ad ogni cosa» del v. 20: donde, appunto, con la necessità di leggere «ad essa» in luogo di «da esser verace», la convinzione che si dovesse intervenire sul testo. Il Torraca ritenne che, prima si desse «l’impressione piacevole» prodotta dalla «cosa», e quindi, estratta da questa, l’«intenzione», da lui interpretata come «nozione», ossia, diceva con la vivacità che era in lui, come qualcosa da cui sarebbe stato assurdo pensare che potesse nascere l’amore. Come ho detto, l’interpretazione era ingegnosa. Ma insostenibile. Innanzi tutto, per le ragioni egregiamente riassunte da Petrocchi, III, p. 297; e poi perché, e questo è quel che il Barbi, Problemi di critica dantesca, I, p. 227, che la discusse, avrebbe, in primo luogo, dovuto obiettare al Torraca, non si vede quale funzione avrebbe, nel contesto, e, posto che l’«apprensiva» non fosse che «impressione piacevole», donde sorgerebbe, l’atto astraente l’«intenzione» dalla cosa, o dal «verace oggetto» (che ovviamente significa lo stesso). Questo atto avrebbe infatti qualcosa di gratuito; senza dire che fra la «cosa» e l’animo si darebbe una sorta di diaframma, che dovrebbe quindi essere attraversato perché, con la cosa, si ristabilisse il contatto. Detto questo, deve riconoscersi che, senza riuscire a ben discernerne i contorni, una cosa, forse, il Torraca l’aveva vista, o intravista; e cioè la difficoltà che si oppone a chi cerchi di intendere come, dall’«intenzione» si potesse pervenire all’amore, o, con più disteso discorso, dal «volgersi» si passasse al «piegarsi». Ma alla sua intuizione non dette l’adeguato risalto. – A sua volta, nel v. 24, Nardi colse una difficoltà perché, disse, «veramente l’animo si volge non ad essa intenzione, ma all’esser “verace”, conosciuto per mezzo dell’intenzione, com’è confermato dal dubbio (vv. 43-45): “s’amore è di fuori a noi offerto,/ e l’anima non va con altro piede,/ se dritta o torta va non è suo merto”, sì che, logicamente, dovrebbe leggersi “ad esso” (esser verace) e, nel verso successivo, “inver di lui”; a meno che, contro il parere di Aristotele e di Tommaso, Dante non avesse considerata la “intenzione” “id quod” piuttosto che “id quo intelligitur”, che mi pare un po’ ardito». Essendo stato proposto da un conoscitore suo pari del pensiero medievale in ogni suo aspetto, non oserei mai asserire che il rilievo di Nardi sia infondato. Mi sembra tuttavia che, se, a partire per altro dal testo stesso di Dante, la sua osservazione fosse condotta all’estrema conseguenza, anche qui si determinerebbe un curioso circolo. Il testo pone, infatti, come atto iniziale, il contatto con il «verace oggetto» da cui, nel subirlo, l’«apprensiva» trae l’«intenzione»; che non è,tuttavia, in sé stessa, il «verace oggetto» da cui era stata affètta, ma è quel che di esso è ora nell’animo. Il quale vi si volge bensì, considerandolo però non come era in sé, ma, inevitabilmente, come si trovava a essere nell’intenzione che l’«apprensiva» ne aveva tratta. Se è così, il dubbio di Nardi può essere superato; e, con il dubbio, possono non essere accolte le sue, per altro assai caute, proposte emendative. Se, invece, non s’interpreta così, è inevitabile, mi pare, che si vada contro la lettera del testo, e che debba perciò accettarsi una sorta di doppio percorso che dall’oggetto, attraverso l’«apprensiva», conduce all’intenzione, e da questa, per il suo tramite, di nuovo all’oggetto quale è in sé. Nel che mi pare di cogliere un’anomalia, non sanata nemmeno dall’accorta parafrasi di T. Gregory, Intenzione, ED, III, 481 b. 32. Malato, Cavalcanti nella “Commedia”, p. 237, non ha dubbi sul punto che i ciechi duci (per i quali, con altri, ha ricordato Matteo, 14, 14) alludano a Cavalcanti, e che «l’uso dissimulante del plurale» non basti a nascondere il vero destinatario della polemica. Sono
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persuaso anch’io che sia Cavalcanti il protagonista negativo di questa discussine sull’amore; e tutto quel che ho scritto nel testo lo dimostra. Ma non escluderei che, Cavalcanti essendo il primo, anche altri autori fossero nella mente di Dante: come sembra suggerito da ciò che sarebbe stato strano che al poeta di Donna me prega Dante avesse attribuita la tesi secondo cui «ciascun amore» è «in sé laudabil cosa». 33. La lontananza, naturalmente, è nelle «cose». E lo sarà stata anche nella consapevolezza di Dante, quando scriveva la Commedia. Non si spiegherebbero altrimenti, né la domanda di Cavalcante, né la risposta che egli gli dette.
7. Francesca da Rimini
Riprendiamo, a questo punto, e stringiamo insieme, le varie osservazioni che, a proposito di Francesca da Rimini e della teoria cavalcantiana dell’amore, sono state esposte nelle precedenti pagine. Francesca, si è detto, è, come Ulisse, una creatura dell’ananke, dominata da una necessità che la possiede, la avvolge tutta, e alla quale resistere è impossibile. Di esserne prigioniera è tanto consapevole quanto, con dispiacere, lo è (e questo è un tratto che a nessun altro dannato appartiene con pari forza) di non avere amico il re dell’universo; che infatti le è nemico, e sarebbe perciò sordo a ogni preghiera che da lei gli fosse rivolta perché desse «pace» (v. 92)1 al personaggio che la visitava laggiù, nel luogo della miseria e dell’eterna pena. Ma, oltre che consapevole, Francesca, anche questo è stato detto, è una donna di corte; che di questa conosce le regole. E sa di letteratura, sa di poesia, è lettrice di romanzi cortesi. Come Eloisa, alla quale per qualche tratto Dante forse la assimilò, è una donna colta. Come già si ebbe a notare, senza che qualcuno ne avesse svelata a lei l’identità, aveva subito riconosciuto Virgilio nell’ombra che, con Dante, stava compiendo quel singolare viaggio nell’al di là. Lo aveva riconosciuto, deve supporsi, perché lo aveva letto («e ciò sa il tuo dottore»). E come sapeva di lui, e del suo poema, così sapeva di teorie dell’amore. Di qui la triplice definizione che, con naturalezza, e con il tono perentorio di chi a lungo è stato sui testi, essa ne dette, offrendola a Dante in modo che, alla luce di quei concetti, gli fosse dato di meglio interpretare la vicenda che l’aveva travolta, e di comprenderla nelle sue ragioni profonde. Anche sotto questo rispetto, se si guarda con attenzione, il suo personaggio mostra affinità profonde con quello di Ulisse; e anche però rivela ciò che lo differenzia da quello. Al pari dell’eroe greco, essa è a pieno padrona del suo universo culturale e morale, nel quale si
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muove restandovi chiusa nel segno della coerenza. Ma Ulisse racconta, e non teorizza. Il suo appello alla virtù e alla conoscenza è strettamente funzionale all’impresa che con i compagni sta compiendo; e in nessun modo la sua pretesa è di trascenderne il piano per indicarne l’universale valore. Francesca, invece, racconta e teorizza. E questa è la sua peculiarità, questo è il tratto che, fra tutte le anime dell’Inferno, la rende unica. Intrecciando racconto e teoria, essa rientra in quest’ultima, rientrandovi la trascende; che è l’altro modo in cui rende omaggio all’ananke che l’ha posseduta, e travolta. C’è, per altro, in Francesca, qualcosa che, nell’affinità, ulteriormente la distingue da Ulisse. L’antico eroe racconta; e, come non teorizza, così non chiede comprensione, tanto meno pietà; fondamentalmente, il significato della catastrofe che l’ha travolto gli resta estraneo, chiuso e irraggiungibile nell’«altrui» che mise fine al suo viaggio. Nel suo teorizzare, Francesca cerca invece comprensione, e forse anche pietà: a tal punto, anzi, che, non senza ragione, del resto, ritiene anche di averla ottenuta dal personaggio che a lei aveva rivolto l’«affettuoso grido».2 Come tante volte, e a ragione è stato notato, la prima delle sue tre definizioni dell’amore è guinizzelliana.3 E, letta nel contesto, appare tuttavia segnata in modo da alludere alla sua veemenza e irresistibilità nell’insorgere e nel signoreggiare. Guinizzelli aveva scritto, nel suo verso famoso, del «cor gentile», a cui «sempre» amore «reimpara». Ma il suo «sempre» e «reimpara» divennero, nella ripresa che Francesca ne fece, la fulminea («ratto») insorgenza nel «cor gentile» dell’amore,4 che a quello perciò non concede scampo: sì che, nell’atto in cui ne è la sede, anche ne è, per dir così, la vittima. È una sfumatura, non c’è dubbio. Ma anche è il segnale della violenza che il cuore subisce dall’amore. La seconda definizione è quella che più, forse, ha fatto discutere dopo che, da Contini5 in poi, a riscontro è stata citata una sentenza di Andrea Cappellano,6 e a questo autore si è attribuita l’idea, enunciata da Francesca dell’amore «che a nullo amato amar perdona». In realtà, l’assegnazione di questo verso all’area culturale del Cappellano ha fatto discutere, non soltanto perché, quando fu proposta, qualcuno vi colse il segno di un’intenzione dissacratoria, avente a oggetto la celebre interpretazione di Francesco De Sanctis, e, forse, la stessa poesia, ridotta a una sua «fonte» possibile; e ritenne di dover protestare.7 Ma anche per altre, e più concrete, ragioni. Ha fatto, e fa discutere, perché, riprendendo il Singleton, un critico di particolare acribia,8 ha sollevato di recente il problema della
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sua pertinenza testuale, rilevando che il riscontro è formalmente errato; a partire, si direbbe, dalla stessa tesi di Francesca che, se, nel formularla, si appoggiò all’autorità del Cappellano, sbagliò, e con lei a sbagliare fu proprio Dante, che di quella tesi l’aveva fatta autrice. L’amore, che a nessun amato consente di non amare, è quello di cui si dice nel Vangelo di Giovanni, 4, 19, segnalato da Singleton,9 e in quello di Matteo, 22, 38, indicato da Giorgio Inglese;10 ed è, naturalmente, l’amore di Dio, la cui potenza esige che al suo si corrisponda. Sì che rimarrebbe da decidere se da Dante Francesca fosse stata presentata nell’atto di volgere in senso mondano un’asserzione, se non teologica, religiosa, e sua intenzione, sua sottile intenzione, fosse stata di far vedere come, nella violenza usata alla «fonte», e al suo autentico significato, si esprimesse una violenza identica a quella su di lei esercitata dall’amore. Certo, il passo del Cappellano che, al riguardo, si suole citare, dice, se lo si legge nel contesto, proprio il contrario di quel che si è preteso che dicesse: Si hoc enim esset, quilibet horridus, hispidus, agriculturae deserviens vel in plateis publice pro cibo mendicans reginae sibi provocare posset amorem. Sed ne unquam huiusmodi posset inconcinnitas vel rerum absurditas evenire, cuiuslibet generaliter personae amor commisit arbitrio, ut, si velit, amet eum, qui petit amari, vel non amet, si nolit amare.11
E ancora: Sed et, si hanc, quam dicis regulam amor sine omni exceptione servaret illaesam, scilicet ut omnis semper, qui amat, ametur, alterius regulae cursui occurreret naturali. Quilibet enim hominum alterius maioris ordinis libentius quam ordinis aequalis sive minoris sibi quaerere solet amantem, et ideo versa vice mulier, cuius petitur amor, propter regulam dictam et cursum naturae praefatum ordinis aequalis sive maioris libenter petit amorem, ne ab amoris regula generali inique videatur exempta. Apparet igitur ex his manifeste, quod supervacuis laboras impendiis, et tuos postmodum cognosces in vanum emisisse labores.12
Se è così, è evidente che la tesi secondo cui dal suo libro deriverebbe la seconda massima di Francesca non può essere accolta e condivisa. Il che, per altro, non esclude che, per poi attribuirla al suo personaggio, Dante potrebbe averne derivata l’idea da una delle trentuno regole che si trovano alla fine del De amore. Non dalla nona, il cui significato, poiché «amare nemo potest, nisi qui amoris suasione compellitur»,13 è, non che l’amore non possa essere se non corrisposto, ma che sul serio si ama se a ciò si sia
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costretti dalla suasio amoris (e questa è una costrizione/persuasione che riguarda l’amante, non chi di questo sentimento si trovi a essere l’oggetto). Ma dalla ventinovesima: «amor nihil possit amori denegare»,14 nella quale è forse possibile leggere che, se niente l’amore può negare all’amore, sarebbe ben strano che proprio di essere corrisposto gli si negasse. Sia come sia, è certo che, la derivasse dal Cappellano, e da un’articolazione minore del suo pensiero, o la ricevesse invece da un’altra «fonte» che non è stata fin qui individuata, è questa la tesi che Dante attribuì a Francesca, facendo che questa la esponesse e dichiarasse. Ed era, anche questa, palesemente, una tesi ispirata al tema della fatalità e irresistibilità dell’amore: di una potenza, dunque, che, imponendosi alla ragione, non permetteva che questa esercitasse sé stessa nel controllo delle passioni. Su questo punto, e, in genere, sul significato che, nel loro complesso, le «massime» di Francesca assumono nel contesto dei «lussuriosi», sarà necessario fermarsi per una breve considerazione di carattere strutturale.15 Ma non prima di avere ascoltata la terza, che è altresì quella che conduce al punto estremo le precedenti. «Amor condusse noi a una morte». Questa è infatti, non solo l’empirica, se si può dire così, conclusione dell’individuale tragedia della signora di Rimini e del suo illecito amore. Ma, posto che «amore» sia la premessa generale dalla quale le conseguenze inesorabilmente discendono, anche è una conclusione di valore universale: alla quale, come perciò si sarebbe potuto pretendere che il «caso» di Francesca e di Paolo sfuggisse? Di valore universale, dunque, per lei; che, teorizzando in quei termini, la sua individuale tragedia, tanto più ne sottolineava e ribadiva la necessità, la ineluttabilità, e si poneva perciò in obiettivo dissidio con le idee di Dante.16 Il quale, certo, anche lui aveva, in alcune sue poesie, cantata la fatale passione d’amore, a cui, pur combattendo, l’uomo soggiace. Anche a lui, sull’orizzonte dell’amore, si era profilata la figura della morte. E per questo, lo si è già detto, alla fine, vinto dalla pietà, che subito s’era fatta sentire nel suo animo alla vista delle «donne antiche e’cavalieri», era caduto «come corpo morto cade». Ma Dante non aveva mai teorizzato l’amore nei termini in cui l’anima di Francesca osava pensarlo e definirlo.17 E, a questo punto, si pongono un paio di questioni, che meritano di essere discusse. La prima comincia a delinearsi se l’episodio di Francesca sia considerato, non solo in sé stesso, ma anche nel quadro di cui è parte. Francesca è una «lussuriosa», una donna che la «ragione» ha sottomessa al «talento»;
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e questa sua colpa paga nel girone dell’Inferno deputato ad accogliere i peccatori suoi pari. Che sono, naturalmente, tanti di numero quanti, in sostanza, ne richiedeva la potenza della «bufera infernal, che mai non resta», della bufera che «mena li spirti con la sua rapina» e «votando e percotendo li molesta» (vv. 51-53). Ma, a parte Paolo e Francesca, Dante non ne nominò se non sette: dei quali, due appartenenti alla storia (Semiramide e Cleopatra), quattro (Didone, Elena, Achille e Paride) alla letteratura antica (e medievale), uno (Tristano) ai romanzi del così detto ciclo arturiano.18 E, mettendoli insieme, lasciò evidentemente al lettore il compito di distinguerne i «casi» in relazione, non solo alla loro storicità o letterarietà, ma anche al carattere specifico di un peccato, che aveva bensì meritato di essere raccolto sotto il segno generale della lussuria,19 e di essere perciò punito nello stesso girone infernale, ma non per questo era stato in tutti il medesimo peccato: come se, non solo l’essere, ma anche la lussuria potesse, aristotelicamente, esser detta «in molti modi». Non fu, per esempio, paragonabile a quella di Semiramide, la «lussuria» di Didone20 che, per amore di Enea, «s’ancise amorosa,/ e ruppe fede al cener di Sicheo»; e nemmeno, a rigore, quella di Cleopatra,21 di Elena, del «grande Achille», che lui pure, come gli altri, «con amore al fine combatteo», di Tristano. Inutile sarebbe, su questa via, spingersi oltre; e, anzi, sarebbe dannoso perché, se la si percorresse, ci si allontanerebbe, dall’essenziale. Ma una parola deve tuttavia essere spesa per Semiramide che, facendo «licito» il «libito», e questo, nel nome di quello, innalzando a «legge», è come se a questa avesse sottratta ogni stabilità, l’avesse resa eguale a quel che ne è privo e non ha regola, o sola regola avesse riconosciuta a questa, alla capricciosa mutevolezza con cui trasformava gli amori sotto il segno, questo sì sul serio immutabile, dell’individuale capriccio.22 Se è così, fra i tanti che Dante raccolse sotto il concetto, o la «classe», della lussuria, Semiramide rappresenta un caso a parte; e niente c’è, nella sua storia, della cupa tragicità che segna le altre, e che dal capriccio le tiene separate, raccomandandole, in questo atto, se non alla comprensione, alla pietà. La seconda riguarda le massime di Francesca; sopra tutto, la terza che è, di gran lunga, la più importante: quella nella quale le precedenti trovano il loro senso più autentico. La fatalità dell’amore che, anche nella formulazione delle due precedenti aveva fatto risuonare il suo tema, raggiunse qui il suo punto più alto. E l’impressione che se ne ricava è che, senza natural-
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mente (che sarebbe stato compito ineseguibile) poterla esporre come una compiuta teoria, a teorie tuttavia Francesca qui alludesse. E, forse, proprio a Donna me prega di Guido Cavalcanti: nella «cosa», se non nell’intenzione (ma anche, forse, nell’intenzione). Al v. 36 di questa canzone, poteva leggersi, come si ricorderà, che «di sua potenza segue spesso morte». E questa, alla quale Cavalcanti si riferiva, era, non la morte metaforica, che l’amore provoca in chi ne subisce le conseguenze; non lo scomporsi e il separarsi degli elementi che, quando stanno insieme, conferiscono unità alla persona che, invece, sotto la sferza dell’amore, è come se si separasse in sé stessa, e dividesse sé da sé, in modo che «disfatte e paurose», le parole se ne andassero in giro da sole, e quel che una volta era appartenuto a un individuo (penne, coltellino, cesoiuzze) ora stesse lì, distaccato dalla mano che lo muoveva, «isbigottito»; non qualcosa che, con il segno della morte sul volto, fosse parte, tuttavia, di un individuo vivo. Non questo, o non soltanto questo. Ma, con buona pace di chi voglia metaforizzarla e spiritualizzarla, anche la morte fisica, quella che, con il pugnale di Gianciotto Malatesta, «amore» procurò ai due «cognati». Può ben darsi che a sentir parlare dell’«impressione» che, non genericamente, ma in questo punto specifico, sia stato Cavalcanti a imporre a Dante la sua presenza, o, se si preferisce, che sia stato quest’ultimo a chiamarlo al proscenio per un decisivo confronto, qualcuno abbia scosso il capo, disapprovando, con questo gesto (altamente, occorre riconoscere, metodologico), ciò che avrà giudicato bizzarria o stravaganza. A chi, d’altra parte, si facesse innanzi con un volto così scontento (e con un capo così instabile), quali parole persuasive si potrebbero opporre, che non fossero, appunto, «persuasive», e perciò, nell’intrinseco, retoriche? Pazienza, dunque, se l’impressione sia giudicata una soggettiva impressione, e, come è inevitabile, la persuasione sia preda della retorica, essendo un altro suo volto. Eppure, per chi almeno la subisca e, rileggendo il canto quinto dell’Inferno, sia tornato a subirla, questa non è un’impressione che facilmente ceda il luogo, e si ritiri. Non solo perché la morte che fu procurata a Francesca dal pugnale del consorte tradito fu proprio la morte, nella sua cruda realtà fisica; e il pugnale può ben essere considerato, in questo contesto, come lo strumento di cui, indirettamente, l’amore si servì («amor condusse noi a una morte»). Non solo perché, al di là dei topoi, quella parola risuoni, nei versi di Dante, con la particolare, oscura, notturna potenza che è
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nella canzone di Cavalcanti. Non solo perché il secondo «cerchio» sia «loco d’ogne luce muto» (v. 28): questo è vero di tutto l’Inferno, e anche, a parte il «nobile castello», e del «foco/ ch’emisperio di tenebre vincia» (IV 68-69), già del Limbo. Ma piuttosto perché, buio a parte, la drammatizzazione che, in termini estremamente realistici, Dante fece del luogo in cui sono travolti coloro che furono vittime della passione d’amore, richiama, nelle sue forme proprie, o così almeno sembra, la quarta stanza di Donna me prega: L’essere è quando – lo volere è tanto ch’oltre misura – di natura – torna, poi non s’adorna – di riposo mai. Move, cangiando – color, riso in pianto, e la figura – con paura – storna; poco soggiorna; – ancor di lui vedrai che ’n gente di valor lo più si trova. La nova – qualità move sospiri, e vol ch’om miri – ’n non formato loco destandos’ira la qual manda foco (imaginar non pote om che nol prova), né mova – già però ch’a lui si tiri, e non si giri, – per trovarvi gioco, né certamente gran saver né poco.
E si ascolti Dante (vv. 25-33): Or incomincian le dolenti note a farmisi sentire; or son venuto là dove molto pianto mi percuote. Io venni in loco d’ogne luce muto, che mugghia come fa mar per tempesta, se da contrari venti è combattuto. La bufera infernal, che mai non resta, mena li spirti con la sua rapina: voltando e percotendo li molesta.
In comune i due luoghi non hanno l’impianto teorico. Ma se in Cavalcanti a prevalere sono i concetti, e in Dante invece le immagini, legate insieme con il filo dell’allegoria (assai esplicita, per altro, e trasparente, nel suo significato),23 vero è però che alcune affinità ci sono. E a provarlo sono elementi concreti, che vanno oltre il limite segnato dal confronto di questi due gruppi di versi, e che a torto si trascurerebbero. Che l’essere dell’amore sia «tanto» che è «oltra misura», è asserzione filosoficamen-
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te discutibile, se quell’«essere» non è che un accidente che, come a suo tempo si vide, non è possibile che vada oltre la sua misura, e, rispetto a sé stesso, si trovi ad essere in eccesso. Che è poi, a ben guardare, un’impossibilità che, non meno dell’accidente, riguarda l’essere, qualunque essere che, se è quel che è, come potrebbe essere minore o maggiore di sé stesso? Ma, sia pure attraverso il predominio che la retorica qui esercitava sulla filosofia, la definizione era tuttavia tale, se non da richiedere, da sollecitare la drammatizzazione; che ebbe luogo, infatti, nei versi successivi, nei quali Cavalcanti asserì che l’amore non «s’adorna di riposo mai», ma sempre è in moto (la dantesca «bufera infernal, che mai non resta»), cambia in un altro il colore del volto (lo «scolorarsi» del viso dei due amanti romagnoli), muta il riso in pianto (il «molto pianto» che «percuote» Dante, reso perciò lui pure partecipe della tempesta). Ancora, nella quarta stanza di Donna me prega, si dice della figura umana alterata e stravolta dall’amore. Si dice dell’instabilità di questo («poco soggiorna»), che altresì è fonte di sospiri, e, a prescindere dal v. 51, sul quale molto si discusse qui su (e che in Dante, certo, non avrebbe potuto trovar posto), anche lo è dell’ira, che «manda foco» e, per sforzi che si compiano, non consente che esca dal suo giro fatale colui che se ne sia reso prigioniero. Così nella quarta stanza cavalcantiana. Nel dantesco quinto canto, la bufera era, non solo il simbolo, ovvio, della passione d’amore che, in un turbine di vento, travolge le anime. Ma, come simbolo, alla sua radice svelava ciò che, con buona probabilità, e non importa se intenzionalmente, l’aveva prodotta in quella forma: il ricordo della grande canzone del poeta che era stato il suo «primo amico», dell’impegnativo componimento che non poco gli aveva dato da pensare nel tempo della giovinezza, e che ancora gli stava «fitto» nella mente, ancora sollecitava risposte. Se, come qui si sostiene, o, se si preferisce, si congettura, la presenza, nella sua memoria, di quel che Cavalcanti aveva argomentato in Donna me prega, si era resa evidente nell’uso che egli aveva fatto di una delle sue stanze per la costruzione della scena drammatica in cui sarebbe avvenuto il suo incontro con Francesca, anche dovrebbe concludersene che non fu soltanto suggestione letteraria quella che rianimò il suo ricordo. Fu altresì l’intenzione di rendere le tesi che, in qualche modo, Francesca riprendeva da Cavalcanti, partecipi del luogo in cui a essere punito era proprio l’amore quale quel poeta l’aveva concepito: in modo che la teoria trovasse obiettivo riscontro nel paesaggio infernale, questo nella teoria, e, attraverso la pietà che tutto ciò suscitava nell’animo
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del pellegrino oltremondano, si esprimessero tuttavia la critica e la condanna. Che riguardavano infatti, insieme, la peccatrice e il poeta/filosofo che, avendo pensato l’amore in quella dimensione tragica, avendo visto che il suo posto era in una zona dell’anima inaccessibile alla ragione, senza che se lo fosse proposto, aveva fornito qualcosa come la giustificazione teorica di ciò che quella aveva compiuto in vita e, comunque, l’impossibilità di farsene giudice. Forte di un convincimento che anche nella canzone di Cavalcanti, e, anzi, sopra tutto in questa, aveva la sua radice, Francesca si era presentata a Dante con un duplice volto: quello della gran dama, che gentilezza, cortesia e letteratura aveva elevate a supremi valori del vivere, dei quali anche lì, nell’Inferno, offriva il documento; e quindi l’altro, che pure apparteneva a lei, donna forte e risoluta nel suo presentarsi, senza infingimenti, come la fragile vittima di una passione irresistibile. Forza e fragilità: il tutto nel segno dell’ananke, che è pur sempre indizio di coraggio riconoscere come invincibile. Potrà sembrare, quel che ora si dirà, una concessione alla «psicologia», e quindi a una tendenza alla modernizzazione, che, dopo il Foscolo,24 ebbe in De Sanctis25 il suo più intelligente rappresentante e ora, forse a causa anche di chi la coltiva, vive una stagione di persistente sfortuna. Ma anche se debba esserci un limite alle stilizzazioni formali e ai connessi esercizi, deve dirsi che non è a quella «psicologia» che qui si vuol rendere omaggio. La critica di De Sanctis appartiene al suo tempo, al suo gusto, anche, naturalmente, al suo genio; e, posto che questa fosse l’intenzione, sarebbe cosa comunque maldestra il tentativo che si facesse di imitarne i modi. Quel che qui unicamente si vuole sostenere, e ribadire, è che, al di là della gentilezza e della cortesia con le quali, nel triste luogo in cui si trovava, Dante fu da lei accolto come se quello fosse la sua casa, la dottrina di cui Francesca dette prova (secondo altri, fece sfoggio) non è un ornamento. È un modo profondo del suo essere. E, come è un’arma potente di difesa, anche lo è di offesa: se si preferisce, di affermazione decisa di sé attraverso il ribadimento della fatalità del suo atto, e di aspra condanna del gesto di colui che, con il suo amante, aveva spenta la sua vita. Francesca conosce la pietà. Ma non ignora, non le è estraneo, il sentimento della vendetta.26 Si discuterà ancora, da parte di altri, se, legata com’è per l’eternità al suo tragico amante, Francesca fosse ancora, anche nell’Inferno, posseduta
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dall’amore che, in vita, era stato attuale in lei, e l’aveva travolta. E dovrebbe, a rigore, dirsi di no. Dovrebbe dirsi che non dall’amore fosse posseduta; e che nell’inscindibile nesso che per sempre, in quel cupo regno, la avrebbe tenuta avvinta all’uomo che aveva in vita ricambiato il suo amore, debba vedersi all’opera il «contrappasso», il rovesciamento negativo del reciproco piacere provocato, su, nel mondo, dall’accendersi della passione, come se in quella reciprocità, in quel non potersi mai separare l’una dall’altro, stesse l’essenza della eterna punizione. È vero, infatti, che, concepito come essa proprio lo concepiva, l’amore aveva in sé stesso la sua propria punizione, perché, conducendo a morte, a quel «doloroso passo» infatti la condusse. Ma questa, appunto, era la punizione che l’amore subisce quando chi ne sia vittima viva la sua vita, passi attraverso le sue fasi, conosca perciò il tormento, ma anche la gioia. Sia pure in modo parziale, esso è, infatti, appagamento del desiderio, e, per questa parte, è connesso al piacere che da tale appagamento deriva; a sensazioni, dunque, che, per instabili che possano essere e destinate a perdersi e a svanire, proprio per questo non possono non avere in sé almeno un tratto di positività; che, nell’Inferno, non potrebbe mai darsi altrimenti che attraverso la sua drastica «privazione». «Nessun maggior dolore/ che ricordarsi del tempo felice/ ne la miseria» (vv. 121-123): e derivasse da Boezio,27 o da altra «fonte», questa era una massima che, coinvolgendo anche Virgilio, Francesca pronunziò come sua, come nascente, non solo dalle sue passate esperienze di donna che fu viva e, in vita, soffrì, ma dall’esperienza che qui, nell’Inferno, era un’esperienza eterna di eterno dolore. Quella che, in opposizione al «tempo felice», Francesca definiva come «miseria», era un’eterna miseria. La quale che altro era se non, appunto, «privazione» di felicità? Dovrebbe essere così, in effetti. E anche potrebbe discutersi sul punto se «privazione» di amore significasse ora odio, così come la presente «miseria» era, o derivava dalla, privazione della felicità. Potrebbe discutersi su questo punto, e, non senza buone ragioni, concludere che laggiù, nel cerchio che ospita i «lussuriosi», l’amore era per Francesca una passione percepibile solo attraverso il suo non esserci più: nella forma dell’inattualità, dunque, e in quella del «ricordo» che, mentre lo avvicinava e lo teneva presente alla coscienza, lo allontanava e lo faceva irraggiungibile: come se, presente solo nel suo attuale non esserci, l’amore non fosse, in quel girone infernale e nel cuore di uno dei suoi abitanti, se non l’esasperazione di uno dei caratteri che Dante riconosceva nel desiderio, e con il quale, in ultima analisi,
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Cavalcanti aveva definita la sua oscura potenza. Tanto più, potrebbe dirsi, nell’attuale sentimento di Francesca, e nella sua dannazione, l’amore coincideva con il volto negativo del desiderio, del suo non avere il limite se non oltre il limite, quanto più fosse «miseria» e «dolore» il ricordo con il quale essa riandava al «tempo» felice in cui, per un attimo, quello si era attuato. E di nuovo perciò, lungo questa via peculiare, si torna al tema dell’ananke e all’esserne Francesca, come Ulisse, la tragica vittima. Dovrebbe, e deve, dirsi così; perché troppo grave incongruenza sarebbe, nella struttura del poema, quella per la quale ai due «cognati» Dante avesse concesso di porre in qualche modo rimedio, nell’Inferno, alla sanguinosa separazione che avevano subita in vita. Eppure, a questa idea tenendo fermo come all’unica che sul serio dia ragione dell’impianto strutturale, e della «ragione» teologica che non può non stargli dentro, si stenta a pensare che la coerenza di Dante fosse giunta fino a questo punto estremo; che nell’unione di quelle due anime egli avesse inteso rendere più drammatica e punitrice l’impossibilità che quella fosse tale nel segno dell’amore, non della sua privazione. Si stenta a pensare che in quell’andare «insieme» dei due dannati, e in quel loro essere «sì al vento leggieri», non fosse ancora vivo il tratto del sentimento che, in vita, era stato cagione di morte, ma anche di felicità. Si stenta a pensare che in questa concreta situazione dell’anima, la «privazione» non mostrasse uno dei suoi caratteri: il più paradossale, quello per il quale, attraverso sé stessa, restituisce al presente ciò di cui dichiara il non esser più.28 Si coglie qui, forse, la tonalità più profonda del canto, il suo più autentico accento. Francesca sapeva bene che era un male «perverso» quello di cui, con Paolo, si era fatta autrice nel mondo. Lo sapeva, e lo diceva con parole che non ammettono replica. Sapeva che «il re de l’universo» l’aveva, a buon diritto, condannata a un’eterna pena. Sapeva che non poteva, né mai avrebbe potuto, esserle «amico». Ma, senza che in ciò vi fosse alcuna iattanza, alcuna protervia; senza che al riconoscimento del male compiuto tenesse dietro la rivendicazione di una qualsiasi virtù che dovesse essere riconosciuta a lei e ai suoi atti, e la condanna richiedesse perciò di subire nell’animo di Dante l’attenuazione, se non addirittura una tacita assoluzione,29 vero è anche che, pensate alla luce dell’estremismo che poteva provenirle, e forse sul serio le proveniva, da Cavalcanti, le parole con cui l’amore fu da lei definito si ponevano in obiettivo contrasto con la
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legge che la condannava all’eterna pena. Non perché, dopo aver mostrato di accoglierla come espressione della giustizia di Dio, Francesca tornasse sul concetto di questa e lo capovolgesse; non perché a quello ne contrapponesse un altro che fosse, a suo giudizio, di pari, se non di maggior valore. Ma per la diversa ragione che, accettando e non discutendo il verdetto emesso dalla giustizia divina, Francesca enunciava il pensiero secondo cui non c’è forza, nel mondo in cui si vive, si ama e si soffre, non c’è Dio, che possa contrastare quella che rende irresistibile l’amore, non c’è energia di opposta volontà che possa trasformare in non necessaria la sua ananke. Come Cavalcanti aveva insegnato nella sua canzone, la ragione non può intervenire per rendere chiara la sua oscurità, trasparente la sua opaca densità. L’amore è infatti un accidente che accade nell’anima sensitiva, e con la «veduta forma» da cui pure, in qualche modo, problematicamente, come si è visto, deriva, non può intrattenere un rapporto attraverso il quale sia rasserenato e controllato. Dunque, scissione. Da una parte la legge divina; la quale prescrive e vuole che il «talento» sia sottomesso alla «ragione», e questa, in ultima analisi, tenga lo scettro delle passioni umane. Da un’altra, con pari inesorabilità, la passione d’amore che, nel suo atto, non può riconoscerne il primato; non perché non voglia e intenda affermare il suo, ma perché, appunto, nel suo atto è chiusa in sé stessa, e non c’è per lei un altro universo, al quale possa rivolgere lo sguardo, accogliendone la legge. Era questa, che Francesca enunciava, senza iattanza, come si è detto, senza protervia, ma con inesorabile convinzione, una tesi «eretica» e blasfema. Eretica nella cruda scissione che, anch’essa, stabiliva fra le parti dell’anima, o, meglio, fra la sensitiva e la intellettiva, ciascuna chiusa in sé e priva, l’una, di contatto con l’altra. Blasfema, perché negativa, in ultima analisi, non solo della giustizia, ma anche della potenza di Dio, autore di un universo, del quale una parte era, da un’interna, contraria e opposta necessità, costretta a sottrarsi a essa e a vivere secondo una contraria e opposta legge. Nella concezione che Francesca mostrava di condividere, e alla cui luce ripensava le ragioni del suo dramma umano, Dio era Dio; e giusta era la sua giustizia, giusta e inesorabile era la sua condanna, di fronte alla quale non si poteva non piegare il capo. Ma quel che, considerandolo difforme dal suo volere, e deviante, Dio condannava, era pur sempre parte di un mondo nato dal suo atto creatore. Era parte della realtà. Si affermava anch’esso secondo la sua interna ananke, che, proprio perché non poteva pensarsi che fosse sottratta alla sua necessità, con quale diritto, allora, si sarebbe sostenuto che fosse da
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lui condannabile? Certo, nel momento in cui, di conseguenza in conseguenza, il ragionamento di Francesca conduceva fra le crude alternative imposte a una medievale «teodicea», sarebbe assurdo e, anzi, ridicolo, assumere che di questa fosse essa l’autrice. Sarebbe assurdo e, anzi, ridicolo se della «prima donna moderna»30 della letteratura italiana, oppure della «intellettuale» di provincia, si facesse l’autrice di una filosofia alternativa, una puntigliosa discepola dell’aristotelismo radicale, appreso sui libri e «esposto» con esplicita intenzione. Sarebbe, sopra tutto, segno di grossolanità. Altro, infatti, è dire che, nel pensare il suo personaggio, fu Dante a connotarlo con e in quel segno «cavalcantiano», e a far sì che, nel raccontare la sua sanguinosa vicenda, per interna necessità essa lo rendesse obiettivamente visibile nel suo discorso. Altro è dire questo, e aggiungere che, per questo suo aspetto, Francesca è, nelle mani di Dante, un forte simbolo polemico. Altro è invece pretendere che non la passione e la memoria le ispirassero quelle parole, ma una sua intellettuale pretesa, – quella di rendere Dante edotto della sua specifica filosofia dell’amore. In realtà, l’intento di Francesca fu, non di esporre una filosofia, ma di trovare un senso non contingente a quel che le era accaduto; e per questo, e entro questi limiti, qui su fu detto del suo teorizzare. Per questo, ed entro questi limiti, fu aggiunto che, se Ulisse racconta e non teorizza, essa invece, nel raccontare, teorizza e di quel che la travolse cerca la ragione. Che non era la ragione di Dante. Era la sua, e quanto più era da lei dichiarata e definita e difesa, di altrettanto rendeva forte e ineluttabile la condanna che la colpiva. L’essenza del personaggio non sarebbe tuttavia penetrata nella sua ultima radice se non si aggiungesse che, a misura che il racconto che faceva del suo dramma la riconduceva a ripensarne le fasi, la sua linea si complicava, la passione scendeva nel baratro delle «ragioni» che, ineluttabilmente, l’avevano determinata in quella forma, per quindi tornare a sé stessa, forte, infine, di una nota di aspro rancore, di un improvviso spirito di vendetta. Il suo racconto trascorse infatti dalla dolente cortesia delle prime parole rivolte a Dante all’enunciazione «filosofica» dell’indomabile potenza di eros. Trascorse da questa enunciazione a una condanna del suo uccisore, che, a rigor di termini, non a lei sarebbe spettato di pronunziare, ma a Dio, e sulla sua bocca suonava perciò come hybris. «Amor condusse noi ad una morte:/ Caina attende chi a vita ci spense» (vv. 106-107).31 Sono, quelli di cui stiamo trattando, versi fra i più famosi e studiati e commentati del poema di Dante; e non c’è critico che, a qualunque scuola
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appartenesse, qualunque idea avesse dell’arte, non abbia fatto in modo di spendervi sopra il suo talento, con l’ambizione di scrivere il suo nome nel gran libro delle interpretazioni. Ma se, cercando di seguire un precetto desanctisiano, almeno per un momento si prescindesse da ciò che in quel libro è contenuto, e ai versi del quinto canto si volgesse l’attenzione come se per la prima volta li si leggesse, la violenza di quel «Caina attende chi a vita ci spense», non potrebbe non apparire per ciò che è: l’espressione di un sentimento di vendetta che, tanto più appartiene, e mostra di appartenere, alla umanità offesa del personaggio, quanto più si presenti nella forma di una sentenza che stia per essere pronunciata da un giudice infallibile. Il quale esiste, naturalmente, e quella sentenza sarà pronunciata. Ma quel giudice è Dio: e, certo non sarebbe spettato a Francesca di annunziarla e di dire lei quale sarebbe stata. Nelle sue parole si avverte perciò qualcosa come un’usurpazione; e, per lei, che pure tentava di venirne fuori attraverso la delineazione delle sue massime, l’impossibilità di evadere dal carcere della cieca passione. Del resto, in questo suo atteggiamento profondo avrebbe torto chi sorprendesse una sua infedeltà alla teoria; che quel suo atteggiamento, infatti, confermava, e non contraddiceva. Se, per le ragioni che già sono state addotte, l’amore non era più, né poteva essere, una passione attuale, per lei che ne era infatti posseduta nel segno del dolore e del rimpianto, era tuttavia una passione della sua anima e della sua mente, che per intero, invece, ne erano penetrate. La cortesia, la gentilezza, la letteratura, le massime attraverso le quali, mentre lo definiva, Francesca cercava di conferire all’amore una dimensione obiettiva, che non soltanto lei, dunque, riguardasse, erano tutte, anche lì, nell’Inferno, qualità della sua anima; che non potevano, e mai avrebbero potuto, salire al piano dell’intelletto ed esserne illuminate. Nel che deve vedersi una conferma, indiretta ma netta, di una teoria che, bruscamente, aveva separato il piano dell’intelletto da quello delle passioni, e li aveva contrapposti come la luce alle tenebre. La linea che, comunque si giudichi, emerge da questa «lettura», è chiara. Due, e non conciliabili, sono i volti di Francesca. Da una parte, la sottomissione al giudizio di Dio, tanto più accettato, quanto più viva era in lei la consapevolezza della colpa: il male «perverso», il mondo che, per esso, si era tinto «di sanguigno». Da un’altra, il suo essere posseduta dalla passione in modo tale che all’improvviso, cortesia, gentilezza, ragionamenti d’amore, – tutto questo cedeva il passo a aspre e cupe parole di
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vendetta; e a emergere era, appunto, un volto che l’Inferno aveva segnato per sempre con il suo carattere, indelebile, e altrettanto necessario della «necessità» che, sempre e comunque, all’amore si rivela intrinseca. La conseguenza che da tutto questo derivava era senza dubbio paradossale; e già se ne è accennato. Nella forma estrema con la quale si era presentata a lei, che la considerava come l’unica che quello potesse assumere, l’amore era condannato da Dio nell’atto stesso in cui, in forza e in ragione della sua irresistibilità, assolveva chi fosse rimasto vittima della sua potenza. Quella a cui l’amore induceva era perciò una colpa commessa, si sarebbe potuto dire, senza colpa. E nella riesposizione che, liberamente, Francesca ne dava, questa poteva ben essere considerata come una tesi tratta dalla teoria che Cavalcanti aveva ragionata in Donna me prega, nel punto, sopra tutto, in cui la sottomissione della ragione al talento era stata pensata come la conseguenza, non di una colpevole debolezza, ma della scissione in re sussistente fra l’anima sensitiva e quella intellettiva. Nella teoria di Dante le cose andavano, invece, in tutt’altro modo; e tanto più duramente perciò, al di là della «pietà», Francesca ne fu condannata. La ragione del personaggio si era, per lui, resa preda del talento, non perché questo ne fosse separato e non gli fosse perciò dato di pervenirvi e di conoscerla, ma a causa di un difetto manifestatosi nella volontà e nella libertà, a causa della debolezza insorta ne «lo ’ntelletto de le prime notizie»,32 dell’incapacità dimostrata nell’esercitare la «potestate», che è dell’uomo, di contrastare e non accogliere la «necessità» di un amore che pure fosse sorto dentro di lui. Insomma, quanto più decisamente, al di là del suo personale coinvolgimento e della «pietà» che provava per lei, Dante aveva condannata Francesca all’eterna pena, con altrettanta nettezza criticava e respingeva la teoria che al suo personaggio aveva consentito di esporre le ragioni dell’irresistibilità dell’amore, e di accennare, per questa parte, alla sua propria «apologia». In Donna me prega Cavalcanti non aveva dato rilievo esplicito al tema della volontà e della libertà. Non certo per calcolo o per prudenza, aveva evitato di trarre dalla premessa la conseguenza della loro «irrealtà» nella regione dell’amore. E, poiché a fondo conosceva la sua grande canzone, questo Dante lo sapeva bene. L’episodio di Francesca gli offrì la possibilità di rendere esplicito quel tema, di ritradurre in termini di volontà e di libertà quella che, per il suo personaggio e per i maestri del suo personaggio, era stata invece una potenza di fronte alla quale non si poteva se non piegare il capo e soccombere. Con materiali cavalcantiani aveva costruita la sce-
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na del dramma. Con concetti cavalcantiani aveva fatto parlare Francesca. La condanna inflitta a quest’ultima era perciò, insieme, la condanna e la confutazione del maestro. Per questo, riprendendo un tema al quale già si dette voce, deve dirsi che è qui, nel quinto canto che, a saperle cercare, si trovano esposte le ragioni del distacco da Guido, dal «primo amico»; che per questo, e quel che ne conseguiva, malgrado l’«altezza» dell’ingegno, non aveva potuto essere con lui nel grande viaggio della redenzione, intrapreso nell’al di là.
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Note
1. Che questa usata da Francesca fosse una formula consueta di saluto è stato più volte notato: per es. da Sapegno, I, p. 61, che rinvia a Purg. XXI 13, e ora, con altri esempi, da Inglese, Inferno, pp. 88-89. Ma questo non toglie nulla alla «eccezionalità» sentimentale di un’anima dannata che, nell’Inferno, si mostra capace di una simile «civiltà» di modi e, anche, di un così rigoroso controllo delle espressioni. Per questo, non credo si possa condividere l’osservazione di De Sanctis, Francesca da Rimini, p. 642, che vi colse delicatezza e gentilezza, e non aggiunse altro. 2. Inf. V 93: «poi ch’hai pietà del nostro mal perverso». È evidente che Francesca ha bene interpretato, o così ha ritenuto di dover interpretare, il senso di quel «grido» che Dante aveva definito «affettuoso». 3. Cfr., per esempio, Sapegno, I, pp. 61-62; e cfr. Contini, Un’idea di Dante, pp. 4344; Pagliaro, Ulisse, I, pp. 136-137. 4. Di coup de foudre parlò, per questo aggettivo, Contini, Un’idea di Dante, p. 44. 5. Contini, Un’idea di Dante, pp. 45-47. Osserverei che, se fosse documentabile quel che Contini (p. 45) asserì, e cioè che Dante avvolgesse il nome di Gualtieri (come ai suoi tempi Andrea era chiamato, per essere stato identificato con il dedicatario del libro) «nel manto della più totale preterizione e, certo, disistima», ne discenderebbe che, nel far parlare Francesca secondo il linguaggio del Cappellano, suo intento precipuo fosse stato di rendere ancora più netto il dissenso con il quale egli guardava a teorie come quelle sostenute e condivise da lei. Contini (p. 44) ne trattò come della «diffamatissima teorizzazione materialistica dell’amor cortese sul crinale fra i due secoli, XII e XIII», e aggiunse (pp. 45-46) che il Cappellano è citato come Gualtieri da Lapo Gianni nel sonetto che indirizzò al Cavalcanti, Guido, quel Gianni ch’a te fu l’altr’ieri e, come Andrea, da quest’ultimo nel sonetto di risposta, Gianni, quel Guido salute. Le scarse notizie biografiche relative al Cappellano furono raccolte da P. Rajna, Tre studi per la storia del Libro di Andrea Cappellano, in «Studj di filologia romanza», 5 (1889), pp. 193-265. Ma cfr., sul fondamento di A. Karnein, Aus der Suche nach einem Autor: Andreas Verfasser von “De amore”, in «Germanisch-romanische Monatschrift», 28 (1978), pp. 1-20, Malato, Amor cortese e amor cristiano, pp. 136-138, che ne espone le conclusioni. Altra letteratura sul Cappellano in Troncarelli, «Immoderatus amor», p. 20, n. 35. Ma va ricordato il saggio di G. Vinay, Il “De amore” di Andrea Cappellano nel quadro della letteratura amorosa e della rinascita del secolo XII, in «Studi medievali», 17 (1951), pp. 203-276. 6. Andrea Cappellano, Trattato d’amore, a cura di S. Battaglia, Napoli 1946. Il passo che per solito viene citato (cfr., per esempio, Sapegno, I, p. 62), e cioè I 4 (ed. cit., p. 13), in realtà dice proprio il contrario di quel che gli si attribuisce: com’è meglio spiegato nel testo. Scorrendo i commenti danteschi, non ho trovato che sia stato notato che, da giovane, Dante aveva, al riguardo, sostenuta la tesi opposta a quella fatta propria da Francesca. Nel secondo sonetto a Dante da Maiano, aveva scritto: «certanamente a mia coscienza pare,/ chi non è amato, s’elli è amadore/ che ’n cor porti dolor sanza paraggio» (vv. 12-14); e al suo interlocutore che in Lo vostro fermo dir fino ed orrato aveva scritto: «dite ch’amare e non
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essere amato/ è ne lo dol che più d’Amore dole» (vv. 9-10), aveva, nel suo terzo sonetto, ribadito: «… sacci ben, chi ama,/ se non è amato, lo maggior dol porta» (vv. 9-10): cfr. Rime, ed. Contini, pp. 31, 33, 35 (De Robertis, Rime di Dante, pp. 440, 442, 444). 7. G. Petronio, Ernst Robert Curtius o la critica del luogo comune, in «Società», 14 (1958), pp. 781-799 (su Francesca, pp. 796-798), e la tagliente replica di G. Contini, A proposito di critica stilistica, ibidem, pp. 1126-1129, e ora in La critica degli scartafacci e altre pagine sparse, Pisa 1992, pp. 33-41 (su Francesca, pp. 35-36). La polemica poi proseguì nella stessa rivista. 8. Inglese, Francesca, pp. 50-54, il quale critica, come non pertinenti alla «tesi» esposta da Francesca, i testi del Cappellano, e, citando Giordano da Pisa e san Bernardo, ricorda che solo l’amore di Dio non può non essere ricambiato (d’accordo in questo con D’A. S. Avalle, Ai luoghi di delizia pieni. Saggio sulla letteratura italiana del XII secolo, MilanoNapoli 1977, pp. 39-40). Può essere di qualche interesse ricordare che già il Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedia di Dante, a cura di G. Padoan, Milano 1985, p. 320, aveva osservato che «questo, salva sempre la reverenzia dell’autore, non avviene di questa spezie di amore, ma avviene bene dello amore onesto», rinviando, sagacemente, a Purg. XXII 1012. E cfr., sulla distinzione degli amori, la discussione svolta ibidem, pp. 319-320. 9. The Divine Comedy, with a Commentary by Ch.S. Singleton, Inferno, II, Princeton 1977, p. 90. 10. Inglese, Francesca, p. 54. 11. Andrea Cappellano, Trattato d’amore, ed. cit., pp. 48-50. 12. Ibidem, p. 50. 13. Ibidem, p. 356. 14. Ibidem, p. 358 15. Sulla sequenza relativa ad «amore» e alle sue conseguenze, ci si è variamente soffermati: cfr., per esempio, Contini, Un’idea di Dante, p. 43, che «insistè» sulla «triplice anafora», e, in particolare, Pagliaro, Ulisse, I, pp. 136-148, sopra tutto per la sua interpretazione, in ripresa di quella di Francesco da Buti, Commento sopra la Divina Commedia, pubbl. per cura di C. Giannini, Pisa 1838, p. 168, condivisa poi dal Landino, Comento sopra la Comedia, I, p. 462 (che parla, per altro, di «modo disordinato» dell’amore, sì che è quello che, con la conseguente «pena», «offende») del v. 102, e dell’espressione «… e ’l modo ancor m’offende». Com’è noto, trovando molti consensi, Pagliaro propose che l’espressione fosse ricollegata, non alla «bella persona/ che mi fu tolta», e cioè alla morte violenta che a Francesca fu inflitta dal marito tradito, ma a «amore» del v. 100; sì che il verso significherebbe che da quel sentimento Francesca era, lì giù, nell’Inferno, ancora «vinta», e che di esso dunque partecipava (anche se, come Giorgio Inglese mi suggerisce, nella forma dolorosa che si conviene a un sentimento provato nel luogo dell’eterna pena). La questione che a questo punto si apre non è di quelle che possano essere decise in forma perentoria. E la si deve perciò discutere in entrambe le soluzioni a cui fin qui ha dato luogo. Che «offendere» abbia due volte nell’Inferno, II 45 e VII 71, il significato che Pagliaro gli attribuì al v. 102, è vero. Ma, a parte che a prevalere è pur sempre l’altro significato, resta che varie considerazioni si oppongono all’accoglimento dell’ingegnosa proposta. Innanzi tutto, direi, il richiamo che Francesca fa al «modo» che la «offende». Che è quanto meno discutibile che possa riferirsi all’amore, che da lei sarebbe stato subito dopo interpretato, nella
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triplice anafora, non secondo una sua «modalità», ma nell’unica, e universale, sua accezione; e parrebbe perciò che dovesse piuttosto essere connesso al feroce delitto che l’aveva privata della vita. In realtà, l’argomento di Pagliaro (Ulisse, I, p. 145) secondo cui «modo» significherebbe «forza», e indicherebbe l’«intensità» della passione di Paolo, dalla quale, appunto, Francesca sarebbe ancora «offesa», cioè posseduta e vinta, suppone che l’amore possa essere assunto nei vari «modi» e gradi della sua «intensità»; e, se fosse accolto, consegnerebbe la «tesi» a un, questo sì, banale spirito classificatorio, non privo di meschinità, quasi che, a giustificazione del suo cedimento, il personaggio facesse notare che l’amore era, in quel caso, sul serio fuori del comune. Francesca parla dell’amore «in universale», non dei gradi dell’amore! È vero, senza dubbio, e potrebbe essere questo un argomento da addursi a indiretto sostegno della tesi di Pagliaro, che, al v. 106, è «amore», e non il pugnale di Gianciotto Malatesta, che conduce alla morte i due amanti, e che di questa è esso perciò il soggetto. Ma è, ovviamente, in riferimento a Gianciotto, e, quindi, al modo feroce da lui tenuto nell’ucciderla con Paolo, che Francesca anticipa la sentenza che, per decisione divina, sprofonderà giù nella Caina colui che «a vita» la «spense». Per l’amore che travolge e uccide Francesca non ha, e, dopo l’enunciazione teorica dei vv. 103-106, non potrebbe avere, parole che, sia pure attraverso l’accenno alla Caina, lo maledicessero: quella dell’amore è un’ananke alla quale non si può sfuggire, e che tanto meno potrebbe essere disconosciuta dinanzi a quel che ne è conseguito. Ma alla particolare violenza di cui fu oggetto per mano del marito, da lei non nominato se non come colui che «a vita» la «tolse», la sua reazione è rabbiosa al punto che, a dominarne l’espressione, è il cupo e drammatico sentimento della vendetta; e tanto violenta, nell’anticipazione che, dannata nell’Inferno, essa fa, in forme addirittura blasfeme, della giustizia di Dio, quanto violenta fu la reazione del marito al suo tradimento. Le due interpretazioni sono, entrambe, sostenute da buoni argomenti. La preferenza che accorderei alla prima deriva da ciò che, se vi cogliessimo un accenno alla passione da cui ancora Francesca è vinta, quel semiverso anticiperebbe, senza necessità, non solo i vv. 103-104, ma anche il successivo («che, come vedi, ancor non m’abbandona»), che si troverebbe così a ribadire il già detto. – Sul v. 107 «Caina attende chi a vita ci spense», cfr. n. 31, e infra. Ma intanto si noti che al v. 107, «spense» vale quanto il «togliere» del v. 102, e il soggetto che lo regge è Gianciotto, non l’amore. – Deve aggiungersi che l’argomento, addotto da Pagliaro, Ulisse, I, p. 137, secondo cui, «all’infuori dell’ovvia presunzione di violenza», Dante non dice quale «precisamente» fosse stato il «modo» di cui Francesca «si lamenta», è sofistico: e anche errato, perché è Francesca che, al v. 90, «noi che tignemmo il mondo di sanguigno», allude con chiarezza a quel che, del resto, non poteva non esser noto a Dante, che non aveva tardato a riconoscere, nei due dannati uniti, gli amanti romagnoli. Ribadisco quanto detto qui su, cap. 5, n. 4: il «noi» riguarda bensì tutti i peccatori puniti fra i lussuriosi, ma, proprio per questo, anche gli amanti romagnoli, ai quali soltanto, invece, si riferisce il «noi» del v. 95. 16. Cfr. quel che, in proposito, è detto nel testo e nelle precedenti note. 17. Che in genere questo canto, e in particolare la triplice anafora sull’amore, dovessero e potessero indurre a fantasie eccessive, e a conseguenti fraintendimenti, può comprendersi, e sta del resto dinanzi agli occhi. Pagliaro, Ulisse, I, pp. 137-138, in nota (22), ha ricordata, e confutata senza difficoltà, la stravagante tesi avanzata da C. Ricci, Francesca (1918), in Id., Ore e ombre dantesche, Firenze 1921, p. 184, secondo cui la «bella persona» che a Francesca fu tolta sarebbe non la sua, ma quella di Paolo, così definito per la sua,
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appunto, bellezza: ossia di colui al quale essa doveva esser data in moglie e che le fu all’ultimo momento sottratto a tradimento, donde l’«offesa» che, secondo il Boccaccio, Esposizioni sopra la Commedia, ed. cit., p. 320, ancora le gravava sull’anima. In realtà, deve dirsi che il Ricci fece, in questo caso, anche di peggio quando osservò che, se non si fosse interpretato il v. 101, e il successivo, come a lui sembrava si dovesse, la sequenza stabilita ai vv. 97-106, avrebbe dato, poiché nel narrare Dante rispettava la cronologia degli eventi, questo senso: «nacqui a Ravenna – Paolo s’innamorò di me – io fui uccisa – allora m’innamorai di lui – fummo uccisi insieme». – Persino, del resto, un dantista della statura di E.G. Parodi, Poesia e storia nella “Divina Commedia”, a cura di G. Folena e P.V. Mengaldo, Vicenza 1965, p. 46, sembrò smarrire il senso della misura e dell’equilibrio quando osservò che fu Francesca a trascinare Paolo, come è lei che ancora, nell’Inferno, lo tiene avvinto a sé «con indissolubili nodi»; e dette l’impressone di non tenere conto che è l’amore il soggetto e l’auctor di quel che accadde e che allo stesso modo, anche se è la donna a narrare e persino a teorizzare, i due ne furono vinti. Che è quello che, del pari, obietterei a G. Trombatore, Saggi critici, Firenze 1950, pp. 69-78, il quale, attribuendo a Paolo il v. 101 e a Francesca il v. 103, all’uno l’amore gentile e moderato, all’altra l’amore passionale e violento, che conduce a morte, ha reso, fra le altre cose, incomprensibile la reciprocità («amor ch’a nullo amato amar perdona») della risposta che quest’ultima ha resa al sentimento del primo. Reciprocità che sarebbe quanto meno alterata se alla gentilezza mite corrispondesse la passione efferata, e l’amore, che per Fancesca è unico e soggetto a quella vicenda, fosse perciò preso in due sensi. Questo, beninteso, non significa che Dante condividesse questa tesi dell’inevitabile esito cavalcantiano della premessa stabilita dall’amore che, «ratto», s’apprende al «cor gentile»; ma significa bensì che quel che Francesca dice per sé vale anche per Paolo, unico essendo il nodo che li tiene avvinti, unica e non graduabile la passione da cui furono travolti. 18. Cfr. P. Rajna, Dante e i romanzi della Tavola Rotonda, in «Nuova Antologia», 206 (1920), pp. 223-247, e anche Arturi regis ambages pulcerrimae, in «Studi danteschi», 1 (1920), pp. 91-99. E cfr. la messa a punto di D. Branca Delcorno, Romanzi arturiani, ED, IV, 1028 b-30 a. Ma di lei si veda Tristano e Lancillotto in Italia. Studi di letteratura arturiana, Ravenna 1998; e quindi Inglese, Francesca, pp. 55-56. 19. Pagliaro, Ulisse, I, p. 128, sostenne che i personaggi nominati da Dante ai vv. 5267 avessero tutti «perduto la vita a causa di amore». Il che è indubitabile, anche se il nesso «lussuria/morte» si specificò, di caso in caso, in modi diversi; tanto che Didone e Cleopatra avrebbero ben potuto trovar posto fra i suicidi, se il «generico», la lussuria, non avesse qui prevalso, sullo «specifico», il suicidio. – Sul «catalogo» dei lussuriosi, cfr. G. Brugnoli, Studi danteschi, II, I tempi cristiani di Dante e altri studi danteschi, Pisa 1998, pp. 57-65. 20. Cfr., per Didone, Sapegno, I, p. 58, che opportunamente ricordò Verg. Aen. 4, 552. «non servata fides cineri promissa Sychaeo», un verso del quale quello di Dante non è che una versione. E cfr. ora S. Conte, Amanti lussuriosi esemplari. Semantica e morfologia di un vettore tematico, Roma 2007, pp. 57-65. Ma già A. Tartaro, L’aggettivo di Cleopatra (“Inferno”, V 63), in «Cultura», 32 (1994), pp. 45-57 (e poi, con il titolo mutato in La lussuria di Cleopatra, in Cielo e terra. Saggi danteschi, Roma 2008, pp. 57-72). 21. Per Cleopatra, cfr. anche Par. VI 76-78, dov’è ricordata la sua morte «subitana e atra». Cfr. Conte, Amanti lussioriosi esemplari, pp. 163-196. 22. Che l’informazione su Semiramide derivasse a Dante da Paolo Orosio (I iv 4-8) e, probabilmente, da Giustino (I 2), è stato più volte notato. Cfr. Pagliaro, Ulisse, I, pp. 128-
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129, e G.R. Sarolli, Semiramide, ED, V, l52 a. L. Alfonsi, Un latinismo di Dante: l’origine vera, in «Vichiana», 6 (1977), pp. 301-303, ha fatto notare che i manoscritti di Orosio recano liberum e non libitum, sì che la fonte di Dante sarebbe il topos si libet, licet. Ma Trovato, Il testo della “Vita nuova”, pp. 107-108, ha osservato che, sebbene la lezione licitum non figuri negli apparati delle edizioni moderne che hanno tutte liberum, di gran lunga prevalente anche nella tradizione toscana, la prima si trova in un ms. di Utrecht, definito tuttavia «ex recentioribus et valde mendosus» nell’edizione di S. Havercampus, Lugduni Batavorum 1907, p. 39. Si tenga comunque presente l’ampia discussione che di questi versi fece E.G. Parodi, Note per un commento alla Divina Commedia, in Lingua e letteratura. Studi di teoria linguistica e di storia dell’italiano antico, a cura di G. Folena, II, Venezia 1957, pp. 344-347. La questione posta dal Parodi andrebbe discussa a parte; e anche, desidero aggiungere qui, quella che fu delineata da un giovane studioso, R. La Terra Bellina, Tra libito e licito: un percorso, in un breve saggio che mi fu dato in lettura tempo fa, e che, quando sarà pubblicato nella sua forma definitiva, potrà essere utilmente discusso. – Sulla connessione del personaggio con Didone («licito»/ licuit [Aen. 4, 550-551]) si è soffermato Brugnoli, Studi danteschi, II, p. 63. E cfr. Conte, Amanti lussioriosi esemplari, pp. 57-65. 23. Cfr., per esempio, Landino, Comento sopra la Comedia, I, pp. 450-451. Vedo ora (del volume che comprende il suo saggio ho avuto notizia quando questo mio era già giunto al traguardo) che anche il Mercuri, Il poeta della morte, pp. 195-196, ha notato il nesso che può stabilirsi fra i due passi, e che consiste però, a suo giudizio, nell’essere, Francesca e Guido, altrettante incarnazioni delle «ideali figure dei consumatori e degli scrittori della poesia cortese». 24. Gli scritti danteschi del Foscolo sono raccolti nelle Opere, ed. naz., IX/1 e 2, a cura di G. Da Pozzo e G. Petrocchi, Firenze 1979 e 1981. 25. La prima, seria reazione all’interpretazione desanctisiana, e, prima ancora, foscoliana, venne dal Barbi, Dante, pp. 173-181 (= Con Dante e coi suoi interpreti, pp. 119-128) che le caratterizzò brevemente (con più simpatia, direi, quella del Foscolo). Sul Foscolo e il De Sanctis, brevemente, L. Caretti, Il canto di Francesca, Lucca 195l, pp. 11-12, che si soffermò poi (pp. 12-13) sul saggio del Barbi (cfr. anche L. Caretti, Il V canto dell’Inferno, in Nuove letture dantesche, I, Firenze 1966, pp. 105-131). Ma cfr. anche quel che del Dante di Foscolo, e in particolare della sua interpretazione di Francesca, disse lo stesso De Sanctis, Lezioni e saggi su Dante, pp. 205-206, 633-634, 645. 26. Cfr. qui sotto, n. 31; e quel che si dice nel testo. 27. La citazione boeziana (De cons. phil. II 4, 2: «in omni adversitate fortunae infelicissimum est genus infortunii fuisse felicem») è ovvia: la si incontra infatti in molti commenti (per esempio, Sapegno, I, p. 64). Non mi sembra invece pertinente il riscontro, la cui proposta risale, forse, al Boccaccio (Esposizioni sopra la Commedia, ed. cit., p. 322) con il quarto dell’Eneide. Dopo aver citato Boezio, in riferimento al v. 124 («… e ciò sa ’l tuo dottore»), Boccaccio ricordò Virgilio, «il quale, e nel principio della narrazione fatta da Enea de’ casi troiani a Didone e ancora del dolore di Didone alla partita d’Enea, assai chiaramente il dimostra». Ma «infandum, regina, iubes renovare dolorem» (Aen. 2, 3) non dice quel che sta scritto nel verso di Dante (e in Boezio). Enea dice solo dell’immenso dolore che la regina gli ordina di rievocare, e cioè «Troianas ut opes, et lamentabile regnum/ eruerint Danai»; né mi pare che Boccaccio dicesse bene nel riferirsi al quarto libro e ai lamenti di Didone abbandonata. Avrò certamente letto male. C’è, per altro, un solo luogo in questo
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libro (vv. 296-298): «at regina dolos (quis fallere possit amantem?)/ praesensit motusque excepit prima futuros,/ omnia tuta timens», nel quale, e in particolar modo nel potente omnia tuta timens, potrebbe indicarsi qualcosa di simile a quel che si legge in Dante. Ma a parti, tuttavia, e per dir così, invertite. Nel suo ansioso amore, Didone era tale che, persino nelle «cose sicure», sospettava, e temeva, che si nascondesse la radice dell’infelicità; sì che, e questa è un’ulteriore differenza, non si potrebbe a buon diritto definire «felice» un tempo segnato da un simile, ansioso timore. Nemmeno, d’altra parte, direi, con la Chiavacci Leonardi, I, p. 161, che abbia a che fare con il «concetto», esposto da Francesca a proposito del dolore connesso alla rievocazione del tempo felice nella miseria quel che si legge in Aen. 4, 647-705, cioè nel finale del libro, per intero caratterizzato dalla teatralità della morte che Didone dà a sé stessa sulla grande pira, dalla maledizione scagliata contro Enea (vv. 661-662: «hauriat hunc oculis ignem crudelis ab alto/ Dardanus et nostrae secum ferat omina mortis»), dall’immenso pianto della città (v. 668: «resonat magnis plangoribus aether»), dalla disperazione della sorella Anna (vv. 672 ss.). L’unico gesto che Didone compia di rievocazione del passato felice (vv. 648-650: «hic, postquam Iliacas vestes notumque cubile/ conspexit, paulum lacrimis et mente morata/ incubuit toro dixitque novissima verba …») implica bensì uno struggente rimpianto, ma non certo l’idea del tempo felice che, rievocato nella miseria, accende nell’animo il dolore più grande. Morata è participio passato di morior e si riferisce a Didone che ne è il soggetto sottinteso. A ragione, dunque, A. Bellessort (Enéide, I-VI, texte établi par H. Goelzer, I, Paris 1948, p. 123) ha «elle a donné un instant aux larmes et au rêve», L. Canali (Eneide, a cura di E. Paratore, tr. di L. Canali, II, Milano 1978, p. 98) «un poco indugiando in lagrime e in pensiero», V. Sermonti (L’Eneide di Virgilio, Milano 2007, p. 223) «indugiando un momento fra lacrime e ricordi»: meglio però il «pensiero» di Canali del «rêve» di Bellesort e dei «ricordi» di Sermonti, perché non mi risulta che tra i significati di mens (Forcellini 1894, s.v.) possano contarsi anche quelli. Aggiungerò che a ragione, con altri, Bosco e Reggio, I, p. 144, respinsero l’identificazione del «tuo dottore» con Boezio. Il «dottore» non può essere che Virgilio, al quale si fa, ai vv. 124-125 («ma s’a conoscer la prima radice/ del nostro amor tu hai cotanto affetto»), l’omaggio di una pertinente, e sempre notata, citazione (Aen. 2, 10-11: «sed si tantus amor casus cognoscere nostros/ et breviter Troiae supremum audire dolorem»). Cfr. comunque, per quel che attiene al v. 123 «e ciò sa ’l tuo dottore», quel che è detto nel cap. 1, n. 15. 28. A contrasto con quanto affermato nel testo, e che deve comunque esser tenuto fermo se si vuole che il contrasto prenda intero il suo senso, si possono citare le parole di Virgilio: «… e tu allor li priega/ per quello amor che i mena, ed ei verranno» (vv. 77-78); e quindi i vv. 103-105: «amor, ch’a nullo amato amar perdona,/ mi prese del costui piacer sì forte,/ che, come vedi, ancor non m’abbandona». Sia comunque consentito di notare, fra parentesi, che, molto acutamente, a proposito dei vv. 103-105, il Boccaccio, Esposizioni sopra la Commedia, ed. cit., p. 321, scrisse che, «secondo la catolica verità, questo non si dee credere, per ciò che la divina giustizia non permette che in alcuna guisa alcuno dannato abbia o possa avere cosa che al suo desiderio si conformi o gli porga consolazione o piacere alcuno. Alla quale assai manifestamente sarebbe contro, se questa donna, come vuol mostrare nelle sue parole, a sé medesima compiacesse nello stare in compagnia del suo amante». Può darsi che, come il Boccaccio (ibidem, p. 321) perentoriamente suggerì, nello scrivere questi versi, Dante avesse in mente Aen. 6, 472-474, e che, al pari di Didone, che nell’al di là aveva ritrovato l’amore di Sicheo, così Paolo e Francesca tenessero vivo il loro
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anche nel luogo dell’eterna pena. Ma non sono sicuro che, per questa parte, il suggerimento del Boccaccio debba essere accolto. È al suo primo «detto», quello relativo alla «catolica verità», che ci si deve attenere: dopo tutto, è osservazione ovvia che l’oltretomba cristiano non è quello concepito e descritto da Virgilio. Sulla questione che sta nel fondo, e che riguarda l’assimilazione che in Inf. II 13-33, Dante fece delle καταβάσεις di Enea e di san Paolo, non è possibile fermarsi qui. Ma che si inscrivano in due diversi orizzonti, e richiedano valutazioni diverse, resta indiscutibile. Vorrei aggiungere che non capisco perché il Padoan (Esposizioni sopra la Commedia, ed. cit., p. 867, n. 244) giudicasse l’osservazione del Boccaccio come il frutto della sua «consueta protesta […] in nome dell’ortodossia», e, parlandone come espressione di «moralismo superficiale», citasse Purg. XVII, che non direi proprio che sia, per quei versi, citato a proposito. Non credo che, di questa situazione, per la quale è strutturalmente impensabile quello che, d’altra parte, la «ragion poetica» mette con forza sotto gli occhi del lettore, e cioè che, in Francesca e Paolo dannati, l’amore sia quale era stato in loro, vivi, – non credo che, al riguardo, possa farsi altro che prenderne atto, accettando, per questa parte, ma solo per questa, il conflitto dell’intenzione e della «cosa», – il conflitto che il De Sanctis si compiaceva di sorprendere in Dante, e che nel suo saggi su Francesca il Barbi, Dante, pp. 173-174 (= Con Dante e coi suoi interpreti, pp. 129-132), aborriva e si rifiutava di ammettere. Cercare di ricostituire l’unità di questi temi nel segno della «struttura», ossia dei convincimenti morali filosofici teologici di Dante, assumendo, per esempio, che non dall’amore Francesca qui si trovava a esser vinta, ma dalle conseguenze che, in vita ne erano derivate, sarebbe esercizio piuttosto avvocatesco che critico, dal quale utilmente ci si terrebbe lontani. Quella che invece, e comunque, non potrebbe mai esser accettata è la conseguenza che altri ne traesse: e cioè che in questa flessione della coerenza teologica albeggiasse, in Dante, il mondo moderno. Queste sì che sono sciocchezze, insopportabili sciocchezze: quasi che si potesse ammettere che la poesia e la struttura si opponessero in Dante come il mondo moderno si oppone a quello medievale; che nascessero l’una a contrasto dell’altra, la prima vincendo le resistenze opposte dalla seconda; e quasi, inoltre, che potesse esserci qualcuno così sprovveduto da ritenere che, per quanto è del mondo medievale e del mondo moderno, comprenderli nelle loro complesse differenze si possa facendo ricorso a un concetto dell’opposizione così estrinseco e grossolano. Non era, questo che qui si è criticato, il pensiero, per esempio, di Croce (anche se in quei termini sia stato talvola interpretato, e non necessariamente dai suoi critici). Mai egli mise a contrasto la poesia e la struttura, facendo sorgere la prima dalla negazione della seconda; e senza entrare ora nella discussione specifica, che per mio conto ho condotta altrove, inviterei a leggere quel che di Francesca, in breve ma con grande finezza, egli scrisse ne La poesia di Dante, Bari 19435, pp. 71-73. 29. È il concetto che circola nel saggio di De Sanctis, Lezioni e saggi su Dante, p. 646, passim. 30. Ibidem, pp. 637-638. E cfr. anche il Parodi, Poesia e storia, p. 50. 31. Per la variante «Caino», «Cain», etc. cfr. Petrocchi, Introduzione, p. 120, e anche II, p. 90, che la esclude perentoriamente. Nella forma «Cain», la lezione fu difesa da V. Russo, Sussidi di esegesi dantesca, Napoli s.d., pp. 33-51, non senza, debbo dire, buone ragioni, e, da ultimo, criticata da Inglese, Francesca, p. 46, n. 4. Deve però osservarsi che nel poema scarsissime e, per così dire, indirette sono le citazioni di Caino. In Inf. XX 126 («sotto Sobili Caino e le spine») il suo nome sta per la luna (e cfr., naturalmente, il canto
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delle macchie lunari che «fan di Cain favoleggiare altrui»: Par. II 51); in Purg. XIV 133, gli invidiosi ripetono le parole da lui pronunziate dopo l’uccisione del fratello Abele: «anciderammi qualunque m’apprende» («omnis igitur qui invenerit me, occidet me» Gen. 4, 14). Poiché Dante non lo ha ricordato fra coloro che si trovano nel luogo d’Inferno che era destinato al suo peccato, si potrebbe notare l’incongruenza di quel verbo «attendere» riferito a uno che, nel poema, non ha la fisionomia di un personaggio. Non questa, per altro, è la questione che quel verso pone; ma l’altra della perentoria condanna che, in un modo che nel testo ho definito «blasfemo», Francesca pronunzia come se, a dettargliela, fosse stato Dio, e essa parlasse in suo nome. Tanto più, in effetti, questa sua forma di hybris richiede di essere sottolineata, in quanto, in polemica con il Parodi, Poesia e storia, pp. 46-47, che giustamente aveva avvertito in quel verso l’odio e la violenza e la vendetta, il Pagliaro, “… E ’l modo ancor m’offende”, p. 353, n. 15, volle minimizzare, osservando che in quelle parole non c’è «se non l’enunciazione di una legge di giustizia divina», non avvedendosi che proprio lì era il punto della questione, se non fosse, appunto, cosa blasfema che un dannato si arrogasse il compito di parlare in nome della «giustizia» di Dio. Vedo ora che nel commento all’Inferno, p. 90, Inglese ha invece messo a testo Caìn, e ha giudicato che la variante Caina introdurrebbe «un riferimento preciso alla topografia del nono cerchio, ossia alla zona dei traditori dei congiunti». Ma, se anche avesse scritto Caìn, Dante non avrebbe potuto non avere un’idea del luogo in cui, nell’Inferno, questi avrebbe atteso l’arrivo di Gianciotto. E, anzi, proprio perché usava quel verbo («attende»), mostrava di avere in testa l’idea del luogo in cui quello attendeva: sì che, da questo punto di vista, la questione non cambia. Cfr. anche E. Malato, Dottrina e poesia nel canto di Francesca. Lettura del canto V dell’“Inferno”, in Id., Lo fedele consiglio de la ragione, pp. 106-110 e n. 81. 32. Purg. XVIII 55-56.
Appendice. Sul sumbebekós
Dell’accidente (accidens, συμβεβηκός) si è ricordato, nel testo, che, proprio in quanto non è «sostanza», è impossibile che se ne faccia un soggetto di predicazioni; e si è osservato che dal non avere, con il divieto che ne derivava, considerata questa impossibilità, prese forma l’anomalia che, per questo aspetto, la canzone di Cavalcanti rivela: un’anomalia (aristotelica) che tanto più perciò richiedeva, come qui su è stato fatto, di essere notata. E, su questo, non dovrebbero insorgere dubbi. Se, per altro, la si considera nei testi in cui, sopra tutto, Aristotele la studiò, e cioè nei libri Δ (V), E (VI) e Z (VII) della Metafisica, la questione dell’«accidente» rivela aspetti problematici, ai quali nelle precedenti pagine non fu possibile concedere tutta intera l’attenzione che meritava le fosse invece concessa. Potrebbe risultarne qualcosa di utile anche per l’interpretazione di Donna me prega.1 La prima questione, alla quale non si è potuto se non accennare, riguarda la consistenza ontologica dell’accidente; che, al di là delle più elementari definizioni, resta, in Aristotele, alquanto oscillante, e indecisa. In Metaph. Δ 30, 1025 a 14-17, συμβεβηκός λέγεται ὃ ὑπάρχει μέν τινι καὶ ἀληθὲς εἰπεῖν, οὐ μέντοι oὔτ᾽ ἐξ ἀνάγκης oὔτε ὡς ἐπὶ τὸ πολύ, οἶον ἒι τις ὀρύττων φυτῷ βόθρον εὖρε θευσαυρόν. È la definizione che già abbiamo incontrata; e l’esempio del tesoro trovato, appunto, per caso, da chi si era 1. Questi che seguono sono semplici appunti che, nella speranza che possano riuscire utili ai lettori di Donna me prega, ho ritenuto opportuno raccogliere in un’Appendice, senza la pretesa che, nella forma in cui li presento, costituiscano un contributo all’interpretazione del concetto aristotelico del sumbebekos. Inevitabile è stato tuttavia alludere a questioni che, riguardando la struttura del concetto, non sarebbe stato, in ogni caso, possibile trascurare.
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messo a scavare la terra per piantarvi un albero, già, come si ricorderà, era stato prodotto e, in breve, commentato. Seguendo il testo, occorre aggiungere che quel che appartiene al soggetto, e potrebbe tuttavia non appartenergli, quel che gli appartiene e viene a farne parte, ma né necessariamente né ἐπὶ τὸ πολύ, questo συμβεβηκὸς ἔσται, sarà (definibile come) «accidente». Del quale non ci sarà causa determinata (αἴτιον ὡρισμένον), e nemmeno, per conseguenza, scienza. A dominare incontrastato sarà τὸ τυχόν, il caso, la pura accidentalità, il puramente indeterminato, l’ἀόριστον. Tutto chiaro, dunque? In realtà, questo proprio è il punto in cui si fanno avanti, e tendono a rendersi evidenti, le difficoltà che si annidano nel concetto del συμβεβηκός, e che poco alla volta converrà far emergere. Se si osservano con attenzione le linee 24-25 del passo in cui il συμβεβηκός ricevette la sua definizione, e che qui sopra è stato citato, non può sfuggire che il suo interno equilibrio non sarebbe garantito se alla «causa determinata», della quale l’accidente è, e non potrebbe non essere, privo, non facesse riscontro, invece che «niente», qualcosa. E cioè, appunto, τὸ τυχόν, l’ἀόριστον, l’indeterminato che, tale, ossia indeterminato, essendo e non niente, è come se in questo non esser niente, nascondesse appunto la causa per la quale può comunque dirsi che l’accidente è l’accidente. Questa causa che, essendo μὴ ὡρισμένον, e perciò ἀόριστον, non è una causa, è infatti τό τυχόν, la pura accidentalità dell’accidente; che non è, si ripete, una causa, se causa significa determinatezza, e non di meno agisce in qualche modo come se lo fosse. Per un verso, infatti, l’accidente è ἄνευ αἰτίας, senza causa. Ma per un altro è l’accidente che, nel non aver causa, è tuttavia in qualche modo causa di sé stesso, perché dalla sua accidentalità, dal suo non aver causa, non può prescindere, proprio come un effetto non può prescindere dalla causa da cui deriva. Ne consegue che, nella estrema sua indeterminatezza, l’accidentalità rivela di essere, in sé stessa, la particolare causa dell’accidente; e su questa indeterminatezza che in sé stessa si fa e si rivela «particolare», su questo singolare paradosso che dalla natura dell’accidente è inscindibile per ciò stesso che, per questa via, esso rivela di avere una natura, un «in sé», l’attenzione deve restare concentrata. Con le difficoltà che ne emergono, sta qui, infatti, il nucleo essenziale delle riflessioni che Aristotele gli dedicò. Ancora. Per un verso, l’accidente non è in sé stesso «essere». Non è infatti né per necessità né «per lo più»; e deriva da altro. Ma, per un altro, se deriva da altro, deve possedere tanto «essere» quanto gli basti a ricevere
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l’essere; quanto gli basti, si direbbe, per poter derivare da altro. Se infatti s’intendesse diversamente, occorrerebbe assumere, non che l’accidente avesse il suo luogo nell’essere della sostanza, ma che questa lo facesse essere, e ne fosse perciò la causa: con la conseguenza che, in quanto causato, l’accidente non potrebbe più esser definito così. Anche qui, tutto chiaro? A parte quest’ultimo punto, sul quale non sembra che possano cadere dubbi, deve rispondersi di no, – che non tutto è chiaro. Sono proprio infatti queste alternative a escludere che fra l’essere e l’accidente possa darsi quella che si darebbe (se di una simile alternativa parlare fosse legittimo) fra l’essere e il non essere, al quale, secondo Aristotele, l’accidente può, in un certo senso, dirsi vicino (Metaph. E 1026 b 21). In realtà, se si assumesse che il συμβεβηκός fosse un τυχόν, ossia «ciò che accade», anche sarebbe necessario che l’essere τυχόν non accidentalmente appartenesse all’accidente; che, in quanto accade che accada, non potrebbe non essere in possesso dell’essere per il quale si dice che, accadendo, è l’accidente che è. Insomma, per un verso, l’accidente è privo di essere, o, più radicalmente, «non è». Per un altro, mentre accade, è; e in modo tale che non è nel «mentre» del suo accadere che il suo essere si determina. Non ci sarebbe infatti alcun «mentre» se l’essere dell’accidente non preesistesse al «mentre» del suo accadere e determinarsi (come accidente). La situazione è dunque, in Aristotele, meno semplice di quanto i commentatori di Donna me prega non abbiano mostrato di ritenere. Può trarsene conferma osservando da vicino le linee 28-29 in cui si legge: γέγονε μὲν δὴ ἢ ἔστι τὸ συμβεβηκός, ἀλλ’ οὐχ ᾗ αὐτὸ ἀλλ’ ᾗ ἕτερον, ossia che l’accidente accade ed è, ma non per sé stesso, bensì, piuttosto, per altro. Non è forse evidente, in queste linee, quel che qui sopra si notava? Non è evidente che, da una parte, si assume che l’accidente accade ed è, mentre, da un’altra, si dice che l’essere non gli appartiene se non in quanto lo riceva da altro: quasi che (lo si è già accennato) potesse ammettersi che per sé stesso non sia ciò di cui pur si afferma che ha un «sé stesso», e quasi, altresì, che fosse concepibile che ricevesse l’essere ciò che, se ne mancasse, se sul serio fosse, come si legge in Aristotele, «vicino al non essere», nemmeno potrebbe essere disposto a riceverlo? Che il punto sia delicato, e una luce problematica, se non addirittura ambigua, si distenda perciò sul συμβεβηκός è, o dovrebbe essere, altrettanto evidente dell’impossibilità che la questione si risolvesse col dire che l’ac-
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cidente ha bensì una αἰτία, una causa, ché altrimenti non potrebbe esistere, salvo che è, la sua, una causa «indeterminata». Palesemente, infatti, la soluzione proposta è più problematica del problema in vista del quale è stata escogitata. Per definizione, una causa non potrebbe mai, se fosse indeterminata, essere una causa; ché se invece lo fosse, se fosse indeterminata e tuttavia esercitasse sé stessa come causa, a quella sua definizione, di «causa indeterminata», occorrerebbe rinunziare. Preso come causa, e ammesso che potesse comunque parlarsene, di nient’altro l’indeterminato potrebbe esserlo se non dell’indeterminato. Il che, importando, com’è ovvio, che l’indeterminato non può essere causa, perché, se lo fosse, non sarebbe indeterminato, anche altro significa. E cioè che, se si tiene fermo al punto che non si dà causalità dove al causante non si riconosca la possibilità di uscire da sé e produrre qualcosa che, rispetto a sé stesso, sia altro, all’indeterminato in nessun modo questo carattere potrebbe essere riconosciuto. Posto infatti che sul serio sia, e possa essere tenuto fermo nella sua definizione di «indeterminato», che questo esca da sé, è impossibile. L’indeterminato non ha infatti un confine che non sia esso stesso indeterminato, e tale dunque che oltrepassarlo sia possibile senza che, oltrepassandolo, ancora e sempre ci si trovi nell’indeterminato A sua volta, per poter essere conforme alla sua definizione, almeno di un carattere la causa dovrebbe essere in possesso. E questo carattere è la determinatezza; ché, se anche di questo la si privasse, per certo il suo concetto riuscirebbe, in sé, ancora più problematico di quanto non risulti da un esame al quale, in termini filosofici, e in generale, lo si sottoponesse. Nemmeno, d’altra parte, potrebbe considerarsi soddisfacente l’interpretazione che, in Metaph. 291 b, § 1141, Tommaso d’Aquino dette dell’accidente commentando l’esempio del navigante che, diretto a tutt’altra mèta, spinto in altra direzione dalla tempesta, giunse invece a Egina: «patet», scrisse, quod hoc est per accidens, et causari potest ex diversis causis; sed tamen quod iste navigans ad hunc locum perveniat non est “in quantum ipsum”, idest in quantum erat navigans, cum intenderet ad alium locum navigare; sed hoc contingit in quantum alterum, idest secundum aliquam aliam causam extraneam.2 2. In duodecim libros Metaphisicorum, ed. cit., p. 291.
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In questo commento non si coglie infatti quel che propriamente, dell’accidente è «accidente»; e si va invece fuori strada, perché, posta la premessa (in sé stessa altamente discutibile) della molteplicità delle cause, l’accento è poi fatto cadere sul loro scambio, ossia sulla «casuale», e non causata, circostanza, che, diversamente da come il navigante avrebbe voluto, e in modo difforme perciò dalla sua intenzione, ad agire fu una causa altra da quella che egli intendeva essere a sé stesso, sì che a determinarsi furono effetti diversi da quelli voluti e sperati. In realtà, il commento è inadeguato, non solo perché, in modo comunque divergente rispetto alla definizione che Aristotele ne dette come di un τυχόν e di un ἀόριστον, ai quali sia perciò impossibile assegnare un αἴτιον ὡρισμένον, una causa determinata, Tommaso, al contrario, parlò di «causa», anzi delle molte e varie cause dalle quali è possibile che l’accidens sia causato. Il commento è altresì inadeguato perché, posto che varie siano le cause dalle quali un «accidente» può esser tratto all’esistenza, resta che è per accidens che ad agire sia questa piuttosto che quella: con la conseguenza che, se è vero che ogni accidente ha comunque una causa accidentale, anche questa dovrà averne una della medesima natura, senza che perciò si dia la possibilità di non presupporre sempre, alle spalle della causa che nella determinata circostanza agì, l’accidentalità per la quale ad agire fu quella e non un’altra. Insomma, alla radice della causa riconosciuta come quella che determinò lo specifico accidente che ci sta sotto gli occhi, occorre, in questa prospettiva, riconoscere l’accidentalità del suo aver prevalso sulle altre possibili. Ma, alla radice dell’accidentalità, dovrà ricercarsi la causa, e quindi ancora, alla radice di questa, l’accidentalità: in un rinvio incessante, di ciò che è qui, a ciò che l’ha determinato, e con la finale conseguenza di non potere, fra causa dell’accidentalità e accidentalità della causa, mantenere, nel concetto, la distinzione che le parole enunciano. Per chi si trovi di fronte la canzone di Cavalcanti, e debba cercare d’intenderne innanzi tutto la lettera, tener conto di queste considerazioni potrà, come si diceva, essere utile. Non perché immediatamente si adattino al testo che, in quanto tale, non le prevede. Ma per la diversa ragione che, problematizzando, ossia cogliendo la problematicità interna al concetto aristotelico, consentono di delineare un quadro in cui potrebbe eventualmente sorprendersi la ragione per la quale, nell’uso di quel concetto, Cavalcanti deviò, e dell’accidente dette, come vedemmo, una definizione, a rigore, impropria. Potrebbe, per esempio, supporsi che, non essendo riu-
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scito a spingere il suo sguardo nell’intreccio delle questioni che il concetto aristotelico del συμβεβηκός racchiudeva in sé, e a rendersi conto del nesso problematico che lega insieme l’accidentalità e la causa, Cavalcanti fosse comunque stato indotto, a proposito dell’accidente, a far prevalere l’essere, che deve riconoscerglisi quando, appunto, si dice che «è», sul «non essere» al quale pure Aristotele lo aveva dichiarato «vicino». A far prevalere l’essere, e perciò a sostanzializzarlo. A sostanzializzarlo, e quindi, di passaggio in passaggio, a farne quel che non avrebbe dovuto, un autentico soggetto di predicazioni. È un’ipotesi; e non è detto, naturalmente, che la si possa e debba considerare come qualcosa di più e di meglio di un’ipotesi. È un’ipotesi. E contiene tuttavia in sé l’invito a considerare la possibilità che, a sostanzializzare l’accidente, Cavalcanti fosse stato indotto da qualcosa di meglio che non fosse stato un suo semplice equivoco di lettura, da un movimento interno al concetto, che egli non controllò e, per criticarlo, non seppe ricondurre alla purezza del principio logico al quale, per dir così, l’accidente deve di essere venuto al mondo delle idee. Della tendenza, che all’accidente e al suo concetto è intrinseca, ad assumere per sé, ossia come suo proprio, l’essere che da altro, e solo da altro, dovrebbe provenirgli, ben più che un indizio è presente anche in testi di stretta, o comunque sostanziale, osservanza aristotelica. In un commentario parigino alla Fisica di Aristotele, risalente al 1273, e attribuibile, forse, a Sigieri di Brabante, è detto che, poiché niente può essere senza ciò che attiene alla sua ratio, e all’essenza (si badi) dell’accidente appartiene di essere in un subiectum, a derivarne è che, al di fuori di questo, di accidente non potrebbe parlarsi: a meno che di esso non si facesse una sostanza, il che è impossibile. Così perentorio fu, su questo punto, l’autore del commentario, che inaccettabile fu da lui giudicata la stessa tesi tomistica della dispositio dell’accidente a essere in un subiectum. Vi coglieva forse l’equivoco consistente nell’ammettere l’impossibilità che l’accidente avesse un «in sé», e dunque l’essere, nell’atto in cui, per un altro verso, non poteva evitare di riconoscere, sia l’«in sé» sia l’essere, alla disposizione sua a essere in altro. Ed era, questo, un rilievo assai acuto; che non avrebbe potuto tuttavia non essere rivolto anche alla tesi secondo cui all’accidente si riconosceva, come essenza, il suo essere in un subiectum.3 3. Ein Kommentar zur Physik des Aristoteles aus der pariser Artistenfakultät um 1273, a cura di A. Zimmermann, Berlin 1968, p. 24.
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Se s’intende pervenire al limite problematico del concetto, deve essere attentamente considerato, il passo di Δ 30, 1025 a 30-34, nel quale Aristotele avvertì che λέγεται δὲ καὶ ἄλλως συμβεβηκός, ossia che anche in altro modo l’accidente può esser detto, perché così, come accidenti, si definiscono gli attributi che, appartenendo di per sé a ciascuna cosa, non sono tuttavia intrinseci alla sostanza (οὐσία) di questa. Così è per accidens che τῷ τριγώνω, a un triangolo appartengono δύο ὀρθάς, due rette; e nel passo in questione si legge anche che gli accidenti di questo tipo possono essere eterni (ἀΐδια εἶναι), ma questi soltanto, e gli altri in nessun caso. Questo luogo è da tener presente perché, sebbene sembri delineare un’eccezione alla linea definitoria, è in realtà quello che meglio consente di cogliere l’accidentalità, come si potrebbe definirla, dell’accidente. Un triangolo è un triangolo se ha tre lati; e questo è necessario al suo poter essere definito così. Ma non necessario, perché non appartenente alla definizione dei tre lati che lo costituiscono, è che la somma di due di essi sia eguale a due retti. Ne consegue che, dato quel triangolo, è bensì necessario che vi sia quella condizione, senza la quale, a rovescio, il triangolo non sarebbe quale è. Ma non che quella condizione debba di necessità esser presente nel triangolo in quanto triangolo, ossia nella sua essenza: nei cui confronti quella condizione non implica se non la particolarità del particolare triangolo nel quale la somma dei lati sia eguale a due retti. Da una parte, quindi, si dà il triangolo. Da un’altra, quel particolare triangolo. Se il primo indica l’essenza, ed è detto secondo questa, il secondo indica, nei confronti dell’altro, la contingenza; che Aristotele considerò tale, e non, dunque, altrettanto necessaria della necessità della prima, perché, non rientrando nella definizione del triangolo in quanto triangolo, a questa, appunto, non è necessaria. Sia dunque così; e si prescinda dall’altra questione, se si diano qui tracce persistenti di non risolto platonismo. Si consideri piuttosto che, se è così che il passo richiede di essere interpretato e ricostruito, altro resta da considerare. Se, da una parte, questa, relativa alla non necessità, per l’essenza del triangolo, dell’eguaglianza degli angoli, dei retti e della loro somma, è la migliore definizione che aristotelicamente potesse darsi dell’accidente, che di per sé non è né ἀναγκαίως né ἐπί τὸ πολύ, questa è tuttavia, da un’altra, una definizione ambigua. Se vi si scava dentro, si capisce infatti perché, alla fine, essa dissolva quel che aveva preteso di cogliere nella sua realtà, nella realtà dell’accidente; che in senso stretto non ha, o non dovrebbe avere, realtà. Necessità e contingenza qui si distin-
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guono secondo necessità; dalla quale, necessariamente, la contingenza è assorbita e rivelata come necessità: proprio come si vede nell’esempio di quel particolare triangolo, nel quale gli elementi specifici del suo comportamento (gli angoli, i retti, la somma, l’eguaglianza) furono da Aristotele definiti come συμβεβηκότα: nell’atto, tuttavia, in cui, asserendo il loro poter essere «eterni», egli alludeva a una possibilità che, a sua volta, definiva un carattere che, attraverso quella, non poteva, paradossalmente, non essere necessario. Con il che, a delinearsi era di nuovo la questione, non solo dell’accidentalità dell’accidente che, proprio perché è impossibile che derivi da altro, è necessario che, dunque, derivi da sé stesso, e che, in questo senso, comportandosi come una sostanza, sia causa sui. Ma anche della possibilità che, venuto in qualche modo in contatto con questa articolazione del pensiero aristotelico, Cavalcanti ne fosse indotto a, come qui sopra si è detto, sostanzializzare l’accidente. Alquanto oscillante, e intrinsecamente incerta, la nozione aristotelica dell’accidente non riesce a tener ferma la sua accidentalità senza che a questa si attribuisca una causa e così si smentisca il carattere (il carattere che non è un carattere) che pure si intendeva attribuirgli. Ma nella definizione aristotelica si danno altri inconvenienti, o, che si dica, difficoltà; che, anche al di là di quel che fin qui si è venuti osservando, risultano con particolare energia da E 2, 1026 b 3-1027 a 27; che è uno dei luoghi nel quale la trattazione del συμβεβηκός fu condotta nel modo, forse, più sistematico e compiuto. L’esempio al quale, in questa parte della Metafisica, Aristotele fece ricorso fu preso, non da un viaggio che circostanze non previste e, appunto, accidentali, avessero fatto deviare dalla rotta che gli era stata segnata. Ma dalla costruzione di una casa; che accade infatti che possa riuscire diversa da come l’architetto l’aveva prima disegnata sulla carta e, quindi, dal disegno trasferita nella realtà. Fu tratto, altresì, di nuovo, dalla figura del triangolo, che il geometra considera in sé, e non nell’accidentalità che può determinarvisi. Gli esempi, in filosofia, sono sempre pericolosi. E, nel servirsene per la comprensione del pensiero che dovrebbe esserne reso evidente, occorre partire da questo che, esso solo, agli esempi conferisce il rigore di cui, di per sé, questi sono privi. Se si parte dal pensiero, e agli esempi si perviene restando fermi sul suo fondamento, è anche possibile che questi contribuiscano a rendervi palese una difficoltà che avrebbe, altrimenti, potuto restare nascosta. Così, in effetti, accade quando si considera l’esempio del-
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la casa e dei συμβεβηκότα che, prima, durante e dopo la sua costruzione, possono insorgere senza che ragionevolmente li si fosse potuti prevedere: συμβεβηκότα che sono ἄπειρα, senza limite, essendo, parrebbe, moltiplicabili per le tante scontentezze che, progettata e realizzata in quel modo, essa produce in chi deve comunque abitarla (o giudicarla). – Ebbene, dov’è qui τὸ συμβεβηκός? Nel caso del viaggio, era nell’accidentale sostituzione che la causa prevista pativa a opera di una non prevista (la tempesta intervenuta a sconvolgere il piano della navigazione). Era insomma nell’accidente che, accadendo, si faceva radice di sé stesso. Nell’esempio della casa, è invece nell’insoddisfazione che, anch’essa, accidentalmente insorge nei confronti, se non del progetto, della sua realizzazione. Ma, se in questo l’accidente si rese visibile e, per dir così, tangibile, se fu in quei non previsti e non prevedibili eventi della natura o dell’anima che esso prese la sua forma reale, a quale «sostanza», a quale soggetto avrebbe potuto dirsi che esso, l’accidente, fosse accaduto? Aristotele poteva ben dire che, a causa della sua «quasi» inafferrabilità ontologica, l’accidente non è se non ὀ ὄνομα, e che per questo, lo si dica ancora una volta, φαινέται […] ἐγγύς τι τοῦ μὴ ὀντος, «sembra essere vicino al non essere». Ma, a parte la difficoltà che si rende evidente quando del non essere si fa una sorta di limite o di confine, il punto problematico non stava in queste asserzioni definitorie. Il punto problematico stava nel rilevamento della «sostanza», a cui l’accidente non poteva comunque non essere pertinente: un rilevamento che appariva qui in ogni senso problematico. In che cosa, infatti, la indicheremo? Qual è la «sostanza» alla quale questi «accidenti» accadono e ineriscono? Non, certo, il «fatto» che, invece che alla destinazione prevista, la nave giunse a Egina; e nemmeno quello costituito dall’insoddisfazione mostrata dagli abitanti nei confronti della casa appena costruita. Questi, infatti, non sono che i due «accidenti» che, sconvolgendo piani e previsioni, si determinarono in quelle due specifiche circostanze. Sono «accidenti», non «sostanze»; e la questione sta qui nella «determinazione» della sostanza a cui quelli inerirono. Che debbano inerire a una sostanza, se sono accidenti, è infatti, aristotelicamente parlando, ovvio; ed è quasi superfluo ribadirlo. Ma altrettanto ovvio è che la sostanza alla quale ineriscono non è configurabile come il legno a cui si sia, per esempio, dal di fuori, aggiunto il colore. La sostanza a cui, e in cui, accadono «accidenti» come quelli descritti negli esempi del naufragio, della casa che genera insoddisfazioni, del tesoro trovato nella fossa scavata per piantarvi un
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albero, non può esser altra, da una parte, dall’individuo che ne è l’oggetto, da un’altra, dalla realtà (genere e specie) che lo include. Non appartiene a questa sede l’ulteriore discussione che di questa «differenza» potrebbe farsi. Ma se, come qui è necessario, da questi testi aristotelici, l’attenzione tornasse a dirigersi alla canzone di Cavalcanti, potrebbe forse intendersi perché da lui, e non soltanto da lui, l’amore fosse considerato un accidente. L’amore fu da lui considerato così perché, attraverso le esemplificazioni rinvenibili nei testi aristotelici, l’accidente era, non soltanto, il predicato di un soggetto. Era, o poteva essere, anche un evento psicologico, che si aggiungeva alla realtà, ma passando attraverso le modificazioni arrecate all’anima di un individuo. Le difficoltà che sono state fin qui passate in rassegna si ripresentano tutte nella mirabile pagina (Ε 1026 b 4-1027 a 15), nella quale, con particolare impegno, Aristotele esperì il tentativo di far emergere la paradossale, ἄτοπος, natura dell’accidente, che non esiste né sempre né per lo più, dal confronto con ciò che, al contrario, è ἀεὶ ὡσαύτως […] καὶ ἐξ ἀνάγκης (27-28). È infatti proprio questo tentativo, che, a partire dal sistema categoriale da cui è sorretto, fa insorgere, e rende evidente, la difficoltà. Da una parte si dà, in questo quadro, quel che «sempre» è «allo stesso modo e per necessità». Da un’altra, quel che è né sempre né per lo più. Da una parte, come già si ebbe a notare, il necessario. Da un’altra, il contingente. Ma l’alternativa che al necessario oppone il contingente, e a questo il necessario, è compresa in un quadro che, includendo allo stesso modo e sempre sia il necessario sia il contingente, per sé stesso è necessario. Così necessario che, senza alcuna difficoltà, può vedervisi la stessa cosa dell’alternativa, che non sarebbe quel che è, e questo carattere non potrebbe esserle riconosciuto, se a costituirla non fossero, allo stesso modo appunto, e il necessario e il contingente. I quali sono entrambi necessari, se costituiscono i termini dell’alternativa per la quale il necessario non è il contingente, e questo non è il necessario: con la paradossale, ma inevitabile, conseguenza, che se, allo stesso modo e necessariamente, l’alternativa richiede il necessario e il contingente, questo non è contingente ma necessario, e, con sé stessa, l’alternativa toglie perciò l’opposizione e la differenza di quei termini. Posta così, l’alternativa del necessario e del contingente era destinata a consumare sé stessa e, dalla differenza, a far emergere, nel segno di ciò che è necessario, l’identità. Il che, contro le sue intenzioni esplicite, fu reso evidente proprio da Aristotele quando, asserendo quel che, per restare
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fedele a sé stesso, avrebbe dovuto escludere, del συμβεβηκός indicò una αἴτια e, addirittura, una arché: αὔτη αρχὴ καὶ αὔτη αἴτια ἐστὶ τοῦ εἶναι τὸ συμβεβηκός (1026 b 30-31). Se, in piena estate, il caldo è soffocante, non diciamo che questo accada accidentalmente, mentre così diremmo se, in quella stagione dell’anno, accadesse il contrario e nevicasse. E qui, fra parentesi, deve notarsi l’ulteriore anomalia che si rende evidente nella distinzione della contingenza dalla necessità; che, con quale diritto è definita così nell’atto in cui, per un altro verso, si ammette che, essa proprio, possa ricevere l’eccezione che la sospende? Allo stesso modo diciamo τὸν ἄνθρωπον λευκὸν εἶναι συμβέβηκεν, non invece che κατὰ συμβεβηκός quello è ζῶον, perché, necessariamente, al soggetto «uomo» appartiene di essere, come individuo, inserito nel γένος dell’«animalità», o, che si dica, della «vita»: e di esser vivo in modo che questa sia la condizione possibilitante di ogni predicazione che, per accidens gli si aggiungesse. Quello per cui l’uomo è «bianco», «musico», o, secondo l’esempio, esperto nell’arte culinaria, è inerenza accidentale di questi attributi al suo soggetto; che rimarrebbe infatti quel che è, e l’uomo seguiterebbe a esser uomo, ossia «animale vivente», anche nel caso in cui ciascuno di quegli attributi gli fosse in qualche modo stato sottratto. Quella per la quale l’uomo si dice «animale vivente» è invece inerenza sostanziale; e, come indica il sostrato ultimo che, soggetto di predicazioni, non può, in quanto tale, essere predicato di altro, così non può accadere che, perdurando la vita, gli sia sottratto. In quanto individuo, questo individuo appartiene alla specie, e questa appartiene al genere che, includendola, anche l’individuo include, con pari necessità. Ancora. Mentre le cose che accadono κατὰ συμβεβηκός, e cioè l’essere, o, meglio, il divenire, «bianco», «musico», «cuoco», sono necessarie in quanto accadono, ma che accadano non è necessario, quelle che di necessità ineriscono a un soggetto (come l’uomo alla specie, e questa al genere, o l’uomo, se si preferisce, all’uomo) è impensabile che possano non appartenergli, e che a lui stiano come, al suo esserne il soggetto, stanno il bianco, il musico, il cuoco. Tutto questo è, in termini aristotelici, ovvio; e non immeritevole, tuttavia, di essere ricordato. C’è un punto, tuttavia, che, essendo assai meno ovvio, richiede un supplemento di attenzione. Il punto che rende problematica la questione che stiamo trattando, e la dispone nel senso dell’aporia, è già emerso nel corso dell’indagine; e che torni a dar segno di sé, è, salvo errore, la riprova della sua importanza. Si
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può svolgerlo, o tornare a svolgerlo, così. Se, come ad Aristotele accadde di dire, l’accidente non è inscrivibile sotto il segno categoriale del «sempre» e del «per lo più», e questa è la sua definizione, lungi dal risolvere la difficoltà intrinseca al suo avere una causa che non è una causa e una «non causa» che agisce però come una causa, quella definizione la aggrava e la esaspera. Come si è già notato, la definizione era ambigua, e dischiudeva una prospettiva fortemente aporetica. Aristotele non giunse infatti ad avvedersi di quel che qui su si notò; e cioè che, escludendo l’accidente dal quadro del necessario, e assumendo tuttavia che l’esclusione avvenisse nel segno della necessità, attraverso l’esclusione non poteva evitarsi di porre questa a fondamento di quello, il necessario a fondamento dell’accidentale e del contingente; che vennero in tal modo a essere inclusi nel quadro dal quale s’intendeva escluderli come non pertinenti alla sua natura. Che nel discutere la questione dell’accidente, e dopo averne data la prima definizione, Aristotele si fosse via via venuto a trovare in difficoltà, risulta evidente se si considera, non solo il modo alquanto oscillante che egli tenne nell’assegnargli la «causa» che pure, per un altro verso, gli aveva sottratta e gli sottraeva; ma anche dal ragionamento che svolse in E 3, 1027 a 29-1027 b 16. Qui, esplicitamente egli respinse la tesi secondo cui delle cose che si generano e si corrompono non si danno cause e princìpi che essi stessi siano generabili e corruttibili; e argomentò che proprio di tale natura questi invece dovessero essere: non ingenerabili e incorruttibili, ma, appunto, generabili e corruttibili, perché altrimenti ἐξ ἀνάγκης πάντ’ ἔσται, tutto sarebbe stato di necessità, non sottoposto cioè alla legge della generazione e della corruzione. Non si può dire che, lette con attenzione, le linee 29-32, non pongano qualche delicato problema di interpretazione. Che, innanzi tutto, a 29, ἀρχαὶ καὶ αἴτια siano γενητὰ καὶ φθαρτά, ossia generabili e corruttibili, è detto con sufficienza chiarezza, ed è, parrebbe, confermato da quel che segue, e cioè dal rilievo secondo cui, se così non fosse, tutto sarebbe ἐξ᾽ἀνάγκης. Ma che significa allora, alla linea 30, ἄνευ τοῦ γίγνεσθαι καὶ φθείρεσθαι? Che senso deve darsi a questo «senza generazione e corruzione»? Ossia: a che si riferisce? Ai princìpi e alla cause, no, se si tiene fermo a quel che il testo asserisce circa il loro essere generabili e corruttibili. E deve perciò compiersi uno sforzo non indifferente, e di esito non necessariamente fortunato, per salvare la coerenza del testo, e intendere, per esempio, che a non essere soggetti a generazione e corruzio-
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ne sono, non i princìpi e le cause, che infatti lo sono, ma, appunto, il loro essere invariabilmente soggetti a generazione e corruzione. In altri termini, princìpi e cause sono generabili e corruttibili, e a non esserlo è soltanto il principio del loro non essere ingenerabili e incorruttibili? La spiegazione è, senza dubbio, alquanto faticosa e non poco contorta: senza dire che non sembra nemmeno intonata allo stile argomentativo di Aristotele. Ma, a parte che, oltre che nell’originale greco, faticoso, contorto e non poco oscuro è altresì il testo che, a partire da Guglielmo di Moerbeke, i suoi traduttori si limitarono, a quel che consta, a volgere nelle loro lingue senza, si direbbe, troppo preoccuparsi che il senso corresse nel segno della coerenza, resta che il salvataggio del principio non corruttibile, in forza del quale ogni altro principio e ogni altra causa si inscrivono, al contrario, nell’ambito delle cose generabili e corruttibili, sembra essere richiesto dalle parole conclusive del passo; nel quale è detto con chiarezza che τοῦ γιγνομένου καὶ φθειρομένου μὴ κατὰ συμβεβηκὸς αἴτιόν τι ἀνάγκη εἶναι, di quel che nasce e si corrompe dev’esserci una causa che sia non accidentale, ma necessaria. Posto che sia questa la più plausibile, o la meno implausibile, interpretazione del passo, non può escludersi che, se non dipende da una non buona trasmissione del testo, la faticosità che lo caratterizza possa esser posta in relazione a una difficoltà intrinseca al pensiero; e, per dire la cosa con maggiore chiarezza, all’incertezza nella quale Aristotele era venuto a trovarsi nella questione dell’accidente, e dell’attribuibilità, o non attribuibilità, a esso della causa del suo accadere, esserci e determinarsi. Le cause accidentali sono bensì, infatti, diverse da quelle necessarie: agiscono, quando, e soltanto quando, agiscono. Ma non sarebbero tuttavia quel che invece sono, e cioè cause, se, in sé stesse, non fossero effetti di un qualcosa di non accidentalmente causale, e l’intero universo dei contingenti non avesse alla sua radice la ferma costanza del necessario. Ne discendeva che se, per un verso, l’accidente derivava da cause accidentali che, per un altro, dipendevano da cause, non accidentali, ma necessarie, a venir meno era proprio la possibilità di pensare, come «accidente», l’accidente, il puro συμβεβηκός che Aristotele aveva cercato di affisare e afferrare quando lo aveva definito come ἀόριστον. E l’ulteriore conseguenza era la forte ambiguità che, in questa sua cruciale articolazione si dava a vedere nel concetto. Per un verso, infatti, essendo dette accidentali, queste cause si comportavano in modo affatto difforme dalla definizione che se ne dava.
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Erano cause, infatti, e agivano come cause, ossia come quei tali effetti di cause necessarie, e non accidentali, che, divenuti a loro volta cause, non potevano essere accidentali, e dovevano essere necessarie. Per un altro, era l’altra prospettiva che il testo aristotelico dimostrava di non poter non accogliere, pena, altrimenti, la rinunzia all’accidente, e all’intera dimensione del contingente: nell’atto, tuttavia, in cui anche dimostrava che, date le premesse, la conseguenza non poteva essere raggiunta. Alla radice del suo pensiero si era infatti costituito un nodo che, in quel quadro, era destinato a stringersi con forza tanto più grande quanto più energico fosse stato il tentativo di scioglierlo. La casualità dell’accidente era necessaria nel suo derivare da una causa non contingente; che si pretendeva tuttavia che, per sé stessa, fosse accidentale, anche se, nel produrre il suo effetto, non potesse comportarsi se non come necessaria. Lo si vede con chiarezza se si fa attenzione a quel che Aristotele osservò nella pagina cruciale che ci sta da tempo sotto gli occhi. Vi è detto infatti che questo o quello avverranno o non avverranno a seconda che a determinarsi sia questa causa o quella; e che, se casuale è il loro determinarsi, queste cause sono tuttavia tali che, nell’agire e prodursi, ciascuna rinvia alla precedente come alla sua causa, proprio come questa aveva rinviato a quella che le stava innanzi, e così via, finché non si fosse rivelata la necessità di fermarsi a una causa che, essendo tale, fosse tuttavia di per sé priva di una causa che l’avesse preceduta. Il che dimostra che, a osservarli con attenzione, i συμβεβηκότα sono connessi in un sistema tale che, casuale essendo ritenuto l’intervento della causa che gli dà inizio, in quel che segue si presenta invece costituito con il filo di acciaio della ananke. Che, d’altra parte, l’assunto fosse insostenibile, e a partire, si direbbe, dalle stesse premesse aristoteliche, è evidente. Non solo perché l’aristotelica «necessità di fermarsi» e di non persistere nella regressione, è una escogitazione (o si dica, se si preferisce, una tesi) euristica che, mentre fa appello a una sorta di «buon senso economico», smentisce, per un altro verso, il suo assunto; al quale potrebbe infatti sempre obiettarsi che alle spalle della causa posta come l’ultima (o la prima) niente autorizza a non porne un’altra, e poi ancora un’altra, εἰς ἄπειρον. Non solo perché, e sarebbe stato ben strano se così non fosse stato, della difficoltà Aristotele fu ben consapevole: non avrebbe altrimenti scritto quel che si legge a E 1027 b 16, e cioè che quanto era stato detto fin lì era μάλιστα σκεπτέον. Non solo
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per questo. Ma anche, e sopra tutto, perché, comunque si fosse proposto di tornare sull’argomento, è sul concetto di causa indeterminata, e della ὕλη, alla quale qui egli la ridusse, che, tanto più occorre di nuovo concentrare l’attenzione, quanto meno persuasivo riuscì l’argomento al quale ricorse. A quel che qui su già si ebbe occasione di osservare, deve ora infatti aggiungersi che, se l’indeterminato fosse posto come causa, la proposizione che si costituisse con entrambi questi termini sarebbe per certo affètta da contraddittorietà. E che sia così, è ovvio. Se fosse «causa», necessariamente, infatti, l’indeterminato sarebbe determinato, e, se fosse determinato, come potrebbe essere mantenuto in quel suo carattere (che non è e non può essere un carattere) di ἀόριστον? Dall’indeterminato, potrebbe ripetersi, solo l’indeterminato deriva. Potrebbe dirsi così. E si direbbe male, tuttavia, se non si tenesse a mente quel che già in parte si osservò e deve, ora, essere ribadito e meglio definito; e cioè, in primo luogo, che, se dall’indeterminato derivasse l’indeterminato, il primo indeterminato non potrebbe essere quale lo si definisce. Sarebbe determinato dalla sua stessa azione causante: con la conseguenza che determinato sarebbe anche il secondo indeterminato, e l’intera situazione apparirebbe avvolta dalla luce incerta dell’aporia. In secondo luogo, se la ὕλη fosse presa nel senso di δύναμις τῶν εναντιῶν, come potentia oppositorum, ad aprirsi sarebbe, ancora una volta, uno scenario fortemente aporetico. Nella ὕλη intesa come δύναμις, potentia, dei contrari, questi dovrebbero necessariamente stare in potenza. Ma se entrambi stessero in potenza, che cosa, al di fuori del nome, potrebbe garantirne la ἐναντιότης, la contrarietà? Si aggiunga che se, per sfuggire a queste conseguenze, e andando tuttavia contro la sua definizione, per ὕλη s’intendesse invece un ὑποκείμενον, un soggetto o, se si preferisce, un «sostrato», invece di migliorare, la situazione peggiorerebbe. Se infatti ospitasse i contrari, la ὑλη dovrebbe essere presa nell’accezione, a lei non conveniente, di γένος, di «genere»: dal momento che, se invece di «ospitarli», e di costituire essa il loro ambito unitario, e, insomma, il loro «genere», dai contrari fosse immediatamente affètta; se, in sé stessa, fosse contrarietà e, per la sua concepibilità, questa potesse permanere in tale suo carattere senza risolversi in un terzo unitario, il «soggetto», o «sostrato», non potrebbe non dividersi in sé stesso nel segno contraddittorio della μεγίστη διαφορά. E sarebbe esso a non poter essere né soggetto, né sostrato. Sarebbe in uno due soggetti, sarebbe contraddittorio; e non potrebbe ospitare gli ἐναντία. Ma che il soggetto sia due in uno, sia, cioè, e non sia il soggetto, è impos-
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sibile. Ancora. Se, prendendo atto di questa serie aporetica, si tenesse per fermo a questi due aspetti, (1) che la ὕλη è causa dell’accidente, e (2) che è «indeterminata», per sfuggire all’aporia che in tal modo si determinerebbe non basterebbe certo suggerire che, senza dichiararlo, Aristotele avesse qui fatto intervenire la «causa efficiente», dalla quale la potenzialità della ὕλη sarebbe stata tratta all’atto. Il ricorso alla «causa efficiente» si rivela, in effetti, così arbitrario da rendere ancora più evidente l’aporeticità della situazione (l’impotenza causale della ὕλη) alla quale s’intendeva porre rimedio. Non c’è, infatti, in questo giro di pensieri, dove si era supposto che non si desse se non l’indeterminata «potenza», nulla che giustifichi la presenza di un atto (la causa efficiente). E, come deve ribadirsi, il ricorso a quest’ultima è rivelativo, non della soluzione, ma dell’insolubilità, una volta che fosse stato impostato così, del problema. La questione dell’accidente potrebbe essere studiata anche in relazione a quella delle categorie: della «sostanza», in primo luogo, e al suo essere «per sé», e quindi delle altre, e al loro essere «per altro». Sarebbe, se la si trattasse in relazione all’essere, non soltanto accidentale, ma sostanziale, e ai significati che assume nei confronti delle altre categorie, la questione di gran lunga più difficile. Ma, nell’economia del presente discorso, basteranno brevi considerazioni. Per quanto riguarda il primo punto, non ci sarebbe niente da aggiungere al già detto, se, assumendo come testo di riferimento Δ 1017 a 8-25, non fosse tuttavia opportuno osservare che, sebbene Aristotele li distinguesse, tutti i lemmi prodotti, non solo «l’uomo è musico» e il «musico è uomo», ma anche «il bianco è musico» e «il musico è bianco», prendono il loro senso dal riferimento, diretto o sottinteso, alla «sostanza», alla quale «accadono». Evidente nei primi due, nei quali è nominato l’uomo (e, com’è stato notato, questo avrebbe potuto essere specificato con un nome: Callia, per esempio, o Alcibiade), il riferimento lo è anche nei secondi. Il musico non potrebbe infatti essere bianco, né il bianco musico, se, nel riferirsi l’uno all’altro questi due predicati non inerissero entrambi, συνβεβηκώτος, accidentalmente, al soggetto «uomo». Al quale, beninteso, potrebbero non inerire, perché non ogni uomo è musico o bianco; e il soggetto, la sostanza, l’uomo insomma, resterebbero di per sé stessi essenti. Nella proposizione inscrivibile sotto il segno dell’essere accidentale, l’essere, ossia l’«è» della copula, appartiene, se si sta alla semplice osservazione, tanto alla sostanza (l’uomo) quanto all’accidente (per
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esempio, musico, oppure bianco). Ma, secondo il concetto, l’essere non appartiene invece all’accidente se non in quanto a questo sia, per dir così, trasmesso dalla sostanza; che, se anch’essa fosse accidentale, non potrebbe certo sostenere il peso logico, e ontologico, di una siffatta predicazione (il che si dice, naturalmente, in relazione al pensiero di Aristotele, salva restando la possibilità di rilevare in altra sede le difficoltà che emergono quando si riconsideri quel che già fu osservato, e cioè che non può non possedere l’essere, prima che questo gli sia stato trasmesso e assegnato, quel che sia comunque disposto a riceverlo). Al di qua dell’essere, accidentalmente, musico o bianco, o anche «musico bianco», l’uomo si predica della specie e del genere; e rispetto alla prima è «uomo», rispetto alla seconda, «animale» o «vivente». A fondamento dell’essere accidentale si dà perciò quello sostanziale: rispetto al quale il primo potrebbe bensì non esserci (e per questo Aristotele arrivò una volta, come più volte si è dovuto ripetere, a definirlo come «vicino al non essere»), ma, in quanto ci sia, e, alla radice, per poterci essere, è necessario che, non accidentalmente, sia connesso al necessario (e qui sta, come pur si è detto, il punto critico, e debole, della sua teorizzazione). La questione relativa al difficile e problematico status ontologico del συμβεβηκός si acuisce se si riflette sulla distinzione che Aristotele intese, o sembrò voler mantenere fra l’essere che si dice κατὰ συμβεβηκός, e quello che, essendo per sé, si dice secondo le categorie che, quante sono, altrettanti significati gli attribuiscono. E può cominciarsi dalla difficoltà che insorse fra gli interpreti quando, a partire forse dal commento di Tommaso d’Aquino per finire con i più recenti, ci si chiese come fosse possibile che, dopo aver riferito, alla sostanza da una parte, alle categorie da un’altra, la distinzione che Platone aveva introdotta fra le cose che sono per sé, καθ’αὑτά, e quelle che sono per altro, e aver detto a chiare lettere che solo le prime sono, se sono per sé, e le altre no, a Δ 7, 1017 a 22-27 Aristotele abbia potuto scrivere che «per sé sono dette le cose che significano secondo le figure (σχήματα) delle categorie; e quante queste sono, altrettanti sono i significati dell’essere. Poiché dunque fra le categorie alcune significano l’essenza (τί ἐστι), altre la qualità (ποιόν), altre la quantità (ποσόν), altre la relazione (πρός τι), altre l’agire e il patire (ποιεῖν e πάσχειν), altre il dove (πού), altre il quando (ποτέ), a ciascuna di queste l’essere ha corrispondenti significati (ἑκάστῳ τούτων τὸ εἶναι ταὐτὸ σημαίνει)». Da Tommaso
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d’Aquino4 a David Ross5 e oltre, variamente le difficoltà di questo passo sono state discusse. Ma quel che forse richiede di esser meglio considerato risiede in un punto problematico che, se si presenta per il cosiddetto essere accidentale, che anch’esso, come si è visto, inclina a essere quell’essere che la definizione, a rigore, gli negherebbe, a fortiori emerge anche nel caso delle categorie. La differenza richiede di essere colta. Il συμβεβηκός è tale, infatti, che, sempre identico a sé stesso e alla sua propria accidentalità, è di volta in volta diverso nelle sue realizzazioni. Per le categorie, invece, le cose stanno certamente in modo diverso. Sebbene, e non senza buone ragioni, Aristotele talvolta (per esempio, Anal. post. A, 22, 83 a 25) definisse συμβεβηκότα le categorie altre dalla sostanza, resta che questa nominazione ritrae «oggetti» diversi da quelli che, sempre o «per lo più», si definiscono così. Riguarda gli accidenti presi in senso stretto, quelli che accadono, o si pretende che accadano, al di fuori dell’ordine costituito dalle cose che non accadono, perché sono di necessità. Con questi συμβεβηκότα, le categorie hanno in comune, talvolta, non più che il nome; e per il resto differiscono. È vero, infatti, che soltanto per accidens l’uomo è musico, architetto, medico, costruttore di triremi; e vero è che soltanto per accidens il musico può provocare guarigioni e il medico esser musico e suonare il flauto. Ancora. È vero che, a differenza dell’ἄνθρωπος che, ἐξ ἀνάγκης, è «animale vivente», e, come si predica della «specie», così, attraverso questa, del «genere», a quello l’esser musico o medico accade, e potrebbe non essergli accaduto: con la conseguenza che, al di qua delle predicazioni categoriali che segnano il suo essere sostanziale, intatta resta, e da niente alterabile, la sua essenza di uomo. Ma, al di là, o al di qua, del loro essere accadimenti, nei riguardi dei συμβεβηκότα propriamente detti le categorie si presentano con questa essenziale differenza. Che risalta con forza se si considera che, mentre, per non avere un «in sé» che, anteriore al loro realizzarsi, sia individuabile per sé stesso, quelli, i συμβεβηκότα, non sono di volta in volta se non lo specifico accidente che, essendo entrato a far parte delle cose del mondo, con gli altri accidenti intrattiene un rapporto non più che accidentale, non altrettanto potrebbe dirsi delle categorie diverse dalla sostanza. A questa, infatti, esse accadono bensì con una necessità non 4. In duodecim libros Metaphisicorum, ed. cit., p. 237, a-b, § 885. 5. Aristotle’s Metaphysics, A revised Text with Introduction and Commentary by W.D. Ross, I, Oxford 1966, p. 307.
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anteriore a quella che si determina con il loro accaderle; essendo per altro indubitabile che, sebbene Aristotele non si fosse impegnato a formalmente «dedurle», e non avesse perciò evitato il rilievo di «rapsodicità» che tante volte poi gli fu mosso, le categorie sono categorie, e in queste carattere stanno ferme. Indubitabile è che, non potendo essere diverse, in sé stesse, da sé stesse, e questo carattere essendo comune a tutte, un filo le unisce. E formano un sistema. Che emerge non soltanto dalla necessità che, tutte allo stesso modo, hanno di riferirsi alla sostanza, ma dall’ulteriore conseguenza che di qui è pur necessario trarre: quella secondo cui, se sono in sé stesse inalterabili, e, ora in potenza, ora in atto, secondo necessità sono connesse alla sostanza, al loro essere «per altro» come potrebbe non sottendersi l’essere per sé? L’unica via lungo la quale potrebbe giungersi a far riconvergere insieme le categorie dell’essere e la accidentalità dell’accidente, sarebbe quella che conducesse alla constatazione del carattere nascostamente categoriale presente in quest’ultimo; come, se in altri termini, altro fossero gli accidenti che di volta in volta lo realizzano, altro invece l’accidentalità che, del suo realizzarsi negli accidenti, costituisce la condizione (una condizione, dovrebbe dirsi, analoga a quella per la quale, come categoria, la qualità, per esempio, presiede all’esserci di ogni specifica qualità che si osservi negli oggetti). Dell’accidentalità dovrebbe, in altri termini, farsi una categoria. Ma, a parte le difficoltà che la sua introduzione nel quadro recherebbe con sé, non è certo questa la strada indicata dai testi di Aristotele. E occorre piuttosto insistere sul punto che, dall’accidentalità dell’accidente, quale Aristotele sembrò in sostanza intenderla, distingue quella che, a suo parere, caratterizza le categorie diverse dalla sostanza. Un punto sul serio critico. Aristotele infatti non ebbe ragione quando, a causa, si direbbe, della necessità in cui si trovava di polemizzare con Platone (τὰ γὰρ εἶδη χαιρέτο), avvertì (Anal. post. A 22, 83 a 33-34) μή εἶναί τι λευκόν ὄ οὐχ ἕτερόν τι ὂν λευκόν ἐστι, che non poteva esserci alcunché di bianco che fosse stato tale non essendo altro. Una cosa infatti era dire dell’impossibilità che il bianco potesse essere assunto e visto di per sé, e in sé, al di fuori, dunque, dell’inerenza sua a un oggetto determinato (un uomo, una tavola). Un’altra era negare che, inerendo ad altro, non avesse tuttavia il suo «in sé» nell’esser sempre e necessariamente quel «bianco» che rendeva tali e l’uomo e la tavola. Nella prima alternativa, non si negava infatti quello stesso che si negava nella seconda, e che negato non poteva essere perché, negando che il «bianco» avesse un «in sé», e che fosse
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questo a costituire la ragione nascosta del suo non poter essere visto e assunto se non in «altro», era come se si fosse negato che la qualità, la quantità, la relazione, l’attività e la passività, il dove e il quando fossero quel che le relative parole designavano, ossia condizioni, in sé stesse permanenti, della determinabilità del reale. Se è così, torna a delinearsi la questione che qui sopra fu posta. E la cui problematicità consiste, non in quel che è stato detto da chi l’ha colta nell’asserto secondo cui, oltre che per la sostanza, l’ὀν καθ’αὑτό si dice anche per le categorie, ma in qualcosa che sta più giù, nella radice ultima. La questione si complica infatti quando torna a considerarsi il punto che più volte è emerso in questa discussione. E cioè che, come è impossibile che quel che è πρὸς ἄλλο e che in questo si dice che abbia l’essere («esse in alio», come Tommaso d’Aquino si esprimeva6), non abbia di per sé (καθ’αὑτό) tanto essere quanto gli basti per «essere in altro», così è evidente che al «per sé» della sostanza corrisponde il «per sé» delle categorie, che non potrebbero essere πρὸς ἄλλο se in primo luogo non fossero per sé. Ma, se questo è evidente, anche allora lo è che varie complicazioni derivano di qui. Per restringersi a quella che sul serio è essenziale, deve dirsi che, se la sostanza può stare per sé al di qua delle predicazioni che le sopraggiungono, coglierla in questo suo carattere implicherebbe un atto intellettuale che la appercepisse come tale; e questo si rivela impossibile perché, «per sé» essendo quella, ma «per sé» essendo anche le categorie, in che modo l’un «per sé» si distinguerebbe dall’altro, e alla sostanza si riconoscerebbe il primato che alle altre è invece negato? Fra la sostanza e le categorie, l’unica distinzione che ponga questa da un lato, e le altre da un altro, non può essere, a sua volta, se non fondata su quel tal primato della prima sulle seconde, che si trova in realtà a essere affermato in modo altrettanto perentorio che illegittimo. Che di qui derivino altre difficoltà, tanto più gravi quanto più appaia chiaro che a esserne coinvolto è il principio stesso della predicazione, non sarebbe difficile dimostrare, se di tale dimostrazione la sede in cui ci troviamo potesse sostenere il peso. Vi si può tuttavia almeno accennare osservando, in primo luogo, che, se è impossibile che la sostanza si predichi di sé stessa o, se si preferisce, che sia ciò che 6. Cfr, per un esempio fra i molti ch si potrebbero citare, Thomae Summa theol. I, 5, a. 5 ad 2. E cfr. anche il De ente et essentia, cap. 6.
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s’intende per «predicazione» l’aggiunta della sostanza alla sostanza nella proposizione «la sostanza è la sostanza», altrettanto impossibile è che di sé stesse si predichino le altre categorie della «tavola». Non c’è differenza infatti fra il dire che la «sostanza è la sostanza» e l’asserire che la «qualità è la qualità» e il «dove è il dove». E deve aggiungersi che, in entrambi i casi, l’identità è a tal segno l’identità (solo infatti per sovrabbondanza verbale la si definirebbe come pura o assoluta e simili) che, nel distinguere il (così detto) soggetto dal (così detto) predicato, l’«è» della copula non distingue/unifica, non differenzia l’identico per poi identificare la differenza, all’identità conferendo, in questo atto, un più energico carattere. Asserzioni come queste appartengono alla retorica, non alla filosofia; la quale impone, se mai, di dire che l’asserzione verbale dell’«è» non esce dall’identico per rientrarvi, perché l’identico non consente che da lui si esca e in lui poi si entri, dal momento che, se è l’identico, non ha né un dentro né un fuori. Ne deriva, se è così, che, se la «qualità» e la «quantità» e il «dove» sono «sé stessi» allo stesso titolo per il quale la sostanza è la sostanza, anche la distinzione che fra questa e quelle si mantenesse col dire che, mentre la prima è soltanto «per sé», le altre sono «per sé» per essere, e poter essere, «per altro», si rivela impossibile, e deve, coerentemente, essere abbandonata. In realtà, se, mantenendo l’idea della predicabilità della sostanza, si tenesse tuttavia fermo al punto che le altre categorie sono, in sé stesse, tanto «per sé» quanto «per altro», all’interno di queste dovrebbe ammettersi la distinzione che fa diverso il «per sé» dal «per altro». Nelle categorie, in altri termini, si darebbe un soggetto, un ὑποκείμενον, e questo sarebbe il «per sé», che, essendo tale, e in sé stesso non essendo «per altro», a questo offrirebbe il suo sostegno. Ne deriverebbe, se così la categoria fosse intesa, una drastica e non ricomponibile scissione fra la parte di essa che sta «per sé» e la parte che sta «per altro»; e altresì ne deriverebbe che, quando si pretendesse di predicarla della sostanza, che è soltanto per sé, questa verrebbe a essere predicata, o della scissione, che è nella categoria, e la caratterizza, o della parte della categoria che è «per altro»; e perciò, ancora una volta, della scissione. Conclusione grave; e della quale dovrebbe tuttavia tenersi conto quando di tutto questo si tornasse a parlare nella giusta sede. A questo punto, l’Appendice dedicata al συμβεβηκός è giunta al traguardo. Vi è giunta per una strada troppo lunga, e toccando questioni che forse avrebbero richiesto di non esserlo. E, nel leggere alcune almeno delle cose
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che qui sono state scritte, qualcuno, certamente, avrà detto: ma che c’entra tutto questo con Donna me prega? Forse che, nello scriverla, Cavalcanti tenne o avrebbe dovuto tener conto delle questioni alle quali qui, ragionando intorno all’«accidente» e alle varie sue implicazioni, si è accennato? Certo che no, avendo egli composta la sua canzone nel modo che meglio riteneva le convenisse, e non in un altro, che non era e non poteva essere il suo. Ma, se Cavalcanti è Cavalcanti, il lettore è il lettore; e, per cercar di capire, perché, per suo conto, non dovrebbe esperire il tentativo di guardare un po’ più a fondo nelle questioni aristoteliche che, comunque se ne giudichi, costituiscono il fondamento, o uno dei fondamenti, di questa difficile canzone? Nello scrivere Donna me prega, lo si è detto e ridetto, Cavalcanti fece, del concetto aristotelico dell’accidente, un uso singolare, e, per certi versi, sul serio improprio. Poiché a questa anomalia non era accaduto che, a partire dall’antica glossa, si desse rilievo, insistere su questo punto sembrò necessario: a costo, anche, di essere accusati di pedanteria e, comunque, di eccessività. Entrare nelle questioni concernenti il concetto, in sé stesso non poco problematico, dell’accidente, parve necessario anche, e forse sopra tutto, per capire se alla radice dell’anomalia cavalcantiana non vi fosse qualche seria ragione, interna alla logica stessa dei concetti aristotelici. È quanto, in una parte di questa Appendice, si è cercato di fare.
Indice dei nomi
Abelardo, Pietro, 25-28, 39-41 Adami, A., 35 Alpetragio, 143 Agamben, G., 94, 95 Ageno Brambilla, F., 18 Alfonsi, L., 193 Amaducci, P., 33 Anonimo Giele, 94, 98, 108 Ardizzone, M.L., 88, 92, 122 Aristotele, 33, 44, 45, 47, 48, 50, 52, 55, 60, 63, 74, 76, 77, 83-85, 89, 90, 92, 95, 97, 105, 107, 108, 123, 124, 143, 145, 167, 170, 197-199, 201-206, 208-210, 212215 Arnaldi, G., 11, 12, 34 Arqués, R., 97 Avalle, D’A. S., 190 Averroé, 10, 48, 57, 67, 71, 78, 90, 93, 95, 96, 107, 108, 123, 124 Azzetta, L., 167-169 Baldelli, I., 34 Barański, Z. B., 122 Barbi, M., 10, 18, 32, 88, 135, 139, 170, 193, 195 Barolini, T., 124 Battaglia, S., 100, 189 Bazan, B., 89 Bellesort, A., 194 Benivieni, Girolamo, 120, 121 Benvenuto de’ Rambaldi da Imola, 169 Bernardo, santo, 190 Boccaccio, Giovanni, 32, 35, 103, 190, 192195
Boezio di Dacia, 94 Boezio, Severino, 146, 165, 182, 193, 194 Bosco, U., 34, 40, 41, 194 Bray, N., 168 Branca, V., 103 Branca Delcorno, D., 192 Brugnoli, G., 192, 193 Brugnolo, F., 42, 101, 124 Busnelli, G., 141 Buti, Francesco da, 38, 190 Calcaterra, C., 101 Calenda, C., 100, 132 Camassa, G. 94 Canali, L., 194 Capitani, O., 12 Cappellano, Andrea, 74, 79, 80, 100, 101, 174-176, 189, 190 Caretti, L., 193 Casella, M., 101, 125 Cathala, M.R., 133 Cavalcanti, Cavalcante de’, 116, 147, 166168, 171 Cecco d’Ascoli, 91 Chiarini, E., 33 Cherchi, P., 93, 94 Chiavacci Leonardi, A. M., 139, 169, 194 Cino da Pistoia, 29 Conte, S., 192, 193 Contini, G., 11, 14-16, 34, 40, 79-82, 86, 88, 94, 100, 101, 103, 122, 124, 132, 174, 189, 190 Corti, M., 89, 94, 98, 101 Croce, B., 14-16, 37, 195
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Dante, Guido e Francesca
Dalarun J., 39 Da Polenta, Francesca, 19 Da Polenta, Guido il vecchio, 19 Da Pozzo, G., 193 De Libera, A., 98, 99 Della Gherardesca, Ugolino, conte, 20, 33, 36 De Robertis, D., 18, 42, 74, 81, 82, 86, 88, 92-94, 96, 98, 100-103, 106, 122, 132, 133, 190 De Sanctis, F., 19, 32, 37, 40, 174, 181, 189, 193, 195 D’Ovidio, F., 36, 37 Dronke, P., 32, 33, 39-41 Egidi, F., 122 Eloisa, 24-28, 39, 40, 173 Falzone, P., 9, 12, 39, 168, 169 Favati, G., 81, 90-94, 99, 122 Febvre, L., 10 Fenzi, E., 81, 89-91, 93, 97, 100, 101, 123, 124, 132, 139 Ficino, Marsilio, 119-121, 125 Folena, G., 192, 193 Foscolo, Ugo, 32, 181, 193 Frachetta, Girolamo, 91 Friedrich, H., 32 Gallarati Scotti, T., 139 Garbo, Dino del, 43, 60, 69, 72, 91, 92, 97, 100, 103 Garboli, C., 34 Garin, E., 125 Gatto, L., 166 Gavazzeni, F., 42 Gentili, S., 12 Geoffroy, M., 123 Gessani, A., 167 Getto, G., 168 Gianni, Lapo, 29, 189 Giannini, C., 38, 190 Giele, M., 89 Gilson, E., 10, 26, 39, 40, 99 Giordano da Pisa, 190 Giovanni, evangelista, 175
Goelzer, H., 194 Gorni, G., 36, 42, 88 Grabher, C., 11, 169 Grabmann, M., 124 Gregory, T., 170 Guglielmo di Morbeke, 51, 209 Guinizzelli, G., 29, 30, 41, 42, 174 Guittone d’Arezzo, 122 Hamesse, J., 94 Hissette, R., 98, 123 Inglese, G., 12, 32, 33, 40, 42, 75, 81, 89, 91, 96-101, 103, 122, 165, 175, 189, 190, 192, 195, 196 Jacopo da Pistoia, 93, 100, 118 John of Salisbury, 25 Karnein, A., 189 Klibansky, R., 89 Kristeller, P. O., 93, 118, 124, 125 Kuksewicz, Z., 98 Lacaita, G. F., 169 Lancia, Andrea, 168 Landino, Cristoforo, 32, 40, 140, 169, 190, 193 Landucci, S., 123 La Terra Bellia, R., 193 Lecoy, F., 41 Lombardo, Pietro, 25 Maierù, A., 94 Malaspina, Moroello, 127, 132 Malato, E., 42, 165, 167, 170, 189, 196 Marti, M., 42, 93, 123, 166 Mattalia, D., 41 Matteo, evangelista, 175 Mazzucchi, A., 32 Mengaldo, P. V., 132, 165, 192 Mercuri, R., 122, 193 Meung, Jean de, 28, 40, 41 Mocan, M., 102 Monfrin, J., 39
Indice dei nomi Montano, R., 34, 41 Moore, E., 10 Moreschini, C., 165 Moschetti, A. M., 165 Nardi, B., 10, 33, 65, 74, 75, 89-91, 93-96, 98-101, 122, 124, 125, 165, 169, 170 Orlandi, Guido, 52, 53, 93, 96 Orosio, Paolo, 192, 193 Ottimo (L’) Commento, 32 Padoan, G., 39, 190, 195 Pagliaro, A., 11, 37-39, 139, 189-192, 196 Panofsky, E., 89 Paolazzi, C., 42 Pappalardo, F., 91, 100 Paratore, E., 34, 35, 194 Parodi, E. G., 10, 32, 192, 193, 195, 196 Pasero, N., 42 Pasquini, E., 132 Pernicone, V., 133 Petagine, A., 95 Petrocchi, G., 18, 32, 34, 36, 122, 139, 165, 170, 193, 195 Petronio, G., 190 Pézard, A., 10, 25, 39 Pico, Giovanni, 120, 121, 125 Pietrobono, L., 10, 33, 165, 169 Pirovano, D., 139 Porena, M., 169 Procaccioli, P., 32 Rajna, P., 10, 168, 169, 189, 192 Reggio, G., 40, 194 Renier, R., 36 Ricci, C., 191, 192 Ricci, P. G., 18 Romagnoli, S., 32 Rondani, A., 36 Ross, W. D., 214 Rossi, M., 38 Rosso, Paolo del, 93 Russo, L., 90
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Russo, V., 195 Salvadori, G., 125 Sanguineti, E., 34 Sapegno, N., 11, 35, 38, 139, 168, 169, 189, 192, 193 Sarolli, G. R., 193 Sasso, G., 39, 133, 165, 166 Saxl, F., 89 Savona, E., 81, 89-92, 98-101, 122 Scott, J. A., 34 Sermonti, V., 194 Seznec, J., 89 Sigieri di Brabante, 94, 95, 108, 123, 202 Singleton, Ch., 15, 169, 174, 175, 190 Spiazzi, R. M., 133 Steenberghen, F. van, 89, 123 Stuart Crawford, F., 90 Sturlese, L., 168 Supino Martini, P., 166 Tanturli, G., 42, 96, 98, 99 Tartaro, A., 12, 192 Thorndike, L., 89 Tommaseo, N., 122 Tommaso d’Aquino, 34, 47, 63, 88, 95, 96, 98, 99, 108, 133, 162, 168, 170, 200, 201, 213, 216 Tonelli, N., 100, 101 Torraca, F., 32, 33, 39, 169, 170 Trombatore, G., 192 Troncarelli, F., 39, 189 Trovato, P., 88, 193 Vandelli, G., 141 Vasina, A., 32, 34 Vasoli, C., 41, 165 Vellutello, A., 139 Villa, C., 35 Vinay, G., 189 Virgilio Marone, Publio, 193-195 Zavattero, E., 124 Zimmermann, A., 202