Dal dolore alla violenza. Le origini traumatiche dell'aggressività 8860302684, 9788860302687

La violenza costituisce una delle più potenti spinte alla disgregazione nella vita degli individui e nelle collettività.

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Italian Pages 471 [401] Year 2009

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Dal dolore alla violenza. Le origini traumatiche dell'aggressività
 8860302684, 9788860302687

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Felicity de Zulueta

DAL DOLORE ALLA VIOLENZA Le origini traumatiche dell'aggressività



Rajfàello Cortina Editore

Titolo originale

From Pain to Violence © 1993 Whurr Publishers, London Traduzione Cristiana Pessina Azzoni Copertina Vando Pagliardini

ISBN 88-7078-591-2 © 1999 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4 Prima edizione: 1999

INDICE

Prefazione all'edizione italiana (Luisa Brunori)

VII

Introduzione

l

11

Ringraziamenti Parte prima Attaccamento andato male

Capitolo I Un caso di violenza

15

Capitolo II Il mito del peccato originale e dell'istinto di morte

25

Capitolo III Aggressività e violenza

43

Capitolo IV Dalla sintonizzazione all'attaccamento. TI trauma della perdita

65

Capitolo V Violenza come "attaccamento andato male"

89

Capitolo VI Attaccamento sicuro e attaccamento insicuro nella formazione del Sé

107

Capitolo VII Il Sé e l'altro

127

Capitolo VIII In difesa del Sé

151 v

Parte seconda La psicologia del trauma

Capitolo IX L'indicibile: l'abuso sessuale sui bambini

177

Capitolo X Le origini traumatiche della violenza negli adulti

203

Capitolo XI Le origini traumatiche della violenza nell'infanzia

227

Capitolo XII Culture e violenza

247

Parte terza La prevalenza del trauma psicologico

Capitolo XIII La disumanizzazione dell'" altro"

275

Capitolo XIV Le origini traumatiche della violenza legittima

303

Capitolo XV Amore e odio

333

Bibliografia

359

Indice analitico

375

VI

PREFAZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA Luisa Brunori

Le cause, il significato e la fenomenologia della violenza sono alla base della ricerca che viene presentata in questo libro di Felicity de Zulueta. "L'essere umano è intrinsecamente un animale sociale e coo­ perativo": questa è la dichiarazione e la presa di posizione che deriva dalla riflessione teorica, dall'evidenza scientifica e dall'esperienza clini­ ca presentata. Se la natura dell'uomo sia intrinsecamente "buona o cattiva" , o se sia l'ambiente a determinare il comportamento cattivo o buono delle persone, è questione che sottende alle principali dottrine filosofiche così come alle principali teorie psicologiche sullo sviluppo degli individui. La dialettica natura-cultura è alla base di un dibattito mai esaurito e probabilmente inesauribile ed è in questo ambito che si colloca il contributo di Felicity de Zulueta, che viene presentato qui nella traduzione italiana. Si tratta di un lavoro che utilizza una modalità di indagine tutta peculiare, sia per la molteplicità dei punti di vista presi in considera­ zione (di volta in volta psicoanalisi, psicologia, biochimica, neurologia ed etologia) sia perché, a dispetto del rischio paralizzante di arenarsi a talune dicotomie tradizionali, riesce a superarle cogliendone gli ele­ menti relazionali e sinergici, cercando di trovare ponti e convergenze tra discipline e metodologie diverse. Uno dei principali impulsi agli studi psichiatrici degli ultimi anni è de­ rivato dalla ricerca di una comprensione sempre maggiore delle relazioni tra le sofferenze dell'infanzia e i disturbi nel comportamento adulto. In questo ambito, il maltrattamento dei bambini si pone come og­ getto di ricerca avanzata e di intervento a sostegno di un'infanzia in­ difesa: un'infanzia sfortunata la cui realtà si può spiegare già a partire da quella di chi infligge la sofferenza. VII

Prefazione all'edizione italiana

Sebbene ancora scarsi siano i dati disponibili perché i nessi eziolo­ gici risultino del tutto chiari, il numero di quelli raccolti è tuttavia sufficiente per poter affermare che la prevenzione del maltrattamento dei minori è cosa auspicabile non solamente per evidenti ragioni di natura morale, ma anche come necessaria prevenzione alla sofferenza mentale e alla violenza che nella prima si radica e si riproduce. È piuttosto chiaro ormai, infatti, che i bambini maltrattati svilup­ pano in età adulta disturbi mentali, il più delle volte depressione. Molti minori che hanno subito violenze sessuali non sono stati in gra­ do di avere, in età adulta, relazioni sessuali soddisfacenti e questa im­ possibilità li ha spinti a diventare, a loro volta, persecutori persino con i loro figli. Si tratta di concetti, di considerazioni e di evidenze così fondamen­ tali per la tutela della salute mentale e per lo sviluppo della civiltà che ci si stupisce della scarsa attenzione che, nonostante tutto, viene loro dedicata. Mentre è molto facile constatare reazioni di condanna e di indigna­ zione verso i colpevoli di abusi sessuali in genere, e verso quelli nei confronti di minori in particolare, e noi stessi ci sentiamo ugualmente indignati, sconcertati e arrabbiati verso persone che sono "capaci di tali nefandezze" , scarso è invece l'impegno scientifico e sociale volto a cercare di comprenderne le ragioni, i meccanismi, la storia, il signifi­ cato e a tentare di intervenire in aiuto di queste persone e di porre ri­ medio a tali situazioni. Situazioni rispetto alle quali ci sentiamo totalmente estranei e non ci rendiamo conto che, invece, riguardano tutti, in misura più o meno diretta, poiché, oltre a concernere le persone coinvolte, riguardano la comunità nel suo insieme e la società civile in cui avvengono. La realtà delle carceri e lo scarso impegno da parte delle istituzioni preposte sono una dimostrazione del disinteresse sociale verso questi problemi. Un consistente meccanismo di negazione tende a evitare di pren­ dere in considerazione la cattiva sorte di quella gente, producendo così un ulteriore atto di violenza: in questo caso legittimato dalla so­ cietà. Il meccanismo si propone, così, a un livello più alto, a un livello sociale, culturale e collettivo. È molto frequente che il violentatore sia visto come un mostro, co­ lui che raccoglie in sé "tutto il male del mondo" senza che venga compreso a sufficienza il fenomeno individuale e collettivo che si sta realizzando. Il cosiddetto delinquente svolge la funzione di . capro VIII

Prefazione all'edizione italiana

espiatorio. (La mitologia di Caino, l'uomo maledetto da Dio perché

ha ucciso il fratello, è punto di riferimento dell'appassionante discus­

sione sulla punizione e la pena di morte. "Hands off Cain" , "Giù le mani da Caino" , rende in sintesi l'idea proposta da Amnesty Interna­ donai contro la pena di morte a tutela dell'umanità di chi potrebbe essere definito disumano.) Se ci si pone invece, nei confronti di questi eventi, con la volontà di capirne il senso, ci si trova molto facilmente nelle condizioni di rin­ tracciare nella storia dei fatti, ma più ancora nella storia delle perso­ ne, le ragioni sociali e individuali che hanno contribuito a collocarle in quel preciso destino. Fatti e ragioni, come dicevamo, che hanno visto, in precedenza, queste persone al posto delle loro vittime, oggetto di violenza. Un aspetto di conflittualità tipico delle aree disciplinari prese in considerazione in questo lavoro è quello legato all'influenza degli ele­ menti biologici ovvero psicoemotivi nella formazione della persona­ lità degli individui, in genere, e, in particolare, nella determinazione di stati psicologici problematici. Anche su questo argomento, la va­ rietà degli approcci, insieme con una visione rivolta alla ricerca delle ragioni piuttosto che al sostegno di posizioni moralistiche e dogmati­ camente precostituite, aiuta a creare un punto di vista pragmatico piuttosto interessante. Di notevole interesse sono anche alcuni nessi particolarmente con­ vincenti tra il legame di attaccamento fallito e l'aumento degli impulsi violenti e aggressivi. Gli studi sui primati e sul comportamento uma­ no mostrano un legame troppo spesso ignorato. Viene riportata, in­ fatti, la ricerca di Breier (Breier et al., 1988) in cui si mostra che adulti che hanno perso i genitori durante l'infanzia, e che soffrono di pro­ blemi psicopatologici, più facilmente di altri sviluppano modificazio­ ni del sistema immunitario. Il lavoro di Bowlby relativo all'animale uomo, ai suoi bisogni socia­ li sintetizzati nella teoria dell'attaccamento anticipata a sua volta, nel­ le sue prime riflessioni, dalle famose "scimmiette di Harlow", pare possa costituire un interessante strumento nel tentativo di superare una dicotomia sterile. Nella seconda parte del libro, dedicata alla "psicologia del trau­ ma" , si esaminano le origini traumatiche della violenza e gli effetti a lungo termine nelle cosiddette sindromi post-traumatiche. Si parla di violenze prodotte nel microcosmo famigliare in cui i ruoli dell'aggres­ sore e della vittima sono inestricabilmente connessi e intrecciati tra IX

Prefazione all'edizione italiana

loro in modo tale che il "trauma dell'abuso" non è percepito in questi termini al momento della sua attuazione, ma può arrivare alla consa­ pevolezza più tardi: mesi e persino anni dopo. Violenze che si svilup­ pano ai diversi livelli dei gruppi sociali, dalla famiglia al macrocosmo sociale fino a diventare elementi strettamente connessi alla cultura. Che la violenza sia innata o prodotto delle condizioni di vita, quin­ di, non fa una sostanziale differenza, se siamo convinti del fatto che habitat convenienti contribuiscono a determinare il benessere per gli individui e per la società nel suo insieme. Nonostante si siano create, in Occidente, condizioni di vita econo­ micamente molto vantaggiose, viviamo in un periodo storico di civiltà violenta. Gli aggregati sociali producono situazioni di grande insicu­ rezza e violenza nelle città, nei luoghi di lavoro, soprattutto verso i bambini e i più deboli. Occuparci della violenza che riguarda le attuali generazioni signifi­ ca, come si diceva prima, limitare il danno per quelle successive. L'at­ tenzione, come sempre, dovrebbe essere rivolta a livello della preven­ zione e non solo a quello delle situazioni di crisi. Dalle situazioni di crisi si può imparare come progettare la prevenzione e in questo sen­ so dovrebbero esistere centri in cui occuparsi delle realtà più proble­ matiche per affrontarle, ma, soprattutto, per prevenirle ove possibile. Esistono in Inghilterra centri per il trattamento dei traumi e la lo­ ro prevenzione e Felicity de Zulueta è responsabile di uno di questi: al Maudsley Hospital. Sarebbe particolarmente auspicabile che qual­ cosa di simile potesse realizzarsi anche in Italia creando le condizioni per un proficuo lavoro di cooperazione e di ricerca comune. Sareb­ be, questo, il migliore modo per valorizzare e realizzare le parole del­ l'autrice.

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INTRODUZIONE

La violenza è ovunque. La violenza è tutt'intorno a noi. Nessuno può sentirsi al riparo dai suoi effetti. Possiamo sperimentarla nell'inti­ mità delle nostre case, possiamo aspettarcela per la strada; siamo quoti­ dianamente bombardati da notizie di terrorismo, guerra, omicidi, stu­ pri, torture e disastri ecologici. Siamo i figli dei sopravvissuti a due de­ vastanti guerre mondiali. Siamo stati i testimoni dei primi effetti di un'arma così distruttiva da sfidare ogni immaginazione. Viviamo al­ l'ombra del "nucleare" ma siamo poco capaci di renderei persino con­ to della sua esistenza. E ora, con la fine della guerra fredda, dobbiamo confrontarci con il fatto che neonazismo, razzismo, nazionalismo e tutta la violenza che queste idee portano con sé stiano tornando a perseguitarci in Europa. Il futuro è incerto e ci fa paura. Sia che viviamo nella giungla di cemen­ to di New York o nelle minacciose foreste pluviali del Borneo, ognuno di noi sa che siamo capaci di distruggerci. La cupa consapevolezza di quanto potrebbe accadere ci accompagna costantemente, rivestendo la vita di molti di un senso di profonda disperazione riguardo alla nostra stessa umanità. Non sorprende che la violenza ci preoccupi così tanto, poiché siamo, come specie, abbastanza unici per quanto riguarda la ca­ pacità di uccidere a sangue freddo, di torturarci a vicenda e di minac­ ciare la nostra stessa sopravvivenza. n bisogno dell'uomo di capire se stesso, di dare un senso alla propria crudeltà, non è mai stato tanto grande. Esiste già una vasta letteratura, con venti-trentamila voci bibliografiche, sull'aggressività nella nostra specie, è quindi legittimo chiedersi perché scrivere un altro libro sulla violenza. n fatto è che ci sono così tanti modi diversi di concepire l'ori­ gine della violenza umana che è chiaro che ancora non riusciamo a l

Introduàone

comprendere perché "siamo la specie più crudele e più spietata che sia mai comparsa sulla faccia della terra" (Storr, 1968, p. 1 1). Ciò che è interessante a proposito della maggior parte dei lavori sul tema dell'aggressività umana e della crudeltà è che essi sono basati sulla premessa che siamo individui guidati essenzialmente dai nostri istinti ereditari. L' " altro" serve solamente come strumento o scarica di questi impulsi. Per esempio, il noto etologo Konrad Lorenz descrive molto chiaramente il comportamento combattivo intraspecifico visto nei pe­ sci, nelle oche e in altri animali. Poi, estrapolando questi dati rispetto al genere umano, prosegue affermando che l'aggressività intraspecifica ha generato nell'uomo una quantità di impulsi aggressivi che non trovano un'adeguata via di scarico nell'attuale ordine sociale (Lorenz, 1 968). Il presupposto di base qui è che agiamo come individui con pulsioni in­ nate che devono essere scaricate: privare l'uomo di questa scarica porta a una maggiore aggressività, alle guerre e ad altre forme di violenza. Ne deriva che devono essere trovate vie di sfogo alla nostra aggressività e che coloro che lavorano per la pace sono, secondo Lorenz, in una posi­ zione decisamente svantaggiata (ibidem). Queste conclusioni sembrano fondate dal punto di vista scientifico e assai accettabili, poiché concordano con le premesse della cultura occi­ dentale sulla centralità dell'individuo nella società. Tuttavia è proprio questa premessa che viene sfidata oggi nel campo della biologia e della psicologia. Paradossalmente, è a causa dei nostri tentativi di aiutare le vittime della guerra, dei campi di concentramento e dei disastri natura­ li che si incomincia a capire quanto in realtà sia emotivamente vulnera­ bile la nostra specie. I ricercatori sono giunti a comprendere quanto gli esseri umani siano indispensabili gli uni agli altri. Il trauma è infatti sta­ to definito come "improvvisa interruzione dell'interazione umana" (Lin­ demann, 1944). Questo bisogno reciproco dell'altro non sorprende coloro che han­ no studiato il comportamento di attaccamento, che sono riusciti a mo­ strarci che l'uomo non è intrinsecamente distruttivo, che non ha biso­ gno di uccidere e tormentare. Moltissimi lavori sottolineano inevitabil­ mente lo stesso fatto: l'essere umano è per natura un animale social­ mente cooperativo. Ciò ha permesso a Bowlby di concludere: "I piccoli dell'uomo [. . ] sono preprogrammati per svilupparsi in modo social­ mente cooperativo, che poi lo facciano o meno dipende in grande mi­ sura da come vengono trattati" (Bowlby, 1 988, p. 8). Queste conclusioni, e la ricerca da cui scaturiscono, sono cruciali per coloro che si occupano della violenza come fenomeno che può e .

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Introduzione

deve essere compreso per poter essere prevenuto. Esse indicano che la distruttività umana, così come il trauma psicologico, non possono essere capiti senza passare attraverso il riconoscimento dell'impor­ tanza intrinseca delle relazioni umane nel nostro sviluppo e nel no­ stro senso di benessere. Forse è perché abbiamo negato tutto ciò così a lungo che la comprensione della violenza umana è stata tanto diffi­ cile da raggiungere. Quando iniziamo a pensare alla violenza scopriamo che non ci tro­ viamo di fronte a un istinto, a una pulsione o a una predisposizione, co­ me alcuni vorrebbero farci credere. La violenza non ha infatti un signi­ ficato ben definito. J..; Ox/ord English Dictionary interpreta il termine "violenza" in numerosi modi, uno dei quali è "trattamento o uso ten­ dente a causare danni corporei o interferente in modo forzato con la li­ bertà individuale". In questa particolare definizione è implicito l' as­ sunto che abbiamo diritto a un certo grado di libertà, concetto astratto che è parte della nostra condizione umana. Come afferma Stoller ( 197 5 ) , non esiste nell'uomo, come in nessuna altra creatura, u n substrato cere­ brale di ciò che chiamiamo "scelta" o "libertà". Ciò rende difficile studiare la violenza umana come fenomeno biolo­ gico. Un breve esame della letteratura scientifica sulla violenza rivela che quanto sarebbe definito come tale, secondo l'Ox/ord English Dic­ tionary, è in realtà riportato come "aggressività", il che implica general­ mente che sia una manifestazione comportamentale "innata" del no­ stro assetto genetico. Alcuni autori si danno la pena di distinguere l'ag­ gressività "semplice" o "normale" dalla violenza, che definiscono come "aggressività trasformata" (Durbin, Bowlby, 193 9) o come aggressione "maligna" (Fromm, 1984) . Ma quando si leggono i loro lavori, risulta tutt'altro che chiaro quando l'aggressività cessi di essere vista come "normale" per diventare "trasformata" o "maligna". In realtà non è possibile evitare la confusione, poiché l'aggressività è una forma di comportamento sociale studiato da etologi, biologi e.psi­ cologi, mentre la violenza è l'interpretazione che viene data a una for­ ma di comportamento sociale, interpretazione che dipende essenzial­ mente dal contesto sociale in cui si vive. A volte i due termini sono in­ tercambiabili, ma altre volte non lo sono: un'interazione ritenuta abuso o violenza in una cultura può essere considerata abbastanza "normale" in un'altra. È solamente da quando si è iniziato a studiare gli effetti del trauma psicologico che si è riusciti a districare le varie componenti del­ le nostre reazioni violente; i risultati sono stati sorprendenti, poiché hanno confermato quanto gli psicoanalisti hanno sempre saputo: l'es-

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Introduzione

senza della nostra umanità sta nel fatto che investiamo di significato tutte le nostre esperienze, e che il modo in cui interpretiamo le espe­ rienze ha un effetto diretto sul modo in cui reagiamo al trauma. Così, mentre siamo entità psicobiologiche, con tutto ciò che questo significa in termini di bisogni fisici, pattern di comportamento, geneti­ ca e biochimica, cosa facciamo e cosa non facciamo è anche intrinseca­ mente collegato a come percepiamo noi stessi e il mondo attorno a noi. Per esempio, un uomo uccide un altro uomo. Questo può essere vi­ sto come un atto di violenza, un "bestiale atto di brutalità", ma può an­ che essere considerato come un "atto di autodifesa", una "legittima ag­ gressione per la difesa della nazione" , un "atto di giustizia per preserva­ re la legge e l'ordine" , un "passo necessario nella lotta per la libertà" o "l'inevitabile manifestazione dei nostri impulsi istintuali" . Nel definire un comportamento violento diamo significato a una forma di comportamento interpersonale. Questa valutazione potrebbe sembrare totalmente soggettiva, ma non lo è: il modo di percepire il mondo è intimamente legato al senso di "sé", a convinzioni e atteggia­ menti, emozioni e comportamenti, ognuno dei quali fa parte della ma­ trice sociale a cui apparteniamo. Impariamo e assorbiamo la cultura in cui viviamo attraverso il modo in cui veniamo allevati, il linguaggio, le attività sociali quotidiane. A nostra volta diamo un significato social­ mente definito alla nostra vita; acquisiamo un'identità linguistica, un senso di. sé verbale che organizza e definisce le nostre esperienze. Così negli ultimi anni il bambino abusato è stato autorizzato a dare un nome alla propria esperienza. Attraverso la help line di Esther Rantzen questi bambini si sforzano di mettere in parole l'indicibile e in questo proces­ so il loro dolore è legittimato e viene dato significato al trauma. Ma co­ sa accade se gli altri non riescono a percepire il tuo trauma? Cosa acca­ de se la gente non può capire che il tuo comportamento disperato è la manifestazione dell'essere stato abusato e tormentato? Che accade al­ lora? La violenza deve essere riconosciuta tale non soltanto dalle vittime, ma anche da coloro che ne sono testimoni e soprattutto dai perpetrato­ ri, che spesso sono carenti proprio in questo. Perché ci possa essere questo riconoscimento del trauma, devono essere condivisi alcuni valo­ ri, come il credere che abbiamo diritto a un certo grado di libertà e che ci sia un bisogno socialmente approvato di rispetto per noi stessi. La violenza è quindi essenzialmente umana, e riguarda il significato che diamo a una forma di comportamento distruttivo che solitamente si manifesta tra le persone. Può anche essere un attacco a se stessi. Ma, 4

Introduzione

qualsiasi forma assuma, il fatto che gli esseri umani commettano atti violenti suggerisce che nell'atto stesso ci sia un "soggetto" pensante che fa qualcosa a un altro, il quale, dal punto di vista dell'osservatore, sareb­ be definito come "wnano", si tratti di un bambino, come nel caso di abu­ so sui bambini, di una donna, nel caso di stupro, o di un uomo nella mor­ sa della tortura. Generalmente noi attribuiamo alle vittime le stesse no­ stre capacità di pensare e sentire; le consideriamo perciò esseri wnani. Ma come vedono le proprie vittime i membri "violenti" della nostra società? Per esempio, cosa dissero gli uomini della gang di New York che aggredirono e stuprarono una donna fino a farle perdere coscien­ za? Dissero di lei: "Non era nulla" (Levin, 1989) . Ci crediamo? Era "nulla" per loro quando la aggredirono con mattoni, tubi di metallo, coltelli e poi la violentarono a turno? Per cercare di rispondere a questa domanda dobbiamo provare a capire cosa passi per la mente di coloro che torturano e uccidono. Cosa pensa di stare facendo una persona del genere? A chi? Che cos'è la vittima agli occhi del suo aguzzino in quel particolare momento? Il cardine dello studio della violenza è quindi la comprensione di co­ me gli esseri umani sviluppino la percezione di se stessi e dell'"altro", e di cosa sentano riguardo a se stessi e all'"altro": nel comportamento di­ struttivo umano sono implicati sia i sentimenti sia la conoscenza. Questo lavoro nasce dalla convinzione che chi è impegnato nel cer­ care di capire il comportamento umano abbia un ruolo importante da giocare, per piccolo che sia, nell'allertare gli altri sui processi psicologi­ ci che esacerbano o riducono il bisogno di essere violenti. Lo si deve al­ le infinite vittime del nazismo, a coloro che sono morti o hanno sofferto a seguito della devastante violenza delle due guerre mondiali e di molte guerre civili: lo si deve soprattutto a coloro che anche in questo mo­ mento stanno soffrendo a causa della crudeltà voluta dall'uomo. Come psicoterapeuta, psichiatra e biologa ho tentato di presentare una molteplicità di studi dai quali deriva una grande mole di informa­ zioni sulla violenza umana, anche se molte idee restano ancora da pro­ vare: spero che esse saranno prese in considerazione, confutate e speri­ mentate. Nel tentativo di aiutare il lettore a dare senso alle pagine che seguono, posso spiegare che la peculiarità di questo libro consiste nel vedere la violenza come un prodotto del trauma psicologico e dei suoi effetti sui bambini di ogni età e sugli adulti. Sarà prestata una particola­ re attenzione a come il trauma può essere processato in rabbia e a come i ricordi che sono scissi nelle nostre menti possono riemergere, anche solo parzialmente, se innescati da uno stimolo ambientale appropriato. 5

Introduzione

Seguendo le orme di Freud, ricercatori e terapeuti hanno lavorato sugli effetti psicologici del trauma in tutte le loro manifestazioni. Nei capitoli che seguono, le loro conclusioni sono riviste e discusse in quanto mostrano il legame tra il trauma psicologico e la propensione a sviluppare relazioni interpersonali distruttive. Oltre a lavorare con le vittime di traumi e con i perpetratori violenti, i ricercatori hanno studiato il comportamento delle cosiddette persone "normali" per vedere quale capacità abbiano di diventare violente. I lo­ ro risultati rivelano e confermano che la maggior parte di noi può dive­ nire violenta nelle circostanze appropriate. Benché tutte le ricerche appena menzionate siano fondamentali per comprendere la violenza, per integrare i vari risultati era necessario un parallelo sviluppo nel campo della teoria psicoanalitica. Le basi teori­ che della ricerca sul trauma sono fornite principalmente dalla "teoria delle relazioni oggettuali" , dalla "teoria dell'attaccamento" di Bowlby e dalla "psicologia del Sé" di Kohut, ognuna delle quali sottolinea l'im­ portanza delle relazioni interpersonali, in particolare di quelle precoci, nel determinare il modo in cui percepiamo noi stessi e ci comportiamo gli uni con gli altri. Così si considera che alla radice di alcuni dei com­ portamenti violenti vi sia la compromissione del senso di sé o dell'iden­ tità sessuale. Per lo studioso della violenza è anche di grande interesse la comprensione dei meccanismi di difesa che ci consentono di negare ciò che è doloroso, e di scindere questi ricordi e sentimenti. In tal modo possiamo diventare potenziali "Jekyll e Hyde", come avviene all'uomo, di giorno rispettabile direttore di banca, che si trasforma di notte nello spaventoso visitatore sessuale del proprio figlio. Questo libro si divide essenzialmente in tre parti. ATTACCAMENTO ANDATO MALE

La prima parte mette a fuoco i vari approcci teorici alla violenza e le loro differenti origini storiche, filosofiche e psicologiche. Per introdur­ re il lettore al più evidente collegamento tra trauma infantile e abuso al­ l'infanzia, è descritto un caso di maltrattamento e di omicidio di una bambina (capitolo I). Segue un breve resoconto storico di come sia nata la credenza del "peccato originale" e di quali funzioni sociali e psicolo­ giche essa soddisfi per l'uomo occidentale (capitolo II). ll III capitolo fornisce un rapido panorama della letteratura sulla violenza e sull'ag­ gressività, sottolineando la polarizzazione dei pareri che continua a esi6

Introduzione

stere in questo particolare campo a causa dei suoi legami con una del­ le teorie sulla natura umana. Sono poi fornite le prove riguardo al no­ stro bisogno fisico e psicologico dell"'altro" nel corso dello sviluppo, con particolare riferimento al comportamento di attaccamento (capi­ tolo IV). Gli effetti della perdita e della deprivazione sono molto im­ portanti nell'insorgenza del comportamento violento: la violenza può quindi essere consid�rata come il risultato del fallimento dell'accudi­ mento (capitolo V). E poi data particolare enfasi allo sviluppo del Sé attraverso l'introiezione di quattro differenti tipi di relazioni di attac­ camento (capitolo VI). Ciò conduce alla conoscenza psicoanalitica del Sé rispetto alla "teoria delle relazioni oggettuali " e alla "psicologia del Sé" di Kohut, i due modelli psicoanalitici che sembrano essere più utili per la nostra comprensione dell'attaccamento umano e della distruttività (capitolo VII). Deprivazione, perdita, abuso possono im­ poverire il Sé a tale punto che difenderlo diventa di capitale impor­ tanza, non importa a quale costo per l' "altro". Questo disperato biso­ gno di sostenere il Sé con qualsiasi mezzo contribuisce enormemente alla nostra comprensione dell'importanza del Sé nell'origine della violenza (capitolo VIII). LA PSICOLOGIA DEL TRAUMA

La seconda parte del libro mette maggiormente a fuoco gli effetti del trauma su entrambi i sessi e nelle diverse età. n trauma indicibile dell'a­ buso sessuale all'infanzia è l'argomento del primo di questi capitoli. Il trattamento di una vittima illustra nel modo più chiaro come lo scon­ volgimento e l'abuso delle relazioni primarie di attaccamento possano avere effetti devastanti sul Sé e generino una notevole violenza, che so­ litamente è rivolta contro il Sé (capitolo IX). Questo specifico racconto è seguito da uno studio più generale degli effetti fisiologici e psicologici del trauma psicologico o disturbo post-traumatico da stress (PTSD). Il significato dato al trauma e la qualità delle relazioni interpersonali sta­ bilite dalle vittime sembrano essere di grande importanza nel determi­ nare l'estensione del danno psicobiologico, cognitivo o psicologico che sia: quanto maggiore è la traumatizzazione, tanto più elevato è il suc­ cessivo rischio di violenza (capitolo X) . L'ultimo capitolo di questa par­ te esamina più da vicino gli effetti psicobiologici del trauma sui bambi­ ni: spiega come esistano collegamenti tra trauma psicologico, abuso al­ l'infanzia e distruttività umana. La violenza può quindi essere vista sia 7

Introduzione

come espressione estrema della furia umana, dovuta a intollerabili feri­ te narcisistiche del Sé, sia come espressione del disturbo del sistema di attaccamento. La compulsione a ripetere il trauma è considerata di cru­ ciale importanza nella comprensione delle origini traumatiche della violenza e si esamina la possibilità che le vittime divengano "dipenden­ ti" dal trauma (capitolo XI). LA PREVALENZA DEL TRAUMA PSICOLOGICO

La terza e ultima parte di questo libro cerca di collegare le origini traumatiche della violenza alle esigenze della cultura occidentale. Studi storici e antropologici suggeriscono che gli esseri umani possano svi­ luppare strutture e comportamenti sociali differenti, alcuni dei quali erano e tuttora sono considerevolmente meno violenti di quelli delle culture patriarcali e occidentali che dominano attualmente il mondo. Studi sui primati e sugli esseri umani dimostrano che la più efficace tra­ smissione di valori culturali awiene attraverso il sistema di attaccamen­ to tra il piccolo e i suoi caregivers. Ciò è evidenziato con la massima chiarezza nei lavori che mostrano gli effetti traumatici delle punizioni corporali e le implicazioni di una forma così diffusa di socializzazione rispetto alla violenza sociale (capitolo XII). È la disumanizzazione dell'altro che sta alle radici di tutta la violenza umana, una disumanizzazione che sfortunatamente pare quasi fare par­ te dello sviluppo della differenziazione dei ruoli sessuali visto nelle cul­ ture patriarcali. L'innamoramento del maschio per la violenza è esami­ nato rispetto alla vulnerabile identità sessuale dell'uomo e al conseguen­ te bisogno di considerare le donne come "oggetti", con tutte le conse­ guenze violente che ciò comporta. Sono esaminate anche la collusione masochistica della donna con questa scissione e le conseguenze sull'alle­ vamento dei bambini. Rendendo la madre "meno che umana", i maschi diventano uomini a spese dell"'altro": questo tipo di sistema culturale ha come conseguenza sfruttamento, abuso, razzismo e violenza (capito­ lo XIII). Ciò viene illustrato in modo brillante dagli esperimenti che di­ mostrano come uomini e donne comuni possano torturare e uccidere agli ordini di persone influenti. n fatto che la professione medica sia considerata particolarmente soggetta a diventare strumento di tortura di stato e di genocidio è molto interessante, perché illustra le strette con­ nessioni esistenti tra il prendersi cura e l'abuso, essendo quest'ultimo la manifestazione di attaccamento e amore andati male (capitolo XIV). 8

Introduzione

Il capitolo finale mette a fuoco una breve rassegna sulla personalità "altruistica" confrontata alla sua controparte, la personalità autoritaria 0 etnocentrica. I collegamenti che vengono fatti tra questi due tipi di personalità confermano ancora una volta l'importanza di certe moda­ lità di allevamento, e in particolare dell'abuso fisico, nello sviluppo del­ la violenza a livello individuale e di gruppo. Il libro si chiude con il di­ battito sulla necessità di un sostanziale cambiamento del nostro atteg­ giamento nei confronti degli schemi di allevamento, se si vuole ottenere una diminuzione della violenza sociale (capitolo XV). Luglio 1 993

F. deZ.

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RINGRAZIAMENTI

Benché io sia nata da genitori europei, ho trascorso la maggior parte della mia infanzia tra persone di culture molto differenti: i colombiani nei deserti del Llanos, i malesi e i dayak nelle foreste del Sarawak, le tribù africane delle regioni montuose dell'Uganda e le popolazioni mi­ ste del Libano e della Siria. Molti sono diventati miei amici: ora li ho persi, ma grazie alla loro gentilezza e alla loro comprensione ho avuto la fortuna di poter condividere un po' della loro vita. Spero di essere riu­ scita a trasmettere parte di ciò che ho imparato e amato insieme a loro. Muovendomi di paese in paese ho anche incontrato molto dolore e molta violenza restandone sconcertata: come poteva tanta gentilezza trasformarsi in odio e spargimento di sangue? Questa domanda è rimasta irrisolta finché non ho iniziato il tiroci­ nio come psicoterapeuta. Inizialmente sono stati il lavoro di John Bowlby e il suo sostegno personale a darmi il coraggio di provare a ri­ spandere. Mi dispiace che lui non sia più qui per commentare le mie conclusioni. Devo in particolare al dottor Harold Maxwell la decisione di pub­ blicare questo lavoro. Grazie all'aiuto e al supporto dei miei colleghi, la dottoressaJessica Kirker, il professar Hirsch, il professar Greenhalgh e gli altri che lavorano al Charing Cross Hospital e al Cassel Hospital, so­ no riuscita a ricavare il tempo per completare il mio progetto. I miei insegnanti, i supervisori, i compagni dell'Institute of Group Analysis mi hanno assistita incoraggiandomi e aiutandomi a rendere più chiare le mie idee. il dottor Malcolm Pines, il dottor Earl Hopper e il dottor David Kay mi hanno aiutata a comprendere maggiormente la parte più oscura di me stessa. È tuttavia ai miei pazienti che devo la maggior parte delle mie sco11

Ringraziamenti

perte e conclusioni, ed è pensando a loro che molto di quanto segue è stato scritto. Spero di avere reso loro giustizia. Ringrazio i miei più cari amici per il sostegno personale che mi han­ no dato. Ma è a Sedat che sono particolarmente grata, per il suo aiuto e il suo incoraggiamento e, ancora più preziosi, per le sue critiche e i suoi consigli.

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PARTE PRIMA

ATTACCAMENTO ANDATO MALE

I

UN CASO DI VIOLENZA

Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce. Blaise Pasca/

Come psicoterapeuta sono solita occuparmi delle vittime di abuso, piuttosto che dei perpetratori. Quando la violenza erompe nei nostri ospedali psichiatrici, è solitamente considerata una manifestazione del­ la "malattia" del paziente, della sua "irrazionalità" . Perciò il mio primo incontro con l'omicida di un bambino, una persona la cui salute menta­ le non era mai stata messa in discussione, fu molto importante e lasciò in me numerose domande senza risposta. Nel mio lavoro mi baso sull'essere disponibile ed empatica verso le persone che si rivolgono a me per discutere le proprie difficoltà. In quella circostanza, l'infermiera che mi inviò l'uomo in questione mi raccontò che egli era stato in carcere per aver ucciso la propria bambi­ na: si sentiva molto depresso e voleva verificare se una psicoterapia po­ teva essergli utile. Prima di andare a prendere il mio paziente in sala d'attesa, mi resi conto di sentirmi a disagio all'idea di incontrarlo. Mi sorpresi invece del fatto che lui avesse un aspetto del tutto ordinario: non era certo uno che avrei etichettato come "deviante". Il bisogno evidente di considerarlo " diverso" mi colpì, poiché contrastava con l'atteggia­ mento che solitamente avevo nei confronti delle persone di cui mi oc­ cupavo. Capii che l'uomo che maltratta i propri bambini, o il padre che co­ stringe la figlia ad avere rapporti sessuali con lui, poteva essere un col­ lega di lavoro, o un vicino di casa. In un altro tentativo di prendere le distanze, cercai di concentrarmi sul fatto che l'omicida era un uomo, 15

Dal dolore alla violenza

non una donna come me. Ma allora, dove sono le madri mentre i figli vengono tormentati? Che parte aveva avuto la moglie di questo assassi­ no nella morte della figlia? Aveva cercato di proteggerla? Sapevo che non era probabile: le mogli degli uomini che torturano i propri bambi­ ni sono spesso loro complici, loro partner nell'atrocità. Cos'era dunque l'ansia che sentivo nell'andare dal mio paziente, di cosa si trattava? Mi resi conto che se volevo che l'incontro con quest'uo­ mo avesse qualche significato per me o per lui, dovevo riuscire a essergli abbastanza vicino, dovevo cercare di comprendere i suoi conflitti e i suoi sentimenti. Mi accorsi che lavorare con lui avrebbe voluto dire do­ ver prendere contatto con la mia violenza, con tutti quei sentimenti che non si pensa ci appartengano finché un giorno tradiscono la loro pre­ senza nel disperato bisogno di sopraffare chi vediamo come causa del nostro dolore, della nostra impotenza o della nostra umiliazione. Cosa provano le madri e i padri, quando stanno per perdere il con­ trollo? Piccoli che non dormono mai, lattanti inconsolabili che riem­ piono il nostro mondo di urla di dolore, bambini così esigenti, mentre sentiamo di avere così poco da dare: tutte queste insospettabili piccole creature possono trasformarsi in aguzzini negli incubi diurni dei loro genitori. Ma la maggior parte di noi è in grado di riconoscere questi forti sentimenti per quello che sono. Possiamo riconoscere la nostra rabbia, e, fortunatamente, l'amore ci salva, proprio come nostra madre o nostro padre ci venivano in soccorso quando eravamo piccoli e terro­ rizzati. Ma ci sono genitori che non possono attingere come risorsa a nessun ricordo di amore e sicurezza. Ci sono uomini e donne che sono stati bambini raramente confortati, bambini portati a sentirsi cattivi perché a nessuno sembrava importare di loro. Quello che conoscevano della vita familiare era la paura di essere picchiati, martoriati, abbandonati. Le scottature, le ferite, i lividi col tempo sono guariti. Ma che ne è stato del terrore, della rabbia impotente, del sentirsi traditi proprio dalle persone più importanti? Che ne è stato del bisogno di sentirsi amati, un bisogno così raramente soddisfatto che quando lo era faceva male, per­ ché rimandava alla nostalgia per ciò che sarebbe potuto essere e non è stato? Dove sono andati tutti questi vissuti? Sono stati capaci, questi uomini e queste donne, di dimenticare i traumi e lasciarsi il proprio do­ lore alle spalle? All'osservatore casuale sembrerebbe di sì, poiché queste persone vittimizzate durante l'infanzia riescono a rifarsi una vita, a mettere su famiglia, e quando hanno figli spesso si ripromettono di dare loro tutto 16

Un caso di violenza

l'amore e il sostegno che non hanno ricevuto: vogliono davvero diven­ tare dei bravi genitori. Ma per qualcuno il terrore e il dolore dell'infan­ zia non riescono a sparire. Benché apparentemente dimenticata, l'espe­ rienza della crudeltà o dell'indifferenza dei genitori è stata interiorizza­ ta sotto forma di rappresentazioni mentali che persistono nella loro mente anche se in uno stato inconscio. Spesso queste esperienze traumatiche sono riattivate dalle urla e dal­ le lacrime dei propri bambini, pur continuando a rimanere inconsape­ voli. I genitori riconoscono se stessi da bambini nella sofferenza dei fi­ gli, nel loro bisogno disperato di essere consolati e contenuti. Ma in­ trecciato con il ricordo di questi bisogni c'è quell'altro orribile ricordo d'essere stati rifiutati ed essersi sentiti cattivi, indesiderati. Questi sentimenti erano così intollerabili da dover essere dimenticati. Ora che sono stati riattivati, come possono essere affrontati? Una giovane madre single tiene in braccio la figlia che piange; si sen­ te sconfortata e realizza che ancora una volta non c'è nessuno che la so­ stenga, che la faccia sentire meglio. Senza che se ne renda conto, la bambina è diventata la fonte del suo antico dolore, vissuto una volta di più. Deve fermare questo dolore, che si è trasformato ora nella figlia che urla. Ma non può più riconoscerla come sua figlia. Questa madre è tornata al tormento della propria infanzia: la bambina è ora la sua aguz­ zina e la ferisce. Le urla di bisogno della piccola fanno sentire cattiva e inutile la giovane donna, che ora non può più vedere davanti a sé la propria bambina, perché quest'ultima è divenuta il "mostro" che lei stessa un tempo è stata, che doveva essere controllato e modellato a for­ za di botte. Questa donna diventa la propria madre, i propri terribili genitori con cui si è identificata, così come fanno tante vittime. Nel suo dolore rabbioso colpisce la testa della figlia finché il pianto non cessa. Nel silenzio che segue realizza che da madre può trasformarsi in assa­ ssina: la bambina che voleva amare sembra morta... A questo punto la psiche le viene in soccorso. Dimentica. Scinde la memoria del passato dalla memoria di ciò che ha appena fatto alla figlia, alla bambina che probabilmente vorrebbe amare e proteggere. Può darsi che in questa occasione, e magari nella successiva, la bam­ bina sopravviva ai suoi assalti distruttivi. L'incubo è di volta in volta di­ menticato, ma un giorno potrebbe trasformarsi in realtà, proprio come è accaduto al mio paziente. Non credo di avere considerato tutto ciò prima di incontrare il si­ gnor Brown, ma in modo confuso avevo in mente altri pazienti che era­ no stati picchiati e tormentati da bambini. Una era una madre che ave17

Dal dolore alla violenza

va "dovuto" dimenticare sia ciò che aveva fatto sia ciò che aveva subito. Tutto ciò che sapeva era che amava sua figlia e voleva essere una madre veramente capace. I lividi della sua bambina le sembravano delle mo­ struose intrusioni nella sua vita, per le quali andavano ricercate tutte le possibili spiegazioni. Ci volle molto tempo prima che potesse sentirsi abbastanza al sicuro da ricordare sia ciò che aveva fatto alla propria bambina sia ciò che aveva dovuto subire lei stessa da piccola. Il signor Brown era un uomo sulla cinquantina, sebbene apparisse molto più vecchio, così pallido e bianco di capelli. Sembrava ansioso e molto desideroso di collaborare nel colloquio, anche se, come egli stes­ so ammise, ciò si sarebbe potuto rivelare difficile. L'argomento della figlia emerse precocemente nel nostro incontro. La bambina aveva due anni e mezzo quando era morta, molti anni pri­ ma. Mi descrisse la sua vita prima dell"' incidente" che ne aveva causato la morte. Inizialmente era stata accudita dai nonni all'estero mentre lui e la moglie si stabilivano in Inghilterra. Poi l'avevano ripresa e dopo non molto tempo avevano cominciato a picchiarla entrambi: anche la moglie, la quale, mi disse, la odiava fin da quando era nata. La piccola veniva regolarmente picchiata e lasciata senza cibo. Mi descrisse scene penose di questa bimbetta pallida, che vagava scalza fuori casa, al gelo. Una volta faceva così freddo che le si congelarono i piedi e nel tentativo di scaldarglieli il padre glieli bruciò con sigarette e carboni ardenti, tanto che si riempirono di vesciche e alla fine la bambi­ na dovette essere portata al pronto soccorso. n giorno del fatale "incidente)), la "piccola vagabonda)), come il si­ gnor Brown la chiamava, venne rinchiusa sporca e affamata nella sua camera. Quando egli tornò dal lavoro, sua moglie gli disse di andare su a pulire "quell'affare". La trovò spaventosamente imbrattata di feci e urina. La lavò, poi la portò di sotto, nel soggiorno, e incominciò a chie­ derle brutalmente di dirgli qualcosa. La bimba non voleva, se ne stava in silenzio, pallida e visibilmente in difficoltà. Egli desiderava dispera­ tamente che gli parlasse, che lo facesse sentire meglio. Ricorda di essere andato verso di lei e di avere iniziato a scuoterla. N ull' altro. Quella not­ te la mise a letto e probabilmente era preoccupato per lei, visto che dis­ se alla moglie di tenerla d'occhio. La mattina dopo la bambina venne trovata morta. In seguito il signor Brown fu processato e condannato per omicidio preterintenzionale. Nel ricordare questi avvenimenti, egli parlava in modo calmo, di­ staccato, e io non potevo fare a meno di chiedermi dove mai fossero fi­ niti i suoi sentimenti. Egli sembrava avere scisso se stesso dalla violenza 18

Un caso di violenza

che l'aveva portato a uccidere la sua bambina. Non ricordava di avere picchiato la figlia, ma sapeva che era morta per i colpi al torace. Elen­ cando tutte le cose terribili che la moglie aveva fatto alla figlia era chia­ ro che desiderava che la colpa venisse attribuita a lei, anche se lui era stato ritenuto l'assassino. Sentivo che non avremmo potuto capire di più su ciò che era real­ mente accaduto tra la bambina e i suoi genitori, perciò chiesi al signor Brown di parlarmi della propria infanzia. Iniziò a raccontarmi di sua madre, e nel farlo il suo volto si illuminò. Era una madre totalmente de­ dita alla famiglia, ma sfortunatamente si ammalò di tubercolosi quando lui aveva pochi anni e dovette perciò trascorrere lunghi periodi in ospe­ dale. La mamma gli mancava così tanto in quelle occasioni che cammi­ nava per miglia per andare a trovarla. C'era la guerra e il cibo scarseg­ giava: il signor Brown ricordava che lei dava a lui e ai suoi fratelli e so­ relle il pane, il burro e la marmellata che riceveva in ospedale, in modo che avessero qualcosa da mangiare. "Era un angelo!" disse. Morì quan­ do lui aveva solo otto anni: ricordava quanto si fosse sentito triste e ad­ dolorato al suo funerale. Da allora fu lasciato nelle mani del padre, un uomo violento, del quale era ancora evidente quanto avesse avuto paura. Tuttavia era al­ trettanto chiaro che il signor Brown non voleva essere troppo critico nei suoi confronti, forse per evitare di entrare troppo in contatto con i propri sentimenti verso di lui. Ciò che mi raccontò subito dopo sembrò confermare questa ipotesi. Una volta sua madre tornò a casa da una delle sue molte degenze in ospedale e celebrò l'avvenimento cucinando il piatto preferito della famiglia, patate fritte. In quella stessa occasione egli sorprese il padre mentre la picchiava: benché fosse solo un ragazzi­ no di sette anni, afferrò un'ascia e lo minacciò con essa. Quando era un po' più grande, suo padre si fece male a un braccio e gli chiese di portare avanti il suo lavoro di ciabattino. Il signor Brown dimostrò di cavarsela bene. Tuttavia ricorda che un giorno mentre sta­ va finendo di riparare uno stivale da donna il coltello gli sfuggi e tagliò il cuoio. Suo padre se ne accorse: come una furia prese un enorme ba­ stone e iniziò a darglielo in testa. Il ragazzo si precipitò in strada, con il sangue che scendeva dalla ferita, inseguito dal padre. Una vicina pre­ murosa venne in suo aiuto. Egli rievocò con visibile soddisfazione co­ me la donna avesse attaccato verbalmente suo padre: per una volta qualcuno era stato dalla sua parte. Benché li avesse a m ala pena menzionati, il signor Brown aveva sette tra fratelli e sorelle, due dei quali erano morti da piccoli. Mi raccontò di 19

Dal dolore alla violenza

una volta in cui mentre con un fratello tornava dal bosco con la legna da ardere, questi cadde nel fiume che scorreva lì vicino. Il signor Brown non sapeva nuotare, ma si buttò in acqua per salvarlo. Mentre gli esprimevo la mia ammirazione per quel gesto, egli si affrettò a cor­ reggermi, dicendomi che era stato spinto esclusivamente dalla paura di ciò che gli avrebbe fatto il padre se fosse tornato a casa senza il fratello. A questo punto cercai di sondare se il signor Brown poteva iniziare ad ammettere quali perdite gli avesse causato la malattia della madre. Gli ri­ cordai come poco prima nel colloquio avesse chiaramente dovuto ag­ grapparsi a un ricordo molto idealizzato della madre, definendola "un angelo" . Benché fossi d'accordo con lui che la malattia non potesse esse­ re certo considerata una colpa, gli suggerii che da bambino avesse sentito di avere avuto così poco dalla madre da averne sofferto tantissimo. Egli poté riconoscere questi sentimenti, e ciò lo portò a collegare la propria esperienza con quella "piccola vagabonda della figlia" con l'im­ magine che aveva della propria madre pallida e malata in ospedale. Sembra verosimile che la rabbia inconscia nei confronti della madre, che non si era potuta prendere cura di lui, si fosse infine scaricata sulla figlia. Proprio come sua madre, la bambina gli era sembrata impotente e trascurata, e ciò aveva evocato in lui i propri disperati bisogni e l'anti­ co dolore. Non era riuscito a trovare dentro di sé l'amore che la bambi­ na aveva bisogno di ricevere da lui. Invece aveva cercato di affrontare il dolore identificandosi con il proprio padre e con la rabbia distruttiva di quest'ultimo, una rabbia che almeno aveva l'effetto positivo di dargli il potere di infliggere ad altri la sofferenza che aveva in precedenza dovu­ to subire. È come se durante l'assalto finale alla bambina il signor Brown non avesse riconosciuto davanti a sé la figlia. Ciò che aveva visto e sentito in quel momento erano invece i propri sentimenti e ricordi riportati al presente, erano quegli insopportabili momenti di dolore e deprivazio­ ne che erano stati scissi nella sua mente, tenuti ben lontani dai ricordi e dalle esperienze quotidiani, proprio come avveniva ora nel nostro col­ loquio. La scissione (splitting) è un processo dissociativo che permette a tutti noi di tollerare l'ansia insostenibile che deriva da sentimenti di totale impotenza di fronte a esperienze di abbandono e abuso. L'uomo passivo che stava seduto di fronte a me, che mi guardava con quegli oc­ chi blu slavati, non poteva ricordare cosa fosse avvenuto nella sua men­ te la notte in cui uccise la figlia. Chiaramente nessuno saprà mai cosa accadde davvero tra quest'uo­ mo, sua figlia e sua moglie. La bambina sembra essere stata oggetto di 20

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Un caso di violenza

abuso da parte di entrambi i genitori durante la maggior parte della sua b reve vita. Non sappiamo nemmeno quale parte la piccola avesse gioca­ to nel mondo interno della madre, anche se sappiamo che probabilmen­ te la signora Brown si riferiva a lei chiamandola " quell'affare". In qual­ che strano modo la bambina era destinata a diventare la "piccola vaga­ bonda" che ricordava al signor Brown la propria madre a lungo e inva­ no desiderata, la cui impotenza e malattia dovevano diventarne la rovi­ na: la stessa impotenza che doveva diventare la rovina della bambina. Sembra probabile che nello scuoterla per costringerla a parlargli il signor Brown volesse dalla figlia qualcosa che una bimba di due anni certo non poteva dargli: il vissuto di essere una persona buona e meri­ tevole. Ma sia sua madre che la figlia morirono, !asciandogli la terribile colpa di avere tradito quell"'angelo" e di avere ammazzato la propria creatura. Poche settimane dopo il nostro incontro il signor Brown stava mo­ rendo in ospedale per un cancro non diagnosticato in precedenza. For­ se può aver accolto la malattia con sollievo, poiché divenne chiaro, nei colloqui successivi, che la ragione principale per cui mi aveva consulta­ ta era il bisogno di essere salvato dai terribili e violenti vissuti che teme­ va lo avrebbero presto sopraffatto. Dopo averlo incontrato quella prima volta restai con molti pensieri tristi e molte domande senza risposta. Se la sua era la storia tipica dei genitori che maltrattano gravemente e uccidono i figli, era anche la classica descrizione di ciò che infinite vittime di abuso attraversano du­ rante la propria tormentata infanzia: prima di diventare un vittimizza­ tore il signor Brown era stato una vittima dell'inadeguatezza dei suoi genitori. Ora sappiamo che l'abuso è venti volte più probabile se uno dei ge­ nitori è stato abusato da bambino. Tuttavia è anche molto importante notare che non tutti i bambini abusati riproducono poi questo pattern con i propri figli (Egeland, Jacobvitz, Papatola, 1987, p. 270) . Capire come alcune vittime diventano vittimizzatori mentre altre lo evitano è evidentemente cruciale se dobbiamo incominciare a comprendere le origini della violenza nella famiglia e possibilmente nella società. La storia del signor Brown è una storia importante. Egli era un uo­ mo normale che finì con l'uccidere la figlia con un atto di violenza che probabilmente non era stato premeditato e di cui non aveva memoria. Sebbene molti possano non essere d'accordo con la mia ricostruzio­ ne ipotetica dello stato mentale dell'assassino, vorrei fare le seguenti considerazioni. Cosa pensare se i genitori che picchiano, torturano e 21

Dal dolore alla violenza

uccidono i figli non fossero come ci appaiono? Se queste persone non potessero percepire l'" altro", in questo caso la loro creatura, come un bambino di cui sono i genitori? Se in certe condizioni le persone por­ tassero nelle relazioni attuali i ricordi nascosti o inconsci del proprio lontano abuso, modellando in questo modo il presente a immagine del passato? Questo fenomeno di "proiezione" è una difesa comune utiliz­ zata dalle vittime di trauma. Esso consiste nel fatto che sentimenti che non possiamo ammettere, solitamente associati a esperienze dolorose, vengono "rimossi" nel nostro inconscio come ricordi che possono suc­ cessivamente venire risperimentati quando proiettati sugli altri. Questa tendenza inconscia a riprodurre traumi passati è anche una caratteristi­ ca del disturbo post-traumatico da stress, che sarà descritto in dettaglio più avanti in questo libro. Speriamo di raggiungere qualche comprensione sulla violenza uma­ na esaminando le prove tratte dalla letteratura a disposizione, ma è an­ che necessario riconoscere quanto disturbante possa essere verificare che persone cosiddette "normali" , come il signor Brown, maltrattano gravemente i propri bambini, o rendersi conto che i medici partecipa­ no attivamente a torture di stato e omicidi. Robert Lifton scrisse sui medici nazisti che incontrò: "Dal punto di vista psicologico, nulla è più oscuro o più minaccioso o più pesante da accettare della partecipazio­ ne dei medici all'omicidio di massa" (Lifton, 1986) . Nel tentativo di capire la violenza, dobbiamo vedere la vittima attra­ verso gli occhi del suo aguzzino. L'abusante come vede la sua vittima? La risposta si trova nella comprensione di cosa si nasconda nello sguar­ do di un bianco quando apostrofa un altro dandogli del "negro"? Cosa si trova negli occhi di uno stupratore mentre vince la resistenza della propria vittima? Il suo è uno sguardo di odio, di lussuria o, forse peg­ gio, di indifferenza? Chi riceve questo sguardo diviene consapevole che non è più visto come è o come dovrebbe essere, ma come nient'altro che un "oggetto" da usare o abusare. La violenza si manifesta prima di tutto in quello sguardo, poiché esso appartiene a qualcuno che ha imparato a conside­ rare l' " altro" come meno che umano, come un oggetto. Ne segue una facile violenza. Primo Levi descrive in un passo del libro sulla sua esperienza ad Au­ schwitz lo "sguardo" tra lui, l'ebreo, e il comandante tedesco: [ .. .] quello sguardo non corse tra due uomini; e se io sapessi spiegare a fondo la natura di quello sguardo, scambiato come attraverso la parete

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Un caso di violenza

di vetro di un acquario tra due esseri che abitano mezzi diversi, avrei an­ che spiegato l'essenza della grande follia della terza Germania. Quello che tutti noi dei tedeschi pensavamo e dicevamo si percepì in quel mo­ mento in modo immediato. Il cervello che sovrintendeva a quegli occhi azzurri e a quelle mani coltivate diceva: "Questo qualcosa davanti a me appartiene a un genere che è ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile" . E nel mio capo, come semi in una zucca vuota: "Gli occhi azzurri e i capelli biondi sono essenzialmente malvagi. Nes­ suna comunicazione possibile [. . ] . (Levi, 1 958, p. 128) .

"

Nell'occuparsi della violenza si deve perciò considerare quel com­ portamento che non si limita a danneggiare le persone, ma le oltraggia o le viola come esseri umani. Nel concetto di violenza è infatti implicito l'assunto che agli esseri umani sia dovuto un certo rispetto. È per que­ sto motivo che la pietra angolare di tutte le persecuzioni e di tutti gli stermini è lo stabilirsi di un sistema di teorie che sancisce che l'altro è essenzialmente meno umano e perciò inutile, da buttare via, o pericolo­ so. Perché questo sistema di teorie possa radicarsi deve tuttavia esistere nella mente dell'uomo la capacità o la possibilità potenziale di rendere l"'altro" oggetto dei nostri bisogni o delle nostre paure. Come possono svilupparsi questi processi? E se ciò avviene, quali possono esserne le conseguenze per l'individuo, per la famiglia e per la società? Questo sarà proprio l'argomento del libro.

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II

IL MITO DEL PECCATO ORIGINALE E DELL'ISTINTO DI MORTE

Vedi, sono stato formato nel male: e nel peccato mia madre mi ha concepito.

The Book o/ Comman Prayer

Nel pensare alla violenza Jegli uomini si è inevitabilmente trasci ­ nati nel datato dibattito sulla natura umana: la nostra specie è intrin­ secamente distruttiva, come qualcuno vuole farci credere, oppure la violenza è il risultato di pressioni ambientali? Queste JomanJe fon­ damentali sono solitamente state poste dai filosofi e forse sono state considerate irrilevanti dagli scienziati interessati allo studio dell'ag­ gressività umana. Per questa ragione tra le migliaia di articoli e di libri sull'argomento del potere distruttivo dell'uomo ci sono pochi riferimenti bibliografici specifici sul concetto della natura umana. Tuttavia è discutibile che qualsiasi posizione sulla violenza possa non essere influenzata dalle idee personali dell'autore sulla natura umana. È possibile che molti tendano a rifiutare l'esistenza di questi pregiu­ dizi nella letteratura scientifica sull'aggressività. Ma una rapida disani­ ma della storia delle idee religiose su questa tematica mostra quanto siano profonde le radici degli argomenti sottesi al nostro attuale pensie­ ro sulla natura umana e sulle sue manifestazioni comportamentali. Ben­ ché l'idea che gli scienziati esprimano atteggiamenti culturalmente ap­ provati possa sembrare un po' forzata, studi di antropologia culturale e ricerche su persone bilingui confermano come comportamenti e valori siano trasmessi attraverso le generazioni grazie al particolare linguag­ gio usato per comunicare (Zulueta, 1 990) . Questi studi rendono giusti­ zia alla definizione di cultura data dall'antropologo Cliffort Geertz, che la considera: "Un modello di significati trasmesso storicamente attra25

Dal dolore alla violenza

verso i simboli; un sistema di concetti ereditati espressi in forma simbo­ lica, per mezzo del quale gli uomini comunicano, perpetuano e svilup­ pano conoscenza e propri atteggiamenti riguardo alla vita" (citato in Pagels, 1 988, p. 6). Elaine Pagels nel suo libro Adamo, Eva e il serpente nota come le po­ sizioni cristiane relative alla "natura umana" rientrino in tutti i campi di studio, psicologia compresa. Ella aggiunge: [ . . ] rimarremmo stupiti da abitudini che diamo per scontate. Agostino, il grande padre del cristianesimo occidentale, derivò molte convinzioni dalla storia di Adamo ed Eva: il desiderio sessuale è peccato, i bambini sono infetti dal morbo del peccato originale fin dal concepimento e l'er­ rore di Adamo ha corrotto la natura intera. Anche chi non è cristiano e considera la Genesi un'opera letteraria vive in una cultura indelebil­ mente segnata da concetti simili. (Ibidem) .

Questa concezione dell'umanità come intrinsecamente peccami­ nosa risale al quarto secolo e all'inizio del quinto. A quell'epoca il cristianesimo smise di essere la religione dei perseguitati che com­ battevano per una giustizia morale, per diventare la religione di im­ peratori che dominavano su vaste popolazioni. Fino ad allora i primi cristiani avevano visto nei Vangeli un messaggio di libertà: libertà da governi tirannici, libertà dai costumi sociali e sessuali dominanti, li­ bertà dai desideri sessuali e libero arbitrio, vale a dire, libertà mora­ le. Tuttavia con l'avvento dell'imperatore cristiano Costantino la lun­ ga storia delle persecuzioni cristiane terminò. L'insegnamento del clero cambiò, insieme alla Chiesa; il sistema di credenze degli op­ pressi si trasformò nella religione di una rispettabile istituzione. Di conseguenza, la storia della creazione nella Genesi acquistò un nuo­ vo significato con l'interpretazione di Agostino, che tuttora è parte integrante della nostra cultura. Si ricorderà che, secondo la Genesi, Dio disse alla prima donna: Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà. All'uomo disse: Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero, di cui ti avevo comandato: non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua ! 26

Il mito del peccato originale e dell'istinto di morte

Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai. (Gn . 3, 16-19)

Ciò significava, secondo Agostino, che a causa del peccato di Ada­ la razza umana ha dovuto soffrire le frustrazioni del desiderio ses­ suale e l'angoscia di essere mortale. Inoltre l'umanità ha perso la libertà di scegliere. Riassumendo il suo pensiero, la Pagels ci spiega come l'u­ manità, un tempo armoniosa, perfetta e libera, sia ora, attraverso la scelta di Adamo, devastata dalla morte e dal desiderio, mentre tutte le sofferenze, dalla perdita dei raccolti, all'aborto, alla malattia, alla paz­ zia, sono la prova del deterioramento morale introdotto da Adamo ed Eva. Anche la piaga del dominio maschile sulle donne va attribuita alla colpa di Adamo ed Eva; e attraverso la trasmissione del desiderio ses­ suale con il concepimento, ognuno di noi è contaminato dal peccato originale. Così, dal tempo di Agostino, ogni cattolico è tenuto a credere che si nasca con il peccato originale e che i bambini siano condannati a una vita di eterna deprivazione nel limbo se muoiono prima di essere stati battezzati. L'idea che l'umanità sia intrinsecamente malvagia potrebbe sembra­ re alla maggior parte di noi un mito antiquato, eppure la nostra cultura è permeata dalla colpa dell'uomo, anche se ciò non è riconosciuto con­ sciamente. In Gran Bretagna questa awersione per il piacere fu espres­ sa nel modo forse più chiaro dai puritani nel diciassettesimo secolo. Costoro credevano, come Agostino, che l'uomo fosse essenzialmente peccaminoso e sostenevano che la prova della sua intrinseca malvagità fosse la sua illimitata capacità di provare piacere! Ritornando ai tempi di Agostino, è importante notare che le sue opinioni non erano accettate da tutti i cristiani. Alcuni obiettavano che esse tradivano i principi cristiani fondamentali: la bontà della creazione di Dio e il libero arbitrio. li più acceso critico di Agostino fu un certo Giuliano di Eclanum, che attaccò sistematicamente le sue convinzioni, soprattutto per quanto riguarda il rifiuto di differenziare ciò che è que­ stione di volontà da ciò che è questione di natura. Secondo Giuliano, se mo

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Dal dolore allo violenza

moriamo e soffriamo è perché apparteniamo alla natura e siamo esseri mortali: "Se dite che è una questione di volontà, allora non appartiene alla sfera naturale; se è una questione di natura, non ha niente a che fare con la colpa" (Pagels, 1988, p. 180). Non era così per Agostino, che de­ scrisse con virulenza la condizione dei bambini malati e deformi come prova del fatto che il peccato è trasmesso dai genitori ai figli: "Se non esistesse il peccato, gli infanti, non afflitti da male alcuno, non patireb­ bero nel corpo né nell'anima" (ibidem, p. 170). In un certo senso il fatto che i cristiani credano nella bontà e nella giustizia di Dio rende quasi inevitabile che la colpa di sofferenza e di­ struzione ricada sull'uomo. li Dio dei giudei era più un dio di potere che di bontà. Se la tragedia si abbatteva si di loro era solitamente per­ ché avevano disubbidito al loro Dio: la sofferenza era la conseguenza della sua ira. Ma, con il cristianesimo, Dio diventa bontà e amore: allo­ ra che senso può dare l'uomo alla malattia, al dolore, al male? Bisogna­ va che la responsabilità della sofferenza venisse attribuita a qualcuno. Forse, secondo i primi cristiani, Gesù con la sua morte aveva libera­ to l'umanità dal peccato che essa avrebbe altrimenti dovuto portare. Tuttavia ciò lasciò all'uomo la responsabilità di scegliere come affron­ tare le condizioni naturali: poteva renderle occasione di crescita spiri­ tuale, o infuriarsi contro la natura e il suo creatore, aumentando così la propria sofferenza. In un certo senso, è così che Agostino reagì al dolore e alla morte. Nelle Confessioni egli parlò delle proprie perdite in modo commoven­ te. Quando il suo migliore amico morì per una malattia assai grave, egli descrisse il proprio dolore: Oh follia, incapace di amare gli uomini quali uomini ! Oh stoltezza dell'uomo, insofferente alla condizione umana ! Tali erano i miei senti­ menti di allora, e di lì nascevano i miei furori, i miei sospiri, le mie lacri­ me, i miei turbamenti e l'irrequietudine e l'incertezza. Mi portavo den­ tro un'anima dilaniata, insofferente di essere portata da me; e io non trovavo dove deporla. Non certo nei boschi ameni, nei giochi e nei can­ ti, negli orti profumati, [. . . ] essa posava. [ . . .] Qualunque cosa non era ciò che lui era era triste e odiosa [. .. ] la mia anima mi opprimeva sotto un pesante fardello di infelicità [. . ] . (Agostino, Le confessioni) .

Quando, più tardi, perse la sua donna, scrisse: " [. . .] dopo il bruciore e lo strazio più aspro, [la ferita] imputridiva, e la sofferenza, perché più gelida, era anche più disperata (ibidem, p. 175). Infine quando morì l'a­ dorata madre, egli ne parlò da cristiano convertito, che non si affligge 28

Il mito del peccato originale e dell'istinto di morte

per la morte: " [. .. ] mi rimproveravo la debolezza del sentimento e trat­ tenevo il fiotto dell'afflizione [ .. .] provavo [un vivo disappunto] di fronte al grande potere su di me di questi avvenimenti umani [ . . ] " (ibi­ dem). Agostino implorò Dio di guarire il suo dolore, ma la preghiera non venne esaudita, sicché egli attribuì il perdurare del dolore alla vo­ lontà di Dio di imprimere nella sua memoria come "il legame con l'abi­ tudine" sia forte nella mente. Per lui fu difficile accettare sia la perdita sia la morte, ma egli non poté biasimare Dio, infinitamente buono, per le sofferenze che lui e gli altri dovevano sopportare. Di conseguenza ne attribuì l'onere al genere umano, ma, sapientemente, sollevò l'individuo da responsabilità perso­ nali, addossando ad Adamo la colpa della nostra natura peccaminosa. Così Agostino e i suoi seguaci rifiutarono l'idea che la naturale con­ dizione umana includesse non solo la morte ma anche la malattia e la deformità, tanto da persuadere vescovi e imperatori ad accreditare la teoria del peccato originale e a marchiare come eretici coloro che soste­ nevano le precedenti tradizioni cristiane di libertà. Chiaramente il po­ tere favorì un sistema di pensiero che enfatizzava l'incapacità dell'uo­ mo di governare se stesso a causa della propria intrinseca depravazio­ ne: una tale dottrina poté essere vista come strumento di controllo so­ ciale. Erich Fromm nel suo libro La crisi della psicoanalisi è assai consape­ vole d�lle potenti implicazioni sociali e politiche delle teorie di Agosti­ no, in particolare per quanto riguarda la sessualità: .

Fintantoché si proclama peccaminoso il piacere sessuale come tale, e i desideri sessuali rimangono perpetuamente operanti in ogni essere umano, le proibizioni morali sollecitano un sempre rinnovato senso di colpa, che spesso è inconscio o viene trasferito su altre cose. Questo senso di colpa ha una grande importanza sociale. Esso giusti­ fica il fatto che la sofferenza viene vissuta solo come punizione delle proprie colpe, invece di essere imputata ai difetti dell'organizzazione sociale. Esso, infine, origina un'intimidazione emotiva, limitando le ca­ pacità intellettuali e soprattutto critiche della persona, mentre sviluppa un attaccamento emozionale verso i rappresentanti della moralità socia­ le. ( 1 970, p. 138)

Ne deriva che se si fa in modo che gli uomini si sentano intrinseca­ mente colpevoli, essi sono più facilmente controllabili; ciò ha ovvi van­ taggi politici, per coloro che vogliono governarci, e in un certo senso può spiegare come mai il pensiero di Agostino sia ancora attuale. Tutta29

Dal dolore alla violenZIJ

via, come sottolinea Elaine Pagèls, esso non sarebbe sopravvissuto qu indici secoli solo per questo motivo. La spiegazione alternativa di questa autrice è affascinante ed è molto coerente con il pensiero psico­ logico attuale: è naturale che, dinanzi alle catastrofi o al dolore, l'uomo cerchi di rispondere all 'inevitabile domanda: "Perché io? " accusando se stesso delle proprie disgrazie. Questa ricerca di significato di fronte al trauma è evidente tanto negli individui quanto nelle religioni ufficiali. Quattromila anni fa i Sumeri cantavano le lodi alla loro dea !nanna, regina del cielo e della terra: Quando tutte le terre e le genti sumere si riuniscono Quando cantano le tue lodi, e ti portano le loro ansie Coloro che dormono sui tetti e coloro che dormono vicino alle mura, Tu studi le loro parole. Tu restituisci un crudele castigo al malvagio: Tu distruggi il peccaminoso. Tu guardi con occhi benevoli il giusto: È a lui che dai la tua benedizione. (Wolkenstein, Kramer, 1 984)

Così, a quei tempi come oggi, il " cattivo" riceve la punizione che merita e si trova una spiegazione per giustificare le pene della comunità. I Greci attribuivano il loro destino ai capricci e alle passioni dei loro molti dei. Le rovine dei loro ammirevoli templi, sparse lungo le coste del Mediterraneo, testimoniano il dialogo permanente tra loro e le loro onnipotenti divinità, alle quali, nei periodi di calamità, essi offrivano sacrifici e preghiere. In cambio, i signori dell'Olimpo potevano preten­ dere che un membro della loro comunità fosse sacrificato per restaura­ re l'ordine. Così, dopo che Edipo divenne re, la sua città, un tempo prosperosa, cedette alla peste. Questa terribile malattia distrusse la città e l'am­ biente, uccidendo uomini e animali. Ovunque era morte: bisognava trovare la causa di questa tragedia. La colpa fu fatta ricadere su Edipo, un tempo eroe, che scoprì di essere sia lo sconosciuto assassino di suo padre, sia lo sposo di sua madre. Gli ordini degli dei erano chiari: per far sopravvivere Tebe e per restaurare l'ordine, l'omicida del vecchio re Laio se ne doveva andare. Edipo partì, cieco e tormentato. Ma at­ traverso la sua tragedia i Greci poterono dare significato alle proprie afflizioni e riguadagnare attraverso l'azione un certo senso di controllo sulle proprie vite. 30

Il mito del peccato originale e dell'istinto di morte

Questa necessità di dare senso e ordine alla vita assume varie forme. Nelle foreste pluviali del Borneo i cacciatori di teste dayak regalarono a mio padre un bucero' magnificamente intagliato, perché si ricordasse per sempre di loro. In precedenza esso si trovava sulla cima di un palo durante la cerimonia del "gawai kenyalang" , la rappresentazione del dio della guerra e della fertilità, ed era un legame con gli uccelli selvatici bianchi e neri della foresta. Sulla sua coda, decorata in modo variopin­ to con le figure incise di un cacciatore bianco e di una famiglia dayak, erano dipinte parole di monito contro chiunque mentisse alla presenza del "kenyalang". L'uccello doveva essere nutrito con sigarette e noci, compito da allora debitamente assolto dal suo proprietario. Attraverso queste parole di monito e il rituale dell'alimentazione, si mantiene una connessione con l'aldilà, a cui l'uomo può attribuire le proprie awer­ sità e afflizioni, proprio come noi ancora oggi facciamo attraverso le nostre superstizioni. Questi esempi illustrano la necessità di trovare una motivazione alle sofferenze e di sentire, soprattutto quando siamo maggiormente mi­ nacciati, che abbiamo in qualche modo il controllo della nostra esisten­ za. È questo bisogno che sottende l'evidente propensione dell'uomo a sentirsi colpevole piuttosto che impotente. Può essere a causa di questo stesso bisogno che la dottrina del peccato originale è soprawissuta co­ me base della religione cristiana per milleseicento anni. L'idea che, in una certa misura, la nostra eredità culturale sia deter­ minata dal bisogno psicologico di dare senso alle difficoltà e incertezze, non è nuova. Ma forse meno evidente è il motivo per cui scegliamo di sentirei colpevoli di fronte alle sciagure. È ben noto a tutti coloro che lavorano in terapia con le vittime di trauma o di incesto, così come con le persone che hanno sofferto di gravi deprivazioni durante l'infanzia, come tutti questi individui tendano a ritenere di essere in qualche mo­ do colpevoli per quanto hanno subito. Questa necessità di sentirsi per­ sonalmente responsabili è disorientante, soprattutto per la tremenda convinzione con cui le vittime si aggrappano a questo pensiero. Uno psicoanalista scozzese, Ronald Fairbairn, chiamò acutamente "difesa morale" il bisogno difensivo di sentirsi colpevoli di fronte al trauma. Accusando se stessa per quanto è accaduto, la vittima ottiene un certo senso di controllo sulla sua vita, invece di sentirsi totalmente impotente ( 1 952, pp. 92-93 ). l. Il bucero è u n grosso uccello tropicale, con il dorso nero e il ventre bianco e u n enorme bec­ co ricurvo. [NdT] 31

Dal dolore alla violenza

È importante notare che secondo il famoso psicologo svizzero Jean Piaget i bambini da un anno e mezzo a otto anni manifestano una simile forma di pensiero, da lui descritta come "pensiero magico". In questa fase dello sviluppo cognitivo, il bambino attribuisce ai pensieri il pote­ re delle azioni, non avendo ben netta la distinzione tra i propri pensieri e il mondo esterno (1926, pp. 135- 138). Durante questo periodo è faci­ le che il bambino possa attribuire la morte di un membro della famiglia ai propri pensieri distruttivi, se aveva litigato con lui o se aveva provato sentimenti di gelosia nei suoi confronti. Per esempio, quando Sigmund Freud aveva diciannove mesi perse il fratellino che ne aveva otto. Solo recentemente è stato riconosciuto quanto gli effetti di questa morte possano aver influenzato lo sviluppo delle sue teorie, come vedremo più avanti (Hamilton, 1976) . Freud scrisse sulla morte del fratello con insight: "Avevo accolto il fratellino più giovane di me di un anno (che morì a pochi mesi), con cattivi senti­ menti e vera gelosia infantile, e [ ... ] la sua morte lasciò in me il germe della colpa" ( 1 887 - 1904, p. 3 02). Il "pensiero magico" descritto da Piaget si presenta anche in adulti normali, soprattutto se molto angosciati, tradendo una confusione mo­ mentanea tra il Sé e il mondo esterno. Chi non ha sorpreso se stesso al­ lontanare un cattivo pensiero per paura che si avverasse? Forme di pensiero simili sono ovviamente presenti in grande quan­ tità nelle persone che soffrono di disturbi psicotici, i quali, per defini­ zione, si riferiscono a uno stato mentale in cui viene meno, in misura maggiore o minore, la distinzione tra il Sé e la realtà esterna. Nel mio la­ voro psicoterapeutico con persone molto disturbate ho spesso incon­ trato questa modalità di ideazione. Uno dei miei pazienti, sofferente di un grave disturbo maniaco-de­ pressivo, credeva di poter controllare i miei pensieri con il potere dei suoi occhi. Ho spesso subito con disagio il suo fisso sguardo azzurro, mentre lottavamo per comunicare. Quando gli suggerii che forse avreb­ be potuto scaricare la sua rabbia nei miei confronti utilizzando simboli­ camente bersaglio e freccette, parve sconvolto e disse: "Ma così potrei ucciderla ! " . Per questo paziente non c'era dubbio che i pensieri potessero tanto uccidere, quanto magicamente aggiustare le cose. Infatti quando era ipomaniacale o "su " , si sentiva dotato di tali poteri di vita e di morte da considerare se stesso come una divinità, che rappresentava sia la vita sia la morte. Diceva: "Sento un fallimento e talvolta creo un mito che mi possiede" . Riacquistava così il potere, ma al prezzo della colpa, poiché 32

Il mito del peccato originale e dell'istinto di morte

essendo onnipotente diventava onniresponsabile. Va forse notato che, quando era piccolo, suo padre si ammalò di cancro e questa malattia gli venne tenuta segreta per tutta l'infanzia, per ragioni che egli non co­ nobbe mai. n padre morì al suo quattordicesimo compleanno. Quando ebbe uno scompenso, ritornò ancora e ancora su questo awenimento, del quale si sentiva in qualche modo responsabile. Il bisogno di sentirsi in colpa, piuttosto che vittima impotente del destino, rivela quanto sia profonda la necessità di proteggersi dana totale impotenza, che è uno stato simile all'annientamento psicologico. Ritornando alla dottrina del peccato originale secondo Agostino, possiamo vedere come per molti la convinzione che siamo intrinseca­ mente colpevoli sia allo stesso tempo semplice e irresistibile. Essa corri­ sponde alle risposte che molte persone si danno, quasi istintivamente, di fronte alla sofferenza. La soluzione &Agostino riconosce e simulta­ neamente nega l'impotenza, e questa può essere la ragione per cui essa _ j�QQ p�r_SQQ_l!l�,j_n.col­ è così forte. Agosti�o_ ;IS�olv_�jl_�off�r�nte _§!J._l_p �!1_qQ Ad_�li1Q_�_Q_Eva. _IIl_oJtre rassicu�a il _s_Qff�r�_l)te_�h�_il Q9�Qt�_g la mort(!_�_i!3J:!o_!P_11açur�li ; .Ji�pç>ndendQ al 119.S.1J'Q_bi�nQ _di �s.sere liberi dal çlqlore. E infine attribuisce la causa e il significato del dolore alla sfera della scelta morale, non agli eventi naturali. In questo modo la sofferenza diventa una questione morale sulla quale il genere umano ha qualche illusione di controllo, sebbene al prezzo della propria malva­ gità o di quella dei suoi antenati. Come scrive Gillian Evans in Augusti­ ne on Evi!: _

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La visione antropocentrica del problema del male rende il male mol­ to meno importante che nella visione teocentrica. È una spiegazione ottimistica. La sicurezza di Agostino crebbe mano a mano che vedeva più chiaramente le implicazioni dell'idea che il male sorgesse esclusiva­ mente dalla volontà. Egli si liberò dalla profonda angoscia che lo turba­ va quando riteneva che il male fosse qualcosa che minacciava o limitava Dio. ( 1 982, p. XI)

L'uso della "difesa morale" sembra avere notevolmente ridotto l'an­ goscia personale di Agostino di fronte alla morte. È interessante apprendere cosa Giuliano di Eclanum fece delle opinioni di Agostino sulla sua personalità. Sec�ndo Elaine Pagels, Giu­ liano credeva che l'esperienza di aver peccato, come fecero per esem­ pio Adamo ed Eva e più tardi Caino, conducesse l'uomo a percepire la natura secondo la propria peccaminosità. Per lui, l'uomo che ha errato vede il mondo dal punto di vista di una persona che sta morendo spiri33

Dal dolore alla violenZil

tualmente: " [. . . ] che avendo fallito nel coltivare le proprie possibilità [ . ] " avrebbe proiettato sulla vita la propria "distorta visione" della na­ tura, e vede la morte del corpo come una specie di punizione. Giuliano intese sotto questa luce le teorie di Agostino, il quale: " [ ... ] furibondo replica: in che altro modo si potrebbe considerare l'ultima nemica? " (Pagels, 1988, p. 173 ) . Mi riferisco alla dottrina di Agostino per varie ragioni: essa non sola­ mente illustra come i miti religiosi possano dare alle persone la possibi­ lità di attribuire significato alla natura, e di avere un certo senso di con­ trollo su di essa, ma mostra anche quanto sia antico il dibattito sull'ori­ gine intrinseca del genere umano. Tale dibattito è ancora presente nel campo delle idee religiose, ma si può dire che non esista nell'ambito delle "scienze umane" . Tuttavia la breve rassegna, nel prossimo capito­ lo, della vasta letteratura sulle origini della violenza nell'uomo, rivela la presenza di conflitti simili a quelli che ebbero luogo tra Agostino e i suoi oppositori, conflitti centrati attorno alla "bontà" o "malvagità" in­ nata della natura umana. Vedremo come nelle teorie psicoanalitiche e sociali della prima parte di questo secolo riemergano, in forma diversa, l'importanza della colpa e il punto di vista pessimistico di Agostino sul­ la natura umana e sulla sessualità. Un altro motivo per occuparsi del pensiero di Agostino è che esso suggerisce che la nostra visione del mondo cambi in relazione alla no­ stra personalità. Agostino considerava l'esistenza in modo molto diver­ so dai suoi oppositori e, da quel poco che sappiamo, era un uomo che non poteva tollerare perdita e morte senza sperimentarle come attacchi personali: la morte è vista come !"'ultima nemica", il lutto come una prova mandata da Dio. Una simile visione personale delle :vicissitudini della vita si associa a una formazione del carattere che, come vedremo più avanti, può essere plausibilmente correlata a un senso di sé fragile, che deve ricorrere al potere e al controllo per riuscire a sopravvivere. Inoltre da queste battaglie teologiche impariamo come , in certi pe­ riodi della storia, idee e atteggiamenti di un individuo possano divenire popolari grazie alla loro capacità di rispondere alle particolari necessità di un gruppo sociale o della società in generale. Questo è ciò che sem­ bra essere avvenuto nel quinto secolo con l'adozione delle idee di Ago­ stino e il rifiuto di quelle di Giuliano. È interessante notare come la ca­ duta delle convinzioni dei primi cristiani sul libero arbitrio e sulla bontà del creato coincida con un periodo storico in cui il mondo roma­ no doveva confrontarsi con terribili tragedie causate dalle epidemie o dall'uomo. .

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Il mito delpeccato originale e dell'istinto di morte

William McNeill nel suo illuminante libro La peste nella storia ( 1 976) rivela attraverso la storia come l'impatto delle malattie abbia profonde conseguenze sulla vita sociale e culturale. Nel suo studio sulle popolazioni del Mediterraneo descrive una serie di devastanti epide­ mie che si sono diffuse in tutto l'Impero romano dal 1 65 d.C. in poi. Queste nuove infezioni venute dall'est inflissero severe perdite tra gen­ te non immunizzata in precedenza. In alcuni luoghi almeno un terzo della popolazione morì alla prima infezione. Da allora epidemie suben­ tranti portarono a un processo di declino della popolazione che durò per più di cinquecento anni. Questa perdita di popolazione fu aggravata dalle guerre civili e dalle invasioni barbariche che si diffusero attraverso tutto l'Impero e che fu­ rono spesso seguite da carestie e ulteriori epidemie. La città di Roma reca in sé visibili testimonianze di questa devastazione, poiché solo nel­ la seconda metà di questo secolo ha superato le proprie vecchie mura. McNeill osserva che durante questi cosiddetti "secoli bui" di disa­ stri umani e naturali cresce e si consolida il cristianesimo, che avrebbe dovuto modificare profondamente la visione del mondo. Lo stoicismo e gli altri sistemi filosofici pagani, ai quali aggiungiamo il pensiero pro­ tocristiano, con la loro enfasi sui processi impersonali e sulle leggi della natura, non riuscivano a spiegare l'apparente Casualità con cui la morte colpiva all'improwiso il vecchio e il giovane, il ricco e il povero, il giu­ sto e il malvagio. L'insegnamento cristiano aveva il merito di dare signi­ ficato alla vita anche in mezzo a tali calamità. McNeill cita come il ve­ scovo siriano di Cartagine celebrava la devastante peste dell'epoca: [ . . ] sono molti i nostri cari che in questa pestilenza muoiono. No, dite piuttosto sono molti i nostri cari che sono liberati da questo mondo. La pestilenza è un flagello pe' giudei, pei gentili, pei nemici di Cristo, ma per i servi di Dio è una cosa vantaggiosa. Se la morte colpisce egualmen­ te i buoni e i cattivi non crediate già che sia la stessa cosa per gli uni e gli altri. I buoni sono chiamati al riposo, i cattivi sono trascinati al suppli­ zio ... Questa pestilenza, per quanto spaventosa e funesta, mette alla pro­ va la virtù e le disposizioni d'animo di ciascuno di noi. ( 1 976, p. 1 10) .

Come dice McNeill: "Il cristianesimo era quindi un complesso di pensieri e sentimenti perfettamente consoni a un'epoca tormentata in cui le awersità, le malattie e la morte violenta rappresentavano la nor­ malità" (ibidem). L'autore cautamente ci awerte che queste afferma­ ziC)ni devono essere ancora provate, tuttavia esse suggeriscono con for­ za che lo sviluppo della cultura umana sia fortemente collegato alle 35

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condizioni ambientali della sua gente e che il sistema di credenze, come le religioni, assolva l'importante funzione di fornire alla comunità trau­ matizzata un significato per la sua esistenza e per le sue tragedie. Ci resta la domanda se questi processi non possano essere stati attivi durante questo secolo: la "pulsione di morte" di Freud è seducente co­ me il concetto di Agostino sul peccato originale, poiché anch'essa libe­ ra il genere umano dalle responsabilità personali della crudeltà e della distruttività delle due ultime terribili guerre mondiali. Freud postulò l'esistenza della "pulsione di morte" contrapposta alla "pulsione di vi­ ta" o Eros, che descrisse come manifestazione dei "bisogni dell'Es " , i quali rappresentano "le richieste somatiche sulla mente" (l'Es si riferi­ sce ai nostri istinti o impulsi inconsci). La pulsione di distruzione ha co­ me fine ultimo "portare il vivente allo stato inorganico. Per questo l'ab­ biamo anche chiamata pulsione di morte" ( 1 938, p. 576) . "Nelle funzioni biologiche le due pulsioni fondamentali agiscono l'una contro l'altra oppure si combinano insieme. " Per esempio, per Freud: [ . . ] ]'atto sessuale è un'aggressione che si propone la più profonda delle unificazioni [ . ] Le modificazioni nel rapporto di mescolanza delle pulsioni hanno consegy�nze assai tangibili. Un forte incremento del­ l' aggressività sessuale P\JÒ trasformare un uomo appassionato in un de­ linquente sessuale, mentre una forte diminuzione del fattore aggressivo può renderlo timoroso o impotente. (Ibidem) .

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Indagheremo più avanti sul motivo per cui Freud scelse di costruire le proprie teorie psicologiche sulla base della teoria degli istinti; ora possiamo però notare quanto il suo "istinto di morte" sia significativo nel ristabilire l'antica idea che l'uomo tenda a essere intrinsecamente distruttivo, con tutte le implicazioni terapeutiche, sociali e politiche che questo sistema di pensiero comporta. Non c'è alcun dubbio che Sigmund Freud sia vissuto in una delle · epoche più violente della storia dell'Occidente, cioè nel periodo che comprende la Prima guerra mondiale e che termina con l'inizio della Seconda guerra mondiale nel 1939. Inoltre egli era vivo durante la pri­ ma fase e la fase centrale dell'Olocausto degli ebrei. Avendo dedicato la propria vita alla comprensione della psicologia, non poteva certo evita­ re di riflettere sulla capacità dell'uomo di essere violento. Il modo che scelse per affrontare questo argomento può essere connesso almeno in parte alle proprie esperienze personali di perdita e di distruzione. In ef­ fetti sorprende molto che abbia introdotto il concetto di pulsione di 36

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morte solo nel 1 920, quando aveva sessantaquattro anni, nel suo libro Al di là del principio di piacere. Freud stesso espresse la propria sorpre­ sa per una tale omissione quando scrisse, dieci anni dopo, che non po­ teva capire come avesse potuto tralasciare dal proprio studio sulla vita un fenomeno così importante come l'aggressività o la potenza distrut­ trice umana ( 1930). Hamilton suggerisce che l'esperienza personale di morte, e soprat­ tutto quella del fratellino Julius, possa aver giocato un ruolo importan­ te nel pensiero di Freud sulla pulsione di morte ( 1 976, p. 152). Freud stesso doveva scrivere sulla rivalità fraterna nel seguente modo: "Molte persone dunque che oggi amano i loro fratelli e che, se morissero, ne sentirebbero acutamente la mancanza, da molto tempo albergano con­ tro di loro, nell'inconscio, desideri malvagi che possono realizzarsi nei sogni" ( 1 900, p. 234) . In una nota successiva, scritta nel 1914, aggiunse: "Decessi di questo tipo, vissuti nell'infanzia, possono essere stati rapi­ damente dimenticati in famiglia, ma l'indagine psicoanalitica mostra che essi sono diventati molto significativi per la successiva nevrosi" (ibidem, p. 234n; citato anche in Hamilton, 1976). Come evidenzia Peter Reder nell'articolo "Freud family" ( 1 989), quando Sigmund aveva diciassette mesi, perse in rapida successione il nonno paterno, il fratello preferito della madre e il proprio fratellino. È probabile che in quel periodo i genitori, affranti, non siano stati dispo­ nibili emotivamente per lui. Secondo Hamilton, il motivo per cui Freud non riuscì a occuparsi dell'aggressività umana è collegato alla sua incapacità di elaborare la perdita di Julius, complicata dalla successiva partenza della bambinaia, che era il suo sostituto materno. Hamilton ritiene che questi avveni­ menti abbiano lasciato Freud carico di intensi sensi di colpa per essere sopravvissuto e del timore di potere perciò essere punito, il che, a sua volta, potrebbe spiegare la sua costante, quasi quotidiana, preoccupa­ zione per la morte. Egli soffrì anche di emicrania, di sinusite cronica e di colite mucosa, o ciò che definiremmo oggi "sindrome da colon irrita­ bile" ( 1 976, p. 152). L'uso di sintomi somatici per affrontare le proprie angosce può aver contribuito a ritardare la comprensione della propria aggressività. Qualunque sia la causa dell'incapacità di Freud di occuparsi dell'e­ ziologia della distruttività umana, quando lo fece fu nei termini dell'i­ stinto di morte, come illustrato appena sopra. Allora egli suggerì, con considerevole capacità introspettiva, che questo meccanismo offrisse un po' di consolazione: 37

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[...] preferiamo essere soggetti a una legge naturale inesorabile, alla su­ blime Ananke [necessità], piuttosto che a un caso che avremmo forse potuto evitare. Ma questa convinzione della necessità interna della mor­ te è forse soltanto una delle illusioni che l'uomo si è creato perché "solo così sopporta il peso della vita". (Freud, 1920, p. 230)

Possiamo non riconoscere l'approccio di Agostino alle calamità del­ la vita? Una volta creata la pulsione di morte, Freud poté spiegare il "masochismo morale" o la colpa non come una difesa contro l'impo­ tenza e la vulnerabilità, come aveva proposto in precedenza, ma come un'espressione dell'istinto di morte che non si è potuto deviare sul mondo esterno ( 1 924) . Le reazioni terapeutiche negative, il fenomeno della coazione a ripe­ tere, attraverso la quale ripetiamo le esperienze distruttive del passato, e tutte le istanze del conflitto mentale devono essere viste come una lot­ ta tra i nostri impulsi "libidici" e gli impulsi distruttivi. In questo modo Freud soddisfece anche la sua tendenza a pensare in termini duali, so­ stituendo il precedente conflitto tra istinto sessuale e istinto di vita con quello che coinvolge l'istinto di morte e di vita. Aderendo a questo mo­ dello egli si conformò alle teorie fisiologiche della sua epoca, le quali ri­ tenevano che il sistema nervoso funzionasse cercando di scaricare ogni tensione. Tuttavia una delle conseguenze dell'invenzione dell'"istinto di morte" fu di liberarsi della paura della morte. Come sottolinea Ernest Beckero: La finzione della morte come istinto permetteva [...] a Freud di escludere il terrore della morte dalle sue formulazioni, quale primario problema umano per la padronanza dell'Io. Non gli sarebbe neanche stato necessario affermare che la morte era rimossa, poiché l'organi­ smo se la trascinava naturalmente appresso in tutti i suoi processi. ( 1 973, p. 137)

Secondo Otto Rank, Freud trasformò magicamente la morte da una "necessità non auspicabile a un obiettivo istintuale desiderato" . Freud cosi si liberò del problema della morte facendone una "pulsione di morte" . Tuttavia Rank credeva anche che la natura confortante di que­ sta ideologia non potesse reggere a lungo né la logica né l'esperienza ( 1 945, pp. 1 16- 122). La sua previsione si rivelò sbagliata: sebbene l'istinto di morte sia stato ripetutamente screditato nei circoli scientifici, resta ancora di im­ portanza fondamentale nella letteratura psicoanalitica, come diventerà 38

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evidente nel prossimo capitolo. Esso ha chiaramente ancora un impor­ tante ruolo da giocare nella psiche di molti pensatori psicoanalitici. In Gran Bretagna l'istinto di morte doveva !jvelarsi particolarmente po­ polare in una delle seguaci di Freud(l\itetanie Klein. Ella lavorò con i bambini e dalle sedute di gioco trasse le conclusioni che siamo aggres­ sivi dal momento della nascita. La nostra aggressività innata assume la forma dell'invidia, un odio diretto contro gli oggetti buoni come il se­ no della madre. Ella sostenne che per il bambino "il fine preminente [. . . ] è impossessarsi del contenuto del corpo materno e distruggere la madre con tutte le armi di cui il sadismo può disporre" (Klein, 193 0, p. 249). La Klein sembra vedere i bambini proprio come li vedeva Agosti­ no quando concludeva che la rabbia, i pianti e la gelosia di cui essi sono capaci sono la prova del peccato originale. Per lei, così come per Agostino, anche la perdita è sperimentata come risultato della pro p ria distruttività piuttosto che come un evento esterno (ibidem, p . 263 ) . L'invidia porta il lattante a d avere fantasie d i distruzione dell'oggetto buono e poi a una terribile ansia paranoide per aver di­ strutto l'unica sua fonte di sostegno e amore. Possiamo trovare qui il " pensiero magico" descritto appena prima da Jean Piaget. In realtà, sebbene Melanie Klein attribuisca questi vissuti e queste fan­ tasie ai bambini nei primi due anni di vita, il bambino più piccolo che ha avuto in psicoanalisi aveva due anni e nove mesi e la maggior parte dei suoi pazienti era più grande. Le sue teorie sono perciò ba­ sate sull'estrapolazione di dati da bambini più grandi, la cui perce­ zione del mondo è probabilmente molto diversa da quella di un bambino piccolo. \ Per la Klein i sentimenti di inferiorità nascono da un inconscio senso di colpa per non essere capaci di amare sinceramente e in particolare per non essere capaci di padroneggiare gli impulsi aggressivi nei con­ fronti degli altri (Klein, Riviere, 1 93 7). Di conseguenza le reazioni tera­ peutiche negative, e altre prove della distruttività, sono attribuite alla persistente manifestazione del nostro istinto di morte. ]ay Greenberg e Stephen Mitchell fanno notare come la Klein avrebbe potuto costruire la sua teoria senza bisogno di credere che l'in­ vidia precoce derivi da aggressività costituzionale. Essa potrebbe deri­ vare da altri fattori: la frustrazione dei bisogni non soddisfatti del bam­ bino; la presenza di angoscia intensa o di incoerenza delle figure mater­ ne e la natura primitiva delle capacità cognitive, come fu dimostrato da Piaget. Essi concludono che "la condizione di intenso bisogno e di di39

Dal dolore alla violenza

pendenza da un agente delle cure materne ansioso e incoerente, quan­ do si vive un'esistenza psicomotoria attimo per attimo, sembra rendere inevitabile l'aggressività infantile, indipendentemente da qualsiasi ipo­ tesi di aggressività innata" ( 1 983 , p. 136). Ciò nonostante la Klein ha mantenuto la propria convinzione sulla pulsione di morte altrettanto saldamente di Freud. È possibile che en­ trambi condividessero il bisogno di Agostino di considerare l'uomo vit­ tima della propria malvagità intrinseca. Forse solo dopo aver osservato più da vicino le implicazioni di questo sistema di idee si può capire co­ me mai Freud e i suoi seguaci si siano attenuti a esso con tanta convin­ ziOne. Ian Suttie affronta questa polarizzazione di atteggiamenti tra i vari pensatori religiosi e il suo equivalente all'interno del movimento psicoanalitico. Secondo lui, né Agostino né Freud avevano la fiducia nel genere umano espressa da Giuliano di Eclanum e anche da lui. Egli attribuisce le loro differenze nel temperamento religioso e negli atteg­ giamenti a una corrispondente differenza nella relazione infantile con la propria madre, che è connessa alla cultura. Se la madre riesce a svez­ zare il figlio con naturalezza e ad aiutarlo ad attaccarsi al padre e alla so­ cietà, ciò significa che nell'individuo che cresce si sono sviluppate rela­ zioni soddisfacenti, da cui deriva una fiducia di base nell'umanità e nel­ la vita ( 1 935, pp. 120- 12 1 ) . Suttie pensava che Freud e Agostino non avessero avuto con l a ma­ dre o con sostituti materni una simile relazione precoce soddisfacente, ma che in realtà da bambini avessero sofferto di intensa angoscia di se­ parazione, risultando vulnerabili a perdite di ogni tipo. Quanto alla rabbia che avevano provato per essere stati sottoposti a esperienze così spaventose, essa aveva dovuto essere accuratamente rimossa, per essere risperimentata sotto forma di un invadente senso di colpa, fonte del concetto sia di "peccato originale" sia di pulsione di morte. Anche se lo spirito di Agostino pare aver trovato un punto d'appog­ gio negli insegnamenti di Freud e della Klein, ci sono molti psicologi e psicoanalisti che rifiutano l'istinto di morte e quanto esso comporta; come Giuliano di Eclanum, essi si preoccupano di liberare l'uomo dal peso della sua natura apparentemente malvagia e utilizzano un insieme di prove sempre più consistenti per evidenziare quanto l'uomo abbia bisogno di relazioni sociali. Così nel rivedere l'ingente letteratura sulla distruttività umana diventa più chiaro che credere in un'umanità gui­ data dagli istinti implica una costellazione di altri atteggiamenti: essi sa­ ranno descritti nel prossimo capitolo. 40

Il ,nito del peccato originale e dell'istinto di morte

Sembra che siano in gioco due differenti Gestalt, o visioni della vita e della natura dell'esperienza umana. La domanda interessante alla quale ancora si deve rispondere è la seguente: quanto questi due diversi atteggiamenti sono correlati alle esperienze di vita personali e alla for­ mazione del carattere dei loro protagonisti? Potrà mai il fenomeno del­ la distruttività umana essere oggetto di uno studio più scientifico e più oggettivo, se le teorie sulla violenza sono basate su assunti soggettivi e culturali? Le recenti ricerche nel campo dell'attaccamento e dello svi­ luppo infantile sembrano in effetti suggerire che l'uomo possa final­ mente iniziare a determinare i suoi limiti e le sue potenzialità. In segui­ to a questi dati è possibile iniziare a comprendere la violenza al di fuori del contesto delle tradizioni religiose e culturali. Tuttavia resta da vede­ re se gli scienziati e i pensatori psicoanalitici siano pronti ad accettare scoperte della ricerca che potrebbero minacciare alcuni dei loro sistemi di idee riguardo alla natura umana. Probabilmente gli assunti teorici, come quello del peccato originale, possono proteggere da sentimenti di impotenza e di responsabilità che si preferiscono evitare. Una breve rassegna della letteratura sulla distruttività umana potrà dare al lettare un'idea più chiara di ciò che la gente crede entri in gioco nel trattare questo argomento, e di quali siano le difficoltà nello stabili­ re le fondamenta teoriche di una società meno violenta.

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III

AGGRESSIVITÀ E VIOLENZA

Natura, rossa nel dente e nell'artiglio. Al/red Lord Tennyson

Lo studio della potenziale violenza dell'uomo può essere intrapreso con successo solo se i ricercatori che se ne occupano divengono consa­ pevoli delle pressioni culturali ed emotive alle quali si è soggetti nel pensare alla natura umana. Uno dei primi passi da fare è quindi ricono­ scere le difficoltà intrinseche e le pressioni che una simile impresa com--· porta. Nell'esaminare l'affermarsi del cristianesimo di Agostino negli ulti­ mi quindici secoli, è possibile iniziare a vedere come gli eventi culturali e storici giungano a influenzare lo sviluppo delle ideologie. Se un'ideo­ logia è definita come un sistema di convinzioni sulla natura umana so­ stenuto da un gruppo di persone e da cui origina uno stile di vita, cri­ stianesimo e marxismo certamente corrispondono a questa descrizio­ ne. Anche se sono pochi coloro che considererebbero un'ideologia la psicologia moderna, si può ritenere che essa abbia un'influenza molto importante sulla legittimazione delle attuali convinzioni sulla natura umana, in particolare ora che sappiamo che molti autori in campo psicoanalitico condividono gli stessi presupposti di base dei credenti cristiani a proposito della natura umana. Così, benché non sia di per sé un'ideologia, Ludwig von Bertalanffy ha probabilmente ragione quan­ do sostiene che "oggigiorno la psicologia è una forza sociale di prim'ordine che forma l'immagine di sé dell'uomo e guida la società" ( 1 967, p. 12). Leslie Stevenson nel suo libro Seven Theories o/Human Nature spiega come le persone continuino a credere in diverse ideolo­ gie anche quando queste ultime vengono validamente confutate 43

Dal dolore alla violenza

( 1 974 ) . Ci si può riuscire o ignorando qualsiasi prova contro la propria teoria, o rigettando le critiche tramite l'analisi delle motivazioni di chi le attua alla luce della teoria stessa. La Stevenson dice che quando ven­ gono utilizzati questi due metodi per ridurre al silenzio chi non è d' ac­ cordo, la teoria è sostenuta in un "sistema chiuso" , inaccessibile alle informazioni esterne e quindi alle modificazioni. Secondo questa au­ trice, quando un sistema di convinzioni è alla base dello stile di vita di un gruppo sociale, è sempre difficile per i suoi membri considerarlo· con obiettività.

C'è una forte pressione sociale per continuare a mantenere [quella] convinzione, ed è naturale per coloro che credono in essa sostenerla co­ me un sistema chiuso. Le persone sentono che la loro idea, anche se aperta alle critiche, contiene alcuni aspetti vitali, alcune verità fonda­ mentali. Abbandonarla può voler dire abbandonare ciò che dà signifi­ cato, scopo e speranza alla propria vita. (Stevenson, 1 974 , p. 16)

In questo modo i cristiani considerano "accecati dal peccato" i loro critici; i marxisti liquidano gli oppositori come "ingannati dalla falsa coscienza" , che attribuiscono alla loro classe economica. Analogamen­ te, gli psicoanalisti affrontano le critiche attribuendole alla "resistenza inconscia" dei loro oppositori. Ma l'uso della propria teoria per minare la validità degli argomenti dell'altro è fondamentalmente irrazionale. Bisogna replicare alle obie­ zioni a una teoria con le qualità della teoria stessa, senza curarsi delle motivazioni di coloro che la mettono in questione. È bene avere questi punti in mente nell'effettuare una rassegna della letteratura attuale sulla natura della violenza nell'uomo. Ovviamente ogni studio di questo genere è pieno di difficoltà. C'è il problema di co­ sa si intenda per violenza distinta da aggressività, e del perché questi due termini siano così spesso confusi (argomento trattato nell'Introdu­ zione) . Inoltre, come presto si chiarirà, le opinioni espresse nella let­ teratura sulla violenza umana o sull'aggressività sono spesso estremisti­ che, e spesso gli autori possono essere molto denigratori nei confronti di chi non condivide i loro pareri. È interessante come gli scienziati, che normalmente si esprimono con distacco e obiettività, si appassioni­ no quando si tratta di scrivere sulla distruttività dell'uomo. Se conside­ riamo che questi studi non possono essere separati dal dibattito sulla natura umana, il fatto che queste opinioni siano così radicali non ci sor­ prende. In realtà il modo stesso in cui l'argomento viene presentato è di per sé indicativo: la violenza umana sottintende per definizione un al44

Aggressività e violenza

ternativo stato di non-violenza, se possibile anche di cooperazione o, si potrebbe osare dire, di amore; tuttavia pochi studiano i possibili legami tra queste due diverse forme di comportamento. Suttie, nel suo libro The Origins o/Lave and Hate, è uno degli autori che effettuano questo collegamento: L'amore per la madre è primario nella misura in cui è la prima relazio­ ne formata e direzionata. Considero invece l'odio non come un istinto indipendente primario, ma come lo sviluppo o l'intensificazione del­ l' angoscia da separazione, che a sua volta è suscitata da una minaccia contro l'amore. ( 1 935, p. 25 ; corsivo dell'autore)

Egli attribuisce la pulsione di morte di Freud a una teoria basata sul­ l'odio, una negazione dell'amore. Essa è [. . ] da un punto di vista affettivo, la suprema espressione del­ l' odio, che eleva allo stato di uno scopo primario e indipendente della vita, a un appetito distinto che, come la fame, non richiede provocazioni esterne, ed è fine a se stesso [. .. ] . Io sostengo in realtà che la teoria non sia solo un'espressione di rabbia inconscia ma che, qualsiasi prova em­ pirica possa essere addotta per sostenerla, possa essere interpretata in tale senso solamente chiudendo gli occhi davanti all'esistenza dell'amo­ re. Perciò, essendo scientificamente infondata, è doppiamente perversa. (Ibidem, 1 935, pp. 182- 183 ) .

L e considerazioni di Suttie sul perché Freud e i suoi allievi abbia­ no mantenuto la loro convinzione sull'istinto di morte sono già state esaminate: in più l'autore ci invita a osservare che il risultato di que­ sto atteggiamento è un evidente " tabù della tenerezza " della lettera­ tura scientifica sulla violenza umana; ciò ha avuto l'effetto di separa­ . re l'odio dall'amore, negando così i possibili legami tra essi. S�ttie è - dell'opinione che l'amore, defuso , - p ossa' 'i"ù"isforrna-rsi" i�dio (t:hi.. . . . - -- . - - ------ -------- - · · . . ... . · ·-- . ...... -----dem, 1935, p. 2òi). Lo stesso "tabù" sembra essere presente nei media, dove la grande maggioranza di scrittori, politici ed "esperti" del comportamento uma­ no considera odio e amore come opposti, come l'espressione di interes­ si in conflitto, in cui uno "vince" sull'altro. Il risultato di un approccio all'argomento così polarizzato è l'impossibilità di fare connessioni tra la violenza e il nostro bisogno l'uno dell'altro. La televisione, i quotidiani e i libri ci somministrano una così regola­ re dieta di violenza, che siamo giunti a considerarla parte del nostro .

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Dal dolore alla violenza

modo di vita e, in un certo senso, probabilmente è così. La nostra cul­ tura occidentale probabilmente ha bisogno della violenza per durare, e finché sarà così si farà pressione per accentuare la distruttività dell'uo­ mo. Tuttavia la gente inizia a realizzare che il prezzo della violenza è maggiore di quanto si possa sopportare, che la nostra sopravvivenza e quella del nostro pianeta sono in pericolo. C'è perciò un reale bisogno di scoprire se la nostra specie sia capace di altre forme di interazione sociale. Cosa accadrebbe se la violenza non fosse che una delle nostre opzioni? Cosa accadrebbe se noi esseri umani avessimo il potenziale per forme di condotta di gran lunga più cooperative? Cosa accadrebbe se lo studio del comportamento infantile dovesse confermare il nostro bisogno l'uno dell'altro? E cosa, se la violenza e l'odio, la cooperazione e l'amore fossero aspetti reciproci degli stessi bisogni umani e degli stessi schemi comportamentali? Le implicazioni di queste rivelazioni potrebbero minacciare il modo presente di considerare noi stessi e la nostra cultura, ma potrebbero an­ che essere le prime manifestazioni di un nuovo paradigma scientifico. Nel suo studio sulle rivoluzioni scientifiche Thomas Kuhn spiega mol­ to chiaramente che potremmo essere sul punto di assistere a un nuovo approccio allo studio del comportamento umano: "Le ricerche attuali in parte della filosofia, della psicologia, della linguistica e anche della storia dell'arte convergono tutte nel suggerire che il paradigma tradi­ zionale sia in qualche modo slivellato" ( 1962, p. 121). Nelle osservazio­ ni di Kuhn si è tentati di vedere un incoraggiamento a esplorare ciò che tanti esperti nel campo del comportamento umano hanno finora igno­ rato: il legame tra la nostra capacità di essere violenti e il nostro bisogno l'uno dell'altro. Le ricerche in questo settore sono molto difficili e ci ri­ chiedono di stabilire il più oggettivamente possibile quali fattori con­ tribuiscano al pieno sviluppo del nostro potenziale affettivo e cogniti­ vo, anche se queste conclusioni potrebbero minacciare il nostro attuale modo di essere e di vedere noi stessi. Una breve rassegna degli scritti sull'aggressività dell'uomo e sulla violenza può far capire al lettore come sia difficile studiare il nostro stesso comportamento senza esaminare quanto si scopre alla luce delle tesi sulla natura umana, che hanno radici molto profonde. È importan­ te sottolineare che questa rassegna non intende in nessun modo riassu­ mere gli argomenti relativi alla violenza umana, poiché ciò è stato già fatto efficacemente da numerosi autori. Per avere un'idea del dibattito psicoanalitico sul tema si consiglia la lettura del libro di Erich Fromm Anatomia della distruttività umana (1974) e del lavoro di Anthony Storr 46

Aggressività e violenz.a

L'aggressività nell'uomo ( 1 968). Il volume di Jo Groebel e Robert Hin­ de Aggression and War ( 1989) e il best seller di Konrad Lorenz I;aggres­ sività ( 1 966) affrontano gli aspetti etologici nel dibattito sulla distrutti­ vità umana. li lavoro di John Gunn Violence in the Human Society (1973) fornisce una chiara ricerca sull'argomento in tutta la sua com­ plessità. Io spero di dimostrare qui, attraverso esempi tratti dalla letteratura, quali siano i possibili meccanismi e le pressioni all'opera nella mente di coloro che, come me, si sono assunti il compito di illustrare la natura della violenza umana. Benché sia importante poter comprendere i fat­ tori sociali e personali che possono entrare in causa nel dibattito della letteratura su questa tematica, è anche importante rilevare che le prove date dai vari autori nel campo della biologia, dell'etologia (cioè lo stu­ dio del comportamento animale) , dell'antropologia e della sociologia saranno debitamente affrontate e discusse più avanti in questo libro. Ora vogliamo dedicarci ai contesti individuali e sociali nei quali sono state elaborate, presentate e recepite le opinioni sulla violenza dell'uo­ mo. Nessuno studio scientifico può permettersi di ignorare il contesto psicosociale dal quale esso deriva. Un dato comune quando si esamina la letteratura sulla violenza umana è la confusione che sembra esistere tra le parole che si riferisco­ no all'aggressività e quelle che si riferiscono a concetti come violenza o crudeltà. Molti autori scivolano da un termine all'altro senza tentare di defi­ nirli o di evidenziarne la differenza. Ho già affrontato questo argomen­ to nell'Introduzione e voglio ora brevemente riesaminare le implicazio­ ni di questa confusione. Nel suo libro Le basi biologiche del comporta­ mento sociale umano Robert Hinde spiega esaurientemente come, pur scrivendo sul comportamento animale, debba discutere i giudizi di va­ lore prevalenti sull'aggressività umana, a causa degli argomenti sbaglia­ ti usati in questo contesto. Egli sottolinea che accettarli acriticamente è molto pericoloso. Dopo aver definito l'aggressività come il comportamento diretto a provocare un danno fisico a un altro individuo, egli scrive: È indubbio, naturalmente, che il comportamento aggressivo è stato selezionato come caratteristica adattativa nella grande maggioranza del­ le specie di animali superiori e che gli individui che lo presentano in mi­ sura ragionevole hanno una probabilità di soprawivere e di lasciare una progenie che è superiore a quella degli individui che non lo presentano. Ma si tratta di una questione del tutto diversa dall'ipotesi che l'aggressi-

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Dal dolore alla violenza

vità nell'uomo possa essere una caratteristica vantaggiosa per la società umana. Non occorre sottolineare che l'aggressività può essere un vizio, ma bisogna occuparsi dei mezzi per ridurla. Si sostiene talvolta che non sappiamo quali ripercussioni una riduzione dell'aggressività individuale possa avere sulla struttura della personalità umana, ma sembra impro­ babile che una minore tendenza a danneggiare gli altri possa avere effet­ ti deleteri. Comunque, data l'urgenza della situazione attuale, si è giusti­ ficati a posporre questo tema. ( 1974, p. 248)

Questa citazione illustra con chiarezza alcune delle difficoltà che qualsiasi studioso trova nel tentare di affrontare questo argomento. L'autore si basa sulla definizione biologica di aggressività di cui, natu­ ralmente, evidenzia l'importante funzione adattativa nelle specie su­ periori. Tuttavia, per quanto riguarda l'uomo egli ridefinisce l'aggressi­ vità come un "vizio" , e nel farlo dà su una particolare forma di aggressi­ vità umana un giudizio di valore simile a quelli dati nel definire la vio­ lenza, ai quali ci si riferiva nell'Introduzione. Ciò accade perché la pa­ rola "aggressività" comprende tutti i tipi di comportamento, dai litigi dei bambini piccoli alle torture sadiche dei prigionieri politici. Come conclude Hinde, le basi del comportamento umano assomigliano per molti aspetti a quelle del comportamento aggressivo negli animali, ma il linguaggio e il livello di funzionamento cognitivo nell'uomo introdu­ cono dimensioni di complessità nuove che si stanno solo ora iniziando ad affrontare e che saranno al centro dell'attenzione in questo lavoro. È necessario differenziare le varie forme di comportamento aggres : sivo negli esseri umani. Autori come Durbin e Bowlby (193 9) defini­ scono come aggressività "semplice" il comportamento comune sia agli animali che all'uomo, e aggressività "trasformata" i sentimenti aggres­ sivi rimossi e convertiti che sono così specifici dell'umanità. Si può ipo­ tizzare che quando il signor Brown tormentò e uccise sua figlia (vedi capitolo I) sia avvenuta una trasformazione dell'una nell'altra. Per ora basti dire che " aggressività trasformata" è quanto qui viene descritto come violenza. Essa può assumere varie forme, come "odio" , che è una miscela di aggressione e vendetta, o "crudeltà" , che si riferi­ sce al piacere o all'indifferenza che possiamo sentire nei confronti del dolore di qualcuno. "Tortura" e "persecuzione" , cioè il procurare vo­ lutamente dolore a un altro, sono alcuni dei suoi modi di presentarsi. Gli esseri umani hanno studiato infiniti modi, alcuni più ovvi di altri, di farsi male a vicenda. Tutte queste forme di comportamento interpersonale possono esse­ . re designate come forme di violenza, la quale, ricordiamo, è secondo 48

Aggressività e violenza

l'Ox/ord English Dictionary un "comportamento tendente a causare dolore fisico o a interferire forzatamente con la libertà personale" . Questa definizione implica il concetto che gli esseri umani abbiano il diritto a un certo grado di libertà, che è un'idea, propria della nostra specie, che deriva dalla capacità di pensare e di parlare, ed è perciò le­ gata all'ambiente culturale. Lo psicoanalista (Ì>atrick Gallway evidenziò questo concetto nel parlare della violenza umana: "Essa è definita non tanto dal comportamento quanto dal significato" (comunicazione per­ sonale, aprile 1984) . Lo studio della violenza umana non può perciò prescindere dallo studio del significato attribuito sia dalla vittima sia dal perpetratore al comportamento distruttivo, anche se questo impor­ tante aspetto viene fin troppo spesso ignorato. Il dibattito moderno su questa tematica ha preso il via dalle scoperte di Darwin sulla natura dell'evoluzione tramite la selezione naturale. Il darwinismo sociale è nato dalle sue idee; esso estende il concetto di "lotta" in natura alla "lotta" nelle piazze. La "legge della competizio­ ne" , termine usato da Darwin per descrivere la rivalità tra gli uccelli e tra i mammiferi maschi per le femmine, fu usato per giustificare la com­ petitività libera e senza regole della Rivoluzione industriale. La società fu vista come il prodotto di una violenta lotta tra maschi competitivi. Concetti come la "lotta della natura " , o la "sopravvivenza del più dota­ to" permisero al vincitore di giustificare le battaglie altamente compe­ titive della Rivoluzione industriale e quanto ne derivò in termini di di­ visione di classi, povertà e sfruttamento. Leggendo il libro di Darwin I.:origine dell'uomo è interessante nota­ re che nell'indice non ci sono riferimenti all'aggressività umana, alla violenza o alla guerra, mentre ve ne sono molti agli "istinti sociali" del­ l'umanità, che, come vedremo più avanti, comprendono "l'amore e la distinta emozione della simpatia" ( 1 87 1 , p. 57 1 ) . La letteratura sulla violenza dell'uomo raramente riporta l'enfasi di Darwin sull'importanza degli istinti sociali e sul ruolo dell'allevamento nel loro sviluppo. Questa "cecità" indotta culturalmente riflette proba­ bilmente l'attuale bisogno di sottolineare la crudeltà dell'uomo a disca­ pito di ciò che Darwin chiama la sua "abilità sociale" . Nel dibattito sul­ la violenza umana, la questione se essa sia o meno innata, se derivi da un istinto come la "pulsione di morte" di Freud, o se sia il risultato di pressioni esterne o una combinazione di entrambi, è centrale. Nel campo dell'etologia sono essenzialmente i seguaci di Konrad Lorenz (1966) a credere che la violenza umana sia innata. Poiché Lo­ renz è un etologo di notevole fama, le sue opinioni sull'aggressività

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Dal dolore alla violenza

umana sono ancora accettate da molti come verità scientifiche. Egli la considera come un istinto che aiuta ad assicurare la sopravvivenza sia dell'individuo sia della specie. Tuttavia nell'uomo questo stesso istinto diventa distruttivo perché l'evoluzione culturale ha, per così dire, supe­ rato l'evoluzione biologica. Il rapido sviluppo tecnologico, in particola­ re nel campo degli armamenti, ha dato all'uomo un potere di distruzio­ ne che non è più tenuto a freno dalle appropriate inibizioni. Perciò il nostro futuro dipende da come riusciamo a incanalare le pulsioni ag­ gressive. È interessante che Lorenz giunga alla conclusione che la teo­ ria freudiana sulla motivazione riveli corrispondenze inaspettate tra i dati della psicoanalisi e la psicologia comportamentista. Egli prosegue con l'equiparare i suoi istinti aggressivi alla "pulsione di morte" di Freud (Lorenz, 1 966). Le opinioni di Lorenz sono state accolte da un gruppo di scienziati e scrittori popolari come Robert Ardrey e Desmond Morris. Il loro ap­ proccio al tema della violenza umana è interessante perché è così radi­ cale. Robert Ardrey era un seguace di Raymond Dart, un professore di anatomia esperto di Australopithecus a/ricanus. Le opinioni di Dart sul­ le origini dell'uomo vengono spesso citate: Gli archivi della storia umana, che grondano sangue e sembrano sventramenti da macello, dai primi documenti degli Egizi e dei Sumeri fino alle più recenti atrocità della Seconda guerra mondiale, concorrono con il primo universale cannibalismo, con le pratiche di sacrifici umani o i loro equivalenti nelle religioni formalizzate e con le diffuse pratiche di togliere lo scalpo, tagliare le teste, mutilare il corpo e di necrofilia, a definire questo comune differenziatore assetato di sangue, questa abitu­ dine predatoria, questo tratto di Caino che distingue dal punto dietetico l'uomo dai suoi cugini antropomorfi e lo rende simile piuttosto alla più mortale delle Carnivora. ( 1 954 , pp. 207 -208)

Coloro che credono nella violenza innata dell'uomo tendono a deridere chi non condivide il loro punto di vista. Howard Evans, un professore americano di zoologia conclude: " Se l'uomo è fondamen­ talmente aggressivo allora il continuo riempirsi la bocca di luoghi comuni sull'amore fraterno non è di alcuna utilità" ( 1 966, pp. 107-' 108). Questo è un chiaro esempio di cosa Suttie intendesse per "tabù della tenerezza" . Lionel Tiger assume una posizione simile sulla violenza umana: nel suo libro Men in Groups ( 1 984) vede la solidarietà maschile come il principale strumento di organizzazione dell'aggressività e della violen50

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za: "Tipicamente, la mascolinità comprende coraggio fisico, velocità, uso di forza violenta [ ... ] " ( 1 984, p. 182). Egli ritiene che queste caratteri­ stiche riflettano una predisposizione ereditaria geneticamente program­ mata tramandata dall'epoca in cui gli uomini dovevano cacciare per so­ pravvivere. Le sue conclusioni riflettono in gran parte il punto di vista di tutti coloro che credono che l'umanità sia distruttiva per natura, ossia che ci sono poche speranze di cambiamento perché, come egli dice: Se l'aggressività è profondamente connessa con la sessualità - che è importante per gli individui, ed è anche connessa con i gruppi sociali ­ di cui quasi ognuno di noi ha bisogno e che ci piace, allora occuparsi con saggezza di essa e della potenziale violenza è molto difficile. Sareb­ be bene che ciò fosse compreso fino in fondo. ( 1 984, p. 1 93 )

Ovviamente l'autore si riferisce agli uomini e non alle donne, e que­ stO' evidenzia un'altra caratteristica di coloro che credono nelle origini innate della violenza umana: essi sono uomini che tendono a considera­ re le donne diverse per quanto riguarda i loro "processi mentali" . Per Tiger le donne non possono partecipare efficacemente alle attività di gruppo maschili e quindi alle funzioni politiche ed economiche della società. Benché questo atteggiamento possa sembrare frutto di pregiu­ dizi, esso è molto diffuso tra quegli scrittori che credono che la violenza umana sia innata. La ricerca delle radici profonde del comportamento violento ha prodotto un'altra scuola di pensiero chiamata "paleopsicologia uma­ na", resa nota dal lavoro di Paul MacLean ( 1 987) . Egli descrive il cer­ vello " come una gerarchia di tre cervelli-in-uno" e addebita la "brama di potere" al nostro primitivo cervello rettile. Questa parte del nostro cervello gioca un ruolo fondamentale nelle funzioni determinate dall'i­ stinto, come fissare un territorio, trovare rifugio, cacciare, tornare a ca­ sa, accoppiarsi, riprodursi, formare gerarchie sociali, scegliere leader e così via. L'altruismo e l'empatia sono considerati forme di comporta­ mento acquisite più recentemente. In questo modo la violenza viene at­ tribuita all'espressione regressiva del nostro cervello rettile. Hitler e Stalin sono visti come "super- rettili" che hanno calpestato milioni di vittime innocenti. Alcuni credono che questa regressione filogenetica porti in superficie il "cacciatore-raccoglitore" originario che è in noi, altrimenti definito "uomo- rettile" . Siamo tutti "cacciatori- raccoglitori" di natura, poiché il 99% della nostra evoluzione ha avuto luogo duran­ te quel periodo di evoluzione. Questa teoria implica che atti violenti come lo stupro e la propaganda nazista trovino spiegazioni come esem51

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pi di questa regressione filogenetica; questa è la situazione attuale del mondo: pronto per la propria distruzione. Benché i paleopsicologi ammettano la capacità dell'uomo di pro­ durre razionalizzazioni e giustificazioni sofisticate per qualsiasi sorta di atti disumani si possa immaginare, non considerano la possibilità che ciò sia quanto essi stessi fanno. Avendo affermato che provocazioni e minacce ci obbligano a regredire ad alcuni aspetti del nostro funziona­ mento cerebrale primitivo, il messaggio che ne deriva suggerisce anco­ ra che ci sia poca speranza di cambiamento, poiché la nostra esistenza è, in definitiva, colma di tali esperienze. Anche gli psicoanalisti hanno contribuito al dibattito sulla natura ereditaria della nostra distruttività. Storr è tra quelli che utilizzano la propria esperienza professionale per rinforzare le opinioni di scrittori popolari e scienziati come Robert Ardrey e Desmond Morris. Tuttavia, benché concordi con loro che l'aggressività umana sia innata, quando deve affrontare la spiegazione della crudeltà gratuita sembra avere me­ no certezze. Egli fa notare che la tendenza dell'uomo a essere crudele è radicata nelle sue peculiarità biologiche, che sono la prolungata dipen­ denza e impotenza del bambino e l'abilità intellettiva di proiettare sugli altri i sentimenti indesiderati. Egli conclude: Non v'è dubbio che la conoscenza sempre più approfondita dei bi­ sogni dei bambini determinerà, col tempo, un'attenzione sempre mag­ giore sui modi di soddisfare tali bisogni e quindi una certa riduzione dell'ostilità. Quest'ultima, infatti, sebbene si manifesti in età adulta, de­ riva però da privazioni subite in fanciullezza. ( 1 968, p. 139)

Tuttavia, nonostante riconosca l'importanza della deprivazione per la comprensione della violenza umana, Storr rimane fedele alla teoria istintuale della distruttività umana. Come Tiger e Darwin prima di lui (187 1 , p. 526) , Storr vede le don­ ne come inferiori all'uomo e collega questa superiorità dell'uomo al­ l' aggressività dei maschi. " [. . .] l'indubbia superiorità del maschio nelle imprese intellettuali e creative è da ricollegarsi a una più cospicua dota­ zione di aggressività" ( 1 968, p. 84) . Non stupisce che !'"aggressività" debba essere conservata, se è il nucleo dell'essere "maschio" . Questa associazione è illuminante, poiché mostra come, secondo Storr e molti altri uomini che la pensano come lui, la superiorità sociale maschile sia giustificata da differenze di aggressività innate tra i sessi. Credere in questo genere di associazioni significa giustificare l'attuale supremazia sociale degli uomini. Se si prova che il collegamento tra l'aggressività 52

Aggressività e violenza

del maschio e la sua superiorità è falso, allora questi autori e i loro se­ guaci devono trovare altre ragioni per spiegare perché le donne non ab­ biano lo stesso status socio-economico degli uomini. Questo bisogno di considerare le donne come esseri inferiori è spes­ so accompagnato dalla convinzione che sia importante che allo stesso modo altri esseri umani " diversi" siano visti come "meno umani" . Per esempio, Storr sostiene che i membri delle casta dei paria, come gli in­ toccabili dell'India, svolgano l'importante funzione di scaricare le ten­ sioni aggressive nelle comunità umane ( 1 968) . Gli ultimi teorici che sostengono l'opinione che la nostra violenza sia innata sono i sociobiologi americani, le cui premesse e conclusioni sono molto simili a quelle che abbiamo fin qui menzionato. Uno dei lo­ ro principali autori, Edward Wilson, definisce la sua specialità come "lo studio scientifico delle basi biologiche di tutte le forme di compor­ tamento sociale in tutti i tipi di organismi, uomo compreso" ( 1 978, p. 149). Nel suo libro Sulla natura umana ( 1 978), egli esamina l'impatto che una spiegazione veramente evoluzionistica deve avere sulle scienze umane e sociali. Egli ammette in effetti nella sua introduzione che po­ trebbe facilmente sbagliare poiché il suo libro è essenzialmente "un saggio speculativo" ( 1 978, p. 2 ) . Tuttavia non è altrettanto modesto nei successivi capitoli, e i suoi seguaci spesso citano questo "saggio specu­ lativo" , soprattutto per quanto riguarda il campo della distruttività del­ l'uomo come se si trattasse di verità definitiva. Wilson ha una formula efficace per presentare i suoi argomenti: per prima cosa definisce il tema, spesso in modo molto semplicistico, poi fornisce prove etologiche e antropologiche a sostegno del suo partico­ lare punto di vista. Avendo mostrato quanto sia diffuso il fenomeno in questione, inferisce che ciò possa essere spiegato dal fatto che "la sele­ zione naturale ha probabilmente operato per migliaia di generazioni secondo questi indirizzi [. .. ] . Volendo esprimere questa idea nella sua forma più semplice, si può trascurare temporaneamente, pur ricono­ scendone l'esistenza, il processo intermedio dello sviluppo e affermare che gli esseri umani sono guidati da un istinto basato sui geni" ( 1 97 8, p. 30; corsivo mio). Così quando giunge a considerare l'aggressività stessa, Wilson espri­ me molto chiaramente le proprie convinzioni. Egli inizia il capitolo do­ mandandosi se siamo realmente "aggressivi in modo innato" . La sua ri­ sposta è semplicemente "sì " . Quando si confronta con il fatto che esi­ stano alcune società che sembrano essere molto pacifiche, Wilson scri­ ve: [ . . .] il termine innato [. . .] si riferisce alla probabilità misurabile "

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Dal dolore alla violenza

che [un carattere] si sviluppi in un determinato insieme di ambienti e non alla certezza che lo stesso carattere si sviluppi in tutti gli ambienti. Secondo questo criterio, gli esseri umani hanno una notevole predispo­ sizione ereditaria al comportamento aggressivo" (1978, p. 7 1 ) . Resta un mistero come misuri questa probabilità. Tuttavia ammette che le forme di comportamento aggressivo umano abbiano caratteristiche che le distinguono dall'aggressività di tutte le altre specie. Prosegue sostituendo il modello della scarica delle pulsio­ ni di Lorenz con quello che riferisce come una spiegazione più raffinata, basata sull'interazione tra potenziale genetico e apprendimento (1978, p. 75) . Wilson sostiene che, da un lato, le forme più pericolose di com­ portamento aggressivo, come le azioni militari e gli assalti criminali, so­ no apprese, ma dall'altro ritiene che in certe condizioni abbiamo la ten­ denza a scivolare nella violenza profonda e irrazionale: Le forme particolari di violenza organizzata non sono ereditarie. Nessun gene differenzia l'impiego della tortura alla gogna dalla tortura dell'impalamento e del rogo, la caccia di teste dal cannibalismo, il duel­ lo tra due campioni dal genocidio. Esiste invece una predisposizione in­ nata a costruire l'apparato culturale dell'aggressione, in una maniera che separa la mente cosciente dai processi biologici grezzi codificati dai geni. La cultura conferisce una forma particolare all'aggressione [. . ] . ( 1 978, p . 81) .

Gli aspetti irrazionali del comportamento umano sono caratteristi­ camente attribuiti alla genetica di questi "processi biologici grezzi" , mentre è negata l a possibilità che meccanismi di difesa psicologici in­ consci possano avere un importante ruolo da giocare. Wilson rifiuta qualsiasi idea che l'aggressività umana possa essere il sintomo patologi­ co del fatto di essere cresciuto in un ambiente abusante o deprivante. Invece scrive: n nostro cervello sembra in realtà programmato fino a questo punto: siamo inclini a suddividere il nostro prossimo in amici ed estranei, nello stesso senso in cui gli uccelli sono inclini ad apprendere i canti territo­ riali [. . .] tendiamo a temere profondamente l'operato di chi non cono­ sciamo e a risolvere i conflitti con l'aggressione. È molto probabile che­ queste regole di apprendimento si siano evolute durante le trascorse centinaia di migliaia di anni dell'evoluzione umana e che, pertanto, ab­ biano conferito un vantaggio biologico a coloro che si sono adeguati a esse nella maniera più ideale. ( 1 978, pp. 84-85)

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Aggressività e violenza

In realtà nessuna di queste cosiddette regole è risultata essere eredi­ taria, come vedremo nella rassegna sullo sviluppo del comportamento di attaccamento. Sappiamo però che nella teorizzazione di Wilson que­ sta tendenza a dividere le persone in "loro" e "noi" è di fondamentale importanza. Wilson crede che l'uomo sia programmato in modo innato per vedere l"' altro" come diverso, tratto che attribuisce a: un impellente bisogno di dicotomizzare, di classificare gli altri esseri umani in due categorie artificialmente distinte. Sembra che ci troviamo completamente a nostro agio soltanto quando il resto dell'umanità può essere etichettato: membri rispetto a non membri, consanguinei rispetto a non consanguinei, amici rispetto a nemici. ( 1 978, pp. 50-5 1 )

Sono negati i fattori psicologici e culturali implicati in questo pro­ cesso, e si pongono così le fondamenta per ritenere che l'oppressione umana, lo sfruttamento e l'abuso abbiano basi biologiche. Senza nessu­ na prova scientifica a sostegno di questa supposizione, Wilson presenta le sue osservazioni come dati scientifici. Questo approccio e le premes­ se che ne sono all ' origine emergono con chiarezza quando egli affronta lo studio del fenomeno dell'infanticidio femminile. Wilson evidenzia che in India e nella Cina prerivoluzionaria l'infan­ ticidio femminile era comunemente praticato in molte classi sociali, con l'effetto di promuovere: un'elevazione sociale di donne che portavano una dote, realizzandosi in tal modo una concentrazione sia di ricchezze sia di donne nelle mani di una ristretta classe media superiore, mentre i maschi più poveri erano quasi esclusi da questo sistema riproduttivo. Rimane da verificare se questo modello sia diffuso nelle culture umane. ( 1 978, p. 3 1 )

Se è così, allora l'infanticidio e l'"ipergamia" femminile (definita co­ me la pratica femminile di sposare uomini di uguale o maggiore ric­ chezza) che, come dice, non sono processi razionali, possono essere meglio spiegati come "predisposizione ereditaria per massimizzare il numero dei discendenti nella competizione con altri membri della so­ cietà" ( 1 978, p. 3 1 ). Prima di considerare le implicazioni di queste conclusioni, è impor­ tante notare come Wilson presuma che se il comportamento è "sia irra­ zionale sia universale" , allora è più resistente agli effetti della depriva­ zione culturale, ed è anche meno verosimilmente influenzato dai centri superiori del cervello, e perciò funziona più probabilmente a livello de55

Dal dolore alla violenza

gli istinti attraverso il sistema limbico. Con una scelta intelligente e sot­ tile delle parole, l'autore collega !"'irrazionale" con l'"istintuale" . In questo modo evita di considerare la possibilità che nella mente umana operino processi culturali e inconsci e ignora tutte le rilevanti prove della ricerca nel campo della psicologia dello sviluppo che avrebbe a disposizione. Questo approccio consente a Wilson di trarre le proprie personali conclusioni sulle donne, viste come istintivamente portate all"'iperga­ mia". La pratica dell'infanticidio non è più un deplorevole esempio di violenza umana, ma piuttosto l'espressione di una predisposizione bio­ logica ereditaria che ha un senso in termini di evoluzione se combinata con l'ipergamia, poiché esclude gli uomini poveri e perciò "fallimenta­ ri" dal sistema di riproduzione. Come si è visto in precedenza, Wilson stesso ammette che le sue de­ duzioni non abbiano tenuta scientifica, poiché nel suo libro non spiega mai come una serie complessa di comportamenti e di percezioni sociali, come quelli coinvolti nell'ipergamia e nell'infanticidio selettivo, sia tra­ slata nei nostri geni, per non dire di come sia stata selezionata genetica­ mente. Tuttavia non è difficile vedere come conclusioni di questo tipo possa­ no essere usate per giustificare certe pratiche coercitive attuate da alcune società per mantenere il potere e la ricchezza nelle mani di pochi. Hitler utilizzò argomenti simili per giustificare la spietata ricerca della purezza della razza ariana, con il sostegno dell'opinione medica e scientifica del tempo. È interessante notare che Lorenz stesso contribuì a fornire al re­ gime nazista il supporto scientifico necessario ad attuare la sua politica di genocidio, rendendo legittima l'uccisione di milioni di persone: Konrad Lorenz, che era allora un ardente nazista e occupava una prestigiosa cattedra, poté attaccare quei camerati che si rifiutavano di accettare il pensiero di Darwin sull'evoluzione ribattendo che esso sa­ rebbe dovuto essere il cuore del credo nazista. Contemporaneamente egli utilizzò il proprio darwinismo per ampliare e legittimare la visione biomedica nazista e dichiarò che il progetto di pulizia etnica avrebbe ef­ fettivamente dovuto assumere il controllo del processo evoluzionistico, provocando "una più severa eliminazione degli esseri umani moralmen- , te inferiori" e "sostituendosi letteralmente" alle naturali forze di elimi­ nazione dei tempi preistorici. (Lifton, Markusen, 1990, p. 100)

Wilson inoltre usa le teorie evoluzionistiche di Darwin sulla soprav­ vivenza del più adatto per spiegare i fenomeni sociali: "Le società che 56

Aggressività e violenza

declinano per una tendenza genetica dei propri membri a produrre culture più deboli di quelle in competizione saranno sostituite da altre società più adeguatamente dotate" ( 1 978, p. 58) . Come la maggior parte di coloro che credono alla teoria istintuale della violenza umana, Wilson si concentra sull'individuo e non si ferma a considerare le teorie che accentuano l'importanza delle relazioni umane e della società. La psicologia degli individui formerà una parte essenziale di questa analisi. A parte le prevalenti tradizioni di tipo olistico di Durkheim in sociologia e di Radcliffe-Brown in antropologia, le culture non sono su­ perorganismi che si evolvono secondo una propria dinamica. Piuttosto, il mutamento culturale è il prodotto statistico di separate risposte com­ portamentali, di un gran numero di esseri umani, che affrontano, me­ glio che possono, l'esistenza sociale. ( 1 978, p. 57)

In poche righe Wilson liquida l'intero lavoro di coloro che sottoli­ neano l'importanza della società per l'individuo, con tutto ciò che ne deriva per la nostra comprensione dei fenomeni di gruppo e sociali. La signora Tatcher rifletteva un simile modo di pensare quando diceva: " Non esiste la società, esistono solo gli individui " . N el focalizzarsi sul­ l'individuo, i teorici possono così negare l'importanza dell"' altro", tranne che come oggetto per soddisfare i bisogni e le frustrazioni indi­ viduali. Come altri che credono nella supremazia degli istinti, i sociobiologi cercano di convalidare in modo scientifico le attuali disuguaglianze so­ ciali tra i sessi. Per esempio riferendosi alle strategie riproduttive nei due sessi, Wilson scrive: Rende ai maschi essere aggressivi, impetuosi, incostanti e non discri­ minanti. In teoria è più vantaggioso per le femmine essere riservate ed esitare finché non sono riuscite a identificare maschi con geni migliori. [. .. ] Gli esseri umani seguono questo principio biologico fedelmente. ( 1 978, p. 89)

Ancora una volta, come discusso da Tiger e Storr, l'aggressività ma­ schile fornisce le basi biologiche per il dominio maschile sulla donna e per la società governata da uomini. Così il sociobiologo R. Dawkins so­ stiene nel suo libro molto pubblicizzato Il gene egoista: "li sesso femmini­ le è sfruttato e il meccanismo evolutivo di base per cui ciò si verifica sta nel fatto che le uova sono più grandi degli spermatozoi" (1976, p. 124). 57

Dal dolore alla violenw

Questa conclusione sorprendentemente semplicistica deriva dall' os­ servazione biologica che, poiché ci sono meno cellule uovo che sperma disponibili per la fecondazione, la competizione tra maschi per le fem­ mine sia inevitabile. Come molti altri autori che credono nelle origini istintuali della vio­ lenza umana, i sociobiologi non solo vedono l"'altro" femmina come diverso, ma trovano anche prove genetiche che giustificano differenze tra le popolazioni umane. Il modo in cui Wilson si occupa di fornire questa prova è decisamente illuminante. Dopo essersi dichiarato d'ac­ cordo con la maggior parte degli scienziati che "è un esercizio futile de­ finire razze umane distinte" prosegue con il dire: "Quasi tutte le diffe­ renze tra le società umane si basano sull'apprendimento e sul condizio­ namento sociale, piuttosto che sull'eredità. Tuttavia, forse non si può generalizzare" ( 1 978, p. 37). Prosegue esaminando i risultati di certi studi selezionati sul comportamento e sul temperamento di bambini di diverse età di origini razziali miste, come cinesi-americani, caucasici­ americani, e indiani Navaho. Conclude, dopo due sole pagine di estra­ polazioni da dati molto limitati: "Dato che l'umanità è anch'essa una specie biologica, non dovrebbe colpire il fatto che si scopra l'esistenza di differenze genetiche di un certo grado tra le popolazioni nelle pro­ prietà fisiche e mentali che stanno alla base del comportamento socia­ le" ( 1 978, p. 38). Ciò che è straordinario è che Wilson non fa riferimen­ to a tutta l'enorme letteratura sullo sviluppo infantile che mostra chia­ ramente come le diverse pratiche di allevamento influenzino il compor­ tamento materno e quindi il comportamento infantile. (Questi studi sa­ ranno oggetto di un altro capitolo. ) Ancora una volta Wilson rinuncia a tutti gli standard scientifici per saltare a conclusioni che permettano a lui e a noi di attribuire differen­ ze biologiche ai nostri simili. Sanzionare scientificamente l'" altro" co­ me abbastanza diverso da avere differenze fisiche e comportamentali "innate" può essere utilizzato per giustificare discriminazioni razziali o sessuali, con tutto ciò che questo comporta. Usando male la sua auto­ rità di scienziato, Wilson fornisce ai politici e a coloro che ne rappre­ sentano gli interessi l'appoggio di cui hanno bisogno per sfruttare e abusare stranieri e immigrati. Come si è visto nella rassegna fatta finora, la controversia tra coloro che vedono l'uomo come malvagio o crudele di natura e coloro che considerano la violenza secondaria a qualche forma di deprivazione psicosociale o fisica, è viva oggigiorno come ai tempi di Agostino. Nella sua attenta rassegna The Nature o/Human Aggression, Ashley 58

Aggremvttà e violenza

Montagu attribuisce il fatto che consideriamo noi stessi come assassini alla dottrina del peccato originale ( 1 976). Egli crede, come Elaine Pa­ gels, che questa dottrina sia stata uno dei più potenti e influenti principi del credo ebreo e cristiano. Per illustrare ulteriormente questo concetto, utilizza l'esempio di Edward Glover, un tempo decano degli psicoanali­ sti inglesi, che descrive la natura del bambino nel seguente modo: Il bambino perfettamente normale è quasi completamente egocen­ trico, avido, sporco, violento di temperamento, distruttivo nelle abitu­ dini, profondamente sessuale nelle intenzioni, grandioso nelle attitudi­ ni, privo del più primitivo senso di realtà, senza coscienza di sentimenti morali. n suo atteggiamento verso la società, rappresentata dalla fami­ glia, è opportunistico, sconsiderato, dominante e sadico. In effetti, giu­ dicato secondo gli standard della società degli adulti, il bambino norma­ le è, a causa dei suoi intenti e propositi, un criminale nato. (Glover, 1 960, p. 8)

Sembra quasi incredibile che uno psicoanalista moderno possa per­ cepire il bambino in questo modo. Certo, ci si domanda da dove venga­ no mai sentimenti simili! Storr appartiene a coloro che credono che siamo violenti per natura: "In fondo al cuore sappiamo che ognuno di noi alberga in sé quei me­ desimi impulsi che ci ripugnano, gli impulsi che spingono all'omicidio, alla tortura, alla guerra" (1968, p. 1 1 ). Devono chiaramente esserci prove molto convincenti per sfidare opinioni sostenute così fermamente, poiché, come dice Montagu, i due modi opposti di vedere la violenza rappresentano "non solo due modi di guardare gli esseri umani - che è già di per sé importante - ma anche due modi di essere umani. E ciò ha conseguenze per noi come indivi­ dui, come società, e come sopravvissuti" (1976, p. 1 1 ). A questo punto possiamo considerare insieme a Montagu quanti pochi siano stati i richiami all"'abilità sociale" dell'uomo, nonostante l'interesse di Darwin per questa forma di comportamento sociale. La ragione di ciò è resa chiara ancora da Storr quando dice che " [. .. ] gli uomini imparano a collaborare e a comunicare perché, altrimenti, correrebbero il rischio di un reciproco annientamento" ( 1 968, p. 50). Sembra esserci poco interesse per la cooperazione in coloro che ritengono che siamo originariamente violenti. Questo bisogno di negare l'importanza l'uno per l'altro degli esseri umani è caratteristico di colo­ ro che credono nella natura istintuale della distruttività umana ed enfa­ tizzano quindi l'individualità dell'uomo. L'"altro" è visto solo come un 59

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Dal dolore alla violenza

contenitore dei nostri vari bisogni innati. La cosa forse più interessante di questo particolare modo di considerare l'umanità è il concomitan­ te bisogno di minimizzare l'impatto della perdita, del trauma e della morte. Ciò che stiamo descrivendo è infatti una Gestalt, un modo di per­ cepire e di pensare la nostra specie e le nostre interazioni; essa incor­ pora una costellazione di caratteristiche e di idee, ma il suo assunto ba­ silare è la convinzione che siamo istintivamente o per natura violenti e "cattivi". Credere nella nostra innata distruttività e nella nostra "mal­ vagità" ci permette di negare l'importanza delle premure e dell'affetto che non abbiamo avuto. Come il "bambino cattivo" di Fairbairn, uti­ lizziamo le nostre " difese morali" , sancite culturalmente, per dare senso alle nostre brutte esperienze. Per chi non ottiene reali gratifica­ zioni dalle relazioni con gli altri e sperimenta perdita e morte come veri e propri attacchi alla propria integrità, credere che la violenza sia innata dà senso alla " cattiveria" del mondo. Dà anche senso al biso­ gno di vedere l"'altro" come meno umano, e facilita la manifestazione della violenza sui bambini, sulle mogli e sugli altri uomini, in modo particolare su coloro che percepiamo come "diversi" a causa del colo­ re della pelle o delle usanze. La negazione del nostro "essere sociali" e dell'importanza degli altri per il nostro benessere minimizza l'impor­ tanza della perdita, della deprivazione e del trauma sia per se stessi che per gli altri. Il modo opposto di comprendere il nostro comportamento è rico­ noscere che siamo essenzialmente animali sociali con un enorme biso­ gno dell'"altro", sia perché ci dà ciò di cui abbiamo bisogno, sia perché convalida la nostra esistenza personale. Questo implica riconoscere l'impatto della perdita, del trauma psicologico e della morte. Le rela­ zioni sostituiscono gli istinti e, di conseguenza, dobbiamo accettare che siamo così vulnerabili a causa della nostra dipendenza dall"' altro" e da­ gli " eventi vitali" . La capacità di formare relazioni di accudimento e di sentire il dolore della perdita e di soffrire senza sentirsi distrutti non è scontata per tutti, e forse lo è ancora meno in una cultura concentrata sull'individuo, sulla sua gratificazione materiale e sulla negazione della perdita e della mor­ te. Ciò può spiegare il bisogno di aggrapparsi alla "pulsione di morte"' o a una teoria genetica della violenza, nonostante un modello simile sia molto fuorviante (Binde, 1 974, p. 249) . Jeffrey Goldstein attacca fermamente la convinzione che siamo in­ trinsecamente violenti, ma ritiene anche che questa convinzione contri60

Aggressività e violenza

buisca in effetti a mantenere le condizioni che portano alla violenza. Come egli ci ricorda, siamo l'unica specie capace di essere aggressiva a causa delle opinioni che esprime ( 1 989, p. 19). Quando si vogliono capire le origini della violenza bisogna chiara­ mente abbandonare un modello di causalità lineare (Bateson, 1 989, p. 45) . Per spiegare come possano accadere aggressioni o guerre è ne­ cessario un approccio mtÙtidimensionale che sottolinei il gioco reci­ proco tra individui in via di sviluppo (con la propria eredità genetica) e il loro ambiente. Nessuna moderna teoria biologica, sociobiologia compresa, può ignorare il fatto che le forme di pattern comportamen­ tale che si sviluppano in un individuo e la frequenza con cui si manife­ stano dipendono pesantemente da condizioni esterne. Ciò è chiaramente dimostrato da esperimenti di stimolazione dell'a­ migdala, il centro neurologico che è implicato nel comportamento di attacco osservato nei mammiferi. Si è trovato che la stimolazione di questa parte del cervello suscita il comportamento di attacco se è pre­ sente un oggetto "sicuro". Per esempio, una scimmia rhesus non attac­ cherà una scimmia superiore e nemmeno W1a inferiore se è presente un'altra scimmia dominante. L'animale valuta la situazione e risponde con il comportamento appropriato. }osé Delgado nota che mentre l'ag­ gressione e la violenza sono pattern di risposte che sono correlate a spe­ cifiche aree cerebrali, la loro espressione dipende in effetti da input sensoriali e da precedenti esperienze ( 1 97 1 , pp. 27 -35 ) . Ciò è di impor­ tanza cruciale per la comprensione sia del comportamento affiliativo sia di quello violento: sottolinea le complesse interazioni biologiche e ambientali che sono implicate nel comportamento sociale dei primati; negli umani queste interazioni sono ancora più complesse, poiché com­ prendono anche l'ambiente culturale. Perciò siamo d'accordo con Groe­ bel e Hinde quando concludono: "L'abolizione della violenza e della guerra richiede una sistematica analisi delle loro cause, una falsificazio- ! ne dei miti che le circondano e soprattutto una efficiente ricerca di al­ ternative non-violente per la soluzione dei conflitti" ( 1 989, p. 228) . Nello studiare i differenti autori che credono in una teoria istintuale della violenza umana abbiamo trovato che essi tendono a condividere alcuni assunti basilari sulla natura umana e sulla società. Il primo è la convinzione che il comportamento aggressivo possa essere in gran par­ te attribuito a predisposizioni ereditate e che ciò sia importante soprat­ tutto per il sesso maschile. Il secondo è l'idea che il "bisogno dell'altro" dell'individuo sia fondamentalmente materialistico e che se l"' altro" è una donna o uno straniero, o entrambi, allora è geneticamente pro61

Dal dolore alla violenza

grarnmato per comportarsi in modo diverso dal maschio bianco. Gli inevitabili esiti di queste forze di "selezione naturale" sono disugua­ ,glianza sessuale, razzismo e violenza. È interessante notare come le conclusioni sociali di Darwin siano utili tanto oggigiorno quanto all'epoca della Rivoluzione industriale: sono tuttora utilizzate per giustificare lo status quo corrente, con le sue ineguaglianze sociali e l'inevitabile sfruttamento. Benché ciò non signi­ fichi che i presupposti alla base delle teorie di Darwin siano corretti per quanto riguarda l'assicurarci la soprawivenza futura, ciò che affronta­ no chiaramente è il nostro bisogno di presumere che ciò che stiamo fa­ cendo sia nel migliore dei casi giustificato o, nel peggiore, inevitabile. In particolare per alcuni uomini, come Lorenz, Storr, Tiger e Wil­ son, sembra esserci un bisogno reale di credere che la natura umana sia distruttiva in modo innato, anche se ciò significa non tenere conto dei normali criteri scientifici. Il loro awertimento è chiaro: manomettere la nostra aggressione-con-violenza non solo è estremamente difficile, ma potrebbe anche essere pericoloso per il genere umano. Inoltre la mag­ gior parte di questi uomini nega l'esistenza o l'importanza dell' attribu­ zione di significato e dei processi inconsci nell'eziologia della violenza umana, che è relegata in modo semplicistico a una serie di manifesta­ zioni comportamentali innate. Owiamente non si può dire altrettanto di Freud e del suo straordi­ nario studio della psiche umana. Tuttavia ciò che si scopre nel rivedere il suo lavoro in modo più dettagliato è che, scegliendo di restare anco­ rato alla teoria degli istinti, egli ha dovuto escludere la possibilità di os­ servazioni psicologiche sul bisogno che l'uomo ha dell"'altro". Egli condivide con chi crede nella teoria pulsionale della violenza l' opinio­ ne che lo scopo di ogni uomo sia la propria personale gratificazione; l'"altro" serve o a soddisfare o a frustrare i nostri bisogni: non abbiamo bisogno di lui per dare senso alla nostra esistenza, per non parlare di ri­ cevere conforto, supporto o affetto. In questo modo Freud ha anche potuto negare l'importanza del trauma e dell'abuso nella genesi del comportamento crudele e autodistruttiva. Analogamente, se l' aggressi­ vità è "innata" , allora, come il peccato originale, essa rimane in noi, e non ci si può fare molto, né individualmente né socialmente. Sia Freud sia i suoi allievi mantengono lo status quo. Il fatto che si sia continuato ad aderire alla teoria pulsionale della violenza ha comportato che una grande quantità dell'attuale ricerca sullo sviluppo umano è stata ignorata, particolarmente nel campo della teoria dell'attaccamento. Nel libro di Wilson Sociobiologia, pubblicato 62

Aggressività e violenw

nel 1 975, non c'è alcun riferimento a Bowih}ìx> alla teoria dell'attacca­ Quest'ultima è menzionata solo br�vemem;;--q-�;ndo\xril;on ·-mento. scrive Sulla natura umana nel 1 97 8. Ciò sorprende molto, poiché la teb -i ria dell'attaccamento è in un certo senso la manifestazione istintuale del comportamento di affiliazione ed è perciò di cruciale importania per ogni seria analisi delle origini genetiche del comportamento aggre�-, ' sivo. Ma può essere proprio il fatto che ci sia una predisposizione gene,tica a formare legami di attaccamento che rende questa teoria così sgraY, devole a chi crede nella nostra intrinseca distruttività. n bisogno di negare le capacità sociali intrinseche è, evidentemente, molto radicato, ma questo atteggiamento va cambiato, se si vuole che le nuove scoperte nel campo dello sviluppo infantile e del trauma psicologi­ co siano seriamente prese in considerazione. Inizia a emergere che queste scoperte possono essere integrate nel modo più utile all'interno di uno schema di comprensione psicoanalitico. Ciò diverrà più chiaro quando considereremo come la teoria dell'attaccamento e la psicologia del Sé ci abbiano fornito chiavi di lettura della violenza umana. Questo è potuto avvenire perché sempre più persone con training psicoanalitico hanno ri­ visto le premesse teoriche di Freud e le hanno adattate alle attuali scoper­ te sullo sviluppo umano, che enfatizzano il bisogno dell'" altro" .

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IV

DALLA SINTONIZZAZIONE ALL'ATTACCAMENTO IL TRAUMA DELLA PERDITA

Quando moriremo non cercare la nostra tomba nella terra: trovala nel cuore degli uomini. Jalaludin Rumi

LE ORIGINI DELLA TEORIA DELL'ATTACCAMENTO

Finché si crede nella "pulsione di morte" non si ha bisogno di af-' frontare realmente l'esistenza dell'aggressività indotta dal trauma o dal dolore. Credere in una forma di distruttività "innata" e autoge­ nerata rende possibile chiudere gli occhi di fronte agli eventuali lega­ mi tra l'esperienza del dolore e l'espressione della violenza. Fino a quando questa connessione potrà essere " scientificamente" ignora­ ta, coloro che aderiscono alla teoria che ci sia un collegamento tra trauma e aggressività potranno essere liquidati come idealisti fuor­ viati. Ma non si può continuare a ignorare che il trauma, come guerre o disastri, possa suscitare, come in effetti avviene, forme di comporta­ mento violento (nella seconda parte del libro ci si occuperà proprio delle prove di quanto appena affermato). Allo stesso modo la sempre più ricca letteratura sull'abuso all'infanzia mostra come gli esseri uma­ ni da bambini siano vulnerabili a tutte le forme di abuso fisico e psico­ logico; gli abusati non solo riempiono gli ospedali, ma molto spesso di­ ventano vittime della propria violenza e talvolta diventano essi stessi abusanti. Tuttavia, nemmeno questi dati hanno convinto coloro che credono che la violenza sia innata nell'umanità che ci siano connessioni tra dolo65

Dal dolore alla violenlJ1

re e violenza. Alcuni sociobiologi vorrebbero ascrivere l'abuso dei bambini all'ereditarietà e alla selezione naturale piuttosto che alle rea­ zioni psicologiche e biologiche alle esperienze traumatiche. Alcuni psi­ coanalisti continuano ad attribuire la distruttività dei loro pazienti alla messa in scena delle loro fantasie sadiche o seduttive. In questo modo si scarta facilmente la realtà dell'esperienza di abuso o di dolore di que­ sti pazienti e, come vedremo più avanti, spesso l'abuso viene ricreato nella stanza di consultazione proprio da questa esclusione. Il bisogno di percepirei come vittime dei geni o degli istinti è, come si è appena os­ servato, molto profondo e va di pari passo con una costellazione di al­ tre convinzioni sull'indipendenza e l'individualità e con la negazione: dell'intrinseca importanza dell"' altro" per noi. Per iniziare a riconoscere che il dolore indotto dalla deprivaziqne o dall'abuso può provocare la violenza, dobbiamo riuscire a dimostrare due cose: l ) che abbiamo fondamentalmente bisogno l'uno dell'altro, o, come dice Suttie ( 1 935) " un innato bisogno di compagnia"; 2) che negli esseri umani opera un meccanismo psicobiologico o un processo attraverso il quale il trauma può venire convertito in compor­ tamento distruttivo. Nei prossimi due capitoli ci concentreremo sulle scoperte che con­ fermano che abbiamo bisogno l'uno dell'altro. Nel capitolo VI consi­ dereremo come l'esperienza di deprivazione dei bisogni basilari con­ nessi all'attaccamento porti alla distruttività. Negli ultimi vent'anni biologi, psicologi e psicoanalisti che lavorano nel campo della psicolo­ gia dello sviluppo e dell"'attaccamento" hanno iniziato a capire che questo processo, di cui ipotizzavano l'esistenza, in modo da spiegarsi le scoperte nel campo del trauma psichico, è effettivamente presente. Una delle sue manifestazioni è la trasformazione del dolore in violenza. Ne deriva, ancora una volta, l'importanza dell"'altro ". Così ora si sa che l'attaccamento, un tempo visto come un costrutto teorico per descrivere certe forme di comportamento del bambino ver­ so chi si prende cura di lui, ha un substrato biologico che è influenzato dall'esperienza a livello biochimico e fisiologico. Questa prova psico­ biologica spiega ulteriormente come il trauma, sotto forma di abuso, deprivazione o perdita, influenzi il modo in cui ci comportiamo. Questi studi ci costringono anche a capire che siamo profondamente importanti l'uno per il benessere dell'altro. Non è solo, come diceva Freud, che abbiamo bisogno l'uno dell'altro per soddisfare la fame o i bisogni sessuali; non è solo che abbiamo bisogno di stare bene con un al66

Dalla sintoniuazione all'attaccamento. Il trauma della perdita

tro per stare bene con noi stessi. Ciò che diviene più chiaro è che, per tutta la vita, le nostre interazioni sociali giocano un ruolo importante nel­ la regolazione quotidiana dei nostri sistemi interni, un ruolo così rilevan 1 te che non possiamo fare a meno di " altri" significativi per rimanere sanì9, Gli studiosi nel campo delle ricerche sulla separazione sia nei prima� ti sia negli umani iniziano a considerare l'attaccamento come una spe­ cie di "sintonizzazione" psicologica che avviene nelle varie relazioni di tutta la vita. Ci concentreremo su cosa significhi "sintonizzazione" mentre cer­ cheremo di scoprire come il nostro innato bisogno di compagnia trovi conferma nelle quattro pareti di un laboratorio. Nello stesso tempo, fuori dai centri di ricerca, nel campo del pensie­ ro psicoanalitico, una maggiore consapevolezza del nostro bisogno del­ l"'altro" ha pure portato a cambiamenti e, in alcuni circoli, all'abban­ dono delle vecchie teorie "pulsionali" della psicoanalisi per quelle ba­ sate sul primato delle relazioni. È necessario integrare questi sviluppi paralleli nel campo dell' etolo­ gia, della biologia e della psicologia, così come della psicoanalisi, e il compito è ancora arduo, soprattutto perché viviamo in un'epoca in cui prevale la frammentazione. Abbondano gli specialisti, che però sono in un certo senso prigionieri della propria specializzazione; esplorare altri campi di ricerca non solo richiede una considerevole quantità di tem­ po, ma può anche portare a forti critiche da parte di coloro che voglio­ no proteggere la propria specialità. Le mie credenziali come biologa, medico, psichiatra e psicoterapeuta possono non essere all'altezza del compito in questione; tuttavia, poiché l'integrazione è importante, e poiché il bisogno di capire le origini della violenza umana è pure urgen­ te, il mio lavoro non è che un piccolo passo in più in questa direzione. Sfortunatamente è attraverso l'esperienza di separazione che solita­ mente ci rendiamo conto di quanto siamo importanti l'uno per l'altro. Questo probabilmente spiega perché ci sia stato bisogno dell'esperien­ za terribile della Prima guerra mondiale perché gli psicoanalisti britan­ nici iniziassero a mettere in discussione l'idea freudiana dell'importan­ za della sessualità infantile nella genesi delle nevrosi. Questa convinzio­ ne implica che il bambino piccolo sia inconsciamente soggetto a idee e sentimenti centrati attorno al desiderio di possedere il genitore del ses­ so opposto. Descritto come complesso di Edipo, ciò fu visto da Freud come un fenomeno universale filogeneticamente incorporato, respon­ sabile di gran parte del nostro senso di colpa inconscio. I kleiniani riconoscono ancora il complesso di Edipo, con il suo corteo di impulsi

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Dal dolore alla violenZIJ

conflittuali, fantasie, angosce e difese, come il conflitto centrale nella psiche umana, ed esso è al centro del lavoro psicoanalitico kleiniano (Segai, 1989) . Per altri psicoanalisti più interessati alle questioni relative al trauma o alla perdita, il complesso di Edipo non ha più lo stesso significato: il cambiamento risale agli anni Trenta. Nel loro saggio " Britain between the two wars: the historical context of Bowlb's theory of attachmen" , Nora Newcombe e Jeffrey Lerner mostrano come, allora come ora, il clima sociale e intellettuale dell'epoca aqbia reso possibile che si pen­ sasse allo sviluppo umano in modo nuovo. La guerra ha prodotto molti cambiamenti cruciali per lo sviluppo della teoria dell'attaccamento: la diminuzione di tutta l'insistenza sulle cause biologiche della malattia mentale; una più diffusa capacità di rico­ noscere l'esistenza di disturbi nevrotici e psicotici; una revisione del­ l'enfasi di Freud sulla necessità del trauma infantile sessuale come ne­ cessario componente delle nevrosi e, più importante di tutti, un maggio­ re riconoscimento del ruolo delle "relazioni oggettuali" nello sviluppo. Un fattore importante nel produrre questi cambiamenti è stata l'espe­ rienza del trattamento di casi di "shock da combattimento" sia durante sia dopo la guerra. Un altro fattore rilevante è stata l'atmosfera di lutto del dopoguerra e il cambiamento nelle usanze funerarie [che misero fi­ ne ai vecchi rituali] . (Newcombe, Lerner, 1 982, pp. 1 -2)

Fu in questo contesto cheJohn Bowlby, che era stato in supervisione da Melanie Klein, iniziò a osservare le risposte dei bambini che avevano perso la madre e le trovò simili a quelle viste negli adulti che avevano perso qualcuno che amavano. Il suo interesse per l'angoscia da separa­ zione e da perdita è cautamente attribuito da Newcombe e Lerner alle diffuse conseguenze della morte nella Prima guerra mondiale di 750000 giovani britannici, che hanno lasciato almeno 248000 vedove e 381000 bambini. Fu incoraggiato lo stoicismo patriottico, in quella che sembra ora una forma di difesa psicologica socialmente indotta, con il risultato che furono abbandonate le usanze funerarie e quelle relative al lutto arlte­ guerra. Il bisogno psicologico di questo soffrire in silenzio tutto britan­ nico e il più concreto bisogno di massiccio impiego lavorativo dei civili, si schierarono contro quelle "pratiche morbose" : il processo del lutto non fu più approvato né sostenuto culturalmente. Questo atteggiamen­ to fu mantenuto durante la Seconda guerra mondiale e nel periodo suc­ cessivo. 68

Dalla sintonzwxione all'attaccamento. Il trauma della perdita

Nel mio lavoro terapeutico con anziani britannici che avevano subi­ to l'amputazione di una gamba per insufficienza vascolare, ho spesso visto il dolore psicologico dell'ex combattente nel rivivere alcuni dei terribili ricordi di paura, violenza e perdita del campo di battaglia. Col­ piva soprattutto che raccontare la loro storia a me o all'infermiera fosse la prima occasione che questi uomini avevano mai avuto di condividere il loro incubo. Molte volte i pazienti spiegavano come nessuno avesse mai voluto sapere cosa avevano dovuto passare, nemmeno le persone più care: "Non accadeva proprio! ". I ricordi, che erano stati rimossi, erano riattivati probabilmente dall'esperienza personale di perdere un arto o dalle esperienze dei compagni di reparto. Prima della Prima guerra mondiale era diffusa la convinzione, anco­ ra attuale in alcuni circoli medici, che le cause della malattia mentale fossero essenzialmente organiche. Mentre gli psichiatri come Henry Maudsley riconoscevano che il lutto era un " fenomeno naturale" , non se ne vedeva alcun collegamento con la "melanconia", cioè lo stato che ora conosciamo come depressione. Prima di proseguire è necessario definire cosa si intenda con grie/,1 mourning e bereavement, perché questi termini sono spesso confusi. Stroebe e Stroebe li descrivono chiaramente nel loro libro Bereave­ ment and Health ( 1 987) . Griefè la risposta emotiva alla perdita e com­ prende reazioni psicologiche e somatiche (Lindemann, 1 944). Mour­ ning si riferisce ad atti che esprimono il dolore, che prende forma at­ traverso le usanze proprie di una particolare cultura; è un dovere im­ posto dal gruppo. Bereavement è relativo alla situazione oggettiva del­ l'individuo che ha recentemente sperimentato la perdita, dovuta alla morte, di una persona significativa: è perciò la causa del dolore e del lutto. Ritornando ai possibili legami tra il normale dolore del lutto e la de­ pressione patologica, Freud stesso doveva scrivere nel 1917 un saggio su Lutto e melanconia in cui paragonava il processo del lutto a quello della depressione. Benché il lutto comporti un grave distacco dalla vita normale, Freud evidenzia che esso ha un modo di manifestarsi notevol­ mente simile alla melanconia: in entrambi ci sono tristezza, perdita di interessi per il mondo esterno e apatia. Tuttavia nella melanconia c'è anche una grave perdita di autostima: questi pazienti si rimproverano continuamente. l. In italiano non esistono termini esattamente corrispondenti a quelli inglesi di grie/, mour­ ning e bereavement, che è possibile tradurre solo genericamente con "lutto". Si è preferito quindi

lasciare i vocaboli originali. [NdT)

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Dal dolore alla violenza

Freud sostiene che entrambe le categorie di persone in effetti reagi­ scono alla perdita di un oggetto o di una persona, sebbene per il me­ lanconico la perdita non sia conscia. In questo caso Freud suggerisce che la perdita sia accompagnata dall'identificazione dell'Io con l'ogget­ to perduto. Per esempio, una moglie denigrata può cercare di superare la perdita del marito denigrando continuamente se stessa. Con questo determinante articolo Freud era destinato a porre le fondamenta per una comprensione di noi stessi basata sull'introiezione delle relazioni umane. Ma il suo bisogno di restare aderente alla teoria pulsionale gli impedì di proseguire sistematicamente e di completare il concetto di introiezione delle relazioni e lo studio della perdita. Ciò non dovrebbe sorprenderei, poiché il lutto non può avere senso a meno che non si comprenda l'importanza fondamentale dell"' altro" . lan Suttie e sua moglie J ane furono tra i primi psicoanalisti a enfatiz­ zare l'importanza dell'amore e della compagnia sia nello sviluppo uma­ no sia nella vita adulta. In questo modo sentirono di aver infranto un tabù di lunga durata riguardo all'importanza dell'amore. Essi precorse­ re i tempi riconoscendo il significato della relazione madre-bambino nello sviluppo infantile, scrivendo, molto prima che Bowlby formulas­ se la sua teoria dell'attaccamento: Nel corso dell'evoluzione degli animali superiori gli istinti più speci­ fici e più distinti hanno perso la loro differenziazione e la loro integrità e si sono in gran parte fusi nell'ontogenesi in attaccamento indistinto e spassionato del bambino alla madre. Si può considerare che grazie a questa evoluzione si siano sviluppati tre vantaggi: l) è diventato disponibile un interesse plastico, adattabile e educabile; 2) il bambino, impotente, farà qualsiasi cosa in suo potere per preserva­ re se stesso, cioè per mantenere la sua stretta vicinanza alla madre; 3) il bambino acquisirà un bisogno di associazione, che, con la crescita, gli fornirà le basi delle abitudini sociali e degli impulsi di accudimento. ( 1 932, p. 209)

Ian Suttie non solo riconosce l'importanza della relazione di attac­ camento tra madre e bambino, ma sostiene l'opinione che "non si ab­ bandona mai completamente la propria dipendenza dagli altri, ma es­ sa persiste come bisogno di compagnia, indipendentemente dalle sod­ disfazioni organiche che ne possono derivare" ( 1935, p. 206; corsivo dell'autore). Lo psicoanalista·-Bowlby)ispirato dal lavoro di Ian Suttie, doveva di­ ventare una figura fon