Costretti alla libertà: Religiose e religiosi nel cambiamento d’epoca (Italian Edition) 9788810961186

Come religiosi e religiose siamo chiamati a profetare nel mondo ferito dalla pandemia del Covid-19. I mass media fanno p

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Italian Pages [63] Year 2020

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Table of contents :
Indice
Un guado da attraversare
Sana e santa vecchiaia
Vocazione
Perdonarsi
Golosità medica
Ozio santo
Accompagnamento iniziatico
Guarigione di salvezza
Terza figliolanza
Profeti di un sogno comune
A proposito di questo volume
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Costretti alla libertà: Religiose e religiosi nel cambiamento d’epoca (Italian Edition)
 9788810961186

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Fratel MichaelDavide

Costretti alla libertà

V i ta r e l i g i o s a

Religiose e religiosi nel cambiamento d’epoca

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25/05/20 08:41

Fratel MichaelDavide

Costretti alla libertà

VITA RELIGIOSA

Religiose e religiosi nel cambiamento d’epoca

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Indice

Un guado da attraversare

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Sana e santa vecchiaia

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Vocazione17 Perdonarsi 

23

Golosità medica

27

Ozio santo 

33

Accompagnamento iniziatico

38

Guarigione di salvezza

45

Terza figliolanza

50

Profeti di un sogno comune

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A proposito di questo volume

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Un guado da attraversare

La pandemia dovuta al contagio di Coronavirus ha segnato la vita di tutti sconvolgendo persino i ritmi e le forme celebrative delle Chiese nel momento più «sacro» dell’anno liturgico. Naturalmente e giustamente anche la vita religiosa è stata scossa profondamente. Da una parte perché il virus è penetrato nelle comunità religiose e non solo in quelle composte per lo più da persone anziane. In alcuni monasteri le celebrazioni comunitarie sono diventate impossibili per la mancanza di un cappellano o per la necessità di vivere tempi di quarantena sotto lo stesso tetto, ma con la sospensione o alterazione della vita comunitaria. In alcune comunità i religiosi e le religiose più anziani sono stati decimati con morti superiori alla media, se non per il Covid-19 comunque al tempo del Coronavirus. Mantenere la gestione di una serie di strutture è diventato pesante e difficile, al limite delle umane possibilità, dove la carenza di personale ha messo in evidenza la fragilità strutturale ormai di una buona parte delle realtà di vita religiosa. Abituati da anni ad arrancare per la mancanza di ricambio generazionale, per l’invecchiamento massivo che si riscontra normalmente salvo rare eccezioni, la pandemia ci obbliga a rivedere profondamente il modo di sperare e di guardare al futuro nelle comunità religiose sia di vita apostolica sia di ispirazione monastica. La fragilità risaputa si va imponendo come un dato che non lascia scappatoie e che rischia di paralizzare l’immaginazione con cui si cerca di tingere di giallino ciò che, a dire il vero, tende piuttosto a un grigio sostenuto che pende 4

verso il nero. La cura della salute e l’esperienza di isolamento con tutte le sue conseguenze materiali, psicologiche e spirituali rappresentano le sfide presenti poste dalla pandemia. Accanto a questi aspetti passivi, va registrato quello più attivo di tanti religiosi e religiose che si sono trovati o si sono messi in prima fila con medici, sanitari e personale delle pompe funebri per arginare il più possibile il rischio di disumanizzazione in agguato in una situazione limite come una pandemia. Il presente è già sufficientemente esigente, sia per chi sta in retrovia per non impacciare e appesantire il lavoro di chi è maggiormente esposto, sia per chi è alle prese con l’urgenza continua della compassione e della decisione. Ma il futuro cui inevitabilmente si guarda rischia di sollevare ancora più preoccupazioni e pone già adesso le domande che verranno in un dopo che è già qui: cosa resterà del mondo e del modo che conosciamo di essere religiosi e religiose, monaci e monache? Al di là della reale possibilità di rimanere esenti o almeno al riparo dalla catastrofe economica annunciata, potremo rimanere al sicuro nelle nostre grandi case e con le nostre riserve economiche? Come gestire gli anziani e i malati che rischiano di avere bisogno di ancora più protezione rispetto al passato? Quale impatto avrà la fragilità strutturale delle nostre realtà, certamente acuita dal passaggio della pandemia, sulla relazione tra generazioni diverse nelle nostre comunità? La crisi economica e il cambiamento sociale, con le loro ricadute pastorali, in che maniera renderanno ancora più vulnerabili gli anziani e fragili i più giovani, non vaccinati dalle strettezze della guerra e del dopoguerra? Questa litania di domande potrebbe allungarsi ancora di molto, ma ritengo che ci sia già di che pensare e riflettere. Non pretendo assolutamente di avere la risposta e forse nemmeno riesco ad immaginare qualche via d’uscita da proporre o ricetta da vendere al miglior offerente. Ciò che mi sembra di poter 5

condividere è la necessità di non rifiutarci, come religiosi e religiose, di attraversare il guado che la situazione presente ci obbliga a varcare, ci piaccia o meno. In una parola mi viene da dire che siamo ormai costretti alla libertà che è propria della vita consacrata. La verginità per il Regno, che abbiamo scelto e professato pubblicamente nella Chiesa e davanti al mondo, ci obbliga alla libertà di non temere la morte a tutti i livelli; quella che segna la fine della nostra personale esistenza, come pure quella che può decretare il compimento delle nostre esperienze carismatiche di ordini e congregazioni di ogni genere e grado. Ma, ancora più faticosamente, siamo costretti a maturare in libertà per accogliere e accompagnare la morte delle trasformazioni, scelte o subite, cui dobbiamo acconsentire di buon grado. E forse quest’ultima libertà è la più difficile perché dobbiamo viverla prima di morire a nostra volta. Per entrare in questo processo che sembra non dare scampo a nessuno o, almeno, alla maggior parte delle realtà di consacrati, è urgente riconoscere che forse la costrizione della necessità ci metterà in condizione di operare tutta una serie di scelte che continuiamo a rimandare da anni e forse, persino, da decenni. Oggi, non possiamo più rimandare e sarebbe bello cogliere tutto questo non come mera costrizione, ma come una preziosa occasione di fedeltà al nostro voto radicale di libertà inteso come liberazione da ogni paura e disponibilità a dare, fino a sprecare, la vita fino in fondo. Perché questo si renda possibile abbiamo bisogno di riconsiderare la fragilità, in generale, e la morte, in particolare, che toccano indistintamente tutte le generazioni, non esclusi i più giovani e naturalmente i più anziani. Il momento presente mi dà l’occasione di riprendere, in modo ancora più convinto, alcune riflessioni condivise, a suo tempo, con le monache di alcuni monasteri.

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Sana e santa vecchiaia

Per quanto possa stupire e forse addolorare, il Covid-19 ci ha obbligati a riprendere contatto con la differenza naturale e sostanziale delle diverse età e, in particolare, a riappropriarci della vecchiaia. In un tempo in cui la pensione sembrava quasi invidiabile per l’opportunità di poter contare su un reddito senza lavorare, dedicandosi a tutta una serie di attività e di viaggi, ecco che, d’un tratto, gli anziani diventano quelli costretti a restare protetti in casa, accettando una stanzialità finora riservata all’infermità. I modi di dire ormai consueti come: «Ho l’età, ma mi sento giovane», oppure: «Era ancora giovane, aveva solo ottantaquattro anni!», diventano dubbi. In una società come la nostra assai invecchiata che si riflette pure sulla comunità di consacrati, la pandemia ci ha frastornato, ma forse anche un po’ responsabilizzati dinanzi al ciclo naturale della vita che ne segna e informa le tappe spirituali. Non si tratta certo di «decimare» gli anziani per far largo ai giovani. Non si tratta certo di favorire una sorta di selezione naturale o medicale per eliminare le fasce più deboli sia dentro che fuori i conventi. Nondimeno la pandemia ci obbliga a riappropriarci di alcune distinzioni che sono naturali e, al contempo, spirituali. Mettere in conto la morte e prepararsi ad essa senza negarla rientra nell’umana saggezza. Questo fondamentale compito di umanità diventa una testimonianza cristiana di fede nella risurrezione che non ha nulla a spartire con l’illusione di immortalità. Per questo non si può e non si deve tacere che 7

«l’avanguardia della morte è la vecchiaia e perciò conoscere la vecchiaia significa conoscere anche la morte».1 Si può cominciare col riprendere per contraddirlo l’antico adagio latino: senectus ipsa morbus est, come pure citare l’incipit di un quaderno di Servitium2 in cui si esordisce proprio con questa frase: «Oggi si allunga la vecchiaia non la vita». Per questo, sembra giusto e sano dire subito che la vecchiaia non è una malattia, come non è una malattia essere neonati. La definizione di questa stagione della vita si «costruisce» in modo complesso, influenzato dalle «immagini» della vecchiaia che viene così caratterizzata da Tolstoj parlando di un vecchio cavallo dal glorioso passato: «Vi è la vecchiaia maestosa, v’è quella ripugnante, v’è infine la vecchiaia che suscita pietà. V’è quella al tempo stesso ripugnante e maestosa».3 Perciò è importante avere una «giusta immagine» della vecchiaia per viverla bene, fino in fondo4 e in modo evangelico. Un testimone del nostro tempo che si può senza alcun dubbio indicare e riconoscere come un maestro della fede, il cardinale Carlo Maria Martini, parlando di sé e del proprio itinerario citava un detto indiano che divide la vita in quattro stagioni come quelle dell’anno: «La prima è quella in cui si impara, la seconda quella in cui si insegna, la terza corrisponde al momento in cui ci si ritira nella foresta a meditare e la quarta è quella in cui  –  dopo tutto questo cammino  –  si impara a mendicare». Non possiamo sorvolare sulla «fase del bosco», della foresta che fa da momento di passaggio tra le prime due fasi e l’ultima della vita e che facilmente potrem1   E. Morin, L’uomo e la morte, Erickson, Trento 2014, 277. Cf. pure G.L. Brena (a cura di), Il tempo della morte, Gregoriana, Padova 1996 e M. Jouhandeau, Réflexions sur la vieillesse et la mort, Grasset, Paris 1956. 2   Cf. il quaderno di Servitium, n. 163, «Invecchiare», gennaio-febbraio 2006. 3  L. Tolstoj, «Cholstomér», in Id., Tutti i racconti, vol. 2, Mondadori, Milano 1998, 94. 4   Cf. R. Scortegagna, Invecchiare, Il Mulino, Bologna 1999.

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mo identificare come l’autunno in cui  proprio il bosco  dà in abbondanza i suoi frutti. Come spiega Jung: «Il bosco, perché oscuro e impenetrabile, è, come le acque profonde e il mare, il ricettacolo dell’inconscio e del misterioso: immagine calzante per l’inconscio».5 Il cardinal Martini  –  parlando familiarmente in un momento di condivisione fraterna  –  indicava il momento del suo ritiro dal ministero episcopale come la fase in cui dopo aver imparato e insegnato si era infine ritirato nel «bosco»... a Gerusalemme. A nessuno sfugge tutta la valenza simbolica di questa città! Lo stesso cardinale aggiungeva che la malattia e l’orizzonte prossimo della morte lo stavano iniziando  –  non senza fatica nemmeno per un uomo della sua statura  –  alla fase in cui bisognava imparare a mendicare. Proprio come lo stesso Signore Gesù aveva pronosticato all’apostolo Pietro sulle rive del lago di Tiberiade: «In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi» (Gv 21,18). Nel mio computer il termine «verità» nel Vangelo secondo Giovanni viene indicato come ricorrente per ben 75 volte. A quanto pare proprio l’ultima «verità» solennemente proclamata dal Signore Gesù, con il linguaggio del Quarto vangelo, sembra essere proprio questa e  –  perché no  –  solo questa: «Tenderai le tue mani». Possiamo così riprendere il detto indiano: «Mendicherai». Una simile verità entra in collisione con un atteggiamento tanto diffuso come quello che «traspare nel bisogno di restare giovani ad ogni costo, anzi, nella rimozione del termine stesso vecchiaia: oggi infatti non si è mai

 C.G. Jung, Psicologia e alchimia, Bollati Boringhieri, Torino 1992, 230.

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vecchi bensì tutt’al più anziani  –  cioè etimologicamente nati prima».6 Parimenti va sottolineato che la vita è in rapporto alla vecchiaia analogamente a quanto lo possa essere per un neonato: si dipende dagli altri quasi per tutto, ma la promessa di vita è dentro di sé, racchiusa proprio in quel minuscolo o ingombrante corpo da accudire e in cui credere. Una sana e santa vecchiaia è un atto di fede professata esistenzialmente in un corpo vissuto, non più tutto da vivere come nel caso del neonato. Solo un corpo vissuto può essere testimone di una storia di salvezza avvenuta. Per citare un testo e un simbolo di Jung: Ritorniamo per finire alla similitudine del sole. I 180 gradi del ciclo della nostra vita si suddividono in quattro parti. Il primo quarto, a oriente, è l’infanzia; è uno stato senza problemi durante il quale noi siamo problema per gli altri, ma non abbiamo ancora coscienza dei nostri problemi. La coscienza dei problemi si estende al secondo e al terzo quarto; e nell’ultimo quarto, costituito dalla vecchiaia, noi ritorniamo in quelle condizioni in cui, senza preoccuparci delle disposizioni della nostra coscienza, diveniamo nuovamente un problema per gli altri. L’infanzia e la vecchiaia sono indubbiamente assai diverse; ma hanno in comune il fatto di essere immerse entrambe nell’inconscio psichico.7

La vecchiaia si colloca nella medesima atmosfera dell’infanzia. Detto questo bisogna subito aggiungere che, se l’atmosfera può essere la stessa, i sapori sono e dovrebbero essere assai diversi. Analogamente a quanto avviene tra il profumo del fiore e il sapore di un frutto: crescono sullo stesso ramo del medesimo albero come irradiazione dell’unica radice di vita. Lo stesso psicanalista svizzero, infatti, dopo aver stabilito una corrispondenza tra l’infanzia e la vecchiaia ne indica  –  con la 6  L. Pinkus, «L’identità negata: essere vecchi», in Servitium, n. 163, gennaio-febbraio 2006, 19. 7  C.G. Jung, La dinamica dell’inconscio, Bollati Boringhieri, Torino 1976, 432.

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sua solita esattezza e perspicacia  –  la differenza che si trasforma, naturalmente, in una vera e propria sfida: Si avverte uno slittamento e si comincia a combattere contro questa tendenza. [...] Questa lotta encomiabile e apparentemente indispensabile porta con il trascorrere degli anni a un inaridimento e a una lignificazione interiori. I convincimenti divengono banalità trite e ritrite, gli ideali rigide e inveterate abitudini e l’entusiasmo gesto automatico. La sorgente dell’acqua di vita fluisce ormai a gocce. Se non saremo noi ad avvedercene, sarà il prossimo a farlo, e ciò è penoso. [...] Le cose vanno diversamente quando il sacrificio è volontario.8

La vecchiaia non è una malattia come non è una malattia per una donna il fatto di essere incinta. Nondimeno, come nel caso della gravidanza, la stessa vecchiaia può trasformarsi in pericolo di morte per la persona interessata e per il senso di vita che le è stato affidato di portare alla luce. Ci si può porre a propria volta la domanda: «L’uomo muore perché invecchia, oppure invecchia perché muore?». Come ricorda Galimberti: «L’uomo non muore per il fatto di essersi ammalato, ma gli capita di ammalarsi perché fondamentalmente deve morire».9 Ciò che fa la differenza, secondo Jung, è appunto «il sacrificio volontario» che potremmo interpretare come la disponibilità e l’impegno a non subire. Di questa umana capacità di decidere il dono della vita i consacrati sono chiamati a essere profeti attuali. Il voto di obbedienza dovrebbe far maturare uno stile di consenso radicale oltre ogni forma di egoismo o di isolazionismo sociale e spirituale. Al contrario: L’autonomia credo che vada letta sempre all’interno del paradigma del pianto del neonato e del rantolo del morente, i quali  C.G Jung, Simboli della trasformazione, Bollati Boringhieri, Torino 1970, 348-

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349.

  Citato da S. Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 1999, 38. 9

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emblematicamente mostrano come, dall’inizio alla fine, la vita umana è sempre un appello, una domanda di aiuto rivolta a chi ci sta attorno. Autonomia non è soffocare, ma rispondere al pianto di chi è appena nato e raccogliere il rantolo di chi sta per morire.10

In un recentissimo romanzo una psicanalista lacaniana traspone la sua esperienza medica e la sua ricerca spirituale avvenuta attraverso una comprensione rara delle Scritture.11 Si tratta dell’incontro di Ruth, una donna rifugiatasi in uno chalet di montagna, non lontano da un monastero benedettino, con un monaco suo vecchio compagno di università e fratello dello stesso Lacan. Ruth è seriamente malata e il monaco si reca a trovare la sua vecchia amica. Naturalmente, la prima domanda riguarda la sua salute a cui ella risponde in questi strani termini: «Il processo è ora ben lanciato». Alla reazione del monaco che le chiede cosa mai significhi risponde: «Non parlo della malattia o dell’invecchiamento. Questi termini infatti non dicono altro che il cattivo funzionamento del corpo o la sua usura. Questi termini non riescono a dare un senso a ciò che ha luogo a partire da un certo momento in poi».12 La sfida non è voler guarire dalla vecchiaia, ma salvarsi attraverso la vecchiaia, portando a compimento il compito della propria vita e la propria scelta vocazionale su come donarla. Questa salvezza può darsi unitamente a tutte quelle esperienze di morte che preparano  –  nel corso più o meno lungo della vita  –  il grande passaggio di cui proprio la vecchiaia è l’angelo. Ma non si tratta, come alcuni pensano, di un angelo che annuncia lo sterminio peggiore che si possa immaginare: il

 J.C. Besanceney, I cristiani di fronte alla morte, LDC, Torino 2000, citato in C. Zuccaro, Il morire umano, Queriniana, Brescia 2002, 119. 11   Cf. M. Balmary, Le moine et la psychanalyste, Albin Michel, Paris 2006. 12   Ivi, 15. 10

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nulla. Si tratta invece di una clessidra, il cui vaso superiore si svuota a vantaggio della pienezza del vaso inferiore.13 Lèvinas lo esprime con una sorta di protesta umana: «La morte non si affaccia sul nulla, ma sul mistero». Purtroppo, nonostante tutto il nostro linguaggio cristiano fondato sulla nozione di redenzione e di salvezza  –  lo stesso nome di Gesù rammenta continuamente questa realtà – facciamo ancora troppa fatica a credere che la salvezza sia più ampia della stessa guarigione. In realtà, la vera e totale guarigione non può avvenire che nella morte di ogni «speranza di guarigione» parziale. In tal senso, la guarigione non può identificarsi con le cure mediche. Persino queste ultime devono, a un certo punto, avere di mira la possibilità di vivere l’evento della morte e non del ripristino delle funzioni fisiche in quelle che riteniamo le condizioni migliori. In questo processo si ha bisogno di essere accompagnati delicatamente, poiché rimane vero ciò che afferma Marie Balmary: Ciò che il paziente percepisce come una malattia, un male dalle cui spire vuole uscire, l’analista al contrario l’invita a svilupparlo. Per intraprendere un cammino in cui si ha l’impressione talora di impazzire o di morire senza pertanto smettere di esistere, il paziente ha bisogno di essere accompagnato da qualcuno che non ha paura di questa traversata e lo rassicura della sua presenza senza prendere il suo posto.14

A fronte di tante e persino troppe energie impiegate, non raramente in un modo che lascia perplessi, in quella che comunemente si chiama «animazione vocazionale», si dimentica talora che il meglio delle risorse di una comunità andrebbero profuse nell’accompagnamento dei fratelli e delle sorelle nel 13  J.M.R. Tillard, La morte: enigma o mistero?, Qiqajon, Magnano (BI) 1998, 70-74. 14   Balmary, Le moine et la psychanalyste, 53.

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«compiere» la propria vocazione di consacrazione a Dio. Mai come al tempo della pandemia ci siamo resi conto di quanto rischiamo di non essere realmente attrezzati, non solo medicalmente, ma anche spiritualmente, nel tenere viva fino all’ultimo la docilità al mistero della vita sino al suo compimento. Sulle labbra di ogni monaco e monaca, di ogni religioso e religiosa dovrebbe fiorire una frase come questa: «Io tengo alla mia morte come a nessun’altra cosa al mondo, e a nessun costo vorrei che mi fosse sottratta o rubata. Un dramma senza epilogo non è completo: è una prova dolorosa e voglio vedere come me la cavo».15 Si può dire che una delle più grandi sfide della vita consacrata di oggi sia proprio condurre ogni fratello e sorella a dire  –  con le sue parole  –  la preghiera di Ta’en che riassume assai bene quello che dovrebbe stare a cuore in modo chiaro e sempre più concreto: La mia unica preghiera è di essere fedele al proposito di perseguire lo studio della Verità, così da non stanziarmi per quanto ad essa mi applichi: di essere agile e sciolto nelle quattro parti del mio corpo; di essere forte e senza paura nel corpo e nella mente; di essere libero da malattie e di allontanare sia sentimenti di scoraggiamento che di superficialità; di fuggire ogni forma di sciagura, di disgrazia, di influenza malvagia, di chiusura, così da poter percorrere subito la strada giusta e non sviarmi lungo sentieri cattivi; di cancellare tutte le passioni malvagie, di far crescere il Prajnā; di avere un’immediata illuminazione su quanto specificamente mi riguarda, e di continuare la vita spirituale dei Buddha; chiedo ancora di aiutare tutti gli esseri senzienti ad attraversare l’oceano della nascita e della morte, così da contraccambiare tutti quegli amorosi pensieri di cui sono debitore verso i Buddha e verso i Padri. Inoltre prego di non essere troppo malato o troppo sofferente al momento della mia morte, di conoscere in anticipo il suo arrivo, cioè sette giorni prima, così che i miei pensieri dimorino nella pace e nella verità; abbandonando

  Jouhandeau, Réflexions sur la vieillesse et la mort, 120.

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il corpo, svincolato da ogni legame all’ultimo istante, chiedo di rinascere senza indugi nella terra dei Buddha, e vedendoli faccia a faccia di ricevere da essi l’estrema conferma dell’illuminazione suprema.16

 D.T. Suzuki, La formazione del monaco buddhista zen, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1984, 69-70. 16

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Vocazione

Spesso – troppo spesso – incontrando alcune comunità con un numero sempre crescente di anziani e di malati si sente quasi una supplica per le «vocazioni» solo lontanamente imparentata con la necessaria preghiera perché non manchino «operai» per la «messe molta» di Cristo (Mt 9,37-38). Talora questa supplica sembra essere non solo un’invocazione nei confronti di Dio ma anche un atto di accusa verso il mondo in cui viviamo che sarebbe troppo egoista e troppo edonista. Forse è anche vero, ma non si può dimenticare che la popolazione giovane del mondo nasce e vive in paesi a maggioranza non cristiana o post-cristiana. I «nostri» pochi giovani hanno anche l’onere di portare avanti la discendenza e la sussistenza della propria famiglia. Inoltre, per motivi assai oggettivi, la famiglia non è più «proletaria», ma inserita in un nuovo sistema di civiltà che ha i suoi valori positivi e le sue ricchezze. Pertanto non si può e non si deve dimenticare che la ricomprensione così bella della sessualità e del matrimonio operata  –  dopo secoli di oscurantismo in materia  –  da parte del concilio Vaticano II ha significato, a livello vocazionale, una rivoluzione ben lungi dall’aver trovato un nuovo equilibrio nella Chiesa e, soprattutto, nelle coscienze. Un recente testo, che andrebbe citato per intero, di un monaco e teologo francese aiuta a ricontestualizzare il nostro modo di vedere e chiarisce la portata della conversione intellettuale e spirituale cui siamo obbligati dal tempo propizio,

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che è ogni tempo per quanti sono chiamati a viverlo e ai quali non ne è concesso un altro. Così esordisce Ghislain Lafont: Tenterò di presentare un abbozzo di ciò che potrebbe essere una teologia del mondo buono, a seguito della quale si potrà più facilmente considerare l’eventuale posizione della vita religiosa. Sin da ora, posso d’altronde proporre l’ipotesi che gli sforzi considerevoli di aggiornamento che abbiamo fatto dopo il Concilio si ispiravano, inconsciamente forse, a una visione ancora incerta della bontà del mondo. Ma il fatto che tanta intelligenza impiegata e tanta generosità permessa non siano sfociate in una nuova fioritura dei nostri istituti significa forse che non siamo ancora giunti al termine di ciò che vi è da pensare e poi da fare, forse che anche non lo possiamo fare e, eventualmente, che non potremo fare e che la Provvidenza riserva ad altri. In ogni caso, è questa posizione della vita religiosa nel mondo buono che dobbiamo stabilire.17

Detto questo e, in certo modo, una volta che ci riconciliamo con il diverso equilibrio di afflusso di novizi e novizie, resta il compito più grande e, per molti aspetti, più interessante per noi che siamo «dentro» e non per coloro che non «entrano» e che forse sono il primo segno di un vuoto incolmabile non solo perché, di fatto non si colma, ma anche perché, forse, non è  –  almeno in alcuni casi  –  da colmare. Il compito è quello di passare dalla speranza di vocazioni  –  da coltivare sempre nella fede e nell’abbandono a Dio  –  all’amore per la propria vocazione che esige una risposta sempre rinnovata e nuovamente segnata dalla generosità e dalla docilità ai cenni dello Spirito. Infatti: Il fluire costante della vita esige un adattamento sempre rinnovato; non c’è infatti adattamento che sia valido una volta per sempre. [...] Dopotutto è estremamente improbabile che possa  G. Lafont, «Critica della vita religiosa», in Vita Consacrata 42(2006)6, 611-

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612.

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mai esistere una terapia capace di eliminare tutte le difficoltà. L’uomo ha bisogno delle difficoltà: esse fanno parte della sua salute. Soltanto il loro eccesso le fa sembrare superflue.18

E nella nostra epoca, almeno in Europa, questo «fluire» della vita ci mette di fronte all’appello di saper gestire la «difficoltà» di un futuro che non si identifica con la continuazione da parte di nuovi fratelli e sorelle di ciò che abbiamo ereditato e di come lo abbiamo portato avanti. Lo stesso concetto di «vocazione» va ricompreso a partire dalla vita e persino a partire da quelle che consideriamo difficoltà o problemi come l’assenza di ricambio generazionale. Siamo chiamati a parlare di vocazione nelle infermerie e nelle case di riposo dove c’è da accompagnare e stimolare fratelli e sorelle a non rendere vana la loro vita fallendo nell’ultima parte della «corsa» (cf. 2Tm 4,7; Eb 12,1). Nella vecchiaia e nella malattia, che talora si accompagnano sia alla semplice e talora drammatica forma dell’indebolimento sia alle crescenti disfunzioni, vi è una chiamata, non alla guarigione, ma all’esperienza di salvezza che comincia con una risoluta presa di posizione esattamente agli antipodi della «scappatoia» epicureo-stoica. Infatti, secondo il bel capovolgimento di un teologo contemporaneo: «Quando io ci sono c’è la morte, quando non ci sono ancora, oppure non ci sarò più, allora neanche la morte ci sarà».19 S’impara, cioè, che certi mali valgono ben più di certi beni e che la vecchiaia vale più della giovinezza. Questo dato viene conservato nella tradizione monastica con grande evidenza. Infatti, mentre nei monasteri la bellezza dei giovani è temuta e persino avvertita come «diabolica», viene invece cantata e ammirata la bellezza

  Jung, La dinamica dell’inconscio, 87.  E. Jüngel, Morte, Queriniana, Brescia 1972, 30.

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degli anziani.20 Al riguardo, tra i tanti possibili, cito un testo che riferisce dei monaci rumeni: I monaci più anziani erano talmente belli! Avevano una loro bellezza, che non stava nella barba, nei lunghi capelli o nei baffi, […] ma perché ciascuno di loro pregava per gli animali ammalati e spruzzava acqua santa nelle stalle, li osservavo con intenso fascino del quale soltanto i bambini sono capaci […] la bontà traboccava dai loro occhi e dal timbro della loro voce.21

In questo brevissimo ma intensissimo testo quanto detto sopra ridonda in tutta la sua forza. Prima di tutto perché a cogliere questa bellezza senile è l’autore che ricorda le sue emozioni di quando era bambino: un bambino che sente la bellezza della vecchiaia e la identifica con il fascino irresistibile della bontà e della verità. In questi monaci anziani, attraverso il mite fulgore dei loro occhi e la dolce forza della loro voce, siamo di fronte a persone che nella debolezza della vecchiaia manifestano tutta l’intensità della loro forza senza tentennamenti. Si tratta qui di quella che i padri indicano come la «piccola risurrezione», esperienza riservata a quegli uomini e donne che già sulla terra e prima della loro morte fisica sperimentano e manifestano il fulgore che attendiamo nella vita eterna: la gioia umile di essere se stessi! Se, come dice Isacco di Ninive, l’inferno è il rammarico, il paradiso dovrebbe essere esattamente questo senso di adeguatezza, di armonia, di ésychia 20  Cf. V. Desprez  –  A. Piovano, La Russia monastica. Mille anni di storia, Edizioni Abbazia di San Benedetto, Seregno (MI) 2005, 125-133. 21   Dalle note autobiografiche di R. Braga, Ogni uomo ha un suo segreto con Dio, Lipa, Roma 1999, 120-121. Questo ideale del kalogeros (bel vecchio), come in Oriente vengono chiamati i monaci anziani, è la continuazione in ambito monastico dell’ideale della kalokagathìa (bellezza+bontà) che è fonte di felicità/eudaimonìa (Platone, Gorgia, 470e) e la cui fonte è sempre eros che rende amici di Dio e immortali proprio attraverso la percezione e la trasfigurazione nella bellezza (Platone, Simposio, 211112).

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che anticipa lo stato della risurrezione rendendo la morte una porta già aperta e non un muro da scavalcare con pericolo. Un simile stato non può che regalare un senso di quiete e un ricordo della morte che scivola serenamente in un desiderio: Segni sicuri del ricordo della morte, in un cuore spiritualmente ad essa sensibile, sono l’insensibilità volontariamente acquisita nei riguardi di ogni creatura e il rinnegamento totale della propria volontà. Chi vive nell’attesa della morte tutti i suoi giorni opera sapientemente ma chi l’attende ora per ora, con tutto lo slancio del cuore, può dirsi santo. Tuttavia, non ogni desiderio di morte è in tutti buono. Perché di fatto alcuni cadendo per forza d’abitudine, continuamente la desiderano in spirito di umiltà; altri invece essendo renitenti alla conversione la invocano per disperazione; certi altri stimandosi superbamente ormai impassibili, ne ritengono vile il timore; soltanto alcuni, seppure ce ne sono ancora, anelano alla loro dipartita perché mossi dallo Spirito Santo.22

Si potrebbe, a ragione, dire che la morte diventa una vocazione e va vissuta come tale. Se il novizio «lotta con se stesso per creare se stesso»,23 l’anziano o ha già superato questa fase oppure deve comunque portarla a compimento con tutte le sue forze. Si tratta, infatti, dell’estrema necessità di evitare di trasformare il proprio cammino di fede in un fallimento qualora si aprisse sul baratro del rimorso quale bancarotta della libertà. Infatti, sempre «si trova schiavo delle conseguenze della sua libertà: non è più libero di non avere voluto quello che ha voluto».24 L’uomo ha un duplice scopo: il primo è lo scopo naturale, la procreazione e i vari compiti. Quando questo scopo è stato raggiunto comincia un’altra fase: lo scopo culturale che raggiunge il suo culmine nell’atto del morire ove  –  ana  Giovanni Climaco, La scala del Paradiso, VI, 58.   Jung, Simboli della trasformazione, 330. 24   Tillard, La morte: enigma o mistero?, 80. 22 23

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logamente a quanto avviene per il novizio di fronte alla sua professione  –  nessuno può sostituirsi. La vocazione non è un già-dato, prestabilito dagli imperscrutabili disegni celesti e che il credente deve «trovare», «scoprire» quasi come per magia o per fortuna, in una logica del «gratta e vinci». La vocazione, in verità, avviene nell’incontro fra le esigenze evangeliche e la precisa creaturalità della persona. Così, anche di fronte a una malattia da assumere, il «fare la volontà di Dio» avviene all’interno di un plesso di elementi quali la condizione psicofisica del malato, la sua fede, l’ambiente che gli sta accanto. […] In ogni caso, non risponde certo né alla lettera né allo spirito del vangelo l’affermare che Dio vuole la sofferenza dell’uomo. Dio vuole la libertà dell’uomo e la sua umanizzazione; Dio vuole la felicità dell’uomo, una felicità trovata nell’amare e nel donarsi, nello spendere la propria vita per gli altri, dunque una felicità che sa assumere anche le sofferenze e le tribolazioni.25

Il fratello anziano, malato, perfino morente, è un vivente davanti a cui bisogna essere animati da umiltà e rispetto. Proprio via via che diventa più vulnerabile, il fratello anziano, malato, morente va custodito maggiormente nella sua intimità divina da cui siamo comunque esclusi. Anche nelle case religiose predomina un’ambizione sbagliata, secondo la quale i vecchi dovrebbero essere come i giovani, o perlomeno cercare di imitarli, anche se sono «intimamente persuasi della vanità della cosa».26 In realtà, si dovrebbero concentrare le proprie forze nel vivere di assoluta gratuità che consiste non più nella ricerca delle «cose», ma del loro senso profondo e ultimo per se stessi e per gli altri.

 L. Manicardi, L’umano soffrire, Qiqajon, Magnano (BI) 2006, 182-183.   C.G. Jung, Due testi di psicologia analitica, Bollati Boringhieri, Torino 1983,

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Perdonarsi

Come di frequente è attestato nei resoconti di una morte vissuta e condivisa, spesso l’approssimarsi di questo momento comporta l’inderogabile urgenza di imparare a perdonarsi per ricevere e dare il perdono. Nel corso della vita e della vita comune, molte energie e molti sforzi vengono giustamente  –  e non raramente con un infinito codazzo di frustrazioni  –  fatti nella linea evangelica del perdonare «settanta volte sette» i propri fratelli e sorelle come pure di creare le condizioni perché loro possano fare altrettanto (Mt 18,21-35). Ma verso la fine della vita questa necessità evangelicamente inderogabile che è il perdono cambia in un certo senso il suo orientamento più profondo ed essenziale: si tratta di perdonare se stessi fino ad arrivare a perdonare Dio. Perdonare significa donare e donarsi interamente e non malgrado le sofferenze e il male subito. Non si tratta di attenuare le responsabilità, ma di aprirsi al mistero assoluto dell’alterità.27 Si rende necessario ricomprendere i propri disagi e non riferirli più agli altri ma a se stessi e a Dio, riconducendo il tutto  –  traumi compresi  –  al livello più profondo della propria intimità con Dio che la morte renderà definitiva. Questo processo di perdono verso se stessi va vissuto anche quando oggettivamente ci sono stati dei malfunzionamenti relazionali di cui si è stati vittima, almeno in parte. Rimane vero il dato seguente:   Cf. J. Derrida, Perdonare, Raffaello Cortina, Milano 2004.

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Non possiamo dire che il presente corrisponda sempre al volere di Dio. Possiamo però dire che noi siamo in grado di vivere tutte le situazioni, anche le più imperfette, inquinate, violente, e quindi le più contrarie al volere di Dio, in modo da accogliere quella forza creatrice che nessuno può annullare e che ci consente di crescere come figli di Dio.28

C’è un aspetto importante da sottolineare, che è il fatto non solo di perdonarsi il passato ma di perdonarsi il presente: perdonarsi, in verità e fino in fondo, il fatto di non essere più giovani con tutto ciò che significa. Si fa spesso fatica a perdonarsi il fatto di «non essere più in grado di…». Sembra quasi di dover continuamente chiedere scusa. Ma se questo può essere indizio di grande e profonda sensibilità, può anche nascondere un certo disadattamento, una fissazione dell’immagine di se stessi su un momento della vita: l’apogeo del proprio essere nel proprio fare. Un simile atteggiamento rischia di risolversi in una segreta chiusura allo stupendo evolversi della vita oltre l’apogeo. Non raramente si rinuncia così a godere la bellezza struggente del tramonto della propria esistenza. In questo senso se si è appreso il perdono  –  verso gli altri  –  durante la vita, ci si rivela capaci di perdonarsi alla fine della vita. Una tale capacità umana e spirituale si oppone a ogni «dimenticanza» che facilmente si manifesta nel «far finta di niente». Se dietro al gesto del perdono offerto vi è già la guarigione della memoria,29 nell’atto del perdonarsi vi è un’esperienza di salvezza come ingresso nell’eternità. La stupenda testimonianza di papa Giovanni Paolo II può essere fonte di qualche malinteso. Ce lo spiega padre Pinkus parlando della tendenza a negare le implicanze della vecchiaia: 28  C. Molari, «L’invecchiare: una comprensione in una prospettiva dinamica», in Servitium, n. 163, gennaio-febbraio 2006, 61. 29   Cf. P. Ricoeur, «Il perdono può guarire?», in Hermeneutica (1988), 158-159.

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Su questi aspetti, anche alcune istanze forti della Chiesa cattolica hanno portato un contributo pesante e negativo, sia pure forse involontariamente. Ad esempio, nei contenuti offerti dalle fonti ufficiali, il defunto papa Giovanni Paolo II non era un vecchio che riusciva a vivere con forte tenacia la propria età, bensì il più vigoroso dei giovani, che riusciva a stare bene e ad interessare i giovani. In questo modo la figura del papa veniva (e viene) decontestualizzata dalla sua identità psicobiologica e trasferita in un ambiente neutro, senza età, caratterizzato da un fisico  –  giovanile appunto  –  che non si ammala, se non … alla morte. Del resto, sono i giovani la speranza della Chiesa (altra malaugurata ambiguità che li carica di una funzione, che è solo del Cristo).30

Solo quegli anziani che riescono a fare del loro presente il luogo reale della loro vita «vengono trasformati nel sonno e godono perciò di gioventù eterna»,31 interpretazione che ci sembra possa essere la lettura più consona e meno mediatica della mirabile testimonianza di papa Giovanni Paolo II. Si tratta di una «gioventù» prospettica e che non ha niente a che fare né con la nostalgia né, tantomeno, con l’imbarazzo di non essere più «utili». In questa apparente nota di bontà e di generosità  –  il desiderio di non essere di peso  –, facilmente, anche se non in modo esclusivo, si annida il vizio capitale della tristezza. Questo vizio, elencato dalla tradizione orientale tra gli otto vizi capitali, rivela una delusione profonda dell’attaccamento a una certa immagine di se stessi: «Nella vecchiaia il vizio psichico si manifesta con pretese di affettività e di rispetto che sconfinano dai propri diritti tanto da soffrirne».32 Da questa porta viziosa e cigolante la vecchiaia, invece di essere il

 L. Pinkus, «L’identità negata: essere vecchi», in Servitium, n. 163, gennaio-febbraio 2006, 22-23. 31  C.G. Jung, Aion. Ricerche sul simbolismo del sé, Bollati Boringhieri, Torino 1982, 133. 32  G.M. Moretti, Grafologia sui vizi, Istituto Grafologico “G. Moretti”, Ancona 1974, 7. 30

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tempo del più grande e decisivo progresso, rischia di trasformarsi in una terribile regressione spirituale: Ciò che toglie il fulgore alla natura e la gioia alla vita è il riguardare indietro a ciò che un tempo era fuori di noi, invece di fissare lo sguardo addentro nello stato depressivo. Il guardare indietro porta alla regressione e ne costituisce l’avvio. [...] La regressione è uno scivolare nel passato provocato da una depressione nel presente.33

Un modo autentico per uscire da questa «depressione nel presente» sta proprio nella capacità di perdonarsi quello che si è nel presente: un peso per gli altri! In realtà un peso non lo si è mai, ma lo si può diventare sempre anche nel pieno delle forze e dell’efficienza. La differenza di «pesantezza» è direttamente proporzionale all’accettazione amorevole e fiduciosa della propria situazione di dipendenza nel presente. Naturalmente questa capacità di perdonare a se stessi di essere quello che si è nel presente non può essere vera e trasfigurante senza un passo ulteriore: perdonare a Dio di averci condotti fino a questo punto e di chiederci un passo ulteriore di santificazione. In questa prospettiva c’è da fare un grande passo di conversione. Da una parte, sentirsi un peso non diversamente da quanto possono sentirsi dei novizi all’interno di una comunità da cui devono ricevere tutto per poter dare. Dall’altra, accettare di non poter più aiutare la comunità se non stimolandola a essere capace di gratuità. Perché questo possa realmente avvenire, «un giusto e sano amore di sé richiede che si sappia perdonare a se stessi. Se non ci si riconcilierà con sé, sarà difficile farlo con l’altro».34

  Jung, Simboli della trasformazione, 393.   Manicardi, L’umano soffrire, 72.

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Golosità medica

Si può ben dire che la vecchiaia o il tempo della malattia non è un tempo di riposo dal punto di vista del combattimento spirituale. Sarebbe interessante parlare singolarmente dei vizi/pensieri e in particolare dell’accidia, ma ci limitiamo in queste pagine a ciò che dentro al nostro essere psico-somatico corrisponde più direttamente e immediatamente all’istinto di sopravvivenza.35 Uno dei loghismòi/pensieri che fa da vettore a quest’ansia di sopravvivenza è, di certo, la gola. Naturalmente questo vizio accompagna tutta la vita, ma rischia di essere preminente nella sua prima fase di iniziazione, strettamente legato  –  secondo l’analisi patristica  –  al suo corrispondente che è il vizio della lussuria. Nella vecchiaia e soprattutto, forse, con il continuo progresso medico-farmaceutico, questi due vizi così profondamente correlati si stemperano abbastanza, ma col rischio di cedere il posto alla «golosità medico-farmaceutica». Questo tipo specifico o nuova maschera della golosità trasforma il rapporto con il cibo e con il sesso, che nella giovinezza rappresentano il proprio rapporto più o meno ordinato con il bisogno di sopravvivenza, in un continuo, ossessivo rapporto con le medicine e le visite mediche di ogni tipo. Di seguito si cita un testo di un grande padre e maestro spirituale del XIX secolo

35   Si veda in proposito la seconda parte, «Nosografia, semiologia e patogenesi delle malattie spirituali: le passioni», nel volume di J.-C. Larchet, Terapia delle malattie spirituali, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2003, 127 ss.

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in Russia che potrebbe essere riletto non più in riferimento al cibo, quanto a questa smania di medicinali. Ivan di Cronstadt scrive: È sorprendente costatare quanto ci preoccupiamo della nostra salute, come ci prendiamo cura di noi stessi, di mangiare cibi sani e appetitosi, di bere bevande genuine, di respirare aria pura. Ma nonostante tutte queste attenzioni, siamo ugualmente preda delle malattie e della corruzione. Mentre i santi, che hanno disprezzato la loro carne e l’hanno continuamente mortificata con il digiuno e l’astinenza, con il dormire per terra, con le veglie, il lavoro e la preghiera incessante, hanno reso immortale sia l’anima che il corpo. I nostri corpi ben nutriti vanno in decomposizione e puzzano dopo la morte, mentre i loro rimangono profumati e fiorenti sia in questa vita che dopo la morte. Quale stupore! Cercando di proteggere la nostra salute, la roviniamo; loro invece, rovinandola la proteggono. I santi, preoccupandosi unicamente del profumo della loro anima davanti a Dio, ottengono anche il profumo del loro corpo. Cari fratelli, comprendete il dilemma e lo scopo della nostra vita. Dobbiamo mortificare il corpo, con tutte le sue passioni carnali attraverso l’astinenza, la fatica, la preghiera, e non dobbiamo assolutamente eccitarlo con le raffinatezze, la sazietà e l’indolenza.36

In questo breve ma bellissimo testo, in cui si riassume e si ricapitola tutta la tradizione spirituale, con particolare riferimento al rapporto con la propria corporeità e con la propria salute, si viene scossi da una sorta di indolenza spirituale che, facilmente, si può trasformare in ignoranza. Come  –  in giovinezza e in salute  –  è necessario avere un rapporto ordinato con il cibo, così in vecchiaia bisogna mantenere un buon rapporto con le medicine. In giovinezza è necessario essere vigilanti nelle proprie relazioni con persone che possono risvegliare la nostalgia e l’appetito sessuale in cui si iscrive misterio  Ivan di Cronstadt, La mia vita in Cristo, Gribaudi, Torino 1981, 104-105.

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samente e imperiosamente il proprio bisogno di sentirsi vivi e di sopravvivere a se stessi procreando. In vecchiaia bisogna essere vigilanti nelle proprie relazioni mediche in cui si manifesta il proprio bisogno di rassicurazione nella vita temporale. Un testo più che classico, quanto fondamentale, come quello citato di seguito andrebbe ripreso all’approssimarsi della vecchiaia e della malattia per fondare coerentemente il proprio rapporto con tutti i medicinali e affini: Il pensiero della gola è quello che provoca ben presto nell’animo del monaco il crollo della sua ascesi: esso gli dipinge nella mente lo stato del suo stomaco e quello del fegato e della milza, e l’idropisia e qualche malattia grave e la penuria delle cose necessarie e la mancanza di medici. Sovente esso gli fa anche tornare in mente il caso di alcuni confratelli deceduti a causa di quegli stessi mali. Accade pure talvolta che alcuni dei monaci, presi da quell’ansia, si decidano a recarsi presso altri monaci, dediti all’astinenza, per raccontare loro i propri disagi, del tutto persuasi d’essersi ridotti in quello stato a causa dell’ascesi.37

In questo splendido testo che dobbiamo a un monaco come Evagrio, a ragione ritenuto un lontano progenitore della psicanalisi moderna, ricorre una nota degna di essere colta e sottolineata: «Per raccontare loro i propri disagi». Nel panorama della vita monastica del deserto egiziano dove domina la ricerca della solitudine e del silenzio come mezzi privilegiati per la ricerca del volto di Dio, è come se si inserisse questa nota stridente di chiacchiera e di disturbo reciproco. Parlare dei propri acciacchi può diventare una sorta di sottofondo continuo e «ostinato» che porta all’ottundimento della mente e alla sclerosi del cuore. Anche a questa tendenza è necessario porre il freno dell’ascesi e della disciplina della parola. Per intenderci, sarebbe come se  –  in giovinezza  –  si continuasse   Evagrio Pontico, Trattato pratico sulla vita monastica (Il vizio della gola), 7.

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a parlare  –  al pari di ciò che può avvenire in una caserma o in un club  –  delle proprie esperienze, fantasie e frustrazioni sessuali. Nonostante anche i consacrati vivano questa dimensione, è cosa quanto mai chiara e scontata che non sia argomento di conversazione. Talora con questi interminabili bollettini medici si ha l’impressione che finalmente si dia sfogo  –  a ruota libera  –  a ciò di cui non si è potuto parlare in giovinezza riguardo alla propria sessualità. Si dimentica il nesso tra cibo e corpo che è lo stesso tra sessualità e corpo e che si trasforma nella relazione strettissima tra medicine/visite mediche ed esperienza della propria corporeità. Come ricorda Benedetto nella sua Regola per i monaci: «La cura dei malati deve aver posto prima e al di sopra di tutto il resto, perché davvero li si serva come Cristo in persona». E aggiunge che coloro che li servono proprio attraverso di loro «raggiungono una grazia più piena».38 Ma Benedetto non esita ad aggiungere un monito rivolto agli stessi malati: «Da parte loro, anche i malati devono rendersi conto che sono serviti in onore a Dio, e non devono stancare i fratelli posti al loro servizio con eccessive pretese». Non diversamente già ammoniva Basilio Magno,39 che è molto severo con il malato che si crede giustificato dal suo stato di malattia e dunque come esentato dal perseverare in un cammino di conversione. Se la malattia  –  chiaramente  –  non è una colpa e non è conseguenza automatica del peccato, nondimeno può essere un’occasione o una tentazione nel cammino di conversione. Se l’anima dei fratelli sani deve essere quella di servire  –  tre volte nel capitolo della regola dei monasteri ricorre il verbo e due volte il nome «servitori»  –  i loro fratelli malati, nondimeno a Benedetto non sfugge il rischio, con ammirabile   Benedetto, Regola, 36.   Basilio Magno, Regole brevi, 155.

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lucidità, che il malato ceda alla volontà di potenza nel suo essere reso fragile dalla malattia. Per Benedetto questa volontà di potenza, che può attentare persino il malato e il morente, resta il male più grave.40 Analogamente all’astinenza e al digiuno che sono richiesti ai fratelli sani e che sono elementi irrinunciabili dell’ascesi, è richiesto ai malati e agli anziani di moderare le loro pretese e di limitare e non ampliare le loro attese. In ogni modo come nessuno può ardire di mangiare prima del previsto e di ciò che è interdetto, anche il malato deve ricevere dalla mano della comunità ciò che necessita per la propria salute. Nella relazione che si instaura con medicine e cure si manifesta il grado  –  maggiore o minore  –  di attaccamento a se stessi attraverso l’esibizione delle proprie pretese. D’altra parte, anche l’elargire medicine e visite in quantità eccessive o semplicemente palliative, può essere per la comunità un modo per sgravarsi dal peso di portare più in profondità il fratello o la sorella. Anche senza pensarci troppo può essere un modo per evitare quell’ascolto di cui tutti parliamo ma la cui fatica e le cui esigenze talora ci vincono. Educati come siamo alla cultura dell’applauso, non sappiamo neanche dove sta di casa la cultura dell’ascolto. Distribuiamo farmaci per contenere la depressione, ma mezz’ora di tempo per ascoltare il silenzio del depresso non la troviamo mai. Con i farmaci, utili senz’altro, interveniamo sull’organismo, sul meccanismo biochimico, ma la parola strozzata dal silenzio e resa inespressiva da un volto che sembra di pietra, chi trova il tempo e la voglia, la pazienza, la disposizione per ascoltarla? Tale è la nostra cultura.41

 Cf. P. Houix, «Saint Benoit et la souffrance», in Collectanea cisterciensia 50(1988), 182-183. 41  U. Galimberti, «Pantani nel deserto dei depressi», in La Repubblica 18 febbraio 2004. 40

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Certo ascoltare e rendere possibile farsi ascoltare è una grande sfida poiché indica l’atto di aprirsi e accogliere la sofferenza dell’altro e purtroppo anche nei monasteri e nelle case religiose «la maggior parte degli orecchi si chiude alle parole che cercano di dire una sofferenza».42 Come spiegano i Padri, se la gola è legata alla lussuria, l’attaccamento lo si evince proprio dalla tristezza in cui si viene a cadere ogni volta che non si accetta di essere curati dalla comunità. Pericolosamente la malattia esenta dall’obbedienza suggerendo piuttosto di curarsi autonomamente o ricorrendo a parenti e amici. Viene così dimenticata e tradita la modalità adeguata, in termini di relazione con se stessi e col mondo, a cui ci si è impegnati con la professione religiosa. Si tratta di essere e rimanere poveri, casti e obbedienti senza indulgere troppo alle proprie pretese che sono  –  abitualmente  –  una maschera delle proprie paure e un modo di riproporsi della stessa lussuria a cui bisogna contrapporre la casta libertà: Dove c’è ancora attaccamento, là si è ancora posseduti, e in tal caso significa che esiste ancora un elemento più forte che ci possiede («in verità tu non uscirai di lì finché non avrai pagato fino all’ultimo centesimo»). Servire una mania è riprovevole e indegno, mentre servire un dio è molto più significativo e al tempo stesso ricco di prospettive, perché è un atto di sottomissione a un essere superiore, invisibile e spirituale.43

42  C. Chalier, Sagesse des sens. Le regard et l’écoute dans la tradition hébraique, Albin Michel, Paris 1995, 91. 43  C.G. Jung, Studi sull’alchimia, Bollati Boringhieri, Torino 1988, 47.

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Ozio santo

Non raramente alla golosità medica si affianca la frustrazione operativa. Al lamento per gli acciacchi spesso si accoda il mugolio per il fatto di non essere più «utili» e di non poter più fare nulla per la comunità. Se l’atmosfera in cui si colloca il lamento è quella della paura davanti al declinare e decadere delle forze, ciò che si avverte come sottofondo del mugolio è una certa ambiguità che talora è già sprofondata nell’accidia.44 Quando, infatti, sembra che finalmente si possa vivere in pienezza il proprio essere persone di assoluta gratuità nella preghiera, ecco che spunta questo ambiguo desiderio di essere utili. Viene a galla questo profondo disgusto di non essere così importanti per la vita del mondo in cui si vive. Si fa molta fatica  –  ed è assai strano che ciò avvenga perfino nei monasteri, la cui vita è direttamente ordinata alla contemplazione  –  ad accettare il santo ozio, che a differenza dell’altro non genera i vizi ma un grande amore alla preghiera verso Dio e alla dolcezza verso il prossimo. Se è vero che l’ozio è il padre dei vizi, rimane pur vero che il lavoro assiduo e generoso dovrebbe uccidere la radice di tutti i vizi che è la philautìa/egoismo. In un testo, assai bello e un po’ strano, Guglielmo di Saint-Thierry si esprime, mettendosi nei panni della sposa del Cantico, come segue: I figli di mia madre muovendo battaglia contro di me han fatto sì dentro di me che io voglia stare a capo di uomini, mi han presa   Cf. G. Bunge, Akedia, il male oscuro, Qiqajon, Magnano (BI) 1999.

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a me stessa e mi hanno posta a stare loro a capo e a nutrire le gioie della loro carne, mi hanno posta come custode della loro pace esteriore; e quando con estrema attenzione su di essa vigilo, finisco per trascurare le mie gioie interiori, nella negligenza per la mia pace interiore. E così il sole ha alterato il mio colore, mentre la sollecitudine della carità fraterna ha oscurato in me, con la caligine delle sue occupazioni, l’aspetto della purezza interiore.45

Desta stupore questo riferimento problematico per non dire negativo di Guglielmo alla «carità fraterna» come fonte di oscurità e non di luce! Di fatto, però, dobbiamo riconoscere a questo testo e a questo approccio una grande forza di verità e un grande spessore di appello alla conversione. Verso la fine della vita, infatti, si manifesta ciò che  –  in verità  –  ci è stato a cuore per tutta la vita. È, infatti, più che naturale acconsentire e darsi nella custodia della pace esteriore dei propri fratelli e sorelle in umanità, ma a condizione che questo non diventi il centro della propria vita interiore andando a scapito della propria intima pace. Spesso quando si hanno responsabilità di governo o più comunemente di lavoro ci si lamenta per la mancanza di tempo da dedicare alla preghiera e alla quiete. Eppure, quando poi la stessa vita, con il suo fluire naturale, regala ampi spazi per vivere tutto ciò  –  per anni decantato come desiderato ma impossibile  –  ecco che viene la nostalgia del «sentirsi utili». Quando questo avviene bisogna umilmente riconoscere di essersi sentiti troppo utili e di aver dimenticato che il poter lavorare era un grande rimedio. Possiamo ricordare il simpaticissimo quadretto tratteggiato da Evagrio: Il demonio dell’accidia, denominato anche «demonio del mezzogiorno», è il più gravoso di tutti i demoni: esso s’incolla al monaco verso l’ora quarta e ne assedia l’anima fino all’ora otta-

  Guglielmo di Saint-Thierry, Commento al Cantico dei cantici, 48.

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va. Dapprima quel demonio gli fa apparire il sole estremamente lento, se non addirittura immobile: gli sembra che il giorno abbia a durare fino a cinquanta ore! In più esso lo induce a volgere continuamente gli occhi verso le sue piccole finestre, lo persuade a uscire fuori dalla sua cella, a scrutare attentamente verso il sole per vedere quanto dista dall’ora nona, ma anche a guardare tutt’intorno per osservare se qualcuno dei fratelli si faccia vivo. E in più quel demonio gli ispira dell’odio per quella sua dimora e per quella stessa sua vita e per il lavoro delle sue mani: gli fa pensare che ormai la carità tra i fratelli è venuta meno e che non c’è più nessuno che possa dargli conforto.46

Non raramente questo bisogno di rendersi utili tradisce l’inesperienza a essere utili. E a questo tipo di «utilità» ci si deve preparare remotamente poiché è quasi impossibile improvvisarla. Ciò che dice Jung sembra assai vero e può esprimere il disagio profondo che può cogliere il fratello o la sorella davanti alla vita che fluisce ormai senza fare conto del proprio apporto: «Si prova in un certo qual modo la sensazione di essere “sostituiti”, il che non implica però quella di essere “destituiti”. [...] Il linguaggio religioso è ricco di espressioni figurate che descrivono tale sensazione di libera dipendenza, di calma accettazione».47 La «calma accettazione» di cui parla Jung è l’espressione esteriore e visibile della «purezza interiore» di cui parla Guglielmo. Ma tutto questo è possibile nella misura in cui è chiaro nel profondo che essere «sostituiti» non solo non significa essere «destituiti», ma essere finalmente sostituiti secondo il normale corso della vita. Detto questo, non si può tacere che per arrivare a una vecchiaia soddisfatta, a motivo dell’essere riconosciuti non più a partire dalla «caligine delle occupazioni», è necessario aver cominciato a camminare nella giu  Evagrio Pontico, Trattato pratico sulla vita monastica, 12.   Jung, Studi sull’alchimia, 61.

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sta direzione sin dal primo giorno di noviziato. Si potrebbe dire provocatoriamente che ogni giorno perso a coltivare una soddisfazione esterna dovrà essere recuperato con una misura maggiore di fatica nel tempo della vecchiaia. Se, infatti, ci si è ammalati durante il proprio percorso e soprattutto nell’età di mezzo della terribile malattia del «ruolo», la fatica a non avere nessun altro ruolo se non quello del proprio cuore rischia di rivelarsi ardua. Per non soffrire verso la fine della vita il dramma del sentirsi «destituiti», bisogna imparare sin dal primo giorno di noviziato ad essere continuamente e serenamente «sostituiti». È infatti questo il modo per imparare a morire nel pieno della vita in modo da dare il meglio della vita nel tempo in cui sarà necessario morire: Saper morire perciò è il segno più sicuro di aver imparato a vivere il tempo, e, dall’altra parte, chi sa vivere il tempo ha certamente imparato a morire. Invecchiare implica quindi la capacità di avvicinarsi alla morte, di riconoscere le sue anticipazioni in modo chiaro e di viverle in modo sereno. Imparare a vivere il tempo, perciò, è indispensabile per diventare persone autentiche e scoprire la bellezza e la gioia dell’esistenza.48

Educarsi alla calma è uno dei tratti più importanti della vita monastica in modo emblematico e della vita consacrata in genere. Questa calma che va custodita persino nei momenti di maggiore fecondità e vitalità prepara il tempo sereno della raccolta. È necessario sapersi dare un ritmo di vita nella relazione con il proprio corpo, con la presenza degli altri, con ciò che facciamo abitualmente da cui possa trasparire un raccoglimento abituale e crescente: una maturazione verso l’attenzione. Vivere il tempo non significa semplicemente usarlo per dare il meglio di sé a favore degli altri. Significa pure penetrarne i segreti scorgendo l’intima relazione che il tempo ha con   Molari, «L’invecchiare: una comprensione in una prospettiva dinamica», 55.

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l’eternità. Solo così si può sperare di diventare «persone autentiche» in quanto capaci di saper vivere in relazione sempre più profonda con gli altri, con Dio e con se stessi. Diventando vecchio, la dynamis si affievolisce. Tuttavia, nella misura in cui l’uomo consegue le sue vittorie interiori, la sua persona lascia, per così dire, trasparire il senso delle cose. Egli non diventa attivo, bensì irradia. Non affronta con aggressività la realtà, non la tiene sotto stretto controllo, non la domina, bensì rende manifesto il senso delle cose, e con il suo atteggiamento disinteressato, gli dà un’efficacia particolare.49

Il livello qualitativo di questa relazione lo si può cogliere talora stupendamente in ciò che ciascuno è capace di fare per gli altri. Ciò diventa ancora più sensibile quando le forze sono tali che si può solo essere davanti all’altro come una semplice infinita possibilità di creare un dialogo tra un «Io» e un «Tu»: ridotti all’essenziale come nei momenti migliori dell’amore. Perché questo sia possibile e sempre più vero, si rende necessario non solo un lungo cammino ma pure una disponibilità ai mutamenti propri della vita anche per quanto riguarda il proprio modo di vivere la relazione. Non è possibile vivere la sera della Vita seguendo lo stesso programma del mattino, poiché ciò che sino ad allora aveva grande importanza ne avrà ora ben poca, e la verità del mattino costituisce l’errore della sera. Invecchiando, l’uomo dovrebbe sapere che la sua vita non sale né si estende, ma che un inesorabile processo interno la limita. Per il giovane, l’occuparsi troppo di se stesso costituisce quasi un peccato o un pericolo; per colui che invecchia, il considerare seriamente se stesso rappresenta un dovere e una necessità. Il sole ritira i suoi raggi per illuminare se stesso, dopo avere diffuso la sua luce sul mondo.50

 R. Guardini, Le età della vita, Vita e Pensiero, Milano 1992, 80.   Jung, La dinamica dell’inconscio, 428.

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Accompagnamento iniziatico

L’ultima citazione junghiana risuona come una frase assai forte su cui non si può sorvolare ma va, al contrario, evidenziata: «La verità del mattino costituisce l’errore della sera»! Evitare questa trappola per non cadere nelle sabbie mobili della recriminazione non è cosa facile, anzi è cosa ardua. Questo sapersi regolare con sapienza nella propria vita è uno dei rari frutti di un’ascesi matura, consapevole e non parziale, dove si abbraccia il mistero pasquale e il mistero degli opposti che esso comporta: «La kénosi esistenziale è un’anticipazione della morte e cioè dell’autocompimento assoluto nell’assoluto annientamento».51 Lo stesso psicanalista Jung ha vissuto il dramma di non ripresentarsi in vecchiaia come lo stesso uomo e lo stesso medico che era stato in giovinezza e in piena maturità. Ma quale fatica accettare prima di tutto personalmente e poi far accettare dagli altri che aveva bisogno di tempo e di spazio per se stesso e per preparare la sua anima e il suo corpo alla morte. Così egli scrive: Nell’adulto si cela un bambino, un eterno fanciullo, una parte interna in continuo divenire, mai compiuta, che richiederebbe costante cura, attenzione ed educazione. È questa parte della personalità umana che dovrebbe giungere alla totalità. Ma l’uomo del nostro tempo teme infinitamente questa totalità.52

  Boros, Mysterium mortis, 122.   Jung, Simboli della trasformazione, 165.

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In questo contesto potremmo radicalizzare quanto detto da Jung dicendo che nel «vecchio si cela un bambino». Di questo, fanno esperienza coloro che sono chiamati a prendersi cura da vicino dei malati e dei vecchi. Da costoro si sente spesso dire: «Ormai è come un bambino». In questa frase rimane una certa ambiguità nel senso che può essere intesa come un progresso verso una semplicità e docilità crescente, oppure esattamente il contrario verso un radicalizzato egoismo. Come un bambino non può essere lasciato solo nel suo cammino di sviluppo della sua personalità in modo che si affranchi sempre più dal proprio innato egoismo per porsi sempre meglio in relazione, così l’anziano va accompagnato, affiancato, sostenuto e stimolato verso un’amplificazione del suo essere per evitare il ripiegamento. In un’epoca in cui si insiste sulla formazione e si preparano – talora con qualche eccesso – i «formatori», siamo chiamati, dalla vita e dalle situazioni che viviamo, a profondere la stessa energia nel preparare accompagnatori capaci di prendersi cura dei fratelli e sorelle anziani, malati, moribondi. Il doloroso passaggio nel tempo della pandemia ci ha fatto toccare con mano il dramma di non poter accompagnare per motivi sanitari nel momento di maggiore bisogno di presenza: l’agonia del parto nella morte. Tutti abbiamo sentito, come non mai, il dramma di non poter essere accanto, per aiutare il compimento. Infatti: La morte verrebbe quindi ad essere un ridiscendere alla matrice centrale, alla radice unitaria del mondo, dove tutto trova la sua unità e connessione, dove tutte le cose dello spazio e del tempo trovano la loro vicendevole relazione e dove esse vivono come da un’unica radice, dove giace l’estrema profondità di tutto ciò che è visibile. […] Nell’evento metafisico della morte l’anima

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spirituale raggiunge il «cuore della terra», il «cuore dell’universo» (Mt 12,40). In questo luogo essa prende la sua decisione totale.53

In questo sommo momento della vita non basta solo distribuire o far distribuire medicine e tenere funzionanti i macchinari. Ci vuole ben altro e sono necessarie ben altre qualità di presenze che siano terapeutiche in quanto capaci di aprire nuovi sensi ai sensi e inimmaginate sfumature al gusto del vivere. In un mondo e in una cultura così tecnologizzata il rischio è quello di identificare la capacità con la tecnica, mentre riguardo alle cose che toccano l’umanità dell’uomo è necessario sempre un qualcosa in più, qualcosa di più profondo. Se ne sono accorti  –  e hanno provveduto come hanno potuto  –  i sanitari nel corso dei ricoveri in terapia intensiva, quando hanno mantenuto vivi i legami per aiutare a tenere vivi i moribondi anche solo con una videochiamata che ristabilisse la presenza degli affetti. Da sempre questo fa parte dell’arte di curare che è più grande dell’arte medica e, nell’emergenza, medici e operatori sanitari lo hanno dimostrato ancora una volta fino a morirne. Già Paracelso affermava parlando del medico: «In primo luogo v’è un gran bisogno di parlare della compassione, che nel medico dev’essere innata: “Dove non c’è amore non c’è arte”».54 Vi è un profondo bisogno di persone capaci di quest’arte di amare senza semplicemente coccolare con la soddisfazione dei bisogni primari. Forse si è già un po’ in ritardo nel preparare e far crescere all’interno delle nostre comunità persone capaci di svolgere l’ufficio classico di «infermiere», ma con la competenza artistica di un medico dell’anima. Spesso, infatti, chi

  Boros, Mysterium mortis, 128-129.   Jung, Studi sull’alchimia, 145-146.

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assicura questo servizio dovrà essere «ostetrico della morte».55 Come il padre maestro è stato «ostetrico della vita». Infatti, «se abbiamo bisogno di levatrici che ci mettano al mondo, avremo ancora più bisogno di qualcuno che ci faccia uscire da esso».56 Di fatto la nascita è un momento critico per il nascituro come il noviziato lo è per l’iniziando: solo la morte vi assomiglierà! Come spiega egregiamente Boros: In essa (la nascita) il bambino viene, per così dire, tratto con violenza dalle angustie del seno materno e viene così costretto ad abbandonare l’abitualità e la protezione nella quale era immerso. Egli viene consegnato all’estraneità e viene minacciato da un annientamento totale. Nello stesso tempo si apre davanti a lui un mondo nuovo e sconfinato, un nuovo aspetto del mondo, il mondo della luce, dei colori, dei significati, dell’essere con gli altri e dell’amore. Qualcosa di simile avviene nella morte con l’anima spirituale. Essa viene strappata violentemente dai limiti del suo mondo corporale. Contemporaneamente essa perviene ad una nuova relazione al mondo, essenziale, estendentesi fino ai confini ultimi dell’universo. […] Nella morte l’anima raggiunge la totalità di quanto desiderava in ognuno dei suoi atti (morte come incontro totale con se stessi) ed essa viene radicata nello stesso tempo nel fondamento del mondo (morte come presenza totale al mondo).57

In tal senso si tratta di aprire gli occhi sulla necessità delle iniziazioni. Attualmente nei nostri ambienti occidentali siamo tutti  –  bene o male  –  protagonisti o spettatori di quelle che chiamiamo «crisi». Per i più anziani è stata una bella sfida capire che cosa fossero e perché succedessero sempre più spesso. Le «crisi» nei nostri ambienti sembrano essere le uniche possibilità che abbiamo lasciato alla vita per fare il suo corso avendo allentato o fatto scomparire del tutto le iniziazioni. Così  M. Abiven, Une étique pour la mort, DDB, Paris 1995, 154  M. de Montaigne, Saggi, vol. III, 14. 57   Boros, Mysterium mortis, 130-131. 55 56

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scrive Christian Singer: «Un amico antropologo mi ha riferito queste parole che gli ha detto un africano: “No, Signore, noi non abbiamo crisi, noi abbiamo le iniziazioni”».58 Per questo servizio è necessario avere una capacità di esprimere le emozioni senza farsene travolgere e perciò una conoscenza della propria umanità capace di comprendere quella altrui. La condizione ineludibile per accompagnare la vita dei fratelli in noviziato e in infermeria è la stessa: «Non deve temere la propria umanità».59 Quando si viene informati della trasformazione di una casa di noviziato in una grande casa per fratelli o sorelle anziani si sente nella voce un tono di rammarico e di frustrazione. Si dovrebbe imparare, invece, a stupirsi come nel caso di questa preghiera scritta da una donna parlando di sé: «Sì, è incinta la vecchia, la sua è una gioia fatta di stupore e di dolcezza; nessun Abramo l’ha sfiorata, nessun angelo le ha parlato ma in lei c’è un appello. Chi dunque e che cosa è venuto ad abitare in lei così dolcemente?». Un altro modo di leggere la necessità non come sorda costrizione, ma come opzione affidata alla libertà del proprio consenso. Proprio in questa necessità e scelta  –  talora subita e vissuta con un senso di fallimento  –  può essere letto un appello: accompagnare e iniziare alla morte attraverso la malattia e la vecchiaia è qualcosa di così importante da essere unico. Quanta mondanità e secolarità si sia inserita nei nostri ambienti, lo si può dedurre proprio in questi casi. Aiutare i fratelli e le sorelle a collocare la morte nel loro cammino e processo spirituale è la cosa più importante nella vita. Come spiega ancora Jung:

 C. Singer, Du bon usage des crises, Albin Michel, Paris 1996, 43.   Cf. G. Piret, «Les émotions et l’accompagnement des malades», in Vie consacrée 2(1977), 112-117. 58 59

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Anche l’adulto si può educare: può essere addirittura un ottimo oggetto dell’arte dell’educazione individuale. [...] Gli si dovrebbero cioè fornire quelle conoscenze psicologiche che gli permettano di educare se stesso. [...] Per autoeducarci abbiamo bisogno, come base indispensabile, di conoscere noi stessi.60

E tra le tante realtà che fanno parte di questo processo di autoeducazione c’è sicuramente la realtà della morte e della sua giusta e adeguata collocazione nel proprio processo di santificazione. Come si è più volte ripetuto, un simile processo non s’improvvisa, ma si prepara. Così pure non s’improvvisa la capacità di favorire e accompagnare i fratelli e le sorelle lungo questo cammino verso il compimento. Naturalmente, nessuno sarà capace di assicurare questo servizio  –  indispensabile e sempre più urgente  –  se non avrà saputo portare il carico della propria sofferenza, delle morti intercorse nella vita, degli inevitabili fallimenti conditi di rammarico. Un simile servizio d’amore alla vita nella sua fase più delicata sarà impossibile se non si avrà avuto cura di metabolizzare tutto ciò che concerne il limite di cui la vita ci fa prendere coscienza talora duramente. Rimane tremendamente vero che la morte della persona amata apre all’uomo la scoperta di se stesso, basti pensare alle tragedie greche e a Padri della Chiesa come Ambrogio o Agostino il quale, davanti alla morte dell’amico, scrive: «Ogni oggetto su cui posavo lo sguardo era morte. Tutte le cose che avevo in comune con lui, la sua assenza aveva trasformate in uno strazio immane. Io stesso ero diventato per me un grosso problema».61 Uno dei criteri per la scelta di persone da formare come accompagnatori e iniziatori di fratelli e sorelle più prossimi alla morte è proprio l’esperienza di una «certa morte» nel loro  C.G. Jung, Lo sviluppo della personalità, Bollati Boringhieri 1991, 56-57.   Agostino, Confessioni, IV, 4, 9.

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vissuto. Sono questi fratelli e sorelle che hanno saputo affrontare le prove della vita  –  rimanendo vivi e diventando più vivi  –  a poter essere i padri/maestri e le madri/maestre della terza figliolanza che fa scivolare serenamente nell’abbraccio del Padre in cui solo c’è la perfetta guarigione. Senza questa conoscenza interiore sarebbe tutto inadeguato e inutile poiché in verità ci si deve continuare a chiedere con Malraux: «Se l’uomo non sia nato quando per la prima volta, davanti a un cadavere, ha sussurrato “perché?”».62 Difficilmente una persona può inoltrarsi nella vita consacrata con le sue esigenze e perseverarvi felicemente senza aver incontrato la morte e il suo mistero e per aver trovato in essa  –  al pari del principe Siddharta  –  non un raggio di tenebra inquietante bensì una illuminazione per le proprie tenebre. Chi non conosce tutto questo è meglio che stia lontano da ogni ambito di iniziazione, quello del principio e quello della fine, per i quali servono uomini e donne del profondo. Non va infatti dimenticato, ma tenuto assai presente, un dato empirico che ci viene dall’esperienza medica sempre di Jung, il quale annota: Ho osservato che proprio le stesse persone giovani che temono la vita sono soggette più tardi all’angoscia della morte. [...] Siamo invece a tal punto convinti che la morte sia soltanto la fine di un fluire, che di solito non ci accade di concepire la morte come uno scopo o un compimento, come si fa per le mete e i progetti d’una vita giovanile, in fase ascendente.63

 A. Malraux, Lazare, Gallimard, Paris 1974, 134.   Jung, La dinamica dell’inconscio, 436.

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Guarigione di salvezza

Come si è già ricordato e accennato, una delle tappe più importanti e significative nel processo di maturazione spirituale è quella del superamento di una visione della vita come buon funzionamento organico e psichico  –  basti pensare al grande appello che può essere l’ammalarsi del morbo di Alzheimer. Così pure un salto di qualità nel modo di sentire e di vivere il mistero dell’esistenza sta proprio nel non sperare più nella guarigione, ma nell’imparare a sperare sempre di più e sempre più totalmente nella salvezza. Di certo quest’ultima, normalmente, include la sanità del corpo e della psiche, ma conduce ben oltre e apre all’orizzonte di una salvezza che può essere vissuta veramente persino nel declino delle forze e nella stessa morte. La volontà di guarire, il desiderio di vivere e l’atto di concentrare le proprie energie interiori e spirituali verso questo fine è un elemento spesso attestato nei racconti di guarigione. Questi sono, in realtà, una relazione terapeutica profondamente personale che s’instaura tra il Signore Gesù e coloro che lo supplicano. La volontà di vivere non è un’astrazione teorica, ma una realtà anche fisiologica che possiede caratteristiche terapeutiche in senso lato e profondo. In tal senso è doveroso ricomprendere il senso della sofferenza come mistero, rifuggendo da ogni deriva sadomasochistica di «offerenza» che può dire, fino a ribadire dannosamente, un’errata immagine di Dio, di un Dio ancora sanguinario, perverso; oppure, un’errata immagine di se stessi, segnata da un narcisismo 44

frustrato che si ritaglia  –  in modo alternativo  –  una via per essere al centro e alla regìa della storia. La consegna spirituale «offri le tue sofferenze» deve conoscere un processo di chiarificazione. […] Se colui che soffre ha qualcosa da offrire nella sua prova, non sono le sue miserie, le sue malattie, le sue sofferenze  –  tutte cose che dispiacciono a Dio, come mostra l’atteggiamento di Gesù nel vangelo  –, bensì è questo lavoro discreto di Dio in lui. È questa scoperta stupefacente e talvolta anche meravigliata che, se ci si rimette nelle mani di Dio, la vita può ancora sgorgare anche quando il male sembra sommergere tutto.64

La teologia cristologica afferma che l’amore, e non la sofferenza, salva. Entrare in questo dinamismo rimane una possibilità bifronte: può abbruttire o rendere belli, buoni, veri. Come ha avuto occasione di dire un malato di cancro, intervistato da André Sève, rimane un dato vero e alla cui luce verificare il nostro rapporto con la sofferenza, poiché «Cristo non ha offerto le sue sofferenze al Padre, ma gli ha offerto ciò che egli diventava in quelle sofferenze: un essere che andava fino al fondo, fino all’estremo, fino al punto più profondo dell’amore, fino a quei vertici d’amore che sono capaci di salvare».65 Non entrare in questa logica e non condurre maieuticamente verso quest’orizzonte rischia di creare situazioni e modi di relazione alquanto patetici conditi di «innocenti bugie» che creano un’atmosfera ben più disumana di una verità detta nell’amore e vissuta con amore. Come spiega ancora Jung: Nella seconda metà dell’esistenza rimane vivo soltanto chi, con la vita, vuole morire. Perché ciò che accade nell’ora segreta del mezzogiorno della vita è l’inversione della parabola, è la nascita della morte. La vita dopo quell’ora non significa più ascesa, 64   X. Thévenot, Souffrance, bonheur, éthique. Conférences spirituelles, Salvator, Mulhouse 1990, 27. 65   Citato da Manicardi, L’umano soffrire, 175.

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sviluppo, aumento, esaltazione vitale, ma morte, dato che il suo scopo è la fine. «Disconoscere la propria età» significa «ribellarsi alla propria fine». Entrambi sono un «non voler vivere»; giacché «non voler vivere» e «non voler morire» sono la stessa cosa.66

Si tratta di fare piazza pulita di tutto quell’armamentario di illusioni e di mezze verità con cui si è sempre più soliti accompagnare la malattia e la vecchiaia: «L’anno prossimo faremo…», «Quando starai meglio…», «Non preoccuparti che passa…»! Nonostante le buone intenzioni, quest’atmosfera di menzogna, in cui il fratello più prossimo alla morte  –  per vecchiaia o per malattia  –  viene come imbozzolato e continuamente sedato, rischia di rendere le cose più penose e difficili. Carica sul fratello o la sorella il grande peso di far finta di non aver capito la propria situazione. Si entra così in un circolo di apparenti coccole e illusioni che rischiano di derubare il fratello o la sorella della possibilità di vivere la propria morte. Sarebbe come impedire di inciampare a un bambino piccolo che cerca di imparare a camminare risparmiandogli la fatica di cadere. Invece è necessario sostenere e facilitare il passaggio  –  la Pasqua interiore  –  dal desiderio di guarigione a quello della salvezza, che comincia a cogliere i nuovi orizzonti della guarigione. Di questo testimoniano i Vangeli tutte le volte in cui l’esperienza di guarigione fisica e psichica è solo l’inizio e la possibilità di vivere la salvezza come guarigione totale. Il malato guarito, guardando indietro, non dice più «mi hai guarito», ma «mi hai salvato». In questo misterioso processo non è escluso il senso di perdita, ma anzi è profondamente incluso. Non va dimenticato che la malattia tornerà e la morte comunque verrà, anche se diversa sarà la modalità di attraversarle.

  Jung, La dinamica dell’inconscio, 437.

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Tutto quello che ogni giorno ci viene offerto dalla nostra vita  –  la Parola, i sacramenti, le letture, gli esempi, l’aiuto fraterno  –  esigono di elevarci dalla mediocrità per cominciare a portare a compimento la nostra vita come un regalo per gli altri. Tutto questo esige un combattimento serio e metodico fino all’ultimo. Un grande medico come Paracelso arriva a dire che «le malattie non sono corpora; perciò deve impiegarsi spirito contro spirito». In proposito, dopo il grande medico, possiamo dare la parola a Rilke, che così scrive nella sua lettera al «giovane poeta»: Se qualcosa dei vostri processi ha l’aspetto di una malattia, riflettete che la malattia è il mezzo con cui l’organismo si libera dell’estraneo; allora bisogna solo aiutarlo ad essere malato, con tutta la sua malattia, che scoppi poiché questo è il suo progresso. Ma in ogni malattia ci sono molti giorni in cui il medico non può fare altro che attendere. Non vi osservate troppo. Non ricavate conclusioni troppo rapide da quello che vi accade; lasciate che semplicemente vi accada.67

La malattia per il poeta non deve creare un narcisismo rovesciato. Secondo Paracelso essa rimane in sostanza «una concrescenza naturale, qualche cosa di spirituale, di vivente, un germe». Possiamo dire che la malattia è una compagna vivente, un vero e proprio elemento costitutivo della vita umana, e non quell’odioso corpo estraneo che è invece per noi. Tanto che «eccellente, a suo modo, è l’idea che il mondo intero sia una farmacia e Dio stesso il migliore dei farmacisti».68 Entrare in questo modo di intendere e attraversare la malattia e la vecchiaia significa vivere comunque la salvezza fino a decantarne i benefici e la grande opportunità che proprio essa e malgrado tutto rappresenta:  R.M. Rilke, Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 1981, 61.   Jung, Studi sull’alchimia, 11-12.

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O malattia che guarisce i malati, che guida i credenti e si oppone alla morte, malattia nemica del tentatore e cammino verso la redenzione, malattia che è fondamento delle anime, padrona della vita dei credenti, che li guida verso la pietà, o malattia che guarisce coloro che hanno la febbre, aspersa dall’acqua del battesimo e rivestita dalla veste candida, o malattia che dona il pane del cielo e che è un candeliere di virtù per la fede, una trappola per Satana e un sigillo per gli uomini.69

  Pseudo Ippolito, citato in A. Marchadour, Personaggi del Vangelo di Giovanni, EDB, Bologna 2007, 62. 69

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Terza figliolanza

Come ha avuto modo di ricordare papa Francesco nell’omelia della Domenica delle Palme celebrata nella basilica di san Pietro deserta: «Il dramma che stiamo attraversando in questo tempo ci spinge a prendere sul serio quel che è serio, a non perderci in cose di poco conto; a riscoprire che la vita non serve se non si serve. Perché la vita si misura sull’amore». Dopo tanti tentativi di rilanciare e talora rianimare la vita consacrata, il tempo che stiamo attraversando potrebbe essere l’occasione per fare un salto di serietà nel senso dell’autenticità. Un simile salto di qualità non può avvenire senza la disponibilità a un serio discernimento dei segni dei tempi. A questo passo importante andrebbe premesso un altrettanto serio esame di coscienza sulla gerarchia delle priorità che abbiamo dato alla nostra vita consacrata. Seguendo la mentalità mondana abbiamo negato la malattia, la vecchiaia e la morte, oppure ce ne siamo come liberati non dando a queste realtà il giusto peso e la giusta importanza. La pandemia ci ha permesso di imparare di nuovo che tra i momenti più preziosi della vita quello decisivo è proprio quello della morte. Ce ne siamo accorti dolorosamente e in modo attonito quando molte persone sono scomparse alla porta di un Pronto Soccorso e ci sono state restituite in una bara o in un’urna cineraria. La situazione di emergenza ci ha costretti a ricordare quanto scriveva Carlo Molari: La nostra attività terrena non è solamente un’occasione per realizzare imprese o svolgere compiti e meritare premi, bensì è lo

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spazio del nostro diventare persone, il fiorire del progetto salvifico che portiamo in germe. La condizione umana sulla terra è quindi soggetta ad ambiguità: può sfociare in un compimento definitivo o esaurirsi nel vuoto di un tentativo fallimentare. La morte sarà perciò il momento di un giudizio o meglio di una rivelazione (apocalisse).70

L’invecchiare e la malattia rappresentano gli angeli di questa «apocalisse», senza il cui aiuto il salto finale sarebbe impossibile o rimarrebbe comunque inutile, perché inconscio o semplicemente materiale. La terza figliolanza intesa come l’estremo abbandono, dopo essere stati figli e averne generati in vario modo, è il compito dell’ultima fase della vita. La prima figliolanza è quella naturale/ilica, sperimentata in famiglia e negli elementi a essa affini ed è legata alla necessità. La seconda figliolanza è quella psichica, legata alla scelta di uno stile di vita con l’assunzione del rischio e delle conseguenze dell’immersione in relazioni sociali scelte: questa è legata alla libertà. La terza figliolanza corrisponde allo stadio pneumatico ed è legata alla capacità di integrare necessità e libertà in un abbandono assoluto al germe divino che ci è stato donato come premessa di una grande promessa. Non si può tacere che questa terza figliolanza può anche non sorgere mai: Non dimentichiamo che sono molto pochi gli artisti della vita; l’arte di vivere è la più nobile e la più rara di tutte; chi riesce a vuotare in bellezza tutto il contenuto della coppa? Troppe cose restano che molti non hanno vissuto e che del resto con la migliore volontà del mondo non avrebbero potuto vivere, di modo che essi arrivano alla soglia della vecchiaia carichi di desideri non realizzati, che li costringono a volgere volontariamente lo sguardo verso il passato.71

  Molari, «L’invecchiare: una comprensione in una prospettiva dinamica», 58.   Jung, La dinamica dell’inconscio, 429.

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Proprio questo sguardo proteso «verso il passato» che si rischia di incrociare in molti corridoi dei nostri monasteri e dei nostri conventi  –  e non solo  –  è il segno di un fallimento più grave di tutti i nostri fallimenti. Non lo dico in senso morale, ma in senso esistenziale: si manca il bersaglio dopo aver tirato a lungo l’arco! Invece dovrebbe avvenire esattamente il contrario. E perché avvenga fino in fondo è necessario abbracciare il momento presente come il «grande momento» del proprio percorso esistenziale, quando finalmente lasciamo a Dio il timone della nostra barca per raggiungere il porto al largo dell’oceano dell’eternità. Se in giovinezza e in piena maturità  –  sempre in piena salute  –  la barca dell’esistenza nell’oceano della vita procede a forza di remi e di vela, nella prossimità della morte basta tirare in barca i remi ed ammainare la vela. Bisogna semplicemente lasciarsi portare da quella giusta corrente in cui si è cercato per tutta la vita di immettersi. Così finalmente saremo in grado di lasciarci andare al grande riposo, ma con certa sicurezza. Vorrei citare un «detto» non di un padre del deserto, ma di un monaco e abate benedettino dei nostri giorni passato per il crogiolo dei campi nazisti, Denis Huerre (1915-2016), coscritto di Thomas Merton e, in pratica, coetaneo di Etty Hillesum. Alla fine della sua ben più lunga vita così insegnava, dopo aver smesso di dare lezioni: Non si diventa che lentamente uomini, donne, filosofi… veri. Non si diventa che lentamente cristiani, spero tanto di morire cristiano. La vita contemplativa non è altro che prendere tutto il tempo di respirare come Dio, in due respiri che sono uno solo: «Tu sei mio Figlio; tu sei mio Padre». La novità cristiana a proposito di Dio

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non sta interamente in questo respiro?

Penso che papa Francesco amerebbe questo «detto» dei giorni nostri. In ogni modo nel testamento di questo monaco ritroviamo una traccia per chiunque voglia rinnovare la gioia esaltante di Antiochia, dove «per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani» (At 11,26). Con stupore ho scoperto che questo appellativo è un hapax, non si trova in nessuno altro passo del canone biblico, forse perché è una parola unica. Sembra che siano gli altri a darci questo nome di «cristiani» che non possiamo darci mai da soli e giammai contro gli altri. Come generazione di consacrati e consacrate che hanno dovuto attraversare la pandemia del Covid-19 siamo chiamati ad essere non solo consolatori in un nuovo «dopo guerra», come dicono i giornali, ma profeti appassionati di un lungo tempo di convalescenza dell’umanità. Mentre speriamo di trovarci, ben presto, al di là dei flutti del Mare Rosso in cui sta annegando l’immagine faraonica del nostro modo di concepire il mondo, si apre davanti a noi un deserto da attraversare. Come il popolo scampato ai flutti, dovremo camminare a lungo e con grande fatica per maturare quella libertà interiore che permette di fare spazio al Regno di Dio. Sicuramente ci saranno momenti di stanchezza e di ribellione. Speriamo di non ricadere nell’idolatria compensatrice, di non far finta che nulla sia accaduto agli altri e a noi stessi.

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Profeti di un sogno comune

Il profeta Gioele nella sua visione che la Chiesa rievoca ogni anno nel giorno di Pentecoste dice che «i vostri anziani faranno sogni» (Gl 3,1). Ma i sogni degli anziani sono e devono essere diversi da quelli che fanno i giovani. Per citare ancora una volta il cardinal Martini, interrogato sul tema della speranza, riporto quanto egli disse in un dialogo famigliare: «La speranza è sempre delle cose invisibili» (cf. Eb 11,1). Così spiegava il passo di Gioele ai giovani della sua diocesi: Sono parole «strane». Di solito succede il contrario. I giovani fanno sogni, cioè fantasie, senza troppe remore e senza realismo. Sognano e basta. I vecchi invece, più sobri, hanno visioni, cioè previsioni precise di futuro, sguardi profetici. Ma la Scrittura questa volta ci dice il contrario: i vecchi hanno sogni che svaniscono al mattino come il fumo, i giovani invece sono capaci di avere visioni, cioè, guardando al futuro, di interpretare la realtà, il senso degli eventi dolorosi e gravi che stiamo vivendo, di intuire ciò che sta per avvenire, in altre parole «sentinelle del mattino».72

I sogni dei vecchi dovrebbero essere sempre più sogni impossibili per alimentare la fede delle nuove generazioni e riscaldare il loro amore. Ma questo privilegio di sognare sembra essere direttamente proporzionale alla propria sapienza che si esprime in una capacità di essere presenti in un modo nuovo  C.M. Martini, Conclusione del Sinodo dei giovani, Centro Ambrosiano, Milano 2002. 72

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sicuramente distaccato e attraversato da un incanto sconosciuto ai giovani. Come si rapporta nel Dizionario degli Istituti di Perfezione: Quanto più ampie sono le responsabilità e le cariche, tanto più ampio risulta il fattore «età». Sicché, di per sé l’invecchiamento o aumento dell’età non risulta mai una perdita di incremento e di peso morale, quanto piuttosto un buon certificato di accesso e di idoneità, perfino in caso di malanni ordinari, che non offuscano ma esaltano  –  come si legge appunto in un’inchiesta del 1848  –  il fulgore del «superiore doppiamente venerando».73

Forse una delle carenze della vita religiosa odierna è proprio quella di anziani che siano «venerandi». E questo esige di certo l’atteggiamento di riconoscimento da parte dei più giovani ma anche l’accettazione degli anziani di essere motivo di «venerazione» con tutto ciò che comporta. Questa relazione sempre più disequilibrata tra anziani e giovani, i quali spesso sono solo meno anziani o non ancora tali, è una vera sfida. Benedetto, nella Regola, dà una consegna chiara ai suoi monaci: «Venerare gli anziani, amare i giovani».74 Essere venerandi significa accettare di essere tenuti a una certa distanza dal fluire consueto della vita per essere capaci di dare un senso più chiaro a tutte le questioni in cui si dibatte la generazione più attiva. Nel Dizionario degli Istituti di Perfezione si può leggere quanto segue: Non si può sottacere innanzitutto una differenza d’invecchiamento dei religiosi rispetto all’invecchiamento dei laici nella società. Per es. l’ingresso dei religiosi nella vecchiaia non viene sentito come perdita del ruolo sociale (spesso non c’è un pensionamento obbligatorio, anzi si può giungere ad un sovraccarico di lavoro) e anche l’isolamento sociale nelle comunità è vissuto

  Dizionario degli Istituti di Perfezione, vol. 9, col. 1016.   Benedetto, Regola, IV.

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meno dolorosamente. Il religioso non entra in una famiglia religiosa come si entra in un’azienda, per lavorare per un certo periodo, ma per tutta la vita, e l’idea di essere «pensionati» a una certa età non è compresa nel religious way of life, anche se ciò non significa che a una certa età non si possa cambiare lavoro.75

In realtà questo  –  soprattutto nei cosiddetti Istituti di vita apostolica  –  rischia di mettere in luce un grande equivoco di fondo. In qualunque Istituto di vita consacrata, come pure in qualsiasi stato di vita, incluso il matrimonio, non si entra per lavorare per tutta la vita, ma per vivere per tutta la vita nello stato avvertito come il proprio. Per tutta la vita bisogna cercare Dio e, all’approssimarsi della morte, questa ricerca di Dio dovrebbe diventare più appassionante e appassionata tanto da poter occupare  –  veramente  –  tutta la vita. Un segno di autenticità della vita consacrata è il superamento della paura che permette di sognare e costruire un futuro pieno di speranza, pensando che si attui senza di noi e si realizzi persino «contro di noi», nel senso che non tenga conto dei nostri sogni, ma realizzi il sogno di Dio. La testimonianza della vita consacrata conosce uno dei suoi momenti più forti e irrinunciabili nella capacità di dire, con la propria semplice esistenza, di credere e desiderare la vita eterna. Rimane dunque vero che «è nel confronto con la morte che il monaco situa il suo incontro con la realtà ultima». Un pensiero stupendamente ribadito – con il suo insuperabile livello letterario e umano  –  da Cristina Campo. Questa insigne poetessa, con il suo scrivere «a piedi nudi», sotto il 75   Dizionario degli Istituti di Perfezione, vol. 9, col. 1018. Si noti che l’autore di questa voce (C. Semeraro) scriveva nel 1997 e indicava come priorità: la formazione preventiva all’invecchiamento; l’obbligo di aiutare il religioso anziano a realizzare una formazione compensativa per essere capace di affrontare la sua stessa esperienza di invecchiamento. Lo stesso autore segnalava le due possibilità di tenere gli anziani con i giovani  –  come in passato  –  oppure in strutture per loro e richiamava l’istituzione in Germania del Solidarwerk der katholischen Orden Deutschlands (1991).

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simbolo di Belinda fa percepire come certe trasformazioni e redenzioni non siano più necessarie quando si acconsente alla trasfigurazione interiore. Ma non si è mai al sicuro, poiché si corre sempre «il rischio di una ricaduta nel cerchio magico del passato che può devastare, come un gelo fuori stagione, ciò che ha così lungamente atteso di sbocciare: il presente». L’accoglienza del presente come tempo intermedio, che permette al passato di farsi futuro, è il tempo della vigilanza e dell’amore. Per viverlo fino in fondo, senza voler sapere quanto durerà, è necessario imitare le vergini sagge del Vangelo e premunirsi di una piccola grande riserva di quell’olio che è la docilità allo Spirito effuso dal Crocifisso-Risorto. Ogni consacrato compie la sua vocazione non tanto quando fa delle cose buone, ma quando diventa libero, sereno, distaccato, non coinvolto nell’agitazione propria degli affari comuni della maggioranza dei mortali, perché egli ha già affrontato apertamente la morte. È morto della Grande Morte, come dice lo Zen: «Ogni mattina e ogni sera dovremmo continuamente pensare alla morte, sentendoci già morti da sempre; in tal modo, saremo liberi di muoverci in ogni situazione»,76 facendo sempre del bene senza troppo soffermarci su quello che riusciamo a compiere. Il monaco come ogni consacrato è in una qualche maniera un «aristocratico». Appartiene a una minoranza totalmente rivolta allo scopo finale, ed egli può vivere tale tipo di vita emblematicamente e perfino vicariamente anche per gli altri. Non è un egoista, ma rappresenta in qualche modo un’eccezione.77 Un’eccezione capace di fare da lievito alla realtà di ogni giorno vissuta da tutti i fratelli e le sorelle in umanità trainando, con loro e per loro, il dolce carico della speranza.  Y. Tsunetomo, Hagakure. Il codice dei samurai, BUR, Milano 2003, 32.   Cf. R. Panikkar, La sfida di scoprirsi monaco, Cittadella, Assisi 1991, 147.

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Nella misura in cui un uomo o una donna sono capaci di conoscere e affrontare la «psicodinamica della paura»78 l’umanità intera sperimenta una liberazione e fa esperienza di salvezza. Proprio perché l’eterna imminenza delle morte fa parte dell’essenza della speranza. Nel presente, dove si afferma la sovranità del soggetto, c’è speranza. La speranza non si aggiunge alla morte con una specie di salto mortale, con una specie di incoerenza; essa si trova nel margine stesso che, nel momento della morte, è dato al soggetto che sta per morire. Spiro-spero […]. Il nulla è impossibile.79

Entrare in questo gioco significa accettare di sperare contro ogni speranza e di continuare a sognare quando tutto sembra perduto. Sembra quindi necessario e augurabile conservare questa profonda e amorosa sensibilità in modo da non perdere gli ultimi sogni della vita, quelli appunto che possono avvenire solo in conspectu mortis. I sogni del tempo di compimento non riguardano più se stessi, ma solo gli altri. Diventano così un dono gratuito per quanti vengono dopo di noi, ma non sono in nulla obbligati a dare seguito ai nostri sogni se li vogliamo veramente gratuiti. Si tratta di sentire il dovere della tradizione come trasmissione di valori nella loro forma di sogni che diventano segni. Per questo il grande gesto e la grande eredità da lasciare dietro di sé come una scia di intenso profumo di vita è la libertà conquistata di morire in pace e la libertà donata agli altri di vivere pienamente e diversamente. In tal senso è proprio vero che «la morte semplifica tutto».80 Quando diciamo che la morte semplifica, non significa che ciò non comporti il dovere di affrontare con coraggio l’angoscia che ogni essere vivente avverte di fronte alla necessità di  E. Drewermann, C’è speranza per la fede?, Queriniana, Brescia 2002, 169.  E. Lévinas, Il Tempo e l’Altro, Il Melangolo, Genova 1997, 44. 80   Panikkar, La sfida di scoprirsi monaco, 147-148. 78 79

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morire. Non è agevole aprirsi al mistero della vita eterna come «vita non morta», perché esige un vivere non da moribondi, ma da pienamente viventi. Si potrebbe definire questo delicato e fondamentale processo come un passaggio dalla morte all’amore, nel senso proprio del consenso pieno e consapevole all’integralità del dramma di vivere che comporta l’atto finale del morire. La morte convola a nozze, come è scritto nel libro dello Zohar: «I santi non muoiono ma si sposano».81 Il monaco come ogni consacrato e consacrata, che normalmente viene identificato con la sua rinuncia alla nuzialità, con la sua scelta di vita e la sua coraggiosa perseveranza si sposta, passo dopo passo, verso il crinale dell’abisso del mistero dove «non bisogna avere paura di avere paura».82 La morte ci rimanda all’esperienza fondamentale del nostro limite e della nostra consapevolezza di essere limitati. Questo fa sorgere la «paura» (Gen 3,10) come risultato della fine dell’illusione di non avere limitazione alcuna. Mettere a morte la paura è l’unico modo per non temere la morte e attraversarla come una forma di «libertà».83 Perché questo possa realmente avvenire è necessario conoscere e affrontare la «psicodinamica della paura».84 Buona parte della vita consacrata, in tutte le sue declinazioni, è un modo per vivere questo passaggio interiore di liberazione dalla paura, sicuri che nella risurrezione di Cristo Signore la morte è stata vinta non perché è stata eliminata, ma perché è stata rimessa al suo giusto posto. Papa Francesco ha chiarito e ha esortato in modo accorato i religiosi: la radicalità evangelica non è solamente dei religiosi: è richiesta a tutti. Ma i religiosi seguono il Signore in maniera speciale, in modo profetico. Io mi attendo da voi questa testimonianza.  A. de Souzenelle, La montagna e il suo simbolismo, Servitium, 2000, 168.  J.Y. Leloup, Aver cura dell’essere, Arkeios, Roma 1994, 70. 83  T. Merton, Scrivere è pensare, vivere, pregare, Garzanti, Milano 2001, 174. 84   Drewermann, C’è speranza per la fede?, 169. 81 82

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I religiosi devono essere uomini e donne capaci di svegliare il mondo.85

Questa consegna diventa ancora più stimolante in questo tempo in cui come uomini e donne consacrati a Dio per testimoniare il suo amore siamo obbligati a profetare nel mondo ferito dalla pandemia del Covid-19. I mass media fanno pronostici tremendamente infausti sul prossimo futuro dell’umanità dispersa nel mondo intero. Certamente nuove sfide epocali che non sono mai state così globali ci attendono tutti. Sta a noi scegliere di volerle affrontare tutti insieme. La fine del mondo che conosciamo è l’occasione per fare un passo deciso verso il mondo che attendiamo e siamo chiamati a costruire con le nostre mani, con la nostra intelligenza, con il nostro amore. Il tempo critico che ci è chiesto di vivere in comunione con tutti i nostri fratelli e sorelle in umanità potrebbe essere l’occasione per un salto non mortale, ma di qualità evangelica della nostra vita consacrata. La parola del profeta ci consola e ci stimola: «Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa» (Is 43,19). Potremo conoscere la sobria ebrezza di questo cammino solo se accetteremo di rimetterci in strada per vivere l’esodo che ci attende. La strada anche quando non è lunga esige leggerezza e il minimo di ingombro. Ancora una domanda può aiutarci a riprendere il cammino: di che cosa possiamo fare a meno per procedere più spediti e cosa possiamo finalmente lasciarci alle spalle senza inutili nostalgie? In tutta la tradizione troviamo continuamente resoconti della morte di uomini e donne che, alla fine del loro pellegrinaggio, sono realmente ed efficacemente capaci di dire e trasmettere il segreto della loro vita proprio nell’atto solenne   Francesco, Colloquio con i Superiori Generali, 29 novembre 2013.

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del morire vissuto non come liberazione, ma come atto di libertà. Tra le tante esperienze che si potrebbero citare, la morte di Beda il Venerabile dice l’assoluta continuità tra la vita e la morte. Ma ricorda, al contempo, quanto la vita attinga la sua più vivida luce proprio nella profondità delle ombre del compimento accolto, celebrato, amato: «Bene, disse, hai detto la verità; tutto è finito. Prendi la mia testa tra le tue mani perché mi piace assai stare seduto di fronte al santo posto in cui ero solito pregare, perché anch’io, stando seduto possa invocare il mio Padre». E così sul pavimento della sua cella cantando: «Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo», esalò l’ultimo respiro, e per essere stato sempre devotissimo nelle lodi di Dio sulla terra migrò alle gioie dei desideri celesti.86

  Cutberto, Lettera sulla morte di san Beda il Venerabile, 5.

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A proposito di questo volume

Come religiosi e religiose siamo chiamati a profetare nel mondo ferito dalla pandemia del Covid-19. I mass media fanno pronostici tremendamente infausti sul prossimo futuro dell’umanità. Nuove sfide epocali, mai state così globali, ci attendono tutti. La fine del mondo che conosciamo è l’occasione per fare un passo deciso verso il mondo che attendiamo e che siamo chiamati a costruire con le nostre mani, con la nostra intelligenza, con il nostro amore. Ogni consacrato compie la sua vocazione quando diventa libero, sereno, distaccato, non coinvolto nell’agitazione propria degli affari comuni della maggioranza dei mortali, perché egli ha già affrontato apertamente la morte. Il tempo critico che ci è chiesto di vivere, in comunione con tutti i nostri fratelli e sorelle in umanità, potrebbe essere l’occasione per un salto di qualità evangelica della nostra vita consacrata. Fratel MichaelDavide è monaco benedettino nella Koinonía de la Visitation a Rhêmes-Notre-Dame, in Valle d’Aosta (www.lavisitation.it) e dottore in Teologia spirituale alla Pontificia Università Gregoriana. Tra le sue più recenti pubblicazioni con EDB ricordiamo: Elogio della libertà. Il monachesimo come attuazione dell’umano (2019), I volti della misericordia. Via Crucis per il Giubileo (2016), Vivere il perdono (2015), Celebrare il perdono (2015), Pregare a tavola (2015), Non perfetti, ma felici. Per una profezia sostenibile della vita 61

consacrata (2015), Nelle tue mani è la mia vita. Rosario per i malati (2014), Fratelli e sorelle in umanità (2013), Spero lo Spirito Santo. Meditazioni per la Pentecoste (2012).

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