«Cose de laltro mondo». Una cultura di guerra attraverso la scrittura popolare trentina 1914-1918 8846734343, 9788846734341


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02_Capitolo_II_83
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04_Capitolo_IV_163
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«Cose de laltro mondo». Una cultura di guerra attraverso la scrittura popolare trentina 1914-1918
 8846734343, 9788846734341

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vince.letta

€ 27,00 ISBN 978-884673434-1

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Federico Mazzini

a Grande Guerra fu un enorme “esperimento di psicologia sociale”: nelle trincee si incontrarono e si scontrarono uomini di classe, provenienza e cultura diversa. La storiografia ha posto l’accento sull’effetto omogeneizzante della guerra totale, fino a parlare di una “cultura di guerra” di scala europea. Questo volume insegue la nozione di cultura di guerra nella scrittura popolare di una singola comunità contadina, quella del Trentino di inizio secolo sottoposto all’autorità asburgica, cercando le tracce di uno scontro – quello tra una cultura contadina e l’effetto disgregante della guerra totale – che si è giocato non nella trincea, ma principalmente sulle pagine di diari, memorie e memoriali. L’autore descrive i dispositivi retorici attraverso i quali gli aspetti potenzialmente destabilizzanti della guerra sono neutralizzati, domati, manipolati attraverso la parola scritta. Di fronte a un evento spesso considerato spartiacque della modernità, questo studio si occupa delle armi retoriche con cui la battaglia locale tra modernità e tradizione contadina venne combattuta e degli sforzi, forse disperati ma mai abbandonati dagli attori sociali, di affermare la continuità.

“Cose de laltro mondo”

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Federico Mazzini è assegnista di storia contemporanea presso l’Università di Padova. Si è occupato di scrittura popolare come fonte storica, con particolare attenzione alla scrittura contadina. E’ socio del Centro Interuniversitario di Storia Culturale. Fa parte della redazione del sito web del Centro, del sito web della Sissco e di “Snodi. Pubblici e privati nella Storia Contemporanea”. Attualmente si sta occupando della storia culturale di Internet e delle prime comunità virtuali.

ETS

Federico Mazzini “Cose de laltro mondo” Una cultura di guerra attraverso la scrittura popolare trentina 1914-1918

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Edizioni ETS

studi culturali

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studi culturali

Storia e storie capaci di intrecciare e attraversare saperi diversi; studi in grado di ripercorrere processi di concettualizzazione e di costruzione di categorie analitiche rilevanti. Itinerari che tentano di restituirci un senso del cambiamento culturale e della sensibilità collettiva; percorsi che attraversano forme diverse di comunicazione sociale e che elettivamente sostano sulle variegate figure dell’alterità, sugli anacronismi, sulle anomalie. Per queste vie ci incamminiamo.

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studi culturali

concetti e pratiche

collana diretta da Alberto Mario Banti, Arnold I. Davidson Vinzia Fiorino, Carlotta Sorba in collaborazione con

Centro Interuniversitario di Storia Culturale Università di Bologna, Padova, Pisa, Venezia 1. Lynn Hunt, La storia culturale nell’età globale trad. it. di Giovanni Campolo, 2010, pp. 136 2. Plunkitt di Tammany Hall a cura di Arnaldo Testi (2a edizione agg.), 2010, pp. 144 3. Pierre Macherey, Da Canguilhem a Foucault. La forza delle norme trad. it. di Paolo Godani, 2011, pp. 136 4. Lorenzo Viani, Le chiavi nel pozzo a cura di Marco Alessandrini, 2011, pp. 336 5. Alfred Binet, Il feticismo in amore a cura di Paolo Savoia, 2011, pp. 128 6. Carla Lonzi: la duplice radicalità. Dalla critica militante al femminismo di Rivolta a cura di Lara Conte, Vinzia Fiorino, Vanessa Martini, 2011, pp. 176 7. Vinzia Fiorino, Le officine della follia. Il frenocomio di Volterra (1888-1978), 2011, pp. 304 8. Federico Mazzini, “Cose de laltro mondo”. Una cultura di guerra attraverso la scrittura popolare trentina, 1914-1918, 2012, pp. 314 9. Jan Goldstein, Isteria complicata da estasi. Lo strano caso di Nanette Leroux. In preparazione

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“Cose de laltro mondo” Una cultura di guerra attraverso la scrittura popolare trentina, 1914-1918

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Questo volume è stato pubblicato con il contributo della Scuola di Dottorato in Scienze Storiche e Geografiche dell’Università di Padova - Dipartimento di Storia

© Copyright 2013 EDIZIONI ETS

Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa [email protected] www.edizioniets.com Distribuzione PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze] ISBN 978-884673434-1

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Introduzione

La categoria di “cultura di guerra” è stata ampiamente discussa in anni recenti e gode oggi di diffusa popolarità1. Il dibattito nasce dalla pubblicazione, nel 1990, del volume di F. Audoin-Rouzeau e A. Becker, 14-18 Retrouver la guerre2, ma è stato promosso e reso possibile dal lavoro del più ampio gruppo di studiosi che si raccoglie nel workshop dell’Historial di Péronne. La sede stessa del gruppo di ricerca, il castello di Péronne in Picardie, suggerisce l’ambito e le tendenze metodologiche che il centro predilige. La regione della Picardie, nel nord-ovest della Francia, è stata teatro delle più brutali battaglie del fronte occidentale e Péronne, piccolo paese sulla Somme che fu raso al suolo nel 1917, riveste un valore simbolico evidente in rapporto alla violenza del conflitto. L’impostazione museale del ricchissimo materiale del fronte occidentale, illustrato in tre lingue (francese, tedesco, inglese), rimanda esplicitamente a un approccio multinazionale all’esperienza di guerra, al di là delle tradizionali divisioni in aree tematico-geografiche e con una spiccatissima attenzione verso la cultura materiale e verso l’integrazione tra fronte di guerra e fronte interno. 1 Per una rassegna più approfondita rimando al mio contributo La cultura di guerra del primo conflitto mondiale: consenso, coercizione, numbness, in L. Baldissara (a cura di), La guerra giusta, concetti e forme storiche di legittimazione dei conflitti, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008; si veda anche Giovanna Procacci, Alcune recenti pubblicazioni sulla «cultura di guerra» e sulla percezione della morte nel primo conflitto mondiale, in Nicola Labanca e Giorgio Rochat (a cura di), Il soldato, la guerra, il rischio di morire, Unicopli, Milano 2004, pp. 107-124; Daniele Ceschin, Culture di guerra e violenza ai civili. Una “nouvelle histoire” della Grande Guerra? in «Ricerche di Storia Politica», 1 (2010), pp. 43-55; Nicola Labanca, Cultura di guerra, note su una categoria storica, in Piero Del Negro, Enrico Francia (a cura di), Guerra e culture di guerra nella storia d’Italia, Unicopli, Milano 2011. 2 Stéphane Audoin-Rouzeau, Annette Becker, ’14-’18 Retrouver la Guerre, Gallimard, Paris 2000 (trad. it. di S. Vacca, La violenza, la crociata, il lutto, Einaudi, Torino 2002. Prefazione di Antonio Gibelli).

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La “cultura” di cui parla Péronne nasce dall’analisi del fronte occidentale e da una tradizione accademica, quella francese, che non è nuova alla definizione della guerra come fenomeno antropologico e sociologico (già nel 1921 Marc Bloch la definisce un immenso esperimento di psicologia sociale). Nonostante l’influenza esplicitata di altre tradizioni storiografiche e il carattere internazionale del centro di ricerca, mi sembra che in esso sia innegabile la centralità del fronte occidentale e, in qualche modo, della parte francese di quel fronte. La rottura con la storiografia precedente determinata dal lavoro dell’Historial e simboleggiata da «Retrouver» è duplice, situata sia sul piano della definizione del campo di studi che nelle caratteristiche specifiche attribuite all’esperienza di guerra. La prima rottura è probabilmente la più decisiva, per quanto si inserisca in un filone di studi, di origine anglosassone, ma con illustri predecessori francesi (da Jean-Jacques Becker a Pierre Nora a Antoine Prost), che risale come minimo agli anni ’70. Jay Winter definisce questa svolta come l’imporsi di un «paradigma culturale» nella storiografia sulla Grande Guerra: dopo la histoire bataille del primo dopoguerra, dopo la storia sociale e il paradigma marxista degli anni ’70’80, la fondazione dell’Historial marcherebbe la nascita di una storiografia delle rappresentazioni, di una storia dell’intimo e delle pratiche significative3. Sul piano tematico questa nuova storia culturale del conflitto intende spostare l’attenzione storiografica sulla cultura materiale (oggetti di culto e di uso comune, monumenti, creazioni artistiche) e sulla ritualità collettiva (in particolare quella della mobilitazione e del lutto post-bellico), divertendola dalle testimonianze autobiografiche, viste come inaffidabili e perlopiù giustificatorie. Audoin-Rouzeau e A. Becker, in un articolo intitolato Vers une histoire culturelle de la première guerre mondiale4, delineano alcune delle linee guida del nuovo approccio e individuano nel superamento delle barriere nazionali la vera innovazione della storia culturale rispetto alla storiografia precedente. Se la storia culturale francese ha

3 Antoine Prost, Jay Winter, Penser la Grande Guerre, Seuil, Paris 2004, pp. 4250. Si veda anche Stéphane Audoin-Rouzeau, La violence de guerre au XXe siecle: un regard d’anthropologie historique, in «Les jeudis de CHEAr, Ministère de la défense», (2005), pp. 413-434 (http://www.chear.defense.gouv.fr/fr/pdef/rdv0405pdf/p413rdv 0405.pdf). 4 Stéphane Audoin-Rouzeau, Annette Becker, Vers une historie culturelle de la premiere guerre mondiale, in «Vingtième Siècle. Revue d’histoire», (1994), n. 41 pp. 5-8.

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tradizionalmente studiato le rappresentazioni e la comunicazione che le determinava, se quella tedesca aveva privilegiato le relazioni politiche tra i vertici e la base e quella inglese si era rivolta alla cultura di massa, la proposta di Péronne è quella di un’integrazione dei tre approcci, un «comparativismo integrale» che metta in correlazione la storia dell’intimo e della rappresentazione individuale del soldato con produzioni simboliche di altri enti e di altra portata, provenienti dalle autorità politiche o militari, dal fronte interno e dalla produzione artistica o industriale. Sul piano degli strumenti concettuali degli obiettivi della ricerca Péronne propone una storiografia multidisciplinare, una «sorta di antropologia storica» (le parole sono di Jay Winter) che sappia fare uso degli strumenti di ricerca della storiografia, dell’etnologia, dell’archeologia5, ma anche della sociologia e della psicologia, una strada già indicata da Marc Bloch e seguita tra gli altri e tra i primi da Marcel Mauss e Emmanuel Le Roy Ladurie6. Si noti come l’esistenza di una cultura di guerra europea, su cui esercitare l’analisi storico-antropologica, sia data come premessa della ricerca del workshop, non come argomento di discussione. Quest’ultimo punto, centrale per questo saggio, è stato messo in secondo piano dalla categoria proposta da Retrouver per interpretare la supposta cultura di guerra europea e dai toni accusatori di quel manifesto storiografico che è la prima parte del volume. La violenza, scrivono Rouzeau e Becker, è «un prisma che rifrange tante realtà, altrimenti invisibili. È svelamento, rivelazione. Per poco che le si voglia osservare da vicino, società intere si mostrano attraverso di essa. In effetti, nel parossismo della violenza tutto è messo a nudo, a iniziare dagli uomini: corpi immaginario, paure, fervori, credenze e odi. Attraverso il senso che essi attribuiscono alla violenza di guerra, attraverso i risultati che ne prevedono e le motivazioni che permettono loro di uccidere i propri simili e di sopportare il terrore dello scontro si arriva

5 AA.VV., L’archéologie et la Grande Guerre, in «Aujourd’hui, Today, Heute», (1999), n. 2, pp. 17-128. 6 Prost colloca il passaggio dalla storia sociale degli Annales alla storia culturale nel campo accademico francese già alla fine degli anni ’70, grazie al determinante influsso delle opere di Levi-Strauss, Foucault e Bourdieu. - Antoine Prost, What happened to French social history?, in «The Historical Journal», (1992), n. 35, v. III., pp. 171-179; Jay Winter, De l’histoire intellectuelle à l’histoire culturelle, la contribution de George L. Mosse, in «Annales HSS», (2001), n. 1, pp. 177-181.

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a percepire un qualcosa di essenziale: ciò che chiamiamo – in modo forse improprio e troppo spesso impreciso – le loro rappresentazioni»7. Ritrovare la guerra significa interpretarla, «finalmente», alla luce della violenza, una violenza «dal basso» che implicava consenso alla guerra, odio per il nemico e una visione escatologica del ruolo del soldato8. Se questo non è stato fatto la colpa è da imputarsi a una «storiografia dei buoni sentimenti», (vale a dire tutta la storiografia precedente la fondazione dell’Historial, con pochissime eccezioni) che ha «scritto – e sognato – di più sulla tregua di Natale che sull’odio verso il nemico» e per la quale «è più facile accettare che il proprio nonno sia stato ucciso in combattimento piuttosto che ammettere che abbia potuto uccidere lui stesso. Nella coscienza commemorativa è meglio essere vittima che perpetratore di violenza e di morte»9. La contesa non si limita alla chiave interpretativa, ma investe anche la metodologia storiografica. Audoin-Rouzeau lamenta la «dittatura della testimonianza» che, a partire dalle antologie di Norton Cru10, ha impedito agli storici di affrontare il tema della violenza. Se per i testimoni è naturale presentare se stessi come vittime e allontanarsi cognitivamente dalla violenza perpetrata per tramite di una narrazione parziale o schiettamente falsa, colpa della storiografia, direttamente legata all’uso preponderante delle fonti memorialistiche nella ricostruzione dell’esperienza di guerra, sarebbe quella di aver assecondato questa volontà. Alla testimonianza, vista con diffidenza ma non per questo scartata completamente, l’Historial contrappone la solidità dell’oggetto e dell’archeologia di trincea. Queste affermazioni hanno ricevuto risposte piccate11 e hanno da-

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S. Audoin-Rouzeau, A. Becker, ’14-’18, op. cit., p. 32 (trad. it. p. 5). Stéphane Audoin-Rouzeau, Extreme violence in combat and wilful blindness, in «International Social Sciences Journal», (2002) n. 174, pp. 491-497. 9 S. Audoin-Rouzeau, A. Becker ’14-’18, op. cit., p. 57. 10 Jean Norton Cru, Temoins: essai d’analyse et critique des souvenirs de combattants edites en francais de 1915 a 1928, Presses universitaires de Nancy, Nancy 1993; Jean Norton Cru, Du temoignage, Pauvert, Paris 1967. Lo spirito pacifista che anima l’opera di Cru è in effetti esplicitato dallo stesso autore, che elenca, tra gli obiettivi della ricerca, oltre al contributo storiografico e antologico, quello di mostrare la verità sulla guerra per impedirne il ripetersi. 11 «Da qualche decina di anni, un approccio seducente alla storia della Grande Guerra è stato proposto da due storici. Tutti sono stati testimoni del loro successo mediatico. In ’14-’18 Retrouver la Guerre, la loro ultima opera, Stéphane Audoin-Rouzeau 8

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to impulso alla fondazione di un Centro esplicitamente opposto a quello di Péronne. Gli studiosi del CRID contrappongono al «consenso» alla violenza la coercizione esercitata da «regimi proto-totalitari», all’identificazione nazional-patriottica lo spirito di corpo, all’odio la diserzione e gli episodi di fraternizzazione con il nemico. «Dovremmo scartare tutte le testimonianze di Auschwitz – si chiedono retoricamente Cazals e Rosseau – con il pretesto che sono, salvo rare eccezioni e a buona ragione, testimonianze a distanza, delle testimonianze di sopravvissuti?»12. La «dittatura della testimonianza» viene contestata sulla base di una nutrita – e convincente – serie di saggi che fa uso esteso e consapevole degli scritti autobiografici e viene definita come un mero pretesto per ignorare fonti che confliggono con la teoria del consenso. Questo saggio vuole contribuire alla comprensione della categoria di cultura di guerra attraverso l’analisi della sua declinazione contadina tra il 1914 e il 1918. In particolare vuole ricercare il ruolo che all’interno di essa ha giocato e gioca la scrittura diaristica e memorialistica, sia dal punto di vista dei soldati-autori, in quanto strumento cognitivo, sia dal punto di vista degli storici, in quanto fonte13.

e Annette Becker pretendono di operare sulla guerra del ’14 lo stesso tipo di ‘sovversione dello sguardo operato sulla Rivoluzione Francese dieci anni fa’. ‘Sovversione’, ‘Rivoluzione’? Termini del genere eccitano per loro natura la curiosità! Seguiamo dunque il loro sguardo ed esaminiamo la validità di un certo numero di concetti presentati come assolutamente rivoluzionari e innovatori» Remy Cazals, Frédéric Rousseau, 14-18, Le cri d’une génération, Privat, Toulouse 2001, p. 141. Si vedano anche Frédéric Rousseau, Recensione a: ’14-’18 Retrouver la Guerre, in «The journal of Military History», (2001), n. 65, v. 1, pp. 215-216 e Frédéric Rousseau, La guerre censurée. Une histoire des combattants européens de 14-18, Seuil, Paris 2003. 12 R. Cazals, F. Rousseau, op. cit., pp. 141-155. 13 L’epistolografia appare in questo saggio principalmente come termine di paragone e come conferma o smentita delle tesi nate dalla lettura di diari e memoriali, non come oggetto di trattazione indipendente. La scelta nasce principalmente da esigenze editoriali, ed è giustificata dalla precoce popolarità che la lettera dal fronte ha conosciuto nella storiografia nazionale e internazionale. Tra gli scritti storiografici che più si avvicinano alla mia interpretazione della scrittura epistolare trentina: Fabio Caffarena, Lettere dalla grande guerra: scritture del quotidiano, monumenti della memoria, fonti per la storia: il caso italiano, Unicopli, Milano 2005; Emilio Franzina, L’epistolografia popolare e i suoi usi, in AA.VV., Per un archivio della scrittura popolare, pp. 21-71; Emilio Franzina, Lettere contadine e diari di parroci di fronte alla prima guerra mondiale, in Mario Isnenghi (a cura di), Operai e contadini nella Grande Guerra, Cappelli, Bologna 1982, pp. 104-154.

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Il campione preso in considerazione è quello dei coscritti trentini nell’esercito asburgico, perlopiù provenienti da ambiente rurale. La base della ricerca sono le scritture dell’io: lettere, diari, memoriali, memorie autobiografiche. Il periodo di stesura di tali scritti va dall’inizio della guerra (lettere e diari) a diversi decenni dopo la fine del conflitto. Quasi tutto il materiale è conservato all’Archivio della Scrittura popolare del Museo Storico del Trentino e del Museo della Guerra di Rovereto o è stato rivenuto in pubblicazioni di organi locali (biblioteche, comuni, associazioni culturali) e in riviste di varia natura14. L’obiettivo di questa ricerca è quello di proporre una chiave interpretativa al silenzio e alla rimozione della testimonianza, di modo che possano essi stessi essere elementi di interpretazione della cultura di guerra. Nell’analisi delle lacune e delle priorità narrative di un gruppo umano specifico, si cercherà di gettare luce su alcuni dei punti centrali del dibattito appena descritto: il ruolo della violenza nell’esperienza di guerra, il rapporto tra i soldati e il discorso patriottico, la visione del nemico, i processi di identificazione in trincea. È possibile – e auspicabile – che il concetto stesso di cultura di guerra sia messo in discussione dal confronto con un gruppo umano precisamente localizzabile, limitato nei suoi numeri e nella sua provenienza geografica. La cultura di guerra è, per Audoin-Rouzeau, «Un insieme di rappresentazioni, attitudini, pratiche, produzioni letterarie e artistiche che sono servite da contesto all’investimento delle popolazioni europee nel conflitto»15. Tale definizione – che ha il vantaggio di accostare elementi eterogenei, che furono indubbiamente in reciproca interazione – presenta a mio parere molti punti problematici. In primo luogo essa dà per scontato che un “investimento” – termine di per sé ambiguo – sia stato fatto e che esso possa essere definito a livello europeo. Nel processo di superamento delle distinzioni tra i vari aspetti e tra i vari agenti che costituiscono la cultura di guerra il rischio è quello di descrivere un oggetto unico, composto da elementi omogenei che arrivano, nello scritto storiografico, a meritare un unico nome (cultura di guerra, guerra totale). Il rischio è quello di un’eccessiva semplificazione del quadro proprio mentre si cerca di includere in 14 Alla fine del volume si troveranno le indicazioni sulla dislocazione delle fonti, sulla natura dei testi, sulla provenienza geografica e professionale degli autori. 15 Stéphane Audoin-Rouzeau, L’enfant de l’ennemi, 1914-1918: viol, avortement, infanticide pendant la Grande Guerre, Aubier, Paris 1995 p. 10.

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esso il maggior numero di elementi possibile, dall’apparato di censura alla paura del combattimento, dalla nostalgia di casa alla produzione di massa di oggetti patriottici. Questo appare molto chiaro se si assume la prospettiva antropologica che lo stesso Historial auspica: l’obiettivo di una ricerca di cultura classicamente inteso è in primo luogo quello di un rendiconto di una comunità localizzata e omogenea. Questo non significa, ovviamente, limitarsi semplicemente al «qui e ora», rifiutando generalizzazioni e sguardi di insieme, ma significa fissare un punto di partenza più solido e più facilmente verificabile, rappresentato da persone in reciproca e reale interazione. L’oggetto di studio proposto da Péronne trova il proprio principio unificatore nel fatto che gli attori parteciparono tutti alla stessa guerra, un assunto indubbiamente vero ma certamente molto generico. È significativo inoltre che manchi, sia nei saggi dell’Historial che in quelli del CRID – così come in molti testi di storia culturale –, una discussione su quale, tra i tanti concetti di cultura che le scienze sociali hanno prodotto16, sia il più indicato a definire la cultura di guerra. Il fenomeno è singolare, se si pensa che la cultura che si vuole raccontare, posto che sia esistita, è decisamente un unicum nella storia dell’umanità. Essa è nata nel giro di quattro anni tra uomini di provenienza sociale e geografica diversissima, che spesso parlavano lingue o dialetti diversi anche all’interno dello stesso esercito e che spesso facevano riferimento a sistemi valoriali di pace scarsamente conciliabili. Anche limitandoci al fronte occidentale e lasciando da parte l’esercito multietnico della duplice monarchia che sarà indirettamente oggetto di questo studio17, sappiamo che in trincea si incontrarono gruppi umani molto diversi (il caso estremo essendo costituito dalle truppe coloniali), nei quali è facile immaginare la creazione di sistemi di inclusione e di esclusione di gruppo e meccanismi identitari basati su differenze regionali pre-esistenti, quali ad esempio la lingua, il dialetto 16 La concezione della cultura come “contenitore” di tutte le rappresentazioni è ravvisabile anche nella definizione fornita da Jay Winter: «Cultural history, in one sense, is the study of narratives of meaning; any cultural history of the 1914-18 war must evacuate and locate in context the various narratives, including ‘shell-shock’, relating to psychological injury and traumatic remembrance during and after the conflict» Jay Winter, Shell Shock and the cultural history of the Great War, in «Journal of Contemporary History», (2000), n. 35, v. 1, Special Issue: Shell-Shock, pp. 7-11. 17 Un’esclusione che Rouzeau e Becker non fanno. I due autori citano il fatto che l’Impero non si era disgregato come prova dello spirito patriottico veicolato dalla guerra anche in condizioni sociopolitiche avverse.

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o la provenienza sociale, piuttosto che su un patriottismo che, aggressivo o difensivo che fosse18, richiedeva un terreno culturale comune. L’idea di una cultura di guerra unitaria non è messa in discussione soltanto dalla diversa provenienza sociale e geografica dei soldati, conseguenza inevitabile della coscrizione di massa, ma anche e soprattutto da fattori situazionali. Agli attori che avrebbero dato vita alla cultura di guerra del periodo fu imposto di mutare radicalmente, nel giro di poche settimane, il proprio status per adattarlo alle richieste della guerra di trincea. La reazione di questi individui all’influsso della guerra non poteva non tenere conto delle differenze precedenti ad essa. È, in termini più consueti per gli storici, una questione di scala: si tratta di definire, attraverso la ricerca e la riflessione epistemologica, quale sia la scala di osservazione più ampia a cui il ricercatore possa porsi senza necessità di coniare nuovi nomi collettivi per gli elementi che sta osservando. È probabile ad esempio che un antropologo si rifiuterebbe di utilizzare le definizioni correnti di cultura per indicare «l’insieme di rappresentazioni, attitudini, pratiche, produzioni letterarie e artistiche» che si sviluppò sui molteplici fronti della prima guerra mondiale. Questo non equivale a dire che le affermazioni di Péronne sulla natura dell’esperienza di guerra, la centralità della violenza, la diffusione del consenso siano errate, ma solo che necessitano di una verifica che si situi su un piano più limitato e facilmente osservabile, o, ancora meglio, su una molteplicità di casi minuti e particolari19. Non è mia intenzione affermare l’inutilità o l’inattendibilità di generalizzazioni applicate a tutti i partecipanti al conflitto, ma al contrario, attraverso la presentazione di un caso singolo e in qualche modo eccentrico, sostenere che la prospettiva di scala locale sia un presupposto ineludibile di qualsiasi generalizzazione di ampia portata. Può apparire singolare cercare di portare un contributo storiogra18 Si veda, per il caso francese, la prospettiva locale adottata Jules Maurin, Armée Guerre - Société. Soldats languedociens (1889-1919), Publications de la Sorbonne, Paris 1983 e, la prospettiva ugualmente locale, ma secondo linee di divisione create dalla guerra, proposta da Leonard V. Smith, Between Mutiny and Obedience, the case of the French Fifth Infantry Division during World War I, Princeton University Press, Princeton 1994. 19 «Una volta che ci si è messi sulla strada dei meccanismi di reazione all’evento guerra […], a questo punto ogni unificazione presuntiva della molteplicità deve essere messa in discussione» – Mario Isnenghi, La guerra delle memorie, in «Materiali di lavoro», (1986), nn. 3-4, pp. 145-154.

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fico a un dibattito che verte principalmente sul fronte occidentale utilizzando un caso del fronte orientale e, più limitatamente, del fronte italiano. In realtà il concetto di cultura di guerra, come detto, ha una portata di livello europeo, e, nonostante il dibattito si sia sviluppato, per comprensibili contingenze, attorno al fronte occidentale, gli autori di Retrouver e gli altri ricercatori di Péronne non esitano a utilizzare eventi di tutti i fronti per provare le proprie tesi, dal genocidio degli Armeni all’afflato patriottico dopo Caporetto in Italia20, alla supposta coscienza unitaria degli eserciti asburgico e russo. Il concetto di violenza come centro della battaglia e dell’esperienza, così come quello di patriottismo difensivo e di consenso, vengono estesi a tutti e due i fronti, per quanto discussi in profondità solo in uno. L’ambizione di questo libro è quella di provare, per quanto possibile, l’irriducibilità delle caratteristiche culturali di comunità pre-esistenti alla guerra e l’importanza di uno sguardo alla cultura nel suo effettivo dispiegarsi – attraverso le testimonianze e gli atti del quotidiano – per la designazione di una cultura di guerra vista come incontro, nelle condizioni estreme della guerra totale, di sistemi valoriali e simbolici precedenti il conflitto. Il fatto innegabile che la guerra avesse mostrato a tutti lo stesso volto non è sufficiente, a mio parere, a provare che questo volto fosse percepito allo stesso modo da tutti, dal fante senegalese e dall’aviere bretone, dal commerciante di Parigi come dal contadino galiziano. Come ha scritto Antoine Prost: «Ogni società legge l’esperienza di guerra alla luce della propria cultura»21. Il campione da me preso in considerazione comprende più di 150 autori trentini, perlopiù contadini o provenienti da ambiente rurale. Le esperienze raccontate sono molto varie e spaziano dall’esperienza del fronte a quella del profugato per i civili, dall’esperienza della prigionia a quella del ricovero ospedaliero. Lo stupore è stato una delle categorie che hanno orientato la scelta di cosa fosse significativo e cosa non lo fosse nei testi che ho incon20 Confermato dalle ricerche di Giovanna Procacci, che tuttavia mettono in evidenza come il patriottismo difensivo innescato da Caporetto sia appartenuto quasi esclusivamente al ceto medio. AA.VV., Caporetto: esercito, stato e società, Giunti, Firenze 1996. 21 Antoine Prost, Brutalisation des sociétés et brutalisation des combattants, in AA.VV., Les sociétés en guerre 1911-1946, A. Colin, Paris 2003, pp. 99-111. Sulle differenze dell’impatto della guerra a seconda della cultura di provenienza si veda, dello stesso autore, The Impact of War on French and German Political Cultures, «The Historical Journal», (1994), n. 37, v. I, pp. 209-217.

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trato22. Si tratta in realtà di un duplice stupore, che agisce su piani diversi e a diversi livelli di familiarità con le fonti. In primo luogo vi è uno stupore immediato, inevitabile in chiunque, nostro contemporaneo, legga le testimonianze della prima guerra mondiale. Si pensi al senso di straniamento che, stando ai loro scritti, Audoin-Rouzeau, Frederic Rousseau e chi scrive hanno provato, nonostante le diverse preparazioni, posizioni accademiche e di ricerca, nel constatare che la maggior parte degli scritti (popolari) di guerra non aveva al proprio centro il combattimento. Audoin-Rouzeau, attingendo a un buon senso tipico dell’occidente fin da Freud ed evidentemente comune sia a me che ai suoi oppositori del CRID, suggerisce la «rimozione» di un fatto culturale problematico sia per motivi di autopercezione che di effettiva presentazione del proprio sé agli eventuali lettori e ai posteri. Chi potrebbe, dal punto di vista del nostro senso comune, dissentire con l’affermazione di Elaine Scarry, secondo cui «l’obiettivo principale e il risultato della guerra è procurare danni fisici»23, e non stupirsi del fatto che chi ha effettivamente vissuta la guerra non conceda al combattimento e alla violenza esercitata uno spazio preminente? La mia proposta è quella di trattare questo stupore (lo iato tra quello che ci si aspetterebbe e ciò che in realtà è, un problema di traduzione) come un dato storico, su cui tentare una spiegazione proprio a partire da una mancanza, da una lacuna, e dai motivi del suo determinarsi. Audoin-Rouzeau e Becker, constatata la lacuna, la imputano alla «dittatura della testimonianza» e si rivolgono ad altre fonti per analizzare le forme e l’intensità della violenza durante il conflitto, partendo ovviamente dal dato di fatto che in una guerra di quella ampiezza e con quelle perdite la violenza doveva essere esperienza quotidiana e altamente significativa. Questo tipo di stupore, di straniamento, è segno sicuro della presenza di una differenza antropologica: è il motivo stesso per cui si scrivono saggi di antropologia24. È mio parere che l’interpretazione 22 Sul ruolo dello straniamento nel procedimento storiografico si veda Carlo Ginzburg, Occhiacci di legno, Nove Riflessioni sulla distanza, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 15-39. 23 Elaine Scarry, La sofferenza del corpo. La distruzione e la costruzione del corpo, Il Mulino, Bologna 1990. 24 Il rimando è ovviamente a Clifford Geertz, il mio principale punto di riferimento sul piano della metodologia antropologica. Cfr. Talal Asad, Il concetto di traduzione culturale, in Scrivere le culture. Poetiche e politiche dell’etnografia, a cura di J. Clifford e G.E. Marcus, Meltemi, Roma 2005, pp. 199-229.

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storiografica della scrittura popolare non abbia ancora fatto i conti con questo stupore, probabilmente perché non ha quasi mai adottato un approccio di tipo culturale. Le fonti popolari più frequentemente citate a supporto delle tesi storiche sono spesso quelle che appaiono più coerenti, esplicite, dirette: in altre parole quelle statisticamente meno frequenti e più vicine, per mezzi espressivi e tematiche trattate, alla nostra cultura. Di certo un’operazione storico-antropologica sulla scrittura popolare non è stata favorita dal fatto che chi per primo ha proposto di studiare la cultura di guerra abbia dimostrato una tanto spiccata diffidenza verso la fonte di testimonianza. Un secondo tipo di stupore che ha diretto la scelta di inclusione delle fonti all’interno di questo saggio è quello che nasce nel ricercatore che, avendo analizzato un gran numero di fonti tra esse comparabili e avendo individuato alcune delle norme (stilistiche, culturali, retoriche) della scrittura popolare, trova in un singolo autore o in rapporto a una singola situazione una divergenza dalla “norma”. La maggior parte del mio lavoro di ricerca è consistito nel creare una familiarità con le fonti che permettesse di individuare le deviazioni e di far parlare i silenzi. La comunicazione in forma di saggio di questa familiarità non può avvenire che attraverso generalizzazioni, di cui fin d’ora enfatizzo il carattere idealtipico. La prima parte di questo libro rende conto dei miei sforzi di categorizzazione della scrittura popolare trentina. Il resto dello scritto si occupa dell’interpretazione delle regolarità e delle deviazioni. Il fine è quello di trovare una via di fuga dalla “dittatura della testimonianza” attraverso l’individuazione delle modalità con cui la violenza e altri aspetti dell’esperienza vennero evitati e messi a tacere, delle strategie narrative che permettono la lacuna e delle rappresentazioni culturali che esse mettono in luce. Una volta che la pratica di rimozione o attenuazione sia stata collocata all’interno del contesto culturale in cui avviene e a stretto contatto con elementi analoghi o correlati (la struttura tipica del diario popolare e le influenze su di essa esercitate da altri generi narrativi, la concezione della scrittura come pratica, la narrazione orale della violenza e così via…) può darsi che essa risulti meno sorprendente di quanto non appaia a prima vista e che possa assumere un significato originale anche a proposito della dicotomia consenso/coercizione. In termini pratici il mio lavoro è consistito nell’analisi di testi scritti da soldati e civili trentini tra l’inizio del secolo e la fine della prima guerra mondiale e memorie autobiografiche riferite a quel periodo. Il

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principio di unità di questi testi è stato individuato nella provenienza geografica degli autori, nell’argomento da loro trattato e nella loro partecipazione diretta alla guerra, per quanto a volte da una posizione marginale. All’interno del bacino di questi testi ho cercato di individuare costanti ed eccezioni tramite un confronto che si è articolato su molti livelli, sia all’interno dell’universo testuale comune che al suo esterno, nel rapporto con la realtà vissuta. In primo luogo nella struttura dei testi si è cercato di evidenziare come eventi generici (la fame, il disagio, la battaglia, la nostalgia) vengono resi nei media testuali – diari, epistolografia, memoriali, memorie autobiografiche –, sia in autori diversi che nella produzione di uno stesso autore in tempi e su supporti testuali differenti. La definizione dei generi letterari è centrale a questo tipo di comparazione, ma si è deciso di introdurre il concetto di «traiettoria» tematica e strutturale del testo piuttosto che affidarsi a una generalizzazione categorica. La stessa natura composita e disomogenea degli scritti e la loro stesura in segmenti cronologici molto differenti suggeriscono una descrizione che tenda a mettere in evidenza «il groviglio di implicazioni ermeneutiche» e permetta di «individuare con una certa precisione le ambivalenze di pensiero e di sentimento e collocarle in un contesto sociale25» intelligibile, piuttosto che la riduzione delle differenze in schemi rigidi e dalle implicazioni univoche. Quando possibile si è cercato di seguire le evoluzioni che rappresentazioni culturali e rappresentazioni narrative hanno avuto nell’arco del tempo e a seconda delle esperienze, nel confronto tra la cultura civile e quella militare. In maniera inversa ma complementare si è cercato di evidenziare le irriducibili persistenze culturali e si è cercato di metterle in relazione alle rappresentazioni proprie della «cultura di pace» precedente il conflitto. Le scritture provenienti da un ambito urbano, spesso caratterizzate da priorità narrative e modalità stilistiche differenti, sono qui utilizzate come testimonianza sul mondo contadino trentino e sulla sua guerra, non come oggetto di studio indipendente. Il termine “contadino” è tuttavia qui utilizzato, prima ancora che come definizione economica ed ecologica, nella sua accezione più ampia. Esso indica chiunque provenisse da un contesto rurale e condividesse la cultura propria del mondo agreste trentino, un sistema di rappresentazioni caratteristiche (comprendente religiosità, modalità espressive, concezione del tem-

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Clifford Geertz, Antropologia interpretativa, il Mulino, Bologna 2001, p. 58.

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po…) che sarà spiegato in seguito e che ho ricavato perlopiù dagli scritti dei folkloristi di inizio secolo e da studi di antropologia alpina26. Nel termine sono compresi dunque artigiani, muratori, boscaioli, piccoli commercianti. Questa generalizzazione è permessa da una forte omogeneità culturale del Trentino di inizio secolo, nel quale la cultura contadina era talmente maggioritaria da penetrare in profondità anche in ambiente cittadino (si pensi al fenomeno degli operai stagionali e alla stretta dipendenza dei due unici centri urbani – Trento e Rovereto – verso la campagna). All’interno del termine «contadini», nell’uso che ne faccio, trovano spesso posto (pur eccentrico) anche figure professionali quali gli insegnanti di campagna o i parroci, che, lungi dall’essere delle figure esterne al vissuto di pace e di paese, ne costituiscono le guide intellettuali, spirituali e politiche. Le particolarità di queste figure saranno messe in evidenza, sia come paragone rispetto a soldati di più bassa cultura o scolarizzazione sia come parte integrante della visione contadina del conflitto. La cultura scolastica e la competenza linguistica dell’autore, rilevata dalla proprietà del lessico e della grammatica, o dalla presenza di influenze giornalistiche o letterarie, è stata oggetto di un altro livello di comparazione, attraverso cui si è cercato di delineare come la capacità espressiva o la maggiore possibilità di rielaborazione data dallo sguardo retrospettivo influenzi il rendiconto dell’avvenimento e il concreto dato storiografico che ne è ricavabile. Due parole, in conclusione, per mettere in chiaro cosa questo saggio non è. Esso non è, non vuole, ma soprattutto non può essere un testo di antropologia. I dati vengono interpretati dal confronto tra i testi reso possibile dal loro essere stati prodotti da un gruppo omogeneo ma, soprattutto, in rapporto a un macroevento ben preciso e su supporti tra loro analoghi. Il fatto che alcune delle domande e delle categorie che si utilizzano siano prese a prestito dall’antropologia non deve far pensare che questo lavoro voglia ricostruire in maniera completa ed esaustiva il sistema di simboli che la guerra ha inserito nell’orizzonte culturale trentino. La differenza è dettata in primo luogo da impedimenti evidenti nell’accesso alle rappresentazioni «altre». Il lavoro di 26 Per una riflessione più estesa sull’uso del termine «contadino» come categoria analitica si veda Sutter Ortiz, Reflections on the concept of ‘Peasant Culture’ and ‘Peasant Cognitive Systems’ in Teodor Shanin (a cura di), Peasants and peasant societies, Penguin Books, London 1984, pp. 322-336. Clifford Geertz, Studies in Peasant Life: Community and Society, in «Biennial Review of Anthropology», (1961), n. 2, pp. 1-41.

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osservazione in profondità, il lavoro sul campo, è ovviamente negato a una ricerca di questo tipo: il ricercatore è qui costretto ad ascoltare dei monologhi e dei dialoghi da cui è inevitabilmente escluso, che hanno l’unico vantaggio di parlare una lingua comune e di trattare un argomento analogo. Le fonti prese in considerazione sono in primo luogo oggetti di uso personale, pensati spesso per un pubblico più o meno grande, ma non direttamente votati alla ricostruzione culturale o storica. I temi che esporrò sono dettati dalla scrittura dei testimoni, prima ancora che scelti dal ricercatore come i più culturalmente significativi tra un insieme di elementi osservati e analizzati; non c’è nessuna assicurazione che essi furono gli unici o tutti quelli più importanti. Il confronto con l’ambito culturale e storico esterno alla scrittura è onnipresente ed è l’unico capace di dare ad essa un significato che vada oltre l’universo del testo, ma la delineazione esaustiva dei suoi caratteri elude le possibilità di una ricerca condotta attraverso la scrittura. Elementi al centro dell’attenzione antropologica quali la ritualità religiosa, le credenze mistiche, la sessualità sono completamente assenti nella scrittura popolare e forzatamente taciuti in questo saggio. Se una religiosità originale e propria del gruppo in questione è evidente e qui oggetto di trattazione estesa, le forme pratiche con cui questa veniva trasposta nella vita di tutti i giorni e i caratteri originali che l’esperienza della guerra ha apportato alla ritualità sono stati lasciati in disparte o ridotti a rimandi a brevi frammenti, che sicuramente non rendono giustizia alla ricchezza e alla complessità di significato che il rituale – ad esempio la pratica di recitazione collettiva del rosario – doveva avere assunto nel conflitto. In questo aspetto la «dittatura della testimonianza» può essere elusa solo con il ricorso ad altre fonti, o con il confronto induttivo con la situazione antropologica precedente. La stessa espressione «cultura rurale» o «contadina» è problematica dal punto di vista antropologico, poiché travalica i limiti dello studio di comunità che le sono stati propri fin da Malinowski. La “cultura trentina” ha indubbiamente importanti distinguo al suo interno: si pensi al caso dei ladini della Val di Fassa, alla diversità tra paesi di alta montagna e paesi di collina o di pianura o anche alla posizione di diverse comunità sul lato assolato o su quello in ombra della montagna, che determinavano sensibili differenze nell’organizzazione del lavoro e del sostentamento27. Quando queste differenze sono apparse evi27 Pier Paolo Viazzo, Comunità alpine. Ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo ad oggi, il Mulino, Bologna 1990, pp. 31-34.

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denti nella scrittura si è cercato di renderne conto, ma non ci si illude di aver esaurito la complessità e la varietà dei casi. La «cultura contadina», in particolar modo all’interno di società complesse, non si configura mai come un corpo del tutto indipendente28: anche quando ne rappresenta, come nel caso trentino, il segmento più diffuso e rappresentativo, è necessario volgere lo sguardo all’interazione tra di esso e le diverse aree del potere economico, politico, amministrativo (nel nostro caso, le aree urbane e l’autorità di Vienna) per comprenderne le forme interne. Non si tratta inoltre di descrivere una cultura contadina nelle sue caratteristiche lavorative, religiose, gerarchiche, nel dispiegarsi normale della vita e delle relazioni quotidiane: è il rapporto tra questa cultura del quotidiano e la guerra ciò di cui si vuole parlare. Piuttosto che di un quadro statico, dipinto nei rapporti tra città e campagna, nelle genealogie familiari e nella ritualità popolare, ci si occupa della frantumazione, improvvisa, inaspettata e radicale, della quotidianità come era stata conosciuta dagli attori sociali. Una particolarità di questo studio rispetto alle ricerche di antropologia è dunque il fatto che la spiegazione dei dati culturali parziali che si possono ricavare dalle fonti non si limita a cercare di «diminuire lo sconcerto» dei contemporanei rispetto a fenomeni che esulano dalla loro esperienza. Quello che si cerca di descrivere è lo sconcerto culturale degli stessi attori sociali rispetto a un universo culturale, visuale, esperienziale tanto inconsueto per loro quanto lo sarebbe per «noi», per quanto generatore di reazioni indubbiamente diverse. Piuttosto che di un quadro culturale completo questa ricerca si occupa dei mezzi concettuali utilizzati per venire a patto con questo sconcerto e ridurlo a normalità, per dare intelligibilità alla guerra. In secondo luogo questa non è una critica radicale all’approccio storico-culturale degli studiosi dell’Historial di Péronne. Nel presentare interpretazioni che spesso divergeranno da quelle proposte da questi ultimi il fine è quello di fornire a questo impianto uno strumento interpretativo che permetta di includervi le parole (o i silenzi) dei testimoni. Come apparirà presto evidente le problematiche sollevate da Péronne determinano la scansione tematica di questo libro. Senza di esse la mia ricerca non esisterebbe, o non sarebbe significativa. 28 Robert Redfield, Peasant society and culture, Chicago University Press, Chicago 1989, pp. 23-39 (trad. it. di S. Lombardini all’interno di La piccola comunità, la società e la cultura contadina, Rosenberg & Sellier, Torino 1976, pp. 241-262).

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In ultimo questo saggio non vuole essere una ricostruzione storica tout court dell’esperienza trentina del conflitto, per l’ottima ragione che tale ricostruzione è già stata fatta e il mio contributo, legato come è all’universo testuale, potrebbe aggiungere ben poco al lavoro degli studiosi che gravitano attorno all’Archivio della Scrittura Popolare del Museo Storico del Trentino. Il Trentino è per me in primo luogo un banco di prova di teorie e interpretazioni che si riferiscono al conflitto nel suo complesso e si vogliono di scala europea. L’ipotesi è che se un caso, studiato in profondità e in tutte le sue ramificazioni, dovesse essere dissonante rispetto a tali teorie sulla cultura, la violenza, il ruolo della testimonianza, questo debba invitare a una verifica su altri casi “locali” o regionali. Alla mia scelta del Trentino non è estranea, oltre alla citata omogeneità culturale e sociale, l’esistenza stessa degli ottimi studi di Quinto Antonelli, Diego Leoni, Camillo Zadra, Vincenzo Calì e tanti altri. È solo grazie al lavoro di raccolta e ricostruzione storica operato da questi studiosi che ho potuto condurre una ricerca che, pur utilizzando le stesse fonti, è mossa da preoccupazioni metodologiche e storiografiche differenti e fa un utilizzo molto diverso della scrittura popolare.

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La scolarizzazione trentina Nel 1774 Maria Teresa d’Austria emetteva l’«Ordine generale per le scuole normali, principali e ordinarie», che stabiliva nel territorio dell’Impero asburgico l’obbligo scolastico per entrambi i sessi tra i 6 e i 12 anni1, promuoveva la fondazione di scuole «ordinarie» (gratuite dal 1783) in ogni paese che avesse una parrocchia e imponeva la standardizzazione della formazione degli insegnanti. Nel 1869 l’obbligo venne esteso ai 14 anni e sarebbe rimasto tale fino alla fine della guerra e al disfacimento dell’Impero. Cesare Battisti, nel suo «Saggio di Geografia fisica», (volto a dimostrare, con la forza dei numeri, la disastrosa situazione economico – sociale nella quale versava il Trentino sotto l’amministrazione austriaca) deve, quando va a trattare dell’istruzione, ammettere che: «Ci si allarga il cuore nell’offrire una pagina della vita trentina, meno triste di tante altre»2. Su una popolazione, nel 1880, di 351000 anime la percentuale di analfabeti si attestava infatti al 12% per gli uomini e al 16% per le donne. Nel Regno d’Italia, nello stesso periodo, la cifra si aggira attorno al 62% e non scenderà sotto al 50% se non dopo il 19013. Oltretutto il dato trentino – sensibile perché riguarda il periodo in cui si formava sui banchi di scuola la generazione che si sarebbe trovata al fronte – doveva essere pesantemente influenzato dal peso della popolazione più anziana, se nel 1910 lo stesso Battisti afferma

1 Remo Stenico, La scuola di base secondo il regolamento teresiano: 1774, Civis, Trento 1985. 2 Cesare Battisti, Il Trentino: saggio di geografia fisica e di antropogeografia, Zippel, Trento 1898, p. 255. 3 Antonio Gibelli, La Grande Guerra degli Italiani, 1915-1918, Sansoni, Milano 1998.

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che la percentuale di analfabeti non superava il 3,4%4. Le strutture e il personale scolastico erano imponenti: a fine ottocento, secondo le stime di Lia De Finis, 1250 maestri elementari servivano in 493 scuole pubbliche una popolazione in età scolare di 65.723 alunni5. Occorre in parte moderare il peso di questi dati. Il tasso di analfabetismo in Trentino nel corso dell’Ottocento è certamente basso, ma caratterizzato da un netto squilibrio tra i distretti alpini e quelli cittadini. La formazione impartita dal sistema didattico asburgico, nei successivi miglioramenti del 1805, 1869 e 1892, è tale da permettere generalmente una buona capacità di espressione scritta, ma non si spinge fino a dare agli scolari formatisi tra il 1880 e il 1900 una padronanza dei mezzi espressivi tale da poter utilizzare per essi altro che la definizione di «semicolti», pur con significative eccezioni. La scrittura che viene prodotta dalle scuole rurali nella seconda metà dell’Ottocento è una scrittura che, nella grande maggioranza dei casi, mantiene un forte legame con l’oralità, pur senza arrivare ad esserne la copia. Nonostante la volontà di centralizzazione che caratterizzò lo stato austriaco prima e dopo la parentesi napoleonica, l’istruzione, soprattutto nei paesi alpini, era strettamente legata al controllo della comunità di paese, nella quale non sorprende trovare una fortissima influenza del piccolo clero. Una delle tre «leggi di deconfessionalizzazione», volute dai liberali del parlamento di Vienna e promulgate nel 1868, mirava alla completa laicizzazione dell’istruzione e prevedeva la formazione di Consigli scolastici provinciali e distrettuali, con il potere di nominare i maestri delle scuole popolari. Il compito di sorveglianza e coordinamento passava ufficialmente dalle mani del curato e del decano a quelle di ispettori scolastici distrettuali e provinciali. Le nomine dei maestri erano tuttavia soggette all’approvazione del comune, nell’amministrazione del quale il potere del piccolo clero era indubitabile; le autorità ecclesiastiche fornivano in molti casi i locali stessi in cui si teneva lezione6. 4 La percentuale di analfabeti di lingua italiana nell’esercito asburgico è stimata al 12% da Mark Cornwall: sebbene la stima appaia sovradimensionata, essa pone la minoranza italiana tra le più alfabetizzate dell’Impero, seconda soltanto ai Cechi e ai Tedeschi (entrambi al 3%). Mark Cornwall, The undermining of Austria – Hungary. The battle for hearts and minds, Macmillan, London 2000. 5 Lia De Finis, Il sistema scolastico in Maria Garbari, Andrea Leonardi (a cura di), Storia del Trentino. L’età contemporanea, 1803-1918, il Mulino, Bologna 2003, pp. 371-412. La popolazione totale trentina ammontava a 344000 abitanti nel 1890. 6 Piera Graifenberg, Povere creature già tanto maltrattate dagli Dei, in Quinto Antonelli (a cura di), A scuola! A scuola!, Museo Storico in Trento, Trento 2001, pp. 71-91.

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L’offerta formativa delle scuole primarie ruotava attorno ai due cardini della religione cattolica e della fedeltà alla dinastia regnante7. Con la riforma del 1868 furono fondate le «scuole civiche», che all’alfabetizzazione e all’educazione morale aggiungevano lo studio di principi di fisica, geometria, disegno, geografia e storia8. I libri di testo venivano stampati direttamente a Vienna, dall’Imperial Regia Dispensa dei Libri scolastici, dipendente dal Ministero del Culto e dell’Istruzione. La lingua esclusiva di insegnamento era, ufficialmente dal 1848, ufficiosamente sin dalla riforma teresiana, l’italiano; nei libri di testo persino i nomi propri degli Asburgo venivano italianizzati9. Le funzioni che pedagoghi e maestri attribuivano a questi libri antologici erano molteplici: essi dovevano essere un supporto per le esercitazioni di lettura, vocabolario, memorizzazione (sulla quale era posto un particolare accento), grammatica e sintassi. «Dovrebbero» inoltre, «contenere quel tanto che in ragione dell’età si richiede per informarli a tempo opportuno delle indispensabili notizie di geografia, di storia naturale e per addomesticarli coi doveri morali e sociali dell’uomo»10. Nel periodo in cui si formarono i futuri soldati i testi di lettura più diffusi nelle scuole primarie trentine erano gli otto volumi intitolati «Letture per le scuole popolari» di Francesco Timeus11, 7 «La scuola popolare ha il compito di educare i fanciulli moralmente e religiosamente, di sviluppare la loro attività intellettuale, di fornirli delle cognizioni ed abilità occorrenti per coltivarsi ulteriormente per la vita, e di creare la base per l’allevamento di valenti uomini e cittadini» – Legge imperiale 14 maggio 1869, N. 62 – in Enrico Leonardi, La scuola elementare trentina: dal Concilio di Trento all’annessione alla Patria. Vicende, legislazione, statistiche, Collana di monografie della Società di studi storici per la Venezia Tridentina, Trento 1959. 8 Quinto Antonelli, Storia della scuola elementare e formazione degli archivi scolastici nel Trentino, in Roberta G. Arcaini (a cura di), Gli archivi delle scuole elementari trentine: censimento descrittivo, Provincia autonoma di Trento, Trento 2003, pp. XXIXLXIV. 9 Vittorio Coletti, Patrizia Cordin, Alberto Zamboni, Il Trentino e l’Alto Adige, in Francesco Bruni (a cura di), Storia della lingua italiana. L’italiano nelle regioni, vol. I, Garzanti, Milano 1996, pp. 290-292. 10 Gian Battista Debiasi, I libri di lettura nelle scuole popolari del Trentino, Sottochiesa, Rovereto 1883. 11 Al contrario degli altri libri di lettura per le classi popolari (tradotti dal tedesco), il Timeus è un’antologia italiana, nella quale, in un curioso ibrido, agli exempla contemporanei con al centro la casa d’Asburgo («Il funerale del povero», «Il petente», «L’imperatore Giuseppe II»), si aggiungono exempla presi dall’antichità greca e romana («Orazi e Curiazi», «Orazio Coclite», «Giovinezza di Alessandro il Grande»). Francesco Timeus, Letture per le scuole popolari, Parte III, Deposito dei libri scolastici, Vienna 1899.

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adottati ufficialmente dal Ministero del Culto e dell’Istruzione nel 1883. Il metodo pedagogico che si desume dai libri di testo di Timeus si basa sulla presentazione di exempla (fiabe, racconti storici edificanti, poesie, descrizioni di fenomeni naturali) che univano a semplici nozioni di storia, geografia e scienze naturali indicazioni di comportamento e di morale che spaziavano dall’igiene al contegno personale, fino alla fedeltà alla dinastia e imprescindibilità del principio d’autorità da essa incarnato. Sul piano morale l’obiettivo era quello di affermare, in uno stile che potesse riuscire comprensibile e piacevole per i bambini – ma anche per le famiglie, dato che il libro scolastico poteva essere l’unico volume stampato in possesso della famiglia contadina e rappresentava per questo un considerevole strumento di influenza politica – che la realizzazione dell’individuo si ottiene attraverso il rispetto di ogni forma d’autorità: padre e imperatore sono due figure che, all’interno degli exempla, ricoprono un ruolo analogo e ricorrono costantemente. L’etica che emerge dai libri di lettura è senza dubbio un’etica della conservazione. Il mondo – e in particolare il mondo contadino – viene descritto come governato da leggi sempiterne e da gerarchie immutabili. In un’antologia curata da Giuseppe Defant e dedicata alle terze classi della scuola popolare si trova l’enunciazione più limpida di questa apologia del conosciuto nel momento in cui il curatore, dopo aver passato in rassegna l’immutabile struttura verticistica e patriarcale della famiglia contadina, si rivolge direttamente ai propri giovani lettori: «Voi lavorerete con vostro padre, sarete il bastone della sua vecchiaia, e non avrete mai a pentirvi di non aver imitato quelle teste bislacche, le quali vogliono girare il mondo per trovar fortuna. La fortuna la avete già presso di voi, nei vostri poderetti, nei vostri armenti, nelle vostre braccia, senza doverla cercare altrove»12. La guerra dimostrerà quanto profondamente questo precetto fosse stato interiorizzato13. 12 Giuseppe Defant, Terzo libro di lettura per le Scuole popolari austriache, Deposito dei libri scolastici, Vienna 1916, p. 5. La lettura citata si intitola, significativamente, «L’agricoltore è felice». 13 All’interno di questo universo cristallizzato il compito della classe contadina è chiaro e ampiamente ribadito. Albino Bertamini, altro curatore di un diffuso libro di lettura per le scuole popolari, decide significativamente di inserire i precetti etici che gli studenti devono seguire all’interno della sezione dedicate alle «Nozioni di storia naturale». Così come l’esercizio fisico fortifica il corpo, l’esercizio dell’obbedienza fortifica l’anima: «I buoni fanciulli non devono mai dimenticare il precetto: Prega e lavora». Se-

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I libri di famiglia: il tempo della comunità di paese I libri di famiglia sono libri d’uso, nei quali un membro della household contadina – spesso chi teneva la contabilità – annota, giorno per giorno, gli accadimenti sensibili della vita economico-lavorativa familiare14. La pratica dei libri di famiglia, risalente perlomeno al 170015 in ambiente contadino, permette di cogliere alcuni elementi che caratterizzeranno la scrittura durante il conflitto. I libri della famiglia Dallepiatte (Pergine Valsugana) sono documenti che, grazie alla loro estensione nel tempo – dal 1768 al 1941, con due lacune tra il 1803 e il 1845 e tra il 1931 e il 1941 – consentono di apprezzare la lunga durata e la natura intergenere e intergenerazionale di questa modalità di rendiconto della quotidianità. Il primo libro disponibile tratta, in maniera non regolare, del periodo tra il 1768 e il 1803 ed è steso da Giacomo Dallepiatte. Si tratta di un testo-contenitore, nel quale la divisione dei «generi letterari» non è sentita come significativa e nel quale non esistono regole rigide rispetto a quanto può essere legittimamente incluso: in esso si ritrovano la contabilità familiare (i lavori svolti, le transazioni economiche, le paghe guadagnate, l’elenco della corrispondenza ricevuta), ma anche la copia di documenti di eredità, un certificato di nascita, ricette e brevi accenni ad avvenimenti del paese. In questa forma di scrittura, dai ritmi serrati ma dallo spazio giornaliero limitato, vista come un supporto per il ricordo più che come uno sfogo espressivo, i pochi eventi non ricorrenti sono privi di qualsiasi commento personale e sono inclusi nella scrittura in virtù del loro semplice essere accaduti, senza accenno all’impatto emotivo, economico, pratico da essi determinato. La nascita di un figlio viene riportata nello stesso tono impersonale con il quale si attesta la vendita di un vitello o la riscossione di un debito:

gue una composizione dal titolo «I fanciulli riconoscenti ai superiori»: «A chi si prende di noi pensiero / Riconoscenti saremo ognor. / A chi ci guida sul buon sentiero / Dobbiamo rispetto, dobbiamo amor» Albino Bertamini, Libro di lettura per le Scuole popolari austriache, II, Deposito dei libri scolastici, Vienna 1888, pp. 76-77. 14 «Un libro di famiglia è un testo memorialistico, tenuto giorno per giorno, plurale, multigenerazionale, e che concerne essenzialmente la famiglia». Raul Mordenti, Les livres de famille en Italie, in «Annales HSS», 4 (2004), pp. 785-804. 15 Donato Vanzetta, Annotazioni dal «libro di casa» della famiglia Lauton di Canazei (1700-1945), in «Mondo Ladino», 4 (1980), nn. 3-4, pp. 119-132.

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21 Setembre 1799 naque al Mondo Secondo filiuol del terzo Matrimonio alle otto e meza di sera e fu battezatto alli 22 detto alle orre dese di mattina e il Giorno che è natto è il Sabatto e il suo nome è Domenico Antonio Dalle Piatte 179916.

Si prendano ad esempio i quattordici quaderni scritti da Francesco Dellepiatte dal 1845 al 1907. Essi si presentano come una cronologia della vita economica della sua famiglia e della vita del paese di Pergine, soprattutto in rapporto agli eventi religiosi (comunioni, prediche, messe e festività) e con rari riferimenti a fatti «insoliti» di piccola cronaca. Nell’arco dell’anno 1897 in ogni singolo giorno viene annotato il tempo atmosferico, 271 volte è descritto il lavoro svolto da Francesco (soprattutto nei campi, ma anche lavori di manutenzione della casa, allevamento, raccolta di frutta e legna), 52 volte sono indicate delle transazioni economiche (debiti o crediti), 31 volte degli eventi di carattere religioso. Gli eventi non ricorrenti si limitano alle morti accidentali o violente (4) e alla costruzione di nuove strutture nel paese (un forno e i progetti di un hotel e di un tram elettrico che collegasse Pergine e Piné), oltre che a due episodi familiari (la visita militare dell’autore e la fine del lavoro della figlia Francesca in filanda). Nell’arco dell’anno si ritrova un solo commento personale dell’autore: dopo aver citato la notizia di un giovane che si è ucciso accidentalmente con un «rivolver», Francesco aggiunge che «con le armi non si scherza». Se si fa eccezione per gli eventi ricorrenti (feste, lavoro, tempo atmosferico), il criterio con cui gli eventi sono inclusi è quello dell’interesse che avevano suscitato all’interno del paese, ma alla inclusione non segue una congrua descrizione degli avvenimenti e nemmeno il rendiconto di quanto il paese aveva da dire su un determinato argomento. La scrittura si presenta come un supporto al ricordo fattuale, ma non come un’occasione di riflessione o di caratterizzazione di quanto accaduto. Il rilievo di un evento non viene colto attraverso l’enfasi narrativa o attraverso un esplicito legame che l’autore crea tra avvenimento e vissuto nel suo complesso, ma soltanto attraverso il numero di volte con cui l’avvenimento si ritrova nella narrazione. L’annotazione del tempo atmosferico non ha, in sé, nessuna utilità pratica, soprattutto se, come spesso accade, è l’unica cosa che l’autore sceglie di dire a proposito di una determinata giornata17; eppure le 16 17

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entrate sul tempo all’interno delle agende contadine rappresentano la preponderante maggioranza. Ad esse si accompagna a volte l’espressione della speranza, in note brevissime ma rese pregnanti dalla loro ossessività, del miglioramento delle condizioni atmosferiche in funzione della produttività dei campi. All’interno di una scrittura utilizzata in modo parsimonioso e strettamente legata all’utilità pratica, il ricorrere delle annotazioni sul tempo assume un significato particolare: essa non è soltanto testimonianza dell’intuibile importanza delle precipitazioni per un buon raccolto, ma indica nella scrittura, anche in questa forma minima e telegrafica, un contenitore per le proprie ansie e aspettative sul futuro, e in particolar modo su un futuro che esclude la possibilità di influenza dello scrivente. Tale caratteristica – così come la centralità del tempo atmosferico – sarà mantenuta nella scrittura di guerra. In rapporto al tempo, annotato a posteriori, come dato di fatto, si sviluppano gli unici «balzi in avanti» rispetto al principio rigidamente cronologico che regola i libri di famiglia, nella forma di speranze proiettate nel futuro. Sarebbe molto necessaria una buona pioggia i seminati e i prati vengono rasi ed asciuti. La siccità di S. Giorgio, prende l’erba e l’orzo (28 aprile 1896)18.

L’annotazione dei conti di famiglia ha evidentemente una natura più pratica ed è conclusa, nei quaderni di Francesco Dallepiatte come in quelli di Giovanni Webber19, da un bilancio generale alla fine di ogni anno. Sebbene l’annotazione di debiti e crediti permanga nella scrittura diaristica di guerra, essa perderà in guerra l’importanza che ha nei libri di famiglia, finendo spesso relegata alla fine dei quaderni e in fogli sparsi. Alle festività e alle ricorrenze religiose gli autori dedicano spesso una descrizione leggermente più estesa, generalmente volta ad indicarne il successo in termini di partecipazione di pubblico o di impatto emotivo su di esso. Prendendo in considerazione il rendiconto di un singolo anno, le annotazioni sulle feste e sulle fiere appaiono come increspature del tempo contadino, come episodi singolari e caratterizzati. A una lettura più estesa, che comprenda più anni o più autori, si za: «Variabile con sole buono, indi burrascoso con tuoni e poca pioggia». «Bel giorno con aria e sole caldo». «Vario con sole buono». «Pioggie frequenti e aria fresca». 18 Libro di famiglia Dallepiatte. 19 Libro di famiglia Webber, anch’esso conservato presso l’Archivio della Scrittura popolare di Trento.

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nota che in realtà esiste una modalità rigida e standardizzata per la descrizione delle feste, secondo categorie binarie (bella/brutta – partecipata/non partecipata)20 e che la caratterizzazione non si spinge fino a mettere in evidenza cosa aveva potuto rendere unica o memorabile la ricorrenza. A ben vedere anche le feste non sfuggono alla narrazione modulare e standardizzata del tempo ciclico: esse appartengono piuttosto a una ciclicità più ampia e costituiscono – nella scrittura di pace come in quella di guerra – un genere di «entrata» con regole proprie rispetto a quelle del lavoro e del tempo atmosferico. Come nel caso delle condizioni atmosferiche, non esiste altra giustificazione per l’inserimento nel flusso della scrittura che non sia l’esistenza all’interno del flusso del tempo. L’autore è testimone e giudice delle celebrazioni, ma il suo ruolo all’interno di esse è del tutto assente. La scrittura contadina prima del conflitto mondiale è dunque eminentemente descrittiva e quasi mai riflessiva. Essa può essere definita personale solo perché il rendiconto degli avvenimenti collocati nel flusso del tempo riguarda il campo percettivo dell’autore, in un movimento continuo tra il dominio delle condizioni atmosferiche, il dominio degli avvenimenti di paese e quello delle azioni ricorrenti che l’autore compie. Anche per quanto riguarda i lavori svolti, occasioni nelle quali l’autore, pur brevemente, si racconta, non si trova nessuno sforzo di caratterizzazione: seminare, macellare il bestiame, occuparsi di lavori domestici appaiono solo nella forma di constatazioni di quanto è accaduto, nelle quali la fatica, la soddisfazione, la buona o la cattiva riuscita sono rigorosamente ignorate. La scrittura serve a fissare il movimento di un tempo visto come ciclico21, non a descrivere la propria parabola personale all’interno di esso. 20 Libro di famiglia Dallepiatte: «Benché il tempo sia stato bello, i divertimenti carnevaleschi ebbero poco spirito del tutto»; «Commedia carnevalesca nel ricreatorio. Molto concorso»; «Fatto la fiera ma non tanto concorso gli animali molto ribasati di prezzo». 21 Per la definizione di tempo ciclico mi affido alla formulazione, perfettamente applicabile ai libri di famiglia e al caso trentino, di Françoise Zonabend, La memoria lunga, Armando Editore, Roma 2001, p. 202. «Si tratta di tempi scanditi dal ritmo e dalla ripetizione ciclica di determinati gesti, di azioni compiute obbedendo a criteri di una stessa mentalità, di antroponimi che vengono trasmessi senza fine; tempi ciclici dunque, che non solo vengono vissuti sulla base immutabile del ritorno delle stagioni e della serie ininterrotta delle generazioni, ma si armonizzano anche con le esigenze della natura e dell’esistenza. Ne segue che questo tempo, in cui ogni caso ritorna sempre allo stesso modo e i fatti si succedono uno dopo l’altro rimanendo identici, viene percepito come immobile, pensato al di fuori della storia».

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Raul Mordenti colloca la data di «inabissamento» del fenomeno dei libri di famiglia alla fine del Rinascimento: con l’età barocca la mutata concezione del tempo avrebbe determinato l’evolversi della scrittura familiare in genealogia e autobiografia22. La condizione di esistenza dei testi studiati da Mordenti è infatti quella determinatasi con la fine del Medioevo, vale a dire il sostituirsi di un «tempo nuovo, misurabile, cioè orientato e prevedibile, al tempo insieme eternamente ricominciato e perpetuamente imprevedibile dell’ambiente naturale»23. Ma occorre precisare che Mordenti si riferisce a libri in cui «il carattere borghese […] è inscritto fin dall’inizio». Nel mondo contadino la pregnanza del «tempo della Chiesa»24 è molto più duratura, per quanto ovviamente con profondi mutamenti rispetto all’epoca medioevale, di quanto non sia stato per la classe borghese e mercantile. La tardiva appropriazione di questo genere letterario, legata ad una alfabetizzazione successiva, insieme alla diversa collocazione sociale e professionale degli autori, dà luogo a un fenomeno di scrittura che, pur rientrando nella definizione di Mordenti, segnala alcune divergenze. Memorialistici, tenuti giorno per giorno, plurali e multigenerazionali, i libri di famiglia contadini si distinguono per la caratterizzazione del sé dell’autore all’interno del fluire del tempo. Mentre nell’Europa borghese si stava sviluppando la pratica dell’autobiografia e della memorialistica, il mondo contadino esprimeva la propria percezione dello scorrere della vita personale e familiare attraverso un medium che metteva in secondo piano la personalità dell’autore, le sue evoluzioni e le sue problematiche, e che si rivolgeva al rendiconto del succedersi delle azioni pratiche e fisiche e alla trasposizione, in forma scritta, di un tempo collettivo e non individuale. Gli «avvenimenti singoli», ciò che di insolito accade nel paese, ciò che non può essere ricollegato a una formula stilistica prestabilita e a una categoria di eventi ricorrente, emerge dalla scrittura come una deviazione, mai come il motivo della narrazione o una sua parte preminente. Queste deviazioni hanno luogo quasi esclusivamente in rapporto ad eventi collettivi: la cronologia si trasforma in «cronaca minima» solo quando l’autore passa dal piano del dato di fatto percepito perso22 Raul Mordenti, I libri di famiglia in Italia. Vol. II Geografia e storia, Edizioni di Storia e letteratura, Roma 2001, pp. 83-111. 23 Jacques Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Einaudi, Torino 1977, p. 13, citato dallo stesso Mordenti. 24 Raul Mordenti, op. cit., p. 88.

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nalmente a quello della visione comunitaria. L’inserimento di un «evento» sembra essere giustificato soltanto dalla comprovata popolarità che esso aveva avuto nel paese, dal suo circolare all’interno di gruppi di sociabilità non specificati, ma che è facile supporre trovassero il proprio luogo di incontro nella piazza, nella parrocchia e nell’osteria. In questi casi appare evidente il disagio nella descrizione di eventi non legati a una forma standardizzata e conosciuta e che necessitano di una maggiore creatività per essere resi. Molto significativa è la trascrizione di passaggi evidentemente alieni alla scrittura contadina, più o meno dissimulati. 17 marzo [1896] Molto si odono a discorrere della guerra degli Italiani in Affrica e la sua situazione si fa sempre più grave. Si dice che le perdite avute nel Marzo ad Abba Garina si fanno asendere a più di 10 mila fra morti e prigionieri. Molti sono pure i feriti. Di 19mila uomini con 580 ufficiali sin ora ne tornarono 7mila e circa 230 ufficiali. Inoltre avrebbe perduto un milione di cartucce 5000 cariche di artiglieria, 73 cannoni, 10mila fucili, 5000 muli e molte vettovalie25.

Molto si odono a «discorrere»: la Storia entra negli scritti contadini soltanto attraverso il filtro dell’esperienza di paese e solo in funzione di essa. La citazione precisa delle cifre delle perdite non lascia dubbi sull’origine giornalistica del passo e sulla sua estraneità al testo nel suo complesso, tanto in rapporto allo stile e alle preoccupazioni precedenti dell’autore quanto alla vita quotidiana del paese. La appropriazione contadina del «genere» rivela dunque una seconda variazione rispetto al modello rinascimentale: il tempo che emerge dalla scrittura non è solo «ciclico», ma anche «comunitario». La dicitura «libri di famiglia»26 è perciò, in rapporto alle tematiche principali di questi testi, incompleta: l’entità collettiva che si delinea in questi scritti non è principalmente quella della famiglia, a cui si riservano poche o nessuna entrata – se da queste escludiamo il bilancio economico –, ma quella della comunità rurale27. 25

Ibidem. La famiglia, nelle parole di Mordenti, che riprende Jakobson, rappresenta al contempo mittente, destinatario, messaggio, contesto, codice e canale del testo. Non sembra essere il caso dei libri «di paese», perlomeno per quanto riguarda le tematiche in essi prevalenti. 27 La diaristica contadina presenta, nella preminenza del tempo comunitario, nel ruolo dell’autore/spettatore e nelle tematiche prevalenti delle costanti davvero sorprendenti in comunità geograficamente e temporalmente molto distanti. Si veda il caso fran26

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Ai libri di famiglia si aggiungono e spesso si compenetrano dei libri di appunti o di «passatempo», nei quali la scansione cronologica è del tutto abbandonata. Si tratta anche in questo caso – ma in maniera più spiccata – di testi «contenitore», nei quali i generi letterari e le stesse attribuzioni autoriali sono sovrapposti e reinventati, in un collage di significati a volte contradditori. Lo stesso Francesco Dallepiatte è autore di un «libro di passatempo» datato 1852, nel quale trovano spazio i generi più diversi, da lettere di supplica rivolte al comune e ricopiate con cura (forse modelli per future stesure o un archivio personale?) a piccoli testi di memorie legate a avvenimenti religiosi, da testi di accordi di servaggio per la coltivazione dei campi a calcoli matematici, ricette, orazioni, lettere d’amore, il tutto corredato da disegni e decorazioni di non trascurabile valore estetico. Francesco arriverà ad includere nei suoi quaderni (1880) la ricopiatura di un testo pubblicato, «Memorie di Pergine e del Perginese», di don Tommaso Virgilio Bottea. Il libro della famiglia Giovannini (scritto da Vigilio e Francesco, viticoltori di Mezzocorona) si apre con degli indirizzi (un «guaritore» e un parente emigrato a Montevideo) e l’elenco dei premi di una lotteria di Mezzotedesco del 20 aprile 1891. Seguono delle «Memorie funebri», per familiari deceduti tra il 1889 e il 1906. Si trovano in seguito delle preghiere e delle lettere ricopiate, un registro delle entrate della vendemmia del 1905-6 e così via, fino a comprendere dei modelli di testamenti, lettere di supplica, preventivi di costruzioni, contratti di locazione. L’ultima data che vi si ritrova è, all’interno di un registro di conti, il 1941. Inseriti nel quaderno, che in poco più di 100 pagine copre più di 50 anni, si trovano un articolo di giornale («Trattamento contro a Tignula de l’uva»), due pagine di catechismo, una fattura datata 1920 e tre cartoline (1900, 1902, 1908)28. La scrittura contadina prima del conflitto incarna dunque la volontà di fissare il tempo nei suoi capisaldi, attraverso marcatori ricorrenti visti come significativi, l’annotazione sporadica di fatti «esterni» o curiosi, l’affermazione di speranze esse stesse perfettamente interne a una ciclicità che, pur richiamando incessantemente se stessa, può avecese studiato da Tina Jolas e Solas Pinton, Un contadino nel suo diario, in Daniel Fabre (a cura di), Per iscritto. Antropologia delle scritture quotidiane, Argo, Lecce 1998, pp. 271-290 (anni ’80 del ’900 - http://www.comunicazione.uniroma1.it/materiali/17.26.19 _JOLAS2.pdf) e il caso statunitense studiato da Marilyn Ferris Motz, Folk Expression of Time and Place: 19th-Century Midwestern Rural Diaries in «The Journal of American Folklore», 100 (1987) n. 396, pp. 131-147. 28 Libro di famiglia Giovannini.

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re una fluttuazione positiva o negativa a seconda dei casi e della volontà divina. Essa si arricchisce sovente di una precisa volontà di preservare, per quanto in maniera a volte caotica e apparentemente casuale, quanto è successo, e di provarlo con l’evidenza di testi di altra origine. In quest’ultimo aspetto è più evidente il rapporto con la vita familiare, i suoi ricordi, la sua economia, la volontà di conservare il passato e i suoi segni.

I canzonieri militari: il tempo coscritto Ah! perme questo tempo mi pare che non passa più ed miè anoioso ed affannoso – Ernesto Debiasi

La pratica della stesura di canzonieri e zibaldoni prima del conflitto è stata accuratamente e profondamente studiata da Quinto Antonelli in «Storie da quattro soldi»29. I loro corrispettivi in tempo di guerra sono fonti molto complesse, che vengono qui utilizzate solo in maniera sussidiaria. In questa sede interessa soltanto mettere in evidenza quale rapporto i «testi contenitore» intrattengano con il tempo e la sua ciclicità. Nelle parole di Quinto Antonelli, le canzoni sono: «testi scritti destinati a ridiventare orali e ad entrare in circolo all’interno di comunità considerate assai poco alfabetizzate». In essi è iscritta «la storia di un incontro vario e complesso tra tradizione folklorica, testi a stampa e desiderio intenso di scrittura»30. Ai fini di questo scritto ciò che più interessa è l’ultimo elemento di questo mélange, le motivazioni che spingono alla scrittura prima della guerra. Caratteristica prima dei canzonieri è la loro omogeneità complessiva, che fa da contraltare alla loro disomogeneità interna: soprattutto nel caso dei canzonieri di caserma, frutto di un contatto più assiduo tra commilitoni con esigenze simili rispetto alla scrittura, è evidente come i testi e i temi ricorrano costantemente in autori diversi. La loro provenienza è varia, ma, nella maggior parte dei casi, le canzoni riportate sono di origine colta: veicolati da libri, almanacchi e fogli volanti, i canti in questione si ritrovano, con variazioni dovute soltan29

Quinto Antonelli, Storie da quattro soldi, Publiprint Editrice, Trento 1988. Si veda anche, dello stesso autore, Bravi cacciatori e poveri soldati. Canzonieri militari trentini dalla coscrizione alla Grande Guerra, in «Materiali di lavoro», 1 - 2 - 3 (1985), pp. 153-208. 30

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to alla trascrizione o a segmenti di canzone appositamente dedicati a una minima contestualizzazione della situazione dell’autore, in tutto il Nord Italia, a dimostrazione di un processo di divulgazione che, se inizia con una volontà di educazione da parte delle classi colte, finisce in realtà con un’appropriazione del tutto originale da parte del «popolo», che utilizza questi testi come tessere di un mosaico, a formare una composizione sentita come estremamente personale. Il carattere personale della composizione «a mosaico» dei canzonieri e degli zibaldoni non si esplica però nella gerarchizzazione dei testi o in un messaggio generale attribuibile alla singola raccolta. La «scrittura collezionista» che caratterizza i canzonieri mette fianco a fianco testi dalla natura e dalle tematiche eterogenee31, che vanno dalla parodia religiosa («Le otto beatitudini dei soldati», «Padre nostro melitare») alla nostalgia per la casa e per l’amata, dalla preghiera all’inno patriottico, fino ad arrivare a canti socialisti. È quasi impossibile ricavare da questo tipo di testi un messaggio univoco sulle posizioni politiche, spirituali, sentimentali dell’autore/trascrittore, eccezion fatta per una diffusa e radicata avversione per il servizio militare32 e una prevedibile nostalgia per la vita precedente ad esso. La stessa concatenazione dei testi appare anarchica e non rispondente a un piano di stesura. Non esistono raggruppamenti tematici: i testi vengono inseriti quando se ne ha voglia, quando si ha tempo e occasione, senza nessuna evidente volontà comunicativa o espressiva rispetto alla singola canzone; le trascrizioni, per la loro eterogeneità tematica e tendenziale onnicomprensività, devono essere prese come il riflesso di un milieu nel quale l’autore si muove, ma all’interno del quale egli non opera una scelta mirata a una dimostrazione. È indubbio (e prevedibile) che questo milieu abbia una spiccata predilezione per l’elemento patetico del distacco e della lontananza, stemperato spesso da canzoni parodistiche, a sfondo sessuale o satirico, ma la contestualizzazione di questi temi all’interno di una storia di vita individuale appare impossibile. 31 Si veda Antonio Di Seclì, Il canzoniere di Mansueto M. di Bolbeno, un mugnaio di inizio secolo con l’animo del poeta, in «PassatoPresente», 29 (1987), pp. 159-171. 32 In autori esplicitamente avversi al servizio militare come Vinante e Masè si trovano tuttavia strofe di questo genere, che non hanno altra giustificazione che il semplice fatto di essere conosciute e familiari a chi scrive, ma non dicono nulla a proposito delle posizioni reali degli autori: «Madre mia vi ho giurato/Che per la patria va morir./Ma se torno disonorato/Piu filio non mi dir» (Canzonetta dun Melitare). Quinto Antonelli fa notare che la versione originale di questa canzone (I cacciatori delle Alpi) è da attribuirsi a Luigi Mercantini, e da datarsi 1859.

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A questo proposito è molto interessante notare che i trascrittori dimostrano, qui come in guerra, una concezione molto particolare del concetto di autore e, di conseguenza, di opera. Nonostante le canzoni siano manifestamente dovute ad altre fonti, scaturite dall’esperienza collettiva della caserma o dal confronto reciproco tra diversi canzonieri, la firma che viene posta in calce ai componimenti è sempre quella del trascrittore, che semplicemente afferma di averla «scritta». Non si tratta tanto di una volontà di attribuirsi illegittimamente un componimento non proprio, quanto di una sostanziale indifferenza verso quella che si chiamerebbe oggi la «proprietà intellettuale» dei pezzi. Come nel caso dei libri di famiglia l’«autore» (sia che si tratti di chi scrive sia che si tratti dell’inventore del brano) rimane in secondo piano rispetto all’affermazione della semplice esistenza di questi componimenti all’interno del circolo di sociabilità, evidentemente composto dai commilitoni di etnia italiana. Il processo di appropriazione del testo inizia con la sua trascrizione e si completa con la firma del trascrittore, accompagnata spesso dal luogo e dalla data in cui l’atto della scrittura è stato compiuto. In questo modo il testo viene inserito all’interno del fluire del tempo e collocato nell’esperienza personale dell’autore: le canzoni sono sovente accompagnate da commenti dell’autore che si riferiscono alle condizioni della scrittura, quando non da veri e propri frammenti biografici o testi di lettere inviate o ricevute. In nessun caso però la contestualizzazione fornita dalla nota viene correlata alla scelta tematica della canzone a cui si accompagna: la scelta di inserimento non appare come rispondente ad esigenze narrative, comunicative o personali proprie del momento della trascrizione. Il caso di Giacinto Vinante, artigiano di Tesero, è in questo senso illuminante. Il suo canzoniere militare – datato 1910 – comprende testi di ogni genere, incluse alcune composizioni che si devono attribuire, almeno in parte, allo stesso Giacinto («Discorso dei due Compagni Bisoffi e Vinante»)33. I pezzi sono inframezzati dalla trascrizione di lettere inviate e ricevute dall’autore/trascrittore. Giacinto dona ad ogni lettera un titolo. Nella prima («Molta negligenza nello scrivere») il soldato rimprovera con toni piccati alla fidanzata Giulietta la scarsità della corrispondenza. In calce alla lettera c’è la firma di Vinante, la data e il luogo: «Salzburg, li 20 Genaio 1910 Trupenspital». Se non fosse per la collocazione inusuale della data (in fondo alla lettera e non all’inizio), si potreb33

Zibaldone di Giacinto Vinante.

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be pensare che essa si riferisca al momento in cui la missiva era stata spedita. La lettera seguente viene intitolata semplicemente «Risposta alla lettera precedente», e vi si trovano le scuse e le giustificazioni di Giulietta («Guarda che ci deve essere qualche traddittore sotto per inganarci»). La firma è quella della fidanzata, ma ad essa viene aggiunta quella del trascrittore, il luogo in cui quest’ultimo si trova (sempre Salisburgo) e la data in cui la lettera è stata trascritta, il 21 Gennaio. La data di invio è del tutto ignorata; la breve distanza che intercorre tra le due date di trascrizione attesta che le lettere erano già in possesso di Vinante quando inizia la trascrizione della prima. Il battibecco è per ora sedato. Verso la fine dello zibaldone, però, appare una lettera intitolata «Non credevo di venire traditta». Con toni davvero insoliti per la formalità e la moderazione proprie dell’espistolografia popolare, Giulietta riversa sul proprio ormai ex fidanzato tutto il suo odio: «Traditore Infame. Col quore infiocato dal’odio che ti porto, ti invio i ultimi rimproveri sperando ne saprai il motivo». La firma in calce alla lettera è, ormai prevedibilmente, di Giacinto, in data 11 marzo 1910, in luogo Salisburgo. In questo caso la firma di Giulietta è del tutto rimossa e lo sarà anche nelle seguenti trascrizioni. Giacinto si giustifica, rimandando al mittente le accuse in due lettere (dal titolo «Non avrei creduto – Dona ingrata?» – trascrizione: 12/03 e «Lettera disgustosa – Non più mia» – trascrizione: 25/03) e arrivando persino a minacciare la donna con l’arma della vergogna («Ricordati che quanto facesti per il passato alla mia presenza, non restera in secretto ma si spargera, come laria porta li uccelli»). Tra le due però, in data di trascrizione 14/03, c’è una lettera d’amore, presumibilmente rivolta alla stessa Giulietta da Giacinto, in cui viene invece magnificato l’idillio tra i due e il ruolo salvifico dell’amata durante l’esperienza della leva e della lontananza («Io sono felicie – Idolo del quor mio»). Anche l’epistolografia, un tipo di scrittura nel quale la proprietà creativa è solitamente esclusiva del mittente, viene fagocitata dalla scrittura “contenitore” e normalizzata, omogeneizzata agli altri testi tramite l’appropriazione da parte del trascrittore concessa dalla firma. Come si vede non c’è nessuna preoccupazione narrativa, nessuna volontà di costruire una storia o sostenere una morale, né attraverso la concatenazione delle canzoni né, ancora più sorprendentemente, attraverso il battibecco fatto rivivere dalle lettere, interrotto da una lettera precedente e di tutt’altro tono quale quella del 14 marzo. Perché dunque includere, in maniera del tutto non circostanziata (il testo non dice quale sia il motivo della rottura, se Giacinto aveva effettivamente

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tradito Giulietta e men che meno quale fosse stata la reazione del trascrittore alla separazione) delle lettere all’interno di questa composizione multiforme? La spiegazione più immediata è che si tratti di una vera e propria «fame» di scrittura per la scrittura, un’esigenza legata non al rendiconto di avvenimenti o all’affermazione della propria personalità, ma semplicemente alla volontà di riempire il tempo interminabile del servizio militare. È molto significativo che il servizio militare, come la guerra, anche se in forme diverse, rappresenti una occasione così propizia e così largamente sfruttata per scrivere. Autori che terranno ampie memorie in guerra (Augusto Gaddo, Emilio Fusari, Giacinto Vinante, Davide Terzi) avevano già avuto modo di misurarsi con la scrittura proprio in quella particolare forma di «scrittura collezionista» che è il canzoniere militare. La coercizione naturalmente legata alla chiamata alle armi introduce nel rapporto coerente tra tempo ciclico e scrittura ciclica che caratterizza i libri di famiglia un’urgenza nuova, quella che il tempo passi, per un ritorno al familiare e al conosciuto. Non si tratta più della documentazione del tempo nel suo placido e prevedibile fluire, legato come è a eventi conosciuti e familiari, ma di un tempo anomalo, sentito come problematico e ai limiti della sopportazione. Esso richiede una rielaborazione tramite la scrittura, intesa come atto personale anche quando non creativo, che gli dia ordine, ne attesti il progressivo esaurirsi e permetta, nel processo, di svagare il pensiero e distoglierlo dalla tragicità della situazione presente. Il ruolo della scrittura che appare dai canzonieri militari può essere individuato in due tempi successivi. In primo luogo si deve notare l’importanza dell’atto concreto dello scrivere. La parola «passatempo» acquisisce, per la frequenza con cui viene utilizzata in calce alle canzoni come giustificazione della scrittura, un vero e proprio valore formulare: Scritto per pasattempo in caserma St. Casiano 29/10 1913 Ghezzi34. Scritto per passatempo Jager Beniamino Masé. All’ore 2 di notte trovandomi in servizio come Inspektion partoullfuhrer St. Anna Kaserme in Bregenz am 31/1/1135.

34

Canzoniere militare di Giacomo Ghezzi, in calce a «Atto di contrizione mili-

tare». 35

Canzoniere militare di Beniamino Masè, in calce a «Preghiera dei Soldati».

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Quando non si sa cosa fare si scrive per umpo di tempo passare. G. Romagnoli, Hall (in Tirol) 22/12/191336.

La scrittura serve a dimenticare, a proiettare la mente altrove mentre si stanno compiendo atti noiosi o quando si vuole scacciare un determinato pensiero. Questo altrove, questo svago, è in genere molto vicino alla realtà vissuta: le canzoni trattano di allontanamenti struggenti, di fidanzate traditrici e, in moltissimi casi, della stessa vita che i soldati si trovavano a vivere, a contatto con la disciplina, la fatica e la pericolosità delle esercitazioni. Ma permettono anche di affrontare in forme farsesche, satiriche e spesso carnevalesche l’esperienza quotidiana, ribaltando i valori militari, veicolando critiche impronunciabili nella realtà quali quelle agli ufficiali o ai curati e trattando argomenti scabrosi quali il sesso o la «natura» della donna. La spiegazione «ricreativa» lascia tuttavia irrisolte alcune problematiche. In primo luogo non spiega perché il tempo della coscrizione (così come quello della guerra) sia un’occasione così propizia per scrivere e perché proprio la scrittura «collezionista» sia scelta come passatempo all’interno di questa particolare esperienza. In secondo luogo, non aiuta a capire perché il fatto che la scrittura sia un passatempo sia ribadito così spesso e in autori diversi. In terzo luogo, non spiega perché ogni singolo testo riportato nei canzonieri abbia bisogno non solo dell’atto di appropriazione autoriale tramite la firma, ma anche della designazione temporale e spaziale. Se si scrive soltanto per passatempo, per svago, che bisogno c’è di inserire il proprio nome a fianco di ogni singola composizione, essendo esse poste all’interno di un volume steso da un’unica mano? Non basterebbe il nome all’inizio del libro o alla sua fine? Come si coniuga il concetto di scrittura – passatempo con la necessità di esplicitare quando e in che condizioni il testo è stato scritto, soprattutto considerando che il contesto contingente di stesura è del tutto scollegato dal tema della composizione? Una possibile spiegazione è da ricercarsi nella particolare concezione del tempo che il servizio militare introduce. Esso è un tempo specifico e dalla durata limitata: tre anni (due con la riforma dell’esercito

36 Canzoniere militare di Giovanni Romagnoli, in calce a «I precetti della chiesa militare». Si veda anche il diario del servizio militare di Pellegrino Weiss: «Ma èra una oscura sera e scrivei quasi tutta la notte per passatenpo». «l 2 [febbraio] era la Mado na e andai a Messa e dopo disnare vene l’Uficiale di spezione Tenente Fesi a visitarci ed era solo e in quellasera conponei un soneto in lingua tedescha per passatenpo».

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asburgico del 1912)37. Il fatto che ad ogni testo venga accompagnata una data, un luogo e, occasionalmente, un accenno alle proprie condizioni, deve far pensare che i testi abbiano significato anche e soprattutto come marcatori del tempo, analoghi a quelli dei libri di famiglia, sebbene calati in un tempo di natura diversa: il valore d’uso dei canzonieri sarebbe in questo modo da attribuire più alle date e alle piccole note biografiche che non alle canzoni vere e proprie38. Queste ultime altro non sarebbero che un passatempo nel senso classico e limitato del termine, un modo per far scorrere pochi minuti durante un servizio di guardia, attraverso una performance ritenuta nonostante tutto altamente personale e creativa. La creazione di una collezione, pratica evidentemente comune tra i soldati, non doveva essere estranea alle motivazioni della scrittura: all’interno di essa la performance esteticofigurativa, evidenziata dalla presenza di disegni e dalla cura della calligrafia, probabilmente messa alla prova dal confronto con le collezioni altrui, appare essere molto più importante della scelta concettuale e poetica. Il ricorrere quasi immancabile delle date permette tuttavia di dare al termine passatempo un’accezione più ampia. La pratica di scrittura di canzonieri e zibaldoni acquista significato, nella rilettura da parte degli autori che, nel rivedere il proprio passato, calcolano immancabilmente i giorni che li separano dalla fine del servizio. Vinante afferma esplicitamente il duplice ruolo della scrittura in queste poche parole: E per non star li a pensar ancora ai giorni che mi dea restare in questa prigione mi passo via le piu belle ore a scrivere su questo libro, che spero che quando lo ho finito sara finita anche questa cagnia39.

In apertura del proprio canzoniere («Ricordo del mio bel tempo passato in schiavitù») scrive Dario Magnoni, classe di leva 1911:

37 Gunther E. Rothenberg, The army of Francis Joseph, Purdue University Press, West Lafayette 1998, p. 165. 38 Con questo non intendo in nessun modo sminuire il valore documentario delle canzoni come rivelatrici delle rappresentazioni della subcultura militare del tempo: il fatto che esse circolassero è di per sé prova che gli argomenti da esse trattati furono centrali per i soldati e per la loro socialità. Il fatto che esse siano state trascritte nelle modalità descritte e corredate da note, mi sembra d’altra parte rivelatore di un valore d’uso più legato all’atto di scrivere in sé che non a quanto effettivamente si scriveva. 39 Per cagnia (cagna) si intende il servizio militare.

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100 / Ultimo 100 / 1911 / Maledisco te, che mi prendesti / la libertà e mi impriggionasti / 1911! a quanti pericoli mi esponesti / 1914 / te ti benedico che mi rendesti / la libertà e mi spriggionasti / 1914! Tu dai tanti pericoli mi strappasti / Ancora 100 giorni / E poi la s’è finita / Questa maledetta vita / Di fare il militar40.

Nell’immediato l’esigenza è quella di non pensare al tempo, di farlo semplicemente e naturalmente passare. Ma il «libro» deve anche accompagnare il tempo e attestarne il passaggio. Ernesto Debiasi, contadino di Ala, pone in calce della canzone «La partenza di un povero soldato» non solo la data di trascrizione, ma anche quella del termine del proprio servizio. Finito Giorno 6 Novembre 1908…1911. Jager Debiasi Ernesto41.

In calce alla già citata «Lettera disgustosa – Non più mia» di Vinante si trova: Salsburg li 25 Marzo 1910 Ancora 160 giorni42.

Emilio Fusari, un autore le cui peripezie di guerra saranno oggetto di un’analisi estesa nei prossimi capitoli, inserisce nel proprio canzoniere un’esortazione ai propri lettori immaginati: Questo libro e un ricordo del mio servizio militare In Trento nell’ano 1912 - 1913 - 1914 - 1915. 3 Regg.caciatori Inperiali Tirolesi In questo libro scrissi nelle ore di passatempo. […]. Si prega a tutti i lettori di recitare un pater ave in onore di quel santo deisanti che e capace di giorni far mesi e di far tramontare il sole prima dell’ora. Scritta In Bondone per passatempo43.

In un passaggio del canzoniere militare (1913-14) di Giovanni Romagnoli, contadino di Storo, si trova la dimostrazione forse più evidente del legame funzionale tra tempo e scrittura. In calce a una canzone dedicata a «I comandamenti delle done» – dunque non legata alla tematica del passare del tempo – Giovanni scrive: 40

Canzoniere di Dario Magnoni. Canzoniere di Ernesto Debiasi. 42 Ibidem. 43 Memoriale di Emilio Fusari. Si noti che Fusari non poteva sapere che sarebbe rimasto sotto le armi per così tanto tempo: egli sarà mandato in Galizia allo scoppio della guerra. Dato che si dice a Bondone il passaggio deve essere stato scritto durante il servizio ordinario, probabilmente al suo inizio e includendo gli anni che prevedeva di dover passare sotto le armi. L’anno 1915 è stato evidentemente aggiunto in seguito. 41

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Lorologgio fa mesa notte, bisogna che vada sul posto a brusar due ore di ferri. Termino di scrivere colla pena, mà il mio cuore non lasiera mai il pensiero, a si tanti mesi che o ancora da pasar sotto questa famiglia. G R 12/4/444.

Il tempo del servizio militare è visto come «tempo morto da subire con pazienza e con rassegnazione» che «trova nei canzonieri rappresentazioni grafiche e messe in scena adeguate»45. La più pregnante di queste raffigurazioni – se non altro per l’insistenza con cui si ritrova – è quella dei tre anni del servizio come di una scala da salire e poi discendere, nella quale ogni mese rappresenta uno scalino. Questa metafora rende perfettamente l’idea dell’escursione, faticosa, penosa e piena di pericoli, al di fuori della temporalità conosciuta e del proprio ambiente, con un ovvio accento sulla desiderabilità della discesa, al contempo ritorno a casa e ritorno a una scansione del tempo tradizionale. Il citato Antonelli mette in evidenza tutte quelle tappe («punti di non ritorno») che aiutano a percepire il passare del tempo, tra le quali un’importanza particolare è riservata alla metà del servizio, l’apice della scala immaginaria dopo il quale inizia il ritorno. Riprendo direttamente dal suo saggio la citazione seguente, un annuncio goliardico prodotto dai soldati che dà un’idea del peso psicologico dell’avvenuto giro di boa e dell’evento collettivo da esso rappresentato. Peromia Sequla zenza un soldo I Cacciatori tirolesi Italiani del IV Regimento e 10 Compagnia in Trento participano la lutuosa notizia ai genitori fretelli, sorelle, zii, nipoti chelere, nonche ala cara amante ed agli amici ed conoscenti che al toco della mezzanote del giorno 18 corente mese cesa va di vivere la Metà del Servizio Visse dividendo sempre gioie e dolori fu sempre laborioso ed econome e benche avesse osservato tutte le regole del digiuno e subito con pane nero ed acqua arivò all’età di 18 mesi. La salma verra trasportata alla Birraria Monte Oro ove vi sara grande concorenza de bevitori. Quando il povero estinto sara inbasamato di vino, birra, vermut esgnapa verra trasportato in piazza d’armi

44 Canzoniere di Giovanni Romagnoli. Nello stesso testo, dopo un’«Ave Maria militare», in realtà rivolta ironicamente al pesante zaino dei soldati, l’autore inserisce il seguente calcolo: «Anni 3 / Mesi 36 / Settimane 156 / Giorni 1.095 / Ore 26.280 / minuti 1.576.800 / m. secondi 94.608.000». Si veda anche il canzoniere di Guglielmo Frainer: «Conto dei giorni che mancano e dei soldi che si devono ricevere». 45 Q. Antonelli, Storie da quattro soldi, op. cit., p. 48.

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La suddivisione del tempo del servizio, permessa dal suo essere nettamente delimitato tra un inizio e una fine conosciuti, viene direttamente espressa in una canzone molto popolare – si ritrova in forme quasi invariate nei canzonieri di Fusari, Vinante, Cosner, Masé, Romagnoli e Debiasi, sebbene con titoli diversi – che ad ogni mese, a partire da ottobre (mese della chiamata alle armi) dedica una quartina che ne descrive le attività tipiche e lo status del soldato, da recluta, costretta a servire gli anziani, ad anziano egli stesso. Già a Giugno del primo anno inizia il conto alla rovescia: «Finito il mese di Maggio / Si aquista un’pò di coraggio/ Perché si dice ne abbiamo fatto otto/Ce ne resta solo che ventiotto». A febbraio del secondo anno incomincia a intravedersi la metà del servizio («Ancora un mese poi è finita / Questa scala così erta e stretta / Se ella presto non và in giù/ Compero una corda e mi tacco su»), una data che non segna soltanto l’avvicinarsi della fine, ma anche un cambiamento nello status del soldato rispetto alle «ombre» che sono le nuove reclute. Nei mesi di marzo e aprile si legge: «In cima alla scala siamo arrivati / Non più da cappelloni siamo trattati / Ora i mesi comincia a semar / Di questa vita melitar»e «Metà della scala l’abbiamo passata / Lasciando ai giovani la scalinata / Di diventar matti a pensa l’avenir / Che gia molto si ha da soffrir». I mesi seguenti sono tutti rivolti al conteggio del tempo e ai segnali che ne attestano il passaggio, dal freddo dell’inverno alla partenza dei coscritti dell’anno precedente, fino al settembre fatidico in cui «Al capitano gli aderemmo davanti / Tutti allegri e trionfanti / Lui ne consegnerà il nostro libretto / E monteremo poi col bauletto». La scrittura dei canzonieri non indica in nessun modo che la concezione del tempo nel suo complesso sia mutata rispetto ai libri di famiglia. Al contrario, la caratterizzazione esplicita che si dà del tempo militare non fa che rafforzare l’impressione che il tempo degli attori sociali sia visto come ciclico e che il servizio militare sia volutamente caratterizzato come una parentesi, come un «tempo rubato» e provvisorio. In rapporto al tempo «problematico» del servizio militare i canzonieri sembrano ricoprire dunque due funzioni: quella oggettiva di osservarne lo scorrere e quella soggettiva e personale di svagare la mente e di proiettarla al di fuori del tempo presente, all’interno dell’universo di pace o in un mondo dai caratteri rovesciati o idealizzati. L’osservabilità del tempo in questione, la possibilità stessa di scomporlo in tappe per renderlo più accettabile e facilmente vivibile è data dalla sua stessa natura di tempo delimitato. Il tempo «coscritto» (cioè sentito come tempo rubato alla giovinezza e rispetto a un passato

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idealizzato di cui si aspetta il ritorno) è tempo circoscritto, il cui inizio e la cui fine sono fissati dalle regole del servizio di leva. Nella contemplazione ricorrente del termine ultimo del servizio, così come fissazione su carta di un tempo parcellizzato, è possibile leggere uno sforzo di inserire il periodo anomalo del servizio all’interno del tempo consacrato dalla tradizione. Nei prossimi paragrafi mi occuperò di come la scrittura popolare, tratterà il tempo «senza fine» della guerra.

Tempo della guerra e tempo della scrittura: note di campo e memorialistica I libri di famiglia sono sostituiti, in guerra, dalle note di campo e dai diari che presto definirò «annalistici». Le note di campo sono dirette discendenti dei libri di famiglia per quanto riguarda il trattamento del tempo e il suo inquadramento in categorie ricorrenti di avvenimenti, la concisione della descrizione e la rigidità delle scelte di esclusione ed inclusione. Nonostante la forza prorompente dell’evento guerra e la percepita ed esplicitamente lamentata inadeguatezza dei mezzi espressivi, la modalità prevalente di rendiconto degli avvenimenti non subisce una rivoluzione adeguata allo stravolgimento che essa si propone di raccontare. Le «note di campo» non sono un genere perfettamente isolabile: si tratta di appunti sparsi, spesso ordinati cronologicamente, ma altrettanto spesso contaminati da interventi successivi, testi ricopiati, indirizzi, conti matematici, canzoni, disegni e piccoli vocabolari con parole russe o tedesche. Come nel caso dei canzonieri e dei libri di passatempo i limiti sulla natura dei testi da inserire e sulle tematiche sono molto flessibili, quando non inesistenti. Non è inoltre possibile tracciare una linea divisoria netta tra le note di campo e i diari veri e propri ed è a volte difficile addirittura distinguere in maniera definitiva note immediate e memoriali retrospettivi sul piano della scelta dei temi e della forma generale dello scritto. Le tre forme si frammischiano, si inseguono, si alternano all’interno di uno stesso testo: un diario a note fisse, giornaliere o quasi, in cui ad ogni entrata corrispondono poche parole, tipicamente ad indicare il lavoro svolto in trincea o il cibo consumato, può aprirsi in occasione di avvenimenti particolari – ma anche senza nessuna ragione evidente al lettore – in riflessioni più estese, che coprono un ampio periodo di tempo e che denunciano uno sguardo retrospettivo. Lo stesso testo

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può tornare alla forma originaria, di nuovo senza preavviso o apparente spiegazione, riavvicinando nuovamente il tempo della scrittura e il tempo del vissuto. Un titolo iniziale, che includa anche l’arco cronologico di riferimento (ad esempio «Piccola Storia della Guerra Mondiale 19141918»), potrebbe far pensare a una facile attribuzione come memoria autobiografica a posteriori. In realtà, dalla lettura del testo, può emergere che si tratta di una trascrizione in molti punti fedele di un diario steso nell’immediato o di una sistemazione di note che volutamente rinuncia al senno di poi, in favore di una narrazione che si può dire nel complesso vicina a quella del vissuto. All’interno di questa narrazione, però, lo sguardo retrospettivo può riapparire, in corrispondenza di una presumibile lacuna nelle note prese sul campo, o in risposta a particolari esigenze della narrazione (la dimostrazione di una tesi, il colloquio diretto dell’autore con i suoi lettori, più raramente un confronto esplicito tra il momento narrato e il momento in cui si sta scrivendo), evidenziando un rapporto complesso tra la memoria forgiata dal racconto immediato e le esigenze legate al momento della ri-stesura. La forma a note, con i temi di cui è portatrice, rimane in ogni caso il filo conduttore di quasi tutte le narrazioni, arrivando ad influenzare anche le memorie stese a distanza di anni. Ciò è evidente nell’analoga scelta tematica e nell’adozione di uno stesso «atteggiamento narrativo» (vale a dire l’assunzione delle stesse priorità di gerarchizzazione e di occultamento dei fatti) ed è confermato da testimonianze dirette (gli autori affermano esplicitamente di aver fatto uso di note o diari per ricostruire l’esperienza) e dalla precisione di alcune nozioni a prima vista insignificanti o difficilmente rievocabili senza un supporto esterno, quali possono essere l’orario di un pasto, il succedersi delle «portate» o il numero dei componenti di un determinato battaglione in un determinato momento. Come nel caso delle testimonianze studiate da Annette Wieviorka, «la memoria non è […] ‘rinfrescata’ dalle note. È il racconto già reso che è diventato esso stesso memoria»46. Prima ancora che contenitore e bacino di informazioni puntuali la forma a note è una modalità di inquadrare il ricordo, estremamente selettiva e ostinatamente cieca verso alcuni aspetti dell’esperienza. La ripetitività, non la precisione, è la sua caratteristica principale, come è immediatamente evidente dando 46 Annette Wieviorka, L’ére du temoin, Plon, Paris 1998, p. 102 (trad. it. di F. Sossi, L’era del testimone, R. Cortina, Milano 1999).

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una scorsa alle note «non raffinate» o alle forme diaristiche più vicine a queste ultime. Una prima classificazione delle memorie, che inserisco qui enfatizzando il suo carattere esclusivamente idealtipico, si può basare sulla distanza che divide tempo del vissuto (il tempo in cui l’azione descritta ha avuto effettivamente luogo) dal tempo della scrittura (il tempo in cui ha avuto luogo la scrittura). Sulla linea progressiva che va dal tempo del vissuto al tempo della scrittura possiamo porre le differenti forme di memorialistica: in primo luogo le note e i diari, la cui stesura avviene a ridosso dell’esperienza. Esse sono caratterizzate da brevi e frequenti sessioni di scrittura e da «entrate» altrettanto brevi che trattano un periodo di tempo limitato. Di seguito si collocano i memoriali, caratterizzati da una distanza maggiore tra il tempo del vissuto e il tempo dello scritto, che possono far uso dello sguardo retrospettivo limitatamente a un dato periodo di tempo. Caratteristica essenziale del genere che definisco memoriale è il fatto che il tempo della scrittura si collochi all’interno della guerra, cioè che l’autore non abbia su di essa uno sguardo complessivo del tutto esterno, non possa giudicare l’evento come esclusivamente appartenente al suo passato e non possa collegare cause ed effetti in maniera compiuta. Spesso i memoriali si trasformano in diari mano a mano che il tempo della scrittura si avvicina al tempo del vissuto47. Altrettanto spesso questo particolare tipo di scrittura viene prodotto in momenti di «pausa dalla guerra» e di inattività, tipicamente durante i periodi di prigionia o di convalescenza. All’estremo opposto della linea cronologica si pongono le memorie autobiografiche48, scritti il cui tempo di stesura si colloca dopo il ritorno del soldato dalla guerra, in cui più evidente è la volontà di raccontare un’esperienza integrata e dove più chiari sono gli intenti comunicativi dell’autore.

47 Quando nelle note verrà inserito «memoriale/diario» si vorrà indicare proprio questa forma che passa da uno sguardo retrospettivo a una scrittura diaristica. Quando invece, più raramente, si troverà l’espressione «memoria autobiografica/diario», si vorrà indicare una memoria che, interamente stesa a guerra finita, presenta passaggi consistenti che sono riconoscibili come ricopiature di un testo steso nell’immediato. 48 Laddove la memoria autobiografica mette l’accento sulla realtà esterna all’autore, la biografia si concentra sull’introspezione, offrendo una visione consapevolmente soggettiva della realtà di cui si è avuto esperienza. Karl J. Weintraub, Autobiography and Historical Consciousness, in «Critical Inquiry», 1 (1975), n. 4, pp. 821-848.

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Per completare questa classificazione e per renderla operativa perlomeno a fini espositivi, nonostante essa si basi su tendenze diverse interne a ogni testo piuttosto che su una statistica dei testi analizzati, occorre aggiungere una nuova linea, che tiene conto dell’influenza delle note sulla scrittura popolare di guerra e del loro effetto distropico su una classificazione basata sul rapporto tra forme della narrazione del ricordo e momento in cui il ricordo viene formato. Si tratta di una linea basata sulla complessità dell’intreccio, vale a dire sulla complessità con cui i fatti narrati sono collegati tra loro e sulle finalità implicite che la creazione dell’intreccio sembra avere in rapporto alla caratterizzazione dell’io e della comunità di appartenenza. Tale linea di progressiva complessità corrisponderà a quelli che Hayden White in Metahistory49 chiama, riferendosi al lavoro di scrittura storiografico, livelli di concettualizzazione e di intramazione (emplotment) dei «dati storici grezzi», nel caso particolare i fatti di cui il soggetto ha avuto esperienza. La trasposizione del concetto di livelli di concettualizzazione nel campo delle scritture del sé non può avvenire senza le dovute precauzioni: scrittura storiografica e scrittura del sé hanno ovviamente modalità e fini totalmente diversi e in alcuni casi opposti. Eppure esse hanno in comune almeno due caratteristiche fondamentali. In primo luogo entrambe le forme sono «struttura verbale nella forma di un discorso narrativo in prosa che si propone di essere icona o modello di strutture e processi passati con il fine di spiegarli attraverso la rappresentazione»50. Se davvero fine della storiografia è quello di spiegare i fatti attraverso la loro rappresentazione (e attraverso particolari modalità di rappresentazione), possiamo dire che essa ha con la scrittura del sé e con il racconto di vita una parentela primordiale, che mi sembra autorizzare un’analisi che parta dalle modalità con cui, in un determinato periodo di tempo e in rapporto a una particolare catena di eventi o processo, alcune persone hanno deciso di comunicare il proprio passato. L’effetto primo di questa traslazione, e probabilmente di questo supposto legame tra scritture del sé e scritture storiografiche, è il postulato conseguente che, se a un determinato tipo di narrazione storiografica corrisponde una particolare immagine o prefigurazione 49 Hayden White, Metahistory: the historical imagination in nineteenth century Europe, Jhon Hopkins University Press, Baltimore-London 1990, pp. 1-42 (trad. it. di P. Vitulano, Retorica e storia, 2 voll., Guida, Napoli 1978). 50 Ivi, p. 2.

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del campo storico che lo storico si propone di illuminare, alle scritture memorialistiche corrisponde una particolare visione del tempo storico nel quale l’autore si muove e e attraverso il quale ordina i propri ricordi. Se è vero, come sostiene White, che la differenza tra narrazioni antagoniste risiede nei ‘modi di organizzare l’intreccio’ predominanti al loro interno e che a questa corrispondono differenti prefigurazioni della temporalità e della storia51, allora sarà possibile creare una classificazione che si basi sulle modalità di emplotment di tutti i testi che si vogliono di verità, a prescindere dalla veridicità di quanto da essi affermato. Entrambe le forme si dichiarano rendiconti fedeli di realtà passate. Sebbene siano spesso agli antipodi per quanto riguarda la natura di questa realtà (da provare e continuamente sfidata quella storica, realtà esperienziale e senza onere della prova quella memorialistica) entrambi i tipi di scrittura affermano la propria aderenza a fatti realmente accaduti. Il passaggio da esperienza a trama implica perciò in entrambi i casi una scelta: «Contrariamente al novellista lo storico si confronta con un vero e proprio caos di eventi già costituiti, dai quali deve scegliere gli elementi della storia che intende comunicare. Egli fa la sua storia includendo certi eventi ed escludendone altri, enfatizzandone alcuni e subordinandone altri. Questo processo di esclusione, enfasi e subordinazione è portato avanti nell’interesse di costruire una storia di un particolare tipo. In altre parole egli ‘intrama’ la propria storia»52. Questa seconda caratteristica comune aggiunge uno strumento di analisi essenziale alla categorizzazione e allo studio delle scritture dell’io a partire dalla complessità della concettualizzazione: sulla base della conoscenza dei fatti storici e dello sforzo empatico e immaginativo in rapporto a una situazione a noi in parte sconosciuta sarà possibile arricchire l’analisi con il confronto con quanto non è stato detto, con le lacune della scrittura. I temi massivamente trattati sono dunque importanti sia per la testimonianza della centralità che essi avevano nel vissuto, sia per la loro «ingombranza» e la conseguente ombra in cui lasciano temi che ci si aspetterebbe centrali all’esperienza. Il processo di gerarchizzazione dei fatti include, per forza di cose, quelli che stanno al capo inferiore della scala gerarchica, quelli che l’autore ha scelto, più o meno consapevolmente, di escludere dal tessuto narrati-

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Ivi, p. 13. Ivi, p. 6.

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vo; mi spingo a dire, e ad argomentare nelle prossime pagine, che la loro importanza è provata proprio dalla loro ostinata assenza. Se è vero, come scrive Paul Ricoeur, in indiretta continuità con le riflessioni di White, che «la composizione dell’intrigo è radicata in una pre-comprensione del mondo dell’azione: delle sue strutture intelligibili, delle sue risorse simboliche e della sua natura temporale»53, sarà almeno in parte possibile ricavare dalle forme della composizione la pre-comprensione del mondo dell’azione e, nel caso di un’analisi comparativa di ampio raggio, la pre-comprensione dell’azione collettiva e la prefigurazione propria dell’ambiente culturale di provenienza. Le azioni hanno, ancora prima della loro disposizione in trama, una loro «intelligibilità», diversa a seconda della cultura che le compie e percepisce, che viene ovviamente deformata dalle forme e dal contesto della scrittura, a cui appartiene una «intelligibilità» sua propria. In questo e nei prossimi capitoli si cercherà di rendere conto, dal punto di vista degli attori sociali, di entrambi i livelli dell’intelligibilità, quello dell’esperienza (rappresentazioni culturali) e quello della scrittura (stile). Sulla base di queste riflessioni dunque è mia intenzione affermare un tendenziale parallelismo tra la linea tempo del vissuto/tempo della scrittura e una linea, basata sulla complessità dell’intreccio, che veda ai propri due estremi le due categorie di «memorialistica annalistica» e di «memorialistica cronachistica». Al primo polo vediamo di nuovo la forma a note caratterizzata da una stretta aderenza alla successione cronologica dei fatti, una generale reticenza alla riflessione astratta e all’autoanalisi e, soprattutto, l’utilizzo pervasivo di fatti ricorrenti che caratterizzano il fluire del tempo proprio della guerra. Se mi sento autorizzato a porre questa particolare forma come grado zero di una classificazione basata sulla complessità della trama è perché la mancanza di correlazione narrativa che caratterizza l’annale non equivale a mancanza di una trama, se con essa si intende «una struttura di rapporti grazie alla quale gli eventi contenuti nel resoconto sono dotati di un significato essendo identificati come un tutto integrato»54. Il «tutto 53 Paul Ricoeur, Tempo e racconto, Jaca Books, Milano 2008 p. 94. Dopo aver analizzato il rapporto tra intelligenza pratica e intelligenza narrativa, la cui concordanza e possibilità di comunicazione è fondamentale al successo di ogni tentativo narrativo, Ricoeur conclude che «Comprendere una storia, vuol dire al tempo stesso comprendere il linguaggio del ‘fare’ e la tradizione culturale dalla quale procede la tipologia degli intrighi» (p. 97). 54 H. White, Metahistory, op. cit., p. 37.

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integrato», nel caso degli scritti trentini, è rappresentato dall’esperienza di guerra, che si dispiega su un filo esclusivamente cronologico, tra i due limiti fissi della partenza e (idealmente) del ritorno. La memorialisitica che chiamo cronachistica e che sta al lato opposto della linea ideale è invece caratterizzata da un ritmo di scrittura più disteso rispetto alla cronologia e flessibile rispetto ai temi ricorrenti, che pure in molti casi tendono a non scomparire. Essa, in particolar modo, dedica uno spazio più esteso alla presentazione dell’io individuale all’interno dei fatti di guerra. Sua caratteristica distintiva rispetto alla forma annalistica è quella di costruire degli episodi – dai caratteri comuni e con al centro l’autore-protagonista, autoconclusivi e generalmente portatori di un unico messaggio – senza arrivare a una compiutezza narrativa ed espositiva dell’opera nel suo complesso55. Se la cronologia dei fatti che accadono al protagonista è il filo di intramazione principale della forma annalistica, le azioni del protagonista sembrano essere il filo che regge la narrazione cronachistica. Entrambe le forme, nonostante la maggiore libertà tematica della seconda, mettono nettamente in ombra la riflessione diretta sui fatti di guerra e sulla personalità individuale, in favore di una narrazione prevalentemente fattuale. Note/diario – memoriale – memoria autobiografica si succedono in quest’ordine su entrambe le linee poiché è spesso vero che a una maggiore distanza tra il tempo del narrato e tempo della stesura corrisponde la possibilità di una maggiore elaborazione del ricordo e, di conseguenza, dell’intreccio. Se indico tuttavia questa caratteristica come idealtipica è per il fatto, abbastanza ovvio ed evidente alla lettura, che non esiste una forma pura di memoriale o diario che si possa traslare in senso geometrico nella sua interezza da una linea all’altra: nella complessità della trama e dell’intramazione del ricordo entrano in gioco moltissimi fattori, tra i quali la cultura personale, l’abitudine alla scrittura e alla lettura, il pubblico immaginato per il proprio scritto. È comunque vero che la maggior parte delle memorie autobiografiche propriamente dette (quelle cioè che non sono semplici trascrizioni successive o messe in prosa di note di campo, ma opere stese integral55 «Le cronache, in senso stretto, sono a finale aperto. Non hanno inaugurazione; iniziano semplicemente quando il cronachista inizia a registrare gli eventi. E non hanno culmini o risoluzioni; possono andare avanti indefinitivamente […] Nella cronaca l’evento è semplicemente “là” come elemento di una serie; non “funziona” come un elemento di una storia», ivi, p. 6.

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mente a guerra finita) è caratterizzata da uno stile «cronachistico» piuttosto che annalistico. Anche nei memoriali – scritti durante la guerra – è possibile notare un più libero divergere dallo schema a note mano a mano che tempo dell’esperienza e tempo della scrittura si allontanano. Pur essendo consapevole che questa caratteristica è ascrivibile tanto a una possibile maggiore esposizione a diverse forme di narrazione (romanzesca, ma possibilmente anche giornalistica e televisiva) sviluppata dopo la guerra e poco familiare al ceto rurale trentino di inizio secolo, quanto al confronto con la lettura di memorie «colte», è mio parere che si possa individuare in essa anche un cambiamento nelle rappresentazioni sul tempo e sul proprio ruolo personale all’interno dell’evento guerra. Tuttavia, come penso emerga dalla struttura dello schema a linee parallele che ho tracciato, anche nelle memorie autobiografiche non scompare il ruolo portante delle note di campo. Sia la categorizzazione basata sul tempo della scrittura che quella basata sulla complessità della concettualizzazione vedono il proprio bacino di argomenti nelle note di campo e nella forma annalistica primaria, di cui i testi si configurano come rielaborazione via via più complessa e articolata. Questo permette di vedere nelle note e nella forma diaristica annalistica che spesso vi si sovrappone il principale rivelatore del rapporto tra gli autori e il tempo vissuto di guerra, un rapporto che viene deformato e arricchito ma non stravolto nelle forme narrative più complesse. La «memorialisitica cronachistica» non arriva mai, nemmeno nelle forme più alte, a percorrere quelle tappe che Hayden White indica come tipiche della forma di intramazione compiuta; la memorialistica non si muove linearmente tra motivi iniziali, transizionali e finali, infondendo nel processo un messaggio esplicito e univoco ricavabile dall’insieme dell’opera, ma tende verso un’intramazione di questo tipo senza portarla a compimento, con scopi propri e nettamente distinti, inutile dirlo, sia da quelli storiografici che da quelli novellistici. Non si assiste quasi mai a una concatenazione consapevolmente dimostrativa, quale si trova nel saggio storiografico, nel romanzo o nella autobiografia colta, che unisca, grazie a un piano prestabilito, inizio e fine del racconto56. 56 Per questo motivo non è possibile proseguire il parallelismo tra categorie della storiografia e categorie della memorialistica. Il grado di rielaborazione di quest’ultima si ferma ai primi due passaggi (annale e cronaca) senza la costruzione di trame sufficientemente complesse da giustificare l’utilizzo delle forme archetipiche fornite da

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Fig. 1

La memorialistica annalistica Nel suo saggio sul Valore della narrazione nella rappresentazione della realtà 57 Hayden White fa notare come ogni forma di annale (inteso come serie di nudi fatti dalla narrativizzazione minima e collegati gli uni agli altri dalla sola successione cronologica) non manchi di suscitare lo stupore (sic!) del contemporaneo rispetto alla apparente ingenuità del compilatore, che rinuncia a dare una forma narrativa agli avvenimenti. Lo stesso stupore emerge alla prima lettura di una tipica fonte memorialistica annalistica: possibile che un individuo, alla prima esperienza della guerra e delle manifestazioni violente della modernità, non abbia trovato altre parole o modalità di espressione per descrivere un’occasione e delle impressioni sensoriali senz’altro uniche nella sua vita? Possibile che quando arriva il momento della sua prima ferita, dopo interminabili e monotone liste di spostamenti e corrispondenza ricevuta, non senta il bisogno di cambiare registro, non si preoccupi di ricostruire il contesto dell’avvenimento o di dedicare più spazio narrativo, ma preferisca una forma che constata semplicemente il fatto, in tutto e per tutto analoga a quella usata per il cibo ricevuto giornalmente? White nella trattazione delle diverse modalità di spiegazione storica attraverso la trama (Romance, Tragedia, Commedia, Satira), anche se il ruolo del protagonista cronachistico – sempre vittorioso in rapporto agli eventi «malvagi» che si trova ad affrontare – suggerisce l’archetipo del romance, in una forma appena accennata e limitata agli episodi autoconclusivi che costituiscono l’insieme della cronaca. I successivi livelli di lettura (Spiegazione attraverso argomentazione e Spiegazione attraverso implicazione ideologica) sono a maggior ragione inapplicabili. 57 Hayden White, Forme di Storia, Carocci, Roma 2006, pp. 37-60.

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L’«annalistica» di guerra trentina si pone come detto tra due avvenimenti, quello della partenza e quello del ritorno. C’è però una fortissima disparità nell’attenzione dedicata alla descrizione del primo avvenimento fondante e quella dedicata all’avvenimento conclusivo. Laddove esiste un indubitabile sforzo per caratterizzare la partenza con un registro di narrazione alto e drammatico (lo vedremo meglio in seguito), il ritorno è spesso liquidato con poche parole, che attestano semplicemente la fine dell’esperienza di guerra. Questo non deve far credere che il ritorno sia assente dalla scrittura popolare trentina. Al contrario esso è continuamente evocato, immaginato, a volte raccontato come fosse già successo. Passato ricordato e futuro immaginato hanno le stesse caratteristiche: nella scrittura popolare trentina rievocare il passato è un atto (frequentissimo) che non è quasi mai disgiunto dal proiettarlo immutato nel proprio futuro. Ricordare la pace passata e immaginare la pace futura sono letteralmente sinonimi: solo il presente e la sua anormalità sembrano essere motivo di preoccupazione per i coscritti, non il mondo che li attende quando la anormalità sarà cessata. Mancano quasi totalmente riflessioni sulle possibili conseguenze a lungo termine della guerra, anche in rapporto al fatto che il Trentino era teatro di operazioni; una volta che la calamità della guerra si fosse esaurita si sarebbe ristabilito l’ordine consueto delle cose, nelle forme conosciute, ricordate e idealizzate del passato. Di fronte a questa prefigurazione, che raramente viene messa in dubbio, la descrizione dell’avvenuto ritorno non è utile ai fini della narrazione, non spiegherebbe nulla della drammaticità dell’esperienza – al contrario della descrizione di partenza, in cui lo sforzo narrativo è funzionale a indicare quello che si stava perdendo e quello a cui si sarebbe teso. L’immagine che tipicamente accompagna il lettore al di fuori della scrittura di guerra è quella dell’autore che si re-immette placidamente, naturalmente, nel suo tempo, che si reinnesta nelle strutture familiari che aveva lasciato. All’interno di questi limiti l’esperienza di guerra è generalmente raccontata attraverso temi ricorrenti. Il numero di questi temi è relativamente limitato ed ognuno di essi è legato a un’attività giornaliera o a un fenomeno osservabile periodicamente: il lavoro svolto, la posta ricevuta, il tempo atmosferico, il cibo consumato, l’intensità del fuoco d’artiglieria, gli spostamenti. Per ognuno di questi c’è a volte una caratterizzazione binaria, che lo definisce in maniera positiva o negativa giorno per giorno. Il lavoro può essere pesante o leggero, il tempo atmosferico buono o cattivo, piovoso o torrido, il cibo abbondante o –

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più spesso – scarso, il fuoco «calmo» o impetuoso, lo spostamento può essere faticoso o – più raramente – agevole. Per la corrispondenza si tende a includere più informazioni, il numero di missive inviate e ricevute e il nome del destinatario o del mittente. Attorno a questi temi si sviluppano, nelle scritture più complesse, gli avvenimenti che non sono inseribili all’interno di questo schema di riferimento, sia che si tratti di manifestazioni dei fenomeni sopracitati tanto anormali da meritare una descrizione più estesa, sia che si tratti di eventi singolari e non ricorrenti. Riporto per intero una pagina di un coscritto di nome Giovanni Zuliani. Di lui si sa poco, anche per la natura ermetica della sua memoria. Nato a Soraga (Val di Fassa) è probabilmente bracciante, come si può intuire dai lavori che afferma di compiere presso un bacan (contadino benestante), anche se non si può escludere che questa attività sia legata alle necessità di guerra. li 15 - 4 tuto ilgiorno Agram fino ore 9 Sera. Arivati a Brot ore 7 matina li 16 - 4 partenza da Brot ore 2 sera 16 - 4 ariva a Doboi ore 9 1/2 Sera 16 - 4 li 22 - 4 ora pasto perpermeso ore 10 ant sabato li 4 - 5 sabato ore 7 sera invagonato beltempo ale 12 note arivato Brot li fermo bus 9 antime arivo Iagreb ore 8 Sera parto ore 9 matina. Stainbruch ore 10 Ant arivo a Laibach ore 6 - partenza ore 7 aore 10 sera arivo a Assling cambio treno li 6 - 5 arivo a Willach ore 12 note ala 1 per Fransesfest arvo la ore 9 li 7 - 5 arivo a Ora ale 8 ill. piogia li 22 - 6 fugito di casa arivo a S. martin poi piogia direta arivo a Predazo58.

L’intero diario di Zuliani mantiene queste forme e queste tematiche. Il frammento è apparentemente poco significativo dal punto di vista storico, potrebbe tutt’al più essere utilizzato per ricostruire gli spostamenti di un singolo soldato tra il fronte e la patria tra l’aprile e il giugno del 1918 (periodo a cui la pagina si riferisce). Per trarre qualche dato occorre calarlo nel contesto dell’agenda nel suo complesso e in quello della scrittura di guerra della comunità dell’autore. Il principio ordinatore dello scritto è, evidentemente, quello degli spostamenti. Dal passaggio riportato emerge una precisa volontà di esaustività rispetto alla tematica prevalente, che arriva persino a indicare l’ora in cui alcune cose sono state fatte. Il periodo della licenza (dovuta al precario stato di salute di Zuliani, ferito a una gamba, come si apprende in un altro passo) interrompe, come spesso accade, la scrittura esaustiva. Se prima di essa persino l’ora di un pasto sembra58

Diario di Giovanni Zuliani.

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va essere importante, il permesso determina una lacuna cronologica che dura un mese e mezzo, fino a quando l’autore non «fugge di casa», espressione che in questo diario deve essere letta come «parte da casa». Il personaggio principale e quasi unico dell’intero scritto è l’autore, il cui nome proprio non è peraltro mai nominato. Gli unici altri esseri viventi che vengono – raramente – inclusi nella narrazione sono amici e familiari, che appaiono nel diario solo ed esclusivamente quando sono incontrati dal protagonista, in entrate che attestano l’incontro più che celebrarlo o spiegarlo. L’unico evento esterno al campo percettivo di Zuliani è la morte dell’Imperatore Francesco Giuseppe, che però viene resa nelle stesse forme con cui, più e più volte, si è reso conto di un trasporto, del tempo atmosferico o del cibo: li 22 X1 - 16 mercoledì ore 2 matina morto il nostro imperatore59

Anche gli eventi che investono il campo personale dell’autore sono soggetti a un trattamento analogo. Quando non sono direttamente ignorati, quando riescono ad emergere nella narrazione, magari perché essenziali alla spiegazione della tematica centrale dello spostamento, lo fanno in forme normalizzate dallo stile annalistico e lacunose. Ecco come Zuliani parla della linea del fronte: Li 31 - 12 - 17 andato in linea del fuoco lunedi nuvolo fredo marti primo del anno in linea del fuoco li fermo fino li 1 -2 il fiume Putna sitrova 20 pasi dal tequm altri 400 pasi sitrova il Di Seret il Paese davanti dela linea del fuoco danoi distante 1/2 Kilometer ill. la Putna e il Seret si chiama Calieni li 8 - 1 17 giorno caldo come il Setembre li 10 - 1 18 venuto due diti di neve giovedi li 13- 1-18 andato dal Capitano domenica per Permeso60.

Tempo atmosferico, luogo, data. Nessun indizio, se non il fatto che l’accenno ai due fiumi è la più estesa descrizione di luogo che si trova nelle note, che il vivere per un mese al fronte abbia avuto un impatto sull’autore. Lo Zuliani che appare dalle note è un osservatore e un registratore molto selettivo della guerra, non una sua parte integrante. L’operazione chirurgica a cui è sottoposto è soggetta allo stesso trattamento conciso e «normalizzato» rispetto al resto del testo: «26-3-17 Giovedi ore 9 matina fato il talio nela gamba». In un’unica occasione 59 60

Ibidem. Ibidem.

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la gabbia della scrittura è squarciata, per lasciar emergere le emozioni dell’autore, in una forma – quella dell’autoesortazione e del dialogo con Dio – che è tipica di forme più complesse di rendiconto: Così va bene coragio. Am 31 – 7 lavorato pis mesogiorno poi faerum Vaga bene omale Beasa (?) Andem Sieur chevi pare Osignore son sicuro ono61.

Se questa rigida maschera fosse propria solo delle note più semplici, degli autori più distratti o meno colti, di coloro i quali hanno vissuto la guerra da un punto di vista particolare (quale quello forse assicurato dai frequenti permessi che Zuliani afferma di avere avuto, probabilmente a causa della gamba) non sarebbe probabilmente significativo. Il fatto che sorprende è che la stessa esclusività e ricorsività delle tematiche sopra citate si ritrovi in autori che non hanno soverchianti difficoltà espressive, a cui nulla è stato risparmiato delle atrocità della guerra, autori che, oltre tutto, dichiarano di scrivere per il ricordo, per i posteri o per passatempo62. Si prenda il caso del cibo, una delle tematiche più utilizzate come struttura portante della memorialistica. 26.4. 17 e 27.4 Arrivati a Rava-Ruskaja e ricevuto il mangiare; pensavo al mio paesano Cesare; la sera partito per la Volinia e arrivato a Socal dove sono sceso dal treno e ho ricevuto caffè e pane. La notte partenza per Rzeszow dove sono arrivato la mattina alle 3; qui smontato dal treno e bevuto caffè… e dopo montato sulla ferbande arrivato vicino al ponte e la ho mangiato conserva e caffè e crauti e dopo a sera, andato a dormire nelle baracche63.

61

Ibidem. Cfr. Luciana Palla, Il Trentino Orientale e la Grande Guerra, Combattenti, internati, profughi di Valsugana, Primiero e Tesino (1914-1920), Museo del Risorgimento e della lotta per la libertà, Trento 1994, pp. 309-344. 63 Diario di Teodoro Ceschi. Si veda il seguente passo dal diario di Luigi Speranza, falegname di Lavis, nel quale cibo e spostamenti si integrano a coprire l’intero spettro comunicativo dello scritto. L’ortografia e la grammatica del diario testimoniano che la capacità espressiva di Speranza è generalmente buona. «Gli 18 di mattina salii sul treno della croce rossa e partii alla volta di Innsbruck. Arrivati ad Egna ricevemmo il mannaggio nel treno e a Bolzano ricevemmo thè sigarette e una fetta di pane dalle signorine della croce rossa. Arrivati a Franzisfest ricevemmo ciascuno un po di ? e a ? ricevemmo da una ? thè, pane e formaggio, indi verso le 10 arrivati nel Innsbruck ci condussero nelle grandi baracche e ricevemmo una minestra per ciascheduno e poi ci coricammo a dormire. Alla mattina verso le 7 ci alzammo e ricevemmo il caffè bianco e una è pagnochetta di pan bianco e poi ci recammo a fare il bagno, indi venimmo trasferiti in un altra baracca e colà ricevemmo da pranzo e cioè minestra carne, ? una pagnoca fetta di 62

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Si noterà che in questo passo la volontà di aiuto al ricordo è minima: le nozioni di cui il diario si fa tramite e registratore appaiono come secondarie rispetto all’esperienza. Il riferimento agli spostamenti è forse più immediatamente comprensibile, ma il fatto che gli estremi dei viaggi (non la sostanza e la visione personale del viaggio) e il cibo siano praticamente l’unica cosa che Teodoro Ceschi tratta in profondità della guerra che ha vissuto solleva certamente delle domande. Ceschi è molto più a suo agio nella narrazione rispetto a Zuliani: la sua grammatica è perlopiù corretta, la sua disponibilità a escursioni al di fuori della struttura annalistica è incomparabilmente più ampia. Il suo diario, sebbene si ponga virtualmente all’inizio della linea del tempo del vissuto/tempo della scrittura (i due perlopiù coincidono), come le note di Zuliani, va posto più a destra nella linea della rielaborazione del ricordo e complessità dell’intramazione rispetto a queste. Eppure, sorprendentemente, le tematiche ricorrenti non variano, sebbene vi sia un accento più marcato sul cibo e sul lavoro rispetto al coscritto fassano. Il fatto che ci si senta più liberi di compiere escursioni, pur controllate e limitate da silenzi impenetrabili, non significa che si rinunci a un principio ordinatore della scrittura e del ricordo e che questo principio non sia attinto da tematiche comuni a tutto il gruppo in questione. Il cibo è parte fondamentale del quotidiano di guerra, proprio in virtù della sua scarsità e della sua pessima qualità. È facile immaginare che fosse al centro dei discorsi in trincea. Esso comportava spesso una ricerca attiva, sia tramite le richieste ai familiari, sia attraverso espedienti e insubordinazioni che, per quanto piccole, comportavano un rischio di punizione non indifferente. Attorno al cibo si intravede, ma raramente è raccontata, una socialità che, nel preparare con gli ingredienti disponibili un piatto tipico di casa, rinforzava il ricordo e serrava i propri ranghi; attraverso la maggiore quantità di rancio distribuito si potevano fare azzardi sulle perdite che il dato battaglione aveva avuto nel giorno precedente. Il cibo è inoltre un importante indice della differenza che divide il gruppo trentino dai «tedeschi», come testimoniano alcune memorie cronachistiche, e permette di rendere immediatamente visibile e dimostrabile la superiorità dei trentini rispetto agli austriaci. Ma nella memorialistica annalistica esso viene semplicemente nominato, a volte caratterizzato come scarso o abbondante, buono o cattivo, ma quasi mai utilizzato consapevolmente copane bianco e un paio di cucchioni di Golas. Medesimamente alla sera ricevemmo un’altra pagnocchetta caffè bianco ed una cotoletta di carne».

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me simbolo di riconoscimento o chiave di lettura dell’andamento della guerra64. Il tempo atmosferico, nelle condizioni estreme della trincea, delle marce, della guerra di montagna, ha nella vita del coscritto un’importanza uguale a quella che aveva avuto nel mondo contadino, sebbene ovviamente per ragioni diverse. L’arrivo delle piogge, che trasformavano le trincee in pozzi di fango, aveva in Galizia lo stesso significato che la neve e l’arrivo dell’inverno avevano per i soldati impegnati sul fronte dolomitico. Il modo lapidario con cui si rende conto del fluttuare del tempo atmosferico non cambia tuttavia nel confronto tra libri di famiglia e scritti di guerra. L’importanza nel vissuto del fronte orientale dei trasporti e del continuo cambiamento di luogo è evidente. I posti visitati, dalla prospettiva di un contadino, che nella maggior parte dei casi poco aveva viaggiato, dovevano costituire il segno di uno sconcertante cambiamento. Le condizioni del trasporto o la fatica delle marce, insieme alla mancanza di una spiegazione sul perché ci si muoveva e alla completa ignoranza sul quadro generale entro il quale ci si spostava, erano tra i maggiori motivi di malcontento e di alienazione. L’incertezza doveva suscitare discussioni e tentativi di previsione costanti. Questo rinforza tuttavia i dubbi: se i luoghi erano nuovi in maniera sconcertante, se le discussioni erano frequenti e se l’essere più o meno vicini alla linea del combattimento costituiva una differenza fondamentale in termini di condizioni di vita, perché limitarsi al nominare con dovizia i nomi dei posti attraversati e non operare una scelta dei più significativi all’interno di essi per una riflessione più estesa? Analogo discorso per il lavoro65. È vero che la maggior parte del tempo in trincea non era occupato da scontri fisici, non era passato sotto il fuoco e non comportava l’esperienza diretta della violenza. Il 64 L’importanza degli elenchi del cibo e delle condizioni atmosferiche è stato notato anche nell’epistolografia inglese da Ilana Bet-El, Conscripts. Forgotten Men of the Great War, Sutton Publishing, Stroud 2003, pp. 114, 135-7. L’autrice attribuisce il fenomeno alla censura esercitata sulle lettere, che non permetteva la comunicazione di aspetti più importanti dell’esperienza di guerra. Il fatto che gli stessi elenchi si ritrovino nei diari esclude a mio parere questa interpretazione. 65 Diario di Luigi Bertamini: «Il 12 13 grandi combattimenti mese di Dicembre. / Il 13 lavoro di notte portando legname a metà del monte Nozzolo (neve) / Il 14 lavoro di notte tirando il cannone su per il monte Nozzolo. / Il 15 lostesso (neve) / Il 16 legname e cannone. / Il 17 sulla cima / Il 18 sulla cima neve / Il 19 sulla cima neve, metri 1 / 20 legname e cannone / 21 cannone sulla cima Nozzolo / 22 cannone Nozzolo / 23 cannone vento e neve Nozzolo freddo».

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fatto che il lavoro (di scavo, raccolta di cibo, di costruzione), i turni di guardia e le esercitazioni fossero gli elementi che quantitativamente caratterizzavano la vita di guerra è una prima giustificazione del peso che essi hanno all’interno della scrittura annalistica. In generale si può dire dunque che i fatti più narrati sono, tra quelli che sono sentiti come caratterizzanti del vissuto e fondamentali per la sopravvivenza in guerra, quelli che più frequentemente accadono e si ripetono. La scrittura trentina di guerra è, come quella di pace, descrittiva: l’enfasi viene raggiunta attraverso la quantità delle entrate riguardanti un determinato avvenimento piuttosto che attraverso la qualità della costruzione retorica. La scrittura base di guerra rinuncia, nella maggior parte dei casi, a una gerarchizzazione dei fatti che non sia quella di inclusione/esclusione. Una volta che si sia scelto di includere un tema, ad esempio quello del cibo, all’interno della narrazione, si cerca di renderne conto in tutte le sue manifestazioni nel quotidiano del protagonista, rinunciando ad applicare un criterio di maggiore o minore rilevanza rispetto a un messaggio. In alcuni casi la volontà di completezza spinge persino l’autore a tornare sui propri passi per colmare una lacuna nell’ordine tematico adottato: Ier sera (che mi dimenticavo) abiamo avuto 3 conserve e pane di fortezza con proibizione di non mangiarlo finche si a l’ordine dalla superiorità avuto _ di vino66.

Se non vogliamo pensare che gli autori fossero talmente avvezzi o indifferenti alle nuove condizioni della guerra da fare delle battaglie, del sangue, del dolore fisico, della frustrazione sessuale, della morte, degli elementi retoricamente e qualitativamente secondari, dobbiamo cercare la spiegazione di questo fenomeno all’interno del mezzo utilizzato prima ancora che nell’esperienza.

Memorialistica annalistica e tempo ciclico: la funzione ordinatrice della scrittura Il punto di vista della scrittura popolare è sempre quello soggettivo dell’autore: come una telecamera, egli imprime nella carta quanto pas66

Diario di Fiorenzo Ceschi.

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sa sotto i suoi sensi e non altri. Ma come nel caso di una ripresa cinematografica la riproduzione degli atti non è garanzia di fedeltà alla realtà o di onnicomprensività: lo sguardo sa escludere oltre che includere, è capace di neutralizzare oltre che di enfatizzare. Nel gioco di luci e ombre collettivamente imbastito è possibile leggere alcune deformazioni che la scrittura impone all’esperienza in rapporto all’evento guerra. La guerra è invariabilmente sentita come un evento incomunicabile nella sua interezza e nella sua natura67. Per un’esperienza che non ha parole, esclusa dal nesso causa – effetto proprio della tradizione e isolata, sia nella percezione che nella scrittura, da eventi che la precedono o che le succedono, il coscritto molto spesso sceglie una descrizione che si aggrappa ai fatti più immediatamente e ripetutamente visibili, quelli che non richiedono una spiegazione o non implicano un coinvolgimento etico, quelli che semplicemente e innegabilmente esistono giorno per giorno. Nonostante l’impressione di inadeguatezza che sorge nel lettore moderno, le modalità di intramazione dei libri di famiglia si adatta perfettamente alle nuove esigenze di guerra. L’utilizzo del sistema annalistico fornisce alla scrittura e alla rielaborazione del ricordo un supporto, un filo conduttore, che le permette di dispiegarsi al di là di quegli avvenimenti – generalmente «singoli», – ma non necessariamente, dato che la sessualità frustrata del fronte o la ciclicità della morte sono oggetto di un’analoga rimozione – che senza di essa richiederebbero uno sforzo comunicativo e interpretativo più in-

67 Le prove della percepita incomunicabilità sono innumerevoli. «Che non son cose da racontar» dice Angelo Donati, mettendo in luce come la problematicità non riguardi solo la mancanza di parole, ma anche l’opportunità di mettere in parole quello che non si doveva nemmeno aver vissuto. «Soltanto quelli che c’erano lo sanno, mentre gli estranei non son capaci neppur di farsi una lontana idea», dice Eutimio Gutterer. «Vi dico insoma: che collui che non hà preso parte a questa guerra: dovrà morire sensa poter farsi un’idea, ciò che sia il patire di un martirio» gli fa eco Antonio Rettin. Le espressioni ricorrenti «lascio immaginare» «non è possibile dire», «non ci sono parole» permettono di generalizzare il fenomeno e di affermare con sufficiente sicurezza che l’incomunicabilità dell’evento era sentita da chiunque abbia preso parte al conflitto e abbia deciso di renderne conto. Ugualmente diffuse sono le affermazioni di inadeguatezza al compito che si è scelto di intraprendere e la volontà di abbassare le mire del proprio scritto attraverso il titolo («Piccole Memorie». «La mia vita in piccolo»). Fabrizio Rasera Una ricerca sull’autobiografia popolare di guerra. Un primo bilancio, in «Bollettino del Museo Storico del Risorgimento», 3 (1987), pp. 35-47; Antonio Gibelli, Luci, voci, fili sul fronte: la Grande Guerra e il mutamento della percezione, in AA.VV. Guerra e Mass Media, Liguori Editore, Napoli 1994, p. 54.

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tenso68. La modalità di intramazione prescelta aiuta sia l’esposizione (superando la difficoltà di rendere conto di avvenimenti singoli, per i quali non si hanno parole o confronti con l’esperienza precedente), sia la razionalizzazione dell’avvenimento all’interno del tempo. La cronologia stessa, minuziosamente rispettata, è uno strumento di riordino dell’esperienza69. Ma la funzione ordinatrice non si limita a fornire parole a avvenimenti che non le avrebbero, a riciclare le modalità di espressione anche quando esse sembrerebbero inadeguate. Essa trasforma la temporalità propria dell’evento in un tipo di temporalità ad esso precedente. Il tempo degli atti ripetuti proprio della memorialistica annalistica è estremamente vicino al tempo che emerge dai libri di famiglia. Le differenze ci sono, e non di poco conto, ma non sono quante ci si aspetterebbe di fronte alla distanza (acutamente percepita dagli autori) tra i due mondi a cui queste due scritture si riferiscono. Le principali divergenze si trovano sul piano contenutistico, con l’aggiunta di nuovi temi (il cibo consumato e gli spostamenti) piuttosto che con la loro sottrazione (permangono l’attenzione al tempo atmosferico e al lavoro svolto). Quasi inesistenti le differenze sul piano espressivo70. Il sociologo Paolo Jedlowski afferma che: «gli uomini non hanno sempre ricordato allo stesso modo. Certo, gli atteggiamenti nei confronti della memoria e del passato variano a seconda degli individui, [...] Ma poiché ogni cultura definisce il campo in cui gli atteggiamenti del singolo trovano espressione, è verosimile ritenere che anche gli atteggiamenti verso la memoria siano differenti in culture diverse»71. 68 Non c’è motivo per cui l’affermazione di Young a proposito della scrittura storiografica sulla Shoah non sia applicabile alle scritture dell’io nel loro complesso: «una volta scritti, gli eventi assumono l’aspetto della coerenza che la narrativa necessariamente impone loro, e il trauma della loro non assimilabilità è superato» James E. Young, Writing and rewriting the Holocaust. Narrative and the consequences of interpretation, Indiana University Press, Bloomington 1988, p. 16. 69 Burton Pike, Time in Autobiography in «Comparative Literature», 28 (1976), n. 4, pp. 326-342. 70 «La stessa forma di scrittura, una scrittura molto impersonale, che linguisticamente si potrebbe ascrivere a uno stile nominale, informa tutti e due i modi, la scrittura prebellica e quella bellica». Quinto Antonelli, L’archivio della scrittura popolare di Trento, in «Quaderni del dottorato in Scienze Etno-antropologiche», 1 (1994). 71 Paolo Jedlowski, Memoria, mutamento sociale, modernità, in Anna Lisa Tota (a cura di), La memoria contesa. Studi sulla comunicazione sociale del passato, Franco Angeli, Milano 2001, pp. 40-67. Si veda anche la definizione che di memoria danno Ugo Fabietti e Vincenzo Matera in Memorie e identità. Simboli e strategie del ricordo,

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Jedlowski si spinge oltre, fino a definire una memoria specificamente moderna (e occidentale), caratterizzata dall’idea dell’incessante divenire, dalla nascita del sapere storico moderno e dalla progressiva perdita di autorevolezza della tradizione. Se la memoria moderna è percezione del mutamento e consapevolezza della sua inevitabilità, la percezione dello scorrere progressivo del tempo sarà in essa centrale ed esperita con un’intensità mai provata prima. Jedlowski colloca proprio nel periodo della prima guerra mondiale il momento traumatico in cui grandi masse di persone sentirono la rottura della continuità del tempo sociale, in cui le categorie rimemorative «tradizionali»72 si scontrarono con un evento che resisteva alla loro forza categorizzatrice e ordinatrice. Jedlowski, riprendendo il Walter Benjamin di Angelus Novus, esprime questa difficoltà in termini di difficoltà narrativa: «Sappiamo perché la gente tornava dal fronte “ammutolita”. Perché ciò che restava degli anni vissuti al fronte era una ferita, l’apertura di un universo inatteso dove i contenuti trasmessi dalla tradizione erano apparsi inutilizzabili, improvvisamente vecchi, ‘antichi’. Ciò che era stato vissuto non incontrava la possibilità di essere detto, e neppure compreso, nel linguaggio della cultura trasmessa e disponibile. La crisi della continuità è qui una crisi della facoltà stessa di narrare, di scambiare esperienza. A rendere un evento comunicabile non basta che esso sia stato vissuto in modi simili da molte persone: è necessario che sia appropriato collettivamente, che trovi parole per essere detto in seno a una cultura»73. Meltemi, Roma 1999, p. 17: «[si può definire la memoria come] la sede dei processi di selezione, rimozione, interpretazione, elaborazione dei lasciti del passato, processi che si caratterizzano perché, se pure strettamente legati alla dimensione individuale, lo sono attraverso dei legami di natura essenzialmente collettiva e sociale: legami linguistici, perché gli eventi del passato sono ricordati in quando entrano a far parte di una narrazione, assumendo quindi la forma di parole; legami culturali, perché ogni cultura ha costituito modalità specifiche di rammemorazione sulla base dei propri valori, della propria visione del mondo, di ciò che è rilevante per coloro che ne sono parte». 72 Jedlowski definisce la dicotomia tra memoria tradizionale e memoria moderna in questi termini: «Mentre il sapere del passato fornito dalla tradizione è un sapere che rende in qualche modo il passato presente, enfatizzando – più o meno normativamente – la continuità tra queste due dimensioni temporali, il sapere fornito dalla storia [tipica della modernità] è conoscenza sul passato, che non è mai disgiunta dalla nozione di un divenire che rende l’oggi qualcosa di essenzialmente diverso da ieri», p. 41. Per una interessantissima, anche se non sempre convincente, disquisizione sulla percezione del tempo a cavallo dei due secoli si veda Stephen Kern, The culture of time and space, 1880-1918, Harvard University Press, Cambridge 1983 (trad. it. di B. Maj, Il tempo e lo spazio: la percezione del tempo tra Ottocento e Novecento, il Mulino, Bologna 1988). 73 P. Jedlowski, op. cit., p. 48. Si veda nella stessa raccolta di saggi anche il contri-

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Al fronte si sono dunque incontrati due tipi diversi di esperienza della temporalità: quella «tradizionale», nel quale il passato spiega il presente, ne è lo specchio e la chiave interpretativa, e quella «moderna» che, nel magma del continuo divenire, relega il passato al passato in favore di un futuro che sarà al contempo singolare e individuale e per questo imprevedibile74. È alla base stessa della modalità di pensare il tempo proprio della comunità in questione che la guerra esercita il proprio influsso disgregante, ed è in questo mutamento che risiede la più grande sfida alla comunicazione dell’evento75. Su una cosa tuttavia Jedlowski commette a mio parere un’imprecisione, a cui lo conduce lo stesso Benjamin. Se tutti i reduci provarono la crisi narrativa di fronte alla percezione della discontinuità della guerra, non tutti si rifugiarono nel mutismo assoluto, nemmeno mentre l’esperienza era ancora in corso. Difficile dire se gli strumenti concettuali «tradizionali» a disposizione di chi decise di parlare fossero percepiti come inadeguati (di certo erano sentiti come tali gli strumenti linguisticoespressivi), ma è un fatto che, per il caso in questione, le parole che venbuto di Anna Lisa Tota, Memoria e dimenticanza sociale: verso una sociologia dei generi commemorativi, pp. 86-99. 74 Inserire in questo contesto e senza distinguo le categorie di memoria moderna e di memoria tradizionale può apparire in contraddizione con le intenzioni espresse in introduzione di rifuggire da categorie troppo ampie e difficilmente verificabili in gruppi umani realmente esistiti e in pratiche effettivamente esercitate. Non mi propongo certo qui di contestare o avvalorare la tesi di Benjamin sulla modernità come «afasia dell’esperienza» o di suggerire che il caso trentino sia particolarmente significativo in quanto eccezione «tradizionale» alla «memoria moderna». È tuttavia indubbiamente vero che, con la modernità tecnologica e le condizioni di vita da essa create si è imposto un modello (probabilmente più modelli) di connessione progressiva passato – presente – futuro che, sebbene nato già nel XVIII secolo, vedeva nella grande guerra la sua prima manifestazione in società che, per mera comodità e in accordo con Jedlowski e Lévi-Strauss (Anthropologie structurale II, Plon, Paris 1973) chiamo «tradizionali», caratterizzate cioè da modelli ciclici di connessione tra passato, presente e futuro. Sull’argomento si veda la rassegna di Barbara Adam, Perceptions of time, in Tim Ingold (a cura di), Companion Encyclopedia of Anthropology, Routledge, London 1994; Jonathan Friedman, Our time, their time, world time: the transformation of temporal modes, in «Ethnos», (1985), v. 50, n. 2, pp. 168-184. Sul rapporto tra «memoria moderna» e prima guerra mondiale parlano tra gli altri: Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1999, Paul Fussell, La Grande Guerra e la memoria moderna, il Mulino, Bologna 2005; Modris Eksteins, Rites of spring: the Great War and the birth of the Modern Age. Houghton Mifflin Harcourt, 2000. 75 Si veda Jean-Francois Jagielsjki, Modifications et altérations de la perception du temps chez les combattants de la Grande Guerre, in R. Cazals - E. Picard - D. Rolland (a cura di), La Grande Guerre: pratiques et experiences, Editions Privat, Toulouse 2005, pp. 205-214.

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nero utilizzate per rendere conto dell’esperienza furono quelle collettivamente accettate e utilizzate all’interno della comunità precedente la guerra. E se quelle parole erano utilizzate nei libri di famiglia per rendere conto di un tempo visto come ciclico, l’effetto che hanno sugli eventi di guerra è quello di includerli all’interno dello stesso tempo, di caratterizzarli secondo una ben precisa concezione del concatenarsi (e richiamarsi) degli avvenimenti. L’autorità del passato e la sua capacità di spiegare il presente non è messa in discussione; è semmai vero il contrario: è il presente che, per la sua ostinata riottosità a piegarsi alle categorie che sono ritenute giuste, è definito sbagliato, insensato e, fortunatamente, provvisorio. La «memoria moderna», in virtù del suo essere svincolata dal passato, vede il futuro in una perpetua incertezza: «[La] continuità e la velocità sono tali che l’esperienza che è il patrimonio degli anziani è costantemente messa fuori gioco dal mutare delle condizioni: nessuno può legittimamente sapere ‘come vanno a finire le cose’»76. Modificare attraverso la narrazione la temporalità «propria» della guerra in favore di quella tradizionale significa dunque affermare la legittimità della tradizione e ribadire la consapevolezza che essa fornisce mezzi adeguati per interpretare il futuro. E questo futuro, alla fine della parentesi di guerra, avrà il volto del passato, sarà governato dalle stesse regole. Il fatto che si narri la guerra inserendola nel tempo ciclico non significa che non se ne riconosca la intrinseca differenza, e nemmeno che la lotta alla discontinuità abbia nei fatti avuto successo. L’imporre all’esperienza discontinua la continuità delle proprie parole e della scansione temporale tradizionale deve essere letto come un elemento attivo della scrittura, uno dei rari momenti in cui il soldato aveva in mano le redini degli accadimenti e la possibilità di esprimerli secondo le proprie categorie e le proprie contingenti priorità.

Il sé e la memorialistica annalistica: la funzione riparatrice della scrittura La predilezione per gli avvenimenti ciclici determina una ciclicità delle lacune: la creazione di una «luce includente» genera inevitabil76 P. Jedlowski, op. cit., p. 207; la tesi di Benjamin è sposata anche da Pierre Nora, quando nell’Introduzione a C.R. Ageron - Pierre Nora (a cura di), Les lieux de mémoire, vol. I, Gallimard, Paris, 1997, traccia la distinzione tra un «tempo della memoria» e un «tempo della storia» e del continuo divenire.

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mente «ombre escludenti». Nell’atto stesso di narrare la scrittura annalistica assolve alla funzione di mettere in secondo piano o eliminare del tutto degli elementi dell’esperienza di guerra che si ritengono potenzialmente pericolosi per la propria percezione individuale o per la percezione di quanto è giusto e appropriato sul piano sociale: la scrittura ha una funzione occultante. La fissazione del ricordo è inevitabilmente scelta all’interno di un bacino ben più ampio di fatti esperiti; la struttura finora descritta sembra essere un rigido (ma non ineludibile) criterio culturale e collettivo per questa scelta. La «maschera del testo» costituita dalla struttura annalistica si sovrappone ai fatti esperiti, evidenziando immediatamente quali possono essere messi in forma narrativa, quali no, e quali invece richiedono particolari precauzioni, cautele e interpolazioni. Non deve stupire che il complesso gioco di luci non illumini i punti che ci si aspetterebbe. In molti casi la «luce» sui pasti ripetuti, sulle marce forzate, sui lavori di trincea serve proprio a creare le ombre, tanto più profonde quanto la luce è abbagliante, tese a relegare ai margini della coscienza e al di fuori della scrittura aspetti del vissuto che potevano rivelarsi minacciosi per la stabilità dell’io e per la convinzione, necessaria ad ogni essere umano, che le categorie di cui è in possesso siano adeguate a spiegare il mondo che lo circonda. Occorre dunque chiedersi che cosa una struttura rigida e formalizzata, per di più basata su un modello di temporalità precedente al conflitto, possa dire della guerra come esperienza vissuta, se è vero che una delle sue preoccupazioni principali è quella di occultare e non di comunicare la natura alienante dell’esperienza di guerra. Inizio con un’ovvietà. La scrittura, per quanto di preferenza descrittiva, non è oggettiva o documentaristica. Le deviazioni dalla struttura portante sono molteplici e, in alcuni casi, il divergere dal registro «moderato» e «normalizzante» può essere indicatore dell’importanza dell’avvenimento, che spinge a forzare la scansione regolare degli avvenimenti77. La narrazione di un avvenimento singolo, nella selva di entrate omologate, spicca naturalmente e porta subito all’interrogazione: la penombra, tra ciò che viene incessantemente ripetuto e ciò che è costantemente taciuto, è forse la zona più interessante della scrittura popolare, e molte delle conclusioni che seguiranno nei pros77 Esiste una regolarità anche nelle eccezioni. Casi paradigmatici di queste deviazioni sono le preghiere, le esclamazioni e gli sbotti di rabbia, le autoesortazioni, il discorso diretto a un destinatario immaginato e prima mai citato.

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simi capitoli attingeranno proprio da essa. Mano a mano che lo scritto, con il tempo e la rielaborazione del ricordo, diventa più complesso, le «zone di penombra» si allargano, le deviazioni diventano più frequenti, lo stile più flessibile rispetto alla sua base annalistica, il messaggio più articolato. Non può inoltre sussistere dubbio sul fatto che, anche nella forma di intramazione base dell’annale, le condizioni legate al tempo atmosferico, al vitto, alle condizioni dell’alloggio siano inserite con lo scopo, in questo caso esplicito, di affermare che la guerra è disumana e che chi scrive sta soffrendo. Quando si tratta del cibo, ad esempio, non lo si fa certo in termini elogiativi: la stessa ossessività con cui se ne parla è indice del fatto che il cibo manca e pochi aggettivi sono sufficienti ad attribuire le colpe e a fare della scarsità del cibo un elemento caratterizzante dell’esperienza di guerra. La tendenza alla descrizione e alla ripetitività non esclude la volontà di caratterizzare la guerra secondo la propria visione personale in maniera esplicita e spesso chiara, perlomeno limitatamente a quegli elementi che si sceglie di raccontare. Per cercare un messaggio che vada al di là di quello esplicito (la guerra è disumana, una sequela di sofferenze e di stenti) è necessario chiedersi a chi il messaggio annalistico sia rivolto e ricordare che i testi di cui ci stiamo occupando sono in primo luogo scritture del sé. In essi l’autore è al contempo autore e lettore – anche se a volte non l’unico lettore previsto per lo scritto. Il messaggio, dunque, sarà in primo luogo rivolto al sé. Tutte le caratteristiche elencate sopra, tutti gli effetti che la scrittura ha sulla percezione del mondo e del tempo sociale, devono in primo luogo essere visti come dispositivi, come «tecnologie» che il sé imbastisce all’interno dell’esperienza78, prima ancora che come testimonianze di un dato di fatto. Sul piano storiografico quello che appare con certezza non è il fatto che i soldati fossero effettivamente affamati e disperati o che la guerra fosse effettivamente

78 «Le tecnologie del sé [sono le tecnologie] che permettono agli individui di eseguire, coi propri mezzi o con l’aiuto degli altri, un certo numero di operazioni sul proprio corpo o sulla propria anima – dai pensieri, al comportamento, al modo di essere – e di realizzare in tal modo una trasformazione di sé stessi allo scopo di raggiungere uno stata caratterizzato da felicità, purezza, saggezza, perfezione o immortalità». Verità, potere, sé: intervista a Michel Foucault, in L.H. Martin - H. Gutman - P. H. Hutton (a cura di), Tecnologie del sé. Un seminario con Michel Foucault, Bollati Boringhieri, Torino 2005, p. 13.

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disumana – non serve questa lunga dissertazione per provarlo –, ma che la loro scrittura di base tende a creare una autorappresentazione basata su atti di natura particolare e non su altri. Che significato può avere, per l’autore – destinatario della scrittura l’adozione del registro annalistico? In questo caso la maschera del linguaggio non occulta, ma deforma. La scelta di inclusione non si limita alla dicotomia fatti singoli/ fatti ricorrenti, ma si appunta su fatti ricorrenti ben specifici. Il ripetersi di un avvenimento non è di per sé sufficiente per garantire la sua presenza all’interno del testo, non tutto ciò che è «ciclico» può essere parte integrante della scrittura ordinatrice. Perlomeno nei periodi di permanenza al fronte, per fare un esempio, la vista di cadaveri e di feriti doveva essere esperienza quotidiana; in alcuni casi, scarsamente documentati, le cataste di morti nella terra di nessuno dovevano essere parte stessa del paesaggio79. Il numero di morti o di feriti avrebbe potuto inserirsi perfettamente nelle modalità di rendiconto quantitative (molti/pochi) che formano la fluttuazione quotidiana annalistica. Eppure la descrizione di morti e feriti non assurge mai a quella frequenza che permetterebbe di individuare un supporto della scrittura e della concettualizzazione del tempo. La vista dei feriti – così come ogni episodio di violenza – si situa in quella zona narrativa intermedia, di penombra, nella quale in genere stanno i fatti singoli, sporadici, eccentrici rispetto alla struttura portante, ma che pure accaddero con una frequenza molto maggiore di quanto non appaia dalla memorialistica trentina. È proprio su questi, sugli episodi apparentemente o realmente singolari, che il testo inteso come maschera applica il proprio filtro deformante e non più selettivo. Narrare un episodio stravolgente, spaventoso, inaspettato o con

79 Si noti la naturalezza con cui, in questa rarissima testimonianza di Eugenio Mich, viene descritta la quotidianità della compresenza con la morte e l’abitudine che doveva essersi sviluppata. Mich, contadino di Tesero, rende questa testimonianza solo nel 1989, in una memoria autobiografica evidentemente resa possibile da un diario o da delle note «Ai 28, 29, 30, 31, 1, 2 del 6 non si vedeva che rotolar morti e scappar feriti e venir su uomini di rinforso. I morti erano a cataste su per i faggi e tanti venivano addoperati a far sentiero. Un giorno viene diversi giornalisti e ufficiali e vedendo tutti questi cadaveri e corrotti dal caldo che i spuzzava e dalle cataste veniva fuori la broda, hanno fatto annuncio ai comandi maggiori è venuto ordine di seppelirli». Memoria autobiografica di Eugenio Mich.

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imponenti conseguenze sul prosieguo della propria vita (quale può essere una ferita, la morte di un amico, la cattura da parte del nemico o il battesimo del fuoco) nello stesso modo «neutro» con cui si annota di aver bevuto il caffé o accatastato la legna è in realtà azione tutt’altro che neutra. Poco importa che questo avvenimento sia realmente sporadico: la rarità del suo essere citato lo rende tale agli occhi del lettore-autore. In questo espediente retorico si deve leggere un’ulteriore funzione della scrittura, quella di neutralizzare, sul piano psicologico e attraverso la normalizzazione stilistica, aspetti che non si possono ignorare ma nemmeno seguire nelle loro implicazioni personali. La scrittura permette il lusso di una gerarchizzazione che non parta dalla significativà dei fatti all’interno dell’esperienza, dalla quantità e dalla potenza delle loro conseguenze all’interno dell’arco di vita, ma che al contrario si basi, in senso inversamente proporzionale, sulla minaccia percepita che essi costituiscono. Se all’interno di un annale ogni entrata ha lo stesso peso sarà la quantità delle entrate analoghe a creare il significato; se ogni entrata ha lo stesso stile anche le esperienze più laceranti saranno ricondotte nel novero dei fatti «normali» e comunicabili. Nella «Memoria di quera 1918» di Battista Caliari, l’evento della morte di due compagni e del ferimento di altri due viene letteralmente inghiottito da una miriade di fatti artificiosamente posti sullo stesso piano ed espressi tramite lo stesso registro: Parti da Ringia per il stello ai 14/12 qua al Nozolo alto vie come un paesetto con barache masice di muro poi luficialità Superiore con una Biblioteca e belissime caverne ed un stello magnifico tutto scavatto nel crozo con tunei lunghi e poi le spinze tutte foratte io dove sono di posto vedo la valata di Ledro ed il paese Tiarno e Castello di Condino cioe con le tutte le cime di Balino e monte Oro ecc venendo fuori 10 minuti alle fornicolare si vede Roncone Fontane Lardaro Daone Praso ecc ogni 4 giorni toca di fare questo viaggio per legna per noi il servizio ogni 24 ore sono di fare 5 ore di posto ai 26/1 andò in permesso due giorni per prendere il mangiare per qua e sollo una conserva e un quarto pane, ai 17/2 alla sera ando 4 miei compagni fuori in patulia resto due feriti uno gravemente ed altri morti. Ai 11/3 andò ancora 3 giorni a casa per mangiare per qua sono pochissimo qua l’artilieria taliana sbarano forte. Ai 16 maggio parti vene a Bondo ed anche li altri del Sud Tirol in tutti erano 76 Il secondo giorno ch’era a Bondo parti per Pinzolo 15 uomini li altri andò ancora ai suoi batalioni80.

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Diario di Battista Caliari.

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Nelle capacità deformativa e occultante della scrittura risiede a mio parere la funzione terapeutica e riparativa delle scritture del sé. Stefano Ferrari, psicoanalista, parla di un «lavoro della scrittura» (del sé e in un contesto traumatico) negli stessi termini in cui Freud parla di «lavoro del lutto», ponendolo in simbiosi con un «lavoro del ricordo». Se il lavoro della scrittura «spezza, seziona, parcellizza, l’inarticolato flusso del dolore, insopportabile nella sua continuità e lo predispone alla elaborazione», il lavoro del ricordo, che sta alla base del processo di oggettivazione permesso dalla scrittura, «diviene un vero e proprio, efficacissimo, meccanismo di difesa, che non solo cancella, ma soprattutto modifica e reinventa intere porzioni del nostro passato. […] Il desiderio cioè corregge il passato attraverso fantasie retrospettive. Si potrebbe allora parlare, oltre che ricordi di copertura, di una sorta di copertura del ricordo, di una specie di maschera [sic!] che veicola il nostro desiderio e proiettandolo sul passato lo appaga». Questo lavoro non può prescindere dalla coniugazione di presente e passato, dalla percezione che le categorie a disposizione per la spiegazione del passato siano adeguate alla spiegazione del presente: senza una coerenza generale nessuna scelta particolare di inclusione, esclusione, deformazione potrebbe essere effettuata. Lo stile non è soltanto una particolare modalità di rendiconto, ma è «una costante e protratta modalità di visione e interpretazione della realtà: un’autentica e permanente strategia di difesa dell’Io, volta a controllare gli innumerevoli pericoli sia interni che esterni che ci minacciano di continuo. Esso diviene cioè, una volta individuato e innescato il meccanismo che lo governa, una mera funzione di ‘controllo onnipotente’ sulla realtà che agisce automaticamente fra l’artista e il mondo»81. Vale la pena di sottolineare, una volta sostituita la parola artista nella citazione precedente con la parola «autore», il carattere «automatico» di questo meccanismo. Esso si innescò per un grande numero di persone senza altro impulso che non fosse quello della guerra; la risposta è «automatica» nel senso che, pur attuata dagli individui, riposa nel nostro caso su categorie comuni che li trascendono singolarmente. La direzione verso cui la riparazione tende varia in intensità e percorso a seconda degli individui e delle loro esperienze personali, ma il carattere comparabile dell’esperienza che essi vissero e la comune provenienza garantiscono che si possa effettuare un discorso generale sulle diverse «riparazioni» che il ricordo e lo stile annalistico applica-

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Stefano Ferrari, Scrittura come riparazione, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 27.

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no sul materiale grezzo dell’esperienza. Da queste riparazioni collettive è possibile ricavare dati culturali. Se la scrittura del ricordo è appagamento di un desiderio proiettato sul proprio passato, quale desiderio è possibile leggere nella scrittura popolare? La risposta a questa domanda non è univoca, deve tenere conto delle peculiarità individuali. È tuttavia possibile abbozzare una ipotesi per quanto riguarda il desiderio che emerge dalla struttura portante della scrittura «annalistica». C’è un punto in comune a tutte le tematiche che sono state indicate come prevalenti, che ci porta a una lettura forse più profonda del problema del messaggio insito negli scritti e del destinatario di questo messaggio. La maggior parte delle tematiche ricorrenti mettono l’autore in una posizione passiva rispetto alla guerra. Si parla del cibo ricevuto, dei movimenti imposti, del lavoro ordinato, oppure di fenomeni in cui la volontà dell’autore non ha alcun ruolo, quali il tempo atmosferico o l’intensità del fuoco, ma che tuttavia egli subisce. Con l’eccezione degli elenchi delle lettere inviate e delle funzioni religiose, tutte le entrate ricorrenti che caratterizzano la scrittura annalistica sono tese a dimostrare e denunciare l’alterità dell’autore rispetto agli eventi di guerra e la mancanza di volontà individuale propria del «mondo della disciplina». L’autore è al centro della narrazione nel senso che è il centro, inamovibile e immutato, del ciclone che si sta svolgendo attorno a lui, ma la guerra non viene narrata attraverso i mutamenti che essa porta all’io individuale, caratteristica che si aspetterebbe come naturale in una scrittura personale sviluppata all’interno di un esperienza indubbiamente altamente alienante. La guerra viene raccontata attraverso i fatti che investono l’autore e lo fanno agire, non attraverso le azioni che l’autore decide e compie all’interno di un background o di un insieme di situazioni create dalla guerra, caratteristica che vedo invece come propria della scrittura cronachistica82. Il protagonista che viene presentato al lettore della memorialistica annalistica è in primo luogo uno spettatore e un testimone della follia della guerra83. In secondo luogo ne è vittima e burattino. 82 «Il resoconto annalistico si occupa più di qualità che di agenti, proponendo l’immagine di un mondo in cui gli avvenimenti accadono alle persone piuttosto che di un mondo in cui le persone agiscono sul loro ambiente». H. White, Forme di storia, op. cit., p. 46. 83 I diari di guerra, scrive Ernst Jünger, «hanno un valore personale immediato. Forzano il narratore a cogliere l’essenza delle sue esperienze e a oltrepassare, fosse anche per pochi minuti al giorno, l’ambiente quotidiano e a porsi nella posizione dello spettatore. L’esperienza giornaliera apparirà in una nuova luce, proprio come un paesaggio cono-

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Nel presentarsi come un oggetto della guerra e non come un suo soggetto il narratore, prima ancora di comunicare uno stato di fatto, fa un’affermazione a se stesso e su se stesso, applicando una prima riparazione alla propria esperienza: egli, in quel macello, è solo la vittima, non è parte del meccanismo, non ha responsabilità. Egli, rapito alla propria casa e ai propri doveri, non si definisce secondo le categorie che guerra crea, ma secondo quanto gli è stato tolto e secondo quanto gli è stato imposto. Nelle analisi di ispirazione freudiana di Ferrari, è proprio nella dicotomia passività – attività che la scrittura gioca il proprio ruolo terapeutico in rapporto ad esperienze di trauma. Nell’atto della scrittura ha luogo uno sdoppiamento dell’Io, una distanziazione psichica tra un io passivo, quello che percepisce, subisce, quello che ha esperienza del trauma e un io attivo, quello che, all’interno dello «spazio finito» della scrittura, delle sue regole limitate e conosciute (tra le quali possiamo annoverare tanto le regole grammaticali quanto quelle di intramazione culturalmente determinate di cui abbiamo parlato finora), rielabora, seleziona, gerarchizza84. Nel narrare in retrospettiva i 78 giorni che ha passato sotto le armi prima di essere catturato dai Russi, tra il 3 agosto e 21 ottobre 1914 Battista Chiocchetti in ben 46 occasioni decide di descrivere i propri pasti (o i propri digiuni), segnalando cosa ha ricevuto da mangiare o da bere, a volte specificando quantità e qualità. Il resto del suo memoriale di guerra si occupa prevalentemente di rendere conto degli spostamenti, delle condizioni in cui era costretto a dormire e delle visioni di violenza a cui è sottoposto, si badi bene, sempre da spettatore, mai come parte integrante della scena o con un coinvolgimento in prima persona, foss’anche in qualità di vittima. Ogni singolo atto del protagonista è un atto scelleratamente imposto; l’individualità di Battista (i suoi gusti, le sue decisioni, le sue avversioni particolari) si confondono nel «noi» collettivo di una massa diretta dall’alto. In mezzo alla selva di termini che si riferiscono al cibo, al desinare, al «managio» (il rancio), il verbo sparare appare una sola volta, dopo un mese che Battista ha vestito la divisa. È il 7 settembre: «Usciti di nuovo nell’aperta campagna ci mischiavamo con altra compagnia e poi dovemo far nider sciuto cambia nel momento in cui si prova a disegnarlo. In ultimo, c’è un certo conforto che è possibile ricavare anche dalla più semplice rappresentazione delle cose, uno sfogo attraverso l’espressione; e in questo senso un diario è una confessione, una confidenza fatta a sé stessi». Ernst Junger, Copse 125, Chatto & Windus, London 1930, pp. 102-109. 84 S. Ferrari, op. cit., p. 105.

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che le palle fioccavano sparammo anche noi poi dovemmo rinculare». Se ci si dovesse attenere al resoconto del memoriale questa è l’unica volta, in quasi tre mesi complessivi al fronte, che Chiocchetti fa uso del proprio fucile. E, anche nel caso improbabile che così fosse stato, dobbiamo constatare che l’autore utilizza per indicare l’atto di sparare, per la prima volta in vita sua, contro un altro essere umano, lo stesso stile che utilizza per dire che «Dopo mezzo giorno ricevemo il managio e andamo a provederci di paglia per risposarci di notte85». Non c’è nessuna creazione di suspense o di attesa, nessun incresparsi nella prosa, nessuna concitazione che potrebbe annunciare un atto insolito o carico di significato; non c’è nemmeno il tentativo di modificare il proprio registro o di isolare l’atto (come ad esempio succede spesso nelle descrizioni di partenza, nelle quali si cerca, con successo variabile, di pervenire a uno stile adeguato all’importanza dell’evento). I tagli e le interpolazioni si applicano su aspetti ben precisi dell’esperienza di guerra: Chiocchetti aveva sparato prima, ma dell’impressione che l’atto suscitò nella sua autopercezione rimane, grazie alla struttura annalistica, ben poco. Quello che, non meno interessante, rimane, è la constatazione di una rimozione, di una volontà di silenzio e delle modalità di intramazione attraverso le quali questo silenzio viene attuato e giustificato. Che la scrittura abbia delle proprietà benefiche e propriamente terapeutiche non è, in campo psicologico – o anche poetico – una novità: il concetto ha trovato anzi applicazioni pratiche e una vasta teorizzazione86. Non è un caso che gli studi sull’argomento siano iniziati – come tanta parte degli studi psicologici e psichiatrici – nell’immediato primo dopoguerra e in rapporto alla capacità di rendere conto di esperienze traumatiche prolungate. Non è un caso, peraltro, che il fondatore del «paradigma della scrittura»87 applicato alla psicoterapia, James Pennebaker, si sia occupato anche delle scritture legate all’esperienza concentrazionaria88. La mia proposta è di leggere la ben nota «esplosione della scrittura» durante e dopo la guerra come un ricorso collettivo e istintivo a un «dispositivo» che rendesse l’esperienza di guerra psicologicamente vivibile, riducendone la frammentarietà e 85

Memoriale/Diario di Battista Chiocchetti. Stephen J. Lepore, Joshua M. Smyth (a cura di), The writing cure. How expressive writing promotes health and emotional well-being, APA, Washington 2002. 87 James W. Pennebaker, Writing about emotional experiences as a therapeutic process, in «Psychological Science» 8 (1997) n. 3, pp. 162-166. 88 J.W. Pennebaker - S.D. Barger - J. Tiebout, Disclosure of traumas and health among Holocaust survivors, in «Psychosomatic Medicine», 51 (1989), n. 5, pp. 577-589. 86

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l’insensatezza all’interno delle strutture cognitive «tradizionali» e culturalmente determinate. Il carattere istintivo del tentativo ne influenza inevitabilmente le forme e presumibilmente il successo: se in contesto terapeutico si richiede un confronto diretto con la narrazione del trauma89 (e con la persona fisica dello psicologo), la scrittura popolare di guerra sembra invece rifuggerlo, sminuirlo, neutralizzarlo, optando il più delle volte per una narrazione evenemenziale e non per quella «scrittura espressiva» che è necessaria al successo terapeutico90. Permangono tuttavia dei benefici fondamentali legati alla pratica della scrittura, segnatamente l’affermazione di controllo sugli eventi che è permesso dal processo di costruzione della trama, e il così detto «post writing process», l’elaborazione innescata dall’atto della scrittura che mantiene la propria efficacia anche in condizioni non controllate da uno psicoterapeuta91.

Scrittura e distanza: il dialogo immaginato «Quando la noia sorpassa i limiti non avendomi vicino una facia amicha, con chi confidar una parola: traccio o leggibili o non legibili le mie espressioni su di un pezzo di carta, anche nei momenti più cattivi» – Antonio Rettin

Il diario ha dunque una funzione riparativa che si esercita sul sé dell’autore: egli ne è estensore, unico protagonista e principale destinatario. Ma per assolvere a questa funzione («relazione intrapsichi89 James W. Pennebaker e Anna Graybeal. Patterns of Natural Language Use: Disclosure, Personality, and Social Integration, «Current Directions in Psychological Science» 10 (2001), n. 3, pp. 90-93; R. Sherlock Campbell e James W. Pennebaker, The Secret Life of Pronouns: Flexibility in Writing Style and Physical Health, in «Psychological Science» 14 (2003), n. 1, pp. 60-65. 90 Gabriella M. Gilli, La scrittura può curare? Il dibattito e le ricerche, in Clara Capello (a cura di), I non colloqui di Alice, Scrittura e psicologia per una formazione dialogica, Pubblicazioni dell’I.S.U., Milano 2003, pp. 153-182. Occorre tenere in conto, come ricorda Gilli, le peculiarità contestuali alla sperimentazione, finora portata avanti su soggetti con una capacità di espressione scritta di molto superiore a quella generalmente riscontrabile nel mio campione. Per questo ho preferito parlare, sulla scia di Ferrari, di scrittura riparativa piuttosto che di scrittura schiettamente terapeutica. 91 James W. Pennebaker, Scrivi cosa ti dice il cuore. Autoriflessione e crescita personale attraverso la scrittura di sé, Edizioni Erickson, Trento 2004.

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ca») la scrittura diaristica imbastisce un dialogo con un destinatario esterno all’autore («relazione interpersonale»). Non si tratta soltanto dello «sdoppiamento dell’io» che caratterizza ogni scrittura biografica, nella quale l’io narratore si eleva al di sopra di un io personaggio, orchestrandone e giudicandone implicitamente le azioni. Si tratta della creazione di un dialogo più o meno esplicito e prolungato con un esterno, con un «Altro» o «Altri» che vengono propriamente personificati dalla carta. Chiara Pugnetti, all’interno di un saggio di Clara Capello che afferma l’imprescindibilità dell’Altro nelle scritture del sé92, propone una suddivisione tipologica tripartita dei diari che si basa sui rapporti tra l’emittente (colui il quale scrive) e il destinatario (l’Altro a cui direttamente o indirettamente ci si rivolge). Pugnetti chiama «diari introspettivi» i diari nei quali non esiste separazione esplicita tra l’emittente e il destinatario: «l’altro» di questo tipo di scrittura coincide in tutto e per tutto con il sé, è il sé futuro, colui il quale dovrà ricordare e mantenere una continuità tra il passato e il presente. «Diari virtuali» sono definiti quei diari che costruiscono il proprio destinatario, lo creano per potervi dialogare – è il caso del classico «Caro diario». In ultimo vi sono i «diari destinati», nei quali ci si rivolge a una persona realmente esistente, a prescindere dal fatto che questa abbia effettivamente la possibilità di leggere il testo. Nella maggior parte dei casi i diari contadini trentini si configurano come appartenenti al terzo tipo (una tipologia rara nel campione di scritti contemporanei studiati da Pugnetti): essi hanno un destinatario realmente esistente e in essi «la scrittura tenta di salvaguardare il rapporto interrotto dalla distanza o da cause contingenti, e ne cerca un prolungamento. Il diario, diventando ospite di pensieri rivolti all’assente, e che forse l’altro non ascolterà mai, rappresenta la modalità privilegiata per non cancellare un ‘tu’ dalla propria vita»93. Anche nei «diari introspettivi», nei quali cioè è assente un destinatario esplicito, l’introspezione è minima ed è privilegiata la narrazione evenemenziale. Quando il destinatario è esplicitato, inoltre, non lo è in apertura del diario, a mo’ di destinatario esclusivo, e raramente 92 Clara Capello, Il sé e l’Altro nella scrittura autobiografica, Bollati Boringhieri, Torino 2001. Si veda anche Antonietta Di Vito, Scrivere per non impazzire: la difficile alterità, in Quinto Antonelli e Anna Iuso (a cura di), Vite di carta, L’Ancora, Napoli 2000, pp. 225-236. 93 C. Capello, op. cit., pp. 79-103.

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l’intenzione di parlare con quella persona viene messa nero su bianco: più prosaicamente, all’interno di un diario che si sarebbe potuto immaginare fino a quel punto come del «primo tipo» si inserisce un discorso diretto rivolto a una o più persone realmente esistenti. In ultimo, e questa mi pare la differenza più significativa rispetto al campione di Pugnetti, in molti casi non è un «tu» che si vuole mantenere all’interno della propria vita attraverso il diario, ma un «voi». Questo «altro collettivo» non sempre ha un nome: si può chiamare «lettori», «cari miei» o semplicemente «voi» o può ritrovarsi in espressioni molto vicine all’oralità, «vi lascio immaginare», «non potete sapere», «lascio considerare»94. Individuare questo «noi» è fondamentale per avere un’idea di come la scrittura agisca come strumento di connessione tra la trincea e il mondo di pace. Per Emilio Raoss, di Raossi (Vallarsa) si tratta evidentemente della famiglia. Esasperato dalla mancanza di posta egli decide di rivolgersi direttamente ai propri cari, risolvendo a proprio modo le carenze del sistema postale. Speriamo che Dio avrà misericordia di noi e porrà un fine a questo terribile flaggello e questo giorno non sarà distante. L’anno 1915 è già trascorso il 1916 è incominciato passerò anche questo senza saper nula di voi e non potere arrivederci?95

Per il memoriale di Guido Zanella (Val di Sole), invece, si deve parlare di un destinatario più vasto e indeterminato. La presenza di spiegazioni dettagliate e di costante riferimento al «voi» fanno pensare a un pubblico più che a un interlocutore. Tuttavia questo non si estende al di là delle persone che possono concretamente entrare in contatto con lo scrivente; l’immagine che il suo tono evoca è quella di un oratore davanti a un pubblico ristretto, di cui può vedere e riconoscere ogni singola faccia. È, senza alcun dubbio, un pubblico di paese. Zanella, messo di fronte all’imbarazzo di un giudizio non clemente verso la predica del cappellano militare, decide di rimandare all’orali-

94 Tali espressioni «appaiono» senza preavviso nella scrittura diaristica e memorialistica. In alcuni casi sono l’unico indizio del fatto che l’autore ha in mente un destinatario collettivo. 95 Diario di Emilio Raoss. Si veda anche Lino Brugnara: «Per non dimenticarmi il giorno venticinque dell’undicesimo scrissi qua in Viatchor che voglio conservarlo per la venire delle rabie e dei dolori che provai nel mentre che la gente cosacchi mi contrai. Un conforto delle sue afflizioni ah chi legge».

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tà le proprie considerazioni, manifestando chiaramente chi immagina come pubblico, reale o immaginario, del proprio scritto. Il terzo giorno ci fu messa di campo con predica. Su questa avrei da fare alcune osservazioni, ma coloro che vorranno saperne qualche cosa, lo spiegherò loro a voce. (Parole che ricordo e che per non dimenticarle farò qui una piccola annotazione…)96.

Stesso «pubblico», ma più esplicito, per Sebastiano Leonardi, che usa il memoriale per esorcizzare lo spettro della dimenticanza: Addio… Forse ritornerò ancora!… e se non ritorno?… Voi che mi avete conosciuto, amici, compaesani e parenti ricordatevi di me, voi che mi amate e che sempre amor ricambiai, non vi scordar di me, siatemi grati di una preghiera, così farò per voi97.

Solo nelle memorie autobiografiche scritte a guerra finita si intravede un pubblico che eccede i limiti del paese: generalmente esso non viene chiaramente definito, ma è probabilmente individuabile nei «posteri», siano essi familiari (figli, nipoti), compaesani o generici «lettori». L’allargarsi del pubblico immaginato è segnalato dalla spiegazione di nozioni che dovevano essere condivise all’interno del gruppo di interazione dell’autore e risulterebbero dunque ridondanti se il testo fosse rivolto ad esso98, nell’uso più frequente del termine «lettori» rispetto al «voi» e nella maggiore attenzione alla dimostrazione argomentata e documentata (c’è persino chi cita, per provare la veridicità di quanto racconta, un volume di Piero Pieri)99. Il destinatario collettivo dei diari e dei memoriali è in parte spiegabile con ragioni di natura pratica. È ampiamente attestato che i soldati, in occasione delle licenze o sfruttando i propri compagni che tornavano in patria, facevano avere i propri scritti diaristici ai familiari; i diari dei caduti venivano a volte consegnati alle famiglie dai commili96 Memoriale di Guido Zanella. In un altro passaggio scrive: «Al nostro arrivo nei paesi trentini certamente non credevamo di trovare tanta miseria come v’era! È inutile che voglia descriverla particolarmente, poiché a guerra finita ognuno ne saprà abbastanza di tutto ciò, senza ch’io debba spiegargli tutto!». 97 Memoriale di Sebastiano Leonardi. Per il resto del testo l’autore si rivolge principalmente alla moglie, ma in alcuni casi agli «amici». 98 «Portando seco il mio cappello di festa, come si costuma nei nostri paesi». Memoria autobiografica di Mario Raffaelli. 99 Memoria autobiografica di Albino Soratroi. Il volume in questione è La nostra guerra tra le Tofane, Perrella, Napoli 1930 (Prima edizione).

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toni. È possibile ipotizzare che questa eventualità fosse tenuta in conto nel momento della stesura e che per alcuni diari o memoriali si prevedesse una lettura pubblica. Nel quaderno di Celeste Paoli un familiare, attuando a sua volta una evocazione dell’assente tramite il discorso diretto, si rivolge al soldato dicendo: «Speriamo che questo sia l’ultimo notes che lasci a casa», attestando che esso era stato ceduto ai familiari mentre il soldato era ancora sotto le armi. Lettere e diari testimoniano a volte direttamente l’ampiezza del pubblico e l’usanza di ricopiare i testi per conservarne il ricordo e permettere a più persone la lettura100. Giusto Manica, calzolaio di Denno, inserisce nel proprio memoriale annalistico una raccomandazione ben concreta rivolta alla moglie101, per concludere il proprio scritto con queste parole, che caratterizzano il diario come una prolungata comunicazione a distanza ed evidenziano la consapevolezza che le parole vergate potrebbero essere le ultime rivolte ai propri cari. Se ti viene nelle tue mani, ti prego cara moglie che la copi il Minco questa piccola memoria e conservarla bene come ricordo mio ai nostri figli. Coraggio. Dio mi aiuterà ancora e ritornerò fra voi a passare gli ultimi anni di vita102.

L’eventualità della lettura pubblica non spiega tuttavia del tutto la frequenza e le modalità con cui «l’Altro» viene evocato in questi testi. I diari e i memoriali diventano un luogo di incontro con una collettività identificabile con il paese o la famiglia. Essi permettono l’evocazione diretta della persona e l’espressione di sentimenti che dalle lettere sono generalmente banditi. All’interno di alcuni diari si creano delle zone narrative intermedie, spesso in concomitanza con periodi particolarmente difficili, quando la disperazione è al suo apice. In questi casi le regole di automoderazione proprie della scrittura epistolare vengono sospese. Il passaggio dalla prima alla seconda persona (sia che ci si rivolga a un individuo, sia che ci si rivolga, in forma di 100 «Ho riletto il tuo «notes» ma mi fa male, male acuto. Ora sta leggendolo Valerio e lo copia a macchina perché lo possa legger meglio tua mamma» – Lettera di Anselma Ongari al marito Guerrino Botteri – si veda anche la citazione seguente di Giusto Manica. 101 Diario di Giusto Manica. «alla sera abbiamo mangiato il managio e al mattino siamo partiti alla sera abbiamo riposato nelle baracche sul nudo terreno e il giorno 3 siamo ritornati indietro e verso le 3 di sera impartita la santa benedizione e poi via nella città di Lischia? Di questo non pensare e non scrivermi». 102 Ibidem.

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preghiera, alla divinità) è un segno generalmente sicuro del fatto che si è in presenza dell’espressione di emozioni contingenti irrefrenabili e, per conseguenza, che tempo del vissuto e tempo della scrittura coincidono. Se l’unica spiegazione della presenza dell’altro negli scritti autobiografici fosse da ricercarsi nella effettiva comunicazione, se, insomma, i diari fossero semplicemente delle lunghe lettere stese in più sessioni di scrittura, non si vede perché non si ritrovino nei primi le stesse priorità e le stesse lacune che si trovano nelle seconde. Passaggi come i seguenti sono molto rari nelle lettere provenienti da un contesto rurale103, mentre si trovano frequentemente nei momenti in cui il diario si trasforma in dialogo. eh io or vanamente nel sogno bacio, bacio voluttuosamente, ebbro di amore. Oh maria mia come ti amo!104 Addio miei cari! Non ho mai voluto pronunciare questa parola ma ora che sono certo di non vedervi mai più ve la dico proprio di vero cuore. Non pensate a vostro padre. Egli vi vede dal Cielo e vi aspetta. Crescete buoni e virtuosi e sarete felici. Addio moglie mia che ti trovi orbata dal tuo sostegno. Fa a dio il sacrificio della tua compagnia come dovranno fare miglioni di altre spose105.

L’autore di quest’ultimo passo, Giorgio Bugna, insegnante elementare di famiglia contadina, non sta in realtà morendo, ma esprime la disperazione legata alla prigionia e alla mancanza di corrispondenza, che scuote le sue speranze di ritorno. E proprio in questo risiede un’altra ragione per cui occorre cercare al di là della comunicazione effettiva il motivo dell’evocazione dell’altro: il passaggio alla seconda persona è molto più frequente quando la corrispondenza manca o quando lo scrivente si trova impossibilitato a parlare con qualcuno, come nei casi in cui si trova isolato da chi parla la sua stessa lingua. È perciò probabile che il dialogo immaginato sia più legato a un’esigen103 Diverso il caso di epistolari dal carattere esclusivamente privato, come sono frequentemente quelli provenienti da ambiente colto e cittadino. La natura intima dello scambio fa sì che tali epistolari possano mantenere anche in guerra la loro natura «amorosa», grazie alla generale maggiore flessibilità rispetto allo stile formulare e alle regole di moderazione proprie della scrittura popolare. Si veda, ad esempio, Rosalba Dondeyanz, Selma e Guerrino, un epistolario amoroso, Casa editrice Marietti, Genova 1992, pp. IX-XIII. 104 Diario di Giovan Battista Giacomelli. 105 Diario di Giorgio Bugna.

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za psicologica contingente che non a un consapevole progetto di scrittura destinata. I diari sono utilizzati come sostituzione del dialogo sia effettivo che epistolare, sia quando si è impossibilitati a imbastirlo nella realtà, sia quando si vuole esprimere contenuti che, per il loro carattere destabilizzante e non rassicurante, non sono ritenuti adatti alla corrispondenza. È estremamente significativo che, quando si riflette direttamente sulle reticenze della epistolografia e sui suoi necessari non detti lo si faccia utilizzando il discorso immaginato in uno sfogo e in una confessione che non può avere luogo su altro mezzo che non sia la memorialistica. La creazione di «epistolari virtuali»106 non è rara, anche negli scritti civili. Nel mélange di generi che spesso è lo scritto popolare succede che diario ed epistola si alternino nello stesso quaderno e che quest’ultima venga riportata in parte o per intero: è forse il caso di parlare di «epistolari semivirtuali» in cui si prende spunto da una comunicazione realmente intercorsa per imbastire una risposta che è resa nei fatti impossibile dal servizio postale o dalle regole di autocensura proprie dell’espistolografia. È il caso di Luigia Senter, che utilizza il diario per dialogare con il marito, la cui voce è rappresentata dalle lettere ricopiate, e con Dio. A tratti sembra di leggere la trascrizione di un normale dialogo familiare: [Luigi Dalbosco]: vi prego fili miei di ubidire alla mamma di volerli benne e di stare senpre colla mamma di amarla mi raccomando Vittorio di volerli bene e anche tu Marina di ubidirli dunque. Epregnate perme che io pregnero per voi tutti qua mi ritrovo abastanza bene [...] [Luigia Senter]: Mio caro ai ben ragione aracomandare ai tuoi che mi ubidisa ose sapessi certe volte quanto mi fano arabiare non mi ascolta proprio niente perme e un dolore alvedere cosi107.

In questo come in altri casi la comunicazione non è procrastinata a quando il testo sarà letto, ma è immediata, proprio come se lo scrivente avesse il proprio interlocutore davanti a sé. Domizio Curti, contadino di Villa Lagarina dislocato sul fronte alpino, nel suo diario annalistico cambia spesso il proprio interlocutore, passando da un generico «tutti» a una più concreta Irene, probabilmente la sua fidanzata. In quasi ogni entrata si premura di inserire dei generici saluti, che rappresentano a volte tutto quello che si dice nel determinato giorno. 106 107

C. Capello, op. cit., pp. 58-64. Diario di Luigia Senter.

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Ore 11 12 1+2 fra vento e neve col pensiero a te Irene non solamente in chuesta notte che sono di velia ma anche quando potrò dormire non il giorno che vengono a farmi il cambio per andare alla posta desiderando di ricevere un tuo scritto ciao 1/9 […] seduto sulla neve al sole scrivo e lassio i più cari saluti a tutti nel terzo mese di setenbre in campo imaginatevi che contento che piacere a queste misere condizioni fra pale di schiopi e di canoni saluti saluti 2/9 […] saluti saluti e baci – [Scritto trasversalmente]: Lager barache passatto questi giorni abbastanza bene saluti108.

Il caso forse più evidente di come l’evocazione dell’altro abbia una funzione psicologica e non comunicativa è rappresentato dal diario di prigionia (per molti versi decisamente atipico) di Luigi Daldosso, contadino di Valmorbia. Nello spazio creativo permesso dal diario (molto più che nelle lettere effettivamente spedite) il rapporto interpersonale può essere immaginato nelle sue caratteristiche di pace, come se non ci fossero centinaia di chilometri a separare Daldosso (prigioniero a Pinerolo - Torino) dalla sua fidanzata, come se l’autore potesse sentire le risposte dell’amata. Ebbene grido con forza da fondo dell’anima si compia pure il mio crudo, triste, barbaro e perverso destino… … Forse leggendo queste righe mi accuserai di essere un misero egoista, ma qui ti dico il vero ti sbagli di grosso. Perche? Mi chiederai? Voreri risponderti con una frase secca e picante, ma per questa volta me ne stratengo dicendoti di nuovo che ti sbagli, e forse più tardi vedrai il perche

Il monologo contro il destino si tramuta in dialogo quando chi scrive si immagina una reazione negativa da parte dell’interlocutore «latente» del diario. L’illusione è talmente concreta da farlo innervosire, quasi offendere, con il proprio interlocutore nel momento in cui percepisce l’intrinseca incomunicabilità della sua esperienza di prigionia. Il pensiero che lui, in tanti dolori, possa essere considerato egoista, altera la prosa solitamente posata di Daldosso, spingendolo a interrompere il dialogo, a celare il proprio pensiero, proprio come ci si aspetterebbe in un normale litigio di coppia. Daldosso non vede la propria famiglia da almeno un anno e non ha nessuna speranza concreta di rivederla a breve. Le lettere che riceve dalla sorella, tuttavia, rendono la mancanza di missive dalla propria fi108

Diario di Domizio Curti.

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danzata ancora più insopportabile. Il «glacciale silenzio» dell’amata spinge l’autore a una singolare minaccia, portata avanti tramite la metafora del fuoco, che è sia quello del pensiero fisso sulle cause del silenzio che quello dell’amore di Luigi: Simile ad un gran fuocco circondato ad esuberanza di combustibile avampava dentro di me questo pensiero, ma poi come il fuocco appocco appocco distruge il materiale che gli dava vita cosi in questa continua solitudine privo di qualsiassi notizia sul tuo conto questo fuocco finirà col distrugersi da sè se come al fuocco natturale non vi sarà una mano amica che gli aggiunga nuova esca e la riattizzi (03/03/1916)109.

Proprio come in una lite di coppia la minaccia suona vuota: troppo pressante è il bisogno di mantenere vivo il flebile legame garantito dalla scrittura. Proprio come in una lite di coppia, forse spaventato dai propri stessi pensieri e con il dubbio di essersi spinto troppo in là, Daldosso ritratta e passa all’autoesortazione: E in tanto spererò, sofrirò ma non mi lascierò sopraffare dar dolore, nè cercherò di schivare la soferenza dimenticando o perdendo la speme. Farò forza a me stesso attizzerò da me il fuocco […]110.

Una volta risolto il battibecco l’umore dello scrivente cambia radicalmente. Dopo che i dubbi sono stati provvisoriamente scacciati, e quando l’incomunicabilità smette di minacciare il dialogo, lo scambio può continuare su toni giocosi e scanzonati. un caso venne inaspettato a darmi nuova lena. Già mi immagino, e su questo ci giurerei che non sbaglio, che sei curiosa di saperlo e mi par già di sentirti chiedermi, cosa? Che è stato? Ebbene non voglio essere inurbano, voglio appagare la tua curiosità…111

In questo caso si tratta dell’arrivo di un pacco. Di lì a pochi giorni (15/03/1916), «Pocche linie […], solenni nella loro semplicità come l’angelo della gioia» arrivano ad allietare il prigioniero e a rinnovare le sue promesse di eterno amore. Sebastiano Leonardi, prigioniero e nella impossibilità di comunicare con la moglie, utilizza il memoriale per rivolgersi a lei in dialoghi 109 110 111

Diario di Luigi Daldosso. Ibidem. Ibidem.

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immaginati molto concreti. L’intero scritto, che mantiene, attraverso il frequente uso della seconda persona, uno stretto legame col tempo del vissuto, è diretto alla moglie, ma in alcuni casi si rivolge ai compaesani o a un generico «amici». Ora dacchè ti motivai la zuppa, ti voglio insegnare, in caso di un bisogno a fare la zuppa, alla prigioniera. Dirai che sai meglio di me a far la cuoca, ma io ti repplico che una tal zuppa non l’hai mai fatta e ne mai assagiata. […]Ora a noi, perche per poco che ti tiri alla lunga con parole tu mi perdi la pazienza e ti scappa la voglia di imparare112.

Se il dialogo viene spesso utilizzato per immaginare di essere a casa, esso permette anche di evocare la persona cara al proprio fianco, di nuovo con una concretezza che lascia sbalorditi. Nel descrivere, una volta che il memoriale si è tramutato in diario (1917), i «costumi della gente russa» (in realtà una puntuale descrizione del paese siberiano nel quale è tenuto prigioniero), arrivato alla descrizione delle abitazioni arriva a esortare la moglie («Guardati attorno»), come se i due fossero impegnati in una visita guidata. Il carattere probabilmente più originale degli scritti presi in considerazione rispetto al campione proposto da Capello e Pugnetti è che l’Altro della scrittura trentina è spessissimo un Altro collettivo. Questo ci dice molto sul particolare tipo di riparazione che la scrittura applica all’esperienza della guerra. La conservazione del sé, che è l’obiettivo principale della memorialistica trentina di guerra, avviene attraverso una sua proiezione all’esterno della guerra. Il diario si dimostra uno strumento flessibile, che può rivolgersi a diversi destinatari a seconda dell’esigenza del momento e che utilizza testi di varia natura per supportare uno scambio che è vicinissimo, per forme e priorità, alla conversazione orale, di cui è esplicito surrogato. Surrogato che, se è sorprendentemente fedele nel riprendere le dinamiche di interazione di un discorso faccia a faccia (botta e risposta, reazioni emotive ap112 Memoriale di Sebastiano Leonardi. Nello stesso testo, trasformatosi in diario, si trova un particolare che non lascia dubbi sul fatto che esso sia stato scritto con l’intento di un dialogo diretto e non solo e non principalmente per la lettura futura. Nel lamentarsi del fatto che da sei mesi non riceve lettere dice: «L’ultima tua che ricevetti porta la data del quindici dicembre. Come vedi sono più di sei mesi». Siccome Leonardi non inserisce date nel proprio diario, non c’è una conoscenza comune a lettore e autore di quando il diario è stato scritto. Bisogna concludere che quel «Come vedi» sia un’affermazione che postula la compresenza dei due interlocutori.

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propriate alle risposte immaginate dalla controparte), mantiene sul piano linguistico una significativa differenza: è evidente lo sforzo di esprimersi in italiano corretto, laddove la comunicazione orale vera e propria avviene generalmente in dialetto113. Quello che colpisce nel dialogo immaginato è la sua concretezza e realisticità, testimoniata anche dal fatto che non si trova un solo caso di «diario virtuale», nel quale il destinatario è completamente inventato o nel quale ci si rivolge direttamente allo scritto come fosse una persona creata ad hoc. Al contrario del campione analizzato dalle due psicologhe, inoltre, il dialogo immaginato non coinvolge mai persone defunte e la reinvenzione del rapporto che lega l’autore al proprio destinatario non è al centro dello sforzo immaginativo. La deformazione «creativa» permessa dalla scrittura non si applica alla realtà del paese e del passato, ma al contrario tende a conservare o a far rivivere quanto la guerra metteva in pericolo o negava.

113 Particolarmente significativo il caso dei soldati provenienti dalle valli ladine, come ad esempio Simone Chiocchetti. Quest’ultimo, sebbene utilizzi occasionalmente la lingua ladina nella corrispondenza, lo fa perlopiù in occasione di argomenti particolarmente delicati, come espediente per aggirare la censura. La maggior parte del suo epistolario, così come la maggior parte dei testi memorialistici di soldati ladini, è in italiano o, per meglio dire, nella forma che viene ritenuta più vicina all’italiano corretto, con prevedibili deformazioni dialettali.

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Capitolo II Il tempo della guerra

Narrare il caos, vivere il caos Il caos è, secondo Clifford Geertz, «una minaccia ai nostri poteri concettuali, l’idea anche vaga che possa venirci meno la capacità di creare, afferrare ed usare i simboli […] L’uomo dipende dai simboli e dai sistemi simbolici con una dipendenza tanto grande da essere decisiva per la vita stessa di questa creatura e di conseguenza la sua sensibilità anche all’indicazione più remota che essi possano risultare insufficienti a far fronte a questo o a quell’aspetto dell’esistenza suscita in lui la forma più grave di ansia»1. Inutile dire che la guerra totale fu, per il mondo contadino, ben più di un’indicazione remota di inadeguatezza: essa mise alla prova, sistematicamente, tutti gli aspetti del sistema simbolico trentino. È sempre Geertz che indica le principali aree dell’esperienza nelle quali il caos («un tumulto di eventi privi non solo di interpretazione ma di interpretabilità») minaccia la consapevolezza, necessaria all’individuo, che le proprie categorie siano adeguate a comprendere il mondo e a dirigere il comportamento: «ai limiti delle sue capacità analitiche, ai limiti del suo potere di sopportazione ed ai limiti della sua visione morale. Lo stupore, la sofferenza e un senso di insopportabile paradosso etico sono tutti, se divengono abbastanza intensi, sfide radicali all’affermazione che la vita è comprensibile e che noi possiamo, se riflettiamo, orientarci efficacemente all’interno di essa»2. Eppure il caos viene narrato e razionalizzato3. Per raggiungere 1

Clifford Geertz, Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna 1998, pp. 125-

126. 2

Ivi, pp. 126-127. Leonard Smith, in un recente libro che mi ha colpito per l’analogia degli interessi («a book about how experience becomes understood as such through narrative»), 3

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questo scopo sono necessarie delle categorie interpretative, pregresse o generate dall’evento stesso, che non solo lo giustifichino ma che diano un senso al ruolo specifico dell’individuo all’interno di esso: delle chiavi di volta concettuali che permettano di inserire gli eventi sparsi e contraddittori che compongono la quotidianità di trincea all’interno di un corpo coerente ed osservabile. Nel capitolo precedente ho individuato nella scrittura il dispositivo con cui la guerra viene ordinata, trasformata, all’occorrenza occultata. In questo e nei prossimi capitoli osserverò i luoghi in cui si usa il dispositivo e le modalità circostanziate con cui lo si maneggia, nella speranza che l’analisi della pratica permetta di individuare le categorie esplicative centrali all’esperienza trentina del caos.

La chiamata alle armi Scrittura e guerra iniziano in Trentino con un telegramma, affisso sulle porte degli uffici postali il 31 luglio 1914 e confermato da un bando ufficiale il giorno successivo, esposto sulle chiese e sui palazzi comunali di ogni paese. Un foglio che si tramuta in parole, in voci incontrollate, in fantasie e paure espresse ad alta voce e nelle pagine dei diari. Quel foglio era «La notificazione di Mobilizzazione», la firma in calce era quella dell’Imperatore d’Austria e Re d’Ungheria, Francesco Giuseppe. Al bando di mobilitazione si accompagnava la Notificazione Imperiale «Ai miei popoli» in cui lo stesso imperatore spiegava le motivazioni del conflitto: la guerra era necessaria per il mantenimento dell’ordine sociale incarnato dalla monarchia, la guerra era necessaria alla «quiete nell’interno e la pace duratura con l’esterno». Il bando si rivolgeva a tutti i maschi adulti nella fascia di età tra i 21 e i 42 anni. La «notificazione», prevedeva la mobilitazione entro 24 ore di chiunque fosse munito di certificato di destinazione (vale a dire chi non era, per varie ragioni, in servizio attivo o chi era in attesa di partire per il servizio di leva), di tutti quelli che, non superati i 42 anni, avevano già prestato servizio militare, e di coloro i quali «obbligati alla leva in massa» erano «destinati a speciali prestazioni di servizio per per quanto analisi di testi pubblicati e perlopiù colti, dice esplicitamente che «These texts are about a struggle for coherence» – Leonard V. Smith, The embattled self: French soldiers’ testimony of the Great War, Cornell University Press, Ithaca & London 2007, p. X.

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iscopi di guerra». Le reclute e i riservisti di supplemento venivano, con ordine sovrano, immediatamente incorporati nell’esercito regolare; si intimava la restituzione dei cavalli militari ad uso privato e la consegna dei mezzi di trasporto a seconda delle designazioni del capocomune. La lista delle categorie coscritte si conclude con una minacciosa ammonizione: «Tutti gli altri attendano la propria chiamata». Non dovettero attendere molto: già nel novembre 1914 vennero richiamati i ventenni; con l’entrata in guerra dell’Italia si estese la leva obbligatoria dai 43 ai 50. Tra il 1916 e la fine del 1917 vennero coscritti anche i diciannovenni e i diciottenni, portando il numero complessivo delle classi di età sotto le armi a 32 fino alla fine del conflitto4. A questi si aggiunge quella parte di popolazione civile, anche femminile e sotto i diciotto anni, occupata in lavori militari più o meno forzati. I mobilitati dovevano presentarsi al comando distrettuale di complemento e affrontare la visita medica che suddivideva i richiamati a seconda del loro stato di salute in tre differenti classi o che assegnava l’ambitissimo superarbitrium, la dispensa dagli obblighi militari. I coscritti di prima categoria venivano mandati direttamente al servizio attivo nell’esercito comune, dopo un breve periodo di addestramento; quelli di seconda categoria venivano assegnati alla milizia – essa stessa occupata al fronte, armata, ma con compiti di retrovia – mentre quelli di terza erano assegnati alla riserva e al servizio senza armi. I trentini abili alle armi erano in gran parte inseriti nei quattro reggimenti scelti provenienti dal Tirolo e dal Voralberg, i così detti Tiroler Kaiserjäger, o Cacciatori Imperiali, specializzati nelle operazioni di montagna, istituiti dall’Imperatore Francesco I nel 1815. Si trattava di corpi scelti, fiore all’occhiello dell’esercito asburgico, composti in grande maggioranza da fedelissimi cittadini sudtirolesi di lingua tedesca e per questo utilizzati nelle operazioni più importanti e pericolose. Gli Jäger, che facevano parte del XIV Corpo di armata, furono immediatamente mandati a sostenere l’urto dell’attacco russo in Galizia e nei Carpazi nel 1914 e furono punta di diamante nella sanguinosissima battaglia di Gorlice – Tarnow nel maggio 1915, prima di essere trasferiti sul fronte dolomitico. Prima del trasferimento i soldati di lin4 Sergio Benvenuti, Il reclutamento dei Trentini nell’esercito austro-ungarico, in Sergio Benvenuti (a cura di), La prima guerra mondiale e il Trentino, atti del convegno internazionale promosso dal comprensorio della Vallagarina, Rovereto 25-29 giugno 1978, Rovereto 1980, pp. 555-566.

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gua italiana, considerati inaffidabili, furono estromessi dai battaglioni e dispersi sul fronte russo. Oltre ai 4 reggimenti Kaiserjäger partivano dal Trentino 3 reggimenti Landeschutzen (bersaglieri), un reggimento di artiglieria di montagna (il 14°) e 2 reggimenti Landsturm (milizia territoriale, composta perlopiù da «fucilieri» tra i 33 e i 42 anni d’età). Tutti i reggimenti in partenza dal Tirolo facevano parte della I Armata, agli ordini del generale Dankl5. Gli unici cittadini trentini che partirono volontariamente per il fronte lo fecero nel 1915 e per unirsi all’esercito italiano. Si tratta dei volontari «irredenti», ai quali venne concesso, fin dal 27 maggio 1915, di arruolarsi nell’esercito regolare del Regno. Difficile dire quanti fossero precisamente al momento dell’entrata in guerra dell’Italia (sicuramente più di 700)6, ma più facile è individuare la loro collocazione sociale. Su 759 aderenti alla Legione Trentina, l’associazione nata per riunire tutti i volontari in un unico reggimento, solo due erano contadini, mentre la maggioranza era composta da studenti, operai, liberi professionisti. Circa la metà di essi proveniva da un contesto urbano7, da un ambiente spazialmente e quantitativamente minoritario del territorio trentino. Nell’arco dell’intero conflitto partirono dal Trentino 60000 soldati, di cui 1700 ufficiali, oltre a non più di 1000 volontari a favore dell’Italia, su una popolazione che contava 386.583 persone nel 19108. Di questi 40000 lasciano il Trentino negli ultimi cinque mesi del 19149. Nel giro di poche settimane ogni paese, ogni vallata, si vede privato delle forze lavorative e dei centri decisionali della famiglia patriarcale contadina, assistendo allo stravolgimento di un equilibrio tra i sessi e le generazioni già reso precario dalla emigrazione di uomini in età 5

Ibidem. Benvenuti indica la cifra di circa 700 uomini nel maggio 1915. Considerando che nel 1917, quando si forma la «Legione Trentina», gli aderenti sono 759, è presumibile, tenendo conto delle perdite intercorse nel 1915-1916, dei volontari che decisero di non aderire alla Legione, ma anche delle nuove defezioni in favore dell’Italia da parte dei Trentini, che il numero sia di poco superiore. Miria Manzana ne stima circa ottocento – Miria Manzana, La vita al fronte nelle lettere dei volontari trentini (1915-1918), in «Bollettino del Museo Storico del Risorgimento», 1 (1987), pp. 51-63. 7 Lia De Finis, Maria Garbari, Morire a vent’anni, Società di Studi Trentini di Scienze Storiche, Trento 1998. 8 Casimira Grandi, Linee di storia demografica della popolazione trentina durante la seconda dominazione asburgica, in L. De Finis Storia del Trentino, op. cit., pp. 473-512. 9 Sergio Benvenuti, Il Trentino durante la guerra 1914-1918, 1998. 6

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lavorativa lungo tutto il corso dell’Ottocento10. Basta pensare al fatto che la vita media nel Trentino del primo Novecento si aggirava sui 36 anni per capire come la chiamata alle armi di padri di famiglia che abbondantemente superavano quell’età fosse considerata una minaccia all’ordine sociale trentino, piuttosto che la restaurazione suggerita dall’Imperatore11. Come ricorda Mario Rauzi, maletano, in una testimonianza raccolta da Antonio Mautone, ciò che più stupiva era che: «nonostante le nostre terre non fossero in pericolo i nostri genitori dovevano combattere su altri fronti per impedire che venissero invase dal nemico»12. «Una bella cosa andar a farsi amazare per i Galiziani»13 constata ironicamente il pur filoaustriaco Silvio Zardini di Ronco. La guerra era un fenomeno sconosciuto per la popolazione trentina del tempo, sia come esperienza vissuta che come elemento dell’immaginazione e idealizzazione collettiva14. La «cultura di guerra» maturata in tempo di pace in ambito trentino era radicalmente diversa da quella borghese15. Per provarlo è sufficiente scorrere anche sommariamente le raccolte di fiabe e racconti tradizionali trentini16, il lavoro di raccolta operato dai folcloristi trentini a inizio secolo17 o i can10 Grandi riporta nel saggio citato la testimonianza, precedente la guerra, di un anonimo osservatore di Tione: «Il paese è stremato di forze giovani […] l’emigrazione va diminuendo per il motivo che non vi sono più uomini; causa la forte migrazione degli anni precedenti il paese è quasi spopolato». 11 Nel proprio memoriale Silvio Zardini (33 anni, portalettere di Ronco), riferisce di un dialogo avuto con «Doro Ghea», (contadino, 46 anni), nel 1914: «Il giorno prima di partire trovai anche Doro Ghea, che anzi mi pagò da bevere, e disse ho paura che la guerra vada per la lunga, e che anche noi più vecchi mi toccherò partire sotto le armi, ed io fra me pensava, questo mai». Nel maggio del 1915 Doro, secondo la ricostruzione di Paolo Giacomel, sarebbe stato mandato sul fronte alpino. 12 Testimonianza di Mario Rauzi, raccolta da Antonio Mautone. 13 Memoriale di Silvio Zardini. 14 Gordon W. Allport, The role of expectancy, in Leon Bramson e George W. Goethals (a cura di), War. Studies from psychology, sociology, anthropology, Basic Books, New York-London 1964, pp. 177-194. 15 Sui diversi discorsi sulla guerra insiti anche in una singola cultura, si veda John A. Lynn, Battle. A history of combat and culture, Westview Press, Oxford 2003, pp. 331-341. 16 Tra i tanti: Renzo Francescotti, Trentino - Alto Adige: Racconti popolari, Editrice Janus, Bergamo 1976; Giovanna Bonzaga, Le più belle leggende del Trentino, Manfrini, 1980; Brunamaria Dal Lago - Elmar Locher, Leggende e racconti del Trentino - Alto Adige, Newton Compton Editori, 1999; C. Schneller, C’era una volta. Fiabe Trentine, Edizioni Innocenti, Trento 1978. 17 Lorenzo Tommasoni, Racconti e proverbi trentini, Ala, Tipografia Figli di Maria, 1892.

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zonieri d’anteguerra, nei quali i temi legati alla guerra sono semplicemente assenti18. La competizione fisica, l’eroismo, il coraggio individuale avevano un trattamento ben diverso nell’oralità del «filò» (il momento serale di adunata della famiglia allargata nella stalla, nel quale avevano luogo i racconti e buona parte della «sociabilità» di paese) e nell’immaginario contadino rispetto a quello che veniva veicolato da romanzi e pezzi giornalistici. La mancanza di esperienza, anche esperienza immaginativa, della guerra è un elemento fondamentale per comprendere il caos che essa portò nel tessuto sociale trentino e l’effetto potenzialmente disgregante sulla «quiete» che si basava sui legami tradizionali di paese. Lo stesso dicasi per la tecnologia della guerra di massa. Certo, il Trentino era una regione rurale relativamente avanzata rispetto ai vicini italiani, ma il suo rapporto con la modernità tecnologica era al meglio approssimativo. Nei libri di famiglia l’elettricità e soprattutto il treno sono gli unici elementi tecnologici che trovano spazio nelle narrazioni precedenti il conflitto. Per il resto la vita in essi narrata avrebbe potuto essere stata vissuta cento o duecento anni prima, in un reticolo di rapporti interfamiliari stesi su un’area geografica e di interesse estremamente ristretta. Uno sguardo a un libro di paese di pochi mesi successivo, quale quello di Don Baggia, parroco di Terzolas, o quello di Francesca Dallepiatte, dà invece un quadro che è indubitabilmente e tipicamente moderno: ai treni, carichi ora di profughi e di soldati, si aggiungono gli aeroplani, i camion dei feriti, le automobili delle autorità militari di passaggio. Alla visione placida di una quotidianità che raramente esula dal lavoro giornaliero si sostituiscono le minacce all’autorità religiosa (iniziate con la rimozione delle campane dalle chiese di ogni paese, fatto che suscitò un profondissimo sdegno, e culminate con il confino del Vescovo Endrici - giugno 1916), i prestiti di guerra, gli ordini sul razionamento alimentare, la psicosi collettiva delle spie e, soprattutto, il ruolo sempre più preponderante dell’autorità imperiale sulle gerarchie tradizionali. Il processo di innesto della «quotidianità di guerra» nella quotidianità di pace è conseguentemente caratterizzato al suo sorgere come alterità, nel suo svolgersi come polarità dicotomica. Quello che non può 18 Silvio Pedrotti, Canti popolari trentini, Trento, Saturnia, 1976. Si vedano, al Museo Storico del Trentino, e oltre ai testi già citati nel primo capitolo, il canzoniere di Michele Gottardi, poeta popolare, e la raccolta di canzoni popolari operata da Carlo Jülg negli anni venti del novecento.

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essere compreso in termini di continuità cessa di essere percepito semplicemente come un mutamento nelle condizioni di vita (individuale o collettiva) e deve essere descritto in termini nuovi e attraverso la constatazione di ciò che esso nega sul piano pratico, morale, esperienziale rispetto al passato e al conosciuto. Nella grandissima maggioranza dei casi manca al fante trentino la predisposizione ideologica e patriottica che era propria dei volontari e che era pretesa e premessa del manifesto di mobilitazione, una predisposizione che avrebbe permesso di creare un «ponte» coerente tra il prima e il durante, una serie di connessioni logiche e causali che collegassero il passato al presente in virtù di un futuro che la guerra avrebbe contribuito a plasmare.

Distanziazione e polarizzazione dei due mondi Hanno capovolto il mondo? Va bene, cercheremo di camminare colla testa in giù e le gambe per aria – Giuseppe Passerini

Le «narrazioni del distacco», oltre ad avere il ruolo comune di inaugurare la scrittura memorialistica di guerra, hanno caratteristiche tematiche tra loro estremamente simili. Le memorie retrospettive, in particolare quelle scritte a conflitto in corso, sono i luoghi in cui più agevolmente si può cogliere l’esperienza del passaggio dal mondo «normale», di pace, a quello «eccezionale» di guerra. La narrazione presenta sempre i futuri soldati e i loro parenti come sorpresi dalla guerra, che arriva su di loro come un vero e proprio fulmine a ciel sereno, una voce da un mondo distante – il mondo della politica, dei giornali, della diplomazia e della corte di Vienna – che in poco tempo, nel pomeriggio del 31 luglio 1914, acquista i caratteri di una realtà opprimente. La polarizzazione è da subito esplicitata per tramite di artifici narrativi. Gli autori imbastiscono retoricamente un ambiente idilliaco e ideale, composto dal sereno lavoro nei campi e inserito perfettamente nel placido fluire del tempo contadino, per «permettere» alla guerra di distruggerlo, con il fine di enfatizzare il suo effetto travolgente e la drammaticità del momento19. È spesso evidente, in corrispondenza 19 Si veda il memoriale di Melania Moiola, contadina di Besagno, che idealizza volutamente una condizione economica collettiva che in realtà, alla vigilia della guerra, di

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dell’inizio della scrittura, lo sforzo di adottare uno stile lirico, adeguato alla unicità e all’impressione che il momento dell’esplosione del conflitto ha suscitato, ma anche volto a generare empatia nel lettore immaginato. Gli innumerevoli paesi di cui sei seminata tranquilli ritornavano sotto il dolce nattio tetto le loro forze i diligenti contadini, onde poi tutta la famiglia radunata davanti ad una sacra immagine rendeva omaggio a Dio, pregando aiuto di benedizione sopra tutti i suoi cari e beni. Ma haime!? Era l’anno 1914 23 luglio (tutta la valle) quando come elletrica scossa vibrà a traverso tutta la valle penetrando in ogni borgata e paesello, perfino nelle pacifiche malghe alpine20.

La malga, il pascolo di alta montagna, assurge a simbolo di uno splendido isolamento dove l’influsso corruttore della guerra riesce tuttavia ad insinuarsi. Fedele Mora inizia la sua narrazione della «Vita di Guera Europea 1914» con una scena di ordinaria vita familiare e lavorativa che, con l’occultamento iniziale dell’identità della persona che urla nella notte e della natura della notizia che essa porta, contribuisce a costruire un effetto di suspense: Il giorno 31 Lulio mi ritrovavo sul monte Vies a coltivare il fieno incompagnia del fratello sorella Elvira e Giovanetti Giuseppe che questo ci aiutava. La sera dopo un buon lavoro abbiamo cenato e in pace andiamo a risposare sul fieno, e strachi dal lavoro subito di addormentemmo, quando verso mezzanotte il passo di uno persona sulla strada sassosa mi rompe il sonne e poi una voce hoola! ma non rispondo… resto pensieroso. Ad un tratto lo sento alla porta che mi chiama per nome allora con voce stremata li risposi chiè… cosa ciè!… e lei rispose non aver paura. che si spera che sara cosa da poco; che cosa era mai!21

La guerra è una cesura che si inserisce in un flusso temporale ordicerto non era delle più floride: «Eravamo arrivati all’anno 1914. Erano molti anni che gli affari andavano a vele gonfie anche il più povero viveva agiatamente». 20 Zibaldone di Romedio Endrizzi. Si veda anche il memoriale di Adelia Bruseghini, nel quale stile volutamente alto e descrizione dell’idillio bucolico e familiare sono particolarmente evidenti: «Stava già il sole indorando le cime dei nostri monti, io mi adretai alla finestra osservando quando il marito mio ritornava al suo lavoro. Fra me stessa andava dicendo: Son già trascorsi dodici anni del nostro matrimonio, e pur ci amiamo, di un sincero affetto. […] Ecco un rumoreggiare di passi mi stornisce dalle mie idee. Stò osservando ancora e propio lui. Come mai sei tornato più tardi del solito? Come hai passata la notte?». 21 Memoriale di Fedele Mora.

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nato e prevedibile e in un ambiente di paese che viene sconvolto ad ogni livello22: quello che viene toccato, ancora prima che il soldato e la sua individualità, è l’ambiente sociale in cui egli vive. Sono rarissimi i casi in cui la chiamata alle armi viene narrata esclusivamente nelle impressioni personali dell’autore, nelle sue paure o speranze per il futuro. La guerra, nel suo presentarsi alle porte di ogni valle, è un evento collettivo («tutta la valle» ripete due volte Fedele Mora), ed è tramite immagini collettive che la sua drammaticità viene espressa. La stessa scena ha luogo contemporaneamente in tutti i paesi trentini23: Isera: «Improvvisamente, sabato I agosto 1914, di buon’ora, furono affissi sui muri delle case i manifesti annuncianti la dichiarazione di guerra e la mobilitazione generale. Tutto il paese fu sconvolto ed in ogni persona regnò un’agitazione ed un convulso impossibile a citare»24. Albaredo (Monte Zugna): «Potete immaginarvi lo scompiglio (vi erano anche da passi lontani) la disperazione di tutti delle famiglie (spose, genitori, figli ecc) cè poco da fare bisogna partire, la Gendarmeria che spinge tutti»25. Breguzzo: «Era il 1° agosto 1914, giorno di sabbato, la mattina stavo nel confessionale, quando sento un correre di gente che strepita che piange che grida disperatamente [...] Vedo la folla davanti alla casa comunale, che guarda con occhi umido di pianto un manifesto affisso alla facciata della casa. Chi saluta la moglie, i figli e amici, chi corre a chiamare altri, chi va a prendere un fardello, con spavento o muto dal dolore»26. Villa Lagarina: «L’impressione enorme di sbigottimento suscitato in tutti da simile comandamento, è più facile immaginare che descrivere […] Singhiozzi per le povere mogli dei partenti, sommesso parlottare dei vecchi, qualche imprecazione degli adulti; questa la bella scena sulla piazzetta del mio villaggio davanti alla caserma dei gendarmi»27.

Solo quando il soldato si ritroverà sul treno diretto al campo l’o22

Mario Isnenghi, Le guerre degli italiani, Mondadori, Milano 1989, p. 294. E forse in tutti i villaggi dell’Europa occidentale: «C’est au son des cloches et du tambour que cette triste nouvelle fut connue du public. En moins d’une heure, tous les habitants de la comune étaient massés devant la porte de la mairie. Quelle consternation!...», maestro elementare di Benest en Charente (Francia), citato in Jean-Jacques Becker, 1914, Comment les francais sont entrés dans la guerre, Presses de la FNSP, Paris 1977, p. 293. 24 Memoria autobiografica di Albino Gionta. 25 Memoria autobiografica di Domenico Dalbosco. 26 Libro parrocchiale di Don Tommaso Baggia. 27 Memoriale di Rodolfo Bolner. 23

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biettivo narrativo si chiuderà sull’autore e su quel surrogato della vita precedente che è il gruppo dei compaesani, dove rimarrà con pochissime divagazioni. Dalla descrizione del generale sbigottimento si passa generalmente al rendiconto dell’effetto catastrofico che l’evento aveva avuto sui familiari dell’autore. Forse per una certa ritrosia nel mostrare il dolore che appartiene sia all’esperienza che al suo racconto, i soldati preferiscono soffermarsi sul patimento dei propri familiari piuttosto che sul proprio: la guerra scinde i legami, impone distanza e nuove posizioni, minaccia la coesione del network sociale. Il primo volto che la guerra presenta ai coscritti è quello riflesso nelle lacrime di «spose, genitori, figli» ma, come attesta Angelo Paoli, anche dei padri, una visione particolarmente dolorosa perché in diretto contrasto con il ruolo di genere e di guida familiare che è loro attribuita: Prima della partenza mia mamma continuava a piangere ma il più che mi spezzò il cuore e mi fece direttamente piangere fu il vedere piangere il mio papà che non è così facile vedere piangere un uomo e piangendo e singhiozzando li abbracia e li bacia, pensi ognuno il grande dolore per un papa e per una mamma il dover salutare un filio che deve partire e andare in guerra per forse più non rivederlo avermi allevato prendersi se occorre il pane di bocca per darlo a me e adesso che poteva aiutarli andar via in quella maniera28.

Il futuro, che sarebbe stato nell’ordine delle cose, viene deviato, viene interrotto, non permettendo al soldato di adempiere al compito che sarebbe stato suo, quello di accudire i propri genitori, di restituire con il lavoro il pane che lo aveva nutrito. Le lacrime di un uomo adulto assurgono a simbolo del ribaltamento, della intrinseca, profonda ingiustizia. L’esistenza di casi in cui «padri e figli erano alla stazione per partire assieme»29, il fatto cioè che uomini di 42 anni e padri di famiglia fossero stati coinvolti nella mobilitazione non faceva che aggiungere pena al momento del distacco («Cose da far muovere a compassione un cuore di pietra»)30 e acuiva enormemente la sensazione di illegittimità del rivolgimento. Da parte sua il soldato sente il dovere di porre freno a questo ribal28

Memoriale Angelo Paoli. Memoriale di Guido Zanella. 30 Ibidem. Si veda anche Ezechiele Marzari: «Padri Madre Moglie Figli che salutava i suoi cari che partiva dal’età d’ani 18 anni ai 50. Per la cuerra. In questo passo non discrivo nulla della mia esistenza non vivevo più…». 29

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tamento dei ruoli, di opporvisi come può: l’atteggiamento che, quasi senza eccezione, il soldato sente come appropriato è quello di una stoica rassegnazione, che sappia confortare i propri cari e moderare la propria reazione: «Ebbene pazienza diceva tra me stesso», conclude Angelo Paoli31. Tornato a casa; per consolare la moglie cerco di stare allegro, e le dico che non si prenda dolore per mè, che essendo io nell’età di 42 anni, non andrò in guerra, ma sarò occupato in altri servizi […] Al vedere mia moglie così addolorata, cercavo di mostrarmi ancor più allegro, e con mille astuzie cercavo di nascondere l’interno dolore ch’io stesso provava nel dover lasciare la mia famiglia32.

È interessante notare una differenza tra il racconto del distacco narrato dai canzonieri del servizio militare di pace e quello che si ritrova nei memoriali e nelle memorie autobiografiche di guerra. Sebbene il tema della giovinezza spezzata e della mancata reciprocità tra le generazioni33 rimanga, al pari del ruolo patetico che svolgono madri e parenti in attesa del ritorno e dell’addio alla patria simboleggiata dai monti, non si trova – o lo si ritrova in forma sussidiaria – il tema dell’amata abbandonata. La lacuna è inaspettata. Il matrimonio che attende il soldato al ritorno è un leitmotiv della scrittura del servizio militare, che aiuta a rendere la drammaticità del distacco, la spasmodicità dell’attesa e la tragedia nel caso quest’ultima non abbia a compiersi: tutte tematiche che sono priorità anche della scrittura retrospettiva di guerra. Eppure gli obblighi verso i genitori, spesso connotati in termini economici e lavorativi, sono quelli su cui gli autori mettono più decisamente l’accento. La moglie abbandonata, pur insistentemente e comprensibilmente presente, è caratterizzata attraverso i suoi attributi familiari, non attraverso i sentimenti che la legano al partente: essa è moglie prima di essere amata. Il fatto che si passi da una narrazione sentita come simbolica e collettiva a una narrazione di verità e personale è certamente un fattore determinante. L’età dei richiamati andava inoltre dai 21 ai 42 anni, mentre l’età matrimoniale era in Trentino decisamente alta34, soprattutto per gli uomini, e i fi31 Ibidem. Memoriale di Sebastiano Leonardi: «Era molto accuorato, sai, molto afflitto, ma pure volevo scimularti questo dolore per farti un po’ di coraggio». 32 Memoriale / Diario di Francesco Matteotti. 33 Si veda ad esempio «La vita dun figlio dalla nascita al militare», canzoniere “di pace” di Giovanni Romagnoli. 34 La nuzialità tardiva è un fenomeno che interessa tutta l’Italia settentrionale con-

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danzamenti brevi (generalmente un anno o poco più): statisticamente dovevano essere pochi quelli che partivano lasciando un matrimonio in sospeso. La scarsità di descrizioni della reazione delle fidanzate in rapporto con quelle dei genitori e dei compaesani suggerisce l’esistenza di una reticenza di altra natura, legata allo scarso entusiasmo con cui sono esposte le relazioni sentimentali tra i due sessi nella scrittura e la preferenza che generalmente si accorda alla descrizione della rottura di legami ritenuti più «pubblici». La stessa drammaticità della scissione del legame coi genitori e coi figli viene caratterizzata di preferenza sul piano economico, lavorativo ed etico piuttosto che su quello sentimentale e personale. A seguito dello sconcerto, dello scompiglio e delle reazioni emotive dei familiari vengono le timide valutazioni sulla durata del conflitto. Era opinione comune che la guerra non potesse essere che breve: si pensava di essere «a casa per la vendemmia». Difficile risalire alle cause di questa valutazione, peraltro comune alla maggior parte della popolazione europea35; probabilmente sono da ricercarsi nelle nozioni che i coscritti avevano sulle mobilitazioni precedenti36 e nelle opinioni espresse dai giornali e dalla stessa Notificazione Imperiale, oltre che, ovviamente, nella volontà di rassicurazione e autorassicurazione37. tadina ed è stata messa in correlazione con le modalità di trasmissione della terra: nelle famiglie di piccoli proprietari – quale è la stragrande maggioranza delle famiglie trentine – l’età nuziale tende ad alzarsi considerevolmente, insieme al tasso di celibato, per evitare o ritardare la spartizione dei fondi. Marzio Barbagli, Three Household Formation Systems, in David Kertzer e Richard Saller (a cura di), The family in Italy from antiquity to the present, Yale University Press, New Haven & London 1991, pp. 250-270 (trad. it. di G.A. Cecchoni e A. Filipas, La famiglia in Italia dall’antichità al XX secolo, Le Lettere, Firenze 1995). 35 Jean-Jacques Becker, Les Français dans la Grande Guerre, Laffont, Paris 1980, p. 101. 36 Già nel 1908 e 1912-13 vi erano state due mobilitazioni parziali, entrambe in chiave antiserba (la prima per difendere l’annessione della Bosnia – Erzegovina da parte dell’Impero, la seconda in opposizione alla occupazione serbo – montenegrina di Scutari nell’ambito delle guerre balcaniche), che si erano risolte senza sparare un colpo e con una breve «passeggiata» per i soldati. 37 Memoriale di Don Baggia: «[i parenti dei richiamati] hanno il solo conforto di rivederli presto. Guai se con il pensiero si avesse potuto penetrare il futuro. La disperazione sarebbe stata inevitabile». Memoriale di Cecilia Rizzi: «Venerano alcuni che diceva che presto sarebe tornati ed intanto meteva qualche po’ di balsamo neicuori afliti. insomma muti muti si abandonava». Diario di Giovan Battista Giacomelli: «Non me lo sarei figurato mai di dover star lontano così a lungo [un anno], se forse lo avessi potuto solo supporre sarei morto dallo strazio».

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Ermete Bonapace, rientrato dall’Italia appositamente per rispondere alla chiamata alle armi, così descrive le opinioni e le voci dei compaesani incontrati al quadro di concentramento di Hall: Trovai molti compaesani, vi fu chi biasimò la mia condotta […] A tutte le estese notizie che leggevo nei giornali d’Italia seguì improvviso un silenzio perfetto. Trovai nei miei compaesani un’ignoranza completa degli elementi in fermento, si credeva che ogni cosa finisse in sole minacce. Non si sapeva niente di niente e si dicevano molte cose; fra i quali sentii dire che molti reggimenti di bersaglieri italiani sarebbero già a combattere contro i Russi, a Trento si suonava l’Inno a Tripoli e noi gridammo indisturbati Viva l’Italia. Poveretti se avessero saputo che brutto gioco si giocava38.

La guerra viene subito caratterizzata come evento indipendente e personificato, slegato da altri avvenimenti che possano essere avvenuti prima o dopo. Rarissimi sono i riferimenti alle cause politiche e contingenti della guerra, l’uccisione di Francesco Ferdinando (le voci parlavano di un assassino anarchico, ma il più delle volte gli autori si accontentano di constatare che è stato ammazzato) o l’ultimatum alla Serbia. La Russia, per esempio, entra nella narrazione – anche in quella retrospettiva – solo quando il soldato varca il confine, e in quanto semplice destinazione geografica, non come avversario dell’Impero o come nemico dell’autore e causa della sua partenza. La Serbia viene a malapena nominata, la Galizia è destinazione e campo di battaglia, non una parte invasa dello stesso impero a cui appartiene il Trentino; il fronte occidentale e tutti gli altri stati che si apprestavano a entrare in lotta sono, nelle ricostruzioni retrospettive come nei diari, del tutto ignorati. Dalbosco, in uno scritto esplicitamente rivolto ai posteri, in38 Memoriale di Ermete Bonapace. Scultore, saggista e collaboratore, in prigionia, del giornale degli irredenti di Kirsanov «La nostra fede», Bonapace è un testimone eccentrico rispetto agli altri finora citati sia per provenienza geografica (originario di Mezzolombardo, era residente a Roma prima della chiamata alle armi) che, soprattutto, per cultura e credo patriottico. La sua testimonianza, generalmente consapevole e equilibrata, mi appare tuttavia molto significativa come punto di vista esterno sul gruppo sociale in questione. Il fatto che le autorità austriache avessero diffuso «ad arte» voci di un imminente aiuto italiano per evitare fughe verso occidente e per mantenere alto il morale è confermato da Mario Ceola in Diserzioni: raccolta dei più importanti stratagemmi escogitati dai Trentini per disertare dall’Austria, Tipografia Ugo Grandi, Rovereto 1928 e da Gaetano Bazzani in Soldati italiani nella Russia in fiamme, 1915-1920, Tipografia editrice Mutilati e invalidi, Trento 1933. Molto più incerta è l’opinione dei primi due che lo avessero fatto per trarre vantaggio dall’«insopprimibile sentimento di razza» dei trentini (Bazzani).

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titolato «Piccolo riassunto della prima guerra mondiale», ritiene opportuno ricordare che «a quel tempo il Trentino apparteneva all’Austria», ma non specifica nulla delle condizioni che hanno portato alla guerra o del contesto su cui la mobilitazione si abbatteva. C’è dunque fin da subito nelle ricostruzioni una sostanziale indifferenza verso le cause contingenti della guerra39: quello che importa sono i suoi effetti e la catena di avvenimenti che essa ha messo in moto all’interno della vita dell’autore e del suo milieu sociale. Come nel caso dei libri di famiglia, è solo quando il mondo esterno viene a colpire il mondo di paese che esso acquista significatività e diviene degno di essere raccontato40. In molti casi la motivazione della partenza è molto semplice: non si può fare altrimenti, «la gendarmeria spingeva tutti», «dovevano partire perche altrimenti venivano castigati col essere fucilati»41; la fuga era impossibile e, in questo momento, da pochi tentata. Mah!... non era l’amore per l’Austria che ci aveva spinti a mantenere la parola: la vita del sindaco! e… (anche se non ci consegnava!? Come vivere nascosti e di paura e di peso alle famiglie?). Questo il II motivo42.

La convinzione diffusa di una guerra breve doveva aver agito da deterrente, insieme alle inevitabili ricadute che la diserzione, che sarebbe diventata molto popolare al fronte, avrebbe portato in termini di ritorsioni sulla famiglia del richiamato. In altri casi tuttavia viene citato anche il proprio ruolo di suddito imperiale: si parte per dovere, per difendere «la patria che a me partiene» e lo si dice facendo uso del gergo giornalistico e propagandistico, senza particolare riflessività, rielaborazione personale o ardore. La coercizione, anche nei rari casi in 39 Unica eccezione di un qualche rilievo è il memoriale di Davide Terzi («Memorie Pereni. Dela Guera Euruppea scopiata delano 1914.15.»), nel quale le prime pagine sono interamente dedicate alla ricostruzione «storiografica» dello scoppiare della guerra. La dovizia dei dettagli, la posizione rispetto al conflitto (interamente attribuito all’assassinio di Sarajevo) e il punto di vista «dinastico» della narrazione evidenziano una fortissima influenza giornalistica. 40 «Nella produzione scritta dei trentini, soldati dell’Imperatore, [ha] una presenza quasi modulare la successione tematica: partenza – combattimenti – resa – prigionia, spesso sviluppata in una dimensione narrativa che prescinde dalle grandi ragioni storico – politiche che ne fanno da sfondo» – Diego Leoni, La scrittura del silenzio, diari e memorie di soldati della prima e della seconda guerra mondiale», in AA.VV. Guerra e Mass Media, op. cit., pp. 165-172. 41 Libro di famiglia Dalle Piatte. Memoriale di Sebastiano Leonardi: «Non vorrei ma bisogna! Così è il comando, così è il destino degli uomini di quaggiù». 42 Memoria autobiografica di Alfonso Tomasi.

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cui agisce sul piano morale, è la motivazione prima. Dovei partire da casa mia per comando di Francesco Giuseppe primo, nostro imperatore e Re Apostolico di Ungaria, lascinado nell’angosia i genitori, fratelli e sorelle, nipoti e zii, qugnati, parenti ed amici che dopo d’eserci stretti al seno e racomandato a le sue preghiere per amore ed ubbidire a sua Maestà dovetti recarmi a la mia guarnigione cioé a Bressanone43.

La caratterizzazione data al momento del giuramento di fedeltà all’Imperatore, obbligatorio per ogni soldato, evidenzia la natura forzata del voto. Pio Branz annota nel suo diario, in data 10 febbraio 1916, di aver «ricevuto» il giuramento in vista del prossimo inserimento in un battaglione di marcia44. In maniera ancora più esplicita Riccardo Bridi afferma che Li 9 di Agosto o preso il tremendo Giuramento e giorno 12 Agosto si parte per la Galizia45.

La causa ufficiale scatenante – l’onore infangato dell’Impero – non solo non è condivisa: non viene nemmeno presa in considerazione. D’altra parte l’accento sulla costrizione non implica odio o rabbia verso la casa regnante. La questione della legittimità dell’azione di guerra semplicemente manca di importanza. La guerra in quanto evento al suo sorgere non richiede giudizi morali, ma solo di essere affrontata nei suoi aspetti pratici. Sulla genesi del mondo nuovo poco ci si interroga, impegnati come si è a combattere la pressante realtà nel presente: […] ma la memoria dei 28 anni, passatti in mezzo ai miei parenti la perfetta armonia della mia famiglia tutti sani e gioviali il benessere che si godeva, la mia professione in paese, i disegni e le speranze dell’avenire l’amore del mio cuore, ove fabricava la mia felicità, i miei amici e divertimenti; il tutto dover lasciare in un subito, sul più bello delle speranza portato lontano in paesi sconosciutti ad amazare e farsi uccidere da gente che non conosco, e per una causa che non comprendo46.

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Diario di Lino Brugnara. Diario di Pio Branz: «Mercoledì 10/2 Confessato e comunicato in preparazione della partenza pel campo, dopo è giorno ricevuto il giuramento». 45 Memoria autobiografica di Riccardo Bridi. Memoria autobiografica di Arcangelo Merler: «Colà [Trento] fui fatto abile alle armi, doppo aver giurato, involontariamente, mi anno consegnato una carta». 46 Memoriale/diario di Battista Chiocchetti. 44

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Del tempo di guerra si accentua dunque in primo luogo, tramite espedienti retorici e dichiarazioni esplicite, la discontinuità con l’esperienza precedente e l’alterità dell’autore rispetto ad essa. Gli sforzi fatti per dare notizie sull’autore prima della guerra, per ricostruirne le caratteristiche personali o per collocare la guerra all’interno del suo arco di vita sono minimi. Il richiamo al tema della giovinezza spezzata e del lavoro interrotto è spesso l’unica concessione, formale e non individualizzata, a rapporti effettivi tra tempo di guerra e tempo di pace. La guerra non viene soltanto esclusa dalla Storia generale, attraverso il silenzio sul contesto in cui avviene o le mancate riflessioni sui suoi possibili sviluppi a pace avvenuta, ma anche dalla storia personale, per tramite della mancata contestualizzazione del momento in cui questa si inserisce nell’arco di vita del protagonista47. Allo stesso modo la scrittura memorialistica termina, invariabilmente, quando il soldato torna a casa e non si estende mai oltre, a coprire fatti successivi o le conseguenze del conflitto nella vita personale o nella vita sociale del paese, sia effettive che immaginate o temute. Nella maggior parte degli autori “la scrittura” si arresta completamente o diventa sensibilmente più rada in corrispondenza delle licenze, quando cioè l’autore esce dall’ambiente di guerra per ricongiungersi al conosciuto del tempo di pace. Anche nelle memorie autobiografiche l’uso di flash forward e del «senno di poi» è limitato: si privilegia un criterio cronologico, in cui intreccio e fabula sono perlopiù coincidenti. Il confronto esplicito tra il tempo del narrato e il tempo della scrittura è pressoché inesistente48. Questo fornisce un dato fondamentale sulla pratica della scrittura. Si tratta di scrittura di guerra nel senso stretto del termine: essa tratta della guerra ed è da essa generata, è la risposta a bisogni fondamentali scaturiti dal conflitto e si spegne quando essi vengono meno. Scrittura popolare e Grande Guerra sono eventi legati a doppio filo: la seconda mette in moto la prima per milioni di persone; la prima influenza il modo in cui la seconda viene percepita e forse vissuta49. 47 Camillo Zadra, Quaderni di guerra, in «Materiali di Lavoro», 1-2-3 (1985), pp. 209-236. 48 Unica eccezione riscontrata quella di Alfonso Tomasi: «La matina era un incanto; i problemi ecologici e… l’inquinamento erano lontani. C’era tanta povertà!… Ma quanta più serenità e armonia d’oggi – col consumismo e 100 elettrodomestici ecc ecc ecc!». 49 Si veda Antonio Gibelli, Pratica della scrittura e mutamento sociale, in Per un archivio della scrittura popolare: atti del seminario nazionale di studi, Rovereto 2-3 ottobre

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Nel fenomeno si può leggere in secondo luogo l’affermazione dell’esclusività e l’impermeabilità del tempo di guerra rispetto a quello di pace: si tratta di mondi distinti, che richiedono parole diverse e diversi mezzi per esprimerle; l’oralità appartiene al mondo di pace, la scrittura primariamente a quello di guerra. Se la memoria autobiografica non sfocia in autobiografia50 popolare la causa è da ricercarsi nella polarità percepita tra le due esperienze, sia nella prospettiva del soldato che in quella del reduce. La circoscrizione del narrato all’interno dei limiti temporali imposti dalla guerra è stata notata anche in altre scritture di guerra e di prigionia, vale a dire esperienze alienanti che l’autore ha l’interesse, pur inconscio, di isolare all’interno della propria vita. Diego Leoni nota che il fenomeno non è limitato ai testi trentini del primo conflitto mondiale, ma che si ritrova praticamente immutato nella memorialistica del secondo: «Non è un caso che la maggior parte di questi autori si esprima al di fuori di qualsiasi spazio autobiografico creato da scritture precedenti o seguenti l’esperienza che detta le note di diario o di memoria: è il morire e il far morire che circoscrive lo spazio della scrittura»51. Peter Kuon mette in luce come anche nelle scritture dei 1987, Mori, La Grafica, 1987 pp. 7-20: «[Nel caso della Grande Guerra] è persino sostenibile che sia l’evento a caratterizzare il fenomeno della scrittura, a dargli per così dire un’impronta costitutiva; e che viceversa sia la diffusione della scrittura a connotare l’evento dall’interno, a costituirne parte integrante». Per una prospettiva più generale sull’influenza dell’alfabetismo e della possibilità di scrittura sulle forme culturali e cognitive si veda invece Walter J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, il Mulino, Bologna 1986, soprattutto Capp. I e IV. 50 Accetto qui la definizione forse più celebre di autobiografia, quella fornita da Philippe Lejeune, Il patto autobiografico, il Mulino, Bologna 1986: «Racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della propria esistenza, quando mette l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della sua personalità». Lo stesso Lejeune ha esteso la definizione, in Signes de vie, Seuil, Paris 2005, pp. 91-113, a tutte le scritture del sé, ma mi sembra, limitatamente al caso in questione, che vi siano significative differenze tra l’autobiografia e il particolare racconto del sé che si sviluppa in guerra. Il primo distinguo è nel carattere complessivo dello sguardo retrospettivo, che nella scrittura presa in considerazione non arriva mai a coprire «l’esistenza», ma si limita ed è mosso dal tempo circoscritto della guerra. Una seconda, importantissima differenza sta nell’incompletezza dell’«ottica autobiografica» che caratterizza le fonti. In esse l’accento non è posto sulla «storia della personalità», molto spesso del tutto ignorata nella memorie autobiografiche in favore di una più prosaica «storia della persona» attraverso gli avvenimenti e le azioni ordinate cronologicamente. Franco D’Intino, I paradossi dell’autobiografia in AA.VV., Scrivere la propria vita. L’autobiografia come problema critico e teorico, Bulzoni, Roma 1997, pp. 275-313. 51 D. Leoni, La scrittura del silenzio, op. cit., p. 171.

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sopravvissuti ai campi di concentramento esista questa volontà di isolare l’io precedente dall’«io concentrazionario» attraverso l’esclusione o la messa in secondo piano di fatti della propria vita precedenti o successivi: «in queste scelte del ritaglio, della tranche de vie da raccontare si riflette la consapevolezza, più o meno pronunciata, di una problematica identitaria […] la difficoltà cioè di inserire l’esperienza fortemente discontinua del lager nella continuità di un racconto di vita ‘abitabile’ che corrisponde all’identità dell’io dello scrivente»52.

Le tappe verso il nuovo mondo «Non piangendo si saluta, ma cantando. Ma la voce balla, tremula ma pur si canta. Chi pensa alla mamma, chi al papà, chi alla moglie ed ai figli ma pur si canta sapendo di pianger» – Sebastiano Leonardi

La descrizione fatta da Eric J. Leed dell’entusiasmo popolare che ha seguito la mobilitazione è ben nota53. La comunità di Agosto, intesa nell’accezione turneriana di comunità esistenziale propria dei riti di passaggio54, sarebbe stata un superamento, sul piano psicologico, percettivo e collettivo, momentaneo ma non meno potente, di molti dei problemi sociali che affliggevano l’Europa del tempo, dall’accidia e dalla confusione valoriale portata dalla modernità, all’individualismo, alle differenze di classe, alla questione di genere. I giorni della mobilitazione sarebbero un «tempo sospeso», un interregnum tra due mondi distinti nel quale i rapporti tradizionali (le relazioni di genere, la gerarchia di classe, le infinite regole della socialità borghese, i rapporti lavorativi) sono non cancellati, ma sospesi in un’orgia carnevalesca. Di qui il carattere liberatorio che la prospettiva della guerra avrebbe assunto per i futuri soldati e la bruciante delusione delle aspettative che la realtà della trincea avrebbe determinato. Nel confronto con la situazione trentina non cambiano, è vero, gli 52 Peter Kuon, Scrittura autobiografica e racconto di deportazione, «Intersezioni. Rivista di storia delle idee», 3, 2007, pp. 441-458; Enzo Traverso, La violenza nazista, il Mulino, Bologna 2002, p. 107. 53 Eric J. Leed, Terra di Nessuno, il Mulino, Bologna 1985. 54 Victor Turner, Dal rito al teatro, il Mulino, Bologna 1986, p. 81.

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elementi fisici fondamentali descritti da Leed: la guerra inizia con una folla e con un treno. Si è già visto tuttavia come «l’entusiasmo di Agosto» si traduca, nella campagna trentina – ma a ben vedere anche nei centri urbani55 – in sgomento, disperazione e, nei casi più fortunati, in rassegnazione immediata e ostentata. Già nel 1921 Riccardo Bonfanti mette in luce la dicotomia tra le «orge di patriottismo» che avrebbero caratterizzato l’Austria e la situazione nel Trentino, nel quale «la guerra fu accolta non solo con generale sbigottimento e rincrescimento, ma con una freddezza ed un’ostilità che fu subito notata dall’ufficialità austriaca»56. Le file davanti alle gendarmerie non erano certo costituite da volontari, ma da frastornati, riluttanti coscritti, che lasciavano dietro di sé una società scossa alle fondamenta. Se si può parlare di «comunità d’Agosto» per il Trentino che si apprestava alla guerra, si deve parlare di una comunità unita dal lutto e dalla minaccia collettiva. La sospensione dei ruoli viene sentita in maniera ugualmente forte, ma, lungi dal generare un sentimento di sollievo «carnevalesco» o di aspettativa, pone in essere un disagio profondo e diffuso e un’urgenza a porvi riparo con i pochi mezzi disponibili. Se si può parlare di coesione comunitaria – e penso sia il caso di farlo, non soltanto per la partenza ma per tutta la durata della esperienza – si deve parlare di coesione allargata (comprendente cioè il fronte interno) in opposizione alla guerra e non di coesione iniziatica (esclusiva dei soldati) da essa generata. Non si tratta soltanto di un’ovvia differenza tra città e campagna, o di una mera diversità geografica. Il carattere ambiguo e ambivalente della festa che si accende nelle stazioni è fondamentale per la interpretazione della esperienza di guerra trentina e può forse porre seri interrogativi all’interpretazione della mobilitazione europea nel suo complesso. I canti, i fiori, il cibo passato ai soldati attraverso i finestrini nelle stazioni ricordano decisamente il clima di festa della comunità d’Agosto. È tuttavia il concetto stesso di «festa» che deve essere interrogato. Sebbene non vi sia dubbio sul fatto che il servizio militare fosse avversato dai contadini trentini, anche la partenza per i tre anni di servizio ordinario veniva accompagnata da canti e festeggiamenti, sen55 Memoriali di Natale Bianchi (Rovereto) e di Giuseppe Bresciani (Riva del Garda). 56 Riccardo Bonfanti, Nell’esercito austriaco in Il martirio del Trentino, a cura della Commissione dell’emigrazione trentina e Sezione trentina dell’associazione politica degli italiani redenti, Trento 1921, p. 105.

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za che questo significasse adesione o entusiasmo, ma solo la volontà di opporre la compattezza della comunità alle pulsioni disgregatrici del distacco. «La coscrizione è festeggiata con un tripudio che fa male al cuore, se si pensa al dolore che pervade le famiglie povere in tale circostanza. Con una bandiera adorna di nastri e di frasche verdi, la gioventù di leva della pieve gira cantando a squarciagola di villa in villa, dando ai vicini ed ai lontani un molesto esempio di sguaiataggine e di ubbriacature, di bestemmie e di schiamazzi. S’usa anche di piantare un pino altissimo in mezzo alla piazza principale del villaggio; in certi luoghi i coscritti compiono certe “bravure” tradizionali simili nella greca mitologia alle fatiche di Ercole: p.e. vanno con una lunga pertica sulle braccia defilati sulla discriminatura del tetto della chiesa, dando prova di equilibrio e di coraggio; altre volte tirano all’anello o danno spettacoli di lotta»57. Nella festa della partenza tristezza e vera e propria disperazione non escludono allegria, canti e un tenace ricorso alla sociabilità di paese, perlopiù maschile. Gli autori sono però espliciti nell’affermare che si cerca sollievo dalla guerra e non in essa. Dopo la visita dato il giuramento alle 7.30 p., tutti in compagnia c’inviammo verso il nostro paese! A Mezzana io in compagnia d’altri 7 ci separammo e passammo la notte in allegria! La mattina di buon’ora andammo alle nostre case! Fino ai 19/5 niente altro d’anormale, altro che il pensiero sempre fisso in quella parola abile58. Quelle ore sembravano felici: ma dentro nel cuore facevano un contrasto terribile quei canti: che apparentemente mostravano allegria59.

D’altra parte quando i sentimenti suscitati dal distacco vengono esplicitati non c’è dubbio sulla natura dei canti o sul carattere struggente della «festa» che ha luogo nelle stazioni trentine. Il treno era ornati di fiori foglie e bandiere, ma il pensier era serio pareva di aver la morte poco distante. I canti erano mesti mesti come gli ucelli sulla neve60.

Il cambio di vestiti e la consegna della attrezzatura militare rivesto57 Guglielmo Bertagnolli, Poesie e poeti della Val di Non, II, G. B. Monauni, Trento 1912, p. 114. 58 Memoriale di Guido Zanella. 59 Diario di Francesco Matteotti. Si veda anche Arcangelo Merler: «A tutti dismostravan contenti, allegri, ma nostra allegria era l’alcol che stava innostra compagnia». 60 Memoriale di Giovanni Zontini.

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no prevedibilmente un forte valore simbolico. L’abbandono degli oggetti personali assurge a nuova prova dell’avvenuto cambiamento e come un’altra violenza del «nuovo mondo» sul ricordo e la realtà del vecchio. La mattina passammo la visita del medico e trovati tutti abili a mezzogiorno venimmo vestiti! E da questo momento incominciò la disciplina militare! La mattina manovra dalle 7 ant. alle 11, e la sera dalle 2 alle 561. Il terzo giorno ci condussero al bagno tagliandoci i capelli a raso. Dopo ci cambiarono il vestito civile della libertà con quello della schiavitù e della disciplina62. Così vestito da melitare sono tornato in Barraca ci anno consegnato ad’ognuno un picolo sachetino da metervi dentro il vestito in civile e quando che viò meso giù il mio mi venica quasi da piangere a pensare che in quel pacchettino non gli chiudevo solo la mia vestimenta ma benssì anche la mia libertà63.

Il fatto che l’elemento estetico ed esteriore dell’abito rivesta un’importanza psicologica particolare non stupisce. Quello che forse può sorprendere è la costante associazione, nelle tre citazioni precedenti, tra acquisizione della divisa e principio della «disciplina», posta come primo elemento caratterizzante della vita militare di cui il nuovo abito costituiva l’inizio. Il termine ha nella scrittura popolare trentina, non solo nelle descrizioni di partenza, un valore molto particolare. Si tratta di un concetto complesso e che racchiude molti aspetti della vita militare, ma che non possiede tutte le caratteristiche che siamo abituati ad attribuirgli64. Manca ad esempio l’accezione di attitudine personale controllata, moderazione, obbedienza. Allo stesso modo il termine non è definibile come semplice sinonimo di «apparato disciplinare». Anche se senza l’apparato fisico e normativo di coercizione e controllo la 61

Memoriale di Guido Zanella. Memoriale di Vittorio Frizzera. 63 Memoriale di Giuseppe Scarazzini. Si veda anche la memoria autobiografica di Albino Pontara: «Indossai la divisa odiata di soldato austriaco il giorno 26 – 5 – 15 […] da quel giorno incominciò il vero martirio». 64 «Discipline is the training, indoctrination, and encouragement through reward and example of certain practices consistent with the purposes for which a soldier may be employed, such that the desired response may become self- or small unit-imposed, although ultimately failure to abide by this training and the rules laid out by authorities will result in some form of military punishment». Richard Holmes (a cura di), Oxford Companion of Military History, Oxford University Press, Oxford 2001, p. 261. 62

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«disciplina» non avrebbe modo di essere imposta, quando i soldati narrano delle punizioni a cui erano sottoposti per aver disobbedito a un ordine o del controllo che gli ufficiali esercitavano su di loro è raro che si faccia uso del termine o che con esso si caratterizzi la pretesa che le autorità hanno di un atteggiamento ossequioso e passivo. La disciplina è un insieme di azioni e imposizioni pratiche ed estremamente concrete, di cui il primo assaggio e dimostrazione è costituito dall’inquadramento delle esercitazioni di campo e delle marce prima di arrivare al fronte. Prima di trasformarsi in vera e propria «follia», con la visione diretta del campo di battaglia e il reiterarsi di ordini visti come sadici e di un trattamento percepito come disumano, la disciplina è semplicemente imposizione di atti e condizioni senza senso, un giogo imposto al soldato dalla situazione e dagli uomini che ne sono delatori. La fatica di marciare sotto il sole, di compiere gesti regolati a cadenza ritmica, il dover sopportare il caldo, la fame, il trasporto sovraffollato sono parti costituenti dell’esperienza del servizio militare che vengono definite col nome collettivo di «disciplina»65. Comune a tutti questi elementi è la sensazione di aver abbandonato, insieme alla propria terra, ai propri familiari e alla propria casa, la propria volontà individuale, in favore di gesti dettati da una volontà superiore di cui non si comprendono e non si ricercano le motivazioni. È quando si cita per la prima volta questo nuovo regime di volontà altrui e di irrazionalità che si può dire avvenuto il passaggio da un mondo a un altro. Il contrario di disciplina non è insubordinazione o smodatezza, ma «libera scelta». La disciplina non si configura come un cambiamento «iniziatico» che avviene all’interno dell’individuo, come un mutamento che si situa in profondità nella personalità dei soldati. Essa è un elemento esterno, imposto e contingente: proprio come l’abito che la rappresenta, esso è dismesso non appena se ne ha la possibilità. Alla firma dell’armistizio con l’Italia, quando finalmente «si inizia a prendere giù la rosetta» (il simbolo imperiale) dalla divisa, Vigilio Iellico scrive con sollievo che «La disciplina non è più commando oggi!!»66. La guerra è caratterizzata come la riluttante escursione di un indi65 Memoriale di Giuseppe Scarazzini: «Il giorno dopo si incominciò a insegnare la manovra dalle 6 alle 11 e delle 2 alle 6, ore che mi parevano interminabili specialmente quele della mattina 5 ore in una piazza al caldo sempre a viagiare e a far movimenti, e più pegiore che qualunque mestiere da contadino». 66 Memoriale/diario di Vigilio Iellico.

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viduo, rimasto immutato, in un mondo sconosciuto e indesiderato, non come il processo di mutamento identitario descritto da Leed. Sebbene la trattazione di Leed riguardi la «discontinuità dell’esperienza di guerra» nel suo complesso, il suo saggio si occupa quasi esclusivamente della popolazione urbana, quando, è bene ricordarlo, la maggior parte della popolazione europea di inizio secolo vive nelle campagne. Non c’è dubbio che la voce cittadina sia più facilmente comprensibile e che si addentri più direttamente nelle pieghe dell’esperienza psicologica della guerra, ma è probabile che testimoni come Junger, Schauwecker, Zuckmayer, Maxwell non siano rappresentativi altro che della loro classe d’appartenenza (di cui peraltro costituivano un segmento particolarmente colto)67. Il fatto che essi – e molti altri, non tutti favorevoli alla guerra, come per esempio Rosa Luxemburg – riferissero di enormi feste di popolo (cittadino) e di un nuovo spirito comunitario non esaurisce le domande su questa «gioia», mentre solleva serie questioni sulla parzialità dello sguardo del testimone. Jean-Jacques Becker definisce l’atteggiamento della maggioranza dei francesi di fronte alla guerra in termini che vanno dalla costernazione iniziale alla «calma», alla «accettazione» della guerra e alla determinazione patriottica, che non dà però luogo a orge di entusiasmo collettivo come quelle descritte in molte capitali europee68. Adrian Gregory mette in guardia sull’ambiguità dell’entu67 Lo stesso Leed afferma che Zuckmayer e Schauwecker furono discriminati per il loro status di volontari dai soldati di origine proletaria e popolare, vale a dire da individui più rappresentativi della comunità del fronte di quanto non fossero i due giovani alto-borghesi. Eric J. Leed, Class and Disillusionment in World War I, in «The Journal of Modern History», 4, (1978), n. 50, pp. 680-699. Per un’analisi delle differenze che sussistono anche all’interno dell’ambito nazionale – e di un ambito nazionale ritenuto particolarmente omogeneo come quello britannico: Janet S.K. Watson, Fighting Different Wars. Experience, Memory and the First World War in Britain, Cambridge University Press, Cambridge 2004. 68 Nella sua ricerca sull’opinione pubblica francese Becker afferma che «All’arrivo della notizia della mobilitazione l’entusiasmo non fu assente, ma fu raro» mentre molto più frequenti furono la «costernazione, il pianto delle donne, l’emozione […] la rassegnazione e la tristezza». Con la partenza si sviluppa un più acceso senso di determinazione e del dovere, riassunto da Becker con il termine «accettazione» e spiegato principalmente con l’insorgere di un moto di «indignazione» e di «antigermanesimo difensivo» per la aggressione percepita alla propria patria da parte tedesca. Jean-Jacques Becker, L’année 14, Colin, Paris 2004, pp. 292-297 (trad. it. di G. Perrini, 1914, L’anno che ha cambiato il mondo, Lindau, Torino 2007) Si veda anche Jean-Jacques Becker, Dalla sorpresa alla protesta: le classi popolari francesi di fronte alla guerra (1914-1918), in «Movimento operaio e socialista», 3 (1982), pp. 383-400. Sull’opinione pubblica rurale

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siasmo britannico: la gioia esteriore, lungi dall’essere liberatoria, poteva essere esclusivamente espressione del sostegno alle truppe in partenza; l’arruolamento volontario di massa non avvenne che dopo un mese, in seguito alle prime sconfitte inglesi, e in ogni caso non coinvolse la maggioranza della popolazione, ma la sua porzione più acculturata e benestante. Il Galles rurale e operaio, per parte sua, non mostrò nessun entusiasmo allo scoppiare del conflitto, e quando diede segno di accettare la guerra «lo fece per ragioni locali e specifiche»69. In un’altra regione di frontiera e di montagna, i Pirenei francesi, gli umori della popolazione sono stati descritti come del tutto analoghi a quelli trentini70. In una regione di confine come l’AlsaziaLorena le folle erano prese da «depressione e panico», mentre nelle campagne tedesche non viene riportata nessuna manifestazione collettiva di giubilo71. Nel caso trentino – pur caratterizzato da momenti di intensa aggregazione comunitaria e da un’identica assenza di opposizione pratica alla mobilitazione72 – non è possibile parlare d’altro che di rassegnazione e percepita inevitabilità dell’obbedienza. La categoria antropologica del rito di passaggio utilizzata da Leed

francese e il rapporto tra identità regionale e identità nazionale, si veda, oltre al celebre saggio di Eugen Weber, il tomo III dell’Histoire de la France Rurale, Seuil, 1976, in particolare il contributo di Maurice Agulhon, Apogée et crise de la civilisation paysanne, 1789-1914, pp. 503-541. 69 Adrian Gregory, British war enthusiasm in 1914: a reassessment, in Gail Braybon (a cura di), Evidence, History and the Great War. Historians and the Impact of 1914-18, Berghahn Books, New York-Oxford 2003, pp. 67-85; Adrian Gregory, The Last Great War. British Society and the First World War, Cambridge University Press, Cambridge 2008, pp. 277-296. 70 Miquél Ruquet, Désertions et insoumissions sur la frontiére des Pyrénées pendant la guerre de 14-18, in Gwendal Denis, Mémoire et Trauma de la Grande Guerre: Bretagne, Catalogne, Corse, Euskadi, Occitanie, TIR, Rennes 2010, p. 78. 71 Jeffrey Verhey, The Spirit of 1914. Militarism, Myth and Mobilization in Germany, Cambridge University Press, Cambridge 2000, pp. 6-7 e 47-96. L’autore mette in dubbio le stesse manifestazioni di giubilo berlinesi, evidenziandone la costruzione propagandistica e il carattere ambiguo dell’entusiasmo «liberatorio» dopo la dichiarazione dello stato d’assedio. 72 Ma sotto molti aspetti diversissimo, a partire dal fatto che i Trentini erano minoranza linguistica ed etnica, ma anche per gli effetti che la guerra portò nelle campagne a lungo termine: laddove in Francia si assiste a un certo relativo miglioramento delle condizioni di vita dei produttori agricoli in seguito all’aumento dei prezzi dei beni alimentari, in Trentino, zona di guerra e caratterizzata da una agricoltura solo in minima parte rivolta al mercato, si ha solo un costante impoverimento.

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ha l’effetto di isolare l’esperienza dei protagonisti sia dalla loro storia personale precedente e successiva, sia da quella della società civile73. Dice Leed: «Le dimensioni assunte dalla guerra spiazzarono il contributo individuale del soldato dal nesso razionale di causa ed effetto. Vedere la guerra come una macchina autonoma vivente di moto proprio, e con il potere di dettare e imporre le azioni agli umani suoi partecipanti significò che l’evento era ormai steso e non nero su bianco, bensì nel carattere e nella personalità dei soldati. L’autonomia dell’evento costrinse chi vi partecipava a leggere dentro di sé i segni distintivi dell’evento stesso: durante la guerra l’io si trasformò in strumento di registrazione e la conoscenza acquisita dell’esperienza venne codificata secondo i tipi di carattere che la guerra produceva»74. Il rito di iniziazione avrebbe avuto l’effetto di modificare la percezione del sé del soldato secondo i tipi prodotti da una guerra che giustamente Leed definisce «autonoma», vale a dire scollegata da ogni esperienza precedente e quasi dotata di «vita propria». Limitatamente al caso in questione e ai dati che possono essere ricavati dalle scritture nelle quali il sé si racconta, mi sento di dire che questo cambiamento non ha avuto luogo, perlomeno non esclusivamente o prioritariamente nella direzione dettata dal conflitto. La guerra non si inscrive soltanto o soprattutto nella personalità dei soldati. Gli stessi soldati, in massa, compiono lo sforzo costante di inscriverla nero su bianco, inscrivendo al contempo il proprio sé all’interno di essa e caratterizzandolo secondo le qualità che gli erano proprie in tempo di pace. Il soldato non è semplice «strumento di registrazione» dell’esperienza, ma si sforza di ridurla in termini comprensibili, di razionalizzarla, di cambiarla quando è necessario. Se è vero che la guerra annullava la percezione di un contributo personale alle sorti del macroevento, così come il concetto stesso di eroismo individuale (altro argomento di Leed, già sostenuto da Roger Callois)75, è anche vero che nella scrittura il solda73 Leonard Smith (The Embattled Self, Cornell University Press, New York 2007, pp. 20-59) fa notare che i riti di passaggio, anche nella fase liminare, presuppongono una consapevolezza da parte degli iniziati e una loro prevista progressione nella scala sociale, elementi evidentemente non applicabili ai mobilitati. Aggiungo io, i riti di passaggio, più semplicemente, abbisognano di una società, della quale rappresentano tipicamente un elemento celebrativo e rafforzativo, non una sua distruzione o genesi. Si veda Francesco Remotti, Van Gennep, tra etnologia e folklore, introduzione a Arnold Van Gennep, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1981, pp. VII-XXVIII. 74 E.J. Leed, Terra di nessuno, op. cit., p. 52. 75 Roger Callois, Quatre essais de sociologie, Perrin, Paris 1951.

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to era solo e unico padrone, un ruolo che egli non mancherà di far fruttare in termini di difesa dell’io, sia attraverso l’epistolografia che attraverso la diaristica e la memorialistica. In essa egli non si descriverà come eroe, ma come vittima, anche a costo, come vedremo, di deformare la realtà dei fatti. Il protagonista della scrittura in guerra non è nella sua natura un soldato, un prodotto della guerra. Egli è un contadino (o più in generale un civile) in abiti militari, che in ogni sua pratica – a partire da quella della scrittura, ma anche nella socialità che costruisce, nelle feste che rispetta, nella lingua che parla – riafferma la propria appartenenza a un mondo precedente, nell’attesa ansiosa che esso torni ad essere reale.

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La patria prima della guerra Nella «Relazione sull’opinione pubblica delle popolazioni trentine» stilata da Giovanni Pedrotti2 tra il 1914 e il 1915 e consegnata al Comando Supremo dell’esercito italiano, la popolazione trentina viene divisa in due parti: una popolazione cittadina che per gran parte «pensa nazionalmente» e una popolazione rurale divisa tra una maggioranza «rozza, austriacante, clericale» (le cose vanno sempre insieme) e «poche isole di ‘civiltà’»3. L’inchiesta di Pedrotti, socialista e irredentista, che sarebbe in seguito diventato vicepresidente del patronato italiano per i fuoriusciti adriatici e trentini, suscita qualche perplessità soprattutto nell’indicazione dei nuclei di contadini «austriacanti», sui quali, evidentemente, non aveva informazioni comparabili a quelle che possedeva sugli iscritti alla Lega Nazionale – a cui lui stesso apparteneva4. In mancanza d’altro si affidava probabilmente a voci di seconda mano e sicuramente a criteri abbastanza discutibili (l’esistenza di una filiera di immigrazione verso paesi tedeschi viene ad esempio letta abbastanza ingenuamente come segno di favore all’Austria). La relazione clericalismo – sentimento filoaustriaco, così come la netta differenza di posizione politica tra città e campagna, viene con1 Una versione ridotta di questo capitolo è apparsa su «Contemporanea», 3 (2010), pp. 457-486. 2 Renato Monteleone, Un documento inedito: gli appunti di Giovanni Pedrotti sull’opinione pubblica trentina alla vigilia della 1ª guerra mondiale, in «Materiali di Lavoro», 1 (1983), pp. 27-34. 3 La dicotomia è talmente stretta che Pedrotti arriva a scrivere a proposito del distretto di Cavalese: «In Val di Fiemme, non solo i contadini, ma anche gli artigiani dei borghi e le persone civili sono, dal più al meno, austriacanti». G. Pedrotti, op. cit., p. 33. 4 Claudio Ambrosi, Giovanni Pedrotti: un liberale indipendente, in «Archivio trentino di storia contemporanea», 1, 1996, pp. 5-38.

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fermata da Renato Monteleone, che fa notare le vaste e povere aree rurali trentine fossero «un corpo compattamente conservatore, politicamente irrigimentato […] [il] problema nazionale, se nelle città accendeva l’opinione pubblica, in gran parte delle valli e delle campagne cedeva a un diffuso austriacantismo, espresso soprattutto (per influsso clericale, o per abito tradizionale, o persino per un generico sentimento antiborghese) nella forma feudale della fedeltà all’imperatore»5. Cesare Battisti, che non usa volentieri la parola «austriacante» nei confronti dei contadini che rappresentano la quasi totalità del proletariato trentino a cui il partito socialista si rivolgeva, li definisce in ogni caso «devoti al trono e alla spada» e disegna un quadro politico in cui, a un eventuale grido di «Viva la Repubblica» proveniente dall’Italia, la risposta trentina sarebbe potuta essere «il grido di ‘Evviva il Re’ se non quello di ‘Viva Francesco Giuseppe’»6. In altra sede riafferma, come Pedrotti, il legame immancabile tra clericalismo e ignoranza del popolo rurale, aggiungendo però che la vita politica contadina si svolge nel limitatissimo ambito del paese, tra i parroci e i «signorotti»: «La vita vi procede lenta; spesso si riduce a meschine lotte di fazioni personali; i grandi problemi della vita municipale vi rimangono ignoti»7. Al pari, è lecito inferire, di quelli della vita nazionale. Il legame tra clericalismo e sentimento filo-austriaco è tuttavia tutt’altro che lineare. Se infatti è vero che i candidati del Partito Popola5 Renato Monteleone, Il movimento socialista nel Trentino 1894-1914, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 32. In nota a questo passaggio Monteleone definisce «illuminante» la relazione di Pedrotti per cogliere il sentimento nazionale delle campagne, un giudizio che non trovo condivisibile per la natura decisamente ideologica e strumentale dell’inchiesta. Lo stesso Monteleone conclude il capitolo in questione affermando che più che lo spirito patriottico prevaleva nella vita politica trentina «il quietismo e la pigra apoliticità». 6 Cesare Battisti, La fisionomia dei partiti politici nel Trentino, in C. Battisti, Scritti politici, Le Monnier, Firenze 1923, pp. 18-34. 7 Cesare Battisti, Proseguendo, ne «Il popolo», 6 aprile 1901, in Renato Monteleone (a cura di), Cesare Battisti: scritti politici e sociali, La Nuova Italia editrice, Firenze 1966, pp. 92-95. In una lettera aperta a Benito Mussolini (Il Trentino e i trentini, «Avanti!», 14 settembre 1914, ivi, pp. 466-469), la valutazione del sentimento popolare trentino di Battisti appare radicalmente cambiata, probabilmente per cause polemiche più che per una fredda lettura dei fatti. Di fronte all’affermazione di Mussolini secondo cui la guerra italo-austriaca era da escludere perché non aveva senso liberare chi non voleva essere liberato dall’Austria, Battisti risponde piccato che «Dei contadini trentini, ti rispondo che oggi sono indubbiamente più imbevuti di sentimenti italiani di quel che non fossero verso il 1860 i contadini del Veneto e della Lombardia, ritenuti degni, degnissimi di riscatto dagli altri fratelli d’Italia. L’idea nazionale […] ha invaso tutto e tutti».

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re (di alterne simpatie dinastiche, ma impegnati nella lotta per l’autonomia e per l’università italiana a Trento)8 ottenevano risultati plebiscitari nelle campagne9, se è innegabile che il parroco era «il solo consigliere e tramite verso la cultura» e la politica nazionale10, il voto e l’influenza del clero su di esso non provano in sé che si possa parlare di un austriacantesimo patriottico o di un appoggio incondizionato alla dinastia e alle sue scelte11. L’ossequioso rispetto delle indicazioni di voto del parroco dice di più sul rapporto tra il corpo votante e i curati, o sulla distanza del contado trentino dalla politica «nazionale», che sul suo sentimento di appartenenza a una formazione statale12. Il rapporto tra comunità locale e autorità centrale era stato stabilito per il Trentino fin dal 1819, data di emanazione della Regola delle Comuni, e dei loro Capi nel Tirolo e nel Vorarlberg. La Regola appare come un intervento preminentemente restauratore, volto a sopprimere le novità introdotte dal codice napoleonico, dall’amministrazione 8 Ilaria Ganz, La rappresentanza del Tirolo italiano alla camera dei deputati di Vienna 1861-1914, Società di studi trentini di Scienze storiche, Trento 2001. 9 Il Partito Popolare cattolico, nato nel 1905 con decisivo apporto del vescovo Endrici, raccolse, nella prima elezione del parlamento di Vienna a suffragio universale maschile (1907), il 70% dei voti, ottenendo tutti i 7 seggi rurali e concedendo alle altre formazioni politiche solo i seggi di Rovereto (liberali) e Trento (socialisti). Le elezioni parlamentari anticipate del 1911 offrono un quadro del tutto analogo, pur con una minore affluenza alle urne (60%). Paolo Piccoli, Armando Vadagnini, Il movimento cattolico trentino dalle origini alla Resistenza, 1844-1945, Centro di Cultura A. Rosmini, Trento 1989, pp. 11-51; Renato Monteleone, Elezioni politiche nel territorio trentinosudtirolese sotto l’Austria, Centro di cultura dell’Alto Adige, Bolzano 1969. La situazione elettorale non è diversa in Austria, dove il partito cattolico vinse nel 1911 tutti i seggi rurali, con una percentuale di preferenze del 70%. Gavin Lewis. The Peasantry, Rural Change and Conservative Agrarianism: Lower Austria at the Turn of the Century, in «Past & Present», 81 (1978), pp. 119-143. 10 R. Monteleone, Il movimento socialista, op. cit., p. 32. 11 Libro di famiglia Dallepiatte: «Nel Ricreatorio venne tenuto dal Mons. Decano una pubblica istruzione in occasione della nuova deputazione di mandare al parlamento a Vienna, ebbero un bel uditorio, ci fecero conosiere l’importanza di dare il suo voto a persone propriamente cristiani e che voglia proteggere veramente la causa pubblica e buona che specialmente in questi tempi cosi critici e svariati vi sono che primeggia tre partiti, Cattolici, Socialisti e Liberali». 12 Sulla questione si veda Diego Leoni e Camillo Zadra, Classi popolari e questione nazionale al tempo della prima guerra mondiale: spunti di ricerca nell’area trentina, in «Materiali di lavoro», 1 (1983), pp. 5-25. Sebbene non condivida in pieno il giudizio di rappresentatività data dai due autori a liste «di proscrizione» analoghe a quelle di Pedrotti, sono in completo accordo sull’importanza di inserire anche il maggioritario «partito degli indifferenti» nella classica dicotomia irredentisti-austriacanti, in quanto fondamentale per comprendere gli sviluppi (e le continuità) riscontrabili in guerra.

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bavarese (1805-1809) e dal Regno d’Italia (1810-1813). Il provvedimento prevedeva l’annullamento della riduzione dei comuni (da 414 a 213, riuniti in 121 municipi)13 voluta dal Regno per facilitare l’amministrazione macchinosa che era stata propria del precedente dominio austriaco. Il sistema della Regola, direttamente improntato alle strutture dell’era vescovile, prevedeva, fin dal 1815, la restituzione del potere di controllo sociale al clero di paese, con l’attribuzione di compiti di registrazione anagrafica e di concessione di certificati di povertà e di moralità14, necessari per ottenere sussidi e ovviamente ambitissimi in paesi dalla indigenza endemica. Nel complesso si assiste dunque a una sorta di riformismo restauratore, che, mettendo in secondo piano le esigenze di razionalizzazione, compiaceva un bisogno sentito in ogni singolo paese: quello di autoregolarsi, di scegliere autonomamente in campo economico e sociale, sotto la scontata guida del piccolo clero. Al di là delle ripercussioni sulla effettiva produttività o efficienza dell’unità amministrativa minima, decisamente penalizzata, per tutto il secolo decimonono, dalla mancanza di un coordinamento economico che verrà fornito soltanto dalla svolta cooperativistica di fine ottocento, il potere asburgico si presentava al contado come il difensore dell’ordine e di una gerarchia sociale che vedeva al proprio vertice non l’Imperatore, ma il capocomune e il parroco. L’autorità centrale, come fa notare Maria Garbari, non era opprimente, ma si esercitava tramite un clero-burocrate e un controllo costante ma invisibile e marginale della vita comunale. Giuseppe Scarazzini, contadino di Vigo Rendena, classe 1890, arriva ad affermare di aver sentito suonare l’Inno dell’Impero per la prima volta al campo di addestramento militare di Linz, nel 191515. Il sistema rimase in vigore fino al 1918, perché «radicato nelle pregresse esperienze comuni vissute in forme dirette o indirette da trentini e tirolesi. […] I trentini non misero mai in discussione il principio della gestione autonoma dei comuni»16. 13 Maria Garbari, Aspetti politico-istituzionali di una regione di frontiera, in M. Garbari, A. Leonardi (a cura di), Storia del Trentino, op. cit., p. 23. Si veda anche Umberto Corsini, Problemi politico-amministrativi del Trentino nel nesso provinciale tirolese, 1815-1918, in Istituto storico italo germanico, Austria e province italiane 1815-1918. Potere centrale e amministrazioni locali, il Mulino, Bologna 1981, pp. 213-259. 14 M. Garbari, Aspetti politico-amministrativi, op. cit., p. 33. 15 Memoriale di Giuseppe Scarazzini. 16 Si veda Umberto Corsini, Il Trentino nel secolo decimonono, 1796-1848, vol. I, Manfrini, Rovereto 1963, p. 218: «Nel complesso questo ordinamento amministrativo

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Per la maggior parte del contado trentino che si apprestava alla guerra l’orizzonte delle aspettative politiche non superava i limiti del paese. Tali aspettative si appuntavano in massima parte sulla conservazione di una gerarchia sociale cristallizzata e ampiamente approvata, di cui gli Asburgo apparivano dapprima restauratori e poi garanti17.

Dinastia e Patria La guerra ribalta il rapporto tra realtà locale e politica centrale istituito all’inizio dell’Ottocento. Lo Stato, con le sue richieste (prima tra tutte la coscrizione, ma in seguito anche le requisizioni, le limitazioni di movimento, lo stravolgimento del paesaggio e infine l’imposizione del profugato alla popolazione civile), da elemento conservatore si trasforma in elemento radicalmente perturbatore rispetto alla vita di paese. Se per la situazione di pace ci si è dovuti limitare alla sistemazione amministrativa e ai pareri di Battisti e Pedrotti è proprio perché nella scrittura popolare precedente il conflitto la dinastia asburgica e il concetto stesso di patria nazionale spiccano per la loro assenza. Come detto questa sostanziale indifferenza non muta al momento della mobilitazione: Francesco Giuseppe, firmatario del manifesto di mobilitazione, non è direttamente correlato dalla scrittura all’inizio delle ostilità. Anche in autori ferocemente antiaustriaci quali Fusari o Bernardi, che vedono una differenza antropologica tra italiani e «tedeschi» e che vivono la propria esperienza di guerra come una continua lotta con le autorità austriache, l’odio verso la dinastia è praticamente assente, così come l’attribuzione ad essa delle colpe della mobilitazione. In uno dei pochi passi in cui, negli otto quaderni scritti da Daniele Bernardi, si può trovare riferimento all’Imperatore è la constatazione piuttosto delusa che, nel giorno del suo genetliaco, non si sia fatto festa, come era tradizione. […] riscosse allora e per tutto il secolo XIX (nel corso del quale, pur subendo delle riforme, mantenne però sempre la stessa struttura) un notevole consenso da parte delle popolazioni trentine, per la sua semplicità e decentramento». 17 Del lungo corso di tale volontà di autonomia particolaristica è testimone il diario di Sidney Sonnino, quando rende conto di una comunicazione intercorsa con De Gasperi (marzo 1915) in cui il politico trentino avverte che una eventuale annessione all’Italia avrebbe potuto essere accettata dalla popolazione solo se si fosse stati capaci di preservare l’autonomia delle amministrazioni comunali. Umberto Corsini, Il colloquio De Gasperi – Sonnino, Scuole Grafiche Artigianelli, Trento 1975, pp. 103-111.

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Giunse il giorno dell’Imperatore, che in quest’anno passo’ quasi inosservato come se fosse stato un qualunque altro giorno, noi avemmo la differenza che all’albergo ricevemmo la cena cioe’ un gollash e una birra18.

Così Rodolfo Bolner: Oggi è S. Francesco, l’onomastico dell’imperatore e per solennizzarlo ci fanno camminare tutto il giorno senza tregua19.

La ritualità legata alla monarchia non sembra d’altra parte capace di generare alcun afflato patriottico: la celebrazione viene letta solo attraverso la lente del passato e solo nelle caratteristiche che le erano proprie nel tempo di pace: Anniversario dell’ascesa al trono di Franz Josef I°. Mi ricorda la mia diletta scuola, ove ci raccoglievamo per brevi minuti, rifacendo ogni anno la stessa istoria, che ora si è aumentata di una pagina sanguinosa memorabile, e poi folleggiando i miei buoni scolari, chiassando avevano vacanza20.

Quello che i soldati al fronte rimpiangono è il mutamento rispetto al passato che la festa mancata rende manifesto, non il mancato omaggio alla figura di Francesco Giuseppe. Il fatto che esista, anche in autori ferocemente antiaustriaci, un rimpianto e un senso di riprovazione rispetto all’evento non più celebrato prova, a mio parere, che questo non aveva, nemmeno in tempo di pace, un carattere preminentemente patriottico. Giovanni Rinaldi, curiosa figura di storicocontadino, che pure afferma di aver preso parte a incontri irredentisti («Riunione Patriottica»), a cui era interdetto l’accesso a «persone del governo e spie», descrive con approvazione la ricorrenza del compleanno dell’Imperatore – il Buon Vecchio – nell’anno 1906: 18 agosto 1906, natalizio di Sua Maestà l’Imperatore d’Austria Francesco Giuseppe. In tutti i paesi celebrarono la Messa ad un’ora competente ed in Storo, essendovi i militari, hanno avuto una buona colazione la mattina, a pranzo doppia razione più carne con appresso vino, in abbondanza poi il caffé , e tutti alla santa Messa, tutti in grande parata con salve . La sera poi bersaglio alla Bica, poi cena di pasta asciutta con birra e tutto per fare onore al buon Vecchio21.

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Memoria autobiografica di Daniele Bernardi. Memoriale di Rodolfo Bolner. Diario di Giovan Battista Giacomelli, maestro elementare. Diario/zibaldone di Giovanni Rinaldi.

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Ermete Bonapace, dal fronte, racconta il festeggiamento ufficiale dell’anniversario della nascita di Francesco Giuseppe. Dapprima costruisce un’immagine che sembra celebrativa: davanti a una piccola chiesa galiziana i soldati sono passati in rivista dal maggiore: Qui ci sorprese il giorno 18 agosto genetliaco dell’Imperatore. […] vi fu un momento emozionante che non dimenticherò mai. Dato l’attenti «sguardo a destra» il capitano anziano Bazika annunziò al maggiore con voce ferma e cadenzata il numero complessivo di noi 946 uomini. Il maggiore ci passò in rivista e ne rimase certo commosso. Eravamo sull’attenti vestiti ed equipaggiati di nuovo con armi lucide e scorrevoli, sani e ben nutriti e presentavamo davvero un bel colpo d’occhio.

Bonapace, un artista colto e decisamente attento alle questioni nazionali, sa bene che non è in senso patriottico che la scena deve essere letta. Egli dà quasi per scontato che si tratti solo di una manifestazione di facciata. Aggiunge subito dopo: Peccato che la scena sia puramente coreografica. Peccato che la causa che ci muoveva sia stata si poco condivisa22.

Scarsa attenzione nella scrittura, dunque, e scarsissima pulsione celebrativa in occasione delle feste dedicate alla dinastia, da attribuire non a un’ostilità creatasi in guerra e men che meno pregressa, ma a una marginalità che era già propria della vita di paese23. C’è uno specifico avvenimento che permette di confermare e superare questa premessa. Si tratta della morte di Francesco Giuseppe, avvenuta il 21 novembre 1916, e la sua sostituzione al trono da parte di Carlo I. La notizia, per quanto si trovi in più di un diario, non è in tutti o in quanti ci si aspetterebbe. In alcuni casi il passaggio di potere è semplicemente ignorato, al pari di tutte le notizie «politiche» e militari che non fanno presagire un prossimo avvento della pace. La cosa è sorprendente, se si pensa che Francesco Giuseppe sedeva sul trono d’Austria da ben 68 anni e rappresentava, per tutti i coscritti ma anche per la grandissima maggioranza della popolazione austro-ungarica, l’unico regnante di cui fossero stati sudditi. Eppure i riferimenti alla sua morte e al nuovo imperatore si trovano in meno della metà

22

Memoriale di Ermete Bonapace. Cfr. Sergio Benvenuti, Chiesa e potere politico nel Trentino dell’Ottocento, in Lia De Finis (a cura di), Storia del Trentino, op. cit., p. 531. 23

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dei diari e delle memorie analizzate e ancora più rare sono le riflessioni che vadano al di là della semplice constatazione di fatto24. Il passaggio di potere non viene visto come potenzialmente influente sulle sorti della guerra o del soldato: «Nel vortice più scuro dell’immane guerra», fa notare Francesco Laich, la notizia inaspettata della morte del regnante «non arreco né sorpresa né soverchio rimpianto. […] dovemmo giurare fedeltà al nuovo imperatore. E la cerimonia ebbe con ciò termine e non si parlò più di quel fatto, come se nulla fosse accaduto»25. Giovanni Lorenzetti, muratore e arrotino, descrive invece la cerimonia di giuramento a Carlo I senza fare menzione della morte di Francesco Giuseppe, come se l’omaggio formale fosse semplicemente un altro degli atti imposti dalla permanenza al fronte26. Giorgio Bugna, prigioniero in Russia, ancora nel 1917 non sicuro della veridicità dell’informazione, mette bene in evidenza come la notizia della morte del sovrano possa essere letta esclusivamente nelle mutazioni che essa apportava alla ciclicità del calendario rituale del paese. Dopo aver ignorato del tutto di menzionare il momento in cui si è cominciato a parlare della morte di Francesco Giuseppe, se ne ricorda in un giorno che avrebbe dovuto essere festivo: Oggi è San Francesco. Come oggi in altri tempi era festa patriotica perché onomastico dell’Imperatore. Si andava alla messa come veterani indi a colazione a spese del comune. Oggi non ci fu né la messa né la colazione. Si dice che l’imperatore sia morto. In tal caso il 4 Ottobre non sarà più festa27.

In maniera a prima vista sorprendente il più aperto elogio funebre di Francesco Giuseppe viene da un socialista. Falegname e poeta dialettale di Sacco, decisamente e originalmente antimilitarista e «inter-

24 Diario di Battista Chiocchetti: «ai 25 novembre un telegrama anunziò la mortre di Francesco Giuseppe I, vedremo se è vera.» – Diario di Domenico Zeni: «Ai 15/11 si a sentito la nuova di morte del nostro Imperatore Francesco come si dice che è morto ai 9/11» – Angelo Donati: «Questa mattina si trovava al foglio la morte di sua maesta Imperatore Francesco Giuseppe I che spirò il giorno 23.11.1916 e trovatasi anche la sua fotografia e al fianco vi era la fotografia del nuovo Imperatore e di sua moglie». 25 Memoria autobiografica di Francesco Laich. 26 Diario di Giovanni Lorenzetti. 27 Diario di Giorgio Bugna. Si veda anche Giovan Battista Giacomelli, insegnante: «Anniversario dell’ascesa al trono di Franz Josef I°. Mi ricorda la mia diletta scuola, ove ci raccoglievamo per brevi minuti, rifacendo ogni anno la stessa istoria, che ora si è aumentata di una pagina sanguinosa memorabile, e poi folleggiando i miei buoni scolari, chiassando avevano vacanza».

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nazionalista», Giovanni Pederzolli è tuttavia autore di un testo, intitolato «L’imperatore è morto», in cui si uniscono, a creare la figura «mitica» di Francesco Giuseppe, gergo ripreso (in parte probabilmente ricopiato) dai giornali e caratteristiche proprie dell’eroismo cristiano e contadino: Quanti sono morti, nel lungo tempo, della sua avventurosa vita. Lui, fu un uomo. Vide schiudersi le tombe, a tutti coloro, che amava; tutte le sue più belle, speranze, sul disgrazziato figlio, cosi tragicamente, mancato, al trono, naufragarono. Il fratello, la moglie assassinata, da un vigliacco, che non ebbe, orrore, di trafigere il cuore, di quella santa, che fu, l’Imperatrice Elisabetta. […] Tutto passò, nella sua lunga vita, come turbine, e lui vecchio, ma forte, come un ercole, a tutto resistette, impavido28.

Solo sette giorni dopo aver così celebrato l’Imperatore Pederzolli riflette sui vari tipi di amore (tema ripreso dalla canzone e dalla poesia popolare): dopo l’amore per i genitori (il più sublime), quello verso la donna (un microbo che incretinisce) l’autore accenna all’amore di patria29 come alla causa, insieme al malvolere di un Dio spietato e sadico, della guerra che lo ha costretto nell’ospedale da cui scrive; è evidente che, per il socialista Pederzolli, rispetto e mitizzazione della famiglia imperiale non si identificano con amore di quella patria multinazionale di cui essa era sovrana. Un mese dopo la morte di Francesco Giuseppe, Pederzolli scrive un testo – davvero unico per la riflessione diretta sulla guerra e la professione di appartenenza politica– intitolato «Socialismo e guerra». In questo Pederzolli si definisce «povero operaio» (in realtà è un falegname e artigiano rurale), «bruttalmente sfruttato dalla borghesia che come vampiro immondo mi succhia il sangue». Il testo si scaglia con ferocia contro i «potenti» che «ti vorrebbero soffocare nelle loro spire mostruose» e si conclude con: Combattere il capitale. Morto quello, sparira dalla facia della terra, anche la fame, la miseria e quell’odio pazzo, che invade in questo momento tutta l’umanità. Ecco il mio ideale30.

28

Memoriale/diario di Giovanni Pederzolli. «L’amore di Patria, su quello è meglio far punto, s’è visto fin troppo cos’è quest’amore». 30 Memoriale/diario di Giovanni Pederzolli. 29

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Non si tratta di una semplice contraddizione. Dobbiamo presumere che Pederzolli fosse perfettamente in grado di cogliere la discrepanza tra le due posizioni o tra il racconto e la realtà, nel caso questa ci fosse, al tempo, stata. L’«incoerenza» delle posizioni di Pederzolli, se confrontata con il contesto generale della scrittura (la scarsa attenzione verso la dinastia anche in autori fortemente polemici, la mancata menzione del ruolo della famiglia imperiale nelle sorti della guerra e la menzione frequente solo in rapporto alle feste non rispettate), ci dice che, sebbene il contado trentino possa provare ammirazione per la figura di Francesco Giuseppe, nella versione che di lui dava la propaganda giornalistica e nella rielaborazione popolare, questo sentimento non si traduce in fedeltà o volontà di sacrificio, ma solo nella celebrazione di un modello stereotipato che trae fascino dalle sue caratteristiche di «figura tragica»31, perfetta incarnazione di stoicismo di fronte alle avversità, uno dei pilastri portanti dell’etica contadina. Se in Europa i continui rovesci della casata asburgica creavano un’immagine, non del tutto giustificata32, di intrinseca decadenza dell’Impero, di controllo incerto e di endemica instabilità politica33, in virtù di queste stesse avversità dinastiche il contado trentino faceva della figura personale di Francesco Giuseppe una figura potenzialmente positiva. In questo contesto l’estensore del manifesto di mobilitazione può essere presentato in termini favolistici34 e come vittima egli stesso della guer31 Il regno di Francesco Giuseppe, salito al trono durante le sollevazioni del 1848 e morto nel fuoco della guerra mondiale, è costellato di lutti personali. Nella sua lunga vita l’imperatore assistette alla morte del fratello Massimiliano (Imperatore del Messico fucilato dai repubblicani nel 1867), al suicidio dell’unico figlio maschio, Rodolfo (1889), all’assassinio della consorte Elisabetta (1898), e ovviamente, a quello del nipote Francesco Ferdinando (1914). Sul mito di Francesco Giuseppe si veda Andrè Reszler, Le vieil homme et l’empire. Rèflexions sur le mythe de Francois Joseph Ier, in Miklòs Molnàr, Andrè Reszler (a cura di), Le gènie de l’Autriche-Hongrie. Etat, sociétè, culture, Publications de l’Institut Universitaire d’Etudes Europeenes, Geneve 1989, pp. 143-156. 32 Bernard Michel, L’âge d’or de l’Autriche – Hongrie, in AA.VV. 14-18, Mourir pour la patrie, Seuil, Paris 1992, pp. 32-44. Carl E. Schorske, Vienna fin de siécle, Bompiani, Milano 1991, pp. 109-163. 33 Andrè Chéradame, L’Europe et la question d’Autriche au seuil du XX siécle, Plon-Nourrit, Paris 1901. 34 Si vedano i racconti degli attentati a Francesco Giuseppe e alla consorte Elisabetta nel memoriale di Davide Terzi. Il primo, «ebbe molto da lottare contro la sventura […] Fu Coronato in un momento critico come ogn’uno puo considerarlo che durante una guera non è tempo di alegria ma di e specialmente i Cappi degli Stati medesimo gran lavoro e molto da pensare», ma sopportò ogni disgrazia con fede e rassegnazione. La seconda fu il modello perfetto della donna contadina: «fu donna esemprare e molto

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ra35. Ammirazione per la persona o benvolere verso la casata e patriottismo appartengono a due campi semantici del tutto scollegati; per questo Pederzolli può permettersi di attribuire all’amor di patria i disastri della guerra. In secondo luogo «l’incorenza» illumina un «discorso» nel quale sentimento antimilitarista e «lealismo» non si escludono necessariamente, perché trovano un punto di congiunzione nel carattere debole, poco vincolante, dell’ammirazione per l’imperatore, nell’ambito di un valore ben più forte della cultura rurale trentina, che è quello della difesa della tradizione; il rispetto della scansione temporale dei rituali laici, trovata in Bernardi, Bolner e Bugna, al di là delle loro diverse dichiarazioni di simpatia politica, è l’espressione probabilmente più evidente di questo sincretismo. Più che di lealismo si deve parlare, dunque, di un profondo tradizionalismo, che si può supporre accentuato dal contatto con l’evento anti-tradizionale che è la prima guerra mondiale e che può vedere, in alcuni casi, nella figura di Francesco Giuseppe (ma non del suo successore, che viene quasi sempre ignorato poiché non è investito dall’autorità della tradizione) un garante della continuità e nella sua morte un «segno dei tempi»36. Se agli inizi dell’Ottocento il ritorno degli Asburgo poteva significare restaurazione del potere della Chiesa e dell’autodeterminazione di villaggio, nel corso del secolo la ritualità non invasiva dell’impero (festa di genetliaco e di onomastico dell’Imperatore, enunciazione dell’«Inno Popolare»37

caritatevole e percio era amata da tutti i popoli, specialmente dai poveri perche la stessa cercava sempre di aiutargli, in modo particolare Essa fu madre a morossa d’al cuni figli». Chi la uccise (l’antagonista) fu «Lucchini, [Lucheni] quel vile anarchico che ebbe il coraggio di assasinare una donna illustre», e che, conclude Terzi con evidente soddisfazione, «dopo un lungo processo veniva condannato in Svizzera, al duro carcere per tutta la sua vita, con un digiungno alla settimana ed una flagellazione al mese». 35 Memoriale di Davide Terzi: «Ed ora che la Sua età è molto avanzata che avrebbe bisogno di riposo, di pace per quegli pocchi anni che gli rimane ancora da vivere, vi si vuole ancora la morte dei cari. Egli vedeva le tante miserrie che dovevano sucedere colla guera, ma come evitarle?». 36 Memoria autobiografica di Cecilia Rizzi: «Nei giorni 29, 30, 31, Luglio si continuava achiacherare sottovoce fra uomini e donne e si nominava la guerra però non si crede, si dice chè eda lungo che sisente, ma che non è vero finché vive il nostro Imperatore niente guerra». 37 «Serbi Dio l’Austriaco Regno, / Guardi il nostro Imperator! / Nella fe’, che Gli è sostegno, / Regga noi con saggio amor! Difendiamo il serto avito,/ Che gli adorna il regio crin;/ Sempre d’Austria il soglio unito/ Sia d’Asburgo col destin» – F. Timeus, Letture, op. cit., pp. 152-153.

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nelle aule scolastiche, racconti celebrativi e edificanti nei libri di lettura) era diventata essa stessa tradizione contadina, da difendere in quanto parte del quotidiano e non per le sue implicazioni politiche o nazionali. Illuminante è a questo proposito il confronto con la «difesa» e l’indignazione per la modifica al calendario delle festività religiose imposta dalla guerra, che presenta caratteristiche analoghe38. Il fatto che la notizia della morte possa tranquillamente essere ignorata, o letta esclusivamente nelle implicazioni personali e immediate39 testimonia che, anche nella sua veste di garante dello status quo, la fedeltà o l’ammirazione per l’imperatore non era certo uno dei punti di riferimento fondamentali nella cultura di guerra trentina. In terzo luogo la lettura del particolare tipo di «tradizionalismo lealista» che è di Pederzolli ma anche della grandissima maggioranza degli autori contadini porta a concludere che, se la guerra è attribuibile ai potenti, non lo è agli Asburgo. In testi che si interrogano continuamente sull’avvento della pace, che la invocano senza sosta, il cambiamento ai vertici dell’Impero non suscita nessuna riflessione, speranza o timore in rapporto alla durata della guerra. Per approfondire questo tema – chi sono i potenti se non la dinastia imperiale? – occorrerà guardare a quali sono le cause percepite dell’insorgere della guerra, cosa che mi propongo di fare nei capitoli seguenti. L’Austria come formazione statale può essere sostenuta o fortemente avversata, ma rimane, in ogni caso, altro da sé. Quando un anonimo studente scrive sul suo diario che «l’Austria è l’albergo infame di tutta la razza più schifosa e più corrotta del mondo» lo fa non in virtù di una convinzione irredentistica e nemmeno perché aderisca a una visione di patria differente; lo fa esclusivamente perché gli ufficiali «fanno lavorare gli uomini come bestie»40. Quando Giorgio Bugna, filoau38 Le feste passate al fronte sono sempre occasione per un confronto nostalgico tra il presente e il passato. Così la festa dell’Imperatore: «Ora scade 18 Agsoto Festa Nazionale la così detta Festa del’Imperatore per tutti coloro che apartenevano alla Monarchia Austro Ungarica. In Tale riccorenza nei pressi di Leopoli – Galizzia – fu cellebrata una Santa Messa di vero campo, tutti somersi ed avelliti, pensando alle nostre famiglie così lontane». – Memoria autobiografica di Pietro Carraro. 39 Diario di Rodolfo Andreis: «22 – 11 Morte dell’Imperatore Francesco Giuseppe I. Per festeggiare il lutto, un poco di minestra e due cucchiai di pasta; per lavare la gavetta non occorreva acqua! 1-12 Speravamo in un aiuto in boccolica dal morto nostro Imperatore e Sovrano, in 9 giorni sarebbe arrivato a destinazione, ma ci riferirono che colà non era investito di nessun comando e siamo rimasti ancora in dieta». 40 Diario di Anonimo B.

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striaco, scrive che «L’Italia in breve tempo verrà costretta a una pace umiliante e una volta ancora imparerà che col Tedesco non si scherza» è chiaro che non solo lui non si sente «tedesco», ma anche che si sente parte al meglio marginale della «lotta inumana tra i due popoli»41. La formazione nazionale non viene giudicata in base agli ideali di cui si fa o si immagina si faccia portatrice, mentre il lirismo e la mitizzazione che sono a volte riservati agli Asburgo non si estendono alla formazione statale di cui sono a capo. Le cause dell’adesione o dell’avversione nazionale non sono idealizzate o trascendenti, ma contingenti e molto concrete: il maltrattamento, la fame, le assurde esercitazioni sono il motivo per cui il citato Frizzera, e con lui molti altri, sembra non nutrire alcuna simpatia verso l’Austria. Al contempo non emerge dalla memorialistica alcun ripensamento rispetto a una posizione precedente: se l’Austria viene ora odiata questo non viene messo in correlazione con un amore o una stima che, precedenti la guerra, sarebbero stati in essa disillusi o ribaltati: semplicemente, prima del trattamento ricevuto, il problema nazionale non esisteva e quello dell’appartenenza trovava in altri luoghi il proprio fulcro. In nessun altro luogo il carattere debole del legame con l’Austria risalta meglio che nelle già descritte narrazioni della partenza. Se, al momento della mobilitazione europea, secondo Leonard V. Smith l’unica cosa certa «era la sottomissione dell’individuo alla comunità»42, alla volontà collettiva, gli autori trentini sono adamantini e unanimi nel sottolineare che il sentimento è quello di sottomettersi a una volontà altrui, incarnata dagli ufficiali di lingua tedesca, che rappresentava, qualsiasi fosse la posizione politica individuale, un corpo esterno e incapace di creare riconoscimento. Nonostante la sollecitazione della propaganda e dei giornali, nonostante la situazione storica del Trentino, terra contesa tra due stati, nonostante la guerra fosse ampiamente presentata come uno scontro di civiltà e il nemico fosse oggetto di un’intensa demonizzazione «dall’alto», la questione dell’appartenenza nazionale può non essere posta. La scelta tra Austria e Italia non è imprescindibile: in molti scritti l’ar41

Diario di Giorgio Bugna. Un sentimento che, secondo Smith, vicino alle posizioni di Péronne, avrebbe avuto conseguenze fondamentali nella narrazione della guerra: «Particularly after 1918, acceptance of this submission would later become construed as the fatal moment, to prelude to victimization. Assent would lead inexorably to consent later on». L.V. Smith, The embattled self, op. cit., p. 108. 42

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gomento non viene nemmeno toccato, spesso la contrapposizione è piuttosto tra «tedesco» e «italiano» (da intendersi come «austriaco» e «trentino»). Quando le simpatie «nazionali» vengono esplicitate, d’altra parte, è interessante notare che non lo si fa in virtù di un’idealizzazione della patria come alveo e reificazione di valori o per la visione del futuro che la patria potrebbe garantire. La scelta si basa su criteri ben più pragmatici.

La patria alla prova Non siamo ne mascalzoni ne socialisti ma uomini ben pensanti che non si curano di partiti, al’infuori di quello del rimpatrio. – Francesco Matteotti.

C’è un momento nell’odissea di guerra del Trentino che è fondamentale per l’interpretazione del sentimento di appartenenza nazionale dei coscritti. Si tratta dell’incontro dei prigionieri trentini in Russia – in buona parte disertori – con l’autorità militare italiana, quando per la prima volta i coscritti dovettero scegliere se diventare cittadini italiani o se attendere in qualità di prigionieri austroungarici la fine della guerra. Lo zar Nicola II aveva, già dalla fine del 1914, dopo le sanguinose battaglie in Galizia, offerto all’Italia la consegna dei prigionieri «irredenti» sottratti all’esercito austriaco. L’offerta fu respinta, ma riesumata in seguito alla ricusazione della Triplice Alleanza da parte del Regno e il suo coinvolgimento nel conflitto. Il compito di raccogliere gli «irredenti», sparsi per tutta la Russia, e portarli al campo di raccolta di Kirsanov fu affidato alla ambasciata italiana e al consolato di Mosca e, nell’agosto 1916, a una Missione Militare sotto il comando del colonnello Achille Bassignano. Il fine ultimo era quello di convincere i prigionieri a adottare la cittadinanza italiana e a essere trasportati in Italia, ma non, perlomeno ufficialmente, di richiedere l’arruolamento nel campo avverso, pretesa che sarebbe stata contraria alle leggi internazionali e, nel 1915, anche a quelle dell’esercito italiano. Gaetano Bazzani, tenente aggregato alla spedizione nel 1917, che ha raccontato in dettaglio le vicende della Missione Italiana nel libro Soldati Italiani nella Russia in fiamme, non nasconde tuttavia la speranza al tempo nutrita che, se la propaganda austriaca fosse stata efficacemente con-

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trastata, «il risultato sarebbe stato ancora più completo: tutti avrebbero accettato l’invito e chiesto di andare a combattere sul fronte italiano»43. Con l’arrivo della missione di Bassignano l’azione di raccolta dei prigionieri di lingua italiana e di propaganda conobbe un deciso incremento. Bazzani parla di circa 6000 italiani residenti a Kirsanov tra il ‘15 e il ‘16 e di 3000 nel ’1744, ma non è dato sapere quanti di questi volessero effettivamente andare in Italia come cittadini; certo è che il consenso non era unanime e che si verificarono scontri verbali tra fazioni opposte di prigionieri. Il tenente ammette che l’azione propagandistica della Missione non ebbe immediato successo, complice anche il fatto che la proposta era spesso perpetrata da ufficiali russi, incapaci di risvegliare l’«intorpidito sentimento nazionale» degli «irredenti». Dopotutto, scrive: «gli Irredenti erano in maggioranza contadini nati e cresciuti in piccoli paesi, dai quali forse non si erano mai allontanati […] Gente che l’Italia non la aveva conosciuta per quanto gliela avevano dipinta le autorità austriache. Si trattava di uomini abbattuti dalle sofferenze, resi apatici dalle privazioni, nell’impossibilità di comunicare con le loro famiglie, sempre sotto l’incubo di essere controllati dall’Austria […] Si trattava di persone umili, di lenta percezione politica, che pensavano alla sorte dei loro parenti lontani, timorosi di arrecare ad essi danni materiali o rappresaglie»45. Sebbene il giudizio di Bazzani sul sentimento di italianità degli «irredenti» diventi via via sempre più entusiastico, l’affermazione citata, se sfrondata del tono paternalistico, appare applicabile alla maggior parte dei prigionieri a cui era stato proposto il ritorno in Italia. Le reazioni alla proposta di passare all’Italia sono, nella maggior parte dei casi, fredde. Nonostante la diversa dislocazione all’interno della Russia i prigionieri trentini hanno una esperienza largamente analoga: molti di loro, dopo essere transitati per i campi di prigionia, in molti casi in Siberia, accettano con sollievo di unirsi alle compagnie di lavoratori organizzate dall’autorità militare russa per sostituire i contadini mandati al fronte. Se le condizioni dei campi di raccolta erano spesso al limite

43 Gaetano Bazzani, Soldati italiani nella Russia in fiamme, 1915-1920, Tipografia editrice Mutilati e invalidi, Trento 1933, p. 51. 44 Ivi, p. 112. In seguito (p. 170) Bazzani parla di 2500 italiani spostati lungo la Transiberiana: si deve pensare che 500 preferirono restare a Kirsanov o tentare il rientro per proprio conto? 45 Ivi, p. 50.

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della sopportazione fisica e psicologica, le condizioni di lavoro presso famiglie contadine benestanti russe sono in alcuni casi accettabili: per quanto la situazione economica rimanga precaria la maggior parte dei trentini considera la compagnia di lavoro come un miglioramento rispetto alla prigionia, che conferisce un miglior vitto, pochi soldi e, in casi non infrequenti, stretti legami affettivi con la famiglia ospite. La situazione è comunque molto varia ed è proprio su questa che sembra giocarsi la scelta se accettare o meno le proposte italiane. Isidoro Simonetti è prigioniero fin dal settembre 1914. Dopo un inverno «di penitenza» passato in Siberia, trova lavoro come carbonaio, un’occupazione che, nonostante non paghi bene, garantisce un pasto abbondante46. Quando fustà circa la mettà di Lulio [1915] una sera viene il lasistente un capo russo e ci invita tutti nel cortile della cancelleria che a da parlarci; siamo andati tutti, e ci dice in questo modo; dovette sapere che e venuto unn’ordine: che tutti li Italiani di nazionalità Italiana devono consegnarsi al comando alla loro Guarnigione di Atcinsk che di la por veranno condoti in Italia alle loro case; arquanti di noi li abiamo dimandato se siva come prigionieri di guerra o come suditi Italiani; esso ci rispose che non sa nulla ma che quando saremo al comando dal comandante dei prigionieri si averà la spiegazione47.

All’inizio regna l’incertezza. In effetti la notizia arriva tramite ufficiali di campo russi o addirittura, come in questo caso, dal padrone presso cui i prigionieri lavorano: i termini della proposta non sono chiari. Simonetti, nel dubbio, e avendo un lavoro relativamente soddisfacente, decide di restare: Io e alcuni miei conpagni non volevamo partire, siamo andati da questo capo e le abiamo detto che noi carbonari e 6 altri restamo, pure che civenga pagato, il lavoro fatto e che ci paga anche per lavenire48.

Cercando di avvantaggiarsi della situazione precaria dei prigionieri, il padrone rifiuta tuttavia di pagare lo stipendio del mese precedente. È dunque per ragioni del tutto contingenti che Simonetti e i suoi compagni decidono di accettare l’offerta italiana: 46 Memoriale/Diario di Isidoro Simonetti: «Riguardo alla spesa si stava molto bene. Si riceveva Carne e pane bianco zucchero e tèè innabondanza; ma i guadagni sono stati pochi». 47 Ibidem. 48 Ibidem.

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Allora noi ci siamo indispetiti e arabiati e ci siamo decisi di partire asieme deli altri49.

La preoccupazione per la posizione giuridica che seguirà l’unione alla causa italiana è una costante di tutte le testimonianze: la maggior parte dei trentini cerca di difendere il proprio status di prigioniero (uno status sovente attivamente ricercato e creato tramite la diserzione), pur nella volontà di uscire dalla Russia. Fioravante Gottardi ben spiega questo dilemma, che viene oltretutto aggravato dalle illazioni dei prigionieri austriaci e degli ufficiali. Poco dopo un ufficiale ci domanda chi di noi volesse andare al fronte. Certamente senza altre spiegazioni nessuno di noi risponde. Un sergente austriaco, parla però l’italiano, ci dice che è un tranello, che ci promettono di mandarci in Italia, ma che poi ci mettono una divisa da russo e ci manderanno a combattere coi russi. Dunque a chi credere? Non possiamo avere altre informazioni, perciò deliberiamo di andare tutti a lavorare dai contadini50.

Simonetti, arrivato alla guarnigione di Krasnojarsk, chiede quale sarà il suo status una volta rientrato; è la risposta che riceve che lo convince a restare, non considerazioni di ordine nazionale: Là eravamo in 200 uomini noi eravamo in 60 e li altri era la di guarnigione, e la che siamo stati abiamo dimandato sotto che condizioni si và; In Italia e ci dice che andiamo come prigionieri di guerra come qua; Allora ci siamo decisi ancor noi partire per l’Italia51.

L’Italia non aveva alcuna intenzione di accogliere i trentini in qualità di prigionieri; come testimoniato dal tenente Bazzani l’obiettivo finale era quello di trovare nei trentini dei cittadini e, in seguito, dei volontari per il fronte. La menzogna non è, a quanto pare, l’unico metodo di persuasione che Bazzani tralascia di raccontare. Pietro Pompermaier, probabilmente contadino, di Borgo Valsugana, lavora ormai da tre anni presso famiglie russe in una non precisata città lungo il Volga. Nel 1918 gli effetti della rivoluzione raggiungono il villaggio dove lavora («qui la cosa si fa seria») e arriva l’ordine per tutti i prigionieri di presentarsi al comando.

49 50 51

Ibidem. Memoriale di Fioravante Gottardi. Memoriale/Diario di Isidoro Simonetti.

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Passati appena 15 giorni un cappittano Ittalliano vuole che noi andassimo con lui per farci soldatti. Ma non erra quello il nostro scoppo, è noi protestiamo arrabiatisi allora lui armava alcuni soldati e a nome del Re come diceva lui veniva a prenderci A noi non resta che seguirlo52.

Insieme alla paura di vedersi costretti a riprendere le armi una delle preoccupazioni più sentite è quella per i familiari. Iginio Delmarco, racconta la reazione dei propri compagni di prigionia alla fatidica domanda. Il fatto che nessuno abbia intenzione di combattere per l’Italia è dato per scontato. Io sono uscito tra i primi 5-6 poi visto che confabulavano fra gruppi (eravamo circa 78 fra Triestini Trentini Istriani (Dalmati) vedendo questa titubanza dissi: ma venite fuori, si tratta per ora di andare in Italia mica di andare al fronte abbiamo tempo di dire di no, loro risposero il governo Austriaco ci calcola disertori quindi le nostre famiglie possono avere delle punizioni53.

Valentino Maestranzi, che si unisce alla Missione ormai trasformata in un corpo militare volontario (i Battaglioni Neri, vedi sotto) solo nel 1919, è testimone della persistente diffidenza verso il Regno. Egli racconta che nel 1920, nei pressi di Vladivostok, i prigionieri trentini presso le autorità italiane furono divisi in tre categorie. La prima era quella dei neo-volontari, «la più favorita per la misione». La seconda, a cui apparteneva lo stesso Maestranzi, era quella di chi aveva firmato per la cittadinanza, ottenendo la divisa ma non le insegne militari. La terza, quella che più interessa in questa sede dato che ormai da quasi due anni le «terre irredente» erano sotto l’autorità italiana, è quella dei «canarini», così detti per la uniforme gialla che era stata loro imposta: erano di cueli che non credevano ancora che Trento e Trieste, fosero sotto litalia, in piu che vifose cualche strategia, edi non credere di venire rimpatriati, ma prove, edubi, echiachere, chevenivan fatto sul rimpatrio54.

Come vedremo a breve e come dice lo stesso Maestranzi, «avrebero avuto ragione, che ne vedrete come siamo andati afenire, per esere rinpatriati»55. 52 53 54 55

Memoriale di Pietro Pompermaier. Memoria autobiografica di Iginio Delmarco. Memoria autobiografica di Valentino Maestranzi. Ibidem.

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Liberarsi della Russia, soprattutto quando i rivolgimenti rivoluzionari rendono la situazione estremamente incerta, è una priorità, ma che non vale, nella maggior parte dei casi, il sacrificio di tornare in trincea. Anche un libello sfacciatamente propagandistico di Annibale Molignoni, uscito negli anni ’20 sui Trentini prigionieri in Russia, è costretto ad ammettere che il «malinteso» sulle intenzioni italiane era costato molte adesioni56. Mai la proposta innesca riflessioni di carattere nazionale, nelle quali si interroga la propria posizione morale nei confronti della futura patria italiana o di quella austriaca verso cui si sarebbe commesso tradimento. Al momento della scelta passare al campo avverso non è né un tradimento né un atto di coraggio, ma semplicemente un’azione frutto di considerazioni pratiche sulla possibilità di avvicinarsi a casa, sul miglior trattamento che si spera di ottenere, sulle conseguenze che la scelta potrebbe avere sui familiari, sugli obblighi che la presa di posizione impone. Nonostante si cerchi a volte e in seguito, nelle memorie retrospettive, di caratterizzare questa scelta come patriottica, nonostante la contrapposizione con chi aveva scelto di restare porti spesso a una polarizzazione e cristallizzazione delle posizioni, per il contado trentino la patria nazionale, come entità morale da difendere e da sostenere, non esiste. Prima che i ghiacci rendessero inagibile il porto di Arcangelo la Missione riesce a far partire nel 1916 tre scaglioni di uomini. Il percorso previsto per tutti gli scaglioni seguiva la direttrice Arcangelo – Glasgow – Charlebourg – Torino (il terzo battello tuttavia approda a Brest e i trentini finiranno a Milano). Il primo viaggio parte da Kirsanov il 25 agosto 1916, ma, per ragioni che Bazzani non spiega (parla vagamente di inettitudine delle autorità russe e del ritardo della nave inglese che doveva trasportare gli irredenti)57 è costretto a far ritorno 56 «Gli uni chiedevano: ‘chi degli irredenti desiderasse di essere trasportato in Italia’ – gli altri, per disgrazia i più, domandarono a bruciapelo: ‘chi desiderasse andare in Italia a combattere’. Molti di questi poveri prigionieri, stanche per le sofferenze di una lunga prigionia, oppure, se fatti prigionieri di fresco, estenuati dalle fatiche del campo, risposero negativamente alla domanda posta in tali termini». Annibale Molignoni, Trentini prigionieri in Russia, agosto 1915 – settembre 1916, Società editrice internazionale, Torino 1920, p. 48. 57 Antonello Biagini ha ben dimostrato che in realtà le responsabilità erano da attribuirsi a inefficienza italiana. Antonello Biagini, La Missione Militare Italiana in Russia e il rimpatrio dei prigionieri di guerra e degli irredenti trentini (1915-1918), in S. Benvenuti (a cura di), La Prima Guerra Mondiale e il Trentino, op. cit., p. 586.

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a Kirsanov. Lo stesso scaglione (1720 uomini, 40 ufficiali) riparte il 14 settembre e arriva a Torino il 9 ottobre. Il secondo e il terzo scaglione (rispettivamente 1720 e 700 uomini) partono ad inizio novembre e arrivano in Italia rispettivamente il 15 e il 19 novembre. La Missione, nel novembre 1916, tenta di organizzare un altro viaggio seguendo la stessa direttrice, ma, con grande delusione e rabbia degli «irredenti», i ghiacci non permettono la partenza. Prima che l’inverno e le rivoluzioni chiudessero la via del Mare del Nord, furono «rimpatriati» circa 4200 ex prigionieri58. A seguito di due nuovi tentativi falliti (600 prigionieri bloccati a Vologda, 400 a Kirsanov per la requisizione dei vagoni da parte dei soldati russi di ritorno dal fronte) e a causa della Rivoluzione, il maggiore Manera, subentrato a Bassignano alla guida della Missione, decide di modificare il percorso e di tentare il rientro dal porto di Vladivostok, utilizzando come appoggio la concessione italiana in Cina, a Tientsin. Invece di organizzare viaggi collettivi, il cui fallimento aveva determinato grave imbarazzo e forte scoramento nei neoconvertiti irredenti, la Missione decide di formare dei gruppi di 40 persone e di inviarli alla spicciolata lungo la Transiberiana, dotandoli di capi-gruppo e di 30-40 rubli ognuno. Dopo la partenza degli ultimi ex prigionieri, a fine dicembre 1917, la Missione si scioglie e gli ufficiali rimasti sul suolo russo si uniscono al Regio Corpo di spedizione Italiano in Estremo Oriente. Giovanni Zontini redige un diario del tutto privo di qualsiasi riferimento patriottico. La scelta di passare all’Italia viene raccontata con poche parole59: è solo quando constata un migliore trattamento da parte degli ufficiali italiani che usa l’espressione «Madre Italia». Zontini è destinato al primo scaglione di ritorno, quello il cui viaggio, iniziato ad agosto 1916, si arresta a Vologda per ragioni non chiare; ecco come viene descritta la prima partenza: Finalmente il giorno 13 si parte il I° e II° scaglione accompagnati da diversi ufficiali pervenuti dall’Italia. Il treno era tutto ornato di fiori nastri ed un numero stragrande di bandiere della quadruplice specialmente tricolor60. 58 In seguito, nel cantare le lodi del colonnello Bassignano, Bazzani propone la cifra decisamente sproporzionata e contraddittoria di 10000 rientrati nei primi tre anni. Il conto di circa 6000 rimpatriati, ottenuto sommando le cifre fornite dallo stesso Bazzani per ogni viaggio organizzato, mi sembra più attendibile per il periodo tra il 1915 e il 1918. 59 Diario di Giovanni Zontini: «Il giorno 21 giugno ci fecero la domanda di andar in Italia accetando questa il giorno 17 luglio partimmo da Merv». 60 Ibidem.

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Quando, un mese più tardi, il viaggio dello scaglione di Zontini riprende, la scena è radicalmente diversa: Non vedeva un fiocco sul vagone una bandiera non un fiore non un canto non un grido non un evviva tutto morto e per la medesima strada arrivammo ad Arcangelo61.

Zontini utilizza l’espressione «Madre Italia» nello stesso modo in cui Pederzolli si riferiva alla assassinata imperatrice come a «una santa» o a Francesco Giuseppe come a «un ercole»: un’espressione forte ripresa dal gergo che doveva essere corrente nei discorsi ufficiali, ma a cui non corrisponde, nelle parole dell’autore, un significato altrettanto forte. Iginio Delmarco, anch’egli deluso testimone dello sfortunato scorno di Arcangelo, ci dà la descrizione più estesa dell’episodio. Il treno, dice, era «travestito con rami di abete e nastri multicolori e molte altre cianfrusaglie scritte di W. L’Italia ecc.». Le condizioni del viaggio tuttavia non sono buone: le soste sono pochissime, non ci sono gabinetti e molti passeggeri sono afflitti da dissenteria. Alla notizia del forzato ritorno verso Kirsanov c’è incredulità e rabbia62: Il treno che, alla partenza era stato preparato con molto entusiasmo è stato denudato con rabbia dei rami e dei fronzoli da sembrare il treno dei deportati in Siberia. Non parliamo dei viaggiatori tutti con facce scure da funerale, avviliti e indispettiti. Prima che il Console parlasse i reduci hanno inveito contro l’Italia e gli Italiani63.

Dopo le parole del Console Ceccato (trentino egli stesso), tuttavia, che promette una nuova partenza in brevissimo tempo, la situazione si ribalta: Dopo aver parlato con i nostri capigruppo ed un confabulare fra il personale dell’ambasciata rientrati in carrozza il treno è ripartito fra le oviazioni dei reduci, tutti rinfrescati allegri al grido di VIVA L’ITALIA64.

Persino Giuseppe De Manincor, cittadino di Trento, che aveva in61

Ibidem. Memoria autobiografica di Iginio Delmarco: «Immaginarsi imprecazioni di ogni genere Ma è possibile, no sono convinto ‘I è matti! I se pazzi I Triestini, non è possibile – impossibile Se l’è vero me butto zo dal treno purtroppo il convoglio ha invertito». 63 Ibidem. 64 Ibidem. 62

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veito, nel suo diario, contro la «massa ignorante, pecoraia e idiota», che aveva rifiutato l’offerta italiana per paura di far perdere la pensione di guerra ai propri familiari o «perché non ci va il suo ‘paesano’», bolla in maniera criptica l’affare di Arcangelo come «una questione politica» e conclude: «Va bene. Andate tutti a quel paese»65. Queste testimonianze ci parlano di un rapporto molto incostante con la patria-Italia ed evidenziano come alle manifestazioni di patriottismo nazionale, pur spontanee, non corrisponda necessariamente un senso di appartenenza o di riconoscimento. L’entusiasmo urlato e cantato non significa adesione piena a tutte le richieste; i fiori, le coccarde e le bandiere che adornavano i treni non hanno maggiore significato a Kirsanov di quanto non lo avessero avuto al momento della partenza per il fronte. Il neonato spirito patriottico trentino, che le manifestazioni pubbliche (indubbiamente esistenti) mettono in evidenza, dimostra, nella propria facile reversibilità, che l’attaccamento al Regno d’Italia ha cause del tutto concrete e contingenti: l’Italia è sostenuta solo in virtù di quello che può fare per il gruppo trentino. Un gruppo, come dimostra la presenza di capi che trattano con il personale dell’ambasciata o il fatto che la parola italiani viene utilizzata per indicare un «altro» («hanno inveito contro l’Italia e gli Italiani») che è sentito dai trentini come esclusivo: all’Italia non si deve fedeltà al di fuori del patto che prevede accettazione della cittadinanza in cambio del ritorno. Quando la seconda parte di questo patto non viene rispettata, o quando il trattamento non è sentito come equo, è sulle basi di un’altra patria che si organizza la protesta. Gli esempi di patriottismo classicamente inteso si trovano perlopiù in memorie scritte a distanza di tempo ed è in esse evidente lo sforzo di dimostrare che il sentimento era preesistente l’incontro con la Missione Italiana. Ermanno Guarnieri, ad esempio, si trova in seria difficoltà quando, nella memoria patriottica da lui redatta sotto il fascismo, deve spiegare il perché non abbia inizialmente accettato di unirsi alla Missione: Il sentimento di nazionalità mi spingeva a tal passo, ma il pensiero di dover ricominciare la vita di campo, di dover ripassare attraverso un’odissea di dolori e patimenti, fra il continuo fischio delle pallottole e il rombo delle granate, molto più poi sapendo come l’Austria non desisteva dalla più raffinata

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Memoria autobiografica/diario di Giuseppe De Manincor.

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crudeltà e temendo che da questo passo derivasse una seri di vessazioni verso la mia famiglia, rifiutai come fece la maggior parte66.

Guarnieri non spiega perché la seconda volta che gli viene proposto il passaggio egli accetti: probabilmente era venuto a sapere che la cittadinanza non comportava il fronte. Ciò non significa che il contatto con l’Italia non abbia suscitato, in chi lo accettò, un moto generale di approvazione e simpatia e un uso – a volte spropositato – del gergo patriottico. L’esperienza della Missione e del lungo ritorno rappresenta anzi uno dei pochi casi in cui la scrittura popolare indica un mutamento nelle rappresentazioni precedenti in rapporto a un corpo nazionale. Questo nuovo legame, tuttavia, non era in nessun modo basato sulla proposta di valori o su una percepita affinità; la volontà di limitare il proprio coinvolgimento e in un qualche modo di instaurare un rapporto «utilitaristico» con la Missione italiana si mantiene per tutta l’esperienza, nonostante il mutare del gergo e dei giudizi espliciti. Lo stesso Gottardi, che avrebbe rifiutato l’offerta italiana se questa avesse significato combattere per l’Italia, si dice sicuro (e compiaciuto) del fatto che «il tricolore alfine vincerà e splenderà come il sole dopo una tremenda bufera»67. Pompermaier, che pure era stato costretto con le armi a unirsi ai soldati italiani, nonostante quello «non fosse il suo scopo», si dice ben felice di averlo fatto dopo aver scoperto che il trattamento è migliore e che «chi volleva fare il soldatto lo poteva farre echi non lo faceva era lo stesso»68. In generale è possibile osservare che l’iniziale riconoscenza, se presente, si logora con il prolungarsi dell’attesa del rientro, può mutarsi in amara ironia69 o addirittura in aperta ribellione. La fragilità di questo patriottismo sub condicione fu ben compresa dagli ufficiali italiani incaricati di raccogliere le adesioni alla causa italiana. Il primo approccio, per come appare dalle testimonianze, fu

66

Memoria autobiografica di Ermanno Guarnieri. Memoria autobiografica di Fioravante Gottardi. Appena dopo corregge di nuovo il tiro, tornando a considerazioni più pratiche: ha saputo che il suo paese (Cazzano di Brentonico) è sotto il dominio italiano, perciò la scelta di tornare in Italia significa realmente tornare in patria e i suoi familiari non sono a rischio di ritorsioni. 68 Memoriale di Pietro Pompermaier. 69 Diario di Arturo Dellai: «A Mosca il 23 dicembre vine al campo la missione militare italiana e ancora una volta ci promette il ritorno in Italia e sono 4 volte in 2 anni». Al momento della partenza da Mosca per Kirsanov (gennaio 1917) dice di partire «per la nostra Italia», termine di appartenenza che non aveva mai usato in precedenza. 67

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sempre decisamente poco impegnativo per la controparte trentina, cui era offerta la liberazione dal campo di prigionia (dalla fame, dal freddo, dai massacranti turni di lavoro e, dal 1917, dalle incertezze legate alla Rivoluzione), la cittadinanza e un pronto ritorno in «patria». Lo status giuridico degli irredenti rimane tuttavia per lungo tempo incerto. Bazzani non cita il momento in cui gli irredenti si sono ufficialmente trasformati in soldati; certo è che così vengono da lui chiamati da quando si trovano in Cina, come se tutti avessero già accettato di combattere e l’unica scelta riguardasse la dislocazione, sul fronte siberiano o su quello italiano. Gli ex prigionieri (ora detti Distaccamento Irredenti) vengono inquadrati in gruppi di 200 uomini, con a capo ex ufficiali di lingua italiana dell’esercito asburgico. Viene loro fornita una divisa70 e una divisione viene armata di fucili. La vita nel campo di Tientsin è schiettamente militare, con addestramento, marce, sfilate, sanzioni disciplinari. L’idea, che prende forma dopo lo spostamento, è quella di convincere gli «irredenti» a prolungare il proprio soggiorno in Asia, arruolarsi nell’esercito italiano e formare quelli che sarebbero stati chiamati «Battaglioni Neri», un corpo per metà composto da ex prigionieri che avrebbe rappresentato l’Italia nella missione internazionale contro i Bolscevichi. Per facilitare questa scelta, dice Bazzani, evidentemente consapevole delle priorità pratiche e non idealistiche della maggior parte degli irredenti, occorre migliorare le condizioni di vita degli uomini, pulirli e nutrirli, farli «riposare e riflettere». Molti autori esprimono piena soddisfazione per il trattamento ricevuto in Cina e persino un certo orgoglio nel vestire la divisa in occasioni ufficiali. L’autorizzazione alla formazione ufficiale dei Battaglioni Neri arriva alla fine di giugno 1918 (ma, stando alle testimonianze, il nome era già utilizzato fin dalla consegna della divisa)71. Un evviva fragoroso, secondo Bazzani, aveva coperto le parole di Manera che annunciava-

70 Diario di Domenico Dalbosco: «quì dopo qualche tempo, vi fu il Giudizio Universale cioè lo spoglio dei partitanti austriachi da una parte, e Italiani dall’altra e cosi furono divisi. Noi partecip. Italiani abbiamo avuto Vestiti nuovi «Kaki», e i part. austriachi furono rimandati altrove, dove non so». 71 Diario di Arturo Dellai, in data 17 febbraio 1918: «Gli ufficiali italiani ci assicurano che presto siamo messi efetivi nell’esercito italiano. Per ora siamo messi nei battaglioni Neri siamo tuti provenienti dal Trentino A qualcuno del mio gruppo viene dato anche il moschetto […] almeno mangio due pasti al giorno».

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no la possibilità di unirsi ufficialmente all’esercito italiano. Per volontà dell’Alto Comando italiano la decisione dell’arruolamento poteva avvenire solo in congiunzione con la scelta di rimanere in Asia. Nonostante l’entusiasmo raccontato da Bazzani e Manera, nonostante la volontà di presentare gli irredenti come compattamente in attesa della autorizzazione a usare le armi per la patria, il primo deve ammettere che il lavoro di convincimento è «lungo e difficile»: si trattava di «inculcare il dovere di procurare alla Patria la possibilità di effettuare i suoi disegni […] senza volerla piegare a scopi regionalistici o di amor proprio». Il racconto in versi che Giovanni Anderle fa dello stesso discorso di Manera aiuta a meglio spiegare quell’«evviva», così insolito sulle labbra trentine. Dopo aver proposto l’arruolamento Manera avrebbe aggiunto che Quei che tosto saran soldati / Avranno i viveri assai miliorati / E in più due dollari alla cinquina / Di quei della Cina // Se poi in Italia qualcun vien manda / Sara certamente che un aruola / L’unico mezzo per partir sul mare / Non v’è che firmare72.

Manera aveva dunque promesso un migliore trattamento economico e soprattutto la priorità nel prossimo imbarco per l’Italia. La rete «per gli uccellini» scrive Anderle, era «pronta e distesa» e questi vi caddero «a cento a cento»73. Anche con questo incentivo il risultato non è quello sperato. Bazzani parla in tono vago di un giuramento che avrebbe coinvolto 3000 persone, vale a dire 500 in più rispetto alla cifra che egli stesso aveva indicato per i prigionieri spostatisi da Kirsanov a Tientsin. Ammettendo che questi 500 fossero stati recuperati in Siberia tra il febbraio e il giugno, Bazzani ci informa che tra aprile e settembre 1918 partono verso l’Italia, in tre viaggi, 1197 irredenti, che evidentemente non si erano arruolati, visto che l’Esercito italiano permetteva l’arruolamento soltanto a chi avesse accettato di combattere in Siberia74. Sappiamo invece che 84375 (su 2500-3000) furono i soldati che avevano deciso

72

Zibaldone di Giovanni Anderle. Ibidem. 74 Ibidem: «Quei che non vollero farsi soldati / Furon in Italia presto mandati / E noi poveri uccelli presi / Restiam fra i Cinesi». 75 Antonio Mautone, Trentini e Italiani contro l’Armata Rossa, Editrice Temi, Trento 2007. Renzo Francescotti conferma il numero, accennando vagamente ad alcune centinaia che invece si sarebbero battuti al fianco dei bolscevichi. Le testimonianze su 73

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di rimanere in Russia come volontari; il giuramento prestato dagli altri riguardava evidentemente soltanto la cittadinanza. Tale cifra – comprendente sia trentini che giuliani – è, nei confronti dell’enorme numero di italiani presi prigionieri in Russia (circa 30000), irrisoria e non appare significativa nemmeno se messa a confronto con i circa 9000 ex cittadini austriaci che si erano rivolti alla autorità italiana per poter uscire dalla Russia. Evidentemente «spirito regionalistico e amor proprio» avevano avuto la meglio. La lettura del diario di Arturo Dellai, panettiere di Pergine, testimonia la scarsa convinzione e consapevolezza di quegli stessi soldati che avevano prestato giuramento. La natura immediata della trasposizione del ricordo permette di seguire l’evoluzione delle sue aspettative. Preso prigioniero nel settembre 1914, Dellai accetta senza esitazione l’offerta italiana: in Russia ha perso 4 dita del piede per assideramento e ha passato tre anni tra la miniera in cui era costretto a lavorare e l’ospedale; inoltre non teme la confisca dei beni alla propria famiglia da parte delle autorità austriache, perché, dice semplicemente, «la mia non à niente»76. Per anni il suo diario è testimone dell’ansia e della crescente impazienza con cui aspetta la partenza dalla Russia, così come della totale assenza di spirito patriottico dell’autore. Per questo stupisce l’entusiasmo con cui celebra l’avvenuto giuramento (che, come abbiamo visto, significava una permanenza obbligata e indefinita in Asia in qualità di soldato volontario). Finalmente al 9 agosto faccio il giuramento assieme a tutti i perginesi di Pechino. Sono arruolato nel Esercito Italiano e messo nella I compagnia del Corpo italiano di Pechino Spedizione volontari in Estremo Oriente77.

Le entrate successive del diario rivelano che in realtà la sua posizione non è cambiata. Alla notizia dell’arrivo di navi cariche di uomini e materiali dall’Italia (i rinforzi per completare i ranghi dei Battaglioni Neri) Dellai è diviso tra una tragica speranza e un’evidente confusione: Forse è la volta buona che ci riportano in Italia. Ma piu tardi giunge la no-

questa partecipazione sono pochissime e frammentarie (perlopiù si tratta di testimonianze orali raccolte dallo stesso Francescotti negli anni ’70), ma la stima di «alcune centinaia» è sicuramente esagerata. Renzo Francescotti, Talianski. Prigionieri trentini in Russia nella Grande Guerra, Nuovi Sentieri, Bologna 1981, p. 13 e pp. 91-99. 76 Diario di Arturo Dellai. 77 Ibidem.

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tizia che sono ripartite cariche di minerali. Non so piu cosa pensare e non capisco perchè mandano qui in Cina soldati e materiale di guerra78.

Dellai non era stato informato delle implicazioni della sua scelta. Arrivato a Pechino pochi giorni prima del giuramento, non aveva avuto modo di confrontarsi con gli italiani di Tientsin, probabilmente più informati. Altrettanto evidentemente l’atteggiamento degli ufficiali a capo del distaccamento era stato tutt’altro che limpido; le carte non sono scoperte nemmeno quando il battaglione viene mobilitato e mandato in guerra. Il 27 ottobre sono a Karbin di nuovo. I ufficiali ci dicono di tenerci pronti per andare in aiuto dei Russi contro i Bolscevichi Porca miseria di nuovo imbarcati sulla Transiberiana verso la Siberia proprio nei mesi più freddi altro che ritorno in Italia. Mi pare che ci prendono per i [toteni?]79.

Ma la gravità dell’inganno italiano appare evidente quando, giunti a destinazione (Krasnoiarsk), arriva la notizia della firma della pace tra Austria e Italia. In questa occasione (21 novembre 1918) Dellai ci informa che non è il solo ad essere stato raggirato dalle autorità italiane: Ma la rabbia aumenta quando arrivati a K. ci danno la notizia che la guerra tra l’Austria e l’Italia è finita, Trento e Trieste sono passate all’Italia. La notizia porta una delusione a tutti gli italiani per lo più trentini triestini e giuliani Quasi mi pento di aver firmato quel maledetto folio che ci prometteva di arrivare in Italia e mari e monti. L’Italia forse ci à abbandonati non so proprio cosa facciamo qui in Siberia cosi lontani dall’Italia80.

La chimera di un ritorno vicino, immediato dopo un ultimo sforzo, continua ad essere utilizzata dagli ufficiali per sedare gli animi, ma la notizia della pace ha definitivamente compromesso il morale. I Bianchi abbandonano la città, i Rossi, dice Dellai (maggio 1919): «sono da tutte le parti […] e per questo a dir la verità noi italiani siamo anche contenti perché forse è la buona volta che si parte via da qua»81. 78

Ibidem. Ibidem. 80 Ibidem. 81 Quirino Marchesoni, volontario egli stesso, è, nello stile conciso del suo memoriale, ancora più esplicito: «1 – 8 – 18 passato il giuramento come volontario di guerra. (Pero il nostro accordo era contrario di quello che abbiamo passato)». Per una ricostruzione del ritorno dei Battaglioni Neri in patria, forse troppo clemente verso la testimonianza di Bazzani, si veda Marina Rossi, Irredenti giuliani al fronte russo, Del Bianco Editore, Udine 1998, pp. 57-112. 79

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Nei confronti dell’autorità italiana ha avuto luogo l’unico episodio di ribellione che abbia visto coinvolti dei trentini durante tutto l’arco del conflitto. La sollevazione avvenne all’interno del campo di Tientsin, pochi giorni prima della fatidica scelta dell’arruolamento, tra il 10 e il 13 di giugno 191882. L’episodio sembra essere stato generato dall’arresto di un irredento da parte dell’autorità militare italiana. Il tenente Bazzani parla di una dozzina di uomini che avrebbero urlato contro il corpo di guardia e l’ufficiale responsabile dell’arresto. I «pochi sediziosi ebbero il biasimo di tutti gli altri Irredenti del distaccamento». Il Maggiore Manera li avrebbe «epurati», rinchiudendoli in una prigione militare a Pechino. Fioravante Gottardi, che lascia la testimonianza più estesa sull’accaduto, racconta una storia dal tono non meno patriottico ma decisamente diversa. La scintilla fu in effetti un arresto giudicato ingiusto e impedito da alcuni irredenti – probabilmente più di una dozzina: «molti», li definisce Gottardi. Grazie al numero poterono costringere il guardiano della prigione a consegnare le chiavi e l’arrestato fu portato in trionfo, tra fischi di disapprovazione rivolti agli ufficiali italiani. Gottardi parla anche di violenze fisiche nei confronti di alcuni ufficiali, che lo stesso Bazzani avrebbe sedato. Il prigioniero viene riportato in carcere, ma a porte aperte, probabilmente per evitare l’allargarsi della protesta, e le autorità militari richiedono agli irredenti di consegnare volontariamente i rivoltosi. La descrizione dello stato d’animo collettivo tra tale richiesta e la condanna fa pensare che l’episodio riguardasse, direttamente o indirettamente, buona parte del campo: Durante il giorno si vedono di quelli che si affaccendano a girare di qua e di là con fare misterioso, degli altri che si sforzano di apparire calmi, ma che ad onta di ciò si può capire che qualche cosa hanno che li turba. L’allegria dei giorni scorsi è scomparsa. Prima si sentiva cantare, ridere, si vedeva passare innanzi e indietro la gente tutta disinvolta, adesso tutti fanno per conto loro, 82 «10 giugno. Il diario registra oggi un doloroso incidente, inesplicabile per il carattere e la bontà dei nostri uomini, ma causato probabilmente dalle reminiscenze che la Russia bolscevica aveva forse lasciato nell’animo di alcuni illusi. Un soldato del distaccamento comandato per giusti motivi alla prigione oppose rifiuto di obbedienza e, spalleggiato da una dozzina di complici, emise grida minacciose all’indirizzo del corpo di guardia e dell’ufficiale di picchetto, con lo scopo di sottrarre se stesso e i suoi compagni ad ogni forma di disciplina. Il pronto intervento dapprima dello scrivente e poi del Magg. Manera ridusse subito al dovere quei pochi sediziosi, che ebbero il biasimo di tutti gli altri Irredenti del distaccamento» G. Bazzani, Soldati italiani, op. cit., pp. 202-203.

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tutti intuiscono qualche cosa di grave e anche coloro che sono i più sicuri di se stessi non si sentono perfettamente tranquilli83.

Gottardi, come Bazzani, data la volontà giustificativa e l’intento patriottico del suo scritto, pur descrivendo la scena penosa dei diversi battaglioni che, uno per uno, vengono scremati dei rivoltosi, non dice quale sia il vero numero dei condannati. Lo fa al suo posto Fedele Mora: ma il giorno 12 Giugnio un grande sconvolgimento succede fra noi il perche preciso non si sa e il 13 il nostro comandante della B. Missione maggiore Manera per calmare la ribilione fece una scelta dei più rivoluzionari e ne scelie 108 e acompagnati dalle Autorità in aresto84.

Mora, contadino di Bezzecca, si dimostra più credibile di Bazzani quando si tratta di cifre: parlando dell’offerta di unirsi ai Battaglioni Neri fornisce infatti il numero, sostanzialmente esatto, di 800 volontari. Il dato degli arrestati viene peraltro confermato dal falegname Angelo Zeni: Mi ricordo per tutta la mia vita della bruttissima giornata, perche era sucesso fra noi una piccola revoluzione, ieri sera fu selti fra noi 107 revoluzionari che accompagnati da marinai armati furono allontanati da noi non sò però per dove85.

Non un affare di poche ore, come sosteneva Bazzani, ma una situazione di forte tensione che dura due giorni, fino a quando Manera non si trova costretto a prendere la decisione (davvero drastica se si pensa alla cura di cui erano oggetto gli irredenti per ottenere il loro assenso all’aggregazione ai Battaglioni Neri) di arrestare 108 tra i rivoltosi – su 843. Purtroppo non ci è dato sapere quanti, in effetti, approvarono o presero parte alla protesta. Questo episodio, narrato di sfuggita e apparentemente poco importante, rappresenta l’unico caso di aperta ribellione da parte della popolazione trentina durante tutto l’arco del conflitto; l’Austria, che aveva dato motivi ben più concreti di malcontento, non aveva avuto precedenti comparabili. Non si sa nulla di quello che è successo ai rivoltosi: sebbene Bazzani dichiari che sono stati portati in una prigione 83 84 85

Memoriale di Fioravante Gottardi. Memoriale di Fedele Mora. Diario di Angelo Zeni.

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a Pechino e «trasportati in patria dopo il rimpatrio i tutti gli altri irredenti», non esiste, a mia conoscenza, alcuna memoria di questo viaggio di ritorno e nessuna narrazione della prigionia in Cina, diretta o indiretta. Gottardi dice semplicemente che, dopo un processo avvenuto su un’imbarcazione, «vennero condotti al confine della concessione italiana a quello della germanica e furono consegnati nelle mani dei cinesi. Da allora non si sa più niente di positivo sulla loro sorte»86. Quello che si sa per certo è che le autorità italiane utilizzarono, per spiegare l’accaduto agli altri ex prigionieri, l’accusa di bolscevismo: la parola «rivoluzionari», non frequente nella scrittura popolare trentina, appare sia in Zeni che in Mora, segno del fatto che con essa erano stati designati i rivoltosi. Bazzani, come visto, parla direttamente di influenza rivoluzionaria «contratta» in Russia. Albino Gionta, tuttavia, nel confermare la cifra di 108 arrestati, utilizza invece per designarli la parola austriacanti87. È probabile che siano stati utilizzati entrambi gli appellativi, sia tra la truppa che da parte delle autorità. È tuttavia estremamente improbabile che anche uno solo dei due corrispondesse al vero. I trentini che danno un giudizio positivo sulla rivoluzione bolscevica sono pochissimi e tutti i residenti di Tientsin avevano abbandonato volontariamente la Russia rivoluzionaria. L’accusa di austriacantesimo è addirittura assurda, se si pensa che tutti gli ex prigionieri avevano scelto di essere là, avevano avute molteplici occasioni di tornare sui propri passi (primo tra tutti il viaggio autonomo sulla Transiberiana) e, in casi non infrequenti, avevano dovuto difendere la propria scelta davanti agli ex-commilitoni. Parimenti assurda e viziata da una chiara volontà giustificativa, l’affermazione di Gottardi sul fatto che la rivolta fosse espressione di una sorta di fondamentalismo irredentista e pretendesse la rimozione di ufficiali ex austriaci «e altre cose». Le testimonianze, che parlano spesso dell’esasperazione legata all’interminabile attesa, autorizzano a ritenere che la rivolta non avesse nessuna rivendicazione politica o nazionale, ma che fosse scaturita dall’impressione che l’Italia (corpo esterno, nonostante tutto), non stesse tenendo fede alla propria parte del patto, l’unico che contasse per i trentini: la promessa di farli riavvicinare alla vera patria e portarli fuori dalla Russia. Un episodio di insubordinazione, un arresto rite86

Memoriale di Fioravante Gottardi. Memoria autobiografica di Albino Gionta: «Ci fu una sommossa di austriacanti e, la sera del 13, costoro furono separati da noi : 108 i colpevoli». 87

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nuto ingiusto, hanno risvegliato la frustrazione di quella sorta di semiprigionia, esasperata da un accordo i cui termini apparivano di giorno in giorno meno chiari e sostenuta da un senso di solidarietà e di appartenenza che non si appiattiva sulle pretese nazionali italiane.

La patria trentina Battista Chiocchetti per ben tre volte rifiuta l’offerta di trasferirsi a Kirsanov. «In ciò non ci vien spiegatto bene e non ci vedo chiaro», afferma la prima volta; la seconda appare persino più deciso: «non sapendo le conseguenze sto piuttosto 10 anni in siberia, sempre con la speranza di andare un giorno sicuro a casa.» Quando scoppia la Rivoluzione invece le sue certezze sembrano essere scosse: dopo un’ultima esitazione88 Chiocchetti decide di unirsi alla Missione. Quì arrivò lettere da Pietrogrado del console italiano col permesso di andare in italia, assicurandoci che non abbiamo nessuna responsabilità e nissun affare con la guerra, che laggiù sarem liberi, e dopo la guerra anderei liberi e sicuri alle nostre case, e ciò tutto per la bontà di buone persone che vogliono salvare gli ultimi residui della nostra nazione, e non lasciarci morire inutilmente in Siberia. Io e la masima parte dei trentini quì andiamo, ho piena fiducia di non sbagliare, e salvarmi fin che so sano, un altro inverno, ancor qui mi spaventa89.

In questa dichiarazione sono enucleate tutte le caratteristiche dell’adesione trentina alla causa italiana esposte precedentemente: la volontà di limitare il proprio coinvolgimento per non rientrare in una guerra a cui si era faticosamente sfuggiti, il carattere sempre collettivo della scelta di accettare o rifiutare, le condizioni estreme (la paura di un nuovo inverno in Russia, l’incalzare della Rivoluzione) in cui tale scelta era avvenuta. Il caleidoscopio delle esperienze di guerra ha determinato sia un’avvicinamento all’Austria che, quasi esclusivamente tra chi era tornato tramite la Missione, adesione alla causa italiana. Anche nella disomogeneità delle posizioni, tuttavia, appare chiaro che esiste un criterio imprescindibile, rispetto al quale vengono giudicate 88 Diario di Battista Chiocchetti: «Fra giorni partono dei tagliani volontari per l’italia, voleva andare anch’io, sarei ancora in tempo, ma non si sa le condizioni, pare come suditi italiani, e dopo come anderà?». 89 Ibidem.

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le patrie nazionali contrapposte. La «nazione» di Chiocchetti è l’unica entità che è possibile chiamare «patria», intendendo con il termine un luogo fisico e un agglomerato umano a cui, sul piano simbolico, l’individuo conferisce un significato trascendente rispetto alla stessa persona, in quanto entità portatrice di valori comunitari e non contingenti, mentre sul piano pratico rappresenta una meta verso cui dirigere i propri sforzi, in vista di una sua difesa, promozione o restaurazione. Che questa entità, che chiamerò provvisoriamente «patria trentina», sia la variabile indipendente delle riflessioni sull’appartenenza in guerra è facilmente provato. Quando, nel maggio 1915, l’Italia attacca l’Austria, non una sola parola viene spesa per riflettere sul modo in cui il «tradimento» italiano avrebbe gravato sui destini della monarchia o della possibile vittoria. Leggendo il diario di Giovanni Tomasi sembra che l’Italia sia intervenuta per fargli un torto personale; è solo in virtù della nuova distanza che essa interpone tra lo scrivente e la sua famiglia che l’Italia è definita «maledetta»: Il giorno 18 Maggio siamo partiti da Innichen diretti per Trento. Da quel giorno in poi non sò più notizia della mia familia. L’improvisata della maledetta Italia mi tolse la gioia ed il contento. Scopiata la guera coll’Italia le poste non funziona più90.

Le sofferenze che la guerra poteva portare alla popolazione civile di un paese occupato erano ben chiare ai soldati trentini, che avevano assistito alla devastazione della Russia e della Galizia. Ma echo che anche anoi giunge la trista nuova che Litalia adichiarato guera contro di noi, che subito il mio pensiero si ratristo, pensando ai miei cari sapendoli vicini ala zona di guera, et avendo avuto ispirienza dei poveri rifugi della Galizia, che piangendo, li tocava lasciare tutti i suoi beni, che più volte mi piangeva il cuore nel vedere cuesti poveri infilaci, in mezo al strade mentre li venivano destrute le sue vechie case, che dala sua infanzia avevano trascorso la sua vita felici, mentre tutto li veniva calpestrato, e distrutto, nella sua innocenza perchi i en cuel modo mi sembrava di vedere imiei cari91.

Antonio Giovannazzi, nella sua preoccupazione, sempre congiunta, per i figli e l’andamento dei lavori agricoli, non fa distinzione tra truppe austriache, tedesche o italiane:

90 91

Memoriale/Diario di Giovanni Tomasi. Memoria autobiografica di Valentino Maestranzi.

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[…] ogni qual tratto mi fermo a riposare su la panchina del decum, pensando sopra mia famiglia e come verà direti miei figli nei lavori di campagna e sopra tutto se verà lasciati in pace dalle trupe Austriache Germaniche o Italiane92.

Se l’odio verso l’Austria e l’adozione di un gergo patriottico italiano sono più frequenti tra i soldati coinvolti nella Missione Italiana, quasi inesistenti sono negli scritti dei profughi, per i quali la causa del distacco è da attribuirsi all’Italia. Ha in questo caso luogo un’adozione generalizzata del gergo patriottico austriaco. Giuseppina Cattoi, operaia profuga in Boemia, non odia la Russia perché, dopotutto, «La Russia non turba la pace trentina». Non così per l’Italia, che la ha costretta ad abbandonare il proprio paese, Lizzana. Povera Lizzana! In questo frattempo quanti morti per il tuo paesello. […] Crudeli Italiani!!! E che, voi volete redimere la nazione trentina, voi volete portare il progresso nelle nostre terre?! Nò poveri illusi! Se tale era la vostra intenzione siete rimasti dissilusi troppo presto!!! Lo scompiglio, il disordine, la confusione, lo sgombero del nostro paese, la fame e forse cannina, ecco ciò che avete procurato con la vostra guerra, crudeli e cattivi italiani!!! Dico il vero. Mi vergogno essere vostra coetanea nella lingua italiana, mi vergogno altresì essere vicina ai vostri confini!!93

Come il «tedesco» visto dai coscritti, anche l’italiano visto dai profughi può assurgere a simbolo di una differenza antropologica, naturale, nonostante il giudizio sia consapevolmente legato a cause contingenti. L’italiano bello e elegante, per lo più vizioso, perché l’ozio è padre del vizio. E di lavorar an poca voglia. A me non piacque mai – e poi mai, e ora ancora meno perché mi fece viaggiare forzosamente94.

Esemplare anche il caso di Amelia Vivaldelli, contadina di Riva del Garda, che descrive lo sconvolgimento che «il tradimento italiano» aveva determinato a una patria che ha i confini, ristretti e concreti, del suo vissuto. Come nel caso di Tomasi e Cattoi il voltafaccia italiano è un tradimento personale: La nostra campagna bella com’era alla malora. I cavaleri dopo tanto lavoro

92 93 94

Diario di Arturo Giovannazzi. Memoriale di Giuseppina Cattoi. Ibidem.

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che erano gia alla quarta muta gettati a basso a pie d’un olivo. I miei fiori belli com’erano alla siccità. I gatti ed il mio povero pirlo asbandonati per sempre per cagione del tradimento italiano95.

Costretta a salutare la sua «bella vallata», a partire anch’essa per la Boemia96 nel 1915, farà ritorno a Riva solo nel dicembre 1918. In tutto il suo diario Vivaldelli fa un uso compiaciuto del gergo patriottico austriaco, descrivendo per esempio con dati precisi, evidentemente presi dai giornali, lo sforzo dei «nostri bravi Tirolesi» per «rinovare l’aniversario» «del tradimento e della nostra partenza», vale a dire la Strafexpedition del maggio 1916. Ma al momento del ritorno la prospettiva cambia in maniera radicale e non graduale; alla notizia che la guerra è finita e che potrà rientrare, il fatto di essere governati dai «traditori» non ha alcuna importanza: ora, senza contraddizione ma in un curioso mélange di termini patriottici contrapposti, gli italiani sono sì invasori, ma anche fratelli e redentori, a cui lanciare un plauso e un evviva. Furono questi giorni muti assai non si vedevano giornali non lettere nissuna novita del nostro amato trentino invaso dai nostri redentori O fratelli ora Italiani […] Ciao Boemia – Evviva la Boemia / Evviva l’Italia e la liberta97.

A cavallo dei due secoli e per buona parte del Novecento, i folkloristi trentini si sono impegnati a delimitare e descrivere le diverse tradizioni che caratterizzavano paesi anche molto piccoli o tra loro contigui. Un collaboratore della rivista «Pro Cultura», che si firma semplicemente g. o. (quasi sicuramente Gino Onestinghel), distribuisce nel 1905-6 a studenti liceali provenienti dalla Val Sugana un semplice questionario98 nel quale si chiede di indicare i soprannomi con i quali le comunità della Valle si chiamano reciprocamente, un ambito di ricerca decisamente popolare tra i folkloristi alpini del tempo. Onestinghel si dice sicuro che, da una ricerca analoga estesa a tutto il Trentino, sarebbero potute emergere «informazioni curiose sulle virtù, sui vi95

Memoria autobiografica/diario di Amelia Vivaldelli. I cavaleri sono i bachi da

seta. 96 «Qua non si vede monti come i nostri. Tutto pianure composte di prati [É] Vi sono delle alture e per lo più sono coperte da belle selve. Infatti nissuna posizione si potrebbe confrontare colle nostre belle vallate Trentine» - Ibidem. 97 Ibidem. 98 g.o. I soprannomi dei villaggi di Piné, in «Pro Cultura, Rivista bimestrale di Studi Trentini», I (1910), pp. 343-345.

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zi, sulle debolezze o passioni degli abitanti» e si sarebbe potuto rivolgere «uno sguardo nella brutta nostra piaga del campanilismo»99. Prima ancora che il risultato dell’indagine (ogni paese aveva il proprio soprannome, spesso ironico o dispregiativo), interessa notare che le divisioni tra i singoli paesi erano talmente profonde da essere considerate «una piaga». Il lavoro dei folkloristi trentini, che ho avuto modo di leggere per il periodo 1910-1914 nella rubrica «Archivio folclorico» della rivista Pro Cultura e per il periodo 1920-1927 nella rubrica «Archivio Folcloristico» della rivista «Studi trentini»100, mette in incontestabile evidenza come ogni paese trentino costituisse una singolarità, percepita dai suoi abitanti come unica e spesso contrapposta ai propri vicini, caratterizzata da tradizioni, feste, modi di dire, favole e leggende proprie ed originali, fatte salve le ovvie influenze reciproche e i momenti di incontri inter-paesani (fiere e processioni religiose). L’attribuzione di un nome al «diverso» è un passo fondamentale della costruzione identitaria del gruppo che questo nome ha coniato e usa101; nel caso trentino il fiorire di appellativi – confermato da studi successivi a quello di Onestinghel – suggerisce una percezione identitaria legata a un gruppo estremamente ristretto. Il paese si presenta come un corpo impermeabile a infiltrazioni esterne, mantenuto tale da una stretta endogamia102, che dava luogo a forme di difesa attiva e rituale delle donne. Nepomuceno Bolognini, folklorista, afferma che «se qualche giovane bulo si fa ad amoreggiare una ragazza di un paese che non sia il proprio» allora «può essere quasi sicuro, che ritornandosene al suo casolare nel silenzio della notte, verrà salutato da una fitta granuola di sassi, che esperimenteranno la velocità delle sue gambe e la sua buona fortuna. Ed è per questo che difficilmente s’incrociano matrimoni fra paese e paese»103. Tipicamente, attorno alla difesa dell’inviolabilità delle donne da parte dello «straniero» e più in generale della sessualità – tema centrale ad ogni discorso identitario – 99

Ivi, p. 343. Entrambe le raccolte sono conservate al «Museo degli usi e costumi della gente trentina» di S. Michele all’Adige (TN). 101 David D. Gilmore, Some notes on community nicknaming in Spain, «Man», 17 (1984), n. 4, pp. 686-700. 102 AA.VV., La guerra di Volano, Ed. La Grafica, Trento 1982, pp. 38-48. 103 Nepomuceno Bolognini, Usi e costumi del Trentino, Forni editore, Rovereto 1882, p. 22. La pratica della «sassaiola» è attestata come comune in Trentino fino agli anni ’60 del novecento. Jaro Stacul, The bounded field. Localism and local identity in an Italian alpine valley, Berghahn Books, New York 2003, p. 99. 100

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patriottico, come è stato mostrato da Alberto Mario Banti per il Risorgimento italiano104 e da George Mosse per il nazionalismo europeo105 – si cementavano i legami tra pari maschi e il nesso tra la comunità maschile e il microterritorio, generatore pressoché unico di identità e vero polo del riconoscimento reciproco. La «piaga del campanilismo» (per quanto la definizione sia senz’altro esagerata) portava a scontri fisici, sanzioni contro i membri della comunità che non si adeguavano, vendette e controvendette, attribuzione di nomi collettivi. Per quanto riguarda i rapporti della microcomunità con l’esterno Bolognini è esplicito: «per forestiero o foresto essi intendono chiunque non sia del proprio paese o vallata, mentre que’ di altra nazione indicano col nome di stranieri»106. È il 1° ottobre 1889 quando Pellegrino Weiss, contadino di Vigo di Fassa, deve lasciare il proprio paese per adempiere al servizio militare (a consegnarsi «in mano delle fiere»). Il distacco definitivo è individuato nei quattro chilometri che dividono S. Giovanni di Fassa da Soraga. In questo modo – cantando – Weiss saluta la propria valle, che è al contempo patria, mondo e famiglia: E la siam partitti cantando per lultim˙ siam spariti dalla patria, e la dalla Pilata o detto lultimo adio a mio ˙ con una fissa di destra, e poi siam spariti in fuga, e in breve siano arivati a Soraga107.

La sua destinazione non è una regione alloglotta, non è né l’Austria né l’Ungheria, ma Riva del Garda, nel sud del Trentino. È lecito aspettarsi che un evento quale il primo conflitto mondiale, con l’estrema tensione alla quale sottoponeva i legami di un paese fisicamente smembrato, abbia apportato modifiche sostanziali a un sentimento di appartenenza sostanzialmente microlocale. Questo è in parte vero: situazioni particolari – ad esempio l’isolamento linguistico o comunicativo determinato dall’accorpamento in battaglioni mistilingui – hanno portato a un evidente, ma limitato e occasionale, ampliamento dello spettro di inclusione del meccanismo identitario. Tuttavia 104 Alberto M. Banti, L’onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVII secolo alla Grande Guerra, Einaudi, Torino 2005. 105 George Mosse, Nationalism and sexuality: middle class morality and sexual norms in modern Europe, Howard Fertig, New York 1985 (trad. it. di A. Zori, Sessualità e nazionalismo: mentalità borghese e rispettabilità, Laterza, Roma-Bari 1984); Sandro Bellassai, La mascolinità contemporanea, Carocci, Roma 2004, pp. 54-74. 106 N. Bolognini, Usi e costumi, op. cit., p. 298. 107 Memoriale di Pellegrino Weiss.

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il paese di nascita (in una regione nel quale solo il 21% della popolazione viveva in centri di più di 2000 abitanti108 e le uniche città, Trento e Rovereto, contavano rispettivamente 16000 e 11000 anime)109 sembra rimanere l’unica entità ideale e reale110 che tutti i trentini possono legittimamente chiamare «patria»111 nelle proprie scritture. Questo è particolarmente evidente se si va ad analizzare l’utilizzo di alcune parole chiave, prima tra tutte la parola «patrioti». Termine estraneo all’uso quotidiano in ambito contadino, essa viene ripresa probabilmente dalla propaganda e dai discorsi degli ufficiali o giornalistici, ma con un utilizzo singolare: con esso si indicano generalmente i compaesani, più raramente i convalligiani. Sincero Brugnara, nonostante dichiari di essere partito «per amore ed ubbidire a sua Maestà», poche righe sotto afferma mentre è al campo di addestramento di Bressanone: Poi stetti per ben 12 giorni assieme con molti dei miei patrioti, che bevendo, e burlando, ma! Anche piangendo i dolori che dovevanno soffrire le nostre povere famiglie112.

Sempre da Bressanone sta partendo l’anonimo estensore di questo passaggio: Siamo alla stazione. È le 6 1/2. Dobiamo montare. Desiguale la banda suonava: ma il suo tonno a me era tetro. Alla stazione vidi un mio patrioto, cioè Giuseppe Fabbro. Non potè nemmeno salutarlo113. 108 Ottone Brentari, Guida del Trentino, Vol. I, Tipografia Sante Pozzato, Bassano 1891, p. 21. 109 Dato del 1910. Attilio Baldan, Note di storia sociale sulla Trento di Cesare Battisti (1900-1914), in Atti del convegno di studi su Cesare Battisti, Trento, 25 – 26 – 27 marzo 1977, La Nuova Italia, Trento 1979, p. 98. 110 Anche Paolo Bari, che ha lavorato su materiale in buona parte analogo a quello utilizzato in questo capitolo, arriva a conclusioni non dissimili: «Quando un soldato trentino deve parlare della sua patria, il riferimento obbligato è per il paese, per la valle, per il suo microcosmo». – Paolo Bari, La patria e il nemico per i soldati trentini nella I Guerra Mondiale, «Bollettino del Museo Trentino del Risorgimento», 1 (1991). 111 Se con patria si intende «il luogo fisico dove l’ambiente e il paesaggio svolgono una funzione primaria di protezione e rassicurazione esistenziale, e dove una cultura non semplicemente verbale produce affinità, consonanze, parentele ideali e morali; non solo, [la patria] è anche un luogo principe dell’immaginario, dove simboli e miti garantiscono quell’autorappresentazione senza la quale nessun gruppo sociale è in grado di vivere e di sopravvivere» Silvio Lanaro, Patria. Circumnavigazione di un’idea controversa, Marsilio, Venezia 1996, p. 15. 112 Memoriale di Sincero Brugnara. 113 Diario di Anonimo B. Si vedano anche Rodolfo Bolner, che, nonostante la sua

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La conoscenza del nome, in mancanza di un contatto diretto tra i due, non lascia dubbi sul fatto che per compatriota si intenda compaesano, o perlomeno un individuo appartenente a un’area geografica limitata, un luogo reso significativo dalla rete sociale che in esso riposa114. Uno sguardo alle modalità narrative con cui gli autori scelgono di rendere conto delle relazioni intrattenute al fronte fornisce alcuni indizi sulla persistenza del criterio identitario con base microterritoriale. Il principale modo di rendere conto delle relazioni instauratesi al fronte è quello di porre in un elenco, senza nessuna caratterizzazione personale o esplicitazione dei rapporti particolari che legano lo scrivente ad ogni elencato, i propri amici, i propri «colleghi», i propri compagni. Attraverso tali elenchi è possibile desumere da dove venissero le persone che l’autore ritiene importanti nella sua esperienza di trincea. La modalità ad elenco, frequentissima nelle note di campo prese nell’immediato, permane nelle memorie autobiografiche scritte a distanza di tempo. Così Pietro Carraro, contadino di Strigno, prigioniero in Ucraina, nel suo scritto retrospettivo: Costì ho inteso che in quelle viccinanze cerra un altro concentramento di priggionieri. Per la smania di trovare dei Trentini mi sono spostato clandestinamente. Per curiosità costì trovai hi seguenti valsuganoti. Scrivo i loro nomi. Di Spera: Purin Vendelino. Di Samone: Giampiccola Roberto, Rinaldi Erminio, Rinaldi Isacco, Zadra Raffaele115.

E poche righe sotto: Ci amavino come fratelli […] Faccio i nomi di questi miei colleghi: Piazzi Michele detto Dora di Predazzo; Fronza Luigi, insegnante Matterello; Nemicek Luigi, facchino di Trento, Steffani Steffano dei Cainari di Tesino116.

cultura e la sua proprietà lessicale (è maestro elementare) usa la parola «patriotti» per indicare i compaesani, e Celeste Paoli, che in una lettera ai genitori scrive «ieri ho trovato alcuni paesani e sono questi Braito, Loren, Carlo dorich, quel dal ricolata quel da Lisi che anche questa sera siamo qua a pasare un ora assieme mi godo molto a poter discorrere con un patriòta». 114 L’uso è proprio anche dei civili. Si veda il diario di Cecilia Pizzini: «Giorni fà e giunta lettera a Lucia Beltrami da suo figlio Germano, che fu sempre a fare il fachino alle stazioni o nettare strade fuori per la Galizia; che vuol sapere notizie dei suoi patrioti che girò tanto per la Galizia e non fu mai capace di vederne uno». 115 Memoria autobiografica di Pietro Carraro. 116 Ibidem.

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Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Da questi elenchi, all’apparenza poco comunicativi, è tuttavia possibile trarre qualche dato importante. In primo luogo è evidente che la parola «compagni» ha un significato ben preciso: gli elenchi sono composti quasi esclusivamente da chi proveniva dal Trentino. In secondo luogo trova conferma la pregnanza del paese nell’attribuzione identitaria, seguito dalla valle. Se appare ovvio che si citino di preferenza coloro i quali vengono dallo stesso villaggio dello scrivente e prevedibile che si nomini chi proveniva dalla stessa valle, con il quale lo scrivente poteva avere contatti precedenti, diretti o indiretti, meno ovvio è il fatto che ogni volta che si nomina un Trentino, inevitabilmente, il nome sia accompagnato dal paese di provenienza117. Se dunque la provenienza regionale determina un riconoscimento reciproco – la condizione minima della creazione di rapporti al fronte – ciò non implica l’immedesimazione totale generata dalla comune provenienza microlocale. L’ossessività con cui la provenienza accompagna i nomi propri – non solo negli elenchi, ma ogni volta che nella narrazione si inserisce un trentino – deve far pensare che, anche in guerra, l’attribuzione identitaria legata al microluogo mantenga intatta la sua significatività: chi non proveniva dallo stesso villaggio o frazione rimaneva, dopotutto, «un foresto», la cui diversità, pur nella «fratellanza», andava rimarcata118. Sebastiano Leonardi ordina i propri commilitoni a seconda del grado di vicinanza. L’esclusività del rapporto tra compaesani gli appare naturale: Eravamo in circa quattrocento tutti trentini, tutti convalligiani. Eravamo circa venti tutti conoscenti dei circonvicini paesi. Di Preore eravamo io, Ernesto e Vitale. Come è naturale siamo andati tutti e venti in un medesimo vagone119.

In fondo al proprio memoriale Leonardi sceglie di includere un Elenco dei commilitoni e dei paesani citati in cui trovano posto soltan117 Un esempio tra i tanti, dalla memoria autobiografica di Albino Pontara: «Degli italiani miei conoscenti ricordo Fasanelli Vittorio Pomarolo, Appolonio Annibale Cortina d’Ampezzo, Solvetti Avio, Bertoldi Rovereto, Bronzini Egidio Fiave, Pedretti Fiave, De Marchi Primiero, Dalzi. Seguiron tre mesi di fatiche di maltrattamenti, avvilimenti da parte dei compagni e officiali tedeschi». 118 Per un interessante confronto sul mantenimento dell’identità locale e sul rafforzarsi dell’identità regionale in guerra si veda Helen B. McCartney, Citizen Soldiers. The Liverpool Territorials in the First World War, Cambridge University Press, Cambridge 2005, pp. 57-88. 119 Memoriale di Sebastiano Leonardi.

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to soldati di Preore e dintorni e un elenco dei «Caduti e dispersi di Ragoli, di Montagne e di Preore». Stessa esclusività nelle parole di Albino Soratroi che, dislocato sul fronte dolomitico, non si è mai mosso dal Trentino e ha mantenuto intatte le linee identitarie proprie del mondo civile: Speravo di trovare fra questi qualche giovane compaesano, ma rimasi deluso: due provenivano da Colle S. Lucia e due erano oriundi della Val Badia120.

La suddivisione dei Trentini secondo la frazione di provenienza è particolarmente evidente quando essi confluiscono nell’esercito italiano in Russia. Sebbene buona parte dei prigionieri di Kirsanov, in attesa della partenza, abbia ormai accettato la cittadinanza italiana, la socialità continua a esercitarsi nei limiti del paese o della valle di provenienza. Delmarco (originario della Val di Fiemme) lo dà per scontato: «Avevamo formato due gruppetti di prigionieri naturalmente il mio era composto in massima parte di Fiamazzi»121. La prospettiva di riunirsi ai propri compaesani giocò un ruolo non indifferente nella scelta di aderire all’offerta italiana122. Senza dubbio questo è il caso di Riccardo Bridi. L’entusiasmo che egli descrive in rapporto al suo arrivo a Kirsanov non è certo dovuto al sentimento nazionale, né alla possibilità di riunirsi ai quasi 4000 italiani là stanziati nel 1916. La sua gioia è solo legata al paese natale di Mattarello: a Kisanoff la cera il concentramento delli Italiani e o trovato 22 da Matarello non si puo gredere quanto sodisfato che era vedendo tutti i miei paesani che non o mai visti sempro sta solo da Matarello e o trovatto tutti i miei amici di prigionia, mi pareva che fuse un altro mondo, e la si poteva andare a pasegio per citta e si andava tutti i giorni a trovarsi123. 120

Memoria autobiografica di Albino Soratroi. Memoria autobiografica di Iginio Delmarco. 122 Inversamente la presenza di un circolo di socialità preesistente ed esterno alla Missione può ritardare o impedire l’adesione. Così Alberto Barberi: «col passare dei giorni molti aderirono io non aderii perche trovai nel concentramento un mio cugino Azzolini Alfonso che anche lui non aderì per il motivo che lavorava nella Manifattura Tabacchi di Sacco e diceva che se vincesse l’Austria addio posto ed io sarei stato propenso aderire ma per la compagnia del cugino non lo feci eravammo meglio che fratelli però io ero sempre convinto che l’italia non avesse bisogno di quel misero aiuto». 123 Memoriale di Riccardo Bridi. Memoriale/Zibaldone di Fedele Mora: «In questa ugnione di Italiani, ebbi la grazia di trovare i primi conosenti dei i miei dintorini, che fino dai primi di Settembre non potei mai parlare, ne con un amico ne conoscente, some se fosse statto solo al mondo». 121

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Alla luce di quanto detto, apparirà chiaro di che patria stia parlando Alfonso Cazzolli nel ricordare la morte di un compaesano: ora siamo qua circa 2000 Italiani e si attende il trasporto per l’Italia, da Tione si troviamo: io […] [segue l’elenco di 14 Tionesi]. Il giorno 22 agosto 1917 verso le 12 nel nostro ospitale It. Irr. Kirsanoff cessava di vivere il nostro amico e compaesano Marco Battocchi detto granello, sotto le cure del Dottor Menestrina di Trento, noi Tienesi ne siamo restati molto addolorati alla perdita del nostro compaesano e amico, lontano dalla Patria124.

La generale esclusione degli altri soldati di lingua italiana da questi elenchi è particolarmente significativa: essa ci dice che il paradigma identitario trentino non si basa sulla comunanza di lingua né sulla comunanza dello status sociale creato dalla guerra. Come nel caso degli italiani del Regno la lingua comune fallisce nel creare riconoscimento reciproco125 perché ad essa manca un elemento centrale al concetto di «patria» contadino, vale a dire la sua «concretezza», il suo essere basata su esperienze comuni e analoghe di un luogo ben preciso. La patria trentina appare dunque in guerra come un concetto flessibile, ma con limiti estremamente rigidi di estensione massima. Il luogo delle esperienze vissute e delle relazioni effettivamente esistenti è l’unità fondamentale della patria contadina, la pietra di paragone rispetto a cui, a seconda delle situazioni, si operano riduzioni o ampliamenti di inclusività. Giuseppe Scarazzini, dopo aver affermato di essere stato inserito in una compagnia che comprendeva 240 trentini, dice non di meno che «Io a vedermi solo senza conosenti ero come persso e malcontento»126. Francesco Guadagnini di Predazzo dice di essere stato aggregato a una compagnia «di soli italiani» («di soli trentini»), ma poche righe sotto afferma: «Di patrioti sono solo»127. Dopo un anno, a metà del 1916, parla invece di un incontro con un «compatriota trentino». Nella descrizione degli effetti di un bombardamento, avvenuto poco dopo (manca la data), Guadagnini si preoccupa di fare invece una distinzione: furono feriti «due fratelli e due altri compagni». In tutta la sua memoria autobiografica, evidentemente basata su 124

Diario di Alfonso Cazzolli. Si veda il memoriale di Daniele Bernardi, dove i triestini sono messi sullo stesso piano di tutte le altre nazionalità alloglotte dell’Impero: «Di trentini rimasi così solo fra triestini, Istriani, sloveni e croati». 126 Memoriale di Giuseppe Scarazzini. 127 Memoria autobiografica di Francesco Guadagnini. 125

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note di campo e scritta nei primi mesi del 1919, non si trova traccia di simpatia (o antipatia) per l’Italia, che non viene nominata nemmeno quando l’autore racconta del proprio ritorno, in un Trentino ormai annesso al Regno: Finalmente nel mattino del giorno 27 novembre, fiducioso di non aver ucciso alcuno dei miei simili, alle ore sei pongo il piede sul patrio suolo […] su quella patria che ci vide anni addietro partire per i fronti della guerra, in terre sconosciute, in mezzo al frastuono delle armi bellicose, a spargere il sangue per una patria straniera, mentre la nostra fu abbandonata a truppe di altra lingua128.

È ovvio che quest’ultima patria, abbandonata alle truppe austroungariche che tenevano il fronte dolomitico, è il Trentino, nel suo complesso – vale a dire una entità più ampia e meno definita nei dettagli di quanto non indichi la parola «compaesani» – ma anche che è il ritorno che ristabilisce la normalità, non l’annessione all’Italia. Eric Wolf ha definito «selettive» le pressioni ecosistemiche che interessano il mondo contadino: l’importanza estrema delle risorse naturali e dell’accesso diseguale ad esse fa sì, secondo l’antropologo, che le conseguenze delle «pressioni» siano distribuite in maniera asimmetrica tra le comunità contadine, producendo un effetto «differenziato e differenziante»129 anche su gruppi umani geograficamente vicinissimi. La guerra di massa, fattore esterno ma non selettivo, stravolge questa regola: colpendo tutte le famiglie del Trentino rurale pressoché alla stessa maniera essa è passibile di ottenere un effetto – parzialmente e temporaneamente – omogeneizzante su un milieu contadino tradizionalmente percepito come frammentato in unità paesane e familiari irriducibili. È la guerra che impone una occasionale130 estensione del concetto di patria all’intero Trentino: l’isolamento «etnico» a cui i soldati trentini furono spesso sottoposti fa sì che, forzatamente, essi abbiano dovuto cercare il riconoscimento in caratteristiche, quali la comune provenienza regionale, che prima della guerra sarebbero state molto probabilmente poco significative. 128

Ibidem. Eric R. Wolf, Peasants, Prentice Hall, Englewood Cliffs 1966, pp. 77-80. 130 Paolo Bari è su questo punto più perentorio: «Se la dimensione nazionale è scarsamente presente nei pensieri e quindi negli scritti dei Trentini, a parte l’esplicita affermazione di italianità di alcuni di loro, bisogna osservare come, passando ad un ambito geograficamente più ristretto come quello regionale o provinciale, la situazione non subisca profonde modificazioni» – P. Bari, La patria e il nemico, cit. 129

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Questo non significa, lo abbiamo visto nel caso di Cazzolli, Bridi e Delmarco, che il processo di identificazione cambi nella propria natura o in maniera definitiva: nei grandi raggruppamenti di trentini creatisi in prigionia (o, per i civili, nei campi profughi, in cui le comunità di paese venivano riprodotte nei particolari)131, le forme della socialità e dell’attribuzione identitaria tornano nei confini consueti. L’identità che soggiace a questo sentimento patriottico, nella sua mancanza di teorizzazione, di rivendicazioni pratiche e di esternazione celebrativa esplicita, è una «identità esperita», vale a dire una identità «che scaturisce da un contesto pratico. Si tratta di un ‘sentire implicito’ di una sensazione di appartenenza comune sulla quale non c’è bisogno di riflettere in maniera cosciente e che non deve essere definita nella quotidianità»132. In mancanza di celebrazioni pubbliche e di una volontà di promozione e imposizione valoriale, in mancanza, soprattutto, di miti fondatori, di qualsiasi etica guerriera e di qualsiasi rivendicazione morale o territoriale la patria trentina si configura come una dicotomia difficilmente districabile tra, da una parte, reti relazionali, abiti comportamentali, gerarchia sociale, quello che potremmo riassumere con il concetto di una tradizione basata sulla pratica e sull’esperienza e, dall’altra, un luogo fisico geograficamente ristretto e conosciuto nei suoi dettagli, simboleggiato tipicamente dall’immagine paesaggistica dei monti o dei campi. Una patria così definita non richiede ai propri componenti altra azione che non sia quella del ritorno; essa non va creata, riunita territorialmente, promossa o imposta su altre patrie: poiché essa fa parte dell’ordine naturale delle cose, ai «patrioti di paese» si richiede soltanto di preservare questo ordine contro la forza disgregatrice che è portata complessivamente dalla guerra e, all’occasione, dalle stesse formazioni nazionali che si

131 Diego Leoni e Camillo Zadra, La città di legno. Profughi trentini in Austria, 1915-1918, Editrice Temi, Trento 1995, pp. 61-101. 132 Ugo Fabietti, L’identità etnica, Carocci, Roma 1998, pp. 139-143. Nonostante la situazione storica, che appare particolarmente favorevole all’insorgere di una forte affermazione identitaria o a una cristallizzazione dei caratteri esistenti, più difficile da cogliere tramite la scrittura popolare l’identità «esternata» del gruppo trentino, quella che, nelle parole di Fabietti: «seleziona solo determinati tratti dell’identità esperita, in particolare quei tratti che, […], sono significativi in quanto rispondono a situazioni di natura oppositiva e contrastiva», a scopo di affermazione di contro a una identità imposta dall’esterno. Di certo un elemento fondamentale di questa esternazione fu il cibo, simbolo di riconoscimento e di differenza rispetto agli altri soldati, ma la scrittura popolare è muta sugli altri tratti.

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contendono la fedeltà trentina. È naturale conseguenza che una patria di tal fatta non possa essere utilizzata per donare significato all’esperienza del conflitto. Per sostenere la tesi del patriottismo difensivo, Audoin-Rouzeau fa notare che per il contadino francese (70% della fanteria d’oltralpe era di provenienza rurale) la difesa del suolo non è un’astrazione, ma un interesse concreto e molto sentito, anche quando i soldati si trovano lontano dai confini nazionali, come nel caso delle truppe coloniali133. Questo è certamente vero anche per i trentini, ma il suolo non è sufficiente a costituire una motivazione significativa al proprio coinvolgimento; il suolo perde ogni significato «patriottico» quando è spogliato della comunità specifica, ristretta ed estremamente coesa che lo abita. La difesa perde ogni urgenza se quello che si difende non è un insieme di tradizioni in cui ogni «compaesano» possa prendere il posto che gli spetta di diritto, quello stesso posto che la guerra gli aveva sottratto. D’altra parte la scarsa pregnanza della propaganda austriaca e la particolare situazione dell’Impero multietnico e del legame esclusivamente dinastico che lo teneva insieme non permettono che avvenga quella naturale associazione tra patria e guerra che, secondo Giuliano Procacci, ha caratterizzato le masse rurali italiane134: è vero esattamente il contrario. Il patriottismo trentino è un patriottismo, mi si passi il termine, «pacifista», non in senso ideologico o morale, ma nel senso che ha bisogno della pace per essere espletato: la guerra, la difesa armata in terre lontane è di per sé negazione e minaccia alla vera patria (unione di suolo e comunità) e come tale deve essere combattuta. È la guerra il nemico della patria trentina, un nemico che richiede strategie e comportamenti diversi da quelli determinati dalla contrapposizione nazionale. La frammentazione dei vari fulcri di appartenenza aiuta a spiegare, pur senza esaurire le domande, la mancanza di una contrapposizione diretta e collettiva al potere coercitivo dell’esercito, ed è confermata dal fatto che la maggior parte delle strategie pratiche attuate per sottrarsi alla guerra vedono il proprio supporto e la propria condizione di esistenza nel network di socialità a base microlocale. 133 Jean-Jacques Becker, Stéphane Audoin-Rouzeau, La France, la nation, la guerre: 1850-1920, Sedes, Paris 1995, pp. 285-337. Si veda anche l’intervento di Audoin-Rouzeau al colloquio internazionale su La Grande Guerre 1914-1918. 80 ans d’historiographie et de représentations, i cui atti sono stati pubblicati dalla CNRS nel 2002 (p. 332). 134 Giuliano Procacci, Storia degli italiani, v. II, Laterza, Roma-Bari 1975, p. 491.

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Tutte le formazioni nazionali sono di conseguenza ritenute dai trentini altro da sé, entità che si possono associare al concetto di «patria di paese» a patto che ne rispettino «tradizione», territorio e legame della popolazione con quest’ultimo. In questo modo l’Italia viene avversata nel momento in cui minaccia di obbligare i civili trentini al profugato, ma sostenuta quando (e solo fin quando) promette di ricongiungere i soldati al proprio paese di provenienza. Il dominio austriaco viene ampiamente accettato quando si fa garante del ruolo del clero e dei capicomune nei singoli paesi, ma altrettanto ampiamente rifiutato quando impone il distacco dal paese, la modifica del territorio o delle usanze, la sospensione della tradizionale libertà individuale propria della società trentina contadina135. Le simpatie nazionali sono per così dire «attivate» in corrispondenza di determinati fatti storici collettivi, sebbene vedano la propria (eventuale) genesi nel rispetto che le diverse formazioni nazionali di volta in volta dimostrano per il principio fondamentale che sottende al «patriottismo» trentino, vale a dire il legame indissolubile tra microluogo e microcomunità.

Al di là del confine: il nemico L’analisi della visione del nemico è al centro del dibattito sulla cultura di guerra: l’odio viscerale verso l’avversario è una delle possibili spiegazioni della tenuta dei diversi fronti di guerra. Audoin-Rouzeau e Annette Becker parlano addirittura di una «pulsione sterminatrice» e ne fanno uno dei punti cardini della «tesi del consenso» e una delle caratteristiche principali dello spirito di crociata che avrebbe animato i soldati. Si è parlato di un vero e proprio bisogno di credere alla brutalità del nemico (raccontata in primis dai coloured books editi da tutti i paesi belligeranti per denunciare le altrui atrocità, amplificate dai media e dagli intellettuali)136 e alle innumerevoli leggende che circola135 Questo sentimento patriottico «debole» e «a condizione» ha avuto interessanti sviluppi storici fino ai nostri giorni, pur senza, apparentemente, veder cambiato il criterio di base su cui funziona, vale a dire l’intangibilità della piccola patria e della sua specificità. L’etnologo Jaro Stacul definisce infatti l’idealizzazione del dominio asburgico, da parte delle comunità di paese trentina odierne, come un anelito nostalgico «alla libertà e all’autodetermininazione» del paese e dell’individuo che l’Austria garantiva, rispetto alla maggiore intrusività delle istituzioni italiane. J. Stacul, op. cit., pp. 128-129. 136 Annette Becker, Guerre totale et troubles mentaux, in «Annales HSS», 1 (2000),

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vano al fronte su crocifissioni, mani tagliate, stupri collettivi137. Il caso trentino presenta, di nuovo, significative differenze rispetto a questa ricostruzione. Pochi furono i trentini che ebbero esperienza di combattimento nella loro regione: perlopiù i coscritti sudtirolesi impegnati sul fronte italiano erano giovani aggregati alla milizia territoriale e impiegati nei lavori di trincea. Tra le eccezioni quella di Eugenio Mich, contadino e manovale, che ricopia e in parte rielabora il proprio diario nel 1989. Dislocato tra la Marmolada e il monte Vernel, Mich racconta di un episodio di fraternizzazione con il nemico: gli italiani, circa una ventina, sono a 800 metri. Eugenio prova a urlare «socio» e riceve risposta. Interessante è lo scambio tra i due: […] siamo diventati amici invece che nemici. Io andavo sopra la trincea e lui anche e si domandavamo cosa dicono di la e se si mangiava ecc. e mi domandava da dove sei? io le dico da Fiemme. E lui risponde: allora siamo quasi paesani. Io sono di Cencenighe […] La terza notte mi dice: quando terminerà sta maledetta guerra? Io dico quando passiamo d’accordo tra noi; cosa ti ho fatto a te? E nulla! Allora per cosa stiamo qui con l’arma in mano a tenderci uno coll’altro! – Buttaghele la tutti che la faciano loro138.

La sera dopo al richiamo di Mich rispondono dei colpi di fucile: gli ufficiali italiani si erano accorti del contatto e avevano sostituito il «quasi paesano» con delle sentinelle meno simpatetiche. Fiorenzo Ceschi, lavoratore militarizzato nelle Dolomiti, racconta l’espediente, non si sa quanto efficace, di vestire il «cappello alla tirolese» per farsi riconoscere come italiano e lavoratore militarizzato dai cecchini nemici e dell’utilizzo del dialetto solandro per comunicare, quando possibile, con il campo avverso139. Mario Rauzi conferma i contatti, parla di un frequente scambio di cibo, tabacco e beni tra le trincee, e spiega il significato della parola «Salata», un termine utilizzato da entrambi i campi per indicare la guerra, «cioè dura, pesante, piena di disciplina, [sic] soprusi, pericolosa», ma anche come parola d’ordine per stipulare

pp. 135-151. Sull’inadeguato sforzo propagandistico asburgico J.M. Cornwall, The undermining of Austria – Hungary, op. cit., e Maureen Healy, Vienna and the fall of the Habsburg Empire. Total war and everyday life in World War I, Cambridge University Press, Cambridge 2004. 137 A. Becker, Croire, op. cit., pp. 22-23; John Horne, Alan Kramer, German atrocities, 1914: a history of denial, Yale University Press, Yale 2001. 138 Memoria autobiografica/diario di Eugenio Mich. 139 Testimonianza di Fiorenzo Ceschi raccolta da Antonio Mautone.

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brevi tregue e permettere gli scambi140. Albino Soratroi viene fatto prigioniero alla Forcella Bois nell’ottobre 1916. Un tenente degli Alpini gli chiede da dove venga: Risposi: «a pochi chilometri da qui: Livinallongo», un trambusto, poi qualcuno disse «ma varda mi son da Laste», un altro «mi son da la Rocia»; mi trovavo insomma di fronte a miei vicini, divisi da una barriera, il Cordevole, e che la sorte metteva di fronte con le dolorose conseguenze, tutto questo era detto in una sola parola «nemico»141.

I passaggi sopra riportati non costituiscono una prova definitiva del sentimento di empatia dei trentini nei confronti del proprio nemico; tutte queste testimonianze (con la parziale eccezione dello scritto di Mich, che è per larga parte la trascrizione di passi memorialistici e diaristici) sono state prodotte a grande distanza dall’evento, mentre i reduci erano da decenni cittadini italiani. Se non è lecito dubitare della esistenza di tregue e scambi reciproci in tutti i fronti142, più difficile è l’interpretazione del loro ruolo all’interno della cultura di guerra. Il sistema del «vivi e lascia vivere» per quanto una delle caratteristiche più interessanti e paradigmatiche dell’esperienza di trincea143, ha diviso gli storici sul proprio significato: la presenza di regole non scritte e di tregue concertate (il principio di proporzionalità, il «divieto» non scritto di tenere sotto tiro latrine e vie di comunicazione con le retrovie, il permesso periodico di raccogliere morti e feriti, lo scambio di cibo o beni, la celebre tregua del Natale 1914) non prova definitivamente che non ci fosse odio verso il proprio avversario, sia per il carattere episodico delle tregue, sia in quanto la riduzione temporanea dell’intensità 140 Testimonianza di Mario Rauzi raccolta da Antonio Mautone. Il significato e l’uso della parola «salata» viene confermato dal libro parrocchiale di Don Baggia: «tra italiani si conoscono alla parola «salata», uniti essi al 1 o 24 Reggimento di Vienna... e tutti dispersi nei vari battaglioni, perché «i taia via»… se però deserta un tirolese, ne disertano 10 triestini... così non ci mandano facil.e alla guardia avanzata». 141 Memoria autobiografica di Albino Soratroi. 142 Christoph. H. von Hartungen, Guerra e vita quotidiana degli austro – tirolesi sul fronte dolomitico, in AA.VV., La memoria della Grande Guerra nelle Dolomiti, Paolo Gaspari Editore, Udine 2001, pp. 32-57. Gli episodi sono ampiamente confermati da testimonianze di parte italiana, particolarmente frequenti proprio sul fronte alpino. Bruna Bianchi, La follia e la fuga, Bulloni, Roma 2001, pp. 339-381; Lucio Fabi (a cura di), Uomini, armi e campi di battaglia della Grande Guerra. Fronte italiano 1915-1918, Mursia, Milano 1995, pp. 113-116. 143 Tony Ashworth, Trench warfare, 1914-1918. The live and let live system, Macmillian Press, London 1980.

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della violenza poteva non essere segno di una minore volontà di vincere la guerra e annientare il nemico144, ma al contrario una condizione necessaria alla perpetrazione delle violenza stessa. Anche all’interno della logica del «vivi e lascia vivere» il caso trentino mostra delle peculiarità. Gli autori non sottolineano l’assurdità di combattere altri italiani, ma precisamente e costantemente il fatto, reso manifesto dalla comune comprensione del dialetto, di essere «quasi compaesani». Come nel caso dei commilitoni, è la vicinanza delle piccole patrie che determina una percepita affinità, non la lingua, l’etnia, la classe o la situazione storica. Il nemico russo, da parte sua, non ha mai un posto centrale nella narrazione. In alcuni scritti, tipicamente quelli cadenzati dagli atti quotidiani del protagonista, la parola «russo» non compare mai. Anche negli scritti più elaborati, nei quali la forma annalistica si evolve in cronaca, l’autore trova in altre categorie il proprio antagonista. Se «la Russia non turba la pace trentina», il nemico più evidente e comune è colui il quale lo fa. Questa volontà narrativa, a mio parere, costituisce l’argomentazione più solida della mancanza di vera ostilità verso il nemico designato, prima ancora delle esplicite affermazioni di cui parlerò a breve. Il russo è visto il più delle volte con indifferenza, quasi fosse anche egli parte del paesaggio della guerra, un suo elemento costitutivo e naturale che non ha maggiori colpe del fuoco di artiglieria che continuamente cade sulle trincee o della pioggia che le trasforma in fango. I russi vengono nominati, ovviamente, nelle descrizioni di battaglia o per spiegare gli spostamenti delle truppe, ma non in quanto bersaglio del proprio odio o causa della propria paura. La distinzione è flebile, ma importante: è certo che i soldati hanno paura della battaglia e del fuoco nemico, ma non attribuiscono direttamente questa paura a un nemico umano, alla sua ferocia o alla sua abilità. I trentini vedono i soldati zaristi come non particolarmente distanti da sé, perlomeno non più delle altre nazionalità che compongono il loro stesso esercito145. Discorso diverso per i cosacchi che, nella loro riconoscibile diversità, erano temuti per la loro ferocia e il loro «spirito guerriero»146. Giovanni Tomasi, nel raccontare di essere stato circon144

Leonard Smith, Between mutiny, op. cit., pp. 89-98. Diario di Anonimo B: «Abbiamo visto i Russi prigionieri: erano gente abbastanza dabbene». 146 Memoriale di Ermete Bonapace: «Quei famosi cosacchi che non avevamo mai 145

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dato dai cosacchi e di aver passato la notte in una pozza aspettando che se ne andassero, li definisce «cani inciviliti»147, ma il suo pregiudizio non si estende a tutti i russi. Appena uscito dalla buca di fango nella quale aveva trascorso la nottata («Quella notte fu per me alcuni anni più lunga»), dimostra che l’importante non era sfuggire alla cattura, ma soltanto non essere preso dai cosacchi. Perso ormai il suo reggimento, intravede una persona in lontananza. La divisa sembra essere quella di un russo, ma l’atteggiamento di Tomasi è più fatalista rispetto a quello della notte precedente: se al momento della sua sortita il russo non sarà da solo, dice, «resterò preda del nemico». Tomasi si avvicina con il fucile puntato e il russo, accortosene, estrae a sua volta l’arma: Visto che era solo io o avuto magior coragio di lui e o detto fermati in lingua tedesca, ma lui non intende, allora o parlato in Ungherese nemeno, allora o parlato in Rumeno e questo mi risponde in lingua!!!148

Entrambi i soldati hanno lavorato in Romania prima della guerra. Dopo aver stabilito che nessuno dei due ha intenzione di far male all’altro ed essersi scambiati del cibo Giovanni procede alla domanda che sembra stargli più a cuore, «in qual maniera viene tratati i prigionieri Austriachi in Rusia». Il «nemico» gli risponde che vengono trattati come tutti gli altri militari e si affretta a chiedergli la stessa cosa. Nelle poche pagine in cui si racconta l’episodio il russo è chiamato successivamente «fratello», «collega», «compagno». Entrambi persi, i due decidono di tentare la sorte, cominciando a camminare in una direzione a caso; a seconda dell’esercito che si incontrerà, austriaco o russo, l’uno farà finta di aver catturato l’altro. Furbescamente Tomasi lascia scegliere la direzione al proprio compagno, pensando che lo porterà in Russia149. La sorte, o una strategia uguale e contraria del russo, decide però altrimenti: i due incappano in un battaglione ungherese, dove Tomasi consegna come da accordo il prigioniero. Episodio analogo, accaduto a Tommaso Zanetti, in cui i soldati di parte avversa prima si scambiano doni e poi si contendono la possibi-

visto ma che ci facevano tanta paura. […] Quelli erano i guerrieri veri, nati per la guerra addestrati per la guerra. Erano gente di altri tempi io non avrei mai pensato in questa guerra del XX° secolo di incontrare una simile sfilata». 147 Memoriale di Giovanni Tomasi. 148 Ibidem. 149 «Io pensava che prenderà la direzione della russia sicuro ed’oramai pensava di andare in Russia».

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lità di essere catturati, è raccontato dalla moglie Claudia Zacerova, in una testimonianza raccolta da Renzo Francescotti: Con alcuni commilitoni, in mezzo ad un fuoco infernale, si erano rifugiati in un’izba, mentre contemporaneamente arrivava un gruppo di soldati russi. Nessuno sparò. I russi domandarono ai loro nemici se avevano da fumare. Gli risposero di no. Allora i russi diedero da fumare agli altri. Poi, sempre a motti, facendo l’atto con i polsi incrociati, i russi fecero capire ai soldati austroungarici se volevano farli prigionieri. Loro risposero che erano i russi a doverli fare prigionieri. E così fu150.

Le leggende sulla crudeltà del nemico, tanto diffuse sul fronte occidentale151, non trovano riscontro nella scrittura popolare trentina, mentre hanno spazio considerazioni di segno opposto. E nando per strada ariviamo in di un paesello ove sia trovato dei Ospitali Russi dove ci era dentro anche anche dei nostri soldati e fra quali dei nostri ufficiali andò dentro a visitare lospitale e poi dice annoi che anche i nostri feriti sono stati curati a pariglia di suoi medesimi. Va bene adesso ocapito che anche li Russi non neuserano a farni del male annoi si avessimo di casscare nele sue mani152.

I soldati trentini conoscevano perfettamente i vantaggi di presentarsi, una volta catturati, come italiani e si preoccupavano di manifestare apertamente la propria provenienza. Domenico Dalbosco racconta con naturalezza e senza nessuna vergogna la propria diserzione, avvenuta insieme a dei compagni trentini: noi le abbiamo detto che siamo italiani dato sigarette e altre cose che si aveva dal magazzino riserva, poi con un solo soldato ci hanno (saputo che siamo italiani) accompagnati indietro fino al comando superiore153.

Un soldato anonimo, probabilmente falegname, nel descrivere il «giorno più bello» della sua vita, quello della cattura, permette di sapere che tra i soldati trentini circolavano alcune parole di russo, il minimo indispensabile per darsi prigionieri: Ecco il momento della morte alla vita! Dio volle che per bontà dei russi io 150

Testimonianza di Claudia Zacerova, raccolta da Renzo Francescotti. Cristophe Prochasson, Anne Ramussen, Une guerre incertaine, in Cristophe Prochasson, Anne Ramussen Vrai et faux dans la Grande Guerre, La Découverte, Paris 2004, pp. 9-31. 152 Memoriale di Davide Terzi. 153 Memoria autobiografica di Domenico Dalbosco. 151

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fossi salvo. Sono le cinque di sera, mi alzo dal mio nascondiglio e guardo: il nemico si trova a pochi passi. Alzo le mani e grido: Dobra, dobra, pagni!154

Se durante l’esperienza del fronte l’odio espresso per il nemico è cosa rara155 e c’è persino chi si preoccupa di specificare ex post che se usa la parola «nemico» è solo in maniera indicativa e non per odio personale156, dopo che si è stati presi prigionieri il giudizio può diventare persino idilliaco157. Davide Terzi, dopo aver inserito un piccolo titolo celebrativo nel proprio memoriale («Fine della mia bataglia»)158, afferma con sollievo di aver fatto il proprio dovere e di meritarsi lo status di prigioniero di guerra, di entrare, nelle sue parole, in «un mondo nuovo, senza il cannone». io mi riciamo di esere prisonieres de guere bene crederò che anche i nostri aversari nonne usurano a noi poveri prigionieri dele male grazie. Il principio e buonissimo, gente cortese col discorere e alegra quanto più di noi, adeso avedremo connando avanti159.

Il fatto che i russi stiano occupando delle terre appartenenti all’Impero non pare essere, per un «lealista» quale è Terzi, un problema soverchiante: dopotutto, sono «gente molto alegra». Adeso viagiamo dinuovo sule nostre tere bensi occupate daloro viagiando per strada si contrava moltissime truppe che veniva anche loro poveri per andare contro la sua afentura. Ma o dadirvi che questa gente sono molto alegra

154 Diario di Anonimo P. La conoscenza delle parole russe necessarie a darsi prigionieri è confermata da Alfredo Franzoi, che le utilizza egli stesso («pagni! pagni! annio! annio!») quando decide di disertare. 155 Le uniche eccezioni da me trovate sono nell’atipico memoriale di Giacomo Sommavilla («in un balzo sortimo dalle bucche e in tutta corsa colla baionetta inastata, assalimo quei porchi») e nello zibaldone di Candido Rettin (dove i russi sono chiamati «bestie feroci» e «lupi»). Trovo significativo notare che in entrambi i casi l’esperienza di guerra combattuta fu minima, tale per cui la sofferenza subita (la ferita che Sommavilla subisce nell’ottobre 1914 e la prigionia che inizia per Rettin nel novembre dello stesso anno) viene interamente attribuita ai russi. È a mio parere da escludere che questi casi siano rappresentativi dell’umore del fronte. 156 Albino Soratroi: «Se in seguito includerò la parola “nemico” voglio precisare che non ho mai attribuito a tale termine il significato di odio, talvolta fanatico, verso l’avversario, che era proprio di taluni». 157 Testimonianza di Angelo Donati raccolta da Giuliano Beltrami: «io chiedevo ai soldati russi un tozzo di pane, del tè e dello zucchero; ho sempre trovato una grande comprensione: per me alcuni russi sono stati come dei padri». 158 Memoriale/diario di Davide Terzi. 159 Ibidem.

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che continuava e sunare come andesimo anoze […] laseconosceva che la gente sono anche in Russia buona160.

L’odio per il nemico è una potente chiave interpretativa della sofferenza e dell’irrazionalità determinate dalla guerra, così come delle azioni individuali all’interno di essa161. Una chiave che, oltretutto, si autorigenera nella spirale di violenze reciproche che è tipica di tutti i conflitti: l’atrocità e la barbarie del nemico, vere o presunte che siano, autorizzano e incoraggiano un atteggiamento uguale e contrario da parte del gruppo che si sente minacciato, in un circolo vizioso che conferma i pregiudizi iniziali, trasforma le voci in realtà e determina una generale brutalizzazione dei combattenti e degli avvenimenti bellici162. È un fatto, tuttavia, che nella percezione dei soldati trentini l’uccisione del proprio nemico non avrebbe avvicinato l’orizzonte della pace. Essi non videro la propria meta nella conquista della trincea avversaria, ma, sempre più spesso con il prolungarsi del conflitto, al di là di quella linea, nelle prigioni e nei campi di lavoro russi, luoghi meno pericolosi nei quali attendere che la guerra si esaurisse. La scrittura popolare non dimostra un’attenzione significativa verso «la natura» del proprio nemico, verso una supposta diversità antropologica che, secondo alcuni, sarebbe alla base delle motivazioni che tennero i soldati al fronte. Ciò non significa che l’odio per chi si tentava quotidianamente di uccidere non sia visto come un elemento imprescindibile di ogni guerra dotata di senso. Gli episodi di contatto pacifico con il nemico, la constatazione che non ci sono motivi per l’ostilità generano in Mich e Masera163, citati precedentemente, un profondo senso di strania160

Ibidem. «La colpevolizzazione del nemico sembra di importanza fondamentale per evitare il senso di colpa che la guerra provoca nell’uomo e segna un momento essenziale nella vicenda di rottura tra tempo di pace e tempo di guerra, nella cerimonia di apertura del mondo psicologico nuovo instaurato dalla guerra». Franco Fornari, Psicanalisi della guerra, Feltrinelli, Milano 1966, pp. 42-55. 162 John Horne, Corps, Lieux et Nation, in «Annales HSS», 1 (2000), pp. 73-111. 163 Giuseppe Masera, contadino di Besenello, racconta nel suo diario di una breve tregua concessa ai russi per permettere loro di recuperare il cadavere di un commilitone. «Poi si scambiarono come al solito. I nostri diedero ai Russi vino, e loro le contraccambiarono del bel pane bianco. Poi quando tutto fù compiuto ritornarono ognuno ai loro posti, e nella notte seguente fù un continuo lanciarsi fucilate, mine, e granate a mano. Ma io dico. Che guerra è questa?». 161

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mento: «che razza di guerra è» una guerra in cui i nemici si scambiano prima doni e poi pallottole? Che guerra è una in cui si spara sui propri «quasi compaesani»? Ha uno scopo, si chiede Rodolfo Bolner, una guerra in cui i nemici non hanno nessun motivo di uccidersi a vicenda?164 È una guerra da «mateloti», risponde idealmente Beniamino Visintame in una lettera al parroco Baggia, dopo aver descritto le modalità «regolate» con cui si ingaggiavano le sparatorie nei settori più tranquilli del fronte. La personificazione del dolore, la possibilità di dare un volto umano alle paure laceranti createsi al fronte permette il soddisfacimento di almeno due bisogni psicologici fondamentali all’interno di un’esperienza traumatica di quell’ampiezza. Da una parte essa soddisfa il bisogno di spiegazioni (siamo in guerra perché siamo stati attaccati, la guerra è inevitabile poiché decisa dal nemico), dando al contempo una giustificazione ad atti personali proibiti dalla morale tradizionale, in una distorsione funzionale del principio di reciprocità: l’atrocità commessa è giustificata dalla consapevolezza non discutibile che il nemico ha fatto e farà lo stesso se gli sarà lasciata la possibilità. D’altra parte l’incarnazione del nemico fornisce l’impressione al singolo soldato di potersi opporre, con i propri sforzi, con la propria pianificazione, la propria forza o intelligenza, al caos imperante, di poter affrettare la fine della sofferenza e della guerra verso il futuro desiderato. In virtù di questa personificazione la singola vittoria, il singolo atto eroico può acquistare significato in quanto minimo tassello all’interno di un mosaico il cui completamento è ritenuto desiderabile e in quanto reificazione di una superiorità morale data per certa165. Niente di tutto questo è applicabile al gruppo trentino. Tuttavia il fatto che il russo e l’italiano non siano «contenitori» delle frustrazioni, della paura e del dolore generati dalla guerra non elimina l’esigenza di trovare un corpo sul quale riversare questi sentimenti. Questa mancata attribuzione non deve far pensare che l’individuazione del nemico sia meno necessaria ai trentini di quanto lo è per gli altri gruppi etnici in guerra, ma deve invitare a ricercare altrove il nemico attraverso il quale si cerca di semantizzare l’evento. 164 Rodolfo Bolner: «‘I nemici’! Mi ostino a chiamarli cosi e non c’è miglior pasta d’uomo del Russo, ma bisogna considerarli tali perché ‘vuolsi cosi colà’. Ha uno scopo questa guerra?». 165 André Corvisier, Hervé Coutau-Bégarie, La Guerre, essais historiques, Perrin, Paris 1995, pp. 298-356.

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Il bestiame A! quanto e mai grande la disciplina adoperata in questo luogo per noi – Antonio Giovannazzi

Tra le categorie interpretative che maggiormente ricorrono a caratterizzare il servizio militare è, lo si è detto, la disciplina, intesa come sinonimo di imposizione e di costrizione di atti e situazioni, un fattore del tutto esterno al soldato che è citato come mutamento più evidente nel passaggio dalla vita civile a quella del servizio militare e della guerra al suo inizio1. Per apprezzare fino in fondo il carattere lacerante dell’imposizione della «disciplina» occorre ricordare la situazione socioeconomica del Trentino di inizio secolo. La famiglia patriarcale contadina è, in Trentino, proprietaria di una terra che lavora in maniera pressoché esclusiva. Il censimento austriaco del 19022 conta 70.390 aziende fondiarie, su campi dell’ampiezza media di 1,4 acri3. Diversamente da quanto accadeva nell’Impero, nel quale era più diffuso l’accentramento latifondiario4, il 93% delle aziende era a conduzione familiare e praticava 1 Già nel 1890 Pellegrino Weiss deprecava il «dano e il male» che gli avrebbe potuto arrecare l’abbandonare la famiglia «e pricipitarmi nel abisso a servire i patroni tirani e sordi in ogni retta ragione». 2 Cesare Battisti, Il Trentino, De Agostini, Novara 1919, p. 26. 3 In Bassa Austria l’80-90% della terra arabile era controllata da aziende sotto i 40 acri. Gavin Lewis, op. cit. 4 Secondo le stime di Jean Bèrenger in un Impero a vocazione prevalentemente agricola, l’1% dei proprietari controllava il 40% dei terreni coltivabili (il dato è fortemente influenzato dalla situazione ungherese). La situazione trentina è paragonabile, nel quadro imperiale, soltanto a quella di una regione recentemente annessa (1908) e fortemente arretrata, la Bosnia-Erzegovina. Jean Bèrenger, Storia dell’Impero Asburgico 1700-1918, il Mulino, Bologna 2003, pp. 389-390.

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un’agricoltura di sussistenza, quasi completamente avulsa dal mercato5. Se l’aspirazione all’indipendenza e alla proprietà della terra è un carattere comune a tutte le società contadine, di ogni epoca e di ogni zona6, il realizzarsi dell’ancestrale «mito contadino della terra» non significa, in Trentino, benessere. La dislocazione di parte dei fondi in zone montagnose o semimontagnose, dalla coltivabilità discontinua, favorisce e impone il piccolo lotto7, mentre determina la collettivizzazione di vaste aree non seminabili, boschi e pascoli d’alta montagna. La parcellizzazione del terreno non è tuttavia determinata soltanto da fattori ecologici8. Cesare Battisti, in un articolo apparso nel 1898 su L’Avvenire del Lavoratore9, attribuisce preminentemente a fattori culturali la permanenza della piaga della piccola proprietà: perché, si chiede, di fronte a nove decimi dei comuni trentini al limite della soglia di sussistenza, ve ne sono alcuni che, a parità di condizioni del suolo e in mancanza di sviluppo industriale, sono incomparabilmente più fiorenti? La risposta è da cercarsi nella scelta («un malinteso interesse personale») della maggior parte dei contadini di mantenere la proprietà individuale e il lavoro esclusivamente familiare sul lotto di terreno10, di contro a una proprietà collettiva (questa la proposta di Battisti, ma sul piano della produttività analoga sarebbe una svolta latifondiaria) e a una coltura «razionale» (vale a dire rivolta alle domande del mercato) che viene vista dal geografo come l’unica scelta opportuna. 5 Fabio Giacomoni, Proprietà diretto coltivatrice nell’agricoltura di montagna: il caso trentino, in «Studi Trentini di Scienze storiche», 4 (1984), n. 1, pp. 387-424. Sergio Zaninelli, Un’agricoltura di montagna nell’ottocento: il Trentino, Società di studi trentini di scienze storiche, Trento 1975, pp. 34-42. 6 Pierre Barral, Les Societes Rurales du XX siècle, Armand Colin, Paris 1978, pp. 11-36. 7 Nelle condizioni della agricoltura di montagna trentina, dove l’unica variabile manipolabile era quella del lavoro, «la produzione non risultava concepibile se il contadino non era in qualche maniera direttamente e strettamente legato alla terra che lavorava; la continua immissione di lavoro necessario in montagna era resa possibile dalla costanza, dalla certezza del vincolo tra i contadini e la terra» F. Giacomoni, op. cit., p. 391. 8 Dionigi Albera, Vincoli ambientali e trasmissione dell’eredità nelle Alpi, in «Annali di S. Michele» 6 (1993), pp. 13-33. 9 Cesare Battisti, La piccola proprietà nel Trentino, ne «L’Avvenire del lavoratore», 21 gennaio 1898, in R. Monteleone (a cura di), Cesare Battisti, op. cit., pp. 21-29. 10 Il lavoro dei piccoli appezzamenti è in effetti solo molto raramente salariato e in tutti i casi ha la propria base nel nucleo familiare, coadiuvato in caso di necessità dall’aiuto dei vicini, secondo un principio di reciprocità proprio di molte comunità contadine. Jaro Stacul, Tra maso e villaggio, in «Annali di S. Michele», 8 (1995), pp. 339-345.

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Al contrario di quanto accadeva nel Tirolo tedesco, dove non si divideva la proprietà fondiaria attraverso l’eredità, ma la si trasmetteva al solo primogenito, contrariamente ai sistemi mezzadrili e latifondiari del centro e sud Italia, l’eredità nelle Alpi italiane era divisa in parti uguali tra tutti i figli maschi (sistema latino); in Trentino, dove la maggioranza delle famiglie era proprietaria, la terra, pur sottoposta a una progressiva polverizzazione, era un diritto di nascita di quasi ogni contadino maschio e adulto e il controllo sui mezzi del proprio sostentamento era una parte irrinunciabile delle prerogative di gente che pure si considerava – e nei fatti era – umile. La difesa dell’autonomia della famiglia contadina avveniva al prezzo di una produttività del suolo scarsissima e di condizioni di vita al limite o sotto il livello di sussistenza, in particolare dopo la scissione del rapporto commerciale privilegiato con il Veneto nel 1866 e la crisi agricola europea del 1870. Il folklorista Bolognini racconta il paesaggio montano della sua regione come un avvicendarsi di piccole strisce di terreno coltivato, ognuna legata a un singolo padrone. «Ciò prova quanto i montanari, i nostri specialmente, sieno attaccati alla proprietà, e si può dire che hanno i piedi radicati nel terreno nativo», tanto che i confini tra i minuscoli terreni sono curati e rispettati religiosamente e alla rottura dei confini («i termini») è associato un vero e proprio tabù: «Se qualche sgraziato si è reso colpevole di spostare furtivamente un termine, è ben sicuro che l’anima sua verrà condannata a vagolare di continuo attorno a quei campi, paurendo i superstiti eredi; né preghiere, né messe ed offici fatti reciboutare a suo suffragio varranno a liberarla dalle pene del Purgatorio, né a ritornarla alle sedi eterne, fino a che i termini vengano ricollocati al loro giusto posto»11. A questo attaccamento estremo alla proprietà non era estranea la propaganda cattolica che, nelle parole di Quinto Antonelli, faceva di essa «il perno e la sostanza» del sistema ideologico della civiltà contadina, «in cui il lavoro e la proprietà agricola rappresentano l’ordine ‘naturale’ voluto da Dio»12 e in cui la proprietà privata e personale, unita al risparmio e alla 11 Nepomuceno Bolognini, Usi e costumi, op. cit., pp. 117-120. In seguito Bolognini afferma: «Le liti per confini, diritti di passo e di pascolo, sono frequenti tra i nostri montanari quasi tutti possessori di qualche prato, campiello, bosco (gaggio) e capi di bestiame; tutti molto affezionati alla propria terra e diritti inerenti e maledettamente cocciuti da liticare anni ed anni, consumare in spese di lite campo e prato piuttosto che cederne un palmo», ivi, p. 382. 12 Quinto Antonelli, Fede e lavoro: ideologia e linguaggio di un universo simbolico, Temi, Trento 1981, p. 48.

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sobrietà, costituiva un «prolungamento della libertà»13. Il «risorgimento economico» del Trentino14, avvenuto a cavallo dei due secoli, mentre l’agricoltura alpina nel suo complesso stava attraversando una profonda instabilità15, non viene raggiunto a prezzo di una rinuncia alla proprietà familiare, con una svolta latifondista e bracciantile verso una agricoltura di mercato, ma si appoggia sulla tradizione «autonomista» del mondo contadino16: nella regione si sviluppa un originale fenomeno di cooperazione di credito e di consumo17, patrocinata dalla Chiesa delle parrocchie locali, importata dal mondo tedesco, ma caso unico al tempo18 per estensione, natura e successo nell’area italiana19. L’indipendenza della famiglia contadina, strettamente legata alla terra e alla presenza fisica degli adulti maschi su di essa, è una caratteristica fondamentale dell’etica contadina precedente il conflitto, da leggersi sia come autosufficienza economica, sia in quanto libertà decisionale dei capi famiglia su se stessi, la propria famiglia e i propri 13 Quinto Antonelli, Il diavolo, probabilmente. Fede e mondo moderno nella stampa cattolica trentina, in «Materiali di Lavoro», 8 (1979), pp. 1-36. 14 Andrea Leonardi, Depressione e risorgimento economico del Trentino, 18661914, Società di studi trentini di scienze storiche, Trento 1976. 15 Gauro Coppola, La montagna alpina, in AA.VV., Storia dell’agricoltura italiana. Vol. I: Spazi e paesaggi, Marsilio, Venezia 1989, pp. 495-530. 16 In Trentino come in Veneto le casse rurali sviluppate a seguito delle cooperative di smercio e consumo, ispirate al metodo Raiffeisen, «governano la piccola proprietà coltivatrice e alimentano la formazione di rendita, abbinando il «credito al lavoro» – cioè alle operazioni produttive, come l’acquisto di attrezzi agricoli – e la richiesta di pegni immobiliari o di garanzie ipotecarie» e «avvallano un’ideologia del risparmio rurale […] come eterno ritorno dell’accumulazione originaria sotto specie di accumulazione “sociale”». Silvio Lanaro, Movimento cattolico e sviluppo capitalistico nel Veneto tra ’800 e ’900, in E. Franzina, M. Isnenghi, S. Lanaro, M. Reberschak, L. Vanzetto, Movimento cattolico e sviluppo capitalistico, Marsilio, Venezia-Padova 1974, p. 28. Per il caso tedesco che è l’ispirazione principale di quello trentino: Timothy W. Guinnane, Cooperatives as Information Machines: German Rural Credit Cooperatives, 1883-1914, in «The Journal of Economic History», 61 (2001), n. 2, pp. 366-389. 17 Che non sfocia mai, si badi bene, nella coltivazione collettiva della terra, che viene al contrario generalmente lavorata dal solo nucleo familiare, occasionalmente coaudivato, quando l’estensione del terreno lo permetteva, da famigli che venivano integrati nella household proprietaria. 18 Il fenomeno precede di più di dieci anni l’esplosione delle organizzazioni cooperative, perlopiù di stampo socialista, che avrebbe interessato la Val Padana e di quelle di stampo cattolico in Polesine e Alta Lombardia. 19 Andrea Leonardi, La federazione dei consorzi cooperativi dalle origini alla Prima Guerra mondiale (1895-1914). Per una storia della cooperazione trentina, Angeli, Milano 1982, pp. 264-296.

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beni20. Al pari della volontà di autosufficienza decisionale della microcomunità di paese l’indipendenza delle decisioni familiari e il ruolo del maschio adulto sono difesi prima e durante la guerra21. Emilio Fusari, contadino di Brentonico, 26 anni, esprime in questo modo nel suo memoriale il proprio ingresso nella nuova vita del servizio militare: Però, avanti ancor di entrare [nella caserma per l’arruolamento] mi sembrava che il cuor me lo dicesse, che dovrò sogiocarmi a una nuova vita, e alla volontà di tanti e tanti, che mi sarà inconosciuti, certo nola immaginavo cosi22.

Il ritorno alla normalità, per converso, gli appare come il momento in cui, dopo 3 anni, «potrò di nuovo eser libero e fare la mia volontà e non come ora la altrui per il gusto dei suoi caprici e per lonore della sua bandiera»23. 20 «Ogni unità domestica può essere legittimamente vista come un’entità indipendente. Sebbene il lotto di terra sia legato socialmente ed economicamente con altre households e abbia relazioni con le istituzioni del villaggio, della regione o della nazione, le decisioni riguardanti la gestione delle proprie risorse è prerogativa esclusiva dell’unità domestica». Eric R. Wolf, John W. Cole, The hidden frontier. Ecology and ethnicity in an alpine valley, Academic Press, New York 1974, p. 140. (trad. it. di La frontiera nascosta. Ecologia ed etnicità tra Trentino e Sud Tirolo, Museo degli usi e costumi della gente Trentina, S. Michele all’Adige 1993). Sul ruolo antagonista dei piccoli proprietari terrieri nell’economia di guerra tedesca: Robert G. Moeller, Dimensions of Social conflict in the Great War: The view form the German Countryside, in «Central European History», 14 (1981), n. 2, pp. 142-168. 21 La ricerca etnografica condotta da Jaro Stacul nel 1992 dimostra il lunghissimo corso della centralità della proprietà privata nel contesto trentino e il legame dinamico che vi è tra essa e l’altrettanto persistente volontà autonomistica della comunità locale rispetto alle pretese nazionali. Secondo Stacul la «costruzione del locale» passa, nelle valli trentine, per la «privatizzazione del paesaggio», vale a dire la creazione di confini simbolici e fisici invalicabili (per il compaesano se si tratta dell’appezzamento di terra, per il «foresto» se si tratta dei limiti del paese e della valle), sinonimi di un ordine naturale da preservare attivamente contro le influenze esterne. Di qui una vera e propria «ossessione» per la proprietà privata nei paesi oggetto di studio (Caoria e Ronco) e nella sociabilità che li caratterizza. La centralità del controllo e della presenza personale sulla terra nella percezione del contado trentina è così espressa: «[Questa rilevazione etnografica] è la storia di un gruppo umano che ha lavorato duramente per creare il proprio dominio spaziale e politico e si sforza di assicurarne la riproduzione e di difenderne i confini fisici ed economici. È la storia di un gruppo che occupa uno spazio definito, che diventa il contesto di relazioni interpersonali e azioni politiche, i cui confini non devono essere attraversati. Insomma è la storia della produzione e riproduzione del dominio privato, o “bounded field”». J. Stacul, The bounded field, op. cit., p. 188 e pp. 39-67. 22 Memoriale di Emilio Fusari. 23 Ibidem.

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Massimiliano Sega, 42 anni, contadino, nell’ospedale di Jaroslav ripensa in questi termini a quanto la guerra gli ha sottratto. È il 1917. sollo he tutte notte dormo pohco perhe mi in ssoniai di tutti li la vori e i afari del Mondo pensare he era bene fornito di bestiame di Biancheria di rami e di ttereno in fatti. Io Stava bene zenza restarhge un soldo a nenssuni in fatti dormiva tranquillo, e desso sono un poveretto redatto zenza niente di tutto ssolo he la vitta he tutte le notte mi viene da penssare il piu poveretto redatto Cagione di questa guera24.

Così Giacomo Sommavilla, pur dichiaratamente «austriacante»: Quanto in ciò è dura la vita militare! L’ubidire in tutto e prontamente senza alcun perché, questo è quanto ai nostri di più che ogni altra fatica da peso alla vita militare25.

Se l’obiettivo, da pochi raggiunto anche in tempo di pace, è quello di non dover chiedere niente a nessuno, l’esercito si presenta come il luogo in cui tutto deve essere richiesto e tutto, il più delle volte, viene negato. Se la volontà individuale è ciò che definisce un uomo adulto, la sua soppressione evoca ai soldati lo spettro di un indesiderato mutamento identitario. La metafora che probabilmente rende meglio la drammaticità della perdita della volontà è quella della «bestializzazione», della trasformazione – mai graduale – in animali. Il collegamento tra soldati e animali è almeno in parte dovuto a condizioni oggettive. La mobilità del fronte orientale mette al centro dell’esperienza e della strategia militare il problema dello spostamento repentino delle truppe e del loro alloggio, con disagi e disfunzioni non indifferenti. I vagoni in cui i soldati erano trasportati al fronte erano, sovente, vagoni per il bestiame, cosa che gli autori non mancano di rimarcare26. Proprio come gli animali i soldati vi si ritrovavano pressati e costretti a dormire sul pavimento o su poca paglia, spesso per giorni interi. La qualità e la natura del cibo fornito27, così come le 24 Diario di Massimiliano Sega. Si veda anche il diario di Giuseppe Passerini, fornaio: «Ho perduto tutto: la famiglia, il tetto e il luogo natio, i comodi, la mia prerogativa di uomo – sono uno schiavo» e il diario di Anonimo P: «Dobbiamo stare come gli schiavi vita insoportabile e per di più in linea di fuoco». 25 Memoria autobiografica di Giacomo Sommavilla. 26 Memoria autobiografica di Alfonso Tomasi: «Sull’esterno dei vagoni era scritto […] – 46 uomini oppure 6 cavalli – Già 6 cavalli avevano diritto ad uno spazio che doveva bastare per 46 uomini. Ma – allora e più volte – e per viaggi eterni – sul ‘vagone bestiame’ (mai viaggiato su vagoni personali) eravamo in 60 – 80! e più». 27 Diario di Alfredo Franzoi: «Ma che zuppa!! un caos di barbabietole, patate, rape, pareva mangiare il mangiare che noi preriamo ai porci».

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modalità della sua somministrazione, sporadica e secondo il capriccio delle autorità28, viene associata naturalmente al mangime concesso alle bestie domestiche29. Quando il viaggio non avveniva sui treni bestiame si trasformava in massacranti marce, durante le quali i soldati – «carichi come muli», sotto i trenta chili del proprio zaino30 – proprio come una mandria condotta al pascolo o alla morte, non avevano nessuna idea della propria destinazione o della propria sorte31, inquadrati e tenuti in linea da ufficiali che li spronavano e controllavano continuamente, punendo chi rimaneva indietro o usciva dai ranghi. L’alloggio, quando non era all’aria aperta32, avveniva nei fienili o nelle stalle galiziane, ulteriore conferma visiva dell’avvenuta metamorfosi. Non si tratta però esclusivamente delle condizioni ambientali. La condivisione degli spazi quotidiani con gli animali non era peraltro cosa in sé nuova per i contadini trentini, imposta come era dalla conformazione delle abitazioni e dal pascolo d’alta quota33. La metafora utilizzata più frequentemente è significativamente quella della mandria o del gregge. È evidente che non ci si limita a constatare un cambiamento delle condizioni di vita, ma che, esplicita o implicita nella metafora, vi è una critica rivolta al responsabile del benessere della mandria, quei «cattivi pastori» che sono le istituzioni militari di campo, in particolar modo gli ufficiali. Colà fummo trattati peggio di una mandria di pecore, dovemmo stare più

28 Diario di Anonimo B: «Si doveva aspettare la beccata dalla compagnia, come gli useletti dal nido». 29 Memoriale di Angelo Paoli: «si può immaginarsi era dal 29 di mattina che non si vedeva la cucina ne un p’o di pane ne una patata niente altro che un pomo o un pero o una rappa o un pezzo di capuso roba per bestie non per cristiani». 30 Tale il carico medio di un soldato austroungarico stimato da Ivan Righi e Gloria Leonardi, Austriaci in trincea nella Grande Guerra, Edizioni Rossato, Vicenza 2006, p. 77, cifra confermata dalla memoria autobiografica di Alberto Barberi («avevammo uno zaino che tra tutto pesava 30 kg»). Il carico comprendeva da regolamento: razioni, un telo incerato, un pastrano, 120 pallottole, una vanga portatile, una gavetta, fucile con baionetta, elmetto e, dal 1916, una maschera antigas. A questo si devono aggiungere tuttavia i pacchi ricevuti da casa, i vestiti aggiuntivi dei soldati e i beni d’uso personale (tabacco, oggetti sacri…). 31 Memoriale di Angelo Paoli: «L’acqua si scorreva in ogni parte il fango era alto che tutte le scarpe sinoltravano nel fango era una vita da animali a marciare in quella maniera carichi come si era». 32 Diario di Giovanni Tomasi: «La sera si fa il letto in un campo come i topi». 33 Delio Brigà, La fata Gavardina. Ricordi dell’era contadina in Val di Ledro, Publiprint, Trento 1989, pp. 159-199.

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di un’ora in piedi colle guardie armate a tenderci senza poter nemmeno andar da parte. Per soddisfare i propri bisogni bisognava andar fra i vagoni a farla sotto gli occhi dei due militari armati di tutto punto34 Chi non conosce questa vita non può farsi un’idea, a quante ingiustizie, barbarie, miserie privazioni noi siamo sottomessi. Non vi è nessun animale, nessuna bestia feroce, nessun insetto che sia di noi più infelice! [segue, a mo’ di esemplificazione, la descrizione di un compagno condannato alla colonna] Questa si chiama umanità, coltura, libertà progresso! Barbari!!!…35 Il nostro Tenente disse che le bestie grosse devono essere separate dalle piccole, noi eravamo porci, o bestie infime, non uomini36

La metafora prevalente in soldati dall’estrazione sociale più alta è di natura spesso diversa. In essi si trova la percezione di un inselvatichimento, una trasformazione in «selvaggi» o in bruti ad opera della guerra che, al contrario del processo di “bestializzazione”, arriva a insidiare la visione di sé. Ermanno Guarnieri, professione sconosciuta, cultura decisamente alta, imbastisce una descrizione di questo cambiamento profondo della percezione che ricorda in qualche modo gli «uomini primitivi» della scena finale di Le Feu di Barbusse37: Sporchi di fango, di polvere, abbruniti dal sole, colla barba e capelli lunghi, ispidi ed incolti, il berretto e la giubba traforati in mille parti dalle palle di schioppo, il cappotto che cadeva a brandelli, magri, ischeletriti ritrovai quei giovani che prima della partenza avevo visti pieni di brio, di salute, di baldanza e ricercatezza quasi signorile!38

Gli fa eco Mario Crosina, maestro elementare, che riporta una riflessione ancora più esplicita su un mutamento che non sembra avere altri colpevoli umani che le vittime stesse, umiliate dal confronto con ciò che erano in passato. Lo stato bestiale che la guerra determina non viene qui dall’esterno, ma è l’affiorare di una predisposizione latente nell’animo umano. Crosina scrive il seguente passo mentre ancora non ha conosciuto il fronte, mentre si trova «tra la sua gente», al campo di addestramento di Innsbruck. 34

Memoria autobiografica di Daniele Bernardi. Diario di Giuseppe Masera. 36 Ibidem. 37 Henri Barbusse, Le Feu, journal d’une escouade, Flammarion, Paris 1916, p. 377 38 Memoria autobiografica di Ermanno Guarnieri. Si veda anche il memoriale di Ermete Bonapace: «I letti di paglia come quelli delle caserme, ma ci parve di entrare in un letto di piume tanto eravamo diventati selvaggi». 35

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Gente e gente, voci e voci, grida e grida, di giorno e di notte: sempre. Questa vita abbrutisce tutti quanti; non mi par nemmeno di trovarmi fra la nostra gente; in siffatte condizioni di vita la personalità umana degenera, e affiora quanto v’è in noi di elementare, di istintivo, vorrei dire di bestiale39.

La differenza è fondamentale. Con «bestializzazione» non si indica un mutamento che avviene nell’animo o nella natura dei soldati. Si tratta di un cambiamento esteriore, di un trattamento ricevuto, che non viene interiorizzato come parte costituente di un nuovo «io di guerra». Laddove il processo di trasformazione in selvaggi è un degrado morale, forse irreparabile (un cambiamento della natura individuale), quello messo in evidenza dai contadini è un contingente cambiamento di status, ugualmente problematico, ma indubbiamente temporaneo. Esso è legato al perdurare del mondo della disciplina e permette di guardare alla pace come a un inevitabile ritorno alla normalità40. Nel suo celebre Fallen Soldiers41 George Mosse sostiene che l’esposizione alla violenza ha determinato un processo di «brutalizzazione» dei soldati, che è confluito nella vita politica europea, ad alimentare, nelle difficili condizioni del primo dopoguerra, con l’incerto reinserimento dei reduci e la disillusione delle aspettative di cambiamento sociale, la nascita dei fascismi e dei totalitarismi. L’interpretazione di Mosse ha conosciuto un successo molto ampio, tanto da essere utilizzata come prova del consenso popolare alla guerra e alla sua violenza42, ma anche per sostenere la posizione opposta43. Il processo delineato di brutalizzazione implica tuttavia un’accettazione della realtà della guerra che non è sinonimo di consenso ai suoi fini o ai suoi mezzi. Accettare l’evento e gli effetti che esso ha sul proprio corpo e sui propri comportamenti è ben diverso dal ritenerlo auspicabile, 39

Memoriale di Mario Crosina. Le stesse due metafore («animalizzazione» e «imbarbarimento») sono citate da Nicolas Beaupré come caratterizzanti le scritture letterarie del fronte in Germania e Francia, ma, laddove i trentini le riservano solo a se stessi, i romanzieri e memorialisti colti del fronte occidentale le utilizzano principalmente in riferimento al nemico. Nicolas Beaupré, Écrire en guerre, écrire la guerre, CNRS Editions, Paris 2006, pp. 153-173. 41 George Mosse, Fallen Soldiers: Reshaping the Memory of the World Wars, Oxford University Press, Oxford 1990, pp. 159-181 (trad. it. di Giovanni Ferrara degli Uberti, Le guerre mondiali, dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Bari-Roma 2007, pp. 175-199). 42 Stéphane Audoin-Rouzeau, George L. Mosse, réflexions sur un méconnaissance francaise, in «Annales HSS», 1 (2001), pp. 183-186 e Antoine Prost, The impact of war on French and German political cultures, in «The Historical Journal», 37 (1994), pp. 209-217. 43 R. Cazals, F. Rousseau, Le cri, op. cit. 40

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giusto o anche semplicemente dotato di senso in una prospettiva personale, politica, patriottica. Lo stesso Mosse parla di accettazione stoica e fatalista della guerra, mentre riserva l’entusiasmo a giovani e colti volontari44 e per un periodo limitato di tempo. I trentini, tuttavia, non collegano il cambiamento in corso principalmente con le scene di violenza a cui assistono e men che meno con le azioni violente che è richiesto loro di compiere. Non è l’esposizione alla morte di massa o l’abitudine all’atto violento che, agli occhi dei coscritti trentini, determina la loro personale «brutalizzazione». Sia il mutamento in bestiame sia quello in selvaggio sono legati alle imposizioni fisiche, non alle scelte morali che la guerra impone; nessuna delle due percezioni implica un’ammissione di colpa individuale. Quali cause di entrambi i mutamenti vengono citate la sporcizia, la fame e la magrezza, l’alloggio o il trasporto disumano, il trattamento degli ufficiali, ma mai, come sarebbe legittimo aspettarsi, la visione di morti e feriti o l’uccisione di un proprio simile. Si è animali o selvaggi nel divorare il cibo, nel contenderselo con i propri pari, nel dormire nel fango, nel marciare inquadrati sotto il sole, non quando si trafigge un nemico con la baionetta o quando si prende d’assalto una trincea: la metafora prevalente è quella del mansueto bovino, non quella di un predatore o di uno sciacallo. Si tratta di un’ulteriore conferma del ruolo della scrittura come mezzo di deresponsabilizzazione dei soldati. Difficile è stabilire se la visione della violenza possa aver alimentato una percezione di cambiamento individuale, di natura o di status che sia. Certo è che la scrittura di guerra si rifiuta di descrivere o di soffermarsi sulle conseguenze a breve e lungo termine dalla violenza vissuta. La trasformazione del sé in altro-da-sé ad opera del conflitto è inoltre sempre declinata al plurale. Non si trova nella scrittura popolare una riflessione sulla propria trasformazione, così come manca la descrizione precisa di atti personali che potrebbero averla determinata: è sempre il gruppo dei commilitoni che, senza colpe, viene trasformato dall’alto. Il bestiame ha un destino segnato. Spogliato della propria volontà, strappato dalla propria terra, condotto alla cieca da pastori folli e perversi, non può che dirigersi al macello45. 44

G. Mosse, op. cit., pp. 53-69 (trad. it., pp. 59-77). La parola «macello» ha una frequenza tale nella scrittura popolare non solo di guerra da essere portata quale esempio di «popolarismo espressivo» in Paolo D’Achille, 45

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Io coll’animo straziato penso se avrò la grazia di ritornare a vedere ancora le belli valli Trentini, se sarò tra quei fortunati che faranno ritorno al campo che comunemente veniva chiamato «Macello»46. Prima di metterci sul fuoco ci dovrà pur ristorarci […] Pensavamo ancora che anche i manzi, quando li mena al maccello l’invaghisse con una presa di salle o qualchecosa altro di buono per poi darli il colpo mortale di tradimento (Poverini che illusioni) a quell’ora si credeva esser tratati al pari delle bestie! Ma hai! Saressimo signori noi se ci trattassero e rispondessero come le bestie; ma noi dobiamo esser molto al di sotto di questo grado, essendo così miseramente ed inocentemente calpestati da tanti signori che ci odia47.

Il macello S’ebbero in ciò molti combattimenti, a’ quali, purtroppo, presi parte anch’io, ma solo passivamente – Luigi Moresco

L’epistolografia è praticamente muta sulla violenza di guerra: la scrittura rassicuratrice propria della lettera non permette che nel dialogo epistolare, nel rapporto immaginato con il familiare, si insinui il benché minimo accenno a qualsiasi tipo di atto violento. Simone Chiocchetti, che aveva partecipato alla battaglia di Gorlice-Tarnov (maggio 1915), una delle più ampie e cruente del fronte orientale, nella quale le formazioni Kaiserjäger giocarono un ruolo di primo piano (in particolare il IV battaglione, nel quale milita Chiocchetti), opera una trasposizione della violenza subita sui propri commilitoni (tutti conosciuti dalla famiglia, perciò compaesani), minimizzando in questo modo il proprio coinvolgimento personale, anche in qualità di vittima. Ecco tutto quello che la famiglia viene a sapere sulla terribile battaglia: 11/5 / Alla mia compagnia adesso sono solo, il Beppo sie fatto male un pò a un occhio, starà alcuni giorni all’ospitale, il Zinzol Bassot è ferito alla spalla L’italiano dei semicolti in Luca Serianni e Pietro Trifone (a cura di), Storia della lingua italiana, Vol. II, Einaudi, Torino 2003, pp. 41-79. 46 Memoriale di Fioravante Gottardi. Memoria autobiografica di Alberto Barberi: «tutti i giorni tenevammo il fronte fino alle 11 e 12 poi incalzati dai russi dovevammo ritirarci lasciando su campo tanti morti e feriti era un vero macello, affamati come lupi perche nella ritirata le cucine se le prenderno i russi»; Memoriale di Giacinto Giacomolli: «Avanti in sul far del giorno siamo arrivati per cosi dire al macello morti». 47 Memoriale di Antonio Rettin.

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destra Il Giacom è ferito a un dito ad un mano il Fedele ferito alla guancia sinistra […] quel medil non si se è ferito, disperso o morto. E proprio un miracolo della Madonna se mi trovo ancora sano48.

La guerra combattuta che appare dalla scrittura annalistica è in grande maggioranza manifestata dal rumore dell’artiglieria, dai movimenti del soldato e della sua compagnia, dal succedersi di piccoli avvenimenti di routine. Una delle modalità più diffuse per rendere la crudeltà di una battaglia è quello della menzione dei morti, con una particolare attenzione, ovviamente, per quelli trentini49 e l’utilizzo di elenchi dei defunti e conteggi dei superstiti, solitamente estremamente precisi. La sbrigatività colpisce soprattutto quando è in relazione con tappe imprescindibili della narrazione della vicenda individuale, quelle che non possono non essere rimaste impresse nella memoria o che hanno cambiato radicalmente lo status personale del protagonista, come il battesimo del fuoco o il momento in cui si è stati catturati dal nemico. Esse possono passare sotto silenzio o essere annotate senza che lo stile si sforzi di rendere il pathos del momento50. Si noti, nel memoriale di Giovanni Tomasi, come la battaglia sia presentata come una parentesi tra un pasto e l’altro. Si tratta dell’unica battaglia alla quale Tomasi afferma di aver preso parte. O ricevuto da mangiare che questa volta o potutto dire che sono sazio eppoi ce nera di avanzo che lo mesa al sicuro per la prosima occasione. Era circa le 3 48 Epistolario di Simone Chiocchetti. Scrive per contro Gaetano Bazzani, sulle stesse giornate: «L’ultimo contributo collettivo dei nostri irredenti fu pagato nelle giornate di Gorlice-Tarnov (2-3 maggio 1915) […] I quattro reggimenti Tiroler Kaiser Jager, nei quali il 33% degli arruolati era trentino [si noti come Chiocchetti avesse detto di «essere solo»: evidentemente si riferiva all’assenza dei compaesani], parteciparono al cruentissimo attacco iniziale di sfondamento in cui si distinsero in modo speciale il II e IV reggimento […] I quattro reggimenti predetti e i tre Landesschutzen dovettero più volte essere ricostruiti ex novo». G. Bazzani, op. cit., p. 36. 49 Diario di Riccardo Bridi: «25 di Agosto siamo in tratti in conbatimento alla sera si viaggia per 45 Kgm di strada ai 28 per il secondo conbatimento giorno di sangue e di mortalita le nostre Conpagnie di 2.50 che eravamo; siamo rimasti in 1.24 rimane morti e feriti». Diario di Ezio Zanella: «perdite circa 15 uomini morti uno della valle di Non morto uno diventato pazzo». Diario di Anonimo B: «del tutto i Reg. siamo restati 6 picole compagnie cioe di 100 uomini per Komp ove prima erano 120. La mia compagnia era di 126 uomini, e rimase 17. Insoma, un flagello». 50 Diario di Vittorio Sartori: Arivo in galizia / Ai 18 ore 11 ant / Alla stazione / Sanbor / I Combatimento / 28/8 incomincia ore 2 finisce a notte / II 31/ ill. ore 9, term: notte / III 7/9 tutto il giorno / Telatin / Pigliato prigioniero».

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dopo pranzo un ordine ci invitò ad andare in asistenza alla fanteria. Io non o potuto scapare da questi cosi con loro con la testa basa si va destino. Alle 5 si sparavano il nemico fino la notte. Dopo note si riceve ancora da mangia51.

Giorgio Bugna stende un memoriale che si trasforma successivamente in diario di prigionia: la guerra combattuta vi trova un posto minimo. Il battesimo del fuoco non merita inizialmente che due parole («27-8 primo combattimento»), seguite dalla ritirata («9-9 ritirata sotto le granate») e da una notazione leggermente più estesa su un ufficiale («12-10 partenza per la battaglia. Alla sera un ufficiale colla rivoltella voleva uccidermi perché non avevo inteso il suo commando»). Bugna viene catturato il 13 ottobre 1914. La sua reticenza nel narrare non significa che egli fu insensibile all’episodio. Nel terzo anniversario della sua cattura (anche se nel diario si dice il secondo) afferma che quel 13 ottobre 1914 è stato il giorno «più felice» e «memorabile», ma i dettagli che Bugna aggiunge sono pochi. Nessuno di questi riguarda cosa lui abbia fatto effettivamente in quel giorno. Valentino Maestranzi, per citare solo un altro esempio, racconta in poche parole il primo combattimento e la prima ferita. Il giorno 8 Setembre, festa della madona fu il primo conbatimento, che abiamo fatto rispingendo, il nemichoefacendo prigionieri, ma nel corere inmezo acuei canpi unpezo di fero da srapnel mi presi in una ganba52.

L’allargarsi dello scarto temporale tra l’esperienza e la sua scrittura sembra, insieme alla cultura e alla capacità espressiva dell’autore, un elemento determinante per l’inserimento della violenza testimoniata, subita o in rarissimi casi anche esercitata. Negli scritti cronachistici e in generale più colti si trova una maggiore disponibilità a narrare le battaglie a cui si è preso parte, a fornire dettagli e circostanze. Farò dunque uso principalmente di questi, sottolineando di nuovo il fatto che la scrittura più diffusa, quella annalistica, preferisce tacere del tutto sull’argomento. Per esplorare le priorità narrative delle descrizione di battaglia farò uso del concetto di «obiettivo narrativo», da intendersi in senso cinematografico, in quanto occhio del narratore che si posa sui combattimenti, applica tecniche di «ripresa», ritiene o tralascia determinati avvenimenti. Il caos della battaglia, la giustapposizione degli elementi visivi, auditivi e olfattivi, trova nella narrazione un 51 52

Memoriale/diario di Giovanni Tomasi. Memoria autobiografica di Valentino Maestranzi.

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suo ordine e nella scelta di quest’ordine un suo significato, coglibile soltanto dalla lettura comparata di memoriali diversi. Tipicamente, lo si è detto, l’obiettivo narrativo della scrittura popolare trentina segue da vicino il protagonista, ne racconta fedelmente gli atti quotidiani, in quello che possiamo descrivere come un costante primo piano sull’attore nella sua interazione con alcuni elementi, scelti con cura, della guerra. Le descrizioni di battaglia mettono in luce alcune variazioni. La prima di esse è un allargamento dell’obbiettivo fino a comprendere l’intero campo di battaglia, quello che possiamo chiamare un «campo lunghissimo» o «panoramica». Di fronte all’accavallarsi degli avvenimenti, di fronte alla loro contemporaneità, si abbandona la stretta cronologia e non si tenta nessun tipo di gerarchizzazione. Di fronte a una «guerra cubista»53, una descrizione quasi futurista dell’ambiente circostante: cera paludi canali di aqua, nebie, basse, urli d’infelici, il tuono dei canoni, e il fracasso, delle mitragliatrici, tutto sembrava orore di morte sembrava che il cielo volese cascarsi adosso54. Le urla i lamenti le grida dei feriti il forte foco d’artilieria e fanteria chi corre avanti chi correva in drio chi piangeva il continuo scopio dele granate di grosso calibro che i russi ci mandavano nel bosco infatti pareva la fine del mondo55. Il tuono dei cannoni, lo scoppio delle bombe, si confonde colle grida strazianti dei feriti, cogli ultimi gemiti arrantolati dei moribondi. La mia mente è come un molino, non son capace né di pensare, né di formare un’idea56.

Tutti gli elementi del paesaggio vengono fusi a creare una battaglia personificata, un Moloch che divora i suoi partecipanti e li rende tutti indistintamente vittime di una violenza soprannaturale e inumana. Una volta che il protagonista si è trasformato in testimone, la descrizione della violenza assistita assume un valore dimostrativo, è una denuncia autoevidente della crudeltà della guerra e delle brutalità a cui il soggetto è stato ingiustamente sottoposto. Negli ultimi due casi citati, e in molti altri, la sovrapposizione delle 53 L’efficace concetto di «guerra cubista» viene argomentato, a partire da una intuizione di Gertrude Stein, da S. Kern, op. cit., pp. 287-312. 54 Memoria autobiografica di Emilio Fusari. 55 Diario di Giovanni Lorenzetti. 56 Memoriale di Fioravante Gottardi.

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immagini, dei suoni, dei pensieri si risolve in una rinuncia: la scrittura si arrende all’incomunicabilità, palese in espressioni formulari quali «pareva la fine del mondo», «non potete capire» «era un inferno»57. Là non si vedeva altro che cadaveri e il terreno tutto coperto di montare e fasie in sanguinate, e fucili. Il sole medesimo compariva fuoco e sangue. In una parola Io non posso nemmeno spiegarvi, tutto poi le torture che un uomo pol provare in vita e poi la morte che quella sé stata crudele anche a Nostro Signore58.

Il problema della comunicabilità e della capacità descrittiva, quando non viene ritenuto irresolubile, viene affrontato tramite metafore ricorrenti, tra le quali, oltre a quella del macello o a quella dell’«inferno», un posto di primo piano ha l’immagine della catastrofe naturale, soprattutto la «tempesta»59. La mitragliatrice e gli shrappnell sono sempre «grandine»60, «goccioloni di piombo»61, «fulmine»62 o neve63, «E chi è in grado» si chiede Rodolfo Bolner, «di dipingere a parole il sibilo delle granate e il rombo del loro scoppio?» Ma poi ci prova: «Il terreno innanzi a noi è tutto un vulcano in eruzione»64. Le condizioni più estreme e catastrofiche del mondo naturale sono utilizzate, in un espediente che non è ovviamente esclusivo di questi testimoni, per descrivere gli elementi indescrivibili della guerra, per dislo57 Diario di Alfredo Franzoi: 5/6/1916 / Fu adiritura infernale. / Cannonate continue ci minacciavano da tutte le parti da destra, da sinistra pareva il finimondo». Rodolfo Andreis: «Impossibile descrivere un tale disastro, nessun mortale può immaginarlo se non vi ha partecipato». 58 Diario di Lino Brugnara. 59 Memoriale di Angelo Paoli: «[…]quando ad un tratto vennero sopra di noi alcune cannonate e la mitragliatrice cadeva come tempesta». Diario di Celeste Paoli: «ai 12 – 13 – 14 fu una tempesta di granate ma per grazia di Dio fui salvo. 60 Memoria autobiografica di Ermanno Guarnieri: «I Russi ci scorsero subito e incominciarono un fuoco di mitragliatrici e fucili violento, decimatore, inesorabile. Come cade il grano sotto l’impeto di una violenta grandine, così la maggior parte dei miei camerati cadde esalando l’ultimo respiro, mordendo la polvere». 61 Memoria autobiografica di Giacomo Sommavilla. Memoriale di Guido Piffer: «a fugire non si poteva dalle palle nemiche che pareva come una pioggia in tempo di estate». Zibaldone/Memoriale di Riccardo Malesardi: «Su questo campo di/ battaglia come pioggia/ la mitraglia la si/ spargeva sopra il mio/ capo […]». 62 Diario di Giovanni Barozzi: «Il giorno 28 abiamo dovuto scampare dai doveri che veniva un fulmine di granate era 6 note che non dormiva». 63 Memoriale di Giacinto Giacomolli: «Bendi buonora all’armi partiti e subito siano stati in una collina che fioccava le balle come neve quelle da schipo e da canone ne lafare di poche ore un monticello era coperto di cadavari». 64 Memoria autobiografica di Rodolfo Bolner.

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care la violenza su fenomeni conosciuti e che avessero un senso all’interno della esperienza contadina del mondo. Nelle parole di Cirillo Mazzola tempo atmosferico e intensità del fuoco di artiglieria arrivano a fondersi, in una descrizione che rende bene la contemporaneità degli avvenimenti e la sfida che essa pone ai sensi e alla stabilità psicologica: Ogi 27 Giugno siamo statti in riposo tutta la conpagnia pero il canone ci sofiava li vicino ma noi eravamo fuori di pericolo La notte dal 27 al 28 e venuto la sera un temporalle e un combatimento che durò tutta la notte pareva un uragano di canoni e Gevermarsine tutta la notte [ill.] e granate65.

La metafora permette il rendiconto di un’esperienza che resiste alla scrittura e al pensiero, tramite una traslazione di significato in un ambito familiare a chi scrive: si tratta con tutta evidenza di una strategia testuale che funge da «organizzatore mentale» grazie alla capacità, propria di ogni figura retorica, di tradurre l’inconoscibile e renderlo comunicabile e interpretabile66. La metafora, in particolare, è l’operazione logico-retorica che permette l’intersezione tra discorsi e domini semantici non naturalmente comunicanti sul piano cognitivo67. La metafora ironica può invece, a partire da una identica constatazione di inenarrabilità, perseguire fini diversi. Hayden White ha definito l’ironia una categoria metatropologica68, indicandone la tattica figurativa fondamentale ne «la catacresi (letteralmente “uso errato”), la metafora manifestatamente assurda usata per inspirare dubbi sulla natura della cosa descritta o sulla adeguatezza della descrizione stessa». La violenza di guerra è a volte oggetto di questa negazione: la metafora ironica avvicina due campi dell’esperienza totalmente slegati e contrapposti (ad esempio la festa e il fuoco di sbarramento) abbandonando consapevolmente la volontà di descrizione, resa impossibile dalla 65 Diario di Cirillo Mazzola. La compenetrazione tra tecnologia e natura è estesa a tutti gli aspetti della guerra ed è una percezione talmente profonda e intuitiva da spingere Teodoro Ceschi a inserire nel suo diario: «26.2.17 […] un bel giorno di sole e aereoplani». 66 «La metafora, la metonimia, l’iperbole non sono solo forme linguistiche poetiche, ma modi di funzionare del pensiero, costituiscono l’essenza stessa del pensiero creativo […] Il loro fine non è quello di enunciare, mediante una determinata sostituzione semantica, ciò che può essere enunciato anche senza di essa, ma di esprimere un contenuto, un senso che in altro modo non può essere trovato e trasmesso». Michele Cavallo, Analisi retorica dell’identità, in Michele Cavallo (a cura di), Il racconto che trasforma. Testo e scrittura nella costruzione della persona, EDUP, Roma 2002, pp. 101-140. 67 Ivi, p. 107. 68 H. White, Metahistory, op. cit., pp. 36-37.

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forma e dalle implicazioni della scena testimoniata69 in favore di una diminuzione, attraverso l’assurdo, del potenziale distruttivo del vissuto della battaglia70. In questo modo le pallottole possono diventare «caramelle» (pastinnie) da regalare ai nemici: Quelle 120 pastinnie poi che per ultimo ci vennero consegnate, onde regalarle ai nemici, produssero in noi una certa febbre, conseguenza della quale fu l’ammutolimento e il cessare di ogni allegro discorere71. gli italiani cominciavano a mandarci le loro pillole di una forma mai veduta in farmacia; atte a smassacrarci, o se non venivano a contatto col nostro corpo, a farci star cogli orecchi aperti!72

Il fischio delle pallottole, comunemente chiamato con il nome ironicamente onomatopeico di «zio», può dare luogo a descrizioni surreali Alle feste natalizie invece di trovarmi ad ascoltare la messa si era giorno e notte sul nudo terreno a pregare Dio e Maria che mi salvi dalle granate e schrapnell e da quei nipoti che chiamavano zio e non s’era nemmeno parenti73 mi trovo qua in questo decum com molta paura perché ogni qual tratto si sente il fischio di qualche proiettile che mi chiama zio sopra la testa e sapendo non avere nisun nipote in serbia resto impresionato74.

Persino il fuoco dell’artiglieria può essere oggetto di scherzi e ironia, il suo rumore assordante può diventare il «suono della banda», le sue esplosioni accecanti «fuochi d’artificio», i suoi effetti devastanti sui nervi del soldato possono essere oggetto di vezzeggiativi: Da principio pareva / Che il mondo fosse cascà / E poi mi sono fatto entro / Che per le palle non / Mi spavento solamente / Un pocchetino al rimbombo / Del canoncino…75

69 Significativamente White definisce l’ironia come il tropo maggiormente consapevole, di contro a tropi «ingenui» quali sono metafora, metonimia e sineddoche. 70 Per un’interessante discussione sull’uso della simbologia retorica e della metafora nella storiografia Robert Darnton, The symbolic element in history, «The Journal of Modern History», 58 (1986) n. I, pp. 218-234. 71 Diario di Giacomo Sommavilla. 72 Memoriale di Guido Zanella. 73 Memoriale di Giusto Manica. Eutimio Gutterer: «I piccoli proiettili passando vicino alle nostre orecchie ci chiamavano Zio, Zio, se anche non avessimo nessun grado di parentela». 74 Diario di Antonio Giovannazzi. 75 Zibaldone/diario di Riccardo Malesardi.

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Vidi la prima pala di canone italiana e mi spavento per intiero, benche non èra intiera76.

La tecnologia militare, incontrata per la prima volta al fronte e divenuta parte del vissuto (il fucile, i proiettili, la maschera antigas) e del paesaggio quotidiano (i cannoni, i proiettili di artiglieria) non è mai oggetto di una descrizione approfondita e non si trova alcun accenno al rapporto del soldato con l’oggetto, paragonabile a quanto accade, ad esempio, al rapporto con la fisicità delle lettere. Oggetti comunemente usati e di certo caratterizzanti, come il fucile (che richiedeva, ovviamente, una cura e un’attenzione costante e doveva occupare una parte consistente del tempo del narratore al fronte), sono nominati molto raramente e con scarso interesse. Unico elemento di novità che viene citato con un certo livello di dettaglio è l’aviazione: l’avvistamento di un aereo sulle trincee rappresentava un diversivo, sovente innocuo77, nella vita del fronte78. La descrizione del movimento d’attacco e di qualsiasi atto aggressivo fa quasi invariabilmente uso di un campo lungo, nel quale l’autore è visibile, ma solo all’interno del gruppo dei commilitoni. Ai 27 Gen. crande combattimento della lunghezza di due chilometri. Abiamo distrutto le prime file nemiche che la neve e divenuta nera da tanti Russi morti e feriti che cera79.

La forma più comune del verbo sparare è la prima persona plurale: il campo lungo distribuisce le responsabilità e le annulla, rendendo il soggetto narrante non rintracciabile80. Non raro l’uso dell’impersona76

Diario di Celeste Paoli. A questo stadio di evoluzione della tecnologia bellica l’aviazione, per quanto utilizzata, spesso inefficacemente per bombardamenti a terra, aveva perlopiù funzioni esplorative. Lettera di Augusto Gaddo ai genitori: «Anche gli aeroplani volano en giro / E par che volano en Paradiso / Ma tut ad un trat calano a basso /Sol per far su qualche fracasso». 78 Il fascino eccezionale esercitato dagli aeroplani sulle truppe di terra di tutti i fronti è stato spiegato da Eric Leed con il fatto che gli aviatori rappresentavano l’unico elemento della guerra totale nel quale permaneva la percezione di uno scontro «cavalleresco», tra pari e perciò un certo grado di epicità che contrastava con l’impotenza individuale tipica della trincea. Per il caso in questione, in assenza di un’etica guerriera precedente, mi sembra più economico cercare la spiegazione nel generico fascino e nella specifica novità del volo. 79 Diario di Riccardo Malesardi. Si veda anche Anonimo P: «Dal fronte 12 Giugno 1916 / Mentre la battaglia sorge furiosa il pensiero mio è ai miei cari figli e famiglia mia, bacio fisso la fotografia di Ettore e Ada e soffro tutto per essi». 80 L’anonimato garantito dal numero è peraltro uno dei fattori che facilitano l’eser77

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le e l’esplicitazione del ruolo coercitivo degli ufficiali alle spalle dell’anonimo gruppo dei commilitoni. La violenza che ne risulta è dal punto di vista degli attori una «violenza fredda», mantenuta a distanza dal soggetto collettivo, dalla coercizione degli ufficiali o, più semplicemente e frequentemente, dal silenzio sul proprio apporto ad essa. La violenza «calda», quella che caratterizza la crociata, o anche un temporaneo sentimento di trionfo o «giusta vendetta» sul nemico è del tutto esclusa dalla narrazione. Il movimento contrario, quello della fuga o del nascondersi, è oggetto di un’attenzione ben più viva e di una incomparabile disponibilità a parlare dei sentimenti che il caos, la paura della morte e le visioni apocalittiche generano nell’autore. In questo caso l’obiettivo narrativo può tornare al primo piano o persino restringersi in un primissimo piano, che coglie gli atti minuti del soldato e le sue riflessioni, ma, di nuovo, esclude qualsiasi accenno ai suoi atti aggressivi e mette in secondo piano la violenza che si sta svolgendo attorno a lui. La si sentiva le balle dei russi a fischiare e quele dei nostri soldati che tirava ai russi e noi none fidiamo [ill.]. la io avevo un crocifiso di quei picoli e seguitavo a pasarlo e a dire orazioni e o dito latto di dolore la io non sapevo chome fare io non sapevo nianche di esere al mondo sento i miei compagni che se pura aveva ciapato delle balle e io tutto smarito81.

Angelo Raffaelli, l’autore del passo sopraccitato, non si limita però a nascondersi con il crocifisso in mano. Poco dopo si ritrova nel testo un «campo lungo»: la siamo statti due giorni e poi i russi veniva in quattro o cinque file allora noi abiamo sbarato fino a che potevamo io mi faceva male la spalla a forza di sbarare82.

Eppure l’atto (collettivo) di sparare, ripetuto ossessivamente nel corso di ben due giorni, non merita altro commento. Si preferisce narrare dei pochi minuti della preghiera piuttosto che di due giorni consecutivi di combattimento attivo. Non si cita alcuna uccisione o ferimento, solo l’effetto che lo sparare ha sulle braccia di chi spara. cizio della violenza sul campo di battaglia, disperdendo la responsabilità individuale. Nessuna sorpresa che lo stesso meccanismo si ritrovi nella scrittura. Dave Grossman, On Killing: The Psychological Cost of Learning to Kill in War and Society, Back Bay Books, New York 2009, Parte IV, Cap. II. 81 Memoriale di Angelo Raffaelli. 82 Ibidem.

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Quando, finalmente, il protagonista fugge, l’obiettivo della narrazione torna a seguirlo in primo piano e a descrivere, non di rado con chiari obiettivi retorici (miranti a dimostrare la furbizia del soldato nel sottrarsi alla guerra o la crudeltà degli ordini e delle condizioni a cui era stato sottoposto), gli espedienti da lui attuati e l’ambiente circostante. La grandissima maggioranza delle rare descrizioni di battaglia si risolve in una descrizione di fuga e di nascondigli, sia che l’esercito del protagonista si ritiri sia che esso avanzi. Il coraggio in battaglia non è ritenuto in nessun modo un valore positivo. Esso non viene semplicemente preso in considerazione: non ci si preoccupa generalmente di imbastire alcun tipo di giustificazione per atti di fuga in faccia al nemico che avrebbero portato, se scoperti dalle autorità, alla corte marziale; non ci si preoccupa nemmeno di spiegare la propria posizione o i motivi del proprio atteggiamento: sottrarsi alla battaglia e agli ordini di avanzare era semplicemente naturale in una guerra in cui l’unico scopo era la sopravvivenza e la cui natura sopravanzava le possibilità umane. La descrizione della battaglia effettua dunque una serie di operazioni sul soggetto: lo rende vittima di un ambiente impersonale e feroce, lo confonde in mezzo ai suoi commilitoni, lo rende il centro assoluto di una scena che esclude tutto il resto83. Nel complesso tutti questi espedienti hanno un obiettivo comune, quello di creare un punto cieco sulla violenza esercitata e sull’uccisione perpetrata dal protagonista. Rarissimi sono i casi in cui l’autore ammette di aver premuto il grilletto in direzione del nemico, quasi inesistenti le descrizioni delle conseguenze dell’atto (se il bersaglio è stato colpito o meno) o l’ammissione di aver ucciso; inesistenti, per conseguenza, le riflessioni sull’atto dell’uccisione e sugli effetti che esso ebbe sulla psicologia del soldato, l’accoglienza sociale dell’atto di uccidere (il «body count», o la raccolta di trofei) e le speculazioni sugli effetti delle proprie azioni sul corpo di nemici spesso invisibili84. 83 Cfr. Stéphane Audoin-Rouzeau e Annette Becker, Violence et consentement: «la culture de guerre» du premier conflit mondial, in Jean-Pierre Rioux, Jean-Françios Sirinelli (a cura di), Pour une histoire culturelle, Seuil, Paris 1994, pp. 251-271: «Certo le testimonianze non sono mancate, dagli anni ’20 e soprattutto negli anni ’30 per sottolineare l’orrore del campo di battaglia. Ma a guardarle da vicino si tratta quasi sempre di una brutalità anonima, cieca, che è messa in primo piano, la violenza senza responsabilità identificata. La brutalità tra individui è invece molto poco presente». 84 Joanna Bourke, An Intimate history of killing, Basic Books, New York 1999, pp. 1-31 (trad. it. di Maria Cristina Coldagelli e Daniele Ballarini, Le seduzioni della guerra. Miti e storie dei soldati in battaglia, Carocci, Roma 2001).

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Anche nei casi in cui si usa il primo piano e si descrive una violenza esercitata verso il nemico è palese la volontà di giustificarsi; è solo per non addormentarsi che Giuseppe Scarazzini si unisce al fuoco dei suoi compagni: lo sparare è in questo caso caratterizzato come una strategia nei confronti degli ufficiali, non come una risposta alla minaccia russa. Non era mai meza notte e per scaciare il sono cominciai anch’io a far fuoco. Mentre parte il colpo larma fa una scossa per tutto il corpo e così non si addormenta, perche ci avevano avisato che colui che si addormenta sul posto e che venisse scoperto di un ufficiale viene castigato o fucilato85.

Casi analoghi, ma più articolati, si trovano in Alfonso Cazzolli e Emilio Fusari. Il primo descrive il proprio battesimo del fuoco per mezzo di un primissimo piano che lo vede nascosto in una buca per un giorno e una notte, sotto il fuoco incessante delle batterie nemiche. L’attenzione è tutta rivolta ai suoi propositi di suicidio, autolesionismo o diserzione e soprattutto al ricordo dei familiari, che vengono citati uno per uno. Scoperto nel suo nascondiglio e minacciato da un ufficiale, Cazzolli deve infine lanciarsi all’attacco. Nel suo memoriale si trova una descrizione davvero rara di una pratica che rara non era, quella del taglio del filo spinato e del tentativo di irruzione nella trincea avversaria; Cazzolli afferma che il suo unico obiettivo era quello di darsi prigioniero, ma in questo caso evidentemente mente, visto che irrompeva con l’arma in pugno, sotto il tiro nemico e insieme ad altri commilitoni nella trincea nemica, dopo aver tagliato il filo spinato di protezione. Impossibile che il suo proposito, posto fosse reale in una situazione così pericolosa, potesse essere compreso dai russi. Come prevedibile si trova a combattere all’arma bianca: Io non volevo uciderlo ma non desideravo restar morto neppur io, la lotta non possio descrivere, non ne ho il coraggio, dopo pocchi secondi mi accorsi che perdevo sangue alla mano destra, i miei occhi si infiamarono, mi trovavo in un forte delirio, presi con forza l’arma e la gettai contro il povero disgraziato, chiusi gli occhi per non vedere, e, gli apersi gli vidi il sangue a scorere […] io non ebbi il coraggio di uno che dimanda perdono, ucidere86.

La lama è penetrata nel collo del nemico di «soli» 5 centimetri, il soldato russo viene fatto prigioniero. Non ci è dato sapere come è an85 86

Diario di Giuseppe Scarazzini. Memoriale di Alfonso Cazzolli.

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data in realtà la vicenda (la dinamica dello scontro, in particolar modo riguardo alla baionetta scagliata ad occhi chiusi, non è molto credibile), certo è che Cazzolli, per raccontare un atto che dopotutto gli era richiesto e giustificava la sua presenza al fronte, ha bisogno di una quantità di precauzioni: era stato costretto all’attacco dall’ufficiale, voleva solo darsi prigioniero, non voleva uccidere il suo avversario – difatti non lo fa –, quando lo ha colpito era in preda alla rabbia e al delirio e aveva addirittura gli occhi chiusi. La baionetta, lanciata e sfortunatamente atterrata nel collo del russo, allontana anche fisicamente la violenza e la colpa. Emilio Fusari inizia invece con una panoramica sul campo di battaglia: Sembrava un diluvio fuochi, fumo, chiaso! urli, tuoni maledizioni, preghiere Restiamo li fino le 9 di quella mattina in quel inferno spregato […] Alzandomi provai un non descrivibile momento87.

Come in tutta la sua memoria autobiografica Fusari è attentissimo alle colpe austriache: egli vede i suoi compagni trentini cadere, alcuni per mano degli stessi ufficiali, e non può aiutarli poiché «il grido Austriaco era sempre avanti fino alultimo sangue». E avanti va, in cerca, dice, di una ferita che lo salvi, o anche della morte. Quando gli viene ordinato di lanciare una bomba a mano nella trincea russa si preoccupa di specificare che gettai la prima un po avanti, ma la seconta, la gettai alindietro, non volevo far male sì a sangue freddo, a persone forse migliore… di cuore88.

La misera buca occupata dai russi è presa dagli austriaci. Durante la notte tuttavia dei soldati russi si avventurano in quella stessa trincea, sorprendendo Fusari e alcuni suoi amici trentini. I propositi e l’esito dello scontro non differiscono da quelli di Cazzolli: […] decisi solo di difendermi era oscurita ma si da vicino potevo oservar bene il mio avversario, Il mio fucile li stava apuntato ma solo per difesa non aveva nianche il minimo pensiero di farli male […] Fu cessato col farli prigionieri che si son resi da soli89.

È ovvio che la calma decisione di Fusari, improvvisamente ingaggiato in un duello all’arma bianca, al buio e – stando al memoriale – 87 88 89

Memoria autobiografica di Emilio Fusari. Ibidem. Ibidem.

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per la prima volta, non è più credibile del fortunato lancio di baionetta di Cazzolli. Quando Fusari si trova a combattere di nuovo all’arma bianca90 perfeziona la sua difesa retorica e specifica meglio il significato dei suoi atti, utilizzando la stessa espressione di Cazzolli (ero come pazzo) per giustificare il ferimento di un nemico e l’adrenalina del combattimento: Ero come pazzo! Avvelenato di quel duello, si resistente. Gettai un colpo di difesa, e feri nella camba uno dei miei aversari e laltro li cascò il fucile di mano e fuggi, mi penti! ma poi pensai che e stato per salvar la mia, vita, e non per difendere quelli che mi an bramato per dovere della patria91.

La violenza sui civili, come è comprensibile, non ha un trattamento più esteso. Sul fatto che vi furono esecuzioni sommarie di civili sul fronte russo non vi è alcun dubbio92 e alcuni (pochi, per la verità, e solo i più colti) autori ne rendono conto, pur presentandosi invariabilmente come semplici testimoni, lasciando in sospeso l’attribuzione dell’esecuzione dell’atto93 o imputandolo alla Guerra personificata. Il memoriale di Ermete Bonapace è un documento preziosissimo per la sua volontà, unica, di rendere conto dell’umore della truppa e per i particolari di alcune descrizioni che sono generalmente taciute dai suoi commilitoni. Egli racconta di un giovane prete russo, accusato di aver suonato le campane per lanciare un segnale al nemico, scortato in mezzo ai soldati che richiedevano a gran voce la sua morte. […] ho sentito dei soldati gridare che bisognava spacciarlo. Dissero che era uno spione dei Russi, che dava i segnali con la campana e certo l’avranno 90 Trovo molto interessante il fatto che la censura sulla violenza sia violata in entrambi i casi in concomitanza con episodi di scontro all’arma bianca, nonostante questi fossero presumibilmente molto più rari degli scontri a fuoco. La maggiore disponibilità a trattare il corpo a corpo in termini espliciti è riscontrata anche nelle narrazioni letterarie della battaglia. È mio parere che essa, perlomeno nel caso in questione, sia da legare alla possibilità che il corpo a corpo ha di essere giustificato con la necessità, con la logica della mors tua vita mea, rispetto al più anonimo e casuale colpo di fucile. Si veda N. Beaupré, op. cit., 2006, p. 130. 91 Memoria autobiografica di Emilio Fusari. 92 Bruna Bianchi, Crimini di guerra e crimini contro l’umanità durante la Grande Guerra. Le stragi sul fronte orientale e balcanico, in Giovanna Procacci, Marc Silver, Lorenzo Bertuccelli (a cura di), Le stragi rimosse. Storia, memoria pubblica, scritture, Unicopli, Milano 2008, pp. 21-39. 93 Diario di Giuseppe Passerini: «27 agosto 915 i russi cedono. Sokal cadde… / 27 agosto – 1 settembre 915 a marce forzate si inseguono i russi / 5 settembre 915 Komarowska saccheggio – distruzione».

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strangolato come fecero con molti altri94.

Del ruolo di Bonapace in queste ripetute esecuzioni non si sa nulla. Nonostante ci siano stati «molti altri» casi questo è l’unico passaggio in cui se ne fa parola e il testimone si preoccupa di restare tale, estraniandosi risolutamente dalla scena («ho sentito», «Dissero», «l’avranno strangolato»). Rodolfo Bolner racconta dell’arresto di un anziano polacco, avvenuto nel novembre 1914, accusato di aver tagliato dei fili del telefono da campo. Il «misero uomo» viene condannato all’impiccagione. Interessante è vedere la reazione dei soldati: attorno al malcapitato si forma una corte di militari e, tra «gli sghignazzi» di «quella gente ebbra di sangue e di barbarie», il polacco viene appeso. La corda è però troppo grossa e mantiene rigido il collo, impedendo il contraccolpo che lo avrebbe spezzato. I soldati, in una scena raccapricciante, si aggrappano alle gambe dell’impiccato fino a che questi non muore. Non contenti, I soldati lì attorno, briachi da una vita di strapazzi, reclamano una simile morte per altri borghesi che sono li esterrefatti a quella scena95.

È evidente che Bolner, come Bonapace, si mantiene ai margini dell’azione e la disapprova da lontano, pur concedendo che i suoi commilitoni erano stati resi barbari da «una vita di strapazzi». Molto più evidente la volontà giustificativa di Rodolfo Andreis, stavolta estesa ai propri commilitoni e persino al proprio comandante (con tutta probabilità trentino). Egli non può in questo caso dipingersi come neutro testimone, ma, attraverso l’utilizzo del campo lungo e di una esplicita perorazione, perviene comunque a un depotenziamento giustificativo dell’avvenimento. Il comando era quello di fucilare dei prigionieri russi che avevano tentato la fuga: viene scavata una fossa e i russi vengono allineati sul ciglio. Tutti i soldati, dice Andreis, erano in lacrime. Il comandante, soffocato dal pianto, avrebbe dato l’ordine di fare fuoco con il solo gesto della mano: Mentre i genieri coprivano di terra le loro salme, noi tutti inginocchiati a capo scoperto, piangendo abbiamo pregato per le povere vittime della barbarie umana. Il comandante, prima della fucilazione ci aveva detto: amici, ho ricevuto quest’ordine, se non lo eseguiamo siamo fucilati tutti noi, parlava e piangeva come un bimbo96. 94 95 96

Memoriale di Ermete Bonapace. Ibidem. Memoria autobiografica di Rodolfo Andreis.

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Difficile dire, anche in questo caso, se i fatti si svolsero esattamente così. Andreis era al fronte da quasi un anno e aveva conosciuto più volte la battaglia e la sua violenza. La volontà narrativa, in un lirismo giustificativo indubbiamente esagerato, è tuttavia chiara: si tratta di attribuire la violenza a un’entità superiore e di affermare esplicitamente la propria innocenza; i giustiziati non sono vittime degli esecutori, ma di una barbarie che appartiene a tutta l’umanità. Se dovessimo applicare il semplice buon senso alle testimonianze (se uccidessimo un uomo lo scriveremmo nel nostro diario personale, almeno la prima volta, in quanto momento estremamente significativo della nostra esistenza) e credessimo in tutto e per tutto ai testimoni ne risulterebbe che solo uno, tra gli autori da me esaminati (Giovanni Pederzolli), ha ucciso dei nemici in battaglia, peraltro preoccupandosi egli stesso di negare qualsiasi tipo di animosità nei loro confronti. È ovvio che non è possibile credervi, anche tenendo conto della scarsa affidabilità in battaglia dei trentini, della loro impreparazione e del loro ambiguo sentimento nazionale. Lo «stupore» generato da questa mancanza, propria non solo del caso in questione, per quanto in esso particolarmente evidente, invita e ha invitato a una profonda discussione sul ruolo della violenza esercitata nella esperienza e nella cultura di guerra, a cui si è accennato in introduzione97: la volontà di presentare se stessi esclusivamente come vittime, infatti, non è propria dei soli trentini e non pare essere una caratteristica legata esclusivamente al milieu contadino, se è uno degli elementi deformanti che, nelle parole di Audoin-Rouzeau e Becker, hanno viziato lo sguardo storiografico sulla prima guerra mondiale, facendolo appiattire sulle posticce posizioni pacifiste che i testimoni avevano riversato nelle fonti retrospettive. I due storici francesi, insieme ai britannici Joanna Burke e Niall Ferguson98, si sono impegnati in tempi recenti perché la storiografia sulla guerra si immerga nella violenza99, la riconosca come il vero centro del97 Per una rassegna dei temi al centro del dibattito sulla violenza si veda Simon Kitson, Cécile Hochard, La violence de guerre. Approches comparées des deux conflits mondiaux, in «Vingtième Siècle», 65 (2000), pp. 139-142. 98 Niall Ferguson, The pity of war, Basic Books, New York 1999 (trad. it. di Sergio Mancini, La verità taciuta. La prima guerra mondiale: il più grande errore nella storia dell’umanità, Corbaccio, Milano 2002). 99 Retrouver si apre con le parole: «Que toute la guerre soit violence, nul èvidemment l’ignore, et pourtant beaucoup refusent, sinon de l’admettre du moins d’en tirer les consequences indispensables».

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l’esperienza di guerra e cerchi di spiegarne le forme e i sentimenti soggiacenti. Joanna Bourke fa notare in maniera perentoria come «the characteristic act of men at war is not dying, it is killing»100. Il significato dell’aggettivo «caratteristico» o, nel caso di Rouzeau e Becker, dell’espressione «la guerra è violenza», deve essere tuttavia meglio specificato. Se per «caratteristico» si intende che la violenza è ciò che distingue in maniera più netta, dal punto di vista del comportamento e dell’esperienza individuale, la guerra dalla pace poche possono essere le obiezioni. Già Sigmund Freud, in risposta a una sollecitazione di Albert Einstein, individuava la base psicologica della guerra nell’antinomia fondamentale tra diritto e violenza101. Prima ancora che «continuazione della politica», la guerra era, per Clausewitz, «un atto di violenza finalizzato a sottomettere l’avversario alla nostra volontà»102. Non è necessario andare oltre queste due citazioni per ribadire il fatto autoevidente che, da ogni punto di vista, la violenza è al centro della guerra103. È solo razionale essere convinti che, nonostante la disproporzione con lo spazio narrativo dedicato ad altre differenze (quello più vago della perdita di volontà, ad esempio, ma anche la distanza o la fatica), i testimoni stessi vedessero nell’imposizione di uccidere una delle diversità più eclatanti tra il mondo di pace e quello di guerra. Se però si intende dire che l’atto di uccidere e la violenza fu centrale nella percezione che gli attori sociali ebbero della propria individualità in guerra, è impossibile non notare che il caso qui presentato rappresenta una prova contraria. Uno dei problemi a mio parere più evidenti della storiografia che, da entrambe le parti della Manica, sta cercando giustamente di «riportare la violenza al centro della storia della guerra» è quello che, per riempire un vuoto delle fonti che, a loro dire, ha determinato una lacuna storiografica sulla violenza esercitata, non si pongono «ai bordi» di questo vuoto, osservandone la sagoma per 100

J. Bourke, An intimate, op. cit., p. XIII. Sigmund Freud, Why War? in Open letter series, League of Nations’ International Institute of Intellectual Cooperation Paris, 1933. http://www.scribd.com/doc/ 8267730/ Why-War-Sigmund-Freud Cfr. W. Benjamin, Angelus Novus, op. cit., pp. 5-30. 102 Carl Von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, Milano 2003, p. 19. 103 «[La guerra] è la violenza senza limiti, la violenza delle violenze. Come la festa nelle società primitive essa affascina; cadono i tabù, i valori si invertono; la violenza è legittima. L’assassinio dell’Altro, del Nemico, non è solo permesso ma prescritto, organizzato e sacralizzato; il saccheggio è meditato e ordinato. Quello che generazioni hanno con fatica costruito è, in un solo istante, distrutto». Jean-Claude Chesnais, Historie de la violence, Laffont, Paris 1981, p. 383 (trad. it. di Alessandro Serra, Storia della violenza in Occidente dal 1800 a oggi, Longanesi, Milano 1982). 101

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cercare di intuire che cosa possa combaciarvi, ma si occupano di riempirlo con materiale diverso e forse non sempre compatibile. Sebbene il workshop di Péronne, con un approccio decisamente più fine rispetto ai corrispettivi britannici, utilizzi materiale di varia natura, ad esempio l’oggettistica104 (le «clave di trincea» create dagli stessi soldati105), per cercare di rendere conto della violenza «dal basso», utilizza esso stesso testimonianze colte, letterarie o scientifiche per provare tesi che dovrebbero essere applicabili a un esercito a maggioranza operaia e contadina. Su queste non si opera la stessa decostruzione che si riserva alla «maggioranza», ritenuta «pacifista» e poco credibile nella sua volontà di fare del soldato una vittima a posteriori. La pretesa poi che l’esempio portato da Joanna Bourke per provare la percezione positiva della violenza («Gli uomini invitavano le ragazze a condividere l’esperienza dell’uccisione […]» scrivendo nelle loro lettere: «ogni volta che penetro sotto le loro costole penso a te»)106 sia in qualche modo rappresentativo dell’epistolografia di guerra è addirittura assurda. Antoine Prost ha cercato di tagliare il nodo gordiano del dibattito su consenso e coercizione alla violenza facendo notare che la maggior parte delle morti al fronte non avvenivano faccia a faccia, ma erano dovute al fuoco di artiglieria e non implicavano un’esperienza diretta dell’uccisione107. La maggior parte del tempo in trincea non era impiegato in attacchi all’arma bianca e in appostamenti, ma in occupazioni ben più ordinarie e noiose, dalla manutenzione delle fortificazioni alla lotta incessante con i pidocchi, argomenti che, non a caso, sono tra i più trattati dalla memorialistica popolare. Di qui la scarsità di rendiconti di violenza esercitata nelle testimonianze. Sebbene l’argomento sia senz’altro valido, esso non basta a spiegare l’ampiezza della lacuna. Non basterebbe una sola uccisione, nella vita di un soldato 104 «L’object est objection» scrivono Becker e Rouzeau, poiché, «il se met de travers des certitudes historiques les mieux etablies». Audoin-Rouzeau, S. Becker, A. ’14’18, op. cit., p. 36 (trad. it. p. 8). 105 Per quanto le clave di trincea costituiscano un indubbio segno della brutalità della guerra, è incerto il fatto che esse possano essere portate a prova di una brutalità «dal basso»: gli spazi stretti della trincea non sempre permettevano l’uso delle baionette e la creazione di oggetti più funzionali, per quanto oggettivamente «brutali», potrebbe essere letta anche in chiave difensiva o utilitaristica. Il fatto che esse fossero particolarmente usate sul fronte italiano, ad esempio, mi sembra più una conseguenza della conformazione delle trincee in suolo montagnoso piuttosto che di una maggiore brutalità di questo fronte rispetto agli altri. 106 J. Bourke, An intimate, op. cit., p. XIII. 107 A. Prost, Brutalisation des sociétés, op. cit., pp. 99-111.

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che fino ad allora era stato un mansueto civile, per giustificare che la sua descrizione trovi posto nel luogo delle sue confessioni intime o che le riflessioni sull’atto appena compiuto trovino uno spazio adeguato all’impatto psicologico che esso doveva avere avuto? La lacuna sulla violenza sembra interessare in primo luogo la testimonianza scritta, mentre meno reticenze sembrano sussistere nella comunicazione orale. I soldati in licenza, racconta Mario Rauzi108, parlavano di una vera ecatombe. Baggia riporta nel proprio libro parrocchiale i racconti dei soldati di ritorno dal fronte, fornendo particolari di violenza che sono del tutto inimmaginabili nella epistolografia e che spessissimo sono tenuti fuori dai diari annalistici109. Cecilia Pizzini tiene un diario quasi del tutto dedicato all’annotazione di chi, nel suo paese di Nomesino, parte per il fronte o ritorna in licenza: i coscritti in permesso erano immediatamente circondati dai compaesani, avidi di notizie sui propri familiari e più in generale sulla guerra. I soldati per parte loro si dimostravano generalmente pronti a soddisfare le richieste del proprio pubblico: Allor io essendovi coi miei bambini, in comincio a in terrogarlo e dimando come selavesce passata nella Galizia. Ecco cioe che egli mi raconta, come disci sopra, fu ferito il 20 Ottobre di baioneta passandoli colla punta la gamba ormai doveva restar vittima ma fu presto a suainare la sua spada e gliela conficò nel ventre fece vittima il suo avversario110.

La violenza non è dunque «innominabile»111. È nella scrittura che la cesura diventa particolarmente importante, poiché è nella scrittura che l’io di guerra viene costruito e difeso. Accetto in pieno la sollecitazione a «riportare» la violenza esercitata al centro dell’esperienza e della cultura di guerra, perché, a patto vi sia spazio per altri elementi altrettanto importanti, non vi è alcun dubbio che quello è il posto dove deve stare: ciò che caratterizzò la guerra fu in gran parte l’intensità (di massa) e la forma (tecnologica) 108

Testimonianza di Mario Rauzi, raccolta da Antonio Mautone. «Li 22.9.14 arrivano feriti a casa Grandi Eugenio e Scartezzini Quirino… narrano degli orrori degli schrapnel… dei feriti… dei morti… fame, sete. […]“anche adesso dall’orrore passano notti paurose di sogni”!!». E ancora: «Lo Scartezzini Isidoro tornato qui per 2 giorni – da Campo Malo, vicino al fronte. Dice che sentiva fischiare sopra le granate… che allo sciogliersi della neve vedonsi insepolti cadaveri di soldati! Da cui si staccava i piedi scarpati!». 110 Diario di Cecilia Pizzini. 111 Efrat Ben-Ze’ev, Ruth Ginio, Jay Winter (a cura di), Shadows of War. A Social History of Silence in the Twentieth Century, Cambridege University Press, Cambridge 2010. 109

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della violenza. All’appello degli studiosi di Péronne accompagnerei tuttavia quello recentemente lanciato dall’antropologo Stephen Lubkemann: sebbene non esista guerra senza violenza, l’esistenza sociale in tempo di guerra non è da essa interamente ed esclusivamente determinata. «Come in tempo di pace, [essa] è centrata su una complessa e multidimensionale serie di obiettivi, fatta di scontri sociali, negoziazioni interpersonali, progetti di vita»112. La violenza può essere una «chiave d’accesso» alla cultura di guerra, ma la sua indubbia centralità può oscurare elementi altrettanto importanti. Affermare che la violenza esistette e che le fonti evidentemente hanno interesse ad occultarla non equivale, ad esempio, a dire che essa fu perpetrata con razionale volontà, patriottico ardore o anche «piacere». Tra le due affermazioni c’è un vuoto informativo che non può essere risolto con la rinuncia alle testimonianze o riempito senza verifica dalle parole di letterati e psichiatri militari o di quei pochi che esprimono esplicitamente la propria visione, positiva o patriotticamente giustificativa, nei confronti della violenza113. La presenza di strumenti retorici, all’interno della scrittura popolare trentina, tesi alla affermazione della propria estraneità alla crudeltà di guerra è fuori di dubbio. Il significato di questa assenza è più incerto e va cercato in altri dati, quali ad esempio la totale estraneità agli scopi nazionali della guerra. Non solo non si ritrova in essi un patriottismo guerriero, non solo non si ritrova la volontà di difendere i propri «commilitoni» (se non c’è con essi un legame di altra natura quale la provenienza microgeografica), ma il concetto stesso di coraggio o di valore guerriero è totalmente privo di senso: in breve non esiste nessun motivo di supporre che i trentini accettassero la violenza che non sia il fatto che la loro autopresentazione come vittime «assolute» è poco credibile e perciò sospetta. La domanda centrale, non solo per il presente caso, è questa: nel limbo della terra di nessuno, tra la minaccia dei propri ufficiali alle spalle e la mitragliatrice davanti a sé, è data la possibilità di scegliere il consenso alla violenza? A mio parere si deve piuttosto parlare, come hanno fatto Giorgio Rochat e Mario Isnenghi per il caso italiano114 e 112 Sthephen C. Lubkemann, Culture in Chaos. An Anthropology of the Social Condition in War, Chicago University Press, Chicago-London 2008, pp. 1-25. 113 Si vedano per esempio le obiezioni mosse alla “tesi del consenso” in Edgar Jones The Psychology of Killing: The Combat Experience of British Soldiers during the First World War in «Journal of Contemporary History» 41 (2006), n. 2, pp. 229-246. 114 Mario Isnenghi e Giorgio Rochat, La Grande Guerra, 1914-1918, Sansoni, Milano 2004.

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Jules Maurin e Frédéric Rousseau per il caso francese115, di una «educazione all’ubbidienza», sulla quale andavano ad inserirsi le forme oggettive della guerra di trincea. Tra queste l’apparato coercitivo fu senz’altro importante, ma esso non può essere l’unico criterio esplicativo della violenza estrema che si consumò per anni su tutti i fronti di guerra. Non è nella coercizione e nella disciplina – in realtà molto inefficiente, soprattutto sul mobile fronte orientale – che a mio parere si può trovare la risposta alla ricorrente domanda sul perché i soldati tennero il fronte. Mi sembra il caso di parlare di una «accettazione dossica» della forme della violenza di guerra116, una accettazione costruita cioè non su basi ideologiche o su una convenienza personale o di gruppo, ma sulla pratica, vale a dire sulla percezione, non importa quanto fondata, che l’intervento personale non aveva nessuna possibilità di cambiare lo stato delle cose ed era all’adattamento, piuttosto che a un impossibile (per ragioni culturali e situazionali) rifiuto di massa che si doveva guardare. Pierre Bourdieu, dal quale ho ripreso la definizione di «accettazione dossica del mondo»117 indica le due principali componenti che, in continua e reciproca interazione, ne determinano le forme e gli assestamenti: le strutture oggettive dell’evento e le strutture cognitive di chi vi prese parte. Riguardo alle strutture oggettive della violenza perpetrata sappiamo che la battaglia moderna, dominata da mitragliatrice e artiglieria, lasciava poco spazio alla scelta, mortificava e scoraggiava naturalmente l’apporto e l’iniziativa individuale, foss’anche in senso patriottico. Dalle ricerche di Antonio Gibelli sappiamo che fu la guerra in generale, con le sue routines, la spersonalizzazione propria del soldato-operaio, lo stretto controllo dei movimenti – non solo imposto dalle autorità, ma anche legato all’ambiente ristretto della trincea e alle interdizioni della mobilità – a 115 Jules Maurin, Armée, Guerre, Société, Soldats Languedociens (1889-1919), Publications de la Sorbonne, Paris 1982. 116 Se parlo di accettazione (nei fatti) delle «forme della violenza» piuttosto che di semplice «accettazione della violenza» è per sottolineare la novità di queste ultime rispetto al passato, ma al contempo evitare l’immagine stilizzata e falsa di un mondo «bucolico» precedente la guerra totalmente esente dalla violenza. Si veda ad esempio Frédéric Chauvaud e Jean-Luc Mayaud, Les violences rurales au quotidien, Boutique de l’Historie, Paris 2005. 117 Pierre Bordieu, Risposte, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 129-130: «L’analisi dell’accettazione dossica del mondo, frutto dell’immediato accordo tra strutture oggettive e strutture cognitive è il vero fondamento di una teoria realista del dominio e della politica. Di tutte le forme di ‘persuasione occulta’ la più implacabile è quella esercitata semplicemente dall’ordine delle cose», (p. 130). Corsivo dell’autore.

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imporsi nell’orizzonte mentale dei partecipanti in quanto universo integrato e apparentemente senza via di uscita. Se è la guerra che all’inizio dell’esperienza si presenta agli occhi dei soldati come un mondo onirico e irreale, è gradualmente il mondo di pace che perde i contorni della realtà, che viene presentato attraverso i sogni e le fantasie, che richiede continui interventi di conservazione e rievocazione. È nel campo del pensabile che bisogna ricercare la coercizione della guerra: essa non agisce in primo luogo su ciò che si può o non si può fare, ma su ciò che è possibile o impossibile pensare. E la rivolta aperta, nell’interazione tra una «cultura dell’obbedienza» propria del mondo contadino e una guerra che annientava sotto il fuoco e le minacce la volontà individuale, non era tra le opzioni del pensabile. I casi citati di descrizioni di violenza e di battaglia dimostrano, nel caso ce ne sia bisogno, che Joanna Bourke ha pienamente ragione quando scrive che: «L’atto stesso di narrare cambia l’esperienza. Gli uomini uccisero veramente: ma dal momento stesso in cui si è ucciso l’evento è entrato nell’immaginazione e ha cominciato ad essere interpretato, elaborato, ristrutturato»118. La domanda che mi sembra il caso di porre, nella ricerca del ruolo che la violenza giocò nella cultura di guerra trentina, è: quale direzione prese la trasformazione? Quale funzione si può ipotizzare sottostare alla «ristrutturazione»? E che tipo di affermazione, sul sé e sulla guerra, emerge da dei ritocchi ampiamente collettivi ad esperienze analoghe? Un primo dato emerge senza dubbio: se possiamo legittimamente supporre che i fatti non si siano svolti esattamente come li hanno raccontati Fusari e Cazzolli, non ci è permesso dubitare del fatto che entrambi hanno una ben precisa volontà di rappresentarsi in una certa maniera, vale a dire come in opposizione a una guerra che non potevano fare a meno di accettare nei fatti. L’adattamento delle strutture cognitive alle strutture oggettive passa dunque per una negazione di queste ultime, per un loro rifiuto cognitivo, che viene espresso grazie al potere selettivo e deformante della scrittura. Mi sembra che questa volontà sia sufficiente a scartare, per il caso in questione, la teoria del consenso: se le reticenze degli scritti autobiografici destinati alla pubblicazione, come ha brillantemente argomentato Annette Wieviorka119, intrattengono rapporti complessi con il pubblico e lo statuto letterario, quelle personali non sono passibili di un tale sospetto. Ma è soprattut118 119

J. Bourke, An intimate, op. cit., p. XXII. A. Wieviorka, L’ére du temoin, op. cit., pp. 17-70.

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to dal silenzio radicale sulla violenza nei testi più vicini all’esperienza, diari ed epistolografia, che si può intuire che rimozione non equivale a mistificazione. Se è vero che ogni testimonianza è rivelatrice tanto della esperienza individuale quanto del «discorso» della società nel quale il testimone è immerso nel momento in cui rende la testimonianza120, allora la rimozione collettiva della violenza esercitata, mantenuta nei diari e solo occasionalmente scalfita dalle memorie retrospettive, deve essere letta come un dato culturale in sé, che, pur espresso con mezzi diversissimi, si mantiene stabile nel corso degli anni e in autori diversi. I soldati vedevano se stessi come vittime della guerra, come bestiame senza volontà, anche nel momento in cui sparavano e uccidevano, ma l’espressione efficace di questa realtà percepita richiedeva una deformazione retorica. Attraverso l’individuazione della strategia adottata tramite la scrittura si può intuire il problema che essa si proponeva di risolvere, vale a dire quello del mutamento imposto dalla guerra. La vittimizzazione, l’affermazione di passività, la caratterizzazione della violenza come eterodiretta, la sua traslazione su altri soggetti negano, con tutta evidenza, la brutalizzazione dell’autore. La presentazione dell’autore come soggetto attivamente impegnato nel contrastare alcuni aspetti della guerra, come appare nelle memorie cronachistiche e come si vedrà più diffusamente in seguito, ha la funzione di combattere l’alienazione imposta dalla guerra, la mutilazione della volontà individuale. Per affrontare il tema delle strutture cognitive occorre, a mio parere, raccogliere l’invito di Bourdieu a guardare all’interazione, all’accordo tra due strutture indipendenti, piuttosto postulare che l’una (la cultura di guerra) fosse totalmente determinata dall’altra (la guerra stessa). In questa prospettiva le strutture cognitive che emergono dalla scrittura dimostrano lo sforzo di mantenere intatte se stesse nonostante le strutture oggettive le mettessero continuamente sotto enorme pressione. Non è importante in questa sede rilevare se le strategie difensive abbiano avuto successo (inevitabilmente esso fu parziale) e se le strutture cognitive rimasero effettivamente immutate. Ciò che importa è rilevare che l’accettazione dossica della violenza passa per queste strategie difensive e ne viene inevitabilmente influenzata. Nella presentazione del sé come passivo rispetto a una guerra onnipotente e malvagia o come attivo nei tentativi di sfuggirle, la scrittura si prende

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carico di invertire l’antinomia freudiana tra diritto e violenza, di offrire a chi scrive una resistenza quasi impossibile nella realtà: essa rivendica al soggetto il suo stato di vittima, si fa testimone di tutti i suoi tentativi di sfuggire agli ordini, dà voce alle sue proteste contro la guerra, rievoca continuamente il ricordo del mondo di pace, permette un contatto ideale o reale con la famiglia e, come vedremo presto, con Dio. Soprattutto, la scrittura, in quanto dispositivo cognitivo, permette l’utilizzo di valori precedenti il conflitto per la comprensione, la critica e la resistenza all’interno di essa, fornisce, con i dovuti adattamenti e le dovute cesure alla completezza dei fatti, gli strumenti per una presentazione del sé non secondo valori propri della guerra (l’obbedienza, il coraggio, il patriottismo, lo spirito di sacrificio laico, la violenza), ma attraverso valori del mondo di pace (l’esercizio della volontà individuale nonostante le costrizioni, la rassegnazione, la furbizia, la pietas cristiana, il legame fisico con la terra). Secondo Heater Jones ogni cultura di guerra inizia con il battesimo del fuoco, con l’accettazione della violenza verso il nemico121. I trentini non interiorizzarono mai la legittimità della violenza: al contrario essi vi si opposero con ogni strumento cognitivo a loro disposizione. Gli sforzi creativi della scrittura sono rivolti ad aprire un varco nella coercizione cognitiva imposta dalla natura integrata delle strutture oggettive della guerra, nel mantenere immutate le regole di razionalità e morale che definiscono cosa è pensabile e cosa non lo è, cosa è giusto e cosa non lo è. Il rifiuto netto, costante della violenza, vale a dire dell’elemento che definisce la guerra come antinomia della pace, mette in discussione la nozione stessa di «cultura di guerra»: il fatto che essa si definì secondo valori che si opponevano a quelli imposti dall’avvenimento spinge piuttosto a parlare, per il caso in questione, di una contro-cultura di guerra, nata sì dall’avvenimento e dalle sue contingenze, ma determinata nelle proprie forme dalle strategie adottate per opporvisi e nata dalla «cultura di pace»122. 121 Heater Jones, Encountering the «enemy»: prisoner of war transport and the development of war cultures in 1914, in Pierre Purseigle (a cura di) Warfare and belligerence. Prospectives in First World War studies, Brill, Leiden 2005, p. 135. 122 La categoria di cultura di guerra, così come è utilizzata dagli antropologi, riguarda spesso società in cui le generazioni nascono e muoiono in uno stato di guerra e in cui le rappresentazioni culturali arrivano ad essere indissolubilmente legate alla violenza e al conflitto permanente. Gli effetti della guerra totale si fecero certo sentire su ogni settore delle società europee e durarono ovviamente ben oltre il ’18, ma non credo che il grado di penetrazione culturale sia comparabile: il mondo di pace rimase il mo-

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I pastori Abbi misericordia o Signore anche di noi poveri militari. Perseguita in vece la ufficiallita manda loro una febbre e continui sgonfi acciocche possono passare li ultimi suoi giorni di vita felicimente – Canzoniere di Giuseppe Cosner

Le metafore del bestiame e del macello non sarebbero complete senza quella dei pastori, gli individui ai quali la volontà forzosamente sottratta viene affidata. L’uso che viene fatto della volontà rubata è tra le fonti di maggiore astio, odio e disperazione: Difatti verso le 19.30, a le 20, ci chiamano ci radunano, e ci parano via come le bestie. Tutti gli ufficiali ubbriachi fradici colla spada sguainata ci parano via come carne da macello, ancorpeggio. Avete mai visto quando passa quei [barbini?] che vengono dalla Prusteria che dalla stazione al macello gli conducono a bastonate? Ebbene noi ci condussero in tal maniera123.

Al momento della mobilitazione il 75% degli ufficiali di carriera parlava il tedesco come prima lingua124 ma il regolamento militare imponeva loro di apprendere la lingua dei loro sottoposti entro tre anni dall’attribuzione del grado, pena l’inibizione dell’avanzamento di carriera. La guerra determinò una rivoluzione ai vertici della ufficialità di campo, decimando nei primi mesi gli ufficiali di carriera e sostituendoli con reclute frettolosamente preparate, mediamente meno colte dei loro predecessori e senza alcun obbligo di saper comunicare con le proprie truppe125. Secondo le stime di Istvan Deàk il numero degli ufficiali di carriera, che ammontava a circa 60000 nell’agosto 1914, era quasi dimezzato nel 1918, laddove il numero degli effettivi dell’esercito era aumentato di cinque volte rispetto al primo anno di guerra. Gli ufficiali neoreclutati, spesso provenienti dalla medio-bassa borghesia, ammontavano alla fine del conflitto a circa 155.000. Il rigido

dello a cui tornare, il mondo di guerra una parentesi. Si vedano Carolyn Nordstrom, A different kind of war story, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1997; S. Lubkemann, Culture in Chaos, op. cit. 123 Memoria autobiografica di Augusto Gaddo. 124 Laddove l’etnia tedesca non superava il 35% nella stessa Cisleitania. 125 Istvan Deàk, The Habsburg Army in the first and last days of World War I: a comparative analysis, in Bela Kiràly, Nàndor Dreisziger (a cura di), East central European society in World War I, East European Monographs, New York 1985, pp. 301-312.

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regolamento dell’esercito asburgico non permetteva la promozione sul campo di soldati semplici126. All’intralcio linguistico si aggiungeva dunque una minore professionalità di ufficiali presi direttamente dal mondo civile, probabilmente animati da una visione originale dell’autorità appena conseguita (ma non necessariamente meno patriottica o meno attenta alla disciplina) e certamente da una scarsa attenzione per le particolarità e le insidie di un esercito multinazionale sottoposto a una così schiacciante prova di fedeltà. Il risultato fu una diffusa discriminazione verso le etnie considerate sospette o dedite alla diserzione, in particolar modo quella boema e quella italiana. «Siamo odiati da tutti noi qua» scrive Antonio Margoni, di Villazzano, alla madre (luglio 1915), in riferimento al campo di addestramento di Wels, «dagli offiziali medesimi e anche fra i militari, se potessero farci crepare sarebbe il loro Dio»127. Giovanni Bona, forse l’unico testimone da me incontrato a nutrire una sincera speranza nella vittoria dell’esercito asburgico, racconta con sobrietà e rammarico tutte le angherie che gli italiani dovettero subire in quello stesso campo («alcune coserelle pocco gradite e che non si cancelleranno»), dove era impiegato come lavoratore militarizzato (1916). Gli italiani, dice, erano richiamati al lavoro in qualsiasi condizione atmosferica e durante le feste, anche se invalidi e già esentati dal servizio. «Per ottenere risultati vittoriosi», argomenta con insolita obiettività Bona, occorrono «ubbidienza, istruzione, disciplina». Ma queste devono essere amministrate saggiamente; al campo di Wels solo i tedeschi ricevono permessi, mentre agli italiani, gli unici impiegati nei duri lavori dei campi, era proibito persino l’uso della ferrovia ed erano riservate frequenti e insensate punizioni. Ma questo è nulla. L’insulto – l’offesa, mancanza di rispetto – e torteggi ancor diversi fa constattare che e puro odio di nazione (dispiacente)128.

Nessuno, conclude, che sia stato alla I compagnia di lavoro (Landeschutzen) di Wels potrà dimenticare il linguaggio rozzamente usato – le continue offese (con titoli più bestialli), 126 Istvan Deàk, Beyond Nationalism. A social and political history of the Habsburg Officer Corps, 1848-1918, Oxford University Press, Oxford 1990, pp. 190-212 (trad. it. di Mauro Pascolat, Gli ufficiali della monarchia asburgica, Editrice Goriziana, Gorizia 1994). 127 Lettera di Antonio Margoni alla madre. 128 Memoriale di Giovanni Bona.

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non meno i schiaffi, maltrattamenti, specie a quelli, inferiormente di svilupo, e che si anunciava malati. Come i trasporti vennero accompagnati al stazione (non però sempre) con una scorta armata129.

Il pregiudizio, soprattutto dopo l’entrata in guerra dell’Italia130 e le ripetute diserzioni della minoranza italiana nel corso dei primi anni di guerra, era presente e radicato anche nel fronte interno. I soldati in licenza e in convalescenza, a cui spesse volte era impedito di tornare in Trentino, poiché zona di guerra o troppo lontano in rapporto alla durata del congedo, tornavano al fronte con una ben precisa idea della «patria» che si chiedeva loro di difendere. Eutimio Gutterer, convalescente a Vienna, viene accolto in ospedale da una suora che gli chiede la sua provenienza. Ma cosa è dunque? Italiano le risposi: Italiano disse: Maledetto!! Perche le chiedo Ah! Perché! mi risponde, perché gl’Italiani an mosso contro di noi epperciò siete maledetti. Io ridevo vedendo quella santa donna con un crocefisso piu grande del suo petto appeso al collo e pronunciare quelle parole a un essere straziato stanco affamato e ferito!131

Angelo Raffaelli, convalescente a Budapest alla fine del 1915, constata che la vita dell’ospedale non era poi così male: si poteva assistere alla messa una volta a settimana, si mangiava a sufficienza e si dormiva su un vero letto. ma il malle che aveva erra che cerra tutto tedeschi e magiari io non potevo parlare e ime odiavano che seiavese potuto choparmi i me copava132.

La distribuzione dei lavori al fronte favoriva costantemente, sembra, gli altri gruppi etnici, in particolar modo gli austriaci: se questi ultimi avevano maggiori occasioni di ottenere un posto privilegiato (quello di calzolaio o di cuoco ad esempio, che non richiedevano un’esposizione continuata al fuoco)133, ai trentini sono riservati i lavo129

Ibidem. Memoria autobiografica di Alfonso Tomasi: «Gli austriaci ci trattavano sempre! con disprezzo; ma in quei giorni sembrava odio furente. E perche!? L’Italia aveva dichiarato guerra all’Austria! e… ‘noi ne avevamo la colpa!’ «Pfui» era la parola pià frequente che… ci scagliavano e voleva dire «schiffo, sputo… fetente». Memoriale di Mario Raffaelli: «L’Italia fu la rovina per noi, eravamo maltrattati come le bestie». 131 Memoria autobiografica di Eutimio Gutterer. 132 Memoriale di Angelo Raffaelli. 133 Celeste Paoli: «Ho poi da dirti che sotto questa famiglia essendo italiani (diciamo trentini) siamo molto mal visti, la causa fu quelle bestie si può dire, che scaparono e 130

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ri più difficili, stancanti o pericolosi. Ovviamente non è possibile escludere una certa parzialità in questo giudizio, ma, data la frequenza con cui si ritrova la denuncia di un trattamento impari, è fuori di dubbio che questa fosse la percezione dei soldati italiani ed è molto probabile che essa avesse un fondamento. Discorso analogo per i permessi: Pietro Carraro, ferito e in convalescenza, richiede nell’ottobre 1918 di poter prolungare la propria licenza, ma i suoi superiori, nonostante la medaglia d’argento che la sua ferita gli era valsa, non osavano raccomandarlo134 poiché italiano. Alfredo Franzoi, appena giunto in Galizia (aprile 1916), ricevuta la notizia che sarà aggregato a un reggimento ungherese, annota nel suo diario: Bei cani pero!!! Noi perche eravamo di Nazionalita Italiana eravamo traditori non si fidavano Ci frastaliavano fra altri regg. che non si conosceva la lingua era un bel dolore per noi tutti135.

E, nonostante non abbia mai espresso sentimenti antiaustriaci in precedenza, nemmeno al momento struggente della partenza, aggiunge: «Dio annienti quella infame Austria». Le testimonianze parlano di umiliazioni sia fisiche che psicologiche: il castigo della colonna136 e quello dei «ferri»137 furono metodi punitivi che le autorità militari austriache ritenevano indispensabili al mantenimento della disciplina, al punto da riuscire a far revocare la loro messa al bando, decisa da disertarono, un atto lo provai ieri sera, i nostri superiori dimandarono a noi tutti che lavoro facevamo in civile, io le dissi il mio ma vi era poi un tedesco che faceva anche lui il calzolaio e subito l’ano preso fuori e è partito, ora va a lavorare, fortunato lui». 134 Pietro Carraro. Epistolario di Simone Chiocchetti: «Più tardi si riceve permesso anche noi taliani questi slovachi partono continuamente in permesso». 135 Diario/Memoriale di Alfredo Franzoi. Si noti che Franzoi, che si lamenta di non sapere l’ungherese, per sua stessa ammissione non conosce nemmeno il tedesco. 136 Viene raccontato, tra gli autori da me analizzati, da Luciano Bertoluzza, Teodoro Ceschi, Tommaso Baggia, Daniele Bernardi, Augusto Gaddo, Francesco Guadagnini, Battista Chiocchetti, Giuseppe Malesardi, e provato in prima persona, oltre che da Emilio Fusari, da Giuseppe Faitelli, Vigilio Caola e Pietro Pompermaier. Quest’ultimo scrive: «E compasionevole è doloroso. Avelito com’ero sopporto per lungo tempo poi comincio a gridare. Essi ridono di me benché saccorgono che mi vien male. […] giuravo di volermi vendicare, ma che posso farre. Anche altri miei compagni ricevono il medesimo castigo e devono sopportare». Nella grandissima maggioranza dei casi la punizione viene inflitta per l’infrazione del divieto di mangiare le conserve in dotazione. 137 Il supplizio dei ferri, raccontato da Ermete Bonapace, Giuseppe Bebber, Luigi Speranza, Sincero Brugnara, Daniele Bernardi, Giuseppe Faitelli, consisteva nel legare, per tramite di un ceppo o di manette, il polso del soldato alla sua caviglia, lasciandolo per ore in quella posizione.

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Carlo I nel giugno 1917, appena sei mesi dopo138. Aggregato, come non pochi dei suoi compatrioti, a una compagnia di disciplina, riservata ai politicamente sospetti, il contadino socialista Giuseppe Bebber racconta che lui e tutti i suoi compatrioti erano stati portati da sentinelle armate nella piazza del campo di addestramento di Beneschau (Boemia), dove, per pura volontà di umiliazione, una bandiera trentina fu buttata nel fango e calpestata. Di lì a poco si profila addirittura lo spettro di una decimazione dimostrativa della compagnia, tramite una fucilazione sommaria. Bebber descrive con toni tragici la paura di poveri, pallidi «vecchi padri di famiglia», colpevoli solo «del delito di non voler comettere delitti colpevole del delitto di voler risparmiare la vita ai suoi simili». Si tratta in realtà di una minaccia senza fondamento, diffusa per piegare la compagnia riottosa o forse nata dall’immaginazione ansiosa dei soldati. I sospetti vengono «soltanto» inviati al fronte: in luogo della fucilazione vengono loro consegnate delle bandierine austriache. Nessuno ne voleva, fa rimarcare orgogliosamente Bebber, ma tutti le presero, poiché erano state distribuite da un tenente trentino che aveva loro chiesto di accettarle, «se non altro per quei poveri italiani che ancora rimanevano al quadro che erano già abbastanza perseguitati»139. L’autorità militare di campo austriaca (intesa come l’ultimo anello della catena dell’apparato di coercizione, quello maggiormente esposto alla vista dei soldati semplici, in primo luogo ufficiali di basso rango e sottoufficiali, ma anche medici) ricopre di conseguenza un ruolo del tutto particolare all’interno della scrittura popolare. Riprendiamo gli esempi di Cazzolli e Fusari dove li abbiamo lasciati nel paragrafo precedente. Poco dopo il duello con il russo Cazzolli si trova di nuovo in prima linea, in un bosco. Osserva, con «occhi torbidi, come se avessi le cataratte» gli austriaci cadere sotto i colpi dell’artiglieria russa e asburgica (che stava per errore tirando troppo corto) ed esita nell’uscire allo scoperto. Un ufficiale ungherese sta minacciando con una rivoltella i recalcitranti, spingendoli nella terra di nessuno. Cazzolli, che mai si era messo l’arma in mano senza esplicitare la propria posizione non violenta, scrive senza remore e alla prima persona singolare:

138 Mark Cornwall, Morale and patriotism in the Austro-Hungarian army, in John Horne (a cura di), State, society and mobilization in Europe during the First World War, Cambridge University Press, Cambridge 1997, pp. 173-192. 139 Memoria autobiografica di Giuseppe Bebber.

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fu alora che mi venne decisione, presi la mia arma e la punto ben bene e lascio partire il colpo, altro non so, è caduto… morto? non so altro140.

Il memoriale di Emilio Fusari è molto istruttivo riguardo al diverso uso narrativo che si può fare della violenza di guerra. Fin dai primi giorni del servizio militare (Fusari stava svolgendo il servizio di leva allo scoppiare della guerra) i suoi racconti sono uniti dal filo conduttore delle angherie e delle punizioni che egli ha dovuto subire ad opera degli ufficiali, negli anni «di disiplina» 1912-1913. Il racconto, prima ancora che inizi la guerra, alterna invettive contro la cieca «zucconeria dei tedeschi»141 alle insubordinazioni che Fusari si concede, per ricongiungersi periodicamente, senza il permesso dei superiori, alla propria famiglia. Nonostante egli affermi di sognare ripetutamente la fuga e nonostante avesse dichiarato prima dell’Agosto 1914 che non avrebbe combattuto un’eventuale guerra dal lato austriaco, ma «assieme di quelli che mi potevo intendere», Fusari parte mansuetamente per il «campo della sventura». Il memoriale fa uso di piccoli titoli esplicativi. Il primo dopo la partenza è «Prime fucilata!», con riferimento ironico a una guardia che, scambiato un ufficiale per un nemico, gli ha sparato. Purtroppo, annota, il colpo «andò falito», l’ufficiale fu solo ferito a un piede. «Un acidente» parla anch’esso di un ufficiale ferito dal fuoco amico (ma in questo caso è italiano, e il tono è ben meno compiaciuto). «La colonna!» vede Fusari appeso per le braccia a un albero, punito crudelmente per aver ceduto alla fame e aver raccolto dei frutti da un albero. Mentre è esposto, il contadino guarda con disperazione gli ufficiali, che mangiano e bevono sdraiati sull’erba. Il parallelismo «tedesco» – disciplina è ancora una volta affermato. Credevo io pure che non vi potesse regnare cuori si duri, mente si forte, e genti che non conose il sofrire! Ma il tedesco visuto in quei Luoghi ove a tutti li sembrava di poterli superarli ove tutto per lui eran nulla, ove nemeno le grandi roce, lascia fugire una pietra dal bloco, per paura di venir scoperta! Cosi luomo zugone, cioe il tedesco non può aver compasione dei martiri suoi142.

L’episodio successivo, «Prima traccia», riguarda la cattura di due prigionieri russi, lasciati indietro dall’esercito zarista in ritirata e la 140

Memoriale di Alfonso Cazzolli. Memoriale di Emilio Fusari: «Ignoranti, sciochi selvatici, più volte li augurai querra accio poscia un po’ sfugirli quelle stupide affezioni». 142 Ibidem. 141

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compassione che essi ingenerano in Fusari allorché vengono crudelmente percossi dai soliti, inumani tedeschi. Nell’episodio «Primo Reoplano» finalmente Emilio imbraccia le armi per sparare contro un aereo di ricognizione che sorvola la sua colonna. Ben sapendo quale sarà il seguito (l’aereo è in realtà austriaco), il narratore non dimostra nessuna reticenza nel mostrarsi con il fucile in mano, pronto ad abbattere l’aviatore, e non si cura di caratterizzare l’atto come eterodiretto. Una volta svelato al lettore che l’aereo non era russo, Fusari si lascia andare alle maledizioni: Maledi il mio fucile perche non a colpito il centro di questo per noi crudele nemico143.

Di nuovo fuoco amico e insulti all’incapacità e idiozia tedesca, in «27 Primi colpi di canone», episodio nel quale, come in Cazzolli, si parla degli errori di tiro della propria stessa artiglieria, «il grant tradimento», come li definisce la memoria. «Ferito» vede Fusari spinto nella mischia da un ufficiale che, appena prima, era stato descritto nell’atto di uccidere un suo sottoposto, ferito alla testa, poiché non era in condizione di eseguire gli ordini. Poco tempo dopo lo stesso Fusari viene colpito alla schiena e rimane inerme in una pozza d’acqua, poiché l’amico italiano che voleva soccorrerlo viene fermato, oramai prevedibilmente, da un «crudele capitano» («La bestialità, D’un Capitano!»). Cazzolli, che tanto si era adoperato per giustificare di aver ferito un nemico, non ha nessuna difficoltà nell’ammettere, usando per la prima volta la prima persona singolare che lo responsabilizza, di aver sparato alle spalle a un proprio ufficiale. Fusari, addirittura, dopo tutte le precauzioni usate per giustificare la violenza contro i russi, si maledice per non essere riuscito ad abbattere un aereo austriaco; ma al contempo, inconsapevolmente, ammette di aver sparato, senza ordini superiori, contro quello che credeva in un primo tempo essere un aereo russo. Rodolfo Andreis, a cui si deve la descrizione struggente dell’esecuzione dei prigionieri russi da parte di soldati in lacrime (vedi sopra), racconta come un ufficiale di basso rango, ubriaco, avesse minacciato lui e i suoi compagni con dei colpi di pistola. La reazione fu immediata e guidata da un caporale boemo: tre dei soldati spararono dalla trincea in direzione dell’ufficiale, facendolo cadere agonizzante nei pressi di una pozza d’acqua. Andreis racconta senza ombra 143

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di riprovazione che, mentre l’ufficiale agonizzante gridava aiuto, il caporale boemo si avvicinò a lui, gli spinse la testa nell’acqua con il calcio del fucile e «lo affogò come un gatto»144. Alfonso Tomasi è autore di una memoria autobiografica decisamente originale all’interno del corpus di fonti da me analizzato. Il testo è diviso in tre sezioni: «La mia partenza per la guerra», «In guerra» e «Il mio ritorno dalla guerra». Dopo aver ringraziato, nell’incipit della seconda sezione, «il buon Dio» di non averlo mai fatto partecipare, in 33 mesi di fronte, a un duello all’arma bianca, sceglie di non dilungarsi nella descrizione giorno per giorno e di narrare solo due episodi, entrambi di violenza. In ambedue i casi si tratta di violenza contro i propri ufficiali. Il primo riguarda «un terribile corpo a corpo» avuto con un ufficiale che lo aveva sorpreso a dormire durante il turno di guardia e che lo minacciava di fucilazione145. Il secondo racconta delle angherie che un ufficiale austriaco imponeva a un anziano soldato trentino davanti agli occhi di suo figlio, arruolato nello stesso battaglione. Quando finalmente il giovane reagisce, cominciando a «tempestarlo di pugni sacrosanti» e l’ufficiale sfodera la spada è l’intera compagnia di trentini che reagisce, inastando la baionetta e inseguendo l’austriaco al grido di «vigliacco, vigliacco!». Il tenente si nasconde in un campo di segale, tra le risate e il dileggio dei soldati: L’à fat ben romperghe lmuso a quel prepotente Ah!… l’è sta brao! L’è sta brao! At vist come ‘l sanguinava dal nas e dala boca?! Sul mus l ghe l’a dati. Brao do volte. E… quan che ‘l tenente l’è riusci a tirar for la spada! Doveven lassarlo coper?! Eh, no. L’è ora de finirla co’ ste prepotenze e stò modo de far. Vedrem poi che i ghe fa!!… Vedrem poi che i ne fa!…146

La violenza nei confronti dei propri stessi ufficiali, dunque, per quanto nei fatti incomparabilmente meno frequente di quella nei confronti del nemico, appare più volte nella scrittura, non è oggetto di una censura ugualmente intensa e viene raccontata con maggiore disinvoltura. L’ufficiale è in generale un oggetto di violenza (narrata) meno problematico di quanto non lo sia il nemico. Nella battaglia narrata gli ufficiali sono invariabilmente dipinti con 144 Si noti come il discorso diretto, praticamente assente dalla memorialistica trentina nel suo complesso, sia l’unica occasione in cui si usa il dialetto. Memoria autobiografica di Rodolfo Andreis. 145 Memoria autobiografica di Alfonso Tomasi. 146 Ibidem.

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la rivoltella in mano, a spingere i propri soldati in attacchi insensati e a sparare su chi rimaneva indietro. Essi costituiscono l’elemento coercitivo della battaglia, coloro i quali spingono, con ordini assurdi o con la minaccia delle armi, i soldati a compiere ciò che non vorrebbero, ciò che la moralità (e non di rado il buonsenso) vieterebbe di fare. Avanti sempre. Due volte in quel giorno si fa l’assalto (sturum) contro il nemico. I nostri ufficiali continuano a gridare «avanti» con la rivoltella sempre alle mani e sempre continuano anche loro a diminuirem chi morti, chi feriti cadono a terra. Vien notte, nessuno si vede venire col mangiare, altro che un continuo flagello di fuoco sopra di noi. Poveri noi147.

All’interno delle descrizioni «futuriste» della battaglia, in cui gli elementi si fondono e i sensi si ingarbugliano, in cui spesso solo le vittime meritano di essere dipinte come individui, l’ufficiale è l’elemento più facilmente riconoscibile, le sue azioni violente sono le più agevolmente attribuibili, anche quando non si arriva ai livelli di metodicità argomentativa e di sordo rancore che si trovano in Fusari. La censura sulla violenza non è dunque legata a un particolare pudore nell’affrontare temi scabrosi: essa viene manipolata a seconda dei propri fini narrativi; dall’analisi di questi fini è possibile tentare un’interpretazione del ruolo che gli ufficiali ebbero all’interno della cultura di guerra trentina. Il soldato trentino combatte su due fronti: quello russo, per così dire «naturale», inserito in un quadro concepibile di cui il soldato zarista è un elemento neutro148 della Guerra personificata, e quello delle autorità di campo, che al contrario suscitano ira e risentimento poiché la loro crudeltà è vista come insensata, contro natura149. Lo dicono 147 Diario di Vittorio Mosna. Si veda anche la seguente strofa di un componimento di Guido Piffer: «A sentire i nostri ufficiali / a gridare tutti quanti i / taliani avanti avanti / fin che uno ci sara» e questo passaggio dal memoriale di Fioravante Gottardi: «con mio stupore vedo il maggiore che col revolver impugnato minaccia i soldati e grida come un forsennato. Credevo che fosse impazzito oppure fosse ubriaco. Una delle due sicuro! perché quello non era il momento di sgridare coloro che facevano il loro dovere». 148 Isidoro Simonetti: «Dai Russi non si poteva pretendere perche eravamo suoi nimici, ma viera molti Ufficiali Austriachi che questi poteva, volendo, aiutarci; ma in 6 mesi che sono stato a Atcisck non sià visto alcun Ufficiale di Caserma a farci visita, ed era proprio la mala volonta che aveva». 149 In una lettera al fratello di Simone Chiocchetti si trova una delle rare sfide consapevoli alla censura, proprio in merito all’accusa nei confronti degli ufficiali: «Il Beppo non può ancora andar fuori per non sanno ancora salutare bene questi carnefici, come aveva scritto uno a sua casa, sono sotto i carnefici, ricevette severo castigo».

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bene Agostino Dallagiovanna e Antonio Giovannazzi: Scrivo questa memoria cola pala in mano e un ochio attento per qualche sospresa sia da proiettili nemici che dai nostri superiori che ogni qualtratto vene a sorviliarni150 non ancora al colmo del tormento, i nostri st.uficiali per ogni nonulla, invece di adoperare la spada contro il nemico la adoperavano sulla schiena dei poveri militari151.

Quando Cazzolli si lamenta della costanza del pericolo e della tensione che sono propri della trincea, la colpa non viene attribuita al nemico russo che la sta assaltando, ma ai «barbari e mascalzoni» che danno l’allarme ho quante notti passai pure in all’armi, appena sentivano alcuni colpi di fucile gridavano all’armi e per quella notte basta dormire, ho quante rabbie che provai e quante maledizioni ed ingiurie che pronunziai contro quei barbari, contro quei mascalzoni152.

Andreis, infine, dopo aver raccontato dell’assassinio del suo superiore, affogato come un gatto, si giustifica semplicemente con il fatto che «ci eravamo difesi dal maggior nemico e salvata la nostra pelle»153. Ciò che caratterizza «il tedesco» (e spesso chiunque, non trentino, era insignito di qualche autorità) è in primo luogo la sua irrazionalità, la sua «zucconeria». Le marce, le cui difficoltà erano rese esasperanti dal fatto che nessun soldato semplice aveva una visione complessiva del quadro delle operazioni e poteva comprendere la finalità degli spostamenti154, sono attribuite alla bestialità degli ufficiali. Le esercitazioni e le manovre che, a discapito delle fatiche sopportate in vicinanza del campo di battaglia, vengono pretese dai soldati, innescano quasi inevitabilmente moti di stizza, esasperazione, disprezzo. 150

Diario di Antonio Giovannazzi. Memoria autobiografica di Agostino Dallagiovanna. 152 Memoriale di Alfonso Cazzolli. 153 Memoria autobiografica di Rodolfo Andreis. Si veda anche la memoria autobiografica di Albino Pontara: «Ebbi per completarla la disgrazia di avere per comandante di compagnia un tenente tedesco dei dintorni di Bolzano, la qual gente si annoverava fra i più accaniti nemici di noi italiani. Le fece tutte per martoriarci». 154 Diario di Guerrino Botteri: «Tre ore per rifare una strada già percorsa sulla ferrovia; mentre ci batte nel capo la domanda: Perché condurci sì avanti, per poi rifare a piedi la medesima via? Controsensi di cui alla bassa turba soldatesca sfugge il motivo che… deve certamente essere superiore!». 151

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Viaggiando tutto il giorno in tal maniera, e con poco mangiar, e ancora le mie ossa la montura dovetti asciugar. Mà molti sapete che dovette restar indrio perche i officcialli non avevano carita di Dio […] Mà che rabbia e che dolor far il diffiliero al Brigadier. Mà! nemmeno un sorso d’acqua ci à lasia goder. Goda pure anche Lui tutti diceva che verrà compensà ah questo o al mondo de là155.

Nessun elemento dimostra la follia della Guerra e la colpevole stupidità di chi la dirige quanto il «fuoco amico». Nella maggioranza dei casi il vero battesimo del fuoco raccontato dalle memorie autobiografiche è impartito da pallottole austriache, fenomeno rivelatore sia della frequenza con cui episodi di questo tipo accadevano sia – dato che la frequenza non assicura uno spazio congruo all’interno della scrittura popolare – della generale disponibilità dei testimoni a raccontarlo e renderlo elemento caratterizzante dell’esperienza della battaglia156. «Convengo una volta di più che parecchi dei nostri condottieri sono dei gran pezzi d’asino»157, conclude rassegnato Rodolfo Bolner nella sua seconda descrizione di «fuoco amico». L’irrazionalità, quando applicata alle norme di comportamento e al rispetto dell’ordine sociale ed etico, si trasforma in amoralità158, mentre la discriminazione e l’incapacità di comprendere le sofferenze dei 155 Diario di Sincero Brugnara. Si veda anche Francesco Guadagnini: «Colla vita a repentaglio, collo spettro della morte avanti ad ogni passo, arriviamo finalmente al luogo del discarico… Era le ore 11 è avanti la mezzanotte! Il lavoro non è ancora finito, un altro viaggio per un altro luogo. Queste furono le parole del nostro comandante!... Come sempre si doveva ubbidire. Eravamo schiavi!...» e Rodolfo Andreis: «Sempre esercitazioni, che in caso di bisogno vero, servivano come un’impiastro su una gamba di legno». 156 Memoria autobiografica di Alberto Barberi: «la mattina le prime canonate furono sparate dai russi in un bosco a noi vicino nel quale cerano dentro i nostri e per sbaglio sparavano i nostri i primi morti e feriti furono fatti dai nostri»; Battista Chiocchetti: «Cosi facendo mi incorsero parecchie avventure fra le quali mi rimmarà impressa quella al passo di una montagna, dove poco mancò di rimanere ucciso a rivoltelatte da alcuni ufficiali». 157 Memoriale di Rodolfo Bolner: «Il IV Cacciatori, che ci seguiva è stato preso per nemico! Oh acume dei nostri condottieri!». 158 Particolarmente amorale è trovato ad esempio il fatto che ufficiali giovani si permettessero di dare ordini e spesso maltrattare soldati più anziani. Si veda il diario di Guerrino Botteri: «Chi non è a posto è un «Porco» un «cane merdoso» un «vigliacco» un «dannato» it…; povera gioventù, poveri padri di famiglia che avete abbandonato tanti affetti soavi, tanti nidi di dolci cure per la patria; sentite il premio del vostro immane sacrificio! siete dei «vili cani merdosi!» e la memoria autobiografica di Rodolfo Andreis: «Perché non avete accettato i gradi? ci chiese. Io subito risposi: signor tenente, io non ho il coraggio di comandare a uomini che potrebbero essere mio padre».

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soldati può portare ad accuse di vera e propria crudeltà, non di rado applicata, per estensione, all’intera «razza» di cui fa parte l’ufficiale o il medico. Ecco il cuore tedesco quando può trovare il più debole dei deboli come sa mettere in luce la sua vendicazione, malvaggia, e senza frutto, di cui se non fosse stato per un solo pensiero, avrei voluto pur io vendicarmi, di quei sciagurati tedesci ipocreti, et ignoranti che li sembrava di farsi onore e grandezza, per maltrattare due simili infelici159. Il nostro tenente vedendoci così stanchi e afamati che nesuno parlava, per prenderci in giro disse adesso Italiani cantare quela bella bionda. Quel Tenente era un viliaco160.

L’ufficiale non è avversato in quanto autorità o sulla base, ampiamente sostenuta dalla propaganda nazionale dopo il conflitto161, di sentimenti filoitaliani. A ben vedere, se l’ufficiale o il medico, in quanto individui, si comportano, dal punto di vista del soldato, «correttamente», non si ha difficoltà a riconoscerlo162, pur senza dimostrarsi meno diffidenti verso l’apparato disciplinare che essi rappresentano e all’interno del quale costituiscono, nella percezione dei soldati, un’eccezione. Gli ufficiali trentini, per quanto rappresentanti perlopiù fedeli dell’autorità austriaca, sono uniformemente accettati e il più delle volte apertamente lodati, proprio perché alleati preziosi nella incessante lotta contro il «mondo della disciplina». Dopo essere stato assegnato come attendente di un tenente trentino, nel marzo 1916, («egli è dei nostri e con lui puoi parlare liberamente»), Daniele Bernardi constata che […] quantunque vestito da ufficiale il suo sentimento era da civile. Il do159 Emilio Fusari, a commento dell’esecuzione a sangue freddo di due prigionieri da parte di un ufficiale. 160 Giuseppe Scarazzini. Rodolfo Bolner: «La marcia riesce faticosissima; la gola è arsa; non c’è una goccia d’acqua. Qualcuno stramazza a terra […] ma quell’inumano, comodamente a cavalcioni del suo baio, ci fa rispondere che crepino anche tutti, riposo non se ne concede». 161 Oreste Ferrari, Martiri ed eroi trentini nella guerra di redenzione, Trento, Tipografia editrice Mutilati e invalidi, 1925; Mario Ceola, Diserzioni: raccolta dei piu importanti stratagemmi escogitati dai Trentini per disertare dall’Austria, Tipografia Ugo Grandi, Rovereto 1928. 162 Memoria autobiografica di Daniele Bernardi: «Per commandanti avevammo un sergente di cancelleria tedesco, un buon uomo davvero, caso eccezzionale per questa razza, e quel certo Linder che fu guardia di polizia a Trento».

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popranzo, quando entrai nella sua camera egli stava pulendosi le scarpe, gli chiesi allora da che adopera il servitore e mi rispose: solo per allontanar un uomo dalla compagnia. Padrone e servitore avevano proprio lo stesso sentimento163.

Le motivazioni di questa avversione sono del tutto estranee a qualsiasi tipo di ideologia e indissociabili dalla specifica situazione della guerra di trincea. L’autorità di campo austriaca viene considerata «nemica» nel momento in cui assume le fattezze (irrazionalità, amoralità, crudeltà) che sono viste come proprie della Guerra, quando compie azioni violente che la scrittura risparmia agli autori, quando accetta ciò che la grande maggioranza dei trentini rifiuta: il diventare una parte integrante dell’«universo di guerra» e imporlo direttamente ai suoi sottoposti. Le autorità di controllo e coercizione rappresentano, data la scarsa pregnanza del nemico russo come elemento semantizzante dell’esperienza, l’unico volto umano che la guerra potesse assumere e hanno un ruolo fondamentale nella comprensione e nella «vivibilità» della guerra stessa. Solo in questa accezione funzionale e non in base all’odio che essa generò nei soldati – non in tutti peraltro, e non in tutti nello stesso grado – l’autorità austriaca può essere definita nemico, colui contro il quale, cioè, sul piano pratico si dirigevano i propri sforzi di guerra, non necessariamente aggressivi, e, sul piano cognitivo, si definiva la frontiera tra intrinsecamente giusto e esplicitamente sbagliato. Data la natura non rivoltosa e solo saltuariamente violenta di questi sforzi sarebbe forse più preciso definire il ruolo dell’ufficialità nell’orizzonte mentale trentino con il termine «nemesi» sul piano morale, «avversario» sul piano pratico, «antagonista» sul piano narrativo. Nel «combattere» questo antagonista, e soprattutto nello stilare gli annali o le cronache di quei combattimenti, si assolveva alla funzione di conservare all’individuo uno spazio di attività all’interno del mondo della disciplina e di affermare l’irriducibilità della sua volontà alle richieste della Guerra.

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Memoria autobiografica di Daniele Bernardi.

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Guerra e notizie …ma solo una cosa e per noi di conforto la sospirata pacce – Pietro Pompermaier

La scrittura popolare trentina non si occupa mai, tranne rarissime eccezioni, dell’andamento generale del conflitto. Gli eventi militari, diplomatici e in generale qualsiasi fatto «umano» – decisioni di politici, generali, alte autorità religiose1 – non sembrano rivestire la minima importanza. Vittorie e sconfitte, avanzate e ritirate, posizioni dei personaggi pubblici dell’epoca sono menzionate in maniera frettolosa e a guisa di aneddoto o curiosità, secondo un meccanismo che ricorda da vicino il criterio di inclusione delle notizie esterne al paese all’interno dei libri di famiglia2. Il fronte occidentale è del tutto ignorato. Persino avvenimenti politico-diplomatici di grande portata, con evidenti ricadute sia sulle sorti del conflitto che sulla vita del protagonista, quali l’uscita di scena di un nemico (la Russia nel 1917) o l’allargarsi del conflitto (l’entrata in guerra della Romania al fianco dell’Intesa nel 1916) possono essere passati sotto silenzio o annotati solo di sfuggita. «Nulla di nuovo» annota laconicamente Pio Branz nel proprio diario, in data 28 Agosto 1916, «la Rumenia ha dichiarato guerra a noi»3. La battaglia di Gorlice-Tarnov dell’aprile 1915, al contempo la più gran1 A questo proposito è interessante notare come lo stesso appello di Benedetto XV contro «l’inutile strage» abbia nella scrittura una risonanza minima, per non dire inesistente. Difficile dire se questo sia dovuto a disinformazione o disinteresse. 2 In alcuni casi, come in quello di Arcangelo Merler, le «vittorie» sono oggetto di scherzi e derisione: «Verso le 7 sincomincio a girare verso nord e via via pareva che mai piu si volesse fermare, tutta la otte, con molta velocità. Fra noi si diceva che anno fretta per farci vedere le vincite fatte». 3 Diario di Pio Branz.

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de vittoria austriaca sul fronte russo (325.000 prigionieri, 3000 cannoni conquistati e il recupero austriaco della Galizia nella sua quasi totalità)4 e la più ampia battaglia a cui presero parte i reggimenti Kaiserjäger, non ha alcun rilievo nelle memorie trentine, nemmeno in quelle scritte a posteriori. Eugenio Mich, che si dimostra tutt’altro che restio a parlare degli aneddoti più significativi della propria esperienza di guerra, non si mostra altrettanto prodigo di informazioni quando si tratta dell’evolversi della situazione del fronte in cui risiede. Ecco come la rotta di Caporetto viene resa nel suo diario: Li 4 – 10 [1917] a Piantrevisan. Li 16 – 10 a D, pure sotto la ghiaccia. Li 2 – 11 ritirata degli italiani, li 3 – 11 a Fontanazzo5.

Evidente e comprensibile eccezione è fatta per l’entrata in guerra dell’Italia, annotata nella grandissima maggioranza degli scritti; anche in questo caso l’avvenimento viene commentato soltanto per le ricadute che avrebbe potuto avere sui paesi trentini e sulla sfera di conoscenze private del narratore e mai per le implicazioni strategiche e le potenziali conseguenze sull’andamento complessivo del conflitto6. Se le notizie di guerra sembrano non interessare il fante trentino, le notizie di pace sono ricercate costantemente. La percepita scarsa affidabilità della voce ufficiale lascia insoddisfatta una crescente fame di notizie, che i soldati cercano di placare attraverso altre fonti. I criteri valutativi del soldato si richiudono su quello che può esperire direttamente, sull’osservazione dell’ambiente circostante in cerca di «segni» che possono far presagire l’avvento della pace, di natura fortemente disomogenea e del tutto slegati dai fini politico-diplomatici della guerra. Nei pensieri, confusi e disperati, di Giovanni Tomasi, la disastrosa ritirata dell’esercito asburgico verso i Carpazi del 1914 può essere letta come premonizione di una pacifica risoluzione del conflitto e di un pronto ritorno a casa: Non si sapeva cosa fosse questa ritirata forse sarà finita la guerra? Che l’Austria avessa cesso la Galizia alla Russia per non sparger tanto sangue? Ci condurono forse alla Stazione per condurci alle nostre care ed apassionate famiglie? Questi pensieri si affollavano nella mente uno doppo l’altro7. 4

John Keegan, La prima guerra mondiale, Carocci, Roma 2001, p. 265. Memoria autobiografica di Eugenio Mich. 6 Fabrizio Rasera, Camillo Zadra, Patrie lontane. La coscienza nazionale negli scritti dei soldati trentini, 1914-1918, in «Passato e Presente», 14-15 (1987), p. 52. 7 Diario di Giovanni Tomasi: «Vado anch’io a vedere la rarità e sento pure dire alcuni che sarà il segno della pace prossima. Poveri prigionieri come ci illudiamo, siamo 5

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Analogamente Giuseppe Masera vede nella scarsità di pane, che costringe i soldati a litigarselo e persino a chiederlo ai russi in cambio di sigarette, un segno sicuro del fatto che la guerra non potrà durare a lungo. Io sono però d’avviso che sia ormai agli ultimi strucchi anche la guerra. Perche quando si tratta di non dare più il necessario a quegli che sono in campo, poco la puo durare.

Per i compagni di prigionia dell’incredulo Fioravante Gottardi anche l’apparire di un arcobaleno, nella mattinata del 1 novembre 1915, può avere il significato di una pace prossima8, mentre per Giuseppe Dematté l’avvistamento di una stella in direzione di Trento può essere presagio di un presto ritorno9. Al più minimo movimento insolito, [il soldato] alza la testa e osserva atentamente: che ci sia qualche novità? Che sia arivato qualche telegrama? Oh chissà che Iddio non abia misericordia di noi! Guarda! Guarda! Quel gruppo di gente come ride? Avrà delle buone nuove?10

Parallelamente alla lettura personale dei segni premonitori vi è una ricerca costante di fonti alternative di notizie, persone che, grazie al loro contatto, millantato o reale, con il mondo «esterno», acquisiscono quella autorità che è negata alle fonti ufficiali. Nella compagnia di Augusto Gaddo (o perlomeno nella parte italiana della compagnia) tale ruolo è ricoperto da un certo Avi di Trento che, in quanto barbiere degli ufficiali, è creduto avere notizie di prima mano e non filtrate dalla censura. Questi diffonde, «con convinzione», la notizia che tutti i Kaiserjäger sarebbero rientrati a breve in Trentino dal fronte carsico nel quale si trovavano, perché così voleva l’Arciduca Eugenio. Gaddo, smaliziato, contrappone la propria lettura dei «segni» della guerra: il fatto che gli ufficiali si stessero ubriacando non poteva significare che era in arrivo «qualcosa di brutto questa notte, altro che andar nel Trentino»11. I civili e chiunque provenga dall’esterno del mondo quotidiano del gruppo nel quale è calato il narratore (reclute se soldato12, nuovi pritornati quasi bambini. Io però non credo punto che nei capricci dell’atmosfera si abbiano segni di pace o altro». 8 Memoriale di Fioravante Gottardi. 9 Diario di Giuseppe Dematté. 10 Memoriale di Antonio Rettin. 11 Memoria autobiografica di Augusto Gaddo. 12 Memoria autobiografica di Rodolfo Bolner: «Durante la notte è capitato un Bat-

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gionieri se in cattività)13 sono bersaglio costante di domande, nonostante le loro informazioni non potessero provenire che da quegli stessi canali ufficiali che venivano ignorati o letti con sufficienza dai soldati. Sento da altri che, ricevono notizie dalle loro case, speranze di pace!!! Anche qui il più che si discorre è di pace, sospirata da tutti. Io spero sempre che presto giungerà quel giorno che ci annunciera la pace e di poter tornar in braccio a voi e alla famiglia. […] Scrivettemi se avete ricevute le mie, le nuove di pace, del paese e di famiglia14.

Come è prevedibile la lettura di segni multiformi e contesi confluisce in accese e continue discussioni, tanto che i «discorsi sulla pace» a cui accenna Chiocchetti sono l’unica parte dello scambio orale tra i soldati che viene più volte testimoniata15. Dai discorsi quasi inevitabilmente si passa alle «voci del fronte», un passaparola difficilmente rintracciabile nelle sue origini, che gode nella scrittura diaristica di una grande popolarità e che evidentemente andava a sua volta a originare nuove discussioni e letture degli avvenimenti. Colpisce l’estremo grado di precisione che tali voci ebbero nel prevedere la data della fine del conflitto e la concretezza delle conclusioni che occasionalmente vengono tratte da fonti evidentemente inattendibili: Sono avvilito perché qui si dice che la Russia starà n guerra fino al [19]20. Ci sono ancora tre anni. Cosi sarebbe una guerra di 7 anni. Non so se potrò vivere in cattività fino allora. Certo che la maggior parte dei prigionieri moriranno in questo tempo16. È inutile, la guerra dura ancora un paio di anni dunque è meglio se si è destinati a morire morir subito17. taglione fresco fresco. Ci siamo fatti tutti attorno ai nuovi arrivati per avere notizie dei nostri paesi e sentire le loro impressioni sulla durata della guerra, ma tutti hanno avuto questa unica risposta: Eh la guerra, durerà ancora e a lungo!…». 13 Memoriale di Fioravante Gottardi: «Arrivano altri trasporti di prigionieri, ma non portano alcun segno di pace». 14 Lettera di Simone Chiocchetti al fratello. 15 Celeste Paoli: «21 e 22 riposo in questi giorni discorevano tanto di pace». Battista Chiocchetti: «Di guerra si discorre ogni giorno alcuni dicono che poco può durare, altri la fan ancor lungha, ma io spero che presto si finità e ritornar a casa». Pio Branz: «Tutti pronosticano l’avvenire, uno ne dice una, uno l’altra, infatti tutti hanno da dire la sua profezia; chi spera di poter andare al quadro e là poter riposare per alcuni giorni, altri invece dubitano di ritornare presto la campo ed andare peggio di prima». 16 Lettera di Mario Crosina alla moglie. 17 Diario di Livio Bais. Si veda anche Anonimo A: «Dicono che la guerra dovrà fi-

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È con tutta serietà, se non con fiducia, che Giuseppe Dematté annota nel proprio diario che: «Bercovic profetiza che la pace verrà stabilita 2 giorni avanti i 7 o i 10 d’un mese non però destinato»18. C’è addirittura chi, come Valentino Maestranzi e i suoi compagni di prigionia nel gennaio 1918, sulla base di vaghe voci di pace progetta e attua una fuga dal campo di prigionia, solo per essere ricatturato pochi giorni dopo. In cuesti tenpi vi erano dele voci, che la guerra era terminata, eche cualche Ruso, era ritornato in patria, dela sua prigionia in Austria. Vedendo che anche cuella era una vita che andava sempre pigiorando sentindo parlare di pace, unito at altri miei amici, di circha una diecina, di lingua taliana, abiamo pensato di scapare ecosi fu19.

Con il passare del tempo e le continue delusioni si moltiplicano le professioni di sfiducia e incredulità. Ciò nonostante, contrariamente a quanto succede con le notizie politico-diplomatiche (anche quelle accertate e incontestabili, quali ad esempio la sconfitta della Serbia), le voci non smettono mai di essere riportate nella scrittura popolare e, cosa ancora più importante, discusse, foss’anche per affermare la propria superiore disillusione. Al fronte, come scrive acutamente March Bloch, «lo scetticismo era solo una forma della credulità»20. «Una falsa notizia nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita; questa, solo apparentemente è fortuita o, più precisamente, tutto ciò che in essa vi è di fortuito è l’incidente iniziale, assolutamente insignificante, che fa scattare il lavoro dell’immaginazione; ma questa messa in moto ha luogo soltanto perché le immaginazioni sono già preparate e in silenzioso fermento»21. L’arbitrarietà dei segni nire entro otto o dieci mesi, né più né meno. Vedremo se si indovinerà», Giuseppe Leonardi: «Oggi ricevetti un tua lunga lettera, che un poco dalla gioia e un poco dalla malinconia al vedere che tu speri la pace cosi presto mi faceva piangere perche qui, tanti discorono ancora che possa andar avanti anche un anno» e Giovan Battista Giacomelli: «Tornano a parlare di pace e questa volta pongono un termine: o entro venti giorni – primo d’anno russo – ci sarà la pace e contro le potenze centrali si caricherà più tremenda la lotta senza quartiere». 18 Diario di Giuseppe Dematté. 19 Memoria autobiografica di Valentino Maestranzi. 20 «Se si considerano talvolta i suoi [di chiunque provenga dall’esterno del fronte] racconti sospetti, questo dubbio è così assurdo e privo di metodo quanto la fede più cieca. Così, al fronte, si vedeva lo stesso uomo alternativamente accogliere a bocca aperta I racconti più fantasiosi, o respingere con disprezzo le vertà più slidamente fondate; lo scetticismo era solo una forma della credulità». Marc Bloch, La guerra e le false notizie, Ricordi (1914-1915) e Riflessioni (1921), Donzelli, Roma 2002, p. 114. 21 Ivi, p. 111.

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che sono ritenuti presagio dell’avvento della pace dai Trentini conferma questa definizione per il gruppo trentino: la spossatezza, la disperazione e la nostalgia portano a credere o a donare importanza a segnali apparentemente irrazionali. Il filtro della scrittura popolare, tuttavia, permette di aggiungere un’ulteriore prospettiva alle riflessioni di Bloch, vale a dire quella della scelta collettiva di trasporre in forma scritta solo alcune delle notizie e delle voci che, indubbiamente, proliferavano tanto nel fronte orientale quanto su quello occidentale. Dalle citazioni precedenti appare ovvio uno spiccato disinteresse (della scrittura, non necessariamente degli autori) per le notizie che possiamo definire parziali o contingenti, vale a dire tutte quelle che non possono far presagire l’avvento della pace, ma si esauriscono all’interno di un singolo fatto militare o si riferiscono ad altri fronti di guerra22. Non è solo il discredito delle fonti ufficiali che determina il disinteresse che le circonda, ma, pare, la sensazione che una vittoria o una sconfitta «locale» non abbia nulla da dire sull’esito finale del conflitto: i giornali, così come la corrispondenza e le voci, vengono vagliati in cerca di notizie di pace, mai di notizie di guerra23. Gli eventi esterni al campo percettivo del protagonista si inseriscono dunque nella narrazione solo se sono ritenuti potenzialmente risolutivi, se riguardano cioè la pace o il ritorno in Trentino, non in virtù del loro semplice essere accaduti o come parte di una catena che potrebbe, in un futuro insondabile e lontano, portare alla fine della guerra. E non è solo sulle notizie che la scelta di inclusione si applica con rigidità. Le «voci» sono sottoposte a un simile – se non ugualmente rigido – criterio di scelta: il passaparola sulle atrocità del nemico è virtualmente inesistente nella scrittura popolare, mentre le dicerie sulle spie e sui «nemici interni» sono rare e generalmente legate ad avvenimenti ben precisi ai quali l’autore ha avuto modo di assistere (esecuzioni, catture). 22 La situazione dei civili e dei lavoratori militarizzati sembra essere leggermente differente. Nel memoriale annalistico di Emilio Valentini, falegname e lavoratore militarizzato, per esempio, l’armistizio con la Russia è l’unico evento che viene sottolineato nell’anno 1916-1917. Fino ad allora avevano trovato posto nel diario solo spostamenti e lavori svolti: «2 – XII ci giunse inaspettata la notizia dell’armistizio con la Russia, imaginarsi che gridi di gioia da noi poveri, per alcune ore fu una continua illuminazione». 23 Lettera non firmata mandata a Enrico Moggio (24-2-1915): «A quanto aprendo dai giornali, un pensiero di pace non le scorre ancora alla mente, mi fà pensare sempre più delle cose orribili, chissa dove si andra a finire…». Si vedano anche le precedenti citazioni di Simone Chiocchetti.

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Le voci e le discussioni sulla pace, con la loro arbitraria puntualità, assolvono al bisogno di porre un termine, osservabile e desiderabile, al conflitto e alle sofferenze. Il limite estremo della fine viene, ovviamente, continuamente posticipato: di qui l’emergere di professioni di sfiducia. Ma accanto ad esse, implicita o, spesse volte, esplicita, vi è l’espressione delle speranza che le voci siano vere o troppo pessimistiche. La trasposizione in forma scritta di flebili speranze sembra avere la funzione di dare loro sostanza, attraverso la ripetizione: ogni qualvolta l’argomento della pace viene ispirato alla scrittura da voci o «segni premonitori» ad esso si accompagna l’espressione del proprio desiderio di credervi e, immancabile, l’invocazione a Dio perché le dia realtà. Il conflitto tra la razionalità del soldato e il suo bisogno di credere trova il proprio campo di battaglia in una lettera che Simone Chiocchetti invia al fratello nell’aprile del 1915: «Intesi che, ai 24 cor. c’è armistizio» scrive «dicono chiacherano ma nessuni sanno nulla». Tuttavia «se cio fosse vero forse si fara pace, io spero sempre più»24. Se le «voci» e i segni premonitori non scompaiono dalla scrittura popolare al pari delle notizie è perché essi rappresentano la speranza, necessaria alla continuazione della guerra, di un ritorno alla pace e al conosciuto. Domenico Zeni conosce perfettamente l’ambiguità e la necessità di questo bisogno, un vero e proprio obbligo di credere, analogo a quello evocato da Bloch: Ora si udiva dei soldati russi che in qualche 3 mesi di pace sicura e noi non sapiamo niente altro che ci tocca credere e a tutto, e vivere sempre di speranza, se non viene di Pascua vera da Natale la pace se non viene dal 17 vera il dicioto25.

La scrittura si conferma un dispositivo ordinatore, uno strumento per esercitare controllo, per quanto fittizio, su un evento al di fuori del campo di azione individuale. A questa funzione si aggiunge il potere di rendere reali le speranze, di donare loro sostanza attraverso l’enunciazione e, come si vedrà meglio in seguito, attraverso l’associazione del desiderio alla figura divina. Dal trattamento riservato alle noti24

Lettera di Simone Chiocchetti ai genitori. Domenico Zeni. Si veda anche Francesco Matteotti: «Le chiachere riguardo alla pace sono sempre le stesse. I giornali non scrivono nulla di comprometente; solo la gente dice, che presto anderemo a casa che sul campo non si batte più; e vi sono quelli che dicono anche che la pace e già fatta!… Benché si anella il momento della partenza, pure non si può ancora prestar fede a queste chiachere, perché fummo troppo ingannati fin qui. […] Tanto si desidera: è poco si crede». 25

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zie e alle voci di guerra è inoltre possibile intuire la natura attribuita dai trentini all’evento-guerra. La guerra che emerge dalla scrittura popolare è un evento monolitico. Essa non è composta da parti discrete (le vicende militari) e il suo esito non è dato dal concatenarsi di eventi legati da un filo causale. Essa è un fenomeno unico, spesso personificato, quasi dotato di una coscienza e di un percorso prestabilito, nascosto agli occhi dei suoi partecipanti, ma ciò nonostante destinato a concludersi. La metafora che meglio vi si adatta è senza dubbio quella del cataclisma naturale26, in particolar modo quella catastrofe prolungata e dalla durata indefinita che è la carestia; di fronte ad essa ogni tipo di interpretazione razionale è inutile e raramente tentata. Come detto in precedenza le spiegazioni sull’inizio non sono mai collegate all’omicidio di Sarajevo o a qualsiasi altro avvenimento terreno: la guerra, semplicemente, si è abbattuta sugli uomini. Le domande, sommamente pressanti e frequenti, sulla sua fine non possono essere soddisfatte dalle semplici notizie sull’andamento dei fatti militari o dei propri atti quotidiani perché, proprio come una carestia, la guerra non è determinata direttamente dal potere umano: il ruolo del soldato al suo interno non è quello dell’agente, di colui il quale può deviare il corso degli eventi verso una direzione piuttosto che un’altra. La guerra è un castigo divino, è voluta da Dio e, indiscutibilmente, solo da Lui può essere terminata. In una lettera immaginata ai propri cari, commentando le voci contrastanti che si inseguono in guerra, Battista Giacomelli enuncia nel modo più chiaro come le chiacchiere del fronte, al pari delle azioni umane, non abbiano valore davanti alla volontà divina, unica entità che possa mettere fine alla guerra. Io solo forse non mi mescolo a loro [i suoi commilitoni che parlano della pace], perché non so pensare che a voi, o miei diletti, desidero voi soli, e del resto poco mi cale: già le chiacchiere nostre non cambiano il destino, e ciò che doveva succedere succederà. Dio voglia solo che sia presto27.

Basterà leggere questi passi di Romedio Endrizzi e Rodolfo Andreis per comprendere come l’interpretazione ecclesiastica della guerra in quanto frutto naturale della modernità e castigo divino avesse fatto presa sui soldati trentini:

26 27

Mario Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, il Mulino, Bologna 2002, p. 329. Diario di Giovan Battista Giacomelli.

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Tempi costoro i quali sott’essi e con essi causa la via falsa della massima velenosa del mondo; vuole forse il Cielo inchinare il capo ai mondani, che trascinano al scandalo le innocenti anime mediante false idee e principi28. Ecco ove arriva la scienza e il decantato progresso dei popoli se non lo precede la giusta Legge Divina, della qual e molti credono di farne a meno, poveri ignoranti! Anche fossero i più grandi scienziati della terra, sono di molto inferiori del povero, che stende la mano ai passanti, ringraziandoli dell’obolo ricevuto, con una Ave Maria29.

«Iddio mette alla prova gli uomini e poi lo premia delle sofferenze e dei dolori passati», scrive Livio Bais ai propri familiari, «Così speriamo sia anche con noi miei cari. Quando a Dio piacerà terminare questa stragge e la Madonna mi darà la grazia di tornare a voi»30. La guerra-carestia non deve essere vinta: si deve esaurire. Per questo la questione della vittoria o della sconfitta non viene mai posta dalla scrittura popolare. La vittoria coincide con la sopravvivenza e con la capacità di accettare stoicamente le condizioni volute da Dio. «Ormai basta la salute a vincerla!» annota Vigilio Iellico, mentre assiste, negli ultimi giorni di guerra e senza alcun rimpianto, alla disgregazione dell’esercito in cui aveva militato per anni31.

La guerra dei potenti Deputati, Ministri, Presidenti, Re, Imperatori, vi imponiamo di estrarre con una tenaglia rovente la lingua a tutti coloro che vogliono la guerra, se vi rifiutate verremo noi e inviteremo anche quelli della seconda guerra e vi squarteremo uno per uno con quattro cavalli. – Rodolfo Andreis

Se la catena causale dei fatti politico-diplomatici non è sufficiente a spiegare l’esplodere del conflitto, quali sono le cause per le quali la guerra-carestia si è scatenata sugli uomini? La risposta della scrittura popolare sembra essere pressoché univoca: la guerra è dovuta alle due colpe capitali dell’odio e dell’ambizione, attribuite a quella imprecisa28 29 30 31

Memoriale di Romedio Endrizzi. Memoria autobiografica di Rodolfo Andreis. Diario di Livio Bais. Memoriale/diario di Vigilio Iellico.

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ta categoria di persone che sono «i potenti». La guerra è scoppiata, nelle parole di Rodolfo Andreis: «causa l'ignorante ambizione di certi uomini, che per il bene dell'umanità meglio sarebbe, non fossero mai nati»32. «Quante volte maledissi gli uomini di governo» gli fa eco Ermanno Guarnieri, «i quali sacrificano tante migliaia di giovani vite, speranza della società, alla loro sfrenata ambizione, all’odio, all’orgoglio!». «Ambizzione e sempre ambizzione» risponde indignato Giovanni Pederzolli alla domanda retorica posta dal suo diario sul perché i potenti stiano portando avanti questa guerra sciagurata. Si spera presto lafine! amia cara sefosse il vero machisa mai quando sifinira ormai e una vendetta che anno questi reganti e non pensa a il sangue che fano spargere e le rovine che mette in tuti i popoli33.

Il più colto e «politicizzato» maestro elementare Rodolfo Bolner sostituisce la parola «potenti» con la parola «capitalisti», ma il ruolo dell’ambizione nel determinare lo scoppio del conflitto permane: Ha uno scopo questa guerra? È stata voluta dagli ambiziosi e dai capitalisti, ma gli ambiziosi e i capitalisti però sono… al sicuro!34

Giovanni Pederzolli, in una poesia significativamente intitolata «Odio», esprime con una forza insolita, resa «lecita» da quel medium particolare che è la canzone popolare, la propria rabbia verso «il mondo e il creato»; un tempo, dice, era buono, «pensava all’amore», ma in quella terra, coperta di fango, è arrivato a «abiurare l’amore, a strozzarlo, a infrangerlo»: Ma tutto quest’odio, bruttale, bolente/ Che fa di me, un pazzo, e quasi un demente;/ Chi mi istillò, questo, serpe, nel cuore,/ Chi assassinò, in me sempre l’amore?// Voi foste potenti! Voi foste, gli autori!/ Di aver tutto, sopresso, nei nostri cori35. 32 Memoria autobiografica di Rodolfo Andreis. Il passo continua: «la guerra ha mai migliorato la situazione economica e sociale di nessun popolo, ma sempre peggiorata e da queste conclusioni tutti i mortali potrebbero lanciare un monito solenne agli attuali reggenti, affinché acciecati dall’ignorante ambizione, non ripetano gli errori del travagliato tempo che fu». 33 Diario di Luigia Senter. 34 Si veda anche Arcangelo Merler: «Alcuni si lamentavano per il mal di testa li altri per mal di ossi, cosi che tutti ne lamentavan. E contra chi? I genitori? No. I nostri amici? Nemmeno. Ma a contro chi inventò la guera. Ma le nostre lamentanze contavano men che nulla». 35 Zibaldone di Giovanni Pederzolli.

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L’accusa ai potenti è del tutto scevra da qualsiasi rivendicazione sociale e, se condanna le scelte e l’indifferenza dei regnanti nei confronti delle sofferenze dei sudditi, non ne mette in discussione il diritto a regnare. La scala sociale tradizionale, che va dalle dinastie dei regnanti, ai ricchi, ai «padroni», ai bacan fino alla «povera gente» non solo non è discussa, ma viene, all’occasione, attivamente difesa. La Rivoluzione Russa, sia quella d’Ottobre che, più sorprendentemente, quella di Febbraio36, non appare nella scrittura dei prigionieri trentini come un fatto estremamente importante: il più delle volte è segnalata come una delle tante peripezie e stranezze a cui il soldato deve fare fronte, un aspetto del grande processo della guerra non necessariamente più sorprendente di altri37. Come tanti eventi al di fuori del campo percettivo del protagonista essa può persino essere ignorata38, sebbene comporti quasi invariabilmente delle conseguenze nella vita del narratore. Così Giuseppe Dematté, ruotaio di Torchio prigioniero in Russia, descrive nel proprio diario quei giorni che «sconvolsero il mondo»: 24 M. pioggia andato in Miliza perso il guanto / 25 g pioggia taglio la legna / 26 V nuvoloso / 27 S freddo grande brina e poi sole / 28 D vento e sole soldati ricevo ciai e zigar / 29 L arare in campagna39. 36 È stato infatti sostenuto che la Rivoluzione d’Ottobre fu percepita in maniera «disattenta e poco partecipe» dalla stessa popolazione russa, che la vide, almeno inizialmente, come una semplice continuazione del processo iniziato in Febbraio. Non così poteva essere per la caduta del regime secolare degli zar. Marcello Flores, 1917. La rivoluzione, Einaudi, Torino 2007, pp. 67-69. 37 Giuseppe Passerini: «19 Marzo 917 giunge la notizia della rivoluzione – i gendarmi sono disarmati». Guido Piffer: «Il giorno 23 Marzo grande festa socialismo, e il giorno 24 una inondazione e dovette fugire dalla cucina e andare sulla fabbrica». Pietro Pompermaier: «Scoppiata la rivoluzione a 1917 a Mosca e Pietrogrado continuava anche nel 1918 faccendo dei gravi disordini qui la cosa si fa serria». Angelo Zeni: «Ieri sera alle ore 4.30 arrivammo a Ircuss citta grande ed importante della siberia, qua c’era la rivoluzione, cioè grande guerra fra un partito e l’altro e colà si vocifera che l’altro ieri fu fatti 2000 morti dai Bolsavikii». 38 Memoria autobiografica di Domenico Dalbosco: «Vi fu la Rivoluzione Russa, che hanno destituito lo Zar e formato la repubblica (URSS) qui non vi furono sommosse niente, altro che calpestravano i quadri foto ecc.) dello Zar, e hanno festegiato il prima maggio cantando la marsiliese in grandi cortei. con discorsi ecc. (non mi fermo in particolari, e sarebero tanti)». 39 È ovviamente ipotizzabile che Dematté non fosse a conoscenza degli eventi di S. Pietroburgo. Da notare è tuttavia che anche nel proseguio del diario, così come in altri autori, l’evento non viene inserito nella narrazione, se non per le influenze che esso ebbe nella vita del protagonista.

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La rivoluzione non si inserisce nella narrazione nemmeno nei mesi successivi. L’unico indizio che qualcosa è cambiato sta nella maggiore ricorrenza con cui Dematté segnala la presenza di soldati russi rispetto ai mesi precedenti, senza che peraltro l’autore si chieda chi siano o cosa vogliano. Né maggiore interesse dimostra Dematté in una versione successiva, più estesa e riflessiva, dello stesso diario. Pietro Carraro, contadino di Strigno, dedica all’evento un «capitolo» della propria memoria autobiografica, intitolato «In quel’anno – 1917 – scoppiò la rivoluzione Bolscevicka». In esso solo poche righe sono dedicate alla spiegazione degli effetti della rivoluzione sui prigionieri (le minacce dei soldati di ritorno dal fronte) e su se stesso, mentre la maggior parte del testo è dedicato al racconto di un incidente che Pietro ha avuto con i cavalli del padrone, del tutto avulso dagli accadimenti rivoluzionari. I prigionieri trentini si pongono davanti all’evento in qualità di semplici testimoni, non particolarmente interessati o stupiti di questa nuova manifestazione della follia umana, a volte «comprendendo» le cause che hanno portato alla sollevazione (la tirannia dello zar, la povertà della popolazione), ma condannando quasi invariabilmente i rivolgimenti all’ordine sociale determinati dai «bolsevichi». Pochi giorni dopo scopio la rivoluzione Bolsevicha, ma nonfui molestato, ecualche giorno dopo chel regime bolsevicho si aveva sfogato, facendo stragi contro lumanita, emeso le sue legi […] ma nel vedere certe barbarie, esentire li oltraggi, che venivano fatto, contro le chiese e isuoi ministri, Signori, Signorine, apulire le strade, prendendo tutti ibeni ai Signori, ucide dali, omesi in prigione, dando tutti cuesti beni; etereni ai poveri40.

Per Giorgio Bugna, prigioniero ed occupato presso un barone russo, lo scoppio della rivoluzione è invece un vero e proprio shock. «Io che vedeva la prima volta questo baccano», scrive riguardo al 28 novembre 1917, «non sapevo conprendere finalmente ho potuto vedere il gran quadro della devastazione umana». Non stupisce, alla luce di quanto detto della centralità del principio di proprietà nella società trentina, che ciò che colpisce Bugna sia la devastazione dei beni del barone: gli estranei che si siedono alla tavola padronale «come fossero di casa», il furto del bestiame («40 vacche, 70 maiali, più di 200 oche e galline»), la distruzione sistematica della magione, del giardino, dei

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Memoria autobiografica di Valentino Maestranzi.

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granai («grano, miglio, segala, frumento, avena, farina, girasoli»), delle scuderie e dei magazzini («carri, carretti, slitte, carrozze, mobili, porri, capuci, crauti, vetri ecc ecc.»). La precisione dell’elenco dei beni saccheggiati (di cui ho riportato solo una piccola parte) assurge a espediente retorico per rendere il grado del sovvertimento e la intrinseca ingiustizia del furto ai danni di un datore di lavoro verso il quale Bugna non aveva precedentemente dimostrato particolare attaccamento. Il giudizio di Bugna non lascia dubbi: sebbene la rivoluzione sia nata dall’oppressione, i rivoltosi sono «vigliacchi», «barbari», «gente trasformata in un attimo in un’orda di Vandali e assumendo l’espressione appropriata che s’era ridotta irriconoscibile»41. Per Domenico Zeni lo scoppio della Rivoluzione significa la possibilità di cercarsi un lavoro in Russia, forse anche di passare il confine e tornare in patria. Ma questa libertà anarchica, senza regole e senza rispetto per la vita umana, non è quello che lui cerca: Mache in questo tempo libero senza giustizia revoluzionaria che si uccidon tra Russi e prigionieri, io voria provava passa le confine mache e pericolo della Morte42.

Tra i bolscevichi e il ricco proprietario terriero presso cui lavora, Zeni, come molti suoi conterranei, non ha dubbi: A! quanto mi vuol bene tutti solo non so se mi potra tenere a lungo, questo mi indispiace io perche mi toca andare al lager e i padroni ancor di piu a dovermi lasiare43.

«Cose de laltro mondo», commenta infine Riccardo Bridi, rientrato dalla Russia per tramite della Missione Italiana e provvisoriamente residente a Torino, a riguardo del caos urbano creato dagli scioperi dell’Agosto 191744. 41

Diario di Giorgio Bugna. Memoriale di Domenico Zeni. 43 Ibidem. Si noti inoltre la naturalezza con cui Zeni annota lo scoppiare della Rivoluzione, letta, come nel caso di Bugna, esclusivamente attraverso la distruzione dei beni materiali: «Noi qua in Cuzmech abiamo avuto anche la rivoluzione, abiamo dormito una settimana sempre vestiti col fagoto sotto la testa sempro preparati a scappare che tutti diceva che nella fabrica volion bruciarci dentro. Anno spezzato due fabriche di spirio la lan bevuto tutti ubriachi e questo è stato». 44 Memoriale/Memoria autobiografica di Riccardo Bridi: «I sociallisti di Torino anno fatto un siopero generale e senbrava una revuliziene cera tutti i negozi chiusi il tram fermo automobili Caroze picichlete ne suno poteva girare, solo che automobili bindati carichi di soldati e metragliatrice, vi sara stato 300 morti fra soldati e borghese in Torino». 42

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Lungi dall’essere una giusta soluzione ai mali che affliggono il mondo, il sollevamento della popolazione, che pure aveva determinato nel caso russo la fine della guerra su quel fronte, non è altro che un’ulteriore manifestazione di un’umanità vista come intrinsecamente folle e malvagia e, in ultima analisi, come l’ultima, ormai non più sorprendente, dimostrazione del rovesciamento del mondo determinato dalla guerra. Allo stesso modo la «maledizione» scagliata da Guarnieri e da altri contro «gli uomini di governo» manca di qualsiasi volontà di cambiare le cose, sia che si tratti del sistema sociale, sia che si tratti di quegli uomini politici che, con il loro odio, hanno fatto scoppiare la guerra. Gioachino Lucianer indica, nel suo canzoniere di prigionia, il motivo delle sue sofferenze (è internato a Katzenau) nella «politica e nella diplomazia / che vuol aver quell’invidia / mondiale supremazia / a cui mirano le menti di tutti i prepotenti». E poi si rivolge direttamente a loro: Oh, voi, Duci dei popoli, / Da Dio predestinati / ad imperare amand[oci?] / Non siate snaturati / Pensate al sangue umano / che fu già sparso invano / vi prenda al fin pietà45.

Nel lamentarsi della propria «Vita Miserabile» e nel chiedersi con ansia «quando risuonerà quella parola di pace», Luigi Daldosso non chiede a Dio di sostituire i governanti che la hanno voluta, e men che meno un nuovo ordine sociale; egli vuole semplicemente che Dio illumini «questi bassi inteletti ciecchi di odio di coloro che ci governano»46. Il diritto a governare è sancito da Dio. Ai governanti si può chiedere clemenza, si può, al limite e seguendo una solida tradizione, lanciare insulti e invettive47. Ma il loro rovesciamento non è mai contemplato, poiché visto al di fuori del campo di azione non solo individuale, ma anche collettivo48. Il nome dei «potenti» non viene peraltro mai fatto: la loro nazionalità, il loro colore politico, la natura degli ideali che vogliono portare avanti attraverso la guerra non vengono mai nominati, discussi, distinti tra di loro. Alla sostanziale mancanza di astio per Francesco Giu-

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Canzoniere di Gioachino Lucianer. Diario di Luigi Daldosso. Si veda la citazione che apre il paragrafo. M. Isnenghi, Le guerre degli italiani, op. cit., p. 274.

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seppe in quanto Imperatore corrisponde una totale indifferenza verso lo Zar Nicola II in quanto nemico, così come una diffusa freddezza verso qualsiasi altra figura o ideale politico49. La distinzione tra democrazie, regni costituzionali o imperi è del tutto insignificante per la definizione della categoria dei «regnanti», così come, conseguentemente, per la categoria di «sudditi»: potenti sono coloro i quali, lungi dall’essere rappresentanti della popolazione, esercitano un potere decisionale dal quale i soldati trentini si sentono irrimediabilmente esclusi, ma sul quale, d’altra parte, essi rinunciano ad avanzare qualsiasi tipo di pretesa. La categoria dei potenti è una categoria perfettamente omogenea, nella quale la distinzione tra aggressore e aggredito, tra diritto e usurpazione, tra ragione e torto non ha alcun significato nel momento in cui tutti i governanti hanno scelto di iniziare e continuare una guerra che, per il dolore che porta alla povera gente (altra categoria omogenea e senza distinzioni nazionali) non può avere giustificazioni o vendetta. L’attribuzione della colpa ai potenti non equivale a una posizione politica rispetto alla guerra: non esiste un’interpretazione contadina di quest’ultima che sia del tutto slegata dall’interpretazione religiosa/punitiva. I peccati, più che le scelte, dei governanti hanno portato alla situazione presente ed essi non sono, in ultima analisi e come l’intera umanità, altro che strumenti nelle mani di Dio. Come non sta agli uomini, anche i più oppressi, modificare secondo i propri desideri la gerarchia sociale, così non sta agli uomini, anche i più potenti, decidere la fine di un cataclisma che è al contempo colpa ed espiazione dei peccati. «Attraversiamo un’ora mestissima», scrive Cecilia Rizzi, contadina di Nomesino, «i Regnanti non si sa il perche hanno messo L’europa in fiame, tuona minaccoso il canone; […] Quanda la misura è al colmo trabocca e i flagelli dell’ira di Dio si scatena sopra terra»50.

49 Francesco Laich: «L’uomo, quando è imbevuto da passioni politiche, non ragiona più, diventa illogico e bestiale». Parziale eccezione va fatta per il credo socialista professato da alcuni autori, che tuttavia si esplica il più delle volte come un anelito alla giustizia sociale più che come un afflato rivoluzionario. 50 Diario di Cecilia Rizzi Pizzini. Si veda anche il diario di Luigi Daldosso: «Vita miserabile, quando finirà questo soffrire quando Dio illuminerà questi bassi inteletti ciecchi di odio di coloro che ci governano».

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Guerra e prassi religiosa Pensavo ancora che tuto ciò non dipendeva dalla sorte o dal destino, ma da un essere supremo e credo che a ben pochi sfuggisse questo, massimamente nei momenti più critici – Albino Soratroi

Il contado trentino è, come è facile immaginare, compattamente cattolico51. La guerra, pur determinando qualche occasionale allontanamento dalla fede religiosa, spinge nella maggior parte dei casi a ricercare la sicurezza della protezione ultraterrena: 18/10/1914 Carissima mia sposa / Sono lontano! Ma benche lontano non scordo mai i miei doveri, e le mie orazioni. Non ho mai trovato così sollievo nelle preghiere come qui in questo luogo52.

Nella sua prosa di maestro colto Guerrino Botteri esprime tutto il proprio pentimento. Anche lui, come altri, aveva cominciato a dubitare della religione, a ritenerla indegna del XX secolo. Ma la guerra, «le giornate tempestose, gravide di dolore e di angoscia», gli hanno aperto gli occhi, «Tanto da farmi sentire una voluttà dolorosa ma soave nel dire coll’anima – recitando un padre nostro – ‘Fiat voluntas tua’». La pratica religiosa è caratterizzata dalla scrittura popolare in primo luogo come un piacere53 e uno sfogo, a cui il soldato generalmente sente di avere pieno diritto, in secondo luogo come un dovere che solo le condizioni di guerra impediscono di portare a termine. Immancabili sono il senso di oltraggio e le lamentele quando il diritto/ dovere non viene garantito dalle autorità militari54. Celeste Paoli, in occasione della Pasqua 1916, passata sul fronte dolomitico, si indigna per il trattamento ricevuto e per l’insopportabile contrasto tra la 51 Il Trentino contava nel 1880 351.491 cattolici e solo 196 di altra religione. Ottone Brentari, Guida del Trentino, op. cit., p. 5. 52 Lettera di Cesare Tomazzoni alla moglie. 53 Diario/Memoria autobiografica di Rodolfo Bolner: «Un nuvolo di soldati si avvicenda ai gradini dell’altare: il loro aspetto ha del selvaggio […] Eppure quale espressione di intima gioia trasparire dagli occhi di ciascuno». 54 Memoria autobiografica di Luigi Moresco: «Non potevo, come nissuno di noi poteva, assistere a messe, fare comunioni ecc. Ci si doveva accontentarci de le nostre preci private. Tanto che ne’ 1273 giorni di vita militare, eccetto il tempo che ero al quadro o in permesso, potei assistere una sola volta a la ss. Messa. A’ 20/X. 16 Dio volle però che potessi avere una breve licenza, ed uscire un momento da quell’aura viziosa».

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solennità dell’occasione e la miseria delle proprie condizioni, in servizio di guardia sotto la neve ed esposto al vento, impossibilitato ad assistere alla messa. Per darsi coraggio compie un balzo immaginario nel tempo, mitigando la propria sofferenza presente con la speranza che nella prossima Pasqua essa non abbia a ripetersi55. A distanza di un anno la sua condizione non è tuttavia cambiata. La Pasqua del 1917 lo vede ancora di vedetta sulle montagne e il suo diario è di nuovo testimone, con il proprio stile formulare, della sofferenza legata al freddo, ai pidocchi, al pericolo di morte e alla fame. Il giorno di S. Giuseppe Celeste si trova sull’orlo delle lacrime, «molto melancolico», in quei luoghi senza «nesun segno di riligione». Ottenuta «la grazia di una messa» il primo di Aprile, Celeste rinnova il proprio disappunto quando si trova, il giorno di Pasqua 1917, «in quei luoghi, non poter fare la Pasqua e nemeno assistere ad una S. Messa». La conformazione del fronte, una volta tanto, viene in aiuto al povero Kaiserjäger, che, in una scena molto evocativa, può seguire i canti, la lettura del Vangelo e la predica attraverso l’eco delle montagne. A parte questo, scrive: «niente, anche in questo giorno nesun servizio». Dal diario di Paoli appare evidente come l’assistere alle celebrazioni, in particolar modo durante periodi densi di significato spirituale, costituisca un bisogno quasi fisico, comparabile, per grado di sofferenza, per il risentimento che esso genera e per l’analogo stile formulare con cui viene espresso, con i bisogni della fame, dell’igiene minima e della protezione personale che vengono così spesso lamentati nei diari. Come si ricorderà dalla breve analisi dei libri di famiglia nel primo capitolo, le celebrazioni sono giudicate dal contado trentino in quanto performances56, secondo le categorie del bello o del brutto, spesso – ma non sempre – coincidenti con le categorie del partecipato/non partecipato57. In guerra questi criteri si mantengono, ma all’atto di assistere alle messe si aggiungono un valore speciale e un’urgenza inusi55 Diario di Celeste Paoli: «23 Pasqua. Il più che mi rincrebbe in questo giorno fu di non poter assistere alla S. Messa in quell’ora che la dissero dalle 8 alle 9 io dovei andare di posto e fiocava. In questa festa cosi solenne al vedermi in quel luogho […] mi veniva da piangere e dissi spero però che la Pasqua del 1917 passarla in luoghi migliori di quella che passai nel 1916». 56 Chiara Kirschner, Percezione dello spazio e costruzione dell’identità culturale, in «Annali di S. Michele», 9-10 (1996-7), pp. 369-387. 57 Si noti inoltre, e si metta in correlazione, il fatto che le chiese dei paesi visitati sono praticamente gli unici luoghi al di fuori del mondo di paese che sembrano suscitare un qualche interesse estetico negli scriventi.

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tata che il soldato si adopera a soddisfare con qualsiasi mezzo disponibile. La performance del rito può costituire uno svago dalla guerra, una temporanea via di fuga dalla trincea. Sulla destinazione di questa fuga pochi possono essere i dubbi. Luigi Daldosso, pur non essendo un cattolico fervente, annota il giorno in cui ha assistito a una messa celebrata da un vescovo italiano come quello che «più di tanti altri mi resterà impresso». La motivazione è da ricercarsi nella capacità rievocativa della celebrazione religiosa: Qual turbine di pensieri si levo entro di me durante il corso della sacra funzione. Mi rividi fanciulo quando nella chiesetta del mio nattio paesello assisteva quasi svogliato a queste pie pratiche. Rividi la mia vita trascorsa come in uno specchio […] Si mia cara questo fù uno di di quelli istanti in qui nella Vita trascorsa si legge come in un libro a carrateri di fuocco. Tutto mi passò dinanzi e famiglia, e patria, e amore ramentandomi tutto nei più minuti particolari e luoghi e oggetti e persone58.

La capacità rievocativa del rito risiede, ovviamente, nella sue caratteristiche ricorrenti, a prescindere dal tempo e dal luogo in cui viene officiato: i gesti e le parole del celebrante, la scansione della sua interazione con i fedeli, le melodie e gli odori conosciuti. Il luogo fisico della chiesa, inoltre, riveste un significato particolare per i piccoli centri rurali, in quanto luogo del riconoscimento reciproco e della celebrazione non solo dei riti, ma della stessa comunità di paese: tutti gli abitanti, tramite donazioni e lasciti ereditari contribuivano alla creazione e al miglioramento estetico di quello che era visto come un simbolo distintivo della piccola patria, non di rado in contrapposizione con i paesi vicini59. Per questo non sorprende trovare un moto di stizza e delusione quando anche solo uno degli elementi della liturgia o della conformazione dei luoghi di culto non viene rispettato. Massimiliano Sega, per esempio, non può nascondere il proprio disappunto 58

Diario di Luigi Daldosso. «Un elemento importante per interpretare la realtà sociale e culturale del Trentino è il tempio sacro, un bene inseparabile dalla comunità e inalienabile, destinato alla liturgia e alle assemblee delle vicinie e dei comuni. I fedeli concorrono con molte offerte alla costruzione, al suo ampiamento e abbellimento, alla tutela delle icone, reliquie e degli arredi sacri. […] Secondo una consuetudine di sempre, i fedeli sono soliti intestare legati e lasciti non al sacerdote, ma alla chiesa». Angelo Gambasin, La Chiesa trentina e la visione pastorale di Celestino Endrici nei primi anni del Novecento, in Alfredo Canavero, Angelo Moioli (a cura di), De Gasperi e il Trentino tra la fine dell’800 e il primo dopoguerra, Reverdito, Trento 1985, pp. 343-378. 59

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quando, pur constatato che nel paese galiziano in cui era di stanza c’era una «bella hiesa», scopre che «il Prette non Camnta» e che, ad accompagnare i riti, vi sono solo «il Canone e i ucelli daria»60. Stessa metafora e stesso disappunto, ma maggiore capacità di immedesimazione, per Antonio Giovannazzi che, assistendo dall’esterno della cappella a una messa celebrata in tedesco e cantata in ungherese, dice che per gli italiani, orfani di un curato che parli la loro lingua, la messa era cantata da merli, tortore, paseri e tanti altri uceli chio non conosco che su le piante che ni ombregiava pareva che mandasse a Dio una prece per noi da questa tera straniera61.

L’uso della lingua tedesca nella celebrazione è un elemento disturbatore che raramente si tralascia di far notare, a tratti anche insistentemente: Dal campo 25/12 / Ieri sera verso le 7 ci an radunati tutti assieme e poi il nostro maggiore comandante del 4 Battaglione fece una predica ma per tedesco […] verso le 12 ci anno chiamati ad andare a Messa, subito e con piacere mi sono alzato e andai, all’elevazione 3 o 4 militari intonarono un bel canto benche per tedesco che non capii altro che questo, alla fine della Messa il comandante del Batt intonò l’ino all’impero (ma sempre per tedesco)62.

Allo stesso modo il mancato rispetto della festività o di alcuni aspetti di essa (in particolar modo il divieto di lavorare durante certe ricorrenze comandate)63 è accolto con indignazione e ironia e viene interpretato come un’ulteriore prova dell’intrinseca ingiustizia della guerra e del poco rispetto che chi la conduceva aveva per i soldati e la religione64. I soldati cercano di porre un freno a questo sconvolgimento con i propri limitati mezzi, rispettando (e affermando di rispettare attraverso la scrittura) quegli aspetti del rito e del costume che è loro possibile mantenere nelle mutate condizioni (ad esempio l’impo60

Diario di Massimiliano Sega. Diario di Antonio Giovannazzi. 62 Lettera di Angelo Paoli ai genitori. 63 Diario di Battista Chiocchetti: «15 Agosto. Come il solito, invece di festegiar l’assunta sempre l’istessi giorni di lavoro, anzi quì e come da noi in novembre». 64 Diario di Antonio Giovannazzi: «Cosi che in vece di aver festa passai per mé una giornata bruta a preferenza d’ogni altro giorno, sempro in piedi con grande disiplina; questa e il rispeto e divozione che ano i nostri superiori nel santificare le feste et il giorno di riposo». 61

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sizione del digiuno nella settimana santa o la vigilia di Natale)65. È evidente l’emozione e la soddisfazione di Giovanni Webber nel comunicare ai propri genitori che, nonostante l’affollamento, era riuscito ad ottenere l’ostia dal curato. Col Cuore ardente oggi abiamo avuto dinuovo la S. Messa alcampo qualcuno circa 200 sono potutto ricevere la S. Comunione finche anno durato lespecie, emolti sono rimasi senza, colla S. benedizione, iopero sonstato dei primi cosi s’on rimasto molto contento66.

Come nel caso dei libri di famiglia le feste assurgono, anche tramite la semplice ma immancabile citazione, a struttura portante della scrittura e a strumenti attraverso i quali constatare e misurare l’avvenuto passare del tempo67. In mancanza di un luogo e di una comunità che rendano prevedibili e confrontabili i riti, permettendo di costituire un giudizio sul presente all’interno di modelli binari essi stessi ricorrenti, la radicale alterità della situazione di trincea fa sì che la celebrazione rituale diventi occasione per aprire gli occhi sul grado del cambiamento a cui è stata sottoposta la vita del soldato, per misurare la distanza spaziale e temporale che lo divide dalla «patria». Le feste, in trincea, possono essere un momento di estrema disperazione, in cui il confronto con un passato idealizzato apre le piaghe della nostalgia: Mia cara mamma, oggi siamo arrivati alla Madonna della Grotta, stanotte ho tanto pregato e pianto e ho pensato a quei giorni che abbiamo passato la festa tutti assieme e non si avrebbe mai detto di arrivare a questo68. Domenica. S. Marco. Nel mio paese a quest’ ora andrano in processione fuor S. Marco, ed io son qui trattato come un cane, ma non andrà più alla

65 Memoria autobiografica di Pietro Carraro: «Si avicinò il quarto Natale di mia prigionia, il pensiero sempre rivolto alla Patria lontana, privazione assoluta di corrispondenza, sempre rassegnato ai Divini voleri. Quando ci ho detto: «per mé oggi è vigiglia di Natale ed’io non posso mangiare carne mi hanno datto da magro». Diario di Celeste Paoli: «21 Venerdi Santo feci tutto il possibile per non mangiar carne e vi riuscii dopo mi chiamai contento». Memoriale di Giuseppe Scarazzini: «Era venerdì Santo per managio vi fu fagioli e una conserva di carne ma io non lo mangiata perche ricordava che mi diceva la mia buona mamma che quel giorno digiunano anche gli uccelli dell’aria». 66 Lettera di Giovanni Webber ai genitori. 67 Significativa a questo proposito l’usanza, frequentissima, di enumerare le festività passate in guerra o in prigionia (es. quarto Natale di prigionia, terza Pasqua passata al campo e così via). 68 Lettera di Antonio Margoni alla madre.

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lungha ché cambierò o mi unirò in compagnia di altri compagni69. Ancora la sera ricevetti servizio allarmpost piove durante la notte e pure i russi sparano. Il giorno 26 mio onomastico lo passai propprio miseramente come pure tutti gli altri, cosa quasi insoportabile infatti70.

La festa e la celebrazione, grazie alla loro ripetizione in forme analoghe di anno in anno e alla loro importanza all’interno del tempo del paese, si dimostrano l’occasione di un confronto tra il presente e il passato71. Ma in tale confronto è evidente altresì una volontà di consolazione e conforto: attraverso la rievocazione del passato e l’immaginazione di quanto i propri conoscenti civili staranno facendo nel momento in cui l’autore scrive, quest’ultimo ricorda a se stesso l’esistenza di un mondo alternativo a quello di guerra, un mondo che lo attende alla fine del travaglio. Così Giovan Battista Giacomelli nel dialogo immaginato imbastito con i familiari sul proprio diario: L’Immacolata Concezione. Festa solenne che mi riporta in altri tempi, più belli, quando la passavo vicino a voi. Speravo anche quest’anno di veder finalmente cessare, per grazia di Lei, l’orrido flagello […] Festa che si festeggia sempre con letizia grande, forse per il mistero grande che ci ricorda, forse perché sta alle porte del bel Natale72.

Ancora più in là si spinge G. Z., che vola a casa con la fantasia e con lo spirito: 69

Diario di Battista Chiocchetti. Diario di Vigilio Iellico. Sul versante dei profughi si vedano Corina Corradi: «Ecco spuntata l’alba del giorno dei Santi. Quel giorno fui presa più del solito dalla nostalgia, pensando al caro paese ma più ancora alla solenne festa che si faceva verso i nostri poveri morti» e Luigia Margoni: «Siamo ai 13 di dicembre, giorno di S. Lucia; oh giorno di mesti pensieri! Dove son mai volati gli anni dell’allegro giorno di S. Lucia, com’era bello sentire tutti i fanciulli, chi con uno zuffolo, chi con una trombetta, chi aveva un pagliaccio chi una bambola, facevan tutti gran festa» 71 Diario di Giuseppe Masera: «Quanto fù mesta per me la settimana Santa. Una fame terribile, poco da mangiare, e per di più giorni piovosi, e sempre lavorare. Oggi poi, una festa così solenne, nei tempi passati». Memoriale di Fioravante Gottardi: «Col cominciare del nuovo anno, mi si risvegliano alla memoria le belle feste che si facevano in passato in questi giorni e faccio un confronto con quelli di adesso... Quale cambiamento! Ah beati quesi tempi che furono, e chi sa se ritorneranno... Ma bisogna rassegnarsi». Diario di Domenico Longo, studente di famiglia contadina: «Domenica delle palme! […] Come si farà la Domenica a Siror? Cosa farà mia madre? Cosa faran gli italiani? Quanto sarei curioso! La passerò meglio un altro anno la domenica delle Palme?». 72 Diario di Giovan Battista Giacomelli. 70

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Carissimi genitori, / La comemorazione della fratellamento degli uomini or sta er venire, ed io dalla lontana Siberia non posso fare a meno di festeggiarla unito a voi. Accettate la mia associazione in tanta solennità ed già che non mi è possibile il parteciparvi personalmente, nella preghiera con lo spirito a voi mi unisco73.

Le festività sono pressoché gli unici momenti74 in cui la narrazione popolare viene spezzata da flashbacks che scombinano la linearità cronologica della trama, svelando alcuni frammenti della vita dell’autore precedente la guerra75. Attraverso la festa si crea una sorta di cortocircuito cognitivo nello spazio e nel tempo e la mente viene fatta viaggiare tanto indietro, al passato, quanto avanti, verso la speranza di un ritorno della normalità e del conosciuto dei rituali familiari e di paese: in nessun altro caso la circolarità del tempo contadino appare più evidente. Accanto alla rievocazione è frequente la riflessione sul dove ci si troverà nella ricorrenza successiva, quasi immancabilmente accompagnata dall’espressione della speranza che, per il prossimo Natale, Settimana Santa o onomastico, la guerra sarà finita e la normalità del rito e dei costumi comunitari ristabilita76. In occasione del giorno di Sant’Anna, patrona di Roncogno, Domenico Zeni interrompe il proprio memoriale retrospettivo, passando repentinamente al presente. Tempo della scrittura e tempo della narrazione vengono improvvisamente a coincidere e l’autore, incitato dal ricordo e diviso tra idealizzazione del passato, preoccupazione per il presente e immaginazione del futuro, si rivolge direttamente ai propri cari in un dialogo immaginato: Pensando che voi, cioè la nostra famiglia festegierà come nostra protettora del nostro paese la pregherete che mandasse la pace, come pure io questo giorno, sebene mi toca lavorare mi ricordo di pregare anche per voi, che almeno un altro anno poter festegiarla insiema a nostra casa e colaiuto di Dio

73

Lettera di G. Z. ai genitori. Effetto analogo ha tuttavia sulla narrazione l’imbattersi dell’autore in luoghi che ricordano, per somiglianza o contrasto, l’ambiente di paese, in particolar modo, prevedibilmente, campi e monti. 75 Diario di Giorgio Bugna: «Mi ricordo che avanti 20 anni come oggi cioè il giorno seguente alla madonna del Carmine che era ieri, io non ero certamente in Russia. Come ieri andai a Tione a prendere la pelle di vacca conciata e alla sera da Pedrocchi ho fatto una di quelle balle maiuscole [grande ubriacatura] e relative pagliacciate come a dire andare colla Nina di Palerno in sua casa a cosa fare io non so». 76 Lettera di Angelo Paoli ai genitori: «Oggi giorno di Sant Martino che da noi si beve il nuovo vino, colla speranza di un altro anno esservi anchio a bevvere un bicchiere». 74

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speriamo di trovarci tutti ancora sani e come pure il mio fratello Luigi che sempre penso dove che sarà, mi dico framè è col mio buoncompagno Lazzeri dove sarà i nostri fratello almeno venissero anch’essi prigionieri come noi77.

Che il conforto del rito, della festività e della religione nel suo complesso risiedesse in larga parte nelle sue possibilità rievocative è ben provato dall’atteggiamento che i trentini dimostrano verso la religione «reinterpretata» secondo i canoni delle gerarchie militari. Tutti i soldati, lontani dal cercare conforto spirituale nelle strutture messe a disposizione dall’autorità militare, sembrano nutrire particolare avversione per la commistione tra guerra e religione, sia che avvenisse nel corso del rito – sermoni patriottici dall’altare78 – sia al di fuori di esso, incarnata da quella figura ambigua che è il cappellano militare. In rapporto a questo personaggio «inedito», nato con la guerra, si sviluppa uno dei più vistosi e decisi cambiamenti rispetto all’atteggiamento ritenuto consono in tempo di pace: se la tonaca evoca generalmente nel contado trentino un rispetto immediato e incondizionato e non a caso continua a rivestire il proprio ruolo di sostegno e di tramite verso la comunità di paese per soldati e profughi, la tonaca contaminata dal rapporto con il mondo della disciplina suscita diffidenza. Si può osservare, unicamente in questo caso se si esclude quella categoria eterea e impersonale che sono i «potenti», una polemica verso chi predica la guerra senza combatterla attivamente79, contro gli «imboscati» togati che sostengono il conflitto ma non subiscono le conseguenze delle proprie parole. Lo scontento popolare verso il ruolo giocato dai cappellani di trincea viene notato proprio da un prete, Tommaso Baggia, che mostra di condividere il parere dei suoi parrocchiani sull’improprio incontro tra religione e guerra: «Stufi ora i militari..! spropositi! anche contro la fede… e le prediche dei Cappellani Militari sul giuramento!! (se fossero essi là sul fronte!)»80; stesso disappunto viene espresso da Silvio Zardini e Giuseppe Scarazzini:

77

Memoriale di Domenico Zeni. Scrive Rodolfo Bolner nel suo diario in occasione del Natale 1914: «Nessuna allusione al ricordo storico dell’avvenimento, ma solo discorsi di guerra, esaltazione dell’odio, esaltazione dell’eroico comportamento delle truppe e dei condottieri, canti patriottici, chiasso cameratesco. Avuto il mio pacchettino, pieno di noia, anzi di nausea, abbandono la sala ed ora sono qui in questa cameretta con indosso una gran voglia di piangere». 79 Memoriale di Giovanni Bona: «Perché non si arruolano? Bah Buffoni». 80 Diario di Tommaso Baggia. 78

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Subito dopo questo discorso è stato il Cappellano del Reg. a tener un discorso ed ha quanto ricordo disse: che dobbiamo dimenticare le famiglie e pensare a difendere la patria. Queste parole non mi piacero per niente81. Il giorno di Natale messia di campo la imezo a un prato tutto il Battalione circa 1000 uomini ascoltarono divotamente la S. Messa e la predica dopo la quale il Reverendo Sig. curato Montò sul cavallo e via aveva paura anche lui dei russi e voleva far coraggio ia altri82.

Ancora più esplicito Emilio Fusari, che però a differenza di tutti gli altri afferma addirittura di aver perso, davanti agli orrori della battaglia, «la fiducia in preti, in Dio e in tuto quello che mi fu sta detto ancor da bambino»: E perche e un dovere della patria, e una volontà di Dio, non viene i suoi ministri at asicersi, e a fare il suo dovere da catolici anche in mezzo a simili pericoli? ma solo colla parola ci an compagnati in mezo a quei disagi, che solo luomo di sua forza naturale può soportarli83.

La scrittura reificatrice Se l’integrità del rito-performance e la sua esatta ripetizione assumono un’importanza così preponderante è perché, come hanno scritto Wolf e Cole in uno studio etnografico sul Trentino Alto-Adige: «Il cerimoniale contadino si focalizza sull’azione, non sulla fede. Enfatizza il carattere regolativo delle norme, un insieme di cose da fare e da non fare. Questi imperativi morali, incarnati nelle regole, rendono l’azione prevedibile e forniscono una base comune per la sua valutazione. […] La religione contadina è al contempo utilitaristica e moralistica, ma non etica e dubbiosa [questioning]»84, Il vedere stravolte le azioni che componevano il rito mette in discussione, direttamente o indirettamente, un sistema di norme sociali, di regole e di ruoli gerarchici 81

Memoriale di Silvio Zardini. Memoriale di Giuseppe Scarazzini. 83 Memoriale di Emilio Fusari; Memoriale di Battista Chiocchetti: «La battaglia di Leopoli era incominciata, la venne il cappelano militare, ci fece tutti inginochiare (eravamo 3 o 4 compagnie) poi sotto i colpi di canone ci diede l’assoluzione generale e ci fece un piccolo discorso, insomma ci fece tale impressione che molti piangevano, ed anch’io non potei trattenere le lacrime». 84 E.R. Wolf, J.W. Cole, The hidden frontier, p. 97. 82

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che acquistava significato dal contesto di paese e autorità dal proprio carattere tradizionale. In maniera ancora più pregnante, la guerra mette in crisi una «base comune della valutazione e della prevedibilità» dell’azione, proprio quella base che Geertz ha indicato come necessaria a contrastare il caos valoriale e la sensazione di completo smarrimento negli esseri umani. Il soldato trentino si trova dunque al fronte con un disperato bisogno di conforto religioso e senza le strutture, i riti e o le figure sociali che, in tempo di pace, permettevano una mediazione e un contatto con la divinità. In questa sezione cercherò di dimostrare come la scrittura assurga a luogo privilegiato di un rapporto costante e diretto con Dio, tale da supplire temporaneamente all’assenza dei dispositivi di mediazione propri del mondo di paese. Diari, memoriali e in un certo grado anche le memorie autobiografiche con più stretta parentela con testi stesi nell’immediato si aprono sovente in vere e proprie preghiere, che interrompono il flusso della narrazione e il rapporto con il destinatario diaristico o epistolare per mettere direttamente in contatto l’autore con la divinità. Vi prego vi raccomando la mia cara sposa […] Dio, Dio misericordia per i miei amati genitori, Maria S.S. vi prego, vi raccomando85. Oh Dio di bonta e di misericordia vi adoro e vi ringrazio di tutti i benefici ricevuti quale mi avete creato è fatto cristiano e preservato dalla morte sul doloroso campo della Galizia; vi prego vi prego di volermi preservare anche inn avvenire. Confido nella vostra misericordia e vi arecomando mia familia di preservarla sotto la vostra protezione [...] datemi la grazia di poter rivedere mia sposa e quelle innocenti greature, e datemi la grazia di poterle alevare e guardarli il cibo cotidiano86.

Giovanni Zuliani, contadino di Soraga, in un passo già citato, arriva addirittura (del tutto inaspettatamente, dato lo stile annalistico e impersonale del diario fino ad allora) a chiedere retoricamente un parere a Dio sul possibile prolungamento della sua licenza. Ancora più sorprendente è il brusco cambio di destinatario all’interno delle lettere, quando il dialogo immaginato con i propri cari si proietta verso il cielo (Pizzini) o si scioglie in un vero e proprio salmo (G.Z.):

85 86

Diario di Bortolo Busolli. Diario di Isidoro Simonetti.

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Ho… Mio Dio!… Asistetemi!… aiutatemi e fatemi lagrazia di poter ritornare amorire vicino ai miei cari, padre, sposa e figli si fatemela questa grazia. Altro non vi chiedo e voi ho!… gran madre di Dio e madre nostra pregate il vostro divin filivolo perme che mi conceda questa grazia altro non vidimando pero siafatta la vostra volontà87. Preghiamo tutti uniti l’Altissimo nel tanto Santo giorno della commemorazione della Sua nascita ed preghiamolo speranzosi che il terzo Santo Natale così non avvenga, speriamolo più lieto, più gioccondo. Per ora ringraziamo Dio del bene datoci e preghiamolo di meglio in avvenire88.

Il fenomeno della «preghiera su carta» rappresenta uno dei rarissimi casi in cui avviene un mutamento di registro nella narrazione, con una netta volontà di raggiungere una retorica alta, unito a un improvviso cambio di destinatario. Alle invocazioni personali si aggiunge il fenomeno della ricopiatura tout court di preghiere quali il Padre Nostro, l’Ave Maria o di salmi appositamente composti per la guerra, a cui è facile attribuire un valore simbolico e esorcizzante pari a quello degli oggetti sacri di proprietà personale. Ma il rapporto tra scrittura e preghiera è molto più stretto e costante di quanto non appaia da questi due fenomeni. Non esiste quasi missiva spedita dal fronte nel periodo in questione che non contenga al suo interno un riferimento – ma spesso più di uno – a Dio. Spesso intere lettere sono occupate da propositi, richieste e esortazioni religiose. Ogni qualvolta viene esplicitato il proprio stato di salute (vale a dire sempre, in quanto parte delle rigide formule epistolari) è a Dio che si rende grazie e si affida il proprio futuro e quello dei propri cari; ogni qualvolta nell’epistolografia appare la parola pace o la parola speranza immancabile è il riferimento alla divinità, nelle cui mani viene posta qualsiasi prospettiva positiva per il futuro, dalla grazia del ritorno alla grazia del permesso, dalla concessione di una lunga convalescenza allla salvaguardia personale. Non è esagerato dire che ogni testo ha Dio come proprio destinatario potenziale e latente, a cui l’autore si può rivolgere direttamente, senza preavviso e senza preamboli. Davanti ai Suoi occhi si pongono i propri meriti – le messe a cui si è assistito, i riti che si è riusciti a rispettare, il proprio atteggiamento rassegnato – e i propri dolori, a dimostrazione materiale che la grazia della pace è matura, deve essere 87 88

Lettera di Giovanni Pizzini alla moglie. Lettera di G. Z. Ai genitori.

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concessa a breve. Nelle sue mani e nella carta vengono riposte tutte le speranze, che acquistano in questo modo un maggiore carattere di realtà, che vengono reificate. «Il foglio di carta bianca», scrive Paolo D’Achille a proposito della scrittura dei «semicolti», «capace di angosciare lo stesso Mallarmé, non può non mettere in imbarazzo colui che deve o vuole scrivere qualcosa senza avere dimestichezza con la penna, e che quindi non può far altro che scrivere in presa diretta il proprio discorso mentale, che è innanzitutto – per mancanza di altri modelli – un discorso orale»89. Ma, anche non tenendo conto del radicato modello della scrittura epistolare, è evidente che all’interno del discorso orale vi sono modelli di «oralità alta» che vengono trasposti all’interno della scrittura, essa stessa ritenuta atto di altissima dignità. La perorazione patriottica e la preghiera (sia il sermone che la preghiera privata) sono indubbiamente i modelli retorici che trovano maggior spazio e utilizzo all’interno della scrittura di guerra: laddove il primo (modello misto, per così dire, che si nutriva sia dei discorsi orali degli ufficiali che dei fogli giornalistici) viene spessissimo desemantizzato e utilizzato nel suo carattere prettamente indicativo (un meccanismo grazie al quale la locuzione «campo dell’onore» ad indicare il campo di battaglia può essere spogliata del proprio accento positivo ed accostarsi perfettamente alla metafora del «macello»), il secondo viene ripreso nella sua forma più fedele, in quanto unico approccio retorico ritenuto adeguato al rapporto con la divinità e alla richiesta di grazie. Il dispositivo retorico attraverso il quale la preghiera mette in contatto Dio e il fedele e permette, nella visione di quest’ultimo, la realizzazione dei propri desideri per tramite del benvolere divino, è, senza dubbio, quello della ripetizione, sia che si tratti della recitazione ricorsiva di una preghiera formalizzata (il rosario o gli inni delle celebrazioni), sia che si tratti della formulazione e riformulazione personale della stessa domanda di grazia finché questa non sia stata soddisfatta. L’onniscienza divina non ha mai impedito al fedele di ricordare incessantemente a Dio i propri meriti, le proprie colpe e i propri bisogni: nel rapporto tra uomo e divinità, in particolar modo all’interno di una religiosità altamente formalizzata quale è quella contadina, la quantità delle domande vale quanto la “qualità” delle stesse. La modalità retorica che la cultura religiosa del gruppo in questione proponeva ai fedeli per un corretto rapporto con la divinità, vale a dire per un rap89

P. D’Achille, op. cit., p. 61.

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porto che massimizzasse le possibilità di successo delle richieste di grazia, consiste nell’enunciazione ripetuta del proprio desiderio, opportunamente corredata dalla enumerazione dei propri meriti e delle ragioni per le quali la grazia dovrebbe essere concessa. Questo ha importantissime ricadute sulla scrittura popolare, tanto da invitare a rileggere alcuni degli argomenti trattati in precedenza. L’enunciazione ripetuta dona un carattere di realtà a cose che, fino ad allora, non lo avevano – desideri, sogni, proiezioni sul futuro – o che incominciano a perderlo, come ad esempio il ricordo del mondo di pace. Non c’è dunque da stupirsi se moltissimi diari annalistici nominano il binomio pace-Dio quasi ogni giorno: nominare, e farlo più volte, rende vero, o perlomeno più probabile, e placa le ansie di un futuro incerto, su cui l’autore sente di non avere nessun potere. Ma non è solo questo; abbiamo già incontrato altri casi in cui la scrittura dona realtà all’immaginazione: è il caso di quello che ho definito «discorso immaginato», nel quale l’autore parla direttamente, e in maniera spesso meno formalizzata rispetto all’epistolografia, a un interlocutore assente; è il caso della «scrittura di rassicurazione» delle lettere, che rende «vero», presente, un ruolo che l’autore ricopriva nel passato e desidera occupare nel futuro; o ancora è il caso della scrittura rievocativa, che dona conforto tramite la sustanziazione di situazioni passate nel presente o nel futuro. La formularità che è propria della scrittura annalistica e di cui si è parlato diffusamente acquista un significato particolare, insieme alla ricorrenza dei temi, alla luce del suo accostamento alla formularità della preghiera; la scrittura popolare ha sempre un carattere reificatore, che aiuta a spiegare, ad esempio, il motivo per cui le voci di pace ricorrano così ossessivamente in lettere e diari nonostante le professioni di sfiducia, e perché questi siano ritenuti un contenitore tanto propizio per l’espressione delle proprie speranze, anche quando esse appaiono scontate o eccessivamente ripetute90. Nel diario di Battista Chiocchetti, per esempio, si trova l’entrata: 20. Febraio. Dom. Sempre l’istessa vita a tanti vennero cartoline da casa in data dicembre, io non ricevei nulla, ma spero di riceverne, e ne scrissi due a casa91. 90 Si ricordi quanto detto sulla preminenza del tempo atmosferico nella scrittura dei libri di famiglia e come le entrate sulle precipitazioni siano l’unico luogo in cui l’autore fa sentire la propria presenza, sotto forma di speranze espresse per un futuro non manipolabilea. 91 Diario di Battista Chiocchetti.

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Quale altro motivo, se non la consolazione donata dalla sustanziazione della speranza, potrebbe spingere Chiocchetti – e tantissimi altri autori –, in un diario personale, a ribadire per l’ennesima volta una cosa tanto ovvia? Per converso, il potere reificatore della scrittura permette di spiegare perché tanto rare siano nei testi popolari le distopie e le fantasie negative: se la scrittura popolare è scrittura sostanzialmente “ottimista”, nella quale morte e paure sono trattate raramente e attraverso particolari artifici retorici, è anche perché la trasposizione in forma scritta dell’immaginazione nefasta ha intrinseco un certo grado di pericolosità e genera non poca inquietudine, tanto da richiedere, quando questa trova spazio, un’esorcizzazione tramite il riferimento a Dio92 e tramite l’espressione scritta, immancabile e spesso ripetuta, della speranza che la disgrazia non avvenga. Il rapporto che la scrittura «immediata» (vale a dire diaristica, epistolare ed in parte memorialistica) permette tra Dio e il soldato evidenzia che i caratteri della spiritualità contadina sono, rispetto alla definizione fornita da Wolf e Cole, del tutto immutati, in particolar modo riguardo al suo aspetto «utilitaristico» ed estremamente concreto. Ermanno Cattoi, contadino di Mori dislocato sul fronte trentino, apre il proprio diario annalistico con queste parole: ai 3/7 promesso a S.A 1 messa affinche m’ottenga quella grazia che desidero / Offerta perpetua per ott. la g. di r.s. e sal. colla mia ogni Zmana C. 0.10 / ancora p.g.sp. C. 0.10 Zmana ed una S. Messa al suo altare in Patera / Prometto ancora sempre un paterav ogni dì e 5 pia la Domenica / ascoltare una S. Messa ogni 13/6 in onore di S. Antonio / A S. Teresa del Bambin Gesù che mi prottega e mi ottenga la grazia di ritornare sano e salvo nella mia famiglia 3 Cor93.

L’intero scritto di Cattoi è un ininterrotto dialogo con Dio; dal diario non trapela quasi nulla della vita al fronte del protagonista – le sue amicizie, le sue esperienze, i suoi sentimenti, mentre si è informati di ogni celebrazione a cui Cattoi abbia partecipato o anche solo progettato o mancato di partecipare, di ogni voto e di ogni proposito. Tutto ciò che di positivo accade a Cattoi è «una grazia» a cui deve corri92 Diario di Lino Brugnara: «Notte crudele, un continuo sbarra con urla e pianti e ura à gridar. Ma sempre con quel buon pensiero a Dio che ci voglia salvar». 93 Diario di Ermanno Cattoi. «ott. La g. di r.s. e sal.» significa «ottenere la grazia di ritornare subito e salvezza»; «Zmana» significa settimana; C. indica ovviamente la corona austriaca; «p.g.sp» sta per «per grazia sperata».

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spondere riconoscenza e compensazione tramite la scrittura. I voti espressi nella prima pagina vengono continuamente arricchiti e rinnovati94, tanto da occupare la maggior parte del testo, frequentemente inframezzato da vere e proprie invocazioni alla sacra famiglia o da semplici «Ave Maria» scribacchiati ai margini del testo. Ogni messa a cui l’autore «ha la grazia» di assistere è accuratamente segnalata, nello sforzo costante di dimostrare al diario o al suo divino destinatario la propria devozione95. Il diario di Cattoi ricorda da vicino i libri di conto, nei quali la famiglia contadina annotava le entrate, le uscite e i lavori svolti, insieme ai debiti e ai crediti contratti: esso suggerisce, insieme ad altri testi analoghi se non altrettanto espliciti, che la quantificazione dei meriti e la corretta, ripetuta, formulazione della richiesta sono visti come parte di un contratto estremamente concreto, stipulato tra l’individuo e la divinità. Giovan Battista Giacomelli inserisce nel proprio diario una lista numerata dal titolo «Promesse da osservare quando saro riunito alla mia sposa ai miei figli». Giacomelli si ripromette di fare la Santa Comunione alla prima messa a cui assisterà, di condurre una vita morigerata e di attendere all’educazione cristiana dei propri figli. Promette di recitare le preghiere, «brevi ma bene», al mattino e dopo pranzo, insieme alla propria famiglia, di onorare in maniera speciale il Natale, la Pasqua e il 21 ottobre: «Le feste farò senza nascondermi, il mio dovere di cristiano». Alla fine dell’elenco appaiono espliciti i termini del contratto, suggellati dalla firma dello scrivente: Cosi Dio mi dia presto la grazia di runirmi alla mia famiglia, e di adempiere alle promesse che cuore feci sovente ed ora rinovo G. Giacomelli 20 - XI 96

In calce al testo, aggiunto successivamente, vi è un altro voto, quello dedicato a S. Antonio di portare la famiglia in pellegrinaggio non appena avesse avuto i mezzi finanziari per farlo e fosse venuta la pace. Forse il ritardo nell’ottenimento della grazia aveva spinto Giacomelli 94 Ibidem: «ai 18/10 rinovata promessa dei 3/9». Si veda anche il diario di Anonimo P: «In questo giorno di Sant’ Antonio faccio voto di celebrare una messa se uscirò salvo»; «Passata anche questa orrenda notte fra l’infuriare di un grande temporale. Confermo il mi voto e bacio fisso i miei cari figli e tutti». 95 Ibidem: «La settimana Santa ebbi la grazia di poter andare ogni sera alle sacre funzioni, ed il venerdì Santo e Martia concedetemi la grazia che desidero / sabato Santo anche alle S. Funzioni del mattino ove a casa mia mai sono andato […] la sera a beffel domandai d’andare al Santuario ed anche lo ricevetti il permesso d’andarvi». 96 Diario di Giovan Battista Giacomelli.

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ad aumentare la propria offerta. Seguono delle preghiere ricopiate97. Mai una volta si trova nella scrittura popolare trentina una richiesta di salvezza per la propria anima: come è chiaro quale sia il dovere degli uomini di fronte a Dio – il rispetto ossequioso dei riti e delle Sue volontà –, così non richiede spiegazione ciò che Dio, se vorrà, concederà loro in cambio del travaglio della guerra, vale a dire la salvezza del corpo e la pace. Il tema della colpa e del peccato, allo stesso modo, gode di scarsa popolarità; sebbene il «contratto con Dio» sia di natura perlopiù personale, nessun autore interpreta la guerra come un’espiazione di propri peccati: tutta l’umanità è permeata dall’odio che è così evidente nei potenti e tutta l’umanità deve saldare il proprio debito, ogni individuo per proprio conto. Il contratto con Dio è un contratto unilaterale, nel quale il contraente umano compie la propria parte per accumulazione di meriti e sofferenze, senza sapere quale sia la somma che gli spetta pagare, ma sapendo nondimeno che essa è limitata, che un giorno avrà fine. Che le sofferenze siano una variabile significativa, capace di generare un «credito», è ben provato dalla frequenza con la quale esse sono citate dalla scrittura popolare e non di rado «offerte» a Dio come pegno98. Si noti, nel seguente passaggio di un fervente credente quale Celeste Paoli, il carattere vincolante delle sofferenze già passate, incarnato nel «purché» che chiude la preghiera: Tutte queste cose ora sono passate e le passai abbastanza rassegnatamente sempre pregando il Signore, che mi conceda la grazia di poter un giorno

97 Diario di Antonio Giovannazzi: «13 Domenica giorno di S. Antonio questa matina ni ano conoti per la I volta a messa nella chiesa magiore et abiamo avuto la predica per italiano al dopo pranzo sono andato alle funzioni, e poi andai a fare una prechiera al altare di S. Antonio e una prechiera al sacro Cuore festa ad esso dedicato racomandando la mia famiglia e confido per la protezione d’essa». 98 Si ricordi inoltre le motivazioni addotte per la eventuale eroicizzazione di Francesco Giuseppe da parte del contado trentino, in particolare questo già citato passaggio dal diario di Giovanni Pederzolli: «Quanti sono morti, nel lungo tempo, della sua avventurosa vita. Lui, fu un uomo. Vide schiudersi le tombe, a tutti coloro, che amava; tutte le sue più belle, speranze, sul disgrazziato figlio, cosi tragicamente, mancato, al trono, naufragarono. Il fratello, la moglie assassinata, da un vigliacco, che non ebbe, orrore, di trafigere il cuore, di quella santa, che fu, l’Imperatrice Elisabetta. […] Tutto passò, nella sua lunga vita, come turbine, e lui vecchio, ma forte, come un ercole, a tutto resistette, impavido». Se l’Imperatore può essere «eroe contadino» è proprio perché, nonostante tutte le disgrazie, «non giurò vendetta, non intimò guerra a nessuno; ma chiuso nel suo dolore sollevo la sua anima al cielo e impetrò rassegnazione e forza per sostenere l’immensa disgrazia» (Memoriale di Giorgio Bugna).

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ancora ritornare, ogni mio patire ogni mio penare mi sà tutto un niente io hò sempre questo pensiero impresso in mè, tutto quello che patirò lo farò per amore di Dio che tanto patì e in fine morì per noi per i nostri peccati, purché Iddio mi conceda la grazia che di notte e di giorno con il cuore li domando, di poter ancora ritornare, il resto mi sa tutto di niente99.

La metafora del martirio, che accomuna i travagli del soldato a quelli di Gesù Cristo, è molto comune e facilmente interpretabile100 e vi è addirittura chi osa affermare di aver sofferto di più del figlio di Dio. La sofferenza altrui (dei genitori, dei figli o della moglie) è ugualmente un argomento a favore dell’ottenimento della grazia del ritorno: Ho mio Dio aiutatemi; Voi solo lo potette, confido in Voi e nella vostra gran Madre, che mi diate la grazie di potermi riunire alla mia familia. Cosa farebe quelle povere innocenti greature se non ritornassi piu a darli mi asistenza? Cierto si sofrirebbe di tutto e venirebbe ridotte nella piu squallida miserai / Kirschanof li 21/11 1915 / in fede Isidoro Simonetti101.

Tra i meriti, come detto, vi è quello di assistere alle messe e di rispettare i costumi legati alle celebrazioni, a cui si deve aggiungere la preghiera, sia personale che all’interno del rito, in quanto elemento di accumulazione oltre che, come scrive Antonio Rettin, un modo per costruirsi «una trincea per l’anima»102. Si noti come Giuseppe Masera metta esattamente sullo stesso piano le circostanze terrene e i propri sforzi ultraterreni nel conseguimento dell’obiettivo di un permesso: Sembra che al primo di Marzo venano di nuovo aperti i permessi, e fra il pregare e il diritto che hò, forse mi verrà concesso. Questa speranza è l’unica che mi permette di sopportare tante miserie103. 99 Diario di Celeste Paoli. In un altro passaggio scrive: «bisogna adattarsi al destino che ci è preparato, per meritare le sue grazie e infine la corona d’alloro, intrecciata con i nostri sacrifici». Si veda anche il diario di Luigi Daldosso: «Ma intanto che dire? che fare? Soffrire e taccere e se è vero che ogni saccrificio avrà il suo premio aspettare che il momento venga anche per questo disgraziato io». 100 Memoriale di Giuseppe Scarazzini: «Ricordo che in un ertta della strada sono caduto due volte per terra nella fanga. Ero come Gesù Cristo quando faceva il viagio nel Calvario e cadeva soto la croce». 101 Memoriale di Isidoro Simonetti. Si noti come il memoriale passi in questo punto al presente e come la preghiera assuma la forma di una vera e propria missiva spedita a Dio. 102 Memoriale di Antonio Rettin. 103 Diario/memoriale di Giuseppe Masera.

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I soldati richiedono con frequenza ai propri cari la celebrazione di messe votive104 e, ancora più spesso, sollecitano la preghiera privata (ma collettiva) dei familiari per la propria salvezza. È evidente che ci si trova davanti all’espressione di una “volontà di esistenza”: attraverso la celebrazione pubblica e la preghiera dei congiunti il pensiero del distante viene rinnovato nel paese e nella famiglia. Ma è anche chiara una forte volontà di riunire il proprio network di conoscenze attorno all’obiettivo del saldo del proprio personale debito con Dio: in una religiosità per così dire quantitativa e cumulativa, il numero delle preghiere e delle messe vale quanto e forse più della natura della domanda rivolta a Dio e le preghiere altrui costituiscono un contributo estremamente concreto alla salvezza del familiare. L’urgenza e l’importanza dell’atto sono ben sottolineate dall’esortazione accorata che Romedio Endrizzi rivolge ai propri genitori via lettera: Voi non temete, facciamoci coraggio solo vi prego tanto di non stancarvi nella preghiera, ho no, come dolce ora mi sembra il pregare e vo, si tralasciate tutto, ma no la preghiera105.

Importante sembra inoltre essere chi prega e per chi: i bambini, per esempio, creature senza debiti di colpa che rimarrebbero orfani in caso di mancato ritorno del genitore, appaiono come il vettore privilegiato di richieste disinteressate e come lo strumento più propizio per l’ottenimento della grazia, così come i sacerdoti di paese, per l’ovvia percepita vicinanza a Dio106. La richiesta di preghiere è del tutto assimilabile alla richiesta di beni materiali ai familiari per il duplice ruolo di prova dell’immutato affetto che la famiglia prova per il coscritto e di aiuto concreto alla situazione fisica, mai morale o spirituale, del soldato. Tutte le preghiere che vengono richieste dal fronte devono leggersi come richieste, riunite in un coro per poter essere più efficaci e più facilmente accolte, di protezione materiale.

104 Cfr. citazioni di Ermanno Cattoi. Lettera di Antonio Margoni alla madre: «Ma state di coraggio mia cara mamma e speriamo sempre e se potete fatemi dire una messa alla Madonna della Grotta secondo la mia intenzione». 105 Lettera di Romedio Endrizzi ai genitori. 106 Cfr. citazione seguente di Giuseppe Leonardi; Lettera di Evaristo Masera alla moglie: «Ho però tanta fiducia nelle tue [preghiere] e quelle dei nostri figli, che sono preci innocenti che la Madona non mi abbandona». Lettera di Simone Chiocchetti al fratello sacerdote: «Non dubito che Dio e la Madonna faccia il sordo non alle mie preghiere, ma alle vostre, quantunque io preghi tutti i giorni per voi come per me».

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Ma non è solo nelle opere meritorie e nelle preghiere che si nota la concretezza dello scambio con Dio. L’accumulazione di meriti e sofferenze che deve portare alla pace può essere diminuita da atti contrari alla religione. Giuseppe Leonardi, nello scrivere alla moglie e ai figli, li esorta a fare il proprio dovere, per contrastare l’influsso negativo delle tante blasfemie che hanno luogo al fronte: Intanto non tralasiate le preghiere perche certo se abbiamo la grazia di rivederci è per mezzo delle preghiere perché purtroppo anche qui sibene esposti tutte le ore al pericolo vene sono che con azioni, dismostrazioni e inprecazioni continuano a offendere il Signore107.

«Non è possibile che venga la pace», nota lapidario Simone Chiocchetti, «con tutte le bestemmie che si dicono»108.

Guerra e rassegnazione A forza di pazienza passai i giorni – Vigilio Iellico

La categoria della rassegnazione è stata precocemente109, frequentemente110 e senza dubbio correttamente utilizzata per caratterizzare l’atteggiamento del mondo contadino italiano di fronte alla Grande Guerra, tanto da essere strumentalizzata e idealizzata, a conflitto ancora in corso e da parte della classe borghese, in quanto caratteristica principe del fante di bassa estrazione sociale, colui il quale, senza lamentarsi e senza entusiasmarsi, «fa rassegnatamente la guerra come un duro mestiere, sacrificandosi più degli altri, sopportando più degli altri, ubbidendo più degli altri»111. Il concetto ricorre nella scrittura popolare trentina con una frequenza impossibile da ignorare, in una miriade di forme e di formule, e richiede una riflessione approfondita, che cerchi di spiegare che 107

Lettera di Giuseppe Leonardi alla moglie e ai figli. Lettera di Simone Chiocchetti al fratello. 109 Gioacchino Volpe, Il popolo italiano nella Grande Guerra, Luni, Milano-Trento 1998, p. 179; Benedetto Croce, L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, Laterza, Roma-Bari 1965. 110 Alberto Monticone, Problemi e prospettive di una storia della cultura popolare dell’Italia nella prima guerra mondiale, in Mario Isnenghi (a cura di), Operai e contadini nella Grande Guerra, Cappelli, Bologna 1982, p. 37. 111 M. Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, op. cit., p. 326. 108

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cosa «rassegnazione» significhi per il soldato di provenienza rurale. Ermanno Cattoi, così ardentemente assorbito dalla contrattazione con Dio – ma impegnato anche su altri fronti, quali quello della supplica e della simulazione di malattia – deve alla fine ammettere la propria sconfitta. Dopo essersi raccomandato per più volte alla Madonna in occasione di una visita per gli abili al fronte e aver professato la piena fiducia nella Sua protezione, deve infine scrivere che «il 27 passai la visita alla quale fui destinato al quadro». La sua reazione è di piena sottomissione, ma l’autore non rinuncia ad esprimere la speranza che il futuro sarà differente: Sia fatta la Vostra, e non la mia volontà, o Signore. Io spero sempre in voi112.

Simone Chiocchetti, che nel prossimo capitolo vedremo ingaggiare una lotta senza quartiere e con tutti i mezzi a propria disposizione per sottrarsi alla guerra, accoglie il fallimento dei propri sforzi con analogo stoicismo: Col permesso ho più poca speranza ahnno mandato le carte al campo e facilmente verrà un bel no. Pazienza!!!113

Rabbia e recriminazione non trovano spazio all’interno del dialogo con Dio: se la grazia non è stata concessa significa che il tempo non è maturo, che il debito non è saldato. La scrittura – preghiera, con il suo intrinseco carattere reificatore, non può permettersi di dare sostanza a una rivolta contro il volere divino che metterebbe in pericolo il capitale di meriti fino ad allora accumulato. Le disgrazie – la partenza per il fronte, la morte di un amico o di un familiare, le false voci di pace – vengono spesso accompagnate da formule che da una parte affermano la rassegnazione a quanto accaduto, la sottomissione al fatto compiuto, e dall’altra esprimono la speranza che questo non abbia a ripetersi114 o che il dolore provato in conseguenza alla disgrazia costituisca un pegno per il futuro. Non è un’esagerazione affermare che ogniqualvolta nel testo appare la parola rassegnazione (o sinonimi quali «pazienza» o «sopportazione») è lecito aspettarsi che a 112

Diario di Ermanno Cattoi. Lettera di Simone Chiocchetti al fratello. Si veda il diario di Massimiliano Sega: «Pane pohco E lavorare tropo Colla Cannistra alspalle he ogni giorno e Buono di Partire per il Canpo povero uomo ahe passi ssitrova E Bene ssara Cuel he Dio Vuolle». 114 Supra, citazione di Battista Chiocchetti. 113

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poca distanza appaiano la parola Dio e la parola speranza o un equivalente115. Il termine rassegnazione ha nella scrittura popolare un duplice significato. In primo luogo essa è un atteggiamento etico che l’uomo deve tenere nei confronti delle traversie della vita, fatto di umiltà, stoicismo, moderazione delle reazioni violente, fatalismo116. In questo senso essa è merito, in quanto uniformazione a un modello di condotta di chiara origine religiosa117; come tutti i meriti essa viene attestata dalla scrittura e offerta a Dio. «Con tutta la rassegnazione ho sopportato il cattivo tempo», constata un anonimo studente, «e ne sono contento», per poi ribadire: Sono stato rassegnato tutto il tempo e offro tutto al Signore118.

In questo senso rassegnazione non solo non è il contrario di «partecipazione», come nel caso dei soldati del Regno di Italia di cui parla Mario Isnenghi, ma non è nemmeno il contrario di «rivolta», termine indicato da quest’ultimo come antinomico all’atteggiamento di passività proprio delle classi contadine in guerra119. Rassegnazione è il contrario di ambizione; è il contrario di quel sentimento sfrenato di conquista e di accumulazione di potere che tanti contadini trentini rimproverano ai «potenti» e vedono all’origine della punizione divina. Appare soltanto naturale che, in una guerra-flagello, il valore contrario a quello che la aveva in primo luogo generata sia considerato come 115 Diario di Giorgio Bugna: «A me non resta che la rasseganzione, la speranza e la pasienza». Diario di Luigi Daldosso: «Ebbene mi affiderò alla sorte aspetero che il capricio della sorte si vendichi quanto vuole manon perderero la pasienza e la speme». Diario di Celeste Paoli: «Sopporta Celestino con pazienza e spera in Dio e in giorni miglioriche un giorno finirà anche questa, ed io continuava a pregare e raccomandarmi alla VB e al mio Angelo custode che difendano e mi conservino fino al termine della guerra». 116 Diario di Angelo Zeni: «Sarà! Ho non sarà la pace! Partirà o no? […] Insomma sarà tutto quello che Dio vuole siamo gettati al vento e noi dovremo andare dove esso ci porterà». 117 Scrive Leo Spitzer: «La pazienza, la costanza nel dolore, è la virtù dell’eroe cristiano, che è affine, da un lato, alla rassegnazione, e dall’altro al coraggio. E pazienza e coraggio sono tra le parole che ricorrono più spesso nella corrispondenza italiana». Leo Spitzer, Lettere di prigionieri, Bollati Boringhieri, Torino 1976, p. 134. L’interpretazione che il linguista austriaco fornisce del “coraggio” come sinonimo di eroismo è del tutto errata: se è vero che la parola coraggio ricorre spesso nell’epistolografia, essa deve essere interpretata come un’esortazione alla sopportazione piuttosto che come ardore guerriero o eroismo. 118 Diario di Anonimo A. 119 M. Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, op. cit., p. 320.

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l’atteggiamento etico più consono per placare l’ira divina. Dato che nel rapporto personale che si instaura con Dio l’impegno del network sociale sembra rivestire un ruolo importante, non stupisce trovare frequenti esortazioni ai propri familiari perché affrontino le traversie con pia rassegnazione, dimostrando così la meritorietà collettiva del nucleo familiare120. Al di là della rassegnazione non c’è tuttavia solo la colpa di un atteggiamento smisurato. «Bisogna soportare il destino è questo e bisogna acconsentirci e sopportare», si dice Celeste Paoli. «Pazienza, sempre coraggio e speranza in giorni migliori altrimenti?121». Altrimenti esplode la colpevole rabbia, per di più impotente in un evento le cui fila sono rette soltanto dalla divinità. Altrimenti, spentasi la rassegnazione, si impone la disperazione. Per questo la rassegnazione, unico modo per ottenere la grazia, è, in ultima analisi, grazia essa stessa. Come già ancora vi dicesti di rassegnarci nelle mani di Dio, nulla di più ci rimane. Ma ben questo già è un grandissimo dono e grazia, poiché confidenti e Dio e la Vergine Santisimo sarà il conforto se dobbiamo rimanere in sul campo soave e caro, il potere in quei estremi momenti ricordare quei Santi nomi122. 6 Domenica al mio risveglio elevai la mente a Dio [...] prego di cuore Idio per poter aver la rasegnazione123.

Tutti gli elementi raccolti finora portano a mio parere a concludere che la religiosità e la spiritualità contadina non siano state significativamente cambiate dal rapporto con la guerra. Un veloce sguardo alle testimonianze dei profughi e dei civili conferma questa impressione, mostrando che le caratteristiche della religiosità di chi non aveva mai visto il fronte non differivano di gran lunga da quella dei soldati. Nelle scritture civili è confermato il duplice significato del termine rassegnazione124 e la presenza di un’etica su di essa incentrata125, il caratte-

120 Memoriale di Emilio Raoss: «Come Lui mi disse sono anche rassegnati e non mancano di pregare per noi sperando sempre alla nostra completa riunione». 121 Diario di Celeste Paoli. 122 Lettera di Romedio Endrizzi ai genitori. 123 Diario di Antonio Giovannazzi. 124 Si veda ad esempio il diario di Corina Corradi per la rassegnazione come «grazia»: «Essi [i sacerdoti] sono zelanti e premurosi per il nostro bene spirituale e temporale […] imprimendoci nel cuore una santa rassegnazione nelle presenti tribulazioni». 125 Memoriale di Giuseppina Cattoi: «Ma purtroppo anche noi abbiamo dovuto

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re concreto del rapporto con Dio126 e il tentativo di accumulare un capitale presso di esso. Al contrario è possibile dire che la religione «di paese», mantenuta per quanto possibile nei suoi particolari rituali e continuamente rievocata, è uno dei modi in cui la guerra viene, attraverso la scrittura, ricondotta all’interno dell’alveo del conosciuto. Caratterizzare la guerra come castigo vuol dire spiegarla con argomenti trascendenti le capacità di azione dell’individuo, ma al contempo significa calarla all’interno dell’esperienza che il mondo contadino ha delle catastrofi e degli strumenti cognitivi e morali con cui affrontarle. Caratterizzarla come nefasta parentesi significa fare salva la tradizionale concezione contadina del fluire del tempo: ai margini della guerra, per tramite della lettura religiosa, si costruiscono un passato e un futuro che si identificano l’uno con l’altro e che rappresentano una tradizione immutabile. Infatti, se la visione fenomenologica trentina della guerra sembra sovrapporsi a quella della Chiesa – la guerra è castigo divino per i peccati degli uomini, la loro avidità e il materialismo dilagante127 –, la prefigurazione del futuro mostra tratti originali per quanto riguarda la speranza di rinnovamento che, pur con caratteri diversi, era portata avanti sia dal clero che dalla propaganda patriottica128. Il contado ripetere le evangeliche parole: ‘La Vostra non la mia volontà’ Destino da Dio tracciato!!!». 126 Luigia Senter manipola sapientemente quella che sa essere la volontà divina. Essa, se solo potesse, educherebbe alla religione cristiana i propri figli, come vuole il Signore, ma purtroppo la guerra, che la ha resa profuga in Boemia, non glielo permette. L’unica soluzione, ovviamente, è che Dio mandi la pace: «Ma voi mio dio mandate presto una pace e ben vera chesiamo indegni ma mandatela per questi poveri innocenti che in questi paesi poco impara per il benne d’el’anima sua preche non puo mai sentire lavostra parola e acostarssi ai SS sacramenti in mancanza di sacerdoti e voi mio Dio volete cosi siafata la vostra volontà e cosi sia». 127 Sebbene probabilmente non condivisa dal papa Benedetto XV, come reso esplicito dalla famosa e ben più pragmatica nota sulla «inutile strage», la visione della guerra come castigo era di certo fatta propria dalla maggior parte dell’alto clero e dei commentatori cattolici, e capillarmente diffusa tramite il sistema parrocchiale. Soprattutto per quanto riguarda il clero di paese, questa non impedisce tuttavia una chiara opposizione, sul piano politico e umano, alla guerra. Daniele Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento, il Mulino, Bologna 2008, pp. 130-134. Francesco Malgeri, La Chiesa, i cattolici e la prima guerra mondiale, in Gabriele De Rosa, Tullio Gregory, André Vauchez (a cura di), Storia dell’Italia religiosa, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 189-222. 128 Il parallelismo tra l’idea borghese e propagandistica della «guerra farmaco» e la concezione ecclesiastica della guerra come castigo e palingenesi è stato tracciato da Roberto Morozzo Della Rocca, Benedetto XV e la sacralizzazione della Prima Guerra Mon-

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trentino, al contrario della borghesia europea, non ha alcun desiderio o bisogno di un mondo nuovo. Il carattere fatalistico intrinseco alla guerra-carestia e all’etica della rassegnazione non richiede che i dolori vengano giustificati da un miglioramento (sociale o materiale) futuro; la visione ciclica del tempo e della storia non cerca il significato delle sofferenze nel «progresso» civile che esse possono eventualmente portare, non necessita di un’escatologia religiosa o laica. Se la guerra è castigo, il termine di questa sarà l’espiazione e il ritorno alla normalità, non la ricompensa di un mondo migliore. L’immagine della «guerra che metterà fine a tutte le guerre» non ha nessuna presa sugli autori da me studiati: una carestia è un’eccezione, certo, ma è lecito aspettarsi che essa si riproporrà ciclicamente. Ciò che è inusitato, in questo flagello, sono l’intensità e la durata dell’ira divina e il grado di sofferenza che essa impone a chi vi partecipa, non i cambiamenti che essa avrebbe determinato. Di conseguenza mi trovo in disaccordo con Giovanna Procacci quando afferma che un sostrato precedente di superstizioni e credenze aveva portato a una lettura apocalittica della guerra da parte del mondo contadino129. La carestia, per quanto devastante, non è apocalisse, non ha il potere di cambiare il mondo della tradizione in maniera definitiva130. Quello che non è assicurato, ovviamente, è che l’individuo o i suoi cari saranno ancora in vita per abitare il mondo sopravvissuto alla guerra o la durata della permanenza al fronte: su questo si concentrano le preoccupazioni e le preghiere. Ciò che attende il soldato che resisterà e che sarà graziato, alla fine della guerra, non è dunque un mondo radicalmente rinnovato né nel senso laico dell’«Ultima Grande Guerra» né nel senso ecclesiastico di un rigetto dell’ateismo e del materialismo che hanno causato il macello, ma la restaurazione perfetta del conosciuto, nei limiti della piccola patria. «Speriamo sempre però che voglia una volta Iddio metterci una mano. Se tutto andrà coi suoi piedi in Primavera spero di rivederti», si augura Giuseppe

diale, in Mimmo Fanzinelli, Riccardo Bottoni (a cura di), Chiesa e Guerra. Dalla «benedizione delle armi alla «Pacem in terris», il Mulino, Bologna 2005, p. 169. 129 Giovanna Procacci, Dalla rassegnazione alla rivolta. Mentalità e comportamenti popolari nella Grande Guerra, Bulzoni, Roma 1999, pp. 360-361. 130 Le riflessioni precedenti autorizzano tuttavia un’ulteriore ipotesi: se la scrittura è il luogo dove le speranze vengono dotate di realtà non è peregrino pensare che il potenziale stravolgimento del futuro, che avrebbe rese vane o meno allettanti le necessarie speranze di ritorno, venga di proposito escluso dalla narrazione.

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Masera in una lettera alla moglie del 1917, non nutrendo nessun dubbio sul fatto che il mondo, se solo avrà la grazia di tornarvi, sarà ancora al suo posto. Dopotutto, scrive: «non vi è che il tempo che passa»131.

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Lettera di Giuseppe Masera alla moglie.

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La scrittura annalistica, lo si è detto, effettua, tramite l’intramazione e le scelte tematiche, una dichiarazione di passività del soggetto rispetto alla sua esperienza di vita. Questa posizione è in parte invertita negli scritti cronachistici. Essi sono non di rado scritti retrospettivi, tanto da far pensare, a una prima analisi, che la presentazione di se stessi come elementi attivi sia in qualche modo tipica della rielaborazione dell’esperienza a posteriori. È senz’altro vero che a distanza di anni c’è una maggiore disponibilità alla descrizione e alla caratterizzazione delle proprie azioni in guerra. Gli scritti retrospettivi ci offrono uno sguardo su aspetti diversi dell’esperienza di guerra. È sul piano dei temi trattati – non più della scrittura in quanto dispositivo e strumento d’uso quotidiano, prerogativa della diaristica e dell’epistolografia – che la scrittura cronachistica può illuminare alcuni aspetti della cultura di guerra. Uno dei temi principali della cronaca autobiografica popolare è la fuga dalla guerra e gli sforzi individuali per assicurarsela. L’insistenza con cui il tema si ritrova nelle memorie autobiografiche spinge a pensare che la sfida all’autorità e al «mondo della disciplina» sia una parte integrante della cultura di guerra trentina: essa non è in contraddizione con la professione di rassegnazione, poiché questa si riferisce al volere divino, non a quello umano. In questo capitolo analizzerò le modalità con le quali l’individuo reclamava – non solo con la scrittura, ma anche con le proprie azioni – lo status di individuo dotato di libera scelta, in contrapposizione con il «mondo della disciplina».

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La supplica Ognuno sapeva il proprio dovere per salvare la pelle – Antonio Rettin

La pratica di affidare ai familiari le suppliche verso le autorità militari risale al servizio militare in tempo di pace: l’esercito austriaco ammetteva la possibilità di una «licenza agraria» o di una riduzione del periodo di servizio di leva, da tre a due anni, nel caso la famiglia avesse potuto provare la necessità del lavoro del soldato al momento della raccolta1. Il fatto che la supplica solo molto difficilmente potesse portare alla concessione di licenze durante il conflitto sembra essere ignorato: la fiducia nelle possibilità della richiesta dei familiari e delle autorità di paese permane quasi immutata, in special modo se chi scrive la supplica è un curato. Il testo della lettera seguente, stilata da R.P. nel 1916 è un tipico esempio dello sforzo collettivo e costante per sottrarre, anche solo per pochi giorni, i propri cari alla morsa della guerra: L’umile sottoscritta R.P. d’anni 26 prega codesto lodevole i.r. capitanato distrettuale di voler interceder presso l’i.r. comando militare onde suo marito G.P., soldato di leva di massa tirolese, possa venire licenziato per la durata di 14 giorni per potermi aiutare a raccogliere le patate che al principio di Ottobre sarebbero mature. Io sono sola con due bambine, cioè E. d’anni 6 e E. d’anni 2. Certa di essere esaudita professa i più vivi e anticipati ringraziamenti umilissima R. P2.

La «lettera di supplica» verso i potenti è una tipologia di scrittura popolare che è stata studiata in profondità3. Il rapporto con l’autorità sembra essere frequentemente un rapporto mediato, non soltanto secondo i canoni che l’autorità stessa fissa (dal richiedente al piccolo funzionario fino ai vertici della gerarchia politica o militare), ma anche e soprattutto secondo i canoni propri della vita di paese4. Non c’è un 1 Riguardo alle licenze agricole in tempo di pace Valentino Maestranzi scrive: «Arivati per avvicinarsi ale St. feste natalizie, tutti coloro che avevano buona condota, potevano otenere circha 10 o 12 giorni / di licenza di andare apasarle, con sua famiglia, come pure le St feste Pascuali, en più chi faceva istanza, per avere suo figlio accasa, nel tempo dela racolta, della campagna, per tre settimane, chi la veniva considerata, veniva rilassato, come pure cueste, licenze, li sempre otenute». 2 Lettera di R.P. 3 Camillo Zadra, Gianluigi Fait (a cura di), Deferenza rivendicazione supplica. Le lettere ai potenti, Pagus edizioni, Treviso 1991; Renato Monteleone, Lettere al re, 19141918, Editori Riuniti, Roma 1973. 4 Quinto Antonelli e Camillo Zadra hanno ben mostrato come i rapporti di paese

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adattamento della percezione dei rapporti sociali alla nuova situazione, una reinterpretazione del sistema gerarchico proprio del paese di fronte allo sconvolgimento portato dalla guerra. Le risorse che erano ritenute fondamentali, le conoscenze personali e parentali, così come i rapporti di debito e credito tra ruoli sociali differenti, sono analoghe a quelle di pace e, cosa ancora più importante, non vengono svalutate dal loro fallimento o scarso successo nel migliorare le condizioni del profugo o del soldato. Al contrario, grazie al moltiplicarsi delle occasioni di supplica, le risorse di interrelazione vengono sfruttate e valorizzate al massimo, anche oltre il limite che appare a prima vista razionale. Le suppliche sono varie: si va dalla richiesta di esonero nei casi di ferita grave a quella di essere spostati in ospedali più vicini a casa, dalla domanda di una posizione più sicura (in un corpo di sanità o di lavoro), alla preghiera di pochi giorni di permesso. Le possibilità di successo sono generalmente estremamente scarse, ma il tentativo viene fatto comunque, costantemente, a testimonianza dell’estrema importanza psicologica dello sforzo in quanto obiettivo e conforto quotidiano. La lettera riportata sopra ne è un buon esempio. Volano (Vallagarina) è, al momento della stesura della missiva (1916), a ridosso della zona di guerra, in un’area cioè quasi del tutto interdetta alle licenze. Per i lavori agricoli l’autorità militare aveva stanziato, in quella zona come in tutto l’Impero, dei prigionieri russi e serbi. Il loro lavoro, lungi dall’essere sufficiente al sostentamento delle famiglie trentine, diviso come era tra la costruzione di fortificazioni e strade e il lavoro agricolo, costituiva da due anni l’unico sforzo dell’autorità militare per supplire alla scarsità di manodopera rurale nelle zone di guerra. A questo si aggiunga la diffidenza diffusa verso gli italiani, che spesso rendeva più rara la concessione di licenze, soprattutto verso una «zona calda» come era il confine tra Trentino e Veneto. È indubbio che la scrivente fosse al corrente di tutti questi fattori e che le fosse evidente l’estrema improbabilità dell’accoglimento della sua supplica: la necessiano coscientemente fatti valere come una sorta di autorizzazione alla richiesta, e come il supplicante acceda generalmente all’ascolto dell’alta autorità attraverso mediazioni che sono rese possibili dalla catena delle conoscenze e dei debiti reciproci che esistono tra diversi ruoli sociali di paese, per esempio parrocchiano/parroco, alunno/maestro, domestica/padrone (per il caso in questione occorre aggiungere i rapporti familiari). In questo modo «il rapporto saldato anno dopo anno, nell’ordine gerarchico riconosciuto, costituisce ora un canale privilegiato e protetto dal disagio e dalla vergogna». Quinto Antonelli, Camillo Zadra, Lettere di profughi trentini ai comitati di soccorso nella Grande Guerra, in C. Zadra, G. Fait (a cura di), Deferenza rivendicazione, op. cit., pp. 35-42.

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sità di raccogliere poche patate non è un motivo sufficiente perché venga accordata una licenza. Eppure la supplica viene inviata e suppliche del genere vengono richieste dai soldati e inviate dalle famiglie per tutta la durata della guerra. Giuseppe Leonardi spinge, con due lettere separate, la madre e la moglie a richiedere al comando del suo battaglione un permesso dal fronte galiziano sul quale è dislocato (lettere dell’ 11/2 e del 16/2 1916). Senza attendere il risultato di queste richieste, torna alla carica in una lettera datata 19/2 1916, in cui da una parte abbassa il tiro della domanda (l’ottenimento di un posto di lavoro consono alle proprie capacità piuttosto che un improbabile permesso) e dall’altra si spende in particolari che la moglie può utilizzare per massimizzare le possibilità che la richiesta venga accettata. Io avrei pensato che tu in testa mia facesti una dimanda al Comando del mio Regimento, preghandolo che mi concedesse di impiegarmi nella mia profesione, di prestinaio oppure in quella di fabbro meccanico, dicendoli che ho cognizione anche in questa ma che la mia vera arte sarebbe la I per il giusto motivo che vò soggetto a dolori nella ganba destra essendo stata fraturata per ben due volte come che tu già lo sai ancora da quando ero a casa e che per questo motivo non posso fare viaggi, prometendoli di inpiegare tutta la mia capacita5.

La quantità delle domande conta, nella percezione dei soldati, quanto la qualità delle stesse. Tutti i familiari vengono coinvolti, tutte le forme di richiesta vengono inviate alle autorità più diverse, anche se in contrasto tra loro e anche se non si è ancora ricevuta una risposta. In una lettera del 6 marzo dello stesso anno, Leonardi aggiunge delle raccomandazioni sulle persone a cui è opportuno far redigere la supplica (quelle influenti all’interno della gerarchia di paese), sui modi con cui impostarla (in forma di richiesta di grazia) e su giustificazioni ulteriori alla richiesta (la famiglia numerosa e il tempo già trascorso al fronte): Tutti i giorni sto aspettando nuove riguardo a quella suplica che ti o detto in due delle mie di fare, se non l’ai fatta falla subito, e da persone che puo influire, facendoli conoscere che ò una grossa famiglia e che è fin dal primo giorno che a incominciato la guerra che so soggetto, sempre pero dimandando in via di grazia6. 5 Epistolario di Giuseppe Leonardi. Prestinaio in dialetto trentino significa panettiere o mugnaio. 6 Ibidem.

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Dopo essersi assicurato che la moglie farà la sua parte, Leonardi afferma che non ha mancato di fare la sua (12/3 1916), tramite dei voti religiosi che, come detto, sono visti come un atto pratico e concreto, analogo alle richieste a persone in carne ed ossa: Cosi pure intesi che ai fatto tutto riguardo alla mia suplica, anchio, o promesso due S. Messe, se mi vien concesso, una alle anime in suo sufraggio, e una alla Madonna per grazia ricevuta7.

Fin dal 13 marzo Leonardi comunica al padre che: «se non mi verrà concesso con questa provaremmo con un altra». Dopo un mese (14/4) l’autore deve constatare non senza stupore («con tutte le preghiere che fatte non mi venga concesso niente!») che la richiesta non ha avuto successo e che dovrà riprendere i tentativi. Il 17 aprile consegna una nuova lettera redatta dalla moglie, che evidentemente doveva averla spedita prima che Leonardi sapesse del fallimento di cui rende conto il 14. Il risultato non è migliore (20/4): La suplica che mi hai mandato io la ho spedita al comando del Regimento, ma invece di andare al suo destino il comandante della mia compagnia, perche non ho preghato di grado in grado tutti i superiori inferiori a lui di malincuore ti devo dire che in presenza mia, la fatta in 7-8 pezzi, dunque neppur con questa non ottengo nulla, e più di tutto non mi hanno lasciato nemeno parlare8

ma, nonostante lo scoramento («vanno defunte tutte le speranze» 21/4), Leonardi non rinuncia a provare e ad affinare le tecniche. Dapprima raccomanda di richiedere uno spostamento e non un permesso, perché quest’ultimo è decisamente improbabile (Tiarno, il suo paese natale ai confini con la Lombardia, è in quel momento in piena zona di guerra). In seguito corregge il tiro, considerando che la quantità delle richieste può essere una migliore garanzia, ma avverte di fare suppliche che si limitino a una sola domanda per volta, la licenza oppure la nuova occupazione, non entrambe nella stessa lettera (28/4). Raccomanda di cercare non meglio specificate «persone influenti» e di chiedere loro come fare (3/5). Esorta la moglie a mandare suppliche sia a lui che direttamente al comando di reggimento. Tra le 29 lettere che Leonardi spedisce tra il febbraio e il maggio 1916 non se ne trova una che non faccia riferimento alla speranza della supplica o in 7 8

Ibidem. Ibidem.

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cui questa non sia messa nelle mani della divinità. Nonostante le energie spese, la crescente consapevolezza dei meccanismi burocratici, l’appoggio incondizionato della famiglia, la costanza e il fervore con cui si rivolge a Dio e alle autorità militari, le richieste di Leonardi andranno sempre a vuoto. La sua ultima lettera è datata maggio 1916, dopodiché se ne perdono le tracce. Il caso di Simone Chiocchetti 9, falegname e contadino di Moena, è paradigmatico per quanto riguarda l’integrazione di suppliche rivolte a Dio e suppliche rivolte alle autorità militari. Il suo vasto epistolario copre il periodo tra l’inizio del 1915 e la metà del 1916, data dopo la quale viene dichiarato disperso. Le sue lettere sono rivolte ai genitori e al fratello, che per il suo doppio ruolo di parente stretto e parroco rappresenta il fulcro delle sue speranze di sottrarsi alla guerra. La guerra di Simone inizia prima del fronte. Non appena arrivato al deposito reggimentale del II reggimento Tiroler Kaiserjäger di Bressanone, scrive al fratello, in data 2 febbraio 1915: Arrivammo ieri qui all’una, oggi ebbe luogo verso le due e mezzo la visita, che non mi andò bene; la supplica non mi giovò a niente; mi domandarono se glio difetti ed io gli dissi come voi mi dicesti, ma la supplica non la guardarono nemeno, io poi insistei, cosa c’è dopo mi disse, gli diede poi uno sguardo di un secondo minuto; e mi disse sano mars; ma insisterò di nuovo10.

E questo proposito verrà seguito per tutta la durata del conflitto, con costanza e speranza incrollabile. Il fratello e dei familiari devono agire contemporaneamente su due fronti, quello delle autorità militari e quello dell’autorità divina. La lettera sopra citata si conclude: «Ma speriamo che presto la si finisca, pregate per me, ch’io quel che posso farò per voi». Le armi spuntate che Chiocchetti porta in guerra sono quelle delle sue conoscenze – il fratello parroco, i contadini che potrebbero garantirgli una licenza agricola – e delle sue competenze del tempo di pace – il lavoro di carpentiere, che potrebbe fruttargli un posto in seconda linea. Entrambe vengono sfruttate quotidianamente, ma senza risultati. Ferito in Dalmazia al dito mignolo, nell’Agosto 1915, cerca immediatamente di usare questa risorsa per essere spostato in un ospedale in Tirolo (lettera del 5/8). La ferita è di entità minima, come l’autore 9 10

Epistolario di Simone Chiocchetti. Ibidem.

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stesso riconosce, ma questo non gli impedisce di chiedere immediatamente al fratello di scrivere una supplica al direttore dell’ospedale per il trasferimento. Dopo soli quattro giorni la speranza deve essere abbandonata: Chiocchetti scrive con mestizia che la ferita si è rimarginata e la supplica non deve più essere consegnata. Dopo solo tredici giorni (lettera del 24/8), apprendiamo che la supplica al direttore dell’ospedale è stata sostituita da una alla direzione del Genio di Trento, presumibilmente per ottenere una licenza, forse uno spostamento in virtù della sua professione di falegname. Nonostante le insistenze (lettera dell’ 8/9 e del 13/9) di Chiocchetti anche questa nuova domanda va a vuoto. Con tono preoccupato Simone fa notare al fratello Battista che oggi son partiti diversi anche della nostra compagnia, ma tutti con supplica firmata dal comune e dalla gendarmeria, quando l’avete fatta firmare, mandatela alla canceleria di battaglione, e di mia compagnia ma devo domandarre per il distretto di Bolzano perché per Fiemme sarà difficile riceverne11 (6/10).

In questo passaggio è possibile notare, come già in Leonardi, che la consapevolezza delle tecniche e delle modalità di richiesta si affina con il tempo, fino a includere considerazioni molto pragmatiche sulle autorità locali che meglio possono sostenere la supplica e sulla opportunità di chiedere il permesso per un distretto piuttosto che per un altro (quando, a distanza di mesi, la possibilità di ottenere il permesso sembrerà più concreta Chiocchetti constaterà con compiacimento che la scelta di Bolzano si era rivelata azzeccata). Le voci sui permessi e sui metodi con cui ottenerli dovevano essere un argomento al centro della socialità del fronte: nel confronto con le fortune o gli errori altrui si evidenziano le tecniche migliori per rapportarsi alle autorità militari a seconda della situazione. Un mese dopo corre la voce che tutti gli italiani stanno partendo per il fronte, «anche quelli raccomandati», testimonianza – rara – del fatto che la ricerca di favori da parte degli ufficiali era una pratica riconosciuta e che i nomi di chi era riuscito a ottenerli erano noti12. Simone non manca di avvertire il fratello che,

11

Ibidem. A questo proposito, Francesco Laich, impiegato e «raccomandato» egli stesso (il padre era impiegato militare e gli aveva assicurato un posto come trombettiere nelle retrovie) annota, in maniera partigiana ma senz’altro significativa: «Poi non mancavano i favoriti. Ogni tanto veniva aggregato al corpo qualche contadino che godeva privilegi d’ogni natura. Erano i fornitori di alimentari dei superiori, i quali si guardavano bene dal permettere o tollerare che si facesse loro qualche torto». 12

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nel caso fosse incluso nel battaglione di marcia, «vi scriverò subito che facciate un’altra supplica». Nel frattempo, sentita la voce che si stanno costruendo delle baracche militari, cercherà di farsi assegnare al gruppo dei lavoratori: «se non mi andò questa [la richiesta di licenza], forse che l’una o l’altra di queste altre mi andrà che proprio subito alla comp non mi sento di entrare». Una nuova strada (11/11), dopo il fallimento della visita e delle ripetute richieste, è quella di richiedere di essere aggregato ai battaglioni di sanità: il 30 novembre anche questa speranza viene frustrata e Chiocchetti parte per il fronte russo. Per ottenere una licenza occorreva una permanenza di sei mesi ininterrotti al fronte: ai primi di marzo la possibilità riprende ad essere al centro della corrispondenza di Chiocchetti, ma con toni decisamente preoccupati. Egli afferma di «essersi ingannato» sulla durata del suo soggiorno al fronte: ha chiesto, opportunamente, una licenza a Nuova Italiana (Bolzano), ma ha «dimenticato» di aver passato parte dei sei mesi necessari al deposito reggimentale di Voclabruck, in Austria Superiore (3/3 1916). In una lettera successiva (8/3), scritta in ladino per aggirare la censura, comunica: «se domandano al quadro il periodo che sono stato al campo, e al quadro scoprono che abbiamo mentito, ma avrei buona speranza che non vadano dietro a queste piccolezze». Chiocchetti aveva dichiarato addirittura nove mesi, aggiungendone ben cinque al tempo effettivamente trascorso sulla linea del fronte. Ovviamente la richiesta di permesso è respinta, ma la reazione del soldato, nonostante le speranze e il valore che le si era attribuito, nonostante le energie che oramai da un anno spendeva per sottrarsi alla disciplina militare, è blanda, non fa riferimento alla sua responsabilità personale nel rifiuto. Come sempre essa ruota attorno ai cardini della rassegnazione e della speranza in Dio: «Credevo venire a mettere le patate ma invece nò, bisogna aver pazienza, verrà anche quel giorno se Dio vuole» (3/4). «D’ora in avanti ci metteremo nelle mani di Dio» ribadisce Chiocchetti appena due giorni dopo. Ma, a distanza di poche ore, il contadino moenese scopre che è possibile aiutare il volere divino: il fratello potrebbe essere richiamato alle armi. La notizia desta preoccupazione ma soprattutto speranza: mi spiacerebbe se dovreste partire perche non potete più andar a confortar i nostri vecchi genito ma se dovreste partire andreste in qualche ospitale io credo; se venite richiamato e che potreste avere il servo, si potrebbe far suppli13.

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Ibidem.

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A giugno Simone raggiunge i sei mesi consecutivi al fronte. Dopo tante delusioni dà la notizia a casa in maniera cauta e scaramantica: «Forse che in pochi giorni vado in permesso, bisogna dire forse perche finché non è il giorno di partenza accertarsi non si può, facilmente giovedì o venerdì si parte, se è vero». Purtroppo gli è negato il ritorno a casa, il Trentino è interdetto alle licenze per i preparativi della Strafexpedition. La riflessione sul permesso è agrodolce, ma la lamentela viene subito smorzata, in una forma molto vicina all’oralità: «Si avrà quattro giorni di pace; – ma non poter venire in patria, non è proprio bello basta!!! Meglio che restar qui» (19/5). Le lettere successive, mandate al fratello Battista durante il permesso, sono di nuovo scritte in ladino, segno che Simone si preoccupa dell’occhio del censore. In esse egli spiega, in maniera inizialmente criptica, che ha trovato una scusa, non meglio specificata, per non ripresentarsi al comando militare entro la data prescritta dal permesso. Se si riconsegna ora è probabile che lo mandino al fronte immediatamente: prenderà qualche giorno di prigione, ma, sostenuto anche da altri tre trentini incontrati durante la licenza, non gli importa. (16/6) Il passo non è chiaro, ma sembra che la scusa fosse quella di consegnarsi al comando militare a Vienna e non direttamente al deposito di Voclaburck, dicendo di non avere soldi per tornare al proprio battaglione, guadagnando in questo modo qualche giorno. Purtroppo le lungaggini burocratiche in cui Chiocchetti doveva aver sperato non si verificano, il 18 di giugno è di nuovo spedito al fronte, direttamente da Vienna. Ma, significativamente, la sua tenacia non viene fiaccata: mentre è ancora sul treno che lo sta trasportando verso Leopoli scrive al fratello, di nuovo in ladino, che: «prima di arrivare ci proverà in qualche maniera se sono capace di mettermi al sicuro». Arrivato a Leopoli prova a darsi malato, ma non viene creduto. «Ma provo ancora, se arrivo al fronte spero di poter presto tornar di ritorno». I tentativi di Chiocchetti per sottrarsi alla guerra assumono qui un’altra forma, anche essa già utilizzata per evitare il servizio militare in tempo di pace, quella del procurarsi malattie con metodi «artigianali». Ne parleremo a breve. Il 24 agosto una lettera alla famiglia da parte delle autorità militari comunica che Simone è stato fatto prigioniero. La sua comunicazione si interrompe e di lui si perderanno le tracce. Le risorse che vengono utilizzate da Chiocchetti sono molteplici. In primo luogo il fratello, che è il destinatario di tutte le lettere sulle suppliche e sulla fuga. I genitori sono tenuti ai margini di questa «guerra vissuta», a loro si riservano generalmente rassicurazioni e

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esortazioni alla rassegnazione. In secondo luogo ci sono i commilitoni trentini, fonte continua di confronto, notizie e supporto: ogni più piccola voce, sia che si tratti di pace, sia che siano notizie sullo stato delle licenze o sulle modalità migliori per ottenerle, viene recepita e riportata in lettera. Le informazioni, sia che siano veicolate dalla socialità del fronte, sia che provengano dal mondo civile, sono raccolte e rimesse in circolo. La convalescenza, ad esempio, è un’ottima occasione per essere spostati più vicini a casa, o per ottenere un breve permesso, a patto che siano i familiari a richiederlo, e non il soldato. Giovanni Webber, bracciante, scrive dall’ospedale alla moglie nel 1915: Vorei dirti due parole inriguardo asti permessi. Ieri sifu qua venuto una Suplica li di Val di Cembra e a quanto pare deve essere pasata buona […] quei pochi fin’ora anno potutto andare in permesso opoco otanto estato tutti con lesupliche fate fare a Casa, enisiamo informati che è più facile aspetare che a dimandare come qua specialmente al Reconvalis dice senzaltro chebisogna aspettare aquando s’elaquadro, ecolle supliche invece anno otenuto anche quà bensì demeno chei può dai 5 allapiù 10 giorni fatosta che non sissa come inviarla14.

Un anonimo mittente (la firma è illeggibile) scrive a Enrico Moggio del trasferimento di un suo commilitone di Levico. La sua supplica era stata mandata contemporaneamente a quella dello scrivente, ma solo il primo parte per un ospedale vicino al Trentino. Per nulla scoraggiato il mittente ricopia per intero la supplica dell’amico (in tedesco) con la calda richiesta che Moggio la inoltri alle autorità competenti. «E affretati far subito subito… mentre che ora abbiamo questo buon dottore che mi concederà subito»15. Nonostante i metodi si affinino e le richieste diventino via via più accorte, non si può parlare di una vera e propria evoluzione nell’approccio all’autorità, che scarta i tentativi fallimentari per dedicare le proprie energie a strategie più efficaci. Si pensi di nuovo a Chiocchetti: dapprima cerca di essere riformato, poi, ripetutamente, di ottenere un permesso attraverso la supplica e l’influenza del fratello. In seguito ricorre al sotterfugio, prima fallito poi riuscito, e infine all’autolesionismo. L’autorità attribuita al fratello, in realtà un semplice curato di paese, la cui influenza non superava probabilmente l’ambito della parrocchia, gli sembra – nonostante i ripetuti fallimenti – la migliore garanzia per ottenere il proprio obiettivo. 14 15

Epistolario di Giovanni Webber. Epistolario di Enrico Moggio.

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È evidente che ci si trova davanti a qualcosa di più di una pragmatica valutazione sulla possibilità di sottrarsi alla guerra. Non c’è bisogno di sottolineare l’ovvio conforto che un ricongiungimento temporaneo ai propri familiari rappresentava per il soldato, un conforto che sembra essere reale anche quando la speranza viene disillusa. Il solo fatto che questa speranza, come quella della pace, di cui Chiocchetti annota ogni voce e ogni possibile segno premonitore, esista e possa essere scritta, fa sì che la guerra possa essere vissuta. La trasposizione in forma scritta, come detto, contribuisce a dare a questi desideri un carattere di realtà e moltiplica le occasioni per riaccendere la speranza nel rapporto con i familiari. Riguardo al fenomeno delle lettere popolari ai potenti Antonio Gibelli parla di una volontà di esistenza, in una società, quella contemporanea e di massa, che offre sempre meno occasioni di uscire dall’anonimato16. Nel caso della Grande Guerra e del gruppo in questione mi sembra che, tenuto conto del carattere molto particolare di quei «potenti» che sono le autorità militari, si debba parlare di necessità di resistenza. Il movimento permesso dalla scrittura epistolare e reificato dalla scrittura diaristica non è di avvicinamento alle autorità o alle istituzioni, che sono solo il destinatario di una supplica con scarse possibilità di successo, ma di ricongiungimento al proprio nucleo familiare e sociale che, agendo da mediatore – o pregando per lui, una funzione non molto diversa – provano allo scrivente la propria esistenza all’interno di un gruppo ristretto che partecipa attivamente al miglioramento delle condizioni in guerra. In questi tentativi, inoltre, è possibile leggere, sia dal punto di vista del destinatario che da quello dell’autore, un moto di resistenza pratica alla guerra che la risemantizza: non è solo nell’esito, ma è nel tentativo stesso e in quello che dice a proposito di chi lo fa, che si deve cercare la motivazione dell’atto. In questa prospettiva anche il tentativo più disperato è perfettamente comprensibile: il fallimento verrà accolto da una solida rassegnazione, che trasporta l’autore al di sopra degli eventi della guerra, nel campo della volontà divina. Il successo sta sì nella licenza, nel caso venga concessa, ma anche nella caratterizzazione del proprio sé come elemento attivo all’interno di una guerra altamente spersonalizzante e nel suo inserimento all’interno di una microcomunità in opposizione alla guerra, quella dei compaesani e della famiglia.

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A. Gibelli, Introduzione a Deferenza Rivendicazione, op. cit., pp. 7-8.

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Vigilio Caola è un lavoratore militarizzato di Pinzolo, dislocato nelle vicine Valli Giudicarie per attendere ai lavori di fortificazione del forte Corno. Tutta la prima parte del suo breve memoriale è dedicata ai suoi sforzi per sottrarsi alla guerra. Non appena arrivato sul posto di lavoro, nel marzo 1915, – dove lo attendevano già da due giorni – si reca al comando per chiedere un permesso, ma viene accolto a male parole e mandato al lavoro. «vedendo che questa era andata sbagliata e che la volontà di lavorare non era ancora venuta» si reca dal medico, che però respinge la sua richiesta di essere riconosciuto malato. Dopo due settimane riceve un permesso, si ripresenta al quadro con due settimane di ritardo, perché «inabile». Riesce a farsi prolungare il permesso, grazie alla supplica dei suoi familiari che dichiaravano di avere bisogno di lui per i lavori agricoli, fino alla fine di aprile 1915. Quando parte per tornare nelle Giudicarie ha già in tasca la supplica dei familiari per un altro permesso. Nonostante fosse un privilegiato tra i suoi pari (lavoratore militarizzato vicino a casa piuttosto che soldato combattente, e che oltretutto aveva già passato quasi tutto il suo servizio lontano dal fronte), e nonostante la possibilità minima che fosse possibile un ulteriore permesso (l’Italia era nel frattempo entrata in guerra), Caola decide di consegnare la supplica. Ovviamente l’ufficiale «subito la stracciò, me la buttò in faccia e mi consegnò a un caporale che mi desse due ore di ferri». Con un colpo di scena romanzesco Caola, quando il caporale volta lo sguardo, tenta la fuga: «in quattro salti era a Lardaro, e di li via di notte per Pinzolo. Anche questa la hò indovinata perché men restai a casa ancora fino agli ultimi di Giugno»17. L’intero passo è piuttosto incredibile, se messo a confronto con l’implacabilità della mobilitazione raccontata da altri soldati e lavoratori militarizzati. Caola, ritornato al paese, doveva essere facilmente rintracciabile dalla gendarmeria ed è sorprendente che al suo ritorno, dopo mesi di assenza quasi ininterrotta e ingiustificata, non sia stato punito, ma semplicemente rimesso al lavoro. È probabile che una parte del racconto sia deformata dalla volontà di autorappresentazione dell’autore e che ci siano altri fattori che contribuirono a tenere Caola lontano dal suo posto di lavoro (ad esempio non viene mai citato il motivo per cui è stato arruolato come lavoratore invece che come soldato, indice probabile di un qualche difetto fisico, che potrebbe aver spinto le autorità militari verso una maggiore indulgenza nella concessione dei permessi). Di nuovo non è importante verificare che i fatti si 17

Memoriale di Vigilio Caola.

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siano effettivamente svolti come li racconta l’autore. Il consegnare la supplica non appena arrivato al campo, in ritardo e senza aver quasi lavorato prima, è senz’altro, sia che sia accaduto realmente, sia che si tratti di una mistificazione narrativa, dannoso e inutile, quanto inutile era stata probabilmente la supplica di R. P. citata sopra, e possiamo immaginare che questo fosse chiaro allo scrivente. Il fatto che la supplica di R. P. fosse una pratica comune e che quella di Caola sia stata ritenuta degna di apparire come centrale in una narrazione che evidentemente mira a mettere il protagonista in buona luce («anche questa la hò indovinata») conferma che il senso di queste suppliche non era solamente o principalmente nella loro efficacia. Caola, nel consegnare una supplica del tutto inaccettabile e persino pericolosa, o nel raccontare di averlo fatto, non dimostra di voler raggiungere con questa una qualche intesa con le autorità o di volersi sottomettere al modello e alle richieste da loro imposte: la supplica è una sfida a queste autorità e più in generale alla guerra.

Le ferite e le malattie Dal primo giorno ancora li ò dimandà a Dio di restar ferì e Egli mi esaudì – Lino Brugnara

Le suppliche non sono l’unico modo, o quello più di successo, per sottrarsi alla guerra. La «buona ferita» o la «buona malattia» è un metodo più pericoloso, ma anche più sicuro e immediato, per ottenere lo stesso fine, con la potenzialità di garantire un periodo di lontananza dal fronte più lungo e forse anche il «superarbitrio»18. La guerra impone un profondo cambiamento nel rapporto con il proprio corpo, particolarmente evidente nella speranza di vederlo martoriato e nella delusione quando questo non accade. Come ogni cambiamento all’orizzonte mentale rispetto al tempo di pace, anche il mutamento nella percezione del corpo e della sua integrità trova un’accanita resistenza e un luogo di testimonianza nella scrittura. La speranza di una ferita è diffusa e comunemente accettata19. Il parroco Baggia annota, senza stupore o riprovazione, che «Bampi 18

Da Superarbitrium, congedo militare. Non solo per il fante trentino. Si veda Antonio Gibelli, Le refus, la distance, le consentement, in «Le Mouvement Social», 199 (2002), pp. 113-119. 19

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Quirino torna al campo, e accetterebbe volentieri delle ferite come quelle già avute»20. Se l’affermazione che «i primi feriti destano in tutti noi una grande invidia»21, che si trova nel diario di Rodolfo Bolner, è rara (la vista dei feriti suscita più tipicamente pena o paura), i tentativi che egli stesso metterà in atto per ottenere o simulare una malattia sono tutt’altro che infrequenti. Giovanni Pederzolli, che si è visto strappare la mascella da uno shrapnel, viene congedato. La reazione dell’amico Mario Agostini, suo commilitone, è inaspettata per lo stesso invalido. Sei pur fortunato tu disse. Grazie della fortuna risposi. Con tutta la mia fortuna però tu non cambieresti. Ti giuro di si disse; Ameno vedrei la mia Lisa, e mio figlio. Ragazzone risposi: Voresti vedere tua moglie alle mie condizioni? Si disse22.

In maniera del tutto esplicita Natale Bianchi, saputo che il fratello era stato ferito a un braccio, afferma di essere «sollevato» poiché «tutti si desiderava di essere feriti leggermente per sfuggire alla guerra»23. La speranza di una buona ferita non si limita a potenziali disertori, a «irredentisti» o a quella maggior parte dei soldati che non aveva nessun attaccamento per l’esercito in cui combatteva, ma si trova anche in individui, come ad esempio Davide Terzi, che dimostrano un inusuale attaccamento alla dinastia: la speranza di essere feriti è una speranza giustificata, perché chi viene ferito esce dalla guerra legittimamente. Nello stesso scritto si trova una frase di questo rarissimo tenore: «il caciatore non trema avanti al pericolo e combatendo da eroe e cade e muore» e un commento, in occasione del ferimento di un compagno, come il seguente: «Eseneva alo spital certo io dico e stato fortunato perche sono stato ferito legermente esseneva fuori del combatimento»24. Il dovere di prestare servizio, anche quando sentito come proprio, non è un dovere

20

Libro parrocchiale di Tommaso Baggia. Diario di Rodolfo Bolner. 22 Memoriale / Diario di Giovanni Pederzolli. 23 Natale Bianchi. Si veda anche la lettera di Beniamino Angeli ai genitori: «Cari Genitori. Salute e così spero di voi e dela familia ieri ho ricevuto la vostra letera dala quale intesi che il Giuseppe le ferito inuna ghamba a me mi dispiace ma ditte che non resta in pedimentato e melio cosi che io tremava sempre di ricevere nuove che le morto». 24 Diario di Davide Terzi. Nello stesso scritto si trova una frase di questo rarissimo tenore: «il caciatore non trema avanti al pericolo e combatendo da eroe e cade e muore» e un commento, in occasione del ferimento di un compagno, come il seguente: «Eseneva alo spital certo io dico e stato fortunato perche sono stato ferito legermente esseneva fuori del combatimento». 21

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legato alla difesa della «patria», in funzione di un contributo a un’entità vista come in pericolo, ma è fondamentalmente un dovere di obbedienza, che decade quando il soldato acquisisce il diritto al ricovero. Sono altri gli aspetti legati a questa speranza che vengono visti come illegittimi e, tipicamente, esorcizzati tramite la scrittura. Il già citato Giuseppe Leonardi, mentre ancora sta attendendo, con speranza scemante, il risultato delle sue molteplici suppliche, scrive alla moglie il 6 marzo 1916: Anche gieri lavorando asiema con altri coleghi uno di questi ne ha pigliato due balle una in una ganba e una in un braccio. O’ quanto desideravo di averle pigliate io. In ogni modo speriamo sempre e rasegnamoci alla volontà di Dio25.

Come detto la scrittura popolare è vicina alla preghiera, nella quale la speranza viene affidata alle mani di Dio attraverso la ripetizione formulare. È interessante notare che nel caso della speranza di una malattia o di una ferita si hanno maggiori reticenze e si adottano speciali cautele26. Simone Chiocchetti, sebbene dichiari senza nessuna vergogna o preoccupazione per il controllo della censura la propria ferma volontà di ammalarsi, ringrazia continuamente Dio per la propria buona salute. Si noti la paradossalità di questo passo, in cui la frustrazione della speranza di ammalarsi è attribuita alla benevolenza divina: Qui per quanto che si faccia non si ammala, se fosse da essere in civile e fare sta vita si andrebe subito a letto, o all’ospitale, si vede che è proprio quel di sopra che veglia su di noi27 (16/7/1916).

Allo stesso modo Valentino Maestranzi, evidentemente deluso nel constatare che la sua ferita è solo un graffio («mi fece perdere il coragio col dirmi chee solo unpo roso»), non manca di ringraziare Dio, nel diario come nella preghiera collettiva. Nel corere inmezo acuei canpi unpezo di fero mi presi in una ganba, che non manchai di ripararmi bene in mezo ai solchi di patate elasiare corere li 25

Epistolario di Giuseppe Leonardi. Un’interessante eccezione si trova in Ermanno Cattoi, che però decide di cancellarla dal proprio diario. Sotto alle righe tracciate da Cattoi si legge: «29/7 per ottima grazia di non essere messo nel trasporto d’Agosto ma s’amalarmi per Spitale offro a Maria 2 candele, 1 a G. C. ed 1 a S. Antonio». 27 Epistolario di Simone Chiocchetti. 26

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altri, credendo io di esere gravemente firito, ma in breve il nemico era statto lontanato la croce rosa, si avanzava chio pure mitoco alzarmi per non esere preso per morto, ma subito me ne acorsi che le ganbe mi portavano ancor bene, et anche la sanita, mifece perdere di coraggio col dirmi chee solo unpo roso, dove mi aprese il pezo, ma che non eroto. […]Il nostro pensiero, fu il primo di recitare il St. Rosario di ringraziamento a Maria St. di averci proteti in cuel tristo giorno, epregando per le anime dei nostri, morti conpagni cola promesa che non mancheremo mai di fare cuesto, come le nostre care madre ni anno insegnato28.

La malattia è nel mondo contadino un affare serio. Alla fine dell’ottocento, secondo i dati forniti da Cesare Battisti, il Trentino contava 126 medici, soltanto uno ogni 2770 abitanti e ogni 2,8 comuni. La malattia più diffusa in Trentino alla fine del secolo decimonono era la pellagra, dovuta ad una alimentazione scarsa e squilibrata, caratterizzata dal consumo di un mais che, coltivato anche oltre i 1000 metri, non arrivava a piena maturazione29. Nel solo distretto politico di Rovereto (comprendente i distretti giudiziari di Ala, Mori, Nogaredo, Rovereto) Battisti indica che nel 1896 si erano avuti 1057 casi di pellagra (74 morti), su una popolazione di circa 60000 persone. I dati per l’intero Trentino sono incerti, ma è significativo che una delle difficoltà citate da Battisti nella raccolta dei dati sia il fatto che gli ammalati e le loro famiglie cercassero di tener nascosta la malattia, che poteva provocare disturbi psichici. Le condizioni igieniche precarie favorivano la diffusione di malattie infettive quali tubercolosi, vaiolo, scarlattina, rosolia, difterite. Sempre dal prospetto statistico proposto da Cesare Battisti si apprende che più di un sesto delle morti annuali del Trentino (in media 9135, tra il 1885 e il 1894) era da attribuire a infiammazione degli organi respiratori e quasi un sesto a «debolezza congenita» (dovuta cioè a denutrizione e precarie condizioni igieniche), mentre parla di un’incidenza dell’8,4% sulle morti totali da attribuire alla tubercolosi. La vita media di un abitante del Trentino di fine ottocento si aggirava attorno ai 36-37 anni, tenendo ovviamente conto di una mortalità infantile molto elevata (solo poco più della me28

Memoria autobiografica di Valentino Maestranzi. Giuseppe Olmi, La pellagra nel Trentino fra Otto e Novecento, in Maria Luisa Betri, Ada Gigli Marchetti (a cura di), Salute e classi lavoratrici in Italia dall’Unità al fascismo, Franco Angeli, Milano 1982, pp. 361-390. Sui forti squilibri della dieta trentina lungo tutto l’Ottocento: Rodolfo Taiani, L’incognita alimentare in «Historie des Alpes, Storia delle Alpi, Geschichte der Alpen», 13 (2008), pp. 135-148. 29

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tà dei bambini nati vivi raggiungevano il ventesimo anno di età) dovuta principalmente a malattie polmonari o «debolezza congenita»30. La malattia era cosa comune nell’esperienza dei soldati che provenivano dal Trentino, era frequentemente associata alla morte31 e, in alcuni casi, alla censura sociale e alla vergogna. Si capisce bene come la richiesta di una malattia alla divinità, attraverso la preghiera o la scrittura, richiedesse una speciale cautela e spesso una giustificazione32. Una reazione comune davanti a questo desiderio colpevole è quello di attribuirlo, a mo’ di giustificazione e spiegazione, alla guerra stessa, ai tempi o all’«epoca» (si vedano sotto le citazioni di Senter e Raoss). In questo modo un desiderio sentito come illegittimo e pericoloso viene attribuito a un fattore esterno allo scrivente, fornendo sia una giustificazione della speranza che una descrizione dell’evento che la determina. Quando la buona ferita o la buona malattia vengono concesse, non si ha invece nessuna remora a chiamarle «grazie» purché durino il più possibile e non siano troppo gravi. Angelo Raffaelli viene ricoverato per assideramento dei piedi. Non appena arrivato a Krainburg (Slovenia), nell’ospedale, ringrazia il Signore, «che mea conceditto quela buona grazia». Spostato dopo tre mesi in un ospedale a Budapest, notato che gli bastavano le poche parole che sapeva di tedesco per far capire al dottore che i piedi gli facevano ancora male, testimonia che io tutte le sere dicevo la mia corona su per le ditta, che corona non ne ave30 Roberto G. Tonon, La mortalità infantile in una zona rurale del Trentino: il Decanato di Rovereto (1843-1883-1903), «Annali di S. Michele», 1 (1988), pp. 155-170. 31 Ricorda Arrigo Bortolotti (Molina di Fiemme), in una testimonianza raccolta da Isabella Bossi Fedrigotti e Franco Demarchi, a proposito di un intervento di appendicite subito nel 1912: «Su quattro interventi fatti in quel periodo tre sono risultati negativi con decesso del paziente, nonostante la rispettabilità del chirurgo. […] Fino al ’20 la difterite impazzava nelle nostre valli: ho visto un medico entrare nella casa di un malato avvolto in un lenzuolo per paura del contagio». Isabella Bossi Fedrigotti, Franco Demarchi, Il Trentino, in Corrado Barberis, Gian Giacomo Dell’Angelo (a cura di), Italia rurale, Laterza, Bari-Roma 1988, p. 181. 32 Si vedano ad esempio le risoluzioni del Consiglio della Valle di Vestino del 1855 e 1865, che, tra le misure pratiche adottate per prevenire «l’invasione del Colera Morbus» stabilisce «prima di fissare altri provvedimenti, e iniziando dal Cielo […] di venire processionalmente tutti i paesi della Valle alla Chiesa parrocchiale a visitare la Beata Vergine della Neve nel giorno 5 di Agosto […] e avendo così posta la Valle sotto la protezione di Maria credono di averla consegnata alla guardia più sicura». Citato in Vito Zeni, La lunga dominazione austriaca. La valle di Vestino dal 1849 al 1915, in «PassatoPresente», 9, 1986, pp. 51-105.

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va pregavo il signore del benefizio che mea fatto. Anche a Krainbirch seguitavo a pregare e dicevo da perme ho qua son venuto indiun paradiso ha non sentire più quele bale a fischiare e qui bruti colpi di canone e quei pianti che faceva quei poveri feriti33.

Antonio Dalbosco dà alla moglie Luigia Senter la notizia del proprio allontanamento dal campo, con sollievo e con il preciso intento di rassicurarla, esprimendo al contempo il desiderio, rivolto a Dio, che nel frattempo la guerra finisca: io sono ritornato dal canpo amalato il giorno 13 nel partire salutai i miei conpagni chegheringreseva piu aloro cheame fino ora sono lotano da quei fischi preghiamo tutti assieme chesitermina presto questo oribile masacro Adio34.

Nel dialogo immaginato che il diario permette a Luigia la notizia viene accolta con una gioia intensa e preoccupata Eco adesso mipare di essere rissusitatta da morte e vita ache anni che siamo che sesi conssola al sentire che sono amalati ma spero che non sia una malatia da morire ono ma da guarire e ritornare ancora con noi marito mio […] e venvero che sei malato ma almeno non sentirai certa robeta in torno spero che sarai contento cosi e ringraziamo Iidio e Maria ss tutti noi assieme chetiano salvato e cosi speriamo finolafine?35

Alla gioia («mi pare di essere risuscitata») segue la sensazione di straniamento e di paradosso propria di un desiderio illegittimo, che necessita di essere esorcizzato. A Dio, attraverso la lettera scritta, si rivolge un ringraziamento che è anche una richiesta dai termini espliciti: gli si richiede che la malattia sia «da guarire e non da morire», ma che soprattutto sia «da ritornare». Il punto interrogativo alla fine della citazione indica al contempo l’incertezza legata a una grazia ambigua e il vero destinatario della domanda. Quando la convalescenza sta per terminare e lo spettro del campo torna a farsi presente, con la consapevolezza che la ferita non è stata mortale o troppo dolorosa, si esprime il desiderio che essa non debba finire, che i giorni «tornino da capo». La mia convalescenza ai 25 si finisce perciò fremo al pensare al ritorno alla 33 34 35

Memoriale di Angelo Raffaelli. Lettera di Antonio Dalbosco alla moglie Luigia Senter. La lettera e il commento si trovano nel diario di Luigia Senter.

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mia compagnia che da là mi torneranno alla memoria questi giorni. Sappendo come passarono questi vorrei che ritornassero da capo. Ah! Misera gioventù! a che epoca siamo giunti di dover augurarsi una malattia od una ferita per esser sicuri del domani36.

Per non peccare di irriconoscenza, l’autore si premura comunque di ammettere: «Fin d’ora sono stato protetto assieme a miei cari quello che più mi premeva avere l’ò avuto» e di fare sfoggio di rassegnazione alla volontà di Dio: «in avvenire non voglio disperare Ri. do. C. s. no.vede»37. L’annunciarsi malati, sia con ragione sia simulando o esagerando una malattia è un espediente conosciuto da tutti e da molti usato per ottenere un allontanamento dalla guerra. Anche per il più patriottico, anche nello scritto più romanzato e dai toni più eroici e celebrativi, la malattia è una giustificazione sicura e ampiamente utilizzata, tanto da determinare, come scrive Antonio Gibelli ne L’officina della guerra, una vera e propria competizione con la classe medica per l’acquisizione delle competenze necessarie a spiegare (o all’occorrenza a simulare) la propria malattia in termini che potessero garantire una fuga dalla guerra, lunga o corta che fosse38. Giuseppe Faitelli, contadino di Dro, cerca a più riprese di farsi esonerare dalla leva, pur sapendo che ogni visita con esito negativo avrebbe comportato una punizione: il suo metodo, suggerito da un trentino residente a Innsbruck, è quello di ingerire, tre ore prima della visita, una bevanda di tabacco bollito per aumentare i battiti e simulare una disfunzione cardiaca. Per ben tre volte il medico si accorge del trucco, ma non bastano tre ore «di ferri» a far desistere Faitelli. È solo dopo un’altra punizione (tre ore di «colonna») e solo a causa del dislocamento immediato in Galizia che Faitelli deve rinunciare alla sua via di fuga39. Il fronte stesso offre peraltro occasioni di fuga tramite la malattia o la simulazione. Giuseppe Scarazzini, in preda alla sete e di fronte alla proibizione da parte degli ufficiali di bere acqua che non fosse stata fornita dall’esercito, afferma con orgoglio: «io n’avrò bevuto sucuro due litri, ero contento se avesi potuto ammalarmi»40. Oltre a una cono36 37 38 39 40

Diario di Emilio Raoss. Ibidem. A. Gibelli, L’officina della guerra, op. cit., 2003, pp. 149-150. Testimonianza di Giuseppe Faitelli raccolta da Umberto Zanin. Memoriale di Giuseppe Scarazzini.

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scenza più approfondita delle malattie infettive e delle modalità del loro diffondersi, la guerra dona saperi specifici su come ferire il proprio corpo senza essere accusati di autolesionismo. Tra gli espedienti citati dagli autori e ampiamente conosciuti e scambiati, vi era quello di ingerire decotti di tabacco (Faitelli), mangiare della paglia (Andreis), mandorle amare (Bernardi), aglio e cipolla in quantità (S. Chiocchetti), per procurarsi sintomi che andavano dall’aritmia alla febbre a problemi di stomaco. A questi metodi Riccardo Bonfanti, reduce trentino egli stesso, aggiunge, nel suo contributo a Il martirio del Trentino ben più incapacitanti iniezioni di trementina, petrolio, latte e insonnia e inedia volontarie41, ma le testimonianze non ne parlano (le prime trovano conferma sul fronte italiano)42. L’autoferimento al piede o alla mano è un espediente talmente utilizzato da essere sempre guardato con grande sospetto dai medici e con indulgenza a volte divertita dagli stessi soldati, che arrivano a ironizzare su di esso43. Rodolfo Andreis, egli stesso irriducibile «resistente»44, attesta che la pratica dell’autolesionismo non era occasionale o dettata dal terrore in faccia alla battaglia, ma richiedeva riflessione e accorgimenti ben precisi, che facevano parte del bagaglio conoscitivo di tutti i soldati. Un nostro amico, mio convalligiano, a ore 22 di notte ritornò lamentandosi, scuotendo una mano dalla quale nella parte superiore faceva capolino una pallottola russa, imprecando contro i russi; siccome io dovevo sostituirlo in quel posto avanzato da lui prima occupato, mi disse in un orecchio nel salutarmi; nascondi quelle tracce se ce ne sono rimaste in vista: si era ferito lui stesso, andò all’ospedale e non lo vidi più in guerra, ora ci troviamo spesso e rammentiamo senza nostalgia quel tempo che fu. Quì devo una spiegazione 41 Riccardo Bonfanti, Nell’esercito austriaco in Il martirio del Trentino, a cura della Commissione dell’emigrazione trentina e Sezione trentina dell’associazione politica degli italiani redenti, Trento 1921, pp. 105-112. 42 Lucio Fabi, Gente di trincea, Mursia, Milano 1994. 43 Si vedano Francesco Laich e Iginio Del Marco «vediamo un soldato che venire dalla nostra parte zoppicando. Era un soldato Boemo il quale ci ha raccontato che era stato ferito […]. Noi sorridendo perché avevamo compreso che si era sparato nel piede lo abbiamo lasciato partire»; «Un certo Valentini grida ai! L’ho presa (una scheggia si capisce) e calando i calzoni guardiamo ma non aveva nessuna ferita. Forse un sasso o un pezzo di terra lo aveva colpito sul sedere e noi a ridere a crepapelle lui pensava con contentezza di essere ferito e cavarsela dal fronte andando all’ospedale… a casa… in licenza… Svanite queste possibilità ritornò ad essere molto imbronciato». 44 «10-6 Anch'io facevo di tutto per avere qualche linea di febbre, mettevo tabacco nel rhum la sera, la mattina lo bevevo, mi faceva bene quanto l’olio di merluzzo».

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del come un proiettile russo e non uno austriaco l’aveva ferito. Tutti noi avevamo in un bossolo dei nostri, con poca polvere avendola parte estratta e sostituita con carta pressata ed in una mettevamo un proiettile sparato dai russi e raccolto per terra, dopo averci salutati chiamandoci zio. 31-10 Siccome i nostri proiettili erano 8 mm. e quelli russi 7 mm il bossolo dopo innestato il proiettile russo, veniva schiacciato in cima cosicché rimaneva solidamente attaccato il proiettile al bossolo. Provai anch’io a ferirmi, ma non ho mai avuto il coraggio di farlo45.

La buona riuscita di una operazione di questo genere richiedeva competenze e condizioni ben precise. In primo luogo richiedeva la conoscenza, probabilmente sviluppatasi attraverso il rapporto con i compagni e le notizie su chi aveva avuto successo e chi era invece stato punito, sui controlli che il personale medico ed eventualmente quello militare-giudiziario poteva mettere in atto. In secondo luogo richiedeva la presenza di un gruppo di commilitoni che potesse aiutare, coprire, convalidare con la propria testimonianza il tentativo di autolesionismo. La buona riuscita della fuga esigeva infine una conoscenza tecnica specifica, sul calibro dei proiettili, sulla quantità di carta e polvere da sparo da inserire in un bossolo, su come innestare un proiettile russo su un bossolo austriaco. Il ruolo della classe medica al fronte è di natura particolare: se il medico è colui il quale può salvare, più spesso è chi può condannare al ritorno in prima linea. Che di vera battaglia si tratti è confermato dal fatto che i medici hanno, nelle narrazioni di convalescenza, un ruolo del tutto analogo a quello che gli ufficiali spesso hanno nelle narrazioni cronachistiche del fronte: essi rappresentano l’apparato coercitivo, coloro contro i quali si esercita la furbizia del soldato e si mobilitano le risorse. Il pregiudizio nei confronti del gruppo italiano contribuisce all’identificazione dei medici con gli ufficiali austriaci e all’individuazione del proprio avversario di guerra nella divisa, qualsiasi essa sia, e nel «tedesco»: Il dottore tedesco, sfasciandomi insisté più volte: Italiano ferito da solo, né!! Fortuna che non poté accertarti dell’entità del fatto mi fasciò per bene lasciandomi per quella notte riposarmi pacifico46. 45 Memoria autobiografica / diario di Andreis Rodolfo. La pratica è confermata anche da Bonfanti, op. cit., p. 112: «Le ferite ai piedi od alle gambe erano di solito autolesioni, per le quali i soldati avevano in riserva dei proiettili russi e questo per sfuggire a responsabilità penali essendo i proiettili austriaci di calibro più grosso di quelli russi». 46 Diario di Eutimio Gutterer.

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Battista Scaglia, contadino di Storo, è malato di ulcera fin dalla giovane età, tanto che è esentato dal servizio militare in tempo di pace e viene dichiarato non abile in una prima visita nel 1915. Con la militarizzazione delle associazioni di tiro al bersaglio, di cui era membro, viene però sottoposto a una seconda visita, che questa volta lo vede abile al servizio di seconda linea con armi, negli Standschutzen. Dal maggio 1915 è dislocato sul fronte trentino, da dove parte tuttavia quasi immediatamente verso Innsbruck per essere operato all’addome. Già sul treno tutti i suoi compagni gli consigliano di non sottoporsi all’operazione: la sua posizione di seconda linea e vicina a casa è un patrimonio da difendere47. Se veramente l’operazione dovesse guarirlo il suo destino potrebbe essere il battaglione di marcia e poi la Galizia. Quando arriva ad Innsbruck Scaglia rifiuta dunque di farsi operare, mandando il medico su tutte le furie: per ripicca il dottore strappa il biglietto di ritorno di Battista, cosicché il soldato è bloccato a Innsbruck e costretto a rimanere, senza i documenti appropriati, in ospedale. Qui incontra un medico civile che, comprendendo la situazione, cerca di far leva su quelle che erano le esigenze della maggior parte dei soldati contadini: gli promette due mesi all’ospedale e un mese di convalescenza a casa, durante il quale Battista avrebbe avuto la possibilità di lavorare. Ma il soldato non si lascia convincere: ma io sempre di no è la diceva che a caza non ò bizonio di lavoro che io faceva sempre, conti per cazifici per cooperativa, è intanto lui rideva tutti i giorni mi domandava come stava è io non sapeva mai coza dirghi segli diceva che mi fava male gli diceva io non so coza farti se non ti lasci far l’operascione, e gli diceva che stago bene, aveva paura, che mi mandase, via48.

Il medico in questione era, nelle parole di Battista, un buon medico, per due motivazioni principali: era un medico civile e «chredeva a tutti». Arriva persino ad assumere il ruolo di «aiutante del protagonista» all’interno della narrazione. La classe medica nel suo complesso, di fronte alle esigenze di guerra e alla reticenza dei coscritti, metteva

47 Memoriale di Battista Scaglia: «Viagiando in treno trovai degli amici Tirolezi e tutti mi dicevano che non, mi lasciase fare loperascione, è che se mi la lascio fare dopo guarito non mi manda piu a Bondo è mi mete, nela mars compagnia, è poi mi manda in Galisia, alora di sera ciera la vizita de Medico è mia domandato semi lasco fare loperascione, è io glio detto di nò, Alora il medico sie arabbiato mia fatto il biglieto a pezi». 48 Ibidem.

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in atto delle contromosse: in questo caso quella di annunciare una visita da parte del medico di reggimento per il «superarbitrio», che si sarebbe in realtà rivelata un’occasione per una dimissione di massa e per mandare i convalescenti al fronte. Il medico civile (che dobbiamo immaginare italiano, sia per l’atteggiamento di favore che ha verso Scaglia sia per il fatto che quest’ultimo non conosce il tedesco) si avvede dello stratagemma e consiglia a Battista di «fare una passeggiata». L’avvertimento è provvidenziale, ma serve a guadagnare appena qualche giorno: ad una nuova visita la volontà ribadita di non farsi operare vale al soldato la dimissione dall’ospedale, il ritorno alla compagnia e la certificazione di piena abilità alle armi. Tornato in Trentino, Scaglia descrive una nuova visita per chi doveva essere mandato sulle montagne, che testimonia come il suo atteggiamento non sia un’eccezione, la vicenda di un individuo particolarmente refrattario al servizio, ma la regola. Nel dicembre 1915 il comandante manda le riserve in piazza con gli abili, ne mancano sette per formare la squadra da inviare in linea; il comandante li sceglie «assua uponione, a colpo dochio». Tutti i soldati cercano di far valere «il suo diffeto», ivi compreso Battista, che, a causa dell’ulcera, «non può viaggiare». La battaglia a suo tempo persa con il personale medico, tuttavia, lo condanna: la scusa è insufficiente. Il comandante fa semplicemente notare che sarà trasportato con un carro fino a Lardaro, poi «piano piano» potrà raggiungere la trincea: «tutti sono buoni». Scaglia, a distanza di sette mesi dal suo arruolamento, viene dislocato alle pendici del Dosso dei Morti e in seguito al forte Carriola.

Diserzione «esterna» ed «interna» […] i pochi superstiti cadero prigionieri in mano dei russi ed appunto fra questi ebbi la fortuna d’esserci ancor io; sano e salvo, che per dire la verità ero stanco di quela vita selerata ne siano rese grazie al Signore; e per ora basta. – Agostino Dallagiovanna

Il passaggio al campo nemico comportava dei rischi non indifferenti e suscitava dubbi che erano intensamente discussi e disputati al fronte. In primo luogo per le modalità con cui avveniva, in un ambiente di battaglia dove, cioè, era difficile palesare la propria volontà di arrendersi senza incorrere nello sguardo attento degli ufficiali di

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campo, pronti a giustiziare sul posto i disertori. Una manifestazione troppo aperta poteva scatenare il fuoco alle spalle, o da parte dei propri stessi commilitoni se questi non erano d’accordo e pronti a fare la stessa scelta. Una manifestazione troppo timida, al contrario, esponeva al rischio di farsi uccidere dai russi49. I dubbi riguardavano inoltre le possibili ritorsioni per i familiari e la sospensione del sostentamento pubblico alle famiglie dei soldati individuati come disertori. In ultimo vi era, come già detto, il dubbio sul trattamento che si sarebbe potuto ricevere in Russia. Le preoccupazioni legate alla diserzione sono di ordine squisitamente pratico. Prima tra tutte, l’assicurarsi la solidarietà dei propri commilitoni, vale a dire, il più delle volte, assicurarsi del fatto che essi fossero «italiani», una garanzia, a quanto pare, che, se pure non parteciperanno alla fuga, la guarderanno con occhio comprensivo. Domenico Delbosco, aggregato nel giugno 1916 a una compagnia costituita quasi esclusivamente di italiani e comandata da boemi, si trova nella situazione più propizia per passare alla trincea avversaria. La sua descrizione dei fatti stupisce per la naturalezza e la freddezza con cui il progetto viene pensato e attuato. Non vi è nessun dubbio che tutti gli italiani sono d’accordo, tanto che Dalbosco vi accenna solo di sfuggita, in una parentesi50. Dopo un forte cannoneggiamento russo Domenico e i compagni capiscono, dai razzi luminosi lanciati dal nemico, che ad esso non sarebbe seguita nessuna avanzata. Il momento è propizio: prima di andarsene i soldati raccolgono con sangue freddo i feriti e li mettono vicino al magazzino interrato della trincea. Con uguale calma gli italiani issano le proprie armi al margine del fossato, utilizzando i mantelli mimetici bianchi come bandiere di resa. Da tempo, racconta Dalbosco, erano al corrente della propria posizione rispetto alla trincea russa e del modo di raggiungere quest’ultima attraverso i camminamenti delle trincee avanzate: l’intera operazione si svolge «senza neppure un colpo di fucile»51. È solo dei tedeschi e degli ungheresi di cui bisogna diffidare. Anche solo il fatto di essere vissuto per molto tempo in «terra tedesca», 49 Diario di Pio Branz: «Il giorno 20 dicembre due dei nostri compagni, cioè un certo Graziadei da Fondo e Sordo triestino hanno cercato di disertare dandosi prigionieri ai russi; furono però disgraziati perché nel transito da una guardia di campo all’altra, furono feriti gravemente dai russi e restarono come dicono morti». 50 Memoria autobiografica di Domenico Dalbosco: «(noi eravamo d’acordo di darsi prigionieri)». 51 Ibidem.

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può essere, nel caso di Iginio Delmarco, motivo sufficiente «da non potersi fidare». Nella sua particolare esperienza è un tirolese di Bressanone (Fauster) che gli impedisce di mettere in atto la fuga. Mandato in perlustrazione con altri italiani, dice ad un suo amico, a voce alta Io sono stuffo di questi continui pericoli e questa vita da cane sarei del parere di fare la conoscenza con i Russi» / Il collega Fauster che mi ha sentito (naturalmente ho detto in modo che possa sentire anche lui) perché era forse l’unico contrario, dubbioso era anche il Cortinese. / Fauster rispose subito dicendo: «non pensà miga de darve presoneri ocio che ve sbaro dentro52.

Il gruppo deve rinunciare, ma la fuga di Delmarco è solo rimandata. Di lì a poco avrebbe preso da parte il compagno che aveva accettato e avrebbe messo in atto il piano di «saltare il dosso». Alfredo Franzoi prende invece la propria decisione sotto il fuoco nemico, nella terra di nessuno: «visto che oramai non vera piu nessun mezzo di salvezza che la prigionia subito mi appigliai a questo partito»53. Per prima cosa si dirige, strisciando, verso dei «sotterranei» (trincee precedentemente abbandonate o trincee interrate di osservazione) per trovare riparo; all’interno di questi, vede, con paura, un altro soldato. Dapprima lo crede tedesco, ma, rivolgendogli la parola, «subito mi assicuria sentendo che parlava l’italiano»; ciò nonostante, prima di rivelargli il proprio segreto, Franzoi decide di «tastare il terreno». Una volta assicuratosi che era anche lui «di buoni propositi» gli spiega il proprio semplice piano: approfittando della precipitosa ritirata dell’esercito austriaco, intende attendere, nascosto nella trincea avanzata, l’arrivo della notte e dei russi. Il soldato, «un certo della Val di Non», accetta, come previsto, senza esitazioni. Nascosto sotto terra, con tutti i sensi allerta, Franzoi si fa testimone della rotta disastrosa del proprio esercito, vede fuggire ufficiali e soldati di ogni arma, abbandonando zaini, fucili, munizioni. Sente il lamento dei feriti «che imploravano pietà» mischiarsi agli ordini sbraitati dagli ufficiali e all’assordante rombo del cannone: «un vero fini mondo cose da far rizzare i capelli al solo pensarci». L’interminabile attesa viene interrotta dall’arrivo di un ufficiale; la scusa di Franzoi è pronta ed efficace: hanno ricevuto l’ordine, dice, di resistere nella trincea fino alla ritirata della retroguardia. L’ufficiale se ne va, «soddisfatto». 52 53

Memoria autobiografica di Iginio Delmarco. Memoriale / Diario di Alfredo Franzoi.

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Calata la notte i due trentini si avventurano di nuovo nella terra di nessuno, coperta di feriti e materiale bellico. Con terrore, ventre a terra, vedono passare una pattuglia in divisa austroungarica; fortunatamente, scrive Franzoi, si trattava di boemi. A testimonianza ulteriore della naturale solidarietà e della notoria scarsa affidabilità dei due gruppi, gli italiani non hanno nessuna esitazione a spiegare il proprio piano ai cechi e questi «ben accolsero il nostro pensiero», unendosi ai fuggitivi. Una scarica di mitragliatrice, dal buio alle loro spalle, viene a disperdere il gruppo appena costituitosi. Franzoi, pur nella foga della fuga, si procura di non separarsi dal compagno. «Passata la burrasca» i due vedono i boemi che raccolgono munizioni e caricano le proprie armi, non si sa se per rispondere al fuoco austriaco o per ricongiungersi alla compagnia. Gli italiani continuano però nel loro proposito, risolvendosi ad attendere fino all’alba. L’esperienza di guerra combattuta di Franzoi si conclude il mattino dopo, quando, inastata una camicia bianca su un bastone, viene accolto dalla stretta di mano di un soldato russo. La necessità di avere almeno un compagno trentino nel momento del passaggio alla trincea avversaria va al di là dell’esigenza pratica54. In alcuni casi, anzi, la fuga solitaria potrebbe garantire maggiori possibilità di successo. È soprattutto sul piano psicologico che la presenza di un compagno si rivela fondamentale e praticamente irrinunciabile; è solo in casi estremi, quale quello di Franzoi bloccato nella terra di nessuno, che la decisione può essere presa singolarmente e anche in questo caso, come abbiamo visto, la disponibilità a coinvolgere «compagni» è immediata. La scelta di disertare non presenta nessun problema morale. La diserzione è vista come una conclusione «naturale» dell’esperienza di guerra combattuta, i cui unici dubbi sono legati ai pericoli ad essa intrinseci o all’immaginazione del futuro di prigionia55. Non vi è nessun accenno ad un senso di vergogna, così come è rarissimo che vi sia condanna nel commento della diserzione altrui, anche quando com54 Memoria autobiografica di Natale Bianchi: «incontrai un caporale della mia compagnia, un certo Nonese il quale mi domandò subito se avevo intenzione di darmi prigioniero, e Io gli risposi che trovavo un compagno ci stavo. Lui mi disse che aveva la medesima intenzione». 55 Memoriale Guido Zanella: «Dopo due giorni che mi trovavo in trincea, esaminata tutta, pensai subito che era giunto il momento di realizzare ciò che da tanto tempo avevo per la mente e che mi fu sempre impossibile, cioè liberarmi dagli Austriaci».

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porta dei rischi concreti per chi rimane in trincea56. La scrittura, che pure abbiamo visto operare in maniera significativa nella costruzione dell’io, non attua nessun espediente per attenuare il gesto o per giustificare la scelta; se un’intenzione narrativa è ravvisabile nei racconti di diserzione in rapporto all’io è piuttosto quella di dimostrare la furbizia dello scrivente nel superare le avversità che lo dividono dalla meta e l’irriducibilità del tentativo. In maniera forse ancora più pregnante notiamo che non vi è la sensazione colpevole di abbandonare al proprio destino i «compatrioti» trentini che rimanevano al fronte; non solo non esiste una solidarietà «divisionale» nata dalle comuni esperienze di guerra: la scelta della diserzione è, nella percezione della maggioranza dei trentini, quella che qualsiasi conterraneo farebbe, o dovrebbe fare, se solo ne avesse la possibilità. Di fronte alla eventualità di passare «sul ponte di cuesto sanguinoso fiume», scrive Valentino Maestranzi, lui e i suoi compagni non se lo «fecero ripetere due volte». La scelta di evitare la guerra, qualsiasi fosse il metodo adottato, non genera rancore, ma ammirazione nei commilitoni. Non è ravvisabile negli scritti trentini, probabilmente anche in virtù della omogeneità sociale dei loro autori, quel rancore contro gli «imboscati» e i renitenti alla leva che si ritrova nel fante francese, inglese o italiano57. Molte volte la comunicazione della propria volontà di fuga – o della propria avvenuta diserzione – colpisce per la sua asciuttezza, quasi venisse menzionato un aspetto qualsiasi della vita di trincea: La mattina dei 5 la mia Compagnia era circondata e la sera ebbe l’ordine di indietreggiare. Alcuni si nascosero in attesa di lasciarsi fare prigionieri e così feci anch’io. Il martedì 6 giugno fu il giorno che segnò la liberazione dal vile gioco austriaco58. Ero stanco morto e decisi che se i nostri facessero anche una piccola ritirata rimanere indietro e darmi prigioniero e così avvenne59.

56 Pio Branz: «La causa del continuo sparo si crede sia perché due tirolesi disertarono durante la notte e palesarono le nostre posizioni e fortificazioni ai russi». Rodolfo Andreis: «Siccome quelli di lingua italiana molti disertavano, il Comando iniziò una prima purga di 84 uomini fra i quali fui incluso anch’io». Albino Pontara: «Rammento ciò che seguì dopo la fuga di Guido Bertoldi alla seconda compagnia del mio reggimento. Agli italiani dopo un esordio di minacce fu messa ad ognuno un ordinanza che spiava ogni passo che si faceva». 57 M. Isnenghi, Il Mito della Grande Guerra, op. cit., pp. 325-328. 58 Memoria autobiografica di Albino Gionta. 59 Memoria autobiografica di Alberto Barberi.

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Senza soffermarsi sul come ha superato i propri dubbi, Eugenio Mich mette in chiaro che essi erano legati esclusivamente ad eventuali ritorsioni sulla sua famiglia. È di nuovo con un compagno che la decisione di disertare viene presa (ma in questo caso non è realizzata). Si noti la leggerezza con cui, almeno a parole, il passo viene compiuto: Un giorno Loss mi dice: diserton prima che i ne cope, mi no volevo, perché a casa i levava la tessera alla mamma e alle sorelle e i le faseva tribular in cento maniere. E tanto disse fino che decisi anchio60.

La fuga verso le file nemiche, per quanto la più radicale e definitiva, non era tuttavia l’unica forma di diserzione disponibile al fronte. Molte memorie danno dell’apparato di controllo dell’esercito un volto minaccioso e crudele, ma tutt’altro che implacabile. Il fronte mobile della guerra orientale permette, grazie alla dispersione che seguiva ogni battaglia e allo scarsissimo coordinamento dei comandi dei singoli battaglioni, l’attuazione di strategie che, pur senza necessariamente arrivare al passaggio al campo nemico, potevano assicurare un allontanamento dalla guerra e dal mondo della disciplina, a volte anche per lunghi periodi di tempo. Tali espedienti di «fuga interna» furono così frequenti e importanti che molte memorie, soprattutto se di tenore cronachistico, utilizzano il succedersi e l’esito di queste strategie come filo conduttore principale della narrazione61. Di seguito e nel prossimo paragrafo presenterò alcuni esempi, con il fine di disegnare i contorni del modello etico che sottende alla presentazione dell’io in questo tipo di scritti. Fingersi dispersi è un espediente che fa un sapiente uso della confusione che segue la battaglia, a quanto pare molto utilizzato: la ricerca del proprio battaglione, soprattutto se condotta senza entusiasmo, può risparmiare al soldato qualche giorno di guerra ed è uno stratagemma che mette relativamente al sicuro, se recitato in maniera appropriata, dalle inquisizioni degli ufficiali incontrati lungo il cammino. Augusto Gaddo si dimostra un maestro in questa arte recitativa. Dapprima si aggrega di nascosto, ovviamente con dei compagni, a un reggimento che non è il suo, lo segue in una marcia di qualche ora e si accampa con esso. Al mattino, al momento di ricevere gli ordini, Gaddo

60

Memoria autobiografica di Eugenio Mich. È il caso degli scritti di Augusto Gaddo, Daniele Bernardi, Luigi Speranza, Iginio Delmarco, Giovanni Tomasi. 61

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e i commilitoni dicono candidamente di non appartenere a quel battaglione e di essere in cerca della propria compagnia; ricevute le direzioni per raggiungerla, Gaddo non parte, ma cambia baracca, ripetendo per più giorni la stessa messa in scena. La mattina via da quella baracca e dento in un altra fino a sera, e via cosi e se non ci pigliavano i Gendarmi di Campo chissa quanto tempo, forse fino alla fine della guerra?62

Il trucco di Gaddo viene scoperto, a detta dell’autore, soltanto perché si era fatto convincere da un compagno ad assistere alla messa del giorno di Natale 1914, «in un grosso paese». Qui i due vengono intercettati da dei gendarmi, che chiedono loro i documenti. Gaddo tenta un altro espediente largamente usato, quello di fingersi convalescenti o appena usciti dall’ospedale, ma in mancanza di documenti il trucco non funziona. Fortunatamente un capitano dei Kaiserjäger, incontrato sulla via, aggrega i due a un gruppo di soldati dispersi in cerca dello stesso reggimento di Gaddo. Questi non sembrano avere motivazioni differenti da quelle dei due «disertori interni», se Gaddo scrive che Abbiamo viaggiato tre giorni avanti trovarlo ma in 5 ore si poteva arrivare avvevano tutti una voglia d’arrivare?63

Ma le vicissitudini dello Jäger non sono terminate. È di nuovo il compagno che lo caccia nei guai, parlando con un altro italiano, in un’osteria, dei dieci giorni passati tra una baracca e l’altra. La conversazione viene colta da un tedesco, che li denuncia al capitano. Stavolta la scusa di essere appena ritornati da un ospedale di campo (non rintracciabile in quanto sulla linea del fuoco) funziona e i due vengono graziati. La guerra di Gaddo continua su questa falsariga: non appena congedato dal capitano trova una baracca dove, insieme agli inseparabili compagni, scava un buco e vi si rifugia, per uscire soltanto al momento del rancio. L’espediente dura tre giorni, fino alla conquista della posizione dai russi, nuova occasione per ricominciare la recita dei dispersi. La vicenda di Gaddo ci introduce a un elemento fondamentale della contro-cultura di guerra trentina, quella della natura del knowhow che la caratterizza. È evidente che Gaddo, in una presentazione del proprio sé in guerra, ha tutto l’interesse a presentarsi come un 62 63

Memoriale / Memoria autobiografica di Augusto Gaddo. Ibidem.

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«veterano», non della guerra combattuta, ma della particolare guerra trentina. È sempre il compagno, che con le sue scelte improvvide e la sua lingua lunga, mette in pericolo i piani dell’autore, raccontati come inevitabilmente perfetti e di successo, a volte in maniera piuttosto incredibile. L’impressione è confermata da un altro passaggio della memoria autobiografica di Gaddo. Lo scenario è cambiato, dal fronte orientale Augusto è stato spostato sul fronte carsico, ma il suo atteggiamento e le sue strategie sono rimaste immutati. Bloccato in una dolina durante un attacco afferma di non avere nessuna intenzione di muoversi o di cercare il proprio reggimento; ciò nonostante, per non rimanere solo, segue i propri commilitoni quando escono dalla buca e cercano di riunirsi al resto dell’esercito. Inaspettatamente il proposito viene frustrato dal comandante di un contingente di slovacchi, che impedisce con le armi a Gaddo e compagni di uscire allo scoperto. Dopo poco, grazie a uno slovacco che parlava qualche parola di italiano, il trentino capisce: l’intenzione dell’intera compagnia di lovacchi è quella di darsi prigionieri. Io al sentire che siamo prigionieri tutto contento cominciai a cantare, e dissi a uno dei miei compagni che si chiamava Milesi domani saremo a Milano, e pagherai la birra l’altro mio compagno si chiamava Depedri ed erra da Sardagna64.

Ma Milesi ha paura65 e fa pressione su Depedri perché si abbandoni la fuga, «perche sapeva che se erra capace di tirar via lui, anch’io dovevo andar dietro». Se rimane da solo, riflette Gaddo, i due possono dire al comando che ha disertato e ci possono essere ritorsioni contro la sua famiglia: deve uscire dalla buca anche lui. Lo sfogo contro Milesi avviene solo il giorno dopo, quando i tre si sono sottratti al controllo degli slovacchi e si trovano di fronte a una nuova decisione, se rimettersi in cerca del battaglione o attendere la notte e ricominciare il gioco dei «falsi dispersi»: Non credere tu viliaco di Milesi di menarmi attorno come ieri? ora vuoi andartene, vatene solo, che io non ti vengo dietro e maledettta quella volta che mi sono messo a dar retta a te se non fossi stato per te, io oggi sarei a 64

Ibidem. Ibidem: «Cosa facciamo qua con una compagnia foresta il nostro Regimento ci cerca, questa notte questi qua se non arriviamo prigionieri ci ammazano e andiamo via di qua, vieni Depredri diceva». 65

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Milano ai capito? L’uomo piu pauroso di tutto il Regimento sei te66.

La giustificazione di Gaddo per la scelta di seguire Milesi non è particolarmente solida: quasi ogni azione da lui raccontata negli anni precedenti all’episodio della dolina è passibile di arresto e di generare ritorsioni sui familiari. Più probabile che egli abbia scelto di seguire i propri compagni in virtù di quel supporto reciproco che è essenziale ad ogni atto di diserzione. Appare tuttavia evidente che il modello positivo a cui Gaddo vuole uniformarsi, al di là delle sue intenzioni nei fatti, opera un ribaltamento del concetto di coraggio, reso evidente dal confronto con l’«antagonista» Milesi. Vigliacco, pauroso, non è chi fugge dalla guerra, ma chi non lo fa. Come scrive Alberto Barberi, riportando un avvertimento che suo nonno gli aveva dato al momento della partenza, «varda Berto che se mori da una palla di canon muori da coion»67. Nell’imputare ad altri il fallimento dei propri piani o le proprie stesse esitazioni, Gaddo mette se stesso nella posizione relativa alla guerra che egli sente come più consona ai propri valori e a un modello di comportamento che, pur perseguito con le tecniche più diverse (dalla supplica alla simulazione, dalla diserzione all’autolesionismo), appare comune alla maggioranza dei trentini.

Epica di guerra Guai a coloro che non sono in grado di fingere, a questi [gli austriaci] fanno sentire il peso di tutta la loro prepotenza – Daniele Bernardi

Sebbene le punizioni fossero severe e la diffidenza verso gli italiani crescente, pochi furono i trentini che non cercarono di avvantaggiarsi delle maglie larghe del sistema coercitivo, mantenute tali da un fronte soggetto a rovesci continui e spostamenti frequenti, che rendevano il controllo capillare sugli uomini a volte impossibile. Anzi, la situazione caotica sembra aver creato, stando alla scrittura popolare – in particolar modo a quella retrospettiva – dei veri e propri specialisti della «fuga interna», capaci di interpretare un ordine in maniera favorevole, di sfruttare l’impossibilità di comunicazione tra i comandi per giustifica66 67

Ididem. Memoria autobiografica di Alberto Barberi.

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re la propria assenza nei momenti più pericolosi, desiderosi di passare il proprio sapere ai meno esperti e anche, come vedremo a breve, di conquistare un capitale sociale dalla propria fama di fuggitivi e renitenti agli ordini68. Per apprezzare fino in fondo il valore psicologico della resistenza, dell’attività che gli espedienti volti alla fuga hanno all’interno dell’esperienza individuale della guerra occorre guardare alla intentio operis69 di quelle che ho definito memorie cronachistiche, vale a dire caratterizzate da una maggiore disponibilità – talora un vero e proprio piacere – alla narrazione e da una intramazione fatta di episodi singoli piuttosto che di categorie di episodi ricorrenti. La differenza tra le due modalità di intramazione, legata generalmente alla cultura e alla possibilità dello sguardo retrospettivo sugli eventi propria della «cronaca», porta a una presentazione differente del rapporto tra protagonista e guerra e, di conseguenza, fa sì che le due forme siano portatrici di messaggi differenti, ma integrabili. O, per meglio dire, entrambe le forme rispondono a un’esigenza legata all’esperienza della guerra, con un diverso grado di complessità. Semplificando provvisoriamente il problema è possibile dire che la intentio annalistica racconta la guerra che agisce sul protagonista. Solo la guerra lo fa muovere, gli fornisce il poco cibo che lo tiene in vita, determina i suoi spostamenti e la lontananza struggente dai propri cari. È una Guerra personificata e implacabile che muove i fili di un soldato – burattino. L’unica scelta che l’individuo può compiere – ma non si tratta di scelta nel vero senso del termine, poiché è semplicemente buonsenso intraprenderla – è quella della rassegnazione al volere divino, che ha imposto agli uomini il Moloch della Guerra e che, inevitabilmente, quando il tempo sarà opportuno, permetterà loro il

68 Diario di Alfredo Franzoi: «Tutti si meravigliarono di vedermi là, ma quando gli spiegai la cosa come era tutti mi dissero bravo che ero stato capace di fargli credere quello che non era vero». 69 La distinzione tra intentio auctoris (ciò che l’autore intende consciamente dire tramite la propria scrittura) e l’intentio operis, (ciò che l’opera nel suo complesso dice al di là della consapevolezza dell’autore) è stata tracciata da Umberto Eco in I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano 1990 e Interpretazione e sovrainterpretazione, Bompiani, Milano 1995. La ricerca dell’intenzione dell’opera consiste in particolare nel «cercare nel testo ciò che esso dice in riferimento alla propria coerenza contestuale e alla situazione dei sistemi di riferimento a cui si rifà». (Eco, I limiti dell’interpretazione, pp. 22-23), un obiettivo che mi sembra coincidere perfettamente con gli obiettivi di questo saggio.

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ritorno. Questo tipo di scrittura è tipica dei diari contadini, ma non ad essi esclusivo: tale forma si trasferirà anche in molte scritture retrospettive e nelle forme ibride dei memoriali. L’intentio operis di questa forma in rapporto all’individuo è l’affermazione di passività e di distanza morale dall’avvenimento. La scrittura cronachistica, come la abbiamo vista in Gaddo, Caola, Andreis e altri, racconta un protagonista che agisce nella guerra, la guerra «umana» dell’apparato di controllo rappresentato da medici e ufficiali. All’interno dell’esperienza la guerra non ha un ruolo differente rispetto a quello che le viene attribuito dalla scrittura annalistica: essa rimane, il più delle volte, Guerra, un evento divino che trascende la volontà individuale. Le descrizioni di battaglia sono la manifestazione più tipica dell’incommensurabilità dello sforzo dell’individuo rispetto agli accadimenti che lo circondano. Ciò che cambia è lo sguardo della scrittura su di essa, l’accento che viene posto sul protagonista. Egli, come nella scrittura annalistica, non viene presentato nelle pieghe della sua personalità o nell’analisi dell’impatto che gli avvenimenti hanno sulla sua personalità. Tuttavia si è di fronte a un un individuo che agisce non secondo le direttive della guerra, ma secondo la propria volontà, quella stessa volontà che il conflitto, a detta di tutti testimoni, spegne. Se la mutilazione della libera scelta è ciò che caratterizza l’esperienza, il suo ripristino sarà ciò che la scrittura riparativa si prenderà carico di portare a compimento. Se la Guerra non permette rivolta, le forme della guerra che sono determinate da esseri umani permettono la contrapposizione. L’intentio operis della scrittura cronachistica è l’affermazione di strenua reattività dell’individuo. L’analisi di uno scritto sotto l’aspetto della sua intentio presenta molte insidie. Spesso le opere, in mancanza di un piano di scrittura, presentano diverse intenzioni. Ogni spiegazione deve far uso della categoria di traiettoria, per indicare una tendenza che appare evidente al lettore informato, ma che è difficilmente esemplificabile attraverso un singolo passaggio. Per risolvere il problema non ho trovato altra soluzione che la spiegazione di un testo esemplare, tra i più lunghi e sorprendentemente complessi che abbia avuto modo di trovare nell’Archivio della scrittura popolare di Trento. Si tratta degli otto quaderni che Daniele Bernardi ha scritto tra il 1917 e il 191870, che ha senza alcun dubbio rielaborato e sistemato appena finita la guerra sul70 A questi si aggiunge un quaderno di appunti, perlopiù utilizzato per ricopiare lettere di italiani spedite dal campo di internamento di Katzenau.

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la base di note precedenti e che ha volontariamente consegnato all’allora neonato Museo del Risorgimento e della Lotta per la Libertà di Trento. La scelta di questo autore può dare luogo a leciti dubbi. L’autore è un impiegato di Trento, un cittadino, categoria che è stata finora pressoché ignorata, tranne nei casi in cui portava testimonianza sui ben più numerosi e rappresentativi ceti popolari e rurali. Bernardi scrive la propria esperienza di guerra esclusivamente attraverso episodi e non disdegna escursioni frequenti a raccontare i personaggi che ha modo di incontrare e che rendono vive le sue avventure, attardandosi di frequente, come quasi mai accade nelle memorie popolari, in dettagli non immediatamente funzionali alla narrazione, in curiosità e aneddoti. La sociabilità con i Trentini è inconsuetamente al centro dell’attenzione, mentre i familiari hanno un ruolo insolitamente decentrato: sebbene apprendiamo accidentalmente che Bernardi aveva una figlia, le continue invocazioni dei propri congiunti e la nostalgia che permeano gli altri scritti sono qui a malapena nominati. Al contrario gli aspetti più tipici della esperienza militare, le esercitazioni, la gestione dell’equipaggiamento, le regole interne, non sono soggette alla marginalizzazione che è di solito loro riservata negli altri autori. Le notizie di guerra, per quanto tipicamente del tutto ignorate nei quaderni precedenti71, trovano il proprio spazio nell’ottavo quaderno, dove gli avvenimenti degli ultimi mesi del 1918 vengono esposti con una velleità quasi storiografica. La pace, per converso, non è mai invocata, immaginata, attesa. Per molti versi dunque il testo può essere preso ad esempio di cosa la scrittura popolare non è. Nonostante la forma scarsamente rappresentativa della narrazione, sono convinto che il suo contenuto (la sua intentio operis come la sua intentio auctoris) sia estremamente indicativo, sia di una volontà di autopresentazione che, se raggiunge in Bernardi il grado più compiuto, caratterizza la maggior parte della scrit71 Riguardo all’aprile-maggio 1916, mentre la guerra infuriava su due fronti e si preparavano la Strafexpedition e l’offensiva Brusilov, Bernardi ricorda soltanto il «comportamento» del clima, dapprima «vero galantuomo», poi colto da «vera pazzia». La descrizione dell’inclemenza catastrofica del clima, che apre il terzo quaderno, continua con toni lirici per quattro pagine. Alla fine di queste l’autore racconta di essere stato portato a una lettura pubblica di articoli di giornali riservata ai convalescenti del suo ospedale. Anche in questa occasione, nessun accenno a cosa stesse succedendo nel mondo o sulle sorti della guerra: «Non ebbi il tempo di star attento per sentir ciò che veniva letto perché osservavo il tempo».

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tura cronachistica, sia, soprattutto, come summa delle caratteristiche ritenute positive dai coscritti trentini; si tratta di una sorta di saga epica del gruppo in questione e come tale non è sovrapponibile a nessuna esperienza realmente vissuta (probabilmente nemmeno a quella dello stesso Bernardi, nonostante i continui tentativi di quest’ultimo di provare la veridicità di quanto afferma). Il personaggio-Bernardi è un eroe, secondo l’etica trentina di guerra, ed è, in quanto tale, unico. Ma ampiamente condivise, e perciò interessanti in questa sede, sono le caratteristiche che, estremizzate nel suo testo, lo rendono tale all’interno della sua società. Se finora l’uso storico del racconto biografico è stato, per usare una classificazione proposta da Carlo Levi, modale, in questa sezione vorrei proporne un uso per caso limite72, con l’identico fine di illuminare il contesto che ha permesso al personaggio narrativo di Bernardi di esistere e di costituirsi in modello eroico. La volontà narrativa che è adamantina in Bernardi e che mi appresto ad affrontare è presente in forme meno complete in moltissimi autori di memorie cronachistiche, anche di origine contadina. Le avventure di Bernardi iniziano in maniera del tutto analoga a quelle dei suoi compatrioti, con la nefasta chiamata alle armi. Ma fin da subito viene affermata la peculiarità del protagonista; egli deve sì assoggettarsi al mondo della disciplina, ma solo dopo avervi resistito fino al limite massimo: Mi consegnai alla caserma dei bersaglieri di Trento. Era tempo! Altrimenti sarebbero venuti a prendermi essendoche’ avrei dovuto già consegnarmi il giorno 2073.

72 «In questo caso, il contesto non è percepito nella sua interezza e nella sua esaustività statica, ma attraverso i suoi margini. Descrivendo i casi limite, sono esattamente i margini del campo sociale all'interno dei quali questi casi sono possibili che sono illuminati». Carlo Levi, Les usages de la biographie, p. 1331. Senza che la citazione voglia significare una volontà da parte mia di operare un approccio schiettamente microstorico alla vicenda di Bernardi (operazione che risulterebbe senz’altro interessantissima ma che non posso portare avanti in questa sede), mi sembra che l’utilizzo di un caso eccentrico al fine di spiegare la «norma» sia autorizzato, oltre che dalle parole di Levi, da quelle di Carlo Ginzburg su Menocchio: «anche un caso limite (e Menocchio lo è certamente) può rivelarsi rappresentativo. Sia negativamente – perché aiuta a precisare che cosa si debba intendere, in una situazione data per ‘statisticamente più frequente». Sia positivamente – perché consente di circoscrivere le possibilità latenti di qualcosa (la cultura popolare) che ci è noto soltanto attraverso documenti frammentari e deformati». Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi, Einaudi, Torino 1999, p. XX. 73 Memoriale di Daniele Bernardi.

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La descrizione della partenza verso il campo di addestramento della milizia territoriale, avvenuta all’inizio del 1915, è chiaramente volta a dimostrare la brutalità degli aguzzini tedeschi e l’immenso prezzo che la mobilitazione esige dai trentini. Contrariamente ad altre narrazioni l’argomento è sostenuto tramite le esperienze vissute dal protagonista in prima persona, ma attraverso la sua osservazione di quanto i suoi commilitoni devono subire. È evidente che Bernardi è del tutto refrattario a concedere, all’interno della scrittura, una vittoria al «mondo della disciplina» sulla sua persona74. Con l’arrivo al campo di Linz comincia la guerra di Bernardi. L’obiettivo di questa guerra è esplicitato nel momento stesso in cui l’autore riceve per la prima volta il fucile. Il simbolo, così tante volte ignorato dalla scrittura, della vita militare è in questo modo deriso: Lo presi in mano, lo guardai e poi lo misi in un canto dicendogli: «Riposa in pace» senza nemmen prendermi la briga di attaccargli la cinghia. Dove quell’arma andò a finire non lo so, non mi curai più di lei75.

Gli espedienti con cui l’autore attua questo rifiuto della guerra sono estremamente vari, ma possono essere ricondotti alle diverse tipologie di cui si è parlato in questo capitolo. In primo luogo vi è la «diserzione interna», che Bernardi attua costantemente, sfruttando ogni minima falla del sistema di controllo dell’esercito: falsificare i certificati e le tessere, interpretare gli ordini in modo da garantirsi la massima libertà di movimento e di azione, sfruttare la mancanza di comunicazione tra i superiori, procurarsi i lavori più vantaggiosi e meno faticosi (prima interprete, poi impiegato di cancelleria) grazie all’utilizzo della sua conoscenza della lingua tedesca e delle sue competenze di contabile, sono tutte pratiche in cui Bernardi è un vero, compiaciuto maestro. Se Bernardi può far «riposare il fucile» e dimenticarsi addirittura dove lo ha lasciato è però grazie alla sua maestria nell’autolesionismo. Sollecitato da un superiore, nell’aprile 1915, a prendere parte alle esercitazioni di tiro, Bernardi mette in atto per la prima volta quell’espediente che, mantenuto e perfezionato nel corso del conflitto, gli 74 Ibidem: «zucchero ne avevo in quantità, a mangiare andavo all’albergo e mangiavo a mio piacimento, per dormire fummo aquartierati all’albergo «alla ferrovia dello stato» e vi andavo quando volevo, libertà non me ne mancava, insomma, del militare non avevo che la montura, del resto facevo la vita come in civile». 75 Ibidem.

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permetterà di vincere la propria battaglia contro l’apparato disciplinare, evitando di volta in volta l’assegnazione alle temute «compagnie di marcia» (Marschkompagnie). La sera andai a cercar delle foglie di «Ranunculus auris» le pestai e le poggiai sul piede, così la mattina dopo ebbe una scusa per andar alla visita, essendosi gonfiato il piede ed il medico lo clasificò come infiammazione della articolazione del piede e mi indicò due giorni di riposo76.

La conoscenza degli effetti della foglia di ranuncolo applicata sulla pelle appartiene alla conoscenza popolare contadina. Il medico Pietro Sembianti, in un intervento al «Congresso nazionale di arti e tradizioni popolari», tenutosi a Trento nel 193477, in cui si attesta tra l’altro la vitalità e la varietà della medicina popolare in territorio trentino78, cita la foglia di ranuncolo, «triturata e mescolata» come un noto vescicante79. È lecito immaginare che, già prima della guerra, gli impiastri di ranuncolo fossero utilizzati per raggirare le autorità militari. La conoscenza popolare viene tuttavia ampliata e adattata alle particolari esigenze della guerra e della competizione con la classe medica. In vista dell’inverno, stagione in cui sa che sarà difficile procurarsi foglie fresche, Daniele «inventa», attraverso molteplici tentativi80, una pomata ricavata da foglie di ranuncolo macerate nell’acquavite, facilmente trasportabile e occultabile nei vestiti, quella che lui e suoi amici chiamano con ironia «tintura di schrappnell», «perché a tutti davo a intendere che fui ferito da una scheggia di scrapnell». Questa trovata, successivamente ulteriormente migliorata da un’osservazione davvero ma76

Ibidem. Pietro Sembianti, Superstizione nella medicina popolare trentina: comunicazione tenuta al III Congresso nazionale di arti e tradizioni popolari, Edizioni dell’O.N.D., Roma 1934. 78 «Sono rimasti ancora in uso varii rimedi e procedure popolari più o meno accettati e riconosciuti o anche riprovati dalla terapeutica ufficiale. Questi medicamenti casalinghi appartengono in grande maggioranza alla flora alpina delle piante medicinali, di cui il paese abbonda, o a quella ortense e pratense». Ibidem, p. 3. 79 «I fiori, le foglie, gli steli del ranuncolo triturati e ben mescolati si usano come vescicante da applicare alla coscia o al calcagno della sciatica». Ibidem, p. 5. 80 Memoriale di Daniele Bernardi: «Raccolsi delle foglie di Ranuncolus, le disseccai, provai a far una pasta colla loro polvere prima coll’acqua, poi con l’acquavite, la posai sulla pelle ma in ambi i casi senza effetto, allora provai a metterne di fresca nell’acquavite per farne una tintura, con questa inzuppai un pezzo di ovatta, lo posai sul piede e fece l’effetto voluto, così nelle nostre passeggiate raccolsi poi anche l’erba per preparare la tintura di riserva». 77

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niacale degli effetti delle diverse varietà di ranuncolo81, permette a Bernardi di rispondere efficacemente alle strategie di ufficiali troppo esigenti o di medici sospettosi. Come in ogni guerra tuttavia il possesso delle armi non basta: occorre sapere quando e come usarle e, soprattutto, occorre conoscere l’avversario. Colto, sul finire del 1915, da un infermiere mentre stava bevendo del vino, vietato ai pazienti, Bernardi viene accusato di autolesionismo; per verificare l’autenticità del suo male e impedirgli di toccare la ferita gli vengono imposti un gesso e otto giorni di arresto. La reazione di Bernardi è immediata: egli prepara dell’ovatta imbevuta di tintura (che all’epoca i suoi amici chiamavano ironicamente «amarone»), ed escogita un modo per inserirla nel gesso: Fra la pelle e la fasciatura coll’aiuto di un pezzo di cartone vi spinsi una corda in maniera che colle due estremità rimanesa esternamente, quindi vi spinsi un pezzo di ovata inzuppata di tintura in maniera che tirando poi per le estremità della corda si potesse estrar tutto e lasciai fermo il tutto l’intera notte82.

L’impacco notturno ha sul piede di Bernardi l’effetto desiderato, tanto che i medici, constatato l’aggravarsi della malattia, sono costretti a levargli il gesso. Altri casi richiedono invece di lesinare l’uso della tintura, per non insospettire troppo i controllori, e di ricorrere a metodi alternativi. Spostato provvisoriamente in un ospedale di riserva, Bernardi riconosce subito che il dottore-antagonista è «una volpe vecchia che si accorgeva subbito se il male era artificiale o naturale» e si vede costretto a interrompere il trattamento e a sostituirlo con l’ingestione di tabacco per procurarsi la febbre. La testimonianza di Bernardi è il racconto di autolesionismo più compiuto ed esteso che io abbia avuto modo di trovare. Attraverso di esso ci è permesso uno sguardo davvero unico sulle variegate e creative strategie che vennero messe in atto nelle retrovie. Ma, soprattutto, tale narrazione ci mostra fugacemente uno spaccato incredibilmente vivido di una microsocietà, composta perlopiù da trentini, che si fonda su queste strategie, che le discute, le scambia, le celebra all’interno della propria sociabilità. 81 Ibidem: «Dunque il Ranunculus bulbonis osservai che agisce più lentamente, ma con maggior effetto del Ranunculus auris. Delle prove fatte con altre ranunculacee cito le seguenti: Ranunculus repens e Ranunculus tomentosus, nissun effetto; Helleborus niger i peduncoli dei fiori fortemente vescicante, Clomatis vitalla, nissun effetto». 82 Ibidem.

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Attorno alla tintura di ranuncolo e al suo «inventore» si forma infatti un circolo di amici e di aiuto reciproco che i soldati nominano sagacemente «La lega aviatoria», la lega cioè «di quelli che non volevano saperne di servir da militari come vuole il governo», così chiamata perché composta da chi voleva «volar via» dalla guerra. «Prendere l’aereo» o «fare una volata», nel gergo specifico della goliardica lega, significava fuggir di caserma, liberarsi dal servizio, procurarsi del male per andar all’ospedale, che nominavammo hangar in particolar modo, mentre per hangar in generale c’intendevammo un qualunque luogo dove di andava a salvarsi dalla pattuglia, quando si fuggiva di caserma83

Davvero straordinaria è la foto che Bernardi allega al proprio memoriale, a testimonianza del legame che unisce i tre membri fondatori della lega, l’autoproclamatosi Triumvirato, «i tre primi che si unirono in lega collo scopo d’imbrogliar i medici». Non vi si trova nulla della rigidità e della formalità determinata dai canoni di inquadratura e messa in posa del tempo e dalla percezione del ritratto come occasione «ufficiale». Se questo era generalmente pensato come «fissazione» di un determinato momento o di una determinata esperienza, fatta spesso ad uso dei familiari o dei posteri, in qualità di pallida sostituzione dell’assente84, la foto in questione ha una funzione esclusivamente autoreferenziale e autocelebrativa, a fissazione di una vittoria sulla guerra che appartiene soltanto ai tre personaggi ritratti. Bernardi, al centro dell’inquadratura, guarda con intensità e aria di sfida la camera, tenendo tra le gambe una lavagnetta sulla quale appare la scritta «W il Triumvirato» e le iniziali dei suoi tre componenti (M. B. M.: Moser, Bernardi, Menestrina). I soldati si tengono a braccetto, esponendo con orgoglio i loro trofei di guerra: nelle mani e sul cappello piante di ranuncolo, sulle gambe i bastoni da passeggio che sono il simbolo dell’autoprocurata ferita ai piedi.

83

Ibidem. Si veda la spiegazione che Angelo Paoli dà della fotografia che invia ai genitori nel luglio 1916: «Vi mando la mia fotografia che se non potete vedermi in persona mi vediate almeno sulla carta, resterete meraviliati al vedermi con questa lunga barba, mi pare di sentire Luigia e Beppina che dicono Mamma che vecchio è diventato Angelo ma in realtà sono ancora il giovine di prima sano svelto e snello come quando sono partito da voi. Ora che o fatto la fotografia la barba l’o taliata erano 23 mesi che non la taliava ora sono ancora quello di prima». 84

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Bernardi è definibile «eroe» in un duplice senso. In primo luogo in quanto riconosciuto modello di comportamento di un circolo di socialità: le sue imprese sono accolte con gioia ed ammirazione dai suoi compagni trentini, che gli chiedono consigli, dritte e aiuti per sottrarsi al giogo militare85. Quando uno zelante assistente medico sottrae al convalescente Bernardi la divisa per impedirgli di passeggiare liberamente e il trentino riesce con l’inganno a fuggire, la prima cosa che pensa è quella di raccontare la vicenda ai suoi compagni. Ma la sua reputazione lo precede: Alla sera trovai Roat a cui volevo raccontare l’accaduto, ma egli sapeva già tutto e mi disse: ‘Sei un disertore tu, non sono capaci a tenerti fermo nemmeno se ti legano con le catene’86

Parallelamente è evidente in Bernardi e nei suoi compari un’aria di superiorità e di scherno verso chi, tentando gli stessi espedienti, fallisce, non di rado mettendo in pericolo chi è più competente87, o verso chi non ha il fegato di tentare: come nel caso di Gaddo e di tanti altri vi è in Bernardi un rovesciamento del concetto di coraggio e la creazione della figura di veterano di guerra del tutto opposta rispetto alla concezione nazional-patriottica. In secondo luogo, e in maniera ancora più pregnante, Bernardi è un eroe in senso «epico» in quanto incarnazione letteraria di valori che trascendono le esperienze concretamente vissute, in quanto modello etico e morale. I rischi che egli corre sono enormi e non tutti sono volti a evitare di essere mandato in Galizia. La maggior parte di essi, anzi, dimostra una evidente sproporzione tra il pericolo corso (l’imprigionamento, la tortura e l’invio al fronte) e il guadagno che l’autore ne ha in termini materiali: il racconto della guerra goliardica di Bernardi, per quanto indubbiamente attento ad esplicitare le privazioni e la drammaticità della situazione, non riflette mai sui reali rischi delle bravate del protagonista, come se l’insuccesso fosse semplice85 Memoriale di Daniele Bernardi: «Veniva ogni tanto a farci visita certo Menestrina pure di Gardolo, cioè quello che il giorno avanti la partenza dalla nostra compagnia informai sul modo di acquistare il mio male. Egli non giunse che fino a Leopoli dove si fermò all’ospedale e venne per il primo di ritorno a Linz»; «Nella ‘Merondenzimmer’ insieme a Moser si trovava un triestino di nome Limbeck ed un giorno volle venire con me acciocché gli insegnassi il Ranunculus». 86 Ibidem. 87 Ibidem: «Gli chiese dove va ed egli rispose che va a passeggio. Gli domandò donde viene e quell’imbecille gli disse che è nella Marodenzimmer».

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mente impossibile. Bernardi combatte il mondo della disciplina colpo su colpo, in ogni sua manifestazione, anche nelle più triviali: per tornare un’ora dopo dalla passeggiata pomeridiana, per gustare un piatto cucinato alla maniera trentina, per ottenere una razione in più o semplicemente per deridere i propri superiori. L’intera narrazione passa da un inganno all’altro, da una vittoria all’altra, senza sosta: la guerra di Bernardi è passata tra l’ospedale e l’osteria, in un incalzante succedersi di «antagonisti» che non aspettano altro che essere messi in ridicolo dalla furbizia del protagonista. La gratuità materiale di alcuni atti di Bernardi e, per converso, il loro profondo valore simbolico è particolarmente evidente in un episodio, davvero romanzesco, che lo coinvolge nel novembre 1916. Mentre, grazie a un permesso fatto firmare con l’inganno, Bernardi sta pranzando in un albergo, viene interrotto dal suo amico Sartori, che lo invita a salire sull’automobile del Barone Reichen, direttore del campo profughi di Katzenau (Linz), di cui era attendente. I due salgono sull’automobile in compagnia di un altro servitore del Barone: Sartori e quest’ultimo siedono davanti, mentre Bernardi, sigaretta in bocca, si siede sul sedile posteriore, impersonando Reichen. La scena che segue potrebbe essere stata presa da un romanzo di Vamba: Per la città gli ufficiali che incontravammo, mi facevano il saluto, come se fossi stato un generale ed io lo contraccambiavo con un semplice crollo di testa. A queste scene, Sartori rideva come un pazzo. Andammo verso Nifahr, poi verso Abersteg quindi ritornammo ed andammo nel Petrinum ed entrammo nel cortile88.

Tornato all’ospedale, circondato da pazienti e inservienti in posa di saluto militare, Bernardi si spinge fino a entrarvi per cercare un amico di Gardolo e coinvolgerlo nello scherzo. Non trovandolo rimonta in macchina per farsi riportare alla stazione, dove era impiegato come contabile. Sartori sfreccia per le strade di Linz e, tra le risate dei tre, rischia di provocare un incidente tra un tram e un carro, «che non capisco ancora come Sartori abbia potuto passarvi alla velocità di una freccia. In stazione poi due ufficiali sono balzati da parte imprecando dietro noi per la velocità con cui si viaggiava». Arrivato sul posto di lavoro e rimproverato per il ritardo, Bernardi ha, come al solito, la scusa pronta: era con un tenente amico suo, appena arrivato a Linz. «Nessuno disse poi più una parola». 88

Ibidem.

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L’impresa eroica non deve solo passare di bocca in bocca – lo stesso Bernardi si sincera che questo accada – ma deve anche essere adeguatamente provata per i posteri. Gli otto quaderni sono costellati delle prove cartacee delle avventure di Bernardi, oltre che di cartoline a ricordo dei posti attraversati. I certificati modificati, le tessere del pane falsificate (con un opportuno confronto tra gli originali e i falsi, a provare la maestria dell’autore), le fotografie sono altrettante testimonianze di quanto l’autore è riuscito a compiere, prove che Bernardi, forse temendo di non essere creduto, ha conservato fin dal 1915. L’impresa dell’auto del Barone non fa eccezione, anche per essa vi è una adeguata, e di nuovo del tutto atipica, celebrazione fotografica. Nessun eroe può essere tale senza un antagonista. Gli avversari naturali sono, ovviamente, medici e ufficiali. Bernardi si premura di esplicitarlo in maniera chiara e romanzesca, quando introduce la figura del sergente Hasibeder, colui il quale, per tutto il secondo quaderno, cerca di incastrare il protagonista e di farlo mettere agli arresti. Hasibeder, che nel frattempo era diventato sergente, appenna mi vide mi disse: «Lei bisogna farla andar in campo, accorché le passi la voglia di andar per ospedali» [...] Ognuno poteva capire che ora due nemici accerrimi si trovavano di fronte89

Il «nemico» di Bernardi assume i molti volti di chiunque cerchi di imporgli atti che lui non voglia compiere e, per estensione, arriva ad essere l’intera razza «tedesca». Se la più evidente caratteristica positiva del protagonista è la sua instancabile furbizia, che gli permette di mettere in atto tutti i suoi sotterfugi, ciò che caratterizza l’antagonista è, invariabilmente, la sua cieca stupidità e ignoranza. Laddove il protagonista è dipinto come l’incarnazione del buonsenso, quel buon senso che non vuole la guerra e non desidera altro che farsi gli affari propri, l’antagonista è l’archetipo della irrazionalità e della crudeltà, colui il quale, per soddisfare la propria natura selvaggia e malvagia, deve imporsi sugli altri con la violenza90. Seguendo un filone tematico che ricorda da vicino quello della fiaba popolare, la lotta del protagonista non ha come posta in gioco soltanto la libertà di scelta del personaggio principale, ma anche la messa in ridicolo dell’avversario (si pensi all’episodio della mac89

Ibidem. Ibidem: «Del resto fra i tedeschi i savi sono come le mosche bianche. In complesso è un popolo di ignoranti, privi di ogni principio elementare di educazione ma in compenso superbi e prepotenti all’eccesso». 90

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china) e la esposizione della sua intrinseca irrazionalità91. La «razza tedesca» è oggetto nei quaderni di Bernardi di uno degli attacchi più virulenti che io abbia trovato nella scrittura popolare trentina. È la natura degli austriaci, la loro prona sottomissione – «un’eccessiva pazienza che rasenta l’imbecillità» – e insanabile irrazionalità92, che permette il proseguire della guerra e che agisce da contraltare alla orgogliosa riottosità del protagonista e della sua «razza»93. D’altra parte è proprio grazie ai «difetti etnici» dei tedeschi se il protagonista può esercitare la propria intelligenza e farsi beffe della guerra: Ad un tedesco sui può dar ad intendere quello che si vuole, egli crede tutto; basta finger di essere qualche po’ superiore ad essi di sapienza ed esser franchi di parola […] e guai a coloro che non sono in grado di fingere, a questi fanno sentire il peso di tutta la loro prepotenza. […] si inculca loro già da piccini un obbidienza ed una venerazione cieca verso i superiori per piccoli che siano. Così si spiega come uno franco, possa far dei tedeschi ciò che vuole […] è impossibile che possano discernere se si faccia sul serio o se se li prende in giro94

È nelle scene di vita quotidiana che Bernardi sfoga maggiormente il proprio disgusto. In luogo della rievocazione struggente della piccola patria che caratterizza tanti suoi commilitoni, il soldato di Trento utilizza la descrizione della patria altrui e dei costumi della popolazione austriaca per rimarcare la differenza che divide il «noi» dal «loro», un confine stabile e auto-evidente. Le manifestazioni della differenza

91 Cfr la memoria autobiografica di Giuseppe Bebber: «Com’era comico vedere l’oberleichner e compagnia brutta con un’asta dello spessore di 10 centimetri sempre a porta [?] a gridare ains ains ergo sacrament ains, ains e con tutto questo can, can di ains doversi trarre in disparte stanchi e sudati senza essere nemmeno stati capaci di farci fare un sbac.»; «il tenente montò su tutte le furie per la mortificazione avuta e ancor più per le sonore risate che facevano al suo indirizzo». 92 Memoriale di Daniele Bernardi: «In questo riguardo i tedeschi, che le hanno fatte tutte storte e faranno in eterno sempre il rovescio di ciò che dovrebbe essere, altrmienti perderebbero il loro carattere di tedeschi». 93 «Un giorno all'accampamento di Mauthausen un prelato tenne una predica dicendo, che non era la fame quello che si faceva sentire, perché quello che veniva distribuito fu calcolato conscienziosamente, e non soltanto era sufficiente per vivere, ma era anche di troppo e di avrebbe potuto economizzare ancor di più. Questa predica fu poi pubblicata su tutti i giornali ed i tedeschi che prima si lagnavano causa la fame non hanno più parlato, si accontentavano di stringer sempre più la cintura, convinti però che lo stimolo che sentivano derivava dalle arie forti del paese e non di fame». 94 Ibidem.

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si trovano in caratteristiche apparentemente triviali, dalla forma delle fontane, dritta invece che ricurva («le fanno tutte storte»), ai nomi di alcuni paesi, dove la parte bassa è chiamata alta mentre quella alta bassa, dalle usanze della caccia («i tedeschi sono sempre stati una razza di cretini») alla capigliatura e ai costumi delle donne: La differenza fra le due strade è che nella prima le case sono tutto abitazioni civili e nella seconda sono tutto postriboli, ciò che vuol dire in altre parole che la prima è abitata da puttane private come tutto il resto della città e la seconda è abitata da puttane pubbliche95.

Il cibo è infine, anche in questo rispetto, essenziale . Nel palato dei «tedeschi» Bernardi vede un’ulteriore, definitiva conferma della superiorità dei trentini96 e dedica pagine e pagine alla dimostrazione come gli austriaci non sappiano cucinare, non abbiano fantasia nel farlo e si uniformino ciecamente ad usanze culinarie arcaiche e irrazionali97. Sia che si guardi alla lotta personale di Bernardi, sia che si guardi alla contrapposizione tra i soggetti collettivi delle «razze» è sulle dicotomie fondamentali obbedienza/volontà individuale, umiltà/ tracotanza e ottusità/scaltrezza che si gioca la battaglia e si demarca la differenza tra gli avversari. Nel costruire dei modelli idealtipici dell’integralmente diverso e dell’integralmente negativo, e nel farli agire all’interno di una narrazione celebrativa, Bernardi indica le caratteristiche fondamentali dell’integralmente positivo, vale a dire i pilastri dell’etica della contro-cultura di guerra trentina98.

95

Ibidem. Ibidem: «I gnocchi, i cosidetti canederli che sono il pasto nazionale dei tedeschi, se si vuole gustarli, bisogna farli preparare da italiani perché i tedeschi fanno una pasta di farina assai dura, fanno una palla nel mezzo della quale mettono un pizzico di carne pestata, una prugna, una ciglieggia od un pezzetto di lardo ecc e quindi bolliti». 97 Ibidem: «Il pane viene pure lessato. Nel brodo, mettono del riso, orzo o pasta ma in una quantità, che per ogni cucchiaio di brodo vi sia un grano o una pastina, se ve ne fosse di più, chi la mangia la lascia indietro. Per preparar la pasta asciutta, essa viene bollita e poi condita con zucchero e cannella. […] la carne viene lessata e quindi preparata con una mucillagine color cenerognolo che sembra un ammasso di catarri bronchiali». La dissertazione dura per pagine e pagine e viene ripresa più volta nel corso degli otto quaderni. 98 Bernardi appare a uno sguardo retrospettivo ed esterno alla sua narrazione come un eroe tragico nel momento in cui si apprende, come ho fatto grazie a Quinto Antonelli, che, poco dopo aver consegnato le proprie memorie al Museo del Risorgimento e della Lotta per la libertà di Trento, morì per un infezione alle piaghe che si era procurato alla gamba. Lo stesso espediente che lo aveva salvato e che costituì in guerra la sua arma più efficace fu in tempo di pace la sua condanna. 96

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Secondo l’Encyclopedie de la Grande Guerre1, curata da Stéphane Audoin-Rouzeau e Jean-Jacques Becker, la percentuale dei contadini nell’esercito francese ammonta a circa 43% dei mobilitati, su una popolazione che all’inizio del secolo proveniva per il 56% da ambiente rurale. Per l’esercito italiano la cifra della popolazione coscritta di provenienza rurale si aggira attorno al 46%, mentre per i coscritti trentini, come detto, si tratta della maggioranza assoluta2. La grande maggioranza dei contadini fu arruolata come fante non graduato, nel corpo cioè che subì maggiori perdite durante il conflitto e che ebbe esperienza del volto più crudo della guerra moderna: la cifra, non certa ma significativa, è di 538000 uccisi sul solo versante francese del fronte occidentale. La cultura di guerra, anche mantenendo una concezione di ampia scala, nasce in buona parte dalla cultura rurale e non può essere raccontata che in rapporto ad essa. Una volta superate, sullo slancio metodologico di Péronne, le tradizionali barriere nazionali, pare che nuove barriere, meno evidenti ma non meno pregnanti, quali quelle della provenienza sociale e lavorativa, segmentino la «cultura di guerra europea». Se la centralità della visione rurale è provata dai numeri, la sua diversità rispetto all’esperienza borghese è stata (timidamente) ricono-

1 Pierre Barral, Les campagnes, in Stéphane Audoin-Rouzeau, Jean Jacques Becker (a cura di), L’Encyclopédie de la Grande Guerre 1914-1918 Historie et culture, Bayard, Paris 2004. Nella traduzione italiana, ampliata e curata da Antonio Gibelli (La Prima guerra mondiale, Einaudi, Torino 2007) il saggio di Barral non appare. 2 Il censimento austriaco del 1910 parla di un 62,78 % della popolazione occupata in agricoltura, allevamento e selvicoltura, per un totale di 242.599 persone. Nello stesso anno si contano anche 64.616 persone occupate in industria e artigianato, che possono tuttavia essere nella maggior parte considerate appartenenti a un ambiente rurale. Andrea Leonardi, Depressione e risorgimento, op. cit.; Giuseppe Ruatti, L’economia agraria nel Trentino, Saggio economico-sociale, Venezia 1924.

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sciuta dagli stessi studiosi che gravitano intorno all’Historial3. Eppure l’esperienza contadina è ai margini dell’attenzione storiografica sulla cultura di guerra, soprattutto – non a caso – in quei testi che fanno dell’odio per il nemico il principale motore dell’azione individuale in guerra. Una «cultura di guerra» che voglia avere scala europea non può ovviamente sfuggire a legittime, per quanto molto ampie, generalizzazioni e alla delineazione di tendenze maggioritarie ed esemplificazioni idealtipiche. Inevitabile, per quanto spesso paradossalmente evitato, in particolar modo dalla storiografia francese4, è dunque il confronto con la provenienza sociale della maggior parte dei soldati: quanto più ampia è la generalizzazione («cultura di guerra europea»), tanto più ampia sarà la base su cui essa dovrà poggiarsi. Può darsi che la «costante» contadina possa essere una base più solida per le generalizzazioni sulla «cultura di guerra» europea di quanto non lo sia la comune esperienza del conflitto. Il gruppo trentino di cui mi sono occupato, se costituisce un caso molto particolare dal punto di vista della collocazione nazionale ed etnica nel proprio stesso esercito – ma non del tutto unico, tenendo conto delle truppe alloglotte di altre regioni di frontiera, si pensi alla Galizia o alla Alsazia-Lorena5 – fa parte della maggioranza relativa dei combattenti per quanto riguarda la provenienza sociale e lavorativa. Certo è che alcune delle considerazioni sviluppate qui, come penso sia evidente dal confronto con la storiografia nazionale, presentano significative analogie con il caso italiano, se studiato dalla prospettiva

3 Alan Kramer, Dynamic of Destruction. Culture and Mass Killing in the First World War, Oxford University Press, Oxford 2007, p. 240. In un articolo apparso nel gennaio 1988 sulla rivista «L’Histoire», 107, (1988), in cui Audoin-Rouzeau espone posizioni in parte differenti da quelle sostenute dieci anni dopo, si legge che «i soldati contadini – i più numerosi – non possono essere assimilati ai soldati cittadini, non più di quanto i soldati delle classi medie possano esserlo a quelli delle classi popolari. I loro mezzi finanziari differivano, le loro preoccupazioni divergevano e le mentalità restarono distinte fino alla fine della guerra». Riedizione: Stéphane Audoin-Rouzeau, L’enfer, c’est la boue!, in AA.VV. 14 – 18, Mourir pour la patrie, Seuil, Paris 1992, pp. 137-151. 4 Sull’«amnesia» italiana, che l’autore individua nella lingua e nella letteratura e che collega direttamente alla esclusione dei contadini dalla proprietà, si veda Corrado Barberis, I caratteri originari del mondo rurale italiano, in Pasquale Villani (a cura di), Trasformazioni delle società rurali nei paesi dell’Europa occidentale e mediterranea (secolo XIX-XX), Guida, Napoli 1986, pp. 269-288. 5 Paul Smith, The Kiss of France: The Republic and the Alsatians during World War I, in Panikos Panayi, Minorities in Wartime, Berg, Oxford 1993, pp. 27-49.

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rurale e culturale. Non si tratta tuttavia qui di provare la rappresentatività del contadino trentino come simbolo del «tipico» fante – contadino (per quanto sia stato fatto più volte notare che le culture rurali, in virtù del loro rapporto con l’ambiente e con lo sfruttamento delle risorse naturali, mostrano significativi punti in comune anche quanto geograficamente molto distanti)6 e nemmeno di estendere le considerazioni qui sviluppate ad altri casi nazionali, ma di sostenere un concetto di cultura di guerra in quanto mosaico di realtà regionali, in maggioranza rurali, unite, messe in contatto, forse persino uniformate le une alle altre – ma le conclusioni di questo saggio sembrano indicare l’opposto – dall’esperienza comune del conflitto. Se con le mie considerazioni di «scala locale» sarò riuscito ad abbozzare una singola tessera di questo mosaico ancora largamente inesplorato, un minuscolo termine di paragone, alcune ambizioni iniziali, modeste ma non locali, saranno state soddisfatte. La ricaduta del caso trentino sulla categoria di cultura di guerra – o sulla possibilità che essa abbia tante facce da non meritare un nome comune – non è verificabile che attraverso il confronto con altri casi europei di scala analoga. Fino a pochi anni fa gli studi che adottavano una prospettiva regionale e locale come banco di prova per le teorie sviluppate a livello nazionale ed europeo erano pochi, e tra di essi spiccava il volume di Jules Maurin sui soldati della Languedoc7. In anni più recenti, probabilmente grazie allo stimolo dato dalle audaci generalizzazioni del workshop di Péronne, l’interesse sembra essere più vivo8. Particolarmente interessanti in rapporto al mio studio sono i saggi di Helen McCartney sui soldati di Liverpool9 (in cui l’autrice argomenta l’importanza del patriottismo locale, del mantenimento dell’identità regionale e dei legami d’ante-

6 P.P. Viazzo, Comunità alpine, op. cit., p. 38; P. Barral, Les sociétés rurales, op. cit., pp. 5-6: «La civiltà contadina presenta dei tratti comuni in tutta l’Europa del 1914. Nel cambiamento come nella continuità gli uomini della terra hanno vissuto un’esperienza largamente comune, sotto la diversità esteriore delle lingue e dei costumi». 7 Jules Maurin, Armée - Guerre - Société, op. cit. 8 Pierre Purseigle, Beyond and Below the Nations: Toward a Comparative History of Local communities at War, in Jenny Macleod, Pierre Purseigle (a cura di), Uncovered Fields. Perspectives in First World War Studies, Brill, Leiden-Boston 2004, pp. 95-123; Remy Cazals (a cura di), Regards du midi sur la Grande Guerre, Privat, Tolouse 2008; AA.VV., Mémoire et Trauma de la Grande Guerre: Bretagne, Catalogne, Corse, Euskadi, Occitanie, Rennes, TIR, 2010; Jean-Yves La Naour, Désunion nationale. La légende noire des soldats du Midi, Vendémiaire, Paris 2011. 9 Helen B. McCartney, Citizen Soldiers. The Liverpool Territorials in the First World War, Cambridge University Press, Cambridge 2005, in particolare pp. 57-88.

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guerra per la sopravvivenza psicologica al conflitto10) e di Benjamin Ziemann sull’esperienze di guerra nella Germania rurale11. Laddove molti storici hanno visto – a ragione – nella prima guerra mondiale uno spartiacque e un evento fondante, con questo mio saggio invito a guardare alla continuità12. È la stessa scelta dell’approccio culturale che spinge in questa direzione; se è indubbio che la guerra fu un elemento nuovo e omogeneizzante, esso non accadde e comunità «neutre», a tabulae rasae pronte per essere incise dall’evento. Ciò che ho voluto dimostrare è che vi fu uno sforzo per contrastare l’evento, che la posta in gioco di questo scontro fu la percezione del sé e della propria comunità e che lo strumento con cui questa guerra di retrovia fu condotta fu quello della scrittura personale. La cultura di pace trentina non confluì placidamente nella cultura di guerra europea, ma non rimase certo immutata: essa diventò, almeno in parte e temporaneamente, una contro-cultura di guerra. Continuità, dunque, poiché il mondo di pace fornì gli strumenti per combattere la guerra cognitiva e l’obiettivo a cui tendere, ma non immutabilità, poiché non vi è nessuna ragione per credere che lo sforzo abbia avuto pieno successo. Questo saggio ha voluto rendere conto di questo sforzo, del suo significato culturale e dei mezzi con cui fu condotto. Esso si occupa, prima ancora che dell’esperienza trentina della guerra, del rapporto tra scrittura, cultura e formazione collettiva dell’io individuale. Grazie al lavoro di ricostruzione operato dagli studiosi dell’Archivio della 10 Il confronto è interessante tanto per le somiglianze quanto per le divergenze. Le memorie dei soldati territoriali di Liverpool – di classe borghese e ben più acculturati dei fanti trentini – si mostrano molto più disponibili a trattare della violenza di trincea. I loro autori conferirono una dimensione morale al conflitto – sia sul piano personale che su quello della rigenerazione della società – che è del tutto sconosciuta al coscritto contadino. Ivi pp. 199-241. McCartney fa uso di due diversi tipi di locale: quello della provenienza geografica e quello dell’unità di combattimento. Anche questa prospettiva «localizzata» – inesistente per il caso trentino –, che rende conto dello spirito di corpo come chiave di lettura della guerra, pone serie questioni alla categoria di cultura di guerra cos“ come è stata formulata da Péronne. Sulla tematica del mantenimento dei legami e delle gerarchie sociali come chiave di sopravvivenza psicologica alla guerra: Michael Roper, The secret battle. Emotional survival in the Great War, Manchester University Press, Manchester-New York 2009, p. 125. 11 Benjamin Ziemann, War experiences in rural Germany, 1914-1923, Berg, Oxford 2007. 12 Jay Winter, Catastrophe and Culture: Recent Trends in the Historiography of the First World War in «The Journal of Modern History» 64 (1992), n. 3, pp. 525-532.

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Scrittura popolare ho potuto sviluppare quelle «conoscenze estese su questioni infinitamente piccole» – il Trentino tra la pace e la guerra – che Geertz vede come caratteristica prima di una ricostruzione di cultura, e metterle in una relazione, credo originale, con gli scritti di guerra. Ho cercato, soprattutto, di proporre un modo inusuale di usare la scrittura popolare in contesto storiografico. La storiografia della prima guerra mondiale non è certo nuova all’uso della scrittura personale: da Norton Cru in poi essa è stata un bacino importante di informazioni e prospettive sull’esperienza della guerra. Il metodo che ha caratterizzato buona parte di questa storiografia nel suo rapporto con le fonti è stato quello di cercare – e riportare – in primo luogo quei passaggi che sembravano illuminare la questione di volta in volta al centro dell’attenzione storiografica. Non è un caso che la scrittura contadina, spesso ripetitiva, quasi mai introspettiva, sia stata spesso ignorata da questo metodo «antologico». Gli elenchi dei libri di conto, le lettere standardizzate della classe contadina, le entrate sempre uguali dei diari che precedono e seguono quell’unico passaggio illuminante sono state spesso trattate come un rumore di fondo, come il background da cui far risaltare il vero messaggio della scrittura popolare – vale a dire, il più delle volte quello più esplicito e vicino alle “nostre” aspettative. La mia attenzione si è rivolta a questo background, a ciò che, attraverso una comparazione il più possibile esaustiva, appare non come la singolarità ma come la «norma» della scrittura popolare del gruppo trentino, anche quando questa appare a prima vista muta, insignificante, banale. Spero che questo abbia contribuito a far emergere il valore d’uso della scrittura popolare, un valore cognitivo probabilmente ignoto agli stessi scrittori. Spero di aver provato, perlomeno provvisoriamente, che se l’analisi delle forme della narrazione è attività legittima e proficua in campo letterario, filosofico, semiotico, non vi è ragione per cui non debba esserlo anche nell’analisi storicoculturale di testi di origine popolare.

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Le fonti

Di seguito l’elenco degli autori analizzati, con il paese di provenienza e la professione esercitata in tempo di pace (quando conosciuti). La sigla MST indica una fonte conservata nell’Archivio della Scrittura del Museo del Trentino (TN). La sigla SDG, accompagnata da un numero, si riferisce a fonti esse stesse conservate nel detto archivio, ma pubblicate nella collana “Scritture di guerra” del Museo. Le fonti pubblicate appaiono in tabella in forma abbreviata: l’elenco completo si trova al termine di essa.

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Fonti edite

Al fronte delle Giudicarie, 1915-1916: Memoria di guerra dello storese Scaglia Battista “Moro”, “PassatoPresente”, 14, (1987) pp. 84-131. Appunti di Guerra di Luigi Bertamini, “Il Sommolago”, 1, (1999), pp. 99-111. RIGHI, I. - LEONARDI, G.T. Austriaci in trincea nella Grande Guerra, Vicenza, Rossato, 2006. BELTRAMI, G. - POLETTI, G. - ZONTINI, G. (A CURA DI), Baionet Can, Storo, Il Chiese, 1986. RAUZI, P.G. (A CURA DI), Da Bolentina-Montes alla Galizia alla Siberia. Diario/racconto di Agostino Dallagiovanna, Trento, Effe e Erre, 1997. DE MANINCOR, G. Dalla Galizia al Piave, Trento, Seiser, 1926. Eutimio Gutterer nella Grande Guerra, “Archivio Trentino di Storia Contemporanea”, 2, (1991), pp. 21-61. PASQUALI, C. (A CURA DI), Galizia Carpazi Russia: 1914, esperienze parallele, Gries, Centro culturale P. B. Rollin, 1994. Giovanni Romagnoli, soldato del Kaiser, praticamente poeta, “PassatoPresente”, 4, pp. 149-176. GIOPPI, F. - BRANDALISE C. (A CURA DI), “Gospodi Pamilo”. Aiutaci o Signore. Diario vivente di Pietro Carraro “Ava”, Tiroler Kaiserjager in Galizia Russia e Ucraina, Castello Tesino (TN), Sistema Bibliotecario Intercomunale Lagorai, 2004. Il diario di Giuseppe Passerini, “Materiali di lavoro”, 1-2 (1986), pp. 134-175. Il diario di Luigi Daldosso, “Materiali di lavoro”, 3-4 (1986), pp. 24-88. Il diario di Massimiliano Sega, “Materiali di lavoro”, 1-2 (1986), pp. 102-117. PALLA, L. Il Trentino Orientale e la Grande Guerra, Combattenti, internati, profughi di Valsugana, Primiero e Tesino (1914-1920), Trento, Museo del Risorgimento e della lotta per la libertà, 1994. BARBERIS, C. - DELL’ANGELO, G.G. (A CURA DI), Italia rurale, Bari-Roma, Laterza, 1988. Le mie avventure nella guerra austro-russa, “Il Sommolago”, 1, (1999), pp. 9-80. Le mie memorie, “Il Sommolago”, n. 1, 1999.

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“Cose de laltro mondo”

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Fonti edite

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FAIT, G. (A CURA DI), Rodolfo Bolner, Giovanni Pederzolli, Francesco Laich (SDG 10), Trento, Archivio della scrittura popolare, 2002. MIORELLI, A. (A CURA DI), Senzza una metta, senzza una destinazione. Diari, ricordi, testimonianze di profughi trentini in esilio, 1914-1919, Mori, La Grafica, 1989. ANTONELLI, Q., Storie da quattro soldi, Trento, Publiprint Editrice, 1988. PIZZINI, P. (a cura di), Tra profughi e soldati durante la prima guerra mondiale, Trento, Museo Trentino del Risorgimento e della lotta per la libertà, 1980. Un diario di un irredento trentino nell’esercito austriaco e prigioniero in Russia, Bollettino del Museo del Risorgimento e della lotta per la libertà, 4 (1960), 1/2 (1961), 3 (1961), 4 (1961). FAIT, G. (A CURA DI), Una generazione di confine. Cultura nazionale e Grande Guerra negli scritti di un barbiere rivano, Trento, La Grafica, 1991. GIACOMEL, P. (A CURA DI), Un kaiserjager di Ampezzo, Cortina, 1991. GRUPPO CULTURALE CITTÀ DELL’UOMO (A CURA DI), Vita della guerra europea 1914: memorie di Mora Fedele di Bezzecca, prigioniero in Siberia, Trento, La Reclame, 1990. FANTELLI, U. (A CURA DI), Voci nella tormenta. Immagini e diari inediti dai fronti di guerra e dai campi di prigionia, Malé, Centro studi della Val di Sole, 1994.

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Indice

Introduzione

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Capitolo I Scrittura di guerra e percezione del tempo

21

Capitolo II Il tempo della guerra

83

Capitolo III Pensare la patria

109

Capitolo IV Vivere la guerra

163

Capitolo V Pensare la guerra

209

Capitolo VI Combattere la guerra

249

Conclusioni

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Le Fonti

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Fonti edite

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Edizioni ETS Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa [email protected] - www.edizioniets.com

Finito di stampare nel mese di marzo 2013