Corsi di filosofia. Liceo 'Blaise Pascal' di Clermont-Ferrand

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Henri Bergson c=-

Corsi di filosofia Liceo «Blaise Pascal" di Clermont-Ferrancl Traduzione italiana e inb·odu2'.ione di Salvatore Grandone ; ; t

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Introduzione di Salvatore Grandone

Bergson docente e filosofo Negli ultimi trent'anni la ripresa degli studi bergsoniani ha portato gli studiosi a focali7.z.are parte del loro interesse sui corsi liceali e universitari. L'operazione è avviata da Henri Hude che pubblica quattro importanti volumi (anni Novanta). Il materiale edito copre un ampio periodo: dagli anni di insegnamento al liceo di Clennont-Ferrand, passando per quelli al Liceo "Henri IV", fìno ad arrivare al Collège de France. Tra il 2003 e il 2006 Renzo Ragghianti cura il corpus di lezioni degli anni di Clennont-Ferrand, e, pochi anni dopo (2008-2010), sulla scorta di nuovi manoscritti e dattiloscritti, Sylvain Matton e Alain Panero ripropongo alcuni dei corsi di ClennontF errand e del Liceo "Henri IV" già editi daHude e Ragghianti. Nell'ultimo decennio escono quattro importanti corsi tenuti al Collège de France: Histoire de l'idée de temps, L'évolution du problètne de la liberté, Histoire des théories de la mémoire, L'ldee de temps. Si assiste quindi a una pubblicazione sistematica di una produzione a latere, spesso considerata marginale o addirittura ignorata dagli studiosi. Date le dimensioni non trascurabili dell'iniziativa, è inevitabile chiedersi sui versanti fìlologico e fìlosofìco il contributo che ne

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deriva rispetto alla comprensione della filosofia bergsoniana. Anche se non è questa la sede per rispondere in modo esaustivo a tale quesito, è opportuno individuare alcuni fili conduttori che saranno utili per la presentazione dei corsi qui proposti. Nel suo testamento (8 febbraio 1937) Bergson scrive: Dichiaro di avere pubblicato tutto quello che volevo portare a conoscen7.a del pubblico. Vieto quindi in modo formale la pubblicazione totale o parziale di qualsinsi manoscritto che si potrebbe trovare nei miei quaderni o altrove. Interdico altresl In pubblicazione di qualsiasi corso, lezione, conferen7.a di cui abbiano preso nota me o terzi. Vieto anche la pubblicazione delle mie lettere. [... ] Prego mia moglie e mia 6glla di perseguire legalmente chiunque non rispetti i divieti che ho appena formulato.'

Le ragioni del divieto di Bergson non sono legate solo a questioni di privacy o al fatto che il filosofo non abbia potuto verificare il contenuto dei manoscritti dei suoi corsi. In un'intervista rilasciata a Jacques Chevalier Bergson adduce anche un motivo di carattere filosofico: Le mie opere hanno sempre un centro da cui nulla si può agevolmente separare. Ho scritto molte cose sul problema morale e religioso: ma, 6nché non ho trovato il centro prospettico a cui tutto si deve legare, i frammenti non sono utiliz7.abili, perché sono sprovvisti di ciò che deve conferire un slgnl6cato. Per questo motivo ho espresso nel mio testamento la volontà di non pubblicare nessun frammento incompiuto, neanche le mie lettere: ho tolto il divieto solo per un piccolo numero di testi che possono, a rigore, essere pubblicati cosl come sono.2

I corsi e le le ttere costituiscono rispetto alle opere "compiuten un insieme di frammenti non utilizzabili. Privi ancora di un 1. Testo citato in R.-M . Mossé-Bastide, Bergson écfucateur, Puf, Paris 19.55, p. 352.

2.

J. Chevalier, Entmiens aoec Bergson, Plon, Paris 1959, p. 120.

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centro si presentano come esplorazioni incerte, in cui il lìlosofo tasta e sonda l'orizzonte della propria ricerca sen7.aconoscerne la meta. Nei corsi troviamo inoltre riflessioni che hanno spesso un valore prettamente didattico e pertanto sembrano molto lontane dall'autentica speculazione lìlosofìca. Secondo la testimonian7.a di Jean Guitton, Bergson avrebbe affermato che unici oggetti di insegnamento sono le materie su cui non si opera un lavoro personale di ricerca e di riflessione e in cui si trasmettono le verità tradizionali, quelle su cui, come dice Cartesio, si accorda la maggioran7.a dei sapienti.3

Nei corsi liceali come al Collège de France Bergson adotta la massima di non parlare delle proprie ricerche lìlosofiche, preoccupandosi soprattutto di fornire ai propri alunni un quadro esauriente delle grandi questioni del pensiero occidentale. Per Bergson l'insegnamento non è certo un laboratorio in cui mettere alla prova o sperimentare le tesi maggiori della sua filosofia. D'altra parte, considerare i corsi come una produzione residuale, che poco o nulla cambia del quadro della filosofia bergsoniana delineato nelle opere principali, sarebbe un'interpretazione riduttiva. Nelle sue lezioni Bergson non affronta i nodi centrali del suo pensiero, eppure non si limita a una mera trasmissione di contenuti o di nozioni manualistiche. Il suo insegnamento ha piuttosto un valore maieutico: infatti Bergson vuole portare gradualmente i suoi allievi a "fare" come lui, a intraprendere un cammino di ricerca autonomo in cui non si esclude perfino la presa di distan7.a dalla filosofia bergsoniana.

È significativo leggere in proposito una pagina di Étienne Gilson:

3.

J. Guitton, UJ oocation de Bergson, Gallimard, Paris 1960, p. 67.

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Coloro che pronunciano il termine "bergsoniani" lo intendono troppo spesso in un modo che non ha rapporto con la realtà, come se l'uditore o il lettore di Bergson avesse cercato nel suo insegnamento un insieme di tesi, di principi o di conclusioni da accettare cosl come sono. Senza dubbio, ci furono alcuni, imprudenti, che presero da lui se non la lingua, di cui solo Bergson aveva il segreto, almeno alcune formule. Altri, più ambiziosi, gli confezionarono una sorta di sistema che uti)i:7.7,.arono in diversi modi [ ... ). Ma quelli che si riunivano, a tre o quattro, per confrontarsi realmente con il suo pensiero appartenevano a una specie ben diversa e il loro stato d'animo era difficile da descrivere senza falsificarne alcuni tratti. Si esagererebbe appena nel dire che il contenuto della lìloso6a bergsoniana non li interessava molto, ma anche che li lasciava in un certo senso indifferenti. A dire il vero, questi giovani non erano capaci di afferrarlo e ciò per un motivo su cui è bene insistere. I veri filosofi sono rari, ma, in un senso, il loro pubblico lo è ancor di più, perché leggiamo i loro libri cercando di comprenderne le conclusioni senza aver voluto, saputo o anche potuto ripetere per nostro conto il medesimo percorso intellettuale da cui sono derivate queste conclusioni.•

Gilson osserva come l'essere "bergsoniani" non ha a che vedere con l'adesione a una dottrina o con la riduzione del pensiero di Bergson a un sistema di proposizioni, che si legherebbero in modo stringente, né tantomeno con la ripetizione meccanica e acritica di alcune frasi "a effetto" estrapolate dalle sue opere. Il 'vero" bergsoniano prova al contrario una certa indifferen7.a nei confronti della fìlosofìa bergsoniana, poiché si pone come obiettivo di fare propria l'esperien7.a del fìlosofare. Si tratta allora di ripetere in modo autonomo i percorsi di Ber-gson per trarre conclusioni che siano il frutto di un'inti4. É. Gilson, Souoenlr de Bergson, in «Revue de Métaphysique et de Morale•, LXIV, n. 2, 1959, pp. 129-136: p. 130; estratto citato in H. Bergson, Écritsphilosophlques, dir. F. Worms, Puf, Paris 2011, p. 950.

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ma riflessione filosofica Nei corsi Bergson vuole introdurre a un "fare", a una pratica della filosofia e del filosofare. Tale attitudine, quasi socratica, spiega la ragione dello scarto tra il Bergson filosofo e il Bergson docente. La frattura non è dovuta alla presunta distan7.a tra l'insegnamento e la ricerca, ma alla necessità di progettare l'attività didattica come una preparazione ali'attività filosofica Bergson non manifestava interesse per una riduttiva trasmissione di contenuti; aspirava piuttosto a stimolare un saper fare che fosse al tempo stesso un saper essere; voleva per così dire che i suoi allievi avessero una "testa ben fatta» e non "una testa ben piena"5 • L'aula di un liceo o del Collège de France è allora un luogo di formazione e non un banco di prova di concetti preconfezionati. Del resto, se apprendere a filosofare è l'obiettivo principale delle lezioni di Bergson, l'eco delle opere maggiori non è assente. Nei corsi di Clermont-Ferrand, che precedono la discussione della tesi di dottorato, sono ravvisabili alcuni dei temi del Saggio sui dati immediati della (;(}Scienza {1889); allo stesso modo, nei corsi al Liceo "Henri IV", tenuti nel periodo immediatamente successivo alla pubblicazione del Saggio, Bergson focaliz7.a spesso la sua attenzione su problemi che saranno centrali in Materia e memoria (1896). Ancora più immediato - basti rileggere i titoli appena citati - è il legame tra i corsi al Collège de France è la sua riflessione filosofica. Anche gli allievi avevano la percezione che il pensiero in fieri di Bergson fosse in parte testato in classe. Riportiamo, a titolo di esempio, la bella testimonianza di un ex-alunno, Louis Aubert: Che ricordo vivido ci ha lasciato il suo insegnamento. Bergson non insegnava mai i suoi pensieri più originali, se non dopo averli scritti e, per cosl dire, approvati per la pubblicazione. Ma le sue lezioni conservavano ancora la vibrazione e lo sian-

5. Cfr. E. Morin,La te.sta benfatta (1999),tr. it. di S. Lazzari, Cortina, Milano 2000.

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clo delle scoperte appena fatte. Anche noi, come I discepoli di Socrate, abbiamo assistito dall'interno alla nascita di una filosofia nuova ... Il sistema Glosofico, oggi così imponente nella sua armoniosa architettura, l'abbiamo visto nascere; è stato testato su di noi; solo per noi ha quell'aria familiare che non può avere invece per il più devoto dei discepoli che comincia solo ora a studiarlo.0

Bergson tende a non parlare ai suoi alunni delle sue scoperte filosofiche; non discute con loro delle sue intuizioni più originali. Oltre alla necessità di non uscire dai binari imposti dai programmi ministeriali, tale atteggiamento prudente è dettato dall'esigenza di non comunicare il proprio pensiero fino a quando non si è sicuri della sua portata. Tuttavia, osserva Louis Aubert, dietro le articolate lezioni di Bergson si intravede la nascita di un pensiero filosofico. Lo spazio dell'auJa è anche una fucina in cui Bergson testa delle riflessioni e anali= problemi che in quel momento sono per lui rilevanti. Il fatto di non esprimere fino in fondo le proprie idee non significa che la filosofia bergsoniana sia assente dalle lezioni. Essa lavora dietro le quinte, come il regista che controlla e prova tutte le scene della sua pièce. Dalla lettura dei corsi e dalle testimonianze degli allievi emerge inoltre come durante l'attività di insegnamento Bergson privilegi la riflessione analitica, mentre nella stesura delle opere maggiori l'analisi ha il suo centro in un'intuizione che anima e dà vita al testo filosofico. È noto che per Bergson analisi e intuizione sono due modi fondamentali di conoscere un oggetto: A dispetto delle loro apparenti divergen7.e - osserva Bergson nell'Introduzione alla metafisica (1903)-, i filosofi concordano nel distinguere due modi molto diversi di conoscere una

6 .. La testimonianza è riportata da R.-M. Mossé-Bastide, Bergson éducateur, cit., p. 38 (corsivo mio).

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cosa. Il primo implica che si giri intorno all'oggetto; il secondo che si entri in esso. Il primo dipende dal punto di vista che si adotta e dai simboli attraverso cui ci esprime. Il secondo non si riferisce a nessun punto di vista e non si appoggia a nessun simbolo. Del primo tipo di conoscen7.a si dirà che si fenna al relativo; della seconda, Il dove è possibile, che raggiunge l'assoluto.7

Da una parte si può girare "intorno" alla cosa, scomporla e semplificarla attraverso un insieme di simboli. Dall'altra la si può cogliere dall'interno in modo immediato, uscendo dalla logica del punto di vista, dal prospettivismo tipico dell'intelligen:,.a che ritaglia delle forme sulla complessa realtà del mondo. Rispetto alla diversa strutturazione dei corsi e delle opere maggiori, non è difficile dimostrare che nei primi Bergson segue soprattutto un approccio analitico. Il Bergsondocente comincia da un problema-concetto; ne fornisce una prima definizione; pone una serie di domande e/o di distinzioni che chiariscono e anticipano la direzione dell'indagine; passa all'analisi dei diversi punti- spesso pervenendo anche all'individuazione di ulteriori nodi concettuali -; giunge infine a una conclusione che, in base alla complessità del tema, ha un carattere più o meno provvisorio. Nei corsi liceali tale modo di procedere assume un aspetto abbastanza rigido e ripetitivo. Più vario è invece lo stile dei corsi al Collège de France, in cui la riflessione è spesso affiancata da immagini e metafore che ne ravvivano il momento intuitivo. Tuttavia, sia nei corsi liceali sia al Collège, Bergson tende nel complesso a "girare intorno alla cosa", a dividerla, ad analizzare le singole componenti per poi ricomporle. Non è un az7.ardo affermare che il suo metodo sembra quasi cartesiano. Le ragioni di questa differenza di approccio rispetto ai testi pubblicati

7. H. Bergson, Introduction àla mtwi,hysique, in Id., LA pensée et k mcuvant (1934), Puf, Paris 2003,pp. 177-227: pp. 177-178.

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sono a un tempo istituzionali e legate alla genesi stessa della filosofia bergsoniana. Si è già detto che il Bergson-docente si attiene alle direttive ministeriali. Se all'università gode di margini di libertà, nei licei - il caso che ci interessa maggiormente-, il filosofo deve attenersi a programmi ben precisi. Non sorprende allora che i contenuti dei suoi corsi di Psicologia, di Metafisica, di Storia della filosofia, di Morale o di Logica siano molto simili a quelli riscontrabili nei manuali più diffusi ali'epoca. In linea di principio Bergson dovrebbe preparare i suoi studenti ad affrontare una tipologia di prova, la dissertation, ancora oggi caratteriz:r.ante il curricolo di studi dei liceali francesi. La dissertation, in particolare quella di filosofia, è un esercizio di scrittura in cui lo studente deve dimostrare di possedere buone capacità logiche, analitiche e argomentative. Il lavoro va strutturato in sequenze e non bisogna mai dimenticare di definire in modo rigoroso i concetti chiave del proprio discorso. Sebbene Bergson voglia evitare la riduzione dello spirito critico a una sterile retorica, deve comunque offrire strumenti utili a redigere buone dissertazioni. Le grandi capacità analitiche sfoggiate da Bergson nei corsi sono quindi anche funzionali alla necessità di fornire buoni esempi su come impostare e sviluppare un ragionamento filosofico. Secondo quanto ci confessa lo stesso filosofo, Bergson riesce solo in parte nell'intento. Durante una seduta della Société française de philosophie osserva con un certo disappunto: È difficile giudicare la qualità dell'insegnamento dei professori in base alle dissertazioni del baccalaureato [l'equivalente francese del nostro Esame di Stato). Quando ero professore al Liceo "Henri IV", ho avuto l'onore di fare parte della commissione di baccalaureato. Ora, ho constatato che tra le dissertazioni consegnate il giorno dell'esame dai miei migliori allievi non trovavo nulla del mio corso. Leggevo piuttosto delle dissertazioni che erano la riproduzione più o meno fedele

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di un manuale di preparazione al baccalaureato. Il candidato era convinto che non se non avesse consegnato una dissertazione da manuale, già preconfezionata [toute faite], avrebbe corso il rischio di non superare l'esame.8

Anche i migliori alunni di Bergson preferiscono preparare il baccalaureato sui manuali. Nelle dissertazioni "preconfezionate" non c'è traccia dei suoi corsi; Bergson si ritrova a valutare elaborati poco originali che sembrano quasi prodotti in serie. Dal racconto si evince che le pressioni ministeriali sugli alunni e sui docenti sono notevoli, e non meraviglia allora che Bergson si attenga nei corsi liceali il più possibile ai programmi vigenti e abbondi in analisi e distinzioni molto dettagliate. Sarebbe però un errore spiegare la prevalenza nei corsi del momento analitico ricorrendo a semplici ragioni di ordine didattico-normativo. Spesso Bergson è stato etichettato come il filosofo dell'"intuizione" e della "simpatia", ma non bisogna ignorare il ruolo centrale che giocano il concetto e l'analisi nel suo pensiero. Infatti, nel metodo bergsoniano l'analisi precede e prepara l'intuizione. Si pensi ad esempio a quanto Bergson afferma nel Discorso agli studenti di Madrid (1916): Il metodo fìlosofìco, come me lo rappresento, comprende due momenti e implica due processi successivi dello spirito. Il secondo di questi due elementi, il processo fìnale, lo chiamo Intuizione - uno sforzo molto difficile e molto arduo mediante cui si rompe con le idee preconcette e con le abitudini intellettuali già date, per ricollocarsi simpateticamente all'Interno della realtà. Ma prima di questa Intuizione, che è l'operazione propriamente fìlosofìca, è necessario uno studio scientlfìco del contorno della questione.9

8. Riportato in R.-M. Mossé-Bastide, Bergson éducateur, cit., p. 40. 9. H. Bergson, Discoursaw: étutuants de Madrid (1916), in Id., ÉcritsphiW$ophlque.s, cit., pp. 483-487: p. 484.

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Se è vero che l'intuizione è l' «operazione propriamente fìlosofica», questa va preparata da un lungo lavoro di analisi del «contorno» della questione; senza la fase preliminare analitica, non può darsi intuizione. La prevalenza nei corsi dell'analisi è allora dovuta non solo a ragioni di ordine didattico, ma anche alla necessità di predisporsi all'intuizione attraverso lo studio rigoroso dei grandi problemi filosofici. La classe è dunque un laboratorio in senso duplice: da un lato gli alunni esercitano il proprio giudizio, dall'altro il fìlosofo sperimenta e percorre alcune linee della sua riflessione. Lo studio dei corsi rappresenta una tappa essenziale per avere una visione più ampia della lìlosofia di Bergson: grazie ad essi è infatti possibile aggirarci dietro le quinte di un pensiero in divenire, cogliere la genesi delle intuizioni bergsoniane, ricostruire le letture e, per cosl dire, la biblioteca del lìlosofo. Attraverso i corsi si accede a volte anche a un impensato, a diramazioni della riflessione che Bergson lascia in sospeso. L'unità della fìlosofia bergsoniana non ne esce certo messa in discussione; ma di sicuro ne guadagna in densità e forse anche in dinamismo. Il rapporto tra i corsi e le opere maggiori rispecchia quasi sul piano del pensiero l'immagine che Bergson ha della vita. Ne L'evoluzione creatrice (1907) Bergson paragona la vita a un'onda: La vita appare grosso modo come un'onda immensa che si

propaga a partire da un centro e che, sulla quasi totalità della circonferen7.a, si arresta e si converte in oscillazioni sul posto: in un solo punto l'ostacolo è for7.ato, l'impulso ha attraversato liberamente. È questa la libertà che registra la fo17.a umana. 10

Le opere maggiori possono essere pensatecome i punti di rottura in cui la riflessione raggiunge la sua massima creatività,

10. H. Bergson, L'éoolutlcn Paris 2007, p. 266.

creatrice (1907), a cura di A. François, Puf,

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mentre i corsi sono paragonabili a momenti di sosta in cui il pensiero si raccoglie e indaga il materiale che gli consentirà di prolungare il suo slancio. Owiamente, la tesi avan1.ata non si applica a tutti i corsi allo stesso modo: alcuni sono senza dubbio più rilevanti di altri. Ma, alla luce dei numerosi volumi editi, si può dire che la "produzione" del Bergson docente merita nelJa sua interezza una grande attenzione filologica e filosofica.

Gli anni di insegnamento a Clermont-Ferrand Prima di passare al commento dei corsi proposti nel presente volume, è opportuno ricostruire brevemente gli anni di formazione del giovane Bergson per poi soffermarsi sull'esperienza di insegnamento a Clermont-Ferrand. Nel 1869 Bergson entra al Liceo "Condorcet" a Parigi. Dal 1870 comincia già a distinguersi. La lista dei premi - osserva Philippe Soulez nell'importante biografia su Bergson scritta con Frédéric Worms -è impressionante: primo premio al tema cli latino, cli esercitazione cli greco, cli grammatica francese, cli storia e cli inglese; secondo premio in versione latina; riconoscimenti in calcolo e recitll7.ione. Il giovane liceale è quincli ricompensato in tutte le cliscipline.11

Bergson eccelle in tutte le discipline; ottiene importanti riconoscimenti e in poco tempo diventa il migliore studente del suo liceo. Per il momento la sua vocazione non è ancora chiara, ma presto saranno due le materie su cui concentrerà il suo interesse: la filosofia e la matematica. È difficile dire come awiene l'avvicinamento di Bergson alla filosofia. Se il giova-

11. P. Soule-,: - F. Wonns, Bergson {1997), Puf, Paris 2002, p. 34.

20 ne studente ha un ottimo professore di matematica, Adolphe Desboves (1818-1888), non si può dire altrettanto di filosofia: Benjamin Aubé (1826-1887) - il docente di lìlosofia di Bergson - non è un insegnante che seduce. A Aubé può essere infatti applicato il giudizio espresso da Bergson nei confronti di quei professori che suscitano in modo quasi involontario la vocazione nella propria disciplina: A volte, accade a formule quasi vuote, si tratta veramente di parole magiche, di far sorgere di tanto in tanto lo spirito capace di riempirle. Insegnando meccanicamente una scienza creata da uomini di genio, un professore mediocre sveglierà In alcuni suol allievi la vocazione che egli stesso non aveva avuto e li convertirà in modo inconsapevole in emuli di questi grandi uomini, invisibili ma presenti nel messaggio che trasmette. 12

La vocazione lìlosofica di Bergson va allora cercata altrove, soprattutto nelle sue letture: Se dobbiamo affidarci - osserva Soulez - a una confidenza tardiva, fatta [da Bergson] a Isaac Bemubi molto dopo la sua scelta [di proseguire i suoi studi in filosofia e non in matematica], e confermata dalla testimonianza di La Harpe, ci sarebbe ali'origine della vocazione filosofica di Bergson la lettura di Jules Lachelier, in particolare de Le fomlement de l'inductwn. [. .. ] Ogni volta che Bergson ha parlato del suo professore di filosofia del liceo gli ha sempre opposto Lachelier.13

Secondo i racconti di Bergson, l'incontro con la filosofia di Jules Lachelier (1832-1918) sarebbe stato decisivo. In un periodo in cui materialismo e spiritualismo si contendono la scena filosofica, Bergson resta affascinato da quel gruppo di filosofi spiritualisti, che cercano di conciliare l'irriducibilità della na12. H. Bergson, Lesdew:sources de/amorale et de/a religion (1932),acura di G. Waterlot et al., Puf, Paris 2008, p. 228. 13. P. Soule-.< - F. Wonns, Bergson, clt., p. 35.

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tura e dell'uomo a meri fenomeni materiali con i risultati delle scienze positive. Lachelier, come del resto Félix Ravaisson (1813-1900), Émile Boutroux (1845-1921) e lo stesso Paul Janet (1823-1899) fanno parte della corrente del «realismo spiritualista». L'espressione è usata da Ravaisson nel Rappe>rt sur la philosaphie en France au XIX• siècle: Sono presenti diversi segni - afferma Ravaisson nella sua relazione - che ci permettono di prevedere come poco lontana un'epoca filosofica il cui carattere principale sarà la predominam.a di ciò che si potrebbe definire un realismo o positivismo spiritualista. Questo avrà come principio guida la consapevolez:r.a che lo spirito trae da se stesso la propria esisten7.a, da cui tutto deriva e dipende in quanto risultato della propria azione.••

In un momento storico in cui il materialismo sembra dominare la scena filosofica - e porsi anche come unico sbocco possibile del positivismo-, lo spiritualismo trova al suo interno la forza per rinnovarsi, per abbandonare la versione «facile e piacevole - sono gli aggettivi usati questa volta da Bergson di Victor Cousin» e aprirsi a un vero dialogo con le scienze positive 15• Ma in cosa consiste esattamente questo «realismo spiritualista»? Ne La gioire de Bergson, François Azouvi ne fornisce una precisa caratteriZT.azione attraverso il commento di alcuni passi de Le fondement de l'induction (1871) di Lachelier: Il realismo spiritualista spiega la vera natura delle cose in opposizione ali'«idealismo materialista», che ne esprime solo la superficie. In cosa consiste? Nel fatto di vedere ogni essere

14. F. Ravaisson, Rapportsur la philosophie en France au XlX' mcle ( 18t,f}, Vrin, Paris 1978, p. 275. 15. H. Bergson, La phi/,owphle françalse, in Id., Mélanges, a cura di A. Robi net, Puf, Paris 1972, pp. 1157-1189: p. 1172.

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come una fo17.a e ogni fo17.a come un pensiero che «tende a una coscien7.a sempre piìl completa di se stessa,,. Questa tesi risulta da un'analisi serrata delle categorie di lìnalità e di determinismo, in modo che la prima penetri del tutto nella seconda e la trasformi. È la cont1nge117.a universale che è in ultima istan7.a la verità delle cose, «l'anima della natura e l'ultima parola del pensiero». «L'unità teleologica di ogni essere», afferma ancora Lachelier, ecco «il vero noumeno, di cui I fenomeni sono solo la manifestazione».••

Il realismo spiritualista afferma la realtà dello spirito come principio organi7.7,atore presente in tutte le cose, da quelle materiali, in cui sembra dominare il determinismo, fino a quelle più propriamente spirituali, in cui si manifesta il regno dei fini. L'unità teleologica di tutti gli esseri non è però posta in modo acritico, perché Lachelier, come gli altri "esponenti" di questa corrente, problematizza le tesi spiritualiste senza cadere in posizioni dogmatiche. Lachelier recupera infatti la lezione kantiana, che riadatta alle questioni filosofiche del proprio tempo: il primato dello spirito sulla materia va infatti di pari passo con lo sviluppo di una fìlosofìa che vuole interrogare la realtà fenomenica e dialogare con le scien7.e esatte.

È proprio questo nuovo modo di concepire lo spiritualismo ad affascinare il giovane Bergson e a spingerlo verso la 6Iosofìa. Nonostante il talento naturale per la matematica, fin dai primi annidi formazione, Bergson sembra awertire l'esigenza di affrontare questioni di portata più generale, un bisogno che può essere soddisfatto solo dalla 6Iosofìa. Finito il liceo, Bergson entra nel 1878 a l'École normale supérieure di Lettere. Tra i suoi compagni di università ha Émile Durkheim (1858-1917) e soprattutto l'amico-rivale Jean Jaurès (1859-1914).

16. F. Awuvi, La gwirr: de Bergson. Essai sur le magistèrr: phllosophique, Gallimard, Paris 2007, p. 27.

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Ottenuta la licenza in Lettere, Bergson arriva secondo ali'agrégation di Filosofia - il concorso nazionale bandito ancora oggi in Francia per diventare professori di Liceo. Il 5 ottobre del 1881 è nominato professore di Filosofia al liceo di Angers, incarico cui si aggiunge, nel 1882, l'insegnamento della Letteratura nella Scuola superiore femminile. Del periodo ad Angers non abbiamo molte informazioni. È certo però che, fin dai primi anni di insegnamento, il giovane professore esercita un grande fascino sul suo uditorio, in particolare sulle studentesse della Scuola superiore femminile. Mathilde Alanic ci fornisce un ritratto di Bergson dal titolo significativo L'ln,cantatore, che diventerà celebre: Attraversata l'aula con un passo rapido e felpato, sa1e sulla pedana, si avvicina a1la cattedra, svuota sul tappeto verde la cartella piena di libri. Gli occhi sempre abbassati. Un residuo di timidezza giovanile determina forse questa attitudine. Le labbra accennano un sorriso incerto. In modo brusco lo sguardo si accende - un raggio blu in cui daTl7.ano scintille di gioia. Il maestro si inchina leggermente con un gesto di cortesia e comincia: "Signorine". Appena risuona la sua voce limpida, musicale, si può vedere la fisionomia dell'oratore chiudersi, lo sguardo rivolgersi, per cosl dire, verso l'interno, per seguire unicamente il flusso dei propri pensieri. È un uomo molto giovane che parla: ha 22 anni? Nonostante il fascino di un volto delicato [ . .. ] impone una deferenza rispettosa alle giovani studentesse che lo ascoltano, appare loro intangibile e distante: tutto pensiero. 17

Al di là dell'immagine quasi romanzata della sua ex-alunna, Bergson mostra subito la sua attitudine oratoria, la capacità di "incantare". Nel 1883 Bergson chiede il trasferimento, e ha l'assegnazione al Liceo "Blaise Pascal" di Clennont-Ferranddove rimane

17. R.-M. Mossé-Bastide, Be,gson éducateur, cit., p. 25.

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fino al 1888. In quegli anni Bergson ottiene anche un incarico di insegnamento universitario alla Facoltà di Lettere. Se si considera che Bergson discute le due tesi di dottorato (quella latina sul concetto di luogo in Aristotele e soprattutto quella in lingua francese, il Saggio sui dati immediati dilla coscienza) alla fine del 1889, si può senz'altro affermare che gli anni di Clermont-Ferrand sono cruciali nella formazione del giovane filosofo. Così tratteggia, non senza un certo campanilismo, questo periodo uno dei suoi ex-allievi del Liceo "Blaise Pascal": Il punto di partenza di tutto lo sviluppo del suo pensiero sono i lavori di Bergson a Clennont-Ferrand, sono i cinque anni di "ritiro spirituale", si potrebbe dire, che visse in Auvergne. È in quegli anni che, attraverso i corsi al Liceo "Blaise Pascal" e alla Facoltà di Lettere, Bergson 6ssò nelle linee generali il suo insegnamento della 6losolìa; è a Clennont che raccolse i primi materiali sul tema del "riso" (soggetto che risulterà più importante per la comprensione della sua opera di quanto sembrasse all'inizio); è soprattutto a Clennont che pensò e scrisse Il Saggio sui dati immediati della coscienza. Colpisce il fatto che quest'opera sia stata concepita nei luoghi in cui Pascal maturò le sue idee sul vuoto e Rameau quelle sull"armonia. Non c'è forse un accordo segreto tra la città dell'Auvergne e la genesi di questi potenti sforzi speculativi? Sembra che tra i nostri muri di livida lava, la meditazione si raccolga e si impregni di gravità, per poi meglio librarsi verso l'oriz7.onte illimitato della piana o la linea ritmica delle montagne di origine vulcanica. Cos\ et piace credere (è forse un eccesso di campanilismo) che Clennont abbia giocato un ruolo nella storia del pensiero bergsoninno.18

Al di là dei toni retorici, nel periodo di insegnamento a Clermont-Ferrand Bergson elabora il concetto-intuizione chiave 18. J. Desaymaro, M. Bergson à Clemwnt--Ferrand, In «Bulletin scientilìque et historique de l"Auvergne», li, 1910, pp. 204-216: pp. 207-208.

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della sua filosofia (la durata) e abbozza alcune riflessioni, come quella sul comico, che si riveleranno importanti per la successiva produzione filosofica Il carisma di Bergson è inoltre fuori discussione. Basta leggere il resoconto dal]'articolo apparso su «Le Moniteur du Puy-de-D6me» il 21 febbraio del 1884 per constatare come il filosofo avesse già maturato la capacità di affascinare un pubblico esigente. Leggiamo alcuni dei passaggi più colorati: L'altro ieri,la sede dalla Facoltà di Lettere era in festa. La culla della bella letteratura non è morta in Auvergne. Era stata annunciata una nuova conferenza: un fìlosofo doveva parlare del riso. Di cosa si ride? Perché si ride? Molti non lo sanno, alcuni non si sono mai poste queste domande [... ]. Si può aver riso per mezzo secolo senza sapere né di cosa né perché. [... ] il Sig. Bergson ha infarcito la sua conferell7.a di aneddoti ben scelti. [ . .. ] Le battute hanno fatto divertire il pubblico. I più esperti hanno apprez:;,.ato l'ingegnosa teoria, la sapiente costruzione e la fluida favella del giovane conferenziere. [ . .. ] Occorre riconoscere che il Sig. Bergson ha sviluppato la sua tesi con notevole abilità. Parte da un semplice aneddoto. Mentre il pubblico ride ancora, il Sig. Bergson ha già ricavato dall'aneddoto un'osservw.ione, un fatto; ed ecco che si corre con singolare velocità verso la sua conclusione. Si guarda bene dal dire dove vuole arrivare nel suo ragionamento; ci nasconde il fìlo attraverso cui brillano i suoi aneddoti [ .. . ]; il pubblico ha pensato semplicemente di stare li per divertirsi, ma alla fine si rende conto di aver realiz:;,.ato con il Sig. Bergson un'opera 6loso6ca, quasi di metafisica.

Sembra quasi di immergersi in uno spaccato mondano della Belle époque: la gente in festa, la sala affollata e soprattutto il giovane conferenziere, Bergson, venuto nper intrattenere e, a insaputa forse del pubblico, per condurre un esperimento filosofico. Il giornalista sottolinea le abilità retoriche di Bergson, il modo in cui il filosofo riesce a condurre l'uditorio in modo quasi impercettibile verso la conclusione dei suoi ragionamen-

26 ti. Bergson parte da un aneddoto - nei corsi, lo vedremo a breve, da esempi molto semplici - per poi trarre delle conclusioni via via più generali. Un'altra nota significativa, che conferma le testimonian7,e di molti suoi studenti, è la sensazione di fare filosofia con Bergson: chi lo ascolta si sente parte attiva della riflessione. In questo modo Bergson mette in pratica quella che in un discorso di premiazione tenuto al liceo di ClermontFerrand nel 1885 (un anno dopo la conferenza sul Riso) definirà con l'espressione politesse d'esprit. Si tratta della capacità di entrare in sintonia con gli altri, di risvegliare un senso di partecipazione, di «fare correre tra le anime una simpatia mobile e leggera»10• Nel discorso agli studenti Bergson utilizza un esempio efficace per rendere l'idea: Non so se avete mai provato ad analizzare il sentimento che lo spettacolo di una dan7.agraziosa[ ... ] fa nascere nell'animo. È innanzitutto l'ammirazione per coloro che eseguono con agilità e come per gioco dei movimenti variati e rapidi, sen7.a arresti e sen7.a scosse, senza soluzione di continuità, essendo ogni figura indicata in quelle che la precedono, mentre annuncia quelle che la seguiranno. Ma c'è qualcosa di pli:I: rientra nel nostro sentimento della grazia, insieme alla simpatia per la leggere7.7.a dell'artista, l'idea di liberare noi stessi dalla nostra pesante7.7.a e materialità. Coinvolti nel ritmo della sua dan7.a, adottiamo la finezza del suo movimento senza prendere parte al suo sforzo e ritroviamo cos'I la squisita sensn:r.lone di quei sogni nei quali il nostro corpo ci sembra aver abbandonato il suo peso. Ebbene, tutti gli elementi della grazia fisica li ritroverete in questa educazione che è la grazia dello spirito. Come la grazia, essa evoca l'idea di un'agilità senza limiti; come la grazia, essa fa propagare tra gli animi una simpatia mobile e leggera; come la grazia, infine, essa ci trasporta da questo mondo nel quale la parola è in funzione dell'azione e

19. H. Bergson, La politesse, in Id., Écrits philosophiques, cit., pp. 47-58: p.52.

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l'azione stessa è in funzione dell'interesse, a un altro, totalmente ideale, ove parole e movimenti si liberano della loro utilità e non hanno altro scopo che quello di piacere."'

L'effetto generato sul pubblico in occasione della conferenza è identico a quello suscitato nei suoi alunni durante i corsi. Bergson provoca un sentimento di simpatia, eleva e comunica il piacere di pensare. In questo modo insegna, con il suo esempio, la politesse d'esprit, espressione in italiano quasi intraducibile, che potrebbe essere resa sia con "educazione dello spirito" sia con "gentile7.7.a di spirito". Entrambe queste traduzioni non rendono però bene l'idea di cosa intenda Bergson: la politesse d'esprit si mostra e si insegna allo stesso tempo, o, per meglio dire, si mostra per insegnarla e si insegna mostrandola. L'esempio della dan7.a riesce solo in parte a spiegare il significato dellapolitesse d'esprit: mentre lo spettatore che contempla la dan7.atrice partecipa in senso figurato ai suoi volteggi, chi ascolta un uomo in possesso di un'intelligenza ben educata, ossia duttile, flessibile e svincolata da questioni materiali, sembra elevarsi realmente sul piano del pensiero e uscirne mutato. L'esercizio della politesse d'esprit non si risolve in un monologo; gli alunni di Bergson hanno infatti il vivo sentimento di essere attori. Nonostante il carattere in prevalen7.a frontale delle lezioni - per i tempi era normale - , i discenti si sentono coinvolti. Le "buone maniere" di Bergson sono tali da mettere al centro del discorso ogni singolo allievo; le sue paro}e trovano in ognuno di loro un interlocutore privilegiato. E significativo in proposito un altro passaggio de La

politesse: Il perfetto uomo di mondo sa parlare a ciascuno di ciò che gli interessa; penetra nel modo di vedere degli albi senza farlo sempre suo; comprende tutto sen7.a per questo scusa-

20. lvi, pp. 51-52.

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re tutto. Di lui ci piace la facilità con cui ciroola tra i sentimenti e le idee; è forse anche l'arte che possiede, quando ci parla, di lasciarci credere che non sarebbe il medesimo oon tutti; perché la caratteristica di quest'uomo così ben educato è quella di preferire ciascuno dei suoi amici agli altri e di riuscire così ad amarli tutti in ugual misura. Eppure un giudice troppo severo potrebbe mettere In dubbio la sua sincerità e la sua franche:7.7.a. Ma non ingannatevi; ci sarà sempre tra questa educazione raffinata e l'ipocrisia ossequiosa la stessa distllll7.a che c'è tra l'arte di servire il prossimo e il desiderio di servirsi di esso.21

Il «perfetto uomo di mondo» ha la capacità di mettersi nei panni degli altri, di comprendere diversi punti di vista, di «circolare con facilità tra sentimenti e idee»; egli infonde un senso di vicinanza, fa sentire ogni suo amico come "il preferito". Tale comportamento non è assimilabile a quello dell'ipocrita, dell'adulatore ossequioso che serve il prossimo per ricavarne vantaggi personali. La differenza tra chi "serve" e chi "si serve" del prossimo è netta. Il perfetto uomo di mondo di cui parla Bergson ha molti caratteri in comune con il filosofo e il docente. Se è vero infatti che non ogni perfetto uomo di mondo è un lìlosofo o un professore, un buon professore o un buon lìlosofo è anche un perfetto uomo di mondo. La souplesse, questa sensibilità e flessibilità che permette di simpatizzare e empatizzare con gli altri, e soprattutto di essere "amici" nel senso pieno del termine, sono elementi che devono contraddistinguere tanto il docente quanto il filosofo. Gli alunni riconoscono in Bergson tutto questo, e, attraverso il suo insegnamento, apprendono a essere "ben educati", vale a dire uomini di mondo in grado di esercitare al meglio l'in-

21. lvi, pp. 50-51.

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telligen7.a per affrontare le sfide del proprio tempo e per diffondere nella società il senso della politeia.

Introduzione generale al Corso di Fil.osofia Il primo gruppo di lezioni costituisce un'introduzione alla filosofia. Bergson parte da una caratteriZ7.aZione della scien7.a per arrivare a determinare la filosofia e il suo oggetto specifico. L'ordine del discorso è simile a quello ravvisabile in altri manuali di filosofia del tempo. Tuttavia è facile constatare come l'approccio bergsoniano non sia scolastico: Bergson segue il filo del proprio ragionamento e non si ha mai l'impressione di un susseguirsi di nozioni slegate tra loro. Ripercorriamo brevemente i momenti salienti delle quattro lezioni (La scienza, La classificazione delle scienze, La filosofia delle scienze, La fi"/osofia e il suo oggetto). Attraverso un semplice esempio, l'ebollizione e la solidificazione dell'acqua, Bergson mostra cosa distingue l'attitudine scientifica. Sebbene i due fenomeni sembrino a primo impatto molto diversi, se non opposti, lo scienziato non si ferma al dato ingenuo e cerca di cogliere la loro unità. [La scienw.) si pone il compito di associare fatti, fenomeni o, più in generale, oggetti che sembrano all'inizio essere distinti, e In questo modo vuole sempl!fìcare la conoscen7.ache ne abbiamo, riducendo a un piccolo numero di formule l'immensa molteplicità dei dati appresi dal!'esperiem.a.22

La scien1.a tende a ricondurre la molteplicità dei fenomeni all'unità, a 26

26. lvi, pp. 30-31; tr. it., infra, p. 72.

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Qual è l'essenza di una cosa fatta astrazione dalle sue qualità secondarie? Cosa resta una volta eliminati il colore, la resistenza e altre proprietà riconducibili al soggetto percipiente? È evidente che per cogliere l'apporto dell'intelligenza nella costituzione degli oggetti è necessario conoscere il funzionamento della mente. Per comprendere lo spirito occorre però seguire un percorso analogo a quello intrapreso per la materia. Anche in questo caso il lìlosofo non può partire da una riRessione astratta che non dialoghi con le scienze noologiche. La metafisica deve qui confrontarsi con la psicologia e la logica. Parafrasando Kant, si può dire che per Bergson una metafisica senza scienze è vuota, cosl come le scienze senza la metafisica sono cieche. In altre parole, senza le scienze, la metafisica si perde in riRessioni vuote, non ancorate alla realtà; d'altra parte, senza la filosofia la riRessione scientifica corre il rischio di chiudersi in se stessa, perdendo il quadro di insieme che dovrebbe guidare le sue ricerche.

La necessità di pensare l'autonomia della metafisica nel dialogo con le scien7.e è forse l'insegnamento più importante di questo breve corso introduttivo alla filosofia. Prima di scrivere ognuna delle sue grande opere, Bergson si è immerso nella bibliografia scientifica dell'epoca per anni. Già nelle sue prime esperienze di insegnamento egli era ben consapevole che senza questo duro lavoro di deterritorializzazione (per usare un termine caro a Gilles Deleuze) non avrebbe mai potuto affrontare in modo rigoroso i grandi problemi metafisici.

Due lezioni di Estetica Bergson non ha scritto né pubblicato un lavoro di estetica. L'unico saggio che si avvicina a una riffessione di tale carattere è Il riso (1900), anche se Bergson si limita all'analisi del fenomeno

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del comico, mentre le riflessioni sull'arte e sull'artista restano estemporanee o comunque non approfondite. D'altra parte, nelle opere maggiori, dal Saggio fino a Le ooe fonti della morale e della religione, cosl come nei corsi - sia quelli liceali sia quelli universitari -, non mancano passaggi significativi in cui il filosofo avan2:a idee estetiche originali. Il commento delle due lezioni di Estetica di Clennont-Ferrand non può aggiungere molto a un quadro nel complesso frammentato; è però possibile tentare un raffronto con alcune tesi sviluppate in lavori successivi, soprattutto il Saggio e Il riso, e tracciare, come si è fatto per l'Introduzione al Corso di Filosofia, un sentiero che stia attento ai "sintomi", alle preferenze e alle idiosincrasie delle scelte bergsoniane. Nella prima lezione sul concetto di bello Bergson compie alcune importanti precisazioni. Distingue il bello dal piacevole, dall'utile, del bene e dal vero. Facendo propria la lezione kantiana e le ricerche estetiche del proprio tempo, Bergson dimostra che il bello non coincide con il piacevole. Un dipinto può anche suscitare nello spettatore una sensazione di disagio ed essere, comunque, giudicato bello; viceversa, un dipinto può risultare piacevole, ma non per questo essere giudicato bello. Da queste considerazioni Bergson deduce che il bello tocca l'intelligen7.a e non la sfera sensibile. In queste brevi osservazioni è ben visibile la definizione kantiana del bello come «ciò che viene rappresentato senza concetti come oggetto di un compiacimento universale»27• Tra bello e l'utile il legame è ancora più debole: le opere d'arte belle sono per essere contemplate e non servono in senso stretto a nulla. Il bello è una "finalità senza fine", afferma Bergson citando ancora una volta Kant. Il bello si distingue 27. I. Kant, Criticadelgtudl%1o (1790),tr. it.acuradi M. Marassi,Bompiani. Milano 2014, p. 93.

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dal bene, inoltre, perché non ha il carattere dell'obbligazione. Mentre la rappresentazione del bene ha un valore vincolante nel momento in cui ci rappresentiamo il bene sentiamo l'obbligo di realiZ7alo -, non si può dire altrettanto di quella del bello. Per Bergson è allora giusto separare Arte e Morale: sarebbe perfino pericoloso che la prima scenda nel campo della seconda con la pretesa di dare insegnamenti morali. Infine il bello si distingue dal vero: il secondo tende all'universale, il primo risiede invece nel particolare. Si parla a volte della bellezza di certe verità, ad esempio della legge di gravitazione universale: ma in questi casi, secondo Bergson, la bellezza non è riferita alla legge, quanto alla for7.a d'immaginazione dello scienziato che l'ha concepita. Qui Bergson accenna a un tema che sarà analiZ7.ato in modo esteso nei corsi di psicologia. Nel Corso di Psicologia al Liceo "Henri IV', tenuto tra il 1892-1893, Bergson descrive in dettaglio i caratteri dell'immaginazione scientifica: Essa [l'immaginazione scientifica] consiste in un'attività simile all'immaginazione artistica, per quanto coinvolga un altro genere di idee. Lo scienziato studia i fatti e raccoglie spesso un'ampia collezione di immagini. Le osservazioni accumulate e le esperien7.e equivalgono per lo scienziato alle forme, alle sfumature e ai suoni ricordati per l'artista. Come la creazione artistica consiste nell"organrzzare questa immagini nella direzione della natura, così l'idea geniale nelle scienze è quel concetto mediante cui lo scienziato ritrova e assimila qualcosa della poten7.a organi7.7.atrice della natura. [ . .. ] Sembra allora che l'immaginazione, nelle scienze come nell'arte, somigli alla simpatia, ossia alla capacità di slmpatiZ7.are con gli uomini o con le cose e di ritrovare sotto ti particolare l'universale e, al cli sotto dell'apparenza, il reale e la natura più profonda.28

28. H. Bergson, Conodi Psicologia. Liceo Henri IV 1892-1893, tr. it. S. Grandone, Mimesis, Milano-Udine 2017, p. 201.

37 Anche l'immaginazione scientifica è una forma di immaginazione creatrice. Lo scienziato, come l'artista, simpatiz:1,a con la natura per coglierne la struttura profonda. Tra arte e sciell7.a sussiste però una differen7.a fondamentale: la prima tende al particolare, la seconda all'universale; la prima vuole afferrare le cose nella loro singolarità, la seconda desidera ricondurle a leggi universali. Giunto a una prima definizione negativa del bello, Bergson si chiede quale sia l'origine del piacere estetico. Se il piacere estetico non è di natura sensuale, è evidente che esso può scaturire solo da un giudizio. Un oggetto è bello nella misura in cui chi contempla è in grado di paragonarlo a un modello ideale. Bergson ritiene che questa intuizione sia presente in Platone, e, per quanto la teoria della reminiscen7.a sia superata, il bello nasce sempre dalla comparazione tra l'oggetto reale e il suo ideale presente nello spirito. Il modello ideale può essere anche il risultato di una serie di esperienze particolari, in cui l'individuo astrae dal particolare dei tipi generali; resta il fatto che il bello è nel giudizio e non nelle cose. Per chiarire queste osservazioni Bergson propone alcuni esempi tratti dalle opere di Molière e dalle tragedie di Comeille e Racine. Una commedia di Molière o una tragedia di Racine è bella perché esprime qualcosa di universale. Bergson cita una frase di Jean Marie Napoléon Désiré Nisard (1806-1888), la letteratura è «l'espressione chiara di verità generali»211• Sebbene nello stesso periodo delle lezioni di estetica a Clermont-Ferrand Bergson tenga la sua conferen7.a Il riso, per il momento non distingue il personaggio comico da quello tragico. Ne Il riso Bergson afferma: L'eroe della tragedia è un'individualità unica nel suo genere. Si potrà cercare di imitarlo, ma si passerà cosl in modo

29. H . Bergson, Cours, voi. II, cft., p. 41; tr. it, Infra,

p. 81.

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inconsapevole dal tragico al comico. Nessuno somiglia all'eroe tragico, poiché in effetti egli non somiglia a nessuno. Al contrario, una tenden7.a quasi istintiva porta il poeta comico, quando compone il suo personaggio principale, a fare gravitare intorno a lui albi personaggi che presentano I suol stessi caratteri generali.30

Nelle Due lezioni di Estetica Bergson non precisa questa importante differen7.a. Personaggio comico e personaggio tragico sembrano accomunati dall'incarnare verità generali, nonostante il "come" sia molto diverso. Bergson riconosce che il riferimento all'ideale non basta a comprendere le molteplici espressioni del bello. Non tutti gli oggetti belli sono tali perché «esprimono un'idea». Spesso dietro un oggetto bello vi è un sentimento o uno sforzo: Bergson pensa in particolare al concetto di sublime analizzato a fondo dai filosofi tedeschi. Cosl il sentimento del bello può risultare indifferentemente dall'espressione di un'idea, di un sentimento o di uno sforzo. Bergson chiude questa prima lezione sul bello analizzando i concetti del carino, del grazioso, del sublime e del ridicolo. Il carino è il bello nelle piccole cose: tra il bello e il carino vi è una differenz.a quantitativa. La grazia si riferisce invece soprattutto alla bellezza del movimento. Bergson propone un esempio che è speculare a quello del dan7.atore già visto ne La poliresse: Così il pattinatore che pattina sul ghiaccio disegnando curve ondulate è grazioso perché il movimento sembra non costargli nulla. Mentre se tracciasse angoli, sembrerebbe perdere e riprendere il suo slancio a scatti e impiegare quindi molta piìl for7.a del necessario. Un ramo che sorge da un albero

30. H. Bergson, Le nre. Essaisur la signification du comique (1900), a cura di G. Silbertin-Blanc, Puf, Paris 2001, p. 136.

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in linea perpendicolare rispetto al tronco non è grazioso. Il tronco sembra provare una certa fatica perché Io paragoniamo a un braccio teso orizzontalmente. Al contrario il salice è grazioso quando piega In modo naturale e senza sfo17.o i suoi rami verso terra. C'è del vero in questa teoria, ma bisogna sottolineare che essa rientra nella teoria del bello, poiché il risparmio di fo17.e genera piacere solo se cl mettiamo noi stessi al posto dell'oggetto materiale per gioire idealmente di questa leggere7.7..a.31

Come il danzatore, anche il pattinatore dà l'impressione di leggerezza; le linee che traccia sul ghiaccio sono morbide, tonde, e il disegno accentua il senso di grazia. Tuttavia, le prodezze del pattinatore provocano piacere solo se lo spettatore simpatizza con quanto accade: è infatti la partecipazione ideale ai movimenti dell'atleta a indurre in chi guarda un senso di piacere e di grazia. Infine Bergson si sofferma sul sublime e sul comico. In merito alla questione del sublime Bergson non sembra discostarsi da Kant: afferma infatti che il sentimento del sublime è suscitato da un'idea che risveglia nell'uomo il senso dell'infinito. Per quanto riguarda il comico, Bergson non prende in considerazione gli elementi che risulteranno essenziali ne Il riso: si limita a sottolineare che il riso nasce da una contraddizione tra come una cosa è e come dovrebbe essere. Alla lezione sul bello segue la lezione sull'arte. Come è tipico di Bergson-professore, il filosofo riprende alcuni concetti della lezione precedente: ribadisce che lo scopo dell'arte è esprimere un'idea, un sentimento o uno sforzo. Anche la natura può allora creare qualcosa di bello, ma in modo accidentale. In effetti nella natura l'ideale che essa può mostrare è sempre congiunto a elementi accessori che ne alterano l'effetto esteti-

31. H. Bergson, Cou~ 11, cit., pp. 42-43; tr. it., infra, pp. 83-84.

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co. Al contrario, l'artista cerca di eliminare dalla propria opera tutto quello che non è funzionale; egli fa convergere tutti i suoi sforzi verso un centro unico. Eliminando il superfluo, l'artista perviene all'universale; l'arte è quindi imitazione non perché rappresenta la natura così come è, ma in quanto cerca di svelare le verità celate dietro le cose. Bergson riprende una tesi formulata da Aristotele nella Poetica, ossia che l'imitazione nell'arte deve mirare all'universale e al vero e non limitarsi alla superficie delle cose. Sebbene Bergson non proponga in queste lezioni idee originali, la tesi dell'arte come imitazione è una costante nel pensiero estetico bergsoniano. Nelle opere maggiori è però rielaborata a partire dall'intuizione della durata. L'opera d'arte bella è quella che meglio riesce a esprimere l'unità e l'indivisibilità dei movimenti della natura e degli stati d'animo dell'uomo (sentimenti, pensieri, affetti). L'artista diventerà insomma colui che coglie la forza creatrice della natura. Nella lezione sull'arte siamo ancora lontani da questa prospettiva: Bergson analizza le varie forme di arte (la pittura, la scultura, la musica, l'architettura e la poesia), ma vede nella ricerca dell'armonia e della simmetria il loro minimo comun denominatore. Abbiamo spesso ribadito che l'lntellige117.a umana ha Istinti e tenden7.e geometriche, fonti secondo Bacone di tanti errori, che si rivelano nell'amore della simmetria e nel gusto per il ragionamento logico. Ora, tutte le arti, salvo forse la pittura, presuppongono un elemento geometrico. Nella poesia questo è dato dal ritmo, dalla misura e dalla rima. Nella musica, la regolarità è perfetta: ognuno sa che il rapporto tra le diverse battute ha la stessa durata. In architettura, le forme sono regolari e geometriche, uno stesso motivo si ripete in modo continuo in un dato edificio; non è possibile quindi l'architettura al di fuori di linee dritte e di curve relativamente semplici.

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Anche nella scultura, la proporzione delle forme e delle diverse parti del corpo asseconda la nostra tendenw istintiva all'ordine e alla regolarità. Solo la pittura costituisce un'eccezione, ma questo dipende dal fatto che la pittura è l'arte realista per eccellen7.a. In mancan7.a di elementi ritmici, essa ci dà quasi l'illusione della vita.32

Al contrario, nel Saggio Bergson riprende la suddivisione delle arti e individua un trait d'union diverso, questa volta nel movimento e nel dinamismo delle linee. Ad esempio, parlando del poeta e del romanziere, Bergson afferma che in una scrittura attenta all'effetto estetico, al sentire e al patire, i sentimenti si sviluppano in immagini, e le immagini stesse in parole, docili al ritmo per tradurle. Vedendo scorrere davanti ai nostri occhi queste immagini, proveremo anche noi il sentimento che era per così dire l'equivalente emozionale; ma queste immagini non sorgeranno in noi con for7.a senza i movimenti regolari del ritmo, attraverso cui la nostra anima, cullata e addormentata, si dimentica come in un sogno per pensare e vedere con il poeta.33

Il ritmo e la simmetria non sono fini a se stessi, ma funzionali all'espressione delle emozioni dello scrittore. Il lettore deve essere cullato dall'armonia delle parole per entrare in una sorta di stato di ipnosi in cui diventa tutt'uno con i sentimenti e le immagini della poesia o del romanzo.

La differenza con le lezioni è allora evidente: nel corso Bergson sembra quasi ridurre la ricerca dell'armonia nell'arte all'istinto geometrico, mentre nel Saggio la regolarità è funzionale e subordinata ali'espressione della durata della coscien7.a e dei moti interiori dello scrittore. In conclusione, anche nelle lezio-

32. lvi, p. 47; tr. it., infra, p. 88. 33. H. Bergson, Essai sur /es données immédiates de la COBSCience (1889), a cura di A. Bouaniche, Puf, Paris 2011, p. 11.

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ni di estetica, si ritrovano alcuni temi e luoghi sintomatici del pensiero bergsoniano, ma la trattazione è nel complessoabbastanza distante dal modo in cui questi argomenti sono affrontati nella produzione più matura.

Corso di Fflosofia morale È noto agli studiosi che Bergson affronterà solo nella sua ultima opera, Le due fonti della morale e della religione (1932), i temi della fìlosofia morale. Sarebbe però un errore pensare che durante il lungo periodo che va dagli anni a ridosso del Saggic sui dati immediati della coscienza fino a L'evoluzione creatrice, la questione etica non rientri nell'orizzonte di indagine della riflessione bergsoniana. Come per gli altri grandi testi dati alle stampe, dietro le "quinte" troviamo diversi corsi di fìlosofia morale, e, tra questi, quello tenuto a ClermontF errand si rivela particolarmente interessante. È evidente che non si deve commettere l'ingenuità retrospettiva - commessa a volte dagli storici e denunciata anche dallo stesso Bergson di vedere nel "prima" quanto verrà sviluppato "dopo". In queste lezioni giovanili non troviamo il pensiero embrionale de Le due fonti: ogni forma di ragionamento teleologico sarebbe fuorviante sul piano fìlologico. Tuttavia, se i concetti di "morale chiusa" e "morale aperta" o le celebri analisi sul misticismo sono, come è normale che sia, assenti, Bergson mostra una conoscenza approfondita dei grandi problemi della fìlosofia morale. Certo la loro esposizione ha un fine didattico, ma non può essere definita nozionistica: la scelta dell'ordine e delle questioni affrontate ha un significato filosofico ben preciso, che delinea una via bergsoniana alla morale. Bergson individua uno stretto legame tra morale e psicologia; tenta di ricondurre la presenza di un ideale morale all'interno

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dell'uomo al vissuto personale, ali'esperienza emotiva che prova la coscienza quando compie una buona o una cattiva azione. Quando compiamo una buona azione, proviamo gioia, abbiamo la coscienza in pace e awertiamo un senso di soddisfazione morale. [ .. . ] Al contrario, quando compiamo una cattiva azione, proviamo un sentimento indefinibile di trlstezza.34

La mossa è significativa. Bergson vuole evitare una deriva scettica e relativistica, e ritiene che la strategia migliore sia ancorare la morale al vissuto, a un'esperienza affettiva e assiologica che sarebbe in grado di rivelare immediatamente al soggetto la presen7.a di una legge morale universale. D'altra parte, se la strada intrapresa da Bergson consente di non ipostatizzare la legge morale come un assioma, essa presenta comunque alcune insidie. I sentimenti sono in grado di rivelare ma non di spiegare la genesi della legge morale. Da qui la necessità per Bergson di analizvirP- le diverse risposte date dai filosofi . Alcuni ritengono che quando l'inclinazione al piacere ha cominciato a purificarsi e, per così dire, a sentire ragione, sono nati i sentimenti morali, la legge morale e il concetto di bene. Per altri, invece, la legge morale sarebbe derivata da un semplice calcolo basato sull'interesse personale e dalle necessità della vita sociale. Altri, infine, pensano che queste nozioni siano primarie e vedono nel bene un assoluto e nella legge morale un imperativo categorico. Ecco diverse concezioni del bene, della legge morale e del dovere.35

La legge morale potrebbe avere la sua origine in un piacere depurato dai suoi elementi più egoistici, cioè da un semplice calcolo basato sull'interesse e sulle necessità della vita 34. H. Bergson, Coorsdephilosophlede 1886-1887 au Lycée Blalse Pascal de Clermont-Ferrand(Morale - Métophysique - Hlswirede la phllosophle), a cura di S. Matton, pres. di A. Panero, Séha-Archè, Paris-Milan 2010, p. 77; tr. it., infra, p. 92. 35. lvi, p. 81; tr. it., infra, pp. 94-95.

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associata, o ancora potrebbe avere un fondamento in se stessa, essere un dato originario che non dipenderebbe da altro. Bergson delinea cosl il percorso delle sue lezioni: dalla morale utilitarista a quella del sentimento fìno ad arrivare alla morale dell'obbligazione. La sequenza traccia quasi un "crescendo". Bergson vuole infatti dimostrare come legge morale e felicità siano due concetti distinti. Nella lezione sulla morale utilitarista Bergson parte dalla morale del piacere, che indentilìcherebbe il bene nel soddisfacimento dei desideri più egoistici. È evidente che nella sua variante più estrema una simile morale è impraticabile e non è un caso che i lìlosofi non l'abbiano mai professata in questi termini. Il piacere egoistico si scontra con quello degli altri e spesso quanto può essere piacevole oggi può rivelarsi fonte di sofferenza un domani. Ecco perché da Epicuro in poi è possibile ritrovare un fìlone della lìlosofia morale che fonda l'universalità della legge morale in quella che Bergson definisce ]'"aritmetica del piacere". Nel corso del tempo l'uomo avrebbe cominciato a ragionare sui vantaggi e sugli svantaggi determinati dalle proprie azioni, a selezionare le regole di comportamento in grado di procuragli un piacere più duratluo. Tuttavia, anche letto in questa chiave, il legame tra morale e ricerca del piacere e della felicità individuale non permette di spiegare comportamenti quali l'abnegazione o il sacrificio: La dottrina epicurea non spiega tutte le regole e tutte le massime della morale. Certo, la virtil ordinruia e borghese è giustlficabile alla luce dell'epicureismo, ma la virtil ordinaria non è la sola virtil. Molte volte nella vita sono necessari l'abnegazione e il sacrilìcio, e questo è un dato di fatto indiscutibile. Spesso la voce della coscienza ci ordina di ignorare i nostri interessi e noi stessi e di pensare agli altri. 36

36. Ivi, p. 89; tr. it., infra, p. 101.

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La dottrina epicurea può giustificare la virtù ordinaria e borghese, ma non le azioni estreme in cui l'individuo sacrifica se stesso per gli altri. Questa critica è ripresa e ampliata da Bergson anche nella successiva analisi della morale utilitarista propriamente detta, il cui intetpretepiù importante è Jeremy Bentham(17481832). La morale utilitarista è per Bergson la variante estrema dell'aritmetica del piacere di Epicuro. L'idea che il bene supremo consista nella felicità per il maggior numero di persone si basa infattisulla tesi che nel corso del tempo l'uomo sarebbe arrivato un po' alla volta a ritenere più vantaggiosa la felicità della collettività rispetto a quella individuale. In altri termini l'uomo avrebbe eseguito dei "calcolin e avrebbe compreso che la ricerca di una felicità egoistica arrecherebbe alla lunga soprattutto danni. Ma l'approccio "aritmetico" si espone a diverse critiche: Come posso - ossetva Bergson - esigere di ubbidire più all'istinto altruista che a quello egoista? Bentham risponde: "perché mi conviene scegliere l'istinto altruista". Ma allora risponderò: "ho fatto un altro calcolo, e i miei risultati possono condurre a un risultato identico al Suo". Come rispondere a questa obiezione? Forse ragiono male? Sia, ma non mi si può accusare di essere disonesto.37

In linea di principio nessuno può escludere che un "calcolon più efficace possa condurre alla felicità sen7.a per questo dover sacrificare qualcosa della propria persona. Bergson vuole sottolineare come il bene non possa coincidere con la ricerca della felicità, che questa identificazione renderebbe incomprensibili tutti gli atti che implicano il sacrificio di se stessi. La morale utilitarista non spiega allora il carattere universale e obbligatorio della legge morale. Al riguardo, anche la morale del sentimento si rivela insufficiente. Per Adam Smith e altri filosofi dello stesso orientamen-

31. lvi, p. 92; tr. it., infra, p. 104.

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to la morale si fonderebbe sui naturali sentimenti di simpatia e di antipatia. Quando un'azione ètale da eccitare la nostrasimpatia, esprimiamo questo sentimento approvando l'azione. L'approvazione è una forma di simpatia, cosi come la disapprovazione una forma di antipatia. Comunichiamo Infine In forma più astratta la nostra approvazione dicendo che l'azione è buona; mentre traduciamo la nostra disapprovazione affermando il contrario. Cosl un'azione è buona quando l'approviamo e quando simpatizziamo con l'autore. li bene e il male sono perciò termini astratti, caratteri applicati ad azioni capaci di suscitare la nostra simpatia e la nostra antipatia.38

Ma non è detto che l'uomo simpatizzi sempre per la persona che compie l'azione buona. Bergson osserva come l'arte degli awocati consista proprio nella capacità di condurre l'uditorio a simpatizzare per chi ha commesso un crimine. Per rispondere a questo tipo di obiezioni Adam Smith introduce il concetto di spettatore imparziale: La vera simpatia, cioè la base di ogni giudizio morale, è quella provata da un giudice imparziale delle nostre azioni. Ogni volta che agiamo ci rappresentiamo uno spettatore imparnale della nostra condotta, ci chiediamo se la nostra azione ecciterebbe la sua simpatia o la sua antipatia. 39

Si tratta di un'ipotesi ingegnosa ma problematica. L'idea di uno spettatore imparziale sembra infatti per Bergson reintrodurre quanto la morale del sentimento non riesce a giustificare, ossia la presen1.a nell'uomo di una legge morale che lo obbliga, al di là delle sue simpatie e antipatie e della sua aspirazione a essere felice.

38. Ivi, p. 97; tr. il, infra, p. 108. 39. Ivi, pp.100-101; tr. it.,infra, p. 111.

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Così Bergson passa all'analisi della morale dell'obbligazione, che raggiunge la sua espressione più matura nella fìlosofia di Kant. In questa lezione Bergson si sofferma sulle tre formulazioni dell'imperativo categorico mostrandone le reciproche implicazioni. Non si può però dire che la posizione di Bergson sia sovrapponibile a quella kantiana. Se è evidente l'influenu di Kant e il fatto che per il filosofo francese la legge morale non ha un'origine empirica o storica, va anche notato che Bergson inserisce la questione della morale dell'obbligazione in un più ampio contesto in cui si cerca di legittimare il concetto di libertà sul piano psicologico e metafisico. Bergson fa intendere più volte, soprattutto nelle lezioni sulla virtù e sul dovere, che il rispetto della legge morale si inserisce in un processo di elevamento della persona in tutte le sue facoltà. La morale ci ordina 1) di rispettare noi stessi e 2) di sviluppare la nostra persona. Dato che la persona è a un tempo sensibilità, intelligell7.a e volontà, allora tutti i doveri individuali avranno come scopo di attribuire a ogni facoltà dell'anima il posto che le spetta, di purificare la nostra persona e di favorirne lo sviluppo in modo conforme al bene."°

Bergson non si limita ad affermare il carattere formale deJl'imperativo categorico; ne individua le implicazioni concrete sui versanti dello sviluppo della persona e dei doveri da rispettare. Questa esigen7.a spiega perché le lezioni di fìlosofia morale si dividano idealmente in due parti: una prima parte, più teorica, si sofferma sulle diverse dottrine delle morale e si chiude con l'analisi dei concetti di dovere, virtù-sanzione, responsabilità e intenzione morale; una seconda parte, invece, più "concreta", e che per certi versi sembra quasi un piccolo corso di educazione civica, indugia sui diversi doveri (i doveri dell'uomo verso se stesso, verso i propri simili, verso la patria

40. lvi, p. 131; tr. it., infra, p. 135.

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e verso la famiglia). Senz'altro, la seconda parte è, dal punto di vista 6losolìco, meno interessante per un lettore odierno. Le considerazioni di Bergson sono qui radicate nello "spirito del tempo" e non mancano luoghi in cui trapela un certo perbenismo borghese più o meno velatamente conservatore. D'altro canto, la necessità di ancorare la morale dell'obbligazione a concrete norme di condotta è un aspetto interessante e originale di queste lezioni che non può essere ignorato, e che si ritroverà anche ne Le due fonti della rrwrale e della religione. Nel testo del '32 Bergson lega il concetto di obbligazione a quello di società chiusa: la morale dell'obbligazione diventa la pressione che la società esercita sull'individuo per conservare se stessa. Scrive Bergson ne Le due fonti: L'obbligazione che troviamo in fondo alla nostra coscienza e che, come indica In parola stessa, ci lega agli altri membri della società, è un legame dello stesso genere di quello che unisce le une alle altre le formiche di un formicaio o le cellule di un organismo. L'obbligazione è la forma che prenderebbe questo legame agli occhi di una formica divenuta consapevole come un uomo, o di una cellula divenuta nei suoi movimenti autonoma come la formica intelligente.••

Ne Le due fonti l'obbligazione è il legame che unisce gli uomini e rende coesa la società. Si tratta di una pressione morale che sostituisce l'istintiva tendenza alla cooperazione di molte specie viventi non dotate di intelligenza. Nelle lezioni di morale a Clermont-Ferrand Bergson non è pervenuto a questa formulazione del concetto di obbligazione. Tuttavia la sezione dedicata alle diverse forme di dovere mostra come anche per il giovane Bergson lo studio della morale dell'obbligazione non possa prescindere dalle sue declinazioni concrete.

41. H. Bergson,Les dewc sources de la moraleset clela religion,cit., p. 84.

49 Il Corso di Filosofia morale si chiude con alcune brevi lezioni di economia politica. Questa sezione del corso funge quasi da appendice, perché solo in parte legata ai temi morali analizzati in precedenza Già nel corso di morale del 1892-1893 presso il Liceo "Henri IV", non sarà infatti più riproposta.

Conclusione Proviamo a riprendere a chiusura di questa introduzione le considerazioni sviluppate. I corsi di Clermont-Ferrand - ma il discorso potrebbe essere esteso a tutti i corsi liceali di Bergson che ci sono pervenuti sono interessanti da differenti punti di vista. Essi sono utili per ricostruire la genesi di alcuni aspetti del pensiero bergsoniano. Se è vero che nei corsi non sono quasi mai menzionate le intuizioni più originali del filosofo francese, per il lettore che ne conosce le opere maggiori le lezioni sono comunque importanti per conoscere il laboratorio del pensiero bergsoniano. Si è visto inoltre che l'attenta lettura dei corsi quasi smentisce o almeno costringe a ripensare la vulgata di Bergson come filosofo dell'intuizione. Bergson è molto meno di quanto si creda il filosofo poeta o letterato tanto apprezzato e a volte criticato nella prima metà del Novecento. Non solo nelle opere date alle stampe, ma ancor più nei corsi è ben visibile la presenza di un forte spirito analitico. Bergson analizza i concetti filosofici offrendo una prima definizione, abbastanza semplice e immediata; in seguito propone le varie tesi avanzate dai pensatori e le analizza una a una, vagliando gli elementi di forza e di debolezza; infine ritorna sul concetto definito mostrando come le diverse prospettive esaminate ne illuminino i molteplici aspetti. Questo schema

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può subire anche delle variazioni: a volte Bergson parte da un tema e distingue subito diversi punti, che spesso suddivide ulteriormente. In alcune lezioni Bergson è cosl analitico nel proporre le ramificazioni concettuali da percorrere che può risultare a primo impatto perfino pedante. D'altra parte, man mano che ci si addentra nei suoi ragionamenti si ha sempre di più l'impressione del tout se tient, della costruzione di un'intelaiatura concettuale dove ogni elemento ha il suo posto e in cui un qualsiasi salto logico altererebbe la visione di insieme del problema. Non dimentichiamo infine che le lezioni di Bergson sono veri e propri esercizi di pensiero; esse hanno una grande valenza dal punto di vista didattico. Bergson insegna a definire, a distinguere, a classificare, ad argomentare e contro-argomentare una tesi; egli esercita quelle abilità e competenze che i giovani studenti liceali devono apprendere. Se si va oltre la sua apparente frontalità - nessuno ci vieta infatti di pensare che le lezioni di Bergson non fossero interrotte da domande o obiezioni dei suoi alunni -, l'insegnamento bergsoniano è all'insegna di quella che oggi definiremmo la "didattica per competenzen. A Bergson interessa che i suoi alunni sappiano ragionare, che abbiano la "testa ben fattan. La trasmissione di nozioni e di contenuti è un obiettivo secondario, funzionale allo sviluppo di competenze logico-argomentative. In tal senso allora il modo di insegnare di Bergson ha ancora molto da dirci su come dovrebbe oggi essere insegnata la lìlosofia. È noto che nei licei italiani si insegna prevalentemente storia della filosofia e questa è molto spesso ridotta alla trasmissione e all'assimilazione dei contenuti principali delle dottrine dei lìlosofì. Gli alunni hanno spesso l'impressione che i lìlosofì dicano tutto e il contrario di tutto, che la storia della fìlosofia sia una grande tribuna in cui si dibatte su temi inutili senza mai arrivare a una conclusione. Vale la pena di chiedersi se per ridare vigore e lustro all'insegnamento della lìlosofìa e soprattutto

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per inserirla meglio all'interno delle Linee guida del Ministero incentrate ormai da anni sulla didattica per competenze, non sia più utile proporre un approccio per problemi e concetti, come quello praticato da Bergson. Certo, anche Bergson si atteneva a programmi ministeriali e i suoi corsi nella loro forma originaria sarebbero oggi improponibili. Ma l'approccio per concetti sembra quello che meglio può rispondere all'esigenze educative del nostro tempo.

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Nota sulla traduzione

Le traduzioni dell'Introduzione generale al Corso di Fil,osofia del 1887 e delle Due lezioni di Estetica (tenute grosso modo nello stesso periodo) sono state condotte a partire dal secondo volume dei Cours di Bergson curato da Henri Hude e edito per la Presses Universitaires de France nel 1992.

La traduzione del Corso di Fil,osofia morale è basata invece sull'edizione francese curata da Alain Panero: H . Bergson, Cours de philosophie de 1886-1887 au Lycée Blaise Pascal de Clernwnt-Ferrand (Morale - Métaphysique - Histoire de la philosophie), a cura di S. Matton, pres. di A. Panero, SéhaArchè, Paris-Milan 2010. L'edizione di Matton propone il dattiloscritto di Pierre de Canteloube de Marmiés, che nel 1887 cominciò a frequentare il Liceo "Blaise Pascal". Del corso di morale si possiede anche la versione di un altro studente del liceo, Adolphe Achard, di cui Renzo Ragghianti ha pubblicato numerose parti (H. Bergson, Leçons dermontoises, voi. II, L'Harmattan, Paris 2006). Tra i due dattiloscritti, quello di Manniés è però più rifinito sul piano redazionale, e per questo motivo si presta meglio dell'altro a un lavoro di traduzione. Ricordiamo che le lezioni dei corsi di Bergson pervenute sono gli appunti presi dal vivo dai

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suoi allievi. Hude osserva che «siccome Bergson parlava lentamente e senza correggersi, gli allievi non avevano difficoltà a redigere sotto dettatura un testo senza difetti» 1• D'altra parte, lo stile degli appunti è molto vicino al parlato; per questa ragione, ove opportuno e senza alterare il significato del pensiero di Bergson, si è cercato di apportare lievi modifiche al testo originale per rendere più scorrevole la lettura in italiano. A piè di pagina si trovano le note del traduttore, con brevi informazioni relative a studiosi, scienziati e filosofi - oggi poco noti - citati da Bergson.

1. H. Hude, lntroduction, in H. Bergson, Coors, voi. I, Puf, Paris 1990,

pp. 13-22: p. 14.

Corsi di .filosofia Liceo "Blaise Pascal" di Clermont-Ferrand

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Introduzione generale al Corso di Filosofia Clerrrwnt-Ferrand, 1887-1888

La scienza Il termine "sapere" è di uso quotidiano. "Sappiamo" che il giorno e la notte si susseguono, che la terra è quasi sferica, che due più tre fa cinque, e che molte sono le cose a noi note senza averle apprese. Proponiamo un esempio nell'ambito dei fenomeni fisici: ognuno ha potuto constatare che, se riscaldata, dopo un certo tempo l'acqua bolle, o che il ghiaccio galleggia sull'acqua. Tuttavia, non si afferma che la conoscenza di questi fatti costituisca una scienza. Ognuno ammette che, per conoscere una scienza, è necessario averla studiata a scuola, e anche il bambino più dotato non può essere sapiente prima di essere stato trai banchi di scuola. La semplice conoscenza è quindi ben diversa dalla scien7..a propriamente detta. Questa cosa è più o meno nota a tutti. Ma vediamo meglio in cosa consiste. Torniamo ai due ultimi esempi (ebollizione e congelamento dell'acqua); occorre sottolineare che, pur conoscendo l'esisten7.a di questi due fenomeni e pur avendoli visti tante volte, l'uomo comune li considera sempre distinti e senza rapporti. Possono essere osservati, annotati, elencati, ma non verrà mai in mente a uno spirito non abituato alla riflessione scientifica di associarli e unirli. Al contrario,

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la scienza ha proprio questo come obiettivo. Essa si pone il compito di associare fatti, fenomeni o, più in generale, oggetti che sembrano all'inizio essere distinti, e in questo modo vuole semplificare la conoscenza che ne abbiamo, riducendo a un piccolo numero di formule l'immensa molteplicità dei dati appresi dal]'esperien:>.a. Ma come opera la scienza e in cosa consiste questa riduzione? Per rispondere a queste domande, analir.ziamo come la scien:>.a procede negli esempi citati. Esaminando l'acqua portata a ebollizione, il fisico stabilisce, per mezzo di esperienze mirate, che l'acqua contiene bolle di gas, che queste bolle si dilatano a causa del calore e che tale dilatazione produce, come conseguen:>.a naturale, una diminuzione della densità dell'acqua. In seguito, anafuzando l'altro fenomeno, il ghiaccio che galleggia, lo scienziato mostrerà che l'abbassamento della temperatura ha determinato la solidificazione dell'acqua; questo processo ha generato un aumento del suo volume originario e la corrispettiva diminuzione della sua densità, ed è proprio l'alterazione della densità prodotta dalla variazione di temperatura a far s'i che il ghiaccio resti sulla superficie dell'acqua. Ecco allora due fenomeni in apparen:>.a così diversi e distinti, se considerati alla luce del senso comune, ridotti dal fisico a una formula, la stessa in entrambi i casi. Essi hanno in comune una variazione di densità determinata da un cambiamento di temperatura. Come si è arrivati a tale conclusione? Basta riassumere quanto abbiamo appena detto: è l'esisten7.a di una causa comune il fattore che permette di afferrare cosa lega i due fenomeni, di assimilarli e di sintetizzarli in un'unica formula L'aver compreso che i due fenomeni hanno la medesima origine, un cambiamento di temperatura, ha reso possibile enunciare e sostituire questa causa alla loro semplice enumerazione. Si potrebbe allora già caratterizzare la scienza con maggiore precisione rispetto alla precedente definizione: la scien7.a si propone come obiettivo di ricondurre un ampio numero di

59 fatti particolari a un'unica formula, ottenuta attraverso lascoperta o la constatazione di cause comuni. Questa nuova formulazione scava un abisso ancora più profondo tra la conoscenza popolare e la scienza. Infatti, conoscere, nel senso volgare del termine, è semplicemente sapere che una cosa accade, ma comprendere in modo scientifico significa avere cognizione del perché un certo fenomeno ha luogo, e dunque afferrarne le cause. Quanto detto è così vero che si può dire che il semplice desiderio di conoscere le cause e le ragioni di una cosa è il segno distintivo di uno spirito scientifico. L'animale non sembra mai provare un simile desiderio; si limita infatti a constatare quanto gli accade intorno. Più un uomo è colto e degno del nome che porta, più cerca di conoscere e aspira a comprendere le cause delle cose. Nella maggioranza dei casi gli scienziati sono uomini che hanno sentito il bisogno di trovare cause e ragioni lì dove in apparetl7..a non c'erano ragioni da cercare e cause da scoprire. Ad esempio, prima della scoperta della legge di gravitazione universale, sembrava naturale che un corpo pesante "tendesse", così si diceva, verso il basso. Non ci si era resi conto che c'era qualcosa da spiegare e il giorno in cui si cominciò a cercare le cause del fenomeno, anche se non erano state ancora individuate, si mostrò un'attitudine scientifica.

La seconda definizione di scien7.a può essere formulata in un altro modo. Abbiamo detto che la scienza mira a ridurre la molteplicità delle conoscenze a un piccolo numero di formule. Queste sono dette "generali" o semplicemente '1eggi", perché si applicano a molti casi particolari. Per esempio, se nel caso precedente è stato possibile ridurre il numero di fenomeni da distinguere o, meglio, se i due fenomeni sono stati ricondotti a un'unica formula, è perché questa è generale. Così quando affermo, come si è visto, "il calore altera e modifica il volume dei corpi", enuncio una proposizione universale valida per un'infinità di casi, perché essa si applica non solo all'acqua e al

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ghiaccio, ma a tutti i corpi possibili. Accade infatti che quando si cerca di raggruppare certi fenomeni, di esprimerli in una formula semplice, essa - lo mostreremo meglio più avanti - riassume e copre un'infinità di fatti su cui non si riJletteva all'inizio. Cosi la sciel17.a può essere anche definita come la sintesi della molteplicità dei fatti nell'universalità delle leggi. Basta approfondire questa definizione e trarne le conseguenze per comprendere l'utilità della scienza e la sua ragion d'essere. Se potessimo conoscere solo fatti senza individuarne mai le cause, dovremmo rinunciare a ogni forma di controllo sulla natura. Infatti, dominare la natura significa poter riprodurre certi fenomeni; ma come è possibile indurli, se ne ignoriamo le cause?

Lo studio della condensazione del vapore ha condotto Watt alla scoperta della macchina a vapore. Nel corso mostreremo in dettaglio che, nonostante le invenzioni sembrino spesso il frutto del caso, esse sono in realtà sempre preparate da ricerche scientifiche e da analisi sulle cause. Ma la sciel17.a è utile anche per un altro motivo. Non bisogna credere, come molti fanno, che gli unici fini delle scienze siano l'invenzione di macchine e lo sviluppo dell'industria. Senza dubbio queste cose sono utili, perché cosi si facilita il soddisfacimento dei bisogni dell'uomo. D'altra parte, l'uomo ha anche aspirazioni di ordine intellettuale e morale. È presente in lui un desiderio di conoscere fine a se stesso. La scienz.a risponde soprattutto a questo bisogno, e vedremo nel corso di psicologia - quando cercheremo di analizvire e di spiegare tale esigenza -che esso è riconducibile in ultima istanza al desiderio, proprio dell'intelligenza umana, di semplificare e di generalizzare. Supponiamo che la scienza non esista: saremmo ridotti a vedere i fenomeni scorrere davanti in modo indefinito. Potremmo anche osservarli; ma la nostra memoria si limiterebbe a

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fornirne un catalogo, una sterile enumerazione, senza cogliere le loro relazioni. La scienza, invece, ripartisce i fenomeni in gruppi ed esprime in ognuno di questi insiemi, grazie a una legge o a una semplice formula, l'infinita molteplicità in essi contenuta. La serie slegata di fatti è sostituita da leggi, e si può dire quindi che il bisogno e il desiderio di semplificare costituiscono l'essenza dello spirito scientifico.

La classificazione delle scienze Dopo aver fornito una definizione generale della scienza e aver preso ad esempio la fisica, resta da chiarire il rapporto tra le sciew..e e la filosofia. A questo scopo occorre ampliare un po' l'orizzonte d'indagine e considerare le scienze nel loro insieme. Non è facile enumerarle in modo esaustivo, e in effetti una classificazione completa è quasi impossibile. Per catalogare in via definitiva e con metodo tutte le cose da conoscere, occorrerebbe sapere tutto, ossia possedere una scienza universale. D'altra parte, fin dall'antichità troviamo alcuni tentativi di classi6cazione. Platone e, dopo di lui, Aristotele hanno ripartito le scienze in diverse categorie. Aristotele distingue tre tipi di scienze: le scienze poetiche, le scienze pratiche e le scienze speculative. Le prime due sono scienze produttive, perché generano qualcosa; si pensi a un vestito, a una casa, a una buona azione, ecc. Occorre però distinguere scienze poetiche e scienze pratiche. Le scienze poetiche producono un'opera che può essere distinta dall'agente produttore; ad esempio, l'architettura sarà una scienza poetica poiché giunge alla costruzione di edifici indipendenti dall'architetto. Per conoscere bene una casa non è infatti necessario sapere il nome di chi l'ha progettata; la casa sussiste per sé, è autonoma rispetto a colui che l'ha costruita. Anche la musica è una scienza poetica, poiché una sinfonia esiste al di là dell'artista che l'ha

62 composta; allo stesso modo un vestito rispetto al sarto. Cosi sono dette poetiche, dal greco 1totsiv, fare, le scienze che producono questo tipo di oggetti. Tuttavia, ci sono opere che non possono essere distinte dall'agente produttore. Cosi una buona azione non ha un'esisten7..a distinta, non vive al di fuori di chi l'ha prodotta. La morale sarà quindi una scienza pratica e l'espressione "scienze pratiche", dal greco 1tpacrcroo, agire, si addice a quelle discipline le cui produzioni sono di natura tale da non poter essere analiz7..ate senza tener conto dell'agente. Restano le scienze speculative, per Aristotele le scienze per eccellenza. Queste non hanno come scopo la produzione ma la conoscenza propriamente detta; si pongono come obiettivo di illuminare l'intelletto; si distinguono per la ricerca disinteressata del vero e per la pura contemplazione. La matematica e la geometria sono scienze speculative, perché si occupano di calcoli, di costruzioni e di figure; il loro unico fine è conoscerei rapporti tra numeri, linee e superfici. Esse non mirano alla produzione di un oggetto, ma alla contemplazione di ciò che è (speculari vuole dire: osservare, contemplare). Si può dire lo stesso della fisica teorica; il fisico non è un inventore e non cerca applicazioni pratiche dei suoi studi all'industria o in vista del benessere degli uomini; egli desidera solo conoscere le leggi della natura. A maggior ragione la lìlosofia è, secondo Aristotele, una scien7.a speculativa Questa classificazione è importante, perché rappresenta uno primo tentativo di suddivisione sistematica. Aristotele ha ripartito le scienze in base al fine (l'utilità o la contemplazione). Per questo motivo si espone però ad alcune critiche. Si potrebbe obiettare che le scienze poetiche e pratiche non sono scienze in senso stretto. Se è vero che la scienza si propone prima di tutto la conoscen7.a disinteressata del vero e, in particolare, delle leggi della natura e del pensiero, come si può

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affermare che i saperi utili, il cui scopo è la produzione, costituiscano una scienza? I pensatori moderni hanno usato un nome specifico per identificare le conoscenze di questo tipo: le hanno chiamate "arti". L'architettura è ad esempio un'arte come la mora1e. Il termine "arte" designa infatti un insieme di conoscenze volte alla produzione di un'opera. Cosl tutte le scienze riconosciute come tali sono dette speculative; e dunque Aristotele non ha incluso nella sua classificazione le uniche scienze degne di questo nome. In età moderna il filosofo inglese Francesco Bacone - considerato con una certa esagerazione il grande riformatore delle scienze - ha proposto una ripartizione in base al seguente principio. Bacone divide le scienze in tre categorie, secondo le facoltà dello spirito umano. Distingue: 1) le scienze della memoria, ad esempio la storia; 2) le scienze dell'immaginazione, ad esempio la poesia, 3) le scienze della ragione o dell'intelletto, come la fisica, la teologia ecc. Questa classificazione è soggetta alle stesse obiezioni mosse contro Aristotele, perché colloca all'interno delle scienze attività dello spirito umano, come la poesia, senza dubbio nobili, ma che differiscono in modo profondo e per natura dalle scienze. Inoltre, Bacone ha torto nel credere che le facoltà dell'anima non agiscano mai insieme, che, ad esempio, lo storico non possa fare appello anche alla ragione e non solo alla memoria. Tra le classificazioni moderne la migliore è sicuramente quella del fisico e filosofo Ampère1, che, sen7,aessere né definitiva né

l. André-Marie Ampère(l775-1836) filosofo e scienziato francese. Bergson si riferisce in particolare al tentativo di classilìcazionedelle scienze proposto da Ampère in Id., Essai sur la philo,sophie des sciences, ou exposition ana-

lytique d'une c/a.ssificaticn naturelle de toutes les connaissances humaines, 2 voli., Bachelier, Paris 1834-1843.

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forse molto filosofica, ha tuttavia il merito di abbracciare tutte le scienze oggi esistenti e di limitarsi solo a queste. Ampere distingue due scienze: le scienze della materia o cosmologiche e le scienze dello spirito o noologiche. Le scienze cosmologiche studiano la materia e le sue proprietà. Possono essere suddivise in tre gruppi. 1) Il primo gruppo è costituito dalle scienze astratte della materia, che ne studiano le proprietà generali, come l'aritmetica (il numero), la geometria (l'estensione) e l'algebra (la quantità espressa in formule). Queste scien7,e sono dette anche matematiche. 2) Il secondo gruppo è costituito dalle scien7.e concrete della materia, che studiano proprietà più complesse non calcolabili in modo immediato, ossia insiemi di elementi e non caratteri isolati. Appartengono a questo gruppo la fisica, la chimica, la storia naturale, la fisiologia e tutte le scienze dette comunemente "fisiche" o "naturali". 3) Il terzo gruppo è costituito dalle scienze miste, chiamate cosl perché il loro oggetto è meno semplice di quello delle scienze fisiche e perché il loro metodo comprende procedimenti presi in prestito dai due gruppi precedenti. A questo tipo di scienze appartengono l'astronomia, scienza allo stesso tempo di osservazione e di calcolo, la meccanica, ecc.

Le scienze noologiche non studiano più la materia, ma lo spirito; non più le cose, ma l'uomo come essere intelligente. L'intelligenza umana può essere analizzata da diverse prospettive. Se studiata in se stessa e nelle sue operazioni, si giunge alla psicologia e alla sua appendice, la logica. Se l'intelligenza è invece compresa nelle sue manifestazioni nel tempo, si ottiene un nuovo gruppo di discipline: le scienze storiche. La storia si propone infatti di raccontare eventi (ad esempio politici, militari, ecc.), perché questi ci fanno comprendere la nostra evoluzione, il cammino e il progresso delle idee e delle istituzioni.

6.5

L'intelligen:za umana si manifesta non solo nelle scelte ma anche attraverso il linguaggio. Questo nuovo gruppo di scienze comprende le scienze lìlologiche e del linguaggio e tutte le discipline ad esse collegate. Un quarto gruppo è in6ne quello delle scienze comunemente dette morali: la giurispruden:za, l'economia politica, la sociologia, che studiano lo spirito umano come essere sociale perfettibile su cui poter agire. Questa classi6cazione si fonda sulla considerazione degli oggetti studiati e non sui 6ni che lo scienziato si propone. In base all'oggetto, materia o spirito, la scien:za sarà detta cosmologica o noologica. La ripartizione è molto razionale, anche se si può muovere un'obiezione: si stabilisce una separazione troppo netta e marcata tra scienze della materia e scienze dello spirito. Questi due ordini di scienze spesso si intrecciano, e l'uno ha bisogno sempre dell'altro; è difficile dire quando una verità appartenga all'ambito delle scienze della materia o a quello delle scienze dello spirito. D'altra parte, ogni classificazione è tale perché individua dei confini, e occorre che questi siano netti.

La.filosofia delle scienze Sebbene numerose, le divisioni introdotte nella classificazione delle scienze sono ben poca cosa se si pensa che ogni singola scien:za forma un tutto complesso al cui interno è individuabile un numero considerevole, spesso anche indefinito, di sezioni. Lo studio di una sola di queste basterebbe a impegnare l'intera vita di un uomo. Così la geometria, che è in se stessa una piccola parte della matematica, presenta numerose ramificazioni: la geometria euclidea o elementare; la geometria analitica, in cui le 6gure sono considerate come luoghi geometrici e studiate ricorrendo solo al calcolo; la geometria superiore, in cui si introduce l'analisi dell'inlìnitamente piccolo.

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A sua volta la fisica comprende lo studio della gravità, del calore, del suono, della luce, dell'elettricità. Allo stesso modo, nelle scienze naturali troviamo un numero infinito di branche: botanica, geologia, zoologia, fisiologia, ecc., e ognuna di esse presenta moltissime suddivisioni. Anche la storia abbraccia nel suo ambito quanto possa chiarirci sul cammino dello spirito umano e sul progresso dell'umanità. Benché sia in sé naturale, è curioso come più le scienze progrediscano e si ramifichino, più ne fondino di nuove. Questo deriva dal fatto che più si studiano le cose, più si ha consapevole7..7.a della loro complessità. Ora, la tenden7.a delle scienze a moltiplicarsi è solo uno degli istinti della nostra ragione, poiché questa ricerca anche la semplificazione. È naturale che insieme alla tendenza di ogni scienza a spingersi in molteplici direzioni, ve ne sia una contraria, che mira a condensare e ad abbracciare la verità in un numero molto piccolo di formule. Potrebbe esistere, e in effetti esiste, in ogni scienza una sezione speciale, la fìlosofia di questa scienza, che si propone di ricondurne all'unità i molteplici elementi e risultati ottenuti. Facciamo un esempio. Le scienze naturali studiano i minerali, i vegetali, gli animali, e ognuna di queste divisioni ne comprende molte altre al suo interno. Lo studio di una sola famiglia o di una sola specie basterebbe infatti a occupare l'intera vita di uno scien:ziato. Non si potrebbero dedurre da tutti i lavori compiuti dai naturalisti una o più verità universali tali da semplificare i risultati acquisiti e da mettere insieme tutti i frammenti? Questo cerca di fare la scuola evoluzionista che si basa sulle idee di Darwin. Essa si sforza di mostrare come il più semplice dei vegetali sarebbe nato da una combinazione di elementi minerali inorganici, come gli stessi vegetali si sarebbero complicati sempre di più dando origine alle specie variegate che abbiamo oggi. Cosl sarebbero nati anche gli animali più

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semplici; e passo dopo passo, attraverso successive complicazioni, sarebbe possibile arrivare fino all'animale più perfetto, l'uomo, senza dover interrompere la catena, in quanto ogni specie deriverebbe in modo immediato da quella inferiore. La teoria darwiniana presta il fianco a molte obiezioni, ma è pur sempre una lìlosofia delle scienze naturali; essa rappresenta un tentativo, senz'altro prematuro, di legare e di fare derivare gli uni dagli altri minerali, vegetali e animali. Anche le sezioni della fisica sono molte; si studia infatti di volta in volta e in modo separato la gravità, il calore, il suono, la luce, l'elettricità, ecc. I fisici contemporanei hanno cercato di fare per la fisica quello che il darwinismo ha fatto per le scienze naturali, ossia legare e unire quanto la scienza aveva prima diviso. Ad esempio, risulta dai lavori di Hirn e Mayer che il calore è riconducibile a un movimento vibratorio delle molecole del corpo2 • Huygens, Young e Fresnel avevano però già mostrato come anche la luce consistesse nel movimento vibratorio di molecole in un fluido chiamato l'etere3• Infine anche lo studio del suono, la branca forse più avanzata della fisica, porta alla medesima conclusione: il suono consiste in una vibrazione dell'aria. Ne consegue allora che le diverse sezioni della fisica fino a oggi studiate sembrano condurre al medesimo risultato: a dispetto della loro apparente diversità, tutti i fenomeni fisici si riducono a movimenti di molecole o di atomi.

La disciplina interessata a questo elemento comune è la lìlosofia della scienza, che è ancora alle prime armi, ma destinata

2. Gustave-Adolphe Him (1815-1890) e Julius Robert von Mayer (18141878) sono due scienziati dell'Ottocento che si sono occupali di termodinamica. 3. Christian Huygens (1629-1695), Thomas Young (1772-1829) e Auguslin Fresnel (1788-1827) sono tre fisici che hanno studiato il fenomeno della luce.

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a compiere tanti più progressi quanto più avanzeranno i singoli settori della lìsica. Anche le scienze storiche hanno la loro lìlosolìa. Tra tutte le scienze, la storia è forse quella più complicata. Infatti, un evento storico, per esempio un rivolgimento politico, comprende le infinite azioni e tutti i pensieri concepiti dalle numerose persone che vi hanno preso parte. Cosi, per comprendere in pieno la Rivoluzione francese occorrerebbe aJlalizzarP. lo stato d'animo di tutti i francesi alla vigilia del 1789, lavoro sovrumano e impossibile, ma senza il quale la storia resterebbe una scienza approssimativa. Sebbene i fatti storici siano destinati per la loro stessa natura a essere sempre conosciuti in modo imperfetto, non si potrebbero ricavare alcune leggi o formule universali e valide sempre e ovunque, leggi attraverso cui gli eventi della storia si legherebbero e si dedurrebbero gli uni dagli gli altri come i teoremi di geometria? Bossuet ha cercato di farlo nel suo Discorso sulla storia universale, in cui si sforza di dimostrare che tutti gli eventi della storia antica, la fondazione di imperi, le rivoluzioni e le guerre, avrebbero preparato la nascita e la diffusione del cristianesimo•. Il cristianesimo, ecco il centro verso cui convergerebbe tutto, che darebbe unità alla storia. Il discorso sulla storia universale è quindi un tentativo di lìlosolìa della storia.

Il lìlosofo italiano Vico, il detrattore di Omero, ha determinato le leggi della storia, e ha fondato la lìlosolìa di questa disciplina.

Le opere di Montesquieu, in particolare Lo spirito delle leggi e le Considerazioni sulle cause della grandezza e della decadenza dei Romani, hanno a loro volta un tenore lìlosolìco, anche 4. Jacques Bénigne Bossuet ( 1627-1704) scrittore, vescovo cattolico, teologo e predicatore francese autore di numerose opere, tra cui il Di.sccurs sur l'histolreuniverselle (1681).

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se in esse troviamo tesi meno ambiziose di quelle di Bossuet. A differen7.a di Bossuet, Montesquieu non ha cercato di ricondurre tutte le verità storiche a una sola: individua invece un insieme di leggi universali. Anche Fustel de Coulanges ne La città antica ha elaborato una filosofia della storia, cercando di dedurre le istituzioni antiche dal culto degli antenati~. Allo stesso modo, nella sua Storia della civiltà in Francia e in Europa, Gui7.ot ha sviluppato una filosofia della storia come altri storici a lui contemporanei6 • Una lìlosofia della matematica è stata tentata da Camot7 e prima di lui da D'Alembert. Questa disciplina si propone di individuare i punti in comune tra le diverse branche della matematica. Si tratta di un lavoro molto difficile. Da tutte queste osservazioni, si può già determinare con una certa precisione in cosa consista lo spirito filosofico. Esso si manifesta ovunque sia presente una tenden7.a a ridurre all'unità, ovunque appaia il desiderio di racchiudere un numero infinito di fatti, di oggetti e di idee in un piccolo numero di formule. Lo spirito filosofico si confonde allora con lo spirito scientifico, e se a volte sono distinti, è perché la scien7.a, soprattutto nei tempi moderni, ha spesso più diviso che unito, più moltiplicato le sue branche che ridotte a una sola. In effetti, questo è un lavoro provvisorio cui si deve dedicare ogni

5 . Numas Denis Fuste! de Coulanges (1830-1890), storico francese. Bergson cita in particolare tra le opere dello studioso I.A cité annque (1864), testo in cui Fuste! de Coulanges conduce uno studio comparato delle istituzioni della Grecia classica. 6. François Guizot (1782-1874), storico francese, autore di numerose opere sulla storia della Francia. Bergson cita la sua monumentale Histoi~ ck la cioilisation en France et en Europe articolata in cinque volumi e pubblicata tra il 1828 e il 1830. 7. Nicolas Léonard Sadi Camot (1796-1832), fisico, ingegncreematematico francese.

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sciell7...a: occorre pur sempre cominciare dallo studio di fatti specifici. Molto scienziati si limitano però a questi e si accontentano della scoperta di verità particolari. Chiamiamo tale tendenza spirito analitico, mentre chiamiamo spirito sintetico la tendenza opposta, che consiste a raggruppare, a semplificare, a unire e a generalizzare. Questa è l'attitudine scientifica per eccellenza.

L'oggetto della filosofia Come si è visto le scienze si suddividono in due grandi categorie: le scienze della materia e le scienze dello spirito. Entrambi gli ambiti comprendono al loro interno più suddivisioni. Le diverse scienze che rientrano nei due gruppi possono però essere semplificate attraverso la riffessione filosofica. Ricorrendo a un potente sforzo di sintesi, la filosofia di una scienza cerca infatti di unificare le verità proprie di un particolare settore disciplinare. È naturale porsi allora questa domanda: non si potrebbe tentare per esempio per la totalità delle scienze dello spirito o per la totalità delle scie117_.e della materia quanto la filosofia di una scienza si propone di fare per una sola? Non si potrebbero cercare alcune leggi molto generali per sintetiZ7.are tutte le conoscenze che abbiamo della materia o dello spirito? Tra uno studio di questo genere e l'insieme delle scienze ci sarebbe in proporzione lo stesso rapporto che sussiste tra la filosofia di una scienza e questa determinata scienza. Infatti, come la filosofia di una scienza fornisce la sintesi delle verità di una particolare scienza, cosl questa filosofia superiore esprime in poche semplici formule tutto quello che può essere detto e conosciuto in relazione alla materia o allo spirito. Questa scienza superiore è la metafisica, o scienza di quanto è al di

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sopra della natura; la metaJìsica è la scienz.a lìlosofica per eccellenza, il coronamento stesso della scienz.a. Secondo Janet, la fìlosofia propriamente detta è la stretta unione di psicologia e metafisica. La metafisica si propone di rispondere a queste due domande: cos'è la materia? cos'è lo spirita8? Non bisogna credere che il fisico, il naturalista, lo storico e il fìlologo si propongano di sapere quale sia la natura esatta di questi due oggetti. Il fisico studia ad esempio le proprietà della materia, ma non si domanda cosa sia la materia in se stessa. Afferma che il calore e la luce sono movimenti di molecole o di atomi. Ma cos'è un movimento? Cos'è un atomo? In cosa consistono questi fenomeni in se stessi, fatta astrazione da come appaiono quando si presentano al nostro sguardo? Queste domande non rientrano nell'ambito della fisica. Il naturalista esamina al microscopio i tessuti viventi, descrive la materia vivente, cerca le leggi della sua organizzazione. Ma cos'è la vita? In cosa differisce dal movimento puro e semplice? Cos'è in se stessa, quando la consideriamo facendo astrazione delle sue manifestazioni? Ecco una questione metafisica. Infatti il naturalista non ha mai scoperto né scoprirà mai la vita con il microscopio: ne vedrà solo le manifestazioni. Eleviamoci ancora e passiamo dall'ambito della vita a quello del puro pensiero. Anche qui ci sono scienze particolari e 610sofie di scien7.e che studiano le manifestazioni o le produzioni dello spirito. Per esempio, la lìlosofia studia il linguaggio, la storia, le istituzioni. Ma cos'è il pensiero, in cosa consiste lo spirito, qual è la sua essen7.a, ossia ciò che lo costituisce nel più intimo? Il pensiero si distingue dal principio della vita, cioè

8. Paul Janet 1823-1899, filosofo e saggista francese, autore di numerose opere, tra cui i Principes de métaphysique et de p,sychologie (1888-1894).

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dalla materia? Tutte queste domande rientrano nell'ambito metafisico. Nessuna scienza particolare va oltre l'apparire, il fenomeno, mentre la metafisica si pone come obiettivo di superare il fenomeno, di cercare cosa ci sia dietro. C'è qualcosa dietro il fenomeno, ed è importante mostrarlo per provare che la metafisica non insegue vane chimere. Prendiamo in esame un oggetto materiale qualsiasi, ad esempio un pezzo di legno. Crediamo di conoscerlo perché lo vediamo e lo tocchiamo. Tuttavia, la riflessione e l'analisi presto ci insegnano che ne conosciamo solo le apparenze. Per prima cosa lo vediamo, perché ha un colore. Ma grazie alla fisica sappiamo che il colore, o quello che sembra tale, non è altro che un movimento vibratorio impresso in un fluido chiamato etere. Vediamo un colore solo perché il nostro occhio è impressionato in un certo modo; considerato in se stesso, al di là delle impressioni visive, l'oggetto non ha colore. Affermiamo inoltre che possiamo toccare questo oggetto. Non si intende con questo che l'oggetto oppone una certa resistenza? Ma la resistenza è una sensazione. L'oggetto resiste, perché il nostro sistema nervoso, e in particolare i nervi tattili, sono impressionati. Per un altro essere, diverso da noi, dotato di un altro sistema nervoso, questo oggetto potrebbe non essere resistente. Così, anche per tutte le altre qualità dell'oggetto si può provare sen7.a difficoltà che alla luce della scien7.a moderna esse sono in noi e non nella cosa, che sono apparenze. Ma se sono tali, qual è l'oggetto che ha prodotto queste illusioni? Cosa c'è dietro le diverse qualità? Cos'è il peZ7.o di legno se si fa astrazione dal colore, dalla resistew.a, dalla temperatura e dalle sue molteplici proprietà, che si riducono in ultima analisi alle impressioni subite dai nostri organi, cioè a pure apparenze? È una domanda legittima, e una scienza speciale, del puro ragionamento, affronta problemi di questo tipo. La metafisica ha quindi un oggetto ben determinato: la conoscenza dell'essenza ultima delle cose. È in questo senso che Aristo-

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tele l'ha definita come sciew.a dei principi primi e delle cause prime. Infatti chi potesse rispondere alle domande "cos'è la materia?", "cos'è lo spirito?", non avrebbe più nulla da conoscere. Possederebbe la chiave di tutte le conoscenze umane; potrebbe dedurre da queste due definizioni tutte le leggi e le proposizioni universali relative alla totalità delle cose, come il geometra che può ricavare da una certa definizione tutti i teoremi relativi alla figura che sta studiando. Se la metafisica fosse fondata senza alcun nesso, potrebbe essere chiamata scienza universale. Fin dalla sua nascita questa è stata l'ambizione della filosofia: i primi filosofi indentificavano la filosofia con la conoscenza assoluta delle cose. Il filosofo era allo stesso tempo fisico, astronomo, ecc. La filosofia moderna è invece meno ambiziosa. Nessun uomo può padroneggiare allo stesso tempo tutte le scienze. Non sarebbe però possibile arrivare ad alcune formule molto semplici e universali che ci facciano penetrare nell'essenza stessa della materia e dello spirito? Ecco il problema fondamentale della filosofia, il problema della metafisica. D'altronde la metafisica non può essere fondata senza studi preliminari, poiché non si può certo penetrare subito nei principi essenziali di una cosa. Occorre averne studiato le caratteristiche; prima di porre le due domande-"cos'è la materia?", "cos'è lo spirito?" - bisognerà dedicarsi a uno studio particolare e scientifico delle proprietà della materia e dello spirito. Di questi due studi, l'uno, quello dell'intelligenza e dello spirito in generale, è più importante dell'altro. Siamo spesso ingannati dalle apparenze e consideriamo come qualità delle cose le nostre impressioni. Non è allora necessario comprendere come funziona il nostro spirito per poter cogliere quanto esso aggiunga alla realtà e per spiegare che quello che sembra essere nelle cose non lo sia di fatto? Prima abbiamo osservato che il pezzo di legno sembra possedere molte qualità che invece non ha. Ma se, per ipotesi, ci fosse noto il fun-

74 zionamento dell'intelligenza e dei processi attraverso i quali la nostra anima conosce le cose, potremmo subito affermare, senza ricorrere alla fisica, che la nostra intelligenza percepisce necessariamente nelle cose elementi che appartengono solo ad essa. Supponiamo che guardi un paesaggio con occhiali le cui lenti siano blu: tutti gli oggetti mi appariranno blu e tale colorazione sembrerà appartenere agli oggetti. Se non riflettessi sul fatto che porto gli occhiali, penserei che questo colore appartenga agli oggetti; eppure appartiene ai miei occhiali. In modo analogo percepiamo le cose materiali o immateriali attraverso il prisma dell'intelligen7.a. Vedremo nel corso che la nostra intelligen7,a altera e deforma molte cose, e solo quando conosceremo il funzionamento dell'intelligenza e quando avremo studiato i suoi meccanismi sapremo fino a che punto ed entro quali limiti possiamo avere fiducia in essa. Lo studio dell'intelligenza e, in generale, dell'anima deve quindi precedere la ricerca metafisica. La scienza che assolve tale compito è la psicologia. Psicologia e metafisica sono le due discipline essenziali della lìlosofia, e la prima è un mezzo per raggiungere la seconda. Potremmo limitarci a queste due discipline se la lìlosofia fosse solo una scienza speculativa Tuttavia è consuetudine legare alla psicologia due scienze che ne dipendono e che appartengono all'ambito noologico. Si tratta della morale e della logica. Vedremo infatti che l'anima può essere considerata da tre punti di vista: come sensibilità, come intelligen7,a e come volontà. Quando si conoscono la natura di queste tre facoltà e il modo in cui funzionano, è naturale desiderare di trame profitto nella vita. La logica ha per scopo di fornirci le regole per dirigere l'intelligen7.a; essa ci insegna a ragionare. Quanto alle altre due facoltà, sensibilità e volontà, vedremo che tra esse c'è un rapporto naturale la cui conservazione dipende da noi. E quando

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la sensibilità non obbedisce alla volontà e la passione prende il soprawento, questo accade sempre a detrimento dell'intelligenza. È quindi naturale l'intervento di una scienza speciale, il cui ruolo consiste nello stabilire quali rapporti tra sensibilità e volontà vanno alimentati. Questa scienza è la morale o scienza del dovere. Logica e morale, ecco due scienze importanti che dipendono in modo stretto dalla psicologia. Cominceremo dalla psicologia che è la chiave di tutto il resto, la parte fondamentale della filosofia, e termineremo con la metafisica, che è lo scopo ultimo della filosofia, e, tra queste due scienze, affronteremo l'analisi della logica e della moraleM et daM son h/.stolre (1861) e Le Splrituallsme daM l'art (1864).

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le, risvegli in noi un'unica impressione, quella dell'idea, di un sentimento o di uno sforzo. Abbiamo anche osservato che la bellezza è la realizzazione dell'ordine, e, infatti, è necessario che un'idea generale, un sentimento o uno sforzo racchiuda tutti gli elementi di un oggetto coordinandoli. Ad esempio, invece di un aggregato di molecole, percepiamo elementi disposti in vista di un fine, e in questo senso nel bello è presente sempre una finalità. È facile allora spiegare il piacere suscitato dal bello. Siamo posti di fronte a una materia che all'inizio non ha nulla in comune con noi, né il pensiero, né l'intelligen:,.a, né l'attività. Quando questa materia sembra esprimere un'idea, un sentimento o manifestare uno sforzo, gioiamo di quella che appare come una conquista dello spirito sulle cose; le cose diventano più simili a noi, ci interessiamo ad esse come a qualcosa di umano, simpatizziamo con esse, le amiamo e le giudichiamo belle. Per completare questa analisi, dobbiamo ancora soffermarci brevemente sul carino, sul grazioso, sul sublime e anche sul ridicolo. Infatti, anche queste sono nozioni estetiche. Il carino differisce dal bello, in quanto esclude la grandezza; è il bello nelle piccole cose, nelle cose fragili. La grazia è invece soprattutto la bellezza nel movimento. Spencer ha elaborato un'ingegnosa teoria secondo la quale la grazia consiste nel muoversi impiegando il minor sforzo possibile. Così il pattinatore che pattina sul ghiaccio e disegna delle curve ondulate è grazioso perché il movimento sembra non costargli nulla. Mentre se disegnasse angoli, sembrerebbe perdere eriprendere a scatti il suo slancio e impiegare molta più for7.a del necessario. Un ramo che sorge da un albero in linea perpendicolare rispetto al tronco non è grazioso. È come se il tronco provasse una certa fatica, perché lo paragoniamo a un braccio teso orizzontalmente. Al contrario il salice è grazioso quando piega in modo naturale e sen:,.a sforzo i suoi rami verso terra.

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C'è del vero in questa teoria, ma bisogna sottolineare che essa rientra nella teoria del bello. Il risparmio di fo17.e genera piacere a condizione che ci mettiamo noi stessi al posto dell'oggetto materiale per gioire idealmente della sua leggerezza. Il sublime è stato anali.7.7.ato da Kant, ma occorre dire che questa nozione (come quella del bello) è ancora abbastanza oscura. Come ha detto Lév~que, il sublime sembra essere qualcosa che fa pensare all'infinito, a una grandezza o potenza infinita. Cosl gli spettacoli della volta celeste e del mare che si perde ali'orizzonte sono sublimi. Diciamo sublime la parola delle Sacre Scritture. Dio dice: sia fatta la luce, e la luce fu. Queste parole sono sublimi, perché pensiamo all'infinita potenza necessaria per faruscire l'essere dal nulla con un semplice cenno. La formulazione di un pensiero che risvegli in noi l'idea dell'infinito produrrà l'emozione del sublime. Anche secondo Kant è presente in questa emozione una specie di stupore, e infatti il sublime è sempre un contrasto tra la nostra piccolezza e l'infinito a cui pensiamo. Infine, la nozione del ridicolo resta ancora impensata, a dispetto dei tentativi di Kant, di Richter e di Dumont. Secondo alcuni il ridicolo consisterebbe in una sconvenienza. Ridiamo del capitano di una nave che ha il mal di mare, perché le due cose sembrano incompatibili. Ma quante volte ci fanno ridere cose senza che questa condizione sia realizzata, come per esempio i giochi di parole. Per altri, il comico consiste nell' assenza di proporzione tra il fine e i mezzi. Ridiamo di uno sforzo che non riesce, di un corridore che cade all'improvviso per terra, "della montagna che partorisce un topo". Ma perché non ridiamo di un poveraccio che non riesce a sollevare un peso? Infine,secondo Richter e Dumontil comico si realizzerebbe e il riso sorgerebbe in presenza di una contraddizione che siamo quasi obbligati ad accettare. Ad esempio, la caricatura di un amico ci fa ridere, perché allo stesso tempo è lui e non è lui.

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Lo stesso vale per le ossessioni ben descritte nelle commedie di Molière, ma come applicare questa definizione del comico all'Aooro di Molière e al Misantropo?

L'arte L'arte ha per oggetto principale la produzione del bello. Infatti l'uomo, come del resto la natura, è capace di realiZ7..are il bello; alcuni dicono perfino meglio della natura. Domandiamoci qual è lo scopo dell'artista e in seguito i mezzi di cui dispone. Dicevamo che nella natura il bello è sempre l'espressione o la manifestazione sensibile di un pensiero, di un sentimento o di uno sfor.zo. Ma la natura non ha mai per scopo di essere bella. Essa lo è per accidente, e per quanto possa essere bella, sembrano sempre aggiungersi ali'espressione pura dell'idea o del sentimento alcuni dettagli, tratti accessori che la modificano e la alterano. L'arte fa astrazione di questi elementi superflui; l'artista si propone di esprimere un'idea, un sentimento o uno sforzo, null'altro. Tutte le parti dell'opera convergono cosi verso un punto unico, e per questo si può dire che l'arte rende la natura più bella. Prendiamo in esame le diverse arti, vedremo che tutte si propongono di rappresentare sotto una forma sensibile qualcosa di umano: sentimenti, pensieri, azioni. Più l'idea espressa è generale, più il sentimento è universale, più l'opera ha presa sullo spettatore perché è umana. Un ritratto differisce da una fotografia, in quanto rende allo stesso tempo la realtà materiale e l'impressione dell'artista. Il pittore ha infatti afferrato sulla fisionomia del volto un'espressione durevole; pur rispettando la realtà, egli coordina gli elementi del suo ritratto nell'idea centrale che vuole esprimere. In genere si tratta di un sentimento, della gioia, della tristezza, della pietà, o anche di una

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combinazione più complessa di sentimenti. Lo spettatore che guarda la Gioconda di Leonardo da Vinci vi ritrova, in base al suo stato d'animo, emozioni diverse; ma quello che è notevole, al punto di rendere tale opera un capolavoro, è che uno spirito colto vedrà in essa sempre l'espressione di un sentimento e non una semplice associazione di colori. Allo stesso modo, il pittore aggiungerà o sottrarrà a un paesaggio l'emozione o lo stato d'animo che egli ritiene debba suscitare nello spettatore. In genere il pittore vuole raffigurare la tranquillità e il riposo. Lo stesso accade nella scultura, anche se qui le passioni e i sentimenti che si possono esprimere sono limitati. La scultura ripugna le emozioni violente, è più amica della grazia, e la flessibilità e l'agilità dei movimenti impressi dallo scultore ci seducono più della fisionomia propriamente detta.

La musica rende invece i sentimenti dell'artista in modo molto vago. Vana è la pretesa dei wagneriani di riconoscere in una sinfonia Arianna che si addormenta. Al massimo, cullando il nostro udito, la musica può farci sognare, ma mai potrà esprimere in modo oggettivo un'idea, un sentimento o un fatto ben determinato. Nondimeno, la musica è l'arte più espressiva: in virtù della sua vaghez:za, risveglia tra i nostri ricordi sensazioni e emozioni che combaciano con il ritmo e l'andamento della melodia. La musica esprime cosi per ognuno di noi cose diverse ma con un'intensità straordinaria. L'architettura opera invece su grandi dimensioni; esprime soprattutto la fo17..a e ci fa pensare a una resistemr.a e a una solidità senza limite. Cosi si spiega la predominanza delle linee verticali, la cura con cui si evita quanto potrebbe dare I'apparenza di una mancanza di solidità. Il poeta canta tutti i sentimenti del cuore umano; mette in scena le passioni, i vizi, il comico e la riflessione astratta; a tutto questo il poeta dà vita. Si pensi a Lucrezio quando espone la dottrina di Epicuro.

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Diremo allora che lo scopo ultimo dell'arte è esprimere qualcosa, porre lo spettatore o l'uditore in unospecilìco stato d'animo. È quello a cui tutti pensano quando affermano che l'artista rappresenta l'ideale, poiché questo non è altro che un ben preciso sentimento o una determinata idea che emerge da tutti gli elementi estranei derivanti dalla realtà. L'arte classica rispecchia pienamente questa delìnizione; si caratterizza infatti per la semplicità, per l'assenza di ornamento e per la chiara intenzione di non aggiungere nulla alla pura espressione del sentimento o dell'idea. L'arte classica incarna soprattutto la tendenza a rappresentare e a condensare in un oggetto esemplare una moltitudine di cose o meglio quanto è comune a un'enorme quantità di individui. Per questo motivo l'arte classica non tramonta mai; essa non è il semplice specchio di una determinata epoca. Infatti, anche se è lìglia del suo tempo, l'arte classica coglie l'aspetto durevole del proprio contesto storico. L'arte classica è l'arte realista; e coloro che si delìniscono realisti o che pretendono di esprimere il vero imitando la natura e la realtà producono opere durevoli purché riprendano dai classici il proprio modo di procedere. Ad esempio, pensiamo che uno scrittore realista riporti nei suoi romanzi una conversazione cosl come si è svolta. In verità egli seleziona dal dialogo le parole di maggiore effetto, cioè quanto vi è di più espressivo, e così sarà classico senza saperlo; in caso contrario, sarà noioso. Infatti, come ha detto Voltaire: «il segreto per annoiare è voler dire tutto». Non abbiamo mostrato ancora l'inferiorità dell'arte rispetto alla natura: a differenza della natura, l'arte non può dare la vita. Nell'opera d'arte appre7.ziamo una specie di conquista; l'uomo che plasma la materia riesce a esprimere qualcosa perché introduce in essa il pensiero, il sentimento o il volere. Non ci dimentichiamo però che siamo sempre vittime di un'illusione più o meno infantile: si cerca di rimediare a un'inferiorità

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L'arte ha anche il potere di lusingare le inclinazioni più forti del nostro spirito: l'amore della misura, del ritmo e della regolarità. Abbiamo spesso ribadito che l'intelligen:za umana ha istinti e tendenze geometriche, fonti secondo Bacone di tanti errori, che si rivelano nell'amore della simmetria e nel gusto per il ragionamento logico. Ora, tutte le arti, salvo forse la pittura, presuppongono un elemento geometrico. Nella poesia questo è dato dal ritmo, dalla misura e dalla rima. Nella musica, la regolarità è perfetta: ognuno sa che il rapporto tra le diverse battute ha la stessa durata. In architettura le forme sono regolari e geometriche, uno stesso motivo si ripete in modo continuo in un dato edificio; quest'arte lavora infatti sempre con linee dritte e con curve relativamente semplici. Anche nella sculturala proporzione delle forme e delle diverse parti del corpo asseconda la nostra tenden:za istintiva ali'ordine e alla regolarità. Solo la pittura costituisce un'eccezione, ma questo dipende dal fatto che la pittura è l'arte realista per eccellen:za. In mancanza di elementi ritmici, essa ci dà quasi l'illusione della vita. Abbiamo parlato fìn qui dell'arte pura che esprime un ideale, ma ci sono gradi nell'arte e l'imitazione pura e semplice ha già un valore artistico. Va subito precisato che la riproduzione esatta della natura non è alla portata dell'uomo: può essere ottenuta solo attraverso procedimenti meccanici, come la fotografia, la fonografia ecc. Per quanto si sforzi, l'uomo interpreta sempre la cosa che crede di riprodurre. Del resto, non tutti hanno il proprio modo di vedere i colori e le sfumature, di sentire i suoni ecc. Ecco perché ci piace anche l'imitazione pura e semplice. In prima istan:za ammiriamo il talento dell'imitatore; in seconda istan7..a apprezziamo sempre l'elemento espressivo, per quanto inlìnitesimale, che si ag-

89 giunge all'imitazione. Si comprende cosi anche la differenza tra l'arte e la finzione. Molti confondono le due cose. La finizione è la combinazione di elementi reali operata dalla fantasia e dal capriccio del suo autore. La finzione può non avere nulla di artistico, a meno che non ispiri un sentimento o un'idea o non si ponga l'obiettivo di essere espressiva. Si pensi ad esempio alle favole. La pura imitazione e la finzione costituiscono quindi gradi inferiori dell'arte pura. Ribadiamo però che l'arte pura non rappresenta la realtà, ma la verità, cosa ben diversa.

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Corso di Filosofia morale Clermont-Ferrand, 1886-1887

I sentimenti morali e la coscienza morale. Il bene e il dovere. Oggetto della morale Lo studio psicologico della sensibilità porta il lìlosofo a individuare alcuni sentimenti di natura particolare, gioie e dolori che non sembrano affatto paragonabili né riconducibili ad altri sentimenti. Si tratta dei sentimenti morali, che sono di vario tipo. 1) Quando compiamo una buona azione, proviamo gioia, abbiamo la coscien7.a in pace e awertiamo un senso di soddisfazione morale. Questo sentimento non proviene dalla vanagloria, poiché è awertito anche quando la nostra azione è nota solo a noi stessi; non è un piacere fisico, poiché molto spesso la buona azione ci è costata anche un grande sacrificio. Siamo di fronte a un sentimento indefinibile ma molto reale, una gioia accompagnata dal senso del valore personale; si ha la sensazione di occupare un posto più elevato nella gerarchia degli esseri. 2) Al contrario, quando compiamo una cattiva azione, proviamo un sentimento indefinibile di triste7.Za. Questa triste7.7.a non è generata dalla paura della punizione, anzi quanto minore è la paura della punizione, tanto più la sofferen7.a è intensa. Si avverte insomma un sentimento di umiliazione, poiché la tristez-

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7..a è accompagnata dalla protesta della nostra intera persona.

Tale sentimento è il rimorso. Per Spino:za il rimorso è insensato, perché è assurdo piangere su un passato che non è più; non si farebbe che accrescere il senso di umiliazione. Senza dubbio l'azione non è più, ma ne resta qualcosa. Sul piano intellettuale è presente il ricordo, su quello sensibile la coscienza vaga e confusa di una diminuzione. In altri termini la cattiva azione ha lasciato una macchia indelebile. Spesso il rimorso è stato oggetto delle opere di romanzieri e poeti; gli antichi l'avevano perfino personificato nelle Furie; basta ricordare cosa accade a Oreste dopo aver compiuto il suo crimine. 3) Il sentimento di tristezza e di indignazione può essere attenuato o corretto da un'azione riparatrice, e in questo caso siamo divisi tra gioia e tristezza, rammarico e speranza: questo sentimento che si presta più degli altri all'analisi è il pentimento. Come le nostre azioni, cosl quelle altrui suscitano sentimenti morali. 1) In presenza di una buona azione provo un sentimento specifico: il rispetto o la stima. Il rispetto è rivolto a uno o a un insieme di atti che esiterei a compiere; è un sentimento vicino ali'ammirazione, anche se questa è diretta a ogni forma di superiorità (talento, forza, ricchezza). Il rispetto riguarda la superiorità morale, al punto che una persona appena conosciuta può provocarlo con il solo sforzo della volontà. Kant ha analizzato questo sentimento in profondità. Passando davanti a un grande mi inchino, dice, ma il mio spirito non si inchina; al contrario, riconosco la superiorità di un'umile virtù. La stima è invece rivolta a una virtù media. 2) In presenza di una cattiva azione proviamo ugualmente un sentimento ben preciso, il disprezzo, che non bisogna confondere con lo sdegno. Lo sdegno è rivolto a un'inferiorità lìsica,

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il disprezzo a un'inferiorità morale. Il disprezzo è il sentimento dell'abbassamento altrui ed è nell'uomo sempre unito alla pietà.

Lo studio psicologico della sensibilità ci porta a concludere che l'animo umano ha il sentimento abbastani;a indefinito, anche se molto intenso, delle azioni compiute. Alcune azioni ripugnano, altre seducono. La coscien7.a morale è la facoltà che ha la nostra anima di giudicare le nostre azioni e quelle altrui, e si fonda allo stesso tempo sull'intelligen7.a e sulla sensibilità. Tutti i sentimenti fin qui analiz7.ati rientrano nell'ambito della coscien7.a morale, e implicano allo stesso tempo l'intervento dell'intelligenra e l'espressione di un giudizio sul valore delle azioni. Non bisogna confonderei due tipi di coscien7.a, quella morale e quella psicologica. La seconda coincide con gli eventi interiori; la prima giudica, afferma e si pronuncia sulla qualità e sul valore delle azioni. Ogni giudizio si basa su una regola o su un ideale in base al quale si giudica. Il magistrato pronuncia la sentenza dopo aver messo in relazione l'azione dell'imputato con la sua formulazione nei codici. Senza andare troppo lontano nel cercare un esempio: giudichiamo il chiarore di un luogo paragonandolo alla nostra idea di luminosità. D'altra parte, deve essere così, visto che il giudizio è il rapporto di convenienza o non-convenienza tra un soggetto e un attributo. Il giudizio della coscienza deriva dalla presenza di un'idea che funge da metro di paragone: questa idea o questo ideale è il bene, la cui esistenza si può facilmente constatare nel nostro cuore. Così si potrebbe anche definire la coscienza morale come la facoltà che abbiamo di concepire un ideale morale e di giudicare le azioni umane in base a queste ideale. È un ideale come gli altri? Qual è ad esempio la differenra tra l'idea del bene e l'idea del bello?

La semplice osservazione dei sentimenti morali ci permette di tracciare una linea netta di demarcazione tra l'ideale mo-

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raie e le altre forme di ideale. Osservo un quadro e lo trovo fatto male; il mio giudizio deriva da un confronto tra il quadro e l'ideale rappresentato. Nel momento in cui dichiaro che il quadro è fatto male, non provo né collera né indignazione nei confronti del pittore, mentre di fronte a un'azione malvagia la mia coscien1.a si rivolta. Tra l'idea del bello e l'idea del bene c'è una differen1.a fondamentale: la prima non ci obbliga, la seconda sì. Il giudizio che esprimo su un'azione non è solo intellettuale, perché vi aggiungo ammirazione o collera, awersione o simpatia. Così quando rappresentiamo l'idea del bene, sembra quasi che si imponga da sé e che non possiamo sottrarci ad essa; appena la pensiamo, si trasforma in dovere. La coscien1.a morale implica il sentimento dell'obbligazione; tendiamo a ubbidire al bene nel momento in cui lo rappresentiamo. Del resto, era facile prevederlo: i sentimenti morali presuppongono i divieti, e quest'ultimi sono possibili se esistono leggi. Il bene non è soltanto un ideale, perché si basa su una legge. Se la legge è osservata, la coscienza è soddisfatta; se la legge è violata, la coscienza protesta. I sentimenti morali implicano allora l'esistenza di una legge morale e di nozioni quali il bene e il dovere. La morale teorica è la scienza che studia questi concetti. Ecco allora le domande da porre: tali nozioni sono irriducibili? Sono legate ad altre di natura ancora più semplice e diversa? Insomma, qual è la loro origine? Sono sempre esistite o sono il risultato di un'evoluzione più o meno lunga? Alcuni ritengono che quando l'inclinazione al piacere ha cominciato a purificarsi e, per cosl dire, a sentire ragione, sono nati i sentimenti morali, la legge morale e il concetto di bene. Per altri, invece, la legge morale sarebbe derivata da un semplice calcolo basato sull'interesse personale e dalle necessità della vita sociale. Altri, inAne, pensano che queste nozioni sia-

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no primarie: vedono nel bene un assoluto e nella legge morale un imperativo categorico. Ecco diverse concezioni del bene, della legge morale e del dovere. Si ha torto però nel sostenere che la morale sia inutile, che non ce ne sia bisogno per essere un uomo onesto. Tutti sanno che ci sono buone e cattive azioni e che c'è una legge morale. Del resto, è noto anche che un corpo cade se lo lasciamo, eppure nessuno contesta l'utilità della fisica. Lo stesso si può dire della morale: essa cerca di formulare con precisione queste nozioni note a tutti e di mostrarne l'origine. La morale è quindi una scien7.a, e come tutte le scienze teoriche ci aiuta a comprendere la natura e l'origine di fatti che possiamo osservare. Tuttavia lo studio teorico del bene e della morale non coincide con l'intera morale. La formula della legge morale, facile da determinare con precisione, è quasi la stessa per tutte le scuole filosofiche. Una volta posta, occorre trarne le conseguenze, poiché, in fondo, questa legge è pratica e deve guidarci nella vita. Bisogna dunque mostrare come la legge morale si modifica in massime applicabili a casi specifici. Tale compito è svolto della morale pratica, che deduce le sue regole dalla legge morale, ne mostra l'origine e ce ne fa apprezzare il valore. Senza dubbio non è necessario conoscere la morale pratica per essere un uomo onesto, ma lo studio approfondito di questa sciell7.a ci insegnerà perché una certa condotta è o non è buona. Tale conoscenza potrà influire sul nostro comportamento? Forse, in ogni caso «è spesso più difficile conoscere il proprio dovere che farlo». In altri termini, ci sono spesso conflitti di dovere. La morale ci vieta di mentire e, d'altra parte, esige l'abnegazione e spesso anche il sacrificio. Che dire dell'eroismo che ha per condizione la menzogna? Che dire di coloro che si sono sacrificati durante il periodo del Terrore prendendo il nome di un parente o di un amico? I conflitti di questo genere non sono rari: il teatro e i romanzi rappresentano in ogni momento le tensioni tra dovere e dovere. La morale pratica che risale alle

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origini ci permetterà di superare queste difficoltà, così il senso morale acquisirà maggiore fine?.Za e delicate?.Za.

La legge morale e i suoi caratteri L'analisi psicologica porta a riconoscere l' esisten1:a di una legge morale o regola di condotta in base alla quale giudichiamo le nostre azioni e quelle degli altri. Prima di determinare in modo rigoroso la formula di questa legge, conviene stabilirne i caratteri generali. 1) La legge morale è universale. Certo in ambito morale le

opinioni sono molte, e in ogni epoca gli scettici hanno insistito sulle apparenti variazioni della legge morale. Per esempio, la schiavitù, ammessa dagli antichi e giustificata da Aristotele, è considerata oggi una profonda ingiustizia. Ecco un'opinione morale mutata nel tempo. Altre variano invece secondo i luoghi: così il duello è ammesso nel nostro paese, mentre in quelli a noi vicini è punito come un crimine. Non solo, non c'è costume, per quanto possa sembrare barbaro, che non sia considerato virtuoso o ammirato come tale in qualche popolo selvaggio. In certi paesi i figli uccidono i loro genitori e perfino li mangiano per sbarazzarsi di un'esistenza sentita come un peso. Chi non conosce la celebre frase di Pascal: «Bella giustizia che ha per confine un corso d'acqua! Verità da questa parte dei Pirenei, errore dal]'altra»; un meridiano decide della verità: tre gradi in su verso il polo, completo rivolgimento della giurisprudenza!

È vero, la legge morale cambia, ma, al di là delle sue forme e del luogo e del tempo in cui la consideriamo, essa appare immutabile a coloro che la vedono e che la concepiscono come valida ovunque e sempre. Forse non ne abbiamo la formula definitiva, ma una volta posta tendiamo a univer.:a)izzarla. Ad

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esempio, quando ammettiamo che quello che è giusto per me lo sia anche per gli altri o quando crediamo che la nostra condotta, che oggi è da apprezzare, non possa essere biasimata un domani. L'universalità della legge morale è allora un'illusione? Se consideriamo le variazioni subite dalla legge morale e la legge che presiede queste variazioni, troveremo che con l'aumento del grado di civiltà e di istruzione, gli uomini cominciano a trovare un accordo su cosa sia la giustizia e le differenze tra le loro opinioni si attenuano. Istituzioni ritenute un tempo conformi al diritto sono oggi considerate contrarie alla giustizia e il loro numero gradualmente diminuisce e sparisce. Si può dunque concludere che la legge morale è universale. Esiste un ideale del bene, un ideale immutabile verso cui convergono le molteplici opinioni sulla verità e sulla giustizia. Mettete davanti a un quadro di Raffaello alcune persone con diversi livelli di istruzione: ogni individuo esprimerà un giudizio diverso. Ma fomite loro una cultura sempre più raffinata, le divergen7.e diminuiranno un po' alla volta e si concorderà sulla bellezza del capolavoro, poiché esiste una bellezza assoluta. Le opinioni differiscono perché non tutti percepiscono la belle22a con la stessa chiare22a. Allo stesso modo per il bene, si può allora affermare che esiste un bene assoluto e che le divergenze di opinioni derivano dalla delicate22a del senso morale; un'ombra più o meno fitta nasconderebbe questa idea immutabile di bene agli spiriti non ancora preparati a coglierne lo splendore. La legge morale è universale, e questo è il suo primo carattere. Ne possiede un secondo non meno importante. 2) Appena la pensiamo, la legge morale mostra il carattere dell'obbligatorietà. L'obbligazione non è da intendere né come costrizione né come necessità. Infatti la costrizione è una pressione di natura fisica. Un assassino uccide un uomo e viene arrestato; egli subisce una costrizione, perché una forza fisica si oppone ali'esercizio della sua forza. L'obbligazione è anch'essa

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una forza, ma di ordine morale; la potremmo delìnire come la forza di un'idea. È chiaro allora che tra la costrizione e I'obbligazione c'è una differenza fondamentale. Si può, certo a torto, sottrarsi ali' obbligazione, ma non alla costrizione. L'obbligazione non è inoltre assimilabile alla necessità. La necessità ha infatti il carattere di atti o stati di cui è impossibile pensarne la non-esisten7.a. Una pietra cade; questa è una necessità, perché, nota la legge di gravitazione universale, non si può pensare che la pietra possa non cadere. Le leggi lìsiche sono necessarie ed è impensabile che i fenomeni naturali possano non rispettarle. Al contrario, la legge morale non è necessaria. Le azioni che dovrebbero fondarsi sulla legge morale possono infatti non conformarsi ad essa, e in effetti la legge morale è spesso violata. Da dove deriva questa differenza? Le leggi fisiche sono posteriori ai fatti che esse spiegano, perché le abbiamo dedotte; è quindi impossibile che i fatti non obbediscano a queste leggi, dal momento che esse sono semplicemente constatate. Se un giorno osservassimo che una pietra si ferma nella sua caduta, ne dedurremmo che la legge di gravitazione universale è falsa, e cercheremmo cosl un'altra legge a cui questo nuovo fenomeno dovrebbe conformarsi in modo necessario. Le leggi lìsiche si basano quindi sulla constatazione di certi fenomeni, e i fenomeni devono essere conformi alle leggi. Nell'ambito della morale le leggi sono anteriori alle azioni; le leggi dicono non quello che è, ma quello che dovrebbe essere; per questo motivo le azioni possono non conformarsi alle leggi morali. Approfondiamo meglio questa differenza.

Le leggi fisiche sono relative alle cose naturali, cioè si riferiscono a oggetti privi di spontaneità, mentre la legge morale riguarda gli esseri liberi. Pertanto, le une sono necessarie, l'altra è obbligatoria; l'obbligazione presuppone la libertà, mentre la materia la esclude.

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Il problema fondamentale della morale teorica è allora questo: come spiegare il fatto che la nostra condotta debba sottostare a una legge universale e obbligatoria? La nostra condotta, ricordiamolo, può essere determinata da varie motivazioni, e, nella maggiorani.a dei casi, queste hanno la loro radice nella sensibilità, cioè la facoltà in cui risiedono inclinazioni e passioni. Ma possiamo considerare la sensibilità da due punti di vista: abbiamo infatti sensazioni e sentimenti. L'inclinazione che ci spinge in una certa direzione, verso un preciso scopo, che ispira insomma la nostra condotta, può avere come oggetto sia il sentimento sia la sensazione. Possiamo porci come obiettivo tanto il piacere quanto la soddisfazione di un sentimento. Del resto, anche il piacere può assumere diverse forme. Infatti, basta fermarsi a riflettere, perché subito il piacere ceda il posto a considerazioni legate all'interesse e all'utilità. Si dice infatti che una cosa è utile quando produrrà in futuro piacere, e dunque tra interesse e piacere c'è una stretta relazione. Anzi si può dire che l'interesse è un piacere calcolato, che l'utile è in ultima istan7.a il piacere, e che siamo portati in modo naturale a perseguire l'interesse personale. In altre parole, se l'uomo vuole soddisfare la sensibilità, allora obbedirà o al piacere o al sentimento. È naturale che i fìlosofì si siano chiesti se la ricerca pura e semplice dell'interesse non porti a una regola di condotta universale e obbligatoria. La legge morale si spiegherebbe con la ricerca del piacere e dell'interesse o con il sentimento, con la simpatia e con la pietà. Questa considerazione spiega perché le teorie morali si sono ripartite in tre gruppi: 1) teorie utilitariste, che spiegano la legge morale attraverso la ricerca del piacere; 2) teorie basate sul sentimento, che spiegano la legge morale attraverso la simpatia e la pietà; 3) teorie secondo le quali la legge morale ha un'origine puramente razionale (morale dell'obbligazione pura).

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La morale utilitarista Aristippo è il primo filosofo che ha formulato in modo preciso il principio della morale del piacere, che sarà alla base della morale utilitarista. Secondo Aristippo l'uomo è simile all'animale; di conseguenza, egli ricerca il piacere e lo desidera. Cosi il filosofo greco giunge a una posizione immorale: questa spiegazione della legge morale non è infatti accettabile, perché si discosta da principi ammessi da tutti. Può al massimo aiutarci a individuare l'origine della morale utilitarista. Alla morale del piacere seguirà un'altra dottrina che spiega la legge morale attraverso lo stesso criterio: la morale epicurea. Epicuro parte del principio di Aristippo: tutti gli esseri ricercano il piacere e la felicità; l'uomo non può desiderare altro. Ma se consideriamo le circostanze che accompagnano il piacere, ci rendiamo conto che alcune di queste sono nocive. Certi piaceri sono tali sul momento, ma possono provocare in futuro grandi dolori. Per questo motivo Epicuro giunge a sostituire il piacere con l'interesse. «Giudicate - osserva - i piaceri cui seguono grandi sofferenze, e immaginate i dolori che seguono a piaceri ancora più grandi». Epicuro ha intuito quella che sarà chiamata in seguito l'aritmetica del piacere; ha compreso che il piacere richiede un calcolo in base al quale bisogna fare una scelta. In questo modo Epicuro spiega anche la maggior parte delle regole della morale. Secondo Epicuro appena rillettiamo sul principio del piacere, comprendiamo che la calma e la tranquillità sono le condizioni essenziali della felicità. Inoltre, quando si è felici, si è giusti; infatti, se tutti gli uomini fossero felici, regnerebbe tra essi la pace. Per questo si deve anche praticare l'amicizia; ogni amico è un sostegno su cui poter contare. Non sarebbe allora difficile provare che molte regole morali hanno come scopo di rendere felici, cioè di assicurare la pace e la tranquillità. Dobbiamo dedurre che le leggi della morale hanno la loro origine in questo deside-

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rio di felicità? Chi si pone come obiettivo la felicità, arriva in modo spontaneo a riconoscere che per raggiungerla bisogna seguire leggi e regole? La morale si ridurrebbe insomma a una questione di calcolo?

La dottrina epicurea non spiega tutte le regole e tutte le massime della morale. Certo, la virtù ordinaria e borghese è giustificabile alla luce dell'epicureismo, ma la virtù ordinaria non è l'unica virtù. Molte volte nella vita sono necessari l'abnegazione e il sacrificio, e questo è un dato di fatto indiscutibile. Spesso la voce della coscien7.a ci ordina di ignorare i nostri interessi e noi stessi e di pensare agli altri. Se la legge morale è il risultato di un egoismo calcolatore, perché ci ordina il sacrificio? Epicuro afferma che non bisogna chiedere al saggio di sacrificarsi. Ma per essere coerente con la propria dottrina, egli la rende condannabile. Negare tale forma di virtù significa ammettere che la propria teoria non può spiegare tutti i fenomeni morali, e dunque che essa è falsa o incompleta. Lasciamo però i fatti e prendiamo in considerazione la forma della massima di Epicuro. Se questa è la legge morale, deve essere universale e obbligatoria, perché questi sono i caratteri della legge morale. Tuttavia, come può la ricerca della felicità condurre alla formulazione di una regola universale? Ognuno ricerca il proprio piacere, e determinate condizioni possono generare piacere in una persona e lasciare indifferente un'altra. Posta l'universalità della legge morale, è allora verosimile che la ricerca del piacere e dell'interesse non possa condurre alla felicità. Ammettiamo per assurdo che questo sia possibile: se tralasciamo certe specifiche condizioni, possiamo individuare alcune cause generali a fondamento della gioia e della tristezza. I gusti variano, ma nulla ci impedisce di pensare a una media. Si potrebbe così formulare una regola universale in base a cui ognuno potrebbe raggiungere la felicità. Ma tale regola non sarebbe ancora la legge morale; le mancherebbe infatti un

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carattere essenziale: l'obbligazione. Le legge morale si presenta come un comando, e se disobbedisco, non provo rimpianto ma rimorso. Quando mi sottraggo a una delle sue prescrizioni, non provo il fastidio generato dal pensiero di un piacere superiore che mi è sfuggito per una mia mancanza. Awerto invece una diminuzione della stima di me stesso, un'umiliazione. La legge del piacere non obbliga affatto. Certo, l'apparente obbligatorietà della legge morale potrebbe essere vana; ma bisognerebbe spiegare perché, cosa che l'epicureismo non fa. L'epicureismo è in conclusione una dottrina incompleta: non considera tutte le forme di prescrizione e non spiega i caratteri fondamentali della legge morale. È curioso osservare come la morale utilitarista abbia cercato in modo più o meno consapevole di evitare queste obiezioni, come essa si sia modi6cata per dare una parvenza di spiegazione all'obbligazione e all'universalità della legge morale. Il primo passo è compiuto da Bentham, le cui teorie sono riprese da Mili e Littré; il secondo è opera di Herbert Spencer e dell'evoluzionismo1• Bentham parte dallo stesso principio di Epicuro, e a leggere i suoi testi si ha perfino l'impressione che si ponga l'obiettivo di spiegare con maggiore precisione la morale epicurea. Il piacere ha diverse caratteristiche: può essere più o meno intenso, duraturo, vicino e puro. Per piacere Bentham intende tutto quello che non implica dolore. L'uomo felice tiene conto delle qualità del piacere, le combina insieme per ottenere il massimo risultato: la felicità e la morale si ridurrebbero quindi alla somma del maggior numero di piaceri. Fin qui

1. Bergson cita diversi filosofi che hanno elaborato una morale utilitarista. Oltra ai piìl noti Jeremy Bentham (1748-1832} e John Stuart Mili (18061873), Bergson nomina anche Émile Littré (1801- 1883), filosofo di orientamento positivista.

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Bentham ha semplicemente seguito Epicuro. Ma vediamo il suo apporto originale. Per Bentham l'uomo non può essere felice in una società infelice. La legge morale, che coincide qui con la legge della felicità, deve allora consistere nella ricerca della più grande felicità per il maggior numero possibile di persone. Facciamo un esempio. Chi ricerca il piacere potrebbe pensare che farebbe bene a ubriacarsi. È invece non è cosl, perché questo piacere è intenso ma non duraturo, e soprattutto non è puro, poiché sarà seguito da sofferen7..e. Questo piacere è ancora più ingannevole se anali27.ato sotto l'aspetto delle ripercussioni sociali. L'uomo fa infatti parte della società, e la sua felicità dipende da quella dei propri simili; la società è un organismo, e ognuna delle sue parti risente delle sofferenze delle altre. Il piacere di ubriacarsi è stato comprato al pre7.7..o di una felicità superiore per sé e per la società (e dunque ancora per sé). Si agisce così male a ubriacarsi. La ricerca dell'interesse è ali'origine della moralità, purché per interesse si intenda qualcosa che è allo stesso tempo individuale e generale. Questa concezione della morale è molto chiara. Bentham sostiene che la felicità, e di conseguenza la morale, sia il risultato di un calcolo. Data un'azione da compiere, sarà buona se non porta con sé dolori; cattiva se avrà conseguen7,e dannose. Ma come eseguire questo calcolo?

Le leggi morali sono il risultato di un calcolo compiuto molto tempo fa: gli uomini hanno condensato in formule brevi e semplici secoli di esperiell7..a. Consultando queste massime sapremo se nell'azione da compiere la somma delle gioie supererà quella dei dolori o viceversa. Tutto si riassume in questa formula: «ricerca la più grande felicità per il maggior numero possibile di persone». Questa morale arriva cosl a una formula di rara alte7.7..a; chi seguirebbe la linea di condotta tracciata da Bentham sarebbe il perfetto uomo onesto. La devozione e

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il sacrificio non sono infatti incompatibili con questa morale. Arriverà però un giorno in cui tali virtù non saranno più necessarie; sono infatti le mancanze e i difetti dell'odierna società a richiederle.

La dottrina di Bentham spiega anche l'universalità delle leggi morali. Se queste regole hanno per origine un calcolo eseguito dall'intera umanità, i risultati devono essere identici per tutti. Le conseguenze buone e cattive delle azioni sono state valutate in modo definitivo, e da questa valutazione sarebbe derivata una formula valida per tutti, sempre e ovunque. La dottrina di Bentham ha però un difetto: non spiega il carattere obbligatorio della legge morale. Ecco il punto oscuro: come si passa dell'interesse personale a quello generale? È naturale e quasi istintivo che ognuno cerchi il proprio piacere. Ma perché si cerca la felicità dell'altro? Forse per istinto? Ma gli istinti si equivalgono. Devo scegliere tra la mia felicità a spese di quella altrui, o quella altrui a spese della mia. Sono preso da due istinti: il primo egoista, il secondo altruista. Come posso esigere di ubbidire più all'istinto altruista che a quello egoista? Bentham risponde: "perché mi conviene scegliere l'istinto altruista". Ma allora risponderò: "ho fatto un altro calcolo, e i miei risultati possono condurre a un risultato identico al Suo". Come rispondere a questa obiezione? Forse ragiono male? Sia, ma non mi si può accusare di essere disonesto. Quelli che credono a un ideale superiore potrebbero dire che èpiù conforme al bene assoluto pensare agli altri, e potrebbero obbligarmi in nome di questo ideale. Ma se non si dà tale ideale, se il nostro solo scopo è la felicità, con quale diritto mi si ordina di scegliere una via al posto dell'altra? In pocheparole, non è possibile obbligarmi a sacrificare la felicità personale in nome di un principio superiore. La ricerca della felicità non può costituire da sola la base di una regola prescrittiva. Occorreva un'ulteriore modifica alla morale utilitarista per poter

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rendere conto dell'obbligazione. Herbert Spencer l'ha apportata e del resto già Stuart Mill aveva tracciato la strada con il suo saggio L'utilitarismo.

Mill cerca di spiegare come interessi particolari possano condurre a nozioni che ne sono oggi distinte. Non vediamo -dice Mill - l'avaro cercare prima il denaro per le gioie che può procurare per poi dimenticare questo scopo e immaginare che il possesso del denaro sia un piacere in se stesso? Allo stesso modo gli uomini hanno prima seguito alcune regole di condotta che erano massime di interesse; poi hanno dimenticato un po' alla volta che queste leggi erano semplici mezzi per arrivare alla felicità, e sono arrivati cosi a credere che sono in se stesse degne di rispetto. Herbert Spencer ha ripreso questa tesi e l'ha esposta alla luce dell'evoluzionismo. Per Spencer si passa per gradi insensibili da organismi più elementari a organismi più complessi. Anche l'uomo è solo l'ultimo anello di una lunga evoluzione che continuerà ancora per molti secoli. In tutti gli stadi di questa evoluzione si ricerca il piacere; ma più l'evoluzione avanza più i mezzi impiegati per ottenerlo sono complessi. All'inizio, l'uomo ha cercato il proprio piacere, o, per meglio dire, la felicità individuale. Se si risale abbastanza indietro nella storia dell'umanità, ci ritroviamo di fronte alla ricerca pura e semplice dell'interesse particolare. Ma, man mano che l'evoluzione progrediva, si è fatta strada la consapevolezza che vita individuale e vita sociale sono unite; gli uomini hanno compreso che la società è un organismo: la salute di ogni suo membro riguarda tutti e ogni parte risente della sofferen7.a delle altre. Tali considerazioni hanno condotto l'umanità a massime che esprimono la felicità in formule. Ma queste leggi sono obbligatorie? All'inizio esse erano semplici concetti e sono rimaste tali, perché era nota la loro origine. Col passare del tempo questa è stata però dimenticata

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al punto che sono rimaste solo le leggi, veri e propri idoli davanti a cui ci inchiniamo e a cui crediamo di dover ubbidire, anche quando ci ordinano di sacrificare il nostro benessere, la nostra felicità e la nostra esisten1.a. Per essere più precisi, dovremmo dire che la legge morale ha preso in origine la formula di un imperativo ipotetico, del tipo «se volete essere felici, non rubate». Ma la prima parte della formula, quella che ne esprime la ragion d'essere, era inutile nella pratica, perché l'essenziale è sapere come si deve agire. Cosl, è rimasta solo la seconda parte, l'imperativo categorico «non rubate», e la legge morale è diventata obbligatoria. Cosa possiamo obiettare a questi ordini? Come ragionare contro qualcosa che non fornisce ragioni? Non resta che inchinarci; e se disubbidiamo alla legge morale, proviamo il rimorso di aver infranto un ordine che sembra non provenire dall'uomo ma dall'alto. L'evoluzione spiega cosl il carattere obbligatorio della legge morale. Non dimentichiamo però altri due fattori: l'educazione, infatti fin dall'infanzia siamo spinti a pensare che la felicità personale sia inseparabile dalla felicità generale, e l'eredità, grazie a cui la legge morale è trasmessa in una formula simile all'imperativo categorico. Secondo Spencer questaevoluzione continua, e con il progredire della società interesse personale e interesse generale tendono a confondersi, al punto che un giorno ognuno non potrà pensare a sé senza pensare agli altri. Quello sarà il giorno in cui la società umana troverà il suo stato di perfetto equilibrio. Per individuare i limiti di questa teoria poniamo la seguente obiezione. Su quali fatti riposa l'ipotesi di un'evoluzione della legge morale? Se la legge morale ha assunto con il tempo la forma dell'obbligazione, dobbiamo trovare, risalendo indietro nella storia, uomini che si sono sentiti meno obbligati di noi, per i quali le considerazioni morali erano meno prescrittive delle nostre. Inoltre, se la legge morale ha la sua radice in una

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forma di egoismo di cui si è persa memoria, chi riesce a risalire ali'origine della legge morale e a trovare sotto il presunto ordine dall'alto un semplice consiglio per arrivare alla felicità dovrebbe sentirsi meno obbligato a rispettarla. Ma questo non accade. Vediamo infatti che più un uomo è illuminato, istruito e capace di analisi, più pratica il bene. In conclusione, la morale utilitarista perfezionata da Mili e Spencer è in contraddizione con la storia e con le esperienze della vita quotidiana.

La morale del sentimento La legge morale non è spiegata a sufficiem.a dalla dottrina utilitarista; domandiamoci ora se la morale del sentimento riuscirà meglio. Molti moralisti hanno visto nel sentimento il motore delle nostre azioni e hanno cercato di trovare in esso l'origine della legge morale. Questa teoria è stata avanzata dalla scuola scozzese, il cui maggior esponente è Adam Smith. Anche nell'Émile di Jean-Jacques Rousseau si può trovare una teoria analoga: Rousseau pone infatti la pietà alla base della morale. La stessa idea sarà ripresa e sviluppata da Schopenhauer, secondo il quale giustizia e carità sono forme di pietà che proviamo per i nostri simili, infelici come noi. Di solito si considera come modello di questo tipo di dottrine la filosofia sviluppata da Adam Smith in Teoria dei sentimenti morali. Adam Smith constata che la simpatia è un sentimento naturale. Non possiamo vedere la gioia o la tristeZ7.a di un nostro simile senza metterci al suo posto e condividere i suoi sentimenti. La simpatia è allora la capacità di condividere le emozioni e i sentimenti altrui. Questa simpatia è presente in tutti gli uomini, e Adam Smith si spinge anche oltre ritrovandola perfino nel mondo fisico: gli atomi non hanno infatti affinità segrete che li legano? Inoltre, tutto quello che accade

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produce una sorta di eco; ogni movimento ha una ripercussione nell'ordine delle cose. La simpatia tra gli esseri viventi e tra gli esseri umani sarebbe quindi la forma più elevata di questa simpatia universale, che è la legge di tutte le cose. Ma quali sono le condizioni in cui l'uomo prova simpatia? Perché alcuni ispirano simpatia, altri antipatia? Perché lo stesso uomo, in base al modo in cui agisce, a volte suscita simpatia, altre awersione? Secondo Adam Smith questo fatto non può essere spiegato; si può solo osservare che nel primo caso è eccitata la nostra simpatia, nel secondo la nostra awersione. Vediamo adesso come sono dedotti i sentimenti morali e la legge morale. Quando un'azione è tale da eccitare la nostra simpatia, esprimiamo questo sentimento approvando l'azione. L'approvazione è una forma di simpatia, così come la disapprovazione una forma di antipatia. Comunichiamo la nostra approvazione dicendo che l'azione è buona; la nostra disapprovazione, affermando il contrario. Un'azione è allora buona quando l'approviamo e quando simpati7.Ziamo con l'autore. Il bene e il male sono perciò termini astratti, caratteri applicati ad azioni capaci di suscitare la nostra simpatia e la nostra antipatia. La concezione di Adam Smith è opposta a quella comune. In genere si pensa che una condotta vada approvata se è buona, e che la nostra simpatia sia generata dall'approvare una certa azione. In altre parole, le nozioni di bene e di male sono considerate irriducibili, mentre l'approvazione e la simpatia come concetti derivati. Per Adam Smith è vero il contrario: le nozioni di bene e di male derivano dalla simpatia. Dovremmo ancora chiederci perché un'azione genera simpatia o antipatia, ma, come abbiamo osservato, per Adam Smith simpatia e antipatia sono dati originari e inspiegabili.

Le nozioni di merito e di demerito si deducono invece in modo semplice. Supponiamo che un uomo sia beneficato da un altro.

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Chi riceve prova un sentimento particolare: la riconoscenza. La legge della simpatia ci induce a simpatizzare con la sua riconoscenza, e, come lui, vogliamo bene all'altruista. Approviamo dunque l'operato del benefattore, dichiariamo che la sua condotta è buona e desideriamo che sia ricompensato. Anche affermare che una condotta buona meriti una ricompensa significa esprime simpatia per chi è stato beneficato. Allo stesso modo, affermare che una condotta cattiva reclami una punizione significa esprimere simpatia per chi è stato offeso. Ma, si dirà, se l'approvazione e la disapprovazione sono forme di simpatia o di antipatia, come possiamo approvare o disapprovare la nostra condotta? Adam Smith propone un ragionamento ingegnoso. Egli sostiene infatti che supponiamo sempre la presenza di spettatori giudici della nostra condotta. Ci chiediamo se le nostre azioni susciteranno la loro simpatia o la loro antipatia. Per questo motivo dichiariamo buona l'azione che attirerà la loro simpatia, cattiva quella che provocherà la loro awersione. Abbiamo cosl una regola che ci permette di spiegare come giudichiamo noi stessi. Ma che ne è allora della legge morale? Gli uomini tengono alla simpatia altrui; per Adam Smith si tratta di una tendenza molto radicata in noi, e del resto già Locke l'aveva sostenuto. Questo desiderio accompagna tutta la nostra vita. Il condannato che avanza sul patibolo si sforza di apparire fermo davanti alla morte. Non è forse perché egli si preoccupa ancora delle opinioni altrui? Smith ha ripreso questa idea e ha mostrato che la simpatia è la più forte inclinazione della nostra anima. Dal momento che certi atti eccitano la simpatia e altri l'antipatia, è facile formulare regole o leggi universali per indicare le conseguenze di una determinata azione: le leggi morali sono massime per attirare la simpatia altrui. Queste leggi sono universali, perché tutti desiderano l'affetto degli altri; le rispettiamo, perché un istinto profondo ci spinge a cercare tale affetto, e perché la simpatia è alla base della natura umana.

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Jouffroy ha criticato Smith per non aver spiegato l'universalità della legge morale. Jouffroy osserva che la simpatia varia, e che una condotta può tanto suscitare simpatia tanto lasciare indifferenti. Ne consegue che se ognuno traducesse in norme gli atti che gli ispirano simpatia o antipatia, tali codici varierebbero da individuo a individuo. Avremmo una molteplicità di sistemi morali; ma questo non accade. Molti hanno ripreso l'obiezione di Jouffroy, anche se non ha forse tutta l'importan7.a che le si attribuisce. Sen7.a dubbio la simpatia e l'antipatia sono relative alla persona e mutevoli. Tuttavia, se mettessimo in presen7.a di un determinato atto un certo numero di persone, si potrebbe stabilire una media di simpatia. Le differenze si compenserebbero e si arriverebbe forse a una legge morale il cui rispetto provocherebbe la simpatia della maggioranza degli individui. Il punto è che la morale del sentimento non spiega comunque il carattere obbligatorio della legge morale. Perché devo conformarmi a questa legge? Per attirare la simpatia altrui. Ma posso anche non desiderarla. Se devo scegliere tra una soddisfazione egoista e la simpatia degli altri, perché ordinarmi di preferire la seconda alla prima? Chi crede in un ideale superiore potrà dirmi: tra le due una è più conforme all'ideale morale e per questo motivo bisogna sceglierla. Ma se questo ideale non c'è, se il desiderio della simpatia altrui è la base stessa dei sentimenti morali e della legge morale, in nome di quale principio obbligarmi a obbedirle dal momento che il soddisfacimento egoista del mio interesse mi sembra preferibile alla simpatia altrui? In poche parole, una legge morale fondata sui sentimenti non può essere prescrittiva. Inoltre Smith confonde la simpatia con l'approvazione e con il sentimento morale. Se la sua teoria fosse vera, la nostra simpatia dovrebbe essere suscitata solo da atti che meritano approvazione. Sen7.a dubbio questo accade

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spesso; ma quanti casi si possono citare in cui simpatia e giudizio morale sono in contraddizione? Il teatro e il romanzo prendono spesso spunto da situazioni in cui un conflitto eleva il senso del dovere e una condotta riprovevole ispirala nostra simpatia. Nonostante il crimine commesso, proviamo simpatia per Fedro; mentre Poliuto non attira la nostra simpatia, sebbene la sua condotta sia nobile ed elevata. Del resto, la compassione eccita cosl tanto la nostra simpatia, che l'intera arte dell'avvocato consiste nell'approfittarne di modo che la simpatia invada l'anima dei giudici e li renda incapaci di valutare un'azione criminosa. La legge non ha previsto questo pericolo permettendo ai giudici di accordare circostanze attenuanti? Smith ha anticipato queste obiezioni e ha cercato di modificare parzialmente la sua teoria. Man mano che si avanza nella lettura della sua opera, la sua idea tende a prendere una forma nuova. La vera simpatia, cioè la base di ogni giudizio morale, diventa quella provata da un giudice impaniale delle nostre azioni. Ogni volta che agiamo ci rappresentiamo uno spettatore imparziale della nostra condotta, ci chiediamo se la nostra azione ecciterebbe la sua simpatia o la sua antipatia. Cos'I si spiega l'universalità dei sentimenti morali, perché se le nostre simpatie personali variano, questo spettatore impaniale è lo stesso per tutti e la sua simpatia è stabile. Le contraddizioni osservate tra la simpatia e il giudizio morale si giustificherebbero allora in questo modo: può accadere che un atto, un'azione o una condotta ecciti la nostra simpatia personale e l'antipatia dello spettatore impaniale. Per questa ragione la simpatia e il senso morale non sono sempre in accordo. Si tratta di una modifica ingegnosa che però tende a indebolire e non a rafforzare la teoria di Smith. Si continua infatti a non spiegare il carattere obbligatorio della legge morale. Perché si esige che io debba conquistare la simpatia di questo per-

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sonaggio immaginario? Come supporre che le esigenze della passione e i calcoli dell'interesse possano sparire davanti al desiderio di piacere a un'astrazione filosofica? Ma c'è un'obiezione ancora più pericolosa da muovere alla dottrina di Smith. Non è contraddittorio parlare della simpatia di uno spettatore imparziale? Cos'è l'imparzialità se non l'assenza di ogni forma di simpatia o di antipatia? Lo spettatore imparziale non è forse colui che non fa appello ad alcun sentimento, che non prova né simpatia né antipatia?

A sua insaputa Smith ha rimesso in gioco la ragione di cui voleva fare a meno. Dopo aver ricondotto l'origine del bene e del male al solo sentimento, si è reso conto che cosl non si spiegava il carattere universale della legge morale, e ha creato un essere immaginario la cui simpatia, costante e universale, è a volte contraria alle nostre simpatie personali. Per accordarsi ai fatti, la morale del sentimento si è trovata costretta ad abbandonare il suo principio e a cercare l'origine del bene e del male nella ragione stessa.

La morale dell'obbligazione Abbiamo visto come il piacere, l'interesse e il sentimento non siano capaci di fornirci una regola di condotta obbligatoria. Kant ha messo bene in luce il vizio fondamentale delle dottrine che cercano nella sensibilità la radice della legge morale. Kant osserva che queste teorie portano alla formulazione di imperativi ipotetici. Se si raccomanda la ricerca della felicità per soddisfare un'inclinazione o un piacere, cioè un'esigenza della sensibilità, la realizzazione del bene sarà sempre subordinata alla ricerca della felicità, ali'appagamento di un sentimento. Pertanto entrerà sempre un se esplicito o sottinteso nella formula della legge morale. Non ci sarà allora obbligazione as-

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soluta, perché quest'ultima sarà subordinata all'accettare una determinata condizione. Nulla ci impedisce infatti di rigettare allo stesso tempo la condizione e l'ordine che la accompagnano. Del resto, si può ragionare su un imperativo ipotetico proprio perché fornisce una ragione. Questa è la tipologia di formula cui pervengono Epicuro, gli utilitaristi moderni, Adam Smith e in genere i filosofi che non hanno cercato nella pura ragione ma altrove il fondamento della legge morale. Se la legge morale è obbligatoria, se si impone a noi in modo assoluto, allora deve avere la forma di un imperativo categorico, e questo, dice Kant, è un punto ormai acquisito della scien7...a morale. Resta da determinare l'esatta natura di questo ordine incondizionato e da formulare con precisione il principio di ogni forma di moralità. Alla legge morale appartiene, oltre l'obbligatorietà, anche l'universalità. Appena una massima ci appare come una regola morale, la consideriamo valida non solo per noi, ma per tutti, sempre e ovunque. Essa ci ordina di fare quello che ogni uomo potrebbe fare e dovrebbe fare. Siamo così portati a definire la legge morale in questo modo: «agisci in modo che la massima della tua azione possa essere eretta a legge universale». Questa formula - Kant vi giunge attraverso la semplice considerazione del doppio carattere della legge morale - riassume tutte le regole, le prescrizioni e le massime e ci fornisce così un criterio eccellente per distinguere il giusto dall'ingiusto, il conforme al bene dal non conforme. Esempio: mi è stata affidata una cauzione e quando viene reclamata non si può invocare alcuna prova del fatto che la costudisca. Devo e posso trattenerla? Mi pongo allora questa domanda: un atto simile potrebbe essere eretto a legge universale? No, assolutamente, sarebbe assurdo, perché una cauzione che viene affidata per non essere restituita non sarebbe più una cauzione. Tra l'altro la formula espressa da Kant rac-

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chiude il senso ultimo di una celebre massima: «fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te». La prima formula dell'imperativo categorico ci fa penetrare nell'essenza della legge morale; essa è una regola del tutto formale che permette di distinguere il bene dal male. Se l'analizziamo in profondità, si arriva a mettere in luce la radice stessa della moralità. Infatti, se la legge morale esige che la massima dell'azione sia tale da poter essere eretta a legge universale, se non devo fare nulla che non debba essere fatto da tutti, se agisco nei confronti degli altri in base a come vorrei che essi agissero nei miei, ebbene questo vuol dire che tutte le persone hanno lo stesso valore ed esistono per sé, e che nessuno può essere trattato come un mezzo. Da qui deriva la seconda formula della legge morale: «tratta la tua e l'altrui persona come un fine e non come un mezzo». Questa formula non è meno bella o profonda della precedente. Chi vi si conforma esercita la giusti.zia e la carità. La giusti.zia è una virtù che consiste nel rispettare i diritti altrui, ossia nel non trattare la persona umana come un semplice mezzo per raggiungere un fine. La carità induce a considerare i propri simili come portatori di un destino da compiere, vale a dire come fini. Al contrario cos'è l'ambizione se non l'abitudine nel considerare gli altri come semplici strumenti? Cos'è il furto se non l'attribuire a sé il frutto del lavoro altrui, cioè l'atto con cui si ammette che gli altri lavorino non per sé ma per noi e dunque siano semplici mezzi? Ma da dove viene questa legge morale? Qual è la sua origine? Perché dobbiamo obbedire ad essa? Riteniamo che le spiegazioni fomite da Kant in merito nella Critica della ragion pra,. tica e nelle Metafisica dei costumi siano oscure e incomplete. Dato che non possiamo trovare nella sensibilità le ragioni della moralità, dobbiamo rivolgerci alla volontà razionale. Per liberarsi dal giogo della sensibilità, la volontà si pone una legge: essere autonoma. L'animale non è libero, perché non si può

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sottrarre ai piaceri e alle passioni; l'uomo ha invece una volontà razionale, che, per essere libera, si dà regole universali. Affinché questa volontà sia libera, non deve assecondare i capricci della sensibilità. C'è solo un modo per resistere alla sensibilità: opporle una legge universale, vale a dire la legge morale che impone regole di condotta da seguire ovunque, sempre e in qualsiasi circostan:za. Chi adegua la propria condotta alla legge morale si scuote dal giogo della sensibilità e diventa libero. Ci sono allora due mondi: il mondo fisico, in cui domina la necessità, e il mondo morale, in cui regna la libertà. Nel primo mondo siamo cose e non persone; mentre entriamo nel secondo quando seguiamo una legge di libertà. Conformandoci del tutto a essa, ci libereremmo da ogni forma di costrizione fisica, di pressione o di ostacolo. In una parola, l'uomo è libero quando si impone una regola di condotta obbligatoria. La legge morale nasce proprio dall'aspirazione dell'uomo alla libertà. Crediamo che la dottrina di Kant debba essere interpretata cosl, anche se il filosofo tedesco non l'ha sviluppata in questa direzione. Rimane ancora un punto oscuro. Se la legge morale è una legge di libertà, se lo scopo dell'obbligazione è liberarci dalla costrizione e dalla necessità, occorre ancora mostrare perché la libertà sia un bene, perché valga la pena seguire una legge razionale e il dovere e non invece una passione o un desiderio. Nell'affrancamento della volontà dalle passioni c'è qualcosa che ci attrae e ci seduce. Perché ci attrae la libertà? Questa domanda non ha una sola risposta. Tutte le cose non hanno lo stesso valore; e quando cerchiamo di apprezzarle, prendiamo sempre come criterio e come regola, in modo più o meno consapevole, la ragione e la libertà. Affermiamo che l'animale è superiore alla pianta. Perché diciamo così? Perché la sensibilità è più vicina alla ragione e alla libertà rispetto ali'organismo puro. Perché diciamo che la

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ricche7.7.a è un bene? Perché ci pennette di saziare le nostre inclinazioni meno elevate e di fare così spazio alle inclinazioni superiori. La ragione e la scienza spiegano quindi perché siamo spesso attratti da certi oggetti materiali. Analogamente perché nell'uomo la sensibilità vale di più della semplice funzione digestiva? Perché tra queste due funzioni, la prima imita l'intelligen7.a, partecipa della ragione. Cosl, appena cerchiamo il principio nascosto dietro i nostri giudizi sui beni materiali, concludiamo che c'è un punto di vista assoluto, cioè la libertà o la ragione, in base al quale ogni cosa acquista valore. In conclusione, se cerchiamo di sottrarci al giogo della sensibilità - e ci sottomettiamo così a una legge stabile, universale e necessaria-, è perché sentiamo in modo istintivo la presen:za di un bene assoluto: la volontà razionale. Questo istinto può essere constatato, ma sarebbe puerile cercare di giustificarlo. Infatti, per giustificare una cosa occorre metterla in relazione a un'altra; per giustificare questo istinto occorrerebbe un bene superiore. Ma tale bene superiore non potrebbe essere giustificato che in relazione a un altro ancora più grande ecc. Occorre dunque ammettere un bene assoluto; e poiché tutti i giudizi sulle cose materiali implicano la creden:za nella volontà razionale come ideale dell'umanità, dobbiamo concludere che il bene assoluto da noi ricercato è la libertà razionale.

Il dovere Se il bene morale è assoluto, ed è il solo ad avere un valore in se stesso, anche chi lo esercita acquista un valore assoluto. In altre parole, la dignità dell'uomo deriva dalla conoscen7.a del bene, e in questo senso la persona ha una dignità in sé e vale in modo assoluto. Gli altri valori sono invece relativi: quando li paragoniamo, notiamo che hanno valore rispetto ad altro, e

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così, di rapporto in rapporto, arriviamo a un bene razionale e alla volontà razionale. Facciamo un esempio. Perché si attribuisce a un cibo un valore? Perché mantiene in vita. Perché si attribuisce un valore alla vita? Perché è la condizione del pensiero: la vita non è degna di rispetto in se stessa, essa è tale perché serve a un bene superiore, all'intelligen1.a. L'intelligen1.a stessa ha un valore relativo: cosa sarebbe l'intelligenza senza la libertà? Ma arrivato alla libertà, bisogna fermarsi, avécym